Università della Terza Età Cinisello Balsamo

Storia dell’Arte Contemporanea a.a. 2019 – 2020

Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti 1. L’arte e la guerra. La salvaguardia delle opere d’arte durante la Seconda Guerra Mondiale La guerra per l’arte una guerra che vede affrontarsi due eserciti: il primo, desideroso di impadronirsi della bellezza (e dell’anima) dell’avversario con il denaro o con la forza, per cancellarne l’identità; il secondo formato da truppe sparute e spesso isolate che combattono per farsela restituire. È una dinamica consolidata, che si ripete uguale a ogni conflitto: durante la Seconda guerra mondiale il territorio italiano fu messo a ferro e fuoco dagli opposti schieramenti e per necessità strategiche, spesso inesistenti, molti monumenti storici, piccoli e grandi, furono distrutti. Tra queste, la torre trecentesca su cui si era inerpicato Leonardo da Vinci per disegnare il porto canale di Cesenatico, abbattuta da mine naziste in ritirata, la monumentale abbazia benedettina di Montecassino, rasa al suolo da un disastroso bombardamento alleato il 15 febbraio 1944 e le migliaia di tesori che, sfuggiti al fuoco degli eserciti, furono considerati bottino di guerra e portati all’estero. Il pittore mancato Hitler e il suo vice, l’avido collezionista Hermann Göring, misero a segno in Europa – e in Italia con la complicità di Mussolini – il più grande furto della storia, confiscando oltre cinque milioni di opere d’arte ai paesi occupati, prelevandole, oltre che da chiese e musei, da collezioni private di oppositori del regime e di ebrei. «Solo le opere confiscate dai nazisti a questi ultimi valevano intorno ai 2,5 miliardi di dollari dell’epoca» computa nel 1998 Philippe de Montebello, direttore del Metropolitan Museum di New York, prescelto come capo di una speciale task force impegnata nel processo di restituzione che include le organizzazioni ebraiche e i maggiori musei del mondo. La popolazione locale contribuì come poteva a difendere i propri tesori: musei, chiese e edifici storici di notevole valore artistico furono protetti con impalcature di sacchetti di terra e di sabbia e rinsaldati con contrafforti e pilastri capaci di resistere ai colpi più violenti. Gli stessi americani, fin dallo sbarco in Sicilia, costituirono un organismo di tutela, la Monuments, Fine Arts and Archives Section, con lo scopo di salvaguardare il patrimonio culturale italiano dallo scempio della guerra. Tra tutti, il contributo decisivo arrivò dai salvatori dell’arte italiani, figure eroiche, spesso isolate, che con scarsi mezzi riuscirono a sottrarre ai nazisti migliaia di tesori: si tratto di giovani soprintendenti, funzionari del ministero dell’Educazione nazionale (e ministri che «tifavano» perché i nostri capolavori restassero in Italia), 007 dei servizi segreti fascisti, professori di lettere che, animati da coraggio e amore per l’arte, misero in atto piani ingegnosi, a metà tra una spy story e un racconto di guerra, pur di salvare il patrimonio artistico italiano. Si tratta di Pasquale Rotondi, Emilio Lavagnino, Rodolfo Siviero, Giulio Carlo Argan e molti altri eroi dimenticati. La più emblematica è l’Operazione Salvataggio (questo il suo nome in codice) condotta su incarico del ministro Bottai da Pasquale Rotondi : egli dal 1939 al 1944 riuscì a portare in salvo ben 6509 capolavori dei geni italiani, la più grande raccolta di beni culturali mai realizzata nella storia dell’umanità. Rotondi arriva alla rocca rinascimentale di Sassocorvaro, dove poche settimane prima lui stesso, soprintendente ai Beni artistici delle Marche e della Dalmazia con sede a Urbino, aveva ricevuto ordini da Roma di nascondere le principali opere d’arte italiane. Dai musei delle principali città italiane – Venezia, Milano, Bergamo, Treviglio, Roma, Ancona, il resto delle Marche e la Dalmazia – erano partiti camion con tele del Tintoretto, di Tiziano, di Piero della Francesca, di Lorenzo Lotto, arrotolate nel più completo anonimato.

Arrivate a Sassocorvaro, le opere erano sparite nel buio dei sotterranei del castello coperte dal silenzio degli abitanti della piccola cittadina, tutti schierati in un unico grande segreto solidale per salvare il patrimonio artistico italiano. Le truppe di Hitler però arrivano a Carpegna, dove riprenderanno il saccheggio. Rotondi con la sua piccola Fiat Balilla sa che non può salvare tutte le opere nascoste e , avvicinandosi alle casse, solleva una cassa leggera avvolgendola nel cappotto e con la scatola sotto il braccio risale le scale delle segrete del castello. Poche ore dopo, la Tempesta del Giorgione è a casa Rotondi, nascosta sotto il letto.

[Rotondi morirà nel 1991, travolto da una moto in una notte romana e solo grazie alle sue numerose pagine di diario è stato possibile ricostruire con precisione il numero e la caratura delle opere da lui fortunatamente salvate].

Nel giugno del 2007, in una cassaforte della Zürcher Kantonalbank di Zurigo, viene ritrovata parte della collezione di Göring: si tratta di quindici dipinti in tutto, fra cui opere di Dürer, Kokoschka, Monet, Renoir, Sisley. A depositarli era stato nel 1978 Bruno Lohse, un esperto d’arte che aveva fatto da consulente a Göring e ad altri gerarchi all’epoca della «grande razzia». Il ritrovamento si deve alla denuncia da parte di un’anziana signora, erede della famiglia ebrea Fischer, alla quale i nazisti avevano confiscato l’intero patrimonio. In seguito alla morte di Lohse, avvenuta nel 2007, alla signora era stato restituito in forma anonima un capolavoro di Pissarro facente parte della collezione di famiglia. Da lì sono partite le indagini che hanno portato al ritrovamento della cassaforte. Giorgione, Tempesta, 1502 – 1503, tempera a uovo e olio di noce su tela, Venezia, Gallerie dell’Accademia Hermann Göring, un dipinto nella mano sinistra e sigaro nella destra, seduto a guardare due dipinti di Henri Matisse, presentatigli da Bruno Lohse. In piedi, alla sinistra di Göring, il suo consulente d'arte, Walter Andreas Hofer. Interno del Castello di Carinhall Henri Matisse, Danseuse au Tambourine Henri Matisse, Margherite, 1939, olio su (Armonia in blu), 1926,olio su tela, tela, Chicago, The Art Institute of Chicago Pasadena, Norton Simon Museum Nel novembre del 2013 arriva la notizia di un nuovo ritrovamento. In un appartamento di Monaco di Baviera è stato scovato un tesoro di 1500 opere d’arte, per un valore stimato di oltre un miliardo di euro, che erano state confiscate dai nazisti durante il Terzo Reich e che si credevano ormai perdute. Fra i dipinti riportati alla luce, capolavori di Chagall, Klee e Matisse accatastati in un ripostiglio, tra cassette di frutta e barattoli di fagioli, della polverosa casa dell’ormai ottantenne Cornelius Gurlitt, figlio dello storico mercante d’arte Hildebrand Gurlitt. La polizia è arrivata alla scoperta dopo che nel settembre del 2010 Cornelius era stato fermato su un treno di ritorno dalla Svizzera con 9000 euro in contanti, in una delle sue sporadiche trasferte per vendere esemplari minori della sua collezione, sempre alla luce del sole e in modo legale: una sorta di rendita del patrimonio paterno che gli aveva permesso di sopravvivere nell’ombra per decenni, senza mai un lavoro, una pensione né un numero di previdenza sociale. La casa di Monaco non era l’unico nascondiglio. In un altro appartamento di Salisburgo le autorità tedesche hanno trovato altre 60 opere della collezione, tra cui dipinti di Picasso, Renoir e Monet. Nonostante i fortunati ritrovamenti di Zurigo, Monaco e Salisburgo e i tanti sforzi eroici di antichi e moderni Monuments men – da quelli delle forze alleate angloamericane, ai salvatori dell’arte italiani, fino agli eroi più recenti – sono però ancora tante le opere d’arte «prigioniere di guerra» che mancano all’appello.

Restando solo ai beni trafugati in Italia durante il fascismo e la Seconda guerra mondiale, l’elenco è lunghissimo. Non sono mai tornati almeno 1653 pezzi: 800 dipinti, decine di sculture, arazzi, tappeti, mobili, strumenti musicali, tra cui violini Stradivari, e centinaia di manoscritti. Le opere trafugate si trovano ancora in Germania e Austria e, in parte, nella ex Unione Sovietica, dove furono portate dall’Armata rossa dopo il crollo del Terzo Reich e l’invasione dei suoi ex territori. Tra queste, capolavori di Michelangelo, del Perugino, di Marco Ricci, oltre a sculture greche e romane e a tavole di primitivi di ottima fattura. Edouard Manet, Natura morta con Gustave Courbet, Jean Journet, 1850, frutta, 1870 ca., olio su tela, Collezione olio su tela, Collezione Gurlitt Gurlitt Jean Honoré Fragonard, Il Trionfo di Jan Baegert, Adorazione dei Magi, 1490 Venere, 1790 ca., carboncino su carta, ca., olio su tela, Collezione Gurlitt Collezione Gurlitt Jan Brueghel il Giovane, Paesaggio fluviale, 1660 ca., Collezione Gurlitt Dal 3 al 9 maggio 1938 il Führer lasciò la Germania per uno dei suoi primi viaggi all’estero, una visita di Stato per incontrare l’alleato Benito Mussolin. Da Roma, capitale del neoproclamato impero, Hitler ripartirà con le idee chiare sulla maestosità che il suo architetto personale, Albert Speer, avrebbe dovuto conferire a Berlino e al sognato impero del Reich. A commuovere il Führer fu la vista delle numerose opere d’arte ospitate in quei palazzi del centro storico che avevano assistito alla nascita del Rinascimento e che accoglievano il cuore pulsante della cultura d’Europa. Accompagnato da una guida d’eccezione, l’archeologo senese Ranuccio Bianchi Bandinelli, e tallonato da un Mussolini che non era mai entrato in un museo per piacere in tutta la sua vita, Hitler rifiutò di affrettarsi e trascorse più di tre ore nei maggiori edifici d’arte, ammirando stupefatto i capolavori del museo e persino commuovendosi, lui che da giovane aveva sognato di diventare artista: un sogno infranto quando era stato respinto all’Accademia di belle arti di Vienna. Ora Berlino, la capitale dell’impero, sarebbe diventata la sua Roma. Ma un artista-imperatore aveva bisogno anche di una sua Firenze. E Hitler sapeva dove costruirla: in quella Linz, nella nativa Austria. Lì sarebbe nato il Führermuseum, la più grande e spettacolare raccolta di opere d’arte del mondo, una visione culminata in un modellino tridimensionale opera di Speer. In quelle stanze avrebbe raccolto la sua collezione privata, accumulata in anni di acquisizioni e destinata ad arricchirsi con opere provenienti da tutto il mondo. Acquistate, confiscate, requisite o depredate alle famiglie ebraiche, come sancì con le leggi dello stesso 1938; una prassi di saccheggio concretizzata dal gerarca Alfred Rosenberg e poi applicata a ogni museo, casa d’aste, galleria, salotto o bunker segreto. L’insaziabile ambizione del maresciallo collezionista Hermann Göring, vice di Hitler, avrebbe fomentato la razzia e favorito l’arrivo in Germania dei capolavori europei da convogliare a Linz. A perfezionare il progetto, l’incarico ufficiale assegnato da Hitler a Hans Posse con una lettera del 26 giugno 1939: «Incarico il dottor Posse, direttore della Galleria di Dresda, di costruire il nuovo museo d’arte di Linz Donau. Tutti i servizi del Partito e dello Stato hanno l’ordine di assistere il dottor Posse nell’adempimento della sua missione». Il flusso di capolavori artistici dall’Europa e dall’Italia verso la Germania del Terzo Reich fu incontenibile. Si stima che le opere convogliate nei ricoveri tedeschi in attesa di essere catalogate ed esibite nel più spettacolare museo mai allestito fossero circa cinque milioni. In realtà fino a prima del 1943, Hitler riuscì a mettere insieme la propria collezione in maniera completamente legale, grazie ad antiquari e mercanti d’arte (per evidenti motivi di arricchimento) e, per captatio benevolentiae, dai governanti alleati, Mussolini in testa. Infatti Giulio Carlo Argan, allora giovane funzionario del ministero dell’Educazione, ricorda che: «Prima che noi ci ritirassimo dalla guerra, rompendo l’alleanza con i tedeschi, operava in Italia un gruppo di persone, capeggiato dal principe Filippo d’Assia, che aveva come tecnico un certo dottor Posse, conoscitore abbastanza competente. Costoro cercavano di comprare beni artistici e storici di proprietà privata, ma molto importanti. Fortunatamente il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai si oppose all’esportazione di questi beni, che furono comunque fatti uscire dall’Italia per ordini superiori. Dopo la guerra, la Commissione alleata considerò che queste opere, esportate contro il parere del ministro per ordine di Mussolini o del genero del duce, il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, oppure con treni militari o con valigie diplomatiche, fossero state abusivamente sottratte al patrimonio nazionale italiano. Solo così è stata possibile la restituzione di gran parte di esse». Argan chiarisce anche il metodo di pagamento: «Venivano pagate ai proprietari e ai mercanti in lire italiane. Correva voce che si trattasse di soldi frutto di un lungo giro geofinanziario: pare fosse moneta presa dagli inglesi nelle banche libiche e rivenduta per due soldi agli svizzeri, che a loro volta l’avevano rivenduta ai tedeschi, guadagnandoci sopra. Tra le opere acquistate con questo metodo ricordo una Leda di scuola leonardesca, pagata otto milioni. In altri casi i tedeschi ricevettero le opere come regalo personale di Mussolini: fu il caso del trittico del pittore austriaco Hans Makart, La peste a Firenze». I tedeschi ottennero allo stesso modo anche il Ritratto di Giovanni Carlo Doria a cavallo di Rubens, proveniente dalla collezione Doria D’Angri di Napoli, messo all’asta nel 1939 e acquistato da una certa Maria Termini (una prestanome) per essere poi donato da Mussolini a Hitler. Regalava Mussolini, vendevano gli antiquari. Hans Mackart, La peste a Firenze, 1868, olio su tela, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere Cesare da Sesto (?), Leda col cigno, 1510 – 1515, Pieter Paul Rubens, Ritratto di Giovanni Carlo Doria tempera su tela, Roma, Galleria Borghese a cavallo, 1606, olio su tela, Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola Nel 1998 il Congresso mondiale ebraico ha pubblicato un dossier, rimasto segreto per cinquant’anni, con i nomi degli antiquari che si arricchirono commerciando oltre duecentomila opere rubate dai nazisti alle vittime dei lager. L’elenco (Art Looting Investigation Unit Final Report) fu compilato dai servizi segreti americani (l’Oss, il precursore della Cia) in un arco di quattro mesi, nel 1946. La Francia è il paese più rappresentato, ma anche l’Italia si classifica ai primi posti, dopo Germania, Austria, Francia, Svizzera,Olanda e Belgio. Tra i tanti che non si piegarono a questo vile mercato dell’arte, compare anche il ministro Bottai che, pur dichiarandosi «pronto all’obbedienza a Mussolini» fu anche difensore del prestigio culturale e quindi oppositore leale all’accaparramento dei tesori d’arte da parte dei tedeschi. Lui, insomma, tifa per Pasquale Rotondi e non per Mussolini. Questo comportamento affiora proprio in occasione della cessione del Ritratto virile di Hans Memling al duce. Egli l’11 giugno 1941, tramite il genero, il ministro Galeazzo Ciano, gli scrive che «aderendo a un desiderio espressogli dal Führer per il tramite del principe d’Assia», ha autorizzato la vendita e l’esportazione del quadro del Memling. Nonostante tutte le rimostranze e le preoccupazioni pronunciate da Bottai in numerose leggere, il dipinto comunque avrà il destino di lasciare l’Italia. Il cuore di Bottai, dicevamo, batte per Pasquale Rotondi, ed ecco le righe che lo provano. Sono tratte dalla lusinghiera lettera che il ministro, il 14 gennaio 1943, indirizza al soprintendente di Urbino impegnato, su suo incarico, tramite il funzionario del ministero Giulio Carlo Argan, nell’Operazione Salvataggio dei principali capolavori italiani nel Montefeltro marchigiano: «Il Regio soprintendente alle Antichità di Ancona, nel trasmettere il verbale di verifica delle opere d’arte ricoverate nella Rocca di Sassocorvaro – di cui si è constatato l’ottimo stato di conservazione –, ha messo in evidenza l’opera intelligente e alacre da Voi svolta per l’attrezzatura dei locali e per tutte le opere necessarie per la migliore conservazione del materiale salvaguardato nel ricovero da Voi prescelto. Mentre prendo atto di questa Vostra particolare, lodevole attività, Vi esprimo il mio più vivo compiacimento». Meno di un mese dopo, Bottai non è più ministro. Il 25 luglio aderirà con altri diciannove gerarchi all’ordine del giorno Grandi, una mozione che mette in minoranza Mussolini. Sarà per questo condannato a morte al processo di Verona, nel 1944, da un tribunale della neocostituita Repubblica sociale italiana. Condanna in contumacia, perché nel frattempo Bottai, con il consenso delle autorità francesi, si arruola nella Legione straniera («Parto per espiare le mie colpe di non aver saputo fermare in tempo la degenerazione fascista»). Dalla parte di Rotondi si schierò anche il ministro che sostituì Bottai, l’ex rettore dell’Università Normale di Pisa Carlo Alberto Biggini. La prima volta che nel diario di Rotondi compare il nome di Biggini è in una data storica: il 25 luglio 1943. Quel giorno l’allora soprintendente di Urbino annota: «Mi è giunto oggi dal ministero dell’Educazione nazionale un telegramma contenente l’elogio rivoltomi dal Consiglio superiore per l’opera da me data per la salvaguardia del patrimonio artistico italiano. È firmato da Carlo Alberto Biggini, il nuovo ministro, succeduto a Bottai». Poche ore dopo la partenza di quel telegramma, cade il ventennale regime fascista di Mussolini in seguito alla mozione Grandi, e Biggini consegna la carica al nuovo ministro, Leonardo Severi. Dopo l’8 settembre 1943, giorno del proclama di armistizio di Badoglio con gli angloamericani, il ministero dell’Educazione della Repubblica sociale di Salò viene assegnato a Biggini e trasferito a Padova. Il 26 ottobre di quell’anno cruciale per la storia italiana Rotondi viene informato della proposta fatta da Biggini di creare a Venezia un deposito generale, «soluzione che è la sola garanzia di poter fare un’azione autonoma italiana; e di mettere una volta per sempre fuori dalla politica un problema, quello della salvaguardia dei capolavori artistici italiani, che non ha nulla a che vedere con la politica». A conferma della sua difesa dei beni culturali italiani, ecco come inizia un appunto autografo a sua firma diretto al duce: «Sono fermamente convinto che la stessa gravità del momento impone di tentare uno sforzo decisivo per ottenere che almeno si inizi, magari con mezzi nostri, il recupero delle opere d’arte depositate dalla Generalverwaltung tedesca a Campo Tures e a San Leonardo di Passiria». L’intento è di riunire tutte le opere dei ricoveri sparsi sul territorio, soprattutto nel Centro Italia. Sotto l’incalzare dei bombardamenti (e delle rapine tedesche) e di fronte alle esitazioni del nuovo ministro Severi, i coraggiosi funzionari decidono però di agire in autonomia e avviano trattative segrete sia con il Vaticano sia con il comando tedesco per mettere i capolavori al sicuro tra le neutrali mura pontificie. PASQUALE ROTONDI

L’azione e il contributo di Pasquale Rotondi sono ricordati nella Rocca di Sassocorvaro – capolavoro d’architettura del senese Francesco di Giorgio Martini, maestro di Leonardo da Vinci, fatta costruire nella seconda metà del Quattrocento nell’omonimo borgo a cinquanta chilometri dalla riviera adriatica, nel Montefeltro, tra Pesaro e Urbino – dove in una stanza che s’affaccia sul cortile, in un angolo per terra, si trova un piccolo tassello in legno con una scritta tutta incisa in maiuscolo:

IN QUESTE STANZE, DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE, EBBERO RICOVERO E SALVEZZA QUASI DIECIMILA OPERE D’ARTE PROVENIENTI DA TUTTA ITALIA.

Rotondi è stato un salvatore dell’arte e dell’anima dell’Italia. Quanti oggi si incantano davanti alla Tempesta del Giorgione o al Tesoro di San Marco, o ai dipinti di Tiziano e Tintoretto, Piero della Francesca, Raffaello e tanti altri geni dell’arte, sappiano che devono principalmente a lui questo privilegio. Fu Rotondi, nel corso della Seconda guerra mondiale, a salvare ben 6509 capolavori italiani dalla barbarie del conflitto e dalle mire di Hitler, che non vedeva l’ora di raccogliere il prezioso patrimonio nel Führermuseum, un ideale museo universale con sede a Linz, città austriaca prossima al suo paese natale; infatti è essenzialmente grazie a lui che si deve l’«Operazione Salvataggio» con cui tra 1940 e 1944 il ministero dell’Educazione nazionale italiano dispose di portare in salvo, sotto la sua responsabilità, un inestimabile patrimonio di opere d’arte (tra questi, tredici quadri di Tiziano, diciassette di Tintoretto, quattro di Piero della Francesca e altre opere di Carlo Crivelli e Lorenzo Lotto, Raffaello e Mantegna, Veronese e Rubens, Tiepolo, Guardi e Canaletto). Memore dell’esperienza del conflitto del 1915-1918, il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai dispose nel 1939 il ricovero dei principali tesori d’arte italiani in terraferma, in una base nazionale allora segreta, da indicare nei documenti ufficiali come «Ricovero» con la R maiuscola, a differenza degli altri ricoveri di interesse regionale e locale, indicati con la minuscola. Era questa l’ «Operazione Salvataggio» ordinata a partire dal 18 settembre 1939 con un incontro a Roma tra Rotondi e Giulio Carlo Argan. Nel diario di Rotondi si legge: «Argan mi ha comunicato che la direzione generale ha in animo di costituire in Urbino, qualora l’Italia entri in guerra, un grande ricovero di opere d’arte colà raggruppate da ogni parte del territorio nazionale. Le amplissime sale del Palazzo ducale si sarebbero meravigliosamente prestate ad accogliere, sulle loro pareti, i più celebri quadri delle gallerie e delle chiese d’Italia, che perciò avrebbero potuto essere custoditi durante la guerra senza rimanere chiusi negli imballaggi, col vantaggio notevolissimo di poter essere quotidianamente sorvegliati nella loro conservazione e integrità. Da parte sua, data anche la sua posizione topografica, Urbino avrebbe potuto essere facilmente riconosciuta, con un accordo internazionale, città libera.» Ma ecco presentarsi una circostanza imprevista a questo programma apparentemente perfetto: la stessa Urbino, culla del Rinascimento, è un obiettivo militare a causa dei depositi di munizioni dell’aeronautica nascosti nel sottosuolo. Un dettaglio non trascurabile, di cui si rende immediatamente conto Rotondi quando il 1° ottobre 1939 arriva da Roma per prendere possesso del suo nuovo ufficio. Scrive sul diario in quella data: «Da Roma sono arrivato questa mattina in Urbino, dopo aver passato la notte in treno. Nella piccola stazione ferroviaria vedo un folto gruppo di soldati dell’aeronautica che danno l’assalto alla corriera in partenza per la città. A metà strada l’automezzo si ferma e i soldati scendono. Chiedo al fattorino come mai in Urbino si trovino i militari. La risposta è sconcertante per me che sapevo Urbino lontana da ogni obiettivo di guerra: un grande deposito di munizioni dell’aeronautica è in via di allestimento nella lunga galleria ferroviaria che si sviluppa nelle viscere del colle su cui sorge la città, galleria rimasta chiusa al traffico fin da quando rimase sospesa la costruzione della strada ferrata per Santarcangelo di Romagna. I soldati che ho visto fanno parte del distaccamento cui è affidato il compito di allestire il deposito e di sorvegliarlo». È un deposito di gas venefici ed esplosivi, a meno di cinquecento metri in linea d’aria dal Palazzo ducale, autorizzato dal ministero dell’Aeronautica nonostante l’appello accorato del soprintendente all’Arte medievale e moderna delle Marche, Guglielmo Pacchioni, predecessore di Pasquale Rotondi, poi trasferito a Milano. Le conclusioni a cui arriva il neosoprintendente Rotondi sono rapide: «A causa di questo deposito la stessa Urbino deve essere considerata obiettivo militare, tutt’altro che adatta a ospitare e a proteggere, in caso di guerra, capolavori artistici!» Scartato il palazzo di Urbino per questo inatteso ostacolo, Rotondi dall’ottobre del 1939 al giugno del 1940 si aggira per le Marche cercando un luogo sicuro ove ricoverare il patrimonio artistico. Orienta la sua ricerca verso altri siti marchigiani basandosi su questa griglia di requisiti prioritari: «Indispensabile doveva essere innanzitutto la lontananza del ricovero da centri industriali e ferroviari, o addirittura militari di interesse bellico. I locali prescelti dovevano presentare, inoltre, una perfetta idoneità per la solidità delle loro strutture, in modo da dare di per se stessi una sufficiente garanzia nell’eventualità, sia pur ipotetica, di attacchi aerei. Loro essenziale condizione doveva poi essere una perfetta assenza di umidità, in modo che le opere d’arte non avessero a subire il benché minimo danno durante la loro permanenza in ricovero. Né doveva esservi, nella località prescelta, scarsezza d’acqua neppure nei mesi d’estate: perché di fatto tale scarsezza avrebbe impedito il funzionamento degli impianti idrici da istituire a scopo antincendio. Così pure i locali da adibire a ricovero non dovevano, possibilmente, essere troppo isolati dal centro abitato, potendo il loro isolamento compromettere la sicurezza del materiale dalla possibilità di furti: un rapido pensiero all’ingente valore delle cose da custodire era sufficiente a giustificare questa auspicata prerogativa dell’istituendo ricovero. Così pure, sempre per rendere più efficace la sorveglianza e la sicurezza del prezioso deposito, non pareva che si potesse scegliere una località troppo lontana da Urbino, ove la Soprintendenza ha sede. La vicinanza avrebbe permesso un controllo maggiore sui servizi di custodia del ricovero attraverso frequenti e facili contatti». Dopo lunghe ricerche condotte principalmente nel centro Italia, Rotondi isola due edifici, la Rocca quattrocentesca di Sassocorvaro e il vicino Palazzo dei Principi di Carpegna. Furono questi i siti dove cominciarono a confluire migliaia di quadri, sculture, disegni, mobili, arredi e oggetti preziosi dai musei di gran parte d’Italia. Sarà un piccolo ma decisivo dettaglio a favorire uno dei due luoghi contendenti: il fatto che la Rocca di Sassocorvaro fosse un edificio di proprietà comunale e la sua maggiore vicinanza a Urbino la fecero preferire al Palazzo dei Principi di Carpegna. Il luogo destinato a rimanere segreto nelle carte ufficiali per entrare nella storia sarà dunque la Rocca di Sassocorvaro. Francesco di Giorgio Martini, Rocca di Sassocorvaro, 1475 Dal diario, alla data del 5 giugno 1940, appena cinque giorni prima della dichiarazione di guerra da parte di Mussolini alla Francia e alla Gran Bretagna, si legge: «Mi arriva dal ministero un telegramma con l’ordine di porre in atto il programma di salvaguardia delle opere d’arte mobili appartenenti al territorio giurisdizionale della mia Soprintendenza». Rotondi chiede fondi e personale per questa impresa, ma, come nella migliore tradizione italiana, da Roma rispondono picche e il 7 giugno 1940 Rotondi arriva a Sassocorvaro dove prende contatto con le autorità locali: il podestà, il comandante della locale stazione dei Regi e il preside della scuola media che ha in parte sede nella Rocca (si tratta, coincidenza, di un antico amico di Rotondi, Filippo Martufi, suo corregionale e compagno di università). Nel giro di un mese nel rifugio, dopo frenetici spostamenti sui diecimila chilometri quadrati del territorio marchigiano, giungono tutte le opere provenienti dai musei delle Marche, «tra le quali ben 347 di valore universale» annota Rotondi. «Se non sembra utile – perché noioso – elencarli dettagliatamente, pare però opportuno nominarne a caso qualcuno, affinché possa emergere la grande importanza dell’insieme: la grande pala d’altare di Giovanni Bellini del Museo di Pesaro, i Tiziano di Ancona e quelli di Urbino, il Rubens di Fermo, i Piero e il Paolo Uccello e i Signorelli e il Melozzo e i Giusto da Urbino, i Lotto di Jesi e i Perugino di Fano e i Crivelli di Ascoli e gli Allegretto di Macerata di Urbino e di Fabriano, e il fior fiore delle ceramiche di Pesaro, e i piviali rarissimi di Fermo e di Ascoli, e gli arazzi di Ancona e di Fabriano. [...] Su un mezzo della marina militare arrivano anche due dipinti appartenenti al Duomo dell’isola di Lagosta: uno di Francesco Bissolo e l’altro attribuito a Girolamo da Santacroce.» Tiziano, Pala Gozzi, 1520, tecnica mista su Giovanni Bellini, Pala di Pesaro, 1471 – tavola, Ancona, Pinacoteca civica 1483, olio su tavola, Pesaro, Musei Civici Francesco Podesti Tiziano, Resurrezione di Cristo, 1542 – 1544, Pieter Paul Rubens, Adorazione olio su tela, Urbino, Galleria Nazionale dei pastori, 1608, olio su tela, della Marche Palazzo Ducale di Urbino Fermo, Pinacoteca Civica Giusto di Gand e Paolo Uccello, Pala del Luca Signorelli, Gonfalone dello Spirito Corpus Domini, 1472 – 1474, olio su tavola, Santo, 1494, tempera su tela, Urbino, Urbino, Galleria Nazionale della Marche Galleria Nazionale della Marche Palazzo Ducale di Urbino Palazzo Ducale di Urbino Melozzo da Forlì, Cristo Salvatore, 1480 – 1482, olio su tela, Urbino, Galleria Nazionale della Marche Palazzo Ducale di Urbino Lorenzo Lotto, Deposizione, 1512, olio su Lorenzo Lotto, Annunciazione, 1526, tela, Jesi, Pinacoteca civica e galleria di olio su tela, Jesi, Pinacoteca civica e arte contemporanea galleria di arte contemporanea Pietro Perugino, Pala di Fano, 1497, olio su tavola, Fano, Chiesa di Santa Maria Nuova Carlo Crivelli, Polittico di Sant’Emidio, 1473, Nuzi Allegretto, Madonna con Bambino in tempera e oro su tavola, Ascoli Piceno, trono e santi, Sant'Antonio Abate, San Cattedrale di Sant’Emidio Venanzio, 1369, tempera su tavola, Macerata, Pinacoteca Nazionale Da Venezia arriva nelle Marche un funzionario della Soprintendenza lagunare, il professor Rodolfo Pallucchini, che riporta un’ottima impressione del ricovero e preannuncia l’invio dei capolavori da gallerie e chiese veneziane. Dal diario di Rotondi si legge: «Dopo il sopralluogo di Pallucchini sono state approvate e finanziate dal ministero queste misure di sicurezza del ricovero di Sassocorvaro, misure già realizzate in gran parte ancor prima dell’approvazione ministeriale: costruzione di muri antischegge e anticrolli; impianto di parafulmini; attivazione di una pompa di sollevamento dell’acqua dalla cisterna della Rocca ai fini antincendio; costruzione di una cisterna fuori della Rocca sempre per gli stessi fini, alimentata dall’acquedotto comunale; acquisto di estintori e idranti; potenziamento dell’impianto di campanelli elettrici colleganti il ricovero con la stazione dei Regi carabinieri; rinnovo degli impianti elettrici della Rocca con speciali cautele antincendio; costituzione di una squadra di pronto intervento». I locali sono pronti: il 16 ottobre 1940 arrivano da Venezia 54 casse e 16 rulli contenenti più di cento opere d’arte di eccezionale valore artistico delle Regie Gallerie dell’Accademia, della Ca’ d’Oro e del Museo orientale di Venezia. Da questo momento, seguono due anni, tra 1941 e 1943, di verifiche e sistemazioni dell’immenso patrimonio artistico conservato all’interno della Rocca. Il 20 gennaio 1943 Rotondi lascia Urbino per recarsi a Roma per trattare al ministero alcune pratiche. In questo incontro i due discutono della possibilità di creare nelle Marche un secondo ricovero d’opere d’arte, dato che sono molte le preoccupazioni per la salvaguardia dei capolavori della Lombardia. Dall’incontro emerge chiaramente la necessità di trovare un altro ricovero per evitare una condensazione di materiale artistico a Sassocorvaro. Rotondi non ha bisogno di ulteriori ricerche per trovare un secondo edificio robusto e asciuttissimo: si tratta del Palazzo dei Principi di Carpegna, edificio già considerato nel 1939 e a cui gli era stata preferita la Rocca di Sassocorvaro. Giovanni Antonio De' Rossi, Palazzo dei Principi di Carpegna, 1674

L’edificio sorge al centro dell’abitato e domina maestoso sul resto delle abitazioni comunali e sull’intera conca verde ai piedi del monte Carpegna (1415 metri di altezza). Fu fatto erigere sul finire del Seicento dal cardinale Gaspare di Carpegna, discendente della gloriosa famiglia di principi che porta lo stesso nome del borgo: i principi di Carpegna Falconieri. Una nuova residenza signorile destinata a quella nobiltà che da prima dell’anno Mille, e fino al 1819, quando il feudo fu inglobato dallo Stato pontificio, aveva reso Carpegna uno Stato a tutti gli effetti indipendente. Da questo momento arrivano a Carpegna numerose casse contenenti opere d’arte provenienti dalla Lombardia e dal nord Italia: 87 casse contenenti centinaia di opere appartenenti al Castello sforzesco (dipinti, sculture, pezzi archeologici, ceramiche, porcellane eccetera) consegnate da Fernanda Wittgens nell’aprile ‘43; 47 casse contenenti opere di primaria importanza delle Gallerie dell’Accademia, della Ca’ d’Oro e di alcune chiese di Venezia e 23 casse contenenti i vari oggetti del Tesoro di San Marco consegnate da Vittorio Moschini nel maggio ’43; 29 casse con opere appartenenti alla Galleria Borghese, alla Galleria Corsini, al Museo di Tarquinia, alla collezione Gualino e ad alcune chiese di Roma consegnate da Aldo De Rinaldis nella metà del giugno ‘43; numerose casse contenenti un considerevole numero di capolavori della Galleria di Brera, del Museo Poldi Pezzoli, del Museo del Castello sforzesco, dell’Accademia Carrara di Bergamo e del Duomo di Treviglio – si annoverano all’interno di questo preziosissimo carico, opere come la Pala di San Bernardino di Piero della Francesca, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e il Cristo alla Colonna del Bramante – consegnate da Guglielmo Pacchioni alla fine del giugno ’43. Alla fine del giugno1943 si legge nel diario di Rotondi: «Dopo le consegne di oggi la consistenza del ricovero di Carpegna è la seguente: a pianterreno: 69 casse di Milano. Al piano superiore: 70 casse di Venezia; 43 casse di Milano; 29 casse di Roma. In questo momento nei due ricoveri di Sassocorvaro e Carpegna sono depositati circa ottomila pezzi: poco meno di quattromila appartengono al settore storico-artistico, poco più di quattromila appartengono al settore bibliografico.» Piero della Francesca, Pala di San Raffaello Sanzio, Sposalizio della Vergine, Bernardino, 1472, tempera e olio su tavola, 1504, olio su tavola, Milano, Pinacoteca di Milano, Pinacoteca di Brera Brera Donato Bramante, Cristo alla colonna, 1490 circa, olio su tavola, Milano, Pinacoteca di Brera Dopo il 25 luglio 1943, giorno in cui Mussolini viene destituito e tratto in arresto dal re dopo una drammatica seduta del Gran Consiglio, Rotondi e i custodi delle opere conservate a Sassocorvaro e Carpegna credono che le opere da loro salvate possano tornare alle loro sedi di provenienza essendo finita la guerra, ma si sbagliano di grosso: il 20 ottobre 1943 le truppe tedesche fanno irruzione nel Palazzo dei Principi a Carpegna per accertare se in esso vi siano contenute armi e qui trovano l’inestimabile tesoro delle opere salvate da Rotondi. Annota Rotondi nel diario: «I tedeschi hanno invaso il ricovero e, poiché i carabinieri avevano tentato una certa resistenza, li hanno disarmati e caricati sui loro automezzi, trasferendoli verso Rimini. Ho raggiunto immediatamente il ricovero, dove ho trovato i custodi molto impressionati. Essi mi confermano che tutti i carabinieri di stanza a Carpegna sono stati portati via e infatti, andato nella loro caserma, vi trovo installati i tedeschi, il cui comandante (al quale mi rivolgo per risentirmi per l’allontanamento dei carabinieri dal ricovero) accoglie con ostentata alterigia le mie proteste. Mi fa dire dall’interprete di stare tranquillo, perché sotto la loro custodia le opere saranno più sicure di prima. Tornato al ricovero, mi sincero che il materiale sia tutto al suo posto e cerco di fare coraggio ai custodi. Per ora il solo danno arrecato dai tedeschi alle cose del ricovero riguarda uno dei suggelli del baule contenente i cimeli di Gioachino Rossini che un soldato germanico ha fatto saltare nei primi momenti di confusione, quando le SS sono entrate nel ricovero. Dal baule rossiniano viene fuori un manoscritto inedito per basso intitolato La purga. I militari tedeschi dicono: “Soltanto cartacce”, e non continuano l’ispezione. Quadri e preziosi sono salvi». A un certo punto Rotondi si trova costretto, per sicurezza, a caricare sulla sgangherata Balilla (oggi ammirabile nel Museo dell’auto Fiat a Torino) la Tempesta, il San Giorgio del Mantegna, la Madonna col bambino di Cosmé Tura, quattro Madonne di Giovanni Bellini (tra cui quella degli Alberetti), la Pietà, il Ritratto Morosini del Tintoretto e il Ritratto maschile di Lorenzo Lotto. Porta i capolavori nella casa di campagna Tortorina, alle porte di Urbino, dove nell’ottobre del 1943 la moglie, Zea Bernardini, storica dell’arte e sua ex compagna di studi all’università, farà da vigile sorvegliante alle tele: le custodirà nella loro stanza da letto e per giorni si fingerà malata per impedire che siano scoperte persino dai figli.

Nell’inverno del 1943 l’ «Operazione Salvataggio» corre tremendi pericoli: avrà buon esito grazie a due rocamboleschi traslochi notturni, il 22 dicembre e il 16 gennaio quando le opere principali saranno trasportate con mezzi di fortuna fino ai musei del Vaticano in seguito all’approvazione del piano da parte di Pio XII (con l’azione determinante del cardinale Giovan Battista Montini, futuro papa Paolo VI, e di Bartolomeo Nogara, direttore generale dei musei e delle gallerie pontificie) e all’intervento di una squadra romana guidata dal funzionario delle Belle arti Emilio Lavagnino. Andrea Mantegna, San Giorgio, 1460, Cosmè Tura, Madonna con il Bambino, tempera su tavola, Venezia, Gallerie 1470, olio su tavola, Venezia, Gallerie dell’Accademia dell’Accademia Giovanni Bellini, Madonna degli Alberetti, 1487, olio su tavola, Venezia, Gallerie Jacopo Tintoretto, Pietà, 1563, olio su tela, dell’Accademia Milano, Pinacoteca di Brera Jacopo Tintoretto, Ritratto di Battista Morosini, non datato, olio su tela, Lorenzo Lotto, Ritratto maschile, 1545 Venezia, Convento dei Canonici circa, olio su tela, Milano, Pinacoteca di Lateranensi, ex Convento dei Canonici Brera Lateranensi Per i primi mesi del 1944 la vita presso il ricovero di Sassocorvaro scorre abbastanza tranquilla. In questo periodo Rotondi collocherà un episodio singolare accaduto durante una missione: «Da Urbino stavo andando in un paese in provincia di Ascoli Piceno. A Falerone un carabiniere mi ferma: stavo fotografando un palazzetto del Cinquecento, lui mi dice che non si può e mi chiude in una camera di sicurezza. Gli spiego che sono il soprintendente di Urbino, gli mostro i documenti, l’ordine ricevuto. C’era scritto che dovevo andare a esaminare un polittico di Carlo Crivelli. E lui di rimando: “Ma allora lei viaggia per ragioni politiche”. E così mi ha tenuto rinchiuso per sette ore, finché non sono riuscito a parlare con il prefetto».

Sassocorvaro e l’intera valle del Foglia si riempiono di fortificazioni, bunker e campi minati. La resistenza tedesca alle truppe alleate si intensifica proprio all’altezza del Montefeltro marchigiano: è la Linea gotica. La fortezza viene colpita dal fuoco delle artiglierie, ma non subisce gravi danni: le sue formidabili mura riporteranno solo ferite leggere, tanto che le residue opere ricoverate all’interno (47 casse, 8 rulli e 3 tele senza imballaggio) non ne risentirono. Un tentativo delle truppe tedesche di occupare la Rocca e di farci caserma, in un quadro di confusione totale («L’esercito germanico è in piena disfatta, ma i tedeschi non desistono dalla loro arroganza, anzi l’accentuano» annota Rotondi), viene sventato dal soprintendente, che impedisce anche che vi si installi un deposito di munizioni da parte della milizia repubblicana. I tedeschi pensano di portar via quadri e tele per «trasferirli» al Nord, e a Rotondi chiedono un rapporto sulle opere d’arte presenti ma lui, disubbidendo, non prepara nulla. Il paese di Sassocorvaro è praticamente abbandonato. Il 9 settembre 1944 nel borgo arrivano le forze angloamericane guidate dal capitano Maxse, che non si avventura verso la rocca per timore che la strada sia minata. L’ «Operazione Salvataggio» finisce nella soddisfazione generale con la restituzione dei pezzi d’arte ai rispettivi musei di appartenenza senza che nessun danno sia stato apportato a uno solo dei beni affidati a Rotondi. Le ultime due pagine del diario sono dedicate alla fase di restituzione delle opere. Alla data 7 maggio 1946 Rotondi conclude: «Ho completato oggi la restituzione delle opere di proprietà di chiese e di musei delle Marche che all’inizio della guerra erano state ricoverate a Sassocorvaro e che, al contrario delle altre, non erano state trasferite in Vaticano. Le verifiche effettuate hanno dimostrato che nessun danno si è verificato durante questo lungo periodo di emergenza». La riconsegna della rocca alle autorità del comune di Sassocorvaro avviene con una cerimonia definita da Rotondi «un po’ triste». Quando una grande storia d’amore si conclude, non può essere diversamente. Finisce l’ «Operazione Salvataggio» e con essa la storia dell’eroe che, alla stregua di un grande regista, la rese possibile.

[Dopo la morte avvenuta il 2 gennaio 1991 Pasquale Rotondi non ebbe alcun riconoscimento ufficiale per il suo incredibile servizio nella tutela del patrimonio artistico del nostro paese, fino al novembre 2005 quando alle due figlie il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha consegnato una medaglia d’oro al merito culturale in memoria del padre, accompagnandola con queste parole preziose: «Investire nella cultura, credere nella cultura, è una necessità per noi italiani. Se funzionano i nostri musei, se funziona il nostro cinema, il nostro teatro, la nostra musica, allora funziona meglio tutta la società italiana, e con essa l’economia». ] RODOLFO SIVIERO

Egli ebbe un ruolo fondamentale nella salvaguardia dell’arte italiana, dapprima come agente segreto fascista, poi come uomo della Resistenza e infine come funzionario della Repubblica. Inizia il suo lavoro di agente segreto già nel 1934, diventando ufficiale del Servizio informazioni militari dell’esercito fascista. L’avversione per il nazismo, esacerbata dalla promulgazione delle leggi razziali, nei primi anni della Seconda guerra mondiale si somma allo sconcerto per il furto sistematico dei capolavori dell’arte italiana da parte dei tedeschi. Cosicché, dopo l’8 settembre, Siviero si schiera con le forze antifasciste, per proseguire la sua attività di agente segreto con il comando militare alleato fino a diventare il punto di riferimento dell’intelligence inglese a Firenze. Entrato nella Resistenza, Siviero agisce collegandosi ai Monuments men degli Alleati e ai partigiani, e contando su informatori interni alla Commissione nazista di «protezione» delle opere d’arte, la Kunstschütz, che in realtà attua una spoliazione sistematica del patrimonio artistico italiano. Siviero è uno 007 instancabile nel prevenire le mosse dei nazisti e nel nascondere e mettere in salvo le opere d’arte. Come abbiamo visto, l’emorragia era già cominciata nel 1936, quando lo stesso Mussolini, d’accordo con il suo ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, aveva inviato a Berlino diversi capolavori della pittura rinascimentale per compiacere l’alleato. A nulla erano valsi i vincoli e l’opposizione ferma del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai e così migliaia di opere d’arte avevano preso la strada del Brennero e della Germania. Tra le decine di azioni di salvataggio messe in atto da Siviero c’è quella dell’Annunciazione del Beato Angelico: nel 1944 egli viene a conoscenza della richiesta di Göring di entrare in possesso dell’opera d’arte e, con l’aiuto di due frati del convento di piazza Savonarola a Firenze, riesce a nascondere il quadro ai militari tedeschi incaricati del prelievo. Ma non solo: durante l’occupazione nazista Siviero salva anche i quadri di proprietà di Giorgio De Chirico prelevandoli con uno stratagemma dalla villa di Fiesole dove l’artista era stato costretto a scappare insieme alla moglie Isabella a causa dei rastrellamenti nazisti. Tutti i dipinti furono nascosti in un deposito della Soprintendenza fiorentina. Il 3 luglio 1944 i tedeschi portano in Alto Adige oltre duecento quadri della Galleria degli e poco dopo- tra il 25 luglio e l’11 agosto dello stesso anno – evacuano le sculture degli Uffizi, del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore e di altri musei fiorentini per portarle in Alto Adige, nel castello di Campo Tures. Il servizio informativo di Siviero controlla questi movimenti contribuendo così al ritrovamento delle sculture da parte degli Alleati, che nel 1945 le restituiscono a Firenze. Il rientro è salutato con una grande festa tenutasi il 22 luglio in piazza della Signoria.

Dopo la Liberazione Siviero viene individuato come la persona più idonea ad affrontare il problema della restituzione delle opere trafugate. Viene nominato capo dell’Ufficio delle restituzioni, poi trasformato in Delegazione per il recupero delle opere d’arte e incorporato dal ministero degli Esteri, e dirige la missione diplomatica italiana in Germania. Il 16 dicembre 1953 il capo del governo lo invia a Bonn, dove Siviero firma con il suo omologo tedesco Friedrich Jantz un accordo che gli consente di riportare in Italia molti capolavori che erano stati trasferiti in Germania. Nel 1947 Siviero ottiene la restituzione delle opere dei musei napoletani che i tedeschi avevano trafugato nel 1943 dal deposito dell’abbazia di Montecassino. Tra queste la Danae di Tiziano del , che era stata sottratta dai depositi di Spoleto e «regalata» a Göring per il suo cinquantunesimo compleanno, nel gennaio del 1944; inoltre molte sculture del Museo archeologico nazionale di Napoli, tra le quali l’Apollo di Pompei e l’Hermes di Lisippo. Alla sua tenacia si deve anche il ritorno nel 1948 del famosissimo Discobolo Lancellotti, copia dell’originale greco di Mirone, rientrato in Italia dopo la guerra insieme a trentotto opere importanti come la Leda del Tintoretto e il Ritratto di Giovanni Carlo Doria a cavallo di Rubens. L’azione di Siviero proseguì anche molti anni dopo e oltrepassò l’ambito dei saccheggi bellici. La Madonna con Bambino del , per esempio, oggi agli Uffizi, viene recuperata da Siviero una prima volta nel 1947 e successivamente il 9 aprile 1973, dopo il furto avvenuto nel marzo del 1971. Nel 1963 Siviero ritrova a Los Angeles le due tavolette raffiguranti le Fatiche di Ercole (Ercole e l’idra ed Ercole e Anteo) di Antonio del Pollaiolo, che non erano state trovate insieme agli altri capolavori degli Uffizi portati in Alto Adige, perché alcuni soldati tedeschi le avevano nascoste e poi portate negli Stati Uniti. Ci sono poi i pannelli in opus sectile della basilica romana di Giunio Basso e l’Efebo di Selinunte, un bronzo prezioso rubato nel 1962 dal municipio di Castelvetrano da una banda di ladri e dopo molte peripezie ritrovato a Foligno nel 1968. Apollo Saettante, 100 a.C. – prima del Tiziano, Danae, 1545, olio su tela, Napoli, 79 d.C., bronzo, Napoli, Museo Museo Nazionale di Capodimonte Archeologico Nazionale Mirone (attribuito a), Discobolo Lancellotti, Lisippo (attribuito a), Hermes a riposo, 455 a.C., marmo (originale in bronzo), prima del 79 d.C., bronzo, Napoli, Museo Roma, Museo nazionale romano di Palazzo Archeologico Nazionale Massimo Jacopo Tintoretto, Leda e il cigno, 1550 – 1560 circa, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi Masaccio, Madonna col Bambino e , Ercole e l’Idra, 1475 Sant’Anna, 1424 – 1425, tempera su circa, tempera grassa su tavola, Firenze, tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi Galleria degli Uffizi Antonio del Pollaiuolo, Ercole e Anteo, 1475 circa, tempera grassa su tavola, Pannelli in opus sectile, 331 d.C.,Roma, Firenze, Galleria degli Uffizi Basilica di Giunio Basso Efebo di Selinunte, V secolo a.C., Castelvetrano, Museo Civico Selinuntino EMILIO LAVAGNINO

Dopo essere diventato funzionario delle Belle arti, prima a Palermo, successivamente a Napoli, poi al Museo di Palazzo Venezia a Roma, si rifiuta di seguire i fascisti dopo l’8 settembre e quindi viene messo «a riposo» insieme ad altri colleghi «ribelli» come Giulio Carlo Argan, Rinaldo De Rinaldis, Palma Bucarelli, Guglielmo De Angelis d’Ossat e Pietro Romanelli. Senza lavoro, senza stipendio, praticamente «nessuno» per l’amministrazione, in collaborazione con Argan, da impiegato amministrativo riesce a procurarsi camion, carburante e permessi. Stringe accordi con monsignor Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI, e ottiene che lo Stato vaticano assicuri tra le sue mura neutrali le opere d’arte dello Stato italiano. Fra il novembre del 1943 e l’ottobre del 1944 è tutto un andare e venire sotto le bombe, tra mille difficoltà, con mezzi di fortuna per assicurare la salvezza al patrimonio artistico nazionale. La sua è una corsa contro il tempo e talvolta una lotta per vincere la resistenza di parroci e autorità locali, riluttanti a consegnare i loro tesori: «È assolutamente inconcepibile come la popolazione dei piccoli centri non riesca a immaginare che la guerra dovrà necessariamente passare anche nel Lazio, anche in Umbria, anche in Toscana, dovunque. [...] Il destino nostro è quello di essere stritolati dalla guerra» scrive con profetica amarezza.

A Trevignano, uno dei tre paesi che si affacciano sul lago di Bracciano, Lavagnino recupera nella chiesa dell’Assunta una pregevole Madonna lignea del Trecento detta Bizantina e lo splendido unicum del XII secolo, firmato da Nicolaus de Petro e Paolo e dal figlio Pietro, pittori conosciuti solo per quest’opera. Per tutto il mese di marzo e aprile, e fino al 14 maggio, Lavagnino percorre paesi e città del Lazio portando in salvo in Vaticano opere d’arte di inestimabile valore storico e artistico. Nella cattedrale di Tivoli mette in salvo il Trittico del Santissimo Salvatore e la Madonna, pregevoli opere cinquecentesche. Dalla chiesa di San Pietro recupera la Madonna di Antonio del Massaro da Viterbo, detto «il Pastura», e l’Adorazione. A Bracciano mette in sicurezza nei sotterranei del castello Odescalchi il Trittico del Salvatore. Da Tuscania preleva il San Bernardino. Antonio del Massaro, Madonna con Bambino in trono tra san Girolamo, san Antonio del Massaro, Annunciazione, 1450 Francesco d'Assisi e angeli, 1450 – 1516 – 1516, affresco staccato, Orvieto, Palazzo circa, affresco staccato, Viterbo, Museo Petrangeli Civico Gregorio e Donato d’Arezzo, Gregorio e Donato d’Arezzo, 1315,Trittico del Salvatore, Bracciano, 1315,Trittico del Salvatore, Bracciano, olio su tavola, Collegiata di S. Stefano olio su tavola, Collegiata di S. Stefano PALMA BUCARELLI

Compagna di studi di Giulio Carlo Argan e di Pasquale Rotondi, a soli 23 anni era entrata a far parte, come ispettore, delle Antichità e Belle arti presso la Galleria Borghese. Dopo un breve periodo a Napoli, tornò nella capitale a dirigere la Galleria nazionale d’arte moderna. Nel 1941, con pochissimi mezzi e poco sostegno da parte del ministero, trasferisce le opere della Galleria presso Palazzo Farnese a Caprarola, credendo in questo modo di metterle al sicuro. Contando anche su mezzi propri, in 34 viaggi trasporta 672 dipinti e 63 sculture. Si rende però immediatamente conto, alla caduta del fascismo, che il maggior pericolo deve ancora arrivare, con i bombardamenti e uno Stato allo sbando. Il re e il governo erano a Brindisi, il ministero non rispondeva più alle sue richieste d’aiuto. I tedeschi non le erano mai piaciuti, si era resa subito conto della loro cupidigia nei confronti delle opere d’arte e le truppe anglo-americane tardavano ad arrivare: bisognava agire in fretta perché Palazzo Farnese non era più un luogo sicuro e lei sentiva la responsabilità davanti alla nazione, che in futuro avrebbe potuto chiedere conto del patrimonio storico e artistico che le era stato affidato. Per fortuna c’erano gli accordi segreti di Lavagnino e Argan con le autorità vaticane: tutto poteva essere messo sotto la tutela della Santa sede, e fu lo stesso Pio XII a vincere le ultime perplessità della segreteria di Stato. Così, per le opere della Galleria nazionale d’arte moderna, comincia il percorso a ritroso da Caprarola a Roma, per trovare posto nella rampa elicoidale di Castel Sant’Angelo. Gli automezzi ancora una volta mancavano, la burocrazia tedesca intralciava in ogni modo. Si viaggiava di notte temendo il sorgere del sole, fra i camion sventrati dalle bombe ai lati della strada. I trasporti avvennero tra il 23 febbraio e il 6 marzo 1944. Nella vita civile i Monuments men, angloamericani operanti in Italia erano storici dell’arte, architetti, artisti, bibliotecari. Alcuni venivano da prestigiose università come Oxford, Yale, Harvard. Tra questi Deane Keller, professore di pittura e disegno alla Scuola di belle arti dell’Università di Yale, che fu spesso tra i primi a entrare al seguito della Quinta armata nelle città del Lazio e della Toscana liberate ma distrutte dalla guerra. Si assunse la tutela di Pisa, Lucca, Livorno e delle città e paesi dell’Etruria, e condusse la sua missione anche al Nord, in particolare a Milano dove, arrivato alla metà di agosto del 1943, trova l’inferno: gli incendi provocati da una serie devastante di raid aerei erano divampati per una settimana perché in città non c’era acqua sufficiente per estinguerli. Il dispaccio di Keller, dopo un primo sopralluogo, è allarmante: era stata centrata la facciata del Museo di Brera, il cui tetto era stato quasi interamente divorato dalle fiamme (ma i suoi capolavori, per fortuna, insieme a quelli del resto di Milano, di Bergamo, di Treviglio erano «emigrati» nel Montefeltro marchigiano, affidati a Pasquale Rotondi); il Castello sforzesco aveva subito gravi danni, il teatro della Scala era sventrato e la chiesa di Sant’Ambrogio, con i due chiostri rinascimentali del Bramante, era parzialmente distrutta. Il 7 maggio Keller scrive alla moglie: «Ho visto il Cenacolo di Leonardo dietro a una parete di sacchetti di sabbia; il tetto è stato colpito dalle bombe e nessuno sa ancora in che condizioni sia l’affresco». Più tardi, alla notizia riportatagli da un collega (il Cenacolo era salvo «per miracolo» perché le pareti tutt’intorno erano crollate), commenta: «Come dicono gli italiani, meno male»). Il cortile dell’Ospedale maggiore di Milano La distruzione di Sant'Ambrogio per opera (Ca' Granda) dopo i bombardamenti del dei bombardamenti del 1943, Milano, 1943, Milano, Archivio fotografico Archivio fotografico Il refettorio di Santa Maria delle Grazie di Milano dopo il bombardamento dell’agosto 1943 La Scala, I palchi, 1943, Milano, Cittadella Gianfranco Ucelli, La Galleria dopo i degli Archivi e Archivio Civico di Milano bombardamenti, 1943, Archivio Gianfranco Ucelli

Il lavoro di Keller, la sua corrispondenza con i collaboratori impegnati sul territorio italiano, aiuta a ricostruire il lavoro degli altri Monuments men. Basil Marriott, architetto e critico d’arte, partecipa al restauro della basilica e delle ville del Palladio a Vicenza e dintorni. L’archeologo e storico dell’arte Ernest De Wald, docente a Princeton, è in cima alla lista dei Monuments Me, Frederick Hartt, il foto-interprete, scoppia a piangere quando vede le immagini delle chiese romaniche di San Gimignano in rovina e quelle dei raid aerei su Padova che distrussero la Cappella Ovetari e gli affreschi del Mantegna. Mason Hammond, professore di latino a Harvard, ebbe un rapporto difficile con il clero italiano. Questi studiosi americani vestivano l’uniforme con eleganza e si muovevano sul territorio con l’aiuto di carte geografiche frutto dell’attività congiunta dell’Harvard Defense Group e dell’American Council of Learned Society.

Le «liste di Harvard» passavano in rassegna i luoghi storici, artistici e religiosi di maggiore interesse e contenevano descrizioni particolareggiate dei monumenti disseminati sul territorio. Con meticolosa completezza elencavano palazzi e torri, ville e giardini storici; descrivevano le chiese più importanti, riproducendone facciate e interni, pale d’altare e monumenti funebri, rosoni e persino fonti battesimali; riportavano il numero dei volumi, dei codici e dei manoscritti di archivi e biblioteche; ma anche ogni monumento equestre, colonna o antica fontana delle tante che adornano le piazze italiane. Un sistema di asterischi indicava la relativa importanza di un monumento: tre asterischi segnalavano un sito di particolare bellezza artistica o significato religioso. Compilate in tempi rapidissimi, per poter essere messe a disposizione delle forze armate alleate al momento dello sbarco in Sicilia, le liste presentavano inevitabili e spesso curiose discrepanze. Ad esempio il teatro comunale di Bologna, per esempio, progettato in origine da Antonio Galli da Bibbiena, ma molto rimaneggiato nel tempo, aveva ottenuto un asterisco, che invece era stato negato al teatro La Fenice di Venezia. La Cappella Ovetari nella Chiesa degli Eremitani a Padova distrutta dai bombardamenti dell’11 marzo 1944 La chiave della missione dei Monuments men è contenuta nella lettera che Dwight Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate e futuro presidente degli Stati Uniti, il 29 dicembre 1943 indirizzò a tutti i comandi:

«Oggi stiamo combattendo in un paese, l’Italia, che ha dato un grande contributo al nostro patrimonio culturale, un paese ricco di monumenti che hanno ispirato la nascita e il progresso della nostra stessa civiltà. È nostro dovere rispettare questi monumenti per quanto la guerra lo consente. Se dobbiamo scegliere tra distruggere un famoso edificio e sacrificare i nostri uomini, la vita dei nostri uomini conta infinitamente di più dell’edificio. Ma la scelta non è sempre così netta. In molti casi i monumenti possono essere salvati senza alcun detrimento per le operazioni militari. Nulla deve ostacolare la necessità militare. Questo è un principio accettato. Ma l’espressione «necessità militare» è talvolta utilizzata dove sarebbe più onesto parlare di «comodità» militare, quando non addirittura di comodità personale. Non voglio che la si usi per camuffare negligenza o indifferenza. È dovere dei comandanti determinare, con l’aiuto degli ufficiali del governo militare, l’ubicazione di edifici storici e artistici, sia che si trovino sulla linea del fronte o in territorio già occupato dalle nostre truppe.»

Competenti, appassionati e pieni di entusiastica dedizione per il compito cui erano stati designati, i Monuments men si trovarono spesso a lavorare sulla linea del fronte, in condizioni rischiose e con scarsa disponibilità di mezzi. Da Palermo a Napoli, da Roma alla Toscana e poi al Settentrione, percorsero centinaia di chilometri ispezionando pievi, chiese, ville e edifici storici, musei e gallerie, localizzarono le opere in pericolo e le portarono al sicuro, talvolta in modo rocambolesco. Con autentici interventi d’emergenza protessero musei e palazzi rinascimentali sventrati dalle artiglierie per prevenire saccheggi e vandalismi, e ripararono tetti di chiese e di archivi scoperchiati dalle incursioni aeree, come avvenne per esempio nel Camposanto di Pisa. Riuscirono inoltre a sventare il trafugamento di quadri, statue e documenti d’archivio, bloccando lunghi convogli tedeschi diretti al Nord, e recuperarono intere casse di inestimabili capolavori già «messi in salvo» dai nazisti. Illuminante più di altre la pagina della scoperta da parte dei partigiani veneti, nel maggio del 1945, dei depositi dei tesori d’arte fiorentini che erano stati nascosti dai tedeschi a Campo Tures e a San Leonardo, in Alto Adige, in attesa di prendere la via del Brennero. Dopo la scoperta, Deane Keller, Fred Hartt e Filippo Rossi (il soprintendente di Firenze) andarono in Alto Adige per ispezionare i depositi. Keller e Hartt, che pure erano abituati alle distruzioni dopo due anni di guerra, furono profondamente colpiti dalle spaventose devastazioni subite dalle regioni a nord del fiume Adige. Ancora più impressionante fu per loro l’arroganza sfoggiata dagli ufficiali tedeschi che rimanevano numerosi nella zona, anche dopo la resa nazista. Erano dappertutto, giravano armati e in automobile, più liberi che mai. «Cominciammo a domandarci – osservò un incredulo Hartt al suo arrivo a Bolzano – quale dei due eserciti si fosse arreso la settimana prima.» Ad aspettarli nel castello di Neumelans a Campo Tures trovarono un altezzoso e sprezzante Alexander Lansdorff, colonnello delle SS responsabile dal settembre del 1943 dell’ufficio di «protezione artistica» in Italia. Fin dai primi giorni del ritrovamento delle opere d’arte fiorentine in Alto Adige, Keller e Hartt si resero conto di quanto fosse importante, per l’immagine delle forze alleate in Italia, che queste rientrassero rapidamente nelle loro sedi d’origine.

Nel loro lavoro i Monuments men si mossero usufruendo dell’appoggio di cittadini italiani: ex funzionari del regime fascista in decomposizione, preti, carpentieri, ragazzi, tutta gente che si mise a disposizione degli ufficiali angloamericani per salvare il salvabile. Talvolta fallirono e con amarezza dovettero arrendersi di fronte a distruzioni irrimediabili, mancanza di mezzi, strategie belliche inevitabili o semplice stupidità militare. Altre volte entrarono in azione quando la devastazione di molti monumenti, di chiese rinascimentali, di conventi medievali era in gran parte già avvenuta. Altre devastazioni continuarono a compiersi anche durante la loro azione. Tanti quadri e sculture dal valore inestimabile andarono perduti per sempre. Molti sono stati solo parzialmente ricostruiti partendo da resti, calcinacci o piccoli frammenti. Ma sarebbe andata molto peggio, e diversi capolavori che ancora oggi abbiamo il privilegio di ammirare sarebbero andati persi per sempre, senza la visionaria missione di questo pugno di ufficiali. Deane Keller definì i suoi due anni di servizio in Italia come «un sogno necessario». Alla sua morte volle essere sepolto nel Camposanto di Pisa: qui una lapide sulla sua tomba ricorda il suo contributo di salvatore dell’arte. I TESORI DI MONTECASSINO

Verso la fine del 1943 il capitano Norris della Raf, l’aviazione inglese, va a trovare a Napoli il soprintendente del Museo nazionale, ma in quel momento scopre che le opere del Museo di Capodimonte e delle Gallerie sono state trasferite per sicurezza nell’abbazia di Montecassino insieme ad altri tesori dei musei del Meridione. La notizia desta la sua preoccupazione, perché sa bene che il monastero è sulla Linea Gustav, prossimo possibile obiettivo, dopo lo sbarco di Anzio, dell’avanzata americana verso nord: comunica prontamente ai suoi corrispondenti l’ipotesi che il monastero possa essere coinvolto nei bombardamenti, ma lo fa inviando messaggi in chiaro. La sua speranza è che i tedeschi li intercettino e provvedano a mettere in salvo le opere conservate a Montecassino. I tedeschi infatti non tardano a intervenire e convincono l’abate Gregorio Diamare a consentire il trasferimento delle opere in altra sede. Approntano casse e mezzi di trasporto e avviano l’operazione di salvataggio gli autocarri trasportando i tesori dello Stato prelevati dall’abbazia in un deposito di Villa Colle Ferretto. Qui dovrebbero arrivare, oltre alle opere provenienti dalla Galleria nazionale di Capodimonte e dal Museo archeologico di Napoli, reperti di Ercolano e Pompei, il Tesoro di San Gennaro, il Monetiere di Siracusa con 400 chili di monete, 187 casse in cui si trovano tra l’altro undici Tiziano, un El Greco e i due soli Goya posseduti dall’Italia. Qualcosa però non torna. Le casse partite dall’abbazia e dirette a Spoleto erano in tutto 187, ma i funzionari delle Belle arti italiane che il 4 gennaio 1944 riceveranno in consegna a Roma le casse delle collezioni di Napoli ne conteranno 172, quindici in meno. Quando chiedono spiegazioni ai tedeschi su quella discrepanza, si sentono rispondere che due autocarri sono in ritardo per colpa di «tiri di mitragliatrici». Gli italiani attendono per tutta la notte l’arrivo dei due autocarri ritardatari. Invano. Francisco Goya, Ritratto di Maria Luisa di Francisco Goya, Ritratto di María Luisa de Parma, fine del XVIII secolo, olio su tela, Borbón y Vallabriga, 1797 o 1800, olio su Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte tela, Firenze, Galleria degli Uffizi Julius Schlegel, ricordato nella sua residenza di Vienna, sulla cui facciata è affissa una lapide in marmo che recita: «In questa casa visse e morì il valoroso tenente colonnello austriaco Julius Schlegel. Durante l’autunno del 1943, di propria iniziativa, pose in salvo i tesori artistici dell’abbazia di Montecassino», nel maggio del 1943 era entrato a far parte della Divisione corazzata Hermann Göring, divenendo responsabile del reparto manutenzione e meritandosi la promozione a tenente colonnello nell’agosto successivo. È in questa veste che vive la sua avventura a Montecassino. A Montecassino Schlegel si occupa di gestire l’immenso patrimonio artistico lì ricoverato per garantirne la preservazione e nei suoi appunti relativi ai numerosi colloqui avuti con l’abate dell’abbazia scrive «[…]Nella sua infinita bontà, era convinto che l’abbazia non corresse alcun pericolo». Invece la sua esperienza, prima in artiglieria e poi in aviazione, indicava che la cittadina di Cassino era il cardine della linea di difesa e qui erano da attendersi gli attacchi più duri delle truppe alleate. Come Schlegel, un altro ufficiale della Göring arriva a far visita all’abate: si tratta di un giovane e sconosciuto capitano medico, Maximilian Becker, il solo ad aver studiato storia dell’arte e ad avere chiaro fin da subito il valore dei tesori custoditi nel monastero, il primo ad aver avuto l’idea di andare a trovare l’abate per giurargli che i tesori del monastero non sarebbero andati distrutti. Dopo l’incontro con l’abate Diamare, Becker va a parlare con il colonnello Sigfried Jacobi, addetto ai rifornimenti della divisione, e gli racconta dei tesori dell’abbazia e del proposito di evitare che finiscano sotto le rovine dei bombardamenti trasferendoli ad Assisi (città all’interno della zona neutrale). Jacobi ovviamente non sa nulla dei tesori, ma suggerisce di prendere alcune opere per il loro capo, Hermann Göring, e Becker capisce che con gente simile c’è da agire subito, prima che sia troppo tardi. Becker si appresta a tornare al monastero con un piano da sottoporre all’abate per la messa in sicurezza delle opere d’arte, ma quando arriva nell’abbazia, egli trova Schlegel nell’ufficio di Diamare. Le cose andarono così: Jacobi aveva riferito a Schlegel il colloquio con Becker e Schlegel ne aveva subito afferrato l’importanza. Se quei tesori fossero stati salvati dai tedeschi, quanto grande sarebbe stato il vantaggio propagandistico per la Germania? E se quel salvataggio fosse stato lui a portarlo a buon fine, il suo nome non sarebbe forse entrato nella storia? Schlegel si era precipitato da Diamare: avrebbe provveduto a far trasportare nell’abbazia le casse e gli imballaggi, poi, con gli autocarri della divisione, tutti i materiali sarebbero stati trasferiti a Roma, ma l’abate non voleva saperne poiché non credeva davvero che gli Alleati avrebbero bombardato. Si persuase solo quando gli fu detto che, se non avesse acconsentito, il convento sarebbe stato evacuato con la forza. Si convinse anche perché Schlegel gli assicurò che le proprietà dell’abbazia sarebbero state portate a Roma, a San Paolo fuori le mura, mentre le altre opere non di proprietà della Chiesa sarebbero state trasferite in un deposito della Divisione Göring. Becker trova il legname, la manodopera locale e i militari del suo reparto per fabbricare gli imballaggi e si occupa perfino di trovare gli autocarri ma assiste a queste attività, dubitando però dell’esito finale dell’impresa: teme infatti – e con ragione – che lungo il percorso possano sparire molte opere d’arte.

L’ultimo convoglio lascia Montecassino il 3 novembre 1943, con le opere della Galleria nazionale di Capodimonte e del Museo archeologico di Napoli, settantamila documenti dell’abbazia, le reliquie di san Benedetto e di santa Scolastica, ossia quanto resta delle loro ossa (per l’abate, «il tesoro più importante, tra le cose più sante della Chiesa cattolica»). Le casse con i tesori napoletani e degli altri musei dell’Italia meridionale, quelli dello Stato, non si fermano nella capitale, ma proseguono verso nord. La loro marcia sarà bloccata presso Spoleto. Schlegel elenca, fra i tesori dello Stato, tre Tiziano, due Raffaello, originali di Tintoretto, Ghirlandaio, Pieter Bruegel, antichissimi oggetti di culto d’oro, sculture lignee, vasi e sculture di Pompei e infine, come un botto finale di un fuoco d’artificio, una Leda di Leonardo da Vinci (oggi agli Uffizi dopo il recupero da parte di Siviero), di cui l’ufficiale tedesco scrive nel suo diario: «Di Leonardo da Vinci ci sono appena una dozzina di quadri in tutto il mondo. Uno di questi l’abbiamo salvato noi». Quando al comando di divisione, a Teano, Becker viene a sapere che a Spoleto è arrivato l’esperto d’arte rappresentante di Göring, ha conferma dei suoi sospetti. Probabilmente molte di quelle opere gli italiani non le avrebbero mai riviste. Becker si precipita nella città umbra a bordo della sua piccola Fiat decappottabile e, viaggiando di notte, impiega dieci ore per raggiungere Spoleto: qui si accorge di aver avuto ragione ad allarmarsi, quando vede le casse sventrate e intorno a esse aggirarsi l’incaricato di Göring, Walter Andreas Hofer, venuto dalla Germania per prelevare le opere destinate al maresciallo. In particolare,l’inviato di Göring si è soffermato davanti alla meravigliosa Parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio, un dipinto a tempera databile intorno al 1568 e conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli. A nulla valgono le sue proteste: egli viene ufficialmente richiamato dal proprio superiore di essere essersi occupato di cose non di sua competenza, di aver viaggiato e di essersi assentato senza permessi, rischiando di finire davanti alla corte marziale. Fortunatamente però viene solo trasferito a Bologna senza essere mandato in Russia. Pieter Bruegel il Vecchio, Parabola dei ciechi, 1568, olio su tela, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Roma, 8 dicembre 1943, mattino inoltrato. Una folla di quasi un centinaio di persone si è radunata davanti a Castel Sant’Angelo dove si svolgerà la prima cerimonia di riconsegna dei tesori dell’abbazia di proprietà della Chiesa. La stampa è pronta a registrare immagini e suoni dell’avvenimento. Ci sono anche operatori tedeschi con tanto di macchine fotografiche e cineprese, e un radiocronista della radio fascista con la camicia nera sotto l’uniforme militare. I tedeschi hanno chiesto che la cerimonia si svolga «con una certa solennità» allo scopo di controbattere la propaganda angloamericana, e per dimostrare «quanta sollecitudine essi pongano nel mettere in salvo manoscritti e opere d’arte dai pericoli delle battaglie». Ma al termine della cerimonia non tutti i tesori partiti da Montecassino, né tutti coloro che si sono dati da fare per salvarli – uno su tutti Becker che non è stato invitato – sono presenti. I tesori di Napoli, di proprietà dello Stato, sono ancora a Spoleto.

Una successiva riconsegna, avvenuta il 4 gennaio 1944, riporta a Roma i tesori di proprietà dello Stato, quelli bloccati a Spoleto. Lo Stato italiano è rappresentato dal dirigente del ministero dell’Educazione Alfonso Bartoli. La seconda celebrazione viene anch’essa filmata e pubblicizzata. La cinepresa immortala militari tedeschi che aprono una cassa e mostrano al professor Bartoli una grande tela di Giampaolo Pannini, La visita di Carlo III, e Bartoli che consegna una pergamena di ringraziamento dello Stato italiano per la restituzione dei tesori napoletani. Nel carico sono comprese 172 casse delle collezioni di Napoli. Ma Bartoli e i colleghi delle Belle arti italiane che le ricevono controllano i registri e scoprono che la collezione di Napoli era partita da Montecassino in 187 casse, quindici in più di quelle che stavano ricevendo. E, come abbiamo accennato, quando chiedono ai tedeschi notizia di quelle casse e di due autocarri mancanti, si sentono rispondere che erano in ritardo a causa di «tiri di mitragliatrici» e sarebbero arrivati il giorno successivo. In realtà non arrivarono mai. Le quindici casse proseguirono il viaggio fino a Berlino: erano finite a casa di Göring dove sarebbero state esibite, il 12 gennaio, giorno della festa del cinquantunesimo compleanno del gerarca nazista. Due anni dopo la seconda riconsegna, quella priva di quindici casse, molti dei quadri teoricamente restituiti alle autorità italiane furono ritrovati dai Monuments men americani nelle miniere di salgemma di Altaussee, presso Salisburgo. Erano di Tiziano, Raffaello, Sebastiano del Piombo, Claude Lorrain, Palma il Vecchio, Filippino Lippi, Giambattista Tiepolo, Pieter Bruegel, Parmigianino e tornarono in Italia soltanto per merito del ministro Rodolfo Siviero, e della sua infaticabile opera di recupero dei tesori sottratti dai tedeschi, e più tardi confluirono nel Museo di Capodimonte. Giovanni Paolo Pannini, Carlo di Borbone in visita alla basilica di San Pietro, 1746, olio su tela, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Michelangelo Buonarroti, Madonna di Bruges, 1503 – 1505 circa, marmo, Bruges, Chiesa di Nostra Signora