CRONACA DELLA SOCIETÀ ALPINA FRIULANA 2019 IN ALTO Cronaca della Società Alpina Friulana

SOCIETÀ SEZIONE DI UDINE ALPINA DEL CLUB FRIULANA ALPINO ITALIANO

SERIE V - VOLUME XCIX ANNO CXXXIX - 2019 In Alto Direttore responsabile Registrazione Tribunale di Udine serie V, Volume XCIX, Alessandra Beltrame n. 266 del 3.12.1970 anno CXXXIX – 2019 ISSN 1827-353X Redazione Società Alpina Friulana Claudio Mitri Distribuito gratuitamente Sezione di Udine ai soci della SAF del Club Alpino Italiano Progetto grafico Via Brigata Re, 29 Raffaella De Reggi Copie e arretrati 33100 Udine Società Alpina Friulana www.alpinafriulana.it [email protected]

In copertina Elaborazione grafica della foto di Edoardo Tellini (1852-1927) “Ghiacciai del Canin. Sella fra Ursic e Canin”, 1885. Archivio della Società Alpina Friulana

Ottobre 2019. Il massiccio del Canin dai Piani del Montasio e il rifugio Di Brazzà. Si nota dal colore più chiaro delle rocce la traccia del ghiacciaio che esisteva in passato. (foto Andrea Piussi)

SOMMARIO

La relazione del presidente Un record di soci ...... 7

Editoriale La montagna in purezza...... 13

In Memoria Marcello Bulfoni Attilio De Rovere, Aldo Scalettaris, Tiziano Scarsini ...... 14

Pensieri e studi sulla montagna Le nostre Giulie riserva mondiale! Stefano Santi ...... 26 Il valore della geodiversità Alessandro Piussi ...... 30 L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi Roberto Simonetti...... 39 Come è cambiata la previsione valanghe Daniele Moro ...... 51 Antonio Feruglio alpinista e spirito libero Giovanni Duratti ...... 56 Tracce di guerra nei nomi delle Alpi Cinausero Hofer, Dentesano ...... 68 Il ritratto di Gilberti di Napoleone Pellis Vania Gransinigh ...... 75 Arrampicatore formidabile, forse il migliore Umberto Sello ...... 77

Montagna vissuta

L’INTERVISTA Marino Tremonti Alessandra Beltrame ...... 89 Tre Cime dall’alba al tramonto. Scalando e volando Marco Milanese..... 99 REPORTAGE Scialpinismo in Georgia Silvia Stefanelli ...... 104 Camminare o fotografare? Mattia Pacorig...... 113 Cronaca sociale

COMMISSIONE ESCURSIONISMO Un cammino lungo quasi trent’anni Paolo Cignacco, Giorgio Di Giusto ...... 120

SCUOLA DI ESCURSIONISMO Aggiornarsi è bello Maria Luisa Colabove, Marco Morassi ...... 125

SCUOLA DI ALPINISMO La sicurezza prima di tutto e anche un po’ di sana goliardia ...... 129

ONC Akita Mani Yo Denia Cleri, Francesca Marsilio ...... 133 Quanti fiori sui nostri cammini! Dennis Michelutti ...... 137

ALPINISMO GIOVANILE Abbiamo adottato un sentiero! ...... 140

GAS La voglia Giorgio Daidola, Melania Lunazzi ...... 143

CORO SOCIALE Emozioni in Valle Imagna ...... 147

CULTURALE Un anno vissuto intensamente ...... 149

SOTTOSEZIONI Cosa ricorderemo del 2019 ...... 152

Montagna narrata EDITORIA Come è cambiato il racconto delle terre alte Linda Cottino .. 166

BIBLIOTECA SOCIALE I periodici di montagna Claudio Mitri ...... 169

NOVITÀ Giulie e Carniche: le nuove guide ...... 172

IL LIBRO L’avventura Giorgio Madinelli ...... 173

LEGGIMONTAGNA Siamo tutti climatologi Alex Cittadella ...... 176

POESIA La Chiusaforte di Pierluigi Cappello Caterina Licata ...... 179

LA LETTURA Come arrivai a conquistare la Capanna Nera Piero Dorfles ...... 185

LA FOTO Luciano Gaudenzio ...... 188

LA RELAZIONE DEL PRESIDENTE 7

UN RECORD DI SOCI

Antonio Nonino

Cari soci, si conclude quest’anno il mio secondo e ultimo mandato. Nella prossima as- semblea dei soci si rinnoverà il direttivo, che nominerà il nuovo presidente. L’assemblea del 2020 sarà quindi l’occasione per tratteggiare un consuntivo dell’esperienza di cinque anni. Ma ora concentriamoci su quello che è stato fatto quest’anno. Quello che si chiude è stato un anno importante, in cui abbiamo raggiunto (e superato) il traguardo storico di oltre 2600 iscritti: più precisamente, siamo arrivati al numero di 2619, un record degli ultimi anni per quanto riguarda tutta l’Alpina e un record assoluto di soci per quanto riguarda la sola sezione di Udine. È un risultato che premia l’intensa e qualificata attività di tutti i nostri opera- tori e che nel contempo ci impone un impegno sempre crescente, per soddisfare le attese dei soci e per mantenere in futuro uno standard di qualità che sia tale da soddisfare quelle attese. Ecco i dati del numero dei soci aggiornati alla data in cui va in stampa la rivista.

SOCI 2017 SOCI 2018 SOCI 2019

UDINE 1303 1386 1581

ARTEGNA 159 150 144

PASIAN DI PRATO 222 212 198

SAN DANIELE 219 219 224

TARCENTO 212 207 217

TRICESIMO 140 163 191

PALMANOVA 78 67 64

Totale complessivo 2333 2404 2619

Alba sul Monte Coglians (foto Marco Morassi) 8 Un record di soci LA RELAZIONE

È un dato che ci inorgoglisce, in un momento in cui il mondo dell’associazio- nismo in generale non sta attraversando un periodo felice. Si tratta della conferma della qualità dell’operato di tutti i nostri volontari come qualificati punti di riferi- mento, che sanno trasmettere la cultura e l’amore per la montagna. Siamo convin- ti che la montagna vada salvaguardata e sostenuta nella sua vocazione naturale, sia nella dimensione ambientale sia in quella economica, ma anche che non bisogna continuare a parlare di montagna come “problema”, ma come “opportunità”. L’attività della sezione è stata caratterizzata quest’anno (e continuerà a esser- lo in futuro) dall’impegno per ottenere un sempre miglior coordinamento fra i gruppi e per incentivare la massima collaborazione fra sezione e sottosezioni. A tale ultimo proposito, abbiamo constatato in generale una buona disponibilità al dialogo e al confronto (sia pure nei limitati spazi temporali consentiti dalle attività principali) e siamo molto soddisfatti nel vedere che i soci beneficiano reciproca- mente delle iniziative che reputano più interessanti, organizzate dalla propria o da altre sottosezioni. A questo risultato crediamo abbia contribuito anche la pro- grammazione coordinata che pubblicizziamo nel libretto annuale delle attività, che offre una gamma veramente ampia di possibilità, per tutti i gusti e per tutti i livelli di preparazione. C’è stata però anche una nota stonata. Dal primo novembre la sottosezione di Tricesimo si è costituita come sezione autonoma del Cai. Una decisione che ci ha sorpreso. Innanzitutto perché non ne capiamo la ragione: Tricesimo dista pochi chilometri da Udine e si trova al centro del territorio nel quale la Saf opera con le altre sottosezioni di Artegna, Palmanova, Pasian di Prato, San Daniele e Tarcento. In secondo luogo, perché l’aggregazione è oggi la scelta vincente per svariati mo- tivi (economie di scala, vantaggi organizzativi), mentre l’operazione, avviata con parere positivo a maggioranza del Comitato direttivo regionale e avvallata dal Cai centrale, va in direzione contraria, favorendo una polverizzazione, a danno di tut- ti. Non entro qui nel merito della procedura seguita per giungere a tale decisione, sulla quale abbiamo espresso le nostre osservazioni nelle sedi opportune. Qui mi preme ribadire la volontà e l’impegno della Società Alpina Friulana a dimostrare con i fatti, con l’attività dei volontari e di tutti i nostri organi e commissioni, la centralità del nostro sodalizio a rispondere alle esigenze di una sempre più vasta platea di frequentatori e amanti della montagna, che partecipano alle nostre atti- vità, dai corsi alle escursioni, dalle lezioni di cultura alpina alle iniziative culturali, trovando in noi la professionalità e la competenza che ci derivano da una lunga tradizione. Ma questa vicenda, di cui va pur riferito, non ha offuscato un 2019 che per noi è stato ricchissimo di soddisfazioni, non solo per l’aumento consistente dei soci, di cui abbiamo già detto. È motivo di orgoglio il numero degli iscritti ai corsi LA RELAZIONE Un record di soci 9 di alpinismo e di escursionismo, sempre crescente, e quello dei partecipanti alle escursioni sociali organizzate durante tutto l’anno. Siamo soddisfatti dell’offerta formativa completa e articolata offerta dalle scuole di alpinismo e di escursioni- smo, con gli otto corsi organizzati. La Commissione escursionismo ha organizzato ben 27 uscite, di cui alcune a indirizzo naturalistico e storico, alle quali si sono aggiunge le 24 uscite del Gruppo seniores, che vanta una vivace e partecipata attività in costante espansione. Il Gruppo alpinisti sciatori ha organizzato come sempre una serie di gite molto apprezzate anche fuori regione, alla ricerca di emozioni nel periodo dell’inverno caratterizzato da scarse precipitazioni nevose. E poiché riserviamo da sempre una particolare attenzione alle giovani gene- razioni, non possiamo non dare il giusto rilievo all’attività della Commissione di alpinismo giovanile “Diego Collini”, che ha effettuato quest’anno 23 uscite in ambiente. La Saf è inoltre attiva sia nella formazione, sia nella promozione nelle scuole, che coinvolgono centinaia di allievi e decine di insegnanti. Intensa è stata l’attività della Commissione culturale e divulgativa con la Rasse- gna dei film e dei protagonisti della montagna, giunta al 35° anno, e con le lezioni di cultura alpina “Nel nome del Friuli”, che hanno registrato il tutto esaurito pur essendo dedicate a un tema specialistico come la toponomastica. Nella sede sociale si sono svolte conferenze, proiezioni e incontri, a cui hanno partecipato illustri studiosi e protagonisti della montagna. Inoltre i soci hanno frequentato la ricca biblioteca della Saf, che vanta un patrimonio importante e viene aggiornata costantemente. La rinnovata collaborazione con il quotidiano Messaggero ha consentito a molti lettori di partecipare a quattro escursioni indirizzate alla conoscenza degli ambienti e della cultura di alcune delle comunità montane del nostro territorio. Ci siamo inoltre dedicati ai rifugi. Presidi sociali aperti alla frequentazione di tutti, ubicati in ambienti severi dal punto di vista climatico, proprio per questo richiedono continue manutenzioni. La disastrosa tempesta Vaia ha colpito grave- mente il rifugio Gilberti Soravito, rimuovendo il mantello di copertura con tutti gli accessori: i lavori di ripristino sono tuttora in corso, con i costi a valere in buona parte sulla copertura assicurativa e in misura minore sui finanziamenti che la Commissione Giulio Carnica Sentieri, Rifugi e Opere Alpine ha stanziato per i danni del maltempo. Una novità di rilievo riguarda inoltre il cambio della gestione del rifugio Divi- sione Julia, affidata dal primo agosto all’Associazione allevatori del Friuli Venezia Giulia, che già gestisce la vicina Malga Montasio. È continuata anche nel 2019 la meritoria ed efficace esperienza di Montagna- terapia in collaborazione con l’Azienda dei servizi sanitari di Udine. 10 Un record di soci LA RELAZIONE

La componente artistica della Saf, rappresentata dal coro sociale, ha raccolto lusinghieri successi anche fuori regione e ha allietato diversi incontri istituzionali della sezione. Come sempre attive sono state anche le sottosezioni di Artegna, Palmanova, Pasian di Prato, San Daniele, Tarcento e Tricesimo, con la programmazione di numerose escursioni e di validi programmi culturali. L’annuale assemblea sociale ha approvato all’unanimità i documenti contabili della sezione e nominato i nuovi consiglieri, subentrati a quelli scaduti. Non è stato invece possibile approvare in assemblea le modifiche statutarie a suo tempo proposte dal consiglio direttivo, perché la nuova normativa sulle organizzazioni di volontariato appartenenti al terzo settore manca dei decreti attuativi, che consen- tiranno di individuare tutti gli elementi giuridici obbligatori da inserire nello sta- tuto (quindi si è dovuto rinviare alla prossima assemblea). Importante è però che la Saf abbia scelto di appartenere alle organizzazioni di volontariato registrate per poter accedere a tutte le forme di finanziamento del settore. Già nel primo bando regionale, recentemente chiuso, partecipiamo come partner in due iniziative: con la Società filologica friulana al progetto “Identità (in) rivista”, e con l’Università della terza età di Udine al progetto “Il diritto a non essere soli”.

La Società Alpina Friulana ha avviato una raccolta fondi per aiutare la Carnia colpita dalla tempesta Vaia di fine ottobre 2018. Nella foto, la consegna dell’assegno alla sezione Cai di Forni Avoltri con il presidente Antonio Nonino, i rappresentanti di Saf, Cai Palmanova, Cai San Daniele e Arte & Sport, che hanno partecipato alla sottoscrizione. LA RELAZIONE Un record di soci 11

Quest’anno abbiamo inoltre rinnovato la tradizione del Convegno Sociale, che si è svolto il 10 novembre a Sella Nevea con importanti relazioni. Con soddisfazione registriamo che ci sono quattro nuovi titolati: Michele Durì ha conseguito il titolo di IAL (istruttore di arrampicata libera), Mauro Rizzo quel- lo di AC (accompagnatore di cicloescursionismo), Riccardo Maida e Giorgio di Giusto di ASE (accompagnatore sezionale di escursionismo). Ricordo infine che l’intensa attività della sezione è stata coordinata dai presi- denti di tutti i gruppi e realizzata con i collaboratori, i cui nomi sono riportati nel libretto del programma 2020 (che invito a consultare). A loro va il mio ringrazia- mento a nome di tutti i 2619 soci della Società Alpina Friulana. Un particolare ringraziamento va anche alla segreteria e ai volontari dello spor- tello, che ha svolto un eccellente servizio per i soci. Alla direzione di In Alto, nella rinnovata veste grafica iniziata lo scorso anno, esprimo il mio apprezzamento per i validi contributi che contiene anche in questo numero. Grazie, infine, al consiglio direttivo, che ha assunto le decisioni relative alla gestione della Saf, e al Collegio dei revisori dei conti, per il controllo contabile svolto con il massimo scrupolo. Buona lettura e un augurio per un felice 2020!

EDITORIALE 13

LA MONTAGNA IN PUREZZA

Alessandra Beltrame

Questo In Alto è dedicato alle nostre Alpi Giulie, che nel 2019 sono diventate Riserva mondiale di Biosfera Unesco. Ed è dedicato anche ai ghiacciai alpini. Si apre ricordando Marcello Bulfoni, figura esemplare di uomo e alpinista, con un ritratto a tre voci (De Rovere, Scalettaris, Scarsini). Delle Alpi Giulie parliamo nella sezione di pensieri e studi sulla montagna (Stefano Santi, Alessandro Piussi), così come dei cambiamenti climatici che in- fluenzano le precipitazioni e trasformazioni della neve (Daniele Moro). La storia e l’archivio dell’Alpina occupano un posto di rilievo con due riscoperte: Antonio Feruglio, a cura di Giovanni Duratti, e il ritratto di Celso Gilberti firmato da Na- poleone Pellis (Vania Gransinigh). Un’occasione, quest’ultima, per riparlare del grande rocciatore (Umberto Sello). Altrettanto appassionante è la storia dell’al- pinismo friulano degli ultimi cinquant’anni (Roberto Simonetti). Spazio anche alla toponomastica, argomento delle lezioni di cultura alpina (Cinausero Hofer e Dentesano). Marino Tremonti ci riporta agli anni dell’alpinismo di esplorazione. Con Marco Milanese saltiamo (letteralmente) all’ebbrezza dei nuovi alpinismi. Il reportage in Georgia di Silvia Stefanelli è un’avventura in purezza come ce ne sono poche. Un focus sulla fotografia dà voce alle semplici domande di tanti escursionisti (Mattia Pacorig). Cronaca sociale ricchissima, e non poteva essere altrimenti, visto il record di soci. La montagna narrata spazia dall’editoria (Cot- tino) alle nuove guide (D’Eredità, Zorzi, Madinelli), dal premio Leggimontagna (Cittadella) allo “ski spirit” di Giorgio Daidola (ospite della cronaca del Gruppo alpinisti sciatori) fino alla poesia, con un itinerario sui versi di Pierluigi Cappello (Licata) e si chiude con un racconto originale di Piero Dorfles. Pagina finale, un’immagine di Luciano Gaudenzio, protagonista del Film Festival 2020, al quale parteciperanno anche Stefanelli, Milanese, Duratti, Cittadella: approfondiranno dal vivo, assieme ad altri ospiti, i temi toccati nel presente volume. Questo In Alto dà conto, come tradizione, dell’anno che si chiude, ma già guarda al futuro. Oggi, domani e sempre, buona montagna in purezza a tutti!

Val Saisera (foto di Ulderica Da Pozzo) 14 IN MEMORIA

MARCELLO BULFONI

Alpinista puro, intransigente, fortissimo, la prima guida alpina della regione. Se n’è andato il 15 gennaio a 80 anni. Tre amici ricordano una vita di scalate, battaglie, profondo amore per la montagna. E battute fulminanti

Attilio De Rovere

Marcello in montagna l’ho incrociato poche volte e quasi sempre per caso. Ci sia- mo frequentati, siamo diventati amici grazie alla passione per l’alpinismo. Eppure non siamo mai andati in montagna assieme. La prima volta che incontrai Marcello fu sullo spigolo del Glemine. Io, ragaz- zino di 15 anni, salivo da solo, slegato, in scarpe da ginnastica. Lui era in cordata, seguito da un compagno che doveva essere alle prime armi. Li raggiunsi sopra il passaggio della placca, il punto più difficile della via. Marcello era in sosta con un voluminoso zaino sulle spalle. Mentre lo superavo, accennai un timido saluto. Per risposta ottenni solo uno sguardo di severa disapprovazione. L’anno successivo, la scena si ripetè in Riobianco, sulla Terza Rampa della Vetta Bella, con un copione praticamente invariato. Anche quel giorno, quando lo raggiunsi, Marcello mi fulminò con lo sguardo senza proferir parola. Negli anni successivi, ripetei gran parte delle più difficili vie che Marcello ave- va aperto nelle Alpi Carniche e Giulie. Fra queste, le più belle e impegnative sono senza dubbio quelle da lui tracciate nel Gruppo Sernio-Creta Grauzaria. La parete Nord della Torre Nuviernulis, il diedro dell’Anticima Est della Creta Grauzaria, la parte inferiore dello Spigolo Nord della Cima della Sfinge. In quegli anni ho percorso tantissime vie di arrampicata. E una via di Marcello la ricordo tra quelle che più mi erano piaciute: il diedro della parete Nord della Torre Nu- viernulis. Una via in fessura, breve, ma impegnativa, continua ed atletica. Poi in quegli stessi anni sulla stessa parete ho anche aperto una via nuova, che si svolge parallela al Diedro Bulfoni. Anche su questa parete la mia carriera alpinistica e quella di Marcello hanno viaggiato parallele, senza mai incrociarsi. Marcello cominciai a frequentarlo solo qualche anno più tardi, quando di- venni guida alpina. Ci incontrammo alle riunioni del Comitato Guide Alpine del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, che allora formavano un unico gruppo. Fu allora che iniziai a conoscerlo più a fondo e a frequentarlo. E piano piano IN MEMORIA Marcello Bulfoni 15

scoprii un uomo generosissimo verso gli amici, ma anche capace di rancori pro- fondi e insanabili verso chi gli aveva fatto un torto o che in qualche modo lo aveva deluso. Capii subito che la “causa” delle guide alpine friulane e l’obbiettivo del rico- noscimento della professione in Friuli per lui rappresentava una sorta di missio- ne. Così io, la prima guida alpina patentata in Friuli dopo Marcello e Sergio De Infanti, non potei esimermi dal partecipare a quell’impresa. E così, in quegli anni, divenni per Marcello una sorta di segretario. Ricordo ancora l’appuntamento nello studio del notaio (e alpinista) Marino Tremonti, quando, assieme a Sergio De Infanti, costituimmo la prima associazio- ne di categoria delle guide alpine del Friuli Venezia Giulia. Non esisteva ancora una legge nazionale che regolamentasse la professione e così costituimmo un’as- sociazione regionale per tutelare e valorizzare la figura professionale nel nostro territorio. Poi quando fu approvata la legge quadro nazionale, iniziò la “battaglia” di Marcello per far approvare la legge regionale. Io mi occupavo di redigere docu- menti e richieste. Marcello si incaricava di recapitarli personalmente a funzionari

Marcello Bulfoni (al centro) nel giorno della nomina a guida emerita. Sono con lui le guide alpine del Fvg Enrico Mosetti, Sergio De Infanti, Attilio De Rovere, Andrea Fusari, Alex Corrò (foto Marko Mosetti) 16 Marcello Bulfoni IN MEMORIA e politici. Fu un iter lungo e difficile. D’altra parte si trattava di fare una legge per quat- tro gatti e quindi non era facile scomodare assessori e funzionari. Marcello si spese per la causa con ogni mezzo. Un giorno mi rac- contò che aveva telefonato a casa, alle quattro del mattino, a un funzionario regionale che in ufficio gli si negava, per ricordargli che la legge delle guide alpine non poteva rimanere sepolta sulla sua scrivania sotto tutte le altre pratiche. La tenacia di Marcello e i suoi me- todi non sempre ortodossi alla fine l’ebbero vinta (o forse i nostri politici e funzionari si arresero per sfinimento). Ricordo la serata in consiglio regionale in cui fu approvata la legge. Io e Marcello eravamo soli nei posti ri- servati al pubblico. Per Marcello il risultato ottenuto quella sera fu paragonabile alla con- quista della vetta di un ottomila. Marcello aveva cominciato a lavorare da ragazzino come operaio nel settore della fale- gnameria e poi era diventato un abile artigiano. Mi ha raccontato molte volte dei duri anni di apprendistato come garzone di bottega nei primi anni ‘50. Marcello era giustamente orgoglioso delle sue abilità di falegname ed ebanista. Non aveva alcun senso di inferiorità verso coloro che avevano studiato o che erano nati in classi sociali più elevate. Anzi: con molti di questi, con cui andava in montagna o che frequentavano la sua falegnameria per commissionargli grandi o piccoli lavo- ri, era entrato in grande familiarità. Ciò che non sopportava erano invece alcuni circoli alpinistici che andavano per la maggiore negli anni in cui aveva cominciato ad arrampicare. La scelta di diventare guida alpina era stata anche un modo per affrancarsi all’ambiente pic- colo borghese e conservatore di una parte dell’alpinismo friulano e delle scuole di alpinismo del Cai. Più volte mi ha raccontato di quando il sabato, negli anni 50, dopo aver lavo- rato fino a mezzogiorno, partiva in bicicletta da Pagnacco per raggiungere Be- vorchians e andare a scalare in Grauzaria. Spesso, dopo Moggio, veniva superato dall’auto degli alpinisti della Saf e restava indietro a pedalare nella polvere. Loro

1976: Marcello Bulfoni sulle Ande (archivio famiglia Bulfoni) IN MEMORIA Marcello Bulfoni 17 non si fermarono mai a offrirgli un passaggio, lui d’altra parte non lo avrebbe chiesto per nessuna ragione al mondo. Era una sorta di sfida tra due mondi. Anche perché lui era riuscito a salire per primo alcune delle vie tentate inutilmente da quelli stessi alpinisti che gli face- vano mangiare la polvere lungo la strada della Val Aupa. Una fra tutte, il diedro dell’Anticima Est che aveva respinto anni prima Oscar Soravito e compagni. Marcello non parlava quasi mai delle sue ascensioni, delle vie percorse, delle difficoltà superate. Come altri alpinisti di valore che ho conosciuto (uno fra tutti: Ignazio Piussi), preferiva parlare degli uomini che aveva incontrato in montagna e di quelli con cui si era legato in cordata. Della stima che aveva per alcuni e della pochezza di altri. Marcello era un idealista e non sopportava la meschinità di chi si muoveva prima di tutto per il proprio interesse. Marcello lo andavo spesso a trovare a casa sua. La visita iniziava immanca- bilmente dal suo laboratorio di falegnameria, dove trascorreva l’intera giornata quando non era in giro per le montagne. Per prima cosa, non appena arrivavo, mi mostrava con giustificato orgoglio l’ultimo dei lavori che stava nascendo tra le sue mani o il disegno che aveva abbozzato del lavoro successivo. Erano quasi tutti lavori commissionati da coloro che stimava e considerava suoi amici: la gigantesca libreria vetrinata alta tre metri e larga cinque per la biblioteca dell’alpinista dai nobili natali; la scala in legno massiccio con un trave portante lungo sei metri per la nuova casa del figlio di un altro ex compagno di cordata; il mio vecchio cassettone di noce mangiato dai tarli, rimesso a nuovo e abbellito da preziosi intarsi; il tavolo di acero massiccio per Tarcisio, il gestore delle Casa delle guide di Sella Nevea, uno dei suoi amici più cari ma anche vittima predestinata dei suoi scherzi feroci. In un angolo della falegnameria c’erano invece i lavori che Marcello non si decideva mai a prendere in mano. “Guarda che razza di rudere mi ha portato l’av- vocato” e mi mostrava i resti di un cassettone di abete impiallacciato di proprietà di un altro alpinista della Saf. Dopo la visita alla falegnameria, venivo immanca- bilmente invitato in casa a bere un caffè, che ci preparava sua moglie. Il caffè lo bevevamo sul tavolo in cucina, o in salotto, tra le scansie ingombre di libri e riviste di montagna. Su uno scaffale, facevano bella mostra di sé quasi tutti i volumi della collana Monti d’Italia. Alle pareti, le incisioni di Micossi con le vedute delle Alpi Giulie e tanti quadri e foto di montagna. Ricordo l’ultima visita a casa sua lo scorso dicembre. Mi disse “Ora basta la- vorare per gli altri, voglio fare qualcosa per me.” E mi portò a vedere dei grossi tavoloni di faggio accatastati nel magazzino. “Voglio costruirmi un nuovo banco- ne da falegname e poi, quando lo avrò finito, mi costruirò un violino”. Ma si sa: calzolaio gira sempre con le scarpe rotte. E forse da qualche parte sta scritto che anche il falegname può lavorare solo per gli altri e mai per se stesso. 18 Marcello Bulfoni IN MEMORIA

Aldo Scalettaris

“Secondo me potrebbe trattarsi di un noce morto in piedi”. Questo era stato il responso di Marcello dopo avere esaminato attentamente il vecchissimo tavolino. Era un tavolino zoppo, privo di una gamba, proveniente da una vecchia casa di famiglia nel Tramontino, ridotta a poco più di un rudere, senza il tetto, crollato chissà quando, nascosta nel folto del bosco in montagna. L’avevo caricato in spalla e portato a fatica fino all’auto. Dopo maldestri tentativi personali di restauro ero ricorso a Marcello per quan- to necessario. “Secondo te, come mai è così basso?” gli avevo chiesto. “Probabilmente per- ché era di un nano, che teneva le sue cose in questo cassettino”. Questa era stata la scherzosa risposta di Marcello, con un accenno di sorriso. Quel tavolino è diventato uno degli oggetti più cari che si trovano in casa, come altri mobili che Marcello aveva riportato a nuova vita con le sue abili mani. Mani che conservavano – avevo notato – intatte tutte le dita, caratteristica non

Ritratto di Marcello Bulfoni sullo sfondo delle Tre Cime di Lavaredo (archivio Tiziano Scarsini) IN MEMORIA Marcello Bulfoni 19 frequente dei falegnami di una certa età. Quasi che Marcello avesse voluto, con cura e attenzione, conservare integre quelle mani, indispensabili per continuare a svolgere la sua duplice attività di falegname e di guida alpina. Difficile dire se fosse più bravo e si realizzasse meglio nel suo laboratorio o in montagna. Amava il legno e la roccia in ugual misura. Marcello è stato la prima guida alpina della regione. Lungo il sentiero, camminando per raggiungere il rifugio o l’attacco della via o il malcapitato o imprudente rimasto incrodato, raccontava con modestia delle vie aperte. Ma parlava soprattutto dei compagni, quasi che per lui fosse più importante il legame con l’amico rispetto alle caratteristiche e alla notorietà della salita. In montagna era a casa sua. Era l’affiatamento che mostrava con l’ambiente a rimanere impresso a chi aveva l’occasione di essergli compagno. E non par- lava soltanto di montagne note o prestigiose, ma anche del semplice e modesto Glemine, che amava particolarmente, considerandolo forse un passaggio interme- dio tra la sua casa immersa nel verde di Zampis di Pagnacco e la montagna vera e propria. Negli ultimi anni, raccontandomi della sua attività, non incontrava la minima difficoltà nel confessare il normale e naturale ridimensionarsi dei suoi obiettivi alpinistici. Insomma: l’impressione era che per lui fosse più importante l’essere e l’andare in montagna che l’affrontare salite difficili e note. Il padre di una mia amica era cliente abituale di Marcello e il rapporto che si era instaurato fra loro, più o meno coetanei, mi ricordava il rapporto che esisteva un tempo tra guida e cliente, tra Kugy e Oitzinger, per esempio. Profondo affetto, reciproco rispetto, affiatamento, condivisione degli obiettivi, capacità di affronta- re con il sorriso la rinuncia, se necessario. Marcello era estremamente prudente, arrampicando, ed era orgoglioso di ave- re sempre scelto vie, anche estremamente difficili, alla sua portata e di non avere mai avuto necessità dell’aiuto di qualcuno per tornare a casa. Un bel giorno ho accompagnato il padre della mia amica sulla Preuss alla Pic- colissima. Tutto bene, nessun problema. Aldo (condividevo con lui il nome di battesimo) mi sembrava felice e io ero molto soddisfatto. Giunti in cima, mi ha detto: “Bene, molto bene. Certo che, però, andare in giro con Marcello è un’altra cosa!”. Ho accolto il commento con un sorriso, condividendo in pieno l’osservazione. Marcello non frequentava molto l’ambiente alpinistico, non lo si vedeva quasi mai nella sede della Saf – che definiva scherzosamente “il mausoleo” – o in oc- casione di qualche ritrovo programmato. Eppure era sempre aggiornatissimo su 20 Marcello Bulfoni IN MEMORIA tutto ciò che riguardava la montagna, le salite fatte da questo o da quello, le vie nuove aperte, i problemi irrisolti, i comportamenti più o meno corretti da parte degli alpinisti. Mi sono a lungo interrogato su questa particolarità e, alla fine, credo di avere trovato la soluzione: non solo per me, ma per tanti altri appassionati di monta- gna, la sua abitazione di Pagnacco costituiva un sicuro approdo, un accogliente rifugio. Da quella abitazione e dai suoi abitanti, da Marcello e da Luigina, dal giardino curato, dall’orto coltivato con amore, dallo spolert acceso, dalla libreria colma di volumi alpini ben ordinati, traspariva grande serenità.

Tiziano Scarsini

Il primo grande alpinista della storia, quello che salì sul Sinai a recuperare le tavole della legge, rigorosamente in solitudine per meglio percepire il vuoto, la vertigine, il silenzio del vento e la divinità che avvolge la cima, lo avrebbe di si- curo voluto con sé. Marcello era della stessa pasta e le sue grandi imprese, poco documentate, avvolte nella riservatezza e a conoscenza di pochi lo dimostrano. In pochi hanno avuto la fortuna di legarsi alla sua corda; il resto lo ha fatto in solita- ria. Di queste grandi imprese ha scritto tutto su un diario che ho avuto il privilegio di leggere. Mi disse che il libriccino, con la copertina in cartone nero lucido e il dorso rosso, glielo aveva donato un grande alpinista di Cave del Predil negli anni 60, del cui gruppo facevano parte anche Ignazio Piussi e Berto Perissutti, con l’in- vito a scrivere tutte le sue ascensioni. Con scrittura elegante, sottile, leggermente piegata a destra, Marcello Bulfoni aveva documentato tutto un periodo, quello che lo ha visto nascere come alpinista prima e come guida alpina poi. Delle sue altre imprese si trova traccia solo negli archivi del Cai di Gorizia, sezione cui era legato. Nessun altro, scrittori, giornalisti (meno uno, quel Massimo che cita in un unico suo scritto) e molte altre persone che volevano conoscerlo e scrivere sul suo passato alpinistico, è riuscito ad avvicinarlo. Una volta soltanto, a un carissimo amico, scrisse la prefazione a una guida (IV Grado) che raccoglie tutte le migliori vie alpinistiche delle Alpi Orientali. Entrare nelle sue simpatie, dunque, non era affatto facile. Uomo essenziale, che andava subito al nocciolo e alla verità delle cose, senza girarci intorno e in poche parole povere, come usava dire. Se non eri su questa linea, con lui non c’era speranza di allacciare alcuna relazione. L’ho conosciuto sul Passo di Monte Croce Carnico. Con i compagni del tempo salivo lo spigolo De Infanti. Si procedeva in due cordate, lentamente perché tutto il grande pilastro era ancora umido. Io ero reduce da una brutta lussazione alla IN MEMORIA Marcello Bulfoni 21

caviglia destra procuratami nella discesa dalla Direttissima delle Cenge, per cui procedevo con cautela, avendo ancora la caviglia gonfia, che non mi permetteva di usare le scarpette, se ne stavano infatti appese all’imbrago, mentre ai piedi cal- zavo gli scarponcini. Alla terza sosta, sento che dietro di me sale un’altra cordata. Capisco subito che il primo era uno che di montagna ne masticava molta, da come si muoveva e dai consigli che dava al secondo. Era un professionista, senza dubbio, ed ebbi la conferma quando mi raggiunse, si assicurò e iniziò il recupero senza nemmeno porre lo sguardo sulle manovre che stava facendo, soffermandosi invece sulle mie scarpette che dondolavano dall’imbrago. Incrociai il suo sguardo, dal quale traspariva disapprovazione, ma non disse nulla, a parte salutarmi prima della mia partenza. Sentii poi la sua voce, quando ero alto sopra di lui: diceva al ragazzo che portava con sé che mai avrebbe dovuto fare una cosa simile, da incosciente, come avevo fatto io e gli disse che io ero uno che di montagna ne ca- piva poco. Parole che mi sono risuonate come pesante monito fino all’uscita dalla via, quando il compagno mi disse che quell’alpinista era Marcello Bulfoni, prima guida alpina del Friuli Venezia Giulia. A quel punto raccattai tutta la ferramenta, ordinai le corde e misi tutto nello zaino velocemente, con la speranza di scendere senza incontrarlo di nuovo. Ebbi modo di rivederlo e di conoscerlo bene quando Tarcisio, gestore della Baita di Sella Nevea, dal quale spesso mi fermavo al rientro dalle arrampicate in

Maggio 2012: Marcello Bulfoni sullo spigolo del Glemine (foto Tiziano Scarsini) 22 Marcello Bulfoni IN MEMORIA quella zona, mi chiese se potevo aiutarlo a fare un trasloco. Si era alle prese col tra- sporto e la sistemazione di mobili, quando sentii in lontananza il rumore inconfondi- bile di una moto Guzzi 500, a bordo della quale, dopo che si era tolto il casco, rico- nobbi proprio lui. La sua forte stretta di mano mi fece scricchiolare tutte le falangi delle dita. Mi riconobbe subito e, alzando il dito indice della possente mano destra in senso di richiamo solenne, mi disse: tu sei quello che arrampicava con le scarpet- te appese. Cercai di spiegarmi, mentre lui annuiva fissandomi col suo sguardo di ammonimento. E finì lì. Continuai a la- vorare seguendo i suoi consigli e nel con- tempo a rispondere alle sue innumerevoli domande sulla montagna e su molto altro. Un piacevole interrogatorio, durato fino a tarda sera. Capii che, nonostante tutto, avevo fatto breccia in quest’uomo rupe. Ci scambiammo i contatti e lui, dopo aver indossato la caratteristica giacca delle guide alpine e il casco, mise in moto la Guzzi e, facendola oscillare tra il cavalletto ancora alzato e le due ruote, partì. Iniziammo a sentirci e a frequentarci con assiduità, io a dire il vero con timore, perché mi trovavo al cospetto di un alpinista unico. Un giorno che la mia corda venne ben ramponata da persone che accompagnavo sul Grossglokner, colsi l’oc- casione per chiedergli un consiglio. Lui subito si rese disponibile, tant’è che venne con me il giorno dell’acquisto della corda, con la promessa che la prima volta l’avremmo usata insieme, ripetendo una via da lui aperta nel gruppo della Grau- zaria. Ma prima, disse, voglio vedere come ti muovi e scelse come banco di prova il Glemine. Ci accordammo per il giorno, che arrivò molto presto. Pensando alla variante di cui mi aveva parlato, portai con me tutta la ferramenta che possedevo. Una volta tolta dallo zaino e sistemata, mi resi conto di quanto fosse esagerata rispetto alla sua, essenziale e minima. Conoscendo bene la sua abitudine a mai concedere il passo di primo di corda- ta, gli porsi il capo della corda e timidamente feci due passi indietro e lì rimasi in

Anni ‘60: Marcello Bulfoni durante l’apertura di una via (archivio Tiziano Scarsini) IN MEMORIA Marcello Bulfoni 23 attesa della sua partenza. Con stupore lo sentii dirmi di procedere, usando tutte le sicurezze durante la progressione. Superata la sosta, dopo aver dato un veloce sguardo a ciò che facevo, proseguì lui, dicendomi che avrebbe fatto una variante. L’agilità e la forza con cui si muoveva erano straordinarie. Comandavo il mez- zo barcaiolo nel suo continuo scorrere, fino a quando il movimento si fermò. Attesi in silenzio e vidi la sua sagoma dolcemente calare verso di me. Mi disse che non riusciva a superare il passaggio che si trovava poco più in alto perché un dolore al ginocchio gli era sorto all’improvviso. Tra me e me, pensai che mai ci sarei riuscito. Ma lui, dopo aver incrociato il mio sguardo di apprensione, mi disse che io lo avrei superato, suggerendomi alcuni consigli. Il resto della salita è stato pura vertigine e divertimento. Mi concesse pure di fargli qualche foto, nonostante le prime riluttanze. Dopo una possente stretta di mano e un abbraccio che quasi mi tolse il respiro, disse che ancora mi avrebbe legato alla sua corda. Una veloce discesa in doppia dal “cret inclin” e via in birreria a brindare. Il frizzante e gustoso liquido deve avergli suscitato ricordi ed emozioni, per cui iniziò a parlare delle arrampicate fatte insieme con Maria Pia e Toni, il mastro birraio delle birreria Moretti. Lo aveva colpito la mia passione per gli aerei scomparsi sulle Alpi durante la seconda guerra mondiale. Mi segnalò diverse volte resti avvistati durante gli av- vicinamenti agli attacchi delle vie, con preziosi suggerimenti sui siti. E in questo coinvolse anche Claudio Carratù, al quale era legato da una forte amicizia, che con pazienza e disponibilità mi indicò sulla carta topografica altri siti. Quando seppe che avevo concluso le ricerche su un aereo di nazionalità inglese disperso dal 1944, del quale neanche i britannici avevano più notizie, si rese disponibile ad accompagnare sul luogo dello schianto me e altri ricercatori, due dei quali non erano pratici di montagna, per collocare una targa alla memoria. In quell’occa- sione adottò, nei passaggi esposti, tutte le sicurezze e la tecnica del professionista della montagna qual era. Iniziò la sua grande e ultima salita una sera del mese di gennaio, dal suo stu- dio dove era solito preparare le grandi imprese, questa volta senza consultare né meteo né relazioni. Iniziò così l’esplorazione di quella parte di infinito che molte volte osservò, in religioso silenzio e raccoglimento, al confine tra terra e cielo.

PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

Il carsismo estremo del Canin, Alpi Giulie (foto Luciano Gaudenzio) 26 MONTAGNE UNESCO

LE NOSTRE GIULIE RISERVA MONDIALE!

Il 2019 sarà ricordato per l’eccezionale riconoscimento MaB Unesco (Man and Biosphere), assieme a luoghi mitici come le Galapagos e le Montagne Rocciose. Una conferma del valore ambientale e storico-culturale delle nostre terre alte e una garanzia per il loro sviluppo sostenibile: ce lo racconta il direttore del Parco che ha coordinato il percorso di candidatura

Stefano Santi

La certificazione è arrivata il 19 giugno scorso a Parigi, nell’ambito della 31a sessione dell’International Coordinating Council of the Man and the Biosphere Programme (MaB): il territorio di undici comuni della montagna friulana è stato riconosciuto dall’Unesco come Riserva della Biosfera. L’area coinvolta è quella di Artegna, Chiusaforte, Dogna, Gemona del Friuli, Lusevera, Moggio Udinese, Montenars, Resia, Resiutta, Taipana e Venzone: oltre 715 chilometri quadrati di estensione, suddivisi fra Prealpi e Alpi Giulie. E proprio “Alpi Giulie Italiane” è il nome della Riserva, che si affianca a quella limitrofa delle “Julijske Alpe”, le Alpi Giulie Slovene, con lo scopo di costituire in futuro un’unica grande Riserva transfrontaliera. Entriamo così a far parte di una rete internazionale che comprende 701 Riser- ve disseminate in 124 Paesi e ci affianchiamo a luoghi arcinoti e mitizzati, come il Vesuvio o le Isole Galapagos, le Montagne Rocciose o il Mont Ventoux. Un traguardo, questo, che è di estrema importanza e che dà lustro a tutta la regione Friuli Venezia Giulia, confermandone una volta di più le straordinarie caratteristiche naturalistiche, paesaggistiche e storico-culturali. L’acronimo MaB significa Man and the Biosphere, ovvero Uomo e Biosfera, e dà il nome a uno dei più importanti programmi dell’Unesco, che è l’Organizzazio- ne delle Nazioni Unite per l’educazione, le scienze e la cultura. MaB è nato negli anni ’70 allo scopo di migliorare il rapporto tra uomo e ambiente e per ridurre la perdita di biodiversità attraverso la ricerca, lo sviluppo, l’educazione, le iniziative legislative e infrastrutturali. Le Riserve della Biosfera riconosciute impegnano gli Stati membri a gestirle al fine della conservazione delle risorse e per uno sviluppo sostenibile, nel pieno coinvolgimento delle comunità locali. Proprio questo impegno è stato una delle principali ragioni che hanno spinto PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Le nostre Giulie riserva mondiale! 27

il Parco naturale regionale delle Prealpi Giulie a candidare questo vasto territorio, che oggi ospita oltre 22 mila abitanti: la volontà di fare in modo che un territorio straordinario dal punto di vista della natura, della cultura, delle tradizioni e dei paesaggi possa ancora offrire una concreta possibilità a quanti vi risiedono di continuare a vivere qui, sperimentando percorsi di sviluppo sostenibile, fondati sulla ricchezza ambientale. Il cammino per giungere al riconoscimento non è stato facile, né breve. È ini- ziato ben otto anni fa, nel 2011, prima con il coinvolgimento dei sei comuni del Parco, poi con l’adesione di Artegna, Dogna, Gemona del Friuli, Montenars e Taipana, che hanno sposato l’idea e così hanno attivamente contributo al risultato finale. Come pure hanno fatto enti e associazioni che hanno fornito proposte, idee e materiali utili alla redazione del corposo dossier di candidatura da presentare al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, interlocutore italiano dell’Unesco per il programma MaB. Fondamentale, in tal senso, è stato l’apporto delle amministrazioni comunali, della Regione, dell’Università di Udine, dei due Ecomusei presenti sul territorio e delle Pro Loco. Abbiamo capito infatti, al momento della proclamazione, che la

Settembre 2019: il massiccio del Canin al tramonto, visto dalle malghe del Montasio (foto Andrea Piussi) 28 Le nostre Giulie riserva mondiale! PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

Commissione ha apprezzato in particolare la varietà dei paesaggi e la ricca biodi- versità della zona, che ospita al suo interno un Parco, una Riserva naturale e anche numerose aree della rete europea Natura 2000. Inoltre, ha colpito che qui siamo un crocevia di culture diverse ma con una forte vocazione alla transfrontalierità, nonostante un territorio segnato a lungo da dolorosi confini. Non meno apprezzata è stata l’eccezionale capacità di ripresa dopo un terre- moto, con il concreto e positivo esempio di Venzone. Non secondario è risultato il lavoro fatto in questi anni con i giovani nei settori dell’educazione ambientale e per la pace, oltre che nella promozione e conserva- zione delle tradizioni locali, materiali e immateriali, come il cibo, la cucina e le coltivazioni autoctone. Ora la Riserva di Biosfera “Alpi Giulie Italiane” va ad arricchire il già cospicuo bouquet dei luoghi riconosciuti come eccezionali dall’Unesco nella nostra Regio- ne: la Riserva di Biosfera MaB di Miramare, le Dolomiti Friulane inserite nel Pa- trimonio mondiale, così come Aquileia, Cividale, Palmanova e il Palù di Livenza. Le prime attività della neocostituita Riserva di Biosfera “Alpi Giulie Italiane”

Il papavero delle Giulie e il Canin sullo sfondo (foto Elena Mattiussi) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Le nostre Giulie riserva mondiale! 29

saranno l’istituzione di un comitato tecnico-scientifico con le università e i musei di storia naturale della Regione; la definizione di un logo che identifichi questo territorio e l’elaborazione di un piano di azioni di respiro decennale che tratteggi la visione di sviluppo sostenibile del territorio e delle sue comunità. Per ribadire la centralità del coinvolgimento delle giovani generazioni, verrà costituita la Consulta dei giovani della Riserva di Biosfera. Come pure verrà dato avvio alle attività che porteranno verso il raggiungimen- to di un altro traguardo, che ci piace definire “un sogno che sta per diventare realtà”: la nascita di una nuova, unica Riserva di Biosfera transfrontaliera che racchiuda in sé tutte le Alpi Giulie e il loro magico mondo.

Stefano Santi È direttore del Parco naturale regionale delle Prealpi Giulie dal 2004, componente del gruppo di lavoro sulle aree protette transfrontaliere di Europarc (la fe- derazione europea dei Parchi) e verificatore della Carta europea del turismo sostenibile. Laureato in Scienze agrarie, è stato consigliere comunale del suo paese, Buja (Udine) per 14 anni, passati quasi interamente all’opposizione

La coturnice è uno degli animali più preziosi del Parco (foto Paolo Da Pozzo) 30 ALPI GIULIE UNESCO

IL VALORE DELLA GEODIVERSITÀ

La storia di queste montagne attraverso le rocce. Non solo Canin, Montasio e Mangart, ma anche una varietà stupefacente di calcari e paesaggi fra le valli Raccolana e Resia, Canal del Ferro e Valcanale

Alessandro Piussi

La ricca biodiversità e la varietà di paesaggi delle Alpi Giulie, che hanno contri- buto all’inclusione fra le Riserve di Biosfera Unesco, sono strettamente legate alla sua geodiversità. Si tratta della molteplicità dei caratteri geologici (rocce, minera- li, fossili), geomorfologici (forme, processi), idrologici e pedologici (ovvero legati a composizione, genesi e modificazione del suolo), che ne influenzano le caratte- ristiche ecologiche e gli aspetti paesaggistici. Se la biodiversità ha i tempi dinamici dei viventi, i tempi della geodiversità sono quelli lenti, per noi eterni, degli eventi geologici e geomorfologici: l’ordine di grandezza è per i primi dei milioni di anni, per i secondi delle migliaia, comunque inconciliabili con i tempi dell’uomo e della sua percezione dei cambiamenti. Le Alpi Giulie occidentali, che corrispondono alla porzione italiana, sono co- stituite da una successione di rocce risalenti a un periodo fra il Permiano e il Cretacico, con un nucleo prevalentemente Triassico. Rocce sedimentarie, infram- mezzate localmente da rocce vulcaniche, che presentano prevalentemente strati inclinati debolmente verso meridione, disposte in fasce orientate est ovest, con le più antiche a nord e le più recenti a sud. Osservando le Giulie dallo sbocco della Val Saisera, le rocce sulle sommità sono dolomitiche. In primo piano, la Dolomia dello Schlern, che costituisce gli arroton- dati rilievi dello Jof di Miezegnot e della Cima dei Cacciatori. Sullo sfondo c’è inve- ce la potente formazione della Dolomia Principale, nelle cui bancate sono scolpite quasi per intero le possenti pareti nord del gruppo dello Jof Fuart e del Montasio. In entrambi i casi si tratta di dolomia triassica, originario deposito marino di sco- gliera, ma in forme e aspetti diversi: nel primo caso fortemente fratturata, con rocce dalla colorazione grigio-chiara, friabili, sfaldabili, erodibili, con versanti in gran par- te ricoperti da detriti, mughi e incisi da canaloni; nel secondo caso in bancate mas- sicce, chiare, cristalline, fossilifere, che formano imponenti e alte pareti con toni dal grigio al giallo, a cui si uniscono le nere colate prodotte dallo scorrere della pioggia. PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Il valore della geodiversità 31

La forma delle cime presenta, in generale, una marcata asimmetria tra i fian- chi settentrionali e meridionali: a nord, la sovrapposizione degli strati crea alte e scoscese pareti; a sud, invece le superfici di strato danno luogo a versanti meno ripidi, in cui si alternano gradinate rocciose, fasce detritiche ed erte pale erbose. Uno degli elementi di fascino delle possenti muraglie settentrionali, che si con- trappone alle forme slanciate delle luminose e solari guglie delle Dolomiti, è la seve- ra imponenza, che trasmette un senso di grandiosità, solennità e romantica bellezza. Ciò risulta ancora più accentuato dove si manifesta un ulteriore esempio di geodi- versità, ovvero dove alle rocce della Dolomia Principale si sostituiscono i coevi Cal- cari del Dachstein: ben stratificati, formano poderose lastronate verticali, affiancate da possenti pilastri e regolari diedri, che hanno la loro massima espressione nella stupenda muraglia del Piccolo Mangart di Coritenza, percorsa da vie alpinistiche di grande impegno e bellezza. Queste rocce costituiscono anche gli uniformi e austeri rilievi del gruppo del Canin e pure il nucleo centrale del gruppo del Cimone. Nel gruppo del Canin colpisce l’anomalia cromatica, che caratterizza le pareti settentrionali del Canin e dell’Ursic: la colorazione, dal grigio scuro al chiaro, mo- stra con nettezza la parte che fino a pochi decenni fa era ricoperta dal ghiacciaio e quindi non soggetta a ossidazione. Quello del Cimone è il più solitario e appartato gruppo delle Alpi Giulie. Era un tempo frequentato e attraversato dai valligiani della Val Raccolana per la fiena- gione sui ripidi pendii meridionali, pernottando negli antri detti “clapùsč”, e da

Il Fontanon di Goriuda dalla grotta (foto Andrea Piussi) 32 Il valore della geodiversità PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

quelli della Val Dogna, per portare le greggi al pascolo pensile del Plan della Cja- vile, attraverso il leggendario percorso della Semide degli Agnei. Oggi solo qual- che temerario cacciatore percorre ancora le zone più selvagge di questo gruppo montuoso, il cui fascino ammaliò Vladimiro Dougan, allievo prediletto di Kugy, che per anni lo esplorò con passione negli angoli più remoti, aprendovi numerosi itinerari pioneristici in arrampicata libera su pareti ostiche, con rocce friabili e pericolosi tratti erbosi verticali, alla ricerca dei passaggi più logici lungo le pareti ancora vergini. Se l’isolamento è uno degli elementi essenziali della biodiversi- tà, allora il Gruppo del Cimone ne custodisce uno degli esempi più singolari, affascinanti e sconosciuti. Racchiuso tra queste altissime pareti (Cimone, Jôf di Miezdì, Ciuc, Mucul, Jovet Blanc), precipita per oltre mille metri il vallone dello Sfonderât (“senza fondo”), una voragine la cui visione, anche solo immaginata, trasmette una sensazione di inaccessibilità e di impressionante solitudine.

La catena del Montasio e il rifugio Di Brazzà (foto Andrea Piussi) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Il valore della geodiversità 33

Le differenti condizioni geologiche, associate all’azione dei processi geomor- fologici, hanno determinato nel gruppo del Canin due altipiani “diversi”: il Pusti Gost, sul versante resiano, e il Foran del Muss sul versante di Raccolana. L’in- cantevole altipiano di Pusti Gost, in resiano “il bosco abbandonato”, si sviluppa a nord di Stolvizza con una serie di dolci ondulazioni per oltre un chilometro a una quota media di 1200 metri; costituisce un suggestivo balcone leggermente inclinato sulla sottostante vallata, da cui lo separano acclivi versanti e ripidi ca- naloni. Questa morfologia è il risultato del modellamento operato nell’ultima glaciazione dal ghiacciaio che dal Canal del Ferro transfluiva nella Val Resia. Poi la fertile coltre di depositi morenici, punteggiata da massi erratici calcarei, e la bassa pendenza hanno permesso lo sviluppo di faggete, che invece sono assenti sui ripidi pendii sottostanti. Fino alla metà del secolo scorso, Pusti Gost ha rap- presentato per i valligiani resiani un elemento fondamentale dell’economia alpe- stre: il luogo era infatti costellato di “planine”, stavoli isolati o riuniti in piccoli gruppi, nei quali nella buona stagione la popolazione si trasferiva dagli abitati di 34 Il valore della geodiversità PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

fondovalle. Attorno alle planine erano state ricavate ampie radure prative adibite al pascolo, alla fienagione, all’agricoltura e alla coltivazione di piante da frutto. Oggi l’altipiano conserva il fascino suggestivo di paradiso sospeso, di autoctono Shangri La, nonostante le ferite inferte dagli incendi (ma che la natura ha saputo rimarginare). A settentrione, ai piedi della lunga muraglia di pareti che vanno dal Sart al Bila Pec, si apre invece il vasto altopiano del Foran del Muss, che propone un pae- saggio lunare e tormentato, caratterizzato dall’uniformità cromatica delle chiare rocce calcaree che quasi nulla ricopre: la vegetazione è molto rada, seppur ricca di specie, anche endemiche. I profili arrotondati delle rocce rivelano l’originaria azione erosiva glaciale, ma la superficie manifesta gli effetti morfologici dell’azio- ne chimica del carsismo, che ha dissolto gli affioranti calcari giurassici di elevata purezza dando luogo a una spettacolare varietà di fenomeni epigei, ovvero di su- perficie: scannellature, vaschette, fori e impronte di dissoluzione, e poi crepacci, doline, inghiottitoi, attraverso i quali le acque scompaiono per percorrere abissi, pozzi, gallerie e sifoni di uno dei complessi ipogei più importanti al mondo, che recentissime ricerche hanno scoperto fra i più estesi, sviluppandosi per oltre 80 chilometri. Il labirinto di cavità carsiche sotterranee si sviluppa principalmente entro la potente formazione dei Calcari del Dachstein, attraversata dalle acque per una profondità di quasi mille metri, fino a dove un’ulteriore diversità geolo- gica le attende: il passaggio alla meno permeabile Dolomia Principale determina

Il Pusti Gost all’interno del Parco regionale delle Prealpi Giulie (foto Marco Di Lenardo, archivio PRPG) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Il valore della geodiversità 35 infatti il fenomeno delle risorgive, che si manifesta in Val Raccolana al Fontanon di Goriuda, una cascata che possiede una gemella sul versante sloveno, l’altrettan- to spettacolare cascata di Boca. Se oggi il Foran del Muss è meta di escursioni e suscita fascino e interesse, un tempo il luogo, per il suo aspetto desolato e inospitale, era ritenuto dai valligiani di Resia e Raccolana di origine infernale, popolato da spiriti malvagi nel quale erano relegate le anime dannate e peccatrici. La cultura orale delle vallate è infatti ricca di truci leggende al riguardo. Oltre alle rocce carbonatiche che costituiscono la struttura dei monti, esistono un’ulteriore varietà di rocce, costituite da argilliti e siltiti, da dolomie cariate e calcari bituminosi, da marne e brecce, per citarne solo alcune. Le caratteristiche comuni sono l’erodibilità e l’alterabilità agli agenti atmosferici, che hanno per- messo lo sviluppo di morfologie più dolci: rilievi tondeggianti, ampie selle, pendii ricchi di detriti, suoli di alterazione, sorgenti e rii, su cui la vegetazione ha potuto attecchire e prosperare. Alcune di queste rocce, scarsamente visibili per la fitta copertura vegetale, sanno offrire meraviglie agli occhi dell’escursionista attento. Per esempio, lungo il sentiero che scende alla Sella Prasnig, sotto alle Cime Ron- dini, oppure lungo il sentiero che dalla Portella sale al Monte Sciober: qui, tra radici e fogliame, si cammina a tratti sopra un tappeto di fossili costituito da strati di splendidi calcari conchigliari appartenenti alla sequenza triassica del Gruppo di Raibl. Questa peculiare successione stratigrafica del Carnico, classificata nel 1857 da Von Hauer, prende il nome dall’originario toponimo di Cave del Predil, nei dintorni della quale si rinvengono gli affioramenti tipo. A valle, l’alveo del Rio del Lago è quasi interamente costituito da ghiaie, ciottoli e blocchi di natura calcareo-dolomitica che gli conferiscono una tipica colorazione biancastra abba- cinante. Ma dalla località di Riofreddo-Kaltbach, dove il nome del corso d’acqua muta in Slizza, l’aspetto cromatico dell’alveo cambia radicalmente. Risulta infatti disseminato da blocchi il cui colore varia: rosso, rosso mattone, violaceo e verde. Si tratta delle Vulcaniti di Riofreddo, testimonianze preziose dell’attività magma- tica effusiva triassica, sia sottomarina sia subaerea. Le stesse costellano pure l’Or- rido dello Slizza a est di Tarvisio, rendendo suggestivo il percorso panoramico, esempio ante litteram di sentiero attrezzato, fatto realizzare nel lontano 1874 dal conte tarvisiano Karl von Arco-Zinneberg. Altre sorprese si presentano a Forcella Mangart: dai calcari giurassici rossastri che formano la spettacolare piega di trascinamento del Monte Traunig, affiora un orizzonte roccioso costituito da centinaia di curiose concrezioni sferiche, diame- tro di 2-3 centimetri, colorazione marrone arancio in superficie e nucleo molto scuro: si tratta di noduli di ferro e manganese, indicativi delle particolari condi- zioni paleogeografiche che caratterizzavano l’originario bacino di sedimentazione. 36 Il valore della geodiversità PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

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5 PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Il valore della geodiversità 37

Nelle valli, le forme del paesaggio sono il risultato dei fenomeni morfogenetici del Quaternario, in primis il modellamento per escavazione operato dai ghiacciai durante l’ultima glaciazione würmiana e le tre precedenti, e la successiva sedimen- tazione dei materiali morenici. Questo si nota per esempio nella piana di Fusine Laghi e, con spessori potenti, negli altipiani di Ortigara e Rutte. All’azione dei ghiacciai sono attribuibili anche gli archi morenici, in cui svettano massi erratici talora enormi, che hanno portato alla formazione dei laghi di sbarramento di Rai- bl e di Fusine. Nelle Alpi Giulie la geodiversità ha quindi creato bellezza, ambienti di vita per la flora, la fauna e per l’uomo; ha prodotto vallate che sono stati luoghi di incon- tro, confronto e condivisione tra popoli, culture e tradizioni. L’augurio è che l’importante riconoscimento Unesco possa rappresentare una valorizzazione in un’ottica di sviluppo sostenibile e di tutela della natura, rifletten- do anche in maniera critica sull’esempio delle vicine Dolomiti, nelle quali l’inclu- sione fra i beni patrimonio dell’Umanità ha portato a un considerevole aumento dell’afflusso turistico e una conseguente positiva ricaduta a livello economico, ma a prezzo di un pericoloso aumento della pressione antropica sul fragile e sensibile ecosistema montano.

Alessandro Piussi È geologo, insegnante, appassionato di montagna e di storia dell’alpi- smo. Segue l’attività della onlus Ignazio Piussi, intitolata al celebre alpinista e suo padre.

1 Fontanon di Goriuda (foto Andrea Piussi) 2 La cresta dello Jof di Montasio, con a sinistra il Cimone (foto Andrea Piussi) 3 Felci nei fori di dissoluzioni dei calcari del Foran del Muss (foto Alessandro Piussi) 4 Noduli di ferro e manganese nei calcari giurassici di Forcella Mangart (foto Ales Zdesar) 5 Blocchi di vulcaniti di Rio Freddo nell’alveo dello Slizza (foto Alessandro Piussi) 6 All’interno del Fontanon di Goriuda (foto Andrea Piussi)

STORIA / UOMINI E MONTAGNE 39

L’ALPINISMO IN FRIULI DAGLI ANNI ’70 A OGGI

Un excursus delle imprese compiute nell’ultimo mezzo secolo sulle Alpi Carniche e Giulie, raccontato da chi le ha vissute da protagonista

Roberto Simonetti

Nella prima metà degli anni Settanta, dopo la morte prematura di Cozzolino e Ursella1, mentre l’ambiente alpinistico triestino come sempre era molto vivace, quello friulano sembrava aver subito una battuta di arresto. Si trattava tuttavia di un periodo di incubazione prima di nuovi sviluppi. Infatti, a partire dal 1975, si distinguono alcuni giovani che lasceranno una traccia significativa. Fra questi Attilio De Rovere, autore di alcune importanti prime salite come nel 1978 la “Di- donc” alla Sud della Cima della Miniera nel Gruppo del Peralba-Avanza e altre prime che, benché brevi come il “Troi Straplombant” alla Torre di Nuviernulis (1978) o la Est del Cavallo di Pontebba (1982), per arditezza ed etica nella realiz- zazione costituiscono innegabilmente un deciso passo in avanti rispetto a quanto realizzato fino ad allora. Ad Attilio De Rovere bisogna riconoscere soprattutto il merito, assieme ad altri giovani arrampicatori udinesi, di aver iniziato l’esplorazione sistematica delle spettacolari falesie calcaree del Pal Piccolo, dove poi negli anni successivi è stato attrezzato un numero rilevante di vie di arrampicata sportiva. Queste palestre, ap- prezzate sia per la bellezza della roccia sia per la favorevole esposizione, oggi meta di arrampicatori anche di altre nazionalità, è fuori dubbio che, pur trattandosi di itinerari di falesia, abbiano costituito un punto di riferimento per le giovani leve e favorito soprattutto il generale innalzamento del livello medio dell’arrampicata nell’ambiente alpinistico locale. Ma torniamo un po’ indietro. Nella seconda metà degli anni Settanta, a Pon- tebba fa la sua comparsa un giovane esile e introverso che si mette subito in evi- denza per le sue doti arrampicatorie con l’apertura, in compagnia di coetanei pontebbani, di alcuni itinerari di media e alta difficoltà. Si chiama Ernesto Loma- sti e fuori da Pontebba resta un illustre sconosciuto fino al 1977 quando, ormai sicuro delle sue capacità, in solitaria effettua la prima ripetizione della via di Coz-

1978: Roberto Mazzilis, via Mazzilis-Simonetti, parete nord della Creta di Timau (foto Roberto Simonetti). 40 L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA zolino al Piccolo Mangart di Coritenza. La notizia ovviamente desta forte scalpo- re e incredulità nell’ambiente alpinistico regionale. Negli stessi anni si distingue anche un giovane tolmezzino, Roberto Mazzilis. Come è naturale succeda, i due si incontrano e assieme realizzano varie ripetizioni e prime ascensioni, fra cui un’impresa eccezionale: la prima salita della fessura sulla strapiombante parete nord della Cima Grande della Scala, una cima secondaria ma che allora presen- tava in tutta la sua evidenza uno dei maggiori problemi delle Giulie. La salita era già stata oggetto di alcuni tentativi, che però non si erano mai spinti oltre la prima lunghezza di corda a causa delle difficoltà, ma soprattutto della friabilità della roccia e della precarietà delle assicurazioni. Il 3 settembre 1978 i due attaccano la fessura che costituisce la direttiva della via e a comando alternato in nove ore raggiungono la cresta sommitale, poi de- cidono di scendere in arrampicata lungo lo spigolo Nord anziché percorrere la lunga via normale. Bisogna tener presente che in quegli anni si arrampica con gli scarponi ai piedi e che l’attrezzatura dei due è costituita dal martello e da una ventina di chiodi normali. Non esistono i friend e altri strumenti tecnologici che oggi vengono normalmente utilizzati, ma soprattutto non hanno in fondo allo zaino bulino e chiodi a pressione e questa è una scelta di etica alpinistica a cui entrambi faranno riferimento in tutte le loro ascensioni. Dai primi salitori la via viene giudicata di VI, VI+ e A1. Attualmente, la via ha due ripetizioni: la prima è dei fratelli Podgornick nel 1980, la seconda di Massimo Laurencic e Luca Vuerich il 13 e 14 marzo 2009, che è anche la prima salita invernale. I giudizi dei ripetitori sono concordi nell’assegnare difficoltà nettamente superiori alla valutazione dei primi salitori (VI continuo con passaggi di VIII-), ma questo non deve far pensare a una voluta sottovalutazione da parte dei primi salitori. Siamo nel 1978; è ancora aperta la discussione se introdurre il VII grado o mantenere il limite del VI+, comprimendo tutto il resto. A loro giudizio si tratta di quanto più difficile si possa fare e per questo viene giudicata di VI+. L’anno successivo Ernesto compie un’altra grande impresa, il suo capolavo- ro, aprendo ancora in solitaria una nuova via sul Piccolo Mangart di Coritenza.

(1) Angelo Ursella, di Buja, classe 1948, similmente a Gilberti, Cozzolino e Lomasti, è stato una me- teora che ha illuminato l’ambiente alpinistico regionale. Modesto ragazzo della campagna friulana (a quel tempo ancora fortemente arretrata), dotato fisicamente, ma soprattutto dotato di una forza di volontà unica, ha trovato nell’arrampicata la strada per la sua affermazione, portando a termine imprese strabilianti, soprattutto salite solitarie, in regione e in Dolomiti. Fra queste la prima solitaria dello Spigolo degli Scoiattoli alla cima Ovest di Lavaredo e della via Dibona alla Punta Giovannina. Per lui era ormai aperta la strada per grandi cose. Il tentativo di salita della parete nord dell’Eiger (montagna che non ha mai portato fortuna agli alpinisti friulani) gli è stato fatale. Così il 17 luglio 1970, all’età di 23 anni, a pochi metri dal nevaio finale, prematuramente scompariva quello che avrebbe dovuto essere uno dei più forti alpinisti friulani di sempre. PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi 41

Attacca sulle placche a destra del diedro e, con andamento leggermente obliquo verso destra, su parete aperta raggiunge la cima con difficoltà sostenute che arri- vano al VI e VII. Nel 1979 Ernesto muore cadendo banalmente in palestra e Roberto Mazzilis resta inattivo per un orrendo incidente occorsogli durante il tentativo di ripetere la via di Ernesto al Mangart. Mazzilis si riprende rapidamente e inizia la sistemati- ca esplorazione delle Alpi Carniche e Giulie tracciando, nell’arco di 35 anni circa, 400 prime salite quasi tutte di alta difficoltà, alcune delle quali indiscutibilmente delle pietre miliari nell’alpinismo regionale. Come l’Avastolt, una propaggine del monte Avanza: la sua parete Nord è impressionante, incisa da diedri a tratti stra- piombanti che hanno respinto numerosi tentativi. In momenti successivi Roberto sale tutto quello che si poteva salire. La serie inizia nel luglio 1980 quando con Claudio Vogrig apre la via “Enza & Fabio”, uno spettacolare diedro alto 600 metri con difficoltà di V+ e VI (VI+, 1 pass. VII a parere dello scrivente), ove la maggiore difficoltà è costituita dalla lunghezza dei tratti senza protezione, soprat- tutto nel tiro chiave. Nel giugno 1981 è la volta del “Diedro Teresina” salito con Celso Craighero; si tratta di un altro diedro di 600 metri con difficoltà di VI e VII. Negli anni successivi apre altre vie che arrivano fino all’VIII. La Cjanevate è la seconda cima delle Alpi Carniche dopo il Coglians, che però supera per maestosi- tà. A nord forma una parete complessa e severa alta fino a 1200 metri con un ghiac-

1978: Ernesto Lomasti durante la seconda ripetizione del Pilastro Piussi al Piccolo Mangart di Coritenza (foto Roberto Simonetti) 42 L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

ciaietto pensile. Su questa, nel 1950 il tirolese Toni Egger e il carinziano Heini Heinricher hanno tracciato un itinerario di 800 metri con difficoltà di VI; arditezza e difficoltà della sa- lita sono state confermate con toni reverenzia- li da Paolo Bizzarro e Sergio De Infanti, che ne hanno effettuato la prima ripetizione nel 1972. Dagli anni ‘80 in poi, sulla parete nord sono stati aperti altri itinerari di alto livello a opera soprattutto dei valligiani carinziani, tra cui Alois Ortner, Erick Dabernig, Andreas Staudacher, Franz Unterluggauer e, in anni più recenti, Rheinard Ranner. Il versante sud della Cjanevate appare come una barriera di pilastri di calcare compatto. Prima degli anni ‘70, le salite realizzate erano poche e seguiva- no soprattutto le profonde gole tra i pilastri. Poi è iniziata l’esplorazione sistematica a opera di alcuni giovani, fra cui Alvise Di Ronco, Mario Morassi e successivamente ancora Mazzilis, Florit, Sterni e altri. La parete è alta quasi 800 metri, ma attualmente le vie vengono ripetute per i primi 450 metri difficili, poi ci si cala in doppia alla base evitando la fatica degli ultimi 300 metri e una discesa interminabile. Le salite più importanti sono lo spigolo sud del Pilastro della Plote, salito da Mazzilis e Moro nell’agosto 1982: 700 metri con difficoltà di VI e A1 (si tratta della prima via difficile e anche della più ripetuta); la “Via dei Carnici”, salita nell’ottobre 1983 ancora da Mazzilis: 700 metri con diffi- coltà di VI e VII, una via impegnativa che allora ha segnato una tappa importante per l’arrampicata sulle Carniche. In anni più recenti merita menzione “Nouvelle Sensation” del luglio 1990, sa- lita da Florit e Zaleri: una bella via di 700 metri, che dopo essere stata liberata presenta difficoltà al limite dell’VIII; poi ancora “It’s hard to be good” di Florit e Sterni, del settembre 1992: 500 metri con difficoltà di VIII+ e A3. A distanza di quasi 20 anni, ancora Mazzilis apre la via “Cjargnei Uber Alles” nell’agosto 2000, 700 metri di cui 450 con difficoltà di VII, VIII e IX; salita effet- tuata sempre utilizzando mezzi tradizionali, con assicurazioni molto distanti anche sul tiro chiave. La via ha pochissime ripetizioni e purtroppo, a opera degli amici carinziani, è stata intersecata in maniera sciagurata da un itinerario moderno a spit che ne ha banalizzato il valore alpinistico.

Avastolt parete nord (foto Emiliano Zorzi) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi 43

Anche l’enorme parete nord del Peralba è stata teatro di grandi prime, sia a opera di Ortner e compagni, sia di italiani, fra i quali spicca il fortissimo arrampi- catore del Comelico Gildo Zanderigo, che negli anni ‘80 e ‘90 vi apre alcune vie di alto livello tra le quali, se non la più difficile, la più notevole percorre con dif- ficoltà di VI e VII un grande, evidente e temutissimo diedro. Anche qui Mazzilis traccia diversi itinerari, tra i quali ricordo solo la via “Searching The New Way”, salita nell’agosto 2007 con Lenarduzzi, 700 metri con difficoltà di VIII e IX. Sulla parete sud della Cima della Miniera, Massimo Sacchi e Marco Sterni compiono un’impresa notevolissima con “Autoroute du soleil” una delle poche vie di IX aperte in maniera tradizionale. La prima ripetizione della via riuscirà successiva- mente a Gildo Zanderigo. Spostandoci sulle Alpi Giulie, assieme al Mangart, anche l’anfiteatro di pa- reti del versante settentrionale dello Jof Fuart e della Cima di Riofreddo è stato teatro di grandi imprese: oltre alle vie moderne più recenti, peraltro notevolissi- me, le imprese più significative realizzate negli ultimi anni sono il “Gran Diedro di sinistra” alla parete nord-ovest della Madre dei Camosci nell’agosto 2000 di Mazzilis-Tavosanis, 700 metri con difficoltà di VI+; la “Via Fiamma” del settem- bre 2000 alla parete est dello Jof Fuart sempre di Mazzilis-Tavosanis, 1000 metri di via con difficoltà di VI e VII. Ma soprattutto le vie sulla parete nord della cima di Riofreddo: la “Via Salamandra” ancora di Mazzilis, nell’agosto 2000,

Chianevate parete sud (foto Emiliano Zorzi) 44 L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

700 metri con difficoltà di VI e VII+, e la “Cavalcata delle Valchirie” nell’agosto 2011, 700 metri con difficoltà VII e VIII+. La via Salamandra è a mio avviso quanto di più impegnativo ci sia in zona, non tanto per le difficoltà tecniche quanto per severità dell’ambiente, continuità delle difficoltà, esiguità dei punti di sosta e inconsistenza delle assicurazioni. Per portare a termine la salita, oltre alla capacità tecnica, ci vuole un morale di ferro, e comunque il rischio resta sempre molto elevato. Notevolissime anche le prestazioni di arrampicatori meno conosciuti come Giu- seppe Murtas, che compie nel 1981 la seconda salita solitaria della via di Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza nell’incredibile tempo di due ore e mezza, e Fabio Gigone, che nel 2001 sale in solitaria la via “Integrale” alla Sfinge della Grauzaria (combinazione delle vie Bulfoni e De Infanti-Solero con difficoltà sostenute fino al VII e notevole impegno globale). È giusto ricordare ancora altri alpinisti come Le- onardo Gasperina per la sua attività nel gruppo del Peralba, Ezio de Lorenzo Poz per le salite nel gruppo dei Brentoni, la cordata Babudri-Sain che ha aperto nuovi itinerari un pò ovunque. Come non ricordare anche Daniele Perotti, arrampicato- re fortissimo e autore di alcune prime salite, morto prematuramente per un banale incidente scendendo in doppia lungo la Parete Sud della . Per quanto riguarda l’alpinismo di esplorazione, è da segnalare anche l’attività condotta incessantemente per quasi un trentennio da Daniele Picilli, e allo stesso

Jof Fuart, Madre dei Camosci e cima di Riofreddo, anfiteatro nord (foto Saverio D’Eredità) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi 45

modo quella di Sergio Liessi, che nonostante abbia iniziato ad arrampicare da quarantenne ha collezionato un grande numero di prime salite realizzate per la maggior parte sulle pareti più recondite delle Carniche. Infine Mario di Gallo, un vero cavaliere dell’alpinismo esplorativo, di cui ricordo la via “Gocce di Tempo” alla est del Cavallo di Pontebba del 1984 e una lunga serie di prime salite di alto livello che si prolunga fino ad oggi, tanto nelle Carniche (soprattutto la Grauzaria che è la montagna di casa) quanto nelle Giulie, anche sulla immensa parete ovest del Montasio. Ci sarebbe tanto da dire anche sulle Prealpi Carniche, che nel mondo alpi- nistico sono meglio conosciute con il termine improprio di Dolomiti Friulane. Molto è stato fatto recentemente su queste montagne, soprattutto nel gruppo del Cridola, dove sono stati aperti itinerari di elevata difficoltà, ma tanto resta ancora da fare, dato che, a eccezione di poche mete più conosciute, queste cime sono nel complesso pochissimo frequentate e costituiscono un autentico paradiso per chi ama la solitudine e i grandi spazi. E a proposito di isolamento e grandi spazi, parlerò di una montagna poco co- nosciuta anche nel nostro ambiente, ma dove sono state scritte pagine di grande alpinismo. Il si trova nelle Prealpi Carniche in provincia di Pordenone, a cavallo fra l’Alpago e i bacini del Cellina e del Vajont. La struttura di questa montagna è complessa, oltre alla cima principale vi è l’anticima nord, che -

Piccolo Mangart, parete nord (foto Saverio D’Eredità) 46 L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA pita con un muro di 700 metri verso il Vajont. A sud ovest c’è la Cima Lastei, a ovest ci sono tre grosse elevazioni: Cima Secca, la Cima Sora il Cjot e la Cima del Colatoio. Isolata e severa nell’aspetto, è stata a lungo dimenticata e tuttora alcuni fattori, come lontananza dal fondovalle, difficoltà di accesso e severità di ambien- te, fanno di questa cima una montagna con la M maiuscola. Nell’anteguerra vi sono stati aperti alcuni itinerari di media difficoltà, fra cui lo spigolo della parete est a opera di Carlesso e Tajariol. Nel 1968 la cordata Hasse-Leukroth apre una pagina di alpinismo estremo, superando la parete dell’anticima nord lungo una grande rampa situata sul settore destro della parete ben visibile da Erto; dislivello di quasi 600 metri con difficoltà sostenute fino al V+. Successivamente Burgdorf, Goedeke e Rien salgono lo spigolo nord-est della Cima Sora il Cjot con difficoltà di V e A1. Negli anni 1981-82, Franco Miotto e Benito Saviane tracciano tre vie che restano tra le più difficili delle Alpi Orientali. La prima sale sulla parete nord est della Cima Lastei, con lunghi tratti di arrampicata mista libera-artificiale di VI e A2 per un dislivello di 700 metri. A distanza di pochi giorni, dal 13 al 16 giugno, viene salito il Gran Diedro dell’anticima nord, appena a sinistra della Hasse-Leu- kroth, superando un dislivello di 700 metri, con difficoltà costanti di VI e A2-A3 e incontrando grossi problemi di chiodatura. L’ultima delle tre viene salita nel 1982. Questa volta, assieme a Miotto e Saviane, c’è anche il valligiano Mauro Corona. Questa via ha in comune l’attacco e l’uscita con il Gran Diedro nord, ma sale un evidente diedro-camino al centro della parete, che raggiunge con una lunga tra- versata sotto soffitti. Dislivello: 700 metri, difficoltà VI e A2. Nel luglio 2006 Alessio Roverato e Alessandro Baù hanno realizzato la prima ripetizione del Gran Diedro alla parete Nord. Dal resoconto dei primi ripetitori traspare in maniera evidente la forte impressione ricevuta e l’ammirazione per i primi salitori. Gli stessi hanno a loro volta giudicato la difficoltà dell’itinerario dal V al VII con passi di A2.

ALPINISMO INVERNALE Faccio presente che sulle nostre montagne le salite invernali sono quanto di più impegnativo ci possa essere. Le pareti in genere non sono strapiombanti e inoltre, a causa della bassa quota e delle condizioni climatiche, sono spesso ricoperte da ghiaccio. Pertanto d’inverno un IV grado in Giulie può risultare molto più impe- gnativo di un V o VI in Dolomiti. L’impresa invernale più notevole rimane quella realizzata da Renato Casarotto che, in solitaria, nei lunghi giorni compresi fra il 30 dicembre 1982 e il 9 gennaio 1983, sale gli 800 metri di dislivello della via Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza. Altra impresa di grandissimo livello è la prima invernale del pilastro PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi 47

Piussi sempre al Piccolo Mangart, a opera di Romano Benet, Alberto Busettini e Nives Meroi. Oltre a questa, i fortissimi tarvisiani hanno effettuato altre salite invernali in condizioni estreme, maturando così una preparazione e un’esperienza preziose per affrontare le impegnative salite himalayane. Impresa notevolissima è anche quella di Mauro Petronio e Aldo Fedel sul Camino Comici alla Cima di Riofreddo nel dicembre 1977 con tre bivacchi. Ri- cordiamo poi la già citata invernale alla cima Grande della Scala di Vuerich e Laurencig, la Piussi al Pinnacolo della Cima del Vallone effettuata da Mazzilis e Stefenatti, la Noe-Streitman alla Nord del Peralba ad opera di Ortner (non cono- sco i dettagli di questa salita, comunque d’inverno è già un’impresa arrivare alla base). Ancora, la prima invernale della “Via dei Carnici” alla Cjanevate salita da Ranner, la Bulfoni alla Sfinge della Grauzaria salita da Remigio Stefenatti, mentre la combinazione della Bulfoni più la De Infanti-Solero viene salita da Fabio Gigo- ne e Diego Totis con tre bivacchi nel dicembre 2007; infine la Bizzarro alla Sfinge della Grauzaria salita da Picilli, Molinaro e Stefanelli. Anche altre salite di minore difficoltà sono per me imprese di valore, come la via Feruglio alla parete nord del Sernio del 25-26 gennaio 1981 effettuata da Lorenzo Barbarino, Lino di Lenardo e Claudio Vogrig. È solo un vecchio V grado ma, conoscendo bene come si presenta questo terreno in condizioni invernali, so che di certo si è trattato di un’impresa di tutto rispetto.

Cima della Miniera, parete sud (foto Attilio De Rovere) 48 L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

CONCLUSIONI Per il futuro non vedo uno sviluppo positivo nel superamento di maggiori diffi- coltà ricorrendo all’uso della tecnologia. Anche in passato, sull’onda del boom industriale, è stata imboccata la strada del tecnicismo ma poi, a partire dall’inizio degli anni Settanta, come in altri settori, anche nell’alpinismo hanno cominciato ad affermarsi, per poi prevalere, tendenze culturali di segno opposto. La difficoltà tecnica è solo una delle componenti dell’alpinismo, ma ciò che fa il distinguo tra una prestazione atletica e l’alpinismo sono anche altri fattori, tra cui fondamentale è l’incertezza. Il trapano (anche solo il fatto di averlo in fondo allo zaino) annulla il fattore incertezza, e in tal modo viene meno quella che è una delle componenti fondamentali della pratica alpinistica. Sono certo che nei prossimi anni ci saranno ulteriori innalzamenti di livel- lo nell’arrampicata libera con sviluppi che oggi nemmeno ci immaginiamo. Del resto, alla fine degli anni ‘60 chi poteva prevedere che, a distanza di quattro de- cenni, un giovane studente di fisica, solo e senza alcun materiale, avrebbe potuto salire un itinerario come la “Via del Pesce” (Hansjörg Auer, 29 aprile 2007, ndr)? Eppure è naturale che sia successo e, secondo me, ci sarà in futuro chi sarà in gra- do di salire in sicurezza dove oggi, senza usare il trapano, si torna indietro. Non trovo giusto banalizzare itinerari di arrampicata con l’uso del trapano e togliere in tal modo delle possibilità alle future generazioni. Inoltre, personalmente vedo ancora aperti ampi spazi nella pratica dell’alpini- smo invernale. I nostri vicini sloveni già da anni fanno grandi cose e noi, a parte le grandi prestazioni di Romano Benet e Luca Vuerich, in questo campo siamo abbastanza in ritardo. Al fine di evitare che si creino equivoci su quanto ho sopra esposto, rimarco la mia convinzione che in montagna la sicurezza sia fondamentale e non sia saggio cercare deliberatamente il rischio. Tuttavia ritengo che non si tratti tanto di un fatto tecnologico o atletico, quanto di un aspetto psicofisico intrinseco dell’alpini- sta. I materiali sono importanti, ma la sicurezza vera è data dalla consapevolezza di quello che si sta facendo; è un atto di onestà e responsabilità, ci vuole la giusta combinazione tra una preparazione fisica adeguata alle difficoltà che si affrontano e la percezione delle proprie capacità e limiti. Vorrei ancora esporre una mia analisi riguardo alla salita del diedro del Piccolo Mangart, che ritengo significativa poiché qui, tra tentativi, salite e varianti, a mio avviso si è svolta l’evoluzione dell’alpinismo negli ultimi 50 anni. Ci sono state tre fasi. Nella prima, abbiamo i tentativi di Ignazio Piussi che, coerentemente con l’impostazione di quell’epoca, cercava la via diretta, anche ricorrendo all’artificiale per il superamento dei grandi strapiombi che ne sbarra- no la parte inferiore. Non era uno sprovveduto, nessuno meglio di lui conosceva PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA L’alpinismo in Friuli dagli anni ’70 a oggi 49 la parete e sapeva benissimo che si poteva passare deviando a sinistra dalla linea del diedro. Non lo ha fatto solamente perché, allora, deviare dalla linea diretta significava sminuire il valore della salita. Nella seconda, abbiamo la prima salita a opera di Cozzolino che, da esponente delle nuove tendenze, rifiuta l’uso dei chio- di come mezzo di progressione e quindi va a cercare la linea di minor resistenza. Non possiede ancora il livello di libera dei decenni successivi e, per passare nella parte bassa, compie un’ampia deviazione verso sinistra, mentre nell’ultimo terzo abbandona del tutto il diedro spostandosi decisamente verso destra. Nella terza fase, grazie al notevole innalzamento del livello di arrampicata libera, si ritorna a cercare il superamento diretto degli ostacoli e, in due momenti distinti, da Mazzi- lis vengono effettuate le due varianti dirette che, con notevoli difficoltà, superano sia gli strapiombi bassi, sia il terzo superiore del diedro. Esprimendo quella che è la mia interpretazione degli ultimi 50 anni di storia alpinistica, dei quali ho avuto la fortunata possibilità di essere testimone, spero di non aver infastidito o scontentato nessuno. Il mio auspicio è che queste parole siano, soprattutto per gli alpinisti di fuori regione, un incentivo a frequentare le nostre montagne perché, benché poco conosciute, sono affascinanti, perché an- che qui sono state scritte pagine importanti di alpinismo e tuttora vi si possono vivere grandi giornate di avventura.

Roberto Simonetti Alpinista e membro del Club Alpino Accademico ltaliano, in quasi cinquant’anni di attività ha effettuato ripetizioni e realizzato numerose vie nuove anche di elevata difficoltà soprattutto sulle montagne di casa, le Alpi Carniche e Giulie, e non pensa di smettere. Il contenuto di questo scritto, a parte alcune piccole integrazioni e varianti nella forma, ricalca l’intervento al convegno di primavera del Gruppo orientale del Caai a Trieste nel 2013 pubblicato sull’Annuario Accademico del 2014-2015.

CAMBIAMENTI CLIMATICI 51

COME È CAMBIATA LA PREVISIONE VALANGHE IN FRIULI VENEZIA GIULIA

L’effetto dei cambiamenti climatici ha portato a una estrema variabilità del manto nevoso già durante il periodo invernale e non solo in primavera, come accadeva una volta. Ne nascono situazioni totalmente inedite in una regione che risulta tuttora fra le più nevose d’Italia

Daniele Moro

Quando si parla di valanghe, nell’immaginario si è soliti pensare a un fenomeno confinato alle aree montane delle Alpi dove si ergono le maggiori vette europee. Pochi sanno invece che eventi di grandi dimensioni sono comuni anche nelle no- stre “piccole” montagne regionali, la cui morfologia, con pendii molto ripidi e valli profonde, si presta benissimo a questo fenomeno. Inoltre la nostra regione risulta tra le più nevose d’Italia, anche se negli ultimi anni le nevicate non sono abbondanti come in passato, anche a causa degli effetti evidenti del cambiamento climatico in atto. Ma i dati parlano chiaro: sulle Prealpi Carniche cadono me- diamente ogni anno a 1200 metri circa 270 centimetri di neve, mentre sulle Alpi Giulie e in particolare sulle pendici del Monte Canin, zona più nevosa in assoluto della nostra regione, a 1800 metri cadono mediamente più di sette metri di neve con un massimo registrato nel 2014 di quasi 16 metri (vedi grafico).

Foto a sinistra: esercitazione Aineva, Passo della Mulattiera, Bardonecchia, Torino 52 Come è cambiata la previsione valanghe in FVG PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

Gli anni 90 sono stati i più avari in assoluto di precipitazioni nevose; dal 2000, invece, anche se in modo discontinuo, si sono avute importanti stagioni nevose, che hanno riportato le medie verso l’alto. Se invece osserviamo i dati di Sella Nevea a fondo valle (1180 metri), vediamo che, a causa dell’innalzamento generalizzato della temperatura, gli spessori medi sono in forte regressione, perché alle quote basse piove invece di nevicare. La nostra regione provvede alla previsione del rischio da valanga dal lontano 1972. Ora l’organismo competente in materia è la “Struttura stabile centrale per l’attività di prevenzione del rischio da valanga”, che è uno dei servizi del Corpo Forestale Regionale. Il mio impegno come previsore valanghe origina dal 1996, un cammino per ora lungo 23 anni. Molte sono le cose che sono cambiate in questo arco temporale, dalle metodologie di previsione alle strumentazioni utilizzate, che vedono sempre più presente anche in questo settore l’informatica. Ciò nonostante, ancora oggi non esistono sistemi esperti e apparati modellistici in grado di sostituire il lavoro umano. La valutazione del pericolo valanghe prevede sempre una grande capacità di sintesi delle variabili in gioco, che cambiano continuamente in base al variare delle condizioni meteo e dei parametri fisici presenti nell’ambiente innevato, va- lutazione che viene fatta grazie all’esperienza e preparazione del previsore, ovvero dell’uomo. Quando si parla di previsione, si entra sempre in un mondo molto delica- to: la parola stessa indica la possibilità di anticipare qualcosa, che però, a causa dell’impossibilità umana di prevedere il futuro, contiene sempre una buona dose di incertezza. Questo accade inevitabilmente anche per la previsione del perico- lo valanghe, che sono situazioni difficili da interpretare, accentuate negli ultimi anni dalla forte variabilità delle condizioni meteorologiche dovute ai cambiamenti climatici, che richiedono un’attenta osservazione e una grande preparazione da PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Come è cambiata la previsione valanghe in FVG 53

parte di chi deve fare queste valutazioni. L’effetto dei cambiamenti climatici, così evidenti ormai, ha portato a una estrema variabilità delle condizioni di stabilità del manto nevoso e, di conseguenza, anche del pericolo valanghe, già durante il periodo invernale e non solo in primavera, come accadeva una volta. Nel corso degli ultimi anni, mi sono trovato di fronte a situazioni totalmente inedite, sia per la tipologia, sia la dinamica di distacco. Un esempio sono state le “valanghe di slittamento”, comparse in modo massiccio durante due inverni, il 2008-2009 e il 2013-2014. In queste, che sono state le stagioni più nevose degli ultimi 40 anni, le valanghe si sono presentate con una frattura nella zona della corona dovuta allo slittamento del manto nevoso. Le temperature miti di inizio inverno hanno favorito il costituirsi dello strato di neve umida-bagnata alla base, che ha prodotto l’instabilità del manto e il suo conseguente cedimento. Nella nostra regione, dal 1980 al 2019 sono state travolte 110 persone: di que- ste, 21 sono rimaste ferite e 13 sono morte. Numeri che fanno riflettere su quanto ci sia ancora da lavorare nell’ambito della prevenzione. Analizzando i dati, nel periodo 1982-1986, gli incidenti si possono imputare, oltre che all’innevamento cospicuo della stagione, alla carenza delle attrezzature in essere: va detto infatti

“Bocche di balena” sopra Malga Pramosio, febbraio 2014 (foto Daniele Moro) 54 Come è cambiata la previsione valanghe in FVG PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

che allora solo poche persone utilizzavano l’Artva, lo strumento di ricerca dei travolti in valanga che ora ogni scialpinista ed escursionista conosce. Se la quantità di neve non è determinante nelle statistiche, tuttavia il calo degli incidenti degli anni 90 va principalmente imputato proprio all’assoluta carenza di precipitazioni nevose patita in quel decennio. Dal 2000 in poi, pur in modo di- scontinuo, sono riprese le nevicate e con esse, purtroppo, gli incidenti da valanga, anche in virtù del boom delle discipline legate alla neve fresca. La stagione inver- nale più luttuosa è stata quella del 2005-2006 (quattro morti), mentre quella con il numero maggiore di incidenti è stata il 2009-2010: 24 persone travolte, quattro fe- riti e un morto (se non consideriamo il 2017, stagione condizionata dalla tragedia di Rigopiano, con 49 morti) un dato peraltro in linea con quello nazionale, che ha visto in tale stagione il massimo degli incidenti (45 persone travolte e uccise in va- langa nell’intero arco alpino). Dal punto di vista previsorio, è stata la stagione più difficile e controversa tra quelle che mi sono trovato ad affrontare: una stagione non particolarmente nevosa che ha prodotto un numero incredibile di incidenti. Da un’analisi nivologica approfondita, sono state individuate tre cause principa- li: 1. L’andamento delle precipitazioni, di piccola entità e molto frequenti, uno stillicidio che ha determinato una stratificazione variegata e complessa del manto nevoso, ricca di strati deboli. 2. Le temperature: un gennaio e febbraio piuttosto freddi hanno rallentato notevolmente la trasformazione interna dei cristalli e dei

Cornici di neve ventata, Gartnerkofel-Pramollo, aprile 2019 (foto Daniele Moro) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Come è cambiata la previsione valanghe in FVG 55 grani di neve, favorendo la formazione di brine di fondo. 3. La presenza di una brina di superficie inglobata nel manto nevoso. Negli anni il nostro impegno in regione si è orientato verso tre obiettivi: mag- giore informazione sul pericolo, con la diffusione capillare del bollettino valanghe; maggiore cultura e preparazione tecnica da diffondere nei confronti degli utenti della montagna; miglioramento dell’attrezzatura e della strumentazione a dispo- sizione di chi va per neve. Su questi importantissimi punti si è svolto un capillare lavoro di formazione e informazione, con serate mirate alla conoscenza della neve e di tutte le dinamiche, nonché sull’addestramento all’utilizzo dei materiali di soccorso e autosoccorso quali pala, Artva e sonda, non solo nei confronti degli scialpinisti ma anche nei confronti degli escursionisti con le racchette da neve. In conclusione, una riflessione va fatta cercando di capire verso quale direzio- ne si sta muovendo il mondo della previsione e dell’informazione sul problema valanghe, anche in relazione alle mutate esigenze dell’utenza moderna, sempre più rivolta verso la tecnologia e il mondo dei social network. Considerando che le persone hanno la tendenza a fare una pianificazione som- maria, spesso tralasciando qualcosa quando progettano un’escursione, si stanno affacciando nel mondo del web sistemi in grado di aiutare a capire se il percorso scelto è affrontabile in sicurezza o no. In Svizzera, per esempio, una piattaforma comunica la fattibilità di determi- nati percorsi scialpinistici con un semaforo, in cui il rosso, l’arancione o il verde specificano se i percorso sono rispettivamente da considerarsi a rischio elevato, considerevole o basso in un determinato momento. Lo stesso sito fornisce una valutazione automatica del rischio valanghe per circa 900 gite scialpinistiche nel territorio elvetico. Nella prossima stagione invernale, è prevista un’estensione del sistema sui percorsi scialpinistici Italiani (informazioni sul sito http://www.ski- tourenguru.ch). I sistemi che si stanno sperimentando in Italia hanno il medesimo scopo, ovve- ro capire prima di uscire di casa se l’escursione che si vuole intraprendere è sicura oppure no (vedi per esempio http://www.mysnowmaps.com/it/).

Daniele Moro Coordina la Struttura stabile centrale per l’attività di prevenzione del ri- schio da valanga del Friuli Venezia Giulia dal 2015. Oltre alla mansione di coordinamento opera come previsore valanghe nella medesima struttura dal 1996. Ha ricoperto incarichi all’Aineva (Associazione interregionale neve e valanghe con sede a Trento) in qualità di coordinatore del Gruppo previsori valanghe dal 2003 al 2006, in seguito ha coordinato il Comitato tecnico direttivo di Aineva dal 2015 al 2018. 56 STORIA DELLA SAF

ANTONIO FERUGLIO ALPINISTA E SPIRITO LIBERO

Una gioventù spesa negli anni Venti fra le montagne e l’impegno politico. Scalatore di classe, fece scuola alla Saf. Antifascista, pagò la ribellione alla dittatura con due anni di confino a Lipari. Nel Dopoguerra fu commissario dell’Alpina, assessore e vicesindaco di Udine. Una figura da riscoprire

Giovanni Duratti

Premessa. Mi sono imbattuto in Antonio Feruglio “Broili” in occasione di una conferenza su Oscar Soravito. Mi interessava capire come avessero potuto cre- scere nella Saf alpinisti come quest’ultimo, come Celso Gilberti, come Giovanni Granzotto e come altri, fino al “fiorire di una vera scuola alpinistica”1 partendo da una situazione di retroguardia. Giovanni Battista Spezzotti nei “Profili” scritti per il numero di In Alto del centenario (1974), attribuiva il merito principalmente ad Antonio Feruglio e a Riccardo Spinotti. Del primo aggiungeva un nobile ri- tratto morale: “Spirito fiero, ardente e devoto agli ideali di libertà, anche a costo, come avvenne, di pagare di persona, li affermò quando i tempi non tolleravano, neppure ai più moderati dissidenti, autonomia di pensiero e di azione”. Più avanti accennava a una permanenza coattiva alle Lipari2. Sulla stessa rivista, in occasione della morte, O.S. (Oscar Soravito) ne tracciava un ricordo nel più puro stile Sora- vito: molto esauriente, molto stringato e quasi esclusivamente limitato alla parte alpinistica3. Bisognava a mio avviso completarne il ritratto, aggiungendo la parte politica che si era svolta contemporaneamente: tutte e due avevano avuto la loro fase più avventurosa negli anni fra il 1920 ed il 1927, terminando con l’invio al confino. Va aggiunto inoltre che Antonio collaborava a livello dirigenziale anche con la sezione udinese dell’Unione Operai Escursionisti Italiani (Uoei), ciò mi ha portato ad esaminare i rapporti delle due associazioni fra di loro, con i rispettivi organi centrali e di questi con le autorità. Per rendere più comprensibile il tutto, ho inserito alcune brevi notizie sulla storia delle due associazioni.

Ringraziamenti. Il tentativo di dare un ritratto a tutto tondo di Antonio Feruglio si basa sulla disponibilità del figlio Fausto e della consorte Daniela De Marchi, che hanno fra l’altro messo a disposizione il libro fotografico della campagna alpi- nista del 1923; sulla collaborazione della presidente attuale della sezione dell’Uoei PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Antonio Feruglio alpinista e spirito libero 57

di Udine Lauretta Schiavi, che ha recuperato il libro dei verbali delle sedute del consiglio e altro materiale dell’epoca; sulla collaborazione della Cooperativa Guarnerio d’Artegna che gestisce l’archivio della Saf e infine del personale dell’I- stituto friulano per la storia del Movimento di Liberazione, dell’Associazione nazionale parti- giani d’Italia di Udine, dell’Archivio Centrale di Stato di Roma e di quello di Udine. A tutti loro va il mio più sincero ringraziamento.

Antonio Feruglio nasce a Feletto Umberto il 16 ottobre 1896 da Giobatta “Broili” e da Giusti- na Tosolini. Famiglia benestante, proprietaria terriera, numerosa. Tutti i figli vengono fatti stu- diare almeno fino alle superiori: Felice e le due sorelle Maria e Giuseppina sono maestri, Teresa non si sa, Beniamino geometra si iscrive ad agra- ria a Bologna, ma a seguito dei fatti di Palazzo d’Accursio4 sconta tre mesi di carcere e viene espulso dall’Università, Antonio ragioniere, Domenico laureato in agraria è di- rettore del Regio Laboratorio di chimica agraria di Udine, nonché direttore d’or- chestra e commediografo, Giuseppe medico docente all’Università di Padova. Feletto è un paese principalmente operaio e politicizzato (è conosciuto come una roccaforte del socialismo) e i componenti della famiglia lo sono particolarmente, soprattutto per influsso della madre. Ne pagheranno un prezzo alto: tutti i fratelli maschi perderanno il posto di lavoro perché antifascisti, la casa dove vivono verrà bruciata, Beniamino condannato a nove anni di confino, in seguito a cinque anni di vigilanza speciale a San Donà di Piave, di cui dopo la liberazione diventerà sindaco. Un conoscente, Arno Foschiatti, muratore, ricorda che “assieme ad altri giovani andavamo ad ascoltare, capendo quello che ci era possibile, le intermina- bili discussioni in casa Feruglio, ed era la madre maestra che spesso contribuiva a dilatare i termini del dibattito”.5 Il loro cugino Egidio Feruglio Consigliere della Saf e redattore di In Alto dal 1920 al 1924 e dal 1949 al 1950, geologo libero docente all’Università di Bologna, per le conseguenze del rifiuto di iscriversi al partito fascista nel 1934 deve emigrare in Argentina. Anche i fratelli sono mol-

Antonio Feruglio nel ritratto pubblicato su L’alpinismo in Friuli di G.B. Spezzotti (Saf, 1965) 58 Antonio Feruglio alpinista e spirito libero PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA to appassionati di montagna: Felice e Giuseppe risultano iscritti alla Saf per anni, Beniamino lo accompagna in alcune salite, Antonio lo sarà inin- terrottamente dal 1920, con l’eccezio- ne del 1929, e almeno fino al 1970.6 Dopo il diploma in ragioneria, scartato alla visita di leva per insuf- ficienza toracica, Antonio entra in banca e rimane al suo posto di lavo- ro anche dopo la rotta di Caporetto. Comincia a frequentare le montagne all’inizio degli anni ’20. Il figlio Fau- sto ricorda che era capace di andare a Chiusaforte in bicicletta portandosi dietro gli sci, di lasciare il mezzo, sali- re a Sella Nevea e scendere a Tarvisio con gli sci, prendere il treno, ritornare a riprendersi la bicicletta e quindi a casa, il tutto in giornata.7 L’Alpina che frequenta è una Società con grossi problemi de- rivanti dalla guerra: soci caduti o profughi, biblioteca e sede sociale saccheggiate, rifugi distrutti. Le arrampicate sono in fondo alla lista dei problemi. Non che nel ventennio precedente fossero in cima: nel Convegno di Rigolato del 1901, il nuo- vo presidente Olinto Marinelli lamentava che il periodo eroico dell’esplorazione delle nostre montagne era passato e che gli “alpinisti di professione” coloro cioè che le frequentavano per scoprirle avrebbero dovuto trasformarsi in esploratori scientifici se non volevano scomparire. Nel Convegno di Pontebba del 1906, Ma- rinelli modifica moderatamente questa impostazione, ma la morte in montagna di Giuseppe De Gasperi nel 1907 e di Vittorio Tessitori nel 1914 fa sì che, con l’ec- cezione delle salite di Alessandro del Torso in Lavaredo nel 1913, pochi alpinisti si impegnino in arrampicate e anzi che venga abbandonata anche l’esplorazione.8 Per un confronto alla Società Alpina delle Giulie, a partire dal 1898 diventa prassi fornire all’assemblea dei soci un puntuale resoconto dell’attività alpinista dell’an- no.9 Le salite di Antonio sono ricordate per la prima volta su In Alto nel 1921 quando rifà la via di Dogna al Montasio, aperta da Giacomo di Brazzà, Pecile e dai fratelli Mantica nel 1882 e in seguito ripetuta nello stesso anno dagli stessi, da Kugy con Krammer nell’1887, con Bolaffio nel 1903 e sempre nel 1903 da Giu- seppe Feruglio e compagni. Spezzotti la racconta così: “A Feruglio spetta il meri-

Antonio Feruglio con una compagna di scalata (archivio famiglia Feruglio) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Antonio Feruglio alpinista e spirito libero 59 to della riscoperta della Via Dogna. Il 29 agosto col fratello Beniamino, con Luigi Bonanni e Mario Rea, preso ad accompagnatore un valligiano, certo Guglielmo Pittino, assunto al solo scopo di facilitare la ricerca d’un itinerario ch’egli, anziano cacciatore, dichiarava di conoscere, ma che in definitiva aveva pressoché dimen- ticato, senza corda, con inadeguato equipaggiamento, in una giornata plumbea di nebbie, tra intermittenti rovesci di pioggia, fidandosi per l’orientamento del suo istinto e del fiuto della via, riuscì verso sera sulla cima dello Iôf. La scarsa visibilità non permetteva d’asserire se il tracciato seguito fosse in tutto, o solo in parte, coincidente con quello originario di Brazzà e Mantica. A riconoscerlo definitiva- mente valse la successiva salita, compiuta nel 1922, senza guida, dallo stesso Fe- ruglio con C. Scapini, L. Cesare e V, Driussi”.10 Sale anche il Sernio il 5 giugno, la Creta di Cjanevate il 10 luglio ed effettua un tentativo al Monte Bianco il 29 ago- sto, fallito per malessere di un partecipante. Lo stesso anno è tra i fondatori della sezione di Udine dell’Uoei. L’Alpina ne dà notizia l’anno successivo specificando che dell’associazione “sono stati nominati presidente e vice presidente due nostri consoci: il forte alpinista Antonio Feruglio e il signor Fagarazzi… Sono persone fattive e piene di fede nello scopo umanitario che si propone l’associazione, siamo quindi sicuri che la consorella avrà prospero e sicuro avvenire”.11 Per spiegare perché, pur essendo iscritto alla Saf, Feruglio si impegni nella fondazione di un’associazione tutto sommato concorrente, occorre fare un pas- so indietro. Siamo nel 1907, quando per legge si impone che il giorno di riposo settimanale sia la domenica. La giornata libera invoglia molti a frequentare in gruppo l’ambiente montano12, ma “In Italia l’iscrizione al Cai era riservata al ceto medio alto”13. A livello nazionale si organizzano quindi delle gite popolari, sia come costo sia come difficoltà, in collaborazione con il Touring Club Italiano. Nel 1911 a Monza si fonda la prima sezione dell’Uoei, che si rivolge anche nel nome specificamente agli operai con il motto “per la montagna e contro l’alcool” (nel 1909 ci furono più di 1400 decessi per alcolismo cronico14), invogliandoli a frequentare la montagna vista come ambiente sano e bello. Le quote sociali sono bassissime (alla fondazione una lira annuale) e sempre più basse di quella del Cai; per fare l’esempio della Saf, questa, che pure si era staccata dal Cai per ragioni economiche, nel 1921 richiedeva ai soci residenti a Udine 60 lire all’an- no ancorché pagabili in quattro rate, 36 agli straordinari e 24 ai non residenti; l’Uoei si accontenta nel 1924 di 7 per gli ordinari e 12 per i sostenitori. Questa “democratizzazione” della montagna, se da un lato porta all’adesione all’Uoei di esponenti dell’ala riformista del Partito Socialista come Filippo Turati, Leonida Bissolati e Claudio Treves e perfino di industriali, docenti di medicina, associa- zioni sportive, dall’altro provoca una reazione fra il paternalistico e lo stizzito del Cai. Adolfo Hess sulla Rivista Mensile, tirando le conclusioni della discussione su 60 Antonio Feruglio alpinista e spirito libero PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA quali dovessero essere i rapporti, scriveva che “le società alpinistiche superiori devono apprezzare le iniziative distinte, ma collegate dell’Uoei.”15. Il notevole interesse per quest’ultima è dimostrato dalle iscrizioni: nel 1912 c’erano già 19 Sezioni con circa 2000 soci, in breve tempo si raggiunse e superò la quota di 10 mila iscritti in circa 40 sezioni.16 Per un raffronto, il Cai poteva vantare, al 31 agosto 1913, 73 Sezioni e 9036 soci. Con identico scopo c’è un fiorire di associazioni an- che dopo la fine della guerra. Tornando al quesito di cui sopra, il suo amico Aldo Cuttini in seguito componente per il Pci del Comitato di Liberazione friulano, ricorda: “Antonio aveva creato una sezione provinciale Uoei di Udine e noi ci siamo iscritti (...) questo succedeva nel ’30… Allora noi andavamo sopra Tarcento, il Monte Musi...proprio sopra il Cuar- nan! (…) ci sedevamo lì tutti e lui pontificava, ci spiegava (...) mi ricordo io che quando si andava su eravamo una ventina di ragazzi; non si porta- va ...non voleva Antonio era proibito ...carta e penna non esisteva perché diceva: «Se volês lâ in galere portate un notes e una penna e vi assicuro che in tre mesi vi trovate...sentite e tenetelo per voi». Faceva delle lezioni un po’ teoriche, un po’... la storia del movimento (…) della necessità da parte della classe operaia che è stata sempre sfruttata dal capitalismo di darsi una cultura e un`organizzazione”17 Nel 1922 partecipa al campeggio a Sella Nevea. Nel frattempo ha comincia- to anche l’attività politica militante, entra nella Cooperativa Socialista di Felet- to Umberto, aderisce all’ala terzinternazionalista del Psi. Partecipa al Congresso provinciale di Cividale del 16 luglio dove si oppone fermamente all’idea di un accordo con le forze di ispirazione democratica e liberale18. È l’anno in cui si rifonda l’Uoei di Udine una volta saldati i debiti per le spese di avviamento che ne avevano causato la chiusura. Questa volta Antonio si limita a candidarsi a con- sigliere. Viene eletto. L’associazione ha subito rapporti con la Saf: Ardito Desio partecipa a nome di quest’ultima al Congresso nazionale Uoei di Firenze dove vie- ne approvato un ordine del giorno per una convenzione sulle tariffe ferroviarie. Le due società hanno un contenzioso per un contratto di trasporto al Montasio.

Antonio Feruglio in arrampicata sul Campanile Toro (archivio famiglia Feruglio) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Antonio Feruglio alpinista e spirito libero 61

Il 1923 risulta un “anno ricco di sostanza per la preparazione definitiva di molti alpinisti friulani, addirittura eccellente per Feruglio, ormai scalatore di classe. Un sommario elenco delle sue arrampicate principali lo conferma: nel luglio con Luigi Cecchini, Luigi Bonanni. Livia Cesare, Iolanda de Basadonna, effettua una delle prime ripetizioni italiane della «direttissima» della Grauzaria (aperta nel 1900 da Napoleone Cozzi), ripercorrendola anche in discesa; scopre con E. Bonanni, M. Fachini, L. Cesare ed I. Basadonna un nuovo interessante tracciato sul Sernio per parete ovest. In agosto con C. Scapini e le due fedeli compagne di cordata si propone la ripetizione della via «dei cacciatori italiani» al Iôf del Montasio, uscendone in vetta dopo aver praticata una lunga e difficile variante: pochi giorni dopo, con E. Bonanni, riesce a superare la dura paretina est nord est del Bila Pec, attaccandola a sinistra della Grotta Brazzà. Nel set- tembre infine, ancora con L. Cecchini e le due íntrepide compagne, si porta nel Gruppo dei Monfalconi, e compie con loro le belle scalate del Campanile Toro e del Campanile di Montanaia (50° salita e 28’ traversata) concludendo cosi la magnifica campagna estiva”.19 Cecchini descrive questa avventura su In Alto dello stesso anno20. È notevole il fatto che, muniti della guida di Antonio Berti, scelgano come prima via da ripetere la Piaz alla parete NE del Campanile Toro, che pre- senta difficoltà di V grado, una sola ripetizione fino ad allora (Nieberl e Klammer 1907) e un passaggio con albero umano (anche se ritengono erroneamente che Piaz l’abbia salita in solitaria). Tutto senza preoccuparsi troppo del commento di quest’ultimo: “Lavorai per la prima volta con mezzi artificiali”. Dalla descrizione sembrerebbe che Feruglio sia arrivato fino a quel punto e poi abbia dovuto ritorna- re indietro, ripiegando sulla Quota 2143 e salendo il Campanile per la via normale il giorno successivo. Di quella settimana dal 3 all’8 settembre rimane un elegante raccoglitore di fotografie, con dedica in bella calligrafia al capocordata e le firme dei compagni, da cui sono state riprese le immagini che corredano questo articolo. Cinque giorni dopo Feruglio viene interrogato in Prefettura a Udine e con- ferma la sua fede comunista, di voler continuare a fare propaganda e di essere italiano perchè nato in Italia, non per sentimenti.21 Viene arrestato. Probabilmen- te lo stesso anno abbandona il Psi ed entra nel Pci svolgendovi una intensissima propaganda. Convince i soci della Cooperativa “rossa” di Feletto Umberto da lui diretta a sciogliersi piuttosto di entrare nel Sindacato Italiano delle Cooperative di ispirazione fascista.22 Il carattere impulsivo lo tradisce sicché il 26 giugno 1924 viene condannato dal Tribunale di Venezia a 5 giorni di reclusione e 100 lire di multa per esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il 22 settembre scala con Riccardo Spinotti, Livia Cesare ed Edoardo Tolazzi la Creta della Chianevate per la parete sud della Torre e la cresta ovest, ritenendo di 62 Antonio Feruglio alpinista e spirito libero PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA ripetere la via di Samassa e Urbanis del 1895 e aprendone invece una totalmente nuova che ancora oggi è quotata di II e III grado.23 In luglio sale la maggiore delle Cime di Pradibosco con Livia Cesare, Scapini, Regolo Corbellini e Lippi. La intitolano Creta Livia in onore della compagna di cordata. Viene eletto consigliere della Saf. Si arriva così al 1925. Mentre cominciano a farsi luce nuovi arrampicatori: Oscar Soravito e Marco Tessari, entrambi futuri accademici del Cai, e l’Uoei crea una Sezione sciatori ottenendo il plauso del presidente della Saf, l’attività alpini- stica di Antonio risente di quella politica. Il 4 marzo scrive al consiglio dell’Alpina una lettera di dimissioni, che però non pare essere accolta, perché continua a figurare come consigliere. Il 22 luglio il consiglio dell’Uoei “chiede al sig. Feru- glio spiegazioni delle continue assenze alle sedute precedenti. Risponde che sono causate dal troppo lavoro, ma cercherà di essere più presente”.24 Partecipa alla seguente e poi mai più. L’anno successivo non verrà rieletto. Assieme al fratello Beniamino viene “arrestato il 3 ottobre mentre tiene presso il Cormor di Feletto Umberto nelle ore notturne una riunione di elementi sov- versivi.”25 Intanto il fascismo sta cambiando l’Italia: il primo maggio viene creata l’Opera Nazionale Dopolavoro che dopo la guerra verrà ribattezzata Enal. Le as- sociazioni a seconda dell’attività svolta devono decidere, se non vogliono chiude- re, di entrare lì o, magari aderendo al Cai, nel Coni.26 Di conseguenza il presidente Morosini e il consiglio centrale dell’Uoei “decisero di iniziare le pratiche per far confluire le sezioni nell’Ond durante lo svolgimento del Congresso di Monza del 13 settembre 1925, cominciò così una serie di incontri... che durarono fino alla primavera del 1926. La decisione suscitò malumori e secche proteste all’interno delle sezioni a tal punto che il consiglio centrale si trovò a dover giustificare la propria scelta”.27 Nel 1926 per le sue idee sovversive viene licenziato dalla Banca udinese dove lavora. Il 10 aprile a Genova il Presidente del Cai avv. Eliseo Porro comunica all’Assemblea dei delegati di aver deciso per l’adesione. “Credeva con ciò di aver tolto di mezzo tutte quelle forme di semi alpinismo che facevano concorrenza”.28 “L’Assemblea – l’ultima fino alla Liberazione – benchè messa di fronte al fatto compiuto, plaude alla svolta epocale”.29 Negli anni seguenti, il Cai ingloberà tutte quelle associazioni che si interessavano di montagna (e che non avevano chiuso). Il 6 maggio si tiene nella sede udinese dell’Uoei una doppia seduta: nella prima parte, il presidente Piero dell’Olio riferisce di aver partecipato a una riunione al Fascio per la formazione di una “Guardia al Brennero” e al punto successivo dell’odg di aver fornito al Questore in seguito a richiesta fattagli personalmente dallo stesso 1) l’elenco nominativo dei soci, 2) copia dello Statuto sociale, 3) dati e notizie circa la composizione del consiglio, i soci, l’attività della sezione ed al- PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Antonio Feruglio alpinista e spirito libero 63

tro. A un altro punto riferisce dell’accordo con l’avvocato Spinotti della Saf per l’effettuazione del primo campeggio popolare uoeino. Alle 24 inizia la seconda parte: oggetto della convoca- zione d’urgenza è l’adesione all’Ond. In realtà la decisione è già stata presa. Il Consiglio, pur non essendo consenziente, decide di continuare l’attività per arrivare a un referendum fra i soci sull’adesione. Il presidente e il consigliere Gio- vanni Cantoni 30, messa a verbale la loro “recisa disapprovazione” si dimettono. All’assemblea dei soci i favorevoli sono 77 su 107. Antonio presenta un odg (non approvato dal Consiglio) in cui chiede che “considerato che il Consiglio direttivo centrale nelle trattative per l’adesione è venuto meno al senso dell’art. 1 dello Statu- to, dovendo i soci dichiarare la loro fede politica e confessionale” venga convocato un convegno generale per togliere dall’articolo suddetto le pa- role “apolitica e aconfessionale”. L’ordine del giorno ottiene solo otto voti fa- vorevoli e viene quindi respinto. Il 13 giugno muore il presidente della Saf Olinto Marinelli e gli subentra Italico Rubazzer e l’anno dopo verrà eletto Pier Silverio Leicht. In agosto Antonio prende parte al campeggio Saf di Pocol (Cortina) dove as- sieme ai colleghi Spinotti, Bonanni, Cecchini trasferisce le sue conoscenze alpini- stiche ai partecipanti, fra cui emergono due giovani interessanti: Celso Gilberti (16 anni) e Giovanni Granzotto (poco più vecchio) entrambi futuri accademici. Il 28 ottobre si svolge sotto le finestre di casa sua una dimostrazione di una ventina di fascisti a cui grida “Sono un italiano rosso e non cambierò le mie idee” e che sarebbe emigrato in Francia se gli avessero concesso il passaporto. Il 27 aprile 1927 la Prefettura di Udine invia una nota della Direzione Gene- rale di Pubblica Sicurezza in cui ricordato l’episodio suddetto suggerisce il con- fino per “l’irriducibile oppositore del Regime”, aggiungendo tuttavia che anche un ammonimento avrebbe potuto bastare considerato che dall’ottobre dell’anno precedente non svolgeva più attività politica. Il 3 luglio apre con Giovanni Cantoni una via sul Montasio raggiungendo la

Antonio Feruglio alla Fessura Cozzi (archivio famiglia Feruglio) 64 Antonio Feruglio alpinista e spirito libero PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

Grande Cengia da nord ovest con difficoltà presu- mibili di IV-V grado 31. Una delle ultime salite vie- ne effettuata con Livia Cesare sulla Torre Winkler nel Gruppo del Vaiolet. Non sappiamo esattamente come si sia con- cluso il rapporto di Feruglio con l’Uoei, ma in oc- casione della visita di domenica 14 agosto 1927 a Udine di Augusto Turati Segretario del Pnf (e in seguito presidente del Cai), alcuni soci che senza giustificazione non hanno partecipato alla manife- stazione vengono puniti dal Consiglio: 15 con la sospensione di un mese, uno radiato e uno che si era dimesso si vede respingere le dimissioni e com- minare la radiazione. I nomi erano scritti su un al- legato al libro dei verbali, che è andato perduto. Mi piace pensare che Antonio se ne sia andato con una ultima manifestazione di indipendenza. Nel frattempo il ministero dell’interno decide di tenere conto dei suggerimenti della Questura e lo confina per due anni a Lipari a partire dal 3 set- tembre. Di questo periodo abbiamo un “Foglio di notizie per prospetto biografico di A.F” compilato dalla Prefettura di Messina che attesta la sua “Regolare condotta”. Nel 1929, poco prima che la pena termini, gli viene proposto di partecipare alla famosa fuga dall’isola. Rifiuta, perché signifi- cherebbe dover vivere in esilio. Il 27 luglio Carlo Rosselli, Francesco Fausto Nitti ed Emilio Lussu portano a termine con successo il tentativo. Circa un mese dopo, riceve il foglio di via e ritorna a Udine. Viene incluso nell’elenco delle persone da arrestare in determinate circostanze. Il figlio ricorda ancora le fughe dal cortile posteriore della casa di Via Ampezzo a Udine per evitare la cattura. Intanto anche la Saf ha deciso, una volta risolte le preoccupazioni finanziarie e quelle riguardanti la conservazione della struttura organizzativa che potrebbero derivare dalla decisione, di rientrare nel Cai. “l’opportunità di entrare in un orga- nismo più grande ed efficiente... non poteva non imporsi. L’istituzione del Coni non fu che un’occasione favorevole... Nessuno credette, neppure per un momen- to, di tentare di suggerire uno scioglimento piuttosto che subire l’aggregazione”.32 Il 18 gennaio 1930, quando ancora abita a Feletto, forse a seguito di motivi di sicurezza conseguenti al matrimonio del principe ereditario, l’8 gennaio 1930,

Foto segnaletica di Antonio Feruglio, Udine 31 agosto 1927 (Archivio centrale di Stato) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Antonio Feruglio alpinista e spirito libero 65 il Ministero dell’Interno invia una lettera alla Prefettura in cui in tono perento- rio invita quest’ultima a riferire come mai Feruglio Beniamino assieme al fratello Antonio si siano resi irreperibili dal 29 dicembre per costituirsi il primo gennaio come da segnalazione dei carabinieri e da loro non sia giunta nessuna comunica- zione. Nella risposta si attribuisce agli agenti della Squadra politica il merito di aver costretto con il loro pressante inseguimento i due a costituirsi. Si aggiunge che comunque Antonio non è stato incluso nell’elenco delle persone capaci di atti inconsulti. Questi dichiara di aver solamente voluto sottrarsi all’arresto preventi- vo che sarebbe certamente avvenuto. Vengono trattenuti in carcere fino all’11.33 I fogli notizia continuano a essere inviati dalla Prefettura con cadenza trime- strale fino al 1943. Da questi sappiamo che ha lavorato in una cartoleria, alla libreria Carducci, alla drogheria Cogolo & Battistutto. che mantiene le proprie idee ma vive appartato, si dedica alla famiglia, (si è sposato e ha due figli) e non si associa a persone sospette. In realtà, quando Cuttini, per ricostituire i quadri del partito, riprende i contatti con i partecipanti alle escursioni sui Musi, anche Antonio aderisce alla proposta. Nel frattempo una serie di modifiche (1931, 1936, 1943) hanno plasmato lo statuto nazionale del Cai secondo il volere del Pnf: il presidente generale viene nominato dal segretario del Pnf e tutti coloro che rivestono cariche sociali (pre- sidenti, reggenti delle sottosezioni, consiglieri, revisori) devono essere iscritti al partito, le attività “saranno indirizzate al potenziamento militare della nazione”, viene posto alle dirette dipendenze del Pnf, senza la supervisione del Coni e in ossequio alle leggi razziali “I soci Cai devono appartenere alla razza ariana”.34 Con la caduta del fascismo tutto cambia. La Saf nomina Antonio il 30 maggio 1945 commissario.35 Nella relazione all’assemblea sociale al termine del mandato il 29 luglio dello stesso anno tratta soprattutto dello stato dei rifugi che sono stati incendiati (Gilberti e Julia) o comunque danneggiati (Marinelli). Nella stessa vie- ne eletto presidente Michele Gortani, e lui consigliere. Per quanto riguarda la vita politica, entra a far parte della Commissione provinciale per l’epurazione. Nel dopoguerra diventerà vicesindaco di Udine e assessore alle finanze. In occasione dello strappo del Pcus con Tito si dimette dal Pci e coerentemente da tutte le cariche. Prova a farsi rieleggere nelle file del Psdi, ma senza fortuna. Si dedica allora alla Libreria Carducci di cui è diventato titolare e alla presidenza dell’Officina del Gas (poi Amga). Muore il 3 giugno 1984.

Giovanni Duratti Nato nel 1948, è stato presidente della Saf per sei anni, componente del Corpo nazionale del soccorso alpino per ventisette, istruttore della scuola di alpinismo Celso Gilberti per oltre trenta. Collabora da anni con In Alto, sulle cui pagine ha pubbli- cato, fra l’altro, parte dei diari alpinistici di Renzo Stabile e di Oscar Soravito. Si interessa di storia e di biografie di alpinisti friulani. 66 Antonio Feruglio alpinista e spirito libero PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

NOTE AL TESTO

(1) Giovanni Battista Spezzotti L’alpinismo in Friuli e la Società Alpina friulana vol. 2 pag. 189 Udine -1965 (2) In Alto vol LXXXVIII 1974 pag.88 (3) In Alto vol XCVII 1985 pag. 17 (4) In occasione dell’insediamento del neoeletto Consiglio Comunale di Bologna il 21 novembre 1920 ci furono dei disordini che portarono a 11 morti e 56 feriti. La dinamica esatta degli avveni- menti è ancora oggetto di discussioni. Per una ricostruzione completa vedi N. S. Onofri La strage di Palazzo d’Accursio. Origine e nascita del Fascismo bolognese, 1919-1920, Milano, Feltrinelli, 1980. Il futuro Presidente del Cai (e anche dell’Opera Nazionale dei Combattenti e dell’Associazione Nazionale Alpini) e in seguito direttore della Rivista Mensile avv. Angelo Manaresi presente alla riunione perchè eletto nelle fila della minoranza fascista ricorderà nello scritto Bologna Rossa nel libro Aprite le porte che la Sede del Cai locale era il loro abituale luogo di ritrovo. (5) Flavio Fabbroni Tavagnacco 1900 1945 Storia Contemporanea di un comune friulano, 1980 (6) A onore della Saf si deve rilevare che i vecchi statuti (ad es. quello del 1902) fra le cause di per- dita della qualità di socio prevedevano la rinuncia, la morte, la morosità ed una vaga “cancellazione deliberata dall’Adunanza Generale della Sezione”. Quello approvato dal Coni del 1931, aggiungeva anche all’art. 9 “Possono essere radiati dalle Sezioni quei soci che abbiano mancato all’onore o ai doveri sociali.”, quello del 1941 specificava meglio “il provvedimento viene inflitto all’iscritto che abbia compiuto azioni e riportato condanne che ledono la sua figura morale” Impossibile non si sapesse che aveva scontato due anni di confino eppure si continuò ad accettarlo come socio. (7) Indubbiamente una bella performance sportiva, ma la bicicletta era il mezzo obbligato per la mobilità di chi non fosse stato ricco. Basti pensare che il Touring Club Italiano fondato da 57 ciclisti nel 1894 nel 1914 contava già 137.000 soci. Il paragone con le cifre del Cai e dell’Uoei riportate più avanti è impressionante. (8) G.B. Spezzotti L’alpinismo in Friuli op. cit pagg. 51-61. (9) Giampaolo Valdevit Storia dell’alpinismo triestino. Mursia 2018 pag. 42 (10) G.B. Spezzotti L’alpinismo in Friuli op. cit pag. 181 (11) In Alto 1922, Unione Operai Escursionisti Italiani pag. 61 (12) Francesco Fernandes, Alberto Benini 1911 2011 U.O.E.I. Cento anni di orizzonti Storie di uomi- ni e passione per la montagna, Brescia 2011 (13) Stefano Morosini Sulle vette per la patria. Politica, guerra e nazione nel club alpino italiano. Fran- co Angeli Milano, 2009 pag 33. Un’analisi comparata tra le basi sociali dei Club Alpini europei e fra quelle delle sezioni del Cai di dimensioni diverse in: Alessandro Pastore Alpinismo e storia d’Italia. Dall’Unità alla Resistenza Il Mulino, Bologna, 2003 pp. 33 e seg. (14) Direzione Generale della Statistica e del Lavoro, Annuario statistico Italiano 1911, Tipografia Nazionale G: Bertero &C. Roma 1912 cit. in 1911 1921... (15) A. Hess “Alpinismo popolare”. Una proposta alle Sezioni del Club Alpino Italiano, in RM 32, 1912, pp. 26-40. (16) Lauro Rossi Per la montagna contro l’alcool. Sei anni di alpinismo proletario in Italia (1921- 1926), in “Lancillotto e Nausicaa. Critica e storia dello sport, 2, 1988, p.30 (17) Temo però che nell’intervista fatta ad anni di distanza venga indicata una data sbagliata, negli anni trenta Antonio aveva smesso di fare azioni pubbliche. Gabriele Donato Sovversivi Cospirazione comunista e ceti subalterni in Friuli fra le guerre, Istituto Friulano per la storia del Movimento di Liberazione, p. 139 PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Antonio Feruglio alpinista e spirito libero 67

(18) Gabriele Donato Sovversivi op.cit pag. 90 (19) Alla campagna partecipa anche E. Bonanni come si evince dall’art. di cui alla nota seguente e dalle firme sul libro di foto di cui si parla più avanti. G.B. Spezzotti L’alpinismo in Friuli op. cit pag. 182 (20) Luigi Cecchini Nelle Prealpi Clautane In Alto 1923, p. 65 e seg. (21) Archivio di stato di Udine, fondo “Prefettura”, busta 7, fasc. 28 cit. in Tavagnacco op. cit (22) “Tutta l’organizzazione proletaria è in crisi (...) il cedimento più clamoroso è quello delle coop. rosse della Carnia che si lasciano assorbire passivamente dal SIC”. Mario Fabbro Fascismo e lotta politica in Friuli (1920-26) Marsilio Padova 1974 pag. 113. (23) La relazione originale di Spinotti è consultabile sull’In Alto del luglio-dicembre 1924, ripubbli- cata sul volume XLVII anno 1985. (24) Libro dei verbali del Consiglio della Sezione di Udine dell’Uoei. (25) Archivio Centrale di Stato Casellario Politico Centrale b. 2049, fasc. “Feruglio Antonio” (26) Quest’ultimo rimarrà comunque meno oppressivo dell’OND: nel 1938 ad es. il Presidente della XXX Ottobre che si è dimenticato durante una premiazione di dire che la stessa vi aderisce viene costretto alle dimissioni. G. Valdevit Storia dell’alpinismo. op.cit pag. 118 e Claudio Mitri “Vi rias- sumo ...la lunghissima storia della XXX ottobre” inserto di Alpinismo Triestino nr 169 (27) F. Fernandes, A. Benini 1911-2011 op.cit. pag. 72. (28) Silvio Saglio La vita del CAI nei suoi primi cento anni pag. 247. (29) Pietro Crivellaro CAI 150 Il decennio 1924-1933, Montagna 360, aprile 2013, pag 56 (30) Non stupisce questa presa di posizione essendo anche lui iscritto al Partito Comunista e com- ponente di una famiglia politicizzata, la sorella è la nota Rosa Cantoni attiva nella Resistenza con il nome di battaglia “Giulia” internata a Ravensbruk. Dopo la liberazione oltre a continuare con l’impegno politico testimonierà ovunque la sua esperienza. (31) Il suo compagno di cordata non è iscritto alla Saf e come sopra ricordato si è dimesso dall’Uoei, morirà l’anno dopo in un tentativo solitario (Antonio è a Lipari) alla Est del Bila Pec. (32) GB Spezzotti op. cit pagg 142-143. A dire il vero qualcuno contrario ci fu: il geologo E. Feruglio sopra ricordato inviò una lettera in tal senso conservata nell’archivio della Saf. (33) Archivio Centrale di Stato Casellario Politico Centrale b. 2049, fasc. “Feruglio Antonio” (34) Sarebbe interessante scoprire se anche in questo caso la SAF si sia comportata come per la condanna di Antonio, e cosa hanno fatto le altre Sezioni. Armando Scandellari in CAI e Fascismo (Alpi Venete 44/2, autunno inverno ‘90-’91) pag 157 parla di “chiara opposizione come nel caso della modifica dell’art. 12 (quello antisemita NdA) dello Statuto” senza altre spiegazioni. A. Pastore in Alpinismo. op. cit citando Livio Sirovich Cime irredente. Un tempestoso caso storico alpinistico. Torino 1996 rileva che in altre Sezioni (SAG) “si anticipano i nuovi criteri fissati a livello nazionale”. Il caso di espulsione più famoso è quello di Ugo Ottolenghi conte di Vallepiana, accademico, deco- rato di guerra che venne anche costretto a dare le dimissioni dal CC del Cai. Per essere riammesso nel 1947 ed in seguito diventare Presidente Generale dal 1960 al 1975. (35) Soravito nel necrologio parla di “commissario straordinario per la ricostituzione dei quadri direttivi e del nuovo ordinamento nell’ambito del rinnovo del Cai”. La copia della lettera di incarico conservata nell’archivio SAF semplicemente di commissario. Antonio potrebbe essere stato inserito nella lista dei 39 membri della Consulta che vengono cooptati per coadiuvare il Commissario gen Luigi Masini. Il 28 ottobre 1945 quest’ultimo e 37 componenti si riuniscono a Milano, dichiarano decaduto lo statuto del 1941 e rifacendosi a quello del 1926 indicono una Assemblea dei Delegati per l’elezione del Presidente Generale e l’aggiornamento di alcuni articoli dello stesso. La Saf non è presente, ma in seguito aderisce alle conclusioni della riunione. 68 TOPONOMASTICA

TRACCE DI GUERRA NEI NOMI DELLE ALPI

Cima di Mezzodì, Monte Sassoso: così avrebbero potuto chiamarsi monti che sono diventati famosi altrimenti. Misteri e curiosità dei toponimi, che qui due esperti ci svelano

Barbara Cinausero Hofer Ermanno Dentesano

Nei quattro anni trascorsi si è fatto un gran parlare della Prima Guerra Mondiale per celebrarne il centenario. Pertanto in questo breve intervento cercheremo di non tornare su nomi che sono stati richiamati di recente alla memoria più e più volte, come per esempio Pal Piccolo, Pal Grande, Sella Bieliga, Monte Rombon, Monte Festa. L’idea è invece di stuzzicare la curiosità, sempre nell’ottica del topo- nomasta più che dello storico, con nomi mai sentiti o con etimologie non scontate, di suggerire argomenti da approfondire sia dal punto di vista degli avvenimenti sia da quello dell’etimologia, di evocare suggestioni legate ai nomi e ai luoghi, anche uscendo talvolta dai limiti che il titolo delinea. Come primo passo, apriamo questo breve intervento illustrandone i limiti concettuali, territoriali e metodologici. Innanzitutto diciamo subito che abbiamo escluso dal nostro lavoro gli odonimi, ovvero le intitolazioni di piazze e strade che richiamano i fasti degli eventi bellici. E se Karl von Clausewitz nel suo Vom Kriege (Della guerra, 1832) ebbe a dire che “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”, noi possiamo replicare con un’affermazione argutamente antitetica: essa recita che “la geografia è l’anticipazione della guerra con altri mezzi” (Vitto- rio Zucconi, 2015). Basta osservare le cartoline degli inizi del Novecento dei nostri confini orien- tali per comprendere il senso di questa affermazione. Vista dal nostro Paese, la geografia non coincideva di sicuro con il punto di vi- sta dell’impero austroungarico. Altri due esempi: un’Italia capovolta in una stam- pa del 1853, più conosciuta come “L’Italia rivoltata”, quanto mai originale nella interpretazione della geografia da parte dell’immaginifico autore, e il toponimo Jôf di Miezegnot, che in Val Canale risponde alla forma tedesca Mittagskofel e a quella slava Poldanovec o Poldnašnja špica, a significare “cima di mezzodì” e non di mezzanotte, in un capovolgimento semantico che rispecchia esattamente quello geografico. PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Tracce di guerra nei nomi delle Alpi 69

I limiti territoriali che ci poniamo in questa analisi sono sostanzialmente quelli della Zona Carnia, che andava dal Peralba al Montemaggiore, ma ci allargheremo un po’, sia a levante sia a ponente. Iniziando dal confine orientale, dove il punto di vista italiano, unitamente all’ignoranza di un cartografo di fine Ottocento, ha tradotto il Krn (roccia, e quindi Monte Sassoso, per traslato Monte Aguzzo, come traduce il Pleteršnik), che in un una nota venne trascritto come Crn, in Monte Nero, che però sarebbe stato Črn. Ormai l’errore ha fatto i suoi danni, e sfidiamo chiunque a cambiare il noto canto degli alpini Monte Nero, composto dai super- stiti alla cruenta battaglia che lo conquistò nel 1915, in “Monte Aguzzo, Monte Aguzzo, traditore della patria mia …”. Andiamo ora al confine opposto, che si materializza nella Piave. Sì, la Piave, femminile, come ci assicurano le attestazioni almeno dal 1360 in avanti. Come ha fatto a diventare maschile? L’artefice del cambiamento fu Gabriele D’Annunzio, che oltre a essere un eccellente poeta era un ancora più eccellente comunicatore. Nei difficili tempi di guerra, pervasi dalla roboante retorica futurista, la rude forza maschia del Piave doveva avere un potere più suggestivo e convincente. Niente dunque “La Piave mormorò: Non passa lo straniero!”: la celebre canzone La leg- genda del Piave composta nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto con lo pseudonimo di E.A. Mario) sancì definitivamente il passaggio dal femminile al maschile del fiume sacro alla patria.

Ecco come apparivano i confini orientali visti dagli italiani: questa mappa appartiene a una cartolina imbucata a Milano il 20 novembre 1927 70 Tracce di guerra nei nomi delle Alpi PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

Tralasciamo, perché fuori dai limiti territoriali che ci siamo imposti, molti nomi evocativi e ben conosciuti, ma merita un accenno il Monte Sabotino, italia- nizzazione dello sloveno Sabotin, a sua volta adattamento slavo del friulano San Valantin. Quindi Sabotino viene da Valentino. E un altro, il Mrzli Vrh, presso Ca- poretto, che i combattenti italiani avevano soprannominano Cassa di Risparmio, per l’infinità dei colpi di artiglieria che vi cadevano durante le battaglie-macelli che lo investivano. I toponimi che sono il risultato di piani, situazioni o fatti di guerra sono nume- rosi, ma si tratta per lo più di microtoponimi, scarsamente conosciuti. Risultereb- be alquanto noioso elencarli, citiamo per esempio il Trincerone di Pal Piccolo, il Trincerone di Quota 1859 e il Trincerone di Vetta tutti sul Pal Piccolo e, dall’altra parte del confine, Maschinengewernase (Naso delle Mitragliatrici) e Schulter Stel- lung (Postazione della Spalla). Un caso del tutto particolare è quello delle cime “orarie”. Si tratta di vette utilizzate come punti di riferimento, con particolare interesse per quelle che indicavano il sud; lo scopo pratico era di assicurare l’orientamento dei tiri di ar- tiglieria. Quando le cime erano due o preferibilmente tre o più, allora venivano

La tavola XVI di Geografia 1853 dal titolo “Veduta d’Italia”, più conosciuta come “l’Italia rivoltata” PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Tracce di guerra nei nomi delle Alpi 71 spesso raggruppate con il nome di Meridiana. Ve ne sono diverse sparse in tutto l’arco alpino orientale, ricordiamo quella della Val Fiscalina, Zwölfer Spitze, in italiano Croda dei Toni. Sul limite occidentale del territorio ecco la Meridiana di Sappada, nella lingua locale Pladner Sonnenuhr: si tratta di un gruppo di cime che indicano, per lo più con una certa approssimazione, le ore centrali della giornata. La più importante è (sappadino Zbélvar, tedesco zwölfer), meglio conosciuta come Monte Siera. Il punto di osservazione era la chiesuola di Puiche, da cui si possono osservare agevolmente anche la Cima Unici (sappadino Àndlavar, tedesco elfter) e la Cima Dieci (sappadino Zànar), che sono le più conosciute. Vi sono poi i falsi toponimi di guerra; per rimanere in zona parliamo del Monte Lastroni, conosciuto anche come Monte Bersaglio. Il nome promette bene, anche perché, non lontano, sotto il Peralba e accanto al Passo Sesis, c’è il Sasso del Ber- sagliere, una delle cime del Cjadenis. Quest’ultima denominazione ricorda i combattimenti che i bersaglieri dell’8° reggimento sostennero fra il Peralba e il Cjadenis, in particolare per difendere il Passo Sesis. Alcuni bersaglieri, fatti prigionieri dai volontari dei Gebirgschütz- en, furono lanciati vivi proprio dal Sasso dei Bersaglieri. Tornando all’enunciato, l’assonanza del secondo nome del Monte Lastroni, ovvero Monte Bersaglio, con il citato Sasso del Bersagliere, non può fare a meno di attirare l’attenzione. Ci troviamo però di fronte a una traduzione letterale del nome sappadino del monte: Scheibenkofel, attestato almeno dal 1766 come Scheibe Kouvl. Tale dicitura si presta a due interpretazioni che etimologicamente sono affini, in quanto si basano sul medio alto tedesco schībe ‘disco, bersaglio’, che ha dato il verbo schiben ‘rotolare’; un’estensione di significato ha portato a indicare con tali termini anche i ghiaioni, spesso costituiti da detriti rocciosi a forma di lastra. La forma Bersaglio può essere però dovuta al fatto che, dalle alture del monte, la notte di San Giovanni si lanciavano i dischi di legno infuocati (cidulas). Rimanendo sui falsi toponimi di guerra, a Camporosso abbiamo un Poggio dei Combattenti che però è intitolazione che ricorda le scaramucce fra austriaci e francesi avvenute nei primi giorni di ottobre del 1813, quando, dopo quattro anni di presenza napoleonica, l’impero riprese possesso della Val Canale. L’azione dei Cacciatori da Campo austriaci è ricordata da due lapidi poste nel 1905 all’in- gresso della Val Bartolo. Non si tratta quindi di fatti relativi al primo conflitto mondiale, ma pur sempre di fatti bellici. Nei pressi di Cave del Predil, troviamo invece il Rio dei Combattenti, che ha tutt’altra storia. Si tratta di una paretimologia dovuta a errate trascrizioni. In origine era infatti Kohlstatt Bach, ovvero “rio del luogo del carbone”, trascritto come Kohlslatt Bach nel 1813 e Kohlatatt Bach nel 1877. È proprio quest’ultima 72 Tracce di guerra nei nomi delle Alpi PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

forma che ha ingenerato la paretimologia che alla fine, con opportuna traduzione, ha dato origine al Rio dei Combattenti. Andiamo ora all’estremo nord orientale del fronte, dove troviamo il Canale della Trincea. che scende dalla Cima Alta di Riobianco con andamento da nord ovest a sud est, passa accanto alla Cima Pesce e si immette nel Rio Bianco poco prima che questi defluisca nel Rio del Lago. Probabilmente il riferimento è a una struttura campale utilizzata nel periodo bellico, ma abbiamo qualche dubbio per- ché dista circa due chilometri verso levante dal Rio Confine, che, come si intuisce dal nome, separava i due stati in guerra. La dicitura è comunque recente, perché prima è attestato come Fisch Bach (rio del pesce, dal latino pescus, rupe) e solo nel dopoguerra appare il nome italiano. Abbiamo qualche dubbio su questa eti- mologia: benché il rio scenda dalla Cima Alta di Riobianco, notiamo che lo Jôf Fuart si trova a poca distanza verso ponente. Tale monte è chiamato Wischberg in tedesco e Viš in sloveno; ci sovviene allora il dubbio che qualche incerto lettore di lingua italiana abbia interpretato la forma slovena come se fosse tedesca e leggen- do Fisch, che per l’appunto significa pesce. Un ultimo toponimo che vogliamo ricordare è la Fontane dal Tabio a Rava- scletto. Un informatore di Monaio (Tita De Stales) spiega che “a è stade fate dai alpins intal ‘15-‘18; a à la forme dal tabio, dulà che tas malgas ai meteve a disgotâ il formadi tai talçs”. Abbiamo conferme dal Pirona, dal quale apprendiamo che

Cartolina d’epoca col gruppo del Siera: da destra, Siera o Cima Dodici, Piccolo Siera o Cima Undici, Cima Dieci. L’ultima a sinistra è il m. Cimon di Entralais, che non fa parte della meridiana. PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Tracce di guerra nei nomi delle Alpi 73 tabio è la “tavola munita di sgocciolatoi sulla quale nelle casere carniche, clautane, ecc. si pone il formaggio appena immesso nella forma”. Viene dal lat. tabŭlātum ‘assito, tavolato’, quasi sicuramente introdotto dal Veneto. Per chi vuole saperne di più, visto che il tema è vasto e qui l’abbiamo solo accennato, abbiamo stilato una bibliografia a tema.

BIBLIOGRAFIA

Mauro Buligatto, I toponimi della Grande Guerra, «Sot la nape», LVII (2005), 4-5, pp. 9-47 e LXII (2010), 2, pp. 53-73. Michele Castelnovi - Arturo Gallia, Geografia della memoria. Odonomastica della Grande Guerra, «Bollettino della Società Geografica Italiana», serie XIII, vol. IX (2016), pp. 431-446). Barbara Cinausero Hofer - Ermanno Dentesano, Dizionario toponomastico. Etimologia, corografia, citazioni storiche, bibliografia dei nomi di luogo del Friuli storico e della Provincia di Trieste, Udine, Ribis editore, 2011, 1063 p. Barbara Cinausero Hofer - Ermanno Dentesano, Jôf di Miezegnot: un caso unico fra le meridiane naturali, «In alto - Cronaca della Società Alpina Friulana», serie IV, vol. XCIV, a. CXXX (2012), pp. 54-57. Karl von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori (collana Oscar), 1970 (1832-1837), xxx-862 p. La geografia a colpo d’occhio: ossia primarie nozioni di geografia storica e statistica, esposta in 16 tavo- le, Milano, Corbetta, 1853. Julius Kugy, Dalla vita di un alpinista, Bologna, Tamari editore, seconda edizione, 1967 (1932), 37 p. Giulio Andrea Pirona - Ercole Carletti - Giovanni Battista Corgnali, Il nuovo Pirona. Vocabolario friulano, Udine, Società Filologica Friulana, 19922 (1935), 1812 p. Maks Pleteršnik (cura di -), Slovensko Nemški slovar, Ljubliana, Katoliška tiskarna, 1894-1895, 2 voll., xvi-883, ix-978 p. Wilhelm Meyer-Lübke, Romanisches etymologisches Wôrterbuch, Heidelberg, Winter, 3a ediz., 1935 (1911), 1024 p.

Barbara Cinausero Hofer ed Ermanno Dentesano Docenti all’Università della terza età della Carnia, compagni nella vita e negli studi di toponomastica, con i quali amano mantenere viva identità, storia e cultura della loro terra.

ARCHIVIO SAF 75

IL RITRATTO DI CELSO GILBERTI DI GIOVANNI NAPOLEONE PELLIS

Sguardo febbrile, il profilo dei suoi monti a fargli da cornice: il quadro riscoperto nel rifugio che porta il suo nome offre lo spunto per parlare di un artista e di un rocciatore, entrambi figure indimenticabili del panorama culturale e alpino friulano

Vania Gransinigh

Il ritrovamento del ritratto a olio su tavola raffigurante Celso Gilberti nel rifugio intitolato a lui e al suo amico Oscar Soravito (grazie alla sensibilità e attenzio- ne di Irene Pittino) è l’occasione per proporre qualche annotazione sull’arte di Giovanni Napoleone Pellis (Ciconicco di Fagagna 19 febbraio 1888 - Valbruna 2 febbraio 1962). L’opera che ritrae il giovane rocciatore risale al 1934, come risulta dalla firma sul quadro rimasto per lungo tempo sconosciuto alla critica. Dai documenti dell’archivio della Società Alpina Friulana, il saggio pittorico (cm. 48,3x41, firmato in basso a sinistra) fu donato dal pittore a un anno dalla scomparsa dell’effigiato in occasione dell’inaugurazione del rifugio a lui dedicato, dove è rimasto fino alla recente riscoperta. Il dipinto si concentra sul volto e sullo sguardo febbrile, fiero e determinato di Gilberti, che è raffigurato a mezzo busto su un fondale alpino e non poteva essere altrimenti, vista la grande passione per la montagna che lo contraddistinse e che lo condusse alla tragica scomparsa durante la scalata della parete della Paganella nel giugno del 1933. Nell’articolo comparso sulla testata locale “Il Piccolo della Sera” in occasione del convegno della Saf per celebrare l’apertura del nuovo rifugio, l’effigiato viene definito “il mistico, l’asceta della montagna” ed è in questa veste che Pellis sembra abbia voluto ricordarlo. Era proprio la passione per la montagna ad accomunare due personalità così diverse come quella dello scalatore udinese e di Pellis, votato all’azione e pronto a raccogliere ogni sfida gli venisse rivolta dalla montagna il primo, dedito alla contemplazione e alla meditazione pittorica il secondo. L’artista di Ciconicco era rimasto conquistato dall’ambiente montano e ne aveva fatto ben presto l’oggetto della sua ispirazione creativa e il luogo esclusivamente deputato ad accogliere il suo lavoro. Non sorprenderebbe che nel corso degli eremitaggi d’alta quota nel

Giovanni Napoleone Pellis, Ritratto di Celso Gilberti, 1934 76 Il ritratto di Celso Gilberti di Giovanni Napoleone Pellis PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

corso degli anni Venti, Pellis abbia potuto conoscere Celso Gilberti e il suo straordinario rapporto con le cime. È pos- sibile che il ritratto sia frutto del ricordo, ma anche che il pittore si sia servito di una fotografia o di entrambe le cose. Quel che è interessante notare è che il quadro, rifinito con precisione anche in considerazione della finalità per cui era stato realizzato, evidenzia uno stile che si pone al vertice del percorso compiuto da Pellis nella seconda metà degli anni Venti. Rientrato dal secondo soggiorno a Roma, egli aveva lentamente abbandonato le sperimentazioni divisioniste e moderniste degli anni a cavallo della prima guerra mondiale per attingere a un classicismo di stampo novecentista, vici- no ai modi di Felice Carena, ma anche a quelli di Francesco Trombadori. La sua pittura, un tempo vibrante di echi oltral- pini di matrice secessionista, si era lentamente rinserrata e stabilizzata su di una ricomposizione formale e volumetrica per rientrare nel solco del realismo e del naturalismo, ancora imperanti a livello locale. Non contento di questo approdo, nel corso degli anni Trenta, egli tentò ancora di cercare strade nuove, ma senza riuscirci, raschiando e ridipingendo molte delle tele di quel periodo. Il Ritratto di Celso Gilberti, che sul retro reca un paesaggio lasciato incompiuto, forse il colle del Castello di Udine, si inserisce e testimonia questo momento di crisi e presenta la massima adesione dell’artista alle poetiche di Novecento Italiano. Stando a quanto riportato nel verbale della riunione sociale del 4 ottobre 1934, il dipinto avrebbe dovuto essere esposto nel rifugio solo il giorno dell’inaugurazio- ne e poi riportato in sede e sostituito da una copia. Si spiegherebbe così l’esistenza di un secondo ritratto a olio (cm. 58,2x46,3) eseguito dal pittore Luigi (Johannis) Rapuzzi (Sacile 14 maggio 1905 – Milano 21 settembre 1968) che lo donò alla So- cietà Alpina Friulana alla fine di quello stesso 1934, ragion per cui fu ringraziato con lettera a firma del vicepresidente Aldo Mozzi, datata al 28 dicembre 1934 e conservata presso l’archivio udinese dell’associazione. Il secondo ritratto però non è firmato e pertanto si può solo supporre che si tratti dell’opera giovanile del pittore del secondo futurismo e poi scrittore di racconti di fantascienza.

Vania Gransinigh È dottore di ricerca in Storia dell’arte contemporanea, dal 2011 è conservatore responsabile di Casa Cavazzini, il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Udine, di cui ha progettato il nuovo allestimento e del quale cura la programmazione espositiva

Luigi Rapuzzi, Ritratto di Celso Gilberti, 1934 ARCHIVIO SAF / RISCOPERTE 77

ARRAMPICATORE FORMIDABILE, FORSE IL MIGLIORE

Così Emilio Comici ricordava Gilberti. Il ritratto di recente riemerso dall’oblio ci dà l’opportunità di ricordare la sua breve e intensissima vita, anche mediante immagini e documenti inediti dagli archivi della Saf

Umberto Sello

“Il vero cavaliere della montagna, veramente il più puro e il più modesto che io abbia conosciuto. Arrampicatore formidabile, fra i migliori e chissà, forse il migliore, di lui non si sapeva mai quello che faceva, non scriveva mai niente, e dopo aver compiuto una salita non diceva mai se era di quinto o di sesto grado, e ne aveva fatte tante! Un giorno rilevammo il suo giusto valore”. Cosi Emilio Comici (1901-1940) ricorda Celso in una lettera inviata a Severino Casara (1903-1978) dopo il tragico incidente. Celso Pietro Gilberti nasce a Rovereto (Trento) il 28 novembre 1910. È il se- condo dei tre figli di Tina Fiaschi e dell’architetto friulano Ettore Gilberti (1876- 1935), emigrato in terra asburgica accettando il ruolo di responsabile dell’Ufficio tecnico dello stesso Comune. Celso ha la montagna nel sangue, il territorio tren- tino forse lo aiuta nelle scelte. Alcuni ricordi scritti su di lui narrano che all’età di dieci anni è in vetta alla Torre Winkler (nel gruppo del Vajolet), accompagnato da altri giovani e sicuramente dal padre, anch’egli grande amante della montagna. Quando nel 1922 la famiglia Gilberti rientra in Friuli, viene introdotto nell’am- biente montano nostrano ed è giocoforza frequentare fin da subito la Società Al- pina Friulana. Stringe amicizie importanti con suoi coetanei che formano una squadra di ardimentosi rocciatori che lascia il segno e che lentamente sostituirà la compagine dei veterani anteguerra; la sua esperienza è affinata con la partecipa- zione ai campeggi estivi sezionali tra il 1922 ed il 1929 (Sella Nevea, Val Pesarina, Collinetta, Alta Valle di Zoldo, Pocòl e Conca di Cortina, Bagni di Valgrande– Alto Comelico, Forni di Sopra, Nevea e rifugio De Gasperi). Tra i giovani emer- genti vanno ricordati Renzo Stabile (1909-1951) e soprattutto Oscar Soravito (1908-2002) che sarà il compagno privilegiato in alcune delle più memorabili e ardite scalate. Il suo entusiasmo non viene frenato nemmeno da due fatti luttuosi che lo vedono coinvolto, anzi forse ne rafforzano carattere, caparbietà e capacità di dosare le forze, che gli permetteranno di superare il fatidico sesto grado. 78 Arrampicatore formidabile, forse il migliore PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

Il primo fatto risale al 1928, è il primo luglio e Gilberti è al seguito del suo men- tore nella Saf, l’avvocato carnico Riccardo Spinotti (1878-1928). Sono sulla parete nord di Cima di Riofreddo nel gruppo del- lo Jôf Fuart, superano il gigantesco camino e stanno per attaccare la parete sovrastante, ma sono sorpresi da un uragano. Restano in una piccola cengia per alcune ore, sot- to il continuo diluvio di acqua e grandine. Una scarica di sassi recide la corda, manca solo un centinaio di metri per raggiungere la Cengia degli Dei che vuole dire vittoria ma soprattutto salvezza; di nuovo la pioggia li fa desistere, le condizioni di Spinotti sono precarie, piano piano le forze lo abbando- nano. Celso, con atto di estrema audacia, usa tutti i chiodi che ha e i monconi della corda per guidare il compagno nella diffici- le calata, ma sono costretti a passare la not- te in una piccola cengia al freddo intenso e con le vesti bagnate. Le parole di Spezzotti che ricordano il fatto sono commoventi: “…all’alba, livida e fredda, non parla più; un pallore di morte si diffonde sul suo volto. Il giovane, che ha il presagio della catastro- fe imminente, in un meraviglioso richiamo di tutte le forze, riprende la tragica disce- sa. Le sue mani sanguinano, le braccia sono spezzate dalla stanchezza; eppure metro per metro sostiene il morente. Lo cala giù per gli strapiombi, lungo le viscide pareti dell’orrido camino. I chiodi sono esauriti, ché non ha più forza per svellere quelli già infissi; sacrifica metri e metri di corda, per ridurla in anelli e riesce fortunatamente a dirigere il compagno. Spinotti tace, ma un sorriso rivolto al giovane amico dice tutto quello che il labbro non può proferire; un sorriso d’affetto e di gratitudine che Celso non potrà più dimenticare. Ed eccoli finalmente alla fine della terribile via. Il rifugio è vicino. Forse là Gilberti potrà ristorare l’affranto maestro e con questo miraggio di salvezza tenta di caricarselo sulle spalle. Ma troppo lenta ed estenuante sarebbe la marcia, troppo pesante il doloroso fardello. Lo compone allora sul nevaio esposto alla carezza del sole ristoratore, ma quando, trafelato ed ansante torna coi medici-

Gilberti impegnato in una difficile arrampicata; sul retro della foto si legge “Celso al 6° grado - 1932” e un brano della poesia A un vincitore nel pallone di Giacomo Leopardi (fondo Zani – archivio Saf) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Arrampicatore formidabile, forse il migliore 79 nali, Riccardo Spinotti non può sorridergli più. Nella tiepida luce del mattino, sul bianco lenzuolo di neve, dove Celso è riuscito miracolosamente ad adagiarlo, egli ha chiuso gli occhi per sempre. Al giovanetto allora, cui il destino non aveva concesso che il prodigioso suo sforzo fosse coronato dalla vittoria sopra la morte, non resta che portare a valle la dolorosa notizia”. E di questa sua ultima incombenza resta prova il telegramma, che si conserva ancora nel nostro archivio, inviato alla direzione della Società Alpina Friulana da Ugovizza che urla: “accorrete immediatamente grave disgrazia avvocato, Gilberti.” I funerali dell’avvocato si svolsero a Valbruna, dove fu sepolto per volontà degli amici alpinisti a poca distanza dalla grande guida Anton Oitzingher (1853-1928) morto qualche giorno prima. Il secondo fatto avviene il 21 agosto 1932, Celso è al rifugio Pellarini, e la cro- naca è riportata dal Granzotto: “Due giovani alpinisti triestini, Desimon e Zuani, tentavano una salita allo spigolo Nord della Torre Alta di Rio Freddo (via Deye). Durante la salita il Desimon cadeva e veniva trattenuto con la corda dal compagno. Gilberti corre sul luogo, trova i due alpinisti, uno già morto, Desimon, l’altro Zuani, che aveva dovuto sostenere per tre quarti d’ora il corpo del compagno appeso alla corda, stremato e bisognoso d’aiuto. Gilberti libera lo Zuani dalla pericolosa posi- zione, si cala al recupero della salma del Desimon e, trasportata con l’aiuto di altri questa al rifugio, ritorna in aiuto dello Zuani e riesce anche a rintracciare in difficile posizione il cappello di Desimon, che riporta accanto alla salma per pietoso ricordo alla Famiglia”. Si parlerà di medaglia al valore ma lui glissa, è schivo e continua la sua vita alpinistica come se nulla fosse, almeno esteriormente. Celso abbandona il Friuli per seguire gli studi universitari alla Regia Scuola d’ingegneria di Milano. Le scalate e imprese vanno in crescendo; il 28 agosto 1932 con Oscar Soravito affronta la spaventosa verticale dello spigolo nord dell’Agnèr nelle Dolomiti Agordine. Una parete di ben 1600 metri che i due friulani risal- gono in appena 11 ore. Rimarrà una delle imprese più epiche di entrambi. Gli fu compagno fedele anche Ettore Castiglioni (1908-1944) e con lui scalò nell’ottobre 1930 lo spigolo ovest della Presolana e nell’agosto 1931 la difficile parete nord-o- vest della Cima Busazza nel gruppo del Civetta. L’epilogo della sua breve e intensa esistenza si compie l’11 giugno 1933. Con il collega alpinista Erberto Pedrini si appresta a compiere la ripetizione della parete est della Paganella, vinta l’anno precedente dalla coppia di alpinisti di Trento Detassis e Corrà. Ma giunti quasi alla fine della parete di 350 metri, per cause che non potranno essere mai svelate, i due cadono legati in cordata e il verdetto non dà scampo. La notizia lasciò sbigottiti i colleghi alpinisti friulani, trentini e lombardi (non 80 Arrampicatore formidabile, forse il migliore PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

va dimenticato che Gilberti era socio, oltre che della Saf, della sezione di Milano del Cai, del Club Alpino Accademico e anche dell’Oesterreichische Alpen-Club di Vienna). La notizia arrivò a Udine immediatamente; in un telegramma, ancora conservato nell’archivio Saf, leggiamo: “compio doloroso dovere informarla morta- le sciagura alpinistica sulla direttissima Paganella accaduta a Gilberti Celso accade- mico Udine e Pedrini sezione Trento stop alpinisti trentini ricuperarono salme stop terrolla ulteriormente informata. Calderari presidente sezione Trento”. Una prima cerimonia funebre si svolse a Trento, dove erano anche presenti rappresentanti dell’alpinismo friulano guidati dal vice presidente Aldo Mozzi; le bare furono portate a spalla per le vie cittadine dai colleghi alpinisti e amici, alcu- ni con il cappello universitario, con le corde appoggiate sul feretro. La salma di Celso venne poi portata a Udine, dove fu allestita la camera ardente nei locali del- la Saf di Via dei Teatri (ora via Stringher); venne celebrato il funerale nella chiesa della Beata Vergine del Carmine di via Aquileia e la salma tumulata nella tomba di famiglia. Ora Celso riposa sorvegliato da un simulacro in pietra che riporta la sua effige e alla base della colonna uno zaino, una corda e una piccozza quasi ad attendere di essere utilizzati nuovamente. Per comprendere più a fondo di come veniva concepito l’accaduto tra le file della Saf (nel momento di transizione tra Saf autonoma e ritorno nelle file del Cai

Il telegramma del presidente del Cai di Trento che annuncia la morte di Gilberti e Pedrini (archivio Saf) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Arrampicatore formidabile, forse il migliore 81

centrale), ma soprattutto degli ideali “eroici” che veni- vano dettati anche dal periodo politico in cui si svolge il fatto, ci viene incontro l’allora presidente Ardito Desio che sul quotidiano udinese Il Popolo del Friuli del 14 giugno 1933 scrive: “un lutto grandissimo ha colpito la grande famiglia degli Alpinisti italiani. Uno dei suoi figli migliori, uno dei più giovani ma dei più esperti, uno dei più generosi, s’è immolato sull’altare dell’alpinismo. In un mattino radioso, tesi i muscoli ed i nervi, vigili l’occhio e la mente nello sforzo di arrampicata, due giovani legati ad uno stesso destino, seguiti da altri tre, misuravano le loro energie, il loro coraggio, la loro perizia sulla parete verticale della Paganella. In testa a tutti il più valoroso sale cauto, ma deciso sorreggendo con la sua fede purissi- ma e con i suoi muscoli d’acciaio i passi dei suoi compagni. La meta ormai si avvicina, la parete sta per essere vinta, quand’ecco, improvviso un masso forse, staccatosi dal ci- glio imminente ed insidioso, lo colpisce in fronte lancian- dolo nel vuoto. Un attimo: un rotolare di pietre sulla pare- te, uno scroscio, un tonfo. Poi più nulla. Su quell’altare di roccia viva, innalzato dalla Natura il sacrificio supremo s’è compiuto. Dal silenzio che ne succede, sorgono lon- tani mille e mille voci di alpinisti che chiamano: Celso Gilberti! Esempio di amore e di fede purissimi in un’ideale purissimo. Molti vivono per se stessi, senza uno scopo, senza una meta: l’essenziale è vivere più a lungo possibile con la maggiore misura di comodi possibile. Costoro non possono comprendere il sacrificio di Celso Gilberti. Ma chi ha nella vita una fede, chi sente di possedere non solo un corpo soggetto alle necessità ed agli istinti animali, ma anche uno spirito ed un’anima, comprende la su- blimità del sacrificio di Celso Gilberti che chiude il poema immenso della sua breve esistenza. Poeta della montagna, cavaliere dell’ideale, cuore generoso, Celso Gil- berti, alpinista accademico, prodigò più e più volte la sua perfetta conoscenza della montagna e la sua grande perizia, per trarre in salvo, attraverso mille rischi della sua persona alpinisti pericolanti. Quanta nobiltà d’animo! Celso Gilberti, il tuo nome rimane impresso con le lettere indistruttibili del ricordo su quella vertiginosa parete del Trentino, simbolo sublime della nuova gioventù italica”. Già da subito si dà il via a una sottoscrizione per dedicare un rifugio a Gilberti. Partecipano familiari, amici, alpinisti e associazioni, concorrono gli studenti mila- nesi e un grande aiuto arriva dal Ministero centrale. Il Comune di Chiusaforte, a

I funerali a Udine: l’uscita del feretro dalla sede dell’Alpina in via Stringher (archivio Saf) 82 Arrampicatore formidabile, forse il migliore PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Arrampicatore formidabile, forse il migliore 83 mezzo del suo podestà Luigi Martina, dona il terreno di circa 4.800 metri quadri nella zona inferiore del vallone di Prevala, sul massiccio del monte Canin e in poco più di un anno il sogno diventa realtà con il progetto dell’ingegnere Eugenio Mariutti. Il nuovo rifugio viene inaugurato il 21 luglio 1934 in concomitanza con l’an- nuale Convegno sezionale Saf ed è proprio in quella occasione che il pittore Na- poleone Pellis dona alla Società Alpina Friulana il ritratto di Celso Gilberti. Le vicissitudini dell’edificio sono note: nel 1945 viene incendiato e ricostruito nelle forme pressoché attuali nel 1948, sempre su progetto di Mariutti ed è ora intito- lato, oltre che a Gilberti, al suo amico Oscar Soravito. A Celso Gilberti è intitolata anche una Cima in Groenlandia (Punta Gilberti) a opera della spedizione italiana del 1934, la Torre Gilberti nel versante Nord-est della Cima Tosa (Dolomiti di Brenta) a opera di Castiglioni e Detassis e, natural- mente, la scuola sezionale di alpinismo di Udine. L’elenco delle sue scalate, che riporto qui di seguito, opera di Giovanni Gran- zotto per la Rivista mensile del Cai (luglio 1933), dà l’idea della frequenza, della costanza, della prestanza fisica e dell’allenamento di Celso Gilberti.

PRIME SALITE Cima Undici (3092) per il ghiacciaio Torre di Nord-Est dei Fulmini di Popera pensile (Gruppo Popera), 31 luglio 1928 (Gruppo Popera) Cretòn di Clap Grande (2487) per lo spigolo 5 agosto 1927 Sud (Dolomiti Pesarine), 12 agosto 1928 Monte Popera (3045) per il ghiacciaio Creta Livia per la parete Est (Dolomiti Pensile (Gruppo Popera), agosto 1927 Pesarine), 12 agosto 1928 Cretòn di Culzei (2440) per la parete sud Creta Grauzaria (2066) per lo spigolo (Dolomiti Pesarine) 15 agosto 1927 Nord (Alpi di Moggio), ottobre 1928 Prima invernale alla Creta Grauzaria Direttissima al Montasio (2754) per la (2066) per la direttissima (Alpi di parete Nord (Alpi Giulie), 8 settembre Moggio), 26 febbraio 1928 1928 Cima delle Vergini per la parete Nord- Pannocchia (Crèton di Clap Grande - Ovest (Alpi Giulie – Gruppo del Jof Dolomiti Pesarine) per la parete, luglio 1929 Fuart), 16 luglio 1928 Cretòn di Clap Grande (2487) dall’anticima Prima italiana alla Cima Dodici (3094) per Est (Pannocchia – Dolomiti Pesarine), la parete Nord (Dolomiti – Gruppo della luglio 1929 Croda dei Toni), 27 luglio 1928 Prima italiana alla Cima Piccola di Triangolo di Popera per la parete Sud Lavaredo per la via Ferhman (Gruppo (Gruppo Popera), 30 luglio 1928 Tre Cime), 21 agosto 1929

Raccolta di articoli riguardanti la morte di Gilberti. (archivio Saf) 84 Arrampicatore formidabile, forse il migliore PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA

Torrione ad Ovest della Cima Grande di Lavaredo (Gruppo Tre Cime), 23 agosto 1929 Prima italiana alla Punta di Frida per la via Dulfer (Gruppo Tre Cime), 25 agosto 1929 Vert Montasio (2634) per la parete nord (Alpi Giulie), 8 settembre 1929 Zuc dal Boor (2197) per la parete nord (Alpi di Moggio), 29 settembre 1929 Variante di salita alla Presolana Centrale parete Nord (Prealpi Orobiche), 29 giugno 1930 Torre Sappada (2450) per lo spigolo Nord (Dolomiti Pesarine), luglio 1930 Cretòn di Clap Piccolo (2456) dal Nord (Dolomiti Pesarine), 3 agosto 1930 Cretòn di Culzei (2440) spigolo Nord (Dominiti Pesarine), 4 agosto 1930 Paterno (2746) per lo spigolo Nord-Ovest (Gruppo del Paterno), 15 agosto 1930 Cima Ovest di Lavaredo (2973) per lo spigolo Sud-Est (Gruppo Tre Cime), 17 agosto 1930 Prima traversata italiana dell’intero massiccio della Cima Piccola di Lavaredo dal Nord (Gruppo Tre Cime): Piccolissima; Via Preuss; Punta di Frida: Via Dulfer; Cima della Punta Fiammes (Pomagagnon), 14 Piccola: via Helversen, 18 agosto 1930 novembre 1930 Presolana Occidentale per lo spigolo Nord Prima italiana al Mangart (2678) per la (Prealpi Orobiche), 19 ottobre 1930 parete Nord, via Leuchs (Alpi Giulie), Cadin di Vedorcia (2380) dall’ovest giugno 1931 (Prealpi Carniche), 6 novembre 1930 Veunza (2351) per la parete nord-est (Alpi Torre di Forni (Prealpi Carniche - Dolomiti Giulie), 26 giugno 1931 di Forni), 9 novembre 1930 Piccolo Mangart di Coritenza (2366) per Torre Spinotti (Prealpi Carniche - Dolomiti lo spigolo Nord (Alpi Giulie), 28 giugno di Forni), 11 novembre 1930 1931 Torre Gabriella (Prealpi Carniche - Direttissima al Mangart (2678) per la Dolomiti di Forni), 11 novembre 1930 parete Nord (Alpi Giulie), 24 agosto 1931 Variante direttissima allo spigolo Sud Direttissima alla Busazza (2916) per la

Sopra, particolare della stele nel cimitero di Udine; nell’altra pagina, i funerali a Trento (Archivio Saf) PENSIERI E STUDI SULLA MONTAGNA Arrampicatore formidabile, forse il migliore 85 parete Nord-ovest (gruppo Civetta), 27- 28 agosto 1931 Alla scuola di roccia del G.U.F. – Dolomiti Pesarine, agosto 1932: prime salite al Torrione Tolmezzo, Lastròn di Culzei parete sud, traversata diretta della Creta Livia, alla Torre di Clap Piccolo dall’est, alla Cima delle Lame camino sud, alla Cima delle Lame parete sud, direttissima della Creta Livia parete est Monte Agner (2872) per lo spigolo nord (Dolomiti Agordine), 28 agosto 1932 Bila Pec (2149) per la parete est (Gruppo del Canin – Alpi Giulie), 11 settembre 1932. (due volte), Pomagagnon per lo spigolo sud-est, Torre Grande di Averau per varie ALTRE SALITE vie, Torre Inglese, Torre Romana, Tofana Alpi Giulie: Montasio dal Nord per la via di Roces, Tofana di Mezzo, Civetta per la dei Cacciatori Italiani, Montasio dal Nord parete nord-ovest via direttissima Solleder per la via direttissima Kugy, Jof Fuart (8-9 agosto 1931). per lo spigolo Nord-Est, Jof Fuart per la Alpi Carniche:Creta Grauzaria per la gola Nord-Est, Cima di Rio Freddo per la direttissima (varie volte), Zuc del Boor parete Nord (Via Comici), Monte Canin per la forcella de lis Seminis, Campanile (salita invernale). Cantoni, Torre Sappada. Nelle Dolomiti: Piccolissima di Prealpi Carniche: Strapiombi nord del Lavaredo per la via Dulfer, Cima Piccola campanile di Val Montanaia, di Lavaredo per la via Helversen, Prealpi Orobiche: Presolana Orientale Cima Piccola di Lavaredo per la via parete nord. Witzenmann, Croda Longeres, Guglia De Amicis, Pala di Popera per la parete e Grignetta: Sigaro Dones, sud, Dente di Popera (due volte), Spaccatura Dones ai Torrioni Magnaghi, traversata dei Campanili di Popera, Croda Fungo, Campaniletto, Guglia Angelina, Rossa di Sesto, Cima Undici per la parete Guglia Teresita. Nord-Ovest, Croda da Lago per la via Alpi Occidentali: Monte Bianco per la via Eotvoes, Croda da Lago per il camino della Brenva, Grandes Jorasses, traversata. Pompanin, Croda da Lago per la cresta dell’aiguille de Rochefort, Aiguille Noire Sinigaglia, Becco di Mezzodì per il camino de Penteurey per lo spigolo Sud, Pic Barbaria, Punta Fiammes per la parete Eccles, Brèche Nord des Dames Anglaises. Sud, Punta Fiammes per lo spigolo Sud

Umberto Sello Socio Saf dal 1976, più che alpinista è speleologo; accomuna la sua pas- sione per l’esplorazione e lo studio del sottosuolo alla ricerca storica, curando sia l’archi- vio storico Saf sia quello del Circolo speleologico idrologico friulano di cui è presidente. Autore di biografie e storie di ritrovamenti documentali.

MONTAGNA VISSUTA

Marino Tremonti e il Monte Parvati, nell’Himalaya indiano, da lui scalato nel 1968

L’ I N T E R V I S TA 89

IL NOTAIO AMMALATO DI MONTAGNA

Da Udine alle Ande, dal Cadore al Kilimangiaro, Marino Tremonti, uno dei padri nobili dell’Alpina, apre per noi il libro dei ricordi

Alessandra Beltrame

La prima tessera porta stampata la frase “Sono fiero di appartenere al Centro Alpinistico Italiano, scuola di italianità e di ardimento. 1941, anno XIX dell’era fascista ”. La firma Mussolini. In tempi di autarchia, non si poteva dire Club, che era parola straniera. La tessera è da collezione, i quasi ottant’anni di iscrizione al Cai un record. Non è che un dettaglio, di una lunga vita spesa per la montagna. Il notaio Marino Tremonti cerca qualcos’altro nel suo monumentale archivio. Lo trova. È un quadernetto che ha sulla copertina il suo nome in bella calligrafia. Sono i diari delle prime salite con il fido compagno Luigi Puglisi da Reggio Emi- lia. Si incontravano ogni estate a Lorenzago di Cadore, paese delle lontane origini delle rispettive famiglie. Primi anni Quaranta. Fogli ingialliti, disegni dei monti, commenti: “Forcella Scodavacca. Abbiamo impiegato più tempo del necessario perché Luigi stentava a calarsi nei canaloni”. Il notaio sorride. “Li scrivevamo solo per noi. Luigi aveva il suo, di diario. Poi ci confrontavamo, ci scherzavamo su. I diari servivano a ricordarci dei luoghi, delle sensazioni provate, a tracciare le nostre prime esplorazioni”. Le prime relazioni d’ascensione. Quelle che poi Tre- monti, classe 1924, avrebbe tracciato, primo fra tutti, delle guglie del Mawenzi sul Kilimangiaro (ora Tanzania), delle principali vette dell’Altar nelle Ande dell’E- cuador, di alcune cime in Canada e del monte Parvati nell’Himalaya indiano. “Ho appena festeggiato la novantacinquesima estate passata a Lorenzago, dove mi è venuto a trovare Sandro Stringari, con cui andammo in Nepal nel 1973 assieme a Sergio De Infanti”. Apre un altro diario. “È l’ultimo” dice. La prima pagina salta agli occhi: descrive la partenza per Kathmandu con l’amico carnico scomparso l’anno scorso. “Uno che conosceva la montagna come pochi e che le ha dato tanto. E che sapeva scrivere”. È uno scaffale pieno di storie magnifiche, quello che ci mostra. Uno scaffale figurato, perché ha trasferito parte della sua biblioteca di Lorenzago, che imma-

Marino Tremonti durante l’intervista per In Alto 90 Il notaio ammalato di montagna MONTAGNA VISSUTA

giniamo immensa, dentro tre valigie pesantissime che ora giacciono nel salotto della casa udinese. Sono con Umberto Sello, ci dividiamo i compiti. Le apria- mo insieme. Escono libri, tante riviste. Album fotografici. Foto ricordo con gli eschimesi quando andò in Canada. India, Nepal: tante istantanee scattate per le strade: “Che bella gente”. Sudamerica. Colori, sguardi, paesaggi. Le riviste: Alpine Journal, Himalayan Journal, Vistazo Ecuador. I suoi articoli tradotti in in- glese, spagnolo. “Mi piacerebbe che pubblicaste una mia bibliografia alpinistica” chiede Tremonti al “suo” In Alto, l’annuario della Saf al quale ha lungamente collaborato. La troverete in fondo a questo articolo, siamo orgogliosi che l’abbia affidata a noi. “Il più grande conoscitore delle montagne del mondo nella nostra regione è senz’altro il notaio Marino Tremonti” scrive Sergio De Infanti nell’In Alto del 2007. Nel 1971, “il centenario della gloriosa Società Alpina Friulana si avvicinava

Himalaya, 1968: in vetta al Parvati (6632 m) con i compagni di spedizione. Tremonti è il primo a sinistra MONTAGNA VISSUTA Il notaio ammalato di montagna 91

e nessuno dei soci aveva esperienze extraeuropee, in vista della spedizione allora prevista in Himalaya per festeggiare l’avvenimento”. Ecco dunque che Tremon- ti “non poteva non coinvolgere la gioventù della Saf, accorgendosi del provin- cialismo che ci attanagliava con un’attività alpinistica che si limitava alle nostre montagne”. Suggerisce dapprima l’Ala Dag in Turchia, meta da allora di diverse spedizioni friulane, poi nel 1973 compie con De Infanti per conto della Saf la ricognizione in Nepal per individuare una vetta inviolata nel gruppo del Ganesh Imal. Leggiamo il diario di viaggio: “21 aprile: Milano con Sergio De Infanti, San- dro Stringari e Sergio Lorenzi. Francoforte, Roma col Jumbo Jet a Nuova Delhi, 22 aprile, stesso giorno a Kathmandu, fino al 25 per i permessi di spedizione 1974 della Saf…”. Andrà diversamente: l’anno dopo la spedizione si farà in Pakistan, ma Tremonti c’era, a stimolare e allenare gli scalpitanti alpinisti dell’Alpina, con il suo esempio e anche con il suo generoso contributo. “Una volta noi professionisti

Alcune delle riviste con gli articoli di Marino Tremonti 92 Il notaio ammalato di montagna MONTAGNA VISSUTA

Una pagina dei diari giovanili del notaio udinese: “Gita a Doana (con Luigi)”. È del 26 agosto 1941 MONTAGNA VISSUTA Il notaio ammalato di montagna 93 guadagnavamo discretamente, e mi è sembrato normale, per quanto possibile, contribuire a quella che prima di tutto era una mia passione”. Scelte. Chi si fa la Jaguar e chi finanzia esplorazioni di cime inviolate. Punti di vista. Modi per allargare gli orizzonti. “In Sudamerica scalare le vette non si dice alpinismo ma andinismo. Continuiamo a pensare che le Alpi siano il centro di tutto, ma c’è un intero mondo da esplorare” scrive su In Alto nel 1970. Lo stesso anno della tragedia dell’Eiger. Tremonti era lì, in Oberland: ricorda gli elicotteri sulla testa, il brivido che lo percorse ricordando che De Infanti e Ursella gli ave- vano detto che progettavano di andare a scalare la leggendaria parete Nord, ma non pensava che fosse così presto e, soprattutto, che finisse così. Le prime gite in montagna con genitori e sorelle. “La regola era: ogni ora di cammino, cinque minuti di pausa. Oggi siamo tutti prigionieri del tempo” com- menta. Forse neanche i cinque minuti ci sono più concessi. Poi comincia le salite. La corda è quella “comprata in un negozio di alimentari, la guida è quella del Berti, che prendevo in biblioteca. Non eravamo preparati. Non ho mai messo in testa un caschetto. Oggi è la prima cosa che si deve fare, ed è giusto così, perché i sassi vengono giù”. Poi va meglio: negli anni universitari, che sono gli anni della guerra, frequenta la scuola del Cai a Padova. Ottimi maestri, le prime palestre di roccia. Tremonti si conquista le prime extraeuropee dopo aver conquistato un lavoro che gliele possa permettere. “Sono stato fortunato: ultimo di cinque figli, con quattro sorelle, in casa mi hanno viziato”. Scuole elementari e liceo a Gorizia, la prima tessera del Cai con la paghetta: “L’abbiamo fatta perché ci davano la ridu- zione nei rifugi”. Maturità classica nel ’43, poi arrivano i tedeschi e la festa finisce. Ma lui è a Lorenzago in villeggiatura e può nascondersi, mentre i compagni fini- scono arruolati. La sorella Emma lo fa assumere dal marito ingegnere in fabbrica a Padova (“Produceva alcol che serviva ai tedeschi per sostituire la mancanza di benzina”): un impiego per 15 giorni che lo mette in regola e così può continuare a studiare. Nel 1947 è già laureato. Cinque anni di segretario comunale, poi vince il concorso di notaio. Dieci anni dopo, la prima spedizione: il Kilimangiaro. Cerca compagni di av- ventura sul posto, gente che abbia esperienza di cime remote. Cirillo Floreanini, rientrato dal K2, gli dice di no. Si rivolge fuori, fra gli amici cadorini. Fa squadra con il cortinese Marino Bianchi e partono. Il Kilimangiaro, scalato nel 1958, non è che un allenamento. Seguono le guglie inviolate del Mawenzi, una serie di Cinquemila concatenati. Ne battezza una “Cai Udine”. Le spedizioni si sus- seguono. 1963: l’Obispo (5319 metri) in Ecuador, poi tocca alle altre vette del massiccio dell’Altar, fra cui Canonigo (1965), e Fraile Grande (1972). L’anno in cui la moglie Algie Tremonti Mulinari firmerà sull’In Alto una spassosa lettera 94 Il notaio ammalato di montagna MONTAGNA VISSUTA

Sopra, Valle del Parvati, 1968. Sotto, Tremonti mostra la mappa da lui tracciata dopo la spedizione in Himalaya, pubblicata sull’Alpine Journal; foto ricordo con gli eschimesi incontrati in Yukon (Canada) MONTAGNA VISSUTA Il notaio ammalato di montagna 95

Sopra, in vetta al Canonigo, Ande dell’Ecuador. Sotto, uno dei campi base per salire alla cima andina e un’altra pagina dei diari giovanili, con i disegni a matita delle cime 96 Il notaio ammalato di montagna MONTAGNA VISSUTA raccontando di alcuni movimentati pomeriggi con i figli piccoli. “Se tu credi che scalare un Altar qualsiasi sia più difficile…” conclude lapidaria. Andatevela a leggere nella biblioteca Saf, se non avete la rivista nella vostra collezione. La lettera era stata ovviamente passata dal marito alla redazione, e pubblicata a corredo della relazione dell’ascensione. Tremonti è un notaio con il senso della notizia, che sa come movimentare le pagine, a volte un po’ paludate, dei perio- dici del Cai. “Mia moglie mi aveva conosciuto così” si giustifica, “come un ammalato di montagna. Sapeva che non poteva farci niente”. Si erano incontrati a Padova, durante gli anni dell’università, Marino e Adal- gisa. Entrambi goriziani (infatti la prima tessera del giovane Marino è col Cai di Gorizia). Un lungo fidanzamento, si sposano nel 1964. Viaggio di nozze in Nepal fino al Namche Bazar, sulla via per l’Everest. “Per un po’ mi ha seguito in monta- gna, poi quando sono nati i figli ha rinunciato”. Non lui, che mentre i compagni si accasano e danno forfait, prosegue con le spedizioni. “Sempre in estate, nei mesi che il lavoro mi concedeva”. Nel 1966 è nel gruppo del Sant’Elia, in Cana- da, dove raggiunge alcune cime vergini. Ma è nel 1968 che finalmente arriva in Himalaya e con successo tocca la vetta di quello che battezzerà monte Parvati, come la dea della bellezza e la valle circostante: 6632 metri nell’Himachal Pra- desh dove, l’anno prima, una spedizione dei Cai di Roma aveva effettuato un tentativo non riuscito alla cima e aveva raggiunto invece il Lal Kilà. I suoi com- pagni di spedizione sono i valdostani Ferdinando Gaspard e Armando Perron e i cortinesi Lorenzo Lorenzi e Claudio Zardini. “Decidemmo di provarci noi. Avevamo già la via tracciata, si trattava solo di risolvere il problema di superare gli ultimi metri. Trovammo una via di cresta perfetta”. Dagli Ottanta si diradano le esperienze, è appagato. L’ultimo è stato l’Ararat, in Turchia, nel 1986, in compagnia del figlio Giulio. Un congedo, un passaggio di testimone. “Ma i miei figli non hanno la stessa febbre”. In casa basta un solo Tremonti a fare le imprese. Non ha mai smesso di puntare in alto, neanche quando ha smesso di arram- picare. Dagli anni Settanta si batte per l’Università a Udine, presiede tuttora il Comitato che la difende. Una conquista che lo inorgoglisce al pari delle altre. “È stato un bel successo, ma si poteva fare di più”. Si adopera per non disperdere l’enorme patrimonio della biblioteca Saf. In- terrogandosi sul perché sia trascurata, osserva in un articolo di cinquant’anni fa: “L’alpinismo di oggi si regge sulle spalle di quelli che ci hanno aperto la via dei monti. Molti di loro non ci sono più, ma hanno lasciato scritto cose che ci per- mettono di non ricominciare sempre dal principio, bensì di andare sempre avanti. Altri vivono lontani da noi e non avremo mai occasione di incontrarli… Come MONTAGNA VISSUTA Il notaio ammalato di montagna 97 potremmo essere aggiornati sui problemi attuali senza la stampa? Ecco a cosa penso serva una biblioteca alpinistica”. Non si ferma mai, Marino Tremonti, neanche adesso che, a 95 anni, si muove poco. Però alla sede Saf in via Brigata Re a Udine è venuto di persona a rinnovare la tessera e la segretaria Paula, emozionata, gli ha applicato il bollino 2019. Il set- tantottesimo, se abbiamo contato bene.

SCRITTI ALPINISTICI di Marino Tremonti Bibliografia a cura di Claudio Mitri

Sul Kilimangiaro-La guglia Udine sul Mawenzi In Nostalgie marocchine, Bollettino del Club Alpi- Alto vol. LI 1957-1958, pag. 14 no Italiano n. 79 anno 1967, pag. 237; In Alto La salita del Monte Altar nella descrizione dei vol. LIII anno 1964-1968, pag.13. protagonisti, Lo Scarpone anno XXXIII 16 ago- Le Ande dell’Ecuador, Bollettino del Club Alpi- sto 1963, pag. 1. no Italiano n. 79 anno 1967, pag. 243. La conquista de El Altar, Vistazo n. 78 novembre Invito all’Alpinismo Extraeuropeo, Il Cusna anno 1963, Guayaquil (Ecuador), pag. 43. XIX n. 1 marzo 1969 Cai Reggio Emilia, pag. 1; Ande Ecuadoriane-Prima ascensione dell’Altar, In Alto vol. LV anno 1970, pag. 19. In Alto vol. LII 1963, pag. 59 Sul Monte Parvati, Rivista mensile del Club Al- Attività extraeuropea, Una Bandiera 1883-1963 pino Italiano vol. LXXXIX anno 1970 n. 4 pag. Cai sezione di Gorizia 1964, pag. 49. 176. Il Kilimangiaro, Rivista mensile del Club Alpino The first ascent of Mount Parvati, 1968, The Hi- Italiano vol. LXXXIII anno 1964 n. 3 pag. 126 e malayan Journal vol. XXX 1970, Oxford, pag.20. n. 5 pag. 227; monografia geografica alpinistica, The first ascent of Parvati Peak, Kulu, 1968, The Tamari Editore, Bologna 1964. Alpine Journal vol. 75 1970, London, pag.53. “Conquistamos el Canonigo en el Altar entre Incontri nel bosco, In Alto vol. LVII anno 1972, grandes problemas...”, Montaña n. 8, marzo pag.71. 1966, Quito (Ecuador), pag. 2. Dall’Ecuador: La prima ascensione del Fraile Tremonti Zardini e Lorenzi nel gruppo del Sant’E- Grande, In Alto vol. LVII anno 1972, pag. 102 lia, Lo Scarpone anno XXXVI 16 agosto 1966, e ss. e pag.149. pag.1. Prima ascensione del Fraile Grande nelle Ande Italians suggest names for Yukon Peaks, The Ecuadoriane, Le Alpi Venete autunno-Natale Whitehorse Star n. 75 september 1966, Whi- 1973, pag. 59. tehorse (Canada), pag. 14. Ricognizione al Ganesh Himal, In Alto vol. LVIII L’ascensione de “El Canonigo” nel gruppo dell’Al- tar (Ande Ecuadoriane), Le Alpi Venete autun- anno 1973-1974, pag. 424. no-Natale 1966, pag. 113; In Alto vol. LIV anno Portatori, Alpinismo Goriziano anno IX n. 6 1969, pag. 17. 1983, pag. 4; Echi dalle Alpi Orientali, Gorizia Brevi considerazioni sull’alpinismo nel Marocco, 2008, pag. 115. Bollettino del Club Alpino Italiano n. 79 anno Alpinismo extraeuropeo, Un secolo di Alpinismo 1967, pag. 231. Goriziano 1883-1983, Gorizia 1984, pag. 25.

NUOVI ALPINISMI 99

TRE CIME DALL’ALBA AL TRAMONTO. SCALANDO E VOLANDO

Salire le montagne icone delle Dolomiti in free solo e poi lanciarsi nel vuoto con paracadute e tuta alare. Tutto in un giorno. Una giornata di climb & jump unica, raccontata in esclusiva dal protagonista

Marco Milanese

È il 17 agosto 2018. Sto scalando slegato lo spigolo Dibona con la stessa naturalezza e fame di quando divoro un piatto di pasta bello abbondante. Canticchio, chiacchiero con chi sta scalando la via, ma devo essere veloce, le nuvole stanno arrivando. Sono molto tranquillo, me la godo. Le Tre Cime di Lavaredo sono per me montagne uniche in bellezza e vertica- lità. Proprio qui quindici anni fa ho mosso i primi passi nell’alpinismo, salendo con mio padre lo spigolo Dibona alla Grande di Lavaredo. Fu una delle vie che mi consacrò alla vita e alla professione di guida alpina. Da quel momento ho scalato molto quelle pareti così aggettanti dove la roccia unica, composta da serie di cubetti da prendere verticali o rovesci, chiede movi- menti atletici e tecnici allo stesso tempo. Il vuoto poi… Lo senti fin dai primi tiri di corda. Sicuramente uno dei posti in cui preferisco arrampicare. Prima di raccontarvi della mia giornata unica lassù, vorrei condividere le mo- tivazioni e i concetti che stanno alla base del mio modo di vivere la montagna. Noi alpinisti vediamo qualsiasi parete come un’arrampicata. E se sulle mon- tagne non andassimo solo a scalare? Se, dopo aver aperto un’infinità di vie l’una a fianco dell’altra, ci fosse una nuova prospettiva? Un nuovo stile di alpinismo? I limiti degli arrampicatori sono andati talmente oltre che per fare qualcosa di originale devi scalare almeno un 9a. Certo, c’è ancora spazio per aprire qualche altra via, anche di difficoltà media, ma rimarrà una via tra le tante. Personalmente, invece, cerco qualcosa di unico, di nuovo, di accattivante. Da circa sei anni la mia ricerca si è spostata verso altre attività, verso nuovi orizzonti. Uno di questi è l’highline. Immaginate di camminare su una fettuccia larga 2 centimetri e mezzo tesa tra due montagne, con centinaia di metri di vuoto sotto i vostri piedi: dovete restare calmi, non ci si può far prendere dal panico, è necessa-

Marco Milanese sulla highline, Monte Piana, Dolomiti di Sesto (foto Aldo Valmassoi) 100 Tre Cime dall’alba al tramonto. Scalando e volando MONTAGNA VISSUTA rio sentire il proprio corpo, prendere coscienza della potenza della mente e agire, seguendo il proprio istinto. È questa un’attività che si può pienamente associare all’alpinismo perché richiede le stesse competenze di base. Anche se ideare e rea- lizzare un collegamento tra due montagne con la slackline non è cosa da poco: ci vogliono ingegno, molti materiali e tanta fatica. Benché ci voglia molta fantasia a immaginarla, la slackline è però una linea ben visibile e concreta, mentre la linea che preferisco percorrere non si vede ma c’è perché è nascosta nell’aria e nei sogni di ogni uomo. Sto parlando del volo. Ecco siamo arrivati al punto: saltare con il paracadute dalle montagne (Base jumping) con o senza tuta alare, è ciò che oggi mi regala continuamente nuove emozioni. Chi sono io allora? Il mio stile non è quello di un super specialista: non riesco a concentrarmi solo su un’attività perché non è l’attività in sé lo scopo, ma il vivere la natura in tutte le sue forme. La vera fiamma nasce dal guardare una montagna e vedere una parete da scalare, oppure un canale da cui scendere con gli sci o con lo snowboard, una cascata di ghiaccio da salire, una highline da tendere tra due picchi, un decollo con il parapendio e, perché no, un salto con la tuta alare! Da queste idee nascono quelli che io chiamo i “combo days”, giornate in cui riesco a unire le mie tante passioni, le mie diverse competenze e a trasformarle in av- venture uniche. In passato ho unito l’arrampicata su ghiaccio, lo sci e il volo, ma prediligo unire la scalata in free solo e il salto Base perché credo rappresentino la forma più pura di alpinismo. Ecco quindi arrivato il momento di raccontarvi come ho realizzato questa tri- nità che per lungo tempo ho sognato, immaginato e progettato… Direi che si è trattato di uno dei “combo days” più riusciti in assoluto! Parto prestissimo, sono carico come un mulo e motivatissimo: questa sfida con le Tre Cime potrebbe nascondere insidie. Non sto cercando né l’adrenalina, né la gloria: sto cercando l’avventura! Voglio scoprire se ce la posso fare, e per scoprir- lo non posso calcolare tutto nei minimi dettagli: devo metterci il naso, non ci sono alternative, devo viverla! D’altronde, nessuno l’ha fatto prima. Con me ho due paracadute, una tuta alare, un cordino sottile, un imbrago ultralight, scarpette d’arrampicata e uno zaino per fare una highline. Arrivato alla chiesetta tra il rifugio Auronzo e il rifugio Lavaredo, lascio tutto tranne un paracadute, la corda e l’imbrago. Sono all’attacco della normale alla piccola di Lavaredo alle 5.45. La via conta una difficoltà di IV grado, la scalo da solo, veloce e sicuro. Arrivo in cima all’alba. Lo spettacolo è strepitoso. La calata che però devo eseguire per raggiungere “l’exit”, ovvero il luogo del lancio, è spa- ventosa: nel vuoto e su un cordino da 6 mm. Mi sentirei più a mio agio a saltare con la tuta alare, ma sia qui sia dalla Ovest di Lavaredo non posso indossarla perché non c’è l’altezza minima che consente un volo in sicurezza. MONTAGNA VISSUTA Tre Cime dall’alba al tramonto. Scalando e volando 101

Sono un po’ agitato, è il primo salto di tre. Un bel respiro, svuoto la mente, vivo... 3, 2, 1, mi lancio: l’aria scorre veloce nelle mie orecchie fino a quando non arriva la botta del paracadute che si apre e mi rallenta. Ora bisogna focalizzarsi sull’atterraggio, cerco l’erba morbida: fatto. Il primo è andato. Avendo solo due paracadute per tre salti, devo perdere del tempo per ripiegare quello che ho appena usato prima di dirigermi verso la Nord. Cerco di farlo con accuratezza ma velocemente per evitare di perdere troppo tempo e rischiare di compiere gli altri salti tardi, il che vorrebbe dire con più vento e quindi con più pericolo. Lascio lo zaino con il materiale da highline al rifugio e mi dirigo a Nord. Na- scondo la tuta alare e un paracadute vicino all’attacco dello spigolo Dibona e mi dirigo verso lo spigolo Demuth alla Ovest di Lavaredo. Qui l’obbiettivo è di arrivare in cima e poi di scendere verso l’exit per compiere un salto che è già stato fatto da Dean Potter e Thomas Huber. Scalo abbastanza tranquillo fino a un traversino di V esposto e marcio, dove devo fare molta attenzione: scalare a vista slegati richiede concentrazione non solo per non cadere, ma anche per non sbagliare itinerario, cosa molto pericolosa. Mi concentro, cerco sempre il filo del- lo spigolo, fino a giungere su una cengetta. Qui, come avevo previsto, è possibile saltare, ed è l’ultimo posto utile prima che la parete si appoggi. Decido di saltare da qui, l’altezza è molto simile all’altro exit, le pareti strapiombanti confortano rispetto alla paura che naturalmente ho all’idea di buttarmi. Eppure, il vuoto mi dà pace. Potrei stare ore a guardare là sotto. Mi vesto, un altro bel respiro e via per il secondo salto: apertura perfetta, mi dirigo volando verso la base della Cima Grande di Lavaredo. Dopo un atterraggio un po’ brusco sulle pietre, lascio tutto il materiale sotto la parete e prendo l’altro paracadute con la tuta alare. Sono ormai le 10 circa e, dopo aver salutato alcuni ragazzi che incontro all’at- tacco della via, inizio a scalare. La roccia è la migliore delle tre vie, grazie ai numerosi passaggi che ne hanno ripulito parti instabili e fessure sporche di terra: una goduria! A metà via, però, noto le nuvole che stanno incalzando da sud: devo sbrigarmi, non è sicuro saltare nella nebbia. Arrivo in cime alle 11.07, un’o- ra per tutti quei 500 metri di scalata non è male. Indosso la tuta alare e mi dirigo verso l’ultimo exit, il più “facile” perché è molto alto e perché l’ho già saltato due volte. Sono rilassato, forse un po’ troppo, perché sbaglio leggermente l’uscita al momento dello stacco... Niente di grave: mi godo il volo puntando su un fazzo- letto di erba lontano, vicino ai laghetti. Atterro dolcemente. Mi sdraio a terra esausto. Non penso a niente. Non urlo di gioia. Sono pieno, nell’essere vuoto. Dopo qualche foto di rito che mi concedo, iniziando a camminare verso il deposito del materiale mi rendo conto di essere sfinito. Per risalire 300 metri di di-

MONTAGNA VISSUTA Tre Cime dall’alba al tramonto. Scalando e volando 103 slivello impiego più di un’ora. Arrivo al rifugio Lavaredo e mi godo una bella pa- stasciutta in virile solitudine. Mi sale una leggera nausea: l’idea di tornare in cima alla Grande per fare un’highline, come avevo pensato, è assolutamente esclusa. Ritorno invece all’automobile: per fare 15 minuti in piano, mi devo fermare tre volte a prendere fiato. In furgone dormo. Sono stremato. Ho salito e sceso queste montagne che amo tantissimo nello stile più puro che posso immaginare, senza corde, senza chiodi, solo usando mani e piedi, cuore e testa. Tocco la roccia e vado via dimostrando alla montagna il grande rispetto che ho nei suoi confronti, me ne vado come se nulla fosse successo, ma qualcosa di grande è successo. Dentro di me. “Scalare non serve a conquistare le montagne; le montagne restano immobili, siamo noi che dopo un’avventura non siamo più gli stessi.” Royal Robbins

Marco Milanese Udinese, classe 1987, fin da bambino è stato scorrazzato in montagna dai suoi genitori. Giocatore professionista di rugby, sceglie l’alpinismo mentre è all’università di Padova a stu- diare Scienze forestali. Nel 2012 diventa guida al- pina. La passione diventa allora professione, con attività in tutta Italia, in particolare rivolta a bam- bini e ragazzi. Dal 2013 inizia a praticare l’highline: installa nuove linee in Friuli, in Dolomiti e in Alpi occidentali fino a 3800 metri di quota. Segue la pas- sione per il volo, prima come paracadutista, poi in parapendio, speedride e infine con il base jumping, ovvero il salto con il paracadute da posizioni fisse, nel suo caso pareti rocciose. Attualmente dedica molto tempo ai voli con la tuta alare, fa parte del team internazionale Phoenixfly, apre nuovi salti in Friuli e in Dolomiti e si dedi- ca alla sua idea di perfezione nell’alpinismo: scalare slegato e scendere volando, come ha fatto alle Tre Cime di Lavaredo. Un’impresa straordinaria, compiuta in 5 ore e 40 minuti, che racconta per la prima volta in esclusiva per In Alto.

Marco Milanese in tuta alare sopra Udine 104 REPORTAGE

SCIALPINISMO IN GEORGIA

Viaggio in una terra di miti e montagne incantate nel cuore del Caucaso

Silvia Stefanelli

Un viaggio d’inverno nel Grande Caucaso, al confine con la Russia, offre l’op- portunità di conoscere la Georgia al suo meglio: montagne spettacolari, villaggi antichi e pittoreschi con alte torri di difesa, ospitalità autentica delle comunità locali e, come scialpinisti, l’agognata neve polverosa in grande quantità in remote e affascinanti montagne. L’identità della Georgia si cela nella potente catena montuosa del Caucaso, che inizia in Abkhazia, si spiega lungo il confine tra la Georgia e la Russia e continua in Azerbaijan. Ricoperto da ghiacciai perenni, il Grande Caucaso georgiano è caratte- rizzato da picchi che superano i cinquemila metri. Il più alto è lo Shkhara, di 5068 metri. La mitologia greca racconta che Prometeo – chiamato Amirani dai georgiani – fu incatenato alle rocce del Caucaso per aver donato il fuoco agli uomini contro la volontà di Giove e condannato ad avere il fegato divorato da un’aquila. Capiamo subito, da come ne parla con entusiasmo la nostra guida Nick, che l’anima della Georgia è nelle sue montagne, descritte e cantate da poeti e scrittori. Anche oggi che sono meta di escursionisti da tutto il mondo, queste cime restano gelose custodi di antiche tradizioni in un contesto ambientale selvaggio e incontaminato. Il nostro gruppo di amici, poco meno di una decina di persone dal Piemonte e dal Friuli, decide di iniziare a esplorare questa terra dalla regione più remota e meno accessibile, lo Svaneti.

23 FEBBRAIO, TBILISI Il viaggio inizia a Tbilisi, affascinante, decadente, contemporanea, vivace città a lungo crocevia delle rotte tra Asia ed Europa. Le bandiere georgiane ed europee sventolano ovunque, l’Europa è anelata come futuro ancoraggio al riparo dal gi- gantismo russo. Il tragitto da Tbilisi, la capitale, approda a Kutaisi, centro politico e sede del Parlamento georgiano, nota anticamente con il nome di Colchide e per essere la destinazione della mitologica spedizione di Giasone e gli Argonauti alla ricerca del Vello D’oro. Oggi la tradizione vuole che gli abitanti setaccino i fiumi con la MONTAGNA VISSUTA Scialpinismo in Georgia 105

pelle delle pecore – il vello – nella speranza di far affiorare minuscole pepite d’oro. L’imponente monastero Gelati del dodicesimo secolo è uno dei siti di straordina- rio interesse storico e architettonico di cui è ricco lo Svaneti. Terra che non è mai stata assoggettata a nessuno, forse per merito dei koshi, le torri difensive in pietra costruite tra il nono e il tredicesimo secolo, che ne rappresentano l’emblema.

24 FEBBRAIO, MESTIA Quando arriviamo a Mestia dopo un lungo viaggio da Kutaisi per una tortuosa e profonda valle, ci sentiamo come nuovi Argonauti. Siamo colti da un senso di stupore guardando le imponenti montagne che incorniciano le torri medievali. Ogni villaggio ne possiede una e spesso di più, l’Unesco ne ha contate 175, non tutte integre, residuo di una potente catena difensiva. Servivano da rifugio agli abitanti in caso di aggressioni o di faide tribali ed erano inespugnabili perché prive d’ingresso: vi si poteva eventualmente accedere solo da una finestra posta a cinque-sei metri dal suolo. Oggi sono un’attrazione tutelata dall’Unesco. In te- oria, almeno. Perché la regione, dopo aver evitato l’invasione mongola, respinto le continue scorrerie dalla confinante Cecenia, aver contrastato i russi tanto ai

Discesa dal Monte Detsili (foto Silvia Stefanelli) 106 Scialpinismo in Georgia MONTAGNA VISSUTA

tempi dell’impero zarista come dell’Unione Sovietica, adesso fronteggia la sfi- da più dura: aprirsi al turismo senza perdere l’anima. Al momento, l’instabile equilibrio fra tradizione e modernità sembra reggere, anche grazie a modalità di accoglienza meno invasive che altrove: le abitazioni tradizionali Svan formano infatti una rete di guesthouse diffusa e garantiscono un’ospitalità autentica e calorosa. Da qui lo scialpinismo consente ancora il piacere della scoperta e dell’esplo- razione, avendo a portata di mano quattro delle dieci montagne più alte del Cau- caso. Mestia, il nostro campo base, è ormai una destinazione internazionale ed è stato un italiano, il geografo, esploratore e fotografo Vittorio Sella a scoprirla a fine Ottocento nel corso di tre esplorazioni. Una figura ampiamente ricordata nel Museo etnografico della città, purtroppo un anonimo blocco di cemento. Siamo alloggiati nell’abitazione della famiglia di Nick, la nostra guida: quattro camere spartane e un’accogliente sala, dove ci ritroviamo per cena, per riscaldarci e per discutere i piani del giorno dopo. La madre di Nick sperimenterà per noi ogni possibile variante dei gustosi piatti georgiani accompagnati dai loro mitici vini rossi. Qui è comune che le case abbiano molti animali: vacche, capre, maiali,

Lamaria Range (foto Silvia Stefanelli) MONTAGNA VISSUTA Scialpinismo in Georgia 107 cani, che spesso circolano liberi. Ci abituiamo subito a questa convivenza pacifi- ca. Dopo qualche giorno, non vedere gli animali in cattività ci sembra la cosa più normale.

25 FEBBRAIO, VERSO IL LAILA PASS Il primo giorno, carichi di entusiasmo per le gite che abbiamo sognato da mesi, siamo svegliati dal famoso maltempo del Caucaso, che ci costringe a un repenti- no cambio di piani. Succederà spesso nei nove giorni che passiamo qui, tanto da stravolgere i programmi iniziali. La meta era il Laila Pass a 3200 metri, una delle più belle destinazioni scialpinistiche dello Svaneti, un colle al cospetto del Lai- la Peak, ribattezzato subito il Cervino del Caucaso. Il maltempo ci fa ripiegare per un colle più basso, dove arriviamo dopo aver attraversato bellissimi boschi di abeti del Caucaso e di betulle. La scarsa visibilità ci impedisce di proseguire fino a 3000 metri, ma la discesa ci riserva una piacevole sorpresa in abbondante polvere – di quella con lo sbuffo! – in un bosco ripido e rado di betulle. Un parco giochi per il nostro gruppo, dove si scatenano freeriders, snowboarders e scialpinisti classici.

26 FEBBRAIO, USHGULI E LE SUE TORRI Se già il tragitto verso la vallata di Mestia, con le sue immense fiancate ripide e i fondovalle irraggiungibili, ci aveva proiettato in una dimensione di isolamento, l’arrivo a Usghuli è un ingresso in un mondo enigmatico e d’altri tempi. Il lento e tortuoso tragitto lungo una strada a picco sul fiume Enguri ci conduce al villaggio di Usghuli, dove i pochi mezzi che incontriamo sono vetture o furgoni di antiqua- ta fabbricazione russa. Molti sono fuori uso e abbandonati a bordo strada, coperti di neve. Dopo mol- te ore, sul nostro furgone 4x4 – indispensabile per muoversi in queste montagne –, arriviamo nella favolosa valle dove si trova il villaggio abitato più alto d’Europa: Ushguli (2200 metri). Lo circondano vette di cinquemila metri, su tutti si staglia il monte Shkhara. Ushguli si presenta a noi in piena veste invernale, con la neve che cade copiosa. È un luogo incantato. Le vacche e i cavalli sono residenti a pieno titolo, circolano e soggiornano liberamente nelle strade e nelle corti imbiancate, senza separazione tra spazio pubblico per gli abitanti e per loro. Regna il silenzio. I ritmi di vita sono regolati da quelli della natura. Il tempo è molto nuvoloso e instabile – purtroppo, come impareremo, molto comune nel Caucaso – così ripieghiamo per una facile salita al Lathpari Pass, una gita di un migliaio di metri di dislivello che, pur con poca visibilità, ci consente di ambientarci. La discesa è su neve profonda e polverosissima, ognuno del gruppo 108 Scialpinismo in Georgia MONTAGNA VISSUTA si scatena per cercare la sua tela bianca su cui lasciare traccia. Tanto bella che saliamo di nuovo, e di nuovo ancora, sia pur con poca visibilità, a un altro colle, per godere della fantastica discesa. Siamo ospiti di una famiglia originaria di Ushguli in amicizia con Nick. Con loro, in due giorni condivideremo ogni spazio della loro essenziale ma accogliente casa. Benché la sistemazione sia molto spartana e le camere molto fredde, la sala da pranzo dove la famiglia cucina, pranza e in qualche caso dorme, è molto acco- gliente. La sera ceniamo tutti insieme: l’immancabile khachapuri, una focaccia al for- maggio, poi l’insalata russa – ma guai a chiamarla così, in un paese dove tutto quello che è russo è visto con sospetto –, il lobio, una zuppa di fagioli, e infine il brindisi con l’immancabile chacha, la grappa di vodka. Dopo cena, ci mostrano con orgoglio un libro fotografico su Vittorio Sella. Le sue tre spedizioni nello Svaneti hanno lasciato il segno: a lui sono intitolate una via a Mestia e una vetta del Caucaso. L’esploratore piemontese ha documentato i costumi e le usanze delle popolazioni caucasiche della fine dell’Ottocento con migliaia di fotografie, oggi conservate sia al Museo di Mestia sia alla Fondazione Sella di Biella. Inorgogliti dal nostro famoso conterraneo, ci avviamo a dormire nelle nostre camere spar- tane. Condivido la stanza con le altre due amiche del gruppo, Laura ed Elena. Sorteggiamo l’unico posto letto vicino a un piccolo scaldino elettrico, che genera sufficiente calore affinché la temperatura nella stanza raggiunga i dieci gradi. Ep- pure siamo sicure che ci abbiano dato la camera migliore! Non osiamo pensare come siano quelle dei ragazzi.

27 FEBBRAIO, AL COSPETTO DEL MONTE SHKHARA Ci svegliamo finalmente con il bel tempo. Usghuli è un posto favoloso, circondato da creste infinite, sospeso tra montagne immense e coperto da un manto innevato che fa sembrare le sue antiche torri ancora più spettacolari. Finalmente possiamo scattare qualche foto! Trovo la risposta al perché sono venuta fin qui. Ci sono il silenzio, l’altera severità delle cime, non ci sono acquisti da fare, non c’è gente che parla tanto, non ci sono e-mails da leggere e telefoni da monitorare. Solo natura e montagne remote, che riempiono le giornate. Oggi su consiglio di Nick, la nostra guida georgiana, che non ne sbaglia mai una e bello o brutto tempo riesce sempre trovare la soluzione migliore, saliamo con gli sci verso il Lamaria Range. Rimaniamo incantati dal paesaggio circostante e dall’imponenza della parete Nord-Ovest del Monte Shkhara, la cima più alta della Georgia. Oggi faremo una lunga traversata sulla dorsale e cresta del Lamaria Range per poi scendere sul ripido versante Nord dove troviamo 700 metri di neve polverosa su pendenze sostenute fino ad arrivare con un lungo giro ad anello nella MONTAGNA VISSUTA Scialpinismo in Georgia 109 valle di Enguri, ai monasteri e a Ushguli, punto di partenza. Se c’è un momento in ogni viaggio in cui penso che tutti gli sforzi, le notti insonni, i lunghi viaggi, il freddo compensano tutto il resto, oggi quel momento è arrivato. È stata la giorna- ta più appagante per far correre gli sci, ma anche per i paesaggi. Davvero valeva la pena venire fino qui. Dopo molte ore di viaggio rientriamo a Mestia, ormai divenuta il nostro familiare campo base.

28 FEBBRAIO, DETSILI E IL VILLAGGIO DEGLI ANIMALI Il tempo instabile continua, ma non demordiamo. Dopo un lungo avvicinamento su strada sterrata, che assomiglia più a una pista di esbosco tanto è accidentata, fangosa e piena di solchi, arriviamo al bel villaggio di Etzheri. Vacche e cani sciolti ci accolgono pacificamente. Ma uomini e donne dove sono? Partiamo col brutto tempio, pioviggina, ma poi nebbia e pioggia si diradano lasciando lentamente in- travedere un paesaggio sospeso e incantato, con ampi pendii immacolati coperti da neve fresca. Risaliamo fin sotto a un pendio ripido, poi dei rumori sospetti e la pendenza ci fanno ripiegare e scendere, per risalire su un versante meno ripido e poi arrivare in vetta al Monte Detsil. Il vento soffia forte. Scendiamo in un bosco rado di betulle basse e ripidi pendii di neve fresca e profonda. Un ben di dio meraviglioso, dove come bambini che giocano ci scateniamo in cerca della nostra traccia. Ripelliamo e torniamo a salire sul Monte Detsili: un bosco di betulle ar- gentate come questo sulle Alpi non c’è, ed è davvero un bel gioco affondare gli sci in metri di neve polverosa.

1 - 2 MARZO, TBILISI Il viaggio in Georgia termina a Tbilisi dove passerò un paio di giorni. Siamo ac- colti in una semplice guesthouse, ospiti di una giovane coppia di ballerini e can- tanti, che ci regaleranno una serata indimenticabile di canti e danze georgiane. I miei amici partono e mi fermo ancora un giorno in Georgia prima di spostarmi in Armenia per una breve visita in solitaria. Rimango conquistata dall’ospitalità georgiana. L’ultimo giorno mi hanno suggerito di visitare l’originale stabilimento di bagni turchi nel cuore della città vecchia. Lì, mentre mi preparo a immergermi nelle vasche, scorgo un ritratto di Alexandre Dumas, che nel suo libro Un viaggio in Caucaso celebrava il tonificante cerimoniale dei bagni termali nelle sale inter- rate. Non faccio in tempo a pensare a come poteva essere il Caucaso ai tempi di Dumas, forse non troppo diverso da quello di adesso, che vengo presa in conse- gna da un’energica massaggiatrice per occuparsi dei miei muscoli un po’ induriti da una settimana di scialpinismo. Mi lascio andare, già pensando al prossimo viaggio. Dove? In Caucaso natu- ralmente. 110 Scialpinismo in Georgia MONTAGNA VISSUTA

SCHEDA TECNICA

Svaneti, Georgia 22 febbraio, 3 marzo 2019 Scialpinismo in Caucaso

La regione dello Svaneti è situata nel nord ovest della Georgia al confine con la Russia. Ha montagne tra i 2800 e i 5000 m. Clima umido tutto l’anno, fortemente influenzato dalle masse d’aria provenienti dal Mar Nero. Le precipitazioni medie variano fra i 1000 e i 3200 millimetri l’anno a seconda dell’altitudine, col massimo nella zona del Grande Caucaso, dove durante l’inverno le nevicate sono molto abbondanti. Le gite hanno tenuto conto di condizioni meteo instabili e pericolo valanghe, nessuna difficoltà tecnica ma è richiesta capacità di adattamento. I piani originari di salire il Koruldi Peak, dormire al rifugio e attraversare lo Chaaladi Glacier di 6 km, sono stati cambiati per adattarsi alle condizioni meteo non favorevoli.

Sulla Cresta del Lamaria Range (foto Silvia Stefanelli) MONTAGNA VISSUTA Scialpinismo in Georgia 111

Possibilità di gite dagli 800 ai 2000 m di dislivello ad altitudini dai 2500 m ai 3700 m. Gite effettuate Colle Tetnuldi. Dall’arrivo degli impianti di Tetnuldi, 2900 m, dislivello 500 m MS Verso il Laila Pass 3000 m, partenza da 1400 m, dislivello 1000 m BS Latphari Pass 2800 m, partenza da Usghuli 2000 m, dislivello 800 m MS Lamari Range 3300 m partenza da Usghuli 2200 m, dislivello 1100 m BS Monte Detsili 2560 m, dislivello 1200 m MS Mappe: Geoland 1:50:000 e applicazioni di navigazione

Silvia Stefanelli È laureata in Scienze forestali e si occupa del ruolo degli ecosistemi terrestri nei cambiamenti climatici per la Commissione Europea. Accademica del C.A.A.I dal 1997, ha una passione smisurata per la montagna, meglio se remota e disabitata, e per i viaggi non pianificati. Dal 2003 al 2011 si è dedicata alla traversata in più tappe dell’Asia in solitaria, dall’India ad Hanoi. 112 Scialpinismo in Georgia MONTAGNA VISSUTA OBIETTIVO MONTAGNA 113

CAMMINARE O FOTOGRAFARE, IL DILEMMA DELL’ESCURSIONISTA

C’è chi dice che scattare immagini rovini il piacere della gita. C’è invece chi va in gita proprio per tornare con un bagaglio di scatti. Le riflessioni di un appassionato di entrambe le attività

Mattia Pacorig

La domanda suona strana, lo so: camminare o fotografare? La montagna è un am- biente naturale che si presta benissimo alla fotografia e ciascuno di noi, ogni volta che esce in escursione, scatta almeno una foto, anche perché i moderni telefoni cellulari hanno facilitato questa attività. Ma io vorrei soffermarmi su un aspetto diverso, ovvero sulla fotografia fatta per passione, sfida personale rivolta al rag- giungimento di un’immagine di qualità. Fino a qualche anno fa la mia attività complementare all’escursione era la rea- lizzazione di filmati video che, una volta montati, rallegravano le serate con amici e le serate di fine attività del Cai. Successivamente ho deciso di frequentare un corso di fotografia. E mi si è aperto un mondo! Da allora la ricerca dello scatto perfetto è continua. Ma questo richiede tempo, fortuna e sacrificio. La fotografia della flora alpina richiede l’attrezzatura adatta: un cavalletto e un obiettivo macro sono il punto di partenza per lo scatto perfetto. Una volta scelto il soggetto, bisogna studiare bene sia l’inquadratura sia la composizione, e pulire bene la scena cercando di eliminare gli elementi di disturbo (fili d’erba, rametti, eccetera). Com’è intuibile, tutto ciò richiede pazienza e tempo, che però poi viene ripagata dal risultato. Inoltre, con l’evolversi dell’esperienza e della naturale ricer- ca dello scatto migliore, si può ricorrere a ulteriori abbellimenti. Per esempio, è possibile utilizzare delle particolari lenti che, grazie alla loro costruzione, regalano uno sfuocato pastoso e unico: sono i cosiddetti obiettivi vintage. Questi obiettivi appartengono all’era della fotografia su rullino, in voga fino a pochi decenni fa: completamente privi di ogni forma di automatismo, oggi sono utilizzabili sui mo- derni corpi macchina digitali grazie a particolari adattatori. Fotografare gli animali selvatici è un’altra sfida per l’appassionato, anche per- ché non è raro arrivare alla fine della giornata senza aver raggiunto lo scopo.

Montasio: femmina di stambecco fa capolino sul Sentiero Leva. (Mattia Pacorig) 114 Camminare o fotografare, il dilemma dell’escursionista MONTAGNA VISSUTA

Lo stambecco è un soggetto particolarmente facile da ritrarre: nella zona dell’altopiano del Montasio, verso la cima di Terrarossa, dove abbondano e sono molto avvicinabili. Dopo i classici scatti agli animali che sembrano posare per noi, si tende a cercare di catturare un istante insolito, come una lotta tra maschi, il gioco dei piccoli, o la madre che allatta il cucciolo; ciò richiede, come intuibile, pazienza e tempo. Il camoscio è invece molto più schivo, riservato e diffidente: è normalmente osservabile da grandi distanze, e tutti i tentativi di avvicinarlo sono vani. Solo un appostamento può far aumentare le probabilità di immortalarlo a breve distanza. In generale, tutta la fauna selvatica richiede molta pazienza e lunghe attese; in questi casi, un teleobiettivo è obbligatorio, un treppiede utile. Anche qui l’attrez- zatura gioca un ruolo importante: gli obiettivi devono essere all’altezza della situa- zione, catturando tutti i minimi dettagli del soggetto. Ma questo vuol dire avere delle lenti di grandi dimensioni e quindi molto peso e ingombro da trasportare. Per fortuna esistono dei compromessi che garantiscono una qualità accettabile e un peso contenuto. Anche la fotografia paesaggistica richiede alcune accortezze e una attenta pia- nificazione. Se l’obiettivo è fotografare un’alba, bisogna calcolare bene gli orari, cercando di essere in posizione al momento giusto. Esistono delle applicazioni per cellulare che permettono di calcolare tutti gli orari astrologici, la posizione del

Parco delle Dolomiti Friulane: crociere maschio (Mattia Pacorig) MONTAGNA VISSUTA Camminare o fotografare, il dilemma dell’escursionista 115

sole e della luna in ragione del luogo e del periodo dell’anno. Ma essere sul posto per il fatidico momento spesso vuol dire partire prestissimo sfidando il buio e il freddo. Un punto di appoggio, quale un bivacco o una casera, è di grande aiuto in questi casi, permettendo di ridurre notevolmente i tempi di avvicinamento. L’astrofotografia è un altro aspetto della foto paesaggistica che affascina e stu- pisce. Di solito si utilizzano obiettivi grandangolari molto luminosi, abbinati a lunghi tempi di esposizione, capaci di cogliere anche il più piccolo bagliore prove- niente dal cielo. Anche in questo caso tornano utili le applicazioni di pianificazio- ne, che permettono di programmare il momento giusto dello scatto e addirittura indicare l’esatta posizione della Via Lattea: bisogna infatti evitare le serate di luna piena, o perlomeno scegliere i periodi antecedenti alla levata o successivi alla ca- lata lunare, per evitare interferenze luminose. Non dimentichiamoci inoltre che la terra ruota! Questo è un fattore da tenere in considerazione per scegliere il tempo di scatto: infatti se il tempo è troppo lungo si otterranno delle scie luminose che potrebbero essere non desiderate; viceversa, un tempo troppo breve potrebbe far risultare la foto troppo scura. Esistono delle formulette matematiche per calcolare i corretti valori in ragione della lunghezza focale utilizzata. In conclusione, posso affermare che la fotografia di un certo livello non è com- patibile con l’escursionismo. Bisogna allora prendere una decisione, e scegliere se godersi gita e paesaggio oppure concentrarsi sullo scatto perfetto.

Dolomiti Friulane: coppia di marmotte (Mattia Pacorig) 116 Camminare o fotografare, il dilemma dell’escursionista MONTAGNA VISSUTA

STORIA DI UNA FOTO Come ogni anno la mia sottosezione del Cai di Palmanova organizza la consueta marronata, che si svolge in autunno come festa di chiusura dell’attività escursio- nistica. Nel 2019 abbiamo scelto come destinazione la casera Vualt in val Alba. Consuetudine vuole che si salga il sabato pomeriggio per preparare la festa. Siamo in otto a partire il giorno prima. Con noi abbiamo cibo e bevande ab- bondanti: la festa è già adesso! La casera Vualt è accogliente, ben tenuta e pulita, è stata ristrutturata di recente con un camino esterno che permette di fare grigliate e ha una buona riserva di legna. La mia idea è di partire molto presto l’indomani, domenica, in modo da raggiungere la vetta del monte Chiavals passando per il bivacco Bianchi, e di fotografare l’alba. La comoda applicazione nel cellulare mi indica che albeggerà alle 7.22, quindi, facendo due calcoli, dovrei partire dalla casera alle 5.30 per raggiungere comodamente la vetta e preparare l’attrezzatura per lo scatto. La serata è molto animata, sul tardi ci ha anche raggiunto una coppia di ra- gazzi, che abbiamo poi invitato a rimanere assieme a noi. Dovendo svegliarmi presto, mi ritiro prima degli altri nel sacco a pelo con la (vana) speranza di riuscire a dormire. Ma vuoi per la scomodità del giaciglio, vuoi per gli schiamazzi di chi è rimasto a giocare a carte fino a tarda notte, per molte ore non chiudo occhio. Quando finalmente verso le tre cala il silenzio, la situazione non cambia: il

Il sole appare dietro il Montasio; sotto, un mare di nubi: la foto perfetta (Mattia Pacorig) MONTAGNA VISSUTA Camminare o fotografare, il dilemma dell’escursionista 117 sonno non arriva. Allora decido di anticipare la partenza e alle 4.40 mi alzo, mi preparo in silenzio per evitare di svegliare gli altri, prendo le mie cose e parto. Sono avvolto dalle tenebre, la luna è calata da parecchie ore e il cielo è colmo di stelle: sono tantissime! La pila frontale illumina la traccia del sentiero che è ben evidente. Un fruscio davanti a me: due puntini luminosi si dileguano nell’oscurità, è probabilmente un camoscio che è stato disturbato dalla mia presenza. D’im- provviso la temperatura si abbassa, complice un vento fastidioso, che mi costringe a fermarmi per indossare una giacca più pesante. Dopo circa un’ora e mezza il crepuscolo mi permette di spegnere la frontale e davanti a me c’è il bivacco Bianchi. Dalla soprastante sella Chiavals scendono enormi banchi di nuvole, che mi fanno pensare di aver sprecato la fatica. Decido comunque di salire fino alla sella. E da lì, lo spettacolo: un mare di nuvole giace sotto di me sul versante opposto! Forse vale la pena continuare. Mi affretto, sono emozionato, devo raggiungere la cima velocemente. Il sentiero sale ripido, senza un percorso obbligato, mentre la luce del giorno che sta arrivando si fa sempre più intensa. Con la coda dell’occhio scorgo una sagoma muoversi e sparire poco sotto di me. Monto velocemente il teleobiettivo, preparo la macchina e la punto in direzione dell’avvistamento: un bel camoscio in fuga sul crinale sottostante! Parte la raffica di scatti, qualcosa sarò riuscito a catturare. Proseguo verso la cima e il panorama si fa grandioso: una grande distesa di nubi in direzione della Val Dogna e il sole ancora sotto l’orizzonte. La macchina è pronta, non rimane che attendere il momento giusto. Ed ecco che il sole fa capolino dietro il massiccio del Montasio! Dietro di me il gruppo del Sernio-Grauzaria, poco più in là il monte Coglians e la Chianevate. Sotto, ancora in penombra, la casera Vualt: non si vede anima viva, dormono ancora tutti. Ora posso rientrare alla casera con calma, godendomi tutti i colori autunnali del bosco, e fare festa con gli altri.

Mattia Pacorig Si è avvicinato alla montagna a 12 anni prendendo parte a una uscita del Cai di Palmanova. Era il 1990. Da allora la frequentazione delle gite sociali, i corsi di arrampicata su roccia e di progressione su ghiaccio e di scialpinismo hanno consolidato questa passione. Frequentatore assiduo dell’ambiente montano in tutti i suoi aspetti e periodi dell’anno, ha maturato il desiderio di condividere le esperienze dapprima in vi- deo, perfezionando la tecnica di ripresa e montaggio, realizzando filmati su Perù, Bolivia, Ecuador e Ladakh, e oggi con la fotografia.

CRONACA SOCIALE

Aprile 2019, weekend sul Lago di Garda tra ferrate, sentieri e gite in bici 120 COMMISSIONE ESCURSIONISMO

UN CAMMINO LUNGO QUASI TRENT’ANNI

Una maglietta rossa per divisa, la stessa passione: le attività di un anno di una squadra che non si ferma mai. E un primo bilancio, in previsione di un anniversario importante

Paolo Cignacco

Dopo 25 anni come componente della commissione escursionismo Saf Cai di Udine, quest’anno ne sono diventato il presidente. È un incarico importante per il futuro di questa realtà sezionale. Un futuro che, per quanto mi riguarda, non può essere disgiunto dal passato, ovvero dal lungo cammino che ha portato me e tutta la commissione fin qui. Faccio un po’ di storia, dunque. Nel 1991 a guidare l’escursionismo di Udine c’erano Carlo Borghi e Antonio Delera. Quest’ultimo nel 1992 diventa il primo AE (accompagnatore di escur- sionismo) sezionale; contemporaneamente inizia a organizzare i primi corsi. Nel tempo ho poi visto l’avvicendarsi dei vari presidenti e l’arrivo di nuovi e sempre più preparati elementi. All’inizio degli anni Duemila Marino Olivo prende il testimone e conduce la commissione fino al 2012, collaborando alla costituzione della Scuola di escur- sionismo Saf Cai, la prima in regione. Dal 2012 è la volta di Marco Cabbai, che intuisce l’importanza di formare i collaboratori, invitandoli a partecipare ai corsi organizzati dal Cai, diplomandosi lui stesso al corso ONC (operatore naturalistico culturale) e così arricchendo di conoscenze e professionalità il modo di fare escur- sionismo dell’Alpina Friulana. Personalmente ho dato il mio contributo organiz- zando e realizzando un numero ampio di escursioni con diversi livelli di difficoltà in tutto l’arco alpino e non solo. In anni recenti ho anche assistito al cambio di sede della nostra sezione da quella storica di via Beato Odorico da Pordenone nel centro città alla nuova e funzionale sede di Via Brigata Re nella periferia est di Udine, che ha giovato am- piamente all’Alpina per le più ampie e diverse sale nelle quali oggi si possono svolgere i corsi e le attività statutarie e culturali. Attualmente la Commissione che presiedo conta 35 elementi, dei quali più della metà ha un titolo o una qualifica del Cai. L’ultimo diplomato è Mauro Riz- zo, primo AC (accompagnatore di ciclo escursionismo) del Friuli Venezia Giu- lia, il che consentirà alla Saf di ampliare le proposte della Commissione ai soci. CRONACA SOCIALE Un cammino lungo quasi trent’anni 121

Concludo con un benvenuto e un augurio di buon lavoro ai nuovi componenti: Simonetta Degano, Marina Pascolo, Marco Manzini, Daniele Scodeller e Fabio Antonutti.

Giorgio Di Giusto

È una Tribù che balla, canta Jovanotti, mischiando funk, jazz, rock e soul, usando basso sax e batteria, come nelle migliori jam session di musica, dove i suonatori conoscono bene lo spartito ma sanno anche dialogare a braccio e improvvisare con il pubblico. Nelle foto “di rito” siamo spesso in piedi o seduti (quasi) composti, ma in realtà noi della Commissione escursionismo, se non proprio una tribù, siamo cer- tamente una squadra che balla, in molti sensi. Una squadra che balla perché si diverte in quello che fa; che balla perché la motiva l’impegno per organizzare attività ed escursioni; che balla perché va allo stesso ritmo, si muove insieme; che balla perché non si ferma e sempre cresce, si trasforma; infine, che balla perché vuole entusiasmare soci e amici alle montagne, e lo sa fare benissimo. La CE ha ballato, eccome, anche in questo 2019. Anzi, forse mai come quest’anno gli eventi, le iniziative e le difficoltà ci hanno impegnati a ballare, sen-

Altopiano del Montasio, Sella Nevea, Alpi Giulie: uscita del corso EAI (foto Ermes Furlani) 122 Un cammino lungo quasi trent’anni CRONACA SOCIALE

za fermarsi. I disastri della tempesta Vaia di fine ottobre 2018 hanno condizionato molte delle escursioni, sia nel testare e rivedere gli itinerari, sia costringendoci ad annullarli. La raccolta fondi a favore di Forni Avoltri per il ripristino dei sentieri promossa dalla Saf con le sottosezioni di San Daniele, Palmanova e con l’associa- zione Arte & Sport di Udine è stato un gesto concreto che ha prodotto entusia- smo e nuove collaborazioni. A volte dalle peggiori condizioni nascono le migliori intese e collaborazioni. In questo 2019 abbiamo condiviso l’attività con un meteo decisamente poco amichevole, che ci ha obbligato spesso all’apprensivo monitoraggio dei bollettini, a decisioni sofferte, a moltiplicate attenzioni sulla programmazione e sulla condu- zione delle uscite. Ma l’attività è stata comunque portata avanti nella gran parte, e in maniera considerevole. Le escursioni del calendario 2019 sono state 51, di cui 24 del Gruppo seniores e 6 a carattere naturalistico- culturale promosse dalla Commissione culturale e divulgativa. Per le prime ciaspolate siamo andati a cercare la neve a Sauris e a Tarvisio, l’ab- biamo trovata in abbondanza nella due giorni in Valle di Anterselva: il video della discesa con slittini e palle di neve strappa ancora sorrisi sulla nostra pagina Face- book. Uscita in notturna con luna piena appena oltre confine, salendo al Monte Dobratsch, e ultima ciaspolata sulla neve ai primi di marzo sul Monte Zovo. Le ricche e partecipate uscite naturalistiche hanno ricevuto la collaborazione degli

Via ferrata Ferrari alla Ra Bujela, Gruppo delle Tofane (foto Maria Luisa Colabove) CRONACA SOCIALE Un cammino lungo quasi trent’anni 123 operatori naturalistico culturali della sezione: a febbraio la Riserva naturale della foce dell’Isonzo e dell’Isola della Cona; a maggio, sfidando la pioggia, al Castello di Toppo e Tamer; nel solstizio d’estate al Piz de Mede-Pezzacul; in luglio al Mon- te Pizzul, infine in ottobre alle grotte di Pradis e in dicembre al sentiero con vista mare Rilke di Trieste. In marzo una novità, con gli autori del conosciuto portale web Sentieri Natura, Ivo Pecile e Sandra Tubaro, in collaborazione con il Gruppo alpinismo giovanile “Diego Collini”: la stessa passione l’abbiamo vissuta su due itinerari diversi sa- lendo al Monte Ciaurlec (purtroppo in un cielo plumbeo!), uno per i più piccoli, l’altro per i loro genitori e soci Saf. In primavera abbiamo sconfinato ancora. Prima in Austria, nel Parco nazio- nale Alti Tauri, poi in Croazia sull’isola di Krk per una giornata piacevolissima e molto remunerativa fra rocce e spiagge. Tempo incerto ma gradevole e un mare blu cobalto, dove però nessuno ha osato fare il bagno. Però per tutti c’è stato lo spettacolo del volo nuziale ad ali contrapposte di due grifoni, colti nel loro ma- gnifico habitat naturale. Ad aprile ancora novità e freschezza delle proposte: andiamo sul Lago di Gar- da per una due giorni con itinerari dedicati alle paesaggistiche ferrate a bassa quota e alle pedalate in mtb su percorsi fra i più appaganti del nord Italia. Anche in questa occasione il meteo si è divertito a scompigliare i piani, impegnando i direttori di escursione a modificare programma e attività. E non ci ha lasciato tre- gua nemmeno successivamente, facendo annullare sia l’intersezionale con il Cai di Manzano sia l’escursione al Monte Fara (quest’ultima in sostituzione di quella prevista al Bivacco Perugini di Val Montanaia, annullata per sentiero non percor- ribile). Medesime sorti sono toccate alle gite dirette al Passo Giau e al Sentiero Corbellini. Entrambe sono state tuttavia ostinatamente e orgogliosamente sposta- te dai Direttori: la prima ad agosto, una novità per la CE, felicemente ripagata da un alto numero di iscritti, la seconda con una piacevole e più agevole cavalcata sui Monti Paularo, Neddis e Dimon. Poi da metà giugno l’anticiclone ci ha portato pace, e con l’estate abbiamo cominciato a salire e a camminare un po’ di più fino al Corno di Fana e alla traver- sata dal Passo San Pellegrino a Malga Ciapela. Il 7 luglio ci uniamo al coro sociale per i festeggiamenti del 70° anniversario dalla fondazione della sottosezione Saf “Mario Micoli” di San Daniele del Friuli. Grande festa al Rifugio Pordenone. Moschettoni e set da ferrata, insieme all’opzione più morbida di un itinerario B, partiamo nel weekend di fine luglio in Dolomiti al Gruppo delle Tofane, dove “balliamo” per assecondare il meteo, da cui usciamo vittoriosi. Prima domenica di settembre: eccoci sul Monte Coglians per la ferrata Nord e sulla cima del Mon- te Rauchkofel. 124 Un cammino lungo quasi trent’anni CRONACA SOCIALE

A metà settembre facciamo silenzio, ci carichiamo di stupore e di attenzione e ci mettiamo sui Sentieri dell’orso: con gli esperti operatori naturalistici e culturali dei Cai, andiamo nel meraviglioso Parco naturale Adamello Brenta per poter os- servare (da lontano e in sicurezza) i magnifici plantigradi. Inversione di date per il lunare Pramaggiore e per il sito geologico del Monte Bivera di inizio autunno (qui con un passaggio sul sito del rock glacier a Casera Razzo), infine Monte Zaiavor a fine ottobre. La festa della Siarade di novembre, poi, svoltasi a Sella Nevea al Rifugio Divisione Julia – la mattina sui Piani del Montasio e nel pomeriggio con la riscoperta della vecchia tradizione della Saf del Convegno Sociale – è un luogo dell’anima immancabile, come un Natale laico: una piccola pausa, ritrovarsi senza fretta, rivedersi e gustare un pranzo insieme. Un 2019 che non è stato solamente un anno di escursioni, ma anche di due col- laborazioni che sottolineano la nostra mission di promozione della cultura della montagna. La prima con il Messaggero Veneto, nella quale i lettori del quotidiano hanno avuto l’opportunità di camminare con noi in quattro uscite da giugno a settembre. Le mete: il Vallo Alpino del Littorio in Valcanale, il sentiero Ta Lipa Pot in Val Resia, il Rifugio Marinelli e i roccoli di Montenars. La seconda colla- borazione è stata avviata con Ivo Pecile e Sandra Tubaro di Sentieri Natura, in questo caso per la trasmissione in onda su Telefriuli. Da giugno, per ognuna delle puntate mensili del programma, i componenti della CE sono stato ospiti in studio per descrivere gli itinerari delle puntate (Creta di Collinetta, Bivera, Cima del Cacciatore, Jôf Fuart, Crostis, Cucco e Tersadia, Rifugio Giaf). Per raccontarci meglio, abbiamo dedicato energie a innovare la newsletter gra- zie a una nuova piattaforma che ci ha permesso una comunicazione più completa e una maggiore attenzione alle promozione delle attività settimanali delle Sotto- sezioni. Insomma, il 2019 si conclude ricco, entusiasmante, con il pensiero di aver fatto bene e con il proposito di migliorare ancora. Siamo in cammino da trent’anni, siamo in tanti, e non smettiamo di ballare. SCUOLA DI ESCURSIONISMO 125

AGGIORNARSI È BELLO

In un gruppo le differenze sono un valore. Anzi, sono il segreto di un meraviglioso affiatamento. Che però richiede preparazione

Maria Luisa Colabove

Siamo tanti e siamo tutti diversi. Ci sono i giovani fuori e ci sono i giovani den- tro. C’è chi è arrivato da poco e chi si sta formando, chi è ormai un veterano che può vantare tutte le qualifiche possibili. Anche se non si finisce mai di crescere e imparare. C’è chi è socio Saf; ma, come in tutte le squadre che si rispettino, ab- biamo anche gli stranieri, che appartengono ad altre sezioni. C’è chi ha famiglia e s’inventa equilibrismi per rubare ore da trascorrere con il Cai e chi invece vive con il cane e il gatto, ai quali basta una carezza fra un’escursione e una riunione. C’è chi abita vicino e chi, spesso a notte fonda, deve fare chilometri e chilometri per rientrare a casa. C’è chi è estroverso, e lo si nota subito, e chi invece lavora così in silenzio che quasi non lo si vede. Già, le differenze sono le principali risorse della nostra scuola. Perchè siamo, come dire, diversamente abili. C’è chi è fortissimo nell’accompagnamento sulle ferrate e in terreni difficoltosi, chi ha conoscenze na- turalistiche e culturali che trasmette durante le escursioni, chi è un ottimo oratore in grado di fare un’eccellente didattica, chi è dotato di carisma e quindi è un pun- to di riferimento, chi è simpatico e tiene insieme il gruppo. Poi, ovviamente, c’è il genio informatico, perché, si sa, ormai senza la tecnologia non si va da nessuna parte. Da quest’anno abbiamo anche un’ulteriore diversità e diversificazione, e un nuovo primato: fra noi è arrivato il primo accompagnatore di cicloescursioni- smo della regione. Mica male! E poi, e poi, e poi... C’è quel che ci accomuna: il desiderio di trasmettere la nostra passione per la montagna affinché tutti possano frequentarla consapevolmente, in sicurezza e nel rispetto dell’ambiente. Excelsior!

Marco Morassi

Far parte di un’associazione che si riconosce in valori forti, costituita da volontari, quale è il Club Alpino Italiano; farne parte in modo operoso, propositivo, forma- tivo, a vari livelli, oltre che piacevole, è anche stimolante e molto gratificante. I 126 Aggiornarsi è bello CRONACA SOCIALE

soci, gli allievi dei corsi di escursionismo, tutti coloro che, magari sporadicamen- te, partecipano alle escursioni sociali, vedono in te un punto di riferimento, un porto sicuro, la persona di cui fidarsi e a cui affidarsi in caso di difficoltà. Per essere all’altezza di tanta fiducia riposta, servono però impegno costante, disponibilità e desiderio di migliorarsi sempre e comunque. Anche noi dobbiamo esercitarci, aggiornarci, istruirci. Lo prevedono i regolamenti, lo suggerisce il sen- so di responsabilità. Lo facciamo con dedizione e generosità, a volte con sacrificio, sottraendo tempo alla famiglia e al tempo libero. Sicuri, però, che tutto ciò sarà ripagato: con un sorriso, un grazie, una stretta di mano e una pacca sulla spalla. Per dar seguito ai buoni propositi, la scorsa primavera abbiamo organizzato una giornata di aggiornamento tecnico aperta ai componenti della scuola, alla commissione escursionismo, al gruppo seniores, alla commissione alpinismo gio- vanile e alle sottosezioni. La macchina organizzativa si mette in moto, vengono stabiliti data e luogo: sabato 6 aprile in Val Rosandra (Trieste). Redatto il programma dettagliato della giornata, partono le mail informative. Sono i primi giorni di marzo, confidiamo in una risposta favorevole da parte di molti, siamo consapevoli che un’ampia parte- cipazione sia importante. Il giorno dell’aggiornamento siamo davvero numerosi, partecipano rappresen- tanti di tutte le realtà. La palestra di roccia “Rose d’inverno” è la nostra base, qui

Monte Pieltinis, Sauris, Alpi Carniche; uscita dei corsi E1-E2 (foto Ermes Furlani) CRONACA SOCIALE Aggiornarsi è bello 127

istituiamo una serie di “stazioni” dove effettuare, a scopo di esercitazione, le varie manovre in programma: nodi principali a uso dell’escursionismo, stesura della corda fissa, calata in corda doppia per gruppi, calata assistita e via dicendo. I tito- lati della Scuola spiegano le manovre nei dettagli, correggono gli errori. In molti si alternano nelle prove, quasi non ci si accorge del trascorrere delle ore. Ma sono ormai le 15, il tempo è volato via e quando viene il momento di chiudere, si sente dire “Ma come? Abbiamo appena iniziato. Posso provare la manovra ancora una volta?”. Ci raduniamo e facciamo un rapido briefing, analizziamo il lavoro svolto. Per qualcuno si tratta della prima esperienza, non avendo mai avuto a che fare con corde, moschettoni e nodi. A tutti però appare chiaro quanto sia importante conoscere e saper eseguire queste manovre per non trovarsi impreparati in caso di necessità. Ne va della propria e altrui sicurezza. Frequentare l’ambiente mon- tano comporta sempre l’assunzione di un certo rischio, fondamentale è farlo con consapevolezza e appropriate conoscenze. Fin qui la parte tecnica, la più importante. Ma per terminare nel miglior modo possibile la bella giornata trascorsa, non c’è niente di meglio che sedersi insieme attorno a un tavolo a mangiare un boccone e bere un bicchiere. In fin dei conti, anche questo è importante, ha valore: serve a conoscersi meglio, ad amalgamarsi, a scherzare per non prendersi troppo sul serio, fare gruppo. E allora via: valichia- mo il confine e ci fiondiamo in una trattoria slovena. Di nuovo, tra una battuta e una risata, non ci si accorge del trascorrere del tempo. Si è fatto tardi, è ora di rientrare. Bene, a quando la prossima? 128 Aggiornarsi è bello CRONACA SOCIALE

Effemeridi

Il XVII Corso di Escursionismo in ambiente innevato EAI1 2019, diretto dall’ANE Nicola Michelini, si è svolto dal 16 gennaio al 13 marzo con 13 lezioni teoriche e 5 uscite pratiche. I partecipanti sono stati 19; sono risultati tutti idonei: Chiara An- nunziata, Stefania Bidinost, Giulia Catto, Laura Cividino, Giulia Clignon, Laura D’Ambrosi, Laura Della Marina, Andrea Ercole, Benedetta Ercole, David Iacuz- zi, Nicola Malisani, Marco Manzini, Carlo Mauri, Marina Pascolo, Sonia Persello, Nicole Salvatori, Franco Saveri, Barbara Tracogna, Fabio Tubaro. Il XIV Corso di Escursionismo di primo livello E1 2019, diretto dall’AE Manuel Masotti, si è svolto dal 24 aprile al 26 giugno con 17 lezioni teoriche e 6 uscite pra- tiche. I partecipanti sono stati 28. Questi i 22 che sono risultati idonei (3 allievi si sono ritirati per motivi personali, 3 non hanno portato a termine il corso). Chiara Angeli, Paolo Baiti, Monica Bellanti, Stefania Canal, Daniela Chiandussi, Maria Rosaria Clochiatti, Nicola Comino, Teresa Cuttini, Elsa De Vecchi, Annalisa Fer- rino, Michele Gardellini, Sara Lovascio, Sara Moneghini, Stefano Palmino, Mara Plos, Noemi Quazzo, Giorgio Riavis, Sara Schiboni, Cristina Sommaro, Federica Tulisso, Giuseppina Velardo, Alex Vignandel. Il XIX Corso di Escursionismo di secondo livello E2 2019, diretto dall’ANE Paolo Cignacco, si è svolto dal 24 aprile al 26 giugno con 17 lezioni teoriche e 6 uscite pratiche. I partecipanti sono stati 29, tutti risultati idonei: Raffaella Aita, Giulio Alfonsi, Federica Antonetti, Mariangela Asquini, Silvia Biasutti, Stefania Bidi- nost, Erica Bottos, Marzia Bragagnolo, Laura D’Ambrosi, Bruno Del Fabbro, Cristina Fanin, Federico Frezza, Lidia Girardi, Stefano Gori, Alvin Guarini, Elisa Marzinotto, Erica Michelizza, Enrico Parisi, Federico Pedrazzoli, Martina Pe- ressoni, Simona Pitta, Nicola Plozzer, Nadia Regeni, Simone Scozzina, Giovanni Tubetti, Barbara Venica, Norma Zamparo, Monica Zorzutti, Mara Zulian. SCUOLA DI ALPINISMO CELSO GILBERTI 129

LA SICUREZZA PRIMA DI TUTTO E ANCHE UN PO’ DI SANA GOLIARDIA

Cinque corsi e 67 allievi sono il bilancio di un’annata di lezioni più che soddisfacente, che ha vinto la sfida con il meteo spesso avverso e concluso in bellezza con uscite di grande emozione e divertimento

Anche nel 2019 la Scuola di Alpinismo ha organizzato e svolto un buon numero di corsi, con un numero più che soddisfacente di partecipanti: 67 allievi, di cui 25 nuovi iscritti all’Alpina. Se andiamo a calcolare le giornate-uomo investite da- gli istruttori, raggiungiamo le svariate centinaia! Abbiamo cominciato in gennaio con il 41° Corso base di scialpinismo (SA1) al quale hanno partecipato dieci al- lievi (quattro nuovi iscritti): le lezioni teoriche, sempre più ricche di importanti, aggiornati e interdisciplinari contenuti teorici, tecnici e pratici, hanno coinvol- to come relatori sia gli istruttori della scuola sia professionisti esterni speciali- sti di settore. Le uscite pratiche, all’inizio condizionate dalle avverse condizioni nivo-meteo nella scelta delle destinazioni, hanno avuto luogo, come da precisa scelta della Scuola, non solo nella nostra regione ma anche in zone confinanti, ovvero in Austria e in Veneto, con l’uscita conclusiva di due giorni che si svolta al rifugio Roma sulle Vedrette di Ries. Va detto che gli allievi hanno seguito con interesse e profitto le lezioni; l’entusiasmo e la gratitudine che hanno dimostrato hanno ripagato gli istruttori del tempo e dell’impegno spesi a trasmettere loro le conoscenze nel modo più efficace e a far sì che dell’esperienza restasse un ricordo positivo e indelebile. Poi è la stata la volta del corso di arrampicata sportiva, iniziato a fine feb- braio con 24 allievi (15 nuovi soci). Lezione introduttiva, poi tutti in palestra di arrampicata indoor, dove si sono affrontate le nozioni introduttive. Il corso si è sviluppato approfondendo sempre di più la tecnica, privilegiando il gesto rispet- to alla salita a tutti i costi. La Val Rosandra ha visto gli allievi muovere i primi passi in esterno e già scoprire una nuova gestualità. Sulle placche della Croazia e nella falesia di Crni Kal hanno iniziato ad arrampicare da primi di cordata, dopo aver appreso il corretto utilizzo dei mezzi di assicurazione, argomento sul quale è stata posta specifica attenzione con approfondimenti durante le lezioni teoriche in sede e in palestra indoor, in particolare con la lezione dedicata che si è svolta 130 La sicurezza prima di tutto e anche un po’ di sana goliardia CRONACA SOCIALE

nella struttura artificiale di Treviso. Il weekend finale è stato organizzato nella zona di Arco di Trento. Il primo giorno gli allievi hanno arrampicato alla falesia Regina del Lago e, nonostante le temperature niente affatto favorevoli, si sono cimentati anche da primi di cordata: una bella soddisfazione per gli istruttori! Il secondo giorno, causa il meteo, il corso si è svolto nella palestra indoor di Verona, un vero parco giochi. Tutto questo condito dalle lezioni teoriche che gli istruttori della scuola sanno rendere sempre accattivanti, catturando l’attenzione degli allievi.

Sulla parete Nord della Marmolada (foto Scuola alpinismo) Vallone Winkler verso l’attacco della via Schiavi (foto Scuola alpinismo) CRONACA SOCIALE La sicurezza prima di tutto e anche un po’ di sana goliardia 131

Ad aprile è stato organizzato il 4° corso avanzato di scialpinismo (SA2), atti- vato ad annate alterne. È sempre alto l’interesse verso questo corso, che permette ai praticanti “rodati”, spesso ex allievi dei corsi base, di compiere un importante passo avanti, perché fornisce le conoscenze e le competenze necessarie per la pratica dello scialpinismo in ambienti di alta montagna, su itinerari impegnativi tecnicamente e fisicamente. Al corso hanno partecipato otto allievi, le lezioni teo- riche hanno ripreso e approfondito gli argomenti legati alla neve e alle valanghe, alla ricerca con Artva e all’autosoccorso; si sono affrontate le problematiche rela- tive alla frequentazione dei ghiacciai e dell’alta montagna, le tecniche di recupero da crepaccio, la progressione su creste e roccia, la catena di assicurazione. Le uscite pratiche in quota, in un crescendo di difficoltà fisica e tecnica, si sono svolte in regione e in Austria, mentre l’uscita conclusiva di tre giorni ha previsto la traversata del monte Cevedale, con partenza e arrivo in Val Martello. Da aprile a giugno si è tenuto il corso di alpinismo su roccia (AR1), con molti allievi provenienti da altri corsi della Saf (A1, AL1 e SA1) o svolti presso altre realtà. Oltre alle solite uscite propedeutiche in Val Rosandra, accompagnate da una gradevole brezza (raffiche a 90 chilometri orari!) e alla salita in Glemine, sia- mo riusciti, in questa primavera alquanto piovosa, ad andare con gli allievi nella zona del Pal Piccolo. L’uscita finale, come sempre, è stata svolta in Moiazza, con le salite classiche attorno al Rifugio Carestiato. Infine una lezione rinviata per maltempo è stata recuperata in Rio Bianco (Cima Piccola della Scala e Cima delle Cenge) dove, ahimè, c’era solo una parte degli allievi. Ma questi pochi volenterosi sono stati premiati da una bellissima giornata, anche se messi a dura prova dalla fatica e dalle impegnative Alpi Giulie (alcune cordate sono rientrate dopo le 19!). Si è trattato di un corso non proprio fortunato dal punto di vista meteo ma che, alla fine, si è concluso in linea con le migliori aspettative. Ultimo in ordine di tempo ma non certo per importanza, il classico corso di primo approccio, il corso base di alpinismo (A1), svoltosi a settembre e ottobre: dopo alcune vicissitudini per un cambio al volo del direttore, è andato via liscio, con uscite classiche benché non sempre ben supportate dal meteo. Da evidenziare l’uscita in Marmolada a inizio settembre, con clima più autunnale che tardo esti- vo, ma con la cima raggiunta da tutti gli allievi nonostante la fitta nevicata. Ben cinque i nuovi iscritti alla Saf, come si confà a un corso di base. Tanta allegria e un pizzico di goliardia hanno caratterizzato ogni corso, con buona soddisfazione di tutti. E sono state costanti le attività di aggiornamento dell’organico, soprattutto alla luce dei nuovi regolamenti della scuola centrale del Cai, che impone giustamente di anno in anno regole sempre più stringenti relativamente alla formazione del corpo istruttori, per poter offrire agli allievi una didattica eccellente e al passo con le nuove tecniche. 132 La sicurezza prima di tutto e anche un po’ di sana goliardia CRONACA SOCIALE

Effemeridi

Di seguito i nomi degli allievi, suddivisi per specialità: SA1 (scialpinismo corso base): Carlo Bulfone, Matthew Chamberlain, Giovanni Colutta, Giulio Ellero, Lucia Foschiani, Marco Francesconi, Federico Landi, Ro- berto Margarit, Federica Ronchese, Marco Venchiarutti. AL1 (arrampicata sportiva): Lucia Baldassi, Alan Benedetti, Serena Cecconello, Andrea Chiarandini, Laura Cividino, Lucrezia Clocchiatti, Giorgio Di Giusto, Alberto Fabio, Alessandra Feruglio, Daniele Foschiani, Davide Furlan, Marinella Golosetti, Alberto Lorenzoni, Marco Manzini, Claudia Meloni, Matteo Menapa- ce, Martina Morassi, Andrea Peluso, Omar Polo Perrucchin, Riccardo Piuzzo, Letizia Sangoi, Stefano Schiattarella, Ludovico Sturma, Rocco Taglialegne, SA2 (scialpinismo corso avanzato): Sergio Comuzzo, Alessandro Corsini, Stefano Della Ricca, Alessandro Farinet, Oriano Ferini, Riccardo Fumagalli, Lorenzo Sca- no, Jarka Seminava. AR1 (alpinismo su roccia): Carlo Giovanni Centazzo, Alessio Compagno, Stefa- no Mattia Fiorani, Carlo Garzitto, Alvise Menegotti, Alberto Mion, Maria Luisa Miotti, Luca Novello, Nicole Salvemini, Chiara Terlicher, Francesco Togo, Gia- Verona, Luca Virili. A1 (alpinismo corso base): Renata Ardito, Lorenzo Barbiero, Giorgia Benvenuto, Matteo Bocci, Arianna Del Pino, Gabriele Dominutti, Ireneo Filip, Alessandro Forte, Lorenzo Lepora, Marina Pascolo, Tiziano Schiratti, Luca Vismara. OPERATORI NATURALISTICI CULTURALI 133

AKITA MANI YO, OSSERVA OGNI COSA MENTRE CAMMINI

Alle porte di una nuova era geologica, che possiamo chiamare Antropocene perché l’uomo ne è il principale agente di cambiamento, noi abbiamo deciso di stare dalla parte della natura, osservandola nelle sue infinite manifestazioni, nella sua magnifica biodiversità

Denia Cleri e Francesca Marsilio

La Natura è un incanto. Ci stupisce, ci sorprende, ci ha tolto il respiro infinite volte con spettacolari tramonti che accendono il mare, con montagne maestose che dominano sulla pianura, con infiniti cieli stellati. Ci regala spettacoli emozio- nanti, che neanche l’immaginazione può eguagliare. La Natura è quello che ci circonda, ciò che è dentro di noi. Un mistero che ci sfida e che l’uomo da sempre cerca di svelare in ogni suo aspetto, che sia meccanico, fisico o filosofico. È la sfida che noi abbiamo colto quando, durante la riunione mensile della Commissione escursionismo, ci hanno presentato il Corso per operatori naturalistici e culturali. Neanche il tempo di pensarci su un attimo e la curiosità ci ha travolte: abbiamo inviato la domanda di ammissione e, in un battere d’ali, ci siamo imbarcate in questa avventura insieme ad altri quattro compagni dell’Alpina Friulana. “Akita mani yo” è un detto dakota. Significa “Osserva ogni cosa mentre cam- mini”. È stato l’inizio di tutto. L’osservazione è diventata la nuova e non più scontata chiave di lettura, è diventato il nostro “guardare oltre”. Le pietre che calpestiamo ora non sono più sassi, ma rocce che parlano e che ci raccontano di paesaggi mai visti e di mari in continuo cambiamento, brulicanti di organismi grandi e infinitesimali, insoliti e affascinanti. Così abbiamo scoperto che il Monte Cogliàns, il più alto del Friuli (2780 metri) è la testimonianza vivente di una delle più importanti barriere coralline al mondo: una scogliera organogena di età pale- ozoica unica in Europa, con i suoi dieci chilometri di lunghezza, una larghezza di cinque e uno spessore che supera i mille metri. Questo corso ci ha fatto guardare dentro e comprendere l’importanza di essere un volontario del Cai. Ci ha fatto ripensare spesso a come sia nato in noi il gran- de amore per la montagna. Ci ha fatto sentire come bambine alle quali vengono spiegate le cose più semplici e che s’incantano per la sorpresa, la meraviglia. Come quella della stella alpina che si mette il maglione. 134 Akita Mani Yo, osserva ogni cosa mentre cammini CRONACA SOCIALE

La stella alpina o Edelweiss, “bianco nobile” in tedesco, è un fiore straordi- nario. Se cresce in pianura è alta 30-40 centimetri anziché cinque, e del bianco nobile si perdono le tracce: diventa di un banale grigio-verde. Questo perché sulle Alpi, a 2000 metri di altezza, la luce è ricchissima di raggi ultravioletti, che hanno un effetto nanizzante e questo fa sì che i peli che la ricoprono, distribuendosi su una superficie meno ampia, la facciano diventare bianca. In realtà il bianco non è un colore, e i peli sono come un filo di pile, perché sono forati al centro e dentro c’è aria, così la luce che li attraversa viene diffranta, dando all’occhio la percezione del suo candore. La stella alpina, dove cresce, riceve moltissima luce, ma se l’assorbisse tutta la sua temperatura interna potrebbe alzarsi, e per contra- starla dovrebbe evaporare. Ma poiché dove cresce acqua non c’è, allora evita di assorbire tutta la luce riflettendola indietro, per tenere la temperatura interna più bassa e quindi mantenere l’attività fotosintetica in condizioni di scarsa disponibi- lità idrica. Il bello dei fiori è che, pur essendo delle piccole creature, hanno molto da insegnarci. Quando gli occhi osservano, il cuore batte e trasmette gioia, passione e tanta ammirazione. Siamo davanti a un albero cavo e non resistiamo: entriamo e lo ascoltiamo, annusiamo. Rinasciamo dal suo ventre. Alziamo gli occhi e ne vedia- mo la chioma che sfiora il cielo. È vivo. Ma come fa? L’albero produce fitomeri e anelli per poter crescere, ma potrebbe capitare che ci siano delle brutte annate e che ci sia la necessità di risparmiare energia e

Stella alpina (foto di Ermes Furlani) CRONACA SOCIALE Akita Mani Yo, osserva ogni cosa mentre cammini 135

quindi ridurre i propri elementi. Per esempio, ogni anno con la stagione fredda si propone l’esigenza di risparmiare energia e quindi l’albero perde le foglie. Ci sono degli alberi che perdono rami interi, si dice autopotatura o cladoptosi. La crescita sottrattiva (mai avremmo pensato che potesse esistere) più evidente è quella che avviene all’interno della crescita secondaria ed è il processo di duramificazione: l’albero ogni anno mette un anello, ma a un certo punto si stabilizza come ne- cessità energetiche, ma come una condanna ogni anno l’albero mette un nuovo anello, quindi come fa? Ne spegne funzionalmente uno all’interno, lo disattiva, non è più vitale. Al punto che si può togliere integralmente la parte interna senza che l’albero ci rimetta biologicamente. L’albero può essere sia morto che vivo, lo si può osservare da un tronco tagliato, gli anelli chiari sono morti, gli anelli scuri più esterni sono vivi. Arthur Conan Doyle diceva: “Il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare”. “Sei un animale!” Stupidamente e con arroganza lo urliamo, quasi fosse un insulto. Invece gli animali, di cui anche l’uomo fa parte, rappresentano l’esito finale “perfetto”, in quanto in perfetta sintonia con il proprio ambiente, di tempi evolutivi lunghissimi. Noi abbiamo il privilegio di goderne della bellezza e della perfezione. La lepre variabile è un animale straordinariamente adattato alla vita di alta quota. Si chiama così perché la pelliccia cambia di colore al variare delle stagioni:

Ermellino (foto di Francesco Persello) 136 Akita Mani Yo, osserva ogni cosa mentre cammini CRONACA SOCIALE in estate è marrone-rossiccia sul dorso e bianca sul ventre, in inverno diviene totalmente candida con la sola eccezione della punta delle orecchie che rimane nera. Perché? Questo animale attiva tutta una serie di adattamenti fisiologici per resistere al freddo: il pelame molto fitto, le zampe avvolte da un folto e lungo pelo che gli per- mette di non disperdere il calore a contatto con il terreno gelido e di camminare comodamente sulla neve come se indossasse delle racchette. Anche le orecchie fanno parte di questa strategia: sono corte e con la punta nera per attirare il calore del sole. Anche all’ermellino rimane la punta della coda nera per lo stesso motivo? No, la ragione è tutt’altra. Ogni specie selvatica ha sviluppato nel corso della propria storia evolutiva una grande varietà di adattamenti morfologici e fisiologici in ri- sposta a stimoli ambientali avversi, aumentando così le proprie possibilità di so- pravvivenza. Uno di questi adattamenti è il mimetismo, un efficace stratagemma per difendersi dagli attacchi dei predatori e per rendersi invisibile alle proprie prede. La punta della coda nera permette all’ermellino, in caso di attacco dall’al- to, di proteggere le sue parti vitali: l’aquila dal cielo vedrà solo la parte nera ed è a quella che punterà. Questi sono solo alcuni passi dell’impegnativo quanto entusiasmante cammi- no per raggiungere la qualifica di Operatore naturalistico e culturale, titolo che assegna il Club Alpino Italiano. Abbiamo capito che questo corso avrebbe cam- biato il nostro modo di andare in montagna grazie anche a persone straordinarie che ci hanno aperto gli occhi con il loro sapere ma soprattutto con grande pas- sione ed entusiasmo: Tiziano Abbà, Davide Berton, Giuseppe Borziello, Marco Cabbai, Dario Gasparo, Fulvio Genero, Gianni Frigo, Ermes Furlani, Massimo Ghion, Giovanni Morelli, Renzo Paganello, Ugo Scortegagna, Chiara Siffi, Fran- cesca Tami. E non sono che alcuni! Da loro abbiamo imparato soprattutto che fare l’operatore naturalistico e culturale significa riuscire a trasmettere emozioni ed esperienze: fondamentale sarà ora mettersi in gioco e provare a coinvolgere le persone stimolando la loro curiosità. Osservare ci permette di cogliere il senso profondo delle cose, farlo nostro e custodirlo. Osservando puoi entrare nell’impalpabile mondo dell’invisibile agli occhi. “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” Marcel Proust. ONC / ESCURSIONI NOIMV 137

QUANTI FIORI SUI NOSTRI CAMMINI!

Conoscete il colchico? E la forbicina? La galinsoga? La canapetta screziata? Il prezioso ruolo degli operatori naturalistici e culturali della Saf, qui all’opera in una delle gite organizzate per i lettori del Messaggero Veneto

Dennis Michelutti

Come nuovo operatore naturalistico e culturale della Società Alpina Friulana, vi dico subito che sono emozionato: è la prima volta che scrivo un articolo per In Alto. Vorrei raccontarvi di una delle escursioni organizzate dalla Saf per i lettori del Messaggero Veneto, quella che ha avuto per destinazione i roccoli di Mon- tenars. Si tratta di strutture originalissime, tipiche di qui, che erano fatte da al- beri opportunamente posizionati e potati a creare magnifici templi verdi, dove gli uccelli di passo, durante le migrazioni, giungevano a frotte, attratti da vari richiami. Questo era infatti lo scopo dei roccoli: attirare e catturare gli uccelli, sia per mangiarli sia per venderli vivi (prima che la pratica fosse vietata). Montenars è un luogo speciale, perché si trova sulla cresta di spartiacque fra il bacino del Tagliamento e quello dell’Isonzo; posto isolato, e tranquillo, perciò popolare per i volatili di passaggio. Nell’escursione a me spettava il compito, in quanto appassionato di botanica, di illustrare le varie specie di piante che avremmo incontrato durante il cammino. Appena partiti, prendendo un sentiero in discesa nel bosco verso il torrente Orvenco, ecco un fiore molto simile al crocus: è il colchico autunnale. Di colore rosa, a differenza del crocus, che può essere viola o bianco fiorisce in autunno e non all’inizio della primavera. Inoltre attenzione: il colchico è una pianta velenosa (mortale se mangiata)! E pensate che c’è chi in maggio la scambia con l’aglio ursino (commestibile e squisito). Ecco cosa li differenzia: mentre la foglia dell’aglio ursino si incurva diventando parallela al terreno, quella del colchico tende a stare verticale. Comunque, in caso di dubbio non fidatevi, e ricordatevi sempre la regola che non si tocca quello che non si conosce. Superato il torrente, oltre l’agriturismo Al Tulin, dove abbiamo mangiato (be- nissimo!) al rientro, su una larga pista forestale in un bel bosco di castagni abbiamo incontrato una “forbicina”: si tratta di una pianta alta un buon mezzo metro con un fiore marrone al centro e attorno cinque petali verdi. Ahimè, è un incontro che avrei preferito non fare: è infatti un’infestante che viene dall’America (tutte le pian- 138 Quanti fiori sui nostri cammini! CRONACA SOCIALE

te infestanti vengono da altri continenti) e che ruba il posto alle piante autoctone. Fortunatamente, lì ce n’erano poche! Proseguendo, abbiamo trovato dei gruppetti di piantine con un fiore giallo al centro e bianco tutt’attorno, tipo margherite, ma molto più piccole: sono le galinsoghe, anche loro infestanti (sempre americane) ma almeno con un lato posi- tivo: sono commestibili e si possono consumare come verdura cotta. Poi ho fatto fermare il gruppo alla vista di una canapetta screziata: è una piantina dai fiori a forma di bocca, inconfondibile perché bianca, gialla e con una linguetta viola che la rende molto simpatica. Giunti in un bosco di faggi, abbiamo trovato una salvia vischiosa: parente della salvia domestica, si differenzia per i fiori gialli invece che blu. Se le toccate i calici (i petali verdi esterni al fiore, che lo proteggono quando è in bocciolo) scoprirete che sono appiccicosi, da cui il nome. A un certo punto, al centro della strada, in una zona con pochi alberi attorno, piuttosto soleggiata, è apparso un fiordaliso, ma non era blu, come siamo abituati a pensare, bensì rosa. Infatti questi fiori compongono una sorta di famiglia i cui componenti assumono vari colori. Poco più su, i nostri sguardi sono stati attratti da un fiore blu a forma di campana con cinque petali: è la campanula, appunto. Anche quella delle campanule è una famiglia: ce ne sono a fusto alto e con molti fiori, con fiori singoli e penduli, con cespi di fiorellini di tutte le dimensioni, ma quel che le distingue è che sono tutte blu.

Nei roccoli di Montenars: a Manganel (foto Denia Cleri) CRONACA SOCIALE Quanti fiori sui nostri cammini! 139

Ricominciato il cammino, oltre Plazzaris e la sella tra Montenars e Flaipano, dopo aver incontrato i roccoli del Postino, del Manganel e di Pre Checo, Alessan- dra ha visto una liana di clematide e mi ha chiesto di illustrarla. Pianta commesti- bile da giovane, sappiate che da adulta sviluppa sostanze tossiche: nel Medioevo i mendicanti la strofinavano sulla pelle per prodursi delle vesciche (fra l’altro molto dolorose) al fine di impietosire i passanti e ottenere più elemosine! Rientrando lungo il sentiero che affianca l’Orvenco, ecco la cascata che dà il nome all’agriturismo (Tulin), raggiunta dopo qualche passaggio insidioso sui sassi umidi: è davvero molto bella, un serpente d’acqua che corre su un analogo intaglio della roccia. Qui ho trovato una lingua di cervo: una felce, con una foglia lunga trenta centimetri che, come tutte le felci, si riproduce attraverso le spore, come i funghi. Le felci sono piante antichissime: sono nate infatti più di 250 mi- lioni di anni fa (prima dei dinosauri!). Vi saluto con una curiosità: la felce è una pianta importantissima per la vita del più grande mammifero europeo, l’orso. Sapete perché? Perché quando esce dal letargo, l’orso ha bisogno di un purgante per liberare l’intestino pieno di muco ed è proprio alla felce che ricorre: la mangia e lei si trascina via tutto il muco, che viene espulso con le feci. Solo a quel punto l’orso può cominciare a mangiare i frutti della nuova stagione.

Nei roccoli di Montenars: Spisso (foto Alessandra Beltrame) 140 ALPINISMO GIOVANILE

ABBIAMO ADOTTATO UN SENTIERO!

Una giornata trascorsa a pulire il percorso naturalistico del Monte Roba assieme agli amici del Cai Val Natisone

Due anni fa abbiamo aderito al progetto del Cai “Adottiamo un sentiero” e ci sia- mo presi cura del sentiero naturalistico del Monte Roba e del Monte Barda nelle Valli del Natisone, questo anche in virtù di una lunga collaborazione con la sezione Cai Val Natisone. In questi sentiero si trovano utili bacheche didattiche ideate dal- la scuola media di San Pietro. Quest’anno il nostro compito è consistito nel ripulire il percorso da eventuali rifiuti lasciati da persone maleducate, pulire le bacheche e individuare altri problemi e criticità. Di buona mattina, armati di attrezzi e di una gran voglia di fare, siamo giunti all’attacco del sentiero e abbiamo indossato un paio di guanti da lavoro. Sono stati assegnati i diversi ruoli della pulizia: a Valentina il compito di portare il sacchetto da riempire con i rifiuti, attività che siamo abituati a svolgere in tutte le nostre uscite; ad Asia sono stati affidati gli stracci e i panni, come vecchie camicie o canottiere; le più piccole, Emma e Anna, si sono attrezzate di spray puliscivetri; i ragazzi più grandi, Giancarlo e Mariachiara, si sono occupati di viti e cacciaviti, visto che è stato necessario aprire le bacheche per pulirle in maniera approfondita. La pulizia della prima tabella ci è servita da guida per tutte le successive. È stato rimosso il tettuccio impermeabile e sfilato il plexiglass; ogni traccia di muffa o polvere presente sulla superficie della lastra è stata rimossa. Il delicato conte- nuto della bacheca è stato intanto ripulito dalla polvere con un pennellino al fine di evitare di danneggiarlo. Infine, tutte le parti della tabella sono state rimesse al loro posto e il risultato ci è parso davvero ottimo. Su ogni tabella, dopo il restauro, è stato eseguito un check up che ha individuato le parti irrimediabilmente rovi- nate dalle intemperie e che perciò andranno sostituite. Ci siamo accorti che sarà necessario intervenire con del materiale isolante, perché formiche e altri esserini le hanno ritenute molto comode per costruire i loro nidi. La mancanza di un adeguato isolamento del tettuccio ha fatto anche sì che qualche statuina e scritta all’interno delle bacheche si sia deteriorata. Cosa peraltro abbastanza normale, se si considera che questi manufatti devono restare esposti alle intemperie, al caldo e al gelo tutto l’anno. Proprio per questo la manutenzione di “Adotta un sentiero”, alla quale il nostro gruppo si è prestato con entusiasmo, risulta utile e preziosa. CRONACA SOCIALE Abbiamo adottato un sentiero! 141

Con l’aiuto di qualche forzuto, abbiamo risistemato due pali segnasentiero che erano caduti, utilizzando un grosso sasso come martello e scavando coi cacciaviti. Il che ha prodotto una scenetta alquanto comica, in perfetto stile fumetto, quando Renato ha colpito con il sasso il pollice dell’accompagnatrice Valentina: la malca- pitata aveva voluto rendersi utile nella sistemazione dei pali, rischiando però di perdere il dito! Alla fine le ore sono volate e siamo giunti all’ultima tabella senza fatica e senza accorgerci del tempo trascorso. E dato che siamo stati più veloci del previsto, abbiamo completato la giornata regalandoci una piccola e interessante escursione poco distante. Il percorso, immerso nella natura e all’ombra degli alberi, è sta- to breve ma intenso; lungo tutto il tragitto siamo stati accompagnati dal suono dell’acqua che scrosciava e dal canto degli uccellini. Su una roccia abbiamo trova- to una cassetta contenente un quaderno del Cai Val Natisone, sul quale abbiamo lasciato le nostre firme. Dopo circa venti minuti di cammino, facendo attenzione a calpestare con i nostri scarponi alcuni sassi scivolosi, siamo arrivati alla fonte di quello scroscio: le cascate Kot di San Leonardo. Una parete di muschio sulla quale l’acqua scorre limpidissima, uno spettacolo che può godere solo chi arriva a piedi. Ci siamo rilassati in questo piccolo paradiso per qualche minuto, poi, un po’ riluttanti, abbiamo dovuto riprendere il cammino per rientrare. Anche perché ci aspettava il premio per il lavoro svolto: una golosa tappa in gelateria!

All’opera per la pulizia del sentiero naturalistico del monte Roba nelle Valli del Natisone 142 GRUPPO ALPINISTI SCIATORI 143

LA VOGLIA

Sciare è come fare l’amore, dice Giorgio Daidola ne La voglia, un brano tratto dal suo libro Ski spirit (Premio Gambrinus Mazzotti nel 2016), cogliendo l’essenza profonda di quest’attività sublime e portatrice di ebbrezza. “Se ritieni che sia troppo osé per In Alto ti mando altro”, mi scrive premuroso via mail. Il suo testo, un delizioso racconto, rievoca il desiderio della neve dopo un’estate passata tra le onde del mare e l’azione dello scivolare su di essa come un atto sessuale condiscendente. Una metafora maschile in apparenza, che potrebbe di primo acchito suscitare reazioni censorie. In realtà non è né una questione di genere, né di offesa del senso del pudore. Daidola piuttosto sa attingere a qualcosa di più grande, profondo e vitale, che si rispecchia nell’essenza stessa della vita, senza opposizione tra maschio e femmina, tra umano e ambiente. È un richiamo, il suo, all’“ecologia profonda”, al risvegliare il gesto ancestrale della fusione di due che diventano uno. È come fare surf sulle onde o volare con la tuta alare: un dialogo senza parole, stretto, naturale, che porta a una frusciante beatitudine. Quella che la neve regala, mettendo in moto gioia, abbandono e voluttà. Quest’anno il Gruppo alpinisti sciatori ha avuto il piacere di ospitare Giorgio nella serata inaugurale di presentazione del programma della stagione 2020. Un grande esperto di neve a tutte le latitudini, primo uomo a scendere un ottomila in telemark, viaggiatore con gli sci e navigatore a vela, che è stato direttore della Rivista della montagna e curatore del bellissimo Dimensione sci, che ha raccontato tutte le sfumature dello ski spirit – con o senza tallone libero – condividendole con noi amici del Gas. Assieme a lui ci auguriamo che anche per questa stagione lo ski spirit, la voglia e la polvere siano con noi. Amen. Melania Lunazzi

Giorgio Daidola

Questa mattina mi sono svegliato con la voglia di sciare. È inizio ottobre, la prima neve è comparsa sulle cime intorno a casa mia. Non so quanta ma l’importante è che le cime, e un breve tratto dei pendii di foresta rada sotto di esse, sono proprio bianchi. Sono contento e sollevato che mi sia venuta voglia. Ero infatti piuttosto preoccupato perché, qualche giorno fa, quando l’amico Mariano mi aveva telefonato dicendomi che aprivano in Senales, non avevo di- mostrato grande interesse alla cosa. Non glielo avevo detto per non ferirlo ma

Serpentine sul monte Neddis in un’eccezionale giornata di neve vergine (foto Marco Ursic) 144 La voglia CRONACA SOCIALE

avevo sentito addirittura una reazione di rigetto a quella proposta. Nessuna voglia insomma di ritornare, dopo un’estate passata fra le onde del mare, sulla neve. Ero seriamente preoccupato di questa totale, davvero totale, mancanza di stimoli, di interesse per lo sci. Non solo per lo sci rigido, che non mi eccita più da decenni, ma ahimè anche per quello a talloni liberi, per il telemark. Anch’esso mi appariva come un gesto ripetitivo e scontato. Era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere ed ero seriamente preoccupato. Purtroppo c’è sempre una prima volta. È come quando ti svegli e ti accorgi che non ami più la persona che ti sta a fianco. Terribile. Sciare è come far l’amore, se non ne hai più voglia non c’è pillola che te la fa venire. Mi autoanalizzai, cercai di capire cosa mi era successo. È la vecchiaia che incal- za, mi risposi, come faccio ormai da qualche anno. La solita classica risposta, pur- troppo tremendamente vera e giusta, che continuo a darmi senza alcun bisogno di andare dallo psicologo, quando mi rendo conto di ciò che è lampante. Quando il mio “rovescio” trionfa senza mezzi termini sul mio “diritto”. Ma cosa mi è successo questa mattina, dopo questi giorni tristi senza speranza? Da dove arriva questa voglia di sciare? Semplice: è bastata questa spruzzata di neve a riempire i miei occhi, a eccitarmi e a intenerirmi, a farmi sentire che esisto ancora. Come una bella ragazza che ti sorride nel dormiveglia. Lei era distante sulle cime ma ne ho sentito il profumo, il bisogno di accarezzarla. Il profumo inconfondibile di Bianca, che ti fa perdere la testa e ti fa venir voglia di scivolarle

“Uova sulla neve” 2019: la traccia portava al Zwieselbacher Rosskogel, Stubai, Tirolo (foto Marco Ursic) CRONACA SOCIALE La voglia 145

dentro, noncurante del male che fai ai tuoi sci che sicuramente toccheranno le pietre nascoste sotto di essa. Dopo colazione mi sono sdraiato in poltrona, come ogni tanto amo fare e come fanno i vecchi (ma io l’ho sempre fatto!), per riprendere i piacevoli sogni del dor- miveglia. Ho rivissuto così bellissimi momenti del passato, quando partivo dalla mia città e andavo a raggiungere Bianca, spingendo la cinquecento con le catene più su che potevo lungo i tornanti del colle dell’Iseran, del Gran San Bernardo, del Nivolet. Questo sì che era amore. Sapevo dove trovarla, la mia amante, per una nuova grande stagione. Che amplessi. Bastava un prato poco inclinato, dove Bianca giaceva supina senza scivolare verso il basso ed erano orge di piacere. Piacere di genuflettersi e di lasciare una traccia su di lei, di annusarla, di sentirla fredda sotto il sole che con i suoi raggi inclinati si limitava a lambirla, a metterne in risalto le forme perfette, in un gioco trionfale di ombre. Poche curve ben fatte, con vero amore e dedizione, senza mai passare sulla traccia precedente, lasciata a testimoniare l’immenso piacere che mi aveva dato. Tanti orgasmi quanti ne per- metteva il pendio, poi, esausto, mi fermavo a contemplare quella meraviglia con cui mi ero unito così bene, così profondamente. Sogni, follie, passato, ricordi? Certamente, ma non solo questo. La cosa più importante è che mi è venuta nuovamente una voglia matta di lei, di Bianca, subi- to, non posso aspettare. Forse sono i ricordi ad avermi eccitato, non lo so. Ciò che conta è che adesso ho voglia. Che vivo e non vegeto. Che bello.

Giorgio Daidola alle prese con le curve di neve fresca del monte Vinson in Antartide (foto Pascal Tournaire) 146 La voglia CRONACA SOCIALE

Potrei prendere la macchina e andare in Senales ma ecco che il desiderio, ve- locemente come mi era venuto, se ne va. Come sono complicato, mi dico. Nuova autoanalisi e ho la pretesa di capire che la reazione di rigetto è la stessa che ave- vo avuto con Mariano alcuni giorni fa. Non ho voglia di sciare fra una selva di impianti, sul ghiaccio duro, fra una miriadi di sciatori scalpitanti con i bermuda sopra le tutine, gli elmi da crociati, che mi usano come il palo di una porta mentre sto tentando la magia di un bel telemark lento e rotondo. Il dubbio rimane. Sento che non sarebbe più come una volta: mancherebbero soprattutto i preamboli, sostituiti da un approccio rumoroso e meccanico. Allora mi eccitavo perché salivo verso una montagna silenziosa e incontaminata, non prostituita alle volgarità del- lo sci luna park. Non mi aspettava un rapporto mercenario. Quelle prime curve mi facevano pensare al bello della vita, sentivo nel profondo di me stesso che mi aprivano all’incantesimo di una stagione che non poteva essere che in crescendo, fino all’apoteosi dello sci di primavera. Sempre con lei, con Bianca. Il telefono squilla. È nuovamente Mariano. “C’è neve ai Prati Imperiali” mi dice, “andiamo a vedere, andiamo a tirare due curve!”. È eccitato, lo sento, pro- prio come ero io un tempo e come per incanto lo sono nuovamente adesso grazie a questa proposta. I Prati Imperiali! Dolci prati bianchi senza impianti e senza tutine corazzate, silenzio, bosco rado di larici, profumo di neve vera. Un oste discreto che ti rifocilla dopo il piacere. Un posto ideale a mezz’ora da casa per godere con la neve nuova. Possibile che non ci fossi arrivato da solo che quello era il posto ideale? Come dire di no a Mariano? Avrei da fare, devo scrivere l’articolo, devo andare in ufficio, devo tagliare la legna, devo... Lascia perdere mi dico. Vai a sentire la neve, hai voglia, è questo che conta! Certo avrei preferito andarci con la ragazza dei sogni, con Bianca, che dà un senso al tutto, anche alla neve. So che Mariano non me ne vuole per quest’ultima affermazione, e spero nemmeno mia moglie Cristina. Sanno che la mia è solo una metaforica provocazione del “diritto” del vivere.

La voglia è un testo (con adattamenti dell’autore) tratto dal libro Ski spirit. Sciare oltre le piste di Giorgio Daidola, edito da Alpine Studio, che ringraziamo per averne concesso la pubblicazione CORO SOCIALE 147

EMOZIONI IN VALLE IMAGNA

Un festival di canto popolare è stata l’occasione per una trasferta in terra bergamasca che ha ribadito i valori di solidarietà e condivisione che ci appartengono

In oltre settant’anni di vita, il nostro “essere coro” all’interno della Società Alpina Friulana ha avuto modo di spe- rimentare l’incontro e lo scambio tra le diverse coralità di montagna. Il nostro stare insieme, il nostro cantare insieme si connota e si esprime attraverso i valori propri di chi ama e rispetta l’ambiente e la montagna, promuove la solidarietà e le esperienze di condivisione. Quest’anno abbiamo accettato con entusiasmo l’invito a partecipare in giugno alla seconda edizione di Imagna Can- ta. Festival della coralità popolare assieme ad altri 13 cori. Oltre alle esibizioni, abbiamo visitato luoghi pieni del fascino, come la Rotonda di San Tomè nel Par- co del Romanico degli Almenno e il Santuario della Madonna Addolorata della Cornabusa. I fianchi verdeggianti della Val Imagna, cui fa da sfondo il Resegone di manzoniana memoria, mostrano tutta la loro serena morbidezza. La nostra montagna si presenta più aspra, le valli chiuse parlano di mistero; invece qui tutto appare di un verde radioso. Restano indelebili nei nostri occhi le visioni d’ incanto dei piccoli borghi disseminati lungo i fianchi della vallata che, illuminati nella sera di prima estate, la trasformano in un estemporaneo presepe. Condividiamo con i nostri ospiti l’esperienza della vita di montagna e la neces- sità di curarla: i friulani, come i bergamaschi, conoscono il dolore di dover lascia- re la propria terra per cercare nell’emigrazione la possibilità di una vita dignitosa. La festa, la condivisione del canto con tanti amici si è conclusa con una tavola- ta di 400 persone. Amici della Val Imagna, grazie ancora.

Nella foto, l’emozionante esibizione del coro della Saf durante il 111° Convegno Sociale della Società Alpina Friulana, svoltosi a Sella Nevea il 10 novembre 2019 (Foto Valerio Luis) 148 Emozioni in Valle Imagna CRONACA SOCIALE COMMISSIONE CULTURALE 149

UN ANNO VISSUTO INTENSAMENTE

La ricchissima programmazione del 2019 ha affollato la sede con incontri che hanno parlato di cultura, ecologia, cammini, rifugi, toponomastica. Rassegna dei film sempre al top, e per chiudere il Convegno sociale

È stata una magnifica stagione quella vissuta nel 2019 dalla Commissione Cultu- rale della Società Alpina Friulana. Abbiamo cominciato con il cinema di Reinhold Messner: il suo film Still Alive su una drammatica scalata al monte Kenia ha te- nuto col fiato sospeso la platea del teatro Menossi di Udine. Come sempre, la selezione di Mirco Venir dal Trento Film Festival e dalla Cineteca del Cai è stata all’altezza delle aspettative. La 35a edizione del nostro Festival del film e dei pro- tagonisti della montagna ha alternato serate di cinema agli incontri, per la prima volta anche nella nostra sede sociale. Abbiamo debuttato, per gli incontri, con una autentica primadonna del mondo alpino: Anna Torretta, guida di Courmayeur e fuoriclasse mondiale di arrampicata su ghiaccio. Anna è riuscita a imporsi in un mondo per lo più maschile, e continua a battersi per l’affermazione delle donne in ogni campo e latitudine. Questo ha raccontato alla platea di Udine, attentissima, presentando il suo libro La montagna che non c’è (Piemme). Una serata speciale e molto partecipata è stata quella intitolata “Vita da rifu- gisti”, ospiti i gestori che accolgono sulle terre alte in luoghi che sanno rendere ospitali pur in condizioni spesso estreme e disagiate. Di Brazzà, Pellarini, Giaf, Fratelli De Gasperi, Flaiban Pacherini: questi i rifugi presenti con i loro rappre- sentanti all’incontro. Nulla li ferma, nemmeno la tempesta Vaia li scoraggia: i rifu- gisti si sentono (e sono) dei privilegiati, per il fatto stesso di poter vivere in luoghi magnifici, al cospetto di montagne mitiche e favolose. Questo è ciò che hanno trasmesso al pubblico, che li ha applauditi per la passione e l’impegno. Per la Saf è stata un’occasione per dare voce e visibilità a una comunità che svolge un ruolo decisivo per la frequentazione dei monti. Quale futuro per la montagna: su questo tema hanno dibattuto Enrico Caman- ni e Linda Cottino, ospiti di una serata all’auditorium Menossi che si è aperta con un video shock montato dal nostro Marco Cabbai: un lavoro originale, creato per l’occasione, che ha messo a confronto due modi di intendere la vita sulle cime:

Anna Torretta durante il suo incontro a Udine, ospite della Saf (foto Ermes Furlani) 150 Un anno vissuto intensamente CRONACA SOCIALE

quella dei grandi eventi, della montagna luna park e quella della natura come piace a noi dell’Alpina, ovvero al naturale, senza né impianti artificiali né confusione, usando gambe e cervello per conoscere e apprezzare i paesaggi e chi ci vive e lavo- ra. Come Alessia Berra, allevatrice di capre nell’Alta Valle del Torre, che ha portato la sua testimonianza. Ambientalismo e impegno sociale con Eugenio Fogli, ispirate peregrinazioni con Cristina Noacco, il Sentiero Italia in anteprima e in solitaria narrato da Lo- renzo Franco Santin hanno completato gli incontri, mentre i film hanno spaziato dalla rivoluzione dell’arrampicata negli anni Settanta alla coppia Nives Meroi-Ro- mano Benet con il film 14+1 di Vida Valencic, che ha fatto il pienone l’8 marzo, Giornata della donna, a conclusione della rassegna. Se i protagonisti e il cinema di montagna hanno costellato di pubblico la sto- rica rassegna di febbraio della Saf, non meno partecipate sono state le Lezioni di cultura alpina, dedicate quest’anno alla toponomastica. Inizio col botto assieme ad Angelo Floramo, che nella sala eventi di via Brigata Re ha lasciato la gente in piedi nei (per fortuna ampi) corridoi dell’ex caserma Osoppo dove si è svolto il corso. La sua relazione, “Cosa si nasconde sotto il nome?” è stato un viaggio di parole magnifico, poi sviluppato da Barbara Cinausero Hofer ed Ermanno Den-

Il Convegno sociale della Saf ha avuto luogo nel 2019 a Sella Nevea. Qui un momento dei lavori nel centro polifunzionale, dove è stata anche allestita la mostra Montagne del Friuli con le preziose immagini dell’archivio dell’Alpina Friulana CRONACA SOCIALE Un anno vissuto intensamente 151 tesano (graditi ospiti su questo In Alto con un loro articolo) con una lezione con- clusiva di don Natalino Zuanella sui toponimi sloveni nelle Valli del Natisone. Abbiamo anche ospitato la presentazione in anteprima nazionale della nuova Guida alle Alpi Giulie e Carniche Orientali del nostro socio Saverio D’Eredità (trovate la recensione a pag. 172) che in giugno ha affollato la sala eventi della sede con una presentazione, assieme al coautore Emiliano Zorzi, non solo pun- tuale e documentata, ma anche divertente. È noto che l’attività culturale lasci spazio alla frequentazione della natura nei mesi più benevoli dal punto di vista climatico, e infatti così è stato anche nel 2019. Ci siamo rivisti infatti in autunno con una giornata di grande importanza per l’Alpina: il Convegno Sociale, che è stato riproposto a Sella Nevea in abbinata con la Siarade dell’attività. Bella giornata, il 10 novembre, una finestra di tempo magnifico fra giorni di pioggia e la prima neve, caduta il giorno prima. Non pote- va esserci giorno migliore, così, per salire a Sella Nevea, e incontrarsi nel nostro rifugio Divisione Julia per il pranzo sociale, non prima di aver camminato sugli altipiani del Montasio fra magnifici panorami e in preparazione di un pomeriggio culturale di spessore, che si è svolto nel centro polifunzionale con la collaborazio- ne di Livio Sadoch, maestro di sci e neo gestore della struttura, che ringraziamo. In una sala allestita con la mostra “Montagne del Friuli” con le stupende im- magini tratte dagli archivi dell’Alpina, il convegno si è aperto con il saluto del presidente Antonio Nonino, che ha rimarcato il traguardo degli oltre 2600 soci. Umberto Sello ha relazionato sulla storia del patrimonio archivistico della Saf, dalle foto ai documenti, dagli studi alle cronache, con aneddoti e ritratti dedicati alle figure importanti della nostra storia, dai Marinelli a Desio, da Ferrucci a Spez- zotti. Poi Giovanni Duratti ha illustrato la sua ricerca su Antonio Feruglio, una figura da riscoprire della storia dell’Alpina Friulana (come ampiamente raccontia- mo a pag. 56). Una giornata così non poteva che concludersi con il coro sociale. E mentre chiudiamo il presente numero di In Alto, si vanno precisando i con- torni della prossima stagione culturale, che si aprirà con Marco Milanese e prose- guirà con Silvia Stefanelli, Paola Favero, Renato Colucci, Laura Palmisano, Marco Virgilio, Alex Cittadella, Luciano Gaudenzio, Giovanni Duratti, Emanuele Con- fortin, Valeria Murianni, Giorgio Comuzzi, la compagnia teatrale Slegati, i film del Trento Festival e della Cineteca del Cai, la collaborazione con il Dlf e con il Css Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, le lezioni di cultura alpina. Grandi protagonisti, storia, natura, cultura, emozioni, bellezza. All’Alpina non ci facciamo mancare niente. Alessandra Beltrame 152 SOTTOSEZIONI

COSA RICORDEREMO DEL 2019

Quest’anno la cronaca si è concentrata su una giornata speciale, un evento, una gita che hanno lasciato il segno

ARTEGNA I soci, un valore aggiunto che promette bene per il 75° Il 2019 è iniziato in salita: negli ultimi anni ci sono stati vari rinnovi all’interno del direttivo e non sempre è facile trovare candidati che si dedichino alle associazioni. Trovandoci con un numero ridotto di membri del direttivo, durante l’assemblea di febbraio abbiamo parlato apertamente ai soci, spiegando che le forze in essere non ci avrebbero permesso di continuare a mantenere un programma escursioni- stico ricco come avremmo voluto, anche con gite che prevedessero due itinerari per consentire a tutti di partecipare, e che forse pure i momenti culturali sarebbe- ro stati, a nostro malincuore, ridotti. In modo particolare era a rischio “Immagini nel bosco”, una serata dedicata alla memoria di due soci scomparsi a cui teniamo molto, che richiede molto impegno perché si tiene all’aperto e ha carattere itine- rante. Lo scopo è valorizzare angoli di Artegna a noi cari, non sempre conosciuti nemmeno da chi vive nel nostro piccolo paese. Si tratta di aree solitamente non predisposte per accogliere eventi, per cui il lavoro preparatorio è sempre notevo- le. I soci, non solo quelli storici, si sono subito resi disponibili a venire incontro alle richieste del direttivo. Hanno partecipato alla pianificazione della nostra serata di mezz’estate con suggerimenti e dando la disponibilità per collaborare, prendendosi carico delle varie incombenze, ci hanno affiancato nell’allestimento della sede nelle ore precedenti la proiezione. La serata è stata un vero e proprio successo, per il qua- le dobbiamo dire grazie anche a loro. L’attaccamento dei soci alla sottosezione si è notato anche nella significativa partecipazione alle gite, che quest’anno hanno visto quasi sempre una buona presenza di escursionisti, sia per quanto riguarda le uscite dedicate ai più esperti, sia per le giornate di stampo più turistico. Non possiamo quindi che essere contenti della risposta che è arrivata forte e chiara dagli iscritti al Cai Artegna: molti di loro hanno colto immediatamente il no- stro appello, facendo capire quanto siano legati a una storica realtà locale che nel 2020 festeggerà i 75 anni di vita, una storia che ha dunque radici profonde sia nella comunità sia nei singoli soci che ci sostengono con disponibilità e competenza. Come direttivo ringraziamo tutti i soci attivi, partecipi non solo sui sentieri ma anche quando c’è bisogno di loro per un consiglio, per allestire una serata, per CRONACA SOCIALE Cosa ricorderemo del 2019 153

preparare un pranzo in occasione di un gemellaggio; un grazie ai soci che credo- no nel valore del sodalizio e che ce lo dimostrano concretamente quando serve il loro contributo. Sono proprio queste risposte e i sorrisi che ci regalate a rendere la nostra attività un piacere e un privilegio. Siamo pronti a spegnere queste 75 candeline, e a farlo con tante proposte e con nuove idee. Giulia Foschiani

PALMANOVA Monte Popera, Sentiero degli Alpini: che giro fantastico! Come tradizione, la sottosezione ha organizzato una gita di due giorni che ha richiesto un certo impegno fisico, ripagato però dall’assoluta bellezza dei luoghi. Siamo andati sul monte Popera, che nel gruppo delle Dolomiti di Sesto è una cima di poco oltre tremila metri senza particolari difficoltà tecniche, che offre

Artegna Sopra, una foto storica: gita di fondazione della sottosezione sul monte Quarnan nel 1945. Sotto, foto ricordo dopo l’escursione in Amariana con il Cai Pieve di Soligo e la Sat di Mezzocorona 154 Cosa ricorderemo del 2019 CRONACA SOCIALE

vedute spettacolari. Il nostro itinerario prevedeva il pernottamento al rifugio Car- ducci, la salita in vetta e il rientro per la famosa Strada degli Alpini. Dall’affollato parcheggio della val Fiscalina (siamo in agosto!) una larga strada che si adden- tra verso la parte alta della vallata ci porta in breve al rifugio Fondo Valle. Da qui parte il sentiero, bello, curato e frequentatissimo, per il rifugio Comici; si incrociano persone che provengono da ogni parte d’Italia e dall’estero: si capisce che le Dolomiti sono ambizione di molti. Sarebbe stato più logico pernottare al rifugio Comici, ma i posti a disposizione si erano esauriti prima che iniziasse la stagione(!). Dunque la prosecuzione al rifugio Carducci, oltrepassando la forcella Giralba, è stata obbligatoria. Comincia a piovere, ma è solo una pioggia leggera e così quando giungiamo alla forcella riusciamo a scorgere il rifugio prima che sia inghiottito dalle nubi. Ora l’unico pensiero è arrivare al riparo dalla pioggia. Giungiamo infine al rifugio

Palmanova In cima al monte Popera e uno scorcio spettacolare della suggestiva Strada degli Alpini CRONACA SOCIALE Cosa ricorderemo del 2019 155

Carducci. Ci accolgono con una tazza di tè e una bella fetta di strudel, mentre fuori appare un raggio di sole: le montagne fanno capolino tra le nubi, pittoreschi giochi di luce ci rincuorano, ma poi il tempo peggiora e il panorama si copre. Ma anche noi siamo al coperto, dunque non rimane che andare a cena (ottima!) e a dormire. L’indomani il tempo è buono: saliamo di nuovo a forcella Giralba e proseguia- mo fino al bivio che consente di imboccare la “busa di dentro”, un ampio cana- lone attorniato da pareti verticali. La pendenza, inizialmente dolce, ben presto aumenta in maniera considerevole fino ai primi passaggi su roccette con difficoltà di primo grado, mentre le alte pareti circostanti si fanno via via più opprimenti. Il fondo è molto instabile, bisogna fare attenzione a dove mettere i piedi e a seguire la direzione giusta, ci guidano solo gli “ometti”, i sassi sovrapposti lasciati da chi ci ha preceduto per indicare la strada. Quando infine abbiamo raggiunto la cresta, la vista sulla Croda Rossa di Sesto ci ha mozzato il fiato, così come il panorama sull’altro versante. Intanto, tutt’in- torno, le nuvole iniziavano a formarsi, coprendo anche le Tre Cime di Lavaredo, intraviste in lontananza. In cima, scattiamo le foto di rito, al rientro, più agevole, non può però calare l’attenzione per via di numerosi passaggi delicati. Raggiunto il ghiaione inferiore, la discesa si fa più spedita. Al bivio ci aspetta la Strada degli Alpini. Questo percorso, in gran parte artificiale, chiamato anche la Cengia della Salvezza, fu realizzato dagli alpini durante la Grande Guerra sul lato ovest della cresta Zsigmondy e di cima Undici come collegamento tra la forcella Giralba e il passo della Sentinella Lo scopo era, attraverso questo percorso, di penetrare nel territorio austriaco come via alternativa al Comelico. Il primo tratto è impressionante: una lunga cengia orizzontale taglia la ver- ticale parete. Siamo incantati. Uno sguardo alla Croda dei Toni e raggiungiamo Forcella Undici, poi il tempo si guasta nuovamente e prendiamo una lavata. Una lunga discesa ci massacra gambe e ginocchia, i tratti di ferrata sono ripidi, nella parte alta incontriamo ghiaie, una fitta mugheta nella parte bassa. Sono 1800 me- tri di dislivello in discesa, ma che giro fantastico! Mattia Pacorig

PASIAN DI PRATO La caduta di un ponte Era una calda giornata verso la fine di luglio e la nostra escursione programmata e concordata la settimana precedente prevedeva di percorrere un giro ad anello con meta la cima del monte Canin. Al solito punto di ritrovo ci ritroviamo in tredici partecipanti, destinazione Sella Nevea. Zaino in spalla completo di tutto l’occorrente, compresi casco e imbragatura, ci avviamo verso la cabinovia che ci porta velocemente al rifugio Gilberti. Da qui imbocchiamo il sentiero Cai 632 che 156 Cosa ricorderemo del 2019 CRONACA SOCIALE

sale verso sella Bila Pec, dove incontriamo un nutrito gruppo di escursionisti pro- venienti dalle province di Bergamo e Brescia, amanti della flora montana e venuti appositamente per visitare e fotografare il sentiero naturalistico del Bila Pec. Proseguiamo sul nostro percorso tra cumuli di neve e detriti trascinati giù dalle slavine, che nonostante l’estate avanzata ancora interessano il cammino verso il bi- vacco Marussich. Qui una breve sosta ci consente un po’ di ristoro e di indossare l’imbragatura; salutiamo tre del gruppo che andranno sul Picco Di Grubia e noi in dieci imbocchiamo il sentiero che porta all’attacco della ferrata Grasselli. È una ferrata impegnativa, che comporta un gran lavoro di braccia e gambe e che lascia il segno su alcuni partecipanti, soprattutto su uno in particolare, che è da poco iscritto alla nostra sottosezione. Giunti in cima al Picco di Carnizza e valutate le sue condizioni fisiche, concordiamo con lui che non è opportuno che prosegua oltre. Farlo tornare indietro da solo è da escludere e non è umano, pertanto si

Pasian di Prato Sopra, il gruppo sul Picco di Carnizza. Sotto, si inizia a salire verso la Ferrata Grasselli CRONACA SOCIALE Cosa ricorderemo del 2019 157 cerca qualcuno disposto ad accompagnarlo ma, visto lo sforzo fatto fino lì, non facciamo molta fatica a trovarne addirittura due. Così continuiamo in sette imperterriti verso l’agognata cima del Monte Canin, che raggiungiamo tra roccette con passaggi di primo e secondo grado: conside- rando lo sforzo e l’età, i tempi sono relativi ma la soddisfazione è tanta, anche perché era una meta desiderata da molto tempo anche dal sottoscritto. Dopo una sosta ristoratrice e le rituali foto di gruppo, riprendiamo il cam- mino in discesa percorrendo la ferrata Julia, non male neanche questa, fino ad attraversare il ghiacciaio-nevaio che ci riporta al sentiero dell’andata, chiudendo così il giro ad anello al rifugio Gilberti e quindi a Sella Nevea, dove ricompattia- mo il gruppo iniziale. Naturalmente non potevamo che festeggiare una giornata così con un brindisi e un lauto banchetto: l’abbuffata ha fatto sì che i chili persi nell’escursione siano stati recuperati velocemente. Ma in questi casi può anche succedere qualche inconveniente, vuoi per la stanchezza o per il rilassamento mu- scolare, come capitato a uno dei partecipanti che, al termine della sosta ristoratri- ce, ci comunica “la caduta di un ponte”. Lo stupore è generale, perché durante l’escursione non abbiamo né attraversato né visto ponti, quindi tutti all’unisono ci siamo rivolti verso quel compagno d’av- ventura autore del grido d’allarme e abbiamo capito, vedendolo con la bocca spa- lancata, che il ponte caduto si trovava proprio nella sua bocca, e ora non c’era più! La sua disperazione aumenta durante la vana ricerca nelle varie tasche e nello zaino, poi naturalmente sul terreno dove sostavamo per il banchetto: così in un istante ci siamo ritrovati tutti a scandagliare il terreno circostante per una quindicina di minuti invano. Fino a quando un grido ha posto fine alle ricerche: colui che aveva perso il ponte ci avvertiva con aria innocente che lo aveva ritrovato sotto una tasca del giac- chino, dove si era infilato attraverso una piccola scucitura. Così, dopo una sequela di “vaffa” e di prese in giro, accompagnate da grandi risate, si è conclusa un’altra stupenda avventura tra le nostre magnifiche montagne. Giampaolo Passantino

SAN DANIELE DEL FRIULI Festa per i nostri primi settant’anni nei luoghi cari a Mario Micoli Il 7 luglio 1949 veniva fondata la sottosezione Saf Cai di San Daniele del Friuli su iniziativa di Giordano Vidoni assieme a un gruppo di 30 concittadini, fra cui il forte alpinista Mario Micoli, che gli succederà alla guida del sodalizio nel 1956. Micoli è stato uno degli alpinisti più rappresentativi della Saf nella seconda metà del Novecento e, con i suoi storici compagni di cordata (Oscar Soravito, Giuseppe Blanchini, Piero Villaggio, Giuseppe Perotti), ha aperto numerose vie di roccia. Nato a San Daniele, qui ha mosso i suoi primi passi alpinistici, rima- 158 Cosa ricorderemo del 2019 CRONACA SOCIALE

nendo alla presidenza della sottosezione fino al 1978. Il ricordo che ha lasciato in noi è sempre vivo nella memoria, grazie anche alla pubblicazione che gli abbiamo dedicato con la sua biografia attraverso i diari e il curriculum delle salite. Il 7 luglio 2019 ci siamo ritrovati al rifugio Pordenone per festeggiare il nostro 70° anniversario. I soci escursionisti lungo la val Montanaia hanno raggiunto il bivacco Perugini, mentre due cordate sono salite sul Campanile e sul diedro ovest dell’anticima Meluzzo, lungo la via aperta da Micoli e Soravito il 12 ottobre 1967. La scelta delle Dolomiti Friulane non è stata casuale, perché furono tra le cime predilette da Micoli, che qui è stato protagonista di molte delle sue impre- se alpinistiche: ricordiamo la Croda Cimoliana, prima salita per la parete est; la Cima Eva, prima salita assoluta; il Cadin di Vedorcia, via nuova all’anticima sud; il

San Daniele Sopra, una foto dall’archivio della sottosezione; sotto la festa per il 70° e un ritratto di Mario Micoli CRONACA SOCIALE Cosa ricorderemo del 2019 159

Monfalcon di Forni, prima salita da nord-est; la Torre Gilberti, prima salita dello spigolo sud-est; la Torre Valentino, prima salita per la parete nord; la Cima Stalla, nuova via per la parete sud (via dell’Antro); la Croda Ultima del Leone, prima sa- lita dello spigolo nord-nord-est; la già citata via del gran diedro di Cima Meluzzo, diventata celebre per la sua bellezza. Rientrati al rifugio, siamo stati accolti dai canti del coro della Saf e dai racconti sulle varie vicende alpinistiche avvenute in zona narrate da Giovanni Duratti, che ha condiviso con Micoli alcune imprese, fra cui la spedizione della Saf nel 1972 sul gruppo dell’Ala Dag in Turchia. Fra le attività, la festa del patrono di San Daniele (25 agosto) ci ha visti impegnati in una manifestazione di arrampicata con la collaborazione della guida alpina tarvi- siana Ennio Rizzotti. Nel parco del castello abbiamo allestito una struttura di arram- picata e una zipline per il divertimento dei più piccoli. In autunno si è tenuta la 13° edizione della collaudata e apprezzata rassegna di Montagna Cinema: in programma in ottobre la proiezione di due film recenti con le imprese pazzesche in Yosemite di Alex Honnold (Free solo) e Tommy Caldwell (The Dawn Wall); a novembre l’incon- tro con Enrico Camanni e il suo libro Verso un Nuovo Mattino, e con Matteo Della Bordella, che ci ha raccontato delle sue imprese e del suo esordio narrativo, La via meno battuta, appena edito da Rizzoli. Valerio Luis

TARCENTO Il nostro trekking in Cilento fra ulivi e torri saracene Da tempo la nostra sottosezione programma ogni anno un trekking che non si svolge propriamente in ambiente di montagna. Quest’anno, grazie agli amici Li- dia e Dino, iscritti al Cai di Caserta ma ormai tarcentini adottivi nonché dotati di riconosciute doti organizzative, abbiamo camminato su sentieri tra terra e mare, cogliendo le tracce di antiche civiltà visitando magnifiche rovine, immersi nei pro- fumo del rosmarino, della lavanda e della macchia mediterranea. Abbiamo attra- versato paesini abbarbicati sulle alture, altipiani che poi finivano a picco sul mare, minuscole calli di borghi incantevoli conquistati a suon di passi dopo ore di cam- mino oppure raggiunti in barca. Il trekking ha avuto luogo dal 25 maggio al primo giugno e, nonostante il clima non sempre favorevole, siamo riusciti con qualche modifica a rispettare il programma delle escursioni previste. La base del gruppo era a Marina di Camerota, località strategica per le nostre gite, immersa tra una ve- getazione rigogliosa e il mare azzurro: qui fino a pochi anni fa si praticava la pesca del tonno. Di queste tradizionale attività resta traccia nelle botteghe di prodotti tipici. Come è pure vivo il ricordo delle trecce di erba sparta, raccolta dalle donne del posto per confezionare cesti. Abbiamo percorso il Sentiero delle quattro spiag- ge e delle falesie del Mingardo, con le torri saracene che vegliano ancora sul mare 160 Cosa ricorderemo del 2019 CRONACA SOCIALE

aperto, la bassa vegetazione endemica e le coltivazioni di olivi secolari. Abbiamo visitato i Parchi archeologici di Velia e Paestum, che ci hanno lasciati senza fiato per la bellezza di quel che conservano (e grazie alla guida del posto che ce li ha fatti conoscere con passione!). Sul sentiero da Marina di Camerota a Porto Infreschi abbiamo attraversato cale e baie naturali, incontrato grotte e torri, in un saliscendi a picco sul mare che ci ha fatto incontrare autentiche perle, come le spiagge di Pozzallo, Cala Bianca e Porto Infreschi. La salita al Monte Bulgheria (1225 metri), autentico scrigno di biodiversità e roccaforte meridionale del Parco che consente agli Appennini di toccare il mare, ci ha fatto ammirare gli straordinari panorami della costa cilentana e del golfo di Policastro. Il suo nome viene dai coloni bulgari che qui arrivarono prima del 500 dopo Cristo. Infine, l’escursione attraverso la costa della Masseta fino alla spiaggia del Marcellino, da dove dapprima si ammira dall’alto la costa della Basilicata e poi si scende fino al mare immersi nella macchia

Tarcento Due immagini del trekking in Cilento (foto di Nila Castenetto e Costantino Martignon) CRONACA SOCIALE Cosa ricorderemo del 2019 161 mediterranea fra cespugli aromatici, ginestre, lentischi, rosmarino selvatico, lecci e ulivi secolari. E da qui, con una piccola imbarcazione, siamo rientrati via mare. An- che questo trekking è stato molto partecipato anche da parte di soci di altre sezio- ni, fra cui Udine, con la gradita presenza del nostro presidente Antonio Nonino. Un’annotazione sul programma di escursioni del 2019: ogni anno le uscite proposte ottengono sempre più successo, specialmente quelle di più giorni, come quella alla cima del Monte Agner o sul massiccio del Molignon. Per molte di queste uscite siamo riusciti a organizzare due gruppi e due itinerari, in modo da soddisfare i desideri di tutti, riuscendo alla fine a riunire la comitiva in rifugio davanti a un bel piatto di canederli. Costantino Martignon

TRICESIMO Omaggio ai volontari del Sentiero Italia Quest’anno voglio raccontare della nostra presenza alla prima tappa carnica del Sentiero Italia, con partenza da Sappada e precisamente dalle Sorgenti del Piave, zona da poco entrata a far parte della nostra regione. Giornata fresca, gruppo abbastanza numeroso, ci dirigiamo al rifugio Calvi, dove un tè caldo ci prepara alla traversata che ci condurrà fino al rifugio Lambertenghi Romanin, al passo del monte Volaia. Alcuni compagni di cammino sono gli autori che hanno segnato e tabellato il sentiero, apponendo anche le nuove targhette con il logo del Sentiero Italia. Voglio soffermarmi su di loro, su questi soci Cai che hanno dedicato con tanta passione il loro tempo libero per mettere in sicurezza l’escursionista che transita su queste montagne della Carnia. Con tanto orgoglio, mentre camminava- mo, mi hanno raccontato delle loro avventure e delle fatiche per portare l’attrez- zatura e il materiale in loco. “Abbiamo portato a spalla un palo fin quassù, siamo saliti tre giorni dopo con l’attrezzatura e con le tabelle per posizionarlo ma non lo abbiamo più trovato. Abbiamo incontrato un pastore e gli abbiamo chiesto se ne sapesse qualcosa. Ieri ho visto due giovani che lo stavano portando a valle, ci ha risposto. Increduli, abbiamo dovuto arrangiarci recuperandone un altro”. No- nostante lo spiacevole fatto, i loro volti si illuminavano soddisfatti per quello che erano riusciti a fare. Mi spiegavano e mi facevano vedere come i pali di sostegno alle tabelle direzionali erano stati conficcati nel terreno e incastrati tra le radici degli alberi perché rimanessero stabili anche quando la neve d’inverno li avrebbe coperti totalmente. Camminavano, questi miei compagni di sentiero, con passo sicuro e senza fermarsi ma ogni tanto, con un colpo ben assestato del piede, spo- stavano i sassi che ritenevano pericolosi o di intralcio sul cammino, rendendolo così più sicuro; anche i segni biancorossi Cai, rifatti a nuovo, né troppo grandi né troppo piccoli, ma di una misura visibile da lontano, hanno reso il percorso tran- 162 Cosa ricorderemo del 2019 CRONACA SOCIALE

quillo e agevole. Sembrava che quel sentiero fosse davvero nuovo, non che stesse lì da molti anni. Amano la montagna questi soci, amano la loro terra, la sentono un patrimonio da salvaguardare, proteggere. Forse a loro la cima non è mai interessa- ta, perché la montagna per loro è prima di tutto vita, sostentamento, paesaggio, da tenere stretta e salvaguardare, senza trasformarla con scempi turistici. Attorno a noi svettava qualche cima e ho domandato curioso quali passaggi ci fossero fra di loro. Mi hanno spiegano la via che avrei potuto fare senza incorrere in pericoli: la loro sapienza e conoscenza di quei luoghi mi ha colpito. Se il Sentiero Italia è un grande abbraccio di quasi settemila chilometri che attraversa tutta l’Italia, un caloroso grazie va detto non solo a chi l’ha ideato ma anche a tutte le persone che, con il loro costante e silenzioso lavoro, ci permettono di camminare sicuri sulla miriade di sentieri che lo compongono. Emi Puschiasis

Tricesimo Al lavoro sul Sentiero Italia; il gruppo al rifugio Calvi Dall’alto e da sinistra: Tricesimo, malga Fleons di sotto; Artegna, sapienti soci alle prese con i marroni a Casera Glazzat Alta; Pasian di Prato, 24 luglio 2019, sulla cima del monte Canin; Tarcento, maggio 2019, panorama del Cilento; Palmanova, canalone verso la cima del monte Popera; San Daniele: giornata di arrampicata per i più piccoli

MONTAGNA NARRATA 166 EDITORIA DI MONTAGNA

COME È CAMBIATO IL RACCONTO DELLE TERRE ALTE

Non più récit d’ascension, oppure non solo. Dall’effetto Corona al fenomeno Cognetti, dalla narrativa per ragazzi ai lunghi cammini, oggi il racconto di chi frequenta le vette ha allargato (di molto) gli orizzonti

Linda Cottino

Della salubrità e dei benefici influssi dell’aria di montagna sembra essersi accorta infine anche l’editoria italiana. Il segno più eclatante è venuto dalla vittoria di Paolo Cognetti al Premio Strega del 2017 con il romanzo Le otto montagne. Un segnale che trova conferme anche meno altisonanti, come la segnalazione de La manutenzione dei sensi di Franco Faggiani tra i libri consigliati per l’estate 2019 da Tuttolibri de La Stampa. Einaudi e Fazi i rispettivi editori, cosiddetti genera- listi; così come quello che, per ben tre edizioni consecutive, si è aggiudicato lo storico Premio Itas del Libro di Montagna. Che la montagna sia diventata un “trend topic” nella narrativa, ovvero un ar- gomento di moda e di successo, è un risultato strabiliante che certo non s’improv- visa, ma è il frutto di un processo iniziato e maturato negli anni. Tralasciando qui la “questione delle questioni”, ovvero il ruolo del web, non credo di esser troppo fuori traccia individuando nella crisi economica del 2008 l’innesco di un interesse, da parte delle grandi case editrici, verso temi tradizionalmente cari agli appas- sionati del genere. Così l’imperativo “Bisogna allargare a tutti i costi la platea di lettori”, si è tradotto in una narrazione della montagna vista (e vissuta) da punti di vista diversi e sfaccettati, il che ha arricchito enormemente l’offerta editoriale, ma soprattutto ha reso letterario in senso lato lo scenario delle terre alte. Così, se da un lato la crisi falciava i più piccoli che non riuscivano a stare al passo, dall’altro ampliava il campo per i grandi e per chi avesse azzeccato le giuste strategie. Oggi, entrando in una libreria cosiddetta specializzata, accanto alla nicchia del récit d’ascension, della storia dell’alpinismo e delle autobiografie di alpinisti, la varietà è tale da far girare la testa. Accanto alle guide (esse stesse sempre più nar- rative) e al filone alpinistico classico, si spazia dal cammino alla corsa; dall’archi- tettura alla montagna abbandonata o che rinasce; dalla natura indagata attraverso la vita degli alberi e degli animali all’avventura esplorativa in forma di reportage MONTAGNA NARRATA Come è cambiato il racconto delle terre alte 167 su montagne poco conosciute; dalla ricerca scientifica sui cambiamenti climatici che investono i terreni d’alta quota alla neve e lo sci in tutte le sue accezioni. E poi, via discorrendo, fino ai manuali, alla letteratura a tema per l’infanzia e, natu- ralmente, al romanzo, con storie ambientate in paesi e vallate alpine, animate da personaggi più o meno legati al mondo antico, o invece imperniate sulle esperien- ze dei “nuovi montanari”, cittadini che hanno scelto di vivere in alto e che si sono rivelati portatori di una contaminazione, di una novità. Riflettendo sulle cause del fenomeno, azzardo anche un’altra un’ipotesi, che potremmo chiamare effetto-Corona. Di fatto, è stato lo scrittore-scultore-alpini- sta di Erto a portare la sua montagna cruda e spietata, ma terribilmente vera e tal- volta poetica, nelle librerie domestiche degli italiani. I suoi animali, i suoi boschi, la neve, la roccia, i caratteri umani, le traversie esistenziali, tutto concentrato e afferente a un universo preciso: quello montano. Anche se Mauro Corona deve i suoi esordi fortunati alla “nicchia” – fu pe- scato dalla talent-scout Mirella Tenderini per la torinese Vivalda, che pubblicò Il volo della martora nella collana dei Licheni, per spostarsi poi brevemente alla friulana Biblioteca dell’Immagine –, è stato il colosso Mondadori a lanciarlo su scala nazionale e a farne, complice la tv, il personaggio che conosciamo. Senza Corona, forse, il parterre italiano dei grandi editori non si sarebbe accorto delle potenzialità narrative della montagna; non era bastata la leggenda Messner, con i suoi penetranti resoconti di una vita vissuta nel superamento del limite, e neppure il fascinoso Bonatti, uomo di imprese di assoluto valore alpinistico e strabilianti reportage dalle terre estreme. Oggi, invece, persino le case editrici più improbabili, se considerate per il loro background specifico, possono decidere di giocarsi la carta-montagna. Come in un precipitato chimico, sono occorsi certi elementi che, combinati in una certa misura a un certo gradiente di temperatura, hanno prodotto quel che vediamo e leggiamo. Queste riflessioni sull’attualità dell’editoria di montagna – sempre che alla luce dei fatti abbia ancora senso questa definizione – mi sono consentite grazie a una particolare prospettiva, cioè la mia, che è quella del recensore, visto che dal gennaio 2013 curo per la rivista del Cai Montagne 360 la rubrica mensile che dà conto delle novità editoriali. L’occhio è senz’altro soggettivo, ma il punto di vista è privilegiato per la sistematicità dell’osservazione a cui dà adito. In questi anni, sui miei scaffali sono andati accumulandosi i volumi, a decine, a centinaia, molti dei quali hanno fortunatamente preso la strada della Biblioteca Nazionale del Cai e di alcune biblioteche di sezione. L’impressione che noi italiani si scriva più di quanto non si legga è ampiamente confermata. Tutti hanno qualcosa da dire, e ci tengono a scriverlo. L’esternazione 168 Come è cambiato il racconto delle terre alte MONTAGNA NARRATA

è un fenomeno sociale a cui, se non soccombiamo, stiamo facendo l’abitudine; permea di sé ogni atomo di vita quotidiana, e non potrebbe essere altrimenti per la montagna. Ma tra i tanti libri inutili, ve n’è in pari misura di intriganti e interessanti. Penso per esempio alla narrativa per ragazzi, che in Italia è priva di una vera tradizione su questi temi, al contrario di quanto avviene in Francia e nel mondo anglosasso- ne. Encomiabile in tal senso è l’iniziativa del Club Alpino che, in partnership con l’editore specializzato Salani, ha portato il suo contributo lanciando nuovi autori. Anche la saggistica si è ritagliata un proprio spazio presso gli editori maggiori; uno per tutti Laterza, che da qualche tempo pubblica libri di taglio divulgativo ma ri- goroso, che contribuiscono a far vivere la montagna e la natura indagandole nelle sue pieghe e dando loro voce con un linguaggio insieme semplice e accattivante. In questo gran sommovimento, si è scoperto, poi, che raccontare i cammini può non essere noioso come si è sempre pensato. Alcuni epigoni hanno fatto da battistrada; penso a Enrico Brizzi, a Luigi Nacci, nonché alle case editrici che vi si sono dedicate – su tutte Ediciclo ed Edizioni dei Cammini. A profumare di novità ci sono pure i libri sulla neve e sullo sci. Se, come per i cammini, ci si domanda che cosa abbiano mai da raccontare e in che modo riescano a farlo, ebbene, la piccola casa editrice eporediese Mulatero dimostra che si può: sta costruendo un catalogo niente male che ci apre le porte dello sci silenzioso e selvaggio nutrito d’avventura, che in giro per il mondo ha prodotto una letteratura pregevole. E senza trascurare i più piccoli. Mi fermo qui, anche se le buone idee messe in pratica sono assai più numerose. Quel che davvero stupisce, ed è inconfutabile, sono la ricchezza, la pregnanza e la densità dell’universo-montagna come luogo dell’esperienza umana. Chi avrebbe mai pensato che, scoperchiato il vaso di Pandora, insieme a tutti i mali del mondo ne sarebbero uscite tante meraviglie?

Linda Cottino Giornalismo, editoria e montagna sono i car- dini della sua attività professionale. Ha diretto la rivista ALP, partecipato a un progetto europeo di web tv sull’arco alpino. Oggi cura la rubrica dei libri per la rivista mensile del Cai Montagne 360. Per la casa editrice Edt coordina la collana di guide Marco Polo ed è editor dei fotografici Lonely Planet. È autrice di Qui Elja mi sentite? (Vivalda), su una spedizione di alpiniste russe, e l’appena pubblicato Nina devi tornare al Viso (Fusta editore, a destra la copertina), che ricostruisce la vita e l’avventura della prima donna che salì il Monviso. BIBLIOTECA SOCIALE 169

I PERIODICI DI MONTAGNA

Quest’anno ci concentriamo sulle riviste cartacee: una carrellata sui principali giornali italiani che hanno attraversato gli ultimi decenni e su quelli che ancora resistono alla concorrenza del web

Claudio Mitri

C’era una volta Alp (1985-2013), rivista di riferimento per tutti gli appassionati di alpinismo soprattutto negli anni ‘80 e ‘90, quando non esisteva internet e si atten- deva avidamente l’uscita del nuovo numero. Ancora più antica era la Rivista della Montagna (1970-2010), dal target più generalista: affrontava la montagna a 360 gradi. Entrambe hanno fatto la storia italiana degli ultimi trent’anni, hanno ospi- tato le penne più importanti e narrato il mondo alpino in tutte le sfaccettature. Entrambe hanno risentito della crisi editoriale del nuovo millennio e, dopo varie vicissitudini editoriali, sono state perentoriamente chiuse pochi anni or sono. Così la rivista di alpinismo più antica ancora in edicola (dal 1996) è diventata Pareti, del vulcanico direttore Andrea Gennari Daneri, che mantiene la sua cer- chia di affezionati dell’arrampicata raccontando di falesie e climbers in giro per l’Italia ma con piacevoli excursus in tutto il globo. Di diverso genere e molto apprezzata, è giunta al centesimo numero Meridiani Montagne, il bimestrale ideato da Marco Albino Ferrari fin dal 2002 che tratta con numeri monografici specifici le aree montuose prevalentemente italiane in ogni loro aspetto culturale, naturalistico e alpinistico. È stato un bell’esperimento durato troppo poco In movimento (2015-2018), mensile culturale con autorevoli firme del circo alpinistico, nato come supple- mento del quotidiano Il Manifesto e poi diventato magazine per appena 5 nume- ri. Anche l’edizione italiana della prestigiosa rivista francese Vertical (2006-2016) non ha potuto più sostenersi economicamente e ha chiuso i battenti dopo una decina d’anni. Simile nei contenuti a Vertical, dal 2009 si è ritagliata un suo spazio di nicchia Stile Alpino, trimestrale nato dall’esperienza dei Ragni di e oggi edito da Alpine Studio, che ospita contributi degli alpinisti sulle montagne del mondo: le grandi imprese contemporanee insieme a resoconti storici. Nel 2019 l’ultima nata, che prova a colmare il vuoto lasciato dalle recenti vitti- me illustri e a sfidare l’immediatezza (ma anche la vacuità e la leggerezza) del web, 170 I periodici di montagna MONTAGNA NARRATA

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7 8 9 MONTAGNA NARRATA I periodici di montagna 171 si chiama Up climbing, bimestrale della collaudata editrice Versante Sud: si oc- cupa di arrampicata a tutto tondo con contenuti molto tecnici e propone in ogni numero una parte monografica su una zona di interesse “verticale” e in aggiunta contributi autorevoli su idee, fatti e proposte. Non arrivano in biblioteca ma vanno menzionate, per tradizione storica e rile- vanza nelle edicole, la rivista specializzata sull’escursionismo e il turismo ambien- tale Trekking &Outdoor e il bimestrale di Mulatero editore sullo scialpinismo e in generale sul mondo outdoor Skialper; e aggiungiamo la giovanissima Spit (dal 2018), dedicata esclusivamente all’arrampicata sportiva. Un mondo a parte è rappresentato dai periodici editi dalle sezioni del Cai, che non risentono troppo dei tempi essendo sostenute dalle quote sociali: al massimo riducono la frequenza delle uscite, qualcuna è passata alla pubblicazione digitale, ma leggere il pdf non conquista simpatie così come la lettura sulla cara, vecchia carta. La gloriosa rivista del Club Alpino Italiano cerca di adeguarsi ai tempi, si è liberata della costola de Lo Scarpone, si chiama adesso Montagne 360 ed esce pure in edicola. Ogni sezione del Cai ha la sua pubblicazione, che sia il prestigioso annuario o almeno il bollettino con le attività svolte. Nel nostro territorio, per tradizione storica e ricchezza dei contenuti sia culturali che alpinistici, dobbiamo collocare al primo posto Le Alpi Venete, semestrale che rappresenta le sezioni venete e friu- lane, seguito dalla cugina Le Dolomiti Bellunesi, dall’impostazione simile. Segnalo altre pubblicazioni meritevoli delle sezioni friulane: la storica Alpi Giulie della Sag di Trieste, che negli ultimi anni alterna al classico notiziario un interessante numero monografico; Alpinismo Triestino della XXX Ottobre; Alpinismo Gori- ziano; Il Notiziario di Pordenone e, naturalmente, il nostro In Alto! Infine, da ricordare l’annuario dei nostri amici speleo del Csif Mondo sotter- raneo e – ultimo ma non meno importante – l’Annuario del Club Alpino Accade- mico, fonte inesauribile di memorie, riflessioni e récit d’ascension sulle montagne del mondo.

1 Alp, 1985: uno dei primi numeri (Vivalda editori) 2 Pareti (Pareti e montagne edizioni) 3 Meridiani Montagne (Editoriale Domus) 4 Stile Alpino (Alpine Studio editore) 5 UP (Versante Sud editore) 6 Montagne 360, la rivista mensile del Club alpino italiano 7 Le Alpi Venete, semestrale, pubblicato dalle sezioni trivenete del Cai 8 Le Dolomiti Bellunesi, semestrale, edito dalle sezioni bellunesi del Cai 9 Annuario Accademico, rivista del Club alpino accademico 172 NOVITÀ EDITORIALI

GIULIE E CARNICHE: LE NUOVE GUIDE

Zorzi e D’Eredità raddoppiano: i due volumi si arricchiscono di relazioni e contenuti, puntando alla massima compiutezza monografica

Su In Alto di tre anni fa avevamo già parlato della guida Alpi Carniche Alpi Giulie uscita nel 2016, che andava a descrivere una gran mole di itinerari di arrampicata della nostra regione con tracciati e foto attuali: finalmente un’o- pera moderna che cercava di descrivere in maniera alpinisticamente esauriente tutte le principali cime e pareti. Ma gli autori, il monfalconese Emiliano Zorzi e il nostro socio Saverio D’Eredità, hanno osato ancora di più e, non riposando sugli allori, hanno colto l’opportunità “a caldo” di una immediata doppia riedi- zione, sulla scorta dell’esperienza e dell’esito precedente. Ci sono correzioni e nuovi inserimenti, fra cui la nobile scelta di aggiungere, per miglior completezza e comprensione, anche la relazione delle vie normali e di approcci più escursionistici alle cime. In ogni caso, per tutte le montagne e le principali pareti, viene sviscerato lo stato dell’arte di quanto è stato salito e, se non relazionato direttamente, ne viene comunque fatta menzione e riferimento bibliografico. In tal modo gli autori sono riusciti ad avvicinarsi al modello “monografico” che decretò il successo forse irripetibile delle guide grigie dei Monti d’Italia: non fornire un mero (pur significativo: parliamo di 600 vie!) elenco di salite consiglia- te, ma dare all’alpinista curioso ed evoluto uno strumento per approfondire la conoscenza della storia e le peculiarità dell’area di interesse e per poter scegliere l’itinerario più congeniale. Questo intento è particolarmente riuscito nell’ultima guida, Alpi Giulie e Car- niche orientali, editata questa primavera e presentata il 4 giugno in prima assoluta nella sede SAF dai due autori davanti a una folta schiera di appassionati del mon- do alpinistico. Claudio Mitri IL LIBRO 173

L’AVVENTURA

Un modo di andare in montagna personalissimo è quello dell’autore. Qui la sua “postfazione filosofica” a una nuova guida di sentieri selvaggi

Giorgio Madinelli

Perché intraprendere un viaggio dove si sa quando si parte ma non se ne cono- sce la fine? Questa è avventura. L’avventura è un evento aperto all’imprevisto ed è altra cosa rispetto al tempo abituale sempre uguale e ordinato. L’avventura è ad-venit, ci viene incontro. È impossibile cercarla, volerla. E tanto meno disegnar- la, progettarla, prepararla: non sarebbe più avventura. E non è possibile neppure disporsi a viverla. Viene quando viene. Dal punto di vista della temporalità, il tema dell’avventura rappresenta ov- viamente la rottura momentanea della continuità, un sussulto del presente. L’e- sperienza avventurosa, estemporanea, improvvisa, destabilizzante dell’avventura si oppone alla temporalità piatta che teme le rotture. L’avventura è legata all’in- determinatezza, all’incertezza e la sua dimensione è un futuro incognito, dove il timone per un possibile approdo è in mano a chi la vive, che utilizzerà le proprie conoscenze, capacità e la propria personalità. Occasione, opportunità e rischio sono i tre concetti fondamentali che animano l’avventuroso. Concetti che sono legati tra loro e complementari. Bisogna che nell’avventuroso ci sia predisposizione per questi tre fattori, altrimenti nulla può accadere. Chi vive in modo ordinato, rassicurante e sempre uguale non sfrutterà le occasioni, chiuderà gli occhi davanti alle opportunità, non accetterà alcun tipo di rischio. Ma l’avventuroso non è il temerario che corre più rischi possibili, fine a sé stessi, bensì colui che confida nel possibile e sollecita il suo realizzarsi. L’avventura non vuol dire eroismo, peripezie, rocamboleschi inseguimenti o viaggi esotici: si tratta di un modo privilegiato di vivere la vita. Nell’avventura, possibile e impossibile sono la stessa cosa. Per comprendere questo, bisogna ave- re una particolare condizione interiore: quella dell’ek-stasis. La possibilità è la categoria fondamentale dell’esistenza e la condizione di insi- curezza, inquietudine e travaglio strettamente connessa a questa categoria è l’an- goscia: l’uomo sa di poter scegliere, di avere di fronte a sé la possibilità assoluta, ma proprio l’indeterminatezza di questa situazione lo strazia. Egli acquista la co- scienza che tutto è possibile, ma proprio quando tutto è possibile è come se nulla 174 L’avventura MONTAGNA NARRATA

fosse possibile, e la possibilità pertanto non è più positiva, ma è la possibilità del nulla. Invece bisogna essere propensi a credere nelle fiabe (proprio così!), dove ciò che comunemente è possibile non ha senso, e solo l’impossibile appare veramente possibile. In definitiva l’avventura è il permanente vivere nella fantasia, nella co- stante attesa del verificarsi dell’impossibile. E poiché l’impossibile per eccellenza è il passato, allora nell’avventura a venirci incontro è il già-trascorso. Il ritorno del passato – che in quanto trapassato, morto, non può tornare – diventa l’atteso arri- vo del nuovo in cui si può ritrovare se stessi. Il passato pertanto si identifica con il futuro e il futuro con il passato: e così non esistono più né l’uno né l’altro in quanto tali, ma esiste solo la durata estatica dell’avventura. Nell’avventura insomma il mo- vimento dell’ad-venire è un andare a ritroso, un regredire in un passato che però non è quello della memoria, ma del desiderio, delle aspirazioni e della fantasia. Per meglio comprendere questo concetto, bisogna chiedersi il perché del no- stro andare in montagna. Se nelle motivazioni vi troviamo sentimenti di meraviglia verso un mondo così complicato con innumerevoli variabili dove le nostre certezze non valgono nulla e proprio per questo ne siamo attratti, produciamo fantasie di questa o di quella salita, ci riconosciamo negli idoli e addirittura ci piacerebbe su- perarli, non tanto fisicamente, ma nell’espressione filosofica; se vediamo noi stessi dall’esterno, come se fossimo dei cronisti del nostro vivere, critichiamo, giudichia-

Sopra, da sinistra, Madinelli verso il Montasio, in piramide umana, sul monte Chiarescons MONTAGNA NARRATA L’avventura 175 mo il nostro operato e lo indirizziamo verso quelle fantasticherie che ci hanno riempito l’adolescenza durante la quale ci chiedevamo che tipo di persona sarem- mo stati in futuro; se sono queste le situazioni che coviamo, vuol dire che siamo in una perenne ricerca di noi stessi, ricerca che non sarà mai terminata; vuol dire che non possediamo punti fissi di conoscenza o comprensione dell’esistenza, non abbiamo risposte e men che meno delle verità. Esprimiamo dentro di noi quella ricerca infinita di ciò che sappiamo impossibile da trovare: il senso dell’esistenza. Ebbene se siamo così, viviamo tutti i giorni l’avventura della vita spirituale che non è per niente diversa dalle avventure materiali: essa ne è il precursore neces- sario. Oltre alle funzioni filosofiche, l’avventura ha risvolti concreti educativi e di crescita personale, che poi agiscono sulla nostra essenza spirituale, in uno scam- bio proficuo interdipendente. L’avventura agisce sull’acquisizione e sul miglioramento delle competenze per la vita. Alcune di queste competenze sono: capacità di prendere decisioni, ca- pacità di risolvere i problemi, creatività, senso critico, comunicazione efficace, capacità nelle relazioni interpersonali, consapevolezza, empatia, gestione delle emozioni, gestione degli stati di tensione e agitazione. Affinché l’avventura diventi un progetto educativo efficace ci vogliono degli ingredienti irrinunciabili. Deve essere “cercata” in un ambiente naturale selvaggio in assenza di tecnologia; deve avere caratteristiche di viaggio o di spedizione di un piccolo gruppo che partecipi attivamente; deve contenere elementi di sfida e confronto con le difficoltà naturali; infine, deve avere un comune senso filosofico: quello illustrato preceden- temente.

Giorgio Madinelli Escursionista controcorrente - come ama definirsi - predilige le vie di salita in ambienti remoti e selvaggi, ricercando la via più logica che offre la natura. Non segue i percorsi già addomesticati e ripudia qualsivoglia attrezzatura da scalata, pur- tuttavia il suo “greppismo” l’ha portato a riscoprire una quantità incredibile di itinerari, con particolare predilezione per le Dolomiti Friulane. Il suo blog è “La tana dell’orso”. Il testo che pubblichiamo è tratto dal nuovo libro Trois salvadis, 10 itinerari di più giorni in Alta Val Meduna (La Chiusa Edizioni, Chiusaforte). 176 LEGGIMONTAGNA

SIAMO TUTTI CLIMATOLOGI

Anche quest’anno dedichiamo uno spazio della nostra rivista al premio letterario dell’Asca, l’associazione della sezioni montane del Cai regionale. È una piacevole riflessione sul nostro rapporto con il tempo meteorologico, scritta per noi dall’autore del saggio che ha vinto il premio Unesco

Alex Cittadella

Decidete di andare in montagna per un’escursione o semplicemente per una pas- seggiata, ma trovate nelle previsioni meteorologiche le vostre più accanite opposi- trici: temporali sparsi, con schiarite e annuvolamenti. A ogni sito internet visitato un nuovo quadro meteorologico, che conferma in toto o in parte le nefaste pre- visioni. Scegliete così di starvene a casa. Seduti sul divano. In attesa della pioggia. Per poi notare, in lontananza, le montagne divenire, nello scorrere delle ore, sempre più limpide, chiare, attraenti… Solitarie senza di voi, che avreste voluto essere là e che invece avete ripiegato su altre attività, come attingere alla scatola di biscotti sul tavolino di fronte a voi. Oppure rifornirvi di cioccolatini, alla Forrest Gump. Non prendetevela. Si chiama “depressione climatica”. È lo stato d’animo di chi, pur sapendo che il meteo è impazzito, non riesce a farsene una ragione. Scherzi a parte, questo quadretto iniziale è abituale, e nasce dalla tipica va- riabilità delle condizioni meteorologiche alpine. Che, tuttavia, stanno subendo trasformazioni al di là della norma. Eventi meteorologici estremi avvengono con cadenze ed estensioni che in passato non sono sono state mai registrate. Ecco che allora la riflessione conduce al centro di una questione tutt’altro che piacevole e per niente semplice: cosa sta succedendo alle nostre Alpi dal punto di vista climatico? Come possiamo adattarci a una trasformazione ambientale che ci pone di fronte a evoluzioni meteorologiche talvolta imprevedibili e inaspettate? Quanto possiamo affidarci alle previsioni e quanto alla nostra meditata, consape- vole e istintiva esperienza? Prima di tentare una risposta, va fissato un punto di partenza: che si parli di meteorologia, e dunque delle previsioni di breve periodo, oppure di climatologia, ragionando su stime medie e lunghe, in entrambi i casi l’improvvisazione è la peggior strada che si possa seguire. Come un’escursione in montagna in luoghi sconosciuti, l’approccio nei confronti della questione climatica in ambito alpino MONTAGNA NARRATA Siamo tutti climatologi 177 ha bisogno di dati concreti, scientificamente attendibili e il più possibile chiari. Questo perché le trasformazioni climatiche, così come le variabili meteorologiche sulle Alpi, più ancora che in qualsiasi altro contesto, necessitano di essere valutate in tutta la loro complessità. Tra gli ambienti europei, quello alpino, assieme alle zone artiche e subartiche, è il più colpito dai cambiamenti climatici. Lo si nota non appena cominciamo a esplorare l’evoluzione dei ghiacciai nell’ultimo secolo o poco più. Non è necessa- rio spingersi più indietro. Chiunque abbia dimestichezza informatica può repe- rire on line le più sconcertanti immagini relative alla ritirata dei ghiacciai alpini negli ultimi decenni. Che prende corpo dopo la cosiddetta “Piccola età glacia- le”, durata grossomodo dal 1350 al 1850. Un’epoca durante la quale le lingue di ghiaccio avanzarono così tanto da spingere gli uomini a preoccuparsi seriamente per la loro incolumità e per la salvezza di case e raccolti. Oggi invece, non serve dirlo, abbiamo il problema contrario: i ghiacciai alpini si stanno sciogliendo a vista d’occhio, tanto da far pensare alla scomparsa di quelli dolomitici nell’arco di pochi decenni. Ma non sono solo le masse glaciali e gli ambienti d’alta quota a mutare. Le Alpi stanno subendo trasformazioni di ampia portata ovunque, come testimoniano eventi meteorologici estremi come la tempesta Vaia, che ha inferto dolorosissime ferite a molte aree boschive dal Friuli al Trentino Alto Adige. Un nostro antenato del Settecento, abitante della Repubblica di Venezia o del Tirolo asburgico, si sarebbe messo le mani nei capelli di fronte a una perdita del genere! Avrebbe coinvolto le autorità civili e religiose, avrebbe organizzato pro- cessioni, si sarebbe speso in una serie infinita di preghiere, avrebbe invocato una compagine variegata di santi e di presenze magiche pur di salvare il salvabile e invertire la rotta. Si sarebbe anche interrogato profondamente sul perché gli atti compiuti da lui medesimo e dalla sua comunità avessero scatenato una tale ira divina. Invece noi, esclusi gli addetti ai lavori, chi sulle Alpi ci vive e chi le ama since- ramente, ci siamo già quasi dimenticati delle devastazioni prodotte dalla tempesta Vaia nell’autunno del 2018. Né ci siamo chiesti a sufficienza, al di là della risonan- za mediatica avuta dall’evento, quali sono le cause di tutto questo, quali i rimedi, quali le modalità per poter far fronte a una situazione che si sta facendo di anno in anno più critica e, sotto certi aspetti, drammatica. Le Alpi ci insegnano anche questo: a guardare al nostro ambiente dal punto di vista climatico, a indagarne i sottili equilibri, a capire le connessioni esistenti tra la dimensione terrestre e quella atmosferica. È questo il percorso seguito per esempio dagli Illuministi nel Settecento che, grazie all’attività di esplorazione in ambito alpino, hanno gettato le basi della moderna meteorologia e degli studi cli- 178 Siamo tutti climatologi MONTAGNA NARRATA matici. Albrecht von Haller, Marc-Théodore Bourrit, Horace-Bénédict de Saus- sure, Ignaz Venetz, Louis-Jean-Rodolphe Agassiz non sono che i più noti esplo- ratori del tempo, cui si deve questa nuova attenzione per le terre alte. Nessuno di loro avrebbe osato salire una vetta o percorrere un sentiero senza un barometro, un termometro e qualche altro strumento di rilevamento. Tutti, dal primo all’ulti- mo, nei loro scritti testimoniano l’attenzione assoluta per gli eventi meteorologici alpini, consapevoli che qualsiasi approccio alle Alpi avrebbe dovuto tener conto di simili, fondamentali variabili. Oggi, senza portarsi nello zaino barometri e altri ingombranti accessori, pos- siamo ottenere le notizie sul meteo e sul clima con pochi click. È quello che i più accorti fanno prima di partire: seduti sul divano, tra un biscotto e l’altro, incerti sul da farsi ma mai su come informarsi adeguatamente prima di partire, prudenti e accorti nello scegliere il sentiero, valutando le previsioni meteorologiche, rinun- ciando se appaiono critiche, comunque organizzandosi per ridurre i rischi. Pronti con gli abiti a cipolla e il k-way nello zaino al fine di affrontare gli imprevisti. Trasmettere questa sensibilità a chi ancora non la possiede, fare qualche passo lungo il sentiero della consapevolezza climatica può fare sì che ognuno di noi pos- sa dirsi un piccolo climatologo. O, forse, più semplicemente, un sincero amante delle Alpi e del pianeta che le ospita.

CLUB ALPINO ITALIANO SAGGI SULLA MONTAGNA

Alex Cittadella BREVE STORIA DELLE ALPI TRA CLIMA E METEOROLOGIA

Alex Cittadella È dottore di ricerca e cultore della materia in Storia Moderna nel Di- partimento di studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università degli studi di Udine. Ha pubblicato Girolamo Venerio. Agronomia e meteorologia in Friuli tra Sette- cento e Ottocento (Trieste, EUT, 2016) e Breve storia delle Alpi tra clima e meteorologia (Milano, FrancoAngeli-Cai, 2019) che ha ricevuto il Premio speciale Dolomiti Unesco di Leggimontagna. ITINERARI POETICI 179

LA CHIUSAFORTE DI PIERLUIGI CAPPELLO

Un viaggio seguendo i versi del poeta. Evocativo, struggente. Una lettura che emoziona. L’anteprima assoluta di un libro dedicato al rapporto tra la montagna e la poesia che parte dalla nostra terra

Caterina Licata

Chiusaforte, Sclûse, una bolla racchiusa e sospesa nella vastità delle montagne az- zurrine, verdi e bianche. Una sottile linea di case infilata nel Canal del Ferro, lungo la Pontebbana che conduce a nord. Immediatamente a monte di Chiusaforte il ca- nale assume la forma di una gola: le falde delle montagne che lo chiudono si alzano distando l’una dall’altra “lo trazer e un bon brazho”, poco più di un tiro di sasso, come dice il poeta. Superata la Pontebbana si incontra il fiume Fella oltre al quale si sviluppa la val Raccolana. Chiusaforte dagli anni Ottanta è spezzata dall’autostra- da che conduce in Austria. Spezzata come dopo il terremoto del 1976, che segnò un prima e un dopo; spezzata come la vita del suo poeta con il suo personale terremoto, a segnare un prima e un dopo.1 Pierluigi Cappello è il poeta di Chiusaforte, della generazione che ha vissuto il terremoto e di quelle che vivono disastri ambientali e personali. È il poeta del popolo friulano e di chi ha il coraggio di affrontare le difficoltà trasformandole in forza. Di chi non smette di contemplare dall’alto e di vibrare di passione guardando in alto. Nei suoi scritti si colgono tre fasi: la prima precede il terremoto; la seconda inizia alle 21:00 del 6 maggio 1976; la terza segue l’incidente che, nel 1983, lo co- strinse in ospedale per più di un anno e poi su una sedia a rotelle per tutta la vita. Ho scelto di seguire il percorso “Sulle tracce del poeta” ideato da Fabio Pao- lini, gestore dell’ex stazione ferroviaria, ora trasformata in locanda, e vecchio co- noscente del poeta. Sono partita da questo luogo, che ora accoglie i molti ciclisti che percorrono la Ciclovia Alpe Adria, e mi sono messa in cammino. Graffiti sul muro di contenimento di fronte alla stazione, alcuni versi mi danno il benvenuto:

(...) e anche se le voci del mondo si appuntiscono e qualcosa divide l’ombra dall’ombra meno solo mi pare di andare, premendo un piede dopo l’altro, secondo la formula del luogo, dal basso all’alto, seguendo una salita. 180 La Chiusaforte di Pierluigi Cappello MONTAGNA NARRATA

È la chiusura della celebre “Ombre”, dove si ritrova la prima forte peculia- rità geografica della valle: ovunque ci si trovi si è accolti e accuditi. L’essere circondato dalle montagne porta il paese ad abbracciare il suo popolo, a proteggerlo all’interno di un ecosiste- ma a sé con le proprie stagioni, i mesi, le parti del giorno, i colori, le voci, la gente, il tempo fatto di minuti radden- sati in secoli 2. Nella capacità di pro- tezione si respira la Chiusaforte che precede il terremoto, quando il suo suolo (…) era misurato come se fosse la cosa salda, il solo baricentro delle no- stre esistenze 3. Proseguo lungo la ciclabile che si snoda sospesa sopra l’abitato; da lì si vedono i luoghi della ricostruzione, primo fra tutti l’autostrada che ha tagliato la pancia alla valle e la gola di chi è rimasto 4. La sua presenza rumorosa fa a pugni con il silenzio e l’immaginato vociare popolare sostituisce il ripetitivo incedere del tre- no suggerito dalle traversine abbandonate e riutilizzate come si faceva un tempo. Lungo la ciclabile si incontrano le cose che avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste di ceppi e si entra dentro il buio 5 di un tunnel ferroviario oltre il quale l’ac- qua della cascata che alimenta il Riù di Belepeit cade nebulizzata sulle rocce. Senza quasi rendermene conto sto guardando in alto. Scendo lungo la scalinata verso il nucleo abitato di Volanic. Entrare in intimità con i luoghi è attraversare confini tanto piccoli che muoversi è spesso trovarsi a casa di qualcuno. Pochi passi in fila e si raggiunge la salita che conduce al Çuc dove si ergeva la casa di Pierluigi bam- bino. Ai tempi della prima Chiusaforte raggiungere la cima non era semplice, al posto dell’odierna strada asfaltata vi era un sentiero a scalini con tratti in falsopia- no. Da lassù si può intuire come si sviluppasse l’immaginazione di un bambino che poteva contemplare guardando in basso e sognare pieno di passione guardando in alto. Proseguendo lungo la discesa si percorre il tragitto compiuto ogni mattina da Pierluigi per andare a scuola accompagnato dalla Zia Angelina che gli stringeva la mano più o meno fortemente in base alla condizione meteorologica. Attraversata la Pontebbana, è netta la sensazione di entrare nella seconda

Pierluigi Cappello (foto di Ulderica Da Pozzo) MONTAGNA NARRATA La Chiusaforte di Pierluigi Cappello 181

Chiusaforte, quella che seguì il terremoto. Il 6 maggio 1976 terminò il tempo del tempo che ci vuole 6. Il terremoto è un tema chiave della poetica di Cappello: ci si risveglia un giorno e le cose sembrano le stesse / mentre invece dietro a noi si è aperto un vuoto / dopo che tutto è stato fatto per trattenere la vita / in mezzo a un panorama di pietre sparse e tegole rotte 7. La strada passa accanto alla Caserma Zucchi e conduce alla distesa erbosa di Campo Ceclis dove furono allestiti prima la tendopoli e poi i prefabbricati utilizzati fino al 1988. Non è difficile immaginare la vita di allora. Nella poesia Campo Ceclis, 1978 si percepisce umanità nonostante l’unica parola riferita a esseri umani sia terremotati. Il campo è un ammasso di oggetti stipati e gettati alla rinfusa in un disordine slavo. L’evento sismico ritorna prepotente anche in 1976, settembre. Si tratta della seconda scossa, quella cui fanno seguito le corriere (dell’esercito) che portano via nella polvere e in mezzo agli odori e fanno male le orecchie nello scendere dalle montagne finché quando si vede il mare il mare non è niente, solo un’acqua più grande dove non si sa come restare. Ora la geografia del luogo non ha più nomi di vie, ma di uomini e donne scam- pati al tiro della storia. È la Sclûse di Parole povere, I vostri nomi, Ombre e La luce toccata, dove Silvio intrecciava canestri e gerle che tanto incuriosivano Pierluigi. Il popolo friulano costruisce e ricostruisce sempre, lega e crea grazie alla cultura della Fadìe ben nota a Pierluigi e a suo padre. Chiusaforte è le tue mani rovinate 8, il culto di quelle mani, le bestemmie a fior di labbra, le novene. Chiusaforte è la cultura contadina e artigianale che sapeva sostenere con umiltà ma con occhi ben dritti e asciutti lo sguardo della vita e della morte. Nella forza della fatica c’è anche tutto il mondo della violenza e rudezza e la reticenza delle carezze, un misurato torpore degli affetti che si incendiava quando veniva dischiuso dalla fiducia 9. Proseguo il cammino e irrompe il rumore della strada. Quanto in là si esten- deva il silenzio prima che ci fosse un dopo? Il percorso raggiunge la chiusa che dà il nome al paese. Il ponte che la sovrasta è spettacolare e per la prima volta mi scopro a guardare in basso verso il Fella e ritrovo lo stesso azzurro elementare del cielo (E c’è che vorrei il cielo elementare / l’azzurro come i mari degli atlanti / la tersità di un indice che dica / questa è la terra, il blu che vedi è il mare) 10. Nella chiusa si trovano raddensati tutti i limiti geografici, popolari, umani, linguistici e culturali; oltre il ponte, oltre il tunnel poco lontano si sentono invece tutte le possibilità che la vita ha da offrire. Persa nei pensieri di una vita, arrivo alla terza zona del percorso. Raccolana. Qui ci sono gli indizi della terza Chiusaforte. È il post ricostruzione per la gente del posto; per Cappello inizia con l’incidente dell’11 settembre 1983: Chiusaforte è tutti i ritorni che mi allontanano 11. Questo è il luogo dove il poeta ha trascorso alcuni soggiorni dopo il trasferimento definitivo verso la pianura. Le vie accol- 182 La Chiusaforte di Pierluigi Cappello MONTAGNA NARRATA gono una serie di case costruite in materiale antisismico, a blocchi. Qualcuno le ha tinte di giallo e arancione, altri le hanno lasciate bianche o grigio polvere. La Sclûse di Cappello si trasferisce da fuori a dentro e lui la vive tutta sulla pelle: se la montagna frana, la mia faccia frana un poco al giorno / se il fiume si dissecca, il mio cuore è pronto a disseccare / se l’autostrada mette ombra all’ombra della valle / ne trovi il taglio qui, poco sotto l’ombelico 12. L’incidente l’ha costretto a cambiare prospettiva, ma ogni volta che il fisico gli presenta una nuova limitazione lui amplia lo sguardo: non c’è modo di vedere cosa c’è al di là / perché tu sei in basso e la salita è in alto; / ma quello che vedi oltre / l’orlo del tracciato è un vuoto / di colore, che lontano si fa giallino / e più lontano ancora / un infinito tutto e una gioia senza direzione 13. Cammino, e a un tratto passo davanti a una bimba dalla bocca di cioccolato e dagli occhi azzurri. Canta alla finestra parole apparentemente fuori contesto: “Guarda che mare!”. Noi lo vediamo quel mare. Tutto l’azzurro di acque, cielo, occhi e montagne. L’azzurro speranza di un volo, che si ripete nel corso delle generazioni. La bambi- na canta, mentre alla finestra di fianco suo padre mescola in un pentolone chissà quale pietanza. Allora ritornano agli occhi tutti gli Uno che hai vissuto, caro Pier- luigi. In questa Gerico, non solo c’è chi fischietta: c’è addirittura chi canta, e allora l’aria veramente tace, come tace l’anima di chi passa dentro la tua Chiusaforte. Dovresti vedere quale dono le hai fatto: accoglie pellegrini silenziosi con ad- dosso solo i tuoi versi e il verde dei prati, i bianchi delle nevi, gli umori delle piog- ge e infine gli azzurri. Perché qui tutto è tinto di Azzurro Elementare.

NOTE AL TESTO

(1) Per la descrizione: “Ombre” Azzurro Elementare; Note di Pierluigi Cappello ad Azzurro Elementare, “Questa libertà” pg 42 (2) Ombre (3) Questa Libertà pg 55 (4) L’autostrada (5) Ombre (6) in “Questa libertà” (7) Risveglio (8) La neve che sei stato (9) Un dolore lungo un addio (10) Azzurro Elementare (11) La neve che sei stato (12) L’autostrada (13) poesie e prose inedite contenute in “Un prato in pendio” – pg 407 MONTAGNA NARRATA La Chiusaforte di Pierluigi Cappello 183

Pierluigi Cappello (1967-2017) Trascorre l’infanzia a Chiusaforte, dove si trova nel 1976. Frequentava l’Istituto tecnico aeronautico Malignani di Udine quando, nel 1983, un incidente in moto lo lascia paralizzato agli arti inferiori. Abbandona così il sogno di diventare pilota e la passione per la corsa. La sua prima raccolta poetica viene pubblicata nel 1994 dall’editore Campanotto di Pasian di Prato. Riceve il premio Montale Europa nel 2004, il Bagutta Opera Prima nel 2007, il Viareggio-Rèpaci nel 2010, il Premio Vittorio De Sica sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica nel 2012 e il premio Terzani nel 2014.

Caterina Licata Laureata in Lingue e letterature straniere, è poetessa e insegnante di canto moderno. L’articolo è tratto da un progetto editoriale con Alex Cittadella sulla connessione fra Alpi e poesia tra Otto e Novecento e cerca di leggere la produzione poe- tica di Cappello (Assetto di volo, Azzurro Elementare, Un prato in pendio, Questa libertà), connettendola con i suoi luoghi fisici, soprattutto alpini.

La stazione di Chiusaforte in una cartolina d’epoca 184 LA LETTURA 185

COME ARRIVAI A CONQUISTARE LA CAPANNA NERA

Piero Dorfles

Il ricordo delle nevi di una volta, si sa, è sempre favoloso. E infatti, mentre scendevamo verso Corvara, dalla macchina che scendeva da passo Campolongo ricordo di aver visto, affascinato, due muraglie al- tissime, quasi si fosse miracolosamente aperto un varco in una enorme massa di neve, come per Mosé al passaggio del Mar Rosso. E certo, di neve ce n’era proprio tanta, nell’inverno del 1950. Ma le giornate di quel primo anno sugli sci sono state radiose, il sole faceva sciogliere la neve sul tetto, e nella mansarda della scalcinata pensione in cui alloggiavamo un catino raccoglieva l’acqua che sgoc- ciolava dal tetto malandato. Tempi difficili, c’erano pochi soldi, negli anni del dopoguerra; ma i miei genitori non avrebbero rinunciato allo sci per nulla al mondo. Così ci si doveva adattare: stanze umide, cibo scarso (brodini, fettine di carne trasparenti, qualche patata) e ai piedi sci e scarponi ereditati da amici più grandi. Gli scarponi, di vecchio cuoio, malgrado fossero stati debitamente unti di grasso di foca, si bagnavano dopo una sola ora d’uso. Gli sci, provvisti dei mitici attacchi Kandahar, con molla posteriore, erano dei legnacci marrone senza lamine che – poiché la plastica non era ancora stata inventata – avevano come soletta una mano di vernice rossa, alla quale la neve fresca si attaccava tenacemente. Dopo i primi tentativi, durante i quali sotto gli sci si erano formati degli zoccoli che non permettevano di muovere un passo, ho capito che l’unica era di infilare velocemente gli attacchi e cominciare a muovere freneticamen- te gli sci avanti e indietro, in modo che lo zoccolo non si formasse. Addosso avevo dei pantaloni di lana niente affatto impermeabile; per difendermi dai rigori invernali indossavo una giacca a vento di sem-

Foto di Marco Ursic 186 Come arrivai a conquistare la Capanna Nera MONTAGNA NARRATA

plice cotone sfoderato. Sotto, una serie di maglioni che mi facevano quasi sembrare in carne, mentre allora ero (da non crederci) di una magrezza scheletrica. Alle mani, delle manopole di lana, e sopra delle manopole di cotone impermeabilizzato (per così dire). L’insieme da un lato mi infagottava, rendendo faticoso ogni movimento, dall’altro era talmente inadatto al contatto con la neve, che dopo la prima cadu- ta mi ritrovavo bagnato da capo a piedi e tale restavo fino al ritorno alla pensione. Facevo parte di un gruppetto di bambini, tutti principianti e un po’ imbranati, affidati alla pazienza angelica di un maestro di nome Karl. Più che una scuoletta di sci, era un asilo infantile; e più che imparare lo sci da discesa, imparavamo ad usare gli sci come mezzo di trasporto. Il primo giorno, se ricordo bene, lo abbiamo passato in una zona di perfetta pianura, imparando appunto a non formare lo zoccolo sotto gli instabili pezzi di legno e a non cadere per semplice mancanza di equilibrio. Poi è arrivato il campetto: bisognava salire a scaletta una decina di metri di dislivello e scendere, in pochi secondi, a spazzaneve. Solo dopo, con appositi paletti, abbiamo imparato lo spazzaneve a curve che, senza lamine, devo dire risultava un esercizio piuttosto impervio. Ricordo di essere riuscito, a fine corso, ad accennare a un cristiania a sci quasi uniti: un trionfo. Una volta acquisiti i principi fondamentali, è arrivato il grande gior- no: siamo andati in gita verso Colfosco. Breve discesa con pendenza irrisoria, salita poco faticosa, sosta, discesa e risalita fino alla pensione. Oggi si direbbe sci di fondo. Per noi, un’avventura indimenticabile. Familiarizzati con lo sci “da passeggio”, siamo stati iniziati allo skilift. Ce n’era uno solo, a Corvara, a quel tempo; del resto c’era anche una sola seggiovia, e gli adulti, quando si erano stufati di fare su e giù per il Col Alto, mettevano le pelli di foca e andavano al Chertz o verso il Gardena. Ma era uno skilift primitivo. Non c’era un attacco a molla, e il traino avveniva con una T di legno attaccata a una catenella, che ve- niva agganciata direttamente al cavo di acciaio dell’impianto. La par- tenza avveniva con uno strappo violento, e prima di riuscire ad adat- tarmi devo essere caduto una decina di volte, dopo pochi metri. Ma anche dopo aver capito come reggere allo strappo iniziale, cominciava una sorta di tortura. C’erano punti in cui, per l’ondulazione del terre- no, il cavo era troppo alto, per cui, essendo troppo piccolo per toccare terra, decollavo, appeso alla breve catenella. Mi trovavo sospeso da MONTAGNA NARRATA Come arrivai a conquistare la Capanna Nera 187

terra, in equilibrio instabile e cadevo rovinosamente nell’atterraggio. In altri punti il cavo scendeva raso terra, mi passava praticamente tra gli scarponi, il legno sgusciava da tutte le parti. Era quasi impossibile mantenere l’equilibrio ma, nel tentativo di non perdere il traino, tutto si risolveva in una caduta e in un patetico trascinamento raso terra finché non riuscivo a liberarmi del traino. Devo dire che non ero nemmeno il più incapace, e che i miei compa- gni di corso di solito finivano i tentativi di risalita tra urla e lacrime che il paziente maestro Karl asciugava con un apposito fazzolettone confortandoci in tedesco, che per fortuna capivamo abbastanza bene, perché allora si usavano governanti austriache. È stato solo all’ultimo giorno di quella prima, gloriosa settimana di ad- destramento, che siamo arrivati tutti, senza cadere, alla fine dello ski- lift. E da lì, con una risalita un po’ a scaletta e un po’ a spina di pesce, abbiamo finalmente raggiunto una meta ambitissima, il nostro primo rifugio: la Neger Huette, la Capanna Nera, luogo dalle mille delizie. Oggi i bambini che fanno scuola di sci, alla fine della settimana bianca fanno una garetta e vengono premiati tutti senza distinzione, mentre i genitori filmano la competizione con i telefonini, tra annunci di alto- parlanti che magnificano i tempi di discesa. Noi, più modestamente, ma con uguale se non superiore soddisfazione, l’ultimo giorno siamo trionfalmente arrivati alla Capanna Nera, e abbiamo avuto un premio ineguagliabile: una meravigliosa cioccolata calda con la panna.

Piero Dorfles È giornalista e critico letterario. Il suo ultimo libro è Le palline di zucchero della Fata Turchina. Indagine su Pinocchio (Garzanti, 2018). Il racconto che qui pubblichia- mo è in esclusiva per In Alto. «L‘immane e assurda tragedia del Vajont nelle Dolomiti Friulane ha lasciato segni profondi non solo nel territorio, ma soprattutto negli abitanti. Mentre le cicatrici nell‘animo delle persone resteranno indelebili, la Natura, grazie a una straordinaria resilienza, è stata in grado di rigenerarsi e dare vita a un vero e proprio paesaggio della speranza». Lago del Vajont, Valcellina. Foto di Luciano Gaudenzio.

L’immagine e le parole sono tratte dal libro Sublime (Obiettivo Mediterraneo). Luciano Gaudenzio è fra gli ospiti del Film Festival 2020 della Società Alpina Friulana BIKE / SPORT / OUTDOOR BLU ROSSO Helvetica Neue LT Std / 95 Black 100 c / 80 m 100 m / 100 y www.saf.ud.it - [email protected] Via G.Marconi, 81/G tel. 800.915.303 chiamata gratuita 33010 TAVAGNACCO (UD)

Telefono +39 0432 600600

DISTRIBUTORE UFFICIALE

DISTRIBUTORE UFFICIALE Finito di stampare nel mese di dicembre 2019 presso la Litostil s.a.s., Fagagna, Udine

Stampato su patinata opaca da 135 gr per l’interno, e patinata opaca da 350 gr per la copertina.

Testo fotocomposto in caratteri Simoncini Garamond e titoli in Din. Copertina in Helvetica Neue Marcello BULFONI Barbara CINAUSERO HOFER Alex CITTADELLA Linda COTTINO Giorgio DAIDOLA Ermanno DENTESANO Attilio DE ROVERE Piero DORFLES Giovanni DURATTI Luciano GAUDENZIO Celso GILBERTI Vania GRANSINIGH Caterina LICATA Giorgio MADINELLI Marco MILANESE Daniele MORO Mattia PACORIG Giovanni Napoleone PELLIS Alessandro PIUSSI Stefano SANTI Aldo SCALETTARIS Umberto SELLO Roberto SIMONETTI Tiziano SCARSINI Silvia STEFANELLI Marino TREMONTI