UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Scienze Agrarie e Alimentari

Corso di Laurea in Valorizzazione e Tutela dell’Ambiente e del Territorio Montano

Inventario delle cultivar locali tradizionali della Provincia Autonoma di

Relatore: Prof.ssa Annamaria Giorgi Correlatore: Dott. Luca Giupponi

Elaborato finale di: Federica Ferrari Matr. 853069

Anno Accademico: 2018/2019

1 RIASSUNTO ...... 4

1.0 INTRODUZIONE ...... 5

1.1 BIODIVERSITÀ ED AGROBIODIVERSITÀ ...... 7 1.1.1 CONCETTO ED IMPORTANZA ...... 7 1.1.2 CAUSE PRINCIPALI DELLA PERDITA DI BIODIVERSITÀ ...... 9 1.2 LANDRACES ED EROSIONE GENETICA ...... 11 1.2.1 CONCETTO DI VARIETÀ LOCALE ...... 11 1.2.2 CONSERVAZIONE IN SITU ...... 12 1.2.3 CONSERVAZIONE EX-SITU ...... 14 1.2.4 EROSIONE GENETICA E MONTAGNA COME “HOTSPOT” DI CONSERVAZIONE ...... 16 1.3 QUADRO LEGISLATIVO ...... 19 1.3.1 SCENARIO INTERNAZIONALE...... 19 1.3.2 SCENARIO EUROPEO...... 21 1.3.3 SCENARIO ITALIANO ...... 24 1.3.4 SCENARIO PROVINCIALE ...... 27 1.4 ATTORI DEL RECUPERO E DELLA CONSERVAZIONE ...... 30 1.4.1 ITALIA ...... 30 1.4.2 PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO: RECUPERO “DAL BASSO” ...... 31

2.0 OBIETTIVI DEL TIROCINIO ...... 34

3.0 MATERIALI E METODI UTILIZZATI ...... 35

3.1 AREA DI STUDIO ...... 35 3.2 RICERCA E CENSIMENTO DELLE VARIETÀ LOCALI ...... 38

4.0 RISULTATI ...... 40

4.1 INSALATA TERESA ...... 41 4.2INSALATA DI MASO ROZZA ...... 42 4.3 CICORIA DI ...... 44 4.4 CARTAMO DI O ZAFFERANONE ...... 45 4.5 ATRIPLICE ...... 46 4.6 ZIGOLE DAL GROP ...... 48 4.7 POMODORO PERETTA VALDIRIVA ...... 49 4.8 POMODORO ROSINA ...... 51 4.9 RAPA DI TERRAGNOLO...... 52 4.10 RAPA DI BONDO (RAVA DE BONT)...... 54 4.11 CAFFÈ BALOS ...... 56 4.12 SOIA DI ...... 58 4.13 FASOI CANARINI (SOIA) ...... 59 4.14 FAGIOLO DEL FERNANDO ...... 61 4.15 FAGIOLI DI DON LUCILLO ...... 62 4.16 FAVA BIANCA DI PINÈ ...... 64 4.17 FAVA VIOLA DI PINÈ ...... 65 4.18 FAGIOLO DI CAPRIANA...... 67 4.19 FASOI GIALDI ...... 68 4.20 FAGIOLI DAI QUATTRO COLORI ...... 69

2 4.21 GAMBE DE SIORA DI ...... 71 4.22 FAGIOLI DEL PAPA ...... 73 4.23 FASOI DORATI ...... 75 4.24 FASOI OCCHIATI DELLA MARCELLA ...... 76 4.25 DIAVOLETTI DI ...... 77 4.26 GRANO SARACENO DI CAPRIANA...... 79 4.27 GRANO SARACENO DI TERRAGNOLO (FORMENTON) ...... 81 4.28 SORC DOROTEA ...... 83 4.29 MARZOELA DE ...... 85 4.30 SEGALE DI PEIO (SEGÀLA) ...... 87 4.31 INVERNIZ ...... 88 4.32 FRUMENTO DI COSTASAVINA ...... 90

5.0 ANALISI E DISCUSSIONE DEI DATI RACCOLTI ...... 92

6.0 CONCLUSIONI ...... 106

7.0 BIBLIOGRAFIA ...... 109

8.0 SITOGRAFIA ...... 112

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RIASSUNTO

L’attività condotta durante il tirocinio formativo, svolto al termine del Corso di Laurea in Valorizzazione e Tutela dell’Ambiente e del Territorio Montano, durante l’Anno Accademico 2018/2019, ha avuto come obiettivo principale quello di svolgere un censimento delle cultivar locali tradizionali al fine di creare un inventario relativo al territorio della Provincia Autonoma di Trento. In collaborazione con l’Associazione non ufficiale “Pimpinella” sono state censite 32 varietà locali sparse nelle diverse valli della Provincia Autonoma di Trento: 25 ortaggi (2 varietà di Lactuca spp., 1 di Cichorium spp., 1 di Carthamus, 1 di Atriplex spp. , 1 di Allium spp., 2 di Solanum spp., 2 di Brassica spp., 1 di Lupinus spp., 2 di Glycine spp. e 12 di Phaseolus spp.) e 7 tra cereali e pseudo-cereali (2 varietà di Fagopyrum spp., 2 di Triticum spp., 2 di Secale spp., e 1 di Zea spp.). Successivamente sono stati raccolti i dati botanici riguardanti le varietà e le informazioni sui relativi agricoltori custodi, è stata eseguita una breve descrizione per ogni varietà censita in base alle informazioni ricevute dagli stessi agricoltori custodi o quelli facenti parte dell’associazione Pimpinella che hanno ricevuto le sementi da altri agricoltori custodi, in alcuni casi diventati troppo vecchi per mantenere “vive” le proprie cultivar. In seguito sono stati realizzati alcuni grafici in merito alle caratteristiche riscontrate tra le diverse varietà locali trentine (genere botanico di appartenenza, prevalenza di ortive o cerealicole, distribuzione delle varietà per fasce altimetriche); successivamente sono stati ancora una volta utilizzati grafici per attuare un confronto in ambito botanico tra i dati raccolti dal presente tirocinio con quelli di UNIMONT relativi all’agrobiodiversità vegetale della Lombardia. Sono state infine effettuate alcune considerazioni in merito a queste analisi.

4 1.0 INTRODUZIONE

Si stima che sul pianeta Terra esistano 14 milioni di specie; di queste, 10 milioni sono specie animali 1,5 milioni sono funghi circa 300.000 sono vegetali, i restanti milioni sono composti da alghe, batteri e microrganismi. “[…] Il numero delle specie di piante superiori si stima sia compreso tra le 300.000 e le 500.000. Di queste, circa 250.000 sono state ad oggi identificate e 30.000 sono commestibili […]” [Wilson, 1988].

Secondo i dati FAO, - Food and Agricolture Organization - oggi sono circa 7.000 le specie vegetali utilizzate dall'uomo per la sua alimentazione, ma ne vengono coltivate soltanto 150; il 75 % degli alimenti consumati dall'uomo è fornito da solo 12 specie vegetali e 5 specie animali. Circa il 50 % di questi stessi alimenti è fornito soltanto da 4 specie di piante (riso, mais, grano e patata) e da 3 specie principali di animali (appartenenti a bovini, suini e pollame). [FAO, 2019]. Questa evoluzione ha probabilmente rafforzato l'agricoltura, conferendole innegabili benefici soprattutto dal punto di vista produttivo e quindi quantitativo, ma ha altrettanto impoverito la qualità del nostro regime alimentare, con la conseguenza che molte varietà locali sono trascurate ed esposte al rischio di estinzione. [MiPAAF - Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali -, 2008]. Nel febbraio del 2019 la FAO sotto la guida della Commissione sulle risorse genetiche per l'alimentazione e l'agricoltura, ha steso un rapporto i cui dati si basano sulle informazioni fornite da 91 paesi e sull'analisi degli ultimi dati globali in materia di biodiversità; in particolare il rapporto denuncia “un diminuzione ancor maggiore della diversità delle coltivazioni, il maggiore numero di razze di animali a rischio d’estinzione e l'aumento della percentuale di stock ittici sovra-sfruttati” [FAO, 2006].

"La biodiversità è fondamentale per la salvaguardia della sicurezza alimentare globale, é alla base di diete sane e nutrienti e rafforza i mezzi di sussistenza rurali e la capacitá di resilienza delle persone e delle comunità. Dobbiamo usare la biodiversità in modo sostenibile, in modo da poter rispondere meglio alle crescenti sfide del cambiamento climatico e produrre cibo senza danneggiare il nostro ambiente[…]. Meno biodiversità significa che piante e animali sono più vulnerabili ai parassiti e alle malattie, elemento,

5 che insieme alla nostra dipendenza da un numero sempre minore di specie per nutrirci, sta mettendo la nostra già fragile sicurezza alimentare sull'orlo del collasso […]" [FAO, 2019]. In questi termini si è espresso il Direttore Generale della FAO, José Graziano da Silva, il 22 febbraio 2019 a Roma, quando è stato lanciato il rapporto sullo “Stato della biodiversità mondiale per l'alimentazione e l'agricoltura” che, primo nel suo genere, presenta preoccupanti prove sul fatto che la biodiversità che sta alla base dei nostri sistemi alimentari stia scomparendo, mettendo a rischio il futuro dei nostri alimenti, della salute umana e dell’ambiente. Una volta perduta inoltre, avverte il rapporto, la biodiversità alimentare e agricola, non può essere recuperata, per questo motivo si dimostrano indispensabili tutti gli sforzi di conservazione, sia sul posto (in situ) ad esempio aree protette, che fuori sede (ex situ) ad esempio banche del germoplasma o giardini botanici, che stanno aumentando a livello globale, come dimostra quest’ultimo rapporto FAO, “sebbene i livelli di copertura e protezione siano spesso inadeguati.” [FAO, 2019].

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1.1 BIODIVERSITÀ ED AGROBIODIVERSITÀ

1.1.1 CONCETTO ED IMPORTANZA

Il termine biodiversità fu coniato per la prima volta nel 1985 da W. D. Rosen, il quale fuse in un’unica parola l’espressione Biological Diversity [MiPAAF, 2008]. Il termine venne poi utilizzato una seconda volta con il Forum Nazionale sulla biodiversità tenutosi a Washington dal 21 al 24 settembre 1986, riferendosi all'intera variabilità delle forme di vita o varietà degli organismi del pianeta nel suo complesso, microorganismi e popolazione umana inclusa [Wilson, 1988]. Si percepì l’esigenza di conferire importanza alla salvaguardia ed alla conservazione della diversità biologica a livello internazionale da parte dei leader mondiali, tentando come prima cosa di ufficializzare il termine ed assegnargli una definizione ben precisa ed universalmente accettata tramite la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992: nel meeting, venne quindi definita la biodiversità come la varietà e variabilità degli organismi viventi e dei sistemi ecologici (ecosistemi) in cui essi vivono, identificando tre livelli interdipendenti di biodiversità: i. la diversità genetica, intesa come varietà dell’informazione genetica contenuta nei diversi individui di una stessa specie; questo permette a ciascun organismo di rispondere in maniera diversa alle pressioni selettive e di conseguenza la specie si adatta più facilmente ai cambiamenti ambientali; ii. la diversità specifica, rappresenta il complesso delle specie che abitano una certa regione: essa indica la diversità tassonomica; iii. la diversità ecosistemica , riferita ai diversi ambienti in cui la vita è presente; vengono considerate le funzioni delle diverse specie e le reciproche influenze con l’ambiente circostante.

[Modonesi, 2010].

La biodiversità è importante anche perché è fonte di beni, risorse ossia i cosiddetti “servizi ecosistemici” dei quali beneficiano direttamente o indirettamente tutte le 7 comunità umane, animali e vegetali del pianeta. Gli stessi servizi hanno un ruolo chiave nella costruzione dell’economia delle comunità umane e degli Stati; la miriade di organismi che sostengono la produzione di cibo attraverso i servizi eco- sistemici vengono chiamati "biodiversità associata". [FAO, 2019]. Il concetto appena descritto secondo cui la diversità possa migliorare il funzionamento delle comunità biologiche è noto anche come ‘ipotesi dell’assicurazione’ (insurance hypothesis) secondo la quale l’aumento di biodiversità protegge anche gli agro-ecosistemi dai danni prodotti da variazioni dell’ambiente [MiPAAF, 2008]. La componente della biodiversità che riguarda il sistema agricolo è detta “agrobiodiversità” e comprende la variabilità genetica all'interno delle singole specie coltivate e allevate, la differenziazione di colture e attività agricole all'interno dei sistemi produttivi, l'ambiente che ospita l'attività agricola. “[…] Essa, rappresenta la diversità dei sistemi agricoli coltivati (agro-ecosistemi) in relazione a: geni e combinazione di geni entro ogni specie (cioè diverse popolazioni e diversi genotipi entro popolazioni); specie; combinazioni di elementi biotici ed abiotici che definiscono i diversi agro-ecosistemi […]” [MiPAAF, 2013]. Tale diversità in ambito agricolo è dettata dalla storia della civiltà agricola che ha forgiato il sistema produttivo, attraverso l'insieme degli scambi, dei bisogni delle persone e delle condizioni ambientali; le specie coltivate ed allevate si spostavano con le popolazioni fino a spingersi ai limiti dei loro areali potenziali, adattandosi a climi e habitat fra i più diversificati. Così, l'interazione tra colture, ambienti pedo-climatici, parassiti, malattie, e agricoltori ha determinato l'incredibile diversità di varietà e razze che arricchisce il nostro pianeta [Fowler & Mooney, 1993].

Un’altra motivazione, poi, (seppur subordinata all’equilibrio tra le forme di vita del pianeta) per cui è necessario sottolineare l’importanza della biodiversità, ed in particolare in questo caso, l’agrobiodiversità, risiede nel fatto che essa è stata (in passato) ed in molti casi lo è ancora, alla base di molte “piccole economie locali”, sempre più a rischio di essere soppiantate dalla grande economia industriale globale. Se si prende d’esempio, come prima citato, la biodiversità in ambito agricolo, si può affermare, che la sua sofferenza metta in grave rischio la 8 sopravvivenza dei sistemi agricoli locali e sostenibili i quali dispongono di razze locali (per quanto concerne il bestiame, argomento però non trattato nel presente elaborato) e di varietà locali (per quanto concerne le piante) che esprimono il meglio delle loro potenzialità nel territorio in cui si sono acclimatate nel corso dei secoli, grazie all’opera dell’uomo, essendo per questo più resistenti con meno necessità di interventi esterni; esse sono quindi più sostenibili, sia dal punto di vista ambientale, sia dal punto di vista economico [Milano et al., 2011]. Secondo la definizione proposta dalla FAO, inoltre, le conoscenze tradizionali possono essere considerate parte integrante dell’agrobiodiversità, poiché l’attività umana che forma e conserva questa biodiversità fa parte del mondo biologico. Da qui l'importanza di conservare, oltre che il germoplasma, anche la cultura e l'insieme dei saperi agricoli da cui ha avuto origine questo germoplasma: la coltura e la cultura di un territorio. Per tutte queste ragioni “la causa politica per la quale ci battiamo non è una scelta di campo di tipo ideologico, ma letteralmente la salvezza del pianeta” [Massa, 2005].

1.1.2 CAUSE PRINCIPALI DELLA PERDITA DI BIODIVERSITÀ

Tra i fattori che hanno influenzato l’equilibrio preesistente del nostro pianeta, vi è l'uomo che ha alterato profondamente l'ambiente trasformando il territorio, modificando i cicli biogeochimici globali, sfruttando direttamente molte specie e aumentando la possibilità di trasferimento degli organismi viventi da una zona all'altra del pianeta Terra [MiPAAF, 2008]. Le cause principali della perdita di biodiversità sono l’aumento demografico, la distruzione e frammentazione degli habitat naturali (deforestazione, pressione dovuta a popolazione ed urbanizzazione, cementificazione del paesaggio e l'inquinamento sia industriale che agricolo; questo si aggiungono, la presenza per periodi ripetuti di condizioni ambientali avverse, come la siccità e le inondazioni, l'introduzione di nuovi patogeni e malattie. [Milano et al., 2011]. Se si considera anche soltanto la biodiversità agricola, ossia l’argomento che sarà

9 maggiormente trattato nel presente elaborato, si può esaminare l’agricoltura tradizionale ed i suoi cambiamenti nel corso del tempo, a partire soprattutto dagli anni Cinquanta del secolo scorso: la continua autoproduzione delle sementi, da parte dei contadini, nei decenni e nei secoli ha portato alla formazione di varietà tradizionali di una zona, che si sono coevolute con la società agricola e il pedo-clima locale; con l'avvento della “rivoluzione verde” lo scenario dell'agricoltura è drasticamente cambiato, passando da un'economia locale al mercato globale; dall'agricoltura familiare e di sussistenza a quella industriale. [FAO, 2004]. Il modello dell’agricoltura industriale, (basato su produzioni intensive, monocolture, su un numero ristretto di specie vegetali) marginalizza progressivamente i sistemi agricoli di piccola scala, basati, al contrario, su una grande varietà di specie, cultivar selezionate per la loro capacità di adattarsi a diversi ambienti, senza l’ausilio di molti input esterni. Di conseguenza, molte delle antiche varietà locali sono state soppiantate dalle cultivar moderne, causando la perdita di una specificità zonale caratteristica, di una fetta di cultura, un impoverimento della biodiversità e quindi una perdita di resilienza di tutto il sistema agroecologico. [FAO, 2019]. Ad oggi, senza voler rinnegare i benefici socio-economici che ha avuto la società occidentale dalla rivoluzione verde in poi, risulta indispensabile recuperare le varietà locali per motivi culturali, di biodiversità agricola, di adattamento a sistemi di agricoltura a basso impatto e a zone marginali, soprattutto in previsione dell'inasprimento dei cambiamenti climatici in corso. Infatti queste colture, forti di una notevole variabilità genetica, risultano più rustiche, rispondono meglio ad un sistema agricolo a bassi input e, in quanto in continua evoluzione, è probabile che siano in grado di adattarsi da sè alle variazioni climatiche [MiPAAF, 2008].

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1.2 LANDRACES ED EROSIONE GENETICA

1.2.1 CONCETTO DI VARIETÀ LOCALE

Per comprendere al meglio il concetto di varietà locale, è necessario introdurre il concetto di “Risorse Genetiche Vegetali” (RGV) . Dal punto di vista normativo la componente vegetale dell'agrobiodiversità è detta “Risorsa Genetica Vegetale” (RGV), definita dal Trattato Internazionale sulle Risorse Genetiche Vegetali per l'Alimentazione e l'Agricoltura (ITPGRFA - International Treaty for Plant Genetic Resources for Food and Agriculture -, 2001) come “qualsiasi materiale genetico di origine vegetale che abbia un valore effettivo o potenziale per l’alimentazione e l’agricoltura”.

Di particolare interesse, all'interno delle RGV, sono le varietà locali tradizionali (in inglese landraces) ossia “antiche popolazioni costituitesi ed affermatesi in zone specifiche, in seguito alle disponibilità offerte dall’ambiente naturale e dalle tecniche colturali imposte dall’uomo. Tali materiali sono dotati di un notevole adattamento e rappresentano interessanti fonti di geni per caratteristiche di qualità e produttività in ambienti marginali. Tuttavia, al di fuori dell’area di origine, le varietà locali spesso non reggono il confronto con le moderne varietà” [Barcaccia et al., 2005]. Le varietà locali si configurano come popolazioni soggette (similmente alle popolazioni naturali) all’azione combinata di mutazioni, ricombinazioni, fenomeni di migrazione, deriva genetica e selezione. Esse sono popolazioni bilanciate, in equilibrio con l’ambiente e con i patogeni, geneticamente dinamiche, ma anche soggette a diversi gradi di selezione attuata dagli agricoltori [Harlan, 1975].

Il concetto di varietà locale appare strettamente legato al territorio di origine (bioterritorio) inteso come luogo in cui le varietà locali si sono adattate e caratterizzate nel tempo, grazie all’azione degli agricoltori locali. “[…] Le varietà locali devono essere correttamente identificate attraverso una caratterizzazione basata su una ricerca storico-documentale tendente a dimostrare il legame con il territorio di provenienza e le caratteristiche varietali che questo ha

11 favorito nel tempo, e una caratterizzazione morfologica, quando possibile, anche molecolare o genetica[…].” [MiPAAF, 2008 ].

Con la legge n. 46 del 6 aprile 2007 “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. del 15 febbraio 2007, recante disposizioni volte a dare attuazione ad obblighi comunitari ed internazionali” vennero descritte le cultivar locali “da conservazione” precisando che per varietà da conservazione s’intendono “[…] le varietà, le popolazioni, gli ecotipi, i cloni, le cultivar di piante d’interesse agricolo aventi le seguenti caratteristiche (almeno una): autoctone e non autoctone, mai iscritte in altri registri nazionali purchè integratesi da almeno cinquant’anni negli agroecosistemi locali; non più iscritte in alcun registro e minacciate da erosione genetica; non più coltivate sul territorio nazionale e conservate presso orti botanici, istituti sperimentali, banche del germoplasma pubbliche o private e centri di ricerca per i quali sussiste un interesse economico, scientifico, culturale o paesaggistico a favorirne la reintroduzione. […]” [Santamaria e Ronchi, 2016]. Questo tempo minimo, può essere considerato valido per le piante erbacee annuali; mentre per la maggior parte delle specie poliennali può essere più condivisibile la definizione di Zeven [Zeven, 1998] che parla di varietà autoctona se e presente in un areale da più di un secolo.

1.2.2 CONSERVAZIONE IN SITU

Secondo la definizione proposta dalla CBD di Rio de Janeiro, la conservazione in situ è “[…] la conservazione degli ecosistemi e degli habitat naturali ed il mantenimento e la ricostituzione delle popolazioni vitali di specie nel loro ambiente naturale e, nel caso di specie addomesticate e coltivate, l’ambiente in cui hanno sviluppato le loro proprietà caratteristiche […]”. Attraverso la conservazione in situ le landraces hanno quindi la possibilità di adattarsi meglio alle condizioni climatiche ed ambientali ed alle caratteristiche pedologiche del territorio in cui vengono coltivate. Si tratta dunque di una conservazione “dinamica”, in cui le popolazioni viventi cambiano continuamente in risposta alle pressioni selettive di altri viventi e dall’ambiente pedo-climatico in cui si trovano [Frankel & Soulè, 1981]. Peculiarità delle varietà locali quindi questo forte legame col territorio d’origine grazie al quale esse risultano essere molto resistenti a stress biotici ed abiotici.

12 Ai fini di questo tipo di conservazione, di fondamentale importanza risultano essere quindi gli agricoltori custodi di tali varietà, che le proteggono dal rischio di estinzione od erosione genetica. Nel comunicato della Commissione delle Comunità Europee del 2001 essi vengono definiti “[…] i custodi della campagna, degli ecosistemi e del paesaggio rurale[…]”. Di conseguenza risulta strettamente necessario aiutarli, incentivando il loro lavoro si a livello sociale che a livello economico, riconoscendo le pratiche agronomiche già sostenibili a livello ecologico, ed insegnandone di nuove; in questo modo si cerca inoltre di ridurre il fenomeno di spopolamento delle zone rurali, dimostratosi deleterio per gli ecosistemi seminaturali; “[…] la sfida consiste nel proteggere gli ecosistemi limitando al minimo gli effetti indesiderati all'interno e all'esterno del settore in questione. Questo implica incoraggiare e promuovere le attività che proteggono e migliorano l'ambiente (attività ampiamente praticate dal settore agricolo, in quanto nel suo stesso interesse) e scoraggiare le attività che producono effetti dannosi […].” [Commissione Comunità Europee, 2001]. Grazie alla legge italiana n 194 del dicembre 2015, in particolare nell’ART.2 , comma 3, viene riconosciuto ufficialmente anche a livello nazionale il loro ruolo: “[…] gli “agricoltori custodi” sono gli agricoltori che si impegnano nella conservazione, nell'ambito dell'azienda agricola ovvero in situ, delle risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario locali soggette a rischio di estinzione o di erosione genetica, secondo le modalita' definite dalle regioni e dalle province autonome di Trento e di Bolzano.[…]”. La conservazione in situ/on farm deve essere svolta in modo da permettere alla varietà locale di mantenere tutta la variabilità di cui è contraddistinta e di rimanere in equilibrio con l’ambiente di coltivazione (compreso l’uomo) in cui essa ha evoluto le proprie caratteristiche distintive, in modo tale che queste ultime non vengano perdute. Di conseguenza l’avvio di un dialogo con questi agricoltori da parte delle istituzioni o degli enti di ricerca risulta indispensabile per il recupero, oltre che delle varietà in sé e la salvaguardia dell’agro-ecosistema, anche di usi e tradizioni locali, identitarie di popoli che, con l’avvento della globalizzazione e della modernizzazione, stanno mano a mano anch’essi scomparendo.

13 A tale scopo, è particolarmente importante che il materiale di moltiplicazione si riproduca nell’areale di origine e in condizioni tali da evitare inquinamenti sia di tipo meccanico (possibili mescolamenti dovuti alle macchine) sia di tipo genetico (ibridazioni causate da impollinazione). Bisogna quindi prestare particolare attenzione sia alle fasi di raccolta e preparazione delle sementi che nel progettare il campo di riproduzione stesso calibrando, in base alla specie, parametri quali: distanza da altre varietà (coltivate o spontanee), l'eventuale separazione fisica con reti o siepi e varie tecniche colturali, queste ultime mirate al contenimento del rischio ibridazione (con conseguente erosione genetica) [sito Rete Semi Rurali].

1.2.3 CONSERVAZIONE EX-SITU

La CBD di Rio de Janeiro tramite l’ART.2 e l’ART. 9 definisce la conservazione ex-situ come “[…] la conservazione di elementi costitutivi della diversità biologica al di fuori del loro ambiente naturale […]” principalmente attraverso le Banche del Germoplasma, il cui obiettivo è “[…] salvaguardare il patrimonio genetico per l’agricoltura, l’alimentazione e l’ambiente rurale del Paese […]” garantendo che il materiale genetico venga quindi preservato da qualsiasi forma di contaminazione. L’obiettivo primario della conservazione ex situ delle popolazioni è quello di coadiuvare il mantenimento di varietà minacciate, della loro diversità genetica e del loro habitat. I programmi di conservazione ex situ sono complementari e forniscono un valore aggiunto a quelli in situ. In Italia la conservazione ex-situ è regolamentata dal decreto emanato dal MiPAAF il 5 marzo 2001 “Regolamentazione e finalita' delle Banche e dei Conservatori di germoplasma per la conservazione e salvaguardia delle risorse biogenetiche […]. Le Banche e i Conservatori di germoplasma costituiti presso organismi pubblici, o enti di ricerca dello stato, o altri enti autonomi sottoposti a vigilanza ministeriale, o costituiti mediante finanziamento a carico dello Stato, anche in forma compartecipata, svolgono la funzione prioritaria di salvaguardare il patrimonio genetico per l'agricoltura, l'alimentazione e l'ambiente rurale del Paese, appartenente alla collettivita'[…]”. I soggetti pubblici e privati che possono attuare questo tipo di conservazione, sono regolamentati dalla legge del 1 dicembre 2015 (ART.6, comma 1) emanata dal MiPAAF: “Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, le

14 regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, per quanto di rispettiva competenza, individuano […], i soggetti pubblici e privati di comprovata esperienza in materia per attivare la conservazione ex situ delle risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario locali del proprio territorio, anche al fine della partecipazione alla Rete nazionale della biodiversita' di interesse agricolo e alimentare […]”.

I responsabili della gestione ex situ dovrebbero cercare anche di migliorare la conservazione tramite attività educative, programmi volti a creare personale qualificato e interventi diretti in situ. I dati e i risultati derivanti dalle collezioni e dalle metodologie ex situ dovrebbero essere messi liberamente a disposizione dei programmi di gestione interessati alla conservazione delle popolazioni ex situ, dei loro habitat e dei loro ecosistemi. [sito Rete Semi Rurali]. La conservazione della diversità ex situ avviene nelle Banche di conservazione genetica che possono essere divise in quattro categorie principali: i. Collezioni in vivo: la salvaguardia delle specie selvatiche è operata principalmente dai giardini botanici; ii. ii. Banche in vitro: si tratta della conservazione di tessuti vegetali; iii. Banche di criopreservazione (DNA, polline): si tratta della conservazione del granello di polline, da cui deriverà il gamete maschile; iv. Banche dei semi: Il metodo principale per la conservazione ex situ è la banca dei semi, poiché con essa è possibile conservare sia la diversità intra-popolazione sia la diversità inter-popolazioni; si tratta di strutture dove vengono conservati i semi in condizioni di umidità e temperatura controllate in un sistema di conservazione “statico” che mira a preservare nel lungo periodo le risorse genetiche, mantenendole più integre possibili, non permettendo nessun tipo di di erosione genetica, né di evoluzione ed adattamento. Ai fini della conservazione i semi vengono disidratati ad un livello che garantisce un forte rallentamento dei processi fisiologici così da garantirne la conservazione.

[sito RBES – Rete Italiana Banche del germoplasma per la conservazione Ex-situ della flora Spontanea italiana].

15 A livello mondiale si possono citare le due più importanti Banche del Germoplasma: la Millennium Seed Bank (UK) e la Svalbard Global Seed Vault (Norvegia). A livello europeo, invece si possono citare: AEGIS (A European Genebank Integrated System), ossia una piattaforma che ha l’obiettivo di far convergere tutte le banche del germoplasma presenti in Europa (circa 650 istituti distribuiti in 43 paesi), coordinandone le attività attraverso un unico sistema [sito AEGIS - A European Genebank Integrated System]; ENSCONET, un’altra piattaforma che invece coordina la conservazione dei semi nativi dell’Europa, offrendo un servizio di scambio d’informazioni e conoscenze, oltre che una banca dei semi virtuale chiamata ENSCOBASE [Domini, 2018]. A livello Italiano, invece, esiste una rete di collegamento molto importante chiamata RBES – Rete Italiana Banche del germoplasma per la conservazione Ex-situ della flora Spontanea italiana-di varie Banche del Germoplasma attive sul territorio Italiano (Banca del Germoplasma della Valle d’Aosta, Banca del Germoplasma delle Alpi Sud- Occidentali, Lombardy Seed Bank, Seed Bank, ecc.).

1.2.4 EROSIONE GENETICA E MONTAGNA COME “HOTSPOT” DI CONSERVAZIONE

Una delle motivazioni principali per la quale diverse normative hanno cercato di istituzionalizzare e promuovere anche il tipo di conservazione ex-situ, è stato quello di tentare di arginare il più possibile il rischio di estinzione ed erosione genetica. Secondo le “Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse per l'agricoltura”, l’erosione genetica viene definita in questi termini: “[…] fenomeno per il quale si verifica perdita di diversità genetica entro sistema (perdita di specie), entro specie (perdita di razze/varietà/popolazioni), ed entro popolazione (perdita di alleli). Per le specie coltivate è frequentemente conseguenza dell’affermarsi di poche varietà e la scomparsa della coltivazione dei tipi locali. L’esasperazione dell’erosione genetica porta all’estinzione di popolazioni, specie e sistemi. […].” [MiPAAF, 2012]. Un'altra definizione fu però proposta già nel 1974 dal biologo italiano S. Mugnozza secondo cui l’erosione genetica “[…] rappresenta la restrizione del pool genico di una specie, ovvero la riduzione della variabilità genetica (differenze genetiche tra gli

16 individui)[…].” che, se non arginata potrebbe portare anche pian piano al declino e/o estinzione di una specie. Come ricorda il rapporto FAO del febbraio 2019, il problema è serio e va affrontato in maniera altrettanto seria poiché la perdita di biodiversità (e quindi l’erosione genetica) “[…] è un processo non reversibile. […]”. In questo contesto si comprende quindi l’importanza che detengono alcuni enti di ricerca a livello nazionale, dei quali sicuramente il più importante il CREA (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria) il quale conta 12 centri di ricerca, 1900 tra ricercatori e tecnici, 332 progetti di ricerca in corso sull’agroalimentare e 66 aziende agricole. [sito CREA].

Se si analizza la montagna, il luogo di per sé, è costituito da una miriade di fattori differenti quali altitudini spesso molto elevate o i frequenti cambi di esposizione, i quali producono una grande eterogeneità di habitat anche in spazi molto brevi. Le zone montane sono importanti rifugi per molte specie; “[…] la ridotta capacità di dispersione delle specie e il lungo isolamento hanno prodotto un elevato numero di endemismi nelle montagne europee e in quelle italiane in particolare, tanto che le catene montuose sono considerate fra i più importanti hotspot per le specie endemiche.[…]” [Myers et al., 2000]. Alla grande variabilità ambientale che caratterizza le montagne si aggiunge l’effetto della presenza dell’attività umana che ha contribuito a modificare, attraverso l’uso delle risorse, i paesaggi montani. “[…] Lo sviluppo di forme di utilizzazione delle risorse e di uso del territorio ha prodotto una ricchissima varietà di quelli che vengono definiti saperi ecologici tradizionali. Per questo motivo grande importanza è data oggi alle culture di montagna: nelle aree montane si trovano ancora tradizioni, saperi, linguaggi e dialetti tipici, che rappresentano nell’insieme una cultura fortemente identitaria e legata ai luoghi. La coevoluzione fra comunità biotiche e comunità umane e culturali uniche, ha contribuito ad arricchire la biodiversità delle aree montane. […]”. [Nocentini, 2018]. L’11 dicembre 2006, a Roma la FAO ha lanciato un appello sulla salvaguardia delle montagne, definite come una fonte vitale di biodiversità sia agricola che selvatica sostenendo che esse contribuiscano in modo notevole alla diversità genetica, che permette di nutrire l’umanità; ma questa ricchezza è sempre più minacciata sia dal

17 modo in cui il territorio montano è usato (disboscamento, attività minerarie, industrializzazione e turismo indiscriminati) sia dal riscaldamento globale; José Antonio Prado, Direttore della Divisione FAO Risorse Forestali sostiene che “[…] Per salvaguardare e gestire la biodiversità montana […] è necessaria un’azione concreta che includa: l’istituzione di aree protette per la conservazione della biodiversità selvatica; il mantenimento di ecosistemi agromontani sostenibili, attuato dalle popolazioni locali in qualità di custodi dell’ambiente circostante e della sua unica biodiversità agricola[…]”. Molte coltivazioni come patate, fagioli, cavoli e diverse specie frutticole sono originarie e si sono evolute nelle zone montane, avendo rappresentato per secoli fonte di cibo e di sussistenza, a cui si è poi aggiunto il valore culturale. [FAO, 2006].

Per citare alcuni esempi di agrobiodiversità in ambiente montano e comprendere quanto esso sia realmente (e possa diventare ancor di più) hotspot di varietà da conservazione, basti pensare che nella zona della Valle Camonica (vallata situata in Lombardia nelle Prealpi bresciane che si estende per una lunghezza di 100 km dal paese di Pisogne, circa 200 m s.l.m., fino al Passo del Tonale, 1883 m s.l.m.) sono state rinvenute 28 cultivar locali tradizionali afferenti ai generi Atriplex, Lupinus, Cynara, Brassica, Cyclanthera, Vicia, Solanum, Chenopodium, Phaseolus, Zea, Hordeum, Secale, alcuni di questi coltivati ad una quota di oltre 1200 m s.l.m., dimostrandosi così molto ben adattati al clima alpino [Domini, 2018].

Secondo quanto scritto nella mozione n. 135 approvata dal consiglio della Provincia Autonoma di Trento (con la quale la Giunta provinciale s’impegna a recepire e indicazioni e i suggerimenti previsti dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 10 maggio 2016 sulla politica di coesione nelle regioni montane dell'UE), “[..] le regioni montane sono territori che forniscono un fondamentale contributo allo sviluppo sostenibile, alla lotta contro i cambiamenti climatici, alla preservazione e alla protezione degli ecosistemi e della biodiversità. Che offrono sostegno al consolidamento delle forme di agricoltura più sostenibili e quindi mostrano una via per una più intensa sinergia tra le attività agricole di montagna, le attività economiche e la qualità della vita (in termini di salute e di benessere collettivo) […]"; uno degli obiettivi della presente mozione è quello di “ […] promuovere lo sviluppo delle aree montane, al fine di sostenere il loro potenziale e i loro obiettivi specifici in materia di sviluppo sostenibile […]”.

18 1.3 QUADRO LEGISLATIVO 1.3.1 SCENARIO INTERNAZIONALE

Il mantenimento e scambio sementi od altro materiale di propagazione, accompagnato anche da quello delle informazioni su costumi e tradizioni, non hanno mai avuto un riconoscimento o legislazione formalmente riconosciuta tramite norme scritte. Si avvertì l’esigenza di affrontare la questione non solo per quanto riguarda la sfera tecnico-scientifica, ma anche normativa considerato l’importanza sempre più sentita riguardo la biodiversità; la sede di tale dibattito fu la Conferenza FAO del 1983 nella quale venne redatto un Accordo internazionale, non vincolante, gestito dalla Commissione Risorse Genetiche per l’Alimentazione e l’Agricoltura della FAO. I semi vennero considerati patrimonio dell’umanità, e quindi di libero accesso per tutti [sito FAO]. Successivamente si verificò l’evento globale più importante sull’argomento biodiversità, avvenuto fino a questi anni, cruciale per tutte le normative che saranno istituite a livello internazionale, europeo e nazionale di qui in avanti: la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), approvata nel giugno 1992 durante il Summit Mondiale dei Capi di Stato a Rio de Janeiro, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente e lo Sviluppo (UNCED), diventando vincolante per i paesi firmatari (ad oggi 193) nel 1993. La CBD è un trattato internazionale giuridicamente vincolante con tre principali obiettivi: conservazione della biodiversità, uso sostenibile della biodiversità, giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dall'utilizzo delle risorse genetiche. Il suo obiettivo generale è quello di incoraggiare azioni che porteranno ad un futuro sostenibile [MiPAAF, 2012]. Secondo la definizione adottata dalla CBD, la biodiversità è “ la variabilità di ogni origine esistente tra gli organismi viventi, compresi gli ecosistemi terrestri, marini ed altri ecosistemi acquatici, ed i complessi ecologici di cui fanno parte; ciò include la diversità all’interno delle specie, tra le specie e degli ecosistemi” [sito CBD – Convention on Biological Diversity -]. L'organo di governo della CBD è la Conferenza delle Parti (COP), autorità formata da tutti i governi (Parti) che hanno ratificato il Trattato; essa si riunisce ogni due anni per esaminare i progressi compiuti, definire le priorità e impegnarsi in piani di lavoro. l’Italia ha ratificato l’accordo il 14 febbraio 1994.

19 La Conferenza delle Parti ha istituito 7 programmi di lavoro tematici (Biodiversità Agricola, Biodiversità delle terre aride e sub umide, Biodiversità delle Foreste, Biodiversità delle acque interne, Biodiversità delle isole, Biodiversità marina e costiera, Biodiversità delle montagne). Nell’ambito della CBD, le Parti possono elaborare e adottare dei Protocolli specifici; ad oggi, sono due i Protocolli adottati dalla Conferenza delle Parti della CBD: Il protocollo di Cartagena ed il Protocollo di Nagoya.

Nell'aprile 2002, le Parti della Convenzione hanno messo a punto un Piano Strategico a livello globale, nazionale, regionale e si sono impegnate a raggiungere entro il 2010 una riduzione significativa del tasso attuale di perdita della biodiversità, in modo da assicurare la continuità dei suoi usi vantaggiosi attraverso la conservazione e l'uso sostenibile delle sue componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall'utilizzo delle risorse genetiche. [sito Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare]. In occasione della decima riunione a Nagoya, in Giappone, nell’ottobre 2010, la Conferenza delle Parti della CBD (COP) ha adottato un nuovo Piano Strategico con nuovi obiettivi per il periodo successivo al 2010: regolare l’accesso alle risorse genetiche ed attuare una più equa condivisione dei vantaggi derivanti dal loro utilizzo. Le disposizioni del Protocollo di Nagoya sono applicate ai Paesi firmatari che sono tenuti a attuarle a livello nazionale oltre che definire le modalità d'accesso alle risorse genetiche (facilitando le aziende e agli istituti di ricerca). [MiPAAF, 2012].

A conclusione di questo processo normativo, nel 2001 è stato adottato dalla Conferenza FAO il Trattato Internazionale sulle Risorse Genetiche per l'Alimentazione e l'Agricoltura (ITPGRFA). A differenza dell’Accordo Internazionale, il Trattato è vincolante per i paesi firmatari e i suoi obiettivi principali sono:

I. l'ART.5 sulla Conservazione impegna ogni parte contraente a promuovere un approccio integrato alla ricerca, alla conservazione e all’uso sostenibile delle risorse fitogenetiche, ad adottare provvedimenti volti a limitare o eliminare i rischi che minacciano le risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura.

20 A livello pratico esorta ad adoperarsi per censire le risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura; promuoverne la raccolta e le informazioni relative a quelle in pericolo di scomparsa o potenzialmente utilizzabili; incoraggiare e/o sostenere gli sforzi degli agricoltori e delle comunità locali per gestire e conservare in azienda le loro RGV. Inoltre impegna a favorire la conservazione in situ ed un sistema efficace e sostenibile di conservazione ex situ. II. L'ART.6 riguardante l’uso sostenibile delle RGV, promuove la realizzazione e l’attuazione di politiche agricole eque che incoraggino la realizzazione e il mantenimento di sistemi agricoli diversificati favorenti l’uso sostenibile della diversità biologica agricola; l'intensificazione delle ricerche che volte a conservare la diversità biologica massimizzando la variazione intraspecifica e interspecifica; promuovere una maggiore utilizzazione delle piante coltivate, delle varietà e delle specie locali; riesaminare ed adeguare le strategie di selezione e la normativa inerente alla commercializzazione delle varietà e alla distribuzione delle sementi. III. L’ART.9 in merito alla giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dall’uso delle RGV in accordo con quanto stabilito dalla CBD, riconoscendo l'importanza del contributo dei contadini nel preservare la biodiversità.

[FAO, 2001].

1.3.2 SCENARIO EUROPEO

Con riferimento all’aspetto normativo inerente la biodiversità in ambito agricolo, si possono citare tre importanti norme comunitarie: i. La Comunicazione della Commissione Europea del 27 marzo 2001 n. 162, nella quale viene espresso “[…] un piano d'azione per la biodiversità nel settore dell'agricoltura. Come tale deve dunque essere considerato parte integrante del pacchetto di misure comunitarie a sostegno della strategia a favore della biodiversità intese a prevedere, prevenire ed eliminare le cause della diminuzione o perdita significativa della biodiversità […]”; inoltre “[…] Per raggiungere gli obiettivi inerenti alla biodiversità la strategia punta su misure agroambientali destinate specificatamente alla promozione di pratiche agricole

21 atte a preservare l'ambiente, salvaguardare il contesto rurale e conservare il patrimonio rurale europeo. Tali misure sono elementi vincolanti dei nuovi programmi di sviluppo rurale […]” [Commissione delle Comunità Europee, 2001].

ii. Il regolamento del Consiglio Europeo del 24 aprile 2004 n. 870, che istituisce un programma comunitario relativo alla conservazione, la caratterizzazione, la raccolta e l’utilizzo delle risorse genetiche in agricoltura. Tale regolamento afferma che “[…] Le attività intraprese nel settore della conservazione, della caratterizzazione, della raccolta e dell'utilizzazione delle risorse genetiche in agricoltura contribuiscono a mantenere la biodiversità, migliorano la qualità dei prodotti agricoli, contribuiscono a potenziare la diversificazione nelle zone rurali e a ridurre i fattori di produzione e i costi della produzione agricola, contribuendo in particolare ad incentivare una produzione agricola sostenibile e lo sviluppo sostenibile delle zone rurali. Occorre promuovere la conservazione ex situ e in situ delle risorse genetiche in agricoltura (compresa la conservazione e lo sviluppo in situ/nell'azienda agricola). […]”; inoltre “[…] La Comunità dovrebbe integrare e incentivare le attività svolte negli Stati membri per la conservazione e l'utilizzo sostenibile della diversità biologica in agricoltura. Occorre promuovere il valore aggiunto comunitario concertando le azioni esistenti e sostenendo lo sviluppo di nuove iniziative transfrontaliere in materia di conservazione, caratterizzazione, raccolta e utilizzazione delle risorse genetiche in agricoltura […]”. [Consiglio dell’Unione Europea, 2004).

iii. La direttiva CE della Commissione Europea del 20 giugno 2008 n. 62, la quale assegna le deroghe per l’ ammissione di ecotipi e varietà agricole naturalmente adattate alle condizioni ambientali locali, minacciate dall’erosione genetica e la commercializzazione di sementi e tuberi di patate da semina: “[…] Al fine di garantire la conservazione in situ e l'utilizzo sostenibile di risorse fitogenetiche, gli ecotipi e le varietà naturalmente adattate alle condizioni locali e regionali e

22 minacciate di erosione genetica (“varietà da conservare”) vanno coltivate e commercializzate anche se non conformi alle condizioni generali in materia di ammissione di varietà e di commercializzazione delle sementi e dei tuberi di patata da semina. A tal fine è necessario prevedere deroghe per quanto riguarda sia l'inserimento di varietà da conservare nei cataloghi nazionali delle varietà di specie di piante agricole, che la produzione e la commercializzazione delle sementi e dei tuberi di patata delle stesse […]. Agli Stati membri va in particolare concesso di adottare disposizioni interne proprie in tema di distinguibilità, stabilità e omogeneità […]. Occorre prevedere l'obbligo di rispettare determinate procedure affinché una varietà possa essere accettata senza bisogno di sottoporla ad una esame ufficiale […]. Per quanto riguarda la produzione e la commercializzazione di sementi e tuberi di patata da semina di varietà da conservare, occorre prevedere una deroga all'obbligo di certificazione ufficiale […]” inoltre “[…] Al fine di garantire che la commercializzazione di sementi e tuberi di patata da semina di varietà da conservare avvenga nell'ottica della conservazione delle risorse fitogenetiche vanno stabilite restrizioni, in particolare in merito alla regione di origine. […]” [Commissione delle Comunità Europee, 2008].

La direttiva CE, da ultimo citata fissa i criteri necessari affinché le varietà locali vengano considerate “varietà da conservazione”, stabilendo, come sopra citato, anche restrizioni in termini di regionalità e quantità.

Nel maggio 2011 viene stilata ed adottata da parte del Commissione europea la Strategia Europea sulla Biodiversità fino al 2020. La strategia si articola attorno a sei obiettivi incentrati sulle cause primarie della perdita di biodiversità e volti a ridurre le principali pressioni esercitate sulla natura e sui servizi ecosistemici nell’UE. Ogni obiettivo si traduce in una serie di azioni legate a scadenze temporali. I sei obiettivi sono i seguenti: dare piena attuazione alle direttive habitat e uccelli; ripristinare e mantenere gli ecosistemi e i relativi servizi; incrementare il contributo dell’agricoltura e della silvicoltura al mantenimento e al rafforzamento della biodiversità; garantire lo sfruttamento sostenibile delle risorse alieutiche; combattere

23 le specie esotiche invasive; contribuire ad evitare la perdita di biodiversità a livello mondiale.

Inoltre viene espresso dal testo che“[…] Entro il 2050 la biodiversità dell’Unione europea e i servizi ecosistemici da essa offerti — il capitale naturale dell’UE — saranno protetti, valutati e debitamente ripristinati per il loro valore intrinseco e per il loro fondamentale contributo al benessere umano e alla prosperità economica, onde evitare mutamenti catastrofici legati alla perdita di biodiversità […]” [sito EUROPA, EUR-LEX].

1.3.3 SCENARIO ITALIANO

Nel 2001 In Italia è stata recepita la direttiva 98/95/CE sulla normativa sementiera, con il Decreto Legislativo 212/2001, che prevede l’istituzione nel “Registro Nazionale delle varietà da conservazione”. Il D. M. del 17 dicembre 2010 “Disposizioni applicative del dlgs 149 del 2009 circa le modalità d’ammissione al Registro Nazionale delle Varietà da Conservazione di specie agrarie” delinea il modo in cui una cultivar può essere iscritta a tale registro: in primis si necessita di una domanda d’iscrizione che deve contenere numerose informazioni tra cui il nome botanico ed il nome volgare oltre che una serie di informazioni morfologiche ed agronomiche riguardo la varietà considerata; la domanda dev’essere poi inoltrata alla Regione di riferimento, la quale entro 90 giorni dalla spedizione della stessa sarà tenuta ad inviarla (completa e con un parere formulato) al Ministero per l’avvio del procedimento d’iscrizione al Registro Nazionale che avverrà entro 60 giorni dal ricevimento della documentazione completa. [Moraschinelli, 2018].

Dal punto di vista legislativo l’Italia ha recepito il Trattato Internazionale sulle Risorse Fitogenetiche per l’Alimentazione e l’Agricoltura (ITPGRFA) con la Legge n. 101 del 2004 “Ratifica ed esecuzione del Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche per l'Alimentazione e l'Agricoltura” , secondo la quale il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MiPAAF) ha il compito di monitorare gli interventi effettuati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano, considerando queste l’ente

24 pubblico che (per la sua conoscenza del territorio e la sua autonomia legislativa in materia di agricoltura) meglio coordinerebbe le azioni principali di conservazione e valorizzazione della biodiversità.

Nel 2010 l’Italia si è dotata di una Strategia Nazionale per la Biodiversità, con una revisione intermedia nel 2020: la Struttura della Strategia, conformemente alla norma europea, è articolata su tre tematiche: Biodiversità e servizi ecosistemici; Biodiversità e cambiamenti climatici; Biodiversità e politiche economiche.

Nell’ottobre 2012 sono state pubblicate dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (MiPAAF), all'interno del Piano Nazionale sulla Biodiversità di Interesse Agricolo, le “Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse per l’agricoltura” (decreto del 6 luglio 2012 del MiPAAF “Adozione delle linee guida nazionali per la conservazione in situ/on farm ed ex situ, della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse agrario”). Il presente elaborato mostra nella prima parte del manuale le informazioni di carattere generale che vanno dalla definizione di biodiversità e risorse genetiche vegetali (RGV) (capitolo 1), alla valutazione del rischio di estinzione e di erosione genetica (capitolo 2), al quadro di riferimento normativo sulla conservazione e valorizzazione delle risorse genetiche vegetali in Italia (capitolo 3). Nella seconda parte si entra dettagliatamente nelle indicazioni attuative, fornendo le linee guida per la tutela delle risorse genetiche vegetali (RGV) incluse anche esperienze concrete di conservazione da parte di alcune Regioni (capitolo 4), passando poi ai metodi di caratterizzazione morfo-fisiologica e molecolare delle risorse (capitolo 5) e per concludere una serie di casi studio (capitolo 6) [MiPAAF, 2012].

Il 26 dicembre 2015 è entrata in vigore una nuova legge sulle “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare” (G.U. n 122 del 1 dicembre 2015) della quale di seguito si riportano alcuni frammenti di testo importanti: “La presente legge […] stabilisce i principi per l'istituzione di un sistema nazionale di tutela e di valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, finalizzato alla tutela delle risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario locali dal rischio di

25 estinzione e di erosione genetica” (ART.1, comma 1). “ Il sistema nazionale di tutela e di valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare è costituito: a) dall'Anagrafe nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare di cui all'articolo 3; b) dalla Rete nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare di cui all'articolo 4; c) dal Portale nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare di cui all'articolo 5; d) dal Comitato permanente per la biodiversità di interesse agricolo e alimentare […].” (ART.1, comma 3).

Quest’ultimo comma quindi, definisce con precisione che il sistema nazionale per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo ed alimentare (agro- biodiversità) è costituito da: i. Anagrafe nazionale (repertorio di risorse genetiche vegetali, animali e microbiche); ii. Rete nazionale (siti di conservazione dell’agrobiodiversità e agricoltori custodi); iii. Portale nazionale dell’agrobiodiversità; iv. Comitato permanente per la biodiversità di interesse agricolo e alimentare (ministero, regioni, associazioni di agricoltori).

Inoltre “Ai fini della valorizzazione e della trasmissione delle conoscenze sulla biodiversità di interesse agricolo e alimentare, il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano possono promuovere anche le attività degli agricoltori tese al recupero delle risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario vegetali locali [...]. Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano e le università possono promuovere progetti di tesi alla trasmissione delle conoscenze acquisite in materia di biodiversità di interesse agricolo e alimentare agli agricoltori, agli studenti e ai consumatori, attraverso adeguate attività di formazione e iniziative culturali.” (ART.1, comma 5 e 6). Valutati quest’ultimi comma, si può facilmente comprendere il contesto in cui s’inserisce il presente progetto di tesi, i quali risultati di ricerca presentano proprio gli obiettivi sopra citati. Nell’ART.10 viene sancita la costituzione di un per la tutela della biodiversità d’interesse agricolo ed alimentare.

26 In altri articoli vengono trattati temi di iniziative di sensibilizzazione presso enti, o istituzione di comunità (es. Comunità del cibo e della biodiversità d’interesse agricolo e alimentare), giornate a tema ed interventi di ricerca. Viene così riconosciuta l'importanza di una gran moltitudine di attività, associazioni o semplici gruppi di persone che per passione si dedicano al recupero, mantenimento e diffusione della biodiversità agricola.

1.3.4 SCENARIO PROVINCIALE

Per quanto concerne la normativa riguardante la tutela dell’agrobiodiversità vegetale, il provvedimento più significativo eseguito dalla PAT (Provincia Autonoma di Trento) è espresso nel ddl n. 127/2005 “Tutela delle risorse genetiche autoctone d’interesse agrario e forestale”, nelle quali finalità viene espresso il concetto di “varietà da conservazione” ed i motivi per cui esse debbano essere salvaguardate, in perfetta conformità con quanto sancito dal decreto legislativo nazionale n. 212/2001, esposto in precedenza. In paricolare l’ART.4, espone che la PAT istituisce il “Registro provinciale del patrimonio genetico”, costituito da una sezione animale e da una vegetale, organizzato “[…] secondo modalità che tengano conto delle caratteristiche tecniche di analoghi strumenti eventualmente esistenti a livello nazionale e internazionale, in modo da renderlo quanto più possibile omogeneo e confrontabile con gli stessi; […].” L’iscrizione a tale Registro avviene similmente alle modalità d’iscrizione al Registro Nazionale per le varietà da conservazione: su iniziativa del singolo cittadino o su proposta della Giunta provinciale, di enti scientifici, enti pubblici, organizzazioni ed associazioni private, dev’essere presentata una domanda d’iscrizione con allegata una documentazione storico-tecnico-scientifica; questa dev’essere quindi analizzata da un’apposita Commissione tecnico-scientifica, che per il settore vegetale è formata da quattro esperti del mondo scientifico in materia di agricoltura, dal dirigente generale del dipartimento della Provincia in materia di agricoltura e da un funzionario della Fondazione Edmund Mach. All’ART. 6 si espone che la PAT istituisca la “Rete di conservazione e sicurezza”, al fine di “[…] assicurare la protezione e la conservazione delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario e forestale iscritte nel registro provinciale […]”, rete cui possono aderire enti pubblici e privati, istituti sperimentali,

27 centri di ricerca, università, associazioni, agricoltori singoli e associati; “[…] La rete è finalizzata alla conservazione in situ ed ex situ del materiale genetico di interesse provinciale e alla moltiplicazione di tale materiale, al fine di renderlo disponibile agli operatori agricoli che ne facciano richiesta. La Provincia predispone elenchi, su base provinciale, dei siti in cui avviene la conservazione e li trasmette annualmente ai comuni interessati che provvedono a dare adeguata informazione sull'esistenza dei siti stessi. Gli agricoltori inseriti nella rete possono vendere una modica quantità delle sementi da loro prodotte, stabilita per ogni singola entità al momento dell'iscrizione nel registro. Essi possono, altresì, effettuare la risemina e la moltiplicazione in azienda […]”. Vi sono state poi altre normative provinciali riguardanti la salvaguardia dell’agricoltura del territorio trentino di cui di seguito verranno elencate quelle maggiormente significative pubblicate sul sito della PAT: il ddl. n. 12/1999 “Norme in materia di educazione, cultura alimentare, tutela e valorizzazione delle risorse gastronomiche del Trentino” con cui “[…] La Provincia autonoma di Trento s’impegna a promuovere la tutela delle risorse gastronomiche locali e la loro valorizzazione sociale, culturale e turistica, con finalità di conservazione dei gusti e come occasione di sviluppo socio-economico delle aree montane e delle zone svantaggiate […].”; il ddl. n. 184/2006 “Attività agresti legate al tempo ibero” per garantire sostegno provinciale ad attività agricole quali coltivazioni, allevamenti, che consentano il recupero e l’utilizzazione sociale di terreni abbandonati o degradati, prevedendo l'assegnazione di appezzamenti di terreni di proprietà comunale a singoli cittadini o a rappresentanti di gruppi e associazioni che devono impegnarsi a realizzare colture ortive o allevamento di animali senza scopo di lucro, favorendo così la valorizzazione della biodiversità. La PAT ha dato vita e stanziato fondi per un ente pubblico molto importante, in attuazione dell’articolo 25 della legge provinciale 3 ottobre 2007 n. 15 (legge provinciale sulle attività culturali), il MUSE (Museo delle scienze di Trento), che si compone di cinque organi: il presidente, il direttore, il collegio dei revisori dei conti, il consiglio di amministrazione ed il comitato scientifico; quest’ulimo, nella sezione Botanica, collaborando con ricercatori, ha attivi tre progetti molto interessanti: “Studio dell’ecologia della germinazione e propagazione di piante autoctone”; “Conservazione ex situ dei semi delle piante minacciate di estinzione”; “I cambiamenti climatici su flora

28 e vegetazione di alta quota”; [sito Muse]. Il MUSE detiene e gestisce inoltre la Trentino Seed Bank (Banca del germoplasma di diverse specie vegetali perlopiù però selvatiche e non d’interesse agrario) la quale si avvale del sostegno del Museo Civico di (che contribuisce alla sua gestione tramite il proprio Centro di Cartografia Floristica Tridentina). Nel sito della piattaforma RIBES, viene descritta nel dettaglio la banca, con relativo ufficio di documentazione geo-botanica per pianificare il lavoro in campo con carte tecniche, sistemi GPS e GIS; una camera di essiccazione ed il laboratorio dove avvengono i test per la germinazione. Nel primo triennio di attività la banca trentina ha lavorato su 74 specie distribuite su tutto il territorio provinciale e localizzate in 453 siti di raccolta e si è avvalsa di uno staff di 6 persone aiutati da volontari, stagisti e studenti. E' inotre membro di ENSCONET. [sito RBES – Rete Italiana Banche del germoplasma per la conservazione Ex-situ della flora Spontanea italiana -]. A livello provinciale vi è un altro prestigioso ente che collabora con la PAT, la Fondazione Edmund Mach che si compone di un istituto di istruzione secondaria (Istituto agrario di San Michele all'Adige, con annessa stazione sperimentale, fondato dalla Dieta del Tirolo il 12 gennaio 1874) e di un Centro di ecologia alpina (istituito con la legge provinciale n. 17 del 31 agosto 1992). La Fondazione stipula accordi, convenzioni e contratti con enti, istituti pubblici e privati; costituisce e partecipa a consorzi, società e collabora con altri soggetti pubblici e privati dotati di valenza giuridica; partecipa inoltre ai bandi per il finanziamento di progetti della PAT, dello Stato italiano e dell'Unione Europea. [sito Fondazione Edmund Mach].

29

1.4 ATTORI DEL RECUPERO E DELLA CONSERVAZIONE

1.4.1 ITALIA

In Italia sono molteplici i soggetti che interagiscono nella costruzione di una filiera delle risorse genetiche vegetali, dalla conservazione alla loro valorizzazione. Si possono individuare tre categorie: i. Le Istituzioni Scientifiche che in Italia sono principalmente strutture di ricerca del CREA (Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria) afferenti al MiPAAF: nel caso della realtà trentina si trova il CREA-MPF di Villazzano (TN) che si occupa di metodi di pianificazione della gestione attiva e sostenibile delle foreste e delle aree rurali montane (con attività prevalente per la valutazione dei prodotti e dei servizi socio-ambientali delle foreste e delle aree naturali e rurali connesse, con particolare riferimento alla valorizzazione dei territori montani) [sito CREA]; gli istituti del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche); le università e alcuni centri di ricerca regionali o provinciali (nel caso del Trentino, si possono ricordare, come citati nel capitolo precedente, il MUSE o la Fondazione Edmund Mach). ii. Le Regioni (e le province autonome), con il ruolo di proporre ed attuare una legislazione adeguata e finanziare i progetti di conservazione e ricerca: spesso i ruoli del settore governativo e delle istituzioni scientifiche sono in stretta collaborazione e dipendono l'uno dall'altro, poiché la ricerca scientifica necessita di finanziamenti pubblici. Si tratta quindi di un ruolo di supporto alle attività delle istituzioni scientifiche o del “settore non governativo”. Non solo sul piano economico, ma anche normativo. iii. Il Settore Non Governativo, che rappresenta il cosiddetto “Recupero dal basso”, che s’identifica nei soggetti che agiscono indipendentemente, direttamente sul territorio con attività di conservazione e promozione: agricoltori singoli, associazioni, fondazioni, organizzazioni di vario genere con il fondamentale ruolo di stimolare e/o realizzare, a partire dalle esigenze delle comunità locali e dalla

30 loro storia, determinati percorsi di conservazione e valorizzazione di specifiche varietà locali o di particolari territori. iv. Il MiPAAF dovrebbe poi coordinare “dall’alto” le azioni delle tre categorie attraverso l'Anagrafe nazionale, la Rete nazionale della biodiversità agraria e alimentare e il Comitato permanente per la biodiversità agraria e alimentare,istituiti con la legge 194 del 1 dicembre 2015.

1.4.2 PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO: RECUPERO “DAL BASSO”

Nel 2007 a Trento si è costituita la Pimpinella, un’associazione di promozione sociale per la tutela della biodiversità, con la quale la sottoscritta è entrata in contatto grazie alla ricerca effettuata per quanto riguarda parte dei risultati che saranno presentati nel presente elaborato. Essa cerca di tutelare la biodiversità agricola trentina recuperando e conservando il patrimonio orticolo, frutticolo ed i saperi delle valli trentine” [pagina facebook Pimpinella]. Una volta censite e raccolte queste varietà, l’associazione s’impegna a conservarle attuando una conservazione in situ, con l'appoggio dei Custodi, od ex situ, se il custode in questione è molto vecchio o addirittura deceduto. L'associazione non vende le sementi, ma chiede alle persone interessate, i Custodi, di mettere a disposizione parte del loro tempo e del loro campo per coltivare e propagare le varietà locali raccolte. In questo modo, il prodotto è ridistribuito per aumentarne la diffusione e parte è trattenuto dal custode che porta avanti la coltivazione. Normalmente l’associazione cerca di far coltivare varietà locali nelle stesse aree di ritrovamento. Tra il 2013 e il 2014 la Pimpinella ha allestito un campo catalogo per caratterizzare e studiare le varietà di fagioli raccolte. Il primo a Pergolese ( di , TN) ospitati da un'azienda vinicola biodinamica e il secondo a Villazzano (TN) all'interno dell'orto sociale dell'Associazione Richiedenti Terra. Nel 2015, per la prima volta, sulla scia di Coltivare Condividendo (Associazione veneta) con la quale ha stretti

31 rapporti, ha organizzato l'evento “Chiamata a Raccolto” una giornata ad Arco (TN) all'insegna dello scambio di sementi antiche. [pagina facebook Pimpinella].

Un’altra associazione informale presente sul territorio trentino e con la quale la Pimpinella ha stretti contatti, soprattutto per quanto riguarda la coltivazione di uno dei due campi catalogo è l’Associazione Richiedenti Terra, che ha organizzato un orto comunitario a Villazzano (TN) con l’obiettivo di favorire la socializzazione attraverso il recupero dell’ agricoltura contadina permettendo così lo sviluppo di attività teoriche (studio delle piante, progettazione dell’orto, …) e pratiche (preparazione del terreno, semina, coltivazione e difesa naturale, raccolto, utilizzo, …) con l’obiettivo primario di costruire una rete sociale, attraverso la quale risulti naturale riscoprire il territorio, la storia contadina, le sementi e le pratiche agroecologiche locali così come quelle di tutte le culture dei partecipanti al progetto [sito Associazione Richiedenti Terra]

Un altro ente locale che favorisce e sostiene progetti per il “recupero dal basso” nel territorio trentino è la Rete degli Ecomusei del Trentino; infatti tra gli obiettivi principali degli Ecomusei del Trentino troviamo: “[…] mettere in piedi progetti e iniziative di comune utilità di tipo integrato, multisettoriale e interdisciplinare, coinvolgendo gli altri enti e le altre istituzioni del territorio; sviluppare il senso di appartenenza al territorio: elaborare e realizzare pratiche innovative di partecipazione delle comunità locali, […]; promuovere il patrimonio culturale e ambientale locale, […]; migliorare la comunicazione, la visibilità e il senso di fiducia, incrementare lo scambio e il confronto a livello interno ed esterno nei confronti degli altri enti locali; svolgere attività di ricerca in collaborazione con enti e istituzioni scientifiche[…].” [sito Ecomusei del Trentino].

A fine giugno 2018 viene presentata nel Comune di Trento l’Associazione culturale Biodistretto di Trento (confidiamo in un appoggio degli amministratori, anche se per il momento non sono state create normative in merito a riconoscimenti ufficiali o stanziamento di fondi), formata da 13 soci fondatori (le Cantine sociale di Trento, , , Ferrari, la Società Frutticoltori Trento, Maso Martis, Maso Cantanghel, Coop sociali Progetto 92, Villa Rizzi, Samuele, Azienda agricola Chiara March, Azienda Agricola Giuliano Micheletti e Slow Food) con l’obiettivo di trasmettere una “cultura della

32 coltura” e per ribadire il ruolo degli agricoltori come custodi della risorsa che è la terra e l’ambiente, rappresentando così una mediazione tra città e campagna, per salvaguardare i terreni coltivati e per introdurre anche elementi innovativi di valorizzazione dei prodotti; per questo sono state coinvolte sia aziende agricole, che cantine ed eco – ristoratori [sito “BIOdistretto Alpino].

33 2.0 OBIETTIVI DEL TIROCINIO

Il presente elaborato ha l’obiettivo di esporre il lavoro effettuato durante il tirocinio formativo (svolto al termine del percorso di studi in Valorizzazione e Tutela dell’Ambiente e del Territorio Montano della facoltà di Scienze Agrarie e Alimentari dell’Università di Milano) creando un inventario di cultivar locali tradizionali (che non fossero già tutelate in altro modo), orticole e cerealicole alcune delle quali censite in prima persona presso agricoltori singoli altre fornite dall’Associazione Pimpinella, tramite la quale, quando è stato possibile, si sono presi i contatti con gli agricoltori custodi originari. Il fine di tale ricerca è che queste varietà censite vengano poi inserite nel database dell’Agrobiodiversità vegetale (accessibile tramite il Portale UNIMONT, nell’area “servizi”), adempiendo quindi all’ obiettivo del servizio che l’Università della Montagna vuole fornire nel raccoglie le informazioni sulle aziende agricole e/o gli agricoltori che coltivano varietà vegetali nei territori montani, per far emergere il grande valore agro- biologico delle montagne (iniziativa promossa da UNIMONT - Università degli Studi di Milano in collaborazione con il DARA -Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie della Presidenza del Consiglio dei Ministri - ).

34 3.0 MATERIALI E METODI UTILIZZATI

3.1 AREA DI STUDIO

Figura 1. Cartina che mostra la posizione del territorio della Provincia Autonoma di Trento nell'arco alpino. La provincia di Trento (fig. 1) ha una superficie di circa 6.200 km2, pari a poco più del 2% del territorio italiano; di questa, solo il 20% si trova al di sotto dei 600 metri il 20% circa si trova tra i 600 ed i 1.000 metri, mentre il restante 60% circa del territorio si trova sopra i 1.000 metri; di conseguenza si tratta di un territorio prevalentemente montuoso (fig. 2).

Figura 2. Cartina che mostra la distribuzione del suolo trentino tra pianeggiante (quasi nullo), collinare e montuoso ( quest'ultimo prevalente).

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Le aree agricole coltivate, interessano circa il 9% della superficie provinciale, mentre oltre il 16% del territorio risulta costituito da rocce, ghiacciai e nevai. [sito autonomia.provincia.tn.it].

Qui viene esposta la tabella 1 che indica le principali coltivazioni praticate nella Provincia Autonoma di Trento:

- Tabella1 . Aziende e relativa superficie investita per le principali coltivazioni praticate (2010) (superficie in ettari) Coltivazioni Aziende Superficie investita Seminativi 1.773 3.102,26 - Cereali per la produzione di granella 334 535,01 - Patata 896 386,48 - Ortive 528 316,65 - Foraggere avvicendate 410 1.709,28 Coltivazioni legnose agrarie 13.565 22.780,87 - Vite 7.965 10.388,54 - Olivo 840 382,84 - Fruttiferi 7.192 11.773,32 - Vivai 170 203,20 Orti familiari 4.776 198,70 Prati permanenti e pascoli 5.424 111.137,34 Superficie agricola utilizzata 16.375 137.219,17 Arboricoltura da legno annessa ad aziende agricole 25 44,30 Boschi annessi ad aziende agricole 7.406 251.297,86 Superficie agraria non utilizzata 1.670 6.330,49 Altra superficie 6.602 13.971,81 Superficie totale 16.380 408.863,63 Aziende senza superficie 66 - Totale 16.446 408.863,63 Fonte: Istat - Censimento dell'agricoltura 2010

[sito Provincia Autonoma di Trento].

L’ambiente naturale è fortemente caratterizzante il Trentino: circa il 17% del territorio, (corrispondente a 1.030 km2), è soggetto a tutela ambientale. Le riserve naturali sono 4: Riserva Naturale Integrale delle Tre Cime del Monte , Riserva Naturale Guidata di Cornapiana, Riserva Naturale Guidata di Campobrun, Riserva Naturale Guidata della Scanuppia), un’uteriore tipologia di area protetta è quella definita dai parchi: due parchi naturali provinciali e una porzione di parco nazionale (Parco Naturale Adamello - Brenta, Parco Naturale Paneveggio - Pale di S. Martino, Parco Nazionale dello Stelvio). [sito autonomia.provincia.tn.it].

36 La Provincia Autonoma di Trento confina a nord con la provincia autonoma di Bolzano, a est e a sud con le province venete di Belluno, Vicenza e Verona, e a ovest con le province lombarde di Brescia e Sondrio. Il suo territorio, e quindi la sua comunità, si divide in diverse valli, (fig. 3):

Figura 3. Territorio trentino diviso in comunità di valle

[sito Provincia Autonoma di Trento]. Di queste valli, quelle che hanno maggiormente interessato questo progetto sono state: la Valle del Primiero, la Valsugana e Alta Valsugana, la Valle dei Laghi, le Valli Giudicarie in particolare la Val Banale (valle laterale delle Giudicarie molto esposta a sud) e l’altopiano della Paganella, la Vallagarina, la Val di Fiemme, la Val di Sole ed in particolare la Val di Peio (valle laterale della Val di Sole).

37 3.2 RICERCA E CENSIMENTO DELLE VARIETÀ LOCALI

La ricerca svolta dalla sottoscritta ha avuto inizio cercando in rete informazioni sul sito della Provincia Autonoma di Trento in merito alle normative relative all’agrobiodiversità ed alle informazioni geografiche sul territorio trentino; dopodiché sono stati visitati i siti del MUSE e della Fondazione Edmund Mach per ricercare progetti in merito alla tutela dell’agrobiodiversità vegetale trentina, con eventuali riferimenti a specifiche varietà ed agricoltori custodi, trovando però risultati in merito a varietà già tutelate in quanto Presidi Slow Food (Broccolo di Torbole, Asparago di , Mais di , Mais Spin). Di conseguenza la decisione è stata quella di concentrare l’attenzione in rete su enti non istituzionali, che avessero avviato progetti informali di salvaguardia in merito a varietà orticole e cerealicole della zona. È stato visitato il sito della Rete Mondi Locali del Trentino [sito Ecomusei del Trentino] (ossia una rete informale tra i sette Ecomusei del Trentino); Il primo Ecomuseo con cui si sono presi i contatti è stato l’Ecomuseo della Val di Peio - piccolo mondo alpino; tramite un colloquio con l’attuale presidente sono state raccolte tre varietà da lui recuperate e coltivate in situ; sono stati poi ricercati altri due agricoltori custodi: uno residente in Val di Sole e l’altro nella zona della Paganella, raccogliendo altre due varietà locali; successivamente tramite conoscenze personali sono stati presi i contatti con altri agricoltori residenti nelle Valli Giudicarie e nella zona della Valsugana nei quali luoghi sono state censite parte delle varietà riportate nei risultati; in particolare fino a questo momento erano state censite dalla sottoscritta dodici varietà (nello specifico quattro graminacee, sette leguminose ed una crocifera); in Valsugana è stata poi contattata l’Associazione Pimpinella tramite la quale si è venuti a conoscenza di altri agricoltori custodi dei quali l’associazione in precedenza aveva recuperato le sementi; alla fine è stato quindi attuato un lavoro di “scambio”, in cui la sottoscritta ha messo in contatto la Pimpinella con alcuni agricoltori custodi dei quali l’associazione non aveva i contatti (e delle quali varietà non era quindi a conoscenza), e viceversa la Pimpinella ha fornito alla sottoscritta un file excel contenente un elenco di varietà, con i relativi custodi (e in qualche caso brevi descrizioni), già censite dall’associazione stessa ma non presentate a nessun ente ufficiale (a parte nel caso una cultivar, non presente nel seguente inventario, per la quale era stata inoltrata alla provincia la domanda d’iscrizione al Registro provinciale del patrimonio genetico, poi rifiutata in quanto non erano presenti informazioni sufficienti riguardo le caratteristiche botaniche della varietà); tra questo elenco sono state scelte dalla sottoscritta venti varietà descritte più dettagliatamente e con dati più certi rispetto alle altre presenti nel file excel; dei diciotto custodi originali di queste venti varietà, grazie alla Pimpinella, con otto di loro si è riusciti

38 ad entrare in contatto direttamente e ad intervistarli, raccogliendo così anche qualche informazione in più di quante ne avesse prima la stessa associazione. Il censimento ha raccolto informazioni riguardanti nome e cognome dell’agricoltore custode, la sua data di nascita, la sua residenza; il nome volgare della varietà, alcune caratteristiche botaniche della stessa, e qualora presenti anche altre informazioni e curiosità raccogliendo questi dati in apposite schede utilizzate per compilare il questionario online gestito da Ge.S.Di.Mont. di Edolo (BS) (presente sul sito UNIMONT alla pagina dell’agrobiodiversità vegetale). Dopodiché nella stesura dei risultati nell’elaborato è stata esposta (attraverso l’utilizzo di Google Maps), per ognuna delle cultivar presenti, una mappa contenente la posizione geografica del luogo in cui esse vengono e/o venivano coltivate dagli agricoltori custodi. Successivamente sono stati analizzati i dati raccolti tramite grafici soprattutto in ambito botanico, confrontandoli (sempre tramite l’utilizzo di grafici) con i dati a disposizione sul portale UNIMONT dell’Agrobiodiversità vegetale lombarda.

39 4.0 RISULTATI

Il censimento eseguito ha dato come risultato l’individuazione di 32 varietà locali, delle quali verranno quindi riportate le principali caratteristiche ed i luoghi d’origine, nonché l’agricoltore custode delle sementi. Di seguito verranno inserite delle mappe in cui vi è indicata la localizzazione geografica del luogo d’origine delle varietà presentate.

Figura 1.0 Giuseppe Peterlini mentre taglia la Rapa di Terragnolo; fotografia di Lorenza Rozza.

40 4.1 INSALATA TERESA

Figura 1.1 Cespo di Insalata Teresa; fotografia di Lorenza Rozza.

L’insalata (Lactuca sativa) in questo caso prende il nome dalla signora Teresa Boschele, 88 anni, residente a Roncegno in Valsugana (fig. 1.2); il luogo in cui viene coltivata questa cultivar è precisamente l’orto della signora in località Rozzati di Roncegno, circa 700 m s.l.m.. L’insalata viene seminata in autunno (settembre/ottobre), o in primavera (marzo/aprile); non è adatta alla alla semina estiva poiché andrebbe troppo rapidamente in fiore. Produce dei cespi grandi e teneri (fig. 1.1); la crescita è molto lenta: seminata in autunno, va in seme a fine agosto. Se seminata in autunno si raccoglie già in marzo. Semine scalari consentono di raccogliere in continuo fino a giugno. Particolarmente adatta alla coltivazione nei suoli montani, ma anche collinari a quote più basse; non in terreni pianeggianti a causa probabilmente del troppo ristagno idrico.

Figura 1.2 Mappa mostrante la località in cui è stata rinvenuta la varietà Insalata Teresa.

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4.2INSALATA DI MASO ROZZA

Figura 2.1 Cespo di Insalata di Maso Rozza; fotografia di Lorenza Rozza

L’insalata (Lactuca sativa) prende il nome dal luogo di cui è originaria: Maso Rozza, sopra la frazione Marter (fig. 2.2) situato ad una quota di 1000 m s.l.m., facente parte del comune di Roncegno (Valsugana). L’agricoltrice custode in questo caso è una signora di nome Anna Zottele, residente nel comune di Roncegno. La semina viene effettuata in autunno (settembre/ottobre) e primavera (marzo/aprile). Cresce lentamente e produce un cespo leggermente variegato (fig. 2.1); la foglia è molto tenera. L’epoca di raccolta va da marzo fino all’inizio dell’estate; Semine scalari consentono di raccogliere in continuo fino a giugno. Varietà particolarmente adatta ai terreni di montagna; poiché la signora sostiene di averla piantata anche a quote più basse, ma di non aver ottenuto gli stessi risultati.

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Figura 2.2 Mappa rappresentante la località in cui è stata rinvenuta l’ Insalata di Maso Rozza.

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4.3 CICORIA DI GRIGNO

Figura 3.1 Cicoria di Grigno in campo; fotografia Luigi Calzà.

Il custode di questa varietà di cicoria (Cichorium intybus), (fig. 3.1), si chiama Carlo Caregnato (80 anni) residente in località Serafini di Grigno (circa 350 m s.l.m.) in Valsugana (fig. 3.2). Il seme sembra che venisse coltivato dalla madre del custode; si semina in autunno a spaglio; germina in autunno e riprende la vegetazione in primavera; si consuma precocemente in primavera tagliando la rosetta oppure più tardi, solo le foglie più tenere; cresce bene a qualsiasi altitudine , ma con una buona esposizione; necessita di un terreno fertile e ben drenato.; assomiglia ad una cicoria selvatica.

Figura 3.2 Mappa rappresentante la località in cui è stata rinvenuta la Cicoria di Grigno.

44 4.4 CARTAMO DI TERRAGNOLO O ZAFFERANONE

Figura 4.1. Infiorescenza di Cartamo di Terragnolo; fotografia di Lorenza Rozza.

Questa varietà di Cartamo (Carthamus tinctorius) è stata consegnata alla signora Lorenza Rozza della Pimpinella dal signor Giuseppe Peterlini, che la coltiva a Zoreri di Terragnolo, circa 800 m s.l.m. (fig. 4.2). La semina avviene in primavera trapiantando piantine coltivate in semenzaio o in piena terra; a fine estate si raccolgono le infiorescenze (fig.4.1) e si seccano i semi; si può coltivare a qualsiasi altitudine, purché con una buona esposizione. Cresce bene in un terreno fertile e drenato. Viene usato come sostituto dello zafferano in cucina o come pianta tintoria.

Figura 4.2 Mappa mostrante la località in cui è stato rilevato il Cartamo di Terragnolo.

45 4.5 ATRIPLICE

Figura 5.1. Atriplice nell'orto della signora Teresa Boschele; fotografia di Lorenza Rozza.

Questa cultivar (Atriplex spp.) è chiamata “spinacio selvatico” (fig.5.1); essa viene mantenuta dalla signora Teresa Boschele, 88 anni, residente a Roncegno in Valsugana (fig. 5.2); il luogo in cui viene coltivata questa cultivar è precisamente l’orto della signora in località Rozzati di Roncegno, circa 700 m s.l.m.; la semina di tale varietà avviene in primavera, ma ne necessita una sola volta poi ricresce spontaneamente ogni anno; il portamento è eretto, e cresce circa fino ad 1m/1,15m; non necessita di tutore; è una cultivar molto precoce e va rapidamente in seme; si raccolgono le foglie tenere ed i germogli; cresce bene in terreni poveri quindi è molto rustica: resistente sia al caldo che al freddo; Era presente negli orti dei nonni e le foglie vengono consumate come gli spinaci, cotte e condite oppure per la preparazione di gnocchi, frittate ecc..

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Figura 5.2. Mappa rappresentante la località in cui è stato rilevato l'Atriplice.

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4.6 ZIGOLE DAL GROP

Figura 6.1. Zigole dal grop nell'orto di casa Piffer; fotografia di Lorenza Rozza.

Custode di questa varietà di cipolla (Allium cepa) (fig. 6.1) si chiama Valerio Piffer (circa 80 anni) residente a , 800 m s.l.m (fig. 6.2); sono coltivate nell’orto di famiglia da almeno 70 anni, poiché al custode sono state fornite dalla madre. La semina avviene in primavera, precocemente; Si piantano i bulbi affondandoli appena nella terra: “devono sentire le campane!”. Vengono raccolte in estate.

Figura 6.2. Mappa rappresentante la località cui sono state rinvenute le Zigole dal Grop.

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4.7 POMODORO PERETTA VALDIRIVA

Figura 7.1. Frutto di Pomodoro Peretta Valdiriva; fotografia di Lorenza Rozza.

Questa cultivar di pomodoro (Solanum lycopersicum) veniva coltivata in via Valdiriva (Rovereto, circa 350 m s.l.m., (fig. 7.3) dalla signora Anna Ducati ad oggi 96 anni; la signora ricorda che la semente le fu tramandata dalla madre; adesso viene coltivato ex situ dai custodi dell’associazione Pimpinella, ed in particolare dalla signora Lorenza Rozza, residente comunque molto vicino al luogo dove veniva coltivato il pomodoro (comune di vicino a Rovereto). La semina viene effettuata in semenzaio a fine febbraio; il trapianto in piena terra da metà maggio; necessita di tutore(fig. 7.2); l’epoca di raccolta va da agosto e tarda estate; necessita di un terreno fertile e ben drenato e di irrigazione di soccorso.

Figura 7.2. Pianta di Pomodoro Peretta Valdiriva in orto. Fotografia di Lorenza Rozza.

49 Adatta al fondo valle o collina ma anche al terreno montuoso poiché resistente al freddo.

La produzione è abbondante; il frutto (fig.7.1) pesa mediamente 300/400 gr; la polpa è compatta e molto colorata. È ottima come varietà da conserva e salsa di pomodoro (la signora Anna le produceva sempre con questa varietà, per questo motivo ha continuato a coltivarla nel suo orto di casa).

Figura 7.3. Mappa rappresentante il luogo in cui è stato ritrovato il Pomodoro Peretta Valdiriva.

50 4.8 POMODORO ROSINA

Figura 8.1. Frutto di Pomodoro Rosina; fotografia di Lorenza Rozza. Cultivar locale di pomodoro (Solanum lycopersicum) coltivata da molti decenni dalla signora Rosina (da cui prende il nome la varietà) di 93 anni nonna di Sabrina Sommadossi, titolare dell’azienda agricola “Malfer”, a circa 600 m s.l.m., a (fig. 8.3) in Valle dei Laghi, la quale ad oggi continua a coltivarla. L’anziana sostiene di aver tenuto la semente fin da quando era giovane. La semina si effettua in semenzaio a fine febbraio; il trapianto in piena terra avviene a metà maggio; necessita di tutore (fig. 8.2); l’epoca di raccolta va da agosto e tarda estate; Figura 8.2. Pomodoro Rosina in orto; fotoografia di Lorenza Rozza. il terreno per un ottima crescita della pianta deve essere fertile e drenato ed ha bisogno d’ irrigazione di soccorso. Il prodotto risultante è un Pomodoro tipo cuore di bue (fig. 8.1), ottimo per insalata, molto produttivo. Il peso medio dei frutti 200/500 gr.

51 Figura 8.3. Mappa mostrante la località in cui è stato rilevato il Pomodoro Rosina.

4.9 RAPA DI TERRAGNOLO

Figura 9.1. Rapa di Terragnolo; fotografia di Lorenza Rozza.

Questa cultivar di rapa (Brassica rapa) è coltivata “da sempre” nella Valle di Terragnolo, precisamente a Zoreri (fig. 9.3) frazione del comune di Terragnolo, facente parte della comunità della Vallagarina (altitudine circa 800 m s.l.m.) dal signor Giuseppe Peterlini.

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La semina viene effettuata da tradizione il giorno 26 luglio (S. Anna); la modalità di semina è a file; la raccolta avviene in autunno; per crescere al meglio necessita di un terreno leggero e fertile poiché in questo modo la radice si espande bene sia in larghezza che in profondità; sopporta molto bene le basse temperature. E’ una specie biennale, per cui per mantenere il seme occorre alla fine del primo anno, in autunno, togliere dal terreno alcune piante, ripulirle dalle foglie secche e conservarle in cantina, Figura 9.2 Parte epigea della Rapa di Terragnolo nell'orto di Giuseppe Peterlini; fotografia di Lorenza interrate nella sabbia. In primavera si Rozza. ripiantano in pieno campo e nel corso dell’estate si raccolgono i bacelli contenenti i semi. Si necessita sostenere gli steli che portano l’infiorescenza gialla, per evitare che si pieghino (fig. 9.2). La rapa è molto profumata e la radice è grossa e carnosa con la buccia bianca e viola (fig. 9.1); veniva usata anche insieme al cavolo , nella preparazione dei crauti.

Figura 9.3. Mappa rappresentante la località di rilevamento della Rapa di Terragnolo.

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4.10 RAPA DI BONDO (RAVA DE BONT)

Figura 10.1. Radice e semi della Rapa di Bondo; fotografia di Gilio Ghezzi e Federica Ferrari. Il custode di questa varietà di rapa (Brassica rapa) si chiama Gilio Ghezzi (1956), vive a Bondo, circa 900 m s.l.m. (fig.10.2). In generale i semi li custodisce e li coltiva Gilio Ghezzi nel proprio orto fuori casa, ma è presente anche un’associazione fondata dallo stesso G.G., chiamata “Associazione culturale Rapy” (associazione culturale apartitica), dotata di un proprio disciplinare di produzione, che descrive il fenotipo di questa cultivar e ne regola la produzione. La rapa (fig. 10.1) è di forma tronco-conica, con la punta rivolta verso il basso, sormontata da un cilindro dotato; la pianta è dotata di foglie verde pisello che sovrastano la radice; la colorazione della sommità del cilindro è biancastra, per poi sfumare mano a mano che si avvicina alla parte più interrata. Essendo una radice la colorazione più o meno accentuata è direttamente proporzionale all’esposizione ai raggi solari. Verso fine giugno i bacelli delle infiorescenze delle rape scelte per la riproduzione seminale, si aprono facendo cadere a terra i semi, che sono molto piccoli e di colore marroncino-rossiccio (fig. 10.1). La semina (a spaglio) viene fatta a cavallo tra le festività di san Gioacchio e sant’Anna (26 luglio); si usa mescolare la semente con cenere di legna. La raccolta viene effettuata dopo le prime brinate (fine ottobre/inizio novembre) in quanto esse hanno un effetto benefico sulla qualità del prodotto: la polpa, nella parte rimasta fuori terra diventa più consistente, addolcendosi di sapore pur mantenendo comunque sapore asprigno. La radice va raccolta completa di foglie; va conservata in locali bui e freschi, possibilmente con temperatura e umidità costanti. Di solito le migliori rape sono quelle di media pezzatura. Si sposa bene con le carni grasse. “Rapy” è il nome del marchio del quale il proprietario è il comune di Bondo.

54 Questa rapa è coltivata “a memoria d’uomo”; nei secoli scorsi fu quindi coltivata in quanto integratore vitaminico dell’alimentazione, soprattutto perché ancora fresco nella stagione autunno-vernina. Fino agli anni Ottanta del secolo scorso quasi tutte le famiglie di Bondo coltivavano questa rapa essendosi tramandati i semi degli antenati sia per autoconsumo che per vendita o baratto, poi il suo interesse è andato scemando, in quanto considerata alimento povero di nutrienti. Il ritorno agli antichi sapori e la riscoperta delle tradizioni ne hanno invece rivalutato i meriti.

Figura 10.2 Mappa rappresentante il luogo di rilevamento della Rapa di Bondo.

55 4.11 CAFFÈ BALOS

Figura 11.1. Semi di Caffè Balos; fotografia di Lisa Angelini.

Il Caffè Balos, come lo chiamano gli agricoltori locali, è una varietà di lupino (Lupinus spp.); è stato rinvenuto presso l’orto di Marco Vettore, 70 anni, a Piscine (Comune di , Val di Fiemme, 970 m s.l.m.; fig. 11.2). Attualmente una varietà molto simile viene coltivata anche a Capriana, ed Anterivo (in queste due ultime località si sta sperimentando la commercializzazione del prodotto con le rispettive denominazioni di “Caffè di Anterivo”, precedentemente schedata presso l’Istituto Agrario di Laimburg). La specie veniva coltivata in tutta la Val di Fiemme, la varietà è andata scomparendo negli anni ’50 a causa dell’utilizzo del caffé propriamente detto.

Si semina in primavera, ad aprile; la varietà si caratterizza per la fitta peluria di foglie e frutti, la forma tozza dei legumi, l’ampia superficie fogliare ed il colore azzurro macchiato dei fiori; fiorisce intorno ad agosto, mentre il prodotto matura scalarmente a partire dalla prima metà di settembre ; i legumi si raccolgono appena iniziano a seccare (per evitare la dispersione dei semi dovuta alla loro apertura spontanea) e se ne completa la maturazione lasciandoli in ceste al sole. Si consumano i semi, di colore bruno screziato, coperti da fitta peluria, delle dimensioni di 1cm (fig.11.1). Non richiede tecniche colturali particolari: nemmeno irrigazioni; è soggetta ad attacchi da parte di afidi che ne provocano il disseccamento.

Sembra che la varietà vegeti meglio ad Anterivo (1209 m slm). Non se ne conoscono le motivazioni.

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Per quanto riguarda la conservazione, i semi vengono tostati e macinati, quindi se ne conserva la polvere (che profuma di nocciola) che viene usata come surrogato del caffé, in miscela con orzo, di solito.

Figura 11.2. Mappa rappresentante la località di rilevamento del Caffè Balos.

57 4.12 SOIA DI CIVEZZANO

Figura 12.1. Semi e baccelli di Soia di Civezzano; fotografia di Luigi Calzà.

La custode delle sementi di soia (Glycine max), si chiama Letizia Sandri, residente a Civezzano (Valsugana), TN (fig. 12.2). La varietà viene coltivata a circa 650 m s.l.m.. Si semina a tarda primavera: fine aprile/maggio; il portamento della pianta è eretto; come altezza arriva a 60/70 cm; il seme è sferico, di colore giallo (fig. 12.1). Ciascun legume ne contiene 4/5 ed ogni pianta porta circa una decina di bacelli. Si raccoglie quando gli steli ed i bacelli sono di colore marrone; poi si lasciano essiccare e si battono per separarli. L’epoca di raccolta coincide con la fine dell’estate estate; il terreno adatto è quello collinare/montuoso; questa varietà è stata tramandata poiché essa migliora la fertilità del terreno. Si possono consumare i bacelli quando sono ancora verdi ed acerbi oppure il seme essiccato dopo un sufficiente ammollo in acqua.

Figura 12.2. Mappa rappresentante la località di rilevamento della Soia di Civezzano.

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4.13 FASOI CANARINI (SOIA)

Figura 13.1. Semi e macinatura dei semi dei Fagioli Canarini; fotografia di Federica Ferrari.

Questa varietà di soia (Glycine max) viene coltivata nell’orto della signora Marcella Donati (88 anni), a San Lorenzo in Banale, circa 950 m s.l.m. nelle Valli Giudicarie, (fig.13.3). Le sono stati tramandati dalla nonna, la quale a sua volta li ereditò dalla propria famiglia; lei ha continuato a coltivarli per autosussistenza. La varietà si semina verso i primi di maggio; il portamento della pianta è eretto; non è rampicante; il seme è ovale, di colore giallo ed occhiato (fig. 13.1). Ciascun legume ne contiene 4/5 ed ogni pianta porta circa una decina di bacelli. Si raccoglie quando gli steli ed i bacelli sono di colore marrone; poi si lasciano essiccare e si battono per separarli . L’epoca di raccolta coincide con la fine dell’estate estate; il terreno adatto è quello collinare/montuoso; questa varietà è stata tramandata poiché essa migliora la fertilità Figura 13.2. Strumento col quale vengono tostati sul fuoco e poi del terreno. macinati i semi dei Fagioli Canarini; fotografia di Federica Ferrari.

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Figura 13.3. Mappa rappresentante la località di rilevamento dei Fagioli Canarini.

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4.14 FAGIOLO DEL FERNANDO

Figura 14.1 Semi e bacelli del Fagiolo del Fernando; fotografia di Luigi Calzà.

L’agricoltore custode di questo fagiolo (Phaseolus vulgaris) è Fernando Benedetti (più di 80 anni) residente in località Marter di Roncegno in Valsugana (fig. 14.2) a circa 600 m s.l.m.. Viene piantato ad aprile/maggio; l’epoca di raccolta è a fine estate/inizio autunno (ottobre). Si tratta di una pianta rampicante che necessita di tutori alti 2.5/3 mt. Ha bisogno di terreno fertile e drenato. Cresce bene a qualsiasi altitudine purchè ben esposto al sole. Produce un piccolo fagiolo bianco, con la buccia molto tenera. La produzione è abbondante; la varietà è molto resistente alle malattie e poco soggetta al tonchio (parassita). Richiede irrigazioni di soccorso. Il seme si raccoglie quando i bacelli sono secchi (fig. 14.1) e si cuoce in poco tempo dopo un ammollo di alcune ore. Sono ottimi in insalata e per preparare la torta dolce di fagioli dolce tipico valsuganotto.

Figura 14.2 Mappa rappresentante il luogo dove è stato rinvenuto il Fagiolo del Fernando.

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4.15 FAGIOLI DI DON LUCILLO

Figura 15.1. Foglie, bacelli e semi dei Fagioli di Don Lucillo; fotografie di Giuseppe Barbareschi.

Il Fagiolo di Don Lucillo (Phaseolus vulgaris) viene coltivato a Molina di (fig. 15.2), Val di Ledro, 800 m s.l.m.. Coltivato da Anna Pedretti (al censimento 102 anni), legato alla figura di Don Lucillo (Pieve di Ledro 1859 - Arco 1929), il parroco di Molina che diede l'avvio alla società ledrense, che avrebbe introdotto la varietà ad inizio novecento. Censito dalla Pimpinella e da un paio d’anni in affido per la conservazione in situ al signor Giorgio Perini.

Varietà rampicante, di media vigoria, con foglie di medie dimensioni color verde acceso; i fiori sono di color bianco-violetto, raccolti in corti grappoli di 3 cm. I baccelli da freschi verdognoli, alcuni leggermente screziati di rosso, poco arcuati ; a maturazione giallognoli con screziatura rossa di variabile intensità. La semina avviene dopo il 20 di maggio, disponendo i semi a "zampa di gallina" ovvero in 3 poste da 3-4 semi ciascuna poste ai vertici di un triangolo nel centro del quale si pianta il palo. Di norma si dispongono i fagioli tutt'attorno al campo di patate, quasi a delimitarlo come una siepe (in consociazione). La raccolta avviene quando i fagioli sono ben secchi, o ancora freschi per consumo immediato. Il seme presenta un colore di fondo beige marmorizzato con screziature marron-violaceo, con 2-3 linee a semicerchio; reniformi di medie dimensioni (fig. 15.1).

Per la conservazione durante l'inverno è tradizione ledrense riporre le sementi, una volta ben secche, in sacchetti di tela con qualche foglia di alloro per tenere lontani gli

62 insetti e al fresco. Si tratta di un fagiolo da sgranare, meglio quando il baccello è maturo ma non ancora completamente seccato. Ottimo da fare lesso o in umido.

Si tratta di un fagiolo adatto alla mezza montagna; non adatto al fondovalle; resistente alle avversità, cresce bene anche senza innaffiatura né concimazioni.

Figura 15.2. Mappa rappresentante il luogo di rilevamento dei Fagioli di Don Lucillo

63 4.16 FAVA BIANCA DI PINÈ

Figura 16.1. Fiori, foglie, bacelli e semi della Fava Bianca di Pinè; fotografie di Giuseppe Barbareschi.

La Fava Bianca di Piné (Phaseolus coccineus) è originaria dell’altopiano di Piné (fig. 17.2) a circa 1000 m s.l.m.. Coltivata da 50 anni dalla signora che li ha affidati alla Pimpinella nel 2014, a sua volta ricevuta da una signora che la coltivava “da una vita”. Altre 4 persone anziane con età compresa tra gli 81 ed i 102 anni ne confermano la presenza sull'Altipiano di Piné da almeno un secolo, affermando che essa era molto diffusa e quasi ogni famiglia la coltivava. Ad oggi viene custodita da Giuseppe Barbareschi (27 anni), uno dei ragazzi dell’Associazione La Pimpinella. Si tratta di una varietà rampicante, di elevata vigoria, con foglie molto ampie. I fiori sono bianchi, a grappoli lunghi 15-20 cm. I baccelli sono larghi, piatti, con striature trasversali, di colore verde da freschi, marrone giallo da maturi. Il seme è bianco, lucido e grosso (fig. 16.1); i pali devono essere alti 2,5-3 m per sostenere l'elevato sviluppo della pianta. Le piante non devono essere troppo fitte altrimenti i baccelli stentano a maturare. Nelle zone ben esposte si semina a metà maggio. La pianta è molto rustica e produttivac resce bene in montagna in climi freschi ed umidi. A Piné predilige le zone protette e ben esposte; si tratta di un fagiolo a sgranare. Può essere raccolto a maturazione cerosa o, una volta secco, ammollato 12 ore prima dell'uso. Quando i baccelli sono ben secchi si raccolgono e si mantengono in un posto fresco ed asciutto (tipo soffitta). Vengono in genere consumati bolliti e poi conditi con olio, sale ed aceto, oppure in insalata.

64 4.17 FAVA VIOLA DI PINÈ

Figura 17.1. Fiori, Foglie, bacelli e semi della Fava Viola di Pinè; fotografie di Giuseppe Barbareschi.

La Fava viola di Pinè (Phaseolus coccineus) sono una varietà rampicante, di elevata vigoria, con foglie molto ampie, con fiori sono rossi abbondanti, a grappoli lunghi 15-20 cm. I baccelli larghi, piatti, con striature trasversali, di colore verde, leggermente screziati di viola da freschi, giallognolo con leggere screziature viola da maturi. Il seme ha un colore di fondo tra il rosa opaco ed il viola screziato di nero, lucido e grosso (fig. 17.1). La pianta è molto rustica e produttiva. Nelle zone ben esposte si semina la prima settimana di maggio, ; i pali devono essere alti 2,5- 3 m per sostenere l'elevato sviluppo della pianta; in genere ogni palo sostiene 3-4 piante Le piante non devono essere troppo fitte altrimenti i baccelli stentano a maturare. Quando i baccelli sono ben secchi si raccolgono e si mantengono in un posto fresco ed asciutto. Si tratta di un fagiolo a sgranare. Cresce bene in montagna in climi freschi ed umidi. A Piné predilige le zone protette e ben esposte. Coltivata da più di un secolo sull'altipiano di Piné dalla Famiglia di Francesco Tomasi. Altre 4 persone anziane con età compresa tra gli 81 ed i 102 anni ne confermano la presenza sull'Altipiano di Piné da almeno un secolo, affermando che era molto diffusa e quasi ogni famiglia la coltivava. Vengono in genere consumati bolliti e poi conditi con olio, sale ed aceto, oppure in insalata. Censiti dalla Pimpinella nel 2015 grazie alla ricerca attuata da Giuseppe Barbareschi, che dal 2016 ne custodisce i semi ex situ.

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Figura 17.2. Mappa rappresentante il luogo di rilevamento della Fava Biana e della Fava Vila di Pinè.

66 4.18 FAGIOLO DI CAPRIANA

Figura 18.1 Foglie, fiori, bacelli e semi del Fagiolo di Capriana. Fotografie di Giuseppe Barbareschi.

Fagiolo (Phaseolus vulgaris) tondo marrone occhiato rinvenuto a Capriana in Val di Fiemme (fig. 19.2), 1000 m s.l.m, coltivato dal signor Mario Zacchino.

Si tratta di una varietà rampicate, di media vigoria, foglie medio-grandi tondeggianti; i fiori sono violetto a grappoli di lunghezza variabile tra 2 e 10 cm; i baccelli verdi da freschi, giallognoli a maturazione sono larghi e piatti; i semi (di media dimensione) sono color marrone uniforme lucido, occhiato di nero (fig. 18.1). La semina viene organizzata a fila continua; necessita di tutore.

Fagiolo adatto al clima ed all’ambiente montano, mentre non è adatto al fondovalle. Coltivato “da sempre” a Capriana è un fagiolo da sgranare e da cucinare come un qualsiasi altro fagiolo tipo Borlotto.

67 4.19 FASOI GIALDI

Figura 19.1 Bacelli e semi di Fasoi Gialdi; fotografie di Lisa Angelini.

I “Fasòi gialdi” (Phaseolus vulgaris) sono una cultivar locale che viene custodita dalla signora Alma Demattio, che la coltiva nel proprio orto a Capriana a circa 1000 m s.l.m. in Val di Fiemme (fig.12.2). Una varietà simile è stata poi rinvenuta e schedata dall’istituto Agrario di Laimburg di Bolzano ed inserita nei cataloghi col nome di Fagiolo di Capriana. Si tratta di una varietà rampicante che fiorisce in luglio-agosto, mentre l’ epoca di maturazione coincide di solito con la prima metà di settembre. La semina si effettua a maggio; necessita di impalatura di sostegno. La raccolta viene eseguita a settembre dei legumi già secchi o dei quali si necessita di completare la maturazione tramite essiccazione in soffitta. ll prodotto è un fagiolo color ocra intenso, tondo, liscio, delle dimensioni di circa 1 cm (fig. 19.1). Si consuma da secco in zuppe e minestre.

Figura 19. 2. Mappa rappresentante il luogo di rilevamento dei Fagioli di Capriana e dei Fasoi Gialdi.

68 4.20 FAGIOLI DAI QUATTRO COLORI

Figura 20.1 Foglie, fiori bacelli e semi de Fagioli dai quattro colori; fotografie di Giuseppe Barbareschi.

I Fagioli dai 4 colori (Phaseolus coccineus) vengono coltivati a Gaggio (fig. 20.2) frazione di , 850 m s.l.m. (Val di Cembra), almeno dagli anni '65-'70, forse anche di più. Erano motivo l'orgoglio in paese, sia per la cascata di fiori che per gli ottimi raccolti. Censiti dalla Pimpinella, sono entrati nel loro campo catalogo del 2014 a Pergolese e del 2015 a Villazzano. Nel 2015 erano stati affidati a Giuseppe Barbareschi, che li mantiene a Gaggio. La semina avviene ad inizio maggio; necessita di un tutore durante la crescita, poiché varietà rampicante, di elevata vigoria con foglie molto grandi e di verde intenso; è bene che i fagioli da semina siano scelti a caso; i semi sono grossi e mostrano un'elevata variabilità cromatica (fig. 20.1): possono essere bianchi, neri, rosa screziato di nero, beige screziato di nero, marrone screziato di marrone più scuro; colori diversi si trovano frequentemente sulla stessa pianta, ma quelli di un baccello sono uniformi. I baccelli, da freschi sono verdi, poco curvi, con rugosità a striature, larghi e piatti; da maturi sono marrone chiaro; a maturità possono essere sgranati freschi per un uso immediato, oppure si può lasciarli completare la maturazione e, quando sono ben secchi vanno raccolti, sgranati e riposti in sacchetti di tela o carta al fresco. La pianta presenta una notevole variabilità di colore dei fiori, che possono essere rosso-scarlatto, metà rossi e metà bianchi o completamente bianchi, portati su lunghi grappoli che ne fanno, in condizioni di crescita ottimale, una pianta decorativa oltre che produttiva. Si tratta di un fagiolo da cucinare in umido, lesso o nel minestrone. Il gusto ricorda la castagna. La varietà è adatta alla montagna mentre non sopporta il clima caldo e secco della Val d'Adige. Nello specifico, necessitano di temperature fresche e umidità nell'aria. Si tratta

69 di una varietà rustica con una buona resistenza agli afidi.

Figura 20.2. Mappa rappresentante il luogo di rilevamento dei Fagioli dai quattro colori.

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4.21 GAMBE DE SIORA DI FAI DELLA PAGANELLA

Figura 21.1 Semi di Gambe de Siora; fotografia di Federica Ferrari.

Questa varietà di fagioli (Phasoleus vulgaris) è stata ereditata dal signor Paolo Perlot (57 anni) dalla nonna materna, residente a Fai della Paganella (fig. 21.3), circa 1000 m s.l.m., mantenuta nel proprio campo a Fai, nel quale ad oggi viene coltivata assieme ad altre varietà di fagioli per utilizzo e vendita nella propria azienda agricola “Azienda agricola Paolo Perlot”. Si tratta di una varetà rampicante tipica trentina, dai lunghi baccelli (circa 15 cm) di colore verde con qualche screziatura sul rossiccio, diritti (da cui il nome “gambe de siora”) e carnosi senza filo (fig. 21.2), quindi “mangiatutto”. La pianta può raggiungere 1,5 m da terra, necessitando quindi di tutore. I semi sono di colore chiaro screziato sul nero (fig. 21.1).

Figura 21.2. Foglie e bacelli di Gambe de Siora; fotografia di Federica Ferrari.

71 Il signor Perlot sostiene che essi abbiano una buona resa, ed anche commercialmente il prodotto risulta discretamente richiesto ed apprezzato, soprattutto come “mangiatutto”.

Figura 21.3. Mappa rappresentante il luogo di rilevamento dei Gambe de Siora.

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4.22 FAGIOLI DEL PAPA

Figura 22.1. Semi di Fagioli del Papa; fotografia di Federica Ferrari.

Questi fagioli sono coltivati nell’orto della signora Delia Bosetti (88 anni), a San Lorenzo in Banale, circa 900 m s.l.m., (Valli Giudicarie, fig 24.2).. Le sono stati tramandati dalla sua nonna, la quale a sua volta li ereditò dalla propria famiglia; lei ha continuato a coltivarli per autosussistenza. I Fagioli del papa (fig. 22.1) vengono coltivati nel periodo primaverile - autunnale; non soffrono particolarmente le gelate: la signora Delia semina i fagioli a fine aprile/ inizio maggio, e dice di ricordarsi annate in cui vi sono state gelate tardive, sostenendo che la pianta si è dimostrata resistente e non è morta. La pianta è rampicate, cresce fino ad un’altezza di anche 3-4 metri, per questo necessita di un tutore; solitamente dispone una fila di fagioli attorno alle carote o ai “capussi” (cavoli cappucci) in modo da circondarne il perimetro (disposizione a quadrato attorno alle file orizzontali). I fiori della varietà sono solitamente tutti di colore bianco; qualche petalo può essere rosso, ma raramente. Verso agosto cominciano già a comparire i bacelli, che sono lisci e lunghi (fino a 15/20 cm) con scorza spessa (infatti non sono “mangiatutto”); contengono di solito 4-5-6 semi, che possono essere lunghi anche 2-2,5 cm. Si raccolgono o freschi a settembre, oppure si lasciano seccare sulla pianta e si raccolgono a novembre. Se si raccolgono freschi non si devono far seccare al sole; di solito vanno fatti seccare nelle 73 “spleuze” (solai), e poi una volta sgranati vanno conservati in freezer (una volta, quando venivano sgranati si conservavano in sacchi di iuta). I colori dei semi variano da: base bianca, base nera, base rosa, base viola, con striature o punteggiature molto evidenti dal nero al viola, al rosa; sono molto scenografici vengono usati anche come decorazione all’interno delle case. Necessitano di una cottura di almeno 3-4 ore, e vengono di solito utilizzati in zuppe o minestre, non in combinazione con pasta o polenta poiché essi sono già di per sé molto consistenti; una volta cotti, assorbendo acqua, aumentano ulteriormente il proprio volume.

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4.23 FASOI DORATI

Figura 23.1. Semi di Fagioli Dorati; fotografia di Federica Ferrari.

Questi fagioli (Phaseolus vulgaris) sono coltivati nell’orto della signora Delia Bosetti (88 anni), a San Lorenzo in Banale, circa 950 m s.l.m. (Valli Giudicarie). Le sono stati tramandati dalla sua nonna, la quale a sua volta li ereditò dalla propria famiglia; lei ha continuato a coltivarli per autosussistenza. Il seme (fig. 23.1) presenta un colore di fondo beige marmorizzato con screziature marron-violaceo. In genere 2-3 linee a semicerchio. Reniformi con ileo rugginoso, di medie dimensioni. Si tratta di una varietà rampicante, con foglie di medie dimensioni color verde acceso; i fiori sono di color bianco-violetto. I baccelli da freschi sono verdognoli, alcuni leggermente screziati di rosso, poco arcuati. A maturazione diventano giallognoli con screziatura rossa di variabile intensità. La semina avviene circa a metà maggio. La raccolta avviene quando i fagioli sono ben secchi, o ancora freschi per consumo immediato. Di solito venivano coltivati in consociazione con le patate.

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4.24 FASOI OCCHIATI DELLA MARCELLA

Figura 24.1. Semi di Fagioli Occhiati della Marcella; fotografia Federica Ferrari.

Questi fagioli (Phaseolus vulgaris) sono coltivati nell’orto della signora Marcella Donati (88 anni), a San Lorenzo in Banale (Valli Giudicarie), TN. Le sono stati tramandati dalla sua nonna, la quale a sua volta li ereditò dalla propria famiglia; lei ha continuato a coltivarli per autosussistenza. Si tratta di un fagiolo medio-piccolo ovale di forma di colore bianco e con un inconfondibile macchia con screziatura marrone allungata in corrispondenza dell’ilo (fig.24.1). Varietà rampicante vigorosa. Utilizzato in cucina sia fresco con baccello intero (“mangiatutto”) che sgranato; ha una consistenza burrosa.

Figura 24.2. Mappa rappresentante il luogo dove sono state rilevati: i Fagioli del Papa, i Fasoi Dorati ed i Fagioli Occhiati della Marcella.

76 4.25 DIAVOLETTI DI CROVIANA

Figura 25.1. Semi di Diavoletti di Croviana; fotografia di Federica Ferrari.

Questa varietà di fagioli (Phaseolus coccineus) vene custodita e coltivata dal signor Franco Marinelli (nato nel 1968) residente nel comune di Croviana, circa 800 m s.l.m., (Val di Sole; fig. 25.2); il fagiolo (fig.25.1) gli è stato donato dall’alpinista Cesarino Fava (il quale assieme a Cesare Maestri aprì la prima via sull’impervio Cerro Torre), che li ha sempre mantenuti nel proprio orto di famiglia a Malè, finché non si è trasferito con la propria famiglia in Argentina, momento in cui ha consegnato l’orto e questi semi a Franco Marinelli il quale ora li coltiva nello stesso orto di Malè, seguendo i principi della biodinamica; vengono anche coltivati a partire dalla stagione 2019 dal signor Tullio Vicenzi (73 anni) a Cogolo (Peio). Si tratta di un fagiolo che viene seminato a fine aprile/ inizio maggio; non soffre le gelate, quindi è particolarmente adatto ai climi montani. La pianta è rampicate, cresce fino ad un’altezza di anche 3-4 metri, per questo necessita di un tutore; I fiori della varietà sono solitamente metà bianchi e metà rossi. Verso agosto cominciano già a comparire i bacelli, che sono lisci e lunghi con scorza spessa (infatti non sono “mangiatutto”); contengono di solito 4-5-6 semi, a seconda della grandezza di questi ultimi (che possono essere lunghi anche 2-2,5 cm).

77 Si raccolgono o freschi ad ottobre , oppure si lasciano seccare sulla pianta e si raccolgono a novembre. Se si raccolgono freschi non si devono far seccare al sole; di solito vanno fatti seccare nelle “spleuze” (solai), e poi una volta sgranati vanno conservati in freezer (una volta, quando venivano sgranati si conservavano in sacchi di iuta.

Figura 25.2. Mappa rappresentante il luogo dove sono stati rilevati i Diavoletti di Croviana.

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4.26 GRANO SARACENO DI CAPRIANA

Figura 26.1. Campo di Grano saraceno a Capriana; fotografia di Lisa Angelini.

Il grano saraceno (Fagopyrum escuentum) di Capriana è una varietà recuperata da parte di Lisa Angelini (facente parte dell’associazione La Pimpinella) presso la signora Alma Demattio di Capriana (fig. 26.2), 1000 m s.l.m., (Val di Fiemme), la quale l’ha mantenuta coltivandola nel proprio orto di casa. La semina avviene tradizionalmente dopo la mietitura, a spaglio; fiorisce la prima metà di settembre; il colore dei fiori è rosato, mentre quello della base dei fusti è rosso vivo e le foglie hanno apice appuntito; la maturazione del prodotto avviene ad ottobre; si consumano gli acheni (non maturi al momento del rilevamento). La varietà (fig.26.1) cresce con caratteristiche uniformi su tutto il territorio del comune di Capriana. Non è presente altrove per comparazioni; risente delle estati troppo siccitose. La signora sostiene che il grano saraceno veniva utilizzato per dare un secondo raccolto dopo il frumento. La raccolta viene effettuata in ottobre: si miete e si ripone in fascine non legate dette “marindòi”. Dopo otto giorni si batte nel campo e si recuperano i semi eduli. La conservazione degli acheni avviene macinando gli stessi, quindi ricavando la farina, utilizzandola per torte, polenta nera, gnocchi ed il “tortèl di patate”.

79 Figura 26.2. Mappa rappresentante il luogo in cui è stato rilevato il Grano Saraceno di Capriana.

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4.27 GRANO SARACENO DI TERRAGNOLO (FORMENTON)

Figura 27.1. Acheni di Grano Saraceno di Terragnolo; fotografia di Lorenza Rozza.

Grano saraceno (Fagopyrum esculentum) consegnato alla signora Lorenza Rozza della Pimpinella dal sig. Giuliano Scottini (circa 70 anni) della fraz. Scottini (fig. 27.2) di Terragnolo (a circa 900 m s.l.m.). Viene seminato dopo la segale o le patate, dalla metà di luglio in poi; è una pianta tenera sensibile alla pioggia, alla fertilità e al vento: fattori che rischiano di allettarlo. E’ una pianta “pulita” che non ha infestanti come i cereali. Quando i semi (fig. 27.1) cominciano ad annerire, viene tagliato, raccolto in fasci e lasciato asciugare sul terreno; poi viene battuto con “la coreggia”, setacciato e conservato in una stanza asciutta. Il seme è ereditato dalla madre; è consuetudine familiare riservare un piccolo appezzamento (pochi metri quadrati) alla coltivazione per uso personale. L’utilizzo principale è per cucinare i famosi “falzelt“ (una specie di focaccia), tipica ricetta di Terragnolo.

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Figura 27.2. Mappa rappresentante il luogo di rilevamento del Grano Saraceno di Terragnolo.

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4.28 SORC DOROTEA

Nel 2005, in contemporanea alla ristrutturazione dei Mulini di Ronco Cainari, è stato avviato un progetto di reintroduzione del granoturco (Zea mays) in valle del Vanoi; la Pimpinella ha rilevato questa varietà a Zortea (fig.28.3).; la varietà reintrodotta viene chiamata localmente Sórc Dorotea (fig. 28.1) si presenta come un mais semi-vitreo, dal chicco tondo e dorato disposto in 15- 18 file, tozzo, tronco-conico e bianco. Dalla sua molitura, realizzata esclusivamente a pietra, si ottiene una farina integrale delicata e dolce. La pianta raggiunge l’altezza di 1,5/2 m; dopo la metà del mese d’ottobre fino ai primi di novembre - verso i Santi- le pannocchie sono pronte per essere raccolte; quest’opeazione è rimandata il più possibile, anche fino alle prime gelate, in modo da sfruttare a pieno le possibilità di maturazione ed essiccazione del cereale sulla pianta. Attualmente il sórc viene coltivato da circa 50 coltivatori amatoriali, detti “sórcoltori”, che coltivano piccoli appezzamenti per autoconsumo, e presso 2 aziende agricole (Agritur Dalaip dei Pape e L’Agricola Solan), che producono farina dorotea. Figura 28.1 Spighe di Sorc Dorotea; fotografia di Angelo Longo.

83 La ricostruzione della filiera storica del granoturco nella valle del Vanoi si è basata soprattutto sulle notizie raccolte nel corso di una campagna di interviste, condotte nel 2005 da Angelo Longo, a persone che hanno coltivato personalmente il granoturco in zona. Sono state raccolte 10 interviste a 10 differenti informatori: Silvia Caser, Bianca Caserotto, Siro Cecco, Antonietta Gobber, Teresina Orsingher, Celestina Rattin, Giuseppina Sperandio, Miriam Zortea, Ottilia Zortea (fig. 28.2). Mais e farina hanno permeato per almeno tre secoli la tradizione alimentare del Vanoi. Figura 28.2. Otilia Zortea intenta a spiegare una ricetta contenente il Sorc L’utilizzo tradizionale la vedeva impiegata Dorotea; fotografia di Angelo Longo. soprattutto nelle pape o mòse (polentine cotte nel latte) e nella polenta. La farina dorotea è ottima per pane, biscotti e torte.

Figura 28.3. Mappa rappresentante il luogo di rilevamento del Sorc Dorotea.

84 4.29 MARZOELA DE PEIO

Figura 29.1. Andrea Panizza mostra la semente di Marzoela recuperata dall'anziana di Peio; fotografia di Federica Ferrari.

L’agricoltore custode di questa varietà di segale (Secale spp.) si chiama Andrea Panizza, nato nel 1977, presidente dell’Ecomuseo della Val di Peio “Piccolo mondo alpino”, residente a Strombiano, frazione del comune di Peio (fig. 31.4) a 1585 m s.l.m.. Semente (fig. 29.1) recuperata da Andrea stesso, grazie ad una signora abbastanza anziana residente a Peio, la quale però non ha voluto farsi intervistare dalla sottoscritta. Alla signora è stata tramandata dalla propria famiglia che a loro volta aveva ereditato dagli antenati; la varietà è stata sempre tenuta “viva” dalla signora nel proprio orto di casa. Ad oggi Andrea la coltiva in una parte del proprio campo ben esposto a sud, ad un altezza di 1283 m.s.l.m. , tra le frazioni di Strombiano e Celentino. Tradizionalmente nella Val di Peio questa segale veniva utilizzata solamente per nutrire il bestiame, quando ancora era inizio estate, ma a Peio (1500 m.s.l.m.) non si poteva ancora far salire le bestie in malga, poiché le condizioni non erano ancora adatte. La semina avviene verso fine marzo (da qui il nome Marzoela) o comunque nel momento in cui non c’è più neve. Compie così un ciclo vegetativo breve, e proprio per questo non accestisce adeguatamente, risultando all’aspetto quasi una pianta selvatica, con poca biomassa e chicchi molto piccoli; si raccoglieva di solito a fine giugno, ma a volte non si lasciava neanche arrivare a fine ciclo vegetativo poiché non veniva usata né per la

85 panificazione, né più in generale per l’alimentazione umana, sia perché stenta a maturare sia perché ha una resa molto bassa. Andrea coltiva la pianta lasciandola arrivare a fine ciclo vegetativo, raccogliendola verso fine luglio.

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4.30 SEGALE DI PEIO (SEGÀLA)

L’agricoltore custode di questa varietà di segale (Secale spp.) si chiama Andrea Panizza, nato nel 1977, presidente dell’Ecomuseo della Val di Peio “Piccolo mondo alpino”, residente a Strombiano, frazione del comune di Peio (1585 m s.l.m). Semente recuperata da Andrea stesso, grazie ad una signora abbastanza anziana residente a Peio, la quale però non ha voluto farsi intervistare dalla sottoscritta. Alla signora è stata tramandata dalla propria famiglia che a loro volta aveva ereditato dagli antenati; la varietà è stata sempre tenuta “viva” dalla signora nel proprio orto di casa. Ad oggi Andrea la coltiva in una parte del proprio campo ben Figura 30.1. Campo di Segale di Peio (Secàla) a esposto a sud, ad un altezza di 1283 m.s.l.m. Strombiano (TN); fotografia di Federica Ferrari. , tra le frazioni di Strombiano e Celentino (fig. 30.1). In autunno (verso settembre/ottobre) nei campi i contadini seminavano la segale, (spesso alternata con la patata) che d’inverno veniva ricoperta dalle neve, da qui il proverbio: “Sotto la neve pane”, sopportando il suo peso ed il suo gelo piuttosto bene, poichè al momento della raccolta (verso metà agosto) si è sempre mostrata con una buona produttività. Con questo tipo di segale veniva prodotto il pane tipico di quei tempi: i “panéti”.

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4.31 INVERNIZ

Figura 31.1. Andrea Panizza mostra la semente dell'Inverniz; fotografia di Federica Ferrari.

Il custode di questa particolare varietà locale di frumento (Triticum spp.) si chiama Andrea Panizza, nato nel 1977, presidente dell’Ecomuseo della Val di Peio “Piccolo mondo alpino”, residente a Strombiano, frazione del comune di Peio (1585 m s.l.m). Semente recuperata da Andrea stesso, grazie ad una signora abbastanza anziana residente a Peio, la quale però non ha voluto farsi intervistare dalla sottoscritta. Alla signora è stata tramandata dalla propria famiglia che a loro volta aveva ereditato dagli antenati; la varietà è stata sempre tenuta “viva” dalla signora nel proprio orto di casa. Ad oggi Andrea la coltiva in una parte del proprio campo ben esposto a sud, ad un altezza di 1283 m.s.l.m. , tra le frazioni di Strombiano e Celentino. Si tratta di una varietà di frumento davvero particolare se si considera che questo “Inverniz” è stato tramandato di generazione in generazione nella piccola Val di Peio, valle alpina caratterizzata da un clima piuttosto rigido d’inverno e con estati molto fresche.

Figura 31.2. Campo di Inverniz a Strombiano (TN); fotografia di Andrea Panizza.

88 Andrea stesso sostiene che in altre zone della Val di Sole non ha mai sentito parlare di un frumento che cresca con una buona resa ad un altezza di quasi 1600 m s.l.m; egli sostiene infatti che la coltivazione dei cereali sia in Trentino che in Alto Adige fosse ampiamente praticata nei secoli scorsi, ma che essa si esplicasse unicamente o quasi nella coltivazione di varietà di segale, che come è risaputo, è il cereale che meglio s’adatta al clima alpino. La semina di questo cereale avviene circa verso metà aprile; cresce fino a 70/80 cm dal terreno, con alcune piante che raggiungono anche il metro d’altezza; il portamento è eretto e lo stelo è robusto; la spiga

è rigogliosa (fig. 31.2); i chicchi medio/grandi (fig Figura 31.3. Pane realizzato con la farina 31.1). La resa buona, se si considera l’altitudine macinata dell'Inverniz; fotografia di Andrea Panizza. cui viene coltivato. La raccolta avviene circa verso metà agosto. È il quarto anno che Andrea coltiva la cultivar a Strombiano e, mentre la signora di Peio l’ha coltivata solamente per tenerla “viva”, il presidente dell’Ecomuseo riesce a panificare (fig. 31.3) per un discreto periodo dell’anno e la cui dimostrazione è anche data nel pieno della manifestazione che viene organizzata dall’ecomuseo proprio il 20 agosto chiamata “El pan de ‘na volta”.

Figura 31.4. Mappa rappresentante il luogo in cui sono state rilevate le varietà: Marzoela, Segale di Peio ed Inverniz.

89 4.32 FRUMENTO DI COSTASAVINA

Figura 32.1. Raccolta del frumento nel campo di Costasavina; fotografia di Federica Ferrari.

Questa varietà di frumento (Triticum spp.) viene custodita da Lorenzo Marcolla (34 anni) residente a Canale di Pergine, Valsugana; il ragazzo coltiva il frumento a Costasavina (fig. 32.2), circa 600 m s.l.m., in due appezzamenti di terreno ereditati dal nonno, così come la semente che è sempre stata mantenuta in quei campi fin da quando il nonno era giovane; naturalmente ne coltivava molto meno in quanto la finalità era l’ autosussistenza. Il signor Lorenzo sostiene che la presente varietà sia discretamente produttiva e non particolarmente sensibile alle gelate. La semina di questo cereale avviene circa verso aprile; cresce fino a 80 cm dal terreno, con alcune piante che raggiungono anche il metro d’altezza; il portamento è eretto e lo stelo è robusto; la spiga è rigogliosa; i chicchi medio/grandi. La raccolta avviene circa verso metà agosto (fig. 32.1). Da qualche anno la farina ricavata da questa cultivar viene utilizzata per la panificazione dal panificio Grisenti situato a Canale di Pergine.

90

Figura 32.2. Mappa rappresentante il luogo dov'è stato rilevato il Frumento di Costasavina.

91

5.0 ANALISI E DISCUSSIONE DEI DATI RACCOLTI

Analizzando i dati ottenuti dai risultati sopra riportati, innanzitutto è interessante osservare le età delle persone che sono state intervistate dalla sottoscritta, oppure da cui provengono le sementi originali, che sono state poi donate all’ associazione Pimpinella: di 26 custodi originari le cui età sono riferite all’epoca del censimento (nel caso del Sorc Dorotea si è presa in considerazione solo la donna più anziana che ha donato la cultivar all’Ecomuseo del Vanoi, di 101 anni di età all’epoca del censimento):

Grafico 1. Fasce d’età degli agricoltori custodi.

8% 19%

23%

12% 38%

età tra 70 ed 80 anni età tra 80 e 90 anni età tra 90 e 100 anni età tra 37 e 64 anni età oltre i 100 anni

Non risulta quindi difficile notare dal grafico 1 quanto le età dei custodi delle sementi siano piuttosto elevate: di 26 custodi, soltanto 6 hanno un’età inferiore ai 65 anni. Da qui la considerazione in merito all’importanza del “recupero dal basso” che ha effettuato sia l’associazione Pimpinella, sia la sottoscritta: entrando in contatto con gli agricoltori custodi, è importante far loro comprendere l’importanza della salvaguardia dell’agro- biodiversità, in molti casi facendo anche leva sul grande valore culturale e tradizionale che ha avuto il loro operato nel tempo, conservando varietà locali di un’importanza inestimabile. La gran parte di queste persone non possiede un’elevata istruzione e le motivazioni principali che li hanno spinti a conservare le loro varietà sono il senso di tradizione, la “testardaggine” o, in molti casi, anche l’ affetto (sementi ereditate “dalla mamma, dalla nonna”, ecc.).

92 Risulta interessante anche notare un altro particolare: su 26 persone incontrate dalla sottoscritta e dall’associazione Pimpinella nell’ambito della presente ricerca, soltanto le sei persone al di sotti dei 65 anni (tranne una) ed altre due di età compresa tra i 70 e gli 80 anni hanno parlato in italiano negli incontri, mentre tutti gli altri si sono espressi solamente attraverso i diversi dialetti, i quali tra l’altro sono molto differenti tra le “Comunità delle Valli”. Ne consegue che capire i dialetti trentini è risultato fondamentale alla corretta riuscita dell’elaborato. Il dialetto si dimostra, così la “lingua madre” dei saperi e delle tradizioni, anch’essa a mio avviso molto importante da salvaguardare. La sottoscritta, in collaborazione con l’Associazione Pimpinella ha realizzato un censimento di 32 varietà locali, di cui la tabella 1.

Tabella 1. La tabella mostra il nome volgare della varietà, la famiglia botanica ed il genere botanico d'appartenenza di ogni varietà censita.

NOME LOCALE DELLA FAMIGLIA BOTANICA GENERE VARIETA’ BOTANICO 1 Insalata Teresa Asteraceae Lactuca 2 Insalata di Maso Rozza Asteraceae Lactuca 3 Cicoria di Grigno Asteraceae Cichorium 4 Cartamo di Terragnolo Asteraceae Carthamus 5 Pomodoro Peretta Solanaceae Solanum Valdiriva 6 Pomodoro Rosina Solanaceae Solanum 7 Atriplice Chenopodiaceae Atriplex 8 Zigole dal Grop Liliaceae Allium 9 Rapa di Terragnolo Brassicaceae Brassica 10 Rapa di Bondo Brassicaceae Brassica 11 Fagiolo del Fernando Leguminosae Phaseolus 12 Fagioli di Don Lucillo Leguminosae Phaseolus 13 Fava bianca di Pinè Leguminosae Phaseolus 14 Fava viola di Pinè Leguminosae Phaseolus 15 Fagiolo di Capriana Leguminosae Phaseolus

93 16 Fasoi gialdi Leguminosae Phaseolus 17 Fagioli dai quattro Leguminosae Phaseolus colori 18 Gambe de Siora Leguminosae Phaseolus 19 Fagioli del Papa Leguminosae Phaseolus 20 Fasoi Dorati Leguminosae Phaseolus 21 Fasoi occhiati della Leguminosae Phaseolus Marcella 22 Diavoletti di Croviana Leguminosae Phaseolus 23 Fasoi Canarini Leguminosae Glycine 24 Soia di Civezzano Leguminosae Glycine 25 Caffè Balos Leguminosae Lupinus 26 Grano saraceno di Polygonaceae Fagopyrum Capriana 27 Grano saraceno di Polygonaceae Fagopyrum Terragnolo 28 Sorc Dorotea Graminaceae Zea 29 Frumento di Graminaceae Triticum Costasavina 30 Inverniz Graminaceae Triticum 31 Marzoela de Peio Graminaceae Secale 32 Segale di Peio Graminaceae Secale

Dall’analisi dei dati botanici, i cereali risultano in netta minoranza rispetto alle specie orticole: i primi sono solo 5 (dei quali 3 rinvenuti in val di Peio) ai quali però possono essere accostate le 2 varietà di grano saraceno poiché, pur facendo parte di una famiglia botanica differente (Polygonaceae) rispetto ai cereali (Graminaceae), il valore nutrizionale e gli usi tradizionali sono più assimilabili ad una pianta cerealicola che orticola.

94 Grafico 2. Confronto tra la percentuale di piante orticole e cerealicole/ pseudo-cerealicole censite in Trentino.

22%

78%

graminaceae/Poligonaceae orticole

A mio avviso una maggior presenza di varietà orticole (come si può notare dal grafico 2) può essere dovuta al fatto che che queste ultime risultino più immediate e semplici da mantenere “vive” nel tempo: esse infatti richiedono, nella maggior parte dei casi, meno sforzo sia nelle tecniche colturali che, soprattutto, per quanto riguarda la raccolta, molto impegnativa invece per quanto riguarda i cereali o pseudo-cereali (soprattutto per la segale); inoltre le parti della pianta adibite ad uso alimentare sono la granella o gli acheni, piuttosto impegnativi da ricavare senza un mezzo meccanizzato. È questo infatti il principale motivo per il quale in molti areali, i cereali locali sono andati perduti; inoltre una volta ottenuta la parte “commestibile” della pianta, quest’ultima in molti casi non è soggetta al consumo immediato, (come può avvenire invece per insalata, pomodori, rape, ecc.) ma necessita il più delle volte di una fase di trasformazione in farina (anche semplicemente per la conservazione del prodotto), ad opera dei mulini che nel caso dell’ambiente montano risultano spesso strutture oggi in disuso, che necessiterebbero di ristrutturazione; una volta macinata la farina si può impiegare nei prodotti da forno (biscotti, torte, pane ecc.) oltre che prodotti tipici e rustici come la polenta (nel caso della farina di mais e di grano saraceno). La filiera di cereali e pseudo-cereali risulta quindi molto più lunga rispetto a quella delle specie orticole poiché costituita da molti più passaggi, che coinvolgono più strutture (mulini) oltre che persone; di conseguenza realizzare questo tipo di filiera in paesi di montagna non è certo cosa facile né in molti casi sostenibile economicamente; per questo è molto importante la presenza di enti che

95 si pongono come obiettivo la valorizzazione di prodotti locali antichi, recuperando in tal modo anche questo tipo di filiera “più ricca ma più lenta” [sito Ecomuseo del Vanoi]. Un esempio che può essere riportato in tal senso è El molin de sora, a Ronco frazione di (TN) la cui ristrutturazione negli anni Duemila ha permesso la macinazione (e quindi l’accrescimento della filiera “circolare”) del Sorc Dorotea, che viene prodotto ed utilizzato oggi da circa cinquanta agricoltori per uso personale e da un agriturismo ed un’azienda agricola. A questo proposito sarebbe bene prendere d’esempio la valorizzazione che la popolazione locale sta tentando di realizzare nella valle del Vanoi con la varietà Sorc Dorotea, avendo completato la filiera, costituendo quindi un esempio di economia circolare: coltivazione, ricavo della granella, macinatura, ricavo della farina, conservazione, consumo. Il progetto della reintroduzione del Sorc Dorotea nel Vanoi, è stato realizzato attraverso una ricerca storico-antropologica sostenuta dall’Ecomuseo del Vanoi (confluita nella bozza del disciplinare “Custodiamo il sorc” del 2007) ed ha messo in luce, tramite documentazione e memorie (raccolta di testimonianze orali, fotografie storiche, di documenti cartacei, di strumenti e attrezzi), il valore storico, culturale, territoriale e culinario del sórc, portando quindi al recupero dell’antica varietà locale [sito Ecomuseo del Vanoi]. Inoltre grazie alla presenza attiva sul territorio dell’Ecomuseo del Vanoi la varietà può essere ulteriormente valorizzata facendo in modo che essa venga conosciuta anche, ad esempio, da persone esterne alla popolazione locale, come i turisti. Le varietà orticole sono più adatte alle coltivazioni dell’ “orto di casa”, che si è dimostrato essere un luogo molto prezioso per la conservazione di queste cultivar. Delle varietà orticole censite si trovano: 12 varietà appartenenti al genere Phaseolus, 2 varietà appartenenti al genere Lactuca, 2 varietà appartenenti al genere Brassica, 2 varietà appartenenti al genere Solanum, 2 varietà appartenenti al genere Glycine, 1 varietà appartenente al genere Atriplex, 1 varietà appartenente al genere Carthamus, 1 varietà appartenente al genere Lupinus, 1 varietà appartenente al genere Allium, 1 varietà appartenente al genere Cichorium. Di seguito nel grafico 3 una rappresentazione di quanto sopra esposto che mostra la netta dominanza del genere Phaseolus rispetto agli altri.

96

Grafico 3. Distribuzione percentuale delle varietà orticole censite in Trentino nei relativi generi botanici d’appartenenza (mancanti cereali e pseudo-cereali).

4% 4%

8%

4%

4% 48% 4%

8%

8% 8%

Phaseolus Brassica Solanum Lactuca Lupinus Cichorium Allium Glycine Atriplex Carthamus …

Il genere Phaseolus, risulta essere costituito da specie più adatte a crescere a differenti latitudini ed altitudini; infatti esso viene coltivato sia in montagna che a quote più basse, adattandosi bene a differenti climi, più miti, verso i laghi in valli più aperte ed esposte, oppure più rigidi ai piedi delle Dolomiti e delle Alpi Retiche, in vallette laterali più strette come la Val di Sole o la Val di Peio; solitamente i fagioli che risiedono a quote più alte sono dotati di scorza più spessa. I fagioli sono sicuramente una delle specie maggiormente coltivate “da sempre” nelle vallate alpine, poiché contenenti una grande quantità di proteine, nutriente spesso molto carente nella dieta povera, cui erano soggetti gli abitanti di queste valli fino almeno al secondo Dopoguerra: valli spesso isolate nelle quali gli abitanti si vedevano costretti a tramandarsi le sementi come eredità preziosa da mantenere nel proprio orto come garanzia di autosussistenza, in un momento storico in cui la fame era all’ordine del giorno; il fagiolo in questo contesto oltre ad essere una varietà ricca di nutrienti, costituiva anche un alleato importante contro la fame stessa, poiché esso induce un forte senso di sazietà.

97 Una riflessione poi dev’essere fatta sul ritrovamento di alcune varietà afferenti al genere Phaseolus sulle quali dal punto di vista visivo si possono notare somigliglianze significative sia a livello di forma che cromatiche: i. due varietà di Phaseolus vulgaris ossia i Fagioli di Don Lucillo, rilevati in Val di Ledro ed i Fasoi Dorati, ritrovati in Val Banale (le due valli effettivamente non distano molti chilometri l’una dall’altra); probabilmente si tratta della stessa varietà poiché entrambi i fagioli presentano lo stesso colore beige di fondo e simili screziature marroni sulla scorza; la piccola differenza è che nel Fagiolo di Don Lucillo queste ultime tendono quasi al violaceo, mentre nei Fasoi Dorati esse sono molto meno marcate, di un marroncino molto più chiaro. A questo proposito potrebbe essere interessante effettuare uno studio approfondito delle due varietà attraverso analisi di laboratorio, osservando quanto il clima delle due valli (quello della Val di Ledro più mite rispetto a quello della Val Banale) e le caratteristiche del suolo influiscano sulle eventuali differenze tra i due fagioli trovati. ii. due varietà di Phaseolus coccineus, ossia i Fagioli dai quattro colori ritrovati in Val di Cembra ed i Fagioli del Papa, ritrovati in Val Banale (le due valli in questo caso sono più distanti ed una dalla parte opposta all’altra rispetto al fiume Adige); probabilmente si tratta della stessa varietà, poiché entrambi i fagioli presentano colori della scorza a base bianca, base nera, base rosa, base viola, con striature o punteggiature molto evidenti dal nero al viola, al rosa; nel caso dei Fagioli dai quattro colori i semi, che nei Fagioli del Papa sono a base rosa chiaro, sono invece più tendenti al marrone. In merito a queste due ultime varietà però è d’obbligo citare gli studi svolti in ambito UNIMONT sul fagiolo Copafam, varietà locale tradizionale della Valle Camonica che presenta oltre che evidenti somiglianze nei semi (di cui sopra), anche nel resto della pianta; essa viene descritta come cultivar avente portamento rampicante, con altezza che può raggiungere anche i tre metri, fioritura abbondante con fiori prevalentemente rossi, metà rossi e metà bianchi; raramente solo bianchi [Colombo, 2016]; gli studi di caratterizzazione sulla varietà Copafam sono stati anche dettagliatamente esposti ed articolati nella pubblicazione scientifica “Prospects for Broader cultivation and

98 commercialisation of Copafam, a local variety of Phaseolus coccineus L., in the Brescia Pre-Alps” [Giupponi et al., 2018]; a questo proposito sarebbe interessante analizzare nel dettaglio le due varietà rinvenute nel territorio trentino e confrontarle con gli studi molto dettagliati eseguiti ed esposti da UNIMONT sul fagiolo Copafam, osservando e studiando nel dettaglio quali siano le somiglianze e quali siano invece (se esistono) le peculiarità di ognuna di esse a livello ad esempio organolettico; se vi sono eventualmente differenze legate al diverso tipo di terreno, di latitudine o di condizioni climatiche che influenzano le varietà poiché coltivate in due Regioni differenti. A tal proposito, per quanto riguarda entrambi i casi sopra esposti, sarebbe interessante che un’associazione come la Pimpinella, si prendesse carico di far luce sulle ipotesi sopra esposte dalla sottoscritta di cui sopra, collaborando ad esempio con la Fondazione Edmund Mach essendo quest’ultima una struttura dotata di un centro di ricerca e sperimentazione oltre che di un Centro di Ecologia Alpina, nonché di numerosi esperti in materia di agricoltura.

Un'altra riflessione che può essere fatta in merito ai risultati ottenuti dal presente elaborato riguarda l’altitudine alla quale sono state rinvenute le varietà in questione: 2 ad una quota inferiore a 600 m s.l.m. (Pomodoro Peretta Valdiriva e Cicoria di Grigno); 13 ad una quota superiore ai 600 ed inferiore ai 900 m s.l.m. (l’Insalata Teresa, l’Atriplice, il Fagiolo del Fernando, il Pomodoro Rosina, la Rapa di Terragnolo, il Cartamo di Terragnolo, la Soia di Civezzano, le Zigole dal Grop, i Fagioli di Don Lucillo, i Fagioli dai quattro colori, il Frumento di Costasavina, i Diavoletti di Croviana, Sorc Dorotea); 14 ad una quota superiore a 900 ed inferiori ai 1250 m s.l.m. (l’Insalata di Maso Rozza, il Grano saraceno do Terragnolo, la Fava bianca di Pinè, la Fava viola di Pinè, il fagiolo di Capriana, i Fasoi gialdi, il Grano saraceno di Capriana, il Caffè Balos, le Gambe de Siora, i Fagioli del Papa, i Fasoi Dorati, i Fasoi Canarini, i Fasoi occhiati della Marcella, la Rapa di Bondo); 3 ad una quota superiore ai 1250 m s.l.m. (la Marzoela de Peio, la Segale di Peio e l’Inverniz).

99 Grafico 4. Percentuale delle varietà trentine rinvenute in determinate fasce altimetriche.

9% 6%

41%

44%

inf. Ai 600 m s.l.m. sup. ai 600 ed inf. ai 900 m s.l.m. sup. ai 900 ed inf. ai 1250 m s.l.m. sup. ai 1250 m s.l.m.

Osservando il grafico 4 si può notare che la maggior parte delle varietà censite in questo contesto nella Provincia Autonoma di Trento vengono coltivate perlopiù tra i 600 ed 1250 m s.l.m., perciò si può affermare che esse siano distribuite in maniera abbastanza eterogenea, a livello di quota di coltivazione, tra la media e l’alta montagna; poche di esse non sono state rilevate in zone montuose (due), e tre invece sono state rilevate ad una quota molto elevata ed un clima particolarmente rigido per l’agricoltura, salvo possedere una buona esposizione. A questo proposito si può quindi affermare che in merito al presente censimento effettuato nella provincia trentina, nelle aree comprese tra i 600 m s.l.m. ed i 1250 m s.l.m. sia stata conservata una maggiore agrobiodiversità vegetale. Di conseguenza a mio avviso sarebbe importante che la PAT incentivasse maggiormente anche attraverso nuove normative la salvaguardia della pratica agricola nelle zone montane le quali costituiscono la maggior parte del territorio trentino.

Se si osservano i dati relativi all’agrobiodiversità vegetale lombarda raccolti tra 2017 il 2019, sul portale UNIMONT, si evince che nella regione siano state raccolte 72 varietà locali tradizionali di piante erbacee tra orticole (50) e cerealicole/pseudo-cerealicole (22) divise in famiglie botaniche tra Leguminosae (19), Chenopodiaceae (2), Cucurbitaceae (11), Asteraceae (2), Graminaceae (21), Solanaceae (8) Polygonaceae (1), Brassicaceae (2), Liliaceae (6) [Giupponi et al., 2019]; di seguito vengono posti a

100 confronto due grafici, nei quali sono esposte le percentuali relative alle famiglie botaniche delle varietà rilevate in Lombardia ed in provincia di Trento: naturalmente questo tipo di confronto deve tenere in considerazione il fatto che, seppur entrambi i censimenti possano essere aggiornati ed arricchiti, la ricerca delle varietà locali tradizionali (nell’ambito del progetto UNIMONT) in regione Lombardia è stata eseguita da più persone e per un arco di tempo maggiore; inoltre la Lombardia ha una superficie territoriale di 23 860 km2 [sito Regione Lombardia] mentre la Provincia Autonoma di Trento ha una superficie territoriale di 6 200 km2 [sito Provincia Autonoma di Trento].

1% 3% 3% 3%

8% 27%

11%

15% 29%

Leguminosae Graminaceae Cucurbitaceae Solanaceae Liliaceae Asteraceae Brassicaceae Chenopodiaceae Polygonaceae

Grafico 6. Distribuzione percentuale delle varietà nelle relative famiglie botaniche in merito al censimento riguardante l’agrobiodiversità vegetale lombarda [Giupponi et al., 2019].

101 3% 6% 6%

6%

3% 47%

13%

16%

Leguminosae Graminaceae Asteraceae Chenopodiaceae Brassicaceae Solanaceae Polygonaceae Liliaceae

Grafico 7. Distribuzione percentuale delle varietà nelle relative famiglie botaniche d’appartenenza in merito al censimento nella provincia trentina.

La prima osservazione evidente da fare in merito al confronto tra il grafico 5 ed il grafico 6 è che nel territorio lombardo le leguminose costituiscono il 27% della popolazione rilevata, mentre nel territorio trentino esse costituiscono ben il 47% della popolazione totale (quasi la metà). Inoltre nel caso del territorio lombardo si può rilevare la presenza di un’altra famiglia botanica, non rinvenuta invece nel caso del censimento del Trentino: la famiglia delle Cucurbitacee, composte da generi quali Cucurbita, Citrullus, Cucumis e Cyclanthera che costituiscono una parte considerevole della popolazione lombarda censita (13%); di queste a parte la varietà appartenente al genere Cyclanthera, che è stata rinvenuta in Valle Camonica, le varietà afferenti agli altri tre generi sono tutte state rilevate in pianura e questa differenza, a parer mio è dovuta ad un fattore prettamente territoriale relativo al tipo di terreno ed all’altitudine di coltivazione: infatti la Lombardia è costituita per il 47% da territorio pianeggiante, 12% da territorio collinare e 41% da territorio montuoso [sito Regione Lombardia], mentre il Trentino è costituito per il 20% da zone al di sotto dei 600 metri (soglia convenzionalmente utilizzata per distinguere i comuni montani da quelli di fondovalle), per un altro 20% da zone comprese tra i 600 ed i 1.000 metri, mentre il restante 60% del territorio si trova sopra i 1.000 metri [sito Provincia Autonoma di Trento]; le Cucurbitaceae sono infatti una famiglia botanica che si adatta (come si evince dai dati sopra riportati) in modo migliore alla zona pianeggiante della Pianura padana piuttosto

102 che alle zone montane caratterizzate oltre che da un territorio diverso, anche da un clima più rigido.

Un'altra considerazione che può essere fatta è in relazione alla famiglia delle Graminaceae: nel caso della Lombardia esse costituiscono insieme il 29% della popolazione totale censita mentre nel caso del Trentino esse corrispondono solamente al 16% della popolazione totale censita; risulta altresì interessante in questo caso fare una riflessione sui generi botanici afferenti alla famiglia delle Graminaceae per notare le diversità tra i due diversi territori considerati.

5% 4% 9%

23% 59%

Zea spp. Oryza spp Hordeum spp. Panicum spp. Secale spp.

Grafico 8. Distribuzione percentuale delle varietà lombarde tra i relativi generi afferenti alla famiglia botanica delle Graminaceae [Giupponi et al. 2019]. .

20%

40%

40%

Triticum spp. Secale spp. Zea spp.

Grafico 9. Distribuzione percentuale delle varietà trentine tra i relativi generi afferenti alla famiglia botanica delle Graminaceae.

Si può facilmente notare dal confronto tra il grafico 7 ed il grafico 8 come in Lombardia tra la famiglia delle Graminaceae prevalga il genere Zea costituente ben il 59% della

103 popolazione di graminacee rilevata, mentre nel caso del Trentino questo genere costituisce soltanto il 20% della popolazione di graminacee rilevata (soltanto una varietà); prevale in questo caso invece il genere Triticum ed il genere Secale, mentre nel caso della Lombardia il genere Triticum non compare nemmeno tra le varietà censite. Nella zona del Trentino, poi, nel presente censimento, non sono state ritrovate varietà afferenti al genere Hordeum e Oryza, quest’ultimo tipico delle zone pianeggianti (come dimostrano anche i dati sopra riportati che identificano il ritrovamento di tali varietà soltanto in pianura), e quindi non certo adatto al territorio trentino. A mio avviso sarebbe interessante approfondire la ricerca in merito alle varietà di cereali locali nella Provincia Autonoma di Trento, per poter paragonare meglio in tal senso le due aree concentrando l’attenzione eventualmente anche sugli pseudo-cereali come ad esempio il Grano saraceno, che nel caso del Trentino costituisce il 6% della popolazione delle varietà censite, mentre in Lombardia solamente l’1%, potendosi avvalere anche di approfonditi studi recenti sul Grano saraceno nell’arco alpino esposti nell’opera “Genetic Identity of common buckweath (Fagopyrum esculentum Moench) landraces locally cultivated in the Alps” [Barcaccia et al., 2016].

L’ultima considerazione può essere fatta in merito alla famiglia delle Leguminosae: unendo i risultati relativi sia alla regione lombarda, che alla provincia trentina, si può notare che: di 104 varietà totali censite, 34 di esse appartengono alla famiglia delle Leguminosae; di queste 34, 28 sono varietà afferenti al genere Phaseolus (grafico 9).

13%

87%

Phaseolus spp. Altre

Grafico 10. Prevalenza del genere Phaseolus sugli altri generi botanici appartenenti alla famiglia delle Leguminosae, avendo unito sia i dati in merito al censimento in Lombardia [Giupponi et al., 2019] che in Trentino.

104 Inoltre tra tutte le varietà di fagioli presenti, soltanto uno di essi è stato rilevato in pianura [Giupponi et al., 2020], mentre tutti gli altri sono stati ritrovati in territorio montuoso o semi-montuoso; ciò a conferma dell’indiscussa importanza dei fagioli nella dieta delle popolazioni montane [Giupponi et al., 2018] che, come si evince dai dati sopra riportati, si sono dimostrati fino ad oggi attente custodi delle varietà afferenti a questo genere botanico.

105

6.0 CONCLUSIONI

Grazie all'attività svolta durante il tirocinio di tesi, anche in collaborazione con l'Associazione per la Tutela della Biodiversità Agricola la Pimpinella, ho avuto l'opportunità di toccare con mano la ricchezza che popola ancora le valli trentine e la passione dei custodi della biodiversità e dei volontari che s’impegnano per salvarla. Parecchie varietà affondano le radici nella storia locale da più di un secolo e vengono ricordate come caratterizzanti l'agroecosistema locale; esse risultano però spesso rischio di estinzione. Ho anche avuto l'occasione di studiare e sperimentare il processo di recupero della biodiversità comprendendo l'importanza delle relazioni umane.

Personalmente ritengo che il censimento delle cultivar, debba successivamente essere affiancato da un una caratterizzazione varietale, nonché uno studio e sperimentazione delle tecniche colturali applicate alle stesse: la Provincia Autonoma di Trento, proprio per le sue caratteristiche territoriali quasi completamente montuose è particolarmente importante ai fini dello studio e dell’applicazione dell’agricoltura di montagna. Raccolti i dati morfologici e le informazioni etnografiche si può arrivare ad avere un quadro più completo delle varietà in esame, in merito anche al contesto storico-sociale in cui si collocano, ma non sufficientemente esaustivo. A partire da questo inquadramento sarebbe interessante impostare qualche ricerca dal carattere più scientifico sul patrimonio genetico che queste varietà costituiscono, come ad esempio una comparazione genetica tra fagioli apparentemente simili sviluppatesi in zone diverse (come è stato articolato precedentemente ad esempio in merito alle varietà Fagiolo di Don Lucillo e Fasoi dorati; Fagioli dai quattro colori, Fagioli del Papa e Copafam) ed elaborare una successiva valutazione di quanto il differente clima e l’ambiente sociale abbiano inciso sulle varietà; interessante anche lo sviluppo degli alberi genealogici che ne illustrino il grado di parentela, assieme alla risoluzione di molti altri interrogativi che le semplici osservazioni o la memoria di una generazione non potrebbe spiegare. Inoltre questi risultati potrebbero portare alla registrazione delle varietà (rilevate dalla sottoscritta con l’aiuto e la collaborazione dell’Associazione “Pimpinella”) prima presso il Registro Provinciale del Patrimonio Genetico della Provincia di Trento, dopo però un approfondito studio per ognuna di esse, con analisi di laboratorio, effettuate anche

106 eventualmente con l’ausilio di alcuni enti quali la Fondazione Edmund Mach o il Centro di Ricerca Coordinata Ge.S.Di.Mont. dell’Università di Edolo; successivamente potrebbe anche essere inoltrata la domanda d’inserimento al Registro Nazionale delle Varietà da Conservazione. Questo permetterebbe di introdurre le cultivar in un circuito produttivo in collaborazione con i ristoratori e le filiere di mercati locali per un mantenimento dell’ agrobiodiversità che sia anche produttivo e che possa in tal modo diventare uno strumento di valorizzazione locale oltre che un sostegno economico per le comunità rurali delle valli, queste ultime fortemente caratterizzanti il territorio trentino. Sarebbe quindi interessante che si stabilisse un contatto maggiore in un’ottica di collaborazione tra gli enti istituzionali come la PAT, la Fondazione Edmund Mach o il MUSE (che dispongono di numerosi esperti del modo scientifico) e le associazioni come la Pimpinella presenti nella Provincia Autonoma di Trento, che da molto tempo svolgono l’azione di “recupero dal basso” tra gli agricoltori delle diverse valli trentine, dei quali molte varietà diversamente sarebbero già andate perdute. Importante è quindi in questo contesto, incoraggiare eventi non istituzionali quali mercati di scambio dei semi, feste di paese o sagre locali, tutte occasioni nelle quali vengono esaltati i prodotti locali, luoghi dove la tradizione detiene ancora un ruolo fondamentale e ricco di valori legati al ricordo, agli antichi sapori che non si vuole e non si deve dimenticare; spesso questi sono i luoghi in cui si entra in contatto coi veri “agricoltori custodi”, i quali spesso diffidano delle istituzioni, ed invece in occasione di questi tipi di eventi, sono lieti di condividere i loro saperi, oltre che, nel concreto, i loro semi. Solitamente i luoghi in cui si svolgono ancora questo tipo di sagre o mercati, dove risiede ancora il piacere della tradizione dei saperi antichi e del tramandarsi le sementi, sono localizzati in zone di montagna: valli, spesso piccole, e frequentemente soggette allo spopolamento. Ritengo inoltre che il solo riconoscimento ufficiale delle varietà da conservazione non sia sufficiente alla piena salvaguardia delle cultivar locali tradizionali; il punto di forza di queste varietà è e deve rimanere il legame viscerale col territorio d’origine, la ruralità e la semplicità legata alla figura dell’agricoltore tradizionale, il quale dovrebbe essere incentivato (anche economicamente eventualmente) a mantenere viva nel tempo la varietà (azione fondamentale per la salvaguardia) nonostante problematiche relative alla produttività, tentando di valorizzare al massimo le peculiarità che caratterizzano il prodotto come “locale”, salutare e di grande qualità, poiché esso è sempre stato, e

107 dovrà rimanere anche in futuro “agricoltura, cultura , sapere e tradizione espressi in un unico elemento” [Luigi Calzà, presidente dell’Associazione Pimpinella].

108 7.0 BIBLIOGRAFIA

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