RASSEGNA STAMPA di mercoledì 24 maggio 2017

SOMMARIO

Il cardinale , arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, è il nuovo presidente della Cei. La notizia è stata comunicata stamattina dal cardinale al termine della Messa nella basilica vaticana. “E adesso – le parole di Bagnasco – ho l’onore e il piacere di comunicare che il Santo Padre ha nominato il cardinale Bassetti presidente della Conferenza episcopale italiana”. Ma chi è il nuovo presidente della Cei? Scrive Giacomo Gambassi su www.avvenire.it : “Un meccanico di biciclette mancato. Ai bambini che gli chiedono come la sua famiglia abbia accolto l’ingresso nel Seminario di Firenze, il cardinale Gualtiero Bassetti, nuovo presidente della Cei, racconta che il «babbo» lo vedeva «biciclettaio». E che poi il suo parroco a Marradi, sull’Appennino tosco-romagnolo, persuase il genitore che la strada era un’altra. «Alla fine ha avuto ragione il babbo. Mi tocca ancora pedalare parecchio», scherza con un’ironia tutta toscana l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve. Un «due di briscola», sorride su se stesso quando papa Francesco lo crea cardinale “a sorpresa” nel 2014. Ha 75 anni Bassetti che in tutto e per tutto è fiorentino seppur sia nato nel paese del poeta “folle” Dino Campana dove, confida lo stesso cardinale, «le galline hanno bisogno di un freno alle zampe» tanto è ripida la montagna. Un mese fa, Bergoglio lo proroga alla guida dell’arcidiocesi di Perugia-Città della Pieve con la formula «donec aliter provideatur» (finché non sarà disposto diversamente). «La Chiesa italiana sente da tempo di essere chiamata a uscire dalle sagrestie – spiega Bassetti mentre riceve la berretta –. Probabilmente ci siamo troppo adagiati sull’esistente». Dopo gli anni in parrocchia, Bassetti “torna” in Seminario: prima come responsabile, poi come rettore del Minore. «Successivamente, nel 1979, il cardinale Giovanni Benelli mi chiese di passare al Seminario Maggiore. Aveva 37 anni. «Una domenica di luglio del 1994 - racconta Bassetti - , “don Silvano”, così era chiamato il cardinale Piovanelli a Firenze, mi convocò e senza tanti preamboli mi mise sotto gli occhi una lettera: diceva che il Santo Padre mi aveva nominato vescovo di Massa Marittima-Piombino, nel cuore della Maremma: avevo 52 anni». Come motto episcopale sceglie un passo della Lettera di san Paolo agli Efesini: “In caritate fundati” (Fondati nella carità). Nel 1988 il trasferimento nella diocesi di Arezzo-Cortona- Sansepolcro che guida per oltre dieci anni. Nel 2009 l’arrivo a Perugia-Città della Pieve. Nei suoi interventi – come testimonia il libro "La gioia della carità" del 2015 che li raccoglie – sottolinea che la Chiesa deve essere «accogliente» e vivere la «povertà», che il vescovo è chiamato ad avere lo stile di un «padre» e a mettere al centro la «vicinanza» (papa Francesco lo nomina membro della Congregazione per i vescovi), che è necessario ridurre la «pericolosa distanza fra chi governa e il cittadino». Da uomo del Concilio, invita a dare spazio al laicato spronandolo a offrire un «contributo vivo e responsabile», richiama alla «comunione» che è «lo splendore dell’unità nella carità» e sollecita il dialogo con le altre fedi e confessioni cristiane (è membro del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani). Nelle meditazioni per la Via Crucis al Colosseo che Bergoglio gli affida nel 2016 definisce «crocifissi della storia» chi arriva in Europa sulle «carrette del mare», coloro che «pensano di non avere più dignità perché hanno perso il lavoro», quanti «soffrono per una famiglia spezzata». La porpora lo coglie in una chiesa di periferia. «Ero ad amministrare le Cresime. Una donna venne in sacrestia per dare l’annuncio. Io non le credei e la trattai male. Mi comportai come gli Apostoli all'annuncio della Resurrezione di Gesù da parte delle donne». E, quando a Francesco rivela che «ora lo zaino lo devo caricare ancora di più», non pensa sicuramente alla presidenza dei vescovi italiani ma a «non trascurare la mia anima». Però la Provvidenza ha stabilito altro” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Nel segno di Roncalli di Gabriele Nicolò Esce il carteggio inedito fra Turoldo e Capovilla

Pag 7 La Chiesa non è dei tiepidi Messa a Santa Marta

AVVENIRE Pag 3 Nel segno della prossimità di Francesco Ognibene Il denso passaggio di testimone di Bagnasco

Pag 5 La terna: Bassetti, Brambilla e Montenegro di Mimmo Muolo La Cei propone i candidati alla presidenza. Attesa per la decisione del Papa

Pag 6 Bagnasco: Chiesa di popolo in ascolto della vita reale Il commosso saluto: diamo voce a dolori e speranze

Pag 18 Sinodo, l’ora di cambiare marcia di Matteo Liut In un sussidio le “provocazioni” per riprogettare la pastorale. Il logo: “Quello sguardo che offre risposte”

Pag 22 L’umiltà di Gesù. Chiave e segreto della Trinità di Carlo Maria Martini

CORRIERE DELLA SERA Pag 29 La rosa di tre n omi per il prossimo presidente della Cei. Bassetti il più votato di Gian Guido Vecchi Montenegro e Brambilla gli altri: decide il Papa

LA REPUBBLICA Pag 23 Cei, ecco i tre nomi. Bassetti il più votato, ora il Papa deciderà di Paolo Rodari Lojudice e Delpini i favoriti a Roma e Milano

IL FOGLIO Pag 2 Il mite Bassetti verso la guida della Cei, tra difesa dei valori e odore delle pecore di Matteo Matzuzzi Eletta la terna per la successione a Bagnasco. Parola al Papa

IL GAZZETTINO Pag 9 I vescovi (e il Papa) scelgono Bassetti di Franca Giansoldati La Cei archivia l’era Bagnasco indicando alla presidenza il cardinale di Perugia

AVVENIRE di martedì 23 maggio 2017 Pag 1 Coraggio, non strappi Papa Francesco alla Chiesa in Italia: tempo di profezia

Pag 3 Trasparenza e discernimento, così la Chiesa su Medjugorje di Pierange lo Sequeri Miracoli o profezie, lo “stile cattolico” garanzia per la fede

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

AVVENIRE Pag 3 Lavoro e cura della povertà, la vera lezione dei francescani di Luigino Bruni L’economia che mette al centro la dignità della persona

CORRIERE DEL VENETO Pag 7 La sentenza fa sognare i divorziati: ora tutti vogliono “ritoccare” l’assegno all’ex moglie di Emilio Randon La Cassazione e la corsa agli avvocati

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO Pag 10 Altri 70 milioni per provare il Mose di Roberta Brunetti Il Provveditore alle opere pubbliche ha fa tto i conti del costo di tre anni di esercizio provvisorio delle paratie

Pag 20 Venezia. In canonica spunta un busto di Doge opera del Canova di Gabriele Zanchin

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI In sosta per la patrona, raffica di multe di Alvise Sperandio Brutta sorpresa per gli automobilisti dopo le celebrazioni per Santa Rita

LA NUOVA Pag 12 L’Unesco convoca sindaco e governo di Alberto Vitucci Il 5 luglio a Cracovia l’ultima riunione prima del “processo” di metà luglio con l’assemblea mondiale che dovrà decidere

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Quell’odio per la vita di Aldo Cazzullo

Pag 1 L’Europa si difenda di Beppe Severgnini

Pag 3 Il bersaglio facile dell’Isis per “punirci” due volte di Guido Olimpio

Pag 16 Medio Oriente, le (due) parole non pronunciate di Davide Frattini

LA REPUBBLICA Pag 1 Proteggere il futuro di Mario Calabresi

Pag 31 Lo sguardo di Pietro su Trump di Alberto Melloni

AVVENIRE Pag 1 Capire davvero di Fulvio Scaglione Il terrore e la sfida da non perdere

IL FOGLIO Pag 2 Francesco e Trump, l’incontro fra populisti che hanno tanto in comune di Mattia Ferraresi Opinioni da oltreoceano sull’udienza di oggi in Vaticano

Pag 2 Il populismo come religione politica: chi è più francescano tra il Papa e Grillo di Loris Zanatta I rischi un po’ grotteschi della chiesa che insegue Peron & Co.

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Le parole che non troverò di Stefano Allievi La follia e i bambini

IL GAZZETTINO Pag 1 L’Isis infrange l’ultimo tabù: assassinare i bambini di Alessandro Orsini

Pag 18 A Trump serve l’appoggio del Papa ma anche dell’Italia di Marco Gervasoni

LA NUOVA Pag 1 La strage dei nostri ragazzi di Gigi Riva

Pag 1 Dopo le armi una visita surreale di Orazio La Rocca

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Nel segno di Roncalli di Gabriele Nicolò Esce il carteggio inedito fra Turoldo e Capovilla

È stato un legame di fede e di affetto, nutrito di rispetto e simpatia, quello tra David Maria Turoldo e Loris Francesco Capovilla, nel segno di Papa Roncalli. Lo testimonia il libro, in uscita il 26 maggio, a cura di Marco Roncalli e Antonio Donadio, David Maria Turoldo, Loris Francesco Capovilla. Nel solco di papa Giovanni. Lettere inedite (Milano, Servitium, 2017, pagine 189, euro 13) che attraverso un carteggio finora sconosciuto - costituito da 56 lettere, in larga parte autografe (19 di Turoldo a Capovilla, 37 di Capovilla a Turoldo) risalenti agli anni tra il 1963 e il 1991 - offre un quadro illuminante delle vicende della Chiesa e della società. È Giovanni XXIII, sottolineano i curatori, «il silente terzo protagonista» di questo intenso scambio epistolare: ma è un silenzio che non evapora in una presenza muta e marginale. Al contrario, s’impone l’eloquenza evangelica del «Papa buono» che finisce per pervadere, in filigrana, le lettere di Capovilla (1915-2016) e Turoldo (1916-1992). «Ci è parso bello, dopo aver riletto più volte quel che è stato possibile sino a oggi recuperare della loro corrispondenza, custodita tra le carte regestate nell’archivio di Fontanella, farne partecipi altri lettori» scrivono Roncalli e Donadio. È vero che in queste lettere non c’è traccia di gran parte della vita di padre David e di don Loris: tuttavia i brevi testi epistolari contenuti nel libro - che in appendice presenta testi del cardinale e dell’arcivescovo Bruno Forte - possiedono un alto valore di testimonianza perché «possono ancora dirci qualcosa in più di questi due uomini che tanto hanno parlato e scritto». E nei rimandi che costellano le lettere, è dato di cogliere e apprezzare le ragioni di un’azione pastorale che attraverso l’immersione nel sociale e la cultura umanistica e teologica aspira a radicare il messaggio evangelico. Ed è in questa duplice dimensione che si colloca la fruttuosa intesa fra Turoldo e Capovilla, perché entrambi sensibili e attenti a due valori imprescindibili: fede e poesia, intesa quest’ultima come strumento di cultura. «Aveva ragione Mario Luzi, amico di padre David, ad affermare che fede e poesia sono due (ammesso lo siano) termini o polarità di cui è impossibile parlare distintamente. Chi li ha chiari e certi e li vive in consapevolezza, non importa se armoniosa o disarmonica, dentro di sé non può tenerli separati, non ci riesce, non gli è dato» evidenziano i curatori. Come rivela già la prima lettera del carteggio, l’incontro fra Turoldo e Capovilla, allora segretario particolare di Giovanni XXIII, avvenne in una chiesa romana, situata nel territorio di una parrocchia affidata ai Servi di Maria, quella di San Claudio, il giorno dopo il pellegrinaggio del Pontefice a Loreto e ad Assisi, il 4 ottobre 1962, alla vigilia dell’inizio dei lavori del concilio. Una data sicuramente emblematica anche per l’avvio del rapporto tra i due, sbocciato nel segno inequivocabile di Papa Giovanni e del concilio. Basti pensare che l’adesione di padre David, «l’innamorato di Dio», alla persona e al programma del pontificato giovanneo l’avrebbe poi spinto - sin dal giorno della morte di Roncalli - alla scelta di andare a vivere nel suo paese natale, Sotto il Monte, «per camminare sulle stesse sue strade e guardare da questi spazi il mondo». Tra le frasi significative che danno spessore al carteggio, impreziosendolo, spicca quella contenuta nella missiva che, il 13 agosto 1964, Turoldo inviò a Capovilla, quando, morto Giovanni XXIII, al soglio pontificio ascese Paolo VI. «Povero Papa!» esclama Turoldo, che scrive: «Ho proprio paura che parli a un mondo, quel mondo, volontariamente sordo, e ambiguo, e untuoso, e chiesastico, il quale è invece pagano, essenzialmente pagano». In queste espressioni c’è tutto Turoldo, il robusto respiro di una tensione etica e religiosa volta a dare risposte convincenti, a beneficio della Chiesa e della società civile, alle domande di libertà, di onestà e di giustizia. Non meno significativa, e assai toccante, è la lettera che Capovilla scrisse a Turoldo, da Chieti, il 27 ottobre 1969: «Mio caro Fratello, le voglio bene... La prego di programmare una passeggiata sin qua. Allora avremo modo di parlare a ruota libera». E nel constatare che le delusioni non mancano mai, Capovilla sottolinea che «i contatti veri sono difficili». Quindi è bene coltivarli e tutelarli. E infine dichiara: «Salvare la propria libertà è una tragedia continua». Una delle peculiarità del carteggio è data dal fatto che i due uomini erano chiaramente diversi e provenivano da ambienti e formazioni dissimili: eppure, nonostante questo, a prevalere è un’affinità elettiva continuamente alimentata dall’aver capito entrambi la svolta determinata dal concilio Vaticano II e dall’aver sempre riservato la massima attenzione a cercare di capire, possibilmente in anticipo, i “segni dei tempi”, secondo l’indicazione di Giovanni XXIII, sotto la cui egida si venne costruendo un rapporto intellettuale in cui felicemente convergono fede e cultura, tensione etica e sensibilità umana.

Caro monsignore

3 marzo 1967

Caro Monsignore, mi scusi il termine confidenziale, ma le voglio dire così tutta la mia gratitudine. Solo che, se una tanta sua comprensione mi ha procurato gioia, il gesto di delazione compiuto a mio riguardo - (gesti dunque ancora possibili nonostante tutto quello che abbiamo patito?) - gesto compiuto non so da chi e con così marcata assenza di carità, mi ha profondamente rattristato. Perché non capire che quello era un infelice e insufficiente riassunto? Perché disturbare le autorità invece di rivolgersi direttamente all’interessato, per eventuali spiegazioni? Perché non amarci e rispettarci come Dio vuole? Caro Monsignore, credo che la cosa più triste sia uno zelo senza carità. E poi ognuno di noi deve rispondere in proprio e non farsi belli sulle sofferenze altrui. Dio sa la mia fedeltà alla Chiesa, alla gerarchia, sa la particolare devozione al Pontefice; e sappiamo tutti cosa costa una vocazione. E che dire di questa stampa, di questa nostra stampa italiana, letta e prediletta soprattutto in certi nostri ambienti romani? Sa i dispiaceri che ho avuto io in passato a causa del Borghese? E certi Monsignori che si muovevano in base ad accuse del Borghese o del Tempo, o altro di simile! Io sono pronto a patire di più che per il passato, ma per cose nobili, per ragioni che valgono e non per questi atti che spesso non sono neppure testimonianza di amore alla verità e alla Chiesa. Perché amore alla Chiesa vuol dire anche rispetto all’uomo chiunque esso sia: nel nome del Signore. Che, se vogliono sapere, io non mi sono mai trovato bene - nella Chiesa - come ora: e non ho che da lodare Iddio per essere sacerdote nel mio tempo. Ma non posso rispondere di quanto altri dicono o pensano di me. Invece sono pronto, come sempre ad accettare tutte le correzioni e i richiami che mi vengono dai miei superiori in carità fraterna. E di ciò non ho che da ringraziare il Signore perché così mi aiutano a salvarmi da eventuali errori. Scrivo, predico, e sono un bersaglio facile: ma sono anche contento di soffrire qualche cosa per la Chiesa. Tanto più quando sono aiutato da una carità e da una amicizia come la sua. Pronto dunque ad altri richiami e sempre disposto a dire grazie. Presto, a S. Babila, daranno un mio teatro: “il martirio di Lorenzo”. Ma il teatro è scoppio di passione. Chissà come qualcuno lo interpreterà. Perché lei se ne renda conto le spedisco a parte il volume. E, la prego, se qualcosa di spiacevole ne verrà, sappia che sono sempre pronto a riparare. Ma non è possibile “prendere il largo” senza un atto di coraggio e di fede, e quindi senza rischio. Mi consola solo l’amore del Signore e di questa chiesa, ora fattasi ancor più missionaria.

Dev.mo P. David

Caro Fratel David

Sotto il Monte Giovanni XXIII, 26 genn. 1990

Caro Fratello David. In recenti peregrinazioni al Sud Italia, la gente, che conosce dove abito, mi chiedeva con premura affettuosa: «Padre Turoldo, come sta?». Attorno a Lei, caro Padre, accade in una certa misura quello che si constatava a Roma negli ultimi mesi di vita di Papa Giovanni. I Romani (anzitutto i romani di modesta estrazione, i senza potere, i lontani con nostalgia di paternità e maternità della Chiesa) consapevoli che sarebbe rimasto ancora per poco, cercavano tutte le occasioni per vederlo, ascoltarlo, offrirgli fiori a piene mani: amore e solidarietà, consenso e gratitudine. Quello spettacolo mi sta sugli occhi, come se fosse di ieri. È accaduto ieri, infatti. Grazie dei Canti ultimi. Li ho letti, riletti col cuore gonfio, una gran voglia di appropriarmeli, sentendomene ineffabilmente attratto. La mia salute fisica è buona ancora. Ma penso sovente alla “soglia”. Quasi la vedo. E poiché ho disposto che voglio essere seppellito là dove morirò, nella nuda terra, bramo che Sorella Morte mi prenda mentre sto svolgendo una missione tra la isolata, incompresa e (sovente) offesa gente del Meridione, dove mi si regala quell’olio che mi occorre per alimentare le lampade delle virtù teologali. «Per fede Mosè lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; rimase infatti saldo, come se vedesse l’invisibile» (Ebrei 11, 27). Inorridisco all’immagine di un congedo protocollare, con facce da funerale, tirate a lucido per la circostanza. La solitudine, che mi ha tenuto buona compagnia da sempre ma più accentuatamente dalla morte di Giovanni XXIII in poi, vorrà suggellare la mia bara, e con essa segreti e rimpianti, poche gioie e sincero pentimento. «Non ci siamo soffermati a raccattare, per rilanciarli, i sassi che da una parte e dall’altra della strada ci venivano gettati addosso...». Così Papa Giovanni a me, il 31 maggio 1963, mentre si disponeva a partire in un tramonto che aveva i contrassegni dell’aurora. «Non dunque rancore di un vinto, o spavalda ironia sigilli il nostro / incontro finale: tu stessa mi darai / una mano per l’atteso approdo».

L’aff.mo † Loris Francesco Capovilla

Pag 7 La Chiesa non è dei tiepidi Messa a Santa Marta

La Chiesa non deve mai essere «tiepida» ed è chiamata, così come ogni singolo cristiano, a un cammino di «conversione quotidiana». Occorre infatti fare attenzione a non adeguarsi a uno stato «tranquillo», «mondano» ed essere invece sempre aperti all’«annuncio gioioso che Gesù è il Signore». Come fece, ad esempio, l’arcivescovo Óscar Arnulfo Romero, ricordato nel secondo anniversario della beatificazione da Papa Francesco, durante la messa celebrata a Santa Marta martedì 23 maggio. Il Pontefice ha innanzitutto ripreso in mano la prima lettura (Atti degli apostoli, 16, 22-34) e, spiegando che si tratta del brano finale di un racconto più ampio, ne ha riassunto l’intera evoluzione. È un momento importante della predicazione di Paolo e Sila che, giunti nella città di Filippi, trovano «una schiava che praticava la divinazione» e che grazie alla sua attività faceva guadagnare molto i suoi padroni. Questa donna, visti i due che «andavano a pregare», cominciò a gridare: «Questi sono servi di Dio!». Apparentemente, ha fatto notare il Papa, si trattava di una «lode». Ma, le sue parole, ripetute «tutti i giorni» ebbero una conseguenza. Si legge negli Atti infatti che «un giorno Paolo si è seccato». L’apostolo, ha spiegato il Pontefice, «aveva lo spirito di discernimento e sapeva che questa donna era posseduta dal cattivo spirito», perciò «si rivolse a lei» e «scacciò via il cattivo spirito». L’immediata conseguenza fu che «questa signora, questa schiava non poté più divinare e i suoi padroni vedendo svaniti i loro guadagni - guadagnavano tanto - presero Paolo e Sila e li portarono alle autorità». Cominciò così una serie di accuse. E proprio a questo punto si inserisce il brano proposto dalla liturgia del giorno nel quale si legge che «i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in carcere e ordinarono al carceriere di fare buona guardia. Egli, ricevuto questo ordine, li gettò nella parte più interna del carcere e assicurò i loro piedi ai ceppi». A questo punto, però, ha detto il Papa, «intervenne Dio» e così, mentre «verso mezzanotte Paolo e Sila cantavano, lodavano Dio e gli altri prigionieri sentivano», arriva un «forte terremoto e si aprono tutte le porte». E di fronte a un evento talmente eccezionale il carceriere, temendo la fuga dei reclusi, voleva uccidersi perché «la legge del tempo» prevedeva che quando i prigionieri scappavano fosse giustiziato il custode. Allora «Paolo gridò forte: “Non farti del male, siamo tutti qui”. E quello non capì: “Ma come succede questo? Questi delinquenti invece di approfittare dell’opportunità e scappare sono qui?”». Il carceriere, accortosi che era accaduta «una cosa strana e che c’era qualche segno di Dio, sia la scossa sia le porte aperte sia anche che nessuno di loro era scappato», si precipitò dentro «e tremando cadde ai piedi di Paolo e Sila poi li condusse fuori e disse: “Signori, che cosa devo fare per essere salvato?”». Evidentemente, ha notato Francesco, era «un uomo a cui lo Spirito aveva toccato il cuore». La risposta dei due fu: «“Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”. E proclamarono la Parola del Signore a lui e a tutti quelli della sua casa. Egli li prese con sé a quell’ora di notte, ne lavò le piaghe e subito fu battezzato, lui con tutti i suoi; poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia”; festeggiarono questa grazia». Si tratta, ha detto il Papa concludendo il racconto, di «una bella storia che ci fa pensare». Da qui è partita la riflessione che, innanzitutto ha messo in evidenza come nella vicenda si incontri un «passaggio». Si parte, infatti da «uno stato di predicazione tranquilla perché Paolo e Sila dovevano essere contenti del fatto che questa schiava che aveva tanta autorità, questa maga, questa divinatrice, dicesse che loro fossero uomini di Dio». Il fatto è che quella «non era la verità». E «perché?», si è chiesto il Pontefice. «Perché Paolo - è stata la risposta - mosso dallo Spirito, capì che quella non era la Chiesa di Cristo, che quella non era la strada della conversione di quella città, perché tutto rimaneva tranquillo, non c’erano le conversioni. Sì, tutti accettavano la dottrina: “Che bello, che bello, stiamo tutti bene”». Una situazione, ha sottolineato il Papa, che «si ripete» più volte «nella storia della salvezza»: infatti, «quando il popolo di Dio era tranquillo o serviva alla mondanità, non dico agli idoli, no, alla mondanità ed era nel tepore», il Signore «inviava i profeti». Di più: «ai profeti è accaduto lo stesso di Paolo: erano perseguitati, bastonati, perché? Perché scomodavano». Cosa fatta ugualmente da Paolo, «uomo di discernimento», comprendendo che lo spirito che possedeva la maga, «era uno spirito di tepore, che faceva la Chiesa tiepida», «capì l’inganno e cacciò via il cattivo spirito. E la verità è venuta fuori». È una dinamica, ha detto il Pontefice, che accade ancora oggi nella Chiesa: «Quando qualcuno denuncia tanti modi di mondanità è guardato con occhi storti, questo non va, meglio che si allontani». E ha aggiunto: «Io ricordo nella mia terra, tanti, tanti uomini e donne, consacrati buoni, non ideologi, ma che dicevano: “No, la Chiesa di Gesù è così...”», di costoro hanno detto: «“Questo è comunista, fuori!”, e li cacciavano via, li perseguitavano. Pensiamo al beato Romero». E ciò è capitato a «tanti, tanti nella storia della Chiesa, anche qui in Europa». La spiegazione si trova nel fatto che «il cattivo spirito preferisce una Chiesa tranquilla senza rischi, una Chiesa degli affari, una Chiesa comoda, nella comodità del tepore, tiepida». Per meglio comprendere questo ragionamento, il Papa ha ricordato due parole che si trovano nel brano della Scrittura preso in considerazione, una «all’inizio della storia» e una «alla fine». Se si legge con attenzione, infatti, si vede che «i padroni di questa signora, schiava, divinatrice, si sono arrabbiati perché avevano perso di guadagnare i soldi». Ecco la parola: «soldi». Infatti «il cattivo spirito sempre entra dalle tasche» e, ha suggerito il Pontefice, «quando la Chiesa è tiepida, tranquilla, tutta organizzata, non ci sono problemi, guardate dove ci sono gli affari, subito». C’è poi un’altra parola che emerge alla fine del racconto: «gioia». Infatti si legge che il carceriere, dopo essere stato battezzato, «apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia, insieme a tutti i suoi per aver creduto in Dio». Così è chiaro, ha detto Francesco, «il cammino della nostra conversione quotidiana: passare da uno stato di vita mondano, tranquillo senza rischi, cattolico, sì, sì, ma così, tiepido, a uno stato di vita del vero annuncio di Gesù, alla gioia dell’annuncio di Cristo. Passare da una religiosità che guarda troppo ai guadagni, alla fede e alla proclamazione: “Gesù è il Signore”». E questo, ha aggiunto «è il miracolo che fa lo Spirito Santo». Perciò il Papa ha suggerito ai presenti di rileggere il capitolo 16 degli Atti degli apostoli, per comprendere meglio «questo percorso» e come «il Signore con i suoi testimoni, con i suoi martiri, fa andare avanti la Chiesa». Ci si renderà conto che «una Chiesa senza martiri dà sfiducia; una Chiesa che non rischia dà sfiducia; una Chiesa che ha paura di annunciare Gesù Cristo e cacciare via i demoni, gli idoli, l’altro signore, che è il denaro, non è la Chiesa di Gesù». Concludendo la meditazione Francesco ha ricordato come nella liturgia del giorno ci sia una preghiera in cui si ringrazia «il Signore per la rinnovata giovinezza che ci dà con Gesù». Anche la Chiesa di Filippi, ha detto, «è stata rinnovata e divenne una Chiesa giovane». Dobbiamo quindi pregare affinché «tutti noi abbiamo questo: una rinnovata giovinezza, una conversione dal modo di vivere tiepido all’annuncio gioioso che Gesù è il Signore».

AVVENIRE Pag 3 Nel segno della prossimità di Francesco Ognibene Il denso passaggio di testimone di Bagnasco

Che la voce gli sia mancata proprio mentre scandiva che «la nostra gioia è la più grande di tutte: ha un nome...» è un dettaglio non solo commovente – qual è il nome per il quale si è donata una vita intera? – ma anche rivelatore, come accade quando le parole vengono pesate una a una perché lascino traccia. Il cardinale Bagnasco è arrivato al termine dell’ultima relazione introduttiva dei suoi 10 anni alla guida dei vescovi italiani. Ma a completare quella riga finale che proprio non gli usciva è stato il lungo applauso dell’assemblea episcopale, tutta in piedi per ringraziare nel modo più comunicativo l’arcivescovo che cita sant’Agostino per dire di sé e confermare che «Dio parla in tutta libertà anche per mezzo di uomini timidi». L’indole riservata del pastore che ha segnato con il suo stile garbato ma fermo la storia recente della Chiesa italiana attraverso due pontificati, una crisi globale dalle ricadute tuttora amare e le inquietudini di un Paese profondamente inascoltato, non gli ha impedito di consegnare ieri, nell’ultimo atto, un discorso chiaro, denso e diretto, che ha abbandonato la cadenza consueta dell’analisi sugli aspetti più significativi della vita ecclesiale e sociale per assumere anche esplicitamente il tono di un’accorata lettera aperta: ai giovani, alle famiglie, ai poveri, ai migranti, ai sacerdoti, tutti chiamati per nome, resi presenti e vivi. Un’appassionata sintesi sul senso e i contenuti di una «prossimità» esemplare e tenace – ma non sempre compresa e ancor meno ascoltata – che non di rado ha «consentito di anticipare gli eventi» cogliendo e decifrando segnali inequivocabili ancorché apparentemente minimi: come, agli inizi della sua presidenza, il ritorno dei «pacchi viveri nelle nostre parrocchie», avvisaglia del vortice recessivo del quale politica e media si sarebbero accorti solo più tardi, come presi alla sprovvista. Anche dentro questo dettaglio inserito nella relazione di ieri affiora il tratto personale dell’arcivescovo di Genova: nitidezza nei riferimenti e nelle chiavi interpretative (il nuovo umanesimo a confronto con l’individualismo esasperato di tanta cultura occidentale, la diffusione di una libertà tutta illusoria, lo screditamento autolesionista di relazioni e legami, il lavoro come garanzia di dignità che ne rende intollerabile la perdita), ma sempre con gli occhi negli occhi dell’interlocutore. Perché le parole dei vescovi – e dei credenti – non degenerino mai in lezioni impartite da distanza, ma restino un dialogo tra persone, la risposta a un ascolto autentico, la dimostrazione tangibile di una conoscenza senza mediazioni della realtà, quella vera. È lo stile della Chiesa italiana, che parla e agisce ma solo perché condivide e partecipa, un’impronta riconoscibile e coerente con l’esperienza che gli italiani ne hanno e che ritrovano frequentando una qualunque parrocchia, fosse pure occasionalmente. La nostra Chiesa è ancora una casa accogliente per chiunque ne varchi la soglia, e negli ultimi dieci anni l’incalzare di emergenze e ferite ha solo reso ancor più evidente questo suo carattere familiare. Incoraggiandola a uscire e a farsi incontro a tutti, papa Francesco non ha fatto che chiederle di essere se stessa fino in fondo, liberandosi da rigidità e conformismi per camminare al passo di una realtà accelerata. È un profilo ecclesiale inconfondibile, lo stesso che, per tratti differenti, si ritrova anche nella fisionomia dei tre pastori candidati ieri dall’assemblea dei vescovi alla successione di Bagnasco. L’attesa terna – Gualtiero Bassetti, Franco Giulio Brambilla, Francesco Montenegro – propone figure anche molto differenti per biografia, competenze, carattere, ma di tutti è nota la medesima capacità di vivere quella «vicinanza alle persone» che – sono parole di Bagnasco – «ci ha permesso di conoscere la vita reale e di dar voce a speranze, preoccupazioni e dolori del popolo». Se la responsabilità di «servire» – è il verbo che più ricorre nella relazione – passerà a un altro vescovo, certamente è destinata a rimanere intatta la fiducia della «gente» che «ha sempre riconosciuto che i loro vescovi ci sono e sanno farsi eco rispettosa e autorevole in ogni sede, senza interessi personali o di parte». Una presidenza lascia il passo a un’altra, ma la Chiesa degli italiani resta al suo posto. E dall’uomo che l’ha guidata negli ultimi due lustri si sente invitata a scorgere dentro il «groviglio» dell’«uomo occidentale», che «appare confuso e smarrito sulla propria identità», un’«opportunità» che «piano piano emerge dalla coscienza distratta, si fa voce, si trasforma in attesa, diventa invocazione: è l’alba del risveglio», il «risveglio della coscienza», il «risveglio dell’anima», perché «l’uomo non può vivere a lungo senza verità». E di essa, magari confusamente, conosciamo il Volto e il Nome, belli da togliere il fiato e far mancare le parole.

Pag 5 La terna: Bassetti, Brambilla e Montenegro di Mimmo Muolo La Cei propone i candidati alla presidenza. Attesa per la decisione del Papa

Il primo passo è stato fatto. I tre nomi il cardinale Gualtiero Bassetti, il vescovo Franco Giulio Brambilla e il cardinale Francesco Montenegro, in ordine di elezione - sono scaturiti in meno di due ore di votazioni dall’assemblea dei vescovi e immediatamente sono stati consegnati al Papa. E adesso proprio da Francesco si aspetta la decisione definitiva: la scelta del nuovo presidente della Cei. Una scelta che potrebbe arrivare in giornata o anche domani, allorché la 70ª Assemblea generale vivrà la sua mattinata conclusiva, o in un altro momento. Al momento nessuno è in grado di prevederlo con certezza, anche perché è la prima volta che viene attivata questa procedura di scelta del nuovo presidente dei vescovi. Fino a cinque anni fa, infatti, la nomina veniva effettuata direttamente dal Papa. Le operazioni di voto hanno preso il via in- torno alle 10.30, dopo che il presidente uscente, cardinale Angelo Bagnasco, aveva tenuto la sua relazione assembleare e ne era seguito il dibattito in aula. Votazione elettronica, con ognuno degli aventi diritto al voto (in pratica i vescovi diocesani e gli ausiliari) che poteva scegliere tra tutti gli eleggibili (i soli vescovi diocesani), senza liste predeterminate. Sul pulsantino adiacente a ogni postazione dell’Aula nuova del Sinodo, che come sempre ospita i lavori dell’Assemblea generale, bastava digitare il numero corrispondente al vescovo prescelto. Cosicché le votazioni sono state molto veloci. E alle 12.31 l’Ufficio nazionale delle comunicazioni sociali già aveva emesso il comunicato con i risultati ufficiali. «L’Assemblea generale della Cei - si legge nel testo - ha oggi eletto a maggioranza assoluta, a norma dell’art. 26 § 1 dello Statuto, la terna di Vescovi diocesani proposta a papa Francesco per la nomina del presidente. Primo eletto: il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve». Per la sua elezione c’è stato il ballottaggio, che scattava dopo tre votazioni in cui non era stato raggiunto il quorum. «Secondo eletto: monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara (115 preferenze alla seconda votazione). Terzo eletto: il cardinale Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento (126 preferenze alla prima votazione) ». In totale, dunque, le votazioni sono state sette, compreso il ballottaggio. La consultazione ha portato così all’individuazione di due cardinali (Bassetti e Montenegro) e di un vescovo (Brambilla) che rientravano già da tempo nelle previsioni della vigilia. L’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve (75 anni compiuti da poco, ma già confermato dal Papa, «finché non si provvederà altrimenti») e quello di Agrigento (71 anni, gli ultimi nove dei quali a capo della diocesi siciliana) hanno tra l’altro in comune il fatto di essere stati creati cardinali proprio da papa Francesco, ed entrambi 'a sorpresa', dato che sono alla guida di due sedi non tradizionalmente cardinalizie. Il Papa dunque li conosce bene e ne apprezza l’opera di pastori 'con l’odore delle pecore', come è testimoniato anche dal fatto che ha voluto il primo come autore delle meditazioni della Via Crucis del Venerdì Santo nel 2016 e che ha compiuto il suo primo viaggio da Pontefice in un lembo della diocesi del secondo l’isola di Lampedusa - quasi a rimarcarne il grande impegno a favore dei migranti (Montenegro ha infatti grande esperienza in questo ambito, sia per il suo impegno nella Fondazione Migrantes, sia adesso come presidente della Caritas). Anche monsignor Brambilla, il più giovane della terna (68 anni), ha alle spalle una solida esperienza pastorale, molto apprezzata dal Papa, oltre che una profonda conoscenza teologica, di cui aveva dato prova ad esempio al Convegno ecclesiale nazionale di Verona (2006), quando ancora non era stato nominato vescovo (prima ausiliare di Milano dal 2007 e poi a Novara dal 2011). Inoltre è dal 2015 uno dei tre vicepresidenti della Cei. E ora non resta che attendere la decisione del Papa.

Pag 6 Bagnasco: Chiesa di popolo in ascolto della vita reale Il commosso saluto: diamo voce a dolori e speranze

Cari amici, abbiamo negli occhi e nel cuore l’incontro disteso, che ci ha donato ieri sera il Santo Padre: un lungo momento di ascolto, confronto e consolazione, di cui rendiamo grazie al Signore, anima e custode della nostra comunione. A mia volta, nel rinnovare a ciascuno di voi un saluto cordiale e fraterno, ringrazio della sua presenza il nunzio apostolico in Italia, monsignor Adriano Bernardini. Insieme diamo il benvenuto ai confratelli, che rappresentano le Conferenze episcopali di numerosi Paesi; con loro salutiamo fraternamente anche gli invitati - presbiteri, consacrati, laici - che partecipano ai nostri lavori. Siamo lieti di accogliere quanti nell’ultimo periodo sono stati chiamati all’episcopato e partecipano per la prima volta alla nostra Assemblea generale: Francesco Sirufo, Arcivescovo di Acerenza; Gianmarco Busca, vescovo di Mantova; Domenico Battaglia, vescovo di Cerreto Sannita- Telese-Sant’Agata de’Goti; Giovanni Accolla, arcivescovo di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela; Giuseppe Giuliano, vescovo di Lucera-Troia; Calogero Marino, vescovo di Savona-Noli; Giovanni Intini, vescovo di Tricarico; Cristiano Bodo, vescovo di Saluzzo; Daniele Gianotti, vescovo di Crema; Giovanni Checchinato, vescovo di San Severo; Guglielmo Giombanco, vescovo di Patti; Gian Carlo Perego, arcivescovo eletto di Ferrara-Comacchio; Ovidio Vezzoli, vescovo eletto di Fidenza; Fabio Dal Cin, arcivescovo-prelato eletto di Loreto. Sentiamo vicini e partecipi i confratelli vescovi che, pur avendo lasciato la guida pastorale delle loro diocesi, continuano a condividere con noi la sollecitudine per il bene della Chiesa: Roberto Busti, vescovo emerito di Mantova; Diego Coletti, vescovo emerito di Como; Michele De Rosa, vescovo emerito di Cerreto Sannita- Telese-Sant’Agata de’ Goti; Beniamino Depalma, arcivescovo vescovo emerito di Nola; Giuseppe Guerrini, vescovo emerito di Saluzzo; Vittorio Lupi, vescovo emerito di Savona-Noli; Carlo Mazza, vescovo emerito e amministratore apostolico di Fidenza; Luigi Negri, arcivescovo emerito e amministratore apostolico di Ferrara-Comacchio; Mario Oliveri, vescovo emerito di Albenga-Imperia; Lucio Renna, vescovo emerito di San Severo; Gianfranco Todisco, vescovo emerito e amministratore apostolico di Melfi-Rapolla- Venosa; Giovanni Tonucci, arcivescovo prelato emerito e amministratore apostolico di Loreto; Ignazio Zambito, vescovo emerito di Patti. Infine, non può mancare il nostro grato e affettuoso ricordo dei Confratelli che in questi ultimi mesi hanno concluso la loro esistenza terrena: Andrea Maria Erba, vescovo emerito di Velletri-Segni; Giacomo Barabino, vescovo emerito di Ventimiglia-San Remo; cardinale Loris Francesco Capovilla, arcivescovo prelato emerito di Loreto; cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito di Firenze; Mansueto Bianchi, vescovo emerito di Pistoia, già assistente ecclesiastico generale dell’Azione cattolica italiana; Ercole Lupinacci, vescovo emerito di Lungro; Francesco Sgalambro, vescovo emerito di Cefalù; Girolamo Grillo, vescovo emerito di Civitavecchia-Tarquinia; Antonio Nuzzi, arcivescovo vescovo emerito di Teramo-Atri; Karl Golser, vescovo emerito di Bolzano-Bressanone, Bozen-Brixen; Pietro Bottaccioli, vescovo emerito di Gubbio; Carmelo Cassati, arcivescovo emerito di Trani-Barletta-Bisceglie; Antonio Ciliberti, arcivescovo emerito di Catanzaro-Squillace; cardinale Attilio Nicora, arcivescovo vescovo emerito di Verona; Diego Natale Bona, vescovo emerito di Saluzzo. A questo punto, penso sia mio dovere dire una parola a conclusione di questi dieci anni nei quali sono stato chiamato a servire l’episcopato Italiano in qualità di Presidente. Il sentimento dominante è la gratitudine ai Papi che mi hanno dato fiducia, da Benedetto XVI al Santo Padre Francesco. Al Romano Pontefice, con il quale il nostro episcopato gode di un legame unico, rinnovo a nome mio e dell’intero corpo episcopale leale obbedienza e sincero affetto. La sua parola e la sua testimonianza sono per noi indirizzo e sprone, e per il presidente riferimento sicuro. In questo orizzonte, spesso ho detto che il mio programma sono i confratelli da ascoltare con umiltà e rispetto, attento a promuovere il dialogo, lo scambio, la fiducia e a proporre sintesi alte. Da subito, ho concepito il mio compito come 'un servizio alla fraternità' e alla comunione, rispetto alle quali la CEI è una 'struttura di servizio'. Un ringraziamento cordiale, al riguardo, lo rivolgo ai segretari generali che si sono succeduti - dal cardinale , a monsignor Mariano Crociata e a monsignor Nunzio Galantino: senza di loro il servizio sia alla Presidenza che all’intero corpo episcopale sarebbe rimasto inefficace -; con loro, quindi, un grazie sincero a direttori, aiutanti di studio e personale tutto dei nostri Uffici. La domanda incomprimibile è se potevo fare di più e meglio per amare tutti e ciascuno: altri risponderanno meglio di me. Comunque, quando nulla si cerca, nel segreto dell’anima prendono casa la serenità e la pace. A noi pastori spetta il compito di lavorare con retta intenzione e con tutto l’impegno possibile: il risultato è nelle mani di Dio che tutto vede e feconda. Insieme abbiamo camminato e parlato alle nostre comunità e al Paese. La vicinanza alle persone ci ha permesso di conoscerne la vita reale e di dar voce a speranze, preoccupazioni e dolori del popolo. Questa prossimità ci ha consentito, a volte, di anticipare gli eventi, come quando nel 2007 - abbiamo registrato pubblicamente che erano tornati i 'pacchi viveri' nelle nostre parrocchie, segno di ciò che sarebbe presto accaduto: la grande crisi. In questo senso, la gente ha sempre riconosciuto che i loro vescovi ci sono e sanno farsi eco rispettosa e autorevole in ogni sede, senza interessi personali o di parte. Sempre ci hanno accompagnato le parole di sant’Agostino: 'Dio parla in tutta libertà anche per mezzo di uomini timidi'. LA MISSIONE DELLA CHIESA - L’attenzione all’evangelizzazione ha attraversato i nostri incontri, portandoci a misurarci sulla sfida educativa con gli Orientamenti pastorali del decennio. Tale emergenza è sempre più urgente e importante, decisiva per il bene dei giovani e della società. Essa ha costituito il fuoco di verifica e di rilancio con il Convegno ecclesiale di Firenze, dove il Santo Padre Francesco ha offerto alla nostra Chiesa un’ampia e profonda parola di riflessione e di indirizzo. Il bene e lo sviluppo integrale delle persone ci hanno portato a essere sempre attenti alle dinamiche delle nostre comunità e del vivere sociale, consapevoli che il mistero di Cristo, Figlio di Dio e Redentore dell’uomo, è sorgente di quel nuovo umanesimo che l’Occidente europeo sta dimenticando; al suo posto emerge un individuo sciolto da legami, apolide, senza casa né patria, illusoriamente libero, in realtà prigioniero delle proprie solitudini. Come non rimanere preoccupati a fronte dello scioglimento delle relazioni in famiglia, nel lavoro, nei corpi intermedi, nella società, e perfino nelle comunità cristiane? Il ’noi’ sempre più viene prevaricato da un ’io’ autoreferenziale, con tutte le conseguenze che abbiamo puntualmente denunciato a livello sociale, economico e legislativo. Insieme a tutti gli episcopati d’Europa, riteniamo sempre più grave la metamorfosi antropologica, che il Santo Padre chiama 'ecologia integrale' (cfr Laudato si’, cap. IV). Quanto più, infatti, l’individuo si isola dagli altri, tanto più diventa preda di manipolazioni politiche, economiche, finanziarie. Una società disaggregata, fatta di punti isolati, è debole, indifesa di fronte alle logiche del mercato selvaggio e del profitto fine a se stesso. Il potere, inteso come prevaricazione, ne vive. L’altra faccia della medaglia mostra in tutto il Continente europeo la presenza di un marcato populismo, che - mentre afferma di voler semplificare problemi complessi e di promuovere nuove forme di partecipazione - si rivela superficiale nell’analisi come nella proposta, interprete di una democrazia solo apparente. Ci si chiede, pertanto, se serva veramente la gente, oppure se ne voglia servire; se intenda veramente affrontare i problemi o non piuttosto usarli per affermarsi. Con questo, il populismo non può essere snobbato con sufficienza: va considerato con intelligenza, se non altro perché raccoglie sentimenti diffusi che non nascono sempre da preconcetti, ma da disagi reali e, a volte, pure gravi. Basterebbe, a questo proposito, accennare - e l’abbiamo fatto infinite volte - alla caduta libera della demografia: non è possibile che le politiche familiari siano sempre nel segno di piccoli rimedi, quando sono necessarie cure radicali. E che dire del dramma della disoccupazione? Il compito di mantenere le nostre aziende e di crearne di nuove è certamente di molti. Ma la politica in solido ha la responsabilità primaria non delegabile di creare le condizioni di possibilità e di incentivare in ogni modo la geniale capacità dei nostri lavoratori. Non si tratta solo di assicurare stipendi, ma anche di riconoscere la dignità professionale e produttiva del nostro popolo. Tempi così nuovi e così drammatici richiedono anzitutto uno sforzo di umiltà e di approfondimento che ci aiuti ad approdare a nuove soluzioni per promuovere bene comune e dignità della persona; per non arrenderci alle logiche inique di un’economia scivolata nella finanza, ma poter favorire quanto meno un mercato sociale, come ci ricordava ieri sera il Santo Padre. Con le Settimane Sociali - e lo sguardo va al percorso verso l’appuntamento di fine ottobre a Cagliari - le comunità del Paese si sono impegnate in un percorso di questo tipo, che ci ha portato ad identificare ad oggi, nel territorio italiano, più di 300 buone pratiche in materia di lavoro, di cui approfondire caratteristiche e punti di forza. Dalla ricognizione sulle buone pratiche sta nascendo una nuova proposta per l’Italia e per l’Europa, in grado di dare gambe alle potenzialità e alle opportunità inscritte in questi nuovi semi di speranza. Il volto dell’uomo che ogni giorno siamo chiamati a scoprire lo contempliamo in Gesù Cristo, volto misericordioso del Padre, fondamento dell’evangelizzazione e della promozione umana, che costituiscono la missione del nostro essere Chiesa. I GIOVANI - In questa Assemblea i giovani saranno al centro della nostra attenzione: a partire dalla realtà odierna e in sintonia con il prossimo Sinodo dei vescovi, vivremo un confronto corale per incoraggiare le nuove generazioni a incontrare il Signore che è la via della gioia piena. Intendiamo sollecitare le nostre comunità affinché facciano spazio ai ragazzi e ai giovani, e questi possano sentirsi non solo accolti, ma anche desiderati e amati: adulti e giovani, infatti, hanno bisogno gli uni degli altri. Si tratta di favorire un ponte tra generazioni, che - ci diceva ancora papa Francesco - congiunga soprattutto anziani e ragazzi, a beneficio di entrambi. È stata significativa anche la consegna a non lasciare gli Oratori, ma a viverli con una presenza che sappia ascoltare, motivare e coinvolgere i giovani, rendendoli protagonisti di iniziative fatte insieme. A voi, cari giovani, vogliamo dire una parola da pastori e - se volete - da amici. La vostra è l’età degli slanci e dei sogni; nel vostro ardore pieno di energie, siete protesi verso un futuro carico di speranze, spesso ancora indeterminate ma attraenti; avete la forza dell’ardimento, l’immaginazione creativa, il coraggio e la voglia di osare, di scoprire strade nuove. Noi - come gli apostoli, dei quali siamo successori - non abbiamo né oro né argento, ma abbiamo il tesoro che vale più di ogni cosa: si chiama Gesù. Voi ne avete sentito parlare, forse già lo conoscete, ma - vi preghiamo, in forza dell’amore che vi portiamo - lasciatelo sempre più entrare nella vostra vita. Egli, con discrezione divina, bussa alla porta del vostro cuore: fategli posto ed egli si metterà a tavola nel convito dell’amicizia e dell’amore. Insieme con lui, voi - impazienti amanti della vita - ne troverete la via e scoprirete la verità di chi siete, la bellezza della vostra anima, il destino del vostro andare terreno. Diventerete così portatori della luce, messaggeri di speranza in un mondo attraversato dall’angoscia. A nostra volta, come vorremmo non deludervi mai! Sappiate che, se a volte - in forza del mandato di Cristo - diciamo dei 'no', essi sono sempre il risvolto di grandiosi 'sì' alla bellezza sublime che il vostro cuore cerca e all’eroismo che affascina. Molte volte abbiamo sollecitato la politica e la società civile perché abbiano una più giusta e concreta attenzione verso di voi: l’educazione integrale, l’accesso al lavoro, l’ascolto della vostra età, leggi che abbiano a cuore il futuro della società - un futuro che siete anzitutto voi stessi -… Tutto questo e altro ancora ci sta a cuore. È voce, la nostra, che resta spesso inascoltata, proprio come quella dei profeti di un tempo, ma noi continueremo a parlare. Ricordate: la Chiesa vi è vicina e vi vuole bene, vuole il vostro bene e sul suo volto - nonostante i peccati di noi uomini - fiammeggia il volto del Signore. IL TESORO DELLA FAMIGLIA - Una parola, piena di ammirazione e affetto, la rivolgiamo a voi famiglie. A voi la Chiesa ha dedicato due Sinodi, tanto siete al cuore dell’umanità. Da sempre noi Vescovi abbiamo parlato di voi e per voi, poiché siete il fondamento dell’edificio, la cellula viva dell’organismo sociale, l’icona del mistero della Chiesa sposa di Cristo: voi siete la Chiesa nella casa, la Chiesa domestica che ogni giorno celebra la liturgia della vita e dell’amore. Dio continua in voi il miracolo della vita, vi chiama ad una missione straordinaria: generare non solo dei corpi, ma delle persone, ecco l’educazione. Quante volte abbiamo detto che la cultura oggi disprezza la famiglia e la politica la maltratta! Come se questo nucleo, questo microcosmo, fosse vecchio e superato, e si dovesse viaggiare trionfalmente verso nuove forme, più aggiornate - si dice - più efficaci e libere. Come se le relazioni fossero una opzione, e non la via per essere veramente persone; come se i legami mortificassero la libertà, e non invece la condizione per essere veramente liberi; come se le scelte definitive fossero contrarie allo slancio vitale dell’individuo, anche nella sfera degli affetti più intimi. Ma questa smania che rincorre ogni alito di vento, che è insofferente del quotidiano e del normale, non è forse segno del vuoto interiore, del male di vivere? Siate voi, famiglie, a proclamare - nella diuturna riconquista del vostro amore e del vostro sacramento - la bellezza del matrimonio e della famiglia come il vero fondamento del vivere sociale; siate voi a testimoniare la bellezza della paziente dedizione ai figli; la possibilità di vivere insieme tutta la vita. Siate la risposta concreta e alternativa all’individualismo radicale che respiriamo, e che spinge a vivere isolati gli uni dagli altri in nome di una autonomia che ci distrugge. Quante volte abbiamo messo in guardia dalle derive antropologiche: esse, in nome dell’uomo, lo negano con costumi e leggi che sembrano rispettare la libertà, ma in fondo sono convenienti all’economia. Le famiglie - sul piano sociale - si sentono sostanzialmente abbandonate: sono urgenti politiche familiari consistenti nelle risorse e semplici nelle condizioni e nelle regole. Non sostenere la famiglia è suicida. Ne è parte anche il sostegno alla scuola paritaria, puntualmente messo in discussione da un pregiudizio ideologico: eppure, nella laica Europa questi muri sono caduti, per cui si riconosce il valore culturale della scuola paritaria nell’assicurare la memoria dei nostri Paesi, come pure la stessa ricchezza che ne deriva per la libertà educativa e il pluralismo. In Italia, invece, sembra non valere nemmeno il criterio dell’investimento, che consente allo Stato di risparmiare ogni anno - al netto del contributo - ben 6 miliardi di euro. Care famiglie, noi Vescovi vi assicuriamo di pregare e di far pregare, convinti che in cima alla preghiera cristiana oggi ci siete voi famiglie, collaboratori del miracolo della vita, scuola di società, messaggeri di una visione alta e nobile, benefica e seria della vita e della morte, del mondo e del destino. I POVERI E I SOFFERENTI - E ai poveri e ai sofferenti che cosa possiamo dire? Davanti a voi, fratelli e sorelle segnati dalla sofferenza, noi ci inginocchiamo perché siete sacramento speciale di Cristo. La storia della Chiesa italiana è nota a tutti, e si è dilatata in questi lunghi e durissimi anni di crisi perdurante. La povertà è cresciuta, il solco delle disuguaglianze è più profondo, la piaga della non occupazione è terribilmente diffusa e lacerante per giovani, impossibilitati a fare un progetto di vita, per gli adulti umiliati a essere inerti e a dover dipendere dai genitori o da altri. Non si può vivere a lungo senza sentirsi utili e autonomi. Il nostro sguardo di pastori non si è mai stancato di guardarvi e di scorgere i segni dei vostri disagi fisici, sociali, morali, emotivi. Le nostre forze si sono moltiplicate con l’aiuto di moltissimi, con le reti virtuose delle parrocchie, delle aggregazioni, dei volontari; con le nostre Caritas, gli Uffici per i migranti, la pastorale del lavoro e della salute… L’Italia ha davvero una lunga e consolidata tradizione di capillare presenza e di intervento; è forte di una tradizione consolidata di volontariato - come ha riconosciuto il Santo Padre -; un volontariato nato e sostanziato per lo più dal Vangelo e dall’appartenenza ecclesiale. Va in questa direzione la campagna 'Liberi di partire, liberi di restare': è un segno della Chiesa italiana, perché cresca la consapevolezza delle storie dei migranti, si sperimenti un percorso di accoglienza, tutela, promozione e integrazione dei migranti che arrivano tra noi, non si dimentichi il diritto di ogni persona a vivere nella propria terra. Noi siamo figli di operai e non pochi hanno conosciuto disagi e ristrettezze nelle loro case. Il vostro mondo non ci è sconosciuto, per questo vi diciamo una parola con rispetto e umiltà: a voi, che soffrite nella carne preoccupazioni e pene. Il lavoro, la malattia, la fuga disperata da fame, guerra, persecuzione, la solitudine che uccide, il male di vivere, il traffico di esseri umani… e ogni forma di indigenza che compone la condizione umana, trovano eco nei nostri cuori che hanno ricevuto il sigillo del cuore di Gesù. A voi tutti rinnoviamo la nostra vicinanza concreta, sapendo che non è nelle nostre mani il sistema sociale. Continueremo però nella nostra missione, che è l’onore di annunciare la salvezza di Cristo e di partecipare al bene comune. Proprio questo orizzonte ci ha fatto prendere le distanze dal disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento: l’abbiamo fatto a tutela del malato e dei suoi famigliari, e del loro rapporto con i medici, i quali non possono vedersi ridotti a meri esecutori. I NOSTRI SACERDOTI - Un’ultima parola a voi, sacerdoti, che siete i nostri primi collaboratori ed amici! Vi rinnoviamo la nostra gratitudine e il nostro affetto di padri e pastori. Sono sentimenti, questi, non di circostanza, voi lo sapete! Né sono dettati primariamente dal fatto che ben poco potremmo fare noi senza di voi. Nascono piuttosto dalla coscienza di ciò che Cristo ha fatto in noi e di noi: una cosa sola con Lui, Sacerdote unico ed eterno. Ci ha sigillati con il sigillo del suo Spirito, configurandoci a Lui e permettendoci di deporre la nostra vita nelle Sue mani, così da dover agire nella sua stessa persona. E ci ha incorporati facendo di ognuno di noi un solo corpo con il rispettivo vescovo, così che noi apparteniamo a voi come voi appartenete a noi: non possiamo concepirci isolati, figli di noi stessi, sacerdoti solitari. Non abbiamo da inventarci, ci ha inventati Cristo. Da questo sguardo di appartenenza e di gratitudine muove anche il Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente, che rende disponibile il frutto del lavoro collegiale che ci ha visti coinvolti nel recente passato per mettere a punto proposte qualificate e percorsi di comunione necessari a realizzarle. Il nostro grazie, però, si invera anche per il generoso apostolato che si declina nella prossimità alla gente, nella fedeltà agli impegni sacerdotali, nella dedizione più forte degli anni, nell’obbedienza di fede. Voi siete così, e nessuna ombra - per quanto dolorosa - di limite o di peccato, potrà offuscare o infangare questa realtà. Continuate a starci vicini, così come noi desideriamo con voi, e aiutateci ad esservi padri e pastori: ciò è sempre possibile quando in ciascuno vi è umiltà - che è spazio d’amore - libertà da se stessi, amore a Cristo e alla Chiesa. In questo orizzonte, qualunque tentazione, difficoltà, presunzione, tutto si dimensiona poiché sbiadisce di fronte alla luce. Cari fratelli nell’episcopato, accogliamo l’ora presente come dono di Dio, abbracciamola con il trasporto di Cristo buon Pastore. La Chiesa non ci garantisce la tranquillità, ma insieme a Gesù ci ripete: «Non temete… non vi lascio soli… io sono con voi». Non ci nascondiamo le contraddizioni, l’avanzata del secolarismo e il rischio che l’umano si dissolva: «La creatura senza il Creatore svanisce» ( Gaudium et spes, 36). L’uomo occidentale appare confuso e smarrito sulla proprio identità e sul suo stesso destino. Ma dentro a questo groviglio, è presente una opportunità che - pian piano - emerge dalla coscienza distratta, si fa voce, si trasforma in attesa, diventa invocazione: è l’alba del risveglio! Ecco la grazia che non deve cogliere noi come Pastori assonnati, stanchi, inerti. Sì, è l’ora del risveglio della coscienza, il risveglio dell’anima. La confusione, l’angoscia diffusa possono indurre a una più intensa distrazione per paura di pensare, ma possono invece condurre a risvegliarsi e porre le domande decisive. Il risveglio sarà a volte timido e intermittente come la rugiada che penetra, a volte improvviso e tumultuoso come un fulmine. Ma il processo è iniziato e nessuno potrà fermarlo, perché l’uomo non può vivere a lungo senza verità. E pensare porta prima o poi a decidere, a scegliere. Su questo tornante, noi non possiamo mancare, come sentinelle del mattino, vigili e generose, pronte a indicare il nuovo giorno. Cari amici, concludo questi dieci anni con un profondo e commosso ringraziamento a ciascuno di voi: abbiamo camminato insieme, arricchendoci vicendevolmente. Ho sentito - crescente negli anni - la conoscenza nostra aumentare e impastarsi di stima, benevolenza e amicizia vicendevole. Tutto, allora, è diventato più facile e leggero, anche più bello. I momenti più delicati ci hanno aiutato a stringerci di più gli uni agli altri - come i discepoli sulla barca nel mare in tempesta - e guardare a Lui, il Signore, il Timoniere della Chiesa e della storia. E, sempre più uniti, abbiamo compiuto la traversata a cui l’ora ci chiamava. Come scrive il Santo Padre nel testo che ci ha consegnato ieri sera, è davvero questa condivisione di fondo «la via costitutiva della Chiesa, la cifra che ci permette di interpretare la realtà con gli occhi e il cuore di Dio, la condizione per seguire il Signore Gesù ed essere servi della vita in questo tempo ferito». La Chiesa ci manda disarmati, araldi dell’amore in un mondo ferito dall’odio, profeti dello spirito in un mercato della materia, sentinelle attente che scrutano l’orizzonte, eredi di una tradizione viva e annunciatori di un futuro in un mondo senza ieri e senza domani, teso alla conquista del successo presente. Noi, insieme, continueremo a dire con umile audacia: debole è la nostra voce, ma fa eco a quella dei secoli. Voi tutti, uomini che ci ascoltate, la nostra gioia è la più grande di tutte: ha un nome e un volto, che riconducono alla Persona di Gesù Cristo.

Angelo cardinale Bagnasco arcivescovo di Genova presidente della Cei

Pag 18 Sinodo, l’ora di cambiare marcia di Matteo Liut In un sussidio le “provocazioni” per riprogettare la pastorale. Il logo: “Quello sguardo che offre risposte”

La Chiesa italiana scommette sul Sinodo, come un’occasione seria per scandagliare e riprogettare le pratiche della pastorale giovanile. E lo fa tracciando un percorso che ogni singola Chiesa locale è chiamata a compiere durante il prossimo anno pastorale. A guidare le consulte diocesane e parrocchiali, i consigli pastorali, le équipe di educatori, i formatori di congregazioni religiose, le associazioni, i movimenti sarà un «quaderno», un sussidio presentato in questi giorni dal Servizio nazionale per la pastorale giovanile. «Considerate questo tempo. Discernere la pastorale giovanile tra fede e vocazione» è il titolo con il quale si presenta questo strumento operativo che ha l’intenzione di spingere la Chiesa italiana ad andare 'oltre' alle domande poste dal Documento preparatorio del Sinodo dei giovani del 2018. Un quaderno che in questi giorni viene anche consegnato ai vescovi italiani riuniti in assemblea a Roma. «Il Sinodo è un’opportunità straordinaria per le nostre Chiese – sottolinea nella presentazione don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile –: parlare di giovani rimanda alla fatica generativa degli adulti, fatica che non merita accuse indiscriminate, ma lo sforzo di aprire gli occhi per capire. La conversione pastorale non è una moda: essa ha a che fare con bisogni e risorse con cui fare i conti; guardare non basta, bisogna imparare a vedere per poter decidere». A partire da questa prospettiva, quindi, il sussidio – che è stato presentato a primavere durante gli incontri interregionali con le équipe diocesane e regionali di pastorale giovanile – offre dieci schede «per un percorso di discernimento che vuole arrivare in profondità». LE PAROLE CHIAVE - Ricerca, Fare-casa, Incontri, Complessità, Legami, Cura, Gratuità, Credibilità, Direzione, Progetti: sono le dieci parole chiave attorno al- le quali sono costruite altrettante schede. Il percorso non è lineare e attinge a campi semantici che non partono dal tipico linguaggio pastorale, ma si offrono come piccoli «portali » sulla realtà. L’intento è quello di attingere all’esperienza vitale delle nuove generazioni ma anche a quella delle singole comunità locali, permettendo un lavoro di discernimento attorno alle prassi pastorali in uso. «Fare memoria di come e con quali obiettivi è nata una certa prassi è utile per verificarla, per rinnovarla, per consegnarla ad altri», spiega l’introduzione al sussidio. Dietro a tutto questo c’è un «filo rosso» che lega tra loro le schede: la vicenda del discepolo amato narrata nel Vangelo di Giovanni. Le dieci parole in qualche modo contengono l’intera esperienza umana del discepolo, immagine di ogni giovane che incrocia il percorso della comunità cristiana. LE IMMAGINI - Ogni scheda è accompagnata da alcune immagini. Ogni scheda, infatti, è introdotta da- gli scatti del fotografo Mario Dondero (19282015), che spingono a gettare lo sguardo oltre i confini degli schemi «tradizionali». C’è poi il logo dipinto da don Giuseppe Sala, che ha voluto racchiudere in un’immagine il senso dell’intero cammino del Sinodo. Infine il sussidio è accompagnato da un pieghevole che riproduce il polittico dipinto appositamente per il Sinodo dall’artista olandese Kees de Kort. L’ASCOLTO DELLA REALTÀ - Il lavoro di discernimento, dibattito e rielaborazione nelle dieci schede è alimentato da alcuni testi che servono ad agevolare l’ascolto della realtà e a giungere verso una sintesi. Ad aprire ogni scheda è una meditazione sulla vicenda del discepolo amato così come raccontata da Giovanni. Segue un testo sui «tempi che cambiano», uno spunto per «andare oltre la convenzionalità delle parole, soprattutto quelle ecclesiastiche per trovare nuovi punti di vista e comprensione». Vi è poi un’antologia di brani tratti dai documenti del Magistero, seguita dalle testimonianze «provocatorie » di alcuni giovani, tratte dalla ricerca dell’Istituto Toniolo «Dio a modo mio». Un modo concreto per «superare i luoghi comuni e i pregiudizi». Infine l’ultimo passo proposto per i lavori di gruppo è l’invito a comporre una sintesi in grado di indicare prima di tutte le «urgenze pastorali». IL CAMMINO DA PROGETTARE - I diversi gruppi di lavoro potranno scegliere quali schede usare per il confronto e al termine potranno offrire ai vescovi e alle Chiese locali spunti concreti «per il cammino da progettare nel tempo che verrà». Un contributo, insomma, che incarna nelle realtà locali il cammino indicato da papa Francesco attraverso l’indizione del Sinodo dei giovani. Nel sito Web www.chiesacattolica.it/giovani si trovano tutte le indicazioni per richiedere il sussidio.

«Il primo sguardo di Gesù si posa su due giovani». Don Giuseppe Sala, ex parroco della cattedrale di Bergamo, ha disegnato il logo del Sinodo dedicato alle nuove generazioni ispirandosi al primo capitolo del Vangelo di Giovanni. Il 74enne sacerdote artista ha immortalato l’attimo preciso in cui Gesù si volta e si trova faccia a faccia con Andrea e lo stesso Giovanni, che diventeranno i suoi primi discepoli. «Lui gli chiede cosa cercano, perché capisce che sono smarriti e che hanno dentro un grande vuoto, perché hanno una sincera fame di Verità. Loro lo guardano con aria interrogativa, e capiscono che quell’uomo cela in sé un segreto da rivelare. Un mistero enorme, che ancora oggi nemmeno io riesco a comprendere fino in fondo. In questa scena c’è tutto il senso dell’incontro tra Gesù e i nostri giovani». Quando i due chiedono al Maestro dove abita, lui risponde: «Venite e vedrete». Di qui l’idea di tratteggiare un arco sullo sfondo che rappresenta una tenda, simbolo di accoglienza, e più in generale «una soglia che conduce verso la nostra vera casa, quella da dove veniamo e dove siamo diretti». L’immagine creata dal sacerdote manifesta una grande forza evocativa, che «si potrebbe anche amplificare, perché volendo si presta bene a una riproduzione monumentale ». Potenza dell’arte, che spesso riesce a colpire le menti e toccare i cuori come e più delle parole. Don Sala, che scoprì il suo talento nel disegno ai tempi del Seminario, ne è da sempre convinto. «Prendiamo Van Gogh. Non rappresentò mai un soggetto sacro, ma la sua pittura è carica di immensità. Il ruolo dell’arte è questo: farci respirare spiritualità. Se avessi il suo Ramo di mandorlo fiorito lo esporrei in chiesa per annunciare la Pasqua. Che bellezza». Don Sala ha messo matita e pennello al servizio del Vangelo, raffigurando i momenti più significativi della vita di Gesù. «È una mia fissazione – dice sorridendo – Ancora oggi incontro miei ex studenti che conservano i miei quadri quasi come reliquie. E pensare che a me sembrano semplici schizzi». Le sue opere sono raccolte nell’Evangelariopubblicato anni fa dalla parrocchia di Redona, in città: don Sergio Colombo, suo grande amico («Era il più grande pastoralista della diocesi»), gli fece la sorpresa di affiancare i suoi 330 disegni ai brani festivi del Vangelo. «Nella mia formazione da autodidatta mi sono sempre ispirato a Chagall: per anni ho accompagnato i preti di Bergamo per mostre e musei. A loro volta, loro hanno portato gli oratori della diocesi ad ammirare il Messaggio biblico dell’artista esposto di Nizza». Una missione evangelica «a colori », la sua, passata anche attraverso l’insegnamento della storia dell’arte, innumerevoli conferenze e consulenze. Nonostante l’età non più verdissima, il sacerdote bergamasco non riesce a rinunciare alla sua grande passione. «Appena posso vado nelle scuole e aiuto tanti preti a valorizzare le nostre chiese. C’è ancora molto da fare…».

Pag 22 L’umiltà di Gesù. Chiave e segreto della Trinità di Carlo Maria Martini

Esce per le Edizioni Dehoniane Bologna (Edb) il libro “Esercizi spirituali” (pagine 120, euro 9,50). Il testo è frutto degli esercizi spirituali sulla Prima lettera di Pietro, predicati dal cardinale Carlo Maria Martini in occasione del quarantesimo Anniversario della consacrazione sacerdotale tenutosi a Kyriat-Jearim (distretto di Gerusalemme) il 27 giugno 2004. Titolo di quegli esercizi era, appunto: “Alle radici della consacrazione sacerdotale. La Prima lettera di Pietro”. In pagina proponiamo un capitolo tratto dalla terza meditazione.

C’è uno studio molto interessante di un autore tedesco, intitolato Croce e Trinità, in cui si cerca di mostrare come la Trinità si esprima nella croce e quasi non possa esprimersi che nella croce. Io dico più semplicemente così: umiltà, porta della Trinità. Perché Gesù si presenta così umile, indifeso e quindi perdente in questo mondo? Certamente, per un motivo ascetico: Gesù sa che l’orgoglio ha rovinato l’uomo e quindi l’uomo va rifatto passando per la via dell’umiltà. C’è un motivo anche salvifico: Gesù offre se stesso con amore per la salvezza dell’uomo caduto a causa della superbia. Ma c’è pure un motivo teologico: in questo modo Gesù ci fa capire qualcosa della Trinità. Per questo le religioni che alla fine esaltano il successo mondano non riescono ad ammettere l’idea del Dio trinitario. Mentre invece l’umiltà di Gesù ci apre qualche spiraglio per intuire qualcosa della Trinità, dove, come sappiamo, per quanto lo si possa esprimere con parole umane, ogni persona divina è tutta in relazione all’altra. Nessuno si chiude in sé, ma tutto si dona all’altro. È quell’atteggiamento che noi umanamente chiamiamo amore: uscire da se stessi per donarsi tutto all’altro. È umiltà, svuotamento di se stessi, perché l’altro sia. Per questo, Dio-Amore è rappresentato al meglio dal Gesù umiliato, povero, sofferente, crocifisso. Il crocifisso è perfetta rivelazione del Padre e della Trinità. Ecco, questo certamente noi lo diciamo un po’ con parole retoriche. Ma la via cristiana è il penetrare nella preghiera e nell’esperienza concreta questa verità. Se questo è vero, l’umiltà di Gesù è dunque porta della Trinità. Ne deriva allora anche un nuovo motivo antropologico dell’agire di Gesù, quello che il Vaticano II esprime con quelle parole che poi riprende Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor hominis: l’uomo si realizza nel dono di sé. Non nel vincere se stesso mettendosi al centro, ma nello spogliarsi per gli altri, nel dono di sé agli altri. E quindi umiltà e sacrificio sono la via alla vera umanità e alla vera pace. Ne consegue anche quella verità politica espressa così incisivamente da Giovanni Paolo II con le parole: «Non c’è pace senza giustizia » e «Non c’è giustizia senza perdono ». Siamo rispettivamente nell’ambito della giustizia della creazione e nell’ambito della giustizia evangelica. Noi siamo chiamati certamente a tenere insieme le due giustizie. La giustizia evangelica non vanifica la giustizia della creazione, perché la situazione dello schiavo è ingiusta. Oggi, dopo duemila anni, abbiamo maturato meglio questa percezione della di- gnità umana. Quindi siamo tenuti a onorarla. Ma non la potremo onorare fino in fondo senza congiungerla con la giustizia del Regno che è il perdono, che è l’uscita da sé perché l’altro sia, che è la gratuità, che è il dono di sé senza riserve e senza limiti. La difficoltà continua dell’agire cristiano è proprio quella di tenere sempre insieme giustizia della creazione e giustizia del Regno. Giustizia della creazione, perché a ognuno va dato il suo e non è accettabile né sfruttamento, né oppressione, nessuna di queste realtà che umiliano la dignità umana. Ma d’altra parte non è con i mezzi della violenza, della forza, della distruzione del nemico che viene superata questa situazione, ma attraverso il dono di sé, secondo lo spirito evangelico. Questo ci introduce certamente nel cuore del Nuovo Testamento, nel cuore del segreto della parola di Dio, nel cuore del discorso della montagna, e quindi richiede grande grazia di Spirito Santo. E anche grande equilibrio, in quanto si accetta innanzitutto lo squilibrio della croce, la follia della croce. Così si rilegge la storia del mondo come promozione vera e profonda dell’uomo e dei valori dell’uomo, non attraverso la via della forza e nemmeno della legittimità del diritto, ma attraverso la via del perdono e della misericordia. Ricordo che negli ultimi tempi, soprattutto nell’ultima 'Cattedra dei non credenti' a Milano, abbiamo proprio discusso con Gustavo Zagrebelsky il tema della giustizia e il suo libro molto bello sulla democrazia. Si mostrava come la giustizia che non tiene conto di questo valore evangelico diventi giustizia ingiusta e non realizzi la giustizia che si propone di realizzare. Queste tematiche sono certamente oggi molto vive. Del resto, anche ciò che si sta vivendo in questo Paese è del tutto legato a tale problematica. Riusciremo a sconfiggere il terrorismo semplicemente con la violenza, la forza, l’oppressione? Oppure creeremo così nuove forme di aggressione e di terrorismo? Questo è il grande dilemma. Perciò è proprio qui che si gioca anche questo «nodo politico». Lo Spirito Santo deve illuminarci molto sul come noi cristiani possiamo esprimere, proprio a partire dalla nostra condizione di minoranza e di povertà, questi valori. Mentre anche la comunità cristiana è tentata, in situazioni di minoranza, di farsi valere con la forza del diritto e qualche volta con la forza fisica per difendere i suoi privilegi. Cosa che può anche essere importante, ma che deve tenere conto di come una comunità cristiana acquista il suo valore di messaggio evangelico e non semplicemente di protezione di un clan, di un gruppo sociale che si difende dando spallate a destra e sinistra e cercando di farsi valere.

CORRIERE DELLA SERA Pag 29 La rosa di tre nomi per il prossimo presidente della Cei. Bassetti il più votato di Gian Guido Vecchi Montenegro e Brambilla gli altri: decide il Papa

Città del Vaticano. Papa Francesco, come a indicare la strada alla Chiesa italiana, il 20 giugno andrà a Bozzolo e a Barbiana per pregare sulle tombe di don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani. L’annuncio risale al 24 aprile e il giorno prima, domenica 23, il Papa aveva mandato un suo inviato a celebrare messa e posare a suo nome una rosa d’argento sulla tomba di Bozzolo: era il cardinale Gualtiero Bassetti, nato a Marradi come Dino Campana e formato nella Firenze di Dalla Costa e La Pira, Turoldo e don Milani. Proprio l’arcivescovo di Perugia, ieri, è stato il primo e il più votato dei tre candidati alla presidenza che l’assemblea della Cei ha indicato al Papa. Gli altri due sono il cardinale di Agrigento Francesco Montenegro, altro porporato vicinissimo a Francesco, e il vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla. A questo punto il favorito è Bassetti. Ieri sera buona parte dei vescovi, all’uscita dell’Aula Paolo VI, era convinta che prossimo presidente della Cei sarà lui. Ma intanto si attende la decisione del pontefice, il pomeriggio di ieri è passato senza comunicazioni, oggi potrebbe essere il giorno buono. Papa Francesco, scherzando ma fino ad un certo punto, aveva avvertito l’assemblea di non essere vincolato dalla terna, come a dire: scegliete bene. E i vescovi italiani hanno recepito il messaggio. Nessun candidato «fuori linea». Gli elettori delle 226 diocesi dovevano scegliere a maggioranza assoluta un nome per volta. Alla prima votazione i consensi maggiori sono andati subito ai tre nomi che sarebbero finiti nella terna, e il cardinale Bassetti ha prevalso al ballottaggio sul vescovo Brambilla con 134 voti. Nella seconda votazione Brambilla ne ha ottenuti 115 davanti al cardinale Montenegro (67), alla terza ha prevalso Montenegro con 126. In Vaticano, alla vigilia, si dicevano certi che il prescelto sarebbe stato Bassetti, se fosse stato incluso nella terna. Ha compiuto 75 anni, l’età della pensione, ma il Papa lo ha prorogato senza scadenza. Tutti e tre i candidati, peraltro, sono affini a Francesco. L’arcivescovo di Agrigento, creato cardinale da Francesco nel 2015, accompagnò Bergoglio nel primo viaggio a Lampedusa: nella sua diocesi si racconta ancora di quando, appena arrivato, monsignor Montenegro tolse dal presepe i Re Magi e mise un cartello, «respinti alla frontiera». Il vescovo teologo Franco Giulio Brambilla insegnava nella Milano di Carlo Maria Martini. Quanto a Bassetti, Francesco gli ha dato a sorpresa la porpora nel 2014 - l’ultimo arcivescovo di Perugia divenuto cardinale era stato nel 1853 Vincenzo Gioacchino Pecci, poi Papa Leone XIII - e già allora si disse che lo avrebbe voluto alla presidenza della Cei. L’anno scorso gli ha affidato le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo: giovani, famiglie, lavoro, precarietà economica, migranti. È già stato vicepresidente tra il 2009 e il 2014. Anche sui temi più scottanti, dalle unioni civili all’eutanasia, ha sempre mantenuto un profilo pastorale, sulla linea della Chiesa di Francesco che si «china» sulle «ferite» dell’umanità senza anatemi. Nato nella «povertà estrema» del dopoguerra, raccontava così la sua prima esperienza da vescovo, nel ’94, a Massa Marittima: «La sera i minatori venivano a sedersi sulle gradinate del duomo. Era una vita che andavano là. E tutti, al duomo, avevano solo voltato le spalle. Mi dicevano: con quelli non parlerai mai. Uscii, mi sedetti. Calò il silenzio. “Ma lei è il nuovo vescovo?”. “Sì”. Mi feci spiegare la città. Uno si voltò: noi era vent’anni che non s’era visto un vescovo. Ricordavano monsignor Ablondi perché era sceso nella miniera di Miccioleta a bere con loro un fiasco di vino. Quel giorno capii che cosa significa essere un pastore».

LA REPUBBLICA Pag 23 Cei, ecco i tre nomi. Bassetti il più votato, ora il Papa deciderà di Paolo Rodari Lojudice e Delpini i favoriti a Roma e Milano

Città del Vaticano. Il primo nome della terna votata ieri dall' assemblea generale dei vescovi italiani riunita in Vaticano per eleggere il successore di Angelo Bagnasco alla guida della Cei è l’arcivescovo di Perugia Gualtiero Bassetti che ha preceduto i vescovi Franco Giulio Brambilla di Novara e Francesco Montenegro di Agrigento. Settantacinque anni, cresciuto nel seminario di Firenze, scoutista appassionato di calcio, è stato nominato cardinale nel 2014 da Francesco che per la prima volta ruppe la prassi che vuole che la berretta rossa venga concessa soltanto alle diocesi cosiddette cardinalizie. Salvo sorprese dell' ultima ora sempre possibili, sembra possa essere lui il nuovo presidente dell'episcopato del Paese. Anche se, hanno voluto ricordare alcuni presuli lasciando l'Aula del Sinodo in serata, «Montenegro è un vescovo che piace molto al Papa e non è da escludere a priori che all' ultimo momento la scelta non possa ricadere proprio su di lui». La decisione, che per statuto spetta a Francesco, potrebbe essere comunicata già quest' oggi anche se il Pontefice ha facoltà di prendersi del tempo ulteriore per riflettere. «Guardate che posso anche pescare fuori dalla terna», aveva detto nei giorni scorsi lo stesso Francesco ricevendo alcuni vescovi. E questi hanno recepito il suo messaggio: meglio votare da subito l'uomo che Bergoglio ha da sempre considerato adatto per il delicato compito piuttosto che agire di testa propria e vedersi sconfessati. Già nel 2014 Bassetti era a un passo dall'elezione. Ma poi Francesco optò per lasciare terminare il mandato a Bagnasco chiedendo nel contempo ai presuli la modifica della procedura elettiva che precedentemente prevedeva che la scelta del presidente spettasse esclusivamente al Papa stesso. Il primo posto in terna di Bassetti non è stato comunque scontato. Alla prima votazione, infatti, ha preso 44 voti, gli stessi di Franco Giulio Brambilla, 67enne vescovo di Novara, discepolo del cardinale Martini, il candidato che molte diocesi del Nord hanno appoggiato. Nelle due votazioni successive Bassetti è però cresciuto fino a vincere, ma soltanto grazie al ballottaggio, con 134 voti totali contro gli 86 di Brambilla che ha conquistato il secondo posto della terna avendo avuto la meglio sul cardinale Francesco Montenegro, 71 anni, arcivescovo di Agrigento, vicino al Papa e da lui molto stimato per l'impegno verso i poveri e in particolar modo i migranti. Anch'egli nominato cardinale da Francesco, vescovo che ama girare la diocesi a bordo del suo scooter, Montenegro è il terzo nome oggi al vaglio di Papa Bergoglio. Dietro di lui, infatti, non ce l'hanno fatta gli arcivescovi di Firenze Giuseppe Betori e di Chieti-Vasto Bruno Forte. Francesco i vescovi li vuole pastori vicini alla gente, umili, capaci di misericordia, al servizio del popolo affidato loro. La terna, in questo senso, rispecchia la visione papale e mostra come, al di là di alcune rappresentazione mediatiche distorte, l'episcopato sia nella sua maggioranza dalla parte del papa argentino. Non ci sono cesure evidenti. Non esistono di fatto resistenze che si possano definire tali. O, se ci sono, restano sommerse, minoritarie. Bagnasco lascia dopo dieci anni nei quali non senza fatica, ma con indubbia efficacia, è riuscito a traghettare l'episcopato fuori dalla stagione ruiniana. È passato indenne attraverso il colpo di mano dell'allora segretario di Stato vaticano che volle avocare a sé ogni rapporto della Chiesa italiana con la politica. Non reagì subito, Bagnasco, subì inizialmente, lasciò che Bertone prendesse del campo, e poi, dopo aver allacciato un rapporto personale saldo con Francesco, ricondusse pazientemente ogni cosa nel suo alveo naturale. Oggi la Cei che lascia Bagnasco segue da vicino le vicende politiche italiane pur senza appoggiare, come al contrario avvenne in passato, nessuna formazione partitica. Francesco non vuole «vescovi pilota» che da dietro le quinte spingono per ottenere favori. Piuttosto presuli che sappiano accompagnare il delicato compito svolto dai politici stessi. Da questa linea senz'altro il nuovo presidente della Cei, chiunque sarà, non si discosterà.

Città del Vaticano. Milano e Roma. Dopo la scelta del successore del cardinale Angelo Bagnasco alla guida della Conferenza episcopale italiana è in queste due importanti diocesi del Paese che Papa Francesco dovrà decidere il nome dei nuovi vescovi. Il cardinale , infatti, vescovo vicario di Roma, e il cardinale , arcivescovo di Milano, sono in scadenza e si pensa che il loro mandato possa finire nel mese di settembre con annuncio papale verso la fine del mese di giugno. Francesco non ha ancora deciso i nomi dei due successori. Per ora, infatti, preferisce aspettare, pregare e meditare per arrivare con calma e ponderazione alla decisione più giusta. A Roma ha avviato una consultazione che ha avuto come risultato l'arrivo in Vicariato di centinaia di lettere. Preti, religiosi e anche semplici laici hanno detto la loro in libertà, come ha chiesto il Papa il 10 marzo scorso in un incontro privato avvenuto nello stesso Vicariato con i trentasei parroci prefetti capitolini. Nelle lettere pervenute più che i nomi del possibile successore sono stati delineati i profili ideali di colui che dovrà andare ad affiancare il Papa nel suo compito di vescovo di Roma. E anche se con Bergoglio fare previsioni non è mai prudente, a oggi buone chance sembrano averle Paolo Lojudice, vescovo ausiliare per il settore Sud e , vescovo ausiliare incaricato per il servizio della formazione del clero. Ma non si esclude la possibilità che all'ultimo Francesco decida per un nome a sorpresa, ad esempio uno dei tanti parroci di Roma capaci di farsi prossimi a tutti, vicini e lontani, credenti e non credenti. Anche a Milano nessuna decisione è stata ancora presa. L'unica certezza è che Angelo Scola sembra gradire l'uscita di scena in tempi brevi, per cui ragionevolmente si pensa che il successore possa fare il suo ingresso ufficialmente nel mese di settembre. Qui i nomi che ricorrono sono quelli del vicario generale dello stesso Scola, Mario Delpini (uomo mite, profondo conoscitore del clero, e attuale segretario della Conferenza episcopale lombarda), del cappuccino Paolo Martinelli (è stato a lungo all' Istituto Sacra famiglia di Cesano Boscone e che ha lavorato al consiglio generale del Sinodo sull'Eucaristia) e anche di nomi provenienti da altre diocesi come ad esempio quello del vescovo di Campobasso Giancarlo Bregantini. Infine, c'è chi ipotizza anche un ritorno in diocesi di Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, ieri secondo nella terna votata dall' assemblea della Cei in vista della successione di Bagnasco. Francesco sa stupire e decidere da solo dopo aver ascoltato più pareri di personalità eterogenee. Domenica scorsa ha significativamente annunciato i nomi di cinque nuovi cardinali provenienti dalle periferie del mondo, senza che la scelta ricadesse su un italiano. Nessuno si aspettava un tale annuncio, probabilmente nemmeno i diretti interessati. Il medesimo metodo potrebbe da lui essere applicato anche a Milano e a Roma dove comunicherà la sua decisione soltanto quando questa sarà maturata dentro di lui a tempo debito.

IL FOGLIO Pag 2 Il mite Bassetti verso la guida della Cei, tra difesa dei valori e odore delle pecore di Matteo Matzuzzi Eletta la terna per la successione a Bagnasco. Parola al Papa

Roma. E' stata più rapida del previsto la procedura che ha portato i 226 vescovi italiani a eleggere la terna da presentare al Papa per la scelta del nuovo numero uno della Cei dopo la fine del decennio a guida Angelo Bagnasco. In un paio d'ore tutto era compiuto e il quadro che è emerso dalla prima votazione nella storia per la presidenza dell'organismo episcopale è chiarissimo: messe da parte le resistenze al nuovo corso e le nostalgie per un passato che non ritorna, i tre prescelti sono tutti in qualche modo sostenitori acclarati dell'agenda di Francesco. Il primo a entrare nella terna, come previsto da tempo, è il cardinale arcivescovo di Perugia, Gualtiero Bassetti. Da Santa Marta, dopotutto, di segnali che questa fosse una delle soluzioni gradite ne erano stati mandati in abbondanza. Prima, la creazione cardinalizia nel concistoro del 2014 (a Perugia una porpora non si vedeva dai tempi del cardinale Pecci, poi eletto Pontefice col nome di Leone XIII nel 1878), quindi - poche settimane fa - la proroga quinquennale (cioè fino agli ottant'anni d'età) alla guida della diocesi umbra. Bassetti l'ha spuntata al ballottaggio sul vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla, già ausiliare di Milano e rinomato teologo, che comunque è stato eletto alla tornata successiva. L'ultimo posto è andato all'arcivescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro, in prima linea sul fronte migranti e pastore di quella Lampedusa che Bergoglio scelse come meta simbolica del suo primo viaggio pastorale dopo l'elezione, nel 2013. Hanno ottenuto voti, tra gli altri, il cardinale arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori e mons. Bruno Forte, di Chieti - Vasto. Nessuna battaglia all'ultimo voto, però. Poche spaccature come invece si diceva, nessuna tenzone tra conservatori e progressisti per contendersi la carica. La terna è stata immediatamente consegnata al Papa che, a norma dello Statuto della Cei, potrà scegliere uno dei nomi più votati o nominare il presidente guardando ad altri profili. Questa, però, è un'opzione assai poco probabile, soprattutto perché le figure emerse in Assemblea rappresentano - ciascuno a modo suo - un cambiamento d'indirizzo rispetto all'ultimo trentennio inaugurato dalla "svolta" di Loreto del 1985, con la rivendicazione da parte della chiesa italiana di uno spazio pubblico e l'apertura della lunga stagione delle battaglie in difesa dei valori cosiddetti non negoziabili. Bassetti, fra i tre, rappresenta la soluzione mediana. Deciso nell'affermazione dei valori, il porporato è estraneo alla corrente più muscolare (per importare una categoria del conservatorismo episcopale americano) che per anni si è trincerata dietro al "fortino da difendere" contro le minacce esterne. Nove anni fa sembrava destinato alla sede di Firenze, ma all'ultimo gli fu preferito Giuseppe Betori, allora segretario generale della Cei. Personalità dal marcato tratto pastorale, ha pescato consensi in ciascuna delle tre macro -aree in cui sono divisi i vescovi italiani, a riprova della credibilità di cui gode in modo trasversale. Particolare non di poco conto: conosce bene la macchina, essendo stato vicepresidente della Cei per l'Italia centrale. Molti consensi ha ottenuto anche Brambilla, già preside della Facoltà teologica dell' Italia settentrionale, grande studioso di Edward Schillebeeckx e per quattro anni vescovo ausiliare di Milano, fino all'arrivo di Angelo Scola. Ha preceduto il cardinale Montenegro, che alla fine ha coagulato parte dei voti dei presuli meridionali, loro sì divisi, riuscendo a entrare nella terna. La mattinata s'era aperta con l'applauso corale ad Angelo Bagnasco che, commosso, non era riuscito a concludere la sua ultima relazione da presidente. "L'uomo occidentale - ha detto l'arcivescovo di Genova - appare confuso e smarrito sulla propria identità e sul suo stesso destino. Ma dentro a questo groviglio, è presente una opportunità che - pian piano - emerge dalla coscienza distratta, si fa voce, si trasforma in attesa, diventa invocazione: è l'alba del risveglio". La confusione e l'angoscia diffusa "possono indurre a una più intensa distrazione per paura di pensare, ma possono invece condurre a risvegliarsi e porre le domande decisive. Il risveglio sarà a volte timido e intermittente", a volte "improvviso e tumultuoso" Ma "il processo è iniziato e nessuno potrà fermarlo, perché l' uomo non può vivere a lungo senza verità".

IL GAZZETTINO Pag 9 I vescovi (e il Papa) scelgono Bassetti di Franca Giansoldati La Cei archivia l’era Bagnasco indicando alla presidenza il cardinale di Perugia

Una elezione sprint, durata lo spazio di un rosario, composta da tre fasi e comprensiva di un ballottaggio ha archiviato definitivamente la gestione Bagnasco. La sovranità popolare ha avuto la meglio anche se era la prima volta che i vescovi italiani sperimentavano le urne per scegliersi un proprio presidente, esattamente come accade in tutte le altre conferenze episcopali. Con Papa Francesco l'anomalia italiana ormai appartiene al passato. Terminata la lettura sul tabellone elettronico e dato spazio agli applausi di rito su un documento è stata stilata la lista contenente i nomi dei più votati il cardinale di Perugia, Gualtiero Bassetti con 134 voti, seguito da Giulio Brambilla con 126 e, infine dal paladino dei diritti dei migranti, Francesco Montenegro con 115 ; l'elenco in busta chiusa è stato portato a Papa Francesco a Santa Marta. Ora spetterà a lui annunciare la nomina del presidente della Cei tra queste tre figure, anche se la ratifica appare scontata. La scelta non potrà che cadere su Bassetti, il preferito di Papa Bergoglio e sul quale ha puntato per l'era post Bagnasco. L'arcivescovo genovese era commosso. Nel discorso di commiato, nell'Aula Nuova del Sinodo, ha fatto un bilancio dei dieci anni di presidenza pari a due mandati consecutivi - in cui ha parlato di disoccupazione, emergenza migranti, dei rischi legati al populismo e del fatto che è «suicida, da parte della politica, non sostenere la famiglia». Una relazione lunghissima e articolata all'interno della quale si notava l'assenza di alcuni importanti argomenti che in questo decennio sono stati al centro di polemiche, rimbrotti (anche da parte di Papa Francesco) e aspri confronti. Per esempio il tema della pedofilia e la lotta per contrastare questa piaga. L'annuncio dell'arrivo del nuovo presidente della Cei è atteso per oggi, il Papa vuole andare a visitare Genova, sabato prossimo, con un nuovo presidente dei vescovi in carica. Bassetti è un uomo conosciuto per la sua bonarietà, il buon carattere, la capacità di mediare. Dote che gli tornerà sicuramente utile nel destreggiarsi tra le varie correnti di Via Aurelia, dove ha sede la Cei. Due anni fa il Papa gli ha affidato le meditazioni per la Via Crucis e la ha voluta dedicare ai bambini schiavi, a chi arriva in Europa sulle «carrette del mare», alle «donne oggetto di sfruttamento e di violenza».

AVVENIRE di martedì 23 maggio 2017 Pag 1 Coraggio, non strappi Papa Francesco alla Chiesa in Italia: tempo di profezia

Nel pomeriggio di lunedì 22 maggio, nell’Aula nuova del Sinodo, il Papa ha aperto i lavori della settantesima assemblea della Conferenza episcopale italiana (Cei), che si concludono giovedì 25. Dopo la preghiera iniziale, il Pontefice ha dialogato per oltre due ore con i presuli presenti e al termine dell’incontro ha consegnato loro la meditazione qui pubblicata di seguito.

Cari fratelli, in questi giorni, mentre preparavo l’incontro con voi, mi sono trovato più volte a invocare la “visita” dello Spirito Santo, di Colui che è «il soave persuasore dell’uomo interiore». Veramente, senza la sua forza «nulla è nell’uomo, nulla senza colpa» e vana rimane ogni nostra fatica; se la sua «luce beatissima» non ci invade nell’intimo, restiamo prigionieri delle nostre paure, incapaci di riconoscere che siamo salvati solamente dall’amore: ciò che in noi non è amore, ci allontana dal Dio vivente e dal suo Popolo santo. «Vieni, Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Dona ai tuoi fedeli, che solo in te confidano, i tuoi santi doni». Il primo di questi doni sta già nel convenire in unum, disponibili a condividere tempo, ascolto, creatività e consolazione. Vi auguro che queste giornate siano attraversate dal confronto aperto, umile e franco. Non temete i momenti di contrasto: affidatevi allo Spirito, che apre alla diversità e riconcilia il distinto nella carità fraterna. Vivete la collegialità episcopale, arricchita dall’esperienza di cui ciascuno è portatore e che attinge alle lacrime e alle gioie delle vostre Chiese particolari. Camminare insieme è la via costitutiva della Chiesa; la cifra che ci permette di interpretare la realtà con gli occhi e il cuore di Dio; la condizione per seguire il Signore Gesù ed essere servi della vita in questo tempo ferito. Respiro e passo sinodale rivelano ciò che siamo e il dinamismo di comunione che anima le nostre decisioni. Solo in questo orizzonte possiamo rinnovare davvero la nostra pastorale e adeguarla alla missione della Chiesa nel mondo di oggi; solo così possiamo affrontare la complessità di questo tempo, riconoscenti per il percorso compiuto e decisi a continuarlo con parresia. In realtà, questo cammino è segnato anche da chiusure e resistenze: le nostre infedeltà sono una pesante ipoteca posta sulla credibilità della testimonianza del depositum fidei, una minaccia ben peggiore di quella che proviene dal mondo con le sue persecuzioni. Questa consapevolezza ci aiuta a riconoscerci destinatari delle Lettere alle Chiese con cui si apre l’Apocalisse (1, 4 – 3, 22), il grande libro della speranza cristiana. Chiediamo la grazia di saper ascoltare ciò che lo Spirito oggi dice alle Chiese; accogliamone il messaggio profetico per comprendere cosa vuole curare in noi: «Vieni, padre dei poveri; vieni, datore dei doni; vieni, luce dei cuori». Come la Chiesa di Efeso, forse a volte anche noi abbiamo abbandonato l’amore, la freschezza e l’entusiasmo di un tempo... Torniamo alle origini, alla grazia fondante degli inizi; lasciamoci guardare da Gesù Cristo, il “Sì” del Dio fedele, l’unum necessarium: «Questa nostra assemblea qui radunata non brilli d’altra luce se non di Cristo, che è la luce del mondo; i nostri animi non cerchino altra verità se non la parola del Signore, che è il nostro unico maestro; non preoccupiamoci d’altro se non di obbedire ai suoi precetti con una sottomissione fedele in tutto; non ci sostenga altra fiducia se non quella che corrobora la nostra flebile debolezza, perché si fonda sulle sue parole: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20)» (Paolo VI, Discorso per l’inizio della seconda sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963). Come la Chiesa di Smirne, forse anche noi nei momenti della prova siamo vittima della stanchezza, della solitudine, del turbamento per l’avvenire; restiamo scossi nell’accorgerci di quanto il Dio di Gesù Cristo possa non corrispondere all’immagine e alle attese dell’uomo “religioso”: delude, sconvolge, scandalizza. Custodiamo la fiducia nell’iniziativa sorprendente di Dio, la forza della pazienza e la fedeltà dei confessori: non avremo a temere la seconda morte. Come la Chiesa di Pergamo, forse anche noi talvolta cerchiamo di far convivere la fede con la mondanità spirituale, la vita del Vangelo con logiche di potere e di successo, forzatamente presentate come funzionali all’immagine sociale della Chiesa. Il tentativo di servire due padroni è, piuttosto, indice della mancanza di convinzioni interiori. Impariamo a rinunciare a inutili ambizioni e all’ossessione di noi stessi per vivere costantemente sotto lo sguardo del Signore, presente in tanti fratelli umiliati: incontreremo la Verità che rende liberi davvero. Come la Chiesa di Tiatira, siamo forse esposti alla tentazione di ridurre il Cristianesimo a una serie di principi privi di concretezza. Si cade, allora, in uno spiritualismo disincarnato, che trascura la realtà e fa perdere la tenerezza della carne del fratello. Torniamo alle cose che contano veramente: la fede, l’amore al Signore, il servizio reso con gioia e gratuità. Facciamo nostri i sentimenti e i gesti di Gesù ed entreremo davvero in comunione con Lui, stella del mattino che non conosce tramonto. Come la Chiesa di Sardi, possiamo forse essere sedotti dell’apparenza, dall’esteriorità e dall’opportunismo, condizionati dalle mode e dai giudizi altrui. La differenza cristiana, invece, fa parlare l’accoglienza del Vangelo con le opere, l’obbedienza concreta, la fedeltà vissuta; con la resistenza al prepotente, al superbo e al prevaricatore; con l’amicizia ai piccoli e la condivisione ai bisognosi. Lasciamoci mettere in discussione dalla carità, facciamo tesoro della sapienza dei poveri, favoriamone l’inclusione; e, per misericordia, ci ritroveremo partecipi del libro della vita. Come la Chiesa di Filadelfia, siamo chiamati alla perseveranza, a buttarci nella realtà senza timidezze: il Regno è la pietra preziosa per cui vendere senza esitazione tutto il resto e aprirci pienamente al dono e alla missione. Attraversiamo con coraggio ogni porta che il Signore ci schiude davanti. Approfittiamo di ogni occasione per farci prossimo. Anche il miglior lievito da solo rimane immangiabile, mentre nella sua umiltà fa fermentare una gran quantità di farina: mescoliamoci alla città degli uomini, collaboriamo fattivamente per l’incontro con le diverse ricchezze culturali, impegniamoci insieme per il bene comune di ciascuno e di tutti. Ci ritroveremo cittadini della nuova Gerusalemme. Come la Chiesa di Laodicea, conosciamo forse la tiepidezza del compromesso, l’indecisione calcolata, l’insidia dell’ambiguità. Sappiamo che proprio su questi atteggiamenti si abbatte la condanna più severa. Del resto, ci ricorda un testimone del Novecento, la grazia a buon mercato è la nemica mortale della Chiesa: misconosce la vivente parola di Dio e ci preclude la via a Cristo. La vera grazia - costata la vita del Figlio - non può che essere a caro prezzo: perché chiama alla sequela di Gesù Cristo, perché costa all’uomo il prezzo della vita, perché condanna il peccato e giustifica il peccatore, perché non dispensa dall’opera... È a caro prezzo, ma è grazia che dona la vita e porta a vivere nel mondo senza perdersi in esso (cfr. D. Bonhoeffer, Sequela). Apriamo il cuore al bussare dell’eterno Pellegrino: facciamolo entrare, ceniamo con Lui. Ripartiremo per arrivare in ogni dove con un annuncio di giustizia, fraternità e pace. Cari fratelli, il Signore non punta mai a deprimerci, per cui non attardiamoci sui rimproveri, che nascono comunque dall’amore (cfr. Ap 3, 19) e all’amore conducono. Lasciamoci scuotere, purificare e consolare: «Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato». Ci è chiesta audacia per evitare di abituarci a situazioni che tanto sono radicate da sembrare normali o insormontabili. La profezia non esige strappi, ma scelte coraggiose, che sono proprie di una vera comunità ecclesiale: portano a lasciarsi «disturbare» dagli eventi e dalle persone e a calarsi nelle situazioni umane, animati dallo spirito risanante delle Beatitudini. Su questa via sapremo rimodellare le forme del nostro annuncio, che si irradia innanzitutto con la carità. Muoviamoci con la fiducia di chi sa che anche questo tempo è un kairos, un tempo di grazia abitato dallo Spirito del Risorto: a noi spetta la responsabilità di riconoscerlo, accoglierlo e assecondarlo con docilità. «Vieni, Santo Spirito. Consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo». Cari fratelli, «posti a pascere la Chiesa di Dio» (At 20, 28), partecipi della missione del Buon Pastore: ai vostri occhi nessuno resti invisibile o marginale. Andate incontro a ogni persona con la premura e la compassione del padre misericordioso, con animo forte e generoso. Siate attenti a percepire come vostro il bene e il male dell’altro, capaci di offrire con gratuità e tenerezza la stessa vita. Sia questa la vostra vocazione; perché, come scrive Santa Teresa di Gesù Bambino, «solo l’amore fa agire le membra della Chiesa: se l’amore si spegnesse, gli apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue...». In questa luce, ringrazio anche a nome vostro il Card. Angelo Bagnasco per i dieci anni di presidenza della Conferenza Episcopale Italiana. Grazie per il suo servizio umile e condiviso, non privo di sacrificio personale, in un momento di non facile transizione della Chiesa e del Paese. Anche l’elezione e, quindi, la nomina del suo successore, altro non sia che un segno d’amore alla Santa Madre Chiesa, amore vissuto con discernimento spirituale e pastorale, secondo una sintesi che è anch’essa dono dello Spirito. E pregate per me, chiamato a essere custode, testimone e garante della fede e dell’unità di tutta la Chiesa: con voi e per voi possa assolvere questa missione con letizia fino in fondo.

Pag 3 Trasparenza e discernimento, così la Chiesa su Medjugorje di Pierangelo Sequeri Miracoli o profezie, lo “stile cattolico” garanzia per la fede

Proprio il caso delle 'apparizioni mariane' getta una particolare luce sulla trasparenza dello stile cattolico, della cui bellezza possiamo andare giustamente orgogliosi. Tutti sanno, e anche papa Francesco lo ha ribadito di ritorno da Fatima parlando di Medjugorje, che questi eventi – pure se la Chiesa si sia impegnata in una qualche forma di riconoscimento che li accredita come autentica esperienza di grazia che viene da Dio – non appartengono alla rivelazione che fonda e vincola la fede dei credenti. In altri termini: non siamo obbligati a crederci, anche nel caso di riconosciuta autenticità, come se l’adesione fosse essenziale alla professione della nostra fede cattolica. Non per questo è lecito ai credenti trattare con superficialità l’eventualità di questa speciale grazia, insieme con i frutti spirituali che ne possono venire per la Chiesa e per il mondo. In altre parole, a nessuno, nella Chiesa, è consentito disprezzare il dono dall’alto che può giungere a noi attraverso questa esperienza carismatica di manifestazione della Madre del Signore. In ogni caso, le nostre personali riserve devono porre ogni cura di non gettare alcuna ombra sulla nostra fede e sulla nostra venerazione per la Madre di Dio, che fa indubitabilmente parte del dogma della fede che professiamo. Neppure deve esserne ferita la nostra sincera adesione al magistero della Chiesa, quando si impegna nel riconoscimento di un autentico dono di grazia che porta sostegno alla devozione cristiana dei credenti e alla conversione evangelica della vita. Di questo apprezzamento della genuinità del carisma, e dei frutti spirituali che ne derivano, è parte essenziale il giusto rigore con cui il magistero della Chiesa procede al discernimento circa i fatti, le persone, gli effetti. Nell’ambito della dottrina cattolica, non può essere neppure esclusa, come tutti sanno, l’eventualità che un carisma certamente autentico non sia sempre e in ogni caso onorato in modo adeguato e coerente da chi lo riceve. L’apostolo Paolo è chiarissimo, su questo punto. Il discernimento comporta perciò anche l’eventualità di un giudizio molto differenziato, come anche la raccomandazione di ulteriori verifiche. La serietà di questo impegno, che è affidato alla responsabilità del magistero ufficiale della Chiesa, è certamente un tratto luminoso del suo esercizio, che si lascia apprezzare dai credenti e anche dai non credenti. Il suo scopo, infatti, è quello di custodire l’integrità della fede e la verità della devozione, proteggendo l’intero popolo di Dio (e chiunque altro) da ogni forma di credulità, superstizione, manipolazione e strumentalizzazione del sentimento religioso. Del resto, la saggia cautela della Chiesa a riguardo di apparizioni, miracoli, estasi e profezie è proverbiale. Nessuna sconsiderata foga apologetica, come anche nessuna pregiudiziale diffidenza razionalistica, devono inquinare l’onestà intellettuale del discernimento ecclesiale: nell’interesse della fede autentica. Parlavo, a riguardo di questo stile cattolico del magistero, di una bellezza della quale essere persino orgogliosi. Nel momento stesso in cui la Chiesa ribadisce che l’adesione alle rivelazioni cosiddette 'private' non appartiene all’essenza della rivelazione 'pubblica' che vincola la fede, essa non si sottrae al discernimento scrupoloso degli eventi potenzialmente carismatici che ne accompagnano la vitalità spirituale. Protegge in tal modo l’integrità della fede dagli eccessi del sentimentalismo religioso, proprio come la tutela nei confronti dei pregiudizi del razionalismo irreligioso. Questa serietà va onorata e difesa, sostenuta e amata: in primo luogo, da tutti i credenti. Il magistero ecclesiastico che vi si impegna, nei modi dovuti e al più alto livello, deve perciò essere circondato di grande rispetto e gratitudine. (La sua competenza e la sua autorevolezza, al riguardo, appartengono certamente al dogma della fede). Ognuno può comprendere che il suo processo di discernimento abbia ragione di essere protetto da tutta la discrezione necessaria. Per essere giustamente 'riservato', tuttavia, questo processo non ha motivo di essere percepito come 'clandestino': quasi fosse ispirato da oscuri moventi e inaccessibili criteri. Nel suo stile semplice e diretto, il papa Francesco ha inteso fugare queste ombre, e restituire anche al popolo di Dio la percezione di questa limpidezza. Ha perciò ritenuto di dare conto del fatto che egli ha effettivamente ricevuto gli esiti dell’apposita Commissione pontificia su Medjugorje decisa da Benedetto XVI, i quali sono in esame anche presso la Congregazione della fede. (E lo ha fatto - non va dimenticato - al termine di un vero pellegrinaggio mariano del Papa, che ha onorato ed esaltato la Madonna delle apparizioni di Fatima!). Il Papa ha dunque confermato, in termini colloquiali e per ora - in forma personale, che il tema non è affatto disatteso, al più alto livello dell’autorità magisteriale. E ha indicato semplicemente i dati salienti che, nella sua percezione attuale, orientano le sue considerazioni: la genesi carismatica di questa devozione è certamente degna di approfondimento, la storia della sua recezione e interpretazione suscita qualche motivata perplessità, gli effetti di conversione e di vita cristiana che tutt’ora la accompagnano sono un fatto che non può essere negato. E dunque, un tema pastorale autentico, che merita sin d’ora la sollecitudine e la cura della stessa Sede apostolica. L’invio dell’Arcivescovo Hoser, con questo preciso mandato, aveva del resto già confermato questa valutazione. La trasparenza è dunque apprezzabile in questa chiave: e non si può certo contestare al Papa, che ne è il destinatario diretto, la facoltà di comunicare anche informalmente la sua percezione degli elementi di interesse che ha colto negli atti della Commissione presieduta dal cardinale Ruini (che comprende Cardinali e Vescovi, non solo teologi ed esperti). E’ certamente comprensibile che nel popolo di Dio e nella pubblica opinione si tragga argomento da questa serena comunicazione per comprendere meglio i termini del discernimento che continua ad essere indicato come necessario. Questo Papa è l’ultimo, come ormai si sa, a voler mortificare questo confronto. Senza dimenticare, tuttavia, che non è la competenza del Papa a pronunciarsi (nelle forme ufficiali e nei termini magisteriali che riterrà pertinenti) ad essere in discussione. Non sono i messaggi di Medjugorje a decidere dell’autorità del magistero petrino che conferma la fede e guida la Chiesa: questa è già al sicuro del dogma cattolico, che vincola l’ossequio dei cattolici osservanti (e raccomanda anche di custodire quell’atteggiamento spirituale di simpatia e di rispetto che ne devono agevolare l’accoglienza condivisa, nella pace e nella carità ecclesiale). In primo luogo, questo atteggiamento sarà dunque condiviso da quelli che, aderendo con fede sincera al mistero unico e benedetto della Vergine Maria, sono pronti ad accogliere anche i segni carismatici del suo amore, mediante il quale la Madre del Signore conduce, ogni volta e sempre, la nostra devozione alla fede autentica nel Figlio di Dio. Non per la curiosità di segreti e messaggi - comunque non determinanti per stessa fede cristiana nel mistero di Maria - che debbano rendere più eccitante e spettacolare la devozione. Bensì unicamente per la conversione della vita all’amore di Dio, e per la gioia di ogni dono ricevuto in vista dell’utilità comune (1 Cor 12, 7).

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

AVVENIRE Pag 3 Lavoro e cura della povertà, la vera lezione dei francescani di Luigino Bruni L’economia che mette al centro la dignità della persona

Uscire dalle trappole di povertà è stato sempre estremamente difficile. E questo perché la povertà economica si manifesta come una assenza di reddito, ma quel reddito che manca dipende da una carenza di capitali: capitali sociali, relazionali, familiari, educativi, etc. E quindi se non agisco sul piano dei capitali, i flussi di reddito non arrivano, e se arrivano si disperdono, non fanno uscire le persone dalla condizione di povertà, e non di rado la peggiorano – quando quel denaro finisce nei posti sbagliati, come le slotmachines e i gratta-e-vinci. Tutto questo il carisma francescano lo ha sempre saputo, e lo sa ancora. Nelle varie forme che ha assunto la cura francescana delle povertà, una grande attenzione è stata sempre riservata ai capitali delle persone e delle comunità, che sono sempre azioni, investimenti e accumulazioni che durano anni, e sono sempre molto costosi e dall’esito incerto. Senza prendere sul serio questa dimensione della sapienza francescana, non capiamo come mai dai frati dell’Osservanza nacquero nella seconda metà del ’400 i cosiddetti monti di Pietà, delle proto-banche di micro-credito che avevano l’obiettivo di far uscire i poveri da condizioni di vulnerabilità economica. Vale la pena parlarne e offrire un contributo al dibattito nel momento in cui nel sostenere il 'reddito di cittadinanza' il Movimento 5 Stelle si è accostato ai francescani. Quei francescani non diedero vita a degli enti assistenziali (potevano farlo e tanti lo facevano) ma a dei contratti, a dei prestiti, che impegnavano i beneficiari alla responsabilità e quindi alla restituzione del prestito. Erano certamente istituzioni umanitarie perché avevano come scopo la lotta alla povertà e l’inclusione sociale, ma quel carisma suggerì loro strumenti più sofisticati dell’elemosina, strumenti basati sul registro della reciprocità. Sta proprio nella reciprocità la questione decisiva, che coinvolge le povertà e coinvolge il lavoro. Quando una persona fuoriesce dalla rete di rapporti di reciprocità di cui è composta la vita civile e economica e si ritrova senza lavoro e quindi senza reddito, la malattia che si crea nel corpo sociale è la rottura di relazioni di reciprocità. Il reddito da lavoro (stipendi, salari) è il risultato di una relazione tra persone o istituzioni legate da vincoli reciproci: A offre una prestazione lavorativa a B, e B ricambia offrendo reddito ad A. Quando, invece, i redditi non nascono da rapporti mutuamente vantaggiosi, abbiamo a che fare con relazioni sociali malate o quantomeno parziali, che si chiamano rendite o assistenza, dove i flussi di reddito sono sganciati da relazioni reciproche. Ecco perché la tradizione francescana affermava che 'quando c’è un povero in città è tutta la città che è malata', perché un membro del corpo sociale si isola dal flusso che lo lega a tutti gli altri, e inizia la cancrena. Si comprende allora che il principale rischio nei processi di lotta alla povertà, si annida proprio nel trascurare la dimensione della reciprocità. Quando percepisco un reddito senza che prima o simultaneamente ci sia una mia prestazione a vantaggio di qualcun altro, quel reddito raramente mi aiuta ad uscire dalle trappole in cui mi trovo, perché continuo ad essere un povero con un po’ di reddito per sopravvivere. Per lasciare la condizione di povertà, per affrancarmi dall’indigenza, devo reinserirmi in rapporti sociali di mutuo vantaggio. Tutti sappiamo che 500 euro ottenuti lavorando e 500 euro ottenuti grazie a un assegno sociale, sono due faccende completamente diverse: sembrano uguali ma è il sapore della dignità e del rispetto ad essere molto diverso. Il primo reddito è espressione di una relazione che l’economista napoletano Antonio Genovesi chiamava di 'mutua assistenza'; il secondo assomiglia molto alla mancia che diamo a un figlio prima che inizi a lavorare, e nessuno genitore responsabile vuole che il figlio sopravviva per molto tempo con le mance che gli dà. È allora molto francescano l’articolo 1 della Costituzione italiana, che fonda la nostra democrazia sul lavoro. In una società in cui i poveri erano molto più di oggi, la Costituzione ha voluto indicare l’unica via civile possibile alla lotta alla povertà: il lavoro, la grande rete che ci lega gli uni con gli altri in rapporti di pari dignità. Inoltre, se la povertà è assenza di capitali che si esprime in assenza di reddito, i capitali più importanti non sono faccende individuali ma comunitarie e sociali. E quindi i beni pubblici e i beni comuni sono parte integrante della ricchezza e dei capitali delle persone, che pesano come e più del conto in banca. Quando vedo una persona in condizione di povertà, se voglio veramente curarla, debbo sanare le sue relazioni, perché la povertà è una serie di rapporti malati. Il lavoro per tutti è la terra promessa della Costituzione, molto più esigente del reddito per tutti. Una promessa-profezia che oggi assume un significato ancora più importante di allora, perché c’è una ideologia globale crescente che nega la possibilità di lavoro per tutti, nel tempo della robotica e dell’informatica. La vera minaccia che è di fronte a noi è rinunciare a fondare le democrazie sul lavoro, accontentandoci di società nelle quali lavorano il 50 o 60% delle persone in età attiva e a tutti gli altri verrà consentito di sopravvivere con un reddito di cittadinanza, dando vita ad una vera e propria società dello scarto, magari scambiata come solidarietà. Questa terra del lavoro parziale non può, non deve essere la terra promessa. Chi oggi, allora, continua a pensare di combattere la povertà con qualche centinaia di euro erogati ai singoli individui, dimentica la natura sociale e politica della povertà, e ricade in visioni individualistiche e non-relazionali. Per combattere le antiche e nuove povertà dobbiamo riattivare la comunità, le associazioni della società civile, la cooperazione sociale, e tutti quei mondi vitali nei quali le persone vivono e fioriscono. I nfine, Francesco d’Assisi oggi ci direbbe, forse, due altre cose. La prima riguarda la parola povertà: Francesco la chiamava 'sorella', la vedeva come una strada di felicità e di vita buona. I francescani hanno scelto liberamente la povertà per liberare chi la povertà non l’ha scelta ma la subisce. Sapevano che non tutte le povertà sono cattive, perché la povertà è anche una parola del vangelo: 'beati i poveri'. E quindi oggi userebbero parole diverse per la povertà cattiva e non scelta (esclusione, indigenza, vulnerabilità economica …), e ci aiuterebbero a stimare la bella povertà scelta nella condivisione e nella sobrietà generosa. Infine, ci ricorderebbero che la prima cura della povertà è l’abbraccio del povero. Francesco iniziò la sua vita nuova abbracciando e baciando il lebbroso a Rivotorto. Possiamo immaginare mille misure contro la 'povertà', possiamo dare loro reddito e far nascere nuove istituzioni che se ne occupino, ma se non torniamo a guardare e abbracciare i poveri delle nostre città, siamo molto lontani da Francesco e dalla sua fraternità.

CORRIERE DEL VENETO Pag 7 La sentenza fa sognare i divorziati: ora tutti vogliono “ritoccare” l’assegno all’ex moglie di Emilio Randon La Cassazione e la corsa agli avvocati

Padova. S’avanza uno strano cliente negli studi degli avvocati divorzisti, è maschio, ha il cuore pacificato ma il portafogli in disordine, per lui l’ex moglie è un capitolo chiuso da tempo eppure l’assegno che le corrisponde non ha mai smesso di correre. Prima pagava e stava zitto, ora finalmente spera, rimugina e tra sé e sé si ripete: hai visto mai, che con questa sentenza della Cassazione, da uccellato divento uccellatore? Questa è la volta che non le pago più gli alimenti. Con sentenza n. 11504/17, la Suprema Corte ha stabilito che l’assegno di mantenimento «non va riconosciuto a chi è indipendente economicamente» ovvero possiede redditi, patrimonio mobiliare e immobiliare, «capacità e possibilità effettive» «di lavoro personale» e «stabile disponibilità di una abitazione». La causa riguardava il contenzioso sollevato dal marito di una ricca ereditiera americana stufo di pagare, ricco di suo si presume. Questo non ha impedito a molti ex mariti di più umile condizione di riconoscersi nel fortunato ricorrente nella speranza di ripeterne l’impresa. Da dieci giorni (la sentenza è del 9 maggio) il telefono di Alessandro Tosatto, coordinatore regionale dell’associazione «Padri separati» squilla incessantemente: «Tutti mi chiedono se non sia finalmente arrivata l’ora. Io cerco di ridimensionare gli entusiasmi, la sentenza è certamente innovativa, in qualche modo era nell’aria, ma è ambigua: il giorno dopo la stessa sezione della Cassazione conferma l’assegno di Berlusconi alla ex moglie Veronica Lario. Perché ciò che vale nel divorzio non vale per il periodo di separazione? Mi aspetto che i giudici si ritrovino a sezioni riunite e dicano una parola definitiva. Però avverto le signore: non stiano troppo tranquille». E quanto si devono agitare queste signore? «Non più di tanto», rassicura l’avvocato civilista Daniele Accebbi del foro di Vicenza. Il suo cliente tipo (femmina per l’80 percento dei postulanti) arriva con gli occhi arrossati dal pianto e la vita sconvolta. «Io dico loro, si tranquillizzi, il divorzio è un trauma ma anche un cambio di passo e l’opportunità per una vita migliore. La legge del 1972 ha 45 anni, nel frattempo la condizione della donna è cambiata e il marito non può essere considerato come un’assicurazione sulla vita. I giudici lo sanno da tempo. Nel 1990 la Cassazione parlò di «tenore di vita» precisando cosa si dovesse intendere nel fornire «mezzi adeguati». Il giudice supremo avvertiva che l’assegno non può essere un motivo di rendita ingiustificata e parassitaria. L’ultima sentenza fa più rumore che altro, nella pratica poco cambierà. E come potrebbe del resto? Il tenore di vita per chi guadagna 1200-1500 euro non è un concetto che si allunga e si accorcia come un elastico. Quando c’è la possibilità il giudice interviene e, se interviene, lo fa con lo spirito del tempo. Lo spirito del tempo dice: tirati su le maniche e vai a lavorare, uomo o donna che tu sia». Anna Maria Alborghetti, avvocato di Padova, era lo spauracchio dei mariti: le mogli che venivano da lei ne uscivano sempre con in più un filino di sadica soddisfazione. Ora ci ride su: «Siamo l’unico paese al mondo dove per divorziare bisogna prima separarsi. Assurdo no? Ma a parte questo, non sono una di quelle che dice, ah! povere noi donne. Dico che, se pure abbiamo mangiato tanti rospi, i tempi sono cambiati, la Cassazione lo riconosce e incoraggia la dignità femminile. Prendiamocela piuttosto con quegli sciagurati di padri che si fingono disoccupati pur di non pagare l’assegno ai figli». Tranquille? Mica tanto. La collega Carla Secchieri, sempre di Padova, sente il terreno giudiziario muoversi sotto i piedi e si allarma: «Voglio vedere come interpreteranno i giudici di merito. Già c’è la corsa dei mariti a riempire i modelli di modifica delle condizioni economiche e questa sentenza li incoraggia. Cos’è l’autosufficienza per una donna che lavora ma deve pagare un muto di 900 euro al mese? Ecco cosa devono decidere i giudici di merito e lo dovranno fare sulla base di una Cassazione che ha cambiato la condizione di diritto». «Aumenterà la litigiosità tra i litigiosi – prevede l’avvocato Cesare Dal Maso di Vicenza – nella sentenza della Cassazione vedo però anche un contributo volto teso a scoraggiare le brame e le ingordigie di mogli più interessate al calcolo economico e alla vendetta che alla perequazione. Il club delle aspiranti ex mogli, insomma, starà più attento nelle iscrizioni. Si divorzierà come prima forse, ma senza sbranarsi davanti al giudice». Diversità di accenti e previsioni. Sovrana e indifferente, la Chiesa guarda dall’alto e, a quel che ci dice monsignor Ezio Olivo Busato membro del collegio della Rota Romana, non è interessata più di tanto: «Per la Chiesa il divorzio è inammissibile, la tua parola sia sì sì, no no, i giudici ecclesiastici decidono sulla sussistenza del matrimonio, o c’è o non c’è. Ma una domanda me la pongo: a che serve la separazione? È il tentativo forzato di una possibile riconciliazione? Se sì non funziona: chi si separa non torna indietro. Cosiffatto mi sembra l’ultimo omaggio dello stato italiano all’indissolubilità pretesa da noi preti. Un’ipocrisia. Da cinico mi felicito con i cinici: questa sentenza della Cassazione scoraggerà i divorzi interessati».

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO Pag 10 Altri 70 milioni per provare il Mose di Roberta Brunetti Il Provveditore alle opere pubbliche ha fatto i conti del costo di tre anni di esercizio provvisorio delle paratie

Per il Mose si avvicina il momento della verità. Quello dei tre anni di “esercizio provvisorio”, in cui il sistema di paratoie verrà azionato per bloccare le acque alte e si vedrà come funziona. Tre anni di prove, per cui serviranno circa una settantina di milioni. Il conti li sta facendo, proprio in questi giorni, il Provveditorato alle opere pubbliche del Triveneto, in vista del Comitatone per Venezia che, dopo tre anni, tornerà a riunirsi in laguna a giugno. Un appuntamento decisivo per il futuro dell’opera. «In Comitatone porteremo, innanzitutto, il nuovo cronoprogramma del Mose - annuncia il provveditore, Roberto Linetti - lo presenteremo ai ministri per l’approvazione ufficiale». Le nuove scadenze sono quelle definite un paio di mesi fa: consegna dell’opera slittata a fine 2018; quindi avvio dell’”esercizio provvisorio” fino al 31 dicembre del 2021, quando sono previsti la consegna delle opere e l’inizio della gestione ordinaria. Un percorso ancora pieno di punti di domanda. Di certo, per l’”esercizio provvisorio”, serviranno finanziamenti. «Servono veramente e devono arrivare nel 2018 - sottolinea il provveditore - La cifra esatta ancora non la sappiamo. Circa 70 milioni per tre anni di esercizio provvisorio». La decisione ora passa al comitato interministeriale, a cui sarà presentato anche il progetto per l’impermeabilizzazione di Piazza San Marco. Altro progetto per cui serviranno fondi. La questione è che l’acqua alta, a San Marco, invade la Piazza già a quote molto basse, quando le paratoie del Mose non saranno alzate. Ed ecco la necessità di mettere all’asciutto la Piazza, con un sistema di impermeabilizzazione che impedisca all’acqua di risalire dagli scoli fognari. «Il progetto per il primo lotto, che riguarda la Basilica di San Marco, è già pronto - spiega Linetti - ma noi stiamo lavorando anche a quello per l’intera Piazza». L’obiettivo del Provveditorato è quello di completare il lavoro per l’avvio dell’esercizio provvisorio. Si vuole evitare che, con il Mose in funzione, la Piazza si ritrovi comunque sott’acqua. Punto di partenza un vecchio progetto decisamente impegnativo (costo 100 milioni) che fu abbandonato. «L’abbiamo ripreso - spiega Linetti – lo stiamo sviluppando per renderlo più cantierabile, con interventi lineari sulle fognature, per non bloccare l’intera Piazza. Quindi faremo una gara pubblica. Costerà molto meno: qualche decina di milione. E in uno, due anni contiamo di avere risolto anche la questione Piazza San Marco».

Pag 20 Venezia. In canonica spunta un busto di Doge opera del Canova di Gabriele Zanchin

Treviso - Dallo sgabuzzino alla canonica: spunta un busto in marmo del Canova. La statua, il cui gesso preparatorio venne distrutto nel bombardamento alla Gipsoteca del 1917, sarebbe stata ritrovata in una canonica di Venezia. Antonio Canova, lo scultore neoclassico di Possagno, fa notizia non solo per le sue opere sparse per mezzo mondo (ora anche negli Stati Uniti) ma anche per i ritrovamenti. Nel caso in questione si tratta di un busto del doge Polo Renier che il professor Giancarlo Cunial, insegnante, cultore del Canova (oltre che guida della Gipsoteca) ed ora pure investigatore d'arte, avrebbe ritrovato proprio in un edificio religioso della laguna. Si tratta di una storia affascinante e di un vero giallo culturale perché dell'esistenza di quest'opera d'arte si sa ben poco: ne parla Vittorio Malamani in una pubblicazione milanese del 1911 ma la distruzione del sua versione in gesso durante il bombardamento della Grande Guerra non ha mai permesso di raccogliere ulteriori indizi. «Sono sicuro che si tratti della versione in marmo di quel busto, realizzata tra il 1776 e il 1779» spiega Cunial. E sia chiaro che il doge Renier di Canova non è quello del museo Bottacin di Padova.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI In sosta per la patrona, raffica di multe di Alvise Sperandio Brutta sorpresa per gli automobilisti dopo le celebrazioni per Santa Rita

Auto in sosta a pagamento senza biglietto: scattano le multe ed esplode la rabbia del parroco. L'altra sera la parrocchia di Santa Rita, al Piraghetto, ha festeggiato la patrona con la messa solenne e a seguire una cena, conclusasi per molti con l'amara sorpresa. Fuori dalla chiesa, quand'è stato il momento di tornare a casa, in tanti hanno trovato sul cruscotto il verbale della contravvenzione o perché non avevano esposto il ticket richiesto dalle strisce blu o perché l'orario indicato era scaduto. «Capisco che bisogna pagare, ma talvolta servirebbe buon senso attacca il parroco don Franco Gomiero Gli ausiliari sono passati alle 19.30, a solo mezz'ora dall'inizio della sosta libera. Che ci fosse un evento speciale lo sapevano tutti, dai cartelli appesi nei giorni precedenti alla grande partecipazione che si è vista». Tra i multati, anche il vicario generale della diocesi, don Angelo Pagan che ha presieduto la celebrazione alla quale hanno partecipato il vicario foraneo don Guido Scattolin e il responsabile della collaborazione pastorale don Mirco Pasini, parroco di Santa Maria di Lourdes. «Sembra l'abbiano fatto apposta - sostiene don Gomiero -. La gente si è trovata numerosa per una bella festa, in tanti sono venuti dalla zona di via Piave a suggellare questo rinnovato legame tra comunità vicine e anche da altre parti della città. Purtroppo non è la prima volta che capita di trovare le contravvenzioni anche perché qui, attorno al Piraghetto, ci sono appena quattro parcheggi a strisce bianche. Al Comune chiediamo di valutare la possibilità di liberare almeno l'asta degli stalli a pagamento che corre lungo la chiesa durante gli orari delle celebrazioni». Alla messa per la patrona, accompagnata da musica per organo, erano presenti circa 300 persone. Forse il tutto è andato per le lunghe sforando le previsioni e spiazzando chi aveva messo poche monete nel parcometro, ma sta di fatto che le auto pizzicate erano effettivamente fuori legge e gli ausiliari, in fondo, hanno eseguito quanto devono fare.

LA NUOVA Pag 12 L’Unesco convoca sindaco e governo di Alberto Vitucci Il 5 luglio a Cracovia l’ultima riunione prima del “processo” di metà luglio con l’assemblea mondiale che dovrà decidere

Ultima chiamata. Governo italiano e Comune sono stati convocati dall’Unesco il 5 luglio a Cracovia. La città polacca di papa Wojtyla che ospita quest’anno il forum mondiale dell’associazione. Dieci giorni dopo, è attesa la sentenza che potrebbe anche condannare Venezia, cancellandola dai siti Patrimonio dell’Umanità. Un mese di tempo per mettere a punto la “road map” e presentare al mondo un quadro credibile di interventi. Per arginare un turismo sempre più aggressivo, che sta stravolgendo la città. Prima di quella data dovrà essere convocato il Comitatone. La delibera “operativa” che mette in praticale “linee guida” del 28 aprile dovrà essere approvata entro i primi giorni di giugno. Grandi navi. Resta uno dei temi più urgenti. L’Unesco, dopo cinque anni di melina e di progetti bocciati, chiede ora di sapere quale sia la soluzione. Ieri a Roma un vertice tra dirigenti comunali e ministeri. La strada concordata da Comune, Autorità portuale e ministero delle infrastrutture sembra quella dello scavo del canale Vittorio Emanuele, per fare arrivare le navi in Marittima passando dalla bocca di Malamocco e dal canale dei Petroli. Ma i comitati non sono d’accordo. «Abbiamo chiesto al presidente Musolino di fare finalmente la comparazione pubblica fra tutte le soluzioni, come deciso tre anni fa dal Senato», dice Stefano Boato. Il comitato Ambiente Venezia ha avviato un referendum per le grandi navi fuori dalla laguna. Comitatone. Si farà entro la metà di giugno, ha garantito il governo al sindaco Brugnaro. Ma la convocazione ancora non arriva. Riunione importante, perché in quella sede dovranno essere distribuiti i finanziamenti della Legge Speciale, altrimenti non utilizzabili. Ma si dovrà anche decidere sulle competenze dell’ex Magistrato alle acque da passare alla Città metropolitana, come prevede la legge. Per avere competenze uniche sulle acque della laguna e il moto ondoso. Poi la gestione del Mose e la decisione sulle navi. Porto e conca. Decisioni attese anche sul fronte del porto. La conca di navigazione costruita dieci anni fa dal Consorzio Venezia Nuova non è sufficiente ad accogliere le grandi navi mercantili. Il progetto off- shore è stato bocciato, l’ipotesi di una banchina a Malamocco ancora non è stata approvata. Autorità portuale e Comune sollecitano decisioni. San Marco. Il sindaco parla di “semaforo”. Il ministro Franceschini di un limite quando gli accessi in Piazza superano un certo numero. Ma la sperimentazione ancora non è partita. Intanto la pressione aumenta, il numero dei turisti, due su tre sono giornalieri, anche. C’è soltanto l’accordo per costituire un tavolo permanente tra Comune, Regione, Governo per ridurre i tempi delle decisioni. Locazioni turistiche. Anche qui occorre l’accordo con Regione e Stato per rendere più stringenti le norme sulle affittanze turistiche. La delibera del Comune è stata approvata a maggioranza. Gran Turismo. Nel progetto del Comune c’è anche lo spostamento degli approdi per i lancioni Gran Turismo da San Marco a Sant’Elena e alla Celestia-Fondamente Nuove. Un modo per allentare la pressione sull’area marciana. Intanto l’Actv firma accordi con il Comune di Jesolo per portare i turisti con i vaporetti direttamente a Venezia. Non certo un dissuasore a chi vuol venire a San Marco. «Ma vogliamo allontanare anche quegli approdi pubblici dall’area marciana», dicono a Ca’ Farsetti, «e il trasporto pubblico è più contollabile rispetto ai privati dei servizi non di linea». Le card. Altro progetto che andrà applicato a breve è quello della carta servizi. Costerà di più nei periodi di massimo afflusso, quando sarà richiesta per musei e parcheggi la prenotazione obbligatoria.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Quell’odio per la vita di Aldo Cazzullo

Quel che più colpisce, nel guardare le fotografie della strage degli innocenti a Manchester, è il contrasto tra le immagini infantili - i palloncini, le chitarre giocattolo, le orecchie da topolino - e la macabra crudeltà del terrorismo islamista. Che attacca senza strategia e anche senza tattica, animato dall’odio per la vita, con il solo fine di uccidere più bambini che può. E’ un contrasto, questo tra l’innocenza e la crudeltà, che in altri casi è stato additato come la prova della debolezza di un Occidente imbelle di fronte alla spietatezza dei suoi nemici. Invece l’innocenza dei bambini, degli adolescenti, delle mamme di Manchester va rivendicata. Non è un segno di impotenza ma di forza, di amore per la vita non meno irriducibile della ferocia con cui i nostri nemici ci combattono. E l’innocenza la dobbiamo difendere, in tutti i modi in cui può essere difesa: dalla paura, dal ripiegamento su noi stessi; ma in primo luogo dall’attacco degli islamisti. Che colpiscono sempre dove meno ce la aspettiamo. La guardia era alta soprattutto in Francia, dove il processo democratico che si concluderà con le legislative (11 e 18 giugno) finora è proseguito senza condizionamenti, nonostante l’attentato sugli Champs- Elysées. Anche nel Regno Unito si vota, l’8 giugno. Ma sono elezioni scontate, la vittoria dei conservatori non è in discussione, nessuna mossa del terrore potrà cambiarne il verdetto (come fece in Spagna nel 2004 la strage di Madrid). Stavolta il bersaglio degli assassini non era il Parlamento di Westminster, a differenza dello scorso 22 marzo. Erano i fan di una cantante che tanti tra noi adulti non avevano mai sentito nominare, ma è molto amata dai teenager . E l’obiettivo era accreditare uno dei paradigmi del terrore: il parallelismo della sofferenza tra i morti di Manchester e quelli in Siria, in Iraq, in Libia, in Yemen. Uno schema cui una parte dell’opinione pubblica europea, anche non islamica, è sensibile; ma che invece va respinto nel modo più assoluto. Le guerre civili in Medio Oriente e in Africa, accese dalla rivalità religiosa e dalla rivolta contro i vecchi autocrati, continuano anche perché le potenze regionali e quelle mondiali hanno l’ambizione di giocare un ruolo. Ma quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto, i genitori che attendono all’ingresso, i famigliari che aspettano da casa telefonate che non verranno? Alzare muri è impossibile e in ogni caso inutile. Il Regno Unito non ha mai aderito agli accordi di Schengen, non ha mai sospeso i controlli alle frontiere, un anno fa ha votato per uscire dall’Europa. Ma non per questo è al riparo. Manchester poi è un centro di reclutamento per gli estremisti islamici (e chiudere due anni fa il consolato italiano, in un’area metropolitana dove vivono 60 mila nostri compatrioti, non è stata una grande idea). Questo però non può essere un alibi per rinunciare al governo dell’immigrazione, al presidio delle frontiere meridionali d’Europa, al controllo della propaganda jihadista su Internet e nelle periferie delle nostre città. Ovviamente la sicurezza è una condizione perduta per sempre. I motivi di allarme possono essere infiniti. Stasera proprio il Manchester United si gioca l’Europa League a Stoccolma. Tra dieci giorni a Cardiff c’è la finale di Champions. Il primo luglio a Modena Vasco Rossi terrà il più grande concerto della storia italiana. Dovremo vigilare; però dovremo anche vivere. Attrezzarci per il tempo che ci è dato in sorte, trovare un equilibrio tra le opposte retoriche pacifista e bellicista, considerare l’innocenza un valore, la pavidità e l’indifferenza una colpa. Lo dobbiamo ai bambini di Manchester, ai nostri figli, e a noi stessi.

Pag 1 L’Europa si difenda di Beppe Severgnini

Il Regno Unito ha chiesto di uscire dall’Unione Europea, ed è un peccato. Ma il Regno Unito resta in Europa, ed è una consolazione. La geografia, la storia, il rispetto e l’amicizia non si cambiano con un referendum. Siamo tutti inglesi, in queste brutte ore, com’eravamo tutti francesi dopo il Bataclan e Nizza, tutti tedeschi dopo l’orrore natalizio a Berlino, tutti belgi dopo l’attentato all’aeroporto di Zaventem. Non è retorica. E’ consapevolezza. Siamo tutti europei e, nella tragedia, il comun denominatore diventa improvvisamente chiaro. L’Europa è l’obiettivo dei nostri nemici e, insieme, la nostra forza. Sono comuni le minacce e comuni le strategie difensive; comune la preoccupazione e comune l’orgoglio. Uniti si resiste, in attesa di vincere. Divisi si rischia di perdere. Le nuove reclute psicotiche del terrorismo islamico non sono interessate alle conseguenze di Brexit. Ai loro oscuri manovratori non importa condizionare le elezioni del prossimo 8 giugno, il cui esito è scontato. Sono invece ossessionati dalla società aperta, che il Regno Unito rappresenta forse più di ogni altro Paese europeo. Gli estremisti religiosi odiano il capolavoro che siamo riusciti a costruire insieme, da Manchester a Marsala, da Danzica a Lisbona. Questo dobbiamo proteggere. Così dobbiamo difenderci. La storia non si fa con le ipotesi, soprattutto in giornate come quelle che stiamo vivendo. Ma l’impressione resta: un grande malcontento popolare, e un pessimo calcolo politico, hanno spinto il Regno Unito fuori dall’Unione Europea. Non devono spingerlo però fuori dall’Europa, cui appartiene. Perché ne condivide i valori, che i nostri nemici detestano e temono: la libertà, la tolleranza, l’apertura, la curiosità. Purtroppo gli Stati europei condividono anche gli errori. Cos’ha in comune l’attentatore di Manchester con gli assassini che l’hanno preceduto (in Francia, in Germania, in Belgio)? Il fatto d’essere nato e cresciuto nel Paese che ha voluto colpire. Una schizofrenia identitaria che in Europa non abbiamo saputo prevedere, né contrastare. Dovremmo chiederci perché. Oggi, infatti, stiamo scontando gli errori di ieri. Domani rischiamo di pagare le disattenzioni di oggi. Restiamo vicini agli inglesi, noi continentali: hanno bisogno di noi. Se troveremo le soluzioni, le troveremo insieme. La durezza dei negoziati per Brexit non può farci dimenticare che abitiamo la stessa frangia del mondo e crediamo nelle stesse cose. L’obiettivo dei terroristi - non da oggi - è dividerci. La rivendicazione dell’Isis - la polizia inglese non ne ha ancora confermato l’autenticità - parla di «un soldato del califfato in grado di piazzare un ordigno esplosivo all’interno di un raduno di crociati nella città di Manchester». Crociati quindicenni?! L’assurdità di queste parole non è solo l’offesa che s’aggiunge all’orrore. È la prova che, nelle proprie farneticazioni, i terroristi vedono un unico, grande avversario: l’Europa, con le sue radici. E l’Europa deve difendersi. Come? Continuando a vivere secondo le proprie regole, senza cambiare abitudini. E muovendosi unita contro il nemico diffuso. Più di quanto abbia fatto finora. La Gran Bretagna ha identificato 3.000 estremisti religiosi; ma ha le risorse per monitorare solo 40 di loro, scrive The Economist. Sorvegliare una persona, ventiquattro ore su ventiquattro, richiede 18 agenti. Ogni Paese europeo affronta simili difficoltà. La libera circolazione all’interno della Ue rende questi individui un pericolo comune, da affrontare insieme, utilizzando regole concordate. Non possiamo limitarci alle reciproche condoglianze, quando accade il peggio.

Pag 3 Il bersaglio facile dell’Isis per “punirci” due volte di Guido Olimpio

L’attentatore di Manchester, Salman Abedi, ha scelto un bersaglio facile. Lo ha fatto per opportunità pensando che ci sarebbero stati meno controlli, visto il pubblico di giovanissimi, con molte ragazzine. Al tempo stesso, nella sua testa di killer con in mente le direttive dello Stato Islamico, ha pensato che lo scempio di adolescenti ci avrebbe puniti due volte. Colpendo le vite innocenti e aumentando l’orrore perché chissà quanti oggi si sono immedesimati in genitori e figli. Barbarie peraltro già vista ad altre latitudini. I terroristi non fanno differenze tra militari e civili, tra adulti e minori. Come prescrivono i loro manuali è permesso assassinarli. L’attacco all’Arena rientra purtroppo nel sentiero aperto molto tempo fa. La festa pubblica, lo show sono target ideali e ripetuti. Lo ricordano i nomi: la sala da concerti Bataclan di Parigi, il night club Pulse a Orlando, i fuochi d’artificio sulla Promenade des Anglais a Nizza. Sono target poco protetti, anche la sola calca - se la gente fugge in preda al panico - può fare danni, gli spazi ristretti di un corridoio o di una platea si trasformano in trappole letali. Di nuovo i magazine online dell’Isis lo hanno spiegato, aggiungendo molti consigli sul modus operandi. E negli ultimi mesi il volume della retorica con l’esortazione a spargere sangue è stato alto, sospinto dagli slogan dello Stato Islamico ma anche da quelli del figlio di Osama, Hamza. In questo caso poi il «soldato del Califfato» - sempre che la rivendicazione sia autentica - ha utilizzato un ordigno in apparenza non sofisticato, reso più micidiale dall’aggiunta di schegge (chiodi, bulloni), tecnica vista centinaia di volte. Ed è entrato in azione alla fine dello spettacolo, nella parte più esterna dell’impianto, per mimetizzarsi tra la folla di spettatori e senza dover raggiungere, ad ogni costo, l’interno. Ulteriore variazione all’assalto con armi da fuoco, al veicolo ariete, ai pugnali. E’ quasi inutile speculare quanto sia pianificato: è una minaccia fluida che si adatta e cambia, torna all’antico. Le indagini dovranno svelare alcuni punti chiave. Abedi ha costruito da solo l’ordigno? E’ stato diretto dall’Isis, come farebbe pensare il comunicato? O ispirato? È davvero un kamikaze o la carica è deflagrata mentre la stava piazzando? Ha contato su una rete d’appoggio? Non pensiamo a un network, può bastare anche un amico o un parente, cosa avvenuta per l’attacco di Boston. Le risposte potrebbero evitare altre sorprese.

Pag 16 Medio Oriente, le (due) parole non pronunciate di Davide Frattini

Nelle prime trenta ore dedicate a quello che considera l’«accordo del millennio» Donald Trump è riuscito a non pronunciare mai la formula «soluzione dei due Stati» e a non dover rispondere della promessa fatta in campagna elettorale: l’ambasciata americana per ora resta a Tel Aviv. Del vagheggiato spostamento a Gerusalemme non gli ha certo chiesto conto Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, che ha spremuto tutte le energie diplomatiche per evitare di indispettire l’ospite americano. Fino a scegliere con i consiglieri del presidente la sala semi sotterranea dell’Israel Museum come scenario per il suo discorso. La Knesset - pare - sarebbe stata troppo insidiosa, il comportamento dei parlamentari imprevedibile. Trump ha ripetuto molte volte la parola «pace». Haaretz - il quotidiano della sinistra israeliana - fa notare che le ha ridato un’enfasi che sembrava perduta. Soprattutto ha esteso la possibilità di «pace» a quasi tutto il Medio Oriente, in Israele ha ribadito il suo piano per la regione: un’alleanza con i Paesi arabi sunniti, anche quelli che per ora non hanno relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico, in chiave anti-iraniana. Così ha già cominciato a smantellare la dottrina del predecessore Barack Obama, che aveva costruito le sue mosse attorno al coinvolgimento nelle questioni mediorientali del regime di Teheran. Per Netanyahu, commentano gli analisti, è come risposarsi dopo otto anni di un cattivo matrimonio. L’intesa pensata da Trump dovrebbe rappresentare l’avanguardia contro il terrorismo. Anche ad Abu Mazen ha chiesto di agire perché «la violenza non sia tollerata, finanziata e premiata». Con il presidente palestinese parla del possibile accordo di pace, ancora una volta senza dettagli, senza neppure indicare come far ripartire le trattative dirette con Netanyahu ibernate dall’aprile del 2014. Come fumosa sembra la strategia di Jared Kushner, incaricato di seguire la questione. Scrive l’agenzia Reuters in un commento: «Se il genero ha un piano, per ora resta segreto».

LA REPUBBLICA Pag 1 Proteggere il futuro di Mario Calabresi

Si diceva che ci stavamo abituando agli attentati, grazie a un misto di rassegnazione e assuefazione, invece la strage di Manchester ci lascia senza parole, ci trascina nel campo dell'inimmaginabile. Il Bataclan aveva scosso le nostre vite, quella sera a Parigi era stata colpita la gente seduta ai tavolini dei bar o mentre ballava e cantava a un concerto. Credevamo si fosse toccato il fondo della perversione, con la scelta di attaccare il nostro modo di vivere, di divertirci in libertà. Poi ci sono stati il camion lanciato sul lungomare di Nizza, contro una folla di famiglie che aveva appena abbassato gli occhi dal cielo, dopo lo spettacolo dei fuochi d'artificio, e quello contro il mercatino di Natale a Berlino, con il vino caldo, i giochi, lo zucchero filato. Ora si colpisce lo spettacolo dei bambini e degli adolescenti. Si entra nella cosa più cara e preziosa che abbiamo, lo spazio dell'intimità familiare. Il kamikaze ha ucciso almeno 22 persone ma anche il gesto di generosità e coraggio di un genitore, di un fratello maggiore, di una zia, che avevano regalato un rito di passaggio. Si è voluta punire la trasgressione di un bambino: andare a letto tardi per assistere al primo concerto. Immaginate quelle madri e quei padri che si erano fatti convincere e ora si tormentano per aver avuto questa idea. Una festa di bambini e adolescenti. Lo scoppio è avvenuto quando tutto era finito e le luci si erano riaccese. Mentre il sonno spingeva verso casa. Esplosivo e chiodi. La malignità assoluta del gesto. La folla impazzita dal terrore che scappa calpestando chi è più fragile e piccolo. Restiamo muti e pieni di rabbia. E ora che possiamo fare? Prima di tutto dobbiamo sconfiggere il terrorismo. Abbiamo il dovere di essere vigili, di pretendere il massimo dell' attenzione, delle precauzioni, della difesa. Dobbiamo combattere questa guerra con il massimo della determinazione e dell' energia, sapendo che non potremo mai dirci completamente sicuri, perché non esiste questa possibilità. E in questa tragica incertezza abbiamo il diritto e il dovere di crescere i nostri figli, le nuove generazioni, alla voglia di vivere. Dobbiamo avere il coraggio di non chiuderli in casa, di garantirgli un futuro. Ariana Grande ha fatto bene ad interrompere il suo tour, c'è bisogno di riflessione, si è sempre detto che lo spettacolo deve andare avanti, ma forse sarebbe meglio dire che la vita deve andare avanti, non per forza lo spettacolo. Di fronte all'abisso del dolore ci sentiamo perduti ma la memoria ci deve venire in soccorso, si deve continuare a vivere senza tradire il nostro modo di vivere. La Storia ce lo insegna e non ho potuto fare a meno di tornare alla mattina di sabato 2 agosto 1980. Una bomba fece strage alla stazione di Bologna: 85 morti. L'Italia sprofondò nell'incubo mentre andava in vacanza. Anche allora morirono i bambini, quei bambini sono i fratelli delle vittime di Manchester. Luca Mauri aveva 6 anni, era partito da Como in macchina con la mamma e il papà ma all'altezza di Bologna ebbero un incidente e quando il meccanico spiegò loro che l'auto non era in condizione di proseguire decisero di ripartire in treno. Volevano arrivare in Puglia prima di sera senza perdere un solo giorno di mare. Sarebbero morti appena entrati in stazione. Sonia Burri, 7 anni, invece stava facendo il viaggio al contrario, arrivava da Bari con i genitori, i nonni, la zia e le cugine. La trovarono sotto le macerie abbracciata alla sua bambola rossa. Manuela Gallon aveva finito le elementari e stava partendo per la colonia, l'esplosione la uccise insieme alla mamma, si salvò solo il padre che era andato a comprare le sigarette. Quel giorno l'Italia si piegò nel dolore, sconvolti dall' orrore molti pensarono che non ce l'avremmo mai fatta ad uscire dalla stagione delle stragi e del terrorismo. Invece la nostra democrazia riuscì a prevalere, senza tradire se stessa e salvando i suoi principi. Ci riuscì perché la reazione fu convinta e decisa, perché gli uomini migliori dello Stato si sacrificarono al massimo, perché i cittadini non si arresero alla paura ma capirono che solo l'unità li avrebbe salvati. E perché alla fine gli assassini vennero lasciati soli, persero complicità e comprensioni. Oggi abbiamo bisogno di nuovo di tutto questo, di coraggio, di spirito di sacrificio, di cooperazione, di fermezza e intelligenza. Ma dobbiamo sapere che la partita è più grande, che siamo uniti nella sorte a tutti gli altri europei e che le comunità musulmane devono fare la loro parte, in modo convinto e deciso. Solamente tutti insieme ci salveremo.

Pag 31 Lo sguardo di Pietro su Trump di Alberto Melloni

Infilata in una angusta finestra mattutina, collocata fra la messa e l'udienza generale del mercoledì, l'incontro di oggi con papa Francesco metterà davanti a "The Real Donald" il successore di Pietro: non il capo della Città del Vaticano, nemmeno il supremo pastore del cattolicesimo romano, ma il successore di Pietro, che come dicono di lui gli Atti degli apostoli, non ha «né oro né argento», ma è voce di unità delle chiese. Bergoglio ha fatto in silenzio una vera riforma del papato. Ha costruito una fraternità a tutta prova con il patriarca ecumenico Bartholomeos; ha abbracciato senza condizioni Kyril il patriarca di Mosca e di tutte le Russie; ha manifestato fisicamente vicinanza al papa della chiesa copta Tawardos; ha fissato un pellegrinaggio in Sudan con l'arcivescovo di Canterbury; a Lund ha abbracciato le vescove e i vescovi luterani, e ha aperto una porta al contatto con i pentecostali. I comunicati ufficiali già scritti diranno di cordialità e differenze; gli sherpa faranno trapelare che Trump ha concesso qualcosa sul clima o che il Papa ha apprezzato il cattolicesimo della First Lady. Ma la realtà di quell'incontro è un'altra. Alla chiesa dei poveri, alla chiesa che "parla attraverso Pietro", ripugna quella che il New York Times ha definito la «fame di caos» di Trump. Là dove Trump compie piroette e giravolte geopolitiche seguendo l'odore delle commesse militari, chi segue Gesù vede solo una geopolitica molto vecchia, con troppo poveri e troppo ricchi, elenchi ormai cortissimi di "paesi canaglia" e orizzonti di catastrofi più grandi di quelle già viste. Questa visione non è cosa che il vicario di Pietro debba dire a Trump o ad altri: è cosa che il Papa "è". Il presidente americano è abituato a confrontarsi con i telepredicatori evangelicali come Paula White, che con un gesto sacramentale lo aveva "unto" in una cresima tutta politica, celebrata fra gli ori della sua casa newyorchese. A Roma si troverà davanti Pietro. E non sarà, la sua, una Canossa ingentilita dallo stile diplomatico. Sarà peggio. Il celebre incontro del 1077, quando Gregorio VII fece attendere tre giorni al freddo l'imperatore penitente fuori dal castello di Matilde, era in fondo l'inizio di una ideologia della cristianità che se durasse ancora oggi avrebbe qualcosa da dare a Trump. In quel ciclo, che coincide col secondo millennio della storia cristiana, papato e potere sembravano condannati a una reciproca ipnosi e simbiosi: fosse quello di Carlo V, di Napoleone o di Mussolini, la chiesa come potere doveva trattare coi poteri, piegarsi o farsi piegare. In quella mentalità Trump avrebbe avuto interesse nel chiedere udienza al Papa che nel febbraio 2016 lo aveva fulminato dicendo che «chi fa muri non è cristiano» e dovuto accettare di parlare con l'uomo che sui trafficanti di armi ha detto parole di fuoco. E poteva essere perfino necessario per il Papa ricevere l'uomo che lo aveva definito «un politico al soldo del Messico» e lo aveva minacciato dicendo che, quando l'Isis avrebbe attaccato il Vaticano, la Santa Sede avrebbe dovuto sperare di avere lui alla Casa Bianca. Ma questa logica non funziona, almeno adesso. Il successore di Pietro non compra armi: e non si farà incantare da promesse sui temi "non negoziabili" che ricordano il piccolo cabotaggio dell' era Berlusconi-Ruini, quando la terza guerra mondiale a pezzi era agli inizi. Il Papa parlerà solo della sete di pace di tutti i cristiani e dei fratelli non cristiani di tutti i cristiani. Trump dal canto suo dovrà provare a far dimenticare che la sua è la prima amministrazione che ha cercato di scassare l'unità della chiesa e della chiesa cattolica americana. La sulfurea figura di Steve Bannon - il guru ideologico di Trump è cattolico almeno di origine - è stata la spalla mediatica del cardinale Burke e dei cardinali che hanno attaccato il magistero sul matrimonio del Papa. A Riad è stato fotografato insieme ai famigliari del presidente con i quali tutti cercano di fare affari. Vedremo se avrà il buon gusto di star lontano dal Vaticano. In ogni caso Francesco non si inquieterà. Ha dalla sua un vecchio adagio che dice "chi mangia papa crepa", e che a medio termine funziona sempre. Lo stile petrino del Papa fa il resto. E ha dalla sua la tranquillità di chi sa di essere Pietro. Un Pietro a cui non serve molto tempo per mostrare a Trump che fra i telepredicatori e Pietro c'è un abisso.

AVVENIRE Pag 1 Capire davvero di Fulvio Scaglione Il terrore e la sfida da non perdere

L’attentatore di Manchester, se le notizie della prima ora saranno confermate, era un giovane di appena 22 anni, figlio di rifugiati libici. Che al concerto di Ariana Grande ha fatto però strage di ragazzi e ragazze ancora più giovani di lui, molte ancora bambine, visto che una delle prime vittime identificate, Saffie Rose Roussos, aveva solo 8 anni e almeno 12 tra i 60 feriti gravi hanno meno di 16 anni. È l’orrore allo stato puro, al di là di qualunque immaginazione. Il cuore e la mente rifiutano di accettare l’idea che qualcuno possa mandare un ragazzo a uccidere ragazzi e distruggere famiglie per ideologia o, peggio, per fanatismo pseudoreligioso. Cosa che sarebbe appunto avvenuta se la rivendicazione del Daesh si rivelerà attendibile, come molti elementi (a partire dalla figura stessa del kamikaze e dall’impiego di un ordigno esplosivo artigianale) farebbero pensare. Il Regno Unito aveva vissuto una tragedia di questa portata solo nel 2005, quando quattro diversi attacchi suicidi (tre nella metropolitana e uno su un autobus) avevano provocato oltre 50 morti. Due mesi fa, sul ponte di Westminster a Londra, un altro assassino aveva ucciso cinque persone scagliandosi su di loro con un’automobile e poi colpendo un poliziotto a coltellate, in un episodio drammatico ma di natura assai diversa rispetto a quello di Manchester. La strategia del terrore islamista, quindi, alza ancora la posta e rinnova i suoi sanguinari propositi, a dispetto di una «guerra al terrore » che, pur durando da più di 16 anni (fu George Bush junior a proclamarla il 20 settembre del 2001, nove giorni dopo le Torri Gemelle) e avendo mobilitato le migliori energie di tutto il «mondo libero», non ha evidentemente segnato i punti decisivi. L’orrore di Manchester, pertanto, contiene alcune lezioni che non dobbiamo assolutamente lasciare cadere. La prima è che rispetto al Daesh e alle sue stragi l’unico atteggiamento lecito è la più totale intransigenza. Non vi sono alleanze politiche, strategie o calcoli che tengano di fronte alla più profonda emergenza del nostro tempo e del prossimo futuro. Molti demografi ci spiegano che intorno al 2050, per la prima volta nella storia, il numero dei musulmani nel mondo si avvicinerà a quello dei cristiani. Una grande sfida. Forse una grande opportunità, a patto però che non permettiamo a questi manipoli di terroristi di dettare oggi la 'qualità' delle relazioni di domani. Perché dietro ogni kamikaze ci sono migliaia di giovani che l’industria della predicazione estremista cerca senza sosta di indottrinare e arruolare in ogni parte del mondo. A Londra come a Orlando (Florida), a Berlino come a Dacca, la capitale del Bangladesh dove nel luglio dell’anno scorso altri giovani votati al culto della morte assassinarono venti persone, tra le quali anche nove italiani. L’altra idea da recuperare davanti al massacro della Manchester Arena è che dobbiamo assolutamente fermare questa continua strage di giovanissimi e bambini. L’Europa resterà a lungo sotto lo choc di quanto è accaduto al concerto, ma molti non si renderanno conto che drammi come questo sono realtà quasi quotidiana per tanti popoli nemmeno tanto lontani da noi. In Siria, racconta l’Unicef, l’anno scorso sono stati uccisi almeno 652 bambini e altri 850 sono stati impiegati nei combattimenti. In Afghanistan, secondo le Nazioni Unite, ogni settimana 53 bambini vengono uccisi o feriti. In Iraq, nel 2016, su oltre 16.300 vittime civili, oltre 800 (più del 12%) erano bambini, come testimonia Iraq Body Count. È la strage degli innocenti su scala industriale, in una quasi generale mancanza di reazioni emotive che sa di assuefazione. Il dolore di Manchester, che ci tocca così nel vivo e ci angoscia, qui e ora, per il futuro di figli e nipoti, può darci però anche lo slancio per un rinnovato impegno che sarà morale e politico insieme. Non va da nessuna parte un mondo che non riesce a correggersi e non sa proteggere i più piccoli. Qualunque progresso faccia, qualunque ricchezza ottenga.

IL FOGLIO Pag 2 Francesco e Trump, l’incontro fra populisti che hanno tanto in comune di Mattia Ferraresi Opinioni da oltreoceano sull’udienza di oggi in Vaticano

New York. La rappresentazione di Donald Trump come anti Papa e del Papa come anti Trump compiace chi vuole arruolare Francesco nella schiera dei leader liberali, facendone un equivalente ecclesiastico di Merkel, Obama o di un Macron, in radicale contrasto con un illiberale sboccato che governa la più grande potenza del mondo con l'istinto e Twitter. Il Papa dell'accoglienza, dei migranti, degli ultimi non può che essere agli antipodi del miliardario confuso che parla di muri e restringe i termini dell' immigrazione nella nazione di santa Francesca Cabrini. Fra Santa Marta e la Trump Tower c'è un abisso, non solo stilistico. Secondo queste premesse, la visita di oggi è un incontro ravvicinato del terzo tipo, un summit a rischio esplosione mitigato soltanto da una graziosa lettera privata della cattolica Melania e da un Papa che con parresia ascolta anche l'interlocutore più lontano "senza pregiudizi", come ha detto di ritorno da Fatima. Le differenze, ingigantite dalla stampa, non devono però ingannare. Sotto la superficie ci sono analogie e similitudini che rendono l'incontro meno marziano di quanto potrebbe sembrare. Rusty Reno, direttore del mensile First Things, un centro nevralgico del pensiero cristiano fondato da Richard John Neuhaus, è un sostenitore a naso turato di Trump che dopo quattro complicatissimi mesi di governo è ancora convinto che il presidente sia meglio dell'alternativa. Reno spiega al Foglio che Trump e Francesco hanno molto in comune. "Entrambi si presentano come populisti, nel senso che parlano direttamente al popolo e in nome del popolo aggirando le strutture e i protocolli tradizionali. Sono estremamente critici verso i rispettivi establishment, e basta pensare al discorso durissimo del Papa alla curia romana poco prima di Natale per avere un esempio della sua ruvidità verso la gerarchia. Hanno una retorica molto diversa ma accomunata da un tono molto terra terra e concreto, senza giri di parole e intellettualismi, hanno la tendenza a dire cose controverse parlando a braccio, entrambi sono complicatissimi da gestire per i loro portavoce", dice Reno. Gli incontri di questo genere di rado permettono incursioni sulla sostanza politica, si rimane nella dimensione simbolica, che però in questi casi è già di per sé un fatto politico: "Sia Trump che il Papa hanno qualcosa da guadagnare da questo incontro, uno in termini di prestigio e di credenziali, l'altro per riconfermarsi come uomo del dialogo. Chi parla di chissà quali tensioni e trappole prende un abbaglio". "Dipingerli come opposti è una frenesia ispirata dai media", spiega Thomas Williams, corrispondente di Breitbart da Roma: "Trump è molto più vicino alle posizioni della chiesa di quanto non fosse Obama, e i due hanno diversi punti in comune. Entrambi sono pro life, difendono la libertà religiosa, sono non soltanto sensibili alle sofferenze dei cristiani in medio oriente ma sono pronti a dialogare con qualunque interlocutore per alleviare le loro sofferenze. Trump ha dichiarato di recente il suo sostegno alle Piccole sorelle dei poveri, costrette a violare la loro coscienza dal mandato dell'Obamacare per svolgere la loro missione di carità. Sono punti di divergenza enormi rispetto al suo predecessore alla Casa Bianca". Nemmeno sull'immigrazione Williams vede un gap incolmabile: "E' più complicato di quanto si creda. La retorica semplificata del muro contro il ponte ci ha annebbiati, facendoci perdere di vista che il Papa riconosce il diritto degli stati di difendere i loro confini e favorisce l'immigrazione legale e regolata, non è per le aperture indiscriminate". Dove invece non ci può essere una linea comune è sui cambiamenti climatici, anche se, nota Williams, "Trump aveva promesso di uscire dall'accordo di Parigi, ma per il momento non l'ha fatto. Su questo tema sarà certamente importante l'influenza di Ivanka". Sul tavolo pesa anche la situazione dei cattolici americani. Il 58 per cento dei fedeli ha votato per Trump, e una parte di questi lo ha fatto innanzitutto per la nomina di un giudice alla corte suprema gradito. Con la scelta di Neil Gorsuch, Trump ha mantenuto la promessa in grande stile. Per sovrammercato, è arrivata anche la lotta al Johnson Amendment, che impediva agli istituti religiosi di fare attività politica, e la revoca della politica di città del Messico per sottrarre fondi americani all'aborto a livello internazionale. "I cattolici che hanno votato Trump - spiega Williams - sono conservatori, significa che danno la priorità ai temi pro life e alla libertà religiosa. Secondo questi criteri, hanno ottime ragioni per essere soddisfatti del presidente".

Pag 2 Il populismo come religione politica: chi è più francescano tra il Papa e Grillo di Loris Zanatta I rischi un po’ grotteschi della chiesa che insegue Peron & Co.

Chi è più francescano? Chi ha il copyright sull'immagine del poverello d'Assisi? Beppe Grillo, che se n'è impossessato come fosse roba sua? Oppure il Papa, che con modestia ne ha preso il nome? La disputa ha taluni aspetti comici ed altri grotteschi. Eppure è istruttiva. Nel suo piccolo, illustra l'impasto di odio e amore che da sempre lega la chiesa e i populismi nei paesi cattolici: d'Europa e d'America. Molti non vi danno alcun peso. Come il Papa, Grillo invoca il popolo, la comunità, gli ultimi, la povertà? Fustiga l'egoismo e l'individualismo? Inneggia a modelli che Francesco ama, come l'Ecuador? Nulla di serio, dicono, strumentalizzazioni. L'Avvenire lo corteggia? E nel mondo cattolico ha aperto una breccia? Amori passeggeri: sui temi cari ai cattolici, la sintonia è scarsa. Temo che vi sia un equivoco: il fascino che parte della chiesa e molti cattolici provano per Grillo non si deve tanto a ciò che egli propone, quanto allo schema che impone: uno schema religioso, più che politico; una politica religiosa, se si vuole. Non a caso evita di lordare la sua dottrina esponendosi al confronto, schiva le istituzioni e i compromessi della politica, rifiuta alleanze per non contaminare la sua purezza. Parla ex cathedra, sentenzia, giudica. E' lo schema più antico che esista: ai suoi occhi, il mondo è afflitto dal peccato perché l'uomo, adorando il vitello d'oro, si è allontanato dalla virtù; tocca ora a lui e al suo popolo, il popolo eletto, il popolo degli onesti benedetto da Dio, redimere l'umanità, condurla alla salvezza, restaurare il Regno di Dio in terra. Ridotto all'osso, l'enorme potere evocativo dei populismi, la loro grande popolarità, la seduzione che esercitano sulla chiesa scaturiscono da tale afflato religioso; dalla loro pretesa di essere gli interpreti secolari del piano di Dio; i cavalieri del vangelo in guerra contro l'apostasia, di cui portano la colpa l'Illuminismo, di cui Grillo conosce infatti solo Rousseau, e il liberalismo, così inviso a Bergoglio. Così fu già per i populismi del passato, forti al punto da affossare la democrazia liberale: il corporativismo fascista, si diceva un tempo, ossia il fascismo cattolico di Salazar, Franco, Perón, è l'ordine sociale più vicino al Vangelo. Quanti redentori, quanti uomini della Provvidenza, benedisse allora la chiesa. E la storia si ripeté vent'anni dopo: il socialismo, quello cubano, è l'ordine sociale più vicino al Vangelo, dicevano i teologi della liberazione, i sacerdoti che imbracciavano le armi o catechizzavano i guerriglieri in erba; all'Avana, intanto, il Nunzio apostolico e i tanti religiosi in visita spargevano miele sul profondo spirito cristiano del regime castrista. Ma così è ancora oggi, quando per fortuna il populismo è costretto a vivere dentro la democrazia: quell'antico schema ritorna in Podemos: nelle sue fila non avrebbe sfigurato José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange, ha notato caustico Javier Marías; il presidente ecuadoreño che Grillo ci invita ad imitare, Rafael Correa, è uomo di chiesa e figlio legittimo di tale tradizione: "Le elezioni, spiegò una volta, non significano democrazia e il multipartitismo serve solo a disintegrare la nazione". Sul Venezuela chavista, quello su cui il Papa balbetta e Grillo tace, lasciamo parlare uno che se ne intende, Fidel Castro: "Hugo Chávez ha trovato la sua fonte di ispirazione nelle idee di Cristo". Chissà se san Francesco e Gesù Cristo sarebbero orgogliosi di simile stirpe. Una cosa però è certa: l'attrazione fatale che la politica religiosa dei populismi genera nella chiesa è sempre finita male, è diventata disamore, perfino odio e violenza. Mussolini e Perón, Franco, Chávez e Castro: per cristiani che apparissero i loro regimi agli occhi di tanti buoni cristiani, tutti hanno avuto duri scontri con la Chiesa. Come mai? Il fatto è che mossi da afflato redentivo, i populismi si trasformano in religioni politiche, usurpano il ruolo della chiesa, ne esigono la sottomissione; e la chiesa, tradita e delusa, reagisce. E' quel che capita oggi con Grillo: così come la sua promessa di un reddito di cittadinanza accende in tanti cattolici il sogno di una politica religiosa di "giustizia sociale", allo stesso modo la sua pretesa di essere l' incarnazione di san Francesco evoca lo spettro della religione politica: da qui la comica e grottesca querelle. I laici e i cattolici che nella laicità credono hanno buoni motivi per preoccuparsi: politica e religione sono vasi comunicanti, ma separarli come conviene è costato molto sangue e dolore. Molti, nel mondo, non si rassegnano a farlo e ne paghiamo ogni giorno il costo. Se la politica è intesa allo stesso modo della religione, come lo è nei populismi, la sua dialettica diventerà una guerra di religione. Il sogno populista d'una società redenta da un popolo eletto che ha il monopolio della virtù ed esibisce un'intrinseca superiorità morale come suole fare il movimento di Grillo, impone una logica manichea e sfocia nel suo opposto: nell'odio fratricida, nella logica amico nemico, nel "noi" contro "loro"; così è stato nella Spagna falangista, nell'Argentina peronista, nel Venezuela chavista, nella Cuba castrista. Quando ciò accade, svanisce la fiducia nelle istituzioni politiche, intese come arena neutrale eretta a garanzia di tutti; e laddove le istituzioni crollano, meglio dimenticare lo sviluppo economico, senza il quale la "giustizia sociale" rimarrà ciò che è sempre rimasta nei regimi populisti: una chimera diventata incubo.

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Le parole che non troverò di Stefano Allievi La follia e i bambini

Ieri sera mia moglie ed io cercavamo di spiegare a nostro figlio Alessandro, 11 anni, la strage di Capaci, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che cos’è un eroe civile, e che cos’è, da dove viene, la violenza che li ha abbattuti, insieme a tanti altri servitori dello Stato, che li proteggevano. Ne parlavamo, avevamo le parole per dirlo: e lui capiva. Stasera faremo più fatica a dare un senso alle nostre parole. A spiegare perché, come, bambini poco più grandi di lui sono morti, uccisi da una violenza senza senso, senza interessi da proteggere, nemmeno loschi, senza ragioni, nemmeno malvagie. Mi direte che tutti i giorni, in Siria, in Iraq, in posti ancora più lontani dall’Europa, muoiono bambini, e adulti, nella stessa maniera insensata, vittime di armi simili, di comportamenti simili, di violenza simile. E avrete ragione. Mi direte che tutti i giorni, ovunque nel mondo, bambini, e adulti, muoiono di fame, di un lavoro troppo più grande di loro, di fatica, di cattiveria, di tortura. E avrete ragione. Mi direte che da noi, nel silenzio, senza sufficiente emozione, per molti anni, e ancora oggi, bambini, e adulti, morivano e muoiono per la violenza delle mafie, nelle strade delle camorre, nelle vendette trasversali delle ’ndrine. E avrete ragione. Mi direte che anche noi abbiamo vissuto violenze e stragi insensate, che colpivano innocenti. Tutti i giorni, rientrando da scuola, passavo per piazza Fontana. Altri saranno stati nei paraggi di piazza della Loggia, della stazione di Bologna, su un treno che faceva lo stesso percorso dell’Italicus, su un volo che passava nei cieli di Ustica. E avrete ragione. Mi direte che in fondo si muore senza ragione, a tutte le età, nelle strade, nei pronto soccorso, nei reparti dei malati terminali, peggio se pediatrici, e anche lì è difficile spiegare, anche lì non ci sono ragioni. Perché lui, perché non io, perché suo figlio, perché non mio figlio. E avrete ragione. Mi direte tutto questo. E vi darò ragione. Eppure oggi, anche io, che di queste cose mi occupo, da anni, cercando di spiegare a mio figlio, farò fatica a trovare le parole.

IL GAZZETTINO Pag 1 L’Isis infrange l’ultimo tabù: assassinare i bambini di Alessandro Orsini

I terroristi islamici giustificano l’uccisione dei bambini in tre modi principali. Il primo, molto diffuso negli attentati in Palestina, è di tipo militare. In questo caso i terroristi affermano che i bambini di oggi saranno i soldati israeliani di domani. Questa logica di ragionamento è stata riassunta da Ahlam Tamimi. Si tratta della terrorista che organizzò l'attentato contro la pizzeria Sbarro di Gerusalemme, il 9 agosto 2001. Morirono 15 civili, tra cui sette bambini e una donna incinta. In una video intervista, Ahlam Tamimi sorride compiaciuta alla notizia di avere causato la morte di così tanti bambini. Perché? I cittadini israeliani sono obbligati al servizio militare. Anche quando tornano alla vita civile, possono essere chiamati alle armi per combattere contro i gruppi palestinesi. Meglio che muoiano prima di indossare la divisa. Il secondo modo di giustificare l'uccisione dei bambini, molto diffuso negli attentati contro le città occidentali come Manchester, è di tipo politico-ideologico. Le società occidentali sono rette da democrazie rappresentative basate sul principio della laicità delle istituzioni ovvero sulla distinzione tra potere politico e potere religioso. Agli occhi dei terroristi islamici, la laicità delle istituzioni, combinata con il principio democratico, è un sacrilegio. Le leggi con cui gli uomini devono governarsi sono state già indicate da Dio e sono contenute nei testi sacri dell'Islam. È dunque sacrilego che gli uomini, raccolti in parlamento, perdano il loro tempo a ragionare sul modo in cui organizzare la vita pubblica e quella privata. L'omosessualità, ad esempio, è un peccato. I parlamentari dovrebbero limitarsi a emanare leggi per punirla. Non è in loro potere stabilire se sia lecita oppure no. Lo stesso discorso vale per la sottomissione della donna all'uomo. I governanti dovrebbero limitarsi a emanare una serie di leggi per impedire l'emancipazione delle donne. I terroristi islamici dicono che i cittadini occidentali, essendo liberi di eleggere i loro governanti, devono assumersi la responsabilità delle loro azioni in politica estera. Se i governanti inglesi bombardano le postazioni dell'Isis in Siria e in Iraq, tutti gli inglesi sono responsabili di quei bombardamenti. Questa logica di ragionamento è contenuta in un documento attribuito a Bin Laden, noto come lettera agli americani, diffuso il 24 novembre 2002 in lingua inglese. Il brano che segue è uno dei più utili per entrare nell'universo mentale dei terroristi dell'Isis che colpiscono le città come Manchester: Gli americani sono quelli che pagano le tasse con cui vengono finanziati gli aerei che ci bombardano in Afghanistan. Bin Laden non invitava ad accanirsi contro i bambini occidentali. Tuttavia, metteva in conto che potessero morire in un attentato, come quello del 7 luglio 2005 contro le metropolitane di Londra, ed era attrezzato ideologicamente per giustificare una simile eventualità. Il terzo modo di giustificare l'uccisione dei bambini occidentali è di tipo analogico. L'analogia è un rapporto di somiglianza tra due fatti. Siccome alcuni bombardamenti occidentali hanno provocato la morte accidentale di decine di bambini musulmani, i terroristi islamici ritengono ammissibile che un attentato terroristico possa provocare la morte accidentale dei bambini occidentali. In questo caso, la logica di ragionamento dei terroristi islamici si riassume nella formula: Se muoiono i bambini musulmani, possono morire anche i bambini occidentali. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, non risulta che un'organizzazione terroristica abbia pianificato, in modo strategico, di uccidere i bambini occidentali al posto degli adulti. Ciò che hanno deciso è di colpire i civili occidentali nella loro vita quotidiana. In realtà, la strage di Manchester è stata ispirata dalla prima regola che i kamikaze sono tenuti a imparare: Gli attentati si conducono in luoghi affollati e senza controlli. I luoghi molto affollati sono i ristoranti, gli aeroporti, le metropolitane, le chiese, i concerti, i cortei pubblici e le vie del centro. La seconda regola dice che è preferibile che i luoghi affollati abbiano anche un valore simbolico. Tuttavia, la prima regola deve prevalere sulla seconda. L'importante è uccidere il maggior numero possibile di occidentali. Tra una chiesa con dieci fedeli e un concerto con mille ragazzi, il kamikaze è tenuto a scegliere il secondo obiettivo. La strage di Manchester si spiega con l'esigenza militare di infliggere il maggior numero di perdite al nemico. Quanto afferma l'Isis, nel suo comunicato di rivendicazione contro i giovani crociati, è una giustificazione a posteriori per farci più paura.

Pag 18 A Trump serve l’appoggio del Papa ma anche dell’Italia di Marco Gervasoni

È meglio che non coltiviamo troppe illusioni. Trump è a Roma più per essere ricevuto dal Papa che per svolgere una classica visita di Stato, giocoforza dai tempi più lunghi. Ma l'incontro con Mattarella e con Gentiloni, subito dopo Bergoglio, non è solo un passaggio protocollare. Tutti capiamo perché il pontefice abbia diritto di precedenza. Nonostante le sue poche divisioni, per citare una celebre battuta di Stalin, il Vaticano è un interlocutore indispensabile per l'America di Trump, che intende interpretare meno che in passato il ruolo di regolatore del mondo, ma certo non mira a dismettere la veste di grande potenza. La sua missione, costantemente ribadita dal presidente Usa, è debellare il terrorismo, e sappiamo bene quanto ve ne sia bisogno. Oltre ai mezzi militari, questa guerra dovrà dispiegare le armi delle idee, con il contributo della sapienza delle religioni, come ha chiarito Trump nel discorso in Arabia Saudita. Da qui la prima ragione dell'incontro con il Papa, convinto che sia in corso una «guerra mondiale a pezzetti» da cui uscire con l'aiuto delle fedi. Ecco allora che capiamo meglio la scelta del Vaticano come destinazione di Trump, dopo l'Islam a Riyad e l'ebraismo a Gerusalemme - benché con i sauditi abbiano certo pesato pure gli affari (come se invece Obama ne fosse schifato!). La seconda ragione della visita di Trump è da cercarsi nei problemi interni. Può una politica conservatrice nei valori, come quella perseguita dal presidente, esimersi dalla Chiesa cattolica? Difficile. Se Obama e Hillary Clinton intendevano l'aborto come «un diritto» inalienabile, da estendere e promuovere, Trump e il giudice della Corte, Gorsuch, da lui nominato, faranno di tutto per frenarne gli abusi. Senza contare l'influsso che la chiesa cattolica statunitense esercita sui latinos. La terza ragione sta nella peculiare personalità del Pontefice: una delle figure più popolari del pianeta, in modo molto diverso da Trump, ma anch'egli un imprevedibile sovvertitore di regole. Celiava solo fino a un certo punto il «Wall Street Journal» quando di recente definiva Bergoglio il Trump del Vaticano e Trump il Bergoglio della Casa Bianca. E proprio per il carattere dei due, è difficile prevedere l'esito della visita. Non è però solo per protocollo che Trump incontrerà anche Mattarella e Gentiloni. Ovvio, l'Italia ospita il G7. Ma crediamo che il presidente riconosca al nostro paese qualche merito in più. Uno deriva dalla posizione equilibrata, rispetto ad altri stati dell'Unione europea, che Roma è riuscita a mantenere nei confronti della Russia. Sarà anche solo per i (sacrosanti) affari ma l'attuale governo, come il precedente, non hanno certo issato in cima alla lista dei nemici Putin: e Gentiloni a Sochi ha parlato con chiarezza, l'Italia è contraria a nuove sanzioni. Italia mediatrice? Ci si potrebbe provare. L'altro merito che Trump può riconoscere all'Italia sta nella sua collocazione mediterranea, da cui è nata nel secolo scorso una politica estera duttile e prudente, da alcuni a torto ritenuta cinica e cedevole. Oggi siamo in prima linea su due frontiere; la libica, a cui gli Stati Uniti guardano, e quella, che comunque sempre Tripoli attraversa, dell'immigrazione. Un tema su cui si discuterà nel G7: se il nostro ruolo dovrà essere quello di guardiani della «fortezza Europa», a cui Trump non è poi così indifferente, sarà tutto interesse degli Usa sostenerci.

LA NUOVA Pag 1 La strage dei nostri ragazzi di Gigi Riva

Il terrorismo è come l’acqua, trova sempre un pertugio dove insinuarsi, una falla in sistemi di sicurezza che, pur se sofisticati, sono comunque perforabili per chi ha l’ostinata volontà di batterli. Lo sappiamo, ma vale la pena di ripeterlo: la sicurezza assoluta non esiste davanti alla guerra asimmetrica portata da fanatici che hanno il vantaggio di mettere in gioco il proprio corpo, cioè la propria vita, per portare a termine la missione. Ce ne dimentichiamo, talvolta, e per fortuna. Significa che l’abitudine a convivere con gli attentati non incide, almeno non incide profondamente, nel nostro stile di vita. C’è un massacro, piangiamo i morti come se fossero nostri, anche se sono inglesi perché nessuna Brexit può cancellare quel senso di comune appartenenza a un Occidente sotto attacco nel suo insieme. Poi riprendiamo ad andare nei cinema, ai concerti, negli stadi: gli assembramenti dove insieme divertirci e condividere. Non lo facessimo, avrebbero vinto loro. Però Manchester, stavolta, è qualcosa di più e di diverso. Non nel numero delle vittime ma per la loro anagrafe e per dinamica. Da tempo, da Parigi Bataclan (13 novembre 2015), erano assenti i kamikaze. Ce ne eravamo rallegrati: buon segno. Gli uomini-bomba necessitano di un artificiere, una logistica, una catena per reperire, nascondere, confezionare l’esplosivo. Lo Stato islamico in difficoltà a Mosul (ormai quasi espugnata) e Raqqa (assediata), aveva difficoltà anche sul suolo europeo, l’exclave del suo Jihad, dove non riusciva più a inscenare una potente capacità tattica. E doveva affidarsi alle iniziative estemporanee, non per questo meno sanguinose, di lupi solitari, armati di tir e coltelli, strumenti della vita comune. Almeno questo era il ragionamento. Ma ecco che un soldato del califfo, o un suo emulo, entra in azione alla fine del concerto della star Ariana Grande. Alla fine, perché ha imparato la lezione dello Stade de France (Parigi) quando altri seminatori di morte furono bloccati dalle guardie all’ingresso. Alla fine, quando è calata la tensione, si sciama verso casa, la festa è finita e il cuor contento di spettatori e agenti fa abbassare le difese. Ecco il pertugio, ecco la dimostrazione di uno studio meticoloso delle nostre abitudini, più in generale dei comportamenti degli umani. Sapevano anche, l’assassino e i suoi mandanti (gli inglesi cercano i complici, sanno che non ha agito da solo), che uccideranno adolescenti, bambini persino, i fans usuali della cantante, e i loro genitori. Però si sono già preparati la pezza giustificativa ideologica. Solo pochi giorni fa una rivista di propaganda dello Stato islamico aveva pubblicato un articolo in cui si sosteneva che non si possono colpire i piccoli e le donne. Ma con una velenosa postilla: a meno che non si trovino in compagnia di maschi miscredenti. In quel caso, peggio per loro, e sia fatta la volontà di Allah. Letta ora, una rivendicazione a priori. Perché a posteriori sono arrivati gli osanna sui siti islamisti, l’equiparazione tra i ragazzi che muoiono per le bombe in Siria e in Iraq e quelli di Manchester. Le bombe che dal Medioriente «sono tornate indietro» verso chi le sgancia. Come se la guerra fosse iniziata per decisione della democrazia inglese e non dal califfo che ha ridotto in cattività milioni di persone, perpetrato il genocidio degli ezidi, tagliato le teste agli occidentali, perseguitato i cristiani, organizzato i massacri che insanguinano da tre anni il Vecchio Continente. Fare strage di bambini ha esattamente lo scopo di aumentare ulteriormente il livello di paura, costringere a prendere misure drastiche per esasperare la contrapposizione tra i nativi d’Europa e i trenta milioni di musulmani che ormai la abitano, preparare le condizioni per un conflitto aperto. A Sarajevo durante l’assedio cominciato 25 anni fa, i cecchini serbo-bosniaci che sparavano sulla città martire avevano un tariffario per il quale erano più remunerati se ammazzavano bambini o donne incinte: la disperazione che ne derivava fiaccava la resistenza. E dava diritto a un bonus, nella raccapricciante gerarchia dell’orrore. La guerra è asimmetrica, dicevamo all’inizio. Possiamo rallegrarci del fatto che la nostra soverchiante superiorità bellica e tecnologica avrà, sta avendo, alla fine ragione dello Stato islamico. O intristirci al pensiero che dovremo piangere altri lutti (l’ha riconosciuto la stessa Theresa May, premier di Londra), perché i colpi di coda saranno comunque tremendi. Ciò che dobbiamo sicuramente evitare è che il califfo detti l’agenda, sia protagonista negli esercizi delle nostre democrazie, incida nelle elezioni previste l’8 giugno in Gran Bretagna, indirizzando i cittadini verso scelte securitarie e divisive. Ci aveva già provato con la Francia e gli è andata male. Poi a settembre si vota in Germania e poco più in là nella stessa nostra Italia.

Pag 1 Dopo le armi una visita surreale di Orazio La Rocca

Il presidente americano Donald Trump arriva per la prima volta in Vaticano per essere ricevuto da papa Francesco dopo aver messo a segno, nella sua tappa in Arabia Saudita, sabato scorso, uno dei più grandi affari degli ultimi tempi in materia di vendita di armi Usa ai Paesi arabi: una commessa di oltre 110 miliardi di dollari di ordigni prodotti negli Stati Uniti, comprese le pericolosissime armi ad alta precisione che il predecessore di Trump, Barack Obama, si era fermamente rifiutato di commercializzare durante i suoi otto anni di presidenza. Una iniziativa condotta da Trump senza battere ciglio, incurante che il primo oppositore al mondo dei commercianti di ordigni da guerra è proprio papa Jorge Mario Bergoglio che lo riceve oggi alle 8.30, in una udienza a dir poco surreale e dai contorni imprecisabili. Incontro preparato in fretta e furia dalle diplomazie vaticana e statunitense, ma che da giorni Oltretevere sta sollevando non pochi interrogativi del tipo «ma cosa si diranno quando si siederanno l’uno davanti all’altro nel Palazzo Apostolico?». Quesito diventato ancora più insistente alla luce degli accordi stipulati a Riad. In primo luogo, filtra tra l’entourage papale, Bergoglio gli ricorderà «dei bisognosi» e di quanti nel mondo vivono schiacciati da «guerre, povertà, malattie, sfruttamento», in riferimento alle parole con cui lo stesso Papa salutò l’elezione di Trump: «Spero che almeno si ricordi dei poveri». Speranza che, non è un mistero per nessuno, a parere del Papa il presidente repubblicano finora ha deluso. Tra i provvedimenti che Francesco - pur osservando un rigoroso silenzio istituzionale - ha criticato sfogandosi con i collaboratori, c’è l’abolizione dell’Obamacare, l’assistenza sanitaria varata da Obama per aiutare le fasce sociali più bisognose. Non è da escludere che papa Francesco qualche spiegazione in merito la chieda al suo ospite americano. Magari insieme ad altri quesiti legati all’accoglienza ai migranti, alla difesa dell’ambiente, alla costruzione dei muri, alla messa al bando delle armi. Difficile immaginare come il presidente Usa possa rispondere, dopo che appena sabato scorso aveva annunciato trionfalmente che «è stata una giornata straordinaria, straordinaria, centinaia di miliardi di dollari di investimenti negli Stati Uniti e posti di lavoro, posti di lavoro, posti di lavoro...», sottolineando per ben tre volte l’aspetto vantaggioso dell’affare in termini occupazionali per le fabbriche di ordigni da guerra. Parole che stridono e, c’è da crederlo, gridano vendetta alle orecchie di papa Francesco che in più occasioni ha definito «maledetti coloro che operano per la guerra e per le armi! E dicono: facciamo armi così l’economia si bilancia un po’ e andiamo avanti con i nostri interessi! Questi che operano per la guerra sono maledetti!» (da una omelia in Santa Marta del 19 novembre 2015, ma concetti ripetuti in tante altri pubblici interventi). Tra Bergoglio e Trump, in verità, non c’è mai stata sintonia. Sulle politiche di respingimento, come il muro sul confine tra Usa e Messico, Trump invitò il Papa, poco elegantemente, a occuparsi solo di fede e a lasciar perdere la politica. Gaffe che lo stesso Trump in seguito cercò di rimediare esternando la sua ammirazione per il Pontefice. Ma anche l’udienza di oggi è stata preceduta da un’altra gaffe della Casa Bianca, quando in un primo annuncio sulla partecipazione di Trump al G7 di Taormina, in Sicilia, veniva esclusa una tappa in Vaticano. Sarebbe stato il primo presidente Usa degli ultimi 50 anni a venire in Italia senza andare dal Papa. Uno sgarbo evitato all’ultimo momento grazie ai buoni uffici della nunziatura pontificia di Washington, anche perché - puntualizzano in Vaticano - la Santa Sede non chiude le porte a nessuno. Ma le udienze vanno chieste. Come ha fatto in extremis Trump. Costretto però a entrare nel Palazzo Apostolico alle 8.30, un’ora piuttosto insolita per una udienza al capo della più grande potenza del mondo.

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