UNIVERSITA‟ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTA‟ DI SCIENZE POLITICHE

Territorialità e Mafia:

Il ruolo dei beni confiscati

Relatore: Prof. Egidio Dansero

Correlatore: Prof. Fabio Armao Correlatrice: Dott.ssa Elisa Bignante

Candidata Elena Piazza

ANNO ACCADEMICO 2010-2011

INDICE

INTRODUZIONE...... 5

CAPITOLO 1 IL TERRITORIO E LA TERRITORIALIZZAZIONE ...... 9

1.1 La geografia umana, la geografia sociale e il ruolo del territorio ...... 10

1.2 Dalla “Terra” al “territorio” ...... 12

1.3 Il processo di territorializzazione ...... 18 1.3.1 Il controllo simbolico: la denominazione ...... 20 1.3.2 Il controllo pratico: la reificazione ...... 21 1.3.3 Il controllo sensivo: la strutturazione ...... 23 1.4 Dal territorio al “Patrimonio territoriale”...... 24

1.5 La rappresentazione reticolare del territorio ...... 26

CAPITOLO 2 LA DIMENSIONE TERRITORIALE DEL POTERE MAFIOSO ...... 31

2.1 Le origini della “signoria territoriale” mafiosa ...... 32

2.2 Mafia e Mafie...... 36 2.2.1 Cosa Nostra ...... 36 2.2.2. Ndrangheta ...... 38 2.3 Le mafie fra radicamento storico e nuovi insediamenti ...... 41 2.3.1 L‟azione mafiosa fra scala locale e globale ...... 49 2.4 Le mafie e gli spazi urbani ...... 52 2.4.1 Quale contrasto? ...... 57

CAPITOLO 3 I BENI CONFISCATI ...... 59

3.1 Uso sociale dei beni confiscati : cenni storici e normativi...... 60 3.1.1 La Legge “Rognoni – La Torre”: colpire la criminalità attraverso la confisca dei patrimoni illeciti ...... 60 3.1.2 La Legge 109/96: L'uso sociale dei beni confiscati ...... 62 3.1.3 Criticità del processo di confisca e assegnazione ed innovazioni normative ...... 68 3.2 Statistiche e dati quantitativi sulla rilevanza del fenomeno ...... 72 3.2.1 La Banca dati del Ministero della Giustizia ...... 73 3.2.2 Le confische e le destinazioni al 31 Ottobre 2010 ...... 74 3.2.3 La situazione al 1 Settembre 2011 ...... 85 3.3 Risorse Finanziarie...... 87

CAPITOLO 4 LA RICERCA: AMBITO TEORICO, IPOTESI E METODOLOGIA ...... 89

4.1 Ambito teorico: i beni confiscati come beni patrimoniali territoriali ...... 89

4.2 Ipotesi di ricerca : Il ciclo T-D-R dei beni confiscati ...... 93 4.2.1 Obiettivi della ricerca ...... 96 4.3 Area geografica di ricerca e casi studio ...... 97

4.4 Struttura della ricerca e fonti...... 99

4.5 Fasi e metodologia di ricerca ...... 101 4.5.1 Il Campione per le interviste ...... 102 4.5.2 Le Interviste ...... 103

CAPITOLO 5 I BENI CONFISCATI E IL TERRITORIO: LO STUDIO NELLA PROVINCIA DI ...... 109

5.1 Il contesto territoriale della Provincia di Palermo ...... 109

5.2 Il Comune di Corleone ...... 111 5.2.1 I beni confiscati nel Comune...... 113 5.3 I beni Casi Studio ...... 119 5.3.1 L'agriturismo Terre di Corleone ...... 119 5.3.2 La Bottega e il Laboratorio della Legalità ...... 124 5.4 I beni confiscati e la risposta del territorio...... 131 5.4.1 Analisi dei questionari ...... 131 5.4.2 Analisi delle interviste ...... 132 5.4.3 Conversazioni con gli intervistati non strutturate ...... 149

CAPITOLO 6 I BENI CONFISCATI E IL TERRITORIO: LO STUDIO NELLA PROVINCIA DI TORINO ...... 153

6.1 Il contesto territoriale della Provincia di Torino ...... 153

II

6.2 Il comune di ...... 161 6.2.1 I beni confiscati nel comune...... 164 6.2.2 La casa di “Don Ciccio” Mazzaferro ...... 166 6.3 Il Comune di San Sebastiano da Po ...... 171 6.3.2 Cascina Bruno e Carla Caccia ...... 173 6.4 I beni confiscati e la risposta del territorio...... 179 6.4.1 Analisi dei questionari ...... 180 6.4.2 Analisi delle interviste ...... 181 6.4.3 Conversazioni con gli intervistati non strutturate ...... 193

Conclusioni ...... 197

Bibliografia ...... 203

Rapporti ufficiali ...... 207

Siti internet consultati ...... 210

APPENDICI...... I

A. Schede riepilogative beni confiscati...... I Scheda n.1 Agriturismo “Terre di Corleone” – Corleone (Pa) ...... I Scheda n.2 “Bottega e Laboratorio della Legalità” – Corleone (Pa) ...... II Scheda n.3 “Casa per ferie” – Bardonecchia (To) ...... III Scheda n.4 “Cascina Caccia” – San Sebastiano da Po (To) ...... IV

B.. Tabelle dati ...... VI

Ringraziamenti ...... 233

INDICE DEI GRAFICI E DELLE TABELLE

Figura 1 - Turco A. (1988) Lo spazio e gli atti territorializzanti...... 19 Figura 2 - Turco A. (1988) Per una logica degli atti territorializzanti...... 20 Figura 3 - Il Ciclo T-D-R per i beni confiscati ...... 95 Figura 4 - Carta riepilogativa dei beni confiscati per Regione e nelle Province di Palermo e Torino...... 107 Figura 5 - Agriturismo "Terre di Corleone"- Corleone (Pa) ...... 120 Figura 6 - Bottega e Laboratorio della Legalità - Corleone (Pa) - Esterno...... 124

III

Figura 7 - Bottega e Laboratorio della Legalità - Corleone (Pa) - particolare scale...... 128 Figura 8 - Bottega e Laboratorio della Legalità - Corleone (Pa) - primo piano ...... 129 Figura 10 - Casa Mazzaferro a Bardonecchia (To)...... 167 Figura 10 - Cascina Caccia a San Sebastiano da Po (To) ...... 173 Figura 11 - Cascina Caccia a San Sebastiano da Po (To) - Noccioleto ed arnie ...... 177

Grafico 1 - Andamento del numero di procedimenti di sequestro e confisca inseriti nella Banca Dati del Ministero della Giustizia; Periodo 2006 - 2010...... 76 Grafico 2 - Beni immobili sottoposti a confisca definitiva. Periodo 1985 - 2010……….. 78 Grafico 3 - Tipologia di beni sottoposti a confisca definitiva. Periodo 1985 - 2010...... 79 Grafico 4 - Immobili confiscati suddivisi per Regioni. Periodo 1985 - 2010...... 80 Grafico 5 - Destinazione dei beni confiscati a Sato o Comuni. Periodo 1992 - 2010 ...... 82 Grafico 6 - Andamento destinazioni dei beni per finalità sociali. Periodo 1992 - 2010...... 83 Grafico 7 - Tipologia di utilizzo dei beni destinati per finalità sociali ...... 84 Grafico 8 - Distribuzione geografica dei beni confiscati al 1 Settembre 2011 ...... 86 Grafico 9 - Beni confiscati presenti nel Comune di Corleone, suddivisi per tipologia di Immobile...... 115 Grafico 10 - Beni confiscati presenti nel Comune di Corleone, suddivisi per tipologia di utilizzo...... 116 Grafico 11 - Beni confiscati presenti nel Comune di Corleone, suddivisi per Prevenuto. 117 Grafico 12 - Beni confiscati presenti nel Comune di Corleone, suddivisi per beneficiari assegnazione...... 118

Tabella 1 - Distribuzione dei beni per Aree Geografiche_dati al 31 Ottobre 2010 ...... 74 Tabella 2 - Beni suddivisi per provvedimento di giudizio...... 75 Tabella 3 - Valore monetario di Sequestri e Confische ...... 77 Tabella 4 - Distribuzione risorse finanziarie PON Sicurezza ...... 88 Tabella 5 - Gli atti territorializzanti per il bene "Terre di Corleone"...... 123 Tabella 6 - Gli atti territorializzanti per il bene "Bottega e Laboratorio della Legalità" ... 130 Tabella 7 - Beni confiscati presenti nella Provincia di Torino ...... 156 Tabella 9 - Gli atti territorializzanti per il bene "casa per ferie" ...... 171 Tabella 9 - Gli atti territorializzanti per il bene "Cascina Caccia"...... 179

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INTRODUZIONE

“Un capomafia senza territorio è come un re senza regno” On. Luciano Violante, Relazione sui rapporti fra mafia e politica, XI Legislatura Doc. XXIII n.2, p. 31

La dimensione territoriale del fenomeno mafioso, negli ultimi anni, è stata oggetto di studi caratterizzati da un approccio multidisciplinare, al fine di leggere il radicamento territoriale della mafia nella sua dimensione di regolazione sociale del territorio (Cremaschi, 2008) e di “forme del disordine” (Donolo, 2000), indagando le relazioni tra poteri criminali e territori per comprendere fino a che punto queste possano condizionare gli spazi fisici e i modi d'uso delle città. In questo senso si possono configurare gli spazi dell'azione criminale come luoghi dell'antimondo (Brunet, 1986). Questi luoghi, o “porzioni di mondo”, assumono caratteristiche opposte a quelle del mondo normale, diventando veri e propri “antimondi”. Secondo l'interpretazione proposta da Brunet, questi sono i luoghi in cui si svolgono attività marginali o illegali, e dove sono ammesse o tollerate deroghe più o meno ardite a ciò che viene comunemente considerato il mondo della legalità. Come riconvertire dunque i luoghi dell'antimondo? Numerosi studi, condotti negli ultimi anni in contesti caratterizzati da una forte presenza di criminalità organizzata, hanno evidenziato il potenziale di alcune pratiche urbane nell'azione di contrasto al controllo e al predominio della criminalità su spazi e usi pubblici nei territori (De Leo, 2010). Sembra emergere, dagli esiti di tali studi, che la lotta al predominio territoriale delle organizzazioni criminali si dispiega su un nuovo asse: la capacità di mettere in atto, da parte dei decisori pubblici, trasformazioni fisiche e sociali del territorio, in nome di un miglioramento della vita e della qualità dei rapporti fra il cittadino e le istituzioni (De Leo, 2010). In questo contesto s'inserisce l'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati alla mafia, che nasce da un'idea di “animazione democratica del territorio” promossa dall'associazione Libera “nomi e numeri contro le mafie”, come strumento per invalidare gli effetti pervasivi della criminalità organizzata sul tessuto sociale ed economico dei territori sui quali agiva. La destinazione di tali beni a fini sociali mira, infatti, a restituire alla collettività quei patrimoni che sono stati costruiti in modo illecito, puntando allo stesso tempo a una crescita economica e sociale del contesto territoriale in cui questi beni sono inseriti. Questo lavoro mira dunque a un'analisi dei beni confiscati come “patrimonio territoriale” (Magnaghi, 2001), mutuando la definizione di territorio come artefatto sociale (Dematteis, 2002) ed esito di un'azione condotta da un attore sintagmatico (Raffestin, 1981), ipotizzando un loro in un ciclo di “territorializzazione - deterritorializzazione - riterritorializzazione” (T-D-R). Secondo l‟ipotesi di questa ricerca, i beni confiscati, una volta destinati a finalità sociali e reinseriti nel contesto territoriale nelle loro nuove funzionalità, sono testimonianza dell'esito di un processo di riterritorializzazione. Lo stretto legame fra la mafia e il territorio viene infatti incrinato con la confisca dei beni, che produce una deterritorializzazione, mentre l‟assegnazione degli stessi beni a finalità sociali determina la costruzione di una nuova forma di territorializzazione. Questi beni sono oggetto di una profonda conversione territoriale: da luoghi dell‟antimondo diventano luoghi della collettività. Seguendo l‟ipotesi alla base di questa ricerca, la produzione di nuovo territorio, caratterizzato da nuove progettualità, nuovi legami e reti relazionali fra gli attori territorializzanti, rappresenta uno strumento innovativo per legare i cittadini a una territorializzazione positiva, che contrappone al carattere di “visibilità nel territorio”, peculiarità della mafia italiana, un'affermazione quotidiana dei principi di legalità, di cui questi beni diventano simbolo.

Oggetto di questa ricerca sarà dunque l'analisi della fase conclusiva del ciclo T-D-R cui sono inseriti i beni confiscati alle mafie, nel tentativo di evidenziare i tratti del processo di riterritorializzazione positiva, a partire dallo studio di alcuni beni confiscati e degli attori, strategie e criticità che hanno caratterizzato l'azione territorializzante e la riconoscibilità sul territorio.

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Al fine di verificare l'ipotesi di ricerca sono stati scelti due contesti territoriali differenti, la provincia di Palermo e la provincia di Torino. Partendo da uno studio della territorializzazione mafiosa nelle due diverse province e della distribuzione dei beni confiscati, sono stati in seguito selezionati due beni per ciascuna provincia ed è stato analizzato il processo di reinserimento nel tessuto territoriale, dalla confisca all'effettivo utilizzo a fini sociali. La scelta di un approccio multiscalare risponde alla necessità di cogliere le dinamiche diverse su cui si articolano gli attori territorializzanti e il territorio stesso nei confronti del fenomeno dell'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati, visto come indicatore del rapporto che lega il territorio alla dimensione del legale/illegale. L'intento non è tanto quello di compiere una comparazione, quanto piuttosto quello di dare diversi esempi di come territori differenti rispondano alla sfida che rappresenta l'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati.

Una prima parte di questo lavoro corrisponde alla fase di studio che è stata necessaria per approfondire le tre tematiche fondamentali che s'intrecciano all'interno della ricerca: territorio, mafia e beni confiscati. Il primo capitolo è infatti dedicato a chiarire la definizione di territorio che si pone alla base della ricerca stessa, partendo dall'ambito teorico di riferimento in cui tale definizione è stata formulata. In seguito viene invece analizzata la dimensione territoriale del potere mafioso: nel secondo capitolo, seguendo l'interpretazione formulata da Santino (1997) di “Signoria territoriale”, si approfondirà come il controllo del territorio si sia manifestato nelle zone di tradizionale presenza mafiosa e nei territori di nuovo insediamento. Infine, il terzo capitolo è destinato a un approfondimento sui beni confiscati alle mafie, a partire dalle formulazioni legislative che hanno permesso la loro affermazione e destinazione a fini sociali, fino a un'analisi quantitativa della rilevanza e distribuzione geografica di questo patrimonio.

Una volta fornite le basi concettuali su cui si fonda questo lavoro e approfondite le tematiche fondamentali che sono coinvolte nell'analisi, la seconda parte del lavoro riguarda in modo specifico la ricerca svolta: argomento del quarto capitolo è infatti l'ambito teorico, le ipotesi di ricerca, la metodologia e le fonti utilizzate; quinto e sesto capitolo sono infine dedicati alla presentazione della ricerca effettuata sul rapporto che lega i beni confiscati e il

7 territorio, seguendo la stessa struttura di analisi sia per la provincia di Palermo (cap.5) che per la provincia di Torino (cap.6). Nei due capitoli vengono dunque analizzati i due contesti territoriali, i beni confiscati presenti e quelli selezionati come esempio di reinserimento nel tessuto territoriale. L'analisi delle interviste condotte nei due contesti territoriali, infine, cercherà di disegnare l'immagine e l'idea che nel territorio in esame hanno i differenti attori coinvolti a fronte dei differenti esiti di confisca.

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CAPITOLO 1

IL TERRITORIO E LA TERRITORIALIZZAZIONE

Questo lavoro di ricerca si pone l'obiettivo di proporre una lettura dei fenomeni sociali che si dispiegano nel territorio attraverso particolari atti territorializzanti. Il termine “territorio” tuttavia, può essere fuorviante perché può assumere significati molto diversi tra loro: da quello politico-amministrativo a quello di uso comune a quello propriamente geografico. Ed anche nel linguaggio prettamente geografico il termine territorio può assumere svariati significati che nel “Glossario Geografico Internazionale” (ed. italiana a cura di D. Ruocco, 1988, p.794) vengono così riassunti:

“1) Un‟unità politico-spaziale, il territorio statale. 2) Nella storia tedesca a partire dal Xlll secolo il territorio dei signori locali e delle città Stato in contrapposizione all'impero (Reich), che non aveva più alcun possesso terriero diretto. […]; 3) Nei paesi di lingua inglese, le più piccole porzioni territoriali di uno Stato con due significati: a) territorio incorporato (incorporated territory), una porzione di uno Stato che si trova ancora in via di sviluppo (ad es. i Territori di Nordovest, nel Canada); b) territorio non incorporato (unincorporated territory), una porzione di uno Stato, che non possiede gli stessi diritti delle altre regioni o province. 4) Nell‟Unione Francese, il termine territoire indica regioni unitarie o gruppi regionali (ad es. i Territori d'Oltremare, come la Polinesia francese). 5) In generale, una parte della superficie terrestre, soprattutto nella lingua parlata della ex Germania Orientale: ad es. Territorialresourcen, le materie prime di un paese. In italiano territorio è termine comune per indicare genericamente una parte, spesso indeterminata, della superficie terrestre abitata, vissuta e organizzata dagli uomini (es. assetto del territorio). È spesso sinonimo di spazio geografico”.

La definizione di territorio che verrà utilizzata all'interno di questo lavoro, tuttavia, rimanda a formulazione teoriche nate a partire dalla seconda metà del novecento, in seno alla geografia umana. In questo capitolo verranno dunque presentate le formulazioni teoriche del concetto di territorio a cui faremo riferimento in questo lavoro, non prima però di aver presentato l'ambito teorico di riferimento in cui il concetto è stato formulato.

1.1 La geografia umana, la geografia sociale e il ruolo del territorio

La geografia è una delle più antiche discipline scientifiche coltivate dall'uomo, la scienza atta a descrivere la Terra. La geografia presenta e spiega il mondo nelle articolazioni regionali del pianeta, mettendo in risalto affinità e aspetti peculiari di ciascun luogo. Dalle prime formulazioni della disciplina molte sono state le sue evoluzioni. Ciò che tuttavia è di maggiore rilievo per questa ricerca è il passaggio, progressivo, da un'attenzione verso lo spazio inteso nella sua dimensione fisico-materiale allo spazio concepito come elemento e strumento di relazioni sociali (Loda, 2008). Fra la fine dell'800 e gli inizi del '900 le scuole geografiche cominciano ad elaborare teorie sulle relazioni fra ambiente naturale ed insediamenti antropici, tracciando diversi scenari delle interdipendenze fra lo sviluppo umano e la natura. Scopo di questa geografia è spiegare in modo razionale il rapporto tra l‟uomo e la superficie terrestre, analizzare e confrontare le diversità degli spazi terrestri e la varietà dei diversi gruppi umani. Si afferma dunque un nuovo modo di interpretare il mondo geografico, che si fonda sullo studio dei rapporti fra i gruppi sociali e l'ambiente in cui sono inseriti: la comprensione della storia e delle evoluzioni sociali passa attraverso lo studio della geografia. Si pone dunque al centro dello studio l'elemento umano: la geografia si trasforma da disciplina prettamente fisica in disciplina antropica, e si conforma come scienza dedicata all'analisi della distribuzione, della localizzazione e dell'organizzazione spaziale dei fatti umani.

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Secondo la definizione di Felmann (2007) la geografia fisica è appunto quella che studia il rapporto uomo-ambiente dal punto di vista fisico, interessandosi delle forme fisiche della Terra, della loro distribuzione, dei modelli climatici, delle condizioni atmosferiche, dei tipi di vegetazione etc. La geografia umana, al contrario, “si occupa del Mondo come esso è e come potrebbe essere. Il suo ambito specifico d‟interesse è quello degli esseri umani” (ivi, pp.6-7). In questa disciplina convergono dunque tutti gli interessi e gli ambiti della geografia non connessi direttamente con l'ambiente fisico, e che si integrano con le altre scienze sociali. Secondo Felmann infatti, la geografia umana è strettamente connessa a tutti gli ambiti di studio delle scienze sociali attraverso un rapporto di reciproca necessità: la geografia fornisce alle altre discipline sociali un punto di vista spaziale e sistemico; le discipline sociali forniscono alla geografia umana un ampio spettro di analisi differenti della realtà, attraverso specifici ambiti di ricerca o sotto settori disciplinari, quali la geografia sociale, politica, economia, di genere, etc. (Fellmann, 2007). Secondo questo filone di analisi, dunque, gli uomini sono “attori geografici”, che interagiscono con il substrato fisico, strutturandolo e modificandolo nel tempo. Società e natura sono strettamente collegate, l'uomo abita la terra e concepisce la natura come un insieme di possibilità e vincoli. Per riuscire ad abitare la terra, l‟uomo dunque instaura un controllo intellettuale sulla natura; prima attraverso la conoscenza dei fenomeni, poi attraverso delle rappresentazioni, che sono funzionali a esprimere le conoscenze acquisite. In questo senso la geografia fisica si afferma come una rappresentazione ordinata della terra, e la geografia umana come scienza che indaga il modo in cui l'uomo, attraverso conoscenza e rappresentazione, abita la terra. Attraverso i suoi molteplici ambiti di analisi, la geografia umana cerca sostanzialmente di mettere in relazione i diversi attori che interagiscono sulla terra, e non può farlo se non attraverso un approccio interdisciplinare. Il rapporto fra società e ambiente diventa allora la chiave di interpretazione fondamentale per comprendere le ragioni dei fatti e delle situazioni che si concretizzano nell'ambiente fisico: i processi di adattamento delle società all'ambiente, l'uso delle risorse che questa ha fatto nel tempo e i modi in cui ha agito sull'ambiente organizzandovi la propria esistenza. Una disciplina dunque che indaga simultaneamente lo spazio di vita, quello sociale e quello vissuto da una determinata società e gli equilibri ambientali entro cui questa si

11 insedia. L'analisi degli assetti organizzativi umani, presenti in una certa parte del Mondo e in un determinato periodo si combina con l'analisi dei processi che nel corso del tempo hanno condotto alla formazione di tali assetti. Aspetto sincronico e aspetto diacronico dello sviluppo umano sono dunque ambiti inscindibili di questa scienza. Dalle analisi fin qui condotte risulta evidente come, pur nella vastità delle sue diverse concezioni e sotto categorie di analisi la geografia umana si fonda su un assunto fondamentale: l'uomo, “l'attore geografico”, attraverso il controllo intellettuale, modifica, plasma, trasforma la natura rendendola artefatto umano. L'uomo si appropria della natura facendola diventare “territorio” del suo agire e gli aspetti sociali e culturali di quest'appropriazione sono elementi fondanti dell'evoluzione delle società. Le possibilità del territorio legate a specifiche condizioni morfologiche, climatiche, vegetali etc., si combinano con i condizionamenti interni ed esterni della storia della società, e nella combinazione di queste cose si crea la storia di una società. Per comprendere la società dunque è necessario integrare alle altre scienze sociali uno studio approfondito del territorio, poiché questo “si è fatto scenario, palcoscenico, per una recitazione che è quella della vita e della storia, sia nostra che delle generazioni che ci hanno preceduto, accomunate nello stesso ambito, legate alle stesse colline, città, paesi, campi, alberi case o monumenti del passato” (Turri, 2002, p.19.)

La geografia umana assolve allora il compito di interpretare le espressioni territoriali dell'azione sociale. “Nel territorio tutto è registrato, tutto è sedimentato, come lo è la storia geologica narrata dagli strati, dalle loro successioni e dalla loro discontinuità”(ibidem).

1.2 Dalla “Terra” al “territorio”

Secondo la ricostruzione di Dematteis (1985) le riflessioni critica dei geografi sullo spazio terrestre, negli ultimi decenni del XX secolo, ha portato progressivamente alla nascita di una distinzione fra la “Terra” come fatto naturale e il “territorio” come fatto sociale e politico. Una contrapposizione di questo tipo, tuttavia, rischia di evocare una concezione

12 del territorio come mero ambito geografico su cui si esplica un dominio politico o militare, che rimanda all'origine stessa del termine. Come sottolinea Dematteis dall'epoca romana alla definizione giuridica di Stato moderno, il territorio ha rappresentato quella porzione di spazio su cui veniva esercitato un dominio politico, giuridico o militare. Una tale definizione del territorio tuttavia potrebbe portare a una confusione fra il territorio delle società umane e il territorio del mondo animale, perché “ci si è troppo a lungo fermati nella visione formale del territorio come ambito di dominio spaziale” (Dematteis, 1985, p. 74).

La nuova concezione del territorio, conseguente all'affermarsi come scienza autonoma, della geografia umana e sociale moderna, propone dunque una visione del territorio in chiave complessa e multidimensionale. Non solo spazio di dominio, dunque, ma spazio su cui si realizzano forme di socializzazione diverse: “La terra diventa territorio quando è tramite di comunicazioni, quando è mezzo e oggetto di lavoro, di produzioni, di scambi, di cooperazione.” (Dematteis, 1985, p.74). Le società umane organizzano le loro strutture interne attraverso gli interventi sul mondo esterno, trasferendo a tali strutture caratteri propri dei fatti naturali (Dematteis, 1985).

Sul territorio si dispiegano forme di socializzazione diversa, ma al contempo queste dinamiche di socializzazione realizzano il territorio stesso. Il territorio infatti “non esiste in natura” (Magnaghi, 2000), ma è il prodotto storico di una co-evoluzione fra le forme di socializzazione e l'ambiente in cui si realizzano. Il territorio è ambiente dell'uomo e creato dall'uomo, è l'esito di una co-evoluzione fra ambiente fisico, ambiente costruito e ambiente antropico. Secondo questo tipo d‟interpretazione Magnaghi (2000) parla del territorio come di un “soggetto vivente ad alta complessità”, prodotto delle interazioni storiche fra ambiente e società insediata su di esso.

Se si considera il territorio come un esito, una composizione di relazioni fra il luogo fisico, lo spazio culturale, simbolico ed economico della società che vi s‟insedia, risulta evidente come il supporto materiale (lo spazio) e l'azione umana siano due elementi inscindibili.

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“[...] Se quindi è ingenuo pensare che siano le proprietà naturali di queste cose a determinare l'azione umana, lo è altrettanto pensare che le forme della comunicazione, e della socializzazione umana in genere, abbiano una loro esistenza autonoma, come pure espressioni dello spirito, o come "valori" che gli uomini attribuiscono a loro piacere al mondo separato e inerte della "natura", su cui sono chiamati a esercitare una sorta di dominio incondizionato”(Dematteis, 1985, p.75).

Uno dei più importanti teorici del territorio così com‟è stato fin qui inteso, è il geografo svizzero Claude Raffestin. In “Per una geografia del potere” (1981) egli definisce il territorio come l'esito di un'azione condotta da un attore sintagmatico: il territorio è prodotto dagli attori sociali che realizzano un programma a qualsiasi livello. Per programma, in questo contesto, bisogna intendere qualsiasi tipo di lavoro, scambio di energia e informazione; cosi come qualsiasi tipologia di uso dello spazio finalizzato all'abitazione, allo sfruttamento, alla conoscenza. L'appropriazione dello spazio non avviene esclusivamente in forma concreta, ma può anche realizzarsi astrattamente: per Raffestin, infatti, la semplice produzione di una rappresentazione, da parte del soggetto, è da considerarsi una forma di appropriazione dello spazio, una forma in cui l'attore “territorializza” lo spazio. La semplice rappresentazione “rivela l'immagine auspicata di un territorio” (Raffestin, 1981, p.150), stabilendo fra l'attore e lo spazio una relazione. Per Raffestin qualsiasi tipo di relazione fra l'attore e lo spazio è segnata dal potere, una forma di controllo che si manifesta attraverso sistemi di maglie, nodi e reticoli organizzati gerarchicamente. Questi permettono dunque di assicurare il controllo su ciò che può essere distribuito, concesso e/o posseduto. Essi permettono anche d'imporre o di mantenere uno o vari ordini; permettono infine di realizzare l'integrazione e la coesione dei territori. Tali sistemi costituiscono l'involucro nel quale hanno origine le relazioni di potere” (ivi, p. 156).

Secondo Raffestin sono dunque le pratiche spaziali, che si dispiegano attraverso azioni o comportamenti sociali, che producono territorio, per rispondere alla necessità, insita in ogni società, di organizzare in modo strutturato lo spazio, il “campo operativo della sua azione” (ivi, p.155).

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In quest'ottica qualsiasi attore sociale è una componente della produzione territoriale: “dallo stato all'individuo, passando per tutte le organizzazioni piccole o grandi, si trovano attori sintagmatici che “producono” territorio. […] a gradi diversi, a momenti diversi e in luoghi variati, noi siamo tutti attori sintagmatici che produciamo “territorio” ” ( ivi, p.157).

Secondo questa interpretazione il rapporto fra l'uomo e l'ambiente è da analizzare a partire dal concetto di “territorialità”. Per Raffestin la territorialità non è mero controllo sullo spazio, ma un insieme di relazioni che si dispiegano in un sistema tridimensionale che mette in relazione società, spazio e tempo. La territorialità, in questa accezione, rappresenta appunto l'esito delle relazioni tra uomo e ambiente, siano queste concrete o astratte. Essa dunque è processo aperto che dipende dall'individuo e dal tipo di relazioni che esso instaura con lo spazio che abita, poiché riflette le caratteristiche proprie del vissuto territoriale dei membri di una collettività: “non è possibile concepire una territorialità se non si tiene conto di ciò che l'ha costruita, dei luoghi in cui essa si svolge e dei ritmi che essa implica. La territorialità di un individuo è costruita dall'insieme di ciò che vive quotidianamente” (ivi, p.163).

Com‟è già stato anticipato, Magnaghi identifica questo stesso processo come una “co- evoluzione” fra ambiente insediativo e ambiente naturale; il territorio è altro rispetto alla comunità antropica e all'ambiente in cui questa s‟insedia, è la relazione fra queste due componenti a generarlo, come se fosse un soggetto terzo: “il territorio appunto, che integra caratteri culturali e naturali in una nuova individualità vivente” (Magnaghi, 2001, p.6).

A fronte delle interpretazioni fin qui proposte del concetto di territorio risulta dunque evidente come questo sia da considerare come una categoria di ricomposizione (Dansero, Mela, 2008) che vede la componente socioeconomica e la componente naturale della società come due inestricabili aspetti di una stessa dinamica evolutiva. L'azione sociale dunque si manifesta in forma territoriale, attraverso la territorializzazione. L'attore sociale, l'attore sintagmatico di cui parla Raffestin, nella molteplicità di ruoli che assume, s‟identifica anche come attore territorializzante poiché, in qualche momento:

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“a) produce territorio; b) usa territorio; c) attiva, sviluppa e conclude relazioni con altri attori sociali tramite il territorio” (Turco, 1988 p.53).

In questo senso si può dunque parlare di “agire territoriale” (Turco 1988) come logica di comportamento collettivo dei soggetti che producono territorio, lo usano oppure gli assegnano una funzione di mediazione delle relazioni sociali. E' proprio in funzione di questo “agire territoriale” che gli individui, le società trasformano lo spazio naturale in territorio, che s‟individua proprio come esito degli atti territorializzanti effettuati nel tempo e accumulati su uno stesso spazio, e che diventa ambiente dell'uomo “dotato di identità, personalità, individualità paesistica” (Magnaghi, 2001, p.7).

Il primo passo dunque per la produzione di territorio è proprio l'atto territorializzante, inteso come “il segno che l'uomo imprime allo spazio marcandolo come una sua costruzione, come sua dimora” (Turco, 1988, p.76). L'agire territoriale si dispiega attraverso gli atti territorializzanti, che esprimono momenti del processo di territorializzazione e si distinguono a partire dalle funzioni che assolvono “nell'impresa generale che consiste nel dotare la società di una sua peculiare geografia” (Turco, 1988, p.78).

Considerando dunque la produzione di territorio come un insieme codificato di relazioni, il processo di territorializzazione, una volta compiuto, crea uno “stato di territorialità” (Raffestin 1981) ma questo tuttavia non è uno stato definito ed immutabile nel tempo, anzi è piuttosto “un equilibrio instabile in quanto è sufficiente una variazione nell'informazione ricevuta perché esso cambi ovvero i rapporti all'interno del sistema si modifichino.” (ivi, p.78). La territorialità, nella formulazione di Raffestin (1981) riflette il vissuto ambientale delle società, poiché gli uomini “vivono ad un tempo il processo di territorializzazione e il prodotto territoriale attraverso un sistema di relazioni esistenziali e/o produttivistiche” (ivi, p. 163). Il vissuto quotidiano degli individui, i luoghi in cui svolge e i ritmi di cui è composta costruiscono la territorialità, che dunque non può che essere concepita se non come mutabile nel tempo.

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L'identità di un luogo si modifica nel tempo, Raffestin parla di “susseguirsi di identità” (Raffestin in Dematteis, 2003), che disgregandosi e modificandosi lasciano nello spazio tracce materiali e immateriali, non scomparendo mai del tutto. L'identità di un luogo è dunque parallela alla sua ricomposizione territoriale, ma non vi è una sovrapposizione netta, sono piuttosto legate dall'adattamento del territorio alle attività umane. Il territorio, nella formulazione teorica di Raffestin viene dunque modificato in modo continuo dall'azione dell'uomo, che cerca un adattamento sempre migliore dello spazio alle proprie attività, permettendo nuove forme di territorialità.

In virtù di questa mutabilità viene dunque introdotto il concetto di “cicli di territorializzazione” (Raffestin, 1984), che esprime il modo in cui l'agire territoriale si dispiega nel tempo e modella lo spazio geografico. Questi cicli avvengono attraverso un susseguirsi di territorializzazioni, deterritorializzazioni e riterritorializzazioni successive.

A fronte della costituzione progressiva del territorio, la territorializzazione può dunque intendersi come: “un grande processo, in virtù del quale lo spazio incorpora valore antropologico; quest‟ultimo non si aggiunge alle proprietà fisiche ma le assorbe, le rimodella e le mette in circolo in forme e funzioni variamente culturalizzate, irriconoscibili a un‟analisi puramente naturalistica dell‟ambiente geografico” (Turco, 1988, p.76).

La variabile tempo è una componente fondamentale di questo processo, poiché questo si configura proprio come un processo storico di lunga durata. In questo senso il territorio può essere inteso come esito di cicli successivi di territorializzazioni. Ogni luogo dunque, a seconda del processo di territorializzazione vissuto, assume una propria identità specifica, data dalla particolarità degli elementi della relazione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente (Magnaghi, 2001). Magnaghi parla a proposito di “formazione dell'identità territoriale”, come risultato del processo di territorializzazione, ovvero formazione dell'identità stessa di un determinato territorio, dal punto di vista morfologico, ambientale, socioculturale e paesistico.

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Ogni ciclo di territorializzazione contribuisce dunque alla formazione dell‟identità territoriale, considerando che ogni ciclo successivo al primo interviene trasformando “un ambiente naturale già trasformato culturalmente in territorio” (Magnaghi 2001, p.9). Ogni singolo ciclo dunque interagisce non con un ambiente naturale originario, ma con permanenze e persistenze generate dal ciclo precedente. Società umana e natura sono dunque da considerarsi come soggetti attivi che influiscono reciprocamente nel processo storico di territorializzazione. Ogni ciclo di territorializzazione corrisponde a un ciclo di civilizzazione che “deposita” strutture insediative e culturali molte delle quali permangono nella lunga durata” (ibidem).

L'identità territoriale, secondo il filone d'analisi fin qui esposto, rappresenta l'insieme delle identità peculiari di ogni società, dei valori fondativi alla base delle relazioni fra insediamento umano e territorio (valori che rimandano alle caratteristiche socio economiche, dimensionali, identitarie, etc.), fra spazio e azioni degli attori che determinano il processo di territorializzazione.

I territori, in definitiva, non sono da considerarsi come entità date ma come “ambiti territoriali dinamici e attivi, la cui possibilità/capacità di reagire attraverso risposte proprie agli stimoli che provengono dal rimodellarsi continuo delle reti di flussi globali si definisce attraverso l‟azione comune dei soggetti in essi operanti” (Governa in Dematteis, 2003, p.143).

1.3 Il processo di territorializzazione

Per approfondire i meccanismi di produzione territoriale di fondamentale importanza è il contributo del geografo Angelo Turco che fornisce una teoria dell'agire territoriale dell'uomo, considerato come individuo dotato di razionalità, un homo geographicus (1988), che vive e agisce in relazione all'ambiente che lo circonda. La teorizzazione di Turco permette di chiarire le diverse modalità con cui la razionalità territorializzante si realizza

18 nelle diverse società: essendo l'esito di un'azione sociale questo processo segue necessariamente delle logiche sociali.

Il processo di territorializzazione può essere interpretato come il modo in cui una determinata società modifica, aumentando o riducendola, la complessità originaria dello spazio in cui è inserita, in una logica di ricerca di autonomia dallo spazio stesso, attraverso atti territorializzanti. Questi atti sono stati organizzati tipologicamente dall'autore in tre categorie fondamentali: la denominazione, la reificazione e la strutturazione. A queste tre categorie di atti corrispondono, secondo l'interpretazione di Turco, delle relazioni di controllo, che regolano le interazioni fra l'uomo e lo spazio: il controllo simbolico, il controllo pratico e il controllo sensivo.

Figura 1 Turco A. (1988) Lo spazio e gli atti territorializzanti.

L'intersezione di atti e fatti che si dispiegano secondo queste tre categorie conduce dunque alla territorializzazione e caratterizzano al contempo i processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione; qualsiasi costruzione o decostruzione di territorio avviene mediante queste tre direttrici di azioni.

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Denominazione, reificazione e strutturazione sono dunque le modalità attraverso cui si esplica il “governo della complessità” e al contempo “queste tre modalità di controllo si estrinsecano come agire territoriale” (ivi, p.138). Nella teorizzazione di Turco l'agire territoriale diventa il processo attraverso cui l'homo geographicus costruisce il territorio, e le forme territoriali che produce diventano oggetto di studio di “una geografia della complessità” (1988).

Figura 2 Turco A. (1988) Per una logica degli atti territorializzanti.

Di seguito si cercherà dunque di analizzare l'impianto concettuale elaborato da Turco, nelle singole componenti della territorializzazione.

1.3.1 Il controllo simbolico: la denominazione

Come anticipato, la prima direttrice attraverso cui si dispiega il processo di territorializzazione è la denominazione. Questa è la prima azione dell'homo geographicus che, secondo Turco “riguarda un tratto di superficie terrestre che, per questa via, si fa “luogo”(ivi, p.81). L'attore sociale dunque instaura un controllo sul mondo, semantizzando la superficie terrestre (ibidem). Fra realtà e rappresentazione vi è un divario, che rappresenta un limite per l'attore nella sua azione territorializzante. La denominazione dunque è necessaria all'homo geographicus per superare tale limite, poiché lo dota di un'informazione che sarà alla base di tutte le fasi

20 successive della propria azione. La descrizione dello spazio, la designazione dei tratti della superficie terrestre, permette di creare delle identità, dotandolo di attributi nuovi “il mondo si costituisce come una geografia linguisticamente” (ibidem). L'atto denominativo crea dunque una chiave d‟interpretazione dei fenomeni che prima non esisteva, producendo in questo senso informazione. La conoscenza, l'informazione prodotta attraverso questa semantizzazione dello spazio serve allo stesso tempo all'attore per ridurre la complessità dello spazio in cui è inserito. Questo avviene dal momento che, attraverso la denominazione, l‟attore territorializzante “imbriglia in una comprensione per definizione circoscritta, limitata dalle sue capacità cognitive, una realtà inattingibile come fatto totale” (ibidem).

Il nome dato allo spazio, in questa interpretazione, esprime sinteticamente una procedura di attribuzione di significato a un significante attraverso l'applicazione di un codice che esprime appunto un controllo simbolico sul territorio. L'azione, secondo l'interpretazione di Turco, non può dunque essere scissa dal linguaggio, l'una è interpretazione dell'altra a viceversa. La denominazione crea conoscenza collettiva del corpo sociale, uno “stock informativo” suscettibile di orientare l'azione, guidare cioè l'uso e la manipolazione degli attributi geografici individuati. La dimensione collettiva di tale atto è fondamentale, poiché la denominazione non è altro che la “cristallizzazione in un luogo credenze generalizzate basate su valori socialmente prodotti” (ivi, p.82).

In via conclusiva, la denominazione rappresenta dunque l'esito di un lavoro sociale di formazione e accumulo di sapere territoriale e sancisce la capacità dell'homo geographicus di governare simbolicamente lo spazio. Grazie a questa forma di sapere l'attore territoriale può dunque orientare la propria azione di governo sulla superficie terrestre.

1.3.2 Il controllo pratico: la reificazione

Se la denominazione rappresenta il controllo simbolico dello spazio, la reificazione rappresenta la capacità di attuare sullo spazio una nuova forma di controllo, pratico.

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Turco definisce per l'appunto la reificazione come “il processo che istituisce e/o conserva il controllo pratico” (ivi, p.94). Secondo questa interpretazione attraverso il controllo pratico la materialità naturale si trasforma in materialità costruita, poiché l'uomo agisce praticamente sulla superficie terrestre, modificandola.

La reificazione rappresenta una trasformazione dello spazio, o del territorio, che crea artefatti sociali di cui l'homo geographicus conosce genesi e meccanismi di funzionamento. E' un passo determinante dell'azione dell'uomo poiché segna l'appropriazione pratica del territorio, che “viene sottratto al dominio esclusivo delle leggi della natura, date, ed introdotto nell'universo dell'intenzionalità, retto da regole diverse, elaborate consapevolmente in un contesto in vario modo e grado culturalizzato” (ivi, p. 95). Con quest'atto dunque l'uomo interferisce con le dinamiche della natura e l'intervento sull'ambiente si manifesta in modo concreto: il controllo pratico produce artefatti visibili e muta la fisionomia del paesaggio attraverso l'introduzione di elementi che si prestano ad usi diretti (come la costruzione di un ponte, o di una strada) o a mediazione delle relazioni sociali.

L'agire territoriale viene dunque rivoluzionato poiché “l'attore abbandona l'idea di adattare sé alla materia, sia pure attraverso mediazione simbolica, e concepisce l'idea di adattare a sé la materia” (ivi, p.97). Anche in questa dimensione l'agire territoriale attua contemporaneamente una complessificazione e una riduzione della complessità: il controllo pratico manifesta la capacità dell'homo geographicus di governare la natura, territorializzandola, e al contempo fornisce una sorta di “codificazione” (ibidem) delle modalità d'uso del territorio costituito. La reificazione esprime dunque la forma territoriale dell'azione collettiva e va dunque ricondotta alle logiche sociali di cui è espressione e che ne condizionano l'esistenza.

Bisogna evidenziare infine come la reificazione, sebbene sia da considerare, al pari della denominazione un atto trasformativo in se concluso, ha tuttavia un carattere di “anello di una catena” (ivi, p.96), essendo cioè una componente di un processo “che lo trascende e che, in ogni caso, rimane aperto a una molteplicità di percorsi evolutivi” (ibidem).

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1.3.3 Il controllo sensivo: la strutturazione

Come si è evidenziato denominazione e reificazione attuano al contempo un processo di accrescimento e riduzione della complessità ambientale e rappresentano due modalità del controllo che gli attori territorializzanti istituiscono sul territorio in cui operano. Tali atti territorializzanti costituiscono dunque momenti di un percorso di “appropriazione/creazione di attributi intellettuali e materiali che a loro vola sostanziano, precisamente, una geografia” (ivi, p.106). L'attore territoriale, l'homo geographicus, attraverso questi atti aumenta la complessità dell'ambiente in cui è inserito e allo stesso tempo crea i dispositivi per governare e controllare al meglio tale complessità. Interviene dunque a questo punto la necessità di operare un terzo tipo di controllo, da parte dell'uomo sull'ambiente; questo è appunto il controllo sensivo, attraverso il quale l'uomo organizza l'ambiente ipercomplesso in ambiti operativi meno complessi.

Il territorio, come spazio costruito attraverso l'azione denominatrice e reificatrice dell'homo geographicus, diventa infine luogo di controllo sensivo: “chiamiamo tale forma strutturazione e riconosciamo dunque nelle strutture territoriali l'espressione e il supporto del controllo sensivo che si dispiega geograficamente” (ivi, p.111). L'ambiente costituito in territorio si suddivide in campi operativi a complessità ridotta a disposizione degli attori. Ognuno di questi campi operativi ha una dimensione sensiva propria, acquista finalità propria nel senso che “serve a qualcosa” (ibidem): in essi e mediante questi gli attori realizzano gli obiettivi che si prefiggono. Il territorio denominato e reificato acquista una dimensione geografica composta da un insieme di nodi e maglie che sono organizzate in rete e sono funzionali all'esecuzione di un programma. Queste considerazioni rimandano alla definizione di territorio di Raffestin precedentemente esposta, per cui gli attori che producono territorio sono sintagmatici, ovvero che attuano un programma a qualsiasi livello. La strutturazione è da intendere dunque come il momento in cui si associa un senso all'azione umana, attraverso l'organizzazione delle relazioni che insistono su un determinato territorio. Tali relazioni sono autoreferenziali e legate da un'interdipendenza, le unità in cui viene frazionato il

23 territorio assumono assenti non centrati. E' in queste unità a complessità ridotta che è possibile la persecuzione degli obiettivi sociali, del programma dell'attore territoriale.

La struttura territoriale si configura allora come la proiezione nell'ambiente di un contesto di senso, ed è proprio il controllo sensivo che permette l'articolazione del territorio in strutture funzionali all'uomo. Come chiarisce Turco “Le strutture territoriali non sono “altro” rispetto alla società; esse costituiscono solo una forma peculiare dell'articolazione sistemica del sociale.” (ivi, p. 125). Così formate, le strutture territoriali si configurano come forme geografiche dei sistemi sociali.

1.4 Dal territorio al “Patrimonio territoriale”

A partire dalla concezione di territorio fin qui esposta, sono state formulate ulteriori analisi che riguardano i possibili ruoli che riveste il territorio nello sviluppo di una società. In questa corrente di analisi s‟inserisce il lavoro di Alberto Magnaghi che ha definito il territorio come “il bene comune per eccellenza” (Magnaghi, 2007). Questa considerazione nasce da una concezione del territorio come ambiente essenziale per la riproduzione materiale della vita umana, per il realizzarsi delle relazioni socioculturali, nonché della vita pubblica (ibidem). E' dunque in questo senso che il territorio rappresenta il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo dall'azione umana.

In virtù di queste considerazioni Magnaghi elabora il concetto di “patrimonio territoriale” (2000), che designa il territorio come l'esito delle relazioni co-evolutive che hanno caratterizzato l'ambiente fisico, l'ambiente costruito e l'ambiente antropico. Questo tipo d‟interpretazione è volta a sottolineare i valori di cui un determinato territorio è portatore, sia in termini di capitale territoriale che per le risorse di cui un territorio è dotato (Governa, 2006). In questa accezione dunque il patrimonio territoriale assume una dimensione complessa, in continua evoluzione, contenendo contemporaneamente sia i sedimenti territoriali cognitivi

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(sapienza ambientale, modelli socioculturali e identitari, saperi produttivi) che quelli materiali (persistenze e permanenze di manufatti, d‟infrastrutture territoriali, di tipologie urbane ed edilizie, tessuti agrari etc.) (Magnaghi, 2001). L'insieme di queste caratteristiche, le modalità di creazione di territorio che si realizzano attraverso il susseguirsi dei cicli T-D-R, compongono l'identità di un luogo. Questa si sviluppa allora come conoscenza dei valori patrimoniali, dal punto di vista ambientale, estetico, culturale ed economico (Magnaghi, 2007).

Il territorio acquisisce così un ruolo preminente nello sviluppo socioeconomico, in quanto questo non è da considerare solo in termini di supporto di processi di valorizzazione esogena, ma diventa esso stesso produttore di valore aggiunto territoriale (Magnaghi, 2001). Una tale concezione del territorio comporta tuttavia che, come ogni bene patrimoniale, questo possa essere dissipato, conservato o valorizzato per le generazioni future (Magnaghi, 2001). Inoltre, una tale concezione del patrimonio territoriale, come insieme sinergico e indivisibile di valori ambientali, paesaggistici, urbanistici, culturali, sociali, economici, rende necessario uno studio delle forme fisiche del territorio integrato, uno studio cioè che si basi su un approccio multidisciplinare in grado di approfondire i valori e le potenzialità del patrimonio territoriale di ogni luogo.

“Scienze della terra, scienze sociali e storico-antropologiche, scienze del territorio e scienze economiche, devono sperimentare nuove frontiere relazionali, commisurando linguaggi, paradigmi, strumenti” (Magnaghi, 2001, p. 2).

In ultima analisi la formulazione concettuale del patrimonio territoriale permette un'interpretazione del territorio come un aggregato di risorse e valori, componenti oggettive e soggettive (Governa, 2006). Secondo l'analisi di F. Governa (2006) questo tipo d‟interpretazioni è fondamentale perché esprime in piena evidenza la natura relazionale del territorio, permettendo di:

sottolineare il ruolo dei soggetti come attori territoriali, “costruttori” di territorio in quanto portatori d‟intenzionalità proprie che trovano riferimento nel territorio;

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considerare i territori come “costruzioni sociali” (ivi, p. 17), esito dell'interazione fra soggetti in varie forme; riconoscere come tali “costruzioni sociali” danno luogo a specifiche forme di territorialità, “esito di processi, di azioni e di comportamenti che definiscono le pratiche (anche conoscitive) degli uomini in rapporto alla realtà materiale” (ibidem).

1.5 La rappresentazione reticolare del territorio

Sono state fin qui presentate le interpretazioni del territorio come artefatto sociale e come patrimonio, chiarendo la definizione di territorio alla base di questo lavoro. In ultima analisi è opportuno introdurre un‟ultima forma di rappresentazione del territorio, particolarmente interessante per alcuni aspetti che saranno successivamente approfonditi. La geografia utilizza, infatti, anche una rappresentazione del territorio attraverso reti (Poli, 2000). Le dinamiche sociali ed economiche che hanno luogo in un determinato contesto territoriale sono in alcuni casi risultato anche dell‟azione congiunta di attori che operano a diverse scale, locale e sovralocale (Bonavero, 2005). Rappresentare il territorio in chiave reticolare permette allora di mettere in relazione fenomeni che avvengono a scale geografiche diverse, dandone dunque un‟interpretazione che lega la loro dimensione locale con quella globale.

“La rappresentazione reticolare è particolarmente efficace perché molti fenomeni moderni si strutturano effettivamente sotto forma di reti: è l‟esempio delle imprese, che distribuiscono le loro parti virtualmente sull‟intero pianeta mantenendo relazioni di essere, del sistema delle telecomunicazioni, o delle infrastrutture di trasporto” (Poli, 2000, p.52).

Così come le imprese, anche le organizzazioni criminali si configurano sempre di più sotto forma di reti, agendo contemporaneamente sia a livello locale che globale. Nel prossimo capitolo sarà approfondita la transcalarità del fenomeno mafioso, in questa sede, tuttavia, è

26 necessario porre le basi concettuali per comprendere l‟interpretazione reticolare del territorio.

A questo proposito è opportuno introdurre il concetto di spazio: lo spazio geografico è un'astrazione, uno strumento che permette di rappresentare le relazioni che legano i diversi oggetti presenti sulla superficie terrestre (Conti, Dematteis, 2006). Un‟importante definizione di spazio viene proposta dal geografo J. Levy (1999), secondo cui lo spazio rappresenta l‟insieme di relazioni che la distanza stabilisce fra le differenti realtà geografiche. Le soglie di distanze possono allora essere misurate sulla base di diverse metriche:

“Le metriche possono essere classificate in due grandi famiglie: quelle topografiche, che fanno riferimento a spazi continui, percorribili e misurabili in tutte le direzioni, e quelle topologiche, che fanno riferimento a spazi discreti, percorribili e misurabili soltanto lungo determinate direttrici. Le prime esprimono la dimensione areale dello spazio, come nel caso delle tradizionali articolazioni amministrative del territorio (il comune, la provincia, la regione, lo stato, che rappresentano diverse scale di analisi), le seconde ne definiscono la dimensione reticolare, come nel caso delle reti dei trasporti o in quello delle organizzazioni multilocalizzate (per esempio un‟impresa transnazionale)”(Bonavero, 2005, p.6).

Se si considera dunque lo spazio a partire da metriche topologiche questo può intendersi come “spazio reticolare” (Dematteis, 1995). Secondo la definizione formulata da Dematteis, a partire da un‟interpretazione metaforica delle reti, lo spazio reticolare può essere interpretato come l‟insieme stabile d‟interazioni sociali che avvengono fra gli attori, le direttrici delle interconnessioni fra i luoghi dove i diversi attori sono localizzati (Dematteis, 1995). Ogni fatto sociale dunque si localizza a partire dall‟incontro di due ordini di relazioni: quelle “orizzontali” (relazioni di scambio e di circolazione che connettono ogni luogo della terra) con certi rapporti “verticali” (relazioni di produzione, di tipo tecnico, ecologico, culturale); questi due ordini di relazioni legano l‟agire umano a specifiche condizioni territoriali, naturali e preesistenti (Dematteis, 1986). “Se escludiamo dall'analisi del territorio uno di questi due ordine di relazioni, finiamo o nelle tautologie banalizzanti della modellistica «spaziale» pura, o nella metafisica del valore d‟uso” (ibidem).

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La rappresentazione del territorio in chiave reticolare, come anticipato, è stata ampiamente utilizzata negli ultimi decenni per fornire una chiave d‟interpretazione di fenomeni che avvengono in una dimensione transcalare, come quello della globalizzazione. La globalizzazione del XXI secolo ha infatti generato profondi stravolgimenti in termini di scomposizione sociale e spaziale del territorio (Poli, 2000); per comprendere questi fenomeni è stato necessario introdurre nuove forme interpretative dello spazio, che riuscissero a far fronte alla complessità dei nuovi contesti in cui si verificano i fatti sociali. Lo spazio dell‟economia, in questo senso, esprime al meglio la dimensione reticolare propria della globalizzazione, poiché “connette “parti” del processo produttivo, collocate in “punti” dello spazio in base a logiche di mercato” (Poli, 2000, p.52) . La necessità di avvalersi di nuove categorie di analisi dello spazio proviene anche da altri ambiti teorici: studi come quelli del sociologo Castells (1996, 2004) pongono proprio la rivoluzione dello spazio come dimensione fondamentale del processo di trasformazione strutturale che sta avvenendo nella società contemporanea (Castells, 2004).

“Si ha oggi bisogno di una nuova teoria delle forme e dei meccanismi spaziali, che si dimostri conforme al nuovo contesto tecnologico, sociale e spaziale in cui viviamo” (Castells, 2004, p.49).

Castells teorizza l‟esistenza di due diverse forme di spazio che caratterizzano l‟azione dell‟uomo contemporaneo: uno spazio dei luoghi, spazio della corporeità e della prossimità, e uno spazio dei flussi. Quest‟ultimo è lo spazio della trasmissione simultanea di informazioni, che avviene attraverso nodi e terminali (Castells, 1996).

Secondo questo tipo d‟interpretazioni è necessario guardare alla globalizzazione in chiave multiscalare e transcalare, come un intreccio tra reti globali e sistemi locali. Non bisogna infatti interpretare il fenomeno della globalizzazione come definitiva frammentazione del territorio, al contrario, la globalizzazione dei processi produttivi, dell‟economia e dei flussi d‟informazione opera attraverso reti e organizzazione di reti che non sussisterebbero senza una base territoriale. Si può dunque ancora parlare di radicamento territoriale in termini di dipendenza delle reti dai territori, sebbene questo tipo di dipendenza sia cambiata e si esprima su lunghezze diverse di reti globali e reti locali. Le reti globali, sono reti lunghe che

28 coinvolgono le organizzazioni multilocalizzate; le reti locali sono invece reti corte, caratterizzate da relazioni di prossimità fra gli attori. Le reti globali, benché tendano a diventare sempre più autonome, si basano su reti internazionali, che esprimono ancora un radicamento territoriale forte. Ciò che piuttosto è necessario evidenziare, e che è fonte di conflitto e tensioni fra dimensione locale e globale, è la natura dei rapporti che intercorrono fra le due scale. Una delle possibili configurazioni di questo rapporto è di determinazione, dove i fenomeni che si verificano a scala globale determinano quelli che avvengono alla scala locale e la relazione fra le due scale ha una forma unidirezionale (Bonavero, 2005). La seconda possibilità di configurazione del rapporto fra la locale e globale vede invece le due scale in interdipendenza e interazione, che determinano una relazione bidirezionale fra le due scale (ibidem). La configurazione del rapporto dipende solo dagli agenti che lo mettono in atto: una dimensione reticolare può rappresentare una risorsa per gli spazi locali, secondo “una cultura di comunicazione tra località specifiche connesse e disconnesse ai flussi globali di ricchezza, potere e informazione” (Castells, 2004, p.77). Come sintetizza efficacemente Castells “il pianeta è disseminato di casi di valide amministrazioni che riescono a rendere ogni giorno più vivibili le aree di propria competenza, sfruttando i trend del mercato e piegando i gruppi d'interesse al bene pubblico” (ibidem).

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CAPITOLO 2

LA DIMENSIONE TERRITORIALE DEL POTERE MAFIOSO

Nel precedente capitolo è stato definito il territorio e l'agire territoriale da un punto di vista metodologico e concettuale. L'intento adesso è di approfondire come il territorio possa essere messo in relazione con l'azione delle organizzazioni criminali. Le mafie italiane, infatti, nonostante le numerose differenze tra le diverse varianti regionali, sembrano essere accomunate dal forte legame con il territorio e con la dimensione territoriale. Il monopolio territoriale di lungo periodo (Varese, 2002), che si esplicita in svariate forme, è uno degli obiettivi fondanti l'azione delle organizzazioni criminali, che operano dunque per stabilire e assicurare nel tempo il controllo su strade, quartieri, città e interi territori. “I mafiosi palermitani [...] nascono, vivono e muoiono nello stesso posto. Il quartiere è la loro vita, la loro famiglia vive lì da generazioni e sono tutti parenti. I cognomi sono quattro o cinque, gli altri sono tutti aggregati. Al massimo ci si fa una casa più bella, più sfarzosa.[...] Non si sono mossi di un metro dal loro regno, dove sono i padroni assoluti da decenni e decenni”( Lupo, 2004, p.253).

Il territorio, per le mafie italiane, non è solamente uno spazio su cui esercitare potere e controllo, ma “rappresenta anche una risorsa da saccheggiare e distruggere: si pensi all'acqua, all'abusivismo edilizio, allo smaltimento dei rifiuti, alle cave”(Eurispes 2010, p.596).

Si approfondirà dunque la natura della dimensione territoriale del fenomeno mafioso, e il rapporto che le organizzazioni criminali, e in special modo le mafie attive in Sicilia e in Piemonte, stringono con il territorio.

2.1 Le origini della “signoria territoriale” mafiosa

Per comprendere il radicamento territoriale delle mafie e le origini di questa struttura di controllo, è necessario risalire alle origini stesse del fenomeno mafioso, nelle terre che circondavano Palermo nella seconda metà dell'800.

"L'agro palermitano di cui particolarmente mi occupo con la presente relazione, è purtroppo funestato, come altre parti di questa e delle finitime provincie, da una vasta associazione di malfattori, organizzati in sezioni, divisi in gruppi: ogni gruppo è regolato da un capo, che chiamasi capo-rione, e, secondo il numero dei componenti e la estensione territoriale, su cui debba svolgersi la propria azione, a questo capo-rione viene aggiunto un sottocapo, incaricato di sostituirlo nei casi di assenza o di altro impedimento. E a questa compagnia di malviventi è preposto un capo supremo. La scelta dei capi-rione è fatta dagli affiliati, quella del capo supremo, dai capi-rione riuniti in assemblea, riunioni che sono ordinariamente tenute in campagna. Scopo dell'associazione è quello di prepotere, e quindi di imporre ai proprietari dei fondi, i castaldi, i guardiani, la mano d'opera, le gabelle, i prezzi per la vendita degli agrumi e degli altri prodotti del suolo" (Sangiorgi 1898, pp. 9-10. cit. da Santino U. 2004)

Il “Rapporto Sangiorgi”1, rappresenta il primo documento ufficiale che definisce la mafia come una struttura di organizzazione criminale (Dickie, 2008). Il rapporto mette infatti in luce il primo campo di attuazione di un metodo che sarebbe diventato poi caratteristico dell'organizzazione criminale che “da allora avrebbe aggiunto altre variabili al controllo del territorio, senza mai abbandonare il primo campo in cui aveva sperimentato se stessa2”.

1 Rinvenuto grazie alle ricerche di Salvatore Lupo nell'Archivio Centrale dello Stato è un insieme dei resoconti redatti dal Questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, inviati fra il Novembre 1989 e il Gennaio 1900 al ministero dell'Interno. Per approfondimenti : Lupo S. (2011) Il tenebroso sodalizio, XL edizioni 2 L'importanza dei limoni nella storia di Cosa Nostra Amelia Crisantino su La Repubblica Palermo, 24 febbraio 2004; disponibile su http://www.centroimpastato.it/

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Sangiorgi, durante i suoi primi anni come Questore di Palermo, s'imbatte in una serie di omicidi, e grazie alle indagini svolte, comprende che questi non sono frutto di iniziative individuali, bensì un sistema organizzato, che implicava regole e strategie unitarie. Non solo, Sangiorgi scopre anche come questo sistema organizzato goda di una rete di protezione da parte di politici e più in generale del ceto influente della città, che ne copre i capi nella speranza di essere a loro volta difesi e protetti.

Sangiorgi giunge a Palermo durante una guerra di mafia per il controllo delle ricche industrie agrumarie della Conca d'Oro. Le aziende agrumarie e i terreni dalla metà dell'800 a Palermo erano infatti spesso soggette a furti e vandalizzazioni. Spesso, queste operazioni, venivano commesse dalle stesse persone che poi chiedevano al proprietario, la vittima, di essere assunti come custodi, per garantire la protezione e scongiurare ulteriori furti. Tali furti dunque, non avevano una rilevanza economica, ma erano strumentali alla creazione di un clima di insicurezza pubblica, terreno di cui usufruiva la mafia per l'affermazione del mito della "mafia d'ordine" (Santino, 1997) e sui cui si struttura il sistema della protezione mafiosa. La via del furto, del danneggiamento e della minaccia era dunque la via d'accesso al controllo dei proprietari terrieri, le cui attività finivano con il dipendere dall'azione criminale. Come descrive lucidamente Sangiorgi, grazie al racket della protezione, la mafia riesce ad intessere una rete capillare di controllo del territorio, imponendo ai proprietari terrieri guardiani, mano d'opera, intermediari e prezzi di vendita dei prodotti. E' importante sottolineare che i mafiosi si insediano in un settore altamente moderno e remunerativo, basti pensare che nel 1860 il limoneto siciliano veniva considerato la terra agricola più redditizia d'Europa (Dickie, 2008). La presenza dei mafiosi all'interno di un modello di agricoltura ricca e produttiva sembra dunque negare l'idea della mafia come intrinsecamente legata al sottosviluppo.

“In particolare in quello che nell'Ottocento veniva chiamato agro palermitano a cavallo fra città e campagna, nelle borgate e nei paesi dell'hinterland, i gruppi mafiosi danno luogo a un sistema di controllo del territorio che parte dalla fitta rete di guardianie arrivando a infiltrare i traffici leciti ovvero illeciti l'abigeato, il

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contrabbando e la prima intermediazione commerciale di agrumi e degli altri prodotti dell'agricoltura ricca.” (Lupo, 2004, p.20)

La mafia dei giardini (Lupo, 2004) dunque si ricollega alle mafie latifondiste dei gabellotti e a quella delle zolfare, invadendo tutti i settori produttivi nell'area occidentale della Sicilia. La logica del racket della protezione assume conformazioni diverse a seconda della zona in cui si insedia, con singoli custodi ( nel caso degli agrumeti) o con più custodi impiegati a difesa delle terre di un solo proprietario (nel caso dei latifondi), in ogni caso, questa peculiare forma di controllo del territorio permette di instaurare un meccanismo di protezione reciproca fra mafiosi e proprietari terrieri: “La rete mafiosa proteggeva i proprietari fondiari dai sequestri di persona e dai danni materiali, e in cambio questi proteggevano la rete dalla polizia. I proprietari divenivano, pertanto, ad un tempo complici e vittime: la loro era una reazione difensiva a condizioni difficili, contemporaneamente, contribuiva a rendere la mafia sempre più forte nelle sue due facce: l‟una delinquenziale, identificabile nel brigante, l‟altra protettiva e legalitaria, identificabile nel gabellotto” (Lupo, 2004, pp. 20-28).

Questo breve cenno storico sulle origini della mafia rende maggiormente comprensibile la definizione di mafia, elaborata dallo storico Umberto Santino, come “signoria territoriale”, che esercita “con un comando totalitario sulle attività illegali e legali, sulla vita quotidiana, intrecciandosi o scontrandosi con le istituzioni operanti sul territorio” (Santino, 1997, pp. 138-148). Tale forma di signoria territoriale mira al controllo del territorio e di ogni attività, ma in alcuni casi può assumere i caratteri di “vera e propria espulsione degli indesiderati3” (ibidem). Secondo questa interpretazione la mafia, in virtù dell'esercizio della signoria territoriale, diventa un soggetto politico, sia attraverso il dominio delle attività e della vita quotidiana degli abitanti del territorio in cui agisce, sia attraverso il condizionamento delle

3 L'espulsione degli indesiderati riguarda chiunque possa ostacolare l'azione di controllo e la supremazia della cosca presente nel territorio. Tuttavia l'autore si riferisce ad un particolare episodio verificatosi nel 1983, quando nel quartiere Ciaculli di Palermo, noto per l'alta densità mafiosa e per sere sotto il controllo famiglia mafiosa dei Greco; ad alcuni abitanti del quartiere furono inviate alcune lettere nelle quali si invitava loro di lasciare il quartiere perché non graditi. Cfr. Santino 1997.

34 istituzioni. L'organizzazione mafiosa dunque associa caratteri di impresa economica e di soggetto politico-istituzionale, ed attraverso il controllo territoriale interagisce con settori delle istituzioni e del quadro politico al fine di raggiungere i propri scopi. Sulla dimensione duale del fenomeno mafioso si è espresso anche Sciarrone, che scompone la particolare forma organizzativa della mafia in due dimensione: “quella di organizzazione di controllo del territorio, da cui deriva il suo potere e agire politico, e quella di organizzazione dei traffici illeciti, che la caratterizza come impresa che opera a cavallo dei mercati illegali e quelli legali” (Sciarrone, 2009, pp. 22-23).

La mafia dunque è un soggetto politico, che esercita il proprio potere attraverso un'organizzazione di tipo statuale, che non riconosce il monopolio Statale della forza ma tuttavia interagisce con le istituzioni per garantirsi il proprio assetto di potere (Santino, 1994). Sono proprio queste peculiarità che differenziano il fenomeno mafioso da qualsiasi altro tipo di crimine organizzato: la mafia ha la necessità di stringere rapporti con il potere politico, con professionisti del mondo economico e finanziario, con imprenditori e soggetti appartenenti alla sfera del mondo investigativo e giudiziario.

Per comprendere al meglio la formulazione di Santino è necessario inserirla nel suo più ampio approccio teorico al fenomeno mafioso. Santino, per riuscire a tracciare una definizione del fenomeno mafioso, adotta un “paradigma della complessità”, di natura pluridimensionale, necessario per descrivere la complessità stessa del fenomeno ed evidenziare i differenti elementi che lo costituiscono. Da tale approccio scaturisce la seguente definizione della mafia: “Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l'unica è Cosa Nostra, che agiscono all'interno di un contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all'accumulazione del capitale e all'acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale” (Santino 1997, pp.138-148).

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2.2 Mafia e Mafie

Tutte le caratteristiche fin qui presentate sono proprie di quelle organizzazioni criminali che vengono designate con il nome di “mafia”. Sarebbe più corretto parlare di “mafie” al plurale, essendo diverse le organizzazioni che rispondono a queste caratteristiche, ed in particolare nel territorio italiano operano quattro organizzazioni mafiose, ciascuna delle quali ha avuto origine in una diversa regione del Meridione : Cosa Nostra (Sicilia), Camorra (Campania), Ndrangheta (), Sacra Corona Unita (Puglia). E' bene precisare, prima di proseguire con gli approfondimenti sulla dimensione territoriale delle mafie, che le aree oggetto di studio di questo lavoro sono interessate principalmente dall'azione di due organizzazioni criminali: Cosa Nostra in Sicilia e Ndrangheta in Piemonte. Ai fini dell'analisi che si prefigge questo lavoro tracceremo dunque brevemente le caratteristiche principali di queste due organizzazioni.

2.2.1 Cosa Nostra

La mafia siciliana è un'organizzazione unica, piramidale e gerarchica, articolata tutt'oggi nella tradizionale divisone territoriale di famiglie e mandamenti, al cui vertice è previsto un organo provinciale detto “commissione” o “cupola”, cui partecipano i capi dell'organizzazione dislocati nelle diverse provincie dell'isola. Con il termine famiglia non si deve intendere un insieme di persone legate da legami di sangue, bensì un organo di base che controlla un determinato territorio (es. una borgata o un quartiere). In Cosa Nostra vigono rigide norme di comportamento e l'entrata nell'organizzazione avviene per "chiamata", e segue un rituale d'iniziazione fortemente simbolico. Nata come mafia agraria, Cosa Nostra diventa preminente anche nelle città a partire dagli anni '50 e '60 del secolo scorso, come mafia urbana intenta al controllo del mercato edilizio e degli appalti. Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 incrementa la propria ricchezza grazie al traffico internazionale di stupefacenti, strategia che, secondo alcune interpretazioni4, non sarà accettata da tutti i componenti dell'organizzazione e scatenerà

4 Chi sostiene questa tesi si basa sulla ricostruzione storica delle vicende di mafia data dal boss Tommaso

36 una feroce guerra di mafia, conclusa con il passaggio al controllo dell'organizzazione da parte del clan dei Corleonesi. Fino ad allora, la mafia aveva puntato ad avere nei confronti dello Stato un rapporto di “coabitazione”5, piuttosto che uno scontro diretto, usando la violenza solo contro singoli avversari politici. La strategia dei corleonesi, capeggiati da Salvatore Riina, si fondava invece su un uso più indiscriminato della violenza, contro tutte le autorità che non si piegavano al compromesso. Questo mutamento di strategia ha determinato un'escalation di omicidi culminata nel periodo stragista del '92-'93. All'arresto di Riina, nel gennaio del '93, succede alla guida di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, il quale decise di ridurre lo scontro con lo stato, attuando una strategia di “inabissamento”, nel segno di un ritorno alla tradizionale “coabitazione” silenziosa. Bernardo Provenzano è stato arrestato nell'aprile 2006.

Nell'agosto dell'anno successivo, sono stati catturati Salvatore e Sandro Lo Piccolo, latitanti da anni e considerati fino al momento dell'arresto, il nuovo vertice di Cosa Nostra, anche in virtù delle alleanze negli Stati Uniti che i boss avevano coltivato e rilanciato. Il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, in un'intervista per il quotidiano Repubblica6, dichiarò: "Dall'arresto dei due ci attendiamo la disarticolazione dell'apparato criminale sul territorio. I due grandi latitanti erano punto di riferimento dei capimafia che esercitavano il controllo sull'apparato economico. Adesso ci attendiamo una conseguenza positiva anche sul piano della possibilità della collaborazione dei cittadini". Secondo le più recenti indagini della Dia questi arresti hanno provocato forti disorientamenti all'interno dell'organizzazione di Cosa Nostra, ma non hanno intaccato

Buscetta. Arrestato in Brasile ed estradato in Italia, dopo un tentativo di suicidio Buscetta nel 1984 decise di collaborare, rispondendo alle domande del giudice Falcone. Le rivelazioni di Buscetta sono considerate un punto di svolta nel contrasto all'organizzazione criminale perché fornirono per la prima volta ai giudici una descrizione della struttura e della storia dell'organizzazione criminale, fino ad allora quasi sconosciuta. Le rivelazioni di Buscetta furono confermate come valide dalla Corte di Cassazione nel 1992. 5 “[…] Cosa nostra non colpiva i rappresentanti dello stato in quanto tali, ma soltanto coloro che, compiendo atti repressivi particolarmente efficaci, derogavano alle regole non scritte della convivenza. I rapporti fra istituzioni e mafia si sono svolti per moltissimi anni come relazioni tra due distinte sovranità; nessuno dei due ha aggredito l'altro sinché questi restava entro i propri confini. […] Cosa nostre ruppe, a sua volta, le regole della "coabitazione" quando ai suoi vertici ascesero i corleonesi, [...]Sino a quel momento la violenza era stata usata sul fronte interno per i regolamenti di conti e per eliminare testimoni pericolosi; sul fronte esterno per colpire avversari politici”. Relazione sui rapporti fra mafia e politica, redatta da Luciano Violante, Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia XI Legislatura Doc. XXII n.2, p.57 6 http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca/arrestati-lo-piccolo/arrestati-lo-piccolo/arrestati-lo- piccolo.html, url consultata l'ultima volta il 10 Ottobre 2011

37 l'aspetto caratterizzante della mafia siciliana, ovvero la connivenza di quella parte della società che pur non facendo parte direttamente dell‟organizzazione, stabilisce con essa forme di contiguità più o meno stretta. L'esistenza di questa area “grigia” permetterebbe dunque il perdurare della signoria territoriale e del controllo del territorio, nella regione e in altre zone d'Italia. “Molti pezzi da novanta sono da tempo in carcere, e uno alla volta pure i super latitanti stanno andando in galera. Ma è sbagliato farsi delle illusioni. In questi ultimi anni i colpi inferti dallo Stato a Cosa Nostra sono stati terribili, ma nonostante la decapitazione di quasi tutti i vertici e le centinaia di arresti, la forza delle cosche è rimasta più o meno intatta” (De Stefano 2010, p.244).

2.2.2. Ndrangheta

Le origini di questa organizzazione sono molto antiche, ma le prime testimonianze certe risalgono al periodo successivo all'Unità d'Italia. Le sentenze di alcuni processi fanno riferimento all'organizzazione criminale, presente nel territorio calabrese con caratteristiche proprie di una mafia: segretezza, omertà, violenza, traffici illeciti e controllo del territorio. La struttura di base della 'ndrangheta è la 'ndrina, organizzazione autonoma sul proprio territorio, con una struttura interna di tipo gerarchico. La valorizzazione criminale dei legami famigliari è il principale punto di forza dell'organizzazione: la 'ndrina è spesso costituita dalla famiglia naturale del capo, “dai maschi che appartengono alla stessa discendenza” (Varese, 2011, p. 54) e i vincoli parentali tra le diverse famiglie vengono rinsaldati attraverso matrimoni incrociati. Questa particolare struttura ha permesso una decisiva riduzione dei collaboratori di giustizia, in questo caso infatti il tradimento sarebbe non solo nei confronti dell'organizzazione, ma contro il proprio nucleo familiare. Inoltre, come viene ampiamente sostenuto dalle Commissioni Parlamentari Antimafia, è stata proprio la sovrapposizione fra vincoli di parentela e appartenenza all'organizzazione criminale che ha facilitato un radicamento al di fuori della Calabria (XV Legislatura, Doc. XXIII n.5).

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Nata come mafia rurale e specializzata nei sequestri di persona, a partire dagli anni '60 del secolo scorso, suoi nuovi campi di investimento sono diventati commercio e impresa. La presenza in questi due ambiti, sia dal punto di vista legale che illegale, ha rappresentato il “salto di qualità” di questa organizzazione, rendendola l'organizzazione criminale più moderna, potente e “globalizzata”, una vera e propria holding economico-criminale. Attualmente infatti la Ndrangheta “rappresenta la più potente delle mafie nostrane. Un primato derivante soprattutto dalla straordinaria coesione interna della propria organizzazione e dalla forte capacità di controllo del territorio” (Avviso Pubblico, 2006). Gli interessi dell'organizzazione spaziano dagli investimenti immobiliari al riciclaggio, dall'acquisizione e vendita di armi e diamanti allo smaltimento di rifiuti radioattivi o tossici, dalla grande distribuzione commerciale e agli investimenti nella sanità, e soprattutto nei traffici mondiali di sostanze stupefacenti, anche in raccordo con altre organizzazioni criminali. Come sottolinea infatti il Rapporto Eurispes (2003) sull'evoluzione della Criminalità Organizzata in Italia, nel corso degli anni la 'ndrangheta ha imposto una sorta di primato, per giro d'affari e pericolosità, le organizzazioni criminali, con cui ha saputo ricercare intese e forme di collaborazione organizzativa, sia per quanto riguarda le altre mafie italiane che gruppi criminali di provenienza entica e culturale diversa.

Non bisogna tuttavia guardare alla Ndrangheta solo come una holding del crimine, la dimensione di condizionamento territoriale è infatti anche per questa mafia una precondizione a qualsiasi attività criminale, come evidenzia ancora una volta il Rapporto Eurispes: “La Ndrangheta impone la sua quotidiana presenza attraverso l‟impoverimento economico e culturale della società civile; non ricerca esclusivamente i profitti derivanti dal business economico per i suoi affiliati ma punta anche ad ostacolare, in ogni modo e con ogni mezzo, il propagarsi di una cultura della denuncia, fondamentale, invece, per far riemerge nella società civile il bisogno di certezze, di rassicurazione, un nuovo ordine di valori e di significati” (Eurispes 2003, p.9).

Sin dalla relazione del 2003 la Commissione Parlamentare Antimafia sottolinea come l'organizzazione avesse assunto un ruolo di primissimo piano nel panorama delle mafie

39 italiane, con una pervasività che valica il territorio d'origine e si proietta sulle altre regioni d'Italia e anche all'estero. La „ndrangheta è infatti presente in molte regioni d'Italia oltre che Francia, Germania, Olanda, Stati Uniti, Belgio, Spagna, Argentina, Venezuela ma anche in Canada ed in Australia.

A differenza di altre organizzazioni criminali la „ndrangheta non ha mai cercato l'attacco diretto allo Stato, cercando al contrario di evitare il più possibile azioni che ne avrebbero causato una sovraesposizione mediatica o dell'opinione pubblica. “Le „ndrine si sono combattute in modo sanguinoso, hanno ucciso migliaia di persone, hanno intimidito con minacce e attentati centinaia di amministratori locali, ma non hanno mai realizzato azioni capaci di attirare in modo durevole l‟attenzione nazionale e men che meno quella internazionale” (XV Legislatura, Doc. XXIII n.5, p.24).

Anche la „Ndrangheta, come Cosa Nostra, è stata scossa negli ultimi anni dalla cattura dei suoi maggiori esponenti, come quella di Pasquale Condello, detto “il Supremo”, arrestato dai nel febbraio 2008. Condello è considerato il “Bernardo Provenzano della Calabria” (De Stefano, 2011, p.200), per essere stato il personaggio chiave del “salto di qualità” della „ndrangheta: a seguito di una sanguinosa lotta fra cosche, scoppiata nel 1985, si impone come simbolo e mediatore fra le differenti famiglie e guida l'organizzazione verso la fine della lunga stagione di violenza interna e la concentrazione dell'attività sui traffici illegali transnazionali e la penetrazione negli affari regionali. La sua cattura ha dunque fatto pensare alla chiusura di un epoca e ad una possibile degenerazione degli assetti territoriali dell'organizzazione, specialmente nella città di , dove l'azione di mediazione e concertazione fra le cosche attuata dal boss è stata più evidente (Gnosis, 2008). La 'Ndrangheta, tuttavia, ha dimostrato di saper reagire velocemente dopo ogni imponente operazione di contrasto compiuta dalle Forze dell'ordine, riorganizzando facilmente le attività criminali sul territorio e istituendo nuovi canali per i traffici illeciti. Come sottolinea il rapporto dell'Eurispes (2003), tale capacità è dettata fondamentalmente dalla disponibilità di ingenti capitali, da cui deriva che “la struttura familiare delle ‟ndrine, unita al mantenimento di patrimoni considerevoli, fa sì che qualunque azione preventiva e

40 repressiva risulti fine a se stessa se non è seguita da un intervento che vada ad indebolire il potere finanziario dell‟organizzazione criminale”.

Per concludere è importante fornire un esempio che lascia ben comprendere il grado di collusione politico-amministrativa che questa organizzazione riesce a raggiungere per tutelare i propri interessi e che risulta di specifico interesse per l'obiettivo di analisi che si prefigge questo lavoro, trattandosi infatti di un clamoroso caso di mancata assegnazione dei beni confiscati alla 'Ndrangheta. Dalle indagini dei Ros di Reggio Calabria è emerso infatti che: “[...] analizzando gli 800 immobili sequestrati alla 'ndrangheta, si è scoperto che fino al maggio 2006 soltanto 307 erano stati dall'Agenzia del demanio ai Comuni. […] sotto inchiesta sono finite 317 persone (amministratori pubblici, politici, funzionari, impiegati) per le quali si ipotizza il reato di omissione d'atti d'ufficio aggravata dall'articolo 7 della legge antimafia” (De Stefano 2010, p.233).

Sembrerebbe dunque che chi avrebbe dovuto assicurare la riconsegna alla comunità dei beni confiscati abbia invece favorito i boss affinché rimanessero i veri padroni dei beni. Questo esempio lascia ben comprendere il grado di collusione politico-amministrativa che questa organizzazione riesce a raggiungere per tutelare i propri interessi e traffici.

2.3 Le mafie fra radicamento storico e nuovi insediamenti

Ciò che differenzia le mafie dalle altre forme di organizzazioni criminali è la tendenza ad occupare spazi territoriali e funzioni di sovranità tipiche dello Stato (Sciarrone, 2009). Nella relazione sui rapporti fra mafia e politica della Commissione Parlamentare Antimafia del 1993, riferendosi in particolare a Cosa Nostra, l'On. Violante esplicita alcuni elementi chiave di quest'attività : [...] il controllo del territorio serve per svolgere impunemente ogni sorta di traffico; serve a conoscere e prevenire le manovre degli avversari, ad esercitare dominio

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sulle popolazioni, a praticare le estorsioni, a presentarsi come autorità che tutto conosca e tutto può […] il "governo", del territorio rivela il capo autorevole e la famiglia rispettata (XI Legislatura, Doc. XXIII n.2 pp.30-31).

Le mafie non sembrano essersi discostate molto dalla struttura della “mafia d'ordine” di fine '800, come sottolinea Sciarrone, infatti “la manifestazione più evidente del controllo del territorio è data dalla presenza del meccanismo della estorsione-protezione applicato dai gruppi mafiosi in modo capillare […] oltre ad essere uno dei canali di arricchimento dei gruppi mafiosi, costituisce un efficace meccanismo per affermare e rendere operativo nel tempo il controllo del territorio”. (Sciarrone, 2009, p.11). Il meccanismo della protezione, il mito della “mafia d'ordine” cui abbiamo già accennato, è l'ideologia con cui i mafiosi giustificano il loro controllo del territorio, la propria stessa presenza: “La mafia vuol dimostrare (o almeno promettere) di saper mantenere l'ordine al suo esterno, rivolgendosi cioè alla delinquenza comune, all'opinione pubblica dei quartieri popolari, a quella dei quartieri borghesi, ai commercianti e agli imprenditori, alla macchina politica; ma deve fare lo stesso al suo interno, tra gli affiliati[...] la mafia è un gruppo di potere e ha un'ideologia; questa serve soltanto se crea consenso all'esterno e compattezza all'interno”. (Lupo S. in Violante, 1997, p.16).

La più evidente forma di estorsione – protezione, oggi come alle origini, le mafie l'attuano attraverso il “pizzo”, reato tipico della criminalità organizzata, è finalizzato a sostenere le spese “ordinarie” dell'organizzazione, come il sostegno alle famiglie dei carcerati, il pagamento degli avvocati, garantire le latitanze, etc. Ma soprattutto serve ad accrescere il dominio di ogni organizzazione sul territorio in cui esercita questa “tassa”, specialmente da quando la strategia della sommersione ha portato le mafie a imporre il pizzo non più solo a negozi e imprese con grossi giri di affari ma a tutti, anche per cifre relativamente modeste. “Attraverso il pizzo si ottiene un controllo del territorio sul quale le cosche, spiegano gli inquirenti, “sostanzialmente sostituendosi allo stato, esercitano un potere illegale di imposizione fiscale in ragione dei corrispettivi servizi di

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protezione, in tal modo riuscendo anche ad ottenere consenso degli stessi operatori economici vittime del fenomeno” (De Stefano 2010, p.258).

Come confermano le più recenti indagini sul territorio nazionale, i cui risultati vengono riassunti nelle relazioni della Commissione Nazionale Antimafia, lo sviluppo di attività imprenditoriali mafiose e l'espansione nel settore degli appalti pubblici non esclude l'esercizio delle forme più tradizionali di pervasività nel tessuto dell'economia delle regioni italiane. Anzi spesso questo diventa veicolo per entrare in mercati sempre più sotto controllo dello Stato: anche quando le gare d'appalto sembrano sottratte al controllo diretto della mafia, questa torna ad interessarsene richiedendo al vincitore della gare una somma di denaro commisurata all'importo dell'appalto (XIV Legislatura, Doc. XXIII n.16). In molti casi è possibile tracciare le diverse zone di controllo delle varie cosche presenti in una determinata città proprio a partire dalla distribuzione dei quartieri su cui viene esercitata l'estorsione; il controllo arriva al punto che quando vi sono diversi clan che insistono sulla stessa area le attività commerciali vengono suddivise fra le famiglie interessate sulla base dei numeri civici, in modo da garantire a tutti “una fetta della torta” e al contempo evitare situazioni di conflitto. Questo tipo di azione sul territorio riesce anche a fornire un “tasso di omertà di una zona, di un quartiere e di una comunità” (SOS Impresa, 2011), poiché non ostante gli enormi passi fatti nel campo delle denunce, sono ancora moltissimi gli imprenditori a preferire il silenzio e, ancora più grave, a non percepire come anormale la pervasività del sistema mafioso sull'impresa. Sebbene specialmente negli ultimi anni, la mafia abbia investito massicciamente i propri proventi all'estero, in modo particolare per il commercio internazionale di droga stringendo rapporti con gruppi criminali esteri, l'organizzazione mafiosa rimane localizzata (Varese, 2002). Per portare a termine le proprie attività ogni gruppo mafioso fonda la propria “credibilità” sulla reputazione criminale dei propri membri, la conoscenza capillare del territorio e su una vasta rete di rapporti familiari, amicizie e connivenze. Come ha sottolineato lo storico Salvatore Lupo “Non c'è dunque alcuna mutazione epocale che in questi ultimi vent'anni abbia spinto la cosiddetta mafia imprenditrice a rinunciare alla propria vocazione, o meglio ideologia protettiva” ( Lupo S. in Violante 1997, p.16).

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Il controllo del territorio e le attività lucrose sono dunque un abbinamento la cui forza determina la forza stessa e il radicamento di un gruppo mafioso in un territorio. La ricerca del potere, gli obiettivi politici dei gruppi mafiosi, si traducono in controllo del territorio, che si esplicano attraverso attività di protezione – estorsione, attività “strategicamente più significativa per i gruppi mafiosi, poiché oltre ad avere una rilevanza economica, risulta funzionale proprio al controllo del territorio” (NOMOS, 2000). La presenza mafiosa in un territorio ne modifica dunque la struttura sociale, economica e nei casi di maggior radicamento produce dei veri e propri effetti pervasivi sulle funzioni regolative e di controllo, che non sono più ad esclusivo governo delle autorità statali, ma vengono operate, in modo più o meno invasivo, dalle forze mafiose.

Ogni gruppo mafioso è riconducibile ad un territorio di riferimento dove stabilisce la base delle proprie attività e della propria azione di controllo sul tessuto sociale; tale base tuttavia non deve essere considerata come un'area che circoscrive o contiene l'agire criminale, quanto piuttosto come un trampolino di lancio “verso altri territori con cui relazionarsi e su cui costruire nuove occasioni di azione, sicuro rifugio nel bisogno, nel caso di periodi di latitanza o semplicemente di scarsità nelle opportunità” (NOMOS, 2000). E' opinione diffusa che le mafie coniughino ogni giorno di più la loro dimensione locale con quella dei traffici globali e delle nuove zone d'insediamento: “Il suo essere “locale” […] non è mai stato considerato una gabbia o una limitazione al proprio agire mafioso, ha invece rappresentato una pedana di lancio verso altri territori –geografici, economici e sociali- nei quali stabilire relazioni in cui sviluppare nuove attività criminali” (XIV Legislatura, Doc. XXIII n.16).

La problematica del controllo monopolistico del territorio, del “potere territoriale” (Sciarrone, 2009) mafioso è stata negli ultimi anni oggetto di studio, proprio in relazione al processo di espansione territoriale e ai nuovi insediamenti in aree diverse da quelle tradizionali. La Commissione Parlamentare Antimafia ha sottolineato come queste si siano spostate verso nuovi territori seguendo sostanzialmente la logica di ricerca di nuove aree di sfruttamento, ma anche quando mutano le aree dalle quali traggono le principali risorse, non vi è mai stato un sostanzialmente abbandono del territorio (XI Legislatura, DOC XXIII

44 n.14). Le aree di maggiore insediamento sono considerate ad oggi la Lombardia, il Piemonte, la Valle d'Aosta, la Liguria, l'Emilia Romagna e il Lazio.

Recenti studi cercano di comprendere quali siano i fattori che fanno si che la semplice presenza mafiosa in un territorio porti al radicamento territoriale, fino a nuove forme di “signoria territoriale” in aree tradizionalmente non coinvolte da questo tipo di fenomeni. Come evidenziato dalla Commissione Parlamentare Antimafia il Piemonte rappresenta un caso esemplare, in quanto è uno dei casi in Italia in cui, con maggiore evidenza, si è manifestata l'incidenza delle organizzazioni criminali con forme di radicamento territoriale, molto simile a quelle dei territori di tradizionale presenza mafiosa. A conferma di ciò vengono portati due fatti significativi (XIV Legislatura, Doc. XXIII n.8, p.16): in Piemonte si è verificato uno dei pochi casi, al di fuori dei contesti tradizionali, di «omicidi eccellenti»7 per motivi di mafia; per la prima volta è stato applicato, in un comune del Nord, il provvedimento relativo allo scioglimento delle amministrazioni comunali per infiltrazioni mafiose: nel maggio 1995 è stato infatti sciolto il Consiglio comunale di Bardonecchia, centro turistico e nota stazione sciistica in provincia di Torino.

Sebbene sia opinione diffusa che il comune di Bardonecchia “non può essere rappresentato come uno dei più mafiosi dell'Italia settentrionale [..] dato che una serie di evidenze giudiziarie hanno rivelato infiltrazioni mafiose di gran lunga più rilevanti” (Sciarrone 2009, p.299) in altri comuni dell'Italia Settentrionale, è stato tuttavia importante sintomo di un forte radicamento territoriale nella regione. Torneremo in seguito sul caso del radicamento mafioso nella provincia torinese, quando si tratterà specificatamente dei casi studio di questa ricerca. E' importante tuttavia in questa sede interrogarsi su quali siano le cause di questo fenomeno e quali siano le manifestazioni, in zone non legate ad una tradizionale presenza mafiosa, del radicamento territoriale.

7 L'omicidio del procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, commesso nel 1983 ad opera di gruppi della 'Ndrangheta che operavano nei mercati illegali del capoluogo.

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Fino alle eclatanti operazioni investigative degli ultimi anni, l'immagine che ha dominato era quella di una mafia che si espande nelle regioni del Nord Italia solo per attivare circuiti di economia illegale, presente dunque attraverso investimenti sul territorio ma senza forme di controllo del territorio. Quest'immagine dominante è stata tuttavia smentita dalle operazioni investigative attuate nell'Italia Settentrionale che hanno messo in luce la presenza di una mafia che anche al Nord è “ramificata sul territorio, onnipresente, violenta, prevaricatrice”8. Come evidenzia Marco Nebiolo in un articolo pubblicato su Narcomafie : “[...]Le risultanze investigative degli ultimi anni ci raccontano molto di più, di una mafia presente al nord con il suo volto più classico e brutale, con i suoi uomini, le sue strutture organizzative, le sue liturgie, e la carica di violenza e oppressione che questo comporta[...] è anche vero che in certi quartieri la pressione delle forze criminali ricalca fedelmente quanto avviene nelle peggiori periferie meridionali, e che in alcuni settori economici la presenza mafiosa ha la stessa pervasività riscontrabile nel sud più degradato” ( Narcomafie, 8 Aprile 2011).

Le cause di diffusione del fenomeno mafioso, e le spiegazioni addotte per la penetrazione criminale nel tessuto sociale oltre che economico delle regioni dell'Italia settentrionale, sono spesso state ricondotte a alla “metafora del contagio” a tesi “culturaliste”. La stessa Commissione Parlamentare Antimafia, ha sostenuto fino a tempi recenti la diffusione del fenomeno mafioso nelle regioni del Nord Italia, e specialmente in Piemonte, come “insorgenza inattesa di fenomeni demografici”. Nel documento conclusivo sul fenomeno mafioso in Piemonte e in Valle d'Aosta si legge infatti che: “Oltre al ruolo esercitato dalla misura di prevenzione personale del soggiorno obbligato, va infatti considerata la scelta effettuata dalle cosche mafiose di agire al Nord nelle zone ricche del Paese mimetizzandosi tra gli immigrati meridionali che si erano portati in quelle Regioni per trovare lavoro” (XIV Legislatura, Doc. XIII n.8, p.13).

Gli studi più recenti, tuttavia, sembrano smentire questo tipo di interpretazioni considerate riduttive, puntando dunque ad un'analisi del fenomeno più complessa e particolareggiata,

8 Nebiolo su Narcomafie, 8 Aprile 2011

46 secondo cui “i processi di diffusione siano caratterizzati dalla reciproca interazione di più fattori di natura diversa e, quindi, anche tra loro relativamente indipendenti” (Sciarrone 2009, p. 171). Secondo questo filone di analisi è necessaria dunque una particolare concatenazione di fattori, quali ad esempio la mancata presenza di altri gruppi mafiosi, lo sviluppo di mercati che non vengono efficacemente regolati dalle autorità e il sorgere di una domanda di protezione extralegale, specialmente nella gestione delle dispute derivanti da mercati illeciti (Varese, 2010). Secondo questo tipo di interpretazione, i clan sarebbero dunque capaci di radicarsi nei territori nuovi perché in grado di offrire una serie di servizi di gestione della concorrenza e governo dei mercati, da cui alcuni settori dell'economia locale traggono beneficio. Non è solo una certa economia connivente a rendere un territorio “fertile” per un radicamento mafioso: per una diffusione capillare dell'organizzazione criminale è necessario che ci siano condizioni favorevoli anche nell'ambito delle istituzioni e della società civile. Come veniva sottolineato già nel 1993 dalla Commissione Antimafia: “la mafia non si augura certo di avere una magistratura onesta, partiti politici trasparenti e legittimati, un sistema istituzionale impermeabile alle corruzioni e alle collusioni. Al contrario essa opera costantemente per conservare quelle parti del sistema politico, economico ed istituzionale che possono esserle utili e più in generale per conservare equilibri politici che considera a lei favorevoli” (XI Legislatura, Doc. XXIII n.2, p.42). Vi è dunque una componente di responsabilità da parte delle istituzioni e amministrazioni pubbliche nella capacità d'insediamento di una mafia in un determinato contesto territoriale, quando manca da parte di queste un'etica professionale in grado di resistere alle pressioni mafiose. Infine è necessario prendere in considerazione la componente della società civile, che spesso, nei casi di nuovo insediamento da parte delle organizzazioni mafiose dimostra non solo una facile permeabilità del tessuto sociale, ma anche incapacità di azioni organizzate in grado di isolare il fenomeno e contenere la pervasività dell'organizzazione criminale. In alcuni casi questo è dato da scarsa conoscenza o sottovalutazione del fenomeno, in altri si registrano atteggiamenti di omertà sociale, fino, come ha denunciato recentemente Nando

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Dalla Chiesa, a vere e proprie forme di “convergenza di comportamenti e aspettative tra ambiti sociali, politici, istituzionali, culturali e ambienti mafiosi9”. La 'Ndrangheta in particolare si è dimostrata capace di “riprodurre gli stessi modelli organizzativi al di fuori delle regioni di origine, contando su omertà – cioè paura – e complicità (politiche, imprenditoriali, professionali) analoghe a quelle riscontrate nel meridione” (Nebiolo,2010).

Il radicamento territoriale mafioso, nelle aree di tradizionale presenza come in quelle di nuovo insediamento è dunque un problema che coinvolge l'intera società, come ha sinteticamente, ed efficacemente sottolineato Don Luigi Ciotti: “il problema è che assistiamo alla presenza di una mafia sempre più civile e di una società sempre più mafiosa10”.

Nonostante dunque la prevalenza di traffici di lunga distanza e le tesi che vogliono le mafie come holding finanziarie del crimine, queste si confermano legate ad una configurazione del potere legato alla territorialità. La sovrastruttura finanziaria sembra dunque una forma che le organizzazioni criminali si sarebbero date per sostenere il commercio di stupefacenti e per il riciclaggio dei capitali derivanti da esso ( Lupo, 1990). Le mafie cercano di entrare nei mercati tipicamente locali, con le modalità tradizionali del racket e delle estorsioni, del controllo del voto e della corruzione delle sfere pubbliche e amministrative dei territori ove s'insedia.

Sembra dunque, dall'analisi fin qui condotta, che non vi sia un succedersi di diverse tipologie di mafie con dinamiche diverse a seconda dei territori in cui si insediano, ma che piuttosto “l'evoluzione del fenomeno mafioso è vista come un intreccio di continuità e trasformazione: aspetti persistenti, come la signoria territoriale, convivono con

9 La Mafia al Nord? Trova una certa e incredibile ospitalità Intervista a Nando Dalla Chiesa di Silvia Ragusa del 04.04.11, disponibile all'indirizzo www.omicronweb.it, Url consultata l'ultima volta il 01.10.11 10 Le parole di Don Ciotti sono state pronunciate a conclusione del seminario organizzato da Libera dal titolo “Mafie al Nord”, svoltosi a Torino il 7 e 8 Ottobre 2011. Una sintesi del discorso di Don Ciotti è disponibile sul sito di Libera: http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/5284

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aspetti innovativi, come le proiezioni internazionali, in un rapporto di apparente contraddittorietà ma in realtà di reciproca funzionalizzazione” (Santino 2002, p.2).

2.3.1 L‟azione mafiosa fra scala locale e globale

La dimensione territoriale del potere mafioso, come abbiamo appena accennato, non è esclusivamente locale. Alla dimensione territoriale organizzata e strutturata localmente, le mafie italiane hanno affiancato dimensioni territoriali reticolari, flessibili, attive sulle reti globali dei mercati illegali. Molte delle associazioni criminali di stampo mafioso italiano operano da tempo a livello internazionale, basti pensare a Cosa Nostra americana che nasce agli inizi del XX secolo. I mutamenti avvenuti nella dimensione economica finanziaria degli ultimi decenni, tuttavia, sembrano aver ampliato le opportunità delle mafie (Armao, 2000), comportando un‟evoluzione stessa dell‟azione mafiosa a livello internazionale. Le organizzazioni criminali del paese occupano infatti un ruolo rilevante nella più complessa azione di globalizzazione dell‟economia illegale; queste non agiscono a livello isolato, ma sono fortemente legate alle maglie di una rete criminale più ampia e diffusa, con ampie disponibilità economiche, materiali e forte capacità di intervento (Dino, 2009).

Le nuove configurazioni dei mercati internazionali, la virtualizzazione dei circuiti di capitali e lo sviluppo di tecnologie informatiche applicate all‟economia, l‟espansione finanziaria e la perdita, da parte delle autorità monetarie internazionali, del controllo della circolazione del denaro, sembrano essere alcune delle congiunture favorevoli che hanno determinato una crescita dell‟azione mafiosa su scala globale (Armao, 2000; Dino, 2009).

“Il processo di globalizzazione ha allargato le opportunità non solo per le imprese legali ma anche per la criminalità transnazionale, creando nuovi affari e nuovi mercati nel mondo legale ma anche in quello criminale, e fornendo mezzi sempre più sofisticati e potenti con i quali le organizzazioni criminali possono essere più efficienti” (Savona, 1998, p.7).

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In questo senso si può analizzare il fenomeno della diffusione transnazionale delle mafie in un‟ottica reticolare: l‟azione a livello locale non preclude quella a livello globale e viceversa; questo anche perché, come è stato anticipato analizzando lo spazio come “reticolare” (§Par. 1.5), per qualsiasi fenomeno che si dispiega sugli spazi globali, reti e organizzazione di reti globali non sussisterebbero senza una base territoriale. I mercati illeciti delle organizzazioni mafiose si sono sviluppati in molteplici settori e ad una molteplicità di scale geografiche, tali per cui è possibile ipotizzare una loro configurazione come una catena di reti: all‟apertura di un nuovo mercato, locale o globale, i gruppi mafiosi non abbandonano o trascurano i precedenti, aggiungendo piuttosto nuovi nodi a quelli vecchi (Vigna, 2007).

Secondo lo storico Umberto Santino, la diffusione delle organizzazioni criminali di tipo mafioso a livello globale è dovuta alle opportunità stesse che offre il capitalismo globalizzato: “un sistema in cui operano come fattori criminogeni dati strutturali come l'aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali e i processi di finanziarizzazione” (Santino 2002 b p.9). Questo sarebbe, secondo l‟autore, un contesto propizio allo sviluppo delle varie attività criminali transnazionali, come i traffici di droghe, armi, rifiuti tossici, mercificazione di esseri umani e saccheggio del territorio. L‟autore parla di “mercato multidimensionale”, un unico mercato all‟interno del quale confluiscono le economie legale, sommersa ed illegale, legate da dinamiche diverse che vanno dalla complicità, alla connivenza e al conflitto (ibidem).

La stretta connessione fra mutamento della struttura economica internazionale e globalizzazione delle mafie viene interpretata anche in altri modi. Ad esempio, secondo l‟interpretazione del fenomeno di Pier Luigi Vigna (2007), ex Procuratore Nazionale Antimafia, l‟ingresso dei clan mafiosi nei più ampi mercati illeciti globali è dovuto ad un mutamento della natura dei beni sui quali si sono concentrati gli interessi delle mafie. Queste, che nell‟immediato dopoguerra era principalmente interessate ai settori agricoli ed edilizio, hanno successivamente ampliato la sfera di interesse verso i traffici di “cose” mobili, traffici che per definizione necessitano di una trasferimento dal paese di provenienza a quello di destinazione.

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La globalizzazione delle mafie, secondo questa interpretazione, risponderebbe dunque alla necessità di garantire l‟efficienza dei mercati di beni come i tabacchi, stupefacenti, armi, rifiuti, ma anche di esseri umani (tratta a fini lavorativi o sessuali), attraverso la creazione di sinergie con gruppi criminali stranieri.

Un‟altra chiave di lettura del fenomeno proviene dagli studi di Armao secondo cui “le mafie non sono un corpo avulso del resto della società, ma si inseriscono a pieno titolo nel flusso di lunga durata della storia” (Armao, 2000, p.122). A livello internazionale, secondo l‟interpretazione proposta da Armao, le mafie operano a livello internazionale allo stesso modo dei mercanti capitalisti di lunga distanza; lo sviluppo dell‟azione mafiosa a livello internazionale dimostra allora “la rinnovata importanza, nelle dinamiche capitalistiche internazionali, di un‟accumulazione di grandi profitti per via commerciale e non esclusivamente industriale”(ibidem). Secondo l‟autore il sistema internazionale delle mafie si è andato strutturando secondo direttrici che sono almeno in parte le stesse seguite dalle altre economie- mondo del passato. Le mafie, secondo questa interpretazione “si irradiano inizialmente a partire da alcune aree capitalistico-mafiose dominate da un centro situato nella città di maggior transito commerciale di origine” (ivi, p. 124). A partire da questi centri, tali mafie, che vengono definite come “endogene” (ibidem), si espandono secondo determinate rotte commerciali, seguendo dunque le esigenze dettate dalla domanda e dall‟offerta internazionale di beni. Una volta entrate in contatto con nuove realtà territoriali, le mafie, tendono a crearvi nuovi insediamenti stabili. Torna, in questo caso, l‟importanza del radicamento territoriale mafioso: “[...] E‟ la loro natura di sistemi intrinsecamente totalitari che le costringe a riprodurre anche nei nuovi contesti un ambiente societario il più possibile conforme a quello del luogo d‟origine. Senza una base garantita di consenso e legittimazione e un nucleo consistente di “soldati”, esse non avrebbero alcuna possibilità di procedere a quell‟estrazione della violenta delle risorse da cui dipende comunque la sopravvivenza delle unità staccatesi dalla madrepatria” (ivi, p.125).

Tra i differenti gruppi mafiosi attivi nella dimensione globale, si possono instaurare delle relazioni di scambio e anche delle gerarchie. Lo spazio d‟azione delle singole

51 organizzazioni mafiose, secondo l‟autore, può essere tracciato a partire dalle rotte di espansione seguite dalle mafie stesse:

“[...] unendo idealmente i punti corrispondenti al territorio d‟origine e ai luoghi di insediamento si ottengono i confini dell‟economia-mondo della singola organizzazione mafiosa” (ibidem).

L‟assetto delle economie mondo mafiose, tuttavia, non è da considerarsi immutabile, essendo al contrario oggetto di continue variazioni, indotte dai mutamenti dell‟economia stessa.

L‟azione mafiosa a livello internazionale, seguendo questa interpretazione, è strettamente legata alla dimensione territoriale locale: l‟azione internazionale delle organizzazioni mafiose è infatti possibili solo a partire dalla disponibilità di ingenti risorse finanziarie, indispensabili per affrontare i costi del commercio di lunga distanza, che sono accumulate dai gruppi mafiosi attraverso l‟azione sul territorio.

2.4 Le mafie e gli spazi urbani

Un'ultima analisi sul radicamento e l'occupazione criminale del territorio è possibile a partire dalle dimensioni prettamente spaziali di penetrazione nel tessuto territoriale delle città ove s'insediano gruppi mafiosi. Come risulta evidente dalle considerazioni fin qui proposte, la mafia si configura come un'organizzazione spaziale che si dispiega su diverse scale geografiche, che si adatta ai territori e li modifica attraverso la propria azione, per risponde al meglio alle diverse necessità e interazioni di potere e controllo.

Recenti studi hanno dunque cercato di rintracciare quali siano le dinamiche insediative, da un punto di vista prettamente spaziale e territoriale, delle mafie italiane.

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Esemplare di questo filone di analisi è lo studio di Isaia Sales (2006) su Napoli, che disegna le dinamiche insediative della Camorra sul territorio cittadino: secondo tale interpretazione la secolare presenza dell'organizzazione criminale nella città e nell'hinterland risponderebbe ad una mancata integrazione “delle classi pericolose urbane” e degli esiti negativi delle politiche attuate per tentare di realizzare tale integrazione. Da tale studio emerge una dimensione spaziale della camorra “compatta geograficamente, produttivamente e socialmente”(Sales, 2006, p.18) La massima concentrazione della presenza mafiosa si trova infatti nella città di Napoli e nei comuni della provincia napoletana, dove le zone di insediamento corrispondono ad aree di interesse strategico per i mercati commerciali: comuni con un porto, centri urbani con stabili mercati ortofrutticoli e del bestiame o di rifornimento quotidiano di Napoli, zone di allevamento e comuni specializzati nella produzione della pasta. “L‟insediamento camorristico corrisponde, dunque, ad un preciso spazio geografico, ad uno stabile habitat territoriale: i suoi luoghi di presenza sono quelli interessati alla produzione e all‟approvvigionamento del grande mercato di consumo di Napoli, le strade di collegamento tra le città e il suo hinterland agricolo, le rotte del contrabbando di generi alimentari (i porti e le dogane). Nella città invece l‟insediamento è localizzato nei vicoli a preponderante presenza di plebe” (Sales I., Ravveduto M., 2006 p.19).

L'insediamento mafioso s'inserisce nel rapporto fra città e campagna, lungo le strade di produzione, scambio e verifica delle merci. Ai confini fra Napoli e il suo vasto hinterland si sono sviluppati i grandi snodi commerciali, e allo stesso modo la camorra vi ha insediato i propri, tra cui è fondamentale quello della droga. Infine, è particolare il radicamento territoriale della camorra nella città, che condiziona le attività stesse dei camorristi, indissolubilmente legati alla dimensione spaziale del “quartiere”: “anche se acquisiscono grandi ricchezze, le abitazioni dei camorristi restano nel quartiere […] è una criminalità locale-globale, nazionale e internazionale, ma sempre “quartierocentrica” (ivi, p.259).

Da tali studi di carattere prettamente urbanistico risulta che l'insediamento nel contesto urbano risponde a una serie di caratteristiche costanti. Uno studio di Daniela De Leo

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(2010) incentrato sulle periferie urbane cerca dunque di mettere in luce l'insieme di caratteri del territorio nei quali le mafie sanno prendere spazi e potere. L'autrice rintraccia infatti delle costanti nella presenza delle organizzazioni criminali, specialmente nelle periferie, quali:

extra - territorialità, come sconnessione fisica, nonostante le forti connessioni delle organizzazioni criminali con i flussi dell'economia illegale globale; mono-funzionalità e degrado, da cui consegue spesso un controllo nelle assegnazioni e nei funzionamenti del patrimonio pubblico; l‟abuso e la distruzione degli arredi urbani, dei beni pubblici e di quelli privati; il ritiro dello stato e presenza di „istituzioni parallele‟ e sostitutive rispetto a quelle ufficiali; network criminali visibili, potenti e radicati; il ritiro dello Stato e prevalenza di istituzioni “parallele” sostitutive; prevalente omogeneità sociale contraddistinta dalla mancanza diffusa di opportunità di lavoro e di ascesa sociale; (De Leo, 2010)

Più genericamente, autori come Isenburg (2000), hanno cercato di tracciare una tipologia di spazio geografico, di territorio, particolarmente favorevole all'insediamento e all'azione criminale, basandosi sulla densità dei circuiti di movimento, che sarebbero più o meno permeabili dunque all'agire illecito e ai differenti utilizzi del territorio da parte delle organizzazioni criminali. A partire da questa distinzione (circuiti densi, circuiti meno densi) Isenburg traccia dunque due tipologie di territori:

territori isolati e scarsamente abitati, vengono sfruttati dalle organizzazioni criminali soprattutto per sequestri, raffinamento e coltivazione di droga ; territori caratterizzati da flussi intensi di persone, merci e denaro, si caratterizzano per le attività di riciclaggio, commerci illegali o di operazioni di occultamento, ma anche d'incontro e soggiorno; questi sono ad esempio le località costiere e più genericamente i porti e le zone di traffico merci (Isenburg, 2000).

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Il radicamento territoriale delle organizzazione mafiose risulta dunque essere una componente fondamentale del fenomeno mafioso stesso, dovuto sia alla presenza storica in determinati contesti che al consenso sociale maturato negli anni. Tale radicamento, tuttavia, necessita di un costante riconoscimento, un costante accreditamento nel territorio stesso della presenza mafiosa. Emerge dunque un altro carattere fondamentale delle mafie italiane, ovvero il requisito della riconoscibilità: la pubblicità della presenza del potere mafioso, che si contrappone alla segretezza delle sue azioni criminali e dei vincoli associativi che ne legano i componenti. Senza tale riconoscibilità, la manifestazione pubblica e il pubblico riconoscimento della presenza mafiosa, il fondamento del binomio minaccia/protezione viene meno (Catanzaro, 1988) e il potere dell'organizzazione sul territorio viene minato.

Per il suo carattere di essenzialità il territorio viene considerato una risorsa strategica da plasmare e modificare per rispondere al meglio alle diverse necessità dell'organizzazione criminale : “[...] il dominio esercitato su una determinata porzione di territorio è stato una delle precondizioni per l'inserimento di mafiosi siciliani nel traffico internazionale di eroina, attraverso l'installazione di laboratori di produzione nelle aree sotto controllo, come pure l'aeroporto di Palermo, che ricade in una zona a tradizionale dominio mafioso, è stato l'infrastruttura indispensabile per l'invio della droga sul mercato americano”(Santino, 2002, par.1)

Il radicamento territoriale della mafia, negli ultimi anni, è stato studiato anche nella sua dimensione di regolazione sociale del territorio (Cremaschi, 2008). La presenza di organizzazioni criminali è stata dunque indagata anche da punto di vista degli effetti di distorsione che produce in un determinato territorio (De Leo, 2010). Tali distorsioni, che possono riguardare tanto le regolazioni quanto il funzionamento delle istituzioni o le politiche pubbliche, coinvolgono piani e dimensioni molto diverse, con una maggiore o minore consapevolezza dei pianificatori e decisori pubblici. Si tratta di modifiche che i territori hanno subito in modo diretto o indiretto nel nome del potere mafioso. Il controllo del territorio si è infatti in più casi tradotto in vera e propria

55 guida dei processi evolutivi delle città e dei territori stessi su cui le organizzazioni esercitano il loro potere.

Uno studio di Mariarosa Fallone (2007) prende in esame la città di Palermo come caso emblematico degli effetti del radicamento territoriale mafioso, evidenziando come la presenza delle organizzazioni criminali possa influire sulla composizione sociale, sul reclutamento dei politici e degli amministratori e anche sulle politiche di governo della cosa pubblica e sull'assetto urbanistico della città. Questo studio mira a ricostruire le modalità attraverso le quali la criminalità organizzata abbia influenzato la pianificazione del territorio e l'assetto urbanistico della città, prendendo Palermo come “città-sintesi” del fenomeno. Vengono messi in luce dunque come nel processo di urbanizzazione della città gli interessi legati alla mafia e a interessi privatistici siano stati determinanti nella creazione dell'attuale configurazione del territorio, “innescando procedure parallele o spesso sovrapposte alla pianificazione ufficiale e alla strumentazione urbanistica vigente e influendo in modo determinante sulla efficacia degli strumenti di pianificazione.” (Fallone, 2007, p.24). Le organizzazioni criminali, le mafie, “strutturati sistemi di potere e di relazioni”(ibidem), in molti casi contribuiscono a determinare il profilo della città presso cui si radicano. E proprio la città di Palermo ne è estremamente rappresentativa, per il boom edilizio fra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, conosciuto come “il Sacco di Palermo”. La città aveva la necessità di espandersi per rispondere alla necessità di nuovi alloggi dopo le violente distruzioni del centro storico causate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e la maggiore pressione demografica, dovuta soprattutto alla migrazione dalle periferie. I nuovi alloggi vennero tuttavia creati sulla base di un Piano Regolatore risalente al 1885, attraverso la concessione di singole licenze edilizie che seguivano canali illeciti di accoglimento delle richieste, per di più demolendo edifici di carattere storico patrimoniale11. Si stima che fra il 1959 e il 1963 furono concesse dal

11 Emblematica la storia di Villa Deliella, abitazione progettata da Ernesto Basile che venne rasa al suolo in tempi record per evitare un intervento di salvaguardia della Sovraintendenza. La legge urbanistica allora vigente prevedeva infatti che gli edifici di valore storico-artistico fossero tutelati per cinquant'anni dalla rispettiva costruzione. Per Villa Deliella questo termine scadeva nella notte fra un sabato e una domenica, ma il lunedì, all'alba, della villa non restavano che poche macerie. Vaste sono le testimonianze della trasformazione che subì la città in quegli anni, in particolare, per quanto riguarda l'area della città in cui sorgeva Villa Deliella si segnalano le opere illustrate di Chirco A. e Di Liberto M., edite da Flaccovio fra il 1999 e il 2002., che documentano con foto, documenti e mappe le trasformazioni urbanistiche

56 consiglio comunale oltre 4mila licenze, per la maggior parte a soli cinque uomini. Il Piano Regolatore fu approvato solo nel 1962 quando ormai la possibilità di edificare illegalmente era ampiamente sotto il controllo dei politici mafiosi e degli amministratori collusi, che la rendevano legale attraverso il pagamento di tangenti e imponendo il racket delle braccia nei cantieri. “[...] quando il boom edilizio fini una vasta porzione del centro cittadino era ancora in rovina; buona parte del resto era ridotta alla condizione di slum semi abbandonato; e alcune delle più belle dimore private (sia barocche che Liberty) erano state demolite” (Dickie 2008, p.292)

Guardando all'esempio del “sacco di Palermo” lo studio della Fallone sui possibili effetti della “interferenza strutturata” della mafia nella conformazione urbanistica delle città acquista ancora più senso: “In una regione dalle immense potenzialità ambientali, culturali, economiche, questa interferenza strutturata, riscontrabile nella conduzione degli affari pubblici, ha negato irrimediabilmente la possibilità di un assetto organico e di una crescita sana delle città e del territorio, di cui è parte integrante e attiva, imponendo una gestione e un operato ispirato quasi del tutto alle logiche privatistiche e speculative, in contrapposizione proprio a quella politica volta a perseguire un interesse collettivo” (Fallone 2007, p.23).

2.4.1 Quale contrasto?

Lo stesso studio di Mariarosa Fallone cita fra gli strumenti di contrasto alla pervasività delle organizzazioni criminali sugli usi pubblici del territorio i beni confiscati alle mafie. Le misure di prevenzione patrimoniale contro la criminalità organizzata vengono infatti considerare “come uno strumento in grado di ri-immettere nel circuito del patrimonio collettivo i prodotti di una economia distorta attraverso la gestione pubblica dei beni confiscati” (Fallone 2007, p.25).

rispettivamente delle vie Ruggero Settimo, Notarbartolo e Libertà.

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E' opinione sempre più diffusione infatti che questi strumenti siano necessari per testimoniare l'azione dello Stato nel contrasto delle dinamiche di appropriazione di potere territoriale da parte delle mafie. Come avremo modo di approfondire nel corso di questa ricerca i beni confiscati testimoniano infatti sia la presenza di capitali e investimenti mafiosi, sia il radicamento territoriale di queste organizzazioni che parimenti un'azione repressiva efficace dello Stato, sia nei territori di tradizionale presenza mafiosa che quelli considerati di nuovo radicamento.

Come evidenzia Umberto Santino, per riuscire a contrastare il radicamento territoriale delle mafie è necessaria “una politica di sicurezza, […] deve svilupparsi all'interno di una strategia di appropriazione del territorio e delle sue risorse, da parte delle istituzioni e dei cittadini”. (Santino 1997, pp.138-148).

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CAPITOLO 3

I BENI CONFISCATI

Il legame delle mafie con il territorio è stato ampiamente approfondito. A corollario di questo legame vi è quello che i mafiosi hanno con il proprio patrimonio, la propria “roba”12. Per un mafioso nulla è più grave di perdere i propri possedimenti: “Basta essere incriminati per il 416 bis e automaticamente scatta il sequestro dei beni [...]Cosa più brutta della confisca non c‟è [...] la cosa migliore è quella di andarsene”13. La frase è del boss Francesco Inzerillo, che è stato intercettato mentre consigliava ai nipoti di trasferirsi in America. Le mafie agiscono per incrementare il loro potere e accumulare sempre più profitto: la confisca dei beni, per i boss, vuol dire vedere perduto il “lavoro” di una vita. Per questo motivo il sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti è così importante per la lotta alla criminalità organizzata. I beni confiscati alle mafie costituiscono un immenso patrimonio per il paese, in continua crescita. In questo capitolo si tratterà in primis delle disposizioni normative che permettono il riutilizzo di questi beni a fini sociali; successivamente invece si condurrà un‟analisi quantitativa sulla distribuzione e tipologia di beni immobili presenti nel territorio nazionale.

12 L‟attaccamento dei boss mafiosi ai propri beni sembra in molti casi quello tratteggiato da Giovanni Verga nella novella “La roba”. Il protagonista della novella, Mazzarò, dedica l‟intera vita ad accumulare “roba”, terreni e ricchezze che compra dal suo stesso padrone, con sacrificio e furbizia (non disdegnerà il furto nei confronti del padrone poco accorto). La novella si conclude con il dramma di Mazzarò che, rendendosi conto di essere sul punto di morire, non riesce ad arrendersi all‟idea di dover abbandonare la sua cara “roba” e vorrebbe portarla con se nell‟aldilà: “[...] Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vienitene con me!” 13 La frase di Inzerillo è stata registrata attraverso le intercettazioni telefoniche effettuate durante l‟operazione “Old Bridge”, conclusa nel Febbraio 2008 fra Italia e Stati Uniti (Frigerio, 2009)

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3.1 Uso sociale dei beni confiscati : cenni storici e normativi

L'uso sociale dei beni confiscati alle organizzazioni criminali è oggi possibile grazie ad alcune disposizioni normative che sono state introdotte e modificate nel corso degli anni, per permettere l'acquisizione e l'utilizzo migliore di questo enorme patrimonio a disposizione dello Stato. Si traccerà dunque un quadro dell'evoluzione storica e normativa che ha condotto all'affermazione di questa pratica, dalle prime formulazioni legislative fino alle più recenti disposizioni in materia.

3.1.1 La Legge “Rognoni – La Torre”: colpire la criminalità attraverso la confisca dei patrimoni illeciti

Il primo passo dell'attuale legislazione in termini di sequestro e confisca dei beni è rintracciabile nella legge 646/82, meglio nota come “Rognoni - La Torre14”, che, introducendo l'articolo 416 bis del codice penale, dà una prima definizione univoca del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso15. Applicata per la prima volta durante il maxiprocesso16, la legge introduce la confisca dei beni per coloro che fossero stati riconosciuti come mafiosi: “Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che

14 La legge prende il nome dai suoi promotori: l‟allora Ministro dell‟Interno Virgilio Rognoni e il Segretario del PCI Siciliano Pio La Torre. Quest‟ultimo fu il primo a cogliere la pericolosità di una mafia che si stava orientando verso una dimensione internazionale; cercò attraverso la sua azione da Deputato (tre legislature dal 1972 al 1981) e all‟interno della Commissione Parlamentare Antimafia di promuovere le sue analisi sull‟evoluzione del fenomeno mafioso e di proporre soluzioni legislative per porvi un freno. Egli tuttavia non riuscì a vederea compimento i suoi sforzi: fu ucciso in un agguato il 30 Aprile 1982, assieme al compagno di partito Rosario di Salvo. L‟omicidio era un chiaro segnale della mafia che voleva mettere freno all‟azione del Deputato. L‟attentato, tuttavia, non riuscì a frenare il disegno di legge, che venne approvato il 30 Settembre dello stesso anno. Per approfondimenti si rimand a al Centro Studi e iniziative Culturali Pio la Torre, www.piolatorre.it 15 «L‟associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri». L.646/82, art.416 bis 16 Il primo grande processo a Cosa Nostra per il numero senza precedenti di imputati e capi d'accusa prese il nome di Maxi Processo. Iniziato nel Febbraio del 1986, si concluse il 16 Dicembre del 1987 con l'esito straordinario della richiesta di diciannove ergastoli, oltre duemilaseicento anni di carcere e più di trecento condanne minori

60 ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l‟impiego” (comma 7 dell‟art. 416 bis). La legge rappresenta una “rivoluzione copernicana” (Frigerio, 2009) per le sue immediate ripercussioni e per la sua valenza strategica, perché ha intaccato profondamente il rapporto delle organizzazioni criminali con il territorio, mirando all‟“isolamento del sistema economico territoriale dell‟indagato” (Frigerio, Pati, 2009, p.37). Per completare le disposizioni della Rognoni – La Torre viene varata lo stesso anno la legge n.726/82, che introduce, fra le altre disposizioni, il sequestro e la confisca di quei beni per cui non sia stata dimostrata la legittima provenienza e l'istituzione di una Commissione Parlamentare d'inchiesta sul fenomeno mafioso. Tale impianto normativo introduce nel sistema italiano una nuova strategia di lotta alla criminalità, volta a minarne la forza economica : indagini patrimoniali, sequestro e confisca dei beni diventano parte di una strategia di attacco ai poteri mafiosi e ai patrimoni illeciti di cui dispongono le organizzazioni criminali. Tali strumenti infatti permettono di isolare l'accusato, anche dal punto di vista economico, dal contesto territoriale in cui vive e commette illeciti. Il soggetto accusato di far parte di un'associazione mafiosa non potrà intraprendere alcun tipo di attività imprenditoriale: le licenze decadranno o verranno sospese, così come eventuali concessioni di cui dispone. Queste disposizioni possono incidere profondamente sul legame fra le organizzazioni criminali e il territorio in cui esse operano, poiché tolgono loro le risorse necessarie per il controllo, per l'imprenditoria mafiosa17 e depauperano i patrimoni costruiti illecitamente. Tuttavia, i risultati ottenuti grazie alle nuove disposizioni normative sono stati meno clamorosi delle aspettative, anche a causa della complessità delle indagini patrimoniali necessarie per l'applicazione della legge, che prestavano il fianco a opposizioni da parte dell'indagato o dei suoi familiari. Inoltre, la mancanza di una progettualità circa l'utilizzo dei beni dopo la confisca ha fatto si che molti di questi siano stati lasciati in stato di abbandono, se non addirittura gestiti dai familiari degli stessi destinatari della confisca. E' facile comprendere quali fossero le conseguenze negative sia per la società civile che per il territorio : non solo non si concretizzava in alcun modo il “passaggio di proprietà” cui

17 Per approfondimenti sull'imprenditoria mafiosa e sugli effetti economici e sociali di questa sul territorio : CNEL “Monitoraggio legge 109/96” Maggio 1996

61 era stato coinvolto il bene e si mancava l'obiettivo di dare ai cittadini la sensazione di una maggiore presenza dello Stato, ma si concretizzava al contrario un vuoto progettuale che alimentava l'impressione di lontananza fra l'azione repressiva dello Stato e la vita quotidiana dei cittadini che abitano i territori ad alta incidenza mafiosa.

Il legislatore ha tentato di porre rimedio con il Decreto legge 14 giugno 1989 n. 230 intitolato “Disposizioni urgenti per l‟amministrazione e la destinazione dei beni confiscati ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575”, convertito con modificazione dalla legge 4 agosto 1989 n. 282. Questo aggiungeva alla procedura prevista dalla Rognoni – La Torre la nomina di un amministratore, che provvedesse alla conservazione e all'amministrazione dei beni confiscati. Ma la mancanza di reali poteri amministrativi e decisionali, nonché di mezzi economici e la mancata distinzione fra le tipologie di beni cui doveva garantire la salvaguardia, fecero della figura dell'amministratore un fallimento, poiché incapace di garantire la tutela sia del valore economico del bene, sia del suo valore simbolico. Si venne a determinare dunque una situazione di stallo, difficile da superare per mancanza di chiarezza legislativa e per l'assenza di procedure chiare e soprattutto ineccepibili per la destinazione finale dei beni (Rapporto CNEL, 2006).

3.1.2 La Legge 109/96: L'uso sociale dei beni confiscati

La confisca dei beni rappresentava, già nella sua prima formulazione legislativa, una pratica dalle incredibili potenzialità per la lotta alla criminalità organizzata. A difesa di questa pratica, e per la sua piena realizzazione si è mossa l'associazione “Libera nomi e numeri contro le mafie”18, che dal 1994 al 1995, ha condotto una campagna di sensibilizzazione e mobilitazione per far si che l'immenso patrimonio immobiliare acquisito dallo Stato, grazie all'attuazione della legge Rognoni - La Torre, non giacesse più in condizioni di abbandono, e impedendo altresì ogni possibile ritorno di tale patrimonio nella disponibilità delle famiglie cui era stato confiscato. Nasce così l'idea che questi beni,

18 Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie è nata il 25 marzo 1995 con l'obiettivo di sensibilizzare la società civile alla lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento che unisce tutte quelle realtà che sul territorio nazionale si oppongono alla criminalità organizzata: oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, presidi, etc. Tra i primi aderenti, oltre al Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, cui l'associazione resta fortemente legata, ci sono soggetti storici dell'associazionismo italiano. Per approfondimenti : www.libera.it

62 oltre ad essere un esito tangibile dell'azione repressiva dello Stato, potessero diventare anche l'occasione per dare avvio ad un'azione costruttiva da parte dello Stato stesso, che indebolisse il consenso e il potere territoriale della mafia. Viene proposto dunque che questi beni siano rimessi a disposizione della collettività, attraverso la destinazione a fini sociali, ovvero con l'affidamento dei beni ai Comuni, che a loro volta li avrebbero destinati ad associazioni ed enti attivi nel territorio. L'intento era di creare un effetto positivo diretto, derivante dall'utilizzo da parte di attori del territorio del bene confiscato, e allo stesso tempo raggiungere un effetto positivo indiretto, attraverso le ricadute positive di questo utilizzo nel territorio su cui insiste il bene (Faraone G., in Frigerio, Pati, 2007). L'azione di sensibilizzazione dell'associazione Libera sul tema dei beni confiscati porta alla raccolta di più di un milione di firme a sostegno di quella che sarà la legge di iniziativa popolare 109/96.

La legge 109, approvata il 7 marzo 1996, sancisce l'uso a fini sociali dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose e una più agevole procedura burocratica e amministrativa per l'assegnazione dei beni stessi. La legge, all'art.2- undici-es suddivide i beni fra le diverse tipologie e ne prevede i rispettivi riutilizzi; nello specifico distingue fra:

beni mobili (denaro contante, titoli, crediti, autoveicoli, etc. ) : vengono utilizzati per il risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso o altrimenti versati all‟Ufficio del Registro per alimentare il Fondo Provinciale presso le Prefetture, istituito dalla stessa legge; beni immobili (edifici, appartamenti, terreni, etc.) : possono essere mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile, oppure “trasferiti al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, per finalità istituzionali o sociali. Il comune può amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione a titolo gratuito a comunità, ad enti, ad organizzazioni di volontariato[...] a cooperative sociali […] , o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti […]. Se entro un anno dal trasferimento il comune non ha provveduto alla destinazione del bene, il prefetto nomina un commissario con poteri sostitutivi”;

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beni aziendali : sono mantenuti al patrimonio dello Stato e destinati all'affitto, “quando vi siano fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività produttiva, [...] a titolo oneroso a società e imprese pubbliche o private, [...] a titolo gratuito, senza oneri per lo Stato, a cooperative di lavoratori dipendenti dell'impresa confiscata” o alla vendita e alla liquidazione, qualora vi sia una maggiore utilità per l'interesse pubblico.

La legge quindi prevede l'istituzione di un fondo prefettizio, alimentato dai proventi delle vendite dei beni mobili19 e destinato a finanziare, anche parzialmente, progetti relativi alla gestione degli immobili confiscati, oltre che a specifiche attività: risanamento di quartieri urbani degradati, prevenzione e recupero di condizioni di disagio ed emarginazione, interventi nelle scuole per corsi di educazione alla legalità ed infine promozione della cultura imprenditoriale per i giovani disoccupati20. Tali fondi sono dunque destinati a Comuni, comunità, enti ed associazioni di volontariato, cooperative sociali, terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti e associazioni sociali che dimostrino di svolgere la propria attività da almeno due anni dalla richiesta di accesso al fondo. Malgrado la disposizione di legge, le prefetture che negli anni di previsione del fondo si siano attivate per la sua creazione sono state pochissime, aggravando la deriva una cronica insufficienza di risorse finanziare per la gestione dei beni assegnati. Un'ultima importante innovazione introdotta dalla legge 109/96 è la creazione di una banca dati relativa ai beni sequestrati e confiscati, allo stato dei procedimenti e infine alla destinazioni e utilizzo degli stessi beni. Questi dati dovranno essere inviati in una relazione semestrale dal Governo al Parlamento per monitorare l'andamento dei procedimenti.

L'intuizione che sta alla base dell'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati è profondamente innovativa. Bisogna, a tal proposito, guardare al momento storico ne quale viene formulata la Legge 109/96. Il contesto è infatti quello di un incredibile movimento civico nato in Sicilia come reazione alle grandi stragi di mafia degli anni '90. Questo movimento, che viene ricordato come la “Primavera Siciliana”21, si diffuse presto nel resto

19 Le somme versate all'ufficio del registro ai sensi dei commi 1 e 5 dell'articolo 2-undecies Legge 109/96 20 Art. 2-duodecies comma 15 Legge 109/96 21 «Negli anni peggiori del suo secolo, l‟esperienza storica siciliana tornò, comunque, a manifestare appieno, anche al positivo, la sua originaria e permanente contraddittorietà. Con grande slancio, riappare, e questa

64 del paese, e vide insegnanti, intellettuali e membri dell'associazionismo impegnati in incisive campagne di informazione e sensibilizzazione pubblica contro il sistema mafioso. Filo conduttore di tutte le azioni era la convinzione che fosse giunto il momento di contrastare in modo concreto, con un impegno il più possibile comune e condiviso, il potere delle organizzazioni mafiose nel Paese. “Si poteva e si doveva fare molto di più in ambito educativo, nell‟animazione democratica del territorio, per coinvolgere i cittadini nell‟affermazione della legalità quotidiana, nella realizzazione di quei principi costituzionali che sono l‟unico vero antidoto alla cultura mafiosa e all‟impresa illegale” (Frigerio, 2009, p.42).

Risulta dunque evidente come la 109/96 rifletta un nuovo approccio, positivo, alle strategie di contrasto alla criminalità organizzata: i beni confiscati diventano un'occasione di prevenzione, di sviluppo economico e sociale. L'intento di questa misura va oltre la necessità di mettere freno agli effetti invasivi delle ricchezze di origine criminale sul tessuto sociale ed economico di un determinato territorio; mira infatti ad eliminare l'immagine di prestigio e supremazia di cui i mafiosi godono nei territori che abitano e controllano, permette di rompere il loro legame con tale contesto, istituendo su quegli stessi luoghi delle nuove retoriche, positive, di governo del territorio. Se la legge Rognoni – La Torre aveva dimostrato che lo Stato poteva intaccare i patrimoni dei boss permettendo il loro isolamento economico, adesso la legge 109/96 rende l'azione dello Stato immediatamente riconoscibile, assegnando a questi beni una nuova valenza simbolica. “La destinazione a fini socialmente utili di beni immobili a conduzione mafiosa era il segnale più evidente e più importante che lo Stato inviava ai cittadini i quali, in forza della nuova legge, si appropriavano di ricchezze e di beni in precedenza loro sottratti con la violenza, gli omicidi, le attività criminali e delinquenziali” (Rapporto CNEL, 2007, p.11).

volta nelle dimensioni di una forza civile di massa, l‟altra Sicilia. Palermo assomigliava ancora a Beirut, ma si stava preparando a diventare più simile a Berlino […] «fu qualcosa di simile all‟apertura di un fronte non violento, ma energico e travolgente, di guerra civile» (Marino 2007, p.294 - 295)

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Si apre dunque con la legge 109/96 una nuova epoca della lotta alla criminalità organizzata, che unisce nell'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati strumenti repressivi e di prevenzione. Già la commissione antimafia della XIII Legislatura, la prima dopo l'introduzione delle nuove disposizioni di legge, nella relazione introduttiva22 all'apertura dei lavori, annovera i beni confiscati e il loro riutilizzo come strumenti fondamentali a disposizione dello Stato per contrastare il potere mafioso. “[…] Un secondo argomento che consideriamo centrale riguarda il tema del sequestro dei beni dei boss mafiosi. Il sequestro dei beni prodotti non dal lavoro e dall'intelligenza umana ma dall'attività criminale di varia natura è uno dei punti che ha costituito nel corso di questi anni probabilmente l'elemento di maggiore successo di immagine nella battaglia dello stato contro la mafia. […] Costituisce un elemento di grande immagine della capacità dello Stato di applicare una linea repressiva efficace nei confronti della mafia” (Violante, 1997,pp.241-242).

La componente simbolica dei beni confiscati è forse la caratteristica più importante: nei territori ad alta densità mafiosa permette infatti di creare un'antagonista alla signoria territoriale mafiosa. L'utilizzo di tali beni, da parte di attori del territorio che operano nel sociale, crea dei simboli tangibili, per chi vive nel territorio stesso, e dimostra che il potere mafioso non è intaccabile e che lo Stato può combatterlo, riappropriandosi del controllo e garantendo al cittadino una migliore qualità della vita. Questi beni, una volta entrati nella vita quotidiana di una collettività, ad esempio perché utilizzati come centri ricreativi, piuttosto che sedi di associazioni o di comunità per anziani, diventano l'esempio di come sia vivere il territorio in una forma diversa, nel segno della legalità e della giustizia. La valenza simbolica della confisca dei beni viene riconosciuta ampiamente, anche dallo stesso Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, nella relazione su citata, come elemento fondamentale per la credibilità dell'azione dello Stato : “[...] Ad esempio, nelle realtà dove si è deciso con i proventi dei beni confisca di aprire commissariati di polizia, stazioni dei carabinieri o centri di attività di

22 Piattaforma programmatica presentata all'Ufficio di Presidenza, Approvata il 9 gennaio 1997 , Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, Relazione a cura del Presidente Ottaviano Del Turco, in Violante (a cura di) ,1997, pp.241.242

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volontariato, che sono le scelte più diffuse in questo campo, il segno della vittoria dello Stato mi pare più evidente: quando la gente si rende conto che laddove il mafioso prima abitava, conduceva la sua vita di ozio e godendo la sua tranquilla ricchezza, c'è un insegna del commissariato di polizia o del comando dei carabinieri, il segno della vittoria dello Stato è più evidente e il risultato è di natura sicuramente più stabile nella coscienza della gente che assiste a questi fenomeni” (ibidem).

Il riutilizzo a fini sociali, inoltre, esprime più di ogni altro utilizzo la possibilità di riscatto culturale, sociale ed economico di un territorio ad alta incidenza mafiosa: “La destinazione a fini socialmente utili di beni immobili a conduzione mafiosa era il segnale più evidente e più importante che lo Stato inviava ai cittadini i quali, in forza della nuova legge, si appropriavano di ricchezze e di beni in precedenza loro sottratti con la violenza, gli omicidi, le attività criminali e delinquenziali” (Rapporto CNEL 2007, p.11).

E' proprio in chiave di “sviluppo comunitario” che Libera ha promosso questa legge: attraverso l'appropriazione da parte della collettività dei beni appartenuti ai boss, attraverso la realizzazione, all'interno di questi beni, di progetti rivolti alla comunità, questa avrà modo di sperimentare uno sviluppo alternativo, libero dal controllo mafioso. Esemplare in questo senso è il riutilizzo dei beni per l'avviamento di imprese sociali, che permette uno sviluppo economico dei territori che coniughi priorità etiche e di legalità, creando una reale possibilità di riscatto socioeconomico nei territori in cui si situano, caratterizzati spesso da arretratezza economica e da forte disoccupazione. A questi beni viene in definitiva riconosciuto un importantissimo ruolo : “per contrastare il potere di condizionamento economico e sociale che le mafie hanno verso i territori dove si insediano attraverso l'uso spregiudicato del denaro e della violenza, lo strumento più efficace è la crescita comunitaria. […] Il riutilizzo sociale dei beni confiscati, quindi, che coniuga insieme aspetti pratici e simbolici, è un ottimo strumento di crescita comunitaria immediatamente percepibile come in antitesi allo sviluppo mafioso” (Faraone G. in , in Frigerio L., Pati D., 2007, p. 64) .

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3.1.3 Criticità del processo di confisca e assegnazione ed innovazioni normative

La responsabilità dell'efficacia della procedura di riutilizzo a fini sociali è dei destinatari dell'assegnazione, che dispongono del bene confiscato come mezzo per il riscatto socioeconomico del territorio su cui insistono, cui è stato affidato il compito di coinvolgere gli altri attori del territorio e la popolazione, nel segno della legalità, professionalità e anche creatività nell'utilizzo. Tale responsabilità, tuttavia, non può essere lasciata esclusivamente ai soggetti assegnatari dei beni, poiché data la loro specifica natura, questi necessitano un supporto da parte dello Stato che non può esaurirsi al momento dell'assegnazione. Le difficoltà inerenti al riutilizzo dei beni confiscati sono infatti molteplici, e si concretizzano sia prima dell'effettivo riutilizzo, sia successivamente, una volta che il bene è attivo nelle sue nuove funzioni. In alcuni casi infatti, persistono resistenze da parte del contesto ambientale e opposizioni, perpetrate anche con minacce, violenze e deturpazioni, da parte degli appartenenti alle organizzazioni criminali i cui aderenti sono stati colpiti dalle confische. Come viene sottolineato nel rapporto dell'Agenzia Nazionale per i beni sequestrati e confiscati : “ […] i Sindaci di particolari realtà hanno spesso difficoltà che vanno oltre quelle che noi definiamo criticità dei beni, perché si muovono in un contesto ambientale inquinato o almeno in parte ostile, scontando una realtà amministrativa non sempre completamente trasparente, che fa fatica a interpretare gesti coraggiosi. […] In queste condizioni, come si può chiedere ad un Sindaco della locride, per fare solo un piccolo esempio, di destinare un bene a fini sociali (un appartamento o un piccolo pezzo di terreno) quando la persona cui è stato sottratto è ancora lì, o in piazza i suoi parenti ed amici? (Rapporto ANBS, 2010, pp. 30-31)

Per quanto riguarda invece le difficoltà burocratiche e amministrative che precedono l'effettiva assegnazione dei beni confiscati, nel luglio del 2005 la Corte dei Conti ha effettuato un'indagine relativa alla «attuazione delle disposizioni sulla

68 riutilizzazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata - legge n. 109 del 1996» la cui relazione finale23 disegna un quadro sintetico ed efficace delle criticità, in particolare : a) difficoltà connesse alla fase giurisdizionale del sequestro e della confisca (ad es. ritardata trascrizione dei decreti di sequestro e/o confisca e comunicazione tardiva dei decreti definitivi di confisca da parte delle cancellerie); b) difficoltà relative alla gestione dei beni (beni occupati, fabbricati abusivi, sussistenza di diritti di terzi - quali le ipoteche, possesso di quote indivise del bene confiscato); c) problematiche relative alla fase di utilizzazione dell‟immobile confiscato (disinteresse degli amministratori, mancanza di finanziamenti per la ristrutturazione); d) problematiche inerenti la gestione delle aziende. La Corte dei Conti, nelle conclusioni della sua relazione, ha inoltre sottolineato che i tempi procedurali sono scarsamente rispettati, con conseguenti ritardi nel concreto riutilizzo dei beni e con la mancata realizzazione degli obiettivi cui tendeva il legislatore con la legge 109/96.

L'intervento della Corte dei Conti non è stato l'unico a sottolineare la necessità di organizzare un coordinamento più efficace dell'immenso patrimonio costituito dai beni confiscati. Questa necessità aveva infatti portato già alla costituzione di un Osservatorio permanente sui beni confiscati e nel 1999 all'istituzione di un Ufficio del Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali, con lo scopo di assicurare una regia unica fra gli enti e le amministrazioni coinvolte in materia, nonché il collegamento funzionale fra queste e le realtà associative interessate alla gestione e destinazione dei beni. Benché la gestione commissariale abbia dato risultati notevoli rispetto alla precedente, come lo stesso rapporto della Corte dei Conti del 2005 sottolinea, era indispensabile un passo avanti nell'ottimizzazione della gestione del patrimonio beni confiscati.

23 Relazione del 12 Luglio 2005

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Bisogna sottolineare inoltre che la legge Finanziaria del 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296) ha ampliato la platea dei destinatari dei beni, affiancando a Stato e Comuni anche Province e Regioni come possibili assegnatari dei beni confiscati24 . Un tale ampliamento rendeva ancora più urgente una gestione ottimale e soprattutto unitaria del patrimonio dei beni confiscati. Questo passo sarà realizzato attraverso l'istituzione, con legge n.50 del 31 marzo 2010, dell'Agenzia Nazionale per l'Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC). All'Agenzia vengono dunque demandate tutte le competenze prima facenti capo alle diverse autorità: Agenzia del Demanio, Prefetti e Commissario straordinario. La costituzione di questa Agenzia, fortemente voluta da Libera25, permette dunque di affidare ad un solo organismo la duplice funzione di amministratore giudiziario e di titolare del potere di destinazione dei beni, superando così quello che era il maggiore ostacolo ad una rapida ed efficace destinazione dei beni, che risiedeva proprio nella separazione e mancanza di coordinazione fra i due poteri. Dal primo rapporto annuale dell'ANBSC, che traccia un bilancio dell'attività e della mission dell'Agenzia, si può cogliere la portata di questa innovazione, in termini di maggiore trasparenza ed efficienza nell'assegnazione dei beni stessi: “La scelta che Governo e Parlamento hanno realizzato con l‟istituzione dell‟Agenzia Nazionale per l‟amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata segna, nel contrasto ai patrimoni mafiosi, un momento di svolta strategica frutto della consapevolezza, da parte di tutte le forze politiche, della necessità di un‟azione forte che, da un verso, ribadisce la presenza dello Stato sul territorio e, dall‟altro, favorisce la crescita della società

24 Legge 27 Dicembre 2006 n.296, all' art.1 modifica il testo della legge 31 maggio 1965, n. 575, disponendo che i beni confiscati possano essere: «b) trasferiti per finalità istituzionali o sociali, in via prioritaria, al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, ovvero al patrimonio della provincia o della regione. Gli enti territoriali possono amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione a titolo gratuito a comunità, ad enti, ad associazioni maggiormente rappresentative degli enti locali, ad organizzazioni di volontariato [...], a cooperative sociali […], o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti […], nonché alle associazioni ambientaliste […].Se entro un anno dal trasferimento l'ente territoriale non ha provveduto alla destinazione del bene, il prefetto nomina un commissario con poteri sostitutivi». 25 La proposta venne avanzata già dal 2006, come si legge dal manifesto degli Stati Generali dell‟Antimafia del 19.11.06 e del 25.10.09 si propone l‟istituzione di “un‟agenzia nazionale per la gestione dei beni sottratti alle mafie, in modo da assicurare rapidità e trasparenza nell‟assegnazione delle ricchezze restituite alla collettività”. Successivamente venne supportata anche Commissione parlamentare antimafia e dal Commissario Straordinario per i beni confiscati, come si evince dalla relazione annuale del 2009.

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nazionale e dei territori senza subire, come troppo spesso è accaduto e ancora accade, intimidazioni e condizionamenti della criminalità. […]Ma la normativa, nata l‟anno passato, ha davvero segnato una scelta di profonda innovazione, perché concentrando nella neonata Agenzia Nazionale l‟attività di amministrazione e quindi di valorizzazione e di destinazione dei beni, rafforza e non indebolisce l‟opera dell‟Autorità Giudiziaria”(Rapporto ANBSC, 2010, p.5).

L'amministrazione dei beni viene dunque attribuita all'Agenzia Nazionale (non più all'Agenzia del Demanio territorialmente competente) che ha il compito di censire i beni sequestrati e confiscati, amministrarli, custodirli e in seguito destinarli, attraverso diversi canali : a) la devoluzione delle somme (derivanti dai beni mobili) allo Stato; b) la vendita (per le aziende e in via estremamente residuale per gli immobili) ovvero l'affitto; c) il mantenimento al patrimonio dello Stato (per i beni immobili); d) il trasferimento (per i beni immobili) al patrimonio del comune ovvero ad altri enti locali, con successiva possibile assegnazione ad associazioni e cooperative sociali. (Menditto, 2010, p.4)

Bisogna ricordare che nei mesi precedenti l'approvazione della legge che istituisce l'Agenzia era stato introdotto un emendamento alla Legge Finanziaria che prevedeva la vendita dei beni confiscati non destinati entro 180 giorni dalla confisca definitiva. Contro l'emendamento, che nei fatti rischiava di porre fine all'esperienza di riutilizzo sociale e di restituire i beni a chi erano stati sottratti, c'è stata una mobilitazione che ha coinvolto partiti politici e società civile. Raccolte firme26 e un interrogazione parlamentare bipartisan per il ritiro dell'emendamento hanno convinto il Governo ha fare retromarcia. In sede di conversione del decreto, sono state infatti accolte le proposte di modifica

26 “L‟associazione Libera ha lanciato una raccolta firme che ha già collezionato 35mila adesioni e nella mattina del 24 novembre ha organizzato un‟asta simbolica. Nella stessa direzione si è mossa Avviso Pubblico, la rete di 180 enti locali impegnati in azioni di prevenzione e contrasto all‟infiltrazione mafiosa, mentre si moltiplicano gli ordini del giorno di Regioni, Province e Comuni contrari all‟emendamento. Sono poi più di trecentocinquanta i familiari di vittime di mafia che hanno sottoscritto una lettera indirizzata al presidente della Camera Fini, della Commissione antimafia Pisanu e ai capigruppo alla Camera.” Narcomafie 10 Novembre 2009

71 bipartisan, arginando così il rischio della vendita e conducendo all‟approvazione unanime della legge che istituisce l‟Agenzia Nazione. La vendita dei beni viene dunque riservata a casi limite e secondo una serie di disposizioni particolari volte a evitare che l‟immobile o l‟azienda non torni ai suoi precedenti proprietari tramite prestanome. Infine, l'istituzione dell'Agenzia ha inoltre introdotto delle modifiche rispetto alla destinazione degli immobili, destinando i beni solo “a seguito di una manifestazione d‟interesse che descriva un‟idea-progetto sulla loro destinazione e solo liberi da criticità o con gravami comunque consapevolmente accettati” (Rapporto ANBSC, 2010, p. 29) al fine di un'assegnazione funzionale e condivisa con chi amministra il territorio e che riesce a fornire un'idea progettuale della loro destinazione.

3.2 Statistiche e dati quantitativi sulla rilevanza del fenomeno

Sembra opportuno a questo punto chiarire la dimensione del fenomeno cui facciamo riferimento e la distribuzione geografica dei beni confiscati presenti nel territorio italiano. Come si è chiarito con il precedente excursus storico sono stati necessari anni e diversi interventi legislativi per un'efficiente gestione dei beni confiscati. Verrà tracciata dunque l'evoluzione quantitativa del fenomeno, circa le confische effettuate e i beni destinati. Per condurre quest'analisi sono stati utilizzati i dati ufficiali forniti dal Senato della Repubblica attraverso le relazioni sulla “consistenza, destinazione, utilizzo dei beni sequestrati o confiscati e dei procedimenti di sequestro e confisca” che vengono effettuate ai sensi della legge 109/96 ogni semestre. Per quanto riguarda invece la situazione attuale dei beni confiscati si farà riferimento ai dati forniti dall'Agenzia Nazionale, che vengono aggiornati periodicamente sul sito dell'Agenzia stessa. Come verrà approfondito in seguito, nonostante i tentativi ripetuti, negli anni, di arrivare a dei monitoraggi dei beni confiscati il più possibile completi ed affidabili, vi è ancora molto lavoro da fare prima che le fonti siano tutte uniformate e le banche dati risultino completamente armonizzate.

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3.2.1 La Banca dati del Ministero della Giustizia

Prima dell'introduzione della Legge 109/96 non vi era un monitoraggio a livello nazionale circa la consistenza del patrimonio ottenuto tramite procedura di confisca alle organizzazioni criminali: la raccolta dati era rimessa alla libera iniziativa delle diverse amministrazioni interessate, ciascuna delle quali aveva creato sistemi di rilevazione ad hoc. La mancanza di un coordinamento a livello nazionale portava tuttavia alla creazione di rilevazioni diverse, relative a momenti diversi delle varie fasi della procedura di confisca e organizzate sulla base di categorie differenti, producendo cosi serie di dati poco coerenti e poco confrontabili fra loro, poco adatti dunque a fornire un quadro complessivo della situazione dei beni in possesso dello Stato. Fra le disposizioni della Legge 109/96, come accennato nel precedente paragrafo, vi è la previsione di una banca dati nazionale, predisposta dal Ministero della Giustizia, per effettuare un monitoraggio dei beni confiscati, al fine di redigere una relazione semestrale del Governo al Parlamento sullo stato dell'arte, consultabile sul sito internet del Senato della Repubblica. Grazie a questo costante monitoraggio è stato possibile creare una banca dati, strutturata in modo uniforme attraverso l'adozione del Regolamento circa la "disciplina della raccolta dei dati relativi ai beni sequestrati o confiscati" emanato il 24 Febbraio 1997 con Decreto del Ministero della Giustizia, da adottare di concerto con le altre amministrazioni interessate (Difesa, Finanze, Interno e Tesoro). In sinergia con il Commissario Straordinario del Governo prima e con l'Agenzia Nazionale per i beni confiscati successivamente, il Ministero della Giustizia ha dunque potuto raccogliere dati concernenti lo stato dei processi per sequestro o confisca, nonché dati inerenti alla consistenza, alla destinazione o all'utilizzazione dei beni sequestrati o confiscati. Nel corso degli anni è stata poi messo a punto un sistema informativo che mette in rete tutte le Prefetture e Procure dell‟Italia Meridionale (sistema informativo SIPPI), al fine di centralizzare la gestione di tutte le informazioni riguardanti i beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali. L‟introduzione di questo sistema ha comportato un aggiornamento della Banca Dati, ancora soggetto di aggiustamenti e correzioni. Analizzando quindi i dati forniti dal Ministero della Giustizia, Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Direzione Generale della Giustizia Penale – Ufficio I Reparto Dati Statistici e

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Monitoraggio, è possibile tracciare un quadro complessivo della progressiva crescita del patrimonio di beni di provenienza criminale27. Le analisi di seguito proposte sono dunque il risultato di una selezione ed elaborazione dei dati forniti dal Ministero della Giustizia; ciascun grafico che verrà presentato fa riferimento ad una tabella di dati, consultabile in appendice (§Appendice B).

3.2.2 Le confische e le destinazioni al 31 Ottobre 2010

I beni sequestrati e confiscati presenti nella banca dati al 31 Ottobre 2010 risultano essere 69.667. Confrontando questo dato con quello della precedente rilevazione risulta evidente il trend di crescita dei procedimenti: sono infatti ben settemila i beni in più rispetto alla rilevazione, al 30 aprile 2010, che contava 62.551 beni. Per quanto riguarda la loro distribuzione geografica il dato che risulta evidente è la maggiore presenza nell'area insulare, con una netta prevalenza non solo rispetto al resto d'Italia, ma anche nei confronti dell'area Meridionale, sopravanzata di quasi cinquemila beni. Il resto d'Italia mantiene infatti una quota di beni marginale rispetto le suddette aree geografiche: la somma dei beni del Nord e del Centro corrisponde a 8.316 beni, poco meno del 12% del totale nazionale (Senato della Repubblica, XVI Legislatura Doc. CLIV n.5, p. 14).

Tabella 1 Distribuzione dei beni per Aree Geografiche_ dati al 31 Ottobre 2010 §Tabelle 3-4-5 Appendice B

In ultima analisi, per quanto riguarda la distribuzione geografica, è importante sottolineare che i procedimenti di sequestro e confisca continuano a crescere in aree geografiche non tradizionalmente interessate dal fenomeno mafioso.

27 In particolare si farà riferimento alla “Relazione sulla consistenza, destinazione e utilizzo dei beni sequestrati o confiscati e sullo stato dei procedimenti di sequestro e confisca”, Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Doc. CLIV n.5.

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Rispetto alla rilevazione semestrale precedente, si registrano incrementi di procedimenti che, sebbene vengano classificati dal rapporto come “minimi”, sembrano tuttavia importanti segnali che non dovrebbero essere sottovalutati. Questi incrementi riguardano nello specifico i distretti di Roma (+20 procedimenti), Milano (+19 procedimenti) e Torino (+ 14 procedimenti) (Senato della Repubblica, XVI Legislatura Doc. CLIV n.5, p. 10).

Guardando nello specifico ai diversi gradi di giudizio, cui vengono sottoposti i beni prima della confisca definitiva e destinazione, si nota un forte divario tra i decreti di primo grado e i provvedimenti dei gradi successivi di giudizio. Dalla seguente tabella, si può notare come, sebbene il numero di beni con provvedimento di primo grado aumenti in modo quasi costante ogni anno, (solo il 2008 fa eccezione) solo una parte dei beni sottoposti a procedura di confisca giunge in cassazione (e dunque a confisca definitiva):

Numero dei beni suddivisi per grado di giudizio e anno periodo di riferimento 2006-2010 2006 2007 2008 2009 2010 Beni sottoposti a Decreto 1.620 4.620 3.362 5.978 7.039 Beni sottoposti a Decreto II grado 1.329 896 381 781 1.072 Beni sottoposti a provvedimento della Cassazione 496 460 548 650 527

Tabella 2 Beni per provvedimento di giudizio; Senato della Repubblica, XVI Legislatura Doc. CLIV n.5, p.20

Nel complesso, il totale dei beni che sono stati inseriti nella banca dati del Ministero, che riassume dunque i beni provenienti dai diversi gradi di giudizio, sembra crescere sensibilmente negli anni. In relazione al quinquennio 2006 – 2010, come mostra il grafico n.11, la crescita è ancora più evidente, e corrisponde ad un periodo di importanti operazioni investigative28 (basti pensare all'arresto del noto boss mafioso siciliano Bernardo Provenzano) che hanno portato al sequestro di ingenti patrimoni criminali.

28 Per una più accurata analisi delle operazioni di rilievo ai danni delle organizzazioni criminali la Direzione investigativa Antimafia mette a disposizione dei report sulle attività svolte, consultabili al sito http://www.interno.it/dip_ps/dia/pagine/foto_bilancio1.htm. Url consultata l‟ultima volta il 10 Ottobre 2011.

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Grafico 1 Andamento del numero di procedimenti di sequestro e confisca inseriti nella Banca Dati del Ministero della Giustizia; Periodo 2006 - 2010. §Tabella n.1 Appendice B

Prima di analizzare nello specifico i beni sottoposti a confisca può essere utile dare un corrispettivo valore monetario al patrimonio proveniente dai procedimenti di sequestro e confisca: la Direzione Investigativa Antimafia (DIA) stima che questo sia superiore ai 13 miliardi e mezzo di euro, così suddivisi per categoria di procedimento e organizzazione mafiosa da cui provengono:

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Tabella 3 Valore monetario di Sequestri e Confische. Fonte dati Direzione Investigativa Antimafia

Tornando dunque ai beni confiscati, questi rappresentano sul totale di beni presenti nella banca dati del Ministero oltre il 34% , corrispondente a 23.712 beni, composti da: beni soggetti a confische non definitive (12.385); beni che hanno raggiunto la confisca definitiva (7.009) ma non sono ancora stati destinati; beni che hanno ricevuto il decreto di destinazione (4.318) ( XVI Legislatura, Doc. CLIV n.5, p. 22).

E' utile ricordare che il procedimento di confisca definitiva rappresenta il primo passo per l'assegnazione definitiva dei beni, e dunque per la loro restituzione alla società, attraverso l'assegnazione allo Stato, ai Comuni o agli enti Provinciali e Regionali che ne fanno richiesta. Come si evince già da questi primi dati, tuttavia, la maggior parte dei beni sottratti alla criminalità organizzata, nel periodo in esame, sono in attesa di una destinazione d'uso, per motivi che possono essere riconducibili a lungaggini burocratiche, alle condizioni in cui versa il bene stesso (ad es. gravati da ipoteche), ad un difficile raccordo fra i vari enti e amministrazioni preposte, ed altri ostacoli che si spera verranno superati con la piena operatività dell'Agenzia Nazionale per i beni confiscati. Ai fini di questa ricerca ci si soffermerà dunque sui beni immobili che sono stati sottoposti a confisca definitiva, dunque non suscettibili di ulteriori sviluppi se non il decreto di destinazione.

E' possibile notare dal grafico seguente (n.2) come i dati relativi al periodo antecedente la legge 109/96 mostrino un numero esiguo di immobili confiscati, dati che rispecchiano le difficoltà nel raggiungimento di una confisca definitiva attraverso la legislazione

77 precedente, che come abbiamo già accennato, richiedeva lunghe procedure di verifiche patrimoniali.

Grafico 2 Beni immobili sottoposti a confisca definitiva. Periodo 1985 - 2010.§Tabella n.2 Appendice B

Il trend cambia in modo evidente a partire dal 1996, quando i numeri dei beni immobili che giungono a confisca definitiva cominciano a crescere sensibilmente, fino a picchi di più di 200 beni nel 2001. L'andamento, sempre su cifre oltre il centinaio, rimane costante più o meno fino al 2008, quando si raggiunge un altro notevole picco di 237 beni definitivamente confiscati, per mantenere poi un livello costante che supera le 200 confische definitive per anno.

Le confische definitive riguardano tre tipologie di immobili: Terreni (agricoli, con fabbricati rurali, terreni edificabili);

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Unità Immobiliari per uso abitativo o similari (appartamenti in condominio, abitazioni indipendente, palazzi di pregio, ville, garage, autorimesse, altro); Unità Immobiliari a destinazione commerciale (negozi, botteghe, stabilimenti, stalle, fabbricati industriali, depositi, laboratori, altro); Altre unità immobiliari o per usi collettivi ( fabbricati in corso di costruzione, collegi, convitti, case di cura, alberghi, pensioni, etc.).

Grafico 3 Tipologia di beni sottoposti a confisca definitiva. Periodo 1985 - 2010 §Tabella n.2 Appendice B

Nel periodo per cui sono disponibili dati, ovvero dal 1985 al 2010, come si evince dal grafico n.3, la tipologia d'immobile più rappresentata è l'unità immobiliare per uso abitazione. Sebbene sia rilevante anche la percentuale di terreni (38%) è da sottolineare

79 che, per i dati di cui disponiamo, non è possibile rintracciare l'estensione di ciascun terreno: questi vengono inseriti come singole unità, senza altre specifiche se non il valore economico, che tuttavia non è stato preso in considerazione in questa analisi.

Per quanto riguarda infine la distribuzione geografica dei beni confiscati in via definitiva, si conferma il dato della maggior presenza nelle regioni sud insulari, come mostra il grafico seguente (grafico n.4):

Grafico 4 Immobili confiscati suddivisi per Regioni. Periodo 1985 - 2010. §Tabelle n.3-4-5 Appendice B

E' importante sottolineare che, al 31 Ottobre 2010, in molte regioni d'Italia non vi è alcun bene sottoposto a confisca definitiva, mentre ve ne sono altre ad alta concentrazione di

80 beni confiscati, situazione che, come vedremo in seguito, cambierà nelle successive rilevazioni. Passando ora all'analisi dei beni destinati, è necessario precisare che i dati in esame, sempre elaborati per il Senato della Repubblica dal Ministero della Giustizia, sono aggiornati al 31 Luglio 2010, e non al 31 ottobre come tutti gli altri.

I beni sottoposti a confisca definitiva, come anticipato in precedenza, possono essere destinati allo Stato o ai Comuni, e più recentemente anche agli altri enti (Province, Regioni) che ne fanno richiesta. Queste ultime categorie, tuttavia, sono ancora da considerare come residuali rispetto alle tipologie di destinazione principale, che restano a favore dello Stato o dei Comuni.

I beni mantenuti nel patrimonio dello Stato vengono principalmente utilizzati per: motivi di ordine pubblico (77%); per motivi di Giustizia (1%); Protezione Civile (9%); destinati all'affitto, alla vendita o alla liquidazione (13%). (Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Doc. CLIV n.5, p. 29).

Per quanto riguarda invece i beni destinati ai Comuni questi vengono impiegati per: scopi sociali ( 63%) finalità istituzionali (37%); (XVI Legislatura, Doc. CLIV n.5, p. 30). Sotto la voce finalità istituzionali sono raggruppate diverse tipologie d'utilizzo quali: emergenza abitativa, uffici, depositi, sede di vigili urbani, scuole, canili, altro; mentre la voce scopi sociali verrà analizzati in seguito nel dettaglio.

E' interessante notare come negli anni, all'aumento del numero dei beni destinati, si sia confermata una maggiore destinazione d'uso per i Comuni piuttosto che per lo Stato, come mostra il grafico n.5:

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Grafico 5 Destinazione dei beni confiscati a Sato o Comuni. Periodo 1992 - 2010.§Tabella n.6 Appendice B

La destinazione ai Comuni, oltre che rispondere alle intenzioni della legge 109/96 risponde anche alla necessità delle amministrazioni locali di sostenere quei soggetti territoriali, come le organizzazioni di volontariato, associazioni e cooperative sociali, che possono usufruire di un vantaggio finanziario grazie all'affidamento in comodato d'uso gratuito di locali ove operare.

Dal grafico n. 6 è possibile notare come la tipologia di destinazione a fini sociali dei beni comincia ad affermarsi già nel periodo immediatamente successivo all'entrata in vigore della legge 109/96 . Una straordinaria crescita delle destinazioni a fini sociali fra il 2006 e il 2008 per poi, negli anni più recenti, tornare a cifre più modeste, cifre dovute probabilmente anche alle successive modifiche nelle procedure in vigore da quando è stata creata l'Agenzia Nazionale.

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Grafico 6 Andamento destinazioni dei beni per finalità sociali. Periodo 1992 - 2010.§Tabella n.7 Appendice B

Bisogna ricordare inoltre che dal 2007 viene aperta la possibilità di ricevere beni confiscati anche per le Provincie e le Regioni, e vengono ampliate anche le destinazioni d‟uso, inserendo anche le agenzie fiscali, le università statali, enti pubblici e istituzioni culturali. E‟ dunque ipotizzabile che, una volta entrate a pieno regime le nuove disposizione che prevendono l‟ampliamento delle categorie di utilizzo dei beni confiscati, la destinazione a fini sociali abbiano subito una battuta d‟arresto. Tuttavia si tratta esclusivamente di ipotesi, non avendo dati certi circa le motivazioni diverse che spingono ai diversi utilizzi dei beni confiscati ed essendoci, in ogni caso, ampia discrezionalità, per gli enti preposti, nella scelta delle possibili destinazioni d‟uso.

Alla destinazione dei beni confiscati per finalità sociali, in ogni caso, corrispondono diverse tipologie di utilizzo, secondo le previsioni della Legge 109/96.

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Dal grafico n.7 è possibile notare che i due maggiori utilizzi sono rispettivamente come sede di associazioni (40%) e per altre utilità sociali (22%):

Grafico 7 Tipologia di utilizzo dei beni destinati per finalità sociali. Periodo 1996- 2010. §Tabella n.7 Appendice B

Da questa analisi sembra dunque che i soggetti territoriali attivi nelle zone caratterizzate da alta concentrazione di beni confiscati abbiano recepito bene l'intento della Legge 109/96, cercando di sfruttare a pieno l'opportunità che questi beni rappresentano per il territorio, una volta pronti alla destinazione. E' indubbio che, una positiva risposta del territorio e una sempre maggiore richiesta di utilizzo di questi beni possa in qualche modo influire positivamente su una loro rapida destinazione .

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3.2.3 La situazione al 1 Settembre 2011

Per completare la panoramica sulla consistenza del patrimonio dei beni confiscati analizzeremo dunque lo stato dell'arte attuale, attraverso i dati forniti dall'Agenzia Nazionale dei beni confiscati. I dati, disponibili sul sito internet dell'Agenzia Nazionale e aggiornati al 1 Settembre 2011, mostrano come il totale dei beni confiscati sia giunto a 11.640 , di cui 10.182 immobili, e 1.458 aziende. Questi dati confermano una crescita delle confische: nei soli otto mesi dalla pubblicazione della prima relazione annuale sull'attività dell'Agenzia Nazionale29, aggiornata al 31 Dicembre 2010, i beni confiscati ammontavano complessivamente a 9.857, che corrisponde a un incremento del 3,2% in pochi mesi. Dei 10.182 beni in gestione all'Agenzia Nazionale aumenta sensibilmente il numero totale degli immobili destinati: gli immobili destinati e consegnati sono infatti 5.702 e solo 877 sono in attesa di essere consegnati. Per gli immobili che risultano ancora in gestione all'Agenzia, le criticità di destinazione sono da rintracciare per lo più in gravami ipotecari, comproprietà di quote indivise, azioni giudiziarie e appartenenza ad aziende confiscate.

Le novità più rilevante rispetto ai dati forniti dal Ministero della Giustizia riguarda la distribuzione geografica dei beni: si conferma l'alta percentuale al Sud con 82,77%, dei beni, segue il Nord con il 11,37% e infine il Centro con il 5,87% dei beni. Fatte salve la Valle d'Aosta e l'Umbria, vi sono immobili confiscati in ciascuna regione d'Italia, in circa il 10% dei comuni italiani è presente almeno un bene confiscato, come è possibile notare dal grafico n.8.

29 Rapporto “Un anno di attività”, Agenzia Nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, 2011

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Grafico 8 Distribuzione geografica dei beni confiscati al 1 Settembre 2011. §Tabella n.8 Appendice B

La differente distribuzione geografica, rispetto ai dati cui facevamo riferimento nel precedente paragrafo, ovvero quelli aggiornati al 31 ottobre 2010 forniti dal Ministero della Giustizia, è da rintracciare in più motivazioni concorrenti. Prima di tutto bisogna ricordare che la stessa Banca Dati del Ministero è stata da poco rinnovata, nelle categorie e nei modi in cui vengono recepiti i dati, per cui è ancora in fase di perfezionamento (Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Doc. CLIV n.5, p.9). Sicuramente inoltre non sono da sottovalutare i progressi dell'attività investigativa e giudiziaria nel sequestro dei patrimoni illeciti: basti pensare che solo nel 2010 le operazioni della DIA hanno permesso di acquisire al patrimonio dello Stato beni per un valore stimato di circa 15 milioni di euro. Come avremo modo di approfondire in seguito, inoltre, è proprio negli ultimi anni che le operazioni investigative hanno potuto mettere in luce la penetrazione delle organizzazioni criminali anche in territori e regioni che storicamente non erano state coinvolte dal fenomeno, se non marginalmente.

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Infine, non bisogna dimenticare l‟enorme rivoluzione rappresentata dalla gestione unica dei beni, in tutto il loro processo dal sequestro alla destinazione, alle sole competenze dell'Agenzia Nazionale, che ha comportato non poche difficoltà burocratiche. L‟Agenzia, seppur con mezzi ancora molto limitati, cerca di operare una gestione più snella dei beni, funzionale ad un rapido riutilizzo da parte della collettività. Il patrimonio da gestire, tuttavia, è immenso, e la gestione dell‟Agenzia ancora in fase di perfezionamento: gli scarsi mezzi e le difficoltà di coordinazione con gli altri enti responsabili a più titoli dei beni confiscati (Ministero della giustizia, Comuni, etc.) fanno si che si verifichino ancora casi di discordanza fra i diversi dati forniti e che i diversi database possano non coincidere perfettamente.

Per quanto riguarda infine la destinazione dei beni consegnati nel territorio e le finalità che questi assumono, per dei dati certi bisogna fare riferimento ancora una volta al Rapporto dell'Agenzia Nazionale e dunque a dati aggiornati al 31 Dicembre 2010. Da questi si evince che la maggior parte degli immobili destinati (87,11%) sono stati trasferiti al patrimonio indisponibile degli Enti territoriali quasi per la totalità coincidenti con i Comuni (4.853) in cui si trovano i beni. Di questi, 31% è stato destinato a finalità sociali, di cui una significativa quota, il 17,4%, ad associazioni operanti nel territorio stesso. I restanti beni svolgono finalità di alloggio per indigenti (14,3%) , Sicurezza e soccorso pubblico (11,5%), Uffici (8,4%), Strutture socio sanitarie (2,4%) , Scuole (1,1%) , Altro (13,8%) (Rapporto ANBSC, 2011, p.57).

3.3 Risorse Finanziarie

In ultima istanza è opportuno fare un breve accenno ad un importante contributo finanziario agli interventi sui beni, proveniente dal programma dell'Unione Europea destinato al settore della sicurezza: il “Programma Operativo Nazionale Sicurezza per lo Sviluppo/Obiettivo Convergenza 2007/2013”. Tale programma dispone di una dotazione finanziaria di un miliardo e centocinquantotto milioni di euro, cofinanziato al 50% dallo

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Stato Italiano e dall'Unione Europea, attraverso il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale. Obiettivo del Progetto e motivo del finanziamento è la diffusione di “migliori condizioni di giustizia, legalità e sicurezza per i cittadini e per le imprese, contribuendo alla riqualificazione dei contesti caratterizzati da maggiore pervasività e rilevanza dei fenomeni criminali”. L'Agenzia Nazionale è dunque competente per quanto riguarda la gestione dell'Obiettivo Operativo 2.5 del PON “migliorare la gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata”. Nello specifico tale Obiettivo costituisce un'ulteriore fonte per il finanziamento “di progetti di riutilizzazione a fini sociali dei beni confiscati, nell‟ottica di rendere operante il principio della restituzione alla collettività di un patrimonio pienamente fruibile” (Rapporto ANBSC, p. 25). L'Obiettivo prevede la possibilità di finanziare due tipologie di interventi: la ristrutturazione di immobili e la riconversione in vista del loro inserimento nel circuito produttivo. Il budget viene ripartito fra quattro regioni, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. La scelta delle regioni deriva dalla costatazione che queste registrano per il periodo 2000/2002 un PIL inferiore alla media Europea del 75%, divario dovuto sia alla diffusione dei fenomeni criminali che alle ridotte o insufficienti condizioni di sicurezza percepite, che frenano lo sviluppo e condizionano l'attività economica del territorio. Alle regioni rientranti nel “obiettivo convergenza” vengono dunque destinate specifiche risorse finanziare, che vengono redistribuite secondo la seguente tabella:

Tabella 4 Distribuzione risorse finanziarie PON Sicurezza. Fonte Dati: Rapporto ANBSC 2011

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CAPITOLO 4

LA RICERCA: AMBITO TEORICO, IPOTESI E METODOLOGIA

Sono state fin qui analizzate le tre direttrici fondamentali di questo lavoro: il territorio, l‟importanza della dimensione territoriale delle mafie italiane e i beni confiscati. E‟ giunto dunque il momento di esplicitare secondo quale chiave di lettura vengono messe in relazione queste tre tematiche: verrà dunque chiarita in questo capitolo l‟ipotesi di ricerca su cui si basa questo lavoro, non prima però di aver fornito l‟ambito teorico di riferimento entro cui s‟inserisce. Sarà quindi precisata la metodologia impiegata, i territori di riferimento entro cui è stata svolta la ricerca e il tipo di fonti utilizzate.

4.1 Ambito teorico: i beni confiscati come beni patrimoniali territoriali

Seguendo il filone di analisi della prima geografia sociale tedesca, rappresentata da autori come Hartke, si vuole dunque soffermarsi sulla matrice sociale e politica della realtà territoriale e degli attori che ne determinano le caratteristiche fondanti. Secondo questa interpretazione è possibile cogliere nel territorio segnali di trasformazioni sociali, impressi nello spazio attraverso le manifestazioni dell'attività antropica. Queste manifestazioni, testimonianze delle attività umane nei territori, diventano indicatori dei processi sociali: uno studio approfondito dei territori può essere dunque visto come la decodifica di tali indicatori, finalizzata all'interpretazione dei processi sociali (Loda, 2008).

Nel primo capitolo di questo lavoro abbiamo avuto modo di definire il territorio come artefatto sociale (Dematteis, 2002) e l'evoluzione dei sistemi territoriali come effetto di un processo di produzione del territorio messo in atto da molteplici attori sociali (Dansero, Mela, 2008). Per comprendere dunque le caratteristiche dell'evoluzione di tali sistemi è necessario compiere un'analisi delle azioni dei vari attori sintagmatici (Raffestin, 1981) che ne hanno determinato la produzione e le caratteristiche. Lo studio di un processo di territorializzazione permette allora di definire l'identità di un luogo, di individuare i cicli successivi di atti e fatti territorializzanti che hanno determinato le caratteristiche e le relazioni che si instaurano, in quel dato territorio, fra ambiente e insediamento umano. Qualsiasi tipo di studio su un territorio, non può allora prescindere dallo studio delle dinamiche sociali che vi si realizzano: “[...] Non si può dunque trattare lo spazio come qualcosa di razionalmente univoco, ma piuttosto come qualcosa da mettere in relazione con i fenomeni, che, secondo il punto di vista scelto, determinano le caratteristiche dello spazio stesso. Attraverso l'ottica dei fenomeni sociali si realizza la serie di coordinate che danno lo spazio sociale” (Caldo, 1991, p.347- 348).

Prendendo in esame territori contraddistinti da una forte presenza mafiosa, più o meno manifesta, non si può escludere, fra le componenti che ne hanno costituito l'identità, quelle derivanti dall'azione criminale e dagli effetti di questa. Parimenti, tuttavia, non si devono escludere dallo studio tutte quelle forme di resistenza e atti posti in essere per contrastare l'azione criminale.

Il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati si inserisce in un ampio filone di studi sulle pratiche di contrasto alla criminalità organizzata. A partire dalle riflessioni sugli effetti distorsivi, per un territorio, della presenza mafiosa, urbanisti e geografi hanno effettuato una serie di studi, circa la possibilità di contrasto a questa forma di controllo del territorio. Sembra infatti che determinate pratiche urbane siano in grado di stabilire forme concrete di resistenza alla pervasività del sistema mafioso; queste pratiche sarebbero dunque funzionali al contrasto del predominio, ad opera delle organizzazioni criminali, su spazi e usi pubblici del territorio (De Leo, 2010). Da tali studi sembra emergere una nuova dimensione della sfida al controllo del territorio da parte dei poteri criminali che si basa sulla capacità di mettere in atto, da parte dei decisori pubblici, trasformazioni fisiche e

90 sociali del territorio che migliorino la vita e la qualità dei rapporti fra il cittadino e le istituzioni (De Leo, 2010).

I beni confiscati, come abbiamo avuto modo di approfondire nel terzo capitolo di questo lavoro, hanno una forte valenza simbolica, ed è proprio attraverso la loro forte valenza simbolica che questi diventano oggetto privilegiato per lo studio dei cambiamenti socio- culturali dei territori in cui sono inseriti. Infatti, l'esame delle forme simboliche, presenti in un determinato territorio, permette una più ampia comprensione dei modi in cui le società lo organizzano (Caldo, 1991). Il modo in cui gli abitanti di un territorio guardano e partecipano a questo processo di riappropriazione degli spazi determina così il modo in cui questi beni vengono inseriti nella dimensione culturale del luogo stesso. Questo perché gli abitanti di un qualsiasi territorio creano dei legami con ciascun luogo che compone il loro ambiente di vita, assegnano cioè dei valori condivisi da tutto un gruppo sociale a ciascun luogo (Caldo, 1991). Nel nostro caso, l'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati alle organizzazioni criminali mira direttamente a rompere la memoria collettiva che era associata a quei luoghi. Quelli che erano stati luoghi vissuti dalla collettività come “roccaforti” del potere criminale, luoghi ove magari venivano perpetrate violenze, latitanze o illeciti di altra natura, con il riutilizzo a fini sociali cambiano caratteristiche, sia di utilizzo che strutturali, con il preciso intento di istaurare nuove dinamiche fra gli attori e il territorio, al fine di cambiare anche la cultura stessa della collettività su cui insistono i beni. La percezione che la collettività può avere o meno di questi luoghi definisce quindi in qualche modo anche l'efficacia di questa particolare forma di contrasto alla criminalità. E' utile dunque interrogarsi su quale possa essere il ruolo di un'azione territoriale come la riconsegna dei beni a fini sociali, che fa proprio l'obiettivo di trasformazione del modo di vivere e vedere il territorio da parte dei cittadini. Questi infatti danno, a chi li amministra, l'opportunità concreta per “ridisegnare, nello spazio, un nuovo rapporto di riconoscimento e fiducia tra cittadini e istituzioni” (De Leo,2010, p.25), come simbolo della riappropriazione degli spazi (Quattrone, 2010). L'idea di “animazione democratica del territorio” promossa dall'associazione Libera come scopo principale dell'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati, cerca di riassumere

91 dunque in un solo concetto gli effetti positivi che questa pratica può determinare. Questi beni sono considerati “come ripetitori di segnale di una legalità, non poliziesca ma di innovamento dei modi di fare e di pensare, come biglietto da visita per una diversa idea di pubblico, particolarmente debole ed evanescente in una zona cresciuta sulla premessa della distanza dalle norme e dalle istituzioni” (De Leo, 2010, p.25).

Queste vie di riappropriazione del territorio, possono essere viste anche in un quadro di miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Sebbene sia uso comune, rintracciare un miglioramento della qualità della vita nell'aumento della possibilità di consumo, piuttosto che nella possibilità di dominare meglio lo spazio sociale e comune (Caldo, Guarrasi, 1983), è comprovato che il tema della sicurezza e della percezione della legalità all'interno dei territori cambia il modo di vivere di una collettività in modo radicale. Il miglioramento della qualità della vita, è, del resto, uno degli effetti che si prefigge l'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati, in termini di sviluppo economico attraverso le opportunità lavorative che si creano con le cooperative sociali che gestiscono i beni, ma soprattutto in termini di sviluppo sociale, con stimoli all'associazionismo e con la creazione di luoghi di aggregazione, e grazie a tutti gli usi sociali possibili di questi beni. Potenzialmente gli effetti di questa pratica sul territorio sono molteplici perché se questa potenzialità viene realmente espressa e se la trasformazione degli spazi urbani migliora effettivamente la qualità della vita dei cittadini “si sta assestando un colpo a un sistema di potere e controllo che governa essenzialmente sui presupposti di intrasformabilità dei luoghi e delle condizioni di vita”(De Leo, 2010, p.8).

A fronte delle riflessioni fin qui condotte, sembra dunque legittimo guardare ai beni confiscati come “beni patrimoniali territoriali” (Magnaghi, 2007), in quanto, a nostro avviso, le loro caratteristiche peculiari possono partecipare alla definizione dell'identità di un luogo, essendo una “risorsa potenziale di uno stile di sviluppo originale e durevole” (Magnaghi, 2007, p.2). Tali beni infatti non hanno finalità di mero profitto, ma di produzione di beni, servizi e lavoro per i membri di una comunità, finalità che potremmo dire di pubblica utilità. In questo senso l'assegnazione a fini sociali può essere ricondotta ad un uso civico di beni patrimoniali territoriali, così come teorizzato da Magnaghi, in

92 quanto vi si rintraccia la volontà, da parte di una comunità costituita da una pluralità di abitanti, di associarsi attraverso diverse vie per esercitare un uso collettivo dei beni patrimoniali di cui la società locale dispone (Magnaghi, 2007).

4.2 Ipotesi di ricerca : Il ciclo T-D-R dei beni confiscati

Considerare i beni confiscati come parte del patrimonio territoriale è alla base di questa ricerca. Questi beni tuttavia acquistano le caratteristiche peculiari del patrimonio territoriale quando giungono al pieno assolvimento delle loro funzioni sociali. Per il compimento delle proprie funzioni è necessario che questi beni subiscano una trasformazione, una riqualificazione che li converte in “edifici parlanti nei quali i segni architettonici concorrono a formare un sillabario del codice di etica pubblica” (Quattrone 2010, p.23). Tali trasformazioni, tuttavia, non avvengono in modo immediato o estemporaneo, ma seguono un processo evolutivo che corrisponde alle diverse dinamiche di interazione fra il territorio e la società. A partire dall'instaurazione di nuove dinamiche d'interazione si crea una nuova forma di territorializzazione, che può essere dunque identificata come una riterritorializzazione.

E' dunque possibile interpretare queste trasformazioni di natura socio-spaziale attraverso un ciclo di territorializzazione - deterritorializzazione - riterritorializzazione (T - D - R), considerando l'atto territorializzante della destinazione a fini sociali dei beni confiscati come la terza fase di questo processo. Il primo termine del ciclo, la territorializzazione, è in questo caso identificabile con la condizione storica dei beni, ovvero con il pieno possesso di questi da parte dei criminali che vivono o operano nel territorio, risultato di un processo di territorializzazione mafiosa perpetrata negli anni secondo il modello di signoria territoriale esposto nel secondo capitolo di questo lavoro.

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La deterritorializzazione, secondo la definizione fornita da Raffestin (1984), rappresenta un momento di crisi e “ogni crisi si traduce in una cancellazione dei limiti, dei ritmi, dei cicli, delle fratture degli intervalli” (Raffestin 1984, p.78). Alla crisi corrisponde dunque un momento di trasformazione radicale, che modifica in modo totale tutte le caratteristiche che erano state proprie, fino a quel momento, della territorializzazione. Nel nostro caso, individuiamo questo momento di rottura precisamente nell'atto di sequestro e confisca dei beni. Come abbiamo avuto modo di spiegare ampiamente quest'atto demarca un cambiamento definitivo della natura del bene e influenza profondamente il territorio in cui esso è inserito. Infine, è nella riconsegna al territorio dei beni con una nuova finalità sociale, “civica”, che su colloca la fine del ciclo, la riterritorializzazione. Questa è rappresentata dunque dall'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati, che vengono restituiti come beni patrimoniali al servizio della collettività. La produzione di nuovo territorio è testimoniata dalle nuove progettualità assegnate al bene, e dai nuovi legami e reti relazionali fra gli attori che attuano la riterritorializzazione.

Guardando ai beni confiscati come ultimo momento del ciclo T – D – R, il loro ruolo di strumento innovativo per legare i cittadini ad una territorializzazione positiva risulta essere ancora più evidente: la riterritorializzazione contrappone infatti al carattere di visibilità della mafia nel territorio, un'affermazione quotidiana dei principi di legalità, di cui questi beni diventano simbolo. Per riassumere il ciclo T - D – R compiuto dai beni oggetto di studio si propone in figura lo schema del ciclo, riadattato secondo il nostro studio dal progetto di Raffestin (1988).

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Figura 3 Il Ciclo T-D-R per i beni confiscati

In ultima analisi, per poter considerare l'assegnazione a fini sociali come singolo ciclo di territorializzazione, è opportuno analizzare il fenomeno alla luce dello schema proposto da Angelo Turco (1988) che descrive le diverse fasi o atti che lo compongo. Sebbene questo sia già stato affrontato nel primo capitolo di questo lavoro, è opportuno riproporlo sinteticamente: La denominazione costituisce il primo atto di presa di possesso (simbolica) di uno spazio naturale indicandolo con un attributo di senso e di posizione; la reificazione è la trasformazione concreta della materia naturale in insediamento costruito; la strutturazione indica il sistema di relazioni e gerarchie che identificano il funzionamento dell‟insediamento. (Turco, 1988)

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Per definire quindi la riconsegna a fini sociali come atto territorializzante, possiamo adattare questo schema a ciascun caso di confisca e assegnazione di un bene appartenente alla criminalità organizzata. L'atto di denominazione si ha alla destinazione d'uso del bene, cui viene dato un nome specifico, generalmente legato alla sua nuova funzione. Quest'atto rappresenta propriamente una presa di possesso (simbolica) di uno spazio (Turco, 1988): la valenza simbolica si manifesta indicando il bene con un attributo di senso, che mira a sottolineare il cambiamento di cui il bene è stato oggetto e di cui diventa simbolo. Non è raro infatti che le nuove denominazioni siano caratterizzate da attributi come “libera”, “legalità”, “memoria” e altri aggettivi che rimandano ad un preciso lessico costruito in opposizione a tutto ciò che il bene aveva rappresentato prima della confisca. L'atto di reificazione si può rintracciare nella fase intermedia fra l'assegnazione del bene e il suo pieno funzionamento. Durante questa fase infatti, spesso i beni devono essere sottoposti a ristrutturazioni più o meno radicali, dovute sia allo stato in cui verte il bene30, sia alla necessità di una conversione degli immobili o dei fabbricati per il miglior utilizzo nelle nuove funzioni. Infine, la fase di strutturazione si può rintracciare in tutte quelle pratiche, attuate dai destinatari del bene, necessarie ai fini del reinserimento del bene stesso nel tessuto territoriale, a livello di informazione, sensibilizzazione e anche creazione di rete con le altre realtà che condividono la stessa storia.

4.2.1 Obiettivi della ricerca

A fronte delle analisi fin qui condotte, è opportuno esplicitare l'obiettivo di questa ricerca. La domanda di ricerca fondamentale verte sulla concreta attuazione di tutto ciò che è stato fino ad ora analizzato in via esclusivamente teorica, ma che è diventata una pratica diffusa in buona parte del territorio italiano. L'idea sottesa a questo lavoro è la ricerca dell'animazione democratica del territorio di cui parla Libera, attraverso l'analisi della fase conclusiva del ciclo T-D-R. L'intento perseguito è dunque quello di evidenziare i tratti del processo di riterritorializzazione positiva, a

30 Non di rado i beni vengono volutamente danneggiati e vandalizzati prima dell'assegnazione da parte delle famiglie cui è stato confiscato o appartenenti al clan colpito dai procedimenti

96 partire dall'analisi di alcuni beni confiscati e degli attori, strategie e criticità che hanno caratterizzato l'azione territorializzante e la riconoscibilità di tale azione sul territorio. Il risultato che si vuole ottenere è quello di disegnare l'immagine che i differenti attori coinvolti hanno del territorio in esame, per evidenziare, attraverso esempi pratici, le potenzialità che questa pratica può rappresentare per i territori caratterizzati da una forte presenza mafiosa; rintracciando dunque, ove presenti, gli esiti positivi di assegnazione e conversione ad altri usi dei beni confiscati.

4.3 Area geografica di ricerca e casi studio

Risulta evidente dalle analisi fin qui condotte che il fenomeno mafioso è diffuso oramai in ogni parte d'Italia. E' sembrato dunque necessario provare ad affrontare il tema della territorializzazione dei beni confiscati attraverso un approccio multiscalare, proprio perché ogni fenomeno assume delle caratteristiche proprie influenzate dallo spazio entro cui esso avviene. La scelta di questo approccio risponde alla necessità di cogliere le dinamiche diverse su cui si articolano gli attori territorializzanti e il territorio stesso nei confronti del fenomeno dell'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati, visto come indicatore del rapporto che lega il territorio alla dimensione del legale/illegale. Lo studio si articolerà dunque sull'analisi di due contesti territoriali differenti, situati rispettivamente nella provincia di Palermo e nella provincia di Torino.

La scelta di queste due provincie, come territorio di ricerca, è dovuta alla considerazione che queste rappresentano, in qualche modo, le due facce dell'organizzazione criminale: la provincia di Palermo, infatti, è la culla storica di nascita e sviluppo del fenomeno mafioso per come è stato conosciuto nell'intero paese e all'estero. Nella provincia di Palermo, come abbiamo visto, vi è la massima concentrazione di beni confiscati alla mafia e questa rappresenta in qualche modo l'archetipo della struttura di potere mafioso e della signoria territoriale (cfr. cap.2).

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La provincia di Torino, invece, come del resto tutto il Nord Italia, si può dire che sia il territorio maggiormente rappresentativo di una nuova struttura mafiosa, che si radica in territori nuovi e diversi da quelli dove storicamente si è sviluppato il fenomeno, una mafia scarsamente visibile nel territorio e ai più, che tuttavia controlla le attività illecite in modo significativo e condiziona parimenti quelle lecite, insediandosi in ogni settore produttivo.

Partendo da una riflessione sulla territorializzazione mafiosa nelle due diverse provincie e dalla distribuzione dei beni confiscati, la ricerca si propone di effettuare un'analisi attraverso due casi per ciascuna provincia. Entrambi i casi vedranno rispettivamente la riterritorializzazione attuata con la riconsegna a fini sociali ad attività no profit ed ad attività di natura d'imprenditoria sociale, attuati nei due diversi contesti geografici. Questa distinzione fra tipologie di uso del bene, seppur generica, sembra essere indispensabile per cogliere le differenti risposte del territorio alle diverse tipologie di assegnazione. Sembra evidente infatti come una collettività possa accogliere e partecipare in modo differente, all'inserimento nel contesto territoriale di un bene con funzionalità diverse e che può dunque fornire servizi diversi alla comunità stessa: centri di aggregazione per giovani o anziani, centri di recupero per tossicodipendenti, sedi di singole associazioni di diversa natura, ma anche opportunità di lavoro e di sviluppo turistico. In particolare, sembrano interessanti le potenzialità della comparazione tra diversi contesti: si mira a mettere in luce i differenti ruoli dei beni confiscati nel processo T-D-R in realtà caratterizzate da forme di territorializzazione mafiosa molto diverse. I territori su cui attuare la ricerca sono stati selezionati grazie al contributo dei referenti di Libera che operano nelle due provincie. Si è cercato di individuare ambiti territoriali di piccole e medie dimensioni, in cui il fenomeno di riutilizzo potesse essere più evidente, al fine di cogliere a pieno le differenti dinamiche di interazione fra gli attori e il territorio in rapporto al riutilizzo dei beni confiscati. Per questo motivo sono state scartate le grandi città.

Per quanto riguarda dunque il fenomeno di riutilizzo a fini sociali nella provincia di Palermo è stato selezionato il Comune di Corleone, per quanto riguarda invece la provincia

98 di Torino sono stati selezionati beni che insistono sul Comune di Bardonecchia e San Sebastiano da Po. Questi territori rappresentano, seppur per motivazioni diverse che verranno approfondite in seguito, casi esemplari del procedimento di riconsegna dei beni confiscati al territorio; inoltre hanno vissuto momenti storici d'infiltrazione mafiosa di evidenza ineluttabile, che si suppone abbia coinvolto, seppur con gradi di partecipazione differenti, la popolazione del luogo. Inoltre, seppur con le adeguate distinzioni, le zone selezionate si contraddistinguono per l'essere state “avanguardie” di territorializzazione mafiosa: il comune di Corleone ha infatti dato i natali al ben noto clan dei corleonesi, che ha avuto un ruolo di protagonista nella struttura mafiosa di Cosa Nostra; il comune di Bardonecchia, è situato in alta Val di Susa, fra le prime zone del Piemonte in cui sono stati rintracciati fenomeni di tipo mafioso, e che viene ancora classificata dalla Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata (XIV Legislatura, Doc. XXIII n°8) con un grado di pericolosità “ad elevata incidenza”; a San Sebastiano da Po, infine, hanno vissuto per 30 anni Domenico e Salvatore Belfiore, protagonisti indiscussi nella gestione del malaffare torinese, nonché mandanti dell'omicidio del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia, primo e unico caso di magistrato ucciso dalla mafia nel Nord Italia.

4.4 Struttura della ricerca e fonti

Per meglio rispondere alla domanda di ricerca, ovvero se è possibile guardare ai beni confiscati come esito di un processo di riterritorializzazione, è stato necessario strutturare la ricerca su due piani differenti, che si sono tradotti anche in due fasi di studio diverse.

Una prima fase infatti è stata necessaria per comprendere il fenomeno dell'assegnazione a fini sociali da un punto di vista strettamente tecnico e procedurale. In quest'ambito, contestualizzata alla dimensione territoriale del fenomeno mafioso, viene approfondita la situazione dei beni, sotto il profilo di distribuzione territoriale e utilizzo; successivamente, come anticipato, sono stati selezionati due beni per ciascun ambito

99 provinciale come esempio di reinserimento nel tessuto territoriale. Per ciascun bene preso in esame è stato analizzato l'iter di assegnazione, le modifiche strutturali attuate, le dinamiche di fruizione e gestione, etc. Attraverso queste ricerche si è cercato dunque di rintracciare, per ciascun bene, quegli atti e fatti propri di un atto territorializzante, al fine di verificare l'ipotesi di ricerca.

La seconda fase della ricerca è stata indirizzata a interrogare la componente sociale del territorio. Si è cercato di indagare su come i soggetti presenti nel territorio abbiano o meno preso parte, avuto consapevolezza o semplice conoscenza del processo di riterritorializzazione effettuato mediante la restituzione alla collettività dei beni in oggetto. Questa fase di ricerca è stata indispensabile anche ai fini della comparazione del fenomeno nei due contesti territoriali differenti. Se da un punto di vista strettamente “formale” la procedura di assegnazione a fini sociali è uniformata a livello nazionale, le dinamiche fattuali, determinate per l'appunto dal contesto in cui si dispiega il fenomeno, rendono “la storia” di ciascun bene assolutamente unica.

Le fonti utilizzate sono fondamentalmente di due tipi: dirette e indirette. Per quanto riguarda la prima parte della ricerca, questa è stata effettuata attraverso fonti sia dirette che indirette. Durante questa fase, infatti, sono stati consultati documenti e statistiche ufficiali forniti dall'Associazione Nazionale per i beni confiscati, rapporti della DIA e delle Commissioni Parlamentari Antimafia, oltre che ricerche negli archivi dei quotidiani locali e nazionali, e periodici specifici del settore. Questo lavoro di ricerca ha permesso di tracciare un quadro di riferimento di ciascun territorio di studio, contestualizzando la presenza dei beni nel territorio con la presenza delle organizzazioni criminali cui sono stati sottratti. Di fondamentale importanza, inoltre, sono stati il contributo dei referenti locali di Libera, che svolge un ruolo di primaria importanza nel monitoraggio dell'utilizzo dei beni confiscati e i colloqui svolti con i diretti assegnatari dei beni. Nella seconda fase della ricerca sono state utilizzate esclusivamente fonti dirette, effettuando delle interviste semi- strutturate ed aperte che approfondiremo in seguito.

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L'approccio di questo tipo di ricerca è non standard (Marradi, 2007), volto alla comprensione delle motivazioni dei soggetti, attraverso una forma di empatia fra il ricercatore e il soggetto stesso .

4.5 Fasi e metodologia di ricerca

Come anticipato, l'individuazione dei beni oggetto di studio è stata possibile grazie alla collaborazione con i referenti locali dell'associazione Libera. Individuati i beni, e studiato il contesto in cui questi sono inseriti, è stato tracciato un quadro il più possibile dettagliato sulla storia del bene. Dai colloqui con i referenti di Libera è stato innanzitutto possibile avere informazioni chiave sui procedimenti di confisca e sulle criticità che hanno caratterizzato l'iter per l'assegnazione e utilizzo dei beni presi in esame. Infine sono stati consultati i soggetti diretti assegnatari dei beni o responsabili di questi, al fine di raccogliere la testimonianza di chi effettivamente lavora “sul” bene o “per” il bene quotidianamente. Nel dettaglio, le informazioni raccolte vertono su:

Natura del bene Ubicazione Data confisca Data assegnazione Vincoli di utilizzo del bene Prevenuto Denominazione usuale/attuale Pubblicità di assegnazione e del nuovo utilizzo Risorse a disposizione Attori del processo Criticità e conflitti durante l'iter di assegnazione o la gestione

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Le informazioni così raccolte sono state strutturate in una scheda riassuntiva, elaborata per una più immediata comparazione dei dati relativi a ciascun bene in esame (§Appendice A). Attraverso quest'indagine conoscitiva è stato dunque possibile tracciare, per ogni bene, gli atti territorializzanti che permettono di classificare questo fenomeno come una riterritorializzazione, secondo lo schema d'analisi proposto da Turco e precedentemente illustrato.

La seconda fase di ricerca ha come obiettivo quello di accedere alla prospettiva dei soggetti coinvolti nel fenomeno studiato, in questo caso dunque di chi si trova a vivere in un contesto in cui sono stati affidati beni confiscati per finalità sociali. A tal fine sono state condotte delle interviste, di tipo qualitativo, definibili come : “una conversazione a) provocata dall'intervistato, b)rivolta a soggetti scelti sulla base di un piano di rilevazione e c) in un numero consistente, d) avente finalità di tipo conoscitivo, e) guidata dall'intervistatore, f) sulla base di uno schema flessibile e non standardizzato di interrogazione” (Corbetta,1999, p.405).

Obiettivo di questa tipologia di interviste è quello dunque di “fornire una cornice entro la quale gli intervistati possano esprimere il loro proprio modo di sentire con le loro stesse parole” (Patton, 1990, p.290). In tal modo si è cercando di comprendere al meglio qual è stato il processo di inserimento nel tessuto territoriale del bene assegnato a fini sociali, dei beni oggetto di analisi per ciascuna provincia in primis, e dei beni confiscati che insistono nel territorio in generale.

4.5.1 Il Campione per le interviste

Il campione è stato selezionato “a valanga” secondo un criterio non di rappresentatività statistica ma piuttosto di rappresentatività sostantiva (Corbetta 1999). Il criterio di rilevanza del campione si è andato costruendo nel corso della ricerca stessa, e questo è dovuto ad una serie di caratteristiche proprie dei contesti stessi su cui è stata condotta. E' difficile infatti, in determinati contesti e per affrontare questo tipo di tematiche, riuscire a comporre un campione casuale, ad esempio fermando gente per strada e proponendo loro di sottoporsi ad un'intervista approfondita e molto personale.

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E' stato allora più proficuo puntare ad un campione di “osservatori privilegiati”, i quali hanno una visione diretta e profonda per essere collocati in una posizione privilegiata di osservazione (Corbetta 1999). A tal fine, sono stati contattati alcuni giovani operanti nel territorio attraverso associazioni diverse: dal primo contatto è stato possibile raggiungere altri soggetti disposti a rispondere alle domande dell'intervista. Questi soggetti fanno parte della popolazione oggetto di studio ma in essa ricoprono una posizione particolare, perché grazie alle vicende personali possiedono una conoscenza approfondita dell'oggetto di studio: in questo senso è possibile classificare il campione come formato da “osservatori privilegiati”. Il campione, pur non essendo quantitativamente rappresentativo, ha permesso di raccogliere informazioni qualitativamente rilevanti, rispondendo all'obiettivo di coprire le situazioni sociali di preminente interesse per la ricerca (Corbetta, 1999). Questo ha consentito infatti di tracciare un buon quadro di quelle che possono essere le diverse aspettative, percezioni, attenzioni rispetto al fenomeno dei beni confiscati e al modo in cui i soggetti percepiscono la loro funzionalità all'interno di un territorio.

4.5.2 Le Interviste

Le interviste sono state strutturate in tre parti: un questionario introduttivo, delle domande semi strutturate e infine una parte non strutturata di conversazione con l'intervistato, caratterizzata dall'individualità degli argomenti trattati.

Il questionario introduttivo è stato necessario per raccogliere una serie di dati socio- demografici ma utile anche per “rompere il ghiaccio” con l'intervistato, chiamato a rispondere circa la sua età, professione, comune di nascita e residenza. Sempre attraverso questo questionario è stato possibile sondare il livello di conoscenza del fenomeno di confisca dei beni e della loro assegnazione a fini sociali da parte di ciascun intervistato, sia in termini generali che rispetto ai due beni oggetto di studio per ciascuna provincia. Il questionario somministrato ha la stessa struttura in entrambe le province geografiche di ricerca, fatte salve le necessarie modifiche in riferimento ai beni e ovviamente ai comuni. Di seguito le domande presenti nel questionario:

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Età Sesso Professione Comune di nascita e residenza Conosce la procedura di sequestro e confisca dei beni? Secondo lei più o meno quanti sono i beni confiscati nel Comune di … ? Conosce il bene confiscato... ? Conosce il bene confiscato... ? Ha mai frequentato questi luoghi? In che occasione? Conosce qualche familiare, amico che li frequenta? Conosce altri beni che sono stati confiscati alle organizzazioni criminali nel suo Comune o nella sua Provincia?

Per quanto riguarda le interviste semi strutturate è stata predisposta una traccia di domande, da considerare come una traccia di discussione (Loda, 2008). Questa struttura d'intervista è stata scelta perché lascia ampia libertà all'intervistato, pur garantendo al ricercatore che tutti i temi rilevanti vengano discussi e le informazioni rilevanti raccolte (Corbetta, 1999). Le domande sono state dunque modificate e modulate a seconda della circostanza e dell'interlocutore, semplificando i temi o approfondendoli, e in alcuni casi soffermandosi su alcuni esempi guida. Per quanto riguarda invece l'ordine delle domande questo è stato rispettato in ciascuna intervista, e si è rivelato, in più di un caso, lo stesso schema logico cui facevano riferimento gli intervistati per affrontare l'argomento. In alcune circostanze, nelle interviste condotte a Corleone, è accaduto infatti che l'intervistato, parlando liberamente a seguito della “domanda impulso”, anticipasse qualche informazione che sarebbe stata affrontata nelle domande successive. Di seguito la traccia generale delle domande, che sono ancora una volta le stesse in ciascun contesto territoriale, salvo, ovviamente, i diversi riferimenti precisi al comune su cui è stata svolta.

Pensa che il fenomeno mafioso a … sia rilevante? Può fare qualche esempio?

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Secondo lei qual è il legame fra la mafia e il territorio nel suo comune? Secondo lei la mafia ha avuto, o continua ad avere un controllo sulla vita della città, attraverso il condizionamento dello spazio pubblico e dei luoghi della collettività? Pensa che la procedura di sequestro e confisca dei beni cambi qualcosa nel vivere quotidiano dei cittadini di un comune ad alta incidenza mafiosa? Se si che cosa? Può fare qualche esempio? Ritiene che la destinazione d'uso a fini sociali dei beni confiscati può essere l'antagonista del controllo territoriale mafioso? Dovendo dare un giudizio conclusivo, secondo lei l'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati può avere specifici effetti benefici per il territorio? Se si, quali, in quali settori? Crede che la pratica di assegnazione a fini sociali dei beni confiscati sia riconosciuta in modo intergenerazionale, o che ci sia una diversa concezione per le diverse generazioni di questo “passaggio di proprietà” dei beni? Tutto quello di cui mi ha parlato, ritiene che sarebbe condivisibile da un concittadino di 50, 60 o 70 anni?

Concluse le domande previste dall'intervista semi strutturata, si è cercato di aprire una discussione con l'intervistato, passando ad un livello di conversazione più informale e libero. Attraverso l'utilizzo di espedienti, come ad esempio la chiusura del quaderno su cui erano annotate le domande o con alcune richieste di approfondimento su temi specifici, si è cercato di stimolare un prosieguo della conversazione, per cercare di capire se, al di fuori delle domande già poste, il soggetto avesse qualcos'altro da dire sul tema, ma soprattutto se, un contesto più informale, potesse portare ad esiti diversi rispetto a quelli già raggiunti attraverso l'intervista semi strutturata. In alcuni casi questa fase dell'intervista ha avuto successo, permettendo di raccogliere ulteriori impressioni dell'intervistato o aggiungendo elementi completamente nuovi; in altri casi, una volta esaurite le domande strutturate, l'intervistato vedeva come “chiuso” il suo compito e non si dimostrava disposto a proseguire la discussione.

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Figura 4 Carta riepilogativa dei beni confiscati per Regione e nelle Province di Palermo e Torino

CAPITOLO 5

I BENI CONFISCATI E IL TERRITORIO:

LO STUDIO NELLA PROVINCIA DI PALERMO

Come preannunciato nel capitolo precedente, uno dei due ambiti di ricerca è la Provincia di Palermo ed in particolare il Comune di Corleone, all‟interno del quale sono stati selezionati due beni confiscati alla mafia come esempio di reinserimento dei beni nel tessuto territoriale. In questo capitolo verranno dunque presentati gli esiti della ricerca effettuata, fornendo prima un quadro della situazione dei beni confiscati nella Provincia di Palermo per concentrarsi successivamente sul Comune di Corleone e sui beni selezionati come casi studio.

5.1 Il contesto territoriale della Provincia di Palermo

L'Ufficio Speciale per la Legalità della Regione Siciliana ha svolto un'indagine nei confronti dei comuni siciliani al fine di verificare se gli stessi siano in possesso di beni confiscati e quale sia la loro utilizzazione. I dati, disponibili sul sito della Regione e suddivisi per provincie, sono aggiornati al 6 Giugno 2011. Il monitoraggio riguarda tutti i Comuni della provincia, ma è necessario precisare che undici comuni non hanno risposto ai questionari inviati dalla Regione. Degli 82 Comuni che compongono la Provincia di Palermo, escludendo gli undici di cui non si hanno dati, sono in totale 42 quelli in cui sono presenti beni confiscati alla mafia. Per approfondimenti circa i dati specifici riguardanti la consistenza del fenomeno in ciascun comune si rimanda alla Tabella n. 9 in Appendice B. La situazione che emerge dal monitoraggio è quella di un patrimonio complessivo di 857 beni immobili, che vengono suddivisi genericamente in fabbricati (556) e terreni (301). Grazie ai dati forniti è possibile effettuare ulteriori suddivisioni fra i beni:

Fabbricati Utilizzati : n. 293 o di cui 82 per finalità istituzionali e ben 211 per finalità sociali Fabbricati Non Utilizzati : n.263 Terreni Utilizzati : n. 99 o di cui 31 per finalità istituzionali e 68 per finalità sociali;

Se il dato complessivo delle assegnazioni a fini sociali è più che positivo, bisogna tuttavia riscontrare come ben il 55% del patrimonio costituito dai beni che insistono nella provincia di Palermo non viene utilizzato. Il monitoraggio della Regione Sicilia cerca anche di rintracciare le motivazioni alla base del mancato utilizzo di questi beni, motivazioni sostanzialmente riconducibili ad un breve elenco di possibili criticità legate a:

Mancanza di risorse per la ristrutturazione ( 109 casi); Immobili gravati da ipoteca (4 casi); Procedure giudiziarie in corso ( 2 casi); Occupazione illegittima ( 10 casi); Immobili occupati da terzi con titolo ( 5 casi); Bandi Pubblici andati deserti ( 3 casi); Procedure avviate in corso di definizione ( 185 casi); Procedure non ancora avviate ( 99 casi); Immobili in quota divisa ( 22 casi); Altro (26 casi, legati a circostanze quali presenza di Fabbricati abusivi non sanabili; Terreni rocciosi o impervi; mancanza strade di accesso; mancanza di servizi come acqua, luce, etc. )

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5.2 Il Comune di Corleone

Il comune di Corleone è il secondo con estensione maggiore del territorio (229,12 kmq) nella Provincia di Palermo . Il comune al 31 gennaio 2011 conta 11.393 abitanti, di cui il 62,9% fra i 15 e i 64 anni31. In questo territorio si è formato uno dei clan mafiosi più conosciuti al mondo, quello per l'appunto dei Corleonesi. Allo stesso modo, proprio in questo territorio, sono state raccolte da Libera le prime firme per la presentazione del disegno di legge sulla destinazione a fini sociali dei beni confiscati. Per la sua storia complessa e ricca di sfumature diverse, che qui potranno solo essere brevemente accennate, Corleone rappresenta un caso esemplare di resistenza e opposizione all'organizzazione criminale, anche quando questa è strettamente legata al territorio e saldata con la cittadinanza attraverso legami di parentela. Per comprendere il legame profondo, ancestrale, fra la mafia e questo particolare territorio è necessario fare qualche breve riferimento alla storia di questo comune. Le prime testimonianze dell'influenza mafiosa nel territorio corleonese si hanno a partire dagli ultimi decenni dell'800, quando la città diventò per alcuni mesi centro dell'attenzione del paese, grazie all'attività del movimento dei Fasci32 Corleonesi, forse il più organizzato fra i movimenti contadini comparsi in quegli anni nell'isola. La nascita del movimento dei Fasci fu la risposta alle inumane condizioni in cui erano costretti a vivere i contadini. Le causa della povertà dei contadini di Corleone e di tutto l'entroterra siciliano, sono da rintracciare nella struttura del sistema di latifondo che, sebbene fosse stato abolito il sistema feudale, continuava a rappresentare il sistema produttivo agrario dell'isola. Tra agrari e contadini vi era una figura che aveva un enorme potere, il Gabellotto, che “occupava un posto al tal punto centrale nell'economia violenta Siciliana che agli occhi di molti essere un mafioso ed essere un gabellotto era la stessa cosa” (Dickie,2008, p.157).

31 Fonte dati http://www.comune.corleone.pa.it, Url consultata l‟ultima volta il 10 ottobre 2011. 32 Il Fascio Corleonese si inserisce in un più ampio movimento, d'ispirazione democratica e socialista, conosciuto come “Fasci Siciliani”. Nati 1891 al 1893, in risposta alle condizioni di povertà ass oluta in cui viveva ampia parte della popolazione, univano i contadini contro proprietari terrieri e gabellotti. Questi attuavano scioperi, occupazioni delle terre e altri atti di protesta contro lo strapotere dei proprietari terrieri. Fortemente contrastati dallo Stato e dalle forze mafiose, in alcuni comuni siciliani questi movimenti di protesta sfociarono in scontri violenti con le forze statati. Vennero sciolti a seguito di un intervento militare durante il governo Crispi. La produzione saggistica in materia è molto ampia, si consigliano per approfondimenti le opere di Santino, Renda, Romano.

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Questi si allearono con gli agrari e lo Stato per contrastare il movimento contadino. La forza dei Fasci Corleonesi è da rintracciare nella sua figura guida, Bernardino Verro, che riuscì a fare approvare, poco prima dello scioglimento dei Fasci, i “Patti colonici”, anche conosciuti come i “Patti di Corleone”, che vengono ricordata come “il primo esempio di contratto sindacale scritto nella storia dell'Italia capitalistica 33”. Nel corso degli anni i Fratuzzi, organizzazione mafiosa corleonese, cercarono di corrompere Verro, di sconfiggerlo intimidendolo e minando la sua credibilità politica, fino a quando decisero che rimaneva un solo mezzo per fermarlo, assassinandolo brutalmente la sera del 3 Novembre 1915.

La storia dei Fasci Corleonesi, e dell'assassinio di Verro34, se da un lato rappresenta un segno inconfutabile dell'azione della mafia nel territorio, dall'altro rappresenta l'emergere di personaggi determinanti per lo sviluppo di una cultura alternativa, di legalità e lotta contro l'oppressione mafiosa. Le vicende dei Fasci hanno avuto forti ripercussioni sulla storia corleonese e sulle lotte contadine degli anni successivi. Fortemente simbolica è la storia del busto di Verro eretto dai contadini Corleonesi in piazza Nascé. Il busto, infatti, fu trafugato nel 1925 e mai più ritrovato. Nel 1992 il sindaco di Palermo fece erigere un nuovo busto commemorativo, ma nonostante gli anni trascorsi, questo non ebbe migliore fortuna: fu più volte danneggiato, fino a quando nel luglio del 1994 venne definitivamente distrutto.

I Fasci di Corleone furono anche una delle prime occasioni, dopo l'inchiesta di Sonnino e Franchetti sulla questione meridionale, in cui la “borghesia mafiosa” veniva descritta dagli inviati dei quotidiani nazionali: “In questi comuni siciliani le clientele locali sono capaci di ogni peggior cosa. Tre, quattro famiglie per comune, legate fra di loro da vincoli di parentela e da interessi, dispongono di tutto ciò che riguarda le altre migliaia di cittadini. Chi è della

33 La nascita dei Fasci a Corleone, 16 Novembre 2008, La Sicilia, per approfondimenti Palazzo A. I patti di Corleone e le origini della contrattazione collettiva in agricoltura 34 E' necessario ricordare che in quegli anni furono assassinati dalla mafia molti altri corleonesi, sindacalisti, contadini, come Placido Rizzotto e Luciano Nicoletti, che si erano attivamente schierati contro il potere mafioso.

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clientela, chi è del partito è uomo, chi non è della clientela, chi non è del partito, è cosa”. (Corriere della Sera 11 Gennaio 189435). E' proprio su questa struttura clientelare, sapientemente descritta dal cronista del Corriere, che si è strutturato il sistema di potere mafioso nel corleonese.

A nulla sono valsi gli arresti condotti dal prefetto Cesare Mori negli anni venti36; dopo la seconda guerra mondiale il medico Michele Navarra riorganizza la cosca di Corleone, diventandone il capo. La leadership della cosca diviene presto motivo di scontro, che sfocia nell'assassinio dello stesso boss Navarra il 2 agosto del 1958. Questa data segnerà l'inizio di una faida di sangue che porterà all'ascesa al potere di una nuova generazione di boss. Questi, chiamati con disprezzo “viddani” (contadini in dialetto) dai boss palermitani segneranno definitivamente lo sviluppo di Cosa Nostra, rendendo Corleone nota al mondo come terra d'origine del più efferato, ambizioso e astuto clan della storia dell'organizzazione mafiosa Siciliana. Cosi come è diventata tristemente simbolo della mafia nel mondo, Corleone ha cercato negli anni di far emergere anche un altro profilo, che corrisponde a quella parte della popolazione che negli anni ha maturato una coscienza collettiva di opposizione alla mafia. Proprio per la peculiarità di questa netta contrapposizione fra adesione al legale o all'illegale, che diventano in queste circostanze vere e proprie scelte di vita, questo contesto è particolarmente fecondo ai fini della ricerca sugli effetti della riterritorializzazione attuata mediante i beni confiscati.

5.2.1 I beni confiscati nel Comune

Dal 2010 il Comune di Corleone, con un'operazione volta al miglioramento della trasparenza delle azioni dell'amministrazione e grazie alla collaborazione con le associazioni del territorio che si occupano dei beni confiscati, pubblica sul sito un monitoraggio annuale della situazione dei beni.

35 http://www.storiaefuturo.com/it/numero_24/articoli/1_corriere-della-sera-fasci-siciliani~1355.html. Url consultata l‟ultima volta il 10 ottobre 2011 36 Nell'ambito di un'operazione voluta da Mussolini per sradicare il fenomeno mafioso. Per approfondimenti sull'operazione di Mori in Sicilia: Petacco A. (1975) Il prefetto di ferro. L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia Mondadori, Milano.

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E' lo stesso Sindaco a spiegare, in un intervista per Sicilia Informazioni37, le motivazioni di questa scelta: “L'operazione di trasparenza attuata dal Comune [...] ci permette con estrema facilità di verificare l'effettivo impiego dei beni, condividendo con la cittadinanza e con il resto d'Italia, l'assunzione di responsabilità della mia amministrazione affinché Corleone diventi ogni giorno di più la città della legalità che stiamo costruendo”.

Dai dati forniti da questo monitoraggio, aggiornati al 1 Marzo 2010, emerge che il 90% dei beni confiscati presenti nel territorio viene effettivamente utilizzato. Nello specifico, al comune risultano assegnati 18 beni confiscati, di cui 16 sono stati destinati e vengono utilizzati direttamente dal Comune stesso o attraverso l'assegnazione a Cooperative sociali e associazioni. Un immobile, destinato a finalità istituzionali, è stato assegnato al Comune nel gennaio 2010 ma non è ancora stato consegnato dall'Agenzia del Demanio – Filiale Sicilia, e dunque ancora non è utilizzato. Un ultimo bene, infine, un terreno edificabile in area urbana, è stato consegnato al comune nel Luglio del 2000 e ancora non è utilizzato. Si progetta per l'area una rifunzionalizzazione: il bene infatti, destinato ad area verde, dovrebbe diventare un giardino della memoria e un'area parcheggio a servizio dell'adiacente Tenenza della Guardia di Finanza.

Nello specifico, possiamo analizzare dunque le tipologie di beni presenti nel Comune: dal grafico seguente (grafico n.9) appare evidente che, tra i beni confiscati, terreni e fondi rurali sono in maggioranza.

37 http://www.siciliainformazioni.it/giornale/cronacaregionale/86662/mafia-sito-comune-corleone-beni- confiscati-boss-corleone.html . Url consultata l‟ultima volta il 10 Ottobre 2011

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Grafico 9 Beni confiscati presenti nel Comune di Corleone, suddivisi per tipologia di Immobil e. §Tabella n.10 Appendice B

Questa evidenza si ricollega alle caratteristiche proprie del territorio Corleonese: a fronte di un piccolo centro abitato, ieri come oggi sono le campagne la vera ricchezza della cittadina. Un territorio con enormi potenzialità di sviluppo per risorse naturali e paesaggistiche, che per anni è stato mortificato dal controllo da parte della criminalità organizzata, cui adesso si cerca, attraverso un utilizzo che coniughi finalità sociali e produttività della terra, di dare nuovo slancio imprenditoriale e occupazione, nel segno della legalità. Ne consegue che la tipologia di destinazione più diffusa dei terreni è quella delle attività di produzione legate all'agricoltura e all'industria agroalimentare. Per quanto riguarda i fabbricati, invece, questi sono per lo più destinati a finalità sociali di diverso tipo: dalla sede di associazione a strutture volte al recupero di soggetti portatori di handicap.

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Le tipologie di utilizzo dei beni confiscati del Comune sono rappresentate nel seguente grafico:

Grafico 10 Beni confiscati presenti nel Comune di Corleone, suddivisi per tipologia di utilizzo. §Tabella n.10 Appendice B

Ai fini di questa ricerca è anche utile comprendere a chi siano stati confiscati questi beni. Nel seguente grafico (n.11) sono riassunti i diversi prevenuti, ovvero i diversi proprietari a cui sono stati confiscati i beni che adesso sono in possesso del Comune:

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Grafico 11 beni confiscati presenti nel Comune di Corleone, suddivisi per Prevenuto. §Tabella .10 Appendice B

Se a prima vista stupisce che la maggioranza dei beni non sia stata confiscata alle famiglie più note del clan Corleonese, basta qualche semplice ricerca per scoprire che i fratelli Grizzaffi sono i nipoti del più noto boss Salvatore Riina e che Rosario Lo Bue altri non è che un fedelissimo di Provenzano: suo fratello Calogero portava i pacchi al boss nel covo in cui erano nascosto. Non bisogna dimenticare inoltre la possibilità che gran parte dei beni siano stati trasferiti a prestanome proprio per evitarne la confisca; quelli che sono stati effettivamente confiscati, seppur sempre frutto di attività illecite, non sono altro che le abitazioni e i terreni in cui risiedevano abitualmente i boss e le loro famiglie. In ogni caso, in un comune come quello di Corleone, i boss mafiosi e le loro famiglie non sono certo entità misteriose. I parenti e gli affiliati dei boss e dei super latitanti vivono

117 ancora nel paese, integrati con la comunità. In questa particolare circostanza dunque la maggior parte degli abitanti di Corleone conosce molto bene la proprietà dei singoli beni che prima della confisca, e proprio questa conoscenza diretta ha rappresentano, nei primi periodi di attività dei beni restituiti alla collettività, la problematica maggiore per un loro pieno funzionamento.

Per quanto riguarda, infine, i destinatari delle assegnazioni, come si evince dal seguente grafico la maggioranza dei beni è assegnata al Consorzio di Comuni “Sviluppo e Legalità”.

Grafico 12 Beni confiscati presenti nel Comune di Corleone, suddivisi per beneficiari assegnazione. §Tabella n.10 Appendice B

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Tale Consorzio, sorto il 30 maggio 2000 su iniziativa della Prefettura di Palermo, amministra in forma associata e per finalità sociali i beni confiscati alla criminalità organizzata di otto Comuni della Provincia di Palermo (Altofonte, Camporeale, Corleone, Monreale, Piana degli Albanesi, Roccamena, San Cipirello, San Giuseppe Jato)38. I beni confiscati che insistono in questi Comuni e vengono assegnati al Consorzio sono dati in gestione, attraverso apposite procedure di selezione pubblica, a singole cooperative sociali, nella maggior parte dei casi inserite nell'egida di Libera Terra39. Il Consorzio mira inoltre all'inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, creando così opportunità occupazionali e ispirandosi ai principi della solidarietà e della legalità. L‟ambizione del progetto consortile è quella di dimostrare che “ l‟assegnazione dei beni confiscati in un territorio possa portare vantaggi concreti non solo a chi gestisce direttamente i beni ma in generale anche ai territori e ai produttori vicini”.

5.3 I beni Casi Studio

Come anticipato tratteremo adesso approfonditamente due beni immobili confiscati e riutilizzati nel comune di Corleone: l'Agriturismo Terre di Corleone e La Bottega e il Laboratorio della Legalità.

5.3.1 L'agriturismo Terre di Corleone

L'agriturismo sorge all'interno di un fondo rustico sito in Contrada Drago, a ridosso della riserva naturale orientata “Gorgo del Drago”, in uno scenario di particolare rilievo paesaggistico, naturalistico e storico a pochi chilometri dal centro di Corleone.

38 Per approfondimenti sulla storia, la mission e l'amministrazione del Consorzio Sviluppo e Legalità si rimanda al sito http://www.sviluppolegalita.it/ 39 Libera Terra è un marchio che raggruppa i prodotti delle cooperative che aderiscono alla rete dell'associazione Libera e producono alimenti biologici sulle terre confiscate alle organizzazioni mafiose in Sicilia, Puglia, Calabria e Campania, sulla base della legge 109/96.

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L'area su cui insiste il bene, confiscato a Salvatore Riina, comprende 40.000 mq di terreno e alcuni fabbricati rurali, originariamente adibiti a stalle o depositi.

Figura 5 Agriturismo "Terre di Corleone"- Corleone (Pa)

Assegnata al Consorzio Sviluppo e Legalità in completo stato di abbandono, l'area è stata soggetta ad una massiccia operazione di recupero, attuata grazie ai fondi del PON Sicurezza 2000-2006, con un investimento pari ad € 606.291,5540 Grazie a questi fondi è stato possibile ristrutturare i fatiscenti fabbricati rurali e trasformarli in due unità ricettive: una destinata alla ristorazione, con 90 coperti, e l'altra destinata agli alloggi, costituita da quattro camere per 12 posti letto predisposte anche per portatori di handicap con servizi annessi. La struttura comprende anche un parco giochi per bambini, un campo polifunzionale e un campo di bocce. Nella struttura è infine presente anche uno spazio dedicato alla vendita dei prodotti a marchio Libera Terra, alcuni dei quali coltivati proprio nei terreni su cui è inserito l'agriturismo. L'agriturismo è gestito dalla Cooperativa Pio La Torre – Libera Terra, costituita nel Giugno del 2007 da quindici giovani del territorio corleonese, selezionati tramite un bando

40 Dati disponibili sul sito internet del Consorzio Sviluppo e Legalità.

120 pubblico promosso da Libera, dal Consorzio Sviluppo e Legalità, Italia Lavoro e dalla Prefettura di Palermo. La cooperativa ha struttura di Cooperativa Sociale41, e oltre a gestire l'agriturismo si occupa dei terreni che lo circondano e di altri fondi, per un totale di circa 100 ettari di terreni confiscati alla mafia e assegnati in comodato d‟uso gratuito dal Consorzio Sviluppo e Legalità, sempre nei comuni che aderiscono al Consorzio e destinati alla produzione di grano, legumi, uva da vino, olio e pere.

Destinato ad accogliere qualsiasi tipo di visitatore, l'agriturismo ha tuttavia come scopo primario quello di attirare un “turismo consapevole”, ricevendo cioè scuole, associazioni e gruppi che vogliano conoscere e approfondire le tematiche legate al riuso sociale dei beni confiscati, all'uso sostenibile delle risorse e al rispetto dell'ambiente. In questa prospettiva l'agriturismo è inserito nel circuito turistico creato da Libera, dal significativo nome “Libera il g(i)usto di viaggiare”, che attua percorsi di turismo responsabile in varie regioni d'Italia42. Dai colloqui con il gestore dell'Agriturismo e con il Presidente della Cooperativa Placido Rizzotto43, è stato possibile avere maggiori informazioni sull'attività della struttura e sulle problematiche di gestione. In primis bisogna ricordare che anche questo bene ha sofferto delle difficoltà dovute alle lungaggini burocratiche che possono verificarsi una volta assegnato il bene: inaugurato l'11 Novembre del 2008 è stato in attesa della certificazione di agibilità per più di un anno.

41 “Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio -sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi - finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Nelle cooperative si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione”(Legge 8 novembre 1991, n. 381 – “Disciplina delle cooperative sociali"- Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 3 dicembre 1991, n. 283) 42 Obiettivi della divisione turismo di Libera sono: “Un turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell‟ambiente e delle culture, riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto a essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio; opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori, per far conoscere l‟esperienza delle cooperative che operano sui beni confiscati e la storia della mafia e dell‟antimafia visitando luoghi simbolo; valorizza le risorse turistiche in un'ottica di sostenibilità e quelle paesaggistiche e naturalistiche dei territori”. Per maggiori informazioni http://www.ilgiustodiviaggiare.it 43 Le due cooperative, La Placido Rizzotto e la Pio La Torre, facendo entrambe parte del progetto Libera Terra lavorano a stretto contatto. L'attuale presidente della Cooperativa Placido Rizzotto, Francesco Galante, essendosi occupato dell'ufficio stampa e della comunicazione di Libera Terra per molti anni conosce approfonditamente tutto ciò che riguarda pass ato e presente delle cooperative.

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L'agriturismo ha cominciato l'attività dunque solamente nella Primavera del 2010, e per quanto riguarda il servizio di ristorazione, nel solo primo mese di start up ha visto la presenza di 200 persone, che già a Gennaio 2011 sono diventate tremila e duecento. Per la maggior parte sono persone che vengono da Palermo o dai dintorni, oppure stranieri in giro per turismo. E' lecito chiedersi come mai non vengano annoverati fra le presenze i cittadini corleonesi. Il gestore dell'Agriturismo assicura che le motivazioni non sono legate a paura o ritorsione: “I corleonesi non vengono perché un ristorante inserito in un agriturismo, in generale, riceve chi fugge alla routine cittadina e desidera passare una giornata in campagna, pranzano o cenando con cibo genuino e locale, gli abitanti di Corleone sono già immersi nella campagna, le domeniche e le feste si pranza e si cena in famiglia nelle abitazioni di villeggiatura, se si vuole fare qualcosa di diverso vanno nei paesi limitrofi, o verso le città più grosse … per questo non vengono al nostro agriturismo, ma non c'è alcun tipo di legame con la mafia, problemi di questo tipo, qui, non ne abbiamo mai avuti”.

E' importante sottolineare che l'Agriturismo è solo l'ultimo di una serie di attività sorte in questi terreni, dunque l'accettazione dell'iniziativa, da parte del territorio, è stata facilitata dalle precedenti attività svolte dalle Cooperative di Libera Terra sui terreni limitrofi. Se infatti l'agriturismo non ha avuto alcun problema, basta andare indietro di qualche anno, agli albori delle attività della Cooperativa Placido Rizzotto, per comprendere a pieno le difficoltà del territorio e la fragilità del sistema in cui si inseriscono queste attività. Sulle terre confiscate che si trovano nella stessa Valle, infatti, solo pochi anni prima, la Cooperativa Placido Rizzotto non riuscì a trovare una trebbiatrice per la prima raccolta del grano. Chi la possedeva, infatti, temendo ritorsioni non voleva affittarla alla cooperativa e la raccolta fu possibile solo quando i Carabinieri intervennero requisendo la prima macchina individuata nei dintorni44. E anche quando riuscirono ad ottenere dei trattori, i benzinai di Corleone non volevano neanche versare la benzina, per paura di compromettersi rispetto alla comunità, ed essere etichettati come “complici” di un'azione

44 Per approfondimenti sulle difficoltà affrontante dalle Cooperative agli albori delle proprie attività è utile una lettura delle ricostruzioni di Narcomafie, in particolare Lavorare sul campo di Davide Gangi, del 10 marzo 2005 e Il primo bene non si scorda mai, di Elena Ciccarello, del 4 marzo 2011

122 che veniva percepita come d'usurpazione e di stravolgimento dell'ordine prestabilito da anni di predominio mafioso.

Questo semplice aneddoto è utile a immaginare la mole di lavoro che è stato compiuto in meno di una decade da queste Cooperativa e dai loro lavoratori, che porta oggi il gestore del “Terre di Corleone” a non avere alcun tipo di problema con l'accettazione, da parte del territorio, di questo tipo di attività. Anzi, da quello che raccontano i ragazzi della Cooperativa sembra che la formula del riuso a fini sociali sia stata ampiamente recepita e interiorizzata: “E' un orgoglio, per il corleonese, poter parlare di questo tipo di esperienze, il riuso sociale è un vero e proprio riscatto per il territorio, specialmente per i giovani, che trovano occasione per lavorare in modo “pulito” e senza dover chiedere favori”.

L'impiego di maestranze locali, nelle Cooperative, sembra essere dunque la chiave del successo di queste esperienze, come sottolinea il Presidente della Cooperativa Placido Rizzotto : “Lavorando nei terreni confiscati il cittadino ha la vera percezione del riuso sociale, perché vive in prima persona come un bene confiscato possa rappresentare una risorsa che viene rimessa in circolo per il territorio”.

Alla fine di questa analisi possiamo dunque affermare che il bene è stato effettivamente oggetto di un'azione territorializzante, e a fini esplicativi possiamo riassumere i tratti peculiari del ciclo di territorializzazione, secondo lo schema di Turco, presentato nella seguente tabella:

Tabella 5 Gli atti territorializzanti per il bene "Terre di Corleone"; secondo lo schema di Turco A. (1988)

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5.3.2 La Bottega e il Laboratorio della Legalità

“L'ultima notte abbiamo dormito nella casa che fu di Bernardo Provenzano, di recente assegnata alla cooperativa "Lavoro e non solo". Un po‟ di emozione, un po‟ di paura percorre le stanze e i nostri pensieri per quella che sarà l'ultima notte corleonese prima del commiato. Prima di noi l'ultimo che ha dormito in questa casa è un Provenzano: Simone, il fratello del boss dei boss. Abbiamo tenuto tanto ad essere i primi a dormire in quelle stanze, tanto che ci siamo organizzati con taniche e candele per sopperire alla mancanza di luce ed acqua. Ma ne valeva la pena...”45 Marco Pignitore – Responsabile campo di lavoro dei ragazzi toscani a Corleone, Luglio 2007

Figura 6 Bottega e Laboratorio della Legalità - Corleone (Pa) - Esterno

45 Dal blog che raccoglie le esperienze dei volontari sui campi di Libera http://cittanuovecorleone1.blogspot.com/2007/07/notte-casa-provenzano.html. Url consultata l‟ultima volta il 10 ottobre 2011.

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La palazzina si trova nel cuore del centro storico di Corleone e come racconta la testimonianza di questo ragazzo, fino a poco tempo prima che venisse assegnato al Comune era la residenza dei familiari del capo mafia Bernardo Provenzano, detto “U tratturi” o “Zù Binnu”, diventano celebre per il suo modo di comunicare, durante la sua latitanza, attraverso i “pizzini”.

La struttura, inaugurata il 15 Agosto 2010 con una solenne cerimonia a cui hanno partecipato le alte cariche dello stato, è una classica palazzina del centro storico su tre livelli, per un totale di 240 mq. Assegnata definitivamente al Comune di Corleone nel Maggio 2005, ha visto una lunga via prima di essere restituito alla collettività. Le difficoltà iniziano con i tentativi, da parte della famiglia Provenzano, di opposizione alla confisca: il fratello Salvatore cercò infatti di dimostrare in tribunale che la palazzina, da lui effettivamente acquistata nel 1969, non aveva nulla a che vedere con il fratello Bernardo o con i redditi provenienti da illeciti. Salvatore Provenzano, che abita tutt'ora nella palazzina a fianco della struttura confiscata, continua a ritenere che quell'immobile gli sia stato “rubato dallo Stato”. Proprio il giorno dell'inaugurazione solenne della struttura lo ha ribadito al giornalista che lo intervistava46: “[…] Quella casa è solo frutto del mio sudore, per anni di lavoro fatto in Germania come operaio. Ecco perché dico che quella casa è stata rubata dallo Stato. E oggi provo solo un senso di grande amarezza: lo Stato vuole per davvero fare giustizia e conoscere la verità? Si guardi dentro [...]” E in risposta ad una domanda su cosa ne pensasse della presenza del Ministro Maroni per l'inaugurazione, aggiunse: “Ma cosa ne sa questo ministro della Lega di Corleone? E cosa ne sa di questa casa che è stata rubata dallo Stato? Ho le carte che provano i miei anni di lavoro in Germania, e poi anche la donazione di un mio zio e un prestito di mia sorella. Quelle carte avevano convinto i giudici di primo grado a disporre il dissequestro,

46 Salvatore Provenzano: “Mio fratello capro espiatorio dei misteri d’Italia” di Salvo Palazzolo, Repubblica Palermo, 15 settembre 2011

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ma non sono bastate alla corte d‟appello. Ho portato altre carte in Cassazione, ma è stato inutile. Ve l‟assicuro, in quella casa mio fratello non c‟è mai stato”.

Queste dichiarazioni riescono a far comprendere l'attaccamento verghiano dei mafiosi alla “roba” loro e della loro famiglia. Eppure il bene è stato sequestrato e assegnato al Comune che ha deciso di sperimentarvi una cogestione, affidando a più attori del territorio i diversi spazi del bene, divisi tra i locali del piano terra e i piani rialzati, destinati ad attività diverse. I locali del piano terra sono stati affidati in gestione al Consorzio Sviluppo e Legalità che attraverso un apposito finanziamento di € 55.200,00 del Programma PON Sicurezza, ha recuperato il prospetto e i locali del piano terra, che sono stati destinali alla realizzazione di una “Bottega dei Sapori e dei Saperi della Legalità”. Effettuati gli interventi per rendere fruibili i locali il Consorzio ha affidati in gestione la Bottega alle Cooperativa che gestiscono le terre del Consorzio: le Cooperativa Placido Rizzotto, Pio la Torre e Lavoro e Non Solo. La scelta della gestione è strettamente legata ai prodotti in vendita nella bottega: questa infatti commercia i prodotti delle cooperative che lavorano nei terreni confiscati alla mafia, a marchio “Libera Terra” e realizzati dalle Cooperative che aderiscono allo stesso Consorzio dei Comuni Sviluppo e Legalità. La Bottega, dunque, vende vino, passata di pomodoro, pasta e legumi, tutti realizzati secondo il sistema di produzione biologica nei terreni dei comuni aderenti al Consorzio confiscati ai mafiosi della zona.

Per quanto riguarda invece i piani superiori, questi ospitano il “Laboratorio della Legalità”, “un'associazione di associazioni” voluta dal Comune di Corleone. I locali sono stai ristrutturati grazie ad un finanziamento della Regione Siciliana e del Comune di Corleone e affidati ad alcune realtà associative del territorio “fortemente intenzionate a contrastare il movimento criminale e mafioso con la forza delle idee, con il confronto delle esperienze positive e con il proponimento di dare un‟immagine del paese vivace e desideroso di riscattare un passato tormentato47”. L'Associazione Laboratorio della Legalità è formata dunque dalla Cooperativa Sociale Lavoro e non Solo, il centro di ricerca e formazione professionale CE.RI.FO.P. e le

47 Dal sito ufficiale del Laboratorio: http://www.laboratoriodellalegalita.it/ Url consultata l‟ultima volta il 10 ottobre 2011.

126 associazioni Omnia Onlus e Il Germoglio. L'obiettivo primario di questo Laboratorio è quello di rendere l'abitazione dei Provenzano, simbolo della presenza mafiosa nel territorio, un simbolo positivo e costruttivo di legalità ed educazione antimafia. La “Associazione di associazioni” che gestisce il bene si prefigge infatti l'obiettivo di diventare un centro di aggregazione per il territorio, attraverso iniziative di diverso tipo come la presentazione di libri, seminari, dibattiti e proiezioni di film. Inoltre, vuole essere un ambiente privilegiato per chiunque voglia approfondire lo studio del fenomeno mafioso e del movimento antimafia. Per farlo prevedono di acquisire, in collaborazione con il Comune di Corleone, materiali storici e informativi di vario genere, al fine di approfondire anche gli strumenti giuridico - normativi utili alla lotto contro l'attività criminale. L'Associazione Laboratorio della Legalità persegue dunque la formazione come metodo di contrasto al potere mafioso, sostenendo qualsiasi tipo di attività utile alla diffusione della cultura della legalità. “Il Laboratorio della Legalità costituisce un'officina culturale che intende promuovere un effettivo cambiamento di mentalità e l'instaurazione di nuovi stili di vita sociale, coltivando la partecipazione democratica alla vita della comunità in un territorio fortemente segnato dalla presenza mafiosa” (ibidem). L'attenzione dell'associazione è rivolta a tutti i cittadini corleonesi, ma non solo, nei locali del Laboratorio si accolgono soprattutto giovani e giovanissimi, provenienti da scuole di ogni ordine e grado che vengono a Corleone.

La struttura, un vero e proprio simbolo per il territorio, è a sua volta un mosaico di simboli. Le scale che conducono ai piani superiori sono state costruite in vetro trasparente, per simboleggiare la trasparenza della legalità e il passamano è in ferro, resistente come la tenacia di chi, negli anni, si è opposto al potere mafioso. Sempre sulle scale, su una vasta parete sono impressi i nomi di tutte le vittime di Cosa Nostra. Arricchiscono il Laboratorio anche le sagome che rappresentano a grandezza naturale i personaggi che hanno costellato la storia della mafia e dell'antimafia, donate dallo scrittore Carlo Lucarelli.

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Figura 7 Bottega e Laboratorio della Legalità - Corleone (Pa) - particolare scale

Il contributo maggiore donato alla struttura, che ha permesso la costruzione di un vero e proprio museo, è dato la collezione permanente dell'artista partinicese Gaetano Porcasi. Il Laboratorio è infatti arricchito da 53 opere su tela che accompagnano il visitatore, raffiguranti la storia della mafia e dell'antimafia dalla fine dell'ottocento fino alla cattura dei boss Provenzano e Lo Piccolo. Sul sito internet del laboratorio si legge che il percorso rappresenta: “Un viaggio attraverso un preciso spaccato di storia e memoria, un itinerario in una scissione temporale che solo apparentemente segue la linea cronologica attraverso una precisa numerazione voluta dall'artista, il quale marchia le opere incorniciando gli anni degli avvenimenti che cosi raffigurati diventano i numeri civici di un violento tragitto”

La pittura dunque diventa strumento di denuncia, formazione e informazione: i dipinti sono spesso un mosaico che riproduce i ritagli dei quotidiani che hanno scandito la cronaca della storia della mafia e dell'antimafia.

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Figura 8 Bottega e Laboratorio della Legalità - Corleone (Pa) - primo piano

E proprio la loro forza evocativa cattura la sensibilità del visitatore, specialmente dei giovanissimi. Come racconta un volontario dell'associazione che accoglie le scuole e le guida nel tour della struttura: “i più piccoli sono quelli che fanno più domande, non basta illustrare loro la storia impressa in ogni quadro, sono curiosi, fanno ancora domande, innocenti e a volte timorose, come quando scoprono la storia del piccolo Di Matteo48 e che la mafia ha ucciso anche giovanissimi come loro che adesso sono nella casa confiscata alla famiglia del boss, che comprendono la ferocia della mafia e l'importanza dell'antimafia e della legalità”.

Oltre a questa testimonianza è stato possibile raccogliere inoltre quella di un dipendente della Cooperativa Placido Rizzotto, un ragazzo di 23 anni che si occupa della gestione

48 Figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, il primo a raccontare agli inquirenti della Strage di Capaci, Giuseppe Di Matteo fu rapito quando aveva 12 anni nel tentativo di far tacere il padre, che tuttavia non si piegò al ricatto. Dopo 779 di prigionia venne strangolato e sciolto nell'acido. Per l'omicidio sono stati condannati all'ergastolo tre boss: Giuseppe Brusca, Leoluca Bagarella e Gaspare Spatuzza. Nel luogo in cui fu tenuto prigioniero, a San Giuseppe Jato (Pa) è stato istituito nel 2008 un Giardino della Memoria. Al piccolo di Matteo è stato dedicato anche il Centro Ippico annesso all'agriturismo Portella della Ginestra, sorto su un bene confiscato a San Cipirrello (Pa) e assegnato alla Cooperativa Placido Rizzotto. Per approfondimenti sulla vicenda Di Matteo, Lodato S. (1999) “Ho ucciso Giovanni Falcone” La confessione di Giovanni Brusca, cap. VIII, Mondadori

129 della Bottega, con cui si è affrontato il tema dell'accettazione, da parte dei concittadini, della presenza e dell'attività della Bottega e del Laboratorio. “Di gente che si oppone all'idea della bottega non ce n'è mai stata, anzi, la curiosità dei vicini che vengono per vedere quello che facciamo, chiede come funzionano i processi di produzione dei legumi piuttosto che della salsa, [..] il corleonese ha la curiosità di sapere cosa facciamo e cosa vendiamo, anche se non viene a comprare perché poi magari il prodotto biologico risulta caro, però c'è la curiosità di capire che succede in quel posto”. E alla domanda su come vivono il rapporto con il vicino di casa Provenzano, se questo in qualche modo rende difficile ai concittadini avvicinarsi alla Bottega, il ragazzo dimostra di avere le idee molto chiare: “Oramai non interessa a nessuno quello che pensa Provenzano! Quando viene la vecchietta che abita qui di fronte a farti mille domande è un piacere perché ora è la vicina della Bottega, ma prima è stata anche vicina della famiglia Provenzano, per cui sfida lo stereotipo di mafia e nonostante il fratello di Provenzano sia qui di fronte e magari possa vedere, alla vecchietta non gliene frega niente e viene!”.

Possiamo dunque concludere l'analisi di questo caso studio ripercorrendo le tappe del processo di territorializzazione di cui è stato oggetto, facendo riferimento ancora una volta allo schema proposto da Turco e qui rivisitato per il nostro caso studio.

Tabella 6 Gli atti territorializzanti per il bene "Bottega e Laboratorio della Legalità"; secondo lo schema di Turco A. (1988)

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5.4 I beni confiscati e la risposta del territorio

Passiamo dunque alla seconda fase della ricerca che, attraverso la consultazione di un campione di attori del territorio, mira a mettere in luce il processo di integrazione di questi beni all'interno del tessuto territoriale.

5.4.1 Analisi dei questionari

I primi dati raccolti, attraverso il questionario, riguardano le caratteristiche socio- demografiche degli intervistati. Le persone intervistate, sono nate a Corleone e vi continuano a risiedere, tranne un singolo intervistato che vi si è trasferito con la famiglia durante la prima infanzia. L'età del campione è compresa fra i 23 anni e 31 anni e per quanto riguarda la professione questa è varia, il campione è infatti composto da: due studenti, uno studente-lavoratore, un professore, un libero professionista e un disoccupato. Il questionario, inoltre, mira a raccogliere delle informazioni preliminari circa il livello di conoscenza, da parte dei soggetti intervistati, della procedura di sequestro e confisca dei beni e della distribuzione di questi sul territorio corleonese.

Dall'analisi delle risposte si ricava un quadro generale di buona conoscenza del fenomeno, chi più chi meno approfonditamente, tutti gli intervistati hanno risposto di conoscere la procedura di sequestro e confisca. Per quanto riguarda invece la dimensione del fenomeno, nessuno degli intervistati ha dato una risposta certa sul numero dei beni confiscati presenti nel comune : da un azzardato “cento”, ad approssimazioni alla “decina” o “ventina” di beni, fino a un più generico “molti”. Successivamente è stato chiesto agli intervistati se conoscevano o meno i beni oggetto di questa ricerca, ovvero l'agriturismo “terre di Corleone” e la “bottega della legalità”. Tranne un soggetto tutti hanno affermato di conoscere le due strutture, ma tuttavia la bottega è sicuramente la più frequentata, per la partecipazione ad eventi culturali, o semplicemente perché un amico è uno dei volontari del laboratorio e si passa a trovarlo. Infine, è stato chiesto quali altri beni confiscati conoscessero nel comune e le risposte sono state pressoché identiche: venivano segnalati infatti i terreni (anche se il più delle volte non

131 si conosce l'esatta ubicazione) ed altri immobili nella zona abitata di Corleone affidati all'istituto agrario, piuttosto che alla guardia di finanza o destinati a sede di cooperative e associazioni.

Nel complesso, il campione si conferma come composto da “osservatori privilegiati”, tutti i soggetti intervistati, infatti, partecipano direttamente o indirettamente (per via delle testimonianze di amici o familiari) alla vita associativa del comune di Corleone e dunque fanno parte del fenomeno oggetto di studio ma allo stesso tempo hanno su questo una prospettiva più partecipe, e dunque una conoscenza maggiore.

5.4.2 Analisi delle interviste

Di seguito verranno dunque analizzate le risposte che sono state date durante le interviste approfondite. Queste verranno analizzate per tematiche affrontate, al fine di permettere una visione d'insieme delle risposte date dai vari soggetti alle singole domande.

La rilevanza del fenomeno mafioso Praticamente tutti gli intervistati sono concordi nel considerare il fenomeno mafioso, nel comune di Corleone, ancora rilevante. Tuttavia, ciò che viene sottolineato da quasi tutti gli intervistati è il cambiamento che si è dato, nel corso degli ultimi decenni, nei modi di agire della mafia. A questo cambiamento gli intervistati fanno risalire anche il cambiamento dell'importanza della mafia corleonese e del suo carattere di “visibilità nel territorio” . E' bene ricordare infatti, come del resto viene ricostruito dagli stessi intervistati, che Corleone è stato uno di quei territori in cui la mafia esprimeva in modo pubblico tutta la sua violenza e ferocia, con frequenti sparatorie, assassini e minacce contro rivali e oppositori. Ma se quel tipo di mafia non esiste più, i corleonesi sanno bene che non vuol dire che non esista affatto la mafia: “[…] Sicuramente è ancora presente anche se è cambiato modo di gestire, adesso è molto più imprenditrice la mafia, è meno visibile, più silenziosa.. prima uccideva, adesso la mafia lavora, fa attività imprenditoriale, quindi è presente ma in una maniera completamente diversa” (intervista 4);

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“[…] La mafia non è più un fenomeno da guerriglia come lo era nei tempi passati ma è diventata una sorta di gestione da S.p.A. più che altro, quindi andando a gestire tutti quei beni e patrimoni che nel corso degli anni sono stati acquisiti illegalmente e possibilmente tramandati da figli e nipoti che comunque continuano ad avere origine mafiosa” (intervista 5).

Ciò su cui tuttavia insistono maggiormente gli intervistati non è tanto la rilevanza del fenomeno mafioso a livello di criminalità, quanto più la presenza di un retaggio culturale legato a quel modello sociale che per anni è stato predominante sul territorio, modificando e plasmando l'intera società: “Rilevante è il fenomeno della mafiosità, nel senso che la mafia ha lasciato una macchia indelebile nella mente e nella mentalità dei corleonesi” (intervista 3);

“[...] a livello mentale è molto rilevante, c'è ancora un retaggio di mentalità di modi di fare legati all'orgoglio mafioso, non lo so, al vivere mafioso, che ancora si sente, anche nelle piccole cose, nei bambini che litigano, negli adulti che fanno i furbetti, qualsiasi cosa, anche nelle stronzatine si percepisce” (intervista 6);

Da sottolineare infine, una risposta che si discosta completamente dalle altre, più o meno simili, e che, pur non negando una rilevanza del fenomeno mafioso sul territorio, ne ridimensiona sensibilmente l'importanza e l'influenza che questa può avere sulla vita della collettività: “Non credo che la mafia corleonese occupi un ruolo importante come lo occupava prima e non è rilevante diciamo in maniera evidente nella società corleonese, nel senso che io penso di vivere in un paese libero dove posso dire quello che penso della mafia, dove posso parlarne naturalmente in termini negativi, senza che avverta la sua presenza o pericolo nel fare questo... credo che in altri paesi questo invece sia più difficile. Penso che nella misura in cui io mi sento libero di dire quello che voglio vuol dire che la loro presenza non l'avverto, e se non l'avverto diciamo che o c'è e non sono molto forti come prima, o non c'è. Però devo dire che i recenti arresti dicono che c'è questa mafia però hanno testimoniato anche che è una

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mafia molto debole, quella corleonese, ma non si può dire che non esista del tutto, questo no” (intervista 1).

Il legame della mafia con il territorio corleonese Come abbiamo avuto modo di approfondire nel cap.2 di questo lavoro, le mafie sono organizzazioni fortemente legate al territorio: a seconda del tipo di organizzazione criminale e del territorio in cui questa si insedia il legame cambia, cambia cioè il modo in cui l'organizzazione manifesta il suo predominio sul territorio e i canali stessi attraverso cui matura i suoi interessi illeciti. Si è tentato dunque di approfondire quale fosse, secondo gli intervistati, lo specifico legame fra i clan corleonesi e il territorio stesso. In questo caso le risposte sono state più variegate: alcuni infatti riconducono questo legame alla presenza, nel comune, dei nuclei familiari mafiosi, che continuerebbero dunque a tenere stretto il legame della mafia con il territorio : “Il legame fra la mafia e il territorio corleonese risiede nelle famiglie, le famiglie famose che hanno avuto una storia mafiosa e che adesso come dire in un certo modo, sempre come dimostrano gli ultimi arresti, continuano con i loro rappresentanti più giovani” (intervista 1);

Torna, nelle risposte degli intervistati, anche il tema di una certa mentalità, propria degli abitanti adulti e anziani del paese, che comporterebbe dunque il persistere di questo legame: “La mafia di per sé si manifesta in diversissimi modi, da un lato come attività criminale tout court, dall'altro anche con una sorta di cultura, di mentalità, quindi è molto difficile riuscire a scindere le due cose”(intervista 2);

“Adesso credo che ne rimanga qualcosa a livello di mentalità soprattutto nelle generazioni precedenti...se questo può essere il legame con il territorio credo che risieda qui, nella mentalità un po' delle generazioni più grandi” (intervista 1).

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Anche quando vengono individuate quelle che sono le caratteristiche proprie attraverso cui si manifesta il fenomeno mafioso, come ad esempio nel campo dell'agricoltura, viene comunque considerata la componente culturale come determinante: “Corleone è un paese che vive di agricoltura quindi quel fenomeno di mafia che nasce con l'agricoltura e che instaura quei meccanismi di sviluppo dell'agricoltura bene o male resta ancora nella mentalità del “villano”, del contadino corleonese, quindi ancora legato a quel metodo di lavoro antico, anche se non più sotto la mano mafiosa ma comunque dev'essere quella mentalità arretrata e antica in cui appunto si è instaurata la mafia, quindi il “villano” contadino resta villano e non diventa imprenditore” (intervista 3).

Solo alcuni riescono a scindere la problematica legata al carattere culturale per ricondurre il legame mafia-territorio a “pratiche” più o meno visibili o conosciute, tuttavia, anche quando vengono forniti esempi concreti di manifestazioni di questo legame, nulla viene dato per certo, e le affermazioni vengono poste sempre sotto forma di ipotesi o dubbi che è lecito porsi: “[…] rimane il dubbio che qualche interesse nella vita politica sia ancora esistente c'è” (intervista 5);

“A Corleone non c'è molta opportunità di lavoro, quindi nel suo piccolo magari la mafia può dare lavoro a chi ne ha bisogno e quindi con questo sistema anche controllare il territorio e i cittadini” (intervista 4);

“[...]C'è un sottobosco di cose inspiegabili, in realtà, che poi diventino evidenti è difficile, […] ci sono, non lo so, strutture e servizi che non devono essere fatti, altri che devono essere fatti in maniera sovrabbondante, non so, per esempio, il numero delle banche a Corleone, ci sono cinque o sei banche per diecimila abitanti scarsi, mi sembra abbastanza curioso, sono assai!, quindi c'è qualcosa, dov'è non si capisce, ma dal mio punto di vista almeno non si capisce” (intervista 6);

Resta tuttavia la consapevolezza che la visibilità o meno dell'interazione fra mafia e territorio non sia un evento casuale :

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“Una cosa è sicura, la strategia mafiosa cambia negli ultimi anni e il fatto che ci siano meno morti, il fatto che non stiamo più stile anni '70 o stragi anni '90 fa tutto parte di una strategia della mafia, per chiuderla con un detto siciliano, che si utilizza spesso in questi casi “calati che passa a china”, nel senso abbassati e lascia passare la piena” (intervista 2).

Il predominio della mafia su spazi e usi pubblici del territorio A questo punto si è voluto approfondire il tema del predominio mafioso sugli usi pubblici del territorio, sia in una prospettiva storica, ovvero come si è manifestato negli anni il condizionamento dello spazio pubblico e su come questo sia o meno ancora presente nel territorio corleonese. Le considerazioni, rispetto a questa tematica, rispecchiano due orientamenti principali: una parte degli intervistati ritiene che sebbene questa possa essere stata una dinamica caratterizzante dell'azione mafiosa nel territorio negli anni '60 e '70, ad oggi, il perpetrare di un controllo degli spazi e usi pubblici del territorio sia da escludere; altri intervistati, al contrario, pur non riuscendo a identificare con certezza i possibili ambiti e forme di questo condizionamento, non si sentono di escluderne l'esistenza. Le affermazioni di chi dunque ha un atteggiamento positivo poggiano principalmente su esempi che mostrano la libertà di cui godono oggi le generazioni più giovani di Corleone, al contrario dei genitori o dei nonni, nel vivere gli spazi della città, anche quando questi vengono sfruttati per pubbliche opposizioni alla mafia: “La mafia si è instaurata a Corleone nei primi anni del novecento e fino agli anni '60 e '70 ha avuto il predominio assoluto sulla vita pubblica del corleonese; il corleonese esce dalla porta di casa e la prima cosa, la prima entità che incontra non è l'istituzione o l'amministrazione, è la mafia.[..] Dagli anni '70 in poi la mafia è diventata “criminalità organizzata” che per come la conosciamo adesso si sposta a Palermo, a Roma, in Italia e nel mondo e Corleone resta quel paesino piccolo che è e comunque sia non c'è più un predominio della mafia nella vita pubblica: il ragazzo corleonese, mi sento di dirlo, può uscire tranquillamente, si può muovere liberamente e sentirsi orgoglioso di partecipare alle manifestazioni che si occupano di legalità e antimafia, fare le manifestazioni in ricordo delle vittime di mafia, o per opporsi alla mafia” (intervista 3);

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“Gli spazi pubblici no, io non ho mai avuto questa sensazione e sono uno che partecipa ad una associazione che fa molto in questo senso, che si muove molto all'interno del paese per cui bene o male abbiamo il polso della situazione quindi direi di no” (intervista n.1);

Sulle possibili forme di condizionamento della vita pubblica e degli spazi pubblici dei cittadini gli intervistati propongono alcune interpretazioni dei modi in cui si dispiegherebbe tale controllo mafioso: “In piccola parte secondo me si, purtroppo secondo me si, ma anche per una sorta di suggestione anche auto imposta, ma secondo me in parte è ancora presente” (intervista 5);

“Il territorio di Corleone è abbastanza grande rispetto alla grandezza del paese, i comuni di Contessa, Marineo...sono come una “provincia di Corleone” e in realtà nonostante queste dimensioni non c'è, non ci può essere, una visione chiara di come si muovono i soldi e gli appalti, non saprei realmente come si muovono, perché comunque il territorio è vasto. E' tutto fatto in maniera forse poco visibile al cittadino per le cose che contano, per le cose di tutti i giorni come piccoli ammodernamenti stradali, per le varie costruzioni o ristrutturazioni pubbliche però magari c'è qualcosa che si muove sotto e non so in che misura” (intervista 6);

“Forse bisogna vedere se e con quali forze riesce ancora ad organizzare la vita, l'attività economica legata all'agricoltura...“la terra”, anche se i mercati sono più internazionali, per esempio difficilmente potrebbero stabilire il prezzo del grano, però potrebbero esserci tanti piccoli modi per far valere magari la propria forza, bisognerebbe vedere un po' più lì secondo me, sul controllo delle attività della terra” ( intervista 2).

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I beni confiscati e la vita quotidiana di un comune ad alta incidenza mafiosa Si è cercato dunque di focalizzare l'attenzione e indirizzare l'intervista verso specifiche tematiche riguardanti i beni confiscati. In primis si è cercato di comprendere se, nella percezione degli intervistati, la procedura di sequestro e confisca incide o meno, e se si in che forme, sulla vita quotidiana dei cittadini. L'obiettivo era propriamente quello di mettere in luce, ove presente, una traccia di quella “animazione democratica del territorio” e dunque di una consapevolezza, da parte dei cittadini, della trasformazione messa in atto attraverso la sottrazione dei beni alla criminalità organizzata. Anche in questo caso le posizioni si dividono fra chi è fermamente convinto della funzionalità di questi beni al cambiamento della qualità della vita dei cittadini e chi, al contrario, si pone dei dubbi. La discriminante, fra le diverse posizioni in materia, verte fondamentalmente sulle finalità d'utilizzo di questi beni che ne determinano, o meno, la funzionalità per il territorio. Chi esprime un parere positivo a favore del cambiamento che questi beni attuano nella vita quotidiana dei cittadini ne sottolinea sia l'aspetto pratico che quello simbolico: “Cambia, certo indubbiamente cambia, questi beni riescono a dare un'idea diversa dei movimenti antimafia [..] cambia anche con i ragazzi che lavorano nei terreni, è il simbolo alla fin fine che il lavorare nel pieno rispetto della legge, delle regole, ti può portare un qualcosa di positivo, diventa produttiva, l'antimafia, non è solamente un concetto, da l'immagine che non è solamente giusto ma anche conveniente... la legalità paga! [..]le nuove generazioni, lo danno quasi per scontato, il riuscire ad entrare in un luogo ad esempio come la bottega della legalità confiscata alla famiglia Provenzano, e il fratello di Provenzano vive a pochi passi, nella stessa stradina stretta eh... non so, se io non ho niente da fare passo cinque minuti, come arriviamo noi magari passerà anche qualche altro, qualche altro amico, qualcuno del paese si ferma, per discutere cinque minuti... il che adesso è normale, forse qualche anno fa no, non lo era...” (intervista 2);

“Sicuramente un bene di un mafioso che diventa bene confiscato e quindi reso pubblico e a servizio del cittadino, sicuramente migliora in un certo senso la vita del corleonese, nel senso che questa era prima la casa di Provenzano, luogo in cui magari Provenzano stesso faceva i suoi interessi, adesso è l'interesse del cittadino il

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primo principio che ispira questo posto,[..] da posto, da casa della mafia diventa posto, casa dell'antimafia, quindi c'è un stravolgimento totale delle cose” (intervista 3).

Chi invece dimostra un minore convinzione, tende a creare un differenziale fra chi effettivamente ha una fruizione del bene, e dunque trae benefici dall'utilizzo, e chi invece rimane estraneo alla fruizione del bene. La problematica della fruizione, per alcuni, riguarda le difficoltà di inserimento dei beni nel tessuto territoriale, per altri invece riguarda fondamentalmente l'affidamento delle terre alle cooperative, che a parere degli intervistati, coinvolge esclusivamente chi effettivamente partecipa all'attività sui terreni e non l'intera popolazione cittadina.

“Questi diciamo beni confiscati in un certo senso poi vengono affidati a delle associazioni, a delle cooperative che sono ancora solo parzialmente inserite nel tessuto cittadino; dunque penso che cambi ancora poco nella vita quotidiana. E poi penso anche, e questa è una cosa importante, che il processo diciamo partendo dalla confisca fino ad arrivare al reale utilizzo penso sia ancora troppo farraginoso” (intervista 1);

“Cambia per quanto riguarda l'interesse della mafia, perché togliere loro un patrimonio e questo fa tantissimo. Rispetto alla popolazione abbiamo visto come può dare in alcuni casi lavoro, anche se diciamo non è che tutti lavorano oppure c'è molto lavoro da questi beni confiscati, almeno a Corleone” (intervista 4);

“Può cambiare ma non tanto, perché secondo me chi è direttamente interessato a questo tipo di procedure può riceve una sorta di beneficio, ma la gente che comunque ha il suo lavoro e la sua vita quotidiana il fatto che un bene venga confiscato o non venga confiscato diciamo non incide in nulla, tranne che se questo bene viene utilizzato dalla collettività, per un centro sociale o qualsiasi struttura di utilizzo pubblico, ma nel momento in cui un bene sequestrato viene affidato a qualche cooperativa di cui fanno parte solo determinati soci, allora non vedo l'utilità

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che possa avere, l'utilità è solo a beneficio della cooperativa stessa e dei loro soci” (intervista 5);

Infine, c'è anche chi è completamente scettico e teme per le possibili infiltrazioni mafiose nella gestione dei beni, che dovrebbero essere posti a maggior controllo: “In teoria si, belle cose, belle parole, bei fatti anche, in realtà la destinazione vera e finale di questi beni non è del tutto chiara...pulita, perché comunque tu vai a dare ovviamente a delle cooperative che si formano in maniera legale, ma non sai realmente se le persone nelle cooperative siano oneste, siano tutte pulite o se ci sia un tipo di legame con il padre e i nonni che è molte forte, e i padri e i nonni sono quelli famosi, quindi i padri e i nonni possono tornare in possesso indirettamente per conto terzi di quelle cose che sono state tolte, magari ci provano, non so se ci riescono, sicuramente vedersi togliere le cose da sotto il naso e vedere riassegnate a qualcuno del tuo stesso paese che “non se le merita” forse gli rode.[...]sicuramente ci sono delle associazioni totalmente pulite e serie che riescono a fare bene le cose, sicuramente come esempio per le future generazioni è un cosa importante che la comunità possa usufruire degli spazi tolti alla mafia, la reale collocazione di questi beni fa si che comunque è un rischio” (intervista 6).

La destinazione a fini sociali come antagonista della signoria territoriale mafiosa Si è cercato di approfondire la riflessione sugli effetti della destinazione a fini sociali in termini di riappropriazione, da parte della società civile, dei territori; comprendere cioè se lo strumento di destinazione a fini sociali, secondo gli intervistati, possa essere o meno un modo per rompere il legame della mafia con il territorio e instaurare delle nuove interazioni, positive, fra la cittadinanza e questi luoghi, determinando su questi un nuovo tipo di controllo, sociale e democratico. Dalle risposte degli intervistati emerge, per la prima volta in modo esplicito, l'importanza simbolica di questi beni :

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“Certo, può esserlo sicuramente, perché sono dei presidi sia simbolicamente che, spero nel futuro ancor di più, praticamente. Testimoniano una lotta che in questo caso è una vittoria nei confronti della mafia”(intervista n.1);

“[…] Realmente si da l'immagine della riappropriazione di quello che ci è stato tolto e quindi si, credo che potrebbe essere l'antagonista a quello che è il controllo del territorio mafioso” (intervista 2);

“Togliere un bene a un mafioso e darlo ad una cooperativa che produce vino e lo produce veramente questo si che è un vantaggio per la società” (intervista 4);

“Ti fa entrare nella tana del lupo una volta che è stata bonificata, quindi magari l'effetto di questi luoghi è di presa sulla popolazione, questa può essere forte, “in questi corridoi passava inosservato Provenzano”, adesso ci sono dei ragazzi che producono prodotti caseari. E' positivo ovviamente vedere le nuove generazioni che ne traggono grande beneficio” (intervista 6);

Uno degli intervistati pone l'accento su come non si può riporre unicamente nel riutilizzo dei beni confiscati alla mafia l'azione di contrasto al radicamento, profondo, della mafia : “Può essere uno degli aspetti, è solo uno dei piccoli aspetti che comunque cambia questa mentalità, poi giustamente ci sono le amministrazioni che fanno l'80% del lavoro, i beni confiscati e il riutilizzo dei beni confiscati sono solo un piccolo tassello che serve a cambiare quella determinata popolazione, ma solo un piccolo tassello” (intervista 3).

Infine, c'è chi mostra dubbi ponendo il problema, già sottolineato da un altro intervistato nell'ambito della tematica precedente, della vigilanza sulle possibili infiltrazioni mafiose nella gestione dei beni: “Bisogna stare attenti a questo, perché possibilmente c'è il rischio che la mafia attraverso qualche sistema possa in un certo senso tornare a contatto con i beni sequestrati, è necessaria una vigilanza molto severa in merito, giustamente non è

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facile però la strada verso cui si deve andare è questa, vigilare attentamente” (intervista 5).

Gli effetti benefici dei beni confiscati per il territorio Si è passati dunque a tirare le somme delle riflessioni effettuate con ciascun intervistato, stimolando ad un giudizio complessivo sui possibili effetti positivi, per il territorio corleonese, dell'assegnazione a fini sociali dei beni confiscati. Nello specifico, si è cercato di comprendere la portata effettiva di questi effetti benefici sulla base di alcuni possibili miglioramenti, in termini di qualità della vita, sicurezza, opportunità di lavoro, l'immagine che si ha e che si proietta verso l'esterno del territorio. Dalle risposte degli intervistati emergono fondamentalmente quattro elementi descrivibili come effetti positivi a beneficio del territorio: il valore simbolico, il cambiamento culturale, il miglioramento dell'immagine di Corleone e le opportunità di lavoro. Per quanto riguarda l'elemento dell'immagine di Corleone è percepibile in quasi tutte le risposte un desiderio di riscatto, ed è facile comprenderne il motivo: sia per la storia che ha vissuto, ma soprattutto per l'immagine mediatica che lo ha rappresentato negli anni, il piccolo Comune di Corleone viene riconosciuto in quasi tutto il mondo come il paese dei mafiosi, quasi fosse il simbolo universale della mafia siciliana nel mondo. Quasi tutti gli intervistati inoltre, sottolineano l'importanza delle opportunità di lavoro create dalla nascita delle cooperative sociali che utilizzano i terreni confiscati alla mafia. Anche in questo caso è facile comprendere il motivo di tanta enfasi: basti ricordare l'alto tasso di disoccupazione e la scarsità di opportunità presenti nel territorio per i giovani che decidono di restare e non emigrare. Per questi giovani, dunque, le opportunità di ottenere un lavoro onesto e regolare, senza dover “chiedere favori a nessuno”, rappresentano veramente un'alternativa e una possibilità di sviluppo economico che coniughi il rispetto per la legalità e la giusta remunerazione. In questo senso l'azione delle cooperative sociali ha creato davvero un'alternativa quasi rivoluzionaria, dato il contesto territoriale, di sviluppo del territorio.

“In questo momento credo che gli effetti benefici siano soprattutto simbolici, cioè sono soprattutto un simbolo messo li a dire “noi questa cosa l'abbiamo tolta a chi ce

142 l'ha rubata in precedenza” spero che nel futuro possa essere anche un utilizzo maggiormente pratico, che la gente possa sentirne un po' di più l'utilità. [...] per l'immagine della città di Corleone fa molto, come opportunità di lavoro, anche li, fa molto, perché penso alle cooperative dove ci sono dei ragazzi corleonesi che lavorano; per altro, invece credo che ancora sia potenzialmente poco sfruttata questa cosa .. però per quei due fattori per esempio fa molto”(intervista n.1);

“Immagine della città indubbiamente: Corleone viene da una storia un po' particolare, infondo siamo un paesino di dieci miliardi di anime, forse l'unico caso al mondo, in qualunque parte del mondo conoscono il nome “Corleone” e quindi magari per chi viene da fuori trovare un bene riutilizzato, confiscato ai boss, che vive un'altra vita, ti da un'immagine positiva e migliore del tuo territorio nell'immediato. E' conveniente poi in termini economici, perché questi dovrebbero essere utilizzati come esempio per cercare di cambiare l'imprenditorialità del siciliano” (intervista 2);

“Il primo aspetto positivo del riutilizzo dei beni confiscati è sicuramente l'opportunità di lavoro che si creano, quei posti che prima erano luogo di interesse mafioso adesso sono luogo di interesse della cittadinanza. sicuramente poi anche per l'immagine, il turista che viene qua si ritrova il 99,9% dei beni confiscati riutilizzati e quindi quel metodo di riutilizzo vuol dire che funziona e se fatto funzionare bene è un'ottima cosa” (intervista 3);

“Soprattutto per l'immagine e qualche opportunità di lavoro. Non saprei dirti se la qualità della vita sia migliorata o meno, perché non so com'era la qualità della vita prima, io ho vissuto solo “la seconda parte della storia”, non mi ricordo la prima parte della storia, ero piccolo quando la vita era diversa da questa” (intervista 4);

“Sicuramente a livello di immagine Corleone ne esce bene, permette ai giovani di conoscere Corleone e diffondere un segnale positivo per l'Italia, ovviamente una cosa del genere con l'immagine che hanno dato, gioverebbe anche al turismo, il turismo che c'è a Corleone è dai fan del Padrino in giù, vengono per lo più per

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quello, il posto è piccolo, le attrazioni sono poche, è più il poter dire “sono passato da Corleone e sono tornato vivo” che è una cosa anche abbastanza offensiva! Sicuramente ci guadagna da questo punto di vista perché fa vedere che ci sono anche persone buone, sarebbe bello riuscire a realizzare di più, fare capire che c'è la stragrande maggioranza della popolazione che a tutto questo si oppone. Il corleonese parte con un background più forte di qualsiasi siciliano, tre film di Coppola sono un buon biglietto da visita” (intervista 6).

Solo un intervistato sottolinea esplicitamente l'importanza del cambiamento culturale che si può ottenere grazie all'utilizzo dei beni confiscati: “Credo forse il più importante in definitiva è il cambiamento culturale perché con l'andare del tempo passeranno le stagioni, quindi passa la stagione delle stragi, post stragi, delle confische, le stagioni del gran riutilizzo, rimarranno poi quei luoghi che diventeranno la normalità. Quando poi quei luoghi diventeranno la normalità in tutta Italia, forse li ci sarà anche un gran bel cambiamento culturale che potrebbe far cambiare la nostra Sicilia, anche perché la magistratura può arrivare fino ad un certo punto, per il cambiamento, poi tocca ai cittadini” (intervista 2).

Infine, c'è chi sottolinea nuovamente la necessità di destinare questi beni ad attività che siano il più possibile a servizio del cittadino, anche attraverso l'utilizzo da parte dell'amministrazione pubblica: “Si, se queste vengono utilizzate per fini veramente sociali possono migliorare la vita della collettività nell'ampliamento dei servizi dei cittadini, o anche con l'affidamento alle istituzioni pubbliche cosi queste possono essere più visibili nel territorio. Un piccolo esempio è di un bene sequestrato alla mafia che è stato affidato alla Finanza che ne ha ricavato una propria sede, quindi ha concesso allo Stato in un certo senso di essere più presente nel territorio e questo secondo me è il migliore esempio di riutilizzo di un bene confiscato” (intervista 5).

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Il punto di vista delle altre generazioni Non avendo avuto modo di intervistare gente adulta si è cercato di scoprire, attraverso la testimonianza dei giovani intervistati, qual è il punto di vista della popolazione più adulta e anziana della comunità di Corleone circa la confisca e il riutilizzo dei beni confiscati alla mafia. Si è chiesto dunque agli intervistati come avrebbe potuto rispondere alle stesse domande che gli erano state poste un concittadino di 50, 60 o 70 anni. Le risposte, in questo caso, sono state sorprendentemente unanimi : i ragazzi intervistati sono infatti ben coscienti di come il processo di cambiamento in cui sono inseriti loro e le generazioni che li seguono non coinvolge allo stesso modo le generazioni che li precedono. Le motivazioni di questa “frattura”, di questo scarto generazionale, è da rintracciare nel cambiamento della mafia stessa affrontato nelle prime domande di quest'intervista. Le generazioni più anziane hanno vissuto la mafia in prima persona, gli anni più violenti e tormentati, ma soprattutto hanno sperimentato un'assenza dello Stato molto più profonda. In quegli anni a Corleone non c'era un'alternativa allo strapotere mafioso, chiunque tentasse di opporvisi veniva brutalmente messo a tacere. Ciò che appare più rilevante è la lucida consapevolezza di questa differenza che separa le generazioni che hanno vissuto “gli anni della mafia”, da quelle che hanno vissuto “gli anni dell'antimafia”. Molti ammettono apertamente che sarebbe stato difficile ottenere risposte dai loro stessi genitori o nonni. E' tuttavia da rimarcare come non si veda in questo un tratto di omertà o qualcosa per cui è necessario forzare un cambiamento. In qualche modo, lo scarto di percezione fra le generazioni e la diffidenza rispetto al trattare certi argomenti, viene vissuta dai giovani intervistati come una conseguenza logica e comprensibile per quello che da quelle generazioni è stato vissuto e che a loro, fortunatamente, è stato risparmiato. I giovani intervistati sembrano percepire pienamente la pesantezza delle vicende che hanno caratterizzato la vita delle generazioni che hanno vissuto la città prima di loro e in un certo senso hanno nei confronti di chi è più grande una sorta di atteggiamento di benefica protezione, e riconosco il bisogno che la città tutta ha, oltre che di riscatto, anche di un qualche tipo di tranquillità e “normalità”. Per la loro forte valenza, in questo caso vengono qui di seguito proposte le risposte integrali date dai singoli intervistati:

“Assolutamente no, credo proprio che ci sia una forte differenza di percezione, tra noi giovani soprattutto quei giovani che comunque sono impegnati o che comunque

145 si interessano di questo e le generazioni un po' più grandi che la vedono con una certa diffidenza, soprattutto perché loro vedono queste opportunità generate dalla confisca dei beni solamente in senso più pratico, e quindi lì effettivamente loro sono molto diffidenti perché pensano che in realtà l'utilità sia minima. Io penso che oltre al ritorno pratico ci sia un valore simbolico che viene percepito dai giovani, che fanno una riflessione su questo e si accorgono del valore che ha una casa sequestrata ad uno dei vecchi boss corleonesi, però penso che fra le generazioni ci sia uno iato molto forte, e che quindi solo con il tempo questa cosa può essere universalmente riconosciuta in paese. Lo vediamo con molte di questi beni, terreni, case confiscate, si, c'è una differenza di percezione, perché noi, questi della mia età, quei simboli non li hanno vissuti in maniera così negativa, perché magari eravamo troppo piccoli, mentre le precedenti generazioni si perdono il valore simbolico di tutta l'operazione, secondo me per colpa di un po' di diffidenza che hanno nei confronti di tutta questa operazione” (intervista n.1);

“C'è gente che ricorda il suono delle lupare per strada e questo credo che condizioni anche molto il modo di pensare e di esporsi e aprirsi. Ci sono delle generazioni che sono un po' più restie, un po‟ per la cultura ormai della paura che arriva da lontano e per un modo di pensare e vivere la città in quel modo non ti togli più di dosso... cioè di sera non si usciva, ad esempio, non si parlava di certe cose perché non se ne parlava, se passava qualcuno magari ci si barricava dentro, cosi come se c'era la sparatoria, non si usciva, è quello il punto. Quindi indubbiamente la persona di settant'anni risponderebbe in maniera diversa, così come quella di cinquant'anni, credo che sia anche una cosa giusta, o perlomeno è incoraggiante, perché se i ragazzi, cioè se loro la pensassero come i ragazzi ancora non era cambiato nulla... forse è meglio che si inizia a cambiare a poco a poco, ma comunque ripeto, difficilmente se adesso ritorni a Corleone, magari se vedi gente molto anziana, trovi anche quello che ti viene a dire “a Bernardo Provenzano dovrebbero dargli la pensione, perché è malato” ma parliamo di gente molto anziana che utilizza due modi, se non posso parlarne bene non ne parlo, solamente per quello, e anche per una questione di paura, di tradizione forse... tra i giovani difficilmente troverai

146 qualcuno disposto a spendere due parole, non dico pro mafia, ma quanto meno filo- mafiosi” (intervista 2);

“Sicuramente le persone che sono più grandi qui a Corleone hanno vissuto quel fenomeno mafioso in prima persona, quindi quelle persone uscendo dalla loro porta di casa hanno vissuto l'entità mafiosa che vinceva in questo paese, quindi sicuramente il ragazzo non è legato, non ha vissuto quell'entità, non ha vissuto sulla propria pelle quell'esperienza e sicuramente più voglioso o più critico comunque più duro in questo senso. Tuttavia la persona di 50-60-70 anni secondo me sarà molto più contento di vedere un bene confiscato e quindi tolto alle mani della mafia, vivendo in prima persona l'entità mafiosa, vede che il bene funziona e che l'autorità e presente e si può dare coraggio che le cose possano cambiare. Il riutilizzo dei beni confiscati alla mafia principalmente serve a questo, per far vedere che l'istituzione c'è per questo diciamo che l'80% del ruolo di un cambiamento di una società che ha vissuto in prima persona la mafia, l'istituzione e l'autorità, perché con la loro presenza il cittadino senza forze e senza mezzi può dire un si molto più facile o un no molto più facile alla mafia, quindi si può schierare molto più facilmente dalla parte del giusto e del legale” (intervista 3);

“Molto probabilmente il 60% non ti risponde, l'altro 30% ti dirà che non so niente, perché appunto non è che tutti conoscono l'argomento e l'altro 10% ti dirà che la cosa è utile perché oramai crea posti di lavoro, anche se non è che questi posti di lavoro vengono dati proprio a tutti. I giovani conoscono anche loro poco alla fine del sistema dei beni confiscati, sicuramente potrebbero conoscere di più” (intervista 4);

“Sarebbe stato vissuto sicuramente in modo diverso, questo anche perché le generazioni diverse hanno vissuto il fenomeno mafioso ahimè di persona, e quindi la concezione dell'antimafia che era quasi inesistente non l'hanno ben definita, non capiscono molto spesso l'importanza dell'antimafia fatta a qualsiasi livello, possibilmente non capiscono nemmeno la motivazione per cui un bene possa anche essere affidato ad una cooperativa a causa anche di una diffidenza nei confronti

147 dello stato che in passato è stato molto assente nel territorio, quindi molto spesso la gente è anche diffidente nei confronti dello stato stesso, per la mancanza che c'è stata quando lo stato doveva esserci, quindi ovviamente le persone che hanno vissuto quello sono diffidenti anche nei confronti di questo tipo di operazioni che spesso possono essere viste come fine a se stesse” (intervista 5).

“Posso immaginare il punto di vista di chi si è dovuto materialmente chiudere in casa e chiudere la porta in determinati momenti della propria vita che alla fine direi che è diverso dal mio che alla fine, in realtà c'è stato un attentato quando ero piccolo c'è stato vicino casa mia, a parte quello nella mia esperienza di vita a Corleone non è stata così drammatica, nel senso che mai un clima così pesante come ad esempio gli anni '60... quindi di sicuro loro hanno sperimentato …. un vivi e lascia vivere, piuttosto pericoloso, perché loro stessi sapevano quali erano le conseguenze di chi si metteva contro il potere mafioso, gente che magari ha visto passeggiare a Corleone Placido Rizzotto se la sarà pensata prima di poter azzardare a fare qualcosa di simile...quindi avrà sicuramente portato un tacito rispetto timoroso per quelle che erano le gerarchie di potere a Corleone. La natura di chi ha passato 70-80 anni in un paese come Corleone... ovviamente è una realtà che ti segna profondamente quindi è difficile, più si va indietro con l'età e più è difficile che questa cosa venga recepita e agisca nella mentalità degli anziani, forse la generazioni intermedie che si sono volute liberare da quest'immagine e non ha vissuto quello che hanno vissuto loro, forse in qualche modo per loro riesce a passare meglio il messaggio e riesce ad essere funzionale, comunque parliamo di 50 anni di storia che non sono niente per cambiare la mentalità di un posticino arroccato sopra le montagne con 10mila anime... che sono andate diminuendo, negli anni '60 la popolazione di Corleone era molto più grande, cioè forse 16 17mila abitanti... dove sono andati a finire? evidentemente quelli che sono rimasti vedendosi scappare via i più audaci si chiudevano ancora di più, la realtà si andava restringendo e il cambiamento era sempre più difficile. ma comunque se può avere un esito positivo di sicuro può cercare di cambiare le mentalità nell'ultima generazioni a salire, quelle di prima ancora non possono uscire da questo modo di subire il potere... a sessant‟anni ti arriva l'associazione di Libera che ti espropria il

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bene non c'è un immobile che era di don toto o don Peppino o chiunque sia, che cosa ti cambia? In quel momento tu sei un sopravvissuto a tutto quello che dovevi subire, adesso li puoi guardare, adesso puoi sorridere, ma ce l'hai sempre l'istinto a tenerti a distanza” (intervista 6).

5.4.3 Conversazioni con gli intervistati non strutturate

Come anticipato quest'ultima parte dell'intervista ha avuto buon esito solo in alcuni casi. Un intervistato è voluto tornare sul tema del cambiamento che ha vissuto Corleone negli ultimi anni, raccontando aneddoti legati alla propria famiglia per esplicare al meglio la dimensione, pratica, di questo cambiamento: “Bisogna comprendere che qui a Corleone le cose sono cambiate. Mio padre mi racconta sempre di come la viveva lui questa città, e lui non poteva andare in giro libero di dire quello che voleva, in paese si sussurravano certe cose o meglio non si dicevano proprio. Mai nessuno adesso ha messo in discussione che io potessi o meno dire o non dire male della mafia... io sono libero di dire quello che voglio, mica siamo a Partinico, dove ancora a Maniaci49 ogni due mesi gliene combinano qualcuna e lo pestano e gli bruciano la macchina... le cose cambiano e a Corleone sono cambiate, per fortuna, adesso io ho una libertà che prima non esisteva e che pian piano ci siamo conquistati, come società libera”.

Un altro intervistato, invece, ha dedicato le ultime riflessioni ad alcuni dubbi circa l'effettiva capacità di estromissione, dalle procedure di assegnazione dei beni, delle famiglie mafiose: “Viene da chiedersi se veramente ci siano i giusti controlli o meno... alla fine in paese siamo sempre noi, le famiglie sono sempre quelle, la mafia riesce a fare ben

49 L'intervistato si riferisce a Pino Maniaci, direttore dell'emittente televisiva comunitaria Telejato. Il telegiornale di Telejato si è da sempre caratterizzato per l'attività di informazione e denuncia contro la criminalità organizzata, verso un bacino di utenza caratterizzato storicamente dalla forte presenza mafiosa (Alcamo, Partinico, Castellammare del Golfo, San Giuseppe Jato, Cinisi, Montelepre). Per la sua inarrestabile attività di denuncia il direttore è stato vittima negli anni di aggressioni, minacce e attentati. La redazione però, non si è mai lasciata intimidire e Telejato è diventata un punto di riferimento per il territorio e per le altre emittenti che hanno bisogno di informazioni sull'area in cui opera. Per maggiori informazioni sull'attività dell'emittente: www.telejato.it

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peggio che riprendersi il controllo con false cooperative o false associazioni dei propri beni... qua magari in paese proprio lo si vedrebbe, proprio perché ci si conosce tutti, ma in generale, ci vuole molto più controllo.... perché altrimenti diventa un arma a doppio taglio... anche le cooperative, se sei dentro lavori se non sei dentro non lavori, ma chi decide se sei dentro? Certo ci sono i bandi, però a volte mi sembra lo stesso sistema che si ripropone, solo in modo legale, ma la clientela di fondo non cambia”.

Con un altro intervistato, infine, è stato possibile approfondire un altro aspetto del controllo del territorio da parte della mafia, legato ad una particolare vicenda rispetto al tentativo, attuato da un commissario straordinario, di dedicare la piazza principale della città ai giudici Falcone e Borsellino, all'indomani delle stragi mafiose di cui i giudici sono stati vittime: “Ci sono stati problemi per cambiare il nome della piazza, il comune di Corleone era commissariato in quel periodo, nel 1993, per dimissioni, non per fatti di mafia. Hanno voluto intitolare la piazza centrale a Falcone e Borsellino e ci sono stati diversi problemi, è uscito fuori lo spirito sabaudo dei corleonesi perché quella piazza portava il nome di Vittorio Emanuele, non ricordo se terzo o secondo, e alcuni cittadini non gradirono il cambio di nome, io ero piccolissimo, mi ricordo che ci fu parecchio movimento, mi ricordo che è saltato il commissario straordinario, hanno dovuto mandare un altro commissario e alla fine hanno resistito, ma la targa con l'intestazione della piazza a Falcone e Borsellino è stata rubata diverse volte, si è arrivato al punto che i carabinieri la piantonavano giorno e notte, si è arrivato all'inverosimile... una dinamica prettamente di mafia, ma parliamo anche di un periodo molto diverso, era il '93, anche se in realtà sono pochi anni fa, sembra sia passata una vita. Per Corleone questi anni sono stati tantissimo.. la grandissima stagione della sinistra a Corleone e dei movimenti che hanno cambiato tanto, amministrazioni che hanno puntato molto sull'antimafia, quando però erano ancora tutti in giro, i mafiosi, per cui era molto più complicato parlare di mafia e antimafia... in quel periodo ancora ti mettevano la testa di capretto dietro la porta e così via. Corleone dopo l'amministrazione Cipriani ha avuto un cambiamento e non è più quella Corleone, ma all'epoca del fatto si, nel '93 è stato

150 un problema chiaramente mafioso: la targa fu rubata più volte, ma il comune ha resistito, si è usciti poi con un compromesso visto che gli oppositori, ufficialmente, si appoggiavano sul fatto che non bisognasse cambiare il nome perché “ah ma la storia è storia” e allora nella targa della piazza c'è la scritta “piazza Falcone e Borsellino Già Vittorio Emanuele III” che è quanto dire”.

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CAPITOLO 6

I BENI CONFISCATI E IL TERRITORIO:

LO STUDIO NELLA PROVINCIA DI TORINO

Il secondo ambito di ricerca, che viene di seguito presentato, è la Provincia di Torino. Si tratta di un contesto territoriale molto differente da quello analizzato nel precedente capitolo, per numero, tipologia e distribuzione geografica dei beni confiscati. In questo contesto, infatti, non c‟è alcun Comune, fatta eccezione per la città di Torino, che vanta un numero di beni confiscati pari a quelli dei Comuni siciliani o del caso: come verrà approfondito in seguito, il numero di Comuni coinvolti nel fenomeno è ridotto, e per ciascun Comune si contano in media 3-4 beni confiscati. Visto l‟esiguo numero di beni presenti nel territorio, rispetto alla Provincia di Palermo o ad altre zone d‟Italia, è stato necessario effettuare un‟analisi diversa, rispetto a quella svolta nel capitolo precedente, proprio per far fronte alle diversità di contesto. A differenza dell‟indagine sulla situazione dei beni nella Provincia di Palermo, che svolge un ruolo di cornice allo studio più approfondito sul Comune di Corleone, si è scelto in questo caso di approfondire maggiormente lo studio sui beni presenti nella Provincia torinese, al fine di contestualizzare al meglio i casi selezionati nei Comuni di Bardonecchia e San Sebastiano da Po, evitando al tempo stesso di fornire un quadro riduttivo del fenomeno.

6.1 Il contesto territoriale della Provincia di Torino

Le differenze di contesto si riscontrano già nella fase preliminare d‟indagine, ovvero nella raccolta dei dati quantitativi sulla presenza dei beni confiscati nella provincia. A differenza della Provincia di Palermo, per la provincia torinese non è stato riscontrata alcuna informazione di facile accesso circa il monitoraggio dei beni confiscati da parte di enti pubblici. Né sul sito della Regione Piemonte, né sul sito della Provincia di Torino né tanto meno su quello della stessa Città di Torino risultano elenchi dei beni confiscati o informazioni circa l'assegnazione. E' evidente che questo tipo di informazioni sono elaborate da ciascun ente competente, ma è tuttavia opportuno sottolineare che tale mancata pubblicizzazione di questi dati sembra essere un'occasione persa per aumentare il livello di consapevolezza dei cittadini sul fenomeno mafioso e sulla pratica del riuso a fini sociali dei beni confiscati. Il monitoraggio presente sul sito dell'ANBSC prevede anche una suddivisione provinciale dei dati relativi ai beni, tuttavia ciò che viene pubblicato è un continuo aggiornamento; per avere una precisa visione anche dello storico dei beni nella provincia è stata ancora una volta fondamentale la collaborazione con i referenti locali di Libera Piemonte. Il monitoraggio effettuato da Libera sui beni confiscati in Piemonte da Giugno 2011 si avvale di un utile strumento di informazione: un Geo Blog sui beni confiscati che insistono nel territorio Piemontese, disponibile al sito internet . Primo esperimento a livello nazionale, il Geo Blog è stato realizzato grazie al contributo del Comune di Bardonecchia, e permette di localizzare facilmente tutti i beni confiscati sul territorio piemontese su una mappa di Google, cui vengono associate, per ogni singolo bene, informazioni specifiche sulla procedura di confisca e di destinazione, mettendo in luce sia le criticità del processo che gli esiti positivi di assegnazione a fini sociali sperimentate. Riguardo quest'iniziativa è stato possibile raccogliere la testimonianza di Francesca Rispoli, che all'interno della Segreteria di Libera Piemonte si occupa della gestione del Geo Blog, che fornisce maggiori dettagli sul funzionamento e sull'importanza di questa attività di monitoraggio: “Il Geo Blog è sicuramente innovativo, questo è un lavoro di tre anni, è l'unico che ha il profilo e l'iter che va dal sequestro al processo di riutilizzo, è un modello che adesso verrà seguito in altre regioni. Il monitoraggio è necessario, per evitare che ci siano situazioni in cui un bene è nel tuo patrimonio e non lo usi, è necessario evidenziare anche queste cose. [...] Se non avessimo avuto l'aiuto dei comuni e dei tribunali avremmo avuto solo informazioni parziali, noi partiamo dagli atti dei

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tribunali per costruire le schede informative, le sentenze dei tribunali permettono di conoscere tutto il processo fino alla confisca, poi attraverso il contatto con le associazioni è possibile conoscere i progetti di riutilizzo e di riuso del bene,[...] l'agenzia nazionale fornisce solo informazioni parziali, un nome, una data.. da lì è necessario ricostruire tutte le misure che ci sono state prima della confisca, i tribunali, sia piemontesi che del resto d'Italia sono stati disponibilissimi, Milano, Napoli, ci seguono con la massima disponibilità e grazie a questa collaborazione è stato possibile portare a termine il Geo Blog, che è comunque un continuo work in progress...” Grazie alla consultazione del Geo Blog e ad informazioni aggiuntive ottenute dai referenti di Libera Piemonte è stato dunque possibile tracciare un quadro esaustivo della realtà dei beni confiscati nella provincia di Torino.

I beni presenti in provincia sono complessivamente 87, considerato che 5 beni, dopo la confisca, sono usciti dalla gestione dell'ANBSC per motivi che non è stato possibile approfondire. Bisogna segnalare inoltre che per 5 beni, inseriti nel database dell'ANBSC il 1 settembre 2010, non sono ancora disponibili dati precisi circa la tipologia e la destinazione. E' possibile suddividere, gli effettivi 82 beni di cui si conoscono tutti i dati, seguendo lo schema adottato per la provincia di Palermo, in Fabbricati (60) e Terreni (22). A partire dai dati disponibili è possibile fare un'ulteriore suddivisione per tipologie di immobili: Abitazioni (appartamenti, ville) n. 34; Locali ( box, garage, autorimesse, locale generico) n. 20 ; Fabbricati n. 6 ; Per quanto riguarda invece i terreni questi sono suddivisibili in: Terreni agricoli n. 19 ; Terreni agricoli con fabbricati n. 3.

La quantità di beni presenti nella provincia torinese è certamente inferiore rispetto a quelli nella provincia di Palermo. Tuttavia è importante sottolineare come la maggioranza dei beni sequestrati nella regione Piemonte sia proprio concentrata nella provincia torinese.

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Dei 315 comuni, più e meno grandi, che compongono la provincia sono solamente 19 quelli in cui sono presenti beni confiscati alle mafie, quasi totalmente riconducibili ad una presenza, radicata nel territorio, della 'Ndrangheta. I comuni in cui sono presenti beni si trovano principalmente nell'area metropolitana di Torino e nell'hinterland, nel Canavese e nella Valle di Susa.

Tabella 7 Beni confiscati presenti nella Provincia di Torino. Dati forniti dalla Segreteria Regionale Libera Piemonte. §Tabella n.11 Appendice B

Sembrerebbe dunque che siamo di fronte ad una distribuzione dei beni nel territorio “a satellite”. La scarsa concentrazione dei beni confiscati in singole zone può del resto corrispondere ad una strategia attuata dalla 'Ndrangheta, che tende ad abbandonare i centri cittadini del territorio piemontese per stabilirsi piuttosto in centri minori, con un ridotto numero di abitanti e situati in zone più periferiche. Tale strategia viene registrata dalle autorità investigative a partire dal '99, che segnalano “un progressivo allontanamento degli affiliati alle varie cosche dalle città, per stabilirsi in zone più isolate, dove è minore il

156 rischio di essere soggetti a controlli e più agevole organizzare attività illecite” (XIII Legislatura, Doc. XXXVIII-bis n.5 p.61).

E' interessante inoltre segnalare che nella provincia torinese si registrano molti casi di beni che giungono a confisca definitiva solo molti anni dopo il sequestro, e anche a confisca avvenuta spesso non vengono riconsegnati agli enti destinatari, a causa di lungaggini burocratiche ma soprattutto per via delle resistenze da parte dei prevenuti, con atti che vanno dall'opposizione giudiziaria fino alle occupazioni “strategiche” degli immobili per ritardarne la confisca (caso emblematico sono i beni selezionati come casi studio di questa ricerca). Su questa problematica è stato sentito il parere di Francesca Rispoli, Responsabile della Segreteria Regionale di Libera Piemonte. Il problema maggiore, secondo la Rispoli, sarebbe da identificare proprio nelle occupazione abusive dei beni da parte dei familiari del prevenuto o da terzi “che molto spesso non hanno visto una risposta adeguatamente celere e risoluta da parte delle forze di polizia”. I beni dunque tardano a rientrare nelle disponibilità dei destinatari anche per azioni e precise scelte politiche, aggiunge infatti la Rispoli che: “laddove ci sia un'occupazione da parte di una famiglia la Prefettura ha il dovere e anche comunque la possibilità di sgomberare coattamente e repentinamente l'immobile, in alcuni casi, per tenere un profilo basso e quindi per evitare di creare l'allarme sociale si è aspettato molto e si è tentata, spesso con successo altre volte ancora no, la via della mediazione”.

Agli sgomberi coatti dunque si preferisce una concertazione fra forze di polizia ed occupanti che tuttavia oltre a comportare ritardi nella restituzione alla collettività dei beni, dà anche la possibilità a chi lo occupa, alle famiglie dunque dei destinatari dei provvedimenti patrimoniali “di danneggiare il bene, renderlo inutilizzabili e sino alla fine di sentirsi padrona di quel patrimonio”.

Per quanto riguarda infine la destinazione di questi beni, è opportuno in primis sottolineare che 11 beni non sono ancora stati destinati, o sono stati destinati e non consegnati, per i problemi che abbiamo appena discusso.

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Guardando alla suddivisione fra Stato e Comuni dei beni giunti a confisca definitiva , troviamo un dato che si discosta dalla media nazionale. Se la maggioranza dei beni, come abbiamo avuto modo di approfondire, viene solitamente destinata ai comuni, nella provincia torinese la quota di beni destinati allo Stato è sensibilmente più alta (32% circa) della percentuale nazionale (nel territorio nazionale vengono destinati allo Stato il 12,89% dei beni).

Su questa anomalia è stato possibile chiedere ancora una volta l'opinione di Libera; Francesca Rispoli spiega infatti che : “la motivazione formale che è stata più volte portata è legata al fatto che nell'elenco dei possibili riutilizzi dei beni la finalità istituzionale è la prima indicata, questa cosa stata sempre portata in Prefettura come fosse di fatto un ordine di priorità e quindi le richieste si assegnazione dei beni non venivano esaminate tutte alla stessa stregua per poi decidere quale effettivamente, sulla base della tipologia del bene, potesse essere più opportuna, ma la richiesta da parte di un ente appunto istituzionale, legato ad una parte dello Stato, era già titolo preferenziale e quindi era bastevole anche se il progetto di riutilizzo era magari meno forte”.

La Rispoli aggiunge inoltre un dato rilevante circa le tipologie di beni e le diverse assegnazioni: “spesso, è questa è una costatazione fatta dati alla mano, tutti i beni di maggiore interesse o per localizzazione o per stato manutentivo o per caratteristiche proprie, sono stati richiesti dall'apparato statale, […] probabilmente questo è legato anche a una questione di penuria finanziaria, ma queste realtà hanno sempre puntato a richiedere delle strutture che avessero un fabbisogno minimo o nullo di risorse per poter essere riutilizzate, mentre invece noi abbiamo ricevuto spesso dei beni che avevano poi necessariamente bisogno di oneri di ristrutturazione alti per i quali poi ci siamo mossi, ci stiamo muovendo e ci muoveremo con azioni di foundraising privato”.

Dal grafico n.13 si evince come la suddivisione fra Stato e Comuni influisce anche sulla destinazione d'uso: guardando alla complessità dei beni confiscati nel territorio provinciale, e alla singola tipologia di destinazione, la percentuale di utilizzo maggiore è per usi

158 pubblici e governativi (27%). Sommando invece le percentuali delle destinazioni di carattere prettamente sociale si raggiunge un 48% rispetto alla totalità dei beni, che è comunque un dato inferiore alle percentuali che si registrato in altre regioni d'Italia.

Grafico 13 Beni confiscati presenti nella Provincia torinese, suddivisi per tipologia di destinazione ed utilizzo. §Tabella n.11 Appendice B

Certo è necessario ricordare che non siamo in presenza di grandi numeri, ma proprio perché il numero di beni confiscati che insistono nel territorio è esiguo e la localizzazione dei beni è scarsamente concentrata, è legittimo chiedersi se non sarebbe più incisiva una maggiore destinazione d'uso per finalità prettamente sociali, così come vengono definite dal legislatore con la legge 109/96.

Come abbiamo avuto modo di evidenziare il contesto territoriale della provincia torinese è molto diverso dalla provincia di Palermo. Si tratta del resto di comuni con un minor numero di abitanti e la distribuzione dei beni, come abbiamo accennato, è molto variabile. Bisogna ricordare che il contesto Piemontese è un contesto in cui cominciano a registrarsi presenze di organizzazioni criminali solo a partire dalla fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, che hanno dunque uno storico di presenza mafiosa relativamente recente.

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Il numero relativamente esiguo di beni confiscati non deve tuttavia far pensare che il fenomeno mafioso nella regione non sia rilevante, al contrario è opportuno sottolineare nuovamente come il caso del Piemonte sia esemplare per uno studio delle forme di radicamento delle mafie in contesti non tradizionali. Le prime manifestazioni di questa presenza sono testimoniate da una lunga serie di sequestri di persona50, ma nel giro di pochi anni questi gruppi criminali riescono ad aumentare le attività e diventare presenti “nel settore del traffico internazionale di stupefacenti, nel riciclaggio e nell'infiltrazione nel settore dell'edilizia, grazie anche ad una rete di sostegno e copertura dai singole amministrazioni locali compiacenti” (XV Legislatura, Doc. XXIII n.5, p.217). L'aumento delle attività criminali, specialmente nelle aree dell'hinterland torinese ha favorito la graduale infiltrazione della 'Ndrangheta nel tessuto economico locale, mediante investimenti in attività imprenditoriale e il tentativo di condizionamento degli apparati di pubblica amministrazione funzionali al controllo di pubblici appalti (ibidem).

Sebbene relativamente recente il radicamento è dunque decisamente pervasivo: le indagini svolte negli ultimi anni hanno evidenziato, oltre al traffico di stupefacenti, una crescente attività di riciclaggio e di infiltrazione mafiosa nel campo dell'edilizia, del movimento terra, individuando fra gli altri “subappalti nella costruzione dei villaggi olimpici di Torino 2006, della TAV, di palazzi sulla Spina 3 del nuovo piano regolatore torinese” (Rapporto CNEL , 2010 p.87). L'elemento tuttavia più allarmante è la complicità dei cosiddetti “colletti bianchi” che hanno permesso tale radicamento: “[...] quello delle figure sociali che compongono i colletti bianchi è un vero e problema che riguarda tutte le regioni del nord. E non è più un‟emergenza, ma un dato costante della realtà” (ibidem). Tali evidenze investigative hanno portato la Commissione Parlamentare Antimafia ad affermare che “[...] lo storico e stabile radicamento della 'ndrangheta nel territorio piemontese ha fatto di essa una componente, ovviamente marginale ma non trascurabile, del tessuto sociale ed economico della regione” (XV Legislatura, doc. XXIII n.5, p.218).

50 “Fra il 1973 e il 1984 si sono registrati in Piemonte trentasette sequestri di persona, intesi in senso stretto come delitti realizzati a scopo di estorsione realizzati da gruppi criminali organizzati. Le indagini relative alla maggior parte di tali sequestri hanno accertato il coinvolgimento di soggetti legat i a formazioni criminali della provincia di Reggio Calabria” (Sciarrone, 2009, pp.231-232).

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Risulta evidente, a fonte delle analisi fin qui condotte, che anche se in numero esiguo, i beni confiscati presenti nel territorio sono importanti segnali per l'interpretazione del fenomeno mafioso, nelle zone di nuovo insediamento tanto quanto in quelle a tradizionale presenza criminale. Anzi, in tali contesti, che negli anni sono stati caratterizzati, come abbiamo detto, da un diffuso “negazionismo” circa la reale gravità del fenomeno, uno studio circa il ruolo del riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati sembra ancora più rilevante. Questi infatti sono stati meno carichi simbolicamente nella fase di territorializzazione storica, perché vissuti da una “mafia invisibile”, ma diventano ancora più forti simbolicamente nel momento in cui si attua il processo di riterritorializzazione che, come vedremo, porta con se un notevole lavoro di ricostruzione del significato di quei luoghi. Per meglio analizzare questo processo sono stati selezionati due Comuni che, per tipologia di esperienza di beni confiscati e per presenza del fenomeno mafioso, sembrano essere particolarmente rappresentativi ai fini della nostra ipotesi di ricerca.

6.2 Il comune di Bardonecchia

Il comune di Bardonecchia, si trova a meno di 100km da Torino, nel pieno della Val di Susa. Si estende su una superficie di 132,31 kmq, con una popolazione residente di 3.273 persone. Il Comune, noto per i suoi impianti sciistici, è balzato alla cronaca nazionale nel 1994 quando il comune viene sciolto per mafia, a seguito di indagini su una speculazione edilizia. Ma la storia dell'infiltrazione mafiosa è molto più vecchia. A metà degli anni '70 una delegazione della Commissione Parlamentare Antimafia, guidata da Pio La Torre, giunge a Bardonecchia. Nella relazione conclusiva si leggerà che: “qualcosa di nuovo, qualcosa di estraneo ha rotto l'equilibrio di sempre. si sono verificati fenomeni di delinquenza organizzata con caratteristiche del mondo mafioso: massicci casi di intermediazione, collocazione abusiva, sfruttamento e decurtazione salariale, racket” (cit. in Sciarrone 2009,p.282 ).

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Per comprendere l'allarme lanciato dalla Commissione negli anni '70 è necessario andare ancora indietro nel tempo di qualche anno. Tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70 Bardonecchia è una zona di forte sviluppo edilizio, legato soprattutto al turismo residenziale. In quegli anni alcuni membri del clan Mazzaferro vengono trasferiti in Piemonte a causa del soggiorno obbligato51. Questo dato non sarebbe stato significativo se, successivamente, non si fosse innescata “una catena migratoria” (Sciarrone 2009, p.283). L'improvviso sviluppo edilizio fa aumentare la domanda di manodopera, necessaria per soddisfare la crescente domanda di alloggi, nuove imprese così arrivano dalla Calabria e le aziende della zona cominciano rivolgersi a “faccendieri” che riuscivano a procurare manodopera a basso costo fra gli immigrati del sud che non riuscivano a trovare occupazione a Torino(Varese, 2011). Fra “faccendieri” spicca Rocco Lo Presti, giunto a Bardonecchia nel 1963 perché allontanato da Gioiosa Jonica con un notevole curriculum malavitoso alle spalle. Lo Presti e i suoi cominciano così a gestire il racket delle braccia nei cantieri edili del comune Valsusino: controllando il mercato del lavoro diventano imprenditori della protezione (Sciarrone, 2009), decidendo il destino di ogni cantiere. I mafiosi forniscono, e in alcuni casi impongono con la forza, la manodopera alle imprese locali, in cambio di un compenso. Le imprese locali, dal canto loro, erano spesso avvantaggiate dal poter utilizzare manodopera a basso costo, risparmiando inoltre sui contributi, sulle norme di sicurezza e sottraendosi al controllo dei sindacati.

Il controllo del mercato del lavoro rappresenta dunque il primo passo per il controllo del territorio, permettendo ai mafiosi di imporsi come garanti dell'ordine sociale, questi infatti:

51 Il procedimento, attuato mediante la legge n.1423 del 1956, è volto all'allontanamento delle persone ritenute pericolose per l'ordine pubblico o dediti a traffici delittuosi dal comune di residenza, per cui viene dunque disposto un soggiorno obbligato “[...] in un comune o frazione di esso con popolazione non superiore ai 5 mila abitanti lontano da grandi aree metropolitane, tale da assicurarne un efficace controllo delle persone sottoposte alla misura di prevenzione e che sia sede di un ufficio di polizia”. E' necessario sottolineare tuttavia che, rispetto ad altre regioni d'Italia il Piemonte ha dovuto accogliere un numero minore di soggiornanti e in via generale, nonostante per anni si sia ritenuta la presenza di soggiornanti la causa principale del fenomeno di radicamento mafioso nel Nord Italia, recenti studi mettono in evidenza come non esista un nesso diretto fra la presenza di soggiornanti e sviluppo di forme di radicamento mafioso (Varese, 2011).

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“sono pronti a offrire la loro protezione in ogni occasione, fino a diventare i protettori degli immigrati meridionali contro l'ostilità e il rifiuto dei piemontesi, ma anche, in alcuni casi, i protettori dei piemontesi stessi contro eventuali "eccessi" dei meridionali” (Sciarrone 2009, p. 284).

“L'impresa Lo Presti” attraverso il controllo dei cantieri riesce ad avviare altre attività illegali come traffico d'armi, di droga e riciclaggio di denaro, senza risparmiarsi nell'uso della violenza o delle intimidazioni, mentre le istituzioni locali e la società civile sembrano non accorgersi di nulla. Il silenzio viene rotto in modo improvviso nel 1994, quando la Procura di Torino apre un inchiesta su una speculazione edilizia attuata nel cosiddetto “Campo Smith”52, un terreno dall'immenso valore immobiliare venduto dal comune sottocosto ad un costruttore legato a Lo Presti, beneficiario inoltre delle licenze necessarie per costruirvi. L'inchiesta della Procura apre un “vaso di Pandora”, che viene ben descritto dalla relazione che accompagna il decreto di scioglimento del consiglio comunale (Relazione del ministro dell'interno al Presidente della Repubblica, Allegato B al resoconto della discussione della Commissione Parlamentare d'inchiesta sul fenomeno mafioso del martedì 28 novembre 1995, pp. 221-224; di seguito citato come “Allegato B”). Dalle inchieste emerge il ruolo primario di Lo Presti nell'operazione “Campo Smith”, “effettivo "dominus" della società che, dell'intera operazione immobiliare, risultava beneficiaria” (Allegato B, p.222). Non solo, la speculazione edilizia è giunta a buon fine grazie ad un organizzazione, ad una condotta di tipo prettamente mafioso: “Lo specifico interesse del predetto pregiudicato nella costruzione del complesso edilizio si è spinto, come comprovato dagli atti processuali, al ricorso a mezzi intimidatori, ai quali viene ricollegato il grave danneggiamento dell'alloggio di uno dei componenti della commissione edilizia del comune di Bardonecchia” (ibidem).

La vicenda del “Campo Smith” mette in luce una dinamica di illegalità e anomalie che hanno caratterizzato il settore edilizio e tutta l'espansione urbanistica del Comune,

52 La zona prende nome da due atleti Norvegesi, i fratelli Smith, che nel 1911 riuscirono a battere il record mondiale dal trampolino, costruito proprio nell'area a loro intitolata. Il terreno su cui insisteva il su ddetto trampolino fu donato da dei privati al comune di Bardonecchia con l'esplicita clausola di destinarlo a parco pubblico fino a tempo indeterminato (Varese, 2011).

163 modificando l'assetto della località montana perseguendo più che l'interesse collettivo e pubblico, l'interesse di “un vero e proprio comitato di affari, che, soprattutto in materia urbanistica ed edilizia, coinvolge persone estranee all'istituzione comunale, le quali esplicherebbero una influenza condizionante sulle scelte e sull'attività degli organi del comune” (ibidem). Lo Presti dunque non avrebbe fatto tutto da solo, ma grazie alla “collaborazione” di diversi membri del consiglio Comunale e dello stesso sindaco Gibelli, il quale si sarebbe direttamente attivato per l'approvazione della convenzione edilizia, coinvolgendo anche esponenti dell'opposizione, promettendo loro incarichi e altri benefici per assicurarsi il loro favore. Benché politici e imprenditori coinvolti nel caso e rinviati a giudizio dalla magistratura siano stati tutti assolti in via processuale, il mafioso Lo Presti ha dimostrato di godere, all'interno della struttura sociale e amministrativa locale, di rapporti tali che “una dipendente comunale è stata è stata denunciata per averlo informato di indagini di polizia giudiziaria in atto nei suoi confronti”(ibidem). Proprio per questo clima di condizionamento, degrado e generale accettazione, da parte degli amministratori locali, di una gestione “impropria” della cosa pubblica è stato necessario il provvedimento di scioglimento del consiglio comunale, la cui libera determinazione risultava completamente assoggettata alle scelte della locale organizzazione criminale. Il caso di Bardonecchia è dunque esemplare di come un gruppo mafioso possa riuscire a radicarsi nel territorio e attuare vere e proprie forme di signoria territoriale, controllando il territorio dal punto di vista imprenditoriale, sociale e politico.

6.2.1 I beni confiscati nel comune

Nel comune di Bardonecchia sono presenti in totale 6 beni confiscati, tutti destinati in via definitiva e, salvo uno, consegnati. Nello specifico si tratta di : due appartamenti, due locali adibiti a box, garage o autorimessa e due terreni agricoli. Come abbiamo avuto modo di anticipare, spesso il numero complessivo dei beni confiscati fornisce un'immagine lievemente distorta della presenza sul territorio. Infatti, anche in questo caso, sebbene il numero complessivo dei beni sia di sei, in realtà si tratta di due beni

164 separati (un appartamento e un'area parcheggio) e di un fabbricato urbano, composto da un'abitazione, un locale adibito a box e due terreni agricoli.

I nomi dei prevenuti a cui sono stati sequestrati e confiscati questi beni sono gli stessi che hanno segnato lo scioglimento del comune per fatti di mafia: Francesco Salvatore Mazzaferro, confinato a Bardonecchia nel '71 e considerato il primo capo dell'associazione mafiosa di stampo 'Ndranghetista attiva nel Comune; Rocco Lo Presti, che sarebbe succeduto a Mazzaferro nella guida dell'organizzazione mafiosa, le cui attività illecite hanno portato allo scioglimento del Consiglio Comunale; e infine Luciano Ursino, nipote di Lo Presti e con lui coinvolto in un giro di usura che si estendeva a tutta la provincia torinese.

Per quanto riguarda gli enti destinatari, cinque dei sei beni sono stati destinati al Comune, mentre uno è rimasto al patrimonio dello Stato. E' bene sottolineare che nessuno dei beni, nonostante l'avvenuta consegna all'ente destinatario è attualmente utilizzato. Visto l'esiguo numero dei beni si procederà ad una breve analisi dei singoli casi, per permettere un'analisi più approfondita dello stato dell'arte, per concentrarci poi specificatamente sul bene selezionato come caso studio.

Il bene confiscato a Luciano Ursino, nell'ottobre 2008 è un appartamento sito in Piazza Europa, non ancora consegnato. Dopo una lunga indagine cominciata nel 2003, Ursino è risultato coinvolto in un associazione a delinquere dedita all'usura, al cui vertice vi era, oltre al suddetto Ursino, Rocco Lo Presti. Il 12 Marzo del 2007 il Tribunale di Torino emette il provvedimento di sequestro preventivo e confisca definitivamente il bene nell'aprile del 2008, avendo dimostrato che l'immobile era stato acquistato nel periodo in cui Ursino era dedito all'attività usuraia e che dunque all'acquisto avevano contribuito i redditi derivanti dalle attività illecite. L'anno successivo il bene è stato destinato allo Stato e si è prevista l'assegnazione ai Vigili del Fuoco per istituire una postazione prossima alle piste da sci. Tuttavia il bene, gravato da due ipoteche, risulta ancora inutilizzato. Vi è un altro bene non ancora utilizzato: si tratta di un'area parcheggio, sita in Via Medail 27, confiscato definitivamente a Rocco Lo Presti nel Marzo 1998 e destinato in via definitiva al Comune solamente nel Marzo 2006. Il bene, che dovrebbe essere utilizzato

165 sempre come area parcheggio, non è ancora sfruttato per problematiche strutturali dell'area stessa. E' interessante sottolineare che fra l'Ottobre e il Novembre del 1994, anno in cui si aprirono le indagini sulle speculazioni edilizie in atto a Bardonecchia e Lo Presti venne indagato in quanto presunto appartenente ad associazione di stampo mafioso, vennero sottoposti a sequestro preventivo tutti i beni intestati a lui direttamente o a suoi familiari che comunque erano nella sua disponibilità. Fra questi, oltre a beni mobili ed esercizi commerciali, vi erano altri immobili siti nella stessa zona di Bardonecchia, ma solo per l'area parcheggio è stata poi confermata la confisca.

6.2.2 La casa di “Don Ciccio” Mazzaferro

La villa della famiglia Mazzaferro si trova nel centro della città di Bardonecchia, in via Medail 43, è un caseggiato di tre piani e comprende, come anticipato, un appartamento, un box auto e due piccoli terreni agricoli. Circondata da abitazioni, era originariamente la dependance dell'albergo Fréjus, acquistata dai Mazzaferro quando l'albergo viene chiuso e la struttura viene destinata ad appartamenti per vacanze. Mazzaferro viene arrestato per la prima volta nel 1984 con l'accusa di traffico internazionale di droga e condannato a 18 anni di reclusione e scarcerato per decorrenza dei termini, verrà arrestato nuovamente nel 1993 e nel 2003. Nel frattempo nel 1994 il procedimento del Tribunale di Reggio Calabria porta al sequestro dell'immobile in via Medail, utilizzato come sede legale di un'agenzia immobiliare intestata a Rosa Commisso, la moglie di “Don Ciccio”. La confisca definitiva del bene si avrà nel 2001, con provvedimento del tribunale di Reggio Calabria che riconosce l'origine illecita del bene come dell'intero patrimonio di “Don Ciccio” Mazzaferro. Il provvedimento di confisca, tuttavia, verrà effettuato solo dopo anni. La famiglia Mazzaferro ha infatti opposto resistenza dando vita ad un contenzioso giudiziario e a lunghi procedimenti per accertamenti amministrativi.

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Figura 9 Casa Mazzaferro a Bardonecchia (To)

Il bene, dunque, resta inutilizzato e nel 2006 il Comune di Bardonecchia inoltra richiesta alla Prefettura per poter assegnare per “scopi di utilità sociale” la villetta, in modo da realizzarvi, in collaborazione con Libera, un osservatorio sulla mafia in tutta la Valle di Susa (Luna Nuova, 17 novembre 2006). Nel 2008 il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato ha sollecitato l'Agenzia del Demanio per il passaggio di mano del bene dal patrimonio dello Stato al Comune. L'Agenzia del Demanio, infatti, finora aveva sempre rimandato il passaggio di mano, proprio a causa del ricorso pendente della moglie del boss, che garantiva ancora alla famiglia l'utilizzo dell'abitazione (La Stampa Torino, 22-03-2008). Quando il bene sarà assegnato dal Prefetto, da parte dell'Agenzia del Demanio, ulteriori resistenze della famiglia impediranno l'effettivo possesso da parte del Comune: nel frattempo, infatti, Rosa Commisso occupa il bene, a questo punto abusivamente. Viene denunciata dalla polizia per la mancanza di titolo ad occupare l'immobile e viene intimato lo sgombero dell'occupazione: intanto però, la famiglia Mazzaferro per evitare la perdita di possesso della villa ospita alcuni conoscenti, fra cui una donna con un disabile a carico:

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“ospiti strumentalizzati”, perché impedisce in modo pressoché certo l'allontanamento degli occupanti dalla casa. Bisognerà aspettare le sentenze del Tar e del Consiglio di Stato che daranno definitivamente torto alla famiglia Mazzaferro, confermando la proprietà pubblica dell'immobile e sancisce che gli inquilini dovranno lasciare la villa. Questo sembrerà il passo giudiziario definitivo per permettere la restituzione della villa alla comunità, ma dovranno passare ancora quasi due mesi, fino al 21 Gennaio 2009, quando finalmente è potuta partire la procedura di sfratto nei confronti degli occupanti, che ha segnato la fine di una battaglia ventennale. Il Demanio chiederà inoltre un risarcimento alla famiglia Mazzaferro per il periodo di occupazione abusiva (Ansa, 22 Gennaio 2009) e il bene sarà definitivamente consegnato nella disponibilità del Comune.

Un'attesa lunga quasi vent'anni, dunque, prima che il bene potesse essere restituito alla collettività. A marzo dello stesso anno, per la prima volta, alcuni rappresentanti di Libera Piemonte, insieme con alcuni amministratori del comune e con il Sindaco Francesco Avato, sono riusciti ad entrare nella villa per un sopralluogo. In un'intervista rilasciata per Repubblica i responsabili di Libera raccontano l'esperienza, storica, dell'ingresso tanto atteso nella casa del boss: “ci siamo trovati a un certo punto di fronte a due lavandini con i rubinetti in oro, ma soprattutto abbiamo notato che c' erano addirittura cinque bagni con enormi vasche interamente piastrellate. Ci ha impressionato il gusto per l' eccesso, per lo sfarzo, per il kitsch, anche se sappiamo che questo è uno dei marchi di fabbrica di una certa mentalità mafiosa”(Repubblica Torino, 06 marzo 2009).

Il processo di riterritorializzazione, in questo caso, è dunque ancora in atto, eppure era utile, ai fini della nostra ricerca, approfondire la storia di questo bene, esemplare delle possibili resistenze e difficoltà durante i processi di confisca e riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle mafie.

Il bene è stato assegnato dal Comune all'Agesci di Bardonecchia e verrà gestito dall'Associazione “liberamente insieme”. Il progetto di riutilizzo prevede la conversione

168 della villa dei Mazzaferro in una “casa per ferie” : una struttura ricettiva destinata ai giovani, appartenenti a gruppi Agesci o altri gruppi giovanili italiani e stranieri. Riguardo al progetto è stato possibile incontrare Adriana Ugetti, presidente “Liberamente insieme”, che chiarisce gli obiettivi dell'associazione: “Il Comune intendeva affidare la casa dei Mazzaferro all'Agesci, che tuttavia non poteva in alcun modo gestire un'attività che fosse, anche se in modo residuale, anche commerciale. D'accordo con il comune è stata allora creata questa associazione, i cui soci fondatori sono del gruppo Masci53 e Agesci di Bardonecchia. L'associazione, senza fini di lucro, potrà gestire la casa per ferie, con precisi vincoli di promozione della legalità, attraverso attività sociali, culturali e ricreative. La priorità è rivolta ai giovani, per precisi accordi con il Comune che ha scelto di affidare la struttura all'Agesci proprio perché si occupa dei giovani”.

La struttura ricettiva, inaugurata simbolicamente a Maggio, potrà ospitare fino a 22 persone, vuole essere una struttura “alternativa”, come spiega Adriana: “Bardonecchia è molto cara, spesso i giovani hanno difficoltà a venire perché i costi degli alberghi non sono alla loro portata. Dobbiamo ancora definire i dettagli, ma il progetto è quello di rendere la struttura accessibile a tutti, con piccoli contributi, che saranno destinati alle spese di gestione. L'associazione intende prendere contatti con il Cus del Politecnico di Torino per coinvolgere gli universitari, non solo per ospitarli durante il periodo invernale, ma anche d'estate, questa può essere un'oasi di studio, il territorio ha molto da offrire, non solo durante il periodo di attività sciistica”.

Gestita interamente da volontari, la struttura sarà ristrutturata grazie ad un finanziamento della SITAF, società che gestisce il Traforo del Fréjus e l'autostrada Torino - Bardonecchia, che per i trent'anni di attività nel territorio ha deciso di intervenire finanziando la ristrutturazione come compensazione per il paese. La riconversione della villa mira a dimostrare come sia possibile, dalla ricchezza illecita di provenienza mafiosa, produrre del reddito “pulito”, nel segno dell'etica e della legalità.

53 Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani

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“Bardonecchia è andata avanti in molti modi, rispetto a quello che è successo nei periodi degli scandali mafiosi, vogliamo superare la storia e ripartire da qui, collaborando con tutte le realtà associative del territorio, sia giovanili che del terzo settore, oltre che con Libera”. Il piano terra dell'edificio sarà infatti sede di un osservatorio permanente sui beni confiscati alle mafie in Piemonte, curato da Libera, per sensibilizzare la cittadinanza e per far conoscere anche ai turisti le ramificazioni dell'economia criminale nel territorio. Il terreno - giardino circostante verrà invece destinato ad orto didattico, che sarà curato dagli alunni delle scuole di Bardonecchia. Proprio dalle scuole comincia la riconversione del bene: il Comune ha infatti organizzato un concorso per la scelta del nome da dare alla struttura, a cui stanno partecipando tutti gli alunni del territorio.

La casa dei Mazzaferro sarà dunque restituita a pieno titolo alla comunità, come spiega Adriana: “A Bardonecchia manca un punto di incontro per la cittadinanza. Il nostro intento è di coniugare l'uso della casa da parte della collettività con l'accoglienza di quei giovani che altrimenti avrebbero difficoltà a venire a Bardonecchia. Desideriamo far sentire questa casa proprio come un bene, che sia di tutti. Questo è l'obiettivo del Comune che ci ha affidato questo bene, a noi tocca la responsabilità di renderlo tale, un bene a servizio della comunità”.

Guardando Bardonecchia, un paesino che sembra adagiato con cura fra le valli alpine, il paesaggio stona con le vicende del Comune legate all'infiltrazione mafiosa e viene da chiedersi come sia stato possibile un proliferare di affari illeciti in questo territorio. Adriana prova a dare una risposta a questi interrogativi: “Il problema è che lo Stato ha fatto un grave errore a mandare qui a confino delle persone pericolose in un momento in cui Bardonecchia stava vivendo un boom economico ed edilizio senza precedenti, così questi soggetti si sono trovati in una situazione promettente, perfetta... fossero stati mandati in qualsiasi altra valle, dove non c'erano le opportunità edilizie ed economiche che c'erano a Bardonecchia in quegli anni, avrebbero avuto ben poco da fare. E anche se poi sono stati prosciolti tutti, comunque quello che è successo è successo, gliel'hanno lasciato fare. Ancora

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c'è gente che storce il naso, qui, a sentir parlare di mafia. Alcuni cittadini rifiutano proprio l'evidenza, perché comunque la gente comune non ha sentito la presenza mafiosa, ma chi lavorava nell'ambito dell'edilizia, eccome se l'ha sentita. In ogni caso, è tempo di andare avanti, avere ben presente quello che è successo, ma andare avanti”.

In questo caso dunque si può solo abbozzare un inserimento del bene nello schema di territorializzazione di Turco utilizzato per gli altri casi studio, essendo ancora il progetto in fase di realizzazione e poiché mancano alcuni degli atti fondamentali per definire il processo di territorializzazione. Tuttavia, ai fini della ricerca, sembra di notevole interesse l'intento del Comune e dell'Associazione, che hanno compiuto atti già determinanti ai fini del processo di territorializzazione, primo fra tutti il coinvolgimento della cittadinanza nel progetto di riutilizzo, per convertire quello che era un bene privato, in un bene pubblico a servizio della comunità.

Tabella 8 Gli atti territorializzanti per il bene "casa per ferie"; secondo lo schema di Turco A. (1988)

6.3 Il Comune di San Sebastiano da Po

Il comune di San Sebastiano da Po si trova a pochi chilometri da Chivasso, fra le colline torinesi e quelle delle Langhe. Si estende per 16,64 Kmq con una popolazione di 1920

171 abitanti, suddivisi in tre principali frazioni: Moriondo, Villa e Saronsella, cui si aggiungono numerosi altri nuclei. Il Comune non rientrerebbe nell'interesse di questa ricerca se non fosse perché per trent'anni vi ha vissuto la famiglia Belfiore, originaria di Gioiosa Jonica (Rc), capeggiata dai fratelli Domenico e Salvatore. Questi trent'anni corrispondono al periodo in cui la 'Ndrangheta si espande e radica nel territorio della provincia torinese, espansione cui giocano un ruolo di primaria importanza proprio i fratelli Belfiore. I Belfiore si affermano negli anni Ottanta come la famiglia dominante a Torino, dopo una serie di lotte e omicidi per la conquista del territorio. Avevano assunto il controllo dei traffici illegali che si svolgevano nella città e nell'hinterland, dal commercio di stupefacenti alle scommesse clandestine, oltre che usura ed estorsione a danni degli operatori economici, sia legali che illegali. “E se c'erano problemi vestivano i panni dei giudici: dalle loro bocche sono uscite condanne a morte” (La Stampa 04.04.98). La sera del 26 giugno ‟83 la condanna a morte giunge al procuratore della Repubblica Bruno Caccia, freddato sotto casa da dei sicari. Il delitto fu realizzato in accordo con un clan di catanesi con cui i Belfiore “collaboravano” già da tempo e decisa perché le indagini del magistrato, che si stava occupando delle vicende processuali dei calabresi, scavando nelle loro attività economiche, costituivano un grave ostacolo alle attività del gruppo Belfiore (Sciarrone 2009). Domenico Belfiore, viene riconosciuto come mandante dell'omicidio nel 1992, dopo cinque gradi di giudizio, e condannato all'ergastolo, mentre gli esecutori materiali del delitto non verranno mai rintracciati. Salvatore Belfiore comincia ad essere denunciato tra il 1989 e il 1993 per vari reati tra i quali commercio di stupefacenti, possesso ingiustificato di valori e ricettazione di armi. Le indagini ricostruiscono i legami di potere della 'Ndrangheta nel territorio torinese, fino alla “operazione Cartagine”, che dal Marzo 1994 “metterà in luce la più grande holding europea della droga e del riciclaggio di denaro, sequestri, estorsioni, usura” (La Stampa, 19/8/2007 ). A capo dell'organizzazione proprio Salvatore Belfiore, detto Sasà, che aveva preso in mani le redini dell'organizzazione dopo l'arresto del fratello Domenico e che dopo quest'indagine è finito anche lui in carcere, con l'aggravante del 416 bis per organizzazione di stampo mafioso.

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6.3.2 Cascina Bruno e Carla Caccia

La Cascina si trova in via Serra Alta 6, sulla sommità di una collina da cui si domina tutto il circondario di San Sebastiano da Po. Il fabbricato principale è un casolare disposto su tre piani, per una superficie complessiva di quasi mille metri quadrati. La misura di prevenzione patrimoniale che ha permesso a questa struttura di essere confiscata, è stata emessa , nel 1996, a carico di Salvatore Belfiore.

Figura 10 Cascina Caccia a San Sebastiano da Po (To)

La storia di questa struttura è complessa tanto quanto quella che abbiamo analizzato a Bardonecchia, fatto salvo che qui, l'azione di riterritorializzazione è ormai attiva da anni e il bene è decisamente reinserito nel tessuto sociale del territorio in modo produttivo. In questo caso, a complicare il processo di confisca definitiva è stato un altro escamotage, che dimostra ancora una volta l'attaccamento dei mafiosi ai loro patrimoni illeciti: Il bene era stato infatti intestato ad un fratello incensurato, per cui sarebbe stato più difficile ricondurlo agli affari illeciti della famiglia. Difficile ma non impossibile: nonostante i

173 tentativi della famiglia Belfiore di difendere il bene dalla confisca definitiva, le indagini dimostrarono che l'immobile fu acquistato grazie ai proventi delle attività illecite di Salvatore Belfiore, che ne disponeva quanto meno in modo indiretto, rendendo dunque legittima la confisca, che giunge nel dicembre del 1999. Nonostante la confisca, tuttavia, per quasi 11 anni i membri della famiglia Belfiore continuano a risiedere all‟interno del bene, fra accertamenti amministrativi, ricorsi e ritardi burocratici.

E' stato possibile ricostruire gli avvenimenti degli anni fra la confisca e l'effettivo riutilizzo del bene attraverso le cronache dei quotidiani, ma soprattutto grazie ad una lunga conversazione con uno degli attuali abitanti della Cascina, che vi risiede dal primo giorno di occupazione. Il bene dunque viene trasferito al Comune di San Sebastiano da Po solamente nel 2002 che lo assegna ad una consorzio socio-assistenziale locale, che intendeva trasformarlo in una casa famiglia. Il progetto tuttavia non andò in porto e nel 2005 viene assegnato dalla nuova giunta presieduta dal Sindaco Paola Cunetta al Gruppo Abele. Non appena si diffonde la notizia della destinazione, tuttavia, alcuni cittadini cercano di bloccare l'iniziativa, attraverso una raccolta firme che mira ad indire un referendum per decidere la destinazione d'uso del bene. Le motivazioni alla base dell'iniziativa si fondavano sulla paura che il Gruppo Abele potesse destinare il bene all'accoglienza di una comunità di recupero per tossicodipendenti, che avrebbe rappresentato, secondo i promotori della raccolta firme, un problema per la sicurezza del paese. La consultazione popolare non ha mai avuto luogo, perché non si raggiunsero le adesioni minime previste dallo statuto comunale, eppure, a Marzo 2006 il bene continuava ad essere abitato dai genitori dei fratelli Belfiore, il figlio minore, i nipoti e la nuora, moglie di Domenico. In un'intervista per Narcomafie il sindaco ha dichiarato: “È una vicenda delicata, il bene appartiene a tutti gli effetti al nostro Comune, però è ancora occupato. L‟amministrazione si è mossa con estrema cautela; per sbloccare lo stato delle cose, circa un anno fa, ho preteso un incontro con i vecchi proprietari. Purtroppo le istituzioni da me invitate, Demanio compreso, non si sono presentate, ci hanno lasciati soli” (Narcomafie, 10/03/2006).

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La volontà e la tenacia dell'amministrazione e il supporto di Libera, hanno fatto si che alla fine la famiglia cedesse, Vincenzo Belfiore dichiarerà a La Stampa (18-01-2007): ”La giustizia deve fare il suo corso, so che ora me ne devo andare [...] mi piacerebbe solo avere un po' più' di tempo per sistemare le cose, un rinvio di qualche mese”.

L'ultimatum concesso alla famiglia Belfiore scade il 16 Maggio 2007. L'indomani, alle 10,30 del mattino tre carabinieri sono entrati nella cascina per certificare che i locali fossero davvero vuoti, prima di consegnare la chiavi ai referenti del Gruppo Abele, Acmos e Libera Piemonte. I ragazzi della Acmos decidono di allestire nella Cascina un presidio permanente, per proteggere il bene da ulteriori danneggiamenti. I Belfiore, infatti, fra un rinvio e l'altro hanno avuto tutto il tempo di sistemare le cose, danneggiando il bene fino a renderlo praticamente inabitabile.

I primi quattro abitanti della Cascina si trasferiscono senza acqua, senza corrente elettrica e senza alcun tipo di riscaldamento: gli impianti erano stati distrutti, persino i pavimenti, per intere parti, certosinamente smontati. Roberto, uno dei primi a stabilirsi in Cascina ricorda l'inverno passato al freddo: “bisogna starci qui dentro, non solo per vigilare ma per dare un segnale, chi ha capito, ci è stato vicino, ed ha patito il freddo con noi in questi saloni durante i primi incontri pubblici, ma solo così è stato possibile dare un segnale forte al territorio”. L'idea del gruppo era che bisognava dare una testimonianza concreta della liberazione che si era attuata sul bene, che la casa da cui si ipotizza venissero impartiti gli ordini al resto del clan Belfiore, adesso, era un bene della collettività.

L'inserimento delle attività della Cascina nel tessuto territoriale non è stato semplice: in un piccolo centro del Nord, in cui per anni il fenomeno mafia è stato affrontato nel segno del negazionismo, riuscire a creare un legame fra il bene e il territorio è ancora più difficile, perché è difficile far comprendere la natura, la storia, la funzionalità e l'importanza simbolica di quel bene stesso.

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La priorità del gruppo è stata dunque quella di inserire il bene nel tessuto sociale del territorio, risolvendo l'iniziale conflitto con quella parte della cittadinanza che si era opposta all'affidamento del bene al Gruppo Abele, perché, come racconta Roberto: “non si può dare alcun messaggio forte all'esterno, non si può fare alcun tipo di azione di sensibilizzazione o formazione se non si crea un legame con i vicini di casa”.

La strategia di riutilizzo adottata è stata allora funzionale al contesto, come racconta Roberto: “abbiamo costituito una comunità per perseguire l'interesse comune, credendo che la Cascina dovesse essere realmente al servizio delle esigenze del territorio, una risorsa di tutti e per tutti”.

La comunità residente comincia ad organizzare incontri pubblici e si mette in ascolto di quelle che sono le richieste dei diversi attori del territorio: emerge dagli incontri che a San Sebastiano c'è un forte campanilismo fra le diverse frazioni e che la comunità è divisa fra la parte storica dei residenti e una parte di residenti, mediamente fra i 30- 40 anni, che si è trasferita successivamente dalla città. Racconta Roberto che: “Questi due mondi non si incontravano mai, il tessuto sociale era nettamente diviso e in più San Sebastiano non ha alcun punto di ritrovo, non c'è nemmeno una vera piazza...noi abbiamo intercettato chi è rimasto solo nel territorio, abbiamo messo gli spazi della Cascina a disposizione dei cittadini per ricreare un tessuto relazionale che chi abita questo territorio aveva perso, o non aveva mai saldato veramente”.

La Cascina comincia così ad ospitare varie iniziative: corsi di danza, canto, pedagogia per adulti, gruppi di mamme che si scambiano i vestiti per i figli, etc.; la cittadinanza dunque non è solo partecipe del progetto di riutilizzo, ma contribuisce a creare un progetto partecipato di riutilizzo: “Noi custodiamo questo posto, sta anche agli altri animarlo! Viene percepito, il progetto di riutilizzo, come una risorsa, c'è un grande passaparola e le cose cominciano a cambiare...qualcuno ci è venuto a chiedere scusa per aver firmato la

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raccolta firme contro l'assegnazione al gruppo Abele della Cascina, la fatica è stata tanta, ma la percezione che la cittadinanza ha di questo luogo è cambiata”.

Oggi le attività ospitate dalla Cascina o direttamente organizzate sono numerosissime: progetti con le scuole per percorsi di formazione nel segno dell'educazione alla cittadinanza e alla legalità; campi di lavoro scout e campi di lavoro organizzati da Libera “Estate Liberi”; progetti per la sensibilizzazione sulle tematiche di sostenibilità ambientale; il festival “Armonia”, organizzato ogni anno per l'anniversario della morte di Bruno Caccia; l'accoglienza di giovani e meno giovani che vivono un momento di difficoltà di diversa natura o che semplicemente vogliono sperimentare la vita in comunità.

Figura 11 "Cascina Caccia" a San Sebastiano da Po (To) - Noccioleto ed arnie

La cascina produce miele biologico di millefiori, di acacia e di melata, ed è il primo ed unico bene confiscato nel Nord Italia a realizzare un prodotto commerciato con il marchio Libera Terra, produzione che ha dato vita anche a corsi per apicultore e laboratori di smielatura.

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Tante le attività e tanti i progetti futuri: è stato appena piantumato un noccioleto dedicato a Vito Scafidi4, che produrrà nocciole delle Langhe a certificazione IGP; da un anno vengono accolti animali per creare una fattoria didattica.

“L'educazione - dice Roberto - è il cappello che sta su tutto”. Il progetto di riutilizzo, in questo caso, è veramente un progetto condiviso dall'intera comunità, e il bene confiscato è stato oggetto di una profonda conversione, realizzando a pieno una nuova territorializzazione, positiva, condivisa da tutti gli attori del territorio. Quando la cittadinanza ha cominciato a sentire come proprio il bene confiscato ha anche cominciato a condividere la forte valenza simbolica del luogo e il messaggio di cui era testimone nel territorio, l'importanza della cultura della legalità, sempre e dovunque, anche in luoghi in cui la mafia non si vede e sembra non esistere. “Perché in questi casi bisogna essere ancora più forti e la coesione sociale dev'essere più salda, la mafia si radica bene al Nord perché trova un terreno fertile di tessuti sociali deboli, reti relazionali meno forti di un tempo, chi è solo è una facile preda, difficilmente si schiera o si ribella”.

Racconta Roberto che la presenza della famiglia Belfiore era sempre stata “in sordina”, i cittadini sapevano che erano persone “da trattare con i guanti”, ma c'era poca consapevolezza della loro importanza e del ruolo chiave che esponenti della famiglia come Domenico e Salvatore hanno avuto nella storia del malaffare torinese. Anche se, dopo due anni di attività, cominciano a venir fuori anche i racconti delle difficoltà che alcuni hanno avuto con la famiglia, piccoli soprusi, minacce velate e generici atteggiamenti di superiorità e arroganza, che difficilmente però venivano raccontati, condivisi con il resto della cittadinanza.

Nella Cascina dedicata a Bruno e Carla Caccia si recupera la memoria e si sostiene chi viene minacciato dalla mafia, si produce cultura, educazione ed accoglienza, ma soprattutto, si è riusciti a fare diventare patrimonio della collettività una realtà che la collettività aveva all'inizio rifiutato.

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Il processo di riterritorializzazione sembra dunque essersi affermato con successo, nella piena applicazione pratica dei principi sanciti dalla legge 109/96, realizzando cioè un riutilizzo del bene a servizio della società. Per concludere l'analisi è possibile dunque anche in questo caso rileggere il processo attuato sul bene attraverso lo schema interpretativo di Turco sulla territorializzazione:

Tabella 9 Gli atti territorializzanti per il bene "Cascina Caccia"; secondo lo schema di Turco A. (1988)

6.4 I beni confiscati e la risposta del territorio

Come preannunciato, anche in questo contesto è stato consultato un campione di attori del territorio, per cercare di fornire qualche esempio di risposta dei cittadini al processo di integrazione dei beni confiscati all'interno del tessuto territoriale. Vista la peculiare distribuzione dei beni nel territorio preso in esame si è preferito puntare ad un campione di soggetti residenti nel territorio della provincia torinese, specialmente di quelle zone particolarmente interessate dal fenomeno mafioso, come la Valle di Susa e l'hinterland torinese.

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6.4.1 Analisi dei questionari

Le caratteristiche socio-demografiche del campione sono molto più eterogenee rispetto a quelle degli intervistati a Corleone: come anticipato, infatti, gli intervistati sono residenti in comuni diversi della provincia Torinese, la loro l'età inoltre varia fra i 30 e i 45 anni. Per quanto riguarda le professioni sono stati intervistati una studentessa, un'insegnate, un educatore della prima infanzia, un avvocato e un'impiegata. Sebbene la composizione del campione sia decisamente eterogenea, questo si conferma composto da “osservatori privilegiati” in quanto tutti i soggetti intervistati partecipano direttamente alla vita associativa dei comuni in cui sono residenti o della città di Torino e conoscono l'attività di Libera legata ai beni confiscati e dunque fanno parte del fenomeno oggetto di studio, essendo residenti in zone interessate dalla presenza di organizzazioni criminali ed hanno una conoscenza del fenomeno legata soprattutto alle attività associative a cui prendono parte attivamente.

L'analisi delle risposte al questionario conferma la conoscenza, da parte degli intervistati, della procedura di sequestro e confisca dei beni, con livelli di maggiore o minore approfondimento tutti infatti hanno risposto di conoscere la procedura. Per quanto riguarda invece la dimensione del fenomeno nessuno degli intervistati è stato in grado di fornire una indicazione precisa circa il numero di beni confiscati nella provincia di Torino, in due casi è stata proprio esclusa la presenza di beni nel territorio, rimandando piuttosto alla presenza, massiccia, in altre regioni d'Italia. Successivamente è stato chiesto agli intervistati se conoscevano o meno i beni oggetto di questa ricerca, ovvero la casa confiscata al boss Mazzaferro a Bardonecchia e la Cascina dedicata a Bruno Caccia a San Sebastiano da Po. Anche in questo caso le risposte denotano una conoscenza poco approfondita o nulla, alcuni degli intervistati ricordano la vicenda legata alla villa di Bardonecchia, sebbene non abbiano conoscenza della destinazione d'uso, trattandosi del resto di un progetto ancora in fieri. Per quanto riguarda invece Cascina Caccia solo due intervistati conoscono il bene, uno di questi si limita ad una conoscenza “di nome, è stata dedicata ad un magistrato ucciso dalla mafia”, mentre l'altro intervistato ha anche partecipato ad alcuni eventi che ha ospitato la Cascina. Nel complesso la tipologia di risposte non stupisce, bisogna ricordare infatti che siamo in presenza di una situazione territoriale molto diversa rispetto a quella analizzata a

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Corleone, in cui in un solo comune sono concentrati molti bene, la maggior parte dei quali è stata destinata a finalità sociali. Nella provincia di Torino, al contrario, come abbiamo più volte sottolineano, la presenza dei beni nel territorio è poco capillare e inoltre molti di questi, essendo destinati al patrimonio dello Stato, non subiscono un processo di pubblicità che permette ai cittadini di identificarli come beni confiscati alle organizzazioni criminali e nel complesso, il fenomeno, è molto meno manifesto e alla portata della conoscenza di tutti, nonostante gli immensi sforzi delle realtà associative del territorio per creare informazione e sensibilizzazione sul tema. E' infine necessario ricordare che il campione in esame, non avendo pretese di rilevanza statistica, non è rappresentativo di tutta la popolazione del territorio, e, ancor più che nel caso di Corleone il questionario mira a raccogliere informazioni di base sul livello di conoscenza del fenomeno dell'intervistato ma non mira a trarne un quadro interpretativo. Ciò che si vuole mettere in luce è piuttosto l'opinione che i soggetti hanno circa il fenomeno, non il livello di conoscenza legato ai singoli beni presenti o meno nel territorio, opinione che si rileva grazie alle interviste.

6.4.2 Analisi delle interviste

Ci occuperemo dunque dell'analisi delle risposte e delle tematiche affrontate durante le interviste. Anche in questo caso verranno analizzate tutte le risposte date alla singola domanda impulso, in modo da scomporre l'analisi per le varie tematiche affrontate con gli intervistati.

La rilevanza del fenomeno mafioso Tutti gli intervistati concordano sulla rilevanza del fenomeno mafioso nella provincia torinese. Viene evidenziata inoltre, dagli intervistati, la peculiarità del fenomeno nella regione e più in generale nelle zone del Nord Italia: una mafia meno “visibile” nella vita quotidiana ma che è incredibilmente attiva nel campo dell'edilizia, degli appalti e del condizionamento della vita politica dei comuni della provincia. Si riconosce dunque una differenza nella presenza delle organizzazioni criminali al Nord rispetto a quella che si manifesta nella zone di tradizionale radicamento:

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“Penso che sia profondo e rilevante ma differente rispetto ad esempio alla realtà siciliana. Amici siciliani mi raccontano che si percepisce a livello proprio di cittadino, di commerciante, di lavoratore ad esempio attraverso la richiesta del pizzo oppure con la conoscenza diretta che senza l‟appoggio di un certo mafioso non si manda avanti l‟azienda o non si entra in un posto di lavoro. Qui da noi non si percepisce a livello così “basso” ma a livello di cariche pubbliche, di dirigenze, di sistema di appalti” (intervista 4);

“Quando si parla di mafia nel nord non si intende la classica mafia siciliana, si intende invece il malsano rapporto che ci può essere fra istituzioni e potenti imprese o gruppi economici, per cui, grazie a pressioni di questi e, spesso, laute prebende a partiti od a loro esponenti, vengono dati in appalto lavori, o vengono fatti favori di altro genere” (intervista 3).

Sebbene dunque viene riconosciuto in modo esplicito che la mafia è presente nella provincia in un modo meno visibilmente aggressivo, non viene affatto sminuita l'importanza e gravità del fenomeno. Al contrario, gli esempi forniti dagli intervistati, per spiegare la rilevanza del fenomeno, mirano ad evidenziare la pervasività delle organizzazioni mafiose nelle attività dei comuni, sottolineando come il fenomeno abbia radici lontane e non riguardi solamente le rilevanze investigative più recenti.

“In Valle di Susa abbiamo esempi che riguardano il passato, come il commissariamento del Comune di Bardonecchia per mafia, negli anni '90, ma anche il presente, come le indagini ancora in corso su un probabile coinvolgimento del Clan dei Mazzaferro e del boss Lo Presti negli appalti per la costruzione del TAV” (intervista 1);

“Ho potuto vedere più volte cantieri stradali dati in mano a compagnie sotto inchiesta mafiosa. Inoltre in questi anni vi è stato un aumento delle sale da gioco in tutta la regione. Torino purtroppo è anche famosa per l‟enorme giro di droga e prostituzione che l‟abita attività queste gestite secondo me soprattutto dalla mafia.

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Non è un problema di oggi e dagli anni 70-80 che si parla di „ndrangheta a Torino e in Piemonte” (intervista 2);

“Le ultime notizie dell'operazione Minotauro, a Giugno di quest'anno dimostrano che Torino è sicuramente uno dei punti nevralgici di tutto il Piemonte, sicuramente i reati , lo dimostrano anche le confische degli anni '80 come quelle recenti, sono quasi tutte per usura, quindi dev'essere il reato predominante e poi altri reati che comunque non sono da sottovalutare, quindi assolutamente si, il fenomeno è rilevante” (intervista 5).

Il legame della mafia con il territorio della provincia torinese Come è stato ampiamente approfondito nel cap.2 e come si evince dall'analisi del caso delle infiltrazioni mafiose nel comune di Bardonecchia il legame che le mafie hanno creato con i territori di nuovo insediamento si fonda sostanzialmente sulle stesse dinamiche che vengono perpetrate nelle zone di tradizionale radicamento delle organizzazioni criminali. Tuttavia è anche evidente che l'interpretazione più comune della presenza mafiosa nelle regioni del Nord Italia è quella di una “mafia imprenditrice”, meno feroce, meno violenta e più interessata ai traffici illeciti che al controllo del territorio. Si è cercato dunque di approfondire il punto di vista degli intervistati, interrogandoli su quale fosse, a loro avviso, il legame che la mafia instaura con il territorio nella provincia torinese.

“Anche in questo caso quasi tutte le risposte rimandano al problema delle infiltrazioni mafiose nella gestione della “cosa pubblica”, che determinerebbe dunque un forte controllo territoriale delle mafie presenti nei comuni della provincia e nel capoluogo stesso. Credo si attui soprattutto attraverso tangenti e controllo di appalti pubblici. Ma anche le infiltrazioni mafiose in politica devono essere parecchie” (intervista 1);

“Penso che il legame sia stretto, come d‟altronde per la Lombardia e la Liguria, credo si attui a livello più alto con infiltrazioni mafiose in politica , con il controllo

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degli appalti pubblici e di conseguenza tangenti. L‟operazione Minotauro ha rilevato alcuni di questi legami” (intervista 2);

“Secondo me c‟è un legame molto stretto fra tutti i partiti e le lobbie economiche. In questo senso il fenomeno mafioso è radicato profondamente anche al nord”(intervista 3).

Due intervistati affrontano anche la specifica tematica del pizzo e del controllo del territorio attraverso il condizionamento dell'imprenditoria privata, ma con punti di vista diversi : “Il fenomeno del pizzo forse emerge in misura più ridotta al nord dove il fenomeno mafioso assume un carattere macro e che agisce a livello di politica, di cariche pubbliche, dirigenze pubbliche, controllo del mercato del lavoro e soprattutto degli appalti” (intervista 4);

“Sicuramente negli appalti come abbiamo visto per il comune di Leinì e anche Caselle per altre questioni legate sempre agli appalti, ma ostacolando l'attività di alcune imprese, in vario modo, questo nella provincia di Torino, si cominciano a registrare casi di pizzo ed estorsioni, che tradizionalmente erano più frequenti al Sud, e invece adesso condizionano tutti gli imprenditori” (intervista 5).

Infine c'è anche qualcuno che rimanda ad una componente “culturale” del fenomeno, di certi atteggiamenti che vengono perpetrati nel sud come nel nord Italia:

“[…] Un atteggiamento “mafioso” si riscontra in modo massiccio nei comparti della dirigenza pubblica dove il diritto viene scavalcato per portare avanti favoritismi funzionali a conquistare l‟elettorato o un appoggio nella carriera. Anche a livelli più bassi gli avanzi di carriera sono dettati dall‟accondiscendenza e dal saper chiudere un occhio al momento giusto. Purtroppo la mafia esiste perché nella popolazione stessa esiste un atteggiamento “mafioso” di fondo” (intervista 4).

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Il predominio della mafia su spazi e usi pubblici del territorio Si è cercato dunque di approfondire in che modo, secondo gli intervistati, si manifesta il condizionamento della mafia degli usi pubblici del territorio, anche a fronte delle considerazioni portate avanti dagli intervistati affrontando le tematiche precedenti, che sempre facevano riferimento al problema delle infiltrazioni nelle amministrazioni pubbliche e negli ambiti politici. L'impressione dominante, fra gli intervistati, è che le decisioni riguardanti il territorio, prese dalle amministrazioni pubbliche negli ultimi decenni, siano state corrotte dagli interessi mafiosi, specialmente per quanto riguarda il campo dell'edilizia.

“[...]I paesi o le città più che essere pensate a misura d‟uomo, più che essere considerate un bene condiviso sono spesso un luogo per arricchirsi soprattutto con la cementificazione” (intervista 2).

Tutti gli intervistati, sebbene esprimano in modo diverso il concetto, sembrano concordare fermamente nella convinzione che il territorio, sia stato modificato non per rispondere alle esigenze reali della collettività, perseguendo dunque l'interesse pubblico, ma piuttosto per far fronte alle pressioni dei gruppi criminali che intendevano investire negli appalti e controllare il mercato edilizio della provincia torinese: “La mafia, intesa come sopra, può comportare gravi danni alla collettività: basti pensare ad un‟opera pubblica che non si realizzerebbe se non ci fossero le lobbie delle costruzioni che spingono perché si faccia” (intervista 3);

“La mafia ha predominio sul territorio. Occupa spazi, modifica il territorio, cementifica, sottrae beni alla pubblica fruizione ma soprattutto instaura la cultura che il più forte vince. L‟opposto della cultura meritocratica” (intervista 4).

Un intervistato, inoltre, torna al problema del condizionamento della vita pubblica e imprenditoriale dei comuni in cui sono presenti le organizzazioni criminali, che attraverso il controllo dei voti e delle attività imprenditoriali (con il pizzo e il racket dell'usura), condizionano la vita dei cittadini, sebbene in modo ancora poco manifesto per chi non è direttamente coinvolto, ma in ogni modo rilevante e preoccupante:

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“Sicuramente il predominio c'è, sempre riguardo alle amministrazioni, il controllo dei voti, la raccolta dei voti sul territorio è sicuramente uno strumento di controllo... poi se vogliamo parlare anche di controllo capillare di alcune zone di Torino e del Piemonte si sta sviluppando un fenomeno di richiesta di pizzo, comunque di controllo del territorio, di fare un danno e poi proporsi con la “finta protezione” che sicuramente è più rilevante nel sud, o perlomeno più evidente, qui al nord si sta sviluppando adesso. Le denunce sono molte poche, le denunce su usura ed estorsione sono davvero poche, per cui una questura da una lettura del fenomeno, giustamente, dicono “se ci atteniamo alle denunce il fenomeno in alcune zone non esiste” poi però bisogna fare altre letture “(intervista 5).

I beni confiscati e la vita quotidiana di un comune ad alta incidenza mafiosa A questo punto dell'intervista si è cercato di indirizzare le riflessioni sulla specifica tematica dei beni confiscati. Per prima cosa dunque si è cercato di comprendere se tale procedura, secondo gli intervistati, possa o meno cambiare le sorti di un comune ad alta incidenza mafiosa. L'obiettivo era dunque quello di cominciare a cercare le tracce di quel processo di riterritorializzazione che dovrebbe investire i beni confiscati alla mafia una volta restituiti al territorio. Le risposte degli intervistati, in questo caso, presentano sfumature differenti, pur concordando tutti sulle potenzialità positive della pratica di sequestro e confisca dei beni. Il punto di vista degli intervistati sembra infatti corrispondere a quella che è la realtà dei beni nella provincia torinese, dove molto spesso come abbiamo avuto modo di vedere è stato difficile restituire tempestivamente i beni alla collettiva, e dove inoltre in alcuni casi è difficile rintracciare sul territorio gli esiti positivi delle confische, poiché poco conosciuti. In questi territori il condizionamento mafioso delle istituzioni e le infiltrazioni nella politica ha fortemente segnato l'opinione pubblica, e questo si riflette anche nel modo in cui gli intervistati guardano ai beni confiscati. Molti intervistati pongono infatti l'accento sull'importanza simbolica dei beni, non tanto per la contrapposizione “luogo di mafia”/“luogo della collettività”, quanto più come testimonianza, visibile nel territorio, dell'azione efficace dello stato nella pratica di repressione del fenomeno mafioso. I beni confiscati ai mafiosi e restituiti alla collettività, secondo gli intervistati, diventano dunque il simbolo di una valida azione di applicazione delle leggi e di affermazione dei

186 principi di legalità, segno visibile ed inconfutabile dunque della possibilità di cambiamento, per il territorio stesso, liberandosi dal condizionamento e dal controllo mafioso e prediligendo il benessere della collettività agli interessi privati.

“Diciamo che io spero di sì, credo che cambi qualcosa nei comuni con incidenza mafiosa, innanzi tutto riappropriarsi di spazi e ripulirli nella loro funzione, l'utilizzo e la gestione di questi beni è un forte gesto di legalità per chi mafioso non è. […] Credo sia importante e necessario sentirsi supportati nella legalità. Poter assistere al fatto che qualcosa può cambiare, crea un senso di potere contro l‟effetto mafioso, il quale spesso può esser vissuto con impotenza, pensando “tanto cosa si può fare? Non si cambierà mai…” “(intervista 2);

“Sicuramente la restituzione alla collettività, quando avviene, quando l'iter si completa permette alle persone, alla cittadinanza di riappropriarsi di quello che prima era il patrimonio di una persona che faceva affari illeciti e poteva solo creare danno, evidente o meno, quindi in base al progetto di riutilizzo le persone si possono riappropriare di quel bene, utilizzarlo in più modi [...] in base al progetto di riutilizzo le persone si riappropriano dell'immobile e ne capiscono il senso, perché spesso le persone si chiedono “i beni vengono confiscati e poi dove vanno a finire?”[...] quindi i beni sono dimostrazioni del fatto che se la legge viene applicata funziona” (intervista 5);

“[…] costituisce un importante esempio che il sistema mafioso si può smantellare e che lo Stato si interessa dei propri cittadini restituendo a questi e al territorio beni sottratti in precedenza illegittimamente ma soprattutto sono una speranza di libertà e di cambiamento”(intervista 4).

La questione della necessità di dare buon esito ai sequestri e alle confische e di far si che i beni diventino effettivamente luoghi a servizio della collettività, viene sottolineato in modo specifico da un altro intervistato: “Se si tratta di un mero sequestro a cui non fa seguito nulla e poi magari, come già accaduto, i beni tornano in mano alla mafia no, non credo che questa pratica serva a

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qualcosa, se l‟impegno è quello di rendere utili i beni sequestrati, permettendo la realizzazione di progetti di cui la comunità necessita, allora sì , direi che è estremamente utile” (intervista 1).

Infine un intervistato ha sottolineato come, in comuni ad alta incidenza mafiosa, gestire un bene confiscato possa inizialmente rappresentare un serio pericolo per chi decide di intraprendere questa strada, rischiosa perché rende manifesta l'opposizione al controllo territoriale mafioso: “Non posso fare esempi perché non ne conosco nello specifico, […] ma ritengo peraltro che la pratica di sequestro e confisca in un comune ad alta incidenza mafiosa possa portare seri problemi ai cittadini che condividano questo operare secondo giustizia” (intervista 3).

La destinazione a fini sociali come antagonista della signoria territoriale mafiosa Si è indirizzata dunque la riflessione sulla destinazione a fini sociali dei beni confiscati, e si è chiesto agli intervistati se questo può o meno rompere il legame della mafia con il territorio. Se la signoria territoriale è il controllo del territorio, la destinazione a fini sociali può rappresentare un modo di controllo del territorio, da parte dei cittadini, e di salvaguardia della comunità dalle possibili ingerenze criminali? Tutti gli intervistati concordano nell'affermare che destinare a fini sociali i beni confiscati è sicuramente un modo per contrastare il controllo mafioso dei territori, ma allo stesso modo concordano tutti nel ritenere che questa pratica non può che essere uno degli strumenti e che se lasciata isolata, non inserita in un contesto di repressione intransigente del fenomeno da parte delle istituzioni preposte, allora difficilmente potrà servire.

“Ritengo che la confisca dei beni e la loro destinazione alla comunità possa essere un ottimo mezzo per colpire la mafia. Ma per poter pensare di reprimere il fenomeno, occorrerebbe riformare completamente il sistema di fare politica”(intervista 3);

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“Ovviamente si. Anche se non è sufficiente. Occorre una politica forte dello Stato di contrapposizione alla mafia. Occorrerebbe che i nostri politici, per primi, rifiutassero collusioni, e che ci fosse un sostegno forte e pubblicizzato per il cittadino che intende denunciare comportamenti illeciti. Occorrerebbe altresì che soprattutto nel comparto pubblico vengano meno gli atteggiamenti di favoritismo, di appoggio politico, di accordi che si portano avanti non per favorire l‟interesse pubblico ma quello privato e personale” (intervista 4);

Un intervistato pone proprio l'accento sulla complementarietà di questa misura preventiva con le altre, sottolineando come la confisca dei beni sia importante in quanto misura di prevenzione patrimoniale indispensabile per bloccare l'azione mafiosa: “[…] uno degli obiettivi della legge 109/96 è proprio quello di andare a puntellare dal punto di vista economico i beni e le proprietà mafiose, proprio perché il carcere o comunque le misure di prevenzione personale non erano sufficienti, perché non si andava poi a colpire il patrimonio di questi soggetti” (intervista 5).

Infine c'è chi pone invece l'accento sull'importanza del riutilizzo a fini sociali in termini di “messaggio” alla comunità: “Ma…più che una contrapposizione è un giusto messaggio di riutilizzo. Nel senso che non è che la mafia non continuerà il suo lavoro solo perché alcuni beni saranno usati per fini sociali…Credo che i beni confiscati debbano essere usati per ciò che in quella comunità è necessario al momento…e sicuramente i centri a fini sociali non sono esattamente in surplus oggi , quindi ben venga che siano usati per questo. Sicuramente più beni verranno confiscati e riutilizzati in tempi brevi più forte potrà essere il messaggio antimafia”(intervista 2).

Gli effetti benefici dei beni confiscati per il territorio Si è chiesto dunque agli intervistati quali fossero, a loro avviso, gli effetti benefici che il riutilizzo a fini sociali può apportare al territorio in cui sono inseriti. La domanda è volta da un lato, a tirare le somme delle riflessioni fatte con i singoli intervistati, dall'altro mira a stimolare l'intervistato a fornire esempi pratici circa le modalità in cui si esprimono questi

189 effetti benefici, in termini di qualità della vita, sicurezza, riscatto sociale, opportunità di lavoro, etc., quasi nel tentativo di “misurare” i possibili benefici attraverso esempi. Le risposte, in questo caso, sono molto variegate, ma concordano tutte, ancora una volta, sull'importanza simbolica che questi beni hanno nel territorio. Questi beni, indipendentemente dal modo in cui vengono utilizzati rappresentano l'opportunità per i cittadini di riappropriarsi del territorio e dunque un beneficio per la collettività a prescindere: “La riappropriazione del territorio è sicuramente la componente più importante, perché sta alla base di qualsiasi ulteriore forma di beneficio che si può costruire grazie all'uso di quei beni, poi a seconda degli usi possono cambiare i benefici, ma sicuramente ci sono”(intervista 5).

Qualcun altro, invece ha posto maggiormente l'accento sull'importanza simbolica del riutilizzo, che, indipendentemente dal modo in cui si esplica, rappresenta un beneficio per la collettività, perché rappresenta una forma di riappropriazione “sana” del territorio: “Ovviamente si in quanto sussiste un processo di riappropriazione del territorio. Oltre a ciò si può ridurre in tale modo la presenza della mafia sul territorio e riconvertire le strutture e i beni ad una finalità di utilità sociale” (intervista 4);

“Sicuramente si tenendo sempre valido l‟assunto che si debbano utilizzare i beni confiscati per ciò che è utile alla comunità in quel momento. Che ne so se mancasse in un piccolo comune la farmacia andrebbe bene anche quella…anche se è un esercizio commerciale” (intervista 2).

Torna ancora, nelle parole degli intervistati, la tematica dell'importanza che siano, prima di tutto, le istituzioni a lanciare un messaggio chiaro di opposizione alla criminalità organizzata e al sistema mafioso in generale, messaggio che secondo gli intervistati può essere mandato proprio attraverso un sapiente riutilizzo dei beni confiscati: “[...]Oltre a ciò la confisca e l‟assegnazione dei beni hanno una finalità più sottile ma forse ancora più importante nei confronti del cittadino: fanno percepire la presenza dello Stato come attiva nei confronti del fenomeno mafioso, il cittadino non si sente abbandonato, come spesso accade o si percepisce, nel momento in cui

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si trova di fronte a tale realtà e percepisce che c‟è una reale possibilità di via d‟uscita e di aiuto. Inoltre tale atteggiamento fa percepire una chiara condanna del fenomeno da parte delle autorità e questo risulta fondamentale in un paese dove molte parole sono sprecate contro la mafia ma i fatti sono veramente pochi – e baluardo di pochi coraggiosi – o almeno così si percepisce, altrimenti il fenomeno non sarebbe così dilagante e incancrenito e profondamente insinuato dalla base sociale al più alto comparto politico” (intervista 4);

“[...]L‟importante è mandare chiaro il messaggio che i beni confiscati possono essere utilizzati per il bene della collettività e non dovrebbero stare fermi per anni in disuso. Questo naturalmente vale per qualsiasi bene, soprattutto immobiliare”(intervista 2).

Qualcuno infine mette in relazione il problema della speculazione edilizia con la possibilità di evitare ulteriori cementificazioni nei terreni che vengono confiscati, in questo senso i beni porterebbe un beneficio per la collettività : “[…] soprattutto quando si tratta di terreni. Almeno mantengono la destinazione agricola e vengono sottratti alla speculazione edilizia!”(intervista 3).

Il punto di vista delle altre generazioni La domanda era stata inizialmente pensata perché si temeva di non riuscire ad avere interviste con adulti e meno giovani, come nel caso di Corleone. Tuttavia, sebbene la composizione del campione fosse più eterogenea dal punto di vista generazionale è stata sottoposta la questione agli intervistati, per cercare di comprendere se anche nelle regioni di nuovo insediamento mafioso esiste una qualche distanza generazionale nell'affrontare il fenomeno mafioso e dunque anche il processo di restituzione a fini sociali dei beni confiscati.

Le risposte, in questo caso, sono state molto diverse da quella avute dai ragazzi intervistati a Corleone; la cosa non sorprende, sempre se si inserisce il campione di risposte in un contesto come quello del Nord Italia. Gli effetti del “negazionismo istituzionale” e la

191 stessa strategia mafiosa di mantenere un profilo basso nei confronti dei più, del mescolarsi con la popolazione piuttosto che cercare una netta riconoscibilità, sembrano aver fatto si che non si sia creata una distanza generazionale forte nelle possibili interpretazioni del fenomeno mafioso. Tutti gli intervistati infatti concordano nell'escludere una possibile percezione diversa del fenomeno da parte dei giovani, dei giovani adulti o degli anziani. I giovani hanno forse più possibilità di informarsi, e dunque di conoscere più approfonditamente i beni confiscati e le strategie di riutilizzo, oppure sono stati maggiormente formati grazie ai processi di sensibilizzazione ed educazione attivi nelle scuole: “[...]un giovane ha più possibilità di venire a conoscenza della confisca di un bene attraverso internet in quanto i canali d‟informazione ogni tanto ma non sempre mettono in rilievo tale fenomeno, o se lo fanno, comunque in modo molto rapido all‟interno dei telegiornali”(intervista 4);

“Credo che i giovani e i giovani adulti siano più sensibili perché in qualche modo , se hanno avuto fortuna, sono stati educati alla non mafia, ma si penso che se per esempio alcuni beni venissero riutilizzati anche per strutture sociali a favore di adulti e/o anziani anche loro potrebbero essere sensibilizzati maggiormente. L‟educazione delle generazioni precedenti forse non sottolineava il problema e alcuni non lo vedono o non lo vogliono vedere…ma non credo sia un problema reale di generazione ,ma piuttosto di informazione”(intervista 2).

Dalle risposte fornite dagli intervistati sembra dunque che non sussista un reale problema di differenza generazionale, o che almeno non sia quello il differenziale che cambia la percezione che i cittadini possono avere di questi fenomeni. Il differenziale sembra piuttosto la possibilità di accesso alle informazioni e che la linea di demarcazione non sia dunque generazionale, ma piuttosto di consapevolezza e coscienza: chi ha un certo tipo di sensibilità non può che comprendere ed approvare la restituzione dei beni della mafia alla collettività. Gli intervistati concordano fermamente su questa convinzione, ovvero che indipendentemente dall'età o si è contrari alla mafia e dunque si comprende a pieno il senso di tutte le strategie di contrasto, o si è indifferenti, o ancor peggio, si è collusi.

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“Se una persona è onesta, rispetta le regole, si oppone al sopruso , non può che condividere questa strategia. A prescindere dalla propria appartenenza generazionale”(intervista1);

“[…] Io ritengo che tale pratica sia comprensibile ed approvata da tutti, di qualsiasi età essi siano, non cambia la percezione”(intervista 3);

“Non prendendo in considerazione i livelli di informazione, credo che la percezione del fenomeno sia la stessa”(intervista 4);

“Sicuramente i giovani sono tanti, forse molti di più, però dal mio punto di vista ci sono molte persone che magari sono più avanti con l'età che però si mettono a disposizione del processo e stanno capendo la funzione della confisca e del riutilizzo sociale e di quello che fa Libera sul territorio,[...] ci sono persone che non si interesso o comunque non capiscono il senso del processo, ma non dipende dall'età”(intervista 5).

6.4.3 Conversazioni con gli intervistati non strutturate

Si è cercato di stimolare gli intervistati ad un prosieguo delle riflessioni, senza il vincolo delle specifiche domande. Tuttavia, come del resto a Corleone, il tentativo ha avuto successo solo con alcuni degli intervistati e in ogni caso in forme più brevi e sintetiche.

Un intervistato ha raccontato come, partecipando ad alcuni incontri in cui erano presenti giovani dell'associazione Libera, ha visto in questi giovani un segnale positivo di una nuova sensibilità rispetto al tema della mafia e alle possibilità di contrastarla, fin dalle più giovani generazioni. Solo attraverso i giovani, secondo l'intervistato, si può veicolare un messaggio di unità, spiegando loro come le azioni dei singoli possono essere funzionali ad un cambiamento collettivo della società nei confronti del “sistema mafioso”: “Ho assistito ad alcuni momenti in cui erano presenti dei ragazzi facenti parte di Libera, ragazzi giovani .Per me era motivo di speranza e forza sapere che fin da giovani può essere seminato questo senso di giustizia e di potere…In Italia sento

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moltissimo questo aspetto, la “gente” spesso pensa che siamo in balia delle politiche mafiose e non…e che in realtà noi cittadini possiamo solo adeguarci in quanto ogni tentativo di cambiamento è inutile, queste manifestazioni dimostrano il contrario, per questo sono importanti”(intervista 2).

L'importanza dell'educazione all'antimafia è stata sottolineata anche da un altro intervistato, che ha voluto precisare quali forme di educazione alla legalità possono effettivamente creare una coscienza collettiva di opposizione all'ingerenza mafiosa nella società: “La Mafia è un cancro che solo la costante educazione alla legalità potrà forse in futuro estirpare. Non parlo di educazione alla legalità come un qualcosa di astratto, come spesso fanno certi personaggi sempre sotto i riflettori ma poi non esenti da strani compromessi con il “potere”, parlo piuttosto di educazione costante delle giovani generazioni al rispetto delle regole e alla capacità di opporsi al sopruso” (intervita1).

Infine, un altro intervistato, è voluto tornare sulla tematica della differente percezione generazionale del fenomeno mafia e della restituzione a fini sociali dei beni confiscati, ponendo l'accento sull'importanza di un'informazione e formazione capillare che giunga a tutti i cittadini: “Le persone che si rivolgono a noi per chiederci di fare volontariato o di mettersi a disposizione in qualche modo sono più avanti con l'età rispetto ai giovanissimi, i giovanissimi si attivano per entrare nei presidi e formarsi, entrare formalmente in Libera, fare Libera nel migliore dei modi, però le persone più avanti con l'età spesso si propongono per ruoli che altrimenti non farebbe nessun altro e quindi effettivamente capiscono qual è la funzione che abbiamo sul territorio e quello che ci sforziamo di fare, se è vero che alcune persone non si interessano o comunque non capiscono il senso di questo forse è anche un po' colpa nostra che dovremmo cercare di arrivare a più persone possibili altrimenti si fallisce, anche solamente il fatto di costituirsi in rete e non in associazione, Libera è una rete, quello è l'obiettivo, cercare di incanalare tutte le energie da associazioni diverse per poi tenerle tutte insieme, perché l'obiettivo è talmente alto che non ha senso contrastarsi

194 l'uno con l'altro o porre delle barriera all'entrata delle persone, quindi semmai fosse vero cerchiamo di risolverlo, di risolvere questa mancanza e raggiungere tutti, indipendentemente dall'età”(intervista 5).

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Conclusioni

Questo lavoro si prefigge l'obiettivo di analizzare dei beni confiscati alle mafie allo scopo di ricercare gli effetti benefici, per il territorio, della pratica di assegnazione a fini sociali. Per riuscire in questo intento si è articolato il lavoro su tre direttrici fondamentali: territorio, dimensione territoriale del fenomeno mafioso e ruolo dei beni confiscati. Il territorio, prima di tutto: spazio costruito e trasformato dal susseguirsi di azioni umane, all'interno del quale si dispiegano tutti i fenomeni sociali. Come significato e significante, il territorio è la chiave di volta di questa ricerca. Seconda direttrice di analisi è la dimensione territoriale del fenomeno mafioso. Per riuscire a coglierne le caratteristiche fondamentali è stato indispensabile ripercorrere la storia delle organizzazioni criminali, le tipologie di azione e le modalità di radicamento su diversi territori, per scoprire infine che, il controllo del territorio, è una caratteristica a cui nessuna mafia italiana sembra poter rinunciare, sia nelle zone di tradizionale azione che in quelle di nuovo insediamento. Rispetto ai beni confiscati, infine, sono state evidenziate luci ed ombre del percorso di confisca ed assegnazione, i contesti ambientali più o meno ostili, le criticità burocratiche, le risposte degli attori del territorio rispetto al processo di conversione che questi beni vivono.

Dalle analisi condotte è possibile concludere che, quando i beni vengono restituiti alla collettività, seguendo gli intenti della legge 109/96, questi riescono a diventare effettivamente oggetto di una profonda conversione territoriale, innescando un processo di riterritorializzazione, decisamente positiva. I beni che vengono reinseriti nel tessuto territoriale per finalità sociali si presentano infatti come un vero e proprio patrimonio territoriale: diventano beni comuni, utilizzati e percepiti come tali, al servizio della collettività che li ospita. L'uso sociale dei beni confiscati, quando viene perseguito in modo sapiente, partecipato e creativo, riesce a coinvolgere ampi strati della popolazione, influenzandola e veicolando un cambiamento politico, culturale e sociale del territorio in cui sono inseriti. Le trasformazioni fisiche e sociali del territorio, attuate mediante la destinazione a fini sociali dei beni confiscati, diventano ogni giorno di più testimonianza di una volontà politica di quei decisori pubblici che intendono investire su un miglioramento della qualità della vita dei cittadini, migliorando il rapporto con le istituzioni e dando un segnale di forte contrasto ai poteri criminali. Umberto Di Maggio, referente per la Regione Sicilia e la Provincia di Palermo dell'associazione Libera, sintetizza efficacemente questa crescente consapevolezza dei decisori pubblici in merito al ruolo dei beni confiscati: “Molte comunalità, infatti, cominciano ad assumere consapevolezza della forza dirompente del riutilizzo sociale delle proprietà mafiose, coscienti che la casa di un boss riutilizzata "civilmente" da un'associazione o da una cooperativa costituisce più di un simbolo. E' il segno concreto della vittoria, sociale e politica, dell'intera collettività sulla violenza e prepotenza criminale. E' il "potere dei segni" contro i "segni del potere" che ormai spinge gli enti locali a spendersi con tutta la forza a disposizione verso una pronta assegnazione ed utilizzo.”

Gli esempi forniti di esiti positivi di assegnazione e conversione ad uso sociale dei beni confiscati dimostrano come l'uso sociale può influire positivamente sul territorio, in modi diretti e indiretti, e innescare processi, come teorizza Magnaghi per il patrimonio territoriale, di “reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l‟identità di un luogo […] processi di democrazia partecipativa che ricostruiscano propensioni al produrre, all‟abitare, al consumare in forme relazionali , solidali e comunitarie” (Magnaghi, 2007, p.6).

In questo senso, la ricerca effettuata a Corleone ha evidenziato come un territorio profondamente segnato da una invadente e prepotente presenza mafiosa possa cercare il proprio riscatto proprio a partire dall'uso sociale dei beni confiscati. Questi diventano simboli, per la cittadinanza e per l'immagine che il comune da di sé, di un nuovo modo di vivere il territorio, all'insegna della libertà, della legalità e del bene comune. Il laboratorio e la bottega della legalità, ospitati nella ex casa del boss Provenzano, sono diventati il simbolo di un nuovo percorso intrapreso dalla città di Corleone, costruttivo e produttivo di educazione antimafia per il territorio. L'agriturismo “terre di Corleone” è invece un prezioso esempio di come l'imprenditoria sociale, che nasce sui terreni confiscati alle mafie, possa essere un volano per l'economia,

198 generando percorsi virtuosi di crescita professionale ed economica, basata sull'etica del lavoro e sulla legalità.

L'analisi di un contesto non tradizionalmente legato alla presenza mafiosa, come la provincia torinese, è servita invece a sfatare una serie di falsi miti sull'impermeabilità del tessuto sociale, di queste zone, all'ingerenza mafiosa. La presenza dei beni confiscati, in questi territori, rappresenta infatti solo la punta dell'iceberg di un'allarmante e radicata penetrazione mafiosa nel tessuto sociale, politico ed economico. I beni confiscati, in questi territori, diventano allora un vero e proprio baluardo di legalità e di cultura dell'antimafia, essendo prima di tutto un veicolo per rompere il silenzio e il negazionismo che ha per troppo tempo caratterizzato il radicamento mafioso nel Nord Italia. Il caso della villa confiscata alla famiglia Mazzaferro, a Bardonecchia, dimostra come l'effettivo riutilizzo di questi beni è prima di tutto legato ad una volontà politica di portare a buon fine i procedimenti di confisca. Ed è parimenti esemplificativo di come un'azione determinata delle amministrazioni locali, sostenuta dalle associazioni attive nel territorio, può portare al superamento delle difficoltà e ad una efficace restituzione dei beni alla collettività. L'esperienza di Cascina Caccia ha dimostrato invece come costruire legami sociali forti, relazioni salde che legano la cittadinanza è il miglior modo per fare antimafia, perché si crea una rete di cittadini consapevoli e testimoni di un messaggio di legalità ed eticità forte, impermeabile ad ogni attacco estero.

Le interviste, infine, benché non abbiano una rilevanza statistica, forniscono un quadro esemplificativo delle possibili risposte del territorio al processo di riconsegna dei beni confiscati. In entrambi i contesti di studio, nonostante le critiche alle lentezze burocratiche, il desiderio di massima trasparenza per l'assegnazione e di un sapiente riutilizzo, i beni confiscati alle mafie vengono visti dalla cittadinanza attiva come un'opportunità, per i territori su cui insistono. Opportunità in primis per creare nuove retoriche, sui luoghi sottratti alle organizzazioni criminali, di democrazia, partecipazione, crescita socio culturale e più di ogni altra cosa, di rete e relazioni umane indispensabili per costruire il senso civico della collettività. Per le persone che sono state intervistate ed ascoltate, questi

199 beni dimostrano il pericolo che la presenza mafiosa rappresenta: la limitazione di libertà del cittadino, dell'imprenditore, l'uso e l'abuso del territorio, che subisce modifiche irreversibili non per il bene comune ma per gli interessi illeciti di queste organizzazioni.

La confisca dei beni appartenenti alle mafie, in questo senso, riesce a decostruire l'immagine, l'influenza e l'attaccamento dei boss al territorio, agendo proprio come una deterritorializzazione della territorializzazione mafiosa. La riconsegna a fini sociali segna la rinascita di questi beni, la riconversione ad un uso pubblico, civico, a servizio della collettività: in questo senso si realizza una modifica del territorio, una riterritorializzazione. L'attore territoriale che modifica il territorio per plasmarlo al meglio alle sue necessità di vita, in questo caso è un attore che si riappropria del territorio, per viverlo in modo libero, civile, etico e ricco. Tutte le persone incontrate, durante tutte le fasi e i luoghi di questa ricerca, seppur con parole ed accenti diversi, mostravano un'incontenibile emozione nel voler esprimere al meglio il senso di proprietà che li lega a quei luoghi, una proprietà riscoperta, collettiva, una vera e propria riappropriazione degli spazi e degli usi pubblici del territorio.

Infine è da segnalare il ruolo fondamentale di Libera: volendo studiare le esperienze di riutilizzo sociale dei beni confiscati, si è constatato come il più affidabile interlocutore sia la rete di Libera, capillare sul territorio, e le segreterie di coordinamento regionale. E' una costatazione oggettiva, che viene fatta non senza un pizzico di amarezza: il ruolo fondamentale dei beni confiscati dovrebbe essere tutelato, promosso e supportato a tutti i livelli dalle amministrazioni pubbliche e dagli enti statali. In alcuni casi, invece, è sembrato quasi che il prezioso attivismo di Libera sui beni confiscati sia servito come alibi per la mancata assunzione di responsabilità, quasi come se si fosse instaurato un meccanismo di delega, da parte delle istituzioni, all'associazione Libera. Francesca Rispoli, responsabile della segreteria di Libera Piemonte, ha espresso un'opinione molto chiara in materia : “La prima cooperativa libera terra nasce tra il 1999 e il 2001 e nasce perché Libera si è resa conto che nonostante la legge in realtà il meccanismo era bloccato e non c'era nessuno che si prendesse effettivamente in carico queste pratiche […] con ciò si è sicuramente in parte contribuito ad azionare un meccanismo di delega che in

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teoria non ci competerebbe, però sappiamo benissimo che su molti territori la presenza di Libera è più capillare e più approfondita rispetto alla presenza di alcuni parti delle istituzioni, per cui la delega deriva anche dal fatto che c'è da parte di alcune parti delle istituzioni la consapevolezza che la conoscenza che ha Libera del territorio e quindi dei beni confiscati è infinitamente superiore e quindi in qualche modo si affida a noi … affidarsi è una cosa delegare in bianco è un'altra e sostituirsi è un'altra ancora: Libera non vuole sostituirsi e cerca di chiedere sempre che siano le istituzioni competenti a prendere queste decisioni, pur essendo consapevole che la presenza e quindi la conoscenza devono essere messe a servizio e quindi non sottraendosi rispetto al proprio compito storico e al compito che l'ha portata a creare quella legge ed accompagnarne l'effettiva applicazione”.

E' evidente che la pratica dell'assegnazione a fini sociale dei beni confiscati non può che essere una delle vie di lotta e contrato alle organizzazioni criminali, come è stato sottolineato da molti degli intervistati. Ed è evidente allo stesso modo come, affinché dia risultati positivi per il territorio, è indispensabile una presenza forte e irreprensibile dell'apparato istituzionale e amministrativo, che non può demandare l'efficacia di questa pratica al mondo dell'associazionismo. Trattandosi di beni confiscati alle mafie istituzioni e amministrazioni dovrebbero essere sempre in prima fila a difendere e promuovere la pratica di riutilizzo a fini sociali. E il riutilizzo dev'essere il più possibile partecipato. L'informazione e la pubblicità sembrano essere la chiave di riuscita del processo di riterritorializzazione che vivono questi beni: il coinvolgimento della popolazione, la realizzazione di progetti partecipati di riutilizzo, il mettere questi beni al servizio delle necessità della comunità su cui insistono, seguendo i principi che ispirano la legge 109/96. Un tale percorso di riutilizzo permette di far vivere a questi beni una nuova vita e di dare consapevolezza alla popolazione, tanto del pericolo che rappresenta la presenza mafiosa nel territorio, quanto delle possibilità di contrasto, istituzionale e sociale, a questa presenza.

Sicuramente c‟è ancora molta strada da fare, prima che la conversione dei beni confiscati diventi una prassi benefica per ogni territorio che li ospita: tanto è il patrimonio inutilizzato

201 o utilizzato in modo improprio, tanta è ancora la disinformazione e le risorse a disposizione dell'Agenzia Nazionale sembrano non essere mai abbastanza per una gestione attenta e funzionale di questo immenso patrimonio. Eppure, i beni confiscati rappresentano una risorsa fondamentale di questo paese, per tutti i benefici per la collettività di cui abbiamo discusso. Risorsa che potrebbe bruscamente smettere di essere tale: il nuovo codice antimafia54, entrato in vigore il 13 ottobre non senza grosse perplessità e riserve da parte di tutti gli addetti ai lavori, introduce importanti modifiche in tema di beni confiscati55. Su tutte, la disposizione che prevede la decadenza automatica del provvedimento di confisca se entro 18 mesi una sentenza d'appello non conferma il primo grado. Dalle analisi condotte si è ampiamente dimostrato come sia molto semplice, per chi vuole opporsi ad una confisca, complicare il procedimento e rallentare infinitamente i tempi. Per molti questo nuovo codice antimafia rappresenta un passo indietro rispetto alle normative precedenti, mettendo a rischio molte delle pratiche che con estrema difficoltà si sono andate delineando e affermando negli anni. Come ha dichiarato56 a riguardo Don Luigi Ciotti, Presidente On. di Libera: “Misurando le parole, io dico che non c'è solo il rischio di un passo indietro nella lotta alle mafie. Il passo indietro c'è già, perché, fra le altre difficoltà che introduce, in questo codice [...]Ci sono norme che complicano terribilmente la vita degli amministratori dei beni”. Ma Don Ciotti ha anche concluso il suo intervento con un fermo: “Non venga meno la speranza”.

54 Codice delle Leggi Antimafia, delle misure di prevenzione e delle certificazioni Antimafia, decreto legislativo 6 settembre 2011, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 28 settembre 55 Per approfondimenti si consiglia lo speciale a cura di “Avviso Pubblico”, disponibile sul sito dell'associazione; e lo speciale a cura del centro studi Pio La Torre, in A Sud d'Europa anno 5 numero 25, Palermo luglio 2011 56 Intervenendo al Seminario “Mafie al Nord”, promosso da Libera il 7 e 8 Ottobre 2011 a Torino. Il testo integrale del discorso di chiusura di Don Ciotti è disponile sul sito di Libera.

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Bibliografia

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Le mani della criminalità sulle imprese, Rapporto SOS Impresa, Confesercenti, 2006.

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“Gli strumenti di aggressione ai patrimoni illecitamente accumulati dalle organizzazioni di tipo mafioso”: normativa, prassi e criticità dei procedimenti giudiziari -sequestro e confisca, penale e di prevenzione- e amministrativi -destinazione e utilizzazione dei beni-,

209 con particolare riferimento all‟istituzione dell‟Agenzia Nazionale e a al Testo Unico delle misure di prevenzione”, Rapporto a cura di Francesco Menditto, 2010.

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211

APPENDICI

A. Schede riepilogative beni confiscati

Scheda n.1 Agriturismo “Terre di Corleone” – Corleone (Pa)

TIPOLOGIA DEL Terreno agricolo + fabbricati rurali BENE UBICAZIONE Corleone (Pa), contrada Drago PREVENUTO Salvatore Riina DATA CONSEGNA E24.08.2000 al Comune di Corleone; ASSEGNAZIONE Novembre 2008 ENTE AFFIDATARIO Affidato al Consorzio Sviluppo e Legalità e dato in gestione alla Cooperativa Pio La Torre DESTINAZIONE E Attività agricole ed agroalimentari VINCOLI DI UTILIZZO ATTIVITA' SVOLTE Centro Agrituristico NEL BENE DENOMINAZIONE Terreni in contrada Drago/ “Agriturismo Terre di Corleone” USUALE/ATTUALE MODIFICHE Ristrutturazione dei fabbricati rurali abbandonati, originariamente EFFETTUATE SUL adibiti a stalle, per trasformarli in locali adibiti a: BENE una unità ristorazione per 90 coperti con annesso spazio vendita dei prodotti aziendali; una unità alloggio costituita da quattro camere per 12 posti letto con servizi annessi; un parco giochi per bambini, un campo polifunzionale e un campo di bocce PUBBLICITA' SU Inaugurazione alla presenza del Ministro Maroni e degli attori locali; ASSEGNAZIONE E Inserimento nel circuito turistico di Libera; NUOVO UTILIZZO Sito internet; Pubblicità nel territorio; RISORSE IN ATTO Finanziarie_ Fondi del Programma Operativo Nazionale “Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno d‟Italia, periodo 2000-2006, co finanziato dalla Unione Europea; Lavoratori_ 3 dipendenti a tempo indeterminato Volontari_ L'agriturismo e i campi su cui è sito ospitano i campi di lavoro di Libera CRITICITA' PRIMA Lungo periodo di attesa fra l'inaugurazione e l'effettivo utilizzo a causa DELLA FRUIZIONE/ di problemi burocratici; nessun tipo di problema legato al contesto DURANTE LA territoriale. GESTIONE

I

Scheda n.2 “Bottega e Laboratorio della Legalità” – Corleone (Pa)

TIPOLOGIA DEL BENE Immobile su tre livelli UBICAZIONE Corleone (Pa), Cortile Colletti nn. 22-24-26 PREVENUTO Bernardo Provenzano DATA CONSEGNA E 25.05.2005 al Comune di Corleone; ASSEGNAZIONE Aprile 2001 ENTE AFFIDATARIO Cooperativa Lavoro e Non Solo; Consorzio Sviluppo e Legalità; Associazione Adesso Ammazzateci Tutti; Associazione Laboratorio della Legalità DESTINAZIONE E Al piano terreno : Bottega di Libera VINCOLI DI UTILIZZO Ai piani superiori: Laboratorio della Legalità e Museo ATTIVITA' SVOLTE NEL Vendita dei beni a marchio “Libera Terra”; sede di associazioni attive nel BENE territorio; organizzazione di incontri e dibattiti pubblici; accoglienza scuole e turisti; raccolta di opere del pittore Gaetano Porcasi sulla storia degli ultimi 100 anni di mafia e antimafia DENOMINAZIONE “Casa dei Provenzano”/ “Bottega della Legalità” USUALE/ATTUALE MODIFICHE Ristrutturazione dell'immobile funzionale al nuovo utilizzo EFFETTUATE SUL BENE

PUBBLICITA' SU • Inaugurazione alla presenza del Ministro Maroni del Presidente ASSEGNAZIONE E dell'Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati e del NUOVO UTILIZZO Presidente di Libera Don Luigi Ciotti; • Inserimento nel circuito turistico di Libera; • Segnalazione nelle mappe turistiche della città di Corleone; • Pubblicità nel territorio; • Creazione di attività ad hoc volte al coinvolgimento della popolazione locale nella fruizione del bene. RISORSE IN ATTO Finanziarie_Il bene è stato ristrutturato grazie alle risorse del PON Sicurezza 2007/2013, della Regione Siciliana e del Comune di Corleone ; Lavoratori_ 1 Dipendente della Cooperativa per la bottega; 1 Dipendente del Comune di Corleone per l'accoglienza al Laboratorio della Legalità;. Culturali_ Dipinti del Pittore Gaetano Porcasi; organizzazione di eventi volti alla sensibilizzazione del territorio sui temi della mafia e dell'antimafia Volontari_ Diversi ragazzi provenienti dalle associazioni che fruiscono del bene e collaborano alla gestione CRITICITA' PRIMA Opposizioni da parte della famiglia Provenzano hanno rallentato l'iter che ha DELLA FRUIZIONE / portato al sequestro definitivo e la confisca del bene. DURANTE LA GESTIONE Una volta giunti alla confisca definitiva ci sono voluti cinque anni prima che il bene potesse essere fruibile dalla comunità, a causa della mancanza di fondi per la ristrutturazione. Durante la gestione non sono state riscontrate criticità.

II

Scheda n.3 “Casa per ferie” – Bardonecchia (To)

TIPOLOGIA DEL Fabbricato urbano con annesso terreno BENE UBICAZIONE Bardonecchia (To), Via Medail 43 PREVENUTO DATA CONSEGNA E Destinato al Comune il 08.02.2007 e consegnato il 21.02.2009 ASSEGNAZIONE ENTE AFFIDATARIO Comune di Bardonecchia e Associazione “Liberamente insieme” DESTINAZIONE E Progetto di costituzione di un Albergo Sociale - casa per ferie e di un VINCOLI DI UTILIZZO punto informativo sui beni confiscati in Piemonte ATTIVITA' SVOLTE Il progetto prevede di utilizzare il bene come struttura polifunzionale: NEL BENE un ostello della gioventù; sede di associazioni del territorio; Osservatorio Libera Piemonte sui beni confiscati. DENOMINAZIONE “La casa di Don Ciccio” / in corso di definizione USUALE/ATTUALE MODIFICHE L'immobile sarà soggetto a completa ristrutturazione e adeguamento EFFETTUATE SUL alle nuove funzionalità. Il piano terra sarà adibito a sala comune, BENE cucina e al presidio della Legalità. Al primo e secondo piano saranno predisposte cinque camere, con annessi servizi, che potranno ospitare fino a 22 persone. PUBBLICITA' SU Benché il futuro utilizzo del bene sia ancora solamente un progetto, il ASSEGNAZIONE E bene è conosciuto da tutta la comunità e sono già state avviate NUOVO UTILIZZO collaborazioni con le scuole e con i gruppi scout per permettere una buona pubblicizzazione del nuovo utilizzo. RISORSE IN ATTO Finanziarie_ Ristrutturazione finanziata dalla SITAF; il patrimonio dell'associazione sarà costituito dalle quote associative versate annualmente dai soci ed eventuali donazioni, lasciti, erogazioni o contributi liberi. Culturali_ Il bene potrà accogliere qualsiasi tipo di attività culturale, oltre che ricreativa e sociale, in armonia con gli scopi dell'associazione, ovvero promozione della cultura della legalità, rivolta specialmente ai giovani. Volontarie_ La gestione sarà interamente affidata ai volontari dell'associazione “Liberamente insieme”, aperta a chiunque voglia diventarne socio. CRITICITA' PRIMA Il bene è stato abitato abusivamente dai parenti del boss con il preciso DELLA FRUIZIONE / intento di mettere freno al provvedimento di confisca. Il bene, DURANTE LA sequestrato nel 1994 ha subito l'ordine di confisca definitiva nel GESTIONE febbraio 2001, ma solamente nel Gennaio 2009 è effettivamente entrato in possesso del Comune di Bardonecchia.

III

Scheda n.4 “Cascina Caccia” – San Sebastiano da Po (To)

TIPOLOGIA DEL BENE Fabbricato urbano con annessi terreni UBICAZIONE San Sebastiano da Po (To), Via Serra Alta 6 PREVENUTO Salvatore Belfiore DATA CONSEGNA E Consegnati al Comune il 07 Agosto 2003 e assegnati il 18 ASSEGNAZIONE Febbraio 2005. ENTE AFFIDATARIO Gruppo Abele, che lo gestisce in collaborazione con l'associazione Acmos e con la rete di Libera Piemonte DESTINAZIONE E Sede associazioni VINCOLI DI UTILIZZO ATTIVITA' SVOLTE NEL Comunità alloggio; BENE Laboratori di educazione alla cittadinanza, alla legalità democratica e di pedagogia per genitori; Coltivazione di ortaggi ed erbe aromatiche, produzione di miele commercializzato con il marchio “Libera Terra”; Allevamento e ricovero per animali al fine di realizzare una fattoria didattica; Organizzazione di eventi pubblici su tematiche legate all'ambiente, allo sviluppo sostenibile e alle ecomafie, oltre che su legalità e antimafia; Organizzazione di corsi di pittura, danza, canto; Organizzazione di festival di espressione artistica giovanile; DENOMINAZIONE “Cascina Belfiore” / “Cascina Bruno e Carla Caccia” USUALE/ATTUALE MODIFICHE EFFETTUATE Il bene è stato totalmente ristrutturato poiché gli occupanti SUL BENE l'avevano reso inutilizzabile; ha subito inoltre modifiche strutturali funzionali al progetto di riutilizzo, come la creazione degli ambienti abitativi per la comunità residente, dei dormitori per l'accoglienza, l'adeguamento della cucina, dei servizi igienici, etc. PUBBLICITA' SU La nuova funzionalità del bene si è affermata grazie al ASSEGNAZIONE E NUOVO “passaparola” fra i cittadini, che hanno preso gradualmente parte UTILIZZO al progetto di riutilizzo del bene. RISORSE IN ATTO Finanziarie_ Il fabbricato principale è stato ristrutturato grazie ai finanziamenti previsti dalla Legge 14 della Regione Piemonte, banche e privati sostenitori. Un altro grande fabbricato, che era adibito a stalle e fienili, è stato recuperato grazie al contributo della Regione Valle d'Aosta. Organizzative_ Un responsabile della Cascina; quattro comunitari che vi risiedono stabilmente; diversi turnisti che si occupano di singoli progetti o che gravitano attorno alle organizzazioni della Cascina. Volontarie_ Gruppi scout hanno aiutato nei lavori di ristrutturazione e nella gestione della Cascina. Il bene inoltre

IV

ospita i volontari dei campi di lavoro organizzati da Libera “Estate Liberi”. CRITICITA' PRIMA DELLA Occupazione da parte della famiglia del prevenuto; opposizione FRUIZIONE / DURANTE LA all'assegnazione al Gruppo Abele da una parte di cittadini che ha GESTIONE organizzato una raccolta firme. Una volta partito il progetto non si riscontrano problematiche

V

B. Tabelle dati

VI

VII

VIII

IX

Fonte dati: Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Doc. CLIV n.5, Tabella 20 ,p.92

X

XI

XII

Tabella n.10 Beni confiscati nel Comune di Corleone Fonte dati: Comune di Corleone, Ufficio Legalità e Beni Confiscati Monitoraggio Beni Confiscati, aggiornato al 1 Marzo 2010

TIPOLOGIA BENE PREVENUTO ENTE UTILIZZO DESTINATARIO DESTINATARIO ULTIMO - NOTE Immobile Bernardo Comune Bottega e Cooperativa Lavoro e Provenzano Laboratorio della non solo; Consorzio Legalità - Sviluppo e Legalità; Museo della Associazione Adesso legalità Paolo Ammazzateci tutti; Borsellino Associazione Laboratorio della legalità Immobile Grizzaffi Mario; Comune Sede di Cooperativa Lavoro e Grizzaffi Giovanni; associazione di non solo; Consorzio Grizzaffi Francesco volontariato Sviluppo e Legalità; Fondo rustico con Grizzaffi Mario; Comune Sede azienda IPSA Don Calogero Di fabbricato rurale Grizzaffi Giovanni; sperimentale Vincenti, sede coordinata Grizzaffi Francesco dell'IPSA di Corleone Fondo rustico Grizzaffi Mario; Comune Attivazione di Strada interpoderale Grizzaffi Giovanni; produzioni Grizzaffi Francesco agricole ed alimentari Fondo rustico Grizzaffi Mario; Comune Attivazione di Consorzio Sviluppo e Grizzaffi Giovanni; produzioni Legalità Grizzaffi Francesco agricole ed alimentari Fondo rustico Grizzaffi Mario; Comune Attivazione di Consorzio Sviluppo e Grizzaffi Giovanni; produzioni Legalità Grizzaffi Francesco agricole ed alimentari Fondo rustico Lo Bue Rosario Comune Attivazione di Consorzio Sviluppo e produzioni Legalità agricole ed alimentari Fondo rustico Lo Bue Rosario Comune Attivazione di Consorzio Sviluppo e produzioni Legalità agricole ed alimentari Fondo rustico con Lo Bue Rosario Comune Attivazione di Consorzio Sviluppo e fabbricato rurale produzioni Legalità agricole ed alimentari Fondo rustico Lo Jacono Comune Attivazione di Consorzio Sviluppo e Francesco produzioni Legalità agricole ed alimentari Fondo rustico Marino Giovanni Comune Finalità sociali Consorzio Sviluppo e atte al recupero di Legalità soggetti portatori di handicap Fondo rustico Marino Giovanni Comune Finalità sociali Consorzio Sviluppo e atte al recupero di Legalità soggetti portatori di handicap Fondo rustico con Marino Giovanni Comune Finalità sociali Consorzio Sviluppo e

XIII

TIPOLOGIA BENE PREVENUTO ENTE UTILIZZO DESTINATARIO DESTINATARIO ULTIMO - NOTE fabbricato rurale atte al recupero di Legalità soggetti portatori di handicap Fondo rustico con Riina Salvatore Comune Area a verde – Comune di Corleone fabbricato rurale Progetto giardino della memoria Fondo rustico Riina Salvatore Comune Attività agricole e Consorzio Sviluppo e agroalimentari Legalità Fondo rustico Riina Salvatore Comune Attività agricole e Consorzio Sviluppo e agroalimentari Legalità Fondo rustico Riina Salvatore Comune Attività agricole e Consorzio Sviluppo e agroalimentari Legalità Immobile Lo Bue Rosario Comune Finalità Comune di Corleone istituzionali

Tabella n.11 Beni confiscati nella Provincia di Torino Fonte dati: Segreteria Regionale Libera Piemonte; aggiornati al 1 ottobre 2011 COMUNE TIPOLOGIA PREVENUTO ENTE UTILIZZO DESTINATARIO BENE DESTINATARIO ULTIMO - NOTE Banchette Abitazione Buondonno Aniello Stato Motivi di ordine Guardia di Finanza Maurizio pubblico Bardonecchia Abitazione Ursino Stato Non Consegnato Bardonecchia Locale Lo Presti Rocco Comune Parcheggi Non Utilizzato Bardonecchia Abitazione Mazzaferro Comune Albergo sociale Comune + AGESCI Francesco Bardonecchia Terreno Mazzaferro Comune Albergo sociale Comune + AGESCI Francesco Bardonecchia Locale Mazzaferro Comune Albergo sociale Comune + AGESCI Francesco Bardonecchia Terreno Mazzaferro Comune Albergo sociale Comune + AGESCI Francesco Borgaro Abitazione Lo Duca Salvatore Stato Motivi di ordine Torinese pubblico Carmagnola Abitazione La Foret Francesco Comune Alloggi per indigenti Carmagnola Terreno La Foret Francesco Comune Alloggi per indigenti Carmagnola Terreno Argenta Margherita Comune Area destinata ad utilità sociali Carmagnola Terreno Argenta Margherita Comune Area destinata ad utilità sociali Castiglione Terreno Sibilia Vincenzo Immobile uscito dalla Torinese gestione Castiglione Abitazione Sibilia Vincenzo Immobile uscito dalla Torinese gestione

XIV

COMUNE TIPOLOGIA PREVENUTO ENTE UTILIZZO DESTINATARIO BENE DESTINATARIO ULTIMO - NOTE Castiglione Locale Sibilia Vincenzo Immobile uscito dalla Torinese gestione Cesana Terreno Gambino Alfonso Stato Area destinata ad Creazione del "Bosco Torinese utilità sociali della legalità" Cesana Terreno Gambino Alfonso Comune Area destinata ad Creazione del "Bosco Torinese utilità sociali della legalità" Cesana Terreno Gambino Alfonso Comune Area destinata ad Creazione del "Bosco Torinese utilità sociali della legalità" Cesana Terreno Gambino Alfonso Comune Area destinata ad Creazione del "Bosco Torinese utilità sociali della legalità" Cesana Terreno Gambino Alfonso Comune Area destinata ad Creazione del "Bosco Torinese utilità sociali della legalità" Chivasso Abitazione Ignazzi Stefano Stato Usi governativi e Corpo Forestale dello pubblici Stato Chivasso Terreno Ignazzi Stefano Stato Usi governativi e Corpo Forestale dello pubblici Stato Chivasso Terreno Ignazzi Stefano Stato Usi governativi e Corpo Forestale dello pubblici Stato Chivasso Locale Ignazzi Stefano Stato Usi governativi e Corpo Forestale dello pubblici Stato Chivasso Terreno Ignazzi Stefano Stato Usi governativi e Corpo Forestale dello pubblici Stato Leinì Non Non determinato Immobile in gestione Non determinato Pubblicato il dato determinato ANBSC dall'ANBSC in data 01- set-11 Leinì Non Non determinato Immobile in gestione Non determinato Pubblicato il dato determinato ANBSC dall'ANBSC in data 01- set-11 Leinì Non Non determinato Immobile in gestione Non determinato Pubblicato il dato determinato ANBSC dall'ANBSC in data 01- set-11 Leinì Non Non determinato Immobile in gestione Non determinato Pubblicato il dato determinato ANBSC dall'ANBSC in data 01- set-11 Leinì Non Non determinato Immobile in gestione Non determinato Pubblicato il dato determinato ANBSC dall'ANBSC in data 01- set-11 Fabbricato Pronestì Rocco Comune Uffici comunali CidiS Orbassano Terreno Pronestì Rocco Comune Centro per CidiS attività sociali Orbassano Abitazione Pronestì Rocco Comune Centro per CidiS attività sociali Orbassano Locale Franzè Basilio Comune Uffici comunali CidiS Orbassano Fabbricato Franzè Basilio Comune Uffici comunali CidiS Orbassano Terreno Franzè Basilio Comune Uffici comunali CidiS San Benigno Abitazione Sibilia Vincenzo Immobile in gestione Non determinato Canavese ANBSC San Benigno Abitazione Sibilia Vincenzo Immobile in gestione Non determinato Canavese ANBSC

XV

COMUNE TIPOLOGIA PREVENUTO ENTE UTILIZZO DESTINATARIO BENE DESTINATARIO ULTIMO - NOTE San Benigno Locale Sibilia Vincenzo Immobile in gestione Non determinato Canavese ANBSC San Benigno Locale Sibilia Vincenzo Immobile in gestione Non determinato Canavese ANBSC San Maurizio Abitazione Sibilia Vincenzo Comune Alloggi per Non Utilizzato Canavese indigenti San Maurizio Locale Sibilia Vincenzo Comune Alloggi per Non Utilizzato Canavese indigenti San Maurizio Locale Sibilia Vincenzo Comune Alloggi per Non Utilizzato Canavese indigenti San Maurizio Locale Sibilia Vincenzo Comune Alloggi per Non Utilizzato Canavese indigenti San Sebastiano Fabbricato Belfiore Salvatore Comune Sede associazioni Gruppo Abele + da Po ACMOS San Sebastiano Terreno Belfiore Salvatore Comune Sede associazioni Gruppo Abele + da Po ACMOS Settimo Fabbricato Arcuri Rocco Immobile uscito dalla # Torinese gestione Torino Abitazione Colaciccio Filippo Immobile in gestione Non determinato ANBSC Torino Abitazione Arcuri Rocco Stato Usi governativi e Amministrazioni pubblici Torino Locale Arcuri Rocco Stato Usi governativi e Amministrazioni pubblici Torino Abitazione Arcuri Rocco Stato Usi governativi e Amministrazioni pubblici Torino Abitazione Arcuri Rocco Stato Usi governativi e Amministrazioni pubblici Torino Abitazione Arcuri Rocco Stato Usi governativi e Amministrazioni pubblici Torino Abitazione Arcuri Rocco Stato Usi governativi e Amministrazioni pubblici Torino Abitazione Arcuri Rocco Stato Usi governativi e Amministrazioni pubblici Torino Abitazione Arcuri Rocco Stato Usi governativi e Amministrazioni pubblici Torino Abitazione Esposito Antonio Immobile in gestione Non determinato ANBSC Torino Abitazione Orrù Stato Motivi di Vigili del fuoco sicurezza e soccorso pubblico Torino Abitazione Lo Duca Salvatore Comune Sede Associazione Verba associazione Torino Abitazione Sibilia Vincenzo Immobile uscito dalla # gestione Torino Abitazione Genco Stato Usi governativi e Guardia di Finanza pubblici Torino Locale Genco Stato Usi governativi e Guardia di Finanza

XVI

COMUNE TIPOLOGIA PREVENUTO ENTE UTILIZZO DESTINATARIO BENE DESTINATARIO ULTIMO - NOTE pubblici Torino Locale Genco Stato Usi governativi e Guardia di Finanza pubblici Torino Locale Genco Stato Usi governativi e Guardia di Finanza pubblici Torino Abitazione Camuglia Carmelo Stato Usi governativi e Guardia di Finanza pubblici Torino Abitazione Arcuri Rocco Stato Motivi di ordine Ministero dell'Interno pubblico Torino Abitazione Mazzei Santo Stato Motivi di ordine Guardia di Finanza pubblico Torino Abitazione Mazzaferro Stato Motivi di ordine Francesco pubblico Torino Locale Genco Immobile in gestione Non determinato ANBSC Torino Locale D'Agostino Luciano Comune Sede Associazione associazione MusicaViva Torino Locale Peluso Ciro Comune Centro per Teatron + ACMOS attività sociali Torino Locale Celano Concetta Immobile in gestione Non determinato ANBSC Torino Abitazione Sibilia Vincenzo Comune Alloggi per indigenti Torino Abitazione Barresi Placido Comune Sede associazioni Torino Abitazione Sibilia Vincenzo Immobile in gestione Non determinato ANBSC Torino Abitazione Santacroce Comune Alloggi per Vincenzo indigenti Torino Locale Santacroce Comune Alloggi per Vincenzo indigenti Torino Abitazione Celano Concetta Stato Usi governativi e pubblici Torrazza Abitazione Schirripa Rocco Immobile in gestione # Immobile occupato dalla Piemonte ANBSC famiglia Schirripa Torrazza Locale Schirripa Rocco Immobile in gestione # Immobile occupato dalla Piemonte ANBSC famiglia Schirripa Val della Torre Terreno Arcuri Rocco Comune Area Destinata a utilità sociali Val della Torre Terreno Arcuri Rocco Comune Area Destinata a utilità sociali Verolengo Fabbricato Schittino Francesco Comune Centro per Gruppo Volontari attività sociali Ambulanza Volpiano Abitazione Agresta Comune Motivi di Sede vigili del fuoco sicurezza e soccorso pubblico Volpiano Terreno Agresta Comune Motivi di Sede vigili del fuoco sicurezza e soccorso

XVII

COMUNE TIPOLOGIA PREVENUTO ENTE UTILIZZO DESTINATARIO BENE DESTINATARIO ULTIMO - NOTE pubblico Volvera Terreno Riggio Vincenzo Comune Centro per ACMOS attività sociali Volvera Terreno Riggio Vincenzo Comune Centro per ACMOS attività sociali Volvera Terreno Riggio Vincenzo Comune Centro per ACMOS attività sociali Volvera Fabbricato Riggio Vincenzo Comune Centro per ACMOS attività sociali Volvera Fabbricato Riggio Vincenzo Comune Centro per ACMOS attività sociali Volvera Abitazione Riggio Vincenzo Comune Centro per Gruppo Caritas Don attività sociali Luigi Balbiano Volvera Locale Riggio Vincenzo Comune Centro per Gruppo Caritas Don attività sociali Luigi Balbiano

XVIII

Ringraziamenti

Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza l‟aiuto di molte persone. La rete e le segreterie dell‟associazione Libera, prima di tutto: senza il loro aiuto la mia ricerca si sarebbe arenata in molte occasioni, il loro contributo è stato risolutivo, accompagnandomi in ogni fase della ricerca, fornendomi dati e informazioni di ogni tipo, rispondendo ad ogni mia domanda con rapidità e disponibilità assolutamente non scontate. Per questo a loro va un enorme grazie. Non posso non ringraziare, per il fondamentale apporto a questa ricerca, tutte le persone che si sono lasciate intervistare, e chi mi ha permesso di incontrarle: per la ricerca a Corleone un grazie particolare va all‟associazione “Corleone Dialogos” e ad Aurelio; per la ricerca nella provincia torinese ad Antonio Manigrasso. Il loro contributo, per riuscire a selezionare un campione per le interviste, è stato a dir poco fondamentale. Un altro ringraziamento va alla Dott.ssa Maria Luisa Giordano con cui ho condiviso le prime divagazioni all‟origine di questo lavoro e tutte quelle che sono seguite fino all‟ultima stesura, e che ha arricchito questo lavoro realizzato la carta “Dove si confiscano i beni alle mafie?”. Infine, un ringraziamento particolare va a tutti quelli che hanno contribuito a questo lavoro dando la loro testimonianza di cosa vuol dire gestire quotidianamente un bene confiscato alla mafia: trovare la stessa sensibilità e lo stesso impegno a latitudini così differenti è sicuramente fra gli esiti più interessanti di questa ricerca.

Dedico questo piccolo grande lavoro alla mia famiglia: infinite sarebbero le parole da spendere per MammaMeri, PapàLucio, Andrea e i Parisi, mi limiterò a ringraziarli per avermi sempre sostenuta e incoraggiata, quale che fosse l‟avventura in cui mi volevo lanciare. Un pensiero speciale a Tony, la cui pazienza è stata messa a dura prova in questi mesi. Infine un pensiero va a tutti gli amici, vecchi e nuovi, che sono diventati parte della mia famiglia: la loro stima e il loro affetto sono sempre stati per me come la rete di sicurezza per un apprendista funambolo.

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