The Beautiful South E La Comfort Zone
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The Beautiful South e la comfort zone Il duo composto da Paul Heaton e Jacqui Abbott, già nella band inglese dei Beautiful South, torna alla ribalta con un nuovo album, purtroppo privo di vere sorprese / 30.03.2020 di Benedicta Froelich C’era una volta una pop band più unica che rara, per quanto forse poco conosciuta al grande pubblico: una band inglese, di quelle che, anzi, fanno della loro natura e sound estremamente «British» un vero marchio di fabbrica – insieme, in questo caso, al raro dono dell’ironia, merce pressoché introvabile tra artisti ormai usi a prendersi un po’ troppo sul serio. Il gruppo, che non riuscì mai a sfondare davvero sul mercato internazionale – ma, tra il 1988 e il 2007, si costruì comunque uno «zoccolo duro» di affezionati fan britannici – era quello dei The Beautiful South: un sestetto di giovani talentuosi, alcuni dei quali lì confluiti dalla precedente band di Heaton, ovvero gli Housemartins (di cui faceva parte anche Norman Cook, destinato a divenire il «Fatboy Slim» che tanto successo avrebbe riscosso nelle discoteche). Ma a distinguere i The Beautiful South era soprattutto l’irriverente e arguta natura dei loro testi, animati da uno humour nero e un’intelligenza taglienti quanto irresistibili; caratteristiche che, fortunatamente, non sono andate perdute con lo scioglimento della formazione, vista la felice collaborazione inaugurata nel 2014 tra il frontman Paul Heaton e Jacqui Abbott, ex vocalist femminile della band. Così, in questo nuovo Manchester Calling, ultimo frutto del loro sodalizio, il surreale sarcasmo tipico dei Beautiful South si ritrova fin dal brano di apertura, The Only Exercise I Get is You, pezzo ritmato e divertente (anche se ben poco originale), che ricorda da vicino classici pop di Heaton quali 36D e Old Red Eyes is Back. Anche If You Could See Your Faults e A Good Day is Hard to Find seguono da vicino l’ormai collaudata linea stabilita parecchi anni fa – e, sebbene ciò dimostri coerenza artistica, a lungo andare rischia di suscitare una certa noia; difatti, l’atmosfera si fa intrigante solo con pezzi meno spensierati ma ben più intensi, come la ballata Somebody’s Superhero (lettura «alternativa» del fardello della solitudine, in grado di bypassare l’abituale drammaticità legata a simili argomenti) e il teso e vibrante The Outskirts of the Dancefloor; mentre, per quanto riguarda gli immancabili brani dalle sfumature sarcastiche, solo New York Ivy e Fat of the Land riescono a lasciare un qualche segno. E se nemmeno pezzi romantici come You and Me (Were Meant to Be Together) e So Happy sfuggono del tutto ai cliché di cui il disco è pervaso, compromessi ben più riusciti sono tuttavia rappresentati dagli irriverenti House Party 2 e All of My Friends – i quali, nonostante il sapore pop radiofonico, sono comunque caratterizzati da personalità sufficiente a innalzarli al di sopra del rango di semplici pezzi orecchiabili. Purtroppo, però, anche l’ardito tentativo di fare della title-track del CD un esperimento avanguardistico fallisce miseramente davanti all’inevitabile noia suscitata da interi minuti di recitativi fuori contesto, oltretutto riciclati da registrazioni preesistenti (il che fa sorgere spontanea la domanda su chi abbia suggerito una simile idea a Paul e Jacqui!). Così, per chiunque abbia amato i Beautiful South dei bei tempi andati, qualsiasi giudizio su quest’album non può evitare di mostrare un vago rimpianto davanti a un’occasione in parte perduta. Benché le voci di Jacqui e Paul conservino l’inconfondibile grazia di sempre, a mancare è, in realtà, il carattere – quell’elemento in grado di far sì che un brano indugi nella mente anche una volta terminato l’ascolto; e per quanto piacevoli, molte tracce mancano della tensione che caratterizzava classici dissacranti dei Beautiful South come You Keep It All In e We Are Each Other – o, ancora, della dolente malinconia di A Little Time. Così, possiamo solo sperare che, in futuro, Heaton e la Abbott sappiano andare oltre la «comfort zone» delle abitudini ormai acquisite per tornare a concentrarsi su brani più distintivi e originali, prima ancora che su quei semplici riempitivi ai quali le esigenze delle case discografiche spesso costringono gli artisti..