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ADDIO WEST HAM

RO ULTIMO ANNO AD UPTON P IL NOST ARK

ADDIO WEST HAM

RO ULTIMO ANNO AD UPTON P IL NOST ARK

Addio West Ham – Il nostro ultimo anno ad Upton Park Copyright 2016 Roberto Gotta e Indiscreto

Tutti i diritti riservati – È vietata la riproduzione, totale o parziale, senza autorizzazione dell’editore

Progetto grafico e copertina: Maria Cristina Giustozzi

www.indiscreto.info

ISBN 9788898117123 "Per me l'Olimpico non è nemmeno uno stadio di calcio. Agli avversari piacerà giocarci perché non sentiranno sul collo il fiato della Chicken Run."

Billy Bonds INDICE

Un anno surreale e magnifico

C’è soltanto uno Stevie Bacon (Leicester City) Lo stadio all’improvviso (Bournemouth) The next station is Upton Park (Norwich City) Cockney boys (Chelsea) L’esperto di Piccadilly Line (Everton) East End boys, Essex girls (West Bromwich Albion) Il cancello del Memorial Ground (Stoke City) Yes! (Southampton) God save the Queens (Liverpool) La perfida Albion (Manchester City) L’inverno del nostro scontento (Aston Villa) Happy Hammer (Sunderland) Profumo d’Inghilterra (Tottenham Hotspur) Sognando Brooking (Crystal Palace) Cristianesimo muscolare (Arsenal) Spotted dog (Watford) EastEnders (Swansea City) Bubbles (Manchester United)

Addio West Ham RREALE E NNO SU MAGNIF UN A ICO

Scrivere questo libro è stato molto semplice e al tempo stesso infinitamente difficile. La semplicità deriva dalla sua natura di racconto di viaggio, la complicazione viene invece dalla necessità, per me assoluta e totalizzante, di lasciare qualcosa di concreto, di leggibile anche a distanza di tempo e soprattutto di non banale o scontato.

Da quando esiste il web chiunque può scrivere libri e chiunque pubblica libri, spesso senza neanche accertarne il valore. Con una cospicua serie di copia-incolla si possono mettere assieme la biografia di un calciatore o il ritratto di una squadra senza mai aver messo piede nel loro stadio, aggiungendo poi qualche luogo comune e cialtroneggiando. Se dunque già prima del web il mio atteggiamento di base era quello di vedere e riferire, togliendo di mezzo le mediazioni altrui quando possibile, da metà anni Novanta in poi tutto si è accentuato al punto che ormai, fosse per me, parlerei solo di ciò che ho visto con i miei occhi dal vivo.

Le necessità e le modalità del lavoro ufficiale però spesso penalizzano questa mentalità. E alla fine bisogna arrangiarsi da soli, nei propri spazi e momenti. È quello che ho fatto, abbonandomi al West Ham per la stagione 2015-16 e seguendo dal vivo tutte le sue partite di , tranne una. Una stagione particolare, ovviamente: l’ultima al , o Upton Park, 111 anni dopo la prima, iniziata l’1 settembre 1904 in occasione di una gara contro il Millwall che stava già diventando la grande rivale locale. In tutto l’anno calcistico ho saltato appunto soltanto la partita del 14 settembre, contro il Newcastle United, per motivi di lavoro. Dunque ho visto 18 delle 19 partite in casa degli Irons: esperienza totalizzante e indimenticabile, frenetica e al tempo stesso rilassante. Delirio e poesia, anche se una poesia graffiata con il punteruolo sui mattoni, sul cemento, sullo sbrecciato delle strade dell’East End che ho cercato di percorrere come non ho mai fatto con alcun altro ambiente in vita mia, nemmeno nel quartiere in cui sono cresciuto.

Perché il racconto non è quello di ogni partita ma quello di ogni trasferta. Ho provato ad avvicinarmi al Boleyn Ground da tutte le direzioni possibili annusando in mattinata, o in serata, luoghi collegati alla storia del club quando ancora si chiamava Thames Ironworks e aveva tutt’altro scopo nella vita. Scherzando, ho voluto riproporre quell’antica e orrenda espressione usata da cronisti poveri di fantasia: sono arrivato o mi sono avvicinato allo stadio con ogni mezzo, comprese funivie e barche. Ho toccato con mano - letteralmente - monumenti e abbracciato cancelli, ho indossato maglie che giacevano da anni in un cassetto e ho quasi perso l’equilibrio quando al terzo gol di contro l’Arsenal il signore seduto dietro di me si è sporto in avanti per festeggiare.

È un libro, questo, scritto non da giornalista: quello che ho fatto e i posti che ho visitato erano alla portata di tutti. Esempio: non ho cercato di parlare con giocatori del West Ham perché avrei avuto le facilitazioni e la corsia preferenziale del cronista. Ma è anche un libro scritto da un non-tifoso: da ormai parecchi anni ho messo in un angolo la preferenza emotiva per questo o quello. Avendo un ruolo da commentatore non posso permettermi di tifare, ma non è solo per questo che non tifo. Sul calcio inglese e sullo sport americano mi riservo infatti il diritto di godermi quello che vedo senza farmi condizionare da gelosie, antipatie o ripicche. L’ho già scritto molte volte e mi ripeto: se vado a Bramall Lane e rimango ammaliato dall’ambiente dello Sheffield United, perché non posso provare le medesime sensazioni a Hillsborough a vedere il Wednesday? Perché devo odiare gli uni se mi piacciono gli altri, copiando miseramente - da persona nata e cresciuta a migliaia di chilometri di distanza, in ambienti totalmente diversi - rivalità locali che nascono da età, sensazioni, ambiti a noi sconosciuti? Libertà di pensiero a chiunque, ma spesso mi sembra che ci sia molto di prefabbricato nelle diatribe tra tifosi di club di altre nazioni, quasi che si dovesse seguire un manuale di comportamento e non ciò che si prova realmente. Fare poi il tifoso per dovere, in questo anno, sarebbe stato anche offensivo verso i tifosi veri, quelli cresciuti lì intorno, dediti da sempre alla causa, gente che magari si rovina la serata - spero non oltre, altrimenti diventa ossessione - se la propria squadra perde.

Sono un non-tifoso che ha però sempre avuto simpatia per i colori claret&blue, anche per la loro assenza in altri campionati, e per lo stadio, al punto da poter dire che non avrei fatto altrettanto per un’ultima stagione al Selhurst Park - non di sicuro da quando il Palace ha tifosi che scimmiottano tristemente quelli europei - o a Stamford Bridge. Un non- tifoso che è rimasto affascinato in modo definitivo dall’estetica di alcune maglie, avvolte nel cuore prima ancora di essere state avvolte dalla memoria. Quelle dal 1976 al 1981, ad esempio. Compresa la migliore di tutte: almeno per il mio gusto estetico, la maglia del West Ham per la finale di FA Cup del 1980, vinta 1-0 contro l’Arsenal, è la più bella mai indossata da una squadra di calcio. Tra i primi posti di questa classifica, che in realtà non è tale dato che detesto graduatorie basate su sensazioni, c’è quella proprio dell’Arsenal nella medesima partita e dunque si capisce come mai il mio cervello vada in cortocircuito e trasmetta messaggi disturbati quando vedo foto o immagini di quella partita. Così come quando capito davanti a foto di stadi inglesi degli anni Sessanta o Settanta: basta un particolare per capire se si è a Portman Road o a Goodison Park, un particolare che può anche essere architettonicamente non esaltante ma che rendeva comunque unico quel luogo. Inutile dire che su entrambi i piani rimpiango il passato, nel quale cerco spesso un disperato rifugio dal ribrezzo del presente. Un ribrezzo che parte da basi molto diverse, anzi opposte a quelle di chi solitamente protesta contro il calcio moderno: non ho nulla contro il calcio delle televisioni in sé, ma ho molto contro il calcio aperto tutto l’anno, contro le ossessioni del mercato e chi le alimenta, contro la globalizzazione del tifo che rende tutto indistinto e fa entrare nella famiglia gli ignoranti e i cafoni.

Da qui nasce un paradosso che sento e soffro al cento per cento: lo stadio inglese ideale, nella mia visione, è quello al cui interno siedono solo inglesi, anzi solo tifosi della città o del circondario in cui ha sede la squadra, magari provenienti da altre zone in cui si siano trasferiti. Ma nessun altro, dunque nemmeno io. Secondo me nessuno di noi, per quanto si atteggi, può comprendere in fondo le sensazioni, la mentalità, i giochi di parole, i sentimenti di chi intorno a una squadra o a uno stadio è cresciuto. Per questo motivo durante la stagione 2015-16 ho contribuito a rendere peggiore il Boleyn Ground, sedendo al posto di un residente locale - o para-locale - che magari avrebbe cantato di più, avrebbe assorbito, rielaborato e trasferito le sensazioni e le battute degli spettatori circostanti, avrebbe costituito una cellula di passaggio e trasmissione più immediati di cosa voglia dire tifare West Ham. Ed è vero che in realtà intorno a me, dal 15 agosto al 10 maggio, solo in 6 o 7 hanno fatto partire cori o si sono fatti realmente sentire durante la partita, per cui alla fine un East ender (londinese dell’East End) silenzioso equivale a uno straniero silenzioso, ma pur avendola voluta e adorata ho sentito in questa mia partecipazione di nove mesi (toh!) alle sorti di uno stadio, più che di una squadra, quasi una contaminazione. Teoria, lo so, non comune e forse esagerata, ma lasciando perdere il tragico discorso hooligan, rimpianto a quanto pare soprattutto da chi idealizza la violenza e non ci è mai stato immerso - io sì, e non lo rimpiango proprio -, quando vedo le masse omogenee ed ondeggianti sugli spalti degli anni Settanta vedo un mondo che ho amato, che ha dato un segno alla mia esistenza più che al mio lavoro e che però ora è sparito, così come i palloni bianchi Mitre o Minerva, i gol festeggiati con una semplice stretta di mano, le lettere dell’alfabeto sulla recinzione, i cartelloni pubblicitari Everard Ovenden Papers ed Esso, le musichette anche ingenue prima del calcio d’inizio. In questa stagione al Boleyn Ground sono andato a rendere omaggio allo stadio ma anche, dunque, a cercare una sorta di immersione nel passato, cercando di coglierne elementi che altrove sono già scomparsi e ora scompariranno anche al West Ham United. Club che diventa altro, pur restando se stesso. È avanzamento e progresso, non è un delitto anche se è ovviamente un’imposizione. Ma è solo una delle tante, nella vita delle persone.

Grazie a tutti

Roberto Gotta (su Twitter @robertogotta, con moderazione)

P.S. L’ultima parte di questa introduzione l’ho scritta nella stanza 312 del West Ham United Hotel, l’albergo ospitato dentro il Boleyn Ground. C’ero già stato in passato e ho voluto tornare per un ultimo saluto. Molti di voi lo sanno già: le stanze dell’hotel nei giorni di partita devono - dovevano… - essere sgomberate entro le 8, perché lo staff del club le trasformava in meno di un’ora nei salottini di lusso dai quali aziende e vip paganti potevano assistere alla partita. La porta-finestra, con vista sul campo, si apre direttamente sui seggiolini imbottiti con prospettiva perfetta sul prato, non troppo alti né troppo bassi. È mio compito e dovere dare corpo fisico alle sensazioni che si provano, ma quella di poter leggere la sera tardi grazie alle luci dello stadio accese fino a mezzanotte, insieme a quella di alzarsi al mattino e vedere come prima cosa il campo, faccio davvero fatica a raccontarle. 1

NTO UNO STEV SOLTA IE BAC C’È ON (LEICESTER CITY)

15 agosto 2015, ore 15: West Ham United-Leicester City 1-2 (Okazaki 27’, Mahrez 38’, Payet 55’).

WEST HAM Adrian - Jenkinson, Reid, Ogbonna, Cresswell - Noble, Reece-Oxford (Obiang 46), Kouyate (Lanzini 76) - Zarate (Maiga 82), Sakho (Moses 87), Payet.

LEICESTER CITY Schmeichel - De Laet (Benalouane 66), Huth, Morgan, Schlupp - Mahrez (Fuchs 82), Drinkwater, King, Albrighton - Okazaki (Kante 62), Vardy.

Ryanair 195 Bologna 6.25 - Londra Stansted 7.25 British Airways 544 Londra Heathrow 20.30 - Bologna 23.00 Può esistere un modo migliore di passare il Ferragosto? Nei paesi incivili è tutto chiuso, c’è caciara sulle spiagge e si celebra il trionfo del nulla. Alla larga. Più salutare alzarsi prestissimo e partire, leggerissimi di bagaglio e di pensiero, con sensazioni contraddittorie: avere cioé consapevolezza dell’impegno - anche economico - che un anno di trasferte comporta e al tempo stesso non averne la minima idea. Perché è territorio completamente sconosciuto, anche dal punto di vista emotivo. C’è anche il dubbio: delle 19 partite di Premier League al Boleyn Ground quante effettivamente riuscirò a vederne? Quante volte dovrò rinunciare per intoppi, costi eccessivi dei voli, sensi di colpa, senso del dovere? Il quaderno degli appunti, il ‘sacchetto Londra’ (una busta trasparente con Oyster card, sterline avanzate, abbonamento, adattatori della corrente e tutto quello che serve, già pronta nel cassetto senza doverne neanche controllare i contenuti a ogni viaggio), due biro, un libro, il cellulare. Tutto qui il bagaglio, un sogno.

L’atterraggio a Stansted avviene in una sorta di foschia, beneaugurante - chi scrive non ama il caldo - ma falsa. Sarà infatti una giornata torrida e del resto è il 15 agosto: l’Inghilterra su questo piano spesso inganna chi non la conosce bene. Ricordo ancora ignari inviati al seguito della Roma, vestiti come eschimesi per la partita a Craven Cottage a fine ottobre di alcuni anni fa e poi costretti a svestirsi parzialmente, sorpresi dal clima mite del primo mese di autunno londinese. La prima colazione dell’anno è al Joe’s Coffee dell’aeroporto, in attesa del bus delle 9 per Stratford. È obbligatoriamente una colazione turistica e dunque cialtrona, ma il Joe’s offre angoli tranquilli con prese per ricaricare il cellulare. E permette anche, in quell’oretta, di adattare ulteriormente il cervello all’annata che sta per iniziare, effettuando una transizione emotiva tra il mondo che si è lasciato alle spalle e quello in cui ci si sta per immergere.

Il percorso verso Stratford segue la brillante campagna inglese con i suoi prati, i suoi recinti dal sapore antico, gli specchi d’acqua che danno l’impressione di costituire la base di tutto e il panorama affascinante di alcune chiatte, dal lato sinistro. Redbridge e pensi alla squadra, Woodford Green che per il momento non ti dice nulla, poi la lieve discesa incastonata tra due pareti di cemento e comprendi che sei in quel canalone autostradale che hai visto allargarsi poco alla volta, da fuori, quando andavi a vedere o anche solo a visitare il Leyton Orient, e verso sudest scorgevi solo un larghissimo spazio vuoto, quello nel quale in dieci anni sono sorti uno stadio olimpico, un centro nuoto e una curiosa costruzione simile a una torcia reduce da un incidente stradale, detta ArcelorMittal Orbit, apparentemente modellata sulla struttura del DNA. Prima, dal balcone di Leyton, cercavi gli Hackney Marshes, la famosissima distesa di campi da calcio a vista d’occhio. Ora, inesorabilmente, da lì ti punge lo sguardo prima di tutto la zona ex olimpica, specialmente se sai cosa voglia dire quella elegante costruzione ovale sulla sinistra, che ti sbircia impassibile tra un capannone e l’altro, ti tenta, ti sfugge, si specchia nel canale e nel fiume e manda in confusione i tuoi concetti, perché ti ricorda che andando all’Olimpico il club abbandona la casa in cui abita da 111 anni ma per paradosso si riavvicina ai corsi d’acqua (il fiume Lea, per la precisione) sui quali sorgevano l’impianto siderurgico e cantiere navale Thames Ironworks dalla cui squadra dopolavoristica sorse il West Ham United vero e proprio (Thames, per chiarire subito, è il nome inglese del fiume Tamigi). Ironworks, termine che è identico sia al singolare sia al plurale, indica uno stabilimento per la lavorazione del ferro e materiali ferrosi: nel caso specifico, il loro uso primario era volto alla costruzione di navi e barche, ma dall’imponente edificio, ritratto in alcuni disegni dell’epoca, uscirono anche tante rotaie e ponti. È una situazione che… no, aspetta. Ne parliamo un’altra volta.

Ora siamo arrivati a Stratford, superati gli uffici di una delle ditte di costruzioni che stanno edificando in modo frenetico nella zona, facendoti riflettere sullo spaventoso numero di persone in grado di permettersi appartamenti da 400.000 euro e pentire di aver fatto forse il mestiere giusto, ma nel momento sbagliato. Specialmente quando pensi alle superpensioni di certi tromboni cresciuti in un’epoca senza concorrenza e senza web a svergognarti se raccontavi balle. Stratford stazione dei treni, di molte linee della metropolitana, di tantissimi autobus. Conseguenza delle Olimpiadi, in un abbraccio reciproco: si è scelto di posizionare qui i Giochi per la facilità di collegamento, fuori dal centro per evitare intasamenti, e al tempo stesso questa decisione ha fatto incrementare il numero di corse che passano, partono o arrivano qui, in una spirale che è destinata a stringersi ancora di più con la periodicità delle partite del West Ham e con l’aumento dei residenti. Il tempo di entrare e si incontra la prima maglia della squadra, di edizione nuova, quella che celebra l’ultima stagione al Boleyn Ground, seguita subito dopo da una del 1977, con la V a metà petto. È una rivelazione: tra un mese, invece, sarò sorpreso se già in aeroporto, non dico a Stratford o dintorni, non vedrò una maglia degli Irons. Questione di abitudini.

Jubilee Line verso Stanmore, una fermata e si cambia a West Ham. Anzi, non si cambia: si esce e basta. Perché non sono neanche le 11.30 e bisogna celebrare un pezzo di storia del club, in maniera molto semplice. Uscita, stesso marciapiede verso sinistra, 2-300 metri e compare il cancello d’ingresso, sormontato da un piccolo arco, al Memorial Park. È il luogo dove il West Ham United giocò dal 1897 al 1904, prima del passaggio ad Upton Park. Sempre nel ‘comune’ di Newham, come praticamente tutti i luoghi che verranno nominati in questo libro, al confine tra i quartieri di Stratford e di Plaistow, con subito a sud. A sinistra dell’entrata campi da calcio in sintetico e in erba naturale, con una costante attività di squadre giovanili, frutto di programmi di avviamento organizzati. In generale, in questa porzione di parco c’è quella che definisco da sempre ‘pace inglese’. Ovvero un silenzio rispettoso, delicato. Quello che mi aveva colpito quasi 40 anni fa alla prima visita nel Regno Unito: l’andamento lento del sabato mattina, delle periferie placide, delle auto da lavare (attività che mi resta incomprensibile, ma pazienza), dei cani a passeggio spensierati, del piacere di uscire di casa senza fretta o restarvi senza sensi di colpa.

Decenni fa il sabato inglese me lo immaginavo dall’ora di pranzo in poi, nel periodo agosto-maggio, quando contavo le ore che mi separavano dall’inizio delle trasmissioni sportive su BBC World Service che comprendevano il collegamento dai campi. Ora si inizia con le partite già alle 12.45 locali e si viaggia ed è tutto diverso, è scomparso il meraviglioso piacere dell’immaginazione che davano quei flash radiofonici e c’è una materialità che si vive in prima persona ma può anche portare a una consuetudine senza lampi. Ho infatti dovuto concentrarmi, nel tragitto Stansted-Stratford, per guardare fuori dal finestrino: ormai da anni, in treni e pullman qui in Inghilterra, i tragitti verso i luoghi desiderati li faccio immerso nella lettura o nel lavoro, e mi perdo il paesaggio, fosse anche sempre lo stesso, che scorre ai lati.

Il sentiero che lascia a sinistra i campi porta, dopo qualche decina di metri, allo spiazzo sul lato opposto con un memoriale dedicato alle 38 vittime di un disastro avvenuto nel 1896 al varo della nave da guerra Albion, dove il Bow Creek - parte del fiume Lea - si avvia verso il Tamigi. Ma è anche un ricordo indiretto dei Thames Ironworks, e consiste in martelli stilizzati piantati nel terreno, a fare corona, nella forma a pianta di nave, a una targa metallica, difficile da leggere se il sole la sfronda. Girandosi, si vedono le cime dei grattacieli del Canary Wharf, uno dei punti di riferimento dell’intero East End ma anche ormai di tutta Londra. E ci sono ancora aerei in decollo e atterraggio a London City, prima della chiusura pomeridiana dell’aeroporto, singolare circostanza che scoprirò solo qualche settimana dopo. Il Memorial Ground, stadio multiuso con pista per bici e atletica, occupava un’area più interna, verso est, del Memorial Park, e sui libri si legge che dall’alto si possa ancora scorgere, graffiato in modo quasi permanente nel terreno, il contorno della pista per bici, insomma della parte velodromo, ma non ho modo di verificare. Il terreno era di proprietà di Arthur Hills, fondatore del Thames Ironworks, che aveva costruito lo stadio pensando a sviluppi futuri che eccedessero il semplice uso da parte del club.

La passeggiata al Memorial Park è però solo una sosta. Troppo breve, perché Upton Park è solo a due fermate e la voglia di essere là, anche se mancano più di due ore alla partita, sovrasta tutto il resto. Anzi, il tempo lento permette di sostare sulla banchina di arrivo e di fare qualche ripresa semi- professionale - le immagini verranno usate per uno speciale televisivo - ai treni che si fermano e alla gente che scende, in un carnevale di maglie fortunatamente bitematico, claret&blue, granata e azzurro. Ci si fa accompagnare dalla massa su dalle scale come un tempo ci si faceva trascinare sugli spalti, ma stavolta è tutto pacato, tranquillo, un po’ perché manca ancora parecchio alla partita, un po’ perché non c’è ancora il fiume di persone che tante altre volte intaserà la banchina al punto da bloccare tutto e far tenere fermi a metà strada da Plaistow altri convogli in arrivo.

La salita, la svolta a destra e il solito affanno per appoggiare al punto giusto la Oyster Card senza mancarla - se succede, ti addebitano un percorso infinito, anche economicamente - prima dell’aprirsi del panorama familiare successivo, quello dell’edicola interna. Vende quotidiani nazionali e locali e anche i programmi della partita, il che può essere molto utile per chi vuole prenderne subito una copia e, sistemato quel dovere che per molti resta un piacere nonostante le 3,50 sterline di costo, è libero di portarselo ovunque. Arrotolato il giusto - con quelli di una volta era più semplice, questi hanno la rilegatura a coste e il quintuplo delle pagine - e usato come controcanto rispetto alla colazione tardiva, al pasto rapido, allo spuntino. Il grado di attenzione verso quel vecchio amico condiziona anche la manualità: chi conserva il programma come mero strumento di ricordo può anche spizzicarlo con le mani unte di fish&chips, pesce fritto e patatine, chi lo ritiene un memento nobile degno di collezione, magari negli appositi, classicissimi contenitori da portare al rilegatore, lo tratta con una cura maggiore.

Non è casuale l’accenno a fish&chips, perché pochi metri dopo l’uscita dalla metro, sul lato destro della Green Street, c’è il Queen’s Fish Bar, molto frequentato già a quest’ora, primo esercizio commerciale a saltarti addosso in una situazione in cui i sensi devono essere all’erta. L’esperienza di una partita di calcio in paesi dove la giornata venga vissuta con spirito positivo impegna udito, vista, olfatto, a volte anche il tatto, se si supera la reticenza verso oggetti toccati da migliaia di persone. E ogni paese ha le sue caratteristiche, che scendono poi a cascata per le singole realtà. Upton Park in questo è un’apoteosi, non necessariamente positiva. La vista viene colpita dal sole - almeno oggi - che è in posizione perennemente disgraziata per chi ama un certo tipo di luce sugli edifici: ad eccezione del mattino presto è sempre lassù in fondo alla Green Street e ti costringe a stringere le palpebre rassegnandoti a una visione imperfetta dei colori.

L’olfatto viene colto non solo dal fritto del Queen’s Fish Bar ma anche dai misteriosi, spesso inquietanti, aromi che provengono dal Queens Market, poche decine di metri più in là. Un mercato all’aperto ma sotto tettoia, con la varietà di prodotti che riflette la varietà dei potenziali clienti e dunque attiva particelle solitamente (e fortunatamente) dormienti del nostro olfatto, per non parlare dell’udito: chi - come il sottoscritto - non ama il chiasso delle contrattazioni e il berciare levantino dei bazar rimane perplesso e quasi irritato da queste attività urlanti, riflesso del resto di un quartiere che può sconvolgere chi arrivi con l’idea erronea, coltivata da vecchi testi e vecchie fotografie, di un circondario giocoso, popolato di vecchiette col carrello della spesa e i bigodini in testa, di coppie tipo George e Mildred della vecchia serie di telefilm e di tifosi svitati o violenti. Viene in mente un dialogo con un amico che ci aveva messo piede per la prima volta, ed era rimasto quasi privo di parole. “Ma tu come lo definiresti?”. “Posso dire che è multiculturale?”. “Se è un eufemismo per dire orrido allora va bene”.

Upton Park, come tanti altri quartieri simili nel Regno Unito, è il simbolo del successo o dell’insuccesso proprio del multiculturalismo, a seconda delle idee che si hanno. Le dinamiche del dopoguerra e degli anni Sessanta hanno portato un afflusso di persone da tutti i territori del Commonwealth, gli ex possedimenti della Corona, e l’insediamento ha adattato la zona alle esigenze dei nuovi residenti. Pochissimi dei quali rispondono alla figura classica dell’inglese medio, ovviamente. Macellerie islamiche, parrucchieri e parrucchiere - uno ogni 20 metri, apparentemente - specializzati in stili afro-caraibici, estetiste, rosticcerie con specialità di una manciata di paesi, cartelli in inglese incerto e contraddittorio (quella bottega di barbiere si chiama Top Cut o Top Cutt, visto che è scritto in un modo nell’insegna e un altro sulla vetrina?), dolcetti della nonna che della nonna in realtà non sono, negozi che vendono di tutto, comprese le immancabili schede per telefonare in patria ai parenti, in una confusione cromatica ed esistenziale che ha però un risultato positivo: quello di far accelerare il passo per lasciarsi prima possibile tutto alle spalle, e puntare verso lo stadio, sfiorando con affetto i pochi capisaldi storici rimasti, e che molti di voi conosceranno, compresa una lavasecco, la Blossom and Browne Sycamore, sul cui tetto campeggiava un tempo lo slogan scherzoso e volutamente ambiguo “Don’t kill your wife. Let us do it” (non uccidere tua moglie, lascialo fare a noi), dove il sottinteso del compito da delegare alla stireria era appunto quello del lavare e stirare gli abiti.

Il Ken’s Café sul lato sinistro, la bancarella con i programmi, e lungo il muretto che separa dal parcheggio la figura familiare di Gary Firmager. È un cinquantenne che dal 1989 stampa e distribuisce una fanzine (fan+magazine) chiamata OLAS, Over Land And Sea, dal titolo di un celebre canto dei tifosi inglesi, in questo caso adattato al club (We all follow the West Ham/Over land and sea): disc jockey specializzato in ska e reggae e conduttore radiofonico di professione, abbigliamento con anfibi e spesso pantaloni mimetici, maniche di tatuaggi e la irrefrenabile voglia di propagandare quelli che reputa i valori dell’East End londinese e del West Ham United. Tra questi, NON c’è il passaggio allo Stadio Olimpico: da qui la sua decisione di chiudere con la stagione 2015-16 la pubblicazione della fanzine e di non seguire la squadra nel nuovo stadio. È un personaggio popolare, riconoscibilissimo non solo per l’aspetto con rasatura a zero ma anche per la sua abitudine di piazzarsi su una scaletta a tre gradini, in modo da vedere ed essere visto, e poter poi prontamente dare la copia, e il resto, a chi la acquista. La fanzine stessa è graficamente rimasta agli anni Novanta, ma è fittissima di resoconti, pareri, opinioni di Firmager e di chiunque voglia scrivere e sia fedele a una linea contemporaneamente progressista e nostalgica, a seconda dei temi. Firmager indossa una maglia recente del West Ham e in questo non è che uno delle decine di migliaia: ufficialmente questo è stato designato come Claret&Blue Day ma è come dire a un gruppo di frati domenicani che per festeggiare il loro santo eponimo dovranno indossare un saio bianco. Grazie tante, lo fanno già. È sempre Claret&Blue Day al Boleyn Ground e dintorni, come è Red&White all’ e via colorando.

I toni abbagliano e ammaliano, ti distraggono continuamente con la loro brillantezza e ti trasportano nel giro di pochi secondi da un’era all’altra: la maglia del 1964 e la FA Cup, quella del 1976 e la finale (persa) di Coppa delle Coppe, quella bianca con contorni dorati e la finale di League Cup del 1981, e ogni volta è uno strattone nella memoria, comprese le tante con la scritta DI CANIO sulla schiena, che ti ricordano l’immensa popolarità di una persona che hai imparato a conoscere, e stimare, dopo averla incontrata nell’ambiente di lavoro. La visita al Newham Bookshop, angolo con Green Street lungo la Barking Road, produce un curioso effetto immediato: davanti al negozio sta infatti passando Brian Williams, giornalista, autore di ‘Nearly reach the sky’, cioé di un libro sul West Ham, con vicende intrecciate alle proprie, di cui curiosamente ho nella tracolla una copia. Difficile non riconoscerlo, dato che indossa la meravigliosa maglia della finale di FA Cup del 1980 di cui ho già fatto cenno e che veste anche nella quarta di copertina del volume. Immediata richiesta di autografo e dedica, con precisazione affannosa (“Sono un giornalista pure io, di solito non faccio queste cose”), poi un saluto con il passo accelerato, perché ci sono da sbrigare ancora parecchie incombenze, o meglio desideri.

Il primo è quello di un banalissimo panino: come detto nella introduzione, ho cercato di mangiare solo e sempre in posti legati al club, e la serie si inaugura con il chiosco all’angolo tra Priory Road, la strada dietro la East Stand, e la Castle Street. ‘West Ham’s favourite hamburger’, c’è scritto sul telone claret&blue, e le selezioni di panini hanno nomi evocativi: Bonzo (in onore di ), Striker, Mad Dog (Martin Allen), Terminator (), Penalty, Hatrick (manca una t, d’accordo) e Stevie Bacon, che sembra una presa in giro ma non la è. Stevie Bacon è infatti un personaggio popolarissimo al Boleyn, fotografo della squadra per oltre 30 anni ma ora, a 64 di età, fermato da un diabete che gli è anche costato l’amputazione della gamba sinistra sotto il ginocchio, nell’autunno del 2015. Ha scritto un libro di ricordi, ‘There’s only one Stevie Bacon’, che replica nel titolo il canto che in trasferta i tifosi gli hanno dedicato, ed è in poche parole il classico personaggio a cui tutti vogliono bene, anche perché un po’ - diremmo noi - sfigatello: sovrappeso in maniera grave, con l’aria di chi davvero nella vita si è dedicato solo al club, nel 2014 era stato licenziato dal Newham Recorder, il quotidiano locale, dopo 42 anni di servizio e aveva iniziato lì la sua parabola discendente sul piano della salute. L’ho conosciuto nel 2007, quando ho… giocato a calcio a sette al Boleyn facendo parte della squadra dei Boys of ‘86, il gruppo di giocatori di quel West Ham che sfiorò il titolo arrivando poi terzo. Era una giornata aperta a tutti, in cui si poteva iscrivere la propria squadra di amici e colleghi a questo torneo ed era garantita, nell’arco della giornata, una partita contro i Boys. Io però non avendo una squadra (si trovano nel giro di due settimane sei altri pazzi disposti a stare via una notte?) mi ero iscritto come singolo: l’organizzatore mi aveva detto che mi avrebbe inserito in una delle formazioni, ma una volta al Boleyn mi sparò un “Fai così, vai con i Boys” che mi lasciò stecchito. , una delle colonne di quel gruppo, mi consegnò la maglia (numero 5) e quando mi disse “In avanti giochi tu, io alle tue spalle” avrei potuto anche morire e non avrei sofferto, anzi sarei stato felice. In realtà per i primi 20’ ebbi le ginocchia di marmellata dall’emozione e non combinai nulla, mentre in quelli successivi, una volta ripreso dall’ansia, andò… anche peggio, ma riuscii in qualche modo a sentirmi parte di un insieme storico e a mettere assieme ricordi pazzeschi. Solo quelli, purtroppo: qualche mese dopo il computer in cui custodivo tutte le foto (500? 600?) scattate quel giorno mi fu rubato, e mi resta per fortuna solo la foto ricordo della squadra schierata (pronta per il gioco “trova l’intruso”) e un dvd con le tre partite giocate, con una media di tocchi di palla corretti che è meglio non ricordare. La foto di gruppo, tra l’altro, l’ho nascosta alla vista di Di Canio, una volta che è passato dalla mia scrivania: mi avrebbe querelato, vedendomi con indosso gli stessi colori cui lui aveva dato tale lustro e nobiltà. Insomma, promosso lo Stevie Bacon Burger, contenente oltre alla carne ovviamente… bacon. Ma c’è da accelerare ancora il passo, perché prima di entrare vuoi dare un’occhiata sempre lungo la Priory Road, la strada dietro la East Stand, sede della ex Chicken Run, di cui riparleremo. Come sempre, qui sono schierati qui i pullman dei tifosi ospiti, e sono tantissimi oggi. La fila blu di supporter del Leicester City è ordinata, quasi silenziosa, e non si capisce se sia la tranquillità del tifo versione moderna o la voglia di non farsi notare, di passare inosservati. Anni fa la risposta sarebbe stata facile, ma non ci sarebbe neanche stato il bisogno di proteggersi da eventuali attacchi: invece di quattro poliziotti e poliziotte a cavallo ci sarebbe stato uno schieramento a fare da muro preventivo, tenendo magari d’occhio le case circostanti, le vedette (spotter) spesso minorenni, i possibili oggetti volanti, l’angoscia sempre presente, il timore, la sfacciataggine. C’è solo placidità, per fortuna.

Si torna indietro, si passa la perenne pozzanghera dove il percorso dietro la Stand incrocia il West Ham Social Club e si gira a destra. Finalmente. Perché l’esplorazione del quartiere, del circondario e del resto del mondo claret&blue si svilupperanno meglio dalla prossima settimana, ma la curiosità maggiore, ovviamente, è quella di sapere cosa si veda, e come, dal posto 34 della fila S della Bobby Moore Stand Upper, insomma la parte alta della tribuna Bobby Moore, quella che nelle immagini televisive dell’era moderna è a destra (lato opposto invece per le riprese effettuate prima del 2001, anno di inaugurazione della tribuna principale ovvero West Stand: per questo il famoso gol di Di Canio contro il Wimbledon viene visto dal lato ‘sbagliato’). Mi è costato un po’ di più (quasi 900 euro) andare lì e non nella BM Lower, come avevo inizialmente scelto: nella Lower sarei stato troppo basso, in compagnia forse meno gradevole e senza la possibilità di vedere dall’alto lo schieramento delle squadre, lo sviluppo del gioco, i movimenti, tutti aspetti che da oltre 20 anni studio per tutte le partite di Premier League che riesco a seguire. Lo steward che saluto mi dice “Benvenuto, speriamo che vada tutto bene, intanto sono contento che non abbiamo la grana dell’Europa League” e non sa quanto sono d’accordo: la presenza del West Ham in EL avrebbe infatti reso molto più complicato progettare e prenotare queste trasferte tenendo bassi i prezzi, mentre ora il margine è più ragionevole e si può programmare con un minimo di anticipo. Il posto a sedere lo raggiungo però dalla direzione sbagliata: non ho letto il cartello, per la fretta di salire, e parto dal posto 1 facendomene così 33 prima di arrivare al mio, mentre dall’altro lato ce n’è la metà. Poco male perché ancora è quasi deserto, quassù. Non riesco neanche, quando ci siamo tutti, a fotografare adeguatamente i miei vicini di posto, ovvero le persone che, se abbonate, saranno al mio fianco per 19 partite, fino a maggio. Non ci sono saluti o altro ed entrambi sono comunque girati dall’altro lato per parlare con la persona con cui sono entrati, ma vi sarà tempo per capire.

Ora bisogna gettarsi nel panorama, assorbire per la prima volta la visuale da qui, che sarà la medesima tutto l’anno. Il campo si vede magnificamente e così lo sviluppo del gioco, anche se quel che avviene nell’area opposta va un po’ indovinato. Di fronte, dal tetto della Sir Stand, spuntano i piani alti del condominio immortalato, con decine di persone aggrappate ovunque, per una partita di FA Cup del 14 febbraio 1972 contro l’Hereford United, squadra che nel turno precedente aveva battuto il Newcastle United in una delle più famose gare di questa competizione. Sulla destra, sopra la East Stand che è la tribuna più bassa di tutte e dunque la più suggestiva, le torri di edilizia popolare della Seymour Road: in cima a quella più a sinistra, dai cui piani alti si può seguire - col binocolo - la partita, quarant’anni fa Bobby Moore posò, appoggiato alla balaustra, in un’altra foto storica e che mi piacerebbe replicare durante l’anno. Alle spalle del Capitano, in quell’immagine, lo stadio e un centro di Londra lontano e non particolarmente spiccante, decisamente diverso dal panorama attuale che già a pochi chilometri propone i grattacieli del Canary Wharf e l’alto Shard, sulla riva destra del Tamigi. Nel punto in cui la East Stand finisce, lasciando spazio - letteralmente - alla Bobby Moore, si intravvedono alcuni caseggiati di Barking, e siamo dunque già nella ex contea dell’Essex. Poco davanti, una scia di auto in movimento rallentato: dovrebbe essere la North Circular, la famosa ‘tangenziale’ metropolitana di Londra, trafficata ma mai quanto la famigerata M25 che fa un giro ancora più largo. Ma al momento il pensiero va ad altro, anche se non riesco a dissociare l’interesse per uno sport da quello per la geografia intorno, troppo condizionante. Le sensazioni sono in costante accavallamento, del resto, e mentre registro col cellulare il primo I’m forever blowing bubbles dell’anno - lo farò ogni volta - mi rendo conto che i pensieri in testa sono troppi, che non vanno concentrati tutti oggi, che non bisogna cercare di vedere, pensare, toccare tutto in questa giornata, perché oltretutto la partita sta per iniziare.

Ah, già, la partita. Attesa, ma è ovvio. Il West Ham United ha vinto all’Emirates Stadium contro l’Arsenal, sei giorni prima, e perlomeno dal punto di vista emotivo la combinazione regge alla grande: prima partita in casa dell’ultima stagione e speranza di una seconda vittoria. Il Leicester City ha battuto il Sunderland 4-2 alla prima giornata, risultato del tutto inutile per capire cosa accadrà oggi, perché non sorprende né che una squadra salvatasi con una grande rimonta abbia proseguito il cammino, anche se con un nuovo allenatore, né che i Black Cats siano affondati. I Foxes in campo - completo bianco con bella fasciona blu sulle maniche - però sono solidi come è giusto che sia: una sorta di rettangolo davanti a Schmeichel, con il solo Vardy più avanti e Okazaki a connettere i reparti, pericoloso per la sua velocità negli spazi brevi e per la possibilità di allungo in quelli ampi: e il West Ham costretto ad attaccare, un po’ perché gioca la prima in casa e un po’ perché deve riprendere il filo emotivo lasciato in sospeso sei giorni prima all’Emirates, di spazi ne lascia. Okazaki segna al 27’ proprio su azione rapida che nasce sulla sinistra, riprendendo un suo tiro deviato verso l’alto da Adriàn, mentre su azione di analoga velocità Mahrez, tagliando da destra verso il centro, anticipa tutti e segna il 2-0 al 38’. Tutto semplicissimo, difendi- e-riparti, una quadratura che contrasta con le tessiture che gli Irons cercano, costretti da ambiente, voglia, circostanze.

A inizio secondo tempo il giovane Reece-Oxford, buonissimo al debutto sei giorni prima, lascia il posto a Pedro Obiang, una sostituzione forse scontata, considerando che sui cambi di fronte del Leicester City è mancato proprio un centrocampista che opponesse una prima diga, anche solo rallentando l’azione avversaria per quei 2-3 secondi che possono fare la differenza. Dopo 13’ Payet, seguito con molta curiosità, segna l’1-2 dopo una serie di tentativi in area, al termine di un’azione in cui il West Ham ha schiacciato gli avversari, e subito Ranieri cambia qualcosa: fuori Okazaki e dentro N’Golo Kante, obiettivamente uno sconosciuto (per me). 4-5-1, con Kanté in mezzo, lievemente più sporgente rispetto a King e Drinkwater, e una fisarmonica ancora più accentuata, compressione e distensione continua dei 10 davanti a Schmeichel. Al 60’ Albrighton e Mahrez si scambiano fascia di movimento, mentre al 66’ Benalouane sostituisce De Laet, e c’è uno dei momenti di ironia che mi hanno sempre catturato, qui, perché la scarsa notorietà del giocatore e la pronuncia non liquida del suo nome da parte dello speaker provocano un immediato “who?” (“chi???”) di una buona fetta di pubblico. Al 76’ altra modifica tattica: Lanzini sostituisce Kouyate e il West Ham passa al 4-2-3-1, con Noble e Obiang mediani, Lanzini, Payet e Zarate dietro a Sakho, schieramento che cambia ancora 6’ dopo, quando Maiga sostituisce Zarate e va sulla destra, con Payet a sinistra e Lanzini in mezzo. Contromossa contemporanea, fuori Mahrez e dentro Fuchs, che lo sostituisce pari pari sulla fascia sinistra, ovviamente con un atteggiamento più difensivo. Atteggiamento sufficiente al Leicester City per arrivare in fondo, anche perché dopo 2’ di recupero Adriàn, arrivato nell’area avversaria per sfruttare un calcio piazzato, stende un avversario che stava avviando un contropiede, e viene espulso. In porta per i pochi minuti rimanenti va Jenkinson, ma non succede nulla, e si passa dunque dal trasporto emotivo della vittoria all’Emirates alla delusione di una sconfitta in casa contro una squadra mediocre come il Leicester City, abile solo a difendersi e ripartire. Questi è già tanto se si salvano, giusto?

Il primo dopo-partita, considerando che il risultato è per me una componente non rilevante se non per misurare l’umore intorno, diventa una miscela di calma e ansia. Si attende il deflusso più massiccio, inquadrandolo con foto e video dal lato sinistro della Bobby Moore Stand, attraverso le vetrate opache, a picco sulla Castle Street e, poco a sinistra, sulle porte aperte e sulle scale esterne del West Ham Social Club, pinte in mano, dialoghi su chissà che, aria di chi non ha alcuna fretta di tornare a casa. È strano ma nonostante sia solo la prima di quasi 20 tappe non riesco a resistere alla tentazione, una volta arrivato all’imboccatura dell’uscita, di voltarmi indietro e guardare il campo, che gli addetti stanno già sistemando per la prossima partita o forse solo perché si mantenga bene e porti il decoro a chiunque lo guardi. Quanto dura questo sguardo, dieci secondi? Venti? Troppi, comunque. Perché urge attraversare la città in direzione Heathrow e il Terminal 5, quello dei voli British Airways, particolarmente convenienti se prenotati al momento giusto. Quasi due ore in metropolitana, e con chiusura del gate alle 19.50 c’è poco da cincischiare: partire da Upton Park dopo le 17.50 vuol dire rischiare. Riesco a farlo in tempo, prendo un bus che mi deposita alla metro a Plaistow leggermente meno intasata di Upton Park, cambio a Earl’s Court, Piccadilly Line e dopo 4 ore sono a casa, lievemente incredulo di aver fatto tutto nella stessa giornata. Eppure è così, e non sarà l’ultima volta. 2

ADIO ALL’IMPROVV LO ST ISO (BOURNEMOUTH)

Sabato 22 agosto 2015, ore 15: West Ham United-Bournemouth 3-4 (Wilson 11’, Wilson 28’, Noble rigore 48’, Kouyate 53’, Pugh 66’, Wilson 79’, Maiga 82’)

WEST HAM Randolph - Jenkinson, Reid, Ogbonna (Tomkins 30’), Cresswell - Kouyate, Obiang, Noble - Nolan (Jarvis 46’), Sakho (Maiga 73’), Payet.

BOURNEMOUTH Boruc - Francis, Elphick, Cook, Daniels - Ritchie (Smith 94’), Surman, O’Kane, Gradel (Gosling 85’) - King (Pugh 51’), Wilson.

British Airways 561 Milano Linate 7.45 - Londra Heathrow 8.45 British Airways 570 Londra Heathrow 18.35 - Milano Linate 21.30 Non ci siamo. No, perché va bene il dramma (sportivo) che genera pathos e tensione e va bene il divertimento del tiro a segno, ma non avrei l’intenzione di trascorrere l’intera stagione tra gente inviperita per le debolezze difensive della squadra. L’Evento per me, emotivo prima ancora che statistico, fondato sulla storia lunga e non sulla moda del momento, è l’ultimo anno al Boleyn Ground, ma di questo passo la narrazione e la narrativa rischiano di spostarsi su piani agonistici. Sia chiaro: è un folle, da internare immediatamente, chi tragga conclusioni su una squadra a novembre, figuriamoci dopo tre partite, ma all’intervallo di West Ham-Bournemouth c’è chi, intorno, a me, la butta lì: “Ma cosa accadrebbe se retrocedessimo proprio nell’ultimo anno al Boleyn Ground?”. Lo ripeterà probabilmente anche alla fine, ma con me assente. Non avevo altra scelta: troppo costose tutte le altre opzioni sul sabato e sulla domenica, l’unico modo di tornare in Italia è il volo British Aiways delle 18.35 da Heathrow. Vuol dire passare i controlli non oltre le 17.50, e considerando le due ore da Upton Park all’aeroporto bisogna lasciare lo stadio alle 15.45. Cioé alla fine del primo tempo.

È orribile, ma devo farlo. Giù di corsa, l’uscita sulla Castle Street, a destra sulla Green Street e la metro dopo alcuni minuti affannosi, anche a causa del caldo. Del gol di Noble su rigore leggo sul cellulare mentre sono già verso Mile End, ma il resto della partita svanisce nei sotterranei della metropolitana, nel lungo tragitto verso il Terminal 5 di Heathrow. Un flash a Earl’s Court, quando si torna brevemente all’aperto, e sul 3-4 finale che compare nella app per i risultati torna il pensiero dell’intervallo, del timore espresso da quel tifoso senza volto, alle mie spalle. Egoisticamente non mi piace che un’eventuale brutta stagione della squadra vada a rovinare un addio al Boleyn Ground, anche perché non amo contestazioni, polemiche e tensioni e in quel caso, invece, una sottile ma robusta corrente di opposizione allo spostamento del club emergerebbe con un vigore al quale è meglio non pensare.

Meglio pensare, anzi tornare, al mattino. All’eleganza del servizio British Airways anche per chi, come me, ha pagato poche decine di euro per il biglietto, alla mai abbastanza elogiata tariffa per chi viaggia con il solo bagaglio a mano. Sembra strano pagare così poco in agosto, ma in realtà è logico: chi si muove in questo periodo lo fa prevalentemente per turismo e un turista non parte certo senza bagaglio, per cui i pochi posti riservati a chi invece vola leggero sono rimasti disponibili a lungo. Anche per il ritorno, pur con quell’orario scomodo. Linate e prima delle 9 si arriva a Heathrow, il tempo di ricaricare il cellulare già pallido e si va sulla Piccadilly Line verso est, con cambio a South Kensington, e l’attenzione rivolta a letture che preparino alla partita. La prima distrazione è già quando si è ancora sulla Piccadilly, con padre e figlio, al massimo 10 anni, che salgono indossando l’uno una polo, l’altro una maglia da gioco del West Ham. Siamo ancora ad almeno un’ora da Upton Park e la direzione di provenienza non è scontata, ma ecco il primo segnale della giornata.

Obiettivamente, man mano che cresce sulla metropolitana il numero di persone palesemente dirette alla partita - siamo intorno alle 11, mancano 4 ore ma i dintorni di Upton Park sono vivi già da un po’ - la sorpresa diminuisce, chiede scusa ed esce, lasciando spazio alla piacevole sensazione cromatica di essere cullato e trasportato nel luogo dei sogni, seppur prosaici e solo parzialmente interessati, che è anche un clamoroso rifugio dalle tristezze della vita. Un luogo dei sogni che non è comunque issato al di sopra della normalità ma è completamente calato in essa, e non potrà essere lo stesso all’Olympic Park, anzi al Queen Elizabeth Olympic Park. Perché se i dintorni del Boleyn Ground rappresentano lo squallore della trasandatezza individuale, collettiva e pubblica - quanto sono orripilanti i bidoni per la raccolta differenziata, alti come un bambino di 12 anni, che nei tristi cortiletti delle case oscurano persino la vista? - lo stadio se non altro è ancora “britannico” nel suo spuntare improvvisamente tra le case, nel comparire un pezzo alla volta, nel giocare a nascondino tra un vicolo e una via. Se arrivi dalla metro ti spunta tutto in una volta addosso una volta che hai superato l’ultima casa della Green Street, a sinistra, ed entri nella zona della scuola elementare, la St.Edward’s. Se arrivi dalla Barking Road venendo da est compare sulla destra nel punto in cui il proseguimento della Cleves Road entra in uno slargo, mentre da ovest la tribuna principale, la West Stand ultimamente chiamata Betway Stand, ti spia dall’alto delle case non appena la strada stessa gira all’incrocio con la Greengate Street, quella che porta anche i bus verso Stratford, passando per la metro a Plaistow.

È tutta una scoperta: quasi discreta, quasi improvvisa. Un gioco che si prolunga da oltre cento anni, nelle varie forme che lo stadio ha avuto: perché se è vero che alcuni caseggiati sono cresciuti di dimensioni, in questo secolo, è vero che pure lo stadio lo ha fatto, perlopiù negli ultimi 25 anni, ed è stato quasi un inseguimento verso l’alto che ha contrastato parecchio con il 99% degli edifici intorno, rimasti pressoché uguali. Le solite dimore una attaccata all’altra, che danno un falso senso di indipendenza, perché in realtà l’accatastamento nemico della riservatezza è identico sia che le residenze siano una accanto all’altra - come qui - sia una sopra l’altra, come in un condominio all’italiana o all’europea. Però resta appunto la bellezza improvvisa della scoperta da un secondo all’altro, del passo in più che ti fa entrare o uscire dalla visuale e ti mette la voglia di scoprire altro. In questo, più che nella struttura in sé, il calcio inglese sta cambiando: nella visibilità immediata degli stadi rispetto al passato, nel loro isolamento all’americana dall’ambiente circostante, e fa sorridere che tutto questo avvenga mentre in USA, ormai da parecchi anni, si sta facendo l’opposto. Ovvero, gli stadi di baseball e football hanno ricominciato ad essere vicini al centro della città, o a farne parte, e sono sempre meno quelli costruiti nelle estreme periferie.

L’Olympic Stadium è al centro di una spianata cui si arriva principalmente da un lungo corridoio-ponte dal centro commerciale Westfield , in attesa di altri sviluppi commerciali, mentre il Boleyn Ground è qui incastrato, e lo era ancora di più un tempo, prima che il club acquistasse alcuni edifici e li tirasse giù per potersi allargare. Ma il fatto che il perimetro dello stadio sia asimmetrico, comprendendo la chiesa cattolica Our Lady of Compassion adagiata all’angolo sudovest e costringendo allo slalom della Castle Street all’angolo con il West Ham Supporters Club per girare dietro la Bobby Moore Stand riporta al concetto originario, confortevole e confortante per chi si è avvicinato al calcio inglese per sue determinate caratteristiche. Quella degli stadi incastrati tra le case è una: un effetto che si amplifica in occasione delle partite serali, quando le luci possono guidare anche alla cieca, tra le case e i vicoli, rappresentando briciole di familiarità anche quando cerchi scorciatoie e non sei sicuro di essere nel posto giusto. Non credo sia un caso che Martin Keown, l’ex difensore dell’Arsenal, proprio parlando del Boleyn abbia detto «è uno dei nostri grandi stadi, anche per come emerge dalle case vicine. Quelli nuovi e luccicanti non ti danno la stessa sensazione di comunità unita».

Al Brisbane Road dell’Orient, alcuni anni fa, avevo fotografato i panni stesi da una signora a pochi metri dalla gradinata dietro a una delle porte, mentre a Brentford c’è il vaso di rose appeso fuori dall’ingresso di una casa appiccicata al Griffin Park, e gli esempi in giro per il Regno Unito potrebbero essere tanti, finché resistono. Non riesco tuttora ad adattare la mia idea alla realtà di stadi con slarghi intorno, e per paradosso questo vale anche per impianti antichi: Bramall Lane, a Sheffield, dal lato dell’ingresso principale ha un amplissimo spazio destinato anche a parcheggio, idem il Villa Park che è una meraviglia architettonica ma respira troppo, e avanti con altri, magari meno noti. C’è qualcosa che mi toglie maestosità, in uno stadio circondato da automobili e vuoti, anche se posso comprendere la visione opposta, quella cioé di chi può individuare un Etihad Stadium da 500 metri di distanza e vederselo avvicinare poco alla volta con l’ansia del passo dopo passo che lo rende sempre più grande. Scherzando, posso aggiungere che meno spazio c’è meno è probabile che si allestisca una Fan Zone: alla larga teppisti e violenti, che sottoporrei a una fine non riferibile, ma non sono neanche un appassionato di queste fiere omologatrici, che hanno una origine e una vivibilità non compatibili con la mia visione di calcio e di evento sportivo ripulito da tutti i contorni e limitato all’essenziale.

Rapido di pensiero come non lo sono di azione, elaboro tutto questo mentre compio il periplo incompleto del Boleyn Ground. Supero la Boleyn Tavern, giro a sinistra sulla Barking Road e mi metto in coda da Nathan’s Pies and Eels, al numero 51. Questo il nome sulla storica, antica, semplice, bellissima insegna, anche se il cartello messo in piedi davanti al locale porta solo “Nathans” e quello appeso in vetrina dice “Nathan’s”, per non parlare del fatto che la descrizione sulla pagina Facebook dice “Nathans Pie Mash & Eels”: incongruenze grammaticali che accadono anche in grandi aziende, figuriamoci in un locale a conduzione, sostanzialmente, familiare. Inevitabile sia la scelta sia la coda, ma a occhio e croce si può arrivare a mangiare senza affanni e magari dare una ricaricata al cellulare, perennemente in difficoltà. La fila fa molto anni Ottanta ma anche Nuovo Secolo: gli Ottanta sono rappresentati dalla composizione etnica piuttosto omogenea delle persone, sul pallido pur con eccezioni di abbronzatura estiva, i secondi compaiono negli abbigliamenti, di stampo decisamente più continentale rispetto a una volta. Andare allo stadio (o in giro!) 30 o 40 anni fa nel Regno Unito voleva infatti dire assistere a involontarie sfilate di una maggioranza di persone vestite come mai lo sarebbero state in Italia o in Spagna. Ora, la (troppo) libera circolazione delle genti e delle idee ha mescolato pure questo, e in alcuni casi non riesci a capire se la persona accanto a te in autobus sia inglese o francese o danese, finché non apre bocca.

Il signore almeno sessantenne in coda proprio davanti a me, con il figlio, potrebbe infatti essere tranquillamente un italiano da piazzetta di Portofino, con i suoi mocassini, i suoi bermuda curati, la sua camicia non trasandata per foggia e vestizione. E pure il figlio potrebbe avere appena parcheggiato il suo scooter con tettuccio, a vederlo. Poi tra tre ore saranno su qualche seggiolino a sgolarsi e buttare un “fucking” ogni tre parole, ma il conforto che mi arriva da questa istantanea è ambiguo. Il piacere di vedere il calcio generazionale, di sapere che in famiglia si tifa per la stessa squadra da almeno 50 anni e si appartiene alla tifoseria più vera, ovvero quella locale o al massimo trasferita, è temperato dalla consapevolezza che probabilmente queste persone non avranno alcun problema a spostarsi allo Stadio Olimpico e anzi tesseranno l’elogio - legittimo! - dei suoi maggiori spazi e agi. Fermo restando che, al di là dell’attraente romanticismo demodé del concetto, spero che la trasmissione della fede all’interno della famiglia avvenga sempre in modo morbido e non vincolante: comprensibile il padre che porti presto il figlio allo stadio, molto meno - a mio parere - che lo spinga o imponga nomi di battesimo anomali in omaggio a un calciatore (quanti Dimitri si iscriveranno all’asilo tra 5 anni?), rifilando al pargolo un appellativo non richiesto e celebrando dunque il proprio egoismo.

Poco alla volta si avanza verso l’ingresso, la lentezza della fila permette di frenare pensieri troppo rapidi e di scrutarsi intorno. Il movimento della Barking Road è quello di ogni partita che si giochi al sabato, specialmente al sabato alle 12.45 o alle 15: decine di persone che proseguono la loro vita indifferenti - ma difficilmente ignare, anche se alcune probabilmente non sanno neanche l’inglese - ai tifosi e al calcio, dotate dell’apparato classico di intristimento dell’essere umano: borse della spesa, bambini a rimorchio, telefonata in corso. In questa mia annata di ricerca e immersione in un calcio il più possibile antico e tradizionale mi conforta anche vedere che tutta questa coda, che alle mie spalle arriva almeno a 70 metri, passa davanti ad altri locali senza nemmeno degnarli di attenzione. Locali uno uguale all’altro come offerta gastronomica, forse compatibile con i gusti della maggioranza dei residenti di Upton Park ma certamente non gradita a tutti quelli che oggi, e per ogni partita, vengono qui e vogliono anche rendere omaggio a un’istituzione prima che sia troppo tardi. Altro che pollo al piri-piri o improbabili pizze mediorientali: si va ancora di pie and mash, di eels e liquor, e non abbiate paura, tra poco arriva la spiegazione gastronomica. Che poi si stia verificando una situazione come quella della libreria Sportspages, chiusa (dopo 21 anni) nel 2006 per mancanza di clienti, è altro discorso: l’autore stesso di questo libro acquistava sempre meno lì e sempre più sul web e dunque le sue lacrime per aver visto un altro negozio al posto di Sportpages erano quantomeno fuori luogo. Allo stesso modo le file costanti fuori da Nathans/Nathan’s sono composte da persone che nel 2016- 17 non avranno probabilmente grossi problemi ad andare direttamente a Stratford prima della partita, risparmiandosi gli almeno 60 minuti che partire da lì, arrivare qui, mangiare e ripartire potrebbe costare. È il divario, a volte drammatico, tra le parole, o perlomeno le intenzioni, e i fatti.

Poi è difficile che negli immediati dintorni dell’Olimpico ci siano posti come questo, dal menù irresistibilmente antico, ma con rifiniture moderne. Il piatto principale è la pie and mash with liquor or gravy, 4 sterline, tradizionale piatto dell’East End ma che vi possono servire anche a sud del Tamigi. E va tradotto in termini comprensibili: la pie è quella sorta di tortino, o di calzone (ho letto anche la traduzione “pasticcio” ma non mi convince), contenente un macinato di carne, mentre la mash è più facilmente riconoscibile come un puré di patate. Il liquor può causare dubbi: la parola indica però semplicemente un “liquido”, cioé una salsa verde a base di prezzemolo, molto saporita, a cui dà scorrevolezza l’acqua in cui vengono preparate le anguille, (“eels”), che a loro volta costituiscono un’altra specialità della zona e di locali come questo e che erano originariamente il ripieno delle pie: nel Tamigi e affluenti altamente inquinati di un secolo fa erano tra le poche specie in grado di sopravvivere, e pescarle non era poi così difficile. La/il gravy è invece una salsa più densa, in pratica un sugo ottenuto da brodo, farina e in alcuni casi vino rosso, e servita in una specie di caraffetta, Un piatto di “jellied eels” costa 4,50 sterline ed è appunto un altro classico: pezzetti di anguilla avvolti in una gelatina a base di aceto dal sapore molto forte, motivo (l’aceto) per cui la mia sperimentazione non l’ha nemmeno sfiorata, limitandosi al piatto principale, decisamente gustoso, come doveva essere nelle sue origini umili di alimento in grado di riempire lo stomaco e dare molta energia. Il giro viene completato da una fetta di torta alle mele con crema calda, ma il dettaglio lo aggiungo solo per poter dire che la fetta viene recapitata al tavolo da una delle cameriere del locale, tutte apparentemente sopra i 55 anni, con grembiulini e divise, compresa la calzina bassa o il gambaletto in vista, che paiono essere le stesse da quando Nathans/Nathan’s ha aperto, nel 1938, fondato da una famiglia di origine olandese (!).

Spille del West Ham sul bavero, una lavagna che avvisa dell’apertura straordinaria per la serata di lunedì 14 - l’apertura normale è martedì-sabato, 11.30-18.30 - quando ci sarà West Ham-Newcastle, quadri con foto della squadra, compreso quello con il disegno di tutte le maglie usate, pubblicato nel 2007, evidentemente in estate perché lo sponsor dell’ultima è XL, il tour operator che andò in liquidazione lo stesso giorno del settembre 2007 in cui venne nominato allenatore al posto del dimissionario Alan Curbishley. Uno che nel West Ham aveva anche giocato e, essendo nato a cioé un paio di chilometri più a nord, da Nathans/Nathan’s sarà andato chissà quante volte, prima di diventare troppo famoso per potersi fermare in pace. Tavoli anni Cinquanta con copertura in fòrmica, muri celati da ceramica a piastrelle facili e rapide da lavare, botticini delle salse ai lati, ricambio continuo di facce da vecchio East End, gradevoli anche quando non lo sono perché rappresentano la radice perduta di questi luoghi: pur essendo un estraneo e pure straniero, in fondo sono qui per il medesimo loro motivo, ovvero catturare con i cinque sensi un periodo che sta sfuggendo via, senza ritorno. I proprietari di Nathan’s - dai, è questo il nome giusto, trattandosi del cognome con genitivo sassone - hanno pensato di trasferirsi a Stratford ma i costi degli affitti sono improponibili, e per paradosso andandosene provocherebbero ai residenti locali ancora affezionati a questo tipo di cucina il medesimo danno che la partenza del West Ham United può provocare agli esercizi commerciali più legati alla presenza del club. È quasi un paradosso, allora, la notizia che Karren Brady, principale organizzatrice del trasferimento all’Olimpico, si faccia portare spesso il pranzo da un assistente incaricato di andarlo a prendere proprio da Nathans.

Lo stato di idillio sognante si interrompe quando il cellulare, prima di spirare ed essere salvato solo dalla batteria supplementare, ricorda che non è più il caso di occupare un posto ambito in un locale ad alto ricambio di clienti, e allora si ripercorre l’ampio marciapiede della Barking Road verso ovest, schivando la marea di persone che gira, compra, esce, entra, curiosa, infilandosi nel vicolo prima della Boleyn Tavern, in quel passaggio per nulla segreto che da generazioni si utilizza per non ingolfarsi nella Green Street. Si spunta nella Castle Street e dopo pochi passi, a destra, c’è Lee Williams con le sue spille - ma quella di Billy Bonds non ce l’ha e non ce l’avrà - c’è il Social Club, c’è l’invariabile caos del prepartita soleggiato, ci sono 2-3 ragazzini che come ogni volta danno due calci a un pallone e alla fine c’è il doppio ingresso 40-41, per salire sulla Bobby Moore Upper. Il suono del tornello all’approvazione del tesserino si accompagna ogni volta al mio timore di restare incastrato: non io personalmente quanto magari la cinghia della borsa a tracolla. È per non fare brutta figura ma anche per non rallentare chi è dietro, pure a 45 minuti dalla partita. Un cenno col capo ai tre steward iniziali, un saluto più vistoso al quarto, che è sempre in fondo alle scale e pare un ragazzo un po’ sempliciotto, poi le due rampe di salita. Anzi, una: individuata una rarissima presa a muro, ci attacco il cellulare e resto lì un quarto d’ora almeno, sorridendo in modo imbarazzato a chiunque passi, compresi due dipendenti del West Ham che escono da una porticina adiacente, quella che dovrebbe condurre ad alcuni salottini all’ammezzato.

La risalita, thankyou-thankyou a chi tiene la porta aperta per farti passare, il caos vociante del corridoio con i bar e dell’incrocio con la fila di chi va alla toilette - ehi, c’è un’altra presa della corrente proprio all’angolo con i bagni! - e l’arrivo al posto, sempre dopo avere preso fiato due volte: la prima, per l’emozione, che ogni volta rinasce dalla ceneri di se stessa, della visione del campo verde ma anche della suddivisione dei circa 180 gradi di mondo che ci è concesso di vedere, la seconda per lo sforzo delle scale in una giornata calda, con l’ansia di sistemarsi al più presto. E poi ti guardi meglio intorno e vedi che come al solito lo stadio è ancora mezzo vuoto, e non si riempirà che al calcio d’inizio o poco prima. Qualcuno in più c’è nel settore ospite, che si darà tra l’altro da fare durante la partita, con i soliti battibecchi con i tifosi del West Ham seduti - poco - nell’angolo di East Stand adiacente alla Sir Trevor Brooking Stand: ho visto lì una partita di Championship contro il Cardiff City alcuni anni fa e ho dunque potuto constatare la ferocia dei diverbi dialettici tra fazioni vicine, che si stimolano a vicenda e creano un ambiente autoreferenziale e quasi isolato dal resto dello stadio. Seduti anche i miei vicini di posto, con cordiale cenno reciproco di saluto e nulla più, ecco la partita.

Mentre Payet infila il pallone da 20 metri nella… sacca dove vengono raccolti a fine riscaldamento, non mi piacciono i “buuu” a Kevin Nolan, giocatore che da parecchio tempo è caduto in disgrazia, reo di essere un fedelissimo di , l’allenatore precedente, che ha sì riportato il West Ham in Premier League e lo ha salvato, ma con una filosofia calcistica che troppi tifosi non hanno approvato perché scarna e disadorna, lontana dalla teorizzazione della Academy of Football creata, ideologicamente, tra fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, e concretizzata nella West Ham Way, nel “sistema West Ham” su cui... oh, occhio, stanno iniziando. E c’è appunto Nolan con Payet appena dietro a Sakho, anche se con parecchio movimento dei tre. Dietro, Obiang centrale con Kouyate a destra e Noble a sinistra, mentre i 4 difensori sono, da destra, Jenkinson, Reid, Ogbonna e Cresswell. In porta Randolph, per via della squalifica di Adrian. Di là, il 4-4-2 della promozione e dell’entusiasmo, visione a me sempre gradita. Come la settimana precedente, il West Ham mostra problemi a gestire la palla, di fronte all’organizzazione altrui. Dopo 11’ Cresswell la perde sulla pressione di Francis (il terzino destro!) che crossa per Wilson che la mette dentro di forza; altri 17’ e da un errore simile, stavolta un retropassaggio molle dello stesso Cresswell, ancora Wilson arriva primo e non ha problemi ad aggirare Randolph, che curiosamente lo scorso anno, con la maglia del Birmingham City, aveva concesso 12 gol al Bournemouth.

L’atmosfera intorno si fa pesantina, sullo 0-2. Fanno quattro gol subiti in due settimane da squadre ritenute mediocri, e tutti con l’impronta comune di possesso di palla mal concretizzato, sconfessato dalla pressione e ripartenza avversaria, senza riparazione da parte della difesa. Non c’è dissenso violento nelle parole, ad eccezione del solito aggettivo infilato ovunque, ma un mormorio preoccupato che probabilmente riprende e rilancia i timori di sette giorni prima di una stagione disgraziata, proprio questa. L’umorismo che ha sempre tenuto vivo il calcio inglese, ma in generale lo sport anglosassone, rispunta al 35’, quando a causa del caldo l’arbitro concede una seconda sosta di un minuto per permettere ai giocatori di bere. “What the fucking hell is that?” (“che c**** succede?”) è il commento in coro, seguito poco dopo dalle prese in giro dei tifosi ospiti. Che prima, evidenziando il silenzio depresso che avvolge lo stadio, ricordano ai supporter del West Ham “you’re supposed to be at home” (“ma non siete voi la squadra di casa?”), poi aggiungono veleno chiedendo se quelli in campo non siano in realtà giocatori del... Millwall (“are you Millwall in disguise?”) vestiti con maglie claret&blue. Un dardo verbale che ricorda quale sia la rivalità maggiore per gli Irons, anche se fortunatamente - per l’ordine pubblico - è un po’ che non ci sono partite tra le due. Nel momento della seconda sosta per l’acqua tra l’altro Bilic ha già fatto una sostituzione: al 30’ Tomkins ha sostituito Ogbonna, spostandosi sul centrodestra difensivo con Reid che va sul centrosinistra. Decisione coraggiosa e drastica che può avere conseguenze sul morale del giocatore, penso: gli errori erano stati di Cresswell ma effettivamente Ogbonna gli aveva fornito pochissima assistenza, in una giornata in cui peraltro ci sono molti elementi tattici e tecnici contraddittori. Payet che per due volte si allunga troppo il pallone in promettenti situazioni di uno-contro-uno, le fasce spesso scoperte per l’avanzamento contemporaneo di Cresswell e Jenkinson, la pressione dei Cherries che mette allo scoperto le difficoltà di Obiang a ricevere palla dalla difesa e costruire qualcosa.

Il caldo e lo 0-2 portano molti spettatori a uscire verso i bar già prima della fine del primo tempo, mentre il sottoscritto si avvicina alle uscite, spinto verso l’esterno dalla necessità assoluta di non perdere l’aereo e trattenuto al suo seggiolino dalla voglia di restare fino alla fine e vedere, semplicemente, cosa accadrà. Fosse anche nulla, sarebbe comunque un nulla vissuto al Boleyn Ground, in una stagione in cui più che in altre ogni momento perduto assume un valore. Il secondo tempo lo vedrò giorni dopo, online. Una rimonta non sorprendente, nei 45’ in cui il West Ham attacca come al solito verso la porta di destra rispetto alle inquadrature tv (e dunque sotto di me, se ci fossi), un altro errore per il 2-3, l’espulsione di Jenkinson per il fallo che porta al rigore del 2-4 segnato ancora da Wilson - parere personale: se non si fosse fatto male poco dopo avrebbe conteso a Vardy il titolo di attaccante sorpresa dell’anno - e il gol di Maiga che fa pensare a un finale ruggente. Al 46’ è entrato Jarvis per Nolan e gli Irons si mettono 4-4-1-1 con Sakho e Payet staccati dagli altri, Kouyate precaria ala destra e Jarvis sul lato opposto, mentre con Maiga dal 79’ cambia solo il nome della punta avanzata. Maiga, Nolan, Jarvis… Non è ancora finito il mercato e sono nomi, e giocatori, che non rivedrò più. Anche se a dire il vero due dei tre non li ho visti nemmeno oggi, perché già ero a contare i minuti sulla metropolitana. Ah, sono poi arrivato in tempo a Heathrow? Sì. Con qualche minuto di anticipo sulla chiusura del gate. Qualche, non molti. Pochi, non qualche. Uno, ecco.

Nota finale, quasi incredibile: la notizia della morte di John Gaustad, fondatore di Sportspages, arriva nelle ore in cui sto scrivendo questo capitolo e menziono il suo negozio. Capitolo chiuso in tutto e per tutto, davvero. 3

STATION IS UPT NEXT ON PA THE RK (NORWICH CITY)

Sabato 26 settembre 2015, ore 15: West Ham United-Norwich City 2-2 (Brady 9’, Sakho 33’, Redmond 83’, Kouyate 93’)

WEST HAM Adrian - Jenkinson, Tomkins, Reid, Cresswell - Kouyate, Noble (Zarate 85’), Payet - Lanzini (Carroll 72’), Sakho, Moses (Obiang 57’).

NORWICH CITY Ruddy - Whittaker, Martin, Bassong, Olsson - Howson, Tettey, Dorrans (Redmond 69’), Brady - Hoolahan (O’Neil 85), Jerome (Mbokani 85’).

British Airways 543 Bologna 8.15 - Londra Heathrow 9.35 British Airways 544 Londra Heathrow 20.30 - Bologna 23.30 È la giornata della riscossa, della rinascita, dell’oasi, della tempesta in un bicchiere d’acqua, di quelle però da stadio americano, quasi un litro e peggio per te. Inizia nella maniera più dolce, con gli occhioni di un cagnolino che non accetta che tu esca di casa alle 6 senza avergli dedicato qualche attenzione, e da qualche coccola si passa alle tante e dalle carezze e dai vani - ma non sono vani, lui capisce - appelli alla pazienza, «che stasera torno» si arriva al giretto nella semioscurità, con le tinte rosa dell’alba che non alzano le ombre del piccolo parco, sul gatto che all’angolo osserva immobile e fortunatamente non visto, con i dieci minuti rubati alla trasferta e guadagnati alla vita del paesello, anzi di quell’angolo di paesello ancora inviolato.

L’obiettivo della giornata non è solo un viaggio sereno, un arrivo puntuale, un tragitto pulito e un ritorno dignitoso, ma sconfiggere la cabala. Due partite viste in casa, due tracolli del West Ham; una partita non vista, quella del 14 settembre contro il Newcastle United, una vittoria. Non me n’ero accorto, ma il pensiero volteggia da qualche giorno. Anche perché è abbastanza assurdo che in casa gli Irons abbiano una vittoria e due sconfitte, tutte contro squadre non esaltanti, mentre in trasferta abbiano nel frattempo vinto contro l'Arsenal, il Liverpool e il Manchester City.

Che è poi una cosa tutta da ridere. Perché curiosamente pochi giorni prima avevo in borsa un libro intitolato Medioevo Superstizioso, prezzo ancora in lire dunque comprato chissà quando, e l’esame della superstizione nella sua radice lessicale, prima di tutto, ha aperto tante parentesi e tante finestre di pensiero. Disprezzo cabale e superstizioni con una veemenza e dedizione tali da essere diventate a loro volta, temo, una cabala: l’assenza assoluta di attenzione a queste scemenze è l’unica strada, perché in fondo anche avversarle significa dare loro importanza, ed è sbagliato. E sulla metro, nel lungo tragitto dal Terminal 5 di Heathrow a South Kensington - perché South Kensington? Perché sì - leggo di Callum Wilson del Bournemouth e dell’articolo in cui si mostra non spaventato ma attirato dal numero 13, che ha avuto influenze positive nella sua vita, e quando il giorno dopo apprenderò del suo infortunio cercherò di non pensare alla prima cosa che era venuta in mente, ovvero che avrebbe fatto meglio a tenersi per sé certi ragionamenti, ed è un pensiero assurdo perché la numero 13 sulle spalle ce l’ha da tempo e in tutte le altre occasioni gli era andato tutto bene.

A South Kensington esco: sarà l'unico stop di tutto l'anno, ad eccezione dei cambi forzati, in una zona londinese che non sia East End. Non cedo alla tentazione di entrare al South Kensington Books, libreria che promette bene sul fronte dei volumi di tanti anni fa, ma mi limito a una colazione «europea» in un caffé. È questo il motivo: volendo sempre consumare pasti veri ad Upton Park e dintorni, con questa rapida fermata metto a tacere la fame senza riempirmi al punto da rendere inaffrontabile l'idea di un pranzo vero in zona a me più congeniale per gli scopi di questa annata e di questo libro. C'è un sole luminoso, gente ai tavolini della piazzetta, un'aria che resiste al calendario ma anche la voglia di rimettersi presto in movimento verso est. E allora rientro nella stazione della metro, per lo scambio con la District Line che porta verso Upton Park. Anzi, oltre. Perché questa è finalmente la volta in cui inizia un'esplorazione più completa e inedita dei luoghi. Prima tappa di un viaggio che, man mano che si avanza, porterà per paradosso sempre più indietro, alle radici del club e per certi versi anche del calcio nell'East End. Sorpasso Upton Park - stranissima sensazione, non scendere - ed esco dalla metro alla fermata successiva, . Esco dalla stazione e sono in pieno quartiere, a prima vista non molto dissimile come negozi, gente, viavai, frenesia, rispetto a quello dello stadio. Subito a sinistra, in direzione Barking Road, un'edicola che nell'insegna pubblicizza il Newham Recorder («more than a local newspaper») ha la vetrina tappezzata di piccoli annunci scritti a mano su bigliettini adesivi. Sono le ricerche della povertà, della crisi, della miseria, della disperazione. Richieste di lavoro di qualsiasi tipo, scritte spesso in inglese incerto o direttamente in un'altra lingua; offerte di alloggio ai minimi termini, gli unici permessi da paghe basse o inesistenti; vendita di piccoli oggetti che un gradino sociale più su verrebbero semplicemente gettati nei bidoni della raccolta rifiuti speciali. Una vetrina che vista da lontano può sembrare decorata e vivace ma che all'esame ravvicinato diventa un mosaico cupo di speranze, precarietà, mediocrità, incertezze.

A leggere la descrizione delle famiglie che offrono certe stanze in affitto si può pensare che la somma indicata, raramente sotto gli 800 euro mensili persino da queste parti, sia quella che la famiglia medesima versa all'affittuario purché accetti di condividere abitazioni del genere, non quella che il candidato deve pagare. E si tratta comunque di situazioni che creano una spirale negativa anche tra stranieri che vengano qui in parcheggio temporaneo. Lo ha spiegato un servizio di Tv7 di alcuni anni fa realizzato da Stefano Tura, dal 2006 corrispondente RAI a Londra: troppi italiani, anche di buoni studi, attirati ingannevolmente dalle promesse di questa città arrivano qui per lavorare e imparare la lingua, ma per via dei costi altissimi di affitto devono condividere la stanza o la casa con altri stranieri, in zone periferiche magari lontane dal posto di lavoro. Anche i trasferimenti dunque incidono sul bilancio, e dopo qualche tempo, se non hai fortuna o doti particolari, scopri che non riesci a mettere da parte nulla, parli un inglese fasullo con coinquilini e datori di impiego forestieri, hai rari contatti con la popolazione media perché non puoi permetterti di uscire troppo la sera e in definitiva rischi solo di perdere anni e tornartene a casa a mani, tasche e cuore vuoti. Storie frequenti raccontate in quello speciale, ispirate dall'assassinio di Gioele Leotta, un giovane italiano arrivato da pochi giorni nel Regno Unito: viveva sopra il ristorante in cui lavorava ed è stato ammazzato da un gruppo di energumeni lituani convinti che da Gioele e dal suo amico Alex fossero arrivate proteste al padrone di casa per i rumori provenienti dal loro appartamento. Caso tremendo ed estremo, è ovvio, così come non tutte le storie di chi arriva dall'Europa con molta speranza ma poche risorse finiscono nel medesimo canale senza uscita, ma questa vetrina coperta di rettangoli di sogni sbiaditi mette una certa tristezza. Così come il resto della High Street, la via principale.

Tra i negozi con insegne e nomi che vedete in ogni strada di alta percorrenza ci sono anche quelle anonime di bazar venditutto, sbloccatori di telefoni cellulari e i sempre più frequenti empori con merce in vendita a 99 centesimi o una sterlina. A un certo punto, mentre aumenta il numero di maglie del West Ham che fanno esplodere quei due colori alla luce brillante del sole, ecco sulla destra il posto che desideravo. In una via laterale (la Pilgrims Way) compare l'insegna claret&blue dell' «Aunt Sallys Cafe». Facendo finta di non avere visto che anche qui, come un chilometro più ad ovest da Nathans/Nathan's, il genitivo sassone viene impiegato con notevole disinvoltura, capisco che sono nella destinazione che non conoscevo ma cercavo. Alcuni tavoli a muro, altri liberi al centro, un bancone ristretto, alle spalle la cucina incastrata nel poco spazio utile. Nell'aria un profumo attraente e pericolosissimo, quel misto di fritto e scottato che rappresenta l'elemento base della colazione all'inglese, l'English Breakfast, piatto che nelle sue varietà e nella sua gloria complessiva viene qui servito come principale, a ogni ora fino a metà pomeriggio. Ordino quello pieno, quello classico, ad eccezione dei funghetti che proprio non riesco a mangiare, e nell'attesa che quella mostruosità venga preparata sfoglio un po' il Daily Mail e mi guardo intorno.

Il locale è pieno e almeno la metà delle persone presenti indossa una maglia del West Ham. Alla conta sono cinque i modelli diversi: anni Cinquanta con i due martelletti in campo azzurro rettangolare, 1964, 1975, 1980, 2015. Portati con disinvoltura da ventenni e sessantenni, ma questo non sorprende mai. In più, un paio di sciarpe a base bianca con inserti orizzontali claret&blue, forse premature visto il tempo, ma evidentemente gradite a chi le ha tolte dal cassetto. Mi conforta in particolare la visione di un tavolo con quattro signori di mezza età, che ridono e paiono di buon umore. Uno di loro ha un anello al mignolo, una catena d'oro al collo e alcuni tatuaggi che escono dalla manica tirata a mezzo braccio, e nel guardarlo sale il pensiero che si tratti di un ex hooligan calmatosi con l'età, o magari un portuale residuo, o più semplicemente uno degli infiniti che qui possono esibire caratteristiche di quel genere. Il fatto che sia lì a 45 gradi da me non ne fa un rappresentante speciale dell'East End o della tifoseria, semplicemente uno che è fermo e non è in movimento, e per questo più facile da osservare. Il piattone ordinato finalmente arriva ed è drammatico come temevo e speravo: un contenitore ovoidale occupato al 30% dai classici fagioli in salsa rossa, al 30% da patatine fritte e per il resto da una composizione disordinata di bacon, salsicce e uova al tegamino. Commosso e preoccupato scatto pure una foto, vergognandomi un po', ma mi alleggerisce la coscienza vedere che qualche minuto dopo un altro cliente, molto più «locale» di me, fa lo stesso con la propria debordante, aggressiva colazione.

È andata come speravo io, anche se magari non le mie arterie: è solo da due ore e mezzo che ho lasciato il caffé di South Kensington ma quell'espresso e cornetto sembrano appartenere alla preistoria del viaggio, e solo ora posso sentirmi calato nella Londra che volevo e nell'East End che cercavo, con le cellule sensibili della vista che hanno già accolto e assorbito i colori claret&blue e diffondono un crescente senso di familiarità. È solo la terza partita, e a ben 34 giorni di distanza da quella precedente, ma con quei colori intorno a me mi sembra di muovermi come al buio nel corridoio di casa, sapendo che anche in caso di passo incerto posso appoggiarmi a pareti sicure. Diventa una sorta di rifugio anche Aunt Sally's (nei cartelli interni l'apostrofo c'è), un posto dove tornare se dovessi accorgermi che l'East End in via di estinzione che ho in mente è ormai ridotto a poche unità di riferimento. A pochi metri, del resto, un mercato coperto (East Ham Market Hall) propone scenari completamente diversi. Pare un bazar mediorientale, nelle vetrine di improbabili boutique di abbigliamento i manichini indossano castigati abiti di foggia esotica e andando verso la parte lontana bisogna fare a pugni, perdendo, con un terrificante olezzo che potrebbe essere causato da pesce da troppo tempo in attesa o da qualche intruglio in preparazione lontano alla vista - ma non al naso - dei passanti. Bancarelle col minimo storico di pretese e qualità. Uno scarso traffico pedonale, comprendente anche due personaggi che paiono usciti da un fumetto ambientato in un pub ambiguo: uno di loro porta una borsa a due manici, di quelle che ho visto solo nel Regno Unito e nelle serie tv italiane come Gomorra e Romanzo Criminale, e che quasi sempre contenevano qualcosa di proibito. Nessun sospetto, qui, ma mi ha sempre colpito vedere che da queste parti allo zaino e alla borsa a tracolla, che lasciano libera almeno una mano, si preferisce la scomodità di questi contenitori che oltretutto ti sbilanciano e per mantenere l'equilibrio ottimale ti costringono spesso a tenere più alto il braccio opposto, dandoti un'andatura particolare. O magari è un effetto cercato, voluto. Si avvicina la partita e vado verso nord e la stazione di East Ham, rimandando a una visita successiva l'idea di farmela a piedi lungo la Barking Road. Sulla metro non c'è quasi nessuno eppure manca poco più di un'ora alla partita, ma la solitudine permette di ascoltare e registrare il suono della voce femminile che annuncia «The next station is Upton Park», sospendendo quasi il fiato dopo station così che il suono emerga quasi come «thenextstation isUptonPark»: curioso che sulla DLR, la Docklands Light Railway che ha fulcro un pochino più a sud di qui, gli annunci vengano invece fatti con cadenza diversa, che nel caso citato sarebbe dunque «thenexstationis UptonPark». All'uscita il bagliore della frenesia, del caos, lo stop a prendere una copia del programma dal venditore del Ken's Cafe, uno sguardo ammaliato ma autocensorio allo stand di quelli del passato, nessuna fermata da Firmager e dopo un rapido controllo si tira dritto anche rispetto a Lee Jackson, stante l'assenza della spilla con il viso di Billy Bonds. È curioso, ma nel giro di dieci minuti sono passato da East Ham a West Ham e ancora a East Ham, dove resterò per un altro paio d'ore. Perché la curiosità è che il Boleyn Ground ufficialmente è nel quartiere di East Ham, appena a sud di Upton Park, e anche per questo ha un fondamento logico l'affermazione di David Gold, il presidente, secondo la quale la squadra non sradica le sue radici spostandosi a Stratford ma le recupera, in quanto da 112 anni gioca in realtà non a West ma a East Ham.

È proprio la Green Street, all'estremo nord della quale sorge un monumento che ricorda calciatori e tifosi degli Irons morti nella Prima Guerra Mondiale - la strada che storicamente divide da nord a sud quelli che una volta erano i comuni della contea dell'Essex chiamati appunto West Ham e East Ham. Ma c'è di più: anticamente non esistevano né l'uno né l'altro, o meglio non erano distinti. In documenti del 958 e successivamente nel celebre censimento generale del regno del 1086, il Domesday Book, risulta infatti qui una località unica chiamata rispettivamente Hamme o Hame, termini derivanti dall'inglese arcaico «hamm» che indica uno slargo situato nel mezzo di una zona con acque correnti (Tamigi, Lea, Roding più a est, dove inizia Barking) e stagnanti. Ham viene dunque da lì, e solo dal 1206 si trova traccia di un Eastham scritto tutto attaccato (come, curiosamente, nel cartello interno dell'Aunt Sallys Cafe). West Ham nasce di conseguenza, per distinguere le due zone.

La partita, dunque. Che non parte bene, dando così altro zucchero da bruciare nell'organismo di chi è pessimista. In difesa manca ancora Ogbonna, con Jenkinson ancora laterale destro. In mezzo al campo è più spesso Noble a restare davanti alla difesa, contrariamente a precedenti partite, con Kouyate sul centrodestra e Payet sul centrosinistra. Come si noterà nei mesi successivi, la posizione di partenza del francese può contare poco, per il tipo di movimento che fa, ma è anche vero che la sua collocazione come interno di centrocampo fa capire che Bilic non ha ancora completato la sua idea di come impiegarlo al meglio. La fluidità della squadra, encomiabile nelle due trasferte vinte a Liverpool e Manchester, in casa trova un freno nella necessità di costruire gioco e portare avanti il proprio baricentro, rispetto all'atteggiamento esterno che consente maggiore compattezza e la frequente possibilità di ripartire con più uomini e allargando in campo in modo da aumentare lo spazio che ciascun avversario in ripiegamento deve coprire. Non aiuta il fatto che dopo 9' un altro errore di impostazione permetta al Norwich City di passare in vantaggio: passaggio orizzontale di Noble intercettato e Brady segna con discreta facilità, riaprendo sugli spalti i mugugni e anche gli improperi di chi dopo la vittoria sul Newcastle United sperava nella svolta per le partite in casa. Prima del pareggio di Sakho, nato da una combinazione tra Jenkinson e Payet, ci sono infatti altri momenti di incertezza. Nei laterali di difesa, troppo spesso costretti a girare su se stessi per seguire l'uomo con la palla (o lo scatto di quello senza) e dunque vulnerabili anche sui tagli, e nel centrocampo, che fatica a trovare la posizione fronte alla porta avversaria, per la pressione dei Canaries. Al 25’ Lanzini e Moses si scambiano di fascia ma un paio di volte la posizione dell'argentino è pressoché identica a quella dell'avanzante Cresswell e la sovrapposizione diventa intasamento controllabile da un solo uomo del Norwich, situazione aritmetica che è l'opposto dell'ideale. I Canaries, per inciso, giocano con quello che sembra più un 4-4-2 che non il 4-2-3-1 visto in molte altre occasioni. Tettey in realtà sembra stare sempre qualche passo indietro rispetto agli altri e Howson non è particolamente portato ad allargarsi, cosa che ovviamente fa molto di più Brady sul lato opposto.

Al 51’ c'è un episodio curioso, che mi annoda lo stomaco: in campo infatti rimane, senza volare via all'avvicinarsi del gioco come succede di solito, un colombo o piccione. Resta lì a passeggiare come se non fosse in grado di volare, e mi preoccupo immediatamente che qualche giocatore possa inavvertitamente fargli del male. Per un paio di minuti buoni il pallone è lontano e il povero animale è ignorato da tutti, poi l'azione si avvicina e quasi non riesco a guardare dal timore che gli succeda qualcosa, ma durante uno stop per un infortunio a Kouyate, che ha preso una testata, Howson per fortuna se ne accorge, lo prende delicatamente tra le mani e lo deposita oltre i cartelloni pubblicitari a metà campo, tra gli applausi della folla e il sollievo del sottoscritto, troppo vigliacco per diventare vegetariano, ma incapace di sopportare il pensiero e la visione di maltrattamenti agli animali.

La partita riprende con tesi già viste, ovvero il tentativo di assalto ragionato degli Irons e la solida resistenza dei Canaries, immutata anche di fronte ai cambiamenti di assetto. Al 57’ infatti Obiang sostituisce Moses e il West Ham passa al 4-2-3- 1 con Noble e Obiang affiancati, e davanti a loro, da destra, Payet, Kouyate e Lanzini, anche se i movimenti di Noble non sono speculari a quelli di Obiang e in molte situazioni sembra di vedere un 4-1-4-1, ovvero Payet, Kouyate, Noble e Lanzini supportati da Obiang. Al 69’ modifica anche il Norwich City: per Dorrans entra Redmond che va sulla fascia destra e Howson si sposta in mezzo, accanto all'arretrato Tettey e dietro a Hoolahan e Mbokani, entrato al 63’ al posto di Jerome. Al 72’ ovazione per l'ingresso di Carroll al posto di Lanzini: spesso infortunato, a volte precario sul piano delle scelte di vita, il centravanti portato da Allardyce è comunque un idolo di tutti, e questo serve anche a incrinare l'idea di una fedeltà assoluta e universale ai principi della Academy e della cosiddetta West Ham Way, uno stile di gioco basato sul giro di palla basso e con poche concessioni alla potenza bruta. Se ne parlerà un'altra volta, intanto però c'è da capire come cambi la squadra con Carroll: punta unica, con Sakho che si allarga a destra - scenario che si ripeterà tantissime volte nel resto della stagione - e Payet a sinistra, si torna insomma al 4-3-3 con Obiang davanti alla difesa e ai suoi lati Kouyate e Noble.

A raffreddare tutto arrivano però due eventi ravvicinati: dopo 2' in campo infatti Carroll, in un suo classico eccesso di entusiasmo, entra male su un tackle scivolato e sembra infortunarsi proprio al ginocchio che gli aveva dato problemi, generando nel pubblico un mormorio di frustrazione che riassume in parte lo spirito della giornata. All'83’ invece su un corner per il West Ham respinto si riorganizza bene il Norwich City, Redmond riceve sul lato sinistro, taglia verso il centro e con un destro a rientrare mette nell'angolo lontano. 2-1 e palpabile, drammatico, persino volgare in alcuni termini, il pericolo della terza sconfitta in casa in quattro partite. Due minuti e Bilic cambia ancora: Zarate per Noble (di là O'Neil, applaudito per il suo passato qui) e una sorta di 4-2-4 che tornerà altre volte, non necessariamente con i medesimi interpreti. Obiang e Kouyate in mezzo al campo e davanti, da destra, Zarate (mmm…), Sakho, Carroll e Payet. Il pareggio arriva al 93’ ma su punizione, dunque non per effetto dei cambiamenti tattici, ed è Kouyate in mischia a buttarla dentro. Va da sé che l'esultanza per un 2-2 strappato nei minuti di recupero (in inglese si chiama added time, time added on, additional time o injury time, MAI extra time come dicono in tv in Italia) sembra quella per un gol che decida il campionato: per come sono andati gli ultimi minuti, il pareggio è un trionfo e non più una sconfitta, i salti e gli abbracci sono quelli di chi è felice a prescindere e in quel momento non fa conti né calcoli né valuta la festa in paragone alla situazione che si era creata. Emotività pura che si trascina per i secondi di partita che ancora restano, e che alla fine possono confondere: ma ha vinto il West Ham, a giudicare dai canti?

Provo a restare seduto un po' nel mio seggiolino numero 34, ma passata una ventina di minuti gli steward mi invitano a lasciare la tribuna. Non vale neanche la pena di spiegare che sto facendo defluire la gente per poi scegliere come andare verso Heathrow, non vale sapere dentro di me che questa è in realtà una scusa per poter stare lì ancora un po' e pensare già, a otto mesi dallo scoccare dell'ora fatale, che quel panorama, con quel sole calante, quello scuro che arriva da est, quelle cartacce abbandonate, quel mormorio che si allontana sono come granelli di una clessidra che travasa piano, ma che a ogni partita sembra accelerare il ritmo. Bisogna uscire e si esce, aggrappandosi all'ultima occhiata alle spalle verso il verde del prato, calcolando i tempi mentre si è immersi nella bellezza offuscante dei colori claret&blue, che accompagnano verso Upton Park stazione della metro in cui entro alle 17.50, proseguendo per West Ham, Stratford, Holborn e infine Londra Heathrow Terminal 5 alle 19.49, in tempo per acquistare la rivista Backpass - quella che parla solo di storia del calcio - e salire sul volo, che riporta verso casa, verso gli occhioni del cagnolino, verso un altro lungo periodo senza partite in casa, praticamente un mese. 4

COCKNEY BOYS (CHELSEA)

Sabato 24 ottobre 2015, ore 15: West Ham United-Chelsea 2-1 (Zarate 17’, Cahill 56’, Carroll 79’)

WEST HAM Adrian - Jenkinson, Tomkins, Collins, Cresswell - Noble (Ogbonna 92’), Kouyate, Lanzini (Obiang 82’) - Zarate (Carroll 69’), Sakho, Payet.

CHELSEA Begovic - Zouma, Cahill, Terry, Azpilicueta (Baba 87’) - Ramires (Falcao 82’), Matic - Willian, Fabregas (Mikel 46’), Hazard - Diego Costa.

Alitalia 1569 Alghero 7.15 - Milano Linate 8.10 Alitalia 216 Milano Linate 9.20 - London City 11.00 25 ottobre Ryanair 194 Londra Stansted 8.10 - Bologna 11.15 Non ci siamo. 26 giorni senza una partita al Boleyn Ground, dopo che ne erano passati 34 tra quella contro il Bournemouth e quella contro il Norwich City. Ma lì avevo saltato io il Monday Night del 14 settembre, mentre questa volta i 26 giorni sono istituzionali, a causa di due trasferte (2-2 a Sunderland, 3-1 al Crystal Palace a Selhurst Park: sempre bello per me che perdano squadre con l’orribile tifo modellato su quello del sud Europa) e della sosta per le nazionali. Soste che un tempo detestavo, perché mi toglievano il calcio vero - quello di club - per sostituirlo con inutili amichevoli o partite- melassa dalla debordante retorica azzurra, mentre ora le apprezzo perché mi permettono di vivere almeno un weekend senza la frenesia e l’urgenza di stare dietro a tutto, compito che quando è un lavoro e non più un hobby può diventare opprimente. Stavolta però l’attesa lunga colpisce perché crea un respiro troppo ampio tra gare al Boleyn e interrompe un filo di familiarità mediata che sto cercando di istituire con quei luoghi, pur così alieni ogni volta che ci cammino.

Anche le premesse sono precarie dal punto di vista logistico. Per lavoro devo infatti essere a Sassari venerdì 23 sera e dunque finisce nel cestino la prenotazione, fortunamente fatta a costo irrisorio, Bologna-Londra Stansted con Ryanair di sabato 24. Ci si ingegna - ma in realtà è soluzione banalotta - con il ritorno Alghero-Linate e un Linate-London City preso grazie alle infinite miglia accumulate in questi anni: a bordo del secondo anche due tifosi italiani del Southampton con tanto di sciarpa, evidentemente diretti alla partita che i Saints giocheranno il giorno dopo a Liverpool. Il prezzo da pagare per queste emergenze logistiche è quello di una mattinata di esplorazione persa, perché si arriva a LCY solo alle 11, mentre nei progetti c’era quello di essere in zona Upton Park già alle 9.30, 10 al massimo, per liberare i sensi alla caccia di altre tracce di East End, West Ham, Thames Ironworks. Si può però ricorrere a un espediente che concili il percorso obbligato e il desiderio di scoperta: con la beneamata DLR e la voce suadente di cui ho già detto si arriva fino a West Ham, si esce, si va verso sinistra e si punta al Memorial Park. Sì, quello in cui sorgeva il Memorial Grounds (interessante che risulti come Memorial Grounds anche nei resoconti).

Lungo il cammino, frammenti di civiltà e inciviltà: il primo è un sacchetto dei rifiuti a cui qualche ispettore del comune di Newham ha apposto l’etichetta “Environmental crime scene”. Averlo abbandonato per strada rappresenta infatti un vero e proprio reato ambientale, con possibile (auspicabile) multa di 50.000 sterline per il reo. Pochi passi più in là una cartaccia con un’immagine familiare: è un foglio strappato di rivista con l’invito a scommettere sulla Serie A e una foto di Claudio Marchisio. Giro la testa disgustato per il pessimo insieme che si è presentato ai miei occhi: venire qui non è più un antidoto pieno alle miserie del calcio italiano e di come viene descritto, spiegato e vissuto, perché in realtà non lo seguo più e solo raramente ci cado senza volerlo, ma dal momento in cui esco dall’aeroporto cerco di immergermi in un mondo completamente diverso, dove non ci siano applausi all’atterraggio o… all’attracco dell’aereo al terminal, e dove non ci sia chi cerca di infilare la carta d’identità nel lettore ottico riservato ai passaporti con chip, come è appena accaduto proprio a London City. Per fortuna il cielo che cambia continuamente colore e la vista del cancello del Park mi risvegliano, anche se varcare la soglia e prendere il tenue sentierino tra gli alberi riporta semplicemente a qualcosa di già visto: sono però passati due mesi (!) e ho bisogno di una rinfrescata alle prospettive e ai panorami, magari anche l’urgenza di reimmergermi in questo ambiente ripartendo da capo, e per assurdo mi dà un grande aiuto scorgere le cime dei grattacieli del Canary Wharf, gli aerei che girano intorno, la punta della pseudo-torcia del parco olimpico, i treni e le vetture della metropolitana che incrociano alla stazione, con la sua curiosa torre in muratura e il bell’orologio in stile antico. C’è meno gente rispetto alla piena estate della partita contro il Leicester City ma i campi da calcio aperti e recintati vivono di attività costante, a giudicare da chi sta giocando e da chi aspetta di poterlo fare, e l’immancabile tifoso con maglia Irons passa proprio tra le file di alberi al margine e suggella il rientro, anche emotivo, nel mondo cercato. Non c’è il tempo di andare più a sud del memoriale con i martelletti, ma ci sarà in una delle prossime occasioni, e sarà una visita con risultato pieno.

Da West Ham su verso Stratford, non prima di aver notato che Halloween pare essere arrivato con una settimana di anticipo. Ai binari c’è infatti una curiosa fauna di ragazzi e ragazze vestiti come personaggi di film e fumetti: tra questi Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti e una Biancaneve che avesse avuto un altro fisico, un altro viso e un altro portamento avrebbe anche potuto essere attraente. Controllo di nascosto il cellulare e scopro che all’ExCel, il grande centro espositivo situato di fronte a fine pista di London City, è in corso una edizione del Comicon, sorta di fiera di tutto quello che è cultura popolare in ambito fumettistico, dall’anime ai manga alla fantascienza. Lo spettacolo lo danno gli espositori, spesso editori, case cinematografiche e loro ospiti, ma nell’ambito del cosiddetto cosplay, costume play, cioé recita in costume, al colore contribuisce pure chi entra pagando il biglietto. Lecter non pare molto interessato a Biancaneve, ed è indifferente all’ambiente circostante anche un supereroe probabilmente facile da identificare per un esperto, un po’ meno peril sottoscritto, rimasto fermo agli splendidi fumetti della Marvel degli anni Settanta. Il supereroe avrà certamente capacità sovrannaturali ma gli manca purtroppo quella, naturalissima, del controllo della propria sudorazione e dei propri effetti sull’olfatto in una giornata col solito caldo di fine ottobre, ed è forse caduto in disgrazia, visto che per andare dall’ExCel a Stratford non utilizza il proprio mantello ma una banalissima vettura della metro.

A Westfield c’è già un numero incontrollabile - nel senso che non riesci a vederle tutte - di maglie claret&blue nei sottopassaggi e nei corridoi, e c’è anche l’amico Luca con Valentina, tifosa del Sunderland. Contraddicendo i miei propositi di immersione totale, il pranzo è presso la pizzeria italiana di Franco Manca, cognome familiare a Luca che viene da Cagliari, e subito dopo si parte per il Boleyn Ground in autobus, con il 104, il che mi permette di cambiare ulteriormente metodo di avvicinamento ad Upton Park, come nei miei progetti. Il capolinea è qui e il viaggio, di una decina di minuti, tocca sia la stazione della metro sia lo stadio, consentendo una differente prospettiva della gente. E tra la gente, dato che il bus è pieno e la maggior parte dei passeggeri mostra, nell’abbigliamento e nella chiacchiera, di essere diretto proprio alla partita. Tra il 104 e il percorso a piedi lungo la Green Street è il solito festival di tutti i sensi, dall’olfatto strattonato dagli aromi di carne alla piastra e cipolle scottate alla vista che si perde in quei due colori, all’udito che cerca inutilmente di isolare un suono tra mille, una voce differente tra quelle che reclamizzano spille, programmi, sciarpe e quelle che rispondono ad amici o che li chiamano, o che all’improvviso, senza stimolo visibile, intonano un coro per poi tornare al silenzio e alla conversazione con l’amico. Una frenesia che rotea intorno alla testa come gli oggetti della stanza maledetta del film Poltergeist, e come in quella pellicola ogni tanto uno di loro si stacca e ti viene incontro come ad attirarti per conoscerlo meglio, salvo rientrare nel mucchio e perdersi.

La voce del venditore, il profumo delle costicine, il tintinnio delle monete nei secchielli dei raccoglitori di offerte benefiche, il clacson dei pochi che hanno avuto il coraggio o l’incoscienza di avanzare lungo la Green Street, gli zoccoli dei cavalli dei poliziotti, il brusio di chi scruta e osserva e ti fa tornare in mente che l’avversaria di oggi è il Chelsea e che sotto traccia, lontani da questa manifestazione esteriore, alcuni elementi di degrado si saranno magari sfidati a uno scontro a mani nude con l’obiettivo di rinverdire certe (pessime) abitudini e di sfuggire alle manovre di controspionaggio delle forze dell’ordine. Ricordo l’intervista che a metà anni Novanta feci al capo della sezione calcio dell’allora National Criminal Intelligence Service: internet era agli albori, i cellulari mandavano messaggi ma non erano ancora diffusi come oggi e non scattavano foto né riprendevano video, e dunque le misure di prevenzione dell’unità calcio erano differenti. Si basavano ancora su passaparola, infiltrazione e videosorveglianza: risorse valide anche ora, ma naturalmente supportate da un costante lavoro di scandagliamento del web e delle sue pieghe. Non c’è certo pericolo che in piena Green Street qualche personaggio ti chieda l’ora per udire dalla tua risposta l’accento e capire se sei di qui o no: e non solo perché trattandosi di un derby londinese le differenze di pronuncia sono meno accentuate rispetto alle brutte consuetudini di chi effettuava questo esperimento a Sheffield o a Plymouth o a Burnley e sperava di cogliere in fallo, e poi di aggredire, chi venisse da zone completamente diverse.

Il panorama dei venditori è oggi arricchito dai poppy e da spillette con il loro disegno incorporato: sono i giorni in cui si onorano i caduti e i reduci (ora si dice “veterani”, ma è traduzione a orecchio) e una donazione a uno dei secchielli ti porta in omaggio proprio il fiore di plastica da apporre al bavero, perlomeno finché non ti cade nello strusciamento involontario con gli altri tifosi. Succede nella Green Street ma specialmente nella Castle Street, quella che porta al mio ingresso: di fatto pedonalizzata, ma percorsa ogni tanto dalle pochissime auto che hanno il permesso di accedere, è piuttosto larga eppure sempre intasata, e al movimento naturale nei due sensi di marcia si aggiunge quello diagonale di chi la attraversa per entrare nel Social Club o curiosare nel pannello di spille di Jackson o sostare per un panino da tre camioncini fermi, uno dei quali nella piccola rientranza verso la metà. Per questo motivo ci vuole pazienza per arrivare all’ingresso e ci vuole attenzione nell’estrarre la tessera, mentre porgi la borsa all’addetto ai controlli - blandi - e attendi il delizioso suono elettronico del riconoscimento del tuo abbonamento e il conseguente click del tornello.

Luca e Valentina per combinazione sono seduti poche file sopra di me, in una giornata in cui cominciano anche a cadere goccioloni, senza particolari danni. Per la prima volta riesco a studiare con un minimo di calma il mio vicino di posto a destra, senza però andare oltre un saluto. Avrà 65 anni, forse qualcuno di più, e con lui è di nuovo quello che scoprirò poi essere un amico di infanzia. Sciarpa del West Ham entrambi, di foggia non modernissima, cappellino tipo baseball con il logo di un golf club l’amico, più anonimo il mio vicino. Entrambi in piedi entusiasti per I’m forever blowing bubbles, anche se nella parte di sola voce e senza musica, dunque la più sentita ed entusiasmante, non alzano le braccia a V come fanno quasi tutti. Sulla sinistra un signore sui 45 anni, molto alto e… ingombrante, ma non sovrappeso: semplicemente, in seggiolini così stretti, basta essere di statura normale per debordare su quello accanto, e anche in questo il trasferimento allo Stadio Olimpico sarà gradito a molti. Parla un inglese con un accento splendidamente demodé, probabilmente non da conduttore di telegiornale ma chiaro e limpido, distante dalla tentazione della parlata mangiata di molti che sono attorno a lui. Il Vicino Di Sinistra commenterà in modo molto pacato le partite, per tutto l’anno. Il Vicino Di Destra invece è più emotivo ma non esplode mai in un senso o nell’altro: ripete spessissimo, quasi digrignando i denti, “come on west ham” mettendo l’accento in modo netto sulla e di west, ma lo fa con un tono di voce così basso da rendere evidente che non si tratta di un incitamento ai giocatori - non potrebbero sentirlo neanche se fossero seduti tre file più in basso, a stadio vuoto - ma di uno sfogo, quasi un tic nervoso, una cabala, un’abitudine, una tradizione, un rito. Nato chissà quando, e spero prima o poi di venirlo a sapere, perché questo signore deve averne viste parecchie.

Oggi è più appropriato del solito che si ascolti London Calling dei Clash poco prima del video con immagini sparse del West Ham nei decenni, chiuso a sua volta da Bubbles. In fondo è un derby e un derby che oltre ai soliti temi e alle solite acredini ha pure l’interesse dovuto alla situazione precaria del Chelsea, che ha già perso 4 volte in Premier League e viene accompagnato dal solito coro stridente dei tempi brutti, in cui ogni elemento negativo viene accentuato e mescolato alla personalità di José Mourinho. La scelta di Bilic per la formazione è ancora per un quartetto di difesa che da destra schiera Jenkinson, Tomkins, Collins (destro di piede che gioca sul centrosinistra, del resto Reid è ko e Ogbonna fuori forma) e Cresswell, con Kouyate davanti, fiancheggiato a destra da Noble e a sinistra da Lanzini. Punta unica Sakho, con Zarate a destra e Payet a sinistra. Il Chelsea ha uno schieramento tra i migliori disponibili: davanti a Begovic (rimpiazza Courtois, infortunato da oltre un mese) Zouma, Cahill, Terry e Azpilicueta, coperti da Ramires e Matic. Diego Costa punta unica, con il sostegno di Willian, Fabregas e Hazard.

La sensazione è quella che ci si poteva aspettare, ma ugualmente bizzarra: è cioé il West Ham a mostrare più coraggio e iniziativa, a sembrare più sicuro di sé, e quella di fronte sembra più una squadra che deve proteggere una psiche fragile che un gruppo determinato a coprirsi per poi distendersi, come può fare chi è allenato da Mourinho. La densità in mezzo fornita dal duo Blues davanti alla difesa e dal movimento rapido dei trequartisti, come al solito molto liberi di scambiarsi posizione, ostacola l’impostazione degli Irons, che a tratti riescono però a pescare Payet accentrato, e ogni suo tocco di palla sembra aumentare di un tempo la velocità del pentagramma su cui leggono i suoi compagni di squadra. Non ha il che brucia l’erba, ma sa posizionare il suo corpo un attimo prima dell’arrivo del passaggio, in modo da predisporsi già al movimento successivo e dunque rubare un attimo alla difesa. Già si intuisce che la catena di sinistra Cressswell-Lanzini-Payet può funzionare, e non per nulla sarà quella più utilizzata da Bilic nel resto della stagione, ogniqualvolta avrà tutti a disposizione. Al 19’ c’è l’1-0: la punizione di Payet viene deviata in angolo da Begovic con grande bravura, ancora Payet al corner, respinta non efficace di Costa e destro al volo di Zarate che si infila. “1-0 to the Cockney boys” è il canto immediato, che riflette l’orgoglio di questa gente e apre uno squarcio temporale e sociologico persino pericoloso per il fascino e le diramazioni che ha.

Perché avrete tutti letto e sentito parlare di cockney. Di solito si dice che sia un cockney chi è nato a portata di suono delle campane della chiesa di St.Mary-le-Bow, situata a Cheapside, una zona della City di Londra, dunque del suo insediamento originale, tra la cattedrale di St.Paul e il Tower Bridge. Ma il termine era stato usato originariamente dagli abitanti delle campagne per identificare con sarcasmo (l’etimologia indica chi è “cresciuto tra gli agi”) i residenti di qualsiasi città, non solo la Capitale, e anche sulla specificità londinese c’è un equivoco: molti infatti pensavano che la chiesa fosse in realtà situata nel quartiere di Bow, dove in effetti c’è una Bow Church e dove un tempo terminava la Londra amministrativa. Dall’1 aprile 1965 però l’intero sistema metropolitano è stato ridisegnato, con la suddivisione in 33 cosiddetti “borough”, appunto distretti, e tra questi c’è Newham, che raggruppa “quartieri” (chiamati district in inglese, ma da noi è più corretto proprio “quartieri”) come West Ham e East Ham, oltre a Stratford, Plaistow, Canning Town, Upton Park, Forest Gate e altri meno significativi per noi. Per cui dal medesimo 1965 cockney è anche chi abita nelle zone orientali di nuova acquisizione, oltre a quelle a sud del Tamigi a cui tradizionalmente era stato esteso, fino a Peckham - luogo dove si svolge la notissima serie tv Only Fools and Horses, su cui tornerò.

E attenzione, dunque: fino a quel 1965 come East End era da intendersi ufficiosamente solo la Londra dalle mura della City al fiume Lea o Bow, mentre tutto il resto era Essex o comunque un East London sfumato, secondo il concetto di London over the border già descritto. Non per nulla l’East End dei racconti, dei crimini (Jack Lo Squartatore ma anche i gemelli Kray di cui si parlerà tra qualche capitolo), del disagio sociale, delle povere fiammiferaie della fabbrica Bryant & May a Bow, a cui si bucavano le mascelle per esalazioni di fosforo capaci di portare anche alla morte, degli orfanotrofi (in quelli fondati dal celebre Thomas Barnardo crebbero i fratelli Fashanu), dei borbottii sociali e politici, del dolcissimo Rip, cane salvavite durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, della solidarietà tra vicini ma anche degli sciacalli che rovistavano nelle case distrutte dalle bombe tedesche, era proprio quello più a ridosso della città vera e propria, non quello di cui si parla in questo libro. In cui ho allargato il concetto di East ender appoggiandolo a quello di East Londoner: perché allo stadio e nei pub si parla di “cockney boys” ma si canta anche “Oh East London/is wonderful”, a testimoniare l’ambivalenza dei concetti e la fusione dei termini. Senza dimenticare che a livello di appartenenza, al giorno d’oggi non è che il tifoso Irons di Mile End possa permettersi di sentirsi più cittadino di quello di West Ham, tre fermate di metro più in là.

Va aggiunto che alcune delle aree di cui si parla qui sono state soggette a riqualificazioni e rifacimenti su scala così larga da aver visto l’uscita di moltissimi residenti e l’arrivo di nuovi abitanti che di locale non hanno nulla, per cui ad esempio si ritiene che il circondario a sud di Waterloo e London Bridge abbia perso la sua identità di cockney. L’espressione popolare più classica di questo mondo che sta disperatamente scomparendo è nei “pearly kings and queens”: personaggi ispirati dai venditori di frutta e verdura dell’Ottocento, con gli abiti ricoperti di bottoni (di madreperla, per questo l’ambiguo “pearly” che faceva pensare a perle vere e proprie) che al giorno d’oggi svolgono perlopiù funzioni rappresentative e benefiche. Una carica onorifica, e comunque dignitosa, in un mondo che cambia, privilegia la confusione di sistema e se ne frega sempre più di queste cose: non è sorprendente scoprire - come drammaticamente evidenziato da un documentario chiamato “The last whites of the East End” - che nessun quartiere abbia i suoi pearly king e queen in un distretto come Newham, in cui la popolazione rispetto all’Ottocento di nascita di questa tradizione è mutata al punto che la percentuale di quelli che vengono chiamati tecnicamente “white british”, ovvero inglesi di pelle bianca, è la più bassa di tutto il Regno Unito. Il cockney è anche un dialetto, quasi una lingua vera e propria, molto particolare e impossibile da rendere qui per iscritto. Vi invitiamo ad ascoltarne esempi sul web, dove non mancano, ma le caratteristiche sono molto spiccate, anche se si stanno allargando a una zona molto ampia del sudest inglese fino a sfociare - letteralmente - in quello che viene anche chiamato estuary english, l’inglese che si parla ai due lati del Tamigi, fino all’uscita nel Mare del Nord. Se vedete magliette con la scritta “Sarf ” London sappiate che è semplicemente “South London” alla maniera cockney, e curiosamente tra le parole che vengono indicate come esempio di pronuncia cockney di termini noti c’è… Millwall, che diventa un suono impastato, praticamente privo di consonanti ad eccezione di quella iniziale. Ultimo dettaglio, importante anche per capire come si ragioni da queste parti, è l’uso del cosiddetto “rhyming slang”, una forma espressiva e immaginifica, inutile ma divertente, che alla parola originaria ne sostituisce una doppia o tripla in rima: ma col passare del tempo la seconda delle doppie sparisce e restano dunque modi di dire apparentemente incomprensibili. In italiano sarebbe così: nella frase “infila il cavo nella presa della corrente” per dire “presa” in modo colorito e con rima usiamo “borsa della spesa” e per dire “corrente” usiamo “pioggia battente”; dopo un po’ spariscono “della spesa” e “battente” e restano “borsa” e “pioggia”, per cui si finisce col dire infila il cavo “nella borsa della pioggia”. Il tutto palesemente incomprensibile per chi non appartenga alla comunità cockney, ad eccezione di espressioni diventate ormai di uso comune. E pare davvero che l’intento originario fosse quello di restringere la comprensione a un gruppo limitato di persone, ma non se ne sa il motivo: tra i venditori di strada già citati per dialogare tra loro e confondere il cliente? O tra piccoli delinquenti per non farsi capire dalla polizia?

Durante questa disquisizione non è successo molto di significativo in campo, comunque. Il West Ham ha tenuto palla abbastanza lontana dalla propria area, e il Chelsea, prevalente sul piano del possesso, ha provato spesso ad allargare il gioco, consapevole dei problemi difensivi di fascia che gli Irons hanno spesso avuto quando mancava supporto centrale. Un tocco ravvicinato di Zouma viene salvato sulla linea da Lanzini, che dall’altra parte non si coordina bene e manda alto un grande suggerimento di tacco di Payet. Al 44’ qualcosa cambia, con l’espulsione di Matic per doppia ammonizione. Una decisione che svela la tensione e la pressione dei Blues, tanto che sia Terry sia Fabregas vengono ammoniti per le proteste e l’arbitro manda via dalla panchina anche Silvino Lauro, allenatore dei portieri. Già, l’arbitro: chi è? Ebbene, non lo so. Nel programma ufficiale della partita c’è il suo nome, ovviamente, ma per mia antica abitudine non ne considero neppure la presenza perché la ritengo ininfluente. In Inghilterra però, dato che abbiamo visto nel 2006 con Calciopoli come in Italia invece un arbitro al posto di un altro potesse incidere su partite e campionati. Ma appena si esce dai nostri confini cade tutto, e se non fosse per quella curiosa inquadratura a lingua stile Kiss durante la finale di Champions League 2015 nemmeno saprei che faccia ha Mark Clattenburg. Che sbaglino o facciano bene, ritengo quello degli arbitri un ruolo cruciale e non correggibile, se non a posteriori. Ricordo un seminario tenuto da Pierluigi Collina con un’azione di gioco a velocità normale mostrata a un gruppo di giornalisti: quello che pareva alla maggioranza un palese rigore su mischia da calcio d’angolo era in realtà un fallo dell’attaccante, valutato correttamente dall’arbitro in tempo reale. Tempo reale, la chiave è tutta lì.

Comunque sia, nell’intervallo a quanto pare l’arbitro- senza-nome manda in tribuna anche Mourinho, che aveva continuato a protestare, e il secondo tempo inizia con un cambio pressoché obbligato, ovvero Obi Mikel al posto di Fabregas e arretrato accanto a Ramires, con conseguente 4-2- 3. Se questa formazione forzata sia efficace o meno non si capisce subito: il Chelsea infatti pareggia al 56’ ma su corner, con Cahill che tocca in mischia e apre un lungo periodo di incertezza in campo, nonostante la differenza numerica. I Blues infatti già prima non avevano problemi a chiudersi, e ancor più con 10 uomini, per cui il West Ham si ritrova con i soliti problemi a trovare il varco in una compattezza tale. Per due volte è Sakho che viene servito sulla corsa ma la reazione della difesa è tale che il centravanti senegalese deve allargarsi e crossare… per nessuno. Al 69’ entra Carroll per Zarate, che ha esaurito la carica, e Sakho si sposta più a destra come al solito, ma pronto ad accentrarsi su qualsiasi pallone lungo che Carroll possa toccare di testa, e dopo 10’ la decisione di Bilic viene premiata dal tipo di gol che a me piace di più vedere e che vedo proprio sotto di me, ovvero il colpo di testa potente su perfetto cross dalla sinistra di Cresswell. Colpo di testa di Carroll, che partendo dal secondo palo stacca travolgendo Azpilicueta e anche Sakho e indirizzando sul palo opposto. Decisivo, forse, il fatto che Begovic sul cross faccia un passo avanti per poi fermarsi: fosse rimasto al suo posto forse avrebbe avuto posizione e spinta sulle gambe per intervenire, ma va bene così e tutto intorno a me gira e sobbalza mentre l’autore del gol - il primo per lui da gennaio - si tuffa a pesce vicino alla bandierina del calcio d’angolo. Trovato il gol, Bilic toglie Lanzini e mette Obiang, passando al 4-2-3-1 con Obiang e Kouyate affiancati, e davanti a loro, da destra a sinistra, Sakho, Noble e Payet, mentre al 92’ anche Noble esce, sostituito da Ogbonna che va a fare il terzo centrale da opporre al tentativo scoordinato del Chelsea di pareggiare con l’ingresso di Falcao al posto di Ramires e il passaggio a un apparente 4-2-1-2, Hazard dietro alle due punte.

Il 2-1 manda il West Ham addirittura al secondo posto in classifica in attesa di Arsenal-Everton delle 17.30, e si tratta tra l’altro della “mia” prima vittoria al Boleyn Ground. Postpartita per una volta gestito con calma, perché il volo di ritorno è solo il giorno successivo. Per questo motivo ci ritroviamo con Luca e Valentina e andiamo a Liverpool Street, per poi dividerci a causa di un mio impegno che contrasta drammaticamente con l’emozione, la genuinità, la mancanza di arie e pretese di un pomeriggio al Boleyn Ground. Un amico mi ha infatti invitato ad andare a una mostra fotografica a Brick Lane, in cui la figlia espone alcune sue opere. L’amico, come me, non ama cicisbeismi e affettazioni e forse non ha solo piacere della mia presenza ma vuole pure conforto in mezzo a persone con cui solo in parte si identifica. Brick Lane tra l’altro è pieno East End, un East End molto diverso da quello da cui sono appena arrivato. È quello modaiolo nei locali e nei negozietti, nel pauperismo recitato, nel riciclaggio di abiti usati e vecchi (vintage, scusate) da esibire; e negli spazi artistici o presunti tali, come questo. I volantini di spiegazione delle opere di ciascun espositore sono perfetti: non si capisce infatti quasi nulla, e dunque lo scopo di far sentire ignorante il lettore e rinchiudere invece l’autore in un guscio di superiorità morale e intellettuale è raggiunto. Vista la carica quasi a zero del mio cellulare, trovo una presa libera e ci attacco il cavo. Poi mi siedo a qualche metro, sperando vivamente che qualcuno dei visitatori scambi la combinazione cavo+iPhone per una installazione di avanguardia e la commenti: come in quel vecchio film di Alberto Sordi in cui la moglie sovrappeso, accasciatasi esausta su una sedia in un museo di arte moderna, viene presa come opera iconoclasta. Per fortuna si può chiacchierare con l’amico e con il figlio, a un certo punto arriva persino Skin, in questi giorni molto famosa anche in Italia per la sua partecipazione come giudice a X-Factor, e in qualche modo si fa serata. Meglio così, anzi, perché più tardi si esce più tardi prendo il bus notturno per Stansted, dove trascorro qualche ora in attesa del volo per Bologna. Quasi pieno, e con un tifoso dell’Arsenal che torna dalla partita con l’Everton, vinta 2-1. Ma anche di quella partita, così come di qualunque altra che si giochi in un weekend in cui sono al Boleyn Ground, mi interessa davvero poco. 5

ERTO DI PICCADILLY L’ESP LINE (EVERTON)

Sabato 7 novembre 2015, ore 15: West Ham United-Everton 1-1 (Lanzini 30’, Lukaku 43’)

WEST HAM Adrian - Jenkinson, Tomkins, Reid, Cresswell - Noble, Kouyate, Lanzini - Moses, Carroll (Jelavic 87), Payet (Valencia 50’, Zarate 69’).

EVERTON Howard - Coleman, Stones, Funes Mori, Galloway - McCarthy, Barry - Deulofeu (Lennon 82’), Barkley, Kone (Mirallas 64’)- Lukaku.

British Airways 565 Milano Linate 11.00 - Londra Heathrow 12.45 British Airways 585 Londra Heathrow 20.35 - Milano Malpensa 23.25 La sensazione bizzarra di non avere fretta, per una volta. Una sveglia senza ansia, addirittura la colazione senza guardare continuamente l’ora, i vestiti asciutti e non il sudore freddo del ritardo imminente che accompagna ogni spostamento. Il Caffé Ambrosiano di via Mac Mahon a Milano con la sua ampia sala per iniziare, un comodo tragitto in autobus verso Linate leggendo già alcune curiosità sulla partita di oggi, la seconda in quindici giorni e dunque già più vicina alla cadenza ravvicinata che dovrebbe conferire maggiore calore a questa annata così bizzarra e frenetica: non per le saltuarie trasferte a Londra ma per lo sforzo di infilarle in impegni di lavoro che cambiano di continuo e mettono tutto a rischio.

Lo scambio è alla pari: calma alla partenza equivale però a fretta all’arrivo, perché scendendo a Heathrow alle 12.45 e calcolando due ore per arrivare al Boleyn Ground si sta un po’ stretti. L’ingresso effettivo nella vettura della Piccadilly Line nella stazione del Terminal 5 avviene alle 13.01 e quasi non noto nemmeno più che è diventato ormai cortissimo il tempo che trascorre tra sbarco (12.46) e uscita a controllo passaporti effettuato. Aiuta, ovviamente, l’assenza di bagaglio in stiva, ma anche questo era stato considerato in fase di programmazione. Sulla metro bisogna sopprimere la voglia di scaraventare il cellulare contro la parete di fronte, perché non è colpa del cellulare se sul suo display mi compare la segnalazione - ma perché? Ho sempre detto che non mi interessa leggere cose stupide, che infatti evito - di un pietoso articolo di un quotidiano italiano alla moda che sottolineando l’attuale successo di e del West Ham esalta il calcio… proletario. Non è una battuta, semmai la conferma che si fa qualsiasi cosa per adattare i fatti alla propria ideologia. Per fortuna dopo un attimo capita sotto agli occhi - in una testata che cerco, non che evito - una dichiarazione di Slaven Bilic a proposito dei centravanti di fisico, suscitata dall’eco del gol vincente di Andy Carroll due settimane prima ma anche - sospetto - dall’errore dello stesso Carroll nella propria area che sette giorni prima ha regalato un gol al Watford nella sconfitta del West Ham per 2-0. Parole interessanti: «I numeri 9 di stazza in realtà non sono mai andati fuori moda, solo che ora devono essere più completi, devono essere tipo Ibrahimovic o Drogba. Duncan Ferguson lo era, ma ha trovato un nemico difficile da superare: se stesso». Ferguson era il centravanti scozzese dell’Everton, compagno di squadra di Bilic a fine anni Novanta, che sul campo pareva inarrestabile e trascinatore ma che perdeva la testa troppo spesso: nel 1994 una sua testata a un avversario durante una partita in Scozia gli costò una detenzione di tre mesi (scontata tutta), mentre in altri casi a rimetterci furono semplicemente persone che gli erano andate di traverso. Benemerito fu, questo atteggiamento manesco, quando gli permise di catturare e malmenare in due diverse occasioni ladri che gli erano entrati in casa, e fortunatamente non portò a nulla l’accusa di uno dei due a Ferguson di… aggressione. Anche Carroll è uscito dai canoni comportamentali ideali più volte, e resta famoso per un bizzarro episodio di alcuni anni fa: arrestato per presunti maltrattamenti inflitti alla ex fidanzata, fu rilasciato su cauzione dal giudice, che vedendo però che il suo indirizzo era quello di un hotel di Newcastle (tra l’altro praticamente la sua città, dato che è nato dall’altra parte del fiume Tyne) gli ordinò di trasferirsi per reperibilità a casa di… Kevin Nolan, capitano del Newcastle United, che sarebbe poi stato con lui al West Ham prima di mettersi, storia di gennaio 2016, nelle mani dell’imprenditore italiano proprietario del Leyton Orient (povero, simpatico club), che lo avrebbe destituito da allenatore il 12 aprile, con la squadra a due punti dalla zona playoff.

L’avversaria di oggi è un nome sempre gradito, l’Everton. Come direbbero gli inglesi, un proper club. Ovvero una società come si deve, rimasta sufficientemente fedele ai propri principi e a uno stadio meraviglioso, tra i più belli d’Inghilterra secondo me, visto per la prima volta proprio per una trasferta del West Ham nel 2005-06. Esternamente classico con qualche pecca estetica da stile brutalista, incastrato tra le case per tre quarti, gioiello che spunta poco alla volta nel quartiere ma che è anche ben visibile a chi attraversa lo Stanley Park provenendo da Anfield. Una delle meraviglie è data dalla chiesa di St.Luke’s che è pressoché incastrata tra una tribuna e una “curva”, e dove prima della partita è possibile pranzare a cifre molto basse approfittando del servizio offerto dal parroco e dalle sue aiutanti, che ti porgono i panini avvolti nella carta assorbente o nella stagnola e ti servono il té in tazzine avveniristiche da quanto sembrano vecchie. Poi, è ovvio che arrivasse (e arriva…) il miliardario di Gibuti si farebbe presto a cambiare tutto, trasferirsi in uno stadio ovale o di quelli fatti con lo stampino da Germania 2006 in poi e acquistare giocatori come se i fondi fossero infiniti, ma questo vale praticamente per tutti i club, spesso costretti a travestirsi di una sensibilità locale quando vedono impossibile aspirare a qualcosa di diverso che magari li renda pressoché apolidi, una sorta di astronave atterrata per caso in una qualche città inglese ma in realtà interessati soprattutto a catturare una buona fetta di tifosi in Indonesia come in Cina come in Nuova Zelanda. A dire il vero l’Everton di quest’anno è abbastanza triste in campo, nonostante la presenza del fenomenale Romelu Lukaku, e con che è parso quasi restare per mancanza di alternative, dopo che il club aveva lasciato cadere le tante offerte per lui. Difensore centrale dalla voglia palese di impostare il gioco e con buon senso della posizione, finora non è stato all’altezza della sua fama, nella posizione sul centrodestra che preferisce, accanto a Funes Mori e con Phil Jagielka che ha fatto qualche passo indietro, ovvero in panchina.

Arrivare ad Upton Park alle 14.35 vuol dire affrettare il passo verso lo stadio facendo friggere in una visione e sensazione indistinta tutto quello che è ai lati, sopra, a fianco. Giusto la fermata dal venditore di programmi - quello con il carretto subito a destra dei Gates, i cancelli centrali di ingresso, vicino allo splendido stemma del West Ham deturpato ripetutamente da adesivi di tifosi di squadre che nulla c’entrano con questo mondo - ma naso tappato agli aromi dei chioschi e a qualsiasi tentazione cromatica, e dopo la salita a vite dalla parte sinistra della Bobby Moore Stand eccomi al mio posto. Detesto - come tutti, credo e spero - far alzare gente per farmi passare e per fortuna sono solo 3 o 4 le persone costrette al gesto: anche stavolta, nonostante manchino 12-13 minuti all’inizio della partita, la fila e il settore sono occupati solo in parte. Anche questa è una differenza radicale rispetto al passato che ho conosciuto, anche direttamente: dal 1979 in poi, per molti anni, quando avevo la fortuna di venire in Inghilterra e sceglievo di andare in posti in piedi sapevo che bisognava arrivare allo stadio almeno 90 minuti prima, ancor più se avessi voluto trovare posto nei luoghi caldi, quelli cioé di visione della partita quasi a distanza di braccio, e anche nei settori con seggiolini si arrivava molto prima di adesso. Anche per questo il clima e l’atmosfera erano nettamente migliori: i cori erano un bel modo per far passare il tempo, in contrasto con chi faceva scelte meno civili. La tensione del conto alla rovescia e del progressivo riempimento - quando tale era - dello stadio sfociava poi nel delirio all’ingresso delle squadre in campo, e a un livello di suono generalmente molto più alto di quello di adesso, guidato spesso da musica e condotto dallo speaker del campo. Al Boleyn Ground accade pochissimo prima che parta il video-collage del West Ham seguito da I’m forever blowing bubbles. Tirare fuori il quadernino degli appunti è l’unica precauzione prima del via, oltre a constatare che anche questa volta secondo Swarm, l’applicazione per cellulare che permette di fare “check-in” nei luoghi in cui si va (a cosa serve? A nulla), mi trovo al… New Den a vedere il Millwall, che da inizio anno gioca sempre praticamente in contemporanea con gli Irons. Errore di localizzazione ma anche conferma di quanto siano in realtà vicine le due realtà: strano però che non mi venga mostrato come adiacente il Valley, lo stadio del Charlton Athletic, visione cercata e gradita al di là del fiume prima della fermata di Pontoon Dock ogni volta che prendo la DLR da London City.

I vicini di posto sono sempre quelli, a destra e a sinistra, ma non c’è tempo e forse neanche voglia di andare oltre il saluto quando arrivano, mentre nella nitidezza crescente del panorama intorno a me noto meglio un gruppo di tre ragazzi, sui 30 anni, una fila sotto di me, lievemente spostati verso destra. Li noterò ancora per la loro passione e il loro attaccamento alla squadra, nonché per il senso che mi danno di una totale genuinità nel sostegno, privo della malizia e dell’opportunismo che caratterizza un certo vecchio, e nuovo, modo di tifare diffuso in altre parti del mondo. Non ce li vedo proprio a sprecare ore della propria vita per andare a contestare un allenatore o un giocatore, a chiedere un faccia-a- faccia con la squadra, a pretendere contributi per una trasferta o per uno striscione. È il mio ideale di tifo, per quello che vedo qui: singoli individui che magari siedono assieme allo stadio e bruciano di passione per una squadra, ma che non formano gruppi di pressione e condizionamento e non pretendono di diventare protagonisti dello spettacolo come altrove. Tutto quello che conta è in campo, il contorno può essere più o meno gradevole ma è, appunto, contorno. Per questo motivo mi rincresce la progressiva sparizione degli stadi di un tempo, sparizione causata proprio dal fatto che siano di un tempo, un altro. Il campo e il prato secondo la mia visione devono essere al centro di tutto: e non è casuale che già a 10 o 11 anni, nel 1974 o 1975, alle prime visioni di campi inglesi raramente mostrati dalla televisione io abbia avuto un colpo al cuore. Lo scenario che mi compariva davanti corrispondeva infatti a un ideale che ancora non sapevo di avere: colore sul prato - anche quando fangoso - e nelle maglie dei giocatori, e intorno una quasi uniformità di toni più cupi e scuri, che facevano risaltare ancora meglio chi giocava.

Il contrasto perfetto, a cui anelo ancora oggi guardando le vecchie foto della Kop di Hillsborough zeppa di teste da star male (anche letteralmente), senza un colore che sia uno oltre a quello della carnagione, peraltro palliduccia. La Kop di Anfield, la North Bank ma anche la Clock End di Highbury, la Shelf di White Hart Lane, la Stretford End di , la spaventosamente bella East Terrace del Valley, lo stadio del Charlton Athletic. Spianate uniformi e con toni che costituivano un modo involontario di indirizzare l’attenzione verso il calcio e i suoi protagonisti veri: è anche così che venivano evidenziati e valorizzati i colori delle maglie, e anche per questo in quegli anni Settanta in cui ai miei occhi è nato tutto ho vissuto in modo così violento il contrasto con la realtà a me più vicina, fatta di squadre di casa (il Bologna, nel mio caso) in maglia normale e squadre ospiti in maglia bianca, una banalità oltretutto soffocata dai colori delle curve, mentre lassù - nella patria della presunta scarsa fantasia - i club in trasferta vestivano di giallo, azzurro, marrone (!), rossonero, gialloverde e chissà cosa. Ecco perché gli stadi moderni - compreso questo, che pure è… vecchio - con i seggiolini dipinti nei colori del club e a formarne il nome sono innegabilmente suggestivi ma, anche quando sono tutti pieni di persone con la maglia indosso, non si inquadrano nel mio ideale cromatico volto a dare tutta l’attenzione sul campo e sui giocatori, non sul pubblico. Su striscioni, fumogeni, tamburini, bandieroni da far passare sopra le teste, battimani di cartone e tutto il resto stendo un velo pietoso, è meglio.

Avessi provato a spiegare questo concetto ai tre ragazzi della fila di sotto sarebbe passata metà del primo tempo, ma per loro fortuna lo sguardo e il pensiero sono rivolti al campo, a una partita molto complicata per via della buona organizzazione dell’Everton, perlomeno in difesa e centrocampo. I primi 30’ sono quelli che nelle telecronache vengono definiti “di studio”: cioé sono bruttini, con mezze occasioni spuntate quasi per caso nel caos, iniziative che nascono collettive e diventano individuali per mancanza di colleghi a sostegno e la palese intenzione dei Blues di non permettere a Payet di poter gestire il pallone guardando la posizione dei compagni. Deulofeu in rientro e McCarthy lo sorvegliano prima ancora che il compito spetti eventualmente a Coleman, mentre è interessante notare come per ben due volte sia lo stesso francese a fermare lo spagnolo che stava accelerando in modo pericoloso sulla fascia. In una di queste situazioni la palla arriva a destra per Moses che effettua uno splendido passaggio diagonale di almeno 40 metri per Lanzini, ma il rientro dell’Everton limita il pericolo, mentre proprio al 30’ c’è il gol: Payet sulla trequarti vede Moses con spazio sulla destra, Galloway esce tardi e viene messo fuori passo dall’ala degli Irons che tira, il pallone viene deviato due volte ed esce verso Lanzini, che controlla di sinistro, sposta sul destro e mette a giro all’incrocio alla sinistra di Howard. Bellissima l’esecuzione e da giocatore vero, con l’istinto giusto, a prescindere dal fatto che la scelta di mandare fuori tempo i primi uomini dell’Everton per usare il destro gli venga naturale e dunque non sia frutto di una intuizione geniale.

La speranza è che dopo avere preso il gol i Blues si mettano fretta e rendano migliore la partita, ma la rete del pareggio in realtà arriva non su azione avvolgente con larga partecipazione bensì per una invenzione di Deulofeu, che accentratosi molto riceve da McCarthy su palla persa da Payet e lancia verticale, basso, per Lukaku. Un passaggio di precisione assoluta in uno spazio ridotto, sui piedi del belga e esattamente in mezzo a Tomkins e Reid, presi fuori tempo. Controllo, aggiramento di Adrian e tocco di sinistro per l’1-1. A prescindere dal fatto che non avrebbe potuto farci nulla, Jenkinson era rimasto appena alle spalle di Moses, sull’iniziativa di Payet, mentre né Kouyate né Noble sono stati in grado di sporcare la grande idea di Deulofeu. Ancora più grande se si pensa che fino a quel momento sia Tomkins sia Reid per difendere su Lukaku avevano palesemente - dunque su istruzioni precise, non per caso - scelto l’anticipo in ogni occasione: impedirgli dunque di ricevere la palla e girarsi, per non restare bruciati sulla falcata. Un attimo, un grande lancio, un perfetto controllo in velocità e salta tutto.

L’intervallo è come al solito molto pacato, quasi spento, forse per il gol ospite arrivato poco prima. Almeno per chi lo ha visto. Il fuggi fuggi verso i bar che è iniziato infatti già verso il 40’ si completa subito dopo il fischio di fine primo tempo, lo spazio visivo si vuota e quello acustico viene occupato dalla solita playlist, in parole povere dalla scelta musicale dello speaker-presentatore e dall’intervista all’ospite di oggi, uno dei tanti ex giocatori che vengono ospitati in ogni partita e accolti da una quantità di applausi purtroppo quasi sempre inversamente proporzionale al numero di anni passati dal loro ritiro. In parole povere, quando non è un Brooking o un Bonds o un Hurst o un Devonshire o un Di Canio viene ignorato dai più, triste segnale di scarsa attenzione alla propria storia e altro motivo per cui alla fine il passaggio allo Stadio Olimpico sarà indolore per molti. Spunta anche un raggio di sole, in una giornata finora scura, attraversando la parete laterale della Bobby Moore Stand per illuminare la parte alta del caseggiato di Seymour Road e abbagliare i pochi che stessero tentando di vedere da lì la partita. Più tardi, intorno al 20’ del secondo tempo, per la prima volta la luce dei riflettori sarà più forte di quella naturale, ed è del resto la prima gara dopo il cambio dell’ora.

Nel secondo tempo risate - questo è lo spirito che mi piace, e che ha sempre fatto parte di questo calcio - a un disimpegno di Carroll nella propria area, con dribbling: si ricordano tutti di quanto avvenuto sette giorni prima a Watford, quando andò malissimo, e ci saranno peraltro altre occasioni quest’anno in cui Carroll rischierà di danneggiare la propria squadra cercando di gestire in posizione rischiosa, dove rientra per generosità, palloni come se fosse un centrocampista dal baricentro basso e dalla capacità di recupero rapido. Al 50’ un evento che lascerà una traccia per il resto del 2015: McCarthy, che per tutto il primo tempo ha dovuto affannarsi per stare a contatto con Payet, entra su di lui da dietro in modo ruvido e lo mette ko. Botta notevole alla caviglia sinistra, si apprenderà, e almeno due mesi di assenza. Nei giorni successivi si parlerà molto dell’approccio molto aggressivo dell’Everton e qualcuno all’interno del West Ham dirà ai media che dal campo l’impressione era addirittura che Payet fosse stato preso di mira fin dall’inizio, ma sul momento, al secondo piano della Bobby Moore Stand, filtra solo la classica rabbia a miccia lunga di chi si ritiene vittima di un’ingiustizia e a ogni decisione o non-decisione dell’arbitro si alza e gliene dice quattro, per poi sedersi e dimenticare tutto. Entra Valencia che resta sul lato sinistro, ma dopo altri 5 minuti si fa male pure lui e viene sostituito da Zarate, terzo giocatore ad occupare il ruolo di esterno offensivo del 4-3-3 in questo pomeriggio. L’Everton al 64’ mette Mirallas per Kone, senza variazione di schieramento, e all’82’ fa entrare Lennon per Deulofeu, con inevitabile accoglienza di “buuu” dato il suo lungo passato di giocatore del Tottenham. Sono però quasi buuu di maniera, scontati, non velenosi come quelli che in passato hanno accolto avversari come Lampard o Ince, che del resto erano rei di un delitto molto peggiore, l’aver cioé abbandonato la maglia del West Ham. Nel caso di Ince c’era stata la pessima decisione, frutto forse di immaturità, di posare con quella del Manchester United prima ancora che il trasferimento venisse concretizzato. Roba del settembre 1989, ma che si trascinò per parecchi anni. Al confronto, quelli per Lennon sono come dei post-it con la scritta “asino” attaccata alla maglia. Non succede più nulla, né può succedere con Jelavic che entra all’87’ al posto di Carroll per motivi che mai si potrebbero spiegare.

Il postpartita vede il sospirato incontro con Roberto e suo padre Virginio, cari amici e persone super, tifosi dell’Arsenal che assisteranno il giorno dopo al derby contro il Tottenham, all’Emirates Stadium. Incontro sospirato e purtroppo frettoloso, tanto che pur di prolungarlo decidiamo assieme di andare in metropolitana sostenendo la lunga coda. La mia apprensione per il tempo che passa però finisce alla fermata di Bromley-By-Bow, dove un ragazzo italiano, sentendomi fare calcoli, con garbo interviene, dice di essere un frequentatore abituale del tragitto East End-West End e suggerisce di cambiare non alla prima fermata in cui la District Line interseca la Piccadilly Line ma di scendere a Mile End, prendere la Central Line, scendere a Holborn e prendere lì la Piccadilly Line. Vergognandomi di non averci pensato prima - viaggio da sempre e non amo i consigli in quanto ho già sperimentato tutto per conto mio - lo ringrazio, e in effetti la verifica mi dimostrerà che dal percorso vengono tagliati almeno 25 minuti. È anche per questo che arrivo tranquillamente al Terminal 5 di Heathrow e riesco persino a fare la fila per imbarcarmi, senza correre a cancello in procinto di chiudere e addetti in attesa. E nella fila ci sono anche un ragazzo italiano in maglia ”vecchia” del West Ham e un amico. Ma - come sempre in questi casi - faccio finta di niente. 6

END BOYS, ESSEX G EAST IRLS BROMWICH ALB (WEST ION)

Domenica 29 novembre 2015, ore 14.05: West Ham United-West Bromwich Albion 1-1 (Zarate 17', Reid autorete 50')

WEST HAM Adrian - Jenkinson, Reid, Ogbonna, Cresswell - Kouyate, Obiang (Carroll 64’), Lanzini - Moses, Sakho (Jelavic 74’), Zarate (Antonio 82’).

WEST BROMWICH ALBION Myhill - Dawson, McAuley, Olsson, Evans - Fletcher, Yacob - Sessegnon (Lambert 46’), Morrison, McClean - Rondon.

British Airways 543 Bologna 7.10 (in realtà 7.45) - Londra Heathrow 8.35 (in realtà 9.10) British Airways 544 Londra Heathrow 19.55 (in realtà 20.55) - Bologna 23.00 (in realtà 23.47) Altra lunga sosta tra una partita e l’altra: al normale avvicendamento casa-trasferta si aggiunge la solita noiosissima interruzione per le inutili partite delle nazionali. Curiosamente - ma guarda - pompatissime sul piano promozionale dalle medesime testate che esultano poi alla caduta delle barriere e delle frontiere che rendono purtroppo quasi inutile e superato il concetto di nazione. A meno che non sia una sottile manovra volta a far sì che nel magma indistinto dei prossimi anni tifare per la squadra con la maglia azzurra risulti come unico elemento di identità, oltre a scioperi e corruzione. Non per me, ma questo ormai si sarà capito: non sono mai riuscito a tifare per 30 giorni a biennio (Mondiali ed Europei, le altre partite sono insignificanti) per una squadra che schiera giocatori in massima parte a me invisi.

È la prima partita in casa di domenica di tutta la stagione, ed è una sensazione particolare viaggiare dopo che se ne sono giocate altre ieri, cioé sabato. Viene oltretutto dopo un 1-4 sul campo del Tottenham che a molti ha dato l’idea del primo gradino verso la discesa, contemporanea e conseguente all’assenza di Dimitri Payet, che dovrebbe restare fuori fino a gennaio. La partenza da Bologna aiuta a sentire meno frenesia, facendomi cullare dalla British e dal suo servizio elegante anche per chi ha pagato poche decine di euro come me: che questa partita si giocasse in questo giorno e a quest’ora si sapeva da settembre, non c’era pericolo di spostamenti e dunque ho potuto prenotare con l’anticipo giusto. Il volo è fenomenale come ogni volta in cui non c’è nessuno seduto nel seggiolino accanto al mio e dunque posso sfruttare le due ore per rilassarmi sul serio: tecnicamente ci sarebbero forti venti che impediscono la partenza secondo orario, perché si sa già che a Londra ci potrebbero essere ritardi e non ha senso mettere in aria un altro aereo che vada a intasare il cielo sprecando carburante, ma se c’è una cosa di cui non ho paura è volare, avendo anche imparato a farlo, tanti anni fa, ottenendo un brevetto da pilota di aerei ultraleggeri che non ho purtroppo potuto mantenere a causa dei costi ma che mi ha insegnato molte cose.

Ritardo di oltre mezz’ora, del tutto innocuo. Anzi, nella fase in cui abbiamo dovuto fare un paio di giri su Londra, in attesa cioé del turno designato di discesa, dal finestrino mi sono goduto un po’ di panorama, per quanto reso meno visibile dalla pioggia. Il maestoso stadio di Twickenham, quello del Millwall e quello del Crystal Palace appena percettibile lontano, poi quelli del Fulham, del Chelsea e del QPR, con Wembley più lontano, e l’ennesima dimostrazione che gli impianti sportivi rappresentano gli elementi più riconoscibili di quasi tutte le città del mondo che non sorgano sul mare o dispongano già di altri monumenti così vistosi da essere scorti da alcuni chilometri di altezza. Ricordo nitidamente che alcuni anni fa, in un volo dall’Europa al Nordamerica, dopo circa un’ora di volo di Amsterdam e dunque già ad altezza di crociera guardai verso il basso senza alcuna intenzione particolare e in uno squarcio tra le nubi apparve uno stadio con strutture piuttosto moderne e una coloratura blu. Non poteva che essere , città che non avrei potuto mai riconoscere, tra le altre dello Yorkshire, se non fosse stato per quell’impianto. Il lungo percorso da Heathrow a East Ham, meta diretta di oggi, permette letture e riposo, compresa la preparazione alla partita contro il West Bromwich Albion, squadra scomoda come da regola, in una giornata diligentemente grigia, che proiettando sul mondo una luce uniforme permette di distinguere meglio i colori rispetto al bianco abbacinante di certi altri periodi dell’anno. La visione cromatica rispetta i canoni già citati nel capitolo precedente: con un contorno di tonalità monotone risaltano in tutta la loro nitidezza gli elementi che cerco, che siano eleganti o squallidi. E a East Ham, come si è già capito, il secondo aggettivo è quello più appropriato, al limite del dilemma sull’effettivo orgoglio che i residenti abbiano di abitarci, se ovunque ti giri hai l’impressione che tutto venga tenuto al minimo del decoro. È anche vero, ovviamente, che in momenti di difficoltà economica generale, sintetizzati dal mosaico di bigliettini affissi alla vetrina dell’edicola accanto alla stazione già menzionata nel capitolo su West Ham-Norwich, conta più pensare al futuro della propria famiglia che a rimuovere dalla vista il bidone dell’immondizia senza una ruota o strappare via del tutto l’adesivo sbrecciato appiccicato da qualcuno sullo stipite della porta del negozio.

Il giro a East Ham è largo, questa volta. Almeno 15’ a piedi dalla stazione, andando verso nord lungo la High Street e sorpassando piccole icone locali, ancor più riconoscibili perché situate o in mezzo ai negozi di catena, tutti uguali e tutti tristi, o alle botteghe-bazar indistinguibili l’una dall’altra, e non solo perché spesso neppure hanno una insegna riconoscibile ma portano solamente l’elenco dei prodotti in vendita. O di parte dei prodotti in vendita, centinaia. E allora non fanno fatica a spiccare i Percy Ingle o il Ruskin Arms. Il primo è sì parte esso stesso di una catena, ma con uno stile grafico non moderno, l’uso di “savouries” (“prelibatezze”) nel cartello cattura-clienti e con una dislocazione di negozi che riflettono uno spirito ancora locale, locale antico però, di quell’East End in via di sparizione: la famiglia Ingle tra l’altro viene da un progenitore - Josef Engel - che ha cambiato cognome per facilità di pronuncia e che girava vendendo prodotti da un carretto. Poi nel 1954 la prima sede a Hackney, dunque poco più a ovest di qui, e ora tante vetrine che però per la cura delicata espandono quasi il profumo di passato, anche per l’ordine decisamente contrastante con botteghe adiacenti. Il Ruskin Arms è un pub e hotel - combinazione diffusissima nel Regno Unito - che mostra di essere tenuto con raro decoro e non porta segni di sfregio, forse anche grazie alle telecamere di sicurezza che ne coprono ogni metro all’esterno, ingentilito da bandierine dell’Inghilterra - quelle con la croce di San Giorgio rossa su campo bianco - che paiono non volersi arrendere al degrado cui è stato permesso di agire su elementi vicini.

Il percorso prosegue lasciando ai due lati scenari ormai familiari, ma che in realtà appartengono al panorama inglese generico che qui prende un indirizzo piuttosto che un altro, un indirizzo evidenziato dal vistosissimo tempio a Sri Murugan, dea multiforme della religione induista, che domina tutte le case circostanti all’angolo tra la Church Road e la , lasciando a sinistra il Chippy Fish Bar e girando a destra poco dopo il ponte sulla ferrovia che da Stratford va verso est e il mare. Guardando la cima del tempio dal marciapiede, la guglia proiettata sullo sfondo del cielo grigio fa pensare a tutto tranne che all’Europa, ed è un richiamo e un segnale a tutto il quartiere, casomai si dimenticasse della sua nuova identità. Nuova per modo di dire, perché forgiata a partire dagli anni Cinquanta, ma si tratta comunque di tempi molto successivi a quelli in cui si svolsero gli eventi di cui sto andando a cercare le tracce. Per un mese, infatti, esattamente dal 6 marzo all’8 aprile 1897, il Thames Ironworks giocò qui. Un “qui” non ben identificabile, peraltro. La Browning Road, che si contorce verso sudovest tornando retta per poi piegarsi ancora nella stessa direzione, sarà lunga 700 metri, ma solo in un punto verso la fine, all’angolo con la Byron Avenue, può esserci stato 120 anni fa una sorta di campo utile per giocare a calcio. Era del resto una soluzione di emergenza: dalla sede precedente, quella di che andrò a trovare appena possibile, il club progenitore del West Ham era stato cacciato improvvisamente nell’ottobre del 1896 per avere violato i termini dell’affitto. Violato in modo notevole, peraltro: invece di giocarci solo, i dirigenti ci avevano costruito un piccolo stadio completo di struttura centrale, quelle che venivano chiamate “pavilion” e costituivano una specie di tribuna con spazio interno per gli spogliatoi e magari un piccolo bar per il pubblico. Si suppone che un aggeggio del genere non fosse sorto dalla sera alla mattina, eppure evidentemente i proprietari del terreno di Hermit Road non s’erano accorti di nulla: quando lo scoprirono, e videro che il Thames violava due volte le norme di affitto perché faceva pagare un biglietto di ingresso, il foglio di via fu immediato. Meno immediata fu la soluzione all’esilio, perché la squadra dovette giocare in casa degli avversari alcune gare previste al proprio domicilio e solo dopo qualche settimana poté debuttare in un ambiente familiare. Per modo di dire, ovviamente.

Ma al di là dell’impossibilità di trovare traccia di un campetto usato per solo un mese oltre un secolo fa pare davvero che il club sia poco presente nella memoria e nel cuore della gente, in questa zona tra la High Street e lo Shakespeare Crescent. Forse perché il Crescent - strada a forma di arco o mezzaluna, come si intuisce dal nome - è a sua volta incastrato tra due rami di ferrovia che si incrociano: è come una zona senza sbocco, chiusa a est dall’autostrada North Circular che scende verso il Tamigi accompagnata nello stesso percorso dal fiume Roding, virtuale inizio di Barking. Come una enclave indifferente al colore calcistico circostante: nemmeno un infisso claret&blue, non una foto nei due caffé in cui infilo lo sguardo, e le uniche due persone che per la strada indossano una maglia da calcio hanno quella del… Liverpool. Due persone non rappresentano un quartiere e forse sono solo passato nel momento sbagliato, ma in una domenica con partita in casa mi colpisce non aver visto neanche una casacca del West Ham in oltre mezz’ora di passeggiata senza soste, perché alla fine oltre a un’occhiata al potenziale luogo del temporaneo stadio di 120 anni fa non c’è molto da fare, e anche l’utopia dell’ispirazione da parte del genius loci, di quell’indefinibile spirito che permea di sé una località si rivela, appunto, un’utopia: se non sapessi che mi trovo nei pressi di uno dei quattro stadi che il West Ham ha avuto nella sua storia nulla me lo racconterebbe, e in nessuna forma.

Tanto vale riprendere l’avvicinamento a quello attuale, il Boleyn, ripercorrendo verso sud la High Street e le sue botteghe, i suoi negozi da una sterlina o 99 centesimi, oltrepassando il vicolo di Aunt Sallys e tirando dritto verso la Barking Road. All’angolo c’è il monumentale Denmark Arms, uno dei pub più caratteristici della zona ma senza motivo particolare se non per la sua posizione di vedetta, dalla parte opposta dell’incrocio rispetto alla grande East Ham Town Hall, il municipio del quartiere. È il punto di maggior traffico, di maggiore attività, è il punto che permette di riannodare il filo della giornata al motivo per cui sono qui, con la comparsa di un numero crescente di maglie del West Ham, come al solito di tutte le annate e tutti gli stili. Lo stop avviene in un posto che mi pare ideale, ovvero il Newham Café, al 359 della Barking Road, poche decine di metri dopo il Denmark Arms andando verso lo stadio. Pubblicizza il proprio “traditional English breakfast” e mantiene la promessa, nella modestia convinta di tanti locali come questo, con tavoli di marmo o finto marmo chiaro, sedie non abbinate, fotografie pseudo- storiche ai muri, una toilette dove può essere difficile entrare se si è sovrappeso. La cortesia solo velata della frettolosità di chi si attende un influsso di gente ancora maggiore, e l’ordine arriva dopo pochi minuti, caldissimo. Sempre il solito, ma è un bene. Solito anche il giudizio: dal punto di vista tecnico ben coperta la parte centrale del piatto dai fagioli in salsa rossa, ottime le sovrapposizioni di patatine fritte sulle fasce, mentre per la loro dimensione le salsicce hanno qualche problema negli spazi stretti, per cui vanno semplicemente e dolorosamente tagliate in due. Scherzi a parte, l’insieme è fumante dalla temperatura e in attesa che i gradi calino a livello umano c’è modo di continuare a guardarsi intorno. La solita clientela, quella che mi aspettavo e speravo perché dipinge, fuori tempo, l’East End che avrei voluto vedere direttamente, non mediato da quadri, specchi, foto ed evocato da singoli individui. Come quello che pare un ex hooligan - era successo anche da Aunt Sallys e l’unica spiegazione è che siano in tanti, così - per via dei tatuaggi sugli avambracci, della scelta di polo Fred Perry anche in una giornata non calda e del taglio di capelli. Qualche anziano che preferisce la tradizione alla circolazione libera del sangue nelle arterie, un paio di trentenni tranquilli e palesemente volti alla partita, nella discussione a voce bassa, inaudibile dal mio posto. Niente di straordinario, semmai un lampo della normalità di un tempo, e lo conferma anche l’ingresso assolutamente banale di una coppia molto elegante, con (presumibile) figlia al seguito. Potrebbero essere diretti a un ricevimento o a una festa o a una cerimonia pubblica, non lo si può sapere. Ma è forse più singolare in loro, la forza della tradizione, che in anziani che magari nemmeno avrebbero voglia di alzare lo sguardo su soluzioni diverse per la colazione, che peraltro a quest’ora è più un pranzo, o brunch. Parola, fortunatamente, sconosciuta all’insegna del café, che divide regolarmente in breakfast - lunch - dinner le opzioni gastronomiche possibili. L’eleganza del trio è tranquilla, non ostentata. Soffice, non dura. In bianco e nero, non a colori sparati in faccia.

Siamo ai margini della strada che va a Barking, che fino al 1965 era ancora nella contea dell’Essex, e osservando la scena è impossibile - per me - non pensare a uno stereotipo imposto, nei fatti e nell’uso comune, tra anni Ottanta e anni Novanta: quello delle Essex Girl. Ragazze riconoscibili ovunque per il loro accento, quell’Estuary English già menzionato, ma prima di tutto per il loro aspetto esagerato e volgare, fatto di abbronzatura artificiale, ritocchi estetici ovunque, abbigliamento di cattivo gusto scambiato per elegante, risata berciante, sigaretta, bottiglia di birra o vino sempre in mano e altri aspetti che potete immaginare ma sui quali sorvolo perché mi fa già ribrezzo quello che ho scritto. Il tipo di donna, insomma, che se vedi al mattino mentre porta fuori l’immondizia neanche riconosci, al contrario di chi la bellezza e la classe le ha naturali ed è pressoché uguale a cena fuori come a spasso col cane. Ha peraltro ragione - e chiunque di voi sia stato fuori la sera in Inghilterra nei weekend lo può testimoniare - chi sostiene che a prescindere dall’Essex la descrizione può essere quella di qualunque (non tutte, ovvio) ragazza britannica con tendenza a una certa vita sociale E poi certe definizioni e certi squallori, peraltro sdoganati da protagonisti di programmi tv disastrosi come i reality show e i pomeridiani delle reti generaliste, sono diffusissimi anche a casa nostra, nella presunta patria dello stile.

Utile chiarire che per gli uomini si parla di “chav”, senza riferimenti geografici, mentre curiosamente l’Essex Man per qualche tempo ha identificato il cittadino comune, specialmente in politica, ovvero l’elettore medio. Il chav, termine antico ma diventato popolare all’inizio di questo secolo e usato comunque anche per ragazze, è l’uomo di provenienza umile e bassa cultura che veste abiti firmati (generalmente tarocchi, contribuendo così alla prosperità del mercato della contraffazione), cappellini da baseball, braccialetti e anelli, scarpe da tennis bianche. Alcuni dementi caduti da piccoli in una vasca di ideologia hanno criticato la definizione di chav come un… attacco al proletariato, dato che quasi sempre i ragazzi di quel genere provengono da ambienti umili e cercano di elevare con l’aspetto quello che non raccontano con la loro vita quotidiana, ma al di là dei relitti del Sessantotto o del Settantasette questi ritratti sono talmente precisi, pur in un panorama sociale in evoluzione rapida, da aver dato vita anche a un personaggio televisivo della serie Little Britain, ovvero la tremenda Vicky Pollard. Che riassume in sé le caratteristiche maschili e femminili della categoria, vestita quasi perennemente di una tuta rosa della Kappa, fumatrice accanita anche in… piscina e propensa a frasi in gergo e prive di contenuti concreti. Il creatore della serie, Matt Lucas, disse un giorno «siamo stati fortunati, abbiamo colto un fenomeno che stava nascendo, ci sembrava che ci fosse una Vicky Pollard a ogni angolo di strada» e anche questo descrive un panorama preciso e realistico. La Pollard nella serie era interpretata… dallo stesso Lucas, cioé da un uomo, espediente azzeccatissimo perché ovviamente il suo aspetto era reso ancora più atroce, e peggiorato ad arte da quello che in Inghilterra chiamano «Croydon facelift», il «lifting alla Croydon», cioé capelli raccolti dietro la nuca in uno chignon che ha l'involontario (involontario?) effetto di tirare su anche la pelle del viso.

Pensieri vaganti di fronte a una semplice scena di famiglia a pranzo che offre un contrasto deciso con le descrizioni imbarazzanti di cui sopra, al punto che dispiace quasi uscire dal Newham Café e lasciar cadere quella bellezza non ostentata per farsi assorbire da un mondo esterno che dà impressioni molto diverse. Già sulla soglia, con la porta che ancora deve chiudersi alle spalle, colpisce in faccia, dall'altra parte della strada, la bottega di prodotti polacchi per polacchi, col nome fantasioso di Sklep Polski («Negozio polacco») e, accanto, due dei cento miliardi di kebabbari della zona, quasi a ricordare agli avventori del Café che presto purtroppo anche il locale da cui sono appena usciti dovrà sparire, per mancanza di clienti, e farsi occupare da qualche altro commerciante più in sintonia con il resto del quartiere. Tra i due templi dell'unto, solo soletto quasi a chiedere scusa, un negozio dell'associazione per la protezione e cura degli animali abbandonati. Si sarà già capito, a questo punto, che lascerei tutto quello che ho, ad enti come questo.

Qualche decina di metri e sempre sul lato opposto compare il Central («The Central»), altro grande pub della via, che molti considerano parte mediana del trittico con Boleyn Tavern e Denmark Arms. Resto dal mio lato e vedo alcuni tifosi del West Brom, convinti dal fatto che il Central evidentemente non sia uno dei pub che si autodesignano per «home fans only» o «no away fans», insomma che accettano solo tifosi della squadra locale. O addirittura quelli col cartello «no football colors», che scelgono di ammettere solo clienti che non indossino indumenti legati a una squadra. Sulla destra il parallelepipedo bianco della White House, che come tanti locali un tempo prosperi grazie al cinema si è ridotto a contenitore di qualsiasi evento tanto disperato da voler essere ospitato qui, dove fanno promesse di grande servizio e finezza che evidentemente non si estende al decoro del cartello più in alto sulla facciata, da cui è caduta una lettera (si legge infatti ‘The White ouse’) senza che nessuno, apparentemente, ci faccia caso o ne provi disagio.

Il flusso di gente lungo i due marciapiedi è costante e variegato come le maglie che hanno addosso, con la solita varietà di divise del West Ham nel corso degli ultimi cinque decenni, e all'approssimarsi del largo marciapiede di Nathan's e dell'Ercan Fish Bar il viavai è impazzito, tra chi cerca un cartoccio di pesce fritto, chi allunga il passo per mettersi in coda da Nathan's, chi attraversa la strada per andare all'unico bancomat di questo tratto di strada, all'esterno di un mini-market Tesco, e chi cerca di infilarsi nel vicolo che dà la scorciatoia verso la Castle Street. Ma non c'è il fastidio - perlomeno mio - di quando si gira in centri commerciali e si rischia continuamente lo scontro con persone che hanno desideri e intenzioni palesemente diverse dalle tue: è invece quasi un accordo tacito tra fratelli, un incrociarsi senza farsi male, sporgendo il braccio a protezione altrui se c'è rischio di contatto, consapevoli che non ci può essere malizia in chi è lì per il tuo stesso motivo e magari finirà dopo pure per abbracciarti allo stadio.

Il rito della Castle Street, della ressa, del controllo borsa, dell'inserimento del tesserino, del «click» elettronico di consenso, del saluto agli steward, della salita delle scale e dell'uscita a riveder le stelle in campo è lo stesso e comunque sempre esaltante, nella sua banalità, perché fa parte di un conto alla rovescia, seppur appena iniziato. Così come il cenno ai vicini di posto, specialmente quello proprio accanto, sulla destra. Che presto dà fondo alle sue risorse dialettiche, allargandosi dal «come on you West Ham» al «come on you Hammers» al «chase him down» («chiudilo!») quando un avversario ha palla e troppo spazio ad un «up! up!» quando bisogna uscire dall'area a un delizioso «well played» che da solo varrebbe la giornata qui, perché è una frase di apprezzamento delicato ma al tempo stesso convinto, una di quelle che avresti sentito anche 70 anni fa con il medesimo tono immune ai mutamenti del tifo di questi decenni.

Noto poi, con piacere, un dettaglio: non ci sono bandiere francesi tra il pubblico. Sono di due settimane fa gli attentati a Parigi e per i miei gusti si è già andati oltre il limite tollerabile di retorica e demagogia in giro, tra striscioni, hashtag su Twitter, figure disegnate con i gessetti sui marciapiedi - immaginate le risate dei potenziali attentatori di fronte a queste risposte da rammolliti - per cui sono felice che questo sia territorio libero da agganci inutilmente pietisti: più genuino il canto di gioia di alcuni tifosi Irons, di poche settimane prima, alla morte di Jihadi John, il terrorista di origine britannica e per questo ancora più deprecabile e odiato. Un traditore.

Tornando a cose serie, il West Ham deve ovviamente ancora rimediare al vuoto dell'assenza di Payet, e con Collins e Noble squalificati torna la coppia centrale Reid-Ogbonna in difesa mentre lì davanti c'è Obiang, in campo dopo un mese di assenza, con Kouyate sul centro destra e Lanzini sul centro sinistra. In attacco, Moses largo a destra, Zarate largo a sinistra e Sakho in mezzo. Il West Brom è il solito con difesa bloccata anche a causa dell'utilizzo di due laterali che nascono centrali come Dawson a destra e Evans a sinistra. Yacob e Fletcher come sempre davanti a loro, trequartisti da destra Sessegnon, Morrison e McClean e punta unica Rondon, che dopo quasi tre mesi di stagione non ha ancora preso del tutto le misure del calcio inglese. Sempre meglio di Berahino, che ritenendosi evidentemente l'uomo in grado di salvare il calcio sembra stia stretto in un misero (?) club come quello delle Hawthorns.

Considerando la compattezza dei Baggies, guidata dal senso della posizione di Yacob e dalla ritrovata freschezza di Fletcher, il West Ham gioca pure bene, o perlomeno ci prova, seguendo linee note: con possesso di palla si cerca di uscire dalla difesa appoggiando a Lanzini o Kouyate che vengono incontro, con Obiang che si sposta lateralmente per creare una seconda opzione (meglio di no, eh!) e quello dei due che non si abbassa pronto a salire per avvicinarsi ai quattro davanti e impegnare la difesa, quasi formando una diagonale dei tre centrocampisti. Senza Payet riescono meno i triangoli con Cresswell sulla fascia sinistra che poco alla volta hanno cominciato a rappresentare uno dei cardini degli schemi della squadra. Zarate, non a sorpresa, è infatti più portato a restare a lungo vicino alla linea laterale per farsi dare palla sui piedi, accentrarsi e provare il destro, mentre con il francese si aveva l'impressione di una visione più a 180 (ma basterebbero anche 90…) gradi, con maggiore capacità di coinvolgere i colleghi. Sull'altro lato si tende a lasciare libero più campo: Jenkinson spinge consentendo a Moses di non essere isolato, ma i raccordi con Kouyate e Lanzini sono meno frequenti: non è solo questione di forza degli avversari, dato che l'addensarsi del gioco degli Irons sulla sinistra sarà una costante fino alla fine. Il gol peraltro arriva da un calcio di punizione in zona centrale che Zarate infila magistralmente all'incrocio sinistro, e viene difeso con vigore dalla reazione del West Brom.

L'atmosfera si scalda quando Lanzini e Zarate assieme chiudono Sessegnon che ha trovato spazio eccessivo, ricreando immagini dei preoccupanti vuoti visti in fascia nelle partite di agosto e settembre, mentre è curioso notare che di tutti i difensori quello più «inglese» sembri Ogbonna, che spesso interviene in modo non ortodosso e palla al piede, anche quando non ha fretta, rilancia lungo verso Sakho piuttosto che appoggiare a un compagno in grado di impostare. Ancora applausi per Zarate che su una rimessa laterale pericolosa ruba palla, la protegge e prende fallo, mentre si percepiscono i «buuu» ad ogni tocco di McClean, reo di non aver mai voluto indossare le maglie con il simbolo del «poppy», il papavero che tra ottobre e novembre di ogni anno diventa l'emblema del ricordo dei soldati caduti. L'obiezione di McClean, che gioca nell'Eire ma è nato e cresciuto nell'Irlanda del Nord, riguarda l'estensione del cordoglio anche ai militari che hanno a lungo combattuto proprio nell'Ulster, sua patria, ma sono sottigliezze pienamente giustificate dal suo punto di vista e che difficilmente vengono recepite a livello generale. Cosa dovrebbero dire i tifosi tedeschi di gente come Ozil o Khedira, che neanche accenna a cantare l'inno di una nazione a cui deve tutto e a cui ha dato in cambio una manciata di gol e assist?

L'atmosfera è comunque decente senza essere infuocata. Un po' di vivacità c'è nel solito angolo tra la East Stand e il settore ospiti della Sir Trevor Brooking Stand, con tifosi del West Ham regolarmente in piedi e protagonisti di qualche scambio dialettico acido, ma verso fine primo tempo riprende la triste processione anticipata verso i bar, e l'intervallo ha il solito tappetino di musica scelta dal dj - scelta ad agosto, e ripetuta ogni volta - e I'm forever blowing bubbles al rientro. C'è sempre più vento, e con la coda dell'occhio vedo attraverso il vetro laterale della mia tribuna che i rami alti di un albero che spunta sulla sinistra, oltre la chiesa e la prima fila di caseggiati, ondeggiano furiosamente, come altri appena visibili sulla destra, soverchiati da un bel cielo grigio mobile, e qualche goccia di pioggia. Dopo 5' il West Brom (ricordate, la o è aperta, come quella iniziale di «ottimo», ma viene spesso pronunciata in modo non corretto) pareggia, con una deviazione involontaria di Reid sul tiro di Lambert, entrato al 46’ al posto di Sessegnon e andato centrale, con Morrison spostato a destra. È l'unica sostituzione che farà Tony Pulis, ed è sufficiente: i suoi hanno il vigore, l'energia e la saggezza necessaria per tenere botta fino alla fine, persino in uno sport in cui sofisticate analisi tattiche possono essere smentite o confermate da un tiro che colpisce due pali ed esce, o entra. Anzi, un paio di volte è il WBA che potrebbe vincere, con Rondon e McClean, mentre dall'altra parte - di fatto la mia, con il West Ham che attacca come sempre verso la porta sotto la Bobby Moore Stand - due situazioni consecutive vedono Moses con un po' di spazio e Sakho tirare, con parata di Myhill. Dopo la seconda di queste azioni potenzialmente pericolose restano a terra ben tre giocatori degli Irons, compreso lo stesso Sakho che non può continuare e lascia il posto a Jelavic. Poco prima Carroll ha sostituito Obiang e si è passati al 4-2-4 che è una dichiarazione di guerra tattica: da destra, Moses, Jelavic, Carroll, Zarate, protetti dal duo Lanzini-Kouyate con responsabilità altissime perché anche se non c'è più Sessegnon, gamba corta e mulinante, il West Brom ha possibilità di contropiede brucianti.

All'82’ entra e il brusio di curiosità che accoglie il suo ingresso si fonde con l'ovazione per Zarate che esce, dopo una partita in cui il suo impegno è parso costante e non intermittente, evidente e non solo intuibile. Tutti vogliono vedere Antonio, 25 anni compiuti a marzo, perché dopo il suo arrivo dal Nottingham Forest a fine mercato estivo è più o meno sparito nel nulla, al punto che un giorno un tifoso ha scritto su Twitter a David Gold, il co-presidente, allegando la foto del ragazzo in abiti normali e, senza specificarne il nome, ha chiesto aiuto per rintracciarlo in quanto di lui non c'era più traccia da settimane. Gold ha abboccato allo scherzo, anche perché la foto di Antonio non era chiarissima e la sua fisionomia senza divisa da gioco poteva essere quella di un normale tifoso. Antonio ha giocato 30' nel 2-1 sul campo del Manchester City, il 19 settembre, poi nelle sei partite successive è stato cinque volte in panchina e una volta, nella trasferta sul campo del Crystal Palace, è rimasto addirittura a casa. Se è vero che - a detta del suo allenatore al Forest, Dougie Freedman - a metà agosto era stato tenuto fuori rosa per una trasferta perché non c'era con la testa, è possibile che dopo quella mezz'ora in campo all'Etihad Stadium abbia dimostrato un atteggiamento non positivo. O semplicemente, con la rosa interamente a disposizione di Bilic una volta rientrato Carroll, per lui, ultimo arrivato e inesperto di Premier League, non c'era spazio. Prende a destra il posto di Moses, che va dal lato opposto, e in questi pochi minuti compie un paio di accelerazioni ben chiuse dalla difesa. L'intraprendenza c'è, e c'è anche tra i tifosi la benevolenza speranzosa che accoglie tutti i nuovi arrivati, ovvero quella disponibilità a sopravvalutare il bene e sottovalutare il male che allunga i tempi reali di valutazione. Ancor più in un calcio come questo in cui, ed è uno dei pochi, cari elementi rimasti, ci si entusiasma per un recupero con palla scaraventata in rimessa laterale o per un tackle scivolato che la riconquista. E non è mai fallo, a quanto pare: neanche in Italia o in Germania si accetta mai come irregolare il ruvido contrasto di un proprio giocatore su un avversario, ma qui a volte sembra proprio di cogliere una incredulità spalmata di nostalgia per i tempi in cui certi interventi davvero venivano lasciati passare, almeno nell'immaginario popolare.

Tristemente, anche stavolta molti escono prima ancora che Antonio abbia potuto scaldare i suoi poderosi garretti. Avranno i loro motivi ma è una visione deprimente, specialmente quando diventa quella di un flusso costante verso le uscite e la Castle Street, che nella parte di incrocio con la Green Street posso vedere presto mezza intasata. È ancora chiaro, rispetto alla partita precedente, perché ovviamente il calcio d'inizio era 55 minuti prima, per cui anche la corsa verso Heathrow è meno affannosa e può essere addirittura preceduta da un salto nel negozio dello stadio, dove prima che spariscano compro alcuni oggetti: 5 buste di matite (per le quali ho una passione) e una coppola (in inglese: flat cap) marrone chiaro con un elegante simbolo del martelletti incrociati su un lato; discreto, non vistoso, e del resto alla mia età non posso permettermi di girare con patacconi sul petto o indumenti troppo marchiati, al di là del fatto che il mio ecumenismo abbia fatto sì, più volte, che girassi con bermuda con piccolo simbolo del Pittsburgh Steelers e polo con piccolo casco dei Cleveland Browns, loro rivali. Contraddittorio, anzi no: non tifare realmente per nessuno, in alcuni segmenti sportivi, permette di scegliere il meglio dal punto di vista estetico, a prescindere dal resto.

La coppola rischia peraltro di durare poco: arrivato tranquillamente a Heathrow seguendo il «nuovo» percorso via Mile End e Holborn e avendo visto che il volo è in ritardo mi soffermo in un negozio di elettronica a curiosare, e al cancello di imbarco ho la sensazione che manchi qualcosa… Esatto, proprio il cappello, che credo di avere dimenticato proprio nel negozio: ufficio oggetti smarriti, riconsegna quasi immediata e anche stavolta, a causa di questa sbadataggine, riesco comunque a presentarmi all'imbarco a procedura già iniziata. Non accadrà più. Forse. 7

O DEL MEMORIAL NCELL GROU CA ND IL (STOKE CITY)

Sabato 12 dicembre 2015, ore 15: West Ham United-Stoke City 0-0

WEST HAM Adrian - Tomkins, Collins, Ogbonna, Cresswell - Kouyate, Song (Valencia 64’), Noble - Antonio (Jelavic 83’), Carroll, Zarate.

STOKE CITY Butland - Johnson, Shawcross, Wollscheid, Pieters - Cameron (Adam 68’), Whelan - Afellay (Walters 66’), Van Ginkel (Mame Diouf 56’), Arnautovic - Bojan.

British Airways 561 Milano Linate 7.30 (in realtà 8.01) - Londra Heathrow 8.40 (in realtà 9.03) British Airways 544 Londra Heathrow 19.55 - Bologna 23.00 (in realtà 22.46) Letto per noia nella stanza dell’hotel milanese, convenientemente situato lungo la rotta del bus 73 che porta a Linate, un piccolo notiziario web sulla partita annuncia l’assenza di , oltre a quelle di Manuel Lanzini, Dimitri Payet, e Victor Moses. Quasi tutti infortuni muscolari, e suona sospetto che nello stesso bollettino si legga che Slaven Bilic ha autorizzato il trasferimento immediato degli allenamenti dalla storica sede di Chadwell Heath, a est di Upton Park, lungo la linea ferroviaria che va verso Romford e l’estremo oriente inglese, alla nuova struttura di Rush Green. Dove gioca la Under 21: sarà pronta nella sua interezza solo nella tarda primavera, ma intanto i campi sono a posto e rappresentano non un’alternativa ma un miglioramento rispetto a quelli attuali, «morbidi in superficie ma gelati subito sotto, la peggiore combinazione possibile» dice l’allenatore. Sono i casi in cui al bar, anzi al pub, reale o virtuale ovvero la rete, si discute sulla bontà della preparazione atletica, sul valore dello staff che l’ha impostata, sugli effetti che la sciagurata partecipazione alla fase preliminare di Europa League può avere avuto. Discorsi accalorati, vissuti, impersonati, ma completamente inutili se non dannosi, come tutti quelli che fanno i tifosi senza basi concrete. La verità non si saprà mai, o magari verrà fuori tra le righe se vedremo che a maggio, finito il campionato, ci saranno cambiamenti nello staff medico o degli specialisti della preparazione. Il dato di fatto è quello delle assenze dell’anima più creativa della squadra, e il responso è: pazienza. Gli infortuni fanno parte del mestiere, un mestiere duro come quello del calciatore, tradotto esternamente dai media con la solita mancanza di responsabilità, come se fosse un intermezzo tra una festa in discoteca e l’altra. Ma al netto di sospetti che non è corretto avere, un pur con la sua immagine da modello non farebbe un terzo di quello che fa sul campo se non avesse cura del proprio fisico come solo un professionista deve avere. Andrà a feste o le organizzerà pure, ma quando deve fare sul serio fa sul serio, e i risultati si vedono.

Si balla dunque sempre sul filo della speranza di una stagione di rilievo e quello del timore che si concretizzi per l’ennesima volta il messaggio di Bubbles, quella dei sogni che scoppiano come una bolla di sapone, e pazienza se si tratta del destino del 90% delle tifoserie e non certo specifico di quella claret&blue. Eppure resta intatta la ricerca di qualcosa di speciale, di un’essenza che ti distingua dalle altre: vai sul forum dei tifosi della squadra X e leggi, di una partita persa, “solo noi possiamo perderle così”, ma da neutrale ti rendi conto che è l’ennesimo qualunquista tentativo di trarre, dall’insuccesso, la sensazione di essere differente. No, caro mio, di perdere più partite all’ultimo minuto, o subendo una rimonta, o fallendo un rigore nel recupero, capita a tantissime squadre, per cui non c’è nulla di diverso, atipico o eccentricamente sfortunato nel vederlo capitare alla tua. Hai colori diversi ma sei uguale come mentalità a tanti altri, ed è difficile ammetterlo, perché vorresti consolarti appoggiando a entità ultraterrene le basi della sconfitta. “Typical Palace”? No, typical tutti, e allora se lo sono tutti o quasi tutti non c’è nulla di speciale nel proprio club. Niente da fare. I tuoi perdono perché valgono meno degli altri, così come la maggioranza dei giocatori delle altre squadre, perlomeno nei paesi normali, pochi. Calciopoli, in Italia, ha fatto ovviamente trarre conclusioni diverse, a chi non aveva sospettato da anni l’andazzo e si era dunque defilato prima.

Sul volo da Linate apro la rivista di bordo e sfogliandola vedo un invito a visitare una città olandese, che secondo l’articolista ha tra le proprie attrattive la “diversity”, ovvero la varietà culturale. Ma se uno volesse invece andare in Olanda e - incredibile, vero? - conoscere la cultura e la civiltà olandesi tradizionali, invece di ritrovare scenari e fetori e volti che può vedere anche sotto casa? È il motivo per cui corro nell’East End, appena atterrato, e cerco di proseguire la mia scoperta di quello che di tradizionale è rimasto, di quel che c’era prima che - per riprendere le parole dell’attore e tifosissimo del West Ham, Ray Winstone - «l’East End si trasferisse nell’Essex». Ironia ma fondata su una verità oltretutto vista da vicino e vissuta, dato che Winstone, nato a 4 chilometri da quello che è oggi lo Stadio Olimpico, è del 1957 e già adolescente aveva potuto assistere ai cambiamenti della sua fetta di Londra, nonostante si fosse trasferito con i genitori a Enfield, un pochino più su (ora abita, massì, nell’Essex pure lui e rimpiange fortissimamente i tempi che furono, quando la gente lasciava le chiavi appese accanto alla porta di casa). Durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, la parte orientale di Londra era stata quella più bersagliata dai bombardamenti tedeschi che prendevano di mira i porti, i magazzini, le installazioni per carico e trasporto merci tra cui materiali bellici, e intere zone erano state distrutte. Lo stesso Boleyn Ground era stato danneggiato: una V1 (la prima versione della celebre bomba volante) aveva fatto crollare gran parte della West Stand (quella “principale”) e della South Bank, ovvero proprio la progenitrice della “mia” Bobby Moore Stand, e la ricostruzione immediata era stata avviata solo per la West Stand, il che volle dire, per creare spazio, l’abbattimento nel 1958 dell’ultima delle torrette del Boleyn Castle, la presunta casa dove secondo un falso mito aveva soggiornato Anna Bolena, moglie di Enrico VIII. Nel disastro bellico, tra l’altro, andarono distrutti interi armadi di documenti, tra cui la certificazione - ora svanita - del record di presenze dello stadio, 43.528 per la sfida al Charlton Athletic il 18 aprile 1936, in Second Division. Anche se come

A causa della distruzione tantissime famiglie dell’East End e specialmente della zona del porto avevano deciso di trasferirsi, e dirigersi verso est, verso l’estuario del Tamigi, il che era certamente più salubre e meno costoso che andare verso il centro di Londra, per cui è assodato che una larga fetta di tifosi del West Ham abiti proprio nell’Essex e nel Kent, le contee adiacenti. Spesso in città rinnovate o addirittura di nuova progettazione come Basildon (Essex), che è per inciso il luogo da cui partì nei primi anni Ottanta la conquista del mercato musicale da parte dei Depeche Mode, esibitisi agli esordi anche in un piccolo club di Canning Town. Come scrive chi queste cose le ha studiate, con l’uscita da un circondario affollato e piuttosto squallido molte famiglie di origine modesta trovarono, in quartieri di edilizia popolare di costruzione recente, lo spunto per una crescita a tutti i livelli e una salita di livello sociale, grazie anche all’affermarsi di nuove professioni nel settore dei servizi. Sotto il governo Thatcher a molti fu concesso di acquistare le case in cui vivevano e anche da questo nacque la figura empiricamente sociologica del cosiddetto “Mondeo Man”, altra caratterizzazione - come Essex girl - nata da queste parti e poi diffusa a creare un modello generale. A spanne, il Mondeo Man è il maschio di origini umili che con il lavoro e il sacrificio è riuscito a permettersi una vita migliore rispetto ai suoi genitori, compresa una Ford Mondeo, e che ha spostato il suo voto dal partito laburista al partito conservatore, perché essendosi guadagnato tutto da solo non ha intenzione di vedersi aumentare le tasse per sovvenzionare indirettamente fannulloni e professionisti dell’aiuto pubblico. È una generalizzazione e non può ovviamente identificare l’intera generazione cresciuta nelle contee del sudest dagli anni Sessanta in poi, ma può aiutare a comprendere anche i movimenti del tifo, ovvero perché il West Ham abbia così tanti supporter che arrivano da quelle zone. E attenzione, non deve ingannare il fatto che le vetture della metropolitana provenienti da est siano molto meno piene di quelle che vengono dalla direzione opposta, nei giorni delle partite: per quanto possa sembrare agevole prendere la District o la Metropolitan Line ai capolinea di Upminster, lo è molto di più prendere il treno da una di quelle due contee, scendere a Stratford o West Ham e fare il breve percorso all’indietro. È anche per questo motivo che due tifosi ai quali ho chiesto un parere hanno affermato che lo spostamento allo Stadio Olimpico farà risparmiare tempo a loro e a tanti altri nella medesima situazione: basterà scendere a West Ham e fare una fermata di metro con la Jubilee, o direttamente a Stratford.

Ovunque sia insomma questo East End, o quel che ne è rimasto, la ricerca continua, nell’utopia di trovare nel presente quegli appigli di passato che mi hanno sempre aiutato a sopravvivere. Scendo a West Ham ed esco, prendendo ancora la direzione del Memorial Park con i suoi prati, la sua sensazione di natura cautamente dormiente, gli aerei lontani in traiettoria finale per London City, la punta del monumento-torcia del Parco Olimpico che spunta dall’altra parte. Il percorso è sempre quello verso sudest che porta al memoriale dei cantieri navali, ma proseguo ed esco dal cancello più meridionale, girando poi a sinistra sulla Grange Road. Lascio passare una truccatissima signora in tuta che spinge un passeggino, lasciandomi il dubbio se sia la sventurata mamma o la sventurata nonna della sventurata bambina, e sul marciapiede opposto vado verso l’indirizzo (il 302) al quale secondo un sito web piuttosto affidabile dovrei trovare i cancelli del vecchio Memorial Ground, ancora dipinti di claret&blue, utilizzati come semplici cancelli di un caseggiato. È - lo confesso - una storia che mi ha sempre lasciato perplesso perché ho trovato pochi riscontri se non quello del Thames Ironworks Heritage Trust, ma anche questo fa parte della scoperta. All’indirizzo però non c’è nulla di tutto questo e allora torno indietro, dopo avere oltrepassato le solite casette inglesi in fila, di quelle che nei primi tempi adoravo perché singole - anche se una attaccata all’altra - e dunque sottratte al berciare dei condomini, ma che con il passare degli anni mi hanno messo sempre più tristezza per lo squallore che le contraddistingue, in zone come queste, colate di cemento che neanche sul retro trovano respiro in un po’ di verde.

L’idea iniziale di mangiare qualcosa al Grange Fish & Chips House al numero 344, i cui infissi portano i colori del West Ham, svanisce dopo averne visto il temporaneo affollamento, ma la decisione si rivela fortunata: mentre infatti scatto fotografie a una bandiera inglese un po’ rabberciata che gira al vento proprio accanto al muro esterno del locale mi rendo conto che lo stendardo è issato in cima a una cancellata… claret&blue: quella che cercavo! Era 20 metri a sinistra dell’uscita del parco ma nemmeno l’avevo vista perché seguendo le indicazioni ero andato subito dal lato opposto, e invece è qui. Colori vivaci glorificati dal cielo grigio, una specie di cassetta delle lettere col disegno di un guerriero medioevale appoggiato alla sua spada, i due martelletti incrociati, le punte dei cancelli con la foggia a fiore aperto simile a quella dei John Lyall Gates del Boleyn Ground. Surreale trovarli qui, anche se era il luogo in cui si trovavano fin dall’inizio, come cancelli di ingresso al monumentale stadio: accanto a uno scarno negozio di fish&chips, a guardia di una scalinata grezza e di un garage, appena divisi, grazie a un telo, da un cortile nel quale giacciono abbandonati due materassi. La gloria di un tempo e la modestia di oggi, anche se la gloria è più quella edificata dalla memoria e dall’emozione e dall’amore per il passato, che ai contemporanei tanto glorioso probabilmente non era parso. Cedendo al feticismo degli oggetti tocco la cancellata e mi intriga pensare che sia stata fatta oltre cento anni fa e che a farla sia stato magari uno degli stessi operai dei Thames Ironworks che facevano parte della squadra e dunque giocavano in uno spazio di cui essi stesso avevano eretto i confini. Sto lì qualche minuto, a verificare quante fotografie diverse di un banale cancello si possano scattare senza sentirsi babbei, poi mi rendo conto che non è che restando mezz’ora e non un quarto d’ora un fantomatico spirito del luogo possa ispirarmi di più, e torno verso West Ham, soddisfatto però della scoperta e dell’esplosione cromatica (eh sì) che quella struttura claret&blue ha portato alla mia giornata.

Se proprio devo mangiare fish&chips lo faccio allora al Queen’s/Queens appena fuori dalla metro Upton Park, trovando con un colpo di fortuna il tavolino in fondo temporaneamente vuoto: era l’unico che mi interessava perché è quello adagiato alla parete sulla quale sono appese numerose fotografie del West Ham United, quasi tutte risalenti agli anni Settanta, Ottanta e Novanta. Il cimelio vero, la maglia autografata di , il proprietario però ce l’ha a casa, come rivelerà a fine stagione a Emanuele Corazzi di Fox Sports. L’angolo col tavolo con vista foto è decisamente modesto e angusto e soffre del viavai ingannevole di clienti che scambiano due porticine dello staff per toilette, ma c’è un problema più concreto: riuscire a non sprecare cibo e dunque finire la gigantesca porzione che mi è stata servita. Uno strato multiplo di chips - dunque le patatine all’inglese, tagliate spesse - sovrastato da un povero ex merluzzo lungo almeno 20 centimetri, e con la impanatura probabilmente spessa il doppio rispetto alla quantità effettiva di pesce. 4,50 sterline il tutto, comprendente anche una bibita: non lo condisco come fanno i locali, che trovano i botticini con ketchup, maionese e altri intrugli sul tavolino fuori dal locale, ma nonostante questo imbarazzante tentativo di stare leggero la digestione non la completerò fino almeno a metà del secondo tempo della partita, e considerando che nel momento in cui finisco il poco fiero pasto manca un’ora al calcio d’inizio è tutto dire. Per assurdo, per diluire un pasto così drammaticamente pesante e insalubre sul piano anche salino mi infilo immediatamente nel negozio due porte più in là, il Percy Ingle di Upton Park, e prendo una piccola ciambella dolce.

E poi c’è il percorso verso lo stadio, che provoca qualche turbamento. Alla settima partita della stagione, infatti, lo scenario lo conosco praticamente a memoria, chiosco dopo chiosco, suono dopo suono, e la tendenza è quella a tirare dritto verso l’obiettivo del cancello 40 o 41 senza guardare troppo in giro, ma al tempo stesso c’è la consapevolezza che ogni passeggiata verso il Boleyn Ground è il rintocco di un conto alla rovescia verso un momento in cui tutto questo finirà senza avere mai più seguito. Una sensazione strana, sospesa tra la recentissima salita di battito cardiaco per la “scoperta” della cancellata del Memorial Ground e la consapevolezza che questo percorso verso lo stadio sta diventando - orrore - quasi monotono. Uno sguardo vano alla disponibilità di spille da Lee, che calza commoventi anfibi Dr.Martens, la realizzazione spaventata che nonostante pesce, patatine e ciambella il profumo di hamburger e cipolle scottati alla piastra mi attira, il rito della tesserina e pochi minuti dopo sono al mio posto, come sempre deserto ai lati, perché tutti, che siano giovani o anziani, aspettano di salire quando ci sia qualcosa da vedere o ascoltare. È un discorso già fatto ma davvero non sono più i tempi in cui dovevi entrare due ore prima e per passare il tempo leggevi il programma ufficiale se riuscivi a stendere le braccia o semplicemente parlavi col vicino o cantavi, per cui il sospirato calcio d’inizio era al tempo stesso una liberazione e il canale di uno sfogo. Il riscaldamento con le porte mobili non suscita alcun interesse, anche i tifosi ospiti paiono placidi, sommersi in eventuali canti dalla playlist sparata a massimo volume, e la novità è data solo dalla fotografia di Louisa Johnson, ragazza dell’Essex (…) abbonata West Ham che è finalista di X-Factor (e lo vincerà quella sera stessa), mostrata sugli schermi: la Johnson ha le braccia incrociate e stavolta il gesto vale sia per lo show televisivo sia per il club. Si torna subito alla norma e si viene poi teleguidati all’esecuzione di I’m forever blowing bubbles prima all’ingresso delle squadre e poi sul calcio d’inizio, con tradizionale sforamento nei primi secondi di gioco.

Ecco, il gioco. Gli Irons vengono dal pareggio 0-0 a Old Trafford contro il Manchester United e dunque è dal 24 ottobre che non vincono, dalla partita insomma contro il Chelsea. Da quel momento, in cinque partite, tre pareggi e due sconfitte. Manca Payet e l’impressione generale è quella di un periodo di trasformazione e metamorfosi, con destinazione ancora sconosciuta. La linea difensiva scelta da Bilic vede da destra Tomkins, Collins, Ogbonna e Cresswell, davanti a loro Song come boa e ai suoi lati Kouyate a destra e Noble a sinistra. Largo a destra Antonio, che ha giocato anche a Manchester contro lo United ed è alla prima presenza da titolare a causa dell’infortunio di Moses, a sinistra Zarate e in mezzo Andy Carroll, dato che Sakho è fermo per l’infortunio subito nell’ultima in casa contro il West Brom. Di là, Mark Hughes mette Butland in porta, solito quartetto difensivo con Glen Johnson - formatosi al West Ham, è di Greenwich, appena a sud del Tamigi - Shawcross, Wollscheid e Pieters, davanti a loro Cameron e Whelan poi Afellay, Van Ginkel e Arnautovic trequartisti alle spalle di Bojan, soluzione ultimamente gradita, e probabilmente efficace contro due centrali dalla gamba non lesta. Hughes - che se si chiamasse Bianchi o Jimenez sarebbe certamente più stimato come allenatore, ma ha la colpa di essere britannico e di non darsi arie da guru - ha azzeccato la lettura del West Ham: i suoi giocatori infatti non solo difendono con visibile solidità e compattezza, ma ognuno di loro segue per qualche metro l’uomo che capita nella sua zona e così facendo gli impedisce di girarsi rapidamente quando riceve la palla. Senza Lanzini e Payet manca la creatività negli spazi stretti, quella che con un uno-due ti spalanca 10 metri di campo in cui acceleri anche se non sei un fulmine, e il gioco è spesso bloccato e obbligato a ricostruzioni da zero, con aperture sulla fascia che rivelano qualche prospettiva interessante. Non per nulla a un certo punto Collins e Ogbonna ricorrono al lancio lungo per Carroll, che a sua volta in altri momenti rientra per giocare palla, attirare su di sé la difesa e aprire, ma con poco successo. Di là Arnautovic ha un paio di occasioni e colpisce la traversa su calcio di punizione deviato, il gioco passa molto per i piedi di Afellay e Van Ginkel ma in mezzo il West Ham chiude bene e i cross non sono una risorsa dalle buone probabilità, considerando la statura del centravanti presunto, Bojan. Antonio impressiona per le sue rimesse laterali lunghe, quasi dei corner - curioso che lo si noti contro lo Stoke City, che ne aveva fatto un capolavoro di arte povera ai tempi di Rory Delap - e per la sua costante tendenza ad accentrarsi partendo dalla fascia destra: un suo tiro teoricamente pericoloso è però troppo centrale e Butland lo ferma. È del resto così che aveva segnato tanto con la maglia del Nottingham Forest, e oltre alla possibilità di partire palla al piede c’è anche quella di ricevere una spizzata di testa di Carroll. È forse l’energia di Antonio quella che colpisce di più in una partita frenetica e a tratti in apnea, nella quale anche l’infaticabile lavoro di Noble in chiusura passa in secondo piano. Visto che non si batte chiodo, al 64’ Bilic mette Valencia per Song e passa al 4-2-3-1: da destra, Noble e Kouyate, Antonio, Zarate e Valencia, davanti Carroll. Niente da fare e all’83’ altro cambio, Jelavic per Antonio (tutti in piedi ad applaudirlo, un leone) e una nuova versione del 4-2-4 a doppio taglio, perché così sbilanciato il gol lo puoi anche prendere: Zarate a destra con frequenti tagli, Valencia a sinistra, Carroll e Jelavic in mezzo. Lo Stoke City al 56’ ha messo Mame Diouf al posto di Van Ginkel retrocedendo Bojan a trequartista, e tra 66’ e 68’ entrano anche Walters al posto di Afellay, con la medesima posizione in campo, e Adam al posto di Cameron, sempre come coppia con Whelan. Ah, i minuti di queste sostituzioni li ho verificati dopo, sul web: dall’intervallo della partita contro il West Brom, infatti, lo schermo con lettere elettroniche, una sorta di orologio al quarzo anni Novanta attaccato alla parete della Sir Trevor Brooking Stand, è spento. Essenziale, riportava solo il punteggio e i minuti, ma ora che è apparentemente privo di vita l’unica maniera di conoscere a che punto siamo è quello di leggere lo schermo all’angolo con la East Stand: peccato che i numeri abbiano dimensioni da visita oculistica e non si possa nemmeno far partire il cronometro sul cellulare, che è perennemente a rischio spegnimento. Il finale è frenetico e confuso, con un palo di Zarate, due parate di Butland e un salvataggio di Johnson quasi sulla linea contrapposti a due imprese di piede di Adrian su Diouf, in un ambiente che al fischio di chiusura pare esausto come le due squadre in campo, e consapevole che è un periodo così e che ci vuole una svolta, ma non si sa da parte di chi e come. L’importante, però, è che riparino o riaccendano l’orologio. 8

YES! (SOUTHAMPTON)

Lunedì 28 dicembre 2015, ore 17.30: West Ham United-Southampton 2-1 (Jenkinson autorete 13’, Antonio 69’, Carroll 79’)

WEST HAM Adrian - Tomkins, Collins, Ogbonna, Jenkinson - Noble, Kouyate, Song (Lanzini 46’) - Antonio, Valencia (Obiang 87’), Zarate (Carroll 46’).

SOUTHAMPTON Stekelenburg - Martina (Yoshida 70’), Fonte, Van Dijk, Bertrand - Wanyama, Romeu - Tadic (Ramirez 75’), Davis, Mané (Juanmi 75’) - Long.

Alitalia 148 Milano Linate 7.00 - Bruxelles 8.35 KLM 1724 Bruxelles 10.40 - Amsterdam 11.45 British 2761 Amsterdam 13.45 - Londra Gatwick 14.50 29 dicembre Ryanair 8729 Londra Stansted 8.00 - Milano Malpensa 11.05 Forse la trasferta più breve di tutte, la partita e poco più, e le complicazioni di un periodo in cui viaggi per lavoro mentre tutti viaggiano per piacere e fanno aumentare i prezzi. Ecco il motivo delle acrobazie per il volo di andata. Troppo costosa qualsiasi combinazione a pagamento, nonostante il fatto che si giocasse alle 17.30 e dunque ci fossero i margini temporali per poter fare scali, ho fatto ricorso al fondo di miglia accumulate negli anni e le ho usate per un biglietto Italia- Amsterdam: da lì, a poche sterline, un volo British Airways. Il che come si capisce ha voluto dire quasi 9 ore complessive tra partenza e arrivo, ma l’alternativa era non arrivare proprio. Oddio, ci è mancato poco lo stesso: a causa della sospensione del servizio ferroviario tra Gatwick e Londra non è possibile utilizzare né il Gatwick Express né Southern né il Thameslink (costa meno, ci mette un po di più) e dell’EasyBus prenotato a ben una sterlina e mezzo non c’è traccia all’ora prevista, le 15.20. Ne arrivano due diretti altrove e a un certo punto chi è in attesa sale su un terzo che teoricamente avrebbe preso un’altra direzione, ma che viene adattato alle circostanze dalla flessibilità dell’autista, forse non molto interessato ai dettagli dato che parlerà al cellulare per tutto il viaggio a voce alta e in una lingua incomprensibile e fastidiosa. E dato che gli sono seduto praticamente accanto (siamo in tre nei posti anteriori, conducente e due passeggeri), mi affretto subito a mettere le cuffiette e ascoltare musica pur di non dover sentire quella cantilena cacofonica. Ha ragione una certa persona che conosco: per avere qualità si deve pagare una cifra adeguata, non posso pensare di viaggiare comodo con l’equivalente di 2 euro. È comunque tutto calcolato, se non altro sul piano logistico: si scende a Waterloo, si prende la Jubilee Line, si cambia a West Ham e via. Solo che tra partenza in ritardo, un po’ di traffico, e la lentezza di alcuni passeggeri a scendere si fa tardi. Molto tardi. La metro la prendo alle 17.13, ovvero 17’ prima del calcio d’inizio, esco da Upton Park alle 17.35, prendo in tuffo un programma della partita e la fanzine OLAS (ha il prezzo anche in euro, 5), non ipotizzo neanche di mangiare qualcosa e mentre sono all’altezza dei John Lyall Gates sento arrivare dallo stadio un’esultanza moderata, non dilagante, e capisco che deve avere segnato il Southampton. Di corsa all’angolo con la Castle Street, tesserina, scale a due alla volta ma a un certo punto rallento, in un tratto completamente vuoto, e ascolto. Sensazione surreale dal punto di vista sonoro: se guardate su YouTube le immagini di un qualsiasi gol riprese da uno spettatore, dunque non coperte dalla telecronaca, noterete che tra il tiro e l’impatto con la rete c’è una frazione di secondo di quasi silenzio, di sospensione del respiro, di attesa. Un silenzio che se isolato in sala montaggio, dunque ricorrendo alla suddivisione fotogramma dopo fotogramma, o frame dopo frame, risulta quasi totale, quasi immacolato: e contrasta con l’esplosione di esultanza subito successiva.

Ecco, in attesa di andare al mio posto, per alcuni secondi non ho conforti visivi, non ho collegamenti con la realtà se non tramite il suono: e a un certo punto si percepisce un fremito crescente, 3-4 secondi di palese eccitazione agonistica, poi quell’attimo di sospensione nel quale c’è persino il tempo di stringere le spalle, aspettando il boato, e invece c’è un flebile rumore di delusione. Ma quella porzione di secondo di totale silenzio, di fiato trattenuto, è un elemento che sempre più percepisco come reale, umano, carnale, moltiplicato per 35.000 quasi a dare un polmone gigantesco allo stadio, a dargli vita. Una percezione che senza uno spunto particolare, anzi con il timore di apparire blasfemo nell’accostamento tra sport e storia tragica, mi fa pensare a quando nell’East End cadevano le V1 e V2 tedesche e il ricordo di molti, angosciato, era non tanto visivo quanto sonoro: le sentivano magari arrivare, con quel rumore basso e persistente, ma un attimo prima dello schianto c’era un silenzio assoluto nel quale il cuore quasi si arrestava dal terrore, assieme al fiato e alla speranza. Ripeto, non voglio essere offensivo e mescolare calcio e vita, ma è questa la netta, immediata, soffocante visione che ho avuto, nel momento in cui una azione potenzialmente pericolosa (immagino) del West Ham si è liquefatta nel nulla.

Chiedendo scusa al mondo intero e parenti, mi siedo al posticino 34: è lasciato completamente libero. Ciao ciao, stretta di mano a destra e cenno di saluto a sinistra, e cerco di capire cosa sia successo: l’orologio sulla Sir Trevor Brooking Stand è drammaticamente spento, lo schermo all’angolo con la East Stand mostra lo 0-1 ma il nome dell’autore del gol è scritto troppo in piccolo perché io riesca a leggerlo, e non mi quadra il fatto che occupi tutto lo spazio disponibile sotto il logo mentre i Saints hanno solo un giocatore con tante lettere. È il portiere Stekelenburg, e in quel momento penso che o si tratta di un errore o mi sono perso qualcosa di davvero memorabile, anche se a danno della squadra che sto seguendo. Per fortuna il cellulare, ancora vivo nonostante l’uso intensivo e sprecone sul furgoncino, mi comunica che il gol del Southampton è stato un autogol di Jenkinson e questo spiega il motivo della scritta così lunga (Jenkinson og, own goal).

Dunque, chi gioca? Il West Ham va sull’usato sicuro. Sicuro del pareggio, verrebbe da dire, dato che dopo lo 0-0 contro lo Stoke City sono arrivati un risultato identico a Swansea e un 1-1 al Villa Park contro i cugini di colore, peraltro squadra così malmessa da fare tenerezza. Con Reid sempre infortunato, davanti ad Adrian ci sono Tomkins, Collins, Ogbonna e Jenkinson, novità su quel lato per quest’anno, perlomeno. Kouyate àncora di salvataggio della difesa con Noble alla sua destra e Song alla sua sinistra. Il sito del West Ham indicherà poi un 4-2-3-1 ma è un errore, perché ancora una volta i movimenti dei due mediani sono praticamente speculari e indicano appunto un supporto parallelo: nulla di grave, basta osservare con attenzione. Da destra, in avanti, Antonio, Valencia come punta centrale ovviamente molto mobile e Zarate. I Saints hanno il quartetto difensivo Martina, Fonte, Van Dijk, Bertrand, Wanyama sul centrodestra di centrocampo affiancato da Romeu e un mobile trio alle spalle di Shane Long, con Davis che è il meno spericolato dei tre e ripiega spesso, con possesso di palla al West Ham, quasi a fianco dei mediani. Da quando osservo in poi, circa dunque dal 20’, gli Irons sembrano più rigidamente schierati 4-1-4-1 che non in passato, con Antonio e Zarate più spiccatamente sulla linea di Noble e Song, ma è forse anche la conseguenza di una partita che i Saints stanno dominando: primi su tutte le seconde palle (o palle vaganti), reattivi, organizzati e mai arruffoni, con un compagno di squadra sempre disponibile a ricevere il passaggio con il corpo nella posizione giusta per poter immediatamente giocare la palla senza perdere tempo. Urli di disapprovazione a Zarate quando per l’ennesima volta non copre - e dire che in partite precedenti non era stato così - e varie occasioni per il Southampton, un paio specialmente per Davis, che per paradosso è meno pericoloso di Tadic e Mané, colleghi di reparto, e dunque in quelle circostanze arriva relativamente libero a poter colpire verso la porta.

L’intervallo come al solito abbassa la tensione e il fermento, anche se nel mio caso è benvenuto perché rimetto un pochino a posto le mie cose, stipate nello zainetto. Intorno, però, sguardi ansiosi e posture scomode di chi teme un inverno ancora più lungo, sul campo. Solo sul campo: anche stavolta infatti c’è qualche goccia di pioggia ma non fa assolutamente freddo, e in tutta sincerità il tempo non è per nulla un fattore decisivo nella godibilità della giornata, condizionata piuttosto da quello che accade in partita. La ripresa vede parecchie novità, e successivamente Bilic dirà che avrebbe voluto effettuare i due cambi già a metà del primo tempo, ma non aveva voluto umiliare i giocatori, e per fortuna il Southampton non aveva segnato il 2-0 come avrebbe meritato. Carroll sostituisce Zarate e Lanzini sostituisce Song, e ci sta perfettamente. Dunque Valencia a sinistra e Carroll in mezzo, e un 4-2-3- 1 stavolta vero, con Lanzini trequatista e Noble alla sinistra di Kouyate, mentre Jenkinson torna a destra e Tomkins a sinistra.

Al 60’ si scambiano posizione sia i due di centrocampo sia Valencia e Antonio, può essere stata la mossa decisiva. Al 69’ infatti Antonio tagliando dalla sinistra travolge tutti, entra in area, accenna al tiro, cade su un contrasto ma mentre è sdraiato viene colpito in testa dal rinvio di Wanyama e la palla prendendo una strana traiettoria parabolica finisce in rete. È il primo gol di Antonio con il West Ham e il fatto che nemmeno si sia accorto di averlo segnato è al tempo stesso imbarazzante ed esilarante, ma il pareggio cambia l’atmosfera del Boleyn Ground e rinasce, dalle ceneri di un primo tempo sommesso e di un intervallo muto, l’entusiasmo che non si vedeva e soprattutto sentiva da qualche settimana. Nel giro di due altri minuti il Southampton sostituisce Martina - stesso lato di Antonio - con Yoshida e gli Irons hanno due occasioni, aumentando così il livello di febbre all’interno dello stadio.

Al 75’ i Saints mettono Ramirez - mamma mia - per Tadic e Juanmi per Mané, evidentemente insoddisfatti del gioco dei due esterni di attacco nel secondo tempo, ma 4’ dopo c’è il gol della vittoria del West Ham, anche questo un po’ confuso nello sviluppo, anzi meravigliosamente confuso, da calcio inglese dei vecchi tempi, braccia e gambe e teste che girano vorticosamente in cerca della palla. Valencia riceve la palla sul centrodestra, Van Dijk lo segue ma poi per motivi inspiegabili gli volta le spalle e torna a centro area, dove teoricamente Carroll è già sotto controllo da parte di Fonte mentre Wanyama copre con lo sguardo Lanzini. Valencia può dunque girarsi tranquillamente e crossare, Fonte anticipa Carroll in scivolata alzando la palla a seguire, Antonio arriva come un tornado da sinistra anticipando Yoshida che non ha compreso il pericolo e colpisce di testa, traversa interna, palla che rimbalza e Carroll la butta dentro di testa girando l’interruttore al delirio, proprio sotto la Bobby Moore Stand. Tra i sobbalzi e gli abbracci intorno a me cerco di capire cosa diavolo volesse fare Van Dijk - risultato poi completamente inutile, dato che né ha ostacolato Valencia né è arrivato in tempo a contrastare l’autore del gol - poi mi rendo conto che è più saggio spalancare i polmoni, gli occhi, le orecchie e godermi i suoni di quei momenti, l’onda lunga di quello “yes!”, che poi si strozza in un più verosimile “yee!” e che rappresenta uno dei suoni che secoli fa mi hanno fatto innamorare del calcio inglese perché più musicali ed eleganti del “gol!” italiano e latino, e oltretutto lasciato puro nella sua genesi e nel suo trascinarsi, senza contorno volgare di trombette, tamburi e peppereppé.

Un saluto definitivo alla biro con cui ho preso appunti stasera, volata chissà dove sullo scatto di tutti al secondo gol, ma per fortuna ho la scorta che neanche una cartoleria, e faccio in tempo a segnare il canto che si alza subito dalla East Stand e viene ripreso da quasi tutti. Se i tifosi dei Saints, molto vivaci, avevano intonato nel primo tempo il loro bellissimo Oh when the Saints/go marching in, ora il boomerang canoro li colpisce con la versione Oh when the Saints/go 2-1 down (vanno sotto 2-1), per poi lasciare il posto a semplice esultanza, non più solo un sospiro di sollievo, al fischio finale, che certifica la prima vittoria in casa in due mesi e forse - ingannevole, infida, traballante - la sensazione che l’inverno tecnico possa poi non essere così lungo. Un brusio che accompagna l’uscita dallo stadio, affrettata per molti, moderata per alcuni, lentissima per il sottoscritto. Questa sera, per ovvi motivi, non si può prendere alcun volo di ritorno per cui la calma può consentire di scattare qualche foto. A qualsiasi cosa, salvo accorgermi poi che ne avevo fatte di uguali, agli stessi soggetti, già altre volte, ma c’è sempre la paura di perdersi qualcosa. I cancelli interni che danno sui gradini verso la tribuna, i cartelli dei bar intitolati ai vari giocatori, i semplici tratti di colore claret&blue sui muri in un dettaglio da cui sembrano irrompere nella inquadratura, la giacca arancione dello steward che ti invita a uscire perché bisogna chiudere, le scale, una sbrecciatura nel soffitto dell'ammezzato, il portone, il busto di Bobby Moore nell'ingresso nobile della tribuna, il buio umido della Castle Street, le file docili lungo la Priory Road che permettono altri scatti esterni al Boleyn Ground, lo scuro delle pareti che contrasta magnificamente con la luce che ancora proviene da dentro.

Il lettore forse si aspettava una descrizione roboante del post-partita di una gara così bizzarra, ma la realtà, non solo di questa sera, è che una volta terminata la gara e ascoltata e cantata con maggiore foga la versione finale di Bubbles il clima emotivo precipita e si dissolve in tante persone quante sono quelle che stanno uscendo e dirigendosi chissà dove, perlopiù verso casa dato che è comunque un lunedì, seppur festivo. C'è quasi silenzio nel percorso che dalla Priory Road, sfiorando sulla destra il suggestivo deposito di autobus che è lì da sempre, scarta poi verso sinistra in una semicurva solo pedonale che sulle mappe è scura, quasi non fosse considerata un passaggio, e sfocia nella Tudor Road, che si può prendere per evitare gran parte del caos della Green Street. Poi magari è bizzarro fare tutto questo per tornare indietro in bus verso la Barking Road, con le peggiori intenzioni dal punto di vista gastronomico. Scartate fin da agosto le opzioni apolidi, ovvero i locali che sono uguali qui come a Manchester o Milano Rogoredo, può andar bene un pub, e nella zona c'è il famoso trio di sorelle, Boleyn Tavern, The Central e Denmark Arms: tutti risalenti a fine Ottocento, e tutti in qualche modo protetti dal punto di vista architettonico perché rappresentano testimonianze di un passato molto caratteristico.

Sul presente non si sa, e in particolare il Central è stato anche colpito dal provvedimento di sospensione della licenza, nel 2013, dopo l'aggressione subita da un cliente. Qui iniziò a cantare a metà degli anni Venti Vera Lynn, nata proprio a East Ham, 99 anni compiuti il 20 marzo 2016, una delle personalità dello spettacolo più famose del Regno Unito per gran parte del secolo scorso: durante la Seconda Guerra Mondiale tenne concerti e condusse una trasmissione radiofonica di conforto alle truppe, rappresentando con la sua We'll meet again («Ci rivedremo») un segnale di speranza in tempi bui. Il fatto che a 92 anni sia entrata ancora in classifica, nel 2009, con una raccolta di suoi successi indica la popolarità di questa ragazza dell'Essex che però mai fu una rappresentazione anzitempo della Essex Girl, come si può anche pensare ricordando che in quegli anni East Ham faceva ancora parte della contea, non della Londra metropolitana.

Indeciso tra una delle tre sorelle-pub della Barking Road scelgo… la quarta, il Miller's Well, sempre lungo la via ma dopo l'incrocio con la High Street, quasi di fronte al municipio di East Ham. Ho scritto Miller's Well come dice l'insegna ma come sempre l'apostrofo, quando c'è, balla apparentemente a piacimento di chi lo scrive. Anche questo è un pub molto antico, di fine Ottocento, e le decorazioni del suo interno mostrano una forte attenzione al passato e ai suoi regali. C'è confusione ma moderata, ci si può stare senza rischi di sovraffollamento e poi come ogni pub vetusto ha molti spazi ritagliati ovunque, anche in nicchie da un tavolo e quattro posti, per cui un tour alla ricerca di qualcosa di specifico deve essere molto accurato per non rischiare di perdere nulla. Le decorazioni, dicevo. Perlopiù quadretti con testi che raccontano eventi o luoghi del circondario, a partire dall'origine del nome stesso del pub: well vuol dire pozzo, e in questa zona che da sempre convive con acque ferme o in movimento non stupisce che ci fosse una sorgente con apparenti proprietà curative, chiamata appunto Miller's Well, e segnalata intorno al 1818. All'epoca, diremmo noi, lì era tutta campagna, ma con fine Ottocento arrivò lo stesso sviluppo che portò al prolungamento di ferrovia e metropolitana, distanti circa 500 metri, e il pozzo venne coperto. Resta solo il nome, e va comunque rilevato come il Miller's Well non sia un pub indipendente ma appartenga alla catena (JD) Wetherspoon, proprietaria di centinaia di locali simili nel Regno Unito, a garanzia di un servizio costante ma anche, ovviamente, a detrimento di chi vorrebbe sempre e solo un locale completamente indigeno anche come scelta di birre e cibo. Un altro quadretto racconta la storia dei tanti mulini (mill) della zona, un altro ancora narra la progressione con cui i cantieri navali e le darsene sul Tamigi crebbero e si svilupparono verso per accomodare un numero sempre maggiore di navi e soprattutto navi sempre più grandi: Victoria Dock nel 1855 dove c'erano le terre paludose del sud di Plaistow, Royal Albert Dock nel 1870 e nel 1921, dopo la creazione di un ente governativo che regolasse questo settore, il King George V Dock, in grado nel 1939 di far attraccare persino il Mauretania, transatlantico varato nel 1938 che non va confuso con l'omonimo del 1904, smantellato nel 1934. Altre foto di edifici della zona, disegnati o immortalati molti decenni fa, una sciarpa del West Ham, sulla parete di una stanza laterale un poster con i distintivi di vari corpi militari e un elenco di caduti della zona, «local heroes» delle varie guerre.

In generale, l'impressione di un posto nel quale barricarsi casomai dovesse esserci una invasione, ma trattasi di evenienza lontana, anche perché è molto più efficace e indolore l'attuale infiltrazione uomo dopo uomo, la goccia che scava anche la pietra più resistente. Solita trafila dei pub, una volta trovato un posto a sedere: vai al bancone, ordini e paghi, e la bibita (acqua frizzante, magari blasfema in un pub ma cosa altro può scegliere un astemio al 100% e pure schizzinoso?) te la porti da solo mentre il piatto arriverà quando sarà pronto. 5,50 sterline per un piatto di fish&chips e l'acqua e va benissimo perché nel prezzo sono compresi involontariamente pure la visita ai vari locali, la visione dei quadretti appesi e l'intrattenimento fornito da alcuni frequentatori, compresi tre tifosi del Southampton che si esibiscono, dopo un po', nel loro Oh when the Saints, convinto anche se un po' malinconico per via della sconfitta e del fatto che la partita, adesso, sembra già vecchia di due giorni, per la tranquillità che tutti mostrano.

Dopo una mezz'ora di analisi sociologica spicciola è il momento di andare verso Mile End, sesta fermata della metro verso ovest da East Ham e zona che ho in testa da tantissimi anni, da quando lessi che uno dei gruppuscoli più guarniti degli hooligan del West Ham era la Mile End Mob che veniva proprio da qui. All'uscita della metro c'è poco di edificante: due mendicanti seduti per terra, un predicatore all'angolo, una signora che rovista in un cestino, e sulla strada - la Mile End Road - il ponte «verde» che collega due estremità di un parco che si estende da nord a sud e comprende, più sotto, il Mile End Stadium, con pista per l'atletica leggera. La stanza per la notte è al New Globe Hotel, in pratica nello stesso edificio del New Globe Pub: di solito un'accoppiata disastrosa sul piano della pulizia, del decoro e della dignità, ma la sorpresa è invece positiva, anche se il prezzo (61 euro) è un filino eccessivo per i miei gusti. L'ingresso è davanti al Regent Canal che passa di lì e finisce poi nel Tamigi a Limehouse, probabilmente suggestivo di giorno se lo è già alla luce della tarda serata, ma lo scoprirò semmai la prossima volta. Il turismo è finito, il mattino dopo c'è il bus alle 4 per Stansted, e da lì il volo. Sembra più vicina la prossima partita, sabato alle 12.45 contro il Liverpool, di quanto non lo sia quella finita 12 ore prima, contro i Saints. Senza un motivo. 9

E THE Q GOD SAV UEENS (LIVERPOOL)

Sabato 2 gennaio 2016, ore 12.45: West Ham United-Liverpool 2-0 (Antonio 10', Carroll 55')

WEST HAM Adrian - Tomkins, Collins, Ogbonna, Cressswell - Noble, Kouyate, Lanzini (Obiang 39’) - Antonio (Jenkinson 86’), Carroll, Valencia (Payet 86’).

LIVERPOOL Mignolet - Clyne, Lovren, Sakho (Allen 82’), Moreno (Smith 61’) - Can, Leiva - Ibe, Firmino (Lallana 64’), Coutinho - Benteke.

British Airways 543 Milano Linate 7.30 - Londra Heathrow 8.35 Ryanair 4214 Londra Stansted 19.45 - Parma 22.40 Alitalia 409 Londra Heathrow 20.00 - Roma Fiumicino 23.30 Le righe qui sopra non sono un errore: ho fatto un’andata Italia-Londra al mattino e due ritorni nella stessa sera. Come mai? Semplice: il ritorno con Ryanair in realtà l’ho prenotato ma non l’ho mai preso, e ho dovuto ricorrere in emergenza, e con estrema fortuna, al volo Alitalia per Roma, trascorrendo poi la notte in aeroporto - nella zona ritiro bagagli, dato che nel terminal una volta superate le porte della dogana c’è sempre un freddo feroce e per fortuna lo sapevo da precedenti esperienze - per poi prendere il treno la mattina presto, in condizioni intuibili. Il volo da Stansted l’ho perso perché a Mile End non è mai passato il pullman della National Express delle 16.35 che avevo prenotato: ne è sfilato uno che ha tirato dritto, poi più nulla, e anche il cuscinetto di 45 minuti che per precauzione avevo lasciato se n’è andato. Mentre cercavo altri voli a prezzi abbordabili, un trio di ragazze calabresi, fin lì impegnatissime a fumare sotto il cartello No Smoking, ha fermato un taxi, che ha purtroppo frenato prima di travolgerle, e se n’è andato via senza neanche chiedermi se volessi salire, ma meglio i disagi che stare un’ora in tale compagnia, oltretutto così pesantemente truccata.

La soluzione l’ho trovata grazie alla buona sorte, di quella però che va cercata. Tardi per arrivare a prendere qualsiasi volo da Stansted, London City è costoso e pure chiuso al sabato pomeriggio, Gatwick non ha voli economici in questo momento e allora, considerando che sono già (!) a Mile End, si fa prima ad arrivare a Heathrow, a patto di partire subito (sono le 17.50), e prenotando dal cellulare non appena la Piccadilly Line, presa a Holborn, torna all’aperto, quasi 45 minuti più in là. Manovra riuscita perfettamente, peccato solo il prezzo: se considerate che qualsiasi volo europeo che costi più di 60 euro per me è troppo caro, il biglietto è stato troppo caro. Ma con un piccolo vantaggio: accumulare altri punti e miglia sul conto, potermi fermare all’arrivo a Heathrow (18.55) e cenare al salottino Sky Team, risparmiando così i soldi del pasto serale e tirando il fiato prima dell’imbarco delle 20.00. Non sono purtroppo un attaccabrighe, ma l’email di protesta a National Express l’ho poi scritta, senza avere alcun riscontro positivo. Qualche riga di scuse, e tutti contenti. Loro.

E dire che la giornata era stata tranquilla, quasi esaltante dal punto di vista atmosferico e ambientale, una sorta di estate di San Martino spostata di un paio di mesi. Anzi, a Heathrow una sorpresa: i cancelletti di ingresso alla metropolitana sono difettosi e un inserviente col megafono informa che si può passare lo stesso e che il sistema, leggendo alla stazione di uscita che l’entrata è stata fatta a Heathrow Terminal 5, non addebiterà alcuna spesa. Tutti a bordo, con il lieve timore che qualcosa cambi durante il tragitto e che appoggiando la Oyster Card a Upton Park l’addebito sarà invece quello classico per chi non ha toccato il sensore entrando, ovvero la corsa più lunga. Un’oretta e mezza con questo pensiero è difficile farla passare, ma la realtà dimostra che l’affermazione dello staff era corretta, e uscendo sulla Green Street alle 10.30 è evidente che il prepartita è già iniziato, a giudicare dall’affollamento di tifosi, olio e acqua con chi invece gira con la borsa della spesa e non è minimamente interessato a quel che lo circonda.

C’è il pericolo del deja-vu nel tragitto, del paraocchi su elementi affascinanti ma già visti tante volte, e allora per variare un po’ ci si tura il naso e ci si infila nel Queens Market (opzionale anche qui, come in tutti i luoghi con genitivo sassone descritti nel libro, l’apostrofo, anzi lapostrofo per rimanere in tema), con lo stupore sbadato di chi non riesce a trovare interesse in nessuna delle 20-30 bancarelle (l’affitto dello spazio costa 32 sterline il sabato, 27 gli altri giorni, 93 alla settimana per i venditori fissi), ad eccezione forse di quella del pesce, che anni fa tra l’altro generò una notevole popolarità per un venditore, Muhammad Shahid Nazir, ideatore di una specie di spettacolo commercial-canoro a uso dei clienti. Il cosiddetto “£1 Fish Man” finì pure a X Factor versione britannica, firmò con un’etichetta discografica arrivando al secondo posto della classifica e si esibì anche al Boleyn Ground, ma fu poi giustamente costretto a lasciare il Regno Unito e tornare in Pakistan quando si scoprì che con il suo visto avrebbe solo potuto fare lo studente, e che in sostanza aveva approfittato della rilassatezza dei controlli. Il mercato, segnalato negli ultimi anni da alcune delle tante trasmissioni televisive di cucina che dilagano anche nel Regno Unito, è nato a fine Ottocento, con l’aumento della popolazione della zona, e prende il nome dalla Queens Road che è la stradina laterale a destra subito dopo l’uscita dalla metro: ad un certo punto infatti il numero di bancarelle era tale da ostruire il traffico della Green Street, e i venditori furono costretti a spostarsi di lato. Il Market è ora coperto, affiancato a un palazzone grigio che occupa un intero isolato e potrebbe benissimo essere stato disegnato da un architetto albanese degli anni Sessanta: la sua parte bassa, da cui esce la doppia copertura semicilindrica del mercato, è caratterizzata da sporgenze di forma inesistente nella geometria dei solidi, con decorazioni che non possono rispondere ad alcun gusto estetico pensato e soprattutto approvato da chicchessia. Esattamente sopra il Market c’è un parcheggio, ma salirci attraverso la scala non porta panoramiche se non verso nord, sull’adiacente stazione della metro con i suoi binari disposti su due canali diversi: quelli della metro e quelli della ferrovia, che sono separati perché Upton Park non è fermata prevista dal treno, e sono situati alle spalle del marciapiede dove attende chi va verso ovest.

Scendendo dal parcheggio si torna nel traffico pedonale, nello zigzag alla ricerca di qualcosa di nuovo, tendendo i sensi nella speranza della sorpresa che a metà esatta di questa esperienza cambi la prospettiva di questo percorso. Il The Queens (Pub) è pieno, sorvegliato agli ingressi da guardie giurate che assicurano l'osservanza del divieto d'ingresso ai tifosi avversari, mentre un altro cartello pubblicizza un «wisky» che per la mia inesperienza del settore non so se sia un refuso o una marca particolare. Un sospetto però ce l'ho. Non è particolarmente freddo ma il vigore alcolico dei presenti, anche di chi ogni tanto esce a guardarsi intorno e rientra, pare di quelli adatti ad affrontare un inverno in Antartide, e pure questo però non è una sorpresa. Mi rendo conto, vedendoli, che rappresentano una tipologia umana a me molto familiare per via delle decine di partite viste in Inghilterra ma al tempo stesso quasi aliena rispetto al mio stile di vita, e non solo da adulto: fedele alla mia politica dei viaggi solitari, di osservazione silenziosa della realtà quasi senza interferire per non modificarla con la mia presenza, non ho mai scambiato spontaneamente una parola con alcun tifoso al pub, anche perché credo che chi appartiene a un mondo così diverso dal mio debba essere lasciato in pace, libero di vivere la sua giornata preferita - suppongo che lo sia - senza dover mediare le proprie abitudini con quelle di uno straniero che è pur sempre un intruso in un pianeta che non è il suo.

Hanno la loro pinta in mano, parlano ad alta voce, ridono, scherzano, accennano a rapidi canti, escono, rientrano, passeggiano nervosamente, ognuno di loro un universo a sé, come tutti noi del resto, ma qui si tratta di calcio ed è sempre curioso vedere quanti modi diversi ci siano di sostenere la medesima squadra. La giacca quasi da cerimonia sui jeans e la sciarpa al collo, di quelle a righine sottili perpendicolari alla lunghezza; la felpa con il cappuccio tirato su; la felpa di colore neutro indossata sotto la maglia - di ogni tipo, davvero a ogni passo ci si vede trasportati da fine anni Cinquanta al 2015-16 - che sulla schiena porta un nome storico oppure semplicemente quello del proprietario. Le combinazioni di vestiario che qui oggi non si vedono ma che possono essere realizzate in qualsiasi momento e in qualunque locale, senza evidentemente temere che l'odore della birra - a me così inviso, tanto che cammino quasi in punta di piedi sapendo che il tappeto ne è intriso - possa essere assorbito, o fregandosene, tanto il modo di toglierlo c'è. Una umanità sudata, o meglio umida, in perenne fila per la toilette, sottoposta a continue variazioni di temperatura a seconda di quel che beve o mangia, di quanto sia vicina alle porte, quanto si agiti, quanto abbia addosso, quanto canti, quanto si infervori in discussioni o si sciolga in risate. Non c'è nulla di unicamente Hammers se non nei colori e negli accenti, che pure non distinguo. Non ci sono altre differenze rispetto a un pub a Sheffield o a Norwich, se non forse nella scelta di birre, ma mi colpisce anche stavolta come a creare un microcosmo di relazioni così costanti, calde e riaccese a ogni incontro bastino quattro mura e un tetto a pochi passi da una strada spesso del tutto ignara di ciò che sta accadendo.

L'ideale stereotipato e folcloristico è ovviamente quello del pub strapieno e infiammato di passione a tal punto che da ogni infisso sbilenco o ad ogni apertura delle porte nel viavai di chi entra ed esce tracimano all'esterno cori e fervore, ma non bisogna cadere nella sindrome del selvaggio, cioé nella pulsione a cercare, da turisti (!), elementi che appartengono al nostro immaginario pluriennale e che la realtà si è lasciata alle spalle da tempo. È del resto parte della mia utopia, della mia caccia all'East End per come è stato per oltre un secolo di era calcistica, ma il solo fatto che la stia mettendo in atto implica che le tracce sono poche, e non immediate. Al Queens ora e oggi non c'è quel tipo di incendio emotivo, ma non è l'ora giusta e non c'è la densità giusta, e poi è capitato in passato - e capiterà proprio qui, quattro mesi dopo - di metterci piede proprio quando la miccia si consuma, partono i canti e puoi lasciar correre il registratore per un quarto d'ora senza che vada mai in pausa per assenza di suono.

Nel raggio di pochi metri il Queens Market e il Queens Pub sembrano protagonisti, muti e inconsapevoli, di una guerra di strofe (l'usatissimo «rime» è traduzione errata, a suono) tra rapper, tra quello che era e quello che è: a prima vista, a seconda visita, a terza verifica, a quarto riscontro, la maggior parte dei frequentatori di questi due simboli del quartiere sono persone che hanno poco in comune tra di loro, e che solo nel giorno delle partite si sfiorano in questo modo palese, occupando le rispettive aree in modo rumoroso e lasciandole poi nel silenzio, al calar della sera, tanto che è anche possibile vedere, su una poltrona lasciata lì chissà perché, qualcuno che passa il tempo semplicemente seduto e indisturbato, e se non altro al coperto.

Il marciapiede unico sfila sul lato destro della Green Street oltrepassando un paio di bancarelle e due furgoncini di hamburger, dietro a uno dei quali c'è al numero 442 la casupola dove abitava dopo la Seconda Guerra Mondiale David Gold, il presidente, e per non dimenticare il nome del negozio di parrucchiera che ora occupa lo spazio lo fotografo, salvo accorgermi poi di averlo già fatto altre quattro volte. A proposito di routine e deja-vu… evidentemente automatico come chiudere il gas, appiattito in una memoria che sembra non averne preso atto per la sua banalità. Per inciso, l'insegna del negozio dice «Ceejays», né meglio né peggio di altre. La curiosità è che proprio ieri Jacqueline Gold, la figlia 55enne di David, ha ricevuto dalla Casa Reale la carica di CBE, Commander of the British Empire, la terza in ordine di importanza. È tradizione che tali onori vengano assegnati a inizio anno e nel giorno del compleanno della Regina, e nei media i commenti sono volti alla curiosità per quello che la Gold risponderà alla Regina Elisabetta quando quest'ultima, come tradizione e cortesia, all'atto del conferimento della carica le chiederà conferma del motivo per cui l'ha ricevuta con il classico “and what do you do?” (“Lei cosa fa nella vita?”). Jacqueline infatti, capelli neri corvini e il classico, troppo diffuso aspetto di una persona che cura troppo la propria immagine pubblica e che se ti apre la porta in vestaglia (ma perché, poi?) neanche riconosceresti, ha preso in mano e rigenerato la catena di negozi per adulti Ann Summers, trasformandolo da luogo frequentato - parole sue - da «uomini viscidi con giacconi unti», con le donne divenute ora protagoniste e non comprimarie della maniera in cui - come diavolo si scrivono queste cose senza rischiare il cattivo gusto? - possono trascorrere gradevolmente il proprio tempo in compagnia dell’altro sesso, o da sole. Curiosamente - anzi no - al c’è un grande negozio della catena, in pieno e costante passaggio di pubblico che non pare in alcun modo inibito a varcarne la soglia. Alcune testate criticano oggi la decisione di onorare la Gold, sottolineando la poca dignità dell’attività commerciale da lei risanata, ma gratta gratta e scopri che alla fine l’ostilità dei media nasce dall’appoggio palese della signora per David Cameron, il primo ministro in carica al momento della concessione del titolo nobiliare. Che la signora dia lavoro a centinaia di persone conta meno della sua affiliazione politica, per le testate - qui come da noi - che si fondano e prosperano sul malcelato principio dei due pesi e due misure. Ed è vero che la Gold appartiene alla schiera di imprenditori favoriti dalla ricchezza del padre naturale, ma è anche vero che prima di lei nessuno era riuscito a dare parziale dignità alla Ann Summers.

Vabbé, si torna sulla Green Street, con la mente e con il corpo, e quest’ultimo ha bisogno di un po’ di carburante. La Boleyn Tavern è troppo piena e troppo sguarnita di cibo, la fila dal Ribman - arriva, arriva… - è troppo lunga e giro l’angolo a destra, sulla Barking Road, dopo avere oltrepassato l’ex Green Street Café, al 570 della via. Ex, perché è sparito, e dove c’erano i tavolini sfocianti sul marciapiede ci sono ora lavatrici e frigoriferi messi lì dal proprietario del negozio di elettrodomestici adiacente, troppo interessato a fare affari per preoccuparsi dell’ennesimo ceffone estetico che dà alla via. O forse se ne rende conto, ma vedendo che a nessuno frega nulla del decoro, tra i vicini, forse non si dà troppa pena. La scelta è sul Friend’s, accanto al Newham Bookshop, che altre volte avevo cercato di scrutare e interpretare: l’aspetto mi era infatti sempre parso a metà tra un tradizionale luogo per la colazione, quelli insomma in cui ho il più possibile cercato di mangiare per omaggiare la realtà locale originaria, e un bar con pretese di avanguardia o alternativa, già molto meno gradito. L’unica soluzione è provarci, dopo avere dato, mentre si è in fila e dunque ancora in tempo a defilarsi, un’occhiata al menù che presenta qualche bizzarria come le lasagne ma anche appoggi solidi. Uno di questi è il piatto di pane da toast da coprire con uova in camicia e - non assieme - marmellata. 5,50 sterline, può andare.

L’affollamento crescente non consente purtroppo di trovare un posto solitario, nemmeno nel retro che è all’aperto, sotto un tendone che tiene fuori tutti gli elementi negativi di un tempo comunque ancora benevolo. Due tavoli adiacenti, a sinistra tre generazioni di claret&blue, in senso stretto a giudicare dall’abbigliamento, in toni e scelte diverse (maglie da gioco moderne e antiche, felpe), di fronte a me un signore sui 70, forse 75 anni. Appoggio il quaderno per gli appunti e dopo un paio di minuti al cenno con la testa segue l’inizio di una conversazione. Sì, rispondo, sono qui per la partita, sono partito dall’Italia questa mattina. «Ehi Ken, questo signore viene dall’Italia ogni volta. Che bravo!». Bravo? Non so: basta progettare bene i viaggi per non svenarsi, non è poi una cosa eccezionale e infatti non ho mai capito gli elogi a chi assiste a molte partite. James Goldstein, personaggio colorito che compare a tutte le partite di playoff NBA, è diventato una specie di idolo mondiale ma quella che lo contraddistingue è semplicemente la possibilità economica di fare tutto ciò, non certo la passione. Fosse per quella, quel che fa lui lo farebbero in tanti, e lo stesso vale per me. Ovviamente nel mio caso ci sono le tante ore perse a cercare il modo di spendere il meno possibile, ricorrendo anche - ma non ce n’è mai stato bisogno, a parte il 28 dicembre - a triangolazioni attraverso scali improbabili e senza neanche volgersi a quella Bristol che è diventata un tormentone con alcuni amici, ignari evidentemente delle armi segrete (?) chiamate Dusseldorf Weeze o Francoforte Hahn. Dove puoi arrivare a tarda notte sperando che il volo sia in ritardo, così hai al massimo tre ore da aspettare prima di prendere un volo che arriva a Stansted entro le 8, ed è come se ti fossi svegliato a Londra.

«Ho visto la mia prima partita nel 1953. E sono abbonato dal 1964» dice David, il mio interlocutore, e mi commuovo al pensiero di quello che devono avere visto quegli occhi, di come doveva essere lo stadio, la zona, il mondo, prima del declino, e mi colpisce anche il fatto che sia abbonato dall’anno della mia nascita, che a me sembra lontanissimo. «Ricordo che mi piaceva vedere giocare , una volta in trasferta a Elland Road fu espulso per un litigio con Billy Bremner e io ero lì. Ma in casa ho visto solo una partita nella Chicken Run (la parte bassa della East Stand, quella più vicina al campo, che negli anni Cinquanta e Sessanta era la sede dei tifosi più calorosi, nda), tutte le altre nella West Stand». Arriva, arriva, la domanda: e che farà ora che c’è il trasferimento allo Stadio Olimpico? «Ci andrò, ho intenzione di rinnovare l’abbonamento. Era inevitabile andare via, non possiamo perdere terreno rispetto alle altre squadre e oltretutto la zona attorno al Boleyn Ground non è più come una volta, non la riconosco più. Ogni volta che passeggio qui noto che sono cambiate tante cose, il quartiere ha perso la sua identità storica per cui non è traumatico lasciarlo, anche se dispiace per il vecchio stadio». Parole sante, musica per le mie orecchie perché confermano - anche se sono quelle di un singolo individuo, non della massa - la visione e l’idea che mi ero fatto di questa zona fin dal primo momento in cui ci ho messo piede, quasi 40 anni fa, ovvero di una progressiva perdita dello spirito locale e originario. David viene da Barkingside, che è un quartiere situato però un pochino più a nord delle zone di cui avete letto, e non per nulla la linea della metropolitana è quella rossa, la Central Line, che dopo Mile End piega in direzione nordorientale e ferma infatti, dopo Stratford, a Leyton. Area prevalentemente di tifo West Ham ma influenzata anche da Orient e dalle ultime propaggini del Tottenham: una delle curiosità del luogo è che una piazza è intitolata all’ex arbitro Ken Aston, che pare sia stato l’inventore dei cartellini rosso e giallo, mentre alla locale Ilford County High School ha studiato e giocato Trevor Brooking, che con Billy Bonds, Bobby Moore e forse è il giocatore più amato e rappresentativo nella storia degli Irons.

Saluto David, che ha ancora da consumare metà del suo pranzo, e comincio a entrare con la testa al clima della partita, nonostante le distrazioni visive e sonore. Fuori dallo stadio, proprio di fronte al parcheggio, passa infatti lento un camion scoperto che ha sul cassone alcune ragazze e la mascotte del Pepperami, uno snack a base di salame diffuso da anni nel Regno Unito. Anzi, alla sua prima apparizione avevo anche gradito la sua pubblicità televisiva delirante, incentrata sulle conseguenze infuocate che la versione piccante aveva su chi la ingeriva, ma questa esibizione in una giornata grigia, con altoparlante al massimo, mi sembra completamente fuori posto, nonostante il beneficio temporaneo che la distribuzione dello snack da parte delle ragazze (ne danno tre pacchetti alla volta) possa avere per fare scorta e tappare l’inevitabile languorino di metà partita.

La partita, ecco. Ovviamente molto attesa, e con atmosfera più carica del solito per un kickoff alle 12.45, orario che al di là della vasta presenza di pubblico ovunque resta indigesto agli inglesi. West Ham che non ha Sakho, Reid e Moses, e sceglie a centrocampo la soluzione che si rivelerà migliore nel riassunto della stagione, ovvero Kouyate in mezzo, Noble sul centro destra e Lanzini sul centro sinistra. Dietro, da destra Tomkins, Collins, Ogbonna e Cresswell, mentre davanti Antonio tiene la corsia di destra con Valencia su quella opposta a supporto di Carroll. Mentre un… drone volteggia appena fuori dallo stadio, distraendo alcuni spettatori, il Liverpool, con una bellissima divisa bianca rovinata solo dal nome dello sponsor, mette invece Clyne, Lovren, Sakho e Moreno in difesa, Can e Leiva in mezzo, Ibe, Firmino e Coutinho trequartisti e Benteke punta centrale, dunque un 3+1 creativo e molto pericoloso, specialmente nello stirare e allargare una difesa che potrebbe così fare fatica a tenere Benteke sulle seconde palle. In realtà la partita prende presto una piega definita, grazie al gol di Antonio dopo soli 10’: su palla inattiva del Liverpool è lo stesso Antonio che recupera sulla linea di fondo, smista e riparte, arrivando poi dopo 80 metri a colpire di testa in tuffo e trascinando con sé anche Clyne, sul cross dalla destra di Valencia, dopo la corsa e il passaggio indietro di Sakho. Un gol mirabile per il lavoro che lo ha preceduto e che descrive quasi alla perfezione questo giocatore, protagonista per la seconda volta in pochi giorni.

Il tentativo di reazione del Liverpool è abbozzato, non particolarmente efficace, anche perché per quasi tutto il primo tempo Lanzini domina la sua porzione di campo, anzi rende sua ogni porzione in cui metta piede: ferma palla e la tiene senza farsela togliere, ma apre anche improvvisamente cambiando lato; spezza i raddoppi grazie a morbidi tocchi che mettono fuori tempo gli avversari e riaprono il gioco, sostituendosi ancora a Payet nel gestire palloni tremebondi dalla trequarti in su, anche perché Valencia tende a stringere e Cresswell è cauto, dovendo coprire le potenziali corse di Ibe. Lanzini però si fa male e deve uscire dopo 39’, sostituito da Obiang, con il classico spostamento di quest’ultimo davanti alla difesa e Kouyate nella posizione, ma non nel ruolo, dell’argentino. L’impressione prima ancora di questo cambio era comunque di una squadra pronta alla battaglia, forse ispirata dal clima elettrico che si genera a ogni visita del Liverpool, con il corollario di cori storici ancorché non edificanti (“sign on” sostituisce “walk on” nel celebre You’ll never walk alone, con riferimento al verbo che indica l’iscrizione alle liste di disoccupazione, piaga tradizionalmente attribuita agli abitanti di Liverpool), oppure scherzosi, come il “Can we play you every week?” (“possiamo giocare contro di voi ogni settimana?”) che nasce ovviamente dalla doppia vittoria stagionale contro i Reds. Vittoria che si concretizza in pieno dopo 55’: palla sulla fascia destra, un paio di passaggi e arriva a Noble che crossa verso il secondo palo, all’altezza del disco del rigore, in quello splendido pezzetto di terreno in cui un traversone a rientrare è in territorio pericoloso ma non è intercettabile dal portiere. Lovren si fa distrarre dall’arrivo di Kouyate e perde di vista Carroll, che aveva seguito con lo sguardo fino a un paio di secondi prima, e come èsua grandiosa abitudine Carroll stesso ne approfitta per arrivare in pieno stacco, in terzo tempo, e travolge sia Clyne sia Valencia spedendo il pallone di testa nell’angolo alla sinistra di Mignolet.

Il calcio, come tutti gli sport di squadra, è questione anche di spazi e di aritmetica: rivedendo l’azione si nota che tre giocatori del Liverpool si fanno distrarre dalla posizione di Obiang e Antonio sul lato destro, si spostano nella loro direzione quando rientrano e permettono a Noble di crossare con discreta facilità. Errori di piazzamento, scelta e coordinamento dei movimenti: sarebbe bastato che uno solo dei tre fosse rimasto sulla fascia a sorvegliare il capitano del West Ham e il cross non sarebbe partito, o sarebbe partito in un momento successivo, con Lovren e Sakho più piazzati e meno situati nella terra di nessuno. Sia come sia, questo gol di Carroll, per la potenza, lo stacco, l’entusiasmo repentino entra nel florilegio dei momenti migliori della stagione, anche perché segue il canone degli altri che ho citato e citerò: specialmente sui cross, infatti, quella frazione di secondo di fiato sospeso, di cuore in gola, di attesa mentre l’occhio si siede sulla palla e va a curiosare nella sua destinazione finale rappresenta quel silenzio prima del fatto che ho menzionato nel capitolo precedente, e che in passato aveva trovato una curiosa eccezione nella celebre - almeno per me - urlatrice di Highbury, ovvero una ragazza o signora che, evidentemente vicina a una delle telecamere, emetteva un grido strozzato proprio in quell’istante in cui invece tutti, che verso la porta stesse a un tiro o un cross, non riuscivano a fare altro che bloccare la respirazione.

Al 64’ un momento di grande entusiasmo quando Payet, che pareva essere stato portato in panchina giusto per fargli riascoltare e riassaporare suoni e profumi di campo vero, entra al posto di Valencia, mostrando un’apparente sicurezza nel trattamento di palla e nei contrasti. La sua assenza è stata alla fine di neanche due mesi, nei quali però è mancata spesso la scintilla dalla tre quarti in su, la capacità di osare, di disegnare traiettorie di passaggio verso spazi che stanno per liberarsi, non in quelli già liberi e dunque teoricamente leggibili dai difensori. Il tutto diventa lievemente più difficile dal 75’, quando la pioggerella diventa diluvio e accomuna le due squadre in una meravigliosa - specialmente se vista dall’asciutto del seggiolino 34 della Bobby Moore Stand, Upper Tier - poltiglia visuale dalla quale emergono brillanti solo i colori delle maglie e il verde del campo, che sembra reggere. Ci sono risate quando Noble, vedendo volare una borsina di cellophane vuota, sospinta dal vento, la prende e se la mette dentro i calzoncini: protezione contro il (moderato) freddo, ambizione di pulizia del campo, pigrizia che gli impedisce di correre verso la linea laterale e lasciarla lì o, come dicono alcuni ridendo, occasione di risparmiare i 5 centesimi di costo della borsina la prossima volta che andrà a fare la spesa? Facezie in attesa della fine e dell’uscita.

Che, quando ancora non so quel che accadrà e ho tutto il tempo che voglio, è volutamente lenta, involontariamente difficile, programmaticamente panoramica. Non che la Barking Road verso est proponga chissà che, ma dopo avere iniziato la giornata dal lato opposto rispetto alla Green Street è come se cercassi un equilibrio che fa perno proprio sul Boleyn Ground. Poche decine di metri con la pioggerellina in faccia, non così forte da infastidire ma non così debole da non esser percepita, e con un’andatura rilassata che è comunque più rapida dell’avanzare delle auto subito lì a destra, in fila sempre verso est, forse per andare a prendere la North Circular o per sfuggire verso sud all’angolo con la High Street. Da un pullman di tifosi del Liverpool, fermo, un ragazzino - avrà 13 anni? Meno? - fa gestacci ai supporter del West Ham che sfilano a pochi metri, mormorando insulti che non è facile comprendere. Una figura disarticolata che si sfoga senza che nessuno seduto vicino a lui lo trattenga, una figura resa ancora più grottesca dall’audio muto in cui si svolge la scena, con un vocabolario labiale probabilmente limitato ma incisivo e un gesticolare che rende del tutto superfluo tale vocabolario. Mi viene in mente, per contrappasso, la scena descritta da Bill Buford all’inizio del suo storico libro del 1991 sul fenomeno hooligan, Among the thugs (In mezzo ai teppisti): fermo al binario di una stazione gallese in una giornata di nebbia, Buford - americano e ignaro di calcio e collaterali - aveva visto spuntare dal minestrone grigio un treno di tifosi, che nei pochi secondi di frenata, stop e ripartenza avevano lasciato su di lui una indelebile traccia sonora e visiva, come se un’orda fosse passata, avesse bruciato capanne e fienili e fosse fuggita verso nuove razzie agitando lance e urlando al cielo. Qui è il contrario, c’è rumore intorno ma silenzio sul pullman, c’è un agitarsi muto e soffocatamente verboso e a ripartire non è il mezzo ma il binario, ovvero il marciapiede, ovvero io. Non mi volto neanche indietro, l’ingorgo è sempre lì e mai quel bus raggiungerà i pedoni verso i quali quel ragazzino aveva inscenato quel pietoso spettacolo, indubbiamente sentendosi adulto e forte.

Superato l’incrocio e lasciato sulla sinistra il Denmark Arms prendo il bus numero 5 e vado verso est, dato che manca ancora un’ora all’appuntamento con il bus verso l’aeroporto e voglio sfruttare tutto il tempo per guardarmi intorno. Il traffico scorre meglio perché c’è più distanza tra semafori e per la vista dal secondo piano del 5 da Canning Town diretto al Romford Market, insomma al luogo più vivace di Romford, altro importantissimo centro inglobato da Londra nel 1965, e non a caso una delle due località in cui il West Ham ha aperto un negozio secondario. Una curiosità è che il mercato di Romford è teoricamente privilegiato da un decreto regio di quasi 900 anni fa che impedisce il sorgere di altri mercati nel raggio di una giornata di cammino di un gregge di pecore, unità della misura della velocità dell’epoca. Parliamo però di neanche dieci chilometri, dunque un caso di protezionismo che ha perso senso con il passare del tempo. Arrivando in treno dalla capitale, tra l’altro, si passa a pochi metri da Chadwell Heath, il campo di allenamento che gli Irons da poco hanno abbandonato per la cattiva condizione dei terreni. Niente Romford però come destinazione bensì Barking, da cui si arriva poi rapidamente in treno a West Ham cambiando da lì per Mile End dove si ferma (…) il bus verso Stansted. Colpisce il passaggio sotto il nastro di asfalto e cemento della North Circular, quasi un sospirato approdo al luogo visto già tante volte dall’alto della tribuna, si supera poi anche il fiume Roding e si intravvede il centro della città, con qualche edificio alto e però l’aria bizzarra delle decorazioni di alcuni di essi, che espongono disegni geometrici di dubbia progettazione, il cui unico scopo pare essere quello di renderli riconoscibili anche a un chilometro di distanza. Un giro fuori dalla metro, la curiosità dei due pub quasi adiacenti The Barking Dog (ah ah, gioco di parole, “can che abbaia” ma col nome della città) e The Spotted Dog (Il cane a pois), un ristorante Nando’s con tre persone ai tavoli, poi il tempo di rientrare nella stazione, attendere il treno e andare verso una lunga notte, in quel momento imprevedibile. 10

LA PERFIDA ALBION (MANCHESTER CITY)

Sabato 23 gennaio 2016, ore 17.45: West Ham United-Manchester City 2-2 (Valencia 1’, Agüero rigore 9’, Valencia 56’, Agüero 81’)

WEST HAM Adrian - Jenkinson (Byram 13’), Collins, Reid, Cresswell - Noble, Song, Kouyate - Antonio (Moses 67’), Valencia (Jelavic 87’), Payet.

MANCHESTER CITY Hart - Sagna, Otamendi, Demichelis, Clichy - Touré, Delph (Iheanacho 76’) - Navas (Sterling 68’), De Bruyne, Silva (Fernando 83’) - Agüero.

KLM 1582 Bologna 6.30 - Amsterdam 8.45 KLM 2406 Amsterdam 11.10 - London City 11.25 24 gennaio KLM 1000 Londra Heathrow 6.30 - Amsterdam 9.00 KLM 1583 Amsterdam 10.25 - Bologna 12.15 Senza una legge emanata dal consiglio metropolitano di Londra nel 1844 il West Ham non esisterebbe. O avrebbe un altro nome e giocherebbe altrove e dunque non sarebbe il West Ham ma una qualsiasi altra squadra, con altra storia, altri sviluppi e soprattutto, drammaticamente, altri colori. Quel decreto, chiamato Metropolitan Building Act, vietava nel perimetro della città insediamenti nocivi alla salute della popolazione: chimica, lavorazione delle pelli, lavorazione delle carni su larga scala. L’esplosione dei trasporti e dei commerci dei cento anni precedenti – la Rivoluzione Industriale - aveva migliorato le finanze di molti ma peggiorato la qualità della vita di una parte cospicua dei residenti, e arrivati quasi a un punto di non ritorno si cercò di mettere un freno alla situazione. La Londra dell’epoca, come si è intuito, terminava sulla riva destra del fiume Lea, a Bow, a Blackwall, a Poplar (parola che deriva dal latino per “pioppo”, non da “popolare”). Ma a partire dalla sponda opposta, quella orientale, era tutto lecito, anche perché i venti spirano proprio da ovest verso est e dunque tendono ad allontanarsi dalla città verso oriente; né, a ovest di Londra, c’erano stabilimenti che potessero provocare il pericolo opposto, ovvero affidare alla brezza i propri olezzi e scaricarli sulla Capitale nel loro viaggio verso la Manica. Erano stati multati delinquenti che avevano scaricato nel Tamigi residui puzzolenti e c’era una robusta attenzione ad aspetti che non erano pre-ecologisti – sarebbe follia definirli tali, parliamo di metà Ottocento – ma semplicemente legati al buon senso e alla necessità di non peggiorare ulteriormente le condizioni di vita. Un imprenditore che volesse proseguire o avviare un’attività del tipo messo al bando a Londra sceglieva dunque come sede un territorio sulla riva opposta del Lea che corrispondesse alle esigenze: London over the border, Londra oltre il confine, come si diceva allora, e in parte si dice anche oggi, magari per chi ha ricordo tramandato da parenti o per chi ha letto i romanzi di Charles Dickens, narratore di questi dintorni spesso disperati. Se poi il ramo d’azienda era quello marittimo e della lavorazione del ferro, strettamente connessi, allora bingo, o tombola. «Fabbrica dopo fabbrica sorse nelle distese paludose di Stratford e Plaistow - scriveva il Times l’1 novembre 1886, descrivendo il recente passato - e bastò la sola costruzione a Canning Town dei cantieri Victoria e Albert per trasformare la un tempo desolata zona di West Ham in un centro manifatturiero e commerciale di primaria importanza, capace di attirare una popolazione vasta ed estremamente dedita al lavoro»

Nel nostro specifico, dagli anni Trenta del Diciannovesimo secolo esisteva, prima a Deptford (quindi a sud del Tamigi) poi a Blackwall, più precisamente nella sua propaggine più orientale, Orchard Place, cioé la lingua di terra sul lato terminale destro del Lea, un cantiere navale chiamato Ditchburn and Mare, dal nome dei fondatori. Era una zona in cui risultano tracce di cantieri navali già da metà del Cinquecento, e che era adatta perché lievemente protetta dalla grande curva del Tamigi e dotata di spazi accessibili anche al suo affluente. Per la Ditchburn and Mare dunque possibilità di grande crescita, ma le commesse importanti che la ditta cominciò a ricevere pretesero presto maggiore respiro, ed ecco allora l’acquisizione nel 1847 di terreni sull’appetita riva sinistra del Lea, cioé già fuori dalla giurisdizione coperta dal Building Act di tre anni prima, anche se l’indirizzo postale della sede centrale rimase a Blackwall per alcuni decenni: alle zone di lavorazione operai e tecnici andavano con un traghetto a cavo capace di trasportare 200 persone alla volta, e alla loro vista, nonché ai racconti di gente che arrivava, pareva che quella zona si espandesse e accelerasse la propria crescita ogni settimana di più.

Poco a poco Mare prese il controllo rispetto al socio, e volse l’attività sia alla costruzione di imbarcazioni sia - appunto - alla lavorazione del ferro (laminati, principalmente) che veniva effettuata nel complesso centrale, imponente da tutti i punti di vista, quasi dominatore dei dintorni: nel suo massimo sviluppo, l’area occupata era l’equivalente di 4 campi da calcio, giusto per restare in argomento con questo libro. Nel maggio del 1853 venne varata la Himalaya, con i suoi oltre 100 metri di lunghezza la più grande nave mercantile che si fosse mai vista, mentre nel 1859 iniziarono i lavori per la costruzione della Warrior, commissionata in urgenza dalla Admiralty - la Marina - per controbattere il più avanzato stato tecnologico dei francesi, potenziali nemici. La Warrior, prima nave senza componenti di legno ma interamente metallica, venne varata nel dicembre del 1860, dopo lunghi mesi in cui quasi 1.000 operai si affannarono a completarla di fronte agli occhi di decine di curiosi che venivano ad ammirare lo stato dei lavori: non che fosse difficile scorgerla, dato che per la sua imponenza la nave era nettamente più alta di tutte le casupole dei dintorni, ed era quasi diventata un monumento transitorio del settore navale. Conta poco che dai suoi 36 cannoni non sarebbe partito mai un colpo e che un paio di anni dopo altre imbarcazioni si sarebbero mostrate più adatte al nuovo tipo di marina militare che stava nascendo: al momento del suo varo era una specie di meraviglia tecnologica e titanica, conservata ora nel porto di Portsmouth, a ricordo delle glorie passate, anche se effimere.

Nel frattempo però qualcosa era cambiato anche a livello gestionale. Per motivi mai chiariti - ogni testo consultato dà le stesse ipotesi, ovvero pianificazione errata dei costi e del flusso dei ricavi, o meno probabilmente pagamenti ritardati da parte della Corona - Mare nonostante un buon numero di ordini di nuove imbarcazioni aveva avuto difficoltà economiche, e a salvare l’azienda era intervenuto suo… suocero, Peter Rolt, che era anche il suo principale creditore nonché deputato conservatore per il distretto di Greenwich. Con un giochino contabile che avrebbe poi tristemente avuto ripetute imitazioni, Rolt aveva trasferito la parte sana dell’azienda a una nuova compagnia, aggiungendo al nome Thames Ironworks, già deciso, le parole “Shipbuilding and Engineering Company”, che ritraevano la realtà e la decoravano, dandole un tono decisamente pomposo. Raccolta la scialuppa di salvataggio lanciata da Rolt, i cantieri rimasero a galla e anzi dominarono la scena e il paesaggio grazie alle maestosità degli edifici e dell’area occupata, ricevendo (anche dall’estero) e completando ordini di traghetti, barche, vascelli di vario genere, mentre intorno alcune compagnie rivali (ce n’era anche una chiamata Millwall Ironworks) perdevano colpi, anche a causa della concorrenza proveniente dal nord, dove i materiali grezzi erano disponibili in loco e dunque costavano meno. Nel 1866 la prima crisi, che causò una catastrofe di posti di lavoro nel settore (erano stati circa 15.000 al massimo dello sviluppo), l’anno dopo addirittura una rivolta nell’East End, mentre Rolt e soci cercavano di far quadrare i conti e tenere l’equilibrio tra commesse, costi, lavorazioni.

Un evento ricco di risonanza, anche tragica, fu il varo della Albion, una corazzata commissionata nel 1896 dalla Marina, e realizzata su dimensioni inferiori al previsto (118 metri di lunghezza percorribili, 22 di larghezza) a causa della mancanza della quantità richiesta di lamine che avrebbero dovuto essere fornite da altre aziende. Destinata all’Estremo Oriente come deterrente per la crescente aggressività giapponese, la Albion fu la prima nave ad essere varata da un membro della famiglia reale, anzi due: duca e duchessa di York, che di lì a poco sarebbero diventati re e regina col nome di Giorgio V (padre di Giorgio VI, che molti conoscono per il film ‘Il discorso del re’, quindi nonno della Regina Elisabetta) e Maria. Orgoglio aziendale, orgoglio locale, curiosità per la coppia reale, primo giorno d’estate del 1898, scuole chiuse per l’occasione, il fiume, il cielo, le ore di luce: ognuno con un peso diverso, tutti elementi che contribuirono alla presenza, sul luogo del varo, di una folla di circa 30.000 spettatori, anche se un quotidiano parlò addirittura di 100.000. I biglietti gratuiti distribuiti a dipendenti e famiglie erano stati circa 20.000, ma curiosamente era stato detto ai responsabili dei cancelli - si trattava pur sempre del terreno di un’azienda, non pubblico - di far entrare chiunque altro avesse un aspetto “rispettabile”. Il clima era gioiosamente festoso, e adeguato agli usi dell’epoca: le signore invitate erano vestite da uscita in società, con cappellini e gonne ampie, e persino in un’epoca in cui l’abbigliamento normale di un uomo in pubblico richiedeva la giacca e magari il gilet gli accompagnatori e i vip esibivano il meglio del proprio guardaroba, coronato da bombette e cappelli di vario tipo, principalmente coppole, queste ultime però più coerenti con una bassa estrazione sociale. Un’occasione per vedere e farsi vedere, anche se in un ambiente come quello di un cantiere navale a Blackwall. All’aumento degli aventi diritto a entrare, tra invitati e “rispettabili”, si unì una circostanza negativa: nello scivolo adiacente a quello della Albion era in fase di costruzione una nave giapponese (!) da guerra, la Shikisima, e la passerella utilizzata dagli operai costituiva un grande balcone da cui assistere al varo. Per evitare guai, al suo ingresso era stato sistemato un cartello che vietava l’accesso ai non autorizzati e ribadiva il carico massimo di persone, ma man mano che la pressione della gente crebbe gli agenti di polizia (solo 70…) incaricati di gestire la folla cominciarono a chiudere un occhio sugli infiltrati, che dunque si ammassarono proprio sul pontile, aumentando di numero quando giunse voce che il varo era stato anticipato alle 14.50 perché le strutture che reggevano la Albion mostravano segni di rapido deterioramento.

Seguirono dramma e commedia, ma se il dramma fu reale e contemporaneo la commedia è solo odierna, per chi almeno una volta nella vita abbia visto il film ‘Il secondo tragico Fantozzi’. La duchessa di York, infatti, secondo il rito per tre volte colpì la corazzata con una bottiglia di champagne, che però mai si ruppe. Spazientita, chiese di ricorrere al metodo alternativo, ovvero al taglio del cordino che teneva la bottiglia, e fu il segnale di rilascio della Albion. Che entrò in acqua a grande velocità, smuovendo una quantità tale di acqua da creare un’onda colossale che distrusse la rampa della Shikisima sulla quale si erano assiepate centinaia di persone. In quel tratto di Bow Creek - nome dato della parte terminale del fiume Lea, quasi 4 chilometri soggetti alle maree eche confluiscono nel Tamigi - l’acqua era bassa ma nel crollo del pontile molti di quelli che vi si erano sistemati abusivamente vennero travolti da travi e tronchi e annegarono storditi in una profondità nella quale in condizioni normali avrebbero potuto restare a galla sfiorando il fondo del fiume, anche se non avessero saputo nuotare. Le scene di panico non furono viste dai dignitari, dai futuri consorti reali e dalla maggior parte del pubblico, che erano dall’altro lato rispetto alla Albion, ma nel giro di pochi minuti si capì che la tragedia era stata grande: verso sera, in un magazzino adibito a temporaneo obitorio, il conto dei morti si chiuse al numero di 38.

Esistono immagini di quel giorno, il che a mio avviso è pazzesco, perché si tratta di un evento accaduto prima che finisse l’Ottocento, e nonostante l’importanza dell’occasione mi fa molta impressione che alla cerimonia fossero presenti entrambi i primi cineoperatori britannici, Robert William Paul ed E.P. Prestwich. Cercate in un motore di ricerca “The launch of HMS [o H.M.S.] Albion” e guardate i due video. Quello di Prestwich coglie il varo dall’alto, e sullo sfondo, intorno al 39esimo secondo, appena dietro la poppa della Albion, si intuisce un’onda più grande delle altre, che sale verso una zona scura; mentre nel video di Paul il rudimentale montaggio passa dalle scene gentilizie di signori e signore che dalle barchette osservano l’ingresso in acqua della maestosa Albion alle - minuto 1 e 20 - angosciate operazioni di soccorso delle persone cadute in mare, che però non compaiono mai nelle inquadrature, anche perché si percepisce che i soccorritori stanno andando a occhio nel cercare vittime e superstiti nelle acque non limpidissime seppur poco profonde. Al secondo 27 del filmato di Paul si vede inoltre, alle spalle della signora con camicetta bianca, l’imponente edificio principale con torrette dei Thames Ironworks, quello costruito sulla sponda orientale del Lea (o Bow Creek), che dava il tono lavorativo e imprenditoriale a tutta Canning Town.

Quartiere da cui veniva gran parte delle vittime di un dramma che sorprendentemente non diede un colpo definitivo ai cantieri anche se il loro principale dirigente, Arnold Hills, fu segnato in maniera incancellabile da quanto aveva visto e dalla disperazione dei parenti, che cercò di andare a visitare uno per uno. Era un tipo particolare di imprenditore, Hills, all’epoca 41enne. Puntava al profitto, e non c’è nulla di male: ma - dopo alcune controversie angoscianti - aveva anche introdotto per primo, nel 1894, un orario lavorativo di otto ore al posto di quello, pressoché illimitato, in vigore in quei tempi, e aveva più volte manifestato l’intento di vedere la propria azienda come una grande famiglia in cui, semplicemente e senza intrighi o inganni, alcuni guadagnano più di altri, per maggiore specializzazione o talento o fondi investiti. Del suo lascito complessivo giusto parlare tra qualche capitolo, dato che da qui alla fine annusare l’aria di questa zona specifica sarà per me una sorta di missione, ma conta intanto ricordare che Hills, tra gli altri meriti, ebbe quello di fondare quello che qualche anno dopo sarebbe diventato il West Ham United, il cui dna emotivo può essere ritrovato proprio a Canning Town, sul fantasma delle mura imponenti dei Thames Ironworks, sulle ombre svanite degli scivoli per il varo.

E allora oggi è proprio qui a Canning Town che punto, volendo abbracciare fisicamente e spiritualmente la terra che nel 1895 ha dato origine al Thames Ironworks – la squadra – e cercando, con l’utopia, una sorta di ispirazione, di catturare il genius loci, o anche solo di attuare un espediente già praticato in visita a monumenti maya, ovvero socchiudere gli occhi in un particolare luogo e immaginare che quello che filtra dalle palpebre sia il movimento della gente del tempo di cui sto cercando le tracce. Non funziona quasi mai, ovviamente, ma provarci vuole anche dire eseguire un contatto fisico con gli oggetti del passato. Nella stazione della metropolitana di Canning Town, infatti, esiste una sorta di memoriale dedicato ai Thames Ironworks. Bisogna uscire dai cancelletti della metro e seguire le indicazioni per le fermate - tante - degli autobus. Non bisogna però prendere la scala mobile sulla destra ma quella normale, sulla sinistra. Il corpo centrale, quella che normalmente sarebbe la tromba delle scale, è occupato da una massiccia struttura muraria sormontata da una lastra color rame scuro, struttura grigia ma vivacizzata da una serie di scritte incise in modo volutamente disordinato. Alla sommità un cartello avvisa che la lastra viene dallo scafo della Warrior, la nave che fece breve epoca al momento della sua costruzione, nel 1860. “Prestito da parte del fondo per la conservazione della HMS [Her Majesty’s Ship, Nave di Sua Maestà] Warrior” dice la scritta, visibile a chi scenda le scale.

Sul lato destro, fatta mezza rampa, una scritta ricorda come dai cantieri nacque la squadra e dalla trasformazione della squadra nacque il West Ham United Football Club. E sì, toccare la scritta e i martelletti non porta alcuna conseguenza pratica, appunto: non mi sento pervaso improvvisamente da uno spirito antico, non si materializzano suoni di fornaci e smartellamenti e non mi compare davanti, purtroppo, una pallonessa di cuoio ruvido e assassino di fine Ottocento. Non succede nulla, fuori. Però tocco lo stesso, anzi strofino la mano, sperando che nessuno mi veda perché spiegare non sarebbe facilissimo, sulle parole che mi interessano, sulle incisioni dei martelletti, curiosamente posti ad altezza occhi di chi percorre la scala, quasi a sgomitare e richiedere attenzione. Con pazienza, girando attorno, alzando lo sguardo e magari salendo in cima per vedere meglio l’insieme anche dal lato, si può leggere sui lastroni una storia in sintesi dei Thames Ironworks, l’essenziale, un bignamino da viaggio ma in senso rovesciato: può cioé essere consultato solo andandolo a trovare.

Il passaggio di persone è frequente ma non continuo, perché è più facile prendere le scale mobili che sono di fronte e che portano direttamente al corridoio ai cui lati ci sono le varie fermate dei bus, mentre qui si accede in maniera diretta solo alla porta che dà sull’esterno, verso l’inizio della Barking Road, al passaggio pedonale su cui spiove la stesa di cemento e piloni della Newham Way ovvero la A13, una delle arterie più trafficate di questa zona, che porta verso Southend. Percorrendo tutto il corridoio verso sud, verso l’uscita dalla parte opposta del memoriale ai Thames Ironworks, ci si incammina lungo la A1011 cioé la Road, costeggiata dai binari della metropolitana a destra e da un complesso edilizio in costruzione sulla sinistra. La destinazione finale della mia passeggiata è un po’ più in là, ma c’è tempo ed è meglio fare il tragitto a piedi: quando la strada va in lieve salita, sulla sinistra, in basso, si vede un edificio compatto, di mattoni, in mezzo a case di due piani al massimo. L’insegna dice “Peacock Gym” e dal cartello si intuisce che all’interno si praticano sollevamento pesi e pugilato, e ti viene in mente che la boxe è sempre popolare qui nell’East End e in tutti i tipi di sottoculture in cui il confronto fisico più diretto e nitido è quasi sempre dietro l’angolo, come risoluzione di conflitti, sfogo, espressione di aggressività non esternata in altri ambiti. E non c’è neanche bisogno di ricorrere allo stereotipo del portuale manesco, fin troppo ovvio specialmente se si torna a vicende ottocentesche o di un secolo fa che si accompagnano alla storia dei Thames Ironworks e dei quartieri che erano sorti intorno.

Dal lato opposto della strada rispetto alla palestra, oltre i binari, c’è invece il primo di alcuni depositi di ferrame e rottami che costellano questa zona. London City Metals è il nome dell’azienda, che acquista in contanti scarti metallici di qualsiasi tipo. Uno di questi capannoni sorge proprio nel punto, appena a sud della stazione, in cui spiccava la monumentale struttura degli Ironworks: sempre di metalli si tratta, ma la differenza immensa che passa tra la lavorazione delle materie prime effettuata nel cantiere originale e la raccolta povera, sporca e misera che dà al panorama un’apparenza squallida è notevolissima. Poco oltre i capannoni e i camion spunta la cupola dell’02 Arena, l’ex Millennium Dome, costruito sulla punta della Greenwich Peninsula, dunque sponda sud del Tamigi. È lì che andrò, ma in modo non convenzionale. Passeggiando infatti per alcune centinaia di metri, mentre si cerca inutilmente di scorgere vestigia del passato in quella massa di magazzini, condominii in costruzione, case basse e incroci, si arriva alla Emirates Air Line, proprio di fronte alla stazione Royal Victoria della DLR. Air Line, non Airline: perché la compagnia aerea, con abile mossa pubblicitaria che sfrutta l’assonanza tra i due termini, ha sponsorizzato la costruzione di una cabinovia che partendo da qui arriva un chilometro circa di fronte, proprio nei pressi dell’02. Mi interessano relativamente punto di partenza - situato sempre però sull’impronta di quelli che un tempo erano gli Ironworks - e di arrivo, mi interessa molto invece avere l’ennesima prospettiva diversa su questi luoghi, e pazienza se il biglietto andata-ritorno è pesantino, 9 sterline, per una struttura che fa comunque parte in modo incompleto del sistema tariffario e di trasporti londinese. Mi affascina e turba sapere che il mezzo silenzio della mia cabina sorvola luoghi un tempo infernali per rumore, chiarore, bagliori di fornaci e fuoci, metalli incandescenti e colate, impalcature e scivoli, e che a poche decine di metri da qui sia anche andata in scena la tragedia dell’Albion, che vista in quei filmati in bianco e nero, graffiati e a velocità anomala, mi proiettano in una dimensione antica e quasi ipnotica per la differenza con l’oggi: in quei due video il cielo sembra bianco, l’acqua pare nera, e vivo la ripetuta sensazione che ad avere due soli colori non fossero le immagini ma le persone, le cose, la vita stessa.

È assurdo, ma l’audio zero di quei video mi suscita in testa dozzine di rumori che posso solo immaginare: non c’è l’assedio sensoriale di oggi, non c’è l’ansia, da parte di chi produce, di riempire udito, vista, magari olfatto con la proposta editoriale, anche se gli stessi Paul e Prestwich, vivessero oggi, farebbero probabilmente lo stesso. Il guscio di metallo che mi sostiene attraverso il grande fiume provoca lo stesso effetto del muto di quei brevi filmati, se si ignora la registrazione a scopo turistico che si ripete in sottofondo: solo immagini e niente suoni, e la fantasia si libera di ogni ritegno, supportata dalla vista. Ecco lì vicino al punto di partenza il ricordo virtuale di una delle torrette degli Ironworks; dall’altro lato la prua della Warrior o della Albion che entrano nel Bow Creek dunque nel Tamigi stesso; ecco le casupole ottocentesche di Canning Town, quelle ammassate l’una addosso all’altra nello squallore, argomento del quale si dovrà parlare. E sempre nell’abbraccio silenzioso dell’immaginazione ecco, mescolando presente e passato, i grattacieli del Canary Wharf ma anche i cantieri della Isle of Dogs; i bacini dei Victoria Docks e Albert Docks ma anche uno sguardo agli aerei in atterraggio a London City che sorge sulla striscia di asfalto adiacente. E non guardo nemmeno alle mie spalle, perché vedrei Greenwich, Charlton, la dolce collina e altro che non rientrano nei miei pensieri e nel mio sguardo oggi, giornata totalmente dedicata all’immersione visuale, emotiva e geografica nei luoghi dove è nata l’azienda che ha fatto nascere la squadra e lo stadio, o lo stadio e la squadra.

Già, lo stadio. Si vede anche quello, unica struttura imponente in ampiezza e sufficientemente alta da emergere al di sopra del tettume indistinto che prosegue verso nordest da Canning Town; il Boleyn come è e girando lo sguardo verso sinistra, verso nordovest insomma, lo Stadio Olimpico come sarà, producendo ancora una volta la sensazione che lo spostamento sarà davvero ridotto sul piano chilometrico ma profondo su quello emotivo: se per un intero capitolo - questo - è necessario spiegare bene la differenza tra luoghi pressoché adiacenti come Blackwall e Canning Town, separati solo dal Bow Creek, figuriamoci la diversità di interpretazione dei luoghi tra Upton Park e Stratford, dove il panorama è diverso, l’acqua più vicina (non ce n’è traccia nei pressi del Boleyn Ground, quasi una disconnessione dalle origini), il cielo più ampio, i materiali più nuovi, il ritmo di vita più accelerato.

Lo sguardo, mentre la cabina si abbassa e inizia la fase terminale della sua corsa verso la stazione di partenza, resta volutamente proprio sulla sagoma sempre sottile dello stadio poi sui depositi e sui magazzini e sui mucchi di ferraglia della riva dalla quale scendevano in acqua gli scivoli per navi, in una sorta di salto temporale ed emotivo che riempie la giornata prima della partita vera e propria. Anche il ritorno a Canning Town è a piedi, per cogliere eventuali dettagli sfuggiti all'andata, per vedere il percorso da un'altra prospettiva, prima di un'altra toccatina al monumento ai Thames Ironworks e della salita sul bus numero 5 per Romford Market, all'inizio della Barking Road, a una fermata dove, tra gli altri, attende una signora che potrebbe avere 50 anni, di aspetto disfatto, abbigliamento trasandato, stivali stile Ugg vistosamente tarocchi, una lattina di birra in mano, l'aria di chi pensa a come impiegare i prossimi 10 minuti e nulla più, uno squallore che avvolge e abbatte, dopo le ore di contemplazione di un mondo lontano, quasi asettico nella sua presunta poesia, o tragedia, in bianco e nero. Dopo un paio di fermate si aggiunge la rumorosa, quasi urlante cantilena al telefono di una ragazza africana a stracciare qualsiasi tentativo di meditazione e rigettare completamente nell'era attuale, nella trasformazione dei posti, della gente, del modo di vivere l'ex zona del porto, diventata un tutto misto in cui nulla realmente spicca se non il club calcistico, che però se ne va. Nel percorso verso il Boleyn Ground riguardo sul cellulare le foto che ho scattato dall'aereo - dopo essermi opportunamente scelto un posto a sedere sul lato destro - durante la virata verso London City, e dipingo idealmente il mio tragitto su quella più nitida, dalla quale si percepiscono perfettamente l'ansa del Lea che diventa Bow Creek, la desolazione dei depositi di Canning Town sud, il profilo della Barking Road scavato tra le case, la struttura del Boleyn Ground, che mi aspetto di veder spuntare da un momento all'altro oltre le case, quasi che quella foto fosse una app con mappa e segnalino in spostamento coordinato.

Manca ancora un po' alla partita ed è il momento, a strade ancora sgombre di masse di tifosi, di mangiare e collegarsi nuovamente al mondo del West Ham. La Boleyn Tavern è mezza vuota nonostante la - o a causa della? - diretta dell'anticipo Norwich City-Liverpool, per le costicine del Ribman ci sarà tempo, e allora il locale di oggi è l'arancione (di colore) Ken's Café, notissimo a tutti i frequentatori della zona e di proprietà di Kenneth Starr e famiglia, compresa Carol, in buoni rapporti con mezzo mondo. Una famiglia di figuranti in costume, apparentemente: perché sono tutti troppo perfettamente East ender per essere veri. Non è possibile, dai. I gradi di parentela non sono chiarissimi e mi guardo bene dal chiedere, ma la nonna in ciabatte che aiuta le nipotine a fare i compiti nell'angolo più lontano dalla porta d'ingresso, in uno spazio dove sono accatastati oggetti e contenitori di ogni tipo, come nei garage di periferia, è da sola un ritratto di uno stile di vita intimo e impermeabile al vortice che c'è intorno. È la stessa signora che si alza e prende gli ordini, con la calma studiata che precede l'assalto delle ore successive in cui la fila inizierà già sul marciapiede, passando poi all'apparente nipote che è in maniche corte e coppola in testa e servirà al tavolo.

L'attesa del piatto (patatine, uova e salsiccia, vabbé, 4 sterline e 20) serve per ristudiare pareti - muratura intonacata nella parte alta, liste di legno nella parte bassa - e oggetti visti già tante volte, ma mai assorbiti e scrutati uno per uno come merita la circostanza. È un capolavoro del kitsch popolare: modellini e fotografie di auto (Mini Minor, britannica) edi tram, uno specchio ricordo del Silver Jubilee (i 25 anni di regno della Regina Elisabetta, 1977), immagini del West Ham nel corso degli anni, le figurine di una squadra degli anni Sessanta regalate con le copie del quotidiano Newham Recorder, un altro specchio con il logo, la foto di un incidente ferroviario con lo slogan «Oh, shit!», un'altra con il primo piano di un coccodrillo e «Entrate a vostro rischio e pericolo», un ritratto aereo del Boleyn, i tanti cartelli anche interni con i singoli piatti disponibili. Commuove vedere, a una sterlina, il Bovril, il brodone di carne che per decenni è servito, caldissimo, a tenere a livello accettabile la temperatura corporea di chi andava allo stadio nei mesi freddi, e che è decaduto di moda come gran parte delle abitudini - alcune delle quali imposte, sia chiaro - che hanno reso unici, ai miei occhi, gli anni d'oro del calcio inglese. Ma è indubbio che alcuni elementi del football britannico siano rimasti immutati per periodo di tempo notevole e dunque tale da trasformarli in icone, prima che tutto si velocizzasse e diminuisse la durata di ciascuno dei nuovi spunti: la terrificante moda delle sciarpe «half and half»; cioé con i colori delle due squadre affiancati, è tra questi fenomeni che spero durino il meno possibile.

Fermi tutti, però. Nel Ken's Café, dove saremo seduti in sette o otto, entra improvvisamente un personaggio evidentemente mai visto prima. È un signore di almeno 65 anni, forse più. E non ha nulla di visibile che non sia dei colori del Manchester City. Cappellino, zaino, pantaloni della tuta, giacchetta (pare una di quelle retrò, anni Sessanta), calze, scarpe di vernice, sciarpa, guanti, polsino, braccialetto di gomma, valigetta di plastica tipo portamerenda. Si avvicina al bancone, ordina, si siede, attende il suo piatto, mentre intorno i presenti, compreso il sottoscritto, incrociano gli sguardi nel linguaggio muto che indica al tempo stesso ammirazione per il coraggio - di vestirsi così, non di presentarsi da tifoso ospite in un locale classicamente West Ham United - e stupore per il modo di muoversi del signore, completamente normale, come se tutti, nel mondo, nel suo mondo, girassero così. Ammirazione pura: magari la moglie se ne vergogna, magari una moglie neppure ce l'ha, magari i figli gli ridono alle spalle, come noi, ma lui se ne frega altamente, e fa benissimo.

Nel frattempo, intorno alle 14.15, l'ultimo adulto della famiglia Starr ha cominciato a sistemare, fuori dalla porta, tavolino e piastra per la cottura di hamburger e cipolle, un modo particolarmente efficace per indurre a fermarsi lì chi magari, man mano che si avvicina l'ora della partita, non ha la voglia, il tempo o la pazienza di mettersi in coda. Starr vende anche i programmi ufficiali, che oggi celebrano tra l'altro nella grafica la prima partita tra Irons e Manchester City in Premier League, nel 1993. Grafica poco emozionante, per i miei gusti. Cresce il movimento, alla Boleyn Tavern aumenta la gente che parla con il proprio interlocutore o scruta verso l'alto la classica trasmissione di del pomeriggio calcistico, ovvero la versione più dignitosa - non ci sono guitti o cantanti, ma ex calciatori - del ‘Quelli che il calcio’ italiano. E girando senza sosta attorno allo stadio, fino al deposito bus per poi tornare indietro e raccogliere a piene mani l'atmosfera, peraltro non eccezionale, si percepisce quella che fu una grande definizione di un ex segretario - carica importantissima per decenni, inferiore solo a presidente e allenatore - dell'Arsenal, Bob Wall, in una intervista radiofonica: uno stadio è come un gigante che dorme profondamente, e che il giorno della partita comincia poco alla volta a sentire il calore e l'energia nelle membra, muove le dita una alla volta, si sgranchisce le gambe, si stiracchia, si alza con cautela e a pochi minuti dal calcio d'inizio è finalmente pronto all'azione. Una ripresa in time lapse, quelle cioé con telecamera fissa e immagini che rapidissimamente condensano ore in secondi, mostrerebbe in modo concreto questo fenomeno, che è comunque percepibile a occhio nudo, magari col pazzo metodo di passare e ripassare nel medesimo luogo a distanza di 15-20 minuti e scorgerne la diversa densità delle persone.

La partita, allora, alle sospirate 17.30 locali. Nelle settimane precedenti il West Ham ha vinto bene a Bournemouth, perso malino a Newcastle in campionato e vinto in casa a 5’ dalla fine contro il Wolverhampton in FA Cup. Oggi non ci sono gli infortunati Lanzini, Carroll e Sakho, e Bilic mette Valencia come punta, supportata da - destra verso sinistra - Antonio e Payet, con Song davanti alla difesa, Noble e Kouyate ai suoi lati. In difesa, Jenkinson, Collins, Reid e Cresswell. Il Manchester City ha Agüero davanti, sostenuto da Navas, De Bruyne e Silva, che alle loro spalle sono coperti da Yaya Touré e Delph. I quattro difensori, da destra, sono Sagna, Otamendi, Demichelis e Clichy. Il carico emotivo cresce nei secondi che precedono il fischio d’inizio: è in fondo dal mattino che si aspetta la partita, e contrariamente a quel che avviene per quelle infrasettimanali la maggioranza delle persone non ha trascorso la giornata al lavoro ma proprio nell’attesa, che dunque si fa più viva man mano che il momento si avvicina. Figurarsi dunque quello che succede quando il West Ham segna dopo 53”: Song toglie palla a Navas e De Bruyne sul centrosinistra, Kouyate la recupera e parte in uno contro uno con Touré, lo batte, crossa, la palla sbatte su Delph rimbalzando appena a lato del disco del rigore e Valencia, con un destro sporco, mette dentro. Altro gol rapido dopo quello contro il Liverpool e una sovrapposizione di sensazioni, attorno a me, riassumibili in un concetto: dopo i due mesi difficili e i tanti pareggi, ora che Payet è tornato ricomincia la corsa e non sappiamo dove finirà. Concetto corto, per fortuna, perché dopo pochi minuti il City pareggia su rigore, con Agüero, che subisce fallo da Jenkinson e segna, pochi istanti dopo avere colpito il palo con un bel pallonetto. Jenkinson si infortuna pure, nel contrasto, e deve uscire al 13’: mi conforta, dopo tante critiche, sentire applausi di comprensione verso di lui, ma è imbarazzante il contrasto con l’accoglienza riservata invece al suo sostituto, Sam Byram, cui danno cinque alto e James Collins: ragazzo di 22 anni, ex Leeds United, preso per l’equivalente di 5 milioni di euro. La sua famiglia è originaria dell’Essex, suo zio e suo cugino sono tifosi del West Ham e l’immediata diffusione di questo dettaglio lo ha reso subito popolare, situazione pericolosissima per la carriera: negli ultimi anni, non appena un calciatore inglese giovane ha mostrato un minimo di potenziale su di lui sono state caricate speranze esagerate, spesso moltiplicate da cessioni a prezzi assurdi, creando una condizione nella quale il ragazzo è stato prima proiettato in una dimensione non sua e poi fatto precipitare a livello di delusione, senza avere colpa né dell’uno né dell’altro fenomeno. Vengono in mente i nomi di Luke Shaw, Jordan Henderson, Raheem Sterling, ma anche Nick Powell (non lo ricordate? Appunto), Alex Oxlade-Chamberlain, e sono solo alcuni. Dopo pochi minuti Byram viene messo alla prova in una curiosa circostanza tecnica: dopo un calcio di punizione respinto dalla barriera, infatti, la palla capita a Payet sulla fascia sinistra. Il francese* la controlla e poi la indirizza dalla parte opposta sul nuovo entrato, con una parabola altissima e lenta. Byram stoppa al volo, la fa rimbalzare e… la rispedisce a Payet con un identico pallonetto a scavalcare tutto il centrocampo. È come se i due si stessero esercitando da soli, in allenamento, e se non sorprende il controllo di palla morbido di Payet colpisce la sicurezza con cui il suo nuovo compagno di squadra gestisce una situazione obiettivamente bizzarra, direi inedita per la mia memoria, che di partite di calcio ne ha assorbite ormai migliaia. Byram è cauto come - immagino - da istruzioni di Bilic, ma in ogni caso ci sono gerarchie che non nascono solo da anzianità: quando Collins, su un calcio piazzato, si porta nell’area del City facendogli segno di restare in difesa non è solo perché il gallese* è più esperto ma semplicemente perché è alto e pesa il doppio del minuto Byram, che forse sotto l’aspetto fisico deve lavorare ancora un po’.

La partita è abbastanza bella e nobilitata da alcune giocate di classe di giocatori di entrambe le squadre, e si percepisce che da un lato c’è la grande voglia di un altro risultato di prestigio, dall’altro la necessità di non perdere terreno nella lotta per il titolo mescolata al rispetto verso una squadra già vittoriosa all’andata all’Etihad Stadium. Il City in questa stagione ha avuto più di una distrazione difensiva, individuale e di gruppo, e anche oggi ne commette una temporaneamente decisiva: al 56’ Antonio infatti si procura sulla destra e batte rapidamente e con potenza - è sua caratteristica - una rimessa laterale verso l’area, Valencia prende posizione tra Otamendi e la porta, fa opposizione col corpo dirigendosi verso il rimbalzo e tocca il pallone, un contatto sporco ma efficace perché effettuato da vicino e quindi senza dare a Hart il tempo di reagire. Un gol improvviso e che per fortuna non arriva subito dopo un altro episodio significativo: non di rado, nel corso della stagione, mi è accaduto e accadrà di riuscire solo all’ultimo secondo a vedere la genesi di una rete, perché troppo impegnato a scrivere appunti sull’azione precedente o su un dettaglio che mi ha colpito, e la scomodità della mia posizione, stretto nel mio seggiolino e con le braccia rattrappite, mi impedisce di essere rapido nella scrittura, anche perché la mano sinistra è dal lato del vicino di posto più ingombrante dal punto di vista fisico. Sarà uno degli aspetti meno edificanti dell’annata, questo: un continuo rattrappimento per tenere fermi tra i polpacci la borsa o lo zainetto, per prendere e rimettere a posto il cellulare a ogni messaggio o necessità di foto o video, per prendere la bottiglietta d’acqua. Mi rendo conto che una telecamera piazzata sugli scalini, e puntata a riprendere di lato l’intera fila, avrebbe mostrato l’uniformità di posizione di tutti e un solo movimento oscillatorio in avanti, il mio, pressoché costante, ma per fortuna una telecamera lì non c’era.

Sul 2-1 il West Ham continua a spingere ma senza buttarsi via, consapevole della pericolosità del City, e variano anche gli schieramenti e le posizioni. Al 65’ infatti Moses rileva Antonio e va sulla fascia sinistra, con Payet che passa a destra, mentre i Blues si sono agitati di più già prima: sullo 0-1 infatti Silva ha iniziato ad accentrarsi con De Bruyne più largo, probabilmente proprio per attaccare Jenkinson. Al 68’ Sterling rileva Navas e va a sinistra, con De Bruyne sulla destra, mentre al 76’ entra Iheanacho per Delph e si passa a un robusto 4-2-4 con Touré e Silva centrocampisti e, in avanti, il quartetto De Bruyne, Iheanacho, Agüero e Sterling. Il gol del pareggio, all’81’, arriva peraltro su contropiede, a smentire la presunta cautela del West Ham nel portarsi avanti: persa la palla dai suoi Song esce fuori tempo per andare incontro a Touré, che prima ancora del cerchio di centrocampo passa a sinistra a Iheanacho, bravo a venirgli incontro nella zona sguarnita dall’uscita di Song. L’attaccante si gira rapidamente e può percorrere una quindicina di metri da solo palla al piede, perché Sterling allargandosi attira verso di sé Byram mentre Agüero si infila tra Reid e Collins impegnandoli; dall’esterno arrivano a perdifiato Noble e Payet convergendo su Iheanacho che però è irraggiungibile. Lì però la sua momentanea mancanza di intesa con Agüero dà frutti: il suo passaggio infatti coglie fuori tempo l’argentino, che sta stringendo e deve inarcarsi all’indietro anche solo per toccare il pallone. Ci riesce e così facendo attiva involontariamente una triangolazione con lo stesso Iheanacho che ha proseguito la corsa; sulla palla momentaneamente vagante dopo il suo bel gioco di gambe per evitare il tackle di Reid arriva Cresswell, che ha seguito tutto dalla fascia sinistra, ma il suo tocco di destro per anticipare l’attaccante ha solo effetto di spingere la palla a centro area, dove è finito Agüero che con un piatto di grande freddezza mette sul primo palo, sull’uscita di Adrian.

Racconta molto, di questa annata, che un pareggio contro il Manchester City venga quasi visto come una delusione, tra gli spettatori intorno a me. A livello di valutazione generale ci siamo, non sarei d’accordo invece se la sensazione nascesse dal fatto che il secondo gol di Agüero è arrivato a meno di 10’ dalla fine: dovrebbe ormai essere assodato che i finali di partita portano spesso reti per la diversa frenesia e necessità dell’esecuzione, e che non esistono sezioni di gara in cui ci si possa ritenere immuni da errori o rimonte. L’emotività distorce la visione complessiva delle partite, a volte anche in negativo, e la natura stessa del calcio, più che di altri sport, porta a risultati che non riflettono il cosiddetto andamento della partita e rendono patetiche le descrizioni giornalistiche di squadre che segnano un gol subendo 10 tiri e poi però per un altro tiro sbilenco effettuato “legittimano il risultato”. Va bene così dunque, perché è stato un tardo pomeriggio vivace, frenetico, colorato nel grigiore da sabato di gennaio. Uno dei tanti momenti che ricorderò in modo vivido, anche quando a estate iniziata questa stagione meravigliosa sarà oggetto dell’assalto cinico di sensi, novità, ambizioni e del terribile istinto ad andare avanti pur sapendo che ogni giorno lo scenario circostante peggiora.

Peggiora a dire il vero molto presto la visione davanti a me, nel tragitto verso l’hotel, che è l’Ibis Budget a Hounslow, non distante dunque dall’aeroporto di Heathrow, al quale si può arrivare anche in piena notte prendendo due bus. Appena fuori dalla metro (Hounslow Central) vedo infatti un tizio che tenendo in mano una lattina di birra si appoggia malamente a un muretto e si ribalta sulla schiena, restando lì a brontolare frasi senza senso - almeno per me - mentre gli amici lo soccorrono. Scene abituali nei fine settimana britannici - e non solo - e che che mai capirò, e per fortuna mi metto presto alle spalle lo squallore tornando al calcio. Entrato in camera, infatti, vedo che sta per iniziare Match of the Day, la trasmissione del sabato sera della BBC che mostra tutti i gol a chi, non essendo abbonato a una delle reti a pagamento, fino a quell’ora non li aveva visti. Le fasi in studio mi annoiano un pochino, non perché di per sé siano noiose ma perché per me Match of the Day vuol dire breve sintesi di una partita commentata in diretta nel pomeriggio. La particolare nitidezza delle voci e gli effetti sonori del pubblico mi riportano indietro alla dimensione iniziale e per me ideale del mio calcio inglese, a quelle sintesi di 3-4 minuti che la televisione della Svizzera italiana mandava in onda la domenica sera tardi, in chiusura di notiziario sportivo. La voce del commentatore svizzero era solo sovrapposta, non sostituita, a quella originale, per cui il sonoro di quelle immagini che mi hanno cambiato la visione del calcio, ormai quaranta anni fa, filtrava percepibile e creava quell’ammaliamento e quella curiosità che ancora non si sono esaurite e che, anzi, mi spingono tuttora a cercare quel mondo. È il passato, di gran lunga migliore del presente, e per questo la ricerca è così complessa e difficile.

* in questo capitolo ho chiamato Payet “il francese” e Collins “il gallese”. L’aspetto di queste definizioni che mi colpisce ogni volta è quanto formali e rigide siano, specialmente se si concepisce un racconto come una sorta di dialogo, diciamo monologo confidenziale, con il lettore. In un dialogo/ monologo ripeterei “Payet” e “Collins” ogni volta, ma scrivendo subentra un condizionamento che spinge a evitare le ripetizioni. Ma fa un po’ ridere, sinceramente. 11

O DEL NOSTRO SC VERN ONTE L’IN NTO (ASTON VILLA)

Martedì 2 febbraio 2016, ore 19.45: West Ham United-Aston Villa 2-0 (Antonio 58’, Kouyate 85’)

WEST HAM Adrian - Tomkins, Collins, Reid, Cresswell - Noble, Song, Kouyate (Obiang 92’) - Antonio (Jelavic 89’), Valencia (Moses 87’), Payet.

ASTON VILLA Bunn - Richards, Okore, Lescott, Cissokho - Bacuna, Gueye - Gil (Richardson 71’), Agbonlahor (Sinclair 80’), Veretout - Ayew.

EasyJet 5286 Milano Linate 15.55 - Londra Gatwick 16.45 Una trasferta diversa da tutte le altre, per il semplice motivo che non c’è un ritorno a casa. Da Londra, a tarda sera, si prende un treno per Birmingham International e da lì, il mattino dopo, un volo per San Francisco via Amsterdam, per il Super Bowl. In un certo senso, anzi in tanti, i due mondi per me migliori, calcio inglese e football americano, che si toccano e si passano il testimone, recuperando per me un raro motivo per continuare a tirare avanti nell’inutilità di sforzi, studi, applicazione. Sono sempre più questi viaggi a fare la differenza, in un mondo in cui un’esperienza di fondo è percorribile da tutti via televisione o streaming (la partita) e social media (tutto il resto), e sempre più questi viaggi sono però estenuanti e dispendiosi sul piano fisico e psicologico, strappati a una esistenza lavorativa di sussistenza, di repressione della creatività in nome del conformismo.

È una di quelle giornate, martedì 2, in cui bisogna restare molto concentrati in fase di preparazione: il solito, fondamentale compito di limitare il peso per il viaggio viene raddoppiato dall’esigenza di non portarsi appresso troppe cose utili per poche ore a Londra ma di solo ingombro nei cinque giorni successivi. Il soggiorno londinese è in effetti tra i più brevi dell’anno: dall’atterraggio a Gatwick alla partenza del treno da Euston per Birmingham passano 6 ore e 45 minuti, tempo vissuto perlopiù con il fiato dimezzato su treni e metropolitana, con l’affanno del possibile ritardo e il pensiero che anche qui, come a casa, non ci sia margine di errore. «Sempre di corsa», messaggia su Whatsapp l’amico londinese Andrea, e ne ha motivo: sono all’undicesima trasferta e non siamo riusciti a vederci neanche una volta, finora. Undicesima, già. Da qualche giorno ha cominciato a uscire da sotto la pelle la percezione concreta che ci stiamo avviando verso la fine di questa annata assurda, di emozioni mutevoli, di affinità cangianti, di ragionamenti che solo la frenesia degli spostamenti impedisce di completare. E forse è meglio così.

L’inverno finirà ufficialmente solo tra un mese e mezzo, il giorno dopo la partita a Stamford Bridge, eppure è come se non fosse mai arrivato nei climi. Non ho mai avuto la sensazione angosciante del buio, forse perché il buio non c’è mai stato, forse perché la luce dei riflettori del Boleyn Ground mi ha aiutato per quel numero di passi sufficiente, quando mi avvicinavo o allontanavo, a non sentirmi sperduto. Ho sempre avuto gente intorno, quasi sempre con il mio stesso obiettivo, anche se a volte ho dovuto andarmela a cercare. Come stasera: Andrea mi ha ricordato che da Gatwick posso prendere il treno della Thameslink usando la Oyster Card, e passato rapidissimamente attraverso i controlli di sicurezza prendo quello delle 17.10. A Blackfriars, dove colpevolmente do solo un’occhiata annoiata alla magnificenza del Tamigi illuminato e al Canary Wharf sulla destra, a City Thameslink e a Farringdon salgono decine di pendolari che rendono difficile l’uscita a St.Pancras, dove lascio la valigia al deposito alle 18.15, correndo a prendere la Hammersmith&City Line diretta a Barking.

Sulla banchina ecco cercare colori familiari, e li trovo subito in un ragazzo con la sciarpa claret&blue che gli spunta da sotto la giacca. Alla fermata successiva ne salgono altri, a Liverpool Street altri ancora, ma due di loro sono dell’Aston Villa, e si posizionano tranquilli nei pressi del corrimano centrale. Il tragitto non dovrebbe richiedere più di 40 minuti, ma è ancora orario di uscita dal lavoro e per diverse volte ci fermiamo senza apparente motivo a metà di un tratto tra una stazione e l’altra. Prima di Mile End, prima di Bow Road, prima di West Ham, prima di Upton Park. All’arrivo il marciapiede è occupato da decine di tifosi scesi dal treno precedente, ma le porte vengono ugualmente aperte, creando quel tipo di affollamento che normalmente i custodi dell’ordine cercano di evitare. Sono le 19.20, lungo il percorso ho ricevuto messaggi da Claudio e Gian, entrambi già dentro lo stadio, ma non ho potuto rispondere in modo esauriente. Apprenderanno da queste righe, forse, che c’ero anche io, ma non avevo potuto permettermi di arrivare prima: troppa la preoccupazione che ci fossero emergenze di lavoro al mattino. Il programma della partita lo prendo dal rivenditore di fronte al Queens Fish Bar, attraverso la strada davanti al solito cartello sgrammaticato dell’Upton Park Builders Merchant (insomma, ferramenta) che annuncia “Key’s cut”, fingo di non vedere che i burger di Ken’s Café costano solo 2 sterline e tiro dritto nonostante la fame tremenda, per evitare di perdere anche solo un minuto di partita. La vista calante mi impedisce di sbirciare da lontano se sia finalmente arrivata la spilla di Billy Bonds da Lee e allora pesco il tesserino ed entro, dopo la classica occhiata dello steward al contenuto, davvero misero, dello zaino. La scala dolcemente claustrofobica, che in certi momenti è come salire quella di casa perché sei da solo a farla, il corridoio già pieno, l’uscita allo scoperto con il timore di dover far alzare troppe persone per farmi sedere, ma è un timore fuori luogo. Sono già le 19.35 ma nella fila S non c’è quasi nessuno, dal mio lato. Confortato dall’assenza dei soliti ma tuttora anonimi vicini di posto dal lato destro, posti 35 e 36, mi allargo occupando un sedile e mezzo e comincio a prendere i soliti appunti.

Sono tanti i vuoti ancora alle 19.44, all’ingresso delle squadre. Forse i ritardi nei trasporti, la ressa, la scarsa attrattiva dell’avversaria, chissà. I’m forever blowing bubbles è a mezza voce, ma si infila lo stesso nell’archivio video del cellulare, e magari - così come io identifico a ogni partita i dettagli che si ripetono sempre uguali - quelli seduti di fianco a me avranno imparato a riconoscere come consueto, forse addirittura rassicurante il tizio che tiene sempre alto lo smartphone per riprendere tutto durante il canto. La carica del cellulare come al solito è sotto al 20% per cui non posso permettermi di riprendere la seconda esecuzione dell’inno, che anche oggi è più convinta della prima, ma non è un problema. I miei due vicini soliti arrivano intorno alle 19.50, e io salutandoli mi accorgo che uno dei due in realtà non è quello di sempre ma potrebbe essere il figlio o il nipote. Ci mette poco ad arrivare dalla mia immediata destra anche il primo “Come on West Ham”, con la a di Ham particolarmente accentuata. Anche questo è un segnale della consuetudine, della familiarità di suoni e accenni che si è creata in questi mesi. Che poi l’esortazione arrivi presto è dovuto alla bella partenza del Villa, che attacca, porta palla, comprime il West Ham nella sua metà campo e si muove rapidamente, cercando sbocchi improvvisi per Ayew e Agbonlahor, rimesso titolare dopo due mesi. Sembra che si stia verificando esattamente quel che alcuni temevano: troppo sicuri di sé dopo le ultime buone partite, gli Irons hanno preso un po’ alla leggera l’avversaria, che ha ancora poche speranze di salvarsi - secondo me nessuna, ma il mio parere non conta - ed esce da un mercato invernale nel quale non ha fatto nulla, facendosi sfuggire un paio di obiettivi e costringendo il manager Remi Garde a rivalutare la propria volontà di restare alla guida anche in caso di retrocessione. Più avanti arriverà dal settore ospiti lo scontato “Sack the board” (Cacciate i dirigenti), ma in questo caso, forse, nel disordine apparente di un club in vendita ma forse no, chi prende decisioni ha ragionato correttamente: inutile spendere soldi e promesse per giocatori che non riuscirebbero comunque a impedire la retrocessione.

Il West Ham è schierato col solito 4-3-3, stavolta però è Song a stare davanti alla difesa, mentre Kouyate è l’interno di sinistra. Assenti Lanzini, Carroll e Sakho, l’assetto è quello con Valencia unica punta e il supporto di Antonio da destra e Payet da sinistra. Dopo qualche minuto un cross di Agbonlahor colpisce il braccio di Antonio, arretrato come sempre a fare il difensore esterno aggiuntivo per permettere a Tomkins di non restare troppo isolato sulla fascia, e il Villa vorrebbe il rigore. Palla-braccio netti anche dal vivo, scarsa disciplina di Antonio che non ha tenuto compatto il profilo, ma resto dell’idea che non si debbano mai dare rigori se non c’è palese volontarietà, e questa è solo superficialità, non altro. La partenza del Villa si sgonfia poco dopo, al 17’: in attesa di una rimessa laterale dopo un pallone combattuto in area poi sulla fascia, Ayew sbraccia e colpisce con il gomito, o l’esterno del braccio, il volto di Cresswell, che lo stava marcando con una certa robustezza, pare tenendogli la maglia. Guardo il segnalinee che alza la bandierina, e non può che esserci un esito: cartellino rosso. Quello che cambia la partita, obiettivamente. Il Villa, che era partito con un 4-2-3-1 apparente, perché non si comprendeva bene la posizione di Veretout in fase difensiva e non c’era immediata coordinazione di area tra Bacuna e Gueye, si accascia sul 4-4-1 con un centrocampo composto da Bacuna esterno di destra, Gueye centrale di destra, poi Veretout e Gil. Agbonlahor unica punta, ma con palese consegna di non aspettare mai la palla bensì restare dietro, e al massimo occupare spazi vuoti in caso di riconquista. È il periodo, per il resto del primo tempo, in cui il West Ham è costretto a giocare e impostare senza poter beneficiare di errori altrui in fase offensiva, quelli che in squadre poco organizzate lasciano lo spazio per ripartire. E la trafila è la stessa: quando si parte dalla difesa, il primo passaggio è per Song che si sposta da uno dei lati, mentre quasi tutti i compagni di squadra, ad eccezione di Noble o Kouyate a turno, si portano avanti per impegnare la linea arretrata e il centrocampo, formando una massa concentrata in 20 metri di profondità a partire dal limite dell’area del Villa.

Un effetto visivo palese, magari di quelli che rendono la Premier League un campionato tatticamente diverso da tutti gli altri: ed è la giornata giusta per ricordarlo, dato che è di 24 ore prima l’annuncio dell’arrivo al Manchester City di Pep Guardiola, seguito immediatamente dai commenti di Quique Sanchez Flores e Jurgen Klopp, che hanno previsto grandi cose per il catalano, a patto che sappia che come si gioca a calcio in Inghilterra, nel bene o nel male, non si gioca in nessun’altra parte. Qualche calcio piazzato, qualche accenno di ripartenza del Villa frenato da imperizia tecnica o dall’inferiorità numerica non solo assoluta ma anche relativa delle singole iniziative, e un’uscita dal campo, all’intervallo, in una miscela di silenzio, qualche buuu e alcuni sospiri. Molti avevano anticipato di alcuni minuti la corsa al bar, ma è uno scenario abituale, al quale si rinuncia solo in situazioni particolari di partita. Non colpisce nemmeno più, non sorprende, non delude neanche.

Fa più freddo di altre volte, anzi fa proprio freddo ed è la prima volta, e i due vicini dal lato destro scompaiono anche loro, tornando a inizio secondo tempo con un bicchierone di caffé. Magari è una scemenza da eccesso di curiosità, ma è segno dei tempi che sugli spalti non si bevano più automaticamente tè o il Bovril, bevande di tempi che assomigliano a questa sera, con il vento obliquo che fa volare cartacce e quando esci dalla partita sembra incanalarsi nel vicolo dietro la Bobby Moore Stand e accompagnarti nella direzione che vuole, a prescindere dalle tue intenzioni. L’intervallo finisce prima del caffé del mio vicino, fortunatamente per il suo intestino, e l’impressione immediata è quella che in quei minuti Slaven Bilic abbia detto qualcosa ad effetto, probabilmente senza risparmiare parole incisive. Non è che l’Aston Villa abbia cambiato qualcosa, perché c’è poco da fare in 10 contro 11: ma il West Ham cerca di accelerare le operazioni, un maggior numero di uomini si muove per rendersi disponibile al passaggio, portandosi dietro di conseguenza un difensore o un centrocampista che non può permettersi di concedere troppa libertà, e nel gioco gatto-topo si creano maggiori spazi sulla fascia. Un esempio, qualche minuto più avanti, è in una decina di passaggi rapidi, anche in poco campo, che rendono corta la laboriosa coperta del Villa e permettono a Payet, da destra, di ribaltare il lato su Cresswell: il terzino controlla perfettamente al volo e, con un solo avversario davanti, spara verso l’angolo opposto, costringendo Bunn a una splendida parata, di quelle che viste dal vivo, da dietro, ti confermano l’immensa difficoltà del ruolo di portiere. Dopo 13’ il gol, ed è un paradosso che non venga da una manovra come quella precedente, ovvero di lavoro ai fianchi dell’avversaria allo scopo di aprire prima o poi un varco, ma da una intuizione di Noble, che arretrato come sempre ad aiutare la costruzione di gioco vede la posizione avanzata di Antonio e dal centrosinistra incrocia lungo. Antonio arriva di testa, indirizza sul palo opposto e la palla entra senza rumore, con Bunn preso in controtempo, come succede sempre nei casi in cui l’attaccante sa cosa deve fare.

Mentre tutti si rimettono a sedere, la curiosità allarga lo sguardo ai due lati. Sulla destra, lontana ma visibile come sempre, la M25 sembra intasata, a giudicare dai fari delle auto, pressoché stazionari e incolonnati. Sulla sinistra, attraverso il vetro della Bobby Moore Stand, che nei lati assomiglia tanto alle tribune del vecchio Highbury, si scorge illuminata la sagoma del Barbican Centre, sotto cui si è passati nel tragitto da St.Pancras, e per un attimo lo spirito si solleva rispetto alla ripresa del gioco, ai cori, agli applausi e torna a quel 1992 in cui c’era stato l’invito da parte di un fotografo italiano residente a Londra a trasferirsi là e aprire un ufficio di corrispondenza calcistica, ma avevo declinato per mancanza di coraggio, e per la tuttora presente consapevolezza che sarebbe bastato un altro italiano scaltro, viscido e piacione - a Londra abbondano - magari dopo un periodo a procacciare clienti per i bus Terravision, per prendere il mio posto, anche senza avere competenza specifica. Chissà perché, avrei cercato un monolocale al Barbican Centre, e questa storia mi viene in mente ogni volta che lo vedo.

Tornando a noi, la sensazione è quella che il Villa non possa pareggiare se non in circostanze bizzarre: al 71’ , uno dei tanti che al Manchester United hanno ottenuto meno di quel che potevano, e andati altrove sono riusciti addirittura a fare peggio, sostituisce Gil anche nella posizione in campo, mentre all’80’ Scott Sinclair entra al posto di Agbonlahor. Chiaro: un pizzico di estro e velocità per sperare in qualche ripartenza nel finale, anche se mette i brividi pensare che qualche mese fa Sinclair, mai più in evidenza dopo gli exploit con lo Swansea cinque anni fa, era stato presentato come un rinforzo per i Villans, affermazione che aveva fatto comprendere come stessero arrivando tempi duri. Non serve a nulla, ovviamente. All’85’ a dire il vero c’è un corner su cui avanzano quasi tutti i giocatori ospiti, ma sulla respinta si innesca il contropiede che Kouyate conclude infilando il 2-0 che spezza il Villa. Nel resto della partita Bilic cambia e fortifica: Moses sostituisce Valencia al centro dell’attacco ma 2’ dopo, con l’ingresso di Jelavic per Antonio, si sposta a destra lasciando la posizione al croato, mentre al 93’ Obiang rileva Kouyate anche come posizione in campo, come interno di sinistra. Resta un dubbio: perché, dopo una intera partita con Okore sul centrodestra e Lescott sul centrosinistra difensivo, a 10’ dalla fine i due si scambiano posizione, prima ancora delle sostituzioni del West Ham? In campo gli Irons non avevano cambiato nulla, e se era un tentativo di Garde di lasciare meno vulnerabilità dinamica dal lato dell’irruente Antonio allora il tentativo è arrivato con 80 minuti buoni di ritardo. Sono però aspetti del calcio che mi affascinano: tra le poche domande non fatte a Claudio Ranieri dopo il trionfo del suo Leicester City c’è ad esempio la spiegazione del perché Huth e Morgan, che avevano iniziato la stagione rispettivamente sul centrodestra e sul centrosinistra, si siano poi invertiti di posizione. Non può essere un caso, ma ora è troppo tardi per verificarlo.

Chiusa la pratica Aston Villa, temo per qualche anno, c’è l’ansia di arrivare in tempo al deposito bagagli a St.Pancras e correre poi a Euston per il treno Virgin delle 23.30. Assurdo provare ad andare a Upton Park: bisogna incamminarsi a passo rapidissimo lungo la Barking Road, superando l’Excel Hotel che assicura parcheggio per 3 sterline e probabilmente stanze allucinanti per dieci volte tanto, e arrivare alla Greengate Street, il primo incrocio significativo che accoglie chi arriva da Canning Town. Da lì si prende il primo bus verso nord, il 262 che porta a Stratford, ma il traffico è lento ed è troppo rischioso fidarsi. Per cui giù a Plaistow, un paio di minuti per entrare in metro, il cambio a Mile End, la Central Line (la rossa) per Liverpool Street, la Circle Line (gialla) per St.Pancras e il fiatone per arrivare al deposito alle 22.50, ovvero 10’ prima che chiuda. Tardare avrebbe voluto dire non poter prendere il volo per gli Stati Uniti il mattino dopo, o prenderlo senza bagagli che comprendono anche utili strumenti di lavoro. Una prospettiva allucinante, che chiarisce comunque ancora le parole di Andrea di inizio capitolo. Cronisticamente, sarebbe finita qui, se non fosse che a Euston girano tifosi di varie squadre che hanno giocato quella sera, tra cui Arsenal, Crystal Palace, Bournemouth e ovviamente Aston Villa. Che giustamente prendono il mio stesso treno per Birmingham, silenziosi. Ma è un aggettivo ridondante: in un buio mercoledì di febbraio, dopo un’intera giornata in giro, sarebbero silenziosi i tifosi di qualunque squadra, a prescindere dal risultato. 12

HAPPY HAMMER (SUNDERLAND)

Sabato 27 febbraio 2016, ore 12.45: West Ham United-Sunderland 1-0 (Antonio 30’)

WEST HAM Adrian - Byram, Collins, Ogbonna, Cresswell - Noble (Obiang 82’), Kouyate, Lanzini (Moses 63’) - Antonio, Emenike (Carroll 60’), Payet.

SUNDERLAND Mannone - Yedlin, O’Shea, Koné, Van Aanholt - Kirchoff -N’Doye, Cattermole, M’Vila, Khazri - Defoe.

KLM 1582 Bologna 6.30 - Amsterdam 8.45 KLM 2406 Amsterdam 11.10 - London City 11.25 28 febbraio KLM 1000 Londra Heathrow 6.30 - Amsterdam 9.00 KLM 1583 Amsterdam 10.25 - Bologna 12.15 «Go away». Se ne vada. Guardi che ho solo detto che sono qui per vedere una partita del West Ham a cui sono abbonato, non ho la presunzione di essere tifoso. È lei che mi ha chiesto il motivo del mio viaggio a Londra - come è suo pieno diritto - non gliel’ho detto spontaneamente. «Go away, I said». L’addetta al controllo passaporti dell’aeroporto di London City non vuole vedermi un secondo di più. Forse odia il West Ham, oppure odia il calcio, ma sembra più probabile la prima spiegazione. Mi fa passare in fretta, e mi fa pure un favore, dato che i tempi sono stretti. L’atterraggio da Amsterdam è avvenuto alle 11.15 locali e nel giro di dieci minuti sono già nella sala arrivi, al banco informazioni, dove lo scenario sul piano dialettico cambia completamente. Devo infatti lasciare al deposito la piccola valigia, che contrariamente al solito ho dovuto portare con me. Spiego all’addetta il perché («non posso certo farla entrare allo stadio») e la reazione è radicalmente diversa da quella di pochi istanti prima. «Abito a poche decine di metri dal Boleyn!» dice scintillando Debbie, che prende in consegna la borsa. Modero l’istinto di risponderle «Che sfortuna!», considerando la sua gentilezza squillante e la sporcizia del quartiere, e ribadisco subito anche qui la mia volontà di non usurpare il titolo di tifoso a chi tifoso, cioé locale e cresciuto in quella cultura, lo è davvero. Senza riuscirci, perché Debbie rivolta a una sua collega mi indica e aggiunge subito «He’s a happy Hammer!» e a quel punto rinuncio a ulteriori spiegazioni e mi tengo appiccicato addosso un appellativo, e un mondo emotivo, che non merito.

Comincia bene, con un (banale) aneddoto non provocato, una giornata iniziata nella vita reale dodici ore prima. La lunga serata lavorativa del venerdì di Eurolega, non una novità. Il solito pullman notturno di Baltour per Bologna delle 23.59, l’arrivo in aeroporto alle 3.30 e per fortuna - ma non è fortuna, è pianificazione - viaggiando con una delle compagnie associate al programma Flying Blue si può accedere dalle 5.30 al salottino, per rimettersi un pochino a posto. Nell’attesa che le porte del salottino si aprano, qualche riflessione e qualche calcolo, figli della settimana precedente, molto movimentata sul piano logistico. La vittoria del West Ham a Blackburn in Coppa d’Inghilterra, infatti, ha aperto troppe parentesi di incertezza su quel che potrà avvenire tra marzo e maggio. Salta di sicuro la partita di Premier League del 12 marzo contro il Watford, a causa del quarto di finale di coppa da giocare a Manchester il giorno dopo.

Ma salta anche quella in casa contro lo United del 23 aprile, perché è il weekend delle semifinali di FA Cup e ovviamente una delle due, Manchester United o West Ham, sarà impegnata. Considerando le solite variabili aggravate dalle stupide regole internazionali, che impediscono la disputa di partite di Premier League nelle serate di Champions League, è addirittura possibile che il recupero contro lo United si giochi dopo il 7 maggio e dunque diventi l’ultima gara al Boleyn Ground, sostituendosi a quella contro lo Swansea, attesa fin dal giorno in cui è uscito il calendario. In quel caso però sarebbe un’infrasettimanale e causerebbe enormi problemi: si ritiene infatti che oltre ai circa 35.000 spettatori ci saranno nella zona dello stadio altrettanti tifosi desiderosi semplicemente di vivere l’atmosfera della giornata, e gestire quel numero di persone in notturna, in una zona dove è difficile respirare già nelle occasioni normali, diventerebbe impossibile per tutti, portando a problemi di sicurezza, e rischierebbe di rovinare l’esperienza a chi intende rendere omaggio allo stadio e alla sua storia. Il possibile percorso del Manchester United in Europa League, dove affronterà il Liverpool nei giovedì prima e dopo la partita di FA Cup, complica ulteriormente le cose. E si aggiunge anche la voce, raccolta dall’amico Luca, di un anticipo comunque di West Ham-Swansea City alle 12.45 di sabato 7, sempre per evitare di trascinare a sera, anche la sera luminosa del brillante maggio britannico, eventuali festeggiamenti, cerimonie di simbolico lutto e il viavai caotico associato a occasioni del genere. Di tutto questo tra l’altro potrebbe non fregarmi nulla, se non fosse che ovviamente devo programmare le trasferte all’insegna del minor costo possibile, e dunque prima si conoscono le date meglio è, specialmente per una partita delle 12.45 che comporta minori margini di manovra mattutina.

Come accade oggi, del resto, con un’ora e 20 minuti scarsi tra l’atterraggio a London City e l’inizio della partita. Un tragitto già sperimentato e molto semplice, persino rapido: addirittura, casomai cessassero di girare tutti i mezzi pubblici, partendo a piedi dall’aeroporto si arriverebbe allo stadio giusti giusti per il calcio d’inizio, ma in condizioni che è meglio non ipotizzare. Da giorni - forse è meglio dire da mesi - si parla dell’attesa per il ritorno di Sam Allardyce, che ha guidato il West Ham per quattro anni senza mai conquistare il pubblico. Riconoscente per la promozione conquistata al primo tentativo, nel 2012, ma indispettito per uno stile di gioco ritenuto troppo elementare, grezzo, semplice, imperniato sul lancio lungo per la punta centrale, la spizzata di testa a favorire la seconda punta (Carroll e Nolan, entrambi già visti al Newcastle United con lo stesso allenatore), la rigidità delle teorie, l’aggressività prima della tecnica. Una critica mossa ad Allardyce da anni, che deve suonargli particolarmente gravosa. Molti indizi fanno una prova, e tra gli indizi ci sono alcune considerazioni non benevole di tecnici avversari, ma il timore - il mio, almeno - è che si tratti di una reputazione costruita su fatti lontani e perpetuata senza reale spirito critico, per partito preso, per conformismo, tutti malanni che tra i media e dunque tra i tifosi - o viceversa, se si riesce a distinguere - sono molto diffusi. Fosse falsa, la nomea di rozzo, farebbe bene Allardyce ad agitarsi ogni volta che la sente: anche perché già ai tempi del Bolton Wanderers, portato in Premier League al secondo anno (2000-01), da un lato nascevano le accuse di gioco rudimentale, dall’altro spuntavano anche rari articoli in cui si evidenziava l’utilizzo innovativo, da parte del cosiddetto Big Sam, di psicologi dello sport e allenatori specifici per reparto, frutto - si dice - di quanto visto nel suo periodo da giocatore negli Stati Uniti e del contatto quotidiano con la squadra NFL che prestava il campo di allenamento alla squadra di calcio.

Il tragitto da London City verso West Ham sulla DLR è luminoso come al solito. Anche questa volta, nonostante il cielo coperto e la promessa (perché “minaccia”?) di pioggia, c’è un chiarore inspiegabile lungo il percorso, contrassegnato anche dalla macchia nera e soprattutto rossa del Valley, lo stadio del Charlton Athletic, appena al di là del fiume. Il panorama è suggestivo, tra i pochi movimentati di questa parte di Londra, con la celebre collina sulla quale sembra appoggiarsi il Valley, che fornisce a chi ha il tempo di fare una delicata passeggiata una visuale inedita sullo stadio e - volendo, potendo, riuscendo - anche alla zona in cui mi trovo ora. Salito sulla metro alle 11.39, alle 11.50 sono a West Ham per il cambio di linea, e alle 11.57 scendo a Upton Park, camminando lungo il binario, e verso l’uscita, con i piedi strisciati come si fa sempre quando si è in mezzo alla folla e l’andatura è comicamente dettata da movimenti altrui al rallentatore. Poco prima di scendere sbircio un foglio che tiene in mano la persona vicina a me: è una lettera del West Ham con allegato il biglietto per la partita di oggi. Il signor W. Ramos di nazionalità (a me) ignota, cioé la persona in questione, è palesemente felice di andare allo stadio, magari per la prima volta, e tutto di un tratto mi rendo conto che nello spazio di poco più di tre metri quadrati siamo in due ad essere intrusi, perché mister Ramos non ha certo l’aria di uno che faccia partire canti, lanci battute a base cockney e si butti su una pie and mash come pasto preferito.

A proposito, i tempi stretti impediscono di mangiare seduti, e per motivi pratici la scelta migliore per oggi è quella di un hamburger al volo al Ken’s Café, preso dalla postazione provvisoria esterna con piastra: costa due sterline, ovvero meno della metà di quanto si pagherebbe dentro, ma a dire il vero di sostanza ce n’è pochina, zero patatine e una smagrita fettina di carne con cipolla. Per variare, invece, programma ufficiale preso dal chiosco davanti al fast food cinese, e poco più avanti a 2,5 sterline la spilla del Thames Ironworks che accompagnerà sullo zaino o sul berretto il resto della mia stagione. C’è un’aria cotonata in giro, come se l’intero quartiere si fosse alzato più tardi del solito e dovesse ancora comprendere in pieno i compiti e gli eventuali piaceri della giornata. C’è silenzio, c’è un giro di voci basse, c’è la sensazione palese e specifica che non sia questo l’orario giusto per una partita di calcio; la percezione, almeno la mia guardandomi intorno e ascoltando a fatica i suoni filtrati dal cervello, che i sensi non siano ancora pronti a quello che ci aspetta, che questa volta l’interruttore che tutto d’un tratto trasforma giornate comuni in giornate allo stadio, con la travolgente sequela di emozioni che ne seguono, verrà fatto scattare una volta che inizierà la partita, e non prima.

Forse nel giudizio mi faccio condizionare dal fatto che il numero di bagarini è superiore al solito, e il loro “anyone selling tickets?” mi fa pensare che siano tanti, oggi, ad aver preferito fare altro che venire al Boleyn Ground, o forse l’aria più dimessa del solito è data anche dal viavai di persone che depositano un fiore o una foto nell’angolo dell’ingresso principale, i John Lyall Gates, in memoria di Bobby Moore, il capitano per antonomasia del West Ham (e della nazionale), di cui tre giorni fa è stato il 23esimo anniversario della morte. Mi ha sempre colpito il giardino della memoria sorto spontaneamente lì a destra dei cancelli, incastrato in pratica in un angolo del parcheggio dei giocatori, sotto un albero protettore. Colpisce ogni volta la varietà degli omaggi a tifosi che non ci sono più, quasi sempre deliziosi e delicati e con un ricorrente e gradito tono locale e antico che non può non essere gradito ai miei occhi di ricercatore utopistico dell’East End tradizionale e del West Ham tradizionale. Che - attenzione - non sono concetti legati a periodi brevi e di effetto su di me perché manifestatisi in un’età in cui ero facilmente impressionabile: in Inghilterra quartieri, impianti sportivi e modo di usufruirne sono rimasti realmente quasi intatti per decenni, tanto da costituire una lunga era sociale e calcistica concreta e non un ideale falsato dal fatto che li abbia conosciuti (io come tanti) nel periodo di maggior voga. Mi viene in mente quanto scritto su Twitter alcune settimane fa da un tizio inglese, che pubblicando la foto della celebre macchinetta a manovella in dotazione ai bigliettai sui bus inglesi ha ricordato con nostalgia il loro suono, tipo centrifuga meccanica, nel momento in cui l’addetto girava la manopola e faceva uscire il tagliando. Aggiungo il “fares, please” con cui chiedeva di vedere i biglietti di chi già li aveva e il quadretto di un tempo - lungo decenni - con minori agi e più rilevanza dei singoli momenti è completo, e non solo perché le richieste analoghe fatte ora da rari bigliettai italiani sul trenino locale trovano quasi sempre accoglienza ostile, specialmente da chi finge di non conoscere la nostra lingua.

Il ricordo del rumore della macchinetta del bigliettaio mi distrae al punto che mi dimentico non dove sono ma che ora sia, e una volta che me ne sono reso conto mi infilo nel tornello, facendo come sempre attenzione a non lasciarci un arto o - peggio - lo zainetto con quaderno e computer, alle 12.44, dunque in ritardo, mentre I’m forever blowing bubbles nella sua seconda versione, quella eseguita a squadre già schierate, sta sfumando. Tuffatomi al mio posto tra mille scuse a chi si deve alzare per farmi passare, chiedo con un certo imbarazzo al gigantone alla mia sinistra se per caso ci siano state contestazioni a Allardyce o Defoe. «Quasi niente» risponde, e questo mi rasserena, perché non ho mai capito il senso delle contestazioni di parte. In politica non vi piace un candidato? Non votatelo, che bisogno c’è di insultarlo pure, se non per frustrazioni proprie? Un calciatore ha detto qualcosa che non vi garba? Ignoratelo. E questo vale anche per i giornalisti. Nonostante un corposo lavoro di pulizia, nella mia cronologia su Twitter compare però ogni tanto chi critica questo o quel giornalista, e se non è la prima volta che avviene la mia reazione è sempre la stessa: ma se vi dà fastidio e non lo amate, perché lo leggete? Non capisco, davvero, il senso di andare a controllare ogni giorno ciò che ci infastidisce. Abbiamo poco tempo, perché sprecarlo per chi ci irrita e basta? Ho messo in “mute” centinaia di persone su Twitter, prevalentemente politici e opinionisti, e in questa maniera evito di trovarmeli ad ammorbare la mia cronologia, anche se ogni tanto la rete si dimostra fallace e scatta l’irritazione.

Comunque sia, dei due è stato più notato (diciamo così) Defoe, che nel 2003 aveva chiesto il trasferimento neanche 24 ore dopo la retrocessione del West Ham, suscitando l’ovvia collera dei tifosi, che lo avevano poi visto andare via nel gennaio del 2004, e… al Tottenham, tra le squadre meno simpatiche ai supporter Irons. Defoe si era poi scusato per il gesto, che aveva attribuito a inesperienza (aveva 21 anni, all’epoca), ma non è mai stato molto amato nei suoi ritorni al Boleyn con altre maglie, e pazienza se dall’altra parte del fiume sono sempre arrivate risate di fronte a questi sviluppi e alle accuse di tradimento: al Charlton Athletic infatti non dimenticano che lo stesso Defoe - nato a , a poche fermate di metropolitana da Canning Town, e cresciuto sempre nei dintorni ovvero Forest Gate e Custom House - nel 1999 firmò a sorpresa con il West Ham il suo primo contratto da professionista dopo essersi formato proprio presso gli Addicks, che lo avevano inviato sotto la loro tutela al celebre centro federale di Lilleshall. Defoe - a mio avviso uno dei realizzatori naturali più efficaci del calcio inglese dell’ultimo ventennio - anche oggi gioca solo al centro dell’attacco del Sunderland, schierato con un 4-5-1 che pare in realtà un 4-1- 4-1, con Kirchoff più indietro rispetto agli altri due interni di centrocampo, M’Vila a sinistra e Cattermole a destra; ai lati, Ndoye e Khazri, che si invertiranno saltuariamente di posizione, un po’ di più a metà secondo tempo, con Khazri dunque spostato a destra. I quattro dietro sono, da destra, Yedlin, Koné, O’Shea e Van Aanholt. Il West Ham - che dopo la partita col Villa ha perso a Southampton e pareggiato in rimonta a Norwich - riprova con Emenike punta centrale, dopo la bella partita a Blackburn, Antonio sulla destra e Payet sulla sinistra. Kouyate come sempre davanti alla difesa, Noble alla sua destra e Lanzini dall’altro lato. Collins e Ogbonna centrali, Cresswell sulla fascia sinistra e Byram sulla destra, soluzione quasi obbligata dato che dopo l’infortunio della partita del mese scorso Jenkinson è tornato a curarsi all’Arsenal, e l’accordo di prestito è stato cancellato.

La partita rispecchia la mattinata e la giornata: spenta, batuffolare, soffusa. Ha l’aria del prolungamento di un clima invernale che in realtà raramente c’è stato, anche se oggi fa più freddo del solito. L’ambiente è l’equivalente di una mattina in ciabatte e vestaglia di flanella, al di là dei cori comandati. Lunghi silenzi - non nuovi, al Boleyn - e borbottii, una luce spenta che ad esempio mi fa notare per la prima volta (!) alberi grigiastri che spuntano dietro la East Stand e la Trevor Brooking Stand e che mi ricordano, d’improvviso, scenari come quelli di Blackburn e Burnley, perlomeno visti attraverso l’occhio della telecamera. A proposito di tribuna Brooking, dopo un tardo pomeriggio di speranza contro il Manchester City è di nuovo spento l’orologio elettronico, per cui bisogna tornare a rovinarsi la vista cercando di capire dal tabellone luminoso a che minuto di gioco si sia: non ho fatto partire infatti il cronometro del cellulare, un po’ perché sono entrato a partita iniziata un po’ perché c’è sempre questo incubo della batteria, e non è sempre comodo o dignitoso infilare il cavo nell’anticamera della toilette, facendo sorridere chi vi entra non tanto per l’idea quanto per lo stupore che ci sia chi va allo stadio portandosi appresso il cavo stesso. Sul tabellone, tra l’altro, spunta un nuovo logo in occasione delle sostituzioni: non c’è ancora il coraggio di sbattere in faccia lo stemma che subentrerà dal 2016-17 a quello con il Boleyn Castle, ma i martelletti sono stilizzati e il disegno è più lineare e pulito, anche se il tutto si mescola a pubblicità di ditte perlopiù locali (“Fuelbox” di Harrow, Essex, carburante per generatori), con grafica non raffinatissima, che mi confortano ma stonano rispetto all’aria più internazionale che il club vuole darsi.

Dopo mezz’ora di gioco comandato dal West Ham, ma senza eccessi di pericolosità, Antonio dal lato destro tenta un uno-contro-uno su Van Aanholt, soccorso in modo morbido da Ndoye. Inizialmente la giocata non riesce, ma un rimpallo sul difensore del Sunderland libera in realtà la palla dentro l’area, e prima dell’arrivo in scivolata di Kirchoff Antonio la colpisce di interno sinistro, cadendo, e la mette piano piano sul secondo palo, troppo lontana dal tentativo lento di Mannone. L’ala del West Ham (che bello scrivere “ala”) sparisce alla mia vista, inglobato dai compagni, e scoprirò solo in serata che il suo festeggiamento è stato “alla Homer Simpson”. Il che per me non vuol dire nulla fino a che non vedo Match of the Day - oh meraviglia - e scopro che consiste nello sdraiarsi su un lato e fare un giro su se stessi mulinando le gambe, una sorta di pedalata da accasciati. Il gol cambia poco: il maggior possesso di palla degli Irons non sfocia in null’altro, e dall’altra parte ci sono rari risvegli in contropiede, che suscitano timore più che altro per la che segni proprio Defoe e per il senso generale di torpore che sembra essere calato sul campo.

Qualcuno urla anche «wake up!» (“sveglia!”) e per un attimo è come se quelle due semplici parole mi strappassero dalla partita e mi trasportassero indietro di cento e più anni, a una categoria professionale bizzarra nata all’epoca della Rivoluzione Industriale e diffusa anche da queste parti. Quella dei (o delle, c’erano anche tante donne) knocker-upper o knocker-up, ovvero persone pagate per far alzare dal letto chi non aveva un orologio o una sveglia e doveva andare al lavoro. La tattica consisteva nel battere con bastoni (compresi quelli usati per spegnere i lampioni a gas) su porte e finestre o spararvi contro dei sassolini con una cannuccia fino a che il destinatario di tale sbrigativo messaggio non sporgesse la testa e desse segno di avere capito e di essere ormai pienamente sveglio. Prima di farmi prendere da un dubbio terrificante, cioé chiedermi se i knocker-upper fossero a loro volta svegliati da colleghi in una sorta di ciclo continuo, riconosco che forse ce ne vorrebbe una versione moderna per ridestare le due squadre e l’ambiente stesso, che continua ad essere spento. Anche nell’intervallo, che già normalmente rappresenta un notevole calo di tensione ed attenzione rispetto al primo tempo, per la sparizione dagli spalti di migliaia di spettatori diretti ai bar, o semplicemente a sgranchirsi le gambe negli stretti corridoi.

Nel secondo tempo cambia poco ma il Sunderland trova qualche spazio in più, specialmente quando dal 63’ Rodwell sostituisce Cattermole cambiando posizione con M’Vila e proponendosi più volte vicino all’area avversaria, compresa un’occasione in cui sbaglia un tiro che dalla mia prospettiva sembrava solo dover essere indirizzato verso la porta per entrare. Al 63’ cambia anche il West Ham mettendo Moses al posto di Lanzini: semplice la modifica tattica, con il nuovo arrivato che va sulla fascia sinistra, con Payet che passa interno. Vengono a mancare gli ormai famosi triangoli dinamici tra Lanzini, Cresswell e Payet che tolgono significato alle singole posizioni iniziali creando da quel lato combinazioni continue, fonte del gioco degli Irons tanto quanto la capacità di Kouyate, quando la palla deve uscire dalla difesa, di allargarsi per riceverla in armonia con i movimenti a rendersi disponibili dello stesso Lanzini e di Noble. L’aumentata pericolosità offensiva del capitano, ragazzo di Canning Town, in queste settimane di magra generale, nasce anche dalla maggiore libertà di cui gode, con avversari spesso intasati dalla necessità di custodire gli spazi sfruttati dal trio di sopra: non è un caso che ancora nel primo tempo abbia preso la traversa - deviazione decisiva di Mannone - su un passaggio orizzontale di Lanzini che era uscito da un gioco di tocchi corti sul lato sinistro, restringendo la coperta del Sunderland che non aveva potuto chiudere sul glorioso Noble.

Non si vedono però in giro knocker-upper e la sveglia non funziona del tutto, per cui la partita prosegue senza brillantezza ma con alcune occasioni che gli ospiti sfruttano molto male, in particolare una con Rodwell - che involuzione, che dispiacere - e a pochi minuti dalla fine un’altra con Khazri, che invece di controllare e crossare (o tirare, da posizione defilata) cerca un tocco di gettando la palla dritta oltre la linea di fondo. Scoprirò domani che di questo gesto tecnico di saggezza discutibile Allardyce dirà «non voglio commentare perché potrei dire cose di cui poi pentirmi», e ha ragione. Dall’82’, tra l’altro, con Obiang in campo per Noble il West Ham passa al 4-2-3-1: Kouyate alla destra del nuovo entrato, e davanti a loro Antonio, Payet e Moses a sorreggere Carroll.

Una partita malata di atrofia emotiva si chiude quindi con quello che i giornalisti del passato avrebbero definito il massimo risultato con il minimo sforzo. Per il West Ham ma chiaramente non per il Sunderland, anche se il termine “sforzo” mi insospettisce sempre, così come “impegno”. Chi siamo noi per giudicare da lassù o quassù il livello di coinvolgimento fisico ed emotivo di un giocatore? Il diverso modo delle singole persone di esprimere sentimenti o sensazioni è anche la differente maniera di mostrare combattività, e non è detto che il centrocampista ringhiante getti in una partita più energie della seconda punta che pur senza contrastare quasi nessuno è costantemente all’erta sui palloni nei pressi dell’area e si posiziona con saggezza ai margini degli spazi promettenti, in modo da infilarvisi nel momento giusto.

Si sfolla in un momento in cui in quasi tutti gli altri stadi si comincia ad animare la giornata, ma quello che accade altrove non mi interessa, in questa annata monotematica, ed è anzi il caso di sfruttare le restanti ore di luce. Senza fretta, perché l’unica combinazione di volo abbordabile era per un ritorno la domenica mattina, e anche la somma di volo più hotel è comunque inferiore alla spesa per il solo volo di ritorno per questa sera. È oltretutto la prima occasione di viaggio a Londra senza l’impegno lavorativo della domenica, essendo finito il campionato NFL , e dunque domani non ho neppure l’ansia di correre subito a Fox Sports come se il mondo stesse per finire.

Avendo interrotto per la partita contro l’Aston Villa il flusso cognitivo ed emotivo verso Canning Town e le zone tra Upton Park e il Tamigi, mi incammino lungo Green Street passando la Boleyn Tavern dal cui cortiletto escono canti, poi lungo la Barking Road e oltrepasso (dal lato opposto) l’Excel Hotel, un lavaggio auto che sa di losco, la sequela di negozietti che duellano con i loro frequentatori nell’abbassare il livello estetico della zona, il Delicious Café che pare avere aspirazioni dignitose ed è infatti pieno di persone palesemente reduci dalla partita. D’improvviso vedo il bus 376 e ci salgo sopra senza neanche sapere dove stia andando, come ai vecchi tempi in cui l’esplorazione di Londra avveniva così. Ovunque vada, del resto, posso sempre restare a bordo al capolinea e tornare indietro. Naturalmente alla prima fermata la voce registrata, non quella sensuale della DLR ma quella più pacata dei bus, dice che il 376 va verso la stazione di Beckton e mi va bene. Si passa presto in zone residenziali meno occluse di quelle che ci si è lasciati alle spalle: frequentissime macchie verdi da entrambi i lati e gruppi di case non necessariamente di lusso ma libere dalle piccole brutture che sommate, e ripetute, danno l’idea del degrado cercato da molti per potersene calare senza dare nell’occhio.

Mi viene in mente, nella zona extraterritoriale dietro alla stazione ferroviaria di Bologna, la scritta “Sì al degrado” verniciata su un muro: a parte la tautologia insita nel gesto, dato che scrivere qualsiasi cosa - anche “No al degrado” - con la vernice è degrado di per sé, l’idea che passa è proprio quella di voler trascinare nel proprio vortice di trasandatezza chi senza essere un cinico, un milionario o un opportunista cerca semplicemente di trattare con rispetto i propri dintorni. Qui a prima vista questo riguardo c’è, anche se esaminato di passaggio, dai finestrini di un autobus: ma con la stessa prospettiva ho visto molto di peggio, e dunque a parità di strumento qui sembra esserci una vivibilità maggiore. Nonostante si vada verso la zona dei Beckton Gas Works e dei Beckton Sewage Treatment Works, ovvero ex gasometro o officina del gas e impianto di trattamento e depurazione delle acque, convenientemente situato nei pressi anche del fiume Roding. Robaccia, insomma: i Gas Works, attivi dal 1870 al 1970, nel loro ciclo di esistenza fornirono gas per illuminazione e prodotti secondari, generando ovviamente nei dintorni un’aria poco salubre - ricordate il Metropolitan Building Act del 1844? - e lasciando depositi di scorie che, resi inoffensivi, a un certo punto vennero utilizzati come montagna artificiale con tanto di pista di sci e chalet in stile alpino a fondovalle (?), uno spettacolo di cattivo gusto a cui pose fine la necessità di far passare in quella zona l’ampliamento della A13, l’arteria di traffico che da Canning Town va verso l’Essex. La collina artificiale resta però, ed è il punto più elevato del distretto di Newham. Per la cronaca, o meglio per l’aneddotica, negli spazi abbandonati dei Gas Works vennero filmate tante scene del film Full metal jacket, che nella finzione scenica si svolgono in Vietnam. È anche la zona - più o meno accanto all’attuale stazione metro Prince Regent - dove sorgeva il West Ham Stadium, capienza 120.000 spettatori, che ospitò corse di cani e di speedway (le moto) tra il 1928 e il 1972. Era stato progettato addirittura da Archibald Leitch, il leggendario architetto ideatore di alcuni dei più begli impianti del Regno Unito, e per quattro anni, dal 1928 al 1932, fu la casa di una squadra chiamata Thames Association. La motivazione della sua nascita era stata curiosa: le corse si svolgevano infatti solo nei giorni feriali, per cui i dirigenti dell’impianto crearono il club calcistico al solo scopo di avere eventi al sabato (era accaduto anche con il Chelsea, altrove). Ma in quella zona c’era già il West Ham United e le non lontane Millwall, Orient e Charlton Athletic erano ormai società ben assestate, per cui a vedere il Thames andavano quattro gatti - i cani no, erano in libera uscita dopo le corse infrasettimanali - e dopo due anni di Southern League e due di Football League, in terza serie, il nuovo club venne sciolto. Restano il ricordo dei colori delle maglie - maglie a quarti rossi e blu, pantaloncini bianchi, calze nere - e un record, quello del più basso numero di spettatori per una partita di Football League giocata al sabato pomeriggio, 469 per la sfida al Luton Town del 6 dicembre 1930. Lo stadio rimase come catino per corse fino al 1972, ed è quello che si vede nella celeberrima foto di due bombardieri tedeschi intenti a sganciare bombe durante un raid sull’East End il 7 settembre del 1940.

Scendo a Cyprus, dove ha sede secondaria anche la University of East London, e prendo la DLR per tornare indietro dal giro panoramico, che però prosegue grazie alle carrozze di questa linea, senza guidatore o cabina di pilotaggio ma solo con un manovratore a lato e la compagnia della solita intrigante voce femminile che scandisce le varie fermate: a quella di Prince Regent, grazie alla lieve sopraelevazione, sulla destra è possibile scorgere il Boleyn Ground, ormai silenzioso. Un salto al a ritirare la valigia, vivendo l’esperienza bizzarra di essere… solo in un intero aeroporto, che il sabato pomeriggio chiude al traffico passeggeri ed è accessibile solo a chi abbia bagagli in deposito, poi l’East End resta purtroppo dietro le spalle, dato che l’hotel è nei pressi di Heathrow, comodo per il mattino presto, e comodo per vedere ancora Match of the Day. 13

O D’INGHIL PROFUM TERRA HAM HOT (TOTTEN SPUR)

Mercoledì 2 marzo 2016, ore 19.45: West Ham United-Tottenham 1-0 (Antonio 7’)

WEST HAM Adrian - Kouyate, Collins, Ogbonna - Antonio, Noble, Obiang, Cresswell- Lanzini, Emenike (Carroll 72’), Payet.

TOTTENHAM HOTSPUR Lloris - Trippier, Alderweireld, Wimmer (Carroll 77’), Davies - Mason, Dier - Lamela (Son 70’), Eriksen, Chadli (Alli 62’) - Kane.

British Airways 589 Linate 14.55 - Londra Heathrow 16.10 3 marzo EasyJet 5283 Londra Gatwick 7.15 - Linate 10.05 Sempre strano tornare a Londra tre giorni dopo averla lasciata, e sempre in maniera provvisoria e rapida. Per una partita tra le più sentite dell’anno, a causa della forte rivalità tra West Ham e Tottenham Hotspur - la squadra che più volte ha giocato al Boleyn, 72 - e della classifica degli Spurs, che arrivano con 54 punti in 27 partite, a -3 dunque dal Leicester City che ieri ha pareggiato in casa contro il West Bromwich Albion e dunque è raggiungibile, dopo molto tempo. Poche ore, stavolta come in altri casi. Partenza da Linate in lieve ritardo, alle 14.55, e volo stracomodo, anche perché purtroppo per la British Airways ci sono tanti posti a sedere vuoti e dunque quasi tutti i passeggeri possono sistemarsi da soli in file da due, per respirare meglio. L’ingresso in metropolitana, al Terminal 5 di Heathrow, è alle 16.35, dopo alcuni necessari minuti di ricarica del cellulare. Cambio a Holborn alle 18, a Mile End alle 18.20, ed esco da Upton Park intorno alle 18.40, dopo la solita processione lenta sul marciapiede del binario a causa della ressa.

Già sulle scale si percepisce un’aria diversa dal solito, un’aria più dura, una tensione diversa. Guarda caso, neanche il tempo di attraversare la strada e mi rendo conto che qualcosa non quadra. Una camionetta della Polizia è di traverso all'altezza del Queens Pub a bloccare il traffico, altre due sono lì accanto. Poliziotti a cavallo con aria nervosa, sull'asfalto schegge di bottiglie rotte e detriti vari, e un agente che con una telecamera tenuta in alto, con una mano sola, sta riprendendo la folla al bordo del marciapiede, proprio davanti al pub. Atmosfera elettrica, scrivo precariamente nel mio quadernino, e a distanza di qualche tempo non trovo aggettivi migliori. L'idea è che basti un niente a scatenare tumulti: anche se non accade nulla, di fatto, e quello che vedo è solo la conseguenza di un momento di tensione appena concluso. Ma la passeggiata a passo rapido verso lo stadio, anzi oltre, avviene con tutti i sensi tesi a percepire suoni e invasioni di spazio, a cogliere da lontano eventuali movimenti della folla, ondeggiamenti ai quali sottrarsi prima che degenerino.

Ho ancora il ricordo di quell'Arsenal-Tottenham del 30 agosto 1980 in cui, sedicenne ragazzo e sedicente tranquillo, mi stavo facendo i fatti miei a metà North Bank di Highbury quando un vocìo che mi sembra tuttora di sentire, per la sua repentinità e per i segnali di pericolosità che trasmetteva, mi fece capire che di nascosto erano entrati i tifosi del Tottenham che volevano conquistare il settore («taking the end» nel gergo specifico). Fuggi fuggi - io oltretutto non c'entravo nulla - e in mancanza di altri spazi saltai oltre il cartellone pubblicitario, su invito di una poliziotta, ed entrai in campo, per il breve tempo necessario a far terminare la sommossa. Ricordo bene il gesto di quella agente: braccia tese a me, palmi delle mani verso l'alto e dita mosse assieme verso di sé, rassicurante e decisa, quasi materna, nel prendersi cura di uno sprovveduto che però si muoveva con più sicurezza a Londra che nella propria città. Tornato al mio posto sulle gradinate, in basso cioé con la testa poco sopra l'altezza del cartellone pubblicitario, vidi la processione di poliziotti che portavano via alcuni dei teppisti camminando appena fuori dalla linea di fondo, e mi dispiace solo che, in quei tempi in cui ogni scatto con la macchina fotografica doveva essere ponderato, perché non se ne sapeva l'esito fino allo sviluppo della pellicola e le pellicole costavano, di quella scena mi sia rimasta una sola immagine: un agente e un hooligan, entrambi di schiena, con lo sfondo della West Stand di Highbury ancora mezza vuota.

Ma in realtà più vicini si è al Boleyn Ground meno è probabile che accada qualcosa, e l'atmosfera attorno a Firmager, issato sulla solita scaletta, è già meno carica di quella vissuta fino a dieci minuti prima. Compro il nuovo numero di OLAS, notando poi che i pezzi sono stati scritti per esigenze temporali prima di West Ham-Sunderland e dunque affrontano più i temi della rivalità con gli Spurs che questioni di classifica, poi supero Castle Street e mi metto in fila dal Rib Man, per questo sospirato assaggio di panino con le costine. Noto però, andando verso il fondo della coda, che all'incrocio con la Barking Road la statua dei tre campioni del mondo del West Ham più Ray Wilson, sulle cui spalle è issato Bobby Moore, è stata coperta, blindata da assi o forse lastre metalliche. Segno che ci si aspettava tensione, segno forse che era arrivato qualche messaggio minaccioso e che la cosiddetta intelligence, ovvero il controspionaggio calcistico, è stata allertata. Mi viene in mente una intervista fatta 20 anni fa, per il Guerin Sportivo, al responsabile del National Football Intelligence Unit della Polizia, parte del National Criminal Intelligence Service: ai tempi in cui in Italia chi parlava di calcio inglese si esibiva in orrendi errori - un noto quotidiano etichettò alcune partite del sabato ore 15 come «anticipi», credendo evidentemente che di solito in Inghilterra si giocasse di domenica come da noi - il Guerino confermava la sua superiorità di analisi e visione, e da quel dialogo emerse lo sforzo che la polizia inglese faceva su più fronti per arginare i fenomeni di violenza e anticipare gli scenari. Erano i primordi del web, gli sms erano appena nati e dunque bisognava ancora affidarsi al passaparola, a informatori, a persone ben piazzate; ora è possibile che eventuali pericoli per la statua dei campioni del mondo 1966 siano stati intercettati in forum o altre fonti, e immediatamente tradotti nella custodia cautelare dello storico monumento, perché tale è per tanta gente.

Ma cos'è questo profumo? Be’, le costine. Sette-sterline-sette (ma cinque per la versione ridotta) non sono poche, ma uno degli obiettivi di questa annata è sperimentare tutto quello che sperimentano i residenti e i tifosi abituali - a patto che sia di mio gusto: da astemio totale è ovvio che birre e affini restino lì - e dunque vai con Mark Gevaux ovvero The Rib Man, l'uomo delle costine, un signore di 48 anni con una gamba artificiale che per il 2016-17 si sposta nei pressi dello Stadio Olimpico ma al momento, affittati dal 2013 due metri quadri dentro il cortiletto esterno della Boleyn Tavern, dalla finestra sul marciapiede distribuisce senza sosta panini davvero deliziosi, anche se non mi azzardo nemmeno a provare la salsa - ehm - «Holy Fuck», probabilmente letale per schizzinosi e non amanti del piccante, come il sottoscritto. Obbligatori tovaglioli a profusione per non lordarsi nella frenesia di mangiare rapidamente quelle delizie, alle quali Gevaux si è dedicato in seguito all'amputazione della gamba sinistra, anni dopo l'incidente stradale che gliel'aveva gravemente danneggiata. Nessuno voleva sobbarcarsi il costo dell'assicurazione per assumerlo come macellaio, suo mestiere originario, e allora Gevaux si è dato alla cucina di strada, passando per Brick Lane che è diventato il tremendo paradiso per modaioli: la categoria che, con l'appoggio svergognato di media terrorizzati di restare indietro rispetto all'ultima tendenza, ha promosso a eroi «food blogger» e altri personaggi che un tempo non sarebbero usciti dall'oblio. Il Rib Man se non altro è genuino, schietto - molti hanno notato il turpiloquio sui social media - soprattutto è locale, dell'Essex, e rappresenta un faro rispetto alla robaccia che presumibilmente cuociono i vari fast food ‹etnici' della zona, e che del resto ho personalmente verificato.

Mi viene in mente lo studio condotto da un giornalista inglese, Sam Floy, su Londra: Floy ha determinato che la bellezza di una zona, misurata dai… costi di affitti e vendita delle case, dipende in misura direttamente proporzionale dal numero di caffetterie presenti e in misura inversamente proporzionale da quello di fast food a base di pollo. Inutile dire che Upton Park pullula di questi ultimi. Ricordando che l'area della Londra metropolitana attualmente più lanciata è Peckham, a sud del Tamigi, sono interessanti altri criteri che Floy vuole poi inserire nell'analisi, e che sembrano tratti dal manuale del modaiolo: l'oscillazione del costo del prezzemolo (ci avrei visto bene anche lo scalogno) al dettaglio, il numero di negozi che riparano biciclette, quelli che vendono quinoa, e - categoria opposta - quelli di prodotti a una sterlina o 99 pence. Cerco di non pensare al fatto che tra lo squallore delle zone in cui dilagano questi ultimi e lo snobismo liberal di chi vive altrove dovrei trovarmi una casa in una grotta per sfuggire a entrambe le categorie e - incredibilmente - abbandono questi pensieri contorti e punto all'ingresso del Boleyn, facendomi trasportare dal flusso ormai corposo, gettando la solita occhiata senza speranza al venditore di spille, ancora privo di quella con il faccione di Bonds.

Nella Bobby Moore Stand l'atmosfera riprende la sua carica elettrica, anche perché manca pochissimo alla partita, London Calling è appena finita con la sua carica mille volte sentita e mille volte trasmessa e insomma ci siamo. Ci pensano i tre ragazzi della fila sotto, di cui ho già sottolineato l'invidiabile combinazione di localismo, passione e amicizia: uno di loro parte con un classico, Stand up if you hate Tottenham, e tanti lo seguono. Anche qui, una prima volta: mai, finora, era partito un coro negativo verso un'altra squadra o un altro giocatore, al massimo c'era stata la solita ironia da stadio inglese, ad esempio verso il Liverpool, sia con la richiesta di poterlo vedere come avversario ogni settimana sia - qui già eravamo sul pesantino - con la versione contraffatta di You'll never walk alone. Primi minuti dunque vigorosi in campo e fuori, e il fervore si innalza quando al 7' Antonio - ancora! - segna quello che risulterà essere poi l'unico gol della partita, partendo dal disco del rigore, andando verso la palla su angolo a uscire di Payet dalla destra e torcendosi all'altezza dello spigolo dell'area piccola per girare di testa verso la porta. Anticipa il suo marcatore - Chadli - e dà alla palla una tale potenza che Lloris, pur reagendo con grande rapidità, non riesce a tenerla fuori dalla rete.

Neanche il tempo di mettere giù le formazioni e dare un'occhiata agli schieramenti. E dire che qualcosa, sul campo, aveva immediatamente colpito l'attenzione. La difesa infatti è a tre con, da destra, Kouyate, Collins e Ogbonna; laterali di fascia Antonio e Cresswell; Noble e Obiang affiancati e, davanti, Lanzini a destra e Payet a sinistra, con Emenike ancora punta centrale, anche se in alcuni momenti pare che in realtà l'argentino sia solo affiancato a Noble, con invece il francese di supporto a Emenike in un 3-5-1-1. Cosa è successo, come si spiega questo sviluppo? Si spiega, ma è il tipo di elaborazione a posteriori che certifica la superiorità di un allenatore rispetto a un commentatore: DOPO, infatti, siamo tutti bravi a descrivere, ma l'idea originale è di Bilic, che ha spiazzato tutti. Tale idea è ovviamente quella di non lasciare spazi in mezzo al campo per la rapidità e la pericolosità dei quattro degli Spurs, di presentare dunque un fronte difensivo che non vada in inferiorità numerica e di ovviare a una lacuna. Con Byram squalificato e Tomkins (oltre a Reid e Valencia, ma è altro discorso) indisponibile, l’allenatore croato non aveva infatti un terzino destro vero da mettere in campo. A Blackburn in Coppa d’Inghilterra ci ha giocato Antonio, che però non lo è di natura, anzi: la corsa c’è, la grinta c’è, ma il senso della posizione è da rivedere, e sono pericolosissimi i momenti in cui il giocatore è costretto a girare su se stesso per seguire l’avversario e controllare il movimento della palla. Se c’è una cosa - scontata, lo so… - che ho notato seguendo le partite da questa posizione, in alto dietro la porta, leggermente spostato a sinistra, è che i difensori di qualità rarissimamente danno la schiena all’azione, e questo a dire il vero vale anche per i centrocampisti. Se non sono troppo avanzati, e un lancio lungo non li costringe a girarsi e inseguire la palla finita oltre le loro spalle, riescono sempre a spostarsi usando le gambe per i cambi di direzione ma mantenendo il torso e dunque la testa verso il gioco, il centro del campo. Anche a palla morta, anche quando dopo (per esempio) un fallo in attacco devono rientrare in difesa e riprendere posizione. Antonio - che a 14 anni pianse quando la madre gli vietò di andare nelle giovanili degli Spurs perché avrebbe dovuto compiere un tragitto troppo lungo per andare all’allenamento - non è un difensore nato e di conseguenza deve fare attenzione estrema a non spingersi troppo in avanti ed essere poi costretto a rientrare violando questi canoni tecnici prima ancora che tattici.

Utilizzato però a supporto di una difesa a tre è meno esposto, contro una squadra entusiasta e pericolosa, specialmente nei tre dietro a Kane: Lamela a destra, Eriksen al centro, Chadli a sinistra. I due in mezzo sono Dier e Mason, la difesa è composta da Trippier, Alderweireld, Wimmer e Davies, con dunque il solo Alderweireld titolare regolare della squadra di Pochettino. Che - sacrilegio! - mi ispira simpatia indotta: ha normalmente un buon numero di giocatori inglesi, sta crescendo senza esagerare in acquisti di nome e viene drammaticamente sottovalutata nella grande stagione che sta disputando, a causa dell’imbarazzante faziosità dei media verso il Leicester City, di cui molti che ora pontificano ignoravano tre quarti dei giocatori fino a tre mesi fa.

La partita è furiosamente splendida. Come ai vecchi tempi, come nei derby classici. Non è questione di ferocia agonistica che annulla le differenze tecniche, perché la distanza di talento tra le due squadre non è poi così vistosa, ma è questione, per una volta, di coordinazione emotiva tra pubblico e squadre, di attese soddisfatte, di partita serale sotto i riflettori, circostanza che spesso amplifica l’atmosfera se le basi sono giuste. Nessuna squadra ha mai realmente vinto o perso una partita grazie a un pubblico caloroso, e posso permettermi di scriverlo dato che, al contrario dei media italiani storicamente specializzati in elogi sdolcinati alle ”grandi curve”, non devo tenermi buono nessuno; ma è chiaro che ci sono situazioni in cui il flusso dello spirito va in entrambe le direzioni, dal campo agli spalti e viceversa, con una intensità diversa dal solito. Il carattere piacevolmente antico della serata è dato anche dal terreno di gioco, che per la prima volta sembra patire la lunga stagione, segnata comunque da temperature mai drammaticamente basse: lo si vede da alcune striature giallastre di erba sofferente, specialmente nei pressi della linea di fondo, proprio sotto di me. Nel delizioso marasma, reso tale anche dalla decisione di Bilic di addensare il centrocampo, qualche lampo, un salvataggio di Kouyate quasi sulla linea e per la terza volta consecutiva Noble che si esibisce in un tiro da fuori pericoloso, mentre il resto del gioco è frenetico, anche ruvido (ammoniti già nel primo tempo entrambi i centrali del Tottenham).

I cambi modificano qualcosa ma non troppo, a prescindere dal fatto che sul piano tattico ci siano stati frequenti scambi di fascia tra Lamela e Chadli e i tre trequartisti in generale cerchino di non essere mai prevedibili nelle poche situazioni di contropiede. Dopo 62’ - minuto distinguibile a malapena sul tabellone, dato che anche oggi il ”mio” orologio finto- quarzo è spento - Alli entra per Chadli e parte largo a sinistra, idem Son dal 70’ sulla destra al posto di Lamela, mentre al 77’ esce Wimmer per Carroll e Dier arretra centrale difensivo di sinistra con Mason e Carroll ora affiancati; nel West Ham al 66’ Oxford sostituisce Collins infortunato, occupando il suo stesso posto, mentre dal 72’ Carroll (quello vero) rimpiazza il poco efficace Emenike. Sakho, dall’84’ dentro per Lanzini, si piazza in una posizione lievemente più avanzata rispetto all’argentino, e sembra quasi di vedere un 3-4-3 con Payet più esterno, ma senza possesso di palla è un monumentale 5-4-1 che ottiene lo scopo di tappare ogni possibile squarcio favorevole al Tottenham.

Poco dunque da segnalare, se non l’emozione che prende ogni volta che la palla arriva nell’area di rigore in situazioni di potenziale pericolo, ma non è una sensazione esclusiva di questa sera. Quell’attimo già descritto in cui il fiato collettivo si arresta mentre l’occhio cerca di cogliere contemporaneamente il pallone sul cross e l’eventuale uomo ben piazzato per colpire a rete. Che si giochi a tiki-taka o alla maniera che piace a me, ovvero in modo diretto, con tensione sempre rivolta al portare o lanciare palla verticalmente e poco orizzontalmente, nel momento in cui si accentuano le probabilità di una conclusione a rete il respiro cambia ritmo, e in questa partita succede, ma spesso con il troncamento immediato delle prospettive, per un recupero improvviso o un intervento difensivo di tempo perfetto. Un’incompiuta sul piano spettacolare o tattico ma uno splendore agonistico da ricordare: perlomeno da parte di chi c’era e non aveva fretta di voltare pagina emotivamente e materialmente, incapace magari di gustarsi l’attimo solo perché non è avvenimento planetario e modaiolo, ma solo un classico, ruvido, vigoroso derby londinese.

Io il tempo ce l’ho e pure lo spirito, nonostante una pessima notizia personale (le condizioni di salute di un amico) ricevuta al 58’ del secondo tempo. Ho il volo il mattino dopo, e per non gravare sul bilancio ho scelto di non prendere un hotel ma attendere la partenza in aeroporto, come ho del resto fatto decine di volte. Posso attendere, e lascio defluire quasi tutti, restando al mio posto e poi spostandomi sul lato sinistro, a ridosso della vetrata laterale del settore, per sbirciare il traffico pedonale lungo la Castle Street, alzare lo sguardo verso la porzione di Londra che si vede nel buio e cercare di essere visto il più tardi possibile dagli steward, che ogni volta invitano ad uscire al più presto, per chiudere e andare a casa. Dura poco l’idillio, la sensazione di essere da solo in un intero settore, ma una foto panoramica la scatto ed è quella che ho adesso a fianco del computer mentre scrivo, aperta sul cellulare per aiutarmi a ricordare meglio le sensazioni. Passati un lungo autunno e (quasi) un inverno in cui a tratti mi sono chiesto se valesse la pena stancarmi così e mettere a rischio i tempi del lavoro, sono ora nella fase del conto alla rovescia: è da stasera che mi rendo conto che restano solo altre cinque partite, mentre prima il numero era sfumato e indistinto perché erano, nella mia mente, semplicemente ”tante”. Ora no. Anche se per via di posticipi, soste, coppa e trasferte la prossima visita sarà tra un mese tondo, il 2 aprile, e ne seguirà un’altra sette giorni dopo. Nel frattempo… no, niente.

Esco, riprendo il bus 115 verso Canning Town, scendo dopo l’incrocio con McDonald’s, quindi con lo snodo del traffico visibile in lontananza, e prima che chiuda mi infilo al West Ham Fish Bar. Il colore dell’insegna è claret&blue, il nome quadra ma qui non siamo più a West Ham e dunque la miscela di nome e colori è di tipo parassitario, sfrutta cioé colori e denominazioni note per attirare gente. Ma mi va bene lo stesso. Merluzzo (una quantità spropositata) e patatine a 6,80 sterline compresa bibita gassata, una provvidenziale presa della corrente per ricaricare il cellulare ormai ai minimi termini. Il locale è in chiusura ma non mi viene messa fretta, quando poi è il momento di andare faccio due passi verso la stazione di Canning Town e vedo, appeso alla vetrina di un altro locale, un manifesto che trasuda East End: il 19 marzo nella Legends Suite del Boleyn Ground, dunque nel salone più grande e prestigioso, ci sarà una riunione di pugilato con atleti del Team Wood il cui clou pare la sfida tra il campione inglese della IBA (Independent Boxing Association) Doug Wood e il campione della città di Londra Danny Swallow. La IBA, secondo il proprio sito web, dà licenze a pugili a 40 sterline e gestisce combattimenti in quattro locali principali, che davvero raccontano quasi tutto di queste zone, delle aree di influenza e della sottocultura che ne fa parte da sempre: uno è a Bethnal Green, pieno East End classico, gli altri tre sono in Essex, e ”Straight outta [out of, ndr] Essex” è anche il nome di una successiva serata di boxe, a imitazione dello slogan gangsteristico coniato tanti anni fa dal gruppo rap americano NWA, con Straight outta Compton, che indica una provenienza diretta da una località nota per la rudezza di alcuni suoi residenti. Mondi diversissimi ma culture simili, nell’esaltazione a volte ammirata di chi si guadagna rispetto con l’intimidazione e la violenza, spesso giustificate dalla mancanza di esempi positivi e dall’assenza delle istituzioni.

Non per nulla tra le figure più celebri dell’East End ci sono stati in passato i due gemelli Kray, Ronnie e Reggie, che cresciuti durante la Seconda Guerra Mondiale - erano nati nel 1933 - si affermarono poco alla volta come fondatori di una gang criminale di classico stampo mafioso. Passati attraverso la pratica della ”protezione” di bar e ristoranti dell’East End, poi proprietari di locali notturni nel West End ovvero in zona ”nobile”, erano stati per questo accettati in società e frequentavano il bel mondo, attori e musicisti compresi, dominando dietro le quinte il sottobosco londinese con l’intimidazione e facendola franca grazie alla loro influenza e alla spaventata reticenza di tanti potenziali testimoni dei loro crimini, come accade per quella mafia con cui si sospettò che avessero addirittura cercato di allearsi. Si dice che fossero intoccabili anche per il timore sia del partito conservatore sia di quello laburista che venissero svelate relazioni sentimentali (!) tra Ronnie (che confessò poi a un amico di essere tormentato dal fatto che «di noi due gemelli io sono quello nato sbagliato») e un deputato di ciascuno schieramento, e la loro caduta fu dovuta solo alla presenza di prove inoppugnabili di un paio di delitti piuttosto cruenti. Una volta infatti che i due furono arrestati assieme ad alcuni complici, il «muro di silenzio dell’East End» - definizione usata anche dai detective - si crepò poco alla volta e le testimonianze raccolte furono sufficienti nel 1968 per una condanna all’ergastolo, che nel caso di Ronnie fu tramutata dieci anni dopo in permanenza in un ospedale psichiatrico, date le sue condizioni mentali in progressivo deterioramento.

Figure mitiche della zona, menzionate in film (in una loro biografia cinematografica sono stati interpretati dai fratelli Kemp, quelli degli Spandau Ballet), brani musicali e libri, i Kray da ragazzi erano stati pugili, e qui ci si ricollega al poster. Specialmente in quei tempi, la boxe era uno dei passatempi preferiti dai duri di quartiere, e i Kray a quanto pare non persero neppure un combattimento da dilettanti fino a quando, arrestati a 19 anni per renitenza alla leva, non furono costretti ad abbandonare ogni speranza di carriera professionistica perché il loro comportamento durante quella detenzione era stato così violento da farli mettere al bando da qualsiasi attività sportiva legale. Un esempio lo avevano avuto in casa, e più che un esempio era stato il loro idolo da bambini: il nonno materno Jimmy Lee detto Cannonball, Palla di cannone, che nelle uniche foto che lo ritraggono è, seppure ormai anziano, in classica posa con la guardia da pugile. Ma anche il nonno paterno, Jimmy Kray, aveva combattuto su improvvisati ring e poteva tranquillamente dare lezioni poco nobili della nobile arte.

I Kray non hanno lasciato eredi sul fronte criminale, ma nell’East End rimase a lungo un clima favorevole alla nascita di bande criminali a base familiare, fino a che - dice chi se ne intende - la facilità di reperimento di droghe fece sì che chiunque (!) potesse diventare spacciatore e che il controllo del traffico non fosse dunque più esclusivo di organizzazioni strutturate. La violenza, dice Dick Hobbs, autore di alcuni libri sull’argomento, non ha più una cupola ma è spezzettata in frammenti di singole prepotenze e soprusi. Nel 1995 fece scalpore un triplice omicidio a Rettendon, nell’Essex, vittime tre spacciatori rei di avere gestito male una compravendita, e dalla vicenda vennero tratti libri e film tra cui ‘Essex Boys’: uno dei tre, Tony Tucker, si vantava di essere amico di attori e vip vari (ricorda qualcosa?) e faceva la guardia del corpo del pugile Nigel Benn, nativo di Ilford, Essex, e cugino di che nel West Ham debuttò nel 1986. Vent’anni dopo, ai primi di dicembre, nelle ore in cui mi apprestavo a partire per seguire la partita contro lo Stoke City, uno spacciatore 38enne, Paul Simmons-Turner, è stato ucciso da due uomini che lo aspettavano fuori da un hotel a Waltham Abbey, sempre nell’Essex, più a nord delle zone di cui si occupa questo libro. E appresa la notizia dell’assassinio, personaggi famosi come i pugili (toh!) Ohara Davies e Joe Selkirk hanno scritto messaggi di condoglianze, così come alcuni protagonisti della serie tv The Only Way is Essex. Queste ”coincidenze” sono tra i motivi per cui i personaggi che il 19 marzo hanno poi affollato la Legends Suite del Boleyn Ground avrei proprio voluto vederli. O forse no. 14

SOGNANDO BROOKING (CRYSTAL PALACE)

Sabato 2 aprile 2016, ore 15.00: West Ham United-Crystal Palace 2-2 (Delaney 15’, Lanzini 18’, Payet 41’, Gayle 75’)

WEST HAM Adrian - Antonio, Reid, Ogbonna, Cresswell - Noble (Obiang 81’), Kouyate, Lanzini - Emenike (Carroll 60’), Sakho (Valencia 69’), Payet.

CRYSTAL PALACE Hennessey - Ward, Dann, Delaney, Souaré - Jedinak, Ledley (Campbell 71’) - Zaha (Gayle 46’), Puncheon, Sako - Bolasie.

Ryanair 4191 Bergamo 6.30 - Londra Stansted 7.55 Ryanair 4198 Londra Stansted 20.05 - Bergamo 23.00 È passato un mese tondo dalla partita contro il Tottenham, sono tre settimane dall’ultimo viaggio a Londra. Non è un errore di calcolo: avevo prenotato in anticipo per il 12 marzo, West Ham-Watford, ma la partita non si è giocata e allora ne ho approfittato per fare un giro senza fretta, in giornata, con ritorno già alla sera. Vedere i soliti (!) posti stavolta deserti, capitare al Boleyn Ground per dare un’occhiata al negozio del club per una volta senza ressa e caldo e scoprire, per puro caso, che davanti all’ingresso principale era fermo il pullman che stava per portare la squadra alla stazione di St.Pancras da dove poi c’era il treno per Manchester e la partita di Coppa d’Inghilterra. Invece di godersi un sabato senza patemi, alcuni tifosi erano venuti a salutare i giocatori, che di fronte alla quindicina di presenti si erano mostrati molto disponibili, primo tra tutti Adrian. Il giorno dopo, poi, l’1-1 con splendido gol su punizione di Payet al 68’ e il pareggio di Martial all’83’ che comporta la ripetizione al Boleyn Ground, in data poi stabilita per il 13 aprile, e un ulteriore livello di complicazioni logistiche.

Terminata la visita al negozio ero tornato a Canning Town per arricchire ulteriormente le sensazioni sul luogo e ripercorrere passi già fatti. Oltrepassata la stazione e seguito verso sinistra il marciapiede della trafficata A13, avevo poi preso una stradina, con lavori in corso, che porta al parco naturale chiamato Limmo Peninsula Ecological Park, dal nome dello sputo di terra in cui sorge. Cercatela sulle mappe online: è quel piccolo tratto a forma di ugola rivolta verso il basso, parallelo alla Leamouth Peninsula che è di forma pressoché identica ma va in senso opposto, attraversato dal tratto di DLR diretto a sudovest alla fermata di East India Docks. La Limmo fa parte della sponda est del Lea/Bow Creek, la Leamouth di quella ovest, ed era nella sua parte di sud-est, rivolta verso Canning Town, che sorgevano i primi uffici dei Thames Ironworks. È comunque meglio dare sempre un'occhiata a una mappa online per seguire questi spostamenti, altrimenti difficili da inquadrare nella loro minuziosità. Nel parco non c'era anima umana ma c'era vita, anche se nascosta. Era caldo e le limitate dimensioni del luogo non hanno richiesto una visita lunga. Era stata però una sensazione particolare quella di affacciarsi sul lentissimo Lea, vederne le rive basse e fangose deturpate da qualche rifiuto (ma meno di quanto temessi), storcere il naso davanti agli sfregi con la vernice sulle fiancate di uno dei due ponti metallici, avviare il passo lungo il sentiero tra canneti e scenari classici di bordo fiume, anche se la presenza dei binari toglieva ovviamente qualche speranza di totale incanto, seppure urbano, al paesaggio.

Ingenuamente, nell'ansa finale del parco, approfittando della ridottissima distanza dal sentiero mi sono allungato e ho intinto le dita nel fiume, per uno stupido ma - in quel momento - necessario contatto con l'acqua del Lea e con un'idea vaga, scorrevole, di continuità con il passato che qui vedeva sorgere un inferno industriale e postindustriale, nel quale il benessere di anatre e altra fauna fluviale era purtroppo del tutto trascurato. Quel passato che sto cercando da agosto, senza la speranza di poterlo trovare, e non dico quello degli Ironworks, troppo lontano nel tempo, ma anche quello dell'East End delle foto - fortunatamente in bianco e nero - degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, decenni diversi l'uno dall'altro e a volte messi in contrapposizione, ma che visti ora mostrano una continuità organica maggiore che non quelli successivi, quelli del deterioramento dell'identità locale. Un inusuale momento di silenzio e pace in un paesaggio urbano che si trasfigura di continuo. Nel futuro della lingua di terra opposta, la Leamuth Peninsula, c'è infatti un nuovo quartiere di condomini eleganti e costosi, come è pazzescamente costoso tutto quello che è appena sorto e sorgerà qui, e il panorama cambierà ancora, creando un costante gioco di sguardi con i grattacieli del Canary Wharf un po' più in là e un contrasto ancora maggiore con i capannoni, i depositi di ciarpame e ferraglia e le sterpaglie della riva sinistra, dove sorgeva il grosso dei cantieri navali quando la vita era più difficile e al tempo stesso più semplice. Anche orrenda, insalubre e lercia, va detto.

I Thames Ironworks davano infatti lavoro a migliaia di persone, direttamente o indirettamente, ma la maggioranza di loro aveva un salario piuttosto basso, essendo adibita a mansioni non particolarmente specializzate, per cui c’era l’esigenza di non spendere troppo tempo o troppo denaro per andare in fabbrica. Ecco allora che intorno ai cantieri era sorto un grande quartiere, appunto Canning Town, costituito perlopiù di abitazioni di scarsissimo valore materiale e abitativo. In inglese, slums: la traduzione più abituale è “bassifondi”, che però è più sociale ed etica che architettonica. Quasi sempre prive di fognature e di comodità di base che si sarebbero date per scontate anche solo a metà Novecento, quelle abitazioni erano sovraffollate (una media di oltre sei persone per casa), buie e poco salubri. Nel 1841 la popolazione complessiva di quello che era il distretto di West Ham non superava i 13.000 abitanti, mentre nel 1901 era sopra i 200.000, il che lo rendeva la nona città più popolosa del Regno Unito. Il distretto di West Ham, quello che ora è Newham, parve presto inadeguato a gestire questa esplosione demografica e strutturale, tanto che nel 1855, ad espansione appena iniziata ma già travolgente, Alfred Dickens, medico e fratello dello scrittore Charles, stilò un rapporto nel quale l’operato delle autorità locali sul piano dell’organizzazione dei servizi minimi veniva violentemente condannato.

Erano una crescita e un’economia di sviluppo nella loro forma più disordinata. Un afflusso tale di persone, anche se perlopiù di bassissima estrazione sociale e potere d’acquisto mediocre, aveva ovviamente portato alla nascita di botteghe, pub e di tutta una serie di piccoli negozi e mercatini adatti a soddisfare le esigenze di base, giusto di base e nulla altro. In più, oltre ai lavoratori dei cantieri, c’erano le professioni di contorno, storicamente legate al fiume: erano pescatori, raccoglitori di molluschi (specialmente nei periodi di secca del Lea) e i cosiddetti “tosher”, ovvero raccattatori di oggetti caduti in acqua dalla riva e da altre barche, che la marea rendeva comodi da prendere. In teoria avrebbero dovuto portare tutto a un ufficio incaricato di rintracciare i proprietari e dare una piccola ricompensa, ma - cito quasi testualmente la frase di Brian Belton dal suo libro “The Thames Ironworks”, splendido nel raccontare le vicende che qui riassumo - allora (come ora) “il premio per chi è onesto è così basso e tardivo” da rendere più pratico un fai-da-te consistente nella rivendita al mercatino della merce raccolta dalle acque. Le sottoculture della necessità (o della scarsa attenzione alla legalità) sono come i costumi tipici delle regioni italiane: identiche se non per dettagli ma con la presunzione invece di avere caratteristiche uniche, e quelle dei bracconieri di merce dell’East End erano solamente nel tipo di materiale raccolto e distribuito e nel modo di tirarlo su.

È ovvio che il mestiere più stabile - relativamente - e al tempo stesso più gravoso fosse quello dei cantieri stessi. Il prodotto finito, che fosse una barca o un ponte, risplendeva di magnificenza, ma il percorso per arrivarci era massacrante per chi lo confezionava. Descrizioni dell’epoca dipingono le zone di queste attività come gironi infernali, per l’alone arancione e giallo dei fuochi delle fornaci che accendeva il Tamigi e i suoi dintorni, specialmente nei periodi in cui si doveva completare qualche commessa entro i tempi stabiliti. Particolarmente gravoso era il compito degli addetti al fissaggio dei chiodi e bulloni con cui le lamiere singole diventavano un’unica superficie: il chiodo, incandescente, veniva sistemato con lunghe pinze in corrispondenza del foro previsto e vi veniva poi incastrato da due operai, uno mancino e uno destro, che dai due lati opposti lo sbattevano con martelletti appositi. Era la fase forse più concreta e simbolica del processo, perché da singoli elementi se ne creava uno più grande, e anche per questo nel 1887 i martelletti entrarono a far parte dello stemma araldico del distretto di West Ham e ora di Newham. Per quella zona, per quel territorio, i martelletti incrociati volevano dire tanto.

Si è già scritto del varo trionfale della Warrior e della tragedia dell’Albion, le cui immagini in bianco e nero, silenziosamente drammatiche, mi restano sempre davanti agli occhi come una specie di meraviglia pre-moderna. Si era a fine Ottocento eppure chissà perché, è come se improvvisamente avessi scoperto che esistono testimonianze video degli antichi Romani, e il turbamento di vedere in carne ed ossa – anche se sono solo pixel - gente vissuta oltre cento anni fa non mi abbandona. Forse anche come omaggio a quel mondo tormentato di acqua e fuoco, di scintille e gocce, di povertà e ricchezza anche oggi, partita contro il Crystal Palace con arrivo a Stansted già alle 8, scelgo di restare dalle parti del grande fiume, di cercare una illusoria connessione con un qualsiasi elemento di legame con il passato. La solita utopia, ma ha retto finora e deve reggere fino alla fine. Non necessariamente di questa stagione. E allora dopo il solito viaggio in corriera passando a fianco dello Stadio Olimpico, e dunque parallelamente al Lea nei suoi ultimi chilometri prima della sua trasfusione nel Tamigi, lo spostamento successivo via DLR è per North Greenwich, la fermata di riferimento per l’O2, avviandomi poi verso il lato orientale della penisola, poche centinaia di metri ed ecco il molo di attracco di tre linee di battelli che percorrono il fiume. Mezzo di trasporto non molto conosciuto e certamente suggestivo, ma consigliabile a chi voglia una prospettiva diversa. I River Bus sono cinque linee paragonabili a quelle della metropolitana - tanto che si può pagare con la Oyster Card - e si rivolgono a chi debba effettivamente spostarsi con una certa celerità, mentre i River Tours, come si intuisce dal nome, sono destinati a turisti e a chi voglia farsi un giro più calmo e rilassato. In teoria nel periodo aprile-ottobre si può arrivare da Woolwich Arsenal fino ad Hampton Court e il suo castello e magari sentirsi diversi dalla massa facendo finta che sul battello non ci siano altre 90 persone, ma stavolta il percorso è più breve perché copre solo il tratto di Tamigi su cui si affaccia la parte di mondo a cui dedico questa stagione, l’East End.

Da North Greenwich a Woolwich Arsenal lasciandomi dunque sulla sinistra le acque in cui le navi varate negli Ironworks prendevano la direzione del mare, poi un percorso all’indietro verso St.Katharine, appena a est della Torre e del Tower Bridge, e di nuovo verso est per poi scendere a Canary Wharf. In pochi chilometri, o meglio miglia marine in senso stretto, la Londra di oggi, ovvero la Londra di ieri e oggi: i battelli, qualunque sia la loro direzione, attraccano a turno solo su una sponda, andando insomma a zig-zag, e dunque arrivando a Greenwich ci si avvicina al lato sud, venendo travolti poco alla volta dalla maestosità del Royal Naval College e dello storico veliero Cutty Sark, mentre a St.Katharine, dunque versante opposto, risplendono un po’ di sbieco alla luce del sole mattutino gli antichi magazzini con esterno di mattoni beige che, ristrutturati e modificati in abitazioni, diedero tra fine anni Ottanta e primi anni Novanta il segnale che la rivoluzione in atto al Canary Wharf con la costruzione dei grattacieli non era solo quella della finanza e dell’economia, che spinse il Regno Unito verso la modernità, ma anche quella dello stile di vita che si espandeva. Confesso che in quegli anni, tra una partita e l’altra nei miei blitz londinesi - 5,6 giorni, 5,6 partite quasi sempre, assorbendo calcio nella sua essenza più pura per quei tempi perché ancora non contaminata da troppe influenze esterne - è in uno di questi appartamenti che avrei voluto fermarmi a vivere se ne avessi avuto i mezzi, per la loro timida eleganza, la loro vista sul fiume, l’idea che oltre alle tradizionali case britanniche di moquette polverosa ci fosse un modo diverso di abitare.

Al Canary Wharf purtroppo abbandono il River Bus e rimango abbagliato dal riflesso del sole sui grattacieli, in scenari che anche per le strade, i giardini e il movimento - al sabato più turistico che professionale - ricordano in modo netto quelli di una città americana, e noto anche come sia tutto pulito e lindo, quasi a testimoniare la distanza tra questo quartiere e il resto dell’East End, perlomeno quello che si percorre normalmente. Non c’è traccia dell’imminente partita tra West Ham e Crystal Palace. L’unico riferimento calcistico tra famiglie a passeggio e personaggi di vario tipo, compreso un ragazzo, lo stereotipo dell’italiano under 25 approdato a Londra, che entra in un bar Starbucks e in inglese da Erasmus chiede - due volte, perché non si capisce quel che dice - se può lasciare il curriculum, è un poster con la foto di che pubblicizza i box privati del Tottenham Hotspur: dalla fermata della metro Canary Wharf passa mezza Londra della finanza e ci sta che gli Spurs cerchino potenziali clienti qui, ma il tutto stona un pochino.

Dicevo del sole, dei riflessi, del cielo molto azzurro. C’è questa idea che a Londra il tempo sia sempre incerto, che piova spesso, e si tratta di un ritratto corrispondente alla realtà, dal punto di vista statistico, ma un autunno, inverno e primavera in una città del Nord Italia padano non sono molto diversi, e soprattutto è pressoché sparita la nebbia che per tanto tempo è stata erroneamente descritta come parte congenita dello scenario londinese. Si tratta di un classico stereotipo che ha resistito a lungo a ogni logica e spiegazione, quasi come quello del professionista inglese in bombetta, ombrello e completo grigio a righine. La nebbia a Londra può ancora esserci, molto raramente, ma è da metà del secolo scorso che il panorama è completamente cambiato. Dalla Rivoluzione Industriale in poi c’erano state le cosiddette pea-souper: nebbioni così fitti che pareva, appunto, di essere immersi in una crema di piselli. Nebbioni generati dalla miscela di atmosfera ed emissioni di fabbriche, cantieri navali e stabilimenti siderurgici (sì, anche “quello”), camini e dunque non nebbia ma smog, parola formata dalla fusione di smoke (fumo) e fog (nebbia, appunto). Nel dicembre del 1952 il fenomeno toccò il suo momento peggiore: 4.000 persone morirono in pochi giorni, avvelenate dalla miscela tossica, mentre si è calcolato che furono 8.000 quelle decedute nel giro di poche settimane per gli effetti dell’avvelenamento del sangue. Non potevano girare né bus né auto né treni per la visibilità zero e furono rinviate partite di calcio per l’impossibilità di poterle svolgere in condizioni decenti, per non parlare della salute di giocatori e pubblico. Da quella tragedia nacque il Clean Air Act 1956, una legge che creava in tutto il Regno Unito zone di controllo delle emissioni sia industriali sia private, perché a contribuire all’inquinamento erano state anche le centinaia di migliaia di abitazioni che come riscaldamento utilizzavano carbone ‘sporco’ e non altre fonti meno dannose. Ci vollero quattro anni, dal dramma del 1952 al decreto del 1956, perché inizialmente il governo si era mostrato poco deciso a intervenire, condizionato dal timore di irritare le grandi industrie, ma era stata decisiva l’iniziativa di un deputato conservatore, Gerald Nabarro, che aveva progressivamente fatto passare un messaggio del resto non nuovo: già nel 1853, 1856 e 1891 le autorità cittadine avevano provato, senza troppo successo, a limitare le emissioni di fumo dannoso.

Nel frattempo anche il Tamigi è stato ripulito, da mezza fogna che era diventato. Al tempo dei Thames Ironworks della salute del fiume fregava molto ai tanti pescatori ma assai poco ai residenti, preoccupati prima di tutto di districarsi tra le fogne a cielo aperto e le innumerevoli declinazioni di sporcizia di Canning Town e immediati dintorni. È tutto cambiato, ovviamente: dal bus numero 5 lungo la Barking Road si vedono le solite abitazioni modeste ma il repulisti delle baracche di un tempo era iniziato presto, e non solo perché già nel corso della Prima Guerra Mondiale i bombardamenti - all’epoca più saltuari rispetto al disastro di 30 anni dopo, anche perché effettuati dai dirigibili che volavano a bassa quota - avevano fatto molti danni. Il tema dello spostamento verso est dei residenti di questa zona, lontano dal corpo della grande Londra caotica e costosa, è noto, e già affrontato: è uno dei motivi per cui i tantissimi tifosi del West Ham che arrivano dal Kent e dall’Essex trovano più comodo scendere dal treno a Stratford, andando in 10’ a piedi all’Olimpico, che arrivare ad Upton Park.

Il sole, sempre il sole, illumina i colori di una giornata brillante, e nello spirito di questa annata mi fermo a mangiare al Britannia, al 355 della Barking Road, lato sinistro per chi va verso il Boleyn Ground, accanto a un Greggs. Un caffé locale, come il Ken’s o l’Aunt Sallys o il Newham. Affollati i tavolini metallici sul marciapiede, dentro c’è spazio e il menù è il solito: colazioni immense e tremende, hamburger, patatine, anche pesce fritto per chi vuole. Il rituale è quello, ormai, anche se l’apparato digerente non lo accetta mai supinamente: English Breakfast, con un caffettone e un succo di arancia si sta sotto le 7 sterline, mentre è gratuito lo scenario classico di anziani che leggono il giornale e parlottano e fanno quello che fanno gli anziani di tutto il mondo occidentale in posti del genere. Non gratuito, e sgradito, è invece l’effetto della lettura di un articolino nel quale una delle tante inglesi di origine italiana e dunque automaticamente (?) brave cuoche arricchisce gli stereotipi con palesi distorsioni della realtà: per pubblicizzare un suo libro di cucina “italiana”, infatti, la signora racconta di essersi addormentata più volte, in estati romane, su panchine di marmo “meravigliosamente fresche quando fa caldo”. Delle due l’una, vista la gentaglia in giro a Roma e non solo: o la signora è incredibilmente fortunata ad essere ancora viva e con portafogli e borsetta o la panchina era quella della villa di famiglia con recinto e dunque si tratta di una pessima mistificazione. Alla larga.

Il colore è sempre vivo anche intorno allo stadio, ovviamente. Gli abbigliamenti non sono ancora del tutto primaverili, un lieve vento fresco induce alla cautela, ma per mia fortuna il chiosco all’incrocio tra Green Street e Castle Street è in pieno sole e il claret&blue delle sciarpe risalta in tutto il suo splendore. Sono appese verticalmente, e nella disordinata sequenza che le affianca sembrano un immenso telo fantasia esposto a prendere e dare luce, invogliano quasi ad appoggiarsi per farsi sporcare, facendo magari attenzione a non sfiorare le orride half-and-half, quelle cioé con metà colori del West Ham e metà colori del Crystal Palace. West Ham United Est. 1895 (“fondato nel 1895”), 6 Bobby Moore, semplicemente West Ham United, ancora più semplicemente quelle con le “barre” o parallele o perpendicolari alla lunghezza, entrambe splendide. Costo? Dalle sette alle nove sterline a seconda del disegno, tantino ma è ormai così dappertutto, e c’è poco da fare.

In tribuna una sorpresa: per la prima volta i miei vicini di posto sulla destra mi rivolgono la parola per dialogare e non solo nel loro abituale gesto di cortesia. Conoscono ormai la mia provenienza e vogliono sapere “come è arrivato qui questa volta?” (“via acqua”, prima di spiegare meglio affinché non pensino che sia partito in barca da Calais o Livorno). Poi si presentano: vengono entrambi da Woodford Green, dunque il quartiere appena a nord di Stratford che si attraversa arrivando da Stansted. Quello subito alla mia destra, quello che come avete già letto spesso urla incitamenti che solo lui e le 4-5 persone attorno possono sentire, si chiama Michael, ha un viso morbido prolungato da un paio di occhiali e nonostante l’età non verdissima è architetto in piena attività, il suo amico si chiama Eddie e ha una storia curiosa da raccontare, ridendo spesso in un modo che gli increspa a malapena la barbetta. «Al liceo non ero molto bravo a giocare a calcio così mi misero nella squadra riserve. Un giorno facemmo una figura tremenda: perdemmo 13-0 contro la Ilford County e otto gol li fece un ragazzino che sembrava lento e un po’ rigido ma faceva quello che voleva. Dopo la partita il nostro allenatore ci disse di non essere troppo delusi, perché quello degli otto gol era troppo forte per noi e sarebbe diventato un giocatore vero. Era Trevor Brooking». Brooking! Uno dei grandi della storia del West Ham, uno degli ultimi simboli di quella unione tra squadra e luogo che è poi sparita nell’annacquamento ambientale, e per il quale tiene botta il solo Mark Noble, il capitano, l’ex raccattapalle, il ragazzo di Canning Town che la sera dell’ultima partita scriverà “oggi trasloco” dando così la netta, precisa, nitida idea di avere sempre considerato il Boleyn Ground come una seconda casa.

Brooking è di Barking ed era arrivato in squadra nel 1967, due anni dopo l’ingresso nel settore giovanile: di fatto, dopo Bobby Moore e con il fenomenale Billy Bonds, terzino- centrocampista-difensore centrale, ha rappresentato il West Ham negli anni Settanta e Ottanta. Il celebre e raro gol di testa nella finale di FA Cup del 1980 contro l’Arsenal, una delle 4-5 finali che ricordo con maggiore emozione, è forse l’attimo più celebre in cui Brooking è stato immortalato, ma la profondità della sua influenza meriterebbe un libro a parte. Anche se la sua fedeltà al West Ham, che a suo tempo aveva scelto perché unico club che gli permettesse di concludere (brillantemente) il liceo mentre era nel settore giovanile, non fu sempre marmorea: nel 1972 infatti, infastidito per l’acquisto di un altro centrocampista, chiese il trasferimento, salvo restare ed essere il migliore della squadra. Di quel magico giorno in cui gli Irons indossarono a Wembley la maglia bianca con bordini claret&blue ricordo un aneddoto scoperto solo dopo tanti anni: alla vigilia della partita Brian Clough, con la sua solita voglia di fare polemica sempre e comunque, aveva scritto nella sua rubrica su un quotidiano popolare che Brooking “in campo volteggiava come una farfalla, e come una farfalla pungeva pure”. Zero, cioé. Anni prima, già celebre come allenatore che avrebbe poi vinto tanto con Derby County e Nottingham Forest, Clough aveva incontrato in uno studio televisivo Muhammad Alì, cioé Cassius Clay, che di sé aveva detto “volteggio come una farfalla e pungo come una vespa” e il riferimento nell’articolo era palese. Secondo Clough, Brooking era solo bello da vedere ed elegante, ma incideva poco: giudizio curioso se si pensa che solo sei anni prima, da allenatore del Derby, aveva cercato di acquistarlo. Soddisfazione ancora maggiore dunque che proprio quel centrocampista dal passo lungo, dalla pettinatura rimasta corta e moderata anche in anni di capelloni da brivido, avesse segnato il gol decisivo in una finale in cui la sua squadra era sfavorita, essendo oltretutto di seconda divisione.

Ma come è nato il tifo di Eddie per il West Ham? Woodford Green tra l’altro è area di East London ma con sfumature che volgono già a preferenze calcistiche diverse. «Infatti. In famiglia eravamo in quattro, ovvero tre fratelli e una sorella, e io ero il più giovane. Gli altri tifavano tutti per il Tottenham, ma quando fu il momento di decidere scelsi il West Ham perché non volevo essere come loro». E ride, animando il volto delimitato dagli occhiali e da una barbetta più bianca che grigia, portata sempre uguale da inizio stagione e da chissà quanti anni.

È però il momento dell’ingresso delle squadre in campo e Michael, Eddie e tutti gli altri devono essere lasciati liberi di cantare I’m forever blowing bubbles. Atmosfera abbastanza carica, con un pizzico di (ovvia) incertezza sul possibile risultato. Nel mese di assenza dal Boleyn Ground si era visto di tutto, del resto: una vittoria sull’Everton con rimonta finale dallo 0-2 e con rigore sbagliato da Lukaku, quel pareggio in coppa a Manchester, il 2-2 a Stamford Bridge con doppio vantaggio, Lanzini e Carroll, solo una vittoria su tre ma con modalità che avevano raccontato la storia di una squadra capace sempre di segnare ma anche fragile in troppi momenti.

I tre ragazzi della fila sotto mormorano qualcosa sui “clappers” e non posso che approvare annuendo con tale vigore da sembrare uno di quei personaggi che stanno alle spalle dei politici intervistati e fanno sì col capo a qualunque cosa venga detta. Il “clapper” è quel rettangolo di cartone che piegato a fisarmonica diventa una flessibile striscia e può essere sventolato per fare rumore. Invenzione (…) americana, molto adatta a quel modo di tifare che a me non dispiace, ma arrivata purtroppo in Europa dove le abitudini sono diverse. In quest’annata monotematica non avevo notato che si fossero diffusi a Selhurst Park e avessero dunque caratterizzato una parte del pubblico, e a dire il vero non mi sembra tuttora plausibile, ma conta poco: al Palace c’è molto di peggio per il mio modo di vedere e seguire il calcio. Al Palace c’è stata una grave contaminazione continentale che ha portato a tamburi, bandieroni, striscioni a bordo campo e persino a gente che dà la schiena al campo perdendo il gioco pur di guidare i canti. Quanto poi visto a Wembley alla finale di FA Cup è significativo: il bandierone con il muso dell’aquila arcigna, lo striscione “Questa mentalità è inarrestabile”, una scenografia (ricordo per l’ennesima volta che “coreografia” è termine errato perché indica una danza e non uno scenario di impatto visivo) che è simbolo di chi vuole essere protagonista, non di chi vuole semplicemente appoggiare una squadra. È la politica di chi ritiene di rappresentare la vera essenza del tifo e si autoelegge a portabandiera della passione, una pretesa a cui si sono piegati i club continentali stravolgendo il senso della misura e del rispetto: la loro attenzione va infatti a ultras e vip, che saranno il 10% del pubblico di uno stadio, mentre viene ignorato il tifoso comune, che magari critica ma non fa storie, non va a chiedere colloqui alla squadra dopo tre sconfitte e non pretende sovvenzioni per striscioni e trasferte. Tutta roba che mi addolora perché per il Palace ho sempre avuto simpatia, per colori e piccola storia, per quei due indimenticabili gol del fenomenale Ian Wright nella finale di FA Cup del 1990, per le splendide divise del 1980, per quel 23 agosto dello stesso anno in cui ho visto una vittoria per 5-3 sul Middlesbrough, da due metri dietro la porta, e ho realizzato ancora una volta quanto fosse migliore per me, quel mondo, rispetto a quello che conoscevo. Per questo motivo spero vivamente che il West Ham batta il Crystal Palace, oggi: c’è un coinvolgimento emotivo diverso, c’è l’idea che uno stadio dove nessuno si è mai sognato di esporre striscioni o sventolare bandiere possa in qualche modo contribuire alla spinta decisiva.

Macché. Ennesima conferma che al di là della retorica e della pubblicistica ruffiana il pubblico conta quasi zero nell’influenzare il risultato di una partita, se agisce correttamente. Antonio ancora terzino destro, Kouyate davanti alla difesa e l’unico elemento nuovo, perlomeno per le partite in casa, è Emenike esterno a destra, forse un tentativo di Bilic di fargli dimostrare qualcosa in più del poco finora visto. Sakho punta, con Payet a sinistra. Di là un 4-2-3-1 che però sfuma spesso nel 4-3-3, in particolare a seconda della posizione di Ledley e Puncheon rispetto a Jedinak. Il Palace segna presto su errore di Adrian, che non rendendosi conto della posizione della… propria porta schiaffeggia sul secondo palo una punizione di Sako destinata fuori, e sulla traiettoria c’è Delaney che infila di testa. Pareggia Lanzini su altro errore difensivo, cross dalla destra di Antonio, Sakho la tiene viva rimettendola in mezzo, Dann rinvia male in spaccata incerta e Lanzini calmo la mette sul palo alla sinistra di Hennessey, che sul finale di primo tempo è vittima di un colpo di genio di Payet. La posizione infatti, appena fuori dall’area, sul lato sinistro, è ideale per la ormai classica soluzione di destro sul primo palo, come si era visto a Manchester poche settimane prima, per cui il Palace mette in barriera addirittura sette uomini, con gli altri tre alla loro sinistra, a marcare giocatori del West Ham. In barriera ci sono anche Kouyate e Lanzini, per cui Hennessey non può vedere nulla e Payet ne approfitta, incastrando la palla all’incrocio lontano, quello anomalo. Il passetto verso destra del portiere del Palace, nato dalla previsione della “solita” traiettoria, è proprio quello che gli impedisce del tutto di intervenire.

La partita in realtà è abbastanza equilibrata, il maggiore atletismo degli ospiti sulle fasce viene controbilanciato dalla tradizionale tendenza alla soluzione più complicata, mentre da parte del West Ham si punta sempre sugli scambi rapidi in poco spazio per poi aprire il gioco dalla parte opposta, quasi sempre la destra. Tantissimi palloni toccati da Noble e Kouyate, nel tentativo comunque studiato di uscire dalla difesa con ordine e possesso palla. Dal 60’ in poi cambiano tante cose: Carroll sostituisce Emenike, poco brillante, e va in mezzo con Sakho, poi Valencia, a destra. Al 68’ però Kouyate viene espulso per un fallo su Gayle e il West Ham in 10 si mette 4-4-1, Carroll da solo spalleggiato da Valencia, Noble, Lanzini e Payet. Proprio Gayle - entrato al posto di Zaha e sistematosi in mezzo, pareggia al 75’: il lungo cross dalla sinistra di Souaré è troppo alto per Reid e cade sullo stinco di Ogbonna, sorpreso dall’errore di valutazione del compagno. Il pallone finisce addosso allo stesso Reid e rotola verso il disco del rigore, comodo per l’attaccante del Palace, comunque preciso nel collocarlo nell’angolo alla sinistra di Adrian. Il gol preso dal West Ham arriva tra l’altro su palla persa durante un… contropiede, circostanza bizzarra per una squadra in inferiorità numerica, ed è anche l’affanno di rientrare di corsa che mette in difficoltà i due centrali del West Ham e li costringe ad un’azione quasi comica. Nel resto della gara ci si accontenta: gli Irons lanciano palloni a Carroll sperando in qualcosa e inseriscono Obiang al posto di Noble, mentre il Palace dal 71’ ha anche Fraizer Campbell trequartista (Sako a destra, Bolasie a sinistra) in quello che pare più nettamente un 4-2-3-1.

Peccato, per i motivi detti molte righe fa. Ma del pomeriggio, prima della corsa cronometrata a Plaistow per la metro verso Stratford, il treno per Tottenham Hale poi Stansted e il volo di ritorno in serata, rimane anche un bizzarro episodio relativo al compleanno di una certa Mabel Arnold. Ex consigliere comunale e sindaco di Barking e Dagenham, la Arnold proprio oggi compiva 100 anni. Ad accompagnarla tanti amici e parenti, e a farle festa non solo il club - con un giro del campo sulla sua sedia a rotelle e una maglia apposita consegnatale da Adrian - ma anche il resto della famiglia claret&blue, che ha ripreso ed adattato in suo onore l’ormai celebre coro We’ve got Payet, tormentone stagionale ripreso dalla canzone e usurpato poi da altre tifoserie. La Arnold ha visto quasi 2000 partite del West Ham, avendo messo piede per la prima volta al Boleyn Ground nel 1934: per sua scelta ma non troppo, dato che molto poco romanticamente il futuro marito Richard aveva scelto una gara degli Irons come destinazione della prima uscita, e a lei non rimaneva che accettare, secondo quanto poi ha affermato, ridendo, in varie interviste: «Il peggior sì che io abbia mai detto. Perché da quel momento non ho più smesso di andare allo stadio. Prendendo Richard prendevo anche il West Ham». Il marito ebbe poi un incarico amministrativo presso il settore giovanile e la Arnold per qualche settimana, quasi come passatempo, ricoprì un ruolo fondamentale per i club inglesi del primo secolo e mezzo di storia, quello con calciatori quasi tutti britannici: la tea lady. La signora del té, insomma, dalla quale dipendeva il buon funzionamento della mensa, specialmente al capitolo delle bevande calde. Ogni sua testimonianza in quelle interviste è, per me, come rivedere quel video del varo della Albion, ma senza la tragedia. È come una doccia nel passato, in immagini in bianco e nero, in una folla con coppole e giacca, in quel monocromatismo muto e iconico che a volte mi piace più dei colori moderni. Comunque meglio dei suoni, specialmente se vengono da un clapper. 15

IANESIMO MUSCO CRIST LARE (ARSENAL)

Sabato 9 aprile 2016, ore 12.45: West Ham United-Arsenal 3-3 (Ozil 18’, Sanchez 35’, Carroll 44’, 45’+2, 52’, Koscielny 70’)

WEST HAM Adrian - Antonio, Tomkins (Emenike 46’), Reid, Ogbonna, Cresswell - Noble, Kouyate, Lanzini - Payet, Carroll.

ARSENAL Ospina - Bellerin, Gabriel, Koscielny, Monreal - Coquelin (Ramsey 61’), Elneny (Giroud 67’) - Sanchez, Ozil, Iwobi - Welbeck (Walcott 82’).

Ryanair 8728 Milano Malpensa 6.45 - Londra Stansted 7.55 Ryanair 8736 Londra Stansted 18.20 - Milano Malpensa 21.15 Uscendo da un luogo buio, è normale che l’occhio debba adattarsi alla luce, e che nella frazione di secondo di transizione ci si senta disorientati, quasi timorosi che l’improvvisa luminosità possa causare danni. Se poi l’adattamento è anche acustico la sensazione è doppia, e viaggia su un binario parallelo ma non convergente con la prima. Anche un’eventuale fase intermedia, un’anticamera sensoriale, prepara, ma poco. È per questo che esito ad uscire dalla Our Lady of Compassion, la chiesa sostanzialmente incastrata tra West Stand e Bobby Moore Stand. Nel piccolo atrio le vetrate multicolori permettono di scorgere il flusso di tifosi che dalla Green Street vanno verso sud, per girare sulla Castle Street, e se la visuale è mediata dalle tinte opache e dalla trasparenza volutamente ridotta, l’assenza quasi totale di suoni rende surreale la scena. Non manca neanche mezz’ora all’inizio di West Ham-Arsenal e ho cercato l’ennesima prospettiva diversa di questa stagione, infilandomi in chiesa verso le 11.30: un po’ per senso di colpa di non averlo mai fatto prima, un po’ per fermarmi un attimo e rallentare il tempo frenetico di queste vigilie.

La Our Lady of Compassion è una icona di Green Street e della zona. La sua adiacenza alla tribuna principale dello stadio costituisce da sempre una curiosità per me, e anche se la massa dei tifosi ha ormai imparato a non considerarne nemmeno la struttura scura, apparentemente consunta da decenni di smog prima e di semplice vita e scorie metropolitane poi, ai miei occhi e ai miei sensi è rimasta ogni volta una presenza ingombrante e attraente, una maschera muta che sulla scena della stagione 2015-16 si sistema in un angolo e osserva, inosservata. La radio della BBC qualche mese fa ha condotto una piccola inchiesta sulle conseguenze della partenza del West Ham sul quartiere, e tra negozi e aziende è spuntata anche la chiesa. Con il parere di due suore, quelle che poi hanno fatto un’apparizione nello speciale di Fox Sports dedicato all’ultima partita al Boleyn Ground, assieme al parroco, che parla un buon italiano.

Entro con il dovuto rispetto, nel silenzio che adoro in ogni situazione, e vedo che ci sono due persone immobili in meditazione, forse preghiera, comunque in situazioni emotive perfettamente coerenti con il luogo. Si percepisce il viavai esterno, si coglie la linea di separazione tra pace interna e fervore esterno, ed è una linea non fissa, varia anzi con il crescere o il calare dei rumori della strada, nessuno dei quali distinguibile singolarmente. È una chiesa molto più bella dentro che fuori, per chiari motivi. Tre navate, con quella centrale ovviamente più ampia, e in quelle laterali tutte le piccole strutture di culto del cattolicesimo. Stile romanico moderno, se non è un controsenso: la base stilistica è infatti realizzata con materiali puliti, mattoni chiari, mentre le colonne e la loro cornice hanno fasce orizzontali rosso scuro, oserei dire claret se non fosse che mi ci spinge la voglia che lo siano, anche se la tonalità è lievemente diversa. Travi e soffitto di legno, e abside - ovvero la parte in fondo, pronunciata una volta “ab-said” in inglese da uno sprovveduto lettore di tg nazionale - che in linea d’aria è al massimo a cinque metri dal chiosco di panini sulla Castle Street.

Sono il giorno e l’ora (12-12.30, ma anche 18-18.30) delle confessioni, due persone entrano e si siedono in fondo ad attendere, mentre una robusta signora di probabili origini caraibiche si sposta ogni pochi minuti da una fila di panche all’altra. Mi preoccupa una valigia nera abbandonata accanto a una colonna, che si scoprirà essere di una delle due persone già all’interno al mio arrivo: sono sbadataggini tollerabili in questo posto sperduto ma che sarebbero inaccettabili se fossimo invece in un luogo frequentato e turistico, per il pericolo che potrebbero rappresentare. Entrano due tifosi, uno con la maglia anni Sessanta e uno con la felpa, vanno davanti all’altare e si inginocchiano con un fare abituale e genuino che mi fa immediatamente pensare che la loro devozione sia più profonda della semplice raccolta di fede prima di una partita.

Sulla colonna anteriore, davanti ai banchetti dove si possono accendere candele alla memoria, un posto a sedere separato dagli altri è riservato alla signora Anne McDowell e a Nessie, il suo cane guida, e mi commuovo come ogni volta che nel mio pensiero entrano questi meravigliosi animali ai quali, non ho dubbi ma non sono io a decidere, è certamente riservato un posto speciale in un paradiso che di cani vorrei che ne avesse milioni, specialmente quelli che in vita hanno la sventura di essere maltrattati o utilizzati da mendicanti e lercioni da zona universitaria.

Jose Antonio Fernandez, un signore sui 70 anni dai modi dolci e benevoli classici di chi frequenta determinati ambienti, è seduto lì accanto e mi ferma. Vuole parlare, e parla. «Non badi al mio cognome, io sono di Goa, un’isola del Pacifico. Abito qui dietro, in una laterale di Green Street. Lei è italiano, dunque? Pensi che sono stato tante volte a Fatima, a Medjugorje, in Terrasanta, a Lourdes ma non sono mai stato a Roma dal Papa». Si può rimediare, lei ha ancora l’età per farlo, mi sembra in forma. «Sì, forse si. Ma lei come mai è qui?». Per la partita, rispondo, e mi rendo conto con un po’ di imbarazzo che nell’ora destinata alle confessioni ne abbiamo appena fatta una ciascuno, quella di due passioni della medesima intensità, una sacra e coerente col luogo, e una profana. «Per la partita? Ma è davvero incredibile. Che bravo. È un peccato che il club se ne vada. Qui attorno è molto amato, e poi la sua presenza faceva bene alla zona. Dei cinque pub che c’erano, tre hanno già dovuto chiudere in previsione della partenza». José Antonio non pare un tipo che frequenti locali del genere, ma è palese la sua preoccupazione per le conseguenze della grande novità del 2016. A occhio e croce, peraltro, dello stato del quartiere dovrebbero preoccuparsi soprattutto le autorità locali, ma uno sguardo alla composizione del consiglio, immortalato in una foto inserita in una bacheca fuori dalla stazione della metro, fa pensare che i suoi membri non abbiano né il coraggio né soprattutto il desiderio di frenare il declino, che probabilmente non considerano tale: senza questo declino, del resto, nemmeno sarebbero consiglieri. Un paio di ceri per persone care, l’orecchio che coglie rumori attenuati di zoccoli di cavalli e di un aereo, la tentazione persino di restare qui molto a lungo, per tenere al di fuori il mondo e ribaltare i concetti: lo spazio libero è questo, ed è il caos al di fuori ad essere chiuso tra quattro mura e un soffitto, seppure azzurro.

Di caos ce n’è davvero: l’ho trovato presto al Queens Fish Bar per un ustionante pollo e patatine consumato a pochi centimetri dalle foto appese in fondo, quelle ormai stinte di Hislop, Cottee, Gale, Martin ancora con capelli, Parris, la squadra del 1980, Potts, Moore, Bonds, Greenwood e Lyall. Santini e iconcine votive molto diverse da quelle della Our Lady of Compassion ma, persino banale dirlo, con il medesimo impatto e con una diversa possibilità di incremento numerico, anche se la mobilità professionale dei giocatori attuali è molto più alta di quelli di un tempo e la possibilità che qualcuno di loro resti tanto da diventare un mito del club sono basse. Forse solo Mark Noble: a mio avviso sopravvalutato come calciatore, ma ragazzo che anche nell’aspetto fisico sembra una persona qualunque, apparentemente non allineato allo stereotipo del giocatore moderno, che è invece curatissimo nell’aspetto e sconsolantemente pacchiano nei gusti personali e privati, a partire da certi tagli di capelli. Si va avanti a stereotipi: se una notevole fetta di italiani giovani, con distribuzione irregolare tra nord e sud, assomiglia almeno a uno dei cantanti del Il Volo (o a Pellé), quassù i modelli sono differenti e più vari ma ugualmente creati e seguiti per istinto e non per ragionamento, come accade per tutte le mode (“moda” e “attivista” sono tra i termini italiani che detesto di più, tra l’altro). E Noble mi è sempre parso diverso, o almeno mi tengo questa illusione, confermata peraltro dal fatto che è stato l’unico, tra gli interpellati, ad avere sempre mostrato dispiacere genuino a lasciare il Boleyn Ground. Forse perché è nato qui mentre molti dei suoi compagni di squadra non avevano idea di cosa fosse o rappresentasse il West Ham fino a che il loro agente non ha parlato loro della possibilità di giocarci.

Il caos, dopo il Queens Fish Bar, era stato quello fuori dal Ken’s Café e poi nelle code al negozio dello stadio, inavvicinabile anche per via della deliziosa promozione dedicata alle maglie da gioco del 1975, 1980 e 1986, solo 20 sterline l’una ed è obiettivamente poco persino per i miei gusti. Poi appena dentro i John Lyall Gates alcuni ragazzi che giocano a street football, ripresi da telecamera ma obiettivamente fastidiosi per chi abbia la… pretesa di passare senza prendersi una pallonata o essere travolto. Nel mucchio che osserva, anche due signori che mi sembra di aver visto sul volo da Malpensa, ma chissà.

Caos, appunto. Ma la giornata è però iniziata attivamente altrove, ovvero nella ormai tradizionale destinazione di Canning Town, che sempre più sento pulsare di lontana luce claret&blue. O blue e basta. Club d’acqua era il West Ham alle origini e club d’acqua torna ad essere in un Olimpico costeggiato da canali e dal Lea, e a Canning Town e immediati dintorni pare sempre di sentirsi a poche decine di metri dal fiume o da uno dei suoi affluenti, anche quando la cartina non conferma. C’è un’aria fluviale inesistente invece ad Upton Park, che è solo un paio di chilometri più in là ma non sembra diffondere la medesima aria di prossimità ai corsi d’acqua. Molti di voi lo sanno e risanno, anche solo per averlo letto molti capitoli addietro, ma il West Ham deriva dal Thames Ironworks Football Club, squadra sostanzialmente dopolavoristica nata nel 1895 per volere di Arnold Hills, che dal 1880 aveva un ruolo importante nella gestione dei cantieri e per essere vicino alle operazioni si era trasferito in una casetta sulla East India Dock Road a Canning Town, scegliendo dunque di rinunciare temporaneamente ai privilegi della ricchezza. Personaggio interessantissimo, Hills. Le varie descrizioni che di lui vengono fatte collimano su punti fondamentali: era un imprenditore di età vittoriana, post-Rivoluzione Industriale, e dunque attento al profitto come prima cosa. Ma rispetto ad altri aveva un lato ascetico, puritano, che si inseriva peraltro in un filone abbastanza diffuso all’epoca, su cui torneremo. Vegetariano e astemio, due aspetti che istintivamente me lo rendono congeniale, aveva addirittura finanziato l’apertura a Londra città di un ristorante coerente con i suoi principi. Sul piano professionale abbiamo già scritto che era stato tra i primi a modificare l’orario di lavoro dei dipendenti dei cantieri portandolo a otto ore, anche se bisogna considerare le tappe straordinarie e forzate richieste dal ciclo della lavorazione del metallo nell’imminenza della consegna di una nave. A dire il vero, risulta anche che tale decisione sia stata presa dopo un lungo periodo di scioperi e controversie, ma le varie fonti che hanno parlato di lui, perlomeno quelle non deviate ideologicamente, sono d’accordo a ritenere che sia stato un pioniere in questo senso, perlomeno in quell’area di Londra che ancora Londra non era. Dopo la chiusura delle controversie sull’orario aveva deciso di fondare una squadra di calcio riservata ai dipendenti. Anche questo aspetto dà la misura della peculiarità della situazione e soprattutto delle intenzioni di Hills: uno svago, un dopolavoro, improvvisamente reso possibile dal fatto che l’orario del lavoro stesso avesse avuto una limitazione.

Va da sé che questo principio è alla base dello sviluppo stesso del calcio e in generale dello sport avvenuto tra fine Ottocento e primi del Novecento: con professioni e mestieri più stabili dal punto di vista temporale, con - nel caso britannico - i sabati pomeriggio liberi ma le domeniche giustamente consacrate alla religione, il sabato dopo pranzo diventava il momento ideale per fare e vedere sport, e quando i trasporti cominciarono ad essere più efficienti e accessibili anche a persone di ceto medio e basso aumentò il numero di chi alle partite poteva andare. Nel caso specifico si trattava solo di fare calcio come svago, senza il classico punto di partenza di altri club, specialmente al nord, in cui il football era un modo per tenere impegnati da settembre ai primi di maggio i giocatori di cricket altrimenti fermi per l’inverno. Hills voleva invece dare ai suoi dipendenti un passatempo sano e pulito, anche per tenerli lontani da quelle che legittimamente considerava tentazioni e svalutazioni della persona: troppe volte aveva visto, o sentito dire, suoi stipendiati che appena avevano due scellini in più li buttavano via in pub o scommesse o altre situazioni deteriori per il progresso dell’essere umano. L’attività fisica era invece purificatrice, ed è interessante a questo proposito notare un mutamento del sentire religioso di quei tempi, seconda metà dell’Ottocento, in ambito cristiano non cattolico. Si stava infatti affermando in molti circoli, perlopiù benestanti perché solo chi è ricco (o non ha nulla da perdere) può impiegare tempo in crociate ideologiche, un ideale che si discostava dalla figura ascetica ed eterea del cristiano pio e devoto. Era la cosiddetta muscular christianity, un cristianesimo muscolare o vigoroso che non vedeva il corpo come un ostacolo alla perfezione dell’anima ma un tempio da proteggere e rispettare. Se l’etica protestante aveva a lungo guardato all’esercizio fisico - per quei pochi che se lo potevano permettere - come corruttore, ora l’idea era dunque quella opposta: quella cioé che per controbattere gli effetti della progressiva mollezza ed effeminatezza portati dagli agi (?) della vita moderna l’essere umano di sesso maschile dovesse invece riprendersi gli spazi di vigore che gli erano appropriati e naturali.

Pausa. Spero che alcuni di voi stiano pensando quel che penso io: se c’era pericolo di mollezza a fine Ottocento cioé in anni durissimi per la maggior parte dell’umanità, al giorno d’oggi i propugnatori del cristianesimo muscolare per controbilanciare le tendenze dovrebbero come minimo inventarsi un tutti-contro-tutti all’arma bianca, altro che uno sport. Magari. Ma non c’è niente da fare contro le minoranze rumorose e prepotenti che stanno dilagando, e non per nulla quelle tesi purtroppo non esistono più.

Tesi, del resto, dalle quali in Canada nasceva negli stessi anni di fine Ottocento (1891) la pallacanestro: James Naismith, l’inventore del basket, era un seguace di questa dottrina, e da Hills si differenziava solo perché lo sport da lui definito non voleva rimettere in riga i dipendenti di un’azienda o i membri della società in generale ma gli studenti della piccola università in cui insegnava. Situato nel New England dunque in una regione molto fredda, il college forniva limitate possibilità di pratica all’aperto e secondo il preside questo portava gli studenti, negli spazi ristretti di una palestra, a reprimere e periodicamente esprimere in modo irruento le proprie pulsioni virili. Meglio farli sfogare in maniera regolata e regolare. Il dilagare a livello planetario della pallacanestro è stato solo una conseguenza della sua intrinseca bellezza e della sua adattabilità a luoghi chiusi di limitato spazio nei mesi freddi, ma non era nelle intenzioni del dottor Naismith.

A Canning Town e dintorni dunque si poteva giocare a calcio in una nuova squadra, quella dei cantieri. Non era però la prima della zona. C’erano o c’erano stati gli Old Castle Swifts, il St.Luke’s, l’Upton Park e il South West Ham, tutti nati nei dintorni, oltre al Barking Woodville. Alcuni giocatori di quelle squadre erano dipendenti dei cantieri navali e dunque Hills non ci mise molto a convincerli a donare tibie e polmoni - se ancora intatti dopo quell’inferno tra fornaci e polveri - alla causa, previo versamento di una quota di iscrizione equivalente a circa il 30% della paga di un operaio medio. Settimanale, ci dicono: perché come è noto nel Regno Unito i pagamenti vengono fatti ogni settimana ed è questo il termine di riferimento. Il tutto faceva parte del progetto di fondazione illustrato nell'edizione del 29 giugno 1895 della Thames Ironworks Gazette, un giornale ideato da Hills e che voleva essere al tempo stesso anche bollettino aziendale, rivista di storia locale e mezzo per comunicare al mondo - a partire dai dipendenti della ditta - i pensieri del fondatore, che altrimenti non sarebbero interessati ad alcuno.

Di tutto questo ha scritto molto Brian Belton, che ho già citato. Nato da queste parti anche se a queste parti non appartiene, ha fornito, assieme ad altri meno edificanti, testi sulla storia dei cantieri e del club da cui dipendiamo tutti noi che ne riferiamo. Io ho integrato con un libro del 1936 (Fifty Years a Borough - The Story of West Ham) che contiene narrazioni sontuose e anche esagerate, dato che si tratta di un volume commissionato dal consiglio comunale per celebrare i propri 50 anni come distretto, oltre che con ritagli di giornale rintracciati qua e là per il web. E scarpinando per andare a visitare i luoghi di cui parlo, unico metodo che conosco e che è alla base della mia intera attività narrativa, non certo fondata su contatti in esclusiva o dialoghi costanti con i protagonisti dello sport, dalla maggior parte dei quali cerco di stare alla larga perché inaffrontabili sul piano etico e personale.

Vabbé. Gli allenamenti del Thames Ironworks si svolgevano il martedì e il venerdì sera in un’aula (!) della Trinity Church School sulla Barking Road, che sorgeva proprio dall’altra parte della strada rispetto al McDonald’s all’incrocio con la Beckton Road, e che dopo i danni subiti durante la Seconda Guerra Mondiale è poi stata abbattuta e sostituita da alcuni edifici di edilizia popolare. Il campo era quello della Hermit Road, la laterale a sinistra della Barking Road che rappresenta il proseguimento, dopo l‘incrocio, proprio della Beckton Road, lungo la quale i giocatori correvano per completare la preparazione iniziata in palestra. Un campo modesto, giusto uno spazio libero, già utilizzato dagli Old Castle Swifts, anch‘essi del resto squadra aziendale, fondata da Donald Currie, proprietario della ditta di trasporti navali Castle, e scioltisi poche settimane prima. La prima partita venne giocata il 7 settembre del 1895 contro la Royal Ordnance ovvero la squadra di artiglieri dell‘esercito che era una sorta di succursale del Woolwich Arsenal (ora, solo Arsenal), e finì 1-1, dando subito l‘idea che l‘accozzaglia di giocatori in campo potesse farsi valere. In amichevole, però: pur affiliandosi alla Football Association cioé alla Federazione, il club scelse di non partecipare ad alcun campionato nella sua stagione di debutto, e organizzò una lunga fila di amichevoli, oltre a partecipare alla FA Cup, in cui venne sconfitto dal ben più esperto Chatham per 5-0. Era non solo la competizione più prestigiosa d‘Inghilterra, la FA Cup, ma anche quella a cui Hills era più legato: oltre che mezzofondista, da giovane era stato calciatore e aveva giocato con l‘Oxford University la finale del 1877, persa 1-0 contro i celebri Wanderers.

Nell‘Ironworks non c‘era un vero e proprio allenatore, ma la gestione del club e della preparazione era affidata a Dave Taylor, a cui Hills aveva dato l‘incarico di organizzare il club anche per la sua esperienza calcistica da… arbitro, e a Francis Payne, il primo segretario, ruolo che per decenni è stato forse il più importante tra tutti quelli delle società calcistiche inglesi. Tra le varie amichevoli, giocate con la divisa tutta blu delle origini ispirata ai colori di Oxford cara a Hills, anche una pionieristica il 16 dicembre 1895 contro l‘Old St.Stephen‘s: nell‘occasione infatti vennero appese a pali temporanei dieci potenti luci, collegate a un generatore, e fu la prima partita della storia sotto i riflettori, con la curiosità che il pallone, prima del via, venne immerso in un secchiello di vernice bianca per essere più visibile, quasi fosforescente. Era l‘epoca di palloni grevi e rudimentali, quasi armi da offesa, e qualche grammo di peso in più non fece alcuna differenza in chi doveva gestire la sfera. Il 20 marzo 1896 altro pezzo di storia, con conseguenze pesanti: in occasione dell‘amichevole serale contro il West Bromwich Albion vennero infatti eretti teloni per impedire la visuale del campo agli spettatori non paganti, che già erano dissuasi dal fossato scavato attorno al perimetro. Come già sottolineato, fu uno degli eventi che fecero precipitare la situazione e causarono poi il defenestramento del club da parte dei proprietari del terreno, indispettiti per la svolta commerciale presa.

Di tutto questo, dal campo di Hermit Road, sparì traccia in poco tempo, figuriamoci dunque cosa può essere rimasto adesso. Ma è una visita da fare a tutti i costi, in questa mia ricerca nostalgica, utopistica e disperata di un passato che era migliore semplicemente perché non è adesso. La Hermit Road è una via a semicerchio che percorsa in senso orario permette di arrivare dopo circa 15 minuti alla congiunzione con la Grange Road, quella dei cancelli del vecchio Memorial Ground, o Grounds che fosse. E proprio dove le due vie si incontrano c‘è l‘ingresso del grande East London Crematorium and Cemetery, adiacente al parco, uno scorcio severo e austero che accresce la sensazione di un luogo vissuto nel presente - malino, a giudicare dallo stato dei cortili sulla Grange Road - ma ispirato al, e dal, passato. A inizio percorso dalla Barking Road però si percepisce soprattutto una discreta tranquillità. E ad un certo punto, sulla destra, finalmente lo slargo dell‘Hermit Road Recreational Ground, un parco di dimensioni medie, ben tenuto, che curva seguendo la Hermit Road. Su un albero mi sorprende un gruppo di pappagallini: scoprirò poi che non c‘è molto da stupirsi perché ci sono specie che si sono abituate anche a certi inverni e del resto quello passato non è stato pesante, ma non pensavo che nella parte alta dell‘emisfero settentrionale potessero sopravvivere razze di volatili del genere. Nel parco, che come annuncia il cartello è aperto ogni giorno dall‘alba al tramonto, c‘è solo una signora con un bel cane, e anche qui il tentativo di socchiudere gli occhi e immaginare cosa fosse questo slargo oltre 120 anni fa, nei giorni delle partite, non porta ad alcuna ispirazione particolare.

Mi rendo conto che sarebbe più libresco e letterario scrivere invece che qui si respira un‘aria particolare, che il prato trasuda di memorie e ricordi, che basta un niente per immaginare calciatori fantasma alla Campo dei sogni. Ma non è così, non lo è. Però resto lo stesso qualche minuto fermo in mezzo al parco, ricordandomi che questo è un momento unico e che nella sua banalità è incastrato in una serie di giornate di cui avrò nostalgia, quando tutto sarà finito.

Ma questo è stato il mattino, mentre il presente è nell‘imminenza della partita, fra saluti rapidi ma calorosi: con Lorenzo di Sky e l‘amico che lavora in un club milanese e ha ottenuto i biglietti, con Luca che è alla penultima partita senza pensare a chissà quanti altri, nello sciame, avranno l‘emozione della prima o dell‘ultima al Boleyn Ground, in entrambi i casi una giornata da ricordare. Alla fine il responso di Lorenzo sarà quello di una persona rapita dall‘ambiente, e mi verrebbe paternamente da dirgli «avrai capito, adesso, perché da metà anni Settanta per me non esiste altro». Ma ha capito già da solo, senza che glielo debba sottolineare uno che potrebbe essere suo padre.

Facile del resto entusiasmarsi per quello che si vede sul campo, in gara. Preceduta da un clima più frizzante rispetto ad altre volte. La rivalità con l‘Arsenal non è vivace come quella con Chelsea e Spurs ma c‘è in ballo anche qualcosina a livello di classifica e c‘è da entrambe le parti l‘ovvia voglia di lasciare il ricordino dell‘ultima in questo stadio. E, come sempre, i tifosi in trasferta paiono più vivaci di quelli di casa. Paiono, il che non vuol dire che lo siano. È il solito cliché che continua ad essere spacciato per verità interessata: muoversi e ritrovarsi in un settore ristretto di uno stadio altrui corrobora la percezione di unità di intenti e fa emergere uno spirito di corpo che amplifica rumori ed esperienze, dando vita alla leggenda autoalimentata del „eravamo un decimo di loro e abbiamo fatto più casino“. Versione italiana del triste „erano dieci volte più di noi ma li abbiamo fatti scappare“ con cui viene raccontata nei libri di memorie degli hooligan, imbarazzante moda letteraria della seconda parte degli anni Novanta: nella maggioranza di questi epici scontri di strada a rimanere feriti sono solo il buon senso e l‘aritmetica. Per cui buon rumore dal settore Arsenal, come era stato dal settore Spurs e altri, ma non paragonabile a quello, per una volta efficace, del pubblico di casa, che ha solo il „difetto“ di essere sparso in tutto lo stadio e non concentrato in un settore, per cui l‘impatto sull‘orecchio è differente.

E in campo si vede di nuovo una difesa a 3+2. Le scelte di Bilic nascono del resto da un paio di esigenze: l‘assenza forzata di Byram e Collins, quella bizzarra di Sakho, che pare avere messo il muso per presunte ingiustizie, e la volontà di infittire il campo per non consentire ai Gunners di ripartire con troppa velocità, considerando la perizia di piedi buoni come Ozil e la solita rapidità nel ribaltare le situazioni. Ecco allora una difesa centrale irrobustita nei numeri, con Tomkins che si allarga a destra senza palla ma stringe molto in fase di protezione, mentre Antonio si sistema più in alto di Cresswell quando bisogna costruire. Anche perché la sua perizia nel gettarsi in mezzo al campo sui tocchi di testa di Carroll è uno dei tanti aspetti di questo ragazzo meno noti al grande pubblico di tifosi e commentatori, ora tutti presi da dotte analisi sul Leicester City. Il guaio è che in fase difensiva il buon Antonio ha un passo incerto, l‘incertezza classica di chi non ha avuto il tempo di allenarsi su chiusure, diagonali, scelte di tempo e movimenti collettivi. Non per nulla il 2-0 Arsenal in poco più di mezz‘ora nasce dalla sua parte, in circostanze però diverse. Nel primo caso, Antonio è fuori causa quando Iwobi vede Ozil libero, a causa anche dell‘eccessivo accentramento di Tomkins, e lo serve per il tocco facile; nella seconda circostanza sempre nella medesima zona ci sono tre giocatori dell‘Arsenal in uno spazio controllato da due del West Ham, e ancora Iwobi vede bene Sanchez. L‘intervallo arriva con il consiglio, a Bilic, di cambiare qualcosa: l‘idea di addensare in mezzo per ostacolare il giro palla dei Gunners è fallita, e allora tanto vale tornare a una difesa a quattro facendo entrare Emenike (…) al posto di Tomkins, anche se con Antonio terzino destro e allora siamo daccapo. Ma attenzione, è significativo che la sostituzione arrivi dopo un finale di primo tempo da ribaltare lo stadio: al 44‘ infatti un bel cross da sinistra di Cresswell viene scaraventato in rete da Carroll, che travolge Monreal, mentre poco più di un minuto dopo su un cross di Noble dal lato destro ancora Carroll controlla di petto ma tira malamente di destro, la palla viene respinta da Gabriel e gli capita sul sinistro, altro tiro in semirovesciata, deviazione ancora di Gabriel e 2-2. Ma - appunto - i problemi erano dal centrocampo in giù e dunque questo pareggio non ha cambiato il giudizio sui punti critici del gioco, corretti in parte con il ribaltone dal 46‘.

Al 52‘ il momento più esaltante dell‘annata, pari forse al gol di Reid nell‘ultima contro il Manchester United: parlo di coinvolgimento del pubblico, di clima, di esplosione di quel „yes“, con „s“ però quasi mai pronunciata, che mi segnò in modo indelebile da ragazzino e resta tuttora l‘unico modo di esultare che abbia l‘effetto di proiettarmi in una dimensione estatica, al contrario della vistosa „o“ dell‘urlo „gol“ di altre latitudini. Mi riferisco al 3-2 ancora di Carroll, anche se pure questa volta su deviazione. Tra l‘altro è proprio Carroll che, dal lato sinistro del campo, apre sul fianco opposto per Antonio, che accelera e supera Monreal con uno scatto e un cross da adorabile ala di altri tempi. Sulla parabola arriva come un bisonte sul secondo palo il centravanti, che butta dentro palla, Gabriel, Ospina e tutta l‘aria che c‘è da quelle parti. Con il 4-2-3-1 di gran parte del secondo tempo, in cui non farà altri cambi, Bilic spera di controllare la reazione dell‘Arsenal e in realtà ci riesce sul piano del gioco, ma il pareggio arriva comunque, e pure abbastanza presto, al 70‘: corner, palla vagante in area, tocco di Welbeck e Koscielny col piatto destro mette sul palo più vicino. Con l‘ingresso di Giroud per Elneny e Ramsey per Coquelin, ovvero i due davanti alla difesa, l‘Arsenal aveva messo il gallese e Iwobi dietro, spostando Giroud punta centrale, Welbeck a sinistra e Sanchez a destra, con Walcott poi dentro all‘82 ‚ - almeno credo, visto che ormai il mio orologio da muro preferito è definitivamente spento - per Welbeck per scambiarsi posto con il cileno, tornato a sinistra. Partita esaltante, vecchio stile per ribaltamenti e anche contrasti - al 5‘ Carroll, per vendicarsi di una gomitata di Koscielny, lo aveva falciato in mezzo al campo e aveva ricevuto un cartellino giallo fin troppo benevolo - e per la sensazione di unicità che ha lasciato in molti, tanto che ancora oggi il battito cardiaco aumenta impercettibilmente al pensiero di quel pomeriggio chiaro, il penultimo sabato di calcio al Boleyn Ground.

Alla fine, la solita corsa. Gara che si chiude alle 14.35, passo davanti alla Boleyn Tavern da cui escono le note di Sweet Caroline, salgo al volo sul 147 in coda verso Canning Town dove prendo la Jubilee Line, alle 15.20 sono a Stratford, alle 15.46 treno per Tottenham Hale, alle 17.10 circa sono a Stansted e anche stavolta è andata. Notando che su ognuno dei mezzi pubblici presi, anche l‘ultimo in cui le probabilità sono minori, c‘è qualcuno con una maglia degli Irons. 16

SPOTTED DOG (WATFORD)

Mercoledì 20 aprile 2016, ore 19.45: West Ham United 3- Watford 1 (Carroll 11’, Noble rigore 45’, rigore 53’, Prodl 64’)

WEST HAM Adrian - Antonio, Reid, Ogbonna, Cresswell - Kouyate, Noble - Lanzini, Sakho (Moses 78’), Payet (Collins 94’) - Carroll (Emenike 87’).

WATFORD Heurelho - Paredes, Prodl, Cathcart, Holebas - Guedioura (Anya 56’), Behrami, Suarez, Abdi (Deeney 77’) - Jurado (Berghuis 56’) - Amrabat.

Ryanair 8728 Malpensa 6.45 Londra Stansted 7.55 21 aprile Ryanair 5283 Londra Gatwick 7.00 - Milano Linate 9.55 Un giorno da cani, anzi un giorno da cane. A pois. In traduzione inglese, spotted dog. Un paio di chilometri a nordovest del Boleyn Ground e a est dello Stadio Olimpico c’è, al 212 di Upton Lane, lo stadio del Clapton Football Club, una delle società storiche del calcio londinese. È anche lo stadio “vero” più vicino a quello del West Ham, anche se dal momento del trasferimento allo Stadio Olimpico il soffio del Brisbane Road del Leyton Orient arriverà da una distanza minore e sottrarrà all’Old Spotted Dog Ground quel titolo, peraltro insignificante nel grande disegno delle cose. Fa però quasi impressione quanto sia vicino questo impianto al grande centro commerciale di Westfield: una quindicina di minuti sul 25 con destinazione Ilford o dieci sul bus 104 diretto a Manor Park (è quello che si ferma poi al Boleyn Ground). Nel secondo caso, scesi sulla Road subito dopo l’incrocio con la Upton Lane si torna indietro di pochi metri e svoltando a destra si sale verso nord per un’altra manciata di minuti. All’incrocio, tra l’altro, non è difficile notare un cartello pedonale che indica il Boleyn Ground: segno palese che da quel punto la distanza con lo stadio del West Ham United è considerata facilmente percorribile a piedi. Il conteggio effettivo del cammino verso l’obiettivo è però difficile, perché seguendo lo spirito del luogo non si può trattare il percorso come un semplice collegamento tra il punto A e il punto B ma ci si affida alla casualità cercata, all’istinto guidato. Ad esempio, già dopo poche decine di metri la Upton Lane si apre sulla sinistra nell’ingresso al , a sua volta un tocco di storia perfettamente coerente con la mia ricerca emotiva: qui infatti giocava l’Upton Park, già menzionato nel capitolo precedente. Formato nel 1866 come club di élite e per una élite, ebbe tra i suoi primi personaggi di spicco il celebre CW Alcock, protagonista assoluto dei primordi del calcio in mille ruoli, e si propose come bastione del dilettantismo più puro, dello sport per il gusto dello sport e dell’elevazione spirituale e morale. Per questo motivo nel 1884 chiese ed ottenne l’espulsione dalla FA Cup del Preston North End, reo di avere pagato alcuni suoi giocatori. Il campo dell’Upton Park era situato dunque all’interno del West Ham Park, e rappresentò per alcuni anni il primo modello di sviluppo reale del calcio in questa parte di Londra, lievemente più a nord della Plaistow e soprattutto della Canning Town in cui nacque poi il Thames Ironworks. Possono sembrare differenze lievi, oggi, ma ai tempi erano colossali: la scarsità di mezzi pubblici faceva sì che aree pressoché adiacenti ora collegate da pochi minuti di metropolitana o treno fossero ritenute e vissute come distinte. Per cui si può tranquillamente leggere sui libri sacri, e riferire qui, che un conto era giocare a Upton Park - la zona - e un conto era farlo a Canning Town. Ecco perché al Memorial Ground non ci furono mai le folle che Arnold Hills aveva ipotizzato: in quel quartiere semplicemente non esisteva una tradizione di calcio visto dal vivo.

L’Upton Park Football Club tenne botta fino al 1887: tre anni prima aveva lasciato il West Ham Park perché - per assurdo - il numero di spettatori era cresciuto al punto da rendere poco praticabile il campo originale, per entrare nel quale si pagava un biglietto che dava però solo il diritto di starsene in piedi a vedere la partita a pochi metri dal gioco. Dopo casi di quasi invasione di campo qualcuno propose di recintare il perimetro con corde e fascioni, ma prevalse la malsana soluzione di andare altrove, in un piccolo stadio con recinzioni a Wanstead: poco lontano - verso nord, dopo Forest Gate - per i criteri di oggi, ma molto distante per quelli di allora. Nonostante la notorietà del club per via della costante partecipazione alla FA Cup pochissimi lo accolsero nella nuova casa, e la fine arrivò presto. Anche se curiosamente il club venne rimesso in vita pochi anni dopo, e rappresentò addirittura la Gran Bretagna al torneo olimpico di calcio del 1900, vincendo una medaglia d’oro (!) assegnata però solo dopo qualche decennio, perché al tempo il calcio era considerato sport dimostrativo e non di pieno diritto nel mondo dei cinque cerchi.

Fu dopo la prima sparizione dell’Upton Park FC che subentrò, in tutti i sensi, il Clapton FC. Nato nel 1878 con il nome di Downs FC in quanto ospitato dall’omonimo hotel negli Hackney Downs, zona a ovest del Lea: dintorni che profumano ora di Orient, che non per nulla nella sua storia si è chiamato anche Clapton Orient. L’FC arrivò qui nel 1888 con l’idea di fare propria tutta l’area, già nota da secoli come spazio ludico. Quando lì c’erano ancora solo campi e boschi l’aveva usato infatti come riserva di caccia Enrico VIII - il re marito anche di Anna Bolena, esatto - e per secoli il capanno si era chiamato proprio Old Spotted Dog. Il Clapton FC aveva ambizioni semiprofessionistiche, al contrario degli altri club dei dintorni, e spinse presto nella direzione di un impegno totale dei propri giocatori. Il pubblico del circondario accolse con entusiasmo: 4000 spettatori per il debutto contro i celebri Old Carthusians il 29 settembre 1888 e per una sfida al Nottingham Forest, poi un crescendo fino ai 12.000 della gara di FA Cup contro il Tottenham nel novembre del 1898. Nel frattempo era stato anche introdotto un abbonamento che permetteva la visione di 24 partite in casa, e l’idea generale che il Clapton FC dava era quella di una società vivace e arrivata al momento giusto nel posto giusto, in quella zona di incrocio tra Forest Gate, Upton Park e East Ham che come si è detto costituivano un terreno di sviluppo più favorevole rispetto a Canning Town. È anche per questo che Hills stava avendo difficoltà proprio in quegli anni: la volontà di mantenere radici rigidamente locali e aziendali - i cantieri - contrastava con la scarsa diffusione del calcio come sport da vedere. Per cui si trovavano giocatori ma non spettatori, al contrario di quanto avveniva pochi chilometri a nord, più lontano dal Grande Fiume.

L’Old Spotted Ground divenne così una destinazione cruciale per la zona, e rimase tale per decenni, anche grazie al legame poi creato con il vicinissimo West Ham United. Il Clapton FC fu tra i fondatori e colonna della Southern League, e qui bisogna aprire una parentesi: a noi europei risulta a volte difficile capire che agli inizi del calcio inglese la Football League, quella cioé che ancora oggi governa le tre serie dalla Championship in giù, ebbe la concorrenza della Southern, che non era subalterna ma rivale. Il valore delle squadre della SL, fondata per accogliere club del sud, era ritenuto inferiore a quelle della Football League, dominata da formazioni del centro e del nord che avevano svoltato presto verso il professionismo, ma solo con l’ingresso dell’intera prima divisione della Southern nella Football League nel 1920, come Third Division, si sancì la sottomissione formale. Nel frattempo però due squadre di SL, il Southampton e il Tottenham, erano arrivate alla finale di FA Cup e nel 1901 gli Spurs l’avevano pure vinta.

Nel 1905 però il Clapton FC modificò il proprio corso e contribuì a fondare la Isthmian League, che doveva essere una versione della Southern League aperta a società con ambizioni più moderate, dunque più amatoriali che professionistiche rispetto alla dirimpettaia. Già il suo motto, Honor Sufficit ovvero “Ci basta la gloria”, raccontava tutto delle intenzioni e della filosofia, ed era seguito alla lettera: alla squadra campione non andava neppure una coppa, solo un “bravi!”. La gloria appunto. Una lega che dimostrò comunque di avere un notevole spessore tecnico, se è vero che dalla Isthmian provenivano spesso le vincitrici della seguita FA Amateur Cup, altra icona del calcio inglese più puro, in grado di portare a Wembley decine di migliaia di persone per la finale. Per inciso, passando da momenti di onore (due giocatori convocati in nazionale, una partita di FA Cup giocata al Boleyn Ground per accogliere più spettatori) ad altri di decadenza, il Clapton FC è rimasto nella medesima lega per 101 anni, lasciandola solo nel 2006 per passare alla Essex Senior League, di cui fa ancora parte, e che costituisce il nono livello del calcio inglese. Alle sue partite assistono in media meno di 200 spettatori, anche perché delle tribunette di un tempo non è rimasto nulla. Abbattute per impedire che crollassero, come è accaduto nel 1991 anche alla sede del club, distrutta da un incendio. Tutto questo è storia, è teoria, è roba che si trova sui libri, incisa da benemeriti che hanno raccolto dati e notizie nel corso dei decenni. Ma, come sempre, solo la visita rende reale onore alla carta, trasferisce le parole in osservazioni dirette che a loro volta, nelle pagine che state leggendo, tornano parole. E arrivando al curvone verso destra della Upton Lane che annuncia lo stadio, o meglio il campo, c’è subito la percezione di qualcosa che si sposa malissimo con la mia idea di calcio e di sport. Sullo splendido, malmesso cartello demodé con la scritta Clapton Football Club, sormontato dal disegno ingenuo di un simpatico cagnolino a pois con “1878”, compare uno sfregio a pennarello con le parole Clapton Ultras Antifa!!, ed è solo l’inizio. Dentro, la percezione che il club calcistico sia solo uno strumento di propaganda politica diverrà ancora più forte, e triste. Dentro, ma è una parola: perché il cancello principale, di bel legno rosso consunto, incoronato dalla scritta rossa in campo bianco col nome del club, è chiuso. Sbirciando dalle fessure si vede un lungo vicolo, quasi claustrofobico, che porta al campo, ma non pare esserci modo di entrare. Dal lato destro, sul portone di un altro edificio la scritta “Attenti ai cani” pare involontariamente umoristica, considerando il nome dello stadio, ma dev’essere un dettaglio che solo un visitatore accorato ma scettico può notare. Ancora più a destra, chiuso e malmesso, un locale che è stato un pub fino al 2004, e che era molto probabilmente il famoso capanno di caccia di Enrico VIII, concesso in uso al responsabile dei suoi segugi, che vi aveva aperto un posto di ristoro per viandanti. Pare che al suo interno ci fosse un dipinto con lo stemma di Londra e la data 1603, a ricordare una serie di assemblee di commercianti sfuggiti a una delle tante epidemie di peste che in quei secoli centrali dello scorso millennio causarono milioni di morti in tutta Europa. L’antica eccellenza dell’edificio è tanto evidente quanto il suo attuale stato di muta disperazione, accresciuto dall’inutilità del cartello che ancora indica la distinzione tra New Dog Bar e Old Dog Bar, sulla porta.

Per vedere lo stadio, oggi, bisogna dunque infilarsi nel vicolo tra la recinzione in cemento e una rete, in un deprimente scenario post-qualcosa - forse post-decente - di rifiuti solidi abbandonati, cofani di auto che sporgono dal muro e sporcizia varia, sbucando in fondo alla Disraeli Road e prendendo il cancello all’altezza della bandierina del calcio d’angolo, sostanzialmente dal lato opposto a quello a cui avrebbe condotto il sentiero sbirciato attraverso le fessure. Si può entrare? Il solito timore di invadere casa altrui mette il freno ai passi, ma la situazione cambia quando si avvicina un signore che stava passando la falciatrice sul campo. Vistose origini caraibiche, sorriso rapido, “Vincent” concede il permesso di girare senza problemi, e racconta due cose. Prima che la clubhouse alle spalle dovrà presto essere rimessa in sesto, poi che non c’è nulla da fare per impedire che da alcune finestre del palazzo all’angolo eventuali scrocconi possano godersi gratis la partita. Ipotizza inoltre un’amichevole di prestigio, entro l’anno, per raccogliere fondi per il club, e quando torna alle sue occupazioni da volontario mi lascia libero di passeggiare davvero ovunque, a partire dalla tribunetta del rettilineo secondario. Due-gradini-due di capienza, tutta di tubi e ondulato, dipinta irregolarmente di rosso: a quanto pare doveva essere temporanea ma i tifosi hanno preteso che restasse così e ora la Scaffold (“impalcatura”) è la loro sede. Si autodefiniscono ultras e cercano un tifo continentale, in tutti i sensi: in un manifestino dettano agli altri tifosi come sostenere la squadra e comportarsi, ricreando dunque le medesime condizioni avvelenate di altre nazioni in cui pochi hanno la pretesa di indirizzare e influenzare molti, e lo si poteva del resto intuire dalla loro opposizione alla ristrutturazione della tribunetta che li ospita. Sulla quale compaiono scritte e adesivi (compreso l’immancabile stemma del St.Pauli) che completano il pacchetto ideologico da centro sociale che ha snaturato il senso di appoggiare, semplicemente e genuinamente, una gloriosa squadra locale di calcio. Che nel suo logo porta tra l’altro i due martelletti incrociati, a rappresentare l’intera area e non solo la faziosità recente di alcuni.

È il caso di lasciarsi alle spalle rapidamente quel relitto ideologico e sbirciare non solo le “curve” (due gradini dietro la porta, e nemmeno sono sicuro che siano aperte al pubblico) ma anche la tribuna principale. Formalmente è tale, ma di fatto è la miniatura di una tribuna vera: seggiolini rosso vivo in buono stato, disposti in 7 file per 7 posti a fila, quindi 49 in totale. Completando il giro in modo da vedere dalla prospettiva opposta il vicolo claustrofobico del portone, noto che fuori dalla clubhouse ci sono due poltrone imbottite, una diversa dall’altra, che potrebbero essere state di un salotto della zia o di un pub dismesso, forse proprio l’Old Spotted Dog. Sono lì dietro la porta, e non ho il coraggio di chiedere a Vincent, che nel frattempo ha continuato a falciare, se siano posti a sedere vendibili o semplici oggetti di scarto che nessuno, a stagione appena finita, ha ancora portato via. E dire che basterebbe percorrere 20 metri verso destra, sollevarle e gettarle oltre la recinzione per depositarle dove già giacciono confusi cofani di auto, pezzi di portiere, tappezzerie e chissà cosa altro. Una visita suggestiva, dunque, nel ricordo di un calcio di oltre 100 anni fa e con la possibilità reale di vedere un’ambientazione sportiva, come non è più dato di fare a Hermit Road o a Browning Road. E si intuisce come qui possano esserci entrati quei 12.000 spettatori nel 1898: a prescindere dal palazzo adiacente a un angolo, e da alcune casette sul perimetro, ci sono spazi nei quali avrebbero potuto sorgere tribune più capienti, impressione poi confermata dall’osservazione tramite Google Maps. Fatelo anche voi e vedrete che l’impronta dell’Old Spotted Dog Ground è più larga del perimetro semplice del campo. C’è respiro. E c’è anche il modo di capire quanto straordinariamente vicini siano il Boleyn Ground e questo stadio, così come le altre zone menzionate in questo libro. Eppure, prima dell’omologazione forzata, ognuna aveva le sue piccole caratteristiche che la distinguevano da quella adiacente, e non è sempre facile raccontarle, a distanza di tanto tempo e con l’ostacolo di essere stranieri. Né allevia la sensazione di estraneità il fatto che i locali stessi dotati di memoria storica siano davvero pochi, ora, e che la maggioranza dei residenti conosca le origini del luogo meno di noi e di voi.

Torno a Stratford, tra templi sikh e dintorni rubati alle origini, con la curiosità del faccione di Eric Bristow - uno dei primi campioni di freccette ad avere seguito popolare - che sbircia dal poster appeso a una finestra, e dopo un pasto a base di fish&chips intraprendo un altro viaggio, approfittando della luce e della giornata ancora lunga. In realtà è solo contemplativo: sulla DLR, in ogni direzione, a ripassare con lo sguardo luoghi già visti tante volte quest’anno e tanti anni fa. Con un pizzico di nostalgia per quei periodi, lontani ormai due decenni, in cui potevo restare a Londra 4-5 giorni e girare per divorare con gli occhi tutto, senza le corse di questi tempi. I magazzini di mattoni, rimessi a nuovo, dei dock più occidentali, e poi giù fino alla fermata Island Gardens, alla punta dell’ugola chiamata Isle of Dogs, sbirciando senza speranza i luoghi dove è sorto anche il Millwall, prima di emigrare a sud del Tamigi. Nome preso dal muro (wall) di mulini (mill) che sorgeva qui, rivalità storica con il West Ham ma origini non portuali bensì dai dipendenti, molti dei quali scozzesi, di una fabbrica di marmellate e dolci. Sguardi in sovrapposizione: questa lingua di terra è radicalmente cambiata, come tutta la zona del porto a ovest del Lea, e solo l’illusione del viaggiatore utopico fa sì che mentre scorrono davanti agli occhi le case nuove e basse, i complessi con ambizioni di lusso, i supermercati e le strisce d’acqua del Millwall Outer Dock e Inner Dock, la mente cerchi di immaginare come fossero questi dintorni in tempi in cui questo era un duro distretto navale, non finanziario.

Le reminiscenze di anni fa, i giri sulla metro senza meta e senza correre, sono così piacevoli da far passare il tempo in modo rapido, ma non completo. Sono ancora solo le 17 e c’è spazio per la conclusione della parte esplorativa, che oggi prende sembianze di simmetria. Dopo avere infatti aperto la giornata all’Old Spotted Dog Ground non resta che barrare un’altra casellina prevista e fermarsi per la cena, per il prepartita insomma, allo Spotted Dog, il pub a poche decine di metri dalla stazione di Barking. Molto grande e spazioso, diviso classicamente in ambienti più piccoli, è già pieno di tifosi che si adattano perfettamente agli arredi e decorazioni, tutte volte a strizzare l’occhio a chi vive West Ham United. Il menù stesso, che porta l’effigie del musetto di un cagnolino a pois, è claret&blue, dietro al bancone c’è un grande logo degli Irons e dunque le due fermate di metro da Upton Park non annacquano l’idea che qui il club sia vissuto come se lo stadio fosse a dieci metri, non a due fermate di metro di distanza, oltre quei grattacieli e quel sottopasso della superstrada che tante volte, dal mio posto a sedere, ho visto.

Alla frenetica ricerca di una presa della corrente per il cellulare ormai scarico mi sistemo nella sala un paio di gradini sotto quella principale, e sulla quale si affaccia la cucina. Un cheddar&bacon burger, anelli di cipolla e una Coca Zero mi portano via nove sterline, con moderata soddisfazione sul piano gastronomico. La carne è infatti deliziosamente croccante, mentre gli anelli sono stati cotti forse troppo, ma rientrano nella categoria del mangiabile senza rimorsi, specialmente da un non-buongustaio. Orecchie attente ad eventuali cori che si elevino sul brusio, sguardo alla ricerca di altre curiosità, ma sono entrambe aspettative vane. E quando a un certo punto molti cominciano ad uscire è il momento di aggregarsi. Esco dal pub alle 19.19 e alle 19.41 sono già al mio posto. Una rapidità anomala, favorita dall’immediato arrivo di un convoglio della District Line e dalla scorrevolezza del flusso pedonale. Quasi muto, molto pacato, poco vivace, e un motivo c’è.

Questa è infatti una partita interlocutoria, dopo gli eventi frenetici dei sette giorni precedenti e l’attesa, sospesa, di quello che sta per arrivare ma sembra ancora lontano. West Ham-Watford rappresenta il ritorno a casa della squadra dopo la partita a Leicester della domenica, una gara di per sé fenomenale per il modo in cui gli Irons hanno rimontato e sorpassato i lanciatissimi Foxes (in questo libro si usa la denominazione classica al maschile, non il modaiolo “le” Foxes: a meno che da ora in poi i Carolina Panthers non diventino LE Carolina Panthers, trattandosi in entrambi i casi di sostantivi che in italiano sono al femminile) per poi farsi riprendere su rigore ingenuamente causato da Carroll. Ma, soprattutto, sette giorni prima di West Ham-Watford si era giocato al Boleyn Ground il quarto di finale di Coppa d’Inghilterra contro il Manchester United, in una serata comunque memorabile. Facendo valere l’abbonamento, avevo preso il biglietto per quella partita, completando poi il pacchetto con un volo prenotato grazie alle miglia accumulate, e dunque quasi gratuito. Ma alle 14.30 ero ancora impegnato in un lavoro che mi era stato affidato e che non era giusto scaricare su altri, e ho rinunciato, rimettendoci i soldi del biglietto ma non le tasse del volo, che vengono restituite se si annulla prima della partenza. Ho finito per non vederla proprio, la partita, neanche in televisione: ero in treno verso casa. Dai racconti, dai soli gol visti, da alcune foto, dalle descrizioni, una serata rara, anche se negativa. Confesso che avrei visto volentieri il West Ham a Wembley anche solo in semifinale, oltretutto contro una squadra di tradizioni e bei colori come l’Everton, ma niente da fare. E dire che una parte stupida e ingenua di me mi aveva raccontato che nell’ultima stagione al Boleyn era destino che arrivasse la FA Cup, ma era appunto la stessa vocina dissennata e ingannevole che ci fa dire “io lo sapevo che…” di eventi che poi mai si verificano, mentre noi ci ricordiamo solo di quando lo diciamo di fatti che poi avvengono realmente, e ce ne vantiamo pure.

Dopo una serata così era naturale un calo di tensione, e questa partita lo incarna. Il West Ham può ancora ambire a un posto in Europa League, mentre il discorso Champions League è andato, ma si tratta di un traguardo così secondario da essere quasi trascurabile. È passata l’emotività del quarto di finale di FA Cup, non c’è ancora il rintocco finale della campana previsto per le partite contro Swansea - l’ultima alle 15 - e contro Man United - l’ultima in assoluto - e l’atmosfera ne risente. Oltretutto, anche il Watford ha poco da giocarsi: è salvo e tra tre giorni avrà la sua semifinale di coppa contro il Crystal Palace, per cui in campo non c’è quella che si può definire la formazione migliore.

Il risultato è che sotto di me, dunque fila R, per la prima volta ben sei posti a sedere sono vuoti. Fedeli come sempre, sono presenti i soliti amici (tra loro, non miei) di cui ho spesso ammirato la passione pulita e la costanza. Per il resto un misto di mestizia, senso di passaggio e riazzeramento degli obiettivi. A colorare il tutto c’è la luce del tramonto, che abbozza tinte tra il rosa e il viola sopra le teste e accarezza il tetto della East Stand, ricordandomi ancora scenari di oltre 20 anni fa, di un West Ham-Spurs estivo vissuto con un magnifico senso di scoperta del Boleyn Ground di allora. In campo, il 4-2-3- 1 scelto da Bilic è così evidente da rendere imbarazzante il pensiero che qualcuno abbia potuto ritenere tale il 4-3-3 della maggioranza delle altre partite. Apre Carroll anticipando di stinco l’uscita del portiere su intuizione di Payet, che lo ha visto andare verso l’area piccola e gli ha dettato lo scatto. Il secondo e il terzo gol li segna su rigore Noble poco prima e poco dopo l’intervallo, facendomi venire in mente che sono i primi rigori del West Ham che vedo al Boleyn Ground da inizio stagione. Dopo 30’ Sakho passa sul lato destro scambiandosi di posizione con Lanzini, mentre Antonio, imprigionato ancora nel ruolo di terzino destro, si nota meno del solito, il che vuol dire che corre e fatica per tre e non per quattro. Al 34’ dai tifosi del Watford parte il classico canto che ricorda che si andrà a Wembley sabato, ed è palese il rimpianto del resto dello stadio per l’occasione persa contro il Manchester United sette giorni prima. Al 38’ lungo applauso alla memoria di Dylan Tombides, l’attaccante australiano col numero 38 di maglia scomparso solo ventenne nel 2014 per un cancro, e di cui è molto attiva la fondazione. Un ricordo a flash, a pezzetti degni di ricordo: apprendo che a vedere la partita e a rendere omaggio agli ultimi sussulti vitali del Boleyn Ground c’è anche Massimo Marianella, icona del calcio inglese (ma non solo) a Sky, e non posso che riflettere sul fatto che chi ha conosciuto questo football negli anni pionieristici in cui i media italiani lo dipingevano come un mondo di scarponi e ubriaconi, chiudendo invece un occhio sulle truffe, sulle violenze, sulle influenze illecite in Serie A e oltre, ha in sé uno spirito diverso, non contaminato - o meno contaminato - dalle mode che hanno trasformato la First Division in un campionato qualunque ma giocato in Inghilterra, un campionato in cui si transita come se fosse quello spagnolo o francese, e in cui si può andare senza avere la minima idea di cosa un club rappresenti rispetto ad un altro. Forse è l’atteggiamento anche di Lanzini, al quale però Michael, il mio vicino di posto, dedica una frase secca e piena di risvolti, anche se banale: «I like Lanzini». Lanzini gli piace molto come giocatore. E allora penso ai decenni di calcio, ai decenni di Irons visti dall’architetto che mi siede a fianco e mi rendo conto che pur nella varietà di opinioni e di competenza si tratta di un giudizio importante. Al Boleyn hanno vestito la maglia claret&blue grandi centrocampisti, e sentir parlare in modo così netto di uno che è qui da pochi mesi e magari presto andrà via, perché più attratto dal Valencia o dal , mi colpisce.

Tra un brontolio e un altro per i ripetuti indugi sulla palla di Kouyate e Noble, salvo applaudirli quando la riconquistano in modo grintoso, anche un attimo triste: su una rimessa dal fondo di Adrian un tifoso tira qualcosa verso un guardalinee, reo di non si sa cosa, e per fortuna gli steward intervengono subito e portano via il deficiente, che spero sia stato messo all’indice a vita dal club. A un certo punto noto due persone in piedi sul tetto della Trevor Brooking Stand: non so chi siano e cosa ci facciano lì, ma è la prima volta quest’anno. Al 92’ Adrian para un rigore di Deeney, un minuto dopo Amrabat si fa espellere, e si chiude nelle risate quando Collins, entrato al posto di Payet, prende la sua posizione in campo e tocca un pallone come se giocasse da sempre come rifinitore. Il solito, vecchio calcio inglese dove si ride tanto, anche se meno di una volta. Ma è una risata che mi basta come carburante per la notte passata a Gatwick in attesa del volo di ritor 17

EASTENDERS (SWANSEA CITY)

Sabato 7 maggio 2016, ore 15.00: West Ham United-Swansea City 1-4 (Routledge 25’, Ayew 31’, Ki 51’, Sakho 68’, Gomis 93’)

WEST HAM Randolph - Antonio, Reid, Ogbonna, Cresswell - Noble, Kouyate (Emenike 77’), Lanzini (Valencia 83’) - Moses (Sakho 59’), Carroll, Payet.

SWANSEA CITY Fabianski - Naughton, Fernandez, Amat, Kingsley - Cork - Barrow (Rangel 69’), Fer, Ki, Routledge (Gomis 82’) - Ayew.

Alitalia 216 Milano Linate 10.00 - London City 10.55 Domenica 8 maggio Alitalia 229 Londra Heathrow 6.45 - Milano Linate 9.25 (in anticipo) Nella cronologia di Twitter del mattino, il mattino molto presto sul treno da Bologna, una frase arguta: “Meno male che almeno la Regina è ancora inglese”. Lo sarà presumibilmente anche il suo successore, anzi lo è già, e almeno questo è rassicurante, in un panorama che ti toglie il tappeto da sotto i piedi e ti fa cadere verso un buio senza fine.

Questa è, apparentemente, la seconda partita consecutiva che sul piano emotivo rischia di lasciare molto in sospeso. All’uscita del calendario, ormai 11 mesi fa, il weekend del 7-9 maggio era stato subito individuato come La Data, quella dell’ultima in casa nella storia del Boleyn Ground. E non pochi, all’approssimarsi dell’autunno e all’uscita delle tariffe giuste, hanno prenotato per esserci oggi, per rendere omaggio all’uscita dalla storia e contemporaneamente all’ingresso in un’altra sua forma. Prenotazioni anche senza la speranza di un biglietto, la cui ricerca nelle ultime settimane è diventata ossessiva, quasi malata. Gente che spesso non ha nulla a che vedere con l’ambiente culturale, sociale, geografico, linguistico, emotivo in cui nasce il vero tifo per gli Irons (o per qualunque altro club: chi non capisce lo striscione “Xa vut dalla vetta” non dovrebbe tifare per il Bologna, secondo me), come non ci ho nulla a che vedere io, passeggero pagante ma sostanzialmente intruso.

C’è comunque l’orgoglio di essere qui perché qui si vuole essere e si voleva essere fin dall’inizio, e non per fare bella figura. Come invece accade, proprio nelle ore di questa partita, a Leicester, invasa da un’imbarazzante carovana di opportunisti, promotori di se stessi, carrotrionfalisti, non contenti di partecipare alla festa di chi fino a pochi mesi fa era loro sconosciuto (qualcuno dei grandi esperti spuntati da dicembre in poi sapeva ad agosto il nome di battesimo di Drinkwater?) ma desiderosi di farlo sapere a mezzo mondo. Una passerella di parvenu che ha rischiato di far passare i Foxes da simpatici ad antipatici, e non sarebbe la prima volta che una maniera nostrana modaiola e caciarona di tifare - ma in realtà non è tifo, questo - mi rende insopportabile una realtà straniera altrimenti estremamente gradevole. È del resto una robusta dimensione dell’epoca social network: non basta tifare o simpatizzare, bisogna farlo sapere a tutti. Esporre sé, sé, sé. Dice: ma scusa, anche tu sei andato tutto l’anno a vedere il West Ham e hai scritto un libro invece di andare e basta… È vero: e nemmeno da tifoso, ma lo ammetto subito, e ho fatto tutto partendo da una base di conoscenze un pochino più solida di chi senza Google Maps non saprebbe nemmeno indicare Leicester sulla cartina geografica. Il pellegrinaggio al Boleyn Ground per me è stato un omaggio alla storia, e solo per caso l’annata degli Irons è stata la migliore dal 1986 a oggi: mentre chi sale su un bus diretto a Leicester rende omaggio al calcio pret-a-porter narrato dai tuttologi da fondino buonista in prima pagina e si mette in posa davanti alla cronaca e alla moda del momento, non alla storia. E non importa che l’impresa dei Foxes stia traslando direttamente dall’una all’altra, come è giusto che sia sul piano meramente agonistico e sportivo per un’annata irripetibile, letteralmente. La macchia della salita a bordo di questi opportunisti, per chi come me non si attacca mai troppo al presente, sarà difficile da lavare via dalle splendide maglie blu profondo del Leicester City: per il loro bene etico - quello materiale è già a posto - auguro ai Foxes un ritorno all'anonimato, un rientro nei ranghi, al termine del quale si farà la conta dei detriti di dignità nel frattempo lasciati indietro da chi è risalito sul pullman diretto a Saint-Etienne, a San Gallo, a Darmstadt, verso nuove realtà modaiole in cui celebrare se stessi, possibilmente in favore di telecamera, fingendo di festeggiare altri.

Lo spazio sulla cassetta di frutta a Hyde Park è terminato, si torna alla partita, al 7 maggio, al sole, al caos, al caldo. Anche stavolta l'itinerario è diverso. Si parte bene, ovviamente, con l'atterraggio a London City e lo scenario che si presenta già quando l'aereo è ancora diretto verso ovest e si appresta ad effettuare la virata per il solito tratto finale in direzione contraria. Stavolta ho scelto il finestrino dal lato sinistro, e la curva molto ampia permette di spaziare più lontano del solito: a metà della traiettoria si vedono benissimo Craven Cottage, Stamford Bridge e un po' meno evidente Loftus Road, spunta il rassicurante arco di Wembley mentre dalla foschia non emergono l'Emirates Stadium e White Hart Lane, forse perché non appena il giro è quasi completo e l'aereo è in finale lo sguardo coglie prima lo Stadio Olimpico, facilissimo da individuare perché circondato da spazi non occupati e delineato dai canali, dal fiume Lea e, dalla parte opposta, da Westfield e dalle stazioni ferroviarie. I gestori dell'area hanno spesso menzionato la «Stadium island» per identificare la zona di competenza del nuovo impianto nel quale situare i vari negozi e o chioschi, e l'espressione è piuttosto azzeccata, perché l'Olimpico pare davvero appoggiato in una zona a sé. Più facile da sorvegliare, anche. Da Stratford la Jubilee Line fino a West Ham poi il cambio - con la solita passeggiata interna alle due stazioni - e la District Line. Fino a Plaistow, però, cioé una sola fermata, e non siamo in pochi a scendere. Questa volta l'approccio è quello, in senso inverso, di alcune delle corse verso l'aeroporto di tante altre occasioni. Una lunga passeggiata verso sudest toccando due pub di primario interesse, la Victoria Tavern e il Black Lion, considerando che il Coach and Horses e l'Earl of Wakefield hanno ormai chiuso da un po'. La Victoria è sulla destra, al 28 della High Street, e sta diventando minuto dopo minuto una sorta di scenario nostalgico per la partita. Un paio di bandieroni appesi alla cancellata e gente che si mette in posa per fotografie o rapidi video con l'ormai classico gesto a braccia incrociate, che non è certo tradizione antica ma risale a poco dopo l'inizio di questo secolo. Il pericolo è che venga confuso con il segnale iconico della trasmissione X Factor, il che mi deprime parecchio. Lo spettacolo è nelle pareti, con una rassegna di cornici impregnate di East End: scarpe da gioco firmate da (eh, pazienza…), collage di foto di Billy Bonds con la splendida maglia del 1976, foto e dediche di pugili, foto di Mark Noble con firma e dedica «al miglior pub di Londra», altro collage con foto storiche a fare corona al testo di Bubbles.

Davanti al bancone, la postazione del deejay è protetta da una sorta di scrivania di legno contrassegnata dal grande marchio rossoblu con la scritta nera Mods: tutt'intorno, copertine di dischi di gruppi come The Jam, The Who, Style Council, Madness, Secret Affair, The Clash, Martha Reeves and the Vandellas, di appartenenza più o meno sicura al movimento Mod nato sulla fine degli anni Cinquanta e tornato in auge poi un paio di decenni dopo. L'epoca del fervore musicale più intenso che ci sia mai stato, e in cui a volte i confini del gusto si potevano sovrapporre: dal punto di vista rigidamente ideologico, che dominava purtroppo questi scenari, era un po' arduo apprezzare al tempo stesso i Clash e gli Who e del resto i rivoli di diffusione delle mode potevano prendere direzioni imprevedibili, a partire dal vestiario. Si passava dall'eleganza di abiti all'italiana alle giacche da aviatore, da cui il logo rossoblu che è in pratica quello dell'aeronautica militare britannica. La grande scritta «Brighton 1964» subito sotto il celebre logo mod dice tanto: sono luogo e anno della tristemente celebre scazzottata tra mods e rockers, per via della differente concezione della vita, della moda (sigh) e della musica (sigh- 2). Anche se la risonanza di quell'episodio, centrale nel musical e nel film Quadrophenia, nasconde la realtà di altri fatti del genere avvenuti in altre località di mare e che si inserivano in una crescente atmosfera di tensione e voglia di menare le mani di cui si davano resoconti sensazionalistici e scandalizzati: reporter ed editorialisti percepivano che questa prima generazione di nati durante la guerra, e che dunque del clima vissuto dal 1939 al 1945 nulla sapeva, trattava purtroppo moda, musica e calcio non come frivolezze ma come questioni per le quali valeva la pena di finire al pronto soccorso e scatenare guerre - ecco - sante. La consolle del dj è l'ultima cosa che vedo della Victoria Tavern, dopo minuti frenetici e ruggenti alla ricerca di indizi e segnali: non c'è cibo caldo ma solo birra e sacchetti di patatine, e se non altro questo mi sprona a proseguire verso la tappa successiva. Il Black Lion Pub, al 59-61 della Plaistow Road, si presenta già diverso. Molto più grande, con cortile interno quasi pieno e un parcheggio sul davanti che ospita anche un carretto del pesce. Dentro, il viavai è frenetico, con una sorpresa: un paio di ragazzi italo-argentini, che mi riconoscono e danno il via a una conversazione piacevole, perché rispettosa e non invadente. Uno di loro è tatuatore, se non ricordo male, e sono lì semplicemente perché in quel posto si trovano bene. L'invito a una birra è declinato per cause di forza maggiore, cioé perché non bevo, ma intanto il dialogo permette di guardarsi intorno senza fretta e dare un'occhiata al pub, che ha una discreta componente storica. Qui infatti, oltre che al Royal Oak di Canning Town, pare passassero dopo le partite Bobby Moore e alcuni compagni di squadra, e non era neanche così raro a quei tempi, anche se dai primi anni Sessanta e con l'abolizione del tetto ai compensi la distanza tra calciatore e uomo della strada si era allargata. C'era però ancora l'idea che un contatto si potesse mantenere, magari attraverso un classico delle carriere post-agonistiche, ovvero l'apertura e gestione di un pub, come era avvenuto per Frank Lampard (quello vero, il padre) con il Britannia, a Stratford. Un pub dunque alla vecchia maniera, ma con una ampiezza che preserva dal soffocamento anche in giornate e orari di enorme afflusso come questa. C'è, del resto, lo sfogo del grande giardino, che è una tavolozza mobile di claret&blue: negli abbigliamenti, nelle bandiere, nelle maglie, nei dettagli e anche nelle colonne un po' scrostate che tengono in piedi una struttura coperta che fa in parte da deposito per barili di birra e in parte da ulteriore riparo per il sole, oggi quasi fastidioso se non fosse che alla sua luce certe divise, specialmente quella della finale di FA Cup del 1980, assumono una bellezza quasi inquietante, perché mi trasmettono il solito messaggio: il bello è ormai passato, è nel passato, e non può tornare. Nel brusio delizioso e confuso scelgo di non sedermi - non saprei dove, del resto, e non mi piace infilarmi in un posto singolo in tavoli già occupati - e mangio in piedi, al carretto del pesce nel parcheggio, un delizioso panino alle capesante del Tamigi, nemmeno troppo costoso ma con un unico, grande difetto: è troppo piccolo per il gusto delizioso che ha.

È ora di proseguire, tappandomi le orecchie per non restare ancora un po' al Black Lion ad ascoltare i cori che stanno nascendo. Neanche difficile, perché è ricomparsa la sindrome da Canning Town che mi porta ad ogni viaggio a investigare un'altra volta nei luoghi dove sono sorti cantieri navali e squadra. Che poi da vedere realmente non c'è nulla, solo la necessità innestata di percorrere strade che anche quando presentano scorci poco edificanti, a certi incroci con vie laterali, non potranno mai dare il senso di malato soffocamento dei tempi in cui il quartiere era una sorta di appendice dei Thames Ironworks, un gigantesco ostello costruito per dare un tetto - e poco altro - a chi ci lavorava. Le abitazioni erano dunque perlopiù di scarsissimo valore materiale e vitale, i già citati slums. A tutto questo si accoppiò nel nuovo secolo la crisi dei cantieri, per la concorrenza delle analoghe strutture del nord favorite dall’adiacenza delle materie prime che invece faticavano ad arrivare nella zona di Blackwall, e lo facevano comunque in maniera costosa che costringeva gli Ironworks a preventivi più alti per i lavori. Nel 1910 a dire il vero arrivò l’ordine per la Thunderer, altra nave da guerra dalle dimensioni mai viste e con innovazioni tecnologiche tra cui la possibilità di orientare i cannoncini, ma pare che fosse in realtà una sorta di concessione per mettere a tacere Hills, che di fronte alla siccità di ordini aveva minacciato di sollevare questioni imbarazzanti in Parlamento. I testi che riferiscono questi sviluppi non dicono altro, ma si può supporre che la scelta di privilegiare i cantieri settentrionali fatta dal responsabile della Marina Reale, un futuro primo ministro di nome Winston Churchill, non fosse priva di motivazioni personali o politiche, peraltro mai spiegate. Va comunque ricordato che anche la momentanea salvezza degli Ironworks a metà Ottocento era stata dovuta a interventi discutibili come quello di Peter Rolt, per cui non è facile identificare buoni e cattivi.

Sta di fatto che i balbettamenti finanziari del maggior datore di lavoro della zona ai primi del Novecento portarono alla necessità di migliorare le condizioni di vita dei residenti ancora impiegati dagli Ironworks ma anche quella di fornire alternative di lavoro, se mai questo spettasse a una struttura pubblica. È anche in questo momento che prende sempre più corpo la già esistente figura, stereotipata ma nata dalla realtà, dell'East ender trafficone, mariuolo simpatico (?) finché non gli vai di traverso: è dall'insieme di queste sensibilità che è poi nata decenni dopo la figura di Del Boy in Tv Only Fools and Horses («Solo i matti e i cavalli», sottinteso «lavorano», da un presunto tormentone del Diciannovesimo secolo), andata in onda in 64 episodi tra il 1981 e il 1991 e poi ancora in speciali natalizi fino al 2003. Il bello è che Del Boy e le sue vicende sono in realtà ambientate a Peckham, a sud del Tamigi, ma la tipologia del personaggio, che gira con uno scamosciato beige e guida una vetturetta gialla a tre ruote, una Reliant Regal, dalla quale scarica i beni che vuole vendere, ricorda proprio quelle dell'East End. E non è un caso che uno dei tifosi che hanno contribuito al libro Upton Park Memories, uscito a fine 2015, abbia scritto che ai tempi belli «ogni partita in casa sembrava un episodio di Only Fools and Horses» per i personaggi folcloristici che comparivano da ogni parte, East London o South London che fosse.

Ad accomunare i due mondi, nella cerimonia di apertura e chiusura delle Olimpiadi del 2012, due momenti memorabili, gli unici che mi fecero sobbalzare mentre annoiato seguivo le immagini che scorrevano e mi chiedevo, come ogni volta, perché si debbano buttare soldi in cerimonie di apertura (o chiusura) piene di retorica e buonismo ecumenico. Ad un certo punto, infatti, sullo scenario comparvero alcune coppie di Pearly Kings e Queens e decine di figuranti vestiti da operai intenti a lavorare metallo e batterlo con martelletti; subito dopo partì I'm forever blowing bubbles, e i cinque cerchi, forgiati proprio lì, si innalzarono verso il cielo. E in quella di chiusura spuntarono la Reliant Regal gialla e due personaggi vestiti da Batman e Robin, come avevano fatto Del Boy e il figlio in un famosissimo episodio natalizio. Nella finzione televisiva il protagonista e la sua famiglia arrivano peraltro al loro sogno di diventare milionari, ma non tutto gira nel verso giusto, come si può intuire dal tono comico e surreale dell'intera vicenda dipanata nel corso degli anni. È curioso, tra l'altro, che il suo creatore avesse originariamente proposto alla BBC una serie comica ispirata al mondo del calcio, stroncata però subito dai dirigenti della rete: se si pensa a come era il football inglese nei primi anni Ottanta, con pubblico in calo e violenza dilagante, si può solo rimpiangere la mancata approvazione di quel progetto. Ne avremmo viste di tutti i colori, davvero.

E naturalmente, per restare in tema televisivo, c'era, e c'è tuttora, EastEnders. Sceneggiatone/soap opera che va in onda senza soste dal 19 febbraio 1985 e che a fine settembre 2016 era arrivato a 5360 episodi. L'ambientazione è nell'immaginario quartiere di Walford (Walthamstow+Stratford) situato in un generico East End, anche se una mappa della metropolitana intravvista in una puntata del 1996 permetteva di collocare la finta fermata di Walford East a Bromley-by-Bow, tra Bow Road e West Ham, dunque giusta giusta sulla sponda ovest del fiume Lea e quindi propriamente East End e non ancora East London. Ma la copertina del dvd mostra una mappa che copre più il secondo del primo, e curiosamente il Boleyn Ground è proprio dietro la D del nome della serie. Il tono di EastEnders (la seconda «e» maiuscola fu aggiunta per creare un modo nuovo di scrivere una parola comune) è però molto meno ironico e ridanciano di quello di Only Fools and Horses, e anzi la serie si è subito distinta per la sua totale aderenza a vicende reali o verosimili, che hanno esplorato in modo anche crudo tutti i problemi e le miserie di certi ambienti di bassa scolarizzazione.

Miserie, o meglio disagio incolpevole, che spuntano anche nella capatina all'East End cafè al 538 della Barking Road, giusto giusto per una fetta di torta e una rapida ricarica del cellulare, che mi servirà parecchio nelle ore successive, anche se nel momento in cui mi metto in fila non sono minimamente consapevole dell'importanza che quella carica di 20 minuti avrà. Proprio mentre sono in coda, pervaso dal senso di soddisfazione e placidità che mi dà il sapere che in quella processione ordinata nessuno cercherà di passarmi davanti, mi sento immerso improvvisamente in un copione troppo melenso per essere vero: se è vero che dalla parete opposta è sparita la maglia autografata di Paolo Di Canio che avevo visto qualche settimana prima, durante la mia visita in pieno lavoro di tinteggiatura e decoro della parte esterna, restano le tante foto e le bandiere ricordo di periodi passati e improvvisamente dalle casse degli altoparlanti parte la versione più classica di Bubbles, cui si accompagnano subito, in modo sommesso, le voci di alcuni dei presenti. Oltre il bancone si corre per preparare perlopiù pie&mash, e sulla sinistra spicca un curioso cartello, con frasi che solo qui possono avere una collocazione sensata: «Attenzione, qui si parla cockney. Come forma di pagamento accettiamo godivas, monkeys, ponies, edges, carpets and visa». «Qui» è scritto ‹ere e non here, in accordo con la pronuncia, mentre godivas sono banconote da 5 sterline, monkeys (500), ponies (25 sterline), edges (20 pence), carpets (300, usato dai venditori di auto usate) e visa, che in quanto nome della carta di credito è l'unico usato in maniera normale. Divaghiamo un attimo: la banconota da 10 sterline viene anche chiamata «Ayrton» perché «tenner», nome colloquiale non cockney con cui viene identificata, per come è pronunciata fa rima con «Senna», e il gioco del rhyming slang fa sì che resti come nome solo il primo, Ayrton. E c'è addirittura chi per dire 10 sterline usa, in modo macabro, direttamente «dead Brazilian», il brasiliano morto. Accanto, in un quadretto dalla decorazione kitsch, una foto ritagliata che ritrae due donne, una delle quali forse la medesima che è dietro al bancone, vestite da Pearly Queen, e dietro una lettera che augura buona fortuna a non si sa chi. Sembra che quasi tutti i presenti si conoscano da tempo, a meno che non sia quella conoscenza transitoria eppure profonda che nasce dall'avere in comune qualcosa di solido, ovvero la passione per il West Ham. Niente che non accada ovunque, naturalmente: ma in questo particolare momento a me interessa solo quello che profuma di claret&blue e il resto non conta.

Il tempo della generosa fetta di torta consegnata con un sorriso frenetico e via sulla Barking Road, con un passo sempre più affrettato, nel calore già fastidioso, come se arrivasse un richiamo a fare in fretta, a non perdersi qualcosa. E che qualcosa. A cento metri dall'incrocio con Green Street, infatti, nell'orecchio si mescolano rumori, suoni, sirene, canti, parole, la confusione del prepartita amplificata dalla dolcezza della celebrazione, un de profundis per un luogo e un'epoca improvvisato da alcune decine di persone sedute sui gradini della statua dedicata a Bobby Moore, e Geoff Hurst e a Ray Wilson. Nel giro di una ventina di minuti - proprio quelli della carica del mio cellulare, per fortuna - passa tutto il repertorio di canti storici del club, in una sorta di funerale celebrativo che sale e scende di tono a seconda del grado di partecipazione dei presenti. C'è il controcanto con chi è sul marciapiede opposto, fuori dalla Boleyn Tavern, e viene invitato a cantare («Boleyn, Boleyn, give us a song»), c'è l'immancabile menzione di Di Canio, c'è il canto sarcastico su Frank Lampard (quello finto, il figlio), c'è Over Land and Sea, c'è Stand up if you love West Ham, in un delirio che avvolge e sposta di decennio in decennio a seconda della maglia indossata da chi capita nel raggio visivo, in una serie di sguardi e occhiate da derviscio che se non fosse per il continuo controllo della carica dello smartphone farebbero perdere la cognizione del tempo e dello spazio, in parte già avvenuta: per tutta la durata di questo festival canoro sono infatti al di là della transenna, con un piede e mezzo in strada, lungo la Barking Road, sfiorato dal traffico diretto verso sudovest. Chissà però quando è iniziata, la liturgia, e il sospetto è che possa andare avanti oltre l'orario di inizio della partita, se tra i presenti qualcuno non ha il biglietto e vuole comunque abbracciare ogni momento di questa ultima giornata al Boleyn Ground con la luce del giorno e il caro, vecchio orario delle 15, quello andato bene per oltre un secolo di calcio e che dunque tanto male non era.

Alle 14.40 arriva la consapevolezza che se si resta a farsi ammaliare da quelle serenate si rischia di perdere l'inizio della partita, e con lo sguardo ansioso verso la percentuale di carica del cellulare - ormai prossimo allo zero - si corre verso Castle Street, si prende il programma dalla signora e si infila la tessera nel lettore alle 14.46, giusto in tempo per salire le scale - per la penultima volta - e arrivare alla ormai mitica fila S prima di molti altri: anzi, nell'intera fila, considerandola dal lato interno, ci sono solo altre due persone. Come al solito, tutti dentro all'ultimo momento, per la fortuna dei chioschi e dei locali all'esterno. Fortuna che sta per finire, ovviamente, anche se la Boleyn, ad esempio, da qualche mese ha lanciato una campagna associativa: per 120 sterline l'anno si avrà diritto a un servizio navetta dal pub allo Stadio Olimpico, un modo per mantenere clienti e non chiudere e per fissare una cordicella emotiva di collegamento tra presente, passato e futuro. In bocca al lupo, ma sarà dura. E pensare che anni fa c'era stato il progetto di… smontare la Tavern e trasferirla pari pari vicino al nuovo stadio in tempo per le Olimpiadi e per l'addio del club, originariamente previsto per il 2014. Erano però sorti problemi logistici, e non se n'era fatto nulla.

Lo Swansea City è squadra difficile da capire. La formazione accondiscendente messa in campo a Leicester due settimane fa, con Gylfi Sigurdsson falso nove («centravanti di manovra» nell'imbattibile definizione di qualche decennio fa) era già stata corretta in un undici dignitoso contro il Liverpool, con una punta centrale vera (o perlomeno più vera), Andre Ayew, schieramento replicato oggi con Wayne Routledge sulla sinistra e Modou Barrow sulla destra del fronte offensivo, supportati sul centrosinistra da Ki e sul centrodestra da Leroy Fer, che gioca molto più avanti rispetto a Jack Cork, protettore di una difesa che risparmia Ashley Williams e accanto a Federico Fernandez, schierato sempre sul centrodestra, sistema Jordi Amat. A destra Kyle Naughton, sull'altro lato Stephen Kingsley.

Sembra di vedere una partita dell'inizio di stagione, di quelle contro il Leicester City o il Bournemouth o il Norwich City. Ovvero, un discreto numero di occasioni per segnare ma poca precisione, e una vistosa vulnerabilità ogni volta che lo Swansea City attacca con spazio a disposizione. Una differenza c'è: con quel 4-1-4-1 che pone Fer e Ki più avanzati, il City non si siede dietro la palla ad aspettare ma pressa alto, spinge, costringe a vari retropassaggi (meno pericolosi con Randolph che con Adriàn) e riparte rapido, evidenziando l'aspetto negativo più evidente del West Ham delle ultime settimane. Ovvero, la scarsa protezione sulle fasce: Antonio recupera spesso in affanno e usando atletismo più che senso della posizione, è costretto spesso a rincorrere dando la schiena al campo e viene aiutato poco da Moses, mentre dall'altra parte avviene lo stesso fenomeno, con Payet e Lanzini non sempre rapidi ad occupare l'esterno mentre Cresswell rientra, con la tendenza ad avvicinarsi ai due centrali lasciando scoperto il lato. È così che - dopo alcune occasioni anche per il West Ham - segna lo Swansea: servito da Routledge con un cambio di gioco, Ki avanza libero sulla sinistra e può addirittura crossare per il versante opposto, dove Naughton con un bellissimo piattone al volo rimette in mezzo per il tocco proprio di Routledge da due metri. Poco dopo, una scena simile: Kingsley con un grande controllo si allunga la palla sulla fascia lasciando indietro Antonio ed effettua un grandioso cross che Ayew butta dentro a valanga, infilandosi tra Reid e Ogbonna. Ho ancora davanti a me il gesto di Kingsley, splendido: cross a mezza altezza, potente, che un portiere può deviare o intercettare solo se carica le gambe nel momento stesso in cui l'avversario effettua il contatto con il pallone. Ma in quel caso c'è ovviamente il rischio che la traiettoria sia diversa da quanto ci si aspetta. È un primo tempo in cui la frase più ascoltata attorno a me è «how could you miss that?» (come hai fatto a sbagliarlo?) riferito di volta in volta a Lanzini o Antonio o a chiunque scagliasse uno dei 25 tiri - solo 7 nello specchio della porta, appunto - del West Ham in questa partita. Ma è frequente anche «oh my God» per i ripetuti buchi difensivi lasciati dal quartetto di intrepidi schierati da Bilic a protezione (?) di Randolph, oggi decisi a muoversi in maniera indipendente l'uno dall'altro.

All'intervallo i saluti a Michael e al suo amico: martedì hanno impegni e non saranno all'ultima contro il Manchester United, per loro è oggi l'addio al Boleyn Ground, e non li vedo neanche troppo contriti. Buon per loro, ovviamente, se la prendono con tale filosofia. Anche per la partita, ovviamente: poco dopo il rientro infatti lo Swansea City segna il 3-0, con Barrow che sulla sinistra batte sul passo Antonio, arriva in fondo e crossa per Ki che colpendo sporco di destro mette dentro sul secondo palo, proprio di fronte ai tifosi gallesi. Malumore crescente, improperi e scuotimenti di testa, mentre qualcuno addirittura decide di anticipare l'addio al Boleyn ed esce, perdendosi il gol dell'1-3 segnato dal subentrato Sakho: un mischione nel quale il tocco del centravanti da mezzo metro è condiviso con la suola da Kingsley, tanto che è abbastanza difficile distinguere chi abbia effettuato l'ultimo tocco. Ecco, sono palesemente le premesse per quello che da ragazzino chiamavo «finale all'inglese», cioé una frazione conclusiva in cui lo svantaggio anche cospicuo di una squadra può essere colmato dalla sfuriata che nasce da quello che altrove verrebbe etichettato banalmente come semplice «gol della bandiera». E invece no, anzi sì: al secondo minuto di recupero infatti il West Ham ottiene un corner dopo un momento di pressione, e pare proprio il classico attimo in cui nasce il 2-3 e gli avversari vanno nel panico e chissà cosa può ancora accadere nei pochi secondi che rimangono. Solo che succede il contrario: sul calcio d'angolo infatti la palla arriva a Gomis, entrato da 9', e il centravanti parte al galoppo in spazi deserti, scambia con Ayew che ha seguito l'azione e ricevendo l'altruistico passaggio di ritorno segna il quarto gol ospite, senza che Noble, unico ad avere recuperato in palese affanno, possa fare nulla. Alla fine, un paio di fessi provano a salutare il Boleyn cercando di andare direttamente in campo, ma vengono fortunatamente presi e portati via. Un ottimo esempio dato dagli steward al resto del pubblico: se l'avessero fatta franca, infatti, quei due avrebbero fatto passare per cretini noialtri 35.000 che avremmo voluto entrare, baciare l'erba e portarcene via un ciuffo ma non l'abbiamo fatto perché rispettosi delle regole.

Dopo, la discesa sempre più lenta e ritardata dai gradini. Per sfruttare tutto il tempo concesso dai frettolosi ma bonari steward e scrutare a macchinetta lo scenario attorno, quasi ad avere paura di avere perso, durante l'anno, un dettaglio o una prospettiva visuale o uno scorcio che non ci sarà più modo di rivedere con questa brillante luce inglese di primavera, spudorata come quella mediterranea nel desiderio di uscire dall'inverno ma comunque meno violenta ed aggressiva. Passo dopo passo, sguardo dopo sguardo, l'ondeggiamento tra la folla di Castle Street verso la Green Street, l'attenzione obliqua alle bancarelle, gli ultimi fumi dei chioschi, il cielo sopra e la brezza a fianco, una miscela che trasporta in modo quasi inconscio verso il cuore della zona, e poi subito a destra attraverso i John Lyall Gates che non ci sono più - portati da qualche giorno allo Stadio Olimpico, è rimasto solo l'abbozzo - e fino all'imbocco del negozio, dove incontro Gian e i suoi amici del gruppo Station 936. Si sarà capito che non sono un amante del tifo organizzato, ma qui ci sono un'educazione e una sensibilità davvero di altri tempi, a partire da Stefano, che è abbonato come me (a metà con un amico) ma tifoso vero, riservato e non esibizionista. Solo su mia richiesta infatti mi mostrerà poi foto dei suoi viaggi solitari - i migliori - a visitare stadi, alcuni dei quali sono nella lista dei miei desideri ma lo rimarranno forse per sempre, come Carlisle. Con loro l'amico inglese Mark, una sorta di enciclopedia ambulante del West Ham, al quale Noble ha poi consegnato una maglia autografata: sarà Mark a portarli tutti alla Victoria Tavern per un concerto a fine pomeriggio, rara occasione in cui mi trovo a invidiare qualcuno e non ho la forza di seguirlo. Non per il concerto in sé - nemmeno ricordo quale fosse il genere musicale - ma per l'esperienza East End che ha vissuto. Sono occasioni che non tornano: chi era alla Victoria Tavern ha visto calare il sole sopra quella fetta di mondo claret&blue, e forse, se era in sé, lo ha pure interpretato come simbolo. 18

BUBBLES ESTER U (MANCH NITED)

Martedì 10 maggio 2016, ore 19.45: West Ham United-Manchester United 3-2 (Sakho 10’, Martial 51’ e 72’, Antonio 76’, Reid 80’)

WEST HAM Randolph - Antonio, Reid, Ogbonna, Cresswell - Noble, Kouyate, Lanzini (Obiang 85’) - Sakho (Tomkins 85’), Carroll, Payet (Valencia 90’).

MANCHESTER UNITED De Gea - Valencia (Januzai 86’), Smalling, Blind, Rojo - Schneiderlin (Carrick 46’) - Mata, Herrera, Rooney, Martial - Rashford.

Ryanair 195 Bologna 6.45 - Londra Stansted 7.45 11 maggio Ryanair 8729 Londra Stansted 8.20 - Milano Malpensa 11.15 Le sensazioni strane e la luce, mescolate assieme mentre si fugge dall’alba italiana per atterrare in quella di Stansted, martedì mattina. Solo 48 ore dopo il precedente rientro da Londra, ma con prospettive del tutto diverse, anche se l’inizio giornata è uguale: il pullman verso Stratford, la colazione seduta presso i chioschi in fondo al centro commerciale. Poi però che sia una data speciale lo ricordano eventi imprevedibili, o imprevisti: la Polizia chiude infatti una parte del Westfield per un presumibile allarme bomba, contrassegnato da un tenue odore di bruciato che arriva alle estremità dell’edificio, e in più mi arriva la richiesta di dare una mano alla realizzazione dello speciale sull’addio al Boleyn Ground per Fox Sports. Il che comporta un arrivo anticipato allo stadio, ma con la libertà totale, poi, di riprendere il cammino deciso in precedenza, e che peraltro obbediva a un solo principio reale, quello dell’assoluta casualità. L’idea era insomma quella di vagare senza meta, passando e ripassando nei luoghi consueti per vedere un’ultima volta com’erano finché il Boleyn Ground respirava ancora. Ribaltando dunque l’abituale approccio agli eventi che fanno epoca: se gli esponenti della generazione precedente alla mia si ricordavano dov’erano nel momento in cui era arrivata la notizia della morte del presidente americano John Kennedy, e la mia può fare altrettanto con l’attentato alle due torri del World Trade Center e al Pentagono, su un piano molto meno serio io in realtà avrei voluto essere non in un luogo, ma ovunque, nell’East End, nel giorno dell’uscita di scena del caro stadio, per non limitare il ricordo a una sola immagine impressa nella mente.

Un ovunque che alla fine comprende anche lo Stadio Olimpico, dove ci rechiamo nella speranza non organizzata di entrare. Niente da fare, ma il giro se non altro permette di vedere da vicino quanto sia presente l’acqua in questo luogo, tra l’adiacente Lea e i canali attorno all’impianto, per non parlare di quella che cade dal cielo e in alcuni momenti rende fastidioso il solo gesto di alzare lo sguardo per osservare. L’impianto olimpico è chiuso per qualche ora per riparazioni agli ascensori, così non riusciamo neanche a sbirciare dentro allo stadio dall’alto, ma personalmente non mi dispiace l’idea di non essere riuscito a entrare, preservando così la rètina da impressioni diverse da quelle che l’occasione richiede. La giornata feriale, la pioggia, il grigio, la frenesia lavorativa altrui, tutti elementi che si infilano nella percezione ma restano alla periferia della visuale, concentrata quasi solo su ciò che sarà. La speranza è di una serata di addio sobria e non pacchiana, che rifletta la modestia apindarica dell’East ender classico e non la grandeur dal tono kitsch di tutte le cerimonie del mondo, ma è anche vero che si tratta di un elemento sul quale chi sarà sulle tribune non avrà alcun controllo.

Il delizioso grigiore di martedì 10 maggio prosegue ad Upton Park, nel senso di quartiere. Il traffico pedonale è quello minimo delle mattine feriali di una zona sbiadita e modesta, le persone in giro sono quasi solo quelle che hanno trasformato questa area di Londra in qualcosa di indefinibile e il gigante dalle torri di cartongesso, sullo sfondo a sinistra della Green Street, dorme ancora. Si sta risvegliando solo in alcune estremità, ovvero inservienti che mettono a posto cartelli, il negozio già aperto e sul punto di essere affollato, qualche annoiato impiegato ai botteghini. Non c’è la percezione storica della giornata, perlomeno non c’è ancora. Ed è poi un concetto forse soggettivo. Perché per certi versi la percezione dovrebbe esserci sempre, in questa via, che nella miscela tra storia e leggenda ci nuota da secoli.

C’è quella storia del Boleyn Castle, del resto, o della Green Street House, improbabilmente attribuita come residenza ad Anna Bolena nonostante la discrepanza di date tra la morte della regina (1536) e la costruzione (1538). Abbattuta a metà del secolo scorso per dare respiro allo stadio, riemergerà - con mia emozione, ovviamente vissuta mentre scrivo queste righe e non il 10 maggio - a metà ottobre 2016, quando un gruppo di archeologi locali scoprirà i resti della magione, che dal 1869 era diventata una scuola parrocchiale e successivamente una dimora per ragazze madri. Il terreno in cui sorge lo stadio e sorgeva il Boleyn Castle era appartenuto all’abbazia di Stratford Longthorne, la quinta più grande dell’isola, dal 1135 al 1538, quando proprio il marito di Anna Bolena, Enrico VIII, aveva abolito gli ordini monastici. L’appezzamento era stato donato a uno dei servitori più fedeli del re, Richard Breame, che ci aveva appunto costruito l’edificio diventato il Castle tempo dopo, nella realtà e nel logo che malauguratamente il West Ham abbandona dopo la partita di oggi. Non che il nuovo logo non abbia legami col passato, visto che la sua forma a scudetto riproduce la sezione dal lato corto dello scafo della Warrior, la più illustre delle navi costruite nei cantieri. E dunque questo è il luogo, this is the place per parafrasare Brigham Young e i Red Hot Chili Peppers. È il posto in cui tutto è nato nel 1904 e tutto muore oggi. 1904 quando il West Ham si trasferisce al Boleyn Ground, al termine di una decade ruggente e frenetica.

Nel 1898 era arrivato il primo titolo, quello della London League, che aveva però avuto meno risonanza del previsto a causa della tragedia della Albion. Pochi mesi dopo ecco il momento critico: Hills infatti dovette accettare la proposta del suo braccio destro Francis Payne di reclutare giocatori professionisti. Payne era contrario al professionismo ma lo riteneva ora necessario per attirare nuovi giocatori che a loro volte portassero più gente al Memorial Ground o Grounds: nonostante le ambizioni del suo ideatore, infatti, il grande stadio da 130.000 era quasi sempre vuoto, che l'evento fosse una gara ciclistica o di atletica. O una partita di calcio, perché in quell'area semplicemente non c'era una tradizione, come si è detto. Erano stati vani i sogni di Hills, che nel costruirlo aveva auspicato folle da oltre 100.000 persone e avrebbe voluto ospitarvi l'adorata finale di FA Cup: ma la proposta di organizzarla fu bocciata dalla Football Association quando fu chiaro che la divisione tra area calpestabile e numero di spettatori previsto dava per ognuno di questi ultimi uno spazio vitale di 48 centimetri, ed era una misura inaccettabile persino per quei tempi. Poco pubblico pagante al Memorial Ground voleva dire che ogni anno Hills doveva tappare i buchi di bilancio, per cui la decisione fu presa, a malincuore. Le motivazioni, elencate da Dave Russell nel suo libro «Football and the English: a social history of in England», pubblicato nel 1997, erano queste: «il professionismo, questa almeno era l'idea, avrebbe incoraggiato le scommesse, la faziosità e la voglia di vincere a tutti i costi. Avrebbe trasformato in un semplice lavoro la fonte di svago e virtù morali e, lasciando allo sportivo professionista tanto tempo libero, lo avrebbe reso un modello di vita inadatto ai giovani». Assolutamente ineccepibile, per quei tempi ma anche per i nostri. Lo stesso Hills, nella Thames Ironworks Gazette, scriverà poi «vedo un numero crescente di professionisti che non appartengono al nostro quartiere ma lo rappresentano dietro compenso, in varie forme…». Impeccabile ed encomiabile, ma destinato a una drammatica sconfitta e sconfessione nei fatti, a partire proprio dal club. Che presto si trovò nei guai per aver usufruito dei servizi di un agente, categoria che speravo di non dover nemmeno menzionare in questo libro.

Nel 1900 un raggio di speranza con i 13.000 che seguirono la sfida con il Millwall in FA Cup, replicati dai 12.000 per l'analoga gara di Southern League, ma si trattava già allora di una rivalità particolare, in cui a parere di un quotidiano le urla di sostegno di una ventina di spettatori avevano… infastidito i giocatori di casa. Pochi mesi dopo però la svolta: Hills decide di acquisire un'impresa di ingegneria, la John Penn and Sons, e per farlo decide di rendere i Thames Ironworks una società di capitali quotata in Borsa. Questo però vuol dire che non potrà più usare a proprio piacimento i fondi aziendali per finanziare il club calcistico, e per rimediare ecco che il Thames Ironworks Football Club deve essere ristrutturato e ceduto, cambiando anche nome. Hills decide di aggiungere a titolo personale 500 sterline per ogni somma analoga raccolta da tifosi e dipendenti (1 sterlina ad azione), ponendo però ancora la condizione che i giocatori siano astemi, ma l'apertura al mercato non ha successo. E allora a fine giugno 1900 il Thames Ironworks Football Club lascia la Southern League e si scioglie, rinascendo il 5 luglio come West Ham United Football Club. Hills, oltre a mantenere di fatto le quote di maggioranza - non è del resto che ci fosse stata la ressa per acquistarle - concede per tre anni il Memorial Ground a prezzo di favore, staccando dunque il club dal cantiere ma mantenendo un legame personale, anche se sempre più tenue: non viene soddisfatta la sua richiesta di giocatori astemi e le sue preoccupazioni per la salute degli Ironworks come azienda crescono, anche per via dei problemi già evidenziati. Nel novembre del 1901 viene stabilito il record di presenze con 17.000 per la visita del Tottenham, ma nel giro di due anni la costante latitanza di grande pubblico e le eccessive spese cominciano a rimettere in pericolo la sopravvivenza del club, che si riduce a non poter pagare che un solo giocatore, Tommy Allison, nel periodo estivo, quello in cui già di statuto i compensi erano drasticamente ridotti. Hills oltretutto non può più concedere tariffe di affitto benevole ed è sempre più coinvolto nella sua azienda, per cui arriva il momento di cambiare aria. Lasciare dunque Canning Town, area di trasporti ancora scomodi e di precaria passione per il calcio, e trasferirsi altrove. Vicino, ma soprattutto in una zona meglio servita dai mezzi pubblici e con maggiore tradizione di sport seguito da spettatori. Perché per assurdo la dedizione di Hills all'attività sportiva vissuta in prima persona aveva portato a Canning Town all'apatia verso l'altro aspetto del calcio, quello del semplice andarlo a vedere, al di là dei prezzi ritenuti alti di biglietti e abbonamenti. Una teoria ribadita da molte fonti, e che da un lato è supportata dalle basse affluenze nell'immenso Memorial Recreation Ground, dall'altro viene parzialmente smentita dalle occasioni - saltuarie - in cui si andava oltre le 10.000 presenze. È vero però che già alla prima partita nel nuovo stadio si presentarono in 12.000, alla seconda in 14.000 e alla terza in 16.000. E il nuovo stadio era, appunto, qui sulla Green Street, apparentemente perché meglio collegata da mezzi pubblici: già dal 1902 la District Line della metropolitana era stata prolungata fino alla stazione di Upton Park (e oltre verso Upminster, come oggi), e pochi anni dopo sarebbe stato inaugurato il deposito bus tuttora situato appena dietro la Sir Trevor Brooking Stand. Anche se a dire il vero la fermata prevista come Manor Park, poi diventata West Ham, era lì pronta da aprire da qualche tempo. Troppo, come si vide.

In quel 1904, dunque, frate Norbert, insegnante di una scuola dedicata alla correzione di giovani sbandati, propose al West Ham United di giocare in quello che era poco più di un campo di patate, dietro la scuola stessa (Boleyn Castle Roman Catholic Reformatory School). Era il Boleyn Castle Field, dalla parte di marciapiede della strada che già era (ed è, come sapete) East Ham. Un birrificio locale si mostrò disposto a concedere un prestito (!) per l'acquisto del terreno, ma l'accordo raggiunto con i vertici ecclesiastici fu bocciato dal ministero dell'interno. Nessuno spiega il perché, nei vari testi. Ma si legge che subito dopo Syd King, ex giocatore divenuto allenatore, incontrò Sir Ernest Gray, un deputato con notevole influenza, e magicamente (…) la trattativa si sbloccò, «a patto che venissero rispettate certe condizioni» spiegò King, senza scendere nei dettagli. Era appunto l'estate del 1904: Hills pur mantenendo legami col club si stava allontanando, e il West Ham United prendeva la forma che avrebbe mantenuto per 112 anni. La forma, e la maglia: dall'originale colore blu si era passati al claret&blue, per motivi descritti in modo diverso. La teoria più attendibile è quella secondo la quale William Dove, responsabile della preparazione atletica del club e centometrista, aveva sfidato e battuto in una corsa alcuni giocatori dell'Aston Villa, che per ripagare la scommessa persa gli diedero un completo di divise, sostanzialmente rubandolo al club e denunciandone poi il furto. Doppio vantaggio per il West Ham: maglie nuove e originali per Londra, e ispirazione diretta ad una squadra che in quegli anni vinceva tanto.

I Thames Ironworks sarebbero sopravvissuti solo altri otto anni: la chiusura definitiva, dopo quell'ultimo illusorio ordine per la costruzione della Thunderer, avvenne il 21 dicembre 1912, quando Hills era già malato e incapace di camminare. Sarebbe riuscito a vedere i suoi Irons a Wembley nel 1923, per la prima finale di FA Cup giocata nel nuovo stadio, pensando magari a quanto gli sarebbe piaciuto vedere il suo Memorial Ground ospitare la finale (ci si doveva giocare la ripetizione della semifinale del 1901, che non fu però necessaria). Scomparve poi il 7 marzo del 1927, forse senza la consapevolezza del peso che la sua opera, la sua dirittura morale, le sue idee avevano lasciato, ma ci pensiamo noi, o perlomeno io che ho questa ammirazione – cauta: non l'ho conosciuto personalmente – nei suoi confronti.

Come ultimo omaggio, allora, ritorno a East Ham per una rapida visita per poi per ripercorrere l'itinerario verso lo stadio ripartendo da Canning Town. È passato del tempo e cominciano ad essere tanti i tifosi, il che rende le mie riprese televisive con il cellulare, e un apposito supporto stabilizzatore, già ricche di colori. Il cambio a West Ham, sempre dando un'occhiata allo spazio dove un tempo c'era il Memorial Ground, decaduto poco alla volta, e cercando per l'ultima volta di immaginare quanto spazio occupassero stadio e strutture collaterali e quanto fosse diverso il panorama urbano, violentato dalla costruzione frenetica di 30.000 case a West Ham - il distretto di un tempo - tra il 1871 e il 1901, un panorama piatto più di oggi, con l'atmosfera scenografica di un borgo di campagna in espansione e in cui ancora non si poteva immaginare lo scempio demografico dell'ultimo secolo. Quasi nessuno guarda verso destra, ripartendo da West Ham, ma io lo faccio proprio per lasciarmi entrare negli occhi le ultime schegge del campo che fu, tanto tempo fa. E così facendo ottengo oltretutto di dare le spalle alla torcia, allo Stadio Olimpico, a una struttura che è troppo iconoclasta, e le icone in questo caso sono tutti gli elementi che hanno contribuito a farmi appiccicare in modo imperituro al calcio inglese: gli stadi in mezzo alle case, in primis, ma anche le vie strette di accesso e la sensazione di essere in mezzo a gente che conosci e riconosci, mentre qui ad esempio io stesso, per il mio abbigliamento e per il semplice modo di muovermi, sono un estraneo persino alla triste miscela di persone che popola il treno.

L'uscita a Upton Park, l'ultima in assetto da partita, si trascina per vari minuti, quelli necessari a compiere i passetti aritmici e trascinati lungo il binario, su dalle scale e poi attraverso i tornelli della metro, in un'atmosfera acustica già diversa dal solito perché più vissuta. Ogni gruppo di persone che ha appena lasciato le carrozze sente infatti il desiderio di lasciare una propria traccia canora nel tragitto verso la Green Street, e la varietà che contrassegnerà la serata è già vistosa. Pochi metri e devo infilarmi nel Queen's/Queens Pub. Il mio compito da cineoperatore richiede l'acquisizione di immagini da qui, e il colpo di fortuna è immediato: quasi subito infatti il dj presente fa partire la versione più classica di Bubbles, sospendendo la musica al ritornello proprio come avviene allo stadio, e l'ambiente diventa tremendamente rumoroso e febbrile. Le due braccia spalancate di lato, inclinate a 45 gradi verso l'alto, come richiede la tradizione (recente) in questo momento, scenograficamente sono un ottimo elemento, oltretutto caratteristico del calcio inglese quando ci sia però movimento limitato, non caciarone come in ambiti latini. Un po' di sollievo anche alla carica del cellulare, nei momenti di attesa, poi esco per andare verso lo stadio, cercando di fendere la folla sul marciapiede e già quasi un metro dentro la carreggiata. Attraverso per salutare il Ken's Café, chiedendomi pure io chi abbia comprato per 150 sterline la riproduzione in ceramica del locale esibita al Victoria and Albert Museum pochi mesi fa, nel corso di una rassegna chiamata Tower of Babel. Nell'aria sento la medesima elettricità negativa di quella sera in cui arrivò il Tottenham, e presto capisco perché: davanti agli ormai ex Lyall Gates infatti per terra ci sono pezzi di vetro e di altro materiale non identificabile, poliziotti ovunque e apprendo da Twitter che pochi minuti prima è successo un disastro all'arrivo del pullman del Manchester United, bersagliato di bottiglie, lattine e qualsiasi altro oggetto disponibile e costretto a muoversi dieci centimetri alla volta per la ressa. Episodi tristi su più fronti, non ultimo quello della considerazione che immediatamente faccio: come del resto temevano le autorità, lo svolgimento dell'ultima partita in giorno feriale e con luce calante - ma al momento di questi fatti era ancora piena - ha portato attorno allo stadio gentaglia di ogni tipo, l'equivalente dei tamarri che al sabato sera insozzano locali e bar approfittando della massa che tutto perdona. Cattiveria che si respira e intossica, desolazione e senso pietoso della necessità di molte persone di creare caos per l'incapacità di produrre ordine e bellezza. Non solo qui, ovviamente. La Boleyn Tavern è a poche decine di metri dallo scempio, ma è difficile capire se ne stia risentendo: la marea umana dentro e fuori è tale da annullare colori e senso del movimento, l'ondeggiare di singole persone in un ammasso così dà quasi il mal di mare perché è come guardare un campo di spighe di grano che si spostano assieme ma ognuna con un moto proprio. Meglio girare l'angolo - ma la Tavern è anche lì, e pure lì piena - e curiosare, oltre il Doctor Who Shop, cosa stia succedendo da Nathan's.

Sta succedendo quel che si può immaginare: una fila terrificante, l'ultima fila calcistica in decenni, quasi come se si volesse prendere anche solo il minimo del menù per rendere omaggio a un luogo che ha tenuto botta un po' più del Cassettari's Café, quello dove a fine anni Cinquanta si riunivano giocatori a discutere di tecnica, giocatori poi divenuti allenatori di valore - Malcolm Allison, uno su tutti - e andati in giro a diffondere il verbo della cosiddetta West Ham Way, un ipotetico stile di gioco basato sul possesso palla, sul movimento veloce ma ragionato, sugli scambi rapidi, esaltato tuttora da cori come «We're West Ham United/We play on the floor» («giochiamo palla a terra»). Niente palloni lunghi, niente muscolarità inutile, niente grezzismi. Un'idea che nel grande manager aveva fatto coppia con l'osservazione della grande Ungheria che nel novembre del 1953 aveva annientato l'Inghilterra a Wembley (6-3), ripetendosi in casa (7-1!) nel maggio successivo. Uno-due, triangolazioni veloci ma anche ragionati palloni lunghi allo scopo di indurre agitazione nella difesa, dunque non come principale risorsa offensiva. Greenwood, peraltro, non vinse mai con la sua grande squadra (Peters, Moore, Hurst e non solo) quello che avrebbe potuto vincere, e si dice che a questo parziale insuccesso abbia contribuito il suo carattere ombroso. Pare che avesse difficoltà di relazione con i giocatori, tanto che Bobby Moore scrisse un giorno che solo un paio di loro era in grado di comprendere le complicate istruzioni tattiche che l'allenatore impartiva, anche se questo può riflettere anche una scarsa elasticità dei giocatori stessi. Ma anche , manager degli anni della rinascita a fine anni Cinquanta, non era molto popolare nello spogliatoio, per cui non si può parlare di eccezioni per Greenwood. C'è anche lui in una delle foto da Nathan's, dove in vetrina hanno appeso un cartello scritto a mano, quasi commovente: «Grazie a tutti i nostri fedeli clienti tifosi. Vi auguriamo ogni bene, ma non dimenticate che saremo sempre qui e saremo felici di vedervi». Il tocco delle firme dei dipendenti, la delicatezza delle scritte a mano, il senso di gratitudine e insieme di timore dell'abbandono, ora che centinaia di persone qui le vedranno in una settimana, non in un solo pomeriggio. Il giro dietro, la Castle Street presa a metà percorso, uno sguardo incuriosito ma destinato ad essere vano: neanche stavolta c'è la spilla con Bonds, ed è un peccato definitivo. Indimenticabile Bonds, che per allenarsi a fare i contrasti appoggiava una palla al muro della piccola palestra interna del Boleyn e ci andava in scivolata partendo dal lato opposto della stanza, e ogni tanto prima di entrare in campo si caricava con una testata alla porta di legno dello spogliatoio. Sperando sempre che lo imitasse Brooking, da lui ritenuto troppo buono (che c'è di male?): ma mai Brooking volle vendicarsi in allenamento dei calcioni che Frank Lampard senior gli rifilava per cercare di provocarlo. Il grande Bonds con le sue 799 partite in maglia claret&blue è il giocatore più presente e lo rimarrà, in questa epoca di transumanza. Nei suoi racconti c'è un'epoca intera. Dal disgusto per l'Harry Redknapp che mangiava i toast strizzandoli fino a farne schizzare fuori le uova fritte che ci aveva infilato al Moore che in stanza riponeva gli indumenti senza lasciare una piega ma quando andava al pub sapeva tener testa ai compagni più disinibiti. Bonds, dopo la vergognosa cacciata nel 1994 per far posto proprio a Redknapp, per 20 anni non ha messo piede al Boleyn, per l'amarezza e per quel medesimo riserbo che lo portava, da giocatore, a lasciare lo stadio non appena finita la doccia, senza passare dalla cosiddetta Players' Lounge, ovvero il salotto dove i giocatori e le famiglie potevano rilassarsi, verbo che sostanzialmente era sinonimo di «bere senza fine».

Il tornello che cigola e chiede aiuto per scacciare l'imminente solitudine, il cenno agli steward, la salita sulle scale. La banalità del bene, ovvero il senso di assoluto che gesti semplici e ripetuti possono generare, quando li compi per l'ultima volta e te ne rendi conto per ognuno di loro. Dal punto di vista igienico sto facendo qualcosa di orribile, nel toccare e accarezzare qualsiasi pezzo pubblico di Boleyn Ground, compresi i corrimano e le pareti delle scale interne e della Bobby Moore Stand Upper, gli stipiti delle porte, i banalissimi cartelli indicatori, tutto quello che pare antico, e del resto tutto lo sembra, qui dentro.

Raggiunto il seggiolino e salutati alla mia destra i due vicini temporanei - tutto lo è, questa sera - guardo intorno a me e oltre i confini dello stadio con l'emozione che accompagna tutta la giornata, l'emozione della prima volta miscelata alla bizzarra sensazione che mi sembra di essere stato qui per decenni, e invece sono solo nove mesi quasi tondi. Cosa diavolo possa provare chi è qui ogni 10-15 giorni dagli anni Sessanta, o anche solo Ottanta, non riesco a concepirlo, anche se è poi questione di sensibilità individuali, ognuna valida solo dentro il proprio ambito.

Suggestiva l'idea - per modo di dire, visto che viene applicata a tappeto da anni - di regalare a ogni spettatore una maglietta claret o blue, a comporre strisce colorate sugli spalti e nella East Stand una scritta di saluto al Boleyn Ground, ma avrei preferito la solita composizione libera, magari grigia o di toni anonimi, delle altre volte. Poteva andare peggio: potevano esserci bandiere individuali o i tragici bandieroni da far passare sopra la testa, che per me sono uno dei simboli di un tifo esibizionista che non capisco, né voglio capire. Bel lavoro della società esterna che ha curato il tutto, o magari di chi, nel club, ha mantenuto la sensibilità necessaria per non far andare queste iniziative oltre il decente, oltre la storia e i modi di chi in questo stadio viene da sempre o da poco, e lo fa per un motivo molto specifico. Non si tratta assolutamente di rimpiangere i tempi in cui da tre tribune partiva verso la gradinata nord il grido «North Bank, North Bank, do your job», il lavoro cioé di assalire eventuali avversari situati in genere dalla parte opposta, ma semplicemente di rifiutare l'inglobamento in pratiche demagogiche: magari è contraddittorio in chi sta portando altrove l'anima del club, ma questo libro dimostra che in realtà l'anima torna più vicina a dov'era partita, in zone d'acqua - celebrate anche nel'agosto del 2014 da una gita in canoa d'epoca da Southend all'Olimpico risalendo il Tamigi e il Bow Creek, fatto da un gruppo di appassionati - e di antica passione calcistica, itinerante come il Thames Ironworks dei primi tempi. Un nome - curiosamente - che resiste solo nei musei e in un camioncino di panini di Austin, nel Texas, chiamato proprio Thames Ironworks Shipwrecks and Sausages.

Tutto si mescola in un'apoteosi di frastuono quando entrano le squadre in campo e parte il più potente Bubbles che si sia forse mai sentito al Boleyn Ground, con migliaia di persone che nel momento in cui si tendono e allargano le braccia al ritornello paiono possedute da una nebbia mistica di fusione con lo stadio e di rimpianto e affetto per tutto quello che hanno attorno. C'è anche un momento di ilarità, non inedito, quando lo speaker comunica che «Mr. Moon è entrato»: si tratta del messaggio in codice, ormai però compreso da tutti, che comunica agli addetti alla sicurezza che è successo qualcosa. Che sia un allarme antincendio, una rissa, un problema logistico. Quando poi viene annunciato che «Mr. Moon has now left the building», insomma che è uscito, il pericolo è ritenuto ormai cessato. Si ride al secondo messaggio, e potrebbe anche essere un momento di sosta emotiva.

Stavolta, però, l'intensità accorata non cala alla prima azione di gioco di questa partita ufficiale numero 2164 al Boleyn. Inizia anzi una rassegna di tutti i canti che negli ultimi anni hanno scosso questo stadio. Tutti, o quasi tutti. Come se dimenticarne uno volesse dire consegnarlo all'oblio, come se evocarlo fosse l'unico modo di tenerlo in vita e proseguirne l'emozione. In particolare il canto dedicato a Bonds, quello che i tifosi eseguirono per quasi tutto il secondo tempo della semifinale della FA Cup del 1991 al Villa Park: espulso in circostanze controverse il capitano Tony Gale al 22', il West Ham - squadra di seconda divisione - aveva retto contro il Nottingham Forest fino al 50' per poi perdere 4-0, ma lo scenario acustico fu dominato dall'ossessivo, ripetitivo Billy Bonds' Claret&Blue Army che i nostalgici ricordano tuttora con affetto. Ma ovviamente anche tutti gli altri, compreso un inedito - per ovvi motivi - «Stand up for the Boleyn» che è un abbraccio caldo, commosso e lacrimoso a una struttura inerte, di cemento, metallo, vetro e che però di fronte a una sollecitazione accorata come questa potrebbe anche mettersi a piangere dalla commozione. Un'atmosfera come sinceramente mai ne avevo vissute in vita mia, in questo primo quarto d'ora, un'elettricità - unico termine concreto che mi sia segnato sul quadernino - senza pari. E forse - chissà - nasce dal ritorno involontario di un'abitudine antica. A causa infatti degli incidenti avvenuti fuori dallo stadio il calcio d'inizio è stato posticipato di quasi un'ora e chi era dentro ha potuto caricarsi poco alla volta, come appunto accadeva un tempo, quando si entrava un'ora prima e l'attesa cresceva minuto dopo minuto. L'aria è dunque così intensa da non variare neanche quando al 10' Sakho segna l'1-0: bella palla di Cresswell per Lanzini che taglia verticale e mette in mezzo all'indietro e il centravanti senegalese infila sul primo palo con un tocco di sinistro aiutato dallo stinco di Blind. Nel resto del primo tempo ancora West Ham in grande forma e carica: al 20' Carroll riceve da Lanzini ma tira la palla addosso a De Gea uscito rapidamente e la sensazione ingannevole è quella di una partita che, seppure importante per il Man Utd, pare seguire un destino disegnato in alto. Ma era scritto anche che il West Ham andasse in finale di FA Cup all'ultimo anno al Boleyn, e non è successo. Per cui non dovrebbe sorprendere quando al 51' arriva il pareggio: rinvio di De Gea, Cresswell non ci arriva nel contrasto aereo con Mata, palla a Rashford che la lascia proprio a Mata sul lato destro, cross basso e sul secondo palo Martial, in vantaggio su Antonio, mette dentro. Altri 21' e Martial si ripete, battendo Reid e segnando di sinistro sul palo vicino. Non bene, in questi frangenti, chi se la prende lanciando oggetti a De Gea, reo (?) di avere esultato in maniera fragorosa dopo il gol nato dal suo rinvio.

Niente da fare comunque, l'ultima al Boleyn prende una brutta piega e contro la medesima avversaria di un mese prima in FA Cup. Resta l'assalto, nemmeno troppo ragionato, ma furioso e determinato, sempre sul filo: basta infatti uno che si dimentichi di ragionare e lo United potrebbe sfruttare alla grande gli spazi, specialmente col solito Martial. Eppure non capita, e anzi verso la porta sotto di me continuano a piovere tentativi e tiri, spesso nati da quella meravigliosa frenesia vecchio stile che posava le sue speranze sulla percentuale di probabilità: più palloni butti verso la porta, più speranze hai che uno o due si infilino, anche in mischia o dopo rimpalli. Poca raffinatezza e molta battaglia, e in una sera come questa va bene così: a me poi va bene sempre, figuriamoci. Ecco allora al 76', provvidenzialmente pochi minuti dopo l'1-2 e prima che lo sconforto possa infiltrarsi a inquinare le falde emotive, il cross dalla sinistra di Payet, dopo un calcio di punizione respinto, sul quale vola, a braccia larghe quasi come un'aquila esuberante, Antonio, per l'ennesimo gol di testa della sua splendida stagione. C'è tempo ma non c'è tempo, a giudicare da come si corre per riprendere il gioco. E in quel tempo-non tempo arriva il 3-2: Valencia per Cresswell dal lato sinistro, Payet riceve e crossa a uscire e Reid si infila dietro a Blind e colpisce di testa, con De Gea che tocca ma non riesce a smorzare del tutto la potenza della botta. Per mia fortuna, annusando il momento giusto avevo cominciato a riprendere in modalità video con il cellulare e ho ancora tutto qui, la palla piccola piccola nella ripresa che spiove, il tuffo di Reid, la momentanea frenata del pallone, la rete che si muove e intorno a me, colto girandomi a 360 gradi, il delirio di tutti, un mosaico di volti, quasi tutti gradevoli, di smanacciamento, abbracci, salti, capitomboli sul sedile troppo vicino, braccia al cielo, mani sul volto e tutto quello che accade in questi attimi irripetibili e non si riesce nemmeno a ricordare se non grazie all'ennesima visione di quel video saltellante, e per fortuna i file digitali non sono come i vecchi nastri vhs e non si consumano o danneggiano al guardarli troppo. Le 15 copie del video che ho fatto, peraltro, dovrebbero prevenire qualsiasi problema di quel tipo.

C’è la cerimonia di chiusura, dopo, mentre piove. C’è qualche stonatura kitsch ma c’è anche un grande Paolo Di Canio che domina la scena con la sua signorilità passionale, rara eccezione di straniero che è rimasto se stesso adattandosi però completamente alla cultura e alla sensibilità di chi l’ha accolto (quanta differenza con…). Applausi, concerto rapido dei Cockney Rejects autori di un commovente saluto al Boleyn Ground, poi una miscela di piccoli eventi pubblici che non si incidono nella mia memoria, troppo intenta a risucchiare ogni particella di atmosfera, gesti privati, foto ricordo, abbracci come per una partenza per luoghi lontani. Mi colpisce, questo sì, il numero di persone che se ne stanno semplicemente sedute fino a che non vengono gentilmente invitate ad andare via. Sedute con pacatezza, magari appoggiate le une alle altre come in una veglia funeraria, quasi incapaci di alzarsi finché non è proprio inevitabile farlo. L'ultimo sguardo al prato in una serata di partita - ma non sarà l'ultimo in assoluto - lo ripeto tante di quelle volte da perdere il conto, incerto ogni volta se ho colto con la visuale tutto quello che vorrei cogliere, terrorizzato dall'idea che non avrò più quel momento e che tra tutti gli attimi della vita, ognuno irripetibile, ce ne siano alcuni più speciali di altri.

Sarà l'orecchio danneggiato, ma nel scendere le scale mi sento come immerso in un vaso di rimbombi, come se ad accompagnarmi, senza che io lo meriti minimamente, ci siano i milioni di persone che hanno messo piede qui dal 1904 ad oggi e hanno visto questo stadio, collettivamente, crescere da una tribunetta di legno più bassa delle case vicine a quel gigante che domina il quartiere, ma ancora solo per poco. Poi, la fine. ADDIO WEST HAM

Sono andato alla ricerca di un passato che avevo impresso in modo quasi fisico e morboso nella memoria e nella pelle, un passato che per me rappresenta l’essenza più vera e indimenticabile del calcio inglese. Quello delle maglie senza sponsor, di calciatori solo britannici, di colore solo in campo arricchito dal contrasto con l’assenza di protagonismo sugli spalti. E nel compito impossibile di ritrovare quel passato perduto e calpestato me ne sono costruito giorno dopo giorno uno nuovo, meno suggestivo, condizionato dai cambiamenti demografici, dall’apertura indiscriminata delle frontiere anche calcistiche, dall’inquinamento, che anzi al tempo stesso mi hanno dato un deprimente quadro di un futuro prossimo, il nostro. È stato un presente in movimento che ho subito cristallizzato in storia per godermelo di più, e ora, quando tra una riga e l’altra mi fermo rivedendo una delle centinaia di foto e uno delle decine di filmati fatti, mi rendo conto che è stato tutto tremendamente faticoso e spaventosamente bello.

Così bello che sarebbe quasi stato il caso di non mettere più piede in alcuno stadio e conservare come ultimo ricordo emotivo, sonoro, visivo, quel portone del Boleyn che si chiudeva e quello steward che dava la buonanotte, o la passeggiata sotto la East Stand alle 5 del mattino successivo con la luce già viva, o quella notte nell’hotel con esplorazione libera prima della finale di FA Cup. O quel giorno in cui sono andato in qualche modo a ritirare il mio seggiolino e senza che nessuno mi dicesse niente sono poi entrato in campo e ho fatto tutto il perimetro, passo dopo passo, vedendo già l’abbandono: c’erano ancora i rifiuti della partita contro il Manchester United. L’angolo tra East Stand e Sir Trevor Brooking Stand, privo ormai del tabellone luminoso, pareva, da una certa angolazione, non meno malandato dell’Old Spotted Ground del Clapton FC. Ma anche malandato era, anzi è stato, anzi è, il Boleyn Ground. I LIBRI DI INDISCRETO

Stefano Olivari e Giorgio Specchia, L’Altra Milano – Dall’oratorio a Jura, la generazione della pallacanestro

Enzo Palladini, Paura del buio – Biografia non autorizzata di Ronaldo

Roberto Gotta, Football & Texas – Storie americane

Paolo Ghisoni e Stefano Nava, La Giovane Italia 2011 – Gli Under 19 in cui crediamo

Giorgio Specchia, Il teppista – Trent’anni maledetti a Milano

Franco Casalini (con Mino Taveri), E via… verso una nuova avventura! – 1978-1990: la squadra della nostra vita

Paolo Ghisoni e Stefano Nava, La Giovane Italia 2012 – Gli Under 19 in cui crediamo

Glezos, Alla ricerca del Vasco perduto– Creazione di una rockstar italiana

Giorgio Specchia, Il Buttafuori – Notti milanesi vere

Francesco Di Costanzo (prefazione di Matteo Renzi), Cittadini di Twitter – La nuova comunicazione nei servizi pubblici locali Stefano Olivari, L’importanza dei Paninari – Milano, anni Ottanta

Francesco Di Costanzo e Andrea Marrucci, WhatsApp in citta? La nuova frontiera della comunicazione pubblica

Stefano Olivari, Gli anni di Drazen Petrovic – Pallacanestro e vita