Gli Archivi Per La Storia Della
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749 IMMA ASCIONE Una peste politica? L’epidemia di Conversano del 1691 La c’è pur troppo la vera cagione, (…). La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino …? E lor signori mi vorranno negar l’influenza? Mi neghe- ranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?» (A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. XXXVII) 1. Lo Stato e il contagio Le scoperte scientifiche impiegano sempre un certo tempo prima di giun- gere alla gente comune, al mondo dei non addetti ai lavori. Questa ricerca si propone di verificare come, alla fine del Seicento, in un clima ormai larga- mente dominato dall’interesse per le scienze della natura, la classe politica riveli aspetti di forte arretratezza culturale e tecnica nei confronti di uno dei fenomeni più catastrofici per le popolazioni europee del mondo moderno: la peste. Gli studi sulla storia sanitaria costituiscono oggi un filone ampio e variegato, al quale non intendiamo neppure accennare: ci lasceremmo trarre fuori dai limiti imposti, che prevedono la mera presentazione di una fonte d’archivio inerente in qualche modo alla tematica scientifica. Il documento da noi prescelto è un registro conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, che fa parte della serie Notamenti del Consiglio collate- rale; si tratta di un volume monografico, perché in esso il segretario del Regno Domenico Fiorillo annotò i verbali delle sedute dell’organo consiliare riguardanti la peste di Conversano, dal 30 dicembre 1690 al 20 giugno 1692. Come ognuno noterà, si tratta di una fonte «di parte»: la classe dirigente 750 Imma Ascione napoletana parla attraverso le sue pagine. Ma è anche lo specchio di una profonda frattura tra vecchio ceto di potere e nuove élites intellettuali, che tentano di conquistare propri spazi d’azione. Tutto un mondo seicentesco di apparenze e di vuote maschere si rivela quando passiamo ad esaminare da vicino il sistema di governo: colpisce il cinismo, l’assoluta freddezza con cui i reggenti del Consiglio collaterale affrontano l’emergenza. L’essenziale è salvaguardare dal contagio la capitale, cuore dello Stato: la peste del 1656 aveva prodotto più danni alla classe dominante della stessa rivoluzione del 1647-1648. All’indomani si erano dovuti ripensare tutti i precedenti assetti politici, creare nuovi equilibri, riorganizzare intere magistrature sconvolte dall’ingresso di homines novi, e solo dopo lungo tempo e faticosi aggiusta- menti si era raggiunta una certa stabilità. Bisogna poi salvare un’immagine dello Stato alquanto deteriorata dalle ultime vicende interne, in particolare dalle difficoltà economiche culminate nel grave episodio della svalutazione della moneta. Nulla di meglio che mostrare la presenza di un forte potere centrale che interviene con decisione a perseguire ed eliminare gli «untori»: sarà un atto di «buon governo»; servirà a restituire credito al Regno nei confronti di Roma e degli altri stati, e a mostrare ai sudditi che nulla sfugge ai governanti, impegnati nella insonne cura del bene comune. Così, il viceré si mostra spesso in città per infondere fiducia; visita i «rastelli» alle porte della capitale, dove le guardie non lasciano passare neppure l’aria e inzuppano per ore nell’aceto la corrispondenza prima di decidersi a farla entrare. Ma tutti sanno che Napoli non è interamente circondata di mura e vi si accede con facilità per infiniti varchi non sorve- gliati. A sera intorno ai «rastelli» i nobili organizzano superbi banchetti, vere e proprie orge dove scorrono fiumi di vino, gareggiando tra loro con spagnolesco ardore a chi prepari l’«abbuffata» più solenne: si può immagi- nare che all’alba i soldati dei «rastelli» russino sonoramente, dimenticando ogni precauzione. Colpisce la mancanza di veri e propri interventi statali nel campo della profilassi. Il contagio, accettato come inevitabile e imprevedibile, va circo- scritto con misure repressive (lazzaretti, inviti alla delazione, editti minac- ciosi, cordoni sanitari), ma pochi sono i tentativi di curare gli infermi. La Deputazione della salute diffonde istruzioni su come identificare i sintomi della malattia; molto meno su come prevenirla o combatterla. Non vengono suggerite misure d’igiene particolari; non si parla quasi mai di medicamenti, sia pure empirici; non pochi medici si rifiutano di visitare i pazienti anche in assenza di sintomi specifici. Una peste politica? L’epidemia di Conversano del 1691 751 Ma non è tutto. Siamo tentati di chiederci se la peste del 1691 sia stata davvero una peste. Il dubbio sembra legittimo di fronte al numero relativa- mente limitato dei decessi e all’alta percentuale di guarigioni. E se non fu peste, perché tante precauzioni e tanta pubblicità? L’ipotesi di una peste «politica» (ossia di un diversivo su cui incanalare lo scontento della pubblica opinione) diviene consistente quando si noti che all’inizio degli anni Novanta una grave crisi economica era in corso nel Regno, conseguenza anche delle prodighe spese spagnole per la guerra di Milano. Il problema della rarefazione della moneta, che già il marchese del Carpio aveva tentato di risolvere, era divenuto drammatico; il debito dell’erario con i Banchi superava ormai i trecentomila ducati; reale era la minaccia di una serrata da parte di questi ultimi e del blocco di tutte le atti- vità creditizie, che avrebbe paralizzato lo Stato. Viceré e classe politica, messi alle strette, finirono con l’applicare un correttivo alla spagnola: l’alzamento (ossia la svalutazione) della moneta, nella misura del venti per cento; un provvedimento impopolare, soprattutto fra i ceti produttivi e gl’imprenditori, che — condotto senza le dovute cautele — finì con l’essere avversato dagli stessi consumatori per i consistenti aumenti dei prezzi che trascinò con sé. Tuttavia l’alzamento, da solo, non poteva bastare a fornire l’illusione di una reale e congrua crescita della moneta: occorreva agire in modo da impe- dire la sua fuga oltre confine, causata dall’alta propensione al consumo dei napoletani e non compensata da corrispondenti esportazioni. La peste — ovvero il presunto contagio — di Conversano offrì un valido pretesto alla chiusura delle frontiere del Regno e il rigido divieto delle importazioni frenò artificiosamente — sia pure per poco — il drenaggio della moneta, creando un’illusoria ed effimera abbondanza di denaro, cui però corrispose subito una prevedibile, ovvia, impennata dei prezzi. Forse anche per questi motivi i ministri napoletani si preoccuparono più dell’immagine della peste che non del morbo in sé: soprattutto studiarono di apparire preoccupati e solerti, presenti e impegnati, e di far credere che tutto fosse politicamente sotto controllo, malgrado le difficoltà del momento. Ma da un punto di vista sanitario in realtà fecero ben poco, né si affanna- rono a suggerire misure di igiene e profilassi. E forse non ce n’era neppure bisogno: falsa o vera che sia stata, la peste di Conversano si spense da sé, quando le acque tornarono tranquille. Un bel giorno di giugno il segretario del Regno annotò nel suo Notamento che, grazie alla «gran vigilanza ed attenzione» poste in atto, «s’è publicata la salute per tutto, ed è svanito qualunque timore» (c. 187v). 752 Imma Ascione 2. Il parere degli esperti e la pubblica opinione Notizie contraddittorie giungevano a Napoli negli ultimi giorni del 1690: il morbo segnalato a Conversano era peste, o non piuttosto «cagionato sola- mente da mali cibbi», come insinuava il presidente del Sacro consiglio Adriano Lanzina y Ulloa, convinto che la gente avesse mangiato «carne porcina infetta»? Anche i «segni e buboni che si erano scoperti», potevano «da altre infermità esser prodotti» (c. 1r e v). Sta di fatto che dei diecimila abitanti di Conversano si era ammalata solo una minima parte e si registrava anche un’alta percentuale di guarigioni. La mattina dell’ultimo giorno dell’anno, il viceré conte di Santo Stefano convocò «repentinamente» il Consiglio collaterale, per avvertire che «dovea giudicarsi vera peste il morbo di Conversano, ivi comunicata da Levante per mezzo di alcuni coriami in quelle marine sbarcati»; e mostrò una carta «con il parere autenticata de’ più famosi medici di quella Provincia» (c. 4r), infor- mando che si era provveduto ad aprire i lazzaretti per gli appestati. Fin dal primo momento la preoccupazione maggiore apparve quella di salvaguardare la capitale dal contagio, sicché Napoli venne circondata da ogni parte con cordoni sanitari: non era facile allontanare lo spettro del ’56. Il 3 gennaio 1691 il Viceré in persona si recò a controllare i «rastelli»; venne dato l’ordine di serrare le porte della città «ad un’hora di notte» e di «spurgare le (…) lettere poche miglia distante dalla Città con aceto» (c. 12v); il giudice di Vicaria Pietro Emilio Gauschi ebbe l’incarico di sorvegliare che venissero «buttate a mare le sarache guaste che si ritrovavano in questa città» (c. 14v). Com’era prevedibile, non tardò a diffondersi una vera e propria psicosi collettiva: un medico di Giugliano si rifiutò di «toccare il polzo ad un semplice febricitante che, senza buboni, né altro segno pestifero, pure volean dire che fosse peste»; i nobili che poterono si ritirarono nelle loro terre, con gran sollievo dei ministri napoletani, i quali calcolarono che al seguito di «quattromila cavalieri, sarebbero partite altre quarantamila persone» e si sarebbe «allegerita questa città di gente» (c. 15r). Il problema più grave rimaneva quello dell’impossibilità di chiudere del tutto la capitale e di impe- dire ogni ingresso, anche perché bisognava pur approvvigionare una popola- zione tutt’altro che esigua. I ministri sapevano bene che «li rastelli che si sono fatti al ponte della Maddalena, Casanova, Capodichino, Capodimonte ed altri, sono più un’apparente costodia che reale, mentre nelli borghi di Napoli si può entrare per infinite parti» (c.