Legger d’Amore Giornate Internazionali

Quinta edizione Rimini, Museo della Città, 18 - 20 marzo 2011

Atti del convegno Progetto e cura dell’iniziativa: Ferruccio Farina Organizzazione e comunicazione: Angela Fontemaggi e Orietta Piolanti (Musei Comunali Rimini). Redazione atti: Angela Fontemaggi e Orietta Piolanti (Musei Comunali Rimini), Andrea Santangelo.

Comune di Rimini Assessorato alla Cultura Assessorato al Turismo

Provincia di Rimini Comune di Assessorato al Turismo Santarcangelo di Romagna

In copertina: elaborazione da xilografia di A. Zanverdiani, Paolo e Francesca, 1919

© 2012, Editrice Romagna Arte e Storia sas, Rimini Legger d'Amore Giornate Internazionali Francesca da Rimini

Noi leggiavamo un giorno per diletto… LEGGER D'AMORE

PROGRAMMA DELLE GIORNATE

5 marzo AMORE AMOR AMORNÒ LETTURA SCENICA liberamente ispirata al romanzo France- sca” di Flavio Nicolini dedicato ai Malatesta e in partico- lare alla figura di Francesca da Rimini. Compagnia Teatro del Cartoccio. Ideazione e regia di Liana Mussoni. Rimini, Teatro degli Atti.

14 marzo FRANCESCA IN TIVÙ PROIEZIONE DEL FILM Paolo e Francesca, regia di Vittorio de Sisti, soggetto e sceneggiatura di Flavio Nicolini, RAI Radio- televisione Italiana, 1990. Introduzione di Piersilverio Pozzi Santarcangelo di Romagna, Sala-Teatro Il Lavatoio. In collaborazione con Comune di Santarcangelo di Romagna, Assessorato alla Cultura, e Biblioteca Comunale Antonio Baldini, Santarcangelo di Romagna.

15 marzo FRANCESCA D’ITALIA: Francesca da Rimini dalla rivoluzione giacobina a Trieste liberata. Centocinquanta cimeli in mostra per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. INAUGURAZIONE DELLA MOSTRA curata da Ferruccio Farina. Rimini, Museo della Città.

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18 marzo RILEGGERE DANTE, RILEGGERE FRANCESCA… SEMINARIO FORMATIVO PER INSEGNANTI E STUDENTI Iniziativa realizzata dai Musei Comunali di Rimini, Ente di Formazione accreditato dal Ministero dell’Istruzione, del- l’Università e della Ricerca, in collaborazione con Liceo Classico Psicopedagogico “G. Cesare” - “M. Valgimigli” Rimini e l’Ufficio Scolastico Provinciale di Rimini. Lectio magistralis sul quinto canto dell’ a cura di Raffaele Pinto, Università autonoma di Barcellona. I colori della passione: Francesca da Rimini nelle arti fi- gurative tra Otto e Novecento a cura di Michela Cesarini, storica dell’arte.

19/20 marzo LEGGER D’AMORE CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI Rimini, Museo della Città e Santarcangelo di Romagna, celletta Zampeschi.

20 marzo ALLA RICERCA DEL BACIO PERDUTO TOUR GUIDATO AI LUOGHI DEL MITO A cura di Michela Cesarini, storica dell’arte. Santarcangelo di Romagna, Chiesa della Collegiata.

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CONVEGNO DI STUDI -INTERVENTI E RELAZIONI

FERRUCCIO FARINA 11 Nota alla quinta edizione delle Giornate Internazionali Francesca da Rimini

DEIRDRE O’GRADY 13 Il Libro, la Donna e la Cavalleria: dalla Vita nuova al libretto comico

DIANA GLENN 25 Of Kings and Queens in Inferno V

PIOTR SALWA 39 Decameron IV, 1: dal patetico al sentimentale

ROSSEND ARQUÉS 53 Victoria (Ocampo), Francesca, Beatrice. E il dantismo argentino contemporaneo

ROBERTO FEDI 83 Leggere Petrarca, naturalmente ad Arquà

GIULIO FERRONI Libri galeotti tra romanzo e teatro (Settecento-Ottocento) *

RITA SEVERI 103 Francesca Fin de Siècle: Wilde e De Gallienne

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NATASCIA TONELLI Scriver d’amore per farsi leggere: e così sedurre *

LUIGI BALLERINI 119 Perché qualcuno legga d’amore bisogna che qualcuno d’amore scriva: spigolature dugentesche e d’oggidì

MASSIMO CIAVOLELLA 155 Libri galeotti, letture proibite

FERRUCCIO FARINA 167 Introduzione alla mostra “Francesca d’Italia: Francesca da Rimini dalla rivoluzione giacobina a Trieste liberata. Centocinquanta cimeli in mostra per il centocinquantenario dell’Unità”

RAFFAELE PINTO 199 Sul libro Galeotto

REMO BODEI 211 Turbamenti d’amore

*Testi delle relazioni non pervenuti in tempo utile per la stampa

9 Lettura illuminata Alberto Zanverdiani, xilografia in Morello Torrespini, Paolo e Francesca, Trieste 1919. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse…

Nei due versi del canto V dell’Inferno, centrati sull’esperienza immortale di Francesca e di Paolo, è racchiuso il senso di un ‘di- scorso d’amore’ che attraversa i secoli. ‘Legger d’amore’ è quindi non solo un atto intellettuale, ma vi- tale, come tale avvertito per secoli da Dante a Barthes, dall’antichità ai giorni nostri. Un atto che si compie, sempre nuovo, ogni volta che abbiamo sotto gli occhi un testo d’amore, appunto, che ci ripropone una fon- damentale esperienza, in un flusso incessante. Un atto che ogni scrittore, e quindi ogni lettore, ha manifestato e accolto in maniere diverse, di volta in volta felici, ingenue, lacrime- voli, drammatiche, o talvolta non realizzate. A questo flusso ininterrotto che ci circonda da sempre, al libro e agli scrittori d’amore e di passione, è dedicata l’edizione 2011 delle Giornate Internazionali Francesca da Rimini, quinto appuntamento riminese dedicato a un mito tra i più diffusi, popolari, amati, radicati e longevi della cultura occidentale, dilagato, da due secoli, in tutti i continenti in tutte le forme d’espressione artistica. Un mito, Francesca da Rimini, nato dai versi di Dante che ha vis- suto vita propria ispirando, dall’Ottocento ai giorni nostri, oltre mille artisti ad ogni latitudine e che ha saputo conservare nel tempo il suo fascino e il suo appeal anche nei confronti delle nuove generazioni affermando valori positivi come l’amore eterno, la fedeltà, la libertà e il rispetto della vita e della persona.

“Legger d’Amore”, pur confermando la sua connotazione di con- vegno di studi, ha proposto anche eventi di corredo quali la mostra

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documentaria “Francesca d’Italia. Francesca da Rimini dalla rivo- luzione giacobina a Trieste liberata” realizzata nell’ambito delle ce- lebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Uno spazio importante delle Giornate è stato dedicato anche agli insegnanti e agli studenti con il seminario “Rileggere Dante, rileggere Francesca...”, curato da Raffaele Pinto, al cui interno vi è stata la proiezione di do- cumenti cinematografici d’epoca. E come ormai tradizione, “Alla ri- cerca del Bacio perduto: tour guidato ai luoghi del mito”,ha ripercorso luoghi e memorie legate al mito di Francesca con una visita guidata a Santarcangelo di Romagna, splendida città sulle colline ri- minesi, che ha ospitato la giornata di chiusura del convegno.

Nel 2012 la sesta edizione delle Giornate ritornerà alle origini: si terrà infatti a Los Angeles, all’UCLA, dove, sei anni fa, nel corso del convegno, Dante’s New Life in 20th-Century Literature and Cinema: Modern Intertextual Appropriation of Dante, è nata l’idea di racco- gliere studi e contributi attorno a questo personaggio che, acora dopo sette secoli, non finisce di affascinare sollecitando riflessioni su temi alla radice dell’esistenza umana. Ed avrà per linea guida Women in Hell | Donne all’inferno, etrat- terà di donne letterarie, quindi, precipitate in un qualche inferno (vero o metaforico) per le loro colpe, o per la loro passione, o per quello che una volta si definiva la follia. O per scelta, anche. O semplice- mente per la loro natura di donne, spesso innocenti. E tratterà di aspetti della condizione femminile da scoprire, ancora oggi. E su cui riflettere. Così, anche questa volta, la vera Francesca, quella da Ri- mini, avrà avuto la sua giusta considerazione come la prima, forse, delle donne (celebri, ma anche quasi anonime come lei) che ha ele- vato la sua dannazione a simbolo o a metafora di una vita comunque esemplare: anche, e soprattutto, nel dolore, nel ‘peccato’ e nel- l’emarginazione. Grazie a Dante, naturalmente

FERRUCCIO FARINA

12 DEIRDRE O’GRADY Il Libro, la Donna e la Cavalleria: dalla Vita nuova al libretto comico

Premessa

Il tema del Convegno ‘Francesca da Rimini’ del 2011 tocca pro- fondamente non soltanto i nostri gusti letterari individuali, ma anche il nostro modo di leggere e interpretare la letteratura. Sono convinta che la maggior parte di noi presenti, se non tutti, ci siamo dedicati alla lettura di opere “amorose” per passatempo, oppure per toglierci la nostalgia di una cara persona assente. Forse avremmo anche scritto le poesie per l’innamorato, o l’innamorata, adoperando uno stile illustre in modo di nobilitare il legame amoroso, oppure utiliz- zando un linguaggio anticonformista, ma sempre con l’intenzione che gli scritti venissero letti e capiti dalla persona a cui sono rivolti. Abbiamo tutti letto i romanzi classici di Foscolo, Manzoni, Nievo, Verga non soltanto a scopo intellettuale, ma anche per passatempo o diletto. Ma l’elemento romantico e il tema dell’amore, con impli- cazioni sociali, politiche e spesso anche religiose ci prepara a ‘illu- minar la mente’, mentre leggere per diletto o passatempo arricchisce l’esperienza al punto di farci condividere le esperienze dei perso- naggi protagonisti del romanzo. Abbiamo tutti studiato La vita nuova e La divina commedia di Dante, e questi due capolavori fun- zionano come il nostro punto di partenza. Ma anche senza arrossire, ammettiamo di aver letto di nascosto o in compagnia di amici qual- che libro “proibito”. Riflettendo su questa scena di esperienze indi- viduali, ci diventa chiara la diversità di approccio e di come trattare il nostro argomento. Leggere per passatempo, per studio o per cu- riosità tocca una corda vitale nella nostra vita intellettuale e sociale: rappresenta un’esperienza al tempo stesso passiva e attiva: stimola

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le emozioni e porta spesso a una reazione fisica che spesso conduce alla creatività artistica. Diversi critici hanno posto diverse opinioni sull’atteggiamento di Dante verso la lettura dei romanzi. Alcuni nel quinto canto dell’In- ferno trovano una condanna del romanzo cavalleresco, altri come Umberto Bosco vedono un messaggio che va oltre questa e che di- mostra un ripensamento dell’idealizzazione dell’amore trovata negli scritti giovanili del poeta. Non si può negare però che la trasforma- zione di Beatrice in simbolo teologico nel elevi sempre più il concetto dell’amore filosofico/spirituale e che rappresenti l’arrivo a una destinazione interpretativa appena sondata nella Vita nuova.

Il tema ‘Leggere d’Amore’ come inteso da noi studiosi di Fran- cesca da Rimini nel suo contesto storico/letterario, nonché filosofico e sociologico, impegna una considerazione dell’espressione in una cornice medievale. Risulta anche necessario un’analisi delle parole messe in bocca a Francesca da Dante poeta. Il fatto che Francesca e Paolo leggevano insieme è stato toccato più volte da critici e osservatori, da Giuseppe Mazzotta1 a Lia Celi2, due nostri compagni di convegni riminesi, e questo fatto ci porta ad considerare da più vicino la figura del lettore e della lettrice nel me- dioevo. Serve anche ricercare il livello di preparazione scolastica del

1 Il Professor Mazzotta, nella sua analisi della figura di Francesca la inquadra in un cornice dedicato al libro nel tempo. Si presentano le domande: ‘come do- vremmo leggere?’e èmorale leggere per diletto?’ Nelle lezione svolte a Yale con titolo An Introduction to Dante va toccato il rifiuto di Francesca di tenere una di- stanza interpretativa fra lei stessa e il personaggio letterario. Si vedono G. Mazzotta, Dante Poet of the Desert. History and Allegory in the , Princeton 1979; Dante’s Vision and the Circle of Knowledge, Princeton 1993; Critical Essays on Dante, Michigan 1991 2 Ci si rivolge all’intervento di Lia Celi che fa parte del ‘Processo a Gianciotto’ del 2010, realizzato in videocassette, in cui dichiara che il fatto che Francesca leggeva provocasse sospetto e gelosia dalla parte dal marito.

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lettore medievale e la varietà di materiale a disposizione. Ci creiamo il problema di giudicare il soggetto e il contenuto del romanzo cavallere- sco nonché lo scopo immediato della lettura. Questo discorso ci pone domande che non trovano sempre risposte. Però apre la strada a di- verse possibilità di interpretazione, e a un resoconto delle alternative aperte a Francesca e Paolo quando hanno scelto di leggere il Libro di Lancillotto.

Prima di tutto diventa palese che in questo breve studio ci si trova davanti a cinque libri: (1) il libro dentro il libro – Il libro di Lancil- lotto del lago inserito nella narrativa di Francesca nel quinto canto dell’Inferno di Dante. Questo libro/immagine emerge come oggetto simbolico che occupa lo spazio poetico/amoroso fra i due amanti. (2) Il secondo libro è per forza L’Inferno, dimora eterna degli amanti di Rimini. (3) In più la fonte poetica dei versi messi in bocca a Fran- cesca richiede considerazione. La vita nuova, opera giovanile di Dante del 1292 e scritta per immortalare la sua Beatrice. In que- st’opera il poeta, portando insieme la tradizione sacra e profana e se- guendo una strada iniziata da Guinizelli si riferisce al ‘libro della mia memoria’3. Questa realizzazione dei ricordi d’amore si sviluppa in un trattato sull’amore in forma poetica e narrativa. Bisogna anche rife- rire all’esposizione del tema dell’Amore come fondamentale alla no- stra esistenza come svolto nel , seconda cantica della Divina commedia. Dante si riferisce alla dottrina universale del- l’Amore esposta anche nel Convivio. Leggere tutti questi scritti cor- risponde, in un primo momento, a ‘leggere d’amore’. Con il capovolgimento della donna ‘stilnovista’ in Francesca nel Canto V, la presenza del romanzo ‘cortese’ di Lancillotto e Ginevra, e l’iden- tificazione dei due cognati dannati con quest’ultimi pare che Dante, almeno a livello morale, s’impegni a differenziare fra il ‘buon leg- gere’ e il ‘cattivo leggere’.

3 D. Alighieri, Vita nuova, Milano 1973, p. 19.

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La Donna come immagine letteraria

Questo studio critico/analitico si punta su due donne protagoni- ste di due opere dantesche: la donna santificata della Vita nuova e quella dannata dell’Inferno. La seconda funziona come capovolgi- mento della prima4. In più siamo di fronte a due lettrici: una che ri- vivendo il mondo cavalleresco crea per sé e per l’amante una nuova realtà in cui si identifica con l’adulterio della Regina Ginevra. Ma anche qui bisogna stare attenti e riferirci al libro ‘Galeotto’ in que- stione: bisogna informarci sul vero ruolo di Ginevra nel contesto del mondo cavalleresco5. La donna gentile, sia Beatrice o siano delle sue compagne, si realizza in primo luogo come donna/donne ‘della mia mente’6. Il rapporto fra Dante e la ‘donna gentile’ riflette il concetto dell’Amore come attività intellettuale e religiosa che si afferma come letteratura. Da uno che ‘dice’ Dante diventa uno che ‘scrive’. La donna, da una che ‘vede’, ‘saluta’ e ‘sente’ ad un certo punto diventa una che ‘legge’. Diventando ‘lettrice’ si porta più avanti il processo di trasformazione dell’innamorata, anche se rimane per lo più una creatura astratta. Il contrasto fondamentale fra Beatrice e Francesca, ambedue lettrici d’amore rimane il contrasto fra intelletto e corpo. Ambedue creazioni poetiche, Beatrice rimane una figura astratta mentre Francesca si afferma, con le parole messe in bocca sua da Dante, come una figura fisica contenuta in un romanzo d’amore con triste fine. A questo punto bisogna riferirci di nuovo al tema dell’Amore del Purgatorio, e all’esposizione di Virgilio sull’Amore nel diciassette- simo Canto della seconda cantica della Divina Commedia. Proprio al centro della Commedia viene comunicata l’essenza dell’Amore come

4 Quest’idea è già stata sviluppata in altre edizioni delle ‘Giornate Internazionali Francesca da Rimini’. 5 Si ricorda che il valore di Lancillotto Cavaliere va contro il dictum morale di Dante scrittore cristiano. 6 Ibid.

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radice di ogni bene e ogni male. La Ragione, nella persona di Virgi- lio spiega la capacità dell’Amore di errare se diretto a fine sbagliato, o se si manifesta con troppo o poco vigore:

Lo naturale è sempre sanza errore, Ma l’altro puote errar per malo obietto O per troppo o per poco di vigore. Purgatorio XVII, 94-96 7

Viene così messa in rilievo la struttura morale e geografica della Cantica che si svolge secondo la teoria del male abietto e del troppo e del poco vigore. Secondo me si può anche osare di sostituire la pa- rola ‘Lettura’ per ‘Amore’. Concentrandoci sul tema della lettura nel- l’opera dantesca si possono identificare esempi di lettura buona in sé, come culto educativo, ma diretta a fine sbagliato, o per troppa passione o poco valore scolastico.

Francesca ‘Lettrice’

La risposta di Francesca alla domanda di Dante riguardo le cir- costanze in cui fiorì il suo amore per Paolo contiene tutta l’informa- zione necessaria per formare un’opinione sui due cognati/ lettori: servono soltanto tre versi:

Noi leggevamo per diletto un giorno di Lancialotto come amor lo strinse: soli eravamo e sanza alcun sospetto8. Inferno V 127-9

7 D. Alighieri, La divina commedia. Purgatorio, Firenze 2002, p. 325. 8 D. Alighieri, La divina commedia Inferno, Firenze 2002 p.90.

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Questi versi, forse i più citati di tutta la Commedia meritano ana- lisi in quanto indicano il soggetto e le circostanze della lettura fatale. Green nel suo studio intitolato Women Readers in the Middle Ages (Donne lettrici nel medioevo) spiega che il leggere durante il me- dioevo era considerato un esercizio intellettuale e per niente legato allo scrivere9. In altre parole il leggere risultava passivo, anche se in un se- condo momento avesse provocato una risposta attiva. Invece lo scri- vere era un’attività fisica e creativa. In più indica l’uso di leggere da soli, trovato negli scritti di Giovanni di Salisburgo (‘per se scrutans scripturam’) e nella regola benedettina. Leggere in gruppo faceva anche parte della tradizione scolastica. Nel Floire et Blanchflor si trova riferimento a ‘studiare in gruppo’ – ‘lisent et aprendent’– ‘leggendo e imparando’. In questo romanzo medievale si trova anche l’esempio di due innamorati che leggono insieme. Nel Troilus and Criesyde di Chaucer Deiphebus, il fratello di Troilus e Helen leggono e studiano insieme. Considerando quest’esempi si capisce che in ambedue le tra- dizioni francesi e inglesi lo studio e la lettura in compagnia dell’inna- morato non erano attività fuori del comune. La capacità intellettuale della donna viene per la maggior parte sottovalutata nel tardo me- dioevo, dando vita al detto popolare ‘leggere come una donna’– cioè leggere senza capire o interpretare. Il materiale principale esplicita- mente raccomandato e destinato alla donna medievale si divideva nelle seguenti categorie: manuali per vergini, per suore e religiose, per mogli (con raccomandazioni sull’ubbidienza, il portare avanti la casa o il ca- stello, più il comportamento nell’assenza del marito10). Figuravano anche le vite dei santi. Nel discorso del professor Green la figura di Lancillotto viene indicata come esempio del cavaliere che riuscendo a leggere poteva considerarsi anche un ‘religioso’, essendo capace di copiare e trasmettere manoscritti civili e religiosi alla posterità. Tor- nando al contenuto morale dell’Inferno bisogna sottolineare il forte

9 D.H. Green, Women Readers in the Middle Ages, Cambridge 2007, p. 4. 10 Si veda Watt, Diane, Medieval Women’s Writing, Cambridge 2007.

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contrasto fra l’etichetta che governava il comportamento del Cavaliere del primo medioevo e quella della Dama castellana del tempo di Dante.

Dai versi di Dante si capisce che i due cognati leggevano, ma il vero significato della frase è difficile identificare: leggevano ambedue silen- ziosamente o leggeva uno ad alta voce mentre l’altra ascoltava? Oppure facevano a turno? Quale importanza hanno queste distinzioni? Prima non possiamo essere assolutamente sicuri che ambedue sapessero leg- gere, o chi dei due in realtà si realizzasse come tentatore/tentatrice. Si ca- pisce bene invece che la loro lettura non entrava nell’ambito dello studio o dell’attività intellettuale come indicata da Dante nella Vita nuova. Si capisce che leggevano per ‘diletto’, per passatempo, e che non avevano altra compagnia. Il loro ‘Leggere d’Amore’ pare proprio il primo passo consapevole in un incontro d’amore destinato a finire con l’adulterio. Rivolgendosi ai versi 100-106 del canto e alla personifi- cazione dell’Amore, diventa chiaro che l’Amor che ‘strinse’ Lancil- lotto non fu quello stilnovista, che si svolge in chiave filosofica e religiosa. Il riferimento di Francesca alla ‘bella persona’ sembra un ri- ferimento al proprio corpo11, che nella Vita nuova non figura e cede posto alla ‘mente’, alla ‘memoria’e al ‘pensiero’. Come falsificazione del mondo stil novista il canto assume una posizione di contrasto con il ‘Vero’, l’Intelletto’ e il leggere per ‘sviluppar la mente’. La lettura si interrompe col bacio – ‘La bocca mi baciò tutta tremante’– e non viene portata a fine, quel giorno, o per motivi ‘amorosi’ o ancora più gravi, l’essere sorpresi da Gianciotto, il marito di Francesca. La lettura così si chiude nel tempo poetico dantesco. Si ferma al brano più erotico - e di conseguenza il messaggio morale del libro di Lancillotto non fu as- similato nel suo totale né dai lettori nel testo né da noi studiosi di Dante. Nella sezione seguente mi soffermo sull’importanza del Libro di Lancillotto e sulla sua fama.

11 Questo servirà per discussione in un’edizione più avanti della serie ‘France- scadaRimini’.

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Il Libro di Lancillotto del Lago e la sua Fama/Beatrice Lettrice?

Il rapporto amoroso Lancillotto/ Ginevra fu visto nella tradizione ‘cortese’ come causa della rovina dei Cavalieri della Tavola Ro- tonda. A questo punto bisogna dire che versioni diverse della leg- genda d’Artù circolavano in Europa durante il medioevo. Non c’è da escludere che Dante abbia letto una versione in cui è Lancillotto a prendere l’iniziativa– come commenta Umberto Bosco nell’edizione Le Monnier della Divina Commedia. Pare che la versione citata da Francesca contenga una falsificazione del romanzo francese in cui è veramente la Regina Ginevra che bacia il timido e smarrito Cava- liere. Allora falsificazione del culto cortese contenuto nella falsifi- cazione della donna angelica nella forma di Francesca? Cito Bosco: ‘ma questo era dovuto al rituale dell’omaggio amoroso ricalcato sul- l’investitura feudale. La donna (specie poi se si tratta di una regina come nel romanzo francese) era colei che compiva il rito dell’inve- stitura amorosa’12. In altre parole il bacio funzionava come un ‘pegno d’amore’. Se accettiamo la tesi di Bosco possiamo identifi- care non soltanto il capovolgimento di Beatrice ma anche quello di Lancillotto che nelle pagine di Dante insieme a Paolo risulta ‘tenta- tore’. Potrà essere che la figura di Francesca tentatrice e bugiarda emerge come non soltanto una falsificatrice della poesia e filosofia stilnovista, ma anche del romanzo cavalleresco e del Cavaliere pro- tagonista?

La vita nuova dedicata a Guido Cavalcanti sulle orme di Guini- zelli, nel contesto dell’attuale argomento, si classifica come un libro di ricordi d’Amore e delle circostanze in cui venne scritta la poesia amorosa da Dante per la sua Donna. Si sviluppa come l’esaltazione della Bellezza, della Virtù, della Saviezza di Beatrice in particolare e delle Donne virtuose in generale. Fu scritto, secondo Dante, per

12 U. Bosco, in D. Alighieri Inferno, cit., pp. 90-91.

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altri poeti, cito: “propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo”13. Lo scopo del poeta pare di farsi sentire dalla Donna, dalla sua donna: al XLI sembra di aver ricevuto una risposta alla sua poesia. Al XXVI la Donna nella sua gloria ‘sente’ e ‘vede’. Domande da porre: legge Beatrice o leggono le altre donne la parola poetica della Canzone, oppure la forma in Canzone viene suonata per loro in modo che si arriva alla comunicazione poetica e melodica? Pare però che alla conclusione dell’opera il parlare diventi leggere: “Poi mandarono due donne gentili a me pregando che io man- dasse loro di queste mie parole rimate”; Tre domande si presentano: prima – La donna chiede una poe- sia da leggere? Seconda – La donna dunque legge della filosofia dell’Amore in linguaggio poetico? Terza – Questo è il ‘buon leg- gere’ il leggere bene che contrasta con la lettura di Francesca? Per noi studiosi trattare con o Beatrice o Francesca consente di leggere d’Amore nella poesia sublime di Dante. Si legge dell’Amore san- tificato e di quello cortese, di quello idealizzato e di quello sba- gliato. La figura di Beatrice rimane donna simbolo della virtù. La narrativa di Francesca e la sua identificazione con Ginevra eleva le sue esperienze a livello ‘cortese’ con il trionfo dell’Amore se- guito da quello della Morte.

Conclusione parodica. Leggere d’Amore nell’opera buffa.

Nel corso di questo discorso abbiamo visto come funziona il sim- bolismo, la contrapposizione, la contraddizione, nonché la falsifica- zione di testi a scopo di arricchire e portare complessità al tema ‘leggere d’amore’. La filosofia d’amore continua ad affascinare, mentre con l’emergere dell’opera buffa, figlia della Commedia del-

13 D. Alighieri, Vita nuova, cit. XIII.

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l’Arte, la presenza di libri e letture dalla parte femminile, in vena co- mica, serve a legare la lirica al mondo comico e cavalleresco sempre basandosi sul concetto filosofico/intellettuale. Due opere di Doni- zetti servono ad illustrare questo: L’elisir d’amore 1832, testo di Felice Romani dopo La Philtre di Scribe, e Don Pasquale 1843, con testo di Ruffini. Basta concludere dicendo che nel mondo della letteratura e della musica è sempre piaciuto introdurre idee cavalleresche, anche in chiave comica/parodica. Il libretto di Elisir d’amore (1832), porta in scena degli stereotipi della ‘commedia dell’arte’, il Capitano/Ser- gente, il Dottore e la ricca villana. Ambientato in un villaggio basco, il mondo della vecchia Castiglia si trasforma in commedia popolare, non mancando però la sofisticazione sempre presente in Ro- mani/Donizetti. Adina risulta parodia della donna cortese. Ricca pro- prietaria tiene corte nella sua fattoria e legge. Il suo leggere porta significato dall’inizio, impressiona Nemorino che commenta: “essa legge, studia, impara”. Non legge un romanzo del suo tempo, ma un romanzo d’amore cortese che comincia: Della crudele Isotetta/ il bel Tristano ardea/ né fil di speme avea/ di possederla un dì14. Il Sergente Belcore, discendente comico del Capitano della Com- media dell’Arte introduce un mondo classico/metastasiano al rove- scio: si presenta come Paride, mettendo in ridicolo il mito del Pomo d’oro: Come Paride vezzoso/ porse il pomo alla più bella’/Mia diletta villanella/ io ti porgo questi fior. Il Dottor Dulcamara porta tutti i tratti del Dottore di Bologna con un tocco del ciarlatano napoletano. I suoi portenti infiniti sono co- nosciuti in “tutto l’universo e… in altri siti”. Spesso scende da una mongolfiera, oppure da nave spaziale. Con i suoi trucchi converte il mito in realtà. Norina del Don Pasquale, discendente della ‘vedova scaltra’ di Goldoni, inizia la sua prima aria leggendo della conquista cavallere-

14 F. Romani, L’elisir d’amore, Milano 2011, p.6.

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sca di un certo ‘Cavalier Riccardo’, e risolve di mettere in vista tutta la sua ‘virtù magica’ nel suo gioco amoroso.

Dunque la lettura di avventure cavalleresche va oltre la tradizione medievale. Trovano posto nella commedia musicale, e portano sem- pre il loro messaggio. La sopravvivenza della lettrice che si ritira al mondo cavalleresco e cortese per scappare dalla realtà, ma anche per imparare fa parte della tradizione operistica italiana. In Donizetti si combinano immagini, parole e musica. Lo studio di Beatrice, Fran- cesca, Adina e Norina ci porta dal sublime al ridicolo, dall’ intellet- tuale al comico. Ma siano sublimi o frivole, trovano la loro ispirazione nella donna simbolo letterario che insegna, legge, oppure ascolta la lettura di avventure cavalleresche che sa identificare con la propria situazione amorosa.

23 Lussuriosi penitenti Dante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca. Miniatura in “Codice Italico 2017”, Bibliothèque nationale de France, Paris. DIANA GLENN Of Kings and Queens in Inferno V

The Pilgrim’s spiritual journey of cognition, comprising a descent to and beyond to the frozen depths of Lucifer’s abode, followed by a continuous ascent to a celestial realm outside the confines of time and space towards the “luce intellettüal, piena d’amore” (Paradiso XXX, 40)1 is a salvation drama encapsulating many Christological echoes of death and resurrection. For the Pil- grim, the voyage through the realms of the dead involves a spiritual cleansing and a mission of redemption to take back news of the souls to the world of the living. Not only is he the only living character in the poem, he is the one who undergoes the greatest transformation; a vigorous regeneration in which he is invested with a higher and more robust spiritual nature at every step of the journey. In the English morality play, Everyman, the eponymous protag- onist, who is at the end of his life’s journey, stares into his open grave because death is imminent and cannot be prevented. In Inferno I, the lost Pilgrim stares helplessly into the dark forest gloom, an ominous sign of his spiritual alienation from God if he is unable to reach the sunlit mountain in the distance. However, Everyman’s fate is not the Pilgrim’s, who is rescued from danger through the Virgin Mary’s in- tercession and, once he begins his divinely-ordained mission, guided by Virgil prior to the appearance of Beatrice, he can commence the recovery of his spiritually damaged self and the acquisition of self-

1 All quotations from the Commedia are taken from , La Com- media secondo l’antica vulgata. Ed. G. Petrocchi, 4 vols, Milan, Mondadori 1966-67.

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knowledge. Dante pilgrim’s journey constitutes not only a dynamic and extensive geographical traversal but, more importantly, a journey of self-understanding. In the Commedia, Dante elaborates themes that are reminiscent of the liturgical dramas, biblical pageants, medieval miracle and moral- ity plays that form part of the Corpus Christi cycle. At the same time, he is formulating a unique fusion that transmits recognized elements of literary culture through the written word, with elements familiar to the culture of oral transmission, for example, vernacular recita- tions and oral texts performed in the refined atmosphere of the im- perial court, as well as those to be found in popular street culture. In this hybrid mix, Dante presents a sweeping and all-encompassing view, as one critic has observed:

Dante’s poem is the fullest and most imaginative appropriation of Christian salvation. Within the confines of the Christian scheme, the Commedia stretches from the first day to the last night, from the creation to the crucifixion and the resurrection2.

At the same time, the Poet delves into the intimate recesses of human experience, revealing the personal vicissitudes of a number of his characters, including his own foibles, and highlighting the bond that exists between the individual soul and its divine Creator. In the Commedia, the nature of the individual soul’s relationship with God during their lifetime is revealed most obviously by the allotted lo- cality of the soul in the afterlife. However, the soul’s true nature is re- vealed through their personal exchanges with a curious and communicative Dante character in the form of dynamic experiential narrative that sets a new standard for lyric production. Dante’s status as an exilic poet operating outside conventional

2 R. J. Quinones, Dante Alighieri,inMedieval Italy: An Encyclopedia. Ed. Christo- pher Kleinhenz, Vol. 1, New York and London, Routledge 2004, p. 284.

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borders means that his own identity and subjectivity as a writer en- able him to reformulate poetic discourse on his own terms, to cross borders and to push at the margins of authorial practice in order to re- veal untold stories of salvation and damnation through the narratives of ordinary and extraordinary folk recounted in the first person with, in the case of some characters, the revelation of deeply-held personal facts. Thus Dante’s treatment constitutes a vernacular dramatization and metaphysical drama infused with pagan and Christian themes but also strongly influenced by a diversity of popular elements. Dante’s unique status as a writer dislocated from the political and lit- erary community of his developing years allows him to explore and experiment, to deal in diverse currencies and infuse his work with multiple views and unconventional perspectives. In the probing of values, practices and positions of authority that define his social era, Dante adopts a universality of approach that transcends the work of his predecessors. The Russian poet Osip Man- delstam employed futurist lexicon when he referred to Dante’s can- tos in the Commedia as missiles directed toward the future:

It is inconceivable to read Dante’s cantos without directing them toward contemporaneity. They were created for that purpose. They are missiles for capturing the future3.

Scholars are still attempting to catch up with Dante’s weapons of poetic invention that are so original and ahead of their time. Suffice to say that his approach in the Commedia is innovative, autonomous, and achieves a compelling authenticity of voice in its characterisa- tion. Throughout the encounters across the three canticles of the Commedia, Dante poet recasts the identity of people from all walks

3 O. Mandelstam, Conversation about Dante,inThe Collected Critical Prose and Letters. Ed. Jane Gary Harris. Translated by Jane Gary Harris and Con- stance Link, London, Collins Harvill 1991, p. 420.

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of life, retaining elements of the former living selves of the souls he meets and observes, and shaping this fictional identity for his own purposes, in order to expose to wider scrutiny the social, political and sexual dynamics of his era; an age in need of spiritual and polit- ical revitalisation. In the case of Francesca in Inferno V, her act of reading about a queen in love, leggere d’amore, involving Queen Guinevere who be- trays her husband King Arthur of Camelot, serves as a catalyst for a cross-over from the world of literary imagination to real-life inti- macy, or as Picone observes: “dal bacio ‘letto’ si passa al bacio dato, a Paolo che bacia Francesca come Lancillotto aveva baciato Ginevra”4. In the creation of Francesca who reads and loves (unlaw- fully without regret), we see Dante’s enactment of a singular, con- temporary model of female sexual agency; one that dominates even the sweeping portrait of unbridled erotic behaviour attributed in In- ferno V to famous queens and empresses from ancient times. Dido, Semiramis, Cleopatra and Helen are rulers who would jeopardize their very kingdoms in pursuit of their sexual desires, even abrogat- ing the law in the fulfillment of an unnatural lust, as is the case with Semiramis:

A vizio di lussuria fu sí rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta. (Inf. V, 55-57)

And yet it is the portrait of Francesca and Paolo that commands attention in the canto. The candid, erotic and non-compliant stance adopted by Francesca in the Inferno makes evident her un- quenched desire for her lover even after death. In this respect,

4 M. Picone, Trittico per Francesca, III. Petrarca e Boccaccio lettori del canto V dell’Inferno, in L’Alighieri 28 (2006), p. 25.

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Francesca inverts the sacrality of the body-soul complex in order to pay homage to the body everlasting. Consigned to the Second Circle of Hell, and in the absence of the body, Francesca asserts its carnality through memory, while at the same time, in the assertion of the soul’s detachment from God, she continues to ignore its sacrality. From a socio-political perspective, Francesca’s speech subverts her real-life role as an obedient dynastic bride in a powerful ruling family. The fictional Francesca breaks the silence surrounding her real-life persona as the murdered wife of Giovanni Malatesta. She tells of the depths of her passion for her brother-in-law Paolo and recreates her identity for the personalised narrative about “i due cog- nati” (Inf. VI, 2) that the Pilgrim will take back to the living. By adopting a transgressive identity and speaking openly about her phys- ical desire for Paolo, she deviates from the norms of her society, the communal values, family relationships, conventions, and traditional gendered roles assigned to her as a wife in a strongly male-domi- nated culture. Her speech challenges dynastic patterns of obedience, silence and conformity. The result is a potent model of sexuality ar- ticulated by a female character who bears no vestiges of royalty but is a contemporary woman of Dante’s time. In this episode, which sets the scene for one-on-one dialogues between the Pilgrim and a succession of souls in subsequent episodes, Dante highlights oral forms and creates a narrative space in which Francesca can perform and recount her individual story without interruption from the hellish scene surrounding her. Francesca and Paolo are well and truly foregrounded as the bufera infernal continues to whirl the lustful sinners hither and thither without respite:

La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. (Inf. V, 31-33)

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As the two lovers emerge from Dido’s flock (“la schiera ov’è Dido”, 85) in their metaphorical winged descent, the reader should already expect, from the prequel of 87 lines before Francesca speaks, that Dante’s intention is not to narrate a cronaca nera tale that will sensationalise the murderous goings-on of a well-known dynasty in Romagna. Otherwise he would have cast Paolo in the role of the principal narrator of the tragic love affair. After all, Paolo was an important member of the Malatesta clan and formerly a Cap- itano del Popolo, and could easily have acted as spokesperson to explain and justify the unlawful liaison to the Pilgrim. Instead, Paolo who should speak, in accordance with the social norms of the time, is silent. And Francesca, who should remain silent, speaks. For the reader then, Francesca is not removed in time and space as a Dido or Helen of Troy might have been had they conversed with the Pilgrim in the Second Circle. Therefore, with this powerful orec- tic symbol of desire and carnal appetite, Dante introduces the ele- ment of subversion by having an adulterous wife speak openly about her affair with a member of her husband’s family. It was not, after all, an expectation that a guilty wife would assert her own identity in the way that Francesca does. Male-centred narratives of governance, power and authority would deny her female agency and sexuality being openly asserted and expressed in this manner. Moreover, Francesca’s real-life identity in historic records is scant and, as Teodolinda Barolini rightly asserts: “in the case of Francesca da Ri- mini Dante is the historian of record: in effect he saved Francesca from oblivion, giving her a voice and a name”5. In relating her story, Francesca ignores the dictates of family roles and values and affirms her sexual identity. Francesca and Paolo, who in reading about a royal love affair, trigger the release of their hidden desire, are described as located

5 T. Barolini, Dante and Francesca da Rimini: Realpolitick, Romance, Gender, in Speculum 75 (2000), p. 1.

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among the countless souls of those whose sexual liaisons form a corpus of transgressive and destructive tales of erotic com- bustibility: “e piú di mille / ombre mostrommi e nominommi a dito” (67-68), for example, Semiramis (Orosio’s Hist.I,47-48), Dido and Aeneas (Virgil’s Aeneid IV 552), Helen and Paris (Homer’s Iliad), and the Arthurian Cycle of legends. The exchange with the Pilgrim reflects the keen interest of both storyteller and interlocutor to reveal all, to hold nothing back: “Ma dimmi” urges Dantecharacter,“altempod’idolcisospiri,/acheecomecon- cedette amore” (118-119). The overwrought protagonist Dante identifies “la prima radice”, the tipping point of forbidden desire, as the moment that most obsesses and transfixes him. When are reason, contractual and family obligation, duty to one’s subjects, and even the boundaries of natural sexual relations, overridden and set aside in the quest for the satisfaction of one’s erotic desire for an unlawful object? Francesca’s and Paolo’s betrayal and deception are daring and Giovanni Malatesta enacts a murderous revenge on the lovers, al- though the homicide itself is not described. Instead, it has been left to the early commentaries to reveal the more lurid accounts of the murder:

Or questa istoria si fu che Johanni ciotto figliuolo di messer Malatesta d’Arimino avea una sua mogliera, nome Francesca, e figliuola di messer Guido da Polenta di Ravenna; la quale Francesca giacea con Paolo fratello di suo marito ch’era suo cognato: correttane più volte dal suo marito non se ne castigava; infine trovolli in sul peccato, prese una spada, e conficolli insieme in tal modo che abracciati ad uno morirono6.

6 Jacopo della Lana, 1324-28, taken from Dartmouth Dante Project: on-line full text database of commentaries on Dante’s Commedia, dir. by Robert Hollander: http://dante.dartmouth.edu

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In Inferno V, the double slaying is masked by the genteel eluci- dation of events by Francesca, who recounts a love-lorn tale in which death has not separated her from her lover. In her recollection for Dante’s benefit, Francesca describes the trembling mouth of Paolo who kisses his beloved, just as the gallant Sir Lancelot kissed the desired lips of his queen. Dante focuses on the image of the mouth, site of intimacy, and there is an urgency in his poetic prac- tice that injects the Paolo and Francesca episode with a powerful dramatic realism:

la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: Quel giorno piú non vi leggemmo avante. (Inf. V, 136-138)

Although the story’s dramatic quality is related to its focus on the exigencies of the sexual corporeal self, it is set in a context in which there can be no release, either physical or cathartic. The souls in Hell have a form that enables them to speak and even weep, but they lack concreteness. Francesca can verbally express her love for Paolo but never again enact it physically. Nevertheless, Dante constructs a nar- rative form in which to portray and give voice to the carnal appetites of the subjects; portray the triggers to action, the specificity of the emo- tional state; the subjugation of the will but without the motions of the living self. In spite of its lyrical quality, Francesca’s speech (combined with Paolo’s speechlessness) is one of intense emotional turmoil; affect in extremis as she gives voice to her desire and her former identity as Paolo’s lover. Thus in death, Francesca and Paolo are mutually united in the punishment that keeps them forever together and forever apart, and unable to express their physical love and sexual impulses. At the same time, they are spirits in whom the undistilled desire still holds sway. As a soul located among royal personages, Francesca conveys

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her grand passion and evokes the ecstasy of physical love. In the absence of her body, she magnifies the perception of the erotic self. Her passion is also the cause of her suffering, as the need to be with Paolo overrides all other considerations. In this regard, the episode generates an overwhelming sense of loss, suffering and unrealised desire that finds expression in the densely-packed nar- rative:

E quella a me: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. (Inf. V, 121-123)

Francesca’s lengthy monologue with its captatio benevolentiae, rhetorical flourishes and anaphora is a curious, self-styled speech that attempts to describe, in a synthetic manner, the unfolding of her forbidden desire. She speaks about books and reading, repeatedly refers to the verb “leggere” (“Noi leggiavamo”, 127; “Quando leggemmo”, 133; “non vi leggemmo”, 138) and the derivative “quella lettura”, 131, and her speech contains maxims drawn from classical literature and a selection of medieval/contemporary texts (Virgil, Ovid, Boethius, the Lancelot prose, Guinizzelli):

Francesca’s monologue, a remarkable concentration of literary references, contains a positive message for the wayfarer-poet, for whom the highly-charged encounter serves as a learning experience with regard to his own attitude to literature and the limitations of earthly love7.

More importantly, by employing an autobiographical framework, Francesca sets the scene as the author of her own story about her for-

7 D. Glenn, Dante’s Reforming Mission and Women in the Comedy. Leicester, U.K. Troubador 2008, p. 44.

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mer living self. In this telling, the story is presented as one might ex- pect a myth or a fairy tale from long ago times to commence:

Siede la terra dove nata fui su la marina dove ’l Po discende per aver pace co’ seguaci sui. (Inf. V, 97-99)

The result is a selective narrative in which she can manipulate, augment, omit, fictionalise or fantasise about the events that over- took her. In the figure of Francesca, Dante creates an identity that is subjective, imaginary, potent and makes connections well beyond the parameters of her former social role as a political bride in the Malatesta dynasty. The interpersonal quality of Francesca’s response is compelling. The image of herself that she represents is idealised, self-articulated and self-modelled, with its emphasis on love conquering all. How- ever, there is no movement, no journey or transformation possible for her love because there is no willing desire to be with God. In Hell, the souls are obdurate, hardened, impenitent. Francesca’s con- dition in the Second Circle is fixed and unchanging but her reflec- tion of herself is effusive as she unburdens herself to her avid listener:

Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sí forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. (Inf. V, 103-105)

The Pilgrim’s presence in Hell provides a precious channel of com- munication to the living. As the regal figures portrayed in the canto were actors in a grand passion conveyed to readers like Francesca through their stories of love, so too, Francesca magnifies her tale of love, emphasising its supremacy and enlarging upon it through her ref-

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erencing of others’ tales of unlawful desire: “leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante” (133-134). In Inferno V, the gigantic figure of King looms over the Second Circle. He is a central figure who dominates the incipit of the canto:

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l’intrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia. (Inf.V,4-6)

The status conferred on this figure is that of an infernal judge and the subsequent tercets detail and elencate Minos’ duties in as brisk a manner as possible: “vanno a vicenda ciascuna al giudizio, / dicono e odono e poi son giù volte” (Inf. V, 14-15). King Minos’ mytholog- ical status is connected to the transgressive and unnatural lust en- acted by his wife, Queen Pasiphae who gives birth to the half-man, half-bull monster, the Minotaur, kept in Daedalus’ labyrinth. The poet grants Minos’ three lines of speech only in the form of a solemn warning to Dante about the perils of the enterprise. Although Virgil’s response is delivered in a dismissive and authoritative tone, as he de- flects the warning and underscores the divinely-ordained nature of the mission (“Non impedir lo suo fatale andare”, 22), nevertheless, Minos regal status and the actions of his queen set a stamp on the Second Circle. Soon after, Dante and Virgil see the whirling souls and Virgil points out individual figures in answer to Dante’s query about their identity. Dante’s response is one of overwhelming “pietà” and bewilderment. Among Dido’s flock are the souls of royal figures involved in sexual liaisons and betrayals. They are individuals who held the reigns of power and who, instead of providing leadership for their people, wilfully pursued the course of inordinate carnal desire in a self-interested manner. The souls of the four royal women elen- cated in Canto V (Dido, Semiramis, Cleopatra and Helen) are

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linked by their identity as women in literary or historical texts whose love affairs precipitate disaster for their peoples. In the case of the empress Semiramis, her incestuous relations with her own offspring lead her to legislate a personal governance of desire. With the shades of royal personages who surrendered to irra- tional desires, Dante depicts lust in a bestial key (Pasiphae), inces- tuous liaisons (Semiramis, Tristan, Francesca), the betrayal of a king/marital partner (Helen, Isolde and Guinevere) and the breaking of a vow of fidelity to the memory of a deceased spouse (Dido). In their treason against the crown (Laesa majestatis), Lancelot and Guinevere betray King Arthur of Camelot; Tristan and Isolde be- tray King Mark of Cornwall; Paris and Helen betray King Menelaus; while Dido is unfaithful to the memory of her deceased husband, Sychaeus. In the case of the three forbidden couples, Paris and Helen, Tristan and Isolde, and Lancelot and Guinevere, the betrayal of a king and the three kingdoms of Sparta, Cornwall and Camelot are also at stake. Francesca utters her words in a quasi-regal tone whose syntac- tical force renders a dignified quality to her tale, as though she wishes to rise above the hideous contrapasso and burden of pun- ishment in Hell. Her courtly manner echoes the words of Prince Aeneas who unburdens himself to a responsive widowed Queen Dido who is wanting to hear of his misfortunes upon leaving his beloved Troy:

Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. (Inf. V, 124-126)

By having Francesca use language and imagery connected to figures of majesty, the ordinary is heightened and emboldened. Her frank and personalised dialogue creates an intimate setting in which to convey her laws of love, recounting a sequence of events in

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which to absolve the all-conquering demands of the body. Ulti- mately, however, her world-oriented words and images convey pro- foundly the notion of betrayal and spiritual negligence and, in this respect, she may be compared with the regal figures whose com- pany she keeps in the howling tempest of the Circle of the Lustful. Through the figure of Francesca, Dante creates a model with strong literary overtones by means of which he interrogates the act of read- ing and the socio-political undercurrents of his time.

37 Letture giovanili Giuseppe Luigi Poli, Paolo e Francesca. Olio su tela, 1877. Bergamo, Accademia Carrara. Particolare. PIOTR SALWA Dal tragico al sentimentale: Decameron IV, 1 e la sua versione popolare∗

Come da secoli dimostrano in maniera sempre più dettagliata gli studi critici dedicati alla famosa raccolta del Boccaccio, il testo del Certaldese non solo si richiama costantemente alla complessa enci- clopedia della cultura dotta, ma in più premette implicitamente che il lettore disponga di competenze interpretative e conoscitive più vaste di quelle caratteristiche per la vita municipale e quotidiana di quei tempi. Alcune di queste strutture latenti sono state scoperte in un tempo relativamente recente e si può supporre che le nostre cono- scenze si arricchiranno ancora, perché il Decameron rivela sempre aspetti nuovi e in un certo senso sorprendenti. In più, spesse volte il riferimento alle convenzioni letterarie vi si fa nella maniera che ri- chiede da parte del lettore la massima abilità: i modelli vengono “ri- ciclati” indirettamente, in chiave parodistica e comica, oppure per raggiungere obiettivi inediti. A nobilitare artisticamente una forma letteraria umile serve inoltre il ricorso nella prosa volgare a costrut- ti latineggianti, l’uso di topoi noti dalla letteratura alta e di erudizio- ne, il riecheggiamento dell’amor cortese. L’autore sapientemente sfrutta i precetti della retorica per confondere il lettore: i vari livelli e le varie voci della narrazione creano sottili tensioni, l’andamento della commedia dantesca d’oltretomba si applica ad una commedia tutta mondana e umana. Il Boccaccio riprende la lezione della trat- tatistica medica e psicologica del suo tempo sugli atteggiamenti da

* Questo testo è apparso in una forma leggermente diversa nel mio volumetto Rac- contare in breve. Cinque studi sul racconto, Accademia Polacca delle Scienze, Bi- blioteca e Centro Studi a Roma (Conferenze 107), Varsavia-Roma, 1996.

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adottare durante la peste, muove una velata polemica agli autori di messaggi ideologici illustrati da grandi cicli pittorici1.

Tuttavia il Decameron si può leggere – e certamente si leggeva – anche ignorando tutto quel sistema di allusioni e riferimenti interte- stuali e intersemiotici. L’immagine del capolavoro boccacciano che viene – o veniva – a crearsi nel corso di una tale lettura non è più la stessa, ovviamente, ma non per questo l’opera diventa incomprensi- bile, né – chissà – meno interessante. Una lettura limitata alle strut- ture narrative più ovvie, al comico più immediato, ecc., situa il testo ad un livello “basso” e lo riduce ad una raccolta di pettegolezzi, di esempi moralizzabili e di frivolezze; la fortuna del Decameron ne fornisce numerosi esempi nei vari adattamenti o nelle edizioni com- mentate. Testimonianze di un simile atteggiamento si trovano da una parte nei modesti manoscritti preparati da dilettanti, in cui l’interesse per il racconto si accompagna all’indifferenza per il testo, e dall’al- tra – nel senso contrario – nell’iniziativa del Petrarca che traduce in latino la novella di Griselda (Decameron, X, 10) per non lasciarla appunto troppo “in basso”. Era forse quella possibilità di leggere le novelle del Boccaccio come testo di “livello basso” che costituiva la garanzia del loro successo fino alla metà del Quattrocento: quando quella funzione viene meno, perché sbiadisce l‘attualità e la salacità del pettegolezzo, nella sua popolarità si nota un netto calo2.Delresto anche i narratori posteriori al Boccaccio respingono quelle caratteri- stiche della sua prosa che potrebbero essere decisive per una collo- cazione alta, e invece riprendono quelle tipiche della tradizione

1 Cfr. L. Marino, The “Decameron” cornice. Allusion, Allegory and Iconology, Longo, Ravenna 1979; G. Olson, Literature as Recreation in the Later Middle Ages, Cornell University Press, Ithaca-London, 1982, L. Battaglia-Ricci, Ra- gionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del “Trionfo della morte”,Sa- lerno ed., Roma, 1988. 2 Cfr. Ch. Bec, Sur la lecture de Boccace à Florence au Quattrocento, in “Studi sul Boccaccio”, IX (1976), pp. 247-260.

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bassa. Un fenomeno analogo si può osservare nelle edizioni che pre- sentano la traduzione francese del Decameron: la linea “popolare” continua fino al Cinquecento inoltrato3.

Se il Decameron doveva dunque rappresentare il tentativo di creare un modello “alto” della novella, è stato un tentativo per i primi lettori spesse volte o incomprensibile, oppure inaccettabile. Molto più tardi – soltanto dopo le Prose della volgar lingua bembiane – si cercherà di situare la narrativa boccacciana ad un livello alto, so- prattutto in base a criteri stilistici e linguistici. Ciò costituirà il fon- damento della nuova popolarità dell’opera, ma sarà una popolarità diversa, tra persone diverse, dovuta a letture diverse.

Nella prima novella della IV Giornata – dedicata interamente agli amori che “ebbero infelice fine” – l’ambiguità è di un’importanza fondamentale. Il contrasto tra la storia di Ghismonda e lo schema ti- pico dell’exemplum4 è accentuato dal fatto che il Boccaccio ricor- dava poco prima – nell’Introduzione alla Giornata – le regole della retorica che dalle narrazioni richiedevano in primo luogo l’univocità di un messaggio approvabile e una convenzionale fedeltà al reale: “Quegli che queste cose così non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali, se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la loro riprensione”5. Le tragiche e nobili vicende della famiglia principesca di Salerno fanno venire le lacrime agli occhi sia ai lettori (o meglio – ricordando l’intento del- l’autore dichiarato esplicitamente nel Proemio di “raccontare in soc-

3 Cfr. il catalogo della mostra organizzata nel 1975 dalla Bibliothèque Natio- nale parigina Boccacce en France. De l’humanisme à l’érotisme, Paris, 1975. 4 A questo proposito cfr. H.-J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der No- velle. Strukturen der Kurzerzählung auf der Schwelle zwischen Mittelalter und Neuzeit, Fink Verlag, München 19832. 5 Giovanni Boccaccio, Decameron, IV, Intr., 39, a cura di V. Branca, Accademia della Crusca, Firenze, 1976.

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corso e rifugio di quelle che amano”6, e ancora l’Introduzione alla IV Giornata – alle lettrici), che agli stessi narratori della gentile brigata. In apparenza lo storia riprende uno schema ben conosciuto: il vecchio padre, preoccupato solo dall’interesse e dall’immagine della fami- glia, trascura e poi condanna l’amore, da cui dipende la felicità di sua figlia. Lo schema viene tuttavia arricchito e intricato in maniera particolare. Il comportamento del padre sembra tradire qualche trac- cia di un amore strano – per non dire incestuoso – nei confronti della figlia: mentre ciò gli fa prendere alcuni tratti di un marito tradito e of- feso, tutto il racconto si avvicina ad un altro schema ben noto – quello del triangolo erotico7. I convenzionali schemi narrativi vengono in- vece radicalmente capovolti durante lo svilupparsi dell’intreccio: la realizzazione efficace di un proprio progetto – la cattura e la puni- zione degli amanti – equivale per il padre alla sconfitta. In questa tragica storia non ci sono vincitori, e nessun modo di pensare o di agire si rivela migliore degli altri.

Queste caratteristiche sarebbero forse già di per sé sufficienti per classificare la novella di Ghismonda come racconto “alto”, sia nel senso più tradizionale di una tragedia situata in un ambiente social- mente elevato come corte feudale dell’Italia meridionale, sia nel senso più moderno di un testo che richiede dal lettore specifiche com- petenze letterarie. In più, lo schema narrativo serve come strumento per trasmettere porzioni di enciclopedia di natura più dotta e sottile. L’ambiguità si rivela allora funzionale per conferire alle questioni trattate un carattere controverso, discutibile, ancora aperto a varie soluzioni. Il racconto deve servire come consolazione al re della Giornata IV, Filostrato; ma ci si può consolare con le tragedie degli altri? E i momenti di felicità valgono il prezzo che alle volte deve

6 Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio, 13. 7 Cfr. M. Olsen, Les transformations du triangle érotique, Akademisk Forlag, København, 1976.

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essere pagato alla fine? Il contrasto con la novella successiva – in cui si racconta un amorazzo effimero di un frate dissoluto e di una donna sciocca e presuntuosa – mette poi in rilievo il fatto che vi si narrava di un sentimento vero e profondo che non rientrava nei clichés e negli stereotipi del quotidiano, ma meritava rispetto e comprensione, forse addirittura rispetto e appoggio. Nella novella del Boccaccio la nobile principessa oppone alle grette opinioni del padre il concetto dell’amore poetico e filosofico d‘origine stilnovistica. Attorno al lungo dibattito che si svolge tra di loro gravita in verità l’intero racconto. Esso non si limita ad essere una esposizione di argomenti opposti, bensì diventa una vera e propria controversia in cui il narratore cerca di essere im- parziale. Evitando di formulare norme assolute, il Boccaccio lascia la questione sospesa nella relatività che pare spingere verso inevitabili compromessi. Il carattere dotto, e quindi alto del racconto viene con- fermato dal fatto che più tardi esso fu tradotto in latino da Beroaldo e Bruni: la trasformazione – analoga a quella effettuata dal Petrarca per la novella di Griselda – doveva assicurargli una collocazione non ridut- tiva anche tra gli umanisti sprezzanti del volgare.

Tuttavia – e pure analogamente a quanto era avvenuto per la no- vella di Griselda – la storia della tragica fine di Ghismonda fu rifatta e godette di un’ampia diffusione anche nella forma destinata “ad uso popolare”8. Testi di questo tipo uscivano dalle tipografie di tutta l’Eu- ropa praticamente sin dal momento dell’invenzione della stampa e presentavano tutto un insieme di caratteristiche di vario genere: cir- colavano in edizioni povere e semplici, a prezzo relativamente basso, e perciò erano facilmente accessibili anche ai lettori non abbienti o non propensi a spendere cifre importanti per lo svago e per la lettura; erano destinati agli utenti di cultura mediocre e contenevano unica- mente opere in lingue volgari adatte alla lettura collettiva; dichiaravano

8 Per questa definizione cfr. G. Demerson et al., Livres populaires du XVI-ème siècle. Répertoire sud-est de la France, CNRS, Paris, 1986, “Introduction”.

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finalità utilitarie, valori didattici e informativi, stretti legami con la prassi della vita quotidiana. Una delle prime tipografie sorte a Firenze ancora alla fine del Quattrocento produceva esclusivamente edizioni di questo tipo9. La definizione “ad uso popolare” indica una categoria di testi e non vuole suggerire che si trattasse di opere lette solo da un “po- polo” inteso in maniera più o meno vaga, né che il “popolo” leggesse soltanto quel genere di letteratura, o che gli autori disponessero solo di quelle competenze cui facevano riferimento nei loro testi. Del resto, questi dovevano circolare con successo prima dell’invenzione della stampa, e le prime tipografie sicuramente profilavano la loro attività semplicemente in modo da sfruttare economicamente le tendenze del mercato e i prodotti già esistenti. Ad una loro maggiore diffusione do- veva contribuire non soltanto il prezzo contenuto, ma anche – forse soprattutto – la forma del testo conforme alle aspettative del pubblico.

L’adattamento della novella di Ghismonda in ottava rima – con ogni evidenza approntato in funzione appunto di tali esigenze – si trova già fra le primissime edizioni a stampa apparse in Italia (ma si può supporre che esso esistesse assai prima di essere stampato e d’al- tro canto lo si ritrova in circolazione ancora nel Settecento)10.Lasua carriera europea sarà brillante, dalla Gran Bretagna fino alla Polo- nia11. Numerose e sostanziali modifiche rispetto all’originale po-

9 Cfr. R. Ridolfi, La stampa a Firenze nel secolo XV, Olschki, Firenze, 1958. 10 Cfr. E. Lommatzsch, Beiträge zur älteren italienischen Volksdichtung. Unter- suchungen und Texte,BandI,Die Wolfenbütteler Sammelbände, Akademie Ver- lag, Berlin, 1950; Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento, a cura di E. Benucci, R. Manetti, F. Zabagli, intr. di D. De Robertis, Salerno ed., Roma, 2002. 11 Cfr. B. G. Passano, I novellieri italiani in verso, Bologna, 1868, J. Krzyz`anow- ski, Z dziejów “Dekameronu” w Polsce [Per la storia del “Decameron” in Polonia], Warszawa, 1927. Più generalmente sui lunghi cicli della letteratura popolare, si veda G. Bollème, Littérature populaire et de colportage au XVIII-ème siècle,inG. Bollème, J. Ehrard, F. Furet et al., Livre et société dans la France du XVIIIe siè- cle,Post-face d’A. Dupront, Le Mouton, Paris-La Haye, 1965, pp. 61-92.

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trebbero destare dubbi, da un punto di vista strettamente ortodosso, circa il senso dei riferimenti all’autorità del Boccaccio che si ritro- vano in quel tipo di rimaneggiamenti, anzitutto se si tiene conto del fatto che i motivi narrativi costituivano all’epoca un repertorio co- mune che si poteva utilizzare – e che si utilizzava – assai liberamente, analogamente a un repertorio di sentenze e di proverbi. Tuttavia, anche se il rimaneggiamento della novella di Ghismonda si spinge, come tanti altri, assai lontano dal suo modello, esso costituisce uno di quei casi in cui la discendenza dall’originale pare essere evidente anche per il pubblico più ampio. Nei testi degli “imitatori”, il Boc- caccio, accanto a pochissimi altri autori volgari, viene citato di nome, e alla metà del Cinquecento in maniera simile – cioè in ottava rima – viene riscritta la sua intera raccolta novellistica, pubblicata dal Mar- colini a Venezia nel 1554: sono le Cento novelle da Messer Vincen- zo Brugiantino dette in ottava rima che aspettano ancora uno studio approfondito12.

La novella di Ghismonda funziona quindi come un’opera del Boccaccio destinata “ad uso popolare”. La messa in ottava rima ne facilitava la trasmissione orale e collettiva,mentre la lunghezza del racconto – 80 stanze – lo rendeva adatto a essere recitato durante un’unica “sessione”. Come accadeva spesso per i cantari, rivol- gendosi direttamente al pubblico, il rimaneggiatore pensava in primo luogo agli ascoltatori che venivano riunendosi attorno a chi recitava le sue stanze, e non ai lettori che leggessero la versione stampata; evocando nelle prime parole il pubblico cui era destinato il racconto, lo caratterizzava nella maniera più che sommaria ma tuttavia suffi- ciente per dare l’idea della narrazione che doveva seguire:

12 A proposito si veda R. Alhaique-Pettinelli, Vicende editoriali attorno alle Cen- tonovelle da Messer Vincenzo Brugiantino dette in ottava rima, in Ead., Forme e percorsi dei romanzi di cavalleria, Bulzoni, Roma, 2004, pp.165-180.

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Donne leggiadri e voi gioveni amanti che qui conduce volontà d’udire...13

Questa forma di trasmissione è premessa dall’intera invocazione, in cui il narratore, parlando a chi l’ascolti o soltanto a chi lo potrebbe sentire passando accanto, presenta brevemente ciò che avrebbe rac- contato poco dopo, e lo fa su un tono pubblicitario per attirarsi il mag- gior uditorio possibile. Le prime ottave – dalla I alla III – costituiscono una specie di ouverture che deve occupare il tempo in cui il pubblico comincia ad affluire e l’artista attende che sia raggiunto il completo.

Donne leggiadre e voi gioveni amanti, che qui conduce volontà d’udire, apparecchiate gli occhi a dolci pianti, che per far siete avanti di partire; io ho tanta pietà di tal sembianti, ch’a pena posso la historia seguire, pensando pur che ad un simil punto esser può ciascun huomo e donna giunto Et per redur quest’opra a miglior fine ricorro a quel fanciul che l’arco porta “Signor – dicendo - de l’alme divine tu sei mio sire, la mia guida e scorta, mie rime adorna tanto pellegrine & l’eloquenza mia fa tanto accorta che metter possa al cor amor & fede a chi non ha degli amanti mercede. Anchor ricorro a te, mia nimpha altera, che a lachrimare spesso mi conduce

13 Cit. secondo l’edizione Historia de Guiscardo e Gismonda, Firenze, 1553; cfr. E. Lommatsch, cit., p. 3, n. 25.

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col tuo splendor & sol di quarta sfera, fidelissima speranza guida & duce, io non posso levarmi di quel ch’era, se non m’aiuti tu, splendida luce, però mi presta tanto dono & pace, ch’io possa dir d’un altro amor verace14.

La riduzione della novella boccacciana agli schemi tipici del can- tare è accompagnata da altre modificazioni significative. Nell’edizione a stampa la novella porta il titolo dell’Historia de Guiscardo e Gi- smonda e ciò non sembra del tutto casuale, visto che esistono pure ri- maneggiamenti dei racconti decameroniani in cui è stato conservato il nome di “novella”15. In questo caso la scelta è dovuta probabilmente al fatto che la differenza tra un’invenzione letteraria e i racconti dedi- cati ai fatti realmente accaduti veniva percepita in maniera vaga e con- fusa. La storia di Guiscardo e Ghismonda, estratta dal contesto dell’intera raccolta, diventa così uno dei tanti racconti del ricchissimo corpus dei casi d’amore, felici ed infelici, tratti dalla tradizione clas- sica e volgare, dalla aneddotica e cronaca minuta, come Historia di Ottinello e Julia, Historia dell’infelice innamoramento di Gianfiore e Filomena, Historia d’Hipolito Buondelmonti e Dianora de’Bardi, Hi- storia de Piramo e Tisbe, Historia di Florindo e Chiarastella,etanti altri. D’altro canto essa s’avvicina pure alle numerose relazioni che mirano a sconvolgere il pubblico con l’evocazione degli orrori e delle tragedie umane, seguite probabilmente con lo stesso spirito che segna tanta parte della nostra odierna cultura di massa: un Horrendo e spa- ventoso caso occorso nuovamente in ...– titolo corrente e stereotipato – permette allora come oggi di immedesimarsi momentaneamente con i protagonisti, di suscitare e superare le paure, per rafforzare infine nel

14 Ivi. 15 Cfr. p. es. La novella di Gualtieri marchese di Saluzzo, citata in numerose edizioni da G. B. Passano, cit.

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pubblico il senso di sicurezza16. L’obiettivo cui mirano queste narrazio- ni non è quello di sollevare astratte questioni teoriche – come faceva Boccaccio nella sua novella IV, 1 – di fare eco a controversie e dibat- titi per illustrare le contraddizioni dell’enciclopedia “alta” o per im- partire un insegnamento morale; il loro fine consiste nel destare semplici reazioni emozionali: spavento, orrore, a volte il riso, ma in- nanzitutto commozioni e compassioni facili e lacrimose.

Nel caso della novella di Ghismonda la riduzione non contraddice, certo, l’originale; basta ricordare la reazione della gentile brigata: “aveva la novella dalla Fiammetta raccontata le lagrime più volte tirate insino in su gli occhi alle sue compagne”17. La versione “ad uso popolare” ne riprende, tuttavia, soltanto una parte, quella che si può comprendere, e che si può godere, utilizzando esclusivamente competenze culturali più elementari. Per il resto, rimane il vuoto che dovrebbe venir ricompensato dalla specifica abilità artistica del rimaneggiatore: essa non va, tuttavia, oltre il ricorso alla rima, l’uso di una sintassi diversa da quella corrente e quotidiana e il riciclaggio di alcune metafore pseudo-ricercate. È la funzione melodrammatica che predomina su tutti gli aspetti:

apparecchiate gli occhi a dolci pianti che per far siete avanti di partire avvertiva il narratore, aggiungendo ancora

io ho tanta pietà di tal sembianti ch’a pena posso la historia seguire.

Procedimenti simili che facevano appello al sentimentalismo le- zioso si ritrovano frequentemente nelle opere analoghe, e dovevano

16 Cfr. i repertori forniti da E. Lommatsch, cit. 17 Giovanni Boccaccio, Decameron, IV, 2, 2. Questa reazione non è tuttavia con- divisa da tutti, Filostrato commenta la novella “con rigido viso”.

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sicuramente rispondere ai gusti più comuni e universali se venivano sfruttati persino nelle formule pubblicitarie in cui è d’obbligo il ri- corso allo stereotipo univoco e non contestato.

D’Hiroldo et Prasildo vo’ cantare tutta l’historia pien di lamento,18 dichiara uno dei rimatori, mentre l’editore della tragica storia d’amore di Gianfiore e Filomena scrive sul frontespizio:

Istoria nella quale si narra la fede e amore [...] e come Gianfiore fu impiccato dai fratelli di lei per ordine del padre, quale poi pianse amaramente con la moglie la morte della figliuola che s’impiccò da sé stessa. Opera molto piacevole19.

L’intenerimento tramite il registro melodrammatico è, accanto al co- mico salace e grasso, il fine che gli autori e gli editori dichiarano più fre- quentemente: il riso e la commozione facile sembrano due pilastri principali del divertimento popolare. Infatti, anche la premessa che im- plicitamente sta a fondamento di ogni intento didattico (il racconto parla delle vicende che possono capitare a tutti, le regole che illustra sono uni- versali e ognuno ne deve tirare una lezione utile per sé personalmente) qui sembra esaurirsi nell’effetto emotivo. Non sorprende quindi il fatto che in una delle edizioni la novella di Ghismonda sia definita come Hi- storia compassionevole di doi amanti (il che d’altronde sposta la pro- spettiva dalla coppia padre-figlia su quella costituita da figlia-amante, il quale aveva originariamente una funzione piuttosto di comparsa),20 né che l’aiuto del cielo deve servire a

18 La Historia de Hiroldo et Prasildo, s.d.l., cfr. E. Lommatsch, cit., p. 5, n. 4. 19 Istoria dell’infelice innamoramento di Gianfiore e Filomena, Firenze, 1556, cfr. E. Lommatsch, cit., p. 4, n. 30. Il Passano cita invece un’edizione che de- scrive il contenuto come Storia di gran compassione ... (cit., p. 112). 20 Cfr. G. B. Passano, cit., p. 48.

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[... ] metter al cor amor & fede a chi non ha degli amanti mercede.

Ciò che determina il funzionamento dell’opera è l’identificazione degli uditori e del narratore con gli amanti infelici, per i quali si nutre comprensione e simpatia, e il distanziarsi dalla crudeltà del padre. Non vi è quindi lo spazio per una dialettica delle ragioni contrarie, l’unica scelta essendo quella di una presa di posizione fondata sulla solidarietà che nasce dalla similitudine delle esperienze. Pure l’autore – che ora si presenta esplicitamente come scrittore e non recitatore – conosce, infatti, le sofferenze degli amori nascosti, forse riecheg- giando in un certo senso Boccaccio del suo Proemio:

che debbe far un huom ch’al suo piacere ha la cosa segreta e halla sola, non può altro duro fascio sostenere un riso, uno sguardo, una parola; io arsi già, né mi potea tenere, palido ero e smorto come viola, ahimé, che per amor de la mia donna amata vo’ scrivere questa historia ornata21.

Lo stesso modo di interpretare la prima novella della IV Giornata del Decameron si manifesterà ancora nella già citata versione in ot- tava rima preparata da Vincenzo Brugiantino non per le belle signo- rine e per i giovani artigiani delle piazze cittadine, ma dedicata a Ottavio Farnese, duca di Parma e di Piacenza. Tutte le novelle sono accompagnate da allegorie e da proverbi; la storia di Ghismonda for- nisce una prova che

Non cura crudeltà, sdegno o rea sorte Un generoso cor, né affanno, né morte

21 Historia de Guiscardo e Gismonda, cit.

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e la relativa allegoria precisa che

Per Tancredi vien tolta la crudeltà, per Ghismonda l’animo gene- roso, disposto al suo intento, il quale col nobil core non si muta per spaventevole effetto seguitar il suo proponimento.

Definire il rimaneggiamento “ad uso popolare” soltanto in termini di un abbassamento di livello può tuttavia parere nel caso della novella di Ghismonda alquanto riduttivo. Per molti versi la caratteristica prin- cipale del suo rapporto con l’originale sta piuttosto nella diversità che nell’inferiorità. Caratteristiche analoghe si notano del resto in alcuni epigoni del Boccaccio, i quali non hanno poi mai raggiunto un grande pubblico22. Con tutto ciò, il confronto di versione “alta” e di versione “bassa” porta verso due conclusioni. Nell’adattamento in ottava rima si manifestano alcune caratteristiche – soprattutto i toni melodramma- tici e l’accento posto sull’effetto emotivo – che in un tempo successivo diventeranno tipiche per la letteratura destinata a usi diversi da quello popolare. Ciò suggerirebbe che i rapporti tra la letteratura “alta” e quella “bassa” in molti casi andrebbero visti piuttosto in termini di re- ciprocità e non di superiorità o autorità. Significativa da questo punto di vista sembra l’edizione di Brusantino appena citata. D’altro canto i modi in cui la novella di Ghismonda poteva creare ramificazioni – la- tine, dotte e popolari – confermano il fatto che nel caso dei testi più complessi e quindi aperti, le letture più sublimi non escludono quelle più elementari, che i livelli culturali “alti” o superiori comprendono in sé i livelli bassi o inferiori, così come un’enciclopedia più vasta com- prende in sé enciclopedie più ristrette. È il lettore che decide della col- locazione del testo e persino dell’attribuzione di caratteristiche genealogiche. Ma i lettori di solito tacciono...

22 Tale è il caso di narratori come Giovanni Sercambi, Pseudo-Sermini o – in un altro senso – l’autore de Il Paradiso degli Alberti.

51 Avvinti dalle parole Felice Giani, La bocca mi/bacio tutto tremante. Galeotto fu il Libro e chi lo scrisse, quel giorno piú non vi leggemmo avante. Acquerello, 1810 circa. Raccolta privata. Particolare. ROSSEND ARQUÉS Victoria Ocampo: il desiderio tra Francesca, Beatrice e Dante

Un testo può svolgere il ruolo sia di messaggio sia di codice, op- pure svolgere entrambi i ruoli contemporaneamente. Se il lettore lo adopera come codice, allora trasferisce i dati già noti della lettura in un nuovo sistema di significati. “Se a una lettrice – scrive Lotman – viene comunicato che una signora di nome Anna Karenina, a causa di un amore infelice, si è gettata sotto un treno, ed essa, anziché aggiungere nella sua memoria tale messaggio a quelli già in suo possesso, con- clude: “Anna Karenina sono io”, e rivede la concezione che ha di sé, dei propri rapporti con certe persone, e magari il proprio comporta- mento, allora è evidente che essa adopera il romanzo di Tolstoj non come un messaggio del medesimo tipo di tutti gli altri, ma come un co- dice in un processo di comunicazione con se stessa1”. Così leggeva i romanzi la Tatiana di Puskin (Onegin, III X), lo stesso atteggiamento aveva Madame Bovary, divoratrice di letture romantiche. Entrambe queste eroine si rifanno all’archetipo di lettrice che è dato da France- sca, il personaggio centrale del Canto V dell’Inferno. Ma nei modi e nei detti di Francesca, proprio perché essa è un archetipo, tutto sa di spontanea e genuina sorpresa. Da lei non ci può venire nessuna lezione esperienziale sugli effetti della lettura, se non dopo la sentenza “Gale- otto fu il libro e chi lo scrisse”. Solo da quel punto in poi della narra- zione la sua esperienza vitale e sentimentale può a pieno titolo diventare codice interpretativo per altre lettrici. “Francesca c’est moi” – riconoscerà intimamente la lettrice che si sente travolta dalla pas- sione quando legge il canto dantesco dedicato alla lussuria.

1 Juri Lotman, Tipologia della cultura [1973], Milano, Bompiani, 2001, p. 126.

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Le note che seguono vogliono essenzialmente presentare e ana- lizzare un caso poco noto di bovarismo o meglio francescanismo, quello di Victoria Ocampo, l’autrice di De Francesca a Beatrice e l’ispiratrice della rivista letteraria rioplatense “Sur”, a cui collabora- rono tra gli altri, J.L. Borges, Bioy Casares, Silvina Ocampo, Ortega y Gasset, ecc. Ma prima di tutto cerchiamo di rispondere alla domanda: quale valenza ha il dantismo nell’area di provenienza di Victoria Ocampo, tenendo presente comunque che per appartenenza di classe ed edu- cazione in realtà la sua scoperta di Dante è più legata al dantismo francese che a quello argentino, come vedremo. Dante è di casa a Buenos Aires, così come in tutta l’Argentina e in gran parte dell’America Latina. Lo ha evidenziato in particolare un convegno tenutosi a Salta, i cui atti sono stati pubblicati con il titolo Dante en América Latina2. D’altra parte è un fatto facilmente intui- bile, non fosse altro per il grandissimo numero di italiani immigrati in Argentina nel corso dell’Ottocento, dai quali discende una gran parte della popolazione attuale. Tuttavia la presenza di Dante in que- sta parte del Nuovo Continente risale già ai tempi della Conquista, al- lorquando circolavano esemplari delle sue opere principali, come testimoniano la maggior parte delle biblioteche delle capitali suda- mericane. Ma vediamo più da vicino chi sono stati i più meritevoli divulgatori di Dante in America Latina e i canali principali attraverso i quali vi si è radicato, seppur con la premessa che i riferimenti non sono affatto esaustivi, per quanto essenziali. A cavallo tra ‘800 e ‘900 le traduzioni spagnole, sia locali che provenienti dal continente europeo, diedero indubbiamente un im- portante contributo alla conoscenza della sua opera, e ne fomenta-

2 Dante en America Latina. Actas primer Congreso internacional Dante Alighieri en Latinoamérica, Salta, 4-8 de octubre de 2004, a cura di Nicola Bottiglieri, Teresa Colque, Universidad Católica de Salta, Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, 2007. Relativamente all’Argentina possiamo ricordare Alma Novella Marani, Dante en la Argentina, Bulzoni, Roma, 1983.

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rono l’interesse. Meritano di essere qui ricordate le versioni di Bar- tolomé Mitre (1897)3, di Cayetano Rossell (1871-72)4 ediJuandela Pezuela (1879)5, queste due ultime pubblicate in Spagna, ma con ampia diffusione in America Latina e soprattutto a Buenos Aires. A queste si aggiungeranno parecchi decenni dopo le versioni di Fran- cisco Soto y Calvo6 e di Ángel Battistessa (1902-1993)7, quest’ul- timo oriundo italiano. Ecco qui di seguito le versioni di alcuni di questi autori, alcune in terzine, altre in versi sciolti e altre in prosa, tutte relative al Canto V (vv. 127-138):

3 Nella sezione “Bibliografía de la traducción” dell’edizione “definitiva” della sua versione della Comedia, Mitre ricostruisce il percorso della sua versione ini- ziata nel 1889 con la pubblicazione della traduzione frammentaria dell’Inferno. Importante è anche la prefazione alla versione definitiva che contiene una “Teo- ría del traductor” in cui riflette sulla “literalitad y fidelidad al original”. Si veda lo studio di Longhi di Bracaglia, Mitre traductor de Dante, Buenos Aires. 4 Dante Alighieri, La Divina Comedia, según el texto de las ediciones más autori- zadas y correctas, nueva traducción directa del italiano por Cayetano Rosell; com- pletamente anotada y con un prólogo biográfico-crítico, escrito por Juan Eugenio Hartzenbusch; ilustrada por Gustavo Doré, Barcelona: Montaner y Simón, 1870. 5 La Comedia de Dante Alighieri, traducida al castellano en igual clase y número de versos por el Capital General Juan de la Pezuela, Conde de Cheste, de la Real Academia Española, Madrid: Tipografía de Don Antonio Pérez Dubrull, 1879, tomo I. La traduzione fu pubblicata a Barcellona nel 1979, anche se era stata ulti- mata nel 1968, con un prologo di Mariano Roca de Togores. L’edizione contiene una biografia di Dante e un giudizio elogiativo della traduzione stessa, che Barto- lomé Mitre non condivideva affatto, dato che la considerava «...inarmónica como obra métrica, enrevesada por su fraseo, y bastarda por su lenguaje. Sin ser abso- lutamente infiel, es una versión contrahecha, cuando no remendona, cuya lectura es ingrata, y ofende con frecuencia el buen gusto y el buen sentido. Esto justifica por lo menos la tentativa de una nueva traducción en verso». 6 Dante Alighieri, La Divina Comedia, versión lírica por Francisco Soto y Calvo, Buenos Aires: Edición ordenada por el Ministerio de Justicia e Instrucción Pú- blica y dirigida por Nicolás Besio Moreno, 1940. 7 Dante Alighieri, La Divina Comedia, traducción, prólogos y notas de Ángel Battistessa, Fondo Nacional de las Artes, Carlos Lolhe, Buenos Aires, 1972.

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Leíamos un día, por asueto, Cómo al amor fué Lanceloto atado, Solos los dos, y sin ningún secreto. «Nuestros ojos, durante la lectura Se encontraron: ¡perdimos los colores, Y una página fué la desventura! «Al leer, cual tal amante con ternura, La anhelada sonrisa besó amante, Este por siempre unido a mi amargura, «La boca me besó, toda tremante. -¡Galeoto fué el autor al libro unido! -Ese día no leímos adelante (Mitre)

Leíamos un dia por entretenimiento en la historia de Lanzarote, cómo le aprisionó el Amor. Estábamos solos y sin recelo alguno. Más de una vez sucedió en aquella lectura que nuestros ojos se buscasen con afan, y que se inmutara el color de nuestros semblantes; pero un solo punto dió en tierra con nuestro recato. Al leer cómo el gentilísimo amante apagó con ardiente beso una sonrisa incitativa, éste, que jamás se separará de mí, trémulo de pasion, me imprimió otro en la boca. Galeoto fué para nosotros el libro, como era quien lo escribió. Aquel dia ya no leimos más. (Cayetano Rosell)

Leíamos un día por consuelo, Cómo fué Lancelot de amor herido: Solos éramos ambos, sin recelo. Cien veces á llorar nos ha movido, Y a perder la color del libro el arte; Mas un punto no más nos ha perdido. Cuando a leer llegábamos la parte Do aquél bebe de amor el beso blando, Éste, que ya de mí jamás se aparte,

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La boca me besó todo temblando. Galeoto fue el libro, y aquel dia, Ya nada mas leimos. (Pezuela)

Leíamos un día el alma encesa este y yo, en puro afecto y sólos, cuánto amor en Lancelote hiciera presa. Con los ojos cerrados al encanto de la lectura, el rostro desteñido; ¡fue aquél segundo el que hoy sufrimos tanto! ¡Al llegar al relato conmovido, de beso dado por el otro amante, este que más de mí no se ha partido, la boca me besó todo tremante! Galeoto el libro fue y quien lo escribiera y ese día el leer no fue adelante... (Soto y Calvo)

Leímos un día, por recreo, cómo el amor lo atrajo a Lanzarote; solos estábamos sin sospecha alguna. Varias veces los ojos se encontraron en la lectura, palideció el rostro, pero nos dominó sólo un pasaje. Al leer cómo la sonrisa ansiada fuera besada por un tal amante, éste, de quien yo nunca he de apartarme, la boca me besó todo temblante. Galeoto el libro fue y quien lo hizo: desde ese día nunca más leímos. (Battistessa)

Sarà comunque con Lugones e la nuova generazione di scrittori

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che Dante, e con lui Francesca, faranno la loro entrata folgorante nella letteratura creativa e nella saggistica argentina. Leopoldo Lu- gones (1874-1938) è l’esempio più evidente di come la poesia dan- tesca trovi eco nella prosa e nella poesia castigliana. Per non allontanarci troppo dal nostro argomento, ecco che la eroina rimi- nese compare più volte all’interno delle sue poesie o anche nelle epi- grafi che le accompagnano. In “Ave mía, gratia plena” del libro Los crepúsculos del jardín (1905) il poeta ricostruisce la scena della “clá- sica pareja / de algún amable Infierno psicológico...”8 mentre il verso “Quel giorno più non vi leggemmo avanti” riecheggia nell’incipit della poesia “Aquel día...”. Nel racconto “Francesca” all’interno del libro Lunario sentimental (1909) leggiamo: “Ya no leían; y así pasaron muchas horas, con las manos tan he- ladas sobre el libro, que poco a poco se les fue congelando toda la carne. Sólo allá adentro, con grandes golpes sordos, los corazones seguían viviendo en una sombría intensidad de crimen. Y tantas horas pasaron, que la luna acabó por bañarlos con su luz. Galeoto fue el libro... – dice el poeta – ¡Oh, no, Dios mío! Fue el astro. Miráronse entonces; y lo que había en sus ojos no era delicia, sino dolor. Algo tan distante del beso, que en ello cabía la eternidad. El alma de la joven asomábase a sus ojos deshecha en llanto, como una blanca nube que se vuelve lluvia al fresco de la tarde. ¡Y aquellos ojos, oh, aquellos ojos negros como dos golondrinas de la Pasión., qué sacrificio de ternura abismaban en el heroísmo de su silencio! ¡ Ay, vosotros los que sólo en la dicha habéis amado, envidiad la tor- tura de esos amantes que, en el crepúsculo llorado por las esquilas, gozaban, padeciendo de amor, toda la poesía de las tardes amorosas,

8 “¿Te acuerdas? ... El salón vasto y seguro.../ La estufa en que mermaban los ti- zones... / Lucían en el techo casi oscuro / su anodino esplendor los artesones. / Bajo las rigideces laceradas / del severo brocado en desaliño, / con la esponta- neidad de las granadas / maduras, se entreabría tu corpiño.”, in Obras poéticas completas, Madrid, Aguilar, 1948, p. 183.

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difundida en penas de navegantes, de ausentes y de sentimentales peregrinos, como en el canto VIII del Purgatorio:

Era già l’ora che volge il disio Ai navicanti e ‘ntenerisce il core Lo di c’han detto ai dolci amici addio; E che lo novo peregrin d’amore Punge, s’e’ ode squilla di lontano Che paia il giorno pianger che si more.

Pálidos hasta la muerte, la luna aguzaba todavía su palidez con una desoladora convicción de eternidad; y cuando el llanto desbordó en gotas vivas -lo único que vivía en ellos- sobre sus manos, com- prendieron que las palabras, los besos, la posesión misma, eran nada como afirmación de amor, ante la dicha de haber llorado juntos. La luna seguía su obra, su obra de blancura y redención, más allá del deber y de la vida...9” Alla stessa generazione di Lugones appartiene anche Lorenzo Longhi di Bracaglia (1883-1942), oriundo italiano nato a Roma, il quale dopo aver concluso gli studi universitari a Roma e a Firenze, approdò a Buenos Aires dove, oltre a insegnare latino e greco al- l’università, pubblicò diversi studi su Dante, tra cui Mitre traductor de Dante (1936)10. Ma la fortuna di Francesca nel Río della Plata era solo agli inizi. Di lì a poco, infatti, il nucleo di scrittori, capitaneggiati da Victoria Ocampo e raccolti dal 1931 intorno alla rivista letteraria “Sur”, avrebbe dedicato a Dante e ai suoi personaggi riflessioni e citazioni di altissimo livello. È a tutti nota la fascinazione che Jorge Luis Bor-

9 Leopoldo Lugones, Francesca,inLunario sentimental (Obras poéticas com- pletas, cit., pp. 423-424). 10 Si vedano anche El pensamiento de Dante, Anagogía dantesca y Dante y la conciencia actual, di chiaro orientamento cattolico.

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ges nutre per Dante e che esprime in molti dei suoi saggi e delle sue poesie11. Nel saggio “Divina Comedia” del libro Siete Noches egli sintetizza così una peculiarità del poeta fiorentino: “Dante tiene una curiosidad. Amor condusse noi ad una morte: Paolo y Francesca han sido asesinados juntos. A Dante no interesa el

11 Sul dantismo di Borges, si vedano almeno i seguenti lavori: Jorge Luis Borges, Nueve Ensayos dantescos, introd. di M.R. Barnatàn, pres. di J. Arce, Madrid, Espasa-Calpe, 1982 [Nove saggi danteschi, prefaz. di Giorgio Petrocchi, ill. di Wil- liam Blake, Milano, Franco Maria Ricci, 1985]; Siete noches, Buenos Aires, Fondo de Cultura Economica, 1980 [ Sette notti, Milano, Feltrinelli, 1983]; Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori, 1984-1985, voll. 2; Dante Alighieri, La Divina Comedia, introd. di Jorge Luis Borges, Barcelona, Océano, 1999. Per quanto riguarda la critica: Maria Teresa Giaveri, Dante e Borges: “El Aleph”, in «Lectura Dantis 2001» (2005), pp. 177-193; Carlos X. Ardavin, Hacia una definición bor- geana de la literatura: Dante y “La Divina Commedia”, in «Chasqui» Swarthmore (Pa), XXV (1996), 2, pp. 81-88; Liliana Bellone, Antonio Gutiérrez, Jorge Luis Borges: un guía en la travesía poética de Dante Alighieri,in«DanteenlaAmérica Latina» (2008), I, pp. 563-574; Mafalda Benuzzi de Canzonieri, Borges lector del “Infierno”, in «Dante en América Latina» (2008), I, pp. 213-222; M. Bonatti, Dante en la lectura de Borges, in « Revista Iberoamericana », XLIII (1977), pp. 737-744; Gina Lagorio, Borges e Dante, in «Doctor Virtualis. Rivista online di storia della fi- losofia medievale», III (2003) [http://filosofia.dipafilo.unimi.it/doctorvirtualis/; poi in «Medioevo storico e medioevo fantastico in Jorge Luis Borges» (2003), pp. 25- 32]; Nicola Longo, La poesia di Dante secondo Jorge Luis Borges, in «Dante. Ri- vista internazionale di studi su Dante Alighieri», IV (2007), pp. 89-114; Roberto Paoli, Borges e Dante, in «Studi Danteschi», LVI (1984), pp. 189-212 [poi, in ver- sione spagnola, in «Actas de las V Jornadas Nacionales de Literatura Italiana» (1991), I, pp. 37-57 con il titolo Borges y Dante; poi in Borges e gli scrittori italiani (1997) pp. 87-107]; Francisco Rodríguez Risquete, Borges: fervor de Dante,in «Quaderns d’Italià. Departamiento de filologìa francesa i romanica. Area de filolo- gìa italiana», X (2005), pp. 195-218; U. Schulz-Buschhaus, Die Lecturae Dantis des Jorge Luis Borges, in « Deutsches Dante-Jahrbuch », LXII (1987), pp. 77-93; Laura Silvestri, Borges y Dante o la superstición de la literatura, in «El siglo de Bor- ges» (1999), pp. 385-408; L. Terracini, Borges e Dante, in «Letture classensi. XIV» (1985), pp. 121-136; J. Thiem, Borges, Dante, and the poetics of total vision,in« Comparative Literature », XL (1988), 2, pp. 97-121.

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adulterio, no le interesa el modo como fueron descubiertos ni ajusti- ciados: le interesa algo más íntimo, y es saber cómo supieron que es- taban enamorados, cómo se enamoraron, cómo llegó el tiempo”

C’è poi la sorella minore di Victoria, Silvina Ocampo (1903- 1993), sposa dello scrittore Adolfo Bioy Casares (1914-1999), con cui scrisse Los que aman, odian (1946), la quale non ha voluto o forse non ha potuto sottrarsi all’influsso dantesco, che possiamo co- gliere, tra l’altro, nel brano di un racconto appartente al libro Las re- peticiones, ove sono evidentissimi i riferimenti a Inf. V:

Gli amanti “Impossibile dimenticarle: una era più grande dell’altra. Entrambe gialle con disegni neri. Sembravano una enorme pansé. Le vidi un mattino di fine inverno mentre facevano l’amore lungo un sentiero. Da principio credetti che fossero due foglie cadute da un ramo portate via dal vento: da sole e così strettamente avvinghiate che una trascinava l’altra e il vento le trascinava giù entrambe. E loro si alzavano di nuovo e di nuovo il vento le trascinava giù come se fossero di carta. E continuarono a lottare contro il vento senza sentirlo, così concentrate su se stesse, innamorate, impazzite. No, no… non potevo lasciarle in quel sentiero invernale. Mi inginocchiai e le presi per le ali. Le sentii palpitare tra le mie dita come se stessero gridando. Le portai a casa e le lasciai nel bordo della finestra, dove ancora soffiava il vento. Mi misi a tavola con la sensazione che fosse molto volgare fare colazione nel momento in cui due farfalle facevano l’amore nel bordo di una finestra. Mi alzai molte volte per correre a guardarle. Il vento continuava a soffiare e una delle farfalle continuava a trascinare l’altra e l’altra continuava a rimanerle attaccata come se fosse infilzata. E il mondo per loro era del tutto scomparso”12.

12 La traduzione è mia. Il testo è tratto da Silvina Ocampo, Las repeticiones y otros relatos inéditos, edición al cuidado de Ernesto Montequin, Buenos Aires: Sudamericana, 2006, pp. 53-54.

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A questo si potrebbero affiancare i racconti Mariposas anaran- jadas copulando13 y Ocho alas14, che sono varianti più antiche del brano riportato, e anche Los mastines del templo di Adrano15,unpic- colo racconto tratto dal libro Las invitadas (1961). A conferma della forte presenza dell’opera dantesca negli am- bienti intellettuali argentini, ricordiamo che proprio negli anni in cui Victoria Ocampo comincia ad occuparsi pubblicamente di Dante, l’architetto Mario Palanti (1885-1979) e l’industriale Luis Barolo (1869-1922) mettono mano all’edificazione del Palacio Barolo16, che sarà ultimato nel 1923 e che è pieno di riferimenti al poema dante- sco. Dalla struttura, scandita in tre fasce, fino all’altezza che rag- giunge i cento metri, corrispondenti al numero totale dei canti, il palazzo dell’Avenida de Mayo è il maggior esempio locale di archi- tettura esoterica del XX secolo.

Victoria Ocampo fra Francesca e Beatrice: il labirinto delle passioni

Ma torniamo alla nostra lettrice bonaerense. Victoria Ocampo pubblica nel 1924 il suo primo libro intitolato De Francesca a Bea- trice. A través de La Divina Comedia17, nella collana di saggi della

13 S. Ocampo, “Analectas”, pp. 149-150. 14 S. Ocampo,Cornelia frente al espejo, Barcelona, Tusquets, 1988, pp. 144. 15 S. Ocampo, Cuentos completos, Buenos Aires, Emecé, 1999, pp. 297-298. 16 Per quanto riguarda questo Palozzo si veda: Margarita Coelho, Elena Oliva, El : “La Divina Comedia” representada, in «Dante en América Latina» (2008), I, pp. 451-468; Cristina Elgue-Martini, “La Divina Comedia” en la arquitectura argentina: el Palacio Barolo de Mario Palanti, in «Dante en América Latina» (2008), pp. 491-503; Rosanna Ventura-Piselli, Las tipologías arquitectónicas tradicionales en el Palacio Barolo de Buenos Aires y la “Co- media” de Dante, in «Dante en América Latina» (2008), II, pp. 835-858. 17 Victoria Ocampo, De Francesca a Beatriz. A través de la Divina Comedia. Epí- logo de José Ortega y Gasset, Madrid, Revista de Occidente, 1924. Tradotto dal

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“Revista de Occidente”, diretta da José Ortega y Gasset che è anche autore dell’epilogo. Victoria (1890-1955), appartenente ad una agiata famiglia aristocratica di Buenos Aires, nel 1896 compie il suo primo viaggio in Europa, facendo tappa in diverse città europee tra cui Lon- dra e Parigi. Comincia a scrivere in francese, la lingua dell’alta so- cietà di Buenos Aires, anche se tra i suoi antenati c’è José Hernández, l’autore del famoso poema epico argentino Martin Fierro (1872). Nel 1908 è di nuovo a Parigi dove frequenterà la Sorbonne durante un biennio. Al rientro a Buenos Aires sposa Luis Bernardo de Estrada, con cui realizza un lungo viaggio di nozze in Europa, du- rante il quale, a Roma, conosce Julián Martínez, diplomatico e cu- gino del marito, suo futuro amante. Risale al 1920 la sua prima collaborazione con il giornale “La Nación” per il quale scrive un ar- ticolo in francese, intitolato Babel, che ha come argomento il Canto XV del Purgatorio. Nello stesso anno si separa dal marito e man- tiene con l’amante la relazione che si fa sempre più tempestosa fino a sfociare in una rottura definitiva. Non è il gusto per il gossip che mi induce a registrare questi dati biografici, quanto piuttosto la loro assoluta rilevanza per capire il processo di mimesi attuato da Victoria verso la Commedia einpar- ticolare verso il Canto V dell’Inferno. Un processo avviato dal libro che mai smette la sua azione di mediazione e di modellizzazione della realtà e che viene ben descritto da Girard, proprio in riferimento al modello di comportamento suggerito da Francesca: “Vale a dire che i libri non sono innocenti, dietro ogni libro c’è un autore che cerca di sedurti, che fa sì che tu voglia imitarlo. Nella mia termino- logia il libro svolge la funzione di mediatore, di modello di Paolo e francese da Ricardo Baeza, il volume fu pubblicato nella casa editrice che diri- geva Ortega con la chiara volontà di dare all’argentina l’opportunità di recuperare la fiducia nella propria lingua, lo spagnolo, nella quale lei non si sentiva affatto si- cura. Infatti lei stessa confessa che lo spagnolo era per lei “una lengua chata” (cioè “piatta”), cit. in Marta Capomar, Victoria Ocampo en la cultura del amor de Or- tega y Gasset, “Revista de Estudios Orteguianos”, 3 (2001), p. 235.

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Francesca:illoroamoreèdunqueinuncertosensounamoreco- piato”18.

Al di là di certe inesattezze, come quella secondo la quale è Lan- cillotto a baciare Ginevra mentre è l’inverso, Girard ci ha svelato quanto è importante la mediazione del libro, la triangolazione del de- siderio: Francesca è una lettrice assidua, quasi una vittima di ciò che legge, una madame Bovary avant la lettre. La seduzione ovviamente non nasce con lei, risale a molto più indietro nella storia dell’umanità, alle origini della specie umana e animale, fino al punto che è quasi improprio parlare di storia ed è invece più decisivo il ruolo fonda- mentale dell’istinto che sempre guida ogni individuo negli intricati meccanismi della riproduzione. La cultura umana ha creato fin dalle sue origini i simulacri più diversi per indurre il desiderio. Le imma- gini e i testi dell’ars amandi e quelli posteriori della scientia sexua- lis hanno alla base questo scopo fondamentale. Pur tuttavia, fino a questo momento della creazione dantesca, nessuno aveva pensato di rappresentare il momento della seduzione come una spontanea e in- coercibile conseguenza della lettura di alcune pagine letterarie in cui viene descritta una scena simile: il bacio ne è l’essenza e ad esso non si possono sottrarre gli amanti che ne leggono la descrizione. Nel racconto che fa la stessa protagonista, è detto con insistenza quanto

18 Dall’intervista di S. Benvenuto a R. Girard: http://mondodomani.org/diale- gesthai/sb02.htm. “Dante ne fait pas d’histoire littéraire; il souligne qu’écrite ou orale c’est toujours la parole de quelqu’un qui suggère le désir. Le roman occupe dans le destin de Francesca la place du Verbe dans le quatrième évangile. Le Verbe de l’Homme devient Verbe diabolique [...] Imitatrice d’imitateurs elle sait que la ressemblance est réelle entre elle et son modèle [...], mais cette ressem- blance ne se situe pas dans le triomphe de l’absolutisme passionel, comme l’ima- ginèrent d’abord les amants et comme l’imaginent encore les lecteurs, elle se situe dans l’échec, un échec déjà consommé au moment où s’échangera, à l’om- bre de Lancelot, le premier baiser” (R. Girard, Critique dans un souterrain,Lau- sanne, L’Age d’homme, 1976, 144-145).

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il libro e la letteratura siano responsabili di questa mimesi erotica. Il libro può essere traditore, e alcuni libri sono Galeotti perché indu- cono gli umani a perdersi nei labirinti della piramide amorosa che il poeta descrive nel Convivio IV, XII 14-17. Dante crea in Inf. V una scena il cui riverbero continua fino ai nostri giorni, diffondendosi su tutti i generi artistici e interessando persino i comportamenti di co- loro che la ignorano. L’amante di Rimini è un esempio manifesto di quello che Barthes denomina “contagio degli affetti” (contagion affective), concetto se- condo il quale ogni desiderio è espressione delle figure del desiderio presenti nella letteratura e nell’arte. Secondo Barthes, questa influenza sarebbe così determinante che nessun desiderio può essere conside- rato totalmente originale, essendo invece tutti e sempre condizionati dagli schemi culturali vigenti. Rifacendosi alla famosa massima di La Rochefoucauld (“Ilyadesgensquin’auraientjamaisétéamoureux s’ils n’avaient jamais entendu parler de l’amour”, Massima 136) e al- l’analisi freudiana delle relazioni fra psicologia individuale e psicolo- gia collettiva, Barthes arriva alla deduzione che la cultura è una macchina che indica agli individui chi e che cosa bisogna desiderare19. Il desiderio è di per sé mimetico, anche se in modo inconsapevole o se- minconsapevole. Se il desiderio agisse in modo consapevole, forse non sarebbe così essenziale per l’individuo. Solo partendo dal concetto che esso nasce da una passione autentica, nel senso di originale e sponta- nea, per un oggetto amoroso concreto e nuovo, il desiderio trova effi- cacia e profondità sufficienti a coinvolgere il soggetto amante in una vicenda che, a guardar bene, ha ben poco di originale, dal momento che si forma nell’alveo culturale dell’epoca in cui capita vivere. “La parola scritta -scrive Girard- esercita un vero fascino. Spinge i due giovani amanti ad agire come se i loro atti fossero determinati dal destino; la

19 R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux, Paris, Seuil, 1977, pp. 163- 164, che, di fatto, prende il termine “contagion afective” di Sigmund Freud, Psi- cologia delle masse e analisi dell’io (1921).

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parola è uno specchio in cui si contemplano per scoprire in loro stessi le somiglianze con i loro brillanti modelli”20. Francesca, che parla da dannata anche se ancora poco cosciente della propria colpa, ha ben chiara invece l’importanza esercitata dal libro, e quindi anche il ruolo decisivo dell’autore, nell’azione di spin- gere lei e Paolo sulla via della perdizione. Ecco quindi l’imprecazione: “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”. Per l’ingenua (o forse non tanto) amante, il colpevole è il libro, non certo il lettore né tanto meno la sua scoperta debolezza. Francesca, come ogni divoratrice di storie scritte, si trova a vivere nella interpretazione che lei stessa fa. Il bello è pro- messa di felicità, scriveva Nietzsche. E la lettrice di romanzi si lancia su questa promessa. Se cade nell’errore, ciò è dovuto al fatto che essa vuole inconsciamente ripetere il gesto degli amanti bretoni, ma soprat- tutto vuole rivivere l’ambiente in cui questa storia si svolge ed è stata scritta. I nostri desideri non si rivolgono soltanto verso un uomo o una donna, ma verso un uomo o una donna che portano con sé, in un tut- t’uno compatto, paesaggi, incontri, libri, città, sentimenti e sensazioni. Quando si desidera, si crea un intero immaginario, un mondo riferito e congiunto alla persona desiderata. Lo sa bene la pubblicità. “C’est tou- jours avec des mondes que l’on fait l’amour” (Deleuze)21. Colui che desidera ha a sua disposizione una serie di elementi connessi al suo de- siderio. Così Francesca non desidera solo Paolo, ma tutto ciò che im- magina o sogna che l’amore per Paolo, mediato dal roman, potrebbe darle. Non è tanto Paolo che essa desidera, quanto realizzare la ingenua idea di vivere, attraverso la relazione con lui, quell’atmosfera amorosa suscitata dalla lettura del roman. Il desiderio pertanto trascende l’og- getto desiderato. All’inizio di Inf. VI Dante stesso si preoccupa di farci sapere che i due amanti protagonisti del canto precedente erano tra di loro cognati, in tal modo introduce un dato imprescindibile per la com- prensione non solo della drammaticità della storia, quanto della tipolo- gia dell’errore che li aveva condannati alla pena eterna, nonché

20 R.Girard, Ibidem. 21 Cit.in M. Larrauri i Max, El desig segons Deleuze, València, Tàndem, 2000, p. 76.

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dell’insulto del v. 107 (“Caïna attende a chi vita ci spense”). È noto che l’adulterio, di per sé cruciale in questo canto, assume maggior rilevanza essendo aggravato dall’incesto, un peccato perturbatore dell’ordine so- ciale, dell’armonia familiare e delle regole della convivenza22. Tuttavia Dante sembra volerci dire, quasi anticipando Hillman23, che non c’è fi- ducia, né amore, senza la possibilità di tradimento. Il tradimento è la porta attraverso la quale gli umani possono accedere ad una elaborata complessità di concetti, è il varco che ci immette nel pericolo di un amore sottomesso al desiderio terreno. Attraverso il tradimento si com- pie la conversione dell’amore ideale in animalità. Sintomatico in que- sto senso il contrasto tra il desïato riso del v. 133 e la bocca del v. 136, il primo attribuito a Ginevra e il secondo a Francesca. “Riso” è una pa- rola connotata intimamente con Beatrice, fin da Vita nova 12, dove ap- pare il “mirabile riso”. Altrettanto si potrebbe osservare della parola “sorriso” che, essendo un hapax nella Commedia, è interpretabile come un miracolo. È chiaro che ci troviamo davanti a una di quelle parole chiavi che rendono possibile l’interpretazione della nuova poetica su cui Dante si sta cimentando24.

22 Marco Santagata, Cognati e amanti. Francesca e Paolo nel V dell’”Inferno”, “Romanisches Jarhbuch”, 48 (1997), p. 139. 23 J. Hillman, Puer aeternus, Milano, Adelphi, 1999, p. 19. 24 Parola che da Amor che nella mente mi ragiona si proietta fino a Par XXX 26. Sul- l’argomento si veda Marta Cristiani, Il “disïato riso”. Ridere, sorridere, splendere nella “Commedia” di Dante, in «Il riso» (2005), pp. 1-14; Violeta Diaz-Corralejo, Risa y llanto en “La divina comedia”: un esbozo de interpretacion gestual,in«Actas del VI congreso nacional de italianistas» (1994), pp. 241-250; Peter S. Hawkins, All smiles: poetry and theology in Dante, in «Publications of the Modern Language As- sociation of America», CXXI (2006), 2, pp. 371-387 [poi, rivisto, in «Dante’s Com- media. Theology as poetry» (2010), pp. 36-59 con il titolo: All smiles: poetry and theology in Dante’s “Commedia”]; Maria A. Roglieri, Dante’s imagery: “bocca” and “riso” in the “Commedia”, in «Essays in honor of Nicolae Iliescu» (1989), pp. 11-24; Luigi Spagnolo, Il riso di Beatrice, in «Letterature straniere &. Quaderni della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Cagliari», IX (2007), pp. 261-270.

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Anche Victoria Ocampo è una lettrice vorace. Quando si trova a Parigi, ma non soltanto quando si trova in questa città, divora quan- tità immense di letteratura francese e inglese, ma anche russa, ita- liana, spagnola e indiana (soprattutto Tagore)25. Alla Sorbonne frequenta i corsi di Bergson e di Hauvette. Relativamente a que- st’ultimo, in una pagina di diario datata 9 marzo 1910, scrive:

Temo ser un personaje execrable. Hace unos días, X. me decía: “A pesar de sus ojos, es usted una cerebral. Se burla del amor que inspira a su modo escalofriante. A pesar de la diferencia de años, soy yo el cándido y el más fácil de engañar. Y usted, sin embargo, para mí es una chicuela. Tengo la sensación de que representa una comedia para matar el tiempo”. Exagera. Tutta tua vision fa manifestazione E lascia pur grattar do’vè la rogna... Questo tuo grido farà come vento Que le più alte sime più percuote...

Hoy terminó Hauvette su curso sobre La Divina Comedia. ¡Qué pena! Me parece que los versos de Dante que acabo de citar se dirigen a mí. El alma de Dante es pariente de la mía. Me siento llena de talento, de inteligencia, de amor que quisiera comunicar. He nacido para hacer grandes cosas y las haré, por exceso de todo26. [la sottolineatura è mia]

Bisogna ricordare, comunque, che questo diario si trova nel vo- lume II dell’Autobiografia che lei cominciò a scrivere nel 1952. È difficile quindi dire se questa “coscienza”, questa così chiara e pro- fonda comprensione dei moti del suo spirito è tardiva oppure era già

25 Si veda il suo Tagore en las barracas de San Isidro, 1961. 26 V. Ocampo, Autobiografia, Vol. II: El imperio insular, Buenos Aires, Sur, 1980, p. 133.

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presente in quegli anni. Piuttosto i dati che possiamo ricavare da que- sta annotazione sono i seguenti: avvio di una buona conoscenza di Dante tramite i corsi di Hauvette27 e una assidua frequentazione delle opere del fiorentino, un continuo confronto intellettuale col poeta e quindi un costante rispecchiamento delle proprie vicende d’amore in quelle dei personaggi28 o del protagonista sia del poema che della Vita nova; dato, quest’ultimo, che, seppur apparentemente irrilevante rispetto alle successive esperienze e ai successivi scritti di Vittoria, è comunque un primo segnale di quella relazione mimetica tra lette- ratura e vita che qui tentiamo di analizzare. Non c’è dubbio, però, che l’asse portante di questo processo è co- stituito dal concepimento e in seguito dalla stesura e pubblicazione del libro De Francesca a Beatrice, opera nella quale essa riversa le

27 Autore tra l’altro di H. Hauvette, Dante, introduction a l’étude de la Divine Comédie, París, Hachette,1911. 28 Si veda in questo senso, un’altra descrizione della sua ossessione per Dante, nelle pagine dell‘Autobiografia II El imperio peninsular [1952], pp. 151: “Como yo seguía en ese momento, los courses de Hauvette sobre Dante, hablábamos [ella y el pintor Dagnan Bouveret] de la Divina Comedia. Yo le contaba, con entusiasmo, mis impresiones de colegiala. Tantos comentarios le hice que deci- dió colocar en la mesa en que yo me apoyaba (para el retrato) una cabeza de Dante que tenía en el atelier. A mí me pareció perfecto. Pero cuando se entera- ron en casa de la presencia de una “lírica hiena” (como diría Ortega en un futuro prólogo) en la composición de un retrato mío, le hicieron notar, con diplomacia, al pintor, que ese nuevo adorno no le iba a una chica de diecinueve años y que resultaría pretencioso, o sería interpretado como manifestación de un ridículo basbleuisme. Dagnan contestó que mi afición por Dante le parecía justificar ple- namente “el adorno”, pero que estaba dispuesto a borrarlo y reemplazarlo por unos pensamientos o una rama de laurel en un florero. Así lo hizo. Nos separa- ron, pues, a Dante y a mí, en efigie, y el mundo vegetal ocupó su lugar sin (en mi memoria) “briser son absence”. Tan no la quebró que mi primer artículo, pu- blicado en La Nación, fue un comentario sobre la Comedia (diez años después.... es decir después de diez años de navegar contra viento y marea). Mis entusias- mos, CUANDO NO HAN SIDO DEFRAUDADOS, han sido tenaces y tentaculares como la glicina”.

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sue letture (Dante, Bergson, Proust ecc.), le sue vicende sentimentali, i numerosi contatti con intellettuali del suo tempo, principalmente uomini e il suo nascente femminismo o protofemminismo. Questo approccio così autoreferenziale è l’aspetto che provoca lo sprezzante rifiuto del saggio da parte di Paul Groussac, direttore in quel mo- mento della Biblioteca Nacional de Buenos Aires e importante critico letterario del suo tempo, che lo considera più “un desahogo dantesco” che un vero e proprio saggio su Dante. L’edizione appare con una lunga postfazione (Epílogo) di Ortega il quale al contrario mette in rilievo l’acutezza dello sguardo scruta- tore della scrittrice sulla Commedia, cioè su “esa triple avenida de tercetos estremecidos” scritta da “nuestra lírica hiena” (cioè Dante). Ma non basta. Ortega fa una sintesi storica dell’influsso “peculiar de la mujer”, cioè della cultura della “cortezia”, al centro della quale vi è per l’appunto la “Donna”. Dice Ortega: “La ‘lei de cortezia’ pro- clama el nuevo imperio de la ‘mezura’, que es el elemento donde alienta la feminidad” (p. 139), allor quando “estas mujeres sublimes se atreven a insinuar una disciplina de interior pulimento e intelec- tual agudeza”. Ma in questa postfazione, come del resto in parecchi dei suoi scritti sull’amore e sulla donna, dei quali l’Epilogo èdifatto una sintesi29, il filosofo confonde l’influsso dell’immagine della

29 Ricordiamo, ad esempio, Leyendo el “Adolfo”, libro de amor (1916), pub- blicato nel primo volume di “El Espectador” (e ora in Obras Completas, II, Alianza Editorial/Revista de Occidente, pp. 25-28); Para la cultura del amor, “El Espectador”, 2 (1917) (O.C., II, p. 141), articoli che poi faranno parte del libro antologico Estudios sobre el amor (Buenos Aires, 1939), dal quale farà parte anche l’“Epilogo” al volume dell’Ocampo. In tutte queste riflessioni ha un ruolo molto importante il suo rapporto con la bella “criolla” (“creola”), chia- mata anche “Gioconda australe”, perché è proprio lei, con la sua voluttà e bel- lezza a ispirargli i pensieri attorno a un nuovo modo di costruire una relazione con l’altro sesso, libero dalle convenzioni e dai vincoli legali, a una nuova teo- ria dell’amore, che non cambia però sostanzialmente il ruolo classico della donna. Si veda anche il volume antologico Estudios sobre el amor, Buenos Aires, Espasa Calpe Argentina, 1940. Si vedano anche i suoi, Carta a Victoria Ocampo,

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donna, costruita dall’immaginario maschile, con l’essenza stessa della donna. In lui amore e visione della donna (“la feminidad”) sono inseparabili. A lui interessa l’ewig-weibliche in quanto forza civiliz- zatrice e riformatrice dell’umanità, concetto che dalla tradizione tro- badorica in poi si è diffuso in tutta la cultura occidentale e di cui Dante è il più alto assertore. A Dante, afferma Ortega, basta il saluto, il sorriso, il “disïato riso”, che “fu fine de’ miei desideri” per diven- tare un altro uomo. Ma questo succede perché, prima che madre, fi- glia, sorella o moglie, la donna (“la hembra humana”, nella terminologia biologista di Ortega) è donna nella misura in cui è in- cantesimo o ideale dell’uomo. Da ciò derivano poi tutte le altre forme di femminilità nonché la selezione dei maschi più affini a questo ideale. Non a caso “incantesimo” e “selezione” sono le parole chiavi della sua teoria erotico-femminina. Il femminismo dovrebbe, se- condo Ortega, partire proprio da questo enorme e costante influsso sulla storia umana, che ha come corollario il fatto che essenzialmente l’uomo fa mentre la donna è. Ortega disprezza la lotta dei movimenti femministi che rivendicano i diritti politici delle donne. Attraverso la differenziazione dei sessi, Ortega richiamava per la donna un posto sociale che, di fatto, però, la condanna all’invisibilità, giacché era convinto che la sua essenza consiste nello stimolare l’uomo al- l’azione e al miglioramento. Ciò che del saggio di Victoria affascina Ortega, al contrario di Groussac, è proprio quel suo audace gioco a rimpiattino con le parole di Dante, grazie al quale può mantenere con l’autrice quella relazione erotico-intellettuale sorta fin dal loro primo incontro a Buenos Aires nel 1916. Balza agli occhi la galanteria, per non dire l’esibito galli- smo, che Ortega sparge doviziosamente lungo tutta la sua postfa- zione: dall’elegante quanto insistente riferimento all‘eccitamento dell’ideale (“organo de la excitación”, “¿Por què, Señora, es su prosa tan muelle y lleva cada frase un resorte suave que nos despide elá- en “Revista Sur”, Número 347 (1980) e Meditación de la criolla, en Ortega y Gasset José, Estudios sobre el amor, Madrid, Alianza, 1999.

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sticamente de la tierra y nos proporciona su ascensión?”), all’incita- mento finale, pieno anch’esso di marcati doppi sensi erotici, di re- cuperare l’importanza del corpo al di là di ogni dualismo (“Yo pido, señora, que organicemos una nueva salud, y ésta es imposible si el cuerpo no sirve de contrapeso al alma. [...] El cuerpo vivo es carne y la carne es sensibilidad y expresión.”). Ne approfitta Ortega per percorrere anche i meandri del cuore e della sensibilità della donna di cui ammira grazia e bellezza. Viene quasi il sospetto che le pro- ponga di pubblicare il libro per avere un’occasione di sedurla con le sue idee sulle “bellezze creole”, dalle quali sarebbe derivata la “Me- ditación de la criolla” nel 1939 con cui conferma le tesi espresse nel- l’Epílogo del 1924. Sette anni dopo, dalle pagine della rivista “Sur” da lei fondata – il titolo essendole stato suggerito dallo stesso Ortega – Victoria si sente in grado per la prima volta di rispondere pubblicamente alle provocazioni dell’autore dell’Epilogo con le riflessioni un po’ incongruenti e disor- ganizzate contenute nell’articolo Contestación a un Epílogo de Ortega y Gasset30 – dovute in parte a una sua recente lettura del libro di Ber- trand Russell, The conquest of happiness – in cui mescola citazioni di La rebelión de las masas di Ortega con riferimenti critici a Lady Chat- terley’ Lover di D.H. Lawrence. Di questo articolo possiamo qui evi- denziare soltanto alcuni aspetti rispetto ai quali prende le distanze dal filosofo, che tuttavia suscita in lei grande ammirazione: - l’insistere sul patimento proprio dell’amore-passione, in quanto chi ama “in questo modo” è già nel circolo infernale; - la critica alla rivalutazione del corpo in tempi d’inflazione della fisicità, mentre ci sarebbe bisogno di maggior spiritualità: “Mas parece, pues, que un alegato en favor del cuerpo no viene al caso en un momento como el presente. ¿No está ya acaso toda la aten- ción puesta en él?” (p. 33);

30 V. Ocampo, Contestación a un epílogo de Ortega y Gasset, “Sur”, autunno 1931, pp. 15-52.

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- la differenza tra il desiderio di “una bocca” e il desiderio del “sor- riso di quella bocca”. “¿Quiere usted -escribe- algo más expresivo de la unión del alma y de la carne? [...] quien desea besar la son- risa de una boca, “il disïato riso”, no puede sino amar.” (p. 36-37). Anche in una conferenza su Anne de Noailles, in occasione della morte avvenuta nel 193331, torna sull’articolo di Ortega, di nuovo per criticare la sua visione del ruolo della donna che lui riduce alla vita privata, per quanto interiormente ricchissima, in contrapposizione a quella pubblica propria dell’uomo32. In questi stessi anni Victoria svi- luppa la sua idea del femminismo, che per lei è soprattutto la necessità di esprimersi da parte della donna. Tuttavia sarà molto più tardi, al tempo dell’Autobiografia edeiTestimonios, che Victoria saprà trovare la corretta maniera di rendere più chiaro e compiuto il suo pensiero su se stessa e sul femminismo.

El monólogo del hombre no me alivia ni de mis sufrimientos ni de mis pensamientos. ¿Por qué he de resignarme a repetirlo? Tengo otra cosa que expresar. Otros sentimientos, otros dolores han destrozado mi vida, otras alegrías la han iluminado desde hace siglos33

Ma qui siamo arrivati alla fine della storia. Ora ci conviene fare

31 Pubblicata poi in “Sur”, luglio 1934, pp. 7-68. La poetessa Ana de Noailles, che tempo addietro era stata considerata da Ortega come esempio di letteratura romanza calda e voluttuosa, rappresenta ancora un altro momento di critica alla teoria orteguiana della galanteria maschile che divide i ruoli sessuali in pubblico (quello maschile) e privato (quello femminile), accusando il filosofo spagnolo di “antifemminismo” perché si opponeva alla parità sia nel terreno sentimentale che in quello intellettuale e creativo fra i due sessi. Cfr. M. Campoamor, Victo- ria Ocampo en la cultura del amor de Ortega y Gasset, “Revista de Estudios Or- teguianos”, 3 (2001), pp. 209-290, p. 286. 32 V. Ocampo, Contestación a un epílogo de Ortega y Gasset, cit., pp. 16-22. 33 V. Ocampo, La mujer y su expresión,enTestimonios. Segunda 1937-1940, Buenos Aires, Sur, 1984, p. 174.

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qualche passo indietro per ritornare al nucleo stesso del mimetismo, anche perché della relazione fisico-intellettuale che il galletto “ca- stizo” avrebbe voluto stabilire con l’affascinante “criolla” si è occu- pata, e del tutto esaurientemente, Marta Campomar34. Qui ci preme focalizzare la nostra attenzione sull’importanza che gli adulteri e incestuosi personaggi danteschi d’Inf. V e il loro stesso creatore hanno esercitato su Victoria rispetto ai suoi sentimenti e al processo di autocoscienza portato avanti su se stessa e sui suoi mezzi espressivi come donna35. Sappiamo dalla sua Autobiografia36 che essa mette mano al libro su Dante mentre sta vivendo una storia clandestina con il cugino del marito – amante e marito appaiono indicati solo con le iniziali ri- spettivamente di J e M, corrispondenti a Julián Martínez, l’amante, e Monaco Estrada, il nome con cui era chiamato il marito, Luís Ber- nardo de Estrada. Anche il marito di Victoria, come Gianciotto, è un uomo sospettoso e attento ad ogni minimo movimento della moglie. E di occasioni destinate a generare in lui sospetti e dubbi certamente non ne dovevano mancare nei bei salotti frequentati dalla coppia, nei quali si riuniva l’alta società parigina e in generale europea, ma anche bonaerense: il principe Troubetzkoy, qualche altro nobile, dei fasci- nosi italiani, ecc. Il povero marito, come disse un conte italiano, non sopportava che tutti si innamorassero di sua moglie. Tuttavia il cuore di lei, benché disponibile ad aprirsi ad un nuovo amore giacché quello coniugale era già da tempo in crisi, non aveva ancora vera- mente mai palpitato per nessuno, almeno fino a quando non si af- faccia sulla scena Julián. Da quel momento è come se un vento la trascinasse in un vortice al quale lei non può opporre nessuna resi- stenza:

34 M. Campomar, cit. 35 Aspetto del quale si è occupata anche María Campomar in diversi momenti del suo lungo e interessantissimo articolo. 36 V. Ocampo, Autobiografia. Vol. III: La rama de Salzburgo, Buenos Aires, Sur, 1981, pp.19-20 e ss.

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Antes de saber que era J., éste me atrajo como jamás me había atra- ído nadie. Me ruboricé quando M. (su primo [cioè il marito di Vic- toria]) me lo presentó. (...) En el momento en que lo vi, de lejos, su presencia me invadió. Él me echó una mirada burlona y tierna (…). Miré esa mirada y esa mirada miraba mi boca, como si mi boca fuese mis ojos. Mi boca presa de esa mirada, se puso a temblar37.

In quel momento sente che il suo destino è segnato, per sempre:

Sentada entre los dos primos, tan diferentes, sabía que no tenía ya nada que ver con alguien a quien estaba ligada por la ley, y que una afinidad física, de la que desconfiaba, me arrastraba cada vez más hacia el otro38.

In questa ricostruzione letteraria di tanti anni dopo quel loro primo incontro, essa accosta la propria vicenda a quella di Tristano e Isotta (“porque lo nuestro fue fuga en la nave que bogaba, y boga siempre, en alta mar, hacia la península de Tristán. (...) Tarde o tem- prano y fatalmente, el telón se levantaría sobre la historia de un amor pasión.”39). In realtà, come appare chiaramente nella penultima cita- zione, è Francesca che emerge dalle sue parole. Così tutto si regge: la bocca, gli occhi che si fissano sulla bocca, anziché negli occhi del- l’amante, il tremore delle labbra. La situazione diventa sempre più insostenibile. Il marito non tol- lera nessuna presenza maschile accanto a lei. Sotto questa pressione, Victoria decide di chiamare Julián, iniziando così un rapporto per il momento puramente telefonico con lui, cosa che tuttavia dà la stura a una lunga serie di lettere anonime che mettono in guardia il marito circa l’infedeltà della moglie, per quanto questa infedeltà fosse an-

37 Ivi, p. 20. 38 Ivi, p. 22. 39 Ivi, p. 24.

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cora soltanto nei pensieri di Victoria. In questi loro contatti telefonici parlavano di letteratura, si consigliavano libri, leggevano Colette, Maupassant, Vigny: “Nos dábamos cita para leerlos a la misma hora. “A las diez, esta noche. ¿Puede?” A veinte quadras de distancia, yo en mi casa y él en la suya, leíamos.”40 Riandando con la memoria a que- sti anni, coincidenti con la definitiva separazione coniugale, Victoria fa una riflessione interessantissima che al contempo è anche una sto- ria dell’amor passione e dell’amore mimetico. Leggiamola assieme:

El matrimonio me había probado lo que sabía de antemano: el fenó- meno llamado amor de dos enamorados, que fija nuestro deseo exclu- sivamente sobre una persona (por un tiempo largo o corto), no se reduce a un mecanismo puramente fisiológico, aun cuando ofrezca todos los síntomas de ese fenómeno. Es también mecanismo fisiológico pero no sólo eso. Estoy de acuerdo en que no puede dejar de ser (y hablo de la variedad de amor llamada por Stendhal, cuyo vocabulario adopto: amor pasión) atracción intensa por un cuerpo y un corazón (en ese amor pa- sión, el cuerpo parece a veces preceder a cuanto lo acompaña e impo- ner su acento). (...) Creo en suma que el corazón cuando lo acompaña, puede tomar la sucesión del cuerpo y no a la inversa. (...) El amor pa- sión es el de Paolo y Francesca, es decir, el tormento del círculo en que Dante los coloca. Esa pasión no es bella sino en su exceso y sólo se concibe por su exceso. Está siempre expuesta a sufrir represalias y el mundo la castiga en cuanto la detecta. Es provocación a la muerte, que la corona siempre de una manera o de otra. Sea con la espada de Gian- ciotto, de Golaud, del traidor Melmot, sea por la propia espada41.

Da questo punto in poi tutti i momenti, almeno nella lettura po- steriore che ne fa la scrittice, si proiettano sullo schermo della storia degli eroi della letteratura dell’amore-passione. La semplice ombra

40 Ivi, p. 29. 41 Ivi, pp. 31-32.

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di uno degli alberi del Corso che essa doveva attraversare per andare a trovare finalmente l’amante si mescola con l’ombra del pino di Cornuailles. Una vera ossessione mimetica. Ma la confessione defi- nitiva di questo rapporto mimetico con la letteratura è nel passo au- tobiografico in cui riprende quello che aveva scritto nel libro De Francesca a Beatrice, a proposito di Paolo e Francesca:

sordos por el incesante clamor de ayer [los celos del pasado]; amenazados en este presente por las incertidumbrees del mañana [celos del futuro]; no pudiendo decir una palabra ni hacer un gesto que no despierte un eco de un pasado enemigo, o de un futuro preñado de agresiones, palabras y gestos se despojan para siempre de toda alegría [joie]. Impetuosos y yaciturnos dolores de la pasión sensual: Nulla speranza li conforta mai42.

Nella conclusione un chiaro riferimento all’effetto mimetico:

Al escribirlo, yo pensaba en mis celos y en los de J. Los míos apuntando hacia el pasado; los de J. hacia el futuro, como Otelo, no era “easely jealous, but being wrought perplex’d in the extreme43.

È una donna in una gabbia sentimentale terribilmente angusta: gelosa del suo amante, famoso tombeur des femmes, è a sua volta oggetto di gelosia da parte sia del marito, che si sa tradito, sia dell’a- mante, che paventa il tradimento. Caduta innocentemente nella trap- pola del matrimonio borghese obbligatorio, scopre che in esso non c’è posto per l’amore, che l’amore è in un altrove che si chiama adul- terio e che non è privo di pene infernali. Allora è perfettamente com- prensibile quella simpatia, quell’immedesimarsi di Victoria nelle vicende di Francesca, per quanto nella sua inesperienza di vita vissuta

42 Ivi, p. 45; riferito a De Francesca, cit, p. 42. 43 Ibidem.

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nessuna chiosa erudita sarebbe riuscita a chiarire quanto solo l’espe- rienza e l’età possono svelare. Difficile era per chi inizia “a vivere e a scrivere”44 capire in cosa consiste l’autentico supplizio degli amanti di Inf V.Anzi all’inizio della lettura immagina che nessun tormento può essere così terribile se viene sofferto accanto all’amante. Solo in se- guito si accorge della portata di questa condanna, la cui cifra si trova proprio nella parola “giammai” (jamás), perché per poter assaporare veramente qualcosa, bisogna fermarsi a guardarla. Subito dopo la scrit- trice rende universale (“Así como tantos seres...”) questa unione che è allo stesso tempo solitudine di ognuno dei partner. Non solo, e qui fa capolino la cogente situazione sentimentale della saggista, questi amanti non riescono a essere felici perché sono sempre minacciati dal- l’angosciosa incertezza del futuro, senza poter pronunciare né fare gesti che non incidano sul passato nemico, e un futuro pieno di aggressioni: “Y palabras y gestos despojándose para siempre de toda alegría”45.Il colpevole apparente è Gianciotto. In realtà più crudelmente di lui, Amore li aveva giá condannati.

[Amor] Les había conducido a la muerte de todo gozo. Amor se habría encargado de castigarlos en la tierra con ese castigo que tú [Gianciotto] creías capaz solo al Infierno de infligirles46.

Quasi eternamente erranti nel loro amore, eternamente assordati dallo strepito dei loro cuori, eternamente accecati dalla notte dei loro desideri, eternamente legati l’uno all’altro, eternamente soli...

Impetuoso e taciturno dolor que los aíslas el uno al otro. ¡Tú no tienes tregua!47

44 V. Ocampo, De Francesca, cit., pp. 35-36. 45 Ivi, p. 38. 46 Ivi, p. 40. 47 Ivi, p. 42.

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Questa non è una semplice lettura di Dante. È un primo tentativo dell’autrice, che prende spunto da Dante per chiarire innanzitutto a se stessa tutto ciò che si agita nel suo animo e che non riesce a tro- vare altre vie di espressione. In quella prima lettura dunque c’è già astrattamente in nuce quanto emergerà 25 o 30 anni dopo nelle pa- gine della sua Autobiografia. A differenza però di Francesca, la sua sofferenza è doppia: in quanto adultera con un parente stretto del ma- rito (e in ciò potremmo ravvisare il carattere incestuoso della rela- zione che l’avvicina ancor di più a Francesca) e in quanto donna gelosa tormentata atrocemente dal passato sentimentalmente tumul- tuoso dell’amante. Ecco dunque la ragione di quella “odierna mi- naccia del passato”, di quel “futuro gonfio di minacce” e di quell’unione che isola i due soggetti. Essa comincia ad aborrire la “bocca” di “cotanto amante” e a sognare il “disïato riso”. Scrive:

Esos ojos, esa frente, esa boca era una traducción en términos de belleza, un comentario, una promesa de no sé que [...]. No necesitas ya la boca sinó el “disïato riso”, que ibas más allà de los labios. Contra esa roca viva que es un cuerpo (así de sensible), yo, ala de pasión, erápida busca de una posible unión. Desesperada de soledad en una pasión compartida y satisfecha. Desesperada de amor. [...] La boca había llegado hasta la boca y en completa plenitud. Pero el “diïato riso” [...] se escurría siempre48.

Victoria scopre che anche accanto all’ amante l’amore non va oltre alla “ bocca”, non è mai riuscito a trasformarsi in “disïato riso”. E a lei non basta più l’orizzonte erotico di Francesca e Paolo, desidera altro: l’amore che Beatrice è capace di suscitare. Vuole essere anche Beatrice. In questo momento sente che ogni grande amore-passione è un in- sieme di nulla e d’immensità: Francesca e Beatrice appunto, come due termini in contrasto, come due poli che si respingono. Sa che

48 V. Ocampo, Autobiografia, Vol. III, cit., p. 64.

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solo il sorriso manifesta la fusione dell’anima e del corpo. Ma non sa chi può rivelare il mistero di un amore più corale e completo. Solo sente il vuoto, come se tra passione e amore ci fosse una contraddi- zione insuperabile. Come uscire da questo doppio inferno se non attraverso il libro, le parole di chi era riuscito a lasciare da parte la bocca per raggiun- gere la speranza intravista nel sorriso? E così, come lei stessa rac- conta, leggerà e rileggerà senza pausa:

La Divina Comedia (all of books!) segura de que Dante, como gran co- nocedor de los pecados, es decir del sufrimiento de la condición humana, tendría oculto en algún consuelo, alguna revelación, algún bálsamo49.

Leggeva poi l’epistola a Can Grande in cui Dante afferma che il fine del suo poema è allontanare l’uomo dalla condizione di miseria interiore per avviarlo verso la luce. È la strada che lei aveva tentato di ripercorrere con il suo De Francesca a Beatrice: dall’amore pas- sione all’amore, dal gesto della mano che afferra e si chiude sulla presa al gesto della mano che si apre.

Yo vivía Dante, no lo leía. Algunos versos me daban su bautismo, pues sentía que estaban escritos para mí50.

E se il mimetismo non fosse ancora abbastanza evidente ecco il commento che tiene insieme l’intera interpretazione mimetica della letteratura:

Mi necesidad de comentar la Divina Comedia nacía de un intento de aproximarme a la puerta de salida de mi drama personal, tanto como de mi real entusiamo por el poeta florentino, mi hermano51.

49 Ivi, p. 94. 50 Ivi, p. 97. 51 Ivi, p. 98,

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Grazie all’esperienza di quel suo amore adultero, crescerà in lei, mediata da Dante, e in parte da Ortega, una maggior consapevolezza di sé come donna. Si realizza quindi il passaggio a una coscienza femminista più alta e profonda, che si concretizza in una nuova im- magine di donna che contiene in sé non solo le ragioni del corpo e dello spirito, di cui Francesca e Beatrice sono rispettivamente le me- tafore, ma anche l’insegnamento di Dante, raffigurazione di quella espressività52 e di quella creatività che lei e il femminismo, di cui era sostenitrice, cercavano e rivindicavano da tempo, in contrasto con vecchi e nuovi pregiudizi, dai quali tuttavia erano venuti molti stimoli per una presa di coscienza circa l’uguaglianza della donna in tutti gli ambiti.

52 Si veda il suo La mujer y la expresión, cit. Riguardo alla scrittura delle donne in America Latina si veda Hintze, Gloria, Escritura femenina: diversidad y gé- nero en América latina, Universidad Nacional de Cuyo, 2004; Berenguer, Car- men, Escribir en los bordes, 1987, parte 2, Editorial Cuarto proprio, 1994.

81 Quanti dolci pensier Dante Gabriel Rossetti, Paolo and Francesca. Acquarello su carta, 1862. Cecil Higgins Art Gallery & Bedford Museum, Bedford. Particolare. ROBERTO FEDI Leggere Petrarca (naturalmente, ad Arquà)

Facciamo un piccolo gioco, o se preferite uno scherzo. Siamo – qui sta il gioco – in un teatro: non un grande teatro metropolitano, ma in un piccolo seppure aggraziato teatrino di provincia. Non lontano da qui, a dire il vero: diciamo dalle parti dei colli Euganei, più o meno in quello che oggi sarebbe a un dipresso il Nord-Est o se pre- ferite la provincia di Padova. Come in ogni pièce che si rispetti, almeno quelle classiche, si fac- cia conto che Il Prologo dia, secondo le regole, le coordinate non solo geografiche ma anche umane e per così dire tematiche. Intanto, il periodo. Qui non ci si sbaglia, perché quelle coordinate le cono- sciamo addirittura giorno dopo giorno: è il 12 novembre del 1797, e ne siamo sicuri perché il protagonista, di cui fra poco diremo, segna la data fatidica con inchiostro per noi e per lui indelebile. È domenica – sia detto per chi insegue la precisione, anche se il suddetto prota- gonista questo non ce lo fa sapere (ci sono cose ben più importanti su cui ragguagliarci, per lui). Il protagonista, e adesso andiamo a conoscere meglio i perso- naggi, è un giovane (presumibilmente poco più che maggiorenne, si arguisce). Viene da Venezia, e si trova lì, sui Colli Euganei appunto, per ragioni politiche. A dirla tutta ce lo ha spedito la madre, quasi d’imperio, per paura di persecuzioni e vendette – a conti fatti, come vedremo, sarebbe stato meglio se rimaneva dov’era. È un esule in- somma, più o meno volontario, lì espatriato dopo che – come dice lui stesso - «il sacrificio della patria nostra è consumato». Quale sacri- ficio? Quale patria? Visto che siamo alla fine del 1797 la risposta è facile: dopo il trat- tato di Campoformio, firmato ufficialmente il 17 ottobre, il territorio

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della Repubblica Veneta è stato ceduto da Napoleone all’Austria, in cambio della Lombardia – ma la decisione era stata presa dal Bona- parte già dal 18 aprile, nei preliminari della pace di Leoben. Siamo quindi in presenza non solo di un esule, ma di un patriota, uno che aveva creduto a Napoleone e che ora, deluso e disilluso, è fuggito sui Colli in odio ai nuovi despoti, gli Austriaci. Visto che siamo – di- rebbe ora il Prologo – nel 150° dell’Unità, la cosa potrebbe anche avere un senso storico e rievocativo. Ma ora, qui, non è di questo che ci occupiamo, anche perché lo strazio politico, come vedremo, sarà ben presto un po’ obliterato da altri dolori: questa volta, è intuibile, sentimentali.

(Qui, visto che abbiamo parlato di dolori, si dovrebbe aprire una parentesi e fare una citazione: I dolori del giovane Werther, in origi- nale Die Leiden des Jungen Werthers, di Johann Wolfgang Goethe, volume pubblicato in Germania a Lipsia nel 1774 e più volte in se- guito. Raccontava, a dirla tutta, una storia simile, nomi e luoghi a parte (lì per esempio invece che sui Colli Euganei siamo nel campestre villaggio di Wahlheim), e anche se l’elemento politico vi era assente oggi ci si troverebbe probabilmente di fronte a una specie di plagio: ma alla fine del Settecento la Siae non esisteva ancora, e quindi lasciamo perdere. La faccenda, del resto, è nota).

Qualcuno potrebbe chiedere cosa fa, il giovane, tutto il giorno sui Colli Euganei. E come si chiama, innanzitutto. La seconda domanda è facile: Jacopo Ortis, nome ormai nella lista di proscrizione degli Austriaci. La prima invece si perde un po’ nel vago: il proscritto legge, passeggia, e soprattutto sospira. Ma innanzitutto scrive: let- tere, a un amico non identificato se non dal nome, Lorenzo Alderani. Molto paziente costui, si intuisce, al punto da mettere da parte amo- rosamente le lettere del povero esule e pubblicarle, di lì a poco – ma non anticipiamo i tempi. Ha cominciato a scrivere, l’Ortis, poco meno di un mese prima, un mercoledì, esattamente l’11 ottobre, con una letterina piena di recriminazioni politiche e molto romantica (lui

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non l’avrebbe definita così, ma noi a posteriori sì: basti dire che in neanche 20 righe il pronome io e l’aggettivo mio ricorrevano ben 17 volte, con un egocentrismo a dir poco sospetto – una mezza osses- sione, veramente). Del resto l’esule nei riferimenti storico-letterari ci dà dentro ec- come: lui non lo sa, ma parecchi decenni dopo gli estensori di ma- nuali scolastici con frasi come questa, tratta dalla lettera successiva di venerdì 13 ottobre, ci sarebbero andati a nozze:

Davvero – scrive – ch’io somiglio un di que’ malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi, e che poi rinvenuti, si sono tro- vati nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi [di] vivere, ma di- sperati del dolce lume della vita, e costretti a morire fra le bestemmie e la fame.1

Mamma mia. Alcuni avveduti lettori molto tempo dopo avreb- bero parlato di toni lugubri e preromantici. A noi interessa qui in- tuire, e anzi vedere abbastanza chiaramente, che tutto l’epistolario che sta iniziando, e la storia che narra, si pongono sotto un colore a dir poco livido. In altre parole, per chi entra in questo testo c’è solo da lasciare ogni speranza.

Ma la solitudine per il povero Ortis non dura molto. Però fino a quando c’è, la solitudine, le letture da Plutarco – popolarissimo fra i rivoluzionari di Francia e d’Italia, va osservato, per le sue Vite pa- rallele, che sprizzavano libertà e repubblica da tutte le pagine – sono l’alternativa a solitarie passeggiate campestri: «Non vedo persona del mondo: vo sempre vagando per la campagna» (16 ottobre: p. 48), scrive come un novello Petrarca euganeo (il riferimento è ovviamente al sonetto Solo e pensoso,35deiRVF). Il ricordo petrarchesco,

1 Le citazioni da U.Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G.Bezzola, Milano, Rizzoli, 1980, p. 48 (le citazioni si intendono d’ora in poi tutte da que- sta edizione, con il solo rinvio alla pagina nel testo).

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troppo facile si direbbe, si tira dietro subito dopo anche un accenno a una misteriosa Lauretta, di cui sappiamo poco o nulla ma che ap- pare e scompare ogni tanto, fanciulla «bella e giovine» (ivi) e tra- volta da un regolamentare destino infelicissimo. Come si vede, il panorama lirico si sta un po’ schiarendo.

(Un lettore attento delle carte foscoliane potrebbe suggerire che si tratta, forse, di un residuo di precedenti abbozzi, che ogni tanto riemerge come un fiume carsico, vista a un dipresso la location.Ma lasciamo correre).

Quando invece il cielo è ancora plumbeo, nella disperazione, il giovane se ne sta seduto «sotto il platano della chiesa» (è diventato nel frattempo amico del parroco), leggendo pubblicamente ad «oscuri mortali» (parole sue: p. 49) e anche a un indistinto auditorio di «tutti i contadini» (p. 50) addirittura «le vite di Licurgo e Timoleone», ci si può immaginare con quanta partecipazione di quei poveretti – che, infatti «quantunque non comprendessero affatto, stavano ascoltan- domi a bocca aperta» (ivi). In altre parole: siamo in presenza di un esaltato. Si direbbe, anzi, e aggiornando un po’ i termini della questione, di un intellettuale un po’ chic (non si dice proprio radical chic), che apprezza le masse purché se ne stiano zitte, mentre è lui a sproloquiare, qualsiasi cosa sproloqui. E a cui piacciono i villici finché se ne stanno a bocca aperta: altrimenti son guai. Vecchia storia. Di lì a poco, tanto per dire (il 24 ottobre, per la precisione), il lettore di Plutarco acchiappa per il collo un «ribaldo contadinello» (ivi) che nel suo orto rubacchiava e se ne stava sopra i rami di un pesco, e ci manca poco che lo faccia secco appena ce l’ha, sono ancora parole sue, «fra le ugne» mentre quello urla «Misericordia!» (p. 51). Vecchia storia, ripeto. Una volta registrata con un certo stupore la novità (indubbiamente mirabile) che sui Colli Euganei i rami del pesco sono «ancora verdi» (p. 50) alla fine di ottobre, sarà il caso di passare oltre. Ma la cosa può lasciare qualche traccia. Siamo, se mai

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qualcuno avesse avuto dei dubbi, non in una campagna reale, ma in una specie di giardino letterario: dove, da che mondo è mondo, gli al- beri da frutto non hanno stagione né raccolto. Sono perenni, più o meno, sempreverdi2.Etantoperadessobasti.

Come abbiamo già detto, l’esaltato Ortis non rimane da solo a lungo. Sarà allora il caso di introdurre un altro personaggio: anzi, come si direbbe nella cerimonia degli Oscar, il personaggio non pro- tagonista ma essenziale. In una parola: la fanciulla. Non è passato nemmeno un mese dall’insediamento su quei Colli Euganei un po’ troppo letterari e lirici, che la lettera del 26 ottobre, un giovedì per chi ama la precisione (immediatamente dopo la puni- zione al fanciullo ladruncolo), esordisce ex abrupto così:

La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla, e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di suo padre. Egli non si sperava, mi diss’ella, che voi sare- ste venuto; sarà per la campagna; né starà molto a tornare. Una ra- gazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio (p. 51)3.

Bisogna riconoscere che l’autore qui ci ha saputo fare. Non solo per lo choc narrativo (dal ribaldo contadinello alla divina fanciulla in dieci righe il salto è notevole), ma anche perché in un colpo solo ecco sulla scena ben tre personaggi nuovi: la fanciulla,laragazzina

2 Sull’argomento rinvio al mio Specchio delle mie brame (in margine a un re- cente studio sui giardini), in «Filologia e Critica», XXXIV, 1 (2009), pp. 123- 31 e bibl. relativa (lo studio a cui si fa riferimento è quello di F.Oneroso, Nei giardini della letteratura, Firenze, Clinamen, 2009). 3 Per pura curiosità si noterà che il sintagma divina fanciulla è totalmente fo- scoliano: non se ne hanno esempi nella letteratura, né lirica né in prosa, a lui an- teriore.

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(che poi sarebbe la sorellina), e il padre, cioè il signor T***, come scrive alla moda sette-ottocentesca l’autore. Non basta: se la sorel- lina ancora è innominata, la divina fanciulla un nome ce l’ha: Te- resa, come è svelato subito dopo – l’amico Lorenzo in questo caso, si arguisce, aveva fatto precedentemente un po’ di gossip epistolare.

(Qui il solito professore noterebbe un aspetto tra il filologico e il mondano: nel passaggio fra la prima stesura, incompiuta e pubblicata con le integrazioni indebite di tale Sassoli nel 1798 – cosa che farà infuriare l’autore – e la prima edizione autorizzata e completata dal Foscolo, 1802, alcune cosette cambiano. Ne notiamo intanto una, per lo più risaputa: la divina fanciulla nel 1798 non era poi tanto ‘fan- ciulla’: era anzi vedova, con figlia a carico. Il solito lettore bene in- formato potrebbe a questo punto insinuare che, nel cambio di status, influì di certo la conoscenza e l’innamoramento per la giovane Isa- bella Roncioni, mentre, quattro anni prima, il disinvolto Foscolo sotto quel personaggio allora un po’ più maturo aveva nascosto le mentite spogliediTeresaPikler,mogliediVincenzoMonti–eilfattoche l’avesse ridotta, nel 1798, allo stato vedovile non era certo di buon augurio per il povero Monti, che per altro, più anziano del Foscolo di ben 24 anni, si sarebbe vendicato campando un anno più di lui).

Il povero Ortis non fa a tempo a conoscere padre e sorellina, men- tre Teresa si eclissa, che due giorni dopo, 28 ottobre, è già stretto nelle spire della passione: «un demone mi arde, mi agita, mi divora» (p. 51). Il riferimento è a dire il vero alla passione politica, esulcerata dal ‘tradimento’ napoleonico, ma non v’è chi non veda che l’appari- zione della fanciulla ha scatenato il cuore e la mente del poveretto. «Io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta», aveva avvertito l’amico il 26 ottobre (ivi), e due righe prima aveva esaltato «lo spettacolo della bellezza», insomma l’apparizione di Te- resa, associandolo alle sofferenze e ai «dolori» (parole sue: ivi) per il sacrificio della patria. Su queste due sofferenze, quella politica e quella amorosa, si snoderà la trama, tragica, dell’operetta: anche se

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la seconda in ordine di tempo, quella sentimentale appunto, prenderà presto il sopravvento.

È arrivato adesso il momento di presentare, ahimè, il terzo an- golo del triangolo. Angolo ottuso, si direbbe, se mai ve ne fu uno in letteratura: non in senso matematico, ma proprio umano e personale. Questo angolo ottuso si era già intravisto più o meno una setti- mana prima, accanto al «signore T***»: ma indegno, per ora, anche del nome. Eccolo qua:

“V’era con lui [con il «signore T***»] un tale; credo, lo sposo pro- messo di sua figlia. Sarà forse un bravo e buono giovine; ma la sua faccia non dice nulla. Buonanotte” (lettera del 23 ottobre, p. 50: corsivo nostro).

Lapidario. Ma non passano dieci giorni che il titolare di quella fac- cia che «non dice nulla» appare e definitivamente si insedia sulla scena, anche con il suo nome: Odoardo. Siamo al 1° novembre, ed eccolo lì:

Mi lascio illudere, e l’apparente felicità di quella famiglia [il padre, Te- resaelasorellina]misembrareale,emisembraanchemia.Senondi- meno non vi fosse quello sposo, perché davvero – io non odio persona al mondo, ma vi sono cert’uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. – Suo suocero me n’andava tessendo jer sera un lungo elo- gio in forma di commendatizia: buono – esatto – paziente! e niente altro? possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrà il cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai né dal sorriso dell’allegria, né dal dolce silenzio della pietà, sarà per me un di que’ rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine. (p. 52)

Un angolo ottuso. E non basta. Sempre nella stessa lettera (alla fine della quale il povero Jacopo narra di come gli piaccia, a lui e non al promesso sposo naturalmente, giocare con la sorellina e inse- gnarle a leggere e a scrivere (modesta consolazione, si direbbe) ecco

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la stoccata finale, il vero segno del disprezzo ormai incoercibile:

Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo alla mano. (p. 53)

E così è svelato anche il nome di questo insopportabile, preciso, scontato antipatico. Che, verremo poi a sapere, è anche – colmo della disgrazia e dell’abominio – ricco e austriacante, e promesso sposo in definitiva solo per quello: il padre di Teresa, insomma il triste e de- luso dalla vita «signore T***», magari pensando di fare la fortuna della figlia l’ha ‘venduta’ a questo tanghero in virtù della di lui ric- chezza. Così va il mondo – o meglio, così andava nel secolo deci- mottavo, o almeno al suo spirare. Così, mentre Jacopo, altro non potendo fare, col cuore in tumulto si balocca con la sorellina per ora innominata, Odoardo periodica- mente se la spassa con Teresa – ma anche lei, vedremo, col cuori- cino già tumultuante, e non poco:

Frattanto ho preso a educare la sorellina di Teresa: le insegno a leggere e a scrivere. Quand’io sto con lei, la mia fisonomia si va rasserenando, il mio cuore è più gajo che mai, ed io fo mille ragazzate. Non so perché, tutti i fanciulli mi vogliono bene. E quella ragazzetta è pur cara! bionda e ricciuta, occhi azzurri, guance pari alle rose, fresca, candida, paffu- tella, pare una Grazia di quattr’anni. Se tu la vedessi corrermi incontro, aggrapparmisi alle ginocchia, fuggirmi perch’io la siegua, negarmi un bacio e poi improvvisamente attaccarmi que’ suoi labbruzzi alla bocca! (lettera del 1° novembre, p. 53)

Qui la faccenda, inutile sottolinearlo, comincia a farsi delicata, ed è meglio soprassedere. Non potendo per ora avere la biondona Teresa (sequestrata dall’ottuso, ma potente Odoardo), ci si accon- tenta della biondina: una specie di Laura petrarchesca in sedicesimo, di quattro anni, che però schiocca baci sulle labbra mica tanto pe- trarcheschi. Passiamo oltre, sempre nella stessa lettera:

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Oggi io mi stava sulla cima di un albero a cogliere le frutta: quella creaturina tendeva le braccia, e balbettando pregavami che per carità non cascassi. Che bell’autunno! addio Plutarco! sta sempre chiuso sotto il mio braccio. Sono tre giorni ch’io perdo la mattina a colmare un canestro d’uva e di pesche, ch’io copro di foglie, avviandomi poi lungo il fiumicello, e giunto alla villa, desto tutta la famiglia can- tando la canzonetta della vendemmia. (p. 53)

C’è poco da fare: sui colli Euganei le pesche maturano il 1° novem- bre. Miracolo? No, Arcadia, l’abbiamo già detto. Nel 1797 quel Nord- Est è un luogo incantato, fuori dal tempo, abitato anche dalle Grazie, in cui passeggiare lungo l’inevitabile fiumicello, raccogliere frutti perenni, e cantare anche canzonette. Tutto ciò, si ammetterà, stende su questo tragico romanzo epistolare, di solito preso a simbolo del Romanticismo di ascendenza goethiana – o almeno di ciò che si indica manualistica- mente con il prefisso “pre-“, – un ampio, letterario velo di irrealtà.

Ora è necessario un breve excursus para-filologico. La sorellina, che presto scopriremo avere anche un nome, Isabellina, è bionda, come da manuale per poeti petrarchisti in fieri. Veramente ha anche gli occhi azzurri, il che la farebbe piuttosto californiana (sul colore degli occhi di Laura ci soffermeremo subito, fra due capoversi), ma è un peccato veniale. E Teresa? Qui la cosa è meno semplice. Perché nell’edizione del 1798, come si è detto poco fa e come tutti sanno incompiuta, il 31 novembre l’esaltato Ortis passando sotto la casa di Teresa aveva ascoltato un canto, o meglio alcune strofette di Saffo intonate da una voce dolcissima:

Sparir le plejadi, sparì la luna, è a mezzo il corso la notte bruna; io sola intanto mi giaccio in pianto.

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Insomma, un anticipo, si direbbe, del più frusto Sanremo. Ma il giovane – non è a caso che l’abbiamo definito un esaltato – fa addi- rittura un balzo:

Balzando di un salto, ho trovato Teresa nel gabinetto di Odoardo poco discosta da un acceso focolare, assisa su la sedia stessa ov’egli soleva starsene nell’ore che dipingeva. Era ella neglettamente ve- stita di bianco; il tesero delle sue nere chiome disciolte velava parte della sua spalla destra e del seno, e scendeva a far parere più candido l’ignudo braccio che mollemente accompagnava le rosate sue dita mentre arpeggiavano fra le corde…

Eccetera eccetera. All’epoca. dunque, Teresa è nerocrinita. Ma quattro anni (e un Sassoli) dopo, quando Foscolo rifarà la scena, ecco cosa si presenta agli occhi assatanati dello stesso, sempre esaltato Ja- copo:

Balzando d’un salto, ho trovato Teresa nel suo gabinetto su quella sedia stessa ov’io la vidi il primo giorno, quand’ella dipingeva il pro- prio ritratto. Era neglettamente vestita di bianco; il tesoro delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente… tutto era armonia4.

Insomma: Teresa è bionda, ormai, anzi, biondissima. Certo, come abbiamo detto qualche pagina più addietro, si tratta, anche qui, delle conseguenze di elementi biografici ‘forti’: da Teresa Pikler si transita a Isabella Roncioni. Ma forse c’è di più: il ritratto della Teresa 1798 è ancora modellato su cadenze neoclassiche, a tratti di ascendenza miniaturistica-rococò, secondo il gusto eclettico del primo Ortis;

4 Per questo rimando al mio I poeti preferiscono le bionde. Chiome d’oro e let- teratura, Firenze, Le Càriti, 2007, pp. 46 s.

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quello definitivo è, visibilmente, di diretta ascendenza petrarchistica. Detto ciò in breve, passiamo oltre. E veniamo agli occhi. Quelli di Laura sono senza colore, nel senso che Petrarca, ossessionato dal biondo delle chiome, non ci rag- guaglia in merito. Di solito li definisce genericamente belli,ocome due stelle: non così le ciglia, che sono di hebeno [RVF, 157, 9], quindi nerissime. In un luogo solo gli occhi sono chiari [RVF, 162, 10], dove l’attributo significa però ‘sereni, limpidi’, e non indica un colore. Va pur detto però che nella tradizione a un dipresso petrar- chesca il contrasto fra chiome bionde e occhi neri verrà considerato il punto più alto della bellezza: così ad esempio nel fondamentale volume, sconosciuto in Italia, Les femmes blondes di due anonimi, in realtà Armand Bascher e Feuillet de Conches, pubblicato a Parigi nel 1865. Va pur detto che il Botticelli, nella Nascita di Venere agli Uf- fizi – una sorta di rappresentazione figurativa dello stereotipo anche simbolico di Laura – dipinge gli occhi di Venere-Laura non certo az- zurri, bensì con pupille piuttosto scure. Teresa, nell’Ortis,hasenza mezzi termini «grandi occhi neri»: lettera del 12 novembre, p. 56. E tanto basti).

Adesso che abbiamo esaurito le presentazioni, eccoci al punto che ci interessa. Lettera del 20 novembre: Jacopo riferisce, dopo un intervallo epistolare di quasi venti giorni, ciò che è accaduto una set- timana prima. È, il 20 novembre, un giorno «d’inferno»: «piove, grandina, fulmina» (p. 55). Ma non era così «sei o sette giorni ad- dietro», quando la natura era «più bella che mai» (ivi). Cos’è accaduto, quindi, intorno alla metà di novembre? È accaduto che il quintetto che ormai abbiamo conosciuto, com- preso quindi il padre di Teresa, è andato «in pellegrinaggio»:

Sei o sette giorni addietro s’è iti in pellegrinaggio. Io ho veduto la Natura più bella che mai. Teresa, suo padre, Odoardo, la piccola Isa- bellina, ed io siamo andati a visitare la casa del Petrarca in Arquà. Arquà è discosto, come tu sai, quattro miglia dalla mia casa; ma per

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più accorciare il cammino prendemmo la via dell’erta. S’apriva ap- pena il più bel giorno d’autunno. Parea che Notte seguìta dalle tene- bre e dalle stelle fuggisse dal Sole, che uscia nel suo immenso splendore dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e l’universo sorridea. Le nuvole dorate e dipinte a mille colori salivano su la volta del cielo che tutto sereno mostrava quasi di schiudersi per diffondere sovra i mortali le cure della Divinità. Io salutava a ogni passo la famiglia de’ fiori e dell’erbe che a poco a poco alzavano il capo chinato dalla brina. Gli alberi susurrando soavemente, faceano tremolare contro la luce le gocce trasparenti della rugiada; mentre i venti dell’aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avre- sti udito una solenne armonia spandersi confusamente fra le selve, gli augelli, gli armenti, i fiumi, e le fatiche degli uomini: e intanto spirava l’aria profumata delle esalazioni che la terra esultante di pia- cere mandava dalle valli e da’ monti al Sole, ministro maggiore della Natura. - Io compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo e guardare tanti beneficj senza sentirsi gli occhi bagnati dalle lagrime della riconoscenza. Allora ho veduto Teresa nel più bell’apparato delle sue grazie. Il suo aspetto per lo più sparso di una dolce malin- conia, si andava animando di una gioja schietta, viva, che le usciva dal cuore; la sua voce era soffocata; i suoi grandi occhi neri aperti prima nell’estasi, si inumidivano poscia a poco a poco: tutte le sue potenze parevano invase dalla sacra beltà della campagna. In tanta piena di af- fetti le anime si schiudono per versarli nell’altrui petto: ed ella si vol- geva a Odoardo. Eterno Iddio! parea ch’egli andasse tentone fra le tenebre della notte, o ne’ deserti abbandonati dalla benedizione della Natura. Lo lasciò tutto a un tratto, e s’appoggiò al mio braccio, di- cendomi - ma, Lorenzo! per quanto mi studi di continuare, conviene pur ch’io mi taccia. Se potessi dipingerti la sua pronunzia, i suoi gesti, la melodia della sua voce, la sua celeste fisonomia, o ricopiar non foss’altro le sue parole senza cangiarne o traslocarne sillaba, certo che tu mi sapresti grado; diversamente, rincresco persino a me stesso. Che giova copiare imperfettamente un inimitabile quadro, la cui fama soltanto lascia più senso che la sua misera copia? E non ti pare ch’io so-

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migli i poeti traduttori d’Omero? Giacché tu vedi ch’io non mi affatico, che per annacquare il sentimento che m’infiamma e stemprarlo in un languido fraseggiamento. Lorenzo, ne sono stanco; il rimanente del mio racconto, domani: il vento imperversa; tuttavolta vo’tentare il cam- mino; saluterò Teresa in tuo nome. Per dio! e’ m’è forza di proseguire la lettera: su l’uscio della casa ci è un pantano d’acqua che mi contra- sta il passo: potrei varcarlo d’un salto; e poi? la pioggia non cessa: mez- zogiorno è passato, e mancano poche ore alla notte che minaccia la fine del mondo. Per oggi, giorno perduto, o Teresa. (pp. 55-57)

Tutta la descrizione della visita, anzi del «pellegrinaggio» (Arquà, ci informa il solito, esaltato giovanotto, è a quattro miglia, e quindi ci si può anche andare a piedi, prendendo magari una scorciatoia) è nel segno del Petrarca e dei suoi derivati. Spunta, e non ci stupisce, il ricordo diretto del Tasso, qui inserito nel bel mezzo del suo mito ro- mantico: poeta per definizione «malinconico» (p. 60), così come è malinconica la povera Teresa promessa sposa a un buzzurro ma ricco e austriacante (anzi, il suo aspetto «è sparso di una dolce malinco- nia»: p. 56). E così la biondissima Teresa rivela, in un soffio allo stra- lunato Jacopo, la sua tristezza:

Non sono felice! mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore. Io camminavo al suo fianco in un profondo silenzio. Odoardo raggiunse il padre di Teresa; e ci precedevano chiacchierando. La Isabellina ci tenea dietro in braccio all’ortolano (p. 57), ortolano che, adesso si apprende, faceva parte del manipolo presu- mibilmente senza capire nulla del dramma lirico che gli si svolgeva sotto gli occhi. Tutto il resoconto, che occupa parecchie pagine delle lettere, spesso interrotte e poi riprese per mancanza d’animo a continuarle, è straordinario: è, di fatto, una ‘messa in scena’ del dibattito petrar- chesco, che si vorrebbe tutto solitario e anzi solipsistico («Solo e pensoso i più deserti campi…»), ma questa volta allestito in presenza

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di non trascurabili rompiballe: il promesso sposo, tanghero sì ma ge- loso (di lì a poco interrogherà Teresa per sapere di che stavano par- lottando, i due piccioncini: e d’altra parte a un certo punto Teresa lo pianta in asso per appoggiarsi al braccio di uno Jacopo ormai defi- nitivamente fuori di sé: p. 56), il padre, cioè il signore T***, «ottimo galantuomo» (p. 58) però finanziariamente rovinato, dotato di «un’anima ardente» ma che aveva sempre vissuto «consumato da passioni infelici» (ivi): in altre parole, un mezzo mentecatto che non ha trovato di meglio che vendere la figlia al miglior offerente; la so- rellina Isabellina, che nei momenti meno opportuni si intrufola come una trottola; e addirittura un ortolano. Troppa gente.

Non soli, ma certamente pensosi, i due innamorati inespressi non trovano di meglio, allora, che petrarcheggiare. Il povero Jacopo, che dei due è di certo quello che ha studiato di più, trova anche il modo di infilare là per là una citazione dall’Alfieri, quando si approssi- mano alla casa del Petrarca («Quel Grande alla cui fama è angusto il mondo, / per cui Laura ebbe in terra onor celesti»: dal sonetto Oca- meretta, che già in te chiudesti, 1783); ma Petrarca domina. Anche Teresa da parte sua petrarcheggia mica male, e probabil- mente in modo inconsapevole (è a dir poco ovvio, ma è anche inu- tile dirlo, che qui il Foscolo le offre zitto zitto e brevi manu più d’un volume di concordanze). Dopo aver rivelato la sua infelicità, ecco che addirittura – per così dire – si ‘metamorfizza’ in Laura:

Eravamo già presso ad Arquà, e scendendo per l’erboso pendio, andavano sfumando e perdendosi all’occhio i paeselli che dianzi si vedeano dispersi per le valli soggette. Ci siamo finalmente tro- vati a un viale cinto da un lato di pioppi che tremolando lasciavano cadere sul nostro capo le foglie più giallicce, e adombrato dal- l’altra parte d’altissime querce, che con la loro opacità silenziosa faceano contrappunto a quell’ameno verde de’ pioppi. Tratto tratto le due file d’alberi opposti erano congiunte da varj rami di vite

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selvatica, i quali incurvandosi formavano altrettanti festoni mol- lemente agitati dal vento del mattino. Teresa allora soffermandosi e guardandosi d’intorno: Oh quante volte, proruppe, mi sono ada- giata su queste erbe e sotto l’ombra freschissima di queste querce! (lettera del 12 novembre, p. 57)

Siamo, con ogni evidenza, alle «Chiare, fresche e dolci acque», o almeno alla loro atmosfera, e a Laura che «le belle membra / pose» in quella frescura e su quell’erba. In questa Valchiusa trasportata dalla Provenza alla provincia di Padova è allora possibile anche una confessione, sempre auspice, si direbbe, il gran poeta che lì è sepolto in una casa che, romanticamente (il gusto delle rovine…) «sta crol- lando» (p. 59):

Da ch’ei [mio padre] – continua irrefrenabile la novella Laura, non- curante della presenza lì attorno del sospettoso Odoardo, proba- bilmente con l’orologio in mano – s’è pur ostinato a volermi dare un marito ch’io non posso amare, la concordia è sparita dalla no- stra famiglia. La povera madre mia dopo d’aver contradetto invano a questo matrimonio, s’è allontanata per non aver parte alla mia necessaria infelicità. Io intanto sono abbandonata da tutti! […] E a questa parola, le lagrime le pioveano dagli occhi. Perdonate, sog- giunse, io aveva bisogno di sfogare questo mio cuore angosciato. (ivi, pp. 57-58)

Il quadro è completo. In una specie di angolo petrarchesco DOC, la divina fanciulla si è aperta al focoso ed innamoratissimo Jacopo. Sola, abbandonata, sballottata fra un padre cretino, una madre fuggitiva, e un promesso sposo idiota e per giunta ricco e nobile e reazionario, c’è da stupirsi se la ‘novella Laura’ ha incon- trato per soprammercato un giovanotto spiantato, esule ed esaltato? Le disgrazie, come forse si diceva anche allora, non vengono mai sole.

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Torniamo all’Ortis, inteso come romanzo epistolare. Il viaggio alla casa e tomba del Petrarca, qui, unisce almeno due istanze im- portanti. Da una parte il gusto delle tombe e della poesia sepol- crale, fortissimo nel Settecento e che, come sappiamo, troverà poi nei Sepolcri, di lì a poco, il suo esito e anche il suo capitolo finale; dall’altra, il rinnovato interesse petrarchesco, che di quel gusto un po’ horror (ma non ancora macabro come negli Scapigliati: per quello bisognerà attendere ancora più di mezzo secolo) è qui il pen- dant lirico – e Foscolo di Petrarca è molto di più che un seguace, sì piuttosto un discepolo nella poesia e nei saggi critici che sareb- bero venuti, in seguito. Probabilmente sono sempre stati trascurati passi come questo, sempre nella stessa, lunga lettera:

Io mi vi sono appressato [ai luoghi del Petrarca] come se andassi a prostrarmi su le sepolture de’ miei padri, e come uno di que’ sacer- doti che taciti e riverenti s’aggiravano per i boschi abitati dagl’Iddii. (p. 59)

Un po’, insomma come in un anticipato pellegrinaggio alle urne dei grandi in Santa Croce. In questi pensieri, ecco che spunta l’om- bra del Tasso, poeta ‘malinconico’ per eccellenza (p. 60) e infine la recita, a mo’ di rosario, dei versi eterni del poeta di Laura.

Siamo arrivati al clou, se non del dramma certo dell’innamora- mento sub specie Petrarcae. A metà fra poesia sepolcrale e lirico- intimista, mentre intorno la natura e la campagna reverenti ascoltano e le fronde stormiscono dolcemente e il sole finalmente squarcia le nubi,

frattanto io recitava sommessamente con l’anima tutta amore e ar- monia la canzone: Chiare, fresche, dolci acque; e l’altra: Di pensier in pensier, di monte in monte; e il sonetto Stiamo, Amore, a veder la gloria nostra; e quanti altri di que’ sovrumani versi la mia memoria agitata seppe allora suggerire al mio cuore, (p. 60)

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come dire testi che si ispirano a quell’armonia fra natura (erbe, fior…) e donna che, di lì a poco e anche in Petrarca, sarebbe stata spezzata da una morte improvvisa: piovuta dal cielo impietoso per Laura, cercata con un pugnale suicida per il povero Jacopo. E il resto del quintetto, trascurando l’ormai dimenticato orto- lano? Mentre Isabellina, inconsapevole, corre tra quel ben di Dio vegetale, il gretto Odoardo, che definire a questo punto prosaico è dir poco, «andava a rivedere i conti del fattore» (p. 60), vero con- trappunto volgare a tanta ispirazione. E quel cretino del signore T***, il padre? Se ne partirà per Padova: «tenete buona compagnia alle mie figliuole, mi diceva egli questa mattina [incauto, a dir poco: N.d.A.]. A vedere, egli mi reputa Socrate – me? e con quell’angelica creatura nata per amare, e per essere amata? e così misera a un tempo! E io sono, sempre, in perfetta armonia con gl’infelici» (let- tera del 22 novembre: p. 61) – soprattutto, si direbbe, se titolari di biondissime chiome e di occhi neri e profondissimi, ancorché tristi come pochi.

Si sa come sarebbe andata a finire, dopo il casto bacio di Teresa a Jacopo – Laura non si sarebbe mai spinta a tanto. Come peggio non sarebbe potuta andare, naturalmente. Non è questo che ci interessa qui, la fine della storia, a tutti nota e simile, a parte il modo del sui- cidio (pistole per quello, pugnale per questo), a quella del povero Werther. A noi interessa, qui e in limine, trarre alcune considerazioni. La prima: mai andare in pellegrinaggi sentimentali in troppi, e ad- dirittura con l’ortolano. Bene che vi vada, mentre la vostra (cioè, veramente altrui) divina fanciulla piange, il di lei promesso sposo pensa ai conti col fattore, e poi fa anche il geloso. La seconda: per quanto sia bello leggere, sospirando, canzoni e sonetti del Petrarca, proprio di fronte alla casetta e alla tomba di quel Grande, ciò non esorcizza l’infelicità, anzi ne è il suggello («io sono sempre in per- fetta armonia con gl’infelici…»). La terza: Foscolo, come sempre in tutta la sua opera, è un tiranno. Qui conclude e chiude degna-

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mente, e intangibile dal ridicolo che sempre si annida fra le mor- bide curve dei Colli, almeno cinquant’anni di romanzo epistolare, e si appresta a fare lo stesso con un secolo di poesia sepolcrale, annacquandola con letture di Petrarca ad hoc: cioè con un autore che, ormai, solum è suo. La quarta: astutamente, Foscolo utilizza il suo personaggio infelice per stabilire, sotto sotto, un canone. Mai cita naturalmente Goethe; ma sì, oltre Plutarco, Dante, Tasso, Alfieri, in seguito Parini e naturalmente il Grande dei Grandi, il poeta di Laura. È un filtro, attraverso cui passa pochissimo e solo quello che nobilita il nuovo auctor: che, alla fine, si staglia soli- tario come ultimo dei Grandi del passato e primo dei nuovi del fu- turo. E infine, la quinta e ultima, e la più originale. Immettendo in quei Colli così morbidi e silenziosi la presenza del sepolcro (di Pe- trarca, ma anche del suo personaggio Jacopo), Foscolo suggeriva che in quell’Arcadia euganea la morte in fondo era di casa, si era installata fin dall’inizio in pensieri cupi e orrorifici («io somiglio un di que’ malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi…»). Se tutta l’avventura del povero Jacopo, in gran parte di risulta e di- ciamolo francamente di seconda mano, è allora una forma di meta- narrazione, di meta-romanzo epistolare, c’era solo una frase che avrebbe potuto esservi posta ad esergo, e che Foscolo non scrive ma lascia scrivere a noi, sulla scorta del Guercino e di Poussin: Et in Arcadia ego. Se ne sarebbe accorto, come al solito, Leopardi – di vent’anni più giovane del Foscolo – che ovviamente aveva letto l’Ortis (lo cita nello Zibaldone in una nota del 1820, ma solo per un pensiero poli- tico sull’Italia). Ecco allora la ‘leopardiana’ lettera dell’Ortis del 17 aprile:

Quando mi passa dinanzi la venerabile povertà che mentre s’affa- tica mostra le sue vene succhiate dalla onnipotente opulenza; e quando io vedo tanti uomini infermi, imprigionati, affamati, e tutti supplichevoli sotto il terribile flagello di certe leggi – ah no, io non

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mi posso riconciliare. Io grido allora vendetta con quella turba di ta- pini co’ quali divido il pane e le lagrime: e ardisco ridomandare in lor nome la porzione che hanno ereditato dalla Natura, madre bene- fica ed imparziale – la Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna? (pp. 89-90).

101 Lettura e natura Anselm Feurbach, Paolo e Francesca. Olio su tela, 1864. Schack-Galerie, Monaco. RITA SEVERI Francesca fin de siècle: Oscar Wilde e Richard le Gallienne. Dal libro al bacio

Nella seconda parte del saggio, The Critic as Artist (1891), in- titolata: “With some remarks upon the importance of discussing everything” (Con alcune osservazioni sopra l’importanza di di- scutere tutto)1, Wilde mette in scena due giovani esteti, Ernest e Gilbert, che hanno letto gli stessi libri e vogliono capire se, oltre al- l’autore, c’è veramente bisogno della figura del critico. Ernest de- finisce il critico un interprete e Gilbert ritiene che se è così, egli deve allargare le sue esperienze, intensificare le sue conoscenze, applicarsi ad eseguire più forme artistiche, essere pronto a dimo- strare la relazione tra l’opera d’arte e la sua epoca, poiché diven- terà sempre più evidente che per le emozioni, per le impressioni, per lo stesso stile di vita, le persone di cultura cercheranno sempre più di attingere al patrimonio artistico. La vita è priva di forma. Le catastrofi avvengono nel momento sbagliato alle persone sbagliate. Nella vita ci si fa molto male e gli eventi durano o troppo poco o troppo a lungo – sono i soliti aforismi di Wilde. Ma come, inter- viene Ernest, neppure quel sentimento melanconico sulla caducità della vita, le “lacrimae rerum” invocate da Virgilio, ti toccano in profondità? No, perché tutto è transeunte – risponde l’amico -: la

1 O. Wilde, Complete Works, Introduced by M. Holland, Glasgow, Harper Collins, 2003, pp. 1108-1155. Rimando anche alla recente edizione filologica, The Complete Works of Oscar Wilde, Volume 4 Criticism: Historical Criticism, Intentions, The Soul of Man, edited by J. M. Guy, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 123-206. Per l’edizione italiana, si veda O. Wilde, Opere, a cura di M. d’Amico, Milano, Mondadori (Meridiani), 2000, pp. 1071-1156. La tra- duzione in questo saggio è dell’autrice.

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giovane donna che abbiamo adorato e baciato follemente è già cambiata, o non c’è più. Allora, domanda Ernest, la vita è tutta un fallimento? Nella vita non si può mai provare di nuovo la stessa intensa emozione, ma il mondo dell’Arte è completamente di- verso2. Allora Gilbert chiede all’amico di prendergli la Divina Comme- dia dallo scaffale e gli dice:

“I know that, if I open it at a certain place, I shall be filled with a fierce hatred of some one who has never wronged me, or stirred by a great love for some one whom I shall never see. There is no mood of passion that Art cannot give us, and those of us who have - covered her secret can settle beforehand what our experiences are going to be. (…) We can say to ourselves, “To-morrow, at dawn, we shall walk with grave Virgil through the valley of the shadow of death,” and lo! The dawn finds us in the obscure wood, and the Man- tuan stands at our side. We pass through the gate of the legend fatal to hope, and with pity or with joy behold the horror of another world.” (…) [“So che, se lo aprirò ad un certo punto, sarò preso da un feroce odio per qualcuno che non mi ha mai fatto del male, oppure infiammato da un grande amore per qualcuno che non ho mai visto. Non esiste nessuna sfumatura della passione che l’Arte non possa darci, e co- loro che hanno scoperto il suo segreto possono stabilire in anticipo quali saranno le loro esperienze (…) Possiamo dire a noi stessi, “Do- mani, all’alba, cammineremo col solenne Virgilio nella valle delle

2 Già Matthew Arnold, uno scrittore molto apprezzato da Wilde col quale, nel sag- gio The Critic as Artist, aveva condiviso, in una prima redazione, oltre al titolo, molte idee, aveva teorizzato che l’Arte poteva infondere soddisfazioni emotive e consola- torie ed esprimere il senso del mistero perciò avrebbe potuto sostituire la Religione. Si veda, The Study of Poetry in M. Arnold, Saggi di Critica Letteraria, scelta, introduzione e note a cura di M. D’Amico, Bari, Adriatica, 1970, pp. 271-306 e Introduzione, p. 69 e pp. 77 e ss.

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ombre della morte,” e infatti! L’alba ci troverà nella selva oscura, e il Mantovano sarà al nostro fianco. Varchiamo il cancello che intima di lasciare ogni speranza, e con pietà o gioia, vediamo l’orrore di un altro mondo. (…)] “Outoftheceaselesswindsthatdrivethem,thecarnallookatus (…) Through the dim purple air fly those who have stained the world with the beauty of their sin (…).”3 [Dagli incessanti venti che li trasportano, i peccatori carnali ci guar- dano (…) Per l’aria cupamente purpurea volano coloro che hanno macchiato il mondo con la bellezza del loro peccato (…)].

A questo punto gli esempi dalle tre cantiche si moltiplicano e lo scopo dei due dialoganti è chiaro: il compito del critico non sarà quello di provare ogni cosa; ma le sue letture lo porteranno “oltre le porte della percezione e dell’inferno”4, dove potrà osservare ogni fe- nomeno con calma, in compagnia di Dante e Virgilio, per poi tor- nare, rinfrancato, ad esercitare il suo giudizio. L’esperienza della lettura è eminentemente catartica5. Wilde, usando Gilbert come suo portavoce attua una mise en abyˆme del-

3 O. Wilde, Complete Works, cit., pp. 1132-33 e The Complete Works of Oscar Wilde, vol. 4 Criticism, cit., in particolare, pp. 167-68. 4 Si nota l’influsso di William Blake, grande interprete di Dante, che nel poemetto The Marriage of Heaven and Hell scrisse “If the doors of per- ception were cleansed, everything/would appear to man as it is, infinite.” (“Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa/apparirebbe all’uomo come essa veramente è, infinita.”), cfr. W. Blake, Visioni, trad. di G. Unga- retti, Introduzione di A. Tagliaferri, Milano, Mondadori (Oscar), 1973, p. 118-119. 5 Secondo l’interpretazione originale di Wilde, la catarsi poteva essere interpre- tata come un rito d’iniziazione, un processo di liberazione estetica o risveglio spirituale, cfr. Ph. E. Smith II and M. Helfand, Oscar Wilde’s Oxford Notebooks. A Portrait of Mind in the Making, Oxford, Oxford University Press, 1989, p.72 ess.

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l’esperienza del vizio. L’esempio dei lussuriosi, “the carnal”, come vuole la traduzione di H. F. Cary6 preferita da Wilde (ch’era poi anche quella amata da Keats) non “the lustful” o “the sensual”7, che nella traduzione inglese definisce la sensualità di Cleopatra, trascinati eternamente da un vento impetuoso, sem- bra scelto dall’autore con uno scopo preciso. Gilbert non distin- gue tra le figure, né segnala la presenza di Paolo e Francesca, ma continuando nella lettura dell’Inferno, accomuna coloro che hanno peccato per “la bellezza del loro peccato”, e Paolo e Fran- cesca non possono che essere tra questi. Wilde conosceva bene la triste storia di Francesca da Polenta la cui immagine forse poté notare quando, durante il suo viaggio a Ravenna nel 1877, andò di proposito a visitare la chiesa di Santa Maria in Porto Fuori della quale descrisse i magnifici colori al tramonto nel suo poe-

6 Cfr. The Complete Letters of Oscar Wilde, edited by M. Holland and R. Hart-Davis, New York, H. Holt, 2000, p. 735 n.2 (De Profundis). Henry Francis Cary (1772-1844) pubblicò la sua traduzione dell’Inferno nel 1805. Wilde, comunque, conosceva pure le altre traduzioni della Divina Comme- dia, forse più lette dai vittoriani, quelle dei due dantisti americani: il poeta Henry Wadsworth Longfellow, pubblicata nel 1867 e quella del letterato e studioso, Charles Eliot Norton, completata nel 1892. Cfr. J. Losey, The Aes- thetics of Exile: Wilde Transforming Dante in Intentions and De Profundis, in “English Literature in Transition”, 36:4, 1993, pp. 429-450. L’A. però s’inventa una curiosa interpretazione della lunga epistola, De Profundis, che Wilde aveva indirizzato a Lord Alfred Douglas mentre si trovava in pri- gione. Più interessante è l’ipotesi adombrata da Losey che Wilde imita e si identifica con Francesca perché anche lui in prigione sta vivendo all’inferno e sta pagando per un peccato d’amore. 7 Cfr. R. W. Church, Dante and Other Essays, London, New York, Macmillan, 1888 e F. Hettinger, Dante’s Divina Commedia, its Scope and Value, edited by H. S. Bowden London, Burns & Oates, New York, Catholic Publication Society, 1887. Entrambi i testi furono richiesti da Wilde mentre era in prigione nel 1896, cfr. Letters, cit., p. 673 nota e p.792.

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metto Ravenna (1878)8 col quale vinse il Newdigate Prize che, di fatto, lo lanciò come poeta. La prima parte del saggio The Critic as Artist fu pubblicata sulla rivista “The Nineteenth Century” nel luglio del 1890 col titolo The True Function and Value of Criticism, ma la seconda parte, alla quale Wilde aveva aggiunto il lungo passo su Dante, gli fu rispedita dal- l’editore, James Knowles, perché la tagliasse definitivamente. Wilde senelamentòconl’editoreall’iniziodiagosto9,mailsaggioapparve con questo taglio, senza quei particolari riferimenti a Dante, nel nu- mero di settembre della rivista. Wilde provvide poi a reinserire i ri- ferimenti a Dante nell’edizione del saggio nel volume Intentions,del 1891. Wilde fu un lettore precoce di Dante e della Divina Commedia per tradizione famigliare, perché la madre, Jane Francesca Elgee, nutriva un vero e proprio culto per il poeta italiano, essendosi persino inven- tata una finta genealogia dagli Alighieri10, per quella profonda curio- sità intellettuale che lo spingeva ad appropriarsi dei testi classici, e per il desiderio di diventare lui stesso poeta, imitando i grandi poeti del passato, anche attraverso gli esercizi scolastici della parafrasi, della traduzione, della parodia. Citazioni dalle opere dantesche sono presenti nei Notebooks enelCommonplace Book degli anni trascorsi ad Oxford, tra il 1874 e il 1878 e mostrano come Wilde meditava sulla

8 O. Wilde, Complete Poetry, ed. by I. Murray, Oxford, Oxford University Press, 1997, p. 39. Nella parte finale del poemetto Wilde ricorda che “Love only knows no winter; never dies:/Nor cares for frowning storms or leaden skies.” (“Solo l’amore non conosce l’inverno; non muore mai:/Né si cura di accigliate tempe- ste o plumbei cieli” (vv.317-189). Parole che lo stesso Dante avrebbe potuto proferire dopo aver ascoltato il racconto di Francesca. 9 The Complete Letters of Oscar Wilde, cit., p. 444. 10 Cfr. R. Ellmann, Oscar Wilde, London, Hamish Hamilton, 1987, p. 5. Pure la moglie di Oscar Wilde, Constance Lloyd, era un’attenta lettrice di Dante anche nell’originale italiano, cfr. F. Moyle, Constance. The Tragic and Scandalous Life of Mrs Oscar Wilde, London, John Murray, 2011, p. 214 e p. 217.

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funzione della poesia, sul metodo storico e sulla filosofia di Hegel11. Nel suo immaginario la stirpe dei Malatesta e la città di Rimini ave- vano assunto connotazioni perverse. In The Duchess of Padua (1883) – uno dei primi drammi wildiani — un personaggio descrive la città di Rimini come un luogo di briganti12, e il signore di Rimini, Giovanni Malatesta13, come un adultero malvagio (simile a Claudio in Hamlet), che ha catturato il padre del protagonista, Guido Ferranti, e l’ha con- segnato, in cambio di alcuni feudi, al duca di Padova che poi lo ha uc- ciso. Guido, come Amleto, deve vendicare il padre, ma s’innamora della Duchessa e l’impresa si fa molto ardua finché la donna, che ri- cambia il suo amore e sa d’essere sposata a un uomo malvagio, assas- sina il marito. Alla fine, visto che non c’è scampo per i due amanti fatali, essi commettono suicidio, come Romeo e Giulietta, pronun- ciando le loro ultime parole apodittiche con tono melodrammatico:

Guido: They do not sin at all Who sin for love. Duchess: No, I have sinned, and yet Perchance my sin will be forgiven me. I have loved much.14 [Guido: Non commettono peccato coloro che peccano per amore/ Duchessa: No, io ho peccato, eppure/ Forse il mio peccato mi sarà perdonato. Ho molto amato.]

11 Cfr. Oscar Wilde’s Oxford Notebooks. cit., pp. 124, 156, 204 (Commonplace Book) e pp. 23, 108 (College Notebook). 12 O. Wilde, Complete Works, cit., p.612. 13 Ibidem, p. 609. Cfr. Ph. E. Smith II and M. S. Helfand, Oscar Wide’s Oxford Notebooks, cit., p.124, dove Wilde ha annotato la somiglianza tra i peccati e le superstizioni della Roma imperiale con quelle del Rinascimento, i Baglioni, gli Sforza e i Malatesta da Rimini, prendendo spunto da J. A, Symonds, The Re- naissance in Italy, opera in due volumi, che conosceva bene e della quale pub- blicò la recensione su “The Pall Mall Gazette”, il 10 novembre 1886. 14 O. Wilde, Complete Works, cit., p.680.

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Il 27 agosto 1882, mentre Wilde era in tournée in America, andò a vedere allo Star Theatre di New York, la Francesca da Rimini di George Henry Boker che apprezzò, commentando, in una lettera all’impresario Lawrence Barrett, ch’era una delle migliori produ- zioni drammatiche moderne: “Francesca da Rimini, which I saw in New York, always remains in my memory as one of the best mo- dern productions of the stage”15. Il 7 settembre dello stesso anno chiese un incontro con l’attrice Mary Anderson per presentarle la bozza della nuova tragedia The Duchess of Padua e discutere con lei la possibilità di metterla in scena in America16, ma non riusci- rono a trovare un accordo. Barrett, comunque, decise di produrre The Duchess of Padua che fu rappresentata a New York, al Broad- way Theater, solo nove anni dopo, il 21 gennaio 1891, col titolo Guido Ferranti e senza il nome dell’autore sul cartellone. Il dramma ebbe poche repliche fino al 14 febbraio e fu un clamoroso insuccesso. L’anno precedente, nel luglio 1890, Wilde aveva pubblicato il romanzo a puntate, The Picture of Dorian Gray, nella rivista ame- ricana, “Lippincott’s Magazine”. Dopo un’attenta revisione e l’ag- giunta di ben sette capitoli, fu poi edito in volume e lanciato sul mercato internazionale, suscitando critiche e condanne. Nel ro- manzo il protagonista viene introdotto dall’amico e ammiratore, Lord Henry Wotton, alla lettura di un “libro fatale” che, evidente- mente non è il “libro galeotto” di Paolo e Francesca, condiviso da due amanti di sesso diverso – ma che ha la stessa funzione di mise en abyˆme svolta dal libro di Dante letto da Ernest e Gilbert, quando concludono la loro discussione critica con un pensiero sulla “bellezza del peccato”. Infatti il “libro fatale” di Dorian Gray,

15 The Complete Letters of Oscar Wilde, cit., p. 406. Nella lettera, datata “inizio luglio 1889”, Wilde si dichiara pronto a raggiungere l’impresario a Kreuznach per convincerlo a mettere in scena The Duchess of Padua. 16 Ibid., p. 178 e ss..

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che alcuni critici hanno pensato di identificare con A Rebours di J. K. Huysmans era –a mio parere – una summa dell’estetismo, in cui si possono riconoscere riferimenti puntuali alla raccolta dei saggi inclusi in The Renaissance (la “Bibbia” degli esteti, 1873) e al romanzo del 1885 Marius the Epicurean di Walter Horatio Pater17. Nel capitolo undicesimo del romanzo, Dorian Gray mostra la sua expertise di bibliofilo e si compiace, agli occhi dei suoi com- pagni universitari, “to be of the company of those whom Dante describes as having sought to “make themselves perfect by the worship of beauty”. (“di appartenere al gruppo di coloro che Dante descrive “essersi resi perfetti per mezzo del culto della bel- lezza”)18. Alla fine dello stesso capitolo, leggendo dal “poisonous book” (“libro avvelenato”) di coloro che, attraverso il “Vizio e il Sangue e l’Accidia erano diventati mostruosi e pazzi”, si sofferma su Sigismondo Malatesta, “l’amante di Isotta e Signore di Rimini, la cui effigie fu bruciata a Roma perché nemico di Dio e del- l’umanità, colui che strangolò Polissena con un tovagliolo e diede il veleno a Ginevra d’Este in una tazza di smeraldo e che in omag- gio ad una passione vergognosa costruì un tempio pagano per il culto cristiano”19. Sebbene lo stile poetico voglia ribadire il verso di John Keats “Beauty is truth, truth beauty” da OdeonaGre- cian Urn, tuttavia non ci risulta che Dante abbia mai parlato del “culto della bellezza”, né che Sigismondo Malatesta si sia mai macchiato di tante nefandezze. Ma nell’universo estetico wil- diano, dove i poeti vivono in un cielo contiguo, è probabile che la citazione di Dorian Gray provenga effettivamente dal romanzo di

17 R. Severi, La biblioteca di Oscar Wilde, Palermo, Novecento, 2004, pp. 67- 86: “Il libro fatale”. 18 O. Wilde, The Picture of Dorian Gray, edited by I. Murray, Oxford, Oxford University Press, 1998, p. 106. 19 Ibidem, p. 120.

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Walter Pater, dove del protagonista si dice “nelle parole di un poeta che giungerà molto tempo dopo, egli doveva “perfezionarsi attraverso l’amore della bellezza visibile”20.Unconcettochelo stesso Wilde aveva fatto proprio e che andava elaborando fin dalle prime conferenze americane21. Questa profondità di riferimenti e di pensiero non è riscon- trabili nella figura di Richard Le Gallienne (1866-1947)22,dandy che si sposò tre volte ed ebbe tre figlie (una adottiva), poeta, giornalista, letterato, che incontrò Wilde probabilmente alla fine del 1887, o inizio del 1888, dopo avergli inviato il suo primo li- bretto di poesie, My Ladies’ Sonnets23. Oscar lo introdusse nel suo cerchio di conoscenze letterarie e Richard si mostrò partico- larmente affettuoso, come nel giugno del 1888, quando gli inviò un breve manoscritto delle sue poesie con una dedica poetica che inizia:

With Oscar Wilde, a summer- day Passed like a yearning kiss away, The kiss wherewith so long ago That little maid who loved me so Called me her Lancelot— [Con Oscar Wilde un giorno d’estate/Trascorse come un bacio

20 Cfr. W. H. Pater, Marius the Epicurean, edited with an Introduction and Notes by M. Levey, Harmondsworth, Penguin, 1985, p. 53 e nota. 21 Cfr. O. Wilde, The English Renaissance of Art,inThe Uncollected Oscar Wilde, edited by J. Wyse Jackson, London, Fourth Estate, 1995, p. 6. La confe- renza fu tenuta da Oscar Wilde il 9 gennaio 1882, a Chickering Hall, New York, durante il suo tour americano. 22 Per la sua onnipresenza nel movimento estetico e per la sua inclusione tra i “minor poets” influenti del periodo, si veda H. Jackson, The 1890s, New Intro- duction by M. Bradbury, London, The Cresset Library, 1988. La prima edizione risale al 1913. 23 The Complete Letters of Oscar Wilde, cit., pp. 327-28.

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desiderato,/ Quel bacio col quale molto tempo fa/Quella fanciulletta che mi amava tanto/Mi chiamò il suo Lancillotto—]

Ancora nell’aprile 1889, quando Wilde gli inviò la sua magnifica favola, The Birthday of the Infanta (ch’era stata pubblicata contem- poraneamente a Parigi), Le Gallienne si congratulò in versi che ter- minavano:

So, Oscar, as I read your tale once more Here where a thousand eyes may read it too, I smile your own sweet ‘secret smile’ at those Who deem the outer petals of the rose The rose’s heart – I who through grace of you Have known it for my own so long before.24 [Allora, Oscar, mentre leggo la tua favola ancora una volta/qui dove mille occhi possono leggerla,/Sorrido con quel tuo “sorriso segreto” a coloro/ Che ancora pensano che i petali esterni della rosa/Siano il cuore della rosa—io grazie a te/Conosco la differenza da molto tempo].

Entrambi continuarono a scambiarsi libri e complimenti. Oscar il primo dicembre 1890 gli ricordò che “Friendship and love like ours need not meetings, but they are delightful: I hope your laurels are not too thick across your brow for me to kiss your eyelids.”25 (“La nostra amicizia e amore non hanno bisogno di incontri, ma questi sono piacevoli: spero che la corona d’alloro non ti cinga completamente la fronte perché vorrei baciarti sulle palpebre”). Anche dopo il matrimonio di Richard, nel febbraio 1892, Wilde continuò a inviargli inviti, a lui e alla “sua poesia” (la moglie), come i biglietti per la sua prima commedia, Lady Windermere’s

24 Complete Letters of Oscar Wilde, cit., p. 397 n.1. 25 Ibidem, p. 457.

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Fan. La corrispondenza tra i due terminò l’anno seguente in modo molto amichevole, dopo la brillante recensione di Salomé che il giovane poeta aveva pubblicato sul giornale “Star” il 22 febbraio 189326. Rimane, comunque significativa, la testimonianza di tutta una generazione letteraria narrata in seguito da Richard Le Gal- lienne in The Romantic ‘90s (1926). Nel 1892, Le Gallienne pubblicò un poemetto narrativo a rime alterne di 270 versi, Paolo and Francesca27 che inizia con la descri- zione:

At Rimini, anigh that crumbling strand [A Rimini vicino a quella costa che si sbriciola] The Adriatic filcheth near and far (…) [Che l’Adriatico espropria vicino e lontano] per continuare con l’idillio ch’era nato tra i due giovani, Francesca e Paolo, giunti insieme nella città sul mare, quasi si trattasse dei due ragazzi cantati da E.A. Poe in “Annabel Lee”. “Old Lanciotto” li la- scia giocare insieme mentre si occupa del governo del suo feudo. Francesca si intrattiene sempre di più col bel Paolo che ama salire sulle scale (come Romeo) per raccogliere frutta e i due quando s’in- contrano, si parlano con gli occhi:

Had but Francesca turned about and read [Se Francesca si fosse solo voltata e avesse letto]

26 Ibid., p. 552. 27 R. Le Gallienne, English Poems, London, Elkin Matthews and John Lane- New York, The Cassell Publishing Company, 1892, pp.7-18. Cfr. F. Bugliani- Knox, Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: Interpretations and Reworkings of Dante’s Paolo and Francesca, in “Dante Studies, with the Annual report of the Dante Society” n. 15 (1997), p. 226.

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Paolo’s bright eyes that only dared to shine [Gli occhi lucenti di Paolo che osavano soffermarsi] On the dear gold that glorified her head; (p. 9) [Sull’amato oro che glorificava il suo capo;]

Paolo le dona fiori che ha colto ed essiccato tra i fogli di qualche amato volume e Francesca li conserva nel seno e sospira il suo nome quando nessuno l’ascolta (p. 9). Si corteggiano, con la discrezione esagerata dei timidi, dall’inverno alla primavera, quando uniti nella stessa stanza, mentre Francesca ricama

Hard by young Paolo read of knight and dame [Vicino il giovane Paolo leggeva di dame e cavalieri] That long ago had loved and passed away: [Che molto tempo fa amavano ed erano trapassati:] He had no other way to tell his flame, [Non aveva altro modo per annunciare la sua fiamma] She dare not listen any other way [Ella non osava ascoltare in altro modo] But even that was bliss to lovers poor as they. [Ma anche quella era gioia per loro due poveri amanti.]

The world grew sweet with wonder in the west [Il mondo si addolcì di stupore in occidente] The while he read and while she listened there, [Mentre lui leggeva e lei ascoltava lì] And many a dream from out its silken nest [E molti sogni uscirono dal suo cesto di fili di seta] Stole like a curling incense through the air; [Come incenso che volteggiava nell’aria;] Yet looked she not on him, nor did he dare: [Eppure lei non lo guardò, né lui osò:] But when the lovers kissed in Paradise [Ma quando gli amanti si baciarono in Paradiso]

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His voice sank and he turned his gaze on her, [La voce di lui s’abbassò e lui la fissò,] Like a young bird that flutters ere it flies, [Come un giovane uccello con un frullio di ali prima del volo, ] And lo! A shining angel called him from her eyes. [Ed ecco! Un angelo luminoso lo chiamò dagli occhi di lei.] Then from the silence sprang a kiss like flame, [Poi nel silenzio si diedero un bacio infiammato,] And they hung lost together; while around [E si strinsero perdutamente insieme; mentre attorno] The world was changed, no more the same (…) [Il mondo cambiò, non fu più lo stesso (…)] Infinite love throbbed in the straining bound [Un amore infinito pulsava entro il confine allentato] Of that great kiss, the long-delaying boon, [Di quell’immenso bacio, ricompensa a lungo attesa,] Granted indeed at last, but ended, ah! so soon. [Donata infine, ah! così presto. (…)]

As the great sobbing fullness of the sea (…) [Come il lamento del grande mare ingrossato] So kissed those mighty lovers glad and brave. [Così si baciarono quei due potenti felici amanti coraggiosi.]

Paolo legge e le parole diventano azioni visibili, imitabili, inter- pretabili. I due protagonisti, baciandosi, abbandonano ogni riserva: sono potenti, coraggiosi finché dura la notte. Ma al primo canto del- l’allodola (lark), come Romeo e Giulietta, sanno che devono sepa- rarsi e chiedere pietà a Dio. Francesca si rivolge a santa Lucia che inviò i suoi occhi azzurri a chi voleva amarla; ma lei non vuole ri- nunciarvi (p.14). Il poeta la chiama “sweet saint of sin, saint of the deathless rhyme” (“dolce santa del peccato, santa della rima immor- tale”). Dante si ricorderà di te.

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On the dark background of his theme sublime, [Sullo sfondo buio del suo tema sublime] And Thou and He in your superb disgrace [Tu e Lui nella vostra superba vergogna] Still on that golden wind of passion shall embrace. (p.14) [Rimarrete sempre abbracciati nel vento dorato della passione]

Però mentre essi s’attardavano nel letto, “Folded together, weary with delight” (“Avvolti nell’abbraccio, sfiancati dal pia- cere”) (p.15), Lanciotto li scoprì. Era tornato prima del previsto, quasi avesse avuto un presentimento del tradimento, e pazzo di gelosia, scostò l’arazzo che nascondeva il letto, “dove giacevano nel peccato come in una culla” (p. 17). Ebbe un attimo di smarri- mento ma si riprese e li trafisse entrambi dicendo “Così, miei cari, vi sposo per sempre all’inferno”. Rimase Lanciotto inerme finché la luce del mattino sparse un ba- gliore sui loro corpi, ma le loro anime erano ormai fuggite molto lon- tano (p. 18). Le Gallienne è un epigono del Decadentismo inglese che in questo breve componimento mieloso s’ispira alle favole dramma- tiche di Maeterlinck; non c’è nel suo testo un messaggio profondo, un’elaborazione filosofica, né dobbiamo attenderci un linguaggio cifrato da “fedeli d’amore”. Davanti al profluvio di parole di Fran- cesca e al silenzio di Paolo, T. S. Eliot, che si era nutrito alla fonte dell’Estetismo inglese, concluse che essi erano gli amanti dannati e che la loro punizione consisteva nel provare ancora quei desideri che non potevano più gratificare28.PaoloeFrancescanonsvani- scono, come “The women (that) come and go talking of Miche-

28 Cfr. T. S. Eliot, The Sacred Wood, London, Methuen, 1920, p. 150. Nell’ul- timo saggio intitolato “Dante”, l’A. annota che “Francesca is neither stupefied nor reformed; she is merely damned; and it is a part of damnation to experience desires that we can no longer gratify.”

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langelo” e le sirene di Prufrock che conservano ancora il loro mes- saggio enigmatico. Nei riferimenti alla vicenda degli amanti fatali di Rimini di Wilde e Le Gallienne si coglie il passaggio dal significato pro- fondo del libro che unisce il pensiero e il sentimento, al bacio che esprime e conclude tutto ciò in un momento di vita, ma in esso fa- talmente ne esaurisce tutte le potenzialità poetiche.

117 Lettura spiata Gustave Doré, Quel giornoi più non vi leggemmo avante. Inchiostro e guazzo bianco su carta, 1861. Strasburgo, Museo d’Arte moderna e contemporanea. LUIGI BALLERINI Chi non ha mai scritto o letto d’amore con un fine seduttivo, lanci la prima pietra. Chi non ci ha mai ricamato su, lanci la seconda.

Agatone – … A nostra volta cerchiamo di dare dignità al nostro me- stiere, come Erisimaco ha fatto con il suo. Il dio [Eros] è poeta così raf- finato che è lui stesso causa per cui altri scrivano: tutti sanno che tutti diventano poeti, anche se fino a quel momento alieni alle muse, quando amore si impossessa di lui. Mi pare giusto dunque conside- rare questo fatto come una degna testimonianza di quanto segue: Amore è un artista versato nell’arte del comporre che ha a che fare con la musica [intrinseca ed estrinseca al vero], perché quelle abilità che non possediamo non le possiamo mica insegnare a un altro o ai no- stri vicini di casa. C’è forse qualcuno, permettetemi di chiedere, che rifiuterà di sostenere che la composizione di tutte le forme della vita è il compito precipuo per cui tutte le creature sono concepite e fatte na- scere? Platone, Simposio

La poesia d’amore scritta per notificare di sé l’oggetto del proprio desiderio non finisce (e anzi, certe volte, incomincia) quando la per- sona per cui è stata scritta o, per meglio dire, alla quale è stata indi- rizzata, non potrà più leggerla. Ma perché a qualcuno venga voglia di leggere una poesia d’amore senza immedesimarsi con il suo de- stinatario, apparente o reale, bisogna che qualcuno d’amore abbia comunque scritto in maniera tale che la seduzione avvenga sul piano della struttura del testo e del linguaggio con cui è stato redatto. La qualcosa qualche volta è capitata e può tuttavia capitare. Spigolature latine, dugentesche, anglo-secentesche, novecentesche … e quasi d’oggidì.

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Interpretando in senso ampio – e indulgendo di conseguenza al piacere di una sia pur minima pulsione equivocante – le istigazioni che credo si possano evincere, legittimamente, dal tema che Ferruc- cio Farina e gli amici del comitato scientifico ci hanno proposto per questa quinta edizione delle giornate dedicate a Francesca da Rimini questo mio intervento non sarà un contributo al chiarimento di nes- suna delle numerose questioni che pullulano con rinnovata insistenza intorno al celeberrimo episodio dantesco, ma si configurerà come un semplice precipitato, con brevi commenti, di citazioni amorose, di lacerti estrapolati da testi intesi 1° a sedurre (scrivere d’amore per ottenere), 2° ad analizzare (ma anche a teorizzare o, almeno, a cir- coscrivere) il dato di conoscenza che potrebbe nascondersi nel feno- meno amoroso (scrivere per conoscere nel rispetto delle premesse), 3° ad approfittare, sotto le mentite spoglie di una seduzione, o di un’analisi, del pathos che amore si tira dietro quando le prime due op- zioni, rivelandosi improduttive, creano l’occasione di una cono- scenza esterna alle premesse (scrivere per ascoltare quel che il linguaggio dice scrivendo d’amore). Quella che segue, in altre parole, sarà una lettura a voce alta di testi poetici, filosofici e filosofico-poetici, rigorosamente perti- nenti al tema dell’amore, e altrettanto rigorosamente slegati tra di loro, tali dunque, da rendere impossibile qualsiasi casistica, anche la più elementare. E però, nulla togliendo al gusto di leggerli, quei testi, con enfasi, per appropriarci di quel valore aggiunto che è ap- punto il risultato di una recitazione1, non ci faremo abbandonare dalla speranza che il guazzabuglio, in cui verremo inevitabilmente a trovarci, sia comunque non dico attraversabile, ma percorribile in lungo e in largo, e che ad ogni passo sia possibile assaporare un

1 Come insegna Platone nel breve dialogo Ione il cui protagonista confessa a Socrate di non sapere come, pur senza padroneggiare la materia di cui parla Omero, di cui è rapsodo, egli scatena, recitandone i versi, forti emozioni in chi lo ascolta, e in sé medesimo.

120 LUIGI BALLERINI

godimento affine a quello di cui avremo avuto esperienza nei passi mossi in precedenza. Speriamo di poter dire, a fine lettura, di aver fatto una passeggiata “intelligente”, cioè di avere percorso un sentiero, scelto non proprio a caso, ma senza avere notizia sicura di quel che vi avremmo trovato, spinti da una curiosità diffusa e accolta come punto di partenza solo in quanto annunciatrice di rischio, di dis-trazione, attratti da un invito im- preciso, e irrinunciabile, e convinti, oltretutto, che anche camminando lungo sentieri già percorsi, o quanto meno noti, si troverà sempre qual- cosa che, venendoci incontro ex novo, inietterà nella coazione del re- plicare, il siero avvelenato e avvelenante della passione iscritta nel desiderio del ripetere. Aiuta un po’, in questo ex per ire non avaro di asperità, in cui Heidegger reperiva la soglia stessa dell’esperienza, o della consapevolezza del fare, la paura di non farcela che assale l’atleta prima del cimento, nonché la fascinazione di poterla collegare, tale paura, con il non risaputo, e però avvertito in un futuro anteriormente presagito e vissuto, quando, in buona sostanza, ci accorgeremo di aver letto e tradotto senza l’ausilio di nessuna grammatica o dizionario. Pur facendo ogni sforzo per non soccombere alle lusinghe di qual- che malcelato furore tassonomico, ci metteremo in cammino a partire da specimini di poesia d’amore scritta a scopo seduttivo da un qualsivoglia innamorato, o finto tale2, ricordando che l’etimo popolare, e decisa- mente errato, del ducere a sé, ha molta più probabilità di funzionare

2 Ricordo la profonda delusione che provai, quando una professoressa della scuola serale mi spiegò che i trovatori e i siciliani e forse perfino Dante scrive- vano d’amore senza essere veramente innamorati, ma seguendo piuttosto una teoria d’amore che nei casi di maggiore consapevolezza si ammantava di valori epistemologici (Dante, Guido e, secondo loro due, non Guittone). L’informa- trice rincarò la dose, sostenendo che lo stesso valeva per le canzoni dei cantau- tori come Celentano e Gino Paoli, con l’eccezione forse di Umberto Bindi, autore ed esecutore di Il nostro concerto che si era innamorato veramente del suo autista, al quale la canzone era dedicata. E comunque, per questi ultimi tre, in- namorati o no, la faccenda della complicazione epistemologica sembra impro-

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come algoritmo essenziale del comporre versi d’amore, dell’etimo uf- ficiale, assodato dai filologi, per cui sedurre deriva invece da una voglia di erranza di cui ducere si ammanta grazie al sed che lo accompagna e il cui valore avversativo inaugura un percorso di fuga dalla norma, e dunque della morale. Ma è chiaro che le due istanze sono meno con- traddittorie di quanto sembri a prima vista perché il modo precipuo di condurre a sé è quello di promettere incontri inusitati con l’altro, in- contri che traggano fuori dalla noia del “tutto esaurito” e che facciano invece balenare la gioia del “chi l’avrebbe detto?”. Seguiremo in particolare l’evolversi della figura e della funzione del destinatario del testo, dal momento in cui compare come oggetto dichiarato del desiderio di chi scrive, al momento in cui la sua pre- senza diventa un fatto retorico, l’incarnazione di un invito a leggere il testo poetico con l’intelligenza e l’attrezzatura necessarie a una non aberrante o riduttiva decodificazione del messaggio che vi inerisce, e fino al momento in cui tale destinatario/lettore interno al testo, prima si trasforma nel proprio contrario e cioè in lettore/destinatario,epoisi riduce (ma non è una riduzione epistemologica, tutt’altro) a lettore tout court, un individuo che dovrà possedere i requisiti di cui disponevano le configurazioni, gli attanti, che lo hanno preceduto, ma che diversa- mente da quelli non viene neppure invocato. Un clamoroso esempio di proposta erotica andata a buon fine si può dire che apra il canone stesso della lirica italiana. Penso, natu- ralmente a “Rosa fresca aulentissima” nel cui incipit

Rosa fresca aulentis[s]ima, - c’apari inver la state le donne ti disïano - pulzell’ e maritate; tra[ji]mi de ste focora - se t’este a bolontate; per te non aio abento notte e dia, penzando pur di voi, madonna mia il rapido trapasso da rosa intesa come fiore e rosa intesa come donna si impernia in una giaculatoria che nella sua trasparenza e impetuosità (“tra[ji]mi de ste focora”) acquista il sapore di un godimento assicurato.

122 LUIGI BALLERINI

E infatti, dopo ben quindici attacchi rintuzzati, la donna cede e annun- cia anche lei la sua resa con un linguaggio che nulla lascia all’ambiguità:

Meo sire, poi iurastimi, - eo tut[t]a quanta incenno; sono a la tua presenz[ï]a, - da voi non mi difenno. S’eo minespriso ajoti, - merzè, a voi m’arenno. A lo letto ne gimo a la bon’ura, chè chissà cosa n’è data in ventura.

Qui è del tutto arbitrario sovrapporre il personaggio maschile, cui si deve la proposta amorosa, all’autore del testo, anche se viene quasi spontaneo il farlo. In realtà si dovrebbe concepire un autore che os- serva e traduce in parole la realtà di un corteggiamento in cui i ruoli del seduttore e della sedotta sono culturalmente stabiliti. La situazione può tranquillamente rovesciarsi. Ma quando a pro- porre amore è un personaggio femminile, capita spesso che, da se- duzione e consenso, si passi alle coordinate della tentazione e della ripulsa. Più spesso che no, infatti, il corteggiamento non va a buon fine, o sarà, alla lunga, occasione di pentimenti, lagrime e azioni re- dentive: basta pensare agli amori di Ruggero e Alcina nel Furioso,o di Rinaldo e Armida nella Gerusalemme. Alcuni, tra gli amori che si direbbero destinati fin dall’inizio al successo, si concludono negativamente, anche se a promuoverli è la dea stessa dell’amore, la quale, grazie a William Shakespeare, usa parole che magari non hanno fatto gran presa su Adone, e però rie- scono ogni volta a eccitare tutta quella parte dell’umanità cui è ca- pitata la fortuna di leggere la sua struggente perorazione:

‘Fondling,’ she saith, ‘since I have hemm’d thee here Within the circuit of this ivory pale, I’ll be a park, and thou shalt be my deer; Feed where thou wilt, on mountain or in dale: Graze on my lips; and if those hills be dry, Stray lower, where the pleasant fountains lie.

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[‘Tesoro’ gli dice ‘visto che ti ho isolato qui In quest’orbita di pallido avorio, io ti farò Da prato, e tu sarai il mio cerbiatto, cibati dove più gradisci, per valle o per monte, bruca sulle mie labbra, e se fossero aridi quei colli, spingiti oltre, più in basso dove troverai le sorgenti del piacere]3.

Le conseguenze della preferenza accordata da Adone ai piaceri della caccia, anziché a quelli promessi da Venere – preferenza diffi- cilissima da condividere – sono letteralmente catastrofiche: assomi- gliano molto a quelle del peccato originale. Per colpa non proprio di Adone, ma della sua morte, e quindi alla fine, sì, per colpa di Adone che è proprio andato a cercarsela, Amore sarà causa di guai e tor- menti infiniti per tutti, anche per quelli che avrebbero, senza nem- meno pensarci, preferito Venere ai cinghiali:

‘Since thou art dead, lo, here I prophesy: Sorrow on love hereafter shall attend: It shall be waited on with jealousy, Find sweet beginning, but unsavoury end, Ne’er settled equally, but high or low, That all love’s pleasure shall not match his woe. ‘It shall be fickle, false and full of fraud, Bud and be blasted in a breathing-while; The bottom poison, and the top o’erstraw’d With sweets that shall the truest sight beguile: The strongest body shall it make most weak, Strike the wise dumb and teach the fool to speak. [A causa della tua morte, io qui dichiaro che Amore d’ora innanzi avrà per compagno il dolore: la gelosia curerà l’esecuzione di ogni sua mossa; dolcissimi ponibile.

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saranno sempre i suoi esordi e ripugnanti le sue conclusioni; mai conoscerà equilibrio, anzi sarà intessuto di alti e bassi così che il piacere non possa mai pareggiare il dolore. Sarà volubile, falso, reame d’ogni frode, sboccerà e appassirà nel tempo di un respiro, miasmatico nel fondo, e saldo oltre misura in cima. Con dolcezze che nascondono la sua vera immagine renderà debolissimo il corpo più robusto, istupidirà i saggi e agli schiocchi insegnerà a parlare.]4

Le maledizioni continuano, ma non abbiamo il tempo di star qui a contarle tutte. Forse sarebbe il caso di fare un salto a casa dei no- stri secentisti, col Cavalier Marino in prima fila, e i musici del loro tempo, che il disappunto amoroso seppero trasformare invece in ma- drigali, e in felicissime arie, ma poiché tale materia richiederebbe competenze e tempi di cui non disponiamo, dovremmo acconten- tarci, qui, di un gustoso catalogo di paragoni in cui varie crudeltà si rivelano di poco conto rispetto a quella contenuta nello sguardo sde- gnoso con cui la donna assediata respinge l’attacco dell’assalitore. Leggiamo insieme questo squisito sonetto di Gaspare Murtola:

Più d’una spina rigida e pungente ha il duro echino di castagna intorno; più d’una spina il nobil cedro adorno, presso la foglia di smeraldo olente. Più d’una spina ancor fera e dolente la rosa mostra in su l’aprir del giorno; più d’una spina il bel ginepro e l’orno ed il cardo e l’urtica aspra e mordente. Più d’una spina l’istrice, col riccio, scopre sul dorso maculato e nero;

3 Venus and Adonis, vv. 129-134.

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più di una spina l’apro irsuto e riccio. Ma più di questo e quel, fere e dogliose spine hai nel guardo fulminante e altero e ne le luci, Elpinia mia, sdegnose5.

In netto e truce contrasto con tanta naturalistica leggiadria, la re- pulsa amorosa può sfociare in grandi amarezze, in manifestazioni di rabbia inusitata, in invettive. Campione dell’invettiva amorosa, nel secolo trascorso, che quelli della mia età hanno sempre voglia di chiamare il nostro secolo, è sicuramente Antonio Delfini, che così esplode in alcune delle più perentorie tra le sue Poesie della fine del mondo. Nell’“Antilaura dell’anticanzoniere”, la brutalità dell’elo- quio frana con la forza di una ricercata volgarità sulla tenue e mal- concia evocazione petrarchesca:

L’Antilaura dell’anticanzoniere ha detto che sei Francesco Antipetrarca critico scemo dei tempi tuoi. Non ti fare illusione moglie baldracca provinciale immagine di frode di bruttura e di male! Il mondo andrà avanti ancora: è certo. E tu sarai regina dell’avvenire incerto. Finirà il mondo quando le tue ossa in polvere recheranno la peste alla gente spermatizzata coi tuoi pensieri che mai avesti nel pensiero ma sol tenesti sulle cappelle degli amici tuoi ignoranti di tutto − e pur dantisti. Io − la dantiera che mi offristi − te la ricambio in poesia. La fine del mondo ci sarà ignobile signora che un operaio impiccherà.

4 Ibid., vv. 1135-1146. 5 Vedi Marino e i Marinisti, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1954,

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Quel giorno vorrò vederti penzolare sul chiarore dell’alba popolare. Avrai le gambette strette con le calzette. Non sperare! Ti guarderò senza farmi le pugnette. Sarà finito per sempre − e così sia − lo psico-tempo della spermafilia. Fu il tuo tempo e quel dei tuoi amici, della tua cara mamma (oh quale dramma!) fu ’l tempo de’ tuoi ganzotti mangia pernici. Non fu il mio tempo, né quel della mia mamma! Si leverà il sole, e sul tuo fiume un giorno scorrerà limpida l’acqua. La città intorno, ormai redenta e netta, avrà lo sguardo del poeta a riguardarla e a rimirarla. Ritirerò il sonetto − te lo prometto. Roma, 29 aprile 19606

L’eccezionalità della posizione di Delfini e la sua frequentissima assenza dai luoghi deputati della poesia amorosa – che sembrereb- bero disposti ad accogliere solo testi contrassegnati dal felice coro- namento dell’impresa, o da più o meno malinconiche rimembranze – ci induce a una seconda citazione (tra le molte possibili):

È mio dovere scrivere la mala poesia Che infine, dopo tanto tempo porti A te mala carente, moglie del corto Tismico, sofilofo, una vera mala sorte. Descrivere i mali di te, pagliaccio iettatorio, Sarebbe ancor far del male a me e ad altri. p. 680.

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Sia in queste righe raccolto tutto il male che ti voglio. Nominarti non posso e non mi piace. Distaccare il tuo orribile pensiero dalla penna E dalla carta è quanto qui si vuole e si descrive. Voi spiriti del mondo, buoni e cattivi, Liberate la terra dall’infame presenza Del pagliaccio, dei suoi figli e discendenti! Tutto il male che hanno fatto sarà dimenticato: Per la decadenza del ricordo di un paese maledetto Che tornerà a farsi nominare, solo quando Lei, il pagliaccio rosso imbellettato, i suoi figli E discendenti saranno scomparsi. Questa è una pagina esclusiva per la polizia. Poi la libertà e la luce torneranno. Così sia. Grande è stato il mio coraggio! A morte signora sporca dell’oltraggio! Corro a mettere le mani nell’acqua per un tanto. Ed il lettore poi faccia altrettanto. Roma 24 novembre 19597

A scanso di equivoci, e dunque per non cadere nella tentazione di leggere i testi di Delfini come le patetiche auto-escoriazioni di un in- dividuo ridotto al limite della ragione dalla propria insanabile fru- strazione, ci sia concesso di riportare qui il penetrante (considerando soprattutto gli anni in cui venne espresso) giudizio di Giorgio Bas- sani che quelle poesie tenne a battesimo presso l’editore Feltrinelli:

“Ma la violenza, la passione selvaggia che Delfini rovescia ancora una volta in queste sue scene di provincia, non avevano mai rag- giunto, prima d’ora, un grado di tale intensità. Scrollatosi di dosso

6 Macerata, Quodlibet, 1995, p. 119.

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l’impegno di ‘raccontare’ il suo mondo di donnacole avide e adorabili, di avvocati famelici, di tristi notai, ecc. (oh, i loro nomi e cognomi!), il poeta riesce a darcene una rappresentazione incomparabilmente più atroce, priva soltanto in apparenza del fren dell’arte. Manca a questa poesia un’unica cosa: il tatto. Ma anche il primo Grosz non ne aveva: e nemmeno Villon, e Campana, ai quali, e non solo psicologicamente, Delfini si apparenta. Le sue parolacce, i suoi turpi calembours, i suoi versi scempi e zoppi: ci par già di sentire la voce di chi gli rimprove- rerà tutte queste cose, praticando, per distinguere la poesia dalla non- poesia, la solita vieta selezione dei contenuti e delle forme. Noi, dal canto nostro, siamo del parere che ai poeti autentici, come ai santi, sia concesso proprio tutto: la bestemmia, comunque, in primo luogo”8.

7 “È mio dovere scrivere la mala poesia”, Ibid., p. 60. 8 Milano, Feltrinelli, 1961, bandella di copertina. L’edizione più recente (e completa) delle poesie di Delfini è stata pubblicata da Quodlibet di Macerata, nel 1995, con una pregevole introduzione di Giorgio Agamben. Parole essenziali su Delfini ha scritto Alfredo Giuliani sulla Repubblica del 22 settembre di quell’anno, da cui volentieri stralciamo: “Il poeta lotta contro le parole e contro gli assassini degli uomini e delle parole. Oscilla tra la disperazione furente e l’esaltazione: «È inutile distruggere gli anni, / inutile la Gran Situazione: / Non c’è più salvezza - più niente. / Rivoluzione, parola trombone» (scrive nel novembre 1958). - «Oggi sono il capo di una grande rivolta. / Mi ascoltan gli uccelli nel cielo / mi ascoltano i cani stavolta!» (conclude la poesia «Torna la libertà» dell’agosto 1959). A rendere abitabile il mondo che sta finendo penseranno gli squadroni dei fedeli d’Amore, guidati da «una Bambina con una rosa in mano», figlia di Guido Cavalcanti! Gli ignobili imperversano e le parole del poeta sono la realtà: «Mercanti, banchieri, avvocati, ingegneri, cocchieri, / non siete che polvere di rotti bicchieri, / di cui faremo carta vetrata per sfregiare la fac- cia / dei nostri irricordabili ricordi di ieri». Delle parole Delfini brucia le scorie morte: «È mio dovere scrivere la mala poesia». Il suo anticanzoniere amoroso e civile è una rivolta iperbolica contro gli oltraggi della vita-morte. Digrignando, il poeta se la gode infilando nei versi collages, filastrocche oscene, deformazioni nominali, me- taplasmi e metatesi burlesche. Ma a tratti Delfini è mirabilmente patetico e preso da una sbandata pietà per l’impazzare del Male. Pietà che, non sia mai, potrebbe col- pirlo per la «sozza e immonda» antibeatrice che è la sua musa alla rovescia: «Se tu ti ammalassi e tu chiedessi pietà... / che orrore dovertela concedere che orrore! / Non

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Da un corteggiamento naufragato, come da un amore cui uno solo dei due protagonisti decide di porre fine, si può per altro uscire in forma ugualmente acerba ma assai più garbata, come succede in Elio Pagliarani, un poeta che tutti conoscono per il poemetto La ragazza Carla ma che, qualche anno prima, aveva composto alcune tra le più persuasive, nuove, e meno maschiliste liriche d’amore di tutto il XX secolo. Eccone una rapida carrellata in cui il poeta, pur non rinun- ciando all’idea che se una donna non ci sta, o decide di non starci più, è perché non è all’altezza del sua amatore, si assume, quanto meno in parte, la responsabilità del fallimento.

A dirli questi mesi sembra agevole con il margine di rischio necessario a chiamare la vita col suo nome: primavera invocata tempestiva fu tempesta, e in vista della terra il naufragio balordo; giugno vissi per non perderti; è di luglio la più cupa speranza di riuscire a fare della morte un’abitudine. *** È già autunno, altri mesi ho sopportato senza imparare altro: ti ho perduta per troppo amore, come per fame l’affamato che rovescia la ciotola, col tremito. *** Io non ti lascio alibi, ti amo con la crudeltà necessaria per rischiare la tua vita perché la mia è in gioco

ti ammalare - ti prego - non ti rinsavire / non diventare santa non ti riscattare! / Sa- rebbe veramente schifoso doverti perdonare. / La mia vendetta che domando per te è questa: / come adesso sei e fosti, stronza resta!».

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ma d’istinto ti sei ritratta dice Luciano che non hai sufficiente vitalità. Di misurarti a petto del mio amore ero certissimo. *** Amici, spesso buoni mi deridono Gianni sostiene che a leggere i miei versi traspare che non amo e che non so amare:seèverounno[ono] non ha sospetto che non so vivere. Amore, e tu non vieni ad insegnarmelo. *** Il verso “quanto di morte noi circonda” Apriva, e nella chiusa, isolato, bene in vista “e tu sola della morte antagonista”.

Ma già prima del termine di giugno la mia palinodia divenne sorte: nessun antagonista alla mia morte.

E sono vivo, senza rimedio sono ancora vivo9.

Maestro insuperato di questo escamotage (il poeta ha commesso un errore innamorandosi di una donna che non è in grado di cogliere l’eccezionalità del suo amore per lei) è Giacomo Leopardi che in “Aspasia”, con piglio assai più provocante di quanto non lascerebbe pensare la sfortunata immagine che circola di lui nelle cartolerie e, ahimè, anche dentro le aule scolastiche, sceglie come destinataria del

9 Totale S.E. & O.,inInventario privato, Milano, Veronelli 1959, pp. 39-46.

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suo canto proprio la persona alla cui malìa dice, senza risultare del tutto convincente, di essersi sottratto dopo due anni di inaudite sof- ferenze (“Così nel fianco / Non punto inerme a viva forza impresse / Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto / Ululando portai finch’a quel giorno / Si fu due volte ricondotto il sole”) e che, è lecito supporre, non leggerà, o leggerà distrattamente i versi che il poeta, a poste- riori, le rivolge. Oltre a questo fatto del destinatario impossibile, o as- sente, su cui torneremo, è utilissimo confrontare l’incipit del Canto, in cui la memoria del passato ha tutta l’aria di un non cancellabile presente:

Torna dinanzi al mio pensier talora Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo Per abitati lochi a me lampeggia In altri volti; o per deserti campi, Al dì sereno, alle tacenti stelle, Da soave armonia quasi ridesta, Nell’alma a sgomentarsi ancor vicina Quella superba vision risorge. Quanto adorata, o numi, e quale un giorno Mia delizia ed erinni! E mai non sento Mover profumo di fiorita piaggia, Nè di fiori olezzar vie cittadine, Ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno Che ne’ vezzosi appartamenti accolta, Tutti odorati de’ novelli fiori Di primavera, del color vestita Della bruna viola, a me si offerse L’angelica tua forma, inchino il fianco Sovra nitide pelli, e circonfusa D’arcana voluttà; quando tu, dotta Allettatrice, fervidi sonanti Baci scoccavi nelle curve labbra De’ tuoi bambini, il niveo collo intanto

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Porgendo, e lor di tue cagioni ignari Con la man leggiadrissima stringevi Al seno ascoso e desiato. Apparve Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio Divino al pensier mio10. con la chiusa del componimento dove, con un’incauta, ancorché comprensibile, mossa retorica il poeta assicura la sua non corrispon- dente che

L’incanto è caduto E spezzato con esso, a terra sparso Il giogo: onde m’allegro. E sebben pieni Di tedio, alfin dopo il servire e dopo Un lungo vaneggiar, contento abbraccio Senno con libertà. Che se d’affetti Orba la vita, e di gentili errori, È notte senza stelle a mezzo il verno, Già del fato mortale a me bastante E conforto e vendetta è che su l’erba Qui neghittoso immobile giacendo, Il mar la terra e il ciel miro e sorrido11.

Sarà! Le cose non sono del resto tutte rose e fiori, e anzi sono plumbee, anche nei casi in cui tutto fila liscio, o potrebbe filare li- scio, nei casi in cui tra gli amanti parrebbe esistere una “corri- spondenza d’amorosi sensi”, per dirla col Foscolo de ISepolcri.Su questa frase peraltro conviene riflettere un istante, alla luce delle parole pronunciate da Diotima nel Simposio di Platone. Dev’essere

10 Poesie e Prose, a cura di Mario Andrea Rigoni, Milano, Meridiani Mondadori, 1988, p.103. 11 Ibid., p. 106.

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chiaro infatti che il rapporto tra Erastes ed Erômenos,nonpotrà mai essere quello auspicato da Aristofane, per cui la metà di un tutto primigenio andrebbe a spasso per il mondo a cercare l’altra metàincuicrededipoterritrovaretuttociòcheglièvenutoaman- care nel momento della separazione, ma è configurabile soltanto come un’attrazione ispirata da una profonda diversità che, lungi dal fare finta che non esista, sarà opportuno sfruttare come fonte di energia, di inventività, in una parola di conoscenza. Non si tratta dunque di soddisfare esigenze (l’aver bisogno di), ma di stimolare, tramite l’alterità, il gioco perenne dell’esuberanza, della spinta gio- iosa verso l’inconoscibile. Di questa lezione di Diotima che fa ri- salire la nascita di Amore al connubio di Poros (espediente, risorsa, inventiva) e Penìa (povertà miseria, mancanza), ha fatto tesoro Jac- ques Lacan, in più punti della sua opera e, segnatamente, nel Se- minario VIII dedicato all’argomento del transfert dove scrive non solo che amore consiste nel “donare quello che non si ha”, ma anche nel “fare un discorso, offrire una spiegazione valida, senza possederla”12. A prenderla col senno di poi, cioè di oggi, ovvero con quella ine- vitabile punta di acribia struttural-linguistico-freudiana che ogni let- tore attrezzato alla lettura di testi poetici non può fingere di non possedere, anche la più semplice poesia di seduzione (o di rinuncia) non verrà certo al mondo sine labe concepta. Due, in particolare, di questi peccati o complicazioni sembrano balzarci incontro, non pro- prio come “in corsa giganti giovinetti”, ma con la stessa irruenza di un non evitabile assillo. La prima è che chi scrive d’amore per ottenerlo resta spesso im- pigliato, in un confronto tra il godimento sempre parziale che amore comunque gli procura, e il godimento totale che avrebbe esperito

12 Paris, Seuil, 1991. Vedi soprattutto alle pagine 146-49, Lacan ricorda tra l’al- tro che il Mito di Poros e Penìa non è testimoniato da nessun altro testo antico all’infuori, appunto del Simposio.

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nella fase iniziale della propria esistenza, prima della separazione, della cesura dal corpo materno di cui gli resta inconsapevole me- moria. Se il disincaglio dal godimento primario, irraggiungibile, non avviene, e se il godimento parziale non viene accolto, realistica- mente, come l’unico possibile, la poesia d’amore non potrà che es- sere una sequela di lamenti perché nessun amore potrà mai equivalere a quello perduto, né potrà compensare della sua perdita. Scandisce con grande abilità i toni di questa situazione, tra gli altri, Eugenio Montale:

Lo sai: debbo riperderti e non posso. Come un tiro aggiustato mi sommuove ogni opera, ogni grido e anche lo spiro salino che straripa dai moli e fa l’oscura primavera di Sottoripa. Paese di ferrame e alberature a selva nella polvere del vespro. Un ronzìo lungo viene dall’aperto, strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia da te. E l’inferno è certo13.

Dall’elegia non si scappa, se non cambiando mestiere, come hanno fatto Rimbaud e la sparuta banda dei suoi seguaci. Sì perché, nei meno capaci, la canzone del lamento è, per chi ascolta, intollera- bilmente noiosa, anche quando procura un analgesico intontimento a chi la canta e a tutti quelli che scelgono di immedesimarsi con lui. È dunque necessario errare, nel senso di uscire dall’orbita della pro-

13 I Mottetti,inLe Occasioni,inTutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mi- lano, Meridiani Mondadori, 1984, p.139.

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pria matrice, di andare in fuga, come dicono i corridori ciclisti, non in tutte come fanno i brocchi, ma in quelle vincenti (e ripetibili), come fanno i campioni. C’è, si è detto, una seconda complicazione, ovvero il fatto che credendo di amare B, A, che scrive d’amore, ama in realtà C (pre- sto o tardi però si scopre chi è il vero oggetto del proprio amore), non solo, ma meglio (o peggio) ancora, succede che parlando a D del proprio amore per B (o C), D che ascolta si innamori lui di B o di C quando non addirittura di A che gliene parla. A questo ge- nere di tentazione il testo biblico dell’Esodo aveva cercato di porre rimedio ricorrendo al comandamento del non desiderare la donna d’altri, che non è facilissimo a mettersi in pratica. Si co- noscono casi di uomini che in realtà desiderano solo le donne degli altri e si conoscono psicanalisti secondo cui il vero oggetto d’amore sarebbero gli altri e non le loro donne, la qualcosa è spesso una magra consolazione, per chi si vede portar via la pro- pria compagna. C’è perfino il caso di chi parla di queste cose per interposta persona, come fa Orazio che, avendo dichiaratamente escluso dalla cerchia delle proprie ispirazioni la poesia di guerra:

Nolis longa ferae bella Numantiae nec durum Hannibalem nec Siculum mare Poeno purpureum sanguine mollibus aptari citharae modis saevos Lapithas et nimium mero Hylaeum domitosque Herculea manu Telluris iuvenes, unde periculum fulgens contremuit domus Saturni veteris: tuque pedestribus Dices historiis proelia Caesaris, Mecenas, melius ducta per vias Regum colla minacium

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[Non volere ch’io adatti ai suoni della cetra la lunga guerra contro la truce Numanzia o Annibale ostinato o il mare siculo fatto vermiglio di punico sangue né i Lapiti crudeli o Ilèo avvilito dal troppo vino o i giovani figli della terra piegati dalla mano di Ercole al tempo che le sedi fulgide dell’antico Saturno tremarono per il pericolo. Dirà assai meglio la tua prosa, o Mecenate, la storia delle campagne di Cesare e i re legati per il collo e tuttavia minacciosi, strascinati per le vie] descrive arditamente a Mecenate l’amore che Mecenate stesso prova per la propria moglie. Le “astuzie amorose” rilevate da Orazio in Li- cimnia, inducono facilmente a pensare che il poeta sia pervaso da una sua non tanto nascosta pulsione scopofilica. Il destinatario ap- parente è Mecenate, quello effettivo Licimnia:

Me dulcis dominae Musa Licymniae cantus, me voluit dicere lucidum fulgentis oculos et bene mutuis Fidum pectum amoribus,

Quam nec ferre pedem dedecuit choris ec certare ioco nec dare brachia ludentem nitidis verginibus sacro Dianae celebris die.

Num tu quae tenuit dives Achaemenes Aut pinguis Phrygiae Mygdonia opes Permutare veils crine Licymniae, plenas aut Arabum domos,

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cum flagfrantia detorquet ad oscula cervicem aut facili saevitia negat quae poscente magis gaudeat eripi interdum rapere occupet?

[Per me la musa vuole che si cantino con dolcezza gli sguardi vivaci di Licimnia, tua signora, e la corrispondenza fedele del vostro reciproco amore. Per lei la danza non era un affare indecoroso né il parlare allegramente, né l’abbracciare le vergini splendidamente vestite nel giorno della festa di Diana. Non mi dirai forse che tu scambieresti i capelli di Licimnia con i tesori di Achemene o coi ricchi e vasti campi della migdonia frigia o con le case opulente degli arabi, quando ella ai baci ardenti porge il collo o si suoi ti nega fingendo una breve crudeltà? Ma più sarebbe deliziata se invece di aspettarli fossi tu a rubarglieli; eintantoèleichetelirubaperprima]14

Ma non possiamo dipingere un’affresco mettendoci all’opera con un solo colore, a meno di non essere ossessivamente minimalisti, e questo non era il caso di Orazio. La sua tavolozza disponeva di una gamma inesauribile di pigmenti, laddove molti dei suoi contempo- ranei, scrivendo poesie d’amore, hanno solamente inteso raggua- gliarci intorno ai loro successi o insuccessi, rappresentando quindi stati di estasi, di odio, di gelosia, di rivalità, di cecità e di frequenti

14 Carminum Liber II, 12.

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paragoni tra le proprie fortune o disgrazie e quelle di altri impaniati in non dissimili grovigli. Niente affresco, quindi, ma, proprio per non sottrarci a tanta pruriginosa ricchezza, un altro momento di succu- lenta incertezza nel rapporto sotterraneo tra chi ama (o amerebbe), chi è amato, e chi scrive d’amore (il tutto sotto gli occhi, bien sûr,di un marito vecchio e/o rimbecillito). Sospettoso e, anzi, certo dell’in- fedeltà della propria donna, il neotero Tibullo scrive tra l’altro:

… iam Delia furtim nescio quem tacita callida nocte fovet. Illa quidem tam multa negat, sed credere durum est: sic etiam de me pernegat usque viro. Ipse miser docui, quo posset ludere pacto custodes: heu heu nunc premor arte mea

[… non riesco a sapere a chi segretamente, con astuzie, nel silenzio della notte Delia concede i suoi favori. Difficile crederle anche se lei lo nega. Non dice forse lo stesso di me a suo marito. Ah me disgraziato che le ho insegnato a eludere ogni vigilanza. Sono vittima della mia stessa astuzia]15

Questo di Tibullo è un buon esempio non solo di triangolazione, e anzi, si è visto, di poligonia amorosa, ma anche del ruolo determinante che nella scrittura poetica d’amore ricopre il destinatario che non sem- pre è quello esplicitamente dichiarato (Mecenate, nel caso di Orazio, Amore, nel caso di Tibullo16), ma quello cui si vuole far pervenire il

15 Elegiae,I,6. 16 Ibid. “Semper, ut inducar, blandos offers mihi voltus, / Post tamen es misero tristis et asper, Amor. / Quid tibi saevitiae mecum est? an gloria magna est / In-

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messaggio della propria struggente insufficienza (come canta Paolo Conte in Azzurro: “mi sembra di non avere più risorse senza di te … e allora quasi quasi prendo il treno e vengo da te … ma il treno dei de- sideri dei miei pensieri all’incontrario va … tra la lalà lalà”). Ora, se il ruolo (psicologico) del destinatario è chiaramente di pri- maria importanza nel caso di scritture amorose di tipo A (seduzione), nei casi di tipo B (riflessione amorosa), e ancora di più in quelli di sci- volamento e di trasformazione dall’uno all’altro, esso assume un ruolo determinante nella motivazione stessa della scrittura. Di questo smot- tamento hanno dato circospetta ma insospettabile testimonianza alcuni dei maggiori poeti del nostro Duecento, i quali hanno abilmente mo- strato come senza un’accurata valutazione di tale ruolo e delle sue me- tamorfosi, la decodificazione del messaggio risulti mutilata, sia che il poeta si rivolga direttamente alla persona amata, sia che ne parli indi- rettamente a qualcun altro. Cosa che, per esempio, non succede per la poesia epica o per quella ispirata da un’esigenza etica, che insieme a quella erotica formano, secondo che ne scrive l’Alighieri nel De Vul- gari Eloquentia, i tre campi di eccellenza per operare all’interno dei quali è vero, giusto e salutare adottare le modalità formali del genere tragico e quelle metriche della canzone17. sidias homini conposuisse deum? ” [Sempre tu mi attrai con blandizie dipinte sul volto / ma poi diventi lugubre e crudele, o Amore. Perché vuoi farmi del male? Forse / deve gloriasi un dio, di mettere nei guai un uomo?]. 17 Sed ommictamus alios, et nunc, ut conveniens est, de stilo tragico pertractemus. Stilo equidem tragico tunc uti videmur quando cum gravitate sententie tam super- bia carminum quam constructionis elatio et excellentia vocabulorum concordat. Quare, si bene recolimus summa summis esse digna iam fuisse probatum, et iste quem tragicum appellamus summus videtur esse stilorum, illa que summa canenda distinximus isto solo sunt stilo canenda: videlicet salus, amor et virtus et que prop- ter ea concipimus, dum nullo accidente vilescant. [Ma per ora ometto tutti gli altri, e, come è bene fare per prima cosa, tratterò dello stile tragico. È evidente che lo stile tragico viene usato quando eleganza dei versi, altezza della costruzione ed eccel- lenza dei vocaboli sono in armonia con la profondità del pensiero. Se ben ricordo, ho già provato che le cose somme sono degne di stare con il sommo. Poichè lo stile

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Occorre dunque ribadire, per l’appunto, che nella poesia erotica (patetica) c’è la differenza determinante del destinatario che la separa dagli altri due argomenti. Di guerra e di morale si può parlare a chiun- que, e a intere popolazioni o anche a nessuno. Ma per quella d’amore un destinatario ci vuole perché, altrimenti, lo specifico stesso del- l’erotico va farsi benedire. Se uno lo toglie di mezzo, la poesia perde tanto la funzione dell’ottenimento dell’oggetto d’amore, quanto la pos- sibilità di trasformare la vicenda amorosa in una ricerca conoscitiva delle sue vicissitudini e premesse. Una dicitura senza destinatario che abbia amore per argomento sarebbe dunque, si vuol suggerire, una poe- sia d’amore soltanto in apparenza, come cercheremo di mostrare più avanti. Ma forse ciò non è, in realtà, neppure possibile. Rientriamo dunque, ancora per un po’, nelle coordinate del triangolo poeta, oggetto d’amore, destinatario. Dante ne ha fatto argomento del proprio percorso evolutivo, trattandone diffusamente nei capitoli XVII, XVIII e XIX della Vita nuova, opera della quale si possono dire la chiave di volta. Dopo aver scritto “tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna … credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai avere manifestato, avvegna che poi tacessi di dire a lei …”, e dopo essersi chiesto “vergognoso … Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la donna mia, perché altro parlare è stato il mio?”, Dante, come tutti, veramente, sanno, decide di porre fine ai propri dubbi e di comin- ciare a parlare di Beatrice rivolgendosi (e mantenendo quindi viva la fictio del destinatario) ad altre donne che hanno manifestato alcune per- plessità nei riguardi del suo comportamento. Ne viene fuori una poesia meravigliosa in cui non solo prende corpo l’idea che il “ragionamento”, e non la razionalizzazione, pro- curi l’“isfogarsi” (la fuga? la fuga musicale?) della mente, ma viene

tragico è sommo tra gli altri stili, quegli argomenti già individuati come sommi de- vono cantarsi con questo stile: essi sono la salvezza, l’amore e la virtù, e ciò che viene pensato per essi, purché non siano sviliti da cose non necessarie e acciden- tali.] De vulgari eloquentia II, iv, 7-8.

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anche ribadito il concetto del destinatario insospettato, quello che si innamora, ascoltando. Attenzione dunque “donne ch’avete intelletto d’amore”, e cioè attrezzate alla lettura di un testo necessariamente reticente, e sfacciato allo stesso tempo: potrebbe capitarvi d’incon- trare un Dante Alighieri che, parlando di Beatrice in un momento in cui l’ardire di un tale fatto non l’abbandonasse, vi farebbe innamo- rare tutte quante. Di chi? Di Dante, naturalmente, o, per contagio, di chi prende in prestito le sue parole:

Donne ch’avete intelletto d’amore, I’ vo’ con voi de la mia donna dire, Non perch’io creda sua laude finire, Ma ragionar per isfogar la mente. Io dico che pensando il suo valore, Amor sì dolce mi si fa sentire, Che s’io allora non perdessi ardire, Farei parlando innamorar la gente: E io non vo’ parlar sì altamente Ch’io divenisse per temenza vile; Ma tratterò del suo stato gentile, A respetto di lei leggeramente, Donne e donzelle amorose, con vui, Ché non è cosa da parlarne altrui.

Ho messo in corsivo, per dare maggior evidenza a queste prime inquietanti osservazioni, i versi in cui si manifestano il programma e le intenzioni dell’autore, il quale però, nel congedo della canzone, sembra far rientrare dalla finestra ciò che era uscito dalla porta. Sì, perché qui scopriamo che la destinataria della poesia è comunque la donna del poeta e che le donne che hanno intelletto d’amore (e per sopramisura, anche qualche “omo cortese”) servono solo da staffette, per fare avanzare il messaggio di posta in posta, di stazione in sta- zione, di orbita in orbita e fino al luogo misterioso in cui la donatrice di beatitudine si trova in compagnia di Amore.

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Arrivati a questo punto, per altro, dobbiamo tuttavia ammettere di esserci sbagliati: il destinatario finale, a sorpresa, è Amore stesso, e la canzone una de-cantazione dei meriti dell’amante, quasi un at- testato di benemerenza che ne faccia, in un futuro non lontano, un legittimo frequentatore della corte di quel dio che ride e che piange e che, come tale, non è sostanza, ma semplice accidente in sostanza.

Canzone, io so che tu girai parlando A donne assai, quand’io t’avrò avanzata. Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata Per figliuola d’Amor giovane e piana, Che là ‘ve giugni tu dichi pregando: “Insegnatemi gir, ch’io son mandata A quella di cui laude so’ adornata”. Se non vuoli andar sì come vana, Non restare ove sia gente villana; Ingegnati, se puoi, d’esser palese Solo con donne o con omo cortese, Che ti merranno là per via tostana: Tu troverai Amor con esso lei; Raccomandami a lui come tu dèi.

Tale complicazione è assente, grazie a Dio, nel congedo della ce- leberrima Ballatetta in Toscana, di Guido Cavalcanti, in cui le donne aventi intelletto d’amore sono rimpiazzate da una sola “donna pia- cente, / di sì dolce intelletto / che vi sarà diletto /starle davanti ognora”. Si tratta, ovviamente, di una donna specialissima che Caval- canti non esita a trattare come una divinità. Egli infatti mette sullo stesso piano il “ragionare”, lo “stare davanti” e l’ “adorare”, pro- vocando un corto circuito che in tempi di letture più maliziose (puntuali?) gli sarebbe costato il rogo. Ma leggiamo insieme l’in- tero congedo:

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Tu, voce sbigottita e deboletta ch’esci piangendo de lo cor dolente coll’anima e con questa ballatetta va’ ragionando della strutta mente. Voi troverete una donna piacente, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora. Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’ valore.

Qui dunque non solo una donna mortale può essere adorata ma l’adorazione consiste nel “contemplar ragionando”, la qualcosa lascia di stucco e fa compiere un enorme balzo in avanti alla poesia d’amore, un balzo non di semplice grado, ma di genere. Pur non es- sendoci dubbi che, come ci ricorda Giuseppe De Robertis nella sua magistrale edizione delle Rime di Guido Cavalcanti, “il verbo ‘ado- rare’ […] estraneo al Dante lirico […] è presente nel lessico dei pro- venzali [e] rifluirà di qui nei più tardi stilnovisti, Cino e Frescobaldi, nonché naturalmente in Petrarca”,18 egli è pur vero che, in Guido (e poi in Petrarca, di cui sarebbe il caso di ribadire un po’ più spesso la filiazione cavalcantiana – il che non si dirà certo di Cino o di Fre- scobaldi –) la carica semantica dell’ /adorare/ inserito nel summen- zionato Congedo introduce un concetto che rifonda il pensiero stesso d’amore, non più come materia di redenzione, ma come occasione di- scorsiva di conoscenza, di pensiero pensante. Anche Dante, si dirà, conficca il verbo “ragionare” in una posi- zione di grandissimo rilievo e, anzi, di assoluta preminenza, all’in- terno del proprio testo, ma, la differenza con Guido non può sfuggire: il ragionare di Dante riguarda una mente attiva, in controllo degli av- venimenti; una mente capace di virare dal parlare a al parlare di,

18 Torino, Einaudi, 1986, p. 139, n. 46.

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come abbiamo appena visto. In Guido, invece, il ragionamento si svolge intorno a una “strutta mente”, e il suo argomentare è affidato a tre distinti interlocutori: alla “voce sbigottita e deboletta” di un cuoredolente,all’“anima”ea“questaballatetta”,cheletengonoven- turosamente compagnia: una compagnia non peregrina, ma certa- mente incauta. Con Guido, dunque la poesia d’amore passa non solo dalla si- tuazione A alla situazione B, ma anticipa seriamente la situazione C, il locus non tanto amoenus dove il destinatario non è più sem- plicemente sovrapponibile al lettore, come nel caso di una mis- siva, e dove l’autore, lungi dal tessere trame di significato, si limita a proporre catene di significanti di cui poi, con pazienza, la propria mente distrutta, adorando, contemplando, e cioè ragionando, ten- terà (fallendo ogni volta, ben inteso) di venire a capo. Questo ra- gionamento ha tutta l’aria di una promessa del dire, quale da insuperato maestro, ci ammannisce Gabriele d’Annunzio ne La sera fiesolana. Dopo avere auspicato che parole fresche (prima strofa) acquisi- scano il suono delle foglie etc. etc., e dopo essersi augurato che pa- role dolci (seconda strofa) acquisiscano quello della pioggia etc. etc., la terza strofa esplode in un perentorio, “io ti dirò”:

verso quali reami d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare

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che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte19.

Non può sfuggire la martellante sequenza, e anzi l’incastro moz- zafiato di fonti che parlano nel mistero (sacro) dei monti, e del se- greto che non ci viene rivelato, naturalmente, e in grazia del quale però le colline diventano labbra chiuse sì da un divieto, ma che, ciò malgrado, la volontà di dire, che in loro comunque alberga, rende consolatrici novelle e talmente efficaci che l’anima (riconoscente) le può amare ogni sera “d’amor più forte”. In questo D’Annunzio, come nel Guido della Ballatetta, in circostanze diversissime e addirittura antipodali, conta dunque l’infinita gamma dei toni che il poeta repe- risce nel proprio impulso a dire, e il ruolo del destinatario/lettore (o, più probabilmente, lettrice) resta funzionale allo svolgersi del di- scorso poetico. Con Donna me prega, una delle più commentate (e torturate) can- zoni d’amore di tutta la letteratura italiana, Guido Cavalcanti, per tornare ai nostri dugentisti, fa compiere ai problemi del vocativo e dell’interlocuzione, un vero salto in avanti. Qui la distanza tra desti- natario e lettore si affievolisce e, al tempo stesso si complica ulte- riormente. Se ne chiarisce altresì la funzione: scritto in apparenza per rispondere alle richieste di una donna che, more solito,dobbiamo supporre idonea alla ricezione e all’intelligenza del testo da lei sol- lecitato, ma non necessiarmente a lei indirizzato, sorge anche l’ipo- tesi (ma per secoli la si è sbandierata come una certezza), che Guido abbia redatto la propria canzone in risposta ai quesiti contenuti in un sonetto di Guido Orlandi, quesiti che Cavalcanti affronta nello stesso ordine del proponente, e accogliendo nella canzone (come ha rile- vato il professor De Robertis) “ben 4 delle 5 rime […], una per strofa, e […] ben 7 parole-rima”. Ma lo stesso De Robertis avverte come già Guido Favati avesse messo in dubbio l’affermazione riportata in al-

19 Vedi Alcione,inVersi d’amore e di gloria II, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, Milano, Meridiani Mondadori, p. 430.

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cuni manoscritti antichi, e trascritta nella Raccolta Bartoliniana, se- condo cui, col suo sonetto, Guido Orlandi si sarebbe rivolto a Guido Cavalcanti, in nome di una donna – “… al qual sonetto G.C. rispose con la sua divinissima Canzone” –, e ritenesse anzi il sonetto stesso “un’interpolazione posteriore […], composto sulla falsariga e sul- l’onda della canzone”20. Nel congedo, dopo il tradizionale saluto di commiato alla can- zone stessa, “sì adornata / ch’assai lodata – sarà tua ragione”, Guido si rivolge esplicitamente ed esclusivamente a “le persone – c’hanno intendimento” parola, quest’ultima, assai cara al poeta, che non solo lo distingue da chi al suo posto avrebbe usato “intelletto”, ma quali- fica anche in senso radicalmente nuovo il ruolo del destinatario che comincia qui a coincidere con quello del lettore. Si inaugura in Guido una separazione tra il destinatario (donna) che è l’occasione del testo, cui viene sottratta l’esclusività della lettura (tale ancora il caso della Ballatetta) e il destinatario/lettore effettivo (persona, e anzi persone che hanno intendimento) il quale viene investito di un compito ese- getico, e quindi, non di una semplice decodificazione: intendere è diverso da comprendere (intellegere) ciò che le parole nascondono. Il progetto di Guido è infatti, la costruzione di un testo di sublime esattezza terminologica, la cui lettura dovrà essere, per ciascuno, una forma di partenza ulteriore, un tendere a una presunzione di verità lontana da qualsiasi fumisteria orfica e avente però come destino reale la percezione dell’irrapresentabile normalità di amore. Da questo momento il rapporto tra il destinatario che il poeta aspira ad attirare nella ragnatela del proprio testo (destinatario che può anche essere assente, o comunque non dichiarato) e il lettore ne- cessariamente invocato, sarà la vera spina dorsale della lirica d’amore. Mi sembra addirittura clamoroso, in questo senso, il caso del leopardiano Pensiero dominante, in cui assistiamo a un sottilis- simo e struggente scivolamento dall’invocazione ad Amore inteso come fonte privilegiata di espressione:

20 De Robertis, op. cit., p. 90.

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Dolcissimo, possente Dominator di mia profonda mente; Terribile, ma caro Dono del ciel; consorte Ai lúgubri miei giorni, Pensier che innanzi a me sì spesso torni. Dituanaturaarcana Chi non favella? Il suo poter fra noi Chi non sentì? Pur sempre Che in dir gli effetti suoi Le umane lingue il sentir propio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona21. all’evocazione di una figura concreta, che in questo caso, oltretutto, conosciamo benissimo, non essendo altri che la stessa di Aspasia, e che, passata da ricordo a pensiero, sembra sopraffare con la sua “as- senza” ogni invito alla lettura rivolto a terzi:

Quanto più torno A riveder colei Della qual teco ragionando io vivo, Cresce quel gran diletto, Cresce quel gran delirio, ond’io respiro. Angelica beltade! Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, Quasi una finta imago Il tuo volto imitar. Tu sola fonte D‘ogni altra leggiadria, Sola vera beltà parmi che sia.

21 Vedi Poesie e prose, op. cit., p. 93.

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Dachetividipria, Di qual mia seria cura ultimo obbietto Non fosti tu? quanto del giorno è scorso, Ch’io di te non pensassi? ai sogni miei La tua sovrana imago Quante volte mancò? Bella qual sogno, Angelica sembianza, Nella terrena stanza, Nell’alte vie dell’universo intero, Che chiedo io mai, che spero Altro che gli occhi tuoi veder più vago? Altro più dolce aver che il tuo pensiero?22

A proposito di questa scomparsa, in presenza di Amore, di ogni pensiero o cura che non riguardi amore stesso, così scrive Leopardi nello Zibaldone:

“Quando l’uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi,nonsivedepiùsenonl’oggettoamato,sistainmezzoallamolti- tudine alle conversazioni ec. come si stasse in solitudine, astratti e fa- cendo quei gesti che v’ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della maraviglia nè del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso ec. fuorchè quel solo pensiero e quella vista. Non ho mai provato pensiero che astragga l’animo così potentemente da tutte le cose circostanti, come l’amore, e dico in assenza dell’oggetto amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor sola- mente alcuna volta il gran timore che forse gli potrà essere paragonato”23.

22 Ibid., pp. 96-97. 23 Alla pagina 59 dell’autografo, conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, e puntualmente indicata, come tutte, in ogni edizione recenti dell’opera. Sul tema di amore ritorna anche argutamente l’autore ne Lastoriadelgenereumanoche apre le Operette morali, dove si legge, tra l’altro: “Giove compassionando alla nostra somma

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Se è vero che un destinatario amoroso, presente o assente, coin- cidente o meno con il lettore, è sempre determinante nell’assegna- zione di un testo alla categoria “lirica d’amore”, non è, naturalmente vero il contrario. Eugenio Montale, per esempio, un poeta che si era

infelicità, propose agl’immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a sé, indegni della sciagura universale. Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, con- forme di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversis- simo;siofferse(comeèsingolarefratuttiinumilasuapietà)difareessol’ufficio proposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli mai per l’avanti non si era tolto; non sofferendo il concilio degl’immortali, per averlo indicibilmente caro, che egli si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro commercio. Se bene di tratto in tratto molti antichi uomini, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi del fantasma chiamato collo stesso nome, si pensarono avere non dubbi segni della presenza di questo massimo iddio. Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all’imperio della Verità. Dopo il qual tempo, non suole anco scen- dere se non di rado, e poco si ferma; così per la generale indegnità della gente umana, come che gli Dei sopportano molestissimamente la sua lontananza. Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino al- lora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomi- glianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli oc- cupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la fe- licità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata con- dizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consue- tudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permet- tendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei”. Vedi Poesie e prose, volume secondo, ibid., pp. 17-19.

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sempre rivolto alla destinataria dei suoi versi d’amore (vedi il cam- pione riportato a pagina 135) con il pronome della seconda persona singolare, “con Satura (1971) e le raccolte successive procede, bru- ciandola con gli acidi dell’ironia, a una liquidazione della sua vi- cenda di poeta”24, dichiarando di aver volutamente sparigliato i sensi attribuibili a questo suo TU, e dando come un colpo di spugna al ruolo cui lo aveva destinato inizialmente (e, con spiccata alacrità e sa- pienza, nei Mottetti):

I critici ripetono, da me depistati, che il mio tu è un istituto. Senza questa mia colpa avrebbero saputo che i tanti sono uno anche se appaiono moltiplicati dagli specchi. Il male è che l’uccello preso nel paretaio non sa se lui sia lui o uno dei troppi suoi duplicati25.

Da questo masochistico gioco degli specchi, non sembra esserci via d’uscita. A meno che non si imposti il ragionamento sulla base di una dialettica negativa, ovverossia di un dialogo aperto alle implica- zioni dell’assenza e ci si chieda se, per esempio, la poesia di Giu- seppe Ungaretti con cui abbiamo scelto di chiudere queste note, non possa iscriversi anch’essa nel canone della lirica d’amore, pur non of- frendo nessuno spunto all’identificazione di un destinatario, o di un lettore privilegiato, ma proprio per il fatto di non riuscire a non farne immaginare o sospettare uno:

24 Testa, Enrico, Introduzione a Dopo la lirica, poeti italiani 1960-2000. Torino, Einaudi, 2005, p. VIII. 25 Il tu,inSatura 1962-70,inOp. cit., p. 283.

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L’amore più non è quella tempesta Che nel notturno abbaglio Ancora mi avvinceva poco fa Tra l’insonnia e le smanie, Balugina da un faro Verso cui va tranquillo Il vecchio capitano26.

Davanti a un testo del genere il lettore si trova completamente solo e disarmato. Non ci sono né vocativi, né invocazioni. Neppure si ravvisano destinatari nominati, pur essendo il contesto iscrivibile, quanto meno in apparenza, in una trattatistica amorosa. Uno strano sorriso di tranquillità si stampa sul volto di un capitano che affida la traccia del sentimento che in lui suscita la propria condizione senile a due brevissime strofe. Un lettore disattento alle implicazioni della virgola che sospende, ma non chiude, la prima strofa, dello spazio bianco da cui è seguita e, soprattutto del verbo /baluginare/ con cui si apre la seconda e che, proprio per la presenza di questi due ele- menti (la virgola e lo spazio bianco), si sottrae come predicato al sog- getto della prima (Amore), potrebbe inclinare al sospetto che Ungaretti gli stia raccontando due volte la stessa triste storia di un im- poverimento delle risorse erotiche. Ma se non è Amore che balugina, non può che essere, prolettica- mente, il vecchio capitano. Possiamo, e anzi dobbiamo accogliere questo suggerimento per due ragioni: la prima è che la prolessi è un andamento stilistico tipico dell’autore, e la seconda è che a far balu- ginare un vecchio capitano ci si guadagna di più (semanticamente), che a far baluginare un faro e cioè una luce d’amore, in tarda, tar- dissima età. Oltretutto, in questa prospettiva, il capitano viene a tro- varsi in una situazione contraddittoria: egli va verso un faro da cui

26 Si tratta dell’ultimo coro de La terra promessa,1952-60, in Vita di un uomo: Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Meridiani Mondadori, 1977.

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proviene. La qualcosa potrebbe contrastare alle leggi della dinamica, ma non certamente a quelle della psicologia. Quanto al destinata- rio/lettore, o lettore/ destinatario, lui, o direi, più plausibilmente, lei, è sì, assente, ma non inesistente. Cosa impedisce infatti di collegare la sua trasparente non evocazione alla nostalgia stessa di un pieno possesso delle proprie facoltà, e della generosità, necessariamente perduta, di farne partecipe l’altro da noi? Ma c’è di più: non è forse possibile risalire dalla riconosciuta pre- senza degli speciali ingredienti grafici e linguistici che danno forma, nel testo, alla persistente ricerca d’amore, al desiderio di una consa- pevole messa in comune del linguaggio, di quel pensiero, anch’esso dominante, che dando senso e spinta alla vita dell’altro potrebbe, unico al mondo, distoglierci dalle sciagure del credere di combaciare con l’altro, per non dire dell’ubbidirgli o peggio ancora di combat- terlo? Ma questo amore è anche agape, una sete di giustizia, una ri- cerca perenne di verità: eros di ogni gesto in ogni situazione, raddoppio costante della posta in gioco. Un impossibile? Sì, ma con l’avvertenza che non gli impossibili sono privi di realtà, bensì i pos- sibili destinati, per definizione, a rimanere tali presso coloro che non scrivono sotto il magistero di Amore.

153 Lettura di fuoco Giuseppe Palanti, manifesto pubblicitario per l’opera Francesca da Rimini di D’Annunzio musicata da Riccardo Zandonai. Milano 1914. MASSIMO CIAVOLELLA Libri galeotti, letture proibite1

II termine erotismo con tutti i suoi derivati comporta una pregiu- diziale che condiziona profondamente la nostra capacità di leggere testi quali i Sonetti lussuriosi eleSei giornate di Pietro Aretino (e non scelgo quest’autore a caso) e l’Histoire de ma vie di Giacomo Casa- nova. Nel caso specifico dei nostri autori l’interferenza maggiore de- riva dall’impressione che si ricava da una lettura troppo disinvolta delle loro opere e dall’immagine di un Aretino o di un Casanova empi pornografi e seduttori, assidui frequentatori di prostitute o abbietti sodomiti (è il caso delle accuse rivolte all’Aretino) tramandataci dai loro piú o meno noti nemici, detrattori o lettori e critici conservatori o bigotti2.

Ma a questa nostra incapacità di leggere opere simili e alla pre- giudiziale tramandataci dalla storia letteraria – e non dimentichiamo la notorietà che circonda la figura di Casanova anche fuori d’Italia e che alla fine si riflette anche su quella nostrana – si assommano in primo luogo quel livello di lettura dell’erotico, anch’essa nel nostro caso fuorviante, imposta dalla psicoanalisi e dalla psicologia del- l’eros di stampo anglosassone cosí popolare negli ultimi decenni, e soprattutto 1’esplosione violenta a livello di massmedia e la com- mercializzazione selvaggia di tutto ciò che viene considerato erotico

1 Riprendo, con alcuni aggiornamenti e aggiunte, il testo di una relazione pre- sentata presso la Fondazione Cini di Venezia nel 2000. 2 Si veda anche il mio saggio “La produzione erotica di Pietro Aretino”, in Pie- tro Aretino nel cinquecentenario della nascita, Roma, Salerno, 1995, vol. I, p. 49 sgg.

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e pornografico. Si rischia insomma di leggere quelle opere esclusi- vamente attraverso questi filtri socioculturali e pertanto di lasciarsi fuorviare dai parametri di uno studio obiettivo e scientifico. Le do- mande che dovremmo invece porci vertono sulla strategia narrativa dell’autore e sul rapporto tra le due opere e la produzione erotica coeva e anche classica.

Parlando del fatto che ben pochi intellettuali anglosassoni della seconda metà dell’Ottocento avevano il coraggio di dichiarare per iscritto la loro simpatia per 1’autobiografia casanoviana (“There are few more delightful books in the world than Casanova’s Memoires. That is a statement I have long vainly sought to see in print”3) –anche se Wendel Holmes o Thackeray ne avevano parlato come di un’au- tobiografia ideale – Havelock Ellis, nel capitolo dedicato a Casanova nella sua raccolta di saggi intitolata Affirmations, pubblicata a Lon- dra nel 1898, scriveva che: “Every properly constituted `man of let- ters’ has always recognized that any public allusion to Casanova should begin and end with lofty moral reprobation of his unspeakable turpitude”4. È passato quasi un secolo da quest’affermazione di Ellis, ma 1’atteggiamento nei confronti di Casanova non è cambiato di molto. Anche se negli ultimi anni si è assistito a un certo revival cri- tico dell’Histoire de ma vie, soprattutto in Italia e in Francia, la mag- gioranza dei lettori e critici ha mantenuto la vecchia pregiudiziale condannata da Havelock Ellis e ha preferito soffermarsi su Casanova personaggio “libertino” piuttosto che dedicarsi all’analisi del suo lin- guaggio, quello erotico in particolare. Offro due esempi: 1’antipatia, il ribrezzo direi di Federico Fellini nel rappresentare il personaggio di Casanova nel film omonimo; la recensione alla seconda edizione

3 H. Ellis, Affirmations, Boston e New York, Houghton Mifflin Company, 1922, p. 86. Di Ellis si veda anche Casanova in Rome, in Venice, in Paris: An Appre- ciation, Boston, J.W. Luce, 1924. 4 Ibid.

156 MASSIMO CIAVOLELLA

americana dell’Histoire, uscita sul quotidiano “Los Angeles Times” in cui un’insigne collega parlava esclusivamente degli exploits ses- suali del nostro e della noia che la lettura di tutti questi amplessi le aveva procurato. Vorrei a questo punto definire i termini erotico, pornografico e osceno in quanto, per ripetere una famosa frase di Henry Miller, “di- scutere la natura e il significato dell’erotico o dell’osceno è quasi al- trettanto difficile che parlare di Dio”. Uso questi termini rifacendomi alle definizioni suggerite da Roger Thompson nel suo saggio Unfit for Modest Ears. A Study of Pornographic, Obscene and Bawdy Works Written or Published in England in the Second Half of the Sev- enteenth Century:

“I. Pornografico, scrittura o rappresentazione che ha come scopo quello di risvegliare desideri sessuali, di creare fantasie sessuali o di alimentare desideri auto-erotici. Il pornografo al minimo mira al- l’erezione nel pornofilo. II. Osceno, la cui intenzione è di scioccare o disgustare, o di rendere il soggetto della scrittura scioccante o disgustoso... III. Erotico, destinato a collocare il sesso nel contesto dell’amore, della reciprocità e dell’affetto...”5.

Per Thompson il termine erotico comprende tutti e tre questi tipi di scrittura (ai quali egli ne aggiunge un quarto, bawdy): seguo la sua definizione.

È in quest’accezione che gia Ellis, usando la parola amore, love, per descrivere le molte passioni di Casanova, spiegava che si sen-

5 “Pornographic, writing or representation intended to arouse lust, create sexual phantasies or feed auto-erotic desires. The pornographer aims for erection (at least) in the pornophile […] Obscene, intended to shock or disgust, or to render the subject of the writing shocking or disgusting […] Erotic, intended to place sex within the context of love, mutuality and affection […]”.

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tiva di poterla usare non eufemisticamente in quanto, sebbene “Le passioni di Casanova crescessero e maturassero con la rapidità nata da una lunga esperienza in queste cose, talmente fresca è la vitalità dell’uomo che sempre vi è una freschezza verginale in ogni nuova passione”6, mentre Piergiorgio Bellocchio parla di “eros elementare e arretrato”, e delle Memorie quali “manifestazioni-celebrazioni di un appetito spettacolare, di una vitalità eccezionale quanto generica, mentre il dato specificamente sessuale passa in secondo piano”7. Ca- sanova non è un semplice biografo dei propri exploits sessuali. Se leggiamo il libro solo in questa ottica, esso diventa inevitabilmente monotono, perché viene ridotto ad una lunga teoria di amplessi, 122 in tutto, ognuno dei quali occupa spesso numerose pagine. Casanova è invece un maestro della scrittura erotica; una scrittura che dialoga e si cimenta costantemente con sé stessa, con i grandi scrittori della tradizione erotica occidentale, di cui il suo autore si considera erede e epigone, e con il lettore raffinato, colto, che sa cogliere 1’essenza di quella scrittura anche nel contesto di quella ricca tradizione, e la- sciarsi cosí trasportare dall’onda di una sensualità pura, naturale, piú vera di quella vera proprio perché vissuta attraverso quelle pagine. Il lettore può in questo modo rivivere, attraverso 1’io parlante, quelle avventure per confondersi in esse. Il piacere del testo deriva da que- ste due componenti inestricabilmente legate tra di loro.

In un’età in cui il trattato, la biografia e 1’autobiografia ero- tico/scandalosi sono de riguer: offro solo pochi titoli esemplifica- tivi; Les galanteries angloises di Rustaing de St. Jory del 1700; 1’anonimo Colloque ou entretien de deux dames pubblicato a Dijon nel 1712; gli anonimi Maria, ou les veritables memoires del 1765 e

6 “Casanova’s passions grew and ripened with the rapidity born of a long expe- rience in these matters, so fresh is the vitality of the man that there is ever a vir- ginal bloom on every new ardour”. 7 P. Bellocchio, Introduzione a G. Casanova, Memorie scritte da lui medesimo, Milano, Garzanti, 1976, pp. xii-xiii.

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1’Histoire de la vie de la duchesse de Kingston del 1789; 1’Histoire de ma vie è anche una sfida gettata alla letteratura erotica coeva e a quella della tradizione classica, quella tradizione che l’antica enci- clopedia bizantina Suda fa partire addirittura da Astianassa, ancella di Elena moglie di Menelao, e che trova il suo rappresentante piú il- lustre nell’Aretino dei Sonetti sopra i XVI modi e delle Sei giornate. Nell’Histoire de ma vie 1’interlocutore privilegiato, 1’autore che ser- peggia dietro la minuziosa descrizione di tanti incontri galanti è pro- prio Pietro Aretino. Sono le Sei giornate che fanno da sfondo agli amplessi tra Casanova, Lucrezia e la sorella di costei, Donna Ange- lica:

Cinque minuti dopo, guardando attraverso il buco della serratura, le vidi entrare accompagnate da Don Francesco che accese loro una lam- pada da notte e le lasciò. Si chiusero in camera, si sedettero sul ca- napé e vidi che si spogliavano. Lucrezia, sapendo che potevo udirla, disse alla sorella di andare a coricarsi dalla parte della finestra. Ed ecco la vergine, che ignara d’essere osservata si spoglia nuda e in questa condizione estremamente seducente passa dall’altra parte della stanza. Lucrezia spegne la lampada da notte e le candele, e si corica anche lei. Momenti felici che non spero piú di riavere ma di cui solo la morte potrà farmi smarrire il dolce ricordo. Credo di non essermi mai sve- stito piú in fretta. Apersi la porta e caddi tra le braccia aperte di Lu- crezia che disse alla sorella: “il mio amore, taci e dormi”8.

Angelica ovviamente non riesce a dormire e all’alba cade an- ch’essa nelle braccia di Giacomo. L’autore ci costringe insomma a di- ventare voyeurs, a guardare in un primo momento la scena delle due giovani fanciulle che si denudano attraverso gli occhi di Casanova che guarda dal buco della serratura, proprio come nelle Sei giornate, ove il gioco combinatorio delle permutazioni sessuali tra chierici e

8 Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori, 1983, vol. I, p. 280.

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monache non è semplicemente raccontato dalla Nanna, giovane no- vizia appena entrata in convento: 1’autore ci costringe a guardare quelle scene con gli occhi stessi della Nanna attraverso le fessure, i buchi dei muri delle celle. Nell’Histoire però il gioco combinatorio è legato all’atto del vedere, è piú allusivo e meno pesante di quello are- tiniano. II testo ci costringe prima a guardare attraverso gli occhi del protagonista. Assistiamo poi agli amplessi di Casanova e Lucrezia at- traverso Donna Angelica, che degli amplessi è testimone insonne per molte ore. E quando, dopo la lunga notte d’amore Angelica, spossata ma felice, spinge Giacomo nelle braccia della sorella oramai eccitata e pronta a tutto, è attraverso i suoi occhi – di Angelica dico – che as- sistiamo a quest’ultima permutazione amorosa. In ambedue i casi non siamo piú semplici spettatori, perché il ritmo del racconto, il linguag- gio allusivo, la presenza continua della voce del protagonista ci tra- scinano fino ad identificarci con lui, a vivere con lui la scena. Scena che si ripete con la moglie di Josouff, alla quale Casanova racconta la notte da lui trascorsa a Costantinopoli con Ismail assistendo al bagno delle sue donne, racconto che “la infiammò al punto da farla arrossire. Velavo tutti i particolari che potevo – continua il nostro – ma quando mi trovava oscuro la signora mi costringeva a spiegarmi meglio: d’al- trocantononmancavadisgridarmiquandomifacevocapire,emidi- ceva che mi ero espresso con troppo chiarezza. Ero sicuro di riuscire in quel modo a far nascere in lei delle fantasie a me favorevoli. Colui che suscita desideri può facilmente vedersi condannato a spegnerli...”9. Sono i Modi dell’Aretino, uno dei libri denunciati da Manuzzi al tri- bunale dell’inquisizione (“il libretto dell’Aretino con le pose lubri- che”)10; lo stesso libro che nel gennaio del 1754 aveva usato con M. M. per “passare il tempo”: “Intanto guarda questo libretto - dice Casanova alla sua amante - che ho preso nel tuo salottino. Ci sono le pose amo- rose di Pietro Aretino. In queste tre ore voglio provarne alcune”.

9 Ibid., p. 448. 10 Vol. II, p. 3.

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“L’idea è degna di te - risponde 1’amata - Ma ve n’è che non si pos- sono eseguire, e anche di insulse”. “Vero - risponde Casanova - ma ce ne sono quattro molto interessanti”. Occupammo cosí le tre ore, termi- nando la festa quando udimmo suonare il pendolo”11. E ancora, sempre con la monaca M.M. mentre 1’altro suo amante guarda da uno spiraglio:

Ci mettemmo [...] uno accanto all’altro davanti a un grande spec- chio diritto, passandoci un braccio dietro la schiena. Ammirando la bellezza delle nostre immagini, e bramosi di goderne, lottammo in tutti i modi, sempre in piedi. Dopo 1’ultimo scontro, ella cadde sul tappeto di Persia che copriva il pavimento. Gli occhi chiusi, il capo riverso, stesa sul dorso, le braccia e le gambe come se la avessero staccata in quel momento da una croce di Sant’Andrea, sarebbe sem- brata morta se non si fosse visto il pulsare del cuore. L’ultimo ab- braccio 1’aveva sfinita. Le feci fare 1’albero dritto e in questa posa la sollevai per lambirle il ricettacolo dell’amore che non potevo rag- giungere diversamente volendo metterla in condizioni di divorarmi a sua volta 1’arma che la feriva a morte senza privarla della vita12.

L’albero dritto è una delle posizioni dipinte a parole dall’Aretino in uno dei suoi sonetti lussuriosi (probabilmente il quattordicesimo) e gra- ficamente da Giulio Romano nel disegno apposto al sonetto stesso.

Il cuore è facilmente sorpreso o avvelenato da un discorso che contiene parole, espressioni o descrizioni capaci di destare, nella fan- tasia di chi ascolta o di chi legge, immagini lascive, diceva agli inizi del Seicento 1’autore di uno dei piú importanti trattati sull’erotomania, conosciuto e citato fino a tutto 1’Ottocento, il medico francese Jacques

11 Vol. I, p. 1013. 12 Vol. I, p. 1005. E così anche con Elena e Edvige a Ginevra, alle quali, scrive Casanova, “feci […] eseguire le posizioni più difficili dell’Aretino, e ciò le di- vertì oltre misura”, vol. II, p. 1145.

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Ferrand13. L’atto del pensare, del conoscere – ce lo insegna Dante nel quinto canto dell’Inferno, quello del libro galeotto – è strettamente le- gato a quello dell’immaginare, alla creazione di immagini mnemoni- che, di phantasmata. E dato che di tutti i sensi esterni, il più perfetto è la vista, insegnava già Platone, sono soprattutto le immagini convogliate dalla vista ai sensi interni dell’anima a formare la base della conoscenza umana: “nihil homo potest intelligere sine phantasmate”, “l’uomo non può capire, conoscere nulla senza immagine mnemonica”, aveva sen- tenziato Aristotele e ripetuto San Tommaso. L’immaginazione (vis ima- ginativa o phantasia: i due termini sono intercambiabili fino a tutto il Rinascimento), era definita come quella facoltà interna dell’anima che “rappresenta e conduce dinanzi all’intellettiva gli oggetti ricevuti dalle spie esterne [i cinque sensi e soprattutto gli occhi, tradizionalmente chia- mati «spie dell‘anima»] [...] è a questi che si richiama la parte intellet- tuale o conoscitiva della mente per formare le proprie conclusioni, che spesso sono false perché 1’immaginazione offre dei rapporti non veri”. È su questa premessa, qui semplificata al massimo, che si era sempre combattuta la lotta contro quelle immagini che potevano essere inter- pretate falsamente dall’uomo o quelle parole che potevano ridestare pe- ricolose immagini sopite. Quest’ultimo assunto, se anche le parole avessero il potere di risvegliare immagini o di crearne delle nuove, era un tema dibattuto fino a tutto il Settecento e oltre da medici, filosofi e teologi e non solamente in Italia. Ho già menzionato l’episodio di Paolo e Francesca. Offro altri due esempi: La complainte de François Garin, marchand de Lyon èunlungopoemadi2316versiscrittoepubblicato nel1460daFrançoisGarin,mercantediLione.Quandoilmercante deve ammonire i figli contro i pericoli che assediano i giovani, dopo aver insistito sul potere della natura che “domina ogni creatura” ricorda che i piú grandi nemici della probità morale sono la pigrizia, 1’ubria-

13 De la maladie d’amour ou mélancolie érotique, ed. critica a cura di D. Bee- cher e M. Ciavolella, Paris, Classiques Garnier, 2010. Ed. italiana, Erotomania, a cura di M. Ciavolella, Venezia, Marsilio, 1995.

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chezza e la “bestiale vita di concupiscenza”. Ma è essenziale, egli am- monisce, che i giovani non si diano alla lettura di storie o di poesie che parlino d’amore14.

Garin non usa il termine lussuria quando parla dei giovani; nel testo non si trova una sola parola di denuncia contro le prostitute, le étuves, o contro la prostituzione. “Il cedere agli slanci del cuore (che sono le- gati alla lettura) – commenta Jacques Russiaud in un’attenta lettura del testo – gli sembra infinitamente piú pericoloso [...] della propensione alle voluttà carnali”15. In Inghilterra invece si discute ferocemente se permettere che i termini e le espressioni relative agli organi sessuali vengano tradotti dal latino dei trattati accademici in inglese. Dato che 1’immaginazione non smette mai di funzionare, ma anzi continua a operare anche nei sogni, scrive Helkiah Crooke nella Microcosmogra- phia, 1’immaginazione ha il potere di comandare le “facoltà motive”; cio significa che i moti, le affezioni, le passioni e le perturbazioni del- l’anima sensitiva possono essere attivati dalle parole in inglese, e gli organi genitali possono rispondere venendo “puffed up”, “enfiati”. Quando i sensi e 1’immaginazione sono stati stimolati dal vocabolario della sessualità, la passione - che qui è definita come “un movimento del sangue [...] dovuto alla speranza del piacere” - può travolgere la Ra- gione16. Nel Seicento Samuel Pepys nel suo diario scriveva:

I did read through L’escholle des Filles a lewd book, but what doth me no wrong to read for information sake (but it did hazer my prick para stand alt the while, and una vez to decharger); and after I had done it, I burned it, that it might not be among my books to my shame17.

14 A cura di J. Russiaud, Lyon, P.U.I., 1978, vv. 1978 ss. 15 Ibid., p. 140. 16 Microcosmographia, London, 1631 (prima edizione London, 1616), p. 248. 17 The Diary of Samuel Pepys, a cusa di R.C. Latham e W. Matthews, Berkeley- Los Angeles, University of California Press, 1970-76, 9 voll., vol. IX, pp. 57-59, cap. 21. Si veda amche il mio articolo sulla “Produzione erotica di Pietro Are- tino” cit, pp. 61-63.

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È questa, appunto, la filosofia del discorso erotico. Dipingere con le parole delle immagini che possano rimanere impresse a fuoco nel- l’immaginazione, che possano risvegliare i sentimenti più intimi delle pieghe più riposte del cuore, che riescano a diventare oggetto di conoscenza: ecco uno degli intenti, forse il piú ambizioso, che Ca- sanova si propone nella propria Histoire, ma soprattutto in quelle parti che piú ne identificano la vitalità, 1’umanità piú profonda. Se i Modi dell’Aretino si articolavano, anche se in maniera ancora speri- mentale, lungo il doppio asse di “libro di Satira” e di sfida nei con- fronti della poesia erotica e delle immagini, disegnate da Giulio Romano, alle quali i sonetti erano apposti; e se nelle Sei giornate egli scriveva alla maniera dei trattati erotici del1’antichità e riscriveva i grandi trattati sulle cortigiane e sull’amore, Casanova nutre un desi- derio ben più ambizioso. Egli vuole re-inventare il linguaggio del- l’eros sfidando, attraverso la sfida lanciata frontalmente al1’Aretino, tutta la tradizione erotica; egli vuole scolpire e dipingere con la forza delle sue parole quello che nessun altro era riuscito a dipingere o a scolpire: la natura del proprio io, e quindi dell’homo eroticus. Perché la vera natura dell’uomo, la sua vera, profonda umanità consiste ap- punto in quell’erotismo primordiale, nudo e innocente.

164 Passioni clandestine Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia, Londra 1818. Frontespizio della rara edizione clandestina che porta un falso luogo di stampa – Londra – per poter sfuggire alla censura nei territori sotto il dominio austriaco. Raccolta privata. Trafitta dalle parole Luigi Zanetti, La Francesca da Rimini dedicata a sua Eccellenza la principessa Donna Maria Ercolani nata Malvezzi Protettrice della Arti. Bologna, 1835. Mi- crografia, china su carta. Raccolta privata. Particolare. Il virtuoso Luigi Zanetti dedicò alla nobildonna bolognese, che ebbe Rossini come ospite fisso e diede rifugio e sovvenzione a tanti patrioti durante il Ri- sorgimento, la micrografia che disegnò in 36 giorni di lavoro componendo la scena dell’uccisione di Francesca con la scrittura miniaturizzata di tutta la tra- gedia di Pellico e dei canti quinto e trentatreesimo dell’Inferno dantesco. FERRUCCIO FARINA Francesca d’Italia: Francesca da Rimini dalla rivoluzione giacobina a Trieste liberata. Centocinquanta cimeli in mostra per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia 1

Ancor prima che l’icona di Marianna, la bella e agguerrita fran- cese nata sugli spalti della Bastiglia, iniziasse a trionfare con il ber- retto frigio nelle piazze del Bel Paese grazie a Napoleone, il cuore degli italiani aveva già cominciato a palpitare per una eroina della Li- bertà tutta nostrana: Francesca da Rimini. Certo, la creatura dei versi sublimi di Dante, la figlia di Guido da Polenta, sposa per procura a Gianciotto Malatesti come vuole la tradizione letteraria, per cinque secoli era stata relegata dalla cultura dell’ancien regime al ruolo di lussuriosa tra le fiamme dell’inferno, conosciuta e amata da pochi, in- dicata come emblema di un peccato da aborrire da molti. Ma nel 1795, un anno prima dell’arrivo in Italia di alberi della li- bertà al suono della Marsigliese, ecco un poemetto a lei dedicato da un giacobino in fuga, il romano Francesco Gianni, trasformarla in

1 Francesca d’Italia…, è il titolo della mostra che si è tenuta dal 15 marzo al 25 aprile presso il Museo della Città di Rimini organizzata dal Comune nell’ambito delle celebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità. La decisione di illustrare con materiali documentari il ruolo di Francesca e del suo mito nel Risorgimento italiano è scaturita quando la Va edizione delle “Giornate Internazionali Fran- cesca da Rimini” era già stata programmata e i tempi ristrettissimi per la realiz- zazione della mostra non hanno permesso di dotarla del doveroso catalogo. La pubblicazione di queste brevi note, quindi, vuol supplire in qualche maniera alla mancanza, richiamando l’attenzione su di un tema, proposto con la mostra come appunto, che certamente merita ulteriori e più approfonditi studi. I riferimenti bi- bliografici su quanto trattato possono recuperarsi in F. Farina, Francesca da Ri- mini, sulle tracce di un mito, “Romagna arte e storia”, anno XXVI, n. 78, 2006. I materiali esposti appartengono a raccolte private ad eccezione dei cimeli n. 1 (Biblioteca Civica Gambalunga, Rimini) e n. 42 (Museo della Città, Rimini).

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vittima innocente ed eroica di leggi crudeli e di un inganno matri- moniale voluto dal bieco potere di un mondo spietato. Ed ecco nascere ed esplodere l’eroina della dignità e del riscatto da oppressioni, dell’amore eterno, della fedeltà, della passione che tutto vince, anche la morte. Che ben presto diventa un mito roman- tico per eccellenza grazie a centinaia e centinaia di artisti che, a par- tire da Gianni, la celebrano in ogni forma espressiva: dalla poesia al teatro, dalla musica alla pittura. Un’eroina portatrice di valori positivi tutti italiani: amore, forza, passione e coraggio. Creatura ideale a infuocare i cuori dei combattenti per la rinascita della Nazione che si stava attrezzando per liberarsi dai domini stra- nieri e conquistare la sua unità e la sua indipendenza. Così, dagli inizi dell’Ottocento fino a quando anche Trieste viene liberata nel 1918, non c’è barricata e battaglia sul suolo italiano che non veda in prima fila qualche patriota, artista o no, inneggiare alla “Bella di Arimino”, al suo coraggio, alla sua bellezza e alla sua italianità. E al suo mitico bacio. Bacio che con il celebre dipinto di Ingres è in bella mostra nella quadreria di Gioachino Murat, nel cui pro- clama del 1815 da Rimini compare per la prima volta il richiamo al- l’Indipendenza italiana. E’ nella quadreria della Malmaison con una tela di Coupin de La Couperie ammirata da Giuseppina di Beauhar- nais. E’ negli appartamenti real/imperiali parigini dove Francesco Gianni declama le sue odi per la famiglia Bonaparte. E’ nelle corde di Byron carbonaro a Ravenna che dedica la tra- duzione in inglese dei versi del V canto all’amata Teresa prima di andare a combattere per la libertà della Grecia. E’ nel cuore di Silvio Pellico che scrive titolando a Francesca la più celebre tragedia dell’Ottocento tradotta in tutte le lingue e rap- presentata in tutti i teatri del mondo. E non c’è padre della patria, poi, che non abbia avuto a che fare in una qualche maniera con l’affascinante Francesca nata giacobina ma convertitasi alla bellezza e all’amore, anche di patria. Mazzini, nell’incipit del suo primo scritto politico Una notte a Rimini nel

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1831, la evoca insieme, in pari dignità, ai valori irrinunciabili della nuova Italia, il Dante, il genio, l’amore, Dio e la libertà… Garibaldi la incontra nelle vesti dell’eroina di Pellico al Teatro di Montevideo quando, nel 1842, ancora colonnello, combatte per la li- bertà dell’Uruguay con la sua Legione Italiana. Cavour intrattiene con Francesca continui affari “diplomatici” af- fidando alla celebre attrice Adelaide Ristori la missione di ingraziarsi le simpatie per la causa italiana presso le corti russe e tedesche ap- profittando della sue tournée teatrali con le quali affascinava prin- cipi e generali nelle vesti della Francesca di Silvio Pellico. Attrice, la Ristori, che il Conte Camillo definisce “Apostolo del regno d’Italia” per i suoi impareggiabili servigi patriottici di ambasciatrice di italia- nità nei salotti culturali di mezzo mondo, oltre che per l’impegno sulle barricate della Repubblica romana del 1849. Diversi e non pro- prio culturali, invece, i rapporti del “Re galantuomo” con le Francesche del tempo. L’ancora giovane duca di Savoia, assiduo frequentatore di camerini di teatro e delle attrici che ospitavano, si ritrovò con una paternità, mai riconosciuta, di una piccola Emanuela figlia dell’at- trice Laura Bon, reginetta dei teatri piemontesi anche nei panni di Francesca. Vittorio Emanuele II a parte, Francesca che accompagna le pul- sioni dell’Ottocento italiano ed europeo volte a recuperare identità, valori, culture e nazioni, non è una bellezza da alcova ma una donna forte e decisa che lotta per il trionfo dell’amore e della passione, con amore e con passione, paladina ideale di chi combatte, anche a costo della vita, per la causa italiana, repubblicano o savoiardo che sia. Lo testimoniano le schiere di artisti, celebri o sconosciuti, che, incantati dal suo fascino, le hanno dedicato più di settecento opere tra il 1795 e il 1900. Opere entrate nel cuore e nelle case degli italiani che hanno contribuito a mantener vivo ancor oggi, dopo due secoli dalla sua na- scita, il bisogno di lottare per la dignità, la libertà e il rispetto delle persone, uomini o donne che siano. Valori irrinunciabili in una ci- viltà degna di tal nome.

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SEZIONI DELLA MOSTRA INTRODUZIONI E MATERIALI ESPOSTI

Il declino dei secoli bui: 1790, l’ultima invettiva

L’erudito marchigiano Cosmo Betti da Orciano, Marche, è un te- stimone esemplare della cultura “ufficiale” dell’antico regime in fatto di amore, di tradimento e di forza dei sensi. Nei versi di una sua mo- numentale opera di imitazione dantesca edita nel 1793, evoca Paolo e Francesca con una rappresentazione che riflette il bisogno di ren- dere emblematica, per ferocia, la pena infernale da infliggere a chi, come i due giovani riminesi, peccava di passione. Eccolo descrivere i colpevoli come personaggi orrendi, ancor più di quanto la lettera- tura antica – pietà, dolcezza e commozione di Dante a parte - avesse fatto nei cinque secoli passati. Infami/ non avran giammai riposo, | E in pena riuniti al brando antico | Van detestando il libro insidioso. | Non di colombe-, cui desio pudico | … | Due draghi son, cui passa pertinace | Lancia comun, e offendonsi a vicenda | E colle zanne, e coll’unghia tenace. Nell’invettiva di Betti sono ancora lontane quelle idee di libertà, di autodeterminazione, di rispetto della vita e delle persone, che di lì a poco, invece, la Rivoluzione francese inizierà a propagare come un virus dalla potenza incontrastabile.

1. Dante Alighieri, Comedia, Venezia, Giovanni Giolito de Ferrari, 1536. Edizione ornata da una serie di illustrazioni xilografiche tra le quali Dante e Virgilio dinnanzi a Minosse e mentre ascoltano Francesca. Biblioteca Civica Gambalunga, Rimini. 2. Cosmo Betti, La consumazione del secolo, poema, Lucca, Francesco Bonsignori, 1793. Nel poema dell’erudito marchigiano compare una feroce invettiva contro Paolo e Francesca descritti come due draghi.

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Francesca giacobina: Francesco Gianni e l‘eroina della libertà

Come ormai noto, la prima opera a stampa specificamente dedi- cata a Francesca da Rimini è il poemetto composto da Francesco Gianni, celebre poeta giacobino in fuga, che, proprio per la sua fede rivoluzionaria, non ha timore di dissacrare la costruzione etica e mo- rale della Commedia dantesca, così come veniva percepita ai tempi. Nei suoi versi Gianni trasforma la “Bella di Arimino” penitente, pec- catrice adultera e lussuriosa del passato, in una donna vittima di leggiiniqueediunpoterebiecochelehannonegatolalibertàdi amare imponendole un matrimonio, non voluto, addirittura con l’in- ganno. Figlia della Rivoluzione francese, rinata attraverso i versi di Gianni, la nuova Francesca s’appresta così ad invadere l’Italia e di- venire il simbolo del riscatto, della libertà, della fedeltà all’amore e della passione che tutto vince. Anche la morte. Non più traditrice, ma eroina. E Gianciotto non è più un marito tradito, ma un “torvo” assassino uxoricida e fratricida che ha ingannato una creatura inno- cente e innamorata. I francesi di Napoleone entrarono a Rimini il 5 aprile 1797 terro- rizzando la città papalina da tre secoli sotto il dominio della chiesa, come narra Michelangelo Zanotti nel suo Giornale dei Rimino: “La loro vista atterrisce i riguardanti mentre più non videro aspetti sì truci e fieri”. Il bando con cui si annunciava il nuovo regime repubblicano aveva toni tranquillizzanti. Meno tranquillizzante l’aspetto delle truppe dalla “faccia annerita resa ancora più tetra e spaventevole dalla folta e lunga barba”.

3. Francesco Gianni, Francesca di Arimino, Firenze, Luchi, 1795. Si tratta della prima opera nota dedicata specificamente a Francesca da Rimini. L’autore, celebre poeta improvvisatore, era stato costretto a fuggire da Roma dopo l’eccidio di Basseville a causa delle sua fede giacobina.

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4. Francesco Gianni, Versi improvvisati, Firenze, Luchi, 1795-1796. Raccolta di versi, tra i quali un autoritratto del poeta, con aggiunta manoscritta di note, versi di probabile mano dell’autore. 5. Francesco Gianni, Ritratto, incisione tratta da “L’Album”, a. III, n. 31, Roma, 8 ottobre 1836. 6. Libertà e Uguaglianza. Bando a stampa che annuncia l’arrivo delle truppe francesi nella città di Rimini e l’innalzamento dell’al- bero della libertà. Rimini 5 aprile 1797. Nell’intestazione compare un’immagine xilografica di “Marianna” con il berretto frigio e il fascio, emblemi della rivoluzione. 7. Luigia Caravoglio, Discorso recitato nel circolo costituzionale di Rimini… dalla citt. Luigia Caravoglio, Rimini, Marsoner, 1798. La giovane, appartenente ad una famiglia di attori probabilmente arri- vati a Rimini al seguito dei francesi, descrive nel suo discorso le doti ideali delle donne democratiche liberate dal giogo antico dalla re- pubblica. Il circolo costituzionale a Rimini aveva sede nel convento dei soppressi agostiniani. 8. Repubblica Cisalpina, Dipartimento del Rubicone,Richiestadiin- formazioni su tasse prediali. Rimini 1798. 9. Repubblica Cisalpina, Dipartimento del Rubicone, Lettera all’agente municipale di Macerata Feltria per l’occupazione del convento dei francescani. Rimini 2 settembre 1798. 10. Eduardo Fabbri, Francesca da Rimino, tragedia, Rimini, Marsoner, 1822. L’opera del patriota cesenate era considerata la prima opera dedicata all’eroina riminese fino a poco tempo fa, fino al ritrovamento della Francesca di Francesco Gianni. Era stata messa in scena a Milano nel 1901 durante la Repubblica Cispadana alla quale aveva aderito. Fabbri fu in rapporto con Foscolo, Monti, Manzoni e Litta. E’ nota una corrispondenza anche con Francesco Gianni, che potrebbe aver suggerito a Fabbri il tema di Francesca. Aderì con entusiasmo alla carboneria e fu sospettato di essere anche un cospiratore massone. 11. Ritratto del poeta patriota Eduardo Fabbri. Da Eduardo Fabbri,Sei anni e due mesi della mia vita, Roma, 1915.

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12. Pio VII, Barnaba Chiaramonti. Medaglia papale straordinaria a. XV, per la ripresa di possesso dei territori dello stato della chiesa dopo il viaggio di ritorno dall’esilio che ebbe soste a Imola, Cesena e Ri- mini. Incisione di Pasinati. Argento. 13. Napoleone indica al commissario del governo Monge di donare dei cannoni alla Repubblica di San Marino. Incisione con veduta di fan- tasia. Boulanger, d’apres Aubry, Lith. G. Motte, Parigi 1826. 14. Michele Rosa, Per la sperata apparizione di S.M.I.R. Napoleone Imp. De’ Franc. e Re d’Italia. Iscrizioni a nome della Comune di Rimini, Bologna, 20 giugno 1805. L’opuscolo riporta le concioni predisposte per festeggiare una sosta a Rimini di Napoleone che mai avvenne. 15. Repubblica Cisalpina, Napoleone Bonaparte primo console, 14-15 giugno 1800. Medaglia celebrativa della Battaglia di Marengo e della Restaurazione della Repubblica Cisalpina. Incisione di LAVY su di- segno di Andrea Appiani. Bronzo. 16. Repubblica Italiana, Napoleone Bonaparte. Medaglia celebrativa per i Comizi a Lione che il 26 gennaio 1802 sancirono la nascita della Repubblica Italiana. Argento. Incisione di Manfredini.

Rimini, Francesca, Murat: il proclama del 1815 e il dipinto di Ingres

Nel 1812 il celebre pittore francesce Marie-Philippe Coupin de la Couperie aveva esposto al Salon parigino il dipinto “Gli amori fune- sti di Francesca da Rimini”, subito acquistato dall’imperatrice Giu- seppina per ornare la Malmaison. Nel 1814, Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone e moglie di Gioachino Murat re di Napoli, aveva commissionato al celebre Jean-Auguste-Dominique Ingres una tela “ et Francesca da Rimini” per farne bella mostra nella sua galleria napoletana accanto alla “Grande Odalisca” e agli altri di- pinti con fascinose nudità creati per lei dallo stesso Ingres. Più che a una coincidenza, queste due Francesche in casa Bo- naparte fanno pensare ad una competizione tra cognate invidiose su

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di un tema che iniziava ad andare davvero di moda. Basti pensare che Ingres eseguì ben diciassette repliche della sua tela per i sem- pre più numerosi devoti del bacio della coppia di Rimini e che, nella scelta del tema di “Francesca”, Ingres e Coupin de la Coupe- rie furono subito imitati da una folta schiera di pittori sia in Fran- cia che nelle altre nazioni europee. Tra i tanti che proposero le loro Francesche nella prima metà dell’Ottocento vi furono Alexander Evariste Fragonard, Henri Decaisne, Eugene Delacroix, il tirolese Anton Koch, lo svizzero Johann Heinrich Füssli e l’inglese Wil- liam Dyce. Francesca, Rimini e Murat sono legati anche dal celebre Pro- clama di Rimini del 30 marzo 1815 che, per la prima volta nella storia, incita gli italiani a lottare per l’indipendenza della nazione. Con i suoi quarantamila soldati napoletani, dopo esser stato accla- mato Re d’Italia ad Ancona il 19 marzo, Gioachino aveva giurato di respingere gli stranieri invasori “oltre i confini che la natura aveva dato alla nazione”, dilaniata e “umiliata al servaggio” da venti secoli. “Dall’Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: L’indipendenza d’Italia”, recitava il documento che porta il nome della città. Un grido, il suo, il primo in assoluto lanciato per una Ita- lia libera e unita, che, come sappiamo, allora fu raccolto purtroppo da pochi. Un grido, un sogno, destinato a concludersi in un baleno con le sanguinose vicende ben annotate nel libro d’oro del Risor- gimento: il 5 maggio l’armata napoletana venne sbaragliata al ca- stello della Rancia, tra Tolentino e Macerata; il 20 maggio Gioachino ritornò a Napoli, di nuovo in mano ai Borboni, per fug- gire subito dopo in Corsica; l’8 ottobre sbarcò a Pizzo Calabro con trenta uomini nel disperato tentativo di riconquistare il regno per- duto, ove fu catturato e fucilato il 13 ottobre, dopo soli sette mesi dal suo sogno riminese. Un sogno e un proclama che, se non ebbero effetti immediati e concreti, si posero però tra i pilastri su cui s’andò a costruire la tanto sofferta e combattuta unità della nazione. Un sogno e un proclama che colpirono al cuore “grandi” come

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Alessandro Manzoni che nella sua celebre canzone che porta proprio il titolo “Proclama di Rimini, 1815”, al verso 34 recita:

“liberi non sarem se non siam uni”.

17. Gioachino Murat, Principe francese. Medaglia celebrativa delle sue imprese. Al rovescio è incisa la cronologia degli eventi e della vita di Murat. Conio postumo. Bronzo. 18. Gioachino Murat, Re di Napoli e della Sicilia. Medaglia premio per la scuola di belle arti del 1811, coniata a Napoli. Argento. 19. Dominique Ingres, Francesca di Rimini, incisione, Parigi, Grégire, 1844. Il dipinto dal quale è tratta l’incisione, era stato acquistato, e forse commissionato, da Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone e moglie di Gioachino Murat attorno al 1814, quando aveva commis- sionato al pittore francese la grande “Odalisca”. 20. Dominique Ingres, Françoise de Rimini, incisione di Didier, Parigi, A. Salmon, 1847. 21. Dominique Ingres, Françoise de Rimini, Litografia di Aubry Le- comte tratta dal dipinto di Ingres del 1819, Parigi, C. Motte, 1834. 22. Gioachino Murat, Decreto di concessione ai Fratelli di S. Giovanni di Dio. Bologna, 3 febbraio 1814. Foglio manoscritto. 23. Gioachino Murat, Proclama di Rimini, Rimini, 30 marzo 1815. Tutti gli studiosi sono sempre stati concordi nell’affermare che il primo programma di rivendicazione dell’indipendenza, della libertà e del- l’unità nazionale apparso sulla scena italiana, è il documento noto come il “Proclama di Rimini”. Uno storico proclama che il re gene- rale Gioachino Murat aveva lanciato mentre s’apprestava a invadere l’Italia del nord e a combattere gli invasori austriaci nel disperato tentativo di sopravvivere alla disfatta di suo cognato Napoleone. Con i suoi quarantamila soldati napoletani, dopo esser stato acclamato Re d’Italia ad Ancona il 19 marzo, Gioachino aveva giurato di re- spingere gli stranieri invasori “oltre i confini che la natura aveva dato alla nazione”, dilaniata e “umiliata al servaggio” da venti secoli. L’importante documento murattiano, noto in due versioni tipografi-

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che –a una e a due colonne, ambedue con lo stesso testo-, fu ac- compagnato anche da un bando lanciato ai soldati, datato anch’esso Rimini 30 marzo 1815, che incitava a una guerra “d’Onore e di Fe- deltà …per le libertà, per l’indipendenza della patria, pel trionfo dé principi liberali messi in bando dà vostri nemici…”. Quando la sto- riografia risorgimentale andava di moda, s’è discusso per molto tempo se il proclama fosse stato diffuso proprio il 30 marzo, il 31 o il 2 aprile, come sembrano far presumere i cronisti riminesi del tempo Giangi e Zanotti; se le sue accorate parole si devono al grande patriota Pellegrino Rossi, o agli altrettanto patrioti Francesco Save- rio Salvi, Francesco Poerio o ad altri consiglieri di Gioachino. Di- squisizioni erudite, certo importanti, ma che per nulla incidono sullo straordinario valore storico e ideale di questo documento, che trac- cia le fondamenta di un processo iniziato dopo la tempesta napoleo- nica e conclusosi quasi cinquant’anni dopo, lanciato proprio da Rimini. 24. Alessandro Manzoni, Il Proclama di Rimini, Frammento di canzone, aprile 1815. Foglio volante. La poesia di Manzoni, scritta subito dopo il bando di Murat, sarà diffusa nell’aprile del 1848 assieme a Marzo 1821. 25. La pubblicazione del Proclama di Rimini, incisione di Edouardo Ma- tania da F. Bertolini, Storia del Risorgimento Italiano. Milano, Tre- ves, 1886. 26. D’Ambrosio, Proclama ai romagnoli per combattere per la gloria, l’indipendenza e la libertà, Faenza, 2 aprile 1815. Dopo pochi giorni dal Proclama di Rimini, anche il generale Angelo D’Ambrosio co- mandante delle truppe murattiane, avanzando verso nord, lancia un appello ai romagnoli per unirsi alle truppe napoletane nella lotta per l’indipendenza. 27. L’arrestodiMurataPizzoCalabro. Incisione in “Il Fotografo, Gior- nale illustrato”, a. I, n. 15, Milano, 6 ottobre 1855. 28. La fucilazione di Murat. Incisione in “Cronaca italiana dal 1814 al 1850”, Firenze, Dini, 1852.

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Francesca clandestina: Pellico e l’Italia dei prodi

Silvio Pellico, con la sua Francesca rappresentata per la prima volta al teatro Re di Milano il 18 agosto 1815 dalla compagnia di Carlotta Marchionni e del riminese Luigi Domeniconi, aveva ap- pannato il successo delle tante Francesche già apparse nei teatri, presso i librai o nei saloni d’arte. Almeno quindici, dal 1795 fino a quel momento, tra opere letterarie, musiche o dipinti. E tutte com- poste da patrioti, carbonari e cospiratori per la libertà. L’esordio di Pellico avvenne sei mesi dopo il Proclama di Rimini, tre mesi dopo l’abdicazione di Napoleone e la restaurazione imposta dal Congresso di Vienna. E certo non è un caso. Anche se fu necessaria una edizione clandestina con un falso luogo di stampa “Londra 1818” (in realtà la stampa avvenne a No- vara) per circolare senza incorrere nella feroce censura di papalini e austriaci, la creatura del futuro prigioniero allo Spielberg deve le pro- prie fortune alla sua relativa “moderazione” e alla conseguente rela- tiva facilità di essere accettata anche nei luoghi e nelle città ancora sotto il giogo dei tiranni. I primi autori che, a partire dal Gianni, ave- vano dato autonomia alla Bella d’Arimino l’avevano proposta, in- fatti, come donna fedele alle sue passioni, coraggiosamente affrancata dalla morale corrente. L’avevano rappresentata pratica- mente come una sovversiva, temibile, quindi, per una società dalle regole consunte ma ancora ben radicate. La Francesca di Pellico si proponeva, invece, come donna ricolma di pudore, d’amor filiale, di fedeltà domestica anche se le passioni e la loro forza non le manca- vano. Anche in lei l’istinto era forte, ma per lei le regole della pudi- cizia e delle virtù erano invalicabili. Era una Francesca che rappresentava la nobiltà d’animo di chi, vittima di inganni e offese nell’esigenza più intima dell’amore, aveva risposto all’ingiustizia, molto romanticamente, con la morte, e aveva sacrificato il proprio amore ai doveri di sposa e di cognata. Una Francesca virtuosa, pa- triota, nobilmente e moderatamente rivoluzionaria e, quindi, social-

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mente non pericolosa. Le uniche parole dichiaratamente patriottiche si incontrano infatti alla terza scena:

Per chi, di stragi, si macchiò il mio brando? Per lo straniero. E non ho patria, forse, Cui sacro sia de’ cittadini il sangue? Per te, per te, che cittadini hai prodi, Italia mia, combatterò, se oltraggio Ti muoverà l’invidia. E il più gentile Terren non sei di quanti scalda il sole? D’ogni bell’arte non sei madre, o Italia? Polve d’eroi non è la polve tua?

Un’opera e un personaggio, comunque, destinati al successo. Anche internazionale. Pellico restò sempre legato alla prima e straordinaria interprete della sua Francesca, la bella attrice Carlotta Marchionni della cui sorella era innamorato. Ne “Le Mie Prigioni” ricorda il saluto affet- tuoso che la Marchionni gli dedicò a Udine in un’alba uggiosa, men- tre lui e l’amico Pietro Maroncelli venivano tradotti in catene verso la prigione austriaca di Spielberg. Le edizioni di Pellico ebbero successo per tutto l’Ottocento e ven- nero tradotte in francese, inglese e tedesco.

29. Francesca carbonara. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia, Milano, Giovanni Pirotta, 1818. Prima edizione a stampa della ce- lebre opera del patriota piemontese messa in scena per la prima volta al Teatro Re il 18 agosto 1815 dalla compagnia Carlotta Marchionni e Luigi Domeniconi, il celebre attore riminese. 30. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia, Londra, 1818. Rara edizione clandestina con falso luogo di stampa – Londra – per poter sfuggire alla censura dei territori sotto il dominio austriaco. 31. Carlotta Marchionni. Medaglia in onore dell’attrice, prima interprete della Francesca da Rimini di Silvio Pellico, dedicatale per i suoi spet- tacoli bolognesi del 1822. Bronzo.

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32. Ulivo Bucchi, Francesca da Rimini, tragedia, s.l., 1813. Scrittore toscano, dichiara in premessa alla sua Francesca il suo impegno per la rinascita d’Italia. 33. Giraldo Giraldi, Madonna Francesca, in Novelle di Giraldo Giraldi fiorentino per la prima volta date in luce, Amsterdamo, 1819. Giraldo Giraldi è lo pseudonimo di Gaetano Cioni, linguista, docente di fisica all’Università di Pisa, novelliere. Cioni aderì alla rivoluzione napoleo- nica, fu priore della magistratura fiorentina, segretario del Triumvirato toscano e commissario straordinario per la Lunigiana dal 1891 al 1803. Accolse Leopardi nel suo soggiorno a Pisa. Fu in corrispondenza e in rapporto di amicizia con Alessandro Manzoni e con Nicolò Tommaseo. 34. Paolo P. Pietro Generali, Francesca di Rimini, dramma per musica, Venezia, Casali, 1829. 35. Luigi Bellacchi, Francesca di Rimini, tragedia, Siena, Porri, 1824. 36. Antonio Morrocchesi, Dante in Ravenna, tragedia, Firenze, Ciar- detti, 1822. 37. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia, incisione in antiporta di L. Terzaghi da dipinto di G. Bezzuoli, Torino, Schiepatti, 1830. Prima edizione illustrata. 38. Ritratto di Silvio Pellico in una incisione di Santamaria da disegno di Barbieri, in Silvio Pellico, Opere complete, Milano, Pagnoni, 1876. 39. Silvio Pellico allo Spielberg, incisione di Ballagny su disegno di G. Moricci, Firenze, s.d. (1880 c.a). 40. La bocca mi baciò tutto tremante, incisione di Francesco Marcolini su disegno di Bartolomeo Pinelli. Circa 1823. 41. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, Copione di scena manoscritto, s.l., s.d., post 1818. 42. Clemente Albéri, Paolo e Francesca sorpresi da Gianciotto, olio su tela, 1828. Rimini, Museo della Città. Clemente era nipote del ce- lebre Eugenio e, come questi cresciuto in un ambiente famigliare impegnato nella causa italiana. 43. Jessie W. Mario, Della vita di Giuseppe Mazzini. Opera illustrata con ritratti e composizioni d’insigni artisti, Milano, Sonzogno, 1886.

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44. Resoconto del Conte Bentivoglio Comandante delle truppe pontifi- cie sui fatti della Battaglia di Rimini. Bando a stampa. Rimini 30 lu- glio1831. 45. Notificazione del Card. Giuseppe Albani sul recupero della sovranità pontificia nella città di Rimini e nelle altre città della Romagna. Bando a stampa. Forlì 25 gennaio 1832. 46. Thomas Roscoe, The tourist in Italy, London, Jennings and Chaplin, 1831. Raffinata “guida” per viaggiatori colti, contiene una incisione di Prout con il panorama di Rimini e la descrizione della città nella quale, tra le cose notevoli, è descritta con rilievo la tragedia di Paolo e Francesca. 47. Antonio Vesi, Rivoluzione di Romagna del 1831, narrazione storica della battaglia delle Celle, Firenze, 1851.

La giovine musa: Mazzini e quella notte a Rimini del 1831

… Eravi un sorriso in quel cielo azzurro, in quelle stelle aggruppate come giovani fanciulle. Eravi un alito, una voce d’amore nell’aria, nel fremito delle foglie, nel mormorio dell’acqua, che dolcemente scorreva tra la verdura. Era una notte fatta per rammentar Francesca, il Dante, il genio, l’amore, Dio e la libertà.….

L’incipit del primo scritto politico di Giuseppe Mazzini, Une nuit de Rimini en 1831 che narra gli eroismi della Battaglia delle Celle del 25 marzo 1831, non lascia dubbi. Tra i valori del vero italiano, ac- canto alle idealità somme di sempre e alle nuove da conquistare come la Libertà, c’era lei, Francesca, la nuova Francesca. Non ricompresa nell’opera del suo creatore, Dante, ma accanto a lui, accanto ai geni di quell’idea di Italia per i quali Mazzini, e tanti rivoluzionari come lui, stavano combattendo. Rivoluzionari e cospiratori che, seguaci di Napoleone prima e poi dell’esule genovese, di Garibaldi o di Cavour, ne avevano fatto una sorta di Marianna italiana la cui fama si ali-

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mentava soprattutto nelle rivendite, nelle consorterie e nelle logge carbonare e massoniche. Francesco Gianni, che trattò per primo Francesca riscattandola dal peccato e trasformandola in eroina, fu seguito da un vero e pro- prio stuolo di artisti-patrioti che ne fecero il vessillo delle loro bat- taglie con poesie e commedie, inneggiando a una italianità dalle radici nobili e antiche, da liberare da oppressioni e da violenze. Pa- trioti, rivoluzionari, carbonari, cospiratori, comunque spiriti liberi, legati tra loro oltre che dal comune denominatore dell’Amor di Li- bertà, spesso anche dal carcere di governi liberticidi o dall’esilio. Le- gati da una rete di relazioni che si trasformava, al bisogno, in una sorta di mutuo soccorso internazionale. Una rete che, con o senza so- cietà segrete carbonare o massoniche, dopo la caduta di Napoleone aveva congiunto uomini e idee di qua e di là delle Alpi, di qua e di là della Manica. Tra gli artisti autori di opere dedicate all’eroina riminese, nume- rosi quelli che parteciparono ai moti del 1831: Caterina Franceschi Ferrucci scrittrice ed educatrice; Filippo Mordani, storico ravennate, carbonaro e massone; Gustavo Modena, attore, amico di Mazzini e aderente alla Giovine Italia, eletto alla costituente romana del 1849, poi esiliato; Filippo Pistrucci, poeta improvvisatore romano e dise- gnatore, anch’egli, insieme al fratello, celebre incisore, amico di Mazzini. Achille Castagnoli, giornalista e scrittore romagnolo, au- tore di una Francesca stampata a Firenze nel 1841, tra i rivoltosi del 1831, fu invece un personaggio discusso. Nonostante avesse sempre espresso nei suoi scritti ferme opinioni antipapaline e nonostante fosse legato alle sette rivoluzionarie romagnole, fu contestato e so- spettato di delazione e doppiogiochismo. Mazzini lo definì “tristo uomo”, Orsini “delatore”, D’Azeglio “ribaldo”. Condannato nel 1842 a vent’anni di reclusione perché carbonaro, fu liberato dal- l’amnistia di Pio IX. Ciò nonostante, Rossini, Pacini e Donizetti si erano offerti di portare in melodramma la sua “Francesca da Rimini” e di rappresentarla alla Fenice di Venezia. La notorietà di Francesca era, nel primo quarto dell’Ottocento,

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già internazionale. Lo dimostra, tra le tante testimonianze, il popolare manualetto per raffinati grandturisti inglesi, The tourist in Italy di Thomas Roscoe che, tra le cose notevoli di Rimini, pone la vicenda di Paolo e Francesca. Forte fu l’eco, non solo in Italia, della Battaglia delle Celle del 1831, così come forte fu la reazione degli austriaci e del papa per re- primere sommosse e fermenti patriottici. A dirigere la “pacificazione” fu incaricato il Cardinal Legato di Urbino e Pesaro, lo spietato car- dinale Giuseppe Albani, urbinate, già segretario di stato, che fu no- minato da Gregorio XVI Commissario straordinario delle quattro legazioni.

48. Giuseppe Mazzini, Una notte di Rimini nel 1831, con aggiunta di varie poesie di Francesco Campedelli, Firenze, Giovanni Benelli da S. Felicita, 1849. 49. Ritratto di Giuseppe Mazzini. Autore anonimo. Olio su tela. 50. Gregorio XVI, medaglia straordinaria per la fondazione del museo egizio. Incisione di Pietro Girometti. Bronzo. 1839. 51. Uccisione del principe Luigi Napoleone nei pressi di Rimini,inci- sione acquerellata da un libro illustrato tedesco. Circa 1840. Luigi Napoleone (1804-1831), era figlio di Luigi Bonaparte e di Ortensia di Beauharnais, principe ereditario di Olanda, fratello di Carlo Luigi Napoleone, poi Napoleone III. Affiliato alla carboneria, morì il 17 marzo 1831 combattendo con i rivoltosi delle Provincie Unite nei pressi di Rimini pochi giorni prima della battaglia delle Celle. 52. Battaglia di Rimini del 25 marzo 1831. Litografia acquerellata, circa 1840. I liberali del generale Zucchi schierati alle porta della città contro le avanguardie austriache. 53. Battaglia di Rimini del 25 marzo 1831. Fatto d’armi avvenuto presso Rimini la sera del 25 marzo 1831 fra gli avamposti dei liberali e l’avanguardia dell’armata austriaca. Litografia di Cesare Mauro Trebbi, Bologna, Mazzoni e Rizzoli, circa 1870. 54. Notificazione del Card. Giuseppe Albani con la quale si ordina la consegna delle armi delle truppe nelle Legazioni a seguito dell’in-

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gresso delle truppe pontificie con l’appoggio degli Austriaci,Imola, 27 gennaio 1832. 55. Notificazione del Card. Giuseppe Albani con la quale si ordina la consegna delle armi delle truppe nelle Legazioni a seguito dell’in- gresso delle truppe pontificie con l’appoggio degli Austriaci,Imola, 25 gennaio 1832. 56. Giuseppe Albani, Cardinal Legato di Urbino e Pesaro, commissario straordinario delle quattro legazioni. Medaglia celebrativa dell’in- carico di commissario delle Romagne e per le sue munificenze a fa- vore dell’arte. Incisione di Nicola Cerbara. Bronzo. 1831. Giuseppe Albani (Roma, 13 settembre 1750 – Pesaro, 3 dicembre 1834), car- dinal segretario di Stato dal 1829 al 1830, era stato incaricato dal papa di sedare i moti dei rivoltosi in Romagna. 57. Giuseppe Mazzini, medaglia celebrativa del primo centenario della nascita, 1805-1905. Buenos Aires 1905. Bronzo. 58. Filippo Mordani, Paolo e Francesca, in Tre Novelle storiche, Bolo- gna, Bortolotti, 1839.

Bellezza carbonara: dal salotto Malvezzi alle barricate d’Italia

Un contributo significativo alla diffusione delle idee del Risorgi- mento si deve ai salotti culturali delle dame colte e raffinate che, con- sce di rivestire un ruolo di primo piano nello scenario sociale, avevano trasformato i loro palazzi in luoghi di incontro tra élites bor- ghesi e nobiliari. Con la scusa del conversare, delle accademie poetiche e musicali e delle relazioni mondane e galanti, queste romantiche femmes d’esprit si trovarono spesso a dar diffusione e risonanza alle idee li- berali e rivoluzionarie fin dall’epoca prenapoleonica. Tra i salotti bo- lognesi più attivi e più noti d’Italia per il suo impegno politico vi era quello della principessa bolognese Maria Laura Malvezzi Hercolani che ebbe Rossini come ospite fisso e che, a costo della libertà e della

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“reputazione”, diede rifugio e sovvenzione ai patrioti negli anni in cui si combatteva per l’Unità d’Italia. A lei è dedicato un documento straordinario, la “micrografia” ese- guita da un virtuoso Luigi Zanetti che, in trentasei giorni di lavoro, ha trascritto in miniatura, in forma di scena dell’uccisione di Fran- cesca, tutti i versi della tragedia di Pellico e dei canti quinto e tren- tesimo dell’Inferno. Un documento straordinario che dimostra le connessioni tra le classi nobili più aperte con i borghesi e gli artigiani in merito a va- lori come patria, indipendenza e libertà. Nobili e borghesi che in- sieme, ad esempio, combatterono contro la guarnigione pontificia a Rimini il 23 settembre 1845. Guidati da Pietro Renzi, una sessantina di patrioti si impadronirono della città proclamando un nuovo go- verno e diffondendo un documento destinato a diventare celebre, il “Manifesto delle popolazioni dello Stato Romano ai Principi ed ai popoli d’Europa” composto da Luigi Carlo Farini, allora esule a Lucca. Manifesto che provocò le critiche di Mazzini che lo definì “monumento di vigliaccheria, di stupidità, di tradimento dell’Idea Nazionale”. Anche D’Azeglio fu critico verso la sollevazione rimi- nese fallita dopo tre giorni per la mancata insurrezione delle altre città della Romagna e delle Marche. Nel suo “Degli ultimi casi di Romagna” la definì un episodio “intempestivo, dannoso, perciò bia- simevole.” Biasimevole come Pietro Renzi accusato di ogni nefan- dezza, compreso il tradimento dei liberali arrestati e la delazione alle autorità pontificie. Bersaglio principale del liberale D’Azeglio era comunque il dominio pontificio: “Dei moti di Romagna, delle ucci- sioni, degli esilii, delle lacrime di tanti infelici, n’avete a render conto a Dio, voi governo, e non i vostri calpestati sudditi. Il loro sangue vi ripiomberà sul capo”.

59. G. Castagnola, Assalto a una caserma di Rimini, da G. Pistelli, Sto- ria d’Italia dal 1815. , Firenze, Ballagny, 1864. 60. Luigi Carlo Farini, Lo Stato romano dall’anno 1815 all’anno 1850. Torino, Ferrero e Franco, 1850.

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61. Luigi Zanetti, La Francesca da Rimini dedicata a sua Eccellenza la principessa Donna Maria Ercolani nata Malvezzi Protettrice della Arti, Bologna, 1835. Maria Laura Malvezzi Ercolani, dama bolo- gnese che ebbe Rossini come ospite fi sso (unire) e diede rifugio e sovvenzione ai patrioti negli anni dell’Unità d’Italia, è opera del vir- tuoso Luigi Zanetti che disegna la scena dell’uccisione di Francesca con la scrittura miniaturizzata di tutta la tragedia di Pellico e dei canti quinto e trentatreesimo dell’Inferno dantesco. 62. Achille Castagnoli, Francesca da Rimino, tragedia lirica, Firenze 1841. 63. Massimo D’Azeglio, Gli ultimi casi di Romagna 1846,in“Scritti politici e letterari preceduti da uno studio storico sull’autore di Marco Tabarrini”, Firenze, Barbera, 1872. 64. Massimo D’Azeglio. Ritratto in “Il Fotografo”, anno I, n. 24, Mi- lano, 8 dicembre 1855. 65. Luigi Carlo Farini. Medaglia celebrativa dedicata dalla Provincia di Ravenna al figlio benemerito “Dittatore dell’Emilia Luigi Carlo Fa- rini, che respinse il patto di Villafranca e pose le fondamenta del- l’italiana unità”. Bronzo, 1878.

Eroina dei due mondi: Leight Hunt, Byron e Boker

Se nell’Ottocento Parigi era la capitale del mondo, Roma e l’Ita- lia erano la meta obbligata per gli intellettuali, meglio se romantici, che si nutrivano, oltre che di idee di libertà, anche del piacere della bellezza e della storia. E, tra i loro soggiorni parigini da esuli o da gaudenti, e le loro vacanze romane da turisti o da patrioti, le infor- mazioni e le sensibilità alle loro idee e ai temi che le rappresenta- vano, si propagavano in maniera straordinariamente veloce. Di quanto fosse radicata ed efficace in tutta Europa la rete che li legava, Francesca da Rimini è testimone esemplare. Nell’agosto 1815 a Milano era andata in scena Francesca di Pel- lico; negli ultimi mesi dello stesso anno il poeta e scrittore radicale

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inglese , incarcerato nella torre di Londra per i suoi scritti contro Giorgio principe reggente, aveva scritto il suo poema The Story of Rimini, che aveva Francesca per eroina, pubblicato nella pri- mavera del 1816. Durante la sua prigionia, a visitarlo quotidiana- mente e a correggergli il lavoro era stato George Byron, lo stesso Byron che, nel 1816, aveva incontrato Silvio Pellico a Milano e, af- fascinato dalla sua tragedia, aveva iniziato a tradurla in inglese e che, non pago, in pieno amore adulterino vissuto con la bella marchesa Gamba, nel 1820, aveva dato vita a una propria poetica traduzione del quinto canto. John Keats nello stesso 1820, aveva composto i versi Reading Dante’s Episode of Paolo and Francesca, pubblicati su “The Indicator” diretto da Leigh Hunt. Leigh Hunt che aveva visto pubblicare a Philadelphia una edizione pirata della sua The Story of Rimini pochi mesi dopo l’uscita ufficiale londinese. “Francesche”, romanticismo, carboneria e massoneria, patrioti ed esuli. Byron era stato affiliato a una rivendita da Pietro, fratello del- l’amante ravennate. Massone era Dumas che, nel suo Il conte di Montecristo , elencava tra le cose straordinarie viste nel suo viaggio in Italia “la stanza di Francesca e Paolo a Rimini”. Dumas ammira- tore di Giuseppe Garibaldi del quale aveva scritto una biografia. Ga- ribaldi che, ancor prima del grande raduno romano alla difesa di Roma del 1849, aveva incontrato Francesca da Rimini nel 1842 a Montevideo. Il generale, ancora colonnello in verità, si trovava nella capitale uruguaiana con i suoi duemila uomini della Legione italiana per combattere il tiranno argentino Juan Manuel de Rosas e, il 15 ot- tobre, al Teatro Nacional aveva applaudito una rappresentazione della Francesca di Pellico. Una Francesca che contagiò anche George Henry Boker, considerato il più importante autore di teatro ameri- cano, definito “poeta patriota” per le sue opere letterarie e poetiche fortemente impegnate a sostegno dei federali nella guerra civile ame- ricana. La sua monumentale Francesca da Rimini, a Tragedy in five Acts composta nel 1854 continuò a riscuotere successi per oltre cin- quant’anni, fino al nuovo secolo, interpretata dalle più grandi com- pagnie teatrali americane.

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66. H. J. Leigh Hunt, The story of Rimini. Wells & Lilly, Boston, e M. Carey, Philadelphia, 1816. Si tratta della prima Francesca apparsa sul territorio americano, con un’edizione avvenuta all’insaputa del- l’autore. La prima edizione, infatti era avvenuta a Londra nella pri- mavera 1816. 67. Il romantico Henry, ritratto dello scrittore Henry James Leight Hunt in un’incisione tratta da un giornale inglese. 1825 circa. 68. , Byron Works, Complete in one volume, New York, 1855. Contiene “ Il Bacio”, incisione in acciaio di Phillibrown dal di- pinto di Decaisne. 69. W. B Baumann, Françoise de Rimini, incisione dal dipinto di De- caisne, in Cornelia, “Taschen Buchen fur Deutschen Frauen uf das Jahr 1862”, Darmstatdt, 1862. 70. Il bacio galeotto, incisione dal dipinto di Decaisne. Parigi, 1841. 71. Phillips Stephen, Paolo & Francesca: A Tragedy in Four Acts,Lon- don & New York, 1900. In antiporta: incisione dal dipinto Paolo e Francesca di George Frederic Watts del 1882. L’opera di Phillips era stata composta nel 1897. L’edizione a stampa conta oltre otto edizioni inglesi e una traduzione italiana nel 1924. 72. R. Graves, Paolo and Francesca da Rimini, acquaforte tratta dal di- pinto di J. Noel Paton, 1870 circa. 73. Henry Francis M. A. Cary, Dante’s Inferno, edizione in inglese, con 74 tavole incise da disegni di Gustave Dore, Philadelphia, Altemus editions, 1887 circa. 74. Gustave Dore, Paolo e Francesca, incisione di Pennemaker, 1894. 75. Henry George Boker, Francesca da Rimini, locandina teatrale per la rappresentazione di Lawrence Barret al Chesnut St. Opera House Philadelphia, 1890. 76. Lawrence Barrett as count Lanciotto, from “Francesca da Rimini act. 3 scene 1”, Philadelphia, Gravure Gebbie & Co, 1887. 77. Henry George Boker, Francesca da Rimini, a Tragedy in five Acts, Chicago, Dramatic Publishing Company, 1901.

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Il triangolo della rivoluzione: Francesca barricadiera tra Roma, Milano e Venezia nel 1848

I fermenti che scossero l’Italia tra il 1848 e il 1849 videro in prima linea artisti che, in varie forme espressive, dedicarono all’eroina ri- minese le loro opere. Tra questi, Eugenio Alberi, letterato e storio- grafo padovano di discendenza riminese, volontario anche nel 1859; Bernardo Bellini, linguista lombardo; Giuseppe Bezzuoli, pittore e scrittore fiorentino; Matteo Benvenuti, storico, scrittore di racconti e libretti d’opera lombardo; Luigi Cicconi, poeta improvvisatore di Sant’Elpidio a Mare, esule a Parigi per i suoi sentimenti patriottici; Bartolomeo Galletti, generale, eroe della difesa delle mura romane accanto a Garibaldi; Achille Majeroni, attore patriota milanese; Fi- lippo Meucci, poeta laziale; Adelaide Ristori, attrice tragica, soccor- ritrice dei feriti a Roma nel 1848; Felice Romani, scrittore e librettista genovese; Tommaso Salvini, attore lombardo, celebre Paolo nella tragedia di Pellico; Felice Venosta, sulle barricate di Milano delle cinque giornate. Non pochi, tra questi, i carbonari e i massoni, certi- ficati o in forte sospetto. E tra loro Luigi Calamatta, incisore nato a Civitavecchia, tra i ri- voluzionari di Parigi nel 1830 e nel 1848, con Garibaldi nel 1866, autore di una celebre incisione che raffigura Mazzini sulle mura di Roma nel 1849. La sua Francesca, tratta dal dipinto di Ary Scheffer, anch’egli carbonaro affiliato alla loggia parigina di Lafayette, è con- siderata una delle incisioni più belle dell’Ottocento. Un’opera “per- fetta” tanto che a Vienna, nella galleria di un mercante di stampe, il focoso conte Zygmunt Krasiński (1812 - 1859), poeta e patriota po- lacco, appena la vede così esclama: “C’est l’oeuvre parfaite d’un maître. En l’apercevant, j’ai senti the perfect Beauty...”. Con Scheffer e Calamatta, Francesca abbandona il bacio e si ab- bandona a un abbraccio appassionato per dimostrare a romantici e patrioti che la passione, d’amore come di patria, non teme la morte perché sa conquistare bellezza, libertà e fama immortale.

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78. Alejandro Dumas, Memorias de José Garibaldi, edizione in lingua spagnola delle Memorie di Garibaldi, tomo primero, Paris, Libreria de Rosa y Bouret, 1860. 79. Busto di Giuseppe Garibaldi. Bronzo. Italia 1900 circa. 80. Governo Provvisorio di Lombardia del 1848. Moneta da 5 lire in ar- gento abilmente trasformata in portamessaggi con chiusura a vite. 81. Fuga di papa Pio IX a Gaeta la sera del 24 novembre 1848. Bando a stampa, Napoli 2 dicembre 1848. 82. Inaugurazione della lapide commemorativa di Giuseppe Garibaldi. Rimini 20 settembre 1882. 83. Guardia Civica di Rimini, invito a riunire tutto il Battaglione di Ri- mini nella caserma di San Francesco dove saranno presentati i nomi degli Ufficiali. Bando a stampa. Rimini 29 aprile 1848. 84. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia, edizione popolare, Bologna, Borghi, 1861. 85. E. Mezzabotta, Il 1848, in “Biblioteca Patriotica, n. 7”.Roma, Pe- rino, 1886. 86. Jessie W. Mario, Garibaldi et son temps, Illustrations de Edouard Matania, Paris, Librarie Nationale, 1884. 87. Ary Scheffer, Françoise de Rimini, incisione tratta dal dipinto di Ary Scheffer presentato al Salon parigino del 1835, oggi conservata a Londra alla Wallece Collection, Parigi, de Frey incisore, 1835. 88. Medaglia anepigrafe con ritratto e firma di Giuseppe Garibaldi. Piombo, 1850. 89. Medaglia celebrativa con Pio IX e Ferdinando II delle Due Sicilie, donata il 26 novembre 1848 dall’armata napoletana al papa durante il suo esilio a Gaeta. Bronzo, 1848. 90. Medaglia dedicata “Al Principe Riformatore I Popoli Riconoscenti” Carlo Alberto, Re di Sardegna. Argento, 1847. 91. Medaglia di Giuseppe Mazzini. Metallo bianco, 1882. 92. Notificazione al popolo del distretto di Rimini. Il legato Card. Ma- rini chiede al popolo riminese il ritorno all’obbedienza e al rispetto delle leggi reprimendo i moti e punendo i colpevoli. Bando a stampa, Forlì, 5 giugno 1848.

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93. Il Ministro Sacchetti rende nota ai Romani l’autografo con il quale Pio IX annuncia la fuga da Roma. Bando a stampa. Roma 25 no- vembre1848. 94. Decreto Pontificio sull’Ordine pubblico firmato da Pietro P. Ode- scalchi. Bando a stampa, Roma, 26 novembre 1848. 95. Repubblica romana. Decreto con il quale si annuncia il decadimento di fatto e di diritto del Papato dal Governo temporale dello Stato Ro- mano. Bando a stampa, Roma e Pesaro, 9 febbraio 1849. 96. Repubblica Romana. Il Triumvirato invita i Romani alla resistenza per l’indipendenza. Bando a stampa. Roma 26 aprile 1849. 97. Ripristino del governo del Sommo Pontefice nelle quattro province di Bologna. Bando a stampa, Ferrara, Forlì e Ravenna, 26 maggio 1849. 98. Foulard tricolore. Seta. Circa 1848. 99. Diploma e medaglie per la partecipazione alle campagne del 1848 e 1859 del Luogotenente e Generale Giacomo Carderina (1806-1899), bronzo, 1865. 100. Luigi Calamatta, Françoise de Rimini, incisione tratta dal dipinto di Ary Scheffer. Paris, Gache Editeur, 1843. 101. Giubba e berretto di un soldato garibaldino. S.d., stoffa e cuoio. Museo garibaldino, Saludecio. 102. Notificazione contro le bande garibaldine in fuga. Bando a stampa, Sant’Angelo in Vado, 4 agosto 1849. Museo garibaldino, Saludecio. 103. Daga da truppa della Guardia Civica Pontificia. Detta anche “gla- dio” in quanto ispirata a quella dei Legionari Romani, ha la lama a due tagli con punta a forma di foglia di ulivo e impugnatura a cro- ciera fusa in ottone. Al centro della crociera, su entrambi i lati, vi sono due scudetti tondi destinati a ricevere da un lato il marchio della Legazione e, dall’altro, il numero di matricola. In questo esemplare il marchio è “C” che corrisponde alla Legazione di Bologna. La daga è fornita di fodero in pelle con cappa e puntale in ottone. La lama di questo esemplare è incisa in entrambi i lati: su un lato appare la scritta “Unione e Forza”, sull’altro “AL VALORE LOMBARDO – 22 MARZO 1848”.

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104. Spadone da Ufficiale della Guardia Civica Pontificia, ha la lama dritta a un solo filo e punta incisa sui due lati con la scritta “W. L’ITALIA” da un lato, e “W. PIO IX” dall’altro, in questo caso la scritta W PIO IX è stata abrasa dall’Ufficiale che aveva aderito alla Repubblica Romana. 105. Il Municipio di Rimini, dopo la partenza del delegato Apostolico, affida il governo della città e la tutela dell’ordine pubblico al Conte Vincenzo Salvoni. Bando a stampa, Rimini, 22 giugno 1859. 106. Voto per l’annessione alla Monarchia Costituzionale del Re Vittorio Emanuele II. Bando a stampa. Rimini 6 marzo 1860. 107. Annuncio dell’apertura al pubblico del nuovo ampio edificio dello Stabilimento dei Bagni Marittimi in Rimino nel giugno del 1861. Bando a stampa. Rimini 18 maggio 1861. 108. Arrivo del Marchese Massimo d’Azeglio Commissario del Glorioso Re Vittorio Emanuele a Rimini. La città festeggia con una lumina- ria. Bando a stampa. Rimini, 12 luglio 1859. 109. Annessione delle Romagne al Regno Costituzionale di Sardegna. Fe- steggiamenti a Rimini con luminarie per la lieta notizia dell’annes- sione al Regno di Sardegna. Bando a stampa. Rimini, 8 settembre 1859. 110. Pio IX scomunica il re Vittorio Emanuele II. Sonetto satirico. Circa 1860 111. Malvolti, Coscienza libera in libero stato. Aspirazioni. Codice di leggi della Nazione. Rimini, Malvolti ed Ercolani, 1863. 112. Tommaso Bianchi, Sulla località più acconcia per fondare in Rimini la Stazione della Ferrovia, Rimini, Albertini, 15 luglio 1858. L’opu- scolo contiene la pianta della città con l’indicazione del tracciato della ferrovia. 113. Il Municipio di Rimini a ricordo dell’innalzamento del glorioso Stemma di Casa Savoia il giorno 2 ottobre 1859 determina che il Teatro Comunale sarà d’ora in poi chiamato Teatro Vittorio Ema- nuele. Bando a stampa. Rimini 13 ottobre 1859. 114. Arrivo a Rimini del Cavalier Carlo Luigi Farini. Il Municipio di Ri- mini accoglie l’illustre Governatore Generale delle Regie Provin- cie. Bando a stampa. Rimini 22 febbraio 1860.

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Italia unita e Francesca savoiarda: il romanzo della realtà

Testimone esemplare di quanto e come il mito di Francesca da Rimini abbia attraversato le vicende e i personaggi del Risorgimento, è Adelaide Ristori, attrice e donna dalla vita avventurosa e roman- zesca. Aveva esordito nel 1837, quattordicenne, con la tragedia di Pellico raccogliendo il testimone di Carlotta Marchionni per diven- tare in breve tempo la regina del teatro italiano nell’Ottocento e pas- sare alla storia come l’attrice che ha saputo riscattare, dandole nobiltà e legittimazione morale e sociale, una professione per secoli sino- nimo di scostumata guitteria. Una Ristori diva ma soprattutto “pa- triota”, vera protagonista del Risorgimento, a partire dal suo legame con i rivoltosi del 1848 e del 1849 quando fu accanto a Mazzini e a Garibaldi nella difesa di Roma, fino alle “missioni diplomatiche” af- fidatele da Cavour e da Vittorio Emanuele II per conquistare alla causa dell’indipendenza italiana i reali tedeschi e l’imperatore di Russia durante le sue tournèe. Come in una bella favola, Adelaide incontrò anche un “vero” principe azzurro, il marchese Giuliano Ca- pranica del Grillo, rampollo di una delle più antiche casate romane, con il quale potè vivere felice e contenta senza abbandonare la sua arte e il suo amor di patria. Francesca da Rimini, con cui ha esordito, l’ha accompagnata per la vita. Con Francesca ha valicato trionfal- mente le Alpi debuttando a Parigi, ove potè frequentare i salotti in- tellettuali. Parigi capitale ove entrò in relazione con artisti celebri come Lamartine, George Sand, Henry Martin, Legouvé, Gautier, Re- gine, ma anche, e soprattutto, con esuli e “rivoluzionari” come Da- niele Manin e Niccolò Tommaseo o come l’irrequieto Dumas padre che divenne un suo fanatico sostenitore. Dove incontrò un altro per- sonaggio legato indissolubilmente a Francesca da Rimini, Ary Schef- fer, esponente di primo piano della rivendita carbonara fondata da Lafayette. Con Francesca Adelaide ha attraversato tutti i cinque con- tinenti strappando applausi e lacrime all’insegna d’amore, di libertà, d’Italia bella e martoriata. Memorabile è infatti la sua tournée in-

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torno al mondo durata duecentosettantacinque giorni, dal 15 aprile 1874 al 14 gennaio 1876, e nella quale ebbe al suo fianco come or- ganizzatore, il grande patriota generale Bartolomeo Galletti con lei già nelle barricate romane del 1849. Una vera regina del teatro italiano, Adelaide, che a fine carriera poteva vantare spettacoli in 334 città, in 33 stati, in tutti i 5 conti- nenti. E che a Francesca da Rimini restò indissolubilmente legata, anche quando l’età non le consentiva più di interpretarla. Per il pub- blico, infatti, Adelaide restava sempre l’appassionata amante, la gio- vane e bellissima eroina riminese che aveva portato per il mondo commuovendo romantici d’ogni dove. Francesca, la “nuova”, l’eroina della passione, aveva segnato il suo precoce esordio nel 1837; nel 1845 le aveva fatto incontrare il grande amore della sua vita; nel 1855, con il debutto parigino, l’aveva definitivamente “in- ternazionalizzata”. Con le recite fiorentine delle celebrazioni dante- sche nel 1865, l’aveva consacrata regina del teatro italiano. Con Francesca della poesia dantesca, invece, nel 1898, la settantaseienne Adelaide Ristori aveva voluto chiudere in maniera trionfale la sua straordinaria carriera di attrice, di gran dama e di patriota, decla- mando il quinto canto dell’Inferno al Teatro Carignano per l’Esposi- zione Nazionale di Torino dinnanzi ai reali d’Italia. L’Italia era ormai unita, Roma era capitale. Era quasi concluso un percorso che la grande Ristori aveva accompagnato con la sua arte e la sua passione. E, naturalmente, con la sua inseparabile Francesca da Rimini.

115. Bartolomeo Galletti, Il giro del mondo colla Ristori. Note di viaggio. Descrizione del percorso artistico di Adelaide Ristori, con firma au- tografa dell’autore (in alto a destra). Roma, Tipografia del Popolo Romano, 1876. Contiene mappa del giro del mondo compiuto dalla Ristori. 116. Adelaide Ristori, Memoirs and Artistic Studies of Adelaide Ristori. Autobiografia dell’attrice illustrata con fotografie ed incisioni, New York, Doubleday, Page & Company, 1907. 117. Frontespizio del libro Adelaide Ristori, Memoirs and Artistic Stu-

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dies of Adelaide Ristori, Autobiografia dell’attrice illustrata con fo- tografie ed incisioni, New York, Doubleday, Page & Company, 1907. 118. Ritratto di Adelaide Ristori, incisione del 1890 circa. 119. Loggia Garibaldi, n. 542 di L.A.M. Oriente di New York istituita l’11 giugno 1864 sotto l’ubbidienza della G.L. dello Stato di New York. Attività svolta nel 1908. New York, 1908. 120. Gran Bazar a benefizio di Roma e Venezia. Ricevuta per adesione alla sottoscrizione promossa a Londra da Giuseppe Mazzini. Lon- dra, 18 marzo 1863. 121. P. Fornari, Storia Patria dal principio sino ai nostri tempi narrata ai giovinetti e al popolo in 96 giornate, Milano, Paolo Carrara, 1870. Incipit con i versi da S. Pellico, Francesca da Rimini. 122. Adelaide Ristori, figurina Liebig. Circa 1950. 123. Adelaide Ristori. Fotografia all’albumina formato Carte de visite. Autografata. 124. Felice Venosta, Francesca da Rimini, racconto storico del secolo XIII. Milano, Muggiani, 1876. Venosta fu patriota che combattè nelle cinque giornate di Milano. 125. Matteo Benvenuti, Giuseppe Marcarini, FrancescadaRimini,pa- role e musica, opera rappresentata al Teatro Carcano di Milano per il carnevale 1871-72. Milano, Molinari, 1871. 126. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia. Edizione popolare, Bologna, Borghi, 1861. 127. Album fotografico dei padri della patria. Contiene ottanta fotografie all’albumina dei personaggi che realizzarono l’unità d’Italia, tra i quali Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini, Garibaldi, i generali che co- mandarono le più celebri battaglie. Tra questi una fotografia di un di- pinto di Bezzuoli che raffigura Francesca da Rimini. Italia, circa 1870. 128. Ritratto di Adelaide Ristori. Incisione da una fotografia di Mayer and Pierson in “Illustrated Times”, Londra, 12 luglio 1856. 129. Bonaventura Genelli, Francesca da Rimini, Lipsia, 1867. Acqua- forte. 130. Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Medaglia dedicata al Padre della Patria dal collegio romano dei commercianti. Argento, circa 1861.

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131. Distintivo di appartenenza ad una loggia massonica di Montevideo intitolata a Giuseppe Garibaldi. Circa 1905. 132. Distintivo di appartenenza ad una loggia massonica argentina inti- tolata a Giuseppe Garibaldi. Circa 1920. 133. Medaglia celebrativa del XXV anniversario della presa di Porta Pia 1870-1895 coniata dal Municipio di Roma. Roma. Bronzo, 1895.

Italia liberata, Italia mutilata: Dante, D’Annunzio, Francesca e Trieste

All’avvento del nuovo secolo, Francesca da Rimini entrò nella vita del personaggio tra i più impegnati a ricordare all’Italia che l’unità non era completa senza Trento e Trieste. Conquistò infatti il cuore di Gabriele D’Annunzio, già immagi- nifico e sempre più alla ricerca di nuove occasioni per esternare il suo compulsivo fuoco dell’arte, proprio negli anni dell’apice del suo tormentato sodalizio passional-culturale con Eleonora Duse. “Poema di sangue e di lussuria” definisce egli stesso Francesca da Rimini che compose nell’estate 1901 nella Villa del Secco, in Ver- silia tra estasi e cavalcate sul mare. Dodicimila versi, cinque atti ambientati a Ravenna, nelle case Da Polenta, e a Rimini, nelle case Malatesta, tra torri e alcove più o meno nascoste, con una trama che ricalcava, come ormai costume, la trac- cia dell’inganno boccaccesco. L’immaginifico, infatti, sembrava voler affidare gli effetti speciali ai suoi personaggi e alle scene più che alla trama: alla dolcezza di Fran- cesca (già al primo atto, è ammaliata dalla vista del bel Paolo al quale dona una rosa), alla ripugnanza che provoca Malatestino dall’occhio, sanguinario, crudele e spione (che irrompe in scena proprio quando è ferito nell’occhio), al sangue dei duelli e dei combattimenti, alle batta- glie, al fuoco che avvolge Rimini in battaglia, alle parole come “favilla” di Paolo all’amata. A un Dante Alighieri citato per un incontro con Paolo a Firenze. Al libro Galeotto, naturalmente, del quale Francesca,

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soffocata dalla passione, non riesce neppure più a leggere le parole; a un Gianciotto deforme e dallo sguardo feroce, ripetutamente stigma- tizzato come Sciancato. E, soprattutto, alla sensualità con la quale si vuole caratterizzare rispetto alle precedenti tragedie che avevano schie- rato femmine troppo dubbiose e dalla virtù troppo altalenante. Il suo Paolo è un campione d’amore, insaziabile di baci e d’al- cova, che bacia, ribacia, abbraccia e stringe. La sua Francesca è l’eroina della passione sensuale che, nell’ultima scena, sa anche tra- sformarsi in donna guerriera dalla foga disperata che difende il suo amore balzando tra la spada assassina e l’amante per restare abbrac- ciata a lui per l’eternità. Nessun cenno apparente a patria e a unità nel poema del Vate che sorvolerà Vienna e conquisterà Fiume. Solo passione che tutto vince e che tutto legittima. L’Italia non irrompe nei suoi versi perché l’Ita- lia è Francesca. L’Italia è la passione, la forza di rompere le catene e liberare amore e la bellezza. Neppure nella Francesca da Rimini di Morello Torrespini edita nel 1919, illustrata dalle xilografie del bravo Alberto Zanverdiani, compare alcun cenno alla patria, all’unità e alla libertà. Solo baci, amori, libri e alcove. Forse per festeggiare in libertà l’Italia final- mente unita e libera dallo straniero. Questa raffinata Francesca dal dolce fantasioso sapor di medio evo, ultima della nostra passeggiata tra le tante del risorgimento italiano, è infatti, e forse non è un caso, l’eroina del primo libro stampato a Trieste libera. Una Trieste ita- liana. In una Italia finalmente unita.

134. Adolfo De Carolis. Locandina pubblicitaria della Compagnia dram- matica di Eleonora Duse, Francesca da Rimini, tragedia in 5 atti di Gabriele D’Annunzio. Roma, Stabilimento Marzi, 1901. 135. Gabriele D’Annunzio, Francesca da Rimini, Milano, Treves, 1902. Illustrazioni xilografiche di Adolfo De Carolis. Editio Princeps, le- gatura all’antica in piena pergamena con lacci. 136. Adolfo De Carolis, xilografie da Gabriele D’Annunzio, Francesca da Rimini, Milano, Treves, 1902.

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137. Gabriele D’Annunzio, Francesca da Rimini, traduzione in tedesco di Vollmoeller. Berlino, Fischer, 1903. Legatura in tela all’antica con lacci. Illustrazioni xilografiche all’interno. 138. Gabriele D’Annunzio, Francesca da Rimini, traduzione di Arthur Symons. New York, Frederick Stokes, 1902. Contiene foto di Eleonora Duse. Copertina decorata Liberty. 139. Ritratto fotografico di M. Paolo Salvini nelle vesti di Paolo il Bello nell’opera rappresentata al Teatro Costanzi di Roma. Foto Alinari, 1901. 140. Ritratto di Eleonora Duse come Francesca da Rimini in “The Thea- tre”, vol. II, n. 18, New York, Arthur Hornblow, agosto 1902. 141. Trento e Trieste libere. Medaglia per la liberazione delle città. D/VITTORIO EMANUELE III, ritratto del re a destra. R/All’in- torno: 24 MAGGIO 1915 – 3 NOVEMBRE 1918, stemmi di Trento e Trieste. Al centro: FEDE E MARTIRIO ACCESERO LE VIE ALLA LIBERTA’RESERO ALLA VITTORIA IL VOLO- PAX. Oro e smalti, 1918. 142. Gabriele D’Annunzio, Medaglia ai partecipanti al volo su Vienna (1918) e alla spedizione di Fiume (1919). Bronzo con nastro trico- lore, 1919. 143. Morello Torrespini, Paolo e Francesca, Trieste, 1919. Illustrazioni xilografiche di Alberto Zanverdiani. Si tratta del primo libro stam- pato a Trieste liberata. 144. I soldati Italiani che la unità della patria suggellando col sangue caddero gloriosamente il XX settmbre MDCCCLXX sulla Breccia di Porta Pia. Bologna litografia di Francesco Casanova. 145. I Padri della patria. Litografia. Circa 1890. 146-150. Cinque illustrazioni in cromolitografia tratte dal dipinto “Fran- cesca da Rimini, il bacio” di Amos Cassioli. Italia 1890 – 1920.

197 Letture popolari Edel, Paolo e Francesca. Incisione xilografica in copertina di Nullo Amato, Francesca da Rimini, Romanzo storico drammatico, Roma 1891. RAFFAELE PINTO Francesca e il “principe Galeotto”

Il doppio titolo del Decameron

Troppo sottovalutato dalla critica, il cognome del Decameron (Principe Galeotto) è la via maestra per arrivare alle fonti della sua ispirazione e al suo significato globale1. Mentre il titolo allude in- fatti semplicemente alla struttura esterna dell’opera, cioè le dieci giornate in cui si articolano le 100 novelle, è il cognome che, attra- verso la citazione dantesca, ne indica la logica profonda, per la quale l’amore non è solo il più rilevante e frequente dei temi possibili (viene svolto in almeno il 75 % delle narrazioni), ma l’a priori della scrittura e della lettura del testo. Esso rinvia infatti alle condizioni psicologiche che ne hanno determinato la composizione (l’innamo- ramento dello scrittore raccontato nel Proemio2)eaquellechene

1 Si osservi nel commento di Michele Barbi (La Nuova Filologia, Firenze, 1938, p. 72), ripreso e condiviso nella propria edizione da Vittore Branca (Torino, 1980, p. 3), la neutralizzazione della perversa funzione adulterina e ruffianesca che ha l’evocazione del personaggio in Dante e che Boccaccio attribuisce, ca- povolgendone il significato morale e politico, al suo libro: “Come questo nobile principe [Galeotto], per l’amore straordianrio che portava a Lancillotto (l’amava ‘maravigliosamente’ dice il B. stesso nel commento a Dante), s’era adoprato, secondo doveva, a compiacerlo in ciò che gli faceva bisogno; così l’autore del D., per quel suo grande amore alle donne del quale si confessa e compiace in principio della quarta giornata, vuol prestare ad esse quel conforto e quell’aiuto che per lui si può a sollevarle e distrarle nelle loro pene amorose e a consigliarle nei dubbi e nei frangenti che possono loro occorrere”. 2 Ancora più significativa di tale a priori erotico della scrittura del testo è la di- fesa dai detrattori, nella Introduzione alla IV Giornata, in cui Boccaccio riven-

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determineranno una proficua lettura (l’innamoramento delle lettrici alle quali è destinato, secondo il Proemio). Il che estende alla scrit- tura romanzesca l’assioma trovadorico che identifica l’impulso di desiderio con l’ispirazione lirica, priva di senso, sia da parte del pro- duttore che da parte del fruitore, senza l’apertura dell’io al desiderio. D’altra parte si tratta, nelle allusioni del cognome, di un amore in- terpretato secondo la regola trovadorica e cortese che fa da sfondo al- l’episodio di Francesca da Rimini, e cioè il desiderio vissuto in una situazione di tipo adulterino, una triangolazione che è canonica nella lirica e che Dante ha proiettato sulla cultura letteraria facendo del- l’adulterio il tema privilegiato del genere romanzesco (nella sua ori- ginaria diffusione presso il pubblico cortigiano3). Boccaccio ha quindi colto nel canto V dell’Inferno una preziosa indicazione di me- todo, che saldando il romanzo alla lirica mette in luce i contenuti ori- ginali del romanzesco moderno e la nuova antropologia ad esso sottesa, sviluppandone le implicazioni narrative nell’universo di per- sonaggi e situazioni che descrive nelle sue novelle. Per avvicinarci al significato profondo dell’amore nella letteratura medievale e poi moderna, bisogna in effetti metterne a fuoco la na- tura necessariamente adulterina, così come essa viene descritta dai trovatori e poi illustrata da Dante nell’episodio di Francesca. È ap- dica il proprio diritto a innamorarsi, benché vecchio, adducendo esempi dei prin- cipali stilnovisti: “io mai a me vergogna non reputerò infino nello stremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi e messer Cino da Pistoia vecchissimo onor si tennero”. D’al- tra parte, l’a priori erotico della scrittra romanzesca era stato già stato fissato nel Filocolo, che si presenta come una narrazione voluta ed indotta dall’amata dello scrittore (I,1) e a lei destinata come ad una privilegiata, se non unica, destinaria (V, 97). 3 Non è un caso che le due parlate di Francesca (vv. 88-107 e vv. 121-138) evo- chino il codice dell’amor cortese secondo due ben diversi paradigmi letterari, quello lirico (la prima) e quello romanzesco (la seconda). Fra le questioni me- taletterariamente sollevate dal brano c’è anche quella della irradiazione del trian- golo di desiderio dalla lirica al romanzo.

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punto la triangolazione dell’adulterio ciò che conferisce al desiderio un valore antropologico storicamente originale (ignoto alla cultura antica), poiché ciò che viene messo in discussione dalla letteratura, attraverso la centralità dell’amore, è l’ordine politico che sul matri- monio si fonda, ossia feudalesimo e patriarcato4. Innamorandosi, e cantando il suo amore, il poeta si situa perciò in una posizione po- tenzialmente sovversiva, comunque fortemente eccentrica, rispetto alla ideologia di matrice teologico-ecclesiastica che fa da sfondo agli ordinamenti e alla mentalità dell’epoca5. Proprio per questo, infatti, come non si stancano di ripetere i trovatori di ogni paese, non c’è canto, o poesia lirica, autentici che non sgorghino da un cuore inna- morato. In tale prospettiva, la privilegiata funzione di lettrice che Boc- caccio assegna alle donne indica ben più che una occasionale scelta

4 Si osservi come Pietro Abelardo, buon conoscitore della lirica del suo tempo, nella sua Etica (Scito te ipsum, I, 10, 5–7), distingua nitidamente il desiderio di- rettamente orientato verso una donna (pulsionale e quindi eticamente irrilevante) da quello obliquamente orientato alla violazione dei diritti maritali (questo sì eticamente perverso): “Sepe eciam contingit, ut, cum velimus concumbere cum ea, quam scimus coniugatam, specie illius illecti, nequaquam tamen adulterari cum ea vellemus, quam esse coniugata nollemus. Multi e contrario sunt qui uxo- res potentum ad gloriam suam eo magis appetunt, quia talium uxores sunt, quam si essent innupte, et magis adulterari quam fornicari appetunt, hoc est magis quam minus excedere” [Succede spesso anche che, desiderando giacere con una donna che sappiamo sposata, sedotti dalla sua bellezza, non vogliamo tuttavia in alcun modo commettere adulterio con lei, che vorremmo non fosse sposata. Molti, invece, desiderano per vanagloria le spose dei potenti, proprio perché sono spose di essi, molto più che se fossero nubili, e desiderano più commettere adulterio che fornicare, cioè, peccare in ciò che è più grave piuttosto che in ciò che è meno grave]. Cito da Petri Abelardi, Opera theologica,IV,Scito te ipsum, ed.R.M.Ilgner. 5 Sugli aspetti ideologicamente sovversivi della poesia dei trovatori mi permetto di rinviare al mio Poetiche del desiderio. Saggi di critica letteraria della mo- dernità, Aracne, Roma, 1910, pp. 29-64.

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di pubblico: essa è il segnale di quella svolta antropologica che il de- siderio adulterino rappresenta e che ha nelle “donne innamorate” il suo motore ideale e l’autentico soggetto letterario. Il fatto che lo scrit- tore moderno scriva per loro significa che l’orizzonte comunicativo della letteratura e della cultura in generale si è spostato dal genere maschile a quello femminile, la qual cosa implica una generale revi- sione delle tematiche e degli strumenti espressivi6. Anche in questo caso Boccaccio è lucido interprete di posizioni che erano state origi- nariamente di Dante, che aveva già teorizzato nella Vita Nuova7 enel Convivio8 il mutamento di genere della cultura letteraria, prima di legittimarlo poeticamente attraverso il personaggio di Francesca, che proprio per questo è destinata a diventare uno dei miti fondazionali della modernità. Il riferimento al galeotto, nella intestazione del libro,

6 Ancor piu radicale è la scelta di pubblico femminile della Fiammetta,che esclude gli uomini dal circuito dei destinatari del romanzo (Prologo): “Né m’è cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga, anzi, in quanto io posso, del tutto il niego loro, però che sì miseramente in me l’acerbità d’alcuno si discuo- pre, che gli altri simili imaginando, piuttosto schernevole riso che pietose la- grime ne vedrei. Voi sole, le quali io per me medesima conosco pieghevoli e agl’infortunii pie, priego che leggiate”. 7 XXV, 6: “E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’in- tendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio tro- vato per dire d’amore”. 8 I, ix, 5: “La bontà de l’animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la letteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati”. L’inclusione delle femmine nel pubblico della letteratura è tanto più significativo se si pensa che non si tratta, qui, di poesia d’amore o scrittura romanzesca, ma di letteratura in generale e so- prattutto filosofica: perfino sul terreno della scienza le donne sono indizio del cambio di civiltà che Dante ha in mente attraverso il cambio di lingua.

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vale quindi a situarlo, tutto quanto, nella logica del triangolo di de- siderio cui Dante allude nel V dell’Inferno, sia sul piano della peri- pezia, che fa dell’adulterio la più romanzesca delle strutture narrative, sia sul piano della mediazione letteraria del desiderio, che fa del ro- manzo la più potente delle forme ideali in cui l’io si rispecchia e sco- pre i propri (moderni) modelli.

La logica adulterina che impronta di sé la letteratura moderna fin dalle sue origini, nei due generi più emblematici, la lirica e il ro- manzo, esige, nel presente contesto, una breve riflessione di tipo teo- rico che renda ragione della forza di irradiazione su tutto l’arco della modernità dei testi che stiamo considerando (il V dell’Inferno,ilDe- cameron nel suo insieme). La triangolazione di desiderio di cui essi ci parlano è infatti proiezione letteraria, canonica a partire dai trova- tori, di una struttura psichica scoperta dalla psicoanalisi e descritta dal suo fondatore come complesso di Edipo. Occultata dalla lettera- tura e dalla cultura della antichità, il cui patriarcato strutturale impe- disce che la donna venga presa in considerazione come oggetto privilegiato o unico di desiderio, essa affiora alla coscienza e alla scrittura all’alba della cultura moderna, riorientando la scrittura let- teraria intorno alla capitale questione della costituzione dell’io, che modernamente si costruisce secondo una duplice tensione: di desi- derio nei confronti della donna, di rivalità nei confronti dell’uomo (la coppia infantile madre/padre viene tradotta nella coppia adulta mi- dons/gilos, ossia amata/marito)9. Trasparente nella lirica, tale logica è evidente anche nel romanzo, se pensiamo ai cicli di Tristano e Isotta

9 La triangolazione di desiderio è evidente non solo nel V dell’Inferno (France- sca, Paolo e Gianciotto), ma anche nella Vita Nuova, relativamente alla quale il lettore deve sempre immaginare che Beatrice ha prima un padre (alla cui de- funzione viene dedicato un fondamentale capitolo: il XXII) e un marito (seb- bene lo scrittore di lui non faccia mai menzione): nella logica del fin’amor, una donna nubile o comunque libera da dipendenza familiare non avrebbe alcun si- gnificato.

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e di Lancillotto e Ginevra, ed ha la sua più esemplare espressione nella flaubertiana Madame Bovary, di cui Francesca rappresenta la progenitrice ante-litteram. Il bovarismo delle due eroine, ai due estremi del ciclo di sviluppo del romanzo moderno (esempi estremi di quel pubblico di “donne innamorate” cui Boccaccio dedica il suo capolavoro), è quindi senz’altro leggibile nei termini della logica edi- pica descritta da Freud. Su un piano storico-antropologico, e non im- mediatamente psicoanalitico, il fenomeno letterario del bovarismo è stato descritto da René Girard, che, in un volume che è ormai un clas- sico della ricerca letteraria10, ne ha messo in luce la natura specifi- camente romanzesca attraverso il concetto di mediazione del desiderio: la letteratura (in particolare il romanzo) viene concepita come lo specchio immaginario in cui il lettore vede riflessa la propria identità ideale, attraverso la figura di un ammirato protagonista; tale protagonista rappresenta l’ideale dell’io cui il lettore cerca di uni- formarsi perseguendo oggetti di desiderio congruenti con tale iden- tità. Don Chisciotte si dedica ad imprese cavalleresche per somigliare ad Amadigi di Gaula ed Emma Bovary si lascia sedurre da un don- giovanni e da un avvocato di provincia per somigliare alle eroine dei romanzi sentimentali che alimentano la sua immaginazione. Alle ori- gini della letteratura moderna europea, la mediazione romanzesca del desiderio viene esemplificata dalla storia di Paolo e Francesca, nell’Inferno di Dante, che diventano amanti per somigliare agli am- mirati protagonisti dei romanzi cavallereschi francesi, copiandone i comportamenti11. Secondo lo studioso, il romanzo moderno mette in evidenza ciò che la letteratura e la mentalità del romanticismo nor-

10 René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, Bompiani, Milano 1965. 11 Rinvio, sulla questione al mio Dante (“Inf.” V) e Buster Keaton: la media- zione comica del desiderio, in «Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de Dantología», 8, pp. 123-146. In tale studio osservo il protarsi dello schema basato sulla triangolazione di desiderio nel cinema.

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malmente dissimulano, e cioè il carattere mai originario ed autentico del desiderio, ossia, in linea con i postulati freudiani e lacaniani, la sua sostanziale alterità. L’intuizione di Girard risulta, però, ancora più utile e produttiva se la mediazione del desiderio viene analizzata a partire dallo stadio dello specchio descritto da Lacan12 e dalla trian- golazione edipica descritta da Freud. La mediazione del desiderio ci appare allora come il protrarsi nella età adulta di quella finzione di sé che fin dal principio insedia l’altro nel cuore dell’io, e riproduce nel triangolo dell’adulterio (dentro e fuori della letteratura) la trian- golazione edipica cui Freud attribuisce la definitiva orientazione delle pulsioni di desiderio, contemporaneamente verso un oggetto sessuale e verso un ideale dell’io. La funzione mediatrice del romanzo, che indica al lettore l’iden- tità in cui proiettarsi per mettere a fuoco l’oggetto del proprio desi- derio e le strategie per conseguirlo, è stata mirabilmente descritta proprio da Boccaccio in un testo che, apparentemente antitetico, ideologicamente, rispetto al Decameron, ne mette proprio per questo in luce le inconfessate valenze sovversive, e cioè il Corbaccio,nel quale i modelli romanzeschi si sovrappongono all’immaginario ses- suale della donna, riscattandone comicamente la bassezza:

Ella s’usa nelle camere, ne’ nascosi luoghi, ne’ letti e negli altri si- mili luoghi acconci a ciò, dove, senza corso di cavallo o suon di tromba di rame, alle giostre si va a pian passo; e colui tiene ella che sia o vuoi Lancelotto, o vuogli Tristano, o Orlando o Ulivieri, di pro- dezza, la cui lancia per sei o otto aringhi o per dieci in una notte non si piega in guisa che poi non si drizzi.

12 La forma di sé che il bambino riconosce nello specchio “situa l’istanza dell’io, prima ancora della sua determinazione sociale, in una linea di finzione, per sempre irriducibile per il solo individuo, -o piuttosto, che raggiungerà solo asintoticamente il divenire del soggetto, quale che sia il successo delle sintesi dialettiche con cui deve risolvere in quanto io la sua discordanza con la propria realtà” (Scritti, I, 88-89)

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Il momento in cui Boccaccio sembra avvicinarsi di più alla situa- zione descritta da Dante nel V dell’Inferno, per riprenderne in modo estensivo la problematica, è forse la novella di madonna Filippa (VI, 7), nella quale l’adulterio (un marito che coglie in flagrante la moglie con l’amante) viene rivendicato come un diritto della donna, nei con- fronti di leggi particolarmente severe verso la adultera:

Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasime- vole che aspro, il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualun- que altro uomo stata trovata fosse.

Il rapporto di intertestualità con la Commedia apparirà con mag- giore chiarezza se teniamo conto che, lì, il discorso di Francesca ha come implicito destinatario il personaggio di Minosse e il principio di giustizia che egli rappresenta: l’inflessibile legge divina non con- templa la speciale situazione in cui si trovano gli innamorati, vittime di passioni che aboliscono il loro libero arbitrio. Quindi il castigo che viene loro inflitto è, nella prospettiva dell’amante, ingiusto13. È appunto questa la situazione in cui Boccaccio ci presenta il per- sonaggio di madonna Filippa, obbligata dal marito a difendersi da- vanti al podestà del crimine che le viene imputato. Meno dotta di Francesca, che chiama in causa i principi etici dell’aristotelismo, Fi- lippa ha tuttavia più fortuna nel rivendicare il proprio diritto ad amare chi vuole, con un argomento che solo in apparenza è futile (nella sua superficie comica), e che in realtà chiama in causa se non i massimi sistemi della filosofia uno dei teoremi della filosofia poetica del- l’amore. Dopo aver denunciato la parzialità delle leggi cittadine, che

13 Sulla questione, rinvio al mio L’averroismo di Francesca,inLe Passioni,a cura di Ferruccio Farina, Editrice Romagna Arte Storia, Rimini, 2011, pp. 109- 118.

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puniscono l’adulterio solo quando viene consumato dalle donne, “le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare”, Fi- lippa chiede ed ottiene che si interroghi il marito sulla propria di- sponibilità ad assolvere gli obblighi coniugali:

E se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a voi sta; ma, avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no.

Ottenuta dal marito la attesa risposta affermativa,

A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, presta- mente rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto,

Filippa adduce in propria difesa un argomento, e cioè l’eccedenza del proprio desiderio rispetto a quello del marito, che trasforma la fedeltà coniugale in una questione puramente quantitativa: soddi- sfatte le esigenze sessuali del marito, lei resta libera di disporre del rimanente come meglio le pare, soprattutto se viene destinato a sod- disfare l’amore di un “gentile uomo” che l’ama più di se stesso:

Adunque, - seguì prestamente la donna - domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? Debbolo io gittare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m’ama, che lasciarlo perdere o guastare?

La arguta trovata dialettica scatena l’ilarità dei presenti, ma in- duce poi anche i pistoiesi a cambiare leggi così ingiustamente se- vere:

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Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene; e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele statuto e la- sciarono che egli s’intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a’lor mariti facesser fallo.

D’accordo con il tema della giornata (“chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno”), la novella gravita intorno al motto di spirito di Filippa, che introduce un elemento quantitativo, nel con- tratto matrimoniale, certo non previsto dalla morale corrente, ma che era stato preannunciato, nel suo criterio rigorosamente fisiologico, nella premessa del suo discorso, che attribuisce alle donne una mag- giore capacità di “sodisfare a molti”. Ed è appunto sul piano del na- turalismo radicale caratteristico di Boccaccio che va valutata l’intenzione ideologicamente sovversiva del motto, che contrappone due nature sessuali, quella dell’uomo e quella della donna, manife- stamente disuguali dal punto di vista della altrui soddisfazione. Le leggi umane che proibiscono l’adulterio della donna stravolgono le leggi naturali, poiché invece di riflettere, rispettando, l’eccesso fem- minile di godimento sessuale, lo reprimono. Capovolgendo l’equa- zione patriarcale che fa della donna un essere socialmente destabilizzante per la sua incapacità di dominare la lussuria, Boc- caccio utilizza appunto l’eccesso di lussuria (cioè di desiderio ses- suale) come argomento contro leggi umane ingiuste perché antinaturali. Il registro comico della novella, lungi dall’impoverire la tendenziosità ideologica del motto, ne mette in evidenza il contenuto sovversivo, come insegna Freud nel saggio dedicato al Witz. La autodifesa di Filippa nei confronti delle leggi di Pistoia non coincide esattamente con quella di Francesca nei confronti della legge divina (rappresentata da Minosse). I discorsi delle due donne hanno però punti in comune che ci fanno riconoscere in Filippa un’al-

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lieva borghese della aristocratica Francesca, poiché quell’eccesso di passione che la ravennate adduce per sottrarsi ai rigori di una legge che prevede, per essere applicabile, la piena libertà del soggetto nella scelta fra il bene e il male (libertà che l’offuscamento indotto dalla passione riduce o annulla), la pistoiese lo interpreta (d’accordo con tutta la tradizione misogina antica e medievale) come un elemento caratteristico e proprio della fisiologia femminile. Il che implica un rovesciamento dialettico di straordinaria audacia ideologica: non la sospensione della pena per “incapacità di intendere” esige Filippa, ma un adeguamento della legge alla natura femminile, incompatibile con la fedeltà matrimoniale perché dispone di un “avanzo” di desi- derio sessuale che nessun marito sarebbe in grado di soddisfare.

Bibliografia

BRANCA, V. (a cura di, 1992): Giovanni Boccaccio, Decameron, Torino, Ei- naudi. GIRARD,R.(1965):Menzogna romantica e verità romanzesca. Le media- zioni del desiderio nella letteratura e nella vita, Milano, Bompiani. PINTO, R. (2007): Dante (“Inf.” V) e Buster Keaton: la mediazione comica del desiderio, in «Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de Dantología», 8, pp. 123-146. PINTO,R.(2010):Poetiche del desiderio. Saggi di critica letteraria della modernità, Roma, Aracne. PINTO,R.(2011):L’averroismo di Francesca,inLe Passioni, a cura di F. Fa- rina, Rimini Editrice Romagna Arte Storia, pp. 109-118.

209 Leggersi negli occhi Bonaventura Genelli, Paolo e Francesca, Acquaforte in Umrisse zu Dante’s gottlicher Komodie…, Lipsia 1867. Particolare. REMO BODEI Turbamenti d’amore

Il brano della Manon Lescaut di Puccini che avete ascoltato esprime potentemente l’immediato turbamento ed esaltazione che l’amore produce nell’avvertire un inafferrabile sentimento di esalta- zione, quasi un uscire fuori di sé, una luminosa espansione della vita, un allargamento dell’io che sente di non bastare più a se stesso e cerca di fondersi nell’altro. Platone lo ha descritto, non solo nel Simposio,mainalcunibrevi passi del Fedro, dove l’Eros è accostato alla divinazione e alla poesia come alterazione della realtà percettiva e intellettuale. Anch’esso è una forma di follia divina che ci innalza al di sopra della banalità della vita quotidiana e dalla solitudine con il nostro io. È felicità e tormento, ri- sveglia il desiderio di ignoto e di completamento di sé e il timore di per- dere ciò a cui oscuramente si era sempre aspirato. Sembra una riscoperta di noi stessi in vesti altrui, ma anche un pericolo di perdersi nell’altro. Si desidera ciò che si è perduto e che non conosciamo se non oscuramente, ma verso cui non potremmo, seppur involontariamente, orientarci, se già in qualche modo non lo avessimo esperito. Cono- sciamo e non conosciamo insieme, sappiamo e ignoriamo, vogliamo e desideriamo, sperimentiamo una presenza che è fuggita e un’as- senza che ci attrae. Le immagini, i fantasmi di desiderio, hanno per- ciò questo carattere ambivalente, bicipite, di passato remoto indistinto legato a un futuro indistinto. Questo accade quando l’oggetto d’amore è presente o vicino: lo si vede, magari lo si tocca. Diversa è la dinamica del desiderio quando l’oggetto è lontano nel tempo o nello spazio, quando si pensa o si fantastica, quando l’amore esplode o si estenua nell’altalena tra ardore e freddezza, vivide immagini di intimità e nostalgia, tra pia-

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cere e dolore, tra gelosia e ritorsioni. Se è vero, come sosteneva Cor- rado Alvaro, che “la lontananza è il fascino dell’amore”, è vero anche che la lontananza rappresenta un vuoto da colmare, specie quando si è in presenza di ostacoli e di pericoli, come spesso accade in guerra. La nostra vita sperimenta continuamente la separazione: dal corpo della madre, dai genitori, dagli amici, da noi stessi come eravamo nel passato. E cerca di abituarvisi e di farsene una ragione, specie quando la separazione coincide con una perdita irreparabile. L’esistenza indi- viduale e sociale è un alternarsi di separazioni e ricongiungimenti, di fratture e di saldature. Siamo incessantemente come potati da noi stessi e dagli altri, dalla casa natale, dalla patria, e, soprattutto, dalle persone che amiamo e di cui rimpiangiamo l’assenza e la lontananza. L’amore colma la distanza spaziale e temporale, azzera la lonta- nanza attraverso la parola scritta, il messaggio che tiene in vita la tensione, che evoca la voce e i lineamenti, per sottrarli all’oblio.

Poiché il tema del nostro convegno è Legger d’amore,tratteròun suo aspetto attraverso una documentazione disparata, ignorando vo- lutamente la sequenza cronologica, mescolando poesia e scambi di lettere tra personaggi fittizi con la corrispondenza tra individui reali e accostando, in quest’ultimo caso, la corrispondenza tra menti ele- vate a quella che dai fronti della prima e della seconda guerra mon- diale i soldati hanno indirizzato alle loro donne. Per quanto riguarda la poesia, si tratta di Love after love del grande poeta caraibico (di Santa Lucia) e premio Nobel per la lette- ratura Derek Walcott. Leggiamola:

LOVE AFTER LOVE The time will come when, with elation you will greet yourself arriving at your own door, in your own mirror and each will smile at the other’s welcome,

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and say, sit here. Eat. You will love again the stranger who was your self. Give wine. Give bread. Give back your heart to itself, to the stranger who has loved you all your life, whom you ignored for another, who knows you by heart. Take down the love letters from the bookshelf, the photographs, the desperate notes, peel your own image from the mirror. Sit. Feast on your life.

AMORE DOPO AMORE Tempo verrà in cui, con esultanza, saluterai te stesso arrivato alla tua porta, nel tuo proprio specchio, e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro, e dirà: Siedi qui. Mangia. Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io. Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore a se stesso, allo straniero che ti ha amato per tutta la tua vita, che hai ignorato per un altro e che ti sa a memoria. Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore, le fotografie, le note disperate, sbuccia via dallo specchio la tua immagine. Siediti. È festa: la tua vita è in tavola1.

1 Derek Walcott, Love after love,inSea Grapes, London-New York 1976, tr. it. di Giulio Forti, in Mappa del nuovo mondo, Milano 1992, p. 99.

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L’amore per l’altro, compreso l’amore attraverso la lettura, è anche un modo per ritrovare se stessi, specie quando hai tirato giù dallo scaffale le lettere d’amore, le fotografie, le note dispe- rate. La speranza di rincontrare noi stessi attraverso gli altri fonda la possibilità di accogliere quella parte di noi che ci è sempre rimasta estranea, che ci accompagna come un ombra e tuttavia costituisce un’immensa riserva di senso e di vita di cui dobbiamo, almeno in parte, riappropriarci. C’è quindi qualcuno o qualcosa che rappresenta una donazione di significato alla nostra esistenza e che ci resta oscuro. La promessa dell’amore è anche quella di riconoscere me- diante l’altro, di ciò che avevamo sempre ignorato, pur essendo l’oscuro cuore della nostra nascosta identità. Nella poesia di Walcott, questo ideale di ricongiungimento con noi stessi – o come dicono i filosofi tedeschi – di Selbstbegegnung, comporta l’incontro sulla porta o nello specchio, con un io più pro- fondo e non quello superficiale, da cui dobbiamo “sbucciare” la no- stra immagine narcisistica. Solo così potremmo non solo riconoscere la parte nascosta di noi stessi, ma anche quella di quanti ci hanno formato e potranno ulteriormente modificarci. Siamo, infatti, una specie di corda che intreccia molte altre vite, sia reali (quelle delle persone che abbiamo conosciuto come gli amici i genitori), sia im- maginarie (quelle delle persone che abbiamo visto al cinema e in te- levisione o letto nei romanzi, perché siamo formati anche dalle “vite parallele” incrociate nell’immaginazione). La festa con noi stessi è una festa in cui noi riconosciamo di essere dei nodi di relazioni che comprendono anche l’estraneo, lo straniero che è in noi e fuori di noi. Festeggiare la vita significa pertanto rendersi conto che facciamo parte di una catena e che siamo anelli di qualcosa che è più grande di noi, che si prolunga nel tempo. L’estraneità a noi stessi si può così, paradossalmente, convertire nel luogo d’accoglienza dell’estraneità di tutti gli altri: in questa estraneità riconciliata con noi stessi possiamo ospitare gli altri. Perché, in fondo, l’altro c’è dove lo si fa entrare. E l’amore è la porta principale, da cui però possono entrare

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più persone. L’identità della persona amata si mantiene nella distanza temporale e spaziale attraverso le metamorfosi indotte dall’immagina- zione e dal desiderio. Questo è un aspetto messo in rilievo da Verlaine nella poesia Mon rêve familier (Il mio sogno familiare): “Io faccio spesso un sogno strano e penetrante / di una sconosciuta, che amo e che m’ama./Eche,ognivolta,nonè/néun’altra, né la stessa”)2.

Passando alle lettere d’amore, comincerò citando alcuni passi, dalla nota, ma mai abbastanza conosciuta, corrispondenza fra Abe- lardo ed Eloisa, di cui tutti ricordiamo lo spiacevole finale per Abe- lardo. E vi aggiungerò alcune frasi di personaggi illustri nella cultura dell’Ottocento e del Novecento. Scrive Eloisa, guardando indietro con nostalgia al passato e ri- cordando, dopo la forzata rottura con il suo amante ormai lontano, le delizie del tempo passato assieme: “Quei piaceri d’amor che abbiamo gustato insieme sono stati così dolci per me, che non posso pentir- mene e nemmeno cancellarne il ricordo. Da qualunque parte mi volga mi sono sempre davanti agli occhi con tutta la forza della loro attra- zione. Anche quando dormo mi perseguitano le loro illusioni; perfino nei momenti solenni della messa, quando la preghiera deve essere più pura, le immagini oscene di questi piaceri si impadroniscono tal- mente della mia povera anima che mi abbandono più a queste turpi- tudini che alla preghiera. Io, che dovrei piangere su quello che ho fatto, sospiro invece per ciò che ho perduto, e non solo quello che ab- biamo fatto insieme, ma i luoghi, i momenti in cui l’abbiamo fatto sono talmente impressi nel mio cuore che li rivedo con te in tutti i particolari e non me ne libero nemmeno durante il sonno”3.

2 P. Verlaine, Mon rêve familier,inPoèmes saturniens,inŒuvres poètiques complètes, Paris, 1983, p. 63. 3 Abelardo e Eloisa, Lettere d’amore, a cura di E Roncoroni, Milano, Rusconi, 1971, pp.180-187 (cfr. l’altra traduzione italiana, da cui cito, di C. Scerbanenco, con testo latino a fronte, Lettere di Abelardo e Eloisa, Milano, BUR, 1996, Let- tera Quarta, pp. 229, 231).

215 LEGGER D'AMORE

Un altro leggere d’amore (che Dante non conosceva, scrivendo di Francesca) è quello del particolare genere di lettura praticata da Abe- lardo con Eloisa: “Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo com- pletamente all’amore, lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affanna- vano di più intorno ad argomenti d’amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso al seno che ai libri. E ciò che si rifletteva nei nostri occhi era molto più spesso l’amore che non la pagina scritta, oggetto della lezione […] Il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell’amore, ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo pro- vammo; e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri, tanto più ar- dentemente ci dedicavamo ad essi e non ci stancavamo mai. Quanto più eravamo inesperti di quei giochi d’amore, tanto più insistevamo nel procurarci il piacere e non ci stancavamo mai”4. Con il tempo cambia la prospettiva con cui si giudicano gli eventi. Brucia ancora nelle parole di Abelardo la memoria di quella passione che lo aveva attanagliato e che lo spingeva persino a costringere con la forza Eloisa alle sue voglie: “Tu sai a quante cose vergognose la mia lussuria smodata trascinò i nostri corpi al punto che nessuna one- stà e rispetto per Dio fu sufficiente a trattenermi dal fango della pa- lude dei sensi, neppure nei giorni della passione del signore o di qualsiasi altra solennità. Anche quando tu non volevi e, per natura più debole, cercavi di rifiutare e di dissuadermi come potevi, spesso ti co- stringevo ad accettare il mio piacere con minacce e percosse”5.Nel ricordo della passata esaltazione il sentimento di vergogna e i penti- menti postumi di Abelardo confliggono in parte con l’atteggiamento di Eloisa, che ritiene l’intenzione buona capace di giustificare ogni amore.

4 Abelardo, Historia calamitatum mearum,inLettere di Abelardo e Eloisa, cit., Lettera prima,p.69. 5 Lettere di Abelardo e Eloisa, cit., p. 265.

216 REMO BODEI

Dopo aver ricordato una delle prime corrispondenze letterarie di let- tere d’addio per chi parte in guerra, un testo classico, farò alcuni brevi cenni conclusivi sulle cartoline e lettere dal fronte alle mogli, amanti e fidanzate lontane, provenienti da raccolte private o da archivi militari. Il riferimento a un classico è quello a un brano tratto dalle Eroidi di Ovidio, in cui la Ninfa Enone, abbandonata, da Paride, ricorda i bei giorni: “Spesso, in mezzo alle greggi, abbiamo trovato riposo al riparo di un albero e l’erba frammista a foglie ci faceva da giaciglio. Spesso, mentre ce ne stavamo sdraiati sulla paglia o sul fieno folto, un’umile capanna ci ha riparati dalla candida brina […] I faggi, incisi da te, con- servano il mio nome: si legge Enone, tracciato dal tuo falcetto. E quanto crescono i tronchi, altrettanto cresce il mio nome: crescete e ti- ratevi su dritti per attestare i miei titoli! [Mi rammento, c’è un pioppo, piantato sulla riva di un fiume, sul quale è incisa una scritta in mio ri- cordo.] Vivi, ti prego, pioppo, che piantato sul margine della riva rechi sulla ruvida corteccia questi versi: ‘Se Paride, abbandonata Enone, potrà ancora vivere, l’acqua dello Xanto invertirà il suo corso andando verso la sorgente’ […]. Furono tagliati gli abeti e segate le assi e, alle- stita una flotta, l’onda azzurrina accolse le imbarcazioni spalmate di cera. Piangesti nel partire […] Piangesti e vedesti i miei occhi in pianto. Entrambi dolenti confondemmo le nostre lacrime. L’olmo non è al- trettanto avvinto dai rami di vite che lo allacciano, quanto le tue brac- cia si strinsero al mio collo. Ah, quante volte, quando ti lamentavi di essere trattenuto dal vento, i tuoi compagni risero: il vento era propi- zio! Quante volte, dopo avermi congedata, mi richiamasti per ba- ciarmi! Con quanta fatica la lingua fu in grado di dire “Addio”! Una leggera brezza fa gonfiare le vele che sventolano dall’albero ritto e l’acqua sollevata dai remi, biancheggia. Inseguo tristemente con lo sguardo, fin dove posso, le vele che si allontanano, mentre la sabbia si inumidisce per le mie lacrime”6.

6 Ovidio, Eroidi, a cura di E. Salvadori, con testo latino a Fronte, Milano, Gar- zanti, 2008, V, Enone a Paride, pp. 41, 43.

217 LEGGER D'AMORE

Non posso soffermarmi a lungo sulle lettere e cartoline dell’Ot- tocento e del Novecento da e per il fronte. Tra la vasta documenta- zione, segnalo, tuttavia, in nota alcune fonti7. Un’avvertenza; nell’attesa spesso spasmodica, di ricevere e ri- cambiare i pensieri e gli affetti più intimi, non bisogna dimenticare l’attenuazione di certi sentimenti e desideri a causa della censura mi- litare. Ne è ben consapevole il maggiore Aldo Beghi nella sua carto- lina alla moglie Iolanda del 2 maggio 1918: “Io attendo ansiosamente tuoi scritti che mi portino notizie tue e le parole affettuose che tanto desidero e che sono il mio solo conforto. Vivo della speranza di ri- vederti presto e godere fra le tue braccia i tuoi baci soavi...Vorrei dirti tante cose, ma non mi oso – qui – “. E lo sa anche Manlio Pertampi, che scrive in questi termini alla consorte il 2 marzo 1943: “Nei miei giri d’ispezione sono sempre solo, e ho tempo di pensarti a mio agio, anche se non sempre posso mettere per iscritto ciò che penso”. La guerra, la paura e i pericoli fanno esaltare quella quotidianità che a molti appariva prima grigia e noiosa. Frequente è, infatti, il rimpianto e la nostalgia per la vita relativamente anti-eroica e tran- quilla e per gli affetti saldi che si sono lasciati a casa. Li manifesta, in toni lirici, Cristiano Nusdorfi dalla prigionia nella lettera del 12 giugno 1944: “O moglie adorata, un cuore come questo tanto vo- glioso di dare amore, non avrebbe potuto altro che condurre una vita felice, fatta di sentimenti giusti, nobili e cari, che per l’umanità do- vevano essere uno specchio, esempio tanto caro di virtù per le crea- ture della terra! Ma quella che sarebbe stata un’esemplare esistenza...

7 Oltre a L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, a cura di N. Revelli, Torino, Einaudi, 2009 (il cui tono è ge- neralmente più drammatico), desidero segnalare la recente pubblicazione delle Lettere d’amore dal fronte…io non sono tristo, a cura di Claudia Cencini, Pi- tigliano, Strade bianche/Stampa alternativa, 2011, che si trova anche on-line (http://www.google.it/search?client=firefoxa&rls=org.mozilla%3Ait%3Aofficial& channel=s&hl=it&source=hp&q=Claudia+Cencini&meta=&btnG=Cerca+con+ Google).

218 REMO BODEI

è stata strappata dal nostro cuore, come un fiore portato via dal vento, lontano dal suo giardino, dal suo nido “prescelto”, e gettato violen- temente nell’abisso, nella tristezza, circondato da fili spinati. E fili spinati sono ora la mia casa, è qui che vivo di sentimenti dolorosi, di un’esistenza straziata, fatta solo di ricordi belli e per questo ancor più amari”8. Voglio chiudere citando, scherzosamente, la reazione con cui le donne pisane delle vecchie generazioni esprimevano il loro scon- tento nel ricevere dal fronte sole le cartoline dei loro amati, invece di godere della loro presenza in carne e ossa: “Ohimena, che passione, averlo di ciccia e baciarlo di cartone!”.

8 Da Lettere d’amore dal fronte…io non sono tristo.

219 Francesca d’Italia Manifesto della mostra realizzata nell’ambito delle celebrazioni per il cento- cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Rimini, Museo della Città, marzo-aprile 2011. I RELATORI

IRELATORI

Rossend Arqués è docente di letteratura italiana presso l’Università Autonoma di Barcellona. Membro della “Societat Catalana d’Estu- dis Dantescos” (SCED), è redattore della rivista di studi danteschi “Tenzone”. Ha insegnato nelle Università di Cagliari, Venezia e Trie- ste. Per quanto riguarda Dante e la letteratura medievale, si è occu- pato prevalentemente della ricezione di Dante nel ventesimo secolo in Spagna e in America del Sud e coordina attualmente un network internazionale su “Dante e l’arte” dedicato alla ricerca sulla ricezione artistica del poeta fiorentino, ma ha promosso e studiato la letteratura italiana delle origini con la pubblicazione di libri e opere su Giacomo da Lentini, Guido Cavalcanti, Francesco Petrarca e Giovanni Boc- caccio. Recentemente ha pubblicato un’edizione spagnola del Se- cretum di Petrarca (2011).

Luigi Ballerini vive a New York e insegna letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università della California di Los Angeles (UCLA). È il direttore generale di Cum grano salis, una collana di libri dedicati alla gastronomia storica pubblicati dalla Guido Tommasi Edi- tore di Milano. Ha pubblicato raccolte di poesie, antologie di poesia ita- liana ed americana, testi critici, traduzioni. Ha tradotto in italiano numerosi testi di autori americani tra cui: Herman Melville, Henry James, William Carlos Williams, James Baldwin, Kurt Vonnegut. La sua edizione de Gli indomabili di Marinetti è stata pubblicata da Mondadori nel 2000, seguita da quella di Mafarka il futurista nella primavera del 2003. È stato curatore di mostre di arte contempora- nea italiana, tra cui “Scrittura visuale in Italia” al Finch Museum di New York e alla Galleria civica d’arte moderna Torino (1973) e “Spelt from Sybil’s Leaves” alla Power Gallery di Sydney (1984). È intervenuto in numerose conferenze: “The Disappearing Pheas- ant I” (New York, 1991) e “The Disappearing Pheasant II” (Los An-

221 LEGGER D'AMORE

geles, UCLA, 1994). Nelle sue pubblicazioni ha più volte collabo- rato con artisti tra cui: Paolo Icaro (La parte allegra del pesce, 1984 e Leggenda di Paolo Icaro, 1985), Eliseo Mattiacci e Remo Bodei (La torre dei filosofi, 1986), Angelo Savelli (Selvaggina, 1988), Marco Gastini (Una più del diavolo,1994eNavi di terra e di mare, 1999), Vademecum per il Carro solare di Eliseo Mattiacci (2004). Nel 1992 ha ricevuto il premio Feronia per la poesia. Come storico dell’arte culinaria ha curato l’edizione di Science in the Kitchen and the Art of Eating Well di Pellegrino Artusi, mentre il suo Maestro Mar- tino: The Book of the Culinary Art è stato pubblicato nel 2004. Col- labora a “Gastronomica” e al programma “Gambero Rosso”.

Remo Bodei, laureato all’Università di Pisa, dove ebbe come mae- stro Arturo Massolo che lo introdusse allo studio dell’idealismo te- desco e in particolare alla filosofia hegeliana, ha perfezionato la sua preparazione teorico-storico-filosofica a Tubinga e Friburgo, fre- quentando le lezioni di Ernst Bloch ed Eugen Fink; ad Heidelberg, con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi all’Università di Bochum. È stato visiting professor presso le Università di Cambridge, Ottawa, New York, Toronto, Girona, Città del Messico, California Los An- geles ed ha tenuto conferenze in molte università europee, americane ed australiane. Dal 2006 insegna filosofia alla UCLA di Los Ange- les, dopo aver a lungo insegnato storia della filosofia ed estetica alla Scuola Normale Superiore e all’Università di Pisa dove tuttora tiene qualche corso. Appassionato cultore della poesia hölderliniana, al- l’autore dell’Hyperion ha dedicato saggi di notevole interesse, con Geometria delle passioni ha esteso la sua meditazione anche a pro- tagonisti della filosofia moderna come Cartesio, Hobbes e soprat- tutto Spinoza. Studioso del pensiero utopistico del Novecento, in particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di autori fran- cofortesi come Adorno e Walter Benjamin, è intervenuto nella di- scussione sulla filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando in particolare con Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Salva- tore Veca, Nicola Badaloni. I suoi libri sono tradotti in molte lingue.

222 I RELATORI

Nel 1992 ha vinto il Premio Nazionale Letterario Pisa Sezione Sag- gistica. Inoltre, ha curato la traduzione e l’edizione italiana di testi di Hegel, Rosenkranz, Rosenzweig, Adorno, Kracauer, Foucault. Molti suoi lavori hanno per oggetto lo spessore e la storia delle domande che riguardano la ricerca della felicità da parte del singolo, le inde- terminate attese collettive di una vita migliore, i limiti che imprigio- nano l’esistenza ed il sapere entro vincoli politici, domestici ed ideali. Attualmente lavora sulla storia e sulle teorie della memoria.

Michela Cesarini, storica dell’arte, è collaboratrice dei Musei Co- munali di Rimini dal 1997 per la catalogazione del patrimonio e la di- dattica. Studiosa di arte locale, ha ideato percorsi di valorizzazione delle opere d’arte conservate al Museo della Città di Rimini e di mo- numenti cittadini. Tra questi Arte e fede nelle chiese riminesi, in col- laborazione con la Diocesi di Rimini e Impara l’arte, corso di aggiornamento per insegnanti giunto alla IX edizione. Ha curato mo- stre e ha pubblicato numerosi contributi sull’arte riminese in mono- grafie e riviste specializzate. Collabora con il periodico“Ariminum” e il quotidiano “Il Resto del Carlino” con contributi di carattere cul- turale. È docente di storia dell’arte nella scuola superiore.

Massimo Ciavolella ha studiato presso l’Università di Bologna, Roma, e della British Columbia (Vancouver, Canada), dove ha rice- vuto nel 1972 un Dottorato di Ricerca (Ph.D.) in Letteratura Classica, Medievale e Rinascimentale. Dal 1970 al 1985 ha insegnato presso la Carleton University di Ottawa, dal 1986 al 1996 presso l’Univer- sità di Toronto, e dal 1996 è Professore d’Italiano e letteratura Com- parata e direttore del Dipartimento d’Italiano presso la University of California a Los Angeles (UCLA). È stato condirettore delle collane “Carleton Renaissance Plays in Translation” (Dovehouse Editions, Ottawa), “Major Italian Authors” e “Italian Series” della University of Toronto Press, e co-fondatore della rivista “Quaderni d’italiani- stica”. Con il Professor Luigi Ballerini co-dirige la collana “Lorenzo Da Ponte Italian Library” che si prefigge di pubblicare in traduzione

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inglese 100 testi italiani che nei secoli hanno interagito con la cultura anglosassone. È autore di molti articoli, recensioni e voci enciclope- diche, e ha scritto o curato vari volumi sulla cultura medievale e ri- nascimentale. Tra le sue monografie: La malattia d’amore dall’antichità al medioevo, Bulzoni, Roma, 1976; Comparative Cri- tical Approaches to Renaissance Comedy, Dovehouse, Ottawa, 1986; Saturn from Antiquity to the Renaissance, Dovehouse, Ottawa, 1992; Edizione critica dell’unica commedia rimasta di Gian Lorenzo Bernini, L’impresario (a cura di), Salerno, Roma, 1992; Eros and Anteros: Medicine and the Literary Traditions of Love in the Re- naissance, Dovehouse, Ottawa, 1993; Italian Studies in North Ame- rica, Dovehouse, Ottawa, 1994; La lotta con Proteo. 2 volumes, Cadmo, Firenze, 2001; Ariosto Today. Contemporary Perspectives, TorontoUniversity Press, Toronto, 2003; Culture and Authority in the Baroque, Toronto University Press, Toronto, 2005.

Valeria Cicala è funzionario dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna. Antichista per formazione e giornalista, scrive di comunicazione dei beni culturali e di storia antica. Re- dattore capo della rivista “IBC”, collabora con emittenti radio e tv; è nella redazione di testate specializzate. Per le Università di Bologna e Ferrara svolge docenze per master di comunicazione e per la Scuola di giornalismo dell’Alma Mater.

Ferruccio Farina, storico del turismo e della comunicazione per im- magini, ha tra i suoi recenti interessi la fortuna e il mito di France- sca da Rimini. Tra le monografie pubblicate: Francesca da Rimini, sulle tracce di un mito, Rimini 2006; Architetture balneari della Belle Epoque tra Europa e Americhe, Milano 2001; Baci, carezze e pen- sieri d’amore. Messaggi amorosi in cartolina 1900 – 1950, Milano 1997; Le Sirene dell’Adriatico, 1850 – 1950. Riti e miti balneari nei manifesti pubblicitari, Milano 1995; Il mare di Dudovich, vacanze e piaceri balneari nei segni del più grande cartellonista italiano 1900 – 1950, Milano 1991; L’estate della grafica, manifesti e pubblicità

224 I RELATORI

della Riviera di Romagna, Cinisello Balsamo 1989. Ha progettato e dirige il sito “Balnea, Museo virtuale dei bagni di mare e del turi- smo balneare”, realizzato in collaborazione con il Comune di Rimini e la Regione Emilia Romagna. Ha fondato la rivista “Romagna Arte e Storia” attiva dal 1980. Ha progettato e cura le Giornate Interna- zionali Francesca da Rimini. È professore a contratto di Sociologia del turismo alla Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo.

Roberto Fedi è ordinario di Letteratura italiana a Perugia. È studioso di Petrarca e della poesia del Rinascimento e dei rapporti fra lettera- tura e arti figurative, e della cultura dell’Otto-Novecento. Fra le sue opere: volumi sulla cultura otto-novecentesca (Cultura letteraria e società civile nell’Italia unita,Pisa1984;Scritture novecentesche, Firenze 2008), sulla lirica del Rinascimento (La memoria della poe- sia, Roma 1990), una monografia su Petrarca (Milano 2002), l’edi- zione critica del Diario di Jacopo da Pontormo (Roma 1996), un volume su Ariosto (Ariosto today, University of Toronto Press 2004, in collaborazione con M. Ciavolella) e uno sul rapporto fra l’idea fi- gurativa del biondo e la letteratura (I poeti preferiscono le bionde. Chiome d’oro e letteratura, Firenze 2007).

Giulio Ferroni è uno storico della letteratura, critico letterario, scrit- tore e giornalista italiano. Dal 1982 è professore ordinario di lettera- tura italiana presso l’Università “La Sapienza” di Roma; precedentemente, aveva insegnato dal 1975 presso l’Università della Calabria. Ha scritto numerosi saggi di letteratura: su Machiavelli, su Aretino, sul Novecento e su molti scrittori contemporanei. Collabora con riviste e quotidiani italiani e stranieri. Tra i volumi pubblicati: Mutazione e riscontro nel teatro di Machiavelli, Bulzoni, Roma 1972; Il comico nelle teorie contemporanee, Bulzoni, Roma 1974; Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, Liguori, Na- poli 1977; Il testo e la scena, Bulzoni, Roma 1980; Ambiguità del co- mico, Sellerio, Palermo 1983; Storia della letteratura italiana, 4 voll.,

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Einaudi Scuola, Torino 1991; Gianmatteo del Brica, Lettere a Belfa- gor, Donzelli, Roma 1994; Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino 1996; La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma, Einaudi, Torino 1997; La scena in- tellettuale. Tipi italiani, Rizzoli, Milano 1998; Passioni del Novecento, Donzelli, Roma 1999; Dizionaretto di Robic, Centouno parole per l’altro millennio, Manni Editori, 2000; Machiavelli, o dell’incertezza, Donzelli, Roma 2003; I confini della critica, Guida 2005; Prima le- zione di letteratura italiana, Laterza, Roma-Bari 2009; La passion predominante. Perché la letteratura, Liguori, Napoli 2009; Dopo la fine, Donzelli, Roma 2010; Scritture a perdere, Laterza, 2010.

Diana Glenn è docente di italianistica presso la Flinders University, South Australia, dove, fra l’altro, ricopre l’incarico di Vice Preside dell’Istituto di Studi Umanistici. Ha pubblicato numerosi saggi e ar- ticoli su riviste italiane e straniere ed ha curato (con Margaret Baker) gli Atti di vari convegni su Dante: Dante Colloquia in Australia 1982-1999 (Adelaide: Australian Humanities Press, 2000) e Flinders Dante Conferences 2002 & 2004 (Adelaide: Lythrum Press, 2005). Nel 2008 ha pubblicato una monografia su Dante intitolata Dante’s Reforming Mission and Women in the Comedy (Leicester, UK: Trou- bador Italian Series).

Deirdre O’Grady, irlandese, è professore ordinario di Studi Italiani- stici e Comparati all’University College di Dublino, ove ha studiato e ove ha conseguito il Dottorato di Ricerca (Ph.D.). É laureata anche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È autrice di nu- merose volumi monografici tra i quail Alexander Pope and Eigh- teenth-Century Italian Poetry, Bern/New York, Peter Lang, 1986; The Last Troubadours. Poetry and Drama in Italian Opera, London, Routledge, 1990; Piave, Boito, Pirandello: From Romantic Realism to Modernism, Edwin Mellen Press, Lampeter/ New York, 2000; edi- zionecriticadeLa locandiera di Carlo Goldoni, Foundation for Ital- ian Studies, University College Dublin, 1997. Più di quaranta i suoi

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articoli e saggi pubblicati in Italia, Francia, Inghilterra e Irlanda. Ha partecipato a convegni in Italia, Francia, Malta, Danimarca, Un- gheria, Inghilterra, Scozia e Irlanda. Ha organizzato convegni Inter- nazionali a Dublino su Goldoni, Boito e Futurismo. External Examiner all’Oxford University e all’University of Leeds. È Cava- liere dell’Ordine della Stella della Repubblica Italiana.

Raffaele Pinto è docente di Filologia italiana presso la “Universitat de Barcelona” e consulente di Studi Letterari presso la “Universitat Oberta de Catalunya”. Collabora con la “Societat catalana d’Estudis dante- scos” e con la rivista di studi danteschi “Tenzone”. Ha realizzato due edizioni spagnole della Vita Nuova, e numerosi saggi su temi dante- schi, fra i quali si segnala la monografia: Dante e le origini della cul- tura letteraria moderna, Champion, Parigi, 1994. Fra le sue linee di ricerca c’è anche la storia del cinema, alla quale ha dedicato diversi ar- ticoli, fra i quali si segnalano, per i contenuti danteschi: Beatrice, Fel- lini e gli uccelli, in “Dante”, 2, pp. 89-97, 2005; Dante (‘Inf. V’) e Buster Keaton: la mediazione comica del desiderio,in“Tenzone”,8, 123-146, 2007.

Piotr Salwa è professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Varsavia. È autore di vari studi sulla novellistica italiana (Narra- zione, persuasione, ideologia. Una lettura del Novelliere di Giovanni Sercambi, lucchese, Lucca 1991; La narrativa tardogotica toscana,Fi- renze 2004) e sulla fortuna di classici italiani in Polonia. Direttore di una storia della letteratura italiana in polacco. Premio Mondello per la traduzione (2008) e per le edizioni polacche del Petrarca.

Rita Severi insegna Lingua e Letteratura Inglese e Animazione Tea- trale all’Università degli Studi di Verona. Le sue ricerche spaziano dai viaggiatori anglofoni in Italia alle Anglo-Italian Relations al tempo di Shakespeare e di Oscar Wilde. Su Oscar Wilde ha pubbli- cato: L’Anima dell’Uomo. Oscar Wilde e l’Italia (Palermo, Nove- cento, 1998), La Biblioteca di Oscar Wilde (Palermo, Novecento,

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2005), assieme a Masolino D’Amico, Oscar Wilde, Le Arti, L’Italia (Palermo, Novecento, 2001), Oscar Wilde & Company. Sinestesie Fin de Siècle (Bologna, Patron, 2001). Ha curato la prima edizione di E. Wharton, La Valle della Decisione (Reggio Emilia, Diabasis, 1999), M. Hewlett, Madonna of the Peach Tree (ed. bilingue, Bolo- gna, Patron, 2007); una nuova traduzione di George Byron, Parisina. Sta per pubblicare una raccolta di saggi dal titolo Rinascimenti. Sha- kespeare & Anglo-Italian Relations (Bologna, Patron, 2009).

Natascia Tonelli insegna Letteratura italiana all’Università di Siena. Studiosa della letteratura medievale e umanistica, ha pubblicato nu- merosi saggi su Dante e Petrarca, sulla cultura medica nella lettera- tura delle origini da Cavalcanti a Boccaccio, sulla tradizione elegiaca. Costante la sua attenzione anche per la poesia del Novecento, alla quale in particolare ha dedicato un lavoro sul sonetto contemporaneo. Condirige la rivista “Per leggere” dedicata a edizione, commento e lettura di testi.

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WOMENINHELL Francesca da Rimini & Co. between sin, virtue and heroism

DONNE ALL’INFERNO Francesca da Rimini & Co. tra peccato, virtù ed eroismi

Giornate Internazionali Francesca da Rimini Sesta edizione Los Angeles 20 – 21 aprile 2012 UCLA Center for Medieval and Renaissance Studies

229 WOMEN IN HELL

Women in Hell Francesca da Rimini & Co. between sin, virtue and heroism

Giornate Internazionali Francesca da Rimini Sesta edizione Los Angeles 20 – 21 aprile 2012 UCLA Center for Medieval and Renaissance Studies

Progetto e realizzazione: UCLA Center for Medieval and Renaissance Studies e Romagna arte e storia, rivista di cultura, Rimini Comitato scientifico: Massimo Ciavolella, Valeria Cicala, Ferruccio Farina, Roberto Fedi, Giuseppe Mazzotta, Piero Meldini, Deirdre O’Grady, Raffaele Pinto, Piotr Salwa, Natascia Tonelli, Nadia Urbinati Patrocinio di: Presidenza della Repubblica Italiana, Dante Society of America, So- cietà Dantesca Italiana, IBC, Istituto per i beni artistici culturali e naturali Regione Emilia-Romagna Cura dell’iniziativa: Massimo Ciavolella e Ferruccio Farina

PROGRAMMA GENERALE 20-21 aprile WOMEN IN HELL Convegno di studi UCLA Center for Medieval and Renaissance Studies Royce Hall, 10745 Dickinson Plaza Los Angeles, CA Istituto Italiano di Cultura, 1023 Hilgard Avenue, Los Angeles, CA 20-21 aprile PASSIONI D’ITALIA Francesca da Rimini nell’immaginario popolare tra Europa e Americhe, tra Otto e Novecento Esposizione di incisioni e proiezione di film d’epoca Istituto Italiano di Cultura, Los Angeles, CA 20 -30 aprile PASSION ON PAPER Francesca da Rimini, peccato e passione Cimeli bibliografici in mostra UCLA Charles E. Young Research Library, UCLA Research Library Building, Los Angeles, CA 90095-1575

230 WOMEN IN HELL

RELATORI

Brittany Asaro, UCLA, University of California, Los Angeles Boccaccio’s Francescas: Comparing Inferno V and the Tale of Nastagio degli Onesti (Dec. V.8) Luigi Ballerini, UCLA, University of California, Los Angeles Teodora: a Gift of God Nowhere to be Found but probably in Hell, Somewhere Remo Bodei, UCLA, University of California, Los Angeles Attaccamento e abbandono: Francesca e Didone in Dante Massimo Ciavolella, UCLA, University of California, Los Angeles Ferruccio Farina, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo Dall’inferno al paradiso: la trasformazione di Francesca nelle arti visive tra XIX e XX secolo Roberto Fedi, Università per stranieri di Perugia L’inferno in terra. Un manicomio femminile alla fine dell’Ottocento. The Hell on the Earth. A Feminine Madhouse at the end of XIX Century Paolo Golinelli, Università degli Studi di Verona Le “antifrancesche” storiche: e /Matilde di Canossa Melina Madrigal, UCLA, University of California, Los Angeles A lightly veiled hell: Arcangela Tarabotti’s La tirannia Paterna Giuseppe Mazzotta, Yale University, New Haven, Connecticut Didone amorosa Deirdre O’Grady, University College di Dublino Un ‘dualismo dantesco’: Francesca da Rimini fra tentazione, tradimento e turbamento Lucia Re, UCLA, University of California, Los Angeles Metamorphoses of Thäis

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Gianluca Rizzo, College of Franklin and Marshall Mucchiachias Sathanae: le peccatrici di Dante e le streghe del Folengo Rita Severi, Università degli Studi di Verona “The love which made hell, paradise”. Ouida (Maria Louise Ramé, 1839-1908) re-writing the Paolo and Francesca theme in Held in Bondage Heather Sottong, UCLA, University of California, Los Angeles Three Argentine Visions of Francesca: Victoria Ocampo, Jorge Luis Borges, and Leopoldo Lugones Dominic Siracusa, UCLA, University of California, Los Angeles For the Poet’s Sake: The Linguistic Sign and Women Who Lead to Hell Cindy Stanphill, UCLA, University of California, Los Angeles Damned if She Does and Damned if She Doesn’t: The Griselda Complex in Moderata Fonte’s Il merito delle donne Eduard Vilella, UAB Barcelona Not even in Hell: Dante’s Isolde

IN TELECOLLEGAMENTO Rossend Arqués, Università Autonoma di Barcellona Scellerate donne. Note sulla semantica della “scelleratezza” nel Trecento Giulio Ferroni, Università “La Sapienza” di Roma “Inferni” femminili nel Decameron Raffaele Pinto, Universitad de Barcelona Le lacrime di Beatrice (Inf. II)

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Finito di stampare nel mese di marzo 2012 presso Centro Stampa Digitalprint, Rimini