TESI D’ESAME

Roberto ARTAZ (*)

Trasformazione in senso monocratico dell'esecutivo locale ed istituti compensativi di partecipazione nel nuovo assetto delle autonomie

(*) Frequentatore del IV Corso di formazione iniziale per Segretari Comunali (Roma 1996, Veientana) TESI D’ESAME

Introduzione Dall'inizio degli anni novanta una vera e propria bufera istituzionale sembra avere investito il sistema italiano delle autonomie locali, che si appresta perciò a tagliare il traguardo del secondo millennio in una condi- zione di sostanziale rinnovamento e di radicale trasformazione. Questo sistema, lungi dall'aver trovato un assetto definitivo, si pre- senta oggi sballottato tra nuovi moduli organizzativi ed inedite competen- ze rifluite dal centro alla periferia, ma soprattutto segnato dall'emergere prepotente di un vecchio attore, il cittadino, per troppi anni sottovalutato nonostante certe solenni affermazioni contenute nella Carta costituzionale repubblicana del 1947. Ebbene è proprio il cittadino che si impone con forza all'attenzione dell'esegeta, e non più soltanto come destinatario di norme cui adeguarsi, ma essenzialmente nella veste di titolare di posizioni soggettive degne di tutela, di fronte ad un ordinamento che sta vivendo una rivoluzione coper- nicana, una stagione in cui matura il frutto di una democrazia ormai cin- quantenne: la centralità dell'uomo nella comunità, che dalle articolazioni locali si sostanzia in strutture via via più complesse, passando dalla dimen- sione comunale a quella provinciale, regionale e statuale, fino a quella sovranazionale comunitaria, finalmente visibile e comprensibile. A ben vedere, le radici di tutte le recenti trasformazioni sono chiara- mente rinvenibili nella Costituzione entrata in vigore il primo gennaio 1948, eppure non è senza significato che esse abbiano avuto luogo a così grande distanza di tempo. Come infatti scrisse Carlo Ghisalberti, a proposito della svolta costi- tuzionale postbellica che introduceva l'istituto regionale e valorizzava i comuni come sede naturale di decentramento funzionale, il Paese "assuefat- to a concepire lo Stato come il fulcro di tutta l'attività legislativa e ammini- strativa e come lo strumento propulsore dello sviluppo dell'intera società civile, difficilmente poteva intravedere le conseguenze di un pluralismo isti- tuzionale ove il potere sarebbe stato suddiviso in più centri, anche se tra loro coordinati. Ma come aveva accettato in età liberale e al tempo della dittatu-

544 Roberto ARTAZ ra fascista il decentramento di importanti strumenti di politica sociale e di gestione economica a enti operanti al di fuori dell'organizzazione e del con- trollo diretto della pubblica amministrazione, per promuovere con criteri efficientistici e funzionali lo sviluppo e il benessere dell'intera collettività nazionale, era prevedibile che questa nuova forma di pluralismo istituziona- le, concepita per la realizzazione di un decentramento politico-amministra- tivo privo di precedenti nella sua ampiezza, sarebbe stata infine accettata1." Certo l'art. 5 della Costituzione, secondo cui "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento", avrebbe potuto trovare più rapida attuazione, ma l'i- nerzia e la resistenza della macchina statuale erano inevitabili e scontati, in questo specifico campo così come in altri settori nei quali i Padri Costi- tuenti avevano voluto introdurre elementi di novità e di rottura con il vec- chio Stato accentrato di stampo liberale, che sembrava però poter coesiste- re con una parte del nuovo dettato costituzionale. E non a caso, già all'indomani della chiusura dei lavori dell'Assem- blea Costituente, Palmiro Togliatti ebbe modo di rilevare che "il nostro avvenire politico e persino costituzionale è incerto perché si possono pre- vedere scontri seri tra una parte progressiva che si appoggerà su di una parte della nostra Carta costituzionale, e una parte conservatrice e reazio- naria che cercherà nell'altra parte gli strumenti della sua resistenza2." Eppure tra tentativi di riforme abortite sul nascere, derive conserva- trici e coraggiose prese di posizione a favore del cambiamento, l'Italia ha saputo imboccare - seppure con ritardo - la strada del rinnovamento e dello svecchiamento istituzionale.

1 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia 1848/1948, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 426 2 Togliatti, in La costituzione repubblicana ieri, oggi e domani / Alcuni giudizi politici sulla Carta Costituzionale, pubblicazione a cura dell'ANPI / Emilia Romagna, Bologna, 1987, pp. 209 e 210.

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Il dibattito sulle riforme prese le mosse dalla crisi politica del Paese negli anni settanta. Dopo la revisione dei regolamenti parlamentari nel febbraio 1971, si fece strada l'ipotesi di dare finalmente attuazione alla Carta Fondamentale. Su questa linea si pongono il messaggio al Parlamento del Presiden- te della Repubblica Giovanni Leone dell'ottobre 1975 e, alla fine del decen- nio, la proposta socialista di una "Grande Riforma". Nell'agosto del 1982, il leader repubblicano Giovanni Spadolini sottopone ai partiti italiani un suo famoso "decalogo" in occasione delle trattative per la formazione del suo secondo governo e, pochi mesi dopo, viene istituita una commissione bicamerale per le riforme (ottobre 1983 - gennaio 1985) presieduta dal liberale Aldo Bozzi: il dibattito si sposta così dai seminari di studio alle aule parlamentari3. L'esito di tutte queste iniziative non è sempre felice, poiché i buoni propositi non riescono a trasformarsi celermente in realtà normative. Tuttavia alcuni tentativi di razionalizzare e di rendere più efficiente il sistema vanno a buon fine, come accade con la L. 23 agosto 1988, n. 400, sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio, con la L. 8 giugno 1990, n. 142, sul nuovo ordinamento delle autonomie locali, e con la L. 7 agosto 1990, n. 241, recante nuove norme in materia di procedimento ammini- strativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi. Ma il vero e proprio momento iniziale di quella stagione politico-isti- tuzionale, definita forse con un po' di retorica, ma certo con efficacia, la "rivoluzione italiana", è il referendum abrogativo sul numero delle prefe- renze esprimibili per l'elezione della Camera dei Deputati. Siamo al 9 giu- gno 1991 e la vittoria dei "sì" introduce di fatto la preferenza unica: è il segnale che la società italiana sta cambiando. Il Parlamento, sull'onda dell'emozione per i risultati della consulta- zione popolare, presta al messaggio sulle riforme inviato dal Capo dello

3 Cfr. L. Tentoni, Riforme istituzionali in Italia, in Sapere anche poco è già cambiare / Rifor- me istituzionali in Italia e modelli di riferimento, Giuffré, Milano, 1996, p. 6.

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Stato Francesco Cossiga nel giugno 1991 maggiore attenzione di quanta non ne fosse stata riservata a quello indirizzato sedici anni prima dal Presi- dente della Repubblica Giovanni Leone. Intanto, con le elezioni del 5-6 aprile 1992, il quadro politico italia- no muta rapidamente, mentre il 1993 è foriero di grandi novità, prima con il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 recante principi sulla "Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disci- plina in materia di pubblico impiego", poi con la L. 25 febbraio 1993, n. 81 sull'elezione diretta del Sindaco, del Presidente della provincia, del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale. Il 18 aprile di quello stesso anno i cittadini approvano numerosi refe- rendum abrogativi, tra i quali uno che consente l'elezione, col sistema mag- gioritario uninominale ad un turno di 238 Senatori su 315; poco tempo dopo vengono quindi licenziate le LL. 4 agosto 1993, n. 276 e n. 277 che ridisegnano la normativa italiana sulle elezioni politiche: nasce in quei mesi l'attuale "democrazia maggioritaria", figlia dei referendum e della nuova legislazione approvata dal Parlamento (completata poi dalla L. 23 febbraio 1995, n. 43 che prevede la designazione popolare del Presidente delle Regioni a statuto ordinario). Si realizza così, dopo anni di incerto cammino, quella frase profeti- ca di Luigi Einaudi, Padre Costituente e primo Presidente eletto della Repubblica, che lasciò scritto: "La democrazia è discussione e voto. Le parti avverse discutono e poi votano; si contano le teste e si forma una maggio- ranza, la quale ha il diritto di deliberare e di attuare la sua volontà; e la minoranza ha il dovere di osservare lealmente il deliberato della maggio- ranza (...). Ma credo che una Costituzione debba avere un ideale più alto di quello di ottenere dalla minoranza una semplice osservanza leale della volontà manifestata dalla maggioranza. Questo ideale, a parer mio, è quello della cooperazione volenterosa della minoranza. Una Costituzione non funziona bene se la volontà della maggioranza non si manifesti in modo che la minoranza presti non solo osservanza leale alle leggi dello Stato, ma la sua cooperazione volenterosa.

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Non pretendo che la maggioranza si debba proporre sempre questo ideale; ma almeno quando il proporselo non è di grande sacrificio, il non cercare questa cooperazione volenterosa da parte della minoranza reca una inutile ferita ai sentimenti e alle tradizioni della minoranza stessa4."

L'Ente Locale alla fine del secondo millennio, una sintetica ricognizione storica La storia del sistema comunale e provinciale italiano del ventesimo secolo è scandita da alcune date che hanno segnato, entro una cornice però essenzialmente accentratrice fine al 1990, la progressiva evoluzione dell'en- te locale. Fino alla seconda metà degli anni trenta, tra le tappe fondamentali di questa evoluzione vanno ricordati il Testo Unico della legge comunale e provinciale approvato con il R.D. 4 febbraio 1915, n. 148 (modificato dal R.D. 30 dicembre 1925, n. 2839) ed il successivo Testo Unico approvato con il R.D. 3 marzo 1934, n. 383, che dettarono il nuovo assetto degli enti territoriali, nonché la cosiddetta "riforma podestarile" (iniziata con la L. 4 febbraio 1926, n. 237 e completata con il R.D.L. 15 aprile 1926, n. 765 ed il R.D.L. 3 settembre 1926, n. 1910), che introdusse il principio della nomina, da parte del Governo, dei podestà preposti alle amministrazioni comunali in sostituzione dei sindaci elettivi ed il principio della designa- zione dei componenti delle consulte municipali da parte delle organizza- zioni e dei sindacati di regime, in sostituzione degli organi elettivi. Com'è noto la lunga stagione fascista sancì l'eliminazione totale di ogni forma di autogoverno, che pure era stato conservato entro certi angu- sti limiti dal vecchio Stato liberale accentratore, tuttavia è possibile riscon- trare le tracce di una interessante forma di continuità nella storia ammini- strativa di quegli anni5. Fin dall'epoca giolittiana, infatti, pur auspicandosi da più parti la

4 L. Einaudi, in La costituzione repubblicana ieri, oggi e domani / Alcuni giudizi politici sulla Carta Costituzionale, pubblicazione a cura dell'ANPI / Emilia Romagna, Bologna, 1987, pp. 197 e 198. 5 Cfr. E. Rotelli, Le trasformazioni dell'ordinamento comunale e provinciale durante il regime fascista, in Storia contemporanea, 1973, n. 1, pp. 57 e seguenti.

548 Roberto ARTAZ democratizzazione dello Stato ed un suo graduale svecchiamento attraver- so forme di più ampia partecipazione popolare alla vita delle istituzioni, non venne per nulla allentato o modificato l'atteggiamento accentratore che costituiva una delle basi fondamentali del regime politico dell'Italia sabauda6. La classe dirigente politica e burocratica, pur essendo espressa dalla parte più illuminata della borghesia italiana, non poteva rinunciare ad un forte controllo da parte del governo centrale sull'andamento generale del Paese, timorosa com'era di assistere ad una tumultuosa trasformazione isti- tuzionale che avrebbe potuto mettere a repentaglio l'esistenza stessa del regime liberale7. Una eventuale opzione favorevole al decentramento nel campo amministrativo, oltre ad essere contraria alla linea di sviluppo dei vicini stati moderni, non era neppure auspicata dal nascente movimento operaio e rap- presentava, per l'ordinamento vigente, un mutamento così radicale da appa- rire completamente estraneo alla sua tradizione ed alla sua stessa natura. Certo, alla vigilia della prima guerra mondiale vennero sviluppati gli istituti e gli organi consultivi dell'amministrazione periferica, fu incremen- tata l'attività dei comuni con la municipalizzazione di certi servizi essen- ziali, ma non vennero abbandonati i controlli politici e amministrativi sugli enti locali, e questo nel solco della classica tradizione liberale italiana, sempre sospettosa nei confronti di una possibile reale autonomia degli enti territoriali. Al timido dibattito in favore del decentramento si contrappose così sempre la razionalizzazione ed il perfezionamento dell'accentramento burocratico-amministrativo, significativa premessa al totalitarismo fascista non lungi dal venire8. Il Ventennio si caratterizzò infatti per varie riforme, tutte di segno accentratore, che consentivano all'esecutivo centrale di controllare le

6 Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia 1848/1948, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 280. 7 Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia 1848/1948, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 280. 8 Cfr. R. Ruffilli, La questione regionale (1862-1942), Milano, 1971, pp. 194 e seguenti.

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amministrazioni ed al partito unico di gestirle direttamente, eliminando ogni forma di autogoverno; ma anche questa stagione finì e nella primave- ra del 1946 ebbero luogo le prime elezioni amministrative libere del dopo- guerra, che parvero segnare una profonda svolta. Ed a tal proposito, il Ghisalberti lasciò scritto: "Anche se la legisla- zione sulle amministrazioni locali continuava come prima ad essere ispira- ta alla compressione dell'autonomia e all'accentramento, tenuto in vita tra l'altro con un complicato sistema di controlli di legittimità e di merito sui comuni, con l'attribuzione di scarsissime competenze alle province e con un rigoroso ordinamento della finanza comunale e provinciale, tuttavia il ritorno all'autogoverno sembrava aprire una prospettiva di rinnovamento di quella prassi politica e amministrativa che dall'età napoleonica in poi aveva caratterizzato la vita dei comuni e delle province9." In realtà però, dal dopoguerra fino alla vigilia degli anni novanta, i fermenti di rinnovamento, che pure esistevano nel tessuto sociale italiano, non riuscirono a produrre risultati veramente tangibili, per cui l'ordina- mento continuò sostanzialmente a perpetuare la vecchia tradizione sabau- da liberal-accentratrice. Nella seconda metà degli anni ottanta, invece, si registra un'accelera- zione del dibattito politico-istituzionale in tema di autonomie locali. L'ap- proccio che veniva proposto era duplice: si teorizzava d'un canto uno svec- chiamento complessivo del sistema e dall'altro si spingeva per una riforma esclusivamente in materia elettorale. Venne poi il Governo retto da , con il Ministero del- l'Interno affidato ad Antonio Gava e l'ombra incombente del leader socia- lista ; si era ormai in piena stagione di CAF (il cosiddetto asse Craxi-Andreotti-Forlani) durante la quale la sinistra democristiana, favore- vole ad una revisione in senso maggioritario della legge elettorale comuna- le, fu relegata all'opposizione interna nel partito di maggioranza relativa e

9 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia 1848/1948, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 405.

550 Roberto ARTAZ le correnti democristiane emergenti trovarono nel segretario socialista un forte alleato contrario ad ogni riforma del sistema proporzionale10. Due personalità in particolare cercarono però di dare una spallata al sistema che sembrava ormai cristallizzato: Mario Segni e Bartolo Ciccardi- ni, che dettero il via alla stagione referendaria nel tentativo di trasformare l'ordinamento "attraverso un circuito decisionale alternativo a quello ordi- nario11." Fino ad allora, il meccanismo elettorale comunale prevedeva una for- mula sostanzialmente maggioritaria entro la soglia dei 5.000 abitanti ed una formula a scrutinio proporzionale tra liste al di sopra di tale soglia. L'esperienza degli ultimi anni aveva insegnato che gli equilibri all'in- terno dei consigli comunali eletti con il sistema proporzionale erano quan- to mai fragili, con le giunte ed i sindaci in balia di maggioranze infide, spes- so manovrate dalle segreterie dei grandi partiti che avevano trasformato l'I- talia in una scacchiera dove ogni mossa, anche in periferia, entrava a far parte di un immenso meccanismo di spartizione del potere. I sindaci delle grandi città venivano spesso sostenuti da alleanze con- siliari eterogenee, dirette dall'esterno sulla base di delicati equilibri politici regionali o nazionali. E non è un caso che proprio in un tale contesto venne coniata la locuzione "giunta anomala", ad indicare un esecutivo locale che non rispecchiava la formula di coalizione ufficiale dei partiti al Governo, un'al- leanza in un certo senso spuria, eppure dettata spesso da accordi che var- cavano i confini delle province e delle regioni: nel mercato della politica, in cambio della maggioranza in certi comuni, venivano assicurati i voti man- canti per il controllo di una provincia o di una regione.

10 Concetti espressi durante la lezione tenuta il 27/11/1996, presso la Scuola Superiore del- l'Amministrazione dell'Interno - IV Corso iniziale per segretari comunali in prova, da A. Ago- sta, professore di Scienza della politica presso l'Università di Urbino. 11 Espressione utilizzata dall'Avv. Mauro Ferri, Presidente Emerito della Corte Costituziona- le, nella sua prolusione sul tema "La Corte Costituzionale a quaranta anni dalla sua istituzio- ne", durante la Cerimonia Inaugurale dell'Anno Accademico 1996-1997 della Scuola Supe- riore dell'Amministrazione dell'Interno, il 5/12/1996.

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Questo era il sistema italiano all'inizio degli anni novanta e con tutta evidenza il Parlamento, dominato dal che aveva affinato al massimo grado questo genere di strategia, si mostrava assolutamente restio a considerare la possibilità di riformare le leggi elettorali su cui si fondava tutto l'edificio del potere. Vennero invece licenziate la L. 142/1990 prima e la L. 241/1990 poi, che apparentemente non intaccavano gli assetti politici faticosamente rag- giunti. Non si tenne però sufficientemente conto degli effetti dirompenti che un dissenso manifestato in sede referendaria poteva generare. L'unico quesito ammesso in materia elettorale fu, per il 1991, quello sulla preferenza unica nell'elezione della Camera dei Deputati, che venne accolto in maniera trionfale dagli elettori: era l'inizio della fine di un'epoca. Vennero quindi le elezioni politiche del 1992, che concludevano una legislatura lunga, durata cioè fino alla sua scadenza naturale, avvenimento raro in un'Italia assuefatta alle turbolenze politiche, alle crisi extraparla- mentari ed alla chiusura anticipata delle legislature; si trattava di elezioni che avrebbero dovuto sancire, almeno nelle intenzioni dei sostenitori del CAF, la maturità politica del pentapartito. I risultati furono però ben diversi e deludenti per la maggioranza di Governo: iniziò così la fase di destrutturazione del sistema. Anche sulla scia dell'emergente fenomeno leghista, che pareva sin- tomatico di una forte aspirazione al cambiamento, si ricominciò a discute- re di riforme, con un'attenzione particolare rivolta ad una possibile revisio- ne delle leggi elettorali che consentisse la formazione di esecutivi stabili12. Intanto si formano "Governi di Tecnici" ed un nuovo referendum vittorioso sulla legge elettorale per il Senato, dà l'avvio alla "rivoluzione maggioritaria" che investe anche gli enti locali. Così i Comuni, già profondamente trasformati dalla novella legisla-

12 Concetti espressi durante la lezione tenuta il 27/11/1996, presso la Scuola Superiore del- l'Amministrazione dell'Interno - IV Corso iniziale per segretari comunali in prova, da A. Ago- sta, professore di Scienza della politica presso l'Università di Urbino.

552 Roberto ARTAZ tiva del 1990, vengono ulteriormente scossi dal vento delle riforme e con la L. 81/1993 completano la loro metamorfosi, abbandonando in maniera definitiva schemi organizzativi e modelli di riferimento che avevano attra- versato indenni l'età dello Stato liberale, la stagione della dittatura e quasi quarantacinque anni di Repubblica.

La forma di governo dell'ente locale: dal modello assembleare previsto dalla L. 142/1990 alla deriva monocratica favorita dalla L. 81/1993 Sull'opportunità di utilizzare l'espressione "forma di governo" in materia di enti locali L'espressione "forma di governo" è dalla dottrina maggioritaria ordi- nariamente utilizzata per indicare il rapporto esistente tra il modello orga- nizzatorio fondamentale di un ordinamento e la forma di stato vigente in una data epoca, una relazione strettamente connessa al significato che una certa comunità attribuisce al manifestarsi quotidiano di due concetti, il principio di autorità ed il principio di libertà. Su questa scia si pone la ricostruzione sistematica della categoria pro- posta da un giurista come Leopoldo Elia13, ripresa peraltro recentemente da alcuni autori, con l'intento tuttavia di superare la tradizionale distinzione tra forma di stato e forma di governo, sottolineando l'aspetto non margi- nale della legittimazione politica sia dei soggetti investiti dei poteri supre- mi sia delle formule organizzatorie dell'apparato statuale14. È evidente che alla luce di tale elaborazione dottrinale restano mar- gini molto esigui per estendere un concetto come quello di forma di gover- no all'universo delle autonomie locali15, eppure sono stati recentemente tentati interessanti percorsi esegetici che sembrano giustificare l'estensione

13 L. Elia, Enciclopedia del diritto, vol. XIX, sub voce Governo (forme di), Milano, 1970. 14 A. Romano, Alcune osservazioni preliminari sui concetti di forma di governo e di costitu- zione nella prospettiva del mutamento istituzionale, in Arch. dir. cost., n. 2, 1993, pp. 19 e 20. 15 S. Prisco, La "forma di governo" del comune e le odierne dinamiche politico istituzionali italiane, in Arch. dir. cost., n. 3, 1993, pp. 120 e seguenti; S. Staiano, Nuove funzioni e asset- ti del governo locale, pp. 1127-1145, in Reg. e Gov. Loc./Bim. studi giur. e pol. della Reg. Emilia-Romagna, Rimini, 1995.

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di questa formula al modello di rapporto esistente tra gli organi degli enti territoriali16. Mi atterrò a tale ultima corrente interpretativa, per ragioni ricondu- cibili non soltanto all'opportunità di utilizzare un lessico efficacemente descrittivo o all'esigenza di rispettare una terminologia assai comune nel dibattito sociopolitico in materia di autonomie locali, ma anche perché intimamente convinto che negli ultimi anni concetti come "Stato" e "sovra- nità" siano stati ampiamente destrutturati da interventi endogeni ed esoge- ni rispetto al sistema vigente. Quanto al primo ordine di interferenze, rilevo che l'iniziativa refe- rendaria ha determinato un movimento di idee rivoluzionario, apparente- mente in grado di rifondare gli istituti fondamentali del nostro ordina- mento sulla base di una reale legittimazione popolare di ogni riforma isti- tuzionale od organizzatoria e questo a partire dalla sfera più vicina alla vita quotidiana del cittadino, e cioè la dimensione comunale, che va interpreta- ta non più come momento di avvicinamento degli apparati centrali alla periferia, ma come momento legittimante di forme più complesse di aggre- gazione quali lo Stato stesso. Quanto invece agli interventi esterni al nostro ordinamento, non si può dimenticare l'effetto dirompente di alcuni principi di origine europeo- comunitaria: il concetto di sussidiarietà innanzi tutto, che prevede un ripar- to dei compiti tra vari livelli funzionali sulla base di una concezione demo- cratica di carattere personalistico, concezione secondo cui il ruolo primario del cittadino è quello di membro della comunità locale, mentre solo in seconda battuta si materializza la dimensione di cellula fondamentale dello Stato17. In sostanza, nella suddivisione dei ruoli di responsabilità secondo la

16 M. Villone, Spunti su autonomia statutaria e forma di governo nella legge 142, in Regione e Governo Locale, n. 5, 1991, pp. 721 e seguenti. 17 Concetti espressi durante la lezione tenuta il 20/09/1996, presso la Scuola Superiore del- l'Amministrazione dell'Interno - IV Corso iniziale per segretari comunali in prova, da C. Pao- lini, segretario generale del Comune di Cecina.

554 Roberto ARTAZ concezione mutuata dalla pubblicistica europeo-comunitaria18 la figura del cittadino emerge soprattutto nel suo rapporto privilegiato con la comunità locale, la più idonea, per vicinanza fisica, ad erogare servizi secondo criteri di efficienza ed efficacia. Allo Stato resta invece una competenza residuale volta a garantire d'un canto standard minimi in tutto il territorio e dall'altro a pro- grammare quel genere di interventi che soltanto nella più ampia dimensione statuale possono trovare una giustificazione ed una seria garanzia di esito posi- tivo19, il che peraltro non esclude neppure, alla luce dell'evoluzione sociale del Paese, il potenziamento di determinate funzioni fino ad oggi inesplorate20. Altro elemento da tenere ben presente, tra i fattori esogeni, è la let- tera stessa della normativa internazionale (Convenzioni Europee) che, cala- ta nell'esperienza italiana, ha determinato effetti giuridici ed aspettative fino a qualche anno fa imprevedibili. Mi riferisco in particolare alla Carta Europea dell'autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985 e di cui venne autorizzata la ratifi- ca con la L. 30 dicembre 1989, n. 439, Carta nella quale si delinea chiara- mente un modello organizzatorio che sembra scardinare il tradizionale con-

18 Cfr. le tesi di J. Delors, in AA.VV., Dal piano Delors all'Unione Economica e Monetaria, Cedam, Padova, 1991. 19 Cfr. sul tema anche i concetti espressi, in materia di concorrenzialità nell'erogazione dei ser- vizi, dal prof. Giuliano Amato (che presiede l'Autorità Garante dell'Antitrust) durante la lezione tenuta presso la Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'Interno il 21/11/1996; secondo il docente, il libero esplicarsi della concorrenza anche nel settore dell'erogazione dei servizi garantisce l'emergere dell'attore più idoneo a fornire il servizio migliore ed a potenzia- re la democraticità del sistema, avvicinando il titolare di esigenze e di bisogni all'operatore che tenta di proporre risposte concrete, e questo sia nella dinamica dei rapporti fra erogatore pub- blico statale e comunale, sia nella prospettiva di una progressiva sostituzione degli attori pub- blici con quelli privati. 20 Cfr. sul tema anche l'intervento del prof. Giuseppe De Rita, al convegno di presentazione della ricerca "Prefetture e socialità" (studio effettuato grazie ad una collaborazione tra Dire- zione Generale dei servizi civili del Ministero dell'Interno e CENSIS - Centro Studi Investi- menti Sociali) tenutosi presso la Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'Interno il 19/11/1996, alla presenza del Presidente della Repubblica : secondo lo studioso, le Prefetture, quali organi periferici dello Stato Centrale, hanno saputo negli ultimi anni occupare uno spazio inedito, fatto di nuovi servizi al cittadino e di attività di monito- raggio della compagine sociale; ciò costituisce la migliore garanzia per un futuro di impor- tante presenza sul territorio ad organismi che parevano rischiare di essere travolti dal vento delle riforme.

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cetto di sovranità e pare mettere in discussione ogni teoria volta a limitare l'applicazione del concetto di "forma di governo" alle sole compagini sta- tuali, come si può evincere ad esempio dalla lettera dell'art. 4 (Portata del- l'Autonomia Locale): – Le competenze di base delle collettività locali sono stabilite dalla costituzione o dalla legge. Tuttavia, detta norma non vieta il conferimento alle collettività locali di competenze specifiche, in conformità alla legge. – Le collettività locali hanno, nell'ambito della legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un'altra autorità. – L'esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza sulle autorità più vicine ai cittadini. L'assegnazione di una responsabilità ad un'altra autorità deve tener conto dell'ampiezza e della natura del compito e delle esigenze di efficacia e di economia. – Le competenze affidate alle collettività locali devono di regola essere complete ed integrali. Possono essere messe in causa o limitate da un'altra autorità, centrale o regionale, solamente nell'ambito della legge. –In caso di delega dei poteri da parte di un'autorità centrale o regionale, le collettività locali devono fruire, per quanto possibile, della libertà di armonizzare l'esercizio delle loro funzioni alle condizioni locali. – Le collettività locali dovranno essere consultate per quanto possibile in tempo utile ed in maniera opportuna nel corso dei processi di programma- zione e di decisione per tutte le questioni che le riguardano direttamente21."

21 Cfr. anche il Preambolo della Carta Europea dell'autonomia locale che afferma testualmen- te: "(...) le collettività locali costituiscono uno dei principali fondamenti di ogni regime demo- cratico (...) il diritto dei cittadini a partecipare alla gestione degli affari pubblici fa parte dei principi democratici comuni a tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa (...) è a livello locale che il predetto diritto può essere esercitato il più direttamente possibile (...) l'esistenza di collettività locali investite di responsabilità effettive consente un'amministrazione efficace e vicina al cittadino (...) la difesa ed il rafforzamento dell'autonomia locale nei vari Paesi euro- pei rappresenta un importante contributo alla edificazione di un'Europa fondata sui principi della democrazia e del decentramento del potere (...) ma questo presuppone l'esistenza di col- lettività locali dotate di organi decisionali democraticamente costituiti, che beneficino di una vasta autonomia per quanto riguarda le loro competenze, le modalità di esercizio delle stesse, ed i mezzi necessari all'espletamento dei loro compiti istituzionali."

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Il sistema delle autonomie locali sembra, in tale prospettiva, assu- mere il ruolo di momento fondamentale dell'esercizio della sovranità popolare, il che giustifica conseguentemente il ricorso a formule lessicali come "forma di governo" per descrivere in maniera sostanziale il rapporto esistente tra gli organi degli enti territoriali22.

La forma di governo dell'ente locale all'indomani dell'entrata in vigore della L. 142/1990 Nel testo originario della L. 142/1990 è possibile interpretare il rap- porto tra Consiglio e Giunta comunale secondo un modello di tipo lata- mente assembleare. Ai sensi dell'art. 32, comma 1, il Consiglio è organo di indirizzo politico-amministrativo, ma ai sensi dell'art. 32, comma 2, spetta ad esso non soltanto l'adozione degli atti fondamentali del Comune, bensì pure il potere di compiere atti che sconfinano nell'esecuzione dell'indirizzo stesso; in forza dell'art. 34, comma 3, la giunta ed il sindaco ottengono la fiducia consiliare sulla base di un documento programmatico proposto da un quo- rum di consiglieri; ex art. 35, la Giunta è un organo di attuazione dell'in- dirizzo consiliare, degli atti fondamentali e svolge attività propositiva e di impulso nei confronti del Consiglio, su un piano di parità rispetto agli altri titolari del potere di iniziativa, rinvenibili all'interno del Consiglio stesso od anche al suo esterno (artt. 6, 7, 8 sugli istituti di partecipazione); per garantire una certa stabilità nella relazione fiduciaria, erano previsti termi- ni certi per l'elezione del Sindaco e la formazione di una Giunta (l'art. 34, comma 2, disponeva che tali incombenze dovessero essere assolte entro ses- santa giorni dalla proclamazione degli eletti o dalla data in cui si fosse veri-

22 Cfr. sull'argomento anche i concetti espressi dal prof. Alessandro Truini, durante la lezione tenuta presso la Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'Interno - IV Corso iniziale per segretari comunali in prova il 17/09/1996; secondo l'autore, a Costituzione vigente, lo spazio riservato ad un "governo locale", pur molto ristretto, esiste, in quanto la capacità di risposta dell'ordinamento alle istanze dei cittadini è più elevata nel contesto limitato dell'ente territo- riale.

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ficata la vacanza ovvero fossero state presentate le dimissioni), era stato introdotto l'istituto della mozione di sfiducia costruttiva, con l'art. 37, ed un termine minimo (5 gg. dalla presentazione) e massimo (10 gg. dalla pre- sentazione) per lo svolgimento della discussione consiliare su di essa, non- ché la possibilità di sostituire un singolo assessore senza per questo manda- re per forza in crisi il rapporto fiduciario Consiglio-Giunta23. Questo per quanto riguarda la lettera della norma; va però sottoli- neato che lo spirito della legge poteva parzialmente essere tradito da ten- denze interpretative e prassi già affermatesi sotto la vigenza del sistema pre- cedente la riforma del 199024: la Giunta era in grado, al limite, di relegare il Consiglio in una posizione ratificatoria, assumendo una spiccata funzio- ne direttiva, grazie al possibile controllo incontrastato sulla maggioranza consiliare ed al dominio sull'apparato burocratico; viceversa essa poteva essere fortemente condizionata dalla volubilità delle componenti politiche che sedevano in Consiglio. Emergono dunque i fattori che condizionarono fin dall'inizio l'im- patto della nuova normativa sull'operatività degli enti: i caratteri del siste- ma elettorale, la struttura dell'assetto partitico locale, l'organizzazione della burocrazia comunale. La L. 142/1990 non metteva in discussione il proporzionalismo della legge elettorale allora vigente, che favoriva la tendenza alla frammentazione della rappresentanza consiliare e, se da una parte poteva determinare una netta contrapposizione tra Giunta e Consiglio, dall'altra rendeva invece possibile all'interno della stessa Giunta la conquista, da parte di singoli assessori, di spazi autonomi, separati e magari variabili di competenza, riconducibili al peso spendibile nella maggioranza consiliare dalla forza

23 Cfr. N. Laudisio, La nuova legge sull'ordinamento delle autonomie locali, Salerno, 1990, pp. 77 - 102. 24 Cfr. sul tema S. Merlini, Comuni e "forma di governo". Elezione diretta dei sindaci e tra- sformazione del principio di autonomia locale, in Quaderni cost., 1986, n. 1, p. 69, nonché S. Gambino, Il governo dell'ente locale fra leggi di riforma e statuti, in Regione e Governo Locale, 1993, n. 5, p. 963 e S. Staiano, Nuove funzioni e assetti del governo locale, pp. 1127- 1145, in op. cit., Rimini, 1995.

558 Roberto ARTAZ politica da essi rappresentata. Il quadro politico-istituzionale emergente di contrattazione sistema- tica nella formazione dell'esecutivo poteva però trovare un argine nelle norme statutarie degli enti: una soluzione ammissibile consisteva nell'attri- buire al Consiglio il potere di individuare compiutamente le competenze degli assessori entro il termine stabilito per l'elezione del Sindaco e della Giunta25. Tale scelta statutaria rischiava però di influire negativamente sulla stabilità dell'esecutivo, depotenziando di fatto la figura del Sindaco, offu- scata da assessori che traevano formalmente i loro poteri dalla volontà del Consiglio (rectius delle forze politiche presenti nella coalizione al potere), cancellando ogni potestà di orientamento e di sintesi del "primo cittadi- no"; altro grave problema era poi legato alla rigidità nell'attribuzione dei rispettivi campi di competenza, rigidità che bene poteva emergere nell'ipo- tesi di ridistribuzione degli incarichi, un'operazione che rischiava di met- tere facilmente in crisi il rapporto fiduciario, vista l'anelastica corrispon- denza tra programma di governo ed articolazione delle competenze. Altra soluzione proponibile era quella di attribuire al Sindaco il pote- re di ripartire le competenze sulla base dell'art. 67 del R.D. 12 febbraio 1911, n. 297, articolo non espressamente abrogato dall'art. 64 della L. 142/1990. Da ultima, veniva la possibilità di conferire alla Giunta stessa il pote- re di ripartire gli spazi di competenza, sottraendo la decisione al Sindaco e lasciandogli solo funzioni propositive. Le tre opzioni percorribili manifestavano comunque tutte il limite fondamentale della difficoltà di trovare, nei rapporti interni all'esecutivo del Comune, un equilibrio tra modello collegiale ed assetto monocratico.

25 Cfr. sull'argomento L. Pegoraro, Gli statuti degli enti locali. Sistema delle fonti e problemi di attuazione, Rimini, 1993, p. 283, in cui l'autore paventa l'illegittimità dell'attribuzione al Consiglio del potere di individuare le competenze degli assessori, e M. Villone, Spunti su autonomia statutaria e forma di governo nella legge 142, in Regione e Governo Locale, n. 5, 1991, p. 725.

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Un altro genere di problema emergeva invece in materia di rapporti tra Consiglio e Giunta. Il primo organo infatti poteva sancire la sua preminenza attraverso meccanismi tendenti a garantirgli i poteri di indirizzo, al riparo da influen- ze troppo invadenti di Giunta e Sindaco26. Ma è ora opportuno passare ad analizzare il rapporto che l'apparato burocratico poteva instaurare con gli organi dell'ente; a tal proposito si deve innanzi tutto sottolineare che la Giunta, stando alla lettera della norma, poteva assumere una posizione di assoluta preminenza sugli uffici, special- mente nei confronti della dirigenza, visti gli incisivi strumenti di controllo e di direzione attribuiti dalla L. 142/1990. Soltanto apparentemente infatti tale normativa distingueva netta- mente le funzioni proprie della burocrazia comunale da quelle tipiche degli organi politici, garantendo così la neutralità dell'apparato. La maggioranza possiede infatti argomenti assai convincenti per garantire l'adesione dei dirigenti ai suoi programmi, come il potere di influenzare la progressione in carriera, in sede di valutazione e verifica dei risultati, attraverso la distri- buzione ed il rinnovo degli incarichi, in forza dell'art. 51, commi 4 e 6. Da parte loro, i dirigenti possono "contrattare" la collaborazione da una posizione di relativa forza, appoggiandosi ai meccanismi di controllo loro conferiti sulle proposte di deliberazione ai sensi dell'art. 53, facendo leva sul loro ruolo di preposti agli uffici, nonché di responsabili delle ope- razioni di concorso e di appalto, in forza dell'art. 51, comma 3. Questo modello di interazione tra esecutivo ed apparato, scaturito

26 Su tale linea potevano porsi delle norme statutarie che avessero attribuito a singoli consi- glieri, o ad un quorum di consiglieri, il potere di iniziativa delle delibere consiliari, indicando in maniera precisa la procedura che avrebbe dovuto concludersi con l'esame delle proposte; finalità simile poteva poi avere una disciplina che avesse attribuito particolare incisività al potere di chiedere la formazione di commissioni di inchiesta, ovvero avesse conferito notevo- le efficacia agli strumenti ispettivi, vincolando a termini stringenti la risposta della Giunta alle interrogazioni; ancora nel medesimo solco si potevano porre delle disposizioni tendenti ad attribuire alle commissioni consiliari la facoltà di convocare non soltanto organi politici, ma anche funzionari e dirigenti dell'ente locale, delle aziende e degli enti dipendenti, con lo scopo di limitare l'influenza dell'esecutivo sulla burocrazia.

560 Roberto ARTAZ dall'applicazione della L. 142/1990 e battezzato "neutralità contrattata", è stato solo apparentemente scalfito dal D.Lgs. 29/1993 (successivamente integrato dal D.Lgs. 10 novembre 1993, n. 470 e dal D.Lgs. 23 dicembre 1993, n. 546), che si poneva l'obiettivo dichiarato di separare la politica dalla gestione amministrativa27. La lettera della norma (art. 3, commi 2 e 3 del D.Lgs. 29/1993, modi- ficato dall'art. 2 del D.Lgs. 470/1993), applicabile anche agli enti locali visto che l'art. 74 del D.Lgs. 29/1993 abroga espressamente l'art. 51, comma 8 della L. 142/1990, stabilisce infatti che "gli organi di governo definiscono gli obiettivi ed i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite" (art. 3, comma 1) e che "ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l'adozione di tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo. Essi sono responsabili della gestione e dei relativi risultati" (art. 3, comma 2). Di fatto però la piena separazione dei due piani pare piuttosto diffi- cile, visto che le funzioni attribuite oggi all'apparato sono così estese, com- plesse e provocatrici di aspettative presso i cittadini-elettori che è indispen- sabile uno stretto collegamento tra gli organi politici e le figure apicali della burocrazia28.

27 Cfr. sull'argomento l'opinione contraria di Giuseppe Panassidi, segretario generale del Comune di Savona, espressa durante la lezione tenuta, presso la Scuola Superiore dell'Am- ministrazione dell'Interno - IV Corso iniziale per segretari comunali in prova, il 17/09/1996: secondo lo studioso, il rapporto tra politica e gestione amministrativa si è modulato secondo una formula nuova, definita "rapporto di interconnessione", in cui il piano politico e quello burocratico sono nettamente separati eppure comunicanti, spettando agli organi politici la pianificazione strategica ed il controllo, mentre agli organi burocratico-gestionali la pianifica- zione operativa e l'attuazione. 28 Cfr. sul tema e sui limiti dell'affermata, ma non realizzata, separazione tra il piano politico e quello amministrativo-gestionale, nonché sull'insufficienza delle norme che prevedono un nuovo assetto privatistico della dirigenza, A. Zoppoli, La dirigenza del pubblico impiego "pri- vatizzato", in AA.VV., L'impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino, 1993, pp. 69 e seguenti; D. Amirante, La "nuova" funzione dirigenziale e l'organizzazione degli uffici negli statuti comunali, in AA.VV., Governo del comune e statuti, Rimini, 1993, pp. 161 e seguen- ti; M. Rusciano, La dirigenza amministrativa tra "pubblico"e "privato", in AA.VV., La diri- genza pubblica, Bologna, 1990.

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In conclusione dunque, considerato l'ancora stretto rapporto esistente tra soggetti politici ed apparati burocratici, non può non rilevarsi che nel sistema risultante da una lettura congiunta del disposto della L. 142/1990 e del D.Lgs. 29/1993 gli interlocutori principali degli uffici restano gli organi politici e le compagini partitiche locali, con la conseguenza che le istanze pro- venienti dalla comunità nel suo complesso rischiano di essere relegate in secondo piano, il che sancisce pertanto una sostanziale irrilevanza dell'orga- nizzazione burocratica sulla forma di governo locale, determinata, quest'ulti- ma, soltanto dai rapporti di forza tra Sindaco, Giunta, Assessori e Consiglio.

La forma di governo dell'ente locale all'indomani dell'entrata in vigore della L. 81/1993 Ai sensi del combinato disposto della L. 142/1990 e della L. 81/1993, il Consiglio comunale resta l'organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo (art. 32, comma 1, della L. 142/1990), anzi questa funzione viene valorizzata dal potere ad esso attribuito di approvare gli "indirizzi generali di governo" presentati dal Sindaco nella prima seduta consiliare successiva alla sua elezione (art. 34 della L. 142/1990, così come sostituito dall'art. 16 della L. 81/1993). Bisogna però sottolineare che la nuova disciplina rende netta la separazione tra Consiglio e Sindaco titolare del potere esecutivo, organi entrambi dotati di investitura popolare diretta. Il Sindaco poi è collocato in posizione di preminenza sia rispetto agli uffici, sia rispetto agli altri organi politici: egli sceglie gli assessori con il solo obbligo di comunicazione al Consiglio, ai sensi dell'art. 34, comma 2, della L. 142/1990 (così come sostituito dall'art. 16 della L. 81/1993) e con la facoltà di revocarli dandone comunicazione motivata al Consiglio, in forza dell'art. 34, comma 4, della L. 142/1990 (così come sostituito dall'art. 16 della L. 81/1993). La Giunta collabora con il Sindaco ed opera per mezzo di delibera- zioni collegiali, secondo il disposto dell'art. 35, comma 1, della L. 142/1990 (così come sostituito dall'art. 17 della L. 81/1993).

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Si assiste dunque ad un progressivo rafforzamento in chiave monocrati- ca della figura del Sindaco che di fatto controlla i singoli assessori, suoi sem- plici collaboratori di fiducia, e la Giunta nel suo complesso, che si vede attri- buiti solo poteri di indirizzo ed impulso, nonché poche competenze residuali. Questa trasformazione in senso monocratico è poi accentuata dal potere spettante al "primo cittadino", ai sensi dell'art. 36, comma 5, della L. 142/1990, di nominare, designare e revocare i rappresentanti del Comu- ne presso enti, aziende ed istituzioni, in conformità agli indirizzi fissati dal Consiglio. Certo quest'ultimo può provocare la cessazione dalla carica del Sin- daco e della Giunta, sfiduciandoli, ma solo correndo l'alea di nuove ele- zioni, visto che in forza dell'art. 37, comma 2, della L. 142/1990, così come sostituito dall'art. 18 della L. 81/1993, la votazione di un documen- to di sfiducia comporta necessariamente lo scioglimento dell'organo. In realtà, però, il meccanismo elettorale dovrebbe garantire al Sinda- co ed alla sua Giunta l'appoggio di una compagine tendenzialmente stabi- le ed ampia, grazie al premio di maggioranza previsto dalla L. 81/1993, all'art. 5, comma 7, per i Comuni fino a 15.000 abitanti, ed all'art. 7, comma 6, per i Comuni che superano tale soglia29.

29 A dire il vero, nei Comuni di classe maggiore possono verificarsi interessanti situazioni di mancata formazione di una maggioranza consiliare favorevole al Sindaco eletto, ovvero di for- mazione di maggioranze troppo ristrette. Infatti il Sindaco eletto al primo turno può essere collegato ad una lista od a un gruppo di liste che non hanno superato il 50% dei voti validi. Ciò è possibile in forza del disposto dell'art. 6, comma 3, della L. 81/1993 che consente all'e- lettore di votare per un candidato alla carica di Sindaco non collegato alla lista prescelta. E situazione analoga può verificarsi per un Sindaco eletto al secondo turno, quando le liste a lui non collegate abbiano superato, al primo turno, il 50% dei voti validi. In tutti questi casi di non corrispondenza di una maggioranza consiliare al Sindaco eletto, si danno due possibilità: la votazione di un documento di sfiducia, con conseguente auto- scioglimento del Consiglio, ovvero la formazione di una maggioranza in Consiglio, di volta in volta o sulla base di un accordo politico permanente, dando così vita ad uno schema coa- bitativo, una forma di governo di non facile gestione e ben conosciuta alla Francia della Quinta Repubblica (cfr., sull'argomento, M. Duverger, Bréviaire de la cohabitation, Paris, 1986). La ricerca di un consenso in aula può allora sfumare in un rapporto tra esecutivo ed assem- blea ascrivibile al modello fiduciario, una forma di governo "parlamentare", tanto più evi- dente se la presidenza del consiglio, istituto previsto dall'art. 31, comma 7, della L. 142/1990,

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Per quanto poi riguarda il rapporto con l'apparato, al Sindaco è attri- buita una posizione di preminenza, visto il potere che gli è riconosciuto di nominare i responsabili dei servizi, di conferire incarichi dirigenziali e di collaborazione esterna, ai sensi dell'art. 36, comma 5-ter della L. 142/1990, aggiunto dall'art. 13 della L. 81/1993. Il Sindaco può intervenire sulla collocazione funzionale dei dirigenti e sui collegati trattamenti economici anche accessori; può scegliere, su base fiduciaria e al di fuori della burocrazia comunale, figure dirigenziali "a con- tratto" cui affidare settori particolarmente delicati, escludendo tempora- neamente o stabilmente i funzionari già incardinati nell'ente30. Alla luce di quanto sopra esposto, e per tornare in conclusione al pro- blema di definire la forma di governo dell'ente locale così come si sostanzia nell'applicazione della L. 81/1993, è da escludersi che il modello di riferi- mento sia quello presidenziale, considerato il permanere di un rapporto fiduciario tra Consiglio ed esecutivo scelto dal Sindaco, rapporto fiduciario qualificato, però, dall'unico vero potere spettante all'assemblea non in linea con il "primo cittadino" e cioè il potere di autoscioglimento. Non si può neppure ricondurre il modello di rapporto tra organi del- l'ente locale alla forma di governo direttoriale, giacché l'esecutivo è investi- to dei poteri, nel suo vertice, direttamente dal corpo elettorale e, in quel corpo derivato che è la Giunta, dal Sindaco stesso. Più propriamente si deve allora definire la nuova forma di governo locale come una sorta di ibrido istituzionale fortemente caratterizzato in senso monocratico o, come è stato scritto, "un modello inedito, perché non

così come sostituito dall'art. 14 della L. 81/1993, sia attribuita ad un esponente delle forze non espresse dalla lista o dalle liste collegate al Sindaco; quest'ultima opzione infatti conferi- sce alle forze antagoniste del Sindaco, ma necessarie a tenerlo in carica, i notevolissimi poteri di convocazione dell'assemblea, di determinazione dell'ordine del giorno e di direzione delle adunanze. 30 Si tratta di poteri assai penetranti che suscitano qualche perplessità a proposito dell'effetti- va possibilità di separare il piano politico da quello della gestione amministrativa, come da più parti acutamente già sottolineato al tempo dell'elaborazione parlamentare della legge sull'ele- zione diretta del Sindaco; cfr. sull'argomento A. Barbera, Introduzione al dibattito sul tema “Scegliere direttamente il Sindaco: come?”, in Regione e Governo Locale, 1992, n. 5, p. 586.

564 Roberto ARTAZ assimilabile né a quello presidenziale, a causa della mozione di sfiducia, né a quello semipresidenziale, in ragione delle rilevabili diversità strutturali e dei distinti congegni funzionali31." Il fatto che si tratti di una ibridazione istituzionale non deve stupire troppo l'interprete: l'innovazione legislativa venne realizzata frettolosamen- te, sotto la spinta di forti emozioni sociali e mentre incombevano quesiti referendari finalizzati ad ottenere in tempi brevissimi una legge elettorale maggioritaria per tutti i Comuni, in un quadro generale di riferimento poli- tico piuttosto favorevole al rafforzamento della posizione del Sindaco. Certo non fu forse elaborata una forma di governo compiuta- mente armonica, eppure si riuscì a delineare un inedito assetto delle autonomie locali, dando vita ad un sistema sostanzialmente dualistico, dove i due organi espressi direttamente dal corpo elettorale, Sindaco e Consiglio, si suddividono i ruoli secondo uno schema ancora abbastan- za elastico, suscettibile di svariate interpretazioni a seconda dell'am- biente politico locale entro cui viene applicato il nuovo meccanismo elettorale32.

Gli istituti compensativi di partecipazione ed in particolare il difensore civico nel nuovo assetto delle autonomie Con l'entrata in vigore della L. 81/1993, nel quadro generale di pro- gressivo rafforzamento della figura del Sindaco all'interno del sistema ita-

31 M. Scudiero, L'elezione diretta del sindaco tra riforme istituzionali e trasformazione del sistema politico, in Le regioni, 1993, n. 3, pp. 636 e seguenti; sul tema cfr. anche S. Staiano, Nuove funzioni e assetti del governo locale, pp. 1127-1145, in Regione e Governo Locale/Bimestrale di studi giuridici e politici della Regione Emilia-Romagna, Rimini, 1995. 32 Cfr. sul tema le considerazioni di G. Panassidi, segretario generale del Comune di Savona, espresse nel corso della lezione tenuta presso la Scuola Superiore dell'Amministrazione del- l'Interno - IV Corso iniziale per segretari comunali in prova il 17/09/1996: secondo lo stu- dioso, il sistema dualistico che ha sostituito il modello assembleare consente la riorganizza- zione dell'apparato comunale secondo criteri maggiormente efficientistici, perché il Sindaco, grazie al rafforzamento del suo ruolo, può esplicare un'efficace azione di direzione politica e di pianificazione strategica, nel rispetto dell'indirizzo politico-amministrativo espresso dal Consiglio, lasciando alla burocrazia le funzioni di pianificazione operativa e di attuazione.

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liano degli enti territoriali, gli istituti di partecipazione popolare previsti dagli artt. 6, 7 e 8 della L. 142/1990 si impongono con nuova forza all'at- tenzione dell'esegeta. Se già nella legge sul nuovo ordinamento delle autonomie locali del 1990 era dato rinvenire alcuni disposti finalizzati a consolidare l'esecutivo che nell'assetto precedente risultava troppo debole, come giusto contrappe- so venivano però anche introdotti alcuni elementi di novità, gli istituti di partecipazione popolare appunto, cui spettava una funzione moderatrice, necessaria ad arginare la deriva monocratica dell'esecutivo che non si con- frontava più con i poteri di veto e di blocco concessi, prima della riforma, all'opposizione consiliare. Va detto però che tali strumenti compensativi scontarono presto il ritardo con cui vennero adottate le disposizioni statutarie e regolamentari destinate a disciplinarli, per cui divennero solo parzialmente operativi e non poterono attecchire con la dovuta vivacità nel mondo degli enti terri- toriali. Com'è noto, l'art. 6 della L. 142/1990 coordinata con la L. 81/1993, sotto la rubrica Partecipazione popolare, stabilisce che: 1.I Comuni valorizzano le libere forme associative e promuovono organismi di partecipazione dei cittadini all'amministrazione locale, anche su base di quartiere o di frazione. I rapporti di tali forme associative con il Comune sono disciplinati dallo statuto. 2. Nel procedimento relativo all'adozione di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive devono essere previste forme di partecipa- zione degli interessati secondo le modalità stabilite dallo statuto. 3. Nello statuto devono essere previste forme di consultazione della popolazione nonchè procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e pro- poste di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi e devono essere altresì previsti referen- dum consultivi anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini. 4. Le consultazioni e i referendum di cui al presente articolo devono riguardare materie di esclusiva competenza locale e non possono aver luogo

566 Roberto ARTAZ in coincidenza con altre operazioni di voto33." Questa disposizione contiene innanzi tutto un forte richiamo all'esi- genza di valorizzare le forme di aggregazione spontanea dei cittadini, le associazioni in primo luogo, portatrici di interessi particolari, magari anche solo relativi a frazioni o quartieri, assicurando loro "la possibilità di inter- venire in un procedimento amministrativo e, più in generale, nei vari momenti dell'attività amministrativa locale34." Si passa quindi a tratteggiare una possibile partecipazione degli inte- ressati al procedimento che sfocia nell'adozione di un provvedimento inci- dente su "situazioni giuridiche soggettive", tematica questa che anticipa il disposto della L. 241/1990 di poco successiva. Il terzo comma, invece, si occupa delle "forme di consultazione della popolazione" tra cui spiccano i referendum consultivi, nonchè delle proce- dure che consentono ai cittadini, singoli od associati, di presentare istanze, petizioni, proposte con la garanzia di un tempestivo esame: viene qui di fatto ripreso, ed esteso ai Comuni, il cosiddetto "diritto di petizione" pre- visto all'art. 50 della Costituzione e precedentemente disciplinato, anche per quanto attiene ai rapporti con gli organi degli enti locali, dalla L. 8 aprile 1976, n. 278. L'art. 7 della L. 142/1990 tratta invece di azione popolare, di dirit- to di accesso e di informazione dei cittadini: 1. Ciascun elettore può far valere, innanzi alle giurisdizioni ammi- nistrative, le azioni ed i ricorsi che spettano al Comune. 2. Il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio nei confronti del Comune. In caso di soccombenza, le spese sono a carico di chi ha pro- mosso l'azione o il ricorso. 3. Tutti gli atti dell'amministrazione comunale e provinciale sono

33 A. Galeone (a cura di), Legge 8 giugno 1990, n. 142 "Ordinamento delle autonomie loca- li" - Testo coordinato con le modifiche apportate dalla Legge 25 marzo 1993, n. 81, inserto della Rivista ANUSCA, I servizi demografici, 1993. 34 N. Laudisio, La nuova legge sull'ordinamento delle autonomie locali, Salerno, 1990, p. 20.

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pubblici, ad eccezione di quelli riservati per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del Sindaco o del Presidente della Provincia che ne vieti l'esibizione, conformemente a quan- to previsto dal regolamento, in quanto la loro diffusione possa pregiudica- re il diritto alla riservatezza delle persone, dei gruppi o delle imprese. 4. Il regolamento assicura ai cittadini, singoli e associati, il diritto di accesso agli atti amministrativi e disciplina il rilascio di copie di atti previo pagamento dei soli costi; individua, con norme di organizzazione degli uffi- ci e dei servizi, i responsabili del procedimento; detta le norme necessarie per assicurare ai cittadini l'informazione sullo stato degli atti e delle proce- dure e sull'ordine di esame di domande, progetti e provvedimenti che comunque li riguardino; assicura il diritto dei cittadini di accedere, in gene- rale, alle informazioni di cui è in possesso l'amministrazione. 5. Al fine di rendere effettiva la partecipazione dei cittadini all'attività dell'amministrazione, gli enti locali assicurano l'accesso alle strutture ed ai servizi, agli enti, alle organizzazioni di volontariato e alle associazioni35." In questa norma viene innanzi tutto ripreso l'antico istituto dell'a- zione popolare, previsto dall'art. 225 del Testo Unico della legge comunale e provinciale del 1915, già richiamato in vigore dall'art. 23 della L. 9 giu- gno 1947, n. 530. Viene quindi disciplinato il diritto di accesso e di informazione dei cittadini, analogamente a quanto previsto, in via più generale e non sol- tanto in riferimento all'ente locale, dalla L. 241/1990, con un'attenzione particolare rivolta alle organizzazioni di volontariato ed alle associazioni, che sono considerate dal Legislatore snodi fondamentali della dimensione partecipativa e democratica dei cittadini all'interno della comunità. L'art. 8 della L. 142/1990, infine, introduce nell'ordinamento delle autonomie locali la figura del difensore civico, per la verità non sconosciu- ta al sistema giuridico italiano in virtù della previsione che ne era stata fatta

35 A. Galeone (a cura di), Legge 8 giugno 1990, n. 142, "Ordinamento delle autonomie loca- li" - Testo coordinato con le modifiche apportate dalla Legge 25 marzo 1993, n. 81, inserto della Rivista ANUSCA, I servizi demografici, 1993.

568 Roberto ARTAZ dalla Legge Regionale toscana 21 gennaio 1974, n. 8 e dalla Legge Regio- nale ligure 6 giugno 1974, n. 170. La L. 142/1990, in particolare, dispone che: 1. Lo statuto provinciale e quello comunale possono prevedere l'i- stituto del difensore civico, il quale svolge un ruolo di garante dell'impar- zialità e del buon andamento della pubblica amministrazione comunale o provinciale, segnalando anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzio- ni, le carenze ed i ritardi dell'amministrazione nei confronti dei cittadini. 2. Lo statuto disciplina l'elezione, le prerogative ed i mezzi del difensore civico nonchè i suoi rapporti con il Consiglio comunale o pro- vinciale." I tre articoli citati, che disciplinano gli istituti di partecipazione, introducono meccanismi fondamentali per rendere i cittadini partecipi dell'elaborazione delle decisioni dell'amministrazione locale, colmando in parte quel distacco che si registra, d'un lato, tra il mondo dei politici con- tiguo alla burocrazia locale e, dall'altro, quello dei cittadini, nonostante la scelta di investitura diretta del Sindaco attuata con la L. 81/1993. Se infatti la comunità locale dovrebbe apparentemente trovare nel "primo cittadino" eletto un momento di raccordo tra i propri bisogni e l'apparato burocratico su cui il Sindaco si pone in posizione dominante, è anche vero che la netta trasformazione in senso monocratico della forma di governo locale può sfumare nell'insufficienza democratica del sistema, rendendo indispensabile il ruolo degli istituti compensativi di partecipazione. In particolar modo la figura del difensore civico, quale garante del- l'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, meri- ta di essere potenziata e rivalutata, considerato che, nella prassi e nella let- tera del combinato disposto della L. 142/1990 e della L. 241/1990, la sua stessa posizione nel sistema delle autonomie pare assai limitativa; basti pen- sare, a tal proposito, che singoli cittadini ed associazioni possono far senti- re la loro presenza all'interno dell'apparato comunale senza dover ricorrere a questo specifico organo, come si evince dal dettato degli artt. 6 e 7 della

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L. 142/1990 e dai capi II, III e V della L. 241/199036. In materia poi di buon andamento della pubblica amministrazione, il difensore civico sembra essere scavalcato dalle figure dirigenziali, segreta- rio comunale compreso, che sono responsabili dell'efficienza della gestione in rapporto agli obiettivi dell'ente, in forza dell'art. 51, comma 4, della L. 142/1990, e dagli organismi eventualmente preposti al controllo economi- co interno della gestione, ai sensi dell'art. 57, comma 9, della L.142/1990. Se però si considera che, nell'attuale assetto delle autonomie locali gli istituti partecipativi ed i meccanismi di controllo dell'efficienza della gestio- ne vivono ancora la sofferta stagione dell'avvio, risulta allora evidente che uno strumento agile come il difensore civico può trovare ampi spazi per una sua affermazione. La sua neutralità va però ulteriormente accentuata, per esaltare la sua natura bicefala di organo rivolto d'un lato verso l'apparato politico-ammi- nistrativo, donde trae informazioni e strumenti operativi, e dall'altro verso il cittadino, cui garantisce una particolare tutela nei confronti dell'apparato. E, in conclusione, si può rilevare come le soluzioni classiche adotta- te per accentuare la neutralità del difensore civico (previsione di maggio- ranze ampie per la sua elezione in Consiglio, possesso di requisiti soggetti- vi che garantiscano la sua estraneità alla burocrazia locale od anche al mondo politico, economico e professionale) quasi annichiliscono di fronte alla nuova via resa percorribile dalla L. 81/1993, e cioè l'elezione diretta di questa figura, che verrebbe così ad assumere i connotati di contropotere a legittimazione forte, in grado di stimolare la messa in opera di tutti gli altri strumenti di partecipazione, a tutt'oggi sottoutilizzati, e di operare nel

36 Il capo II della L. 241/1990 tratta del Responsabile del procedimento, figura cui sono attri- buite fondamentali competenze nell'attività che si conclude con l'adozione dei provvedimen- ti amministrativi e che rappresenta il punto di riferimento dei soggetti interessati dal procedi- mento amministrativo; il capo III disciplina i modi di partecipazione dei soggetti esterni alla pubblica amministrazione al procedimento; il capo V detta norme in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi, al fine di "assicurare la trasparenza dell'attività ammini- strativa e di favorirne lo svolgimento imparziale"; sul tema cfr. anche S. Staiano, Nuove fun- zioni e assetti del governo locale, pp. 1127-1145, in Regione e Governo Locale/Bimestrale di studi giuridici e politici della Regione Emilia-Romagna, Rimini, 1995.

570 Roberto ARTAZ mondo delle autonomie locali una sana iniezione di garanzia democratica delle minoranze politiche. Questa funzione risulta particolarmente importante oggi, nell'Italia dominata dal sistema maggioritario, ma incapace di riplasmarsi secondo un modulo sostanzialmente bipartitico, dove le minoranze marginali rischia- no di sentirsi a torto o a ragione emarginate, non soltanto dal circuito deci- sionale, ma anche dalle funzioni di controllo, piani questi riservati ai soli membri delle coalizioni più vaste e da cui rimane escluso tutto un arcipe- lago di gruppi destinati perciò a non essere rappresentati.

Conclusioni Ho l'impressione che l'attuale sistema delle autonomie locali debba ancora assestarsi, considerato che probabilmente si presenta troppo sbilan- ciato in senso monocratico. Essendo il Sindaco - eletto direttamente dagli elettori - titolare di attribuzioni molto ampie, solo parzialmente limitate dalla presenza di un Consiglio comunale dotato di funzioni di indirizzo e del potere di auto- scioglimento, e non avendo a tutt'oggi trovato piena attuazione gli istituti compensativi di partecipazione popolare, è opportuno che gli enti locali completino la loro trasformazione in senso democratico37. Tale assestamento è tanto più necessario in quanto, nella confusione istituzionale italiana che ha prodotto negli ultimi quattro anni ben cinque governi, gli enti locali, in particolare quelli di minori dimensioni, hanno per lo più saputo dare ai cittadini spaesati una risposta concreta di gover- no, sicché oggi non è raro leggere che l'Italia fonda la sua esistenza sui Comuni, capovolgendo così l'assunto dell'art. 5 della Costituzione, secon-

37 Su tale argomento, sono interessanti le opinioni espresse dall'Avv. Mauro Ferri, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, nella sua prolusione sul tema "La Corte Costituzionale a quaranta anni dalla sua istituzione" in occasione della Cerimonia Inaugurale dell'Anno Acca- demico 1996-1997 della Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'Interno, il 5/12/1996. In particolare lo studioso ritiene che, se bisogna riformare la Costituzione alla luce delle inno- vazioni introdotte dalla nuova normativa elettorale maggioritaria, gli interventi di adegua- mento devono innanzi tutto avere l'obiettivo di aumentare le garanzie democratiche del siste- ma.

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do cui "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autono- mie locali (...)". Su questa linea si pone il pensiero di Piero Bassetti che, all'inizio del 1996, ha scritto: "Non può esistere ‘politica’ priva di un progetto radicale di riforma dello Stato. Perché una cosa è chiara: se vogliamo difendere l'u- nità nazionale e restare uniti, non è più a questo Stato centralista e oramai rotto che possiamo affidarci. In questo contesto, allora, il dibattito sul presidenzialismo o sul dop- pio turno è sì importante, ma non sufficiente. Il problema della ristruttu- razione dello Stato ha una valenza ben più profonda e interessa la rialloca- zione delle risorse, l'apertura effettiva di spazi di autogoverno e di autoge- stione, una rilettura attenta dell'art. 5 della Costituzione della nostra Repubblica, fondata sulle autonomie38." Ma siccome con quest'ultima citazione si rischia di scivolare sul deli- cato terreno delle riforme istituzionali non si può allora non accennare al solenne monito del Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, indirizzato al Paese il 24/2/1996 da Prato: "La Carta delle istituzioni è la pagina di come si può servire al meglio il popolo italiano: questa pagina può essere miglio- rata, sempre e certamente. Lo si dice da tempo, ma c’è bisogno del concor- so di tutti (...)39." Come afferma il Presidente della Repubblica, lo spirito di servizio e l'apertura alle idee, ai bisogni ed alle aspettative di ogni cittadino sono i capisaldi di qualsiasi riforma veramente democratica, eppure questi punti di riferimento, prima ancora del legislatore, devono guidare l'azione di chi si limita ad applicare le norme vigenti, i servitori dello Stato innanzi tutto, chiamati quotidianamente, in una realtà spesso difficile e contraddittoria, a rappresentare degnamente le istituzioni in ogni circostanza, al centro come

38 P. B assetti, Se non è decentrata non è vera riforma, articolo pubblicato sul quotidiano Il Sole - 24 Ore, del giorno 1/1/1996. 39 O.L. Scalfaro, Discorso di Prato, brano tratto da Sapere anche poco è già cambiare - Rifor- me istituzionali in Italia e modelli di riferimento, Giuffré, Milano, 1996, p. 6.

572 Roberto ARTAZ all'estrema periferia dell'Italia. Si tratta di un compito difficile, un dovere di fedeltà che è pure dirit- to, il diritto di chi ha scelto di lavorare per la Repubblica, nella consape- volezza che la nostra democrazia è costata sacrifici, anche di sangue, alle generazioni che ci hanno preceduto ed oggi, in questa lunga e travagliata fase di transizione di fine secolo, ci chiede un rinnovato impegno, fermo ma sereno, in quanto cittadini operanti all'interno delle istituzioni, istitu- zioni che possono continuare a rispondere alle aspettative della gente se, e soltanto se, ogni funzionario coltiva in sé "la fierezza dell'appartenenza alla Pubblica Amministrazione che, in ogni Stato di diritto, consente l'ordina- to svolgersi della convivenza sociale40."

40 Espressione utilizzata dal Prefetto Carlo Mosca, direttore della Scuola Superiore dell'Am- ministrazione dell'Interno, nel corso del suo intervento alla Cerimonia Inaugurale dell'Anno Accademico 1996-1997 della SSAI, il 5/12/1996.

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