Edizioni Ca’Foscari

Venti anni di pacefredda di anni Venti

in Bosnia Erzegovina a cura di

— Diaspore. Quaderni di ricerca 5 ricerca di Quaderni Diaspore.

VENTI ANNI DI PACE FREDDA CAMILOTTI, REGAZZONI 5 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina

Diaspore Quaderni di ricerca

Collana diretta da | A series edited by Susanna Regazzoni Ricciarda Ricorda

5 Diaspore Quaderni di ricerca

Direttori | General editors Susanna Regazzoni (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Ricciarda Ricorda (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Comitato scientifico | Advisory board Shaul Bassi (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Enric Bou (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Luisa Campuzano (Universidad de La Habana, Cuba) Ilaria Crotti (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Antonio Fernández Ferrer (Universidad de Alcalá, España) Rosella Mamoli Zorzi (Università Ca’ Foscari Venezia, Ita- lia) Emilia Perassi (Università degli Studi di Milano, Italia) Eduardo Ramos Izquierdo (Université de Paris IV Sorbonne, France) Melita Richter (Università degli Studi di Trieste, Italia) Daniela Rizzi (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Silvana Serafin (Università di Udine, Italia)

Comitato di redazione | Editorial staff Margherita Cannavacciuolo (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Ludovica Paladini (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Alberto Zava (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Lettori | Readers Rosanna Benacchio (Università degli Studi di Padova, Italia) Luis Fernando Beneduzi (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Anna Boschetti (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Silvia Camilotti (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Alessandro Cinquegrani (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Adriana Crolla (Universidad Nacional ---del Litoral, Argentina) Biagio D’Angelo (Universidade Federal do Rio Grande do Sul, Porto Alegre, Brasil) Monica Giachino (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Marie Christine Jamet (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Adriana de los Angeles Mancini (Universidad de Buenos Aires, Argentina) Pia Masiero (Uni- versità Ca’ Foscari Venezia, Italia) Maria del Valle Ojeda Calvo (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Patrizio Rigobon (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Michela Rusi (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Alessandro Scarsella (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) María Carmen Simón Palmer (CSIC - Consejo Superior de In- vestigaciones Científicas, Madrid, España) Alessandra Trevisan (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Michela Vanon Alliata (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Elisa Carolina Vian (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Direzione e redazione | Editorial office Università Ca’ Foscari Venezia Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati Ca’ Bernardo Dorsoduro, Calle Bernardo, 3199 30123 Venezia

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a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Venezia Edizioni Ca’ Foscari - Digital Publishing 2016 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni (a cura di)

© 2016 Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni per il testo © 2016 Edizioni Ca’ Foscari - Digital Publishing per la presente edizione

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Edizioni Ca’ Foscari - Digital Publishing Università Ca’ Foscari Venezia Dorsoduro 1686 30123 Venezia http://edizionicafoscari.unive.it/ [email protected]

1a edizione ottobre 2016

ISBN 978-88-6969-094-5 [ebook] ISBN 978-88-6969-097-6 [print]

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Linguistici e culturali comparati.

Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina / A cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni. — 1. ed. — Venezia : Edizioni Ca’ Foscari - Digital Publishing, 2016. — 116 p.; 23 cm. — (Diaspore, 5). — ISBN 978-88-6969-097-6. http://edizionicafoscari.unive.it/it/edizioni/libri/978-88-6969-097-6/ DOI 10.14277/978-88-6969-094-5 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Sommario Introduzione 7 Silvia Camilotti Susanna Regazzoni

La pace fredda: problemi e prospettive 11 Alessandro Fallavollita

Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale e alla democrazia politica 19 Marco Boato

Dayton, vent’anni dopo 29 Andrea Oskari Rossini

Bosnia Erzegovina 37 20 anni dagli Accordi di Pace di Dayton Melita Richter

Il Tribunale delle donne in 47 Una prospettiva giuridica internazionale tra democrazia e memoria collettiva Sara De Vido

Scritture Scrittrici Migranti 71 Con interventi di Dunja BadnjeviĆ, Enisa BukviĆ, Elvira MujciĆ, Azra NuhefendiĆ Melita Richter

Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 91 Sguardo sul cinema bosniaco femminile Silvia Badon

Imago Mundi Bosnia 111 Manuela Da Cortà

Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Introduzione

Silvia Camilotti (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Susanna Regazzoni (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Il 14 dicembre del 1995 a Parigi si firmò il General Framework Agreement for Peace che sanciva l’intesa politica raggiunta a Dayton (Ohio, Usa) e po- neva fine alla guerra in Bosnia. L’Accordo fu firmato da Bill Clinton, Helmut Kohl e John Major con i più importanti rappresentanti politici della regione (Slobodan Milošević, FranjoTuđman, Alija Izetbegović) e stabilì una pace che a tutt’oggi si considera problematica, come dimostra la prima parte degli interventi che questo volume raccoglie. L’intesa che si raggiunse riconobbe ufficialmente la presenza in Bosnia Erzegovina di due entità distinte: la Federazione croato-musulmana (che ottenne il 51% del Territorio bosniaco) e la Repubblica Srpska (49%). Gli accordi crearono, inoltre, il distretto di Brčko, un’unità amministrativa autonoma a nord-est del paese, la cui sovranità sarebbe ricaduta sotto la giurisdizione dello stato federale centrale di Bosnia Erzegovina. Essendo un territorio conteso dalle tre parti, l’intero distretto si trova ancora og- gi sotto la supervisione della comunità internazionale e, come emergerà dai contributi qui raccolti, in una situazione non ancora del tutto stabile. Un’altra voce importante dell’accordo fu la possibilità dei profughi di fa- re ritorno presso i propri paesi di origine, sebbene anche questo aspetto risulti ancora oggi problematico data l’instabilità, anche economica, che colpisce in particolare la Bosnia. La pace raggiunta ebbe un rilievo certamente simbolico e favorì una relativa stabilità regionale; tuttavia, vent’anni dopo, molte delle speranze e delle certezze di Dayton sembrano vacillare di fronte al ritorno di vecchi problemi e all’emergere di nuove forme di nazionalismo, che il convegno da cui questa pubblicazione trae spunto ha cercato di ripercorrere. La struttura statale della Bosnia Erzegovina uscita da Dayton, inoltre, è un labirinto inestricabile con due entità statali, cinque presidenti, tre parlamenti, tre governi, due eserciti, due alfabeti, tre religioni, una legione di ministri e sottosegretari. L’Università Ca’ Foscari Venezia, attraverso la Scuola di Relazioni In- ternazionali e l’Archivio Scritture Scrittrici Migranti, ha voluto non solo Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-0 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 7 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 7-10 ricordare la guerra e l’ancora debole rapporto con l’Europa, ma anche avviare un bilancio di quanto la politica e la società civile hanno fatto in questi vent’anni. A tale proposito, è stata organizzata nel dicembre 2015 una giornata di studio dal titolo 1995-2015, 20 anni di pace fredda in Bosnia ed Erzegovina. L’iniziativa ha visto l’introduzione di Ricciarda Ricorda, prorettrice alla didattica e coordinatrice dell’Archivio Scritture e Scrittrici Migranti, di Marco Li Calzi, prorettore agli Affari Internazionali, di Susanna Regazzoni, direttrice della Scuola di Relazioni Internazionali ed ha visto poi il discorso inaugurale di Željana Zovko, Ambasciatrice di Bosnia Erzegovina in Italia. Parte degli scritti che qui introduciamo sono dunque il risultato di quell’incontro. Il volume è stato idealmente diviso in due parti: la prima più incentrata sugli aspetti storico-politici e giuridici, mentre la seconda di taglio cultu- rale. Il primo contributo, «La pace fredda: problemi e prospettive», per la penna di Alessandro Fallavollita, già ambasciatore italiano a Sarajevo, sottolinea l’importanza della fine del conflitto e della pace raggiunta, pur individuando i problemi di una pace non compiuta, tra cui la persistenza di una classe politica mai mutata rispetto al tempo di guerra. Ci piace sottolineare del contributo di Fallavollita l’importanza che attribuisce alle arti in genere nel poter ricostruire il senso di un’unica appartenenza in Bosnia: «Una maggiore attenzione all’arte, alla musica, al cinema (aggiun- gerei anche lo sport), tutti campi che meglio si prestano a far maturare processi identitari, potrebbe forse contribuire a far crescere sentimenti di appartenenza ad un’unica cultura». Segue l’intervento di Marco Boato della Scuola di formazione politi- ca e culturale Alexander Langer di Trento, «Dalla democrazia etnica e dall’etnofederalismo al federalismo territoriale e alla democrazia politica», che offre un quadro di natura ampia su problematiche ancora irrisolte in Bosnia, dalla questione del mancato riconoscimento delle minoranze alle riforme economiche e politiche necessarie. L’autore sostiene che per guardare al futuro e all’Europa occorra necessariamente venire a patti con il passato, o, in altri termini, «ad un bilanciamento dei diritti dei gruppi etnici con i diritti individuali, senza il rispetto dei quali non vi potrà essere una autentica democrazia politica». Andrea Rossini dell’Osservatorio Balcani e Caucaso con l’intervento «Dayton, vent’anni dopo» si colloca sulla linea dei precedenti contributi, sottolineando i punti problematici dell’accordo: in primo luogo il mancato riconoscimento dei diritti degli individui che si collocano al di fuori dei popoli costitutivi, cioè serbi, croati e bosniaco mussulmani; un ulteriore elemento conflittuale è dato dal mancato rientro dei rifugiati nelle zone di provenienza. Tale fenomeno inoltre evidenzia, secondo l’autore, come il progetto di pulizia etnica di fatto si sia realizzato, provocando lo spo- polamento di intere aree del paese. Altro dato messo in rilievo è il man- 8 Camilotti, Regazzoni. Introduzione Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 7-10 cato recupero dei corpi di persone scomparse e l’impunità per i crimini commessi durante la guerra, tutti elementi che non garantiscono stabilità nei rapporti interni alla regione. Dinanzi a un quadro del genere, l’autore sottolinea come i tentativi di riforma di natura economica effettuati in Bosnia non possano rispondere a problemi di portata così ampia, retaggio di un conflitto dall’eredità ancora pesante. Segue il saggio di Melita Richter, sociologa dell’Università di Trieste, «Bosnia Erzegovina. 20 anni dagli Accordi di Pace di Dayton», strutturato attorno a alcune parole chiave, quali transizione, cambiamento, giustizia e responsabilità, che ben dipingono la situazione in cui versa oggi la Bosnia, non limitandosi tuttavia a un quadro descrittivo ma indicando anche alcune direzione già intraprese, su cui occorre insistere. Si tratta della esperien- za che la sociologa cita del Tribunale delle Donne di Sarajevo secondo la quale ha offerto alla società civile «un’opportunità di capire, demolire e rifiutare i meccanismi che hanno condotto alla guerra, di confrontarsi e cercare di superare il passato criminale, quello in cui il male si infligge all’Altro in nome della nazione». Il riferimento al Tribunale delle donne vede uno sviluppo nel contributo di Sara De Vido, docente di diritto internazionale a Ca’ Foscari, dal titolo «Il tribunale delle donne in Sarajevo: una prospettiva internazionale tra democrazia e memoria collettiva» che ha svolto e continua a svolgere un importante ruolo nei processi di ricostruzione, giuridica e non, e che, se affiancato ai tribunali internazionali ‘legittimi’, produrrebbe «un passo avanti nel cammino verso una democrazia intesa quale partecipazione ai processi decisionali a livello internazionale». Il saggio di De Vido conclude la prima sezione del volume, che si apre poi a contributi di taglio più specificamente culturale, in particolare let- terario e artistico. L’intervento di Melita Richter raccoglie gli interventi portati al convegno di alcune scrittrici provenienti dall’area balcanica, che da anni scrivono in italiano e appartengono a quella che è stata definita come ‘letteratura italiana della migrazione’. Richter mette subito in rilievo la difficoltà di trovare il termine più adeguato per indicare il luogo di pro- venienza delle partecipanti, oscillante tra area balcanica ed ex Jugoslavia. La conversazione si apre con l’intervento di Dunja Badnjević, nata a Belgrado e in Italia da molti anni, che interpreta l’allontanamento dalla sua terra d’origine come un nuovo e stimolante inizio e dove l’esercizio della traduzione diviene pratica tranquillizzante che mette pace fra la lingua madre e quella d’acquisizione. Più drammatica e recente è invece l’esperienza di Elvira Mujčić (Serbia) che vive appieno il trauma della guerra e il senso di sradicamento, per la quale la scrittura diviene l’ele- mento che sana la lacerazione tra la terra d’origine e quella dell’esilio. Enisa Bukvić (Montenegro) vive a Roma da prima della guerra e racconta dell’importanza della scrittura come antidoto alla nostalgia. Conclude la tavola rotonda Azra Nuhefendić (d’origine bosniaca) che ancora una volta Camilotti, Regazzoni. Introduzione 9 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 7-10 vede nella scrittura lo strumento più adeguato ad esprimere la difficile condizione di profuga: «Il mio scrivere era un urlo contro tutto quello che sentivo o leggevo, la faticosa conquista dell’italiano». I contributi delle autrici sono arricchiti da alcuni brani tratti dai loro scritti, al fine di dare ai lettori e alle lettrici la possibilità di avvicinarsi alle loro opere, oltre che di ascoltare la loro voce. Conclude il volume il contributo di Silvia Badon, dottoranda all’Univer- sità di Urbino, che con «Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa: sguardo sul cinema bosniaco femminile» introduce un’altra moda- lità di resistenza culturale, quella del linguaggio cinematografico, attra- verso l’opera di tre cineaste, Jasmila Žbanić, Aida Begić e Ines Tanović che mostrano la rappresentabilità del dolore attraverso l’immagine filmica. Come appendice al volume proponiamo «Imago Mundi Bosnia», presen- tazione, a cura di Manuela Da Cortà, di un progetto di museo itinerante che ha visto la realizzazione di un gigantesco mosaico di opere contemporanee di artisti di tutto il mondo, uniti in «un coro polifonico di singole voci». A questo progetto – realizzato grazie alla fondazione Benetton – partecipa anche la Bosnia Erzegovina, a testimonianza del fermento culturale che vive oggi la società di Sarajevo e a sottolineare un futuro possibile grazie alla potenzialità creatrice e liberatoria dell’arte, messaggio che ci piace porre come cappello conclusivo, carico di speranza.

10 Camilotti, Regazzoni. Introduzione Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

La pace fredda: problemi e prospettive

Alessandro Fallavollita (Già ambasciatore d’Italia in Bosnia Erzegovina)

Abstract The greatest achievement of the Dayton Agreement in Bosnia Herzegovina has been the last 20 years of peace. However, old problems are still there and old nationalistic parties get stronger and stronger. The most effective Instruments to tackle these problems are: education (a reform of the school system), culture (implementation of art, music, cinema, sports) and the integration in the EU. In one sentence: Treat Bosnia as a normal country. This process would also help EU dealing with the Eastern Europe and Middle East crisis, the migratory flows and the fight against ISIS.

Keywords Dayton accords. Bosnia Herzegovina. Europe.

Un giudizio sugli Accordi di Dayton e su ciò che è realmente accaduto in questi ultimi venti anni in Bosnia Erzegovina non può che condurre alla constatazione che sono stati venti anni senza guerra, venti anni di pace. Credo che occorra partire da questa semplice ma importante verità, se si vogliono poi affrontare i problemi che ancora oggi devono essere risolti per contribuire a costruire istituzioni e strutture di un paese stabile e proiettato verso il futuro. Sono problemi complessi, le cui origini, è inutile negarlo, si trovano negli stessi Accordi di Dayton ed in particolare proprio in quelle disposizioni che oggi mettiamo sotto accusa e che, paradossal- mente, consentirono nel 1995 di passare da una guerra disastrosa ad una pace, certo fredda quanto si vuole, ma sempre pace. Ma i meriti di Dayton finiscono qui. Il resto appartiene al mondo delle promesse non mantenute, dell’illusione che col tempo si sarebbe passati a istituzioni democratiche più consolidate, ad una società non così etnicamente frammentata, che si sarebbe passati, in altri termini, da una pace fredda ad una vera pace fondata sulla convivenza civile. Così non è stato o lo è stato solo in minima parte. C’è dunque parecchio lavoro da fare per superare gli ostacoli che rendono difficile il pieno raggiungimento di questi obiettivi. Un primo problema che salta agli occhi, specie per chi come me è andato via dalla Bosnia ormai da qualche anno, è la constatazione che, passano gli anni, cambiano le formule e le alleanze politiche, ma sono quasi sempre gli stessi uomini a detenere il potere in Bosnia. Arrivai a Sarajevo 10 anni fa come Ambasciatore e i miei più importanti interlocutori (i vari Covic, Ivanic, Bakir Itzebegovic, Dodik ecc…) furono gli stessi che salutai quan- Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-1 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 11 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 11-18 do tornai a Roma 4 anni dopo e in fondo sono gli stessi che ancora oggi calcano le scene della vita politica del paese. É mancato un ricambio gene- razionale all’interno dei partiti e dei vertici dei tre popoli costituenti. Non si tratta di disconoscere capacità e anche talvolta abilità politica in alcuni degli attuali leader del paese, ma è fuor di dubbio che uomini formatisi nel clima di una guerra così lunga e dura risentano di queste radici e ad esse finiscano per ispirare i loro progetti politici. Sappiamo tutti che uno dei problemi della Bosnia è il risorgere di una certa retorica nazionalista (non bosniaca, ma purtroppo bosgnacca, serba e croata), che nelle elezioni dello scorso anno ha portato alla vittoria i partiti più marcatamente nazio- nalisti. Ecco perché c’è da sperare che un ricambio generazionale possa far emergere nuove forze politiche e nuovi leader consapevoli dell’urgenza di dare al paese nuovi obiettivi e realizzare le necessarie riforme. Inoltre a venti anni dalla fine della guerra cominciano ad affacciarsi alla vita pub- blica anche uomini e donne che non hanno vissuto sulla propria pelle le atrocità del conflitto e che dunque possono con spirito diverso partecipare attivamente, anche col loro voto, ai movimenti politici e sociali del paese. C’è bisogno che crescano leader capaci di parlare a tutto il paese e non solo alla propria comunità. Da dove cominciare? Io partirei dalla scuola. Se ne parla poco perché, giustamente, l’attenzione è concentrata più sulle questioni istituzionali. Ma la società ed in particolare la classe dirigente di un paese comincia a formarsi a scuola. E qui ci vorrebbe davvero un salto di qualità, comin- ciando a definire programmi scolastici fondati su una visione comune e non su una lettura etnocentrica della storia del paese e degli avvenimenti che hanno portato alla nascita della Bosnia Erzegovina. É giusto non dimenticare quanto accaduto negli anni Novanta e ancor più giusto mi pare non nascondere le responsabilità, ma non sino al punto da impostare sulle reciproche accuse e sul rancore l’educazione delle future genera- zioni. Occorre superare l’attuale organizzazione scolastica intervenendo in profondità per scardinare muri e divisioni dentro e fuori la scuola. Ma non è impresa facile, tanto più che non esiste (e non è per caso) nemmeno un Ministero dell’Istruzione e della Cultura a livello statale. Purtroppo il tentativo di promuovere programmi comuni si è spesso scontrato con pregiudizi e diffidenza. Ricordo che proprio per favorire attività comuni di studenti di comunità diverse finanziammo con la cooperazione italia- na, insieme ad altri paesi, aule computer nel liceo di Mostar (città dove appunto le tensioni fra musulmani e croati erano ancora vive), al fine di valorizzare discipline per definizione neutre e quindi non facilmente strumentabili dalla propaganda e dalla retorica nazionalista (come avve- niva invece per i corsi di storia, di lingua o di cultura). Ebbene i ragazzi studiavano insieme ed insieme si occupavano delle attività informatiche a scuola, salvo poi, così ci raccontavano, sentirsi ripetere a casa di non recarsi in questo o quel bar o in questo o quel quartiere perché frequen- 12 Fallavollita. La pace fredda: problemi e prospettive Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 11-18 tato da giovani appartenenti all’altra comunità. Mi piacerebbe essere smentito, ma credo che ancora oggi se chiedete agli studenti di Banja Luka se siano mai andati, o se siano interessati ad andare, a Sarajevo, otterreste dalla maggioranza una risposta negativa. Analoga diffidenza nei confronti di Banja Luka forse trovereste negli studenti di Sarajevo o Mostar, bosniacchi o croati. Credo che a distanza di venti anni, che è appunto il tempo di una generazione, abbiamo il dovere di sperare che questa situazione cambi rapidamente. Vengo ora ai rapporti con l’Unione Europea. Nessuna soluzione dei problemi attuali della Bosnia, dalla ridefinizione delle sue istituzioni all’e- sigenza di costruire su nuove basi i rapporti fra i tre popoli costituenti, può prescindere dal ruolo che l’Unione Europea svolge per mantenere in una dimensione di stabilità e progresso la Bosnia e gli altri paesi dell’a- rea balcanica, un ruolo che comporta sempre maggiori responsabilità da parte dell’UE anche per bilanciare se non proprio un calo di interesse americano certamente una revisione delle priorità di Washington rispet- to alle iniziative dell’era Clinton nella regione. La prospettiva europea, cioè l’obiettivo dell’ingresso a pieno titolo nell’UE, ha contribuito ad allentare le tensioni interetniche quando queste rischiavano di rimettere in discussione la difficile convivenza ed il precario equilibrio messo in piedi a Dayton. Un processo questo che ha avuto alti e bassi nel corso degli ultimi venti anni: accelerazioni in coincidenza con crisi politiche ed economiche che rendevano necessaria un’iniezione di fiducia in un avvenire in Europa; ma anche brusche frenate, specie sul lato europeo, in funzione del prevalere di umori contrari ad altri allargamenti dopo l’a- desione dei paesi dell’ex blocco comunista. Da qualsiasi punto di vista lo si voglia considerare il rapporto con l’UE è risultato, ed ancor più risulta oggi, strategico per la Bosnia Erzegovina. Ma lo è ancora per l’Unione Europea, ora che altre sfide impegnano i 28 paesi dell’UE, dall’Ucrai- na, al Medio Oriente, ai flussi migratori, alla lotta contro ISIS? Credo la risposta non possa che essere affermativa, visto che si tratta di sfide che non possono prescindere dalla stabilità nell’area balcanica, dove la Bosnia Erzegovina resta centrale per posizione geografica e per intreccio di interessi etnici, religiosi e storici. C’è da chiedersi allora se sia stato sufficiente concedere, oltre alla liberalizzazione dei visti e ad alcuni aiuti finanziari, un Accordo di Sta- bilizzazione e Associazione per poi congelarlo e attendere quasi sette anni dalla firma per farlo entrare in vigore. C’è da chiedersi inoltre se il mantenimento della figura dell’Alto Rappresentante, secondo schemi e funzioni appartenenti più alle incrostazioni del passato che ad una visione futura del Paese, non abbia finito per deresponsabilizzare ulte- riormente la classe politica bosniaca. C’è da chiedersi infine se non si sia sottovalutato il rischio che la crescita della retorica nazionalista in Bosnia potesse aprire spazi a derive fondamentaliste che, specie in tem- Fallavollita. La pace fredda: problemi e prospettive 13 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 11-18 pi di crisi economica come quella che abbiamo vissuto negli ultimi anni, non trovano difficoltà ad attecchire nelle fasce più deboli e più esposte della società. E qui è impossibile non aprire una parentesi a proposito della diffusione di alcune forme di radicalismo islamista nella Bosnia di oggi, che ne fanno uno dei paesi europei da cui provengono alcune cen- tinaia di cosiddetti foreign fighters dell’ISIS. In questo contesto non si può non tornare indietro agli errori di valutazione (meglio dire di sotto- valutazione) commessi dall’Europa all’inizio degli anni Novanta quando sarebbe stato ancora possibile gestire con gradualità e con strumenti pacifici la disgregazione della Jugoslavia. Errori che bruciano ancor più oggi, quando si fa un gran parlare della necessità di promuovere il dialogo con un islam moderato, se si pensa che un buon esempio di islam moderato era lì a portata di mano nel cuore dell’Europa, un islam bosniaco, moderato e soprattutto europeo, che avrebbe potuto anche proporsi come modello di integrazione, rispetto alla crescente presenza in Europa di persone appartenenti a questa religione. Ma la storia non si fa con i se… Sappiamo poi com’è andata: la guerra, la presenza in Bosnia di un certo numero di mujaiddin, l’influenza wahabita con finan- ziamenti sauditi, la costruzione di nuove moschee e scuole islamiche. Tutti fattori che, se non tenuti sotto controllo, rischiano oggi di alterare la natura di un islam ancora sostanzialmente moderato ed europeo, che sarebbe interesse di tutti preservare. Quello dell’evoluzione dell’islam bosniaco rappresenta un tema che forse meriterebbe una riflessione a parte, inclusa l’influenza crescente che, con iniziative a tutto campo (politiche, commerciali, culturali), la Turchia di Erdogan non cessa di esercitare su Sarajevo. Se il processo di integrazione europea è andato a buon fine per Slovenia e Croazia, per gli altri paesi dell’ex Jugoslavia l’ingresso nell’Unione resta ancora un obiettivo lontano, sebbene Serbia e Montenegro abbiano già ottenuto lo status di paese candidato e la Bosnia, a quanto pare, si accinga a richiederlo in tempi brevi. Da un lato è la stessa Unione Europea ad aver raffreddato gli entusiasmi, con la dichiarazione di Juncker dello scorso anno in cui affermava chiaramente che per almeno cinque anni sarebbe stato impossibile parlare di nuove adesioni dopo la Croazia, dall’altro le specifiche situazioni di difficoltà dei singoli paesi hanno reso più arduo il loro cammino verso Bruxelles (per ragioni diverse: Bosnia, appunto con i problemi che stiamo esaminando, ma anche Macedonia con i noti veti greci e Kosovo con un’indipendenza non ancora da tutti riconosciuta). Va detto però che in Bosnia si è registrato qualche significativo passo avanti, specie dopo l’iniziativa anglo-tedesca dello scorso anno, che ha condotto alla formulazione da parte del governo bosniaco di una dichiarazione di impegno in materia di riforme sociali ed economiche. Ma l’instabilità politica continua a caratterizzare la situazione sia a livello statale che a livello delle due Entità, le riforme sociali ed economiche tardano ad essere 14 Fallavollita. La pace fredda: problemi e prospettive Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 11-18 avviate, per non parlare dei seguiti da dare alla sentenza della Corte di Strasburgo sul noto caso Seidjic-Finci del 2009 che impone di cambiare la costituzione e la legge elettorale per consentire la partecipazione delle minoranze oggi escluse dalle posizioni di governo riservate come noto ai soli rappresentanti dei tre popoli costituenti. Insomma bisognerebbe davvero mettere mano a Dayton, considerandolo finalmente per quel che avrebbe dovuto essere, e cioè uno strumento sì necessario a fermare la guerra, ma certamente non definitivo quanto al complesso apparato istituzionale costruito per accontentare i tre leader delle tre comunità in guerra al tavolo del negoziato. Un apparato istitu- zionale che in effetti alla lunga si sta rivelando come una gabbia che im- pedisce al paese di dotarsi di istituzioni funzionanti. Ma esistono oggi le condizioni per avviare un tale processo? È lecito nutrire qualche dubbio in proposito, visto che la stessa Unione Europea, che pure insiste per gli adeguamenti costituzionali richiesti dalla Corte di Strasburgo, ha preferito poi ripiegare su richieste più direttamente concernenti la situazione socio- economica, rinviando a tempi migliori il tentativo di sbrogliare l’intricata matassa istituzionale. Né bisogna dimenticare che la crisi ucraina ha reso ancor più complesso lo scenario balcanico. Se prima la Russia sembrava aver accettato, magari obtorto collo, la prospettiva dell’integrazione eu- ropea dei paesi dell’area, oggi le tensioni ucraine fra Mosca e l’Occidente potrebbero farsi sentire anche nei Balcani, incoraggiando indirettamente tentazioni centrifughe della Repubblica Srpska, che a torto o a ragione tende a considerarsi, insieme alla Serbia, parte di uno schieramento, più storico/religioso che ideologico, da sempre legato alla Russia. Che il clima sia cambiato lo dimostrano anche le dure reazioni di Mosca alla decisione della Nato di invitare il Montenegro a diventarne membro, un’anticipazio- ne di quella che potrebbe essere la posizione russa qualora l’allargamento ad est della Nato coinvolgesse anche la Bosnia. Vorrei infine dire una parola su un aspetto cui ho accennato all’inizio e che viene spesso trascurato, perché considerato marginale, nelle ri- flessioni su cosa occorra fare per restituire alla Bosnia Erzegovina un’i- dentità nella quale possano riconoscersi tutti i suoi cittadini. Parlo della cultura e di possibili progetti in grado di mobilitare l’interesse di tutta la società della Bosnia Erzegovina. Una maggiore attenzione all’arte, alla musica, al cinema (aggiungerei anche lo sport), tutti campi che meglio si prestano a far maturare processi identitari, potrebbe forse contribuire a far crescere sentimenti di appartenenza ad un’unica cultura. Non è per caso che molti paesi amici della Bosnia, in primo luogo l’Italia, abbiano scelto di impegnare fondi ed energie nel settore della cooperazione cul- turale. Durante gli anni delle mia esperienza bosniaca da parte italiana fu dato un importante sostegno al progetto di realizzare a Sarajevo un Museo di Arte Contemporanea firmato da Renzo Piano, un progetto por- tato avanti dai responsabili di Ars Aevi (un acronimo che ricorda nel suo Fallavollita. La pace fredda: problemi e prospettive 15 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 11-18 anagramma Sarajevo) guidati da Enver Hadziomerspahic e rilanciato proprio a Venezia lo scorso anno, con la partecipazione di un qualificato gruppo di sostenitori, fra cui Massimo Cacciari, Claudio Martini ed altre personalità della cultura e del mondo accademico italiano. Si tratta di una straordinaria collezione di arte contemporanea, oggi sistemata in una sede provvisoria in attesa che il progetto del Museo si concretizzi con auspicabili contributi internazionali, una collezione arricchitasi sin dagli anni della guerra con contributi volontari di molti grandi artisti contemporanei. Un importante polo museale a Sarajevo progettato da Renzo Piano rappresenterebbe non solo un altissimo riferimento artistico e culturale per l’intera regione ma offrirebbe alla città un’opportunità unica di sviluppo sotto il profilo turistico ed economico, come dimostrano casi simili al mondo (basta pensare al Guggenheim di Gehry a Bilbao). Sarebbe tra l’altro un modo esemplare per restituire da parte della co- munità internazionale dignità ed energia ad una città che ha tanto sof- ferto (anche per responsabilità internazionali) e che, forte delle proprie tradizioni multiculturali, cerca di riemergere e riproporsi come grande centro culturale di tutta l’area balcanica, nel quale potrebbero ricono- scersi tutti i cittadini della Bosnia Erzegovina, appunto come bosniaci erzegovesi più che come bosgnacchi, serbi o croati. Lo stesso potrebbe dirsi per iniziative culturali di alto livello da realizzarsi a Mostar o Banja Luka o in altre città del paese. Tornando al nostro tema di fondo, e cioè alla possibilità che la struttura degli Accordi di Dayton possa essere modificata, anche se i tempi non appaiono ancora del tutto maturi per rivederne radicalmente gli assetti istituzionali con il consenso di tutti i protagonisti, va ricordato che non sono mancati in questi ultimi anni tentativi di delineare possibili solu- zioni da parte di istituti di ricerca e autorevoli Think Tank. Uno di quelli che ha avuto più risonanza è lo studio uscito nel luglio dello scorso anno dell’ICG, International Crisis Group, sotto forma di appello al governo della Bosnia, ai suoi cittadini, all’Unione Europea e alla comunità interna- zionale (in particolare a quel PIC, Peace Implementation Council, da cui dipende l’Ufficio dell’Alto Rappresentante, che ancora agisce come una sorta di tutor della Bosnia). L’idea di fondo, per la verità ancora allo stato embrionale, era quella di lavorare per la costituzione di uno stato federa- le senza prevedere poteri speciali dei popoli costituenti. Era prevista in particolare la creazione di distretti amministrativi più o meno coincidenti con i confini delle municipalità, ponendo al vertice dello stato lo stesso Governo o un ufficio del Capo dello Stato collettivo, con rappresentanti dei popoli costituenti ma senza quote etniche. Il tutto accompagnato dalla chiusura dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante, dallo scioglimento del PIC deciso con una risoluzione ONU ad hoc; e naturalmente da una accele- razione della candidatura della Bosnia a membro dell’UE da accogliersi positivamente da Bruxelles. 16 Fallavollita. La pace fredda: problemi e prospettive Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 11-18

Treat Bosnia as a normal country: al di là delle singole concrete pro- poste, alcune di buon senso altre più discutibili, era questa la filosofia di fondo suggerita dall’ICG, che, credo, potrebbe essere la linea guida più importante di chi voglia contribuire oggi a dare alla Bosnia Erzegovina dignità e futuro di un moderno stato democratico, pienamente integrato nelle strutture europee, con istituzioni snelle e funzionanti e con adeguati strumenti di partecipazione e rappresentanza di tutte le diverse compo- nenti della società bosniaca.

Fallavollita. La pace fredda: problemi e prospettive 17

Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale e alla democrazia politica

Marco Boato (Scuola di formazione politica e culturale Alexander Langer, Trento, Italia)

Abstract As the late Italian MP had foreseen before the beginning of the war, the ethnic conflict in former Yugoslavia was devastating and left deep wounds, some of them still open today. Meanwhile new problems have emerged in Bosnia: migration issues, Islamist radicalism, the role of foreign pow- ers. The process of integration in the EU, started in 2008, has slowed down, mainly due to Bosnian politics still stuck at an ‘ethnic’ stage. Only Bosnian, Serbian and Croatians are represented in the government, while the High Representative for Bosnia and PIC (Peace Implementation Council) often conflict with it. Although Bosnian residents were granted free visas for the EU in 2011, in 2015 the country was invited to reform its constitution and include all minorities in the government in order to speed the integration. In fact, electoral, economic and social reforms are urgently needed to change politics from an imposed order to an agreed and shared one, from an ethnic federalism to a regional federalism.

Keywords Federalism. Political democracy. Dayton accords.

Riflettere sulla Bosnia a venti anni dagli Accordi di pace di Dayton ci porta prima di tutto a ricordare ciò che questa pace ha preceduto, a comincia- re dal lunghissimo assedio di Sarajevo (quasi quattro anni, un’eternità) e dal genocidio di Srebrenica dell’11 luglio 1995. Una settimana prima, il 3 luglio, l’europarlamentare verde Alexander Langer aveva posto fine volontariamente alla propria vita, a soli 49 anni, dopo aver dedicato quasi interamente gli ultimi anni della propria esistenza al dramma della ex Jugoslavia e soprattutto alle tragedie della Bosnia. Soltanto il 26 giugno, una settimana prima della sua morte, si era recato con una delegazione di euro-parlamentari a Cannes, dove si svolgeva il vertice dei capi di Stato e di governo europei, presieduto da Jacques Chirac, al quale Langer presen- tò l’appello L’Europa muore o nasce a Sarajevo e a cui chiese inutilmente che venisse deciso un intervento di polizia internazionale per porre fine al massacro bosniaco. Chirac si dichiarò contrario all’intervento, che invece ci fu vari mesi dopo e fu tardivamente risolutivo. Nel frattempo Langer era morto e il genocidio di Srebrenica si era consumato sotto gli occhi complici e impotenti del contingente ONU, che avrebbe invece dovuto protegge- re i bosniaci. Profeticamente Langer pochi giorni prima aveva affermato nel suo ultimo scritto: «Con che faccia continueremo a blaterale di ONU e OSCE come futura architettura di pace e di sicurezza, se poi i soldati Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-2 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 19 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28 dell’ONU diventano ostaggi e il loro mandato consente loro solo la forza necessaria per proteggere se stessi e i loro compagni?» (Boato 2015, 56- 7). Ancora oggi si possono rileggere con grande emozione gli scritti e gli interventi di Langer sulla crisi jugoslava e in particolare sulla Bosnia, dap- prima nel suo unico libro pubblicato in vita, Vie di pace/Frieden Schließen (1992), e poi nell’antologia postuma Il viaggiatore leggero ([1996] 2015), oltre che nella raccolta Pacifismo concreto. La guerra in ex Jugoslavia e i conflitti etnici (2011). Al momento della dissoluzione della Jugoslavia, Lan- ger aveva pienamente capito quali sarebbero state le dinamiche devastanti che si sarebbero verificate e, comunque, dedicò gli ultimi anni della sua vita per cercare di superare ogni forma di etno-nazionalismo, di costruire ponti dove si stavano alzando muri di odio e di contrapposizione etnico- religiosa, di creare reti di dialogo e di convivenza dove stavano prevalendo le logiche di esclusione forzata e di sopraffazione violenta. A distanza di vent’anni dagli accordi di Dayton, si può fare un bilancio carico di luci ed ombre, prendendo certo atto positivamente che essi hanno consentito di vivere un lungo periodo di ‘pace fredda’, come giustamente recita il titolo del convegno veneziano, di ‘assenza di guerra’ dove la guerra aveva imperversato spietatamente per anni. Ma bisogna anche prendere atto che è stata realizzata una sorta di ‘etno-democrazia’, una forma di ‘etno-federalismo’ nel quale le appartenenze etniche di gruppo prevalgono sui diritti umani e sui diritti civili delle singole persone, dei singoli cittadini. Molti dei problemi aperti vent’anni fa sono purtroppo ancora in gran parte irrisolti, compresa la questione degli ‘scomparsi’, la questione dei ‘ritorni’, la questione della punizione dei criminali di guerra, come giustamente ricorda Andrea Rossini nel suo contributo. Significativo quanto ha scritto nel novembre 2015 l’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI):

L’intesa politica raggiunta il 21 novembre 1995 a Dayton mise fine ad uno dei più tragici eventi europei dalla fine della Seconda guerra mon- diale, la guerra civile in Bosnia Erzegovina. Oltre a rappresentare un evento altamente simbolico, gli accordi di pace hanno favorito – ecce- zion fatta per il Kosovo – una certa stabilità regionale, promuovendo un equilibrio in tutta l’area dei paesi della ex Jugoslavia. Nonostante la comunità internazionale e l’Unione Europea abbiano garantito un clima di sostanziale pacificazione, vent’anni dopo molte delle speranze e delle certezze di Dayton sembrano oggi vacillare di fronte al ritorno di vecchi problemi e all’emergere di nuovi fenomeni. La questione migratoria, il radicalismo islamista, il ruolo delle potenze esterne e il riaffiorare di nuove fratture politiche all’interno degli stessi paesi sembrano condi- zionare l’attuale sistema di stabilità balcanico.1

1 http://www.ispionline.it/en/node/14235 (2016-08-29). 20 Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28

Dunque, il 14 dicembre 1995, venti anni fa, furono firmati ufficialmente a Parigi quegli Accordi di Dayton che furono sottoscritti il 21 novembre 1995 in Ohio negli USA da Slobodan Milosevic per la Serbia, Franjo Tuđman per la Croazia e Alija Izetbegovic per la Bosnia Erzegovina, nella conferenza di pace che si svolse con la mediazione del diplomatico americano Richard Holbrooke, insieme all’inviato speciale dell’Unione Europea Carl Bildt e al vice-ministro degli esteri russo Igor Ivanov, oltre che con l’attenta super- visione dell’allora presidente degli USA Bill Clinton. Furono accordi molto complessi, che tali si dimostrarono e si dimostrano ancora nella lunga fase di applicazione e di interpretazione evolutiva, ma che hanno comunque avuto, come già detto, il grande merito di porre fine alla guerra e di aprire una lunga e tormentata fase di pace – ‘pace fredda’, appunto – che con alterne vicende dura tutt’oggi. Il che comunque non è di scarsa importan- za, se ci si guarda attorno in relazione alle attuali drammatiche vicende internazionali, a cominciare dall’Ucraina per finire alla Siria, all’Iraq e alla Libia. Ed è assai significativo che il Peace Implementation Council (PIC) sia formato da ben 55 Stati, il che la dice lunga sulla dimensione e sulla portata della vicenda bosniaca sotto il profilo internazionale. L’attuale Alto Rappresentante (OHR) della Comunità Internazionale per la Bosnia Erzegovina, Valentin Inzko (appartenente alla minoranza slovena della Repubblica Austriaca), a metà novembre 2015, di fronte al Consiglio di sicurezza dell’ONU, ha dichiarato: «La Bosnia, che era una stella lumi- nosa per la risoluzione dei conflitti, negli ultimi dieci anni è andata nella direzione sbagliata». Penso ci sia in realtà da dubitare che davvero la Bo- snia abbia costituito in passato «una stella luminosa per la risoluzione dei conflitti», espressione francamente troppo enfatica, ma colpisce comunque un giudizio così fortemente critico su quanto poi avvenuto negli ultimi dieci anni, «nella direzione sbagliata». Una simile analisi critica riflette, per lo meno dal 2008, quanto contenuto nei rapporti annuali sulla Bosnia Erze- govina della Commissione Europea. Con l’Unione Europea è entrato ora in vigore un ‘Accordo di stabilizzazione e associazione’, come per il Kosovo, ma non c’è ancora una candidatura per la piena adesione alla stessa UE, che invece esiste per la Serbia, la Macedonia, il Montenegro e l’Albania, come anche per la Turchia, pur essendosi questi processi di adesione molto rallentati negli ultimi anni, a fronte della crisi internazionale, soprattutto ovviamente per quanto riguarda la Turchia. Come detto, la Commissione dell’Unione Europea pubblica ogni anno delle relazioni sui progressi tanto degli Stati candidati, quanto di quelli, come la Bosnia, che finora possono disporre solo di un ‘Accordo di stabi- lizzazione e associazione’. E ormai da molti anni appare regolarmente un giudizio critico sulla Bosnia stessa, anche nell’ultimo rapporto che risale appena al novembre 2015. Fin dal 2008, il Rapporto della Commissione Europea sulla Bosnia Erzegovina rilevava comunque forti elementi critici, che possono essere così sintetizzati: Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale 21 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28

a. mancanza di consenso sugli elementi chiave dello Stato; b. sfide frequenti agli Accordi di Dayton; c. mancanza di responsabilità politica propria; d. presenza di politiche etniche identitarie; e. nessun progresso nelle riforme costituzionali.

Uno degli aspetti più significativi e rilevanti della complessità dell’assetto politico-istituzionale della Bosnia Erzegovina, quale uscito dagli Accordi di Dayton, è rappresentato dalla forte incidenza del ruolo dell’Alto Rap- presentante della Comunità internazionale. Lord Paddy Ashdown, che ha ricoperto questo incarico dal 2002 al 2006, soprattutto in forza dei cosid- detti Bonn Powers del 1997, ha potuto emanare quasi ottocento ‘Decreti internazionali’ in sostanziale contrapposizione col Parlamento eletto, an- che se politicamente e costituzionalmente ‘bloccato’. «Ho agito in difesa degli interessi di tutto il popolo della Bosnia Erzegovina», aveva dichiarato Lord Ashdown, a fronte delle critiche che gli erano state rivolte per il suo decisionismo e interventismo. Vi è stato e c’è tuttora un forte dibattito sul- la legittimità dei poteri straordinari dell’Alto Rappresentante di emanare ‘Decreti internazionali’, come detto, sulla base dei Bonn powers, quasi si fosse di fronte ad una sorta di semi-protettorato straordinario come c’era stato in India. Ora l’Alto Rappresentante è cambiato, ma il problema del ruolo di questa istituzione fondamentale prevista dagli Accordi di Dayton resta aperto, nel complesso sistema di bilanciamento dei diversi poteri e dei diversi attori istituzionali. Un fatto rilevante è stato nel 2000 una importante sentenza della Cor- te Costituzionale della Bosnia Erzegovina, che ha tra i suoi componenti tre giudici internazionali. Il relatore della sentenza è stato in quel caso il docente universitario austriaco Joseph Marko, membro della Corte dal 1997 al 2002, il quale poi, nel 2006-7, sarebbe anche stato political advisor dell’allora Alto Rappresentante Christian Schwarz-Schilling. La sentenza del 2000 ha riguardato la presenza dei ‘popoli costitutivi’ della Bosnia Erzegovina a tutti i livelli in dimensione multinazionale e anche con l’in- troduzione delle ‘quote’. Successivamente, nel 2005, c’è stato un rapporto della ‘Commissione di Venezia’ del Consiglio di Europa, contenente nu- merosi rilievi critici sotto il profilo istituzionale e costituzionale, rapporto che avrebbe direttamente inciso sulle successive sollecitazioni verso im- portanti riforme costituzionali, tentate ma finora mai deliberate o attuate. Dopo una lunga fase di ‘stallo’, nel 2006 (e poi anche nel 2007 e nel 2008) vi sono stati ripetuti tentativi di riformare la Costituzione, che è l’Annesso IV degli stessi Accordi di Dayton. In particolare il cosiddetto ‘Pacchetto di aprile’ (Aprilski Paket) di riforme costituzionali presentato in Parlamento nel 2006 venne bocciato per soli due voti. Nel 2009 è inter- venuta una importante sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) sul ‘caso Sejdić-Finci’ (due personalità della Bosnia Erzegovina, 22 Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28 il primo di etnia Rom e il secondo ebreo). Secondo tale sentenza, è in contrasto con la CEDU che la Costituzione della Bosnia Erzegovina riservi le cariche di vertice solo ai rappresentanti dei ‘popoli costitutivi’. Ma nel 2010 e poi nel 2014 ci sono state le elezioni politiche senza che nulla fosse cambiato, nonostante la sentenza della CEDU. Anche a questo proposito è interessante l’analisi complessiva dell’ISPI nel novembre 2015:

Ormai sono passati vent’anni dalla fine della guerra e gli anniversari, co- me di consueto, costringono a un’analisi più rigorosa della condizione at- tuale dello stato e della società bosniaco-erzegovese. La strada europea del paese era stata aperta già nel 2003. La Bosnia Erzegovina ha firmato il Patto di stabilizzazione e accessione (Asa) con l’UE nel 2005, meri- tevole di aver implementato con successo una ‘pace negativa’, inclusi gli strumenti di giustizia internazionali e nazionali, e di aver rafforzato, spesso sulla spinta dei poteri dell’Alto Rappresentante, alcune impor- tanti strutture istituzionali statali. Da questa distanza sembra quasi che i primi dieci anni da Dayton siano stati più fruttuosi. Florian Bieber, per esempio, nel 2006 propose un’analisi provocatoria del primo decennio di pace definendo, controcorrente, quegli accordi, ‘malvisti’ dai più, in termini di flessibilità e ambiguità creativa, sostenendo che in fondo ab- biano permesso un netto miglioramento delle relazioni tra i gruppi, e il consolidamento di una democrazia elettorale con tutti i suoi limiti. Nel successivo decennio, però, le contraddizioni inerenti al sistema costitu- zionale del paese sono diventate il vero fardello di un’europeizzazione capace di costruire istituzioni democratiche corrispondenti alle condi- zionalità dei Criteri di Copenaghen. L’impasse creata dal giudizio della Corte Europea dei diritti umani nel caso Sejdić-Finci (2009) ha reso an- cor più evidente il cruciale bisogno di una riforma costituzionale in gra- do di proporre un modello di cittadinanza sostanziale, inclusivo di tutti in quanto cittadini della Bosnia Erzegovina, senza privilegiare i membri dei tre popoli costituenti (bosgnacchi, serbi-bosniaci e croati-bosniaci, a danno dei cosiddetti ‘altri’). Nello stesso tempo il nuovo modello dovreb- be garantire il riconoscimento e la tutela degli ‘interessi nazionali vitali’ dei gruppi stessi. In ogni caso, oggi non esistono alternative accettabili all’integrazione europea. Infatti, nonostante il proclamato moratorium quinquennale al futuro allargamento dell’Unione Europea, all’inizio di giugno 2015 l’Asa tra la Bosnia Erzegovina e l’UE è ‘entrato in forza’. L’ultimo Report della Commissione Europea, pubblicato il 10 novembre 2015, forse non promette l’immediata candidatura alla membership europea desiderata per l’inizio del 2016. Tuttavia, è lecito parlare con ottimismo di ‘un certo progresso’ e di una ‘fase iniziale’ in diversi seg- menti della società di questo paese, puntando lo sguardo verso il futuro e costringendo tutti gli attori a venire a patti con il passato in modo più determinato. (Sekulić 2015) Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale 23 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28

Appare significativo ripercorrere quindi alcune delle tappe del ‘processo di associazione’ e di preparazione alla integrazione della Bosnia Erzegovina nell’Unione Europea: a. l’Accordo di stabilizzazione e associazione, per la futura candidatura all’UE, è stato firmato il 16 giugno 2008, ma è entrato in vigore solo il 1° giugno 2015; b. nel 2011-2 si è verificato il processo di liberalizzazione dei ‘visti’, cioè sono stati rimossi i requisiti di visto Schengen per i cittadini della Bosnia Erzegovina, misura che è risultata molto importante per la popolazione rispetto all’UE; c. nello ‘stallo’ politico e costituzionale, nella primavera del 2014 si sono verificate proteste in varie città per ragioni non più politiche, ma economico-sociali: per la prima volta compare sulla scena la so- cietà civile, il ‘popolo’ rispetto ai ‘politici’ e alle loro responsabilità di governo.

È per questo motivo che, permanendo lo stallo costituzionale, nel 2014 si è realizzata una importante iniziativa anglo-tedesca per sollecitare più attenzione alla dimensione economico-sociale, al fine di migliorare il be- nessere delle popolazioni a prescindere dalle specifiche identità etniche. A seguito del fallimento nel 2014 della riforma costituzionale per allineare la Costituzione bosniaca alla Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, per quanto riguarda l’elettorato passivo delle minoranze alla Presidenza e alla Camera alta (caso Sejdić-Finci), l’UE ha quindi modificato la propria condi- zionalità, indicando l’adozione di una agenda di riforme socio-economiche come condizione per l’entrata in vigore dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Tale accordo, come già detto, è quindi entrato in vigore il 1° giugno 2015. Il 23 febbraio 2015 c’è stata la presenza a Sarajevo dell’Alto Rappre- sentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, che ha ottenuto la promessa del Parlamento di procedere alle riforme costituzionali, in modo che la Bosnia Erzegovina possa diventare candidata all’UE entro il 2018, e possibilmente anche prima. L’aspetto con- tradditorio e paradossale è che soltanto cinque giorni prima, il 18 febbraio 2015, il presidente della Repubblica Srpska, Milorad Dodik (del partito SNSD) ha dichiarato la volontà di ‘secessione’ dalla Bosnia Erzegovina nell’ipotesi del suo ingresso nell’UE. Tutto questo è avvenuto nell’arco di meno di una settimana e fa emergere con assoluta evidenza le difficoltà politiche attuali. Dunque ci si trova di fronte a due spinte apertamente contrastanti e almeno apparentemente inconciliabili: a. da una parte c’è una volontà e anche una campagna per accelerare la presentazione della candidatura all’UE nei tempi più rapidi, non solo entro il 2018 come dichiarato da Federica Mogherini, ma pos- sibilmente già entro il 2016; 24 Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28

b. dall’altra parte, il presidente della Repubblica Srpska, Milorad Dodik, minaccia di promuovere ben due referendum: il primo ad- dirittura contro la Corte Costituzionale e indirettamente contro i ‘Decreti internazionali’ dell’Alto Rappresentante (OHR); il secondo referendum per proclamare la secessione della stessa Repubblica Srpska dalla Bosnia Erzegovina.

La minaccia del referendum contro la Corte Costituzionale è stata ripe- tuta da Milorad Dodik anche recentemente, in occasione della sentenza della stessa Corte Costituzionale contro la data del 9 gennaio come festa nazionale della Repubblica Srpska. In precedenza, la Corte Costituzionale aveva chiesto un parere alla ‘Commissione di Venezia’ del Consiglio d’Eu- ropa, la quale ha ritenuto che il ‘Giorno della Repubblica’ fissato per il 9 gennaio violi il principio di non-discriminazione sia a livello bosniaco che a livello europeo, in base agli standard della Commissione Europea dei diritti dell’uomo. Secondo il calendario giuliano, il 9 gennaio è il giorno di Santo Stefano, santo patrono dell’entità a maggioranza serbo-bosniaca, ma è anche il giorno in cui, nel 1992, poche settimane prima dell’ini- zio della guerra, l’autoproclamata assemblea serbo-bosniaca proclamò la Repubblica serba di Bosnia Erzegovina. Nel rendere pubblica la propria decisione, la Corte Costituzionale si è premurata di precisare che non si tratta di una sentenza contro una religione o un popolo, ma a favore di una Bosnia Erzegovina multiculturale e multireligiosa. La Corte ha stabilito che la Repubblica Srpska ha sei mesi per trovare un’altra data per la sua festa nazionale. Il presidente serbo-bosniaco Milorad Dodik ha parlato di un verdetto politico, insistendo inoltre per l’approvazione di una legge che rimuova i tre giudici internazionali dalla Corte, minacciando in caso contrario, come già detto, di indire un referendum sulla Corte Costituzio- nale e di ritirare i propri rappresentanti dalle istituzioni statali. Da parte sua, l’Alto Rappresentante della comunità internazionale (OHR), Valentin Izko, ha sottolineato che in uno Stato di diritto le decisioni della Corte Co- stituzionale vanno rispettate e non possono essere messe in discussione. Queste notizie recentissime, che risalgono al 9 dicembre 2015 e di cui ha dato ampiamente conto l’Osservatorio Balcani e Caucaso in una nota di Stefan Graziadei, fanno capire quanto difficile e precaria sia ancor oggi, più che nel passato, la situazione politico-istituzionale nella Bosnia Erze- govina e nei rapporti tra le due entità che la costituiscono. In un suo ottimo lavoro del 2008, La transizione costituzionale della Bosnia ed Erzegovina. Dall’ordinamento imposto allo stato multinaziona- le sostenibile?, il professore Jens Woelk, docente di diritto costituzionale comparato all’Università di Trento, aveva già individuato le tre fasi prin- cipali del processo di transizione costituzionale, a partire dagli Accordi di Dayton: una prima fase di attuazione degli Accordi, a cui poi è seguita una fase ‘correttiva’, caratterizzata dagli interventi della Corte Costituzionale Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale 25 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28 e dell’Alto Rappresentante della Comunità Internazionale, fino alla terza fase, dominata dall’obiettivo dell’integrazione europea e quindi da una maggiore responsabilità bosniaca per l’aggiustamento dei delicati equilibri dell’ordinamento imposto. Secondo Jens Woelk

nella logica della stabilizzazione post-conflittuale, l’interpretazione bo- sniaca del modello di democrazia consociativa ha portato ad un sistema istituzionale estremamente complesso e spesso disfunzionale, soprat- tutto a causa delle tante possibilità di blocco per motivi etnici. A tale staticità si contrappone, tuttavia, come elemento dinamico l’obiettivo (politico) della ricostruzione della società multietnica da raggiungere at- traverso il diritto al ritorno dei rifugiati e degli sfollati. (Woelk 2008, 37)

Lo stesso Jens Woelk aggiunge che

più recentemente, la prospettiva dell’integrazione europea è diventata l’obiettivo centrale del processo di transizione condizionandolo concre- tamente nella trasformazione di principi (come i criteri di Copenaghen) in parametri dettagliati e concreti, il rispetto dei quali viene sorvegliato attentamente dalle istituzioni comunitarie. (40)

Per questo motivo, «il passaggio da un ordinamento imposto ad uno gene- ralmente accettato e condiviso è considerato il vero momento definitorio del processo di transizione, da coronare da un atto formale, come una nuova Costituzione oppure modifiche a quella di Dayton legittimate dalla popolazione» (40). Nella sua analisi Jens Woelk, che ha conosciuto molto bene anche in prima persona la complessa realtà bosniaca nell’arco di molti anni, ha in- dividuato puntualmente i rischi della cosiddetta ‘democrazia etnica’, che comporta la «dominanza assoluta del fattore etnico e quindi in contrasto con i diritti fondamentali individuali ed altri principi dello Stato costitu- zionale di diritto» (58). La complessità di questa situazione comporta la necessità di una sorta di ‘laicità etnica’ per garantire il rispetto delle di- versità, relativizzando quindi il fattore etnico sotto il profilo istituzionale. Conclusivamente, secondo Jens Woelk

l’obiettivo della convivenza pacifica nella società multietnica e l’integra- zione nell’ordinamento multinazionale richiedono correttivi del principio democratico tout court. Tuttavia, tali correzioni a favore dei gruppi e del rispetto delle diversità non devono né mettere in questione le stesse fondamenta su cui è costruito l’ordinamento multinazionale – e quindi lo status paritario dei suoi gruppi e la lealtà nei confronti delle istituzioni comuni – né comprimere le libertà fondamentali individuali. (60)

26 Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28

L’analisi istituzionale e costituzionale, che ho ampiamente citata, del giu- spubblicista Jens Woelk risale ancora al 2008, ma tutte le indicazioni e tutti gli elementi critici sono ancora di assoluta attualità nella Bosnia Er- zegovina di oggi, venti anni dopo gli Accordi di Dayton. Manca finora com- plessivamente una visione condivisa del senso e della forma dello Stato, forse manca anche una classe politica nel suo insieme (pur nelle specificità di ciascuno e nelle evidenti diversità politiche) che sappia assumersi le proprie responsabilità storiche, come – per fare un paragone che può sem- brare eccessivo – dopo le tragedie della seconda guerra mondiale seppero fare personalità come Adenauer, Schuman e De Gasperi. Manca ancora l’idea della convivenza e della riconciliazione, per la quale si impegnò fino all’estremo delle sue forze una figura come Alexander Langer. Il problema che resta ancora aperto è quello dell’equilibrio e del contemperamento tra i diritti collettivi (di gruppo etnico) e i diritti individuali, di ogni cittadino come persona. E ancora, il problema conseguente è quello di un equilibrio e di un contemperamento tra un federalismo di tipo etnico e un federa- lismo, democraticamente più maturo, di tipo territoriale. Il 9 dicembre 2015 si è tenuta a Bruxelles, promossa dagli europarlamentari croati, una riunione sulla Bosnia Erzegovina con la partecipazione del presidente di turno croato e del vice-presidente bosgnacco della Presidenza della stessa Bosnia Erzegovina. A questa riunione ha partecipato anche l’Alto Rappre- sentante della UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, che ancora una volta ha invitato alle necessarie riforme costitu- zionali per arrivare alla candidatura per l’adesione della Bosnia Erzegovina all’Unione Europea, ricordando anche la necessità di riforme elettorali ed economico-sociali. La posta in gioco per i prossimi mesi e anni è dunque il passaggio da una ‘democrazia etnica’ e da un ‘etno-federalismo’ ad una democrazia politica ‘normale’, degna di uno Stato costituzionale di diritto, sia pure tenendo conto delle peculiarità proprie della vicenda bosniaca. Bisognerà arrivare ad un federalismo territoriale e ad un bilanciamento dei diritti dei gruppi etnici con i diritti individuali, senza il rispetto dei quali non vi potrà essere una autentica democrazia politica.

Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale 27 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 19-28 Bibliografia

Boato, Marco (2015). Alexander Langer. Costruttore di ponti. Brescia: La Scuola. Sekulić, Tatjana (2015) «Bosnia Erzegovina: vent’anni di pace» [online], URL http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/bosnia-erzegovi- na-ventanni-di-pace-14227 (2016-08-29). Woelk, Jens (2008). La transizione costituzionale della Bosnia ed Erzego- vina. Dall’ordinamento imposto allo stato multinazionale sostenibile? Padova: CEDAM.

28 Boato. Dalla democrazia etnica e dall’etno-federalismo al federalismo territoriale Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Dayton, vent’anni dopo

Andrea Oskari Rossini (Osservatorio Balcani e Caucaso, Rovereto, Italia)

Abstract A critical review of the poisoned legacy of Dayton in the Bosnia Herzegovina political and social scene, and of the challenges ahead, on the twentieth anniversary of the signing of the Peace Agreement.

Keywords Dayton. Bosnia. Peace.

Venti anni fa gli Accordi di Pace di Dayton ponevano fine alla guerra in Bosnia Erzegovina. Bill Clinton, allora presidente degli Stati Uniti e ispi- ratore di quegli Accordi, negoziati dal rappresentante speciale Richard Holbrooke, ha ricordato recentemente come «i negoziatori – nel novembre di venti anni fa – sorpresero il mondo».1 In quanto trattato di pace, Dayton rappresentò indubbiamente un suc- cesso diplomatico. Quegli Accordi però, oltre alle previsioni tipiche di un trattato di pace, cioè armistizio, ritiro degli eserciti e definizione dei confini, contenevano anche gli elementi di quello che doveva essere il nuovo Stato, la Bosnia Erzegovina, che usciva da un lungo conflitto com- pletamente trasformata. Sotto questo profilo l’eredità di Dayton è molto più problematica, ed è difficile esprimersi in termini celebrativi. Un significativo silenzio ha infatti accolto il ventennale di Dayton in Bosnia e le principali posizioni emerse nel dibattito pubblico sembravano orientate più alla preoccupazione, per il fatto di essere ancora all’interno del quadro definito a Dayton venti anni fa, che al festeggiamento. Indipendentemente dall’appartenenza etnica, dall’affiliazione politica o dallo status economico, la maggior parte dei bosniaco erzegovesi sembra concordare sul fatto che l’unico successo di Dayton sia stato quello di aver posto fine alla guerra.2

1 Brani dell’intervento pronunciato da Bill Clinton per il ventennale degli Accordi, il 19 novembre 2015 alla University of Dayton’s River campus, che si possono ascoltare nel servizio di Natasha Williams (FOX 45): https://www.youtube.com/watch?v=BkLPe4oCRwM (2016-08-29). 2 «Bosnians Pessimistic About Peace Deal’s Legacy», BIRN – Balkan Transitional Justice, 20 Novembre 2015: http://www.balkaninsight.com/en/article/bosnians-pessimistic- about-peace-deal-s-legacy-11-19-2015 (2016-08-29). Si veda anche l’inchiesta pubblica- Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-3 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 29 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 29-36

L’assetto istituzionale del Paese stabilito nel novembre 1995 è stato de- finito come un sistema ‘Frankenstein’.3 Lo Stato creato a Dayton ha infatti tre presidenti, tre primi ministri, due entità, ciascuna con un ulteriore pre- sidente, un distretto, 13 parlamenti, circa 140 ministri. Al centro del siste- ma c’è la tutela dei diritti dei tre cosiddetti popoli costituivi, serbi, croati e bosniaco musulmani (bosgnacchi). Quello che manca, e che la Costituzione dimentica, sono i diritti dei singoli, i cittadini bosniaco erzegovesi. Prima che di un problema politico, si tratta di una questione di diritti umani. Come segnalato dai giudici di Strasburgo nella sentenza Sejdić- Finci,4 la Costituzione della Bosnia Erzegovina, parte degli Accordi di Dayton (Annesso 4), viola infatti la Convenzione Europea per i Diritti Uma- ni e le Libertà Fondamentali. Il sistema di Dayton considera preminenti i diritti dei popoli costitutivi, serbi, croati e bosgnacchi, rispetto a quelli delle minoranze e dei singoli cittadini. In questo senso costituisce una sor- ta di etnodemocrazia, un sistema cioè che ha al centro la relazione tra il cittadino e il proprio etnos, e in subordine quella tra il cittadino e lo Stato. Se un singolo cittadino, nella fattispecie il rappresentante della comunità ebraica di Sarajevo, Jakob Finci, o della comunità rom bosniaca, Dervo Sejdić, vuole candidarsi alla presidenza dello Stato in quanto cittadino della Bosnia Erzegovina, e non in quanto appartenente al popolo serbo, croato o bosgnacco, nella Bosnia di Dayton non può farlo. Questa è forse l’incongruenza fondamentale di quegli Accordi, sanzionata finora senza esito dalla Corte Europea di Strasburgo, la cui soluzione non sembra poter prescindere da un generale processo di revisione costituzionale. Il secondo punto problematico lasciato in eredità da Dayton è quello relativo ai ritorni. L’Annesso 7 degli Accordi, uno dei suoi pilastri, stabili- va un concetto molto semplice e lapidario: tutti a casa. Durante la guerra 1992-95, oltre due milioni di persone (Rossini 2012) – più della metà della popolazione bosniaca – furono costrette ad abbandonare le proprie case in conseguenza del terrorismo e della pulizia etnica. A Dayton, significa- tivamente, fu stabilito che tutti avevano diritto a ritornare nelle proprie case. Oggi, venti anni dopo, dobbiamo però constatare che quella parte degli Accordi di Pace non è stata messa in pratica. Secondo i dati pubbli-

ta dal Washington Post, «20 years after Dayton, here’s what Bosnians think about being divided by ethnicity», di Gerard Toal e John O’Loughlin, 2 febbraio 2016: https://www. washingtonpost.com/news/monkey-cage/wp/2016/02/02/20-years-after-dayton-heres- what-bosnians-think-about-being-divided-by-ethnicity/?postshare=1411454498832890 &tid=ss_tw (2016-08-29). 3 Si veda ad esempio la definizione del prof. Zdravko Grebo, cit. in «Dayton ended the war, but did not make lasting peace», di Nidžara Ahmetašević, Al Jazeera, 14 dicembre 2015. 4 «Sejdić-Finci, una sentenza ignorata» di Andrea Oskari Rossini, Osservatorio Balcani e Caucaso, 16 luglio 2013: http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Sejdić- Finci-una-sentenza-ignorata-138171 (2016-08-29). 30 Rossini. Dayton, vent’anni dopo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 29-36 cati dall’UNHCR,5 solo meno della metà dei rifugiati e sfollati hanno fatto ritorno (1.030.000, di cui 450.000 dall’estero e 580.000 da altre zone del Paese). Se poi analizziamo in dettaglio questo dato, troviamo che meno della metà di questo milione di ritornanti, 470.000 persone, appartengono a minoranze, sono cioè famiglie che sono tornate a vivere in zone del Paese dove oggi sono in minoranza. A vent’anni da quei tragici avvenimenti, dobbiamo quindi oggi constata- re che il progetto della pulizia etnica è un progetto che ha avuto successo e che, nonostante le buone intenzioni enunciate a Dayton, non è stato con- trastato in maniera adeguata nella fase della cosiddetta pace. La Bosnia Erzegovina oggi è costituita da entità, regioni, città in larga parte mono- etniche. La popolazione croata non è quasi più presente nella Republika Srpska (RS), l’entità del paese a maggioranza serbo bosniaca, così come i bosgnacchi in tutta la Bosnia Orientale o i serbi a Sarajevo. Oltre al cambiamento violento dell’assetto sociale e demografico di città e regioni, la pulizia etnica ha avuto come ulteriore conseguenza quella del- lo spopolamento di intere aree del Paese, quelle dove non c’è stato ritorno, determinandone l’ulteriore impoverimento. Nel 1991 la Bosnia Erzegovina contava quasi 4.400.000 abitanti. Secondo il più recente censimento della popolazione, svoltosi nel 2013, gli abitanti della Bosnia Erzegovina sono oggi 3.791.622. Un ulteriore aspetto critico riguarda la scarsa attenzione dimostrata, sia in sede negoziale che negli anni successivi, per la ricostruzione di un comune spazio pubblico. La distruzione della società bosniaca per come si era storicamente determinata, con la creazione di città e regioni mono- etniche, è così continuata nel periodo post Dayton attraverso la creazione di sistemi di educazione paralleli, con la divisione dei curriculum scolastici su base nazionale o delle diverse entità. Particolarmente preoccupante è il sistema delle cosiddette ‘due scuole sotto uno stesso tetto’, diffuso nella Federacija BiH, cioè scuole in cui bambini di differenti etnie (croati e bosgnacchi) condividono solamente l’edificio e la campanella, mentre le aule, i programmi, gli insegnanti e i curricula sono divisi. L’aspetto più stridente di questa strana pace, però, è forse la questione degli scomparsi. A vent’anni dalla firma degli accordi di Dayton, circa 8.000 persone, uccise durante la guerra 1992-5, non sono ancora state trovate.6 Il fenomeno della sottrazione dei corpi per occultare le prove dei crimini, messo in opera sistematicamente nel periodo bellico attraverso la creazione di fosse comuni primarie, secondarie e terziarie in località nasco-

5 http://unhcr.ba/wp-content/uploads/2013/04/SP_12_2012.pdf (2016-08-29). 6 Cf. il cosiddetto «Stocktaking Report, Missing persons from the armed conflicts of the 1990s: a stocktaking» di International Commission on Missing Persons (ICMP), Sarajevo (2014): http://www.ic-mp.org/wp-content/uploads/2014/12/StocktakingReport_ENG_web. pdf (2016-08-29). Rossini. Dayton, vent’anni dopo 31 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 29-36 ste, è una pratica che non è stata sufficientemente contrastata nel periodo della pace, e che impedisce un’elaborazione e un reale superamento dei drammi del passato. La cifra di 8.000 scomparsi rappresenta infatti un numero enorme per un paese di meno di 4 milioni di abitanti, considerando che sono passati un così grande numero di anni. Ci sono 8.000 famiglie per le quali il tempo si è fermato, e il cui diritto a sapere cosa è successo dei propri cari non è rispettato. È importante ricordare l’importanza e il valore del lavoro sin qui svolto dalla Commissione Internazionale per le Persone Scomparse (ICMP)7 e dalle Commissioni bosniache. Alla fine del conflitto, infatti, le persone scomparse erano 31.500. Grazie agli sforzi investigativi, agli investimenti e alle innovazioni raggiunte anche in campo scientifico, in particolare nell’identificazione tramite DNA, questo numero è stato ridotto del 70%, e circa 23.000 persone sono state trovate e identificate. Ciò non toglie che il lavoro è lungi dall’essere concluso, e che lo status irrisolto di un così alto numero di vittime impedisce un vero superamento del trauma che ha attraversato non solo singole famiglie, ma un intero corpo sociale.8 Questo aspetto si collega a quello più generale della giustizia per le vitti- me del conflitto. Le persone uccise durante la guerra in Bosnia Erzegovina furono 100.000, secondo i dati quasi coincidenti dell’ICTY9 (International Criminal Tribunal for the Former Yuguslavia) e del Centro di Ricerca e Do- cumentazione di Sarajevo,10 l’istituto autore del Libro Bosniaco dei Morti. Il numero dei civili uccisi è molto alto, vicino al 40% del totale,11 e anche tra i militari la percentuale di vittime di crimini è significativa. Inoltre, una vasta gamma di crimini di guerra e contro l’umanità, che vanno dal trasferimento forzato della popolazione alla tortura, dall’internamento alla violenza sessuale, sfugge al calcolo esatto, ma si conta nell’ordine delle decine di migliaia di casi.12

7 ICMP, International Commission on Missing Persons: http://w w w.icmp.int/ (2016-08-29). 8 In alcuni casi i sopravvissuti alle stragi del 1992-5 cercano di propria iniziativa gli scomparsi nei boschi e nelle zone vicine agli eccidi, in particolare nella Bosnia Orientale; si veda il video reportage Nek’ ne leži narod po šumama, di Sadik Salimović, Radio Slo- bodna Europa (2016). 9 «It is estimated that more than 100,000 people were killed», in ICTY, «The conflicts, »: http://www.icty.org/en/about/what-former-yugoslavia/con- flicts (2016-08-29). 10 Secondo il Centro per la Ricerca e la Documentazione di Sarajevo le vittime in Bosnia Erzegovina nel periodo 1991-5 furono 97.207. 11 In particolare le vittime civili furono 39.684 civili, mentre 57.523 quelle militari se- condo il Centro per la Ricerca e Documentazione di Sarajevo: http://w w w.norveska.ba/ News_and_events/Society-and-Policy/rdc_bbd/ (2016-08-29). 12 Cf.: «Whose Justice? The Women of Bosnia and Herzegovina Are Still Waiting», Am- nesty International (2009) «There are no reliable statistics on the number of women and men who were raped or were subjected to other forms of sexual violence. Early estimates 32 Rossini. Dayton, vent’anni dopo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 29-36

Quanti sono i responsabili di questi crimini che in questi anni avrebbero dovuto essere processati? Non è possibile determinarlo con certezza, ma sulla base delle stime delle Procure è evidente che sono state affronta- te – in parte – solo le responsabilità dei vertici politici e militari, mentre la stragrande maggioranza delle seconde e terze file, gli esecutori, i tor- turatori, i guardiani dei lager, non faranno probabilmente mai neppure un giorno di carcere. Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), creato nel 1993, ha portato a giudizio solo 161 persone, e ormai da anni non emette nuovi mandati di cattura. Il compito di processare i responsabili di crimini di guerra commessi in Bosnia Erzegovina ricade dunque ora interamente sulle Corti di questo Paese. Nel 2008, Sarajevo ha adottato una strategia nazionale volta a razionalizzare il lavoro delle diver- se Procure, che riporta una cifra di 6.000 persone da rinviare a giudizio, e di 1.200 indagini in corso.13 L’obiettivo posto dalla strategia nazionale era quello di concludere i processi più delicati, ovvero quelli ad alti funzionari dello Stato e quelli ai sospettati rinviati dal Tribunale dell’Aia alla giustizia di Sarajevo, entro il 2015. Tutti i processi, poco più di 7.000, dovrebbero invece concludersi entro il 2023. Il primo obiettivo non è stato raggiunto, ed è ormai chiaro che al ritmo attuale neppure il secondo lo sarà. La me- dia dei processi per crimini di guerra che si svolgono di fronte ai tribunali della Bosnia Erzegovina, infatti, è solamente di alcune decine all’anno. La sensazione sempre più diffusa di impunità per i crimini commessi negli anni Novanta, insieme al dramma degli scomparsi, contribuisce così ad una sorta di proiezione del tempo passato su quello presente, impedendo un reale superamento del conflitto. Questi diversi aspetti, la prolungata crisi istituzionale, le aspettative non mantenute per le vittime del conflitto degli anni Novanta, la creazione di una etnocrazia, sono alcuni degli elementi che hanno caratterizzato e caratterizzano la vita della Bosnia di Dayton in questo contesto di ‘pace fredda’. Oggi la crisi dei rifugiati ha in qualche modo riportato i Balcani occiden- tali al centro dell’attenzione europea. Dopo anni di stallo, anche il dialogo tra Sarajevo e Bruxelles è ripartito, nell’autunno scorso, a seguito della cosiddetta iniziativa anglo-tedesca. Alla luce delle difficoltà incontrate

by the BiH government suggested the number of 50.000 victims although this estimate was questioned as unreliable and politicized. The Parliamentary Assembly of the Council of Europe estimated that 20.000 women were subjected to rape and other forms of sexual violence. The real number of those who were raped during the 1992-5 armed conflict will probably never be established. Even in peacetime rape is one of the most underreported crimes. According to experts, only 7-10 per cent of rape survivors before the war in the former Yugoslavia reported the crime» (5).

13 http://www.geneva-academy.ch/RULAC/pdf_state/War-Crimes-Strategy-f-18-12-08. pdf (2016-08-29). Rossini. Dayton, vent’anni dopo 33 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 29-36 nell’affrontare un processo di cambiamento complessivo del sistema di regole che determinano la vita politica del Paese, nella fattispecie di ri- formare la Costituzione di Dayton, l’UE ha messo al centro della propria iniziativa il miglioramento della difficile situazione economica. L’iniziativa si è sostanziata in una Agenda delle Riforme,14 che interessa misure eco- nomiche, sociali, amministrative e attinenti allo stato di diritto, cui hanno dato il proprio assenso i principali leader politici del Paese. L’enfasi sulla difficile situazione economica attraversata dalla Bosnia Er- zegovina è fondata. Nonostante miliardi di euro di donazioni internazionali,15 infatti, l’unico dato che continua a crescere nel Paese è quello del numero dei disoccupati che, a settembre di quest’anno, aveva raggiunto quota 540.000. La Bosnia è costantemente alle prese con una carenza di liqui- dità, cui cerca di fare fronte con un sempre maggiore indebitamento nei confronti dei creditori internazionali, in particolare del Fondo Monetario Internazionale. La crisi del 2008 ha avuto conseguenze particolarmente gravi sull’economia, riducendo o sottraendo dal reddito delle famiglie bo- sniache anche l’importante voce delle rimesse della diaspora. Eppure, il successo sin qui registrato dalla cosiddetta Agenda delle Riforme, l’accor- do raggiunto tra le diverse forze politiche, è in gran parte basato proprio sul fatto che non tocca Dayton né l’equilibrio dei poteri stabilito a Dayton. Come ha però notato l’ex Alto Rappresentante della comunità internazio- nale in Bosnia Erzegovina tra il 2002 e il 2006, Paddy Ashdown, «in questo fragile Stato ci sono pochissimi punti fermi; uno di questi è Dayton. Ma se si resta all’interno di Dayton, è impossibile costruire uno Stato funzionale. È quello che si costruisce su Dayton che conta» (Grbešić et al. 2015). Può dunque essere sufficiente la riforma del sistema economico a mo- dificare il quadro complessivo del Paese, a portare la Bosnia Erzegovina fuori dalla ‘pace fredda’?

14 Si veda l’intervento pubblicato dal nuovo Rappresentante Speciale dell’Unione Europea in Bosnia Erzegovina, Lars Wigemark, su alcuni dei principali media del Paese, «The Reform Agenda: Bosnia and Herzegovina’s best chance»: http://europa.ba/?p=35691 (2016-08-29). 15 Si veda «Post-Dayton Bosnia Missed Economic Opportunities» di Dražen Šimić, BIRN, Sarajevo, 20 Novembre 2015: http://www.balkaninsight.com/en/article/post-dayton- bosnia-missed-economic-opportunities-11-20-2015-1 (2016-08-29). 34 Rossini. Dayton, vent’anni dopo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 29-36 Bibliografia

Amnesty International (2009). «Whose Justice? The Women of Bosnia and Herzegovina Are Still Waiting» [online]. URL https://w w w.amnesty. org/en/documents/EUR63/006/2009/en/ (2016-08-29). Grbešić, Arnes; Karabegović, Dženana; Bilić Ivana; Bigg, Claire (2015). «20 Years After Dayton Peace Deal, Bosnians Are An Upset, Divided Nation, RFE/R» [online]. URL http://www.rferl.org/a/bosnia-dayton- 20-years-divided/27377641.html (2016-10-05). Rossini, Andrea Oskari (2012). «La strada del ritorno» [online]. Osserva- torio Balcani e Caucaso. URL http://www.balcanicaucaso.org/aree/ Bosnia-Erzegovina/La-strada-del-ritorno-125768 (2016-08-29).

Rossini. Dayton, vent’anni dopo 35

Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Bosnia Erzegovina 20 anni dagli Accordi di Pace di Dayton

Melita Richter (Università degli Studi di Trieste, Italia)

Abstract The contribution focuses on the present situation in Bosnia Herzegovina in the broader Western Balkan framework, taking into consideration some key concepts that had exercised a strong social impact: Transition, Change, Justice and Responsibility.

Sommario 1 Cambiamento. – 2 Giustizia e Responsabilità.

Keywords Transition. Change. Responsibility. Justice.

Affronterò il tema iniziando da alcuni concetti che hanno avuto, e tuttora hanno, un notevole impatto sulle società dei Balcani occidentali, tra cui la Bosnia Erzegovina. Il primo è: transizione. La transizione ha caratterizzato l’ultimo decennio del millennio euro- peo riferendosi ai profondi cambiamenti che le società dei paesi dell’est e del sudest europeo stavano vivendo dopo il 1989 nel passaggio dall’e- sperienza socialista1 e dall’economia di stato verso l’economia di mercato, la proprietà privata, il capitale, la concorrenza libera... Questo processo, proiettato all’area jugoslava, ha significato l’erosione dell’economia basata sulla proprietà sociale e sulla teoria dell’autogestione, e l’accettazione (per lo più acritica) del modello neoliberista. Ciò ha previsto inoltre la cancel- lazione dei valori del socialismo e l’adesione a quelli del nazionalismo, non di rado poi tramutati in sciovinismo. Anche l’assetto statale ha subito dei profondi cambiamenti. Nel caso della Jugoslavia si è trattato di una ‘sartoria sanguinaria’ che, dall’intrecciato corpo delle repubbliche fede- rate e delle regioni autonome ha visto nascere (quando si tratta di guerra cruenta ogni natività è puro eufemismo) i nuovi stati nazionali che hanno optato per la democrazia parlamentare. Purtroppo quest’ultima è stata interpretata meramente come sistema pluripartitico, per cui la democrazia

1 «Lo choc per quanto è accaduto, nell’ex Europa cosiddetta dell’Est, è stato tanto violen- to quanto imprevisto. Le transizioni, per quanto male assicurate, prevalgono ancora sulle trasformazioni. Queste ultime hanno difficoltà ad imporsi o, quando si realizzano, paiono talvolta grottesche» Matvejević 1996, 9. Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-4 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 37 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 37-46

è formalmente garantita, ma ci si dimentica che il pluripartitismo e la de- mocrazia non sono affatto la stessa cosa. Gli stati nazionali formatisi dopo la disgregazione della Jugoslavia non hanno superato l’esame che esige la democrazia e, chi più chi meno, si sono assopiti nella democratura,2 un termine che caratterizza un ibrido tra democrazia e dittatura. La transizione è una parola magica che copre molte manchevolezze della politica e, cela il penoso populismo e il darwinismo della privatizzazione, la corruzione, il saccheggio delle proprietà sociali, l’assenza di una visione dello sviluppo reale del paese nel contesto di un mondo globalizzato, inter- dipendente… Se in nome della liberazione dell’individuo dalle grinfie del collettivismo è stato cancellato il monopartitismo, una nuova collettività, come una piovra, ha risucchiato i popoli nell’imperante omogeneizzazione che prende il nome di nazionalismo: sempre monocorde, sempre esclu- dente, sempre penalizzante verso le minoranze, verso l’altro e il diverso. Il termine transizione richiederebbe un approfondito esame teorico, visto che il modo (errato) con cui maggiormente viene usato nell’ambito politico prevede l’interpretazione lineare del tempo e del progresso. Si sottintende che il percorso storico-temporale dal punto A al punto B signi- fichi progresso, sviluppo, miglioramento. In tal modo, la storia è privata di senso e di complessità. A uguale socialismo, B capitalismo. A uguale regimi dittatoriali, oppressione politica, B, pluralismo politico, democrazia, incluso il toccasana del mercato inteso come grande regolatore del sociale e della vita delle persone, non soltanto delle economie nazionali ma anche di quelle internazionali, globalizzate. Simili attribuzioni al concetto di transizione la deprivano della sua di- mensione multipla e annullano i dilemmi della storia: quale direzione per intraprendere il cambiamento? Evoluzione? Inversione? Retromarcia av- volta dal velo del mito del ‘ritorno alle radici’ sogno di ogni nazionalista? O altro ancora? Come direbbe il giornalista e scrittore sarajevese Ozren Kebo, «transizione = passaggio da una disumanità all’altra, quest’ultima un po’ più blanda. Almeno all’inizio» (Kebo 2010, 407). Srdan Puhalo, un altro intellettuale bosniaco, sostiene:

A molti, la transizione è piombata addosso come un fardello, ma le vit- time più grandi della transizione sono stati i cittadini della Bosnia ed Erzegovina, i semplici cittadini, quelli che all’inizio degli anni Novanta avevano quarant’anni. (Puhalo 2010, 309)

Egli vede che il peso della transizione ha colpito in modo particolare una generazione, la sua. Con una punta di ironia amara, l’autore poi aggiunge:

2 Termine coniato da Predrag Matvejević, intellettuale e umanista jugoslavo. 38 Richter. Bosnia Erzegovina Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 37-46

Può darsi che questa sia la giusta condanna per tutto ciò che hanno (o non hanno) fatto durante quegli anni. Dal paradiso socialista sono stati cacciati direttamente in guerra e poi in una versione balcanica del ca- pitalismo. (Puhalo 2010, 309)

Lasciando da parte le scintille ironiche proprie a molti bosniaci, sono gli indicatori statistici di sviluppo che ci autorizzano a constatare che la Bo- snia Erzegovina ha subito enormi perdite, non soltanto a causa della tran- sizione, ma soprattutto a causa della guerra e della quasi totale distruzione delle attività industriali e imprenditoriali del Paese. Secondo alcuni autori la Bosnia Erzegovina è passata – e tuttora non ne è uscita fuori – attraverso quattro transizioni correlate: –– dalla guerra alla pace; –– dall’economia pianificata e in parte autogestita all’economia di mer- cato; –– dal sussidio estero all’autosostenibilità produttiva; –– dall’economia basata sull’importazione a quella di esportazione. Ognuna di queste fasi ha lasciato una pesante eredità nel paese (Domljan 2011, 95-110). La prima si manifesta in una diffusa sfiducia tra la popolazione, nel trauma post bellico non elaborato, nell’odio represso, nell’emersione di ‘etnocartelli’ del potere che tengono sotto controllo le rispettive alleanze politiche (etnopartiti) e il trasferimento unilaterale dei finanziamenti. Segue un solco profondo tra l’imprenditoria (di pochi e poco sostenuta) di chi è stato capace di capitalizzare la transizione (e la guerra) – non par- liamo qui delle modalità che spesso oltrepassano il limite della legalità – e una sempre più dilagante povertà tra la maggioranza della popolazione. Senza dimenticare il ruolo dell’intermediazione multinazionale e bancaria con centri di governance fuori dal paese che spingono il governo a rivol- gersi sempre di più al FMI. E, non ultima, la crisi economica che ha colpito l’intera Europa (eredità notevole degli USA), che nell’assetto economico- finanziario bosniaco ha un effetto quadruplicato. Un altro aspetto che avvolge la società bosniaca con una preoccupante ombra di regressione sociale è la dilagante disoccupazione e il conseguen- te impoverimento delle masse. Secondo i dati dell’Agenzia per la statistica della Bosnia Erzegovina, il tasso di disoccupazione nel paese è del 44,4%, il più alto della regione dei Balcani occidentali.3 La disoccupazione giovanile è al 57,9%. Di fatto, un giovane su due è senza lavoro.4 Si potrebbe dire

3 Di seguito la percentuale di disoccupati nei paesi dell’ex Yugoslavia: la media per i Bal- cani occidentali è di 26,8%; Slovenia 11,2%, Montenegro 15,5%, Croazia 18,6%, Macedonia 27,6, Serbia 28,9%, Bosnia Erzegovina 44%. Cf. http://w w w.bhas.ba/ (2016-08-29). 4 http://www.nezavisne.com/ekonomija/analize/Nezaposlenost-medju-mladima-u-regi- ji-najveca-u-BiH/332484 (2016-08-29). Richter. Bosnia Erzegovina 39 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 37-46 che è in atto un’altra ‘transizione’, quella dal proletariato al precariato. Inoltre, il PIL del paese tuttora non supera quello del 1990. Per elaborare le conseguenze della transizione in Bosnia Erzegovina servirebbe un’approfondita analisi specialistica e molto più spazio. Ciò non toglie che, anche basandosi su pochi dati statistici (ai quali aggiungia- mo gli ultimi indicatori di occupazione nel febbraio del 20165 – 450.491 occupati – e della disoccupazione – 388.606 – dati che differenziano sol- tanto per 61.885 unità), il fatto che il fondo pensionistico dipenda dal FMI e dalla Banca mondiale, e che il paese abbia vissuto un vero disastro demografico a causa della guerra e dell’intolleranza etnica, ci porta a considerare la Bosnia Erzegovina come il fanalino di coda degli stati aspiranti all’integrazione europea. Se non riuscirà a realizzare un tasso di crescita accelerato, il divario tra i paesi membri dell’ EU sarà ancora più marcato.

1 Cambiamento

Ricordo lo slogan sloveno ‘Europa zdaj!’, ‘Europa subito!’ con cui il paese si incamminò verso l’integrazione europea dopo l’indipendenza. Ed altre voci che giungevano dai paesi ex socialisti (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polo- nia, Ungheria…) che proclamavano il ‘ritorno a casa’, intente a cancellare con una pennellata il periodo comunista e le travagliate vie del socialismo che stavano costruendo/subendo sotto l’influenza sovietica. Con l’acqua sporca buttavano alle ortiche le conquiste sociali e un welfare modesto, ma garantito, illudendosi di iniziare tutto daccapo, accolte da braccia aperte e solidali dai ‘fratelli’ dell’Ovest. Non è stato così. Per quanto riguarda i Balcani occidentali, era chiaro che le élite nazionali febbricitanti nel pe- riodo della transizione non si sarebbero curate dei bisogni delle persone, ma dell’interesse personale e del modo più rapido per ancorare il proprio potere spesso camuffato dall’inseguimento del ‘sogno millenario’ della fondazione dello stato nazione, possibilmente etnicamente omogeneo, pos- sibilmente nazionalmente ripulito. Per loro, giungere al futuro prevedeva un salto nel passato. Che per alcuni dura tutt’oggi e si autoalimenta nel dilagante nazionalismo.

In Bosnia sono ancora al potere quelle stesse strutture sulla matrice delle quali è scoppiata la guerra, che hanno condotto la guerra e che ne hanno tratto profitti. (Dizdarević 2015)

5 Agencija za statistiku Bosne i Hercegovine (Agenzia per la statistica della Bosnia Erze- govina): http://w w w.bhas.ba/ (2016-08-29). 40 Richter. Bosnia Erzegovina Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 37-46

Il risultato è che in Bosnia Erzegovina non esiste una società, ma tre so- cietà etnicamente divise che vivono una accanto l’altra, non insieme. Ogni popolo dispone del proprio territorio, dei propri partiti politici, inclusi i politici stessi, dei propri poeti e scrittori, degli storici, e dei ‘traditori’, come aggiungerà Dražen Puhalo. È qui che si verifica il punto più marcato del cambiamento: la distruzione di quello che è stata la società bosniaca, una e plurale, multietnica, multi confessionale e allo stesso tempo laica, integrata nell’ampio contesto jugoslavo e sigillata da un numero notevole di matrimoni misti.

Se si osserva una mappa etnica della Bosnia Erzegovina precedente al conflitto, si ricava un’immagine di una quasi totale mescolanza della popolazione. (Sekulić 2002, 124)

Venti anni dopo Dayton, questa società non esiste. Neppure uno Stato bo- sniaco, basato come ogni altro Stato su presupposti quali un presidente, un governo, un parlamento, un unico territorio con istituzioni che si fondano sulla parità dei diritti di tutti i cittadini – non esiste. Sostiene ciò in una aspra critica alla ‘realpolitik’ di Dayton, Zlatko Dizdarević, giornalista, scrittore e diplomatico che è stato portavoce di questo paese in diversi continenti, una personalità con una esperienza di vita diretta di quei ter- ritori nonché di grande competenza, che gli consentono di giudicare la potenza distruttiva dell’etnonazionalismo. Non mi soffermerò sulla descrizione del paradossale assetto politico- istituzionale della Bosnia Erzegovina, sulle entità separate, sul Parlamento, sulla Presidenza, sulla Corte costituzionale. Neppure mi soffermo sull’as- senza dei diritti civili e umani che invece dovrebbero essere garantiti dalla Costituzione a tutti i cittadini, a prescindere dalla loro appartenenza etnica, a quella maggioritaria o minoritaria, religiosa, laica, ma ricordo che la revisione costituzionale è stata richiesta dalla Corte di Strasburgo in seguito al noto caso Sejdić-Finci. Nonostante ciò l’oligarchia politica del paese non si è mossa. E non solo gli appartenenti alla comunità ebraica e Rom non possono candidarsi al Parlamento o alla Presidenza della Bosnia Erzegovina, ma anche chi si dichiara bosniaco erzegovese viene censito tra gli ‘altri’, perché sfugge alla classificazione etnica riduttiva dei tre popoli costituenti: bosgnacchi, serbi e croati (Dizdarević 2015). Vorrei però ricordare quando è stato firmato l’Accordo di Dayton. Questo avvenne quando ormai con le armi, con il terrore e con l’aberrante pulizia etnica e con i trasferimenti forzati di popolazioni, il piano di una Bosnia divisa, separata in enclave etniche, era avvenuto. Quando le armi hanno prevalso e hanno dettato i negoziati, quando i «crimini compiuti nel nome dei popoli stessi, avevano ormai, in maniera duratura e forse irreversibil- mente, danneggiato le tradizioni culturali della società bosniaca» (Sekulić 2002, 121). Richter. Bosnia Erzegovina 41 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 37-46

Dayton ha sigillato il completamento bellico della disintegrazione della società bosniaca. Sì, ha portato la pace, la pace a un paese dilaniato nel suo essere plurale, a un paese i cui cittadini non si riconoscono, a una Bosnia profondamente violata nelle sue origini storiche e culturali.

Dopo il 1995 [...] in questo paese è avvenuta una totale separazione della popolazione su base etnica. La ricostruzione della società secondo i principi dichiarati negli Accordi di Dayton, che sostenevano la forma- zione di un’associazione multietnica e multiculturale di cittadini, è stata gravemente condizionata fin dall’inizio dalla violenza, utilizzata come strumento principale per disegnare i nuovi confini (Sekulić 2002, 122).

Allora, quale cambiamento, quale futuro promettere ai giovani bosniaci che non fossero false promesse? E quali valori europei trasmettere loro, visto che chi conosce profondamente questo paese, sostiene che:

La dignità, la giustizia e la libertà sono morte. La democrazia e il nuovo capitalismo imperialista da molto tempo non implicano l’un altro. La volontà degli elettori e dei cittadini non ha più importanza. Importante è la volontà delle banche e delle corporazioni e i loro interessi. […] La nuova generazione ha perduto la propria casa, quella che era all’insegna delle libertà di movimento, della concorrenza dei valori civili, europei. Dayton non abita quella casa. (Dizdarević 2015, 6)

2 Giustizia e Responsabilità

Il concetto di giustizia tocca il nervo scoperto della Bosnia. È un grande tema politico che incide quotidianamente sulla vita delle persone. Non soltanto della Bosnia, dove la guerra si è accanita sui civili con indicibile ferocia, ma nell’intera regione, con ruoli distinti e a volte scambiabili tra perpetratori del crimine, vittime, promotori di pulizia etnica, ispiratori del conflitto armato, sostenitori dell’una o l’altra Grande Nazione con mire territoriali sulla Bosnia Erzegovina. Non è raro che le vittime incrocino i criminali di guerra – quelli che a loro o ai loro familiari hanno inflitto violenze e morte – che circolano liberi negli spazi pubblici e a volte coprono i ruoli di agenti di polizia, o altri incarichi pubblici nel nuovo assetto di potere. Non è raro che le donne vio- lentate abbassino lo sguardo alla vista dei propri violentatori. Nel Centro Memoriale di Srebrenica-Potočari, la galleria fotografica che documenta il massacro si è arricchita di fotografie di criminali e ideatori di guerra quali Milošević, Mladić, Karadžić, Krstić e molti altri con didascalie colme di imputazioni per i crimini contro l’umanità, con estratti di sentenze, an- ni da passare in prigione o proscioglimenti. Mentre sto scrivendo questo 42 Richter. Bosnia Erzegovina Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 37-46 contributo, l’ultranazionalista serbo Vojislav Šešelj è stato prosciolto dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia da nove capi d’accusa per i crimini di guerra e contro l’umanità di cui è stato istigatore tra il 1991 e il 1993 sul territorio della Bosnia e della Croazia. Il suo partito di estrema destra, SRS (Srpska radikalna stranka – Partito radicale serbo), ha avuto l’immediata impennata alle ultime elezioni serbe dell’aprile 2016; Šešelj con i suoi entra in Parlamento. Le vittime sono scioccate, umiliate, demoralizzate. La società civile è divisa,dipende quale parte etnica viene interpellata. La fiducia nel Tribu- nale dell’Aia, già ridotta ai minimi termini, è svanita, non soltanto a causa di questa sentenza. C’è una diffusa sensazione che sia l’assenza di giu- stizia l’unico punto essenziale delle società in cui si vive, non soltanto nel contesto balcanico, ma anche in quello internazionale. La in-giustizia si presenta come elemento chiave dell’incastro struttura- le nell’ordine sociale degli Stati-nazione nati dalle ceneri della Jugoslavia. Sul crimine si tace e, come ha affermato nel lontano 2002 Latinka Perović, figura di spicco della dissidenza politica belgradese, riferendosi alla Ser- bia: «il crimine non viene considerato tale, ma lo strumento di una politica che è stata sconfitta nei fatti, non nelle menti. Non bisogna ingannarsi: quanto è avvenuto rappresenta una profonda regressione delle coscienze» (Richter, Bacchi 2003, 31). L’esigenza di dare le risposte ai quesiti che la guerra ha lasciato in ere- dità nell’intera area dei Balcani occidentali e di confrontarsi con la respon- sabilità di cosa è stato fatto in nome dei popoli (serbo, croato, bosniaco, albanese…) è risultata in una elaborazione di nuovi, alternativi modelli di giustizia. Si tratta di giustizia transizionale, promossa da un gruppo di intellettuali, giuristi, filosofi e pacifisti serbi assieme al movimento femmi- nista delle Donne in Nero di Belgrado. La giustizia transizionale include non soltanto sanzioni penali, ma anche quelle non penali in cui la società civile gioca un ruolo principale e si assume responsabilità sostanziale. Secondo la definizione di Nenad Dimitrijević, teorico e tra i promotori del concetto, «essa rappresenta un insieme di istituzioni, processi, misure e decisioni morali, legali, politiche e sociali che vengono stabiliti e imple- mentati nel processo di transizione democratica, cioè nel passaggio dai regimi criminali, dittatoriali verso la democrazia» (2007). In questo processo, il ruolo e la responsabilità della società civile nel superamento del passato criminale diventa essenziale perché agisce di- rettamente sugli schemi culturali. Lo dichiarano chiaramente i promotori:

Sia durante la guerra che ora che i conflitti armati sono finiti, il nostro obiettivo permanente è quello di demolire gli schemi culturali, i sistemi ideologici e i valori che hanno generato la guerra, che l’hanno giustifi- cata e che ancora giustificano la guerra e i crimini di guerra. (Zajović 2007, 3) Richter. Bosnia Erzegovina 43 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 37-46

Consapevoli delle difficoltà nel procedere in tale direzione, e soprattutto nell’affrontare pubblicamente alcuni temi scottanti come per esempio lo stupro delle donne6 rimosso dal dibattito pubblico nonostante esso sia stato un’arma efficiente della pulizia etnica in Bosnia,7 le associazioni di donne dell’intera area jugoslava hanno fatto notevoli passi avanti. Uno di questi è stato il Tribunale delle Donne – un approccio femminista alla giustizia, lanciato da organizzazioni femministe di tutti i paesi della ex Jugoslavia.8 Il Tribunale ha avuto un’ampia adesione da parte delle associazioni femminili bosniache. Si è svolto dal 7 al 10 maggio 2015 a Sarajevo, città-simbolo del martirio della società civile bosniaca. L’evento ha chiaramente indicato l’inadempienza dei Tribunali internazionali assieme ai tribunali nazionali ad hoc, dimostratisi inadeguati a rispondere alle esigenze della giustizia. Dal palco del Tribunale dove con coraggio le donne denunciavano la violenza subita dal 1991 fino al 2015, è stata richiesta a gran voce l’atti- vazione di tutte le forme di responsabilità, individuale, collettiva, morale e politica, e di tutti i meccanismi disponibili per fornire il risarcimento e la riabilitazione delle vittime. Il confronto con il passato, senza dubbio un processo lungo e doloroso, è l’unico che possa spezzare il cerchio della violenza. È un passo obbli- gato di cui una parte della società bosniaca – purtroppo si tratta ancora soltanto di una minoranza – è consapevole. Gli strascichi della violenza usata nella guerra si riproducono anche in tempo di pace: vi è infatti una visibile continuità della violenza che la popolazione civile subisce in base alla propria identità etnica, religiosa o nazionale, di genere, venendo così esposta all’esclusione sociale, all’espulsione dai processi produttivi, alla marginalizzazione economica, culturale, alle molteplici forme di violenza che si manifestano anche in periodo di pace. Tutto questo allontana la Bosnia dal suo sogno europeo.

6 Nella relazione già citata, Staša Zajović scrive: «Solo un numero dav vero minimo di pro- cessi per guerra e per crimini di guerra si stanno svolgendo nelle corti locali. Altre forme di giustizia transizionale – non penale – così come commissioni per la verità e la riconcilia- zione / pulizia / risarcimenti / compensazione / restituzione, che sono alcuni esempi, o non vengono affatto prese in considerazione o si praticano esclusivamente sotto la pressione di fattori esterni, per ragioni pragmatiche e non sono il frutto di una sentita e reale esigenza di superare il passato» (2007). 7 Generalmente, tra le accuse ai criminali di guerra non si legge alcun capo d’accusa per le violenze inflitte alle donne, per gli stupri. 8 Il Comitato organizzatore dell’Iniziativa è stato composto da: Movimento delle Madri del- le enclave di Srebrenica e Žepa (Sarajevo), Fondazione CURE (Sarajevo), Forum delle Donne (Bratunac, Bosnia Erzegovina), Centro per le Donne Vittime di Guerra (Zagabria, Croazia), Centro per gli Studi delle Donne (Zagabria, Croazia), Lobby delle Donne di Slovenia (Lubiana, Slovenia), Centro per gli studi delle Donne per la pace (Kotor, Montenegro), Commissione per l’Uguaglianza di Genere (Skopje, Macedonia), Kosovo Rete delle Donne (Priština, Kosovo), Centro di Studi delle Donne (Belgrado, Serbia), Donne in nero (Belgrado, Serbia). 44 Richter. Bosnia Erzegovina Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 37-46

Il Tribunale delle Donne di Sarajevo ha dato un esempio positivo dell’im- pegno per ottenere giustizia: alla società civile ha offerto un’opportunità di capire, demolire e rifiutare i meccanismi che hanno condotto alla guerra, di confrontarsi e cercare di superare il passato criminale, quello in cui il male si infligge all’Altro in nome della nazione. Se i nodi del passato non saranno sciolti, il futuro sarà inafferrabile per questo paese-cuore balcanico.

Bibliografia

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Richter. Bosnia Erzegovina 45

Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Il Tribunale delle donne in Sarajevo Una prospettiva giuridica internazionale tra democrazia e memoria collettiva

Sara De Vido (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Abstract Starting from the experience of the Women’s Court for the Former Yugoslavia, the article aims to analyse the practice of Peoples’ Tribunals, with specific regard to Women’s tribunals, from an international law perspective. Peoples’ Tribunals are seldom considered by international lawyers, since they are not established by States and do not render binding judgments. However, we will argue that these bodies created by civil society play an important role in the international legal system. First, they represent the process of popular participation which is one of the expressions of democ- racy. For this purpose, we will also briefly focus on the controversial concept of democracy under international law. Secondly, they represent the collective memory of a group (in this case women) which has been partly or never heard. They hence contribute to fight silence and impunity in cases where neither the International Court of Justice or any other international court has jurisdiction over the States principally involved.

Sommario 1 Introduzione. – 2 Il Tribunale delle donne in Sarajevo. – 2.1 Le ragioni della nascita del Tribunale delle donne. – 2.2 Il suo ambito di azione. – 2.3 La struttura del Tribunale e il procedimento nei giorni di maggio 2015. – 2.4 La decisione preliminare e le raccomandazioni del Judicial Council. – 2.5 Il seguito del procedimento. – 3 Analisi giuridica: i Tribunali dei popoli e delle donne. – 3.1 Il primo illustre precedente: il Bertrand Russell Tribunal. – 3.2 Ridare voce alle comfort women: il tribunale di Tokyo sulla schiavitù sessuale commessa da militari giapponesi. – 4 L’impatto dei tribunali dei popoli e delle donne sul diritto internazionale. – 4.1 Tribunali dei popoli e delle donne: il loro contributo alla memoria collettiva. – 4.2 Tribunali dei popoli e delle donne: democrazia e diritto internazionale. – 5 Conclusioni.

Keywords Women’s Tribunals. Gender. Justice.

1 Introduzione

L’impunità è lo spettro che si aggira là dove gravi violazioni dei diritti uma- ni fondamentali sono commesse. Il diritto internazionale non è sprovvisto di strumenti per contrastarla. Il diritto internazionale dei diritti umani – nelle parole del giudice della Corte internazionale di giustizia Cançado Trindade (2011, 6) – «has been constructed on the basis of the imperatives of protection and the superior interest of human being, irrespective of na- tionality or political standing or any other situation or circumnstance». Il Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-5 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 47 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 diritto internazionale umanitario consta, invece, di quei principi e di quelle regole preposte alla disciplina della condotta delle ostilità tra i belligeranti e alla protezione di coloro che non prendono parte al conflitto – o non vi prendono più parte (Cassese, Gaeta 2013, 5). Per la repressione dei crimini internazionali è nato, nel secondo dopoguerra, un nuovo corpus normativo, il diritto penale internazionale, il cui scopo è di impedire che «the archi- tects of […] inhumane policies» (Griffin 2000) trovino un ‘porto sicuro’ in questa o quella giurisdizione. Fino al tardo diciannovesimo secolo, solo il divieto di crimini di guerra si era affermato sul piano internazionale; dalla fine della seconda guerra mondiale, sono emerse nuove categorie di reati grazie allo sviluppo dei tribunali penali internazionali: i tribunali di Norimberga e Tokyo, i tribunali penali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il Rwanda, le corti speciali, fino ad arrivare alla Corte penale internazionale (Cassese, Gaeta 2013, 4). Da questione di pertinenza delle corti nazionali, la repressione dei «most serious crimes» è divenuta di interesse dell’intera comunità internazionale.1 Nonostante i risultati raggiunti dai tribunali internazionali, che ci pare di non poter né negare né tantomeno sminuire, è pur vero che l’impunità non è sempre scongiurata. Le ragioni, come vedremo, sono sia di natura giuridica, dettate dai limiti derivanti dagli statuti dei tribunali interna- zionali, sia di natura politica, nei casi in cui l’impunità sia il frutto della mancata volontà della comunità internazionale di ‘vedere’. Per rispondere all’impossibilità di ottenere giustizia per le vittime di gravi violazioni dei diritti umani fondamentali, sono nati, a partire dagli anni Sessanta con il Bertrand Russell’s Tribunal, i c.d. ‘tribunali dei popo- li’, consigli – più che corti – di esperti il cui obiettivo è di esaminare i fatti ed accertare se e quali violazioni siano state compiute e da parte di quali attori. Nella categoria dei tribunali dei popoli vanno inclusi i tribunali delle donne, che si propongono di dare voce alle donne vittime di abusi subiti durante situazioni di conflitto mai, o solo parzialmente, indagati e perse- guiti. Come si vedrà, il fenomeno dei tribunali dei popoli, e delle donne nello specifico, è stato scarsamente analizzato dalla dottrina internazio- nalista – con qualche illustre eccezione (Falk 1985, 2016; Blaser 1992; Chinkin 2001; Byrnes-Simm 2013, 2014; Otto 2016). Siffatti tribunali non sono, giuridicamente parlando, dei veri tribunali internazionali, in quanto non sono costituiti mediante un trattato internazionale, come è stato per la corte penale internazionale, e neppure mediante risoluzione del Con- siglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (così come è avvenuto nel caso dei tribunali penali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il Rwanda); non pronunciano sentenze vincolanti; non possono prevedere né pene a carico di coloro i

1 Nel preambolo dello Statuto di Roma si legge: «the most serious crimes of concern to the international community as a whole must not go unpunished». 48 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 quali vengono giudicati responsabili delle violazioni dei diritti umani fon- damentali né forme di risarcimento per le vittime. Eppure il loro numero è aumentato negli ultimi anni.2 Siffatti tribunali, più che ‘alternative’ alla giustizia sul piano nazionale o internazionale, ne sono «supplemento e complemento» (Duhaček 2015, 69). Meritano dunque attenzione da parte della dottrina internazionalista. I tribunali dei popoli rispondono ad un «desire of law», ad una richiesta di giustizia per coloro che non hanno la possibilità di ottenere un esame for- male dei loro reclami in base al diritto internazionale (Byrnes-Simm 2013, 743). I tribunali delle donne presentano un elemento in più; essi, infatti, rispondono all’assenza delle donne dai procedimenti di soluzione pacifica delle controversie (Charlesworth, Chinkin 2000, 290). Costituiscono, in altri termini, un «approccio femminista alla giustizia», capace di rendere le donne agenti ed interpreti della storia (Zajović 2015, 40).3 In questo articolo partiremo dall’esperienza del Tribunale delle donne in Sarajevo,4 che studieremo nel dettaglio, per poi collocare questa esperien- za nel quadro più generale dei tribunali dei popoli e, nello specifico, delle donne. Utilizzeremo come casi studio, nell’economia del presente lavoro, il Bertrand Russell Tribunal sul Vietnam, quale esempio di tribunale dei popoli, e il Tribunale di Tokyo del 2000, quale esempio di tribunale delle donne. Analizzeremo quindi l’esperienza dei tribunali delle donne sotto una duplice prospettiva. Dimostreremo in primo luogo che essi sono stati utili per costruire, mantenere ovvero rafforzare la memoria collettiva delle gravi violazioni dei diritti umani subite dalle donne nel corso e dopo la fine di conflitti armati. In secondo luogo, sosterremo che essi sono espressione di democrazia nel sistema giuridico internazionale nel senso che confer- mano la partecipazione di soggetti ‘altri’ rispetto allo Stato, da sempre attore principale (e unico per molto tempo) della comunità internazionale.

2 Il Tribunale delle donne in Sarajevo

Il Tribunale delle donne in Sarajevo, Bosnia Herzegovina, si è aperto il 7 maggio 2015 ed è il risultato di un lavoro di preparazione durato oltre cin- que anni. Il comitato che ha promosso il tribunale, e che sta proseguendo con varie attività a seguito della conclusione del procedimento pubblico,

2 Si vedano ad esempio le numerose sessioni del Tribunale permanente dei popoli con sede in Italia: http://tribunalepermanentedeipopoli.fondazionebasso.it/ (2016-08-29). 3 Traduzione di «a feminist approach to justice» usato dall’autrice. 4 Traduciamo il termine Women’s Court in Sarajevo con ‘tribunale delle donne in Sarajevo’ e non ‘di Sarajevo’ per evitare una non corretta traduzione dell’espressione che potrebbe far pensare erroneamente al fatto che si tratti di un tribunale per le sole donne di Sarajevo. De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 49 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 era composto da donne provenienti da ogni parte dell’ex Jugoslavia: dalla Bosnia Erzegovina (Madri delle Enclaves di Srebrenica e Zepa, Forum delle Donne, Fondazione CURE); dalla Croazia (Centro per gli Studi delle Donne, Centro per le Donne Vittime di Guerra-ROSA); dal Kosovo (Rete delle Donne del Kosovo); dalla Macedonia (Consiglio Nazionale per l’Ugua- glianza di Genere); dal Montenegro (Anima); dalla Slovenia (Lobby delle Donne di Slovenia); dalla Serbia (Studi delle Donne, Donne in Nero). Il coordinamento è stato affidato alle Donne in Nero di Belgrado.5 Il Tribunale è stato, più che un procedimento in un lasso di tempo ben definito, un percorso: i tre giorni a Sarajevo hanno costituito solo il culmine di un processo che è stato caratterizzato, e si caratterizza ancora oggi, da centinaia di riunioni organizzate il più possibile vicino alle vittime, ovvero nei paesi, nelle città, nei villaggi ancora impregnati delle conseguenze del conflitto dei Balcani; da rapporti periodici delle donne in nero sempre di- sponibili online in uno spirito di assoluta trasparenza; da seminari regionali, corsi di formazione, presentazioni pubbliche, tavole rotonde; da volantini in tutte le lingue della regione.6 Il Tribunale è stato costruito dal basso, per rispondere alle specifiche esigenze delle donne della regione. Come rileva un’autrice, si è trattato di un «modello unico di un processo estremamente rispettoso delle vittime e delle sopravvissute» (Lucas 2015, 8). Il procedimento pubblico, iniziato con un corteo lungo le strade di Sa- rajevo, si è svolto poi dal 7 al 10 maggio 2015.

2.1 Le ragioni della nascita del Tribunale delle donne

I crimini compiuti durante il conflitto nell’ex Jugoslavia sono stati esa- minati in più di un contesto internazionale. Ciò a differenza di decine di altri conflitti, caratterizzati da ampie e diffuse violazioni dei diritti umani fondamentali, completamente ignorati o dimenticati.7 Diverse ragioni concorrono a spiegare la necessità avvertita dalle donne di ogni parte dell’ex Jugoslavia di poter raccontare ciò che non ha trovato voce altrove. Una di queste concerne la limitata presenza delle donne nei

5 Sull’esperienza delle Donne in Nero di Belgrado, vedi Camilotti 2011 con testimonianze e scritti di Marianita De Ambrogio, Staša Zajović e Lepa Mladjenović. Il network è nato nel 1988, su spinta di alcune pacifiste israeliane e palestinesi, che hanno adottato come forma di protesta il manifestare una a fianco dell’altra, in nero, in silenzio. 6 La ricostruzione dettagliata dei cinque anni di preparazione del tribunale delle donne in Zajović, Duhacek, Iveković 2015. 7 Per un’analisi di ampio respiro e numerosi esempi, tra cui il conflitto di West Papua, si veda Hawkins 2008, 187. L’autore rileva che la maggior parte dei conflitti resta «unde- tected», priva di traccia; in altre parole, tali conflitti sono assenti «from the consciousness of the actors», dove per attori si intendono politici, media, opinione pubblica, accademici. 50 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 consessi internazionali dove si decideva il futuro dell’ex Jugoslavia. Così, ad esempio, ai negoziati degli Accordi di Dayton nel novembre 1995, le donne della Bosnia Erzegovina non parteciparono; e ciò nonostante lo stu- pro e l’abuso sessuale fossero stati evidentemente utilizzati quale strumen- to di guerra con lo scopo di umiliare un intero gruppo etnico mediante la violenza nei confronti delle sue donne (Askin 1997, 264). Gli abusi sessuali erano, dunque, basati sia sul genere, sia sull’etnia (MacKinnon 1993, 65). Gli Accordi di Dayton, come rilevano Charlesworth e Chinkin (2000, 291), non richiesero alle autorità delle diverse entità della Bosnia Erzegovina di indirizzare le specifiche esigenze delle donne e di fornire loro adeguata riparazione. Essi inoltre non attribuirono alcun ruolo per le donne nella ricostruzione post-conflitto. Il silenzio prevalse. Muovendoci invece sul piano della giustizia penale internazionale, va preliminarmente osservato che il Tribunale penale per l’ex Jugoslavia fu istituito due anni prima degli accordi di Dayton dal Consiglio di Sicurezza ONU con lo scopo di perseguire penalmente i presunti autori di gravi vio- lazioni del diritto internazionale umanitario e di genocidio (Copelon 2011, 242; Healey 1995, 327).8 Nello Statuto del Tribunale, lo stupro è consi- derato un crimine contro l’umanità – non crimine di guerra o genocidio. Tuttavia, la giurisprudenza del tribunale, così come quella del Tribunale penale internazionale ad hoc per il Rwanda,9 ha contribuito alla definizio- ne del reato di stupro e di abuso sessuale. Fu così che, in Akayesu, per la prima volta, un tribunale internazionale – quello penale per il Rwanda – ha riconosciuto che lo stupro rientra tra le condotte criminose che costituisco- no il crimine di genocidio, in particolare la condotta descritta all’articolo 2, lettera b), della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948, ovvero «lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo».10 Il Tribunale penale per l’ex Jugoslavia ha esaminato più volte casi di violenza sessuale e stupro, dando voce alle vittime; nel caso Furundzija, ad esempio, i giudici hanno accettato la te- stimonianza di una donna vittima di abuso sessuale nonostante soffrisse di disturbo post-traumatico.11 Benché i tribunali penali internazionali ad hoc abbiano contribuito alla ricostruzione di gravi episodi di abusi nei confronti delle donne, è certo vero che essi hanno mostrato alcuni punti

8 Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU n. 827 (1993), che istituisce il Tribunale penale per l’ex Jugoslavia. 9 Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU n. 955 (1994), che istituisce il Tribunale penale per il Rwanda. 10 Tribunale penale per il Rwanda, Trial Chamber, Prosecutor v. Akayesu, case n. 96-4-T, 2 settembre 1998. 11 Tribunale penale per l’ex Jugoslavia, Trial Chamber, Prosecutor v. Furundžija, case no. IT-95-17/1-T, 10 Dicembre 1998, § 109. Si veda per il dettaglio dei casi esaminati dal Tribu- nale per l’ex Jugoslavia, Henry 2011. De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 51 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 deboli. Taluni sono di natura strutturale: il tribunale è regolato da uno statuto che definisce la competenza dell’organo giurisdizionale e i reati per i quali esso ha giurisdizione. Altri discendono dall’assenza di un approc- cio femminista alla giustizia; in particolare, come si è dimostrato altrove (De Vido, in corso di stampa), le donne sono state, in tutti i procedimenti, considerate solo ‘vittime’, ritenute dunque in una posizione passiva e vul- nerabile. Raramente le donne sono state viste quali attrici, protagoniste tanto in senso positivo quanto in senso negativo. Ci pare indicativo il fatto che il caso della Ministra rwandese Pauline Nyiramasuhuko,12 prima donna condannata per genocidio da un tribunale internazionale per aver ordinato anche atti di stupro, sia stato considerato maggiormente meritevole di at- tenzione dalla stampa; sembrava quasi impossibile, agli occhi dell’opinione pubblica, che una donna, madre oltre che ministra, potesse rivestire un ruolo ‘altro’ rispetto a quello di vittima. In secondo luogo, come rilevato dalla dottrina, la giurisprudenza dei tribunali penali ad hoc «may do little to transform the lived realities of women’s lives in terms of the ongoing violence and discrimination they experience» (Ní Aoláin 2012, 228).13 In altri termini, i tribunali non possono – per i limiti derivanti dal loro statuto e per il più generale principio di certezza del diritto – indagare sulla violenza che è proseguita anche oltre il conflitto e, spesso, essi hanno trascurato il fatto che le testimonianze delle donne nel corso dei procedimenti hanno cambiato la loro vita e il loro reinserimento nella comunità di origine. Abbiamo cercato di spiegare sul piano giuridico e politico i limiti incon- trati nelle indagini sulle gravi violazioni dei diritti umani – e nella repres- sione di siffatti atti – occorse nell’ex Jugoslavia. Se abbandoniamo per un attimo i panni del giurista e leggiamo le testimonianze delle donne che hanno partecipato alla creazione del Tribunale delle donne, forse possiamo cogliere nella sua pienezza lo spirito che ha mosso un gruppo di donne di ogni parte dell’ex Jugoslavia a non lasciare che certi episodi di violenza cadessero nell’oblio. Così, negli anni che hanno preceduto l’istituzione del Tribunale delle donne, nel 2011 e 2012 nello specifico, la maggioranza delle donne partecipanti ai lavori ha espresso da un lato l’opinione che il Tribunale penale per l’ex Jugoslavia fosse «spesso l’unico strumento per portare giustizia», dall’altro lato hanno sottolineato la prevalenza di una generale sfiducia nei confronti degli organi giurisdizionali tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale (Zajović 2015, 23). Le vittime di abusi durante e dopo il conflitto hanno inoltre evidenziato come, nelle sentenze più recenti decise nel novembre 2012 dal Tribunale per l’ex Ju- goslavia, «allo Stato che ha organizzato il crimine (la Serbia) [sia] stata

12 Tribunale per il Rwanda, Trial Chamber, Prosecutor v. Pauline Nyiramasuhuko et al., case no. ICTR-98-42-T, 24 giugno 2011. 13 Sulla giustizia di transizione, si veda, in generale, O’ Rourke 2013. 52 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 garantita amnistia».14 La sfiducia nei confronti del Tribunale per l’ex Jugo- slavia si è rinvigorita recentemente a seguito del ‘disastroso’ procedimento nei confronti di Seselj,15 che si è concluso nel marzo 2016 con l’assoluzione dell’imputato; tra i capi d’accusa figurava anche la violenza sessuale.16 Ecco allora che, tra le ragioni invocate dalle donne soprattutto nei primi due anni di preparazione del Tribunale, si annovera la volontà di rendere visibile la continua violenza contro le donne commessa in tempo di pace come in tempo di guerra, la necessità di dare voce alle esperienze indivi- duali delle donne e includere la loro esperienza nella ‘memoria pubblica’, il riconoscimento della sofferenza subita dalle donne e fare pressioni sul sistema istituzionale, la ricostruzione del contesto sociale, economico, famigliare, culturale, personale e politico in cui la violenza contro le don- ne è stato compiuta, la creazione di un nuovo approccio alla giustizia, la nascita di un network di solidarietà tra le donne a livello internazionale e la prevenzione di crimini futuri (Zajović 2015, 26-7).

2.2 Il suo ambito di azione

Le competenze attribuite al Tribunale delle donne in Sarajevo sono ampie, in quanto abbracciano le violenze commesse sia durante il conflitto negli anni Novanta sia dopo il conflitto; il lavoro preparatorio ha infatti dimo- strato che «esiste una continuità di ingiustizia e di violenza, che collega la guerra e il dopoguerra» (Lucas 2015, 8). Il tribunale si è occupato di: a. Violenza su base etnica, che include la violenza c.d. «istituziona- le», ovvero messa in atto da organi dello Stato, e la repressione compiuta dalla società stessa mediante il rifiuto e le molestie quale conseguenza di matrimoni-famiglie-comunità miste. b. Violenza «militarista», che include la guerra contro i civili, ad esem- pio le azioni condotte durante le ostilità, la minaccia psichica o fisica continuata, i bombardamenti, il terrore esercitato dai militari alle frontiere; la repressione a seguito di resistenza al reclutamento

14 Rapporto del 2012 Women’s Court – A Feminist Approach to Justice, citato in Zajović 2015, 24. 15 Tribunale penale per l’ex Jugoslavia, Le procureur c. Seselj, case no. IT-03-67-T, 31 marzo 2016. Si veda il commento di Milanovic «a comprehensively bad judgment» h t t p:// www.ejiltalk.org/the-sorry-acquittal-of-vojislav-seselj/#more-14187 (2016-08-29). 16 Si legga tuttavia la forte opinione dissenziente («je conteste fermement») della giudice Flavia Lattanzi, in particolare § 39. Il Procuratore ha reso una dichiarazione con riguar- do alla sentenza il 31 marzo 2016: «We fully understand that many victims and commu- nities will be disappointed by the Trial Chamber’s judgment» http://www.icty.org/en/ press/statement-of-the-office-of-the-prosecutor-on-the-judgement-of-vojislav-seselj (2016-08-29). De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 53 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70

forzato, quindi le violenze subite dalle donne che proteggevano i disertori, gli uomini della propria famiglia, gli attivisti contro la guerra e gli obiettori di coscienza. c. La continuazione della violenza di genere, ovvero lo stupro come crimine di guerra, l’abuso dello stupro a scopi nazionalistici, la stig- matizzazione delle donne che hanno testimoniato episodi di stupro; la violenza maschile nei confronti delle donne, compresa violenza fi- sica, psicologica, sessuale commesse dal marito o partner di ritorno dal conflitto, ma anche la ‘normalizzazione’ della violenza dell’uomo contro la donna nella sfera pubblica come comportamento social- mente accettabile; la repressione politica delle donne che hanno operato a difesa dei diritti umani. d. La violenza economica contro le donne, inclusa la privatizzazione che ha determinato in molti casi la privazione del lavoro e dei diritti economico-sociali e una vita condotta in costante crisi economica (privazioni, costante timore di povertà, disoccupazione, licenzia- mento dal lavoro senza retribuzione).17

È evidente che i Tribunali dei popoli sono in grado di superare le categorie di reati che si sono affermate sul piano internazionale: crimini di guerra, contro l’umanità, genocidio, crimine di aggressione. I tribunali penali ad hoc sono riusciti certo ad interpretare gli elementi di taluni crimini, quali il genocidio, in modo tale da includere nelle condotte criminose anche lo stupro e la violenza sessuale. Essi tuttavia, nell’esercizio della loro fun- zione ermeneutica, non possono arrivare al punto di scalfire il principio della certezza del diritto e il principio espresso dal brocardo latino Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali.

2.3 La struttura del Tribunale e il procedimento nei giorni di maggio 2015

Il Tribunale delle donne a Sarajevo è composto da tre organi. Il primo è il Judicial Council. In questa sede, lo tradurremo con il termine ‘consiglio decisionale’, che ci sembra meglio sottolinei il fatto che l’organo, pur non essendo una giuria o un tribunale internazionale, è tuttavia dotato di po- tere decisionale, ancorché non vincolante. Al consiglio decisionale hanno partecipato docenti, esperte di diritti delle donne, attiviste internaziona- li: Charlotte Bunch, premio Eleanor Roosvelt per i diritti umani; Kristen Campbell del Goldsmiths College, Londra; Gorana Mlinarević, attivista e ricercatrice femminista di Sarajevo; Dianne Otto, docente dell’Università di Melbourne; Latinka Perović, storica della Serbia del XIX-XX secolo;

17 http://www.zenskisud.org/en/o-zenskom-sudu.html (2016-08-29). 54 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70

Vesna Rakić-Vodinelić, presidente del Council, teorica del diritto; Vesna Teršelić, attivista pacifista. Il secondo organo è il comitato consultivo, composto da Marta Drury (USA), filantropa, candidata al premio Nobel per la pace nel 2005; Monika Hauser (Svizzera/Germania), ginecologa e filantropa; Mariemme H. Lucas, sociologa algerina, femminista, teorica politica. Il Tribunale delle donne è stato affiancato da esperti che hanno con- sentito la ricostruzione del contesto in cui sono stati commessi i crimini: Bojan Aleksov (Serbia/Gran Bretagna); Tanja Đurić Kuzmanović (Serbia); Rada Iveković (Croazia/Francia); Renata Jambrešić Kirin (Croazia); Vjoll- ca Krasniqi (Kosovo); Miroslava Malešević (Serbia); Snežana Obrenović (Serbia), sociologa e attivista femminista; Senka Rastoder (Montenegro); Marijana Senjak (Croazia/Bosnia Erzegovina); Staša Zajović (Serbia), fi- lologa, attivista femminista e pacifista. Il procedimento innanzi al Tribunale delle donne in Sarajevo dal 7 al 10 maggio 2015 è stato molto diverso, evidentemente, rispetto a quello abi- tuale negli organismi giurisdizionali nazionali ed internazionali. Al Tribu- nale per l’ex Jugoslavia, in base alle rules of procedure più volte emendate, il procedimento si distingue in una fase precontenziosa, in una fase con- tenziosa davanti alla Trial Chamber, in un eventuale appello.18 All’imputato vengono garantiti i diritti propri dell’equo processo, tra cui la presunzione di innocenza, e alle vittime la protezione durante la testimonianza dinnanzi alla Camera.19 La sessione del Tribunale delle donne in Sarajevo si è svolta in un tea- tro con oltre 600 persone; sul palco sedevano a sinistra le testimoni (36 durante tutto il procedimento), a destra le esperte del tribunale; al centro un leggio da cui parlare alla platea. Non era possibile telefonare, commen- tare, fotografare, fare domande, uscire. Non c’erano imputati identificati per ciascun crimine compiuto nell’ex Jugoslavia. Il resoconto delle udienza è stato riportato in un report dettagliato.20 L’ultimo giorno, alcune donne hanno sintetizzato i temi toccati durante il procedimento.21

18 Rules of procedure and evidence, IT/32/Rev.50, 8 luglio 2015. 19 Rules of procedure and evidence, IT/32/Rev.50, 8 luglio 2015, rule 75.

20 Il Tribunale delle donne, un approccio femminista alla giustizia: http://www.zenski- sud.org/en/pdf/2015/Tribunale%20delle%20Donne%20per%20la%20ex%20Yugoslavia.pdf (2016-08-29), da p. 11. 21 Il Tribunale delle donne, un approccio femminista alla giustizia, 16. De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 55 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 2.4 La decisione preliminare e le raccomandazioni del Judicial Council

Dopo aver ascoltato per due giorni le testimonianze delle donne parteci- panti al procedimento, il consiglio decisionale ha adottato il 10 maggio alcune decisioni preliminari e raccomandazioni, in attesa di elaborare quello che è stato definito «the comprehensive and conclusive judgment», non ancora disponibile al momento in cui si scrive.22 L’uso della parola judg- ment non è nuovo; come si vedrà, anche il Tribunale di Tokyo del 2000 lo aveva utilizzato per la sua decisione finale, che, tuttavia, a differenza del Tribunale delle donne in Sarajevo, accertava la responsabilità individuale di alcuni membri del governo giapponese, incluso l’imperatore, per i reati oggetto del procedimento. Nel caso del Judicial Council di Sarajevo, uti- lizzeremo la parola ‘decisione’, e non ‘sentenza’, un termine che ci pare raccolga le varie sfumature della parola ‘judgment’ in inglese.23 Nel rapporto finale sono stati riportati i crimini compiuti durante e dopo il conflitto nell’ex Jugoslavia:24 a. Crimini di guerra contro la popolazione civile, inclusi, tra gli altri, la separazione, l’omicidio e la sparizione forzata di bambini, donne, uomini, anziani; il trasferimento forzato di donne all’interno e all’e- sterno della regione; la militarizzazione della vita civile e domestica; la tortura e altri trattamenti inumani o degradanti; la persecuzione; la guerra di aggressione. b. L’utilizzo dei corpi femminili come «campo di battaglia», inclusi i seguenti atti: l’uccisione deliberata di civili donne; la violenza ses- suale durante e dopo il conflitto, nella sfera privata quanto in quella pubblica; la detenzione e la discriminazione basata sul genere du- rante la detenzione; tortura e altre forme di trattamento crudele, inumano o degradante; la persecuzione sulla base del genere; la militarizzazione delle vite delle donne; il diniego di cure mediche; la considerazione delle donne quali portatrici simboliche e materiali dei costi della guerra, tra cui il rafforzamento degli stereotipi di genere, la disoccupazione, l’esclusione dalle strutture sociali. c. Il crimine di violenza «militarista», inclusa la militarizzazione della vita quotidiana e la mobilitazione sistematica; la repressione e la demonizzazione delle attiviste pacifiste; il reclutamento forzato dei civili in forze armate regolari, irregolari, di sicurezza, così come il lavoro nell’economia di guerra; la promozione dell’uso di alcol e

22 Tribunale delle donne, Judicial Council, Preliminary Decisions and Recommendations, 1.

23 http://www.oxforddictionaries.com/definition/american_english/judgment (2016-08-29). 24 Tribunale delle donne, Judicial Council, Preliminary Decisions and Recommendations, 1ss. 56 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70

droga da parte dei militari; la criminalizzazione dei disertori e dei loro sostenitori. d. Il crimine di persecuzione, che si è caratterizzato per l’imposizione di differenze, basate sull’etnia, la religione, il genere, la sessualità, l’età, la disabilità. Tali differenze venivano usate per dividere la po- polazione e legittimare pratiche violente di esclusione, ad esempio costringendo le donne ad assumere i ruoli ‘tradizionali’ e quello di portatrici e riproduttrici dell’identità collettiva. e. Il crimine di violenza sociale ed economica, ad esempio l’incapacità di garantire degne condizioni di lavoro, incluso la parità di tratta- mento economico e il congedo parentale retribuito; l’incapacità di fornire adeguata riparazione per i crimini di guerra; l’incapacità di fornire un servizio sanitario in grado di rispondere al continuo impatto della guerra e della militarizzazione sulle donne; la stigma- tizzazione delle donne sopravvissute.

È nella riconduzione di questi atti alle categorie ben note di crimini in- ternazionali che si avverte l’influenza di studiose internazionaliste, quali Diane Otto e Kristen Campbell; nella decisione del Council si legge, in- fatti, che questi atti costituiscono «violazioni dei diritti umani, crimini contro la pace, crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità».25 La responsabilità per gli atti compiuti va attribuita a «tutti i partecipanti al conflitto».26 Nello specifico, il Judicial Council si riferisce alla responsa- bilità del regime politico e militare serbo per la conduzione di una guerra genocidaria e per aver commesso crimini di genocidio e di pulizia etnica contro popolazioni non serbe in Bosnia Erzegovina, Croazia e Kosovo. In tale azione, il regime serbo era stato sostenuto dai regimi montenegri- ni e gruppi locali, oltre che dallo Yugoslav Peoples Army (JNA). Questa affermazione è di un certo rilievo, considerato che sulla responsabilità della Serbia per crimine di genocidio si è pronunciata in due occasioni la Corte internazionale di giustizia, nei casi Bosnia Erzegovina c. Serbia27 e Croazia c. Serbia.28 In entrambi i casi, la Serbia non è stata ritenuta responsabile di crimine di genocidio. L’affermazione del Tribunale delle donne in Sarajevo si discosta dalle conclusioni della Corte internazionale di giustizia. Va precisato, tuttavia, che la rilevazione dell’elemento sog-

25 Tribunale delle donne, Judicial Council, Preliminary Decisions and Recommendations, 4. 26 Tribunale delle donne, Judicial Council, Preliminary Decisions and Recommendations. 27 Corte internazionale di giustizia, Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (Bosnia and Herzegovina v. Serbia and Montenegro), sentenza del 26 febbraio 2007. 28 Corte internazionale di giustizia, Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (Croatia v. Serbia), sentenza del 3 febbraio 2015. De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 57 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 gettivo del crimine di genocidio, lo specific intent, in particolare quando il presunto perpetratore è lo Stato, è particolarmente complessa e non è stata condotta dal Tribunale delle donne.29 Il Judicial Council ha rilevato altresì la responsabilità per pulizia etnica dei regimi in Croazia e Kosovo, e per gravi violazioni dei diritti umani da parte dei regimi in Bosnia Erze- govina, Macedonia, Slovenia. La responsabilità va attribuita, secondo il Judicial Council, alla leadership militare, politica, economica e di sicurez- za, oltre che alle élites intellettuali; ai militari, paramilitari e altri gruppi armati; ai media; a singoli e società che hanno tratto profitti dal conflitto, ai funzionari amministrativi e di governo ai più alti livelli; alle istituzioni e ai leader religiosi; alle organizzazioni internazionali ed altri governi.30 Il rapporto del Judicial Council si chiude con otto raccomandazioni: vi è un invito a rendere pubblica la storia ricostruita mediante le testimonianze delle donne e cinque anni di preparazione, a porre fine al militarismo, com- preso il disarmo totale, a cambiare il trend di privatizzazione in corso dei beni pubblici (raccomandazioni 1,2,4). Vi sono altresì elementi interessanti di diritto internazionale. Il primo è la raccomandazione secondo cui i go- verni devono rispettare, proteggere, realizzare – secondo la nota formula «to respect, protect, fulfill» (De Schutter 2014, 280) – i diritti umani delle donne, compreso il diritto al lavoro, alla retribuzione equa, al congedo parentale retribuito, all’alloggio, alla sicurezza sociale, alla salute, inclusi i diritti riproduttivi e sessuali (raccomandazione 3). Il secondo è l’obbligo di dovuta diligenza in capo agli Stati di fornire alle donne giustizia e di porre fine a tutte le forme di violenza contro le donne e alle violazioni dei diritti umani in tempo di guerra e in tempo di pace (raccomandazioni 5 e 6). Il terzo riguarda obblighi di prevenzione della violenza di genere: elemento non nuovo, in quanto previsto, ad esempio, dalla recente Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, adottata nel 2011 (De Vido 2014, 2016): lo Stato e le istituzioni sociali quali i media, i sistemi educativi, le entità religiose, hanno una responsabilità condivisa nel porre fine agli atteggiamenti patriarcali e militaristi che perpetuano la violenza contro le donne (raccomandazione 7). Il Council ha dunque ribadito, collegandolo al contesto delle gravi vio- lazioni compiute contro le donne dell’ex Jugoslavia, obblighi già esistenti in capo agli Stati previsti dal diritto pattizio o consuetudinario.

29 Sul punto, si veda l’analisi di Weiss-Wendt 2010. 30 Tribunale delle donne, Judicial Council, Preliminary Decisions and Recommendations, 5. 58 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 2.5 Il seguito del procedimento

Numerose attività sono state organizzate a seguito dell’incontro del tribu- nale delle donne a maggio 2015. Si sono svolti incontri a livello regionale o locale con le vittime, circoli di discussione e tavole rotonde sul tema. In futuro, sono previste una serie di iniziative: il supporto continuo di ca- rattere psicologico alle vittime, la consulenza legale, il monitoraggio del procedimento davanti al Tribunale delle donne, l’istituzione di tribunali delle donne ‘ristretti’ su specifiche questioni inerenti tutti gli aspetti della vita femminile, l’istruzione continua, la pressione sulle istituzioni, la pub- blicazione delle testimonianze in un libro e un documentario.31

3 Analisi giuridica: i Tribunali dei popoli e delle donne

I tribunali dei popoli sono, nella definizione fornita da uno dei Russell Tri- bunals, «international colleges consisting of well-known persons [which] do not have any legal power but aim at contributing to the development of international law».32 Il Tribunale delle donne di Tokyo, nella decisione pro- nunciata oralmente nel dicembre 2001, definì i tribunali dei popoli come organismi «conceived and established by the voices of global civil society», basati sulla convinzione che il diritto «è uno strumento della società civile che non appartiene solo ai governi».33 I giudici del tribunale, tutti eminen- ti giuristi, affermarono inoltre che, sebbene un tribunale dei popoli non possa condannare o ordinare forme di riparazione, esso può presentare raccomandazioni supportate da «its legal findings and its moral force».34 I tribunali dei popoli nascono là dove i governi e i tribunali, nazionali o internazionali, non vogliano o non siano in grado («unwilling or unable»)35 di attuare le norme internazionali sui diritti umani (Blaser 1992, 344). In particolare, quando sono i governi stessi ad essere responsabili per aver ordinato o non aver adottato misure per prevenire la commissione di gravi crimini, i tribunali dei popoli costituiscono una «strategia popolare per attuare i diritti umani» (Blaser 1992, 344), una «giurisprudenza della

31 Continuation of process of Women’s Court after Sarajevo Event (May 2015) Activities re- lated to Women’s Court – feminist approach, pubblicato a febbraio 2016 http://www.zenski- sud.org/en/pdf/2016/Womens_Court_Report_May_2015_February_2016.pdf (2016-08-29). 32 Fourth. Russell Tribunal, Handbook, The Rights of the Indians in the Americas 1980, 18.

33 Transcript of oral judgment, 4 dicembre 2001, § 9, http://www.iccwomen.org/ wigjdraft1/Archives/oldWCGJ/tokyo/Sommario.html (2016-08-29). 34 Transcript of oral judgment, 4 dicembre 2001, § 10. 35 Si mutua qui l’espressione («unwilling or unable») utilizzata nello Statuto della Corte penale internazionale, articolo 17, § 1, lettera a). De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 59 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 coscienza» (Falk 2016, 351).36 La società civile, in altri termini, ha creato organismi paralleli, composti da esperti (filosofi, storici, giuristi) con lo scopo di aumentare la rilevanza politica ed etica del diritto internazionale (351). Il funzionamento dei tribunali dei popoli non segue delle regole stabilite sul piano internazionale – con l’eccezione del tribunale permanente dei popoli di cui si dirà: così, se il Tribunale per dare voce alle comfort women a Tokyo prevedeva un ufficio del procuratore e degli accusati, il Tribunale delle donne in Sarajevo non ha identificato dei presunti perpetratori dei singoli crimini contro le donne. Con riguardo alle prove, i tribunali pos- sono avvalersi di indagini sul posto, testimonianze delle vittime, rapporti di esperti per la ricostruzione storica o sociologica (Blaser 1992, 355). Il diritto applicabile è il diritto internazionale, che si interseca, nel caso dei tribunali dei popoli, con standard morali o politici (357). La decisione fina- le può assomigliare all’atto che abitualmente conclude un procedimento giudiziario oppure essere formulata sotto forma di raccomandazioni.

3.1 Il primo illustre precedente: il Bertrand Russell Tribunal

Primo tribunale dei popoli istituito dopo la Seconda guerra mondiale, il Russell Tribunal fu fondato nel 1966 dal filosofo Bertrand Russell e da al- cuni suoi colleghi, incluso Jean Paul Sartre, con lo scopo di indagare sulla condotta della guerra in Vietnam da parte degli Stati Uniti (Byrnes 2013, 725). Il titolo era eloquente: il tribunale sugli American War Crimes in Vi- etnam.37 Furono due in quell’occasione le sedute pubbliche del tribunale, la prima delle quali ebbe luogo a Stoccolma, in Svezia, dal 2 al 10 maggio 1967; la seconda a Roskilde, in Danimarca, dal 20 novembre al 1 dicembre 1967. Nel rapporto finale, elaborato dal presidente Sartre, il Tribunale affermò, all’unanimità, dopo aver ascoltato le testimonianze e relazioni di esperti, che il governo degli Stati Uniti commise atti di aggressione contro il Vietnam in base al diritto internazionale e che colpì con bombardamen- ti massicci obiettivi unicamente civili, quali ospedali, scuole, strutture sanitarie, dighe. Il Tribunale ritenne inoltre, all’unanimità, il governo e le forze armate statunitensi responsabili del «systematic and large-scale bombardment of civilian targets» e, con una sola astensione, responsabile delle ripetute violazioni della sovranità, neutralità ed integrità territoriale della Cambogia, incluso gli attacchi alla popolazione civile e a un certo

36 L’espressione, già introdotta da Falk dopo le esperienze dei primi Russell Tribunals, è stata ripresa dalla Commissione di Kuala Lumpur contro G.W. Bush e A.L. Blair, Case n. 1-CP-2011, Notes of proceedings, 19 novembre 2011, 49 (17).

37 I lavori del tribunale sono reperibili al sito http://raetowest.org/vietnam-war-crimes/ russell-vietnam-war-crimes-tribunal-1967.html (2016-08-29). 60 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 numero di città cambogiane e villaggi.38 Il governo di Australia, Nuova Zelanda e Sud Corea furono ritenuti complici degli Stati Uniti nella guerra di aggressione al Vietnam. I primi tribunali furono ampiamenti criticati, ma costituirono senza dubbio il modello per lo sviluppo di nuovi organismi che hanno saputo rispondere al silenzio. Dopo la morte di Bertrand Russell, uno dei componenti del Tribunale, Lelio Basso, portò avanti il progetto del predecessore esaminando dapprima la repressione in Brasile e in gene- rale in America Latina (1973-6), per poi fondare il Tribunale permanente dei popoli, un’istituzione capace di dare voce alle vittime di violazioni dei diritti umani fondamentali come dichiarati dalla Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, proclamata ad Algeri nel 1976. Esso opera mediante uno statuto, adottato a Bologna il 24 giugno 1979, che definisce il nume- ro dei membri del Tribunale (minimo 35, massimo 75) e il loro mandato (triennale), nonché detta delle regole precise per il suo funzionamento.39 A oggi ha svolto 42 sessioni. In una recente sentenza, adottata con riguardo alla grande opera Tav in Italia, il Tribunale permanente ha affermato la propria legittimità «certo con i limiti ovvi di effettività di un ‘tribunale di opinione’»:

La legittimità del TPP è nella sua stessa esistenza con funzione di de- nuncia, documentazione, resistenza ad una omissione e ad un silenzio di fronte alla realtà delle violazioni ai diritti fondamentali. L’analisi rigorosa dei fatti e delle lacune delle pratiche del diritto a livello nazionale ed internazionale fa memoria, per il presente e per il futuro, della priorità inviolabile dei diritti di vita e di dignità dei popoli concreti, la cui sovra- nità è l’unica fonte dell’autorità degli stessi Stati.40

3.2 Ridare voce alle comfort women: il tribunale di Tokyo sulla schiavitù sessuale commessa da militari giapponesi

Durante la seconda guerra mondiale, le comfort women, in giapponese jūgun ianfu, erano donne reclutate e costrette alla schiavitù sessuale nelle comfort station; erano donne da cui i soldati traevano conforto durante il conflitto. Provenivano principalmente dalla Corea, ma anche dalla Cina e da altri Paesi del Sudest asiatico, alcune direttamente dal Giappone. Fu

38 http://raetowest.org/vietnam-war-crimes/russell-vietnam-war-crimes-tribu- nal-1967.html#v1119-verdict-Sartre (2016-08-29). Una delle testimonianze, quella di Nguyen Van Dong, ha riportato la commissione di numerosi crimini contro donne e bambini.

39 http://tribunalepermanentedeipopoli.fondazionebasso.it/tribunale-permanente- dei-popoli/statuto/ (2016-08-29). 40 Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere. Dal Tav alla realtà globale Torino-Almese, 5-8 novembre 2015, 3. De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 61 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 uno dei primi esempi di traffico di donne ‘utilizzate’ – e la crudezza del verbo consente di descrivere chiaramente il fenomeno – dal governo giap- ponese per risolvere «diffusi problemi di disciplina militare» ed evitare casi estremi come lo stupro di massa di Nanchino (Totani 2011, 220). Si stima che siano state abusate tra 50.000 e 200.000 donne. Il coinvolgi- mento del governo giapponese nella commissione dei reati di stupro e sfruttamento sessuale fu chiaramente riconosciuto dal Tribunale penale di Tokyo, istituito subito dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia, il tribu- nale non esaminò se e in che termini il governo imperiale avesse ordinato la commissione di reati contro le donne (222). Il silenzio proseguì fino al 1990, quando alcune organizzazioni di donne coreane presentarono una richiesta di indagine sul fenomeno delle comfort women al parlamento giapponese. Il governo giapponese negò ogni coinvolgimento, attribuendo la responsabilità del reclutamento a soggetti privati (Caroli 2009, 134). Dieci casi furono portati all’attenzione di corti giapponesi e tutti e dieci vennero ritenuti irricevibili (Totani 2011, 224). Il silenzio fu spezzato dal tribunale delle donne sui crimini internaziona- li, istituito nel 2000 a Tokyo, Giappone (Chinkin 2001, 335; Matsui 2003, 259).41 Sessantaquattro sopravvissute presentarono la loro testimonianza a Tokyo durante quattro giorni di processo. A differenza del Tribunale delle donne in Sarajevo, il Tribunale di Tokyo aveva una struttura molto simile ad un tribunale penale internazionale, presentando invero un team di sette procuratori il cui compito era quello di esporre le prove raccolte, e un corpo di giudici costituito da giuristi di fama internazionale. I giudi- ci sottolinearono fin da subito che «il popolo giapponese non [era] sotto processo»; la responsabilità individuale per violazioni del diritto interna- zionale umanitario «does not include the ascription of collective guilt».42 Al termine del procedimento, il Tribunale delle donne in Tokyo concluse, nel suo judgment, che alcune tra le più alte cariche dello Stato, incluso l’imperatore Hirohito, erano responsabili individualmente per aver parte- cipato consapevolmente ad un sistema criminale che coltivava e sosteneva lo stupro e la schiavitù sessuale.43 È evidente che l’impatto di questa deci- sione, ancorché non vincolante, fu enorme sull’opinione pubblica, anche se non condusse a risultati immediati.

41 Giudici erano: Gabrielle Kirk McDonald, ex Presidente del Tribunale penale interna- zionale per l’ex Jugoslavia; Carmen Maria Argibay, giudice in Argentina; Willy Mutunga, avvocato esperto di diritti umani; Christine Chinkin, giurista internazionalista. 42 Transcript of oral judgment, 4 dicembre 2001, § 8. 43 Transcript of oral judgment, 4 dicembre 2001, § 98. 62 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 4 L’impatto dei tribunali dei popoli e delle donne sul diritto internazionale

Per alcuni studiosi, i tribunali dei popoli non producono risultati concreti (Cryer 2005, 51). Ed invero, essi non hanno mai indotto i governi ad av- viare procedimenti contro presunti perpetratori di crimini internazionali e sono stati spesso ignorati dai media in quanto ritenuti privi di legitti- mità (Falk 2014, 76). Non va negato, tuttavia, che essi costituiscono un fattore ‘mobilizzante’ dell’opinione pubblica, mediante il quale portare all’attenzione dei governi e delle organizzazioni internazionali situazioni completamente dimenticate. Così, nel caso delle comfort women, benché a distanza di quattordici anni dalla sentenza del Tribunale delle donne a Tokyo, il governo giapponese e quello sudcoreano hanno raggiunto nel dicembre 2015 un accordo che prevede da parte del Giappone, oltre alle scuse ufficiali del Primo Ministro Shinzo Abe, anche il pagamento di 8,3 milioni di dollari destinati a fondi per le donne sopravvissute.44 Dal canto suo, la Corea del Sud si è impegnata a non far valere ulteriori pretese sul piano internazionale con riguardo alle comfort women. L’accordo non è stato scevro di critiche da parte delle organizzazioni a tutela delle donne, le quali non sono state coinvolte nella definizione dei termini della risolu- zione di una controversia durata oltre 70 anni.45 In questo scritto ci proponiamo di evidenziare l’importanza dei tribunali dei popoli e in particolare delle donne, sotto una duplice prospettiva: il loro contributo alla memoria collettiva degli abusi subiti dalle donne nel corso di situazioni di conflitto e post-conflitto; il fatto di costituire espressione di democrazia nel diritto internazionale.

4.1 Tribunali dei popoli e delle donne: il loro contributo alla memoria collettiva

L’espressione ‘memoria collettiva’ si deve a Maurice Halbwachs, socio- logo e filosofo francese (1877-945); nel suo volume, ultima opera prima della morte, lo studioso delimitò l’ambito della memoria distinguendolo da quello della storia:

La memoria collettiva si distingue dalla storia almeno per due aspetti. È una corrente di pensiero continua, di una continuità che non ha nulla di

44 https://www.theguardian.com/world/2015/dec/28/korean-comfort-women-agreement- triumph-japan-united-states-second-world-war (2016-08-29). 45 Si veda, ad esempio, l’analisi di Kennedy, Nagakawa 2016. De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 63 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70

artificiale, poiché non conserva del passato che ciò che ne è ancora vivo, o capace di vivere nella coscienza del gruppo. Per definizione, non supera i limiti di questo gruppo. Quando un periodo smette di essere interessante per il periodo che segue, non è lo stesso gruppo che dimentica una parte del suo passato: ci sono, in realtà, due gruppi che si succedono. La storia, viceversa, divide la serie dei secoli in periodi così come la materia di una tragedia si divide in tanti atti (Halbwachs [1950] 2001, 155).

Abbiamo già argomentato altrove (De Vido, in corso di stampa), con riferi- mento specifico al reato di stupro, che la giurisprudenza dei tribunali pena- li internazionali per l’ex Jugoslavia e il Rwanda, raccogliendo le memorie individuali di decine di vittime, ha contribuito a modellare una memoria collettiva degli stupri che è divenuta parte della memoria non di un solo gruppo – le donne – ma dell’intera comunità internazionale.46 Nonostante i limiti strutturali propri del mandato dei tribunali internazionali, non da ultimo il fatto di interessarsi solo di reati compiuti durante il conflitto, abbiamo dimostrato, come sostenuto da un’autrice, che «remembering wrongdoing is essential to justice» (Campbell 2014, 105). È in questo ri- cordo dei reati compiuti che si innesta il nostro ragionamento sui tribunali dei popoli, e nello specifico delle donne. Là dove l’indifferenza dei governi ha impedito di ottenere giustizia e riparazione per le vittime, i tribunali dei popoli hanno contribuito a preservare e ‘mettere insieme’ la memoria collettiva. Nel caso dell’ex Jugoslavia, oggetto di analisi in più di un con- testo internazionale come si è detto, il Tribunale delle donne in Sarajevo è riuscito ad andare oltre la giustizia internazionale, dando voce alle donne vittime provenienti da ogni parte della regione, indagando non solo crimini che sono stati compiuti durante e dopo il conflitto a dimostrazione della difficoltà di ogni processo di transizione, ma anche crimini che difficilmen- te troverebbero collocazione in questa o quella fattispecie penale – basti pensare alla violenza economica.

4.2 Tribunali dei popoli e delle donne: democrazia e diritto internazionale

Il concetto di democrazia raramente compariva negli studi internaziona- listi prima della dissoluzione dell’Unione sovietica (Fox, Roth 2001, 327). Esso infatti sembrava estraneo ad una comunità, quella internazionale di impronta westfaliana, caratterizzata da Stati sovrani ed indipendenti.

46 Intesa come comunità di Stati, organizzazioni internazionali, ma anche società civi- le. In tal senso si veda Segretario Generale ONU Kofi Annan in 1999, Press Release SG/ SM/7133 PI/1176, Secretary-General Examines ‘Meaning of International Community’ In Address To Dpi/Ngo Conference, http://www.un.org/press/en/1999/19990915.sgsm7133. doc.html (2016-08-29). 64 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70

Tuttavia, il principio di ‘legittimità democratica’ è apparso come uno dei cambiamenti più radicali dalla caduta del muro di Berlino. In particolare, tra il 1989 e il 2010, si è assistito ad un’epoca nuova del diritto internazio- nale, durante la quale l’esercizio del potere di governo a livello nazionale è stato regolamentato dal diritto internazionale (D’Aspremont 2012). Negli ultimi anni, tuttavia, il concetto di democrazia si è manifestato, più o meno direttamente, in strumenti sia a carattere vincolante sia non vincolante che hanno previsto ampi processi di partecipazione popolare. Basti citare, a titolo di esempio, la dichiarazione di Rio del 1992 in cui si legge che «[e]nvironmental issues are best handled with the participa- tion of all concerned citizens».47 Recentemente, inoltre, il coinvolgimento della società civile è stato invocato quale risposta alla scarsa trasparenza propria delle organizzazioni internazionali; aspetto, questo, emerso con evidenza nel corso dei negoziati per il Partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti, Stati Uniti-Unione Europea.48 In questa chiave possiamo leggere l’esperienza dei tribunali dei popoli, e delle donne più nello specifico. Là dove i meccanismi propri di un siste- ma internazionale, tradizionalmente fondato sul concetto di Stato, non sono sufficienti a rispondere al desiderio di giustizia, i tribunali dei popoli sopperiscono a questa mancanza, esprimendo così la crescente domanda di «real global democracy sustained by the rule of law» (Falk 2012, 10). Una democrazia che, ci sembra, possa acquisire una dimensione di genere nei tribunali delle donne: in questo caso, questi organismi esercitano una funzione ulteriore, quella di intaccare le relazioni di potere storicamente ineguali tra uomini e donne, che caratterizzano tutte le società e si acui- scono nelle situazioni di conflitto e post-conflitto.

5 Conclusioni

In questo scritto, a partire dall’esperienza del Tribunale delle donne in Sarajevo, abbiamo voluto dimostrare che, nonostante siano piuttosto igno- rati dalla dottrina internazionalista, i tribunali dei popoli e delle donne svolgono un ruolo importante nello sviluppo del diritto internazionale; un diritto, questo, che, soprattutto negli ultimi decenni, non può più ritenersi unicamente il diritto ‘delle relazioni tra gli Stati’. Come ben osservano alcuni studiosi, l’esistenza di un ordinamento giuridico internazionale si caratterizza per «an endless constellation and combination or variety of ac-

47 UN Doc. A/CONF. 151/PC/WG.III/L.33/Dev. 1 (1992). 48 Dopo le critiche ai negoziati, la Commissione Europea ha pubblicato molti documenti che rivelano la posizione dell’Unione Europea. Nel sito http://ec.europa.eu/trade/policy/ in-focus/ttip/index_it.htm (2016-08-29), vi è altresì un’apertura ai cittadini che possono esprimere le loro opinioni e perplessità sull’accordo. De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo 65 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 tors and normative outputs and processes» ed esso è «far more malleable than conventionally understood» (Pauwelyn, Wessel, Wouters 2012, 16). La nascita di standard-setting bodies, ovvero di organismi ‘informali’ in quanto privi di trattato istitutivo, nei settori soprattutto della finanza inter- nazionale – pensiamo al Financial Stability Board – ne è esempio eloquente. È certo che questi ultimi godono di quella ‘legittimità’, data dal consenso governativo alla loro istituzione ancorché scevra del formalismo proprio delle organizzazioni internazionali, di cui sono privi i tribunali dei popoli. I tribunali dei popoli e delle donne sono stati, infatti, scarsamente ana- lizzati proprio in quanto la loro autorità non deriva dagli Stati o da organiz- zazioni internazionali e in quanto incapaci con le loro decisioni di avere un impatto sulle relazioni ‘tra gli Stati’. Tuttavia, questo approccio ci sembra limitante. I Tribunali dei popoli e delle donne devono essere considerati una forma di prassi che «finds its more important impact in building soli- darity and affirming the experiences of those who have suffered human rights violations» (Byrnes, Simm 2013, 743). Essi esprimono la chiara in- tenzione di «reflect critically on existing legal rules and practices in order to foster change» (Otto 2016). Le donne riunite a Sarajevo erano consape- voli di non poter costringere i governi a istituire nuovi meccanismi per la riparazione dei danni subiti durante e dopo il conflitto nell’ex Jugoslavia. Le loro testimonianze sono state tuttavia raccolte e scritte e saranno tra- smesse, segno di una memoria collettiva che non andrà perduta. Il materiale raccolto da questi tribunali potrebbe altresì essere utilizzato da organismi creati dagli Stati – commissioni d’inchiesta o veri e propri tribunali internazionali – per successive procedure (Byrnes, Simm 2013, 742). Quest’ultimo profilo ci pare meriti ulteriore attenzione. Se, inve- ro, i tribunali internazionali ‘legittimi’ in quanto creati da organizzazioni internazionali o dalla volontà degli Stati, prendessero in considerazione le indagini e le testimonianze dei tribunali dei popoli e delle donne, ciò rappresenterebbe un passo avanti nel cammino verso una democrazia in- tesa, come si è detto, quale partecipazione ai processi decisionali a livello internazionale.49

49 Questo aspetto non è del tutto nuovo. Pensiamo ad esempio alla partecipazione delle organizzazioni non governative in qualità di amicus curiae nei procedimenti della World Trade Organization (Sands, Mackenzie 2008). 66 De Vido. Il Tribunale delle donne in Sarajevo Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 47-70 Bibliografia

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71Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Scritture Scrittrici Migranti Con interventi di Dunja Badnjević, Enisa Bukvić, Elvira Mujcić, Azra Nuhefendić

Melita Richter (Università degli Studi di Trieste, Italia)

Abstract This contribution collects the essays by women writers of Bosnian and Yugoslav origins who now live in Italy. In their writings they testify their migration to Italy and the universal experience of living between two identities, two languages ​​and two or more cultural patterns, they describe the memory of the war and the search for new tools in order to acquire a new language and a new identity by writing in a new social and cultural environment. Testimonies are followed by a selection of short texts from their books.

Keywords Identity. Language. Writing.

Quando con Susanna Regazzoni, direttrice della Scuola di Relazioni in- ternazionali di Ca’ Foscari, stavamo progettando l’incontro dedicato alle scrittrici migranti provenienti dall’area jugoslava, una delle prime preoc- cupazioni – confesso, mie – è stata come nominare questa sezione, in che luogo situare la provenienza delle scrittrici, quale termine usare, Balca- ni, Balcani occidentali, ex Jugoslavia, l’altra sponda dell’Adriatico… Già questo aspetto ci introduce nella complessità dei temi che il convegno si prefigurava di trattare ed aveva a che fare con l’identità di un paese al cui destino l’Europa e le Nazioni Unite si erano dimostrate poco inclini ed interessate, non soltanto nei tempi di pace, una ‘pace fredda’, ma, e soprattutto, nei tempi della sua peggiore agonia: la Bosnia Erzegovina. Le autrici che hanno preso parte al convegno, Azra Nuhefendić, Dunja Badnjević, Elvira Mujčić, Enisa Bukvić e Kenka Lekovich, nonostante la diversità della loro provenienza, età ed esperienza migratoria, ne sono state toccate nel vivo, tutte traggono direttamente o indirettamente radici bosniache assieme a quelle jugoslave. Hanno scelto la vita in Italia, oppure sono state costrette alla fuga da un paese in fiamme e in preda all’intol- leranza etnica e l’Italia si è trovata sulla loro strada. Una fuga ma, come ricorda Dunja Badnjević, in realtà mai un definitivo separarsi dal Paese. Lo portano nel cuore, ci ritornano, qualcuna ha deciso di invertire la migra- zione, di tornare, di impiantarvi un’attività imprenditoriale, di tramutare oggi la Bosnia in una scelta libera, consapevole. E allo stesso tempo, te- nerla stretta all’esperienza italiana. Scrivono, sono padrone di conoscenze Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-6 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 71 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 multilingui, traducono, sono prometee della cultura, incidono nella vita di ambo i paesi. La cultura e la conoscenza di cui sono custodi hanno sempre superato le frontiere nazionali, statali, etniche. A dirlo sembra quasi uno slogan. Per loro è stata realtà dura, faticosa, piena di incertezze, dolore e silenzi. Prima di rivivere in un’altra lingua, in una cultura diversa, erano diventate mute, profughe nella lingua altrui. E, come testimonia Elvira Mujčić, «l’incapacità di esprimersi si tramutava in difficoltà di esistere». Hanno fatto percorsi straordinari nell’appropriazione linguistica, ma all’i- nizio tutta la ricchezza di parole nuove, italiane, non dava loro il ‘senso di casa’, le parole rimanevano vuote, non vissute. Allo stesso tempo, la loro lingua madre si stava sgretolando sulla scia della disgregazione del paese, sulla cerniera etnica. Da unica si ramificava in tante lingue quante erano le repubbliche che acquistavano l’autonomia. Per la fondazione degli stati na- zionali servono elementi unificatori: il territorio, la popolazione, la lingua e – com’è diventato consueto dirlo – il Dio, la religione. Nei Balcani questi non sono mai stati dei fattori innocui. Ma il cambiamento linguistico che avviene nel paese è doppiamente sentito da chi si trova altrove da profugo, esule, o semplicemente distante dal paese coinvolto nelle scelte di cambia- menti radicali. Al rientro, il migrante è spiazzato, non più a casa, sradicato. Azra Nuhefendić rimarrà colpita quando nella propria città, Sarajevo, non verrà riconosciuta come una del luogo, nonostante parlasse nella sua lin- gua madre, Elvira vivrà profondamente la doppia assenza, la sospensione tra i due mondi, Enisa si ritroverà ‘bosniaca’ in Italia e ‘italiana’ in Bosnia, Dunja si è cucita addosso un velo concettuale e linguistico di protezione, l’apolitudine, che la ripara da ulteriori domande (lo fa davvero?). Le domande non lasciano tregua, si impongono da sole perché loro/noi, rimarranno/rimaniamo sempre in tensione tra i mondi di cui è tessuto il nostro essere sociale, la nostra memoria e storia personale intrise dalle condizioni storiche e culturali del paese da cui proveniamo. Quando poi capita che questo paese, una cornice più ampia delle esistenze individuali, sparisce, quando succede in modo cruento che porta con sé cancellazioni di identità e morte alle persone più care, quando mutila ogni visione del futuro, l’appropriazione di un nuovo equilibrio di vita necessita di tempi lunghi, di fatiche ardue, di soste, di riconoscimenti. La scrittura è una delle vie della nuova costruzione identitaria. La scrittura come necessità, come acqua e pane per chi la praticava già prima dello strappo, e lo faceva in modo eccellente per poi trovarsi ad iniziare daccapo, non da zero, ma «da venti sotto zero» come scrive Azra, zoppo, con le stampelle… Oppure chi ci prova come un esercizio di auto-terapia, come un tentativo di lenire un’interruzione spaziale e temporale che si chiama profuganza. Ho coordinato la conversazione delle scrittrici in questa sezione del convegno, ho cercato di riallacciare le loro riflessioni ed esperienze che spesso riconoscevo mie, ho accompagnato il corso delle loro parole che cercavano di dare il senso all’essere tra due identità, abitare due lingue, 72 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 vivere tra due o più mondi, rapportarsi tra lingua madre e lo scrivere in italiano, individuare il ruolo del contesto culturale del proprio paese nella scrittura di ognuna, sintesi culturale nelle narrazioni letterarie. Le loro testimonianze si sono intrecciate in un nesso interdipendente rivelando differenze e similitudini, annodando emozioni e gioiose leggerezze, mo- strando tanta attenzione di ognuna alla storia dell’altra. I testi che seguono sono estratti dai loro interventi completati da brevi brani scelti dai loro libri.

Dunja Badnjević

Quest’anno saranno cinquant’anni che vivo in Italia e altrettanti che ho la cittadinanza italiana. Tuttavia, come diceva Mark Chagall, «Ho trascorso tutta la mia vita fuori dalla Russia ma in realtà non me ne sono mai an- dato». Forse per noi slavi l’appartenenza alle origini, un certo patriottismo ingenuo è più forte che negli altri popoli. Io poi oggi vengo da un paese che non esiste più e al quale comunque mi riferisco quando parlo del mio paese. E non voglio nemmeno parlare di un ‘ex’ paese, come nessuno quan- do parla di altri Imperi o Stati scomparsi mette davanti questo prefisso. La Jugoslavia è esistita e come tale farà parte della storia. Sono arrivata che non conoscevo la lingua italiana, sono finita per fare la redattrice in un’importante casa editrice, oltre che l’interprete, la tradut- trice e oggi scrittrice. Il lavoro redazionale e l’affettuosa guida di persone come Lucio Lombardo Radice e mio marito Roberto Bonchio mi hanno dato le basi fondamentali per la mia crescita professionale, oltre che umana. Sono stati anni molto fertili, ricchi soprattutto dal punto di vista umano e intellettuale. Come redattrice ho conosciuto e a volte stretto amicizia con autori in quel momento più importanti dell’area italiana di sinistra. In particolare ho curato diversi libri di Gianni Rodari, un fiore all’occhiello della nostra casa editrice. Per alcuni degli amici conosciuti e frequentati in quegli anni provo nostalgia… Come traduttrice, o medium di un pensiero, di una cultura, ho cercato di scegliere il meglio tra le letterature del mio ex paese e di avvicinarle al pubblico italiano. L’ho fatto probabilmente per attitudine e nutrimento culturale, per amore del mio lavoro. In qualche modo ci sono anche riu- scita. Oggi, molto più di ieri, si conoscono in Italia i nomi di scrittori come Ivo Andrić, Miloš Crnjanski, Danilo Kiš, Meša Selimović, Goran Petrović, Gordana Kuić, Dragan Velikić, per rimanere solo ai più noti. Le lingue cambiano nel corso degli anni, si modificano, sia per un loro sviluppo autonomo legato ai nuovi tempi, sia, purtroppo, com’è accaduto ‘da noi’, per ragioni politiche. Un popolo che parlava una sola lingua oggi si sveglia ‘poliglotta’ e ne parla cinque, che poi sono sempre la stessa. Per Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 73 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 questo oggi per me è molto più facile tradurre dalla mia lingua in italiano che viceversa. Ho tradotto un solo breve romanzo di Claudio Magris, Lei dunque capirà, verso il serbo e mi è costato più fatica di molti altri tradotti dal serbo o dal croato in italiano. Le guerre del mio paese mi hanno colta impreparata. Le mie amiche di Belgrado dicevano che ero come «una rana buttata in acqua bollente, mentre loro, messe nell’acqua fredda, erano state portate all’ebollizione a poco a poco». Mia figlia maggiore, Manuela, era sposata da anni con un ragazzo di Sarajevo e durante la guerra si è sentita coinvolta e si è impe- gnata a portare aiuto alle popolazioni bosniache. La minore, Natascia, a Belgrado aveva molti amici che in quel periodo cercavano di nascondersi per non essere arruolati in una guerra che non sentivano la loro. Uno di loro per evitarla si è suicidato. La tragedia della guerra ha tante facce ed è un’esperienza, si sa, che segna profondamente chiunque la viva, a qualunque età. Anch’io avevo partecipato con i miei amici e compagni di scuola e dell’u- niversità a numerose manifestazioni antigovernative e contro Slobodan Milošević. In genere erano guidate da Zoran Djindjić che, dopo la caduta di Milošević sarebbe diventato il nuovo presidente della Serbia. Ma non per molto: fu assassinato in circostanze dubbie il 12 marzo del 2003. Bisogna sapere anche gestire la democrazia, o «democratura», come la chiama il caro amico Predrag Matvejević.

Era il pomeriggio del 23 marzo 1999 quando, a Roma, mi arrivò una tele- fonata dalla Rai. Serviva un’interprete nel caso fossero falliti gli incontri di Rambouillet: se il mio paese, ormai solo Serbia e Montenegro, non avesse accettato quel che gli si proponeva, sarebbe stato bombardato dalla Nato. La guerra etnica e soprattutto religiosa durava da nove anni e io avevo partecipato con dolore alla lenta agonia della mia città e non solo di quella. La distruzione della Jugoslavia mi aveva lacerata... La prima sera non accadde niente. Telefonai anche ai miei, era ancora tutto tranquillo. Nessuno credeva possibile una guerra. La seconda sera gli aerei partirono. Incollata al video osservavo il loro volo, quei punti- ni rossi facevano pensare ai film sulle guerre stellari, tutto sembrava accadere in un’altra galassia. Sopra la città immersa nel buio totale all’improvviso si accese un’esplosione di luci. Non distinguevo dove cadevano le bombe. A tratti venivano illuminati singoli settori di interi isolati che rovinavano a terra con fragore. Una sera seguivo come sempre la tv belgradese contemporaneamente al telegiornale italiano delle ore venti. All’improvviso ecco l’immagine di un grande aereo precipitato su un prato. Avviso il tecnico, corriamo con la cassetta registrata al piano di sopra. Controlliamo. «Avrai visto male, non è possibile!», mi dice. E invece si trattava davvero del primo aereo ‘invisibile’ americano abbattuto dalla contraerea serba. Fu uno 74 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90

scoop mondiale di Rai Uno. E fui io a dare notizia direttamente dalla mia cabina: non c’era tempo per passare la traduzione in redazione. (L’isola nuda, 153-5)

Una volta sicura della lingua d’adozione, l’italiano, mi sono messa anche a scrivere. Il mio primo romanzo L’isola nuda ha avuto in Italia un succes- so che davvero non mi aspettavo, due premi nazionali e tre minori, ma non per questo meno importanti. È stata un’esperienza molto piacevole e l’interesse e la curiosità che il mio paese suscita in Italia è stato per me ugualmente inatteso, una sorpresa molto stimolante. La mia naturale timidezza si è come dissolta quando mi sono trovata a parlare in pubblico della mia scrittura. E incredibilmente il pubblico che ho incontrato è stato sempre un pubblico di lettori molto attento e appassionato. Cito me stessa dal romanzo L’isola nuda:

Ho inventato un neologismo che mi sembrava renda l’idea: ‘apolitudine’. Una sorta di appartenenza che necessariamente porta con sé il senso di isolamento... Apolitudine come perdita del passato. Le nozioni gra- dualmente apprese crescendo venivano cancellate, anni e anni di studi diventano superflui, il loro intrecciarsi con la vita vissuta era sottratto alla breve storia che il mio paese possedeva... Apolitudine come distillato di nostalgia per un mondo che esiste solo nella memoria. (148-9)

Dopo la guerra e dopo aver fatto insieme tante piccole battaglie con Luci Zuvela, Ksenija Fonovic, Fatima Neimarlija e Manuela Orazi abbiamo fon- dato Lipa, associazione culturale di donne slave del Sud, ma soprattutto un’associazione di donne del ‘vecchio’ paese aperte a tutte le nazionalità. Nelle mostre d’arte, nelle serate letterarie e soprattutto nel sociale ab- biamo cercato di costruire un forte filo multi-etnico e trans-nazionale, di offrire un assaggio di quello che eravamo e apprendere dagli altri quello che erano loro, con uno spirito di massima inclusione e solidarietà. La nostra amicizia si è rinsaldata con il lavoro sulla fiducia reciproca, con le attività concrete realizzate, come la Casetta del Porcospino1 di Branko Čopić, tanto amato dai bambini e dalle bambine delle generazioni di prima della guerra e oggi riesumato. È un libro illustrato con testo a fronte che, primo in Italia fra quelli del mio paese, è stato presentato nelle scuole in forma di laboratorio teatrale e artistico anche per bambini piccolissimi. Abbiamo organizzato e continuiamo a organizzare eventi culturali – an- che se la mia presenza è ormai soltanto morale, dal momento che abito in Umbria – nonostante le ormai ben note difficoltà e sempre su base volontaria.

1 Titolo originale: Ježeva kučica (nota di M.R.). Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 75 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90

Devo concludere che comunque, vivendo due nazionalità allo stesso tem- po e quasi del tutto equamente (e se penso al mio ex Paese anche diverse di più, perché avevo parenti in tutta la Jugoslavia), mi sento molto più ricca. Un Paese in cui niente era mio o tuo, tutto era ‘nostro’. Tutto questo mi fa sentire ricca. Conoscersi e capirsi apre gli orizzonti, ti permette di confrontarti e di sentirti in qualche modo fortunata.

Antologizzazione

Alla ricerca delle radici

Appena lasciata Mostar con il suo ponte – all’epoca, come la città, ancora indenne – la strada si snoda per alcuni chilometri in una lunga serie di cur- ve prima di diventare quasi un rettilineo fiancheggiato da filari di vigne... Počitelj. La vecchia fortezza ottomana dei miei nonni paterni si presenta quasi di colpo, dietro un versante del monte. In cima alla collina si ergono mura spesse e austere, anche se ormai diroccate e piene di crepe che, ma- scherandosi con i cespugli di piante mediterranee, tentano di nascondere l’usura degli anni. Dicono che lassù nidifichino ancora le aquile... Subito sotto la fortezza, sempre piuttosto in alto rispetto alla strada odierna, c’era la casa padronale, quella in cui mio padre è nato e che ora era abitata da una colonia di artisti... Le ampie finestre guardano il fiume scorrere nella pianura, un fiume schiumoso e fresco, di un verde intenso. L’arredamento è ancora ‘ottomano’ – molti tappeti per terra e panche di legno ricoperte da cuscini lungo le pareti. Dalla casa scendono diversi vicoli lastricati di macadam, piccole pietre lisce, uno dei quali porta alla moschea. L’edificio dalla struttura semplice era piuttosto malandato e ne uscì fuori un vecchio con fez che sembrava ancora più consunto. Si emozionò molto sentendo i nomi dei miei nonni, ricordò con grande affetto sia mio padre ‘comunista’, sia mio nonno ‘il benefattore’ il quale, disse, aveva mandato a scuola tutti i bambini del feudo. Il vecchio bey Hasim Badnjević Pašalić era in quella metà dell’Ottocento uno dei dieci maggiori intellettuali della Bosnia, pre- sidente della Corte di Cassazione. […] Ero una bambina quando mio padre mi portò qui per la prima volta. Lui adorava il fiume Neretva, diceva che non c’era nulla di più bello della sua limpidezza, di quel verde intenso che scorre gelido verso il mare in mezzo agli alberi in fiore. Mio padre gli correva subito incontro appena messo piede a Počitelj, come all’appuntamento con un amico ritrovato, e se lo faceva scorrere tra le dita. I monti che lo sormontavano erano quasi rocce nude, bianchissimi e abbaglianti nel sole: il contrasto tra gli alberi scuri che crescevano accanto all’acqua, salici e ciliegi, peschi e castagni, era forte. Sulle sponde, insieme a pochi sassi, molta rena gialla e color ocra, rovente. […] 76 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90

Durante l’ultimo decennio della guerra civile in quelle regioni, mi ave- vano raccontato storie diverse sul destino della fortezza di mio padre. All’inizio mi arrivò la notizia che tutta Počitelj era distrutta. Poi che lo era solo parzialmente. Nelle vicinanze furono creati i campi di accoglienza per i profughi. Le ultime voci riportavano la distruzione della moschea, poi solo del minareto. Non ci sono mai più tornata. So soltanto che in cima alla fortezza ottomana è stata messa una grande croce cattolica, illuminata anche da notte. Spero davvero che il vecchio custode sia morto da tempo.

L’isola nuda (2008), Bollati Boringhieri, 52-4

Enisa Bukvić

Sono arrivata in Italia nel 1987. Mi sono sposata con un romano, che avevo conosciuto un anno prima al mare, sull’isola di Hvar. Nei primi tempi avevo molta nostalgia della mia terra. La cucina mi aiutava a sentirmi a casa e perciò spesso preparavo i piatti del mio Paese di origine, all’epoca la Jugoslavia. Preparavo la musaka, la pita, il gulaš, la sarma e altri piatti tradizionali. Durante i primi sei mesi del mio soggiorno romano, non riuscivo a consumare olio di oliva e al suo posto usavo quello di semi o il burro. Col tempo mi sono abituata. Mio marito cucinava inve- ce i piatti italiani. Di natura sono molto curiosa e ho iniziato a cucinare il cibo italiano. Mi divertivano particolarmente i piatti preparati con quelle verdure che in Jugoslavia non conoscevo come i carciofi, i finocchi e certe varietà di broccoli. La pasta era un piatto che in Jugoslavia cucinavamo raramente e non apprezzavamo, ma quando ho assaggiato quella italiana ho cambiato idea. Più difficile per me è stato il rapporto con il caffè. All’inizio non ri- uscivo a consumare il caffè preparato alla maniera italiana. Era tropo amaro e forte per i miei gusti. Mio marito aveva scoperto un caffè ame- ricano, meno tostato e perciò di una colorazione più chiara, che potevo macinare nel piccolo macinino a mano, il mlin, che avevo portato da Sarajevo come souvenir. Potevo così produrre una polvere molto fine che mi permetteva di preparare il caffè come si usa in Bosnia, dove viene chiamata turco. Credo che per la maggior parte dei bosniaci il caffè abbia un ruolo ve- ramente importante durante la giornata. Lo consumano a tutte le ore. Ha dei ‘nomi’ locali che lo definiscono sulla base del momento del consumo oppure del ruolo che riveste. Eccone alcuni: –– Krmeljuša: il primo caffè del risveglio, quello che viene preso prima ancora di lavarsi la faccia; –– Razbuđuša: il caffe della prima mattina; –– Razgovoruša: il caffè che accompagna la conversazione; Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 77 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90

–– Doekuša: il caffè dell’accoglienza; –– Opet razgovoruša: il caffè che si gusta dopo aver ricominciato a con- versare; –– Sikteruša: nel dizionario bosniaco, questo termine viene tradotto co- me ‘caffè che si offre per liberarsi di una persona dopo una visita troppo lunga’ (la parola ha radice turca: sikter significa vattene via, ma in una maniera un po’ volgare). Comunque, sentivo una appartenenza forte alla Jugoslavia; a parte il cibo, mi mancavano abitudini e usanze sociali, amici, musica e avevo il bisogno di comunicare nella mia lingua madre. Nel giugno 1991 è cominciata la guerra in Jugoslavia, a partire dalla Slovenia. Vivevo molto male questa situazione. Nei primi giorni dell’aprile 1992 è scoppiata la guerra anche in Bosnia. Seguivo l’evolversi delle vi- cende belliche attraverso la televisione. Guardavo le immagini dei feriti, delle case che bruciavano, dei profughi terrorizzati che raccontavano le loro esperienze terribili. Mio fratello arrivò a Roma, poi mia sorella con la famiglia. Poi vennero molti altri, tanti profughi disperati. Durante e dopo la guerra ho ascoltato molti racconti pieni di sofferenza di profughi, feriti e malati, parecchi dei quali sono stati nei campi di concentramento. Ho parlato con le donne violentate e con quelle di Srebrenica che hanno perso figli, mariti e fratelli a causa del genocidio. Tutto si può descrivere con una sola parola: dolore. Io ne rimasi sconvolta, soprattutto perché la violenza subita dalle persone che conoscevo era causata solo dal fatto di aver un nome musulmano. Non riuscivo a crederci e non lo capivo. Oltre al dolore e alla rabbia che provavo dentro di me, questi sentimenti di amarezza mi suscitavano tante domande: perché tutto questo dolore? Cercavo le risposte dentro di me e attraverso la consapevolezza dei miei traumi, che mi sforzavo di identificare e superare volta per volta. Pensavo, riflettevo e così ho maturato l’idea di scrivere un libro. Dentro di me c’erano ancora degli aspetti sui quali dovevo fare luce. Scrivevo e pubblicavo; prima in lingua italiana e poi in bosniaco. Devo dire che non scrivo bene né in una né in altra lingua però io continuo a scrivere. Mi fa bene. Mi sembra che attraverso la scrittura sia ormai riuscita ad addentrarmi nelle parti più profonde e intime di me stessa. Mano a mano che scrivo e pubblico divento sempre più aperta e più consapevole di tante mie sfere personali e dei frammenti importanti che si trovano nascosti nella mia anima, ma sulle quali non avevo mai avuto prima chiarezza. Forse il più importante ruolo che ha lo scrivere, nel mio caso, è che mi aiuta a valo- rizzarmi ed a ristabilire un personale equilibrio interiore. La scrittura per me è veramente importante; ha un effetto terapeutico, oltre a divertirmi e chiarirmi idee e percezioni. Alla fine posso dire che riesco anche a di- fendermi con lo scrivere. In fondo i miei libri descrivono la mia vita e il percorso dei miei cambiamenti interiori, quelli psicologici ed emotivi in particolare. 78 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90

Quando la Jugoslavia è stata distrutta, ho compreso che con quell’atto drammatico si era cancellata anche la mia identità. Sono andata a ritroso nel tempo e ho potuto comprendere tanti meccanismi che hanno influen- zato la creazione della mia identità. Dopo un lungo e duro lavoro sono riuscita a realizzare il mio processo di analisi e a capire che le basi della mia identità sono costituite da elementi provenienti sia – in maggioranza – dalla cultura musulmana, sia da quella cattolica e ortodossa, avendo pa- renti appartenenti a tutte queste religioni ed essendo cresciuta e vissuta in un’area culturalmente mista. Ora riesco a definire la mia identità come un identità multiculturale e perciò bosniaca. Sembra che oggigiorno la diversità faccia molta paura, perciò la si stru- mentalizza facilmente. Questo fenomeno è evidente anche in Bosnia, laddove le differenze erano intrecciate. La cosa che mi rattrista, tuttavia, è che in Bo- snia stanno cercando di nascondere o distruggere gli elementi multiculturali. Anche nella cucina e nella musica bosniaca si incrociano molti elementi orientali e occidentali, che attraverso la loro unione formano poi tutt’uno. Nella tradizione culinaria bosniaca le tracce più forti sono state lasciate dai turchi attraverso i piatti come burek ed altri tipi di pita, poi segue sarma, evapi ecc. Allo stesso modo dei turchi, anche altri popoli hanno influen- zato la gastronomia bosniaca, per cui in questo Paese si cucinano spesso il gulaš o il paprikaš, con pesci d’acqua dolce, piatti di derivazione unghe- rese, nonché la cotoletta viennese e l’insalata russa. A mio parere, le differenze sono un grande arricchimento. È evidente avere da parte mia un forte legame con le abitudini che porto da casa e dal mio vissuto, anche a partire dalla primissima infanzia. Lo stesso si dica del mio rapporto con la cultura bosniaca. Attraverso questi elementi miglioravo la mia integrazione in Italia e nello stesso tempo va- lorizzavo il mio Paese d’origine e, con questo, anche me stessa. In questa maniera mi sono integrata bene, ma sono stata sempre ‘bosniaca’ in Italia. Ho dovuto però impegnarmi tanto anche nel lavoro e nello studio. D’altra parte il mio rapporto con l’Italia è meraviglioso. Amo questo paese dove ho imparato molto e ho acquisito nuovi elementi culturali e nuove esperienze. In Bosnia invece divento ‘italiana’; per i miei parenti e amici cucino i piatti italiani, mi comporto come una italiana, parlo bene dell’Italia e della sua gente e sto iniziando a promuovere anche la cultura italiana. Soprattutto sto cercando di trasmettere in Bosnia le esperienze che ho acquisito in Italia e in altri paesi europei. Sono ben consapevole che noi donne siamo una grande forza e credo che la vita e il futuro su questo pianeta dipenderanno soprattutto da noi donne, dalla nostra crescita interiore, dalla consapevolezza acquisita, dalla positività supportata dall’entusiasmo insito in noi, dai rapporti che intes- siamo, in particolare con gli uomini. La donna già sta portando avanti il cambiamento, perché sta lavorando molto su se stessa cercando di migliorare a tutti i livelli. Ultimamente Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 79 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 anche gli uomini stanno iniziando a fare dei cambiamenti. La donna però, grazie all’istinto di maternità, sente più forte questa necessità. Le donne immigrate, in particolare, cambiano con più facilità. Cambiando, dobbiamo acquisire un comportamento costantemente equilibrato. La consapevolez- za, l’amore e la saggezza ci guidano in questo percorso che diventa pieno di comprensione, solidarietà, verità, rispetto e tolleranza. Così la vita potrà diventare più tranquilla, meno complessa e più bella. Tutto questo avverrà grazie alla consapevolezza.

Antologizzazione

Durante il mio recente soggiorno in questa città ho saputo che all’inizio della guerra l’amministrazione locale aveva invitato tutti cittadini di Tre- binje di religione musulmana ad andarsene, organizzando il viaggio con gli autobus. In questo modo la città è stata svuotata di cinquemila persone. Per loro è stato difficile lasciare i propri beni, a cominciare dalle case, però almeno sono sopravvissuti. Nella mia Brčko, invece, gli estremisti serbi arrivati da Belgrado e appoggiati da una buona parte dei cittadini ortodossi locali hanno ucciso circa cinquemila persone. Anche Derventa ha avuto una sorte simile. Trebinje è stata forse l’unica città della Repub- blica Serba di Bosnia in cui non ci sono state stragi di concittadini non ortodossi. A mio avviso, da Trebinje si potrebbe partire con una proposta per una conciliazione concreta. Sarebbe più facile perché non ci sono stati morti. Ho parlato con alcuni cittadini musulmani di Trebinje che vivono all’estero, però mi sembrano ancora molto arrabbiati con il loro ex vicini. Ho cercato di farli ragionare, confrontando i fatti di Trebinje con quelli che sono accaduti nelle altre città bosniache. Spero che riusciranno a supe- rare il loro dolore per capire veramente che cosa sia successo a Trebinje all’inizio della guerra. Invece, dai racconti che ho sentito, mi sembra che gli attuali cittadini di Trebinje aspettino questo riconoscimento da parte di quelli che vivono fuori della loro città. A questo si aggiunga che i trebi- niesi oggi sono ignorati anche dai cittadini di Dubrovnik poiché durante la guerra questa città è stata bombardata dalle armi pesanti che i militari dell’esercito della ex Jugoslavia avevano posizionato proprio a Trebinje. Prima della guerra esisteva una forte comunicazione tra le due città. Credo che si dovrà trovare il modo per aprire un dialogo tra questa gente per riallacciare un giorno buoni e costruttivi rapporti.

Io noi e le altre (2012), Infinito edizioni, 99-100

80 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 Elvira Mujčić

Per la mia famiglia arrivare in Italia non fu una libera scelta, bensì una soluzione d’emergenza per sottrarci alla guerra in Bosnia e al campo profu- ghi in Croazia. Il solo fatto che si trattasse di una situazione di emergenza mi permise di nutrire grandi speranze per quello che sarebbe stata la vita reale dopo la fine della guerra e in quelle speranze, una su tutte campeg- giava: tornare a casa nostra a Srebrenica. Fino al mese di luglio del 1995 l’amarezza della condizione da profughi era alleviata dall’illusione che fosse una condizione temporanea e provvisoria. Dopo quel mese, però, la nostra condizione divenne permanente. Le grandi speranze svanirono nel vortice che inghiottì molti dei nostri famigliari e per la prima volta dopo un anno e mezzo di vita in Italia, mi trovai a considerare la spaventosa possibilità di dover vivere in un altro Paese e in un’altra lingua. Terrorizza- ta dall’idea di sentirmi per sempre un’esule, decisi che la cosa più saggia sarebbe stata diventare al più presto uguale agli altri intorno a me, una bresciana nel mio caso. Avevo quindici anni, un’adolescente con i classici drammi propri dell’età, ai quali si aggiunsero le perdite famigliari, il trau- ma della guerra e il senso di sradicamento. L’idea che l’identità fosse un insieme di diversi incastri e che dentro di me potessero coesistere mondi diversi non mi sfiorava nemmeno, accecata com’ero dalla ricerca di una normalità. In più si era insinuato dentro di me un sentimento forte di vergogna, mi vergognavo di essere profuga e di provenire da una nazione dove ci si uccideva in maniera barbara. Mi vergognavo persino della cu- cina di mia nonna, tutte quelle sfoglie di pasta stese sui tavoli della casa, gli odori forti di cipolla, era tutto così anacronistico nella strana idea che mi ero fatta del nuovo mondo. Decisi di impegnarmi per imparare perfet- tamente l’italiano, liberandomi anche del mio fastidioso accento dell’est, pensai che fosse del tutto sacrificabile la mia lingua madre, visto che non serviva più a nulla e non si sapeva nemmeno più come chiamarla, dato che il Paese dal quale provenivo era andato a rotoli e assieme a esso, la lingua, la memoria, l’appartenenza. Tuttavia qualcosa non funzionava, perché più dimenticavo la mia lin- gua madre, più mi immergevo nella lingua italiana e più comprendevo che quella lingua non mi descriveva, le parole erano in qualche maniera vuote, leggere, come se fossero significanti senza significato. Invece le parole della lingua madre avevano un loro peso specifico, forse pure un sapore o un profumo. Le parole della lingua madre erano tonde, colme di vita, poiché prima di dare un nome a un oggetto ne avevo fatto esperienza. Prima di dire pane, lo avevo mangiato e allora la parola pane era piena di esperienza, insostituibile. Nella nuova lingua e nel nuovo Paese mi smarrii, incapace di attecchire, impossibilitata a tornare indietro. Lo sforzo disumano che facevo per rimuovere non mi riuscì, così come non fu possibile trasformarmi in italiana e mi trovai a vivere la nota condi- Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 81 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 zione della doppia assenza: né qui, né là, ma sospesa. Per molti anni l’unico luogo dove mi sentivo in pace fu il traghetto che da Ancona mi portava a Spalato; quelle dodici ore di sospensione, di traghettamento appunto, mi permettevano di vivere la mia reale condizione di mezzo. In quelle dodici ore intorno a me si parlavano le mie due lingue, si incontravano i miei due mondi e mi resi conto che solo laddove vivevo entrambi gli aspetti della mia identità, mi sentivo davvero completa. La doppia assenza poteva essere la doppia presenza, la perdita poteva trasformarsi in una ricchezza. Ma la mia scrittura non nacque nella ricchezza dei mondi che si amal- gamano dentro di me poiché non ero ancora matura per un’operazione del genere, bensì nacque nella spaccatura tra questi due mondi, in quel buco nero che inghiottiva la maggior parte delle sfumature che non ero in grado di esprimere. C’era stata un’interruzione spaziale e temporale nella mia vita, una ferita aperta che avevo la possibilità di rimarginare attraverso il racconto. In questo senso la mia scrittura ha seguito un percorso preciso. Il primo libro fu soprattutto una auto-terapia, lo scrissi di getto, ripercor- rendo gli eventi tragici che hanno segnato la mia vita e la mia famiglia, credendo che una volta messe su carta certe esperienze, avrei saputo come elaborale. Essendo la guerra una sciagura collettiva e avendo io perso tutto in un genocidio dove altre migliaia di famiglie avevano perso quanto me, sentivo la necessità di dare voce al dolore personale.

Articoli, pagine di giornali, pagine di libri, atti del tribunale. Non vi è nulla di intimo nelle nostre morti, nessun ricordo o immagine personale, alcuna storia individuale. Le ossa si sono mescolate tra loro nelle fosse comuni e nei passaggi da una fossa comune all’altra. Le ossa sono numerate, le bare leggere, come se si seppellissero gli spiriti. (Al di là del caos, 25)

Così scrivevo nel mio primo libro Al di là del caos e partivo da questo dato di fatto per ricostruire la mia storia personale. Tra tutti gli oggetti che erano andati perduti, quello che più mi feriva era la totale mancanza delle fotografie. Mi sembrava che se avessi avuto delle prove di quello che eravamo stati e della vita che avevamo vissuto prima dell’inferno, sarebbe stato più facile elaborare. Lo scrivere, quindi, ha significato produrre una prova, un certificato di esistenza. In un certo senso l’auto-terapia ha fun- zionato, anche se non è stata una guarigione, probabilmente perché una guarigione definitiva non è possibile. Il passo successivo all’auto-terapia è stato un allargamento di visione e il desiderio di raccontare la guerra in Bosnia attraverso altri occhi, altre storie. Il secondo libro infatti si è spo- stato da me verso un protagonista maschile e la narrazione della pulizia etnica e degli stupri di massa a Višegrad. Ero matura per mettere la mia esperienza di vita e il mio dolore a servizio di altre persone, quindi di per- sonaggi che creavo e dietro i quali mi potevo nascondere e interrogarmi sulla nostra storia e l’ambivalenza memoria. 82 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90

A che scopo, allora, scrivere questa storia? A che scopo scrivere dell’Ho- tel Vilina Vlas, dove per mesi vennero tenute donne e ragazzine, dove furono violentate ripetutamente e poi uccise oppure costrette al suici- dio? A che scopo raccontare di quell’autobus pieno di lavoratori, seque- strato e portato nello stesso hotel, dove sedici persone furono trascina- te, ahimè, sulla sponda della Drina e lì ammazzate e gettate nelle sue acque? A che scopo ricordare? Per essere sicuro di non smettere mai di odiare o per far sì che non si ripeta? Che illusione infantile pensare che basti avere memoria perché le cose non si ripetano. A volte, forse, si ripetono proprio perché si ricorda troppo. (E se Fuad avesse avuto la dinamite?, 116)

Invece nel terzo libro, La lingua di Ana, ho deciso di affrontare la tematica dell’identità linguistica. Quando iniziai a scrivere libri, l’italiano era oramai diventato la lingua della mia vita da adulta e quindi mi venne naturale scrivere in italiano. Il bosniaco rimaneva la lingua dell’infanzia, della bel- lezza, dello stupore e delle emozioni viscerali, ma col passare degli anni è diventata anche la lingua del lavoro: tradurre dal bosniaco, una lingua che mi sembra perfetta e intraducibile, è il mio quotidiano esercizio di armonia tra questi due idiomi e tra la mia parte infantile e quella adulta. Questa sorta di bilinguismo nel quale vivevo mi ha spinta a indagare la que- stione linguistica, tenendo presente il suo potere evocativo e al contempo alienante, l’incapacità di esprimersi si tramutava in difficoltà di esistere, riconoscere se stessi, con l’opportunità, però, di reinventarsi. Mi interessa- va muovermi su questo filo della perdita e della ricostruzione, due aspetti centrali nella migrazione. In questo caso la mia personale esperienza con la lingua e con la perdita l’ho data in prestito a un’adolescente moldava, Ana, la protagonista del libro. All’improvviso mi ero trovata a usare parole che non credevo di sa- pere e tantomeno ricordavo come fossero finite nella mia testa. E ora che queste espressioni uscivano dalla mia bocca e formavano pensieri, ridisegnavano la realtà intorno a me, io rinascevo, con un altro aspetto. Un’altra Ana.

Non si può tradurre una vita. Non è perdonabile quanto si perde nella traduzione. Le parole non sono solo parole. Una lingua non è solo una lingua, non è solo una convenzione stabilita in un certo luogo, che per- mette di passare con semplicità a un’altra convenzione stabilita in un luogo diverso. La lingua è un’esperienza e non si può pretendere di cambiarne il profumo, il suono e il sapore. L’esperienza ha bisogno di una lingua e, a volte, non basta la stessa lingua se le circostanze sono cambiate. (La lingua di Ana, 132)

Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 83 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90

Infine nell’ultimo libro, Dieci prugne ai fascisti, la narrazione ha as- sunto una valenza di risanamento e ricomposizione. Al mio quarto libro sono tornata a parlare di Srebrenica, attraverso una famiglia ostinata- mente decisa a trovare un modo per superare il trauma della scomparsa dei loro famigliari, i cui resti non sono mai stati trovati. Quest’opera- zione mi ha richiesto un nuovo e diverso approccio alla tragedia che mi ha segnata. Non si può dire si tratti di un testo di finzione, forse più una sorta di faction, ossia un misto di fiction e fact, che restituisce luoghi, memorie, persone attraverso il racconto e cura attraverso l’atto creativo.

Nemmeno per un attimo io avevo immaginato la morte di Nana, avevo solo pensato a dogane, passaporto da morto, carro funebre, ore e ore di viaggio. Non avevo nemmeno considerato il suo non esserci più. Non mi è mai riuscito di immaginare l’assenza di una presenza. Il contrario, invece, era un gioco da bambini. E poi c’era il fatto che nella nostra famiglia fino a quel momento nessuno era morto in modo normale, di vecchiaia. Erano tutti morti per mano violenta. Non erano neppure morti per davvero, almeno non per noi che ancora non conoscevamo la rassegnazione. Erano scomparsi, dispersi, introvabili. La loro sparizione era peggiore della morte stessa e noi avevamo un disperato bisogno di ristabilire i confini del sopportabile attraverso la consapevolezza; dovevamo selezionare il dolore, addirittu- ra pianificarlo, dividerlo in passaggi e rituali per imparare a separarlo dalla tragedia. (Dieci prugne ai fascisti, 22)

La Bosnia, o in generale la Jugoslavia, ritorna spesso nei miei testi. Quan- do scrivo sento la necessità di un altrove, forse proprio perché è forte la presenza del mio altrove violato e del quale sono stata derubata, allora ho bisogno di attingere lì, in quel luogo simbolo dove avvengono le cose migliori e le cose peggiori. Senza quella mia terra dell’anima non credo che potrei scrivere, perché tutto ciò che mi sembra di dover o voler dire si crea nel sentimento della perdita e dell’abbandono e si sviluppa nella perenne ricerca di superare quel sentimento. La scrittura è il mio mezzo taumaturgico per rimanere sempre in tensione verso quell’altrove, nutrirlo per continuare a farlo vivere nella fantasia.

Antologizzazione

Ed eccoci sulla stradina polverosa, ora asfaltata e non piu sterrata, pro- prio quella dove tanti decenni fa Nana era capitata e, rifugiandosi dalla calura, era finita nel negozio di stoffe del nonno, che si trovava dall’altra parte della strada. Adesso c’era un’officina, tutta vetri scintillanti e scritte 84 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 blu elettrico. Avevano vissuto quasi tutta la vita lì, in quei dieci chilometri quadrati di terra. Il viale era adornato da alberi di gelso e tiglio, i cui rami pesanti e rigo- gliosi si curvavano sulla strada, a formare una galleria vegetale. La terra oltre l’asfalto era umida e granulosa, in alcuni punti scurissima, in altri si schiariva, fino a tendere al rame. Spalmata sulle mani lasciava tracce arancioni. Mi ricordavo come si mescolava al sangue delle ginocchia sbucciate, entrava sotto la pelle per confondersi. Perché questo attaccamento alla terra? Quando un giorno le chiesi come mai da morta volesse tornare lì, Nana rispose che semplicemente si sareb- be sentita estranea e persa altrove, invece l’idea di stare sulla collinetta che aveva guardato ogni volta che andava al parco la faceva sentire a casa. «Andavo in quel parco quando ero incinta, poi a portare uno a uno tutti i miei figli, quando sono cresciuti. Ci andavo con tuo nonno a prendere il gelato e a mangiarlo sulla panchina, poi ho portato te, la mia prima nipote, e tutti gli altri a venire. E quella collina piena di lapidi mi sorvegliava, mi ricor- dava cos’ero. Ci sono affezionata, mi sembra il posto migliore dove stare». Quella circolarità mi fece male, essere sul luogo dove tutto ebbe inizio, accogliendone la fine. Non sapevo cosa pensare: era meglio andare, corre- re, non tornare mai indietro, attendere la fine lontano da dove si e venuti alla luce? Oppure faceva bene chiudere il cerchio, ritornando? Che cosa aveva un senso? Anzi, qualcosa aveva davvero un senso?

Dieci prugne ai fascisti (2016), Elliot, 148-9

Azra Nuhefendić

In Italia sono arrivata da profuga. Non è stato un progetto né mi sono mossa dal mio paese volontariamente. Sono stata costretta a scappare. La profuga non sceglie dove stabilirsi, va dove è ancora possibile infilarsi. E così sono capitata in Italia. Non conoscevo la lingua italiana, perciò non nutrivo nessuna speranza di poter continuare a fare in Italia quello che in Jugoslavia fu il mio mestiere: la giornalista, cioè vivere di scrittura. Una come me che non conosce la lingua del paese dove è arrivata, dun- que una profuga, non comincia da zero, ma piuttosto da venti sotto zero. Solo quando si è in grado di pronunciare alcune parole essenziali nella lingua del paese dove sei capitato, di dire ad esempio ‘buon giorno’, ‘per cortesia un chilo di pane’, ‘arrivederci’ ecc., allora hai raggiunto lo zero. Dopo un paio d’anni di permanenza in Italia, due amiche acquisite a Trieste mi avevano regalato una penna augurandosi, metà sul serio metà scherzando, che io potessi cominciare a scrivere. «Magari» avevo risposto senza alcuna speranza che potessi davvero scrivere o pubblicare nella nuova lingua nel mio nuovo paese. Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 85 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90

Invece, ho cominciato a scrivere. Il mio scrivere era un urlo contro tutto quello che sentivo o leggevo e che si riferiva alla guerra in Bosnia, ai Bal- cani e di come stavano le cose prima della guerra in Jugoslavia. Man mano che capivo meglio l’italiano e riuscivo a leggere di più, mi stavo accorgen- do che nei media resistevano e si moltiplicavano mezze verità, stereotipi, pregiudizi e soprattutto l’ignoranza su come sono andate le cose durante la guerra in Bosnia. Avevo bisogno di spiegare, di correggere e di dire co- sa sia successo davvero in Bosnia, di come abbiamo vissuto in Jugoslavia, i nostri valori, problemi ecc. È per questo che ho cominciato a scrivere. All’inizio scrivevo in inglese, la lingua che conoscevo bene, poi chiedevo ad amici che tradussero i miei articoli in italiano. Per un po’ questo ha funzionato, finché uno di loro si è stancato e mi ha detto che era ora che io cominciassi a scrivere in italiano. Non ero sicura di poterlo fare. Ma ho cominciato. Era una scrittura direi rudimentale, con un vocabolario molto limitato, e non riuscivo sempre (e probabilmente tutt’oggi), a esprimere in parole correte quello che volevo dire. Mi sentivo come una che all’improvviso perde tutte due le gambe, o le mani, e comincia a imparare a camminare o scrivere utilizzando le protesi. Mi sentivo e mi sento tuttora a disagio quando utilizzo l’italiano. L’inizio della mia scrittura in italiano è stato scoraggiante e difficile. Il giornalismo è fatto di due elementi: talento e mestiere. In Jugoslavia penso di aver affinato il mestiere lavorando per varie testate e media. E adesso, in Italia, dovevo imparare a scrivere come un bambino. Anzi, in un certo senso è anche peggio, è più difficile per un adulto. Perché chi da piccolo impara le parole della lingua materna, acquisisce contemporaneamente anche il senso della lingua. Questo ‘senso della lingua’ mi manca ancora oggi, dopo venti anni di permanenza in Italia, e per questo quando scrivo ho bisogno sempre che un ‘italiano doc’ mi faccia le correzioni. Non faccio più sbagli come una volta quando dicevo ‘biberon’ mentre volevo dire ‘Bibione’ (la località bal- neare), ma sono cosciente che, sia nella mia scrittura, sia quando parlo, ci sono ancora errori, e sono incerta nell’esprimere il mio pensiero in italiano come mi piacerebbe, cioè come facevo in serbo croato, con un linguaggio semplice, minimalista ma perfetto. La mia scrittura in italiano potrebbe essere anche ottima, ma sono sem- pre come quell’atleta sudafricano, Pistorius, che vince le gare importanti, ma correndo con le protesi. Un’altra cosa che avevo scoperto era legata alla padronanza di una lingua che non è la madrelingua. Uno potrebbe essere anche un genio ma se non riesce a esprimersi con le parole del posto in cui vive, non è nulla. Di questo mi sono accorta negli anni Ottanta, in America, dove sono andata per imparare l’inglese. Balbettavo nel mio inglese maccheronico, mi aiutavo con le mani, ma era tutto inutile perché negli sguardi della gente vedevo che non mi capivano, o non mi credevano, oppure – ancora 86 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 peggio – che gli facevo pena. È stato in America che ho capito l’importan- za delle parole e della lingua, l’importanza di poter dire o scrivere quello che uno ha da dire e comunicare. Lo sapevo prima di diventare profuga in Italia, e questa esperienza precedente mi ha spaventato nei primi anni di mio soggiorno in Italia. All’inizio vedevo che anche i miei amici italiani prendevano ‘con cau- tela’ quando dicevo loro che il mio mestiere era la giornalista. Non ci credevano! Quando poi ho pubblicato i primi articoli mi chiamavano per complimentarsi, mi rendevo conto che erano sorpresi che io fossi davvero capace di scrivere. Sto in Italia da venti anni. Non ho mai smesso di leggere in italiano, in inglese e in serbo croato. Regolarmente scrivo in tutte le tre lingue. Eppure quando torno nel mio paese in Bosnia, mi accorgo di un altro processo: che esprimersi nella mia lingua materna non è più scorrevole come una volta, spesso devo fermarmi per trovare la parola giusta, e questo è ancora più evidente se mi metto a scrivere nella mia lingua materna. Per poterlo fare devo cambiare il modo di pensare, perché quando uno si mette a scrivere in una lingua, cambia anche il modo di pensare, cioè di come scegliere e accostare le parole. Sono stata colpita emotivamente quando una signora a Sarajevo mi chiese: «Ma lei di dove è?». È stato un episodio molto triste, mi ero accorta di non essere riconosciuta neanche nella mia città natale ‘come una del posto’. Sapevo che la lingua è viva, cambia, e che molte lingue nel mondo scompaiano quotidianamente, ma ugualmente, non essere riconosciuta come una sarajevese, mi ha colpito molto. Perché voglio migliorare la mia padronanza dell’ italiano, tanto quanto non voglio perdere nulla della mia lingua materna, che ritengo uno dei più solidi elementi della mia identità.

Antologizzazione

Nel 1996, pochi mesi dopo la fine della guerra in Bosnia Erzegovina, par- tecipai a un convegno a Sarajevo. Fu tutto un’improvvisazione, con mezzi modesti, e tanta voglia di aiutare; i giornalisti italiani volevano sostenere i colleghi bosniaci. Qualcuno mi chiese di fare da interprete. «Va bene», dissi, e ad alta voce annunciai che sarei stata io a tradurre «dall’italiano al serbo-croato». Subito dopo aver pronunciato queste parole mi ritrovai crocefissa dagli sguardi pungenti e accusatori dei bosniaci. Mi guardava- no, offesi, come se avessero appena ricevuto un ceffone non meritato. Poi, durante la pausa caffè, uno mi si avvicinò e in modo irritante mi chiese se volessi ‘chiacchierare in serbo’ con lui. Quella volta capii che la lingua, con la quale avevo pronunciato le mie prime parole, ero cresciuta, mi ero formata e per anni mi ero guadagnata da vivere, non era più gradita. Ancora peggio, che chiamarla serbo-croato, Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 87 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 come avevo fatto nei quarant’anni precedenti della mia vita, poteva essere pericoloso. […] Nell’immediato dopoguerra a Sarajevo mi capitava che negli uffici pub- blici non rispondevano se salutavo come sempre ‘dobar dan’, cioè ‘buon giorno’. Pretendevano che salutassi ‘salam aleikum’, che sarebbe la stessa cosa ma in arabo, a loro avviso più appropriato per i mussulmani. E io per dispetto rispondevo in inglese, o in italiano, dicevo che l’arabo, l’inglese o italiano sono tutte lingue straniere per noi bosniaci. Per evitare i problemi, molti invece di salutare ‘buon giorno’ dicevano ‘come stai’. Anche tra i mussulmani bosniaci si sono fatti avanti i linguisti patrioti, proponendo di mettere l’‘h’ dove non c'era mai stata prima. Così per un periodo in Bosnia si beveva kaHva invece di caffè. La maggior parte di questi progetti di lingua pura sono stati bocciati nei programmi televisivi più popolari, come il ‘Grande fratello’. I concorrenti da tutte le parti dell’ex Jugoslavia, parlano la stessa lingua, la nostra, e nessuno ci fa caso se l’altro dice belo o bijelo; come pure il più vasto pub- blico che segue questi programmi in tutte le ex repubbliche jugoslave. Sulle acrobazie linguistiche insistono ancora i politici, quelli duri, i turbo-nazionalisti, e quelli che sulle differenze fanno la carriera e i soldi. Dopo gli anni dell’entusiasmo patriottico, la gente è tornata a ragionare come insegna un vecchio detto: ‘Chiamami come ti pare, basta che non mi fai del male’.

Le stelle che stanno giù (2011), edizioni Spartaco, 95; 102

Biografie

Dunja Badnjević

Nasce a Belgrado, dove si è laureata in Lettere comparate, a cui ha fatto seguito una laurea all’Università La Sapienza di Roma in Filologia slava con una tesi su Ivo Andrić. Ha lavorato per trent’anni come redattrice nella casa editrice Editori Riuniti dove ha curato diverse collane del settore sco- lastico, dell’infanzia, pedagogia, storia, letteratura. Ha curato traduzioni dal serbo all’italiano e per la collana I Meridiani Mondadori ha curato e tradotto Opere scelte di Ivo Andrić, oltre a numerosi altri testi dell’autore. Ha lavorato come traduttrice e interprete per la Rai ed è vincitrice di nu- merosi presi letterari. È autrice del romanzo L’isola nuda, (Torino: Bollati Boringhieri, 2008).

88 Richter. Scritture Scrittrici Migranti. Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 71-90 Enisa Bukvić

È nata a Bijelo Polje (ex Jugoslavia). Laureata in Scienze agrarie a Sara- jevo e specializzata in Scienze dell’alimentazione a Roma, ha maturato una lunga esperienza lavorativa dapprima nell’industria agro-alimentare jugoslava e italiana, poi nella ricerca scientifica, nella formazione e nella cooperazione con organizzazioni non governative (ong) italiane e inter- nazionali. Vive a Roma dal 1987 ed è stata la persona di riferimento della comunità bosniaca in Italia e nel mondo. Ultimamente passa lunghi periodi di tempo a Mostar. Ha pubblicato i libri: Il nostro viaggio (Infinito edizioni, 2008), Naš put (Infinito edizioni, 2010), Io, noi, le altre (Infinito edizioni, 2012), Duemiladodici, racconto Mirsada (Edizioni SEB 27, 2012), Ja, mi, druge (Fuoco edizioni, 2014), Cosmopolit@n (Fuoco edizioni, 2014).

Elvira Mujčić

È nata nel 1980 in una piccola località della Serbia, ma da piccolissima si è spostata in Bosnia, a Srebrenica, da cui è fuggita nel 1992 a causa della guerra, rifugiandosi prima in Croazia e poi in Italia. Si è laureata nel 2004 in Lingue e letterature straniere e ora vive a Roma. Tra i suoi romanzi, pub- blicati per Infinito edizioni segnaliamo Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica (2007), E se Fuad avesse avuto la dinamite? (2009), Sarajevo: la storia di un piccolo tradimento (2011), La lingua di Ana. Chi sei quando perdi radici e parole? (2012) e per i tipi Elliot Dieci prugne ai fascisti (2016).

Azra Nuhefendić

Giornalista di origine bosniaca, dal 1995 vive e lavora a Trieste. Nel 2011 ha pubblicato il libro Le stelle che stanno giù, cronache dalla Jugoslavia e dalla Bosnia Erzegovina (Edizioni Spartaco). È vincitrice nel 2010 del premio Europeo ‘Writing for CEE’ con il racconto «Il treno». Nel 2004 le è stato assegnato il premio ‘Dario D’Angelo’, come migliore giornalista non italiano. Lavorava per il quotidiano Oslobodjenje (Liberation) di Sarajevo. Negli anni Ottanta trasferitasi da Sarajevo a Belgrado, ha lavorato per la radio e la TV di Belgrado fino all’inizio della guerra. Ha vinto il premio Annuale della radiotelevisione di Belgrado per i contributi giornalistici sugli scandali finanziari (1986); il premio ‘Reportage dell’anno’ per i ser- vizi sullo sciopero dei minatori del Kosovo (1987). È stata premiata come inviato speciale per i servizi, sulla rivoluzione in Romania (1989). Collabora con il quotidiano Il Piccolo, è corrispondente per l’Osservatorio Balcani e Caucaso, pubblica su Nazione Indiana, Wal Paper, Sud. Richter. Scritture Scrittrici Migranti. 89

Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Sguardo sul cinema bosniaco femminile

Silvia Badon (Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo», Italia)

Abstract In the last 20 years after the end of the war, Bosnian film production has seen the growth of local women directors who have revealed to be the leading names of Bosnian cinema and the most awarded ones at international film festivals. This trend began with the Berliner Golden Bear awarded to Grbavica, Jasmila Žbanić’s debut feature film. A few years later Aida Begić’s Snow was awarded with the Critics Week Grand Prize at Cannes Film Festival. Since then their films have been selected and screened at many film festivals all around the world, and distributed in different coun- tries. These two young directors have shown the way to other Bosnian female talents, such as Ines Tanović who, after filming some documentaries, presented her first feature film at the last edition of the Sarajevo Film Festival. Sarajevo, the city where these three directors were all born and completed their studies at the Academy of Performing Arts, represents the social fabric inspiring the stories and the characters of their films. Women condition and family dimension are the observational lenses through which they deal with the social and historical changes in the post-war Bosnia Herzegovina.

Sommario 1 Resistenza culturale di una città assediata. – 2 La narrazione del corpo. – 3 Il tempo dell’attesa. – 4 I nostri racconti quotidiani. – 5 Conclusioni.

Keywords Sarajevo. Film. Trauma.

1 Resistenza culturale di una città assediata

Nel racconto di questi vent’anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, dopo il silenzio delle armi e il tempo degli accordi di pace, rimane la dimensione sospesa della memoria, della rielaborazione dei traumi e dei lutti che a un livello non solo personale, ma collettivo, trovano nell’arte uno dei campi di maggiore espressione. Già in epoca jugoslava il cinema era uno dei settori culturali più attivi, nonché uno dei principali strumenti di propaganda del presidente Tito (come mostra il bel documentario di Mila Turajlić, Cinema Komunisto, 2010) che, soprattutto dopo la rottura con la Russia di Stalin, aveva aperto il mercato e gli studios jugoslavi alle produzioni occidentali. Anche dopo la dissoluzione della Jugoslavia, nelle singole repubbliche, il cinema rimane un ambito di grande visibilità internazionale considerata la partecipazione assidua ai festival cinematografici e i premi ricevuti, solo Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-7 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 91 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110 per fare un esempio l’Oscar per il miglior film straniero a Danis Tanović con No man’s land. Il cinema ex-jugoslavo e bosniaco è apparso in questi anni uno dei campi di espressione artistica e culturale in cui il recupero del passato è diven- tato un tema ricorrente, quasi costante, come se la macchina da presa diventasse il giusto ʻfiltroʼ attraverso cui osservare il passato, affrontarlo e rielaborare i traumi lasciati. Per molti autori la storia personale si mescola con le vicende dei personaggi di finzione creati per il grande schermo. Sarajevo, capitale della produzione cinematografica bosniaca e sede di uno degli eventi più importanti dell’intera regione, il Sarajevo Film Festi- val, ha fatto della settima arte uno degli strumenti della sua sopravvivenza intellettuale durante il lungo assedio. Prima della guerra diversi appuntamenti culturali si svolgevano rego- larmente in città, dalle Giornate Internazionali di Poesia, al Festival Inter- nazionale di Teatro Sperimentale; la città era la sede dei New Primitives (movimento della subcultura jugoslava degli anni Ottanta) e di famosi gruppi rock come i Bijelo Dugme e i Zabranjeno Pušenje (Iordanova 2001, 238). In campo cinematografico alcuni dei registi più importanti del paese lavoravano lì come Bato Čengić (Il ruolo della mia famiglia nella rivolu- zione mondiale, 1971) e Ademir Kenović (Kuduz, 1989; Perfect Circle, 1997), negli anni Ottanta inoltre cominciava a emergere la figura di Emir Kusturica che aveva girato a Sarajevo il suo primo lungometraggio Sjećaš li se Doli Bel? (Ti ricordi di Dolly Bell?, 1981). L’intensa vita culturale ha caratterizzato la città anche durante il lungo assedio, molti artisti e personalità hanno deciso di non lasciare la capitale durante la guerra, impegnandosi in iniziative che hanno sostenuto la so- pravvivenza anche intellettuale del tessuto umano cittadino. La resistenza culturale di Sarajevo ha assunto forme diverse. Come spiega anche la studiosa Dina Iordanova (2001), molti intellettuali decisero di non pren- dere in mano le armi, ma combatterono con la loro arte, creatività contro distruzione, così sul piano internazionale Sarajevo si trasformò in un sim- bolo, in un grande progetto di solidarietà che ha visto la partecipazione di diverse personalità del mondo artistico e dello spettacolo, dagli a Zubin Metha a Susan Sontag. Nonostante i rischi e le difficoltà quotidiane della guerra in corso, diversi periodici continuarono miracolosamente a uscire e le stazioni radiofoniche non interruppero le trasmissioni, le fondazioni culturali si impegnarono anche nella fornitura di materiale tecnico come computer, fax e modem, e i festival rimasero attivi, tra cui il Winter Festival of the Arts che si mantenne come evento annuale di musica e belle arti. La cultura faceva parte delle attività di soccorso fornite alla città, così Saraje- vo divenne punto focale anche per gli eventi finanziati grazie a donazioni internazionali (240). In campo cinematografico, nel 1994, Haris Pasović e Dana Rotberg riuscirono a introdurre in città pellicole provenienti da diversi paesi e a proiettarle al Beyond the end of the world, invitarono 92 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

Figura 1. Immagine dal film A Street under Siege anche alcuni attori britannici che però non poterono raggiungere la Bo- snia in guerra. Pochi anni più tardi Obala Art Center e Miroslav Purivatra cominciarono l’avventura del Sarajevo Film Festival (241). Cinema e documento storico si uniscono nell’attività dei registi che hanno raccontato la vita della città durante l’assedio. Quegli anni furono un periodo di originale lavoro filmico, dove alcuni veterani del cinema decisero di restare e realizzare documentari insieme ai giovani autori che oggi sono i registi di riferimento del cinema bosniaco contempora- neo. Centinaia di documentari sulla vita e la morte nella città assediata «rappresentano la vera immagine, il testo reale, di ciò che accadeva a Sarajevo ed in Bosnia Erzegovina in quegli anni» (Tataragić 2009, 207). Uno dei gruppi più attivi era il SaGA, Sarajevo Group of Authors, guidato da Ademir Kenović, impegnato in una forma di cinema partecipativo che mirava a documentare non tanto le operazioni militari quanto la vita della gente comune. I lavori del gruppo venivano montati e preparati per la distribuzione, ma solo raramente furono presentati al di fuori del circuito dei festival, come A Street under Siege del 1993, un progetto realizzato dai registi del SaGA in collaborazione con la BBC per la messa in onda giornaliera di cortometraggi documentari sulla città assediata. I materiali girati da questi registi invece furono ampiamente utilizzati da documenta- risti occidentali che intendevano realizzare film su quel periodo, ne è un esempio Bosna! di Bernard Henri-Lévy, racconto della resistenza eroica dei cittadini (Iordanova 2001, 245-7). Il contesto della resistenza intellettuale e creativa della capitale bosnia- ca è il terreno e l’eredità lasciata ai giovani artisti che, anche dopo la fine del conflitto, attraverso il cinema hanno continuato a raccontare il difficile dopoguerra, le lenta ripresa e i nodi rimasti irrisolti. Negli ultimi vent’anni la produzione bosniaca in particolar modo ha visto la fioritura di un cinema Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 93 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110 femminile autoctono che si è distinto nei festival internazionali e che ha portato alcune tematiche sociali all’attenzione del pubblico globale. Le tre autrici qui presentate sono tutte nate a Sarajevo e hanno fatto della città natale anche il luogo della loro formazione, presso l’Accademia di arti drammatiche. Sarajevo non è il semplice sfondo dei loro film, ma, come un personaggio silente, rappresenta il tessuto umano da cui emer- gono le loro storie. Queste autrici sono tra le personalità più interessanti e premiate del panorama cinematografico bosniaco; nei loro film, attraverso la lente della dimensione femminile e familiare, hanno saputo raccontare i cambiamenti sociali della Bosnia post-bellica.

2 La narrazione del corpo

La parola deblokada indica la ʻrimozione dell’assedioʼ: i cittadini che ne hanno vissuto uno dei più lunghi della storia militare sognavano il giorno in cui la rappresaglia sarebbe finita, ma ancora, anche dopo la fine della guerra, alcuni assedi, politici, economici e psicologici, continuano a minare il difficile cammino della Bosnia Erzegovina. Deblokada è anche il nome di un gruppo di artisti, una casa di produzio- ne fondata da Jasmila Žbanić e dal produttore Damir Ibrahimović nel 1997, con l’idea che l’opera cinematografica non sia solo luogo di riflessione sulla realtà sociale del dopoguerra, ma che diventi un mezzo per rappresentare, attraverso il linguaggio dell’arte, i conflitti rimasti e rielaborare il passato. Creare un luogo metaforico di reciproco riconoscimento. L’assedio di Sarajevo è stato la realtà in cui Jasmila Žbanić ha cominciato a lavorare come regista. Già nei suoi primi cortometraggi e documentari anticipa temi cari a tutta la sua cinematografia: il mondo dell’infanzia e della famiglia diventano i microcosmi per raccontare le conseguenze del conflitto nel proprio paese. In Poslije poslije (After after, 1997) la regista, insieme a un operato- re, gira uno dei suoi primi lavori in una scuola elementare di Sarajevo, dove intervista alcuni bambini che sono rimasti in Bosnia negli anni del conflitto. I traumi lasciati emergono dai racconti dei piccoli protagoni- sti; la macchina da presa, statica, cerca di cogliere tutte le sfumature del racconto, senza diventare una presenza ingombrante. Maša Hilčišin (2012), docente e documentarista al Prague College, lo definisce uno dei rari documentari post-bellici che pone al centro la testimonianza di bambini e, per questo, solleva l’importante quesito di come poter spie- gare la guerra a bambini che l’hanno vissuta in prima persona. La regi- sta, dietro alla macchina da presa, pone domande generiche ai bambini seduti in classe; l’inquadratura si concentra sui singoli protagonisti che raccontano le loro esperienze personali: con un lavoro discreto di primi piani e dettagli, l’obiettivo cattura anche le reazioni non verbali dei pic- 94 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110 coli narratori e del loro uditorio di fronte ai temi della paura, dell’esilio, della perdita dei propri cari. Attraverso i piccoli protagonisti, non solo la regista dà voce alla complessità di una società che deve fare i conti con il trauma bellico, ma riesce anche a trattare il tema della guerra senza il filtro del nazionalismo, della politica e dell’odio etnico (cf. Hilčišin 2012). La dimensione privilegiata da autori come Jasmila Žbanić, che hanno un punto di vista interno e appartengono alla realtà che stanno filmando, è quella della testimonianza: il film accoglie il tempo del racconto e della difficoltà nel narrare l’esperienza dolorosa, il trauma rientra nella realtà della vita quotidiana. Nella produzione di finzione come in quella documentaristica, la regista ha fatto del mondo femminile il suo punto di partenza per raccontare la ricomposizione sociale di un paese, in cui le divisioni tra i gruppi sono state rese evidenti dal conflitto. Le protagoniste, sia le testimoni che i personag- gi fittizi, non sono il terreno d’indagine su cui riscontrare le conseguenze della barbarie, ma soggetti attivi impegnati nella rinascita sociale del pae- se. Zdenko Mandušić (2012) sottolinea come i film dell’autrice presentino un’alternativa all’immagine femminile fondata sull’ideologia di genere del nazionalismo etnico che propone la donna come vittima sottomessa e oggetto erotico passivo. La rappresentazione femminile offerta dai film di Jasmila, come di altre registe bosniache, rompe anche con l’aura simbolica del corpo materno perseguitato che emerge come eredità della guerra in Bosnia. L’impegno nella trattazione di tematiche sociali legate al mondo femminile e al superamento degli stereotipi di genere rende il film non solo un’opera di creatività e intelletto, ma anche il terreno per una presa di coscienza e di attivismo politico. Nel 2000 la regista racconta la storia di Jasna P. nel documentario Red rubber boots. Jasna sta cercando le spoglie dei suoi due bambini scomparsi durante la guerra e sepolti in una fossa comune; due paia di stivaletti rossi indossati dai ragazzini sono l’indizio che la donna fornisce alle autorità per facilitare il riconoscimento dei corpi. Jasmila Žbanić segue Jasna e il marito durante le operazioni di ricerca; di nuovo il suo sguardo si fa discreto. Anche per questo lavoro sceglie la modalità del documentario di osservazione (observational approach), prende le distanze dalla realtà che sta filmando e lascia che i soggetti coinvolti parlino di sé, che la storia si sviluppi con il proprio ritmo. Non inquadra mai i soggetti che parlano di fronte all’obiettivo come in un’intervista tradizionale; le voci dei prota- gonisti, che raccontano i sogni, i timori, la fatica, rimangono fuori campo mentre le immagini delle ricerche scorrono autonomamente. La realtà sembra semplicemente ʻcatturataʼ dalla macchina da presa, i personaggi non devono interpretare un ruolo, ma la loro realtà è presentata come spontanea e senza alcuna direzione (Hilčišin 2012). La telecamera diventa così ʻluogoʼ non solo di testimonianza, ma anche di confidenza del proprio dolore e quindi mezzo di rielaborazione della perdita. Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 95 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

Figura 2. Immagine dal film Red rubber boots

In questi primi lavori documentaristici e poi successivamente nella dimensione del cinema di finzione, Jasmila affronta il tema del trauma bellico. Nei suoi film è possibile riconoscere ciò che Shoshana Felman e Dori Laub (1992, 57-8) descrivono nel libro Testimony. Il percorso di elaborazione del trauma comincia innanzitutto con la testimonianza, un processo che non può avvenire senza entrambi i soggetti coinvolti: non solo il testimone, ma anche l’ascoltatore, in questo caso l’artista e attraverso di lei lo spettatore. L’ascoltatore diventa partecipante e comproprietario dell’evento traumatico, perché la sua presenza determina la nascita di una nuova fase di conoscenza e consapevolezza dell’evento. Adottando tale ruolo, l’ascoltatore accetta di condividere in parte l’esperienza del trauma su di sé. Dori Laub osserva, dalla propria esperienza personale, come il processo di testimonianza sia analogo alla pratica psicoanalitica, un ʻbreve contratto terapeuticoʼ, una sorta di accordo tra due persone: il testimone accetta di narrare il proprio trauma ricostruendo i fatti della propria vita, l’ascoltatore, che sia intervistatore o terapeuta, assume il compito di accompagnare il testimone in questo percorso (70). Il debutto di Jasmila Žbanić nel cinema di finzione è un successo fol- gorante con il film Grbavica (Il segreto di Esma), Orso d’Oro al festival di Berlino nel 2006. Il film racconta il rapporto tormentato tra Esma e la figlia Sara, un’adolescente irrequieta. Nelle difficoltà della vita quotidiana 96 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110 che vede la protagonista lottare per mantenere la famiglia e permettere alla figlia di fare una vita analoga a quella dei suoi coetanei, Esma porta con sé il peso di un segreto che riguarda il suo essere madre e che si svela solo nel finale. Nel 2003, nella fase di scrittura della sceneggiatura, la regista partecipò a una tavola rotonda sul tema dello stupro di guerra, organizzata da Medica e da altre associazioni di vittime. Dall’incontro nacque la campagna For the dignity of the survivors, finalizzata ad ottenere il riconoscimento ufficiale delle sopravvissute agli stupri di guerra come vittime civili del conflitto, status che avrebbe permesso loro di ottenere una piccola pensione di stato e altri benefit sociali. La tavola rotonda fu un momento importante di con- fronto che aiutò la regista a delineare in modo realistico il personaggio di Esma, interpretato da Mirjana Karanović. Dopo la partecipazione a questo primo evento, Deblokada, casa di produzione di Grbavica, entrò nel comitato organizzativo insieme a Medica e a altre organizzazioni femminili. È interes- sante osservare che già il titolo della campagna, così come la costruzione narrativa del personaggio di Esma nel film, escludono qualunque connota- zione passiva e di irrilevanza sociale che appartiene all’etichetta di vittima (cf. Helms 2013, 206), entrambe le iniziative rivendicano una questione di interesse pubblico che non può restare solo nella memoria dei sopravvissuti. Il successo della pellicola, anche prima del prestigioso premio berlinese, sostiene Elissa Helms, ha contribuito alla campagna For the dignity of the survivors rinnovando l’attenzione internazionale sul tema dello stupro di guerra, infatti nella primavera del 2006 fu approvata una rettifica alla legge della Federazione che riconosceva i diritti delle vittime di violenza sessuale (197). La nuova versione della legge era ben distante dall’essere esaustiva, sottolinea Helms, ma il riconoscimento internazionale di un film come quello di Jasmila Žbanić ha indubbiamente contribuito a portare la questione della connotazione sessuale delle vittime di guerra nel dibattito pubblico e porre all’attenzione collettiva alcune tensioni che altrimenti sarebbero rimaste solo tra le attiviste bosniache e le autorità politiche e statali (4). Il film non è una ricostruzione realistica dello stupro di guerra, ma il racconto del reinserimento sociale delle vittime, di una generazione di figli nati da quel dramma e della convivenza con il trauma in un dopoguerra di ricostruzione e mancata giustizia. Se pellicole come As if I’m not there (2010) di Juanita Wilson o Nella terra del sangue e del miele di Angelina Jolie mettono in scena il dramma dello stupro di guerra in Bosnia durante il conflitto balcanico, il lavoro di Jasmila Žbanić è un cinema silenzioso, garbato, fatto di dettagli. Nella realtà quotidiana rappresentata in Grba- vica, tutto ciò che appare normale è permeato dalla memoria del passato traumatico. L’apparente semplicità e il realismo delle vite rappresentate sullo schermo contrastano con le forme persistenti di rifiuto dei personag- gi che vanno a coprire delle verità latenti. Il film appartiene a un genere impegnato nel recupero della memoria traumatica, come Shoah di Claude Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 97 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

Lanzmann o The sorrow and the pity di Marcel Ophüls, dove il passato non è mai evocato in termini di rappresentazione visiva, per esempio attraverso l’uso di flashback, ma è una presenza occulta che perseguita i protagoni- sti fino al momento in cui li costringe a fare i conti con quel passato, e, a livello narrativo, diventa una forza incontenibile che determina tutto ciò che abbiamo visto sullo schermo (cf. Mazaj 2007, 61-2). L’elemento di rottura nel silenzio di Esma è un certificato che attesti la morte del padre di Sara come martire di guerra. Portando quel certificato Sara non dovrà pagare la quota d’iscrizione alla gita scolastica. Esma tenta di temporeggiare, sostenendo che il cadavere non è stato ancora trovato, ma le sue resistenze devono cedere alla verità, una verità che passa attra- verso un lavoro cinematografico sul corpo. Il corpo, scrive Rita Monticelli (2007, 612), è l’incarnazione delle diffe- renze storiche e culturali dei soggetti; insieme alla sessualità, il discorso sul corpo, e sulla sua rappresentazione, è connesso alla costruzione del sé e della propria identità e rimanda a processi di decostruzione di stereotipi e cliché della donna. Il corpo è il luogo del trauma, della sua memoria e della sua rielabora- zione. Fin dalla prima sequenza un lavoro cinematografico di dettagli sul corpo richiama alla dimensione collettiva della pellicola. Apre il film una carrellata su volti di donne, sedute a terra con gli occhi chiusi, sembrano riunite in una seduta di terapia; la macchina da presa si sofferma su un volto tra i molti, quello di Mirjana Karanović, la Esma del film, che ad un tratto apre gli occhi e guarda fisso in camera, richiamando il coinvolgi- mento diretto dello spettatore. La sua storia è una delle tante storie che compongono il dopoguerra bosniaco, ed è simile a quella di tante soprav- vissute, quindi riguarda tutti. Il lavoro di dettaglio che la regista compie sul corpo delle sue protago- niste serve a delineare un po’ per volta la storia dei personaggi e lascia comprendere allo spettatore come apparenti gesti quotidiani nascondano l’ombra del passato e del segreto di Esma. Il momento della rivelazione sul concepimento di Sara apre una sequenza speculare alla prima in cui di nuovo una carrellata sui corpi femminili seduti a terra non sorprende più lo spettatore abituato ormai, quasi alla fine del film, a riconoscere quei volti e la situazione della terapia di gruppo. Questa volta però le donne non sono corpi inermi con gli occhi chiusi, ma soggetti attivi in ascolto. La telecamera indugia sui loro sguardi, sulle espressioni, tra loro c’è anche Esma che ora in lacrime comincia il racconto del suo trauma. Il montaggio alterna alle immagini della seduta di gruppo quelle di Sara che, dopo aver appreso la verità sulla sua origine, decide di rasarsi i capelli, il partico- lare fisico ereditato dal padre. Nessuna battuta di dialogo, in sottofondo solo una canzone tradizionale bosniaca (come in apertura del film), che rappresenta il legame con la tradizione, la propria terra, il reinserimento nella comunità. Il percorso di elaborazione del trauma passa attraverso il 98 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

Figura 3. Immagine dal film Grbavica (Il segreto di Esma)

corpo, un corpo violato come quello di Esma, e un corpo che deve attra- versare una rinascita, come quello di Sara, anche per lei nella sequenza finale, la canzone tradizionale bosniaca rappresenterà quel percorso di reinserimento nel tessuto sociale. Uno degli ultimi film di Jasmila Žbanić ritorna sulla questione dello stu- pro di guerra. In For those who can tell no tales (2013) il tema è affrontato attraverso lo sguardo di Kym, una turista australiana che visita la Bosnia per la prima volta e, seguendo le pagine della guida turistica, arriva alla città di Višegrad sul confine tra Bosnia e Serbia. Dopo una notte insonne all’Hotel Vilina Vlas, uno dei principali della cittadina, scopre che lì du- rante la guerra più di 1700 persone furono sterminate, tra cui 200 donne violentate e uccise in quell’albergo (Žbanić 2013, 3). La sequenza della prima notte nell’hotel è il momento topico da cui inizia la ricerca di Kym. Di nuovo il corpo è l’elemento da cui parte l’indagine sul passato, una storia fatta di vittime violate e scomparse, assenti. Con un sapiente lavoro di montaggio la regista ricrea la condizione di inquietudine vissuta dalla protagonista quella notte al Vilina Vlas, mettendo in relazione il luogo, la bellezza del ponte e del fiume, con il malessere fisico di Kym. Il film nasce da una storia vera, la prima idea della regista fu quella di girare un documentario sull’esperienza di Kym Vercoe, attrice e dramma- turga australiana che sul suo soggiorno a Višegrad ha scritto un’opera teatrale (Seven kilometres north-east). Colpita che la cittadina non pre- sentasse tracce di distruzione né memoriali della guerra pensò che il luogo fosse stato risparmiato dal conflitto. Il viaggio in Bosnia fu un’esperienza Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 99 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

Figura 4. Poster del film For those who can tell no tales talmente forte che, come vediamo nel film, nel momento in cui comincia a comprendere cosa è accaduto a Višegrad, Kym perde lo sguardo esterno da turista e assume la posizione attiva di chi si interroga su cosa possa fare di fronte alla negazione e alla rimozione di un crimine così grave (3). La risposta è attraverso il linguaggio dell’arte. Jasmina Husanović (2015, 117-8) scrive come il cinema della Žbanić esa- mini il nesso tra trauma e giustizia, i suoi film tendono agli aspetti creativi etico-politici di integrazione del trauma nel presente delle vite comuni. Il processo di testimonianza, condotto attraverso il linguaggio attento e discreto del cinema, riguarda il rapporto tra conscio e subconscio, tra la parola e il silenzio. Affrontare il fallimento delle parole e delle rappre- sentazioni, dare visualizzazione alla muta personificazione del trauma, raccontare una storia tra i silenzi e le immagini di corpi mancanti è un intenso processo per far parlare storie traumatiche anche oltre i limiti della parola e materializzare un sentimento attraverso mezzi visivi. La ricezione di questi film, continua Husanović, rappresenta un teatro di giustizia dove il corpo traumatizzato riacquista il suo valore politico. 100 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

Figura 5. Immagine dal film Snijeg (Snow)

3 Il tempo dell’attesa

Dopo i primi cortometraggi, Aida Begić raggiunse il successo internazio- nale con il suo primo lungometraggio Snijeg (Snow) presentato nel 2008 al Festival di Cannes dove vinse il Gran Premio della Critica. Nella Bosnia orientale un gruppo di donne vive in un piccolo villaggio in mezzo alle montagne, gli unici abitanti maschi sono un bambino orfano e un vecchio imam. Tra loro c’è Alma (Zana Marjanović), giovane vedova che porta avanti il sogno condiviso con il marito, coinvolgendo anche le altre donne della comunità nella produzione di marmellate e conserve da vendere per il sostentamento dell’intero villaggio. Alma è l’unica donna a indossare il velo islamico. Nel delineare i suoi personaggi, Aida Begić mantiene uno stretto legame con la propria storia autobiografica. In Snijeg alcuni elementi del personaggio di Alma derivano dalla storia della regista, ad esempio nel film vediamo una foto in cui Alma a capo scoperto sorride accanto al marito, anche la regista non indossava il velo prima della guerra. «Tutto questo riguarda anche me. Nel 2003 ho deciso di indossarlo e ho attraversato un’esperienza di trasformazione. In modo quasi inconscio ho deciso di metterlo. Alma ha delle cose di me, ma non è un mio alter ego. Ho messo parti di me anche in altri personaggi» (Falcinella 2009). La guerra è finita da pochi anni e le protagoniste vivono una condizione quotidiana di attesa, del ritorno dei familiari o della notizia del loro ritro- vamento. Il vuoto lasciato dalla scomparsa della figura maschile è vissuto a livello quotidiano, messa in evidenza dalla scansione temporale del film. Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 101 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

La scomparsa dei cari e la speranza in una risoluzione di tale perdita, co- sì ancora indefinita e così costitutiva della loro vite post-belliche, sono i collanti che le tengono unite (cf. Jelača 2016, 91). Dijana Jelača sottolinea come, nella rappresentazione della vita quotidiana del villaggio fondata sull’attesa del ritorno degli uomini, il film metta in scena meticolosamente un processo di trasformazione della perdita in assenza strutturale. Secon- do LaCapra (citato in Jelača 2016) mentre la perdita è radicata nel lutto per qualcuno o qualcosa specifico, e permette all’individuo di ricominciare una nuova vita dove pur sia presente il trauma della scomparsa, l’assen- za trova le sue basi in uno stato patologico di cordoglio per un elemento astratto. Se la perdita è storica, l’assenza, come stato irrisolto, diventa costitutiva di un mondo. Per le donne del villaggio la scomparsa dei loro uomini non può essere vissuta come una perdita, perché non sanno né se siano vivi o morti né dove possano trovarsi (vivi o morti). Questo rende impossibile trasformare il dolore in una forma concreta di lutto, mentre la perdita diventa un fantasma che impone una forma di malinconia perenne, in cui qualsiasi relazione affettiva è sospesa fino a quando le donne non sappiano cosa sia veramente successo (92). Quando al villaggio giungerà Miro, un serbo che aveva partecipato al conflitto in quei luoghi, tutta la comunità riuscirà a sapere cosa è re- almente accaduto ai loro cari. La vecchia Fatima, come una Penelope contemporanea, ha finito la sua tela, la stende a terra e inizia il viaggio della comunità verso la Blue Cave, luogo che può finalmente dare forma concreta al lutto delle protagoniste. La telecamera però non segue le don- ne dentro la grotta dove si trovano i resti dei loro uomini, lo spettatore rimane escluso dall’incontro con la perdita che si fa concreta. Di fronte alla rappresentazione cinematografica dell’atrocità, la regista afferma l’impos- sibilità di una messa in scena esplicita del trauma e il rifiuto etico del film di sensazionalizzare la brutalità in nome di una spettacolarità visiva (94). Nel suo secondo lungometraggio, Djeca (Children of Sarajevo – Buon anno Sarajevo, 2012) elementi autobiografici della regista contribuisco- no a delineare anche il personaggio di Rahima, un’orfana di guerra che vive con il fratello Nedim adolescente. La ragazza lavora come cuoca in un ristorante; da poco ha abbracciato la religione islamica osservante e, sola, si trova a gestire il fratello, vittima di bullismo a scuola e coinvolto nel contrabbando di armi. Entrambi vivono in una Sarajevo in transizione, non solo politica ma anche morale, dove la collaborazione e il mutuo soccorso che avevano caratterizzato la resistenza della popolazione durante l’assedio sembrano essere stati dimenticati per un aumento del divario sociale tra le persone (Begić 2012). Rahima guarda alla religione non solo come un conforto, ma come un ʻluogoʼ di recupero di un’identità che dalla guerra si è smar- rita. Come in Snijeg il personaggio e la sua storia sono una costruzione di dettagli, uno dei più importanti è il velo. In Snow il velo islamico, nelle 102 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

Figura 6. Immagine dal film Djeca (Children of Sarajevo)

sue varie forme (colorato, sciolto al vento, da indossare, da annodare, da bloccare sotto il mento ecc.), scandisce i momenti del film e il percorso di Alma nella riaffermazione di un proprio ruolo all’interno della piccola società del villaggio e nella costruzione di una nuova vita oltre il conflitto. L’hjiab è uno degli elementi connotativi e simbolici anche del personaggio di Rahima in Djeca, qui il velo è il segno di demarcazione tra gruppi sociali, tra emarginati e socialmente accettati.

Rahima wears a headscarf and this automatically qualifies her for social marginality because the prejudice about women who practice hijab is equally strong in Sarajevo as elsewhere in the world. But although she wears a headscarf, Rahima is not much different from other girls of her age – at home, she listens to the same music as her peers, she loves, hates, makes mistakes and lives her life just like other ʻnormalʼ girls do. Still, because of her religious convictions she is perceived as ʻthe otherʼ, as ʻdifferentʼ and is therefore discriminated against. (Begić 2012, 2)

Riguardo al lavoro cinematografico che, pur con stili differenti, Begić e Žbanić fanno sul corpo femminile, mi sembra interessante la riflessione di Renate Siebert (2007, 149): il corpo femminile assume una forte valenza pubblica, nella misura in cui l’aspetto esteriore (in termini di abbigliamen- to, copricapo ecc.) è rigidamente prescritto e sanzionato, oppure rivendi- cato quale segno di libertà di scelta come afferma il cinema di Aida Begić. La trasformazione del corpo femminile diventa ʻemblemaʼ di un discorso Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 103 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110 politico con in più una valenza a carattere religioso. Anche noi oggi ten- diamo a reificare e alienare le donne musulmane entro stereotipi che non fanno che potenziare quelle forze conservatrici che strumentalizzano il corpo femminile a fini politici. Il velo soprattutto in tempi recenti assume una componente simbolica. Atto di carattere politico può essere sia togliere il velo sia decidere di in- dossarlo (e in Bosnia in particolare mi sembra interessante come atto lega- to al post-conflitto): in alcuni casi possiamo osservare, anche nelle nostre società europee, una riscoperta e una ri-elaborazione dell’appartenenza all’Islam in chiave moderna, come sottolinea Siebert, la ricerca di una modernità, e io direi di un’identità, distinta dalla modernità occidentale sperimentata come un’imposizione. Riferimento identitario e risultato di una scelta individuale, l’Islam può così diventare una risorsa (2007, 158-9). Come per il cinema di Jasmila Žbanić, anche quello di Aida Begić lavo- ra sull’equilibrio tra rappresentazione e fuoricampo, solo pochi semplici dettagli aiutano a delineare i personaggi dei suoi film e il loro passato. Per Snijeg la regista spiega:

Ho lavorato molto con il direttore della fotografia per sviluppare un approccio quasi documentaristico con la macchina a mano e la luce naturale. Volevo raggiungere la poesia che è parte del mondo dei per- sonaggi e conciliarla con il realismo e il naturalismo. Volevo lasciare gli attori liberi dalle cose tecniche, lasciarli recitare, non spingerli con la camera. (Falcinella 2009)

In Djeca la regista riprende l’uso della telecamera a mano e la luce natu- rale quasi con uno stile documentaristico: l’obiettivo segue la protagonista di lato e la riprende di spalle, poche le inquadrature frontali o in dettaglio, quasi volesse mostrare sempre solo un lato del personaggio che non si espone mai completamente allo spettatore e di cui non emergono molte informazioni sul suo passato e sui suoi sentimenti. Un ultimo aspetto molto interessante è il lavoro di Aida Begić sulla memoria della guerra, in particolare la scelta di rappresentare i ricordi di Rahima attraverso filmati d’archivio, girati dai cittadini di Sarajevo du- rante l’assedio. Perde importanza sapere se le persone che vediamo nei filmati siano la regista da ragazzina o l’attrice protagonista. La memoria di Rahima è la memoria della città, la sua storia appartiene alla città e ai ricordi stessi della regista.

There is a huge archive of video materials filmed by the Sarajevo citizens during the siege. What these images show is personal, simple, human side of the war. They are much closer to the personal experience and memory of war than what you can see on TV. Ordinary peoples’ war-time videos show what regular life was like during the siege and are closest 104 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

Figura 7. Immagine dal film Naša svakodnevna priča (Our everyday life)

to our intimate memories of that time which are difficult to explain in words. These are the images/memories of horror, but also of beauty. They show that resistance with guns is not the only form of resistance. Showing strength and ability to live normally in abnormal times is also a form of resistance. Basically, using ordinary peoples’ war-time video archives to illustrate Rahima’s memories, I want to share and explore the intimate recollections of one of the hardest situations a person can live through. The film plot justifies this, but I came to this decision also because I personally feel need to talk about my own experience and memory of war. (Begić 2012, 2)

4 I nostri racconti quotidiani

Il rapporto tra la componente autobiografica e il racconto del dopoguerra bosniaco è un intreccio che caratterizza anche lo stile dell’ultima regista di questo percorso. Ines Tanović ha lavorato a diversi cortometraggi e documentari prima di realizzare il suo primo lungometraggio di finzione, Naša svakodnevna priča (Our everyday life, 2015), unico film bosniaco nel concorso principale del Sarajevo Film Festival e realizzato grazie al sostegno di Cinelink, programma del festival destinato al mercato delle co-produzioni. La storia ruota intorno ad una famiglia piccolo-borghese della Sarajevo contemporanea. Il padre Muhamed (Emir Hadzihafizbegović) è dipendente in un’azienda in città, la madre Marija (Jasna Ornela Bery) è un’insegnante in pensione. Saša (Uliks Fehmiu), il figlio maggiore, è un veterano dell’ul- Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 105 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110 timo conflitto che, dopo il divorzio, torna a vivere con i genitori, mentre la figlia Senada (Vedrana Seksan) vive a Lubiana, dove da bambina è stata rifugiata di guerra. Attriti, rancori e conflitti irrisolti scoppiano tra i diversi membri della famiglia, aggravati dalla difficile convivenza di Saša, solo e disoccupato, con i genitori. Pur nell’apparente normalità della vita quotidiana, la memoria del con- flitto recente gioca ancora un ruolo importante, come un punto di non ritorno da cui sembrano originarsi le incomprensioni reciproche dei diversi personaggi e il punto da cui ripartire per la conquista di una normalità. In questo rapporto con il passato, la madre Marija è la figura memoriale del film e della famiglia, ricorda a tutti chi sono e cosa hanno vissuto: il disadattamento di Saša (la figura più vicina alla regista), la rigidità di Muhamed e la distanza della figlia Senada. Quando la madre si ammala di cancro al seno, i membri comprendono che la famiglia è il microcosmo cui aggrapparsi e da cui partire per ricostruire una vita quotidiana. In un’intervista per Screen Daily Ines Tanović racconta come l’idea del film nasca dalla propria esperienza personale: alcune sequenze sono ispi- rate a episodi di vita famigliare, alle atmosfere della sua infanzia nella casa dei genitori. Nel film non ci sono scene direttamente riferite alla guer- ra, mentre nel suo cinema documentario la regista ha spesso affrontato questioni relative al conflitto in Bosnia. La guerra, spiega Ines Tanović, è ancora presente ovunque in Bosnia; dove si punti la telecamera è ancora possibile riprendere tracce della distruzione. Anche se la guerra non è direttamente visibile, le sue conseguenze permangono nella mente dei cittadini, come se il conflitto e i problemi cominciati vent’anni fa fossero diventati parte di uno stato mentale diffuso (Petković 2015). Pur nel calore dell’intimità domestica che il film riesce a ricreare, attra- verso il personaggio di Saša, Ines Tanović racconta anche lo smarrimento morale di una generazione di trenta – quarantenni bosniaci che con la guerra hanno perso la loro giovinezza e si sentono intrappolati in una fase di stallo (Simon 2015).

5 Conclusioni

Le tre autrici qui proposte, attraverso le loro opere, condividono e offrono allo spettatore una riflessione interessante sulla rappresentabilità del do- lore, sulla forma cinematografica che la memoria personale e le memorie collettive possono assumere. Le loro scelte stilistiche e narrative hanno mostrato come sia possibile, e forse necessario, considerare l’interazione tra un’immagine concreta del dolore e l’inesprimibile di una memoria trau- matica che, dove non trova una localizzazione, rimane sospesa, irrisolta. Riprendendo una riflessione di Dijana Jelača (2016, 100) sul rapporto tra genere e appartenenza etnica, il cinema di queste autrici, come altri film 106 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110 dell’area ex-jugoslava, offre uno sguardo importate sul modo in cui le pra- tiche di rielaborazione del trauma bellico rompano gli schemi ideologici dell’identità etnica, proprio perché gli aspetti inconsapevoli del trauma non possono facilmente essere assimilati da un impianto ideologico. Nel rapporto dialettico tra detto e non-detto il cinema qui presentato si basa invece su una dislocazione delle posizioni identitarie fissate, già trauma- tiche di per sé nella loro rigidità e immobilità. Ritengo che le opere di queste tre registe abbiano il grande valore di presentarsi come proposte di rielaborazione che uniscono la dimensione dell’esperienza individuale al racconto collettivo. I loro lavori possono rappresentare quella forma di working-through dell’esperienza traumati- ca, descritto così bene da Patrizia Violi (2014, cap. 1) nel suo ultimo libro dedicato al tema della memoria. La distinzione tra acting out e working- through, ripresa dagli studi di LaCapra, non è una rigida dicotomia, ma si tratta di due processi che interagiscono tra loro. L’acting out è la ripe- tizione compulsiva e letterale del passato da parte delle vittime, la ten- denza a rivivere l’evento doloroso senza poterne prendere le distanze in un presente dilatato e ossessivo. Il working-through invece rappresenta il lavoro di ri-elaborazione in quanto rende possibile una narrativizzazione dell’evento traumatico, la sua messa in discorso e quindi l’inizio del suo superamento. L’acting out può essere una fase necessaria alle vittime per innescare il processo di working-through, una riarticolazione delle forze del trauma. Questa compresenza di atteggiamenti non riguarda solo le vittime, ma anche chi è coinvolto nel lavoro di ricostruzione (Patrizia Violi cita ad esempio gli storici, ma io includerei anche gli artisti impegnati in un lavoro memoriale). Nel compito di riscrittura e traduzione della parola dell’altro, gli storici come gli artisti si fanno testimoni secondi di ciò che è raccontato dai testimoni del trauma, affrontando il problema della ʻgiusta distanzaʼ da mantenere di fronte al dolore degli altri. Acting out e working-through possono essere viste come due differen- ti modalità di organizzare la narrazione dell’evento doloroso; in questa chiave è possibile leggere la distinzione tra scrivere (filmare) sul trauma, una ricostruzione oggettiva dei fatti con i criteri di verificabilità storica, e scrivere (filmare) il trauma, una metafora che indica la possibilità di rappresentare solo le conseguenze di un fatto, lo sviluppo di una forma di rappresentazione estetica e artistica in grado di instaurare una relazione partecipativa con lo spettatore.

Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 107 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110 Bibliografia

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108 Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 91-110

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Badon. Raccontare questi 20 anni dietro la macchina da presa 109

Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina a cura di Silvia Camilotti e Susanna Regazzoni

Imago Mundi Bosnia

Manuela Da Cortà (Curatrice per la collezione Bosnia del progetto Imago Mundi)

L’Immagine del Mondo è un gigantesco tappeto musivo. È composto da migliaia di tessere, di formato 10x12. Ogni tessera è un microcosmo nel macrocosmo. Ogni tessera racconta di un mondo interiore e di uno spazio nell’universo. Ogni tessera è inserita in una struttura espositiva che è un piccolo mosaico di un ipotetico colossale mosaico. Così, nel Mosaico del Mondo ogni tassello ha una vita propria, rivela la propria identità ma partecipa ad un programma unitario. Per realizzare il suo progetto, un gigantesco mosaico di opere contem- poranee, Luciano Benetton ha chiesto la partecipazione di artisti di tutto il mondo, a comporre, con le proprie energie, un coro polifonico di singole voci. L’arte, per diventare fruibile, deve essere supportata da un progetto narrati- vo, un tema che le assegni un valore e che la renda comprensibile ai molti. In questo specifico caso, il sogno che sottende il progetto è la creazione di un grande Museo dell’Arte Contemporanea mondiale, una fotografia globale del nostro tempo. E mentre le mostre, le Biennali, le Triennali, le Esposizioni internazionali, che dagli inizi degli anni Novanta sono in continuo aumento, vengono organizzate in un luogo specifico e, dopo un tempo determinato, vengono smantellate, questo colossale museo continua a vivere, ad arricchirsi di sempre nuova linfa vitale e ad essere a sua volta ospite dei grandi musei del mondo. Tra i già molteplici paesi che hanno aderito all’iniziativa, ve ne è uno piccolissimo, di appena 3 milioni e settecentomila abitanti: la Bosnia Erze- govina, da Bosna, il fiume che nasce vicino Sarajevo e che significa ‘acqua che scorre’ e Erzegovina che etimologicamente significa Ducato.

Imago Mundi è la Collezione di arte contemporanea composta da migliaia di opere che Luciano Benetton ha commissionato e collezionato nei suoi viaggi nel mondo. Gli artisti, affermati ed emergenti, di differenti paesi, hanno partecipato a questa iniziativa in modo volontario e senza fini di lucro, realizzando ciascuno un’opera con l’unico vincolo del for- mato 11x12 centimetri. Sotto l’egida della Fondazione Benetton Studi e Ricerche, Imago Mundi è un progetto democratico, collettivo e globale che guarda ai nuovi orizzonti in nome dell’incontro e della convivenza delle diversità espressiva, per realizzare una catalogazione – delle poetiche e dei linguaggi, come delle opere – diversa da quella consueta, museale, di tendenza o di mercato che sia. L’obiettivo principale è costruire e portare nel futuro una mappa visiva delle culture umane, promuovendo gli artisti attraverso i cataloghi, la piattaforma di Imago Mundi e la partecipazione a rassegne ed esposizioni internazionali.

Diaspore 5 DOI 10.14277/6969-094-5/DSP-5-8 ISBN [ebook] 978-88-6969-094-5 | ISBN [print] 978-88-6969-097-6 | © 2016 111 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 111-116

Si potrebbe fantasticamente chiamarla il ‘Ducato dell’acqua che scorre’. Un paese con una storia millenaria e complessa che forse varrebbe la pena di raccontare brevemente per contestualizzare la produzione artistica. Terra di attraversamenti, conquiste e migrazioni, come l’Italia, viene annessa nel IV secolo all’Impero Romano e conosce allora un grande svi- luppo. Al suo declino, la linea di separazione, tra Impero Romano d’Oc- cidente e Impero Romano d’Oriente, corre lungo il fiume Drina e la Bo- snia Erzegovina diventa una specie di cuscinetto tra i due mondi, terra di frontiera e porta di accesso e transito tra Occidente ed Oriente. Dopo la caduta di Roma tutta l’area danubiana conosce varie invasioni dagli Slavi ai Turchi che, nel 1463, annettono la Bosnia all’Impero Ottomano e fanno di Sarajevo la capitale della nuova provincia. Nei quattrocento anni di do- minazione turca il paese diviene una zona di incontro-scontro tra il mondo occidentale e quello orientale, tra il mondo cristiano e quello musulmano. Nel XIX secolo i sollevamenti nazionalisti contro la Turchia si concludono con l’affidamento della Bosnia Erzegovina all’Impero Austro-Ungarico. Il risentimento per la nuova occupazione culmina con l’attentato all’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, casus-belli della prima Guerra Mondiale che si conclude con lo smembramento dell’Impero Austro-Ungarico e l’in- clusione della Bosnia Erzegovina nel regno di Jugoslavia. Invaso nel 1941 dalla Germania, il paese viene liberato dalle forze partigiane jugoslave, guidate dal maresciallo Josip Broz Tito, ed ottiene lo statuto di repubblica in seno alla Federazione Jugoslava. La morte di Tito, avvenuta nel 1980, segna il tramonto del socialismo e l’emergenza, all’interno della Federa- zione, di nazionalismi e rivendicazioni indipendentiste che sono all’origine degli ultimi e drammatici eventi storici. La Bosnia Erzegovina è un territorio prevalentemente montuoso, am- mantato da fitte foreste e ampi fondovalle solcati da corsi d’acqua che ne modellano significativamente il territorio. È chiamata la terra dell’oro blu o anche la terra dei fiumi. Nell’alveo della Neretva, dell’Una, della Sava, del- la Sana, della Drina, della Bosna e del Vrbas scorrono acque smeraldine. In primavera, quando la neve si scioglie, il colore verde sfida la tavolozza cromatica; i locali affermano che molti di questi fiumi sono potabili. L’unico fiume a fare il suo ingresso nell’Adriatico è la Neretva e si getta nel mare in modo trionfale. Gli altri rigano il territorio, in modo solenne e pacifico o con impeto ed esuberanza. Negli anni, ho attraversato in lungo ed in largo la Bosnia. Occuparmi di arte contemporanea in questo paese mi è sembrato il logico coronamento di un percorso personale. Per capire la Bosnia mi sono affidata alla lettura di Ivo Andrić e del suo capolavoro Il ponte sulla Drina, scritto settant’anni fa ed un poco dimenticato. Attraverso la storia di un ponte a undici arcate voluto nel XV secolo dal visir Mehmed Pascià Sokolovic a Visegrad, sotto cui «la Drina sembra sgorgare con tutto il peso della sua massa d’acqua, verde 112 Da Cortà. Imago Mundi Bosnia Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 111-116 e schiumosa, da una catena ininterrotta di nere e ripide alture», Andrić racconta dello scorrere del tempo in questo angolo di mondo, crocevia di popoli e culture, a cavallo com’era tra l’Occidente e l’Oriente. Racconta «il grande ponte di pietra, che secondo gli intendimenti e la pia decisio- ne del visir Sokolovic doveva unire, come l’anello di una catena, le due parti dell’impero, e facilitare ‘per amore divino’ il transito da occidente a oriente e viceversa». Un ponte, come afferma Heidegger, non è mai semplicemente un ponte. Esso infatti può esprimere ancora molte cose e diventare un simbolo. Il suo esistere fisicamente ed architettonicamente contribu- isce ad organizzare lo spazio fisico ma manifesta altresì una serie di significati. Il ponte consente il passaggio da una sponda all’altra, la comunicazione tra le due rive e costituisce, metaforicamente, un punto di congiunzione tra culture e mondi diversi, perché la diversità arric- chisce la convivenza. Il titolo della collezione Correnti d’acqua e di arte vuole significare molte cose. Ricordare le acque naturali che fluiscono sotto i numerosi ponti ed accostarle allegoricamente alle varie forme di espressione che ‘scorrono’ nell’epoca contemporanea. La collezione è composta da opere di professionisti affermati, inse- gnanti nelle Accademie e negli Istituti più prestigiosi, presenti da decen- ni sulla scena nazionale ed internazionale e da giovani artisti emergenti che stanno timidamente cercando un loro spazio nel panorama artistico. Lo spazio esiguo della tela non ha costituito un limite alle molteplici forme di espressione che si caratterizzano per alcuni con la rottura con il passato ed una maggiore manifestazione diretta dell’animo, per altri con un recupero della tradizione ed un’adesione ai canoni di un solido classicismo. Molti artisti hanno fatto ricorso ai linguaggi ed alle tecniche più sva- riate che contraddistinguono l’arte contemporanea, luogo cardinale della sperimentazione ed anche trasgressione: non solo pittura, ad olio o acrilico, ma anche fotografia, ricamo, uncinetto, utilizzo dei materia- li ed oggetti più svariati. In molte di queste piccole tele l’importanza sensoriale è marcata: i colori sono intensi, brillanti, pastosi. A volte si prolungano addirittura sul retro, come continuazione o come ulteriore sviluppo di un pensiero. Il risultato è uno straordinario ed eterogeneo insieme di immagini, parte di un’idea globale, una Mappa Mundi dell’ar- te contemporanea. Tutto questo mi riporta con la mente ad un oggetto che qualche anno fa mi affascinò perdutamente: un gigantesco mappamondo del peso di 34 kg realizzato nel 1869, ospitato nel Museo Nazionale dei Gioielli che si trova nell’enorme cassaforte della Banca Centrale dell’Iran a Teheran. Vi si accede attraverso una porta d’ingresso dello spessore di 25 cm e sofisticati sistemi di sicurezza. Questo straordinario globo è composto Da Cortà. Imago Mundi Bosnia 113 Venti anni di pace fredda in Bosnia Erzegovina, 111-116 da 51.366 pietre preziose: i mari sono di smeraldo, la terra ferma di ru- bini, l’Iran, l’Inghilterra e la Francia sono tempestate di diamanti. Ogni pietra preziosa, minuziosamente collocata accanto all’altra, è uno stato, un pezzetto di territorio, una superficie abitata, una preziosa e singolare Immagine del Mondo. Mi piace pensare che anche la Bosnia Erzegovina con la sua parteci- pazione al progetto abbia trovato uno spazio concreto in questo enorme mosaico, emozionante Wunderkammer!

114 Da Cortà. Imago Mundi Bosnia

Il 14 dicembre del 1995 a Parigi si firmò PACE DI ANNI VENTI FREDDA il General Framework Agreement for Peace che sanciva l’intesa politica raggiunta a Dayton (Ohio, Usa) e poneva fine alla guerra in Bosnia. Oltre a rappresentare un evento altamente simbolico, la pace raggiunta favorì una certa stabilità regionale. Tuttavia, vent’anni dopo, molte delle speranze e delle certezze di Dayton sembrano vacillare di fronte all’emergere di nuovi nazionalismi. L’Università Ca’ Foscari Venezia, attraverso la Scuola di Relazioni Internazionali e l’Archivio Scritture Scrittrici Migranti, ha organizzato una giornata di studio dal titolo ‘1995-2015, 20 anni di pace fredda in Bosnia ed REGAZZONI CAMILOTTI, Erzegovina’ che, oltre a ricordare la guerra e il debole rapporto con l’Europa, ha inteso avviare un bilancio di quanto la politica e la società civile hanno fatto fino ad ora.

Università Ca’Foscari Venezia 5