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Antrocom Online Journal of Anthropology 2011, vol. 7. Suppl al n. 1 F. Bravin – Monterosso, tra turismo e tradizione

Antropologia culturale 27-38

Monterosso, fra turismo e tradizione

Francesco Bravin

Omnia, patres conscripti, quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere “Tutte le cose, padri coscritti, che ora sono credute antichissime, furono cose nuove” Claudio Imperatore, in Tacito, Annali, XI, 24

Monterosso al Mare, , in provincia della Spezia, è una località conosciuta e rinomata dove il turismo è attualmente la risorsa principale. Ma come ha influito il turismo sulla vita dei Monterossini? Come è cambiata la vita “tradizionale”? e come la “tradizione” entra in gioco in un contesto turistico? Fra il 2006 e il 2007 ho svolto una ricerca sul campo di stampo etnografico per rispondere a queste domande, ricerca che ha costituito la mia tesi di Laurea Specialistica e che esporrò in breve in questo articolo, cercando di essere chiaro e conciso, ma esaustivo (fig. 1).

PREMESSE TEORICHE Credo siano opportune alcune premesse teoriche. Mi sono accostato alla ricerca con uno spirito eclettico, senza seguire un unico paradigma in particolare, ma cercando di cogliere da ogni paradigma gli strumenti interpretativi che ritenevo più opportuni. Il paradigma evoluzionista dei primi antropologi si basava su un grave fraintendimento del concetto di evoluzione, che veniva interpretato come miglioramento, come ascesa progressiva in una scala ideale dalle culture più “primitive” a quelle più “evolute”. L’evoluzione consiste piuttosto nel continuo adattamento al mutamento delle condizioni, cosa che non implica alcun “miglioramento” in senso assoluto. Ho dunque recuperato come strumento interpretativo il termine “evoluzione” nella sua accezione corretta, cioè nel senso di mutamento adattativo. Il paradigma funzionalista interpreta gli elementi culturali in base alla funzione che svolgono nella società, trascurando però di analizzare il mutamento storico. Il paradigma strutturalista interpreta la cultura come una struttura simbolica profonda che si manifesta nelle relazioni fra gli elementi culturali e sociali osservabili. Integrando questi tre punti di vista fra loro, possiamo elaborare un modello teorico in cui gli elementi culturali svolgono delle funzioni all’interno delle società e sono inseriti in una struttura simbolica profonda soggetta al cambiamento storico in adattamento al mutamento delle condizioni. Un elemento culturale che svolge una certa funzione può quindi essere messo da parte se questa funzione perde utilità, salvo poi essere recuperato con una nuova funzione quando se ne presenta l’opportunità. L’approccio epistemologico dominante per molto tempo è stato quello positivista, mentre oggi va per la maggiore l’approccio ermeneutico. L’eccessiva fiducia nel “dato” del positivismo ha lasciato posto a un pessimismo interpretativo che rischia di portare a un’isteria riflessiva inconcludente, che perde di vista il vero obiettivo della ricerca. Se dunque l’interpretazione ermeneutica può essere considerata l’antitesi del positivismo, pensavo fosse opportuna una sintesi che superasse i limiti di entrambi, sintesi che ho trovato nel “realismo critico”, elaborato dal filosofo britannico Roy Bhaskar. Con una dose di sano pragmatismo, la riflessività ermeneutica torna ad essere strumento critico, mezzo e non fine della ricerca antropologica. Date queste premesse teoriche, cioè principalmente eclettismo e realismo critico, vediamo ora i metodi e gli strumenti concreti che ho usato nel lavoro sul campo. In primo luogo l’osservazione diretta degli eventi che volevo studiare e la partecipazione agli stessi. Ho anche condotto una serie di interviste

27 Antrocom Online Journal of Anthropology 2011, vol. 7. Suppl al n. 1 F. Bravin – Monterosso, tra turismo e tradizione dirette a degli interlocutori privilegiati. Preferisco il termine “interlocutori” a quello “informatori”: essi non sono stati soltanto una fonte di informazioni, ma soprattutto di interpretazioni, e i nostri dialoghi erano più simili a un dibattito che a un questionario. Ho preferito evitare una caccia sistematica all’informatore, privilegiando pochi incontri approfonditi. La maggior parte dei miei interlocutori sono uomini, anche se ho avuto modo di parlare con diverse donne di Monterosso. Questo sbilanciamento di genere può essere considerato un limite della presente ricerca in quanto potrebbe aver distorto la percezione dell’identità monterossina in un’ottica maschile. In effetti la maggior parte degli elementi dell’identità monterossina che emergono dalla ricerca sono una chiara espressione maschile, ma d’altra parte l’identità monterossina esibita è in effetti un’identità prettamente maschile, o meglio “virile”. Questa distorsione può essere interpretata come eredità di una struttura sociale fortemente maschilista, tipicamente mediterranea, ancora ben viva nella mentalità di molte persone (non solo Monterossini). Dato che nella formulazione dell’identità monterossina e nel recupero della tradizione in chiave identitaria si fa riferimento ad elementi del passato precedente all’avvento del turismo, in questo quadro riemerge anche la struttura sociale maschilista che era presente nella società di allora. La prima parte di ogni intervista era formata da semplici domande chiuse, come nome, data di nascita, occupazione, e serviva ad identificare sommariamente i soggetti intervistati. La seconda parte era invece costituita da un colloquio semi-strutturato, in cui ponevo alcune domande aperte. In questo modo ogni interlocutore era libero di evidenziare quelli che a suo avviso erano i punti più importanti. Questo metodo è risultato a volte dispersivo, perché molti interlocutori si erano fatti una propria idea di ciò che mi interessava, o mi sarebbe dovuto interessare, a proposito di Monterosso. È anche capitato che, a una mia domanda su un certo tema, l’interlocutore rispondesse “ma invece volevo parlarti di quest’altra cosa”. Nelle conversazioni con i miei interlocutori ho spesso dovuto cercare di mediare fra ciò che era pertinente per me e ciò che lo era per loro, tenendo conto di entrambi i fattori. Alcune interviste si sono svolte in condizioni curiose o in situazioni delicate, come quando mi sono trovato a raccogliere una testimonianza durante un aperitivo in un bar, oppure quando sono stato invitato a porre le mie domande durante un pranzo di famiglia o addirittura in spiaggia, con la confusione che ne consegue. La presenza del registratore si è dimostrata a volte invasiva: alcuni interlocutori hanno preferito glissare su certi punti perché c’era il registratore acceso, anche quando magari si trattava di raccontare episodi avvenuti cinquant’anni prima. Altri hanno chiesto esplicitamente di non essere registrati. La difficoltà maggiore è stata la definizione della mia stessa identità. Gran parte dei soggetti intervistati non avevano chiaro cosa fosse un antropologo (“topologo?”), oppure confondevano l’antropologia con l’archeologia e la paleontologia. Altri mi scambiavano per un giornalista. Se alcuni dunque si stupivano del fatto che mi interessassi delle tradizioni di Monterosso e non di tombe egizie, altri mi chiedevano per quale rivista scrivessi, convinti che la mia ricerca fosse una specie di reportage. Accanto a questi dati, ho delineato un profilo storico, geografico e demografico del campo. Un quadro storico adeguato consente di interpretare meglio le situazioni che si osservano sul campo, connettendole con quelle del passato ed evidenziando il mutamento. Senza queste connessioni, si rischia di appiattire l’immagine etnografica del campo sul “qui e ora”, perdendo la percezione di molte dinamiche storiche. Una descrizione geografica consente di situare il campo in uno spazio concreto, tangibile e visitabile, con determinate caratteristiche che hanno avuto un’influenza diretta sulle attività tradizionali dei suoi abitanti e che sono al centro dell’interesse turistico. I dati demografici consentono di evidenziare delle tendenze demografiche, che vanno tenute in considerazione quando si interpretano gli altri dati. Dovendomi occupare di turismo e tradizione, era opportuno trovare delle definizioni appropriate di questi due concetti. Dopo aver passato in rassegna le principali definizioni che sono state date in passato, ho provato io stesso a formulare delle definizioni operative, definizioni cioè che stabilissero non tanto ciò che il turismo e la tradizione “sono” effettivamente, bensì ciò che io intendo nella mia ricerca quando uso questi termini. Riprendendo anche il concetto di invenzione della tradizione formulato

28 Antrocom Online Journal of Anthropology 2011, vol. 7. Suppl al n. 1 F. Bravin – Monterosso, tra turismo e tradizione da Hobsbawm e Ranger, ho definito la tradizione un insieme di pratiche, norme o valori adottati da un gruppo umano da un periodo di tempo sufficientemente lungo da essere percepiti come parte integrante dell’identità del gruppo stesso. In altre parole, anche un’usanza recente può essere percepita come “tradizione” se contribuisce a fondare l’identità di un gruppo. D’altra parte, ogni tradizione è stata a suo tempo una novità. Le tradizioni che prendo in considerazione nella ricerca vanno dalle attività tradizionali, cioè la pesca e l’agricoltura, alle tradizioni gastronomiche, espressione diretta delle prime, alle tradizioni religiose, alle feste tradizionali. Nella ricerca distinguo due categorie di “visitatori”, i turisti e i villeggianti. Per turista intendo il visitatore occasionale, che si ferma per un periodo limitato, una o due settimane, e soggiorna nelle strutture di ricezione turistica, come alberghi e pensioni. Uso il termine villeggiante per designare invece il visitatore regolare, che torna nel luogo di villeggiatura per più anni di seguito ed eventualmente in più occasioni durante l’anno, fermandovisi per un periodo piuttosto lungo, settimane o anche mesi, e vivendo in una casa, presa in affitto o anche di sua proprietà. Diversi villeggianti sono discendenti di emigrati originari del posto, dove hanno ancora dei parenti e la casa di famiglia. La distinzione fra turista e villeggiante è sfumata e presenta alcune zone intermedie, dove si situano ad esempio i turisti che tornano nello stesso posto per più anni di seguito e col tempo finiscono per prendere casa. Molti degli attuali villeggianti di Monterosso sono infatti i discendenti dei primi turisti che negli anni ’60 vi acquistarono una casa. Benché sfumata, questa distinzione non è però priva di significato, dato che turisti e villeggianti hanno un comportamento ben distinto: i turisti spendono in proporzione molto di più dei villeggianti per l’alloggio, vanno spesso al ristorante, acquistano souvenir, oggetti di artigianato e prodotti locali, provano la cucina tipica, scattano fotografie, spediscono cartoline. Al contrario i villeggianti vivono in casa propria, mangiano in casa e fanno la spesa, vanno più raramente al ristorante, non comprano souvenir e non sono più di tanto interessati ai prodotti tipici, che per loro non rappresentano una novità. Un’altra distinzione importante è che i turisti sono dei completi estranei e non conoscono in genere nessuno del posto, mentre i villeggianti conoscono molti locali, come negozianti, ristoratori, albergatori: l’estraneità del turista in cerca di svago si contrappone alla familiarità del villeggiante in cerca di riposo.

STORIA E GEOGRAFIA DI MONTEROSSO Come ho anticipato nelle premesse teoriche, credo che prima di accostarsi al campo sia necessario presentare un quadro generale della sua storia e geografia. Un orizzonte storico accurato permette di comprendere meglio le dinamiche che si osservano sul campo, alla luce di quelle che si sono verificate in passato. Senza di esso, si rischia di produrre una etnografia fotografica, un’immagine statica e illusoria che appiattendosi sull’ hic et nunc finirebbe per perdere la percezione di qualsiasi dinamica. Se è fondamentale conoscere la storia del campo, non è meno importante conoscerne la geografia, cioè la conformazione del campo stesso. Il campo infatti non è un luogo immaginario, ma un luogo reale, concreto e visitabile, dove vivono persone reali in carne e ossa. Le caratteristiche geografiche del luogo hanno avuto un’influenza diretta sulle attività tradizionali dei suoi abitanti e sono tutt’ora al centro delle attenzioni turistiche. Per illustrare la storia di Monterosso, ho usato soprattutto le informazioni che un turista può trovare sulle guide turistiche, integrate da quelle fornite da alcuni siti internet, perché a queste informazioni “essenziali” viene dato un maggior rilievo da parte del turista e costituiscono la base per le sue interpretazioni: sono in pratica l’immagine della storia di Monterosso che viene offerta al visitatore. Le tradizioni di Monterosso e gli elementi dell’identità monterossina sono messi in relazione appunto con questi eventi, cui non solo le guide, ma gli stessi locali attribuiscono maggiore importanza. La fondazione di Monterosso, secondo la leggenda, risalirebbe addirittura VII secolo, quando il re longobardo Rotari avrebbe saccheggiato nel 643 la vicina frazione montana di Albereto, i cui abitanti sarebbero fuggiti a valle, verso il mare, dove avrebbero poi fondato Monterosso. Durante il Medioevo, Monterosso e le Cinque Terre furono contese fra Pisa e Genova e coinvolte nelle lotte fra Guelfi e Ghibellini, finché nel 1254 Monterosso passò definitivamente a Genova. In seguito al passaggio a

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Genova, Monterosso e le Cinque Terre vivono un periodo di relativa stabilità, in cui vengono costruite le principali chiese dei cinque borghi. Nel 1407, Monterosso si dota di uno Statuto, volto ad amministrare la vita della comunità e i suoi rapporti con Genova. Il periodo di relativa pace e prosperità sotto l’influenza Genovese era destinato a interrompersi nuovamente nel Cinquecento, in seguito alle incursioni dei corsari turchi, che raggiunsero l’apice nel 1545 con il corsaro Draghut, che imperversava nel Tirreno. Anche se un’incursione della portata di quella del 1545 non si ripeté più, pirati e corsari continuarono a funestare le coste delle Cinque Terre fino ai primi anni dell’Ottocento. Sembra che a un certo punto gli stessi Monterossini si siano dati alla pirateria per ribellione all’autorità genovese o quantomeno abbiano collaborato con i pirati alle spese dei vicini. Questa ribellione a Genova sarebbe stata una reazione alla chiusura della tonnara, e in generale alle condizioni di sfruttamento da parte di Genova. Sembra che dopo il periodo delle scorrerie corsare le Cinque Terre, sotto il dominio di Genova, abbiano attraversato un periodo di declino, in particolare dalla seconda metà del Seicento. Sulla scia della Rivoluzione francese e delle conquiste napoleoniche, nel 1797 il governo genovese si riveste di una patina giacobina, cosa che provoca un’aspra ribellione da parte di molte popolazioni locali, fra cui gli abitanti di Monterosso. La rivolta fu infine sedata, ma nel 1805 la Repubblica Ligure cessò di esistere e i suoi territori furono annessi all’Impero francese. Caduto l’Impero napoleonico, per volere del Congresso di Vienna la Liguria fu annessa al Regno di Sardegna, di cui seguì le sorti fino all’Unità d’Italia. L’Ottocento vide una fortissima crescita demografica in tutte le Cinque Terre e i primi passi verso la modernizzazione, con la costruzione dell’Arsenale alla Spezia e la realizzazione della ferrovia tra Genova e la Spezia, completata nel 1874. l’Arsenale e ancor più la Ferrovia costituirono un importante sviluppo per Monterosso e le Cinque Terre e aprirono sbocchi professionali prima sconosciuti, oltre a rompere l’isolamento dei borghi, prima difficilmente raggiungibili via terra. Si creavano così le condizioni per il futuro sviluppo turistico, che sarebbe però giunto solo dopo la seconda guerra mondiale. La grande crescita della popolazione nell’Ottocento superò le possibilità della produzione agricola e portò quindi a una forte emigrazione, in particolare verso il Sudamerica, il Sudafrica, l’Australia, gli Stati Uniti. Alcuni emigranti tornarono arricchiti e costruirono splendide ville in stile liberty, ancora in gran parte presenti a Fegina, frazione di Monterosso. Se già prima della seconda guerra mondiale iniziano a stabilirsi a Monterosso i primi villeggianti, fra i quali la famiglia del poeta Montale, è dal dopoguerra che esplode il turismo. Nel 1997 viene istituita l’Area Marina Protetta nelle acque prospicienti le Cinque Terre: l’area comprende tutto il tratto di mare compreso fra Punta La Gatta, tra Monterosso e Levanto, e Punta Pineda, tra e Portovenere. Dal 1999 è stato istituito anche il Parco Nazionale delle Cinque Terre, che promuove il “turismo sostenibile”, il recupero delle attività tradizionali, la produzione e la vendita di prodotti tipici. A partire dal 2005 l’Area Marina Protetta è stata suddivisa in zone A, B e C, a seconda delle restrizioni alla pesca, navigazione e persino balneazione e immersione. Il Parco ha degli uffici, in ognuna delle Cinque Terre, a La Spezia e anche in alcuni paesi dell’interno, che si occupano di dare informazioni turistiche, vendere biglietti ferroviari per i treni locali e biglietti per i sentieri presenti nel Parco stesso, oltre a vendere e promuovere i prodotti tipici della zona. Dopo averne brevemente delineato la storia, vediamo la geografia di Monterosso: è la più grossa e popolosa delle Cinque Terre, nonché quella situata più ad occidente, verso Genova. I paesi del litorale con cui confina sono a est e Levanto a ovest, da cui è separata dal promontorio del Mesco. L’abitato è diviso in due da un piccolo promontorio, su cui sorgono a mezza costa la Torre Aurora e sulla cima il Convento dei Cappuccini, con annesso il cimitero di Monterosso e le rovine del Castello. Il centro storico di Monterosso, o Paese Vecchio, è collegato alla parte più recente, Fegina, da un tunnel che passa sotto il promontorio e da una passeggiata che passa fra la Torre Aurora e il fianco del monte. Mentre il Paese Vecchio dà su una piccola baia e si sviluppa lungo il corso del Buranco, ora coperto, Fegina dà su una lunga spiaggia e si sviluppa principalmente seguendo il lungomare. Altri due torrenti minori passano da Fegina, entrambi coperti dalla strada. I confini ideali dell’abitato di Monterosso sono a est l’Hotel Roca, a picco sul mare oltre il Paese Vecchio, e ad ovest il Circolo Velico, oltre

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Fegina: oltre questi limiti non si trovano altre case e da qui partono i sentieri che conducono da un lato a Vernazza, dall’altro a Levanto. Da Fegina e dal Paese Vecchio si dipartono due strade in salita che si incontrano in località Colla di Gritta, dove passano anche le strade per Levanto, per Borghetto e per La Spezia. Nella fase preparatoria della mia ricerca ho anche raccolto dei dati demografici: la popolazione di Monterosso è in lento calo, dato che le morti superano le nascite, anche se ammortizzato da un’immigrazione superiore all’emigrazione. Bisogna inoltre segnalare che sono sempre di più i lavoratori pendolari provenienti da La Spezia, in particolare stranieri, la maggior parte dei quali è originaria della Repubblica Dominicana.

LE TRADIZIONI MONTEROSSINE Le rievocazioni dei miei interlocutori più anziani erano intrise di nostalgia strutturale, cioè del richiamo a un passato idealizzato, migliore, più genuino. Monterosso era un paesino con pochi abitanti, diviso da un canale, la “valle”, in due metà collegate da ponticelli, canale che oggi è coperto dalla strada principale del paese. In un certo senso ora la contrapposizione fra due metà si è spostata fra il Paese Vecchio e Fegina, la parte “nuova” di Monterosso, separate da un promontorio e collegate da un tunnel. Questo slittamento del confine è dovuto da un lato al fatto che la “valle” non è più riconoscibile come tale, dall’altro allo sviluppo di Fegina, che da semplice frazione con poche case e qualche villa è diventata la parte del paese più importante dal punto di vista balneare, avendo spiagge molto più lunghe. Inoltre a Fegina si trovano la stazione ferroviaria e il parcheggio più ampio di Monterosso, quindi è la zona che la maggior parte dei turisti e dei villeggianti vede per prima. Le attività tradizionali a Monterosso, prima dell’avvento del turismo, erano principalmente la pesca e l’agricoltura. Con lo sviluppo del Dopoguerra è arrivato il turismo: dapprima la strada e poi la ferrovia, che man mano si è ingrandita, hanno portato i primi villeggianti e turisti. L’afflusso di ricchezza portata dai turisti nel Dopoguerra ha permesso una nuova fase di sviluppo. Questo ha portato la generazione successiva a disertare in massa le attività tradizionali, cioè l’agricoltura e la pesca, per dedicarsi ad attività più redditizie legate al turismo. Un anziano interlocutore lamentava il fatto che mentre un tempo quasi tutti facevano i pescatori e i contadini, ora i giovani non vogliono più fare i mestieri “tradizionali”. Egli stesso però da giovane si era imbarcato come marinaio su una da crociera proprio per non fare il contadino o il pescatore. Si evidenzia così una dinamica che ha radici profonde, precedenti all’avvento del turismo: la fuga dalle attività tradizionali verso impieghi meno faticosi e meglio remunerati, in particolare nei servizi e sulle navi, risale a prima del turismo. Il turismo si è inserito in questa dinamica già avviata e ha notevolmente ampliato le opportunità lavorative alternative a quelle tradizionali. Le tradizioni gastronomiche di Monterosso sono strettamente legate alle attività tradizionali, pesca e agricoltura, e ai prodotti tipici che ne sono espressione diretta, in particolare le acciughe, i limoni, il vino Cinque Terre e il vino passito Sciacchetrà. Il Parco Nazionale delle Cinque Terre ha una serie di fornitori ufficiali, che gestiscono direttamente la produzione di questi prodotti tipici per conto del Parco stesso e a cui devolvono una parte dei ricavi ottenuti dalla vendita. Le tradizioni di Monterosso, sopravvissute o reinventate, sono tutte fatte risalire all’epoca “prima del turismo” e sono viste dunque come l’espressione della più autentica identità Monterossina. Le tradizioni religiose a Monterosso avevano un’importanza rilevante, mentre ora sopravvivono solo in parte e alcune di esse sono state “riesumate”. Molte di queste tradizioni appartengono alla back region dei Monterossini e sono elementi della loro intimità culturale: in altre parole queste tradizioni forniscono ai Monterossini un senso di appartenenza, ma non sono in genere esibite nella rappresentazione dell’autenticità, destinata ai turisti, caratteristica della front region. Le tradizioni che più facilmente sono passate da una region all’altra, anche se non le uniche, sono in genere quelle scomparse e riesumate o reinventate, cioè tradizioni che avevano da tempo smesso di far parte della back region. Il Convento dei frati Cappuccini era un punto di riferimento importante per il paese, specialmente in occasione della festa dell’Immacolata Concezione. Un evento importante e sentito ancora a Monterosso è la festa di

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San Giovanni Battista, santo patrono del paese, che si tiene il 24 Giugno. La festa un tempo prevedeva dei tradizionali falò, ora sostituiti da fuochi artificiali e dal rilascio di lumini in mare. Esistevano un tempo a Monterosso due confraternite, i Bianchi e i Neri, ognuna con la propria chiesa di riferimento, rispettivamente Santa Croce e l’Oratorio Mortis et Orationis. Queste confraternite esistono ancora e io stesso ho potuto osservarle di persona. I membri delle due confraternite partecipavano a tutte le processioni religiose, i primi vestiti con cappe bianche, i secondi con cappe nere. Ogni confraternita aveva, e ha tuttora, il proprio crocefisso: quella dei Bianchi con un Cristo bianco, quella dei Neri con un Cristo nero. L’Oratorio dei Neri si trova nella metà del Paese a destra della “valle”, mentre Santa Croce nell’altra, a sinistra. Sembra anche che un tempo la metà di Santa Croce fosse quella dei benestanti. Le origini delle due confraternite risalirebbero al Cinquecento e sarebbero legate alla Misericordia toscana, una sorta di Croce Rossa fondata a Firenze nel XIII secolo. La vera origine di queste confraternite andrebbe però ricercata nelle divisioni politiche fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri proprie della Toscana del tardo Medioevo. Confraternite simili, dunque, esistevano in Toscana fin dal Trecento e si sarebbero diffuse anche a Monterosso nel tardo Rinascimento. Le due confraternite sono state riportate in vita negli anni Ottanta e, anche se non hanno più il vigore e l’importanza di un tempo, tuttora partecipano a tutte le processioni di Monterosso, ma non si occupano più di beneficenza e soccorso. (fig. 2) Due tradizioni di Monterosso in particolare hanno attirato la mia attenzione: la Festa dei Cornuti e il cosiddetto Bescantà. Entrambe queste tradizioni possono essere interpretate come forme di charivari, cioè rituali collettivi con una funzione di controllo sociale e ridistribuzione delle risorse, volti a biasimare pubblicamente chi in qualche modo aveva turbato l'equilibrio della comunità e a ripristinare questo equilibrio attraverso il pagamento di una sanzione, anche simbolica. Un altro esempio molto di charivari sono le cosiddette “scampanate”, effettuate quando un vedovo o una vedova si risposavano. È interessante notare come il biasimo per le corna vada al marito cornuto più che alla moglie infedele (e ancora meno all'amante): l'uomo è considerato responsabile della fedeltà della moglie, unica garanzia del mantenimento del lignaggio paterno in una società patriarcale. L'infedeltà di una moglie è quindi vista come una mancanza del marito, che perciò viene pubblicamente biasimato. La Festa dei Cornuti era una tradizione molto importante nella Monterosso precedente all'arrivo del turismo, legata ai festeggiamenti di San Martino (11 Novembre), data in cui si stappava il vino novello. Un comitato di uomini del paese andava in corteo sotto le finestre dei “cornuti” e li invitavano a scendere a festeggiare con loro, cantando una canzone caratteristica. Questa festa scomparve nel Dopoguerra, in concomitanza con l'avvento del turismo, per poi essere recuperata e reinventata nel 1986. Di anno in anno la festa si arricchisce di nuovi particolari, come elmi vichinghi in plastica e una statua femminile in legno e opportunamente dotata di corna che viene portata in corteo, su imitazione delle processioni religiose. Oggi non si fanno più i nomi dei cornuti sotto le loro finestre: il “capobranco” fa un discorso da un balcone che si affaccia sul vicolo San Martino in cui satireggia tutti gli episodi salienti dell'anno, non solo storie di corna, ma in generale qualsiasi evento abbia in qualche modo turbato l'equilibrio sociale. Senza mai fare i nomi, si prendono in giro non solo i cornuti, ma in generale tutti coloro che, adottando comportamenti devianti, sono stati responsabili di uno “squilibrio strutturale”. (fig. 3) Il Bescantà è una tradizione monterossina legata al Carnevale e che ricorda da vicino il Cantar Maggio, presente soprattutto nei paesi dell'interno e in generale nell'area dell'Appennino Tosco- Emiliano. Un gruppo di pescatori bisognosi, mascherati con un costume semplice ma caratteristico (vestiti stracciati, piedi nudi, fuliggine in faccia, cappello di paglia, occhiali finti fatti con fil di ferro e scorza di limone, nasse in vimini sulle spalle o in testa, un remo in mano e tutti legati con una lunga gomena) avvicinano i benestanti del paese uno ad uno e li bescantano, cioè li circondano e cantano una canzone elogiativa in cui però finiscono per chiedere esplicitamente che il bescantato paghi loro da bere. Questi dovrebbe sentirsi onorato della canzone e ricambiare pagando da bere, se però non accetta i pescatori iniziano a raccontare pubblicamente tutti i suoi scheletri nell'armadio, dando avvio a un pubblico biasimo. Anche questa tradizione si è persa nel Dopoguerra, per poi essere recuperata e

32 Antrocom Online Journal of Anthropology 2011, vol. 7. Suppl al n. 1 F. Bravin – Monterosso, tra turismo e tradizione reinventata negli ultimi anni ad opera della compagnia teatrale amatoriale Amapola, formata perlopiù dagli stessi Monterossini che hanno ridato vita alle Confraternite dei Bianchi e dei Neri e alla Festa dei Cornuti. A differenza di quest'ultima, però, il Bescantà non è stato ristabilito nella sua data “naturale”, cioè il Carnevale: viene recitato invece come intermezzo all'interno di uno spettacolo teatrale itinerante in dialetto, che la compagnia rappresenta ogni estate a Monterosso e in vari altri paesi della zona. Lo spettacolo è costituito da una serie di scenette che evocano le rattelle, cioè i litigi per strada o alla finestra, che consistono perlopiù nel pubblico biasimo reciproco dei litiganti e che sono considerati una delle più autentiche e vive tradizioni monterossine. (fig. 4) La Festa dei Cornuti, in cui la funzione di controllo sociale attraverso il pubblico biasimo è evidente, mentre è praticamente assente quella di ridistribuzione delle risorse, è stata recuperata nella propria data “tradizionale”, attualizzata con l'inserimento di tematiche non necessariamente legate alle corna ed è rivolta più ai Monterossini stessi che non ai turisti (piuttosto scarsi l'11 Novembre!). Al contrario il Bescantà, in cui la funzione di controllo sociale era meno visibile rispetto a quella di ridistribuzione delle risorse, è stato recuperato come intermezzo recitato all'interno di uno spettacolo teatrale estivo in cui i turisti sono la maggior parte del pubblico, astraendolo totalmente dal proprio contesto originario e perdendo ogni legame con il Carnevale. Possiamo interpretare questa differenza alla luce del fatto che, mentre il controllo sociale è un'esigenza sempre attuale, la ridistribuzione delle risorse è diventata meno importante grazie al diffuso benessere dato dalle attività legate al turismo. La Festa dei Cornuti, che quindi mantiene la propria funzione originaria, è stata recuperata in modo più fedele e resta perlopiù nella back region dei Monterossini, lontana dallo sguardo turistico, mentre il Bescantà, che ha in gran parte perso la propria funzione originaria, viene recuperato con una nuova funzione, cioè come rappresentazione dell'identità monterossina rivolta in primo luogo proprio ai turisti, o in generale agli outsider.

L'IDENTITÀ MONTEROSSINA Durante la ricerca sono emersi alcuni aspetti salienti dell'identità monterossina in coppie che potremmo definire strutturali: ogni elemento di questa identità si articola cioè in un aspetto positivo e uno negativo, che si bilanciano a vicenda. Così ad esempio il Monterossino si suppone sia un grande bevitore, ma allo stesso tempo un ubriacone, è suscettibile e rissoso, ma proprio perché è fiero e orgoglioso, è uno straordinario amatore di donne, ma -se tutti i Monterossini vanno con le donne altrui- inevitabilmente cornuto. Alcuni di questi elementi si basano su stereotipi comuni ai Liguri in generale, come l'avarizia, la chiusura, la diffidenza, altri sono ricondotti alla storia di Monterosso, come lo spirito ribelle e un po' anarchico, visto come un'eredità degli antichi Liguri Apuani e che si sarebbe manifestato più volte nel corso della storia, ad esempio nelle ribellioni contro Genova e nei rapporti torbidi con i pirati. Alcune di queste caratteristiche sono esplicitamente in contrapposizione a quelle che si presume siano dei turisti: così il Monterossino è scaltro e il turista è ingenuo, il Monterossino conosce il mare e nuota benissimo, mentre il turista per niente, il Monterossino è semplice e genuino mentre il turista è sofisticato e pretenzioso. Nella definizione dell'identità monterossina entrano in gioco anche altri fattori: in primo luogo il fatto stesso di essere nati e cresciuti a Monterosso, la capacità di capire e parlare il dialetto monterossino, l'essere dei grandi bevitori e donnaioli e infine l'eredità “poetica” di Montale, il cui legame con Monterosso è ribadito con orgoglio. Ecco dunque che il monterossino ideale è nato e cresciuto a Monterosso, parla il Monterossino e conosce il mare, è una persona semplice e un po' rude, ma scaltra (a differenza dei forestieri, più raffinati ma un po' tonti), sembra burbero e diffidente sulle prime, ma sa di aprirsi “davvero” per i veri amici, è attaccato al denaro ma è generoso con chi lo merita, è un grande amatore di donne e un formidabile bevitore, un po' poeta e un po' ribelle, orgoglioso ma suscettibile. Sulla scia di Fabietti, possiamo distinguere fra identità esperita e identità esternata: la prima sarebbe costituita da quegli elementi che i soggetti sentono propri caratteristici, la seconda da quegli elementi

33 Antrocom Online Journal of Anthropology 2011, vol. 7. Suppl al n. 1 F. Bravin – Monterosso, tra turismo e tradizione che vengono esibiti e potremmo dire rappresentati. Questi due piani si trovano fra loro in rapporto dialettico, cioè gli elementi del secondo sono una selezione, interpretazione e rappresentazione degli elementi del primo. Ci viene in aiuto il concetto di intimità culturale, proposto da Herzfeld: “il riconoscimento di quegli aspetti dell’identità culturale, considerati motivo di imbarazzo con gli estranei, ma che nondimeno garantiscono ai membri la certezza di una socialità condivisa”. Gli elementi dell'identità esperita che formano l'intimità culturale nella back region vengono reinterpretati positivamente per essere rappresentati come elementi dell'identità esternata nella front region. Il risultato di questo processo sono appunto le coppie strutturali cui abbiamo accennato prima.

CONCLUSIONI Il turismo ha profondamente cambiato Monterosso e le sue tradizioni: le attività tradizionali, l’agricoltura e la pesca hanno perso progressivamente importanza, cedendo il passo alle attività legate al turismo, meno faticose e più redditizie, come l’accoglienza turistica, la ristorazione, la gestione degli impianti balneari, di bar e gelaterie, la vendita di prodotti tipici e di souvenir. La fuga dalle attività tradizionali però è una dinamica presente a Monterosso già da prima che arrivasse il turismo: chi voleva evitare di fare il contadino o il pescatore finiva per fare il marinaio, il ferroviere o l’impiegato nelle poste o in banca. Il turismo si è inserito in questa dinamica già avviata e ha rinnovato l’offerta di attività alternative a quelle tradizionali. Prima dell'arrivo del turismo di massa a Monterosso erano vive delle tradizioni che svolgevano certe funzioni legate alla struttura sociale della comunità (controllo sociale, ridistribuzione risorse, controllo dell'onore, mutuo soccorso, etc). Prima con la modernizzazione e poi con l’avvento del turismo, la struttura sociale di Monterosso è mutata e alcune di queste tradizioni hanno perso la propria funzione, pertanto sono state abbandonate. Altre tradizioni sono rimaste invece vive, perché le funzioni che svolgevano non hanno perso di significato, in particolare quelle più strettamente religiose. Il turismo inoltre ha creato l'esigenza di una front region in cui incontrare i turisti, distinta da una back region percepita come meno presentabile perché legata alle occupazioni tradizionali di pesca e agricoltura e a una vita povera. Ecco dunque le spiagge, i ristoranti, i bar e gli alberghi, tipici del turismo “da spiaggia”. Emerge però una nuova figura di turista, che non si accontenta più della front region "turistica" e va alla ricerca dell'autenticità, cioè della back region dove giace l'intimità culturale: viene quindi creata una rappresentazione di questa autenticità che sfocia in una nuova front region, riesumando quelle tradizioni che erano state abbandonate avendo perso la propria funzione originaria, ma che erano ancora presenti nella memoria collettiva, e attribuendo loro una nuova funzione, cioè appunto quella di fornire un'autenticità rappresentata e di ribadire il senso d’identità. Essendo state abbandonate, queste tradizioni non sono più percepite come parte dell'intimità culturale caratteristica della back region, e pertanto possono essere esibite nella front region. L'intimità culturale resta salva, lontana dallo sguardo turistico, mentre il turista ha la sua "autenticità rappresentata". Fra le tradizioni monterossine che abbiamo preso in considerazione, le più significative sembrano essere il bescantà e la Festa dei Cornuti. Entrambe queste tradizioni sono state recuperate attribuendo loro una nuova funzione, cioè quella di costituire una rappresentazione dell’autenticità per il turista e di ribadire e rinforzare l’identità monterossina. Le principali caratteristiche attribuite all’identità monterossina, ad esempio la virilità, la fierezza, la scaltrezza, l’ironia, vengono dunque ribadite e manifestate nelle tradizioni recuperate. Nel nuovo contesto, dove il turismo fa la parte del leone, il recupero di queste tradizioni diventa non solo una fonte di riaffermazione dell’identità, ma anche una risorsa che arricchisce l’offerta turistica stessa, secondo un processo di folklorizzazione. Anche la rievocazione di eventi storici ritenuti fondamentali per la definizione dell’identità Monterossina, come il passaggio da Pisa a Genova e l’ambiguo legame con i pirati del passato, si inserisce da un lato nell’ottica di una riscoperta dell’identità, dall’altro nel rinnovo dell’offerta turistica. Dunque le tradizioni monterossine riacquistano un nuovo significato e una nuova funzione nel contesto turistico e costituiscono perciò una risorsa, anche economica, e una fonte di identità. In quest’ottica rientra anche il recupero delle attività tradizionali, promosso dal Parco Nazionale delle Cinque Terre, e

34 Antrocom Online Journal of Anthropology 2011, vol. 7. Suppl al n. 1 F. Bravin – Monterosso, tra turismo e tradizione l’offerta al turista e al visitatore di prodotti “tipici” e “tradizionali”, che vengono proposti in apposite sagre paesane e in negozi specializzati.

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Sopra: il corteo dei Cornuti che gira per il paese, portando la statua di una squaw cornuta ad imitazione delle processioni Sotto: membri della Confraternita dei Neri con il crocefisso nero usato per le processioni

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Sopra: Una scena dello spettacolo dialettale “bescantà”, in cui sono presenti il personaggio del parroco e alcune persone in costume Sotto: Torre Aurora sullo sfondo del mare

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