RASSEGNA STAMPA di mercoledì 29 maggio 2019

SOMMARIO

“È la forza del tempo che cambia ciò che sta dietro i risultati delle elezioni europee - riflette Mauro Magatti oggi sulla prima pagina di Avvenire - . È infatti l’Europa di Maastricht a uscire ammaccata dal voto di domenica. Il Trattato che regge la forma attuale della Unione è figlio di un tempo (i primi anni 90) che non esiste più. Un tempo in cui era ancora possibile pensare che il mondo poteva essere governato semplicemen te garantendo le condizioni per la crescita dell’economia finanziaria. Ora però le cose sono molto diverse. E, col voto di questi giorni – che rispecchia non solo un nuovo Parlamento, ma anche equilibri nazionali molto diversi tra loro – nessun Paese, nemmeno la Germania, potrà più pensare che quello, schema possa reggere l’urto del tempo. Per navigare nell’oceano tempestoso del post-2008 la politica ha un ruolo molto più centrale e decisivo. E di politica non si può più fare a meno. Anche se non ha vinto, l’ondata sovranista è così destinata a lasciare il segno. Il successo in due Paesi chiave come Francia e Italia lascia pochi dubbi sul fatto che l’Europa sarà ancora più esposta agli interessi nazionali. Così, senza colpi d’ala e contemporanei passi avanti all’insegna della concretezza, il rischio è che i prossimi anni assisteremo al ridimensionamento del progetto europeista. E forse anche al suo fallimento. Nel 1992 – nel cono d’ombra del Washington consensus della fine degli anni 80 – si pensava che l’economia fosse da sola un fattore di integrazione di una società sempre più individualizzata. Oggi quella prospettiva non vale più. Bauman ha parlato di retrotopia per dire che il crollo delle speranze associate all’aumento del benessere individuale spinge una larga quota della popolazione a volgere lo sguardo all’indietro. Un movimento che in alcuni Paesi europei si traduce ormai da tempo nella nostalgia della appartenenza nazionalistica vissuta come vero e proprio riparo da quel senso di insicurezza avvertito da molti. È evidente che una tale reazione è tanto più forte quanto più la capacità di creare ricchezza e di condividerla si rivela inadeguata. Quando ciò accade, il fulcro dell’azione politica si sposta dall’economia all’identità. Dopo aver drammatizzato la questione dei migranti, ora Salvini, sulle orme di Orbán, fa sempre più frequentemente esplicito riferimento alla religione cristiana giocata come risorsa identitaria. Pescando specie nei territori di periferia e tra gli anziani. Per sfuggire alla presa della paura e del risentimento, il tema è come riuscire a svolgere il discorso non egoistico, e non reattivo, del 'noi'. Che si sia capaci di creare nuova ricchezza integrando le comunità invece di disgregarle. Che ci si continui a dedicare alla ricerca dell’efficienza, senza mai disdegnare la questione del senso. Perché è solo insieme – costruendo il Bene comune – che si possono affrontare le sfide che abbiamo davanti. Diversi sono gli ingredienti che occorre mescolare per andare in questa direzione. Come dimostra la geografia dei risultati elettorali, a essere decisiva è la capacità di costruire istituzioni efficienti al servizio delle tante energie vitali che sono presenti nella nostra società italiana ed europea. Alle istituzioni i cittadini chiedono di fare bene il loro lavoro. Perché è evidente che nessuno si può più salvare da solo. E questo si spera che lo abbiano capito tutti. Altrimenti saranno i fatti a renderlo sempre più chiaro. Far funzionare le cose, però, non basta. Per la sensibilità di oggi, l’efficienza non è un fine in sé, ma condizione per restituire il gusto di una condivisione di senso che è il vero legante degli sforzi diffusi a cui tanti contribuiscono. Le persone hanno voglia di fare e di dare il loro contributo. Di sentirsi parte di uno sforzo comune per migliorare la propria condizione, ma insieme per far crescere la comunità in cui vivono. Abbattendo così la contrapposizione tra interesse privato e collettivo del passato. Infine, in diversi Paesi, soprattutto in Germania, si è registrato un forte aumento dei Verdi. La sostenibilità è di certo un tema emergente capace di catalizzare interessi diversificati e che potrebbe sicuramente aiutare a qualificare il modello europeo. Ma il problema è che fino ad oggi il voto verde tende a essere concentrato per ceto ed età. Come insegnano i 'gilet gialli' francesi, la questione ambientale è considerata prioritaria da chi è economicamente e culturalmente benestante, oltre che relativamente giovane. Non a caso, l’affermazione più eclatante di questa nuova formazione si è avuta in Germania, cioè nel Paese economicamente più avanzato dell’intero continente. Così, il tema della sostenibilità va accompagnato al di là di ogni steccato ideologico, nella prospettiva di quella 'ecologia integrale' di cui si parla nella Laudato si’. Da tutto ciò affiora un’idea di futuro attorno a cui forse potrebbe aggregarsi una nuova idea di Europa: se non si vuole che nei prossimi anni l’intero progetto europei frani sotto i colpi di interessi nazionali divergenti, è venuto il momento di aprire una discussione su che cosa vuol dire essere europei. Sui nostri presupposti antropologici e spirituali, i nostri comuni obiettivi di senso. Così da arrivare a immaginare una Europa che abbia davvero dei tratti distintivi riconoscibili davanti agli occhi dei suoi cittadini e del mondo intero. Forse è stata proprio l’apertura di una tale discussione, che prima di essere politica è culturale e spirituale, il vero convitato di pietra della questione europea” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Papa Francesco a cuore aperto In un’intervista di Valentina Alazraki

Il cristiano è giovane sempre Messa a Santa Marta

IL FOGLIO Pag 1 La chiesa italiana sconfitta dal rosario di Salvini è davanti al bivio: rifare i Patti lateranensi o andare alla guerra totale? di Matteo Matzuzzi

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

AVVENIRE Pag 3 Dalla MMT arriva una spinta a riscoprire il miglior Keynes di Alessandra Smerilli La teoria monetaria moderna non è la soluzione a tutti i problemi attuali, ha però il merito dell’innovazione

Pag 11 “Dipendenza digitale? Va curata” di Luciano Moia Il neuropsichiatra Benzoni: censure e divieti all’uso di tecnologie da parte dei ragazzi sono anacronistici

CORRIERE DEL VENETO Pag 14 La sofferenza, un confine invalicabile di Antonio Alberto Semi

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO Pag 1 Il ritorno a Venezia del crocefisso di Goering di Alessandro Marzo Magno

LA NUOVA Pag 8 Lega primo partito in tutte le Municipalità di Mitia Chiarin Il Pd regge solo in centro storico e vicino a Piazza Ferretto. Ma il Carroccio dilaga a Marghera, Zelarino, Favaro e Lido

8 – VENETO / NORDEST

LA NUOVA Pag 5 La Lega nel Veneto sbriciola ogni record. E mette un’ipoteca sulle Regionali 2020 di Francesco Jori Sfiora quota 50 per cento, staccando i fratelli “lumbard”, ma come l’ex Dc conterà meno del proprio peso numerico

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Due lezioni dal voto di Stefano Allievi

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Giostre elettorali di Ernesto Galli della Loggia

Pag 3 La tentazione di tuffarsi nel regno celeste dell’opposizione di Pierluigi Battista

Pag 6 Conte, parte la sfida con Salvini. Il premier non vuole fare l’ostaggio di Massimo Franco

Pag 36 Il malessere diffuso della Francia divisa in due di Massimo Nava

LA STAMPA Rosario e presepe di Mattia Feltri

AVVENIRE Pag 1 Cosa significa essere europei di Mauro Magatti Nodi di cultura e spirito, non solo politici

Pag 1 Cosa significa avere radici di Giuseppe Lorizio Accoglienza, politica, doveri cristiani

L’OSSERVATORE ROMANO È finita una storia non la storia di Andrea Monda Intervista a Luigino Bruni

SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) Paradossi elettorali. Dove nasce un cardinale, lì stravince la Lega

ITALIA OGGI Papa e cardinali, non fiutando l'aria, si sono troppo esposti contro la Lega e sono rimasti tramortiti dall'esito del voto di Antonino D’Anna

IL GAZZETTINO Pag 1 La necessità di puntare sulla crescita di Paolo Balduzzi

LA NUOVA Pag 11 Nell’era sovranista anche i numeri diventano un’opinione di Roberta Carlini

Pag 12 Il vicolo cieco del Movimento scavalcato nella protesta di Renzo Guolo

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Papa Francesco a cuore aperto In un’intervista di Valentina Alazraki

Pubblichiamo in una nostra traduzione dallo spagnolo il testo dell’intervista rilasciata da Papa Francesco a Valentina Alazraki, trasmessa martedì 28 maggio dall’emittente messicana Televisa.

Papa Francesco, prima di tutto, grazie. Sappiamo che il presidente Andrés Manuel López Obrador l’ha invitata in Messico. Ho saputo che non andrà... Per il momento no... Ma le ha detto che la riceverebbe con piacere... È vero. Sì, per il momento no... perché devo andare in altri posti dove ancora non sono andato e dove il viaggio è necessario per motivi pastorali. Ma mi piacerebbe tornare in Messico, è indimenticabile il Messico. Vero, lei ci è già stato e nel suo viaggio in Messico, credo, ha toccato veramente i punti nevralgici del paese. È stato alla frontiera nord e ha celebrato quella messa memorabile di fronte al muro. Purtroppo, Papa Francesco, in questi quattro anni la situazione non è migliorata affatto. Si continua a parlare di costruire più muro, addirittura di chiudere la frontiera. Abbiamo visto immagini strazianti di bambini separati dalle loro famiglie, dai loro padri, non so se lei ha visto quelle foto, quei video, sono impressionanti. Non so, mi sembra qualcosa di terribile che non è degno dei nostri tempi. Sì. Non so che cosa succede quando entra questa nuova cultura di difendere territori facendo muri. Già ne abbiamo conosciuto uno, quello di Berlino, che ci ha portato tanti mal di testa e tanta sofferenza. Ma sembra che quello che fa l’uomo è quello che non fanno gli animali. L’uomo è l’unico animale che cade due volte nella stessa buca. Rifacciamo le stesse cose. Alzare muri come se fosse questa la difesa. Quando la difesa è il dialogo, la crescita, l’accoglienza e l’educazione, l’integrazione, o il sano limite del “non si può fare di più”, ma umano... Con questo non mi riferisco solo al limite del Messico, ma parlo di tutte le barriere che esistono. In un’intervista fatta non molto tempo fa mi sono riferito a quella che c’è a Ceuta e a Melilla, è terribile, con le concertinas, il filo spinato. Poi il governo le ha fatte togliere, ma è crudele, è crudele. E separare i bambini dai genitori va contro il diritto naturale, e quei cristiani... non si può fare. È crudele. Si cade nella crudeltà più grande. Per difendere che cosa? Il territorio, o l’economia del paese o vai a sapere che. Ma sono schemi di pensiero che ricadono sull’operato politico e fanno una politica di questo tipo. È molto triste, no? Se invece di essere seduta io, che lei conosce, qui di fronte a lei, ci fosse il presidente Trump e non ci fossero telecamere, che gli direbbe? Lo stesso. Lo stesso perché lo dico pubblicamente. L’ho detto pubblicamente. Ho anche detto pubblicamente che chi costruisce muri finisce prigioniero dei muri che costruisce. Invece chi costruisce ponti fraternizza, dà la mano, anche se resta dall’altro lato, c’è dialogo. E si può difendere perfettamente il territorio con un ponte, non necessariamente con un muro. Parlo di ponti politici, di ponti culturali, è chiaro? Certo, non costruiremo un ponte in tutte le frontiere. È impossibile. Lei è stato anche alla frontiera sud del Messico, dove ora c’è un’emergenza umanitaria, una crisi umanitaria fortissima che stanno denunciando ogni giorno i vescovi del Messico, soprattutto quelli che si trovano in quel territorio. I centri di accoglienza, le opere della Chiesa non bastano. Abbiamo visto le carovane di centroamericani che passavano per il Messico diretti al nord; ora stanno arrivando molti cubani e ora stanno arrivando africani in Messico. Allora, al di là dell’emergenza della crisi umanitaria, si corre il rischio che, come qui, inizino ondate di xenofobia, perché è una guerra tra poveri, capisce? Cioè i messicani poveri si vedono, diciamo, invasi. Allora, che cosa le fa pensare questa situazione? Che nel lavoro politico mondiale c’è qualcosa che non funziona. C’è qualcosa che non funziona, e in sostanza credo che alla base ci sono il maltrattamento ambientale e il maltrattamento economico. Del maltrattamento ambientale possiamo parlare dopo. Il maltrattamento economico... Ci sono sempre meno ricchi, che bello! Meno ricchi con la maggior parte della ricchezza del mondo. E sempre più poveri con meno del minimo per vivere. Cioè tutta la ricchezza è concentrata in gruppi piuttosto piccoli rispetto agli altri. E i poveri sono di più. Allora, chiaro: i poveri cercano frontiere, cercano vie d’uscita, orizzonti nuovi. Credo che sia questa l’origine. Il dissesto economico. Che non è più economico ma finanziario. E usciamo dal mondo dell’economia, siamo nel mondo delle finanze. Dove le finanze sono gassose. Un po’ come qui gli italiani... la catena di sant’Antonio. Che uno dà, dà, e crede di avere ventimila e alla fine ha solo cinquecento. Ossia, di concreto della ricchezza in un mondo di finanze c’è pochissimo. Il resto è fantasia, è gas. Ed è in questo mondo delle finanze che ci sono queste ingiustizie sociali. Un’economia di mercato così, ortodossa, non funziona. Ma un’economia sociale di mercato - come l’ha proposta san Giovanni Paolo II - funziona, dialogando, funziona, ma si è già fuori dall’economia di mercato, dalle finanze. Un’economista famosa mi ha detto di aver cercato di creare un dialogo tra economia, umanesimo e spiritualità e ci è riuscita. Ha cercato di fare lo stesso tra finanze, umanesimo e spiritualità e non ha funzionato per il carattere gassoso e astratto della finanza. Ma riassumiamo. Lei mi ha chiesto a che cosa si deve tutto ciò. Che cosa fanno i messicani nel frattempo, perché, chiaro, alcuni devono lasciare loro il paese, ora devono ricevere quelli che stanno peggio? Ma è un problema mondiale. Guardi l’Africa. O anche l’Asia. Ossia, è un problema mondiale con questo squilibrio che hanno già segnalato i Papi che mi hanno preceduto, questo squilibrio economico-finanziario. Relativamente pochi ricchi, con tutto il denaro, e molti poveri, senza il necessario per vivere. Papa Francesco, anche il tema della violenza. Lei lo ha toccato, lo ha vissuto, lo ha conosciuto ovviamente in questi anni e quando è stato in Messico, ma non è stato ancora risolto. Il 2018 è stato un anno terribile con 40.000 morti. Nei primi tre mesi di quest’anno gli ultimi dati parlano di oltre 8400 persone uccise, vale a dire che ogni giorno in Messico muoiono 90 persone. Alla fine di questa giornata in cui stiamo parlando ci saranno 90 persone uccise. Le persone scomparse non si contano più. I padri che cercano i loro figli. Scomparsi. Le fosse comuni. È una situazione molto, molto drammatica. Che cosa gli direbbe? Che può fare un governo, la società civile, la Chiesa stessa, per cercare di risolvere questo problema? A un governo non so che misure concrete consiglierei, perché questo è un compito della politica, della politica creativa. Che siano creativi nella politica, una politica di dialogo, di sviluppo. Del compromesso. A volte non resta altra soluzione che il compromesso: scendere a patti con certe situazioni finché si chiariscono le altre, non è così? Scendere a patti con chi? Con altri che non la pensano come noi, no? Dico, scendere a patti. Ma se i gestori della politica di un paese litigano tra loro a soffrire è il paese. Scendano a patti per il bene del paese. Cerchino soluzioni politiche che io non so indicare, perché non sono un politico. Non è il mio mestiere. Ma la politica è creativa. Non ci dimentichiamo che è una delle forme più alte della carità, dell’amore, dell’amore sociale, ma quando la politica è tirare ognuno dalla propria parte, allora si crea una situazione di violenza già all’interno stesso del mondo politico. Alcuni dicono che bisogna scendere a patti con i responsabili del narcotraffico per trovare una via d’uscita. Lei come sente questo tema? Non mi suona bene, no. È come se io per aiutare l’evangelizzazione di un paese scendessi a patti con il diavolo. Ossia ci sono patti che non si possono fare. Il patto politico si deve fare per il bene del paese. Anche per la riconciliazione di tutto il paese... Riconciliazione, è una parola ora molto usata e che nessuno capisce perché troppo logora. Ma l’accordo politico... L’accordo politico che è meno forte... L’accordo tra i diversi partiti politici, tra i diversi settori della società, anche la Chiesa, si fa aiutando. È quello che ci vuole: invitare a fare accordi per risolvere i gravi problemi di un paese. Ricordo che quattro anni fa mi ha colpito quando ha detto che il Messico era un paese punito dal diavolo perché c’era la Vergine di Guadalupe. Quando si è trattenuto a lungo nella basilica di fronte alla Vergine di Guadalupe, che vi siete detti? Sì, il diavolo ce l’ha veramente con il Messico. È vero. Basti pensare ai nostri martiri, alle persecuzioni ai cristiani, che in altri paesi dell’America non sono avvenute con tanta virulenza. Perché in Messico? Qualcosa è successo qui. C’è qualcosa di speciale... questo non è teologia. Parlo, parla l’uomo del popolo: come se il diavolo ce l’avesse con il Messico. Altrimenti non si spiegherebbero tante cose. Dall’altro canto, il Messico è un paese dove c’è tutto, è frontiera nel senso che è un passaggio dall’America Latina all’America del Nord. E anche questo influisce molto, chiaro. Il tema dei giovani... Anche lei nel suo viaggio in Messico lo ha toccato, è stato con loro. Conosco già Scholas, la fondazione che lei ha creato in Argentina per recuperare i giovani attraverso l’arte, lo sport, la cultura, diciamo questa cultura dell’incontro. Lei sta anche partecipando a un programma del governo del Messico sui giovani. Ci sono state videoconferenze, lei ha parlato con giovani del Messico che le hanno raccontato i loro problemi. Dal bullismo alla violenza che subiscono. Che impressione si è fatto della gioventù messicana? Beh, non è molto diversa dalla gioventù mondiale! Ha le sue preoccupazioni, ha il suo desiderio di andare avanti, ha i suoi condizionamenti, ha i suoi alti e bassi, ma, in generale, la gioventù, se non entra in un’ideologia, è la stessa in tutto il mondo. Se ideologizzata è diverso. La gioventù corre il rischio — se già non lo ha fatto — di perdere le radici. Io consiglio sempre ai giovani di parlare con gli anziani. E agli anziani di parlare con i giovani, perché un albero non può crescere se gli tagliamo le radici. Non può crescere neppure se restano solo le radici, e ciò riferendomi a un conservatorismo. Andare alle radici. Dialogare con le radici. Ricevere dalle radici la cultura. Allora cresco, fiorisco e do frutto. E genero e si va avanti. Questo dialogo tra gli anziani e i giovani per me è fondamentale nella presente congiuntura. Mi ha colpito molto l’ultimo libro di Bauman che è stato scritto in italiano. Lo ha scritto con un suo assistente che è italiano. Ed è morto mentre stava facendo l’ultimo capitolo, lo ha terminato l’assistente. S’intitola Nati liquidi, ossia senza consistenza. In tedesco il titolo è stato tradotto Die Entwurzelten, senza radici. Cioè essere liquidi implica non avere radici. I tedeschi hanno colto il messaggio del libro. Ciò è molto importante oggi. Andare alle radici. Il che non è ideologia conservatrice, no. Prendere le radici normali, le radici della tua casa, le radici della tua patria, della tua città, della tua storia, del tuo popolo, di mille cose. Ma le tue radici. I nostri programmi servono. Tutto ciò che fa scuola, diciamo, aiuta costruendo, i giovani che costruiscono. Aiuta soprattutto il dialogo. E i giovani hanno buona volontà, i giovani non sono corrotti. Sono indeboliti. Per la mancanza di radici. D’altra parte, c’è un diritto di cui nessuno parla. Il diritto degli anziani. Il diritto degli anziani è sognare! E dire che la mia vita dà frutto, e la dono nel dialogo; allora gli anziani si rinfrancano e non stanno chiusi in un istituto geriatrico senza sapere che cosa fare. Ho fatto l’esperienza di portare dei giovani in un istituto geriatrico. Ci venivano controvoglia. A suonare la chitarra. E poi non volevano più andare via. Perché iniziavano a cantare e l’anziano chiedeva: conosci questa o quella canzone? E gli anziani cominciavano a sognare. Questo incontro oggi è necessario. Anzi direi che è urgente. È urgente affinché i giovani si rafforzino. Papa Francesco, parlando di violenza c’è un tema al quale mi sto dedicando molto, ossia quello della violenza contro le donne, dei femminicidi. Questa catenina me l’ha data una donna il cui marito è stato ucciso di fronte a lei che era incinta. Questa è una maglietta che mi hanno chiesto di consegnarle. È di una donna che hanno ucciso di fronte al figlio. Il caso contrario. E mi hanno chiesto di consegnarla a lei perché la tenga e pensi a tutte queste donne vittime della violenza, in Messico e nel mondo. Si chiamava Rocío. Rocío, qui c’è una vita spezzata, una storia conclusa dalla violenza, dall’ingiustizia, dal dolore. Sa che cosa succede? Che si parla di statistiche, ma questa si chiama Rocío, questa si chiama Grecia, questa si chiama Miroslava, insomma sono nomi. Sono nomi. Sono nomi di persone in carne e ossa. E non si capisce perché sta nascendo questa violenza di genere contro la donna, ogni giorno, in Italia, in Spagna, in tutto il mondo. In Messico. Non sono statistiche, sono donne. Qual è secondo lei il motivo di questo odio verso la donna che porta a tanti femminicidi? Non saprei dare una spiegazione sociologica oggi. Ma oserei dire che la donna sta ancora in secondo piano. In un viaggio aereo vi ho raccontato come sono iniziati i gioielli delle donne. Vi ricordate? Ebbene, da quell’epoca preistorica, che sia vero o meno, lo vedremo, la donna sta lì. E questo nell’immaginario collettivo. Se magari la donna ottiene un posto importante, di grande influenza, allora veniamo a sapere i casi di donne geniali. Ma nell’immaginario collettivo si dice: guarda, c’è riuscita una donna! È riuscita ad avere un premio Nobel! Incredibile. Guardi il genio letterario come si esprime in queste cose. E la donna in secondo piano. E dal secondo piano a essere oggetto di schiavitù basta poco. Basta andare alla stazione Termini, per le strade di Roma. E sono donne in Europa, nella colta Roma. Sono donne schiave. Perché questo sono. Ebbene, da qui ad ucciderle... Quando ho visitato un centro di recupero per ragazze nell’Anno della Misericordia, una aveva un’orecchia mozzata, perché non aveva portato abbastanza soldi. Hanno un controllo speciale sui clienti, allora se la ragazza non fa il suo dovere la picchiano o la puniscono come è successo a quella. Donne schiave. Ho appena letto il libro di Nadia Murad, L’ultima ragazza, quando è venuta qui me lo ha regalato in italiano. Se non lo ha letto glielo consiglio. Lì è concentrato, anche se in una cultura speciale, tutto quello che il mondo pensa delle donne. Il mondo senza le donne non funziona. Non perché è la donna a fare i figli, mettiamo da parte la procreazione. Una casa senza una donna non funziona. C’è una parola che sta per uscire dal vocabolario, perché fa paura a tutti: la tenerezza. È patrimonio della donna. Ora, da qui al femminicidio, alla schiavitù, il passo è breve. Qual è l’odio, non lo saprei spiegare. Forse qualche antropologo lo potrà fare meglio. E come si crea quest’odio, uccidere donne è un’avventura? Non lo so spiegare. Ma è evidente che la donna continua a essere in secondo piano e l’espressione di sorpresa quando una donna ha successo lo indica bene. Lei ha fatto esperienza di tutto questo anche in America Latina. Io ora sto scrivendo un libro che s’intitolerà “Grecia y las otras”, che parla proprio delle donne vittime, in un modo o nell’altro, di violenza. Mi ha colpito il coraggio delle donne messicane e latinoamericane. Fanno tutto loro. Fanno le mamme, e molto spesso sono mamme nonne, che si prendono cura dei figli, portano avanti tutto, perché i mariti, o sono stati uccisi o sono alcolizzati o hanno problemi. Sono delle eroine. Io la vedo così. Guardi, la donna tende sempre a nascondere la debolezza, a salvare la vita. C’è un’immagine che mi è rimasta particolarmente impressa: la fila delle madri o delle mogli che vedo sempre, quando arrivo a un carcere, in attesa di entrare per vedere i figli o i mariti carcerati. E tutte le umiliazioni che devono sopportare per riuscire a farlo. Stanno in strada. Passano gli autobus, la gente le vede. Ma a loro non importa. Il mio amore è lì dentro, pensano. Hanno un grande coraggio. Fantastiche. Fantastiche e lottatrici. Ricordo sempre il caso dell’Uruguay. Sono state le donne più gloriose dell’America perché sono rimaste 8 a 1 dopo quella guerra tanto ingiusta, hanno difeso la patria, la cultura, la fede e la lingua. Senza prostituirsi e continuando a fare figli. Fantastico! Papa Francesco, dobbiamo cambiare tema ora. È iniziato il sesto anno del suo pontificato, e penso — e credo non sia una novità per lei — che questo sia stato forse il più difficile. È iniziato a gennaio. Ci sono stati molti scandali, forse sono stati fatti alcuni errori, ci sono stati silenzi, ci sono stati crescenti attacchi da parte anche di gruppi cattolici e fedeli che non sono d’accordo con la sua presa di posizione su diversi temi. L’hanno addirittura accusata di essere eretico, hanno chiesto la sua rinuncia, insomma, non è mancato nulla. Lei gode di una enorme popolarità tra i media. Non so se è al corrente, ma sa come l’abbiamo chiamato per anni? “Teflón” perché le scivolava tutto. Qualsiasi cosa facesse, anche se forse non tanto corretta, le veniva perdonata dai media, cosa che non abbiamo visto con il suo predecessore, Papa Benedetto, che qualsiasi cosa facesse, aveva tutti contro. Ora mi sembra che questa luna di miele con i media si sia un po’ spenta. E vorrei, se fosse possibile, che mi dicesse se ha percepito questo cambiamento, queste difficoltà. E come le ha vissute? Tu mi parli dei media. La parola luna di miele mi risulta troppo dolce. Ma c’è stata, così si diceva, no? Ricordatevi che la mia prima frase quando sono arrivato alla conferenza stampa sull’aereo è stata: “nella fossa dei leoni”. Gliel’ho chiesto io se aveva paura di entrare nelle gabbie dei leoni. Io con i media mi sento a mio agio, credo che solo in una o due occasioni in sei anni ho dovuto, con molto rispetto, interrompere qualcuno che aveva posto male una domanda sulle malattie africane e un’altra, ma non mi ricordo su che cosa. Mi sento a mio agio con i media, veramente. Nella fossa dei leoni, ma a mio agio e rilassato. E in generale le domande sono rispettose. Chiaro che quando i problemi sono più scottanti, può essere più difficile per me rispondere, ma ciò non vuol dire che io mi senta distaccato dai media, no, anzi, sono a mio agio con voi. E vi ringrazio perché avete pazienza. Inoltre provo compassione per voi, nel senso buono della parola. In viaggio, pigiati come sardine. E vi ammiro per questo. Mi sento a mio agio con voi e salutarvi non è un gesto diplomatico, sento dal cuore che vi meritate che uno quantomeno vi saluti e vi chieda come state. Il che è molto apprezzato. Mi viene dal cuore. Perciò non ho l’impressione che vi siate allontanati, no. Mi sento a mio agio, anche quando ho dovuto correggere alcune cose a gennaio, ossia all’inizio dello scorso anno, durante il viaggio in Cile. Le cose sono state dette con rispetto. E mi riferisco ai media con cui ha dialogato lei. Perché diranno di tutto. Alcuni mi hanno persino aiutato, alcune domande mi hanno dato da pensare. Soprattutto nel viaggio in Cile mi sono reso conto che l’informazione che avevo non coincideva con quello che avevo visto. E credo che sono state alcune delle domande poste con molta educazione durante il viaggio di ritorno a farmelo capire. Le stavo proprio per fare una domanda sul viaggio in Cile perché sicuramente di quelli che ricordo mi sembra sia stato il più complesso. Perché, chiaro, lei è arrivato lì e ha compreso che si era sbagliato. Non credo che si sia reso conto subito perché ricordo che nel viaggio di ritorno ha difeso Barros. Ma deve aver evidentemente visto qualcosa che le ha fatto pensare che le cose non andavano bene. Sì, è stato alla fine quando ho risposto a quella giornalista, si ricorda? Alla fine. Prima della messa. Allora, di fronte alla reazione ho riflettuto, pensato: qui sta succedendo qualcosa. Il viaggio di ritorno mi ha aiutato abbastanza a capire e quando sono arrivato qui, ho riflettuto, ho pregato, ho chiesto consiglio e ho deciso di mandare un visitatore apostolico, il quale ha portato allo scoperto tutto quello che non sapevo. È stato un aiuto, mi sono sentito aiutato. Non so che lezione ha imparato da ciò, ma è stato comunque un grande gesto di umiltà da parte sua riconoscere che si era sbagliato, perché non tutti lo fanno. Credo però che in quell’occasione sono risultati abbastanza evidenti tutti i filtri che ci sono. Sembrerebbe normale pensare che tutta l’informazione arrivi sul tavolo del Papa, ma abbiamo visto — anche in casi precedenti, come il caso Maciel, il caso Barros, e altri casi in Perú, negli Stati Uniti — che non tutto arriva sul tavolo del Papa. Intendo dire che ci sono filtri, a partire dai nunzi, dai vescovi, e alcuni cardinali. Questo è allora un sintomo di corruzione all’interno della Chiesa. Lo vede così? Come lo vede e come può risolverlo, perché non si ripeta? Chiaramente bisogna risolverlo e sto compiendo ogni sforzo per risolvere casi simili. Non sempre è corruzione, a volte è stile curiale. Sì, in sostanza c’è una legge di corruzione, ma è uno stile che bisogna aiutare a correggere. Si sta lavorando bene, i miei collaboratori stanno lavorando bene in tal senso. È gente leale, che si muove per questo, ma chiaramente è vero: arriva un’informazione che non risponde alla realtà. Sì, dopo qualcuno dice: “ma avevamo informato, avevamo detto...” Ma la verità è che nei dossier preparati non c’erano queste cose perché la maggior parte delle persone qui non lo sapeva, nessuno dei miei collaboratori, neppure il Segretario di Stato e l’incaricato dei rapporti con gli Stati le sapeva. Ma il Signore ci aiuta, ha visto, si sta lavorando bene, persino il dialogo con le persone vittime di abusi in Cile prosegue bene. Alcune le ho ricevute qui, si sono rese conto che la Chiesa le ama e che è pronta a mettere un punto finale alla questione, con tutto quel che comporta di sforzo e anche di preghiera. E chiedo al Signore di illuminarmi per non sbagliare nelle nomine. Ossia il discernimento al momento di scegliere i suoi collaboratori è qualcosa che è sotto gli occhi di tutti. Di fatto possiamo parlare anche di questo, di come lei sceglie i suoi collaboratori, che non sempre hanno dato risultati eccellenti. Parleremo di questo e se vuole possiamo farlo subito. Mi viene in mente il C9, è iniziato come C9 e ora stiamo a 6. C’è il cardinale Pell, c’è il caso del cardinale cileno sempre per occultamento. Insomma, che succede, si giudicano mali i collaboratori, si scelgono male? Li ha scelti male o era poco informato, per cui li ha nominati e poi è risultato che...? Il cardinale Pell lavorava qui nella Curia e l’ho scelto io perché me lo avevano chiesto. Stava per essere nominato qui già prima, c’era stato qualche indizio, ma c’era anche stato un processo dal quale era uscito pulito. Prima di tutto perché 9. Erano uno per ogni continente e poi uno per il Governatorato, un coordinatore. Ora 6, perché? Perché tre sono andati in pensione, o meglio sono andati via. Quello del Cile, il cardinale Pell e quello del Congo. Stiamo funzionando bene in sei, per cui perché aggiungere altri se sta funzionando bene in questa fase? È così. Ha detto che sono andati in pensione. O li ha mandati in pensione Papa Francesco? Il cardinale Pell ovviamente è in carcere ed è stato condannato. È ricorso in appello, ma è stato condannato. Il cardinale Errázuriz non poteva continuare, era ovvio. E il cardinale Monsengwo aveva compiuto 80 anni. Allora è andato via per motivi di età. È rimasto a 75 anni Rodríguez Maradiaga perché è il coordinatore e Bertello, che ha più di 75 anni perché è il governatore. Non posso prescindere dal governatore e dal coordinatore. Sul coordinatore è stato detto... Gli dicono di tutto ma non c’è nulla di certo, no, è onesto e mi sono preoccupato di esaminare bene le cose. Si tratta di calunnie. Del cardinale Maradiaga... Sì. Perché nessuno ha potuto provare nulla. Può essersi sbagliato in qualcosa, può aver commesso qualche errore, ma non del livello che gli vogliono addossare. Questo è l’importante, perciò lo difendo. E poi ci sono gli altri. Questo riguardo al C9. Parlando sempre della mancanza d’informazione o del fatto che non arriva tutto, in Argentina, per esempio, i media dicono che avevano informato circa monsignor Zanchetta, che voi qui in Vaticano sapevate. Lei lo ha portato qui, lo ha messo in un posto che ha creato praticamente dal nulla per lui, questo la gente non lo capisce. No, ma bisogna spiegarlo alla gente. Per questo mi piacerebbe che lei lo spiegasse. Vuole che lo spieghi ora? Lo faccio volentieri. Se lei vuole... Sì. allora, c’era stata un’accusa e, prima di chiedergli la rinuncia, l’ho fatto venire subito qui con la persona che lo accusava. Un’accusa con telefono. Immagini... Sì, ma alla fine si è difeso dicendo che lo avevano hackerato, e si è difeso bene. Allora di fronte all’evidenza e a una buona difesa resta il dubbio, ma in dubio pro reo. Ed è venuto il cardinale di Buenos Aires per essere testimone di tutto. E l’ho continuato a seguire in modo particolare. Certo, aveva un modo di trattare, a detta di alcuni, dispotico, autoritario, una gestione economica delle cose non del tutto chiara, sembra, ma ciò non è stato dimostrato. È indubbio che il clero non si sentiva trattato bene da lui. Si sono lamentati, finché hanno fatto come clero una denuncia alla Nunziatura. Io ho chiamato la Nunziatura e il Nunzio mi ha detto: “Guardi, la questione della denuncia per maltrattamenti è seria”, abuso di potere, potremmo dire. Non l’hanno chiamata così, ma questo era. L’ho fatto venire qui e gli ho chiesto la rinuncia. Bello e chiaro. L’ho mandato in Spagna a fare un test psichiatrico. Alcuni media hanno detto: “Il Papa gli ha regalato una vacanza in Spagna”. Ma è stato lì per fare un test psichiatrico, il risultato del test è stato nella norma, hanno consigliato una terapia una volta al mese. Doveva andare a Madrid e fare ogni mese una terapia di due giorni, per cui non conveniva farlo tornare in Argentina. L’ho tenuto qui perché il test diceva che aveva capacità di diagnosi di gestione, di consulenza. Alcuni lo hanno interpretato qui in Italia come un “parcheggio”. E l’hanno criticata perché ha detto che qui si era comportato bene e lo ha messo nell’Apsa. Non è stato così. Economicamente era disordinato, ma non ha gestito male economicamente le opere che ha fatto. Era disordinato ma la visione è buona. Ho iniziato a cercare un successore. Una volta insediato il nuovo vescovo, a dicembre dello scorso anno, ho deciso di avviare l’indagine preliminare delle accuse che gli erano state mosse. Ho designato l’arcivescovo di Tucumán. La Congregazione dei Vescovi mi ha proposto vari nomi. Allora ho chiamato il presidente della Conferenza Episcopale Argentina, l’ho fatto scegliere e ha detto che per quell’incarico la scelta migliore era l’arcivescovo di Tucumán. Chiaro, metà dicembre in Argentina è come metà agosto qui, e poi gennaio e febbraio come luglio, agosto. Ma qualcosa hanno fatto. Circa quindici giorni fa mi è ufficialmente arrivata l’indagine preliminare. L’ho letta, e ho visto che era necessario fare un processo. Allora l’ho passata alla Congregazione per la Dottrina della Fede, stanno facendo il processo. Perché ho raccontato tutto questo? Per dire alla gente impaziente, che dice “non ha fatto nulla”, che il Papa non deve pubblicare ogni giorno quello che sta facendo, ma fin dal primo momento di questo caso, non sono rimasto a guardare. Ci sono casi molto lunghi, che hanno bisogno di più tempo, come questo, e ora spiego il perché. Perché, per un motivo o per l’altro, non avevo gli elementi necessari, ma oggi è in corso un processo nella Congregazione per la Dottrina della Fede. Cioè non mi sono fermato. Penso che sia stato importante raccontare tutto ciò, non crede? L’ho raccontato ora. Ma non posso farlo ogni momento, ma non mi sono mai fermato. Adesso, che il processo sta per concludersi, lo lascio nelle loro mani. Di fatto, come vescovo, devo giudicarlo io, ma in questo caso ho detto no. Facciano un processo, emettano una sentenza e io la promulgo. Lei ovviamente non può sempre spiegare tutto, tutto il giorno, ma tra la gente e la stampa si crea confusione. O la gente non capisce. Mi viene in mente, per esempio, il caso del cardinale Barbarin di Lione. Chiaro, si crea un malessere tra la gente quando ci sono accuse provate. Ma lei dice: “non accetto la rinuncia finché non si conclude il processo perché per me è innocente fino alla fine”. Presunzione d’innocenza. Esatto, per lui e per molti altri. Devo sempre considerarla, perché in un processo aperto vige la presunzione d’innocenza persino per i giudici più anticlericali, per tutti. Ma bisogna spiegare alla gente. In questo caso bisogna spiegare. Invece, in altri casi come quello di McCarrick, dove era evidente, ho tagliato netto prima del processo. Quando si è concluso il processo McCarrick un mese fa con la sospensione dallo stato clericale, gli ho tolto il cardinalato e tutto il resto. La questione di McCarrick mi porta a un’altra questione che volevo affrontare con lei. Lei mi ha consigliato in uno dei suoi ultimi viaggi di leggere «Lettere della tribolazione»: io le ho lette, ho fatto i compiti. Ho incontrato molto spesso la parola silenzio e la spiegazione di come a volte il silenzio sia necessario. Secondo lei, è quasi come un momento di grazia. Ma dire a un giornalista che il silenzio è necessario... Non rida Papa Francesco, è così. Si ricorda quando le hanno detto, 8 mesi fa: c’è una dichiarazione dell’ex nunzio Carlo Maria Viganò che dice che lui stesso le ha detto in un’udienza all’inizio del suo pontificato chi era McCarrick, e lei non ha fatto nulla, ha solo detto: “non risponderò, giudicate voi, risponderò a tempo debito”. Quel silenzio ha pesato molto, perché per la stampa e per molta gente, quando uno tace, è come tra marito e moglie, no? Becchi tuo marito e non ti risponde e dici “qui qualcosa non va”. Allora perché quel silenzio? È giunto il momento di rispondere a quella domanda che le abbiamo fatto in aereo, sono passati più di otto mesi, Papa Francesco. Sì, quelli che hanno fatto il diritto romano dicono che il silenzio è un modo di parlare. In quel caso ho visto che Viganò non aveva letto tutta la lettera, allora ho pensato che confidavo nell’onestà dei giornalisti e vi ho detto: “Guardate, qui avete tutto, studiate e traete voi le conclusioni”. E questo avete fatto, perché il lavoro l’avete fatto voi, e in questo caso è stato fantastico. Ho fatto molta attenzione a non dire cose che non erano lì ma poi le ha dette, tre o quattro mesi dopo, un giudice di Milano quando lo ha condannato. La questione della sua famiglia, intende? Certo. Ho taciuto, perché avrei dovuto gettare fango. Che siano i giornalisti a scoprirlo. E voi l’avete scoperto, avete trovato tutto quel mondo. È stato un silenzio basato sulla fiducia in voi. Non solo, ma vi ho anche detto: “tenete, studiatelo, è tutto”. E il risultato è stato buono, meglio che se mi fossi messo a spiegare, a difendermi. Voi giudicate prove alla mano. C’è un’altra cosa che mi ha sempre colpito: i silenzi di Gesù. Gesù rispondeva sempre, anche ai nemici quando lo provocavano, “si può fare questo, quello”, per vedere se cadeva nella provocazione. E lui in quel caso rispondeva. Ma quando divenne accanimento il Venerdì santo, l’accanimento della gente, tacque. Al punto che lo stesso Pilato disse: “Perché non mi rispondi?”. Ossia, di fronte a un clima di accanimento non si può rispondere. E quella lettera era un accanimento, come voi stessi vi siete resi conti dai risultati. Alcuni di voi hanno persino scritto che era pagata, non so, non mi risulta però. Ci sono alcuni che continuano a pensare che è vera e che continuano a chiedersi il perché, se lei sapeva o no di McCarrick. Nella stampa c’è di tutto ovviamente. Di McCarrick non sapevo nulla, naturalmente, nulla. L’ho detto diverse volte, non sapevo nulla. Voi sapete che io di McCarrick non sapevo nulla, altrimenti non avrei taciuto. Il motivo del mio silenzio è stato prima di tutto che le prove erano lì, vi ho detto: “giudicate voi”. È stato davvero un atto di fiducia. E poi, per quello che vi ho detto di Gesù, che nei momenti di accanimento non si può parlare, perché è peggio. Tutto va a sfavore. Il Signore ci ha indicato questo cammino e io lo seguo. Papa Francesco, prima dell’incontro di febbraio che lei ha convocato, nei media si diceva che era un po’ in gioco il suo pontificato, che era eccessivo, e si parlava del modo in cui il suo pontificato sarebbe passato alla storia su quel tema. Non ci ha ancora parlato dell’impressione che hanno suscitato in lei quei tre giorni. Non lo ha fatto ancora pubblicamente, credo. Ascoltare quelle vittime — le aveva già ascoltate in altre occasioni naturalmente — ma vedere tanti vescovi che arrivavano pensando che non fosse un loro problema, perché quelli dell’Africa e dell’Asia dicevano, non è un mio problema, è un problema dell’Occidente, del mondo anglosassone... Che cosa le è rimasto di quei tre giorni? Lei ha emanato tre nuove leggi. Mi è rimasto un sentimento di comunione ecclesiale molto grande. Il Papa con i vescovi. Poi mi è rimasta la serietà con cui hanno affrontato la questione, fin dal primo giorno, alcuni il secondo, quando si sono resi conto che era un tema scottante. È stata una cosa seria, molto seria, affrontata bene. E prima ancora mi erano rimaste le risposte e le proposte in quell’elenco che ho dato a tutti voi. Che sono già proposte e sono in corso. E alla fine, mi sono sentito unito a tutto l’episcopato con quel lavoro di lottare contro tutto ciò e porvi fine se possiamo, e risolvere problemi di corruzione di questo tipo. Lei crede che hanno capito che le vittime devono stare al centro? Io credo che molti di quelli che stavano lì non avevano mai visto le vittime, lei ha chiesto loro d’incontrare prima le vittime. Io credo che molti di loro, prima del suo suggerimento, non le avevano incontrate. Sì, non so se tutti le hanno incontrate, ma la buona volontà di farlo mi risulta esserci stata. Inoltre delle proposte dell’elenco, che ho accettato tutte, le ultime otto le ho messe nel discorso conclusivo che ho fatto. Come si sta procedendo? È già stata pubblicata una serie di decreti, di documenti. Alla denuncia per esempio di tutti i sacerdoti... Sì, sono cose che stanno procedendo. La cosa interessante di tutto ciò è che siamo in un processo. La mia politica è aprire processi. La mia politica, il mio modo di essere e di non occupare spazi, “ho ottenuto questo e quest’altro”, no. La vita è processi e apriamo processi in questo caso di guarigione, di cura, di correzione. Allora siamo in un processo buono, che deve essere controllato, ogni sei mesi. Questo c’è nei documenti. Mi ha colpito, ha suscitato in me tristezza quando in un giornale non italiano il titolo di un articolo sulla parte conclusiva dell’incontro, e soprattutto sul mio discorso finale, che forse alcuni non hanno ascoltato bene, era: “Il Papa nel suo discorso ha fatto una panoramica del problema della pedofilia mondiale, ha dato la colpa al diavolo e se ne è lavato le mani”. Era questo il titolo. Chiaro che la percentuale dei sacerdoti coinvolti nella pedofilia fa parte del tutto, una corruzione mondiale nella pedofilia, è terribile, vero? È terribile. Per questo ho voluto che tutti avessero le statistiche dell’Unicef, delle Nazioni Unite, quelle più serie, le statistiche serie. Il che non vuol dire “dato che lo fanno tutti non è così grave”. Anche se a farlo fosse uno solo, è mostruoso, è mostruoso! Il prete deve portare Cristo a un bambino. E con questo lo distrugge, lo seppellisce. È una grande mostruosità, più grave di qualunque altra. E poi, le linee finali. Quel discorso l’ho fatto lentamente e ho pregato chiedendo a Gesù di aiutarmi a dare una linea seria, di parlare come un pastore, non come a conclusione di un congresso. E anche questo è ispiratore. A molte persone non è piaciuto perché ha detto proprio questo, perché ha riportato tutte quelle statistiche e ha parlato molto del diavolo, come se la colpa fosse del diavolo. È la verità, figlia mia. Ad aiutarci in questo è il diavolo, che entra in noi. Ho affrontato il problema del diavolo quando ho parlato della pedofilia mondiale, la pedofilia... e mi sono fermato e ho detto: “non si può spiegare perché non ha senso”, usando una definizione di un filosofo francese. Non ha senso. Qui vediamo solo lo spirito del male che induce tutto questo. E dico la verità, non riesco a spiegarmi il problema della pedofilia, senza vedervi lo spirito del male. Sono credente e Gesù ci ha insegnato che il diavolo è così. Mi ricordo che poco prima dell’incontro, mi sembra nell’udienza generale, lei aveva già detto qualcosa del diavolo, che quelli che criticano la Chiesa o criticano il Papa, o criticano in generale diciamo la Chiesa, sono amici o cugini o parenti del diavolo. Allora la mia domanda è: ha detto qualcosa di simile in un’udienza? Non mi ricordo del testo, ma no. Non la vedo così, sono stato frainteso. Se l’è lasciato sfuggire allora... No, no, bisogna vedere quello che ho detto. Sono incapace di dire una cosa così perché non credo che sia così. Se tu critichi la Chiesa, va bene, la critica fa bene. Quel testo, lo cerchi, perché non è quello che ho detto, c’è un errore, mi è sfuggito qualcosa, ma non ho detto questo. È vero che il diavolo ci tenta tutti, ma tenta anche quanti sono criticati [ride]. Siamo tanto peccatori quanto forse chi ci critica, o magari chi ci critica è un santo. Santa Caterina da Siena criticava i cardinali e a volte bastonava il Papa. Ed era una santa! Eppure non dici che in santa Caterina da Siena c’era il diavolo! Lo cerchi quel testo perché non è vero, c’è un errore d’informazione. Nel suo ultimo discorso, proprio dopo l’incontro, quando ha parlato della stampa, lì, sì, credo ci fosse una certa allusione alla pressione mediatica. A volte dietro quella pressione mediatica ci sono gruppi di potere. Ma prima, per esempio, alla Curia, a dicembre, aveva ringraziato, per il lavoro svolto, la stampa e le vittime, perché avevano contribuito a scoprire i casi di abusi. Allora, non è molto chiaro come lei vede la stampa. C’è di tutto, figlia mia, c’è di tutto. È una bella “macedonia”. Ho parlato del giudizio mediatico a quei sacerdoti in Spagna. Il danno che ha recato la stampa spagnola lì. Non tutta la stampa spagnola, un gruppetto di stampa spagnola. E sono stati giudicati innocenti. Chi riscatta quegli uomini ora? Uno ha già chiesto la riduzione allo stato laicale perché è rimasto psicologicamente distrutto. Io qui attacco i pregiudizi, il giudizio mediatico con forza. L’opinione no, l’opinione aperta no. Ci aiuta tutti. Cito ancora il mio viaggio di ritorno dal Cile, e penso a quei due o tre che mi hanno aiutato, con opinioni rispettose e non con giudizi. Questo mi ha aiutato. La stampa, solo la stampa, il giudizio mediatico credo sia ingiusto. L’opinione è sempre i pro e i contro, ossia l’equilibrio nel giudizio. Mi permetto un solo riferimento personale, perché c’è una cosa che mi ha colpito un po’, dopo il mio intervento nell’incontro nella sessione delle domande. Avevo parlato della Chiesa come madre, perché sono una madre e ovviamente la vedo così. Allora un vescovo mi ha detto: “bene, ma se la Chiesa è madre, è madre non solo delle vittime, ma anche di quanti hanno commesso abusi e di quanti li hanno coperti”. Non sapevo cosa rispondere Papa Francesco. Ho detto: “Io sono mamma, se un figlio mio si comporta male, una figlia mia, li punisco, anche se sono figli miei, perché devo dare loro l’esempio”. No. Essere madre è fare quello che lei fa con i suoi figli: li punisce, perché continua a essere madre, non gli dice: “Non sei più mio figlio”. Mi riferisco alle madri dei detenuti, per esempio. Una madre, sì, punisce, tollera, ma continua a essere madre. E la Chiesa deve punire, deve imporre pene serie, su questo siamo tutti d’accordo. Papa Francesco, fortunatamente non ci sono solo abusi nella vita della Chiesa, ci sono molte cose positive, diciamo, e molti temi. E anche il suo pontificato non lo possiamo ridurre solo a questo tema. C’è molta gente che a volte ha dei dubbi, che rimane perplessa davanti ad alcune sue affermazioni. Per esempio, c’è gente che dice: “mi sembra che al Papa piacciano più quelli lontani dei suoi”. È un complimento per me! È quello che faceva Gesù, e lo accusavano di questo. E Gesù dice: del medico hanno bisogno i malati, non i sani, quelli che sono lontani. Gesù lo accusavano continuamente: va con i peccatori, mangia con i peccatori, si unisce ai monchi... Lei preferisce quelli di fuori o quelli di dentro? Non preferisco, no. Preferisco, no. Ma priorità sì. Priorità sì. Se hai già qualcuno in casa che si prende cura di te, vado a cercare gli altri. Mi assicuro che anche gli altri siano accuditi e vado a cercarne altri ancora. Se un pastore non cura bene quelli di dentro, lo sgrido. Questo è un altro tema. Molti si lamentano, dicono che lei sgrida molto i suoi. Lo sa? Lo sa che cosa mi ha detto uno? “Sembra il capo dell’opposizione”. Mi ha detto: “ci rimprovera continuamente, a noi vescovi e sacerdoti, e sa cosa? Lui è il buono e noi siamo i cattivi”. Ebbene, da un lato i giornalisti mi accusano di tollerare, che tollero troppo la corruzione della Chiesa, e dall’altro se li rimprovero, mi dicono: “li rimprovera troppo”. È una cosa bella. Così mi sento pastore. Grazie. Lo dirò loro. Sì. In ogni modo questa preferenza per quanti sono lontani Gesù ce l’aveva e glielo hanno rinfacciato. Non trascurava gli altri, io cerco di non trascurare gli altri. Quello che succede è che a volte si sentono trascurati. Per esempio, lei va in parrocchia, però prima si ferma in un campo rom davanti alla parrocchia, arriva tardi alla parrocchia, forse i parrocchiani non la vedono passare perché si è fermato nel campo rom e dicono: “perché si fermato nel campo rom se i parrocchiani siamo noi?” Si sente di tutto. Quando vado a una parrocchia, comunque, quello che faccio è tutto programmato. Ossia, se mi fermo in un posto, non è per caso. È in programma che mi fermi lì. In ogni modo questo succede, è una famiglia, la Chiesa è così. È ovvio, Gesù andava sempre a cercare quanti erano lontani, andava a cercare, usciva. È questa la chiave. Non lo faccio sempre e me ne faccio una colpa, a volte mi trovo nel peccato, per averlo trascurato. Ma credo che sia mio dovere e devo farlo. C’è un altro tema, glielo avranno detto mille volte, quello dei migranti dei rifugiati. C’è gente che dice che lei parla sempre del tema dei migranti, e parla molto di più di questo tema che magari di altri, dei valori che prima si dicevano valori irrinunciabili del cattolicesimo, come la difesa della vita, per dirne uno. Allora, perché sente che è la sua priorità, perché io sento che questo tema forse è una delle sue grandi priorità. Perché è una priorità oggigiorno nel mondo. Iniziamo a parlare dei migranti allora. È una priorità nel mondo, il mondo migratorio è giunto a un punto tale, oggi, che ho preso nelle mie mani la sezione migranti del Dicastero dello Sviluppo Umano Integrale per darle un significato. Tutti i giorni veniamo a sapere che il Mediterraneo sta diventando sempre più un cimitero, solo per fare un esempio. Porti chiusi... È triste, vero? In ogni modo, non ho detto solo questo io. Dei migranti dico, primo, che bisogna avere il cuore per accoglierli. Secondo, che “li accogliamo e poi li lasciamo”, no. Bisogna accompagnare, promuovere e integrare. È un intero processo. E ai governanti dico: vedete fino a che punto potete. Non tutti i paesi possono. E a tal fine è necessario il dialogo e che si mettano d’accordo. Bisogna integrare tutto ciò, non è facile affrontare il problema dei migranti, non è facile. Ora stiamo cercando, attraverso i canali umanitari, di portare alcuni da Lesvos e uno da Moria, non so se di uno o dei due campi, perché è un’emergenza mondiale. Faccio sempre l’esempio della Svezia, che conosco molto bene in quanto dalla dittatura del ’76 in poi in Argentina e in America Latina nella Operación Cóndor, gli svedesi operarono molto bene. È pieno di latinoamericani in Svezia. Li accoglievano tutti, c’era tutta un’organizzazione, dopo due giorni andavano a scuola dove pagavano un tot al giorno, ricevevano una casa provvisoria, poi una volta imparata la lingua, davano loro un lavoro e li integravano. E questo la Svezia lo ha potuto fare fino ai giorni nostri. Ora ha più difficoltà, visti i numeri, ma lo ha detto. Il suo sistema è una meraviglia. Sono rimasto anche molto colpito quando sono stato a Lund. Mi ha accolto il Primo Ministro e dopo, nella cerimonia di commiato, il ministro della Cultura. È una donna giovane, molto attiva. Gli svedesi sono tutti biondi e con occhi chiari, e quella ragazza era un po’ “marroncina”, un po’ “brunetta”, come dicono gli italiani, mora. E, chiaro, era la figlia di una svedese e di un migrante africano. Vede come viene trattato un migrante in Svezia: sua figlia è ministro del paese! È fantastico! Faccio sempre questo esempio. È forse il paese che ha sviluppato di più questo aspetto. Perché io l’ho vissuto sulla mia carne, con quanti fuggivano dall’Argentina diretti in Svezia. Ma bisogna vedere un po’ quello che può fare il paese. Quel che accade è che tra paesi non si dialoga, tra i paesi si mettono frontiere; è chiaro, chi soffre? I più deboli che sono i migranti. Poi c’era un problema molto serio con i rimpatriati. Non so se lei ha visto i filmati clandestini girati quando li ricatturano: le donne e i bambini vengono venduti, gli uomini li tengono come schiavi, li torturano. Quei filmati sono terribili. Se non li ha visti, io li ho e posso passarglieli. Allora dico, attenzione anche con i rimpatri senza sicurezza. Anche per rimpatriare occorre un dialogo con il paese di origine e non semplicemente alzare un muro o chiudere le porte di casa. Perché il Papa si occupa oggi tanto dei migranti e parla tanto dei migranti? Perché è un problema scottante, attuale. Ma il Papa continua a parlare della vita, contro l’aborto ho detto cose molto dure, molto dure. Ripeto tutto quello che ha sempre detto la Chiesa, ossia non ho trascurato il resto. Mi sto giustificando? No, ma non voglio che ci sia una cattiva impressione, neanche in quanti vedranno questo programma. Sull’aborto faccio domande molto chiare: È giusto — questa domanda l’ho già fatta a un altro giornalista in piazza e mi ha risposto la piazza — è giusto eliminare una via umana per risolvere un problema? E la piazza ha gridato: no! Seconda domanda: È giusto assoldare un sicario per risolvere un problema? No. L’aborto non è un problema religioso nel senso che perché sono cattolico non posso abortire. È un problema umano. È un problema di eliminare una vita umana. Punto. E qui mi fermo. E non si può giustificare in alcun caso È giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema? La risposta la lascio a lei. A quanti mi stanno ascoltando. Ed è tutto molto chiaro. Dire che la Chiesa chiede e non chiede, che permette..., per favore non mettiamo la Chiesa in qualcosa che è pre- Chiesa, pre-cristiano, qualcosa che è puramente umano. Come quel prete tanto buono che a un giovane che gli confessò: “padre, padre, ho ucciso mia madre” rispose: “bene, figlio mio, non lo fare più”. Come se uccidere la madre fosse un problema della Chiesa. È un problema umano. E con i governi, come si sente? È un aspetto che a volte richiama la nostra attenzione durante i viaggi, perché è impossibile trovare un governo che fa tutto quello che piacerebbe alla Chiesa: che abbia la politica sociale che vuole la Chiesa, che difenda i valori della religione cattolica e umani. Come lei dice, è complicato. A volte ci sono governanti, quelli di sinistra per intenderci, che magari hanno piani sociali che a lei piacciono molto, ma non rispettano i valori cattolici e umani. Al contrario, uomini di destra che attaccano l’aborto ma hanno un programma sociale ingiusto, e si ha come la sensazione che a lei piacciano più i primi che i secondi. È un’impressione sbagliata? No, non mi piace rispondere “mi piace di più, mi piace di meno”. No, voglio essere onesto in questo. Di fronte a un governante io cerco di dialogare con il meglio che ha. Perché è a partire dal meglio che ha che può fare del bene al suo popolo. E nei discorsi cerco di farlo. A volte nei discorsi dico cose più generali dei problemi del paese e poi nell’incontro privato mi permetto di fare un passetto in più. Ma bisogna riconoscere il bene che c’è in una persona, anche se poi ha pure cose cattive. “Lei ha questo, è bene, continui in questa direzione”. Così mi muovo. E trovo qualcosa di buono in tutti, buona volontà, anche nei non credenti, fanno sempre qualcosa di buono. E questo serve anche per le persone. Cioè, “questa persona mi sta antipatica”. Bene, ma questa persona antipatica, che parlerà persino male di me, ha qualcosa di buono? E se ha questo e quello... Allora penso in ciò che ha di buono e la tormenta si calma. È una cosa che sarebbe bene che tutti facessero. Le ho dato un opuscolo che sto distribuendo nella Curia, perché siamo più propensi a parlare male della gente, ci viene bene. Ci può dire come si chiama? «Non sparlare degli altri», «Non criticate la gente». Questo è un difetto che abbiamo tutti, vediamo subito il difetto dell’altro, spettegoliamo, spettegoliamo. E questo vale per tutti: governanti, non governati, ragazzi, giovani, uomini, donne, tutti. Dicono che le donne sono più pettegole. Non è vero! Anche gli uomini sono pettegoli. E qui dentro, abbastanza... [ride] Perciò credo che ci farebbe bene, quando stiamo per fare un pettegolezzo, pensare: “c’è del buono in questa persona”. Tutti hanno qualcosa di buono. Allora rendo grazie a Dio per questo. E dopo sì, glielo puoi dire in privato, perché si corregga, diglielo. Ma non dirlo agli altri. Ora passiamo ai ricchi, ai poveri... Ho già parlato un po’ di questo problema quando ho parlato della migrazione. Forse c’è un altro tema che attira l’attenzione e che credo sarebbe bene spiegare. È il suo relazionarsi con le persone che vivono situazioni che prima si chiamavano “irregolari”, diciamo così. Le faccio un esempio. Quando lei ha ricevuto a Santa Marta un transessuale spagnolo con il suo compagno e, chiaro, quelle persone sono uscite da Santa Marta dicendo che lei le ha abbracciate, le ha benedette, ha detto che Dio le ama. Poi una donna argentina divorziata l’ha chiamata al telefono e ha poi riferito: «Il Papa ha detto che posso fare la comunione» e, chiaro, i fedeli, in un caso e nell’altro, vanno dai sacerdoti e dicono: «il Papa mi ha detto che va tutto bene e che posso fare la comunione». E i sacerdoti si mettono le mani nei capelli e dicono: «e ora che faccio?», perché la dottrina non è cambiata. Allora, come gestisce lei questa situazione? A volte la gente per l’entusiasmo di essere ricevuta dice più cose di quelle che ha detto il Papa, non lo dimentichiamo. È un rischio che lei corre... Chiaro, un rischio. Ma tutti sono figli di Dio, tutti siamo figli di Dio. Tutti. E io non posso scartare nessuno. Se devo fare attenzione a chi gioca sporco, a chi mi tende un tranello, devo far attenzione. Ma scartare, no. Non posso nemmeno dire a una persona che la sua condotta è in sintonia con quanto la Chiesa vuole, non posso farlo. Ma devo dirle la verità: “sei figlio di Dio e Dio ti ama così, ora, veditela con Dio”. Io non ho diritto di dire a nessuno che non è figlio di Dio perché non sarebbe la verità. E non posso dire a qualcuno che Dio non lo ama perché Dio ama tutti, ha amato persino Giuda. Chiaro, questi sono casi limite. Ciò che ho detto a quella signora, non lo ricordo bene, ma le devo aver detto sicuramente: “guardi, in c’è quello che lei deve fare, parli con un sacerdote, e con lui cerchi...”. Un cammino... Un cammino, apro un cammino. Ma faccio molta attenzione a dire “lei può fare o meno la comunione” a dodicimila chilometri di distanza, sarebbe un atto d’irresponsabilità. E inoltre sarebbe cadere nella casistica, posso o non posso, cosa che non accetto. È un processo d’integrazione nella Chiesa. Se tutti noi pensassimo che le persone che stanno in situazioni irregolari... non facciamolo, non mi piace. Sì, è una parola che lei detesta, e anch’io, ma per capirci. Se ci convincessimo che sono figli di Dio, la cosa cambierebbe abbastanza. Mi hanno fatto una domanda durante il volo — dopo mi sono arrabbiato, mi sono arrabbiato perché un giornale l’ha riportata — sull’integrazione familiare delle persone con orientamento omosessuale. Io ho detto: le persone omosessuali hanno diritto a stare nella famiglia, le persone con un orientamento omosessuale hanno diritto a stare nella famiglia e i genitori hanno diritto a riconoscere quel figlio come omosessuale, quella figlia come omosessuale, non si può scacciare dalla famiglia nessuno né rendergli la vita impossibile. Un’altra cosa che ho detto è: quando si vede qualche segno nei ragazzi che stanno crescendo bisogna mandarli, avrei dovuto dire da un professionista, e invece mi è uscito psichiatra. Titolo di quel giornale: “Il Papa manda gli omosessuali dallo psichiatra”. Non è vero! Mi hanno fatto un’altra volta la stessa domanda e ho ripetuto: sono figli di Dio, hanno diritto a una famiglia, e basta. E ho spiegato: mi sono sbagliato a usare quella parola, ma volevo dire questo. Quando notate qualcosa di strano, no, non di strano, qualcosa che è fuori dal comune, non prendete quella parolina per annullare il contesto. Quello che dice è: ha diritto a una famiglia. E questo non vuol dire approvare gli atti omosessuali, tutt’altro. Sa che succede, che lei molte volte si stacca dal contesto, è anche un vizio della stampa. Quando lei ha detto nel suo primo viaggio quella famosissima frase: “chi sono io per giudicare”, lei prima aveva detto: “sappiamo già quello che dice il catechismo”. Ciò che succede è che questa prima parte non si ricorda, si ricorda solo: “chi sono io per giudicare”. Allora anche questo ha suscitato molte aspettative nella comunità omosessuale mondiale, perché hanno pensato che lei sarebbe andato avanti. Sì, ho fatto dichiarazioni come questa della famiglia per andare avanti. La dottrina è la stessa, quella dei divorziati è stata riadattata, in linea però con Amoris laetitia, nel capitolo ottavo, che è recuperare la dottrina di San Tommaso, non la casistica. È questo il problema che a volte si crea. Lo capisco, ma non quando tolgono una parola dal contesto come con quel “psichiatra”, non ne avete il diritto. Ed è strano, mi hanno raccontato che è stata una persona non credente a difendermi. Ha detto una cosa mai sentita prima, che la frase “veda uno psichiatra” era un lapsus linguae. Papa Francesco, c’è una cosa che richiama la mia attenzione. Alcuni suoi conoscenti quando viveva in Argentina dicono che lei era conservatore, per usare sempre categorie, diciamo, nella dottrina. Sono conservatore. Lei ha fatto tutta una battaglia sui matrimoni con persone dello stesso sesso in Argentina. E poi dicono che è venuto qui, è stato eletto Papa e ora sembra molto più liberale di quanto lo fosse in Argentina. Si riconosce in questa descrizione che fanno alcune persone che l’hanno conosciuta prima, o è stata la grazia dello Spirito Santo che le ha dato di più? [ride] La grazia dello Spirito Santo esiste, certo. Io ho sempre difeso la dottrina. Ed è curioso, nella legge sul matrimonio omosessuale... è un’incongruenza parlare di matrimonio omosessuale. Allora non è vero che prima era una cosa e ora un’altra. No, prima ero una cosa e ora sono un’altra, è vero. Sì, perché ora è Papa. No, perché confido nel fatto che sono cresciuto un po’, che mi sono santificato un po’ di più. Si cambia nella vita. Che ho ampliato i criteri, può essere, che vedendo i problemi mondiali ho avuto più coscienza di certe cose di quanta ne avessi prima. No, credo che in tal senso ci sono cambiamenti, sì. Ma, conservatore... sono tutte e due le cose. Sarebbe tutte e due le cose allora? E sì, in Argentina andavo nelle villas, in una villa per esempio ho avuto un infarto, e poi mi preoccupavo pure che la catechesi fosse seria. Non so, un poco... un mix. È molto difficile rinchiudere le persone in categorie. È vero. Ma pensando a questa evoluzione che lei dice di aver avuto in questi sei anni, se dovesse dirci le cose migliori che ha fatto in questi sei anni... Ascoltarvi, credo che per me sia stata una cosa, non dico la migliore, ma una cosa molto bella. Anche se critichiamo. Sì. Non siamo nemici. No, però se criticate bene, Dio sia benedetto, se criticate male, ve lo dico e chiarisco certe cose. Perché il ruolo della stampa non è solo di criticare, ma anche di costruire, costruire. A volte attraverso la critica, a volte sviluppando una cosa buona, elogiando la presa di una decisione buona, a volte richiamando l’attenzione su qualcosa, senza criticare, ma “con attenzione a questo”. È costruire, costruire. La stampa deve costruire. Una critica costruttiva, diciamo. Costruttiva. Quando è critica, ma costruire dopo la critica. Sono anche consapevole di una cosa che vi riguarda: che non sempre siete liberi, purtroppo molti per vivere e tutto il resto dipendono da una linea editoriale e non sempre possono dire tutto quello che vorrebbero dire o che sentono, e in questo vi sono vicino, vi capisco, ma non sempre, che sia chiaro. Ci sono molti giornalisti che pagano con la vita il loro lavoro in Messico e in moltissimi altri paesi. Sì, è vero. È una vita dura e non totalmente libera, è questo il punto. Qual è la cosa più bella che crede di aver fatto? La cosa più bella per me è sempre stare con la gente, che vuoi che ti dica. Rinasco quando vado in piazza, quando vado in una parrocchia. Le carceri... Carceri, stare con la gente. Sì, sono Papa, sono vescovo, sono stato cardinale, potete togliermi tutto, ma, per favore, non mi togliere l’essere prete. Che odora di pecora tra l’altro... Che odora di pecora e che odora di sacrario, tutte e due gli odori. Questo lo vivo, nella mia vocazione, l’essere prete. Una cosa che pensa di aver fatto male, che non rifarebbe nello stesso modo? Parliamo degli errori in Cile per esempio. Qualche errore di giudizio in alcune decisioni che poi ho dovuto rettificare, allora ne ho fatti diversi. Alcuni che non conoscete grazie a Dio, altrimenti mi avreste criticato duramente. Ce lo può raccontare, abbiamo tempo. Gli errori si fanno sempre. Mi confesso ogni quindici giorni, segno che commetto sbagli. E sono confessioni lunghe o no? La curiosità femminile eh? The woman’s touch. Era per rendere tutto più piacevole. È già bello. Papa Francesco, si sente molta polarizzazione, nel mondo in generale, anche nella Chiesa, qui dentro, non in questa sala, ma dentro il Vaticano, ovunque. Non è una prerogativa del Vaticano. Polarizzare è una tentazione distruttiva. Ma si percepisce molto forte anche dentro la Chiesa, quei gruppi... Anche, beh, lei stessa ha detto che alcuni mi accusano di essere eretico... L’essere eretico, come l’ha presa? Con senso dell’umorismo, figlia mia. Non le dà molto peso… No, no, inoltre prego per loro perché stanno sbagliando e, povera gente, alcuni sono manipolati. E chi erano quelli che firmavano... No, davvero, senso dell’umorismo e direi tenerezza, tenerezza paterna. Ossia, non mi ferisce affatto. Mi feriscono l’ipocrisia e la menzogna, queste sì mi feriscono. Ma un errore così, dove c’è persino gente a cui hanno riempito la testa di... no, per favore, bisogna prendersi cura anche di loro. Si ha la sensazione che esista un paradosso tra lei, che in tutti i modi gode di grande popolarità — alle persone piacciono molto la sua vicinanza, la sua umanità, il fatto che sia una persona tanto spontanea — e una Chiesa che vive una crisi. Quindi parrebbe esserci una contraddizione tra una Chiesa in crisi e un Papa che gode di popolarità. Come si vive tutto ciò? Bene, anche il Papa attraversa delle crisi. Parliamo di una di queste. Anch’io. E anche la Chiesa vive momenti di popolarità. Credo che la Chiesa stia cambiando, lo dimostrano i tentativi di riforma che stiamo facendo, che si fanno, che non sono merito mio. Questo è stato chiesto da tutti i cardinali al Papa che stava per essere eletto. Ossia, colui che stava lì, che stava per diventare Papa, ha ascoltato tutto. E nel mio caso non faccio che mettere in moto quello che loro mi hanno chiesto, cioè coscienza di queste crisi della Chiesa. Però le crisi sono anche di crescita; per me è una crisi di crescita, dove bisogna aggiustare certe cose, promuoverne altre e andare avanti, avanti in questo aspetto. Questo non lo vivo come contrapposizione perché ci sono persone più popolari di me nella Chiesa e pastori popolari molto amati dal popolo. E io l’ho visto nella mia patria e altrove. Anche qui in Italia. L’esempio è il nuovo vescovo di Lucca, Giulietti: “Entrerò camminando nella mia diocesi, camminando”. Un po’ di semi-sport, chiaro, la gente ha visto: “questo nuovo pastore non viene in una limousine già tutto ben vestito”. E il popolo si è andato raccogliendo attorno e c’erano 2300 giovani con lui. Arrivato alla cattedrale, prima di entrare, si mette la sottana, si veste da vescovo ed entra con il suo popolo. È fantastico! Questa non è una Chiesa in crisi, è una Chiesa in crescita! Ed è solo l’ultimo esempio che è uscito sui giornali. E ce ne sono tanti, quando vediamo questi uomini e queste donne sepolti in paesi lontani che consumano la loro vita lì. La suorina dei tremila parti che ho incontrato nella Repubblica Centrafricana... questa è la forza. A essere in crisi sono le modalità che formano la Chiesa, che devono cadere. Siamone consapevoli. Lo Stato della Città del Vaticano come forma di governo, la Curia, quello che è, è l’ultima corte europea di una monarchia assoluta. L’ultima. Le altre sono ormai monarchie costituzionali. La corte si diluisce. Qui ci sono ancora strutture di corte, che sono ciò che deve cadere. Con la sua riforma ha la sensazione che già stiamo per... Non è la mia riforma... Sì, ma lei l’ha presieduta... Però l’hanno richiesta i cardinali. Questa è la realtà. Lei l’ha dovuta portare avanti... Sì, l’abbiamo portata avanti come abbiamo potuto. È una riforma che stiamo portando avanti, cercando di dividere gli accordi. La gente ha voglia di riformare. Per esempio il palazzo di Castel Gandolfo, che viene da un imperatore romano, restaurato nel Rinascimento, oggi non è più un palazzo pontificio, oggi è un museo, è tutto un museo. E quindi il prossimo Papa se vorrà andare a passare l’estate lì, e ne ha diritto, ci sono due palazzi, può andare in uno di questi, è tenuto bene. Però questo è un museo. Si cambia... La corte si trasferiva tutta a Castel Gandolfo perché sono abitudini, costumi antichi che si possono riformare. Il Papa deve andare in vacanza, ovviamente! Ebbene, Giovanni Paolo II andava a sciare. Benedetto andava a camminare in montagna... è giusto. Il Papa è una persona, una persona umana. Ma lo schema di corte deve sparire. E questo lo hanno chiesto tutti i cardinali, ebbene, la maggior parte, grazie a Dio. Ha appena menzionato Giovanni Paolo II. C’era una domanda, che avevo in mente, che ha suscitato certi dubbi. Lei in aereo, in uno dei suoi ultimi viaggi, ha riportato un aneddoto, si ricorda? Tutti hanno capito che si stava riferendo al caso Maciel. Sembra che il cardinale Ratzinger sia andato con i suoi documenti a una riunione, per esporre le accuse contro il fondatore dei Legionari di Cristo, e che sia uscito da lì e abbia detto al suo segretario: “ha vinto l’altro partito”. Alcuni giornalisti l’hanno interpretato dicendo che Giovanni Paolo II era a quella riunione e che aveva ostacolato... No, no. Giovanni Paolo II non era lì. Era a una riunione dei responsabili della Curia, di diversi dicasteri, per vedere il caso di Maciel. Anche Giovanni Paolo II a volte è stato ingannato, è certo. Lo è stato nel caso dell’Austria, per esempio, del primate di Vienna, quel monaco benedettino che sembrava in un modo e poi si è scoperchiata la pentola... Quattro anni fa lei mi ha addirittura detto che le risultava che avevano autorizzato il cardinale Ratzinger a investigare su Maciel, alla fine della sua vita. Sì, sì. In questo Ratzinger è stato coraggioso. E anche Giovanni Paolo II. Bisogna capire certi atteggiamenti di Giovanni Paolo II perché veniva da un mondo chiuso, dalla cortina di ferro, dove ancora vigeva tutto il comunismo. E c’era una mentalità difensiva. Dobbiamo comprendere bene, nessuno può dubitare della santità di questo uomo e della sua buona volontà. È stato un grande, è stato un grande. Lei, quando ha detto che se il prossimo Papa vorrà andare a Castel Gandolfo lo potrà fare, mi ha fatto pensare a una cosa. Si ricorda che quattro anni fa mi ha detto: “ho la sensazione che il mio pontificato sarà breve, due, tre, quattro anni”. Siamo già al sesto, fortunatamente intendo. Ho ancora la stessa sensazione. Ha ancora questa sensazione? Sì. Sono passati già sei anni, non è così breve. Ma non pensiamo neanche a venti. Vent’anni forse no, visto che ora ne ha 82, ma magari festeggeremo i cento. Io ho festeggiato i 150 [viaggi papali], mi ha detto che non ero poi così mummia... Potremo poi celebrare il suo compleanno, i suoi cento anni. Va bene... Mi ricordo anche che mi ha detto che quello che più le mancava dei tempi in cui non era Papa era uscire di nascosto a mangiare una pizza. Si ricorda? Ci è riuscito? No. Quello che più mi mancava era girovagare per le strade, e a Roma, invece, uscire di nascosto a mangiare una pizza. No, non l’ho fatto. No, è una cosa a cui devo rinunciare perché a Buenos Aires andavo in metro da una parrocchia all’altra, o camminavo per le strade. A me la strada dice molto, imparo molto in strada. Non abbiamo parlato ancora dei grandi temi del dialogo interreligioso e della geopolitica, che chiaramente sono una parte molto importante del suo pontificato. E nell’ultimo anno credo che sia stato particolarmente evidente il suo avvicinamento al mondo dell’islam, con momenti molto importanti: il primo viaggio di un Papa negli Emirati, la firma sulla fratellanza umana. Qual è la sua strategia verso l’islam, lo sente come una priorità in questo momento? Penso di sì. Quando vado nei quartieri qui a Roma, nelle parrocchie alcuni mi dicono “sono musulmano, sono musulmana”, ma mi vengono comunque a salutare, le donne con il velo. Ossia, l’islam è entrato di nuovo in Europa, siamo realisti. L’islam è una realtà che non possiamo ignorare. In alcuni paesi dell’Africa gli islamici e cristiani vivono come amici, sono molto amici. Ci ha raccontato un vescovo che durante il Giubileo nella cattedrale c’era sempre una lunga fila di gente, dalla mattina alla sera. Un vescovo dell’Africa. Alcuni andavano a confessarsi, altri rimanevano a pregare. La maggior parte si fermava davanti all’altare della Vergine. Erano tutti islamici! Lui un giorno ha detto: “ma voi siete musulmani, che venite a fare qui?”. “Vogliamo ottenere il giubileo anche noi”. Andavano all’altare della Vergine. Credo che siamo fratelli, veniamo tutti da Abramo, e su questo punto seguo le linee del Concilio: tendere la mano, a ebrei, islamici, tendere il più possibile la mano. Certo che l’islam è ferito fortemente da gruppi estremisti, da gruppi intransigenti, fondamentalisti. Anche noi cristiani abbiamo gruppi fondamentalisti, piccoli gruppi fondamentalisti, che non sono guerriglieri ovviamente. Ma ci sono. Bisogna aiutarli con la vicinanza, perché mostrino il meglio che hanno, che non è certo la guerriglia. Firmare con leader moderati. C’è il grande tema dei martiri cristiani. Basti pensare all’Iraq e ultimamente anche allo Sri Lanka. Sì, bastano piccoli gruppi a fare disastri. Perché con la tecnica dei kamikaze... E poi c’è la Cina, che è il suo sogno. Il mio sogno è la Cina. Voglio molto bene ai cinesi. Vuole andare in Cina? In Giappone. Con la Cina le relazioni sono molto buone, molto buone. Con l’accordo che c’è stato... L’altro giorno sono venuti da me due vescovi cinesi, uno che veniva dalla Chiesa nascosta e l’altro dalla Chiesa nazionale. Già riconosciuti come fratelli, sono venuti qui a visitarci. È un passo importante questo. Sanno che devono essere buoni patrioti e che devono prendersi cura del gregge cattolico. Con la Cina c’è anche uno scambio culturale impressionante. Abbiamo anche aperto un Padiglione in Vaticano. È un cammino di avvicinamento... Sì, e inoltre loro accettano sacerdoti cattolici, esperti in alcune materie, come loro professori universitari. Ossia dal punto di vista culturale ci sono buoni rapporti, ottimi rapporti. In questo momento va bene. I cattolici cinesi si sono sentiti un po’ messi da parte da questo accordo. I cattolici in generale no. I cattolici sono felici ora di essere uniti, sono sempre stati uniti loro. Qualche dirigente forse, ed è normale. È successo lo stesso nel caso dell’Ungheria, penso a Mindszenty. Alcuni hanno pensato che si stava negoziando il cardinale Mindszenty, che Paolo VI lo stava negoziando, ma non era così. Con tutta la politica estera dei piccoli passi, è normale che qualcuno si senta fuori, questo è vero, ma è una minoranza. Di fatto la Pasqua l’hanno celebrata tutti insieme, tutti insieme e in tutte le chiese. Quest’anno non ci sono stati problemi. Ci porta in Cina? Mi piacerebbe davvero! Per lei sarebbe il viaggio numero cento... gli dia un numero. Dipende da quanto ci si metterà a farlo... Facciamo il contrario, lei gli metta il numero e già è cabala. 260... Papa Francesco mi ha già concesso troppo tempo... Vi ringrazio, vi ringrazio molto. Vorrei concludere parlando a Rocío. Questa donna non ha potuto vedere i suoi figli, non li ha visti crescere, e qui sta la sua maglietta. Vorrei dire a quanti ci stanno seguendo che più che una maglietta è una bandiera, una bandiera della sofferenza di tante donne che danno vita e danno la vita, e che passano senza un nome. Di Rocío conosciamo il nome, anche di Grecia, ma di tante altre no. Passano senza lasciare il nome ma lasciano il seme. Il sangue di Rocío e di tante donne uccise, usate, vendute, sfruttate, credo che debba essere seme di una presa di coscienza di tutto ciò. Vorrei chiedere a quanti ci stanno vedendo di fare per un momento silenzio nel proprio cuore per pensare a Rocío, per darle un volto, per pensare a donne come lei. E se pregate, pregate, se avete desideri, esprimeteli, e che il Signore vi dia la grazia di piangere. Piangere su tutta questa ingiustizia, su tutto questo mondo selvaggio e crudele, dove la cultura sembra essere solo una questione d’enciclopedia. Vorrei cioè concludere con questo ricordo e con la parola Rocío. La ringrazio molto, come donna e come messicana. Grazie, Papa Francesco.

Il cristiano è giovane sempre Messa a Santa Marta

«O sei giovane di cuore, di anima, o non sei pienamente cristiano». L’omelia della messa celebrata da Papa Francesco a Santa Marta la mattina di martedì 28 maggio, è stata un vero e proprio inno alla vita, alla vitalità, alla «giovinezza dello Spirito», da contrapporre alla deriva stanca di tante persone “pensionate” nell’animo, abbattute dalle difficoltà e dalla tristezza perché «il peccato invecchia». Una ventata di gioia fondata sul «grande dono che ci ha lasciato Gesù»: lo Spirito Santo. Punto di partenza della riflessione del Pontefice è stato il brano evangelico del giorno (Giovanni, 16, 5-11) che riportava uno stralcio del discorso di congedo agli apostoli durante l’ultima cena. In quell’occasione Gesù «dice tante cose», ma «il cuore di questo discorso è lo Spirito Santo». Il Signore, infatti, offre ai suoi amici una vera e propria «catechesi sullo Spirito Santo»: comincia col notare il loro stato d’animo - «Perché ho detto questo che me ne vado, la tristezza ha riempito il vostro cuore» - e «li rimprovera soavemente» perché, ha notato il Papa, «la tristezza non è un atteggiamento cristiano». Il turbamento interiore degli apostoli - che, davanti al dramma di Gesù e all’incertezza sul futuro, «cominciano a capire il dramma della passione» - è accostabile alla realtà di ogni cristiano. A tale riguardo Francesco ha ricordato come nell’orazione colletta del giorno «abbiamo domandato al Signore che mantenga in noi la rinnovata giovinezza dello spirito», elevando così un’invocazione «contro la tristezza nella preghiera». È proprio questo, ha aggiunto, il punto: «Lo Spirito Santo fa che in noi ci sia sempre questa giovinezza, che si rinnova ogni giorno con la sua presenza». Approfondendo tale concetto, il Pontefice ha ricordato: «Una grande santa ha detto che un santo triste è un triste santo; un cristiano triste è un triste cristiano: non va». Cosa significa? che «la tristezza non entra nel cuore del cristiano», perché egli «è giovane». Una giovinezza che si rinnova e che «gli fa portare sulle spalle tante prove, tante difficoltà». Cosa che - ha spiegato facendo riferimento alla prima lettura tratta dagli Atti degli apostoli (16, 22-34) - è accaduta, ad esempio, a Paolo e Sila che vennero fatti bastonare e incarcerare dai magistrati a Filippi. In quel frangente, ha detto il Papa, «entra lo Spirito Santo e rinnova tutto, fa tutto nuovo; anche fa giovane il carceriere». Lo Spirito Santo, quindi, è colui «che ci accompagna nella vita, che ci sostiene». Come espresso dal nome che Gesù gli dà: «Paraclito». Un termine insolito, il cui significato spesso sfugge a molti. Su questo il Pontefice ha anche scherzato raccontando un breve aneddoto relativo a una messa da lui celebrata quando era parroco: «C’erano più meno 250-300 bambini, era una domenica di Pentecoste e quindi ho domandato loro: “Chi sa chi è lo Spirito Santo?”. E tutti: “Io, io, io!” – “Tu”: “Il paralitico”, mi ha detto. Lui aveva sentito “Paraclito” e non capiva cosa fosse» e così disse: «paralitico». Una buffa storpiatura che però, ha detto Francesco, rivela una realtà: «Tante volte noi pensiamo che lo Spirito Santo è un paralitico, che non fa nulla... E invece è quello che ci sostiene». Infatti, ha spiegato il Pontefice, «la parola paraclito vuol dire “quello che è accanto a me per sostenermi” perché io non cada, perché io vada avanti, perché io conservi questa giovinezza dello Spirito». Ecco perché «il cristiano sempre è giovane: sempre. E quando incomincia a invecchiare il cuore del cristiano, incomincia a diminuire la sua vocazione di cristiano. O sei giovane di cuore, di anima o non sei pienamente cristiano». Qualcuno potrebbe spaventarsi delle difficoltà e dire: «“Ma come posso...?”: c’è lo Spirito. Lo Spirito ti aiuterà in questa rinnovata giovinezza». Ciò non significa che manchino i dolori. Paolo e Sila, ad esempio, soffrirono molto per le bastonate ricevute: «Dice il testo che il carceriere quando ha visto quel miracolo ha voluto convertirsi e li ha portati a casa sua e ha curato le loro ferite con olio... ferite brutte, forti...». Ma nonostante il dolore, essi «erano pieni di gioia, cantavano... Questa è la giovinezza. Una giovinezza che ti fa guardare sempre la speranza». E come si ottiene questa giovinezza? «Ci vuole - ha detto il Papa - un dialogo quotidiano con lo Spirito Santo, che è sempre accanto a noi». È lo Spirito «il grande dono che ci ha lasciato Gesù: questo supporto, che ti fa andare avanti». «E così, a chi dice: “Eh sì, Padre, è vero, ma lei sa, io sono un peccatore, ho tante, tante cose brutte nella mia vita e non riesco...», si può rispondere: «Va bene: guarda i tuoi peccati; ma guarda lo Spirito che è accanto a te e parla con lo Spirito: lui ti sarà il sostegno e ti ridarà la giovinezza». Perché, ha aggiunto, «tutti sappiamo che il peccato invecchia: invecchia. Invecchia l’anima, invecchia tutto. Invece lo Spirito ci aiuta a pentirci, a lasciare da parte il peccato e ad andare avanti con quella giovinezza». Perciò Francesco ha esortato a lasciare da parte quella che ha definito la «tristezza pagana», spiegando: «Non dico che la vita sia un carnevale: no, quello non è vero. Nella vita ci sono delle croci, ci sono dei momenti difficili. Ma in questi momenti difficili si sente che lo Spirito ci aiuta ad andare avanti, come a Paolo e a Sila, e a superare le difficoltà. Anche il martirio. Perché c’è questa rinnovata giovinezza». La conclusione dell’omelia è stata quindi un invito alla preghiera: «Chiediamo al Signore di non perdere questa rinnovata giovinezza, di non essere cristiani in pensione che hanno perso la gioia e non si lasciano portare avanti... Il cristiano non va mai in pensione; il cristiano vive, vive perché è giovane - quando è vero cristiano».

IL FOGLIO Pag 1 La chiesa italiana sconfitta dal rosario di Salvini è davanti al bivio: rifare i Patti lateranensi o andare alla guerra totale? di Matteo Matzuzzi

Roma. Tra l'interventismo della stagione ruiniana e il tranquillo ripiegamento dei tempi correnti, il rischio che corre la Cei è quello dell'irrilevanza. Un bel paradosso, per la potente assemblea degli oltre duecento vescovi ordinari che per trent'anni è stata protagoni sta del dibattito politico nazionale. Un'irrilevanza che le urne di domenica scorsa hanno fatto intravedere, tra i milioni di schede pro Salvini con entusiasmo inserite nello scatolone anche in terre moderate già feudo incrollabile della Democrazia cristiana. E per di più un trionfo concretizzatosi solo pochi giorni dopo l'appello dei vescovi a votare contro i sovranismi e i populismi. I giornali, con logica deduzione, avevano non a caso scritto che invitava a votare tutti ma non Salvini, beccandosi una rettifica dello stesso leader della Cei, che spiegava di non aver mai detto ciò. Si era limitato, il successore di , a dire che "il problema non è innanzitutto l'Europa, bensì l'Italia, nella nostra fatica a vivere la nazione come comunità politica". E, cosa più importante, "non si vive di soli ricordi, di richiami a tradizioni e simboli religiosi o di forme di comportamento esteriori". Il risultato è stato l'opposto: uscite da messa, le signore dei primi banchi si recavano al seggio e prima di entrare col dito scorrevano gli elenchi dei candidati della Lega appesi nei corridoi delle scuole. Niente da fare, neanche Famiglia Cristiana con i suoi "Vade retro Salvini" nulla ha potuto. E neppure i fischi della piazza di Milano al Papa sono riusciti a innestare una reazione indignata da parte dell' elettorato cattolico meno sensibile alla dialettica del noi contro loro tanto cara al ministro dell'Interno. Tra Salvini e il Papa, ha vinto Salvini con i suoi baci al rosario e l'affidamento dell'Italia al cuore immacolato di Maria. Il problema che si pone adesso in casa Cei non è di poco conto: conviene scendere a patti con il nemico che tutto sbanca, cercando un compromesso che porti all'abbandono della retorica molto sociale che sta segnando la politica episcopale italiana di questi ultimi anni, o è necessario andare allo scontro? Entrambe le opzioni hanno dei pro e dei contro, naturalmente. L'unica cosa inopportuna, e di sicuro poco gradita al Papa che dell'Italia è primate, è scegliere di restare in mezzo al guado, attendendo che la buriana passi citando un po' Sturzo e un po' La Pira, sognando una rinascita cattolica dal basso, dando ogni tanto qualche monito ai governanti di turno sui migranti da accogliere e sui poveri da sfamare. Con metà dei vescovi pronti alla guerra contro il salvinismo dei porti chiusi e dei vangeli branditi come arma e l'altra metà a pensare che tutto sommato sia meglio un politico che parla della Madonna anziché di uno che firma leggi sulle unioni civili. La Cei è stretta fra i desiderata papali di indire un grande Sinodo per l'Italia che archivi per sempre la svolta di Loreto del 1985 che inaugurò l'epopea ruiniana e chi viceversa vorrebbe tornare a quel protagonismo al quale guarda con nostalgia. Si capisce allora che anche solo immaginare una strada per uscire dal cul de sac con una riedizione dei Patti lateranensi che attestino il riconoscimento reciproco fra trono e chiesa, oggi Salvini e Bergoglio, è un'impresa ardua. Un vescovo, la scorsa settimana, invitava i confratelli a domandarsi perché Salvini avesse così successo, arrivando là dove neanche Silvio Berlusconi prima di lui era riuscito, portando la Lega a percentuali mai raggiunte neppure da Forza Italia al culmine della sua esperienza politica. Un po' forse c'entra anche l'appello al Cielo - non nel senso di John Locke - con la riabilitazione politica di Dio nel dibattito politico. Berlusconi cavalcò a suo tempo l'onda, con i rosari di Mamma Rosa, il "nostro patrimonio cristiano", e via discorrendo. Ma mai nessuno aveva usato la fede per appellarsi al popolo, per chiamarlo alle urne a difendere valori e princìpi minacciati. Che poi l'abbia fatto pro domo sua, per mere strategie, cambia poco. E non sono pochi coloro che davanti al Dio invocato, al Dio e a Maria Vergine entrati nel dibattito quotidiano, si sono lasciati andare alla constatazione che finalmente qualcuno torna a nominarli. Non è convinto della tesi Sergio Belardinelli, secondo il quale "premesso che in queste ultime elezioni europee Matteo Salvini ha saputo guadagnarsi senz'altro una buona fetta del voto cattolico, non credo che gli abbiano giovato in proposito i suoi ripetuti riferimenti a Dio, alla Madonna e ai rosari durante la campagna elettorale. Almeno lo spero", dice. "Non credo che l'elettorato cattolico sia stato conquistato dal fatto che egli abbia affidato al cuore immacolato di Maria l'esito della campagna elettorale. Né credo che Salvini si sia appellato a Dio come fanno ad esempio gli uomini politici americani". Sia ben chiaro - aggiunge - "non sto negando che esistano alcune frange del mondo cattolico che sentono ancora il fascino di una politica fatta nel nome di Dio. Si tratta però di frange marginali che non sono certo in grado di determinare l'esito di una competizione elettorale. Sono inoltre convinto che gli appelli di Salvini a Dio e alla Madonna abbiano suscitato più fastidio che entusiasmo anche tra i cattolici che alla fine hanno deciso di votarlo. Se dunque il partito della Lega fa breccia nel cosiddetto voto cattolico deve essere per qualche altra ragione". Capire quali è difficile, anche se Belardinelli è convinto "che c'entrino poco i rosari e la Madonna e molto invece la capacità di Salvini di individuare alcuni problemi molto sentiti da larghe fasce di popolazione, occultandone la complessità e offrendo nel contempo soluzioni semplici secondo la più collaudata delle logiche populiste. Non credo che le sue ricette funzioneranno, ma di certo bisogna riconoscergli il merito di aver guardato dove tutti gli altri, soprattutto la sinistra italiana, per troppi anni si sono rifiutati di guardare. Penso al disagio prodotto nelle periferie delle nostre città da un' immigrazione fuori controllo, e penso al profondo spaesamento culturale indotto da questo disagio, senza che nessuno dimostrasse di rendersene conto. Diceva Chistopher Lasch che lo sradicamento sradica tutto salvo che il bisogno di radici. Salvini e altri leader politici come lui in tutta Europa hanno capito che battere su questi temi sarebbe stato politicamente redditizio, a prescindere dalla loro capacità di comprenderne la portata. Molti cattolici li hanno votati per questo. Se c'entrassero Dio, la Madonna e i rosari vorrebbe dire che tutto sarebbe ancora più complicato". Massimo Introvigne, sociologo e direttore del Centro Studi Nuove Religioni, parte dall'editoriale di Bret Stephens sul New York Times del 24 maggio scorso, "Come Trump vincerà l'anno prossimo". "Stephens, che è un oppositore di Trump, commenta le vittorie di Modi in India e di Scott Morrison in Australia e cita anche Salvini e Bolsonaro, che ha appena partecipato a una consacrazione del Brasile al cuore immacolato di Maria da parte di vescovi conservatori, e questo benché sulla sua elezione abbia pesato l'appoggio degli evangelici, uno dei cui leader si è reso noto per avere preso a calci in televisione una statua della Madonna. In questo editoriale - dice Introvigne - ci sono due aspetti importanti. Il primo è che le due priorità delle sinistre di tutto il mondo sono il clima e l'accoglienza dei rifugiati e degli immigrati (due categorie, rifugiati e immigrati, e il commento è mio non di Stephens, che peraltro dovremmo imparare a tenere sempre distinte). E che queste non sono priorità per la maggioranza degli elettori, cui anzi danno l'itterizia - lo sono solo per l'elettorato urbano, agiato e laureato dei centri delle grandi città (dove infatti Trump e Salvini perdono), che però sono sotto assedio da parte dei contadi e delle periferie. Il secondo è che i Trump e i Salvini vincono in un mondo che ha paura con una retorica di 'noi contro loro', dove nel 'noi' c' è anche il forte riferimento alle religioni di maggioranza, non importa se reale (come nel caso di Modi) o un po' posticcio, come per Trump e Salvini. Un aspetto che il New York Times non tratta in quell' editoriale, e che invece va trattato per Salvini è che il leader mondiale della narrativa per cui le priorità sono clima e accoglienza non è un politico, ma un leader religioso che sta a Santa Marta. Direi che è anche l'unico leader credibile, che presenta questi temi in modo non caricaturale (come invece fanno certi democratici americani) e che li bilancia con interventi duri su temi etici come l'aborto e, ça va sans dire, riferimenti religiosi. Ma resta che per Papa Francesco accoglienza e clima sono priorità più urgenti delle guerre culturali su vita e famiglia e che, essendo lettore molto attento di cronache e sondaggi, sa benissimo che su questo l'opinione pubblica cattolica in maggioranza non è d'accordo con lui". Il fatto è che, prosegue Introvigne, "la maggioranza dei cattolici elettori rimane più interessata ai temi etici della vita e della famiglia e li considera prioritari rispetto all'ambiente o ai rifugiati -più -immigrati - temi, questi ultimi, su cui invece magari anzi si sente più vicina a Salvini che al Papa. Questo vuoto è astutamente occupato dai Salvini e Bolsonaro". Secondo il sociologo, "l'errore delle élite urbane è quello di disprezzare le periferie e i politici che, rappresentandole, vincono come semplici barbari e buzzurri. Mentre chi non si fa carico delle preoccupazioni delle periferie è destinato a continuare a perdere. Qui c'è una sfida anche per la chiesa di Papa Francesco. Che non cambierà la sua agenda e le sue priorità per qualche risultato elettorale".

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

AVVENIRE Pag 3 Dalla MMT arriva una spinta a riscoprire il miglior Keynes di Alessandra Smerilli La teoria monetaria moderna non è la soluzione a tutti i problemi attuali, ha però il merito dell’innovazione

«I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi». Sembra una frase scritta oggi. Invece è del 1936 ed appartiene a John Maynard Keynes, l’economista che in un periodo di grave crisi ha scardinato alcuni dettami della teoria economica classica. L’assonanza ci fa comprendere come anche questo momento necessiti di teorie nuove, perché con le chiavi di lettura della teoria economica facciamo fatica a trovare soluzioni e a indicare piste per uno sviluppo nuovo e diverso. Sarà anche per questo motivo che a marzo 2020 papa Francesco convocherà ad Assisi giovani economisti da tutto il mondo: forse la freschezza delle loro idee, unita alle competenze che si stanno formando, potrebbe aprirci a nuove letture, a nuovi sentieri. Intanto, mentre assistiamo a tanto dissenso verso le politiche economiche attuali, poche sono le voci propositive. Tra queste c’è sicuramente la Modern Monetary Theory (MMT), della quale 'Avvenire' si sta occupando in modo approfondito da alcune settimane, attraverso un ampio dibattito che si avvale di una serie di rilevanti contributi da differenti prospettive di ricerca. A questa teoria va senz’altro il merito di aver riportato al centro alcune questioni, come quella della disoccupazione, e di aver appunto aperto un dibattito serio. E ntrando nel merito dell’analisi, concordo con molte delle osservazioni fin qui fatte da diversi economisti, a partire dal rilievo sollevato da Giuseppe Pennisi, secondo il quale la teoria sembra pensata per un mondo in cui non ci si debba relazionare con l’estero, con i tassi di cambio e con le possibili svalutazioni della moneta. Se anche dovessimo non considerare questo aspetto specifico, mi trovo in accordo con Leonardo Becchetti sul fatto che liquidità monetaria e crescita non vanno necessariamente di pari passo. E qui torno a dare la parola a Keynes: «Se ci venisse la tentazione di asserire che la moneta è la bevanda che stimola l’attività del sistema, dovremmo rammentarci che vi possono essere parecchi diaframmi fra il bicchiere e le labbra. Infatti, mentre può attendersi che un aumento della quantità di moneta riduca, ceteris paribus, il saggio di interesse, ciò non accadrà se le preferenze di liquidità del pubblico aumentano più della quantità di moneta; ...e mentre può attendersi che un aumento del volume di investimento accresca, ceteris paribus, l’occupazione, può darsi che ciò non accada se la propensione a consumare si contrae». L e variabili in gioco sono tante, e la Teoria monetaria moderna non brilla per una sistematicità di trattazione, per un rigore formale e per una verifica delle proprie ipotesi con procedure tipiche del rigore accademico. In Italia di liquidità ce n’è abbastanza e forse troppa: secondo gli studi dell’ABI e della Banca d’Italia dei 4.287 miliardi della ricchezza degli italiani, circa 1.370 sono fermi nei conti correnti, e cioè il 32%. Nel 2005, e- ravamo al 23%. Sembra che gli italiani non investano per paura. Se poi riflettiamo sul fatto che per il ciclo 2014-2020 abbiamo speso solo il 23% dei 75 miliardi dei fondi europei che abbiamo a disposizione, c’è qualcosa che non va. Non è l’incremento della moneta in circolazione che di per sé aumenta investimenti e occupazione. E qui veniamo ad un altro punto che Keynes aveva intuito bene: la fiducia nel futuro e nelle istituzioni è più importante di dati e previsioni razionali, rispetto alle scelte di consumo e di investimento: «Una larga parte delle nostre attività positive dipende da un ottimismo spontaneo piuttosto che da un’aspettativa in termini matematici, sia morale, che edonistica o economica. La maggior parte, forse, delle nostre decisioni di fare qualcosa di positivo, le cui conseguenze si potranno valutare pienamente soltanto a distanza di parecchi giorni, si possono considerare soltanto come il risultato di tendenze dell’animo, di uno stimolo spontaneo all’azione invece che all’inazione». I cosiddetti animal spirits che governano le decisioni sono anche quelli alla base della fiducia dei cittadini nella moneta, che non possiamo considerare come un semplice monopolio dello Stato, secondo i dettami della MMT. Sappiamo bene, e la storia di Paesi in cui la svalutazione della moneta ha portato al default ce lo ricorda, che il valore della moneta è legato anche e soprattutto alla fiducia e alle aspettative nei confronti di uno Stato. E per quanto riguarda la possibilità di governare la moneta attraverso lo Stato, anziché le Banche centrali, tale ipotesi si poggia sul fatto che lo Stato sia ritenuto il custode degli interessi comuni, mentre le banche di quelli privati. Che lo Stato pensi a tutti e che il mercato sia per l’interesse di alcuni. Ma così sopravvalutiamo lo Stato, come se non fosse governato anche da interessi di parte e a volte di breve periodo, e svalutiamo il mercato come se non fosse nato per permettere la circolazione della ricchezza. Innanzitutto bisogna distinguere tra banche centrali, istituzioni che governano l’emissione di moneta, e le banche private che la immettono nel circuito. In secondo luogo, è molto probabile che tali istituzioni abbiano bisogno di una riforma: difficilmente la ricerca del profitto e l’operare per il bene comune possono stare insieme. Andrebbe rivista la configurazione e la mission delle banche, in un’ottica di finanza a servizio del bene comune. È necessario che tutti ci prendiamo cura della finanza, che nascano comitati etici dentro le banche per valutarne l’operato, ma di buone banche e buona finanza abbiamo bisogno. In conclusione, è auspicabile che nascano nuove teorie, ma forse l’Italia, e anche l’Europa, necessitano, prima di tutto di ritrovare una coesione, una fiducia nelle istituzioni e nel futuro. Una fiducia che può passare attraverso una grande opera di semplificazioni normative – in Italia oggi ci sono 12 diverse tipologie di licenziamenti e 9 modalità differenti per poter andare in pensione, solo per citare alcuni esempi, perché chiunque negli ultimi anni abbia emanato leggi e decreti lo ha fatto aggiungendo tasselli, e non secondo un disegno uniforme. E questo va a sostegno della tesi che non sempre lo Stato ha una visione lungimirante. Forse abbiamo bisogno di riscoprire il grande principio costituzionale della sussidiarietà: l’iniziativa economica è dei privati, lo Stato dovrebbe tutelarne la libertà, garantire l’equità e sostenere chi è in difficoltà. E non sostituirsi.

Pag 11 “Dipendenza digitale? Va curata” di Luciano Moia Il neuropsichiatra Benzoni: censure e divieti all’uso di tecnologie da parte dei ragazzi sono anacronistici

«Compromissione del controllo sul proprio tempo di gioco; priorità data al gioco rispetto agli altri interessi di vita e alle altre attività quotidiane; continuazione o escalation nell’utilizzo dei videogiochi nonostante il verificarsi di conseguenze negative ». Il modello di comportamento individuato dalle tre caratteristiche in questione è abbastanza grave «da causare una compromissione significativa in aree di funzionamento personali, familiari, sociali, educative, professionali o di altro tipo ». E per questo, per la prima volta, l’Organizzazione mondiale della sanità ha inserito la dipendenza da videogiochi (online e offline) nell’elenco delle malattie riconosciute. Non un “vizio” dunque, o una cattiva abitudine, ma una vera e propria patologia che richiede una diagnosi e una cura. La presa di coscienza dell’Oms sulla questione dei videogiochi arriva dopo una serie di allarmi degli esperti, e dopo la creazione in tutto il mondo di vere e proprie cliniche per la disintossicazione, ora presenti anche in Italia. I numeri dei videogiocatori? Nel nostro Paese sono impressionanti: secondo una ricerca Aesvi-Gfk sono 29,3 milioni. E a rischio per “gaming disorder” (ovvero per la malattia da videogiochi) ci sarebbero circa 270mila ragazzi, per la quasi totalità maschi, in una fascia d’età tra i 12 ed i 16 anni.

Adolescenti 'supereroi fragili'. Tanto fragili da ricorrere sempre più spesso alle cure della neuropsichiatria infantile. Più 21% in quattro anni nella sola Milano. Quasi raddoppiati (da 65mila a 114mi-la) in otto anni in Lombardia. Avevano destato preoccupazioni le cifre comunicate qualche giorno da Stefano Benzoni, neuropsichiatra del Policlinico di Milano. Anche perché, tra le cause di questo malessere, lo specialista aveva indicato la fatica dei ragazzi di fronte all’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche. Che fare allora, visto che gli under 18 – ma non solo loro – vivono in connessione permanente con il digitale? Benzoni ha accettato di tornare sul tema per indagare meglio un versante che non può non preoccupare i genitori. Le sue conclusioni? Sbagliato vivere in un stato di emergenza continua. Sbagliato pensare che questa «nuova normalità » di cui sappiamo poco sia sempre e comunque foriera di disturbi patologici. Eppure non si può abbassare la guardia. E, quando si scorgono segnali preoccupanti, giusto chiedere aiuto. A quale età si manifesta più frequentemente una sofferenza psichiatrica causata da Internet e dintorni? Non vi è dubbio che la saturazione tecnologica della vita di tutti giorni stia cambiando molte cose nel modo in cui i figli organizzano il tempo e il ritmo di vita, le esperienze, la gestione delle relazioni ma ciò non è di per sé 'patogeno'. Non causa automaticamente disagio e ancor meno malattie psichiatriche, che sono il nome che diamo a quelle forme di 'disagio' e sofferenza, quando diventano molto rilevanti. Quindi è scorretto collegare direttamente Internet ai disturbi psichiatrici degli adolescenti? Molto scorretto. Anche nel caso estremo, di un adolescente che non esca di casa tutto il giorno, perché impegnato in partite interminabili alla consolle con compagni di gioco immaginari, non vi è dubbio che la vera 'causa' del suo problema, o quantomeno una sua solida spiegazione, sarebbe da ricercarsi in uno stallo del processo di crescita anche connesso alla crisi delle relazioni familiari e del legame con il padre e la madre. E i mutamenti tecnologici allora cosa c’entrano con le sofferenze degli adolescenti? È vero che la tecnologia (e l’accelerazione tecnologica) è diventata parte di un insieme di mutamenti sociali molto radicali e totalizzanti che impongono diversi tipi di 'tensioni' e distorsioni ad alcuni aspetti fondamentali del nostro stare al mondo, e stanno dunque modificando l’idea stessa di ciò che chiamiamo una vita buona. Quindi che rapporto c’è da nuove tecnologie e disagi degli adolescenti? Il malessere di bambini e adolescenti assume forme espressive intimamente connesse ai mutamenti sociali e tecnologici 'attuali' e dunque non può che essere fortemente 'attratto' dall’invasione dei device e del modo in cui possono condizionare le nostre azioni nel mondo. Su questo fronte l’area dei disturbi del sonno dei preadolescenti e degli adolescenti è forse una delle dimensioni cliniche più sottovalutate e rilevanti. Quali sono i segnali d’allarme che dovrebbero far capire ai genitori che è ora di intervenire? Non ci sono segnali 'specifici' o sempre uguali. In generale dovrebbe destare preoccupazione ogni comportamento che sia poco flessibile e quasi 'obbligato', occupi molta parte della giornata, tolga spazio risorse ed energie ad altre attività fondamentali (incontrarsi con gli amici, fare sport, riposare, alimentarsi, andare a scuola eccetera) Sono cambiamenti bruschi? No, spesso questo tipo di cambiamenti si instaurano progressivamente e i ragazzini faticano a coglierne l’impatto disfunzionale sulla loro vita, anche quando è evidente a un occhio esterno. In questi casi è sempre utile cercare un consulto psicologico o psichiatrico per comprendere meglio i contorni del problema e intervenire, se necessario. Si può stabilire una classifica di pericolosità dei vari device? Peggio cioè i videogiochi, oppure attività ossessiva di chat o che altro ancora? Anche in questo caso è indispensabile non generalizzare. I device non sono di per sé negativi o positivi, oppure più o meno rischiosi. Piuttosto è il tipo di approccio e il rapporto che si crea tra i bisogni evolutivi di un bambino o un adolescente e 'quell’oggetto' a definirne eventualmente il grado di pericolosità. Su questo punto vi sono naturalmente tipi diversi di rischi: una certa pratica può essere pericolosa perché ossessiva e ripetitiva, oppure per i suoi contenuti (violenti, impropri ecc.), o ancora perché espone il figlio a possibili contatti con reti di utenti poco sicure o selezionate, o per varie combinazioni di questi tre fattori. Perché voi esperti ritenete che il mondo digitale possa arrivare a modificare i circuiti cerebrali degli adolescenti? Quali pericoli e quali antidoti? Non vi sono antidoti o vie di uscita. La saturazione tecnologica della nostra vita ha preso una piega forse irreversibile, o comunque destinata a durare a lungo. E certamente i circuiti cerebrali di un neonato che sin dai primi gesti si abitui a interagire con schermi piatti e, tra non molto, immagini virtuali 3D si adatteranno ai nuovi stimoli, perché il cervello serve proprio a permetterci di funzionare al meglio nell’ambiente in cui viviamo. È probabilmente un errore immaginarsi che ciò costituisca di per sé un pericolo ma certo i cambiamenti in corso sembrano radicali e le prospettive sono poco chiare. Abbastanza per causare parecchi problemi psichici. Vietare? Accompagnare? Le trasformazioni cui assistiamo non sono solo un cambiamento tecnico (cioè legato all’invenzione di dispostivi specifici) e nemmeno dipendono semplicemente da fattori culturali. La loro capacità di incidere sui corpi e sulle menti delle persone risiede nel fatto che si impongono a noi come un sistema ideologico che, in quanto tale, risulta 'trasparente allo sguardo'. Per questo ogni idea di censura o divieto risulta anacronistica. Tuttavia restare consapevoli delle distorsioni imposte da questo sistema è già un una buon inizio per contrastarne gli effetti negativi. Vi sono molti modi diversi in cui si può divenire 'genitori più consapevoli' e forse questo è preferibile a tentare di rincorrere i figli sul loro stesso terreno.

IL DECALOGO - I disturbi del sonno sono il primo campanello d’allarme. Resta obbligatorio informarsi e 'accompagnare' i figli 1) Sbagliato collegare direttamente tecnologie e disturbi mentali 2) L’accelerazione tecnologica può innescare però diversi tipi di distorsione nei processi di crescita 3) I disturbi del sonno sono il primo campanello d’allarme 4) Vigilare se l’uso di smartphone e videogiochi diventa 'obbligatorio' o poco flessibile 5) Le tecnologie non devono occupare troppe ore al giorno 6) Dev’essere sempre lasciato lo spazio adeguato per amici, sport, compiti, alimentazione 7) Controllare anche la 'qualità' dei contenuti, escludendo temi violenti o inadeguati in rapporto all’età dei ragazzi 8) Censurare o vietare non serve. Obbligatorio però informarsi e accompagnare i figli 9) Non possiamo fermare lo sviluppo delle tecnologie. Essere consapevoli dei rischi è già un buon inizio per contrastarne gli effetti negativi. 10) Evitare di rincorrere i figli sul proprio terreno. Stare con loro davanti a un video non vuol dire smettere il nostro ruolo di genitori

CORRIERE DEL VENETO Pag 14 La sofferenza, un confine invalicabile di Antonio Alberto Semi

Quando càpita un suicidio la prima cosa da fare e da sentire è ammettere che non sappiamo cos’è accaduto nell’animo del suicida. Può aver scritto biglietti, lettere, può aver parlato con amici e parenti ma in realtà ci lascia comunque un angoscioso punto interrogativo al quale non possiamo dare risposte certe. Nemmeno quando le circostanze sembrano indicare delle ipotesi più convincenti di altre. Così è anche del suicidio del preside del liceo Marco Polo, che avviene nel mezzo di una vicenda scolastica e istituzionale complessa e difficile, nella quale egli era al centro e anche nella posizione ideale per fare da bersaglio. Quel che è certo è che si tratta di una tragedia che non può lasciare indifferenti e che metterà a disagio molte delle persone attive in questa vertenza. Non conoscevo il professore Pecchini e resto perplesso di fronte agli elogi che, post mortem, gli vengono elargiti. Viene spontaneo chiedersi se le qualità che ora vengono ricordate gli venissero riconosciute anche durante le discussioni e le assemblee appena avvenute. In ogni caso, dobbiamo sempre stare attenti a non usare una realtà (ad esempio quella della vertenza scolastica) per coprire l’altra, in questo caso la sofferenza che ha spinto il professore a togliersi la vita. E che dev’essere stata una sofferenza grande, che ci lascia muti proprio perché non la possiamo più riconoscere. Siamo ancora capaci, in un’epoca in cui le spiegazioni si sprecano e spariscono nel giro di un’ora, di sentire il dolore che può provocare la non-conoscenza dell’animo umano? Quello che il suicidio di una persona ci fa sentire è la invalicabilità di un confine, dietro al quale può esserci un universo di pensieri e di sentimenti nel quale evidentemente prevale la disperazione ma nel quale - ultima risorsa umana! - ciascuno ha il diritto di non fare entrare il prossimo. Il suicidio è, da questo punto di vista, anche una disperata affermazione: io sono io e sono io che decido di me stesso. Ci possiamo e dobbiamo chiedere se non sia possibile tenere sempre presente questa situazione di invalicabilità, quando ci troviamo di fronte ad un altro. Riconoscendo allora che l’altro è sempre anche misterioso, come lo siamo noi a noi stessi. Se riuscissimo ad avere questo atteggiamento potremmo forse anche guardare agli altri con un rispetto profondo e con una curiosità affettuosa. Ogni suicidio ci ammonisce che non siamo riusciti ad avere questo atteggiamento che ci renderebbe più umani.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO Pag 1 Il ritorno a Venezia del crocefisso di Goering di Alessandro Marzo Magno

Sono passati ottant'anni e ora torna a casa. Lo splendido crocifisso dipinto tra il 1335 e il 1345 della chiesa di San Pantalon, a Venezia, domani - 30 maggio - viene ricollocato nel posto che aveva lasciato tra la fine degli anni Trenta e l'inizio dei Quaranta. Lo aveva voluto per sé Hermann Goering, il gerarca nazista che collezionava arte, in particolare italiana. Lo hanno individuato in Germania i carabinieri del comando Tpc (Tutela patrimonio culturale), era proprietà di una casa d'aste di Colonia che lo aveva acquistato da un collezionista privato. Una volta resa pubblica, nel 2012, la notizia che quel crocifisso era uscito illegalmente dall'Italia, l'opera era diventata invendibile e quindi i tedeschi hanno fatto il bel gesto di restituirlo a Venezia. Ora, dopo un lungo restauro e un passaggio per Roma (una foto lo immortala con papa Benedetto XVI) ritorna a San Pantalon. Questo non è che uno dei tanti successi conseguiti dai carabinieri Tpc, l'unico corpo di polizia del mondo specializzato in opere d'arte. Il nucleo, poi comando, nasce nel 1969 e a mano a mano che passano gli anni si articola su tutto il territorio nazionale: il Tpc è a Venezia dal 1995 e dal 2016 una sede anche a Udine. Ne vengono narrate le vicende nel libro, da poco uscito, di Roberto Riccardi, Detective dell'arte. Dai Monuments Men ai carabinieri della cultura (Rizzoli). Uno degli episodi raccontati è quello del recupero dei 17 quadri rubati nel novembre 2015 dal museo di Castelvecchio, a . Il basista era una guardia giurata in servizio al museo, la banda dei ladri moldavo- ucraina, i quadri erano stati individuati in Ucraina e sono tornati a Verona dopo un defatigante tira-molla con le autorità ucraine. I CARABINIERI DELL'ARTE - L'uscita del libro fornisce l'occasione per fare il punto delle attività del Tpc del Veneto, con il suo comandante, il tenente colonnello Christian Costantini, da due anni e mezzo a Venezia, dopo aver comandato il nucleo di Firenze (altra sede non proprio secondaria per la tutela del patrimonio culturale). Costantini ci tiene a sottolineare che uno dei compiti istituzionali dei carabinieri dell'arte, in genere, poco ricordato, è quello della sorveglianza dei vincoli paesaggistici. Per esempio, dice sorridendo l'ufficiale, controlla dalle finestre del suo ufficio di piazza San Marco che vengano rispettati i vincoli nei lavori di ripristino dei Giardinetti reali. Gli altri sopralluoghi sono ovviamente più impegnativi e in alcuni casi vengono anche effettuati rilievi con sorvoli aerei. Ma sempre fondamentale risulta la collaborazione dei cittadini. UN VENETO ATTENTO - «I cittadini veneti sono attenti», osserva Costantini, «ci indicano, ci avvisano, e poi noi effettuiamo i sopralluoghi, assieme ai funzionari della Soprintendenza». Anche il recente recupero (dicembre 2018) delle pagine delle mariegole della Scuola grande della Misericordia, e della Scuola grande di San Giovanni Evangelista, rubate dall'Archivio di stato dei Frari nel 1940, è avvenuto grazie alla segnalazione di un cittadino che le aveva viste negli Stati Uniti, alla Boston Public Library. Altro recupero interessante è stato quello di due quadri seicenteschi rubati nel 2011 dal personale di servizio in un palazzo veneziano. Li avevano sostituiti con riproduzioni fotografiche e, siccome stavano in un corridoio poco illuminato, i proprietari si sono accorti solo dopo un po' che, all'interno delle cornici, al posto dei dipinti, c'erano due foto. Sono stati individuati nel 2016 nel catalogo di una casa d'aste di Monaco di Baviera e restituiti nel 2018. Il recupero delle opere rubate è forse l'attività più evidente dei carabinieri Tpc, ma è solo una fra quelle svolte. Per esempio in varie province del Veneto sono state sequestrate 21 opere d'arte contemporanea false, munite di altrettanto false autentiche che le attribuivano a Pablo Picasso, Emilio Vedova, Renato Guttuso, Giorgio De Chirico, Mario Sironi e vari altri. O ancora a Verona sono stati sequestrati 32 reperti archeologici autentici e 12 falsi, con l'arresto di due persone, una di Vittorio Veneto e una di Venezia. MADONNA CON BAMBINO - Dopodiché c'è la prevenzione: gallerie pubbliche e collezionisti privati chiedono lumi ai carabinieri dell'arte sui sistemi di allarme e le accortezze da prendere per evitare i furti. Le case d'aste sottopongono al nucleo Tpc di Venezia i cataloghi perché verifichino che nessuna delle opere messe in vendita compaia nell'enorme data base dei beni da recuperare compilato dai carabinieri e in parte liberamente consultabile (chiunque abbia sospetti su un'opera può dare un'occhiata all'elenco, vedere se sia stata o meno rubata, e nel caso segnalarla ai carabinieri). E quel che manca? Se a livello nazionale il Santo Graal è la Natività di Caravaggio rubata nell'oratorio di San Lorenzo, a Palermo, nel 1969, per il Tpc del Veneto l'opera più illustre da recuperare è la Madonna col bambino di Giovanni Bellini, rubata dalla chiesa della Madonna dell'Orto il 1° marzo 1993. C'erano lavori di restauro, i ladri si sono fatti chiudere dentro, durante la notte hanno staccato la tavola dalla cornice e se ne sono usciti indisturbati. Non sono mai stati individuati. Non si sa se il quadro sia finito all'estero o sia ancora in Italia, certo è che si tratta di un'opera famosissima e quindi impossibile da vendere. I gruppi più importanti di opere da recuperare sono quelle saccheggiate, o illecitamente esportate, durante la prima e la seconda guerra mondiale. BOTTINI DI GUERRA - L'occupazione del Veneto orientale e del Friuli dopo Caporetto ha svuotato chiese e abitazioni private: da villa Buzzati, alle porte di Belluno, è finita a Vienna tutta la biblioteca, chiusa in 221 casse, e solo tremila libri sono tornati dopo la guerra; da villa Tauro della Centenere, a Cesiomaggiore, è sparita la collezione di statue e marmi dell'antichità classica; un'urna romana proveniente da villa Tauro è stata di recente (2017) individuata nel castello di Niederleis, in Bassa Austria, dove viene usata come fioriera. E il soffitto di Sebastiano Ricci che si trovava a Ca' Mocenigo, sul Canal Grande, e ora è esposto alla Gemaeldegalerie di Berlino? Era stato venduto a un inviato di Hermann Goering e mai restituito nel dopoguerra, nonostante l'interessamento di Rodolfo Siviero, l'uomo che ha recuperato oltre duemila opere d'arte portate dai nazisti in Germania e dalla cui azione è derivata la fondazione dei carabinieri Tpc. «Ci stiamo lavorando», precisa il maresciallo Carlo Alberto Carlone, la memoria storica del Tpc di Venezia. Allora speriamo che anche i bellissimi dipinti di Ricci possano tornare presto al loro posto.

LA NUOVA Pag 8 Lega primo partito in tutte le Municipalità di Mitia Chiarin Il Pd regge solo in centro storico e vicino a Piazza Ferretto. Ma il Carroccio dilaga a Marghera, Zelarino, Favaro e Lido

Mestre. Nel 2008 il Partito Democratico sfiorava il 40 per cento a Marghera e si assicurava un poderoso 38,6 per centro a Favaro. Nel litorale lagunare, invece, il Pdl, a trazione Berlusconi, arrivava a percentuali del 35 per cento alla Camera. Nel 2013 aree storicamente legate al centrodestra come Lido e Pellestrina ma anche la Marghera storicamente "rossa", alle politiche avevano finito con il tingersi del giallo, il colore del movimento di Grillo. Siamo al 2019 e la mappa del voto veneziana è completamente cambiata e si cambia di nuovo colore. Lo mostra la grafica elaborata dal Comune di Venezia, anche se il blu (che era del centrodestra) viene usato stavolta per indicare il primato cittadino della Lega, che ha invece come colore storico il verde. Poco cambia nella sostanza: il centro storico di Venezia, ma anche il centro storico di Mestre, sono chiazze rosse, dove a vincere è stato il partito Democratico. Il dato interessa anche perché può avere risvolti rilevanti in futuro. Oggi cinque Municipalità su sei sono guidate da maggioranze di centrosinistra. Unica eccezione è Favaro guidata dal centrodestra. Municipalità regolarmente elette dal voto dei cittadini ma spogliate di poteri e funzioni dall'amministrazione Brugnaro. E nel voto delle Europee (anche se si tratta di elezioni differenti), non si può non evidenziare che il panorama si ribalta, ancora una volta: unica Municipalità dove a vincere è il Partito Democratico di Zingaretti è Venezia-Murano- Burano. Il Pd qui conduce con il 32 per cento ma il distacco dalla Lega è di appena 28 voti. Quanto basta per sentirsi "isola rossa" nell'oceano leghista. Al punto che oggi una parte del mondo della sinistra veneziana, che in questi anni di cambiamenti, ha scoperto di non disdegnare la separazione, ha fatto capire che a questo punto preferirebbe l'isolamento dell'isola felice dal mare di terraferma che vorrebbero abbandonare al suo destino di terra di centrodestra. Guardando la mappa del voto realizzata dal Comune, si va di conto e si intuisce che c'è l'altra isola "rossa" in pieno centro a Mestre. Sono 40 le sezioni in centro storico dove vince il Pd. Ma nel centro storico di Mestre ci sono altre 20 sezioni che vanno al partito di Zingaretti e non alla Lega. E sono quelle più centrali: dal quartiere Piave fino a via Rielta, via Trentin o Corso del Popolo, dove si arriva a percentuali vicinissime a 39 per cento. Insomma, come si era già visto in altre consultazioni, emerge il dato che i centri storici sembrano amare il centrosinistra mentre le periferie il centrodestra. Vero è comunque che eccezion fatta per Venezia-Murano- Burano, tutte le altre Municipalità oggi vedono vincere la Lega. E con percentuali di tutto rilievo: 42,1 per cento a Marghera; 41,2 a Chirignago-Zelarino; 34,8 per cento a Mestre- Carpenedo; 42,8 per cento a Favaro; 41,1 per cento a Lido-Pellestrina. Dei 183 mila voti raccolti in provincia di Venezia dal partito di Salvini, ben 42 mila arrivano dal comune capoluogo. Altri 31 mila e cinquecento voti li ha presi il Pd. A Chirignago-Zelarino, Mestre-Carpenedo e Favaro il quarto partito, dopo il terzetto Lega, Pd, e M5s, è Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni che scavalca Forza Italia di Berlusconi e Brunetta. In città sono state 13.634 le preferenze che ha raccolto a Venezia Matteo Salvini, capolista alle Europee della circoscrizione Nordest. 8.820 i voti raccolti invece, in quota Partito Democratico, da Carlo Calenda. E appena 960 i voti complessivi racimolati da Antony Candiello, del Movimento cinque stelle, tra i pochissimi candidati veneziani di questa Euro-consultazione. Il nome di Berlusconi, per Forza Italia, lo hanno votato in poco più di duemila nel capoluogo veneziano. Qualche raffronto con le elezioni del passato. Alle Europee 2014 in città il Pd ottenne 53.594 voti; secondo arrivò il Movimento cinque stelle con quasi 25 mila voti e la Lega era quarta con 7.880 voti. Alle Comunali che nel 2015 hanno portato in Comune con la fascia da sindaco l'imprenditore Luigi Brugnaro (quasi 25 mila voti alla sua lista sui 54.400 che lo hanno eletto) i numeri erano ancora differenti: 4.400 voti a Forza Italia che oggi, nelle Europee 2019, quindi, sale a 5.500 in città. La Lega ne aveva raccolti 10 mila e 700. Quindicimila erano stati invece quelli dei cinque stelle che oggi si accontentano di 14 mila.

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8 – VENETO / NORDEST

LA NUOVA Pag 5 La Lega nel Veneto sbriciola ogni record. E mette un’ipoteca sulle Regionali 2020 di Francesco Jori Sfiora quota 50 per cento, staccando i fratelli “lumbard”, ma come l’ex Dc conterà meno del proprio peso numerico

Il resto mancia. All'incasso elettorale di primavera, la Lega porta via metà del piatto, lasciando che i concorrenti si spartiscano le briciole: solo il Pd riesce a portare a casa un risultato a doppia cifra, comunque tre punti sotto la media nazionale; gli altri devono accontentarsi delle elemosine, in particolare nove liste che si ritrovano con lo zero virgola qualcosa ciascuna. Se si tolgono i cinque partiti che sono riusciti a staccare comunque un biglietto per Bruxelles, i restanti dodici tutti assieme stanno sotto il 10 per cento. Anche nelle amministrative, in attesa dell'esito dei ballottaggi, il Carroccio asfalta tutti o quasi: diventa il primo partito nella superstite roccaforte rosso (stinto) del Veneziano, ed espugna da subito due centri di primo piano come Bassano e Vittorio Veneto. Il centrosinistra riesce a resistere solo in alcune piazze, da Preganziol a Rubano, oltre che in una serie di centri minori.Dopo il pluridecennale biancofiore democristiano e il ventennale verdazzurro del forzaleghismo, dunque, il Veneto torna a un monocolore che sarebbe tuttavia improprio definire verde: semmai la nota dominante si potrebbe chiamare tinta camaleonte, considerando la riconversione della fu-Lega Nord in partito nazionale, di livrea cangiante come il guardaroba che il suo leader Salvini usa cambiare a seconda dell'aria che tira. In un Carroccio che per la prima volta diventa l'inquilino dominante anche sotto il Po e fino a capo Lilibeo (emblematico il 45,9 per cento di Lampedusa), la filiale veneta si aggiudica saldamente il posto di azionista di riferimento, con il suo 49,9 per cento: sei punti e mezzo in più dell'ala lombarda, che pure presidia da sempre (e senza sconti) la stanza dei bottoni. Il gradino più alto del podio delle province più leghiste d'Italia spetta per giunta a una veneta, Treviso, con il suo 53,6, che supera sia pure di due soli decimali la lombarda Sondrio; e anche nelle posizioni di rincalzo, Vicenza viene terza col 52,7, davanti a Bergamo con il 51,1. Ma poiché nella politica italiana uno più uno fa solo raramente due, c'è da ritenere che, come rilevava ieri il direttore di questa testata Paolo Possamai, al ramo veneto del Carroccio toccherà la stessa sorte di quello della vecchia Dc regionale con piazza del Gesù: contare molto meno del peso numerico.Farebbero bene a rifletterci sopra gli imprenditori veneti, il cui concorso nella delega elettorale alla Lega è stato con tutta evidenza significativo, e che un minuto dopo lo spoglio hanno battuto i pugni sul tavolo: al di là delle dichiarazioni di facciata e degli otto giorni che qualche leghista doc ha già dato ai Cinque Stelle, sarà tutt'altro che facile per il Carroccio regionale far passare quelle richieste con un Salvini che d'ora in avanti dovrà fare conti pesanti col centro-sud: dove, giusto per fare un numero, l'incremento percentuale del suo partito è stato il più alto (più 19,7, contro il 16,3 del Nordest). Nel frattempo, l'ex Liga veneta ha già prenotato con largo anticipo un successo tranquillo nelle elezioni regionali in agenda l'anno prossimo: domenica ha raccolto mezzo milione di voti in più rispetto alla somma conquistata nel 2015 assieme alla Lista Zaia, e 300mila in più rispetto alle politiche dello scorso anno. È magra in particolare per Forza Italia, che dimezza i voti sulle politiche 2018 e la percentuale sulle regionali 2015, subendo il sorpasso sia pure per neanche 20mila voti da Fratelli d'Italia. Insieme, i due non arrivano al 14 per cento. È desolante soprattutto lo sfacelo dell'ex colosso forzista, che paga peraltro un mix di fattori di origine non certo recente: gestione mediocre, protagonismi immotivati, oligarchia ottusa, scelta demenziale di anteporre la fedeltà al merito. Tracollano i Cinque Stelle, in Veneto più che altrove: dimezzano la percentuale sulle precedenti europee, e franano di quindici punti sulle politiche 2018, cedendo rispettivamente 250mila e ben 480mila voti. Poco contavano prima, ancora meno adesso.Non ha molto di che consolarsi neppure il Pd, che malgrado il recupero percentuale conferma la sua genetica debolezza in Veneto: cresce di due punti sulle politiche 2018, ma perde quasi 10mila voti. Farebbe bene ad attrezzarsi in vista delle prossime regionali non certo per provare a vincere (figuriamoci...) ma per poter rappresentare un'opposizione significativa; cosa che non gli è mai riuscita in passato. Questo comporterebbe un fronte comune con una serie di realtà civiche rilevanti del territorio, a cominciare da Padova città; e un'intesa organica con le forze di sinistra. Pia illusione peraltro, quest'ultima: anche stavolta, basti citare il caso di Monselice, dove il centrosinistra è andato in ordine sparso; incassando il risultato di spianare la strada al ballottaggio a due realtà del centrodestra.

L'erede della "madre di tutte le leghe", com'è stata a suo tempo definita la Liga veneta, tocca con le europee di quest'anno il suo massimo storico, sfiorando il 50 per cento; aveva fatto registrare il minimo alle europee di trent'anni fa, nel 1989, fermandosi all'1,7. L'andamento elettorale è stato altalenante: è rimasto comunque a una sola cifra nella fase iniziale, fino al 1990; poi ha vissuto un andamento oscillante: già alle politiche del 1992 (le ultime della prima Repubblica) aveva triplicato i consensi sfiorando il 16 per cento; ma a fine anni Novanta era scivolato vicino al 10, per poi risalire al 15 alle regionali 2005. Tra le politiche 2008 e le regionali 2010 era andato in orbita, superando il 30; nuovo tracollo alle politiche 2013 sprofondando al 10. Da lì una risalita inarrestabile, che nel voto di domenica scorsa ha toccato un livello senza precedenti, conosciuto in passato solo dalla Dc.

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Due lezioni dal voto di Stefano Allievi

La Lega consolida e travolge: il Veneto è la regione più leghista d’Italia. Ormai è, semplicemente, il potere. In tutte le sue dimensioni. Beneficiando quindi anche dell’effetto di adeguamento, di conformismo anche un po’ forzato, che determinano tutte le situazioni di potere non contendibili: ovunque e sempre, che si trattasse della DC nelle regioni bianche o del Pci in quelle rosse. Provate a essere un sindaco di centro-sinistra in un paesino del Veneto, o leghista in Toscana: tutto, inevitabilmente, diventa più difficile, anche solo ricevere un piccolo finanziamento o la collaborazione a un progetto. La gente – e soprattutto gli operatori economici, e le burocrazie – lo sa, e spesso si adegua. Naturalmente, dietro il successo della Lega c’è molto più di questo. In particolare per quel che riguarda l’autonomia: un progetto che viene da lontano, perseguito con metodo, che oggi, con la conquista del Piemonte, ha la forza travolgente di tutto il nord dietro di sé. Paradossalmente, il nemico principale oggi sta al suo interno: nella nuova linea sovranista della Lega e nel governo. Dunque, tradizionalmente, a Roma. Solo che a Roma, oggi, il padrone è proprio la Lega: fino ad ora in condominio con un Movimento 5 Stelle esplicitamente contrario all’autonomia. O ggi, con un M5S inevitabilmente ammorbidito – se non tramortito – dal risultato elettorale, le cose potrebbero cambiare. Mentre bisognerà dare risposte, a breve, alle aspettative dei ceti produttivi: che sono invece sul fisco, sulle grandi opere, sulla rimessa in moto dell’economia. E qui sarà più complicato, dato il quadro economico e finanziario, largamente peggiorato proprio da quando la Lega è al governo. E per quel che riguarda l’opposizione? Il nordest è l’unica area in cui il Partito Democratico, se guardiamo al numero di voti (le percentuali sono spesso ingannevoli), cresce rispetto alle politiche del 2018: di oltre 22.000 voti. In tutto il resto d’Italia i voti calano. I dirigenti dem usano le percentuali per vantare il sorpasso sul M5S. A livello nazionale, in realtà, il sorpasso – sempre calcolando i voti, e non le percentuali – c’è stato, sì, ma in discesa: il M5S ha perso molto di più del PD, mentre la Lega (e Fratelli d’Italia) sono i soli ad aumentare anche il numero dei voti. A livello circoscrizionale l’aumento è dovuto in gran parte al «fattore C»: Carlo Calenda. Da solo ha totalizzato 275.000 preferenze: il 20 per cento dei voti del partito! E, in misura notevole, sono voti personali: di elettori che hanno votato Pd perché hanno votato lui, e non l’avrebbero fatto altrimenti (ciò che spiega la crescita nel Nordest, in controtendenza rispetto a tutta Italia, di un partito che non ha alcun merito specifico né alcuna visibilità particolare – salvo che in Emilia-Romagna – rispetto a quello delle altre circoscrizioni). Voti, dunque, che, se si fosse presentato altrove, in Veneto e nel Nordest, in gran parte, non si sarebbero visti. Voti, quindi, che oggi ci sono e domani non si sa. Detto ancora più brutalmente: il Pd senza Calenda avrebbe perso peggio che nelle altre circoscrizioni, dove il calo è stato tra i -13.000 voti del nordovest e i -33.000 del sud (e chi vanta la tenuta del Pd a Padova o altrove come fenomeno dovuto solo alle proprie virtù amministrative forse dovrebbe dare un’occhiata anche alle preferenze prese dal capolista). Per il Partito Democratico, dunque, la scommessa vera sarà sulla sua capacità di interpretare il segnale mandato dalle candidature, di fatto, esterne: ciò che non vale solo per Calenda, ma anche per tutti i campioni di preferenze del Pd in questa tornata – da Pisapia e Tinagli a Nordovest, a Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, nel centro e nelle isole, candidato di Demos, cioè di Sant’Egidio. Se saranno solo delle foglie di fico, avranno tamponato il danno oggi, ma senza conseguenze di lungo periodo sul calo tendenziale del Pd. Perché siano altro, bisogna che il Pd se ne accorga. E che gli esterni giochino un ruolo interno. Entrambe cose non scontate.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Giostre elettorali di Ernesto Galli della Loggia

Prosegue inarrestabile il distacco del quadro politico italiano dal passato. Da tutto il passato: da quello della prima Repubblica come della seconda. È il frutto di una vorticosa mobilità elettorale che da un anno all’altro, ad esempio, vede dimezzati i voti complessivi dei 5Stelle o in molte zone della Penisola Forza Italia ridotta brutalmente sulla soglia dell’irrilevanza. Elemento forse ancor più significativo di questa frattura rispetto a ciò che valeva fino a ieri è la scarsa capacità di richiamo che domenica scorsa hanno manifestato due componenti primarie, in buona parte tradizionali, della piattaforma ideologica del centro-sinistra: da un lato l’appello antifascista e dall’altro l’invito della gerarchia cattolica a un voto questa volta contro il «sovranismo». Ma nei fatti l’ipotesi che poche decine di energumeni di CasaPound e Forza Nuova e qualche frase fuori luogo del ministro dell’Interno annunciassero l’arrivo di un’onda nera sul Paese non è apparsa molto convincente. Allo stesso modo, il rosario impudicamente agitato da Salvini sembra avere avuto sul voto cattolico (se ancora esiste) un richiamo ben più vasto degli ammonimenti di una Chiesa in caduta libera di credibilità per il silenzio sulle malefatte sessuali dei suoi membri e per la sconsiderata richiesta di un’ accoglienza senza limiti nei confronti degli immigrati. Il risultato di entrambi gli appelli è stato insomma deludente. Ed è anche questo che contribuisce a spiegare perché a conti fatti il successo del Pd sia stato molto più apparente che reale (6 milioni e 50 mila voti oggi contro i 6 milioni e 134 mila l’anno scorso: vale a dire oltre 80 mila voti in meno). In realtà il risultato di domenica ricorda molto da vicino quello delle elezioni europee del 2014, le quali, viste oggi, appaiono come l’inizio di un ciclo politico scandito dall’avvicendarsi incalzante del binomio speranza/delusione. Lo strepitoso successo di Renzi di quell’anno assomiglia per molti aspetti a quello odierno e altrettanto strepitoso di Salvini. Dietro entrambi c’è l’eguale attesa di una gran parte dell’elettorato, che, andata delusa cinque anni fa, ora è ritornata a esprimersi con prepotenza nascendo da una consapevolezza anch’essa sempre eguale. E cioè che il Paese ha bisogno di una scossa, di una svolta netta, di iniziative nuove e coraggiose a cominciare da quelle necessarie per far ripartire l’economia. Che non possiamo più continuare così: con l’arcaica burocrazia di sempre, con una giustizia tardigrada, con il mare di leggi e di regolamenti che si accavallano, si contraddicono e ci paralizzano, con i decreti attuativi non attuati, con il Tar, con l’evasione fiscale, il bicameralismo perfetto, i fondi stanziati per una qualunque destinazione e dopo anni non spesi, i cantieri aperti e subito fermi, con il ceto politico-amministrativo di sempre e, se nuovo, regolarmente peggiore del precedente. E in più la consapevolezza che per cercare di cambiare tutto ciò è necessario una leadership forte, risoluta, dalle convinzioni chiare e intelligenti, dalla parola incisiva. Anche perché nel frattempo la situazione internazionale del Paese si va facendo ogni giorno più difficile, tra scenari che mutano pericolosamente, un aspro contenzioso con la Ue e potenziali masse di migranti in arrivo. Il Renzi della «rottamazione», il Renzi del 40 per cento della primavera del 2014, apparve per qualche momento in grado di soddisfare questa attesa diffusa, di realizzare la svolta voluta dal grande partito del «non ne possiamo più». Sappiamo come è andata a finire. Incapsulato nella sua autoreferenzialità, accecato dalla sua vanesia spigliatezza – ma ancor di più dalla sua scarsa preparazione culturale, destinata inevitabilmente a trasformarsi in miopia politica – con il referendum costituzionale andò a sbattere contro il muro d’acciaio dell’eterno potere italiano. Contro l’immobilismo dell’establishment travestito da difesa dei sacri principi. Alla tornata elettorale successiva, l’anno scorso, ecco allora che, preso atto del fallimento di Renzi, le speranze di rinnovamento si concentrano sui 5Stelle. Dunque gigantesca vittoria di Di Maio e compagni, ma con il seguito poi di un deludentissimo anno di governo nazionale e locale. Con una sindaca di Roma pateticamente inetta e quella di Torino molto mediocre, con la penosa impressione suscitata da ministri dalle idee confuse, da una totale incertezza di decisioni e di prospettive, da fanfaronate ridicole sulla miseria sconfitta una volta per tutte, e da cento altre gaffe e pochezze varie. E così domenica la giostra ha ripreso a girare con la nuova puntata del partito del «non se ne può più» su quello che stavolta è sembrato l’uomo nuovo in grado di cominciare a rimettere in sesto il Paese, Matteo Salvini. Non è vero come si è letto sul Fatto quotidiano che la gente ormai vota come twitta. È che ormai in questo Paese da tempo non esistono più culture politiche, idee, programmi. Che da tempo anche le vecchie identità e le vecchie paure, i vincoli di schieramento, le preclusioni ideologiche, i «non possumus» più o meno storici, sono tutti variamente saltati: sono cose che non hanno più corso o quasi. Di conseguenza le elezioni non sono più una competizione fra orientamenti radicati, fra opzioni politiche in qualche modo collaudate. Tendono piuttosto ad assomigliare per un verso a una decimazione e per un altro a una lotteria. Sono la ricerca sempre più nervosa, sempre più incalzante, di una soluzione che però continua a mancare: trasformandosi alla fine nella pura ricerca di un demiurgo. Esito paradossale di un sistema politico che, partito da una Costituzione fondata per intero sulle entità collettive, sui partiti, nel più assoluto rifiuto di qualunque ruolo personale (perfino come si sa di quello del Presidente del Consiglio, che da noi è un semplice «primus inter pares») si ritrova già da tempo a invocare un salvatore della patria.

Pag 3 La tentazione di tuffarsi nel regno celeste dell’opposizione di Pierluigi Battista

La tentazione di immergersi nelle acque purificatrici dell’opposizione. Il ritorno alle origini. Il riscatto dell’innocenza perduta. Affiora tra i Cinque Stelle frastornati dalla disfatta elettorale la voglia di liberarsi dai lacci del governo, quest’attività così prosaica e deludente, che poi neanche gli elettori ingrati sono capaci di ripagarti per i sacrifici che hai fatto: per esempio occuparsi delle infrastrutture invece di gridare tutti insieme «onestà», cercare di risolvere i problemi delle fabbriche che chiudono, ridurre la pressione fiscale sul ceto medio invece di salire sul balcone di Palazzo Chigi, cose così. La tentazione che sempre afferra chi nasce anti sistema e sente che il sistema lo sta stritolando: sottrarsi all’abbraccio mortale dei compromessi, rifugiarsi in un idillio di incontaminatezza, andare nel regno celeste dell’opposizione. Nella politica italiana spesso è accaduto: l’opposizione come lavacro, tuffo nell’irresponsabilità, coltivazione della propria diversità macchiata dalle pratiche del governo. Precedenti nobili e meno nobili. Il Pci di Berlinguer che, scottato dall’esperienza drammatica del compromesso storico, riscopre la diversità antropologica dei comunisti italiani e agita la bandiera della «questione morale» come separatezza in un mondo puro. Ma anche la tentazione di Berlusconi, una volta scoperta la problematicità del governo Dini perso per mano da un ostile presidente Scalfaro, di chiudere i ponti e rinchiudersi nella fortezza della protesta. «Tornare a Marx», imploravano gli intellettuali della sinistra comunista quando non si poteva più tacere sulle nefandezze dei sistemi che a loro dire avrebbero snaturato il messaggio originario. La difficoltà di governare che diventa vagheggiamento di un’isola dell’opposizione, o per meglio dire di un’isola che non c’è ricercata da Peter Pan riottoso all’idea di diventare adulto, di governare, di restare per sempre in una condizione di eterna, innocente, immacolata infanzia. E allora la delusione del dimezzamento dei voti in poco più di un anno, il trionfo dell’alleato rivale che canta vittoria mentre il Movimento è umiliato persino dal Pd, la base in rivolta con il perenne malessere di chi è costretto a ingoiare rospi uno dietro l’altro, l’elettorato che si sente tradito per l’Ilva, quello che si sente tradito dai tentennamenti sulla Tav, e pure Beppe Grillo che canzona i perdenti mentre prima faceva delle chiusure tambureggianti, emozionanti di campagne elettorali giocate all’insegna della purezza e del futuro incontaminato: perché non chiuderla con il governo, sentire il richiamo della foresta vergine, farsi cullare da un nuovo entusiasmo, gli applausi al linguaggio rovente di Di Battista e non più i mugugni per le mediazioni, i compromessi al ribasso, i contratti di governo, che poi questi contratti contengono clausole capestro che mai i Cinque Stelle avrebbero voluto firmare e sottoscrivere. Tornare indietro: questa è la tentazione. L’opposizione come salvezza che riscatta persino il fallimento. Ma sempre con un tarlo: che poi alla fine mettersi all’opposizione significa rinchiudersi per sempre in una nicchia, confortevole e tuttavia senza prospettive. Una prospettiva pericolosa, piuttosto: che poi gli elettori non ci contino più, che condannino i puri all’eterna irrilevanza, innocenti ma inutili. Quando mai nel Mezzogiorno il cinquanta per cento degli elettori potrà ancora votare chi è condannato per sempre all’opposizione, senza risultati? Il ritorno alle origini comporta il rischio dell’impossibilità di tornare a governare. Puri e inutili. Innocenti e sfaccendati.

Pag 6 Conte, parte la sfida con Salvini. Il premier non vuole fare l’ostaggio di Massimo Franco

Probabilmente si rivedranno oggi, per la prima volta dopo un voto che ha stravolto i rapporti di forza nella maggioranza giallo-verde. Da una parte il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Dall’altra il suo vice e ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Ma nell’ottica di una Lega trionfante, i ruoli formali sono già superati da quelli di fatto: con un Conte ostaggio del Carroccio, e Salvini non più premier ombra ma in attesa e già operativo. L’incognita è se l’«avvocato del popolo» accetterà la sindrome dell’ostaggio pronto a tutto per assecondare chi lo tiene prigioniero; e quanto il leader leghista forzerà per umiliare il Movimento Cinque Stelle, mettendo nel conto il voto anticipato. I grillini appaiono frastornati e incapaci di prevedere le prossime mosse dell’alleato-coltello e perfino le proprie. E temono che le forche caudine allineate da Salvini nell’agenda del governo, «dettata dagli italiani», finiscano per portare alle urne. Conte, da Bruxelles, sostiene di non sentirsi «commissariato» e non dice per chi ha votato. «Mi sono tenuto lontano» dalla campagna elettorale, rivendica. Ma gli unici momenti in cui finora ha rivelato una scorza dura, sono stati quando gli è stato chiesto se era pronto a cedere Palazzo Chigi. In quei casi, la replica è sempre stata tagliente, irremovibile. Confidava, col vertice del M5S, sul «fiato corto» del capo leghista; e su un equilibrio di forze che poteva al massimo modificarsi un po’ a favore del Carroccio. Le Europee del 26 maggio, invece, hanno materializzato il fantasma di un Salvini più incombente che mai. E di colpo, la poltrona che sembrava al sicuro è tornata scalabile. Anzi, teoricamente già «scalata» da un leader leghista che, umiliando Di Maio, ha messo nell’angolo lo stesso Conte. I Cinque Stelle, è vero, si aspettavano un risultato mediocre. «Le Europee non fanno per noi», mettevano da tempo le mani avanti. «Fino al 20 per cento reggiamo. Sotto va male. Il 15 per cento sarebbe il disastro». Il 17,1 preso domenica scorsa, è più vicino al «disastro». E tutti gli incubi allineati come pure ipotesi di scuola si stanno avverando. La sensazione è che siano destinati a scaricarsi sul premier, non più su Di Maio, di fatto già sotto processo nel Movimento. Conte si è esposto per rallentare l’Alta velocità sgradita ai grillini. E lo ha fatto di nuovo quando si è trattato di dare il benservito al sottosegretario indagato, Armando Siri. È stato percepito come l’«avvocato del popolo» chiamato a perorare il contratto contro un Salvini debordante, confidando di indebolirlo. Ma ora, dall’alto del suo 34 per cento, il capo leghista lascia trasparire un potere di minaccia smisurato. Ha già fatto sapere che Siri parteciperà alla stesura dell’agenda economica necessaria di «un’accelerazione» sulla flat tax, la costosa riforma fiscale cara alla Lega. Insomma, pur formalmente lasciandolo fuori dal governo, Salvini ce lo rimette, in modo provocatorio. E se un altro sottosegretario, quello ai Trasporti Edoardo Rixi, sarà condannato per peculato, rimarrà al suo posto: così ha deciso la Lega, sollecitando il nervo sensibilissimo dei rapporti tra politica e giustizia. Richiesta che pare irricevibile, per il M5S. Ancora: l’Alta velocità Torino-Lione andrà fatta, e rapidamente. Di Maio ha già detto che questi dossier sono nelle mani del premier, non nelle sue. Significa che il capo del governo dovrebbe rassegnarsi a essere non più l’arbitro chiamato a moderare la Lega, ma a assecondarne lo strapotere. Operazione eroica, da vittima destinata al sacrificio finale, eppure obbligata a andare avanti. Con una doppia speranza che racchiude anche una doppia insidia: la speranza che concedere pezzi di «contratto» a Salvini basti a evitare le elezioni; e l’insidia che questi cedimenti non scongiurino né il voto né l’esplosione di un Movimento spaventato e confuso. L’odore di urne in autunno in apparenza è meno acuto, ma ristagna. E Conte non si illude che non cambi nulla. Salvini è in grado di scegliere il momento per dare il colpo finale. A novembre, quando uno dei conflitti nella maggioranza già infuriava, lo scenario post- Europee era diverso. Il M5S vedeva un Conte pronto a concedere a una Lega in crescita un rimpasto, concedendole ministero dell’Economia e Esteri, e avanti col governo. L’obiettivo era doppio: liberarsi di «tecnici» ritenuti infidi e tacitare le brame leghiste. Ma oggi lo schema si rivela superato. Una Lega forte del 34 per cento appare inarrestabile, col M5S dimezzato. Rimane da capire se Conte, accusato di essere sbilanciato a favore di Di Maio, accetterà il ruolo di ostaggio. I suoi dicono che non lo accetterà, e che il problema, adesso, è il primum vivere dei Cinque Stelle: quello che dovrebbe imporre il «no» alla permanenza di Rixi al governo in caso di condanna, e il «ni» all’autonomia regionale in salsa leghista. Ma non è chiaro se l’argine sarà in grado di reggere, perché il Movimento teme come la peste il voto anticipato. Il 20 aprile Conte spiegava che «Salvini ha una vita davanti a sé per fare il premier, se e quando si creeranno le condizioni. Non in questa legislatura». Allora non poteva prevedere che una nuova legislatura potrebbe arrivare prima del previsto. Anzi, forse è già cominciata.

Pag 36 Il malessere diffuso della Francia divisa in due di Massimo Nava

Il successo di Marine Le Pen alle elezioni europee trova spiegazioni contingenti nel movimento dei gilet gialli, la cui ondata di proteste ha pesato sugli umori dei francesi e ridotto il consenso di Emmanuel Macron. Il presidente, con innegabile coraggio, si è speso per rilanciare il progetto europeista, ma non ha trovato sponde in altri Paesi, né un alleato in Angela Merkel. Alla fine è apparso un cavaliere solitario, quando il vento, soprattutto in casa propria, soffiava da un altra parte. Marine Le Pen ha tratto vantaggi sia dalle ragioni della protesta sia dalla domanda di ordine seguita agli eccessi di violenza. Il risultato finale è comunque un testa a testa. I movimenti/partito di Macron e Marine Le Pen si spartiscono il panorama politico. La Francia ha cancellato non soltanto i socialisti, ma anche i gaullisti. Ci sono quattro momenti nella storia recente che spiegano la crescita della destra sovranista e antieuropea ben oltre la stagione dei gilet gialli. È un fiume carsico di risentimenti, rabbia sociale, nazionalismo, xenofobia, nostalgie di grandeur che riemerge sempre più impetuoso. Il primo momento è la primavera del 1992, quando i francesi approvano con un risicato 51 per cento (250mila voti di differenza) il trattato di Maastricht che avvia il passaggio all’euro. Contro si schierano l’ultra destra di Jean Marie Le Pen, la sinistra radicale e sovranista, ma anche una parte non marginale dei repubblicani, l’anima storica del gaullismo. Il secondo momento è la primavera di dieci anni dopo, quando Jean Marie Le Pen, fino a quel momento marginale, elimina al primo turno delle presidenziali il candidato socialista, Lionel Jospin, nonché primo ministro. È il primo segnale che il Front National ha fatto breccia nella statica alternanza socialisti/gaullisti che regge la Francia dal dopoguerra. Tre anni dopo, il 54,67 per cento dei francesi boccia il trattato costituzionale europeo. Il referendum è una solenne sconfitta per il presidente Chirac, ma è la maggioranza dei francesi che si sente defraudata dal passaggio all’euro e soffre la diluizione delle prerogative francesi in un sistema sovranazionale. In questa fase, il Front National è ancora un movimento xenofobo, antidemocratico, di cui le élite si vergognano e i cui rappresentanti stentano a ottenere dignità di parola, ma intanto si radica nel territorio, coglie il disagio delle classi medie e popolari, cattura il mondo giovanile, gioca le carte della sicurezza e dell’immigrazione incontrollata, della crisi economica e delle colpe dell’Europa. Marine Le Pen, che ha sostituito suo padre (ma il verbo corretto sarebbe «decapitato») compie un capolavoro politico. Emargina i vecchi ciarpami, stronca atteggiamenti antisemiti e razzisti, cambia il nome del partito (oggi Rassemblement Républicain) e invade il campo gaullista, diviso, in crisi d’identità. La destra popolare da un lato perde pezzi (Juppé e Raffarin veleggiano verso il centrismo di Macron) e dall’altro commette l’errore d’inseguire Marine Le Pen sui temi della sicurezza e dell’immigrazione senza domandarsi perché i francesi dovrebbero preferire la copia all’originale. Si arriva al quarto momento, le presidenziali del 2017. Marine Le Pen supera il 21 per cento dei voti al primo, sfiora il 34 al secondo turno e sfida Emmanuel Macron. La vittoria del giovane tecnocrate, sostenuto da un nuovo movimento che ha ridotto ai minimi termini i partiti tradizionali, fa dimenticare la reale dimensione del consenso. Uno scarto che avrà il suo riscontro nelle piazze di Francia fino ai 28 sabati consecutivi di disordini e proteste. Il successo di Marine Le Pen viene dunque da lontano. È l’espressione di un malessere diffuso, che esplode in varie forme, rivelatore di un disagio verso l’Europa non ancora metabolizzato nella Francia periferica, agricola, tradizionalista, in rotta di collisione con la Francia urbana ed europeista. Le tradizionali categorie politiche sono saltate assieme ai partiti che le esprimevano. L’alternativa sarà fra sovranisti antieuropei e la variegata famiglia politica che sostiene il presidente Macron, in una Francia spezzata in due.

LA STAMPA Rosario e presepe di Mattia Feltri

L'oggi mi sollecita una ponderosa analisi: siamo tutti delle teste di papero. Succede che a Riace il sindaco Mimmo Lucano (ormai ex) non è riuscito a entrare in consiglio comunale poiché la sua lista è arrivata terza. Lui ha preso centoquaranta preferenze, il dieci per cento dei votanti, il sette degli aventi diritto. Il nuovo sindaco guida una lista civica colma di leghisti, e la Lega è il partito più votato in paese alle Europee. Eppure Mimmo Lucano è l'ideatore e l'artefice del modello Riace, elogiatissimo modello d'accoglienza degli immigrati in decine di reportage giornalistici e servizi televisivi e filippiche politiche, per cui Riace era una piccola Svizzera, linde botteghe artigiane, gerani ai davanzali, armonia multietnica, ecumenismo, sottofondo di arpe. E il modello sarà senz'altro un buon modello, per l'amor del cielo, ma mai una volta che in queste filippiche politiche e in questi servizi giornalistici si registrasse uno di Riace con il dito alzato a dire eh no, a me pare una gran boiata. Bizzarro vero? Questo modello ci piace tanto, piace a chiunque, in tutta Italia e in tutta Europa, tranne che ai riacesi. E non ce n'eravamo accorti. E sarà forse perché al demonio sovranista s'è voluto contrapporre il cherubino riacese, e alla fiaba salviniana del ritorno al piccolo mondo antico, facce bianche sotto il campanile, s'è voluta contrapporre la fiaba edificante dell'abbraccio dei popoli, ci bastano un sorriso e mani spalancate, e insomma al mito del rosario padano si è voluto contrapporre il mito del presepe calabrese. Il problema è che dietro il mito c'è la realtà, con le sue maledette complicazioni.

AVVENIRE Pag 1 Cosa significa essere europei di Mauro Magatti Nodi di cultura e spirito, non solo politici

È la forza del tempo che cambia ciò che sta dietro i risultati delle elezioni europee. È infatti l’Europa di Maastricht a uscire ammaccata dal voto di domenica. Il Trattato che regge la forma attuale della Unione è figlio di un tempo (i primi anni 90) che non esiste più. Un tempo in cui era ancora possibile pensare che il mondo poteva essere governato semplicemente garantendo le condizioni per la crescita dell’economia finanziaria. Ora però le cose sono molto diverse. E, col voto di questi giorni – che rispecchia non solo un nuovo Parlamento, ma anche equilibri nazionali molto diversi tra loro – nessun Paese, nemmeno la Germania, potrà più pensare che quello, schema possa reggere l’urto del tempo. Per navigare nell’oceano tempestoso del post-2008 la politica ha un ruolo molto più centrale e decisivo. E di politica non si può più fare a meno. Anche se non ha vinto, l’ondata sovranista è così destinata a lasciare il segno. Il successo in due Paesi chiave come Francia e Italia lascia pochi dubbi sul fatto che l’Europa sarà ancora più esposta agli interessi nazionali. Così, senza colpi d’ala e contemporanei passi avanti all’insegna della concretezza, il rischio è che i prossimi anni assisteremo al ridimensionamento del progetto europeista. E forse anche al suo fallimento. Nel 1992 – nel cono d’ombra del Washington consensus della fine degli anni 80 – si pensava che l’economia fosse da sola un fattore di integrazione di una società sempre più individualizzata. Oggi quella prospettiva non vale più. Bauman ha parlato di retrotopia per dire che il crollo delle speranze associate all’aumento del benessere individuale spinge una larga quota della popolazione a volgere lo sguardo all’indietro. Un movimento che in alcuni Paesi europei si traduce ormai da tempo nella nostalgia della appartenenza nazionalistica vissuta come vero e proprio riparo da quel senso di insicurezza avvertito da molti. È evidente che una tale reazione è tanto più forte quanto più la capacità di creare ricchezza e di condividerla si rivela inadeguata. Quando ciò accade, il fulcro dell’azione politica si sposta dall’economia all’identità. Dopo aver drammatizzato la questione dei migranti, ora Salvini, sulle orme di Orbán, fa sempre più frequentemente esplicito riferimento alla religione cristiana giocata come risorsa identitaria. Pescando specie nei territori di periferia e tra gli anziani. Per sfuggire alla presa della paura e del risentimento, il tema è come riuscire a svolgere il discorso non egoistico, e non reattivo, del 'noi'. Che si sia capaci di creare nuova ricchezza integrando le comunità invece di disgregarle. Che ci si continui a dedicare alla ricerca dell’efficienza, senza mai disdegnare la questione del senso. Perché è solo insieme – costruendo il Bene comune – che si possono affrontare le sfide che abbiamo davanti. Diversi sono gli ingredienti che occorre mescolare per andare in questa direzione. Come dimostra la geografia dei risultati elettorali, a essere decisiva è la capacità di costruire istituzioni efficienti al servizio delle tante energie vitali che sono presenti nella nostra società italiana ed europea. Alle istituzioni i cittadini chiedono di fare bene il loro lavoro. Perché è evidente che nessuno si può più salvare da solo. E questo si spera che lo abbiano capito tutti. Altrimenti saranno i fatti a renderlo sempre più chiaro. Far funzionare le cose, però, non basta. Per la sensibilità di oggi, l’efficienza non è un fine in sé, ma condizione per restituire il gusto di una condivisione di senso che è il vero legante degli sforzi diffusi a cui tanti contribuiscono. Le persone hanno voglia di fare e di dare il loro contributo. Di sentirsi parte di uno sforzo comune per migliorare la propria condizione, ma insieme per far crescere la comunità in cui vivono. Abbattendo così la contrapposizione tra interesse privato e collettivo del passato. Infine, in diversi Paesi, soprattutto in Germania, si è registrato un forte aumento dei Verdi. La sostenibilità è di certo un tema emergente capace di catalizzare interessi diversificati e che potrebbe sicuramente aiutare a qualificare il modello europeo. Ma il problema è che fino ad oggi il voto verde tende a essere concentrato per ceto ed età. Come insegnano i 'gilet gialli' francesi, la questione ambientale è considerata prioritaria da chi è economicamente e culturalmente benestante, oltre che relativamente giovane. Non a caso, l’affermazione più eclatante di questa nuova formazione si è avuta in Germania, cioè nel Paese economicamente più avanzato dell’intero continente. Così, il tema della sostenibilità va accompagnato al di là di ogni steccato ideologico, nella prospettiva di quella 'ecologia integrale' di cui si parla nella Laudato si’. Da tutto ciò affiora un’idea di futuro attorno a cui forse potrebbe aggregarsi una nuova idea di Europa: se non si vuole che nei prossimi anni l’intero progetto europei frani sotto i colpi di interessi nazionali divergenti, è venuto il momento di aprire una discussione su che cosa vuol dire essere europei. Sui nostri presupposti antropologici e spirituali, i nostri comuni obiettivi di senso. Così da arrivare a immaginare una Europa che abbia davvero dei tratti distintivi riconoscibili davanti agli occhi dei suoi cittadini e del mondo intero. Forse è stata proprio l’apertura di una tale discussione, che prima di essere politica è culturale e spirituale, il vero convitato di pietra della questione europea.

Pag 1 Cosa significa avere radici di Giuseppe Lorizio Accoglienza, politica, doveri cristiani

Se ne parla anche troppo, si attua fin troppo poco. Eppure una riflessione sull’accoglienza e sui suoi volti penso si imponga all’attenzione di credenti perché, al netto delle polemiche, animi riappacificati possano viverla in maniera autentica. La virtù dell’accoglienza presenta un triplice volto. In primo luogo un volto etico. Si tratta del 'Non uccidere!': una delle dieci parole, nella quale si incontrano 'legge naturale' e 'rivelazione'. Una parola che costituisce un appello: 'Tu non mi ucciderai!', scritto non su tavole di pietra o su pergamena, ma nel cuore dell’uomo e nel volto della vittima innocente. E non si tratta solo della morte fisica, che si può infliggere alle persone, bensì di quella morte che possono produrre messaggi e parole di violenza e che annienta l’altro in quanto altro, ossia nella sua diversità rispetto al soggetto e al suo gruppo di appartenenza. Qui è in gioco il riconoscimento dell’umano che travalica ogni schieramento ideologico e ogni appartenenza religiosa. La virtù dell’accoglienza presenta, poi, un volto politico, e, in quanto tale, interpella la necessità di offrirla in maniera sostenibile. Qui deve esercitarsi l’attività legislativa di Parlamenti e Governi, che sono chiamati a esprimersi in termini di prudenza e al tempo stesso di fedeltà all’umano e alle sue diversificate espressioni. Il fatto che in questi giorni si riproponga il tema del rapporto e del dialogo tra fede e politica è certamente interessante e può essere fecondo, nella misura in cui l’orizzonte etico torni a costituirsi come fondamento dell’azione politica, nel quadro di una 'sana laicità'.

L’OSSERVATORE ROMANO È finita una storia non la storia di Andrea Monda Intervista a Luigino Bruni

Investire nei giovani, guardando con realismo il presente, senza rimpianti per il passato, per generare nuove opere e istituzioni che dicano la speranza e la fede nel futuro. Perché «la fede la si incontra nella vita concreta e semplice, toccando la terra, le cose, le persone, i poveri». È la proposta che Luigino Bruni, economista e accademico, lancia in questa intervista, intervenendo nel dibattito sulla crisi della società italiana e sul ruolo della Chiesa. De Rita sostiene che per un buon governo è necessaria la compresenza di due autorità distinte tra loro: quella civile e quella religiosa, la prima garantisce la sicurezza, la seconda il senso. La sensazione è che la società italiana abbia perso il senso e viva solo della paura della insicurezza, quando forse non c’è stato un periodo più sicuro nella storia del nostro paese. Se questo è il quadro più realistico, quale può essere il ruolo della Chiesa italiana? La dimensione religiosa nelle civiltà ha offerto ai singoli e alle comunità un orizzonte più largo di quelli politici ed economici che non sono abbastanza ampi per unire i popoli. Nel medioevo la fides era al tempo stesso fede religiosa e fiducia economica e politica, poiché come ricordava anche l’economista Antonio Genovesi nel ’700 fides significava originariamente corda. Quando viene meno l’orizzonte di una fiducia più robusta dei patti politici e dei contratti gli scenari possibili sono essenzialmente due: la guerra di tutti contro tutti (e la storia dell’Europa ce l’ha mostrato nel Novecento), oppure la fiducia commerciale dei contratti tende a diventare l’unico legame sociale, come si sta verificando nel XXI secolo. Ma, lo stiamo vedendo, i contratti senza patti non reggono. In occidente il «patto» per eccellenza è l’Alleanza biblica di cui la Chiesa è erede e testimone. Nello scenario attuale, con un mercato che vuole diventare la forma della vita in comune, la Chiesa deve ricordare almeno tre cose: 1. che i contratti economici hanno bisogno di una alleanza più profonda di natura non commerciale, che consente il buon funzionamento del gioco economico; 2. che il registro commerciale costruisce autentico bene comune se non è l’unico registro della vita civile: una dinamica sociale affidata interamente all’economico diventa troppo fragile e banale; 3. che c’è un principio di gratuità che fonda anche il principio del contratto: abbiamo qualcosa da scambiare sui mercati perché prima abbiamo ricevuto gratuitamente talenti e risorse dagli altri e dalla collettività. La natura della crisi che da più di un decennio ha messo in ginocchio l’economia delle società occidentali è puramente economico-finanziaria o rivela una crisi più grande, a livello etico-spirituale? Quella che stiamo vivendo da almeno due-tre decenni è una crisi etica e spirituale profonda, che tocca molte dimensioni legate alla crisi delle ideologie del XX secolo e dei secoli precedenti che le avevano generate. Un aspetto importante e in genere sottovalutato è la natura narrativa della crisi. Con l’inizio del terzo millennio si è terminata l’ultima fioritura di un umanesimo antico e cristiano, talmente radicato che anche chi non era cristiano ne capiva perfettamente i codici simbolici. Nel Novecento, in Italia e non solo, anche chi non era mai entrato in una chiesa capiva e sapeva cosa succedesse dentro, chi non aveva mai pregato Maria e Gesù li conosceva e si ricordava almeno una preghiera e la recitava di nascosto in quei momenti decisivi quando anche chi non prega ricorda una preghiera dei nonni e la recita veramente. La vita e la morte parlavano a tutti, quasi con le stesse parole. Il lavoro (dei campi e nelle fabbriche, il lavoro delle donne) era stato poi quel terreno comune che aveva generato una grammatica e una sintassi delle emozioni e dei sentimenti che consentivano a tutti di parlare e capirsi oltre le differenze di culture, di fedi, di umanesimo. Peppone e Don Camillo litigavano perché parlavano la stessa lingua. Oggi invece quando un giovane passa davanti a una chiesa difficilmente capisce cosa accade lì dentro, quando vorrebbe pregare non sa come farlo perché non ricorda più nessuna preghiera, il suo cuore non è più abitato dai volti e dalle parole dei suoi nonni. E così, quando noi adulti, figli dell’umanesimo del Novecento, quando proviamo a raccontare le stesse storie di ieri, finiamo per dire parole d’amore in una lingua morta. In questi ultimi anni sembra di assistere a uno scontro tra un sistema economico che è diventato assoluto, quasi divinizzato, e la voce del Papa che appare come l’unica contraddizione al paradigma tecnocratico: esiste una via praticabile per le intuizioni presenti nella predicazione di Francesco? Penso ad esempio alla Laudato si’. Forse è questa critica del Papa al sistema uno dei motivi della grande opposizione anti-papale? Certamente l’analisi critica del capitalismo che questo Papa ha fatto fin dalla è un fattore importante, forse decisivo, per comprendere l’opposizione che sta incontrando. Ma, se guardiamo bene e utilizzando le categorie giuste, ci accorgiamo che la critica di Papa Francesco è una critica teologica, non economica. Non a caso egli richiama spesso la natura idolatrica del nostro sistema economico. Il capitalismo, infatti, è sempre più simile a un culto religioso, o, meglio, a un culto idolatrico. Questa non è una novità del nostro secolo (basterebbe leggere Max Weber o Walter Benjamin), ma ciò che era già presente nella natura del capitalismo tradizionale, nell’economia finanziaria- consumistica del XXI secolo si sta manifestando in modo sempre più evidente. Anche guardando semplicemente all’urbanistica delle nostre città, ci accorgiamo immediatamente che l’economia di mercato è cresciuta e cresce grazie al consumo del territorio sacro che, sconsacrato e trasformato in indifferenziato e anonimo spazio profano, è diventato nuovo spazio liberato per gli scambi commerciali. I mercanti sono tornati nel tempio, tutto il tempio sta diventando mercato, anche il sancta sanctorum rischia di essere messo a reddito. Essendo la religione essenzialmente re-ligio (legare e unire), per distruggere una religione occorre prima minare le comunità e isolare le persone trasformandole in meri individui. Quando viene meno la terra comune della comunità, l’esperienza religiosa inesorabilmente si spegne; oppure diventa un bene di consumo, come sta accadendo oggi, quando nel giro di due generazioni abbiamo ridotto in macerie un patrimonio comunitario e religioso costruito in oltre duemila anni, e dove gli individui senza casa e senza radici sono diventati i consumatori ideali e perfetti. Ci siamo lasciati svuotare di senso e poi abbiamo riempito quell’infinito vuoto con le merci sempre più sofisticate per provare a rispondere a tutti i bisogni, persino al bisogno di Dio - ogni idolatria è una risposta sbagliata al bisogno di Dio. Questo svuotamento-riempimento rappresenta il massimo sviluppo di quel primo “spirito del capitalismo” che leggeva l’accumulo di beni come benedizione di Dio. Ma con una novità decisiva rappresentata dallo spostamento del baricentro etico del capitalismo dalla sfera della produzione a quella del consumo. A essere “benedetto da Dio” non è più, come accadeva nell’antica etica calvinista, l’imprenditore-produttore, ma il consumatore, che è lodato e invidiato perché ha i mezzi per consumare. I predestinati sono diventati coloro che possono consumare i beni, non più quelli che li producono lavorando. Più consumo, più benedizione. La figura sacrale dell’imprenditore-costruttore ha così lasciato il posto al nuovo “sacerdote”: il manager, che è tanto più “benedetto” quanto più alto è il suo bonus e quindi il suo standard di consumo. Come conseguenza di ciò, il lavoro è uscito di scena, relegato tra i ricordi un po’ nostalgici del passato e delle sue utopie. È diventato un mezzo per aumentare i consumi, grazie a una finanza sempre più amica del consumo e nemica del lavoro, dell’impresa e dell’imprenditore-lavoratore. Per il vecchio spirito calvinista il capitalismo, centrato attorno alla produzione e al lavoro, era ancora un capitalismo essenzialmente e naturalmente sociale. Lavorare e produrre sono azioni collettive, di cooperazione e mutualità. Il lavoro è il primo mattone delle comunità umane. Il consumo è invece sempre più un atto individuale, perdendo progressivamente quella dimensione sociale pur legata alla sfera economica. Il passaggio dal lavoro al consumo è frutto anche di un’operazione sistematica di disistima di tutto ciò che sa di fatica, sudore, sacrificio. Il consumo ci piace molto perché è tutto e solo piacere: nessuna fatica, nessun dolore, nessun sacrificio. Così non stupisce che la nuova frontiera della battaglia civile si stia spostando dal “lavoro per tutti”, che era il grande ideale del XX secolo, al “consumo per tutti”, che sta diventando lo slogan del XXI, magari reso possibile grazie a un reddito minimo garantito per poter essere introdotti nel nuovo tempio. Più consumo, meno lavoro, più benedizione. Le idolatrie sono sempre economie di puro consumo. Il totem non lavora, e il lavoro dei suoi devoti vale solo in quanto orientato al consumo: all’offerta, al sacrificio. Più una cultura è idolatrica più disprezza il lavoro e adora il consumo e quella finanza che promette un culto perpetuo di solo consumo senza fatica. Paura e rancore, questi sembrano i sentimenti che agitano la società italiana, un circolo vizioso che si autoalimenta, come uscirne fuori? In questi giorni mi torna spesso in mente il grande romanzo di Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, dove Drogo e i suoi soldati per anni attendevano racchiusi nel loro forte un nemico che non arrivava mai, e nell’attesa di questo nemico scoppiavano conflitti e nevrosi all’interno del forte. Siamo stati capaci di costruire anche noi dei nemici immaginari che stanno producendo molti conflitti e molti rancori tra i cittadini dei paesi europei. Questa fase della nostra storia sarà ricordata fra i momenti peggiori del continente europeo perché da almeno quattro secoli, cioè dall’inizio delle guerre di religione, l’Europa aveva imparato che la paura e la costruzione ideologica del nemico producono solo guerre e genocidi. Se non reagiamo subito, insieme e con grande energia (inclusa l’energia intellettuale e culturale), nel giro di pochi anni regrediremo alle guerre fra Signorie e staterelli dell’inizio dell’era moderna, che precedettero la nascita degli stati nazionali. Il rilancio di un grande progetto europeo è dunque essenziale. La prudenza della Chiesa italiana sembra miopia (Zamagni) o stanchezza (De Rita) di fronte all’urgenza di organizzare una qualche forma di presa di coscienza e di appello all’azione, è d’accordo sulla critica dei suoi illustri colleghi? E quale può essere il ruolo dei laici in una sinodalità “dal basso”? I disturbi della vista e la stanchezza sono sintomi dell’invecchiamento. La Chiesa cattolica italiana, come la Chiesa europea e di altri paesi occidentali, vive un progressivo invecchiamento, che sta avvenendo parallelamente a un’accelerazione della storia che amplifica gli effetti di questo invecchiamento. Ci sarebbe bisogno di un grande, sistematico e ambizioso “progetto giovani”, avviato da Papa Francesco e dal Sinodo sui giovani, che non può limitarsi alle giornate dei giovani o alla tradizionale pastorale giovanile, ma che dovrebbe partire prendendo molto più sul serio il “pensiero” dei giovani e dei ragazzi, che hanno un loro punto di vista sul mondo, sul pianeta, sulla povertà, sull’ecologia — il movimento di Greta è un punto di non ritorno, occorre saperlo interpretare. I giovani vanno ascoltati, presi sul serio, responsabilizzati, interpellati, posti nei luoghi di governo. Inoltre, il dopo-Concilio ha conosciuto una autentica primavera di nuovi movimenti e comunità, che ha riportato una stagione carismatica in tutta la Chiesa cattolica. Questa spinta collettiva si è in buona parte spenta. I grandi movimenti soffrono tutti della mancanza di nuove vocazioni e di innovazioni, e il XXI secolo non sembra generarne di nuove. Una buona lettura del tempo che vive la Chiesa cattolica ci proviene dal grande profeta Geremia. Nel suo libro c’è un episodio che ha molto da dirci in questa età di passaggi d’epoca, che investono la società, l’economia, le religioni e i movimenti spirituali nati nel Novecento. Geremia profetizza a Gerusalemme prima e durante l’evento più importante e devastante della storia di Israele: la conquista della città da parte dei babilonesi, la distruzione del tempio e quindi la deportazione in Babilonia. Una prova soprattutto religiosa, perché fu difficilissimo per il popolo ebraico capire il senso di quella tragedia, capire che il loro Dio diverso, YHWH, poteva essere vero anche se sconfitto. Geremia continuava a ripetere la sua profezia, ma, mentre annunciava al suo popolo la resa, con i babilonesi ormai alle porte, Geremia decide di recarsi nel suo villaggio natale (Anatot) per acquistare un terreno: «Stesi il documento del contratto, lo sigillai, chiamai i testimoni e pesai l’argento sulla stadera» (Geremia 32,10). Gerusalemme stava per capitolare; tutti fuggivano lasciando case e terreni abbandonati. Il profeta, invece, fa un atto che va nella direzione opposta di quella distruzione: compra un pezzo di quella terra che sta per essere devastata e conquistata. Vede attuarsi quella fine che aveva profetizzato e che gli era costata persecuzioni, torture e carcere, ma insieme fa un gesto che dice futuro, perché, dice, «Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese» (32,15). E quindi con i fatti ripete: è finita una storia ma non è finita la storia. È finita la grande storia del regno di Davide, iniziata con la terra promessa conquistata e occupata. Questa storia, dice il profeta, è finita, e non si torna indietro. Ma, aggiunge: non è finita la nostra storia, perché un resto tornerà. E questo resto che tornerà continuerà la stessa storia, purificata dall’esperienza dell’esilio. Questo episodio è utile, a mio avviso, per comprendere il nostro tempo. In questa fase di passaggio di epoca dovremmo imitare Geremia: guardare con realismo il presente, non illuderci né illudere rimpiangendo o ricordando il grande passato della cristianità; e poi comprare un campo, fare nuove opere e istituzioni per dire speranza e fede nel futuro. Oggi servirebbero nuove università, scuole, opere concrete. La fede non è faccenda di idee. Troppe volte nel Novecento, anche dentro movimenti e comunità, i giovani e le persone hanno incontrato una ideologia (c’è un’affinità tra ideologia e idolatria), non la fede biblica. La fede la si incontra nella vita concreta e semplice, toccando la terra, le cose, le persone, i poveri. E quindi con opere concrete, che oggi mancano molto, troppo, nella Chiesa cattolica. Istituzioni nuove, giovani, fatte con e insieme ai giovani, con e insieme ai poveri — è sempre in mezzo ai poveri dove si impara a risorgere. Nei periodi delle sue molte crisi epocali, la Chiesa è risorta generando opere: i Monti di pietà del Quattrocento, che risposero alle gravi crisi della povertà urbana; le migliaia di opere educative e sanitarie dei carismi sociali dal Seicento al Novecento, le cooperative, le banche, le università nel Novecento. E oggi? E noi? E infine ripetere insieme: è finita una storia, non è finita la storia. Un piccolo resto continuerà la storia di ieri. E sarà ancora più bello.

SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) Paradossi elettorali. Dove nasce un cardinale, lì stravince la Lega

"In questa fase la Chiesa fa troppa politica e si occupa troppo poco di fede": così il cardinale Gerhard L. Müller in un’intervista a commento delle elezioni europee, sul "Corriere della Sera" del 28 maggio, in linea con l’acuta analisi del professor Sergio Belardinelli nel precedente post di Settimo Cielo. Perché in effetti le alte gerarchie cattoliche, con in testa papa Francesco (vedi la copertina de “L’Espresso”), non si sono risparmiate nel far politica alla vigilia delle elezioni, specie in Italia, non tanto schierandosi apertamente “per” qualche determinato partito, ma inequivocabilmente schierandosi “contro” uno di essi, la Lega. Con quali risultati? Attenendoci ai nudi dati elettorali, con risultati diametralmente opposti alle aspettative. Basta scorrere le località che hanno dato i natali ai cardinali italiani più illustri e vicini a Jorge Mario Bergoglio, per registrare che anche lì la Lega ha stravinto, con percentuali di voti oscillanti tra il 40 e il 60 per cento. È accaduto così a Marradi, in provincia di Firenze, dove è nato il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della conferenza episcopale italiana. Idem a Schiavon, in provincia di Vicenza, paese natale del cardinale , segretario di Stato. E così a Barga, in provincia di Lucca, dove è nato il cardinale , segretario generale del sinodo dei vescovi. E ancora in queste altre località: Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, terra natale del cardinale , prefetto della congregazione per il clero, ascoltatissimo da Bergoglio; Foglizzo, in provincia di Torino, dove è nato il cardinale , governatore della Città del Vaticano e membro del consiglio dei sei cardinali che coadiuvano Francesco nel governo della Chiesa universale; Casarano, in provincia di Lecce, paese natale del cardinale , vicario del papa per la diocesi di Roma; Brisighella, in provincia di Ravenna, dove è nato il cardinale Achille Silvestrini, membro illustre di quel club di San Gallo che ha propiziato l’elezione di Bergoglio a papa; Romano Canavese (Torino), Villarboit (Vercelli) e Parodi Ligure (Alessandria), dove sono nati rispettivamente i cardinali , ex segretario di Stato, e i suoi protetti e , anch’essi tra i più ascoltati da papa Francesco; San Severino Marche (Macerata), Ascoli Piceno, Galbiate (Lecco), San Giuliano Milanese (Milano) e Villafranca (Verona), terre natali rispettivamente dei cardinali , segretario di Silvestrini e poi arcivescovo di Ancona, , arcivescovo dell’Aquila, Renato Corti, vescovo emerito di Novara, , già presidente del pontificio consiglio per i testi legislativi, e , nunzio apostolico in Siria. La Lega ha trionfato anche nelle località di nascita di porporati estranei alla cerchia di Francesco, come Malgrate (provincia di Lecco, cardinale ), Merate (provincia di Lecco, cardinale ), Foligno (Perugia, cardinale ), Sassuolo (provincia di Modena, cardinale ), Arcevia (provincia di Ancona, cardinale Elio Sgreccia), Todi (provincia di Perugia, cardinale ). Ma la lista non è ancora completa. Vi si devono aggiungere infatti le località di nascita, tutte con la Lega primo partito, dei cardinali (Isola d’Asti, Asti), (Borno, Brescia), Paolo Sardi (Ricaldone, Alessandria), (Novara), (Salgareda, Treviso), (Valdagno, Vicenza), (Sorano, Grosseto), (Montemonaco, Ascoli Piceno), (Vernole, Lecce), (Buonalbergo, Benevento), , (Acireale, Catania). La Lega ha inoltre trionfato nei paesi natali di Giovanni XXIII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo I, cioè a Sotto il Monte (Bergamo) con il 53,4 per cento dei voti, a Concesio (Brescia) con il 44,9 per cento e a Canale d’Agordo (Belluno) con il 46,5 per cento. Per finire una curiosità. La Lega ha stravinto anche a Magnano (Biella), di cui è frazione Bose, la località del celebre monastero fondato dall’ultrabergogliano Enzo Bianchi, con 95 voti contro i 63 del Partito democratico.

ITALIA OGGI Papa e cardinali, non fiutando l'aria, si sono troppo esposti contro la Lega e sono rimasti tramortiti dall'esito del voto di Antonino D’Anna

Lo sberlone di Matteo Salvini ai vescovi italiani va in onda all'una del mattino di lunedì 27 maggio 2019. Il vicepremier si siede davanti alla selva di microfoni in quel di Via Bellerio, quartier generale della Lega a Milano, e spara le sue bordate. Esordisce con il Crocifisso in mano e lo bacia: «Ringrazio chi c'è lassù e non aiuta Matteo Salvini e la Lega», dice: e fin qui siamo al manrovescio semplice per tutti quelli che fino a quel momento l'avevano criticato (dal presidente dei vescovi italiani cardinale Gualtiero Bassetti fino al segretario di Stato vaticano Pietro Parolin) dopodiché si lancia: «Ma aiuta l'Italia e l'Europa a ritrovare speranza, orgoglio, radici, lavoro, sicurezza e quindi io non ho mai affidato al Cuore Immacolato di Maria un voto, o il successo di un partito, ma il futuro e il destino di un Paese e di un continente». E qui parte la compilation di schiaffi a palmi ben distesi e dita bene aperte. Perché il leader leghista sottolinea speranza (virtù teologale assieme a fede e carità), radici (quelle radici giudaico-cristiane che poco dopo riprenderà), lavoro (altro tema che riguarda la Dottrina sociale della Chiesa), sicurezza (messaggio per la Gerarchia, per Papa Francesco, per tutti quei preti che da anni parlano solo di accoglienza). Altro che calarsi nei tombini a riallacciare illegalmente la corrente elettrica, care eccellenze ed eminenze: il ministro dell'Interno ha umiliato anche il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, quello del: «Chi vota Salvini non è cristiano». E le anime votanti non ne hanno tenuto conto. Ma gli schiaffi arrivano in crescendo. Prima di dedicarsi ai messaggi per il suo alleato (ancora per poco, par di capire) Giggino Di Maio, prima di dirgli che è ora di fare la Tav Torino-Lione, darsi una calmata, introdurre la flat tax e promuovere il nuovo decreto sicurezza, il vicepremier tira un ultimo schiaffone alla Cei e alla Gerarchia: «Qualcuno ha negato le radici giudaico-cristiane dell' Europa e io sono stato sbeffeggiato». Non solo sbeffeggiato: Salvini non è mai stato ricevuto dal Papa in Vaticano perché brutto, sporco e cattivo con i porti chiusi; Nicola Zingaretti, segretario del Pd (che domenica notte ha avuto la più grande resurrezione dai tempi di Lazzaro e Richard Nixon), ha potuto incontrare Jorge Mario Bergoglio in udienza privata. Peccato che il fratello di Salvo Montalbano sia a favore dell'eutanasia, altro che baci al Crocifisso. Con il richiamo alle radici giudaico- cristiane, Salvini sorpassa a destra la Chiesa. Si riallaccia a un tema caro a Giovanni Paolo II, oggi Santo, che chiese insistentemente l'inclusione di queste radici nella Costituzione europea: ed è un tema caro anche al Papa emerito Benedetto XVI. Ne parlò con Marcello Pera nel volume Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam (Mondadori, Milano 2004) quando ancora non era Pontefice. E Joseph Ratzinger lo disse chiaramente: «La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie». Non è tutto. Nell'accenno alle radici giudaico-cristiane Salvini strizza l'occhio anche agli Ebrei d'Italia e del continente: mentre in Germania si suggerisce loro di non portare la kippah, il loro tipico copricapo, mentre in Francia l'antisemitismo e l'intolleranza crescono, Salvini invece parla di riconoscimento delle radici europee che sono anche basate sull'Ebraismo. I conservatori in Vaticano possono riprendere quota, e così anche nella Chiesa italiana. Piuttosto, adesso ci vorranno buoni sherpa per avvicinare il leader del Carroccio, considerato che sperare nell'abbraccio del Movimento Cinque Stelle (ve l'abbiamo detto più volte: ha una forte base anticlericale, altro che i richiami di Giggino a Bergoglio) o in qualche simpatia del Pd sono politicamente poco redditizi, cari monsignori. Passare attraverso Giancarlo Giorgetti, l'uomo forte del Capitano, è la soluzione più immediata e possibile. Chi potrà avvicinarlo? Magari la Santa Sede (anche in conto Cei) a mezzo Parolin. Sono entrambi grandi tessitori e il cardinale veneto ha enormi capacità.

IL GAZZETTINO Pag 1 La necessità di puntare sulla crescita di Paolo Balduzzi

Passate le elezioni europee, alcuni tra i pericoli maggiori paventati alla vigilia, almeno per il nostro Paese, si stanno materializzando. L'Italia sembra rappresentare un'eccezione sotto diversi punti di vista: è uno dei pochi Paesi in cui l'affluenza è calata rispetto al passato (anche se resta superiore alla media) e in cui le forze populiste riescono ad affermarsi in maniera preponderante. Inoltre, è uno dei pochi Paesi, forse l'unico, che difficilmente troverà interlocutori e alleati tra gli altri Stati dell'Unione, seppur per motivi diversi. Non tra gli europeisti, ovviamente, ma nemmeno tra i sovranisti, forse ancora più rigidi per quanto riguarda il rispetto della disciplina di bilancio e comunque contrari a finanziare il debito pubblico altrui. Sarà cruciale capire quali cariche otterrà il nostro Paese all'interno delle istituzioni europee e con che tipo di atteggiamento si presenterà di fronte alla nuova Commissione. E, in fin dei conti, anche di fronte a quella uscente, chiamata a decidere se aprire una procedura di infrazione o meno contro il nostro Paese. Le prime dichiarazioni di Matteo Salvini sulla rinegoziazione degli obiettivi di deficit, sulla realizzazione della flat tax e sulla rinuncia all'aumento dell'Iva non sembrano promettere nulla di buono. Anche - e soprattutto - sul fronte di eventuali nuovi aumenti dello spread. Sgombriamo il campo da un possibile equivoco: qui non si tratta di contestare il forte mandato ottenuto dalla Lega a queste elezioni, un mandato forte di oltre sei milioni di voti in più rispetto alle politiche del 2018. Ma questo mandato va studiato e capito, e il suo significato potrebbe essere molto meno scontato anche di quanto il leader della Lega sembri pensare. Intanto, si tratta di elezioni europee, anche se la campagna elettorale è stata condotta principalmente su temi nazionali. Anche se è evidente il cambio dei rapporti di forza elettorali all'interno della maggioranza di governo, la distribuzione del potere all'interno del parlamento nazionale resta immutata. Secondariamente, la Lega deve riconoscere che al suo interno vive una fortissima contraddizione. Il partito viene votato in tutto il Paese, con punte al Nord di oltre il 40 per cento; ma è il più votato anche al Centro (33 per cento) e pure al Sud supera il 20 per cento quasi ovunque. Se al Sud la Lega viene però percepita come partito nazionale e assistenziale, al Nord essa continua a essere vista come partito territoriale e orientato a difendere gli interessi delle regioni più ricche e degli imprenditori medio-piccoli. Come pensa Salvini di mantenere insieme queste due anime? La risposta è nelle sue parole, vale a dire: come si è sempre fatto nella prima Repubblica. In altri termini ragionando e spendendo come se non esistessero i vincoli di bilancio, come se non avessimo dei parametri da rispettare, come se non ci fossero dei mercati che di fronte alla prospettiva di una crisi di finanza pubblica chiederanno rendimenti sui titoli di debito sempre più elevati. È un mondo che non esiste più e che ha creato dei danni di cui ancora paghiamo le conseguenze (il debito pubblico, appunto). Se solo sei mesi fa abbiamo rischiato una crisi diplomatica, nonché una procedura di infrazione europea, per realizzare Quota 100 e Reddito di cittadinanza, come può essere la prospettiva più rosea rinunciando all'aumento dell'Iva (25 miliardi)? O introducendo una flat tax i cui contorni sono ancora incerti ma i cui effetti redistributivi (regressivi) e finanziari (una perdita di gettito di decine di miliardi) sono invece piuttosto certi? I vincitori festeggiano, questo è ovvio e anche giusto. Ma non si può ignorare il contesto e il momento storico in cui ci troviamo. Siamo ancora sotto osservazione, dai mercati e alle istituzioni europee; nei prossimi giorni la Commissione ci invierà una lettera di richiesta chiarimenti rispetto alle misure che intraprenderemo per ridurre il debito nei prossimi anni. Da settimane, tuttavia, il leader della Lega non fa che parlare di quanto sia necessario non osservare i vincoli sul deficit e di proposte di spesa che di sicuro aumenteranno ulteriormente il debito pubblico. Il ministro Tria e gli altri membri più tecnici del Governo stanno lavorando per far quadrare i conti ma, quando delle coperture vengono trovate, si tratta di misure decisamente insufficienti: il tesoretto non speso dal reddito di cittadinanza, un miliardo aggiuntivo recuperato dalla lotta all'evasione, tecnicismi sul calcolo della crescita economica per ottenere qualche arrotondamento favorevole. Non è questo ciò di cui ha bisogno il Paese. O perlomeno, non solo di questo. Perché invece non provare a pensare come utilizzare la forza che, in particolare la Lega, ma anche lo stesso al governo, saldamente oltre il 50% nei consensi, ancora ha per realizzare quelle riforme magari meno popolari ma più incisive per garantire la crescita? La crescita economica sarebbe un toccasana anche per i conti pubblici: da un lato, maggiore attività economica significa minori spese assistenziali; dall'altro, redditi più elevati significano aumento del gettito fiscale senza necessità di ritoccare le aliquote. Una situazione, nel medio lungo periodo, di vittoria per tutti. Un obiettivo talmente strategico che se il governo presentasse una manovra correttiva - o una legge di bilancio - in deficit anche oltre il 3% ma orientata alla crescita, difficilmente troverà opposizioni, anche in Europa.

LA NUOVA Pag 11 Nell’era sovranista anche i numeri diventano un’opinione di Roberta Carlini

Ieri sera sono iniziate attorno a un tavolo le grandi manovre per occupare le tre posizioni-chiave ai vertici della nuova Europa uscita dalle urne. Commensali di peso, e per ora litigiosi, Francia e Germania; convitato presente, ma abbastanza indifferente, il governo italiano. Fuori dai grandi giochi per effetto oggettivo del risultato elettorale - che ha premiato i sovranisti in Italia, ma non altrove e in ogni caso non dà al gruppo della destra populista un ruolo chiave nelle nuove maggioranze - e anche per natura: anzi, di questo essere anti-establishment Lega e Cinque Stelle hanno sempre fatto vanto e potenza. Lo ha ribadito Salvini fresco di vittoria elettorale: il popolo ha parlato, ha detto, adesso l'Europa dovrà "prenderne atto". Altro che pesare al tavolo dove si decide: la Lega lo vuole ribaltare, quel tavolo. Ma c'è qualcosa che non torna. Il popolo aveva già parlato, per dirla alla Salvini, nel marzo dell'anno scorso. E la sfida all'Europa - intesa come rigore di bilancio - era già stata lanciata, in autunno. Per poi essere ritirata, lasciando in eredità una manovra a due teste (quota 100 e reddito di cittadinanza), una crescita prossima allo zero e un'ipoteca di 23 miliardi derivante dalla sterilizzazione dell'aumento dell'Iva, e un'impennata della spesa per interessi. Con questa eredità pesante sulle spalle, ma forte del consenso del 26 maggio, il ministro dell'interno adesso rilancia, respingendo la lettera di censura in arrivo da Bruxelles. Ma se, come dice Salvini, il tempo delle letterine è finito, che tempi stanno arrivando? Davvero l'Europa è pronta a bloccare la procedura di infrazione, e invece convocare, come chiede il vincitore italiano, una grande conferenza che mischi dentro tutto, debito, crescita, occupazione, investimenti, debito pubblico e Bce? Lo scenario è poco probabile, e i primi a non starci saranno gli alleati "sovranisti" di Salvini. Ma va notata, tra le varie frasi buttate lì, quella sulla "conferenza sul debito": evoca scenari e trattative che di solito si riservano agli Stati falliti, come il Club di Parigi ha fatto per i debiti insolvibili dei Paesi in via di sviluppo. Mentre tra le proposte concrete quella che torna è la flat tax per le famiglie sopra i 50mila euro, per un valore di 30 miliardi: che, sommati ai 23 per disinnescare la bomba Iva, fanno oltre 50 miliardi da chiedere a risparmiatori e contribuenti. A meno che non si pensi di trovarli con nuovi prestiti, e che quindi la Conferenza sul debito fantasticata da Salvini diventi un meeting fatto per fare altri debiti, non (solo) per cancellare i vecchi. E se pure tutto ciò accadesse davvero, resta il fatto che una flat tax sotto i 50mila euro avrebbe molti difetti di equità, avvantaggiando pochissimo le famiglie ai livelli medio-bassi (proprio quelli che, pare, hanno votato per Salvini) e di più i più benestanti; complicando il sistema fiscale invece di semplificarlo; tagliando i fondi disponibili per le spese sociali; e infine - come sempre - aggravando il debito sulle spalle dei nostri figli.

Pag 12 Il vicolo cieco del Movimento scavalcato nella protesta di Renzo Guolo

Lo straripante successo della Lega mette all'angolo il M5S. Il MoVimento è davanti al classico dilemma del prigioniero: se continua a collaborare con Salvini - che ormai può imporre un'agenda politica, dall'autonomia alla flat tax al decreto sicurezza bis - perde ulteriormente consenso; se rompe, senza una strategia alternativa che per ora non c'è, dato che una possibile alleanza con il Pd deve prima passare per le urne, si ritrova ben più che dimezzato. Per un classico "partito a soffietto" come i Cinquestelle, che si gonfia e sgonfia a seconda del ciclo politico, un simile andamento elettorale potrebbe essere fisiologico, ma quello che ne rende difficile la ripresa è che è divenuta collettiva la percezione dell'inadeguatezza del suo improvvisato ceto politico, selezionato non nella lunga, faticosa, pratica quotidiana della gestione amministrativa o della presenza nel territorio, ma nell'autopromozione nel web o nelle opache stanze di chi quelle pagine controlla. Inoltre, la miscela letale tra grisaglie ministeriali, abbandono dell'azione nel territorio, ondivaghi mutamenti di linea sull'Europa, hanno generato il convincimento che il vero attore di rottura degli equilibri di sistema, interni e internazionali, sia la Lega. Posizionamento che sottrae spazio a un soggetto nato come partito di protesta. Il voto delle europee è stato non solo un impietoso giudizio sulle capacità di governo dei pentastellati, che hanno perso milioni di voti, facendo registrare un significativo calo in tutto il paese: dalle grandi città conquistate negli scorsi anni, come Roma e Torino, al Sud ritenuto il proprio granaio elettorale, sino ai municipi che amministravano come Livorno; ma anche un netto pronunciamento sul loro ruolo di attori del "governo del cambiamento". Una situazione che per il M5S è complicata dal sorpasso del Pd che, nonostante le difficoltà in cui ancora versa, torna in gioco come sola realistica alternativa alla Lega. Riportando il conflitto su quel classico binario sinistra-destra che il grillismo, nell'indicibile ambizione di porsi come nuovo grande centro, credeva di avere divelto. I penstastellati sono in una situazione difficilissima. Il loro leader è sconfitto: in un partito normale si sarebbe già dimesso; la guida del governo si è definitivamente trasferita da Palazzo Chigi al Viminale; il MoVimento, che non ha saputo coltivare significative alleanze in sede europea, non può nemmeno presentarsi come interlocutore credibile per le forze che, nonostante l'avanzata sovranista, controllano l'Unione nel momento in cui giungono al pettine i nodi di bilancio italiani. Pensare che la soluzione possa venire da un ritrovato ruolo mediatore di Conte è pia illusione. In politica gli errori si pagano. E quello, capitale, di Di Maio è stato dar vita a un governo con chi ha coltivato abilmente, giorno dopo giorno, l'intenzione di cancellare il suo partito.

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