RASSEGNA STAMPA di martedì 10 dicembre 2019

SOMMARIO

O Maria Immacolata, ci raduniamo ancora una volta intorno a te. Più andiamo avanti nella vita e più aumenta la nostra gratitudine a Dio per aver dato come madre a noi, che siamo peccatori,Te, che sei l’Immacolata. Tra tutti gli esseri umani, tu sei l’unica preservata dal peccato, in quanto madre di Gesù Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Ma questo tuo singolare privilegio ti è stato dato per il bene di tutti noi, tuoi figli. Infatti, guardando te, noi vediamo la vittoria di Cristo, la vittoria dell’amore di Dio sul male: dove abbondava il peccato, cioè nel cuore umano, ha sovrabbondato la grazia, per la mite potenza del Sangue di Gesù. Tu, Madre, ci ricordi che, sì, noi siamo peccatori, ma non siamo più schiavi del peccato! Il tuo Figlio, con il suo Sacrificio, ha spezzato il dominio del male, ha vinto il mondo. Questo narra a tutte le generazioni il tuo cuore terso come cielo dove il vento ha dissolto ogni nube. E così tu ci rammenti che non è la stessa cosa essere peccatori ed essere corrotti: è ben diverso. Una cosa è cadere, ma poi, pentiti, rialzarsi con l’aiuto della misericordia di Dio. Altra cosa è la connivenza ipocrita col male, la corruzione del cuore, che fuori si mostra impeccabile, ma dentro è pieno di cattive intenzioni ed egoismi meschini. La tua purezza limpida ci richiama alla sincerità, alla trasparenza, alla semplicità. Quanto bisogno abbiamo di essere liberati dalla corruzione del cuore, che è il pericolo più grave! Questo ci sembra impossibile, tanto siamo assuefatti, e invece è a portata di mano. Basta alzare lo sguardo al tuo sorriso di Madre, alla tua bellezza incontaminata, per sentire nuovamente che non siamo fatti per il male, ma per il bene, per l’amore, per Dio! Per questo, o Vergine Maria, oggi io ti affido tutti coloro che, in questa città e nel mondo intero, sono oppressi dalla sfiducia, dallo scoraggiamento a causa del peccato; quanti pensano che per loro non c’è più speranza, che le loro colpe sono troppe e troppo grandi, e che Dio non ha certo tempo da perdere con loro. Li affido a te, perché tu non solo sei madre e come tale non smetti mai di amare i tuoi figli, ma sei anche l’Immacolata, la piena di grazia, e puoi riflettere fin dentro le tenebre più fitte un raggio della luce di Cristo Risorto. Lui, e Lui solo, spezza le catene del male, libera dalle dipendenze più accanite, scioglie dai legami più criminosi, intenerisce i cuori più induriti. E se questo avviene dentro le persone, come cambia il volto della città! Nei piccoli gesti e nelle grandi scelte, i circoli viziosi si fanno a poco a poco virtuosi, la qualità della vita diventa migliore e il clima sociale più respirabile. Ti ringraziamo, Madre Immacolata, di ricordarci che, per l’amore di Gesù Cristo, noi non siamo più schiavi del peccato, ma liberi, liberi di amare, di volerci bene, di aiutarci come fratelli, pur se diversi tra noi - grazie a Dio diversi tra noi! Grazie perché, col tuo candore, ci incoraggi a non vergognarci del bene, ma del male; ci aiuti a tenere lontano da noi il maligno, che con l’inganno ci attira a sé, dentro spire di morte; ci doni la dolce memoria che siamo figli di Dio, Padre d’immensa bontà, eterna fonte di vita, di bellezza e di amore. Amen.

(Preghiera all’Immacolata di Papa Francesco – 8 dicembre 2019)

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Non c’è vera carità pastorale senza fraternità Alla comunità del seminario regionale Flaminio di Bologna

Abbiamo bisogno di essere liberati dalla corruzione del cuore La preghiera del Papa all’Immacolata in piazza di Spagna

Per l’Ucraina frutti di pace nella giustizia L’auspicio del Papa all’Angelus

AVVENIRE Pag 3 Dai “Medici” alla “Tosca”, quando la fede è resiliente di Giuseppe Lorizio L’esperienza religiosa e la semplificazione del racconto dalla opere alla serie tv

Pag 16 Francesco nomina il cardinale Tagle nuovo prefetto di “Propaganda fide” di Gianni Cardinale e Lorenzo Fazzini “Io resto sempre padre Chito, un semplice prete per i poveri”

Pag 23 Nella preghiera siamo davvero figli di Andrea Riccardi

Pag 24 La Bibbia? Merito e sacrificio di Luigino Bruni

Pag 25 “Uno scudo laico per l’arte sacra” di Alessandro Beltrami Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt presenta il Fondo edifici di culto, di cui è presidente

IL FOGLIO Pag 1 L’ascesa irresistibile di , il nuovo Papa rosso che del Concilio promuove l’ermeneutica della discontinuità di Matteo Matzuzzi

ITALIA OGGI Il card. Tagle dopo Francesco? di Antonino D’Anna Era al centro dell'attenzione anche di Papa Ratzinger

6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ

LA NUOVA Pag 19 Esuberi alla Stella Maris: “Troviamo una soluzione” Codess scrive ai sindacati

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V “Muneghette, nessuno sarà cacciato” di Nicola Munaro Il sacerdote che si occupa dell’edificio della Caritas spiega che lo stabile non è sicuro e va ristrutturato. “Carità e accoglienza vanno fatte bene, con dignità: stiamo trovando una soluzione temporanea per tutti”

Pag V Daniel Touitou è il nuovo rabbino. “Un centro studi ebraico a Venezia” di Marta Gasparon “L’antisemitismo? E’ un male antico”

LA NUOVA Pag 19 “Non abbiamo messo in strada nessuno”. I proge tti della Curia sull’assistenza di Alberto Vitucci Il vicario del patriarca don Fabrizio Favaro: bisogna garantire anche la dignità delle persone, quei luoghi erano inagibili

Pag 19 Venezia dà il benvenuto al nuovo rabbino. “Una città fantastica” di R.D.R.

CORRIERE DEL VENETO Pag 8 Centro di studi internazionale: “Nuova linfa per Venezia” di Valentina Iorio Comunità ebraica, il nuovo rabbino

8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 1 Il passato di odiatore del writer anti-odio di Angela Pederiva

Pag 16 Il sentiero del Papa buono di Giovanni Carraro Dopo essere stato nominato Patriarca di Venezia nel 1953, amava trascorrere i periodi di riposo a San Pietro di Feletto (Treviso)

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Migrare: le due facce di Vittorio Filippi Veneto e l’estero

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il declino del Paese moderato di Ernesto Galli della Loggia Noi e l’uomo forte

Pag 8 Il gioco dell’oca dei partiti sulla nuova legge elettorale di Francesco Verderami

Pag 23 Il sorriso delle donne immigrate che crescono i nostri ragazzi di Antonio Polito e Stefano Landi Shirley, babysitter per amore di sua fi glia. La 49enne filippina morta nello scontro tra un bus e un mezzo della nettezza urbana a Milano

LA REPUBBLICA Pag 30 La scommessa di gennaio di Stefano Folli

AVVENIRE Pag 1 Come urlo dal basso di Mauro Magatti Vuoto nella politica, forza della società

IL FOGLIO Pag 3 La tratta delle ragazze cristiane 629 dal Pakistan sono finite in Cina, dove c’è una grande richiesta di donne

IL GAZZETTINO Pag 1 In tre mesi tre nuovi partiti a sinistra e a destra del Pd di Alessandro Campi

LA NUOVA Pag 4 E’ un sistema drogato: una mazzata che fa bene a tutti di Ferdinando Camon

Pag 5 Le medaglie sporche non possono pagare mai di Gianni Riotta

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Non c’è vera carità pastorale senza fraternità Alla comunità del seminario regionale Flaminio di Bologna

«La carità pastorale del prete non può essere credibile se non è preceduta e accompagnata dalla fraternità, prima tra seminaristi e poi tra presbiteri». Lo ha ricordato Papa Francesco alla comunità del Pontificio seminario regionale Flaminio “Benedetto XV” di Bologna, ricevuta in udienza nella mattina di lunedì 9 dicembre, nella Sala Clementina.

Cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, cari seminaristi! Vi do il benvenuto in occasione nel centenario di fondazione del Pontificio Seminario Regionale Flaminio, voluto da San Pio X. Vi saluto tutti di cuore; ringrazio il Cardinale Matteo Zuppi per le sue parole, e saluto con affetto Mons. Luigi Bettazzi, che è quasi coetaneo del Seminario! Questa importante ricorrenza rappresenta una felice occasione per riflettere sulla bellezza della chiamata al sacerdozio ministeriale, che ci dà il dono e l’impegno di rappresentare il Buon Pastore in mezzo al suo Popolo e vivere come il Buon Pastore in mezzo al suo Popolo. Per prepararsi a questa missione, la madre Chiesa chiede di fare un serio percorso formativo, che l’ambiente del Seminario può offrire nel modo migliore. In tale prospettiva, vorrei indicarvi tre aspetti che identificano questo luogo e soprattutto tempo di formazione e di preparazione al sacerdozio, che è il seminario. Esso è casa di preghiera, casa di studio, casa di comunione. Voi siete chiamati ad essere evangelizzatori nella vostra Regione, segnata anch’essa dalla scristianizzazione. Quanti sono più esposti al vento freddo dell’incertezza o dell’indifferenza religiosa, hanno bisogno di trovare nella persona del sacerdote quella fede robusta che è come una fiaccola nella notte e come una roccia alla quale attaccarsi. Questa fede si coltiva soprattutto nel rapporto personale, cuore a cuore, con la persona di Gesù Cristo. E il Seminario è prima di tutto la casa della preghiera dove il Signore convoca ancora i «suoi» in «un luogo appartato» (cfr. Lc 9, 18), a vivere un’esperienza forte di incontro e di ascolto. Attraverso tale via, Egli vuole prepararli a diventare «educatori del Popolo di Dio nella fede», e abilitarli a «proclamare con autorità la Parola di Dio», a «radunare il Popolo» e a nutrirlo con i Sacramenti per «condurlo sulla via della salvezza» e conservarlo nell’unità (cfr. Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 68). È necessario, pertanto, dedicare adeguato impegno alla formazione spirituale. Sono gli anni più favorevoli per imparare a “stare con Lui”, gustando con stupore la grazia di essere suoi discepoli, imparare ad ascoltarlo, a contemplare il suo volto… Qui l’esperienza del silenzio e della preghiera è fondamentale: è lì, nel rimanere alla sua presenza, che il discepolo può conoscere il Maestro, come da Lui è conosciuto - direbbe San Paolo (cfr. 1 Cor 13, 12). Ma è essenziale anche l’incontro con Gesù nel volto e nella carne dei poveri. Anche questo è parte integrante della formazione spirituale del seminarista. Il secondo aspetto che identifica il Seminario è quello dello studio. Lo studio fa parte di un itinerario mirato all’educazione di una fede viva, una fede consapevole, chiamata a diventare la fede del pastore. Lo studio, in questo cammino, è strumento privilegiato di una conoscenza sapienziale e scientifica, capace di assicurare fondamenta solide a tutto l’edificio della formazione dei futuri presbiteri. È anche strumento di un sapere condiviso. Mi spiego. L’impegno di studiare, anche in Seminario, è chiaramente personale, ma non è individuale. Condividere le lezioni e lo studio con i compagni di Seminario è anch’esso un modo di entrare a far parte di un presbiterio. Infatti, senza trascurare le inclinazioni e i talenti personali, anzi, valorizzandoli, in Seminario si studia insieme per una missione comune, e questo dà un “sapore” tutto speciale all’apprendimento della Sacra Scrittura, della teologia, della storia, del diritto e di ogni disciplina. Si confrontano le diverse sensibilità personali nel comune orizzonte della chiamata e della missione; e questo grazie al servizio di docenti che, a loro volta, insegnano all’interno di questo medesimo orizzonte ecclesiale, libero da ogni autoreferenzialità. È bello studiare così, in questo ambiente. E veniamo alla terza dimensione: il Seminario come casa di comunione. Anche questo aspetto è “trasversale”, come gli altri due. Parte da una base umana di apertura agli altri, di capacità di ascolto e di dialogo, ed è chiamato ad assumere la forma della comunione presbiterale intorno al Vescovo e sotto la sua guida. La carità pastorale del prete non può essere credibile se non è preceduta e accompagnata dalla fraternità, prima tra seminaristi e poi tra presbiteri. Una fraternità sempre più impregnata della forma apostolica, e arricchita dai tratti propri della diocesanità, cioè da quelle caratteristiche peculiari del popolo di Dio e dei santi, specialmente dei santi preti, di una Chiesa particolare. In tale contesto, il Seminario si qualifica come cammino che educa i candidati a valutare ogni loro azione in riferimento a Cristo e a considerare l’appartenenza all’unico presbiterio come dimensione previa dell’agire pastorale e testimonianza di comunione, indispensabili per servire efficacemente il mistero della Chiesa e la sua missione nel mondo. Qui vorrei fermarmi un momento per riassumere le quattro “vicinanze”, i quattro atteggiamenti di vicinanza dei sacerdoti diocesani. Essere vicino a Dio nella preghiera, l’ho detto, si incomincia dal seminario. Essere vicino al vescovo, sempre vicino al vescovo: senza il vescovo la Chiesa non va, senza il vescovo il prete può essere un leader ma non sarà prete. Terza vicinanza: essere vicino al presbiterio, fra voi. Questa è una cosa che a me fa soffrire, quando vedo dei presbitéri frammentati, dove sono l’uno contro l’altro, oppure tutti cortesi ma poi sparlano l’uno dell’altro. Se non c’è un presbiterio unito… Questo non significa che non si può discutere, no, si discute, si scambiano le idee, ma la carità è quella che unisce. E la quarta vicinanza: la vicinanza al popolo di Dio. Per favore, non dimenticatevi da dove venite. Paolo diceva a Timoteo: “Ricordati di tua mamma e tua nonna”, cioè delle radici; ricordati che sei stato preso dal gregge e sei venuto perché il Signore ti ha scelto. Non sei venuto a fare la carriera ecclesiastica, come un tempo si diceva, in uno stile letterario di altri secoli. Vicinanza a Dio, vicinanza al vescovo, vicinanza al presbiterio, fra di voi, e vicinanza al popolo di Dio. Se manca una di queste, il prete non funziona e scivolerà, lentamente, nella perversione del clericalismo o in atteggiamenti di rigidità. Dove c’è clericalismo c’è corruzione, e dove c’è rigidità, sotto la rigidità, ci sono gravi problemi. Cari Seminaristi, ieri abbiamo celebrato la solennità dell’Immacolata. Maria risplende nella Chiesa per la sua singolare vocazione vissuta alla sequela del suo Figlio, nell’obbedienza umile e coraggiosa al disegno d’amore di Dio. Ella, che fu sempre unita a Gesù dal concepimento fino alla morte in croce, vi aiuti a scoprire ogni giorno il “tesoro”, la “perla preziosa” che è Cristo e il suo Regno, e a diventare annunciatori gioiosi del suo Vangelo. Il Seminario è anche il tempo in cui si accoglie Maria come Madre nella propria casa, nella propria vita, come l’apostolo Giovanni. Lei vi accompagni. Vi ringrazio per la vostra visita. Benedico il vostro cammino, con l’intercessione di San Pio X e dei testimoni esemplari che l’Arcivescovo ha ricordato all’inizio. Prego per voi. E anche voi, per favore, pregate per me. Grazie.

Abbiamo bisogno di essere liberati dalla corruzione del cuore La preghiera del Papa all’Immacolata in piazza di Spagna

«Quanto bisogno abbiamo di essere liberati dalla corruzione del cuore, che è il pericolo più grave!». È la preghiera rivolta dal Papa all’Immacolata durante il tradizionale atto di venerazione compiuto nel pomeriggio di domenica 8 dicembre in piazza di Spagna.

O Maria Immacolata, ci raduniamo ancora una volta intorno a te. Più andiamo avanti nella vita e più aumenta la nostra gratitudine a Dio per aver dato come madre a noi, che siamo peccatori, Te, che sei l’Immacolata. Tra tutti gli esseri umani, tu sei l’unica preservata dal peccato, in quanto madre di Gesù Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Ma questo tuo singolare privilegio ti è stato dato per il bene di tutti noi, tuoi figli. Infatti, guardando te, noi vediamo la vittoria di Cristo, la vittoria dell’amore di Dio sul male: dove abbondava il peccato, cioè nel cuore umano, ha sovrabbondato la grazia, per la mite potenza del Sangue di Gesù. Tu, Madre, ci ricordi che, sì, noi siamo peccatori, ma non siamo più schiavi del peccato! Il tuo Figlio, con il suo Sacrificio, ha spezzato il dominio del male, ha vinto il mondo. Questo narra a tutte le generazioni il tuo cuore terso come cielo dove il vento ha dissolto ogni nube. E così tu ci rammenti che non è la stessa cosa essere peccatori ed essere corrotti: è ben diverso. Una cosa è cadere, ma poi, pentiti, rialzarsi con l’aiuto della misericordia di Dio. Altra cosa è la connivenza ipocrita col male, la corruzione del cuore, che fuori si mostra impeccabile, ma dentro è pieno di cattive intenzioni ed egoismi meschini. La tua purezza limpida ci richiama alla sincerità, alla trasparenza, alla semplicità. Quanto bisogno abbiamo di essere liberati dalla corruzione del cuore, che è il pericolo più grave! Questo ci sembra impossibile, tanto siamo assuefatti, e invece è a portata di mano. Basta alzare lo sguardo al tuo sorriso di Madre, alla tua bellezza incontaminata, per sentire nuovamente che non siamo fatti per il male, ma per il bene, per l’amore, per Dio! Per questo, o Vergine Maria, oggi io ti affido tutti coloro che, in questa città e nel mondo intero, sono oppressi dalla sfiducia, dallo scoraggiamento a causa del peccato; quanti pensano che per loro non c’è più speranza, che le loro colpe sono troppe e troppo grandi, e che Dio non ha certo tempo da perdere con loro. Li affido a te, perché tu non solo sei madre e come tale non smetti mai di amare i tuoi figli, ma sei anche l’Immacolata, la piena di grazia, e puoi riflettere fin dentro le tenebre più fitte un raggio della luce di Cristo Risorto. Lui, e Lui solo, spezza le catene del male, libera dalle dipendenze più accanite, scioglie dai legami più criminosi, intenerisce i cuori più induriti. E se questo avviene dentro le persone, come cambia il volto della città! Nei piccoli gesti e nelle grandi scelte, i circoli viziosi si fanno a poco a poco virtuosi, la qualità della vita diventa migliore e il clima sociale più respirabile. Ti ringraziamo, Madre Immacolata, di ricordarci che, per l’amore di Gesù Cristo, noi non siamo più schiavi del peccato, ma liberi, liberi di amare, di volerci bene, di aiutarci come fratelli, pur se diversi tra noi - grazie a Dio diversi tra noi! Grazie perché, col tuo candore, ci incoraggi a non vergognarci del bene, ma del male; ci aiuti a tenere lontano da noi il maligno, che con l’inganno ci attira a sé, dentro spire di morte; ci doni la dolce memoria che siamo figli di Dio, Padre d’immensa bontà, eterna fonte di vita, di bellezza e di amore. Amen.

Per l’Ucraina frutti di pace nella giustizia L’auspicio del Papa all’Angelus

Il Papa ha auspicato che il vertice convocato in questi giorni a Parigi «per cercare soluzioni al doloroso conflitto in corso ormai da anni nell’Ucraina orientale» contribuisca a portare «frutti di pace nella giustizia a quel territorio e alla sua popolazione». L’invito a pregare per il buon esito del summit nella capitale francese è stato rivolto da Francesco ai fedeli presenti domenica 8 dicembre in piazza San Pietro per la preghiera dell’Angelus, introdotta da una riflessione dedicata all’Immacolata.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi celebriamo la solennità di Maria Immacolata, che si colloca nel contesto dell’Avvento, tempo di attesa: Dio compirà ciò che ha promesso. Ma nell’odierna festa ci è annunciato che qualcosa è già compiuto, nella persona e nella vita della Vergine Maria. Di questo compimento noi oggi consideriamo l’inizio, che è ancora prima della nascita della Madre del Signore. Infatti, la sua immacolata concezione ci porta a quel preciso momento in cui la vita di Maria cominciò a palpitare nel grembo di sua madre: già lì era presente l’amore santificante di Dio, preservandola dal contagio del male che è comune eredità della famiglia umana. Nel Vangelo di oggi risuona il saluto dell’Angelo a Maria: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1, 28). Dio l’ha pensata e voluta da sempre, nel suo imperscrutabile disegno, come una creatura piena di grazia, cioè ricolma del suo amore. Ma per essere colmati occorre fare spazio, svuotarsi, farsi da parte. Proprio come ha fatto Maria, che ha saputo mettersi in ascolto della Parola di Dio e fidarsi totalmente della sua volontà, accogliendola senza riserve nella propria vita. Tanto che in lei la Parola si è fatta carne. Questo è stato possibile grazie al suo “sì”. All’Angelo che le chiede la disponibilità a diventare la madre di Gesù, Maria risponde: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38). Maria non si perde in tanti ragionamenti, non frappone ostacoli al Signore, ma con prontezza si affida e lascia spazio all’azione dello Spirito Santo. Mette subito a disposizione di Dio tutto il suo essere e la sua storia personale, perché siano la Parola e la volontà di Dio a plasmarli e portarli a compimento. Così, corrispondendo perfettamente al progetto di Dio su di lei, Maria diventa la “tutta bella”, la “tutta santa”, ma senza la minima ombra di autocompiacimento. È umile. Lei è un capolavoro, ma rimanendo umile, piccola, povera. In lei si rispecchia la bellezza di Dio che è tutta amore, grazia, dono di sé. Mi piace anche sottolineare la parola con cui Maria si definisce nel suo consegnarsi a Dio: si professa «la serva del Signore». Il “sì” di Maria a Dio assume fin dall’inizio l’atteggiamento del servizio, dell’attenzione alle necessità altrui. Lo testimonia concretamente il fatto della visita ad Elisabetta, che segue immediatamente l’Annunciazione. La disponibilità verso Dio si riscontra nella disponibilità a farsi carico dei bisogni del prossimo. Tutto questo senza clamori e ostentazioni, senza cercare posti d’onore, senza pubblicità, perché la carità e le opere di misericordia non hanno bisogno di essere esibite come un trofeo. Le opere di misericordia si fanno in silenzio, di nascosto, senza vantarsi di farle. Anche nelle nostre comunità, siamo chiamati a seguire l’esempio di Maria, praticando lo stile della discrezione e del nascondimento. La festa della nostra Madre ci aiuti a fare di tutta la nostra vita un “sì” a Dio, un “sì” fatto di adorazione a Lui e di gesti quotidiani di amore e di servizio.

Al termine dell’Angelus, prima di parlare del vertice di Parigi sulla crisi ucraina, il Pontefice ha ricordato la beatificazione del lasalliano James Alfred Miller, celebrata sabato in Guatemala. Infine ha salutato i gruppi di fedeli presenti, dando appuntamento nel pomeriggio per il tradizionale atto di omaggio all’Immacolata in piazza di Spagna.

Cari fratelli e sorelle, ieri, a Huehuetenango, in Guatemala, è stato beatificato Giacomo Miller, religioso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, ucciso in odio alla fede nel 1982, nel contesto della guerra civile. Il martirio di questo esemplare educatore di giovani, che ha pagato con la vita il suo servizio al popolo e alla Chiesa guatemalteca, rafforzi in quella cara Nazione percorsi di giustizia, di pace e di solidarietà. Un applauso al nuovo Beato! Domani si svolgerà a Parigi un incontro dei Presidenti di Ucraina, Russia e Francia e della Cancelliere Federale della Germania - noto come “Formato Normandia” - per cercare soluzioni al doloroso conflitto in corso ormai da anni nell’Ucraina orientale. Accompagno l’incontro con la preghiera, una preghiera intensa, perché lì ci vuole la pace, e vi invito a fare altrettanto, affinché tale iniziativa di dialogo politico contribuisca a portare frutti di pace nella giustizia a quel territorio e alla sua popolazione. Saluto con affetto tutti voi, pellegrini dell’Italia e di vari Paesi, in particolare i fedeli polacchi di Varsavia e Lublino, i poliziotti irlandesi e i giovani di Sorbara (Modena). Un saluto speciale va alle Figlie della Croce, recentemente riconosciute come Associazione Pubblica dal Cardinale Vicario. In questa festa dell’Immacolata, nelle parrocchie italiane si rinnova l’adesione all’Azione Cattolica. Auguro a tutti i soci e i gruppi un buon cammino di formazione, di servizio e di testimonianza. Benedico i fedeli di Rocca di Papa e la fiaccola con cui accenderanno la grande stella sulla Fortezza della cittadina, in onore di Maria Immacolata. E il mio pensiero va anche al Santuario di Loreto, dove oggi sarà aperta la Porta Santa per il Giubileo Lauretano: che sia ricco di grazia per i pellegrini della Santa Casa. Oggi pomeriggio mi recherò a Santa Maria Maggiore a pregare la Madonna, e quindi in Piazza di Spagna per il tradizionale atto di omaggio ai piedi del monumento all’Immacolata. Vi chiedo di unirvi spiritualmente a me in questo gesto, che esprime la devozione filiale alla nostra Madre celeste. A tutti auguro buona festa e buon cammino di Avvento verso il Natale, con la guida della Vergine Maria. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

AVVENIRE Pag 3 Dai “Medici” alla “Tosca”, quando la fede è resiliente di Giuseppe Lorizio L’esperienza religiosa e la semplificazione del racconto dalla opere alla serie tv

In questi giorni sugli schermi degli italiani viene rappresentata un’immagine di Chiesa cattolica, che fa riflettere, provocando spesso indignazione, ma al tempo stesso stupore, per la sopravvivenza di un’istituzione, chiamata a superare momenti bui e tempestosi, quali quelli raccontati nella serie televisiva sui Medici (e in particolare su Lorenzo il Magnifico) e nello sfondo della vicenda della Tosca, che, nella prima della Scala di Milano, ci ha commossi ed emozionati per una serie di motivi che il nostro giornale ha già avuto modo di evidenziare. S i tratta di una Chiesa romana, imbrigliata dal 'potere temporale' e invischiata in dialettiche politiche e belliche, che nulla hanno a che vedere col Vangelo e con la sua missione spirituale. Alleanze, corruzione, sete di potere, intrighi di corte, certo appartengono al passato e vanno letti e interpretati tenendo conto dello spirito dei tempi: distingue tempora et concordabis jura ('distingui le epoche e metterai in armonia le leggi') suona l’antico motto di Francisco De Victoria (1483? 1546), domenicano, rappresentante della prestigiosa scuola giuridica di Salamanca e ritenuto padre fondatore del Diritto internazionale. Ma quanti degli spettatori delle suddette rappresentazioni sono in grado di applicare questo detto a quanto assistono? Molti non imboccano la scorciatoia di ritenere la Chiesa sempre e comunque, quindi anche oggi, una pura e semplice struttura di potere, in cui la prevaricazione detta comportamenti e suggerisce scelte politiche? Sarebbe, infatti, troppo facile usare le visioni di uomini di Chiesa ivi rappresentati per scagliarsi contro la comunità credente di tutte le stagioni e fornire alibi per l’allontanamento da essa. Ma, proprio per fugare e smascherare tali posizioni, credo che dobbiamo andare più in profondità nella lettura-interpretazione delle vicende storiche che ci inquietano e ci interpellano, chiedendoci: ma come è possibile che la fede, di fronte a questo scempio, sopravviva e continui a fornire risposte di senso anche alle donne e agli uomini nostri contemporanei? Ebbene, persino in quei momenti bui, se leggiamo con attenzione le vicende e i personaggi, troviamo ampie motivazioni di questa 'resilienza della fede' e della capacità del Vangelo di vivere (non solo di sopravvivere) nella storia di quelle epoche e della nostra. Lo spettatore attento e scevro da pregiudizi, infatti, non mancherà di rilevare come, nella serie televisiva dedicata alla storia dei Medici, non venga messa in scena solo la corte pontificia di Sisto IV, bensì anche l’autentica fede di Clarice Orsini, moglie di Lorenzo, e del giovane Girolamo Savonarola. In particolare, colei che un quotidiano fiorentino ha definito «la rosa nell’ombra», non solo si prodiga per alleviare le sofferenze del popolo, angariato e ridotto a miseria, nel corso dell’assedio alla città, ma si preoccupa anche della salvezza dell’anima della gente, organizzando il battesimo di un neonato, ammalato, che gli sarebbe stato precluso a causa della scomunica comminata dal papa alla città di Firenze. La sua non è quindi mera filantropia, ma autentica carità, che si preoccupa della terra e del cielo, della povertà materiale e di quella spirituale dei suoi concittadini. Quanto a fra’ Girolamo Savonarola, spicca il suo radicalismo evangelico, che lo condurrà, dopo un approccio giovanile simpatetico verso il Magnifico, a entrare in rotta di collisione con un umanesimo che, ai suoi occhi, si sta trasformando rapidamente in neopaganesimo. La causa di beatificazione del frate domenicano, pur avviata nel 1997 nella diocesi di Firenze, procede con gande lentezza, nonostante il fatto che, a un anno dalla morte, la Chiesa avesse concesso di celebrare in suo onore Messa e Ufficio e ci sia da chiedersi quale autorevolezza e credibilità possa aver avuto una scomunica inferta da Alessandro VI Borgia e nonostante che grandi santi, come Filippo Neri e Caterina Ricci, avessero espresso nei suoi confronti profonda venerazione. Si tratta in questo caso di dipanare una serie di questioni storiche e di rivedere interpretazioni storiografiche, la cui corretta lettura richiede ovviamente molto tempo e il concorso di energie di studiosi qualificati e di diverse competenze, ma è fuori dubbio che egli rappresenti un esempio di fede autentica e profonda, di cui è espressione quella che è stata chiamata la sua «teologia del miserere» (Luigi Lazzerini). A fronte di un «cristianesimo convenzionale » (famosa espressione di Wilhelm Hendrik van de Pol), quale quello rappresentato dal sacrestano, che coi suoi frettolosi inchini, si aggira in Sant’Andrea della Valle, nel primo atto di Tosca e in alternativa alla Chiesa, vissuta come struttura di potere, rappresentata da Scarpia (per il quale «ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso»), possiamo sperimentare la 'resilienza della fede' nella sua autenticità, che spicca dell’attitudine alla preghiera della protagonista dell’opera di Puccini e risulta pienamente evidente nella famosa aria 'Vissi d’arte, vissi d’amore'. Così si esprime, parlando della sua fede: «Sempre con fe’ sincera, la mia preghiera ai santi tabernacoli salì. Sempre con fe’ sincera diedi fiori agli altar». E questa fede si nutre di devozione mariana: «Diedi gioielli della Madonna al manto, e diedi il canto agli astri, al ciel, che ne ridean più belli». Vive la sua arte come tributo al cielo e come momento espressivo di rapporto con l’Infinito. Né manca il grido di dolore, che ricorda le invettive di Giobbe: «Nell’ora del dolore perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così?». E il tornare della domanda sul perché Dio non interviene a lenire le sofferenze dei suoi figli, non manca di commuovere e interpellare le donne e gli uomini di ogni tempo e di ogni latitudine. Riecheggia qui anche la fede autentica di Mimì, che nella Bohème aveva cantato: «Non vado sempre a Messa, ma prego assai il Signore». Fede semplice e ricerca dell’amore autentico, che ben si accordano, nell’ultima rappresentazione scaligera di Tosca, col finale, che non la vede precipitare al suolo, ma ieraticamente ascendere al cielo. Cavaradossi rifiuterà i sacramenti, mentre si avvicina la sua esecuzione, certo perché percepisce, dietro la crudeltà di Scarpia, una Chiesa potente e cinica, che pure, di lì a non molto, subirà anch’essa la violenza del potere napoleonico nella figura dello stesso Pio VII, per il quale Antonio Rosmini pronuncerà uno splendido panegirico, in parte censurato dagli austriaci, perché conteneva una preghiera per l’Italia, di cui avremmo particolarmente bisogno oggi. Non sempre il filone carsico dell’adesione disinteressata e incondizionata al Vangelo emerge con chiarezza e forse spesso non viene colto dallo spettatore superficiale, che si stupirà per il persistere della fede cristiana, grazie alla resilienza di quanti l’hanno vissuta e la vivono in ogni epoca e in ogni luogo.

Pag 16 Francesco nomina il cardinale Tagle nuovo prefetto di “Propaganda fide” di Gianni Cardinale e Lorenzo Fazzini “Io resto sempre padre Chito, un semplice prete per i poveri”

Roma. Sembra ormai che papa Francesco voglia rendere pubbliche le nomine più significative del suo pontificato proprio nei giorni in cui la Chiesa festeggia le grandi solennità mariane. Il nuovo sostituto, l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra, venne annunciato il 15 agosto 2018. Questa domenica 8 dicembre è stata la volta del nuovo prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione di Popoli, tradizionalmente chiamato il “Papa rosso” per le vaste competenze del dicastero presieduto: basti pensare da esso dipendono circa il 40% delle circoscrizioni ecclesiastiche dell’orbe cattolico. In questo delicato compito papa Francesco ha chiamato un porporato filippino: l’arcivescovo di Manila Luis Antonio Gokim Tagle, 62 anni, che subentra a , 73 anni, a sua volta chiamato ad assumere l’incarico di gran maestro dell’Ordine del Santo Sepolcro al posto del cardinale statunitense Edwin Frederick O’Brien, dimissionario, con 80 anni compiuti ad aprile. Tagle è il terzo asiatico a gui- dare Propaganda Fide, dopo cardinale armeno Pietro Gregorio Agagianian (1958-1970, fu il “concorrente” di san Giovanni XXIII nel Conclave del 1958) e l’indiano Ivan Dias (2006- 2011). Inoltre è il secondo filippino a guidare un dicastero romano, dopo Jose Tomas Sanchez, prefetto della Congregazione per il clero dal 1991 al 1996. Nato nel 1957 a Manila da una famiglia cattolica - il padre di etnia Tagalog e la madre (Milagros Gokim) di origini cinesi - “Chito”, questo è il soprannome che gradisce molto, Tagle è stato ordinato sacerdote nel 1982. Ha studiato negli Stati Uniti dove nel 1991 ha conseguito il dottorato summa cum laude con una tesi sulla collegialità episcopale nella dottrina e nella prassi di Paolo VI, sotto la direzione del teologo Joseph Komonchak. Chiamato a collaborare alla Storia del Concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo ha contribuito all’opera con un capitolo su uno dei momenti topici dell’assise, la cosiddetta “settimana nera” del novembre 1964. Ha trascorso sette anni a Roma per approfondire gli studi e nel 1997 è entrato a far parte della Commissione teologica internazionale. Nel 2001, a 44 anni è stato nominato vescovo di Imus da san Giovanni Paolo II. Nel 2011 Benedetto XVI lo ha promosso arcivescovo metropolita di Manila e tredici mesi dopo, nel novembre 2012, nel suo ultimo Concistoro, lo ha creato cardinale. Nonostante la, relativamente, giovane età, Tagle ha una vasta esperienza internazionale, ed è molto conosciuto anche fuori da confini asiatici. Oltre a guidare la diocesi della metropoli filippina, è infatti anche presidente di Caritas internationalis e della Federazione Biblica Cattolica. Inoltre ha partecipato al Sinodo del 1998 come esperto, e come membro in quelli del 2005, 2008 e 2012, dove è stato regolarmente eletto nei Consigli post-sinodali. In quello straordinario sulla famiglia del 2014, è stato uno dei tre presidenti delegati. Vaticannews ha sottolineato che con la scelta di Tagle «annunciata a pochi giorni dalla fine del viaggio in Thailandia e Giappone, Francesco ancora una volta dimostra una grande attenzione verso il Continente asiatico». Per la prima volta poi un porporato con sangue cinese nelle vene guiderà il dicastero che ha competenze dirette sulla vita della Chiesa nel Celeste impero, anche riguardo alla scelta dei vescovi ora regolata dallo storico accordo, provvisorio e segreto, stipulato tra Roma e Pechino quindici mesi fa. La nomina di Tagle è «altamente significativa», come sottolineato dalla rivista America dei gesuiti statunitensi, anche perché nella riforma allo studio quello per l’evangelizzazione sarà il primo dei Dicasteri della Curia Romana, quando invece questa posizione è stata storicamente appannaggio del Sant’Uffizio/ Congregazione per la dottrina della fede. Tagle prende il posto del cardinale Filoni, prefetto di Propaganda Fide dal 2011 dopo essere stato nunzio in Iraq e sostituto nella Segreteria di Stato, e ora nuovo gran maestro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro. Il cardinale O’Brien, in un comunicato, si è detto particolarmente felice che Filoni sia stato scelto quale suo successore: «La sua lunga ed ampia esperienza pastorale ed amministrativa nel servizio della nostra Chiesa Universale - ha rimarcato - saranno preziosi nel guidare l’Ordine nel suo futuro cammino».

Nata come 'Congregatio de Propaganda fide' nel 1622, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli ha assunto il nome attuale nel 1967 con la bolla “Immortalis Dei”di Paolo VI. Nel 1988 la Costituzione apostolica 'Pastor Bonus' di Giovanni Paolo II ne ha ridefinito i compiti sottolineando che le spetta «dirigere e coordinare in tutto il mondo l’opera stessa dell’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione missionaria, salva la competenza della Congregazione per le Chiese Orientali».

Attualmente la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli è costituita da 49 membri: 35 cardinali, 5 arcivescovi, 2 vescovi, 4 direttori nazionali delle Pontificie opere missionarie, 3 superiori generali. A presiederla, il neo nominato prefetto cardinale Luis Antonio Gokim Tagle che entrerà in carica il 1° gennaio. Il segretario è Protase Rugambwa, il segretario aggiunto è monsignor Giovanni Pietro Dal Toso, il sotto segretario è padre Ryszard Szmydki. Come informa il profilo ufficiale dei dicastero, vi prestano inoltre servizio stabile una cinquantina di persone divise in due sezioni: segreteria e amministrazione. La Congregazione è assistita da un Collegio di consultori, con esperti di varie discipline ecclesiastiche provenienti da diversi Paesi.

Lo ha confessato più volte egli stesso: «Mi stupisco ogni volta che una guardia svizzera in Vaticano mi chiama “eminenza”. Io, cardinale? Per me io resto sempre padre Chito, un semplice prete per i poveri, chiamato dal Signore per servire». Non è falsa modestia, quella di Luis Antonio Gokim Tagle, neo prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Chi lo conosce da vicino ha ben presente il suo tratto di persona semplicissima, diretta, senza fronzoli e ricca di humour. Un tratto umano ereditato dai genitori, ancora in vita (hanno di recente festeggiato i 60 anni di matrimonio), nutrito da una doppia discendenza: filippina per parte di padre, cinese dalla madre (lui stesso nei suoi libri ha voluto che comparisse sempre il cognome cinese della madre). Proprio dalla linea materna Tagle attribuisce una dote che ammette di aver ricevuto: l’indefessa capacità di lavoro. Che lo ha reso, contemporaneamente, arcivescovo di una delle diocesi più popolose del mondo, Manila, presidente di Caritas internationalis, presidente della Federazione biblica internazionale, presidente delegato dei due recenti Sinodi sulla famiglia, e membro di diversi organismi vaticani. Così come conferenziere e predicatore molto richiesto in diverse parti del mondo. E anche docente di teologia, passione cui non ha mai rinunciato, continuando ad insegnare in alcuni atenei cattolici della sua diocesi. Chi lo conosce da vicino sa che l’iter ecclesiastico di Tagle è stato un susseguirsi di gesti di obbedienza nel fare quello che altri (la voce di Dio prima, la chiamata della Chiesa dopo) gli hanno via via domandato. Ad un iniziale desiderio giovanile di diventare medico subentrò la vocazione al sacerdozio. Da giovane pre- te voleva semplicemente lavorare in una parrocchia povera: la momentanea richiesta di diventare padre spirituale e poi rettore (a soli 25 anni!) nel Seminario diocesano di Imus, la Chiesa locale che l’ha ordinato prete nel 1982 (lo stesso anno in cui inizia a insegnare teologia), lo portò lontano da quel desiderio. Anche la scelta del vescovo Felix Perez di inviarlo a Washington per lo studio alla Catholic University non era nei suoi desiderata: ma qui si diede da fare, insieme allo studio, prestando la sua opera di volontario nelle case delle suore di Madre Teresa di Calcutta, preparando i pasti (ha l’hobby della cucina) per i malati di Aids. E per mantenersi gli studi, era disponibile a dattilografare le tesi per i suoi compagni. Quando nel 1997 Joseph Ratzinger lo sceglie come membro della Commissione teologica internazionale, Tagle ha solo 40 anni. Nel 2001 viene nominato vescovo di Imus e continua a essere un pastore di serena normalità: gira per la città sui mezzi pubblici, non lesina la vicinanza e la confidenza con i suoi alunni (a tutti lascia il numero del suo cellu-lare), dà impulso all’attenzione della Chiesa per i giovani (organizza proprio a Imus la prima Gmg continentale). E quando nel 2015 i media filippini lo cercano perché lui era l’unico filippino collaboratore del nuovo Pontefice, Benedetto XVI, Tagle non si fa trovare per tre giorni perché non vuole le luci della ribalta su di sé. Ma la statura della sua personalità viene notata da Jorge Mario Bergoglio, che durante il Congresso eucaristico in Quebec, nel 2008, si avvicina all’allora presule di Imus, dopo che Tagle aveva appena dettato una meditazione: «Grazie, eccellenza, del suo intervento. Posso avere il suo testo?»: questo l’aneddoto raccontato dallo stesso Tagle durante il Festival Francescano di qualche anno fa a Rimini. «Sono il cardinale Bergoglio di Buenos Aires. Mi farebbe molto piacere rileggerla». Proseguiva Tagle, dando prova di quello humour che in tanti hanno potuto conoscere, ascoltando i suoi interventi (al Meeting di Rimini lo scorso anno ad esempio, o al Festival della missione a Brescia nel 2017) o leggendo i suoi testi: «Qualche settimana dopo, mi è arrivata una lettera del cardinal Bergoglio da Buenos Aires. E dopo qualche altra settimana un’altra. E io non gli ho mai risposto! E pensate quanto valgono quelle lettere oggi!!!». Una simpatia umana che ha reso il cardinal “Chito”, come da nicknamesui social, vicino a tanti e tante. E che ora ha i confini della missione universale della Chiesa.

Pag 23 Nella preghiera siamo davvero figli di Andrea Riccardi

Esce oggi per San Paolo il nuovo libro di Andrea Riccardi, La preghiera, la parola, il volto (pagine 176, euro 18,00). In un mondo dominato da una comunicazione rapida e incalzante, hanno ancora senso la preghiera e la lettura della Parola di Dio? Che significa pregare di fronte all’abisso del male e del dolore? Come può l’uomo contemporaneo affrontare il “silenzio di Dio”? Avendo come punto di riferimento la Bibbia, i Padri della Chiesa e la tradizione iconografica orientale, Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, cerca di rispondere a questi e ad altri interrogativi dell’esistenza umana. Riccardi aiuta a leggere la Parola di Dio nella storia e di fronte alle domande dei poveri e dei feriti della vita.

Il dono della Parola, riscoperto come popolo con il Vaticano II, va vissuto ogni giorno e celebrato con una festa. È la Domenica dedicata al Verbum Domini o alla Dei Verbum: giorno di venerazione delle Sacre Scritture, manifestazione della gioia del popolo di Dio per il dono della Parola, occasione di diffusione della Bibbia e dei Vangeli tra i fedeli. Molte esperienze già sono andate in questo senso: in America Latina si celebra una Domenica della Parola vicino alla festa di San Girolamo, nella n una casa di riposo, una donna anziana, malata in modo grave, un giorno mi ha detto con espressione sconsolata: «Io non so pregare. So solo tre preghiere... ma ho bisogno di pregare e di essere aiutata da Dio». Sono rimasto colpito dalla spontaneità dolorosa di quelle parole. Mi è tornata alla mente la richiesta dei discepoli a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare ». C’è una grande domanda tra gli uomini e le donne del nostro tempo: trovare le parole e la maniera di pregare. Eppure nella vita, la gente prova fatica a pregare e si sente spesso come di fronte a un grande silenzio. Questo silenzio, il silenzio di Dio, mette in risalto il balbettio della preghiera che sembra troppo elementare e soprattutto incapace di raggiungere il Signore. Una preghiera povera s’incontra con quella che appare come un’incombente mancanza di risposte da parte del Signore. È indifferenza all’invocazione? Assenza? Qual è il significato? Si finisce talvolta per sfuggire al mondo della preghiera, quasi per evitare una situazione imbarazzante, in cui donne e uomini adulti si scoprono un po’ infantili. Quasi ci si sente posti di fronte alla propria inadeguatezza che s’intreccia con tanti interrogativi su Dio. Nel linguaggio rapido della comunicazione del nostro tempo, la mancanza di risposte immediate non solo rivela scortesia, ma manifesta un diniego. Il “mondo” della preghiera non ha un linguaggio simile a quello della comunicazione quotidiana con risposte rapide, anche se poi non è così lontano dai moduli espressivi della gente comune. Non è, per questo, un “mondo” vuoto, anche se è popolato di silenzi. Ci sono parole, presenze, riferimenti, volti, assieme ai silenzi. Tutto comincia dalla parola: la parola (anche povera) di chi prega come chiedesse a un amico o a un padre, ma pure la Parola di Dio che vie- ne rivolta a ciascuno. La Bibbia è un Libro, o un insieme di Libri, che aiuta a pregare e offrire una grammatica della preghiera. Con le parole che si leggono nella Bibbia o che si ascoltano da essa, il Signore risponde alle domande della preghiera e della vita. Con la Bibbia, la Parola di Dio aiuta a pregare – si pensi al Salterio – e allo stesso tempo viene in aiuto alla nostra debolezza suscitando nella nostra vita un cuore sensibile. Dopo il Concilio, pur essendo cresciuto l’amore per la Bibbia, non si è ancora affermata nel popolo quella che chiamerei la devozione per la Sacra Pagina: prendere in mano con familiarità, ascoltare con fede e leggere con gioia la Parola di Dio. C’è invece una grande eredità conciliare da cogliere. Il Concilio aff erma: «La Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto con il corpo di Cristo stesso, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del Pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo...». Il parallelismo tra l’Eucarestia e la Parola di Dio, stabilito dal Concilio, mi ha spinto più volte a chiedermi: non sarebbe necessario far crescere nel popolo di Dio la venerazione delle Divine Scritture, come è cresciuta quella del corpo di Cristo, per il quale dal Duecento si celebra la festa del Corpus Domini? Non si dovrebbe pensare a una nuova festa? Ogni celebrazione liturgica è celebrazione della Parola di Dio nel rapporto profondo tra Bibbia e liturgia; ma allo stesso tempo sono convinto della necessità di focalizzare una Domenica su questa tematica. Papa Francesco è venuto incontro a questa esigenza, radicata nel vissuto della Chiesa del postConcilio, con la Lettera apostolica Aperuit illis, con cui, non solo istituisce la Domenica della Parola di Dio nella terza Domenica per annum, ma ricorda qualcosa di fondamentale: «La Bibbia non può essere solo patrimonio di alcuni… Essa appartiene, anzitutto, al popolo convocato per ascoltarla e riconoscersi in quella Parola». E aggiunge: «La Bibbia è il libro del popolo del Signore che nel suo ascolto passa dalla dispersione e dalla divisione all’unità». Chiesa indonesiana si dedica il mese di settembre alla Bibbia, nella Comunità di Sant’Egidio il giorno della festa di San Pietro e Paolo... Niente di improvvisato; è qualcosa che germina dal vissuto del popolo credente. Ma bisogna essere grati a papa Francesco che ha portato avanti la recezione del Concilio con la Domenica della Parola di Dio. Una simile festa ha radici antiche nella tradizione ebraica, che per Shavuot (Pentecoste) celebra il dono della Torah sul Sinai, mentre alla fine di Sukkot (Capanne) celebra la festa della “gioia della Torah”. Il Corpus Domini è stato la grande festa dell’identità cattolica legata alla fede nell’Eucarestia. Allo stesso modo, oggi, papa Francesco propone a tutta la Chiesa una festa di gioia attorno alla Parola, come un dono che faccia crescere la devozione alle sue pagine attraverso la lettura, l’ascolto, la venerazione e l’intronizzazione del Libro. Ma anche una festa che rinnovi l’impegno ad ascoltare il Signore che parla. Infine una festa dedicata al dono e alla consegna della Bibbia e del Vangelo sia nel quadro liturgico che in quello più largo della diffusione tra la gente, come ama fare papa Francesco. La preghiera cristiana, per secoli, si è purtroppo impoverita per l’assenza di familiarità con la Bibbia. Ma non si è spenta. Spesso, anche la Bibbia rischia di essere ridotta a un insegnamento religioso o a una esortazione morale. Nei secoli, però, con il suo intuito di fede e sospinto da un bisogno profondo, il popolo di Dio ha cercato e percorso tante strade per invocare il Signore. E la Chiesa ha sempre vissuto e continua a insegnare la parola rasserenante di Gesù: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Lc 11,9). Le parole della Bibbia sono state e sempre più saranno il nutrimento per chi chiede e chi cerca: l’anima della preghiera e la risposta che viene dal Signore all’invocazione di chi si rivolge a lui e lo ascolta. Così il silenzio della preghiera appare, a chi vi si inoltra, come un mondo popolato di parole, segni, presenze e volti, ma soprattutto abitato dalla Parola di Dio. Questa – come insegnano i Padri – cresce con chi la legge, l’ascolta e prega con essa. Non s’impara una lingua in un solo giorno e in un momento emotivo. E nella preghiera si resta sempre bambini. Questa è la condizione vera di fronte a Dio: essere figli e bambini. Infatti Gesù, che è anche compagno e maestro nella preghiera, ci ha insegnato a dire con lui e con i fratelli: «Padre Nostro...».

Pag 24 La Bibbia? Merito e sacrificio di Luigino Bruni

È difficile commentare la Bibbia. Sono molti gli errori che i commentatori hanno compiuto e continuano a compiere. C’è chi la tratta come fosse una raccolta di sentenze morali, allo scopo di tirarne fuori indicazioni etiche per l’azione. Ci sono poi coloro che la vedono come un libro sacro, e il “rispetto” per la sacralità dei suoi racconti impedisce loro di scrivere niente di nuovo o di diverso da quanto già detto dai grandi commentatori del passato. Molti sono poi quelli che ignorando la benché minima nozione del metodo storico-critico restano intrappolati nelle metafore e nelle analogie, ignorando la storia delle fonti e i generi letterari – per non parlare della numerosa schiera di scrittori cristiani che hanno letto l’Antico Testamento come allegoria del Nuovo. O chi – ma potremmo continuare a lungo – ossessionato dall’etimologia dei singoli termini, e sedotti dall’origine complessa di ogni versetto, impedisce al lettore “laico” di cogliere un senso d’insieme di un libro biblico e persino di un suo capitolo. Roberto Calasso è riuscito invece a scrivere un bel commento alla Bibbia, un bellissimo libro, in uno stile sobrio e originale. Un libro che si legge con grande piacere, accessibile (quasi sempre) al lettore curioso anche se non avvezzo agli studi biblici. In ogni pagina si incontrano sorprese, ed è rarissimo trovare interpretazioni dei personaggi biblici senza uno o più tratti di novità. Calasso attraversa quasi tutta la Bibbia lasciandoci in dote molte parole nuove, alcune bellissime. Ciò non significa dire che questo sia un libro facile. È un grande libro, e quindi complesso. Calasso dialoga incessantemente con un gran numero di autori, e se il lettore ne ignora troppi o non ne riconosce molti, si perde le frasi più belle del libro – come quelle, splendide, dei duetti, quasi sempre impliciti, con Kafka. Non ci sono molti libri, e non solo in lingua italiana, che assomigliano al Libro di tutti i libri (Adelphi, pagine 555, euro 28,00), anche perché per scrivere un libro come questo ci vuole una cultura ampia come quella che pochi intellettuali della nostra generazione possiedono. Un libro che gli si può accostare è Un commento alla Bibbia di Sergio Quinzio, altro grande e immortale libro, compagno necessario anche nei miei discorsi con i testi biblici. La Bibbia è definita da Roberto Calasso «Il libro di tutti i libri», una frase presa in prestito da Goethe che, molto opportunamente, apre il libro in esergo. Questo titolo potrebbe però ammiccare ad un secondo senso: è un libro nato da tutti i libri che Calasso ha incontrato, amato e studiato nel corso della sua lunga e feconda carriera. Per scrivere un libro come questo ci vogliono una vita intera e un talento letterario immenso. Dialoghi: il volume di Calasso è essenzialmente un insieme di dialoghi con libri biblici (quasi unicamente della Bibbia ebraica, o il nostro Antico Testamento), dialoghi con alcuni grandi personaggi e protagonisti della Bibbia: Adamo ed Eva, Caino, Noè, Giobbe, Qoe- let, Abramo, Giacobbe, Giuseppe, Mosè (che è un libro nel libro), Saul, Davide, Salomone, e con profeti come Samuele, Isaia, Ezechiele, Daniele, per concludere con alcune pagine suggestive sul Messia: «Quando verrà il Messia, è probabile che passi inosservato, perché cambierà soltanto alcune piccole cose. E non si sa quali». Dialoghi che diventano spesso trialoghi quando (quasi sempre) si aprono alla letteratura, alla filosofia, alla mitologia greca, alla storia antica, all’arte, ai midrash (che, come nella antica tradizione ebraica, si intrecciano con il testo commentato fino a confondersi con questo), con vocabolario curato e accurato come solo un fuoriclasse della scrittura può permettersi. L’altro asse cartesiano dello spazio del libro è rappresentato da alcuni temi ricorrenti, particolarmente cari all’autore, che intersecano i ritratti e i temi del libro. È su due di questi temi trasversali che mi voglio soffermare. Non parlerò, invece, delle scelte che mi hanno convinto meno. Ne indico solo una formale: la mancanza di una Introduzione al libro, che avrebbe aiutato non poco il lettore meno esperto dei molti e complessi temi affrontati, e a spiegarci, magari, perché il commento alla Genesi è collocato nella seconda parte del libro. Tutte le altre scelte che non condivido le taccio (non sono comunque molte: il libro mi è piaciuto moltissimo, mi ha conquistato pagina dopo pagina, in una lettura benedicente), perché credo sia buon mestiere del recensore discutere con l’autore e con i lettori sul sempre limitato territorio sul quale l’autore ha deciso di scrivere, e non su quello, sterminato, su cui non ha voluto scrivere. Il primo è il tema del merito, che corre e ricorre in molte bellissime pagine del libro: «Gli eletti non sono mai semplicemente coloro che accumulano meriti. Se così fosse, il mondo sarebbe una interminabile e tediosa lezione di morale». Una tesi forte e importante, che ci fa entrare in una delle vene più profonde e vive della Bibbia. Ancora sul merito leggiamo più avanti nel libro: «Abramo fu il primo a essere toccato dalla grazia separata dai meriti. … Abramo non era re né sacerdote, e neppure capofamiglia. E non si faceva notare neppure per la devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvé». Suggestiva è poi una nota su Kafka: Kafka immaginò una scuola dove «il maestro intende fare in modo che la premiazione del migliore sia al tempo stesso una punizione del peggiore». Calasso ci aiuta molto, con queste e molte altre riflessioni, a sfatare l’idea che la Bibbia sia la sorgente della religione meritocratica del nostro tempo, che partita dal business sta occupando l’intera società. Nella Bibbia c’è senz’altro un’anima meritocratica (contro la quale reagiscono Giobbe, Qoelet e molti profeti), ma più forte, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, è la critica alla logica del merito, quella critica che ripresa da Paolo e poi da Lutero ci ha aiutato a comprendere alcuni del messaggi antropologici più profondi dell’umanesimo biblico: «Che gli Ebrei siano stati eletti da Iahvé non per i loro meriti ma per una promessa fatta a tre singoli uomini – Abramo, Isacco, Giacobbe –, e che anche questi tre uomini non avessero meriti specifici, in origine, per essere scelti, è il fondamento di ogni teoria della grazia, da Agostino a Pascal. È questo il tratto che distingue la Bibbia dai primi testi egizi, mesopotamici o fenici. Qui finalmente, si incontra una differenza irriducibile». Pochissimi autori, se ce ne sono, hanno saputo cogliere come Calasso il rapporto tra Bibbia, merito ed elezione. Il secondo tema è il sacrificio, in rapporto alla colpa. Il discorso di Calasso sul sacrificio nella Bibbia inizia con Caino ed Abele, e arriva fino alle ultime pagine del libro, passando per Abramo, Isacco e il Monte Moria, Mosè e tutto il Pentateuco, Ezechiele e altri profeti. Il sacrificio di Caino non fu accettato da Elohim perché mancava il sangue, perché non era legato alla morte cruenta di un animale: «Ogni sacrificio presuppone il sacrificio cruento. Per questo il sacrificio di Abele fu gradito, non quello di Caino. Soltanto il sangue è manifestazione incontrovertibile della vita». Il sacrificio è un dato primordiale dell’uomo religioso, un prius antropologico che si pone prima dei peccati. Per questa ragione, il sacrificio sarebbe segno di una colpa originaria, addirittura il tratto specifico del theo-umanesimo della Bibbia: «La specificità e l’unicità biblica stanno nella colpa, nella rivendicazione della colpa come atto fondatore della storia del mondo». Ai tempi di Caino, «essenziale era riuscire graditi a Iahvé. Ma questo presupponeva uno stato precedente, in cui non si fosse già graditi a Iahvé. Se il gradimento andava conquistato, questo implicava che all’inizio l’uomo fosse in difetto». In realtà, anche la cultura greca conosce la colpa (v. Edipo), e la radice della parola germanica schuld (debito e colpa), tanto cara a Giorgio Agamben, è più antica dell’influsso biblico. Sebbene molte civiltà siano legate alla cosiddetta cultura della vergogna, non sono poche le culture arcaiche che pongono all’inizio della storia una colpa originaria, e che leggono la vita umana come espiazione di quella colpa. La Bibbia ha la sua versione di questa colpa antropologica e della sua espiazione, alla quale Calasso associa giustamente il tema dei sacrifici. Ma non è l’unica cultura che ha posto la colpa al centro della proprio sistema religioso, e, molto più di altri popoli, Israele ha associato la colpa non solo al sacrificio ma anche alla misericordia. Per questo non è così evidente affermare che «la concezione sacrificale continuerà ad innervare giudaismo e cristianesimo tuttora definibili religioni sacrificali senza sacrifici cruenti». Calasso ricorda che i profeti hanno criticato la logica dei sacrifici, e aggiunge: «Più che il sacrificio in sé, Isaia attaccava ciò che del sacrificio si mostrava: il sangue». In realtà, Isaia, in compagnia di Qoelet, era proprio critico del sacrificio in sé, perché, per vocazione, intuisce che quella voce che gli parla non può essere quella di un Dio interessato alla logica retributiva dei sacrifici. E perché il sacrificio è il primo strumento di una visione economica della divinità, di un Dio commerciante che segue nel rapporto con gli uomini una sorta di partita doppia. Ogni critica al sacrificio è un dire che Dio non è immagine dell’homo oeconomicus. Se c’è, infatti, un rapporto tra sacrificio e colpa, non meno stringente è il rapporto tra sacrifico ed economia. Per concludere alcune perle che in grande numero si incontrano nel libro: «Nessun ordine è completo; nessun ordine regna; nessun ordine regge. Ma tutto accade come se l’ordine reggesse». E, parlando dell’Eden, «la prima apparizione della bellezza avvenne con l’albero del bene e del male». Quando Adamo ed Eva scoprirono di essere nudi e si coprirono con foglie, «più che con il sesso, la nudità aveva a che fare con l’incompiutezza… Si guardarono intorno e videro che nessun animale sentiva il bisogno di aggiungersi qualcosa. Erano tutti completi. E tali sarebbero rimasti». Sul divieto di farsi immagine: «Il primo artefice di idoli fu Elohim quando creò Adamo dicendo: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”. Imitando se stesso, mise in moto un meccanismo inarrestabile». E infine, riguardo al primo contratto della Bibbia, stipulato da Adamo per comprare dagli ittiti il terreno per la tomba di Sara: «Per i figli di Israele ciò che è irrinunciabile deve essere comprato. Che è l’inverso della dottrina comune secondo cui la cose più importanti non hanno prezzo». Forse la migliore conclusione possibile per un recensore economista.

Pag 25 “Uno scudo laico per l’arte sacra” di Alessandro Beltrami Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt presenta il Fondo edifici di culto, di cui è presidente

Si chiama Fondo edifici di culto, è sconosciuto ai più ma ha un ruolo centrale nel sistema dei beni culturali italiani: all’organismo parte del ministero dell’Interno afferiscono 837 edifici sacri (spesso di primaria importanza) aperti al culto su quasi tutto il territorio nazionale e in concessione a enti ecclesiastici. È un caso tutto italiano, solo parzialmente accostabile alla Francia, dove la questione è regolata dalla legge di separazione tra Stato e Chiese del 1905. Un patrimonio immenso che discende dalle soppressioni postunitarie e che comprende oltre alle chiese anche le opere d’arte all’interno. Proprio una selezione di queste ultime è al centro del calendario 2020 del Fec “Tessuti d’arte”, che viene presentato questa mattina nel Salone delle conferenze del Viminale, con gli interventi del cardinale Gianfranco Ravasi e di Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, da ottobre presidente per un quadriennio del cda del Fondo edifici di culto. Professor Schimdt, che scopo ha il Fec? La sua funzione, legata a materia concordataria, è rendere gratuitamente fruibili le chiese per i fedeli, le comunità religiose e gli enti ecclesiastici che le hanno in concessione. L’Italia è uno stato laico, ma nella sua storia la fede cattolica ha un ruolo particolare ed è quindi giusto che la collettività si impegni a rendere accessibili questi beni: non per scopi museali, che esistono ma sono accessori, ma soprattutto per il culto. Pertanto il mantenimento di questi edifici è responsabilità della Repubblica italiana. Questi beni non dovrebbero essere gestiti dal Mibact? Tutti gli interventi di restauro sono gestiti dal Mibact attraverso le sovrintendenze, come è giusto. Il fatto però che appartengano al Fondo edifici di culto risponde proprio alla funzionalità particolare di questi luoghi, che da un canto sono beni artistici e architettonici a pieno effetto e quindi sottoposti a tutti i vincoli, ma dall’altro non hanno finalità laica. Le opere che sono in gestione del demanio e delle sovrintendenze possono variare la loro destinazione con una certa facilità, mentre nel Fec questa operazione ha bisogno di una approvazione particolare. Se in un luogo di culto viene meno la presenza della comunità religiosa e cade l’interesse per la celebrazione della messa, l’eventualità di una riconversione d’uso è oggetto di una riunione del cda del fondo, che può e deve dare prescrizioni precise per evitare abusi o equivoci. Il bilancio del Fec è di 18 milioni circa annui. Sembrano pochi… Non sembrano: sono pochissimi. Nemmeno il doppio basterebbe. Non solo uno stanziamento superiore sarebbe augurabile, ma in alcuni casi è una necessità fortissima. Dagli anni Ottanta in poi i fondi destinati sono andati in calo costante. Questa flessione rende la gestione insostenibile. Nel 2017 un pezzo di cornicione si è staccato nella basilica di Santa Croce, a Firenze, uccidendo un uomo. Non si può saltare manutenzione ordinaria e straordinaria. Per tenere aperte le chiese e per la tutela delle opere con impianti di allarme e in alcuni casi con clima box, servirebbe almeno il triplo dei fondi attuali. Il Fec si trova nella situazione in cui stagnavano i musei fino alla riforma Franceschini, quando con l’autonomia e una politica flessibile degli ingressi si è imboccata una buona strada. Possibilità possono arrivare dall’Art Bonus e dalle donazioni. Molte fabbricerie, che hanno in gestione venticinque luoghi di culto monumentali, hanno adottato la politica di bigliettazione. È una scelta “ecumenica”, dato che anche diverse diocesi hanno scelto questa via per il patrimonio monumentale oggetto di flussi turistici. Certo il rischio della museificazione è forte. Quale è la sua opinione? È una scelta che suscita forti perplessità di natura ideologica da parte dello Stato, e da parte della Chiesa di carattere spirituale e pastorale. Però è un dato di fatto che se un luogo sacro non è più sicuro deve essere chiuso. È un rischio tale che rende legittimo trovare nuove forme di finanziamento. Il biglietto è giustificabile per coloro che non entrano in chiesa per il suo scopo primario. Chi viene per motivi spirituali deve poter entrare gratis: e devo dire che per esperienza chi è di guardia nelle chiese, tanto diocesane quanto quelle delle fabbricerie, ha sviluppato la capacità matematica di rico- noscere con certezza matematica il motivo per cui uno varca l’ingresso. Il rischio di farne dei musei è forte, ma era imprevedibile negli anni 80 quando venne creato il Fec. Bisogna però ammettere che nei tempi recenti per tutte le chiese che nei grandi centri hanno un forte interesse turistico il carattere museale è diventato più forte della destinazione originale. Questo non deve spaventare. Bisogna considerare che già nel Medioevo le chiese erano edifici polifunzionali, qui la gente si incontrava per fatti extracultuali, anche civici. Lo stesso termine “basilica” nell’impero romano indicava uno spazio chiuso destinato a riunioni pubbliche. Un uso turistico delle chiese non è di per sé negativo. Certo può registrare esagerazioni, quando vi entrano persone che non hanno rispetto della sacralità, o solo per scattare un selfie in un luogo famoso: una cosa che accade anche nei musei. Il vero interesse culturale è sempre storico, artistico e teologico. Le chiese parlano attraverso le opere d’arte, che hanno una funzione catechetica. È durante le vacanze che spesso le persone, visitando i luoghi sacri, si trovano a riflettere sulla propria vita e sulla dimensione religiosa. Ce lo insegna san Paolo: le conversioni avvengono durante un viaggio… I musei italiani sono, con gradi diversi, in buona se non in molta parte di “arte sacra”. A suo avviso quanto la lettura dello specifico elemento religioso è presente nel modo in cui i musei raccontano queste opere? In alcuni di più in altri di meno. Agli Uffizi la creazione geniale di Scarpa e Michelucci nella sala di Giotto e dei primitivi ha avuto la forza di evocare il contesto ecclesiastico senza storicismi o trarre in inganno il visitatore: non c’è uno spazio ecclesiale dove la chiesa non c’è. C’è invece l’evocazione in senso astratto di atmosfera e dimensione liturgica delle opere. Poi per capirlo davvero è necessario entrare nelle chiese di Firenze, dove per fortuna ci sono ancora pale d’altare in situ... Allo stesso modo abbiamo lavorato nella nuova sala dedicata alla pittura religiosa della controriforma, uno spazio a pianta centrale che allude a uno spazio sacro. Credo anche che dove ci sia la possibilità e i requisiti, le opere, penso ad esempio a quelle nei depositi, possano tornare nelle chiese da cui provengono, nella collocazione originale. Ovviamente va valutato caso per caso e con un adeguato investimento in tecnologia e sicurezza. Ma è sempre la soluzione migliore. In questo i donatori privati possono essere preziosi: spesso in loro agisce una passione che è per l’arte ma anche autenticamente spirituale.

Il Fondo edifici di culto è stato istituito e regolato dalla legge 222 del 1985, per l’attuazione di alcuni aspetti dell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra lo Stato Italiano e la Santa Sede, che ha modificato il Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929. È “l’erede” del Fondo per il Culto, istituito nel 1866 per la gestione del patrimonio immobiliare ecclesiastico incamerato con le sopressioni dallo Stato unitario (oltre a erogare la congrua). Fino al 1932 fu gestito dal Ministero di Grazia, di Giustizia e dei Culti, per poi passare agli Interni, dove si trova tuttora. Il Fec racchiude 837 edifici sacri, distribuiti in quindici regioni italiane, sia nelle grandi città, sia nei piccoli centri, e dati in concessione gratuita a enti ecclesiastici. A questi vanno aggiunte le 25 fabbricerie italiane che, nonostante siano regolate dalla stessa legge istitutrice del Fec, operano come enti di diritto privato: il presidente di ognuna sia di nomina ministeriale. Il Fondo è proprietario anche delle opere all’interno delle chiese: da Giotto a Donatello, Michelangelo, Tiziano, Caravaggio, Guido Reni, Bernini... Sul sito archiviodigitalefec.dlci.interno. it è possibile esplorare la consistenza dell’intero patrimonio architettonico, che va dalla scala monumentale al molto piccolo. Appartengono al Fec 71 chiese a Roma (tra cui Santa Prassede, Santa Maria del Popolo, Santa Maria sopra Minerva, Santa Croce in Gerusalemme, Sant’Andrea al Quirinale, Santa Maria in Ara Coeli, la Vallicella, il Gesù, i Santi Apostoli...), 47 chiese di Napoli tra cui San Gregorio Armeno e Santa Chiara (con l’annesso monastero), 32 chiese di Palermo (comprese Martorana e Teatini). A Firenze rientra nel Fec gran parte del patrimonio monumentale, a parte Santa Maria del Fiore e San Lorenzo. Il Fec ha al suo interno anche alcune aree archeologiche, un fondo librario antico (è alla Direzione centrale del ministero e conta oltre 400 volumi editi dall’anno 1552) e, curiosamente, perfino alcune aree verdi: la Foresta di Tarvisio, che nella provincia di Udine si estende per circa 23mila metri quadri, il Quarto Santa Chiara, ai piedi della Majella, e quella di Monreale e Giardinello (in provincia di Palermo). Il bilancio del Fec si aggira sui 18 milioni di euro, un terzo dei quali è annualmente impiegato per interventi di conservazione e restauro.

IL FOGLIO Pag 1 L’ascesa irresistibile di Luis Antonio Tagle, il nuovo Papa rosso che del Concilio promuove l’ermeneutica della discontinuità di Matteo Matzuzzi

Roma. Quella del cardinale Luis Antonio Tagle a prefetto della congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, la vecchia Propaganda fide, è una nomina di peso. Forse la più importante del pontificato bergogliano perché sa tanto di investitura, un po' come fu la stola che Paolo VI si tolse per metterla sulle spalle di un imbarazzato patriarca di Venezia Albino Luciani. Da tempo si vociferava in curia di una promozione "romana" del sessantaduenne arcivescovo di Manila, ma pochi ritenevano che il trasferimento si sarebbe concretizzato in termini così rapidi, considerato che il prefetto in carica, Fernando Filoni, ha 73 anni e quindi con un biennio ancora davanti prima del pensionamento canonico. Filoni andrà a ricoprire l'incarico, del tutto onorifico, di Gran maestro dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Ci saranno dossier delicati da gestire, viaggi importanti da fare, beni da valorizzare, impegno costante nel vicino oriente, ma insomma: appare acclarato che non si tratta certo d'un promoveatur. La scelta di Francesco è stata una decisione politica e fortemente simbolica. Tagle è da tempo l'enfant prodige della chiesa delle periferie, teologo apprezzato e brillante conferenziere, uomo giusto per aprire le porte dell'Asia più profonda al cattolicesimo che ancora stenta a radicarsi in quelle terre. Anche le porte della Cina, visto che Tagle - che di terzo nome fa Gokim - ha per parte di madre origini cinesi. "La chiesa del futuro avrà il volto dei ragazzi di oggi, incrocio di nazionalità. Mai immobile, in cerca del dinamismo della fede che può incardinarsi in vari luoghi e varie culture", disse qualche tempo fa in un'intervista alla Lettura del Corriere della Sera, aggiungendo che tutto sommato non bisogna essere così pessimisti pensando al crollo della pratica religiosa in Europa, visto che ciò non significa "perdita del senso della fede". Da tempo il suo nome svetta sulla lista dei papabili in un futuro Conclave, ammesso che tali note abbiano ancora un senso, ma è vero che al di là del chiacchiericcio curiale non sono pochi i cardinali che vanno puntando sempre di più sull'arcivescovo filippino lo sguardo per dare continuità al pontificato di Francesco. Tagle è il delfino perfetto, l'uomo in grado di portare avanti le aperture bergogliane, pastorali e geopolitiche. Ma su alcune questioni non proprio di secondo piano e che ancora dividono parecchio intra moenia, l'arcivescovo uscente di Manila è un uomo che rappresenterebbe una svolta, come dimostra la posizione sull'interpretazione del Concilio Vaticano II. Se Papa Francesco pochi mesi dopo l'elezione scrisse a mons. Agostino Marchetto, convinto sostenitore dell'ermeneutica della continuità, definendolo "il miglior ermeneuta del Concilio", Tagle, dopo gli studi alla Catholic University con Joseph A. Komonchak, teorico della "rottura" nella storia della chiesa che si sarebbe avuta col Vaticano II, ha completato la sua formazione presso la scuola bolognese del professor Giuseppe Alberigo. Fu proprio il giovane teologo filippino a scrivere il capitolo sulla "settimana nera" del 1964 che rischiò di far naufragare l'intera assise, salvata solo dall'intervento di Paolo VI. Ecumenico in tutto, il cardinale Tagle, anche quando si trattò di ricordare quali sono state le figure essenziali per la sua formazione: Ratzinger e Rahner, Von Balthasar e Schillebeeckx, Carlo Maria Martini e sant'Ignazio, Tillard e Avery Dulles, fino all' importanza che per lui hanno rappresentato le ardite tesi della teologa femminista (condannata dalla commissione dottrinale della Conferenza episcopale americana) Elizabeth Johnson.

ITALIA OGGI Il card. Tagle dopo Francesco? di Antonino D’Anna Era al centro dell'attenzione anche di Papa Ratzinger

Sempre meglio metterci un amico. E firmare un'altra nomina sulla fiducia personale: è su questo che Francesco ha scelto il cardinale arcivescovo di Manila Luis Antonio Tagle detto Chito prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, il famoso «Papa rosso» (quello nero è invece il capo dei Gesuiti, purtroppo per noi padre Arturo Sosa, quel fenomeno secondo il quale il diavolo è un mero simbolo). Classe 1957, Tagle è stato promosso nel 2011 alla guida di Manila da Benedetto XVI, del quale è stato stretto collaboratore (ed è un buon amico) quando tra il 1997 e il 2002, su nomina di Giovanni Paolo II, ha fatto parte della Commissione Teologica internazionale, oltre ad aver fatto parte del board editoriale sulla storia del Concilio Vaticano II (1995-2001). Dal 2015 è presidente di Caritas Internationalis e della Federazione biblica cattolica che promuove traduzione, distribuzione studio della Bibbia con anche il dialogo interconfessionale basato sulle Scritture. In altre parole: Tagle conosce Roma (pur non avendoci stabilmente vissuto), il Vaticano e la lingua italiana che è curriculare per diventare un buon . Conosce altresì spagnolo, inglese e francese e, nel caso, può improvvisare a braccio anche in latino. Ha insegnato teologia ed è egli stesso un teologo. Un suo documento alla Cti passò senza alcuna seria obiezione in materia, fatto che venne segnalato Chi lo conosce sa che in quel di Manila lui gira come un prete qualunque e, se uno dei suoi preti ha la febbre o sta male, inforca la bicicletta e lo va a sostituire in parrocchia quando è il momento di dire Messa. A Cavite, sua prima sede episcopale, Tagle andava a piedi o prendeva le jeepneys, sorta di minibus popolari: se incontrava un barbone fuori dalla cattedrale lo invitava a pranzo. E malgrado la stretta collaborazione con Ratzinger, è uno nella scia di pensiero e azione dell'attuale pontefice. È apprezzato dagli attivisti americani dello Snap, il gruppo che racchiude molte vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, per la chiarezza e il non aver mai coperto preti pedofili, è contrario ad aborto e contraccezione e favorevole ad una nuova evangelizzazione sulla linea Ratzinger (e si presentò a Manila parlando proprio del bisogno di questo). Nel novembre 2012 se l'è presa con: «Un ateismo nel quale alcuni cattolici dicono apertamente di non credere in Dio ed un altro nel quale ci si dichiara credenti ma si vive come se Dio non esistesse». E ancora: «La domenica a Messa professiamo la fede in Dio. Ma da lunedì in poi freghiamo gli altri per i nostri stessi interessi». Legge il Catechismo insieme con la storia del Concilio. Definito: «Il Francesco asiatico», il Manila Times nel 2015 ha scritto di lui: «Viene visto come la rockstar cattolica asiatica grazie al suo alto profilo mediatico e le trasmissioni Tv e internet di grande successo». Nel gennaio di quell'anno la trionfale visita di Jorge Mario Bergoglio nelle Filippine è stato un altro dei motivi d'apprezzamento da parte del Papa nei suoi confronti. Un po' meno da parte dei gruppi pro-life filippini quando nello stesso anno se la prese col trattamento troppo duro riservato dalla Chiesa al mondo Lgbt e contro conviventi e divorziati risposati (per questi ultimi la Comunione va valutata caso per caso). Sostiene che, tutto sommato, sul celibato si potrebbe andare verso l'abolizione. Chi può fargli da grande elettore? Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi, canadese, è un buon amico del Papa emerito ma anche un supporter di Tagle, che peraltro non vede nel Concilio Vaticano II una rottura con la tradizione della Chiesa e ha sempre apprezzato la figura di Paolo VI come quella di un uomo capace di ascoltare tutti ma tenere la barra al centro nell'applicazione del Concilio contro eventuali balzi in avanti. Bergoglio lo ha messo in posizione di succedergli: ora si farà esperienza stabilmente a Roma, impratichendosi della macchina vaticana e con due mentori non da poco vista la stima di questo Papa e dell'emerito. A proposito: sapete chi gestisce l'account Twitter #CardinalChito del futuribile Papa Chito? Jesuit Communications Foundation, Inc., il braccio mediatico dei Gesuiti nelle Filippine. Per dire. Bergoglio viene spesso apprezzato (o criticato) per aver tolto centralità all'Europa, che era invece nel cuore del predecessore. Sostanzialmente, per lui, il futuro del cattolicesimo è in zone vive come l'estremo Oriente o l'America Latina dove si combatte contro gli evangelisti e le varie sette che stanno drenando il polmone cattolico rappresentato soprattutto dal Brasile. Nominare Tagle e nei fatti indicarlo come un successore risponde a questa logica: un asiatico che conosce i problemi di quella vasta parte di mondo e tanti saluti all'Europa, sempre meno centrale. Ma il problema è che il Cristianesimo dal bacino mediterraneo e dall'Europa è venuto: abbandonare il Vecchio Continente è una scelta premiante? Solo Diòs lo sabe, lo sa solo Dio, dicono dalle parti di Buenos Aires: chissà a Santa Marta.

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6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ

LA NUOVA Pag 19 Esuberi alla Stella Maris: “Troviamo una soluzione” Codess scrive ai sindacati

Una lettera ai sindacati per trovare una "immediata soluzione" agli esuberi previsti allo Stella Maris. È quanto scritto fatto recapitare ieri da Codess, la cooperativa sociale che ha in gestione la casa di riposo dello Stella Maris al Lido, a Cgil Cisl e Uil. Un tentativo, quello della cooperativa, di andare incontro alle organizzazioni dei lavoratori, da diversi giorni sul piede di guerra, con tanto di richiesta formale al Prefetto di aprire un tavolo, per la notizia dei 25 esuberi dalla struttura del Lido. L'anticipazione era uscita venerdì scorso, durante l'ennesimo incontro dopo l'operazione andata in porto di recente che ha portato all'acquisto dell'ospedale San Camillo e della casa di riposo Stella Maris (per circa 26 milioni di euro) da parte della Franklin Templeton, società americana di gestione degli investimenti, e di Silver Fir Capital SGR. L'ospedale sarà gestito per 30 anni dalle Suore Mantellate Serve di Dio, la casa di riposo proprio da Codess. I venticinque dipendenti che ora rischiano il posto sono attualmente impiegati nelle attività di manutenzione, portineria, centralino, guardaroba. E in effetti, i motivi all'origine degli esuberi vengono spiegati nella lettera di Codess ai sindacati. Si legge infatti che il cinque dicembre il San Camillo Ircss ha comunicato di voler interrompere ogni rapporto lavorativo con la cooperativa. Nello specifico, si tratta del personale in distacco utilizzato per i servizi di pulizie, lavanderia, cucina e manutenzione. Per quest'ultimo, ad esempio, si tratta di 15 operai con contratto a 38 ore settimanali, dei quali almeno 5 in situazione di invalidità. Stessa sorte per il personale attualmente impiegato nel centralino e in portineria. Se gli spazi per il servizio bar gestito da Sodexo saranno liberati entro il 31 dicembre, per il servizio pasti (altri 20 dipendenti) Codess fa sapere che il San Camillo sta valutando offerte da altri fornitori. Da parte dei sindacati, nessun passo indietro. Nei prossimi giorni sarà convocata un'assemblea con tutto il personale interessato per decidere le prossime iniziative.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V “Muneghette, nessuno sarà cacciato” di Nicola Munaro Il sacerdote che si occupa dell’edificio della Caritas spiega che lo stabile non è sicuro e va ristrutturato. “Carità e accoglienza vanno fatte bene, con dignità: stiamo trovando una soluzione temporanea per tutti”

Venezia. Don Fabrizio Favaro, vicario episcopale per gli affari economici della Diocesi, è il sacerdote che si sta occupando delle Muneghette, lo stabile dell'Ire gestito dalla Caritas, che deve essere sgomberato in vista di una ristrutturazione. Ma dove - a ieri - vivono ancora sette persone, tra le quali una famiglia con due bambini di 4 e 6 anni. La loro storia, come quella di altri inquilini delle Muneghette, è stata disvelata dal Gruppo 25 Aprile che ha denunciato come dai giorni dell'acqua alta, le famiglie all'interno del complesso vivevano senza elettricità, riscaldamento e acqua calda. Don Fabrizio, cos'è successo? «A ottobre 2018 durante un sopralluogo è stato deciso di rimettere a norma l'intero palazzo, di pregio. C'era una situazione invivibile: un bagno in comune, una cucina senza impianto di areazione. Dopo il sopralluogo ho dato mandato a Caritas che nessuno della trentina degli ospiti contribuisse in ogni modo alla permanenza. In passato c'era stato qualcuno che contribuiva alle spese anche se non c'era un canone di locazione. La scorsa primavera, poi, si è rotto l'impianto antincendio: c'erano 17 persone, a quel punto non era più possibile per loro stare lì. Abbiamo quindi lavorato per trovare una sistemazione. A giugno 2019 abbiamo iniziato a fare proposte a chi era rimasto, ma sono sempre state rifiutate. Ora il progetto è in approvazione alla Sovrintendenza e poi si potrà partire per permettere alle Muneghette di tornare a essere un luogo di accoglienza, ma a norma. La carità va fatta bene e con dignità». Che progetto avete? «Al piano terra ci sarà una cucina grande dove far da mangiare o dove trattare il cibo se dovesse venire da fuori con un servizio di ristorazione. Accanto alla cucina, due sale da pranzo. Una diventerà una sorta di cucine popolari (quello che era la mensa di Betania, ndr) e un'altra zona sarà dedicata a sale da pranzo per gli ospiti che troveranno accoglienza nei due piani superiori. Al primo e al secondo piano verranno realizzati 16 mini alloggi per una trentina di posti letto, disponibili per l'accoglienza di bassa soglia della durata massima di un anno. Ci sarà una stanza da letto, un bagno e un soggiorno con punto cottura minimale». Chi abita lì però non se ne vuole andare. La vostra proposta è il trasferimento temporaneo all'hotel City of Art Venice Lioyd di Marghera. Poi? «È una soluzione provvisoria nel senso che non ci dimentichiamo di loro. Stiamo cercando sistemazioni per liberare l'immobile. A queste persone dico di stare tranquille. Per due di loro il Comune sta assegnando una casa a Murano che sarà pronta a fine anno, le Muneghette sono insicure adesso. Nessuno li ha mai lasciati e li lascerà per strada». Finiti i lavori potranno tornare alle Muneghette? «L'immobile avrà le stesse finalità, ma le accoglienze sono temporanee. Non è bene che chi è entrato per qualche mese, sia lì da anni. Le Muneghette non sono la risposta a chi cerca un appartamento». Il velo sulle loro storie è stato sollevate dal Gruppo 25 Aprile che sabato ha riacceso la caldaia, spenta da primavera e anche nei giorni dell'acqua alta. In merito alla caldaia la Diocesi parlava ufficialmente di «rottura definitiva della centrale termica e dell'impianto antincendio». Però è stata riaccesa. «Era stato detto che non era possibile metterla in funzione e anch'io mi ero convinto di no. Mi hanno confermato stamattina (ieri, ndr) che la centrale è stata riaccesa e quindi non era rotta. Ma è stata accesa dentro un immobile che non ha la centrale termica a norma, è potenzialmente una bomba». Come avete vissuto il clamore di questi giorni? «Se abbiamo sbagliato chiediamo scusa, ma c'è dispiacere perché non si tiene conto del lavoro silenzioso che viene fatto. Sono state accese le caldaie, vero, ma nessuno ha dato case a queste persone. Sotto c'è un lavoro per garantire il loro futuro: oggi (ieri, ndr) sono stati fatti contratti idrici, telefonici e del gas per loro. La denuncia può essere utile ma poi occorre dare soluzioni che restano, ancora una volta, in capo alla Caritas».

Pag V Daniel Touitou è il nuovo rabbino. “Un centro studi ebraico a Venezia” di Marta Gasparon “L’antisemitismo? E’ un male antico”

Venezia. È arrivato in città con la moglie solo a settembre, ma i progetti che ha in mente sono già tanti. Classe 1967, nato in Francia, padre di sei figli tra i 17 e i 29 anni e laureato in Storia moderna, Daniel Touitou è il nuovo rabbino della Comunità ebraica di Venezia, «antica e dal passato glorioso». Composta da circa 450 persone tra la città lagunare, Treviso e Belluno, Touitou racconta la sua nuova e ambiziosa missione, per dare nuova linfa alla realtà che sta imparando a conoscere: sviluppare il rapporto col mondo ebraico (ma non solo) internazionale, attraverso la creazione di un centro culturale che offra a studenti ed esperti la possibilità di condurre qui le proprie ricerche. D'altronde proprio in campo del Ghetto ci sono non solo il Museo ebraico ma anche la biblioteca-archivio Renato Maestro, dove studiare il ricco patrimonio di testi e manoscritti, alcuni rappresentativi del legame tra gli ebrei e la città d'acqua. Un'idea dai tempi lunghi che potrebbe essere intrapresa già dalla prossima primavera. Nel frattempo Daniel Touitou - che ha studiato in Israele ed è stato rabbino in Argentina e Brasile, oltre che professore di materie religiose al liceo - a pochi mesi dal suo inserimento ha fatto partire un corso dedicato alla conoscenza dell'ebraismo. Gratuito e per tutti, come apertura verso la città: alla prima lezione il pubblico è stato numeroso. «Ero stato a Venezia già tanti anni fa, una realtà speciale e dal clima multiculturale, in cui mi trovo benissimo. Me la ricordavo una bella città ma con meno turisti - dice rav Touitou, sorridendo - amo il suo silenzio, la sua storia e attraversarla camminando». Importante il dialogo ebraico-cristiano. «Ci sono già stati incontri nel mio ufficio e nella chiesa luterana, dove sono stato invitato. Conto d'incontrare presto anche il patriarca Moraglia. L'augurio è che questo dialogo continui perché alla fine abbiamo tutti un unico Dio». Se per il futuro rav Touitou immagina un Festival della musica ebraica tutto veneziano, sul rigurgito di antisemitismo chiarisce: «È un problema educativo antico, da contrastare con una lotta continua e quotidiana».

LA NUOVA Pag 19 “Non abbiamo messo in strada nessuno”. I progetti della Curia sull’assistenza di Alberto Vitucci Il vicario del patriarca don Fabrizio Favaro: bisogna garantire anche la dignità delle persone, quei luoghi erano inagibili

«La nostra missione è quella di aiutare chi ha bisogno. Insieme alla Caritas garantiamo l'assistenza ai poveri, ai migranti, alle donne in difficoltà. Nel caso delle Muneghette non abbiamo messo in strada nessuno. Abbiamo offerto alternative. La gente viveva lì in condizioni di degrado. La carità va fatta garantendo la dignità delle persone». Don Fabrizio Favaro è il vicario episcopale per gli Affari economici, nominato dal patriarca Francesco Moraglia nel settembre del 2018. A lui spetta tenere in ordine i conti della Diocesi. E coordinare il lavoro della Caritas e delle associazioni sul territorio. Si dice dispiaciuto e addolorato per le polemiche di questi giorni sull'ospizio delle Muneghette. «Quando ho assunto questo incarico», racconta, «ho compiuto sopralluoghi in questi centri di assistenza gestiti dalla Caritas. La situazione delle Muneghette, di proprietà dell'Ire, è apparsa molto precaria. Camere spoglie, bagni in comune, cucine e caldaie senza i minimi requisiti di sicurezza. La struttura è di seconda accoglienza. Cioè ospita in via temporanea casi segnalati dai servizi sociali in attesa di sistemazione». «Dall'ottobre 2018», ricorda don Fabrizio, «abbiamo deciso di accelerare il progetto per il restauro. Il piano terra prevede di realizzare le cucine e due mense, una dedicata per gli ospiti giornalieri. I lavori saranno conclusi entro la primavera. Al primo piano le stanze, rimodernate e a norma. Saranno pronte entro l'anno. Alle Muneghette restano ospiti 4 adulti, oltre a un nucleo familiare composto di due adulti e due minori. «Abbiamo proposto loro un appartamento a Carpenedo, altre soluzioni immediate non le abbiamo», dice don Fabrizio, «soluzione provvisoria ma dignitosa Così per gli altri, di cui un ospite provvisoria dal 2013». «Non abbiamo messo in strada nessuno», spiega il vicario patriarcale, «ci mancherebbe. La caldaia è fuori norma, e il nostro laico che si occupa della Caritas, Stefano Enzo, non dorme la notte al pensiero. Non possiamo lasciare la gente in quelle condizioni, anche di pericolo. Dobbiamo garantire loro un alloggio che sia anche sicuro». Don Fabrizio spiega anche i contorni dell'operazione che aveva destato qualche settimana fa alcune polemiche. La mensa di Betania spostata in via temporanea alla Tana. Poi andrà anch'essa nelle Muneghette restaurate. «Ma anche i locali del Marovich non erano in condizioni di sicurezza», continua. Che ne sarà adesso della grande struttura di Cannaregio, un tempo abitata dalle suore e ricovero delle minori in difficoltà? «L'edificio è di proprietà delle suore Canal Marovich, ma c'è un vincolo canonico. Sarà restaurato e destinato alla pastorale e agli studenti. Allargando l'ospitalità della vicina casa di Santa Fosca». Le suore hanno però istituti e gerarchie spesso indipendenti anche dalla Curia patriarcale. In qualche caso protagonisti di cambi d'uso a destinazione turistica una volta finita la loro destinazione scolastica o a convento. «Non ci risultano progetti di altro tipo», continua il prelato, e fosse ci opporremmo con forza». Quello che vogliamo dire», continua, «è il nostro desiderio di collaborare con tutti. Se possiamo aver sbagliato chiediamo perdono, ma è giusto sapere come stanno davvero le cose. La Chiesa veneziana continua nella sua opera di accoglienza sociale. Tra qualche giorno inaugureremo un nuovo dormitorio femminile con 12 posti letto a Sant'Elena, negli spazi dell'ex convento dei frati. Una struttura di prima accoglienza per donne vittime di abusi o senza fissa dimora. I nostri operatori volontari della Caritas garantiscono ogni giorno l'assistenza necessaria.

Pag 19 Venezia dà il benvenuto al nuovo rabbino. “Una città fantastica” di R.D.R.

«Vogliamo aprire sempre più la nostra comunità alla città, con corsi dedicati alla cultura ebraica e alle storiche relazioni con Venezia e a livello internazionale; ma anche con un progetto che punta a offrire ospitalità ai molti ricercatori che già vengono a studiare i preziosi documenti del nostro archivio, nella speranza che restino a lungo a Venezia e diventino nuovi residenti. Per questo stiamo restaurando la nostra sede e metteremo a disposizione alcuni appartamenti». Così si presenta Rav Daniel Touitou, 42 anni, nuovo rabbino della comunità ebraica di Venezia, che si estende anche a Treviso e Belluno, con 450 praticanti. Francese, laureato in Storia moderna, ordinato dal Gran Rabbinato di Israele ha svolto la sua attività in Argentina e Brasile. A Venezia è arrivato per la prima volta tre mesi fa - prendendo il posto di Rav Shalom Bahbout, andato in pensione - ma ha voluto imparare l'italiano prima di presentarsi alla città. «È davvero strano vivere qui», sorride, «camminare sempre, portare le cose a braccio, ma è davvero una città fantastica».Nei giorni dell'Acqua Granda non era a Venezia, «ma sono stato costantemente in contatto: è davvero drammatico quanto accaduto, ma ho visto la città reagire. Per fortuna l'archivio e il museo non hanno subito danni: ci sono tesori storici mondiali». Nel dialogo, il pensiero va anche all'antisemitismo che continua a colpire, come nel caso della senatrice Liliana Segre: «Un fenomeno antico come l'ebraismo. Che fare? Lottare sempre. A Venezia mi sento benissimo: è una città multiculurale e interreligiosa. Ma se esco dalla città con il mio kippah sulla testa, vedo che mi guardano "strano". Farci conoscere è la nostra cura». Così, oltre all'appuntamento con la Giornata della Memoria (70 eventi in programma), la comunità sta lavorando a un festival di musica ebraica.

CORRIERE DEL VENETO Pag 8 Centro di studi internazionale: “Nuova linfa per Venezia” di Valentina Iorio Comunità ebraica, il nuovo rabbino

«La Comunità ebraica di Venezia ha un glorioso passato e continua a essere un punto di riferimento per tante persone. Per aprirci sempre di più al mondo vogliamo sviluppare un centro di studi internazionale che consenta a giovani studiosi ed esperti di ebraismo di venire a Venezia, entrare in contatto con la nostra comunità e vivere la città». Ad annunciarlo è rav Daniel Touitou, il nuovo rabbino capo di Venezia. E’ arrivato in laguna tre mesi fa dopo esperienze in Argentina e Brasile. Nato in Francia nel 1967, è laureato in storia moderna, ha 6 figli e 3 nipoti. «Da giovane ho lavorato per un periodo a Torino - racconta - . A Venezia c’ero stato da piccolo. Mi trovo molto bene». L’idea di far nascere un centro studi ebraici internazionali è nata tre anni fa in occasione del Cinquecentenario del Ghetto di Venezia, ora il progetto è in fase organizzativa. Sono già state individuate alcune strutture da trasformare in alloggi per ospitare gli studiosi. «Il nostro obiettivo è valorizzare gli aspetti culturali che caratterizzano la realtà ebraica veneziana - spiega rav Touitou - e creare un flusso di persone che partecipino alla vita della comunità, portando nuova linfa». Il rabbino sta valutando su una serie di proposte che possano far conoscere la cultura ebraica e consolidare le relazioni tra la realtà veneziana e le altre realtà ebraiche presenti nel mondo. «Mi piacerebbe organizzare un Festival di musica ebraica per far conoscere questa straordinaria tradizione», aggiunge. Il 3 dicembre ha aperto un ciclo di lezioni sull’ebraismo, organizzato dalla Comunità e dal Museo ebraico sotto la direzione del rav Roberto Della Rocca, con una lezione sulla percezione del tempo. Un appuntamento importante sarà quello del 27 gennaio: Giornata della memoria, quando gli eventi in programma sono già più di 70. «L’antisemitismo è antico come l’ebraismo - dice rav Touitou -. E’ una lotta che non termina, bisogna lavorarci ogni giorno. Credo che le persone non cambino attraverso sentimenti di rimorso ma attraverso valori positivi. Dobbiamo quindi lavorare per rendere la nostra cultura e i nostri valori chiari e accessibili. Il dialogo interreligioso è fondamentale».

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8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 1 Il passato di odiatore del writer anti-odio di Angela Pederiva

Al posto di una svastica, una fetta di torta. Sopra la scritta «W dux», un pezzo di grana. E, anziché un insulto, ecco una salsiccia. È la gastro-arte di un noto writer, trevigiano (Vittorio Veneto) di nascita e veronese (San Giovanni Lupatoto) di adozione, che ha fatto delle proprie capacità grafiche una missione sociale: cancellare gli slogan e i simboli di odio, che appaiono sui muri delle città, con fette di mortadella, insalate capresi, panini alla marmellata. Il problema è che, prima di essere Cibo, lo street artist è stato Pier Paolo Spinazzè, un ragazzo che almeno fino al 2016 scriveva sui social frasi xenofobe, antisemite, omofobe, misogine. «Non certo un esempio per i nostri giovani», tuonano i consiglieri regionali Andrea Bassi, Stefano Casali e Fabiano Barbisan (Centro Destra Veneto), in un'interrogazione che stigmatizza il recente intervento in una scuola di Bussolengo da parte del 37enne, il quale però ha intanto divulgato un video in cui chiede perdono per quei vecchi post: «Oggi me ne vergogno. E queste sono le mie scuse personali, di Pier, che ci tenevo a dirvi. Non ho nessuna difficoltà a capire com'ero, i miei limiti, a capire dove ho sbagliato e a chiedere scusa. Di questa cosa me ne vergogno, ma chi mi diffama, chi ha messo in piedi tutta questa cosa qui, arriverà mai al punto di vergognarsi?». Parole che inevitabilmente infiammano il dibattito sulla questione.Giovedì scorso il blog dell'istituto di istruzione superiore Marie Curie ha dato conto dell'iniziativa promossa dagli allievi di una quinta, che dopo aver notato alcuni imbrattamenti nazi- fascisti sul retro dell'edificio scolastico, hanno allertato la professoressa Stefania Lombardo, responsabile del progetto Non più reticolati del mondo!, percorso di approfondimento sulla Shoah: «Con l'approvazione del Dirigente scolastico, Prof. Luigi Giuseppe Pizzighella, la docente ha avviato prontamente la ripulitura delle pareti: È inammissibile che anche la scuola, l'istituzione che per eccellenza promuove la cultura e sostiene lo spirito critico, sia soggetta a queste forme di bieca violenza. Gli studenti hanno così provveduto a ricoprire con della vernice la maggior parte dei simboli: Abbiamo voluto dare il nostro contributo alla lotta contro l'intolleranza. È fondamentale che, soprattutto la nostra generazione, combatta ogni forma di odio, che sia una scritta offensiva sul muro o un atteggiamento sbagliato verso altre persone». Il filmato postato sul canale Youtube ufficiale mostra Cibo mentre trasforma le scritte in una forma di formaggio avvolta dal tricolore. IL DOSSIER - Ma nelle stesse ore sul web ha cominciato a circolare un dossier che raccoglie numerosi post, firmati da Spinazzè a partire dal 2012, che attaccano pesantemente una vasta gamma di bersagli: omosessuali, donne, famiglie arcobaleno, grassi, tossicodipendenti, solo per citarne alcuni. «Cose che non vanno pensate e sono state dette: mi dispiace proprio, mi dispiace di cuore», mormora ora il 37enne, nel lungo video in cui si toglie il cappello da Ciboe dice di parlare da Pier, con gli occhi lucidi. Poi lo reindossa e allude alla critiche: «Quello che faccio lo vedete tutti i giorni e penso che le persone debbano essere giudicate per come sono in quel momento e in quel posto. Vedere tutto questo odio insieme fa male, ma da un altro punto di vista mi dà una mano a fare i conti con quello che ero io e quello che non sono più, mi fa capire quanta strada ho fatto e mi fa capire quanto si possa migliorare e, nel mio caso, quanto si possa utilizzare le capacità, l'arte, la creatività come catalizzatore di tanto odio che c'è attorno a noi e anche un po' dentro di noi, forse. Stanno tentando di gettare fango su una cosa molto buona, su un progetto molto valido in cui credo molto e in cui molte persone credono». La tesi finale dell'artista di strada? «Pier sarà anche uno str..., ma giù le mani da Cibo». LA RICHIESTA - Giustificazioni che tuttavia non bastano a Centro Destra Veneto, soprattutto dopo aver letto il post in cui Spinazzè denigrava Tiziana Cant one, la giovane che si era tolta la vita per la vergogna di veder circolare in rete le proprie immagini intime. Di qui l'interrogazione di cui è primo firmatario il consigliere Bassi, ma che è stata sottoscritta anche dai colleghi Casali e Barbisan: «Il writer, che si è tra l'altro distinto per essere provocatore e intollerante con chiunque la pensi diversamente da lui, non può di certo essere la persona adatta ad insegnare ai nostri ragazzi. Ho chiesto quindi all'assessore regionale Elena Donazzan, con delega all'istruzione, che faccia tutto quello che è nelle sue possibilità per fermare questa farsa. Spinazzè non può essere invitato o preso ad esempio da qualsivoglia istituto e/o scuola, di qualsiasi ordine e grado di Verona e del Veneto».

Pag 16 Il sentiero del Papa buono di Giovanni Carraro Dopo essere stato nominato Patriarca di Venezia nel 1953, amava trascorrere i periodi di riposo a San Pietro di Feletto (Treviso)

In quel pianoro dove oggi sorge un vigneto al margine della scarpata ci sono gli stessi alberi disposti a cerchio dove negli anni Cinquanta l'allora monsignor Roncalli sostava durante le sue passeggiate a San Pietro di Feletto (Treviso). Oggi quel roccolo di carpino bianco è diventato una delle tappe di un nuovo sentiero nato per ricordare Giovanni XXIII, il Papa buono dei nostri nonni, quello che appariva nel quadretto appeso in tutte le case. Perché prima di essere proclamato Santo Padre, Angelo Roncalli soggiornò diverse volte nella villa patriarcale, giusto dietro la millenaria chiesa del Cristo della Domenica. Amava le viuzze di quei borghi aggrappati sulle colline del Feletto, conversava con la gente semplice. Il sentiero è stato voluto dagli abitanti del luogo per far rivivere ciò che il Papa di tutti sentiva e vedeva. Gli odori, i colori di un tempo, le mucche nella stalla, le galline nel cortile, il sorriso degli abitanti, immagini che vorremmo non svanissero mai. I SOGGIORNI - Il cardinal Roncalli, dopo essere stato nominato patriarca di Venezia nel 1953, amava trascorrere i propri periodi di riposo e riflessione nella antica villa patriarcale di San Pietro di Feletto, ceduta con lascito testamentario dalla contessa veneziana Maria Walter Bas. È ancora vivo il ricordo dei soggiorni del Papa per gli abitanti del luogo. «Gli anziani raccontano come spesso il futuro Papa si recasse a piedi fino alla terrazza panoramica della chiesa di Rua di Feletto», spiega Giorgio Comuzzi, assessore di San Pietro di Feletto. «Era il periodo compreso tra il 1953 e il 1958. Durante le sue passeggiate si intratteneva spesso con la gente, fuori da ogni protocollo, confermando quello stile semplice e sincero che lo ha caratterizzato anche quando fu eletto Papa il 28 ottobre 1958. Da allora non tornò più e, per ricordarlo, nel 1966 venne eretto il monumento che oggi possiamo vedere nei pressi dell'antica Pieve». IL COMITATO - Per promuovere il nuovo percorso escursionistico venne fondato un comitato. «L'idea di inaugurare il percorso naturalistico nasce nel 2013 grazie all'affetto da parte degli abitanti di San Pietro di Feletto nei confronti del Papa, ancora oggi fortissimo. Vi erano anche motivazioni legate alla storia locale, che ruotano essenzialmente attorno alla millenaria pieve di San Pietro di Feletto, una delle più antiche e meglio conservate al mondo», racconta Alberto Stocco, referente per il comitato pro Papa Giovanni XXIII. «Grazie ad alcune ricerche storiche e documentali promosse dal nostro gruppo di lavoro insieme all'amministrazione comunale di San Pietro di Feletto e al contributo di monsignor Nilo Faldon, insigne sacerdote scomparso nel 2016, è stato possibile raccogliere importanti documenti ufficiali rilasciati dal cardinale Loris Francesco Capovilla, segretario personale di Roncalli, nei quali si parla dei soggiorni del Papa nel nostro territorio. È nato così il sentiero del Papa buono, inaugurato il 23 marzo scorso alla presenza del vescovo Corrado Pizziolo». IL PONTIFICATO - Nato nel 1881 a Sotto il Monte in provincia di Bergamo, Angelo Giuseppe Roncalli è stato il 261° Papa della Chiesa Cattolica. Venne eletto il 28 ottobre 1958 e il suo pontificato durò poco meno di cinque anni. Morì infatti il 3 giugno 1963 a causa di una grave malattia. Di semplici origini contadine, è ricordato come il Papa buono perché parlava la lingua degli umili. Ma è stato anche il pontefice delle grandi abilità diplomatiche, rivoluzionando l'atteggiamento della Chiesa verso il comunismo in un periodo in cui la crisi dei missili di Cuba stava assumendo proporzioni planetarie in piena guerra fredda. LE CELEBRI FRASI - Celebri le sue frasi pronunciate ai fedeli in Piazza San Pietro l'11 ottobre 1962: «Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: Questa è la carezza del Papa». E il discorso rivolto al cielo: «Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera. Osservatela in alto, a guardare a questo spettacolo». Parole che confermavano un animo genuino che non mutò nemmeno negli ultimi istanti della sua vita: «Perché piangere? È un momento di gioia questo, un momento di gloria». Fu proclamato santo da Papa Francesco il 27 aprile 2014 insieme a Giovanni Paolo II. L'ITINERARIO - Il sentiero si sviluppa per quattro chilometri a partire da piazza Giovanni XXIII a San Pietro di Feletto. Si percorre un breve tratto della provinciale diretta a Refrontolo, per poi svoltare a destra su via Roncalli, dove sorge il monumento dedicato a Papa Giovanni XXIII posto dinnanzi alla villa patriarcale. In seguito si cammina tra le vigne fino al piccolo roccolo dove il Santo Padre era solito riposare durante le sue passeggiate. Scesi sul versante orientale della scarpata che costituisce l'altipiano di San Pietro di Feletto, si attraversano passaggi nel bosco e tratti tra i vigneti incontrando punti di sosta dove il panorama spazia tra la chiesa di San Pancrazio a Formeniga e le retrostanti montagne di Vittorio Veneto, Pizzòc e Col Visentin. Qualche saliscendi tra le colline, ed eccoci all'albergo ristorante Cà del Poggio, dove è possibile percorrere il sentiero dei cento Gradini che collega il Muro di Cà del Poggio, famoso per il Giro d'Italia. Una rapida visita a Borgo Antiga prima di ritornare a San Pietro di Feletto dove si conclude l'anello escursionistico dopo circa un'ora di cammino.

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Migrare: le due facce di Vittorio Filippi Veneto e l’estero

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il declino del Paese moderato di Ernesto Galli della Loggia Noi e l’uomo forte

Come ha spiegato bene Dario Di Vico su questo giornale, la voglia dell’«uomo forte» rivelata dai dati del Censis, più che di un desiderio di soluzioni dittatoriali o comunque contrarie alla democrazia liberale, testimonia sostanzialmente di qualcosa d’altro: di un’insoddisfazione radicale per il pessimo funzionamento del Paese. È un’insoddisfazione che si accentra su quello che è effettivamente il punto cruciale della crisi italiana: vale a dire l’incapacità di decidere da parte del sistema politico-amministrativo e insieme la sua incapacità di fare le cose che alla fine pure vengono decise, da ultimo anche l’incapacità di controllare ciò che è stato fatto, più in generale di controllare la sensatezza e l’applicazione della mostruosa caterva di leggi e regolamenti in vigore. Sempre più agli occhi degli italiani, insomma, il loro Stato appare un Leviatano impotente: impotente anche se non per questo meno vessatorio. Si tratta tuttavia di un Leviatano democratico, certo. Ma che cosa è la democrazia incarnata e gestita da un simile mostro? Che cosa vuol dire, che immagine dà di sé la democrazia quando un processo dura anni e oltre la metà degli imputati alla fine viene assolto? Quando l’evasione fiscale ha le dimensioni e la capillarità che hanno da noi, quando tanta parte delle periferie urbane è in uno stato di abbandono incivile, quando in pratica in metà della Penisola né la sanità, né i trasporti, né la scuola, nulla, funziona con standard accettabili? Che cosa vuol dire la democrazia, portata dal cielo delle idee alla terra, quando gran parte della vita sociale del Paese si svolge in un’atmosfera di piccoli soprusi, di continue inadempienze e minute prepotenze pubbliche e private, quando è sempre latitante un intervento riparatore pronto ed efficace da parte dell’autorità che dovrebbe intervenire? Sì, sono tutte cose risapute, dette e stradette, ma ciò su cui abbiamo sempre preferito chiudere gli occhi è quanto tutte queste cose messe insieme stiano sfilacciando, abbiano in parte significativa già consumato, il tessuto non già della democrazia italiana - non lo credo - bensì la trama del consenso spontaneo dato convenzionalmente alla pratica della democrazia reale vigente nel nostro Paese. Il che fino a prova contraria è cosa assai diversa dall’arruolarsi nelle schiere dell’antidemocrazia e magari del fascismo. La verità è che negli ultimi anni, per protesta contro uno Stato assente o complice del loro malessere, gli italiani hanno smesso di essere quel popolo in maggioranza moderata che sono sempre stati. Finora lo erano pensando che la condizione in cui si trovavano era più o meno accettabile, e che quindi bisognava andarci piano a cambiare: tanto più per evitare che potessero approfittarne i veri nemici della democrazia liberale, quelli che aderivano in gran numero a ideologie nate in esplicito contrasto con essa. Ma visto che da tempo questi nemici sono spariti, adesso per gli italiani è diventato possibile smettere di essere «moderati». Non è certo un caso se ormai sono rimasti solo due partiti, il Pd e Forza Italia, a potersi definire in qualche modo «moderati», essendo proprio per questo gli unici due partiti che oltre a riconoscersi nella vicenda politico-costituzionale del Paese e nella sua declinazione europeista, sono anche per così dire gli unici ad essere istituzionalmente governativi (quelli senza il cui consenso, per intenderci, un’elezione del Presidente della Repubblica apparirebbe quasi un colpo di Stato), e quindi gli unici in cui può riconoscersi senza problemi l’establishment. In totale però Pd e Forza Italia rappresentano neppure un terzo dell’elettorato. Gli altri due terzi, invece, sembrano non volerne più sapere di «moderazione». E così non esitano, per l’appunto, a rompere quel vero e proprio tabù che il discorso pubblico ufficiale italiano si porta appresso dai tempi del consociativismo della Prima Repubblica e che consiste nel rifiuto superstizioso di qualunque esercizio del comando politico che non sia sottoposto a continue contrattazioni (e ritrattazioni). Non esitano a desiderare confusamente un modello di potere diverso: non dittatoriale, ma che si richiami per esempio al modello di potere rappresentato dal presidenzialismo francese o americano. Il desiderio dell’ «uomo forte» rilevato dal Censis, insomma, a me pare non sia altro che questo: il desiderio di un’istituzione politica di vertice efficace e autorevole, accompagnato dall’idea (non proprio così peregrina) che una maggiore personalizzazione del potere possa soddisfare una tale esigenza. E che in questo modo si possa anche prima o poi iniziare a vedere un’amministrazione pubblica e uno Stato diversi da quelli che abbiamo oggi. Solo chi pensa che un governo democratico debba per forza rispondere alla forma disegnata dalla nostra Costituzione (malamente disegnata: si può dire dopo almeno quattro o cinque commissioni parlamentari inutilmente volte a modificarla?), solo chi pensa a questo modo può interpretare il desiderio di un diverso potere di governo espresso da tanta parte degli italiani come una pericolosa pulsione antidemocratica pronta a dar vita a una riedizione del fascismo con annessi Minculpop e «manifesto della razza». Il guaio dell’antimoderazione italiana, dell’orientamento diciamo così radicale che da tempo percorre il Paese, è che si tratta sì di uno stato d’animo vasto e profondo, il quale però non riesce ad avere alcuna presentabilità politico-culturale. Infatti i partiti e gli organi di stampa - sia di destra che di sinistra - che hanno cercato e cercano di farsene interpreti danno perlopiù voce a quell’orientamento nella maniera più urlata ma generica immaginabile. Tutto così si riduce alla denuncia del caso singolo, al tweet o al titolo ad effetto, alla gogna o al lazzo irridente (spesso corredata da foto adeguata) per il malcapitato di turno rappresentante di qualche «casta». Tutto si ferma alla critica demolitoria delle politiche ufficiali e alla partecipazione al talk della sera con slogan approssimativi purché espressi con la dovuta veemenza. La voce politica dell’antimoderazione italiana insomma, appare priva di prospettive generali, di un minimo di cultura politica, di qualsiasi ragionato progetto riformatore, e viceversa sempre interamente subordinata alle contingenze dello scontro immediato (si ricordi l’opposizione al referendum costituzionale del 2016 proprio da parte di chi, invece, come i 5 Stelle e molti fogli della destra avevano fatto del cambiamento la loro bandiera). Grazie all’antimoderazione, dunque, si può anche arrivare a vincere le elezioni, ma - come vediamo oggi e come sospetto fortemente che vedremmo anche domani in caso di una vittoria della Lega - poi, però, si riesce a combinare poco o nulla.

Pag 8 Il gioco dell’oca dei partiti sulla nuova legge elettorale di Francesco Verderami

Hanno appena iniziato a discuterne ed è già il caos. Perché sulla legge elettorale l’unico accordo è che non c'è accordo: non solo tra partiti ma anche dentro i partiti. Nel Pd, per iniziare, Zingaretti e Franceschini sembrano parlare la stessa lingua ma sono agli antipodi sul modello da adottare: il primo punta al sistema spagnolo e perciò ha mandato in avanscoperta Orlando per trattare con il leghista Giorgetti; il secondo mira invece a un proporzionale con sbarramento, perché «non si possono fare intese contro un pezzo di maggioranza». Quel «pezzo di maggioranza» è Renzi, che teme lo spagnolo come la peste per i suoi effetti maggioritari nei collegi: prendesse il 4%, per esempio, rischierebbe di ottenere l’equivalente del 2% di seggi. In tal caso, preferirebbe far saltare tutto per tenersi il Rosatellum. Ma appena gli viene chiesto di quantificare la soglia di sbarramento su base nazionale, il leader di Iv prende tempo: magari il tempo necessario per «inciuciare con Salvini». È questo il sospetto del Pd, e pure della Meloni, che andreottianamente pensa male del leader leghista e dei suoi rapporti con «l’altro Matteo». In effetti a Salvini il proporzionale piace, anche se fino all’ultimo dovrà far finta di subirlo: è chiaro però che con quel sistema potrebbe andare da solo alle elezioni, dando appuntamento agli alleati dopo il voto e tentando nel frattempo di cannibalizzarli nelle urne. Così la Lega finirebbe per trasformarsi in una nuova Dc, circondata da «cespugli». E non è detto che i «cespugli» sarebbero Fratelli d’Italia e Forza Italia: «Certi amori non finiscono», canta la Meloni riferendosi a Di Maio. Ovviamente il sistema che converrebbe a Salvini non conviene a FdI e a FI. Nel partito di Berlusconi, spetta alle due capogruppo gestire il dossier in Parlamento: a quanto pare non hanno ancora formalmente imbastito la trattativa con le forze di maggioranza, se non fosse che Gianni Letta si è già portato avanti coi vertici del Pd. E mentre un pezzo consistente di Forza Italia mira a un modello con elementi di maggioritario, per tenersi agganciato alla Lega, Letta sta discutendo con i maggiorenti dem di proporzionale, sebbene nei suoi colloqui abbia specificato che la riforma «andrà realizzata a tempo debito»: la sua priorità infatti è «stabilizzare la legislatura». Anche con un gruppo di «responsabili» se fosse necessario, per evitare sorprese da Renzi e Di Maio. Sembra insomma complicato districarsi in questo ginepraio, visto che persino Leu è spaccato in due, e che i 5 Stelle si mostrano per ora favorevoli al sistema spagnolo, «finché non capiranno - come scommette un tecnico del Pd - che quel modello per loro è una fregatura. E si tornerà alla casella di partenza». Peraltro la giostra è partita un mese prima che la Consulta si esprima sul referendum elettorale (iper maggioritario) promosso dalla Lega. Il responso si avrà a metà gennaio e secondo la maliziosa previsione di uno dei più famosi costituzionalisti democrat di Palazzo, «la corte si orienterà sulla base di un unico presupposto: con quale decisione si stabilizzerà meglio la legislatura?». Evitare il voto anticipato, dunque, non pare solo un esercizio bipartisan dei parlamentari. In questo senso era stata avviata la raccolta di firme tra deputati e senatori per indire un referendum (un altro) sulla riforma che taglia il numero dei parlamentari. All’inizio c’era stata la fila a firmare e in breve tempo il forzista Cangini - che si era fatto promotore - ne aveva raccolte 50 sulle 65 necessarie. Ma appena il Colle ha fatto sapere che se fosse caduto Conte avrebbe sciolto le Camere, è arrivata la frenata. Da allora solo in quattro si sono aggiunti, complice l’opera dissuasiva di Casini sui colleghi: «Così firmate la vostra condanna a morte». La verità è che sulla legge elettorale i partiti stanno facendo i conti senza gli osti. Cioè senza i peones: se solo percepissero che la riforma prepara il ritorno alle urne, si coalizzerebbero e la affosserebbero alla Camera, a scrutinio segreto. È già scritto.

Pag 23 Il sorriso delle donne immigrate che crescono i nostri ragazzi di Antonio Polito e Stefano Landi Shirley, babysitter per amore di sua figlia. La 49enne filippina morta nello scontro tra un bus e un mezzo della nettezza urbana a Milano

In morte di Shirley Ortega Calangi, forse dovremmo rivolgere un pensiero alle centinaia di migliaia di donne come lei, straniere immigrate, tate dei nostri figli, angeli di focolari lasciati altrimenti vuoti fino a sera tarda, sostegni all’emancipazione delle mamme per le quali lavorano, pendolari perenni, tra casa e casa, tra il centro e la periferia, popolo dei mezzi pubblici, sempre di corsa, divise tra l’Italia e la patria, dove hanno lasciato i loro figli per occuparsi dei nostri, da cui sono amate ma spesso non temute, e talvolta un po’ bistrattate, i ragazzi sanno esser crudeli, ma loro non mollano e fanno gli straordinari se stasera i signori escono. Sono il lato «rosa» dell’immigrazione, e non solo perché sono donne. Neanche il più incallito sovranista può avercela con loro, neanche il peggior xenofobo può dire che rubano il lavoro alle italiane, perché invece glielo consentono sostituendole a casa. Non lo fanno per beneficenza, o per generosità. Lo fanno per i loro figli, che devono privare delle cure materne per garantirgli quelle mediche che non possono permettersi, o una scuola migliore, o più banalmente un computer e un telefonino. Talvolta fuggono. Ci fu l’ondata delle ragazze peruviane che scappavano dalla mattanza di Sendero Luminoso e di Tupac Amaru, settantamila morti e desaparecidos in vent’anni. Ci fu l’ondata delle ragazze rumene, finalmente libere di viaggiare dopo la fine della peggior dittatura comunista d’Europa, ma obbligate dal bisogno dopo la più feroce ristrutturazione capitalista d’Europa. E le filippine naturalmente, le più amate dalle famiglie italiane, gentili e credenti, le puoi trovare la domenica davanti all’antica basilica cristiana di Santa Prudenziana a Roma, o il sabato a Milano sul filobus della linea 90-91, come Shirley: lavoratrici indefesse, capaci di spedire a casa in un solo anno rimesse per cinquecento milioni di dollari. Dobbiamo un tributo a tutte loro, alla loro sofferenza e al loro esilio volontario, e al sorriso che nonostante tutto non le abbandona mai nelle nostre case. Chissà, magari un giorno qualcuno dei ragazzi che oggi accudiscono ne scriverà la micro-storia, perché è già un pezzo della storia d’Italia.

Milano. Chi non ha una tata non può capirlo. La donna che si mette in spalla il quotidiano di una famiglia che non è la sua, trovando soluzioni come dalla borsa di Mary Poppins. Shirley Ortega Calangi era quel genere di donna lì. Per quello, per piangere la sua morte tra domenica e ieri, si sono incrociate in ospedale diverse famiglie. Le due che ogni giorno le affidavano i bambini, oltre ai suoi parenti. Aveva un fratello in Sicilia, che l’aveva ospitata e aiutata al suo arrivo in Italia dodici anni fa quando iniziò a lavorare come operaia perché di alternative non ce n’erano. E poi c’era una sorella, che stava a Milano e che era la persona che l’aveva introdotta alla città e con cui passava il tempo che avanzava dal suo lavoro di babysitter. «Credo che la più vera dimostrazione che fosse una donna splendida stia nelle tante persone che sono venute a salutarla qui in ospedale», dice il suo compagno Christian Ghinaglia. L’uomo che, poco dopo le 18 di domenica, quando era stata accertata la morte all’ospedale Policlinico di Milano, ha dato il consenso a donare gli organi. E ieri mattina, dopo la notte passata dalla donna nella camera mortuaria dell’ospedale, ha accompagnato la salma all’obitorio, dove nel giro di qualche giorno verrà fatta l’autopsia. Probabilmente venerdì. La camera ardente è blindata e sotto sequestro della magistratura. Il via vai dei parenti e amici di Shyrl, come la chiamavano tutti, è finito così ieri mattina. Quando in Italia è arrivata anche sua figlia Angie, di 27 anni, che vive a Manila e fa la segretaria in un’amministrazione pubblica e a cui mamma ogni mese spediva gran parte dei soldi che guadagnava al lavoro. Il compagno Ghinaglia non fa che ripetere che ora ci vorrà un avvocato e che si dovrà aprire una bella indagine, per capire cosa sia successo e soprattutto come sia potuto accadere, in quel maledetto incrocio. L’hanno portata in ospedale in coma, ricoverata in terapia intensiva, senza però che nessuno dei medici presenti potesse scommettere un centesimo sul fatto che sarebbe sopravvissuta. Tanto che subito era stato chiamato un sacerdote per l’estrema unzione. Dal pronto soccorso del Policlinico domenica è passato anche il sindaco Beppe Sala. Ha abbracciato tutti, per quel che poteva valere: «Mi è stata dipinta come una donna straordinaria, una gran lavoratrice. Mi ha colpito il racconto della famiglia presso la quale lavorava e dell’affetto che tale racconto esprimeva», ha detto il sindaco. Perché non solo tutti la ricordano come una professionista affidabile, ma come una donna che sorrideva sempre. E fa un effetto quasi surreale che il ricordo si pronunci al passato. Le foto del suo profilo social confermano quell’immagine. Una donna che a furia di sorridere continuava a restare una ragazza. Nell’ultimo scatto che ha pubblicato su Facebook, a fine novembre, c’è lei guancia a guancia con la figlia Angie. Sembrano sorelle. In ospedale piangono tutti, soprattutto i bambini che lei stava contribuendo a tirar grandi. Piangono perché certe scene loro le hanno viste solo in televisione, in qualche film un po’ troppo cruento in cui è incappato il loro zapping pomeridiano. Il botto all’incrocio: una donna che rimbalza fuori come un proiettile. Nella loro vita resterà un grande interrogativo.

LA REPUBBLICA Pag 30 La scommessa di gennaio di Stefano Folli

Come è normale per chi non ha altri appigli, il presidente del Consiglio si aggrappa alla "verifica" della maggioranza nella speranza legittima di guadagnare tempo. L'espressione, purtroppo per lui, rimanda ai tipici scenari di pre-crisi conosciuti in passato: quando c'è da "verificarla" vuol dire quasi sempre che la coalizione si sta sfaldando. Del resto, persino chi ha proposto questo passaggio, in primo luogo Goffredo Bettini, esponente del Pd di sicura sensibilità politica, non nasconde lo scetticismo. Come dire: tentiamo quest'ultima carta prima di rassegnarci alla fine. Intanto occorre che il governo conduca in porto la legge di Bilancio, il che accadrà attraverso l'ingessatura del maxi emendamento: un metodo certo non nuovo e senz'altro spregiudicato che annichilisce il Parlamento. Quel Parlamento peraltro già sforbiciato un po' a casaccio al di fuori di ogni coerenza riformatrice. Già domani tuttavia si delinea l'insidia del voto sul "fondo salva-Stati", il Mes. Soprattutto al Senato i numeri sono esigui, qualcuno teme insufficienti. In realtà il testo della risoluzione dovrebbe passare per il rotto della cuffia, ciò che da un lato aiuterebbe Conte ad arrivare ai primi di gennaio, quando comincerà un'altra delicata partita politica. Dall'altro lato, una settimana di polemiche intorno al nuovo meccanismo europeo ha dimostrato a sufficienza quanto sia sfilacciato il tessuto connettivo di un' alleanza che non è d'accordo nemmeno su come stare nell'Unione. Consideriamo dunque, ipotesi probabile che lo stato dei rapporti tra Zingaretti, Di Maio e Renzi sia esaminato non prima di gennaio. Non esiste alcuna ragionevole certezza che si trovi per incanto la coesione mancata finora. Esempio tipico: un mese fa si sarebbe detto che almeno sulla durata della legislatura l'ex segretario del Pd rappresentava un punto fermo. Ma ora lo scenario è cambiato e l'irrequieto senatore di Rignano si è trasformato in ulteriore fattore destabilizzante in grado di contribuire a una rapida deriva verso le elezioni. Le ragioni sono di ordine sia politico sia soprattutto psicologico. In ogni caso pesa l'insuccesso di Italia Viva, il partito personale che doveva far rivivere in Italia la cavalcata verso il potere del francese Macron. La verità è assai più amara. Lo studio di Ilvo Diamanti pubblicato domenica dimostra che nella battaglia alla ricerca del consenso il partito renziano occupa una posizione abbastanza marginale. Dimostra inoltre che nessun partito - salvo i Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni - sta consolidando le sue radici. Anzi. Lo stesso Salvini dà l'idea di aver esaurito la sua capacità di espansione: segno che l'incapacità di rinnovare il repertorio e di proporre un angolo visuale meno scontato comincia a suscitare qualche perplessità nell'elettore simpatizzante ma non militante. Nel complesso il quadro è bloccato: tutti hanno la loro porzione di consenso, nessuno sembra in grado di andare oltre per creare un'egemonia. Ma proprio questa condizione mette a rischio la legislatura. Non riuscendo a creare una massa critica in stile Macron, non stupirebbe che fosse proprio Renzi a provocare la crisi del governo Conte in gennaio (senza nemmeno tener conto di come andranno le cose in Emilia Romagna). Elezioni a breve, magari con qualche forma di legge proporzionale, salverebbe qualcosa in termini di seggi di un progetto nato male.

AVVENIRE Pag 1 Come urlo dal basso di Mauro Magatti Vuoto nella politica, forza della società

C’è un grande vuoto che occupa gran parte dello spazio politico italiano in questo momento storico. Ce lo dicono, con due linguaggi diversi, due fatti venuti alla ribalta in questi ultimi giorni. Da un lato l’ultimo rapporto Censis, secondo il quale quasi un italiano su due (48%) spera nell’arrivo di un 'uomo forte' che, senza preoccuparsi troppo del Parlamento e delle elezioni, riesca a mettere le cose a posto. Si tratta certamente di un dato preoccupante, segno di una diffusa stanchezza nei confronti della democrazia. Quasi che si cominciasse a disperare di poter trovare la via per mettere un po’ d’ordine in un mondo che sembra scivolare nel caos. Un punto di esasperazione rispetto a classi dirigenti che dimostrano, ormai quotidianamente, una palese inadeguatezza nel gestire le sfide della vita comune. In un modo del tutto diverso, anche tra le Sardine che hanno riempito le piazze in questi giorni si ritrova la stessa domanda di politica che non trova interlocutori. Partito da un gruppo di giovani stanchi di vedere il Paese avvitarsi in una deriva pericolosa, questo fenomeno ha avuto uno sviluppo tanto inaspettato quanto veloce: come se si fosse buttato un fiammifero in un bosco secco a causa di una lunga aridità, facendo così divampare un incendio che si è poi propagato per l’intera foresta. I migliaia di partecipanti alle manifestazioni di questi giorni non costituiscono la risposta. Ma dicono solo della enorme 'sete' del terreno. In entrambi i casi, l’immagine che viene alla mente è quella del celebre quadro conosciuto come 'L’urlo di Munch'. Di fronte allo spettacolo della politica, il cittadino italiano si sente solo, stanco e sconfortato per l’incompetenza dei governanti con i loro insopportabili personalismi. Incerto sul proprio futuro e desideroso di trovare qualche punto di riferimento, il nostro cittadino urla la propria disperazione nella speranza che qualcuno la raccolga. Non si possono sottovalutare i rischi di una tale situazione. Se lasciati a loro stessi, questi sentimenti possono davvero essere l’anticamera di gravi processi involutivi. Che potrebbero implicare, come sbocco estremo, persino il collasso della democrazia. Esito che non si può escludere non tanto per la volontà degli attori in campo, quanto per le forti tensioni che attraversano il contesto internazionale odierno. Un quadro difficile, inquieto, violento nel quale l’Italia potrebbe rischiare di trovarsi in oggettiva difficoltà. Ma non si può nemmeno non riconoscere ciò che questo 'urlo' lascia intravvedere: una speranza di futuro da ricostituire e riaffermare. Il termine 'crisi' ha origine medica e indica un cambiamento nel decorso di una malattia che porta a momento cruciale di valutazione e discernimento. Momento che può trasformarsi nel passaggio verso un miglioramento, la guarigione, la rinascita. L’Italia si trova di nuovo in un frangente di questo tipo: dopo varie vicissitudini, il lungo declino che ci accompagna da tempo appare sempre meno sopportabile e rischia di sospingerci verso una definitiva regressione. Ma, al tempo stesso, proprio questa crisi sollecita una via nuova. La convinzione diffusa (per quanto confusa) è che non si può più andare avanti così e che è necessario cambiare strada. Come qualche anno fa - quando Renzi si affermò, appagando una domanda insoddisfatta - il Paese è pronto a voltare pagina. Le forze sociali, economiche e spirituali ci sono. Non è vero che tutto è morto. Le energie positive, per quando disperse e frammentate, resistono e permettono al Paese di andare avanti. Nonostante tutto, l’Italia rimane un Paese vitale, pieno di risorse invidiate da tutto il mondo. Ma non riesce più a trovare un filo del discorso comune che le consenta di ritrovarsi e di guardare avanti con fiducia. Afflitta da mille egoismi, ha perso la bussola del bene comune. Se si vuole essere realisti, né a destra né a sinistra oggi si vedono idee e proposte qualificate e praticabili. Né tanto meno gruppi dirigenti preparati e coesi. Allora, è bene cercare di darsi un po’ di tempo, con un governo che si pensi come l’infermiere in attesa del medico in grado di formulare una terapia seria per superare la crisi. L’urlo di questi giorni risuona fortissimamente, dando voce al dolore e insieme alla speranza che attraversa la Penisola. Il nostro primo compito è quello di ascoltarlo. Con calma e con umiltà. Senza saltare subito alle conclusioni e riconoscendo i tanti errori e le ripetute omissioni. A cominciare da quelle che ci riguardano personalmente. Solo partendo da un ascolto vero sarà possibile arrivare a formulare le risposte che i cittadini aspettano da tempo. E ascoltando si capirà anche che chi è oggi è al potere e siede in Parlamento ha già consumato le proprie chance. Un lavoro essenziale che nei prossimi mesi occorrerà fare è aiutare l’emergere di una nuova classe dirigente fatta di gente che s’impegna, che è competente, che crede nel futuro. Una classe dirigente che nel Paese c’è già. E che il Paese stesso spera di incontrare.

IL FOGLIO Pag 3 La tratta delle ragazze cristiane 629 dal Pakistan sono finite in Cina, dove c’è una grande richiesta di donne

Pagina dopo pagina, i loro nomi si accumulano, fino alla cifra terribile di 629. Sono le ragazze provenienti da tutto il Pakistan che sono state vendute come spose a uomini cinesi. L'elenco, ottenuto dalla Associated Press, è stato compilato da investigatori pachistani che stanno cercando di spezzare la rete di trafficanti che prende di mira i più vulnerabili del paese: i cristiani. Il governo ha cercato di limitare le indagini, esercitando "un'enorme pressione" sui funzionari dell'Agenzia federale di ricerca che perseguono la rete dei trafficanti, ha affermato Saleem Iqbal, un attivista cristiano che ha aiutato i genitori a salvare le loro ragazze dai trafficanti cinesi. Hanno paura di rappresaglie. Un'indagine dell'agenzia Ap all'inizio di quest'anno aveva già rivelato come la minoranza cristiana del Pakistan sia diventata un nuovo obiettivo di trafficanti di esseri umani che pagano i genitori più poveri per sposare le loro figlie, alcune adolescenti. Tutti i matrimoni, tranne una manciata, si sono svolti tra il 2018 e il 2019. La domanda di spose straniere in Cina è radicata nella crisi demografica del paese, dove ci sono circa 34 milioni di uomini in più rispetto alle donne, risultato della politica del figlio unico che si è conclusa nel 2015 dopo 35 anni e che ha portato agli aborti delle bambine e all'infanticidio femminile. Si saldano due tabù contemporanei. La complicità e il silenzio occidentali sulla mostruosa politica demografica di Pechino. Per anni, infatti, l'Onu ha sovvenzionato e sostenuto la politica del figlio unico, chiudendo più di un occhio sulle sue aberrazioni. Il secondo tabù riguarda, come ormai è noto, la persecuzione dei cristiani in terra islamica. E' la più trasversale, polimorfa e spietata forma di persecuzione religiosa al mondo e va dai plateau nigeriani alle megalopoli pachistane. Dobbiamo spezzare non soltanto le catene del traffico di esseri umani, ma anche della nostra omertà.

IL GAZZETTINO Pag 1 In tre mesi tre nuovi partiti a sinistra e a destra del Pd di Alessandro Campi

Da quando il Partito democratico ha deciso di fare un governo con il M5S, sono nati in Italia due nuovi partiti (entrambi alla sua destra: quello di Renzi e quello di Calenda) e un movimento di protesta che potrebbe diventare anche un partito (alla sua sinistra: le cosiddette sardine). Per il Pd quest'effervescenza ai suoi confini di sigle e proposte politiche, magari minoritarie e in prospettiva effimere ma al momento ben intenzionate ad affermare la propria autonomia e originalità, è un problema serio: l'aumento della concorrenza politico-elettorale nell'area in senso lato di sinistra implica necessariamente la riduzione dei suoi consensi diretti e dunque il suo progressivo indebolimento (come puntualmente certificato dai sondaggi, che ormai lo danno sotto il 20%). Chissà, se si fosse corso il rischio delle urne dopo la crisi agostana innescata da Salvini, invece di imbarcarsi in un'alleanza improbabile con i nemici mortali del giorno prima, si sarebbe forse evitato questo moto disgregatore (a partire dalla scissione renziana). Una campagna elettorale condotta all'attacco avrebbe consentito al Pd di catalizzare intorno a sé tutte le forze ostili al populismo giallo-verde appena imploso dopo una deludente prova al governo del Paese: ora quelle stesse forze complici anche i troppi personalismi rischiano di andare per conto proprio, di sovrapporsi o di elidersi a vicenda. Una sinistra divisa e rissosa difficilmente potrà mai vincere contro una destra unita pur nelle differenze. Ma tale effervescenza è un problema, a ben vedere, anche per la politica italiana: sembra infatti che quest'aumento di partiti e simboli, che in teoria dovrebbe arricchire l'offerta a beneficio dei cittadini, produca nella realtà l'effetto paradossale di accrescerne lo scontento nei confronti di una politica dalla quale, per quanti sforzi faccia quest'ultima per rinnovarsi, continuano a non sentirsi rappresentati. Ad una persona affamata dopo un lungo digiuno è inutile mettere sotto gli occhi un menu con decine di portate fatte di assaggini sfiziosi: meglio pochi piatti ben selezionati e corposi tra i quali scegliere. Lo stesso vale in politica: un sistema democratico dove nascono sempre nuovi partiti e che vede continuamente cambiare i suoi attori non è vitale e dinamico come si pensa, semmai è caotico e instabile. Il movimento delle sardine è esattamente l'espressione di questo disagio, anche se la loro tanto enfatizzata trasversalità ideologica resta tutta da dimostrare: il loro malessere, al di là del giovanilismo di facciata che ha fatto immaginare l'inizio di una romantica e pacifica rivolta generazionale, riflette infatti quello di una parte politica che, indebolita ormai da anni dai personalismi e dalla mancanza di un progetto politico minimamente coerente, riesce a trovare un po' di unità e coesione solo in negativo, nell'avversione esistenziale al nemico politico di turno. L'opposizione al salvinismo, derubricato polemicamente a politica dell'odio, è stata e resta il collante emotivo del sardinismo, che del primo vorrebbe essere l'alternativa civile, tollerante, amorevole e allegra. Va bene per chi considera la politica una semplice questione di stile, ma la mancanza di idee imputata ai populisti difficilmente può essere compensata solo dalla buona educazione. Le simpatie, in questi giorni amplificate sui media in modo per molti versi strumentale, di qualche singolo esponente della destra moderata nei loro confronti dicono davvero poco dal punto di vista politico. Esprimono al massimo (volendo prendere per politicamente significative le esternazioni della giovane compagna del Cavaliere) il disagio di un certo mondo berlusconiano nei confronti di un Salvini sin troppo debordante. Ma pensare di contrastare quest'ultimo andando in piazza insieme ai suoi giovani contestatori di sinistra non sembra una grande idea. Come non lo è continuare a vagheggiare, per far uscire Forza Italia dalla crisi organizzativa e di consensi nella quale è precipitata, la nascita a tavolino dell'ennesimo partitino: in questo caso di centro e capace di tenere insieme i critici moderati del populismo sovranista e i riformisti della sinistra liberale staccatisi di recente dal Pd. Piuttosto che disarticolare ulteriormente un sistema politico già di per sé frammentato e instabile forse converrebbe lavorare a destra come a sinistra per dare un diverso impulso progettuale a quelle forze politiche che in questo momento presentano una maggiore ed effettiva presa sulla società e dunque una forza elettorale relativamente stabile e consistente. Ciò significa che il problema della politica italiana, dopo un trentennio di continue fibrillazioni e di repentini cambi di scenario, non è inventarsi nuovi partiti, bensì la stabilizzazione organizzativa e ideologica di quelli esistenti, a partire dai più grandi. Immaginiamo dunque la Lega sovranista che prova ad evolvere verso il modello di un partito conservatore di massa in prospettiva compatibile col popolarismo (dovrebbe essere questo l'obiettivo della Lega nazionale che Salvini intende far nascere il prossimo gennaio); il Pd che rinuncia alla sua natura ibrida e anfibia di forza genericamente progressista per tornare ad essere un partito di sinistra socialista-riformista; il M5S che si propone come un partito-movimento interessato, più che a scardinare il sistema o a cavalcare la rabbia popolare, a sperimentare nuovi modelli organizzativi e nuove forme di partecipazione alla vita democratica (così come indubbiamente consentito dalle nuove tecnologie digitali). Insomma, come la stabilità del sistema internazionale è garantita dal ruolo ordinatore che al suo interno svolgono le grandi potenze, laddove il proliferare delle sovranità e delle autonomie nazionali rappresenta invece un fattore di incertezza e di conflittualità permanente, così nell'arena domestica senza l'esistenza di medi-grandi partiti, portatori di una specifica e coerente visione della società e capaci di operare come polo d'attrazione per le forze minori, risulta difficile tenere in equilibrio ed efficiente un sistema politico-istituzionale. Il ragionamento ci riporta alle sardine, che il prossimo fine settimana esordiranno sulla piazza romana. Con la loro mobilitazione dal basso possono fare il bene del Pd, a condizione però di proporsi nei confronti di quest'ultimo come un pungolo critico e come un potenziale bacino di idee ed energie. I sondaggi dicono che la loro affermazione sulla scena pubblica è andata di pari passo con il progressivo calo nei consensi fatto registrare da Salvini: salvo il piccolo particolare che i voti persi da quest'ultimo li ha incamerati Giorgia Meloni. Non hanno dunque minimamente indebolito la destra. Il paradosso è che rischiano di indebolire anche la sinistra.

LA NUOVA Pag 4 E’ un sistema drogato: una mazzata che fa bene a tutti di Ferdinando Camon

È la più grande punizione che sia mai stata inflitta nel campo dello sport mondiale: la Russia è esclusa dalle competizioni internazionali per quattro anni consecutivi. Quindi salta le Olimpiadi estive di Tokyo del 2020 e i Giochi Invernali di Pechino del 2022. Quando guarderemo le Olimpiadi del 2020 sentiremo lo speaker informare che non sono presenti squadre russe perché la Russia ha barato per anni, truccando le analisi dei suoi atleti nel modo più stupido e più ottuso, alterando le fialette dei suoi campioni metodicamente, a decine e a centinaia, a tutti i livelli e con tutti gli organismi di cui disponeva. Sono implicati il laboratorio delle analisi di Mosca, il ministero dello sport, enti nazionali e federazioni sportive internazionali, e perfino i servizi segreti. Gli atleti coinvolti in questa maxi operazione di falsificazione delle orine sono più di mille tra il 2012 e il 2015. Noi semplici tifosi restiamo allibiti, perché è chiaro che se questa era la potenza e la vastità della frode a organizzarla non poteva essere questa o quella squadra sportiva, per fregare le altre squadre: no, una operazione immensa e capillare di questa portata, che riguarda le squadre di una nazione, chiama in causa tutta la nazione, questo è doping di stato, dei ministeri, della polizia. Un'autorità russa si lamenta dicendo: «Ci sarà del marcio in casa della Russia, però i controllori internazionali hanno l'ossessione isterica di controllare sempre la Russia». Può darsi, però ogni volta che controllano le squadre russe trovano qualcosa, anzi molto. Ai tempi dell'impero russo le vittorie nello sport erano uno strumento di potenza di fronte al mondo. Vincere tante medaglie sembrava un merito del partito comunista sovietico. Qualcosa è rimasto, vincere molto anche adesso porterà dei vantaggi nella carriera dei burocrati, che dunque per vincere non risparmiano i trucchi. Noi crediamo che chi vince sia l'atleta migliore, il più sano, il più forte, il più allenato. Invece quando c'è di mezzo il doping è il più avvelenato, cioè il più malato. In questo modo si inganna il pubblico, si inganna la storia e la memoria. Non c'è sconfitta maggiore per lo sport, di quella in cui l'atleta che sale sul podio più alto ha il sangue intossicato dalla chimica, ma intanto incassa la gloria, gli applausi e l'assegno, e se nessuno lo scopre diventa immortale. Purtroppo ce ne sono tanti di questi immortali fasulli, viventi e morti. Il doping è lo strumento usato per combattere e vincere nella società della competizione, dove l'imperativo non è rispettare le regole ma vincere. Già a scuola il bambino capisce che quel che gli si chiede non è imparare, ma esser promosso. Quando poi fa una gara di bicicletta, nella sagra del paese, il padre va dal dottore e gli chiede: «Non potrebbe dargli un aiutino?». È tutto drogato, quando vado al cinema e per scegliere il film leggo le recensioni sento a naso quelle serie e quelle truccate. La mazzata che l'organismo internazionale di controllo sul doping dà oggi alla Russia fa bene a tutti.

Pag 5 Le medaglie sporche non possono pagare mai di Gianni Riotta

La Russia del presidente Vladimir Putin è stata messa al bando, per quattro anni, dallo sport mondiale, colpevole di uso capillare, pervicace e sponsorizzato dalle autorità pubbliche di sostanze proibite, inflitte agli atleti in cerca di sleali vittorie. La bandiera del Cremlino non sventolerà ai Giochi di Tokyo, la prossima estate, o alle Olimpiadi Invernali di Pechino 2022. E, se la federazione russa fallisse, come probabile, il ricorso al Tribunale di Arbitrato dello Sport, tempo tre settimane, sono a rischio anche Coppa del Mondo di calcio, competizioni giovanili e paraolimpiche. È il severo verdetto della Wada, World Anti-Doping Agency, dopo che per anni gli atleti russi si son dopati e le federazioni han rifiutato di collaborare, boicottando le ispezioni e taroccando dati. «Troppo a lungo - commenta il presidente Wada Craig Reedie - il doping russo ha inquinato lo sport pulito. Le spudorate violazioni delle autorità russe...ci imponevano una risposta dura, eccola». Come ai tempi della prima Guerra Fredda, quando nella DDR, la Germania Est, migliaia di ragazze e ragazzi furono usati come cavie da dottori stregoni, è in gioco il prestigio delle superpotenze. Il presidente Putin, già dalle sue foto a torso nudo, fucile imbracciato o sul ghiaccio dell'hockey, coltiva il mito del macho vincente contro i leader democratici, e vincere medaglie incensa il mito. Cina e America non hanno fatto pressioni forti, il presidente Trump non auspica braccio di ferro ostile alla Russia, ma altri paesi, dietro le quinte Gran Bretagna e Nord Europa, han tenuto duro ed è arrivata la squalifica.A Mosca il tam tam della disinformazione è subito partito, accusando Wada di essere strumento della manovra imperialistica ai danni del patriottico movimento sportivo locale. «Il solo doping è la politica» aizza dal programma "Vesti Nedeli" Notizie della Settimana il commentatore putiniano Dmitry Kiselyov. Gli atleti russi potranno sì partecipare ai Giochi a titolo individuale, come ai Giochi di Rio in Brasile 2016, ma a proprio rischio, allora furono fischiati dalla folla e insultati dagli sportivi di altri paesi, vedi il gestaccio della nuotatrice Usa Lilly King alla russa Yulia Efimova, dopata e squalificata per 16 mesi.Qualcuno obietta, "Il doping esiste in tanti paesi!", vero purtroppo, ma Wada reagisce al ritorno delle Orche Ddr - 10.000 atleti tedeschi dell'Est ebbero la salute minata -, e all'asservimento dello sport alla ragion di Stato bieca. Putin, leader astuto, dovrebbe ora meditare. La rozza idea di drogare i propri cittadini per la gloria effimera di medaglie sporche è finita nello squallore. Meglio cambiar registro, subito, ma l'ex agente dello spionaggio Kgb, nello sport e non solo, è ormai prigioniero della corsa a fingersi forte senza esserlo. Il doping sportivo, i muscoli gonfiati in provetta, è la miglior metafora per le politiche, a Mosca e nel mondo, di Putin, la debolezza schermata, invano alla fine, da forza fasulla.

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