Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) in Storia delle arti e conservazione dei beni artistici

Tesi di Laurea

Charles Townley: Una vita dedicata al collezionismo.

Relatore Ch. Prof.ssa Martina Frank Correlatore Ch. Prof.ssa Chiara Piva

Laureando Maria Caterina Visocchi Matricola 986734

Anno Accademico 2011 / 2012

1 Indice

Introduzione…………………………………………………………………………………………………………………………

1.1 Il Grand Tour. L’Italia amata dagli stranieri e l‘evoluzione del viaggio d’istruzione…..…………………………………

1.2 Intorno ai collezionisti e ai viaggiatori: mercanti, agenti e antiquari a Roma nella seconda metà del Settecento………

1.3. L’organizzazione legislativa degli scavi, licenze e responsabilità…………...………………………………………………..

1.4. Gli scavi archeologici a Roma nel XVIII secolo: siti vecchi e nuovi………………………………………………………..

2.1. Il viaggio in Italia di ………..………………………………………………………………………………..

2.2. Sir William Hamilton e la Società dei Dilettanti. Nuovi incontri e idee per Charles Townley………………..………….

2.3. Gli acquisti romani e il rapporto con Thomas Jenkins e Gavin Hamilton……..………………………………….………..

3.1. Charles Townley: ritratto di un collezionista settecentesco…………..…………………………………...………………….

3.1. Charles Townley: ritratto di un collezionista settecentesco……………..……………………..……………………………..

3.3. Gli ultimi acquisti e il passaggio delle opere al British Museum……………………..………………………………………

Bibliografia……………..…………………………………………………………………………………………………………….

2 Introduzione

Al principio di questo lavoro mi domandai se non avessi fatto a male a scegliere un personaggio come Townley, un uomo sentito varie volte da chiunque abbia almeno un’infarinatura generale di storia del collezionismo, avevo paura che sarei andata a parlare di qualcosa di detto e ridetto e non volevo che il lavoro risultasse scontato o noioso.

In realtà più cercavo notizie su di lui più mi accorgevo che le informazioni in circolazione erano sempre le stesse, si sapeva della sua collezione, ma la sua personalità, i suoi viaggi e amicizie, quel mondo umano insomma all’interno del quale la raccolta d’antichità classiche crebbe, non veniva mai menzionato se non per i nomi più noti legati al commercio d’arte romano.

Il criterio che ho seguito nel corso della ricerca è stato di tipo associativo, ho cominciato da piccole cose appena accennate e da lì sono partita per seguire delle strade, degli indizi che sono diventati sempre più numerosi e consistenti. Nella fase di scrittura d’una tesi che non sia di tipo compilativo, ma che preveda una certa dose di applicazione e ricerca, accade talvolta di trovarsi con tanti dati cui dare un senso, cui trovare un collegamento valido e supportato da fonti attendibili; nel caso di Charles Townley è accaduto che tutti i punti hanno cominciato a mano a mano a trovare naturale collocazione, una sequenzialità che si rafforzava e si costruiva quasi da sé mentre andavo avanti con il lavoro.

In occasione della prova finale del triennio scelsi un architetto del Settecento, Antonio Paolo Ameli e se all’epoca scoprii moltissimo della sua attività di progettista, e di altri lavori e commissioni, sentii di non essere comunque riuscita a tenere in pugno il personaggio, a conoscerlo talmente a fondo da comprenderne ogni scelta, della sua esistenza si sapeva pochissimo e questo a mio avviso incide in maniera rilevante sul risultato finale di uno studio. Dunque sapere che Townley non prese mai moglie, che aveva il vizio delle belle donne, che sapeva scegliere i propri collaboratori, non sono semplici informazioni di servizio, se non ci fossero state ci saremmo fermati alla superficiale descrizione del signorotto agiato che insegue un capriccio e non l’immagine di ciò che realmente fu: un uomo deciso, che pensava autonomamente e che trovò la propria gioia e ragione di vita nella statuaria classica.

Le vie e le pubblicazioni che hanno contribuito alla stesura di questa tesi sono talvolta volumi che trattano apparentemente di tutt’altro, ma in una ricerca basta un filo sottile, una data, un appiglio anche minimo per scoprire collegamenti impensabili e progredire con il lavoro di analisi su strade che mai si sarebbe immaginato di percorrere.

3 Per fare un esempio concreto, il viaggio in Italia di Charles Townley mi è stato possibile seguirlo tramite la corrispondenza con Vincenzo Brenna a cui sono arrivata partendo dai lavori del Brenna in Russia. D’altronde è questo il lato affascinante del comporsi di una ricerca, partire da porti lontani per poi scoprire che il mare in cui la storia dell’arte naviga è sempre lo stesso e che di fronte alla difficoltà di ricostruire gli eventi non bisogna mai fermarsi, ma andare avanti fiduciosi perché si arriverà sempre a scoprire una piccola cosa capace di dare il via a un fiume di notizie. Ecco perché il lavoro su Charles Townley collezionista è stato un percorso stimolante che non si è mai arenato anche nei momenti di difficoltà, ma che è sempre riuscito a guadagnare una spinta in avanti, giustificata dalla forte personalità del protagonista, dai suoi numerosi e movimentati viaggi, un personaggio che di carne al fuoco sulla sua esistenza ne ha messa abbastanza ed io mi sono ripromessa di raccontarlo con obiettività e passione, spero di aver raggiunto questo scopo e di aver messo insieme una piccola linea guida per narrare di Townley e della sua splendida collezione.

La scelta di dedicare in chiusura una trattazione piuttosto nutrita sell’esposizione al British Museum della sua raccolta d’arte ha lo scopo preciso di congedarci dal personaggio in maniera graduale e allo stesso tempo di focalizzarci maggiormente sulla sola storia delle opere, senza parlare del loro possessore e costatare come invece siano esse a raccontarci di Charles Townley.

Il fatto che fu talvolta imbrogliato, che gli siano state vendute opere non propriamente originali, non ne restituisce comunque un ingenuo, l’immagine del collezionista rimane quella di un Nobile sicuro non solo delle proprie possibilità economiche, ma soprattutto di quelle intellettive, l’unica imputazione a suo carico in questa storia è quella di essersi fatto accecare dall’amore per l’arte. Quando Thomas Jenkins gli spediva dei manufatti antichi che risultavano davvero diversi dalla presentazione grafica che l’antiquario scozzese, naturalizzato romano, era solito inviargli per lettera era raro che Townley si lamentasse in maniera significativa, di certo la gioia che doveva provare nel vedere esposti a Park Street pezzi dell’importanza dell’Endemione dormiente o del Discobolo doveva mandarlo in estasi, ma in fin dei conti se si fosse circondato solo di opere conservate in maniera eccellente e di ottima esecuzione non sarebbe stato l’antiquario competente e produttivo che di fatto fu, ma sarebbe rimasto al pari di tanti aristocratici che fecero dell’arte classica un mezzo per intavolare discussioni nei migliori salotti della società inglese. Charles si approcciava all’arte con democrazia poiché qualsiasi oggetto antico rappresentava il passato e pertanto era degno di nota.

Ciò di cui invece mi rammarico è di non aver trovato altri canali d’indagine, scoperto che tipo di rapporto ci fosse tra Townley e Winckelmann, sapere se lo studioso tedesco avesse avuto modo

4 di indottrinarlo sulle sue teorie del restauro, sappiamo che per conto della Contessa Cheroffini alcuni pezzi della collezione Albani finirono a Park Street, ma eccetto la mediazione di Vincenzo Brenna, sulla faccenda non si è individuato se il Winckelmann ne venne a conoscenza se scrisse mai a Townley, se magari, ipotizzo, fu proprio lui ad indirizzarlo all’acquisto.

Costruire un lavoro del tutto esauriente è cosa complessa, giocano diverse componenti tra cui la dedizione alla ricerca, l’amore per il soggetto ed anche una certa dose di fortuna, a mia discolpa dico che ho investito tutte le mie energie in questo lavoro ed ho amato Charles Townley proprio per la sua personalità sfuggente ed anticonvenzionale e mi consolo dicendo che la storia dell’arte è materia in continua evoluzione e che è difficile abbandonare completamente un personaggio, quindi in un prossimo futuro non escludo che ricapiterà l’occasione di tornare sull’argomento e di riempire quei pezzetti di vuoto che mancano per completare il puzzle.

5 1.1 Il Grand Tour.

L’Italia amata dagli stranieri e l’evoluzione del viaggio d’istruzione.

Il cosiddetto viaggio di piacere non faceva parte della moda del periodo classico e medievale, bensì divenne caratterizzante dei secoli Sedicesimo, Diciassettesimo e Diciottesimo, trasformandosi in un momento di fondamentale importanza per l’educazione delle alte sfere sociali. Il termine Grand Tour suggerisce la speciale fusione dell’epoca tra turismo e stato sociale quasi si volesse distinguere un turismo ragionato, organizzato e di una certa durata, dalla gita fuoriporta mordi e fuggi, tornata tanto popolare ai nostri giorni a causa di recessione e budget limitato da investire nel settore turistico. Il Grand Tour è comunemente associato ai viaggiatori aristocratici inglesi; simbolo di una particolare caratteristica della società nobiliare anglosassone che non trova riscontro in nessun’altra aristocrazia europea, di contro il Bel Paese investì le proprie energie per potenziare il crescente culto dell’antico, che insisteva fortemente sul concetto di appartenenza al Mondo Classico, e non lasciò molto terreno agli altri paesi, gli italiani seppero giocare bene le proprie carte spingendo il viaggiatore a sentirsi discendente in carne ed ossa, retaggio degli antichi tesori della Roma Imperiale1. I turisti si muovevano il più rapidamente possibile attraverso le città maggiori, che offrivano un pacchetto di attività piuttosto ricco e variegato: si spaziava dalle visite dei monumenti classici a quelli rinascimentali, dallo splendore della Roma Barocca fino a passatempi puramente ludici come l’ascolto dell’opera a Milano e le piacevoli passeggiate allietate dal sole e dalla brezza del golfo di Napoli2. C’era però un’altra ragione che spingeva gli avventori a evitare di trattenersi in campagna oltre il tempo necessario alla logistica del viaggio, l’assoluta insufficienza di strutture adatte all’accoglienza turistica era infatti un deterrente di un certo peso: le locande3 organizzate per ricevere ospiti erano presenti solo in alcune zone , ed a giudicare dai commenti dei visitatori le carenze non mancavano, sono giunte a noi testimonianze negative e di disappunto che puntano il dito contro la fatiscenza delle stanze da letto e soprattutto il cibo che veniva servito ai pasti4. In più nelle zone rurali la scelta dei cibi e il loro quantitativo era spesso piuttosto ristretta, in città non si presentavano problemi in questo senso, bastava pagare, ed i turisti raramente avevano

1C. Hibbert, Rome and the biography of a city, London 1986, pp. 61-62. 2 D. Carrington, The Traveller’s eye, London 1947, pp. 40-73. 3 E. S. Bates, Touring in 1600: a study in the Development of Travel as a Means of Education, New York 1911. Pp. 240-285. 4 R. Heywood, A Journey to Italy in 1826, Privately printed 1919, pp. 35-36.

6 problemi di budget5. La cucina del Bel Paese era in fin dei conti una novità per gli Inglesi, in generale facevano una certa fatica ad apprezzare l’olio d’oliva, così come la maniera in cui erano cotte le carni, ma esisteva anche una fetta d’intenditori che ricercava poi alcune specialità anche in patria, così a Londra iniziarono a moltiplicarsi i negozi specializzati nella vendita di parmigiano, pasta e vino italiani. L’impatto con un’altra cultura si sa, non passa solo attraverso la tavola, buona o meno che sia, il turista d’oltremanica rischiava altri tipi d’inganno ben più gravi di un roastbeef mal fatto. Roma pullulava di uomini che si autodefinivano antiquari, pronti a guidare i turisti alla scoperta delle bellezze locali, millantando competenza e grande preparazione in materia, erano in molti a cadere nella rete e ad assoldare questi personaggi, vittime del loro fascino e prepotenza. Tuttavia, guide oneste e realmente preparate se ne trovavano eccome; organizzate a tal punto che dal primo sguardo avremmo potuto indovinarne il mestiere: mappe, occhiali, compasso e tutto ciò che potesse essere utile a supportare la storia delle opere che mostrava al cliente. Non era certo obbligatorio riempire il proprio tempo a Roma in tour guidati attraverso la città, per molte persone il culmine della loro visita era la presentazione al cospetto del Papa o la partecipazione alla “lavanda dei piedi degli Apostoli ad opera di Cristo”; la parte degli Apostoli veniva interpretata da dodici pellegrini, mentre il volto di Cristo era quello del Papa, dopo la cerimonia, il Papa portava i figuranti a cena e, ancora a piedi scalzi, tagliava per loro la carne, offriva il vino e sparecchiava, recitando in fin dei conti la parte di un servitore particolarmente sollecito. Di maggior richiamo popolare era l’evento religioso del Giubileo, grazie al quale i romani si erano nei secoli abituati alla presenza ciclica di stranieri in città. La Roma antica diventava un modello di perfezione culturale da perpetuare anche nella Roma Cattolica6 e la chiesa investiva su se stessa il ruolo di garante per la continuità del patrimonio d’arte antica con la civiltà e l’arte dell’Italia moderna. Il Giubileo di Benedetto XVI, il bolognese Prospero Lambertini, insistette nel voler migliorare ad ogni costo l’immagine della città, la Roma dei Papi doveva sorprendere, sbalordire e intimorire il visitatore con la sua dirompente magniloquenza. Le Vedute di Roma (fig. 1) eseguite da Giovan Battista Piranesi dal 1740-41 fino alla sua morte, si fecero promotrici del gusto romantico delle rovine e sponsorizzarono quel modello urbanistico monumentale che influì sull’assetto di alcune capitali europee. La Città Eterna offriva una serie di vantaggi insiti nella cultura italiana, divenuti col tempo coscienza comune nel viaggiatore europeo: la vivacità dei mercati, l’affabilità della gente e le

5 J. Black, France and The Grand Tour, New York 2003, pp. 62-73. 6 A. Monferini, Le antichità di Giovan Batista Piranesi, in M. Calvesi (a cura di), Arte a Roma. Pittura, scultura, architettura nella storia dei giubilei, Torino 1999, pp. 199-205.

7 temperature miti del clima, rappresentavano un valore aggiunto che non può passare sotto silenzio. I nobili inglesi, come quasi tutti i nobili europei, (compresi quelli di fede protestante) erano ben accolti nei palazzi della nobiltà romana così come in quelli dei cardinali. Anno dopo anno l’offerta per il turista inglese si estese notevolmente; la legge di mercato non è certo cosa recente e dunque vista la notevole affluenza di visitatori anglosassoni, nacque nella città eterna una vera e propria rete che sembrava pensata per far sentire un inglese a casa. Caffè inglesi con annessi giornali in lingua, locande e cibo tipico, taverne in cui gli studenti inglesi s’incontravano, divennero comuni nella Roma del Diciottesimo secolo e ci danno la misura del fenomeno straordinario di cui stiamo parlando. Alla luce di questa breve introduzione iniziale sembra abbastanza chiaro che gli Inglesi furono i più affezionati viaggiatori, diedero un volto e un codice all’esperienza del Grand Tour, elevandolo a tappa fondamentale nella vita di un gentiluomo, delineandone gli itinerari e le destinazioni chiave. Leggendo le guide dell’epoca è facile farsi un’idea del giro che solitamente compivano: da Roma discendevano verso Napoli visitando Pompei e altre zone amene del circondario, mentre per chi attraversava gli Appennini era d’obbligo allungarsi a Venezia7 prima di entrare in Svizzera e raggiungere Calais attraverso la Germania8. Il turismo inglese aveva caratteristiche proprie, interessi e passioni che lo indirizzavano verso l’amore per i paesaggi e la ritrattistica, differenziandoli dall’avventore francese che invece ricercava la storia etnografica dei popoli, le loro abitudini e costumi. Al di là di questa banale classificazione, quasi al limite dello stereotipo, non è utile incasellare i viaggiatori per nazionalità, Il Grand Tour era sempre ed essenzialmente cosmopolita e Charles de Brosses, arrivato a Roma nel Novembre del 1739, ci fa intendere che tipo di rapporti intercorressero tra i viaggiatori di differente nazionalità, nel suo giornale di viaggio scrisse: “L’Argent que les Anglois dépensent à Rome et l’usage d’y venir faire/un voyage, qui fait partie de leur éducation, ne profite guères à la pluspart d’entre eux… J’en vois tells qui partiront de Rome sans avoir vue que des Anglais et sans sçavoir où est le Colisée9.” Questo passaggio dimostra quanto attentamente i viaggiatori si osservassero l’un l’altro e quanto cercassero di frequentare i propri connazionali fuori casa. È naturale che il de Brosses, viaggiatore francese, volesse denigrare gli Inglesi, ma soprattutto il passaggio riportato mostra quanto differente fosse il Grand Tour inglese da altre esperienze di viaggio. Dalla fine degli anni Trenta del Settecento, i viaggiatori britannici erano già molto più

7 B. Redford, Venice and the Grand Tour, Yale 1996, pp. 104-106. 8 J. Skene, Italian journey, London 1937, pp. 28-30. 9 C. De Brosses, Lettres familières sur l’Italie, Parigi 1931 vol.I, pp. 392-407.

8 numerosi di qualsiasi altro visitatore, il viaggio in Italia era parte integrante della loro educazione e spendevano più di chiunque altro nell’acquisto di opere d’arte. Questo percorso d’iniziazione alla fonte di conoscenza e bellezza faceva si che il grand turista ricreasse su di sé il mito di Ulisse, componendo la propria Odissea sotto forma di diario di viaggio. Dal momento che il Grand Tour veniva intrapreso come viaggio di apprendimento, i viaggiatori avevano l’abitudine di completare le maneggevoli guide contenenti gli itinerari istruttivi, con commenti personali e dati di tipo pratico: opinioni sulle locande in cui pernottare o indirizzi di laboratori che vendevano riproduzioni di antichità di alta manifattura. Si tratta di spiegazioni intelligenti e ben eseguite della zona centrale e dei territori limitrofi, che beneficiarono delle linee guida tracciate dai manuali di viaggio dei Gesuiti del secolo precedente e delle più recenti notizie dei ritrovamenti archeologici contemporanei.10 Diari di viaggi e guide ragionate non erano però l’unica forma di testimonianza di queste escursioni, se il gran turista era anche artista allora le forme d’espressione più dirette, immediate e in contatto con le proprie emozioni erano solitamente schizzi, quadri e incisioni. Il viaggio per la riscoperta dei maestri del passato e lo studio delle loro opere sono da sempre i momenti cruciali nella formazione stilistica di un artista, nei secoli medievali giovinezza e formazione si svolgevano al chiuso della bottega diretta dal capomastro, non si aveva la possibilità di decidere dove andare e quali maestri approfondire, al massimo si seguiva il proprio superiore per essere d’aiuto nei luoghi delle nuove committenze.11 Era un’epoca in cui solo i progettisti d’architettura e lapicidi si spostavano per imparare nuove tecniche e tipologie costruttive, sono viaggi con finalità di arricchimento a livello pratico e solo dal Rinascimento in poi l’artista comincerà a spostarsi per creare una propria maturità e indipendenza stilistica cercando di ripercorrere i luoghi d’eccellenza delle arti figurative. Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento ad opera di artisti nordici prese piede a Roma una vera e propria pittura di paesaggio, il cui precursore fu Paul Brill, giunto in città circa nel 1575 , si specializzò nella raffigurazione idealizzata del territorio laziale,12 autore di splendidi affreschi in ville e palazzi, influenzato dall’Elsheimer eseguì su rame una serie di piccoli scorci di Roma e dintorni.

10 E.C. Ramirez, I gesuiti e lo studio del Lazio antico nelle guide del Grand Tour, in (a cura di) I. Salvagni, M. Frateangeli, Oltre Roma. Nei Colli Albani e Prenestini al tempo del Grand Tour, (Roma 21 gennaio-25 marzo 2012), Roma 2012 pp. 146-151. 11 M. Migliorini, Il viaggio dei pittori nel Sei e Settecento e lo studio dei Grandi Maestri, (a cura di) M.Migliorini, G. Savio, Souvenir d’Italie. Il viaggio in Italia nelle memorie scritte e figurative tra il XVI secolo e l’età contemporanea, Atti del convegno Genova, 6-8 novembre 2007, Genova 2008, pp. 69-70. 12 F. Petrucci, La “scuola dei Castelli Romani”. Un’accademia di pittura “en plein air” tra i colli Albani e Tuscolani, Roma 2006, pp. 9-10.

9 La campagna romana, quell’ampia porzione di territorio limitata da Tivoli sui colli Sabini a est e dalle colline di Albano a sud, continuò ad essere di particolare richiamo anche per i visitatori del Settecento. Nel momento in cui il Grand Tour divenne una tappa obbligatoria nell’educazione delle classi agiate, il Bel Paese cessò di essere un insieme di bellezze concepite in maniera superficiale e generica e assunse una propria forma identificativa che accrebbe l’impulso a varcare i confini della grande città e dei percorsi turistici prestabiliti, per inabissarsi nei suoni e richiami delle campagne. Non che in Inghilterra mancassero paesaggi naturali e mozzafiato, ma l’Italia offriva un tipo di ritiro infarcito ancora una volta di cultura e che emanava i profumi del passato come vedremo di seguito nel dettaglio. Era il paesaggio associato alla storia e civilizzazione di Roma, dove avevano avuto luogo le battaglie tra le antiche tribù di Latini e Sabini, Volsci ed Etruschi. I resti di templi, tombe e ville, monumenti dell’Età Imperiale, interrompono la distesa di verde e riportano i viaggiatori a un’epoca passata, dove essi, memori degli studi effettuati in patria s’immergevano con grande godimento. Horace Walpole nel 1740 a tal proposito disse: “Our memory sees more than our eyes in this country”, un’espressione che serve a enfatizzare la potente influenza del passato sulla sensibilità dei visitatori. Nel periodo Imperiale Tivoli fu uno dei luoghi maggiormente amati per allontanarsi dal caos della città e per i gran turisti quell’ideale di vita bucolica allietata dai suoni della natura prendeva forma in Villa Adriana13, il Tempio della Sibilla e la Villa Mecenate. La zona attorno ad Albano e Frascati offriva la magia dei colori dei laghi in cui si rifletteva, come in uno specchio, la vegetazione delle loro sponde e il volume delle colline tutt’intorno. Richard Wilson nel 1752 ci offre una bella descrizione pittorica del Tempio della Sibilla e di ciò che lo circondava14. (fig. 2) Il punto di vista è quello dei contadini intenti al lavoro; inconsapevoli in quanta bellezza e importanza spendessero le giornate di fatica nei campi Interessante la resa luministica del cielo, sereno per lo più, con un banco di nubi che si sta assemblando proprio sopra il tempio. Wilson volendo avrebbe potuto posizionarsi di fronte al monumento e ritrarlo, così da coglierne ogni aspetto, ogni segno del tempo, ma fa la scelta differente di collocarlo nel suo ambiente naturale. Questo ci fa capire quanto il paesaggio della campagna romana apportasse valore aggiunto alle già famosissime bellezze archeologiche. Lo stesso tempio strappato dalla sua collina fitta di vegetazione, senza i contadini alla base dell’altura, non sarebbe stato così

13 P. Gusman, La villa imperiale de Tibur, Paris 1904, pp. 61-62 14 L. Stainton, Tivoli and the Campagna, in A. Wilton, E. Bignamini (a cura di), Grand Tour: The Lure of Italy in the Eighteenth Century, (catalogo della mostra London Tate Gallery 10 October 1996- 5 January 1997, Rome Palazzo delle Esposizioni, 5 February 1997-7 April 1997), London 1996, pp. 140-143.

10 eloquente, questo è Grand Tour, questo è ciò che cerca il visitatore inglese. Cerca di rivivere le sensazioni dei grandi del passato senza tralasciare i luoghi di ritiro e riflessione nel suburbio laziale. A Roma Wilson risiede nel 1752 e 1753, in Piazza di Spagna assieme a Thomas Jenkins. S’inserì bene nel circolo del Cardinale Albani che gli diede l’opportunità di entrare in contatto con Anton Raphael Mengs, il quale realizzò un ritratto del pittore inglese in cambio di un suo paesaggio. Lord Dartmouth e Stephen Beckingham divennero suoi affezionati clienti e infatti per il primo eseguì una serie di vedute di Roma e dintorni e due vedute in pendant che rappresentano Roma da Villa Madama e San Pietro e il Vaticano dal Gianicolo, oltre a questi lavori Wilson ci lascia una cospicua eredità di disegni e schizzi che coprono una vasta gamma di soggetti: dallo studio ravvicinato del dettaglio vegetale sino alla veduta classica, reale o idealizzata. Il pittore inglese doveva subire il fascino del mondo naturale e di conseguenza della ripresa dal vero in maniera particolare, nei suoi lavori notiamo uno studio maniacale della resa naturalistica, completata dall’analisi delle diverse specie botaniche presenti i natura. Sintomatico di quanto appena detto è il fatto che fosse solito inserire all’interno del paesaggio dipinto la propria immagine con accanto tela e cavalletto. Tra gli schizzi giunti fino a noi ben quattro fogli riproducono il Vesuvio, testimoniando almeno un viaggio di Wilson a Napoli, la città affacciata sul mare riempiva l’animo dei viaggiatori e fu oggetto di attenta riproduzione ad opera di artisti e visitatori. Carlo III di Borbone nel 1734 conquistò i regni di Napoli e Sicilia sottraendoli al dominio austriaco e dando vita ad un regno indipendente che univa l’Italia Meridionale ed investiva Napoli del ruolo di capitale. Proprio sull’onda di questa grande svolta politica William Hamilton ricoprì il ruolo di Ambasciatore Britannico presso la corte Borbonica dal 1764 al 1799. La sua residenza a palazzo Sessa era divenuta il centro culturale della città, luogo d’incontro di artisti e letterati principalmente inglesi ma non solo, punto di riferimento per vendita e, o acquisti di materiale antico. D’altronde la città ha sempre goduto d’un fascino particolare, dal gusto quasi esotico che ne fanno un ambiente caotico e inafferrabile. Come se quei palazzi nobiliari e quelle piazze mille volte ripresi dai pittori dell’epoca si fondessero con i vicoli del cuore verace della città creando un corpo unico di leggende e storie

11 popolari in parte romanzate, per non parlare dell’affascinante presenza del Vesuvio15che all’epoca deliziava ancora il pubblico con scenografiche eruzioni16. Solitamente il letterato, l’uomo di cultura che affrontava il Grand Tour partiva con le migliori intenzioni di toccare con mano e dare una certa concretezza a ciò che per anni aveva solo visto riprodotto sui testi, ma si sa, il fascino per l’occulto e per l’indefinito fanno parte della struttura umana e Napoli come sopra accennato è teatro perfetto per le storie al limite del mondo reale. Goehte, in occasione del soggiorno del 1787 racconta con entusiasmo le escursioni nei dintorni della città ed è percepibile il fascino che questi luoghi esercitarono sul letterato tedesco: “una gita in mare fino a Pozzuoli, brevi e felici passeggiate in carrozza o a piedi attraverso il più prodigioso paese del mondo. Sotto il cielo più limpido il suolo più infido; macerie d’inconcepibile opulenza, smozzicate, sinistre; acque ribollenti, crepacci esalanti zolfo, montagne di scorie ribelli a ogni vegetazione, spazi brulli e desolati, e poi, d’improvviso, una verzura eternamente rigogliosa, che alligna dovunque può e s’innalza su tutta questa morte, cingendo stagni e rivi, affermandosi con superbi gruppi di querce perfino sui fianchi d’un antico cratere. Ed eccoci così rimbalzati di continuo tra le manifestazioni della natura e quelle dei popoli”. L’intensa attività vulcanica visibile tutt’oggi sul territorio dell’allora capitale borbonica così come il Tempio di Serapide a Pozzuoli, il Lago Averno e tutti i Campi Phlegraei,17 ne fanno un territorio dal potere suggestivo ineguagliabile. Tra il 1777 e il 1778 Dominique Vivant Denon in occasione della stesura dell’opera Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicilie, scritto dall’Abate di Saint-Non ededito a Parigi tra il 1781 e il 1786, effettua una campagna di rilevamento nel regno Borbonico in compagnia di Claude Louis Chatelet18 e Louis-Jean Desprez.19 Il lavoro effettuato dai due artisti durante il viaggio costituisce il corpo grafico principale del Voyage, spicca su tutti la Grotta di Posillipo ritratta dal Desprez.Coglie il luogo in una condizione di luce particolare che conferisce uno strano fascino al varco d’accesso dei Campi Flegrei scavato in età Augustea,la grotta buia è chiaramente presa a tarda sera, carri trainati da

15 A. J. Morrison, C. Nisbet, Goethe’s travels in Italy, London 1885 pp. 178-179 16 G. Ajello, Napoli e I luoghi celebri delle sue vicinanze, Vol. II. Napoli 1845, pp.377-405. 17 Si tratta di una vasta area situata a nord ovest della città di Napoli. La parola deriva dal greco, “flègo”, “brucio”. Nella zona sono tutt’ora visibili almeno ventiquattro tra crateri ed edifici vulcanici. 18 Pittore e incisore di paesaggi, Chatelet viaggiò con Vivant-Denon e con Desprez nel sud dell’Italia fermandosi a Roma e a Firenze, e collaborò ampiamente alla realizzazione del Voyage pittoresque del Saint-Non. Repubblicano ardente, fece parte del tribunale rivoluzionario. Arrestato qualche mese dopo la giornata di Termidoro (27 luglio 1794) che abbatté la dittatura terroristica di Robespierre e fu ghigliottinato il 7 maggio 1795. 19 Allievo di François Blondel e di Desmaisons, nel 1771 divenne professore alla Scuola Militare di Parigi e nel 1777 vinse il Grand prix di Architettura..

12 buoi e pastori che conducono le pecore fanno luce con le loro lanterne, mentre i pipistrelli probabilmente disturbati dal vociare ed abbagliati dalle luci, svolazzano sulla volta dell’antro. Goethe non manca di dare la propria versione del luogo e le sue parole si avvicinano moltissimo al disegno del Desprez: “Al tramonto andammo a visitare la Grotta di Posillipo, nel momento in cui dall’altro lato entravano i raggi del sole declinante. Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono di senno!”20 Il contrasto scenografico tra luce e ombra veniva ampiamente utilizzato anche nei numerosissimi dipinti che fissano l’immagine del Vesuvio in eruzione alla fine del secolo. Sir William Hamilton nell’opera Campi Phlegraei: osservazioni sui vulcani delle due Sicilie, fornisce uno studio attento dell’attività eruttiva del Vesuvio e documenta gli eventi con interessanti disegni a matita da inviare alla Royal Society, Il lavoro fu pubblicato nel 1776, ma a esso seguì un Supplemento edito in occasione della grande eruzione del Vesuvio del 1779. La pubblicazione divenne parte della formazione culturale del gran turista sia per il suo interessante taglio scientifico, che per i disegni del vulcano che raggiunsero un successo tale da essere riprodotti in maniera seriale al pari del Colosseo o dei Fori romani. Come già rilevato, l’impostazione del giro turistico del Grand Tour è rimasta una grande eredità per l’Italia e dunque viene spontaneo includere tra le mete italiane la città di Venezia, famosa in particolare per le grandi manifestazioni folkloristiche o il modo maestoso in cui erano accolti e allietati i sovrani in visita. Francesco Guardi ci regala una suggestiva immagine del Ponte di Rialto21 (fig. 3) giunta fino a noi in un disegno a penna ed inchiostro marrone; l’artista con la sua abituale maestria è capace di catapultare lo spettatore in quell’affollata mattinata di lavoro, tra voci, gondole e folla che s’incrociano sotto l’imponente arcata. Dietro ogni manifestazione era in movimento frenetico il mercato del souvenir, piccoli quadretti, oggetti pseudo –artistici di ogni tipo che testimoniassero la presenza del turista all’evento, da portare a casa e mostrare alla propria cerchia con pari orgoglio quanto la conchiglia di Santiago per il pellegrino. La storia del Grand Tour, per quanto sia alla base di questa tesi, andrà specializzandosi in maniera sempre più sottile, occupandosi dei protagonisti per lo più e meno del fenomeno in sé, dunque è bene chiarire qualsiasi punto traballante in questa sede. Ci si è spesso domandati quale sia l’effettiva differenza tra le orde di pellegrini che fin da Medioevo attraversavano la penisola diretti ai luoghi di culto ed il grand turista, la differenza è fondamentale: i pellegrini sono concentrati nel raggiungere la salvezza eterna e dunque il paesaggio che li circonda non solo gli

20 J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Milano 2000, p. 27. 21 P. Wescher, Old towns and Cities, in drawings of the fifteenth to the nineteenth century, Switzerland 1946, p. XX

13 scivola addosso, ma addirittura viene trasformato dal loro sentire religioso, che crea una mappa propria dove Roma è il luogo massimo fino al quale essi si spingeranno.22

“Grand Tour” è un’espressione usata per la prima volta per il viaggio di Lord Granborne in Francia, le tappe erano state preventivamente concordate da guide esperte e ogni cosa organizzata con precisione, questo è Grand Tour, un mondo vasto e variegato su cui si continua a produrre tanta letteratura.

22 C. De Seta, L’Italia nello specchio del “Grand Tour”, in “Storia d’Italia”, Annali 5, Il Paesaggio, pp. 127-263.

14 1.2. Intorno ai collezionisti e ai viaggiatori: mercanti, agenti e antiquari a Roma nella seconda metà del Settecento

Durante la seconda metà del Diciottesimo secolo le relazioni tra Roma e Londra si svilupparono a tal punto che la domanda di antichità in Inghilterra divenne talmente forte da creare le condizioni consone alla crescita esponenziale dell’attività mercantile. Il mito del Grand Tour spinse verso l’Italia il collezionismo privato inglese in maniera talmente cospicua che questo creò una piccola rivoluzione nel tessuto sociale romano. Non vogliamo certo dire che Roma fosse una città nuova alle bellezze artistiche che ne custodivano l’anima, ma di certo l’interesse dilagante per il gusto dell’antico determinò un incremento del numero di personaggi che si occupavano di vendite, perizie e intermediazioni per tutto ciò che appartenesse ai tempi passati o quanto meno avesse la pretesa di sembrarlo. C'era già una lunga tradizione di collezionismo che si era stabilita a partire dal periodo Rinascimentale, ma all'epoca la maggior parte delle collezioni inglesi consistevano in antichità piccole e facilmente trasportabili; monete, sigilli e bronzi, solo pochi ricchi e potenti uomini potevano permettersi di acquistare sculture in pietra. Un collezionista d’oltremanica che si rispetti doveva circondarsi di statue, colonne, rilievi, e per far ciò aveva bisogno di un professionista che seguisse i lavori di scavo facendo l’interesse del proprio cliente e scegliendo per lui i pezzi migliori emersi dalle campagne archeologiche. Nei traffici d’arte la pratica della mediazione in affari veniva esercitata da una nutrita classe di individui. Che tuttavia si possono racchiudere in due categorie principali: i sensali e gli agenti.23 I sensali avevano il mero compito di accaparrare clienti per le opere poste in vendita da privati o mercanti, la loro era una funzione di puro mediatore delle parti a cui, in caso di esito positivo della contrattazione, spettava una percentuale in denaro stabilita a priori. Rispetto ai comuni sensali, gli agenti avevano un profilo culturale del tutto diverso, essi erano in definitiva dei procuratori artistici, dovendo molto spesso acquistare opere per conto di terzi è naturale che questi individui garantissero sia una buona conoscenza delle regole di mercato sia specifiche competenze in ambito artistico, così da poter stabilire il valore dell’oggetto in questione, l’autenticità e gli eventuali restauri da compiere. Ma vediamo dunque di fare qualche nome in modo da dare un volto al discorso intrapreso, capire attraverso quale apprendistato si arrivava a svolgere la professione, i motivi che spingevano a farlo e soprattutto quanto le capacità diplomatiche, la propensione alle pubbliche relazioni fosse

23 P. Coen, Il mercato dei quadri a Roma nel Diciottesimo secolo. La domanda l’offerta e la circolazione delle opere in un grande centro artistico europeo, Firenze 2010, vol. I, pp. 137-165.

15 un’arma vincente in un mondo fatto di uomini scaltri, di spedizioni effettuate di notte per rubare reperti e di rapporti a fatica distesi con i legati papali che di base facevano il bello ed il cattivo tempo riguardo alla destinazione dei pezzi estratti dal sottosuolo romano. Thomas Jenkins (1722-1798), Gavin Hamilton (1723-1798), Colin Morison (1732-1810) e Robert Fagan24(1761-1816) sono quattro nomi chiave del mondo che stiamo per descrivere. Si trasferirono inizialmente a Roma per studiare arte italiana e fare pratica artistica, ma subito compresero che il commercio dell’Antico era un business molto più remunerativo dell’arte contemporanea e così fecero del proprio meglio per ritagliarsi una posizione privilegiata all’interno di questo mercato le cui regole di compravendita si andavano definendo ancora in quegli anni. Per quattro decenni furono responsabili di circa ottanta scavi e della vendita ed esportazione di frammenti antichi e pitture, disegni, sculture e incisioni dei cosiddetti Old Masters. Robert Fagan (fig. 4) iniziò la propria carriera professionale come pittore prima, come diplomatico poi. Dall’anno del suo arrivo a Roma nel 1781 fino al suicidio trentacinque anni più tardi, Fagan rimase un famoso e insolito operatore del settore dell’antiquariato che seppe costruirsi una solida rete clientelare. Ciò che però gli impedì di eguagliare i successi economici di Jenkins o il rispetto di cui godeva Hamilton, fu il suo carattere: instabile e senza scrupoli. Colin Morison fu uno stimato cicerone, commerciante e scavatore che lavorò a Roma per più di cinquant’anni. Collaborò spesso con Mengs che lo introdusse in un circolo di mecenati ed intellettuali, tra cui Winkelmann che rimase impressionato dal suo buon cuore, coraggio e dalla sua abilità nel leggere Omero. La preparazione culturale di Morison era dunque suoperiore alla sua abilità artistica, tanto che nel giro di poco divenne uno dei più importanti antiquari a Roma. Il termine di ‘conoscitore’ se analizzato fuori contesto potrebbe sembrare una parola generica che identifica di volta in volta commercianti d’arte, guide, scrittori, scavatori, archeologi, artisti, restauratori e collezionisti, ma se è pur vero che essa racchiudeva al suo interno una vasta gamma d’umanità -chierici, nobili, strati sociali più semplici e coloro che lavoravano per guadagnarsi da vivere- è giusto anche precisare che il significato espresso è estremamente preciso e Thomas Jenkins25 fu certamente un esponente di coloro che misero al servizio dei clienti le proprie attitudini di conoscitori praticando un vero e proprio mestiere. Di famiglia

24 Su Fagan vedi: R. Trevelyan, Robert Fagan, an Irish bohemian in Italy, “Apollo”, XCVII, set.-dic. 1972, pp. 298- 311. I. Bignamini, I marmi Fagan in Vaticano: la vendita del 1804 e altre acquisizioni, “Bollettino. Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie”, XVI, 1996, PP.331-394. 25 AA VV, T. Jenkins, Catalogue of A Loan Exhibition of Eighteenth Century Italy and The Grand Tour at Norwich Castle Museum, May 23-July 20 1958, Norwich 1958, p.21

16 britannica, era nato a Roma nel 1722, nella parrocchia di Piazza del Popolo, proprio nel cuore della zona di Roma che diverrà dimora di molti artisti della colonia inglese. L’apprendistato da pittore in Inghilterra precedette un breve periodo di pratica a Roma dal 1753 in avanti, i primi contatti con i mecenati inglesi devono aver illuminato il suo senso degli affari e dato il via alla consapevolezza che la professione di commerciante gli avrebbe portato maggior prestigio e migliore qualità di vita di quanto avrebbe mai potuto sognare continuando a seguire la carriera artistica. Fu dunque la carriera di antiquario e commerciante che costruì la sua positiva reputazione a Roma, l’idea di abbandonare tela e pennelli fu probabilmente la scelta più saggia che avesse mai fatto!26 La sua strada era stata quella degli affari, i suoi beni erano oggetti d’arte ed il suo mercato era creato dal gusto; nessun’altro uomo seppe mescolare queste due sfere in maniera migliore. Jenkins possedeva una mente curiosa e la storia precedente dei beni che commerciava non lo interessava unicamente per accattivarsi l’attenzione della clientela ma fu proprio un impulso, quasi fosse suo dovere nei confronti dell’arte stessa che gli aveva donato fama e ricchezza. La missione di promozione del buongusto fu alimentata dai prolungati scavi e nella corrispondenza con Charles Townley dimostrava un profondo rispetto per l’arte, le virtù del passato antico, e il desiderio di vederle prosperare nell’Europa Moderna. L’interesse di Jenkins nel formare il gusto artistico dei propri clienti era notevole, spingeva Townley e altri a visitare le collezioni di altri gentiluomini per fare un paragone con le proprie, compiacersi della superiorità dei propri oggetti, ma anche studiare la disposizione della collezione, che doveva essere creativa, funzionale e originale. Si esprimeva con parole piuttosto dure e aggettivi di disprezzo nei confronti del gusto della massa, ad eccezione di certo dei suoi clienti, usava metafore interessanti ed inusuali per descrivere la diffusione del buon gusto, richiamando in suo aiuto l’immagine del colore che si diffonde nell’acqua; nonostante ciò è giunto sino a noi l'aspetto d’un uomo subdolo, approfittatore, con il fiuto degli affari, al limite della moralità.

26 Su T. Jenkins vedi: T. Ashby, Thomas Jenkins in Rome in “the Antiquaries Journal”, 45, 1965, pp.225-229; B. Ford, Thomas Jenkins. Banker, dealer and unofficial English agent, “Apollo”, XCIX, 1974 pp.416-425; A. Busiri Vici, Thomas Jenkins fra l’arte e l’antiquariato, “L’Urbe”, XLVIII, 1985, PP.157-165.

17 Probabilmente una cosa non esclude l’altra e per risolvere l’enigma della vera natura di Jenkins solo la scoperta dei suoi diari privati potrebbe fornirci la misura del suo impegno personale al ruolo di conoscitore e promotore del gusto. Gavin Hamilton (fig. 5) morì di malaria a Roma nel 1798 all’età di settantacinque anni alla fine del periodo d’oro del Grand Tour, al quale egli aveva dato un significativo contributo in numerosi campi artistici. È comunemente descritto tramite l’uso combinato dei termini di pittore, archeologo e commerciante, ma ciò che interessa alla nostra ricerca al momento è principalmente il secondo vocabolo. Di origine scozzese era nato a Lanark nel 1723 e aveva effettuato l’apprendistato di pittore a Glasgow. Il suo primo incontro con l’Italia risale al 1748, quando intraprese un viaggio a Napoli e dintorni entrando così in confidenza con l’arte Romana antica che divenne l’inquietudine della sua vita. I tre anni trascorsi successivamente a Roma furono investiti alla formazione di un‘idea del mondo classico. Dopo un periodo a Londra tornò a Roma nel 1756 e non lasciò mai più la città. Divenne un Romano sotto ogni aspetto, visse con una donna italiana, Margherita Giulj, con cui formò una famiglia senza unirvisi in matrimonio27. La malaria non l’abbandonò mai del tutto e periodicamente soffriva il riacutizzarsi del male, in quei momenti solitamente si riavvicinava alla passione della pittura che di certo lo stressava meno rispetto all’attività di scavo, ma il richiamo dei proventi dati dagli scavi sommato al piacere dell’investigazione dell’antichità Romana, fecero si che continuasse l’impresa archeologica fino alla fine dei suoi giorni. Il carattere di Hamilton è noto attraverso le numerose lettere a Charles Townley, già pubblicate nel 1901 da Smith Arthur Hamilton,28 gran lavoratore e uomo impulsivo, privo di quella conoscenza del mondo che fu invece caratterizzante di Jenkins, ma del tutto consapevole che il suo lavoro segnasse un punto a favore della materia archeologica e che diventasse oggetto di interesse e conoscenza presso il maggior numero possibile di pubblico. Hamilton era solito esternare i propri sentimenti e punti di vista ai clienti e non era solito mentire per amore del commercio. In una lettera a Shelburne che voleva vendere la sua collezione di statue al tempo della guerra con l’America in modo da recuperare parte delle perdite finanziare, il suggerimento di Hamilton appare di una modernità impressionante: “I must now beg leave to advert one thing in regard to

27 I. Bignamini, C. Hornsby (a cura di), Digging and dealing in eighteenth-century Rome, New Haven 2010, vol I, p. 195. 28 S. A. Hamilton, Gavin Hamilton’s Letters to Charles Townley, in «Journal of Hellenic Studies», XXI, 1901, pp.306-321.

18 your Lordship’s collection of ancient statues and that is that they have no intrinsic value but rise and fall like the stocks. When I sent these statues to England all Europe were fond of collecting and the price of consequence ran high. At present there is not one purchaser in England and money is scarce. It therefore doesn’t surprise me that at this time your Lordship cannot immediately find a purchaser at the price they cost. There is another thing against you my Lord which is that whatever you offer for sale is looked on as your refusal and at once condemns it”29. L’affermazione di Hamilton sulla mancanza di valore intrinseco delle statue deve essere letta nel contesto del suo ruolo di commerciante. È fuor di dubbio che Hamilton al momento della scoperta di un nuovo pezzo fosse interessato tanto al nuovo tassello che ricomponeva l’arte del passato quanto a vendere lo stesso al miglior prezzo possibile. Ricorreva spesso ai vocaboli di categorizzazione del Winckelmann allo scopo di mescolare sapientemente erudizione e tecniche di vendita. In un appunto indirizzato a Lord Shelburne, datato 1 maggio 1774 Hamilton speculò chiaramente sulla probabile datazione con termini davvero vaghi ma ben organizzati in modo da far sentire il cliente soddisfatto nonostante l’inconsistenza effettiva delle informazioni fornite.30 Solitamente sceglieva dove scavare in base alla presenza di rovine ed altri indizi che fossero intatti. In un’epistola a Townley del 1775 scrisse che a scavi già cominciati ad Anagni si era accorto con suo grande disappunto che qualcuno aveva battuto la zona prima di lui. Jenkins al contrario sembrava essere nettamente più organizzato quando in una lettera dice di portare avanti il suo lavoro a Villa Adriana. Il sito presentava tre antichi alberi e la presenza di questi testimoniava l’assenza di usurpatori del terreno per anni, forse centinaia di anni e ciò alle orecchie dell’archeologo veniva tradotto come ‘fertilità in potenza’31. Hamilton si servì di frasi riprese dagli antichi scrittori per identificare probabili siti archeologici. Non organizzava il materiale raccolto con ordine, ma di certo lo studio e l’impegno che metteva nella preparazione agli scavi lo differenziavano di gran lunga da quanti si gettavano in scavi random senza alcun criterio. Solitamente i ritrovamenti di antichi tesori avvenivano ad opera di operai o agricoltori che abitavano nei pressi delle zone archeologiche e basavano le loro campagne di scavo su ritrovamenti casuali o dicerie del popolo.

29 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. II, p. 126. 30 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit; vol II, p.38. 31 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. II, p. 57.

19 Il metodo di Hamilton invece coinvolgeva squadre di scavatori, conosciuti come Aquilani, poiché provenienti dall’Aquila32, che lavoravano sotto la direzione di un caposquadra. La pianura costiera era sicura solo nei mesi invernali, quando il rischio della malaria era minore. Questi ex-pittori, appassionati e dal temperamento non certo votato al paradiso, avevano deposto colori e pennelli per investire in altro ma per quanto tale scelta fosse abbastanza comune, non si trattava certamente di un obbligo, associare la professione artistica a quella del mercante era altrettanto usuale e fu ciò che fece Giovan Battista Piranesi33, architetto ed incisore, avveduto mediatore di vendite e paradigma dell’artista e antiquario settecentesco. Ma cosa commerciavano? Come vi entrano in possesso e soprattutto erano davvero pezzi autentici nel caso in cui si trattasse di scultura antica? Parte dei loro affari verteva su quadri e disegni degli antichi maestri, poi antichità etrusche, egizie, romane, una buona fetta è rappresentata dall’oggettistica di uso quotidiano, crateri, vasi, candelabri, lucerne funerarie. Quadri, disegni e parte delle antichità provenivano dal mercato romano o dalle collezioni di famiglie aristocratiche che nel Settecento cercavano liquidità. Talora ci si spingeva oltre il lecito stringendo accordi con ladri, ma talvolta un buon affare poteva essere mettere le mani sulle vendite pubbliche o gli stock dei colleghi. Essere un buon professionista significava esserlo a tutto tondo, preparati in campo artistico e meglio ancora se versati nell’arte del restauro. In questo caso il commerciante aveva il doppio delle possibilità di arricchirsi e trovare mercato per le opere giunte nel suo studio. Molto spesso infatti tutto si riduceva ad incontrare il gusto del compratore: c’è chi ama l’aspetto vissuto e malconcio delle opere, segno dei secoli passati e dell’effetto del tempo e chi invece preferisce esporre nei propri salotti opere ben restaurate e sistemate. In entrambi i casi, l’abile mano del mercante se restauratore poteva compiere il miracolo e trasformare a suo piacimento il reperto in oggetto. La pratica del Grand Tour fornì un valido impulso a incrementare la riproduzione in metallo così come in biscuit delle più pregevoli sculture antiche,34 si desiderava portare in patria il ricordo di ciò che si era visto o di quanto di essa già si conosceva attraverso le pubblicazioni presenti sugli scaffali delle biblioteche europee, prosperò così l’industria artistica del “ricordo di viaggio” e si

32 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. I, p. 10. 33 P. Coen Giovanni Battista Piranesi mercante d’arte e di antichità, “connessione tra lavoro antico e lavoro moderno”, in C. Brook, V. Curzi (a cura di), Roma e l’antico, realtà e visione nel ‘700 (catalogo della mostra Roma, Palazzo Sciarra 30 novembre 2010-6 marzo 2011), Milano 2010, pp. 65-70. 34 C. Teolato, Artisti imprenditori: Zoffoli, Righrtti, Volpato e la riproduzione dell’antico, in C. Brook, V. Curzi (a cura di) Roma e l’antico, realtà e visione nel ‘700, Milano 2010, pp. 233-238.

20 rese disponibile un gran numero di manufatti che potessero soddisfare le richieste di estimatori o visitatori. Siamo ben lontani dalla catena di montaggio di Henry Ford e dall’amaro sarcasmo del povero Charlie Chaplin alle prese con l’abbrutimento del lavoro seriale ma queste copie settecentesche di oggetti famosi facevano della serialità un punto di forza, il proprio valore veniva dall’essere rievocazioni di opere famose. Per ciò che riguarda la produzione di bronzetti si distinse nel panorama romano degli anni sessanta del Settecento la produzione di Giacomo e Giovanni Zoffoli e quella di Francesco e Luigi Righetti che occupano invece gli ultimi venti anni del secolo. Pietro Pacilli ad esempio operò come scultore e restauratore di antichità nel suo studio nei pressi di Trinità dei Monti. Diede inizio alla propria attività lavorando accanto al padre Carlo intagliatore di legno, fu in costante contatto con Jenkins e Hamilton per i quali accomodava una serie di statue antiche così da permettere ai due commercianti di piazzare l’oggetto a prezzi maggiormente vantaggiosi. Lo stesso Pietro tra l’altro creò la propria cerchia di clientela straniera e fornì numerosi pezzi a molti collezionisti stranieri tra cui una statuetta di Ecate venduta a Charles Townley e proveniente da Palazzo Giustiniani. Pacilli non compare tuttavia nella corrispondenza con questo suo acquirente, dunque sembra possibile formulare l’ipotesi che in caso di grandi collezionisti egli si rivolgesse all’intermediazione di Jenkins o Hamilton, che dal canto loro quando avevano in pugno qualche signorotto ben disposto a investire la propria fortuna in opere antiche di certo non si facevano scavalcare da nessuno. Chi appare in queste lettere è Carlo Albacini35 formatosi nello studio di Bartolomeo Cavaceppi e stretto collaboratore di Thomas Jenkins per ciò che concerneva il restauro di marmi destinati a Townley, Il suo studio al numero 67 di Vicolo degli Incurabili divenne un punto d’appoggio per le antichità a lui destinate. Trentaquattro marmi, incluse la Venere di Townley e la statua di Thalia sono registrate qui nel 1777, in attesa di essere distribuite.

35 Su Carlo Albacini vedi: DE FRANCISCIS ALBERTO, Restauri di Carlo Albacini a statue del Museo Nazionale di Napoli, in «Samnium», XIX, 1-2, 1946, pp.96-100DAVIES GLENYS, The Albacini cast collection, in «Journal of the History of Collections», III, 2, 1991, pp.145-165; HOWARD SEYMOUR, Ancient Busts and the Cavaceppi and Albacini Casts, in «Journal of the History of Collections», III, 2, 1991, p.199-217; PEPE MARIO, Carlo, Filippo e Achille Albacini, in «Capitolium», XXXV, 12, 1960, pp.28-29; PRISCO GABRIELLA, La collezione farnesiana di sculture dallo studio di Carlo Albacini al Real Museo Borbonico, in I Farnese 1995, pp.38-56

21 Nel 1778 Townley si lamentò del restauro del rilievo raffigurante il Banchetto di Trimalchione ma Jenkins difese il suo lavoro dicendo che solo alcune parti davvero rovinate erano state sostituite ma la cosa non convinse il vecchio inglese del tutto. Con l’arrivo di Napoleone l’organizzata rete di mercanti, antiquari e acquirenti d’arte antica vacillò, ci fu un rimescolarsi di posizioni e abitudini, ma i più avveduti seppero ugualmente trovare la propria strada per un commercio parimenti fruttuoso se non addirittura migliore rispetto agli anni precedenti; Carlo Albacini fu uno di questi e con l’invasione francese continuò a lavorare come restauratore occupandosi della collezione Farnese e creandosi un discreto business nel napoletano.36 Altro esempio di antiquario scozzese di gusto ed esperienza era James Byres37, professionista nell’arte del commerciante, antiquario e soprattutto nel condurre gruppi di gran turisti tra i monumenti della città facendo da cicerone. In Strada Paolina aveva una raffinata agenzia che offriva ai clienti non solo visite guidate ma addirittura totale accesso alle acquisizioni antiquarie del Grand Tour. Si trattava di un vero e proprio business di successo e intelligentemente organizzato. Dalle esistenti licenze d’esportazione risulta che Byres forniva ai collezionisti britannici opere antiche e moderne, organizzando anche commissioni con artisti contemporanei e attingendo ai suoi iniziali studi di architettura, schizzava un progetto volto a studiare i modi migliori per esporre le opere acquistate. Aveva di sicuro un debole per l’arte contemporanea giacché agì spesso in via ufficiosa come ‘protettore’ di artisti contemporanei. Nel 1762 vinse il terzo premio della prima classe del concorso Clementino bandito da San Luca, nel novembre 1768 entrò nel novero dei Professori nel 1773. A differenza degli antiquari fin qui nominati Byres non fu attivo come mercante di marmi bensì risultano registrate vendite di piccole figure ed oggettistica decorativa. D’altronde egli non si specializzò nel restauro né tantomeno finanziò mai alcuna campagna di scavo intessendo così rapporti con la Reverenda Camera Apostolica. In un secolo in cui l’archeologia divenne la gallina dalle uova d’oro, James Byres fu di sicuro uno di quei personaggi che seppe adattarsi a questo nuovo “mood” romano e che sembrava attingere a mille risorse pur di adattarsi alle esigenze di ogni cliente, procurava dai denti d’elefante, ai cammei, e ogni tipo d’ornamento antico.

36 R.Ridley, Theveagle and the spade:arachaeology in Rome during the Napoleonic era, Cambridge 1992, pp. 112- 117. 37I. Bignami, C. Hornsby op. cit.; vol. I, pp. 246-248.

22 La Roma del Grand Tour appare dunque uno dei luoghi su cui si è potuto maggiormente calcare la mano indagando l’immagine di una città dominata dalla presenza di artisti e viaggiatori e sui rapporti che tra essi si vennero a creare. In questa sede abbiamo introdotto spunti di riflessione sui processi messi in atto dal consumo di cultura, categoria che ben si adatta all’immagine della Roma settecentesca “emporio del bello” e “tempio del vero gusto”. I tradizionali meccanismi della committenza artistica mutarono e ce ne hanno fornito testimonianza chi tutto ciò lo visse: viaggiatori e artisti sono elementi attivi in questo processo di nascita di rapporti non codificati che si fece strada nella vita quotidiana e nella tessitura urbana di Roma, abbandonando così i percorsi ufficiali assai battuti un tempo. Alla fine di questo discorso è doveroso fare una precisazione e sottolineare che attorno alle molteplici figure di intermediari professionalmente sempre più competitivi e preparati, vero protagonista e ragion d’essere della folla di professionisti sovra menzionata è il pubblico38. L’artista stesso ne capisce il potenziale e apre le porte del proprio atelier cominciando ad autopromuoversi mostrando e anzi incoraggiando la frequentazione del proprio posto di lavoro, trasformandolo in un luogo deputato non solo alla produzione di nuove forme d’arte, ma alla socialità e dialogo con il pubblico39. Utile a questo discorso è la voce Peintre dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des art set des métiers di Diderot e D’Alembert, redatta da Louis de Jaucourt ove si spiegano i fattori che portano alla nascita di un grande pittore. Il dono del genio, la formazione della mano e dell’occhio deve necessariamente essere supportata dall’incoraggiamento da parte dello Stato e la presentazione delle opere in luogo pubblico: “Quoique la réputation du peintre soit plus dépendante du suffrage des experts que celle des poètes, néanmoins ils ne sont pas les juges uniques de leur mérite. »40 Secondo Jancourt dipende dal luogo, dal tempo e dal paese se la fama pittorica viene riconosciuta diversamente: «Par exemple, les tableaux exposés dans Rome seront plutôt appréciés à leur juste valeur, que s’ils étaient exposés dans Londres et dans Paris41 » Egli attribuisce questo fenomeno a un gusto “naturalmente” istruito dei romani per la pittura, sviluppato grazie alle occasioni che essi avevano di vedere in chiese e palazzi dei capolavori di pittura.

38 S. A. Meyer, La Pierre de touché. Riflessioni sul pubblico romano tra Sette e Ottocento, in “Ricerche di storia dell’Arte” 2006, 90, pp. 15-21. 39 S. Rolfi, Recensire, scrivere di storia, esportare. Roma emporio del gusto fra critica e mercato nel secondo Settecento, in “Ricerche di storia dell’Arte”, 2006, 90, pp. 5-14. 40 L. de Jaucourt, voce Peintre in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers”, t. XII, Struttgart-Bad Connstatt 1967, vol. 12, pp. 252-253. 41 J.Brewer, I piaceri dell’immaginazione. La cultura inglese nel Settecento, Roma 1999.

23 Si tratta altresì di un’immediata verifica attraverso il successo di un mercato cosmopolita a conferire autorevolezza al giudizio del pubblico romano. È vero però che non parliamo di un ambiente artistico totalmente libero da vincoli, il mercato romano fin dal Seicento era caratterizzato oltre che dalla committenza delle grandi famiglie aristocratiche, di Stato e della Chiesa, dalla presenza di alcuni strumenti e prassi di mediazione tra artisti e pubblico, che diverranno un tratto caratterizzante della realtà romana. I ciceroni ad esempio avevano tra i loro compiti non solo quello di mostrare, musei e bellezze della città bensì anche di convogliare i propri clienti negli studi degli artisti e allo stesso modo i giornali avevano il compito di far filtrare “l’oro de ricchi” negli studi degli artisti. Per avere un’idea di quanto il mondo del collezionismo a Roma sia mutato nel passaggio dal Seicento al Settecento basti dare uno sguardo alla documentazione contabile di casa Colonna, interessante testimonianza della modalità di acquisizione delle opere d’arte in una delle principali collezioni di pittura del Seicento. L’organizzazione economica e pratica della casa di un principe era affidata al Maestro di Casa, gli acquisti fatti sul mercato artistico più che sulla committenza; al contempo, si delinea la complessità della linea messa in atto per la gestione del patrimonio artistico42. I pagamenti ai pittori sono generalmente registrati nel libro Mastro della Casa sotto le voci “spese per mobili” e, in misura minore “spese particolari” di S.(ua) E.(eccellenza). Sempre sotto la prima modalità di dicitura ritroviamo registrati i pagamenti che i Colonna fanno per le opere acquistate dai mercanti. È ancora dai libri dei Maestri che veniamo a conoscenza di un ulteriore tipo di acquisizione di opere d’arte: il noleggio di dipinti. I modi di collezionare delle nobili famiglie della Roma seicentesca sono dunque vari e proprio tale varietà indica e chiarisce l’ottica in cui tale attività prendeva corpo. Tuttavia nonostante mediatori, intenditori d’arte e antiquari siano personaggi da sempre inscindibili dal tessuto sociale di una città come Roma che si nutre del proprio passato, nel passaggio da un secolo all’altro e con il diffondersi della pratica del Grand Tour in Italia il collezionista tratta direttamente di persona o per via epistolare con i propri agenti, lo scambio di lettere tra Cherles Townley ed i suoi collaboratori fu serrato e dettagliato, il fatto che essi si mobilitassero sempre più di persona per acquisire opere interessanti non ne fa necessariamente degli intenditori ma di certo molti di essi furono davvero preparati in campo artistico e nonostante cercassero di evitare il più possibile frodi ed imbrogli come vedremo nell’andare avanti con lo svolgimento degli argomenti, antiquari e mercanti romani seppero il fatto loro riguardo al mercato del falso.

42 F. Cappelletti, Decorazione e collezionismo a Roma nel Seicento. Vicende di artisti, committenti e mercanti, Roma 2003, pp. 175-185.

24 In una città come Roma dunquerisultano ben calzanti gli ordinamenti contenuti nell’undicesimo articolo dell’editto-chirografo43 del cardinale Doria pubblicato il 2 ottobre 1802. Si tratta d’una tassa imposta ai collezionisti espletata in modo preciso e che di certo non cade nella vaghezza della disposizione. Tutti i privati in possesso di gallerie di statue, di dipinti, Musei d’antichità sacre o profane o semplici raccolte di qualsiasi genere ed anche coloro che pur non essendo dei veri collezionisti possedevano uno o più oggetti antichi o comunque di un qualche valore artistico, entro un mese dovevano versare un’assegna a seguito della denuncia di ogni singolo pezzo; l’editto continuava aggiungendo che la visita a Roma dell’Ispettore delle Belle Arti, così come del Commissario delle Antichità, sarebbe divenuta un appuntamento più che annuale. Le assegne44 pervenute risultano essere 149, non abbastanza considerando che grandi assenti della lista sono le grandi famiglie romane notoriamente amanti del collezionismo. Per quanto l’editto Doria fu accusato di ledere il principio di proprietà privata , finché rimase in vigore salvaguardò il mercato artistico dell’Urbe dalla situazione di anarchia totale che caratterizzò il periodo successivo.

43 Dal gr. Cheirò-grafon e dal lat. Chirographum, lett. Scritto a mano. Il Chirografo papale è un documento manoscritto di mano pontificia. 44 D. Borghese, L’editto del cardinale Doria e le assegne dei collezionisti romani, in R.Vodret (a cura di), Caravaggio e la collezione Mattei, (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini Salone Pietro da Cortona 4 Aprile-30 Maggio 1995), Milano 1995, p. 73.

25 1.3. L’organizzazione legislativa degli scavi, licenze e responsabilità.

Il profilo delle “cose” dell’arte, il cammino del patrimonio verso una sua definizione culturale, trova come culla del proprio divenire il corpus legislativo che lo riguarda. Studiare la maturazione legislativa dei fatti serve a tracciare una mappa dettagliata di quelle urgenze culturali e conservative che giustificarono l’intervento della disciplina giuridica45. Per quanto questo sia un discorso applicabile a ogni regione italiana, il primato di emanazione delle antiche leggi di tutela spetta a quel governo Pontificio che in Roma riconosce per tempo il valore spirituale di una tradizione che volge in impero dei cristiani l’antico impero dei gentili. Del resto a Roma già prima del XVII secolo, frequentissime sono le dichiarazioni pubbliche e i provvedimenti di governo tesi a regolamentare la fruizione e proprietà del patrimonio archeologico di una città che cresce eternamente su se stessa e sulle proprie pietre. L’osservatorio propostoci dalle leggi romane consente una lettura di notevole continuità. Partito da un nucleo iniziale un po’ confusionale e in difficoltà legislativa causa la mancanza di precedenti giuridici, la finalità delle leggi si complicò nel Seicento, in un affollarsi di oggetti e materiali. Nel XVIII secolo le disposizioni accompagnarono l’emergere dell’archeologia scientifica, dell’archivistica, della bibliologia, divennero più complesse e articolate per far fronte all’invasione straniera del Grand Tour e proteggere i beni da appropriazioni indebite. Punto fondamentale da non sottovalutare è la nascita del Museo Pio-Clementino, basta dare uno sguardo al sistema legislativo volto a tutelare il Papa per capire quanto peso avesse il legato del Papa nella scelta degli oggetti dagli scavi effettuati all’epoca. La crescita del mercato dell’antico su scala internazionale creò le condizioni per la nascita della figura dello scavatore quasi professionale. In tempi iniziali essi erano dipendenti del proprietario terriero e in quel caso spettava a quest’ultimo ottenere le licenze per intraprendere lo scavo. La situazione mutò drammaticamente intorno al 1764, complice l’espansione del Grand Tour, la conclusione della Guerra dei Sette Anni e la contemporanea crescita di domanda di beni archeologici. Le licenze erano richieste per qualsiasi tipo di scavo, non solo di natura archeologica, anche per salvare materiale di palazzi antichi, erigere nuovi palazzi, installare tubature idriche, studiare monumenti antichi, rimuovere o dissotterrare antichità.

45 A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi Stati Italiani 1571-1860, Bologna 1996, pp. 1-19.

26 Le licenze erano ufficialmente redatte e registrate dal Camerlengo o Pro-Tesoriere, dai Presidenti delle Strade46 e dagli Uditori e Notai Camerali. A parte il rimodernamento degli uffici sotto Gregorio XVI (1831-46), questo era il sistema istituzionale che presidiò le attività di scavo per oltre quattro secoli, dal 1425 fino all’occupazione francese nel 1798-9. È comunemente ritenuto che il Commissario delle Antichità e Cave di Roma potesse garantire licenze di scavo, ciò non è del tutto vero. Il Commissario non era un membro della Reverenda Camera, un cardinale, un vescovo o un monsignore, che nel linguaggio della gerarchia papale significava avere i prerequisiti per il potere politico, legislativo o amministrativo. Molti eruditi e studiosi ricoprirono la carica di commissario sebbene di fatto fosse un ufficiale di basso grado. I suoi doveri erano di tipo legislativo: era incaricato di ispezionare i siti e le relative scoperte, era anche il destinatario delle relazioni scritte dagli scavatori e dei disegni delle nuove scoperte. Più tardi si occupò di scrivere per il Diario ordinario di Roma47 e fu il responsabile della selezione di antichità per il Museo Vaticano. Il Papa era la suprema autorità per questioni che riguardavano licenze d’esportazione. Secondo quanto stabilito per legge gli spettava un terzo di quanto dissotterrato sui terreni dello Stato Pontificio; un altro terzo andava al proprietario terriero e la fetta rimanente all’archeologo. Ma il Pontefice aveva anche l’autorità di decidere che ogni bene andasse alla Reverenda Camera apostolica, responsabile per gli acquisti del Museo Vaticano, acquisti che in tal caso venivano deprezzati e piazzati al di sotto del prezzo di mercato. Di fatto però colui che elargiva licenze di scavo e sceglieva concretamente gli oggetti da inviare al Museo Pio-Clementino era il Cardinale Camerlengo48. Riscuotere i diritti Doganali stabiliti sull’introduzione, o estrazione di oggetti di antichità e belle arti era compito di Monsignore Tesoriere Generale. Ecco dunque spiegato come il Commissario delle Antichità e Cave49 di Roma agisse sotto la supervisione del Cardinale Camerlengo e facesse da intermediario assieme al Presidente delle Strade per avvisarlo sul rilascio delle licenze. Quest’organo altro non era che la riorganizzazione dell’Ufficio dei Maestri delle Strade voluto da Innocenzo III nel 1629.

46 D.Sinisi La Presidenza delle Strade ed il suo archivio nel XVIII secolo, in “Istituzioni e beni culturali”, (Roma moderna e contemporanea), II, 1994, p. 4. 47 Periodico sette-ottocentesco stampato a Roma dalla famiglia Chracas 48 G.P. Consoli, Il Museo Pio-Clementino, la scena dell’antico in Vaticano, Modena 1996, p.18. 49 Nel 1534 Paolo III istituisce il Commissariato alle antichità in stretta relazione con l’ufficio del Cardinal Camerlengo affidandone la direzione al suo segretario personale, l’erudito Latino Giovenale Manetti (1486-1553). Lo studioso può essere considerato a giusto titolo come il primo vero soprintendente alle antichità.

27 In un documento del 1795 Livio Rotati avendo stabilito di fare alcuni scavi nella vigna di sua proprietà posta in località La Torretta, si rivolge al Commissario delle Antichità chiedendo di poter cedere alla Camera Apostolica la sola settima parte di quello che si sarebbe trovato, sperando “di essere esauditi”.50 Le misure legislative mostrano che la conservazione dei monumenti antichi divenne materia di preoccupazione a partire dalla fine del Quattordicesimo secolo. La Reverenda Camera, attraverso il Camerlengo controllava le licenze di scavo dal 1425 e ottenne piena supervisione di esse dal 1572. La Presidenza delle Strade si occupava di elargire licenze che interessassero il suolo pubblico, ma dopo il 1629 il loro potere crebbe talmente tanto che nel 1750 fu fatto un primo tentativo per confinare la loro giurisdizione alle licenze che si occupavano del reimpiego di materiale da costruzione51. Alla metà del Diciottesimo secolo il numero degli scavi e delle esportazioni stava superando i livelli di guardia, pertanto al Commissario fu affiancato un Assessore delle Antichità che lo aiutasse nello svolgimento delle mansioni di soprintendenza. I pezzi vennero catalogati e studiati in maniera meno grossolana, allo scopo di capirne il valore artistico e monetario fin da subito ed agire di conseguenza. Qualsiasi pezzo risultante dagli scavi doveva essere denunciato entro dieci giorni, nulla poteva essere spostato o peggio venduto fino all’arrivo del Commissario, mentre altri periti procedevano con il prendere le misure dei beni dissotterrati. Tutte le robe confiscate sarebbero andate ad ampliare la collezione dei Musei Vaticani e le regole elencate valevano per tutti, inclusi stranieri e chierici. Questa esaustiva lista di regole dimostra quanto l’amministrazione papale fosse preparata ad affrontare qualsiasi questione si sollevasse durante le attività di scavo. I richiedenti, una volta ottenuta la licenza dalla Reverenda Camera, dovevano ottenere un permesso scritto o una licenza privata dal proprietario del terreno che s’intende scavare. Di seguito riportiamo l’esempio di una licenza di pozzolana. Con il termine Licenza di pozzolana o tavolozza s’intendeva una licenza per una specifica proprietà.52 La pozzolana è una pietra vulcanica friabile utilizzata per la fabbricazione del cemento, mentre la tavolozza erano antichi mattoni e piastrelle.

50 ASR, Camerale II, busta 6, fascicolo 164. 51 Riguardo a questo argomento vedi: M. Meccoli, D. Sinisi, Bandi ed editti della presidenza delle strade nell’archivio di Stato di Roma (2759-1825), Roma 2004. 52 Relativamente alle licenze di scavo vedi: ASR, Camerale II b. 3 f. 133, 119, 136, b. 4 f. 149, b. 6 f. 161.

28 Carlo del Titolo di S. Clemente Prete Cardinal Rezzonico della Reverenda Camera Camerlengo concede una “conferma di patente di cavar pozzolana alla Contessa Maria Giulia Anguillara e di Lei uomini cavatori”di scavare nella Vigna di sua proprietà posta fuori Porta Maggiore in località Torpignattara (…) purchè nel cavare si stia lontano da Cimiteri, Luoghi Sacri, Condotte di fontana, Edifici e Antichità di Roma, secondo i precedenti bandi che regolamentavano a riguardo.”53 Ed ecco che tramite questo esempio saltano immediatamente all’occhio altre regole: il richiedente non deve scavare nei pressi di Luoghi Sacri, Cimiteri, Mura di Città, Condotti di Fontane, Strade Pubbliche, e Antichità che servano di erudizione; tutti gli editti precedenti e altre misure emanate fino a quel momento dovevano essere rispettate. Il Commissario deve ispezionare il sito e in alcuni siti lo scavo sarà addirittura autorizzato soltanto con l’assistenza di un Commissario o un’altra persona nominata dal Camerlengo. Era vietato demolire qualsiasi reperto, quand’anche fosse in pessime condizioni, a meno che il Commissario non avesse ispezionato il sito ed ottenuto poi dal Camerlengo una specifica licenza per procedere con la distruzione, ma in tal caso i resti da demolire devono essere disegnati e registrati, sia che essi siano situati sopra che sotto terra. Le antichità ritrovate e gli antichi frammenti di qualsiasi valore, dovevano essere riportate al Commissario, senza la cui autorizzazione era vietato rimuovere alcun oggetto dallo scavo. In casi speciali i ritrovamenti dovevano essere denunciati direttamente al Camerlengo attraverso il Notaio della Reverenda Camera. Al termine dei lavori di scavo il terreno doveva essere riportato al suo stato originale, in pristinum. Qualsiasi danno procurato al suolo pubblico o privato dagli operai o da qualsiasi altro lavoratore doveva essere rimesso a posto. In conformità con queste regole ci si aspettava punizioni severe. Esse potevano prendere la forma della confisca dei beni, il rifiuto di licenze future e in alcuni casi punizioni corporali. Ciò che accadde nel Giugno del 1788 al Barone Astuto ci da la misura di quanto le confische dei beni fossero prassi comune in caso di appropriazione indebita d’oggetti d’arte. Le iscrizioni sequestrate al nobile siciliano finirono nella bottega del Cavaceppi e il Barone si battè per ottenere almeno un inventario di quanto gli era stato sottratto. 54 Il Commissario della Reverenda Camera aveva effettivamente il compito di occuparsi di vicende d’illegalità e ruberie di pezzi dagli scavi.

53 ASR, Camerale II, b. 3 f. 119. 54 ASR, Camerale II, b. 5 f.152.

29 In un documento del 4 gennaio 1797 Monsignor Tesoriere Generale scrive al Commissario della Reverenda Camera della vicenda di tale Luigi Palmieri “contro cui cade sospetto di un Ripostino mediante uno scavo fatto nel territorio di Poggio Majano, ove il medesimo trovasi domiciliato, sia Chierico; quindi si rende necessario ad effetto di poter compilare processo formale anche contro Persone Ecclesiastiche, a scanso di nullità, e di censure. All’onore accordatomi di simil Commissione, prego V.E.Revma voler aggiungere le ricercate facoltà per prestarmi colla maggior sollecitudine all’esecuzione de’ suoi venerati cenni; e con sensi di profondo ossequio mi rassegno”.55 Non tutti gli scavi a dire il vero sono coperti da licenze registrate nelle fonti archivistiche, né da verbali complementari come note di commissari successivi, o da manoscritti o dalle memorie degli antiquari. Le fonti dimostrano che il numero degli scavi era più alto delle licenze rilasciate e che i registri tenuti dai vari dipartimenti della Reverenda Camera non combaciano. Molti verbali non furono stilati o lo furono in maniera approssimativa, alcune licenze erano richieste da parte di terzi, altre erano completamente illegali, così come gli scavi effettuati dai cacciatori di tesori. È probabile che il picco d’illegalità degli scavi corrisponda alla maggior severità delle regole emanate. Per un lungo periodo i marmi portati alla luce venivano lasciati nel luogo di ritrovamento, ad eccezione dei pezzi di valore che erano nascosti il più velocemente possibile per evitarne l’acquisizione da parte di altri commercianti o dall’antiquario del Papa. Le licenze d’esportazione erano emesse dagli stessi ufficiali che si occupavano di quelle di scavo e la materia soggetta a maggior manipolazione era ovviamente l’elenco di beni pronti a partire. Il richiedente spesso forniva una descrizione generica degli oggetti per renderli meno desiderabili, mentre il legato del Papa esaminava pezzo per pezzo scrivendo una nota succinta ma dettagliata. Appare piuttosto interessante riportare fedelmente alcuni passaggi del documento risalente al 5 gennaio 1750, firmato da Cardinal Camerlengo, Uditore del Papa e Commissario Generale56. In modo da farsi un‘idea supportata su base scritta e dunque maggiormente valida sulla modalità d’articolazione di un regolamento di legge volto a proteggere le cose d’arte, piuttosto che affidarsi al solo racconto di altre fonti. “Silvio del Titolo di S. Calisto Prete Cardinal Valenti della S. Romana Chiesa Camerlengo. Importando sommamente al pubblico decoro di quest’alma città il conservarsi in essa le Opere illustri di Scoltura, e Pittura, e specialmente quelle, che si rendono più stimabili, e rare per la loro

55 ASR, Camerale II, b. 3, f. 102 56 A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi Stati Italiani 1571-1860, Bologna 1996, pp.76-84.

30 antichità, la conservazione delle quali non solo conferisce molto alla erudizione si sacra, che profana, ma ancora porge incitamento a’ Forastieri di portarsi alla medesima Città per vederle, ed ammirarle, e dà norma sicura di studio a quelli, che applicano all’esercizio di quelle nobili Arti con gran vantaggio del pubblico e del privato bene. La Santità di nostro Signore, a cui sta altamente a cuore la conservazione di queste nobili Arti vuole onninamente, che si osservino le antiche, e provide Disposizioni fatte dai nostri Antecessori, togliendo di mezzo questi infiniti abbusi, che sono stati prodotti e dal tempo, e dalla indolenza de subalterni Ministri; A tal’effetto si è degnata di espressamente comandarci in pubblicare il presente Editto. (…) Proibiamo ad ogni Persona tanto Ecclesiastica, quanto Secolare di qualsivoglia Stato, grado, e condizione, ancorchè richiedesse specialissima menzione, che non possa, né presuma per l’avvenire estrarre, e far’estrarre fuori di Roma, Distretto, e suo Territorio per i Luoghi dello Stato, nè da qualsivoglia Luogo del medesimo per fuori di esso per Fiume, per Mare, o Terra, sorta alcuna di Statue Figure, Bassirilievi, Colonne, Vasi, Alabastri, Agate, Diaspri, Amatiste, ed altri marmi preziosi, Gioje, e Pietre lavorate, Dorsi, Teste, Frammenti, Pili, Piedistalli Iscrizioni, o altri Ornamenti, Fregi, Medaglie, Camei, Corniole, Monete, intagli di qualsivoglia Pietra, ovvero Metallo, Oro, Argento di qualsivoglia materia antica, o moderna, né meno Figure, Quadri, Pitture antiche, in qualsivoglia cose scolpite, e dipinte, intagliate, commesse, lavorate, o in altro modo fatte, o che sieno state nuovamente ritrovate in Cave, o sieno esistenti in Roma, o fuori di Roma, ovvero appresso qualsiasi Persona, o in qualsiasi Luogo, senza Nostra licenza da darsi, e concedersi, in quanto alle Cose rare antiche, e di molto prezzo e valore in vigore solamente di special Chirografo di sua Santità, ed in quanto alle moderne, colla solita Nostra licenza. O di Monsignor Nostro Uditore con preventiva visione, e fede della qualità, e quantità, Venditore, e Compratore delle Cose suddette fatta dal Nostro Commissario sopra le Antichità, e Cave, e nella maniera, che quivi appresso spiegheremo, e data negli Atti dell’infrascritto Segretario, e Cancelliere delle Reverenda Camera Apostolica, e colla solita attergazione degli altri nostri Commissari attergatorj delle licenze per Acqua, e rispettivamente per Terra, sotto pena della perdita della Roba, che sarà ritrovata, venduta, mandata, nascosta, trafugata o incassata in Roma, o fuori di Roma per tutto lo Stato Ecclesiastico senza licenza come sopra e di cinquecento Ducati d’oro di Camera, da applicarsi un terzo alla Reverenda Camera Apostolica, un terzo all’Accusatore, quale sarà tenuto segreto, e l’altro terzo al detto nostro Commissario, o i suoi Assessori, come stimeremo e giudicheremo meglio allora convenire. (…)” A quanto pare la reiterazione del reato era piuttosto frequente se si rilevano spesso le disposizioni di altri editti più vecchi, ma i guadagni del commercio dell’antico dovevano essere irresistibili e la minaccia della confisca dei beni acquisiti illegalmente seguita da una giusta

31 multa era un deterrente valido parzialmente se comparato alle remunerazioni eccellenti regalate da gemme, statue, monete e quant’altro godesse di un’offerta di mercato. L’editto non lascia al caso alcun oggetto, fornendo un elenco dettagliato e ben fatto così da eliminare qualsiasi vizio di forma o buco giuridico cui l’imputato si potesse appellare. Secoli di abusi erano stati una scuola di vita maggiore di qualsiasi scienza giuridica esistente. La questione della protezione dei monumenti deve essere affrontata contestualizzando la materia in una più ampia prospettiva. Tra le prime nazioni che si mobilitarono per la tutela del proprio patrimonio artistico ci sono Danimarca e Svezia, un antiquario Reale fu creato nel 1630 e tutti i monumenti confluirono sotto la Corona dal 1666 e nel 1848 ogni cosa connessa con la storia e tradizione del paese fu dichiarata di proprietà nazionale. In Grecia tutte le opere antiche furono dichiarate patrimonio dello stato e gli scavi archeologi divennero di monopolio pubblico dal 1834 con la fondazione della monarchia.57 Altre nazioni legiferarono in tal senso sorprendentemente tardi, a partire dall’Inghilterra che approvò l’Ancient Monuments Protection Act nel 1883 ed ebbe un’applicazione davvero limitata. In Italia la preoccupazione era piuttosto forte, ma solo Roma e Napoli avevano definito una legislazione ben fatta e articolata58. Napoli bandì l’esportazione di antichi oggetti nel 1755 e nel 1822 creò una Commissione di Antichità e Belle Arti. Solo i romani cercarono di difendere da sempre il patrimonio artistico, anima e linfa vitale della città, iniziando a legiferare in proposito già dal 1462. Grande difficoltà nel farle rispettare, considerando che il primo rifrattore era lo stesso governo promotore delle leggi. Appare piuttosto ironico che nell’Aprile del 1462 Pio II argomenti severe punizioni contro il danneggiamento dei monumenti. Le sue ragioni non erano totalmente artistiche o storiche: i monumenti sono ornamento di Roma, illustrazione dell’antica virtù, incoraggiamento all’imitazione e più di ogni cosa essi mostrano la fragilità della condizione umana. Il primo agosto 1514 Raffaello fu scelto con l’incarico di architetto di San Pietro, a seguito della scomparsa di suo zio Bramante. Da una lettera del Cardinal Bembo un anno più tardi (26 Agosto 1515), per facilitare la fornitura di pietra, fu deciso che ogni scoperta effettuata a Roma e nel raggio di un miglio al di fuori della città doveva essere comunicata a Raffaello entro tre giorni, ottenendo così una ricompensa tra i 100 e i 300 pezzi d’oro.

57 G. Gualandi, Neoclassico e antico. Problemi e aspetti dell’archeologia nell’età neoclassica in “Ricerche di storia dell’arte” 8, 1979, pp.5-26. 58 T. R. Ronald, The Eagle and the Spade. The archaeology of Rome the Napoleonic era 1809-1814, Cambridge 1992, pp. 12-17.

32 In conclusione, Bembo vedeva che numerose iscrizioni antiche venivano distrutte ed egli vietò il taglio delle pietre al fine di recuperare delle iscrizioni senza il permesso di Raffaello. La situazione seppur ancora frammentaria e disomogenea produceva provvedimenti di tutela che assumeranno una reale incidenza sullo stato delle cose patrimoniali. L’oggetto della tutela è messo a fuoco con sempre maggior precisione, controllo degli scavi e divieto di esportazione divengono temi centrali nei proclami. L’intenzione generale della legislazione di provenienza curiale dal Seicento in avanti è disciplinare soprattutto all’attività di scavo.59 La nuova cultura internazionale diffonde la consapevolezza del ruolo sociale di arte e antichità. Johann Joachim Winckelmann60, massimo rappresentante di questa nuova sensibilità. Nel 1758 diviene bibliotecario del Cardinal Albani e poi sovrintendente alle Antichità Romane nel 1763. L’esperienza romana si rivelerà fondamentale per la formazione delle sue idee estetiche e della sua visione critica nei confronti dell’antico: “Io vi volli mostrare le bellezze dell’antichità e dei moderni meglio di tutti gli antiquari di Roma”. La formulazione delle sue idee estetiche e la maturazione della sua prospettiva critica nei confronti dell’antico nascono dall’esperienza romana e dalle visite a Paestum e agli scavi di Ercolano e Pompei. Sulla scorta delle suggestioni e dell’esperienza di Winckelmann giunse a Roma anche Johann Wolfgang Goethe che colpito dalla pratica di spoliazione e ed esportazione illegale61 commentò: “Gli antichi lavoravano per l’eternità e tutto avevano previsto tranne l’idiozia dei devastatori”.62 L’ammirazione del passato e l’ansia di accaparrarsene testimonianze divenne malattia e gloria del Diciottesimo secolo.

59 F. Bottari, F. Pizzicannella, L’Italia dei tesori. Legislazione dei beni culturali, museologia, catalogazione e tutela del patrimonio artistico, Bologna 2002, pp. 31-32. 60 Pubblica nel 1764 la Storia dell’Arte e dell’Antichità, in cui pone fine alla pratica letteraria delle biografie degli artisti, inaugurata dal Vasari. Egli intraprende una sistemazione enciclopedica dell’attività creativa, individuando correnti, stili, modelli e categorie critiche. La sua impostazione farà scuola per la moderna storiografia artistica. 61Antoine-Chrisostome Quatremère de Quincy (1775-1849), nel 1797 scrive scrive sul pericolo della dispersione del patrimonio italiano: “Dopo l’Italia nessun altro paese al mondo è più ricco di antichità dell’Inghilterra. Gli inglesi hanno fatto molti scavi a Roma e nei suoi dintorni. (…) Ebbene! L’Inghilterra è l’immagine di ciò che diventerebbe l’Europa, se potesse essere effettuato lo smembramneto che temo.” Vedi: A.C. Quatremère de Quincy, Lo studio delle arti e il genio dell’Europa, Bologna 1989. P. 144. 62 F. Bottari, F. Pizzicannella, op. cit; p. 33.

33 1.4. Gli scavi archeologici a Roma nel XVIII secolo: siti vecchi e nuovi

Possedere una porzione di terreno potenzialmente ricca di tesori archeologici e non procedere allo scavo era considerata nel XVIII secolo una mancanza piuttosto grave. Senza contare che investire denaro nell’apertura di nuovi siti di scavo, concentrarsi su quelle tracce che da sempre indicavano una determinata tenuta come ex dimora imperiale piuttosto che città antica, faceva parte del lavoro di pubbliche relazioni e promozione del proprio casato delle grandi famiglie romane. Cerchiamo ora di far velocemente chiarezza sulla situazione degli scavi a Roma e dintorni nella prima e seconda metà del Settecento. Protagonista del debutto del XVIII secolo fu senza dubbio Clemente XI Albani che si pose immediatamente come restauratore della Roma imperiale63e insistette fin da subito nel rafforzare le leggi di tutela dei beni d’arte antica, pur non essendo un deterrente del tutto efficace, la via legale era l’unico mezzo per dissuadere gli scavatori che improvvisavano campagne archeologiche senza alcuna licenza papale.64

I primi trent’anni del XVIII secolo, videro oltre al pontificato di Clemente XI anche quello di Innocenzo XIII e Benedetto XIII, un’idea complessiva della situazione degli scavi ce la facciamo indagando le licenze rilasciate dal Commissario delle Antichità Francesco Bartoli65, il numero di licenze è consistente e spesso dalla descrizione è difficile capire del luogo esatto di cui si parla, l’ottenimento della licenza se lo scavo era fortunato significava migliorare notevolmente la propria condizione economica in quanto si riusciva ad aggirare le norme sull’esportazione ed il mercato all’estero non sembrava mai essere saturo.66

La seconda metà del Settecento apporterà notevoli cambiamenti alle abitudini del periodo precedente: l’arrivo di Winckelmann a Roma nel 1755 e la sua presenza nello Stato Pontificio, mutò il modo di vedere l’arte. Il suo programma di compattare la storia dell’arte, smettendo di fare un mero distinguo tra i singoli artisti e promuovendo una visuale d’insieme unificata e

63 C. Gasparri, La restitutio della Roma antica di Clemente XI Albani, in G. Cucco (a cura di), Papa Albani e le arti a Urbino e a Roma 1700-1721 (catalogo della mostra), Venezia 2001, pp. 53-58. 64 L’editto del 1704 disponeva che qualora si fosse dovuto procedere alla demolizione di antichità era d’obbligo riprodurre in disegno quei monumenti, anche se modesti, che sarebbero scomparsi.

65 Su Francesco Bartoli commissario vedi: R.T. Ridley, To protect the Monuments: the Papal Antiquarian (1534- 1870), in “Xenia Antiqua”, I, 1992, pp. 133-137; I. Almagno, Francesco Bartoli Commissario delle Antichità: nuovi contributi, in “Studi Romani”, 55, 2007, pp. 453-472. 66 Sulle licenze d’esportazione vedi: ASR, Camerale I. Diversorum del Camerlengo, buste 588-636; S.A. Meyer, S. Rolfi, in M. Cecilia Mazzi (a cura di) Le fonti e il loro uso. Documenti per un atlante della produzione artistica romana durante il pontificato di Pio VI, in “Una miniera per l’Europa”, Roma: Istituto Nazionale di Studi Romani, 2008, pp. 77-143.

34 continua dove l’unica differenza importante è il mutamento dello stile è tutt’oggi alla base degli studi storico- artistici.

Mantenerci a un livello d’indagine superficiale non ci fornirà gli strumenti necessari per scoprire davvero i ritrovamenti d’arte antica del XVII secolo, dunque preparati sommariamente da questa breve introduzione caliamoci ora nel vivo della questione, tra scavatori, opere magnifiche e controversie.

Sentiremo di seguito ampiamente parlare di Gavin Hamilton poiché diresse due importantissimi scavi su terreni appartenenti al principe Borghese, più quello famoso a Pantanello presso Villa Adriana. Alcuni siti promettevano da tempo di segnare una tappa preziosa nella storia dell’archeologia mentre altri come vedremo saranno ritrovamenti legati alla fortuna della sorte. Nel 1791 Gavin Hamilton convinse Marcantonio Borghese a fargli condurre un’esplorazione archeologica in una tenuta del Principe a Pantano dei Grifi, poco lontano da Roma sulla via Prenestina. (fig.6) Intermediario dell’accordo a quanto leggiamo sul suo Giornale sembra essere stato Vincenzo Pacetti. Hamilton in cambio di un terzo delle opere dissotterrate avrebbe dovuto coprire da contratto tutte le spese, mentre il resto spettava al proprietario dell’area indagata. Lo scavo cominciò nel migliore dei modi, alla data del 19 maggio 1792 il Diario ordinario dello scavo riporta: “Hamilton si accinge all’impresa di aprire una Cava nella Tenuta di Pantano secco, spettante a Pr. Borghese. Datosi dunque principio all’impresa furono trovati gli avanzi di sculture e pietre scelte del miglior gusto che indicavano qualche magnificenza, o qualche antica abitazione, rovinata per l’ingiuria dei tempi. Difatti non andarono deluse le speranze dell’intraprendente scultore, poiché continuandosi lo scavo più profondo sono stati rinvenuti de’ superbi appartamenti, buona parte lavorati a mosaico con pietre dure, e pavimenti ornati di moltissime scolture del miglior gusto; sono state altre rinvenute alcune Iscrizioni lapidarie, dalle quali si rileva essere quella l’antica città di Gabii tanto celebrata da Plinio, che resti subissata da un terremoto. Indi proseguendosi lo scavo sono state trovate alcune stanze con i mobili, e fino le cucine con tutti i loro attrezzi, e de’ rami ben conservati, de quali ne sono stati trasportati in Roma unitamente alle scolture, e sane, e rotte sopra diversi carri.”67 La città di Gabii è di origine antichissima, ebbe il suo periodo di massimo splendore in età arcaica. Tale prestigio è testimoniato dall’esistenza di un precoce trattato di alleanza tra Roma e Gabii, il foedus gabinum, risalente al V secolo a.C. che concedeva pari diritti agli abitanti delle due città.68

67 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. II, p. 76.

68 M. Cima, Gabii. La scoperta di una città antica a Pantano Borghese in A. Campitelli (a cura di),

35 Già Cicerone dandone una definizione di municipio di Roma calcò parecchio la mano su degrado e abbandono del luogo, da quel momento in poi quasi tutte le memorie letterarie relative a Gabii insistettero sulla rovina della città. Il declino aveva preso drammaticamente il via già durante l’età Repubblicana, è storia vecchia lo spopolamento di un centro minore a favore di un centro ricco e potente quale era Roma, troppo vicina a Gabii perché gli abitanti non fossero tentati a spostarsi in cerca di lavoro e fortuna.69 I dati disponibili non erano tuttavia sufficienti per tentare una valida analisi architettonica dell’area poiché lo scavo condotto da Hamilton risentiva della smania di recupero d’oggetti d’arte e dunque tralasciava la contestualizzazione dei ritrovamenti che invece sarebbe stata funzionale alla ricostruzione urbanistica di Gabii. Nonostante queste mancanze la disposizione del foro suggerì la presenza di uno schema bipartito. Sembrò di capire che alle spalle della piazza rettangolare e porticata esistesse un edificio sacro, riconoscibile come un tempio con scalinata di accesso. Hamilton70 esplorò i resti di questo edificio identificato come tempio di Giunone Gabina. Le recenti campagne di scavo effettuate dalla scuola spagnola permettono di seguire le fasi di vita del santuario gabino e della città. L’importante ciclo di ritratti Giulio-Claudi portato alla luce durante lo scavo, costituisce una galleria di raffigurazioni dinastiche tali da avvicinare le statue gabine ad altre opere simili rinvenute in vari siti romani sia in Italia che nelle province. Non mancano le statue di divinità tra le quali spicca per eleganza dei gesti e compostezza dell’intera figura, la statua della dea Venere che solleva le braccia per allacciarsi il mantello sulla spalla destra, il movimento crea un gioco del panneggio che ricade in morbide pieghe nella parte anteriore della statua. L’unico pezzo che non andò a ingrossare la collezione di Villa Borghese fu un’ara squadrata con Venere e Baccanti. Hamilton tenne per sé questo raro pezzo e lo diede a Vincenzo Pacetti come pagamento per aver fatto da perito nel lavoro di valutazione delle opere estratte. Sull’onda delle scoperte effettuate, Ennio Quirino Visconti cominciò a lavorare al progetto di un Museo espositivo ove collocare busti, statue, are e iscrizioni71 provenienti da Pantano.

Villa Borghese. I principi, le arti, la città dal Settecento all’Ottocento, (Catalogo della Mostra, Roma, Villa Poniatowski 5 dicembre 2003-21 marzo 2004), Milano 2003, pp. 131-144.

69 L. Quilici, Gabii: una città alla luce delle antiche e delle nuove scoperte, Firenze 1979, p. 17. 70 A. Campitelli, Gavin Hamilton a Gabii: gli scavi settecenteschi di Pantano Borghese, in A. Campitelli (a cura di), Villa Borghese. Storia e gestione, Milano 2005, pp. 43-55. 71A.Campitelli, op.cit;; 2003, pp. 145-150

36 La storia del Museo infatti cammina insieme al procedere degli scavi: fu aperto nel 1792 per poi chiudere nel 1807 con la vendita di quasi tutto il contenuto a Napoleone, gli anni d’apertura al pubblico furono relativamente pochi eppure venne visitato, apprezzato e commentato dai viaggiatori che vi si recarono durante il soggiorno romano. Una visitatrice danese di nome Friederike Brun descrive il museo come un edificio isolato, quasi nascosto all’ombra dei pini. A quanto narra la signora Brun, vi era conservato un notevole numero di busti e statue, soprattutto ritratti e figure di eroi. Appare comune alle varie descrizioni dei viaggiatori che vi si recarono in visita, parlare assai superficialmente della sede museale, presi dall’emozione di ammirare la collezione gabina cedevano subito la parola a quelle teste, busti e frammenti testimoni dello splendore passato. A dire il vero decidere dove collocare il nuovo edificio destinato all’esposizione dei ritrovamenti gabini fu una decisione difficile e ben ponderata. In un primo tempo il Principe organizzò le cose in grande pensando a un edificio da costruire ex- novo, un’idea che vide all’opera, per aggiudicarsi la commissione, due grandi architetti come Giuseppe Valadier e Antonio Asprucci. Il Valadier ipotizzò una sala rettangolare che ospitasse tutte le statue destinate a decorare ambienti interni, mentre le altre avrebbero occupato pronao e portico. Il progetto si presentava eseguito in maniera perfetta, studiato nei minimi dettagli e conforme all’idea di spazio museale espressa dalla famiglia Borghese, c’era però un punto a sfavore del Valadier dal peso importante: l’architetto non aveva mai lavorato per i Borghese e dovette ricorrere all’intercessione di Cristoforo Unterperger per avere qualche possibilità di rivalsa sugli Asprucci che detenevano il monopolio sui lavori del casato. L’Unterperger esercitava un certo ascendente sul principe Borghese ed è probabile che avesse presentato il progetto del Valadier come proprio, pronto a rivelare la verità solo una volta che la famiglia si fosse innamorata di quella costruzione rettangolare delicata e perfetta nel suo genere. Il progetto dell’Asprucci al contrario era grandioso: corpo centrale ottagonale, imponente scalinata d’accesso che introduceva al prospetto aperto su di un atrio scandito da sei colonne ioniche, più due sale espositive poste alla stessa altezza dell’atrio. (figg. 7-8) Francesco Piranesi commentò i disegni, ma non disse più nulla sulla decisione presa dal Principe, anche se a giudicare da come si svolsero gli eventi Marcantonio Borghese optò per una soluzione più economica e sbrigativa che prevedeva il riutilizzo della dimora del giardiniere situata lungo uno dei lati maggiori di Piazza di Siena affidato all’Asprucci che dunque ne uscì vincente in ogni caso.

37 Conosciamo l’aspetto del Casino prima dell’intervento di restauro grazie a due disegni eseguiti da Charles Percier, l’architetto dei Borghese non ne modificò la struttura, ma apportò alcune migliorie funzionali e aggiunse la torretta belvedere con l’orologio volta ad ingentilire il profilo della costruzione un po’ troppo tozzo e primitivo.(figg. 9-10) Considerando la vita brevissima che questo museo ebbe, la scelta di reimpiegare una costruzione antica si rivelò oculata e vincente per il principe Marcantonio. La tanta cura e solerzia che egli mise nel suo disegno di far diventare il museo gabino un importante polo museale fu velocemente abbattuto dal mutato clima politico e dalle difficoltà che interessarono la nobiltà romana tutta. Dunque nel 1799 lo stesso Marcantonio curò lo smantellamento del museo ospitato al casino dell’Orologio, ma bisognerà attendere il 1807 perché Camillo Borghese venda in toto l’intera collezione di famiglia.72 Delle sculture esposte al museo rimasero a Villa Borghese solo quattro statue di togati e cinque are con iscrizioni. Il motivo per cui non tutti i pezzi furono esportati è imputabile ai tentativi del maestro di casa Borghese, Francesco Posi, alla ricerca di ogni pretesto per salvare la collezione. In più gli elenchi forniti a Pierre Adrien Pâris, il direttore dei lavori d’imballaggio e rimozione delle sculture borghesiane, risultavano essere incompleti e mal stilati del numero di opere e soprattutto della loro collocazione e descrizione.73 Per farci un’idea della considerazione di cui godevano all’epoca le sculture Gabine basti citare il giudizio che Ennio Quirino Visconti dava delle opere esportate: “Le sculture borghesiane si possono dividere in due serie. L’una dei marmi trovati in vari luoghi e in vari tempi e riuniti dal cardinale Scipione Borghese e da altri di tale famiglia. L’altra dei marmi scoperti negli scavi di Gabi fatti eseguire nel 1792 dal Principe Marco Antonio Borghese e conosciuti come Monumenti Gabini.”74 Tale divisione suggerisce una certa importanza numerica delle opere provenienti da Gabi, oltre che notevole riscontro artistico - culturale. D’altronde se così non fosse stato il Visconti non si sarebbe impegnato a stilare il famoso catalogo ‘Monumenti Gabini della Villa Pinciana’ pubblicato nel 1797. Proprio qui leggiamo di una statua imperiale mancante di capo a cui era sta aggiunta una testa di Traiano75. Il torace è decorato con raffinati bassorilievi mentre sul petto campeggia

72A. Campitelli, op. cit; 2003, pp. 151-155. 73 E. Debenedetti, Pierre Adrien Pâris e la collezione di Antichità della Villa Borghese, in E. Debenedetti (a cura di), Collezionismo e ideologia. Mecenati, artisti e teorici dal classico al neoclassico. (Studi sul settecento Romano, 7) Roma 1991, pp. 223-259. 74 ASV, Archivio Borghese, b. 352, f. 107. 75 E.Q.Visconti, Monumenti gabini della Villa Pinciana, Roma 1797, pp. 32-33 n 3.

38 un’eccezionale maschera di tritone, simbolo forse delle imprese di Traiano nel Mar Rosso e Oceano Orientale.76 Una statua di Nerone77 restaurata dal Pacetti che vi aggiunse la testa, sempre antica e proveniente dallo stesso scavo, che potrebbe rappresentare uno dei figli di Germanico, mentre il corpo sarebbe un ritratto di Caligola. Tuttavia il Visconti legge “su una scaglia che sembrava appartenere a questo medesimo” la sigla TI. AUG., che suggerirebbe una possibile accostamento dell’effigiato a Tiberio Cesare. La statua di Diana di Gabii è preceduta dalla sua fama, subito ritenuta l’opera più interessante dello scavo a Pantano de’ Grifi.78 Secondo il Visconti sarebbe stato impossibile azzardare altra identificazione se non quella della dea cacciatrice, colta nell’atto di allacciarsi la clamide “come per uscire alla foresta”.79 Alcuni siti archeologici della città di Roma o della campagna romana, a oggi tra i più visitati e famosi, erano da sempre conosciuti come luoghi d’interesse storico archeologico, ma spesso l’insistere di più proprietari su vaste aree di terreno piuttosto che la mancanza di fondi da investire ritardò di secoli importanti scoperte d’arte antica. La villa di Adriano a Tivoli, contigua alla Villa dei Pisoni,80 è esempio calzante di quanto appena spiegato. Era stata utilizzata fin dal medioevo come cava per l’approvvigionamento di materiale da costruzione che ne minarono fortemente l’aspetto; gli occasionali ritrovamenti di suppellettili antiche divenivano immediatamente doni per i Pontefici allo scopo di ottenere qualche aiuto o favore, senza però pensare di mettere in piedi una campagna di scavo vera e propria. Pantanello era un lago stagnante ubicato a circa trecento metri dal cosiddetto Teatro Greco di Villa Adriana appartenente all’unico proprietario Luigi Lolli. Già nel 1724 suo nonno Francesco Antonio Lolli aveva scavato lungo le sponde dello stagno di Pantanello, trovando iscrizioni, elementi decorativi e frammenti di sculture. Cosicché suo figlio Luigi decise di svuotare il laghetto per avere accesso ad altri tesori, ma a causa di alcune controversie con i vicini, i quali lamentavano che l’acqua avrebbe invaso anche la propria terra, gli venne impedito. Le redini dello scavo del 1769 furono prese da Gavin Hamilton e la quantità di statue estratte dallo stagno fu tale che quelle di minor valore furono lasciate sul fondo.

76 Eutropio, Libro VIII Rufo Festo Breviar. 77 E.Q.Visconti, op.cit.;1797, p.31, n 36. 78 F. Haskell, N. Penny, Taste and the Antique. The lure of classical sculpture 1500-1900, London 1981, pp. 198. 79 E.Q.Visconti, op. cit., 1797, p. 90, n 32.

39 Da una lettera indirizzata a Charles Townley81 scopriamo come Hamilton scopri la ricchezza artistica di villa Adriana per un caso fortuito. Un suo uomo di fiducia inviato a Tivoli per raccogliere frammenti di marmo da impiegare nel restauro di alcune statue tornò descrisse ciò che aveva visto sulle sponde del lago Pantanello fornendogli abbastanza materiale per indagare su chi fosse il proprietario del luogo e sperare fosse disponibile ad autorizzare i lavori. In realtà i problemi maggiori li ebbe con Domenico de Angelis, l’uomo in cambio di autorizzare il defluire delle acque del lago sul proprio terreno, confinante con Pantanello, richiese una cospicua somma di denaro. Appena il contrasto fu risolto per intervento della legge, Hamilton si mise all’opera con i suoi uomini, che in pochissimo tempo trovarono un passaggio ad un’antica fognatura scavata nel tufo. La felice scoperta fornì al gruppo il coraggio di cominciare ad esplorare il centro dello stagno. A partire da quel momento le modalità di lavoro peggiorarono significativamente in quanto gli operai erano costretti a scavare piegati sulle ginocchia e nel mezzo d’una fanghiglia ricca di rospi ed ogni tipo di vermi. Quando sembrò che non ci fosse più terreno vergine, poiché già battuto dal Lolli, Hamilton ebbe un momento di grande sconforto e sempre citando dalla lettera a Townley scrisse: “ This put a full stop to my career and a council was held.” Fortunatamente una domenica mattina ricevette visita da Giovan Battista Piranesi, che mentre aspettavadi sentire messa in una cappella delle vicinanze, per ingannare il tempo iniziò una conversazione con un anziano di nome Centorubie, l'unica persona ancora viva che era stato testimone, nonché scavatore, al tempo della campagna diretta dal Lolli. Piranesi prontamente presentò l'uomo a Hamilton e dopo un veloce ragguaglio i due si recarono a Pantanello dove il Centorubie indicò lo spazio già esplorato e quanto invece rimaneva da scavare, circa due terzi dell'intero sito. Grazie a quest informazione il lavoro celebrò un nuovo inizio che riportò alla luce numerosi marmi di una certa rilevanza, oltre a una gran quantità di candelabri, vasi e suppellettili varie. Piranesi si affrettò ad acquistare questo tipo di reperti, restaurandoli e ricomponendoli nella sua bottega per poi inciderli sul proprio catalogo di vendita. 82 Il boyd vase (fig. 11) è decorato con satiri sorretto da un piedistallo.83 Uno dei tipici pasticci di Piranesi, commistione di antichi frammenti ad opera del genio e del gusto moderni. Mentre il Warwich vase84 (fig. 12), è un vaso di gran mole decorato e sollevato su di un piedistallo moderno dove campeggia il nome di colui che s’adoperò per restaurarlo.85

81 A.H.Smith, Gavin Hamilton’s Letters to Charles Townley in “Journal of Hellenistic Studies”, Londra 1901, XXI, pp. 306-309. 82 Gaffion, J. C.-Lavagne H., Hadrien. Trésors d’une villa impériale (Catalogo Mostra-Parigi), Milano 1999, p.202; Wilton-Ely, Giovanni Battissta Piranesi: the complete etchings, San Francisco 1994, vol II pp.942-944.

40 La villa dell’imperatore confermava giorno dopo giorno il suo essere stata non solo un luogo paradisiaco, immerso nel verde della cintura romana, ma anche una dimora visibilmente grandiosa e raffinata. Tra le scoperte effettuate spiccarono una serie di statue di animali davvero realistiche e dinamiche. Fa parte di queste l’Airone (fig. 13) che stringe nel becco un pesce inclinando leggermente il collo come a denunciare lo sforzo compiuto per la cattura e allarga le ali probabilmente per allontanarsi dalla zona di caccia e consumare il proprio pasto in tranquillità. 86 L’opera fu venduta da Hamilton a Piranesi e tramite questi acquisita dai Musei Vaticani nel 1772. Tra i vari animali ospitati nell’apposita sala del Museo Pio-Clementino, sempre provenienti da Tivoli, vi è la delicata testa di giovane cervo in marmo rosso. Lo sguardo della bestia suggerisce spavento e sorpresa, quasi come se fosse stata braccata da un cacciatore e avvertisse l’incombenza della morte.87 La consapevolezza che il sottosuolo nasconda tesori preziosi, il desiderio di scoperta dell’archeologo e la mancanza di fondi da investire negli scavi, sono caratteristiche comuni a molte ispezioni archeologiche del Settecento. In alcuni casi era il proprietario terriero, se ricco, a finanziare lo scavo, ma in occasione della perlustrazione archeologica in località Acquatraversa,88 appartenente a Marcantonio Borghese, fu Giovanni Pierantoni, detto lo Sposino ad assumersi il rischio dell’impresa,89 dando a Hamilton i soldi necessari per scavare in un’area che essi credevano potesse ospitare la Villa di Lucio Vero. L’antiquario inglese tuttavia era a conoscenza di una precedente impresa archeologica effettuata nei dintorni da Pietro Santi Bartoli tra il 1650 e il 1674, furono estratti numerosi marmi che probabilmente Hamilton ebbe modo di ammirare a villa Borghese dove furono esposti.

Considerando che la famiglia del Principe di lì a poco avrebbe dismesso il Museo Gabino e cominciato a trattare per la vendita in blocco della collezione di famiglia, appare verosimile che alcuna delle statue estratta da Acquatraversa fosse acquisita dai Borghese, verosimilmente Hamilton acquistò la terza parte dei ritrovamenti che spettava per legge al padrone del terreno e la vendette.

84 G.B. Piranesi,Vasi candelabri cippi sarcofagi tripodi lucerne ed ornamenti antichi disegn ed inc dal Cav. Gio. Batta. Piranesi pubblicati l'anno MDCCLXXIIX ,Zagabria 1780, p. 55, tav. 3. 85 W.L. Macdonald and J. A.Pinto,Hadrian's villa and its legacy, New Haven 1995, pp. 296-297. 86 G. Spinola, Il museo-Pio Clemntino 1: Il settore orientale del belvedere, il Cortile Ottagono e la Sala degli Animali, Guide e cataloghi dei Musei Vaticani 3, Vatican City, 1996, p. 175 n147. 87 C.Pietrangeli, The Vatican Museums: five century of history, Rome 1993, p. 315. 88 Sullo scavo di Acquatraversa vedi: I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit., pp. 39-43. 89 Il Pierantoni di fatto non trasse grandi guadagni da Acquatraversa, ma fu un rischiò imprenditoriale che lo rese autonomo rispetto ruolo di scultore presso il Museo Pio-Clementino. C.Piva, Restituire l’antichità. Il laboratorio di restauro della scultura antica nel Museo Pio-Clementino, Roma 2007, p. 279.

41 Da Acquatraversa proviene una testa d’ariete90 in marmo attualmente conservata al Museum of Fine Arts di Boston, stando a quanto dice il Lugli la scultura proveniva dalla villa di Lucio Vero. Entrò a far parte della collezione di Boston nel 1901, dopo esser prima passata per Villa Mattei. La testa è a grandezza naturale dai tratti somatici eseguiti fin nei minimi dettagli, ma le integrazioni settecentesche sono mal fatte e compromettono grandezza e posizione di corna e orecchie. (fig. 14)

La statua del Giocatore di noci risulta estremamente restaurata, testa, collo, spalla e braccio destro, mano sinistra e porzione del mantello, gamba destra dal ginocchio al piede sono tutte integrazioni postume, senza contare che una zona del petto, gamba e piede sinistro più l’estremità inferiore del mantello sono stati accomodati perché rovinati da fratture.91

Il bambino è rappresentato nell’atto di allungare il braccio destro protendendosi in avanti con il piede sinistro, l’altro braccio sorregge la clamide quasi come a scostarla per non aver fastidio e sentirsi impacciato al momento del lancio della noce.

Anche la Statua di Artemide92fu trovata durante lo scavo Hamilton-Pierantoni, passò a quest’ultimo il cui figlio la vendette nel 1824 al conte Ingenheim. La dea indossa un chitone lungo fino alle ginocchia e un mantello che cinge diagonalmente il petto e la vita. Una fascia obliqua sulla schiena trattiene la faretra da cui ella sta per prendere una freccia.

L’intreccio di passioni, persone e interessi per l’antichità, incrementatosi negli anni del Grand Tour diede in definitiva una spinta notevole alla ricerca archeologica, si sapeva che Roma non avrebbe deluso in termini di scoperte artistiche rilevanti, ma solo nel Diciottesimo secolo venne strutturata un’industria dello scavo tale da coinvolgere un’ampia fetta mondiale nella mania del collezionismo d’arte antica.

90 R. Neudecker, Die Skulpturenausstattung romischer Villen in Italien, Mainz am Rhein, 1988, p. 201 (45.13) 91 V. Mastrodonato, Una residenza imperiale nel suburbio di Roma: la villa di Lucio Vero in località Acquatraversa, in “Archeologia Classica”, LI, 1, 1999-2000, p. 212. 92 M. Bieber, Ancient copie. Contribution to the history of Greek and Roman Art, New York 1977, p. 74.

42 2.1. Il viaggio in Italia di Charles Townley

Charles Townley nacque l’1 ottobre 1737 da una signorile famiglia residente a Towneley fin dal Tredicesimo secolo. Era il figlio maggiore di William Towneley di Towneley Hall, e Cecilia, figlia di Lady Philippa Howard e Ralph Standish nonché erede delle tenute paterne.93 (fig. 15)

Alla morte del padre il giovane Charles divenne proprietario di un immenso patrimonio immobiliare e nel 1758 prese possesso della residenza di famiglia dove, per un certo periodo, condusse la vita del signorotto di campagna. Con questo non vogliamo certo dipingerlo come un uomo ricco e annoiato, tutt’altro, teneva i conti ben ordinati e registrava in maniera al limite del maniacale ogni movimento di cassa. Tutta questa precisione nella gestione del denaro potrebbe essere giustificata da una relativa mancanza di liquidità e con il fatto che tenesse al proprio ruolo di coscienzioso amministratore dei beni familiari.94 A tal proposito scrisse a Gavin Hamilton che la continua elargizione di capitale per impossessarsi delle opere migliori da lui segnalategli, iniziava a far vacillare la stabilità finanziaria della famiglia.95

Nelle turbolenze religiose che seguirono la Riforma, i Townley, il motto della cui famiglia era “Tenez le Vrai”, rimasero fedeli alla vecchia fede e pagarono le ammende inflitte a coloro che ricusarono. Dunque in qualità di cattolico a Charles fu negata la possibilità di ricoprire qualsiasi ruolo pubblico. Fu forse questa la circostanza che lo spinse a riversare tutte le energie nell’attività di collezionista e gli unici uffici che gli furono concessi furono posizioni minori come vice-presidente della Società di Antiquari e curatore del British Museum.

Nel 1803 la sua salute cominciò a peggiorare ma traeva godimento dal pianificare ancora una nuova dimora e disposizione per le sue statue. Morì all’età di sessantotto anni e fu sepolto nella cappella di famiglia presso Burnley nel Lancashire.96 (fig. 15)

Si delinea il ritratto d’un uomo senza moglie né figli, ma non per questo un misantropo, solo innamorato dell’antico al punto di trasformare una passione nella compagna di una vita.

I momenti di maggior felicità furono senza dubbio quelli trascorsi in Italia, la madrepatria dell’archeologia e culla dei più preparati personaggi nel campo del collezionismo. Il ricco

93 Warwich Wroth, Charles Townley, in S. Lee (a cura di), Dictionary of National Biography, Londra 1909, vol. XIX, pp. 1024-1025. 94 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. I pp. 326-331. 95 “I have always bled freely in your hands and that my finances must be a little shaken in the service of virtù” Bozza di lettera da Townley a Hamilton, Agosto 1781, TY 6/1. 96 “Mr Townley was interred, January 17, 1805, in the family chapel at Burnley in Lancashire, where those who love his memory would rejoice to see the best judge of sculpture Europe commemorated…” Vedi: T.D. Whitaker, an History of the Original Parish of Whalley, London 1806, p.487.

43 inglese viaggiò nel nostro Paese per ben tre volte, costruendosi una fitta rete di amicizie vere miste ad approfittatori e comunque tornando ogni volta in patria con nuovi insegnamenti, scoperte e soprattutto altri oggetti antichi. Il primo Grand Tour si svolse nel 1767, Townley attraversò la Francia, s’imbarcò a Tolone diretto a Livorno, ma a causa di una terribile tempesta fu sbarcato a Lerici e raggiunse Pisa via terra.97

Visitò Massa in maniera piuttosto sbrigativa, arrivando a Lucca il 20 novembre 1767 e a Pisa due giorni più tardi, proseguendo poi per Firenze il 27 novembre dove rimase per circa tre settimane, concedendosi così il tempo di esplorare a fondo i tesori antichi della città,a metà dicembre procedette per Siena e dopo sei giorni si spostò a Viterbo per entrare a Roma esattamente il giorno di Natale.

L’esperienza romana dovette appagare il suo spirito d’intenditore d’antichità non poco, la città Eterna di certo non ne deluse le aspettative tant’è che Townley si fece romano per sette mesi, interrotti unicamente da un viaggio di sei settimane nel napoletano. Per meglio inserirsi nell’attività antiquaria della città ingaggiò l’Abate Matteo Fregiotti impiegandolo come suo segretario, contabile e assistente, cui affiancò Vincenzo Brenna98 in qualità di consulente e agente per l’acquisto di alcuni pezzi d’arte. Artefice di questo giro di presentazioni che si concluse con un periodo di proficue collaborazioni, fu Thomas Jenkins che di certo non aveva intenzione di essere soppiantato e rimase l’agente di riferimento per la maggior parte dei grandiosi acquisti d’arte antica di Townley.

Nel 1768-69 sempre Brenna eseguì una serie di tavole ad acquerello raffiguranti il Pantheon, l’acquedotto di Caserta, la sala di Domiziano, il Colosseo, le terme di Tito e quelle di Diocleziano. Si tratta di monumenti d’interesse artistico visitati da Charles e che probabilmente egli avrebbe in qualche modo voluto portar via con sé in patria al termine del viaggio, avere la possibilità di vederli immortalati ed esposti nel salotto di casa era già di una certa consolazione e avrebbe attutito la nostalgia per il Bel Paese e i suoi tesori.99

97 Le tappe effettuate possono essere ricostruite attraverso i diari di viaggio, le lettere, i libri contabili, provenienti dal suo archivio personale e ora conservati al British Museum.

98 Francesco Gioacchino Aloisio Vincenzo Brenna era nipote dell’architetto Alessandro Specchi per parte di madre e fratello minore del canonico Nicola Brenna, segretario del Cardinal Pietro Colonna Pamphilj. Vincenzo completò il proprio apprendistato a Roma presso la bottega del pittore Stefano Pozzi, quest’ultimo era stato attivo a Palazzo Colonna nel 1750 e nel 1758-61, dove era stato richiesto da Paolo Posi, un altro insegnante del Brenna.

99 L. Tedeschi,Vincenzo Brenna and his drawings from the antique for Charles Townley, in “Roma Britannica. Art patronage and cultural exchange in eighteenth-century Rome”, London 2011.

44 Tra i disegni del Brenna conservati al Victoria & Albert Museum ci sono tre fogli con quella che sembrerebbe essere una residenza estiva.Il soggetto è quello classico in cui si facevano cimentare gli studenti d’architettura in occasione dei Concorsi Clementini presso San Luca. A motivare l’acquisizione di questi schizzi potrebbe essercisi un semplice atto di gentilezza volto a supportare economicamente il giovane artista o addirittura la possibilità che il disegno raffiguri il progetto di un eventuale padiglione ove collocare la collezione d’antichità in costante crescita.100

Di certo la bozza dell’edificio doveva essere stata pensata per La Townley Hall nel Lancashire e non per l’abitazione di Londra. Ruth Guilding pubblicò nel 1996 sulla rivista Apollo un disegno del Bonomi raffigurante una rotonda con sculture datato 1783-89 che ci suggerisce come in effetti l’idea di spostare la collezione da Park Street alla residenza di famiglia nel nord dell’Inghilterra dovesse costituire una sorta di indecisione che gli tenne costante compagnia.

Alla fine del febbraio 1768, una volta conclusosi il carnevale, Townley continuò il suo viaggio verso Napoli, occasione in cui Vincenzo Brenna non solo lo seguì, ma assunse anche il ruolo di segretario dal momento che il Fregiotti rimase a Roma. A Napoli il nostro inglese seppe inserirsi in quello che potremmo definire il ‘circolo di antiquari di Portici’. Fu particolarmente vicino al talentuoso quanto controverso artista Giovanni Casanova, che stava lavorando il quel periodo alle illustrazioni per il grande progetto editoriale del re, Le Antichità di Ercolano.101 Carlo di Borbone si dimostrò piuttosto sensibile ai problemi che le scoperte di Ercolano, Paestum e Pompei sollevarono e provvide a muoversi per tutelare la conservazione di quanto estratto dagli scavi, già nel 1755 il re con un “suo sovrano dispaccio” alla regia Camera della Sommariaindicava le linee generali di un provvedimento volto a punire coloro che trafugavano antichità per rivenderle soprattutto all’estero.

Un incontro davvero importante e che diede il via ad anni d’intensa amicizia tenuta viva dalla passione dell’antico fu quello con Pierre-François Hugues d’Hancarville, auto investitosi “Barone d’Hancarville”. Il novello Barone ed il gran turista inglese si conobbero nella capitale borbonica agli inizi di marzo, tempo dopo Townley gli affidò la catalogazione della propria collezione.

100 G. Vaughan, Vincenzo Brenna Romanus: Architectus et Pictor. Drawings from the Antique in late eighteenth- century Rome, in “Apollo”144, 1996, 416, pp. 37-41. 101 Carlo di Borbone si dimostrò piuttosto sensibile ai problemi che le scoperte di Ercolano, Paestum e Pompei sollevarono e provvide a muoversi per tutelare la conservazione di quanto estratto dagli scavi, già nel 1755 il re con un “suo sovrano dispaccio” alla regia Camera della Sommariaindicava le linee generali di un provvedimento volto a punire coloro che trafugavano antichità per rivenderle soprattutto all’estero.

P. Laveglia, Paestum, dalla decadenza alla riscoperta fino al 1860, Napoli 1971, pp. 43-44.

45 Sappiamo che Charles fu un frequente e appassionato visitatore della Villa di Portici e del Museo che ospitava le antichità dissotterrate da Ercolano e Pompei, di cui Brenna eseguì disegni di bronzi e altre suppellettili. Riprodurre quanto esposto nelle sale del Museo era assolutamente vietato e nonostante Townley elargì numerose mance ai custodi per ricompensarli di qualche favore o permesso speciale accordatogli, è possibile che il disegnatore romano eseguì quei lavori a memoria.

Roma era stata quel bagno battesimale che legava per sempre l’anima di Townley alla cultura antica, aveva cominciato ad addentrarsi sempre di più nel circuito antiquario dell’Urbe con gratificazione e curiosità, ma era stato di certo il viaggio a Napoli a consacrare la nascita di quel suo spirito di collezionista totalmente immerso in quella che sembrerebbe essere, come sopra accennato, quasi una storia d’amore con il mondo dell’antico.102

La spedizione a Paestum è chiaro esempio della serietà con cui perseguiva questo suo interesse per il collezionismo. Lasciò Napoli il 23 marzo 1768 e procedette per Salerno, il pomeriggio successivo arrivò a destinazione.

I retroscena della gita alle rovine dell’antica città greca ci vengono abbondantemente svelati dal Diario di Viaggio scritto da Townley stesso, da cui scopriamo impiegarono sette ore per percorrere i 40 km che separano Salerno da Paestum, sistemandosi presso la dimora di un canonico della cattedrale, trovarono la cena pronta e accoglienza calorosa e gioviale. A parte ciò la sistemazione si rivelò piuttosto spartana, niente posate né coperte e letti, sostituiti da giacigli improvvisati.103

Allo scopo di riportare a casa il maggior numero possibile d’immagini del suo soggiorno meridionale, Townley assunse Volaire, allievo di Vernet, per eseguire vedute panoramiche della zona mentre Brenna si occupava del lavoro di misurazione dei templi, sulla base di cui costruì in seguito una serie di fedeli modellini in sughero, uno dei quali arrivò anche a Townley in Inghilterra.104

La mattina dopo si alzarono tutti molto presto e cominciarono a lavorare ai disegni dei templi, stesso modus operandi fu osservato nel giorno successivo. Oltre a concentrarsi sulle rovine

102 In tale occasione il collezionista fece numerosi acquisti, come risulta dal registro dei pagamenti (ABM Townley Archive, Lists and of Papers relating to Purchases of Antiquities. Catalogue of priced lists, TY 10/1, fol. 1-10v), dove sono indicati gli elenchi delle “Robbe prese à Napoli in Marzo 1768. Nota di diverse Specie della Collezzione del Vesuvio fatto da Tommaso Valenziani Custode delle Pitture in Portici”. fol. 1. 103 E. Béck-Saiello, Le chevalier Volaire. Un peintre français a Naples au XVIII siècle, Napoli 2004, pp. 194-197. 104 I modellini in sughero non possono più essere rintracciati, Quelli raffiguranti i templi di Paestum al Soane Museum hanno tutt’altra provenienza.

46 archeologiche, Volaire fece alcuni schizzi dei contadini al mercato, il cui abbigliamento fu definito da Townley simile alla “Maniera degli Antichi”.

A partire dal 1768 i templi greci di Paestum105 erano ben conosciuti dagli specialisti, ma nonostante ciò il sito era difficilmente raggiungibile e mai menzionato nelle guide disponibili per i turisti in visita a Napoli e il 1768 fu un anno cruciale per l’evoluzione degli studi su Paestum, a cominciare con la pubblicazione dell’opera di Thomas Major, The Ruins of Paestum, (figg.) seguita da The Graecian Orders of Architecture, a cura di Stephen Riou. Questi volumi ebbero il merito di rendere accessibile a una nutrita fetta di pubblico il dibattito sull’innegabile inizio di una diffusione del Revival greco che prometteva di diventare un fenomeno di un certo riscontro.

La Grecia e l’Egeo erano divenuti oggetto di ricerca attenta e sistematica, Paestum era utilizzata come massimo esempio di quella nota polemica volta a contrapporre Greci e Romani così da provare la supremazia di Atene su Roma o viceversa, una questione che traeva nutrimento da sentimenti campanilistici, pregiudizi storici e luoghi comuni.

Per capire che proporzioni assunse questa storia sarà sufficiente fare un paio di nomi di coloro che se ne occuparono: il Winchelmann nel 1762 in Osservazioni sulla natura degli antichi, analizza l’architettura greca svincolandosi dai limiti addotti a suo tempo da Vitruvio, chiudendo con l’elevazione dell’arte greca a modello di assoluta bellezza, poco prima Piranesi presentò la sua Magnificenza e architettura dei Romani che bilanciava le parti e portava alla ribalta il genio di Roma magnificando l’ingegno degli architetti romani che a suo dire seppero superare i Greci e rigetta la congettura secondo cui i Romani “prima di sottomettere i Greci, fossero in una profonda ignoranza di tutte le arti della pace” rafforzando il proprio punto di vista con l’evidenza dei fatti: visto che Roma era divenuta famosa in tutti il globo per le sue conquiste ben prima di assoggettare la Grecia, di certo doveva sapersi destreggiare in trattative di pace e diplomazia.106

In tal contesto, il tour di Townley fu una scelta quanto mai efficace per pubblicizzare Paestum ed i suoi magnifici tesori. Ad ogni modo devono aver avuto un certo peso anche altri fattori oltre il desiderio d’imparare attraverso le prove archeologiche e ritagliarsi una propria opinione all’interno della polemica greco-romana, di certo voleva verificare in situ quanto sostenuto da Major, verso il quale Brenna sembra essere molto in debito, i suoi disegni dell’antica

105 S. Lang, “The Early Publications on the Temples at Paestum”, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. 13, 1950 pp. 48-64. 106 G. B. Piranesi, Della magnificenza e d’architettura de’Romani, Roma 1761, pag. VII.

47 Poseidonia107 sono infatti conformi alla scienza archeologica maturata in Gran Bretagna a quel tempo.

Oltre ai cinque fogli con i disegni dei templi di Paestum in una lettera del novembre 1768 l’architetto e disegnatore menziona il modellino dei templi in questi termini: “Circa alli modelli di Pesto hò già in Casa il primo molto bello ed il secondo che è la Basilica, ma vi è nata una difficoltà, cioè che lei mi disse, che li facessi fare in Sugero alla grandezza delli disegni che a lei io in Roma avevo fatti, il primo che ho disegnato grande che era il tempio più grande A è venuto bene di tal grandezza ma li altri due B C che erano la metà di A venivano molto piccoli, essendo le Colonne della loro grandezza, tali eguali al’ disegno D si chè in cambio di far bene parevano due Gabbie.”108 Dunque Vincenzo Brenna continuò a essere con Townley anche al termine della parentesi napoletana, in più, ispirato dalla recente pubblicazione dei bronzi d’Ercolano, il giovane Vincenzo seppe trovare il proprio filone di fornitori e commercianti, ne è prova la voce sul registro dei conti di Townley in cui una somma di 100 scudi, pari a £25, venne versata il 7 Aprile 1768 a Vincenzo Brenna per il pagamento della Contessa Cheroffini. L’amante del Cardinal Albani aveva venduto un cospicuo numero di bronzi appartenenti alla collezione del religioso, non sappiamo con certezza se egli ne fosse effettivamente a conoscenza, ma l’idea che la donna stesse sfruttando l’assenza del Winchelmann a Roma è difficile da scartare a priori.109

In Agosto Townley riprese la via di casa, abbandonò Roma e giunse ad Ancona, proseguendo per Bologna e Venezia, raggiungendo Torino e le Alpi con una tappa a Milano. Nella città marchigiana fu scortato dal suo disegnatore di fiducia incaricato stavolta di immortalare alcuni edifici antichi e contemporanei. Il sodalizio tra i due non si esaurì certo con il ritorno in patria del ricco inglese, anzi un nutrito numero di ampi disegni a colori raffiguranti il Colosseo, occupò il Brenna per oltre un anno, finché i lavori non furono spediti a Londra nel febbraio 1770 con l’aiuto di Thomas Jenkins.

107 Si tratta del primo nome imposto alla città dai fondatori, in onore di Posidone. Più tardi venne ribattezzata Pesto, termine con il quale anche Townley e Vincenzo Brenna nelle loro lettere si riferiscono al sito archeologico a sud di Salerno. Solo dal 1926 s’impose l’attuale denominazione di Paestum. 108 La lettera riporta uno schizzo delle piante dei templi associati alle lettere A (Tempio di Poseidon), B (Tempio di Hera) C (Tempio di Atena), più una colonna dorica contrassegnata con la D. Vedi: L. Tedeschi, “Il mio singolar piacere” in 18 missive di Vincenzo Brenna a Charles Townley e a Stanislaw K. Potocki, in P. Angelini, N. Navone, L. Tedeschi (a cura di) La cultura architettonica italiana in Russia da Caterina II a Alessandro I, Mendrisio 2008, pp. 452-454. 109 L’amicizia di Townley e Brenna con Giovanni Casanova, intimo della Contessa Cheroffini, ma che aveva interrotto ogni rapporto con il Winchelmann a causa di una lite, potrebbe essere rilevante per capire i rapporti commerciali che s’instaurarono tra il ricco collezionista inglese e la nobildonna.

48 Brenna eseguì un totale di dodici tavole sul Colosseo che si chiudevano con l’imponente rappresentazione di una finta caccia al leone.110 Il risultato fu qualcosa di inaspettatamente emozionante, l’artista non si limitò a ricostruire con dovizia di particolari il monumento architettonico simbolo per eccellenza dell’antica civiltà romana, la scena è ricostruita con accorgimenti spaziali tali da immedesimare lo spettatore nella spettacolarizzazione dei fatti, il Townley di turno poteva occupare uno dei posti prossimi all’arena e partecipare emotivamente alla cruenta battaglia tra leoni selvaggi e uomini mentre l’imperatore, protetto da una tenda assicurata con funi, appare placido e rilassato nel suo palchetto d’onore. Dalle parole dell’artista in persona apprendiamo che “li detti disegni li hò ricavati da ciò che ora esiste da detto anfiteatro, e dalli libri di autori, che molto bene ne parlano e scrivono.”111

Nelle sue lettere con Townley, Brenna utilizza un tono di rispettosa familiarità, le epistole cominciano con “Amatissimo Sig. Cavaliere”, “mio gran benefattore” o lodi riguardanti “il suo bel genio e buon gusto, ed affabilissimo maniera”, gli argomenti trattati sono vari ed interessanti, si passa da informazioni di servizio quali commenti sui lavori a lui commissionati ed il loro progredire, ma anche notizie relative alla vivacità di Roma. Tramite Brenna il suo benefattore anche in Inghilterra rimane aggiornatissimo sul conclave per l’elezione di Clemente XIV,112 il premio vinto dal Nollekens all’Accademia del Disegno in Campidoglio, il proprio busto in esecuzione da Hewetson (fig. 16) e gli fornisce addirittura le novità sul rapido espandersi della bottega del Piranesi, con più di trenta lavoranti impegnati, sebbene la vendita effettiva a detta di Brenna appariva di modesta entità. Infine il giovane corrispondente non dimenticava mai di inserire nelle epistole una serie d’informazioni ed accadimento legati alla propria famiglia, tra cui la nascita di una figlia,113 la morte del fratello114 e la continua lotta per far quadrare i conti. Nonostante Townley effettuasse regolari pagamenti in suo favore, l’architetto si lamentava spesso della mancanza di lavoro e della conseguente penuria economica.

Una lunga malattia aveva impedito all’eclettico gran turista di recarsi nuovamente a Roma all’inizio dell’estate 1771 come avrebbe desiderato, dunque fu costretto a rivedere i propri piani tant’è che il secondo tour italiano ebbe luogo dal febbraio 1772 al novembre 1773.

110 I. Jenkins ha suggerito che il disegno del Brenna fosse ispirato ad un lavoro di Pirro Ligorio andato perduto, ma piuttosto conosciuto grazie ad alcune copie, che era stato copiato a sua volta per il Museo Cartaceo di Cassiano dal Pozzo. 111 L. Tedeschi, op. cit., pp. 459-460. 112 M. Rosa, Clemente XIV, in Enciclopedia dei Papi, Roma 2000, vol. III, pp. 475-492. 113 Maria Paola Gertrude, primogenita di Vincenzo Brenna, nata il 25 aprile 1769. Vedi: AVR, SS. XII Apostoli, Liber bapt., 1752-76, vol. XIII, fol. 138r. 114 Fabrizio Alessandro Michele Antonio Pietro Francesco Andrea Apostolo, nacque il 15 novembre del 1731 in Palazzo Colonna. Vedi: AVR SS. XII, Apostoli, Liber bapt., 1706-1732, vol. XII, fol. 239v)

49 Il 17 gennaio Charles passò da Bologna, per trascorrere due settimane a Firenze e arrivare a Roma il 17 febbraio, passando per Siena. Anche stavolta non mancò di inserire nel programma di viaggio una soddisfacente incursione nel napoletano, di minor durata rispetto alla precedente poiché dopo circa dieci giorni proseguì al sud verso la Calabria e Sicilia, ma dovette fermarsi ad Amantea il 21 giugno per il riacutizzarsi della malattia. Fu l’occasione per rientrare a Napoli e rimanervi in attesa che la salute tornasse vigorosa, passò così tutta l’estate e ripartì per la Sicilia il 12 ottobre 1772.

All’inizio del nuovo anno si recò dapprima a Napoli, per rientrare a Roma in febbraio e lasciarla l’11 settembre diretto a Firenze, all’inizio di febbraio era a Parigi e nel maggio 1774 rientrava a Londra. Richiamò gli stessi collaboratori testati in precedenza, tant’è che nel suo registro di conti compaiono una serie di versamenti in denaro per Fregiotti e Brenna. Quest’ultimo risulta pagato nel febbraio del ’73 per il disegno di un soffitto romano a Villa Magnani al Palatino; poco dopo Townley commissionò ulteriori disegni degli affreschi della medesima villa a Giuseppe Manocchi. Una new entry del gruppo di artisti impegnati attorno alla figura di Townley ci fu anche Giovanni Stern che provvide alla riproduzione delle Terme di Tito e del Tempio della Fortuna a Palestrina.

Tuttavia il Brenna rimase di certo il suo architetto preferito e grazie ad alcune sue lettere capiamo che seppe inserirsi con una certa abilità nel vortice di commissioni che ruotava tutt’attorno ad altri visitatori britannici. Egli era solito effettuare alcune copie dei propri soggetti, infatti in una lettera dell’11 agosto 1772, mentre Townley si trovava a Napoli, gli domandò se potesse essere interessato ad acquistare alcune copie di disegni delle Terme di Diocleziano effettuati in primis per James Barry,115 cogliendo occasione per rimarcare la cattiva condizione economica in cui versava adducendo come aggravante l’episodio che lo vedeva in disaccordo con il Barry che si rifiutava di saldare un lavoro precedente del valore di 60 scudi.116

115 James Hugh Smith Barry (1746-1801) di Belmont, ereditò dal padre John Barry alcune proprietà nel Cheshire. Si tratta di un personaggio misterioso ed enigmatico, ciò che sappiamo di lui lo si intuisce dalle missive che si scambiava con il suo grande amico Charles Townley, grazie al quale il Barry s’avvicinò alla passione per il collezionismo d’antichità. Iò grand tour di James Barry ebbe luogo tra il 1771 e l’estate del 1776. Il suo viaggiò s’intreccio con la seconda visita italiana di Townley, infatti visitarono assieme la Sicilia, ma dopo il rientro a Napoli le strade dei due collezionisti si divisero in quanto Barry continuò a viaggiare in Grecia ed Egitto. Vedi: G. Vaughan, James Hugh Smith Barry as a collector of Antiquities, “Apollo”, vol. CXXVI, luglio 1987, pp. 4- 11. 116 L’imprevedibilità del carattere di Barry e soprattutto i suoi cattivi rapporti con agenti e commercianti d’arte erano noti. A questo proposito vedi: G. Vaughan, James Hugh Smith Barry as a Collector of Antiquities, “Apollo” vol. CXXVI, Luglio 1987, pp. 4-11.

50 Dalla partenza di Townley nell’inverno del ’73 bisognerà attendere il gennaio 1777 per il suo terzo e ultimo tour italiano. A dire il vero egli aveva organizzato un quarto viaggio per il 1799, ma fu costretto ad annullarlo a causa dello scoppio del conflitto con la Francia.117

La corrispondenza intercorsa fra Charles Townley e Vincenzo Brenna si estese in un arco di tempo di quant’anni ed ebbe inizio nel 1769, le epistole sono tutte, ad eccezione di una, conservate presso l’Archivio di Charles Townley al British Museum di Londra.

Lo studio di questo scambio d’informazioni e pensieri è fonte quanto mai preziosa per delineare il carattere di coloro che scrivono e dei loro movimenti ed impressioni nell’attraversare l’Italia. Le lettere dunque altro non sono che splendida fotografia storica, testimoni oculari di un tempo trascorso.

117 Il teatro di guerra è la lotta per l’Indipendenza Americana.Francia, Spagna e Olanda si schierarono contro la Gran Bretagna per sostenere le tredici colonie americane e minare così la supremazia economica e militare del Regno Unito.

51 2.2. Sir William Hamilton e la Società dei Dilettanti. Nuovi incontri e idee per Charles Townley

Napoli è stata una città che nei secoli ha saputo reinventarsi, la rivolta popolare capeggiata da Masaniello nel 1647, la successiva eruzione del Vesuvio e ancora la terribile peste del 1656,118 debilitarono fortemente la struttura sociale napoletana, ma se la miglior virtù della popolazione partenopea è come si dice l’ottimismo, essa seppe risorgere dalle proprie ceneri come l’araba fenice e diventare nel Diciottesimo secolo capitale di un vasto Regno, trasformandosi in caotica metropoli, veicolo di incontri e possibilità.

Il viaggio a Napoli e dintorni di Charles Townley non fu utile essenzialmente in termini di scoperte artistiche e acquisizione di opere antiche, bensì nelle tappe campane del Grand Tour venne in contatto con alcuni personaggi cui rimase legato per tutta la vita e con i quali condivise punti di vista, teorie e problematiche legate all’interesse “dell’antico” inteso nella maniera più ampia e completa possibile.

Come già evidenziato nel capitolo introduttivo, il viaggiatore settecentesco tendeva a ricercare la compagnia dei propri connazionali per condividere impressioni, esperienze, consigli e forse talvolta conforto in terra straniera. In definitiva studiando a fondo la questione potremmo scoprire che un qualche collegamento tra i visitatori britannici con gli inglesi che già risiedevano in Italia per periodi più o meno brevi è quasi sempre rilevante.

Dal primo momento in cui nel 1764 William Hamilton giunse nella capitale partenopea in qualità di Inviato Straordinario di S.M. Britannica presso il Regno delle Due Sicilie, colse di certo mancanze e difetti della metropoli borbonica, ma l’immenso patrimonio archeologico e nauralistico che essa offriva seppe compensare ogni carenza, tant’è che si calò appieno nella vita della città e vi rimase per trentaquattro anni.

Una città come Napoli non può prescindere dalla presenza del Vesuvio, quel mostro sacro che i napoletani tutt’oggi amano e non vedono come un nemico, ma come simbolo ed ambasciatore della storia della città. All’epoca di Hamilton il vulcano regalava spettacoli eruttivi continui ed egli divenne un valido esperto nel campo degli studi vesuviani oltreché un noto collezionista d’arte antica, avvantaggiato dal gran numero di opere provenienti dalla zona di Pompei ed Ercolano, e in generale dal nutrito parco archeologico campano.119

118 E. Bellucci, V. Valerio, Piante e vedute di Napoli dal 1600 al 1699. La città teatro, Napoli 2007, p. 9. 119 I. Jenkins, K. Sloan, Vases & volcanoes : Sir William Hamilton and his collection, London : British Museum Press, 1996; C. Knight , Sulle orme del Grand Tour : uomini, luoghi, societa del Regno di Napoli 1995, p. 118.

52 L’inclinazione di Hamilton al gusto dello spettacolare e dell’insolito giustifica il fatto che la bizzarra raccolta conservata al Museo Pigorini di Roma,120 contenente una serie di manufatti polinesiani, fosse stata acquistata dal devoto servitore del re e inserita poi nel Museo Farnesiano di Capodimonte.

Il carattere volubile e poliedrico del delegato britannico lo spinse a convocare a Napoli i lavori dei maestri fiamminghi, così da far penetrare nella pittura napoletana quell'uso ragionato e sapiente del colore, tipico della cultura nordica. Non faremo dunque fatica a credere che spesso il suo ruolo politico passò in secondo piano rispetto all'attività di ambasciatore della cultura, ma il punto è che sentendosi italiano, aveva a cuore sia il luogo natale sia quella città ospitale e variegata che lo aveva adottato. Spese ogni momento per integrare in qualche modo questi due mondi tanto diversi e forse anche questo è espressione della bizzarria caratteriale nonché della grande apertura mentale di William Hamilton.

La residenza di palazzo Sessa121 (fig. 17) divenne così punto d'appoggio per quanti fossero interessati all'arte antica poiché l'accesso alla collezione era non solo possibile ma anzi fortemente incentivato, l'ambasciatore britannico spingeva i pittori che capitavano in città ad ampliare il proprio repertorio cogliendo l'occasione per prendere ispirazione dall'incredibile varietà di opere custodite nel Palazzo, nulla a che vedere certamente con ciò che custodiva il Museo di Portici, ma l'accesso al museo e soprattutto la riproduzione dei suoi tesori, come precedentemente accennato, non era permessa. Hamilton al contrario ci teneva particolarmente affinché tutti potessero bearsi di ciò che le antiche civiltà avevano regalato ai contemporanei e dunque decise di pubblicare nel 1766 la collezione di vasi greci.

Sull’onda di questo discorso la figura dell'estroso barone d'Hancarville si colloca non a caso, a lui fu affidata la redazione dei testi nonché la generale direzione del volume edito con il nome di Antiquités Etrusques, Grecques et Romaines tirés du cabinet de M. Hamilton, envoyé extraordinaire de S. M. Britannique en cuor de Naples. Il d'Hancarville vantava un'esistenza davvero movimentata, dal carcere all'invenzione di nuove identità, arrivò a Napoli pronto a cambiare vita e cominciò la collaborazione editoriale con Hamilton. A dire il vero quest'ultimo avrebbe preferito il Winchelmann, tant'è che con l'appoggio di d'Hancarville cercò di convincerlo a partecipare all'impresa. Dopo varie pressioni il tedesco accettò, affascinato dai primi fogli

C. Knight , Hamilton a Napoli : cultura, svaghi, civiltà di una grande capitale europea, Napoli 2003, pp. 216-217. 120 Vedi: P. Barocelli, R. Boccassino, M. Carelli, il Regio Museo Preistorico-Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, in Itinerario dei Musei e Monumenti d’Italia, No58, Roma 1937, pp.15-16. 121 Il palazzo Sessa a Cappella Vecchia fu edificato nel XVIII secolo ed Hamilton abito il secondo piano a partire dal 1764. Vedi: S. Attanasio, I Palazzi di Napoli. Architetture e interni dal Rinascimento al Neoclassico, Napoli 1999, p.80.

53 riproducenti la collezione che gli giunsero, tuttavia la resistenza nel legarsi al progetto era nutrita dalla cattiva opinione che egli aveva per l'avventuriero francese.

Lo stesso però mise in pratica un gioco adulatorio di tale potenza e credibilità che il Winchelmann cadde nella "trappola" e nel luglio del 1767 in una lettera al Barone Riedsel rese nota la decisione di recarsi a Napoli.

La conoscenza diretta con Pierre François Hugues si dimostrò un sodalizio inaspettatamente piacevole e ben riuscito, il Winchelmann dopo i primi tempi in cui alloggiava a palazzo Sessa, si trasferì dal Barone e fu un soggiorno piacevole ed interessante.

Alla pubblicazione degli ultimi due volumi dell'opera, editi nel 1773, Hamilton scrisse alla famiglia Wedgwood giustificando il ritardo delle edizioni e invitandoli a servirsi senza riserve dei disegni mostrati per riprodurli nella linea di ceramiche detta "stile etrusco" che fu una delle produzioni di punta dell'azienda e riscosse un successo incredibile122. Motivo del ritardo nel completare il lavoro fu la bufera che travolse il d'Hancarville, si scoprì che aveva fatto stampare una pubblicazione pornografica e dunque fu espulso da Napoli.

C’è tuttavia da precisare che Hamilton quanto fu altruista e generoso nel divulgare i contenuti della propria collezione, di certo non lo fu al momento di entrare in possesso degli stessi: le due collezioni rispettivamente create nel corso del 1760 e del 1790 erano o collezioni acquistate in blocco, oppure pezzi acquisiti individualmente o ancora opere provenienti da quegli scavi in cui Hamilton era presente e mentre gli scavatori svuotavano le tombe greche, sceglieva e adocchiava i manufatti migliori. Di questo metodo d'acquisizione egli ce ne fornisce un'interessante descrizione in cui afferma che al momento dell'apertura di questi antichi sepolcri fuoriusciva un'ingente quantità di vasi e antichità preziose, i luoghi cui si riferisce sono perlopiù nel sud dell’Italia, Puglia e Sicilia, ma anche alla Campania, Capua e Nola. Non a caso nel frontespizio del volume dedicato alla sua seconda collezione, è rappresentato in compagnia della moglie Emma, al momento dell'apertura di una tomba presso Nola, mentre in occasione di un lavoro di scavo a Capri, l'operaio intento a scavare donò a Hamilton alcuni mattoni stampigliati, delle lampade decorate con rilievi e uno stupendo altare di Cibele.123

Un altro altare124 di sua proprietà, forse ottenuto nella stessa maniera, era un altare immortalato

122 R. Fusco, Storia del design, Bari 2010, pp. 34-35. 123 D. Romanelli, Isola di Capri. Manoscritti inediti del Conte della Torre Rezzonico, del Professore Breislak e, del Generale Pommereul, Napoli 1816, p.96. 124 A.H. Smith, A Catalogue of Sculpture in the Department of Greek and Roman Antiquities, British Museum, vol. III, London 1904, pp. 382, 385, No 2487, fig. 61.

54 in una serie di disegni del XVIII secolo, conservati al dipartimento di antichità greche e romane del British Museum. Il disegno in figura fa parte di un gruppo contenuto in un folder dato inizialmente a Hamilton da suo nipote Charles Greville125 e successivamente passato a Charles Townley finchè non andò al Bitish Museum.

Il Greville conosceva bene Charles Townley e operò da trait d’union tra lo zio e l’amico collezionista, l’amicizia tra i due è visivamente documentata nell’opera di Johan Zoffany, di cui non analizzeremo in questa sede statue e rilievi che compaiono nella biblioteca bensì i personaggi, gli amici intimi di Townley. Oltre al Greville posizionato a sinistra ed a Thomas Astle a destra, compare in posizione centrale il Barone d’Hancarville, i due si erano conosciuti a Napoli e dal 1778 circa Townley lo aveva accolto nella sua dimora inglese, fornendogli uno stipendio mensile a fronte della sua attività di archeologo ed esperto consigliere.

Townley, Greville, Hamilton e il Barone d’Hancarville avevano in comune l’appartenenza alla Società dei Dilettanti e questo giustifica i rapporti che intercorsero tra di essi, le rispettive posizioni riguardo a nuove scoperte archeologiche e così via. Essere un dilettante significa esprimere diletto, piacere per qualcosa, la parola entrò nel linguaggio inglese con la formazione della Society così chiamata negli anni ‘30 del 1700. Robert Wood126, studioso di storia classica e architettura fornì una linea guida di questa society chiara e scherzosa: “In the year 1734, some gentleman who had travelled in Italy, desirous of encouraging, at home, a taste for those objects which had contributed so much to their entertainment abroad, formed themselves into a Society,

125William Hamilton era coadiuvato nell'attività di collezionista da suo nipote Charles Greville, suo agente a Londra.

Il rapporto tra zio e nipote si fece molto confidenziale quando nel 1783 l'ambasciatore trascorse un periodo di licenza in Inghilterra così da ritrovare conforto per la prematura scomparsa di sua moglie Catherine, una donna dolce e devota. Charles, vent'anni più giovane, seppe condividere con lo zio gli interessi che entrambi coltivavano e presero a recarsi alle aste di Christie's, per botteghe di antiquari e librai in cerca di pezzi curiosi da acquistare. Nell'affascinante dimora di Portman Square, il Greville possedeva anche una graziosa casetta dove viveva la sua splendida amante Emma Hart. La fanciulla diciannovenne era di modeste origini, ma la mente vivace ed un carattere gioviale seppero colmare le lacune di un'educazione non aristocratica.

Hamilton rimase colpito dalla ragazza e seppur non volesse ammetterlo a sé stesso, comincio da subito ad essere sentimentalmente coinvolto.

Accadde che Charles a causa della cattive acque economiche in cui versava decise che era arrivato il momento di prendere in moglie qualche ricca ereditiera se non avesse voluto condurre un'esistenza di povertà e per far ciò dovette congedare la bella Emma. Ma poiché l'affetto che lo legava alla ragazza era grande, la propose allo zio il quale dopo le prime resistenze accetto e la prese in moglie.

Trasformandola in un accessorio della sua passione per l'antichità, ella infatti aveva il compito di far rivivere i personaggi femminili dell'antichità e diverranno famose le sue rappresentazioni teatrali in cui grazie al profilo regolare, i capelli neri e gli occhi grande ed espressivi, sapeva impersonare l'eleganza e candore delle statue antiche.

Vedi: C. Knight, Hamilton a Napoli. Cultura, svaghi, civiltà di una grande capitale europea, Napoli 2003, pp.202- 207.

126 W.P. Courtney, Wood Robert in Dictionary of National Biography, London 1909, pp.844-847.

55 under the name of DILETTANTI, and agreed upon such regulations as they thought necessary to keep up the spirit of their scheme… it would be disingenuous to insinuate, that a serious plan for the promotion of Arts was the only motive for forming this Society: friendly and social intercourse was, undoubtedly, the first great object in view; but while in this respect, no set of men ever kept up more religiously to their original institution, it is hoped this work will show that they have not, for that reason, abandoned the cause of virtue in which they are also engaged, or forfeited their pretentions to that character which is implied in the name they have assumed.”127

Wood in parole povere ci descrive un mondo fatto di appassionati d'arte che dividono la passione per l'Italia ed hanno intrapreso uno o più Grand Tour, infatti, chi desiderava entrare a far parte dei Dilettanti doveva essere introdotto da qualcuno dei membri e aver effettuato il viaggio in Italia.

Insistere sulle regole base della società significherebbe rimarcare ancora una volta l'anima di questo lavoro e cioè le storie e gli incontri di uomini che mettevano l'amore per l'arte al primo posto degli interessi quotidiani, ciò che maggiormente ci interessa in questa sede è capire in che misura questa società dei dilettanti fosse stata formata da un gruppo compatto d'uomini e mise in contatto anime apparentemente diverse e lontane.

Il 30 dicembre 1781 sir William Hamilton scrisse al suo amico Sir Joseph Banks, confermandogli le notevoli voci di corridoio sul fatto che egli avesse recentemente scoperto a Isernia, il culto di Priapo in pieno vigore quanto ai tempi di Greci e Romani. “…Having last year made a curious discovery, that in a Province of this Kingdom, and not fifty miles from its Capital a fort of devotion is still paid to Priapus, the obscene Divinity of the Ancients…”128 Un ingegnere, come spiega in una successiva lettera, lavorando alla costruzione di una strada, aveva avuto modo di assistere alla celebrazione di una festa in onore dei ss. Cosma e Damiano in questa città remota. Nel corso della cerimonia ex-voti di cera raffiguranti attributi sessuali maschili di varie dimensioni, erano venduti pubblicamente e poi portati alla chiesa dedicata ai santi, i vari passaggi erano perlopiù effettuati da donne che baciavano gli ex-voti prima di adagiarli in un contenitore concavo nel vestibolo, mentre offrivano dediche del tipo “San Cosma ti ringrazio”, “San Cosma, a te mi raccomando”

127 B. Redford, Dilettanti the antic and the antique in eighteenth-century England, Los Angeles 2008 128 R. Payne Knight, Discourse on the Worship of Priapus, London 1865, pp. 56-57

56 Hamilton aveva visitato Isernia sperando di vedere tutto ciò con i propri occhi e, sebbene scoprisse che nel frattempo questa cerimonia era stata soppressa, gli fu possibile salvare alcune delle “grandi dita”, il modo in cui gli abitanti locali denominavano gli ex-voto.129 Portò personalmente questi fragili trofei a Londra nel 1748 e li depositò al British Museum con precise istruzioni di non toccarli. Un paio di settimane prima la Società dei Dilettanti aveva votato a favore della pubblicazione della sua relazione. Infine apparve nel 1786, con l’incisione di un “grande dito” utilizzato come frontespizio, seguito da un Discorso sul culto di Priapo, scritto dal membro della società che ne aveva supervisionato la pubblicazione, Richard Payne Knight.130 (fig. 18) Il Discorso di Knight è molto di più di un semplice commento sulle cerimonie a Isernia, deve infatti molto alle idee dell’amico e collega Barone d’Hancarville. Knight apre il Discorso con l’osservazione che sebbene gli uomini siano per costituzione gli stessi, i loro sentimenti morali e standard etici sono condizionati da fattori esterni ed incalza sostenendo che se ci spogliassimo della nostra sovrastruttura di pregiudizi ed educazione, potremmo capire che non c’è impurità o immoralità nella regolare gratificazione di qualsiasi tipo di appetito naturale. Per sostenere le proprie argomentazioni lo studioso attinge non solo dai rituali fallici dell’antichità, ma anche da quelli di popoli orientali, usufruendo delle descrizioni di molti viaggiatori del Settecento, che trovano riscontro in frammenti simili al rilievo proveniente da Elephanta, acquistato da Townley nel 1785 e pubblicato da Knight nei ‘Priapeia’131. Knight sembra quasi spaventato a un certo punto del suo Discorso dalle forme di credenza religiosa e non in sé per sé, per il potere di mutare i caratteri della società che esse innegabilmente hanno e difende i licenziosi riti fallici asserendo che essi in fin dei conti non causano alcun tipo di danno e lo spettacolo di un popolo voluttuoso che santifica l’atto della procreazione è più accettabile di quanto lo sia la vista di un campo di battaglia con migliaia di uomini morti per mano dei loro stessi simili.

129 G. Carabelli, In the Image of Priapus, London 1996, p. 5.

130 Richard Payne Knight intraprese il Grand Tour nel 1772-73, per poi tornare in Italia nel 1776-8, nel 1776 Knight parte dall'Inghilterra in compagnia del giovane acquerellista John Robert Cozens, con l'aiuto dei cui schizzi ricostruiamo le tappe del viaggio via Svizzera. Arrivarono a Roma nell'autunno dello stesso anno e fin da subito Knight si mise all'opera per pianificare il viaggio in Sicilia che ebbe inizio il 12 aprile 1777, come prima tappa fu prevista Paestum per ammirarne i templi Dorici, così da prepararsi agli splendidi templi di Segesta, Seliununte e Agrigento130. Entrò a far parte della Società dei Dilettanti nel 1781. Vedi: C. Stumpf, Richard Payne Knight Expedition into Sicily, London 1986, pp. 12-13.

131 R. Payne Knight, Discourse on the Worship of Priapus, London 1865, pp. 56-57

57 Nello stesso periodo in cui Hamilton inviava le novità da Isernia, il d’Hancarville arrivava in Inghilterra ospite della casa inglese di Townley. Mentre si trovava a Londra scrisse la gran parte della sua “Recherches sur l’Origine, l’Espirit e le Progrès des Arts de la Grèce”, che fu pubblicata nel 1785. In questo libro straordinario l’autore descrive un antico e universale sistema teologico dal quale erano derivate tutte le successive religioni, la cui veridicità era provata dai simboli trovati nelle antiche vestigia, comprese quelle dell’Europa dell’est. Townley rimase piuttosto impressionato da queste idee e Knight, suo intimo amico, reiterò nel suo discorso sul culto di Priapo alcune dei punti della teoria del d’Hancarville sull’antica teologia, scoprendo gli stessi simboli, talvolta facendo riferimento alle stesse sculture e monete. Secondo il Barone i precedenti sforzi di spiegare l’antica mitologia erano falliti perché si era prestata maggior attenzione alle prove fornite dalla letteratura che a quelle fornite dagli artefatti, gemme incise, vasi dipinti, monete e così via. Le più primitive tra esse, quando comparate con i simboli trovati nell’arte orientale, rivelano che sebbene l’elaborata diversità della mitologia associata con tutte le differenti religioni del mondo rimanga nascosta, la prova di una comune mitologia monoteista è del tutto innegabile e il d’Hancarville investì tutta la propria forza e determinazione per provarlo. Le scoperte di Ercolano sembravano indirizzare l’attenzione degli antiquari verso la natura fallica di molti culti greci e romani, ciò significa che la teologia antica doveva aver avuto una netta impronta di tipo sessuale, poiché espressione delle idee di generazione e creazione. Al centro del sistema si scoprì esserci una varietà di considerazioni cosmogoniche. Così per il d’Hancarville la creazione era dapprima espressa dall’immagine straordinaria di un toro che con le proprie corna colpisce un enorme uovo. Tale immagine, egli spiega, venerata dai Giapponesi in una forma correlata con le immagini trovate sulle monete di antiche nazioni del Mediterraneo, rappresenterebbe ‘l’essere generatore’, il toro ‘nell’azione di vivificare il Caos primordiale, o materia al suo stato iniziale, simbolizzata dall’uovo132. Altrove l’essere generatore è stato rinvenuto sotto forma di fallo e linga133 e fu più tardi personificato come Dio Dioniso per i Greci, Bacco per i Romani e Brahma per gli Induisti. L’antica teologia abbraccia i processi sussidiari di creazione e generazione che operano nel mondo naturale e il sedicente Barone la definisce infatti ‘celle de la loi de la nature’, non il prodotto di una ceca superstizione ma un tentativo di spiegare e riassumere le forze fondamentali della natura.

132 R. Payne Knight, op. cit., 1865, pp. 20-21 133 Per la religione induista il linga è traducibile come ‘marchio’, ‘simbolo’ o anche ‘la caratteristica di una cosa’. Il linga è anche rappresentazione del genere del sesso e simboleggia Siva sotto l’aspetto di un pilastro di pietra.

58 Tracciando i progressi dell’Arte Antica partendo dalla primitiva e scarna rappresentazione di uomini primitivi fino ai lavori perfetti della Grecia Classica, d’Hancarville scoprì che ogni considerazione di tipo formale era subordinata ad un significato simbolico. Gli artisti della Grecia Classica, a quanto egli spiega, richiamano i principi degli antichi sistemi sia tramite riferimenti al loro significato originale, sia servendosi di sofisticate allegorie di grande complessità che spingevano lo studioso di origini francesi ad avanzare le più stravaganti ed intricate spiegazioni. Per d’Hancarville simbolo ed emblema erano incorporati in molte fabbriche antiche ed egli rileva significati addirittura nelle forme astratte. Così del Vaso di Townley, sullo scaffale dei libri visibile nell’opera di Zoffany già citata, e su altri marmi con scene bacchiche, argomenta che la forma ovale è stata scelta per rappresentare “L’Oeuf de la Création.” (fig. 19) Anche Townley era preparato e capace per pensare su questa stessa linea d’onda ed il suo protetto, il commerciante James Christie, addirittura avanzò l’ipotesi che i vasi greci fossero modellati sulla forma dei semi di loto. Alla stessa maniera convinto e quasi forse accecato dalla veridicità delle proprie argomentazioni d’Hancarville trovava conferme in ogni fatto, ogni scultura, moneta o gemma. L’assurdità a cui tale materia di studio si prestava veniva compensata dal modo straordinario in cui essa è presentata, almeno per quanto riguarda il capitolo introduttivo dell’opera, l’unico ad essere ordinato in sezioni numerate e sviluppato con cura, da lì in poi il discorso diventa confusionario, il materiale non era certamente semplice da mettere in ordine e per di più in un ordine interessante ed accattivante per il lettore. Ad eccezione di Henry Maty che nel suo giornale letterario New Review, derise e distrusse punto per punto le teorie esposte nell’opera, il riscontro critico fu positivo e le idee di d’Hancarville ebbero un discreto numero di seguaci. Ciò non solo perché fossero complesse e oscure ma in quanto differivano totalmente dall’antiquaria convenzionale inglese, secondo la quale era un lodevole divertimento ricercare le illustrazioni dei poeti nelle monete antiche o utilizzare le stesse per confermare le date delle campagne romane, la genealogia dei Tiranni Ellenistici ed i nomi delle città Greche134. È effettivamente piuttosto interessante vedere come queste idee si stessero facendo una certa strada all’interno dei circoli intellettuali contemporanei, nell’opera di Richard Knight An inquiry into the symbiolical language of ancient art and mythology, l’autore si soffermi parecchio sulla descrizione dei riti orgiastici bacchici nella Grecia antica, stupito dalla libertà concessa alle

134 R. Payne Knight, An inquiry into the symbolic language of ancient art and mythology, London 1835, p. 23

59 donne in queste cerimonie ove urlavano e si dimenava poco coperte fino a diventare feroci ed incontrollabili. Knight inizia la propria riflessione domandandosi dunque come mai una donna greca, che viveva per lo più in disparte e ritirata, in occasione di una festa religiosa potesse arrivare a tanto. L’eccessivo entusiasmo e stravaganza che vi leggeva Knight altro non era se non il significato intrinseco e spirituale che i riti Bacchici avevano per i loro osservanti. Non siamo dunque lontani dalla precedente osservazione su cosa sia maggiormente fuori luogo, se membri fallici in vista o la visione di un essere umano che combatte i suoi simili. Il fatto che Townley subisse il fascino degli argomenti fin qui citati crea da sé la giustificazione per l’ampia trattazione del significato simbolico che i cataloghi della sua collezione forniscono, evitando invece gli elogi di rito su bellezza e grandiosità delle opere esposte. Una delle più ammirate sculture in suo possesso, il busto femminile di fronte al quale d’Hancarville è seduto nel quadro di Zoffany, non ci viene presentata con l’usuale collage di informazioni ottenute ritagliando frammenti dall’opera di Ovidio ma al contrario si dice che sia Iside, dea Greca di fertilità e maternità, posta al centro di un fiore di loto, il precedente simbolo della stessa. L’attività d’interprete d’arte antica di Townley non fu ristretta alla propria collezione. Sembra che abbia dato risposte alle domande di altri collezionisti suoi conoscenti, ad esempio Henry Blundell of Ince135 fu da lui incoraggiato a formare la propria collezione, divenendo dipendente dal giudizio dell’amico per ciò che riguardava l’antico e descrivendo se stesso come un semplice principiante della materia. Townley riteneva che in tutta la collezione di Blundell vi fossero al massimo cinque o sei marmi di reale valore, dalla corrispondenza dell’epoca tra l’altro risulta che i due sul piano umano non fossero affini e che anzi al di là del business vi fossero non pochi contrasti , stando a quanto sosteneva Townley, il Blundell era un uomo capriccioso e poco intelligente. Da quanto detto iniziamo a tracciare il profilo del nostro collezionista in maniera maggiormente dettagliata e interessante. Non era dunque un fantoccio ricco con la passione del bello che si lasciava trasportare dalle adulazioni e viveva della luce riflessa emanata dai dotti che frequentarono la sua dimora, ma anzi era egli stesso al pari se non al di sopra della loro preparazione e pertanto poteva permettersi di ridicolizzare il Blundell di turno piuttosto che vincere facile e farsi adulare dal nobiluomo di scarsa erudizione, non certo di questo Charles Townley aveva bisogno.

135 Henry Blundell e Charles Townley condividevano il luogo d’origine (erano entrambi del Lancashire), la fede cattolica e l’amore per il collezionismo alimentato dalle vendite e accordi mediati da Thomas Jenkins che fu introdotto al Blundell presumibilmente tramite Charles Townley.

60 Ecco perché c’era invece una certa intesa con William Hamilton, probabilmente il livello di feeling nonché di erudizione tra i due dovette essere notevole poiché li metteva in un certo senso sullo stesso piano. Lo dimostra il fatto che le lettere scritte per mano di Padre Antonio Piaggio136 non ritrovate nell’archivio della società dei Dilettanti si è scoperto essere quelle epistole contenute in ben otto scatole e lasciate da Hamilton a Townley137. Si tratta di descrizioni relative all’attività del Piaggio di papirologo ercolanese e sul fermento del Vesuvio, quindi spaziano dall’essere a metà tra l’archeologia e la scienza naturale. Lo stesso campo d’azione che aveva da sempre affascinato l’ambasciatore inglese e che egli volle lasciare in eredità a quel Charles Townley che sentiva di certo più di altri all’altezza di custodire un lavoro che è la risultante di ore di studio applicate a lunghe sedute di faticosa attività in loco.

2.3. Gli acquisti romani e il rapporto con Thomas Jenkins e Gavin Hamilton

L'ambiente esterno modella il carattere degli uomini fin dal momento della nascita, una propensione se giustamente stimolata e rafforzata può trasformarsi in passione e ossessione. Gavin Hamilton ebbe la fortuna di percorrere un momento di storia artistica in cui la riscoperta

136 Notizie su Padre Piaggio.Vedi: Il diario vesuviano di Padre Piaggio in Sulle orme del Grand Tour. Uomini, luoghi, società del Regno di Napoli, Napoli 1995, pp. 153-210. S. Sontag, L’amante del vulcano, Milano 1995, p. 154. 137 N. H. Ramage, Goods, Graves, and Scholars: 18th-Century Archaeologists in Britain and Italy in “American Journal of Archaeology”, Vol. 96, No. 4 Oct., 1992, p. 658.

61 dell'antico divenne l'argomento del giorno. I ritrovamenti di epoca greca e romana alimentavano la smania e curiosità di andare avanti nelle ricerche, nel ricostruire un filo logico in grado di poter fare da bussola in quello che a molti sembrava uno stile unico e indefinito, semplicemente "antico".138

Hamilton non era un archeologo improvvisato, non aveva imparato solo sul campo, ma negli scavi aveva trovato conferma dei suoi studi ed era stato ripagato delle ore spese a scoprire un collegamento tra l'arte rinascimentale e quella antica, voleva capire quali fossero le fonti d'ispirazione di Michelangelo,139 Jacopo della Quercia e Lorenzo Ghiberti. L'antico era stato il punto d'inizio di tutti gli artisti, fino alla metà del XVII secolo, quando il desiderio d'innovazione aveva sconvolto ogni cosa. Hamilton confidava che le continue scoperte archeologiche che nell'epoca a lui contemporanea interessavano Roma e il resto d'Italia, aprissero la strada a una nuova resurrezione del gusto classico.140

Da un uomo che in una lettera a Charles Townley si espresse nei confronti della statuaria greca descrivendola come la più importante acquisizione che potesse fare un uomo raffinato141, di certo non avremmo potuto aspettarci di meno. D'altronde a chi altri avrebbe potuto scrivere opinioni simili se non al suo miglior cliente e amico, Townley vantava un numero di pezzi procurategli da Hamilton piuttosto consistente. Proprio la citata lettera riguarda una fortuita campagna di scavo presso Castel di Guido, anticamente conosciuta come Lorium e situata circa dodici miglia fuori Roma sulla strada per Civitavecchia. La licenza142 fu rilasciata dal Cardinale Camerlengo Carlo Rezzonico a “Gavino Hamilton, e i suoi Uomini Cavatori…. Riportato che avrà il consenso del padrone del fondo”, su consiglio di Alessandro Bracci Assessore delle Antichità e Cave, Giovanni Battista Visconti , Commissario delle Cave ed Antichità di Roma, in ultimo appare la firma dell’Uditore Francesco Mantica e del Notaio Gioacchino Orsini.

A quanto ci dice l’Historia Augustea143 l’imperatore Antonino Pio possedeva una villa nelle vicinanze di Lorium, dove morì il 7 Marzo del 161.

Nel Marzo del 1776 Hamilton cominciò a indagare il sottosuolo appartenente all’Ospedale di

138 Gavin Hamilton fu uno dei pochi che credette nel genio di Antonio Canova e sempre Hamilton instradò il giovane alla scultura su quella via del gusto Neoclassico che come sappiamo lo portò alla somma gloria. 139 Michelangelo aveva avuto occasione di studiare la statuaria antica presso il Palazzo dei Medici. Vedi: D. Irwin, Gavin Hamilton: Archaeologist, Painter, and Dealer in “The Art Bulletin”, Vol. 44, no. 2, Jun., 1962,. 89 140 Quatremere de Quincy, Canova, Paris 1835, pp.25-26 141 A.H. Smith, Gavin Hamilton’s letters to Charles Townley in “ The journal of hellenic studies” 1901, Vol. XXI, p. 317 142 ASR, Presidenza delle Strade, Lettere patenti b. 67, fol. 326r e Presidenza delle strade, memoriali e rescritti, b.204, fol. 424. 143 Historia Augustea, III, 12, 6.

62 Santo Spirito con uno scavo che andò avanti sino alla fine di Aprile,144 animato dalla speranza di trovare grandi tesori viste le tracce di vita imperiale che la storia narrava.

Le prime scoperte sono elencate nella lettera indirizzata a Townley il 27 Marzo145, si tratta di un’iniziale impressione su ciò che gli scavatori avevano riportato alla luce e sulle potenzialità ancora inespresse della zona di Lorium, mentre in una seconda lettera del 5 Maggio Hamilton scrisse di aver portato a casa “the Robba of Castel di Guidi”. Il collezionista che attendeva notizie a Londra, ottenne da questo scavo un Cupido che piega l’arco146 (fig. 20), in posizione eretta e leggermente voltato alla nostra sinistra. I capelli sono mossi da ampi boccoli che incorniciano gentilmente il viso del dio e il corpo poggia su di un piedistallo modellato in maniera alquanto originale. Si tratta del famoso Cupido cui Hamilton si riferisce come un “too precious a Jewel not to finish in your Cabinet, it is by much the finest of that subject extant, and singular for having the Hand holding the Bow, which all the others want.”147

Già nel 1773 Townley fece il suo primo acquisto presso un'antica collezione romana, i Mattei: il busto dell’Imperatore Marco Aurelio, mostrato in abiti militari con un mantello al di sopra della corazza, e quello di Lucio Vero (fig. 21). Entrambi acquistati per intercessione di Gavin Hamilton che da lì in poi gli fornì anche una testa di satiro (fig. 22) e una bella statuina di un attore comico seduto, che nella sala espositiva di Park Street era disposto al di sopra del sarcofago, contro la parete a destra dello spettatore.148 Quando la statuina fu dissotterrata al colle Celio presso la Villa Fonseca, Townley stesso era presente, come appuntato in un suo manoscritto ed evidentemente si dovette innamorare immediatamente del pensieroso attore seduto e forse in attesa di entrare in scena.

Nello stesso anno Hamilton iniziò a scavare in un sito nei pressi di Lanuvio detto Monte Cagnolo, che a quanto scriveva Townley egli considerava “l'unico sito che si era rivelato all'altezza delle sue aspettative”.

144ASR, Archivio dell’Archiospedale di Santo Spririto, Carteggio, b. 756, fol. 64r:” Il. Gavino Hamilton. S. Spirito 21 Aprile 1776. Nell’atto che il Commendatore di Santo Spirito conferma la sua particolar stima a V. Ill.mo le significa essere stati destinati dalla Santità di Nostro Signore per fare la nota stima li Sig.ri Abb. Visconti e Sibilla, con li quali chi scrive è restato in appuntamento di portarsi in Castel di Guido Mercoledì 24 del corrente e partire da Roma ad ore 10. Pertanto il Commendatore ha stimato suo preciso dovere d’avanzarne a V. Ill.mo la notizia ad effetto possa ritirarsi nello steso giorno d. luogo, ove lo starà attendendo a mangiare una zuppa ed intanto pieno di perfetta stima ed osservanza si rassegna.” Considerando che viene citata la stima dei beni ritrovati è probabile che in questo 21 Aprile lo scavo fosse terminato. 145 “My cava at Castel di Guido turns out a fruitful spot”. Dopodiché spende una breve descrizione sulla statua di Giunone che andrà al Museo Pio Clementino:“A Juno sacrificing with the petina in her right hand, & quite entire is one of the most interesting objects, rather above than under size of life”. Sul passaggio dell’opera ai Musei Vaticani vedi: ASR, Camerale II, Antichità e Belle Arti, b. 17, ins. 125. 146 A.H. Smith, op. cit., 1892-1904, vol. III, pp. 64-65, no 1673. 147 A.H. Smith, op. cit.,1901, Vol. XXI, p. 317. 148 B. F. Cook, The Townley Marbles, London 1985, p. 16.

63 Da Monte Cagnolo approdò alla collezione di Townley il celebre gruppo di due cani (fig. 23), esportato da Roma non ancora restaurato, poco dopo il 24 gennaio 1774 e passato al British Museum nel 1805 alla morte del collezionista.149

Si tratta di una coppia di cani da caccia, un maschio e una femmina che giocano insieme. L’azione è semplice, resa in maniera naturale e il gruppo risulta ben composto.150 Un segno attorno al collo della femmina indica la presenza di un collare in metallo perduto, un particolare che aggiunge realismo a un gruppo di animali nelle cui mosse non sarà difficile ricordare gli atteggiamenti di due cani reali in un momento di tranquillità.

Sempre per rimanere nell’ambito dello stesso tema Townley acquistò da Hamilton il gruppo con Atteone attaccato dai suoi cani (fig. 24). Uno dei due animali sta per mordere la sua gamba destra mentre l’altro si è furbamente infilato tra le gambe del dio e la testa è volta verso l’alto con un’espressione di grande ferocia.151 Di certo l’opera simbolo di questo scavo fu il famoso Vaso di Townley152 (fig. 25), decorato in rilievo con una scena Bacchica che include Pan, satiri e menadi. Il vaso appare nella biblioteca di Townley al di sotto del lucernario, in cima ad una ricca libreria posta proprio dietro le spalle del piccolo gruppo formato da Astle, Greville e d’Hancarville.

Nel 1775 l’archeologo britannico rivolse la propria attenzione a Ostia, l'antico porto di Roma, dove tra le rovine delle terme romane trovò una piccola statua di Venere, l'inverno successivo Hamilton riprese gli scavi sul mare e ne estrasse una seconda statua di Venere, da ammirare nella biblioteca di Townley a Park Street, abilmente rappresentata da Zoffany. Canova dichiarò che si trattava della più raffinata statua che avesse mai visto mentre Richard Payne Knight disse che la statua aveva tutte le caratteristiche dell'età di Scopas, e siccome era stata trovata vicino Roma, dove erano sta menzionate da Plinio, ciò poteva supportare la possibilità che si trattasse della Venere appartenente al celebre gruppo. Sempre secondo Payne la Venere aveva tutta l'aria di essere un lavoro originale uscito dalle mani di un grande artista e aveva il diritto di essere annoverata tra i migliori pezzi d'arte greca all'epoca in circolazione.153 Tuttavia le valutazioni di Knight sono da accettare con una certa prudenza, non dimentichiamo che lo studioso era uno di quelli che vedeva statue greche in tutte le repliche romane presenti nelle collezioni inglesi ed era

149 I. Bignamini, C. Hornsby (a cura di), Digging and dealing in eighteenth-century Rome, New Haven 2010, vol. I, p. 101. 150 A.H. Smith, op. cit.,1892-1904, vol. III, p. 218, no 2131. 151 A.H. Smith, op. cit.,1892-1904, vol. III, p. 24-25, no 1568. B. F. Cook, The Townley Marbles, London 1985, p.19. 152 A.H. Smith, op. cit.,1892-1904, vol. III, pp. 393-394, no 2500 153R. Payne Knight (a cura di), Specimens of ancient sculpture, Egyptian, Etruscan, Greek and Roman: selected from different collections in Great Britain, vol. I, London 1809, pl. XLI.

64 tanto fazioso che negò che i marmi Elgin fossero originali greci.

Nel periodo da Giugno a Settembre quando la malaria rendeva insalubre la zona di Ostia, Hamilton era solito impiegare i propri uomini a Roma Vecchia154, circa a cinque miglia a sud-est di Roma sulla strada verso Frascati, 500 acri di terreno appartenenti all’ospedale di San Giovanni in Laterano. L’archeologo cominciò a scavare la zona nel 1774, lo dimostra la licenza di scavo del 26 settembre 1774.155

La presenza d’imponenti rovine aveva suggerito a Hamilton la possibilità che il luogo potesse aver in passato ospitato la Villa della nutrice di Domiziano e le possenti statue dissotterrate non sortivano nessun altro effetto se non quello di rafforzare le proprie opinioni.

Da Roma Vecchia Townley guadagnò un busto maschile di un uomo sulla mezza età con capelli ricci e barba, pupille e sopracciglia estremamente marcate così da conferire al personaggio uno sguardo penetrante e autoritario. Il busto nudo è avvolto da un mantello che gli cinge elegantemente le spalle e l’intera figura è rialzata da un piedistallo completo d’iscrizione: “L(ucius) Aemilus Fortunatus amico optimo s(ua) p(ecunia) f(ecit).”156 La testa è senza dubbio del periodo antoniniano ma appare priva dell’ampia fronte e degli occhi infossati tipici dell’imperatore.

Il secondo inventario di Townley157 aveva collocato questo busto come un’opera proveniente dallo scavo di Genzano, ma la lettera datata 9 Febbraio 1775 dove Hamilton spiega a Lord Shelburne di aver trovato negli scavi di Roma Vecchia “two entire busts, one of a Decemvir the other of L. Aemilus Fortunatus, as appears from the inscription on the pieduccio.”158 Il Decemviro di cui si parla nell’epistola altro non è che un busto maschile completo di un’iscrizione che lo identifica come tale e acquistato da Townley per £120. Anche per la storia del Decemviro si ripete la stessa confusione messa in atto dai cataloghi di Townley come fu per il busto di Lucio Emilio Fortunato e nacque da qui la congettura secondo cui l’opera provenisse da scavi effettuati in maniera illegale.

Anche l’Endemione dormiente159 aveva riposato a lungo nello scavo di Porta San Giovanni e fu

154 Roma Vecchia è ora identificata con la Villa Quintiliana di Commodo, il luogo della morte di Cleandro. 155ASR, Presidenza delle strade, lettere patenti, b.67, fols.28 1r- 28 2r. 156 Sebbene busto e piedistallo non siano costituiti da un unico blocco di marmo, sono stati da sempre associati insieme fin dai tempi della scoperta, dunque se così fosse i termini utilizzati nell’iscrizione non sembrano adatti per un ritratto imperiale. Vedi: A.H. Smith, op. cit.,1892-1904, vol. III, pp. 160, no 1903. 157A essere precisi il primo inventario di Mr. Townley già dava per certa l’estrazione dell’opera dallo scavo di Roma Vecchia e non è chiaro come mai questa informazione sia stata successivamente modificata. 158 Christie, Catalogue of the celebrated collection of ancient marbles, the property of the most honourable the Marquess of Lansdowne : which will be sold by auction by Messrs. Christie, Manson & Woods, London 1930, p. 91, no XXI. 159 A.H. Smith, 1892-1904, vol. III, p. 24, no 1567.

65 scoperto da Hamilton il 28 luglio 1774, la decisione di venderlo a Thomas Jenkins in quanto non reputava l’opera un buon prodotto dell’antico, fu un grave errore. Jenkins infatti non tardò a venderlo a Townley per £300 e da lì seguirono numerose lettere in cui i due archeologi inglesi perorarono la propria causa e che vedeva Hamilton particolarmente impegnato a difendersi dall’accusa di voler tenere nascosti al collezionista inglese pezzi di valore. Così nella lettera del 21 Marzo 1775 Hamilton fa un piccolo elenco dei difetti della scultura come a voler supportare la minore importanza della stessa rispetto a molti altri pezzi che lui stesso aveva procurato per la collezione di Townley160.

La stessa posizione del braccio destro del giovane la ritroviamo nella descrizione dell’Endimione nei Dialoghi degli Dei di Luciano (Dial. Deor., xi., 2).

Alcune delle opere provenienti dal medesimo scavo le ritroveremo tra quelle scelte da Zoffany nella collezione di Townley per immortalare la biblioteca di Park Street a Londra e proprio nella parete del camino, collocato in alto a destra compare un Rilievo Dionisiaco (fig.), lo stesso citato in una lettera inviata da Hamilton il 28 Novembre 1775, in cui egli informa Townley che il rilievo “represents two Fauns & a Baccante, quite compleat & fine sculptour”.161

Il rilievo è parte di una processione Bacchica orgiastica (thiasos). Tre figure si muovono verso destra all’interno di un pannello provvisto di cornice: la prima avanza sulle punte dei piedi mentre suona il timpano e scuote la testa reclinata all’indietro in un momento di annebbiata follia. La seconda figura è un giovane Satiro, con orecchie a punta e coda che cammina anch’esso in punta di piedi suonando il flauto doppio e sul braccio destro porta una pelle di pantera. Infine il terzo personaggio è ancora un secondo satiro, privo di coda, ma dotato di una pelle di pantera portata come se fosse uno scudo e che si muove preceduto di qualche passo dalla pantera di Dioniso.162

Tuttavia l’accaduto non compromise in maniera irreparabile i rapporti tra Townley e Hamilton. La stima che quest’ultimo nutriva per il collezionista traspare in molte delle epistole che si scambiarono, la maggior parte di esse tratta di acquisti, nuove scoperte e scavi da cominciare ma il tono è informale e amichevole, laddove ci fossero dei complimenti essi non appaiono come un atto di ruffiano servilismo bensì come l'espressione dell'alta considerazione che nutrivano l'uno per l'altro, due persone che dividevano la medesima passione per l'antico e frequentavano lo stesso circolo culturale.

160 Si tratta delle lettere di Hamilton del 21 Marzo e 6 Aprile 1775(TY 7/584 e 7/585) più la lettera di Jenkins del 1 Aprile 1775 (TY 7/344). 161 TY 7/599. 162 Per la descrizione del rilievo vedi: A.H. Smith, op. cit; 1892-1904, vol. III, pp. 255-256, no 2193.

66 Sarebbe stato facile scadere nella mera adulazione per Hamilton considerando che lungo tutto l’arco della sua carriera dovette difendersi strenuamente dal continuo intromettersi di Thomas Jenkins nei suoi affari, cosa che potrebbe anche essere letta all’inverso per la verità.

Jenkins fu abile a sfruttare il proprio carattere vivace e aperto per inserirsi in quel circolo intellettuale che vantava nomi come Angelica Kauffman, il paesaggista Richard Wilson163 di cui fu coinquilino, fino ad essere citato dal Piranesi all’interno dell’opera del 1778164, con tanto di incisione e dedica che riporta i meriti del personaggio costruiti in modo da far intendere al lettore che si trattasse di un uomo di una certa fama. Jenkins non fu solo un ottimo collezionista e mercante d’arte bensì sapeva ricostruire un’intera statua da un solo piede, braccio o frammento antico che fosse, per poi privarla di una gamba o mano così da spacciarla meglio come opera originale e venderla a un prezzo vantaggioso.165

Impossibile sorvolare sull’attività di Jenkins come banchiere, un lavoro che gli permise di stringere ancor di più i rapporti con Angelica Kauffman, la pittrice difatti ritirava da lui i soldi inviati dai suoi clienti,166 a cui aggiungiamo una certa intesa con il Cardinal Alessandro Albani, il rappresentante degli interessi della monarchia britannica presso la corte papale,167 il cardinale aveva preso Jenkins sotto la propria ala protettiva e una conoscenza del genere gli permise di entrare facilmente dalla porta principale in molte situazioni lavorative, sia in qualità di stimato pittore che archeologo esperto.

I luoghi che nomineremo di seguito e le stanze della casa di Townley in cui stiamo per addentrarci non saranno differenti da quanto elencato su Gavin Hamilton, d’altronde scorrendo l’elenco di opere che Jenkins e Hamilton procurarono da Roma a vari collezionisti è impressionante il numero di volte che compare come destinatario Charles Townley. A conti fatti una fetta enorme dei suoi beni gli fu procurata da questi due personaggi e dunque nell’affrontare il discorso di un Jenkins nei panni dell’archeologo va da sé che ritorneranno in linea di massima gli stessi scavi e gli stessi nomi.

Jenkins ebbe il merito di dare in un certo senso inizio alla collezione, nel 1768 una moltitudine di oggetti andò a formare il primo nucleo della raccolta d’arte antica di Townley, si tratta di opere

163 Sui rapporti tra Jenkins e Wilson vedi: A. Busiri Vici, Thomas Jenkins fra l’arte e l’antiquariato, “L’Urbe”, XLVIII, 1985, p. 159-160. 164L’opera è Vasi, candelabri, cippi, sarcofagi, tripodi, lucerne e ornamenti antichi. 165A. Busiri Vici, Thomas Jenkins fra l’arte e l’antiquariato, “L’Urbe”, XLVIII, 1985, p. 158.

166 A. Cesareo, “He had for years the guidance of the taste in Rome” Per un profilo di Thomas Jenkins in E. Debenedetti (a cura di) Collezionisti, Disegnatori e teorici dal Barocco al Neoclassico I (Studi sul Settecento Romano 2), Roma 2009, p.224. 167 G. Vaughan, Jenkins Thomas, Dictionary of Art, 17, Willard, Ohio 1996, p. 475.

67 provenienti da altre collezioni romane, le cui trattative andarono a buon fine grazie a Jenkins. 168

Il pezzo maggiormente costoso fu un gruppo di due giovani ripresi nel momento di una discussione relativa al gioco degli astragali, acquisito per £440 l’opera era stata conservata a palazzo Barberini fin dal momento della scoperta nelle Terme di Tito. Uno dei due giovani morde l’altro sul braccio e poiché gran parte del secondo personaggio è assente, il gruppo scultorio era stato denominato i Cannibali. (fig. 26)

Una ricevuta datata 12 agosto 1768, conservata tra un gruppo di documenti appartenuti a Townley presso la Bodleian Library, elenca i giocatori di insieme ad altre opere tra cui uno splendido sarcofago, inciso da Pietro Santi Bartoli nel 1693. Questo sarcofago si trovava a Palazzo Capranica ed apparteneva alla collezione Valli, da sempre conosciuto come la canonica illustrazione del lutto domestico. Interessante sapere che l’opera costò a Townley £70, questo la dice lunga sul valore attribuito a sculture e busti rispetto ai sarcofagi decorati con rilievi.169

Altre due sculture acquisite tramite il Jenkins nel 1768 furono un busto ritratto dell’imperatore Adriano (fig. 27) e una statua di donna seduta per terra ed intenta a giocare agli astragali con la mano destra, proveniente da Villa Verospi a Roma, che doveva aver fatto parte dei Giardini di Sallustio170. La presenza di un arco accanto ad essa ha suggerito l’ipotesi che essa potesse far parte di un gruppo raccolto attorno a Diana, tant’è che Townley si riferiva alla statua come alla Diana recumbens.

Il busto di Adriano era stato dissotterrato dall’omonima villa svariati anni prima e apparteneva al Cavaliere Lolli, autore dei primissimi scavi a Pantanello, dunque solo alla sua morte nel 1768, Townley ottenne il busto al prezzo di £70. Si tratta del primo pezzo proveniente da Villa Adriana, perché come sappiamo Hamilton di lì a poco cominciò il famoso scavo da cui dissotterrò grandi pezzi d’arte, alcuni dei quali finirono a Park Street.

Molto spesso ritroviamo il nome di Jenkins accanto a vendite di oggetti estratti da Gavin Hamilton, tutto ciò rafforza l’opinione di abile commerciante che già avevamo del personaggio, nonché quella di infaticabile ed appassionato archeologo di Hamilton.

Una testa barbuta che appare nei manoscritti di Townley con varie diciture quali “testa di Titano”, “Testa di Diomede o Aiace”, “Testa di un eroe sconosciuto”. Taylor Combe, il primo

168 B. F. Cook, op. cit., 1985, p. 10. 169 B. F. Cook, op. cit., 1985, p. 12. 170 Gli Horti Sallustiani erano il più grande parco dell’antica Roma. I giardini nacquero grazie al Senatore della Repubblica Romana Gaio Sallustio Crispo e si estendevano in parte all’inizio di una lunga valle che divideva il Quirinale dal Pincio, aprendosi a ovest in direzione del Campo Marzio, mentre il resto del parco si sviluppava sul vasto pianoro della città che arrivava fino al Pincio. Vedi: C. Calci, Il libro di Roma archeologica, Roma 2000, p. 185.

68 curatore d’Antichità presso il British Museum, la descrisse nel 1812 come “Testa di un Eroe Omerico” (fig. 28), un titolo perspicace poiché nel 1957 presso la Cava di Tiberio a Sperlonga fu ritrovato un gruppo raffigurante i compagni di Ulisse intenti ad accecare Polifemo e uno di essi sembra essere il duplicato della testa appartenuta a Townley.

Jenkins seguì di persona un numero di scavi certamente minore rispetto a Hamilton171, ma anch’egli ebbe qualche intuizione fortunata e propose a Townley oggetti d’arte da lui stesso dissotterrati e non acquisiti per vie traverse come era solito fare. Lo scavo di Genzano fu cominciato da Jenkins e Bartolomeo Giacobini per il Cardinal Albani, nel Marzo 1774.172

Per quasi un anno non ci fu nulla di rilevante da annotare, finchè non ebbe inizio un ulteriore campagna di scavo173 più fortunata considerando che da alcune lettere tra Jenkins e Townley possiamo capire quali oggetti il collezionista londinese aspirava di ottenere.

Dalla risposta di Jenkins del 23 luglio 1777 immaginiamo che Townley avesse precedentemente inviato una lista di ciò che voleva dallo scavo di Genzano e l’archeologo gli spiega il motivo del sio silenzio in merito: “the things at Genzano are to be decided in the month of Oct[ober] having allowed until that time &the timid Possessor to see if he can get a better offer that mine.”174

Ad ogni modo Townley si aggiudicò una statua di Priapo in stile etrusco, sebbene il cardinale godesse del diritto di prelazione, Jenkins seppe imporsi con successo. Purtroppo l’opera fu trasportata a bordo del Westmorland che fu presa dalla Francia nel 1778,175 dunque Townley non ottenne mai veramente la statuina di Priapo. In una lettera del febbraio 1779 Jenkins informa Townley di essersi già attiavato con il console inglese in Spagna per chiedergli di utilizzare la sua grande influenza per salvare dalla vendita la casa numero 22 contenente gli oggetti destinati a Londra.176

Un trasporto invece fortunato era stato quello del 1774, quando fu consegnata a Townley una statua di Artemide177 che viaggiava sulla Success e proveniva dallo scavo di Tor Angela. La proprietà si trovava a dodici chilometri fuori Roma e per esattezza sul lato destro della Via Prenestina e fu oggetto d’interesse archeologico da parte di Thomas Jenkins e Nicola la Piccola

171 Vedi il calendario degli scavi in I. Bignamini, C. Hornsby (a cura di), Digging and dealing in eighteenth-century Rome, New Haven 2010, vol. I, pp. 35-37. 172 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit; vol I, p. 55. 173 R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, Roma 2000,vol. VI, p.227: “Nel corso del mese continuano in territorio di Genzano scavi per iopera di Bartolomeo Jacobini nei quali era interessato anche il Card. Albani [Cod. Lanciani Scavi I(MS. Lanc. 52), C.20].” 174 I. Bignamini, C. Hornsby (a cura di), Digging and dealing in eighteenth-century Rome, New Haven 2010, vol. II, p. 101. 175 Sulla vicenda vedi: J.M.Luzòn Nogué, El Westmorland: recuerdos del Grand Tour, Murcia, Sevilla and Madrid 2002. 176 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit., vol. II, p. 114. 177 A.H. Smith, op. cit., Vol III 1892-1904, p. 20, no 1558

69 nel 1775 o 1778.178

La lista di pagamenti fatti a Jenkins nel 1778179 è più stringata rispetto a quelle degli anni precedenti, ma contiene alcuni elementi davvero interessanti: un frammento di un sarcofago che mostra una Musa stante di fonte ad un poeta seduto, un labrum180 acquistato dal Duca di Bracciano, erede del Duca Odescalchi, a cui la vasca era stata lasciata in eredità dalla Regina Cristina di Svezia. Charles Townley l’acquistò per $200 collocandolo nell’ingresso di Park Street, contro la parete destra.

L’anno successivo Jenkins ottenne un bacino di granito da accoppiare al labrum per il quale Townley gli diede in cambio una delle statue di Atteone che Hamilton aveva scavato a Monte Cagnolo.181

Le opere che i due archeologi e commercianti inglesi fornirono al nostro uomo non si riducono certamente a quanto fin qui trattato, queste sono solo una parte della vasta fornitura offerta da Hamilton e Jenkins. Ma scendere nel particolare trasformerebbe il discorso in un mero elenco di oggetti e relativa provenienza, mentre ci sarà tempo per esplorare attentamente le meravigliose stanze della dimora di Townley al numero 7 di Park Street per parlare via via delle statue e rilievi che compaiono su ogni mensola, camino o armadio, in modo da contestualizzare il tutto ed usare gli oggetti per farsi strada nella vita di questo ricco collezionista a volte divorato da questa sua passione per l’arte.

È difficile tirare delle conclusioni sul rapporto che ebbe Townley con Hamilton e Jenkins, un’analisi super partes è impossibile da compiere dal momento che in tutte le lettere colui che parla non è solo il mercante d’arte che cerca di piazzare il pezzo ad ogni costo, ma dobbiamo tener conto che a parlare è anche l’amico, chi scrive stima Townley e per quanto Jenkins avesse fama d’essere abbastanza privo di scrupoli quando si trattava di affari, in occasioni particolari come l’episodio dell’attacco alla Westmorland Jenkins si mise in moto di sua iniziativa per tutelare i beni di Townley e altrove si battè per scavalcare il Cardinal Albani così da far arrivare l’oggetto del desiderio a Londra.

Tuttavia si ha la percezione che il rapporto tra Hamilton e Townley sembri essere quello di due uomini che si confrontano a pari livello, infatti il commerciante d’arte è solito firmarsi nelle lettere “Your friend”, in opposizione alla variabile formula di Jenkins “Your obliged and most

178 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit; vol. I, p. 173. 179 B. F. Cook, op. cit., 1985, p. 13. 180 Il termine labrum secondo una traduzione letterale indicherebbe il bordo superiore del recipiente, ma viene solitamente tradotto con vasca o bacino. 181 B. F. Cook, ivi, p. 16.

70 obedient humble servant”182

3.1. Charles Townley: ritratto di un collezionista settecentesco

Il dipinto di Zoffany del 1781 Charles Townley in his Library at 7 Park Street (fig. 29 ) è stato fin qui a tratti nominato, ce ne siamo serviti per individuare alcune delle opere d’arte che gli furono procurate da Jenkins e Hamilton, per dare un volto al nipote di Sir Hamilton, Charles Greville, e capire chi fosse Thomas Astle, chiamato con Townley a decidere della disposizione del British all’arrivo dell’arte egizia, ma se fosse letto in maniera diversa e soprattutto osservato con altri occhi, questo quadro sarebbe in grado di fornirci informazioni ancor più dettagliate sul tipo di collezionista che Charles Townley era. C’è una storia da costruire, il perché di una commissione da svelare e solo allora avremo in mano gli strumenti per entrare nella testa del nostro personaggio, comprenderne delle scelte e perché no, giustificarne delle altre.

182I. Bignamini, C. Hornsby (a cura di), op. cit., vol. I, pp. 329-330.

71 Il 16 agosto 1781 Charles Townley scrisse a James Byres che Zoffany stava dipingendo sullo stile della Tribuna degli Uffizi una stanza della sua casa, così da mostrare gli oggetti della collezione, aggiunge poi un commento, o forse un augurio, sul sapore veritiero e l’eccellenza del quadro una volta compiuto.

Probabilmente Townley aveva avuto occasione di ammirare la Tribuna degli Uffizi di Zoffany (fig. 30), alla Royal Academy durante l’esposizione del 1780 e sperava che il risultato della sua biblioteca potesse essere qualcosa di molto simile. Zoffany fu uno dei più elusivi artisti del XVIII secolo, la sua fu una carriera vagabonda e mutevole i cui movimenti erano diretti da decisioni improvvise, unite al desiderio di crescita personale e maggiori guadagni. La regina Charlotte si fece sua promotrice, finanziandogli il viaggio in Italia dal 1772 al 1779, procurandogli una cospicua somma di denaro per ogni evenienza, più lettere di presentazione e, cosa principale, gli commissionò la famosa Tribuna.

L’arte di Zoffany, dal gusto tedesco che traspariva nel modo di trattare linee e colori, impressionò favorevolmente non solo la regina Charlotte, ma dopo poco tempo catturò anche l’ammirazione di Giorgio III, suo consorte.183

Si è soliti ritenere che il Grand Tour fosse un fenomeno tutto inglese, al contrario fu un’usanza abbastanza consueta anche in Germania, con la notevole differenza che persone di rango principesco così come di minor livello sociale molto spesso completavano la loro educazione viaggiando in Europa e solitamente in Olanda, Francia e Italia. È possibile che la curiosità della regina sulla collezione di Firenze fosse stimolata da questa tradizione tedesca e che avesse avuto modo di leggere resoconti sulla collezione del Gran Duca tramite gli scritti dei viaggiatori.

Questo background personale è molto pertinente per la commissione dellaTribuna di Firenze, un’opera unica nell’arte del Diciottesimo secolo. Differisce dalle opere fiamminghe che ritraggono gallerie di quadri, non mostra un collezionista con la sua collezione, piuttosto appartiene alla tradizione delle “collezioni immaginarie” che era un genere ancora piuttosto in voga nel XVIII secolo.

Dobbiamo dunque supporre che l’ordine della regina fosse immediata in quanto essa fosse impaziente di vedere che aspetto avesse la Tribuna di Firenze184.

Sir Horace Mann aiutò Zoffany a ottenere tutti i documenti firmati dal Duca, indispensabili per

183 M. Webster, Zoffany’s painting of Charle Townley’s Library in Park Street, in “The Burlington Magazine”, vol. 106, n. 736, Luglio 1964, pp. 316-321. 184 La Tribuna fu costruita dal 1585 al 1589 dal Buontalenti su commissione di Francesco de Medici, per conservarvi i più celebri e preziosi lavori d’arte della collezione Medici.

72 poter accedere alla collezione e ritrarla, furono selezionati un gran numero di quadri e oggetti e al pittore fu dato il permesso di rimuovere alcune tele dal Pitti ed includerle nella sua composizione.185

Non sappiamo se ciò facesse parte dell’idea originaria o se si trattasse di un’illuminazione dell’artista, ma in ogni caso la riorganizzazione di Zoffany fu un lavro ragionato ed eseguito con coerenza. Coinvolse addirittura un aggiustamento in scala dei quadri e memore degli insegnamenti del Mengs di cui era stato allievo, diede grande importanza ai Raffaello contenuti in collezione186. Queste innocenti libertà che Zoffany si prese come il modo più semplice e naturale di animare le opere, facevano parte della cultura fiamminga, ma non piacquero per nulla al Re e alla Regina e anche se appare improbabile che Zoffany nonostante le licenze del genio e l’impulso alla creazione avesse fatto di testa propria e fosse indifferente al gusto dei propri protettori, i sovrani non corrisposero per la Tribuna alcun pagamento, spia di un dissidio profondo ed irrisolto. È difficile capire perché le loro maestà obiettarono su ciò che in fin dei conti era una semplice variazione vivace in un ben definito schema pittorico, ma i sovrani amavano evidentemente la resa inventariale delle figure piuttosto che l’introduzione di una vena artistica giudicata non appropriata.

L’alta società che visita la galleria ruba la scena alla collezione fiorentina, sono i visitatori i veri protagonisti della situazione, nonostante essi non ne escano necessariamente a testa alta a giudicare dal quartetto sulla destra più interessato alle natiche della bella Venere che a giudicare il resto delle opere.

Un visitatore della Royal Academy che vide la Tribuna nel 1780 disse che il quadro così accurato esercitava sullo spettatore le stesse emozioni che la galleria stessa doveva avere su coloro che vi entravano per la prima volta, la moltitudine di pezzi eccellenti contenuti in essa, confonde così tanto le idee che esse impiegano del tempo per organizzarsi prima che noi possiamo apprezzare i meriti di ogni singolo pezzo.

Non si tratta di una raffigurazione del pubblico particolarmente originale e fiabesca, anche Thomas Patch ci fornisce l’esempio di un’assemblea di gentiluomini in un’immaginaria galleria di sculture, dal taglio caricaturale e distratto.

Qui gli ospiti sembrano l’esatta antitesi dell’intenditore ben erudito di statuaria classica, le facce sono esageratamente gonfie e le dimensioni delle corporature sproporzionate, essi sono per la

185 W. L. Pressly, The self portraits of Johan Zoffany, in “The Art Bullettin”, vol. 69, n. 1, Marzo 1987, pp. 88-101. 186 Questa riorganizzazione e l’inclusione della Venere di Urbino di Tiziano fuori dalla sua cornice e in un posto d’onore, furono di certo suggerite dalle quadrerie fiamminghe del XVII secolo.

73 maggior parte oziosamente disinteressati di quell’arte che ostentano di amare ed i loro volti l’antitesi della delicata scultura antica.

Patch condivide con Zoffany quel punto di vista secondo cui la casa naturale dell’arte è in un mondo d’interazioni sociali e preoccupazioni e per l’aristocrazia inglese studiare l’arte faceva parte di un rituale sociale: osservare per essere osservati.

Quando l’artista concluse il dipinto per Townley possiamo affermare che le sue aspettative non furono deluse. L’intento non era quello di fornire una cronaca realistica della biblioteca bensì di delineare un personaggio lasciando parlare il suo ambiente quotidiano e mostrando il tipo di notabili con cui s’intratteneva, questo giustifica la licenza artistica del pittore nel riprodurre in biblioteca opere collocate in diverse zone dell’appartamento londinese. Per non perdere il filo e lasciarsi assalire da quella gran quantità di sculture antiche, occorre muovere lo sguardo di statua in statua con attenzione, ricostruirne identità e provenienza serve ad accrescerne il valore, se ci lasciassimo trasportare dalla sola sensazione d’insieme, per quanto piacevole, che esse diffondono, non saremmo nient’altro che visitatori di un museo (in questo caso su tela) distratti e grossolanamente stupiti dal numero di statue, ma incapaci di attribuirne un valore reale. Dovendo analizzare le posizioni dei vari personaggi e darne una lettura da storici dell’arte potremmo affermare ancora una volta che tra il padrone di casa e il d’Hancarville c’era un’affinità intellettuale e culturale che sorpassava di gran lunga i punti di contatto con gli altri personaggi. Sono entrambi seduti, intenti a leggere dei libri, di sicuro il conte francese aveva una certa proprietà di linguaggio oltre che teorie proprie sull’interpretazione dell’arte antica che affascinarono Townley a tal punto da persistere anche dopo la partenza del presunto aristocratico per Parigi nel 1785.187 Zoffany mostra i due uomini in un’impegnata discussione riguardante i manoscritti aperti sulle ginocchia di uno e sul tavolino cui si appoggia l’altro. Il ritratto del D’Hancarville –fronte aggrottata segno di grande concentrazione- suggerisce che la sua reputazione di studioso serio e preparato fosse davvero attendibile. Dietro di lui in piedi c’è Thomas Asle, che conversa con Charles Greville, il cui braccio poggia accanto al busto di Clitya188 (fig. 31), bella ma gelosissima dea che fu trasformata in girasole.

187 La presenza del d’Hancarville è indagata da Dallaway che indica il suo arrivo in Inghilterra a partire dal 1784. Vedi: J. Dallaway, “Biographical Memoirs of the late Charles Townley”, The general Chronicle and Literary Magazine, V, 1812, p. 284. 188 Il busto di Clitya era l’opera che Townley amava maggiormente ed era solito riferirsi a essa come ad una moglie. Lo fece incidere sui suoi biglietti da visita assieme ad altre due opere che gli erano particolarmente care, Pericle e Omero. Quando nel 1780 al tempo delle proteste anti-cattoliche Townley dovette abbandonare la sua casa in fretta e

74 Zoffany continuò a lavorare al quadro di Charles Townley fino al 1789 circa189, ogni tanto vi ritornava su ritoccando, aggiustando, aggiungendo opere e nuovi acquisti. Le acquisizioni più recenti furono la Sfinge (fig. 32), visibile sullo sfondo a destra e il busto di Omero proveniente da Napoli per intercessione di William Hamilton e ottenuto al prezzo di 80 sterline, fu Townley in persona in questo caso a pregare il pittore d’inserire le due opere nella sua biblioteca. Il 1782 è anche l’anno in cui Jenkins chiude l’ennesimo affare con Townley, gli procurò quella testa di Minerva che appare quasi incastrata tra l’assiepamento di statue che la circondano, in realtà i toni scuri del bronzo le danno i mezzi per risaltare tra i marmi pallidi e soprattutto per creare uno splendido pendant con il cane, l’amato cane del padrone di casa che fa da perfetto contraltare. L’occhio impiega un po’ a cogliere il gioco di sguardi tra il cane Kam e la dea della guerra, ma una volta scoperto, cattura l’attenzione e celebra bravura e furbizia dell’autore. Mescolando realtà e immaginazione, Zoffany ha trasformato l’ordinata e immacolata biblioteca di Townley in uno spazio che ha molto in comune con il sovraffollato ufficio di un entusiasta commerciante d’arte: un mix visuale di seri conoscitori fino ad arrivare a un’informalità magnificamente resa che permea la superficie riccamente decorata del quadro. Per evitare che l’ampia presenza di marmi bianchi rendesse l’opera troppo fredda, il pittore restrinse l’uso del bianco alle figure viventi così come ai due manoscritti di Townley e d’Hancarville. Decise poi di imprimere un certo calore alle sculture stesse facendo uso di una tinta color ocra, una scelta molto criticata quando il quadro venne esposto alla Royal Academy nel 1790. Zoffany fa grande attenzione con il suo giudizioso uso del colore affinchè Townley e i suoi compagni non siano smarriti tra i marmi, sminuiti da essi, pertanto sottolinea alcuni particolari come il cappello calzato ad un bastone dietro la sedia di Townley -una versione del tradizionale furia mise in salvo solo il suo gabinetto di gemme e dando un’ultima malinconica occhiata ai suoi marmi afferrò il busto di Clitya e lo porto con sé. Vedi: J. Dallaway, op. cit., p. 282.

189 Nel 1790 fu esibito alla Royal Academy, dove figurava come la riproduzione di una collezione ed è stato generalmente sostenuto che l’autore l’abbia portato a termine nello stesso anno o almeno nel 1789 e considerando che il pittore partì per l’india nel 1783 e non ritornò in patria prima di sei anni, il dipinto ovviamente è da collocarsi in un lasso temporale che preceda il 1783.

Fortunatamente possiamo stabilire che l’opera è nel 1782 grazie a quanto il Dott. Thomas Withaker intimo amico e vicino della famiglia Townley nel Lancashire, dichiarò nella seconda edizione della sua ‘storia di Whalley’: “At the time of his death a magnificient plate of one apartment in his museum, from a painting by Zoffany, was, as it is yet, under the engraver’s hands. It contains a tolerable likeness of himself at forty-five…”. Vedi: T.D. Whitaker, an History of the Original Parish of Whalley, London 1806, p.486.

75 simbolo romano di libertà- come a suggerire che il numero 7 di Park Street fosse una specie di Luogo della Libertà dedicato alla repubblica dell’apprendimento. Queste accortezze possono essere giustificate dal fatto che per Zoffany non si trattava di un semplice promemoria delle statue e per essere precisi nemmeno la Tribuna degli Uffizi era una banale registrazione della collezione del Grand Duca di Toscana, piuttosto uno studio delle relazioni tra i soggetti umani raffigurati. Le ipotesi che giustificano intento e destinazione del quadro non si chiudono qui, ma al contrario danno adito a una serie di altre possibili letture tra cui quella che vede come protagonista assoluto il Barone d’Hancarville, desideroso di promuovere sé stesso e le proprie teorie. Townley e d’Hancarville avevano pianificato la stesura di un catalogo a quattro mani che trattasse delle principali collezioni di antichità inglesi, ma di lì a poco il carattere incostante del barone lo spinse verso un altro lavoro e così nel 1781-82, d’Hancarville abbandonò i precedenti progetti per dedicarsi alla sua Recherches, dove cercò di identificare e spiegare la teologia universale primitiva che egli credeva si nascondesse dietro l’immagine dell’arte antica e che potesse essere indagata -lo suggerisce il titolo dell’opera- tramite lo studio dell’arte nelle differenti culture, un approccio comparativo ad ampio respiro, unito allo studio delle più grandi civiltà umane fecero dell’opera un lavoro rimarchevole.

Proprio il Barone ci fornisce una notevole mano d’aiuto nel delineare il profilo da collezionista di Townley, nel Discours Préliminaire della sua Recherches indirizza a Townley questo scritto: “Le précieuse Collection de monumens antiques, que vous avez rassemblés avec tant de soins, fait à présent l’un des ornemens de votre patrie e, elle en seroit un pour l’Italie même. Le plaisir que vous avez à en partager la jouissance avec tous les amateurs & les curieux, m’ajant mis à portée de l’ètudier comme il le falloit pour en faire la description, les idées que cet ouvrage m’a fait n’aitre, les exemples qu’il a fourni à celui-ci, les reflexions que vous m’avez communiquées dans les différens voyages que nous avons faits ensemble, pour examiner les plus beaux morceaux apportés de Gréce & d’Italie en Angleterre, enfin les difficultes memés que souvent vous m’avez faites, sur le choses contenues dans ces recherches, m’engagent aujourd’hui à vous les adresser: si comme je le souhaite elles peuvent devenir utiles aux Arts, ils vous en auront obligation, car sans vous, je n’eusse osé entreprendre de les ècrire, mais j’aurai répondu à vos desirs, si les miens sont remplis à cet égard.” Queste parole provano l’effettiva esistenza di un grande feeling tra i due e ci presentano un Townley dalla mente frizzante e critica, a quanto dice il d’Hancarville era stato Townley a spingerlo a scrivere la sua Recherche e se questa fosse risultata utile alla storia delle arti sarebbe stato solo suo merito. Potremmo immaginare i due

76 uomini seduti nella biblioteca come ce li mostra Zoffany, su quelle stesse poltrone intenti a mettere in cantiere nuove idee editoriali e commentare acquisizioni e novità della collezione.

Tutto ciò ci viene inaspettatamente in aiuto nell’interpretare la composizione di Zoffany, poiché Townley non commissionò il quadro, e indicò nelle lettere a Byres che il pittore era libero di selezionare le antichità da inserire, forse fu proprio il d’Hancarville a scegliere assieme al pittore le sculture da immortalare e che oltre a rendere omaggio al loro amico comune e patrono, ci fosse il tentativo di definire il posto del d’Hancarville nell’ambiente antiquario londinese, l’ipotesi che il quadro celebrasse deliberatamente il Barone non sembra poi così insensata.190

Tutte le principali statue della collezione di Townley che illustrano al meglio le sue teorie sono raggruppate insieme, la Venere, il vaso con immagini legate ai baccanali, il busto della Clitya, il Fauno ubriaco e il gruppo di Ninfa e Satiro, statue il cui significato fu totalmente reinterpretato da Townley sotto l’influenza di d’Hancarville.

Il principale oggetto di discussione sembra essere il busto di Clizia che si trova accanto al tavolo di scrittura del Barone. Sappiamo da alcuni appunti appartenuti a Townley che alla metà degli anni Ottanta del Settecento si formularono altre ipotesi d’identificazione, da Agrippina a Libera (la donna di Bacco), da Clizia fino a Iside così da incarnare il crescente interesse dell’aristocratico francese per l’esoterismo.191

La terza possibilità d’interpretazione porterebbe in primo piano l’autore stesso: si sa che Zoffany ideò un allestimento delle opere irreale e che molte delle grandi statue occupavano il piano inferiore e non furono mai spostate.192

Nell’agosto del 1798 Zoffany presentò l’opera completata a Townley, appena prima di partire per l’India e Townley si trovò in grande imbarazzo nel ricevere un regalo di tale pregio ma si persuase ad accettarlo dopo aver accordato una sorta di patto con il pittore: il collezionista avrebbe ricoperto il ruolo di fiduciario nei patti matrimoniali di Cecilia Clementina e Maria Theresa, le due figlie di Zoffany.193

Da lì in avanti Townley maturò il desiderio di fare incidere il quadro e nel 1802 sono annotate nel suo diario varie visite al laboratorio di Stow mentre nell’agosto dello stesso anno agosto gli

190 G. Vaughan, The Townley Zoffany: Reflections on Charles Townley and his friends, in “Apollo” vol. 144, novembre 1996, pp. 32-35. 191 G. Vaughan, ivi, pp. 32. 192 I registri di Townley riportano all’inizio del 1783 vari pagamenti al suo capomastro, assoldato per trasportare in biblioteca alcune figure per Zoffany, così da permettere al pittore di stabilire relazioni spaziali e di prospettiva che giovassero al risultato finale del lavoro. Vedi: B. F. Cook, The Townley Marbles, London 1985, p. 19. 193 G. Vaughan, op. cit; 1996, p. 37.

77 lasciò una dettagliata lista di tutte le opere riprodotte.194 Il processo d’incisione era lungo e complesso e il lavoro rimase inconcluso alle date di morte di Zoffany e Townley.

È dunque lecito domandarsi come mai Zoffany regali il quadro a Townley, vi lavori così a lungo e con passione e perchè si fosse prodigato così tanto per esaudire il desiderio del collezionista di possedere l’opera incisa, forse ciò che si voleva mostrare era il gruppo cosmopolita di studiosi entro il quale il pittore si muoveva, costruirsi un biglietto da visita che lo identificasse non solo come artista, ma anche come uomo di lettere, avvezzo a frequentare il circolo intellettuale di Park Street195.

Alla luce di quanto detto potremmo dunque essere portati a pensare che la vita di Townley fosse un continuo dialogare d’arte con i suoi pari, un continuo svolgersi d’incontri ed interazioni sociali, di ore spese a scambiarsi lettere con i suoi agenti per tenersi aggiornato da Londra su nuove scoperte e possibili acquisti.

Una descrizione del genere va presa con la dovuta distanza, difatti se in parte tale ritratto potrebbe effettivamente corrispondere alla figura di Charles Townley, esiste un altro aspetto di quest’uomo da indagare, un lato giocoso, quasi boccaccesco. Anche in questo caso per visualizzarlo appieno chiederemo aiuto a un’altra opera pittorica il cui autore è Richard Cosway, Townley contornato da un gruppo di conoscenti ammira le pudenda e le natiche di una Venere a Park Street fig. 33). A quanto pare l’uomo aveva mediato il matrimonio del pittore con la moglie Maria Hadfield, in più i due inglesi si erano scambiati numerose lettere in cui comparavano le qualità estetiche delle donne italiane e delle inglesi.

Townley amava dunque seguire uno stile di vita dissoluto che comprendeva nell’ordine, assecondare il proprio vizio per le donne, bere e darsi al gioco d’azzardo e redarre di suo pugno versi indecenti da leggere in presenza del suo gruppo di amici.

La personalità di Charles Townley collezionista attento e preparato differisce dunque dal lato leggero e scherzoso che mostrava tra gli amici di vecchia data, eppure le due sfere del suo carattere non entrarono mai in conflitto e nell’attività di collezionista d’arte si comportò sempre con grande serietà.

194 La lista in questione è quella in possesso della Townley Hall Art Gallery, pubblicata da M. Webster, op. cit., p.320. 195 In fin dei conti i motivi che supportano le due letture secondo cui il quadro di Zoffany fosse un tributo per il d’Hancarville o per il pittore stesso sono identici: dimostrare di essere personaggi in vista ed addentro al mondo erudito che contava.

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3.2. L’allestimento della collezione di Charles Townley al numero 7 di Park Street

Per farci aprire le porte della casa Museo di Charles Townley a Londra dobbiamo solo sperare che qualcuno abbia immortalato in pittura quegli ambienti, altrimenti il nostro livello di conoscenza del personaggio rischia di rimanere in superficie e di non fare mai quel passo in avanti che ci permetterà di “afferrarlo” pienamente.

Fortunatamente ci viene in aiuto William Chamber con due acquerelli che riproducono sala da pranzo e ingresso di Park Street196, eseguiti tra il 1794-95 e conservati al British Museum. (figg. 34-35) La casa divenne uno dei “must see” londinesi e Chambers ce ne da prova collocando all’interno della stanza alcune persone intente a scrutare le statue, consultare una guida o fare qualche schizzo. L’ingresso è decorato con un rosso pompeiano acceso, il soffitto adornato con affreschi in tromp d’oeil raffiguranti columbaria riempiti con busti sepolcrali e vasi. L’organizzazione simmetrica delle sculture disposte contro il muro della sala conferisce un’aria ordinata all’esposizione e non ruba la scena alla Sfinge che la fa da padrona. Si tratta di una

196 A. Wilton, I. Bignamini, Grand Tour : the lure of Italy in the eighteenth century, London 1996, pp. 129-130.

79 Sfinge197 con testa femminile e corpo da Levriero offerta al collezionista di Londra da Thomas Jenkins, il quale ancora una volta mise in moto le sue doti di venditore inviando a Townley un paio di disegni della Sfinge, così da fare innamorare il cliente dell’opera e renderne indispensabile l’acquisto, difatti l’affare fu concluso nei due anni successivi, nonostante la scultura fosse parecchio danneggiata e incrinata, ma la cosa non sembrò turbare l’acquirente più di tanto, egli asserì che nonostante non la ritenesse una scultura di prim’ordine il soggetto lo aveva attratto, suscitandosi particolare interesse e simpatia. A questo punto è naturale domandarsi invece da dove provenisse la fronte del pozzo che eleva la sfinge offrendola insistentemente allo spettatore. Si tratta di un puteale decorativo inciso con quattro scene erotiche aventi come protagonisti Ercole, Onfale, satiri, ninfe e un’ermafrodita.198 A palazzo Colombrano ce n’era uno di una coppia: l’altro si pensa che fosse conosciuto già nel Rinascimento prima di prendere la strada di Roma dove fu venduto da Jenkins a James Hugh Smith Barry of Marbury Hall, che intraprese il Grand Tour nel 1771-76 e nel 1772-73, fu compagno di viaggio di Townley in Sicilia e nel sud Italia durante la seconda visita italiana del gentiluomo di Burnley. Smith Barry diede il permesso a Jenkins di trasformare il suo puteale in un vaso ornamentale. Il cosiddetto Vaso di Jenkins raffigura il matrimonio di Paride ed Elena a cui partecipano Eros e le Muse. Soddisfatto del risultato, il commerciante scrisse a Townley per convincerlo a fare lo stesso con il proprio, ma a quanto possiamo vedere egli resistette e lo collocò come base del Satiro e la Ninfa, il gruppo scultoreo acquistato sempre dal Jenkins durante il viaggio a Roma.199 Successivamente questa scultura fu posizionata in una nicchia nella biblioteca a Park Street e così il suo posto sul pluteale fu preso dalla Sfinge. Sulla sala da pranzo disponiamo della testimonianza di Pierre François Hugues d’Hancarville, che ci lascia una descrizione esatta dello schema decorativo e iconografico della stanza, beneficiando della traduzione in inglese di John Townley, zio di Charles , questo racconto si presenta in maniera stringata ma quanto mai semplice ed attendibile: “The aim in the decoration of this room was principally to recall the eye in particular upon each of the marbles which it contains, and for that end it is attempted to fix the view betwixt the spaces shut in by the columns, which being of a dark red colour, prevents the sight from wandering upon too many

197 La storia dell’opera è già stata trattata in questa tesi. Vedi Capitolo 2. 198 Le residenze imperiali di Capri furono esplorate accuratamente del Diciottesimo secolo ed è probabile che questo pluteale possa provenire dall’isola.

199 B.F. Cook, op. cit; 1985, p. 20.

80 objects at once. These columns appearing dark upon a blue ground, calculated to bring out the marbles, prevents their being confused with objects adjoining. This disposition does not take from the room the character of what it was destined for, the use of the table; all the ornaments are relative at the attributes of those Gods, who where supposed by the ancients to preside over the festive board. The Ionic columns in scagliola perfectly resembling porphyry, support an entablature, the frieze of which is ornamented with festoons of ivy, and trophys composed of the instruments used in orgies. The capitals of the columns are taken from an ancient model found at Terracina; the ove is covered with three masks representing the three kinds of ancient drama, the comic, tragic and satyritic, supported by a bead of pearls; the abacus is ornamented with an Ivy branch; the volutes form a cornucopia from whence usher forth ears of Corn and Ivy leaves, plants consecrated to Bacchus and Ceres; a flower forms the eye of the volute, which terminates in a Pine cone. The choice and disposition of these ornaments leaves no doubt that this capital was intended to characterise a building consecrated to Bacchus and Ceres, whose feasts and Mysteries were celebrated together in the famous temple of Eleuisis.”200 Quanto dichiarato da d’Hancarville a proposito del capitello di Terracina (fig. 36) proviene da un disegno pubblicato da Vincenzo Brenna. Questo interessante documento riporta una scritta sul retro fatta per mano dello stesso Townley che sostiene: “The Capital lying amongst the ruins of an ancient temple at Anxur, now called Terracina was discovered and drawn by Vincenzo Brenna, archit., in our journey to Naples Mar. 1768, and is since published by Piranesi amongst his Ornamenti Antichi. C.T.”201 Entro questo ambiente le sculture erano esibite, per citare le parole di Dallaway: “with an arrangement classically correct, and with accompaniments so admirably selected, that the interior of a Roman Villa might be inspected in our own metropolis”. Appena sulla destra rispetto alla porta d’ingresso della sala compare uno scudo di marmo con su scritta una lista di Efebi (giovani ragazzi che ultimavano la loro educazione) fornito da Lyde Browne, al pari del rilievo con Santippo, datato intorno al 430 a.C ., l’unico originale greco del V secolo in tutta la collezione di Townley. Si conosceva all’epoca talmente poco sulle sculture autentiche che egli l’acquistò per soli £20, una cifra irrisoria se paragonata a spese colossali effettuate dallo stesso uomo per aggiudicarsi falsi e manomissioni clamorose.

200 B. F. Cook, op. cit., 1985, p. 8.

201 L. Tedeschi, “Il mio singolar piacere” in 18 missive di Vincenzo Brenna a Charles Townley e a Stanislaw K. Potocki, in P. Angelini, N. Navone, L. Tedeschi (a cura di) La cultura architettonica italiana in Russia da Caterina II a Alessandro I, Mendrisio 2008, pp. 453.

81 Appare tuttavia curioso che un collezionista come Charles Townley, discendente da una ricca casata e piuttosto ambizioso a quanto risulterebbe dai tasselli messi insieme fin qui, si fosse accontentato di esporre le proprie opere nella dimora di Londra senza mai sognare la grande galleria espositiva, senza progettare un luogo che ponesse le base del vero museo, il luogo d’esposizione delle opere distaccato dalle sale abitate familiarmente. Esiste infatti una lunga storia fatta di bozze, progetti respinti ed azzardi moderni, pur di accontentare il collezionista. I fratelli Adam diedero un forte contributo alla formulazione della scienza che si occupava dell’allestimento della statuaria classica nelle grandi case di campagna degli anni sessanta del Settecento e nel corso del decennio successivo essi produssero una serie di disegni per sistemare il museum-cum-galleries di Charles Townley.202 I disegni per gallerie con sculture provenienti dall’ufficio degli Adam dimostrano la loro dipendenza da fonti antiche, registrate o riprodotte durante i soggiorni romani, al fine di utilizzarle come spunto nel creare prototipi di gallerie contemporanee. Sebbene i due fratelli fallissero nell’assicurarsi Townley come cliente, due degli altri architetti cui aveva commissionato di disegnare possibili pianificazioni per la sua collezione, avevano in precedenza lavorato nello studio degli Adam e i disegni che essi eseguirono risentivano chiaramente di questa esperienza. Gli Adam compirono un percorso di crescita e cambiamento d’indirizzo artistico visibile nelle loro opere: alla Kedleston Hall Robert Adam cercò di far rivivere il gusto dell’antica Roma con nicchie, statue e pilastri. I prototipi eseguiti sul modello dell’architettura pubblica romana richiamavano da sé la presenza di gessi posizionati in maniera simmetrica lungo la parete dell’entrata, molto più semplici da disegnare e concepire piuttosto che una quantità variegata di sculture dal genere misto e dunque più complesso da riprodurre in bozza.203 In più Lord Scarsdale aveva acquisito la sua collezione di ventuno busti-ritratti e gessi negli ultimi anni 50 del secolo e sia Stuart che Payne, architetti che avevano preceduto Robert a Kedleston, avevano prodotto disegni sul genere,204 il cliente in fin dei conti dettava legge e gli architetti per ottenere le commissioni seguivano il gusto del momento comportandosi di conseguenza.

202 R. Guilding, Robert Adam e Charles Townley. The development of the top-lit sculpture gallery, in “Apollo” 1996, p. 29. 203 R. Guilding, ibidem. 204 J. Kenworthy-Browne, Designing around the Statue Mattew Brettingham at Kedleston, in “Apollo” MCXXXVII, no 374, Aprile 1993, p.250.

82 Già quando nel 1764205 gli Adam crearono per loro stessi una galleria di sculture, lo stile cominciò a divergere rispetto a quanto fin qui elencato: il Casino creato dietro la loro casa di Lower Grosvenor Street era un ottagono di circa 8 metri, completo di cupola, simile a quella del Pantheon, e nicchie contenenti sculture su piedistalli collocate tra i pilastri, le pareti invece erano decorate da fogliame e lavori in grottesco. La rotonda si raggiungeva attraverso un’area seminterrata sui muri della quale era disposta la collezione di frammenti antichi di Robert Adam, in maniera tale da ricordare i cortili dei palazzi italiani, e serviva a disporre la collezione di statuaria classica di James Adam raccolta in Italia. Questa descrizione ci dimostra che sebbene la forma base di una rotonda con nicchie fosse vicina al Pantheon di Kedleston, lo stucco in stile arabesco rivela che furono prese a modello le Stanze Vaticane, Villa Madama e fonti simili. Il Casino spiegava fisicamente e visivamente cosa essi avevano portato a termine durante i lunghi anni italiani del Gran Tour e gli standards critici che avevano imposto alla loro nuova architettura. Più in generale, la costruzione mostrava che il Grand Tour non era stato solo un viaggio quanto uno stato d’animo e gli oggetti che l’edificio presentava altro non erano che le pietre miliari di questo percorso.206 Quest’affastellamento di decorazioni attuato nei disegni per il Casino anticipava quanto farà Robert Adam per la galleria di William Weddell a Newby, disegnata attorno al 1767. Come a Kedleston l’Adam ottenne la commissione in ritardo e dovette rimaneggiare un lavoro già impostato da John Carr. La sua soluzione sembra prendere spunto da svariate fonti, ma la loggia decorata di Villa Madama fu innegabilmente innalzata a linea guida per la galleria di Newby, cui affianchiamo gli splendidi soffitti incrostati di mosaici e rilievi antichi visibili a Villa Albani, dove i due fratelli Adam erano stati ricevuti più di una volta.207 Questi progetti costituiscono quel bagaglio d’esperienza con cui i fratelli Adam arrivarono ad affrontare la realizzazione di una galleria per Charles Townley verso la metà degli anni Settanta. I due schizzi per la Townley Room a Portland Place208 sono menzionati in tante lettere scambiate tra Townley e gli Adam tra il 1777-1779209, ove nell’ultima epistola richiedono il saldo del lavoro eseguito. Il carattere fattivo ed entusiasta di Townley si manifestò anche in quest’occasione, sebbene avesse ammirato la bozza di progetto che gli fu presentata, non poté fare a meno di sottolineare

205 Dal 1761 al 1764 gli Adam lavorarono alla Syon House utilizzando per una disposizione di statuaria classica mista a gessi e copie, dividendo le opere in tre spazi connessi tra loro e collocati entro la struttura antica della casa. Era stato pianificato un nuovo spazio –una rotonda con pilastri accoppiati e nicchie per le statue-, ma non fu mai eseguita. 206 A.A. Tait, The Adam Brothers in Rome. Drawings from the Grand Tour, London 2008, p.16-17. 207 L. Lewis, Conoisseurs and secret agents in Eighteenth Century Rome, London 1961, pp. 23-24.

209 R. Guilding, Robert Adam e Charles Townley. The development of the top-lit sculpture gallery, in “Apollo” 1996, p. 28.

83 che per quanto l’idea che gli veniva presentata fosse ammirevole, non era il tipo di dimora a lui adatto e che al massimo sarebbe potuta risultare ottimale per una famiglia, ma non per un collezionista. A seguito di questa “bocciatura” Mr. Nasmith, un lavorante degli Adam, gli propose un nuovo schizzo dotato di una magnifica sala con lucernario, una soluzione che si sperava potesse rispondere alle richieste del cliente, ma così non fu e la bozza venne respinta. Mentre riceveva i disegni dei fratelli Adam, il nostro collezionista aveva quasi chiuso il contratto per l’acquisto della dimora a Park Street,210 dove pianificò un’ambiente raccolto e sobrio, volto ad incentivare lo studio e la riflessione; non ci sorprenderemo dunque nel sentire che l’accordo con i due disegnatori saltò, si trattava di una fine inevitabile perché Townley e gli Adam viaggiavano su due binari divergenti, la statuaria dispiegata in maniera ordinata e simmetrica, accessorio architettonico e decorativo non piaceva al collezionista che concepiva la disposizione della propria collezione in maniera meno schematica, aspirando ad una soluzione che accendesse i riflettori su ogni pezzo così da creare una sorta di interazione tra le sculture ed i visitatori, non ridurle a puro elemento estetico. Sebbene quasi tutte le opere di Townley furono restaurate o integrate, egli non permise che fossero modellate in base ad una necessità espositiva prestabilita e la sua filosofia dell’allestimento secondo la quale i pezzi godevano di una preziosa individualità che sarebbe stato superficiale distruggere tramite una sistemazione volta a creare criteri associativi, lo avvicinava alle regole dei primi musei pubblici del Diciannovesimo secolo, conferendogli un’intelligenza e lungimiranza davvero ammirevoli. L’architetto di cui Townley si servì per la sua casa a Park Street fu Samuel Wyatt, che disegnò alcune camere dotate di lucernario sul soffitto, ciò che Townley non aveva ottenuto dagli Adam in definitiva, anche se ad essere onesti Wyatt riversa in questa commissione quanto aveva imparato presso Kedleston sotto le direttive dei due fratelli, in qualità di mastro carpentiere prima e direttore dei lavori poi. In cantiere aveva visto il progetto di James Paine per un grande atrio che prevedeva una sequenza di fonti di luce posti lungo il soffitto, ma Adam trasformò l’idea nel solita sequenza di atrio e vestibolo con pilastri e nicchie. Nell’ingresso di Park Street invece, dove non poteva essere sistemata alcuna fonte luminosa sopraelevata, l’acquerello di William Chamber mostra la costruzione di una teatrale volta a botte

210 Le incomprensioni con gli Adam fecero si che le trattative per l’acquisto di Portland Estate fallirono e Townley si trasferì a Park Street nel 1778. Al momento dell’acquisto la casa non era assolutamente terminata e dunque l’aspetto che assunse di lì a poco fu del tutto opera di Townley che la fece rifinire esattamente secondo il proprio gusto. A.H.Smith, op.cit., 1985, p.20.

84 con lucernario centrale di forma rettangolare con antichi frammenti e vasi canopi apparentemente ospitati nelle sporgenze superiori. Nel 1783, stufo dell’angusta residenza londinese, Townley pianificò una spaziosa rotonda ovale per sistemare la sua collezione di sculture nel luogo d’origine, a Burnley nel Lancashire, così da completare l’assetto delle stanze neoclassiche che si era fatto costruire da John Carr tra il 1767 e il 1779, posizionate nell’ala sud-est della residenza. Il libro dei conti di Townley riporta che il 24 agosto 1783 pagò 5 ghinee all’architetto Giuseppe Bonomi per aver riprodotto il suo schizzo con le modifiche da apportare a Towneley per accogliere i marmi.211 Sebbene la rotonda non fosse mai stata eseguita, il disegno del Bonomi non solo sopravvive in collezione privata ed è tutt’oggi visibile, ma all’epoca dei fatti fu esposto alla Royal Academy.

La decorazione è concentrata laddove comincia la volta della cupola e continua al di sopra delle nicchie con un’intensa lavorazione a grottesche, mentre la porzione di parete al di sotto della cornice rimane totalmente semplice poiché destinata ad ospitare frammenti antichi, bracci per sorreggere i busti e nicchie per accomodare urne cinerarie; le statue invece imitando la moderna soluzione del museo Pio-Clementino erano raggruppate in maniera libera e non costrette entro alcuna nicchia, una modalità che sarebbe stata inconcepibile nell’ambiente domestico di Park Street.212 Il modello espositivo adottato ai Palazzi Vaticani fece scuola e il fatto che fossero diventati negli anni 80 del Settecento luogo d’incontro dell’élite europea, agevolò la circolazione di quelle idee che influenzarono lo sviluppo dei primi musei nazionali europei, che fecero proprio il prototipo del Pantheon come punto d’inizio. Quando nel 1802 fu pianificata un’estensione della Montagu House213 per sistemare le nuove acquisizioni di scultura egizia, Townley si riunì a Park Street assieme a Joseph Banks (Presidente della Royal Society) e Thomas Astle proprio per decidere il da farsi e studiare i metodi espositivi che rendessero maggior giustizia alla nuova raccolta in arrivo.214 Un altro tassello che va a delineare sempre più il punto di vista non ortodosso di Townley e il modo in cui giudicava la sua collezione, sono alcune lettere inviate da James Byres nell’intento

211 S, Bourne, An Introduction to the Architectural History of Towneley Hall, Burnley 1979, p.21.

212 C. Piva, Restituire l'antichità : il laboratorio di restauro della scultura antica del Museo Pio-Clementino, Roma 2007; G.P. Consoli, Il Museo Pio-Clementino : la scena dell'antico in Vaticano, Modena 1996. 213 Montagu House fu la prima residenza del British Museum e fu demolita nel corso degli anni 40 del XIX secolo poiché non riusciva più a contenerte la crescente collezione d’antichità del British. Per altre informazioni sui cambiamenti degli edifici del Museo vedi: D.M. Wilson, The British Museum. Purpose and politics, London 1989, pp. 74-88. 214 I. Jenkins, Archaeologists & Aesthetes in the Sculpture Galleries of the British Museum1800-1939, London 1992, p.102.

85 di vendergli alcuni camei da esporre a Londra. Byres cita il sistema mitologico215 proposto dal d’Hancarville, il cosiddetto Great System, che nell’opera Recherches sur l’originr, l’esprit et lès progrès des arts de la Grèce dedicata a Townley, espone una teoria ‘mitografica’ basata sulla comparazione dei culti legati alla fertilità in uso in Oriente ed Occidente, mentre nell’introduzione decanta le virtù della collezione di Townley; allo stesso modo Richard Payne Knight aveva utilizzati molti oggetti delle stanze di Park Street per illustrare il suo Account of Priapus. Ci sono alcune prove che suggeriscono la scelta di Townley di far proprie le teorie del Barone, non solo nell’interpretazione della collezione, ma anche nel modo di esporre la stessa, usando i cataloghi scritti a mano che forniva ai visitatori per discutere la sua raccolta nell’ambito del ‘Grande Sistema’, il pubblico amava lasciarsi guidare dal padrone di casa e nutrirsi di qualsiasi storia ci fosse dietro i pezzi che li circondavano. Anche in Italia d’altronde dipinti e sculture venivano installate nelle residenze nobili e l’accessibilità dei visitatori variava in base alla riservatezza dei locali ove le opere erano ospitate. Si tendeva a esporre le grandi collezioni in luoghi appositamente progettati o comunque destinati al solo allestimento di oggetti d’arte. Nella Roma post-rinascimentale le quadrerie erano solitamente esposte nei palazzi urbani, come fu notato da John Moore, uno studioso che accompagnò il Duca di Hamilton in un Grand Tour dal 1775 al 1776. Moore disse che a Roma c’erano almeno trenta palazzi i cui muri erano talmente pieni di quadri da non poterne sopportare il peso.216 Si è temporeggiato nell’inserire la biblioteca di Park Street nel novero delle stanze della casa di Townley di cui possediamo una testimonianza visiva, ma in un discorso tematicamente congegnato, ove il filo d’Arianna è stata la disposizione delle opere, analizzare il display di una biblioteca artificialmente riprodotta non sembra del tutto utile.

La folla affascinante di statuaria classica proposta da Zoffany propone un ambiente fortemente idealizzato, ove quasi nessuna collocazione è fedele e il disordine d’oggetti è voluto dal pittore per dare un volto a questa vita di erudito collezionista di Charles Townley. Se fosse stato un commerciante d’arte piuttosto che lo scatenato acquirente che fu, vedendo l’opera potremmo pensare alla locandina pubblicitaria della sua bottega mentre sembra piuttosto essere una stereotipizzazione dell’esistenza da amante dell’arte. Di per sé la cosa funziona, nel senso che il messaggio è immediato, semplicemente non fornisce informazioni esatte sulla disposizione delle

215 I. Bignamini, C. Hornsby (a cura di), Digging and dealing in eighteenth-century Rome, New Haven 2010, vol. II, p. 177-178. 216 J. Moore, A view of society and manners in Italy: with anecdotes relating to some eminent characters, London 1781, pp, 121.

86 opere, basterà infatti dare uno sguardo alle pareti o alla mensola sopra il camino per rendersi conto che quegli stessi oggetti li abbiamo visti nei due disegni di William Chamber in altre sale della casa.

3.3. Gli ultimi acquisti e il passaggio delle opere al British Museum

Il catalogo di una collezione è strumento fondante, ora come allora, per ricostruire il passaggio di opere in tempi passati e tracciare i movimenti delle stesse.

La lista del 1782 fa da riferimento temporale per l’arrivo in collezione di un piccolo busto di Venere acquistato dal Cavaceppi, due busti di Bacco in marmo giallo conosciuto come giallo antico ed un console accompagnato da una Vittoria procurato da Piranesi a fronte di un pagamento di £100, assente invece un busto di Minerva acquistato da Jenkins per la stessa cifra e visibile sullo sfondo dell’opera di Zoffany ad estrema sinistra.

Dal 1783 in avanti gli acquisti di Townley furono relativamente pochi; per la scoperta del busto di Pericle rinvenuto da Gavin Hamilton nei pressi di Tivoli vengono addotte datazioni varie, ma una licenza d’esportazione è datata 20 aprile 1784.217

In una lettera del 3 luglio 1781 Hamilton dopo essersi scusato per il suo lungo silenzio dovuto a “An Argue of malignant nature”,218 nomina al suo cliente l’erma di Pericle, definendola ben conservata e di valore, non sappiamo poi se si tratti di una mossa di mercato o meno fatto sta che nelle righe successive spiega come avesse promesso il busto anche all’Earl of Bristol che si era

217 B. F. Cook, op. cit., 1985, p. 218 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit., vol.II, p.136.

87 mostrato molto interessato, al contrario di Townley che fino a quel momento non era parso smanioso di aggiudicarsi il pezzo. Del 1785 è un disco di marmo, oscillo, (fig. 37) con la testa di un satiro, un ramo d’edera e un altare dal rilievo davvero appena pronunciato;così come altri oggetti commerciati da James Byres, anche l’oscillo non è registrato tra le entrate del catalogo, bensì sono segnati su fogli con filigrana differente, altri ingressi in questi fogli includono oggetti comprati all’asta nel giugno 1785 e luglio 1786. Tuttavia le date sembrano arrestarsi al 1786, una delle ultime è la Cariatide219 alta più di 2 metri, trovata vicino la Via Appia, durante il pontificato di Papa Sisto V, si trovava a Villa Montalto-Negroni accanto ad una versione identica, fu Jenkins a trattare i prezzi delle due statue destinandone una a Townley e l’altra al Vaticano. Si tratta di un pezzo piuttosto celebre, inciso da Piranesi e studiato da Winchelmann; l’incisione di Piranesi mostra la Cariatide e altre statue incorporate in un portico di un piccolo tempio, come scrisse Townley si trattava di una ricostruzione pensata da Piranesi, ma per quanto la composizione fosse ingegnosa non esisteva alcuna prova che potesse sostenere le sue supposizioni.

L’arrivo della statua a Park Street fu l’occasione per risistemare l’opera nella sala da pranzo dal catalogo del 1782 se ne evince che la Venere di Ostia perse la posizione di preminenza di cui godeva di fronte al caminetto, per sistemare la cariatide e furono messe una accanto all’altra ed innalzate da due piedistalli, provenienti da un sarcofago sempre a Villa Montalto, Townley ne acquistò anche la fronte che fu esibita sulla parete sinistra dell’ingresso di casa, finchè i tre pezzi non vennero riuniti al British. La Cariatide appare registrata con altri oggetti provenienti dalla Villa in un registro dato da Jenkins a Townley ma l’inchiostro differente usato per annotare questi oggetti suggerisce che essi fossero aggiunti dopo l’iniziale stesura del registro che sembra essere del 1783.

Un altro acquisto da Villa Montalto che fu motivo di rivisitazione dell’ingresso a Park Street, fu un bassorilievo di Bacco con il suo entourage che visitano la casa di un mortale, si è spesso pensato che potesse essere Icaro, cui il dio svelò come coltivare il vino. Townley lo posizionò in un pezzo del camino spostando il Poeta e la Musa (fig. 38) al di sopra della Sfinge, esattamente contro la parete opposta alla porta d’ingresso. In quindici anni di collaborazione Townley sembra aver versato a Jenkins £4629.

Nel giro di otto anni tutti i contatti romani di Townley e quella rete consolidata di collaboratori andò sgretolandosi: James Byres aveva abbandonato Roma nel 1790 e Gavin Hamilton morì nel 1797 e così quando Thomas Jenkins fu espulso dalla città durante l’occupazione francese nel

219 La storia della cariatide si evince dalla lettera di Jenkins a Townley del 1786, Ivi, pp. 169-170.

88 1798 anche l’ultimo aggancio con Roma si spezzò. Va da sé che oltre questa data furono registrate ben poche acquisizioni del nostro collezionista.220

Alla morte di Lord Cawdor nel 1800 Charles Townley comprò una testa di Apollo proveniente dalla sua collezione cui seguirà nel 1801 il bassorilievo tombale di un ragazzo che pesca, ottenuto dalla vendita della Bessborough Collection, ma questo non fu registrato nei cataloghi e solo un disegno conservato al British Museum ne associa l’appartenenza alla raccolta di Park Street.

Il Lancashire Record Office conserva l’ampliamento e integrazione del catalogo Townley di quegli anni diviso in due volumi; il volume II si occupa delle opere disposte nella sala dei disegni e in biblioteca mentre il III elenca il contenuto della sala da pranzo.221

Tra le sculture che appaiono per la prima volta nel volume III ci sono una testa e un busto di Bacco, alto più di 2 metri; altra novità tra le sculture della sala da pranzo è un sarcofago romano con il matrimonio di Cupido e Psyche, portato nel Regno Unito dal Duca di St. Albans ed acquisito da Townley quando il Duca morì, assieme ad un ritratto di Sofocle222 (fig.39), una testa di Giove, due piedi in marmo e un’urna cineraria scanalata che proveniva dalla collezione Giustiniani.

Nel 1804 venne compilato un ulteriore catalogo con le ultime novità, dove si contano opere mai nominate in precedenza e di un certo interesse: un busto in basalto di Zeus Serapide, un busto ritratto dell’imperatore Antonino Pio proveniente da Palazzo Barberini, un frammento di fronte di sarcofago con iscrizione dedicata a Marco Sempronio Nicocrate. Non sappiamo quando di preciso queste si aggiunsero alla collezione, ma l’ultima scultura che entrò a farne parte fu un bassorilievo votivo presentato dal Duka di Bedford. Il bassorilievo è un lavoro greco del IV secolo a.C., in seguito ritagliato e trasformato. La parziale alterazione del vestiario quotidiano dei fedeli greci in uniformi militari romane deve essere stata una manipolazione del XVIII secolo. Taylor Combe presuppose che fosse possesso di Townley dal 1805 e data la sua scomparsa il 3 gennaio non dovette mantenerlo a lungo.

Il piano di lasciare in eredità l’intera collezione al British Museum era un disegno da sempre chiaro nella mente di Townley, ma dodici giorni prima di morire modificò le sue volontà

220 B. F. Cook, op. cit.,1985, p. 16. 221Il Volume I è mancante, ma inlinea di massima avrebbe dovuto elencare gli oggetti ospitati nelle rimanenti sale della casa. 222Questo busto di Sofocle fu rinvenuto da Richard Worsley ad Atene nel giugno 1785. Vedi: A. Michaelis, Ancients Marbles in Great Britain, Cambridge 1882, p. 277.

89 scegliendo di destinare la raccolta di antichità al fratello Edward Townley Standish223 a condizione che fosse costruita un’apposita galleria a Burnley o a Londra. Edward era impaziente di spostare le opere alla Townley Hall, ma non c’erano fondi sufficienti per portare a termine l’impresa, dunque in mancanza di tutto ciò la legge ritenne valida la stesura testamentaria originaria e i marmi vennero acquistati dall’Act of Parliamnet per £20,000.

Il British Museum cominciò ad accusare problemi di spazio già prima dell’arrivo delle statue di Park Street in collezione, nell’estate del 1802 la partita di sculture egizie catturate dall’esercito di Napoleone ad Alessandria l’anno precedente, rese ancora più urgente l’espandersi dell’edificio oltre gli inadeguati confini della Monatagu House. Una lista di circa trenta pezzi fu trasmessa in anticipo rispetto al loro arrivo, ma il miglior ricovero che fu possibile trovare nell’immediato si rivelò essere il cortile. Tra le opere in elenco c’era la celebre Stele di Rosetta, che fornì indizi fondamentali per decifrare in modo definitivo i geroglifici egizi, la stele fu immediatamente inviata al museo con il resto delle sculture, la Società degli Antiquari pretese di studiarla e visionarla, dunque solo più avanti fu collocata al British.

La commissione designata di Thomas Astle, Joseph Banks e Charles Townley fu messa insieme nel per pianificare l’estensione del museo ed un nuovo edificio per le antichità egizie.

Il consiglio divulgò il verdetto finale il maggio seguente, dichiarando che i membri si erano ripetutamente incontrati nella casa di Townley, dove essi avevano avuto grande opportunità di studiare i migliori metodi per l’esibizione delle sculture. In più Astle, Banks e Townley avevano chiesto in parere all’architetto del Museo, George Saunders e dopo aver preso in considerazione la pianta proposta, avevano raggiunto la conclusione che un edificio di 90x45 piedi con una sala principale di 50x33 e 25 piedi di altezza sarebbe stato appropriato per le sculture egizie.

Le proporzioni della galleria principale venivano dettate proprio dalla collezione egizia cui essa era destinata: piani e sezioni vennero preparate e soppesate in base al display delle opere224 e si decise di supportare la costruzione tramite archi di mattoni, un materiale elastico ed adatto a sostenere l’ingente peso dei manufatti alessandrini.

Quando giunse la notizia che il British sarebbe stata la perpetua dimora della collezione di Townley i problemi di spazio si ripresentarono, ma la difficoltà fu risolta nell’estate dello stesso anno, e mentre si intrattenevano discussioni su come i marmi sarebbero stati ordinati, i lavori al

223 Edward Standish era il fratello più giovane di Charles, che per lui aveva generosamente adattato la proprietà di Standish lasciatagli dalla madre.

224 Sembra che Saunders avesse progettato un grandioso schema neo-greco che deve essere stato respinto in una fase ancora molto iniziale.

90 nuovo edificio vennero sospesi, si decise che piuttosto che adottare un altro schema e perdere così il profitto della stagione estiva, la pianta originaria di Saunders sarebbe stata adattatata ed allargata.225

Con l’aiuto della marina militare le sculture egiziane furono collocate nella galleria principale mentre i marmi di Townley riempirono il resto del piano terra.

La Galleria Egizia e la raccolta di Park Street furono le grandiose new entries del periodo, ma c’erano comunque altri pezzi celebri al British, tra cui le prime acquisizioni effettuate per volere di re Giorgio III nel 1776, bisogna tuttavia precisare che l’acquisto della collezione Townley226 andò a formare il nucleo della raccolta di sculture greco-romane227, tanto quanto quelle egizie crearono la propria nicchia.

La collezione di Townley era stata riunita poco alla volta a cominciare dal 1767 e in questo aspetto essa differiva dal nucleo Egizio o Assiro che venne portato nel deposito nazionale direttamente dai rispettivi paesi di provenienza, nessun altro gruppo di sculture del museo era una collezione nel senso in cui lo era quella di Townley, essa attraverso tutto il secolo continuò a costituire la più nutrita raccolta di scultura greco-romana ed il sogno espresso da alcuni studiosi del XIX secolo che i tesori sparsi nelle collezioni inglesi potessero un giorno essere inglobati nel Museo Nazionale non si materializzò mai.228

Nelle successive edizioni della guida del museo o Synopsis, pubblicata per la prima volta nel 1808, si era soliti definire come sculture greco-romane tutte quelle di Townley se non diversamente specificato. In questa lista possiamo notare un pugno di alcuni pezzi provenienti da collezioni vicine a quella del nostro collezionista, per esempio la piccola collezione di marmi di Sir Hans Sloane oltre alla già menzionata collezione di vasi di Hamilton, acquisita nel 1772 tramite donazione o forse acquisto, assieme ad un piccolo numero di sculture.

225 B. Cook, ‘The Townley Marbles in Westminster and Bloomsbury’ in Collectors and Collections, The British Museum Yearbook 2, London 1977, pp. 57-66. 226 B. Cook, 1977, Op. cit., p.34. 227 Molte delle opere di Townley vennero classificati come ‘Greco-Romani’ o ‘sculptures of a mixed class, which, though dating from the period of the Roman Empire, and found chiefly in Italy, were executed generally by Greek artists, and in many instances copied, or but sightly varied, from earlier Greek’s works’, come venivano descritti nell’Illiustrated London News del 26 Maggio 1855.

Dalla prima apertura della mostra nel 1808, altre sculture vennero esposte accanto a quelle di Townley e molte altre ancora andarono ad ingrossare l’intera collezione del museo, di conseguenza sebbene la collezione di Townley potesse ancora essere descritta nel 1904 come il nucleo della serie greco-romana ospitata al british, non era più possibile fare un distinguo esatto in termini di galleria di Townley.

228I marmi di Townley rimasero la prima e unica acquisizione di una grande collezione privata di opere greco romane, l’unico episodio che ad esso si avvicinò fu l’arrivo a Londra nel 1864 delle numerose sculture appartenenti alla collezione romana Farnese.

91 L’organizzazione dell’interno della Galeria di Townley fu dapprima affidata a Joseph Nollekens, ma a causa della sua malferma salute, l’incarico passò a Henry Tresham e al giovane Richard Westmacott.

Per Westmacott questo fu il primo incarico per il British ed egli continuò a collaborare con il museo fino alla morte che sopraggiunse nel 1856.229 Il 12 aprile del 1808 le sculture erano quasi tutte ai propri posti, in un’aria di fervente attività e collaborazione, al fine di terminare ogni ritocco entro il 3 giugno dello stesso anno, quando la regina Charlotte accompagnata dal Principe del Galles e Duca di Cumberland e Cambridge, si recò in visita privata per ammirare la nuova galleria e il suo contenuto.

Le sculture egiziane vennero collocate nella sala principale e i marmi di Townley ed i bassorilievi in terracotta occuparono il resto.230 Le sculture non furono raggruppate nella stessa maniera in cui si trovavano a Park Street, il principio di organizzazione simmetrica caro a Townley fu rispettato: il Discobolo231 ancora una volta venne collocato al termine d’una lunga sequenza di sculture così da impressionare il visitatore e spingerlo ad affrettare il passo verso quel magnifico atleta dal corpo tornito e pronto a scagliare lontano il suo disco. (figg. 40-41)

I bassorilievi campani e monumenti funerari romani, vennero alloggiati nei due corridoi che collegavano le nuove sale alla Montagu House, gli oggetti funebri vennero collocate in nicchie ricavate lungo la parete allo scopo di imitare i columbaria delle catacombe dell’antica Roma.232

Tale disposizione divenne una prassi standard nell’accomodare antichità funerarie in ambienti interni, anche se una soluzione in questo senso era già ampiamente praticata nel XVIII secolo.Townley stesso a Park Street aveva così disposto i propri cippi funerari. Westamcott

229 D. Campbell, Sir Richard Westmacott, in (a cura di) S. Lee, Dictionary of National Biography, London 1909, Vol. XX, pp. 1266-1267. 230Le sculture non furono raggruppate nella stessa maniera in cui si trovavano a Park Street, il principio di organizzazione simmetrica caro a Townley fu rispettato: il Discobolo ancora una volta venne collocato al termine d’una lunga sequenza di sculture così da impressionare il visitatore e spingerlo ad affrettare il passo verso quel magnifico atleta dal corpo tornito e pronto a scagliare lontano il suo disco.

231 Si tratta del Discobolo scoperto a Villa Adriana della cui mediazione si occupò Thomas Jenkins. Il 21 Novembre scrisse a Townley che si sentiva giustamente speranzoso di ottenere la licenza d’esportazione per il lanciatore del disco. Op. Cit., C.Hornsby-I.Bignamini, 2010, vol. I p.4-5. 232 Sull’uso delle columbaria nelle catacombe romane vedi: S. Crea, Il termine columbarium e la sua storia, in M.L.Caldelli, G.L.Gregori, S. Orlandi, in (a cura di), Epigrafia 2006 Atti della XIV rencontre sur l’épigraphiein onore di Silvio Panciera con altri contributi di colleghi, allievi e collaboratori, Roma 2008, pp.391-402.

92 definì la sala in questione come un appartamento ricostruito ad imitazione d’un mausoleo romano per ospitare antichità funerarie.233

Un’altra caratteristica della Townley Gallery di Saunders che prendeva spunto da pittoreschi interni inglesi era la tribuna illuminata dall’alto, dove i busti e le sculture a grandezza naturale erano disposte su basi e piedistalli.

Susan Feinberg ci illumina sull’uso della tribuna ai tempi di Saunders distinguendo due usi paralleli di questa soluzione nel XVIII secolo: la tribuna come vestibolo circolare nelle case inglesi di campagna e la tribuna associata al gabinetto del collezionista, una piccola stanza per esibire le raccolte illuminata dall’alto.234

Ad ogni modo la serie di piccole stanze favorevolmente illuminate furono un colpo da maestro di Saunders, il gioco di luci e ombre generò un ambiente ideale ove disporre i marmi di Townley e più tardi quando l’edificio fu abbattuto per fare spazio alla nuova costruzione di Robert Smirke si sentì di aver perduto una delle migliori gallerie espositive che si fosse mai vista.

A partire dalla primavera del 1818 numerosi elementi architettonici provenienti da Libia ed Egitto intrapresero la via del British, incluse 150 tonnellate di colonne in marmo e granito donate alla monarchia britannica dal Bey di Tripoli. Mano a mano che la collezione si allargava l’impellenza di estendere i museo divenne una priorità e sebbene dall’iniziale progetto di Smirke all’effettivo spodestamento dei pezzi di Townley dalla loro collocazione originaria passarono alcuni anni, l’epilogo della storia fu quello che segue.

L’estensione a sud dell’ala ovest del museo e la costruzione della facciata compressero la Townley gallery finchè non fu completamente demolita nell’inverno 1846.235 Nel luglio dello stesso anno vennero presentati i nuovi progetti e in quell’occasione si decise che i marmi Townley sarebbero stati esposti nel salone centrale e nella Phigaleian Gallery, si fece tuttavia

233 R. Westmacott, Account of the Arrangement of the Collection of the Antique Sculpture lately placed in the British Museum, London 1808, p. 48. 234 S.G. Feinberg, Sir John Soane’s Museum: an Analysis of the Architect’s House-Museum in Lincoln Inn Fields, London (PhD Thesis, University of Michigan, Ann Arbor, 1979), p. 200. 235 Inizialmente si era pensato che la galleria di Townley sarebbe stata un prototipo per le nuove ali della Montagu House ma invece quando giunse il momento di effettuare altri lavori, il gusto era mutato e l’attuale costruzione neoclassica disegnata da Sir Robert Smirke andò alla fine a rimpiazzare sia la Townely Gallery che la Montagu House. La demolizione della galleria cominciò nel 1846 e le sculture a mano a mano trovarono una nuova sistemazione. Oramai la reputazione delle sculture romane e copie di originali greci nella collezione di Townley era calata di molto, il museo infatti aveva acquisito alcuni originali greci incluso il fregio dal tempio di apollo a Bassa nel 1815 ed i Marmi di Elgin nel 1816.

Per ulteriori informazioni sulla figura professionale di Robert Smirke ed il suo lavoro al British Museum si veda: J. Mourdaunt Crook, The British Museum, London 1972, pp. 73-104.

93 notare che non si era deciso nulla relativamente ai manufatti di piccole dimensioni che sarebbero parse smarrite nell’ampiezza della sala, mentre nella vecchia galleria erano state accomodate da Saunders in ambienti di ridotte dimensioni, in più mano a mano che le opere prendevano posto in altre sale la collezione di Townley rimase sempre più sola, rimanendo poi in solitaria compagnia della collezione anglo-romana.236

Quella s’intese essere la definitiva sistemazione della Townleu Gallery, accolta con il disappunto dei più, le sale non sembravano adatte e ben studiate per accogliere quella raccolta in particolare, era chiaro che la dimensione delle sale fosse adatta a grandi monumenti egizi ma non ad opere greco-romane, in particolare J. Fergusson dedicò due paragrafi al vetriolo all’argomento: “When Sir Robert Smirke made the design, the Graecian fever was at its height and among other dogmas inherent in this absurdity, was the idea that perfect symmetrical regularity was a necessary and fundamental principle of this style. Never was doctrine so false and slanderous; but so it stood then: so Sir Robert believed and, consequently, because the royal library was built after one design, therefore, the sculpture gallery must be built exactly like it! If there are two classes of building in the whole world requiring treatment more essentially differing from one another, it is these two; yet to satisfy the requirements of this empirically assumed absurdity, the gallery was erected to match the library, and the statues are doomed to be caricatured, as they will be.”237

Fergusson conclude dicendo che venticinque anni prima uno sbaglio del genere sarebbe stato perdonabile, ma dopo aver avuto a disposizione un quarto di secolo per riflettere sulla cosa, erigere nel 1848 un edificio simile è espressione di un immoralità difficile da definire.

La ferocia dell’attacco risulta forse esagerata, ma le critiche sono ben assestate nonché pragmatiche e reali. I marmi di Townley vennero sminuiti dall’edificio che li ospitava e nessuno meglio del dipartimento d’antichità sentiva questo problema. La soluzione era quella di agganciare al lato ovest del museo una porzione espositiva in più, una stanza lunga e stretta, dotata di anticamera, che potesse degnamente ospitare la collezione greco-romana. Evidentemente l’effetto di bassorilievi ed urne cinerarie smarrite di fronte alle monumentali volte delle stanze che la ospitavano doveva essere davvero antiestetico oltre che di nessun rispetto nei confronti di quel Charles che alla sua collezione aveva dedicato una vita intera (fig. 42).

236 I. Jenkins,Archaeologists & Aesthetes in the Sculpture Galleries of the British Museum 1800-1939, London 1992, p.120-124. 237 J. Fergusson, Observations on the British Museum, National Gallery and National Record Office, London 1849, pp. 22-25.

94 La Galleria Greco-Romana rappresentò uno dei rari esempi nella storia delle gallerie destinate ad ospitare opere di scultura dove lo scopo finale era stato fissato all’inizio visti i problemi precedenti, fu pronta all’inizio del 1855, quando le opere cominciarono ad essere organizzate al suo interno.

Si sperava di organizzare i marmi di Townley in ordine cronologico, ma si rivelò un’impresa impossibile data la natura del materiale.

All’epoca si pensava che le sculture greco-romane annoverassero alcuni monumenti originali del periodo greco che precedette l’invasione romana, trasportati poi nel proprio paese dai conquistatori ed linea di massima, i marmi di Townley venivano considerati come copie romane di originali greci.

La scelta per l’organizzazione dell’esibizione era doppia: disporre le sculture in ordine cronologico in base alla data in cui si pensava che l’originale greco fosse stato copiato o organizzarle secondo modalità tematica.

Una terza possibilità che potrebbe attrarre i moderni studiosi era quella di tentare un riferimento cronologico basandosi sulla supposta data della copia.

Alla fine le sculture vennero allestite per soggetto: nel primo salone greco-romano si ospitarono le 12 divinità olimpiche ed i loro corrispettivi nel pantheon romano; nel secondo compartimento si adattarono rappresentazioni di personaggi umani e nel terzo figure eroiche, mentre il piano terra fu riempito con sculture dal genere misto, animali, pezzi decorativi e frammenti architettonici.

Sebbene l’organizzazione di base rimase invariata fino al periodo compreso tra le due guerre mondiali, qualche alterazione venne effettuata: le opere vennero rimontate una ad una su basi in marmo uniformi e nuove, finché nella primavera del 1857 fu proposta una miglioria per il discobolo e la Venere di Townley. Si consigliò di costruire due apposite alcove nella sala che le ospitava cosicché queste due gemme dell’arte potessero fronteggiarsi. Il lavoro portò via più tempo del previsto ma alla fine fu eseguito per £320, le rientranze vennero completate nel 1858 e le statue posizionate come da copione.

L’effetto di questo cambiamento che combinava un soggetto umano a uno divino nella stessa stanza serviva a rompere quello schema inamovibile volto a dividere uomini, dei e soggetti eroici ed a creare uno iato pittorico nella sequela, maggiormente interessata al concetto di ideale bellezza maschile o femminile piuttosto che alla mera divisione tra natura divina e non.

95 Le gallerie greco-romane sopravvissero per lo più fino agli anni ‘50 del Novecento, poi un nuovo funzionalismo archeologico chiese un maggior ordine scientifico e la classificazione greco- romana fu alla fine abbandonata in un sol colpo, nel corso degli anni 60 si sentiva l’esigenza di agganciare alle esistenti gallerie, sale che connettessero in ordine cronologico opere dagli inizi dell’età del bronzo (3000 a.C.) fino all’Impero Romano, l’arte come percorso ordinato e consequenziale lo ritroviamo spesso nelle esibizioni contemporanee e di sicuro sembrava essere anche allora il metodo più semplice ed avvicinabile per introdurre chiunque ai tesori artistici del passato.

Chiudiamo dunque spendendo alcune parole sulle perdite che colpirono la collezione di Townley nel passaggio dalla vecchia alla nuova sistemazione, le terrecotte campane e i bassorilievi funerari smisero di peregrinare da una sala all’altra solo nel 1860, quando fu istituito il Sepulchral Basement al piano terra del museo. Le sale espositive erano state decorate con motivi alle pareti che riproducevano fedelmente i dipinti delle tombe da cui essi provenivano, espressione di quel gusto ottocentesco che evocava la fantasia del museo in rovina.

Questo spazio espositivo ha oggi reso le sculture funerarie alle gallerie pubbliche, sebbene il nome della galleria persista e le nicchie nel muro siano ancora al loro posto. La sopravvivenza di un’istallazione del XIX secolo ha le sue radici nel pittoresco riuso delle rovine dell’Antica Roma caro al secolo precedente, un’idea romantica per cui nel museo moderno, scientificamente strutturato, non potrà mai esserci posto.

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