Addio West Ham
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ADD IO WES IL NOST T RO ULTIMO HA ANNO M AD U PTO N P ARK ADD IO WES IL NOST T RO ULTIMO HA ANNO M AD U PTO N P ARK Addio West Ham – Il nostro ultimo anno ad Upton Park Copyright 2016 Roberto Gotta e Indiscreto Tutti i diritti riservati – È vietata la riproduzione, totale o parziale, senza autorizzazione dell’editore Progetto grafico e copertina: Maria Cristina Giustozzi www.indiscreto.info ISBN 9788898117123 "Per me l'Olimpico non è nemmeno uno stadio di calcio. Agli avversari piacerà giocarci perché non sentiranno sul collo il fiato della Chicken Run." Billy Bonds INDICE Un anno surreale e magnifico C’è soltanto uno Stevie Bacon (Leicester City) Lo stadio all’improvviso (Bournemouth) The next station is Upton Park (Norwich City) Cockney boys (Chelsea) L’esperto di Piccadilly Line (Everton) East End boys, Essex girls (West Bromwich Albion) Il cancello del Memorial Ground (Stoke City) Yes! (Southampton) God save the Queens (Liverpool) La perfida Albion (Manchester City) L’inverno del nostro scontento (Aston Villa) Happy Hammer (Sunderland) Profumo d’Inghilterra (Tottenham Hotspur) Sognando Brooking (Crystal Palace) Cristianesimo muscolare (Arsenal) Spotted dog (Watford) EastEnders (Swansea City) Bubbles (Manchester United) Addio West Ham RREALE E NNO SU MAGNIF UN A ICO Scrivere questo libro è stato molto semplice e al tempo stesso infinitamente difficile. La semplicità deriva dalla sua natura di racconto di viaggio, la complicazione viene invece dalla necessità, per me assoluta e totalizzante, di lasciare qualcosa di concreto, di leggibile anche a distanza di tempo e soprattutto di non banale o scontato. Da quando esiste il web chiunque può scrivere libri e chiunque pubblica libri, spesso senza neanche accertarne il valore. Con una cospicua serie di copia-incolla si possono mettere assieme la biografia di un calciatore o il ritratto di una squadra senza mai aver messo piede nel loro stadio, aggiungendo poi qualche luogo comune e cialtroneggiando. Se dunque già prima del web il mio atteggiamento di base era quello di vedere e riferire, togliendo di mezzo le mediazioni altrui quando possibile, da metà anni Novanta in poi tutto si è accentuato al punto che ormai, fosse per me, parlerei solo di ciò che ho visto con i miei occhi dal vivo. Le necessità e le modalità del lavoro ufficiale però spesso penalizzano questa mentalità. E alla fine bisogna arrangiarsi da soli, nei propri spazi e momenti. È quello che ho fatto, abbonandomi al West Ham per la stagione 2015-16 e seguendo dal vivo tutte le sue partite di Premier League, tranne una. Una stagione particolare, ovviamente: l’ultima al Boleyn Ground, o Upton Park, 111 anni dopo la prima, iniziata l’1 settembre 1904 in occasione di una gara contro il Millwall che stava già diventando la grande rivale locale. In tutto l’anno calcistico ho saltato appunto soltanto la partita del 14 settembre, contro il Newcastle United, per motivi di lavoro. Dunque ho visto 18 delle 19 partite in casa degli Irons: esperienza totalizzante e indimenticabile, frenetica e al tempo stesso rilassante. Delirio e poesia, anche se una poesia graffiata con il punteruolo sui mattoni, sul cemento, sullo sbrecciato delle strade dell’East End che ho cercato di percorrere come non ho mai fatto con alcun altro ambiente in vita mia, nemmeno nel quartiere in cui sono cresciuto. Perché il racconto non è quello di ogni partita ma quello di ogni trasferta. Ho provato ad avvicinarmi al Boleyn Ground da tutte le direzioni possibili annusando in mattinata, o in serata, luoghi collegati alla storia del club quando ancora si chiamava Thames Ironworks e aveva tutt’altro scopo nella vita. Scherzando, ho voluto riproporre quell’antica e orrenda espressione usata da cronisti poveri di fantasia: sono arrivato o mi sono avvicinato allo stadio con ogni mezzo, comprese funivie e barche. Ho toccato con mano - letteralmente - monumenti e abbracciato cancelli, ho indossato maglie che giacevano da anni in un cassetto e ho quasi perso l’equilibrio quando al terzo gol di Andy Carroll contro l’Arsenal il signore seduto dietro di me si è sporto in avanti per festeggiare. È un libro, questo, scritto non da giornalista: quello che ho fatto e i posti che ho visitato erano alla portata di tutti. Esempio: non ho cercato di parlare con giocatori del West Ham perché avrei avuto le facilitazioni e la corsia preferenziale del cronista. Ma è anche un libro scritto da un non-tifoso: da ormai parecchi anni ho messo in un angolo la preferenza emotiva per questo o quello. Avendo un ruolo da commentatore non posso permettermi di tifare, ma non è solo per questo che non tifo. Sul calcio inglese e sullo sport americano mi riservo infatti il diritto di godermi quello che vedo senza farmi condizionare da gelosie, antipatie o ripicche. L’ho già scritto molte volte e mi ripeto: se vado a Bramall Lane e rimango ammaliato dall’ambiente dello Sheffield United, perché non posso provare le medesime sensazioni a Hillsborough a vedere il Wednesday? Perché devo odiare gli uni se mi piacciono gli altri, copiando miseramente - da persona nata e cresciuta a migliaia di chilometri di distanza, in ambienti totalmente diversi - rivalità locali che nascono da età, sensazioni, ambiti a noi sconosciuti? Libertà di pensiero a chiunque, ma spesso mi sembra che ci sia molto di prefabbricato nelle diatribe tra tifosi di club di altre nazioni, quasi che si dovesse seguire un manuale di comportamento e non ciò che si prova realmente. Fare poi il tifoso per dovere, in questo anno, sarebbe stato anche offensivo verso i tifosi veri, quelli cresciuti lì intorno, dediti da sempre alla causa, gente che magari si rovina la serata - spero non oltre, altrimenti diventa ossessione - se la propria squadra perde. Sono un non-tifoso che ha però sempre avuto simpatia per i colori claret&blue, anche per la loro assenza in altri campionati, e per lo stadio, al punto da poter dire che non avrei fatto altrettanto per un’ultima stagione al Selhurst Park - non di sicuro da quando il Palace ha tifosi che scimmiottano tristemente quelli europei - o a Stamford Bridge. Un non- tifoso che è rimasto affascinato in modo definitivo dall’estetica di alcune maglie, avvolte nel cuore prima ancora di essere state avvolte dalla memoria. Quelle dal 1976 al 1981, ad esempio. Compresa la migliore di tutte: almeno per il mio gusto estetico, la maglia del West Ham per la finale di FA Cup del 1980, vinta 1-0 contro l’Arsenal, è la più bella mai indossata da una squadra di calcio. Tra i primi posti di questa classifica, che in realtà non è tale dato che detesto graduatorie basate su sensazioni, c’è quella proprio dell’Arsenal nella medesima partita e dunque si capisce come mai il mio cervello vada in cortocircuito e trasmetta messaggi disturbati quando vedo foto o immagini di quella partita. Così come quando capito davanti a foto di stadi inglesi degli anni Sessanta o Settanta: basta un particolare per capire se si è a Portman Road o a Goodison Park, un particolare che può anche essere architettonicamente non esaltante ma che rendeva comunque unico quel luogo. Inutile dire che su entrambi i piani rimpiango il passato, nel quale cerco spesso un disperato rifugio dal ribrezzo del presente. Un ribrezzo che parte da basi molto diverse, anzi opposte a quelle di chi solitamente protesta contro il calcio moderno: non ho nulla contro il calcio delle televisioni in sé, ma ho molto contro il calcio aperto tutto l’anno, contro le ossessioni del mercato e chi le alimenta, contro la globalizzazione del tifo che rende tutto indistinto e fa entrare nella famiglia gli ignoranti e i cafoni. Da qui nasce un paradosso che sento e soffro al cento per cento: lo stadio inglese ideale, nella mia visione, è quello al cui interno siedono solo inglesi, anzi solo tifosi della città o del circondario in cui ha sede la squadra, magari provenienti da altre zone in cui si siano trasferiti. Ma nessun altro, dunque nemmeno io. Secondo me nessuno di noi, per quanto si atteggi, può comprendere in fondo le sensazioni, la mentalità, i giochi di parole, i sentimenti di chi intorno a una squadra o a uno stadio è cresciuto. Per questo motivo durante la stagione 2015-16 ho contribuito a rendere peggiore il Boleyn Ground, sedendo al posto di un residente locale - o para-locale - che magari avrebbe cantato di più, avrebbe assorbito, rielaborato e trasferito le sensazioni e le battute degli spettatori circostanti, avrebbe costituito una cellula di passaggio e trasmissione più immediati di cosa voglia dire tifare West Ham. Ed è vero che in realtà intorno a me, dal 15 agosto al 10 maggio, solo in 6 o 7 hanno fatto partire cori o si sono fatti realmente sentire durante la partita, per cui alla fine un East ender (londinese dell’East End) silenzioso equivale a uno straniero silenzioso, ma pur avendola voluta e adorata ho sentito in questa mia partecipazione di nove mesi (toh!) alle sorti di uno stadio, più che di una squadra, quasi una contaminazione. Teoria, lo so, non comune e forse esagerata, ma lasciando perdere il tragico discorso hooligan, rimpianto a quanto pare soprattutto da chi idealizza la violenza e non ci è mai stato immerso - io sì, e non lo rimpiango proprio -, quando vedo le masse omogenee ed ondeggianti sugli spalti degli anni Settanta vedo un mondo che ho amato, che ha dato un segno alla mia esistenza più che al mio lavoro e che però ora è sparito, così come i palloni bianchi Mitre o Minerva, i gol festeggiati con una semplice stretta di mano, le lettere dell’alfabeto sulla recinzione, i cartelloni pubblicitari Everard Ovenden Papers ed Esso, le musichette anche ingenue prima del calcio d’inizio.