Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Atti della Summer School 2019

A CURA DI ALBERTO BARZANÒ E CINZIA BEARZOT

CONTRIBUTI DI A CURA DI M. Ghelardi, C. Azzolini, L. Masetti, L.F. Pizzolato, ALBERTO BARZANÒ E CINZIA BEARZOT G. Colombo, N. D’Acunto, F. Arlati, P. Procaccioli, Rinascite, rinascenze, rinascimenti F. Gatti, M. Guerinoni, A. Anguissola, L. Galasso, S. Ferrario, F. Riva, C. Conforti, S. Setti, E.S. Gaetano Atti della Summer School 2019

EDUCatt Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.7234.22.35 - fax 02.80.53.215 e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione) web: www.educatt.it/libri Scuola di Dottorato in Studi Umanistici. Tradizione e contemporaneità

Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Atti della Summer School 2019

A CURA DI ALBERTO BARZANÒ E CINZIA BEARZOT

CONTRIBUTI DI M. Ghelardi, C. Azzolini, L. Masetti, L.F. Pizzolato, G. Colombo, N. D’Acunto, F. Arlati, P. Procaccioli, F. Gatti, M. Guerinoni, A. Anguissola, L. Galasso, S. Ferrario, F. Riva, C. Conforti, S. Setti, E.S. Gaetano

Milano 2021 © 2021 EDUCatt - Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.7234.22.35 - fax 02.80.53.215 e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione) web: www.educatt.it/libri Associato all’AIE – Associazione Italiana Editori isbn: 978-88-9335-818-7 L’editore è disponibile ad assolvere agli obblighi di copyright per i materiali eventualmente utilizzati all’interno della pubblicazione per i quali non sia stato possibile rintracciare i benefi ciari.

In copertina: Raffaello, La ninfa Galatea, 1512-1514 ca, affresco, cm 295225,Roma, Villa Farnesina; progetto grafi co Studio Editoriale EDUCatt Sommario

Maurizio Ghelardi Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt ...... 5

Chiara Azzolini “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica ...... 23

Lucia Masetti Reviving friendship. Amicizie letterarie nel secondo Novecento ...... 45

Luigi F. Pizzolato Amicizia nella rinascenza: esaltare l’umano o umanizzare la città? ...... 59

Giuseppe Colombo Per una rinascita dell’amicizia ...... 67

Nicolangelo D’Acunto Rinascite, rinascenze, rinascimenti. Le alterne fortune medievistiche di un lessico storiografico ...... 87

Fabio Arlati «Ut vivat mortua, et moriatur viva». Per un’analisi dei rituali di ingresso in monasteri e congregazioni semireligiose femminili nella Milano borromaica ...103

Paolo Procaccioli Rinascimento, una parola plurale ...... 117

Fabio Gatti Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre ...... 131

3 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Martina Guerinoni Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale ...... 161

Anna Anguissola Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria ...... 181

Luigi Galasso La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici ...... 227

Stefano Ferrario Nietzsche. Cristianesimo e palingenesi ...... 249

Franco Riva Corruzione. Cultura. Rinascita ...... 261

Claudia Conforti Il paragone: metodo sovrano della critica d’arte ...... 287

Stefano Setti Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in Italia, 1936-1955 ...... 299

Elia Siddharta Gaetano «Il fait du Quattrocento». Georges Seurat e Piero della Francesca: storia di un presunto dialogo ...... 319

4 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt

MAURIZIO GHELARDI

The manuscripts Vorlesungen über Renaissance (1858) and Notizen zur italienischen Kunst (1883) marks the two points which – at a distance of 25 years – include Burckhardt’s refl ections on the Renaissance, i.e. the beginning and the end of his research on the Italian Renaissance. Starting from Der Cicerone (1855) the Renaissance is conceived as a historical-cultural pattern. These two manuscripts was unknown until a few years ago. For Burckhardt the Renaissance coincides with a new individual consciousness and the trans- formation of the conceiving the interests and forms of social and artistic life. The purpose of the essay is to reconstruct the transformations and constants of Burckhardt’s refl ections.

I manoscritti delle Vorlesungen über Renaissance e delle Notizen zur italienischen Kunst seit dem XV. Jh.1, concepiti a distanza di circa 25 anni, segnano i punti estremi della riflessione di Burckhardt sul Rinascimento italiano. Indicano cioè l’inizio e la fine di un percorso durante il quale si è costituita ed è mutata la sua ricerca sul Rinascimento italiano che, concepito a partire da Der Cicerone (1855) come una formazione storico-culturale2, a partire dagli inizi degli anni ottanta del

1 Ora pubblicati in Jacob Burckhardt Werke. Kritische Gesamtausgabe (d’ora in poi JBW), Bd. 17, hrsg. v. M. Ghelardi u. S. Müller, München-Basel 2014; cfr. anche M. Ghelardi, La scoperta del Rinascimento. L’età di Raffaello di Jacob Burckhardt, Torino 1991, pp.156-209. Sul concetto di Rinascimento e sulla storia del termine, si veda in ultimo il saggio di A. Quondam, Rinascimento e Classicismi, Bologna 2013, che propone una tesi opposta a quella di J. Le Goff, Faut-il vraiment découper l’Histoire en tranches?, Paris 2014. 2 J. Burckhardt, Der Cicerone. Eine Anleitung zum Genuß der Kunstwerke Italiens, in JBW, Bde. 2 u. 3, hrsg. v. B. Roeck, Ch. Tauber u. M. Warnke, München- Basel 2001.

5 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

XIX secolo viene sempre più ritenuto un fenomeno eminentemente artistico. Presupposto costante di questa interpretazione è che il Rinascimento coincide con l’emergere di una nuova consapevolezza dell’individualità umana e con la trasformazione del modo di pensare gli interessi e le forme della vita sociale. Prima di ricostruire il contenuto e il significato che questi due manoscritti hanno nello sviluppo della biografia intellettuale di Burckhardt, è opportuno premettere un passo significativo della introduzione al corso Neuere Geschichte seit 1450: «Es ist noch lange her, daß man die betreffende Epoche wesentlich in optimistischem Sinne betrachtete und denjenigen ‘Fortschritt’ mit ihr beginnen ließ, in dessen weiterer Ausdehnung und Ausbildung man selber zu Leben glaubte [...] Im Hinblick auf die in Aussicht stehenden Krisen des sinkenden XIX. Jahrh., sind diese angenehmen Räisonnements zu Boden gesunken, und über die Wünschbarkeit der Ereignisse und Entwicklungen seit 1450 in Beziehung auf uns haben wir Ursache, uns behutsamer zu äußern, ja den Begriff der Wünschbarkeit des Vergangenen gänzlich aufzugeben»3. Di fronte alle crisi che hanno percorso l’Europa nel XIX secolo, «[...] diese angenehmen Räsonnements [sind] zu Boden gesunken [...]»4. L’idea che con il Rinascimento abbia inizio quel «progresso in cui si era creduto vivere», è ricondotto da Burckhardt alla corrente storiografica che, nella prima metà del XIX secolo, aveva alimentato in Francia le illusioni politiche e culturali che avevano accompagnato il sorgere della Monarchia di Luglio: «Die Illusion der Jahre 1830- 1848 näherte sind wirklich diesem Wahn: aber im Hinblick auf die Wolken welche über dem Ausgang unseres Jahrhunderts hängen, wird man wohl behutsamer reden müssen»5. Anzi, a partire dal 1450 «sind wesentlich die Fäden desjenigen Gewebes gesponnen worden, in welchem wir jetzt mitverflochten sind; -jeder Blick auf die Vergangenheit muß spätestens dort anknüpfen. Aber alles, was damals begonnen wurde, hat große Metastasen erfahren»6.

3 Id., Neuere Geschichte seit 1450, in JBW, Bd. 26, hrsg. v. H. Berner, W. Hardtwig u. Ch. Tauber, München-Basel 2016, p. 92. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 93 6 Ivi, p. 94. Parallelamente alla elaborazione di queste lezioni dulla storia europea, Burckhardt rilegge il settimo volume della Histoire de France che Michelet aveva dedicato al Rinascimento. Gli Excerpta aus Michelet contenuti all’interno del lungo

6 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt

Rispetto a Die Cultur der Renaissance in Italien del 18607, le lezioni Neuere Geschichte seit 1450 rappresentano non solo un ulteriore passaggio nella riflessione di Burckhardt sul Rinascimento italiano8, ma delimitano anche la cornice storica entro cui devono essere lette le successive Notizen zur italienischen Kunst seit dem XV. Jh. Per capire attraverso quale processo si trasforma in Burckhardt l’idea di Rinascimento procederemo ad una analisi che, per esigenze espositive, articoleremo in due fasi principali. Nella prima analizzeremo il periodo che va dalla seconda metà degli anni quaranta al 1858-1859, la fase cioè in cui Burckhardt tiene le sue Vorlesungen über Renaissance, ove pone la questione di come e se sia è possibile parler peinture: «Jeden Augenblick fühlt sich das arme Wort am Ende mit seinem Vermögen, gegenüber der Macht und Große des Gegenstandes»9. Un ulteriore passo in avanti è il manoscritto Geschichte der Renaissance in Italien del 1862-1864 che, nelle originarie intenzioni dell’autore, doveva costituire la seconda parte della Kultur der Renaissance in Italien. Burckhardt non chiarirà mai le ragioni che lo avevano indotto a non pubblicare questo testo, che Wilhelm Bode leggerà in una notte10, anche se c’è da presumere corso sulla Geschichte des Revolutionszeitalters (cfr. J. Burckhardt, JBW, Bd. 28, hrsg. v. W. Hardtwig, S. Kießsling, B. Klesmann, Ph. Müller, E. Ziegler, München- Basel 2009) ci aiutano a capire quale sia in questi anni la posizione di Burckhardt nei confronti dello storico francese: Michelet è «handgreiflich parteiisch für und gegen eine Anzahl von Persönlichkeiten daß man ihn besser bei Seite läßt» (p. 159). E poi, icasticamente: «Wo bleibt Michelet mit seinen Lüge?» (p. 1166). 7 Id., Die Kultur der Renaissance in Italien, Ein Versuch, Basel 1860 (cfr. la traduzione italiana di questa prima edizione, a cura di M. Ghelardi, Torino 2006); cfr. Id. Die Cultur der Renaissance in Italien. Ein Versuch, in JBW, Bd. 4, hrsg. v. M. Mangold, München-Basel 2018. 8 Non a caso i tiranni rinascimentali italiani sono ritenuti qui i precursori del moderno potere assoluto che rappresenta per Burckhardt una «metastasi» nella storia europea. Per la cronologia delle lezioni sulla Neuere Geschichte seit 1450, si veda, Bd. 26, pp. 1563-1565. 9 Id., Neuere Kunst seit 1550, in JBW, Bd. 18, hrsg. v. E. Mongi-Vollmer u. W. Schlink, München-Basel 2006, p. 41; vgl. W Schlink, «Allein wir müssen von der Kunst sprechen». Jacob Burckhardt «parler peinture», in Grammatik der Kunstge- schichte. Oskar Bätschmann zum 65. Geburtstag, hrsg. V.H. Locher u. P.J. Schnee- mann, Schweizerisches Institut für Kunstwissenschaft Sik-Isea, XII (2008), p. 368. 10 Cfr. W. Bode, in «Pan», IV (1898), p. 107; ma si veda anche l’importante lettera di Burckhardt a Bode del 23 dicembre 1889, ove si legge a proposito del progetto fatto

7 Rinascite, rinascenze, rinascimenti che l’autore si sia reso conto che era impossibile di dar vita ad una opera che avrebbe dovuto «fondere» (verschmelzen) cultura e arte del Rinascimento italiano11. Nella seconda parte vedremo come, a partire dagli inizi degli anni ottanta del secolo XIX, Burckhardt interpreta l’arte rinascimentale italiana nelle Notizen zur italienischen Kunst seit dem XV. Jh. E come, sulla scia dei mutamenti politici che avevano portato alla creazione del Reich, l’autore ritenga chiusa la fase della storia europea che si era aperta con la Rivoluzione francese. Da questi presupposti discende un nuovo atteggiamento dello studioso basilese verso la storia contemporanea e la sua convinzione che ci si debba oramai concentarre più sugli oggetti che sugli eventi12. Ciò premesso cerchiamo di procedere iniziando dal primo punto, cioè come si forma in Burckhardt l’idea di Rinascimento italiano in quanto formazione storico-culturale coesa.

da Bode, di pubblicare una serie di «kurzen Handbücher für die Gemäldegalerie und plastische Abtheilung»: «Ich sehe [...] nur Eine Möglichkeit: jedesmal wäre etwa die Hälfte der Schrift einer Erzählung nach Gattungen und Aufgabe gewidmet [...]», J. Burckhardt, Briefe. Vollständige und kritisch bearbeitete Ausgabe mit Benützung des handschriftlichen Nachlasses hergestellt von Max Burckhardt, Bd. 9, Basel 1980, p. 229; a proposito della influenza che Burckhardt avrebbe avuto sulla disposizione del Bode – Museum di Berlino, si veda M. Seidel, Das Renaissance Museum. Wilhelm Bode als “Schüler” Jacob Burckhardts, in Storia dell’arte e politica culturale intorno al 1900. La fondazione dell’Istituto Germanico di Storia dell’Arte di Firenze, Venezia 1999, in part. pp. 74-81. 11 Nella prima edizione de Die Kultur der Renaissance in Italien, Basel 1860, p. 2, si legge: «Der größten Lücke des Buches gedenken wir in einiger Zeit durch ein besonderes Werk über “die Kunst der Renaissance” abzuhelfen»; questo intento programmatico viene corretto nella seconda edizione dell’opera (1869): «Der größten Lücke des Buches gedachten wir einst durch eine besondere Werk über „Die Kunst der Renaissance” abzuhelfen; ein Vorsatz, welcher nur geringernteils hat ausgeführt werden können». Quest’ultima affermazione si riferisce al fatto che nel 1867 Wilhelm Lübke aveva in certo qual modo estorto a Burckhardt il permesso di stampare la parte del manoscritto del 1862-1864 dedicata all’architettura del Rinascimento italiano; le complesse vicende della pubblicazione di questo testo sono state ricostruite in J. Burckhardt, Die Baukunst der Renaissance in Italien, in JBW, Bd. 5, hrsg. v. M. Ghelardi, München-Basel 2000, in part. pp. 483-497. 12 Cfr. M. Ghelardi, Le stanchezze della modernità. Jacob Burckhardt: una biografia intellettuale, Roma 2016, p. 181 sgg.

8 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt

Agli inizi della sua attività di studioso Burckhardt concepisce il Rinascimento come un fenomeno stilistico che si manifesta soprattutto negli elementi decorativi, piuttosto che in quelli architettonici. Nelle Vorlesungen über Geschichte der Malerei del 1844-1846 si legge: «Die Renaissance und ihre Bedingungen: Erlöschen der mittelalterlichen Inspiration [...] die Antike [...] doch etwas Neues [...] Am deutlichsten das Wesen der Renaissance in der Architektur: antike Bauglieder mit zierlicher Willkür umgestaltet [...] Hauptinhalt dekorativ»13. Per Burckhardt, che qui segue il suo mentore Franz Kugler, il Rinascimento consiste in una infinita penetrazione di elementi decorativi-fantastici che in precedenza erano rimasti legati a forme gotiche. Così è, ad esempio, per la chiesa di Sant’Eustachio a Parigi, ove gli elementi gotici sono in parte tradotti in una bella decorazione rinascimentale14. A partire dalla voce Renaissance, scritta per la nona edizione del Brockhaus, questa concezione inizia lentamente a sgretolarsi. Burckhardt sottolinea adesso per la prima volta la differenza formale tra lo stile rinascimentale italiano e quello del Nord, il quale riprende dallo stile architettonico romano solo gli elementi ornamentali, mentre l’architettura italiana ne reinterpreta invece la forme architettoniche, dando vita ad un nuovo stile spaziale15. Si tratta di una posizione ancora imbozzolata, in cui la visione di Franz Kugler di un Rinascimento caratterizzato da elementi meramente ornamentali, convive con le idee di Jacob Ignaz Hittorf (1833), secondo il quale l’architettura rinascimentale è sorta in Italia a imitazione di quella classica. Per Hittorf il gotico, il cui elemento tipico è l’arco ogivale, non si afferma in Italia. Qui sorge invece lo stile rinascimentale che comprende sia l’elemento architettonico monumentale, sia quello più propriamente ornamentale. Questa Renaissance architettonica appare a Hittorf una conseguenza diretta dello stretto contatto che i maestri italiani avevano avuto con le testimonianze antiche16.

13 J. Burckhardt, Neuere Kunst seit 1550, in JBW, Bd. 18, p. 25. 14 Cfr.. F. Kugler, Handbuch für Kunstgeschichte, 2. Aufl., mit Zusätzen v. Jacob Burckhardt, Stuttgart 1848, p. 680. 15 J. Burckhardt, Renaissance, in Brockhaus Conversations-Lexikon, 9. Aufl, Bd. 12, 1847, pp. 62-63. 16 J.I. Hittorf, Encyclopédie des gens du monde, répertoire universel des sciences des lettres et des arts, Paris 1833, p. 195 (s.v. Architecture); cfr. J. Burckhardt, Die Kunstwerke der belgischen Städte, Düsseldorf 1842, p.115; ; cfr. Id., Kleine Schriften, I, in JBW, Bd. 7, hrsg. v. M. Mangold, München-Basel 2017, p. 207.

9 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Questa duplice interpretazione – di Kugler e di Hittorf – convive in Burckhardt con un ulteriore aspetto che rende ancora più problematica la sua idea di Rinascimento. Difatti, Franz Kugler non era stato solo colui che aveva ricondotto lo stile rinascimentale a elementi ornamentali, ma anche lo studioso che aveva ulteriormente problematizzato la sua interpretazione: «Bei mehreren Reisen [...] war eine Fülle der verschiedenartigsten baulichen und bilderischen Denkmäler meinem Auge vorübergegangen. Mein hochverehrter Lehrer F.H. von der Hagen [...] hatte mir auch für diese Anschauungen diejenige Belehrung gegeben, die auf die Styl-Unterschiede und deren geschichtliche Folge hindeutend, in der bunten Fülle eine gesetzliche Entwicklung, eine auf inneren Gründen beruhende Gliederung erkennen liess»17. Con ciò Kugler aveva riconosciuto una legalità storica agli stili e affermato in sostanza che essi potevano essere interpretati anche in relazione alla storia e alla cultura delle varie epoche. Nel rifacimento della Geschichte der Malerei di Kugler (1848), Burckhardt riprende quest’ultimo punto inserendo all’inizio delle varie epoche alcune importanti introduzioni, che hanno la funzione di legare lo sviluppo dello stile di un’epoca a uno specifico quadro storico culturale18. Ma anche questa non è che una provvisoria soluzione che non soddisfa pienamente le sue intenzioni. Difatti, nella lettera a Paul Heyse del 13 agosto 1852 Burckhardt confessa: «Ich habe seit einiger Zeit in meinem Ansichten von der Kunst (en bloc gesprochen) eine langsame ganze Wendung gemacht, wovon viel zu reden sein wird, wenn Du bei mir bist»19. Risultato tangibile di questa sorta di epifania è Der Cicerone (1855) ove, per la prima volta, il Rinascimento è collocato su due piani, che però restano tra loro ancora scollegati. Per un verso il Rinascimento è definito come un fenomeno stilistico tipico dell’Italia, vale a dire è inteso come uno stile determinato: «Die Anordnung der antiken Sculpturen nach Typen soll [...] keineswegs als die einzig mögliche oder

17 F. Kugler, Kleine Schriften und Studien zur Kunstgeschichte, Bd. 1, Stuttgart 1853, p. 101. 18 Cfr. Id., Handbuch der Geschichte der Malerei seit Constantin dem Grossen, 2. Aufl., unter Mitwirkung des Verfassers umgearbeitet und vermehrt v. Dr. J. Burckhardt, 2 Bde., Berlin 1847. 19 J. Burckhardt, Briefe. Vollständige und kritisch bearbeitete Ausgabe mit Benützung des handschriftlichen Nachlasses hergestellt von Max Burckhardt, Bd. 3, Basel 1955, p. 161.

10 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt als besonders methodisch gelten, sondern nur als derjenige Leitfaden, welcher am leichtesten in die Sache hineinführt»20. Dall’altro, il Rinascimento, inteso in senso meramente stilistico, convive e in certo qual modo si sovrappone all’idea che si è di fronte anche di una determinata epoca storico-culturale. E benché sia consapevole che il rapporto tra stile artistico e cultura implica l’uso di due diverse sintassi, Burckhardt ritiene che la cultura sia da considerare come il contesto entro il quale è possibile comprendere le opere d’arte. Parallelamente egli sottolinea che l’architettura, la scultura e la pittura sono forme che si collocano nello spazio, e che esse non possono essere percepite come una mera esperienza visiva – come invece affermerà più tardi Heinrich Wölfflin. Detto altrimenti: Burckhardt non distingue ancora ciò che è significativo psicologicamente (etico-spirituale), da quello che ha un effetto e un valore ottico (valore pittorico), poiché continua a sostenere che il Rinascimento italiano è un fenomeno prevalentemente stilistico e allo stesso tempo una forma storico-culturale. Insomma, non riesce ancora a stabilire un corretto rapporto tra forma e funzione nell’opera d’arte. Solo la crescente consapevolezza della forbice tra stile e cultura condurrà Burckhardt negli anni seguenti ad abbandonare il suo originario progetto formulato in una lettera del 1855, cioè quello di «fondere» arte e cultura del Rinascimento italiano21. Al momento, nonostante l’impasse, Burckhardt continua a pensare ancora alla possibilità di trattare e pubblicare una visione d’insieme del Rinascimento italiano22. Al contempo assume sempre più una forte

20 Id., Der Cicerone, in JBW, Bd. 2, p. 338. Questa definizione sarà mantenuta anche dopo il 1855. In tal senso va interpretato il titolo alla seconda edizione de Die Baukunst der Renaissance in Italien che adesso si intitola Geschichte der Renaissance in Italian (la prima edizione era apparsa nell’ambito della generale e incompiuta storia della architettura di Kugler). Quest’ultimo titolo Burckhardt si spiega con il fatto che Burckhardt intende riportare il termine Renaissance al suo originario contesto, quando esso designava esclusivamente una particolare forma architettonica e non un’epoca storico-culturale. 21 Id., Briefe. Vollständige und kritisch bearbeitete Ausgabe mit Benützung des handschriftlichen Nachlasses hergestellt von Max Burckhardt, Bd. 3, p. 222. 22 Cfr. Id., Die Kunst der Renaissance I, in JBW, Bd. 16. hrsg. v. M. Ghelardi u. Susanne Müller, München-Basel 2006.

11 Rinascite, rinascenze, rinascimenti rilevanza l’idea che l’epoca rinascimentale costituisce il germe del moderno individualismo23. Non a caso Die Cultur der Renaissance in Italien si apre con la descrizione del nuovo tipo di individualismo che forgia lo Stato come Kunstwerk. Fin dalle prime pagine il quadro è segnato da una vita pubblica dominata dalla violenza e dal delitto, dal terrore e dall’arbitrio individuale, dall’usurpazione e dall’instabilità. L’affermazione di una vita caratterizzata dalla lotta per l’esistenza non si limita però solo allo Stato, ma si estende in profondità, fino ad attraversare il mondo degli umanisti, dove la sete di grandezza si afferma indipendentemente da tutto, e la ricerca della fama partorisce lo «spirito del rifiuto reciproco»24. Questa condizione, che appare per molti aspetti tragica, è però solo una faccia della stessa medaglia: come corrispettivo ad una condizione di illegittimità e di arbitrio individuali si sviluppa il calcolo razionale, una visione più oggettiva del passato e della vita che tiene conto dei mutevoli rapporti di forza e che guarda l’agire umano anche sotto l’aspetto della razionalità, della adeguatezza tra mezzi e fini. Ciò che colpisce è il modo in cui Burckhardt mette in luce questo duplice aspetto dell’individualismo: vita pulsionale e razionalizzazione dei rapporti (si pensi al capitolo dedicato alla scoperta dell’uomo e del mondo) convivono e al tempo stesso si nutrono di una cultura che esprime una soggettività piena che esalta e libera la violenza, dove l’uomo appare non più actus, ma agens. Così, mentre l’elemento soggettivo si leva in tutta la sua forza e l’uomo si pone come individuo autonomo, emerge anche un atteggiamento teorico e pratico oggettivo verso i fenomeni. Che la cultura discenda da impulsi individuali (Trieb), spiega il duplice fondamento antropologico della concezione burckhartiana del Rinascimento: l’uomo conserva in sé in modo indelebile i caratteri di una lacerazione originaria dalla natura, giacché egli per sopravvivere e prosperare ha bisogno di costruire una seconda

23 Cfr. n. 11. In questo contesto è importante notare che Burckhardt, pur non riuscendo a risolvere il rapporto tra stile e relativa cultura, avverte l’esigenza di rifondare il linguaggio artistico: «Du [Kugler] siehest, wie ich mit unserer schon etwas bejahrten ästhetischen Sprache gekämpft habe, um ihr ein eigenthümliches Leben abzugewinnen [...]», Id., Der Cicerone, in JBW, Bd. 2, p. 1. 24 Cfr. W. Hardtwig, Jacob Burckhardt. Trieb und Geist – die neue Konzeption von Kultur, in Geschichtswissenschaft um 1900, hrsg. v. N. Hammerstein, Wiesbaden 1988, pp. 97-112; Id., Geschichtsschreibeng zwischen Alteuropa und moderner Welt, Göttingen 1974.

12 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt natura, la quale può affermarsi sì come mero egoismo individuale, come mero «impulso» acquisitivo riguardo alla vita, ma può e in certo qual modo deve anche oggettivarsi in forme di vita, in opere, in una molteplicità di forme artificiali che si distaccano, per il loro valore e significato, dalle pulsioni originarie. Il tema dell’individualismo non è però limitato da Burckhardt al solo Rinascimento, giacché si pone all’interno di un disegno più ampio. In sostanza, egli si chiede non solo quando e dove sia sorto, ma anche come esso si sia trasformato, giacché si è di fronte ad un fenomeno precipuo del tipo umano occidentale25. Da qui emerge la « kolossale Daseinfrage» che caratterizza l’epoca contemporanea, nonché l’atteggiamento di Burckhardt verso la «dittatura della democrazia», di cui egli, nelle celebri lezioni del 1872, cercherà le radici nella società ateniese26. Non solo. Da queste considerazioni emerge anche la questione che Max Weber, lettore di Burckhardt, in seguito riprenderà, vale a dire quale sarà il tipo umano che avrà la possibilità di diventare dominante nella società a venire. Quella di Burckhardt non è dunque una concezione estetizzante dello Stato moderno poiché esso, concepito come Kunstwerk, non è altro che il risultato dello sforzo umano di dar vita ad una seconda natura ‘artificiale’. Non per nulla Burckhardt aveva tratto questo concetto dalle Vorlesungen über Enzyklopädie und Methodologie der philologischen Wissenschaften che August Boeckh aveva tenuto a Berlino, e che Burckhardt aveva seguito nel 1839-1840. Scrive infatti Boeckh: «Der Staat ist ein grosses Kunstwerk des menschlichen Geistes und an seinem Aufbau arbeiten alle Individuen [...]» e perfino «die Kunst ist ein Product der Religion»27. Detto ciò riprendiamo il filo del discorso.

25 Sulla questione del Rinascimento come culla del moderno concetto di individualismo, si veda la fortunata, ma anche schematica interpretazione di P. Burke, The Renaissance, New-York 19972; J.J. Martin, Myths of Renaissance Individualism, New-York 2004. Per un eccellente quadro di insieme cfr. N. Gardini, Il Rinascimento, Torino 2010. 26 Cfr n. 11 e L’umano senza Umanesimo, introduzione a J. Burckhardt, Storia della civiltà greca. I Greci e il loro mito. La Polis, a c. di M. Ghelardi, Torino in part. pp. LXII-LXVIII. 27 Cfr. A. Boeckh, Vorlesungen über Enzyklopädie und Methodologie der philologi- schen Wissenschaften, hrsg. v. E. Bratuscheck, 2 Aufl. besorgt v. R. Klussmann, Leipzig 1886, p. 429; p. 463.

13 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Come abbiamo già accennato, le Vorlesungen über Renaissance del 1858-1859 dovevano costituire una parte del più ambizioso tentativo perseguito da Burckhardt di unificare in una unica opera la civiltà e l’arte del Rinascimento italiano. Significativa è in tal senso la lettera di Burckhardt a Maximilian II di Baviera che, attraverso Ranke, aveva chiesto notizie del progetto che il giovane studioso basilese stava elaborando: «[...] die Renaissance sollte dargestellt werden in soweit Mutter und Heimat des modernen Menschen geworden ist, im Denken und Empfinden sowohl als in Formenbilden. Es erschein als möglich, diese beiden großen Richtungen in einer würdigen Parallele zu behandeln, Kunst- und Culturgeschichte zu verschmelzen»28. Non a caso nelle lezioni del 1858-1859 Burckhardt esplicita per la prima volta in modo compiuto la sua definizione del Rinascimento italiano: Was ist Renaissance? [...] der moderne Mensch. Unsere Beschränkung auf die Kunst, aber in bestimmtem Bezug auf die Cultur denn das Kunstgroße entsteht nur so. Ein neuer Geist aus den Tiefen des italienischen Volkes verbunden mit dem neuentdeckten Alterthum schafft eine neue Architectur [...] Zugleich die Sculptur und Malerei, die das Geistig Bewegte im Leiblich Bewegten darstellen und auf die Architectur reflectiren und ihr den heitern, freien Ziergeist geben, ihre Räume fullen sich: nicht nur mit Gemälden und Statuen, sondern mit Schreinerarbeit, Arazzen, Gefäßen. Dieß System uber Europa verbreitet dominirte drei Jahrhunderte, also gewiß mit allen großen Dingen jener Zeiten verflochten und im Hinblick darauf zu schildern und gewiß ein Ganzes bildend29. Dopo aver illustrato le caratteristiche dello stile architettonico rinascimentale rispetto a quello gotico, che si era e propagato in Europa «wie ein Naturereigniß», l’autore sottolinea come gli artisti italiani avessero reinterpretato criticamente la tradizione antica – «Die Reminiscenz des Baulichen bleibt, aber in schöner, freier Umdeutung»30 –, liberando al contempo la loro fantasia: Spiel der Phantasie, aber nur einer geschulten, gesetzmäßigen. Scheinbar vor Allem frei, weil frei von Sachinhalt (mit allem

28 J. Burckhardt, Briefe. Vollständige und kritisch bearbeitete Ausgabe mit Benützung des handschriftlichen Nachlasses hergestellt von Max Burckhardt, Bd. 4, Basel 1960, p. 23. 29 Id., Vorlesungen über Renaissance, in JBW, Bd. 17, p. 3. 30 Ivi, p. 14.

14 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt

historischen und allegorischen tödtet man die Grotteske) – aber im höchsten Grade gebunden an die höhern decorativen Gesetze und immer nur trefflich bei allgemeiner Kunsthöhe, wo Bramante baut, Rafael malt und Sansovin meißelt. Zu der nöthigen Oeconomie ohne Durftigkeit bedarf es der höchsten kunstlerischen Kraft und Weisheit an sich, zugleich Vielseitigkeit in allen drei Hauptkunsten31. Pure la soggettività artistica appare adesso determinata dalla capacità di costruire un senso nuovo dello spazio basato su una razionalità matematica, che rapporta ogni figura ad un «höherm Verhältniß zur Fläche». Ciò premesso, Burckhardt passa ad affrontare la questione che ritiene centrale: Es ist relativ leicht, die äußern Bedingungen und Fördernisse aufzuzählen und selbst die einzelnen Schulen und Kunstler zu schil- dern. Aber wer nennt die Triebkraft? und die ihr entgegenkommende allgemeine Begeisterung? An der Pforte der modernen Cultur steht hier ein Volk, welchesn kraft Nothwendigkeit sein ganzes inneres Leben in viel 1000 Gestaltenn an den Tag bringt, deren trefflichste weltgultig und unerreichbar sind (was den Producten des Mittelalters fehlt). Un- möglichkeit, bis jetzt andere und höhere Kunstideale zu denken und im geringsten Fall stehen diese Werke als ein Unvermeidliches und Unumgängliches mitten in unserer Bildung32. Ma come può essere descritto l’ideale del Rinascimento, visto il «Wunsch aller höher gebildeten Zeitalter, die allgemeinen Ideen, die so viel gekostet, auch durch sichtbare Darstellung zu verherrlichen?»33. L’autore risponde ricostruendo il percorso attraverso cui, prima la letteratura e poi la pittura, hanno concepito i trionfi che, in quanto «genere» (Gattung) artistico permettono di ripercorrere alcune caratteristiche fondamentali del Rinascimento italiano. Difatti, dopo aver illustrato la gerarchia figurativa nel Trionfo di San Tommaso nel Cappellone degli Spagnoli a Firenze, ove angeli, evangelisti, profeti e santi sono raffigurati come i signori di tutte le virtù e delle scienze34, Burckhardt scrive:

31 Ivi, p 16. 32 Ivi, p. 21. 33 Ivi, p. 32. 34 Ivi, pp. 32-33: «Von da an wurden beständig in Italien sowohl bewegte Trionfi, als thronende Allegorien mit Repraesentanten gemalt». Sulla funzione dei trionfi si veda

15 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Peruginische Schule: Appartamento Borgia; Pinturicchio. Allegorische Tugend Thronend; die Repraesentanten als Hofleute drum. Perugino im Cambio: die vier Cardinaltugenden in den Luften [...] Nun kam an Rafael die erste römische Aufgabe: Theologie, Philosophie, Poesie und Recht in der Camera della Segnatura zu malen. 1) Er verwies die allegorisch-abstrakten Figuren an das Gewölbe – in Tondi; die berühmte Gestalt der Poesie. 2) Er ubersetzte die Repraesentanten in lebendige Vorgänge und das Wie? ist die höchste poetisch- kunstlerische Leistung Rafaels. Es gelang nur ihm; die Aufgabe ist gelöst. Das Beisammensein der großen Fachmänner aller Zeiten ist weder ein stummes, noch ein wirres Durcheinanderreden. Die Theologie wurde zur Disputa del sagramento, um dessen Altar Theologen und Laien sitzend, stehend, kniend, herbeischreitend, voll tiefster innerer Erregung versammelt sind, ihrem Halbkreis entspricht der himmlische, die Trinitaet mit Engeln, Aposteln und Propheten, ungesehen von den unten befindlichen, aber deutlich geahnt von Mehrern [...] Die Philosophie wurde zur sog. Schule von Athen. Die Weisen des Alterthums sind in einer Halle auf Stufen vertheilt, je nach Bedeutung, sodaß Plato und Aristoteles oben die Mitte, die vorbereitenden mathematischen Wissenschaften unten zwei Gruppen einnehmen. Geredet und gehorcht wird uberall und keiner stört den andern. Ein höchster gemeinsamer Geist weht und webt durch das Ganze35. La Scuola di Atene di Raffaello rappresenta un esempio paradigmatico del modo in cui il Rinascimento ha saputo conciliare la tradizione antica con la sensibilità moderna. Qui il trionfo viene reinterpretato in una cornice architettonica (forse il progetto Bramante) che al suo interno raffigura l’incontro tra la tradizione aristotelica dei trattati e quella socratica dei dialoghi. Qui l’allegoria, che per Burckhardt è una figura tipica della concezione artistica gotica36, è collocata in alto, a margine dell’incontro tra le due correnti fondamentali del anche l’ultima parte del quinto capitolo della Kultur der Renaissance in Italien (1860); crf. Id., Die Cultur der Renaissance in Italien, trad. it. cit., p. 284 sgg. 35 Ivi, p. 33. 36 Cfr. Id., Der Cicerone. Eine Anleitung zum Genuß der Kunstwerke Italiens, in JBW, Bd. 2, pp. 44-45, a proposito delle allegorie dipinte da Giotto ad Assisi. Burckhardt definisce Giotto l’esempio più alto del «gotico italiano» e non come il pittore che, secondo la nota opera di Thode su San Francesco, avrebbe rappresentato l’inizio del Rinascimento. Ma sul significato della allegoria nella pittura si veda anche Id., Vorlesungen über Renaissance, in JBW, Bd. 17, p. 32.

16 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt pensiero europeo. L’inizio dell’autunno del Rinascimento coincide per Burckhardt con l’anno della morte di Raffaello e con il successivo Sacco di Roma, quando nella cultura letteraria inizia a prevalere il «ciceronismo», mentre in ambito artistico si diffonde parallelamente la cosiddetta «Schnellmalerei» e la precettistica37: «Einen hoch- bedeutenden Fortschritt Rafaels gaben schon seine nähern Nachfolger wieder Preis: die Verlegung der allegorischen Figuren in besondere Räume; sie vermischen sie wieder mit den historischen Compositionen. Es darf nicht irre machen, wenn es scheinbar antike Götter sind, denn sie sind rein allegorisch genommen»38. Tipico esempio di questo mutato atteggiamento è la Galleria di Maria die Medici al Louvre: «[...] Rubens: Galerie de Marie de Medici [...] übermaß dieser Manier XVII. und XVIII. Jh.; ihr gänzlicher Sturz»39. Dalla costola di queste lezioni del 1858-1859 scaturirà di lì a poco Die Cultur der Renaissance in Italien, ma non l’opera che avrebbe dovuto completare questo testo40. Anzi, proprio in questi anni Burckhardt sembra diventare sempre più consapevole che è sempre insoddisfacente narrare la storia attraverso l’arte, ma anche tracciare il percorso dell’arte nella storia. In sostanza: Burckhardt sembra oramai consapevole che è impossibile trovare una soluzione soddisfacente alla questione del parler peinture, e al problema più generale del rapporto tra forma e funzione. Non a caso il nostro autore ripone nel cassetto della scrivania il manoscritto della Kunst der Renaissance del 1862-186441. Si tratta di una decisione che indica solo il limite storico a cui è giunta in questi anni la riflessione di Burckhardt, ma non il

37 Il sesto capitolo della Kultur der Renaissance in Italien (1860) che tratta anche questi temi costituisce una severa diagnosi della senescenza culturale italiana dopo il Sacco di Roma. 38 Id., Vorlesungen über Renaissance, in JBW, Bd. 17, p. 34. 39 Ibidem; sempre interessante M. Warnke, Laudando praecipere. Der Medicizyklus des Peter Paul Rubens, Groningen 1993; cfr. inoltre P. Bahners, Die berühmteste Zumutung. Jacob Burckhardt über den Medici-Zyklus des Rubens, in Unerschöpflichkeit der Quellen. Burckhardt neu ediert – Burckhardt neu entdeckt, hrsg. v. U. Breitenstein, A, Cesana, M. Hug, Basel 2007, pp. 9-42 che però ignora queste lezioni del 1858-1859. 40 Cfr. qui n. 10. 41 Id., Geschichte der Renaissance in Italien, in JBW, Bd. 16, hrsg. v. M. Ghelardi u. S. Müller, München-Basel 2006, pp. 3-257. (cfr. anche la traduzione italiana a cura di M. Ghelardi, Torino 2006).

17 Rinascite, rinascenze, rinascimenti limite strutturale della sua riflessione. poiché allo stesso tempo egli affina l’idea di genere (Gattung) artistico. Esso permette infatti di dar conto della funzione che hanno avuto per la creazione di un’opera il materiale, la tecnica e il contenuto. In sostanza, Burckhardt mira non tanto a «spiegare» quanto a «circoscrivere» (umschreiben) l’opera d’arte attraverso i principi «nach Mitteln und Kräften», e «nach Inhalt und Aufgaben». In tal modo, sembra prendere definitivamente congedo dal suo maestro Franz Kugler, ma anche da quanti concepiscono l’arte come una mera sequenza di stili e tuttavia la raccontano come un processo che si svolge nel tempo. Di ciò è un esempio importante il manoscritto, rimasto incompiuto, sui generi (Gattungen) dell’arte rinascimentale42. Detto ciò passiamo al secondo punto. A partire dalla seconda metà degli anni settanta Burckhardt ripropone le questioni che per lui sono ancora insolute, prima fra tutte quella del parler peinture. Adesso, si legge in una lettera a Alioth, il mio compito è «die lebendigen Gesetze der Formen in möglichst klare Formeln zu bringen»43. Da qui il sorgere di una impostazione per generi (Gattungen), di cui saranno fondamentale esempi i saggi postumi su Das Altarbild, Die Sammler, Das Porträt in der Malerei44, le Randglossen zur Sculptur der Renaissance45, nonché le Erinnerungen aus Rubens46. Come abbiamo accennato, la pietra angolare che Burckhardt pone a fondamento delle sue ultime ricerche è il grosso manoscritto intitolato Notizen zur italienischen Kunst seit dem XV. Jh. All’inizio del testo

42 Cfr. Id., Die Malerei nach Inhalt und Aufgaben, in JBW, Bd. 16, pp. 261-391; cfr. Id., Italian Renaissance Painting according to Genres, ed. by M. Ghelardi, Los Angeles 2005. 43 Id., Briefe. Vollständige und kritisch bearbeitete Ausgabe mit Benützung des handschriftlichen Nachlasses hergestellt von Max Burckhardt, Bd. 7, Basel 1969, p. 43. 44 Id., Das Altarbild, Die Sammler, Das Porträt in der Malerei, in JBW, Bd. 6, hrsg. v. S. v. Boch, J. Hartau, K. Hengevoss-Dürkop u. M. Warnke, München-Basel 2000. 45 Id., Randglossen zur Sculptur der Renaissance, in JBW, Bd. 16, pp. 395- 617; questo manoscritto contiene il più forte attacco di Burckhardt all’opera di Michelangelo, cfr. M. Ghelardi, Michelangelo furioso, in «Belfagor», XLVI (1991), pp. 605-626. 46 J. Burckhardt, Erinnerungen aus Rubens, in JBW, Bd. 11, hrsg. v. E. Struchholz u. M. Warnke, München-Basel 2006.

18 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt l’autore sintetizza il senso del Rinascimento – «Der Name rinascita. Nicht das Was des Alterthums, sondern das Wie» -47 per poi precisare: Diejenigen anderthalb Jahrhunderte der italienischen Kunst, durch welche sie ein Hauptzeugniß des Geistes ihrer Nation und zugleich vorbildlich fur das seitherige Europa wurde, was sie vielleicht immerwieder werden wird. Sie gewährt der seitherigen Kunst nicht nur ein ewiges Studium und eine große Erbschaft des Könnens, sondern sie hat derselben auch einen großen Theil ihres Empfindens aufgenöthigt [...] Kunstler und Besteller lernten in Italien und an italienischen Kunstwerken eine ganz neue Welt von Aufgaben kennen, es entstanden ganz neue Ambitionen, sowohl des Schaffens als des Genießens48. L’arco temporale entro cui Burckhardt racchiude il Rinascimento artistico italiano è adesso più lungo e scorre dal 1400 al 1550. Diversamente dal Nord, la civiltà italiana appare «im geistigen Sinne» come «Herstellung des Imperium Romanum», come l’affermazione di una «Wahrheit der menschlichen Gestalt, ihrer Bewegung, und (in der Malerei) ihres perspectivischen Scheins»49. Per Burckhardt le caratteristiche peculiari di questa epoca sono ancora una volta «die Entwicklung des Individuums» e la «Verherung des Alterthums» che, congiunte, «machte eine Kraft, ja eine völlig objective Macht aus, welche nothwendig, hier fruher, dort später den ganzen Occident mit sich zog»50. In questa prospettiva due sono i compiti che l’autore si pone: trasferire la sua attenzione soprattutto agli oggetti e non sugli artisti: «Das jetzige Ausmalen von Dichter – und Künstlerleben hat eine sehr ungesunde Quelle; besser, man begnüge sich mit den Werken [...]»51. In secondo luogo, tracciare una arco temporale più ampio al Rinascimento che all’inizio è presente soprattutto nella letteratura: «Renaissance: Ergrundung der Welt. In der Kunst: Darstellung der lebendigen Wirklichkeit. In der Literatur dieser Trieb betont, der ideale Gegentrieb zum Schönen beschwiegen. Dante Purgat. X, 29 und XII, 13 bes. 67 morti i morti, e i vivi parean vivi etc. in

47 Id., Notizen zur italienischen Kunst seit dem XV. Jh., in JBW, Bd. 17, p. 45. 48 Ivi, p. 41. 49 Ivi, p. 43. 50 Ivi, p. 42. 51 Id., Aesthetik der bildenden Kunst, in JBW, Bd. 10, hrsg. v. P. Ganz, München- Basel 2000, p. 505.

19 Rinascite, rinascenze, rinascimenti den Schilderungen der von Gott geschaffenen Demuthreliefs und Bodensculpturen, neben der geistigen Bewegung besonders das Täuschend-Momentane und Wirklichkeitsgemäße hervorgehoben»52. Non solo. Il Rinascimento favorisce la nascita di sempre nuovi compiti (Aufgaben), ma anche «Kunstsitten und sichere Style [...] in welchen auch der nur Bedingt-Begabte oft das Herrlichste leistete, weil er nicht stets in den Sujets neu zu sein brauchte, sondern inhaltlich tröstlich gesichert war, namentlich gegen seine eigenen Einfälle – während heute ein stetiges Neuerfinden der Sujets, ein neues Was verlangt wird»53. Sebbene ordinate per chiari scopi didattici, le Notizen zur italienischen Kunst seit dem XV. Jh. rispecchiano la nuova impostazione di Burckhardt: il Rinascimento non è più considerato nei suoi aspetti emintemente culturali, neppure come una questione propriamente stilistica, ma come un fenomeno che è possibile analizzare attraverso i generi (Gattungen) artistici. L’autore pone così al centro le opere d’arte, che devono essere analizzate sia in relazione alle funzioni (Aufgaben), sia al contenuto (Inhalt) e alle capacità (Kräften) sia infine in rapporto ai materiali (Mitteln): «Diejenigen Gattungen von welchen wir reden, bezihen sich auf den Inhalt der Malerei, auf die geistigen Fächer, in welche sie sich auseinanderlegt – sie sind nicht scharf geschieden, sondern gehen in einander über, sodaß wir nur a potiori trennen können [...]»54. I generi permettono di comprendere e analizzare la funzione che le forme artistiche hanno in diversi contesti culturali: «So wie die Architectur nicht antike Bauten wiederholte oder nachbaute, so haben auch Sculptur und Malerei nicht gewollt was das Alterthum wollte, sondern sie suchten zu schaffen wie es geschaffen hatte». Decisivo nell’arte non è infatti «un sempre nuovo che cosa», neppure la continua invenzione di compiti, bensì «il come», cioè il modo in cui si manifesta la concezione e la formulazione nuova di un dato permanente. Di qui discende l’autocritica riguardo alla precedente definizione di Rinascimento: «(Einseitigkeit des Namens Renaissance cf. Gesch. der Ren. in Italien §16)»55. Non

52 Id., Notizen zur italienischen Kunst seit dem XV. Jh., in JBW, Bd. 17, p. 88. 53 Ivi, p. 44. 54 Id., Aesthetik der bildenden Kunst, in JBW, Bd. 10, p. 71. 55 Id., Notizen zur italienischen Kunst seit dem XV. Jh., in JBW, Bd. 17, p. 45.

20 Un lusso per il pensiero. Il Rinascimento italiano di Jacob Burckhardt solo. L’idea di genere si contrappone alla concezione di uno sviluppo autonomo dell’arte che considera il suo svolgimento nel tempo in termini puramente stilistici e che assume lo stile come l’unico fattore costante, indipendentemente dai «Mitteln», dalle «Kräften», dal «Inhalt» e dai «Aufgaben». Al contempo, i generi gettano nuova luce sulle opere d’arte quando esse sono considerate in relazione alle loro specifiche funzioni, sicché concetti come imitazione, maniera, stile non possono essere intesi in senso formale e classificatorio: «Pietro della Vecchia muß geschienen haben, als schaffte er Gattungen, an welchen sofort und fortan sich Viele betheiligten»56. I vari generi artistici sorgono, si evolvono e circoscrivono la forma nel tempo. D’altra parte, essi non sono concepiti come conformità ad una norma, poiché la loro collocazione è determinata sempre dal contesto della civiltà, la quale rappresenta l’orizzonte entro cui costituiscono i generi che la cultura di una epoca ha saputo sviluppare. Da questi presupposti discende per Burckhardt la concezione della forma: «So wie dieselbe Melodie je nach Tempo, Begleitung etc. sehr verschieden klingt, auch wenn Rhythmus und Harmonie identisch bleiben»57. Adesso Burckhardt concepisce in modo assolutamente inseparabile figura e momento. Ed è proprio da questo nuovo contesto che scaturisce una concezione del Barocco meno dogmatica rispetto a Der Cicerone. Difatti, Burckhardt non sostiene più, come aveva fatto invece in precedenza, una categoria unitaria di Barocco: «Die Leidenschaft holt ihre Glut aus der sie begrenzenden Ordnung, die Ordnung ihrem Sinn aus der sie bedrohenden Leidenschaft»58. Di qui l’apprezzamento per Rubens che nelle sue composizionipermette all’osservatore di godere non solo della forza del movimento drammatico, ma di «un misterioso appagamento dell’occhio», finché non si accorge che i singoli elementi obbediscono ad una simmetria dissimulata, addirittura ad una figura matematica: «Denn was Rubens in seinen Äquivalenten und in seiner verhelten Symmetrie gelingt, ist nichts anderes als die höchstmögliche Entwicklungsstufe der Renaissance-Komposition, das heißt der klassischen und ewigen Art des Komponierens: Rubens

56 Ivi, p. 299. 57 Ivi, pp. 348-350. 58 Cfr. E. Maurer, Jacob Burckhardt und Rubens, Basel 1951, pp. 271-272.

21 Rinascite, rinascenze, rinascimenti hat die von ihm und zum Teil erst durch ihn vollständig erkannten hohen Gesetze der Komposition selbst in seinen wildesten und unbändigsten Szenen innergehalten [...]»59. Con la sua ultima ricerca su Rubens Burckhardt sembra concludere la sua lunga e complessa riflessione sul Rinascimento artistico italiano. Non a caso pochi mesi prima di morire confesserà a Ludwig von Pastor: «Ein Buch hätte ich noch gern geschrieben: ‘Die Aufgabe der Kunst’»60.

59 Ivi, p. 271. 60 L.v. Pastor, Tagebücher-Briefe-Erinnerungen, hrsg. v. W. Wühr, Heidelberg 1950, p. 275.

22 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica

CHIARA A ZZOLINI

The 1441 Certame coronario, sponsored by Leon Battista Alberti, traced the attention of the literati of that time back to the classic theme of friendship, as exemplarily explained in the Ciceronian Laelius de amicitia. This article intends to investigate the repercussions of the Alberti’s competition on the literary production of the umanist Felice Feliciano from Verona (1433-1479?), since in his vulgar epistles the friendship subject took on a central role; moreover, it aims to inspect the classic sources from which Feliciano drew inspiration to write about this topic, and to refl ect on the “liminal” nature of friendship in the fi fteenth century, halfway between authentic feeling and instrumental relations.

Céthégus était le complice de Catilina, et Mécène le courtisan d’Octave; mais Cicéron était l’ami d’Atticus. (Voltaire, Dictionnaire philosophique, s.v. amitié)1

Nella Firenze del primo Quattrocento, un evento preciso, il Certame coronario del 1441, svoltosi il 22 ottobre nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, avviò un processo di recupero e di rilancio di un «tema istituzionale della classicità»2, quello dell’amicizia, che avrebbe riscosso un “rinnovato” successo nella produzione letteraria degli anni successivi; in ambito epistolografico, spicca la figura dell’umanista

1 Voltaire, Dizionario filosofico. Tutte le voci del Dizionario filosofico e delle Domande sull’Enciclopedia, a cura di D. Felice e R. Campi, Bompiani, Milano 2013, p. 210. 2 Cfr. G. Gorni, Storia del Certame coronario, in «Rinascimento», XII, 1972, pp. 135-181, a p. 147n.

23 Rinascite, rinascenze, rinascimenti veronese Felice Feliciano, per la centralità assoluta che la relazione amicale assunse nei suoi scritti.

1. A Firenze: la competizione albertiana e l’amicizia “renovata” Nel nome stesso ‘certame’, che è un hapax lessicale, si può scorgere l’archetipo latino del progetto messo in atto da Leon Battista Alberti (1404-1472): egli tentò di “far rinascere” la tradizione del certare, ‘gareggiare’ (GDLI, iii, s.v. certare), che si ispirava a competizioni simili tenutesi nell’antica Roma3; per farlo, scelse come tema della gara poetica l’amicizia, un argomento «consacrato in un libro canonico della latinità»4, il Laelius De amicitia ciceroniano. L’Alberti volle che il concorso fosse portato avanti in lingua volgare, ma proprio nella decisione di trattare un tema classico nella lingua d’uso risiedeva il «veleno dell’argomento», come lo definì Guglielmo Gorni5: in un clima di svalutazione delle qualità retorico-stilistiche del volgare da parte dell’alta cultura umanistica, l’Alberti provava invece a ribadirne la dignità in quanto lingua letteraria. Il progetto però non andò a buon fine: i giurati non assegnarono a nessuno dei concorrenti il premio promesso, ovvero una corona d’alloro in argento, bocciando così, di fatto, l’assurda pretesa di voler equiparare il linguaggio moderno a quello degli avi6. Nonostante il fallimento ideologico dell’iniziativa, indubbia fu la ripercussione del Certame sulla poesia toscana del Quattrocento, comprovata dalla larga accoglienza concessa ai componimenti coronari nei codici di rime in tutta la seconda metà del secolo7. Indubbio fu inoltre il consenso che il tema dell’amicizia “renovatus” ottenne a seguito della competizione albertiana: Dale Kent sostiene che il Certame portò davvero l’amicizia all’attenzione dei fiorentini

3 G. Gorni, op. cit., a pp. 136-137. 4 Ivi, a p. 147. 5 Ivi, a p. 147n. 6 Sul mancato tentativo da parte dell’Alberti di riscattare il volgare, cfr. V. Formentin, La «crisi» linguistica del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana, III, Salerno editrice, Roma 1996, pp. 150-210, a pp. 174-175. 7 Il culmine del successo è rappresentato addirittura dall’inclusione di cinque poesie coronarie nella Raccolta Aragonese di Lorenzo il Magnifico (G. Gorni, op. cit., p. 159).

24 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica e che nei decenni successivi un flusso continuo di poeti sciorinò le proprie riflessioni in merito8. Lo stesso Alberti, nella Protesta redatta in forma anonima contro la giuria che si era rifiutata di premiare un qualsivoglia vincitore, scrisse con toni fieri e provocatori quanto segue: «Quanti sono fra ·nnoj, per opera di quesstj conciertatorj, che ora sanno che prima non sapevano che cosa sia amicizia?»9 Tra questi «conciertatorj» vi fu anche Ciriaco d’Ancona (1391- 1452), il fondatore della moderna scienza epigrafica: lo ha dimostrato Gorni, reperendo l’originale autografo del sonetto che Ciriaco presentò al concorso (ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.V.160), in cui l’«util iucunda honesta alma amicicia» è presentata come il dono più degno fatto da Dio alle creature mortali10. La menzione dell’Anconitano non è casuale: infatti, discepolo entusiasta di Ciriaco, uno dei ruscelli impetuosi che sgorgarono dalla sua fonte in termini di passione antiquaria11, nonché copista dell’unico testimone manoscritto superstite della Vita Kyriaci di Francesco Scalamonti (ms. Treviso, Biblioteca Capitolare, 2.A/1)12 e di una redazione del sonetto ciriacano proposto al Certame (come si evince dalla tavola dei componimenti del ms. Modena, Bibilioteca Estense Universitaria, Estense Ital. 1155 (α.N.7.28))13, fu proprio

8 D. Kent, Il filo e l’ordito della vita. L’amicizia nella Firenze del Rinascimento, Laterza, Bari 2009, p. 22. 9 G. Gorni, op. cit., a p. 170; in appendice I, a pp. 167-172, l’autore pubblica per intero la Protesta dell’Alberti. 10 Ivi, a pp. 164-165, dove tra l’altro è riprodotto per intero il sonetto coronario di Ciriaco. 11 L’immagine di Ciriaco “fonte” e di Feliciano “rivolo” è tratta da una lettera di Giovanni Battista De Rossi a Theodor Mommsen (G. Vagenheim, Le raccolte di iscrizioni di Ciriaco d’Ancona nel carteggio di Giovan Battista De Rossi con Theodor Mommsen, in Ciriaco d’Ancona e la cultura antiquaria dell’Umanesimo. Atti del convegno internazionale di studio, Ancona 6-9 febbraio 1992, a cura di G. Paci e S. Sconocchia, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1998, pp. 477-519, a p. 488). 12 Le informazioni sul ms., con il testo dell’opera, si leggono in F. Scalamonti, Vita viri clarissimi et famosissimi Kyriaci Anconitani, edited and translated by C. Mitchell and E.W. Bodnar, American Philosophical Society, Philadelphia 1996. 13 Oggi il sonetto è perduto perché il codice estense ha sofferto la caduta di al- cune carte; si ringrazia il professor Andrea Comboni (Università di Trento) per la segnalazione.

25 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Felice Feliciano “Antiquarius”, il quale conferì all’amicizia un valore esemplare nella propria vicenda umana e artistica.

2. Fuori Firenze: il caso di Felice Feliciano da Verona Felice Feliciano (1433-1479?) è una figura complessa nel panorama dell’Umanesimo del secondo Quattrocento: fu antiquario, calligrafo, miniatore, poeta, epistolografo, stampatore e persino alchimista14; di lui, Rino Avesani scrisse che «visse intensamente la sua non lunga esistenza, trasformando la cultura in ricchezza di rapporti umani»15. La sua cultura e la ricchezza di quei rapporti umani che egli instaurò (o vagheggiò di instaurare) in vita sono testimoniate dai suoi epistolari manoscritti, tre autografi (mss. Lo = Londra, British Library, Harley 5271, consta di 113 epp.; Ve = Verona, Biblioteca Civica, 3039, consta di 21 epp.; Ox = Oxford, Bodleian Library, Canon. Ital. 15, consta di 29 epp.), compilati in un arco di tempo che va dal 1472 ca. al 1479 ca., e uno postumo apografo (ms. Br = Brescia, Biblioteca Queriniana, C.II.14, consta di 139 epp.). Il corpus epistolare ammonta in totale a 189 lettere, di cui 76 sono a testimoniale plurimo, trasmesse cioè da almeno due dei quattro epistolari; i corrispondenti di Feliciano, destinatari dei suoi testi o mittenti degli stessi cui lui presta la propria penna, sono più di 13016. Si badi che gli epistolari del Veronese sono epistolari nel senso umanistico

14 I profili biografico-letterari più completi su Felice Feliciano e sul suo ingegno eclettico sono stati stesi da G. Pozzi – G. Gianella, Scienza antiquaria e letteratura. Il Feliciano. Il Colonna, in Storia della cultura veneta, III/1, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Neri Pozza, Vicenza 1980, pp. 459-498, a pp. 460-468 e da R. Avesani, Verona nel Quattrocento. La civiltà delle lettere, in Verona e il suo territorio, IV/2, Istituto per gli studi storici veronesi, Verona 1984, pp. 113-144; per la biografia stricto sensu, cfr. la voce curata da F . Pignatti, Feliciano Felice (Antiquarius), in Dizionario Biografico degli italiani, XLVI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1960-, pp. 83-90. Sempre opportuno è poi il rimando al catalogo di studi che raccoglie gli atti del convegno in suo onore tenutosi nel 1993, cfr. L’“Antiquario” Felice Feliciano veronese tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro. Atti del Convegno di Studi Verona 3-4 giugno 1993, a cura di A. Contò e L. Quaquarelli, Antenore, Padova 1995. 15 R. Avesani, op. cit., a p. 144. 16 Sugli epistolari di Felice Feliciano sia consentito il rimando alla tesi di dottorato di chi scrive, dal titolo Per un’edizione critica commentata degli epistolari di Felice Feliciano, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Ciclo XXXIII, incentrata sullo studio del rapporto tra i quattro mss., nella prospettiva di fornire delle linee guida condivisibili per l’edizione critica dei testi.

26 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica del termine, ossia opere letterarie a pieno titolo, caratterizzate da una loro unità interna e destinate alla lettura e alla divulgazione per volontà dell’autore17; essi sono in lingua volgare e si allineano precocemente con l’orientamento linguistico propugnato dal Certame18. A proposito delle raccolte del Feliciano, Avesani poté affermare con buona convinzione che «proprio quello dell’amicizia [...] è il tema che domina incontrastato nella sua produzione epistolare»19. In realtà, l’impressione dello studioso moderno non sembra discostarsi da quella di coloro che gli furono contemporanei: in un repertorio di indirizzi epistolari noto come Inscriptionum libellus, attribuito a Jacopo Zaccaria (uno tra i tanti corrispondenti del Feliciano) e dato alle stampe attorno al 148420, si legge la soprascritta: «Conservatori amiciciae ac flende vetustatis indagatori Felici Feliciano veronensi amico meo carissimo»21. In essa Feliciano è presentato non solo come indagatore dell’antichità in quanto abile epigrafista, ma anche come cultore dell’amicizia, «conservator amiciciae», sulla base verosimilmente delle sue prove letterarie. Già Giulia Gianella sospettava che il Libellus provenisse dallo scriptorium di Feliciano22, ma sia che si tratti di un indirizzo composto dallo stesso Felice sia che si tratti di un indirizzo composto da un suo conoscente, ciò che conta è che già allora si era consapevoli del rilievo che l’amicizia aveva avuto nella vita e nell’opera del Veronese.

17 Cfr. C. Griggio, Dalla lettera all’epistolario. Aspetti retorico-formali dell’epistolografia umanistica, in Alla lettera. Teorie e pratiche epistolari dai Greci al Novecento, a cura di A. Chemello, Edizioni Angelo Guerini, Milano 1998, pp. 83- 107, a p. 89. 18 La possibile ascendenza del Certame sulle scelte linguistiche di Feliciano è suggerita da L. Quaquarelli, Felice Feliciano letterato nel suo epistolario, in L’“Antiquario” Felice Feliciano veronese tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro, cit., pp. 141-160, a p. 156; si tenga presente che la pubblicazione della prima raccolta di epistole volgari, corrispondente al primo libro delle Lettere di Pietro Aretino, risale al 1538. 19 R. Avesani, op. cit., a pp. 136-37. 20 Sul Libellus, cfr. A. Mulas, L’Inscriptionum libellus di Jacopo Zaccaria e l’umanesimo romano, in «Albertiana», X, 2007, pp. 153-177, a pp. 163-169. 21 L’esemplare di riferimento dell’ed. del 1484 ca., da cui si cita, è l’inc. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 70 3 F 12, f. 25v. 22 G. Pozzi – G. Gianella, op. cit., a p. 467n.

27 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Egli fu davvero un «conservator amiciciae» e il tema dell’amicizia è un filo rosso capillare che innerva la sua intera produzione epistolografica per le seguenti ragioni:

1) in primo luogo, tutti gli epistolari si aprono nel segno dell’amicizia, con testi di dedica in cui si offrono al dedicatario raccolte di lettere aventi per oggetto l’amicizia e/o mandate agli amici: nell’ep. di dedica Lo I Feliciano invia al destinatario «questo picol libreto de diverse epi- stole di amicitia confecte» (f. 4v); nell’ep. Ve I precisa che, all’interno del “libretto”, «non si vedrà latine né greche bataglie, ma vedrassi al- cune familiare epistole mandate agli amici con rime amorose» (f. 2v); nell’ep. Ox I manda al dedicatario «il mio picolo libreto, testimonio dela mia fede, nel quale vederai diverse littere di materno eloquio con- fecte, destinate a molti amici» (f. 1r). L’apografo Br, a differenza degli autografi, è inaugurato da un’epigrafe dedicatoria, cui però fa subito seguito un sonetto sul valore inestimabile dell’amicizia (son. Non da hyperborei monti a quei di Arabia, f. 1v)23;

2) in secondo luogo, Felice, nelle sue lettere, parla di argomenti vari, spesso di natura moraleggiante (come i benefici derivati dall’avere o dal non avere figli o l’importanza della fatica e dello studio), ma i suoi interlocutori sono sempre i suoi amici, verso i quali ha costantemente parole d’affetto; la familiaritas, che presuppone l’amicitia, è dunque

23 Si specifica che la numerazione delle lettere del Feliciano è in numeri romani per gli autografi Lo, Ve, Ox e in numeri arabi per l’apografo Br; il numero che accompagna l’epistola è il numero d’ordine che essa assume all’interno della singola raccolta e, se l’epistola è a testimoniale plurimo, può variare da una raccolta all’altra. La trascrizione dei testi segue criteri conservativi e si limita a: scioglimento delle abbreviazioni, inserimento dei segni diacritici e di punteggiatura, normalizzazione delle maiuscole e delle minuscole, distinzione u/v. Nel caso in cui l’ep. citata fosse a testimoniale plurimo, si sceglie di seguire, per ragioni di chiarezza, un solo testimone; gli altri testimoni vengono elencati dopo il primo, ma di essi si fornisce solo il numero assunto dalla lettera all’interno della raccolta, senza dare l’indicazione dei ff. Se invece occorre menzionare genericamente un’ep. in attestazione plurima, si elencano in serie, separati da un trattino, i testimoni che la tramandano, seguiti dal numero d’ordine dell’ep. in ciascuno di essi: per es., l’ep. Lo CI-Ve III-Br 74 è la centunesima dell’epistolario londinese, la terza di quello veronese e la settantaquattresima di quello bresciano.

28 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica anche per lui, come per il Petrarca, condizione intrinseca e necessaria della scrittura epistolare24;

3) in terzo luogo, uno dei tre epistolari autografi del Feliciano, il ms. Ve, è stato definito da Franco Riva «una sorta di romanzo epistolare sull’amicizia»25 perché è una silloge monotematica di 21 lettere dedi- cata interamente al culto della relazione amicale. Ma Felice deposita riflessioni sull’amicizia non soltanto in Ve, bensì in tutte le sue raccol- te, tant’è che si potrebbe dire, a grandi linee, che circa una sessantina di testi su 189 (pressappoco un terzo del corpus epistolare) affronta, in maniera più o meno ampia, il tema dell’amicizia. 2.1 Una definizione d’amicizia per Felice Feliciano In due epistole dell’apografo bresciano Feliciano asserisce che «quello che in questa humana vita più nobel se trova è la amicitia» (Br 122 f. 80v e, in forma leggermente variata, Br 118 f. 78v). La sua visione del rapporto amicale è dunque idealizzata, sulla scorta di Cicerone: Lelio, infatti, parla «de vera et perfecta» amicizia, non «de vulgari aut de mediocri» (Lael. VI 22)26; allo stesso modo, Felice parla della «vera» amicizia tra anime elette, come si legge nel celebre incipit dell’epistola “manifesto” sull’argomento, consacrata dalla silloge Ve ma trasmessa anche da Lo e da Br27:

24 Cfr. D. Goldin Folena, Familiarum rerum liber. Petrarca e la problematica epistolare, in Alla lettera, cit., pp. 51-82, a p. 62. 25 F. Riva, Saggio sulla lingua del Feliciano dalle epistole agli amici, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CCXXI, 1962-1963, pp. 263-334, a p. 267. 26 Sandra Citroni Marchetti afferma, per l’appunto, che «l’amicizia predicata nel Laelius è l’amicizia fra buoni, cioè un’amicizia ideale» (S. Citroni Marchetti, Amicizia e potere nelle lettere di Cicerone e nelle elegie ovidiane dall’esilio, Università degli Studi di Firenze Dipartimento di Scienze dell’Antichità “Giorgio Pasquali”, Firenze 2000, p. 6). 27 L’ep., definita da Franco Riva, «la più suadente e suggestiva tra le altre che Feliciano dedicò all’argomento dell’amicizia» (F. Riva, Un’epistola di Feliciano sull’amicizia e proposte di ulteriori accertamenti, in «Atti dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXXXIV, 1975-76, pp. 663-680, a p. 663), venne pubblicata nell’estate del 1976 in copie numerate, elegantemente stampate con torchi a mano da parte dello stesso Riva (F. Riva, Beata dolcissima cosa, Editiones Dominicae, Verona 1976).

29 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Beata e dulcissima cosa fue sempre la vera amicicia, la quale per riverentia et honore si die asimigliare ale cerimonie degli dei. Questa, di gratitudine coronata e di summa honestate decorata, diremo sorella di caritate, inimica de villania et hoste acerbissima di avaritia, perché del’amico alcun priego non aspecta ma prumpta sempre si vede ad ogni suo honore et utile, desiderando nello amico quello che in sé medesma desidera (Ve III ff. 8v-9r; Lo CI-Br 74)28. In generale, Feliciano, nelle sue epistole, non sottopone l’amicizia a complesse elaborazioni teoriche e filosofiche; semmai, affida ai suoi testi considerazioni frammentarie e discontinue, che affiorano qua e là in modo asistematico ma che restano memorabili per la forza delle immagini che le accompagnano. Di seguito, si indicano le caratteristiche “universali” che l’umanista riconosce all’amicizia e che si richiamano a tòpoi tradizionali sul tema.

1) Per Feliciano l’amicizia è inestimabile (concetto già emerso nel so- netto posto ad apertura di Br): è il tesoro più prezioso, da preferirsi all’oro, alle gemme e a ogni metallo. Spesso il termine di confronto è proprio l’oro e, per un alchimista come lui, che cercava inesausto la Pietra Filosofale29, dissipando denaro30, il paragone è ancor più pre- gnante; si considerino i seguenti estratti:

28 In filigrana, riecheggia un passo del Decameron di Boccaccio: «Santissima cosa adunque è l’amistà, e non solamente di singular reverentia degna ma d’essere con perpetua laude commendata, sì come discretissima madre di magnificentia e d’onestà, sorella di gratitudine e di carità, e d’odio e d’avarizia nemica, sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente operare che in sé vorrebbe che fosse operato» (Dec. X 8, 111). 29 Salvatore Califano spiega che «la pietra dei filosofi (lapis philosophorum) è, secondo la leggenda, una sostanza alchemica capace di trasformare i metalli vili come piombo in oro o argento» (S. Califano, Storia dell’alchimia. Misticismo ed esoterismo all’origine della chimica moderna, Firenze University Press, Firenze 2016, p. 33); nei secc. XIV-XV del Medioevo scopo ultimo del Feliciano e di altri sedicenti alchimisti come lui era proprio la trasmutazione dei metalli nella Pietra Filosofale (cfr. G. Castiglioni, Sperando de trovar la pietra sancta. I disegni alchemici di Feliciano, in L’“Antiquario” Felice Feliciano veronese tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro, cit., a p. 52). 30 Felice arrivò persino a vendere i suoi libri e a impegnare gli abiti per acquistare gli elementi necessari alle sue sperimentazioni alchemiche (Ivi, a p. 51).

30 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica

Niuno amore, quantunche grandissimo, si possi adequare a quello del vero amico, né si deve existimare oro né gemme presso di questo (Ve IV ff. 11v-12r; Lo CII-Br 77). Dunque [l’amicizia] è da tenir cara più che tutto l’oro e con summa custodia serbare (Ve V f. 13v; Lo CIII-Br 78). Le mie parole non ho dicte ad altro fine che per mostrare di quanta virtù si trova habundante la vera amicicia et quanto sia da existimare più preciosa che tutto l’oro (Lo XLVII f. 74r). L’idea che l’amicizia è più preziosa dell’oro si riassume icasticamente nel motto latino «CANDIDA FULVO CARIOR AURO FELIX AMICITIA»31, che compare scritto in capitali epigrafiche in calce all’epistola Br 118 f. 79r. Si badi che il proverbio “chi trova un amico, trova un tesoro” è di derivazione biblica (cfr. Sir 6, 14), ripreso, tra gli altri, da Sant’Agostino32. Inoltre, senza supporre un collegamento diretto con Feliciano, anche Petrarca, nella Fam. VII 11, 4, afferma: «Multo rarior multoque preciosior res est amicitia quam aurum»; e, tra i contemporanei del Veronese che ribadiscono il valore inestimabile dell’amicizia, si possono citare Giovanni Sabadino degli Arienti e il piovano Arlotto. Il primo, che fu in contatto con Feliciano quando questi gravitava attorno alla corte dei Bentivoglio nel 1472-73, scrive, nelle Porretane, che «grata m’è certo vostra amicicia quanto de cara cosa avesse potuta avere, reputando oggi un degno capitale avere conquistato» (XX 29)33; al secondo è attribuita la sentenza «Meglio è avere uno amico egregio che uno gran tesoro» (Facezia 179)34, annoverata tra i Motti e facezie del piovano Arlotto, pubblicati nella seconda metà del Quattrocento e ambientati nel contado fiorentino all’epoca di Lorenzo il Magnifico.

31 Nel Corpus inscriptionum latinarum l’epigrafe è registrata tra le inscriptiones falsae urbi Romae dei secc. XV-XVI, con il textus: «candida fulvo nobilior auro felix antiquitas» (CIL VI 91*). 32 Cfr. Dizionario delle sentenze latine e greche, a cura di R. Tosi, BUR, Milano 2017, pp. 1163-1164. 33 L’ed. di riferimento è S. Degli Arienti, Le Porretane, a cura di B. Basile, Salerno editrice, Roma 1981. 34 L’ed. di riferimento è Motti e facezie del piovano Arlotto, a cura di G. Folena, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli 1953.

31 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

2) Per Feliciano l’amicizia è indissolubile: è un vincolo tenace, resi- stente, che nulla può rompere o spezzare, come si ricava dai loci testua- li in cui l’autore insiste su questo aspetto: Troppo grande è la possanza di questa amicicia che né foco né ferro la rumpe, ma sempre più fervida e calda il cuor del’amico risulta (Ve V f. 13v; Lo CIII-Br 78). Il vero thesoro che né tarlo né foco consuma [...] fue sempre la bona e vera amicicia (Ve X f. 19r; Lo CIX-Ve 83). Questa amicicia adunque ligarò io di cossì duro vinculo e nodo che mai nissuna posterità la poterà rompere (Lo XCIV f. 115r; Br 56). Una forma dell’amicizia indissolubile potrebbe essere l’amicizia “inestirpabile”, espressa plasticamente in un paio di occorrenze tramite l’immagine metaforica dell’affetto amicale che mette radici profonde: El nostro amore è antiquo e già ha sparte le sue longhe barbe nella solida e firma terra, con cossì strecto legame che niuno vento, quanto esser possi impectuoso, non lo deradica mai (Lo XXXIV f. 62r; Br 65). Né scrivo io perché creda esser a bisogno confirmare la amicitia, perché già le sue radice cossì fundate sono nei nostri cori che nullo advenimento, quantunche sinestro, esser potesse haver vigore né forza a poter separare quello che ’l Cielo ha insieme legato (Br 63 f. 40v). In generale, l’amicizia come “vincolo” è un’associazione convenzionale e di matrice classica: Cicerone invita a preservare «amabilissimum nodum amicitiae» (Lael. XIV 51) e Valerio Massimo a contemplare «amicitiae vinculum potens et praevalidum» (Fact. et dict. mem. 4.7.praef.).

3) Per Feliciano l’amicizia è vicinanza nella lontananza, presenza nell’assenza: il sentimento dell’amicizia, così come la lettera che lo veicola35, è così potente da far sentire gli amici vicini anche se lontani e da permettere agli “occhi mentali” (l’espressione «occhio della men-

35 La scrittura epistolare è per definizione sermo absentium (cfr. G. Constable, Letters and Letter-Collections, Brepols, Turnhout 1976, p. 14) e Petrarca, nella Sen. XVI 4, 7, lo rimarca in questo modo: «ita enim fato asperiore disiungimur ut legendus sepius quam audiendus spectandusve sim vobis», ovvero «siamo infatti separati da un fato piuttosto aspro a tal punto che io sono più spesso letto che ascoltato o visto da voi».

32 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica te» è dantesca, cfr. Par. X 121) di raggiungere l’amico ovunque lui sia e di vederlo presente. Il desiderio di ricongiungersi all’amico per m ezzo della “virtù visiva” della mente e del ricordo è un leitmotiv nelle lettere del Feliciano; di seguito alcuni esempi, tra i tanti che si potrebbero addurre: Serbarò io, adunque, con summa custodia la vera amicicia teco contracta, e quando con gli ochi del corpo te veder non poterò, non mi fia tolto che con quegli dela mente non ti vega (Ve III f. 11r; Lo CI-Br 74). Per questo il tuo Feliciano Antiquario te promette la fede, la dilectione e l’amore, per questo mai da gli occhi suoi mentali serai diviso (Ve VI f. 15r; Lo CV-Br 80). Ma, poiché non posso adempire el voler mio, non mancarà che col spirito e con gli occhi dela mente non vi vega, quando che io voglia (Lo XLV f. 70r; Br 46). Dirò in che modo mi son partito da te col peso di questo corpo e come la mia mente è tiecho rimasta (Br 115 f. 76v). In una lettera di Br, in cui si sente l’influsso paolino di Rm 8, 35, Feliciano esplicita ulteriormente che cosa significa che l’amicizia c’è sempre, al di là del tempo e dello spazio: E chi me poterà dividere da questa felice compagnia? Non fatica, non longeza de tempo, non distantia di locho, non alcuna sinestra fortuna [...], in tanto che, se tu adimandasti ove io mi trovo, direi: “Sempre presente al tuo conspecto”, in modo che anchor nel somno tieco dimoro» (Br 115 ff. 76v-77r). Si rammenti infine che l’amicizia come presenza nell’assenza è già in Cicerone (Lael. VII 23: «absentes adsunt») e in Seneca (Ad Luc. 55, 11: «Amicus animo possidendus est; hic autem numquam abest; quemcumque vult cotidie videt») e, più avanti, in Petrarca (Sen. XV 3, 2, che riprende letteralmente il noto passo senecano, e Fam. II 6, dedicata al tema dell’amicizia che non perde vigore nella lontananza). 2.2 Feliciano e le fonti classiche La fonte privilegiata da cui Feliciano attinge per parlare d’amicizia sono i Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo: il capitolo 7 del libro IV è intitolato De amicitia e può essere considerato il suo irrinunciabile vademecum, da cui egli mutua la propria visione sull’amicizia.

33 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

È noto che «the popularity of Valerius was immense»36 ma, come osserva Luca Carlo Rossi, occorre ridimensionare il topos secondo cui «nel Medioevo il libro di Valerio Massimo fosse per importanza e per popolarità secondo solo alla Bibbia»37. In realtà, la distribuzione cronologica degli oltre ottocento esemplari censiti da Dorothy Schullian (inclusi traduzioni, commenti, epitomi, versificazioni eccetera) è piuttosto disomogenea e, dopo le esili linee di trasmissione altomedievali, conosce un’impennata nel Trecento, con centosessanta esemplari, fino al «picco massimo nel Quattrocento, con circa cinquecentocinquanta manoscritti», cui segue un brusco calo nel sec. XVI38. Alla luce di ciò, il secolo decimoquinto può essere considerato, in senso lato, il secolo della riscoperta dell’opera di Valerio Massimo, alla quale contribuirono i commenti trecenteschi di Dionigi da Borgo San Sepolcro (ca. 1330-38) e di Benvenuto da Imola (ca. 1380-85)39. Non stupisce quindi che Feliciano fosse un cultore appassionato dello storico d’età tiberina: Valerio Massimo è il suo autore, come dimostrano i marginalia dei suoi codici contenenti puntuali rinvii ai Facta et dicta memorabilia, verso cui prova un sincero trasporto, sebbene non si tratti di una lettura particolarmente ricercata40.

36 L.D. Reynolds, Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, Clarendon Press, Oxford 1983, p. 429; la storia della trasmissione dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo occupa le pp. 428-430. 37 L.C. Rossi, «Benvenutus de Ymola super Valerio Maximo». Ricerca sull’Expositio, in «Aevum», LXXVI, 2002, pp. 371-423, a p. 369. 38 Ivi, a pp. 370-371. 39 Cfr. ivi, a pp. 372-379. 40 Nel son. Né Massinissa son, né Mithridate, trasmesso dal solo apografo bresciano e allegato all’ep. 133, Feliciano definisce Valerio Massimo «el mio divin auctore» (f. 88r); in un’altra lettera della stessa raccolta racconta come, durante il ritiro nelle selve romane della Storta per fuggire al contagio pestilenziale, egli s’intrattenga in compagnia dello storico, quasi fossero vecchi amici: «sum fugito nelle umbrose silve ove non si vede altro che volpe cum lupi movere le fronde, e per mia dolce compagnia cum Valerio Maximo sum posto a sedere, col quale sovente tengo sermone» (Br 116 f. 78r). Leonardo Quaquarelli ha dimostrato che Feliciano possedette, in un periodo anteriore al 1472 (e dunque all'ultimo soggiorno romano del 1478-1479), il ms. Bologna, Biblioteca Universitaria, 2463, testimone dei Fact. et dict. mem., a riprova di una frequentazione di vecchia data con l’opera valeriana (L. Quaquarelli, Intendendo di poeticamente parlare. La bella mano di Giusto de' Conti tra i libri del Feliciano, in «La bibliofilia», XCIII, 1991, pp. 177-200, a pp. 187-188).

34 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica

Dai Facta, Feliciano estrae prima di tutto gli esempi delle grandi coppie d’amici dell’antichità, spesso rievocate in serie come termini di paragone sublimi per lui e per il suo interlocutore; del resto, «ogni coppia di amici ha la sua prefigurazione in una coppia antica: non in questa o quella ma, genericamente, “nella coppia antica”»41. Si confrontino due excerpta di questo tenore: Amplissima laude e phama immortale per ogni aevo anchor si canta di Laelio e Scipione, e non minor gloria fu quella di Nixo et Eurialo; grande fu il nome di Pomponio e Lectorio per C. Gracho, e di Volumio e Lucullo fu immenso l’amore, e mirabile di Pythia e Damone fu l’amicicia; né però molto di questi inferiore mi credo che sia il caldo e fervido cuore del mio bolognese Thideo verso quello del suo indubitato amico Feliciano (Ve VII f. 16r; Lo CVI-Br 81). Io adunque, conoscendo di quanto fructo sia questa amicicia, pigliarò con forte brazo, stringiendomi al pecto il mio honorato Francisco come verace amico, havendo in continua observantia il suo bel nome et in qualunche parte mi trovi tenerlo sempre in memoria, come Laelio a Scipione, come Agrippa ad Augusto, Nixo ad Eurialo, de insolubile amicicia congionti (Ve IX ff. 18v-19r; Lo CVIII-Br 82). In particolare, sono gli amici Volumnio42 e Lucullo, che danno il titolo a questo contributo, a ricorrere con più frequenza nelle lettere del Feliciano (anche Petrarca li ricorda in Fam. XIII 10, 5)43. Il loro è un esempio di amicizia eroica e guerriera, destinata a un epilogo tragico, alla rievocazione della quale è dedicato l’inizio dell’ep. Lo XLVII, tratto pari pari da Valerio Massimo, come dimostra la comparazione tra i due brani:

41 S. Citroni Marchetti, op. cit., p. 48. 42 Il Volumnio amico di Lucullo ricordato da Valerio Massimo potrebbe essere identificato con Volumnio Publio, un filosofo che accompagnò Bruto nella sua campagna contro i triumviri (Dizionario di antichità classiche di Oxford, II, a cura di N.G. Lemprière Hammond e H. Hayes Scullard, ed. italiana a cura di M. Carpitella, Edizioni Paolini, Roma 1981, p. 2233). 43 Petrarca scrive, riferendosi a Volumnio, quanto segue: «alter nichil amico profuturam mortem miserabili quidem sed ardentissima fide complexus est, ut quem valde dilexerat ad inferos sequerentur», ovvero «il secondo abbracciò con compassionevole ma ardentissima fede una morte che pur non doveva giovare all’amico e che tuttavia testimoniò com’era disposto a seguire fino agli inferi colui che aveva tanto amato» (per la traduzione, si è fatto riferimento a F. Petrarca, Le familiari, trad. a cura di U. Dotti, N. Aragno, Torino 2004-2009).

35 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Qui [Volumnius] ortus equestri loco, cum M. Lucullum familiariter coluisset eumque M. Antonius, quia Bruti et Cassi partes secutus fuerat, interemisset, in magna fugiendi licentia exanimi amico adhaesit, huc usque in lacrimas et gemitus profusus, ut nimia pietate causam sibi mors arcesseret: nam propter praecipuam et perseverantem lamentationem ad Antonium pertractus est. Cuius postquam in conspectu stetit, «Iube me» inquit, «imperator, protinus ad Luculli corpus ductum occidi: neque enim absumpto illo superesse debeo, cum ei infelicis militiae auctor exstiterim.» Quid hac fidelius benivolentia? mortem amici hostis odio levavit, vitam suam consilii crimine astrinxit, quoque illum miserabiliorem redderet, se fecit invisiorem. Nec difficiles Antoni aures habuit, ductusque quo voluerat, dexteram Luculli avide osculatus, caput, quod abscisum iacebat, sublatum pectori suo adplicavit ac deinde demissam cervicem victori gladio praebuit (Fact. et dict. mem. 4.7.4). Tirato Volumio da ismisurato amore verso M. Lucullo, già morto et in tutto il capo dal busto diviso, nel conspecto di M. Antonio, per haver seguita la parte di Brutto e Cassio, ove Volumio con molte lachryme disse: «Comanda, o imperatore, ch’el mi sia mostrato il corpo di M. Lucullo, e poi me, de simile morte, fa’ digno, perché non voglio più vivere!». Né furon di M. Antonio a tanti prieghi l’orecchie difficile et conducto Volumio sopra l’orribile spectaculo, presa con ambe mani la destra di Lucullo, l’ebbe basata, con grandissima copia di lachryme, e tolto di terra il troncho capo, ponendolo al suo pecto, con molti gemiti, piangiendo, racontava al capo difuncto le sue adverse e secunde fortune, ricordandossi la dolce antiqua et vera amicicia. Dopoi, posta la cervice sotto il coltello del vincitore, attese ala morte (Lo XLVII ff. 73v-74r). Un altro exemplum che Feliciano racconta diffusamente un paio di volte (epp. Lo CIII-Ve V-Br 78 e Lo XXXIV-Br 35) è quello di Gaio Blossio Cumano44, amico fedele di Tiberio Gracco, il quale, condotto al cospetto di Lelio e dei consoli Lenate e Rupilio per invocare la grazia, sostenne comunque che, se Tiberio glielo avesse chiesto, avrebbe appiccato fuoco al Campidoglio (nella versione ciceroniana) e al tempio di Giove Ottimo Massimo (nella versione di Valerio e di Feliciano). Mentre Cicerone commenta «Videtis, quam nefaria vox!»

44 È noto che Gaio Blossio di Cuma, discendente da una famiglia antiromana in vista della Capua annibalica e studioso di filosofia stoica, fu amico di Tiberio Gracco, dopo la cui morte si unì ad Aristonico; dopo la sconfitta di questi si uccise (Dizionario di antichità classiche di Oxford, I, cit., p. 324).

36 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica

(Lael. XI 37), condannando «chi, in quanto amico, asseconda una volontà di sovvertimento della res publica»45, Valerio osserva con una certa ammirazione che Blossio scelse di non tacere «ne qua ex parte infelicis amicitiae memoriam desereret» (Fact. et dict. mem. 4.7.1) e Feliciano, difendendo con più fervore di Valerio la scelta di Blossio, si chiede: «Che meglio poteva Blosio rispondere di quel che rispose?» (Lo XXXIV ff. 61v-62r; Br 35), persuaso che la vera amicizia non venga mai meno e non abbia paura della morte. Feliciano poi eredita da Valerio la diffidenza nei confronti di alcuni exempla d’amicizia greci (Teseo e Piritoo nella fattispecie), di dubbia storicità, «e dà la preferenza a quelli romani, di sicura storicità»46: come Valerio scrive «loquatur Graecia Thesea nefandis Pirithoi amoribus suscribentem, Ditis se patris regnis commisisse: vani est istud narrare, stulti credere» (Fact. et dict. mem. 4.7.4), così Feliciano, per es., scrive «Parli quivi tutta la Grecia di Theseo e Perithoo el fincto amore, ove se dice l’uno e l’altro per amicicia mossi a zerchare l’oscuro regno del padre de Dite: vana cosa è questa a narrare e bestiale a crederla» (Lo XLVII f. 74r). Sempre da Valerio, desume che il vincolo dell’amicizia non è per nulla inferiore a quello del sangue, perché è stretto non da un fatto fortuito, come la nascita, ma da un atto di adesione volontaria: nei Facta si legge: «Contemplemur nunc amicitiae vinculum potens et praevalidum neque ulla ex parte sanguinis viribus inferius, hoc etiam certius et exploratius quod illud nascendi sors, fortuitum opus, hoc unius cuiusque solido iudicio inchoata voluntas contrahit» (Fact. et dict. mem. 4.7.praef.); allo stesso modo, in una lettera di Feliciano si legge: «Non de minor legame fu mai la valida, sinciera amicicia qual sia del sangue il duro vinculo et in niuna parte inferiore a quello, perché di questo la sorte del generare la natura conciede e di quella la libera voluntà del’amico si adopera» (Ve V f. 12v; Lo CIII-Br 78)47. Infine, è di Valerio Massimo anche l’equivalenza tra la venerazione che si deve all’amicizia e quella che si deve alle «caerimoniae», ai ‘culti’, degli dei immortali (Fact. et dict. mem. 4.7.ext.1), concetto che Feliciano adotta

45 S. Citroni Marchetti, op. cit., p. 6; l’autrice riserva al caso di Blossio di Cuma un ampio excursus a pp. 6-8 e 6n. 46 L. Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Einaudi, Torino 1993, p. 156. 47 Boccaccio, addirittura, ritiene «che il legame dell’amistà troppo più stringa che quel del sangue o del parentado» (Dec. X 8, 62), sia cioè ad esso superiore.

37 Rinascite, rinascenze, rinascimenti e ripropone per tre volte: nell’incipit dell’epistola “manifesto” «Beata e dulcissima cosa fue sempre la vera amicicia, la quale per riverentia et honore si die asimigliare ale cerimonie degli dei» (Ve III f. 8v; Lo CI-Br 74) e in altre due lettere appartenenti alla silloge Ve (Ve V f. 13v; Lo CIII-Br 78: «Questa dagli antiqui assimigliata fue per honore ale cerimonie degli dei»; Ve IX f. 18v; Lo CVIII-Br 82: «Et è di tanta laude e precio che ella si die assimigliare ale cerimonie degli dei»). Per l’umanista l’amicizia non solo è equiparabile ai culti degli dei immortali, ma ha lei stessa natura divina: afferma infatti che «in tute le cosse creade da Dio, doppo le sue superiore hierarchie e l’ambito e forma di cerchi celesti, si trova per firma sententia che l’homo sia stato el più digno; e di questo, quello ch’el fa exceder deli altri animali, secundo la opinione di Stoici, è l’intellecto et la rason che Dio li presta, per la qual l’uno e l’altro si fa amico. Havendo adonque questo pirivilegio l’humana natura, siamo de picola cossa menori deli angeli» (Br 131 f. 87r). Dunque, in virtù dell’intelletto che spinge gli uomini a farsi amici l’un l’altro, gli esseri umani sono di poco inferiori alle creature angeliche; così li ritrae anche il versetto del Sal 8 6: «Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli». L’idea che l’amicizia provenga dall’“alto”, sia cioè un dono degli dei, appartiene anche al pensiero ciceroniano: Lelio, in un paio di punti, definisce l’amicizia come la cosa migliore – «nihil melius» – data dagli dei immortali agl i uomini, dopo la sapienza (Lael. VI 20 e XIII 47). Si ricordi che pure Ciriaco d’Ancona, nel sonetto presentato al Certame coronario, enfatizzava l’origine divina dell’amicizia. Per almeno altri due aspetti è possibile ravvisare delle convergenze tra le riflessioni dell’Arpinate e le formulazioni del Veronese: in primo luogo, Cicerone condivide la massima attribuita a Pitagora che l’amico è come un altro se stesso48 (cfr. anche Fam. IX 9, 4 e Sen. XIV 1, 81), cioè «est enim is qui est tamquam alter idem» (Lael. XXI 80), e il motto “due corpi e un’anima sola”, perché l’animo di un amico si unisce a un altro «ut efficiat paene unum ex duobus» (Lael. XXI 81); analogamente, in Feliciano, si ritrovano accenni sia alla sentenza “l’amico come alter ego” (per es. Br 63 f. 41r: «Io son tanto vostro quanto di me proprio») sia all’espressione “due corpi e un’anima sola” (Lo LXV

48 Anche nel Sir 6, 11 l’amico è definito “un altro te stesso”, nel senso che è talmente vicino a un altro da conformarsi completamente a lui per idee e comportamenti (cfr. D izionario delle sentenze latine e greche, cit., pp. 1182-1183).

38 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica f. 65r: «e siamo dui corpi et una anima»). In secondo luogo, Cicerone riporta il motto di Ennio «amicus certus in re incerta cernitur», vale a dire “l’amico certo si vede nella sorte incerta”, e se la prende con la superficialità e l’incostanza della massa che abbandona gli amici nelle avversità (Lael. XVII 64); anche Feliciano recupera il detto enniano e lo rielabora così: «La experientia dela vera amicicia [...] più presto si conosse nelle cose adverse che nelle secunde» (Lo XIII f. 14r; Ox 11-Br 13); per giunta, si scaglia a più riprese contro gli amici “non veri”, che si disperdono come neve quando incombe la sorte avversa: la metafora prende corpo nella frase «nel tempo sereno tutti li amici falsi vi stanno presenti lodandovi, et poi a la nieve se disperde e volano» (Lo XXXIII ff. 57r-58v; Br 34; e, in forma leggermente variata, Lo XLVII f. 74r-v). Se si tiene conto che Felice fu sempre, a suo dire, perseguitato dalla Fortuna, dalla paupertas e dalle malelingue che lo accusavano di essere omosessuale49, si intuisce quanto la solidarietà tra amici, soprattutto nella malasorte, dovesse stargli particolarmente a cuore50.

3. La natura “liminare” dell’amicizia nel Quattrocento In occasione del Certame del 1441, quasi tutti i partecipanti alla gara s’ispirano al dibattito classico sull’amicizia così come esposto, in maniera memorabile, nel Laelius ciceroniano51. Tuttavia, ciò che preoccupava i certatori (e i fiorentini in generale) era proprio la difficoltà di conciliare quella visione ideale dell’amicizia, basata su affetto e fiducia scambievoli, con il quadro delle relazioni di patronato, ovvero con quelle amicizie “strumentali” su cui occorreva fare affidamento in tempi in cui lo Stato e le sue istituzioni non erano abbastanza forti da offrire aiuto e protezione; Dale Kent fa notare che i Medici, nel 1420-30, erano a capo

49 L’omosessualità del Feliciano è un dato ormai acquisito tra i i felicianisti: sul consolidamento di questa congettura in ambito critico e sulle problematiche interpretative che ne derivano sia consentito il rimando a C. Azzolini, Il ms. Ambrosiano Z 100 sup. e due canzoni inedite di Felice Feliciano, in «Studi di Erudizione e di Filologia Italiana», VIII, 2019, pp. 325-364, a pp. 338-344. 50 A proposito della maldicenza e dell’instabilità dell’amicizia nella sventura, Francesco Alberoni sottolinea che «un modo per indebolire la nostra amicizia è proprio la calunnia, dirci qualcosa che può offuscare l’immagine morale dell’amico» (F. Alberoni, L’amicizia, Garzanti, Milano 1984, p. 41). 51 Cfr. D. Kent, op. cit., p. 19.

39 Rinascite, rinascenze, rinascimenti della più estesa e influente rete di patronato fiorentino52. In altri termini, se per Cicerone era inaccettabile «porre il bisogno e l’utilità alle origini dell’amicizia»53 (è vero semmai il contrario, cfr. Lael. XIV 51: «Non igitur utilitatem amicitia, sed utilitas amicitiam secuta est»), per i fiorentini del sec. XV, immersi nel mondo degli affari, l’interesse personale nei rapporti d’amicizia era una componente pressoché ineliminabile; anzi, per loro, i legami con i propri protettori e con il gruppo di amici che da essi dipendevano erano «una forma essenziale di intima amicizia»54. Lo stesso Alberti, ideatore del Certame e autore dei Libri della famiglia, un dialogo volgare in quattro libri, l’ultimo dei quali ambiva a configurarsi come un nuovo De amicitia55, presenta la relazione amicale «come strategia difensiva per la sopravvivenza»56, ben consapevole dell’impossibilità o quasi dell’amicizia autentica nell’esperienza di ogni giorno; per questo Adovardo, uno dei suoi personaggi, esclama, non senza un certo cinismo: «Nam e che utile porge in vita sapere disputando persuadere che la sola qual sia amicizia onesta persevera durabile e perpetua più che l’utile o la voluttuosa?» (Libro quarto, p. 348)57; l’obiettivo, semmai, è imparare a “sfruttare” le amicizie. A questo punto, appare chiaro perché ci si senta autorizzati a parlare di natura “liminare” dell’amicizia nel Quattrocento: liminare perché collocata sul limes a metà tra slancio amicale autentico e rapporto “strumentale”, e perché in essa non è facile distinguere il sentimento personale dall’interesse personale, almeno secondo i parametri

52 D. Kent, op. cit., pp. 3-4. 53 L. Pizzolato, op. cit., p. 116. 54 D. Kent, op. cit., pp. 8 e 11; d’altronde, lo stesso Cicerone, senza mai accondiscendere ad alcuna forma di adulazione, ritiene che «difficillime» si trovano vere amicizie tra coloro che prendono parte alle cariche dello stato (Lael. XVII 64); in questo senso, nemmeno lui «si sottrae alla tentazione di concepire l’amicizia come fedeltà a una parte» (L. Pizzolato, op. cit., p. 123). Per di più, anche nel sistema romano la parola amicizia aveva un valore ambiguo perché copriva pure l’ambito della clientela (cfr. S. Citroni Marchetti, op. cit., p. 10). 55 Guglielmo Gorni richiama l’attenzione sul fatto che l’Alberti, nel promuovere una gara poetica in volgare sul tema dell’amicizia, promuoveva al contempo, ambiziosamente, un testo prosastico in volgare sullo stesso tema, un proprio “De amicitia” (G. Gorni, op. cit., a p. 147). 56 D. Kent, op. cit., p. 24. 57 L’ed. di riferimento è L.B. Alberti, I libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Einaudi, Torino 1969.

40 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica moderni58. Christopher Gill rintraccia gli inizi dell’autenticità dei rapporti interpersonali nell’età moderna, quando dietro a un “sé sociale” fa capolino per la prima volta un “sé privato”59; in effetti Kent riconosce che, nel Quattrocento, «il sé dei fiorentini [...] era sempre e necessariamente un sé sociale», per cui l’“ossessione” moderna di una ricerca della sincerità nell’amicizia risulta anacronistica in un contesto ancora medievale60, in cui le emozioni appartenevano «in maniera stabile e riconosciuta» al tessuto sociale61. Ora, dopo aver parlato a lungo del “conservator amiciciae” Felice Feliciano, vale la pena di chiedersi come egli abbia vissuto i rapporti amicali e se sia valida anche per lui la definizione di amicizia “liminare”. Senza dubbio, Feliciano, che era perennemente a corto di soldi, si augurava di poter trarre una qualche forma di beneficio economico dalla fitta rete di relazioni umane che andava intessendo nel corso della sua esistenza. Così, per esempio, concludeva la lettera al ricco patrizio bolognese Tideo Marescotti, che avrebbe potuto rivelarsi un suo potenziale “patrono”: Non resta altro se non a pregarvi che vogliati acresser la mia consolatione et il mio gaudio a farmi conoscer che io da voi sia adoperato in quelle cose che ’l mio picolo pulso possi e vaglia (Lo XIV f. 16v; Ox XII-Br 14).

58 Un altro aspetto relativo alla natura “liminare” dell’amicizia nel sec. XV, che è stato finora trascurato dal mondo degli studi in lingua italiana e che meriterebbe nuove indagini in merito, è quello dell’amicizia a metà tra relazione amicale e relazione omoerotica, su cui si veda M. Rocke, Forbidden friendships: homosexuality and male culture in Renaissance Florence, Oxford University Press, New York 1996; a p. 10, l’autore scrive significativamente che «the culture of late medieval and early modern Italy was note one in which men were clearly separated into categorie of “homosexuals” and “heterosexuals”». In effetti, sarebbe interessante verificare, ai fini specifici di questo contributo, quanto valga la distinzione tra relazione amicale e relazione omossessuale nell’esperienza di Felice Feliciano, che, non a caso, veniva diffamato dai suoi concittadini per il fatto di aver scritto delle rime «non per donna, ma per hermaphrodito» (ep. Br 34 f. 23v; Lo XXXIII). 59 C. Gill, Peace of Mind and Being Yourself: Panaetius to Plutarch, in Rise and decline of the Roman world, a cura di W. Haase e H. Temporini, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1994, pp. 4599-4640, a p. 4600. 60 D. Kent, op. cit., p. 7. 61 D. Boquet – P. Nagy, Medioevo sensibile. Una storia delle emozioni (secoli III- XV), Carocci Editore, trad. a cura di G.M. Cao, Firenze 2018, p. 291.

41 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

La stessa lettera reca come intestazione «Ralegrassi Feliciano dela nova amicicia contracta tra lui et il prestante Thideo Calvo de Marescotti»; altre lettere presentano una rubrica simile (per es. Lo XLIV f. 69r; Br 45: «Dice haver grata l’amicicia Feliciano, di novo contracta con Pallante Castorio Romano»), e c’è persino un modello della sezione di exordia epistolari contenuta solo in Lo che insegna a scrivere l’«Exordio nel quale ti raliegri dela nova amicicia contracta per littere» (Lo LXXXI f. 95r). Il fatto che Feliciano si sentisse in dovere di confermare per lettera la stipulazione di un rapporto amicale presuppone che egli, nel ribadirlo, sperasse di ottenere anche qualche vantaggio per se stesso. È innegabile che, in questo caso, si tratti di amicizia interessata, ma le sue lettere offrono anche «aperture e momenti di singolare umanità», prendendo a prestito le parole di Franco Riva62, in cui forse è possibile riconoscere i prodromi di quell’amicizia autentica che avrebbe iniziato a manifestarsi nel Cinquecento. Per esempio, nel rispondere all’amico Teodoro Montano, Felice gli racconta che lo ha profondamente commosso il gesto del nunzio, il quale «me dixe, per adempire il tuo mandato, volermi abrazare et basare dicendo “Theodoro cossì mi dixe”» (Ve IV f. 12r; Lo CII-Br 77). Oppure ancora, in una lettera a Gregorio Lavagnola, dopo aver inteso che l’amico è caduto nei lacci di Cupido, ammette che «la qual cosa mi fu solazo in parte et in parte dolore» (Lo XXV f. 41v; Ox XXII-Br 25): «solazo» nel senso di compiacimento perché finalmente non è più solo nei patimenti amorosi; «dolore» perché è dispiaciuto per la sofferenza dell’amico. A ben pensarci, si tratta di una dichiarazione confidenziale e benevola, la stessa che un amico dei giorni nostri potrebbe fare a un altro. In conclusione, anche Feliciano si colloca con le sue lettere al con- fine tra amicizia autentica e amicizia interessata, ma una cosa è certa: per tutta la vita, che visse per lo più da solo e lacerato da molte con- traddizioni, fu per lui sincero e insaziabile il bisogno di amicizia63, in tutte le sue sfumature: da quella radicale ed eroica che aveva unito Volumnio a Lucullo, a quella più intima e accessibile che aveva legato Cicerone ad Attico, al quale il Laelius è dedicato.

62 F. Riva, Saggio sulla lingua del Feliciano dalle epistole agli amici, cit., a p. 268. 63 R. Avesani, op. cit., a p. 144.

42 “Come Volumnio e Lucullo”. Scorci sull’amicizia nel secolo della rinascita classica Edizioni di riferimento e repertori citati in forma abbreviata Ad Luc. = L. Annaei Senecae Ad Lucilium epistulae morales, recognovit et adnotatione critica instruxit L.D. Reynolds, I-II, E typographeo Clarendoniano, Oxonii 1965. CIL = Corpus inscriptionum Latinarum, apud W. De Gruyter, Berolini 1863-. Dec. = G. Boccaccio, Decameron, ed. critica secondo l’autografo hamiltoniano a cura di V. Branca, Accademia della Crusca, Firenze 1976. Fact. et dict. mem. = Valeri Maximi, Facta et dicta memorabilia, I-II, edidit J. Briscoe, in aedibus B.G. Teubneri, Stutgardiae et Lipsiae 1998. Fam. = F. Petrarca, Familiarum rerum libri, ed. critica a cura di V. Rossi, Le Lettere, Firenze 2008. Lael. = M. Tullio Cicerone, Opere politiche e filosofiche. De natura deorum, De senectute, De amicitia, III, a cura di D. Lassandro e G. Micunco, UTET, Torino 2007. Par. = D. Alighieri, La commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, I-III, Milano, Mondadori, 1966-’67. Rm ~ Sal ~ Sir = La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 1990. Sen. = F. Petrarca, Res seniles. Libri xiii-xvii, a cura di S. Rizzo con la collaborazione di M. Berté, Le Lettere, Firenze 2017.

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Reviving friendship. Amicizie letterarie nel secondo Novecento

LUCIA MASETTI

In the twentieth-century crisis, friendship undergoes a constant process of death and rebirth. In fact, various forces oppose it on a moral, political and gnoseological ground; however, they cannot really beat friendship’s vitality. Friendship, in turn, can become an instrument of rebirth, both at the individual and collective level, so that it even acquires a utopian nuance. From this double perspective, the essay analyses different declinations of the theme of friendship in contemporary Italian literature, during the second half of the century. Of course, given the complexity of the subject, it is not an exhaustive analysis: the essay concentrates on some particularly signifi cant examples, in order to show how literature can refl ect and promote rebirth of and through friendship.

In mancanza d’altre certezze, credo nell’amicizia. I. Silone, Il seme sotto la neve

1. Introduzione La crisi generalizzata in atto nel Novecento ha i suoi effetti anche sull’amicizia, intesa sia come legame sociale sia come ideale etico. Si legge infatti in un romanzo di Silone: «La vera rivoluzione della nostra epoca [...] [è] la scomparsa dell’amicizia. [...] Al [suo] posto adesso vi sono le cosiddette relazioni, che durano finché fanno comodo.»1 L’autore attribuisce tale crisi alla diffusione del nichilismo morale, ossia «l’identificazione del bene, del giusto, del vero col proprio interesse»2; un

1 I. Silone, Il seme sotto la neve, in Romanzi e saggi, 2 voll., a cura di B. Falcetto, Mondadori (“I Meridiani”), Milano 1999, vol. I, p. 646. 2 Id., Uscita di sicurezza, in Romanzi e saggi, cit., vol. II, p. 877.

45 Rinascite, rinascenze, rinascimenti atteggiamento intrinsecamente contrario all’amicizia, che è basata sulla gratuità. Per altri, poi, la crisi delle relazioni va anche oltre il piano morale per toccare quello gnoseologico. I personaggi di Calvino, in particolare, appaiono incapaci di comprendere la realtà e conseguentemente di agire su di essa. Perciò anche i rapporti tra gli individui si disgregano: ognuno procede per la sua strada «con un suo significato che resta nascosto e indecifrabile perché fuori di qui non c’è più nessuno capace di riceverci e d’intenderci.»3 D’altro canto la crisi stessa spinge a riscoprire dei punti fermi, autentici ed elementari, che possano resistere all’erosione generale. Silone parla in proposito di «certezze incorruttibili»4, tra cui la «certezza che l’uomo ha un assoluto bisogno di apertura alla realtà degli altri», e che è capace di intrecciare legami fecondi grazie alla «comunicatività delle anime»5. Similmente Primo Levi ha difeso per tutta la vita il valore della relazione e della comunicazione, rifiutando di arrendersi a un’«incomunicabilità» spesso presentata come male irrimediabile: «Salvo casi di incapacità patologica, comunicare si può e si deve.»6 Più in particolare l’amicizia, in quanto forma privilegiata di relazione, assume spesso un’importanza essenziale. Luigi Santucci, ad esempio, la considerava uno dei valori fondanti della propria esistenza7 e vi si rifugiava nei momenti di malinconia e pessimismo8. Emerge dunque, già da questi primi esempi, un duplice legame tra amicizia e rinascita. Da un lato alcuni autori novecenteschi hanno riaffermato energicamente il valore dell’amicizia, incoraggiandone la rinascita all’interno di un contesto che tendeva piuttosto a sminuirla. Dall’altro lato l’amicizia ha costituito per tali autori un punto fermo, a partire dal quale sperimentare una rinascita sia individuale sia collettiva. Proprio per sottolineare questo doppio legame è stato scelto per il presente intervento un titolo inglese, Reviving friendship, in virtù della sua reversibilità: il sostantivo infatti può essere inteso sia come oggetto

3 I. Calvino, Il guidatore notturno, da Ti con zero, in Romanzi e racconti, 3 voll., a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Mondadori (“I Meridiani”), Milano 2005, vol. II, p. 343. 4 I. Silone, Uscita di sicurezza, cit., p. 875. 5 Ivi, p. 880. 6 P. Levi, Sommersi e salvati, in Opere complete, 3 voll., a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2016, vol. II, p. 1199. 7 Cfr. L. Santucci, Il cuore dell’inverno, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 8. 8 Cfr. ivi, p. 58.

46 Reviving friendship. Amicizie letterarie nel secondo Novecento dell’azione (far rinascere l’amicizia) sia come soggetto (l’amicizia che fa rinascere). Tenendo a mente tale prospettiva andremo ora ad analizzare diverse forme che l’amicizia ha assunto nella prosa del secondo Novecento, senza la pretesa di fare un’analisi esaustiva bensì approfondendo, a titolo d’esempio, alcuni autori particolarmente significativi.

2. Calvino: il Grande Amico Apriamo la disamina con la forma più semplice di rapporto amicale, ossia il rapporto a due: gli amici, sostenendosi reciprocamente, formano un circolo perfetto che prescinde – o a volte addirittura si oppone – al resto della società, come avviene nel Sentiero dei nidi di ragno. Qui il protagonista, Pin, si muove in un mondo sconvolto dalla guerra, che gli appare in gran parte incomprensibile; lui stesso inoltre è a metà strada tra il mondo dell’infanzia e quello adulto, il che lo pone in una condizione di solitudine e incomunicabilità. Nasce così il prepotente bisogno di trovare «un amico, un vero amico, che capisca e che si possa capire»9, con il quale sia possibile condividere il proprio mondo interiore («A quello, solo a quello, mostrerà il posto delle tane dei ragni.»10) Certo questa speranza ha una componente ancora infantile, ma è anche l’unica strada per reagire a un’esistenza dolorosa e incomprensibile. Come osserva il partigiano Kim, infatti, tutti gli uomini combattono per riscattare una «ferita segreta»11: il bisogno d’amicizia è una delle estrinsecazioni di questa lotta. Risponde a tale ricerca la figura del Cugino, un partigiano adulto che però conserva un fondo di bontà e innocenza. Anche lui è portatore di una ferita (il tradimento di una donna) che escludendolo dalla sfera amorosa lo avvicina al mondo di Pin, per il quale l’unico affetto possibile è quello amicale. Cugino dunque «è il grande amico tanto cercato»12, che si manifesta come un’apparizione miracolosa nel momento di massima disperazione. D’altro canto, quando il Cugino sembra voler approfittare dei servizi di una prostituta, la sorella di Pin, il bambino deluso pensa: «Cugino è come tutti gli altri grandi, non c’è niente da fare»13. Peraltro è presumibile che il Cugino intenda in realtà giustiziare la donna in quanto

9 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, in Romanzi e racconti, cit., vol. I, p. 23. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 109. 12 Ivi, p. 146. 13 Ibidem.

47 Rinascite, rinascenze, rinascimenti spia fascista. Dunque anche il Grande amico è tutt’altro che perfetto; per questo occorre applicare anche nei suoi riguardi la dinamica ottica espressa nel finale, quando Pin e il Cugino si allontanano in un prato pieno di lucciole: «“A vederle da vicino, le lucciole, – dice Pin, – sono bestie schifose anche loro, rossicce.” “Sì, – dice il Cugino, – ma viste cosi sono belle.”»14 Dei rapporti umani, sembra suggerire Calvino, bisogna cogliere la bellezza d’insieme, senza soffermarsi troppo sui dettagli; così è possibile che l’amicizia diventi il motore di un nuovo cammino, in mezzo al buio circostante. Se poi allarghiamo lo sguardo alla produzione successiva, notiamo un particolare curioso. Mentre le amicizie tra coetanei restano pressoché assenti, nella Trilogia degli antenati ricorre per ben tre volte lo schema del Sentiero: l’amicizia tra un ragazzo insolitamente maturo e un adulto eccentrico, pieno di debolezze ma in fondo buono15. Nel Visconte dimezzato la coppia è costituita dal narratore e dal dottor Tralawney, nel Barone rampante dal protagonista Cosimo e dal brigante Gian de Brughi, nel Cavaliere inesistente da Rambaldo e Agilulfo. Calvino insomma sembra modellare l’amicizia sul rapporto alunno-mentore, anche se spesso spetta al giovane il ruolo trainante. Si possono trarre diverse deduzioni da questa scelta. Anzitutto pare che per Calvino l’amicizia possa rinascere, nel contesto moderno, solo come un evento fuori dagli schemi, ossia come una modalità alternativa di relazione rispetto a quelle codificate dalla società. In secondo luogo l’amicizia è fortemente connessa al mondo dell’infanzia: richiede infatti un coinvolgimento assoluto e disinteressato e un’ingenuità di sguardo di cui l’adulto “normale” non è più capace. Infine la relazione è rappresentata come un incontro tra due solitudini: è un rapporto tra persone vulnerabili e sole, dissonanti rispetto al proprio ambiente. L’amicizia offre la possibilità di superare questa condizione, non negandola bensì facendo leva sulle debolezze dei singoli per aprirle a sviluppi differenti. Svolge insomma una funzione affine a quella che Calvino attribuiva alla propria scrittura: «Io, epigono d’una generazione d’individualisti, accetto questa mia condizione d’individualismo estremo e cerco d’essere un ponte verso altri che vengono o verranno»16.

14 Ivi, p. 147. 15 Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Garzanti, Milano 1990, p. 54. 16 I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Mondadori (“I Meridiani”), Milano 2000, pp. 171-172.

48 Reviving friendship. Amicizie letterarie nel secondo Novecento 3. Levi: l’amicizia simbiotica Altre amicizie duali, ma di rilievo maggiore, sono osservabili nell’opera di Primo Levi. Si tratta prevalentemente di coppie di coetanei tra loro molto simili, al punto da essere quasi intercambiabili. In Se questo è un uomo, infatti, Levi descrive così il suo amico Alberto: «Era il mio indivisibile: noi eravamo “i due italiani” e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi.»17 Ad Alberto seguono poi altri amici strettissimi, spesso presentati con la formula «[il mio amico] ed io», come se i due costituissero un’unica entità18. Tanto che, attingendo a metafore scientifiche, Levi paragona questi rapporti alla simbiosi tra animali, che vivendo insieme si apportano vicendevoli vantaggi19, o anche al «legame fra catione e anione»20. Dunque, più ancora che nella produzione calviniana, l’amicizia è concepita come un rapporto assoluto che rovescia in forza la debolezza dei suoi componenti. Peraltro anche per Levi il rapporto amicale è leggermente asimmetrico. Egli infatti dipinge i propri amici come simili a sé, ma migliori sotto certi aspetti; l’amico finisce dunque per svolgere il ruolo del doppio e del sé ideale, «rispecchiando ciò che si è, ma soprattutto ciò che si vorrebbe essere»21. La superiorità degli amici è data in particolare da due caratteristiche ricorrenti, ossia la mitezza e l’astuzia. Con il termine «mitezza» Levi indica una sintesi di bontà, pazienza e forza, che permette di resistere al mondo ostile conservando intatta l’umanità della persona. Tale è la virtù di Alberto, «uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte»22, o di Leonardo, sorretto da un «coraggio silenzioso»23. Levi stesso si definisce «un mite»24, caratteristica che si accresce appunto grazie all’esempio e alla compagnia agli amici. Emblematico in proposito è il rapporto con Sandro,

17 P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere complete, cit., vol. I, p. 262. 18 Cfr. A. Cavaglion, commento a Se questo è un uomo, La Grande Letteratura Italiana Einaudi, Mondadori Informatica-Einaudi, Segrate-Torino 2000, p. 171, nota 5. 19 Cfr. P. Levi, Il sistema periodico, in Opere complete, cit., vol. I, p. 965. 20 Ivi, p. 890. 21 A Cavaglion, op. cit., p. 171, nota 5. 22 P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 180. 23 Id., La tregua, in Opere complete, cit., vol. I, p. 348. 24 V. Lo Presti, «Tornare, mangiare, raccontare», in P. Levi, Opere complete, cit., vol. III, p. 1979.

49 Rinascite, rinascenze, rinascimenti poi confluito parzialmente nel personaggio di Faussone25. Con lui Levi amava camminare in montagna, compiendo imprese anche spericolate; in tal modo ha imparato a sopportare il dolore e la fatica e a sentirsi «padrone del proprio destino»26. L’astuzia, poi, è intesa come la capacità di cavare il meglio dalla situazione grazie al proprio ingegno. In particolare, in Se questo è un uomo e nel Sistema periodico, Alberto sprona ripetutamente Levi a cercare nuovi mezzi per sopravvivere nel campo, senza mai scoraggiarsi perché «per lui la rinuncia, il pessimismo, lo sconforto, erano abominevoli e colpevoli»27. Nella Tregua poi il greco Mordo Nahum gli fa da guida nel mondo post- concentrazionario, con aiuti e consigli preziosi benché stizziti; viene poi sostituito da Cesare, in cui l’italiana “arte di arrangiarsi” raggiunge livelli sopraffini. A sua volta inoltre Levi, applicando la virtù dell’astuzia, si pone come esempio e supporto nei confronti di compagni più deboli. Un esempio è il giovane ungherese Bandi, cui Levi cerca di insegnare le astuzie elementari per sopravvivere; in cambio il ragazzo gli dona un ravanello, dicendogli «con timido orgoglio: “Ho imparato. È per te: è la prima cosa che ho rubato.”»28 Dopo l’evacuazione del campo, inoltre, l’amicizia di Levi con i propri compagni di baracca e in particolare con Charles diviene un fattore essenziale per la sopravvivenza di tutti. Nell’ottica di Levi, dunque, l’amicizia svolge indubbiamente un ruolo fondamentale: offre un modello a cui tendere e, nel contesto concentrazionario, si pone come strumento di sopravvivenza sia materiale che spirituale. Si pensi, per citare un caso emblematico, all’operaio Lorenzo, che tutti i giorni per mesi portò a Levi da mangiare, testimoniando così «una remota possibilità di bene», oltre l’inferno del campo29. Celebre è anche il rapporto con Jean il Pikolo, cui Levi elargisce un’improvvisata lezione di italiano; in tal modo entrambi riscoprono (e inverano) le parole dell’Ulisse dantesco: «Fatti non foste a viver come bruti»30. Entrambe queste figure perciò ravvivano quell’umanità che il campo mirava invece a distruggere. Non a caso una delle rare poesie di Primo Levi esalta proprio la carica trasformante dell’amicizia: «Ciascuno reca l’impronta /

25 Cfr. C. Petitjean, Primo Levi: tra scrittura e traduzione, in P. Levi, Opere complete, cit., vol. III, p. 908. 26 P. Levi, Il sistema periodico, cit., p. 896. 27 Ivi, p. 964. 28 Id., Lilìt, in Opere complete, cit., vol. II, p. 258. 29 Id., Se questo è un uomo, cit., pp. 234-235. 30 Ivi, p. 228.

50 Reviving friendship. Amicizie letterarie nel secondo Novecento dell’amico incontrato per via / in ognuno la traccia di ognuno.»31 Tali versi ci presentano un’intuizione chiave: l’amicizia è «un processo reciprocamente trasformativo, un parziale diventare come l’altro», «per una sorta di reciproco ammaestramento»32. Essa dunque possiede un forte potenziale conoscitivo e coinvolge non solo la sfera affettiva ma anche quella intellettuale. Tale concezione del resto è in linea con la visione antropologica globale di Levi, per il quale l’uomo si definisce appunto attraverso le relazioni. «Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo.»33 Perciò, a fronte della violenza totalitaria e poi dell’alienazione postmoderna, si rende necessario combattere per la rinascita della relazione, che a sua volta appare come essenziale strumento di rinascita, di crescita e di resistenza. Difatti, rievocando la prigionia ad Auschwitz, Levi ricorda l’importanza fondamentale dei tanti dialoghi, anche minimi, intrecciati con i compagni di prigionia: «In qualche modo paradossale, quell’esperienza che era veramente infernale andava accoppiata con un’altra esperienza positiva che era quella del vedere, del parlare, del conoscere gli altri uomini.»34. Va aggiunto poi che la relazione, in specie quella amicale, può determinare una rinascita anche a livello collettivo, ponendo le fondamenta per la costituzione di una nuova società. In particolare Levi sviluppa questa prospettiva nel romanzo Se non ora quando?, in cui l’amicizia è rappresentata non dall’abituale coppia simbiotica bensì dal legame di gruppo. Essa appare comunque, ancora una volta, strumento di sopravvivenza e di senso, l’unico capace di conferire significato a esistenze sbandate35. La sua importanza emerge in particolare da un’affermazione di Piotr, l’unico russo unitosi al gruppo di ebrei-partigiani. Quando gli chiedono il perché di tale scelta, risponde di getto: «Prima di tutto io sono un credente»36. La frase, apparentemente priva di logica, suscita risate generali; tuttavia è una forte conferma del valore che Levi conferisce all’amicizia, fino ad avvicinarla per certi aspetti alla fede religiosa.

31 Id., Agli amici, in Opere complete, cit., vol. II, p. 791. 32 R.S.C. Gordon, Primo Levi. Le virtù dell’uomo normale, Carocci, Roma 2004, p. 201. 33 P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 276. 34 E. Olivero, Dialogando con... Primo Levi, in P. Levi, Opere complete, cit., vol. III, p. 202. Cfr anche P. Levi, Sommersi e salvati, cit., p. 1235. 35 Cfr. P. Levi, Se non ora quando?, in Opere complete, cit., vol. II, p. 647. 36 Ivi, p. 583.

51 Rinascite, rinascenze, rinascimenti 4. Santucci: l’amicizia fraterna Luigi Santucci ha dedicato all’amicizia ampie e approfondite riflessioni, curando tra l’altro un’antologia sul tema37. Non sorprende quindi che nella sua produzione siano numerose le coppie amicali, sia nella forma mentore-discepolo (una per tutti, l’amicizia tra don Pasqua e Orfeo nell’Orfeo in paradiso), sia nella forma del rapporto tra coetanei. Talvolta quest’ultimo supera anche la temperatura standard dell’amicizia per evolvere o in legame fraterno o in interesse amoroso (come nel romanzo Il ballo della sposa o nel racconto L’ora di Abele). Di particolare interesse sono le coppie di amici-fratelli, che talvolta diventano anche letteralmente tali attraverso l’adozione38. Tale modalità relazionale, come spiegato nel Cuore dell’inverno, ha una matrice autobiografica: essendo figlio unico l’autore ha sempre desiderato trovare negli amici dei fratelli sostitutivi, legati a lui da una somiglianza strettissima (al punto tale che conoscere loro equivalga a conoscere se stesso)39. Ritorna così il tema del doppio, nel senso che l’amico è immagine di ciò che si sarebbe potuto o voluto essere. In particolare in Come se Mico e Klaus sono «scomponibili: due ma anche uno»40, tanto da essere disposti a condividere la stessa donna. Per di più il rapporto tra i due amici è sempre in qualche modo asimmetrico, come nelle opere calviniane. Solitamente infatti il protagonista nutre per l’amico un’ammirazione ardente, mista a una punta di invidia: si crea dunque, come in Levi, un rapporto di dipendenza-simbiosi. Non sempre, però, l’amico è degno del piedistallo su cui viene collocato. Santucci infatti introduce il topos dell’amico-fratello cattivo, ricalcandolo sul mito di Caino. Sia Gianni nel Velocifero, sia Mirko nell’Ora di Abele tradiscono ripetutamente l’amicizia del protagonista, con punte di cattiveria tali da far sospettare che il traditore sia stato abbandonato dal suo angelo custode41, o sia abitato da una presenza maligna42. Dunque amore e odio si mescolano, tanto che diventa difficile separarli; conseguentemente

37 A. Merlin – L. Santucci, Il libro dell’amicizia, Mondadori, Milano 1961. 38 In Come se il protagonista viene adottato dalla famiglia dell’amico, mentre nell’Ora di Abele è il protagonista che caldeggia l’adozione del futuro amico, abbandonato dai genitori. 39 Cfr. L. Santucci, Il cuore dell’inverno, cit., p. 8. 40 Id., Come se, in Opere, 3 voll., a cura di M. Beck, Aragno, Torino 2015, vol. III, p. 723. 41 Cfr. Id., L’ora di Abele in Nell’orto dell’esistenza, Società Editrice Internazionale, Torino 1996, p. 25. 42 Cfr. Id., Il velocifero, in Opere, cit., vol. II, p. 728.

52 Reviving friendship. Amicizie letterarie nel secondo Novecento cresce anche la difficoltà di distinguere tra scelte giuste e scelte sbagliate. Un esempio emblematico si trova nella pièce L’angelo di Caino, dedicata a una forma peculiare di amicizia: quella tra Caino e il suo angelo custode. Qui infatti il “buono”, nonostante la sua natura angelica, finisce per fare del male proprio a colui che vorrebbe aiutare, mentre il “cattivo” ricambia i suoi sforzi con un atto di irrazionale malvagità, l’uccisione di Abele43. Insomma l’amicizia attraversa, nelle narrazioni santucciane, anche momenti di “morte”: per il tradimento dell’amico e/o per la sua morte fisica. Tuttavia la morte dell’amicizia non è mai disgiunta dalla rinascita. In Come se, per esempio, Klaus ha ripetutamente l’impressione di sentire il fischio dell’amico morto, e lo interpreta come una prova che la vita continui nell’aldilà. Nel Velocifero invece Gianni, colpito da un cecchino durante la guerra, muore tra le braccia di Renzo, ritrovando un’infantile innocenza; tanto che il protagonista si rende conto «che aveva sempre oscuramente desiderato di avere Gianni così: reggerlo fra le braccia mite e innocente come un agnello. Adesso poteva soltanto amarlo, senza più doverlo ammirare o temere.»44 Similmente nell’Ora di Abele il protagonista recupera il legame con l’amico accettando di donare il sangue per lui, riportandolo quindi letteralmente alla vita. In entrambi i casi l’asimmetria dell’amicizia si spezza per ricomporsi su nuove basi: non più ammirazione ma compassione per l’amico, il quale da parte sua trova nell’amicizia un’estrema opportunità di rinascita, quantomeno a livello spirituale. La morte traumatica (reale o simbolica) non è però l’unico pericolo che minaccia l’amicizia: essa può incamminarsi anche verso una morte più discreta, e perciò forse più pericolosa. In particolare l’abitudine e la vecchiaia possono portare gli amici a «inchiocciolarsi in se stessi»45, mentre rapporti anche solidi possono essere guastati dalla meschinità degli umani sentimenti. Difatti, come nota Santucci, «non c’è forse amicizia [...] che non debba sostenere quotidianamente, nei ripostigli del cuore, il suo combattimento con l’invidia» o con l’egoismo46. Non a caso Santucci dedica un’ampia parte della propria antologia a indagare le pieghe meno piacevoli dell’amicizia: rivalità, delusioni, litigi. Suggerisce però una strategia per combattere tali inconvenienti, utile non solo per l’amicizia ma anche per l’amore coniugale e in generale per le relazioni

43 Cfr. Id., L’angelo di Caino, Città Armoniosa, Reggio Emilia 1977. 44 Id., Il velocifero, cit., p. 728. 45 Id., Il cuore dell’inverno, cit., p. 8. 46 Id., Prossimo tuo, in Opere, cit., vol. II, p. 770.

53 Rinascite, rinascenze, rinascimenti col prossimo. Non bisogna pensare infatti che l’affetto, di qualunque genere, «sia una proprietà acquisita una volta per tutte, e da tenere in cassaforte. [...] Senza l’entusiasmo e vorrei dire una certa “scaltrezza”, l’amore può diventare sterile, noioso, inacidire.»47 In particolare due sono i rimedi propugnati da Santucci. Il primo è la memoria, essenziale in quanto l’amicizia santucciana si basa sulla condivisione delle esperienze, e in particolare di quelle risalenti all’infanzia (periodo in cui l’amicizia attecchisce con maggiore forza e purezza). Per ravvivarla occorre dunque tornare frequentemente a quelle fonti, rispolverando ricordi e interessi comuni48. Il secondo rimedio è la fantasia, che può esercitarsi in molteplici modi. Può alimentare l’amicizia con «sentimentali prodezze»49, vivendola alla stregua di un’eroica impresa da compiersi insieme; oppure può abbellire l’immagine dell’amico, esaltandone i pregi. Per non sfociare in un’idealizzazione pericolosa, tuttavia, occorre effettuare anche la manovra opposta, mettendo la fantasia al servizio della compassione. Bisogna cioè visualizzare l’amico in una condizione di fragilità, immaginandolo o ancora bambino o già in punto di morte: in tal modo si riescono a dimenticare gli attriti contingenti, riscoprendo l’amicizia nel suo valore assoluto50. Tale esercizio ottico è per certi versi affine a quello suggerito nel Sentiero di Calvino, e rientra in quella che Santucci definisce la tecnica delle «statue poetiche»: poiché «in ogni essere umano è possibile cogliere virtù seducenti, aspetti compassionevoli o comici»51, occorre, a partire da questi, scalpellare via il brutto e il superfluo «per cavare alla luce il latente capolavoro.»52 In sintesi, perché l’amicizia rinasca, è necessario far rinascere il cuore. Infatti per Santucci, come già per Calvino, il vero luogo dell’amicizia è l’infanzia, ma questa non è semplicemente un periodo cronologico: è una condizione spirituale che può sempre essere vissuta. Basta essere disposti a rinascere nello Spirito, come l’evangelico Nicodemo tanto caro a Santucci53. A sua volta poi l’esercizio dell’amicizia favorisce la rinascita spirituale: «L’amicizia vuole una sua ostinata giovinezza; e ci conserverà

47 Id., Ultime parole ai figli, in Autoritratto, Ancora, Milano 2004, p. 264. 48 Un esempio emblematico si ha in Id., L’ora di Abele, cit., p. 33. 49 Id., Il cuore dell’inverno, cit., p. 122. 50 Cfr. Id., Ultime parole ai figli, cit., p. 264. 51 Id., Nell’orto dell’esistenza, cit., p. 43. 52 Id., Il cuore dell’inverno, cit., p. 122. 53 Cfr. ivi, p. 166.

54 Reviving friendship. Amicizie letterarie nel secondo Novecento giovani se l’alimenteremo fino all’ultimo giorno»54. Essa infatti incoraggia a sperimentare il nuovo, stimolando sogni, speranze, scoperte. Inoltre chiede di essere creativi e coraggiosi per rispondere ai bisogni dell’amico, come il dantesco Provenzan Salvani che Santucci porta ad esempio55. Va aggiunto che Santucci individua nell’amicizia non solo un legame fondamentale in sé, ma anche un punto di riferimento per tutte le relazioni umane. Già nel rapporto con se stessi, infatti, l’amicizia offre nuova consapevolezza poiché permette di conoscersi meglio, dal momento che «più usciamo da noi stessi e più diventiamo noi stessi»56. L’amicizia inoltre si imparenta con la carità: una certa dedizione amicale andrebbe applicata anche nei riguardi degli sconosciuti, e viceversa la benevolenza compassionevole rivolta al prossimo andrebbe diretta con particolare attenzione all’amico57. Infine l’amicizia è un riferimento importante nei rapporti con il Divino. Anzitutto l’angelo custode è l’amico per eccellenza58. Inoltre l’amicizia richiede uno sguardo «angelico»59 sull’altro, un affetto assoluto che oltrepassa le contingenze: è dunque un riflesso, benché minimo e imperfetto, dell’amore divino per l’uomo. Perciò Santucci ipotizza che l’arrivo delle anime in paradiso implichi la stessa operazione di «scalpellamento» che, più in piccolo, si esercita nell’amicizia: Dio, purificando le imperfezioni degli uomini, li trasformerà nelle loro «statue poetiche»60. Insomma l’amicizia si arricchisce, nelle pagine di Santucci, di significati sempre nuovi, arrivando fino alle vette dell’utopia61.

5. Silone: l’amicizia come utopia Silone è probabilmente l’autore più attento alla crisi relazionale odierna, che egli riconduce da un lato all’individualismo nichilista, come si diceva, e dall’altro all’opera di massificazione compiuta dalle ideologie. Il fascismo, infatti, ha diffuso un’idea di collettività come «forzato ammasso [...], diretta espressione della comunità nazionale, o razziale, o di classe»; «il contrario della vera umana comunità [...], [che] è amicizia, è spontaneità, è fraternità,

54 Ivi, p. 121. 55 Cfr. Id., Prossimo tuo, cit., p. 772. 56 A. Merlin – L. Santucci, Il libro dell’amicizia, cit., p. 699. 57 Cfr. L. Santucci, Prossimo tuo, cit., p. 773. 58 Cfr. Id., Il cuore dell’inverno, cit., p. 8. 59 Id., Ultime parole ai figli, cit., p. 264. 60 Id., Il cuore dell’inverno, cit., p. 67. 61 Cfr. G. Cristini, Invito alla lettura di Luigi Santucci, Mursia, Milano 1976, p. 97.

55 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

è scelta.»62 Il marxismo poi ha favorito una concezione antropologica in cui l’individuo è semplicemente un frammento della massa, intesa come classe sociale o partito politico. Emblematica in proposito è la posizione di Oscar, comunista integerrimo di Una manciata di more, il quale esprime contrarietà di fronte a relazioni amicali troppo strette, in quanto «il motore della rivoluzione non è l’amicizia.»63 Silone stesso, d’altro canto, sottolinea l’estrema capacità di resistenza dell’amicizia, che le permette di rinascere anche nelle situazioni più estreme. Osserva ad esempio in un testo del ’44: «Nelle trincee, nei campi di concentramento, nei carceri, nei gruppi politici clandestini, nei distaccamenti partigiani, si creano, tra uomini fino a ieri sconosciuti ma che un’intima affinità d’anima attira e fa subito riconoscere, legami autentici di forte amicizia. [...] Nel cadaverico ammasso [della società] quelle sono le sole cellule viventi. Esse testimoniano l’immortalità dell’umano nell’uomo.»64 Del resto già nel ’42 Silone, sottolineando il valore della relazione, commentava: «Multa rinascentur. Molte cose che erano disperse, sepolte e dimenticate stanno ritornando alla vita.»65 La sua produzione letteraria è volta appunto a incoraggiare questa tendenza promuovendo l’amicizia e combattendo le forze che vi si oppongono. Il Seme sotto la neve, in particolare, è stato definito come «un romanzo dell’amicizia assoluta, ‘totalitaria’, contro la morte totalitaria»66. Ma anche le opere successive ospitano numerosi “eroi dell’amicizia”: personaggi che difendono strenuamente tale valore pur consapevoli della sua inattualità. Significativa in particolare la descrizione di Agostino, nella Volpe e le camelie: «È un uomo d’amicizia, come altri sono uomini di partito, o uomini di chiesa, o uomini d’affari.»67 A sua volta poi l’amicizia diventa, nelle narrazioni siloniane, uno strumento di rinascita personale e di creazione di una società inedita. Poiché infatti «l’inserimento pieno in una comunità data è impossibile, l’unica via aperta è quella di costruirne una nuova partendo da rapporti individuali, edificati su una capacità di autocritica, sulla disponibilità al sacrificio, su uno sforzo di rigenerazione interiore.»68 La soluzione dei

62 I. Silone, Promiscuità e comunità, in Romanzi e saggi, cit., vol. I, p. 1310. 63 Id., Una manciata di more, in Romanzi e saggi, cit., vol. II, p. 109. 64 Id., Promiscuità e comunità, cit., p. 1310. 65 Id., Le idee che sostengo, in Romanzi e saggi, cit., vol. I, p. 1385. 66 B. Falcetto, Introduzione a I. Silone, Romanzi e saggi, cit., vol. I, p. LVII. 67 I. Silone, La volpe e le camelie, in Romanzi e saggi, cit., vol. II, p. 499. 68 B. Falcetto, Introduzione, cit., vol. I, p. LV.

56 Reviving friendship. Amicizie letterarie nel secondo Novecento problemi sociali appare dunque affidata «alla forza taumaturgica dei sentimenti e dei rapporti spontanei», gli unici capaci di far emergere l’«innata bontà dell’uomo»69. Perciò, come per Santucci, l’amicizia assume una chiara funzione utopica: essa è la vera “rivoluzione”, che contrappone a ingiustizia e violenza una ritrovata carità. D’altra parte, se l’utopia di Santucci riguardava essenzialmente l’ambito privato, Silone investe l’amicizia di istanze politico-sociali (il riscatto dalle dinamiche oppressive della società) e religiose (la realizzazione del Regno di Dio). Afferma infatti Pier Celestino nell’Avventura di un povero cristiano: «A me sembra che l’anima cristiana, la quale aspira intensamente al Regno di Dio [...] e vi adegua il suo comportamento, a cominciare dalle relazioni col prossimo [...] realizza, sia pure in misura minima, il Regno.»70 Non a caso Silone, a differenza di tutti gli autori affrontati finora, dispone gli amici per triadi e non per coppie. Nel Seme sotto la neve troviamo Pietro Spina, Simone-la-faina e Infante; in Una manciata di more Lazzaro, Martino e Rocco, nel Segreto di Luca Andrea, Don Serafino e Luca, nella Volpe e le camelie Daniele, Agostino e Franz. Tale schema, che richiama il modello della Trinità, riflette la natura quasi religiosa dell’amicizia, e inoltre la caratterizza non come universo autosufficiente bensì come comunità aperta all’espansione. Condizione essenziale, tuttavia, è che l’amicizia resti sotto il segno dalla libertà. «L’amicizia non deve diventare una schiavitù, essa deve invece renderci più liberi e leggeri» ammonisce Simone71. In ciò si differenzia dai rapporti amorosi e famigliari che, specialmente nei primi romanzi, sono spesso un fattore di inciampo, poiché conducono quasi fatalmente verso la vita piccolo-borghese. A maggior ragione la libertà distingue l’amicizia dall’aggregazione politica, anche se Silone impiega del tempo a scindere le due dimensioni. Sintomo esemplare di quest’evoluzione è il contrasto tra la prima redazione di Vino e pane (1936) e la seconda (1955). La prima recita, riferendosi al protagonista Pietro Spina: «Di nuovo egli si sente spinto da un istinto a lui connaturale, l’istinto dell’uomo di massa, dell’uomo rivoluzionario. Fuori della massa [...] il rivoluzionario gli è sempre apparso come un essere fuori del suo elemento vitale, un pesce fuor d’acqua». Nella seconda invece si legge: «Di nuovo egli era spinto

69 F. Atzeni, Ignazio Silone. Vocazione educativa e messaggio politico e sociale, Lalli, Poggibonsi 1991, p. 354. 70 I. Silone, L’avventura di un povero cristiano, in Romanzi e saggi, cit., vol. II, p. 691. 71 Id., Il seme sotto la neve, cit., p. 971.

57 Rinascite, rinascenze, rinascimenti da un istinto a lui connaturale, l’istinto dell’uomo di compagnia. Nella solitudine egli era stato un essere fuori del suo elemento vitale, un pesce fuor d’acqua.»72 Il rovesciamento di prospettiva è palese.

6. Conclusione I quattro autori qui esaminati hanno messo chiaramente in evidenza la capacità dell’amicizia di rinascere nei contesti più impensati, nonché la sua importanza ai fini di una rinascita personale e collettiva. Non a caso è ricorrente il legame simbolico tra amicizia e nutrimento. Nei racconti di Levi l’amicizia implica spesso la condivisione o il dono del cibo, la cui importanza è particolarmente amplificata nel contesto del lager. Santucci poi concepisce l’amicizia come «agape, mensa», e gli amici come «fratelli di latte», «imparentati attraverso un alimento succhiato insieme da una stessa mammella»73. Silone infine sottolinea il legame etimologico tra «compagnia» e «pane»74, e vede in quest’ultimo un simbolo civile e religioso di comunione75. Si può notare, tuttavia, un’ideale progressione. Per Calvino l’amicizia ha ancora un valore strettamente privato e, sembrerebbe, limitato alla giovinezza76; essa dunque reagisce alla crisi instaurando equilibri precari, che tendono a sfibrarsi col tempo. Al contrario in Levi, Santucci e Silone l’amicizia diviene un essenziale strumento per combattere la crisi stessa, estendendosi inoltre (almeno idealmente) dal livello individuale al collettivo. Essa acquista così, in maniera sempre più esplicita, una connotazione utopica, supplendo parzialmente alla crisi delle certezze religiose e politiche: «Troppo poco per costituire una professione di fede, ma abbastanza per una dichiarazione di fiducia.»77

72 Cfr B. Falcetto, Notizie sui testi, in I. Silone, Romanzi e saggi, cit., vol. I, p. 1519. I corsivi sono miei. 73 L. Santucci, Il cuore dell’inverno, cit., p. 120. 74 I. Silone, Il seme sotto la neve, cit., p. 726. 75 Cfr. Id., Ed egli si nascose, a cura di B. Pierfederici, Città nuova, Roma 2000, p. 98. 76 Non solo le coppie amicali scompaiono sostanzialmente dopo la Trilogia degli antenati, ma Calvino stesso, negli Avanguardisti a Mentone, descrive l’amicizia come un bisogno «proprio dei giovani, cioè il bisogno di dare un senso a quel che vivono parlandone con altri». I. Calvino, L’entrata in guerra, in Romanzi e racconti, cit., vol. I, p. 505. 77 I. Silone, Uscita di sicurezza, cit., p. 880.

58 Amicizia nella rinascenza: esaltare l’umano o umanizzare la città?

LUIGI F. PIZZOLATO1

Reacting to the researches under discussion here, the value of the rebirth of friendship is recalled in times of cultural change and of “rebirths” and particular emphasis is placed on the relationship that is established between friendship as belonging to a personal group and friendship as a function of civic concord.

Ho ragione di ritenere che la mia presenza sia qui giustificata da una qualche competenza che mi viene attribuita sul campo della storia dell’amicizia (anche se nel mondo antico) e che su questo versante si attenda da me qualche contributo, in quanto l’umanesimo a quel mondo intenda ricollegarsi. Il tema generale della Summer School “Rinascite, rinascenze, rinascimenti” mi suggerisce una prima osservazione. Chi ripercorre la storia dell’amicizia può facilmente constatare che, quando c’è un cambio di paradigma culturale e politico, facilmente prendono corpo cenacoli amicali che intendono costituire una identità di gruppo in difesa della nuova cultura o contro di essa. Siccome poi qui siamo in presenza di una rinascenza di tipo umanistico, mi pare che questa identità di gruppo si cerchi intorno alle ragioni di una realizzazione antropologica: infatti essa non si basa solo né principalmente sulla fede religiosa, quale poteva essere la relazione di agápe-carità che si pretendeva dominante – e talvolta soffocante – nell’ethos medievale e nella societas Christiana o che era testimoniata nei cenacoli monastici, fin dalla teorizzazione di Aelredo di Rievaulx. E però quella società umanistica non voleva nemmeno che la relazione fosse abbandonata alle pulsioni erotiche dove dominasse

1 Emerito di Letteratura cristiana antica nell’Università Cattolica di Milano.

59 Rinascite, rinascenze, rinascimenti una corporeità ridotta a sensualità. Mentre la carità è percepita, indebitamente ma di fatto, come un obbligo che prescinde da fattori emozionali, e l’eros trova legittimazione nel coniugio, l’amicizia, in una cosiddetta rinascenza dell’umano, poteva essere capace di presidiare un terreno spirituale mediano, dove per emancipare l’umano dalla pervasività della religione non fosse necessario cadere nella soggiacenza alle sensuali pulsioni erotiche. L’amicizia poteva insomma contrastare quella separazione tra eros e agape che sarà ribadita dalla teologia riformata più radicale, quando avanza la richiesta dell’alterità assoluta delle ragioni del divino rispetto a quelle dell’umano (il classico lavoro del Nygren2 con la secca contrapposizione tra eros e agape risente infatti fortemente della visione riformata). Mi pare che la relazione amicale venga quindi incontro allo spirito della rinascenza umanistica che per affermare le ragioni dell’umano non cerca la distruzione dei valori spirituali (è platonica, si sa, gran parte dell’Umanesimo), ma casomai persegue l’emancipazione di valori spirituali da una radice esclusivamente religiosa, che vorrebbe dirigerli dall’esterno, e da una ascetica che distrugge l’emozionalità. L’amicizia invece non intende lasciare il terreno della sensibilità in balia di quella che di lì a qualche tempo Descartes chiamerà la res extensa: con l’amicizia anche la sensibilità è perciò salvata dallo scadimento e riscattata dal pericolo della rimozione o della caduta nelle amicizie sensibili, contro le quali mettevano in guardia i grandi fondatori monastici. Il secondo motivo di dibattito verte sul particolare ambito in cui si colloca l’amicizia umanistica testimoniata da Felice Feliciano da Verona. Se si considera che essa diventa il tema del certame coronario di Firenze del 1441, proposto da Leon Battista Alberti, difficilmente ci si può sottrarre alla suggestione che quel tema sia stato scelto non come una pura esercitazione di argomento retorico progimnastico, ma con una qualche ragione di attualità. Infatti nella Firenze del Quattrocento dove le fazioni dominavano la vita politica e la varietà dei gruppi mercantili cercavano interessatamente di condizionarla, l’amicizia rischiava di essere confusa con la faziosità politica – che ne veniva nobilitata indebitamente – o, al contrario, di diventare essa stessa una relazione interessata, secondo una accezione che anche il

2 La si veda ora in Anders Nygren, Eros e Agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, introd. all’ed. italiana di Franco Bolgiani, Bologna, il Mulino, 19712.

60 Amicizia nella rinascenza: esaltare l’umano o umanizzare la città? mondo classico latino conosceva (in specie nell’altrettanto turbolento periodo precesariano donde scaturirono la struttura e la riflessione amicali del Circolo degli Scipioni ricostruite da Cicerone nel Laelius). Mi pare plausibile quindi sostenere che l’appello dell’Alberti a ragionare sull’amicizia rispondesse (per lo meno anche) a motivi politici e chiamasse perciò in causa il rapporto tra amicizia e politica. E correttamente la nostra giovane ricercatrice, di cui discutiamo il lavoro, dal fatto che la risposta dei concorrenti avvenga per lo più in lingua volgare, trae ulteriore motivo di dire che essi avvertivano la rispondenza del tema ad un’urgenza civile attuale al di là del carattere di agone retorico-linguistico. In questo panorama matura anche la riflessione di Feliciano. Ma si può dire che egli capisca a fondo queste ragioni? Certo, non mi pare che egli si abbeveri alle fonti più fondanti della concezione antica dell’amicizia, e questo devo dirlo a chi nella sacrosanta passione per la propria ricerca potrebbe correre il rischio di maggiorare il valore del proprio eroe. E però come diceva un grande cultore di studi classici, non ci sono argomenti piccoli ma, casomai, solo “cervelli piccoli” e si possono indagare intelligentemente posizioni anche non di vertice. Anche perché, come si sa, i settori che pigramente chiamiamo “minori”, sono quelli che meglio spiegano quello che, un po’ pomposamente, chiamiamo lo Zeitgeist. Si tratta allora di cogliere nel suo giusto rilievo storico il valore dell’epiteto che è stato attribuito a Feliciano (o che si è attribuito lui stesso, ma fa lo stesso): conservator amicitiae, che fa il paio con quello di vetustatis indagator. Mi pare che sia legittimo porsi la questione se siamo più in presenza di un retore che rinvia all’antichità da innamorato di essa (vetustatis indagator) o anche di un uomo di cultura che percepisce il valore attuale del rapporto tra amicizia e politica e ne cerca le coordinate culturali. Insomma, l’appellativo rivoltogli è solo una constatazione di un suo atteggiamento di propensione amicale personale o è anche un rinvio ad un ideale antico di relazione umana interno alla vita cittadina? Sicuro è che egli, fedele alle due osservanze di indagatore dell’antichità e di difensore dell’amicizia, riconduce all’antichità e là rintraccia, non certo nel cristianesimo, le ragioni dell’amicizia. Volentieri parla del rapporto tra amicizia e fortuna nei toni classici della fedeltà nella malasorte, alla quale non virtù è chiamata a resistere, ma, appunto, amicizia. Sembra di essere di più in un orizzonte personale che politico: nel regime di

61 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Epicuro, che però era poco frequentato al tempo, forse perché ritenuto poco rappresentativo della classicità, in specie latina. L’entusiasmo amicale di Feliciano si abbevera a fonti latine più retoriche che filosofiche, e classiche, non cristiane, come abbiamo detto. La sua delineazione dei caratteri dell’amicizia è costruita su aforismi e luoghi retorici consolidati dove le radici filosofiche (greche) sono percepibili, ma filtrate da fonti oratorie (latine) e da un sentire retorico assertivo più che critico. E il fatto che si ponga a sedere “per sua dolce compagnia cum Valerio Maximo” (come dice egli stesso) dice una predilezione ideologica o attesta un riferimento culturale ravvicinato e di moda? Non si può prescindere dall’influsso che avrebbe potuto esercitare su di lui il Commento ai Detti e ai fatti di Valerio Massimo composto circa un secolo prima da Benvenuto Rambaldi da Imola che aveva rivolto la sua attenzione (accanto ai ben più grandi Virgilio, Seneca e Lucano) all’apparentemente modesto Valerio Massimo. Proprio per via di questa preferenza per Valerio Massimo, non so se si possa parlare per Feliciano di una amicizia a valenza politica civica o se siamo ancora nei limiti di un cenacolo di persone collegate affettivamente. L’intonazione moralistica farebbe propendere più per la seconda ipotesi, come pure la preferenza per le coppie amicali (così tipiche di Valerio Massimo) piuttosto che per i gruppi amicali a tendenza ideologica e sociale. Ma il richiamo all’amicizia disinteressata personale poteva avere comunque un senso di resistenza ai rapporti di amicizia interessata e faziosa della Firenze del tempo, ben rilevata nel suo de amicitia dall’Alberti stesso, che pour cause l’avrebbe posta a tema del certame coronario per contrastare un’amicizia ridotta a compagnia di affari. Ma come è ingenuo dire che, in una società di forte risentimento individualistico, dove l’uomo si esprima nella direzione socio-politica del cittadino si possa giungere all’amicizia “colla sola simplicità e bontà” (come annota l’Alberti), nemmeno si può dire che l’amicizia funziona solo nella direzione del rapporto personale di anime belle e non possa attenere alla vita della città, ma solo rappresentare un’oasi di resistenza. Ricordiamo che, dentro un’età ancora fortemente religiosa e segnata da rapporti e strutture teologiche, già Francesco d’Assisi e i suoi primi seguaci (come Antonio a Padova) avevano predicato l’amicizia civica ultimamente come realizzazione storica possibile dell’agape cristiana (così dicono i testimoni del discorso di Francesco a Bologna nel 1222 e l’episodio della pacificazione di Arezzo).

62 Amicizia nella rinascenza: esaltare l’umano o umanizzare la città?

Non so se tutto questo percepisse Feliciano, ma certamente qualcosa ne esprimeva in quanto respirava questo clima. Noi moderni stessi, del resto, abbiamo difficoltà a concepire l’amicizia come fatto politico e non solo di resistenza al politico; o la concepiamo addirittura come virtù antipolitica, perché contesta la conflittualità permanente, tipica dell’azione politica ideologica tra diversi. Comunque, anche in questo caso l’amicizia conserva almeno il valore politico di richiamare la politica al suo limite e di insinuare l’idea che la persona sporge sempre oltre i confini delle sue scelte politiche. Nel vuoto di potere, essa tiene desto il valore umano dell’aggregazione sovraindividuale, salvando un barlume di convivenza possibile nella città. E, nell’eccesso di potere, invita la politica ad assumere una posizione “mite”, perché comporta l’introduzione nella lotta politica, pur aspra, di un criterio correttivo di umanità, affinché quella lotta non degeneri nel totale sprezzo della coesione civile. Una scarsa “erotizzazione” (così nasce alla greca, in Aristotele, la nostra amabilità) della giustizia può stare alla base dell’indifferenza e dell’illegalità civica. Ogni comunanza, anche amicale, è peraltro riconducibile in radice alla comunanza architettonica, che è gestita dalla politica, la quale cerca, per sua natura, di subordinare il singolo bene al bene comune, che è un bene più generale quanto a spazio e quanto a tempo: “Tutte queste comunanze sembrano essere subordinate alla società politica: infatti questa non mira all’utilità del momento, bensì a quella di tutta la vita” (Aristotele, Etica a Nicomaco, VIII,9. 1160a). Sicché ogni amicizia rientra di per se stessa, in ultima istanza, nell’orizzonte della politica: in maniera più limitata, quanto a contraenti, perché l’amicizia ha convergenze più ristrette nel numero che non la convivenza civica; ma in maniera costitutiva, perché l’amicizia ha la stessa metodologia di rap porto della politica, cioè quella della ricerca di unione condivisa. Tanto che – sempre secondo Aristotele (Etica a Nicomaco, VIII,11. 1161a) – ogni forma di governo ha alla base una componente amicale e può essere ricondotta ad una particolare forma di amicizia: i governi dei re, dei padri, dei mariti, degli ottimati hanno le caratteristiche dell’amicizia di superiorità; quelli dei fratelli, dei demòcrati presentano i tratti dell’amicizia cameratesca, e quindi i toni della massima uguaglianza; quelli del tiranno e del padrone escludono l’amicizia per ché recidono qualsiasi principio comunionale: infatti questi ultimi non cercano un bene comune ma solo il proprio, e perciò trattano gli altri come strumenti. L’amicizia politica comporta una

63 Rinascite, rinascenze, rinascimenti maggiore intensità di unione razionale volon taria ed esplicita, perché si fonda su un libero accordo; le amicizie parentale e cameratesca hanno invece una comunionalità necessitata ed implicita, più legata al “profondo”, perché sono affidate meno alla libera scelta e più ad un dato involontario (la generazione, la crescita, la consuetudine di vita). Proprio per questo l’amicizia parentale è primaria ed originaria, perché attiene alla vita, all’educazione, alla gestione dell’ambiente di crescita; e perciò precede l’amicizia politica. Alle origini, sia dell’amicizia personale sia della concordia politica, sta una realtà sotterranea, non intellettuale, un istinto naturale d’amore, che ha come archetipo gene- rante ed esemplare l’amore tra genitori e figli. L’amicizia diventa politica solo se attivamente sceglie i suoi compagni di viaggio: insomma, solo se diventa virtù, non restando puro legame genetico dato (legame di razza e di stirpe non è amicizia, anche se ne sta alle radici). Si sa che a lungo, in mancanza di veri e propri partiti organizzati, l’ossatura dei gruppi politici più rilevanti fu formata da legami parentali o clientelari. Un’amicizia di questo tipo si sorreggeva grazie alle assistenze e ai favori reciproci. Così gestita, l’amicizia può prevaricare sulle stesse leggi della città. Infatti l’amicizia, che è fatto politicamente corretto se esprime una precedenza dell’etica sulla norma positiva, della persona sullo Stato, può anche portare ad un predominio dell’interesse soggettivo sulla giustizia, qualora l’amicizia faccia leva solo su un legame naturale e non su un fondamento di virtù. Pericolosa suona allora l’affermazione, già di Gorgia: “l’amico riterrà giusto per sé l’aiuto dell’amico nelle cose giuste; ma egli lo soccorrerà anche in molte cose non giuste”. Pericolosa come la prepotenza della visce- ralità amicale nel rapporto politico. Essa condurrebbe ad un rapporto perennemente conflittuale, renderebbe la città luogo di competizione fino all’annientamento dell’avversario, del diverso. Questa amicizia (diremmo di tipo schmittiano di amico vs nemico), intesa come dato che non può confrontarsi ma solo contrapporsi al nemico, comporta un universo chiuso di rapporti; non cerca il dialogo, ma l’alternanza secca di potere; non media tra desideri, ma ne cerca istituzionalmente il conflitto. Questa conflittualità si manifesta ancora nelle lotte etniche del nostro tempo, scatenate dal venir meno del livello politico in aree dove esistevano forti luoghi comunitari (le etnie o relazioni viscerali) ma mancavano luoghi compensativi societari (di amicizia politica per libera scelta: ideologie diverse, partiti, gruppi sociali...), che, soli, richiedono il confronto e sorreggono una tollerante convivenza.

64 Amicizia nella rinascenza: esaltare l’umano o umanizzare la città?

In realtà, l’umanità, per fortuna, non si divide mai seccamente tra amici e nemici, ma è composta di soggetti misti, sempre in parte amici e in parte nemici: si tratta perciò di coordinare i due aspetti di modo che la componente comunitaria dell’a micizia non sia intesa come una fusionalità chiusa, incomunicabile, infeconda; e che la componente di diversità non scada nella distruttività e nella continua ricerca di rivincita dello sconfitto. Gestire insieme invece, le due componenti costituisce la base per una sana dialettica costruttiva e per una continua ricomposizione di concordia. Sarà interessante rintracciare la presenza di queste tracce e l’apporto che l’amicizia antica anche di Valerio Massimo, così idealizzata e moralistica, fornirà alle relazioni nell’epoca delle incipienti signorie. Un apporto alla partecipazione politica o al riflusso nella consolazione privata? Si rinnova il destino dell’amicizia antica tra ricerca di un ethos politico e ricerca di un vitalismo individuale. Offro queste ultime proiezioni sull’attuale e sulle costanti dell’amicizia alla attenzione anche della dott. Lucia Masetti, con la cui ricerca mi spiace di non potere interagire più direttamente. Tra gli autori che lei studia ho frequentato Luigi Santucci (quasi integralmente anche per via di una conoscenza diretta dell’autore, milanese e ben legato all’Università Cattolica, dove si è laureato) e parecchi testi degli altri suoi autori, affezionandomi assai alla poesia di Luzi a cui mi aveva introdotto l’amico Claudio Scarpati. Vedo i problemi che essi aprirebbero al discorso sull’amicizia in un’epoca che in parte io ho vissuto e che tutti noi stiamo vivendo. Ma mi trattengo dall’entrare più specificamente nel merito per un ancor maggiore deficit di competenza che mi farebbe ragionare ancor più dilettantisticamente. E un mio intervento sarebbe una diseducazione al metodo critico, imperdonabile in un contesto di scuola, come questo.

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Per una rinascita dell’amicizia

GIUSEPPE COLOMBO

At the extreme limit between the humanistic-Christian tradition and the nihil- ism of post-modern secularization, the essay does not present a melancholy and sterile museum exhumation of friendship, but offers a close critical compari- son with the culture that makes it impossible (from Descartes and his “Orphan gods” to Nietzsche and his Übermensch up to G. Deleuze, D. Haraway ...) and above all offers the metaphysical-anthropological justifi cation of the humus that makes it possible and that the A. it defi nes with the term “generative trust relationship”, original ontological place, stable and dynamic at the same time, of the birth, development and maturation of individual personal identities and of the relationship itself. This humus concretely occurs primarily in families. And therefore we are faced with a harsh reality: to possess and nurture the aware- ness of always being ‘children’, that is, always generated in different degrees and ways, and act accordingly, letting ourselves be loved, or to deny and reject any dependence (the claim to ‘be loved’ for Nietzsche and Freud, for example, is an illusion, a fault) and affi rming one’s self-reliance in terms of “autochthy- sis” (self-generation) and “autopoiesis” (self-production) of one’s own “self”. In short, only by creating families will the fertile ground be prepared for the blos- soming of friendship which is a declination of spousal love between men and women (prototype of any love), up to the donation of one’s life to the beloved.

Per un amico fedele non c’è prezzo, chi lo trova, trova un tesoro. (Siracide, 6, 14-15)

So di scrivere per ‘letterati’. E i ‘letterati’ non sono né teologi, né filosofi. Eppure, quando portano alla luce i misteri più profondi dell’uomo e di Dio, nei loro scritti sono racchiuse anche le più alte verità della teologia e della filosofia, da loro ‘respirate’ nei modi più diversi, ma non studiate così come fanno i teologi e i filosofi: Dante solo lo ha fatto, ma Dante è ‘unico’. E poiché la grandezza dell’arte e della letteratura sono in rapporto diretto con il valore della cultura teologica e filosofica,

67 Rinascite, rinascenze, rinascimenti quando questa cultura scema, l’arte e la letteratura diventano fiacche, perché non hanno più pane per i loro denti, ma solo cibi leggeri e poco nutrienti. E noi siamo al limite estremo tra la grande tradizione umanistico- cristiana e il cosiddetto nichilismo. E quindi anche i letterati hanno un compito preciso: prendere coscienza delle fondamenta delle loro creazioni. Con questo mio modesto saggio intendo contribuire a quest’opera di chiarificazione. Parlerò quindi poco dell’amicizia nei termini consueti, ma mi proverò a offrirle una legittimazione antropologica.

1. Passato e futuro: una nuova progettualità Quando si parla di amicizia, e di tutto ciò che riguarda l’uomo in quanto tale, al filosofo credente spetta il compito di portare alla luce e mettere a disposizione di tutti, credenti e non credenti, il valore metafisico e antropologico intrinseco alla fede cristiana, anche grazie a un serrato confronto con la cultura precristiana della Grecia antica e quella anticristiana del moderno e del post-moderno, con il quale, per ragioni di brevità1, in questo scritto limito il confronto, che apro servendomi di un autore ‘chiave’: Friedrich Nietzsche, che in uno dei suoi fulminanti aforismi scrive: «I Greci, che sapevano così bene che cosa sia un amico, essi soli, di tutti i popoli, posseggono una trattazione profonda, molteplice e filosofica dell’amicizia; sicché a essi per primi, e finora per ultimi, l’amico è apparso come un problema degno di essere risolto»2. E, non senza rimpianto, completa la sua riflessione con queste parole: «l’antichità ha vissuto l’amicizia fino in fondo e con energia, l’ha compiutamente pensata e l’ha portata quasi con sé nella tomba»3. Infatti, a suo avviso, nel mondo moderno non solo le donne4, ma anche gli uomini sono incapaci di vera amicizia, per due fondamentali ragioni.

1 Si veda la completa trattazione del tema in G. Colombo, Il prodigioso duello. La sfida per l’uomo, Vita e pensiero, Milano 2019. 2 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, trad. it. di Sossio Giametta e Mazzino Montinari, in Id., Opere, Adelphi, Milano 1965, vol. VI, t. II, p. 214. 3 Id., Aurora, trad. it. di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, in Opere, Adelphi, Milano 1964, vol. V, t. I, p. 240. Cfr. L. Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Einaudi, Torino 1993. 4 Era opinione comune nel mondo greco, fatta propria da gran parte dei filosofi fino ad oggi, che la donna, come lo schiavo, fosse incapace di vera amicizia. E

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La prima – all’amicizia è stato sostituito «l’amore idealizzato dei sessi»: «Tutte le grandi attitudini degli antichi trovavano il loro appoggio nel fatto che l’uomo stava accanto all’uomo, e nessuna donna poteva sollevare la pretesa di essere la realtà prossima e suprema, anzi l’unico oggetto del suo amore, come insegna a sentire la passione»5. La seconda – il cristianesimo ha barattato l’amicizia con l’amore del prossimo. Perciò Zarathustra ammonisce i suoi ‘amici’: Il vostro amore del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi. Voi fuggite verso il prossimo fuggendo voi stessi [...]. Io non vi insegno il prossimo, bensì l’amico. L’amico sia per voi la festa della terra e un presentimento dell’Übermensch [...]. Il futuro e ciò che sta in remota lontananza siano la causa del tuo oggi: nel tuo amico devi amare l’Übermensch come causa di te. Amici, non l’amore del prossimo vi consiglio: io vi consiglio l’amore del remoto6. Pur non condividendo in tutto le affermazioni di Nietzsche, riconosco che la sua sintesi ha il pregio della chiarezza metafisica e storica, perché, nel nostro ‘cambio d’epoca’, traccia una netta linea di demarcazione tra il passato, l’umanesimo greco-romano e cristiano, e il futuro post e anti cristiano. Non ci si può infatti nascondere che un numero sempre crescente di fatti induce a pensare di essere, in tutto o in gran parte, al ‘tramonto dell’Occidente’7, al suo ‘naufragio’8 o, quanto meno, della

Nietzsche non fa eccezione: «Per troppo tempo nella donna si è celato uno schiavo e un tiranno. Perciò la donna non è ancora capace di amicizia: essa conosce solo l’amore [...]. La donna non è ancora capace di amicizia: gatte sono ancora le donne, o uccellini. O, nel migliore dei casi, giovenche» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di MazzinoMontinari, in Opere, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, t. I, pp. 65-66). Persino per la ‘femminista’ Simone De Beauvoir «È raro che la complicità femminile si innalzi fino a una vera amicizia» (Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1978, p. 327). 5 F. Nietzsche, Aurora, cit. p. 240. 6 Id., Così parlò Zarathustra, cit., pp. 70 71. Ho sostituito il termine ‘superuomo’ della traduzione italiana con l’originale tedesco Übermensch, perché la parola ‘superuomo’ può trarre in inganno, indicando non l’oltre uomo, l’al-di-là dell’uomo, come intende Nietzsche, ma semplicemente un rafforzamento dell’uomo, la cui natura, così come la conosciamo, cioè creata, sussisterebbe ancora, mentre per Nietzsche non deve più esistere, perché deve appunto sorgere un ‘oltre’, un ‘remoto’. 7 O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes (1918-22), trad. it. di Julius Evola: Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1957. 8 H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, trad. it. di B. Argenton e F. Rigotti, Prefaz. di R. Bodei, Il Mulino,

69 Rinascite, rinascenze, rinascimenti civiltà europea, così come l’abbiamo conosciuta e sperimentata ancora nel secondo dopoguerra, quando la ‘tradizione umanistico-cristiana’ era magari stanca, priva della coscienza vigile delle sue ragioni d’essere, ma era ancora viva e quindi capace di sostenere buone relazioni familiari e di amicizia, anche politica. Indizi di questa fine, evidenziati da un ampio spettro di indagini sociologiche, teologiche e filosofiche, sono per esempio i seguenti: quando si parla di famiglia, la si qualifica sovente con il termine ‘tradizionale’, il cui significato è sinonimo di non più attuale; e, quando si parla di grandi amicizie, egualmente ci si rivolge al passato9, pescando nelle élite degli eroi e dei letterati: e se ne scrive con struggimento, quasi fosse un tema uscito dalle Bucoliche virgiliane. Perciò, tutti coloro che sono convinti che le riesumazioni museali siano consolatorie e sterili, tanto quanto la malinconia, e che,ciononostante, ritengono che l’amicizia sia un bene per l’uomo che, al pari di un dovere morale (Sollen), anche se non è ancora realizzata o disattesa o tradita, deve essere attuata, perché è richiesta categoricamente dalla stessa natura umana, ebbene costoro, guardando al futuro si trovano dinanzi a un bivio: mantenere fermo l’universale antropologico umanistico-cristiano, che ha il suo esemplare e fondamento in Gesù Cristo e nella sua relazione con l’uomo, provandosi a realizzare una sua attualizzazione nel solco della continuità e della riforma; oppure ‘girare pagina’, come propone Nietzsche, ripudiando l’amore cristiano per Dio e per il prossimo, e salpando per i mari e le terre inesplorate dell’Übermensch: l’“al-di-là dell’uomo”. A queste due vie corrispondono due proposte pratiche di appagamento dell’eros, inteso come amore di bisogno e di desiderio, che io definisco ‘eteroerotica’ e ‘autoerotica’. Per “etero erotismo” intendo la teoria e la prassi che individuano la salute-salvezza dell’uomo in una “relazione fiduciale e generativa” che lo lega e lo fa dipendere dagli altri e da Dio. Con “autoerotismo” indico invece la teoria e la prassi che intendono

Bologna 2001. Siamo tutti (o vi è qualche eccezione?) coinvolti nel naufragio, tanto che non vi è distinzione tra spettatore e naufrago? 9 Cfr. a es.: Paolo Gulisano, Là dove non c’è tenebra. Storie di amicizia tra scrittori, Ares, Milano 2019. L’A. presenta ben ventitre storie di amicizia tra scrittori, tra cui Melville-Hawthorne, Leopardi-Ranieri, Byron-Shelley, Manzoni-Rosmini, Verne-Dumas, Wilde-Conan Doyle, Joyce-Svevo, Chesterton-Belloc, Eliot-Pound, Fitzgerald-Hemingway, Orwell-Green, Tolkien-Lewis. Come si vede non si va oltre la metà circa del Novecento.

70 Per una rinascita dell’amicizia soddisfare il bisogno con le sole forze umane, percorrendo la strada della gnosi pneumatologica-religiosa o tecno-scientifica (quest’ultima è oggi maggioritaria). Insomma, c’è un’alternativa secca tra cui scegliere: possedere la coscienza di essere sempre ‘figli’, cioè sempre generati in gradi e modi diversi, e agire di conseguenza, lasciandosi amare; oppure negare e rifiutare ogni dipendenza ed affermare la propria autosufficienza nei termini dell’“autoctisi” (autogenerazione) e dell’“autopoiesi” (auto produzione) del proprio «io». Ma a questo punto è d’obbligo porre una domanda scomoda: se per ‘am icizia’ si intendesse, come è ovvio, lo scambio generativo tra due o più persone, pur nei semplici limiti di un piccolo aiuto temporaneo, sarebbe ancora possibile parlarne in un quadro autoerotico, nel quale saremmo ‘al-di-là dell’uomo’, così come l’abbiamo conosciuto nella tradizione umanistico-cristiana? Sembrerebbe di sì, qualora dessimo credito alle parole sopra citate di Nietzsche. E dunque, per comprendere se la cosa sia assurda o meno, occorre indagare perché e come abbia preso forma l’opzione anti umanistica e anti cristiana.

2. Cancellare Cristo per avere un volto nuovo: Cartesio e il progetto della secolarizzazione Secondo una tesi molto diffusa, il passaggio dal Medio Evo all’Età moderna dell’umanità europea presenta una forte analogia con quello del singolo uomo dall’infanzia all’età adulta10. Però, se così fosse, bisognerebbe ammettere anche l’esistenza del travaglio dell’adolescenza, età nella quale viene compiuta la scelta pro o contro il padre e Dio11. E forse questa è la ragione per cui, provandosi a “divenire adulti”, alcuni

10 Cfr. Ch. Perrault ritiene che noi siamo rispetto agli antichi come adulti rispetto ai bambini (Parallèle des anciens et des modernes, Paris 1688, i, pp. 43-50). E. Kant, e a seguire, mette in luce il passaggio dallo stato di natura allo stato di consapevolezza, l’uscita del singolo dalla prima fanciullezza, dalla «carrozzina da bambini» grazie all’Illuminismo (Risposta alla domanda “Che cosa è Illuminismo?”, in Scritti di storia politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 45). J. Maritain, Umanesimo integrale, trad. it. di G. Dore, Borla, Torino 1963, p. 70. 11 Cfr. H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, vol. V Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna, Jaca Book, Milano 1978, pp. 547-560; A. Vergote, Psicologia religiosa, trad. it. di N. Galli, Borla editore, Torino, 1997, p. 308; più in

71 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Europei optano per la fedeltà alla tradizione, mentre altri le volgono le spalle e si adoperano per costruire il regno dell’uomo senza o contro Dio e danno vita a quel fenomeno storico che va sotto il nome di ‘secolarizzazione’. Perciò la causa profonda della secolarizzazione consiste nella opzione teologica, e, di conseguenza, il disincanto (Entzauberung) del mondo prodotto dalla scienza12 ne è semplicemente uno degli effetti più eclatanti. Nietzsche, uno dei più acuti secolarizzati, concorda con questa interpretazione: il rifiuto del Dio cristiano non è frutto di una dimostrazione, ma di una opzione morale. Molto semplicemente nei nostri cuori è sorto il nuovo dio, l’Übermensch, che ha preso il posto del vecchio13. E con il Dio cristiano, ovviamente, è morto anche l’uomo cristiano14. «Il viso, che orrore!». «Il viso è Cristo. Il viso è l’Europeo tipo»15. Gilles Deleuze e Félix Guattari scolpiscono con queste parole in modo icastico quello stato spirituale, a cui Joseph Weiler16 ha dato il nome di «cristofobia», che conduce molti Europei a sperimentare un vero e proprio «obbrobrio di sé» che li induce a cancellare la propria storia e la propria identità. Ma, come si lascia l’antico amore solo quando sorge e si impone il nuovo, così accade per gli Europei che nutrono un dettaglio G. Colombo, At the Origin of Uneasiness, there is God?, in «Childhood and Society», Vol. 3, n. 1, 2007, pp. 113-136. 12 M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it. di A. Giolitti, Einaudi, Torino 1948, pp. 19 ss. 13 Con altri termini: noi siamo costretti a scegliere tra «Dioniso o il Crocifisso» (F. Nietzsche, Ecce Homo, trad. it. di R. Calasso, Adelphi, Milano 1970, Paganesimo, p. 385). 14 Nietzsche in tutta la sua opera sottolinea la tragicità di questo passo. In sintesi: se Dio è morto, egli afferma, o noi diventiamo Übermensch, o ne pagheremo fino in fondo le conseguenze: «Come troveremo pace, noi più assassini di ogni assassino?... La grandezza di questa cosa non è forse troppo grande per noi? Non dovremmo divenire Dèi noi stessi per esserne all’altezza?» (La gaia scienza, trad. it. Di F. Masini, nota di G. Colli, Adelphi, Milano 1967, Par. 125, p. 163. 15 G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987, Vol. I, p. 277. 16 Cfr. J.H. Weiler, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, BUR, Milano 2003. Approfondimenti in G. Weigel, La cattedrale e il cubo, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2006 e in M. Introvigne, Il dramma dell’Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro delle civiltà, Sugarco Edizioni, Milano 2006. Si cfr. anche il classico C. Dawson, Il dilemma moderno. Senza il cristianesimo l’Europa ha ancora un futuro? (1932), trad. it. Lindau, Torino 2012.

72 Per una rinascita dell’amicizia forte risentimento17 nei confronti di Cristo e lo abbandonano. Vediamo dunque come sorge all’orizzonte questo Nuovo Sole. Una chiave per comprendere questo dramma, che si scatena in casa cristiana, ci è offerta dalla filosofia moderna al suo debutto. Infatti, una interpretazione del cogito cartesiano, ben al di là della lettera e delle intenzioni del suo autore, svolge le conseguenze estreme di espressioni contenute nella Seconda Meditazione: «Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo». E, contestualmente alla posizione del dubbio iperbolico suscitato dall’ipotesi dell’esistenza di un “genio maligno”, si domanda: «Ma io, chi sono io...?». E si risponde: «[...] una cosa che pensa...»18. La “finzione” di non avere un corpo, prima che essere una forma di radicale spiritualismo, presuppone l’idea di un esistere indipendente da generazione e nascita. Perciò, in profondità, il nuovo corso viene inaugurato dal Cogito ergo sum al prezzo di insinuare l’idea di un essere ingenerato, che potrebbe anche giungere ad attribuirsi il nome stesso di Dio, Ego sum19. Ha così inizio quella che Heidegger chiamerà «metafisica della soggettività»20, ovvero il principio che ha retto la filosofia moderna e che Fichte ha condotto a compimento nella Dottrina della scienza (1794),

17 Categorica questa sentenza di Hannah Arendt: «The alternative to this resentment, which is the psychological basis of contemporary nihilism, would be a fundamental gratitude for the few elementary things that indeed are invariably given us, such as life itself, the existence of man and the world» (The Burden of our time, London 1941, p. 438. Cfr. M. Scheler, Il risentimento nella edificazione delle morali, a cura di A. Pupi, Vita e Pensiero, Milano 1975. 18 R. Descartes, Opere, Laterza, Bari, 1967, vol. I, pp. 205-208. «esaminando con attenzione quello che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse nessun mondo e nessun luogo dove io fossi; ma che non perciò potevo fingere di non esserci;... conobbi da questo di essere una sostanza di cui tutta l’essenza o la natura non è che di pensare, e che, per essere, non ha bisogno d’alcun luogo, e non dipende da nessuna cosa materiale» (Oeuvres ed. Adam et Tannery, Paris 1891-1912, III, p. 33, tr. it. di A. Tilgher, Discorso sul metodo e meditazioni filosofiche, Bari 1928, I, p. 32). 19 Es., 3, 14. In Cartesio, «res cogitans»: sbrigativa e non provata soppressione della distinzione tra sostanza-anima e facoltà-pensiero e loro identificazione. 20 M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1963, pp. 84 ss. Cfr. e. Levinas, Totalité et infini. essai sur l’exteriorité, Den Haag 1961; trad. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990; due i concetti fondamentali: 1) la critica all’egoità e 2) la tesi dell’intersoggettività.

73 Rinascite, rinascenze, rinascimenti con la tesi dell’originarietà dell’autocoscienza. Infatti, analogamente alla sostanza spinoziana, l’“egoità” (Ichheit) dipende unicamente dalla sua azione di autocostituzione solitaria, dalla sua libertà pura e inaccessibile. Il pensare, posto come originario, non dipende da altro da sé; e perciò il vero originario non è semplicemente il “pensare qualcosa”, ma il “pensare il pensare”: il “pensarsi”. Vi è quindi perfetta identità tra l’atto d’origine del pensiero e la sua autocostituzione, perfetta trasparenza e perfetta adeguazione della coscienza alla natura umana. La nuova identità umana si costituisce quindi come una sostanza autofondata: autoctisi, originaria facoltà di sintesi che riduce la multiforme realtà dell’Altro-altri e del mondo a ciò che di esso può venire ricondotto a idea, a cogitatio, a rappresentazione per un ‘soggetto’, e che legittima solo le prospettive di autoconservazione, affermazione e accrescimento della sfera di potenza e di dominio della soggettività vitale.

3. L’eterna fabbricazione sperimentale dell’Übermensch L’uomo ingenerato è dunque il nuovo amore, l’universale antropologico, che prenderà il posto di quello antico, Cristo e l’uomo cristiano. Si è formato nella mente di molti Europei, ma per divenire reale e percorrere vittoriosamente le vie del mondo deve annientare ogni residua e inquietante traccia del più grave difetto dell’umano: l’essere generato. Il bersaglio dell’attacco distruttivo sono la famiglia e la sua naturale e prorompente tendenza a procreare. Karl Marx scriveva: «dopo che si è scoperto che la famiglia terrena è il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima che deve essere dissolta teoricamente e praticamente»21. E la “pratica” comprenderà divorzio, emancipazione della donna, salute riproduttiva, eugenetica, contraccezione, aborto, eutanasia... Questa operazione è però insufficiente, perché demolisce la sovrastruttura culturale, ma non la struttura naturale del vecchio uomo, la sua anatomia finalizzata alla generazione. Bisogna quindi spingersi oltre e trarre con J-P. Sartre «tutte le conseguenze da una posizione atea coerente»22. E la fondamentale è la seguente: poiché Dio non esiste,

21 F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, trad. di Palmiro Togliatti, Editori Riuniti, Roma, 1972, Appendice: Tesi su Feuerbach (di Karl Marx) – Frammento del Feuerbach (1886), pp. 81-92. 22 «L’esistenzialismo non è altro che uno sforzo per dedurre tutte le conseguenze da una posizione atea coerente» (J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo (1946), a cura di Maurizio Schoepflin, Armando, Roma 2006, p. 79.

74 Per una rinascita dell’amicizia l’uomo non è creato con una natura determinata a priori; scrive Sartre: «l’esistenza precede l’essenza»23, ossia il soggetto si identifica con il suo stesso mutevole agire, come icasticamente aveva già scritto Nietzsche: «non esiste alcun “essere” al di sotto del fare, dell’agire, del divenire»24. “Non avrò altro dio che me stesso”: questo il nuovo comandamento dell’Übermensch, l’“al-di-là dell’uomo”, che passa dall’autoctisi all’autopoiesi come dominio di sé e del mondo. Si appropria infatti della potentia Dei absoluta, ma non di quella ordinata. Il suo volere e il suo agire sono regola e fine a se stessi: fabbricazione sperimentale del proprio io senza fine e senza un fine, che non sia l’accrescimento del proprio potere. Perciò, lucidamente e coerentemente, al punto culminante della concezione autopoietica dell’uomo, Donna Haraway, a es., cerca la soluzione finale del problema della vita nell’annientamento dell’ultimo potere rimasto a contrastare l’Übermensch: la “natura ‘naturale’ dell’uomo”, che è «sempre stata sacra nelle società occidentali»25, perché è giunto il tempo di “convertire il culturale in naturale”. Sorge così, secondo le parole di Antonin Artaud, il mondo «macchinico» che rende superflui l’uomo e la donna e la loro naturale sessualità atta a generare, perché d’ora in poi gli uomini saranno prodotti. «Non c’è più né uomo né natura, ma unicamente processo che produce l’uno nell’altra e accoppia le macchine»26. E – conseguenza capitale – Antonin Artaud conclude che il legame padre-madre-figlio verrà meno: «Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, e mio padre, e mia / madre, / e io; / sono colui che ha abolito il periplo idiota nel quale si ficca / l’atto del generare, / il periplo papà-mamma / e il bambino»27. Con le parole di Donna Haraway possiamo dire che finalmente è giunto il tempo del “cyborg” [organismo cibernetico], del «mondo senza genere, che forse è un mondo senza

23 Ivi, p. 46. 24 F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, nota introduttiva di M. Montinari, trad. it. Di F. Masini, Adelphi, Milano 1968, p. 34. 25 D. Haraway, Testimone – modesta @ femaleman – incontra – Oncotopo. Femminismo e tecnoscienza, trad. it. di M. Morganti, Feltrinelli, Milano 2000, p. 99. 26 A. Artaud, CsO: il corpo senz’organi, trad. it. a cura di M. Dotti, Mimesis, Milano 2003, pp. 44, 46. 27 Id., le Mômo, Ci-gît e altre poesie, trad. it. di E. Tadini, Einaudi, Torino 2003, p. 130. Idea già espressa da J.P. Sartre, Critica della ragion dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963: «Noi siamo i nostri propri figli; la nostra invenzione comune».

75 Rinascite, rinascenze, rinascimenti genesi, ma che forse è un mondo senza scopo»28. Si afferma così la produzione bioingenieristica dell’Übermensch, vagheggiata da Aldous Huxley29, ma non immaginata al di là del suo limite estremo.

4. Contraddizioni e impossibilità dell’amicizia nel quadro teorico dell’immanentismo assoluto Nietzsche aveva scritto: «dobbiamo noi stessi diventare dèi»30. Ma Nietzsche aveva smentito se stesso: «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica»31. Ma è possibile non credere alla grammatica?, cioè è possibile per l’uomo pronunciare soltanto parole vuote, alle quali non corrisponde alcuna realtà determinata (non c’è essenza, ma solo il fare...) e dunque parlare senza affermare il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto, cioè parlare senza alcun senso? La risposta è evidentemente negativa e dunque, per quanto estrema sia la fuga dal “Padre”, il legame generativo che lega il figlio al “Padre” non può mai essere cancellato, perché il “Padre” è causa costitutiva

28 D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, introduzione di R. Braidotti, Feltrinelli, Milano 1995, II ed. 1999, p. 41. «Il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica» (ivi, p. 45): non ha «una storia delle origini» e «non segue un calendario edipico» (ibidem). E retoricamente si chiede: «Cosa ci può essere di più naturale negli anni novanta di un traffico genetico, commerciale, familiare, biotecnologico e cinematico di dimensioni planetarie?» (Testimone – modesta @ femaleman..., cit., pp. 95-96). La risposta è ovviamente affermativa nella consapevolezza che «l’incrocio transgenico implica una seria sfida alla “sacralità della vita”» (ivi, p. 99). Difatti «i padri sono inessenziali» (Manifesto cyborg, cit., p. 42), ma – aggiungo – anche le madri: non sarebbe sufficiente infatti un utero artificiale come nella fabbrica degli uomini di Aldous Huxley? Ma non fermiamoci qui e inauguriamo il tempo degli ‘umanoidi’, dei ‘cyborg’, appunto. È però strano che, in epoca di confutazione della natura, questi siano pensati e realizzati in primo luogo per soddisfazioni... sessuali. Chissà cosa ne direbbe Pigmalione. E perché non produrre un ‘uomo chimera’, cioè un umanoide ibrido di genere umano e di genere animale (la specie è a scelta libera!)? 29 A. Huxley, Il mondo nuovo, trad. di L. Giglio e L. Bianciardi, Mondadori, Milano 1984. 30 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 12. 31 Id., Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello, Nota introduttiva di M. Montinari, trad. it. F. Masini, Adelphi, Milano 1983, p. 44: La “ragione” nella filosofia.

76 Per una rinascita dell’amicizia dell’identità del figlio32 e – per usare le parole di Kierkegaard – «è più forte di lui e lo costringe a essere quell’io ch’egli non vuol essere», cioè “cristiano”, e, di conseguenza, il figlio non è in grado di «sbarazzarsi di se stesso» e divenire «quell’io ch’egli stesso ha escogitato»33. Inoltre, la rinuncia a comprendere il contrasto tra la notte del nulla, in cui sprofondano inizio e fine dell’uomo, e il giorno della coscienza, con cui vengono pensati il vero e il falso, il bene e il male, genera l’assurdo. Perciò le divinizzazioni del finito possono in età postcristiana essere secolarizzate, ma non si può secolarizzare la nostalgia di Dio da cui sorgono, perché questa nostalgia è il cuore centrale dell’uomo e il punto sorgivo da cui sgorga il postulato di senso, in assoluto e anche per la storia orizzontale. Eppure irrazionalmente e caparbiamente si persevera nell’impresa di divenire dio, pur sapendo, come scrive Sartre, che l’impresa è impossibile: «Noi corriamo verso di noi e siamo, per questo, l’essere che non può mai raggiungersi»34. Tra l’altro, senza padre (celeste e terreno), questi “déi orfani” cessano di essere fratelli e tuttavia, loro malgrado, sono condannati a vivere con i loro simili che, di fatto, limitano il loro potere, smascherando la loro finitezza mortale. «L’enfer, c’est les autres»35, scrive Sartre, e ha ragione, perché lo sguardo con cui si rapportano è quello del «furto reciproco», dell’espropriazione e della riduzione a oggetto-cosa36. L’esasperato egoismo narcisista diventa perciò, da semplice vizio morale, una necessità ontologica per la conservazione e affermazione della loro presunta aseità. Così, non solo l’ego non ha bisogno di ricevere, ma soprattutto, chiuso com’è in se stesso, è anche impotente a ricevere e quindi sazia il suo insaziabile desiderio con la sola propria potenza (che è pur

32 Scrivo “Padre”, perché mi riferisco a Dio Padre che è appunto causa costitutiva del figlio; analogicamente il rapporto vale anche per l’uomo padre e il figlio, dove però il padre è solo e semplicemente causa istitutiva del figlio. 33 S. Kierkegaard, La malattia mortale, in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (Al) 1995, Vol. III, pp. 29-30. La tesi del rapporto Padre-figlio è mia; Kierkegaard non tratta del legame generativo in questo luogo. 34 J.P. Sartre, L’étre et le néant, Paris, Gallimard, 1943, p. 253; trad. it. di G. Del Bo, Milano, Mondadori, 1968 (2), p. 262. 35 Id., Le mosche – Porta chiusa (1947), Bompiani, Milano 1947 e 1995. 36 Id., Critica della ragion dialettica, cit., vol. I, p. 229.

77 Rinascite, rinascenze, rinascimenti sempre finita e dunque fallibile). Infatti “l’essere amati” e, ancor più, “il volere essere amati” non godono del favore dei massimi esponenti della cultura secolarizzata. A sostegno di questa tesi Josef Pieper porta due illustri esempi. Il primo è quello di Nietzsche che «ha visto nel voler essere amati “la più grande di tutte le presunzioni”»37; il secondo, più articolato, è quello di Freud, per il quale il “volere essere amati” è una pia illusione. Infatti, quando Freud esamina la «parte dell’amore nella formazione della coscienza»38, definisce il male come qualcosa «per cui si è minacciati della perdita dell’amore»39. In ogni senso di colpa, egli sostiene, «è in gioco la paura della perdita dell’amore»40, ossia la paura «di non essere più amati da questa somma potenza»41, il «mitico padre dei tempi passati»42, la cui proiezione nella coscienza collettiva e individuale per mezzo del complesso di Edipo produce come «Super- io» angoscia e senso di colpa. Ora – scrive Pieper – Freud ritiene che ci si debba e ci si possa liberare da questa illusione irrazionale e dannosa mediante l’analisi e una presa di coscienza. Tuttavia, osserva Clive Staples Lewis, coloro che tentano di sopprimere l’“amore bisogno” «raramente posseggono le doti dell’autentico altruista» e «l’esserne del tutto privi è un marchio che di solito contraddistingue il freddo egoista». Infatti, «dal momento che il nostro bisogno degli altri è reale (“Non è bene che l’uomo sia solo”43), il venir meno, nella nostra coscienza, del senso di questo bisogno che si esprime attraverso “amore bisogno” – in altre parole, la convinzione, ingannevole, che sia bene per noi stare da soli – è un brutto sintomo spirituale, proprio come l’inappetenza è un cattivo sintomo sotto il profilo medico, perché l’uomo ha veramente bisogno del cibo»44.

37 J. Pieper, Uber die Liebe, Kòsel Verlag, Mùnchen 1972; tr. it. Sull’amore, a cura di Giovanni Santambrogio, Morcelliana, Brescia 2012 (I ed. 1974), p. 73. F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches I, n. 523. Stessa opinione sull’essere amati in E. Fromm, The Art of Loving, New York 1952, tr. it. L’arte di amare, Mondadori, Milano 1991, p. 13. 38 Le cit. di Freud sono tratte da J. Pieper, op. cit., p. 74 e sono riferite a S. Freud, Gesammelte Werke XIV, qui p. 492. 39 Id., op. cit., p. 484. 40 Ivi, p. 487. 41 Ivi, p. 486. 42 Ivi, pp. 489s. 43 Gn 2, 18 (nota mia). 44 C.S. Lewis, The four Loves, 1960, I quattro amori, Jaca Book, Milano 1982, p. 13.

78 Per una rinascita dell’amicizia

Siamo ora in grado di rispondere con cognizione di causa alla domanda posta al termine del Par. 1: se per ‘amicizia’ si intendesse lo scambio generativo tra due o più persone, pur nei semplici limiti di un piccolo aiuto temporaneo, sarebbe ancora possibile parlarne in un quadro autoerotico, nel quale saremmo ‘al-di-là dell’uomo’, così come l’abbiamo conosciuto nella tradizione umanistico-cristiana? No, non è assolutamente possibile, perché abbiamo a che fare con monadi ingenerate e incomunicanti: “Übermensch” e “amico” sono termini contraddittori. Si badi: non è possibile se si fosse coerenti con il sistema teorico immanentistico-nichilista, ma lo è, magari confusamente, quando sorge una ‘felice contraddizione’ con il sistema, ovvero a parole si afferma l’aseità o la producibilità macchinica dell’Übermensch, ma nei fatti, esistenzialmente, si agisce sulla base di un retro-pensiero che è ancora umanistico-cristiano. Per essere e avere amici bisogna infatti essere capaci di donazione e di accoglienza: di essere a immagine del Dio uno e trino, tre persone in reciproco ed eterno scambio d’amore.

5. Della relazione fiduciale generativa: la via eteroerotica Per non incorrere nell’insensata e ridicola pretesa del barone di Münchhausen, che volle uscire dal fango in cui era immerso prendendosi per i capelli, è dunque necessario non solo confutare la cultura che rende impossibile l’amicizia, ma anche individuare l’humus in cui possa attecchire e giungere a perfezione. E, a questo scopo, non è sufficiente tracciare una casistica dell’amicizia, assumendo come metro di misura la ‘convenienza’ tra amici, e quindi la consonanza, la concordanza, la confidenza, spregevoli o nobili che siano. Infatti, se ci limitassimo a questa operazione, resteremmo sul piano fenomenologico dell’utile di fatto, del qui e ora che è effimero e che può essere contraddetto. Perciò non la convenienza, ma la ‘consistenza’ dell’amicizia è ciò che innanzitutto ci deve interessare (la qual cosa non esclude affatto che l’amicizia sia pure qualcosa di molto conveniente!). Cerchiamo dunque l’humus nel quale può attecchire l’amicizia in quella via che abbiamo denominato ‘eteroerotica’, e lo facciamo molto sinteticamente. La mia tesi è la seguente: tutto ha inizio con il concepimento e l’inizio permane nell’essenza del soggetto. Per questo motivo ogni uomo è dato a se stesso nell’“essere messo al mondo da altri” ed è perciò posto strutturalmente e permanentemente nella condizione di “figlio”, perché

79 Rinascite, rinascenze, rinascimenti sempre, in modi e in gradi diversi, è generato da altri. La dimenticanza/ rimozione di questa elementare e densa verità ha avuto nel moderno e ha nel postmoderno conseguenze catastrofiche, quali la riduzione della vita alla produzione, all’artificio, al possesso (nell’ambito familiare dei rapporti, nella nascita e nella morte, nell’educazione e nella politica...). È quindi necessario, per rinnovare l’orizzonte dell’umano, riconsiderare il paradigma dell’identità e della relazione. Il luogo ontologico originario di questo avvenimento è la «relazione fiduciale generativa»45, termine con cui indico non un accadimento occasionale, ma uno “stato”, una disposizione perenne e intima della natura umana, che costituisce non solo la condizione ineludibile ma anche il desiderio strutturale, senza cui non potrebbero nascere e giungere a perfezione i singoli e la loro esperienza integrale, in quanto esperienza umana. Questa “relazione” è perciò stabile e dinamica al tempo stesso, perché forma l’identità umana nel concreto farsi della sua storia. Inoltre, specificando la relazione generativa con il termine “fiduciale”, intendo affermare che ci troviamo di fronte non a una semplice produzione biopsichica di individui umani, ma appunto alla generazione specificamente umana che, in quanto tale, non può avvenire al di fuori del mutuo affidamento dei soggetti in gioco, ossia al di fuori di uno “stato di fede”, dove il termine fede indica non solo l’atto e il contenuto di una credenza, ma anche il legame, il vincolo che lega i soggetti e che rende possibile il riconoscimento reciproco. Infatti fede, in senso proprio, indica 1) il circolo ontologico-esperienziale, che viene costituito esclusivamente da soggetti autocoscienti in rapporto diretto di «tu» e «io», e 2) l’atto di fiducia generativa che essi vicendevolmente si scambiano e che nel rapporto accresce i soggetti e il rapporto stesso. Così, il circolo fiduciale generativo ha origine nel «tu» che per pura grazia (è libero) si fa presente e si rivela in parole e azioni e dona-propone il “fatto-verità”, che muove il donatario ad assumere a sua volta in modo cosciente e libero una decisione pro o contro il fatto stesso, e si compie solo nel caso di una risposta positiva donata liberamente dall’«io» al «tu». Perciò la “relazione fiduciale generativa”, intesa come l’esistenziale costitutivo della persona, non è un momento particolare dell’esperienza,

45 Su questo tema rinvio ai miei Generative Fiduciality and Experience, in Understanding Human Experience. Reason and Faith (F. Botturi ed.), Peter Lang, Bern 2012, pp. 143-162; e Se per nascita fossimo legati, in «Teoria», XXXV, 2015/2 (Terza serie X/2), Edizioni ETS, Pisa 2016, pp. 205-216.

80 Per una rinascita dell’amicizia ma è la condizione di possibilità dell’esperienza stessa, perché è il luogo antropologico imprescindibile dell’esercizio della ragione e della volontà. Più questo luogo è perfetto, più l’uomo ha possibilità di realizzarsi; più è pervertito, più queste possibilità scemano; e tuttavia non può mai essere tolto del tutto, perché si toglierebbe l’uomo stesso. È dunque la fiducialità, momento qualificante la relazione generativa umana, a fondare l’esperienza, e non viceversa (pur appartenendo all’esperienza atti non solo di fede). È dunque mia ferma convinzione che la relazionalità non è ridotta/deformata solo e unicamente nel caso in cui il “generativo” sia essenzialmente specificato dalla “fiducialità”. Questa elementare e densa verità è stata dimenticata, trascurata e occultata nel moderno e nel post-moderno. Per molti autori il rapporto soggetto-Altro/altri-mondo andava fondato nell’autorelazione e nella relazione di obiettivazione reciproca: regola alla quale nel Novecento (nonostante le critiche costruttive di Fichte, Hegel e Kierkegaard) non sfuggono Sartre e, paradossalmente, neppure Husserl ed Heidegger che raggiungono l’intersoggettività mediante il convenire in un oggetto (gnoseologico per il primo, ontico-pratico per il secondo46). Per alcuni contemporanei, invece, l’eterorelazione sta a fondamento dell’autorelazione (M. Buber, E. Levinas47, F. Jacques ed H.P. Grice, Ch. Taylor, A. Honneth, J-L. Marion). Ma le loro tesi, pur differenti nella lettura del vincolo intersoggettivo, sono parziali, perché si fermano alla considerazione del vincolo ineludibile “a posteriori”, per così dire, e non colgono, se non episodicamente, il momento genetico della relazione che, per il singolo, costituisce la conditio sine qua non, tanto gratuita quanto necessaria, del suo “venire al mondo” e del suo “essere attivato in umanità”, come evento, insieme e indissolubilmente, naturale e

46 La critica di Levinas a Heidegger: «Le cose non sono, come pensa Heidegger, il fondamento del luogo, la quintessenza di tutte le relazioni che costituiscono la nostra presenza nel mondo [...]. Il fatto ultimo è il rapporto dell’ego con l’altro, e cioè della mia accoglienza dell’altro: qui le cose non si manifestano come ciò che viene costruito, ma come ciò che viene donato» (E. Levinas, Totalité et infini, p. 49). 47 Primato del rapporto interpersonale in Martin Buber (M. Buber, Ich und Du (1923), in M. Buber, Il Principio dialogico, a cura di Andrea Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993. Levinas trasferisce, per così dire, dal livello interpersonale ‘intimo’, prevalente in M. Buber e G. Marcel, a un livello oggettivo, metafisico ed etico, l’“epifania del volto”: «sguardo dello straniero, della vedova e dell’orfano, sguardo che non posso riconoscere in altro modo che nel dono o nel rifiuto» (E. Levinas, op. cit., p. 49).

81 Rinascite, rinascenze, rinascimenti culturale, perciò storico e politico, irriducibile e insuperabile, unico e assoluto, fonte di senso per l’intero esistere umano. E in questa direzione vanno, ad es., la tesi di P. Ricoeur sull’identità narrativa48 e quella di H. Arendt sulla nascita49. Tuttavia sono convinto che la lettura generativa non riduca/deformi la relazionalità, solo e unicamente nel caso in cui il “generativo” sia essenzialmente specificato dalla “fiducialità”, intesa innanzitutto in senso antropologico tra due persone e poi anche in senso teologico tra l’uomo e Dio. Non c’è altra via data all’uomo per conoscere e rapportarsi al cuore dell’uomo. Se ne può avere scienza come oggetto (e fino a un certo punto), ma come soggetto no: il cuore è noto solo a Dio e un poco al soggetto, ma è ignoto a tutti gli altri, a meno che – nel circolo fiduciale – il soggetto non lo riveli a un altro soggetto e questi non lo creda, non lo accolga e non gli si affidi: «nemo nisi per amicitiam conoscitur»50, poiché «non intratur in veritatem, nisi per caritatem»51.

6. Un bel sogno d’amore, di Dio e dell’uomo Procedo ora verso la conclusione in rapida sintesi, quasi scolpendo rozzamente le tappe del discorso. La famiglia è il nome della prima e fondamentale concrezione storica della relazione fiduciale generativa, che si sostanzia a opera di tre soggetti: sposo/padre-sposa/madre, figlio e Dio.

48 Cfr. P. Ricoeur, Soi-méme comme un autre, Seuil, Paris 1990, trad. it. Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993. 49 Nascita non in senso naturalistico, vita frozen, passibile di riduzionismi artificiali, in cui la vita diviene oggetto di manipolazione e programmazione; cfr. H. Arendt, The Human Condition (1958 The University of Chicago, USA), tr. it. Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1998, pp. 220 ss). Alterazione contraddittoria e falsificante ante litteram della tesi harentiana in J.P. Sartre, Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti, (1940), trad. it., Christian Marinotti, Milano 2004, pp. 29-30: «Non faremo più bambini», proclama il protagonista di questo lavoro teatrale, cioè non-nascita come forma di rivolta politica anti romana di un Giudeo. Anche E. Levinas ha toccato il tema della fecondità, ma poi lo ha accantonato, imprimendo al concetto di relazione una piega unilaterale (cfr. E. Bonan, Emmanuel Lévinas e l’intersoggettività mancata, Vita e pensiero, Milano 2002). 50 Agostino, De div. Quaest., 83, 71, 5. 51 Id., Contra Faustum, Lib. 32, cap. 18.

82 Per una rinascita dell’amicizia

In casa cristiana gli uomini, quando si guardano allo specchio, vedono il modello del quale sono l’immagine: vedono Gesù Cristo che li chiama a divenire «figli di Dio», «generati» dallo stesso dio52. Scende così dall’alto una luce teologica che illumina a giorno la scena della nostra storia e fa conoscere, in modo chiaro e distinto, l’importanza capitale della “generazione” per la definizione dell’intero antropologico. Infatti come la relazione trinitaria è una relazione generativa, così analogamente lo è la relazione sposo/padre-sposa/madre-figlio. Ma chi sono sposo/padre-sposa/madre? Già la scrittura manifesta una cosa paradossale: la congiunzione dell’unità e della dualità. Così nel principio narrato nella Bibbia: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»53. Dunque sposo/padre-sposa/madre nella loro natura profonda, inestirpabile, partecipano della stessa sostanza: sono l’umano per eccellenza, “uno e indivisibile”; del resto, nell’antico aramaico della Bibbia, il nome che designa l’uomo e la donna54 porta lo stigma della stessa radice, indicante la stessa realtà: ish e isshah. E, sempre per eccellenza, inestricabilmente i due, il maschio e la femmina, congiunti 1) dal “desiderio dell’altro desiderio”, cioè dalla tendenza naturale al bene, che è propria di tutti i viventi, ma qualificata dallo spirito e quindi tendenza all’altro soggetto, che è appunto un bene al tempo stesso oggetto e soggetto di desiderio; 2) dalla tendenza sessuale, che non è assimilabile all’istinto animale, perché “il corpo è nell’anima, e non viceversa”55, e dunque anche la sessualità umana riceve la sua natura specifica dall’essere dell’anima che è desiderio del bene dell’altro nella sua concreta unità come un secondo sé, cioè dell’altra autocoscienza. In principio, quindi, nella natura dell’umano uno e duale è inscritta, non accidentalmente ma essenzialmente nel sinolo anima e corpo sessuato, la generatività. Il «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”»56, va perciò letto non come un comando arbitrario giustapposto ab extra e aggiunto a posteriori, ma appunto come una

52 Gv 1, 12-13. Cfr. II Pt 1,2-7: «partecipi della natura divina». 53 Gn 1, 27. 54 Lo si ricordi: “donna” deriva dal latino “domina”, femminile di “dominus”, e significa quindi “signora”. 55 Aristotele, De anima, 1. II, 412a 19-21. 56 Gn 1, 28.

83 Rinascite, rinascenze, rinascimenti benedizione e come un caloroso incitamento ad essere fino in fondo se stessi: felici moltiplicatori di quel bene che è l’uomo. Ora, e il rilievo è di importanza capitale anche per la questione ‘amicizia’: i due divengono uno, ma non nel medesimo modo con cui il singolo lo è con se stesso, perché l’amore presuppone la persistenza dei due, tanto che di esso si può affermare che sia unione che distingue e anzi esalta le identità. Solo nell’amore l’uomo e la donna prendono piena coscienza della loro mascolinità e femminilità. Insomma, per unirsi è necessario rimanere due nell’unione, che conferma e accresce continuamente la loro specificità e la loro stessa relazione: un insieme vivo e fecondo che genera figli, genera società/civiltà, e si scopre relazione a Dio. Il “nostro amore”, dicono gli amanti, e con ciò indicano qualcosa che è, simultaneamente, 1) loro frutto, 2) loro legame, 3) realtà che li trascende e abbraccia: così anche per coloro che non conoscono il Dio. Per questo, non del tutto erroneamente, il romanticismo ha inteso la relazione d’amore come ‘divina’: chi ama non mente quando afferma ‘il nostro amore è per sempre’! Con buona pace di Nietzsche, che conosceva solo l’uso del sesso, erroneamente idealizzato57, di tutte le relazioni d’amore quella uomo- donna è dunque la più perfetta e la più profonda, ed è paradigma di tutte le altre relazioni d’amore: compresa quella padre-madre e figlio, il quale impara a divenire uomo soltanto quando viene ‘imbevuto’ nel loro amore. E il paradigma ha il carattere della forza unitiva e concretiva che scaturisce dall’anima e dal corpo, dalla luce della ragione e dalla potenza della libertà, dalla passione del desiderio e dei sensi; forza quindi originata dall’intero dell’umano e perciò, data la relazione costitutiva dell’uomo a Dio, da Dio stesso, che entra nell’intima natura della relazione. Tanto universale è l’origine di questa forza, quanto lo è la sua efficacia: in modi e gradi diversi, essa abbraccia l’intera esistenza, coinvolgendo nel suo dispiegarsi uomini e cose. Nell’amore uomo- donna, insomma, l’eros come “amore bisogno” e l’agape come “amore dono” sono uniti nella loro sorgente. Chi ama desidera essere riamato. E chi ama ha cura dell’altro e di se stesso, ed ha contemporaneamente cura della loro relazione, ‘relata a Dio’58.

57 Cfr. sopra il par. 1 il primo motivo secondo Nietzsche dell’oblio dell’amicizia in età moderna. 58 Si cfr. G. Colombo, Trittico nuziale. Legami d’amore per un disegno di civiltà: I. Romeo e Giulietta, gli sposi di Verona, Vita e pensiero, Milano 2020. A questo primo

84 Per una rinascita dell’amicizia

E questa relazione ontologicamente generativa è la famiglia fondata dal matrimonio. Orbene, è in famiglia e nella relazione tra famiglie che sorge l’amicizia. E ‘amicizia’ è termine analogico: lo si predica in parte in modo uguale e in parte in modo diverso di più soggetti. Così, innanzitutto non vi è legame sposo-sposa che possa sanamente costituirsi senza il concorso dei tre fattori presenti nel Cantico dei cantici: fratello/sorella, amico/amica, sposo/sposa59: – Fratello/sorella: mai l’uomo e la donna raggiungeranno l’unità se questa non fosse data come primizia e germe fin dal principio (si cfr. sopra l’inizio del paragrafo). Infatti unire gli assolutamente eterogenei equivale a distruggerli. – Amico/amica: indica il legame che si crea per affinità elettiva sotto la luce del giudizio e la forza della libertà. – Sposo/sposa: è il compimento più alto dell’unione tra persone, perché abbraccia i precedenti, li trasfigura e li innalza all’ineffabile: il grande amore è sempre silenzioso e al tempo stesso fecondo. Analogamente si può dire delle amicizie che si creano all’interno della famiglia tra pade-madre e figli/figlie, ovvero tra le generazioni, e tra le famiglie in virtù di vincoli matrimoniali, di vicinato, di appartenenza religiosa e civile. Ora, la cifra che distingue l’amore d’uso dell’amico dall’amore sincero e reciproco (le cui fondamenta, lo ricordo, sono date dalla ‘relazione fiduciale generativa’) è bene espressa nelle seguenti parole di Gesù: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi»60. Ovvero il servo non solo ‘serve’ al soggetto per raggiungere un determinato scopo, ma non è nemmeno messo a parte del segreto del cuore del suo padrone. Con l’amico, invece, non ci si rapporta come a uno strumento, ma come al fine, al valore supremo: lo si ama come si ama se stessi; e, poiché l’atto dell’amore è specificato dall’oggetto amato, volume del Trittico seguiranno quelli dedicati a I promessi sposi di A. Manzoni e a L’osteria volante di G.K. Chesterton. 59 Nel Cantico ‘fratello’ ricorre una sola volta («Oh se tu fossi un mio fratello, allattato al seno di mia madre!» CC 8, 1); ‘Sorella’ sette volte, ‘amica’ otto volte, ‘sposa’ sei volte. E lei lo chiama per ben trentun volte ‘diletto’, cioè amato. ‘Amata’ ricorre invece quattro volte... 60 Gv 12, 15.

85 Rinascite, rinascenze, rinascimenti ecco che l’amico partecipa del ‘mio tesoro’: «tutto ciò che ho udito dal Padre, l’ho fatto conoscere a voi». Insomma, come l’Unigenito, così anche gli amici sono divenuti ‘figli’ del Padre e perciò fratelli/sorelle: A quanti però l’hanno accolto, / ha dato potere di diventare figli di Dio: / a quelli che credono nel suo nome, / i quali non da sangue, /né da volere di carne, / né da vo lere di uomo, / ma da Dio sono stati generati61. Per questo motivo l’amicizia, la vera amicizia, ha molto a che fare con la sponsalità autentica: o tutto, o niente. E la riprova è questa: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici»62. E Gesù Cristo è lo ‘sposo’ per eccellenza. Questo è il vertice dell’amicizia; tutte le altre amicizie lo sono per analogia di partecipazione: dell’infanzia e della giovinezza, tra letterati e compagni di lavoro, ecc.; tutte lo sono in gradi e modi diversi. In conclusione, si può discettare all’infinito dell’amicizia e crogiolarsi nell’età dell’oro o sognare un futuro radioso, ma perché sorga l’amicizia occorrono due cose fondamentali: avere idee chiare sull’humus che le permette di attecchire, germinare e crescere, e avere una incrollabile volontà di creare famiglie. Nella società liquida delle monadi non ci sarà mai terreno fertile per l’amicizia, che è, lo ricordo, una declinazione dell’amore... fino alla donazione della propria vita all’amato/amata.

61 Gv 1, 12-13. 62 Gv 12, 13.

86 Rinascite, rinascenze, rinascimenti. Le alterne fortune medievistiche di un lessico storiografico

NICOLANGELO D’ACUNTO

Although he drew heavily on Sismondi’s reconstruction of Italian history, Burckhardt rejected the negative evaluation of the fi fteenth and sixteenth centuries, in which he placed his Renaissance. The success of this new in- terpretative model at the end of the nineteenth century led many historians to fi nd the antecedents of the Renaissance in the Middle Ages. This process of “modernization” of the Middle Ages continued in the twentieth century as part of the so-called “revolt of the medievalists”, which came to a halt in the 1980s coinciding with the affi rmation of postmodernism.

In memoria di Giles Constable († 17.1.2021)

Nelle pagine che seguono vorremmo dedicare qualche cursoria osser- vazione alla fortuna delle categorie indicate nel cartellino che segnala il presente contributo con riguardo alla loro ricezione da parte della storiografia medievistica. In particolare la nozione di Rinascimento ha esercitato una funzione periodizzante anche per gli studiosi dei secoli precedenti, i quali hanno sentito vivissima l’esigenza di verificare se ed eventualmente in quale misura pure nel medioevo fosse possibile rin- venire i tratti di quel risveglio della civiltà che a partire dall’Ottocento era stato individuato come il tratto distintivo appunto del Rinascimento come inizio della modernità. Il dibattito storiografico su quest’ultima categoria s’incrociava variamente con quella polemica sul medioevo che almeno dall’età dei Lumi aveva innervato di sé la cultura non solo storica dell’Europa.

87 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

La figura e l’opera di Sismondi1, cittadino svizzero di origini toscane, alla cui – almeno quantitativamente – grandissima Histoire des républi- ques italiennes (1807-18), attinsero a piene mani un po’ tutti gli storici nostrani, hanno un ruolo centrale nella storia della storiografia italiana e nella definizione di alcune caratteristiche fondamentali della civiltà italiana nel passaggio dal medioevo all’età moderna. L’ispirazione poli- tica dell’opera sismondiana è tutta nella conclusione di un suo volume di sintesi di storia italiana, laddove il ginevrino afferma che «l’Europa non avrà posa se non quando il popolo che nel Medio evo accese la fiaccola dell’incivilimento in una a quella delle libertà, potrà godere anch’esso della luce ch’esso ha data»2. Condizione necessaria per la pace europea è dunque la fine del travaglio che attanaglia l’Italia «in- sultata da coloro a’ quali ha dischiuso le carriere di tutti i progressi»3. Gli italiani – cosa particolarmente interessante in questa sede – avreb- bero conseguito tale loro primato morale e civile, per dirla alla Giober- ti, proprio nel medioevo4. Sismondi accomuna alle «nazioni libere che preferiscono ad ogni altro il governo federativo»5, gli Italici, anch’essi «federativi», che lottarono contro il lusso e la cupidigia degli antichi Romani. Roma imperiale è sinonimo di decadenza, mentre la rinascita si ha con le città italiane del medioevo che tramandano la cultura an- tica all’Europa. Infatti l’Italia medievale è un «semenzaio di nazioni. Ogni sua città fu un popolo libero e repubblicano»6. Sismondi scrive la storia generale di queste repubbliche, fiorite mentre le altre nazioni vivevano nella più crassa barbarie. Culla delle lettere, della scienza e dell’architettura, le repubbliche italiane perseguirono la vera felicità, che consiste nell’educazione dello spirito, fino a quando non sfociaro- no nel regime signorile e nel principato, forme degenerate di stato che

1 Cfr. F. Chabod, Gli studi di storia del Rinascimento, in C. Antoni – R. Mat- tioli (a cura di), 50 anni di vita intellettuale italiana (1896-1946). Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, vol. 1, Napoli s.a., pp. 148-151. 2 I.C.L. Sismondi, Storia del risorgimento, dei progressi, del decadimento e della rovina delle libertà in Italia, trad. it., Torino 1853, p. 366. 3 Ibidem. 4 Insiste sulla matrice voltairiana di questa sottolineatura della grandezza culturale dei Comuni G. Fasoli, Problemi medievali nella storiografia risorgimentale, Bologna 1961, p. 658, nota 23. Si veda pure L. Gatto, Medioevo voltairiano, Roma 1973. 5 J.C.L. Sismondi, Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, trad. it., vol. 1, Capolago 1831, p. 3. 6 Sismondi, Storia delle repubbliche italiane, vol. 1, p. 8.

88 Rinascite, rinascenze, rinascimenti. Le alterne fortune medievistiche di un lessico storiografi co determinarono l’avvento della dominazione straniera sulla penisola. La crisi delle libertà cittadine, secondo Sismondi, compromise pure l’indipendenza degli italiani. Nelle Républiques si trova quindi una chiara svalutazione di quello che per noi è il Rinascimento, laddove l’Italia comunale viene considerata come la culla della civiltà euro- pea. Infatti l’età delle signorie e dei principati viene dipinta all’insegna della degenerazione istituzionale, causa e frutto delle lotte intestine e della perdita della libertà italiana. Per Sismondi il vero rinascimento d’Italia coincide con l’età comunale. Tale schema di interpretazione godrà di ampia fortuna nella cultura non solo storiografica dell’Italia nell’Ottocento. Si pensi, per esempio a quanto riflettano tale program- matica sottovalutazione del Rinascimento le pagine che Francesco De Sanctis dedica al Cinquecento nella Storia della letteratura italiana, il cui primo volume fu pubblicato nel 18707. La perdurante fortuna di questo schema nella cultura italiana si deve in primo luogo al fatto che Sismondi costituisse il primo deposito affidabile di informazioni e di materiali critici utili per scrivere la storia dell’Italia nei secoli XII-XVI. La sua Histoire è per questo il manuale di riferimento di tutti gli storici italiani dell’Ottocento, a dispetto del fatto che già nel 1839-40 si fosse avuta la prima epifania del termine Renaissance nella Histoire litteraire de la France avant le XII siècle di Jean Jacques Antoine Ampère. Questi distingueva tre Renaissances: quella carolingia conseguente alla forma- zione dell’impero; quella dell’XI-XII secolo legata alle crociate e quella del Cinquecento legata alla Riforma protestante. Risale invece al 1855 il volume della Histoire de France in cui Jules Michelet estese l’uso di questo lemma all’ambito propriamente storiografico riferendolo solo al periodo che noi chiamiamo Rinascimento8. La relativamente rapida diffusione di queste opere nulla poté con- tro la pervasività dell’interpretazione di Sismondi. In un’ottica ancora parzialmente sismondiana si muoveva appunto Gian Domenico Ro- magnosi, che nel trattato Dell’indole dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia (1829) vedeva proprio nella ci- viltà comunale un grado di incivilimento tale da non avere termini di paragone significativi in tutta la storia d’Italia. Per Romagnosi l’incivili- mento dell’Italia si realizzò proprio nei municipi del X, XI e XII secolo e aveva risvolti non solo culturali, ma coinvolgeva anche tutte le altre

7 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli 1870. 8 Cfr. L. Perini, Presentazione, in J. Michelet, Il Rinascimento, Firenze 2016.

89 Rinascite, rinascenze, rinascimenti componenti sociali, politiche ed economiche della civiltà comunale: «Indi il genio dell’Italia rivendica dalle mani degli Arabi, ricompra dal- la Grecia, dissotterra dalle ruine, richiede dal clero depositario, i mo- numenti delle scienze, delle arti, del gusto. Si raccolgono, si raccapez- zano i frammenti, si studiano i modelli superstiti: tutto è movimento, crisi, innovazione. Le città libere ed i piccoli tiranni medesimi … tanto più bisognosi di danaro e di opinione, quanto più mancano di territorio e di forze, invitano e favoriscono i mercanti, colmano d’onori, di premj e si rubano quasi a gara di dotti di ogni sfera»9. Il tutto avveniva in un contesto che non giovava soltanto all’Italia ma all’Europa intera: «Lo sviluppamento suo sta intieramente in tutta la moderna europea civiltà [...] non si tratta più di ordinare e di incivilire un popolo in particolare, ma di migliorare le parti di tutta l’europea famiglia»10. Insomma, se non sapessimo che Romagnosi sta parlando del X-XIII secolo, penseremmo che si stia riferendo al Rinascimento come lo intendiamo noi. Perdu- rava in lui la diffidenza per le forme di potere tardomedievali, che gli appaiono violente e per questo non in grado di conservare i frutti del precedente Rinascimento comunale. Come già Sismondi, anch’egli è colpito con «gli annalisti italiani dall’orrido aspetto dei misfatti, delle perfidie e delle atrocità che infamarono cotanto le signorie italiane nel XIV e XV secolo» e deplora la mancanza «di un potere politico che fosse abbastanza forte per proteggere quell’ordine civile che era dalle leggi stabilito, ordinato, disciplinato, insegnato e professato»11. Anche in uno dei padri della medievistica italiana come Pasquale Villari resta immutato il peso dell’ispirazione sismondiana, come cer- tifica la giovanile Introduzione alla storia d’Italia dal cominciamento delle repubbliche del medioevo fino alla riforma del Savonarola12. Come Sismondi, così anche Villari elabora «un’idea di Italia che si alimen- ta all’esperienza centrale e fondamentale dei Comuni e delle libere repubbliche comunali»13, che lo storico napoletano paragona alla Ri- voluzione Francese: «Il Comune si può dire l’essenza della civiltà del

9 Cito per comodità da G.D. Romagnosi, Dell’indole dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia, Firenze 1832, p. 168. 10 Ivi, p. 171. 11 Ivi, p. 203. 12 P. Villari, Introduzione alla storia d’Italia dal cominciamento delle repubbli- che del medioevo fino alla riforma del Savonarola, in appendice a «Il Nazionale», nn. 257-260, 15-18 nov. 1849. 13 Cfr. G. Spadolini, La Firenze di Pasquale Villari, Firenze 1990, pp. 3-14: 6.

90 Rinascite, rinascenze, rinascimenti. Le alterne fortune medievistiche di un lessico storiografi co

Medio Evo il germe della moderna: esso ha sviluppato il sentimento individuale e la libertà sociale che ora è diventata la base della libertà politica»14. Il riferimento allo sviluppo del «sentimento individuale» non può che riportarci a uno dei capisaldi della costruzione dell’immagine del Rinascimento elaborata da Jakob Burckhardt, il quale per i dati esteriori attinge a Sismondi per La civiltà del Rinascimento in Italia, pubblicato nel 1860. Questo classico della storiografica contribuì in misura decisiva alla creazione del mito secondo il quale nell’Italia del Quattro-Cinquecento sarebbe nato l’uomo moderno, incarnato da per- sonalità rarissime ed eccezionali come Leon Battista Alberti e Loren- zo il Magnifico, prototipi dell’“uomo universale” perché versatili ed eccellenti nelle arti e nella politica. Negli umanisti italiani si risvegliò infatti «il sentimento di sé e del suo valore personale o soggettivo: l’uo- mo si trasformò nell’individuo e come tale si affermò»15. Naturalmente i secoli precedenti, quelli medievali, apparivano a Burckhardt come segnati da «fede, ignoranza infantile e vane illusioni». L’uomo mo- derno era perciò figlio dell’Umanesimo e del Rinascimento, perché il medioevo, una sorta di parentesi nella storia della civiltà, non era sta- to capace di esprimere individualità altrettanto grandi e generose. La nascita dell’individualismo, una visione secolarizzata del mondo e la creazione dello Stato come opera d’arte confermavano questo capovol- gimento di prospettiva, attribuendo al XV e al XVI secolo esattamente gli stessi progressi che la storiografia italiana, sempre sulla scorta di Sismondi, aveva individuato nei Comuni medievali. Un esempio curioso di come gli intellettuali italiani cercassero di coniugare l’accettazione della rivoluzione burckhardtiana con il me- dievalismo che impregnava la loro formazione è fornito da Adolfo Bar- toli (1833-1894). Per questo intellettuale della Nuova Italia occorreva comunque trovare nel medioevo quelli che in un’opera del 1876 de- finiva I precursori del Rinascimento16. Da buon lettore di Burckardt, questo esponente della cosiddetta “scuola storica” tuttora noto ai danti-

14 P. Villari, Introduzione alla storia d’Italia, «Il Nazionale», nr. 257, 15 novem- bre 1849. 15 J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, traduzione italiana, Fi- renze 1955. 16 A. Bartoli, I precursori del Rinascimento, Firenze 1876.

91 Rinascite, rinascenze, rinascimenti sti17, non riusciva a esprimere un giudizio positivo sul medioevo, ma si sentiva comunque in dovere di sforzarsi per trovarvi qualche elemento di modernità. Bartoli non accettava l’elenco delle rinascite proposto da Ampère. Non credeva infatti a quella carolingia, in quanto si trattava di un’epo- ca ancora teologica che gli faceva dire che «siamo nel pieno dominio del medievalismo» e non aveva lasciato nessuna traccia durevole, tan- to che nel X secolo «l’intelletto umano sembra più che mai morto e seppellito per sempre»18. Pure Gerberto e Scoto Eriugena costituivano solo episodiche ribellioni individuali incapaci di produrre cambiamen- ti effettivi nel quadro desolante di un’epoca dipinta come oppressa dal- le tenebre del dogmatismo teologico. Solo nel secolo XI si verificò una vera e propria svolta: Dopo essersi riposato dai terrori della fine del mondo, sembra che l’uo- mo riprenda possesso della terra, e di sé stesso insieme: sembra che la vita ritorni ad apparirgli come qualche cosa che meriti di essere amata per sé medesima19. Non stupisce che il carducciano Bartoli credesse alla leggenda dell’An- no Mille20, ma qui importa sottolineare che egli cercasse di precisare con toni meno impressionistici il senso di questa svolta: «Abbiamo qui tre fatti della più alta importanza: il ritorno del pensiero all’antichità, alla classica antichità giuridica di Roma; il bisogno di educare seria- mente l’intelletto, e di esercitarlo in istudi severi; un primo tentativo di laicizzare la scienza, di strapparla dalle mani del clero, di sottrar- la alla sua influenza. Questi fatti ci trasportano fuori del medio evo, fuori dell’ambito delle sue idee, delle sue tendenze, delle sua abitu- dini. Ed avvertasi che questa nuova direzione dello spirito umano si universalizza»21. E ancora: I tempi hanno fatto appunto che il misticismo e il monachismo doves- sero riconciliarsi con le cose del mondo, o almeno subirle, accettarle,

17 A. Asor Rosa, Adolfo Bartoli, in Dizionario Biografico degli Italiani, 6, Roma 1964, pp. 554-556. 18 Bartoli, I precursori del Rinascimento, p. 16. 19 Ivi, p. 19. 20 Mantiene ben più di quanto prometta nel titolo il volume M. Giansante (a cura di), Carducci e il medioevo bolognese, Bologna 2011. 21 Bartoli, I precursori del Rinascimento, p. 20.

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studiarle. Non è questo un altro germe del Rinascimento futuro? Ogni volta che noi troviamo il mondo umano che si afferma, ogni volta che la terra rivendica uno dei suoi diritti, noi possiamo dire di aver fatto un passo verso la rinascenza dello spirito, verso la piena e sana conoscenza di noi stessi e del mondo, verso il trionfo completo della ragione, verso il regno dell’umanità 22. Bartoli attingeva questa sua consapevolezza dalla lettura di fonti let- terarie presenti pure nell’opera burckhardtiana da cui aveva eviden- temente tratto spunto. In particolare si riferiva ai goliardi, il cui senso della natura li trasportava ipso facto fuori dal medioevo, così come i canti bacchici e le poesie amorose, ormai prive di sentimento religioso nel secolo XII: «Il medioevo è attaccato in ciò che costituisce la sua essenza: nel regno della fede è sorto il ribelli che ride; nel regno del cielo è nato l’uomo che preferisce la terra, e che ha il coraggio di scri- vere che ama più la taverna della chiesa. La cupa rocca medievale sta evidentemente cadendo in rovina; e su quelle rovine sorgono i brillanti palagi della Rinascenza, dove si aggirano tripudiando i risorti genii del Paganesimo»23. Allo stesso modo i “Vaganti” del XII secolo, con la loro critica dell’a- vidità della curia romana, alzavano «il grido della rivolta contro l’osti- nata tirannia delle coscienze». Nei loro versi risuonava «il santo sde- gno contro l’implacabile nemica della civiltà» (ovviamente la Chiesa), nel bel mezzo della «età saturnia del cattolicismo, in quei secoli che molti vagheggiano anch’oggi come l’età beata della fede»24. Il contributo specifico dell’Italia a questa specie di Rinascimento medievale consisteva, secondo Bartoli, nella «sua maturità di senno, e nel suo sentirsi più vicina di memorie e di tendenze all’antichità: ci porta quei germi di paganesimo intellettuale e morale, che da lei non potè sradicare nessuna potenza»25. Solo le lingue romanze avrebbero compiutamente favorito questa trasformazione intellettuale, trovando in Dante il loro culmine:

22 Ivi, p. 32. 23 Ivi, p. 52. 24 Ivi, p. 53. 25 Ivi, p. 81.

93 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Quale è l’elemento che porta l’Alighieri all’evoluzione del Rinasci- mento? È la sua arte individuale riflessa, l’arte classica trasfusa nella forma romanza26. La stessa Divina Commedia «non è una visione medievale, è un emi- nente lavoro artistico»27. Per non dire di Petrarca e di Boccaccio «racco- glitori di manoscritti apportatori di nuova luce intellettuale». Con loro ecco tutto un mondo risorgere e l’antichità e la modernità quasi com- penetrarsi e dischiudere un nuovo periodo storico; ecco il nuovo spiri- to, che noi in parte ricevemmo da altri popoli, riprendere qui il volo. … Il Rinascimento europeo … se nei secoli XV e XVI è trionfante e si afferma al di fuori, nella poesia come nella pittura, nella scultura come nella politica, negli ordini della vita come in quelli del pensiero, non è giusto dimenticare che esso ebbe i suoi precursori e la sua evoluzione nei quattro secoli precedenti28. Insomma Burckhardt andava quanto meno rivisitato e non tutto il me- dioevo era medievale, se proprio vogliamo riassumere l’aperçu di Barto- li sul nostro problema. Anzi: buona parte dei secoli che normalmente erano ancora considerati medievali, erano in realtà intrisi di spirito ri- nascimentale e i secoli bui potevano essere riscattati dalla ricerca dei mitici precursori del Rinascimento29. Questo processo di “modernizzazione del medioevo”, che Bartoli conduceva in una prospettiva culturale, usando fonti prevalentemente letterarie, è verificabile anche in altri contesti culturali come la Francia di Emile Gebhart, la cui opera è una sorta di prologo ottocentesco di quella che nel Novecento si sarebbe chiamata la rivolta dei medievisti contro la tesi di Burckhardt. Nelle Origines de la Renaissance en Italie, pubblicato nel 1880, anche Gebhart aveva cercato nella letteratura e nell’arte del medioevo italiano (Nicola Pisano, Giotto, Dante e Petrar- ca) le primizie del Rinascimento, ma prima in François d’Assise et les origines de l’art de la Renaissance en Italie (1885), quindi ne L’Italie mystique: histoire de la Renaissance religieuse au Moyen Âge (1890) si

26 Ivi, p. 89. 27 Ivi, p. 90. 28 Ivi, p. 92. 29 Su questo punto C. Vasoli, Burckhardt in Italia, i “secoli bui” e il mito dei “pre- cursori” del Rinascimento, in S. Ebbersmeyer (a cura di), Sol et homo: Mensch und Natur in der Renaissance; Festschrift zum 70. Geburtstag für Eckhard Keßler, Mün- chen 2008, pp. 13-40.

94 Rinascite, rinascenze, rinascimenti. Le alterne fortune medievistiche di un lessico storiografi co spingeva molto oltre, mettendo in evidenza gli stretti legami esistenti tra la vita religiosa del Duecento italiano e i successivi sviluppi dell’U- manesimo e del Rinascimento. In particolare secondo Gebhart con Francesco d’Assisi cominciò una nuova arte italiana che sarebbe sfo- ciata nel Rinascimento. Il corpo a corpo con Burckhardt lo aveva por- tato a risultati diametralmente opposti rispetto all’autore della Kultur der Renaissance ma funzionali alle esigenze spirituali e culturali della Francia di fine Ottocento che cercava alternative appunto spirituali all’imperante positivismo30. Ovviamente questo prologo ottocentesco non esauriva la gamma delle declinazioni assunte da quella che Ferguson ebbe a definire la ri- volta dei medievisti31, la quale non per caso proprio in Francia si affermò con particolare veemenza nel secolo scorso, dopo aver trovato in The renaissance of the twelfth century, pubblicata nel 1927 dall’americano Charles Homer Haskins, un antecedente illustre e storiograficamente molto fecondo32. Questo classico della storiografia riassumeva e portava al livello di una sintesi tanto convincente quanto fortunata la cospicua e variegata galassia degli storici di tendenza anti-burckhardtiana che si erano occupati principalmente del XII secolo con riguardo alla nascita delle università, considerate un indubbio indicatore della modernità di quel secolo, e alle figure principali della storia del pensiero (Abelardo in testa). Tali ricerche, come ha ben messo in rilievo Alex Novikoff, varcarono l’Atlantico, solo nel 1906, quando un convegno della Ame- rican Historical Association ospitò diverse conferenze che vertevano proprio sul secolo XII quale prodromo del Rinascimento, che veniva a configurarsi come il risultato di un processo plurisecolare e non come una rottura improvvisa rispetto al medioevo. A quel convegno fungeva da segretario proprio l’allora trentaseienne Charles Homer Haskins, che in una successiva sessione del medesimo congresso, celebrata nel 1914, presentò per la prima volta la rinascita del XII secolo come un’e- poca ben identificabile della storia europea. Pure in quell’occasione

30 C. Vasoli, Due momenti della discussione sul Rinascimento del Burckhardt: Émile Gebhart e Konrad Burdach, in R. Ragghianti,– A. Savorelli (a cura di), Rinascimento – mito e concetto. Atti delle giornate di studio, Cagliari, Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze Umane, 11 – 12 dicembre 2001, Pisa, Scuola Nor- male Superiore, 8 maggio 2003, Pisa 2005, pp. 213-254. 31 W.K. Ferguson, The Renaissance in Historical Thought: Five Centuries of Inter- pretation, Boston, 1948, cap. 11; traduzione italiana, Bologna 1969. 32 C.H. Haskins, The renaissance of the twelfth century, Harvard University Press 1927.

95 Rinascite, rinascenze, rinascimenti la prospettiva culturale era prevalente, anche se la proposta di Haskins presentava indubbi elementi di originalità: il rinnovamento cultura- le dell’Occidente non derivava dalla riscoperta dell’antichità romana bensì dalla rinnovata conoscenza della filosofia e della scienza dei Greci grazie alla mediazione della cultura araba33. Si trattava di uno dei capisaldi della fortunata monografia del 1927, in cui al già citato contributo rilevante della riscoperta della cultura greca si aggiungeva- no altri non meno importanti indicatori della rinascita del XII secolo: le scuole cattedrali, Parigi e Chartres, Abelardo e infine le università. A questi fenomeni culturali se ne accompagnavano altri non meno ri- levanti come l’apogeo dell’arte romanica e gli inizi del gotico, nonché l’emergere delle letterature volgari. Restavano sullo sfondo della sua opera le crociate, la rinascita urbana e il consolidamento di quelli che per Haskins, studioso dell’età normanna, erano i primi stati burocrati- ci dell’Occidente: tutti sintomi, questi, di un generale risveglio della civiltà occidentale che lo studioso, consigliere del presidente Wilson, considerava il fondamento remoto ma ineliminabile delle relazioni che legavano indissolubilmente gli Stati Uniti all’Europa in una pro- spettiva insieme politica e culturale molto lontana da quelle attuali e che mirava a recuperare il passato anche medievale di una nazione che aveva nel suo DNA una fortissima componente protestante, alla definizione della quale sarebbe forse stato più funzionale il concetto burckhardtiano di Rinascimento come rottura di quello della continu- ità tra medioevo e modernità. Dopo che la storiografia tedesca degli anni Venti del Novecento aveva approfondito il significato della rinascita carolingia e ottoniana34, in ambito francofono la rivolta dei medievisti sviluppava alcuni dei sen- tieri percorsi da Haskins. Nel capitolo conclusivo del celebre Hélöise et Abélard Étienne Gilson (1938), prendendo di mira proprio Burckhardt e soprattutto i suoi numerosi epigoni, vedeva nell’epistolario del filoso- fo e della sua amante la dimostrazione del fatto che la nascita dell’indi- viduo, ritenuta da Burckhardt un fenomeno tipicamente rinascimen- tale, fosse già ben evidente nel XII secolo, quando alcune personalità

33 A. Novikoff, The Renaissance of the Twelfth Century before Haskins, «The Haskins Society Journal», 16 (2005), pp. 104-117. 34 Per tutti E. Patzelt, Die karolingische Renaissance. Beiträge zur Geschichte der Kultur des frühen Mittelalters, Wien, 1924; H. Naumann, Karolingische und Otton- ische Renaissance, Frankfurt am Main 1927.

96 Rinascite, rinascenze, rinascimenti. Le alterne fortune medievistiche di un lessico storiografi co eccezionali davano prova di una tale indipendenza di spirito e di un livello così alto di autoconsapevolezza da far crollare anche su questo specifico punto la tesi dello storico svizzero35. La “leçon des faits” che si poteva trarre dalla tragica vicenda di Abelardo svelava la natura mi- tologica e puramente ideologica della differenza tra medioevo e rina- scimento. Essa non era affatto una mera ipotesi storica “justiciable des faits”, ma “un mythe” che “comme tel n’est pas discutable”36. Secondo Gilson non era la travolgente personalità di Eloisa a essere “moderna” e poco “medievale”, perché proprio quelle categorie e la periodizza- zione che ad esse era sottesa erano il frutto di un’operazione marca- tamente ideologica di matrice anti-cristiana. La teologia abelardiana ed eloisiana dell’intenzione si situava infatti contro quello che Gilson definiva il “giudaismo monastico”, sostituendo l’esercizio di pratiche puramente esteriori con una nuova concezione della coscienza: «cosa significa peccare? Agire contro la propria coscienza, la cui testimonian- za basta a condannare o ad assolvere l’uomo davanti a Dio». Ce n’era a sufficienza per dire che prima ancora di «trovare una formula per definire il medioevo, occorrerebbe trovarne una per definire Eloisa», ma anche una per Petrarca, Erasmo e via di seguito37. L’impostazione di Gilson diede la stura a un filone di studi nutritissimo, che si concen- trava soprattutto attorno ad alcune questioni fondamentali già evocate da Haskins. Così per esempio Marie-Dominique Chenu sviluppò que- sti temi in un’ottica prevalentemente teologica. Pietro Abelardo era “le premier homme moderne”, tanto da avere un ruolo di primo piano nella monografia che lo studioso domenicano nel 1969 dedicò all’éveil de la conscience, cogliendo proprio nel XII secolo i segni inequivoca- bili del risveglio della dimensione individuale, presupposto essenziale della piena consapevolezza di sé da parte della persona38. Haskins aveva infatti lasciato in eredità una serie di nodi problema- tici che per tutto il Novecento continuarono a occupare un posto cen- trale nel dibattito storiografico sui secoli centrali del medioevo39. Solo a

35 E. Gilson, Héloise et Abélard, Paris 1997. 36 Gilson, Héloise et Abélard, p. 151. 37 Gilson, Héloise et Abélard, p. 164. Cfr. B. Stock, Etienne Gilson: Art, Litera- ture, and Philosophy, «Fons Luminis», 1 (2007), pp. 2-13. 38 M.D. Chenu, La teologia nel XII secolo, trad. italiana, Milano 1986. 39 Per un censimento di questa vasta letteratura si veda C.D. Ferguson, Europe in transition. A select, annotated bibliography of the twelfth-century renaissance, New York 1989.

97 Rinascite, rinascenze, rinascimenti partire dagli anni Ottanta del Novecento specialmente negli Stati Uni- ti a questa sensibilità storiografica, che mirava alla “modernizzazione” del XII secolo e più in generale del medioevo, sarebbe subentrata una più spiccata propensione a metterne in rilievo la profonda e irriducibi- le alterità rispetto alla modernità. Tale superamento dell’impostazione di Haskins coincise con l’affermazione della categoria di post-moderno e il conseguente tramonto del presupposto remotamente culturale che aveva concepito la cattura del passato medievale da parte degli storici americani come indispensabile alla ricostruzione della linea evolutiva che, partendo dalla valorizzazione delle libertà medievali, le congiun- geva con la libertà americana e i suoi valori costitutivi. Il rovesciamen- to di questo paradigma interpretativo e della necessità di trovare un nesso tra medioevo e Rinascimento per “modernizzare” il XII seco- lo, indusse nella storiografia statunitense la tendenza a cercare non più gli elementi di omogeneità ma al contrario proprio le differenze, i marcatori identitari dell’irriducibile alterità del medioevo40. Questa de-modernizzazione del medioevo ha coinciso, per esempio, con l’ela- borazione di una visione latamente foucaultiana del medioevo. Anche se per Foucault il medioevo rappresentava una sorta di polo positivo rispetto alla modernità e alla sua esigenza di “sorvegliare e punire”, per R.I. Moore tra X e XIII secolo si sarebbe invece formata una società persecutoria, intollerante e ostile verso i devianti41. Le reazioni poco entusiaste, specialmente da parte della storiografia europea, non han- no comunque frenato la deriva postmodernistica di buona parte della medievistica americana. Tuttavia il filone inaugurato da Haskins non ha esaurito nel frattem- po le sue potenzialità. In un pregevole contributo del 2006 il Melve ha individuato i nuclei tematici attorno ai quali la medievistica non solo americana ha continuato questa tradizione di studi: la nascita dell’in- dividuo, la razionalità, la secolarizzazione e infine l’emergere di una mentalità critica42. Non è questa la sede per approfondire i dibattiti fio- riti attorno a questi argomenti. Qui basti segnalare che essi continuano

40 P. Freedman – G. Spiegel, Medievalisms old and new: the rediscovery of alterity in North American medieval studies, «The American Historical Review», 103 (1998), pp. 677-704. 41 R.I. Moore, The formation of a persecuting society. Power and deviance in west- ern Europe, 950-1250, Oxford 1987. 42 L. Melve, ‘The revolt of the medievalists’. Directions in recent research on the twelfth-century renaissance, «Journal of Medieval History», 32 (2006) pp. 231-252.

98 Rinascite, rinascenze, rinascimenti. Le alterne fortune medievistiche di un lessico storiografi co ancora, sviluppando in particolare una delle indicazioni emerse fin dal 1977, quando, in occasione del cinquantenario della pubblicazione del libro di Haskins, si rinunciava a fornire una definizione astratta di Rinascimento a favore di una migliore contestualizzazione del Ri- nascimento stesso, inteso come processo storico alla luce di una più complessa considerazione delle interazioni tra cultura ecclesiastica e cultura “profana”43. La prima e più immediata conseguenza di questa impostazione era la ricerca degli antecedenti del rinnovamento del XII secolo nella civiltà del XI, secondo una prospettiva che in realtà la storiografia europea e in particolare quella italiana avevano percorso autonomamente attraverso il ricco filone degli studi “gregoriani” fin dagli anni Cinquanta del Novecento44. Allo stesso modo l’età della scolastica non veniva più considerata come una parentesi e come una battuta d’arresto dopo l’effervescenza culturale del XII secolo, ma al contrario era interpretata lungo una linea di continuità che avrebbe portato al Rinascimento. Parimenti ri- visitati erano pure i confini geografici della rinascita, non più limitata all’Occidente ma intesa come il prodotto dell’interazione delle diverse culture attive nel bacino del Mediterraneo. La sfasatura evidente dei tempi e dei modi con i quali il tema della rinascita del XI-XII fu affrontato in Italia e nel mondo anglosassone è di per sé significativa della difficoltà per la nostra medievistica, pur di eccellente livello, di essere incisiva nel dibattito internazionale. Ovidio Capitani si lamentava evocando di tanto in tanto il motto “Italicum est. Non legitur”. In effetti, pur con lodevoli eccezioni, come il compianto Giles Constable, sono stati pochi gli studiosi capaci di favorire queste relazioni. La loro non cospicua schiera comprende certamente Ro- berto Sabatino Lopez, costretto a lasciare l’Italia nel 1939 per sfuggire alle leggi razziali e approdato negli Stati Uniti, ove diede origine a un eccellente stuolo di allievi impegnati nello studio della storia economi- ca medievale ispirata ai metodi – allora! – innovativi delle Annales45.

43 R.L. Benson – G. Constable (a cura di), Renaissance and renewal in the twelfth century, Toronto 1991 e in particolare G.B. Ladner, Terms and ideas of renew- al, ivi, pp. 1-33. Cfr. Melve, ‘The revolt of the medievalists’, p. 235. 44 Mi sia consentito di rinviare a N. D’Acunto, La lotta per le investiture. Una rivoluzione medievale (998-1122), Roma 2020. 45 P. Guglielmotti, Lopez, Roberto Sabatino, in Dizionario Biografico de- gli Italiani, Roma 2017, https://www.treccani.it/enciclopedia/roberto-sabatino- lopez_%28Dizionario-Biografico%29/.

99 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Cinzio Violante, mio maestro, mi raccontava che durante una conver- sazione tenutasi a Spoleto, ove stava svolgendosi l’annuale Settimana Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo, Lopez gli aveva confidato tra il serio e il faceto che negli Stati Uniti, per dare rilievo alle proprie ricerche di storia medievale, era stato costretto a evocare la Renaissan- ce perfino per il X secolo, il cosiddetto secolo di ferro, tanto era forte nell’immaginario storico degli Americani la categoria del Rinascimen- to, per effetto del successo del magistero di Haskins. La battuta di Lo- pez si riferiva al celebre saggio del 1951 dal titolo provocatorio: Still Another Renaissance?46 Pochi secoli restavano ormai medievali, dopo l’attacco concentrico che la cittadella del medioevo aveva subito da storici come Pirenne, che aveva dimostrato come la civiltà romana si prolungasse fino al secolo VII, o come Haskins, che aveva esteso il Ri- nascimento fino al XII secolo e alla fine del XI. Restavano tre o quattro secoli di “buio medievale”, comunque illuminati dalle renaissances ca- rolingia, anglo-sassone e ottoniana. Veniva quasi il dubbio che la cate- goria di medioevo fosse ormai divenuta superflua. Il medioevo non era tutto ombre, ma nemmeno tutto luci e il turning point di quella civiltà secondo Lopez non andava cercato né all’inizio né alla fine. Il crepu- scolo del V secolo e i bagliori del Quattrocento non dovevano trarci in inganno, poiché l’alba del X secolo era l’annuncio di più profondi cambiamenti. Nessun periodo della storia europea più di quello meri- tava l’appellativo di renaissance. Lopez spostava l’obiettivo dalla storia culturale e spirituale a quella economica, tanto che il primo sintomo di questa rinascita risiedeva proprio nell’incremento demografico. Gli intellettuali del X secolo erano certamente meno prestigiosi di quelli dell’età carolingia o della renaissance di Haskins, ma vi si sviluppò un pensiero popolare, religioso e filosofico che sarebbe sfociato nella rifor- ma della Chiesa e nelle eresie. Mentre la rinascita carolingia era stata un fenomeno meramente elitario, nel X secolo i predicatori ecclesiasti- ci coinvolsero masse sempre più grandi di persone comuni e molti laici ricevevano un’istruzione minima ma significativa, testimoniata dalla crescita delle sottoscrizioni dei documenti. I prodigiosi progressi della scienza giuridica e della medicina nei secoli XI e XII sarebbero inspie- gabili senza l’oscura attività degli intellettuali del secolo precedente. Erano, queste intuizioni, il fondamento del successivo capolavoro di

46 R.S. Lopez, Still Another Renaissance?, in American Historical Review, 57 (1951), pp. 1-21.

100 Rinascite, rinascenze, rinascimenti. Le alterne fortune medievistiche di un lessico storiografi co

Lopez, La nascita dell’Europa, in cui la rinascenza carolingia conti- nuava a configurarsi come una “falsa partenza” e l’Impero dei Franchi come un “gigante dai piedi d’argilla”, mentre la vera alba della civiltà occidentale si collocava ancora nel X secolo47. L’anno successivo alla pubblicazione di Still Another Renaissance? Lopez pubblicava una ricerca molto originale, nella quale il tema del Rinascimento veniva affrontato in una prospettiva del tutto innovati- va grazie all’analisi storico-economica. Burckhardt aveva considerato il Rinascimento come un’età eccezionalmente creativa, in grado di uscire dalle secche del medioevo in virtù di una crescita economica ininterrotta, secondo una convinzione ben radicata nella storia dell’e- conomia ottocentesca e non solo. Al contrario Lopez in Hard Times and Investments in Culture48 metteva in relazione la prolungata crisi economica che si era iniziata alla metà del Trecento in Europa con i concomitanti e ricchi investimenti in arte e cultura da parte dei mece- nati appartenenti al ceto più facoltoso. La fioritura artistica e culturale del Rinascimento si configurava così come l’effetto della mancanza di migliori opportunità di investimento nei commerci, che la crisi ave- va drasticamente ridotto rispetto al secolo precedente. Il Rinascimen- to non era dunque il frutto e l’espressione della crescita economica dell’Europa tardomedievale, ma, al contrario, ne rispecchiava la diffi- coltà a superare la crisi seguita alla Peste Nera. Lopez passava dalla mo- dernizzazione del medioevo alla medievalizzazione del Rinascimento! Rinascita, rinnovamento, Rinascimento sono categorie sempre meno usate dalla medievistica contemporanea. Anche la tentazione di “modernizzare” il medioevo è ormai tramontata e insieme con essa lo è pure il vizio di giudicarlo in una prospettiva teleologica come premessa del Rinascimento. Forse è finita un’epoca: con la modernità è tramon- tata anche la mitizzazione della Renaissance e siamo finalmente liberi di studiare il medioevo per la sua e nella sua irriducibile alterità.

47 R.S. Lopez, La nascita dell’Europa. Secoli V-XIV, Torino 1966 (edizione fran- cese, Paris 1962). 48 R.S. Lopez, Hard Times and Investments in Culture, in The Renaissance: A Symposium, 8-10 febbraio 1952, New York 1953, pp. 19-34.

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«Ut vivat mortua, et moriatur viva». Per un’analisi dei rituali di ingresso in monasteri e congregazioni semireligiose femminili nella Milano borromaica

FABIO A RLATI

This article aims to analyze the development of female religious ceremonials in the diocese of Milan after the Council of Trent. In addition to the monastic rituals – reformed by Carlo Borromeo – in the Milanese area were widespread other “entry” ceremonials, such as the one used by the secular Ursulines or by non-cloistered congregations of common life. The comparison between these rituals related to these three different forms of female consecrated life shows signifi cant symbolic differences between them: if in the monastic ceremonials was more emphasized the mournful and sacrifi cial element of abandonment of secular life, in the semireligious rituals was more valued the spousal element proper of the ancient ritual of consecratio virginum.

1. Introduzione Fin dalle origini della vita monastica, i rituali di passaggio dallo status secolare a quello religioso erano ricchi di elementi che facevano riferimento alla morte-rinascita. A pa rtire dalla letteratura patristica, tale simbologia si ritrova in una lunga tradizione ecclesiastica che esprimeva la necessità per le persone prossime alla consacrazione – uomini e soprattutto donne – di considerarsi morti nel mondo dei sensi per poter rinascere a nuova vita religiosa in unione con Cristo, anticamera della vita eterna1. Dopo il concilio di Trento, complice l’inasprimento delle disposizioni sulla clausura monastica femminile,

1 Cfr. A. Molho, «Tamquam vere mortua». Le professioni religiose femminili nella Firenze del tardo medioevo, in «Società e Storia», XLIII, 1989, pp. 1-44: 33-41.

103 Rinascite, rinascenze, rinascimenti il tema della morte-rinascita sembrò assumere ancora più centralità nell’evoluzione dei rituali di ingresso in monastero2. L’obiettivo di questo contributo è quello di esaminare lo sviluppo dei rituali di vestizione e professione femminile dopo il concilio tridentino, considerando in special modo il contesto della diocesi di Milano, teatro d’azione di Carlo Borromeo. Il quadro della diocesi milanese è particolarmente interessante poiché tra XVI e XVII secolo, oltre ai rituali monastici, si diffusero altri cerimoniali “di ingresso”, utilizzati da diverse congregazioni, senza voti solenni e senza clausura, in modo tale che differenti rituali caratterizzavano diverse forme di consacrazione femminile: le religiose di voti solenni, le orsoline secolari in casa e le semireligiose in comunità. Dopo aver analizzato l’evoluzione dei cerimoniali monastici, si intende proporre un confronto tra gli elementi rituali propri delle diverse forme di consacrazione femminile, considerando i connessi sviluppi della simbologia di morte e rinascita.

2. Consecratio virginum e professione religiosa prima di Trento Affrontando il tema della consacrazione religiosa femminile è imprescindibile distinguere preliminarmente tra due diversi cerimoniali, con diversa tradizione storica nonché differente valenza giuridica e simbolica, ripercorrendone brevemente gli sviluppi. Da una parte, l’antichissimo rituale della consecratio virginum, risalente al IV secolo e quindi precedente all’istituzione del monachesimo stesso, dall’altro i

2 A conferma della centralità nel periodo post-tridentino della simbologia di morte-rinascita connessa alla professione monastica femminile si vedano le numerose esortazioni rivolte alle future monache da parte di teologi o trattatisti. All’inizio della Guida della Monaca religiosa (1622), ad esempio, si riportavano i seguenti versi: «Voi quindi apprenderete, / Sicura, e dolcemente / A voi stesse morir, viver in Christo; / Schernir il Mondo, e far del Ciel acquisto» (F. Credazzi, Guida della Monaca religiosa, che contiene il modo, che devono tenere quelle che desiderano farsi monache, appresso Andrea Fei, Roma 1622). Ancora, nell’Instruttione per le Monache Claustrali (1641) si affermava che: «la Monaca facendo la professione nella Religione muore al mondo e vive solo a Dio. Onde deve starsene solitaria e tacere, che in tal modo attenderà alla sua vocazione, et potrà dirsi veramente Monaca» (A.M. Monaco, Instruttione per le Monache Claustrali. Cavate da’ Sacri Canoni, Constitutioni Apostoliche, Decreti della Sacra Congregatione e da Dottori approvati, per Francesco Moneta, Roma 1641, p. 2).

104 «Ut vivat mortua, et moriatur viva» diversi cerimoniali di professione monastica, diffusisi nel Medioevo latino soprattutto a partire dalla regola benedettina. La cerimonia della consecratio virginum solennizzava la scelta delle vergini cristiane di rinunciare al matrimonio per consacrare a Cristo la propria verginità, unendosi a lui in un matrimonio mistico, venendo perciò identificate come spose di Cristo3. Il rito possedeva un carattere sponsale, che divenne sempre più marcato con la sua evoluzione: all’antica cerimonia di velatio (IV secolo), a partire dal pontificale romano-germanico di Magonza del X secolo si aggiunsero – almeno nel cerimoniale riservato alle claustrali – altri elementi ripresi dalle celebrazioni matrimoniali: il consenso del padre o di un famigliare della vergine e la consegna dell’anello e della corona4. In virtù di questa consacrazione sponsale, le vergini erano moralmente impegnate a conformarsi in tutto alla vita del proprio Sposo, entrando a far parte di un particolare corpo di fedeli, il cosiddetto ordo virginum5. Per alcuni secoli coesistettero nella Chiesa due modi di vivere questa consacrazione: una secolare, in cui le vergini abitavano nelle proprie case, e una comunitaria, in cui le vergini

3 Sull’evoluzione storica del rituale della consecratio virginum l’opera fondamentale di riferimento è R. Metz, La consécration des vierges dans l’Église romaine. Étude d’histoire de liturgie, Puf, Paris 1954. Per i risvolti simbolici del rituale della consecratio sull’identità di genere cfr. G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 268-282. 4 G. Zarri, Recinti, cit., p. 269. L’antico rito della velatio si svolgeva durante la celebrazione eucaristica, quando il vescovo, dopo aver recitato una preghiera, imponeva sul capo della consacranda un velo rosso (flammeum), lo stesso che veniva usato per le spose durante le nozze (E.L. Bolchi, La consacrazione nell’Ordo virginum. Forma di vita e disciplina canonica, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2002, p. 14; R. Metz, op. cit., pp. 124-138). Sul significato del velo femminile e le sue rappresentazioni in età moderna si veda il volume Velo e velatio. Significato e rappresentazione nella cultura figurativa dei secoli XV-XVII, a cura di G. Zarri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2014. Per il pontificale di Magonza cfr. Le Pontifical romano-germanique du dixième siècle, voll. I-II: Le texte, vol. III: Introduction générale et table, a cura di C. Vogel e R. Elze, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1963-1972. Le maggiori innovazioni apportate successivamente al rito sono attribuibili a Guillaume Durand, vescovo di Mende (1293-95), poi recepite anche nel pontificale ufficiale di Innocenzo VIII (1485) e in quello successivo di Clemente VIII (1596). Cfr. R. Metz, op. cit., pp. 273-316. 5 L’espressione è usata da Basilio nell’Epistola 199, ad Amphilochium, cit. in E.L. Bolchi, op. cit., p. 15.

105 Rinascite, rinascenze, rinascimenti seguivano una regula monastica6. A partire dalla riforma gregoriana, tuttavia, il rituale di consecratio fu rivolto unicamente alle monache professe e con il Concilio Lateranense II (1139) la consacrazione delle vergini viventi nel secolo venne privata di ogni riconoscimento ecclesiale7. Durante il basso Medioevo, la consecratio virginum divenne così un rituale prettamente monastico da celebrarsi dopo la professione solenne, rispetto alla quale sembrò svolgere un ruolo secondario8. A partire dal XV secolo e soprattutto dopo il concilio di Trento e la costituzione Circa pastoralis di Pio V (1566) – che estese la disciplina monastica claustrale a tutte le forme di vita consacrata comunitaria femminile – la consecratio virginum cadde in disuso, essendo sufficiente per le monache la professione solenne per la definizione del loro status di religiose9. Se la consecratio virginum era contrassegnata da una marcata simbologia sponsale, i rituali di consacrazione monastica, fin dai suoi due elementi costituivi comuni al monachesimo orientale e occidentale – la tonsura e la vestizione – erano maggiormente improntati alla simbologia di morte- rinascita10. La tonsura e la deposizione delle vesti simboleggiavano, infatti, la rinuncia al mondo e la morte nel secolo, a cui seguiva il conferimento dell’abito, segno della nuova vita angelica d’innocenza e purezza11. Nel monachesimo occidentale, oltre a questi due elementi – che rientrarono

6 E.L. Bolchi, op. cit., pp. 19-20. 7 Cfr. Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di J. Alberigo et al., Istituto per le scienze religiose, Bologna 19733, can. 26, p. 203. Su questo punto si veda anche S. Duval, Pour une relecture de la vie religieuse féminine chrétienne en Occident à la fin du Moyen Âge, in «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée modernes et contemporaines», CXXVIII/2, 2016, pp. 233-243: 235. 8 A. Boni, Consacrazione delle vergini, I. Evoluzione dottrinale, in Dizionario degli Istituti di Perfezione (d’ora in poi DIP), II, Edizioni Paoline, Roma 1973, col. 1620. 9 Cfr. M. Augé, Consacrazione delle vergini, III. Rito, in DIP II, 1973, col. 1624; E.L. Bolchi, op. cit., pp. 25-26. 10 Cfr. la voce Professione, in DIP VII, 1983, coll. 884-971. Sulla normativa claustrale cfr. R. Creytens, La giurisprudenza della Sacra Congregazione del Concilio nella questione della clausura delle monache (1564-1576), in La Sacra Congregazione del Concilio. Quarto Centenario della Fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1964, pp. 563-597. 11 P. Raffin, Professione, V. I riti di professione in Oriente, in DIP VII, 1983, coll. 897-901. La vestizione aveva una forte valenza di rinascita in ragione soprattutto dei richiami alla cerimonia battesimale: come il catecumeno si spogliava delle vesti dell’uomo antico prima di entrare nella piscina battesimale, uscendo poi purificato dall’acqua grazie all’azione dello Spirito, così il monaco si spogliava

106 «Ut vivat mortua, et moriatur viva» nell’unica cerimonia di vestizione – vi era anche un altro elemento: la formula di professione, orale e scritta, che divenne solo in seguito il punto essenziale dell’ingresso in religione, in virtù del valore giuridico che assunse la carta di professione firmata12. Se nella regola benedettina le cerimonie di vestizione-professione avvenivano assieme, al termine dell’anno di probazione, nei successivi commenti carolingi alla regola, la vestizione venne separata dalla professione e posta all’inizio dell’anno di noviziato, mantenendosi tale anche nella tradizione successiva13. Durante il Medioevo, sotto l’influenza dell’articolato cerimoniale della consecratio virginum, i rituali di professione monastica femminile si svilupparono con più abbondanza rispetto a quelli maschili, introducendo molteplici elementi secondari diversi da monastero a monastero14. Nel periodo post-tridentino, tale abbondanza di consuetudini rappresentò un problema rilevante, costituendo un ostacolo ai tentativi di disciplinamento della vita religiosa femminile.

3. Carlo Borromeo e l’Ordo recipiendi virgines: descrizione e sviluppi Com’è noto, il concilio di Trento puntò ad una regolarizzazione della disciplina monastica femminile, imponendo ovunque l’età minima di dodici anni per vestire ed accettare le fanciulle in monastero e di sedici anni per ammetterle alla professione solenne dei voti, dopo almeno un anno di noviziato. Per combattere le monacazioni forzate, inoltre, l’accesso al noviziato e alla professione doveva avvenire alla presenza del vescovo o di un suo delegato, previo esame di questi e previa votazione dell’abbigliamento antico per assumere un nuovo abito che purificava colui che lo vestiva grazie all’azione rinnovante dello Spirito (Ibidem). 12 Cfr. J. Gribomont – G. Rocca, Professione, VIII. Le formule di professione in Occidente, in DIP, VII, 1983, coll. 934-947. 13 A. de Vogúe, Professione, VI. La professione in Occidente (sec. IV-IX), in DIP VII, 1983, coll. 904-916: 915-916. 14 Diversi casi sono citati in E. Novi Chavarria, Sacro, pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, Guida, Napoli 2009, pp. 32-36. Per riprendere solo un caso a titolo di esempio, durante la professione nel monastero di S. Gregorio Armeno di Napoli, alla novizia erano posti in capo sette fiocchi all’estremità dei quali erano accuratamente poste sette palline di cera e solo alla fine della messa questi speciali ornamenti venivano tagliati dalla stessa badessa per imporre sul capo della novizia il velo bianco (Ibidem).

107 Rinascite, rinascenze, rinascimenti del capitolo delle monache15. Le disposizioni tridentine, tuttavia, non intervennero direttamente sui rituali di professione, facendo sorgere il bisogno di un adeguamento liturgico ai canoni conciliari, reso ancora più urgente dall’incontrastata plural ità che dominava nei rituali di professione religiosa femminile16. A intervenire direttamente in tale materia fu Carlo Borromeo. Oltre ad insistere sulla modestia delle cerimonie, eliminando i pomposi abiti e gli imponenti cortei che spesso caratterizzavano questi rituali di passaggio, l’arcivescovo milanese cercò di uniformare i diversi cerimoniali di consacrazione monastica femminile17. Per ottenere ciò, Carlo Borromeo cercò inizialmente di ripristinare l’antico rituale della consecratio virginum – l’unico ordinamento liturgico codificato a livello centrale nei Pontificali – disponendo nel can. 21 del IV concilio di Milano (1576) di ritornare all’antico uso18. Tale tentativo era tuttavia destinato al fallimento, dal momento che, come già detto, nell’ultimo quarto del XVI secolo tale celebrazione era ormai caduta completamente in disuso, a vantaggio della professione monastica. In un secondo momento, Carlo Borromeo pensò dunque di intervenire sulla stessa liturgia di professione monastica, proponendo un unico rituale, valido per tutti i monasteri della provincia metropolita milanese soggetti alla giurisdizione dell’ordinario diocesano. La stampa di tale rituale fu annunciata dal Borromeo durante il V Concilio provinciale del 1579: Stando la varietà delle Regole fra sé in tutto diverse e dissimili, che s’usano nel vestire le figliuole, e professare le Novizie, accioché da tutti i Vescovi della Provincia in tali fontioni si osservi uno stesso rito; per auttorità del

15 Per la legislazione tridentina sulla riforma delle monache cfr. R. Creytens, La giurisprudenza della Sacra Congregazione, cit., pp. 563-597; Id., La riforma dei monasteri femminili dopo i decreti tridentini, in Il Concilio di Trento e la riforma tridentina, Herder, Roma 1965, I, pp. 45-84. 16 Cfr. E. Novi Chavarria, op. cit., p. 34. 17 «Nel giorno che la fanciulla fa la professione, overo che si veste dell’habito monacale, non si facciano conviti, ne si diano collationi nelle foresterie, e case delle Monache da’ loro parenti, o amici (Regole appartenenti alle monache cavate da i concilii provinciali di Milano, fatte volgari e ridotte in un corpo, sotto i titoli del primo, in Acta Ecclesiae Mediolanensis, a cura di A. Ratti, III, ex Typographia Pontificia Sancti Iosephi, Milano 1892, coll. 321-376: 333). 18 «Ubi religiosus iste, et vetus moniales solemniter velandi mos his temporibus aniquatus est, ad pristinum usum ex veteri instituto et Ritu revocetur, dummodo intra Monasterium id fiat» (Acta Ecclesiae Mediolanensis, cit., II, 1890, col. 485).

108 «Ut vivat mortua, et moriatur viva»

presente Concilio Provinciale sarà da Noi dato in luce uno Rituale, la cui forma in tutto s’haverà da osservare nel dare l’habito a quelle, et accettare la professione di queste19. Questo Rituale è identificabile con l’Ordo recipiendi virgines, edito successivamente a Cremona nel 1596 – l’anno seguente la pubblicazione del Pontificale di Clemente VIII (1595) – quasi a completamento di quest’ultimo20. Data l’importanza del cerimoniale borromaico per le sue pretese uniformanti è utile analizzare brevemente le due cerimonie di vestizione e professione monastica qui contenute, celebrate dal vescovo o da un uso delegato durante la messa. Importante sottolineare la rilevanza che in entrambe queste cerimonie giocava l’elemento spaziale. A differenza dei rituali di consacrazione pre-tridentini – di cui rimangono importanti rappresentazioni, tra cui quella di Lorenzo Lotto – in cui il celebrante e le vergini condividevano lo spazio dell’altare della chiesa, nell’Ordo borromaico, seguito all’applicazione dei dettami tridentini sulla clausura monastica, le vergini prendevano parte alla cerimonia dalla parte della chiesa interna al monastero, con la grata claustrale che le separava fisicamente dal celebrante e dagli astanti21. La vestizione della vergine – di età superiore ai dodici anni – era una cerimonia sobria che prevedeva alcuni semplici passaggi. Prima di celebrare la messa, il vescovo, attraverso la finestrella claustrale, dialogava secondo formule salmistiche con la vergine, abbigliata a sposa, la quale esprimeva la propria volontà di entrare nella casa di Dio22. Il celebrante consegnava quindi alla vergine una croce, simbolo della mortificazione della carne e della crocifissione al mondo. Con la croce in mano, la

19 Regole appartenenti alle monache, cit., col. 333. 20 Ordo recipiendi virgines in monasteria, tradendique habitum probationis, a Reverendiss. Episcopis sive eorum Vicariis, et post annum probationis novitias ad professionem admittendi. Iussu Illustrissimi, et Reverendissimi Card. S. Praxedis Archiepiscopi S.M. ad usum Provinciae confectum, Apud Baracinum Zannium, Cremonae 1596. 21 Sulle rappresentazioni figurative di vestizione e professioni monastiche pre- tridentine cfr. G. Zarri, La vita religiosa tra Rinascimento e Controriforma. Sponsa Christi: nozze mistiche e professione monastica, in Monaca, moglie, serva, cortigiana: vita e immagine delle donne tra Rinascimento e Controriforma, a cura di S.E. Matthews-Grieco e S. Brevaglieri, Morgana, Firenze 2001, pp. 103-151: 122-139. 22 Ordo recipiendi virgines, cit., pp. 3-4. L’abbigliamento sponsale della vergine prevedeva una veste di lino, i capelli sparsi sulle spalle e sulla testa una corona di fiori o di foglie.

109 Rinascite, rinascenze, rinascimenti fanciulla si metteva alla testa di una processione di monache che, dalla chiesa interiore, compiva un giro del chiostro monastico, rientrando poi nella stessa23. Dopo l’eucarestia, avvenivano i due riti centrali della cerimonia: la tonsura e la vestizione. Rimossi gli ornamenti floreali dal capo della vergine, il vescovo tagliava alcune ciocche alla monacanda attraverso la finestrella e successivamente le monache proseguivano nel taglio dei capelli completando la tonsura. La vergine veniva quindi rivestita con il nuovo abito e con il velo24. Il vescovo consegnava infine alla fanciulla un lume acceso e una candela e procedeva alla benedizione finale25. Come già ricordato, la vestizione simboleggiava il passaggio – reso possibile dalla rivelazione di Cristo – dalla vecchia condizione umana ad una nuova condizione (novuum hominem)26. Alle soglie della nuova vita da religiosa, la monacanda doveva deporre la propria capigliatura ornata e la propria veste secolare – entrambi simboli delle vanità del secolo – per rivestirsi della tunica benedetta, simboleggiante umiltà e disprezzo del mondo, così da considerarsi quasi morta al mondo («semel mundo mortua») e vivere solo per Dio27. Anche la professione dell’Ordo borromaico – da celebrarsi dopo l’anno di noviziato, quando la vergine aveva compiuto i sedici anni – era piuttosto concisa, essendo tutta incentrata sull’atto solenne di professione dei voti. Dopo l’eucarestia, il vescovo benediceva la clamide e il velo della monacanda e, sedutosi di fronte alla finestrella claustrale, pronunciava un sermone rivolto alle monache28. Finito il sermone, la novizia, dopo aver ricevuto la benedizione, si prostrava a terra, come morta, e solo quando il vescovo pronunciava per tre volte la formula Surfe filia, la novizia poteva alzarsi, rispondendo tre volte con la formula Ecce venio29. Ciò simboleggiava, da un lato, l’uscita della novizia dallo stato laicale e l’ingresso nello stato religioso, dall’altro, in una prospettiva trascendente, prefigurava la reale morte terrena della monaca e la successiva sperata rinascita a vita eterna. La vergine, quindi, inginocchiatasi davanti alla finestrella, pronunciava

23 Ivi, p. 5. 24 Ivi, pp. 9-11. 25 Ivi, pp. 11-12. 26 Ivi, p. 11. 27 Ivi, p. 10. 28 Ivi, p. 15-17. 29 «Surge filia, et orna lampadem tuam, ecce sponsus venit, exi obviam ei». R. «Ecce venio ad te dulcissime Domine, quem amavi, quem quaesivi, quem semper optavi: suscipe me secundum eloquium tuum, et vivam, et ne confundas, ab expectatione mea» (Ivi pp. 18-19).

110 «Ut vivat mortua, et moriatur viva» nelle mani della priora la formula di professione dei tre voti solenni, promettendo di vivere sotto la regola del monastero e sotto perpetua clausura30. La cerimonia si concludeva con la consegna alla neoprofessa di alcuni simboli sponsali – il velo, la clamide, la candela accesa, il giglio e la corona – e, dopo il canto da parte della vergine dell’antica antifona Ipsi sum desponsata, il vescovo procedeva alla benedizione finale31. Con il rituale milanese, breve e sobrio, Carlo Borromeo cercò in qualche modo di fare ordine nella moltiplicazione dei cerimoniali, coniugando la semplicità e l’equilibrio di formule e gesti propri degli antichi riti di consacrazione con la nuova normativa conciliare. L’Ordo milanese ottenne discreta fortuna nell’Italia post-tridentina, divenendo, anche in diocesi al di fuori della provincia metropolita milanese, il modello di successivi cerimoniali di vestizione e professione, come quello veneto, stampato nel 1616 dal patriarca Francesco Vendramin32. Nei successivi rituali diocesani, tuttavia, si notano progressivamente diverse aggiunte, atte a rendere i cerimoniali sempre più patetici, con l’accentuazione degli aspetti negativi dell’ingresso in monastero come morte e rinuncia al mondo del peccato. Il tentativo di Carlo Borromeo di recuperare in parte l’antico rito sponsale della consecratio virginum cedette il passo ad un’enfasi posta sugli elementi di separazione volontaria dal mondo, effetto delle disposizioni tridentine e post-tridentine sulla clausura monastica33. Nel rituale veneto si aggiunsero infatti nuovi elementi, che, con toni sacrificali, simboleggiavano l’ingresso della monacanda in perpetua clausura. Prima della vestizione, la vergine doveva recarsi di fronte alla porta chiusa del monastero e, mentre le altre monache, aperto un pertugio, entravano all’interno, ella doveva fissare la porta meditando sulla clausura, mentre il confessore le consegnava una croce e una corona, ricordandole il suo destino di colonna immota del tempio di

30 Ivi, p. 19. La priora le rispondeva che, se avesse osservato ciò, avrebbe ottenuto la vita eterna. 31 Ivi, pp. 19-23. «Ipsi sum desponsata, cui Angeli serviunt, cuius pulchritudem Sol, et Luna mirantur, ipsi soli servo fidem, ipsi me tota devotione committo» (Ivi p. 22). 32 Ordo rituum et caerimoniarum suscipiendi habitum monialem, et emittendi Professionem, ad Venetae diocesis usum. Iussu Illustriss.mi et Reverendiss.mi D.D. Francisci Vendrameni Patriarchae Venetiarum, apud Danielem Bixuccium, Venetiis 1612 (cfr. anche la successiva edizione per Andrea Poleti, Venetiis 1694). Il rituale veneto era dichiaratamente modellato su quello milanese: «hoc opus compactum est ex multis et m.s. ritualibus, et impressis, et praecipuae ex illo praeclaro Mediolanensi». 33 E. Novi Chavarria, op. cit., p. 34.

111 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Dio34. Dopo che la fanciulla pronunciava la sua volontà di immolarsi a Dio, la priora del monastero apriva la porta claustrale e faceva entrare la vergine affermando che ella perdeva il nome secolare e acquistava quello da religiosa, richiudendo la porta monastica subito dopo il suo passaggio35. Aggiunte furono introdotte anche alla cerimonia di professione: dopo che la novizia si prostrava a terra in attesa della pronuncia dei voti, ella veniva ricoperta da un telo nero, rimanendo sotto questa coltre mortale fino al Surge del celebrante, quando, rialzandosi, pronunciava l’Ecce venio36. Con una certa ridondanza barocca, questa scena altamente drammatica veniva ripetuta per ben tre volte. Nel cerimoniale veneto, inoltre, la neoprofessa doveva abbracciava l’altare della chiesa interiore, dichiarando di offrirsi in sacrificio a Dio come ostia vivente, aumentando così il patetismo e la valenza sacrificale della professione37. Al di fuori di quest’ultimo elemento, le altre aggiunte furono poi introdotte anche a Milano nel cerimoniale stampato da Federico Borromeo nel 1617, così da essere adottate anche dalle diocesi suffraganee38. Nonostante gli sforzi uniformatori di Carlo Borromeo e dei vescovi post-tridentini, va notato il fatto che nell’Italia barocca continuarono a sopravvivere consuetudini e rituali di professione diversi, soprattutto nei monasteri soggetti agli ordini regolari. Come notava Elisa Novi Chavarria, «il disciplinamento post-tridentino non sembra aver contribuito, nel caso dei rituali di monacazione femminile, a consolidare un unico e condiviso sistema di segni e forme cerimoniali»39. Per fare solo un esempio, i rituali

34 «Si viceris, faciet te Deus columnam in templo, et foras non egredieris amplius» (Ordo rituum et caerimoniarum, cit., p. 3). 35 Ivi, p. 4. 36 Ivi, p. 25. 37 Ivi, pp. 26-27. 38 Ordo admittendi virgines ad monasterii ingressum. Habitumque regularem suscipiendi, Ritus item servandus ad professionis emissionem, ad Provintiae Mediol. usum. Iussu Illustrissimi, et Reverendissimi D.D. Federici Cardinalis Archiepiscopi editus, Apud haer. quon. Pacifici Pontii, et Ioan. Baptistam Piccaleum, Mediolani 1617. Anche il card. Pietro Campori diede alle stampe nel 1630 un Ordo per la diocesi di Cremona in tutto simile a quello federiciano (Ordo recipiendi virgines in primo ingressu ad monasteria. Tradendique Habitum Religionis, nec non admittendi eas ad Professionem, Ad usum Diocesis Cremonen. Illustriss. et Reverendiss. DD. Petri Cardinalis Camporei Episcopi iussu editus, apud Bartholomaeum et haered. Barucini de Zannis, Cremonae 1630). 39 E. Novi Chavarria, op. cit., p. 32.

112 «Ut vivat mortua, et moriatur viva» delle monache benedettine stampati a Milano (1607) e a Roma (1657) accrebbero ancora di più gli elementi di patetismo e spettacolarizzazione della cerimonia40. La neoprofessa, infatti, dopo essersi prostrata a terra sopra un manto nero, veniva ricoperta da un altro telo nero e le venivano posti vicino due ceri accesi, uno in corrispondenza della testa, l’altro dei piedi, a significare la vita da morta, e la morte da viva («in signum, ut vivat mortua, et moratur viva»)41. La donna rimaneva a terra in silenzio, come morta, mentre il sacerdote pronunciava nuove orazioni, rialzandosi solo quando questo esclamava: «surge, quae dormis, et exurge a mortuis et illuminabit te Christus»42. Nel cerimoniale romano, inoltre, ad accompagnare questi gesti era il suono delle campane a lutto che enfatizzava ancora di più la drammaticità dell’evento43.

4. Le semireligiose e la ripresa della consecratio virginum Nella diocesi di Milano, il fenomeno delle semireligiose si collegò principalmente alla Compagnia di Sant’Orsola, stabilita nel territorio ambrosiano da Carlo Borromeo nel 156744. Com’è noto, la Compagnia di Sant’Orsola, fondata a Brescia da Angela Merici nel 1535, proponeva alle giovani un tipo di consacrazione a Cristo che, sul modello delle vergini della Chiesa primitiva, si esprimeva unicamente in un «fermo proposito» di vita verginale senza voti solenni, senza clausura e senza vita comunitaria, continuando a vivere nelle loro famiglie e a mantenersi coi frutti del proprio lavoro45.

40 Ordo admittendi virgines ad monasterii ingressum, Habitumque regularem suscipiendi, Ritus item servandus ad professionis emissione. Secundum morem Congregationis Cassinensis, Apud haer. quon. Pacifici Pontii, et Ioan. Baptistam Piccaleum, Mediolani 1607; et admittendi ad professionem moniales Ordinis Sancti Patris Benedicti, Typis Francisci Caballi, Romae 1657. 41 Ordo admittendi virgines, cit., p. 19; Modus conferendi habitum, cit., pp. 61-66. 42 Ibidem. 43 Modus conferendi habitum, cit., p. 66. 44 Sulla Compagnia di Sant’Orsola nella diocesi di Milano cfr. C. Di Filippo, Le orsoline milanesi e lombarde: educare fra parrocchia e collegio, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», XIV, 2007, pp. 77-93; G. Vigotti, S. Carlo Borromeo e la Compagnia di S. Orsola, Scuola tipografica San Benedetto Viboldone, Milano 1972. 45 Cfr. G. Zarri, Recinti, cit., pp. 178-200, 417-451.

113 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Dato il richiamo della Compagnia alla tradizione della Chiesa primitiva, anche il rituale milanese di ingresso tra le orsoline – stampato nel 1585 e posto alla fine delle regole – ripristinava in parte il rituale della consecratio virginum, ben noto a Carlo Borromeo46. Come nei cerimoniali monastici, anche il rituale milanese della Compagnia di Sant’Orsola si divideva in due momenti: l’accettazione nella Compagnia di Sant’Orsola con la cerimonia di velamento a 12 anni compiuti e lo stabilimento in essa a 16 anni. A differenza dei rituali monastici dell’Ordo borromaico, tuttavia, le orsoline e il celebrante condividevano lo stesso spazio della chiesa, essendo le orsoline prive di clausura. Fin dal titolo della prima cerimonia, è chiara la ripresa del termine velatio (velamento) dalla più antica forma della consecratio virginum. Durante il velamento, il celebrante, dopo la messa, chiamava a sé la vergine interrogandola sulla propria volontà di consacrare la propria verginità a Cristo47. Dopo la risposta affermativa di questa, avveniva la vestizione, in cui la vergine si rivestiva del nuovo abito e del velo e, dopo un’orazione con la quadruplice invocazione al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo e a S. Orsola, la cerimonia si concludeva con la benedizione finale48. Nel successivo rituale di stabilimento, il sacerdote, dopo aver benedetto il cingolo e il velo, invitava una prima volta la vergine ad avvicinarsi all’altare ed ella rispondeva restando in ginocchio a sei passi di distanza. Al secondo invito del celebrante, ella rispondeva incamminandosi verso il sacerdote con due candele accese e, al terzo invito, si inginocchiava di fronte all’altare formulando la promessa di stabilimento49. La cerimonia si concludeva con la consegna del cingolo, del velo, della candela, del giglio e della corona e, dopo il canto dell’antifona Ipsi sum desponsata, con la benedizione solenne50. Il rituale di ingresso nella Compagnia di Sant’Orsola, più semplice di quelli in uso presso i monasteri, era tutto incentrato sulla promessa di verginità, sancita dal velamento e confermata in seguito durante lo stabilimento. I riferimenti alla simbologia sponsale erano, inoltre,

46 Forma di cerimonie da usare, quando le vergini si velano, e si accettano nella Compagnia di S. Orsola, in Regola della Compagnia delle Vergini della gloriosa vergine, e martire S. Orsola, Appresso Pacifico Pontio, In Milano 1585, ff. 15r-22v. 47 Ivi, f. 15v. 48 Ivi, ff. 15v-18r. 49 Ivi, ff. 19r-v. 50 Ivi, ff. 20r-22v.

114 «Ut vivat mortua, et moriatur viva» decisamente prevalenti rispetto quelli della morte-rinascita, essendo assenti le parti più drammatiche che contrassegnavano la professione monastica. Oltre alle orsoline viventi nelle proprie case, alla fine del XVI secolo si diffusero nella diocesi di Milano alcune congregazioni semireligiose che praticavano la vita comune in case-collegi. Tra i pochi rituali superstiti, si intende qui esaminare il cerimoniale di stabilimento – stampato nel 1637 – in uso presso la congregazione della Purificazione di Arona, fondata nel 1590 da Margherita Trivulzio Borromeo, madre di Federico Borromeo, per l’istruzione delle fanciulle nobili e popolane51. Il rituale di stabilimento rifletteva il carattere “misto” della forma vitae delle semireligiose congregate, a metà strada tra le monache di clausura e le orsoline secolari. Tale rituale, da celebrarsi dopo due anni di noviziato, univa infatti in un’unica cerimonia alcuni elementi presi dai cerimoniali monastici con altri presi dalla consecratio virginum. L’iniziale interrogazione del celebrante sulla volontà della vergine di lasciare il secolo ed abitare nella casa di Dio, sebbene ripresa dai cerimoniali monastici, non avveniva attraverso la grata claustrale – non essendo la congregazione sottoposta a clausura – ma di fronte all’altare, con la vergine inocchiata davanti al celebrante52. In seguito alla consegna di alcuni oggetti simbolici e al consueto rito di vestizione, il cerimoniale presentava un inserto tratto direttamente dalla consecratio virginum: la domanda del celebrante sulla volontà della vergine di sposare Cristo e la risposta affermativa di questa53. Successivamente, dopo la triplice chiamata del sacerdote e la risposta della giovane, ella si inginocchiava e pronunciava il voto semplice castità e promessa di stabilimento a vita nella congregazione54. La vergine, quindi, riceveva altri oggetti simbolici, tra cui anche l’anello, ulteriore richiamo alla cerimonia della consecratio

51 Ordine, e modo di ricevere al stabilimento le vergini della Congregatione della Santissima Vergine Maria in Arona, Apud Philippum Ghisulphium, Mediolani 1637, in Archivio Storico della Diocesi di Milano, sez. XII, vol. 154, fasc. 3. Sulla congregazione di Arona cfr. F. Arlati, Margherita Trivulzio Borromeo, i gesuiti e il Collegio della Purificazione di Arona, in «Archivio italiano per la storia della pietà», XXXIII, 2020, pp. 273-305. 52 Ordine, e modo di ricevere, cit., pp. 3-4. 53 «Vis ne benedici, et Domino Iesu Christo summi Regis filio desponsari?» R. «Volo; Optimum est enim gratia stabilire Cor» (Ivi, p. 9). Cfr. Pontificale Romanum Clementis VIII Pont. Max. iussu restitutum atque editum, apud Iacobum Lunam, Romae 1595, p. 191. 54 Ordine e modo di ricevere, cit., pp. 10-11.

115 Rinascite, rinascenze, rinascimenti virginum, dalla quale si riprendevano direttamente alcune formule sponsali55. La cerimonia si concludeva infine con il celebrante che affidava la vergine alla «Madre del Collegio» e con la benedizione solenne56.

5. Confronto e conclusioni Dal confronto tra i rituali monastici post-tridentini e i cerimoniali in uso presso le semireligiose qui analizzati emergono alcune interessanti considerazioni. Il principale elemento comune a tutti i rituali sia monastici sia semireligiosi era la vestizione (o velamento), ovvero l’abbandono delle vesti secolari e l’assunzione di un nuovo abito, con il successivo conferimento di altri simboli. Data la grande importanza che rivestiva l’abito in età moderna, esso costituiva il passaggio obbligato di tutte le forme di vita consacrata femminile57. La simbologia di morte e rinascita che esso sottende assumeva tuttavia diverse sfumature: se nei cerimoniali monastici veniva maggiormente enfatizzato l’elemento luttuoso e sacrificale della morte nel secolo, nei rituali semireligiosi era maggiormente valorizzato l’elemento sponsale proprio dell’antico rituale di consecratio virginum. La differenza più rilevante tra i rituali di consacrazione monastici e quelli semireligiosi – oltre, ovviamente, al contenuto della professione che andava dalla professione solenne dei tre voti, al proposito di verginità, al voto semplice di castità e di permanenza perpetua nell’istituto – stava nell’assenza nei cerimoniali semireligiosi milanesi della pratica della tonsura, ovvero il taglio dei capelli della consacranda, cosa che, insieme alla vestizione, aveva costituito fin dall’origine il proprium della consacrazione monastica, comune a Oriente e Occidente. Al contrario della vestizione, la tonsura, sottolineando unicamente la rinuncia al mondo, sembrò essere abbandonata dalle semireligiose, diventando un elemento prettamente monastico.

55 «Desponso te Iesu Christo Filio Summi Patri, qui te illesam custodiat. Accipe ergo anulum fidei signaculum Spiritus Sancti, ut Sponsa Dei voceris, si ei fideliter, et munde servieris. In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti» R. «Ipsi sum desponsata, cui Angeli serviunt, cuius pulchritudinem Sol, et Luna mirantur, ispi soli servo fidem, ipsi me tota devotione committo». (Ivi, pp. 12-13). Cfr. Pontificale Romanum Clementis VIII, pp. 210-215: 212-213. 56 Ordine e modo di ricevere, cit., pp. 14-15. 57 Sull’importanza dell’abito nelle diverse forme di vita consacrata femminile cfr. La sostanza dell’effimero: gli abiti degli ordini religiosi in Occidente, a cura di G. Rocca, Edizioni Paoline, Roma 2000.

116 Rinascimento, una parola plurale

PAOLO PROCACCIOLI

The contribution refl ects on the plural nature of the Renaissance historio- graphic category, a concept that it illustrates by recalling the strongly characte- rized outcomes of institutions or practices that have marked that civilization. Such, for example, is the academy, which the sixteenth century resumes in terms of a republic of equals. Or even the printing house, which in Italy, in particular in Venice, is experiencing an acceleration in which some litera- ti (polygraphers) stand out who in their mediation function respond to the needs of publishers and readers by guaranteeing a stabilized linguistic role and offering terms of themes, genres and material structure. This is also the new role recognized to art and the relationship that art established with the literary word. The cases of Aretino, Giovio, Vasari, Ripa, Marino reveal ways of connection between literature and art that had no comparison either in literature or in the art of previous seasons. A way based on dialogue that cre- ated a widespread sensitivity capable of permeating the courts and the whole of society and becoming a custom. All things that have contributed to giving life to an intimately aggregating civilization based not on selection but on the coexistence of fi gures and voices. And whose reading today cannot fail to be equally open and unifying, that is, plural.

1. Preso alla lettera il titolo qui proposto è un’ovvietà. Non ci sono epoche infatti che non siano intimamente e inevitabilmente plurali, e anzi è proprio in grazia di quella loro natura che ciascuna delle etichette con le quali le indichiamo può ambire a rappresentare in maniera non del tutto inadeguata lo spezzone di realtà compreso nelle date con cui le convenzioni delimitano periodizzazioni e categorie. In questo senso diventa quasi superfluo precisare che qui ‘plurale’ non mira a definire una qualche esclusività di quel momento in contrapposizione a altri che invece sarebbero compattamente unitari, piuttosto sollecita un indugio su un aspetto che in quella fortunata categoria storiografica rivela una sua particolarità.

117 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Non è un caso che nella percezione diffusa il Rinascimento non sia solo arte o solo letteratura o solo pensiero, così come non sia solo ri- nascita dell’antico. È la risultante della combinazione di tutto questo. Così come non è un caso che concetti come quello di ‘uomo universale’ o di ‘arti sorelle’ siano nati proprio per dar conto di fenomeni relativi a quella specifica cultura: prima di diventare vulgata storiografica o categorie critiche sono stati un dato di fatto riflesso in modi di essere e in pratiche. Recuperarli vuol dire certo riconoscerli nelle opere e nelle parole degli autori, ma vuol dire anche impegnarsi a affiancare alle messe a fuoco storiografiche e critiche legittimate dalle singole prospettive disciplinari altre che si propongano approcci unitari ai testi, sia a quelli verbali che a quelli figurativi, plastici, urbanistici, musicali... Premetto però che in questa sede non voglio affrontare l’argomento per via di appelli o di categorie storiografiche o critiche o estetiche. Piuttosto voglio provarmi a guardare da vicino come si modificano, nell’epoca considerata, alcuni degli istituti e delle pratiche che riteniamo a ragione non solo costitutivi ma anche rappresentativi della lunga stagione che chiamiamo Rinascimento.

2. Penso alla corte e all’accademia, per esempio, istituti e anche, concretamente, luoghi, che prima di ogni altro potremmo convocare a rappresentare quella società e la civiltà che ne è stata l’espressione. A volersi limitare all’accademia va detto che naturalmente non c’è niente di nuovo nel fatto che esponenti di una società si aggreghino; ogni tempo e ogni civiltà ha sentito quella stessa esigenza e le risposte, per limitarci alle stagioni contigue a quella rinascimentale, erano state per esempio il convento e la confraternita o anche la brigata e lo studium, come in altre sarebbero stati i salotti. La stessa accademia del resto, e il nome non ne fa mistero, era la ripresa umanistica di un istituto classico. Ma le accademie rinascimentali hanno qualcosa di loro proprio. Al loro interno all’esigenza di confronto e dialogo si affianca progressivamente una volontà livellatrice che contrasta con la rigidità tanto della società medievale che di quella di antico regime e finisce per tradursi in un ordinamento di tipo repubblicano. La cosa è nota (a metà secolo Bartolomeo Taegio nel suo Liceo ne parlava come di una «picciol Republica»)1 e non vale la pena insisterci più di tanto. Basti ricordare il fatto, sul quale di recente ha richiamato l’attenzione

1 Cito dalla stampa Milano, Gottardo da Ponte, 1572, a c. 18v.

118 Rinascimento, una parola plurale

Maurizio Campanelli2, che il punto d’arrivo di tutto il lungo processo di elaborazione degli statuti accademici cinque- e secenteschi, e cioè quello messo a punto da Gravina per l’Arcadia, prefigura una moderna costituzione appunto repubblicana. Già nelle modalità del suo stesso adattarsi a tempi e luoghi l’accademia rinascimentale rivela una novità forte rispetto al prototipo antico e alle sue prime riprese umanistiche. Se nel secondo Quattrocento la formazione di un sodalizio accademico era stata lo sbocco naturale di ambienti saturi di cultura classica, in particolare greca – si trattava, ricordo, dei circoli romani di Bessarione e di Pomponio Leto e di quello fiorentino di Ficino –, solo qualche decennio dopo a Siena l’accademia sarebbe stata interpretata con maggiore libertà e avrebbe dato vita a consessi meno elitari (accanto alla Grande Accademia e a quella degli Intronati avremmo avuto quella dei Rozzi, che riuniva degli artigiani). Si apriva progressivamente la strada a un’interpretazione nuova dell’istituto, che riconosciamo moderna e che avrebbe prodotto lo statuto graviniano sopra rievocato. Uno degli aspetti di maggiore interesse del fenomeno sta proprio nel fatto che ciascuno di quei sodalizi, per quanto nettamente – e, va detto, orgogliosamente – definito, non si pensava in termini di esclusività, semmai di complementarietà. Spesso già nella scelta dei nomi-bandiera si trovano indizi di un dialogo a distanza che nasceva dalla consapevolezza della parzialità dei punti di vista, e dunque, appunto, della loro complementarietà, dalla quale consapevolezza discendeva la presa in carico di tematiche differenziate. Si è appena visto come a Siena agli aristocratici riuniti nell’accademia degli Intronati si opponessero gli artigiani raccolti nella ‘congrega’ dei Rozzi; agli Infiammati di Padova a Firenze si rispondeva con gli Umidi; se tanti consessi si definirono Ardenti non mancò chi preferì riconoscersi in quello dei Gelati, ma in questi e in tutti gli altri casi si trattava di un’opposizione nel segno di un riconoscimento reciproco e di una cooperazione. Alla fine del Seicento si poteva sostenere che le accademie «si possono con tutta ragione intitolare doviziosi Mercati di

2 «Per l’avanzamento del nostro Commune». Diritto e filosofia alle origini dell’Ar- cadia, in Canoni d’Arcadia. Il custodiato di Crescimbeni, a cura di Maurizio Campa- nelli, Pietro Petteruti Pellegrino, Paolo Procaccioli, Emilio Russo e Corrado Viola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019, pp. 11-32.

119 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Virtù, ove l’uno permuta coll’altro le merci dell’Intelletto»3. Se questa era la logica condivisa, del tutto naturale che la particolare ‘societas mercatorum’ che era l’accademia avesse anche una sua specifica ragione sociale, quella affidata al nome e all’impresa. Così come era naturale che nella società di antico regime ogni accademia fosse in relazione talora strettissima con il contesto politico. Per una minima esemplificazione richiamo i casi macroscopici di Firenze, Napoli, Roma e, a seguire, Venezia. Ricordo come il duca Cosimo cogliesse le potenzialità dell’istituto e intervenisse ex auctoritate sul consesso degli Umidi per trasformarlo nell’Accademia Fiorentina. Come invece a Napoli i viceré per tutto quel secolo e il successivo alternassero attenzione e diffidenza per cui le accademie vennero aperte o chiuse a seconda delle inclinazioni e dei timori del singolo governante. Di tutt’altro segno la situazione di Roma, per lo meno della Roma dei tre lustri di Paolo III, che Dionigi Atanagi in una pagina famosa illustra in questi termini: I quindici anni del Pontificato di Papa Paolo Terzo si posson dire tanti anni di secol d’oro: conciosiacosa che tutto quel tempo Roma godesse una pace veramente d’oro, piena di tranquillità, e senza alcuno turbamento, od affanno. Le virtu, le lettere, e tutte le arti liberali fiorirono. Percioche veggendosi a belli studij, et al bene, et virtuoso operare proposti altissimi premij da quel dottissimo, et ottimo, et liberalissimo Pontefice; il quale da ogni parte, trahendogli fino de le spelunche, chiamava a se i valenti huomini, de quali sopra ogni altro Principe fu vago, per vestirgli di porpora, et per porgli ne piu alti gradi d’honore; ciascuno a prova s’ingegnava di farsi, e con alcun degno effetto di dimostrarsi valoroso. Levaronsi adunque in quel felicissimo tempo ne la città di Roma molte Academie di diversi elettissimi, e famosi ingegni, sì come furono quelle de la Virtu, de la Poesia nuova, de lo Studio de l’Architettura, de l’Amicitia, del Liceo, l’Amasea, e piu altre. Tra le quali non inferiore ad alcuna fu l’Academia de lo sdegno, de la quale fu autore, e fondatore l’unico Signor Girolamo Ruscelli insieme co’ nobilissimi spiriti M. Tomasso Spica, et M. Gio. Battista Palatino. Essendo adunque gli Academici sdegnati ridotti insieme per eleggersi un Protettore; l’Atanagio, il quale era membro di quel corpo, quantunque picciolo, gli confortò col presente Son. a fare, sì come poi fecero, elettione di Monsignor Alessandro Cardinal Farnese:

3 Così Giuseppe Malatesta Garuffi nell’Introduzione a L’Italia accademica, Rimini, Dandi, 1688, c. n.n.

120 Rinascimento, una parola plurale

il quale era allhora in sul primo fiore de l’età, e di quelle virtu, che nel progresso de gli anni fatte perfette, hanno poi successivamente prodotto quelli rari, e pregiati frutti, che il mondo sa, ad ornamento de la sua Illustriss. casa, a gloria di se, e a beneficio di Santa Chiesa, e de la Republica Christiana4. Le parole con cui ad appena pochi anni dalla morte di papa Paolo (1549) viene rievocata la stagione delle accademie farnesiane sembrano anticipare quelle con cui all’inizio del Seicento sarà normale parlare di quella romana come dell’arcicorte d’Italia. Quasi che tra gli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento si fosse prodotta una vera e propria identificazione tra la Roma paolina e l’arciaccademia nella quale l’Atanagi vedeva riuniti nel nome dei Farnese i «diversi elettissimi e famosi ingegni» e i cultori di tutte le virtù e di «tutte le arti liberali». Non così fuori d’Italia, o per lo meno non in questi termini. In Francia e in Inghilterra per esempio, complice una situazione politica segnata dall’accentramento statale, si andrà verso la formazione di accademie di stato, e saranno da una parte l’Académie Française e dall’altra la Royal Society. Si badi, l’una fondata nel 1635, l’altra nel 1660, fuori della stagione rinascimentale e fuori di ogni logica plurale e repubblicana. Una repubblica ci sarà, ma sarà la République des lettres, sovranazionale e ideale, senza statuti né sedi né cerimoniali né riti, e naturalmente senza nessun registro che sancisse e disciplinasse le affiliazioni.

3. I programmi di una delle accademie cinquecentesche, quella Veneziana o della Fama, si prestano a considerazioni che allargano la prospettiva di analisi a un territorio contiguo, quello dell’editoria. Nella sua breve vita il sodalizio fondato e condotto da Federico Badoer si distinse su tutti gli altri per l’impegno editoriale, e non a caso nel proporre un’immagine idealizzata dell’accademia il fondatore la indicava in una statua eretta saldamente su due piedi; di essi uno, il

4 Rime 1565, cc. Ll2v-Ll3r. Riporto di seguito il sonetto cui si allude e che si legge a c. 208r: «O de leggiadro sdegno anime accese, | C’hoggi raccolte in bella, e dotta schiera | Dritto poggiate a quella piaggia altera | U’ l’alato destrier prima discese; | Se v’accolga la sua lieta, e cortese | Con l’alme muse la gentil guerrera, | E’n bagnar voi (come’l cor brama, e spera) | Sian tutte al fonte d’Hippocrene intese; | Gli occhi volgete al giouen sacro, e degno: | Che per appoggio del cadente mondo, | Et per rifugio di virtute è nato: | Et del suo lume, a cui nullo è secondo; | Scorta vi fate: e’l chiaro vostro sdegno | [P]rodurrà tosto effetto alto, e lodato».

121 Rinascite, rinascenze, rinascimenti destro, era costituito dalla stamperia, l’altro dalla biblioteca. Era cioè un istituto che riconosceva nel libro l’oggetto privilegiato di studio e lo sbocco delle attività degli accademici. Quella tra accademia e stamperia era del resto una prossimità ovvia per Venezia: lo era stata all’inizio del secolo con l’accademia di Aldo Manuzio e cinquant’anni dopo lo era stata con l’accademia dei Pellegrini; il fatto che quest’ultimo fosse un sodalizio fittizio nato dalla fantasia di Anton Francesco Doni e dalla disponibilità dell’editore Francesco Marcolini non solo non inficia l’assunto ma lo conferma. Le disavventure cui andò incontro il Badoer e con lui la sua accademia fecero sì che quanto si poté effettivamente realizzare fosse alla fine poca cosa, ma qui interessa soprattutto il progetto a monte, grandioso e tradotto in una pubblicazione stampata dalla stessa accademia nel 1558, la Somma delle opere5. Quella di Badoer era l’accademia come la si poteva immaginare a Venezia, in connessione strettissima con un mondo, quello delle tipografie, che proprio negli anni Cinquanta del secolo era attraversato da fermenti che lo avrebbero segnato in profondità. Erano gli anni della massima operosità di quei letterati che poi sarebbero stati liquidati come ‘poligrafi’. Addetti ai lavori che con le loro curatele, traduzioni, adattamenti, non esclusi furti e plagi veri e propri, facevano della collaborazione con i grandi e i piccoli editori veneziani il loro campo d’azione privilegiato. Anche qui niente di nuovo, dal loro avvio in Germania e poi sempre senza soluzione di continuità gli imprenditori e i tecnici addetti alla stampa avevano aperto le porte delle tipografie a quanti avevano competenze con il libro e la scrittura, solo che nella Venezia dei decenni centrali del Cinquecento quelle competenze erano venute acquistando un peso nuovo e vennero non solo riconosciute pubblicamente – dichiarate con enfasi nei frontespizi e nei paratesti – ma esaltate come mai prima. I più intraprendenti di quei poligrafi arrivarono a connotare i libri che pubblicavano e a conferire loro una facies che li rese riconoscibili. In quanto testi e in quanto prodotti. Riguardava la veste linguistica, motivo di ansie

5 Somma delle opere che in tutte le scienze et arti piu nobili, et in varie lingue ha da mandare in luce l’Academia Venetiana, parte nuove, et non piu stampate, parte con fedelissime tradottioni, giudiciose correttioni, et utilissime annotationi riformate. Nell’Academia Venetiana, 1558. L’edizione della Somma in Valeria Guarna, L’Accademia veneziana della Fama (1557-1561). Storia, cultura e editoria. Con l’edizione della Somma delle opere (1558) e altri documenti inediti, Manziana, Vecchiarelli, 2018, pp. 207-268.

122 Rinascimento, una parola plurale generalizzate in una stagione nella quale la grammatica del volgare non era ancora stabilizzata, ma riguardava anche le tematiche, i generi e la struttura materiale di quei libri. Erano, gli anni Quaranta e Cinquanta, quelli delle raccolte. Di lettere, di rime, di commedie, di orazioni, di novelle. Testi nei quali ai nomi degli autori dei singoli componimenti si affiancarono quelli di coloro che di volta in volta avevano messo mano all’allestimento delle varie sillogi, con una moltiplicazione di figure – tutte con la loro brava quota di autorialità – e di piani di lettura. La scena non era mai stata così fitta. Così, appunto, plurale. Nel 1552 Giolito stampava le Rime di diversi illustri signori napole- tani, e d’altri nobiliss. ingegni. Nuovamente raccolte, et con nuova ad- ditione ristampate. Era il quinto di una serie di “libri di rime” che lo stesso Giolito aveva inaugurato nel 1545 con le Rime diverse di molti eccellentissimi auttori nuovamente raccolte. I curatori erano stati Lo- dovico Domenichi nel ’45 e Lodovico Dolce nel ’52. Nel passaggio dal primo al quinto libro si erano alternati tanto gli editori (che era- no stati, nell’ordine: Giolito [I-II], Arrivabene [III], Giaccarello [IV], Giolito [V]) quanto i curatori (Domenichi e Dolce per i libri I e V; ignoti quelli degli altri tre), ma era cambiato anche il bacino di prove- nienza dei testi. Sia quello socio-professionale sia quello propriamente geografico. Da una prima silloge costituita di componimenti opera di «molti eccellentissimi auttori» (I) si era passati a una seconda allargata a comprendere «diversi nobili huomini et eccellenti poeti» (II). Con quest’ultima al lettore si proponeva una selezione insieme letteraria («eccellenti poeti») e sociale («nobili huomini»). Il passo successivo, la raccolta del 1552, fu un’operazione ancora più calibrata e fu il libro dolciano: geograficamente e politicamente circoscritto («signori napo- letani») ma socialmente ancora più allargato («diversi illustri signori» e «altri nobilissimi ingegni»). È evidente che la qualità letteraria da sola non era tale da rispondere alle richieste di promozione (di legittima- zione) che si levavano da quella società. Un discorso analogo si può fare per quanto riguarda le raccolte epistolari, dove la componente professionale (le lettere modello, in particolare quelle del segretario) ebbero presto il sopravvento su quelle degli scrittori. Con la caduta della barriera linguistica e l’apertura definitiva al volgare il libro si era aperto ai temi e alle voci del presente e era venuto perdendo lo strabismo cui lo aveva condannato il culto delle

123 Rinascite, rinascenze, rinascimenti lingue classiche e che aveva contraddistinto una parte significativa della cultura nella stagione immediatamente precedente. Ma non era solo questione di lingua; con quella cambiavano i temi e i modi, che venivano aggiornati, il che voleva dire per lo più ibridati. Così come non era questione di competenze ma anche di visione della figura e della funzione dell’uomo di lettere. E furono proprio i poligrafi i più pronti a farsi carico delle nuove mansioni e fu per questo che nelle redazioni e nelle tipografie veneziane trovarono spazi in grado di rispondere alla loro intraprendenza. Il successo che arrise loro è la riprova della funzionalità – della necessità – della loro azione. Non è un caso che una volta assolto al loro compito quelle figure siano scomparse dai frontespizi, riassorbite nei ruoli della convenzione. La creazione delle nuove figure era stata un modo per rispondere nella maniera più adeguata ai nuovi bisogni di una società in rapidissima evoluzione che non si riconosceva nella rigidità delle compartimentazioni professionali precedenti e che richiedeva non il nuovo per il nuovo ma l’«utile» e il «dilettevole»6. Gli argomenti potevano anche essere convenzionali (l’utilità non comportava il culto del nuovo) ma dovevano essere presentati in modalità queste sì nuove che riguardavano prima di tutto l’impianto e la lingua (il diletto era quello della fluidità dell’argomentazione e della facilità della lettura non quello della comicità dei suoi contenuti).

4. Si è detto del nuovo delle accademie e di quello dei libri, ma a marcare in senso innovativo la civiltà del pieno Rinascimento e a darle un’impronta che è quella che ora soprattutto ce la rende riconoscibile fu il ruolo nuovo riconosciuto all’arte e il rapporto che l’arte stabilì con la parola letteraria. A dare conto del fenomeno richiamerò una manciata di nomi: Aretino, Giovio, Vasari, Ripa, Marino. Quattro letterati e un artista le cui carriere coprono tutto il Cinquecento e le cui opere possono dare l’idea della connessione strettissima che allora unì parola e immagine. Aretino è il letterato che per primo e più di tutti nella sua pagina ha dato spazio, un grande spazio, alla materia artistica. Non solo ha dato spazio all’arte ma ha fatto di quella una delle fila delle quali si è servito con maggiore assiduità nella tessitura dei suoi testi. Lo ha

6 Due categorie che nei frontespizi e nelle dediche del tempo sono presenti come mai prima e come mai più in seguito.

124 Rinascimento, una parola plurale fatto come ecfraste, come apologeta, e anche come teorico – sia pure un teorico sui generis – al punto che nel 1557, lo scrittore era morto da un anno, Lodovico Dolce ha potuto indicare in lui l’esperto di pittura per antonomasia e introdurlo come interlocutore principale di una trattazione specifica, il Dialogo della pittura intitolato l’Aretino. Ma prima del frontespizio dolciano erano stati gli artisti a riconoscere l’autorevolezza della parola di quel particolarissimo intendente e a tributargli omaggi clamorosi documentati da una serie di ritratti degna di un re (ritratti firmati da pittori del calibro di Sebastiano del Piombo, Tiziano, Tintoretto, Moretto, o incisori come Marcantonio Raimondi o Caraglio, o scultori come Jacopo Sansovino, Leone Leoni e Alessandro Vittoria). È stato nella sua pagina, soprattutto in quella epistolare, che letteratura e arte hanno rivelato la loro prossimità. Lì la parola si era fatta cronaca dei fatti d’arte, aveva registrato l’avvicendarsi delle figure e degli ideali, aveva discusso i concetti, rievocato e illustrato gli scenari – gli stessi che poi avrebbero incarnato per sempre l’idea stessa di Rinascimento –, celebrato opere e autori. A tirare le somme risulta che più di un quinto delle sue lettere (695 su un totale di 3331) parlavano di arte: non era solo un’apertura, era una legittimazione, l’indicazione di una prossimità di temi e di sensibilità che in quei termini era del tutto inedita e che una volta imposta non sarebbe più stata messa in discussione. Se Aretino era stato il cronista e l’apologeta Giovio indossò soprattutto le vesti del collezionista. Ma del collezionista che al demone del numero degli oggetti affiancava quello della loro conoscenza e descrizione. Recuperò e reinventò il termine ‘museo’ e volle tanto la sua collezione di ritratti quanto gli elogia dei personaggi ritratti proposti nel nome della prossimità di parola e immagine: Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita (1546), Elogia virorum bellica virtute illustrium veris imaginibus supposita quae apud Musaeum spectantur (1551); la stessa cosa nel Dialogo dell’imprese militari e amorose (postumo, 1555). Più tardi sarà a quei modelli che si ispirerà Vasari quando nella giuntina anteporrà a ciascuna delle Vite il ritratto dell’artista. Nelle opere di Giovio era questione di biografie (come in Vasari) e di ‘imprese’ (come in Alciato), ma ormai la connessione parola-immagine era stretta e quale che fosse il genere era destinata a diventarlo sempre più. Già Vasari del resto, e non solo con le biografie, aveva dato prova di saper accostare penna e pennello e di ritenere l’una e l’altro necessari – con un lessico allora a venire potremmo dirli organici – all’espressione

125 Rinascite, rinascenze, rinascimenti compiuta di una poetica che non era più riducibile a quella dell’artista della convenzione. A metà Cinquecento l’ideale d’artista divinato dall’Alberti era diventato realtà. A dare al percorso tutta la sua evidenza contribuirono, proprio in chiusura di secolo, due nomi dal peso e dai destini opposti, quello di Giambattista Marino, che sarebbe risuonato per tutta Europa, e quello di un semisconosciuto letterato perugino, Cesare Ripa, la cui opera però, l’Iconologia overo descrittione dell’imagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi (1593 senza immagini, 1603 con un ampio apparato figurativo), tradotta in più lingue e adattata più volte, avrebbe valicato il XVI e il XVII e attraversato quasi per intero il secolo successivo (l’ultima edizione nota è quella di Amsterdam del 1786). La Galeria lirica del primo entrava in competizione esplicita con quelle dei principi e ne costituiva una versione idealizzata, prefigurazione di quella reale che era nei desideri del poeta. Il repertorio del secondo, opera diversa dalla precedente per genere e per qualità letteraria ma di pari fortuna, avrebbe rappresentato il momento apicale di questo percorso. Nelle carte delle sue tante edizioni sarebbe stato impossibile distinguere – per genesi, per apporto e per gerarchia – la componente letteraria da quella figurativa. Era un modo di connettere letteratura e arte che non aveva riscontri né nella letteratura né nell’arte delle stagioni precedenti a quella del pieno Rinascimento. Un modo basato sul dialogo e che creò sì discipline fino a quel momento sconosciute – la storia dell’arte, la critica d’arte e l’iconologia – ma che non si esaurì in esse. Prima ancora aveva creato una sensibilità diffusa che aveva permeato le corti e l’intera società e che si era fatta costume. Di tutto questo sono riprova iniziative editoriali che vedono all’opera ancora una volta le stamperie veneziane, che ignorano le barriere disciplinari e sollecitano a scrivere d’arte i campioni della pattuglia dei poligrafi, il Dolce del già evocato Dialogo della pittura, il Girolamo Ruscelli delle Imprese illustri (1566), e più tardi il Francesco Sansovino della Venetia città nobilissima (1581).

5. Pochi casi, quelli appena evocati, e anche poche discipline, naturalmente e inevitabilmente quelle più familiari a chi scrive. Ma non sarebbe difficile arricchire quella casistica allargando la prospettiva a comprendere aree come la drammaturgia, la musica o la scienza. Per esempio evocando fatti come la costruzione in ambito accademico del

126 Rinascimento, una parola plurale primo teatro in muratura, quello vicentino degli Accademici Olimpici. O il debordare della fortuna letteraria e musicale del madrigale, fino a allora non ignoto ma che esplode proprio nel secondo Cinquecento e al quale è lecito guardare come all’espressione e alla riprova di quella prossimità dei due linguaggi che di lì a pochissimo avrebbero trovato nel melodramma un terreno d’incontro di grandissima suggestione e ancora più grande prestigio. O anche sottolineando il fatto che nelle prose di Galilei l’apporto della letteratura è stato tutt’altro che esornativo. Quella che nella ricerca scientifica dei secoli a venire, fino a oggi, sarà la pratica dello scambio di informazioni condotto attraverso riviste e giornali ha un precedente diretto nelle consuetudini accademiche cinquecentesche. Non inganni il «singuli singula» all’insegna del quale Federico Borromeo aveva istituito il Collegio dei dottori della Biblioteca Ambrosiana, le Constitutiones di quello stesso Collegio «prescrivono di rimanere in contatto epistolare con gli altri studiosi, ai quali donare “munuscula litteraria”»; lo stesso è previsto dai Lincei, il cui statuto «prescrive di curare sia i contatti epistolari (tra gli stessi sodali e tra essi e il Lynceorum Princeps) sia la comunicazione scientifica»7. Studio e condivisione, fossero condotti attraverso il libro o la lezione o la conversazione o la corrispondenza, erano insomma parte costitutiva di un modo di svolgere la ricerca che sarebbe diventato cifra e costume professionale. Il secolo delle accademie era anche il secolo dei musei e delle gallerie e delle biblioteche. Così come era il secolo delle dispute, con una produzione instancabile su temi come la superiorità di armi o lettere (e per dare un’idea del proliferare dei molti interventi ne ricordo qui alcuni, quelli di Antonio Brucioli, Pompeo Della Barba, Domenico Mora, Diomede Borghesi, Giovanni Battista Pacciani, Chiara Matraini, Angelo Vizzani Dal Montone, Francesco Bocchi, Traiano Boccalini, Gabriele Zinani), o quelle connesse alla contrapposizione armi-leggi (Lucio Oradini), arti-scienze (Varchi),

7 M. Guardo, Il libro nelle Constitutiones Collegii ac Bibliothecae Ambrosianae e nel Lynceographum, in Nell’età di Galileo. Milano, l’Ambrosiana e la nuova scienza, a cura di Eraldo Bellini e Alberto Rocca, Milano-Roma, Biblioteca Ambrosiana- Bulzoni, 2017, pp. 189-199, a p. 194; il riferimento è alle Costituzioni del Collegio e della Biblioteca Ambrosiana, volgarizzate dal dottore Francesco Bentivoglio bibliotecario della medesima col testo a fronte, Milano, Bianchi, 1835.

127 Rinascite, rinascenze, rinascimenti storia-poesia (Giangiacomo Leonardi), poesia-diritto (Angelo Ingegneri), scultura-pittura (ancora Varchi), scultura-stampa (Anton Francesco Doni e Lodovico Domenichi), medicina-diritto (Bernardino Baldini), parola-scrittura (Girolamo Ruscelli); o anche, per vederla giocata sulle figure dei ‘professori’, quelle che aggiornarono le vecchie contrapposizioni dottore-cavaliere-conte (Giovanni Sabadino degli Arienti) o cittadino-contadino (Lorenzo de’ Medici) con le nuove cavaliere-capitano (Scipione Casella), principe-capitano (Sperone Speroni), poeta-cavaliere (Girolamo Muzio, Marcello Negozianti, Girolamo Ghirlanda). Il tutto, a riprova della notorietà di quelle prese di posizione, con il proliferare delle rispettive parodie (con Aretino che discetta della precedenza genealogica puttanesimo-ruffiania o con Caro che nella Ficheide in veste di uno scanzonato Barbagrigia parla della precedenza di nasi e fiche) o con la trattatistica connessa, per esempio quella rappresentata dalla dissertazione in materia di onore del Camerata o dalle Risposte del Taegio8. La diffusione del dibattito e la sua casistica sono la riprova delle rivalità professionali e sociali, certo, ma lo sono altrettanto di un confronto continuato in atto in un mondo nel quale gli statuti sociali erano tanto rigidi in senso verticale quanto mobili in quello orizzontale. Il fatto che l’istituto dominante, la corte, specialmente ai livelli più alti si reggesse sulla grazia del signore, rendeva infatti d’obbligo per ogni membro un’attenzione continua oltre che ai comportamenti dei colleghi-rivali anche alle loro competenze, in modo da farsi trovare sempre pronti a rispondere ai desiderata di chi poteva disporre dei loro destini e non lasciare spazio a altri che potevano subentrare in quelle grazie. Niente di nuovo anche da questo punto di vista, già Dante aveva detto la sua a proposito di quella «morte comun e dele corti vizio» e delle «parole biece» da quella alimentate, ma, si sarà compreso, ancora una volta non si tratta di novità piuttosto di modalità e soprattutto di concentrazione. Queste sì in tutto nuove. E quando un tema o un modo per chi li vive come per chi li registra si fanno in

8 G. Camerata, Trattato dell’honor vero, et del vero dishonore. Con tre questioni qual meriti più honore, o la donna, o l’huomo. O il soldato, o il letterato. O l’artista, o il leggista, Bologna, Benacci, 1568; Bartolomeo Taegio, Risposte, Novara, Sesalli, 1554, cc. 130v-131r, “Dell’amicitia c’ha la pittura con la poesia”; cc. 136v-138v, “Dell’amicitia c’ha il vino con la poesia”.

128 Rinascimento, una parola plurale qualche modo d’obbligo è difficile spiegarne il ricorrere solo con le ragioni della topica. Corte, accademia, tipografia e poligrafi, arte e letteratura, dispute, ciascuno di questi temi ha uno svolgimento che oggi non è riducibile a una narrazione lineare come allora non li si poteva comprendere in una realizzazione uniforme e in un’unica rappresentazione. Quelli che concorrono a dare vita alla civiltà del Rinascimento sono mondi – idealità, poetiche, canoni, esiti – basati non sulla selezione ma sulla compresenza delle figure e delle voci. Sono appunto, ciascuno in sé e nella loro compresenza, intimamente aperti e aggreganti. E di converso altrettanto aperta e aggregante, e cioè plurale, non potrà non essere la loro lettura.

129

Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre*

FABIO GATTI

This paper aims to examine how the theme of rebirth is addressed in the Latin literature on exile. Namely, the fi rst chapter deals with Ovid’s elegy from Tomi (Tristia and Epistulae ex Ponto), based on the conventional presentation of the exile as an experience of death, in order to illustrate how the pattern of rebirth appears several times in the verses in close relationship with this equation. The second chapter investigates the two novels that the Rumanian writers Vintila Horia and Marin Mincu dedicated in the second half of the Twentieth century to Ovid’s exile in their country; it explains how their reworking of Ovid’s experience on the Black Sea makes his exile a vicissitude of progressive moral and spiritual rebirth*.

Nella prima lettera scritta da Roma, il 10 settembre del 57 a.C., dopo un esilio durato più di sedici mesi, Cicerone presentava ad Attico il proprio ritorno in patria come l’«inizio di una seconda vita» (Att. 4, 1, 8 alterius vitae quoddam initium ordimur), e già durante il soggiorno a Tessalonica, il 5 ottobre del 58 a.C., aveva definito il giorno dell’eventuale rientro a Roma come un «giorno di nascita» (Att. 3, 20, 1 diem natalem reditus mei)1. La metafora, apparentemente scontata, assume in realtà una più pregnante valenza sullo sfondo della topica caratterizzazione dell’esule come una sorta di ‘morto vivente’, secondo una concezione radicata nella mentalità collettiva dei Romani, come testimonia la raccolta di massime di Publilio Siro (Sent. E 9 exul, ubi ei nusquam domus est, sine sepulcro est mortuus), e riproposta dallo stesso Cicerone nell’epistolario esilico, dove l’Arpinate presenta se stesso come l’«effigie di un morto vivente» (Quint. fr. 1, 3, 1 vidisses

* Ringrazio il prof. Luigi Galasso per l’attenta lettura. 1 Sui due passi si veda il commento di R. Degl’Innocenti Pierini, Marco Tullio Cicerone, Lettere dall’esilio, Le Lettere, Firenze 20032, p. 147 n. 212.

131 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

[...] quandam effigiem spirantis mortui)2. Se nell’immaginario comune e nella letteratura latina l’esilio è una forma di morte, certo figurata e civile, ma non meno drammatica per il vir Romanus che è anzitutto civis, individuo la cui realizzazione esistenziale non può che avvenire entro un orizzonte comunitario, è evidente che il ritorno in patria si configura come una rinascita, perché restituisce all’esule la sua identità più piena, reintegrandolo nella sua dimensione di cittadino. L’esito felice sarà invece negato alla relegatio di Ovidio, condannato a sperimentare, sulle rive del Ponto Eussino, una vicenda presentata nelle sue elegie, con rinnovata enfasi, come una vicenda di morte, a partire dalla partenza da Roma (cfr. in particolare Trist. 3, 3, 53-54 cum patriam amisi, tunc me periisse putato: / et prior et gravior mors fuit illa mihi)3, tratteggiata in Trist. 1, 3 come l’estremo saluto a un morituro4, sino al soggiorno a Tomi, sepolcro di un esule ormai ridotto a «ombra» di un morto (cfr. Trist. 3, 11, 25-26 quid inanem proteris umbram? / Quid cinerem saxis bustaque nostra petis?) e a puro «simulacro» (Trist. 3, 11, 31)5. Se a Ovidio è preclusa la possibilità di un ritorno, e dunque

2 Sulla convenzionale presentazione dell’esilio come forma di morte si vedano M. Bonjour, Terre natale. Études sur une composante affective du patriotisme romain, Les Belles Lettres, Paris 1975, pp. 463-467; E. Doblhofer, Exil und Emigration. Zum Erlebnis der Heimatferne in der römischen Literatur, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Dramstadt 1987, pp. 166-178; J.M. Claassen, Exile, Death and Immortality: Voices from the Grave, in «Latomus», LV, 1996, pp. 571-590; R. Degl’Innocenti Pierini, «La cenere dei vivi». Topoi epigrafici e motivi sepolcrali applicati all’esule (da Ovidio agli epigrammi ‘senecani’), in «Invigilata Lucernis», XXI, 1999, pp. 133-147. 3 Il testo delle citazioni dei Tristia è quello stabilito da J. André, Ovides, Tristes, Les Belles Lettres, Paris 1968; la più recente edizione di J.B. Hall, P. Ovidii Nasonis Tristia, Teubner, Stutgardiae-Lipsiae 1995, risulta non sempre affidabile in quanto animata da eccessivo zelo emendatorio. 4 Sul componimento si vedano le analisi di G. Rosati, L’addio dell’esule morituro (trist. 1,3): Ovidio come Protesilao, in Ovid. Werk und Wirkung. Festgabe für M. von Albrecht zum 65. Geburtstag, hrsg. von W. Schubert, I-II, P. Lang, Frankfurt am Main-Berlin-Bern-New York-Paris-Wien 1999, vol. II, pp. 787-796 e di P. Fedeli, L’ultima notte romana di Ovidio, fra epos ed elegia: una rilettura di Trist. 1,3, in Ovidio: exilio e poesia. Leituras ovidianas no bimilenário da relegatio: Colóquio internacional (Lisboa, 2007 junho, 21), coord. A.A. Nascimento e M.C. Pimentel, Centro de Estudos Clássicos, Lisboa 2008, pp. 83-112. 5 Sulla declinazione del binomio esilio-morte nell’elegia ovidiana si vedano specialmente, oltre alla bibliografia citata in nota 1, B.R. Nagle, The Poetics of

132 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre di una vera rinascita, non mancano tra le pieghe dei suoi versi allusioni al tema, soprattutto rimandi a una rinascita velleitariamente agognata o a forme alternative e parziali di rinascita che il poeta deve rassegnarsi a sperimentare nell’esilio stesso.

1. Possibilità di rinascita nell’esilio ovidiano La massima aspirazione ovidiana, il ritorno a casa, viene presentata nei termini impliciti e metaforici di una rinascita in Trist. 4, 9, 13-14, dove l’esule eventualmente richiamato in patria è paragonato alla quercia che, disseccata dal fulmine, può però poi tornare a verdeggiare: Et patriam, modo sit sospes, speramus ab illo [sc. Caesare]: saepe Iovis telo quercus adusta viret. Il pentametro contiene una delle più tipiche e ricorrenti immagini della poesia ovidiana dall’esilio, quale il paragone dell’esule condannato da Augusto alla vittima del fulmine di Giove, che consente al poeta di proiettare con intenti patetici la propria sorte su quella di celebri personaggi tragici (Capaneo, Fetonte, Prometeo)6. Il paragone

Exile: Program and Polemic in the Tristia and Epistulae ex Ponto of Ovid, Latomus, Bruxelles 1980, pp. 22-32; X. Darcos, Ovide et la mort, Presses Universitaires de France, Paris 2009, pp. 47-53; S. Grebe, Why Did Ovid Associate His Exile with a Living Death?, in «Classical World», CIII, 2010, pp. 491-509; G. Brescia, Ovidio e la morte in esilio: modi e forme di una sceneggiatura funebre, in «Bollettino di Studi Latini», XLVI, 2016, pp. 61-78, in particolare pp. 61-65; C. Di Giovine, Metafore e lessico della relegazione. Studio sulle opere ovidiane dal Ponto, Deinotera Editrice, Roma 2020, pp. 113-126. 6 Per l’influenza dei modelli tragici sulla poesia ovidiana dell’esilio si vedano L. Galasso, Modelli tragici e ricodificazione elegiaca: appunti sulla poesia ovidiana dell’esilio, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», XVIII, 1987, pp. 83-99 e S. Citroni Marchetti, Amicizia e potere nelle lettere di Cicerone e nelle elegie ovidiane dell’esilio, Università degli Studi di Firenze, Firenze 2000, pp. 215- 264. Le numerose attestazioni del paragone dell’esule a una vittima del fulmine di Giove sono raccolte in Th.J. de Jonge, Publii Ovidii Nasoni Tristium liber IV. Commentario exegetico instructus, De Waal, Groningen 1951, p. 117. Il fulmine come rappresentazione dell’ira del princeps è innovazione ovidiana destinata a larga fortuna: cfr. V. Tandoi, Il trionfo di Claudio sulla Britannia e il suo cantore (Anth. Lat. 419-426 Riese), in Scritti di filologia e di storia della cultura classica, Giardini, Pisa 1992, p. 478; notevole il suo impiego in chiave di rivendicazione poetica, forse non immune da polemica anti-augustea, nel finale delle Metamorfosi (cfr. 15, 871-

133 Rinascite, rinascenze, rinascimenti presuppone l’assimilazione di Augusto alla figura di Giove Tonante, nel quadro dell’incipiente processo di divinizzazione del princeps in atto nella Roma del tempo sotto l’influsso della concezione ellenistica della monarchia7. La componente politica del verso si salda all’immagine naturalistica, che costituisce un elemento di auspicato parallelismo per l’esperienza autobiografica del poeta, come già avviene in Trist. 2, 141- 144: anche lì l’agognato rabbonimento augusteo veniva paragonato, oltreché a un evento meteorologico (il ritorno del sole dopo le nubi), a un simile fenomeno di rinascita del mondo vegetale (la ricrescita dell’uva innestata sull’olmo fulminato), di cui Ovidio si dichiarava testimone diretto mediante l’enfatico incipit vidi ego, impiegato di frequente in elegia con funzione patetico-evocativa per introdurre una prova decisiva a sostegno di quanto il poeta va asseverando8:

Sed solet interdum fieri placabile numen: nube solet pulsa candidus ire dies. Vidi ego pampineis oneratam vitibus ulmum, quae fuerat saevi fulmine tacta Iovis.

Ovidio ravvisa nelle sorti del mondo vegetale un motivo di speranza per la condizione umana, che non può essere esclusa dalle leggi della

872 opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis / ...poterit...abolere con il commento di P. Hardie, Ovidio. Metamorfosi, libri XIII-XV, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2015, vol. 6, p. 623). 7 Sull’assimilazione Giove-Augusto nell’Ovidio dell’esilio cfr. K. Scott, Emperor Worship in Ovid, in «Transactions and Proceedings of the American Philological Association», LXI, 1930, pp. 43-46, in particolare pp. 52-58, e M.M. McGowan, Ovid in Exile: Power and Poetic Redress in the Tristia and Epistulae ex Ponto, Brill, Leiden- Boston 2009, pp. 63-92; più in generale, sul processo di divinizzazione del princeps si veda da ultimo I. Gradel, Emperor worship and Roman religion, Clarendon Press, Oxford 2002, pp. 109-161. 8 L’espressione, forse mutuata dal linguaggio tragico, valorizza l’espressività poetica di vidi, su cui cfr. A. La Penna, Vidi: per la storia di una formula poetica, in Laurea corona. Studies in honour of Edward Coleiro, ed. by A. Bonanno, B.R. Grüner, Amsterdam 1987, pp. 99-119; essa figura, sempre in incipit di verso, una volta in Tibullo (1, 2, 91), cinque volte in Properzio (1, 13, 14 e 15; 4, 2, 53; 4, 5, 61 e 67) e altre dodici volte in Ovidio, di cui dieci in elegia (cfr. Amor. 1, 2, 11; 2, 2, 47 e 12, 25; 3, 4, 13; Ars am. 3, 487; Rem. am. 101 con P. Pinotti, P. Ovidio Nasone. Remedia Amoris, Pàtron, Bologna 1993, p. 124; Trist. 3, 4, 37 e 5, 11; 5, 8, 11; Pont. 1, 1, 51).

134 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre natura; l’esperienza stessa sembra del resto garantire che nemmeno agli uomini sia preclusa la possibilità di rinascere, secondo quanto il poeta dichiara in Pont. 3, 6, 17-18 fulminis adflatos interdum vivere telis / vidimus, et refici non prohibente Iove9, di nuovo presentandosi come testimone diretto e autoptico (vidimus) di una vicenda di progressiva ripresa (refici) della vittima di un fulmine. Il confronto tra situazione dell’esule e vicenda del mondo naturale si risolve invece in uno stridente e doloroso contrasto in Trist. 3, 12, dove il poeta lamenta di essere escluso dalla contemplazione della rinascita che la natura mediterranea sperimenta con l’avvento della primavera:

Iam violam puerique legunt hilaresque puellae, 5 rustica quae nullo nata serente venit; prataque pubescunt variorum flore colorum, indocilique loquax gutture vernat avis; utque malae matris crimen deponat hirundo, sub trabibus cunas tectaque parva facit; 10 herbaque, quae latuit Cerealibus obruta sulcis, exit et expandit molle cacumen humo; quoque loco est vitis, de palmite gemma movetur: nam procul a Getico litore vitis abest; quoque loco est arbor, turgescit in arbore ramus: 15 nam procul a Geticis finibus arbor abest.

Gli effetti rigeneranti del clima mite investono l’intera natura italica, tanto il mondo vegetale (con il rigoglio di fiori dai brillanti colori come le viole, vv. 5-7; il rispuntare del grano, vv. 11-12; il germogliare della vite e di ogni specie di pianta, vv. 14-15), quanto quello animale (gli uccelli cantano e le rondini costruiscono il nido, vv. 8-10) e gli esseri umani (v. 5), profilando una panica rinascita, evocata dalla semantica della fertilità e della fecondità (in particolare pubescere, v. 7; turgescere, v. 15; gemma, v. 13). Ben diverso, tuttavia, è lo scenario che si dispiega davanti agli occhi dell’esule:

At mihi sentitur nix verno sole soluta, quaeque lacu durae non fodiuntur aquae;

9 Il testo adottato per le citazioni dalle Epistulae ex Ponto è quello stabilito da J.A. Richmond, P. Ovidii Nasonis Ex Ponto libri quattuor, Teubner, Lipsiae 1990.

135 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

nec mare concrescit glacie, nec, ut ante, per Histrum stridula Sauromates plaustra bubulcus agit. 30

La sola rinascita sperimentata dalla natura tomitana, e dunque la sola rinascita a cui Ovidio può partecipare in prima persona, è il più modesto scioglimento della neve (v. 27) e lo sghiacciamento di lago (v. 28), mare (v. 29) e del fiume, con il risultato che il Danubio non può più essere percorso dai carri (vv. 29-30). Nel paesaggio dell’esilio il poeta proietta lo sconforto del proprio stato d’animo, amplificando con intenti auto-commiseratori i tratti di realtà più spiacevoli e ostili, quali la rigidità del clima e la sterilità del territorio (stilisticamente enfatizzata dal parallelismo anaforico dei vv. 13-16): se Roma e l’Italia sono terra natale e dunque luogo, rimpianto e agognato, di rinascita, Tomi, che ne rappresenta il rovesciamento negativo, tanto da configurarsi nell’opera esilica come una sorta di ‘anti-Roma’10, è luogo di morte, non a caso in Pont. 2, 3, 44 a Stygia quantum mors mea distat aqua? e 3, 3, 56 a Styge nec longe Pontica distat humus collocato in prossimità, ideale ma anche geografica, delle acque infernali dello Stige, un fiume che anzi, in Pont. 4, 14, 11-12 (Styx quoque, si quid ea est, bene commutabitur Histro, / si quid et inferius quam Styga mundus habet), viene persino preferito, in termini paradossali, al Danubio. L’impossibilità che Tomi sia luogo di (ri)nascita è ribadita nel componimento successivo (Trist. 3, 13), dove il sopraggiungere del compleanno si profila come una vera iattura, la cui celebrazione appare a Ovidio inconciliabile con un luogo adatto piuttosto a una cerimonia funebre. Sullo fondo di un simile

10 Insistono sul concetto M. Helzle, Publii Ovidii Nasonis Epistularum ex Ponto liber IV. A Commentary on Poems 1 to 7 and 16, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 1989, pp. 14-16; G.D. Williams, Banished voices: readings in Ovid’s exile poetry, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 8-25; E. Bérchez Castaño, El destierro de Ovidio en Tomis: realidad y ficción, Institució Alfons el Magnànim, Valencia 2015, pp. 196-204. Sul paesaggio esilico ovidiano come «paesaggio dell’anima», riflesso di un’interiorità afflitta e dolente, si vedano specialmente Y. Bouynot, Misère et grandeur de l’exil, in Atti del convegno internazionale ovidiano (Sulmona, maggio 1958), I-II, Istituto di studi romani, Roma 1959, vol. I, pp. 249-268, in particolare pp. 254-258; V. Vedaldi Iasbez, Geografia ed etnografia nella produzione letteraria ovidiana dell’esilio: retorica o realismo?, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CLXIV, 2005-2006, pp. 33-80, in particolare pp. 74-80; G.L. Sciarabba, Opulenza e prosperità nella Tomi del I sec. d.C. Una tesi controversa, in «Invigilata Lucernis», XXIX, 2007, pp. 241-252, in particolare pp. 244-246.

136 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre scenario, le sole possibilità di rinascita sono inevitabilmente parziali e limitate, pallidi sussulti di una vitalità ormai ridotta ai minimi termini: la polarità morte/rinascita non si traduce, come nella rimpianta vita in patria, nelle contrapposizioni freddo/caldo e sterilità/fecondità, ma si riduce ora, su una scala ridotta e decisamente più sconfortante, alle alternative freddo/meno freddo, ghiaccio/acqua disciolta. L’inconciliabilità dell’esilio con una piena rinascita è peraltro suggerita dall’impiego ovidiano dell’unico termine etimologicamente connesso con la semantica della rinascita, ossia il verbo renasci (in latino non esiste un sostantivo astratto corrispondente all’italiano ‘rinascita’, e del resto bisogna ricorrere a una perifrasi anche per rendere il concetto di ‘nascita’)11: nell’opera esilica il termine compare una sola volta, in Pont. 1, 2, 39, non già per evocare un’eventuale rinascita dell’esule, ma paradossalmente proprio per negarla, perché il verbo viene accostato, sul modello di Verg. Aen. 6, 600 nec fibris requies datur ulla renatis, al fegato di Tizio, che, mangiato da un uccello, continuamente «rinasce» perché sia eterna la pena del reo, condannato per il tentativo di stupro ai danni di Latona:

Vivimus, ut numquam sensu careamus amaro, et gravior longa fit mea poena mora. Sic inconsumptum Tityi semperque renascens non perit, ut possit saepe perire, iecur. 40

Paragonandosi a un personaggio tragico del quale condivide l’eternità di una pena insopportabile, in versi non privi di concettosità (con

11 Il verbo, sul cui uso cfr. L. Bösing, Zur Bedeutung von renasci in der Antike, in «Museum Helveticum», XXV, 1968, pp. 145-178, è attestato per la prima volta in Cat. De agr. 54, 3 in relazione alla periodica rinascita delle piante (così anche in Varr. De re rust. 1, 4, 44), e poi figura in Lucr. (1, 542 e 674), in Cicerone in senso figurato (ad Brut. 12, 1 e Att. 4, 2, 5) e, in negativo, in relazione al principio primo della natura (De rep. 6, 27 e Tusc. 1, 54), in Hor. Carm. 3, 3, 61 e Ars poet. 70. Nella poesia ovidiana pre-esilica compare tre volte: in Met. 15, 274 alioque renascitur ore è utilizzato metaforicamente in relazione al carsismo del fiume Lico, che sgorga dopo essere scorso sotto le rocce, mentre figura in senso proprio in Met. 15, 402 (ferunt... / corpore de patrio parvum phoenica renasci; cfr. F. Bömer, P. Ovidius Naso. Metamorphosen. Kommentar, C. Winter, Heidelberg 1977, vol. VII, p. 361), in riferimento alla Fenice, e in Fast. 3, 153 a Samio doctus, qui posse renasci / nos putat, in relazione alla teoria pitagorica della metempsicosi.

137 Rinascite, rinascenze, rinascimenti l’antitesi renascens/perit e l’accostamento straniante non perit/saepe perire)12, Ovidio rileva pateticamente l’eccezionalità della propria condizione, nella quale le sole a rinascere continuamente, giorno dopo giorno, sono le sofferenze, mentre l’esule è all’opposto condannato a vivere soltanto per accorgersi di morire ogni giorno di nuovo. Il motivo della rinascita viene invece evocato direttamente a livello semantico, attraverso l’uso del verbo reviviscere, in Trist. 4, 5, 1-4, dove Ovidio si rivolge probabilmente all’amico Cotta Massimo13,

O mihi dilectos inter pars prima sodales, [...] cuius ab adloquiis anima haec moribunda revixit, ut vigil infusa Pallade flamma solet, e, più tardi, nel passo affine di Pont. 1, 3, 9-10 (epistola indirizzata a Rufino):

et iam deficiens sic ad tua verba revixi, ut solet infuso vena redire mero.

Il verbo reviviscere, in genere impiegato in contesti figurati oppure per alludere alla ripresa di conoscenza e sensi dopo uno svenimento reale, è termine raro in poesia, dove compare per la prima volta in Ter. Hec. 465 e poi in Sen. Tro. 954 e Med. 47614; in Ovidio figura però altre due

12 Sullo stile paradossale e concettoso dei versi cfr. i commenti al passo di J.F. Gaertner, Ovid. Epistulae ex Ponto. Book I, edited with introduction, translation and commentary, Oxford University Press, Oxford 2005, pp. 158-159 e di G. Tissol, Ovid. Epistulae ex Ponto. Book 1, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 80-81. 13 L’identificazione, ancora revocata in dubbio da G. Luck, P. Ovidius Naso. Tristia, übersezt und erklärt, C. Winter, Heidelberg 1977, vol. II, p. 253, viene già sostenuta negli studi prosopografici di G. Graeber, Quaestionum Ovidianarum pars prior, s.e., Progr. Elberfeldae 1881, pp. 19-20, B. Lorentz, De amicorum in Ovidii Tristibus personis, Diss. Leipzig 1881, pp. 3-4, e O. Hennig, De P. Ovidii Nasonis poetae sodalibus, Typis R. Reidii, Diss. Vratislaviae 1883, p. 30; contra solo M. Koch, Prosopographiae Ovidianae elementa, Typis officinae A. Neumanni, Diss. Vratislaviae 1865, p. 27, che individua il destinatario in Sesto Pompeo (ipotesi non persuasiva). Sul passo si leggano le considerazioni di M. Boncivini, Le forme del pianto. Catullo nei Tristia di Ovidio, Pàtron, Bologna 2000, pp. 46-47. 14 Cfr. la nota ad loc. di J.F. Gaertner, Ovid. Epistulae ex Ponto, cit., p. 228.

138 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre volte, sempre in contesti analoghi (Her. 11, 63 mortua, crede mihi, tamen ad tua verba revixi, con identica clausola, e Fast. 2, 759 ‘pone metum, veni’ coniunx ait; illa revixit), nei quali cioè la possibilità di «rivivere» viene sperimentata grazie alla parole rigeneranti e consolanti di una persona cara, un amico nel caso dell’esule, il marito nel caso di Her. 11, 63 e Fast. 2, 759 (dove i rispettivi soggetti del verbo sono Canace, che parla in prima persona a Macareo, e Lucrezia). La rinascita astratta e psicologica evocata nei due esametri viene plasticamente rappresentata, nei pentametri successivi, da due similitudini concrete, attinta l’una alla realtà quotidiana (Trist. 4, 5, 4), l’altra alla fisiologia (Pont. 1, 3, 10), la cui affinità è resa evidente dalle corrispondenze lessicali (in entrambi i versi figurano ut, solet e il participio infusus in ablativo assoluto e identica sede metrica): nel primo caso le parole dell’amico hanno la funzione dell’olio che, versato su una fiaccola ormai spenta, riaccende la fiamma, nel secondo si comportano come il vino che, una volta assunto, riattiva la circolazione del sangue. Il passo dei Tristia è particolarmente significativo per il nesso anima moribunda revixit, dove il verbo riceve speciale forza espressiva dall’accostamento con l’aggettivo in -bundus, che ha valore dinamico- rappresentativo, perché coglie nel suo svolgersi un processo ancora incompiuto ma imminente e obbligato, come lo stato agonizzante dell’anima dell’esule ormai destinata alla morte se non fosse stata rivitalizzata dal conforto dell’amico15. Riferendo all’anima la facoltà di «rivivere», Ovidio sembra peraltro ammettere la possibilità che l’anima possa rinascere dopo la morte, manifestando così un’implicita adesione alle teorie di ascendenza pitagorica su immortalità e reincarnazione dell’anima, dottrine alle quali aveva già offerto ampio spazio, attraverso la voce dello stesso Pitagora, in Met. 15, 158-159 morte carent animae semperque priore relicta / sede novis domibus vivunt habitantque receptae e 255-257 nascique vocatur / incipere esse aliud quam quod fuit ante morique / desinere illud idem, e che aveva riproposto in forma

15 Su moribundus cfr. E. Pianezzola, Gli aggettivi verbali in –bundus, Sansoni, Firenze 1965, che cita il passo a p. 157, e X. Darcos, Ovide et la mort, cit., p. 122: il termine, attestato per la prima volta in Plaut. Bacch. 192, è più volte impiegato in Lucrezio e in Virgilio, mentre ha una sola occorrenza in Catullo (81, 3), Cicerone (Pro Sest. 85) e Properzio (3, 7, 56); in Ovidio figura altre 5 volte (Met. 15, 84 e 12, 118 moribundo vertice; 6, 291; 7, 851; 10, 716), sempre in relazione agli istanti di passaggio dalla vita alla morte.

139 Rinascite, rinascenze, rinascimenti ipotetica in Trist. 3, 3, 61-62 nam si morte carens vacua volat altus in aura / spiritus, et Samii sunt rata dicta senis16. La consolazione offerta dalle parole di un amico, inclusa tra i doveri dell’amicizia nelle teorizzazioni antiche sul tema (a cominciare da Aristot. Eth. Nic. 9, 1171b, 2-3 e Cic. De off. 1, 58), assurge a bisogno vitale nell’esilio di Ovidio, che lamenta insistentemente la totale solitudine di uomo abbandonato nel momento della disgrazia da tutti i cari, secondo un motivo ricorrente nella letteratura esilica sin dal suo archetipo teognideo17; la solidarietà offerta al condannato viene presentata come un gesto talmente raro18 da diventare uno dei pochi motivi in grado di rianimare Ovidio, facendolo ‘rinascere’ dalla morte alla quale è andato incontro a Tomi. L’importanza di mantenere un legame a distanza con gli amici è dettata non soltanto da esigenze psicologico-affettive, ma anche da necessità contingenti e concreti interessi: per sperare in un ritorno in patria, Ovidio deve poter confidare su una partecipe e fattiva mobilitazione in suo favore, che egli è pronto a sollecitare anche attraverso la dimostrazione che, da parte sua, l’affetto e la vicinanza per i cari non è scemata. Non a caso, una forma di ‘rinascita’ psicologica che Ovidio riferisce più volte dall’esilio è quella che egli afferma di sperimentare quando viene raggiunto da positive notizie riguardanti gli amici: in Trist. 1, 9, 39-40 at mea sunt, proprio quamvis maestissima casu, / pectora processu facta serena tuo il

16 Se resta indimostrabile l’ipotesi di J. Carcopino, L’Exile d’Ovide, poète neopythagoricien, in Rencontres de l’histoire et de la littérature romaines, Flammarion, Paris 1963, pp. 59–170 e di U. Schmitzer, Reserare oracula mentis. Abermals zur Funktion der Pythagoras Rede in Ovid’s Methamorphosen, in «Studi Italiani di Filologia Classica», IC, 2006, pp. 32-56, circa l’appartenenza ovidiana a circoli neopitagorici (nella quale secondo Carcopino sarebbe da ricercarsi la causa stessa della relegatio), sembra comunque difficile negare, alla luce dell’assoluto rilievo concesso al personaggio di Pitagora in Met. 15, una qualche simpatia ovidiana per la dottrina pitagorica: in proposito si leggano le articolate posizioni di P. Hardie, The Speech of Pythagoras in Ovid Metamorphoses 15: Empedoclean Epos, in «Classical Quarterly», XLV, 1995, pp. 204-214 e E. Andreoni Fontecedro, Echi di un discorso sacro: Pitagora nella trascrizione di Ovidio. Rifrazioni Ovidiane, in «Aufidus», LXV, 2008, pp. 7-30. 17 Sul tema cfr. S. Citroni Marchetti, Amicizia e potere, cit., pp. 111-117. 18 Così la fides e l’aiuto dell’anonimo destinatario in Trist. 4, 5, 14 e 23, i raros... mores di Celso in Pont. 1, 9, 43 e il sostegno di Cotta Massimo in Pont. 2, 3, 5-6; sul tema si veda B.R. Nagle, The Poetics of Exile, cit., pp. 76-77.

140 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre suo animo, totalmente prostrato, viene momentaneamente rasserenato alla notizia dei successi dell’anonimo destinatario, tanto che in Pont. 3, 2, 3-4 namque meis sospes multum cruciatibus aufers, / utque sit in nobis pars bona salva facis Ovidio arriva a sostenere che la buona salute dell’amico Cotta possa in qualche modo sottrarre parte di sé alla pena, salvandolo parzialmente dalle sofferenze alle quali è condannato. Evidentemente, l’autorappresentazione del poeta nei termini esposti rientra in un’efficace strategia persuasiva: rappresentando se stesso come amico devoto e memore anche in una situazione di disperante lontananza, Ovidio intende vincolare ad un comportamento analogo i propri cari, tanto più tenuti a dimostrarsi solidali con lui quanto più serena è la loro condizione. Nell’opera esilica Ovidio paragona la propria sorte, oltreché a una forma di morte, a una rovinosa ‘caduta’, rifacendosi anche in questo caso a una metafora di derivazione tragica convenzionale nella letteratura esilica, presente nell’epistolario ciceroniano e poi ulteriormente valorizzata nelle consolazioni senecane19: per l’esule, di conseguenza, rinascere dopo la dolorosa praecipitatio sperimentata con il suo allontanamento da Roma si traduce plasticamente nell’azione del «rialzarsi», come avviene in Trist. 3, 3, 23-24:

Nuntiet huc aliquis dominam venisse, resurgam, spesque tui nobis causa vigoris erit.

All’interno di uno dei componimenti dedicati alla moglie, la cosiddetta Fabia, Ovidio presenta l’eventuale notizia del suo arrivo a Tomi come un motivo di intensa speranza e di rinascita spirituale, in grado di rianimarlo, facendogli tornare le forze e consentendogli di rialzarsi (resurgere) idealmente e fisicamente. Nell’auspicato riscatto ‘ascensionale’ dell’esule si riflette tra l’altro il percorso di caduta- rialzamento già sperimentato proprio dalla consorte nel contesto dell’estremo saluto al ‘morituro’ Ovidio il giorno della sua partenza

19 L’esilio ovidiano è paragonato alla ‘caduta’ mediante il ricorso al termine casus (Trist. 1, 9, 39; 5, 1, 9 e 50; 5, 8, 4; Pont. 1, 5, 55 e 6, 1-2) e al verbo cadere (Trist. 3, 5, 5; 5, 1, 9; 5, 3, 29; 5, 8, 1; Pont. 1, 7, 49), similmente impiegato, in forma semplice o composta, in Cicerone (Att. 3, 10, 2 e 15, 7) e in Seneca (ad Helv. 13, 8 e ad Polyb. 13, 2): sul tema si vedano R. Degl’Innocenti Pierini, Tra Ovidio e Seneca, Pàtron, Bologna 1990, pp. 147-152 e C. Di Giovine, Metafore e lessico, cit., pp. 25-43.

141 Rinascite, rinascenze, rinascimenti da Roma, quando la donna, distrutta dal dolore, cade svenuta a terra per poi rialzarsi sconvolta e piangente per la separazione dal marito (cfr. Trist. 1, 3, 91-93 illa [sc. Fabia] dolore amens tenebris narratur obortis / semianimis media procubuisse domo, / utque resurrexit [...]): la ricorrenza della semantica della caduta (procubuisse) e dell’ascesa (con l’impiego dell’analogo verbo resurgere) denota la volontà di vincolare i due coniugi a un medesimo destino, attraverso una simmetria di situazioni e di stati d’animo che Ovidio tematizza in tutte le elegie dedicate alla moglie. La facoltà di Fabia di rianimare il marito si allinea perfettamente al suo ruolo di moglie chiamata a rappresentare, in quanto rimasta a Roma, la ‘metà vivente’ dell’esule: salutando la terra natia e Fabia, Ovidio si sente infatti strappato a una parte di se stesso (Trist. 1, 3, 73-74 dividor haud aliter quam si mea membra relinquam / et pars abrumpi corpore visa suo est) che però, a differenza dell’altra parte ormai avviata alla morte, continua a vivere; così, mentre l’esule affronta un periglioso viaggio per mare, rassegnato ormai a trovarvi la morte, la sopravvivenza della moglie, ‘sua metà’, garantirà una qualche forma di sopravvivenza anche per lui, come esplicitamente affermato in Trist. 1, 2, 43-44 at nunc, ut peream, quoniam caret illa periclo, / dimidia certe parte superstes ero nell’intento di rinsaldare un legame affettivo che invece, nel tempo, si sfilaccerà sempre più sino a determinare, dal terzo libro delle Epistulae ex Ponto, la scomparsa della moglie dall’orizzonte poetico ovidiano20.

20 Sul personaggio di Fabia e sui componimenti a lei dedicati nell’opera esilica si tengano presenti M. Helzle, Mr and Mrs Ovid, in «Greece&Rome», XXXVI, 1989, pp. 182-193; E. Baeza Angulo, Motivos y léxico amatorios en los Tristia de Ovidio, in Actas del IX Congreso Español de Estudios Clásicos (Madrid, 27 al 30 de septiembre de 1995), por J.L. Vidal y A. Alvar Ezquerra, Sociedad Española de Estudios Clásicos y Ediciones Clásicas, Madrid 1998, vol. V, pp. 31-36; G. Puccini- Delbey, L’amour conjugal à l’épreuve de l’exil dans l’oeuvre d’Ovide, in «Bulletin de l’Association Guillaume Budé», LIX, 2000, pp. 329-352; P. Fedeli, L’elegia triste di Ovidio come poesia di conquista, in Fecunda licentia. Tradizione e innovazione in Ovidio elegiaco. Atti delle giornate di Studio all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Brescia e Milano, 16-17 aprile 2002), a cura di R. Gazich, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 3-33, in particolare pp. 10-33; S. Citroni Marchetti, La moglie di Ovidio. Codici letterari e morali per un’eroina, in «Aufidus», LII, 2004, pp. 7-28; E. Baeza Angulo, Un modelo de literatura de amor conyugal: Ovidii exulis Corpus amatorium, in «Euphrosyne», XXXVI, 2008, pp. 135-147; B. Larosa, Conjugal fidelity and mythical parallels in Ovid’s exile poetry. Continuity and evolution of literary models,

142 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre

Individuate le opportunità di rinascita in esilio solo in provvisori momenti di sollievo dovuti alla solidarietà – effettiva o percepita – dei propri cari, Ovidio limita l’avverarsi di una piena e compiuta rinascita solo nell’altrove rappresentato dalla patria. Per un poeta di successo e di fama, gli effetti più gravosi che l’esclusione dalla comunità comporta sono anzitutto il silenzio e la dimenticanza, tanto che Ovidio esterna quasi ossessivamente l’amarezza per non avere più, nell’incolta area scitica, lettori e uditori in grado di apprezzare le sue doti poetiche21 e il timore di essere ormai completamente dimenticato22: se la morte equivale a silenzio e oblio, rinascere significa tornare a far sentire la propria voce per essere ricordato, come affermato in Trist. 5, 7, 29-30:

Non tamen ingratum est quodcumque oblivia nostri impedit et profugi nomen in ora refert.

Nonostante Ovidio protesti a più riprese un ormai raggiunto disinteresse per la fama e la gloria, nell’intento di mostrarsi ligio al silenzio impostogli dal princeps e pentito per la poesia incriminata, egli si rivela tutt’altro che indifferente al ricordo che in patria si conserva di lui23: la sua rinascita in «Latomus», LXXIII, 2014, pp. 368-384; M. Marincic, La uxor elegiaca e i limiti della finzione. Sulla figura della moglie nell’Ovidio dell’esilio, in Ovidio a Tomi: saggi sulle opere dell’esilio, a cura di C. Battistella, Mimesis, Udine 2019, pp. 75-94. 21 Cfr. Trist. 3, 14, 37-41; 4, 1, 93-94; 4, 10, 113; 5, 12, 53-54 e Pont. 4, 2, 37-38. 22 Ovidio vuole autoconvincersi di non essere dimenticato a Roma (cfr. Trist. 1, 1, 17 e Pont. 4, 15, 1), soprattutto da Augusto, che deve essere memore del suo ruolo e accordargli il perdono (cfr. Trist. 2, 181), e poi dai cari come la moglie (cfr. Trist. 4, 3, 10) e gli amici (cfr. Trist. 3, 8, 9 e 5, 13, 23), che esorta a mobilitarsi in suo favore (cfr. Trist. 3, 6, 21-22), rammentando loro legami di lunga data (cfr. Trist. 5, 3, 43-44) e la propria fedeltà (cfr. Trist. 4, 5, 18), anche se a volte si insinua in lui il dubbio che essi non gli siano più fedeli, come confessa ad Attico in Pont. 2, 4, 3. Sul tema della memoria e dell’oblio nell’opera esilica cfr. B.R. Nagle, The Poetics of Exile, cit., pp. 81-82. 23 L’indifferenza per la fama, dichiarata in più punti (cfr. Trist. 1, 1, 49; 4, 1, 3; 5, 1, 75-76; 5, 12, 41; Pont. 1, 5, 67-69 e 73-82; 3, 9, 55), contrasta con i numerosi momenti in cui Ovidio dà indicazioni ai destinatari su come garantire alle proprie opere conservazione e diffusione, affermando anche esplicitamente di confidare in una duratura gloria poetica: sulla questione si vedano E. Galletier, Les préoccupations littéraires d’Ovide pendant son exil, in «Revue des Études Anciennes», XLII, 1940, pp. 439-447, M. Helzle, Ovid’s Poetics of Exile, in «Illinois Classical Studies», XIII, 1998, pp. 73-83, in particolare pp. 77-78, S. Viarre, La passion d’Ovide pour la

143 Rinascite, rinascenze, rinascimenti si afferma anzi in una rinnovata presenza del suo nomen nei pensieri e «sulla bocca» (in ora) di tutti, secondo un’espressione dalla paternità enniana particolarmente cara a Ovidio24, ma l’unico modo per tornare a essere in qualche modo presente in patria è il ritorno alla poesia, in grado di garantire notorietà al suo autore. Il percorso di morte-rinascita poetica riguarda anzitutto le Metamorfosi, «carmi strappati al funerale del loro autore»25, di cui si ripercorre la vicenda in Trist. 1, 7, 19-26: il poema era stato condannato al rogo da Ovidio che, modellando il proprio comportamento su un celebre episodio della biografia virgiliana, nell’atto di lasciare la patria si era risolto a sbarazzarsi dell’opera per rancore verso la poesia, causa della propria condanna, e per insoddisfazione verso un poema incompiuto26; l’opera non scompare però del tutto, perché già conservata in altri esemplari, cosicché Ovidio, superato il raptus emotivo, torna ad auspicare apertamente che essa si diffonda dilettando il lettore e rammentandogli il poeta lontano:

Sic ego non meritos mecum peritura libellos imposui rapidis viscera nostra rogis 20 vel quod eram Musas, ut crimina nostra, perosus, poésie dans les poèmes de l’exil, in Ovid. Werk und Wirkung, cit., vol. II, pp. 701-13, in particolare pp. 707-712 e A.N. Michalopoulos, Famaque cum domino fugit ab Urbe suo: Aspects of Fama in Ovid’s Exile Poetry, in Libera Fama. An Endless Journey, edited by S. Kyriakidis, Cambridge Scholars Publishing, Cambridge 2016, pp. 94-110.. 24 L’espressione in ore esse e affini, che nel caso di un poeta fanno pensare a una specifica allusione alla lettura a voce alta dei componimenti (così G. Luck, Naso, Tristia, cit., p. 236), indicano più in generale la notorietà di una persona o di un argomento ‘chiacchierati’ (cfr. Ter. Adelph. 93 e Cic. De amic. 1, 2), e ricorrono spesso nell’opera dell’esilio (cfr. Trist. 5, 7, 29-30; Pont. 2, 6, 34 e 4, 6, 18). Il motivo, che ha il suo più noto precedente in Enn. Var. 18 V.2 = Cic. Tusc. 1, 117, già ripreso in età augustea da Verg. Georg. 3, 8-9 e Prop. 2, 1, 2, percorre trasversalmente l’opera di Ovidio, che insiste a più riprese sull’importanza di essere apprezzato dall’intero populus (cfr. Trist. 3, 14, 23 e Met. 15, 879). 25 L’opera viene così definita in Trist. 3, 14, 20 carmina de domini funere rapta sui; affermazione simile già in Trist. 1, 1, 118 nuper ab exequiis carmina rapta meis. 26 Sull’episodio cfr. A. Grisart, La publication des Metamorphoses. Une source du recit d’Ovide (Tristes 1, 7, 11-40), in Atti del convegno internazionale ovidiano, cit., vol. II, pp. 125-155; R. Degl’Innocenti Pierini, ‘Quantum mutatus ab illo’... Riscritture virgiliane di Ovidio esule, in «Dictynna», IV, 2007, pp. 1-21, alle pp. 2-3; E. Bérchez Castaño, Ovidio lector de Ovidio, in «Revista de Estudios Latinos», IX, 2009, pp. 101-117, alle pp. 110-111.

144 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre

vel quod adhuc crescens et rude carmen erat. quae quoniam non sunt penitus sublata, sed extant (pluribus exemplis scripta fuisse reor), nunc precor ut vivant et non ignava legentem 25 otia delectent admoneantque mei.

Il successo che Ovidio tacitamente ancora si attende dalla poesia non sarà però confinato al tempo della sua esistenza, ma, poiché la fama post cineres maior venit (Pont. 4, 16, 3), proseguirà oltre la morte del poeta, ormai rassegnato a finire i propri giorni a Tomi (la consapevolezza emerge senza più dubbi in Pont. 3, 7), consegnandolo all’eternità: in Trist. 3, 3, 80 Ovidio, dopo aver composto il proprio epitaffio, si dice certo che i libelli, monumento ben più duraturo del suo sepolcro, garantiranno nomen et auctori tempora longa suo, una speranza ribadita in Trist. 3, 7, 49-52, dove la fama sopravvivrà al poeta defunto (v. 50 me tamen extincto fama superestes erit), che continuerà a essere letto finché esisteranno Roma e il suo impero. Il motivo topico dell’immortalità della poesia viene così riconfigurato nell’opera esilica, dove assume i tratti della rinascita, perché passa attraverso una fase di silenzio e di anonimato che Ovidio è costretto a vivere, e si colora di un’inedita valenza di polemica politica27: la rinascita postuma del poeta che, escluso dal consorzio civile e marginalizzato, vi farà perpetuo ritorno con i propri versi è infatti la più sottile e al tempo stesso decisiva forma di rivalsa di Ovidio su chi lo ha condannato. Il potere può temporaneamente ridurre un poeta al silenzio, ma deve poi cedere dinanzi alla definitiva rinascita della poesia, sulla quale nessun Cesare – rivendica Ovidio – può nulla (cfr. Trist. 3, 7, 48 Caesar in hoc [sc. ingenio] potuit iuris habere nihil)28.

27 Sul tema dell’immortalità poetica e sulla sua declinazione nell’opera esilica si vedano specialmente G. Rosati, L’esperienza letteraria. Ovidio e l’autocoscienza della poesia, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», II, 1979, pp. 101-136, in particolare pp. 119-127; M.G. Iodice di Martino, Ovidio e la poesia, in «Rivista di cultura classica e medievale», XXIII, 1981, pp. 63-108, alle pp. 63-66; M.M. McGowan, Ovid in Exile, cit., pp. 203-205; A.N. Michalopoulos, Famaque cum domino, cit., pp. 94-97 e 104-106. 28 Gli elementi di polemica anti-augustea presenti nell’Ovidio dell’esilio sono stati messi in particolare rilievo nei contributi di R. Marache, La révolte d’Ovide exilé contre Auguste, in Ovidiana. Recherches sur Ovide, ed. par N.I. Herescu, Les Belles Lettres, Paris 1958, pp. 412-419, di N. Voulikh, La révolte d’Ovide contre

145 Rinascite, rinascenze, rinascimenti 2. L’esilio come rinascita: Ovidio nel romanzo romeno del Novecento Il motivo della rinascita costituisce un tema portante, in una prospettiva radicalmente diversa rispetto a quella tematizzata da Ovidio nell’opera esilica, in due dei romanzi che nel secondo Novecento sono stati dedicati all’esilio ovidiano29, ossia Dieu est né en exil. Journal d’Ovide à Tomes di Vintila Horia (1960) e Il diario di Ovidio di Marin Mincu (1997). Scritti a distanza di quasi quarant’anni, le due opere presentano significative affinità, a cominciare dalla nazionalità romena degli autori, che guardano al poeta esiliato nella loro terra come a un sorta di padre nobile della propria civiltà letteraria, secondo una prospettiva profondamente radicata nella cultura romena30, oltreché a un modello archetipico della condizione di lontananza dalla patria: entrambi, infatti, vissero a lungo, per ragioni diverse, lontani dalla Romania, scrivendo anche in lingue straniere (Horia in francese, Mincu in italiano); i loro romanzi si presentano come un diario in cui voce narrante in prima persona è Ovidio stesso, che in pagine personali disvela un messaggio assai distante da quello delle elegie, presupposte e talvolta citate, ma considerate come un’intenzionale e interessata mistificazione del vero stato d’animo dell’esule: l’esilio, lungi dal rappresentare la desolante fine di un condannato, si rivela al contrario come occasione propizia e necessaria per una rinascita spirituale, nella quale Ovidio matura gradualmente una nuova e più autentica concezione di sé e della vita. L’inedita prospettiva narrativa emerge già nel primo romanzo ispirato all’esilio ovidiano, quello di Horia (Segarcea, 1915-Collado Villalba, 1992), che negli anni della Seconda guerra mondiale fu

Auguste, in «Les Études Classiques», XXXVI, 1978, pp. 370-382 e di J.-M. Claassen, Ovid Revisited. The Poet in Exile, Bristol Classical Press, London 2008, pp. 29-40. 29 La più recente e ampia analisi dei romanzi contemporanei (principalmente cinque) dedicati all’esilio ovidiano è in F. Ursini, Ovidio e la cultura europea. Interpretazioni e riscritture dal secondo dopoguerra al bimillenario della morte (1945-2017), Apes, Roma 2017, pp. 257-326, ma si vedano anche P. Fornaro, Metamorfosi con Ovidio. Il classico da riscrivere sempre, L.S. Olschki, Firenze 1994, pp. 267-296 e M. Bonvicini, I Tristia nel romanzo contemporaneo, in Le forme del pianto, cit., pp. 113-141. 30 Sull’interesse che la figura di Ovidio ha suscitato nella cultura romena dall’età rinascimentale sino alla contemporaneità si veda l’utile panoramica di Th. Ziolkowski, Ovid and the Moderns, Cornell University Press, Ithaca-London 2005, pp. 112-125.

146 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre addetto stampa dell’ambasciata romena in Italia e a Vienna e che poi, condannato ai lavori forzati nel 1946 dal Tribunale del Popolo di Bucarest per collaborazionismo con il regime fascista, visse e morì da esule peregrinando tra Argentina, Francia e Spagna31. Nel romanzo, un diario diviso in otto capitoli corrispondenti agli altrettanti anni d’esilio, Ovidio presenta le proprie elegie come un’opera interessata, nella quale si dice semplicemente ciò che i suoi corrispondenti (dagli amici ad Augusto) vogliono sentirsi dire, e contrappone a quell’opera conosciuta il diario segreto che va scrivendo, il solo a contenere la verità: Tristia sarà il titolo del mio prossimo libro. Continuerò a mentire per ottenere il perdono. Le mie elegie gli [sc. ad Augusto] faranno dire: ‘Ovidio è sempre lo stesso: servile e adulatore, ha paura di me. Posso perdonarlo o scegliere per lui un esilio più dolce...’. Ma lui non saprà di queste righe che parlano di un terribile cambiamento. Non saprà che favore mi ha reso facendomi soffrire. Se un giorno qualcuno scoprirà queste note segrete, potrà dire di avere conosciuto il vero volto di Ovidio32. Nel romanzo la vicenda di Ovidio si configura come una storia di progressiva rinascita spirituale, non più negata o agognata, ma

31 Sul romanzo di Horia si vedano specificamente, oltre ai lavori menzionati in nota 29, M. Bonjour, Dieu est né en exil de Vintil Horia ou un Ovide métamorphosé, in Colloque Présence d’Ovide, ed. par R. Chevallier, Les Belles Lettres, Paris 1982, pp. 441-454; P. Duroisin, Naso Relegatus. L’exil d’Ovide dans trois romans modernes, in Serta Leodiensia Secunda. Mélanges publiés par les Classiques de Liège à l’occasion du 175e anniversaire de l’Université, Université de Liège, Liège 1992, pp. 133-142; A.-M. Monluçon, Trois versions romanesques de l’exil d’Ovide: de l’anachronisme à l’analogie?, in Présence de l’Antiquité grecque et romaine au XXe siècle, ed. Par R. Poignault, Centre de recherches A. Piganiol, Tours 2002, pp. 175-187; Th. Ziolkowski, Ovid and the Moderns, cit., pp. 118-121; S. Matzner, Tomi Writes Back. Politics of Peripheral Identity in David Malouf’s and Vintila  Horia’s Re-narrations of Ovidian Exile, in Two Thousand Years of Solitude: Exile after Ovid, ed. by J. Ingleheart, Oxford University Press, Oxford 2011, pp. 307-321; A. Martínez Sobrino, Las Tristes de Ovidio a través de Dios ha nacido en el exilio. Diario de Ovidio en Tomis de V. Horia, in «Myrtia», XXVI, 2011, pp. 289-312; R. Godel, Ovid’s “Biography”. Novels of Ovid’s Exile, in A Handbook to the Reception of Ovid, ed. by J.F. Miller and C.E. Newlands, W. Blackwell, Chichester-Malden 2014, pp. 455-459. 32 Cit. in V. Horia, Dio è nato in esilio, trad. it. di M. Monaco, Castelvecchi, Roma 2015, p. 13.

147 Rinascite, rinascenze, rinascimenti pienamente vissuta da un poeta che, nell’esilio e anzi proprio grazie ad esso, intuisce la falsità di ciò in cui ha sempre creduto, maturando una vera e propria conversione alla Verità. La caratterizzazione ovidiana di Roma come luogo di possibile rinascita e di Tomi come luogo di morte viene radicalmente capovolta nel romanzo, dove si registra, al contrario, una condanna senz’appello dell’impero romano e del suo princeps, considerato sì l’«autore della Pace universale» e creatore del «più grande impero di tutti i tempi», ma anche «l’autore della Paura» (p. 11); solo chi, come Ovidio, ha «provato sulla propria carne il rigore di Giove», ha potuto finalmente comprendere la verità su Augusto e sul suo potere, e cioè che «abbiamo perso ogni libertà e basta una parola, sussurrata da uno schiavo all’orecchio di una guardia, per perdere i beni e la vita» (p. 46). Alla condanna dell’imperialismo romano si affianca una progressiva rivalutazione dei Geti, nei quali vengono individuati (nel dialogo tra l’anziano coltivatore autoctono Dizzace e Ovidio) uomini impegnati a difendersi da un invasore autoritario, e ai quali Ovidio vorrebbe unirsi in un tentativo di fuga da Tomi, fallito, nel finale del romanzo, a causa dell’età avanzata e del precario stato di salute: «La mia gente non è crudele come credi. Sono uomini come tutti gli altri». «Ci credo, ma preferiscono il linguaggio delle frecce avvelenate a quello delle parole». «Voi li accogliete con frecce e porte chiuse. Come volete che vi rispondano?» (p. 58). La positiva considerazione dei Geti, antenati dei moderni romeni, da parte dell’Ovidio di Horia è dettata dal sentimento identitario dell’autore, anche se non prescinde totalmente dall’opera ovidiana, nella quale la permanenza prolungata a Tomi e la disperante rassegnazione circa le possibilità di ritorno in patria alimentano un progressivo, per quanto forzato, cambio di disposizione del poeta verso la terra ospite e i suoi abitanti, segnando il passaggio dal netto rifiuto iniziale a un atteggiamento più aperto che affiora nei tardi componimenti delle Epistulae ex Ponto: è in questo senso significativa la coincidenza di prospettiva che accomuna sia i romanzieri (Horia e Mincu) sia gli studiosi di nazionalità romena, impegnati su versanti diversi a sostenere una graduale assimilazione di Ovidio alla cultura getica mediante la valorizzazione di passi in cui egli allude a proficui contatti con la comunità locale, e interpretando letteralmente il verso (Pont. 4, 13, 19) in cui si riferisce la composizione in lingua getica

148 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre di un libello in lode del princeps33. Nella raffigurazione di Augusto quale tiranno implacabile si riverbera invece l’esperienza biografica dello stesso Horia, perché l’impero romano assume i tratti del regime sovietico, di cui riflette il plumbeo clima di terrore nutrito di spionaggio e delazioni, mentre gli indomiti popoli sulle rive del mar Nero rappresentano l’anelito di quella libertà che Horia poté respirare solo parzialmente nel mondo occidentale, dove il suo passato, segnato da articoli di orientamento anti-semita e di appoggio a Hitler e Mussolini, lo condannò a una condizione di esilio anche intellettuale: dopo la pubblicazione del romanzo, nel 1960, lo scrittore dovette tra l’altro rifiutare il Premio Goncourt per una campagna ostile ispirata dalle autorità romene e amplificata dalla stampa della gauche francese34. Il percorso di condanna dell’impero romano e di individuazione nelle terre dei Geti di un modo di vivere più umano si compie nell’incontro di Ovidio con un disertore romano, che ha rinnegato la passata vita di assassino per rinascere come individuo libero e felice: «Perché sei più felice qui che a Tempyra o a Ostia?». «Perché sono padrone dei miei giorni e delle mie notti. Perché nessuno mi costringe a uccidere. Sono libero. Che vuoi di più?». [...] Era felice, e si vedeva. Che cosa si poteva chiedere di più? La libertà si paga cara, ma vale sempre il suo prezzo. È tanto difficile capire? Basta sapere scegliere: un’esistenza nuova, non importa dove, di là dei confini dell’Impero, un nuovo dio, quello vero, per rinascere qui sulla terra e non dopo la morte, come insegna la religione di Iside. Tutto è possibile. Bisogna avere, a tempo debito, il coraggio di disertare, di rompere bruscamente con il passato. [...] Sentivo davanti a quel fuoco, davanti a quella rozza

33 Si collocano in questa prospettiva esegetica, in particolare, N.I. Herescu, Ovide, le premier poète roumain, in «Acta Philologica», I, 1958, pp. 93-96; D. Adamasteanu, Sopra il Geticum libellum (Pont., 4, 13), in Ovidiana. Recherches sur Ovide, cit., pp. 391-395; N. Corciu, L’attitude humaine d’Ovide envers les Tomitains, e il bulgaro R. Gandeva, De Ovidio exsule Misericordia “turbae Tomitanae regionis” commoto, in Acta conventus omnium gentium Ovidianis studiis fovendis (Tomis, a die 25. ad diem 31. mensis Augusti 1972 habiti), curavit Nicolaus Barbu et alii, Typis Universitatis, Bucurestiensis, Bucuresti 1976, rispettivamente pp. 203-207 e pp. 295-299; A. Radulescu, Ovidio nel Ponto Eusino, a cura di G. Papponetti, Gruppo Archeologico Superequano, Sulmona 1990, p. 87. 34 Più ampie informazioni sull’episodio, e più in generale sulla vicinanza di Horia a posizioni di orientamento fascista (almeno sino al secondo conflitto mondiale), in Th. Ziolkowski, Ovid and the Moderns, cit., p. 118.

149 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

capanna, davanti a quella terra delimitata a est dal mare, a ovest dal lago, che quell’uomo non era degno di ammirazione solo per essersi trasformato e per aver incontrato la pace, ma soprattutto per avere scoperto una nuova possibilità umana. Un Romano poteva vivere lontano dall’Italia, fuori dall’Impero, rinnegare Augusto e gli dei di Roma e sentirsi anche meglio di prima, sentirsi felice in mezzo a quella miseria sana e primitiva il cui Dio era superiore a Giove e a tutta la sua divina famiglia. Mi trovai, in quel momento, pronto a riconoscere che quell’uomo, lungi dall’avere fatto un passo indietro, nello scegliere quel destino in apparenza triste e misero, aveva conquistato qualcosa che i Romani non erano ancora arrivati a conoscere (pp. 69-70). La ‘rinascita’ e la ‘novità’ evocate, anche lessicalmente, in relazione alla vita nel territorio getico non investono soltanto aspetti esistenziali e politici dell’essere umano, ma anche la componente delle sue credenze religiose: tra le consapevolezze maturate dal disertore, e gradualmente anche dall’Ovidio esule, vi è soprattutto una nuova idea dei rapporti tra uomo e divinità. L’Ovidio di Horia, memore di alcune suggestioni formulate da Hermann Fränkel nell’innovativo Ovid. A Poet between Two Worlds del 194535, afferma a più riprese di vivere in un’epoca di transizione, ormai priva di fede e disamorata alla religiosità tradizionale36, ma percorsa da ansie palingenetiche, animata dall’attesa di una rivelazione che possa ridare «al genere umano la freschezza di un nuovo principio» (p. 107)37. L’esilio permette a Ovidio

35 Le analogie tra l’opera di Fränkel e il romanzo di Horia sono rilevate da F. Ursini, Ovidio e la cultura europea, cit., pp. 265-266. 36 Cfr. V. Horia, Dio è nato in esilio cit., pp. 12-13 («Ho paura e freddo e gli dei non esistono. Questa verità prende forma insieme alle mie lacrime, come i fantasmi di ghiaccio in riva al mare. È stata sempre presente in me, ma non ho mai avuto il tempo e la forza di pensarla. La mia vita, come i miei versi, le era contraria, perché vivevo nell’illusione e la cantavo per il piacere degli altri. Ma se osassi rileggere le Metamorfosi, come non tremare davanti al vuoto che questo libro ha aperto in me, nel tempo stesso in cui parlavo dell’onnipotenza degli dei! La loro crudeltà rivela la loro inesistenza. Essi sono il riflesso dei nostri timori») e 106 («Gli dei, da Giulio Cesare in poi, sono stati rimpiazzati da un uomo e l’Impero è diventato l’immagine stessa di quella terribile metamorfosi. La legge ci viene imposta da un uomo e gli dei sono morti. Oppure noi siamo morti per loro»). 37 Cfr. l’intero passo in Ibidem: «Accadrà qualcosa di inaspettato, qualcosa che già comincia ad accadere, non so cosa né dove, ma l’aria del mondo ne è piena, satura di un’umidità che gli uomini più sensibili sentono senza conoscerne il nome, e che ridarà al genere umano la freschezza di un nuovo principio. Non so esprimere questa

150 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre di lasciarsi alle spalle false credenze e miti vacui per cominciare a intuire gradualmente una verità più profonda, in particolare grazie all’incontro con un medico greco, Teodoro, animato da analoghe inquietudini spirituali: in un primo momento il poeta si avvicina alle credenze getiche imperniate sulla fede nel dio unico Zalmoxis («Sono qui per cercare di scoprire se i saggi geti, i loro sacerdoti dalla vita esemplare, conoscono, in base a qualche sintomo, ciò che sta per succedere; se la loro dottrina parla di un rinnovamento così vicino, se i loro profeti annunciano già la venuta che io aspetto e il cui nome e la cui forma sono per me inimmaginabili», p. 107), che presentano strette consonanze con il culto egizio di Iside, incentrato sulla teoria della perenne rinascita38; successivamente, però, Ovidio ascolta il racconto di Teodoro sulla nascita di Cristo in Palestina, alla quale il medico aveva direttamente assistito, ricavandone la certezza che ogni culto fosse destinato a essere presto soppiantato da una nuova fede: Ho imparato che il culto di Iside è un culto ormai superato, che i suoi sacerdoti e le sue sacerdotesse non sono esseri puri, questa religione è ancora troppo invischiata con la natura inanimata [...]. Il vero Dio, quello che gli uomini attendono, sarà del tutto diverso, verrà dall’esterno, non sarà simile né a un astro, né a un animale, ma all’uomo (p. 160). La commossa narrazione di Teodoro produce nell’animo ovidiano una conversione al nascente cristianesimo, che si accompagna al totale disconoscimento della vita e dell’opera passata, nel segno di una rinascita che l’esule sperimenta in prima persona, ma che investirà presto, nelle sue previsioni, l’intera società umana, destinata a una profonda rigenerazione morale: Tutto il resto diventa di una piccolezza incredibile. Una qualsiasi delle mie ore di oggi prende la forma dell’infinito, in confronto alla mia vita passata. Tutta la mia opera, tutto ciò che ho scritto e pensato all’infuori di questo diario, mi si sbriciola tra le dita come una statua di cenere. La mia Arte di amare...come potrei scriverla di nuovo, dopo averlo [sc. cosa che potrebbe essere un nuovo dio, un nuovo popolo, un nuovo sole nel cielo, o un’altra cosa sconosciuta agli uomini, ma so che accadrà». 38 Sul culto getico per Zalmoxis, attestato in antichità in Herodot. 4, 94-96, Plat. Charm. 156d-e, Strab. 7, 3, 5, Diod. Sic. 1, 94, 2, Apul. Apol. 26 e Diog. Laert. Vit. 1, 1 e 8, 2, si veda C. Marcaccini, Hdt. 4.93-96: Zalmoxis Dioniso del Nord, in «Sileno», XXIV, 1998, pp. 135-158.

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Teodoro] sentito parlare? L’amore che ho cantato non è amore [...]. E le Metamorfosi, in cui ho accumulato tutti gli errori di un mondo in procinto di morire? Pensavo che gli dei avessero il potere di trasformarsi in bestie, in piante, in rocce. Tutto questo non è più concepibile. Il vero Dio ha preso la nostra forma. Si è incarnato sotto forma di uomo, non per godere dei piaceri mortali, ma per soffrire, per farci capire che noi gli somigliamo nella sofferenza (p. 179). L’ipotesi che Ovidio si sia convertito al Cristianesimo, o che ne abbia preannunciato l’avvento, non è un’idea innovativa di Horia, bensì suggestione di particolare fortuna sin dall’età medievale, quando fu per esempio composto (nel tredicesimo secolo) il De vetula, un poemetto di quasi 2400 esametri in tre libri nel quale si immagina che Ovidio profetizzi la nascita della Vergine, rinnegando il libertinismo giovanile39; la fantasiosa ipotesi, affine all’interpretazione della quarta ecloga virgiliana come di un annuncio della nascita di Cristo, fece leva, nel tempo, su elementi della biografia ovidiana, quali la supposta simpatia per dottrine pitagoriche prefiguranti aspetti del cristianesimo, l’esilio spazialmente e temporalmente vicino alla nascita di Gesù Cristo, e persino la composizione degli Halieutica, interpretata come un atto di fede in Cristo, simboleggiato nell’era proto-cristiana dal pesce. L’originalità della conversione dell’Ovidio di Horia risiede piuttosto nel ruolo determinante che vi gioca la condizione dell’esilio, non solo perché essa risulta necessaria per allontanarsi e liberarsi dalle false credenze in cui l’esule era immerso in patria, ma anche perché rappresenta la situazione comune a Cristo e a Ovidio, come lo stesso poeta afferma nel dialogo con il centurione Lucio Sisenna da cui il romanzo trae il titolo («E tu credi che apparirà un nuovo Dio nell’Olimpo? È già nato? Ne sai qualcosa?». «Sì, è già nato». «Dove?».

39 Sul poema, edito e commentato in P. Klopsch, Pseudo-Ovidius De vetula. Untersuchungen und Text, Brill, Leiden-Köln 1967 e in D.M. Robathan, The Pseudo-Ovidian De Vetula: Text, Introduction, and Notes, Hakkert, Amsterdam 1968, si vedano P. Fornaro, Metamorfosi con Ovidio, cit., pp. 241-266 e R.J. Hexter, Ovid in the Middle Ages: Exile, Mythographer, and Lover, in Brill’s companion to Ovid, ed. by B.W. Boyd, Brill, Leiden 2002, pp. 439-442. Sulla ‘cristianizzazione’ di cui Ovidio è stato fatto oggetto nelle rappresentazioni figurative e nell’esegesi di età medievale si vedano rispettivamente C. Rabel, s.v. Publio Ovidio Nasone, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Roma 1998, vol. 9 e J.C. Fumo, Commentary and Collaboration in the Medieval Allegorical Tradition, in A Handbook to the Reception of Ovid, cit., pp. 114-128.

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«In esilio», p. 217): nel Dio rifiutato ed esiliato l’uomo vede se stesso e riconosce la propria sofferenza, percependo per la prima volta un senso di vicinanza vera della divinità. L’impatto della nuova religione è dirompente e rivoluzionario, perché annulla ogni precedente paradigma e rimodella completamente categorie dell’animo e del pensiero, tanto che Ovidio insiste sulla ‘novità’ di un mondo che sta ormai per affacciarsi alle soglie della Storia: Secondo quel che sento in questo momento un’Arte di Amare sarebbe impossibile. Occorrono parole nuove, una visione nuova della vita e una nuova religione, per trovare la possibilità di creare un linguaggio nuovo e di esprimere tutto ciò che gli uomini di oggi provano in fondo al cuore e che la loro ignoranza impedisce di esprimere attraverso giudizi e parole. (p. 216). In questo senso, anche l’episodio della Fenice raccontato in Metamorfosi 15, 391-407 assurge a consapevole prefigurazione della nuova era che l’umanità attende («la storia della Fenice, l’uccello che ogni cinquecento anni rinasce dalle proprie ceneri [...] non è il simbolo dell’anima umana e, allo stesso tempo, dell’uomo nuovo che si prepara a nascere dalle ceneri del nostro secolo? Aspetta solo la parola di Dio per spiccare il volo», p. 207). La rinascita del mondo si accompagnerà alla rinascita dell’uomo, e se l’esatta identità dell’‘uomo nuovo’ profilato da Horia è stata oggetto di discussione tra gli interpreti del romanzo, sembra difficile ravvisarvi una consonanza con l’ideologia nazionalistica del ‘nuovo ordine’40: al di là dei trascorsi politici del romanziere, certo innegabili e in parte da lui stesso ammessi, il messaggio finale che trapela dalle pagine di Dio è nato in esilio sembra piuttosto sintonizzarsi sugli ideali di un cristianesimo fraterno e universale, che abbatte ogni frontiera e ogni differenza umana, una prospettiva che Ovidio realizza e abbraccia dopo aver ricevuto una lettera di Teodoro, partito alla ricerca di Cristo, nella quale il medico greco si firmava come «tuo fratello in Dio»: Mio fratello in Dio: la formula inattesa schiudeva, davanti ai miei occhi, una nuova visione del mondo. Nessun vincolo di sangue mi legava a quel greco che avevo incontrato qualche volta a Tomi e che, riconoscendo in me alcuni segni comuni e la stessa sete di libertà che lo consumava, mi aveva raccontato la propria vita e rivelato il più grande

40 Così R. Godel, Ovid’s Biography, cit., p. 459, sul quale sembrano condivisibili le riserve di F. Ursini, Ovidio e la cultura europea, cit., p. 268.

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segreto di tutti i tempi. Ero diventato suo fratello. [...] Uno schiavo e un barbaro potrebbero allo stesso modo diventare miei fratelli, poiché ogni frontiera tra gli uomini è a un tratto ridicola. Tranne che per Cesare e quelli che uccidono (p. 178). Nella conversione ovidiana sembra così proiettarsi la conversione ideologica dell’autore, che in esilio poté maturare una diversa concezione del mondo e dell’uomo rispetto a quella giovanile, pur nella riaffermazione della propria estraneità al totalitarismo laicista e anti-cristiano del regime comunista. Al romanzo di Horia guarderà il connazionale Marin Mincu (Slatina, 1944-Bucarest, 2009), che visse a lungo lontano dalla Romania, dove però fece ritorno e morì (fu tra l’altro, nel 1990, il primo rettore dell’Università «Ovidius» di Costanza), perché assunto come docente di critica letteraria in prestigiose università europee (tra le quali la Sorbona, Firenze e Torino, dove fu collega e amico di Umberto Eco). Il diario di Ovidio41 si immagina dettato dal poeta, ormai malato e indebolito, ad Aia, sacerdotessa locale e sua compagna, ed è organizzato in più di 500 brevi paragrafi, ciascuno aperto da un termine chiave che funge da titolo tematico. Nel romanzo Mincu riprende alcuni spunti dell’opera di Horia, a cominciare dall’idea dell’esilio come occasione di rinascita spirituale e religiosa, portando però a estremi sviluppi alcuni concetti portanti: se infatti in Horia la rinascita sperimentata da Ovidio matura gradualmente, e l’esule vi giunge quasi per caso, senza averne alcuna pre-intuizione consapevole, Mincu ritiene che l’esilio ovidiano fosse in realtà «una decisione presa volontariamente e messa in atto con la complicità dell’imperatore», una scelta deliberata e intenzionale con la quale Ovidio, «stanco di vivere a Roma» e nauseato da un mondo nel quale non si riconosceva più, decise di allontanarsi dalla patria «per imparare la religione della morte, cioè della morte anonima»42, abbracciando la fede getica nel dio Zalmoxis:

41 M. Mincu, Il diario di Ovidio, Bompiani, Milano 1997. Sull’opera si vedano le analisi di M. Bonvicini, I Tristia nel romanzo, cit., pp. 134-141; Th. Ziolkowski, Ovid and the Moderns, cit., pp. 121-124; F. Ursini, Ovidio e la cultura europea, cit., pp. 299-306. 42 Le citazioni sono tratte da M. Mincu, La morte a Tomis, in Metamorfosi. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Sulmona, 20-22 novembre 1994), a cura di G. Papponetti, Centro ovidiano di studi e ricerche, Sulmona 1997, pp. 211-217, in

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Ho scelto Tomis per cambiare in modo radicale la mia esistenza. Credo che, poter compiere questa metamorfosi, sia di fondamentale importanza apprendere la concezione della morte secondo la dottrina di Zalmoxis. [...] Ho soltanto bisogno di acquisire serenità nei confronti della morte (p. 139). L’esigenza di una rinascita spirituale sarebbe dunque stata intenzionalmente ricercata dal poeta («la verità è che sono fuggito. Basta. È tutto qui», p. 214), la cui presunta causa dell’esilio, l’error, è soltanto una scusa per giustificare la propria partenza («l’error è una mia invenzione per nascondere la verità e dare alla mia partenza una motivazione verosimile», p. 164). La relegatio è dovuta in realtà a uno stratagemma attuato dal poeta per farsi esiliare da Augusto, ossia la pubblicazione delle Metamorfosi, un’opera che, inscenando la perenne trasformazione della realtà, negava implicitamente l’eternità della casata regnante: Stratagemmi. È vero: per poter essere cacciato da Roma sono ricorso a degli stratagemmi; ho fatto in modo che tutti vedessero in me un sovversivo, un nemico di Augusto. Il titolo che ho scelto per il mio ultimo libro, le Metamorfosi, ha indubbiamente facilitato il mio compito. Augusto non tollerava alcuna trasformazione: lui era dio in terra e ordinava che tutto fosse pietrificato esattamente come aveva predisposto. Il mio titolo offendeva ovviamente l’eternità del suo regno e finiva col renderlo fragile ed effimero. Ho parlato con molti amici, spiegando l’autentico significato del libro. Molti mi hanno aiutato; hanno fatto in modo che questa spiegazione giungesse alle orecchie dell’imperatore (p. 170). L’elegia esilica viene così presentata come una finzione, con la quale Ovidio, insistendo sulla presunta drammaticità della propria situazione, intende dissuadere i cari dal raggiungerlo in una terra presentata come infernale per poter continuare a dedicarsi, in solitaria pace, al percorso di edificazione interiore a cui aspira: Tutti devono credere che questo mio esilio sia davvero molto duro, qui ai confini del mondo. Solo freddo e vento gelido, poco cibo e pochi vini; nessuna distrazione di quelle che solitamente rendono lieta la vita a Roma. [...] È necessario che a Roma s’immaginino grandi sofferenze per me, che credano ch’io desideri tornare, fuggire da questa terra particolare pp. 214-215 (utile intervento, pronunciato e scritto durante la preparazione del romanzo, per comprendere le ragioni sottese all’opera).

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barbara. I Tristia e le Epistulae ex Ponto devono persuadere di questo. Se riuscirò a essere convincente, certo nessuno vorrà venire a trovarmi. Solo così potrò trascorrere serenamente i miei ultimi giorni in questo paradiso terrestre» (p. 49). Ne deriva un ribaltamento sistematico del dualismo Roma-Tomi su cui si regge l’intera elegia ovidiana, declinato negli annessi binomi patria-estraneità, civiltà-barbarie, vita-morte, ‘paradiso-inferno’: patria del poeta non è più Roma, ma Tomi, perché solo qui Ovidio riconosce il proprio mondo («Ormai le mie radici sono affondate in questa terra, e nessuno potrà cacciarmi da qui», p. 44; «Credo che non abbandonerò mai questo luogo che sento mio come nessun altro», p. 225), mentre Roma diviene un luogo estraneo, perché riassume in sé tutto quanto allontana il poeta da una dimensione autentica dell’esistenza, vincolando gli abitanti a una vita fatua e superficiale («Oggi ho ricordato la mia villa di Roma e le sue comodità; ho scoperto che quella vita, addolcita da ogni sorta di agi, non mi manca affatto, anzi... Mi scopro molto più legato sentimentalmente a questa povera capanna», p. 112; «La vita che conducevo a Roma non offriva alcuno stimolo reale: voglio dire che le uniche preoccupazioni che nutrivo erano vacue e fittizie», p. 130). Alla riconsiderazione dei luoghi, con la caratterizzazione di Tomi come luogo felice, segnato da un clima mite e primaverile («Non c’è mai la neve. È proprio come a Roma: quelle rare volte in cui cade, si scioglie subito», p. 216), si affianca la rivalutazione delle etnie che li abitano, cosicché Mincu opera, come Horia, una celebrazione patriottica dei Geti, popoli oppressi impegnati a difendere la propria terra dalle mire imperialistiche dei Romani, invasori che cercano di colmare un vuoto esistenziale attraverso guerra e conquiste: “Vincere, conquistare qualcosa o assoggettare qualcuno non rientra nella logica dei geti. L’unica cosa che veramente interessa loro è mantenere gli spazi che hanno ricevuto in eredità dai loro avi”. È stato così che abbiamo intavolato una discussione sul concetto di guerra. Secondo lei [sc. Aia], i Romani soffrono del furor vacui, del vuoto che alberga dentro di loro. La loro bramosia di conquistare il mondo ha origine proprio dall’esigenza di colmare quel vuoto. “Nient’altro che una fuga per fuggire da voi stessi, anche se in te trovo i sintomi dello stesso male”. I geti, invece, hanno una visione del mondo assai diversa: sono paghi di ciò che hanno; amano il loro sole, la loro terra, la loro aria. Non desiderano affatto andare via dal luogo che li ha visti nascere.

156 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre

Il loro desiderio più grande è vivere in pace e mantenere rapporti armoniosi con i vicini (p. 220). La rinascita spirituale ricercata da Ovidio non può pertanto avvenire a Roma, ormai degradata a luogo di morte morale («A Roma [...] gli uomini si muovevano come negli inferi; i loro gesti non avevano senso, le loro voci sembravano appartenere ai morti. Non eravamo che questo: morti in una città morta», p. 62), ma soltanto in una terra libera come Tomi («Il bene supremo di questa terra è godere di una libertà totale. Posso fare ciò che voglio senza sottostare ad alcun imperativo. Possiedo la tranquillità e la sicurezza che soltanto la libertà può dare; nessuno mi segue o mi sorveglia», p. 108; «alla fine, ho raggiunto quella condizione di libertà assoluta alla quale aspiravo da tempo», p. 149). A Tomi finalmente Ovidio può entrare in contatto con la verità ultima delle cose, spogliandosi di ogni vanità e del superfluo, riducendo al minimo i propri bisogni vitali43, per raggiungere una dimensione più essenziale e più genuina dell’esistenza, che trova nella morte, secondo le credenze getiche, non un motivo di dolore, bensì «una possibile eutanasia, una morte che purifica»44: Fardello. È assolutamente necessario che io mi spogli di ogni fardello, di tutti gli oneri che sinora hanno gravato sulla mia esistenza. Sono venuto qui, ai confini del mondo, proprio per recuperare l’esistenza al suo grado più profondo. Davvero non credevo – e questo mi ha piacevolmente stupito – che, al limes, la vita fosse addirittura più intensa. Vorrei potermi raccontare, ma tutto si riduce al nulla. Mi alzo, cammino, respiro, guardo. Non riesco più a scoprire dentro di me i sentimenti di un tempo. Mi chiedo come posso vivere senza discussioni letterarie. La mia vita tende a rapportarsi a quella di una pianta o di un animale. Avverto un’armonia, una benefica sincronia con la natura: tutto questo è fonte di una nuova, inesauribile serenità (p. 22). A Tomi Ovidio sperimenta così, giorno dopo giorno, una rinascita fisica («Ogni giorno il mio corpo rinnova il proprio vigore; ogni giorno sento

43 Cfr. M. Mincu, Il diario di Ovidio, cit., p. 171: «Cancellazione. Sento che il mio corpo si riduce ogni giorno di più, diminuisce. Mi vedo smagrito, non tanto a causa della mancanza di cibo, quanto per un mio esclusivo piacere. Mi sento meglio così snello, e anche l’appetito si è ridotto allo stretto necessario. Tutto quello che esiste qui attorno sembra obbedire a questa legge: si nasconde, si cancella, diminuisce, si riduce per esistere di meno, non per esistere di più». 44 Cit. in Id., La morte a Tomis, cit., p. 213.

157 Rinascite, rinascenze, rinascimenti di ritrovare la perduta giovinezza», p. 152), ma soprattutto morale, che passa attraverso una rivalutazione dell’interiorità dell’uomo e una svalutazione delle sue pulsioni carnali («Non ho più desideri carnali. Resto puro per intere settimane: allora il mio pensiero diviene chiaro, la mia esistenza recupera un senso. Adesso il mio desiderio si identifica con una pulsione spirituale», p. 52), accompagnandosi a un totale pentimento per il passato: Ovidio disconosce la precedente concezione dell’amore, troppo legata alla fisicità45, e rinnega anche tutta la poesia passata, giudicandola falsa e superficiale («Niente è da recuperare della mia poesia prima della relegazione a Tomis. È avvenuto un mutamento fondamentale: il mio discorso si è spostato verso il reale, ho scoperto l’autenticità, diversa da quella che ho conosciuto nei poemi altrui. [...] Avrei voluto fermare questa superficialità: mi mancava l’impulso di esprimere gli atti più profondi che giacevano in me», p. 177); nella scrittura egli arriva anzi a scorgere un’attività ormai completamente sterile, perché inutile ostacolo tra la propria interiorità e una sua sincera esternalizzazione: La scrittura mi difendeva da me stesso, m’impediva di misurarmi col mio mondo interiore, e perfino con quello esteriore. [...] Oggi posso dire di essere cresciuto: sono ormai capace di compiere analisi introspettive, senza però avvertire la necessità di metterle per iscritto (p. 240). Come nel romanzo di Horia, anche in Mincu la rinascita vissuta dall’esule è soprattutto una rinascita religiosa che si sostanzia nella conversione, in questo caso non al Cristianesimo, ma alla religione del dio Zalmoxis, e chi si traduce nella scelta finale del poeta di immolarsi secondo l’usanza getica, già descritta da Erodoto (4, 93- 96), per cui ogni quattro anni un uomo veniva lanciato in cielo e poi, durante la ricaduta, trafitto dalle lance rivolte verso l’alto come rito

45 Cfr. Id., Il diario di Ovidio, cit., p. 48: «Coniunctio. Quando osservo la profondità dei sentimenti di Aia, mi chiedo come io abbia potuto soggiacere – in passato – a un comportamento erotico assolutamente superficiale. Ho agito soltanto assecondando i miei istinti più animaleschi. L’Ars amatoria non è altro che un manuale di riti carnali. Soltanto adesso, grazie a questo luogo, a queste sensazioni semplici ma essenziali che la natura è in grado di farmi provare, ho compreso l’importanza di vivere ogni esperienza, soprattutto se amorosa, nelle profondità dell’animo [...]».

158 Rinascere in esilio. Variazioni di un motivo in Ovidio e oltre di purificazione e promessa di immortalità46: è anzi lo stesso Ovidio a presentare esplicitamente l’adesione al credo getico come una rinascita, riferendo l’effetto benefico della preghiera quotidiana («Aia mi svegliava presto la mattina; quando la sfera insanguinata del sole compariva nel cielo, la trovavo con le mani giunte nella preghiera. Compio lo stesso gesto, e ogni volta mi sento rinascere», p. 238). Il motivo della rinascita acquista una valenza cruciale, perché la stessa religione getica alla quale ora Ovidio ispira ogni convincimento e comportamento è incentrata sul dogma della morte come ‘rinascita’, tanto che il termine campeggia come titolo di uno dei paragrafi del libro: Rinascita. In realtà, credo che il cominciamento supremo sia proprio nella morte. È con la morte che si nasce. Questo continuo, quotidiano declino sta conducendo il mio corpo a incontrare la sua fine. Da lì, da quell’istante ripartirò; da lì prenderà ali la mia rinascita. Forse adesso comincio a comprendere la gioia dei geti quando giungono all’epilogo della loro vicenda terrena (p. 40). La rinascita è il cardine della nuova religione e fine ultimo dell’esistenza, rispetto alla quale la morte non rappresenta più, come nella religiosità romana, la fine, ma un nuovo inizio, un ri-cominciamento che viene perciò atteso e non temuto dai Geti («La morte, spogliata di ogni timore, è un momento di gaudio supremo», p. 190); la rinascita investe la sorte dell’anima individuale, sotto forma di perenne reincarnazione in altri elementi della natura («I nostri corpi torneranno alla polvere; le anime voleranno a Zalmoxis, che offrirà loro nuove forme di vita»)47,

46 Al rito se ne affianca un altro di iniziazione tipico della religione getica, quello del banchetto rituale, descritto e interpretato nel suo significato simbolico- antropologico in A. Borghini, La taverna, il letame ed altro: percorsi simbolici della morte, in Rappresentazioni della morte, a cura di R. Raffaelli, Quattro Venti, Urbino 1987, pp. 163-167. 47 Il concetto è ripetuto più volte, quasi a voler enfatizzare l’entusiastico stupore del neofita dinanzi al nuovo credo: cfr. M. Mincu, Il diario di Ovidio, cit., p. 109 («Reincarnazione. Resuscitare – come albero o come uccello... Ma la reincarnazione, secondo ciò che Aia mi insegna, è cosa diversa dalla resurrezione. I nostri corpi attuali andranno a decomporsi sotto terra e mai più saranno gli stessi»); p. 138 («I nostri corpi potranno anche esserci sottratti, consumati dal tempo, divorati dalle fiamme di un rogo; le nostre anime, però, avranno sorte differente. Staccate dalla sede originaria, esse vivranno eternamente in nuove dimore, dove saranno accolte come in casa propria»); p. 190 («Nei geti è ben viva la concezione zalmoxiana secondo la quale

159 Rinascite, rinascenze, rinascimenti ma anche l’intero cosmo, destinato alla palingenesi («Scioglimento. Si giungerà a una metamorfosi catastrofica. Allora tutte le forme si scioglieranno in un fiume gigantesco e la genesi comincerà daccapo», p. 145). L’approdo finale dell’Ovidio di Mincu è diverso da quello di Horia, perché ancora legato a una religiosità pre-cristiana, ma ne condivide la tensione a una rinascita al contempo intellettuale, spirituale e religiosa. Ci si può naturalmente chiedere quanto di davvero ovidiano vi sia nell’Ovidio dipinto nei romanzi romeni del secondo Novecento, e quanto invece essi si siano liberamente e artisticamente allontanati dall’Ovidio storico; ciò che però accomuna chi ha letto, meditato e reinterpretato l’opera esilica ovidiana, riflettendovi spesso la propria esperienza biografica o mentale, è l’idea – o forse la speranza – che ogni esilio, lungi dal rappresentare il definitivo annichilimento di un uomo, possa invece dischiudergli la prospettiva di una nuova visione di sé e del mondo: se l’Ovidio latino insegna che si può rinascere soltanto dall’esilio, l’Ovidio contemporaneo corregge il modello antico, dimostrando che non solo si può rinascere in esilio, ma che si può addirittura rinascere grazie all’esilio.

l’anima immortale, dopo l’estinzione della vita nel corpo che la ospita, trasmigra in un altro corpo»); p. 258 («Immortalità. Zalmoxis insegna che l’anima è immortale e che trasmigra in vari generi di esseri viventi. È un’eterna trasmigrazione, guidata da cicli ben determinati»).

160 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale

MARTINA GUERINONI

The migratory journey can be a transformative experience for the migrant, a sort of rite of passage in which there is a break with one’s past identity, in a perspective of rebirth in the host country. This real and metaphorical border crossing carries the risk for the migrant to develop mental disorders. The performing arts and practices can offer useful tools to support the care path of mental distress in an ethno-psychiatric context: this is the case of Teatro utile project, promoted by the Accademia dei Filodrammatici of Milan in collaboration with the Niguarda Hospital in 2019. The essay aims to analyse this case study in the perspective of social theatre and in the context of the Italian “non-model” of integration, with the aim of highlighting the elements that make it an example of a happy rebirth.

1. Migranti e rinascita Il tema delle migrazioni è «un nodo centrale della contemporaneità intorno al quale sembrano naufragare le politiche internazionali e la tenuta della stessa Unione Europea»1. L’approccio al problema soffre, oltre che della falsa percezione di trovarsi al centro di un’invasione, di una miope prospettiva che guarda alle migrazioni da una parte come a un’emergenza continua, per cui non si sviluppano azioni e visioni a lungo termine, dall’altra come a un male da cui difendersi e,

1 R. Ruffini, Alle soglie d’Europa. Il Good Chance Theatre e la sperimentazione di linguaggi performativi nei centri di prima accoglienza e nei campi per rifugiati, in «European Journal of Theatre and Performance», (2019), I, p. 3, https:// journal.eastap.com/2019/01/20/alle-soglie-deuropa-il-good-chance-theatre-e-la- sperimentazione-di-linguaggi-performativi-nei-centri-di-prima-accoglienza-e-nei- campi-per-rifugiati/ (Accesso 10-01-2020).

161 Rinascite, rinascenze, rinascimenti possibilmente, da contenere, se non estirpare. In realtà le migrazioni «non soltanto non costituiscono un’emergenza, ma neppure sono un fatto congiunturale degli ultimi tempi. Esse sono, al contrario, un fenomeno strutturale dell’età contemporanea»2. Nelle migrazioni contemporanee la questione della rinascita è molto differente dal passato. Un tempo, infatti, la migrazione era in gran parte irreversibile, i più non tornavano nei paesi di origine. Per questo, assimilando lingua, usi, costumi, leggi, mentalità, comportamenti molto differenti da quelli di provenienza, i migranti del passato dovevano in qualche modo lasciare l’uomo vecchio e rinascere come uomini nuovi per integrarsi con successo nel nuovo mondo di vita. La difesa della propria identità culturale (“materna”) avveniva all’interno delle reti parentali e associative, d’ordine culturale, religioso, economico, politico, sociale, molto poco all’esterno. Nella società globale di oggi la migrazione è più spesso temporanea e mobile. La possibilità di mantenere il contatto con la madrepatria e con la propria cultura grazie ai mezzi di comunicazione, come i cellulari, all’accessibilità economica dei mezzi di trasporto, alla presenza di fitte reti e comunità sovranazionali di compaesani, correligionari, connazionali, rende meno traumatica l’integrazione e la vita dei migranti in altri paesi e meno cogente il processo di morte nel paese che si lascia e di rinascita nel paese in cui ci si stabilisce. Viceversa, cambiano le cose quando la migrazione è dettata da condizioni di vita terribili come succede nelle popolazioni falcidiate dalle guerre, dalle carestie, dalla miseria. In questi casi, l’esperienza migratoria costituisce un vero rito di passaggio, una rottura con il proprio passato e con la propria identità in un’ottica di rinascita nel paese di accoglienza3. Il passaggio di confine che si verifica con la migrazione, infatti, non è solo geografico, ma anche culturale ed esistenziale e presuppone l’inizio di un vero e proprio processo di trasformazione4. Rinascita significa perciò ritorno a una sorta di infanzia. Per il migrante

2 V. De Cesaris, Il grande sbarco. L’Italia e la scoperta dell’immigrazione, Guerini, Milano 2018, p. 7. 3 S.J. Mahler, American Dreaming. Immigrant Life on the Margins, Princeton University Press, Princeton 1995, p. 58. 4 V. De Micco, In fondo al mare e attraverso le terre: migrazioni fra trauma collettivo e rinascita individuale, 2015, https://www.spiweb.it/cultura/antropologia/ in-fondo-al-mare-e-attraverso-le-terre-migrazioni-fra-trauma-collettivo-e-rinascita- individuale/ (Accesso 10-01-2020).

162 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale

sarà necessario ripercorrere un intero cammino evolutivo nel paese “straniero” di cui non si conoscono né la lingua né le abitudini. Si sperimenterà di nuovo, e con straordinaria drammaticità come ci testimonia la cronaca, il proprio essere “inerme”, bisognoso di tutto, come un neonato. Si viene all’improvviso rituffati in uno stato di dipendenza quasi assoluto sul piano materiale e di totale inadeguatezza sul piano cognitivo ed affettivo, dal momento che bisognerà apprendere nuovamente ad esprimere il proprio pensiero e le proprie sensazioni5.

2. Rinascere in Italia: la sfida del “non-modello” italiano La questione della rinascita dei migranti nel paese di accoglienza sembra essere strettamente correlata con il tema dei modelli di integrazione6: infatti a seconda del tipo di modello adottato si nota come si configurino differenti opportunità di una reale ed effettiva rinascita per il migrante. L’Italia, in questo contesto – e con essa i paesi cosiddetti “di nuova immigrazione”, quali Spagna, Portogallo e Grecia – rappresenta un caso peculiare. Come nota Zanfrini, infatti,

5 Ibidem. 6 Per un’introduzione a questo tema si rimanda a S. Allievi – G. Dalla Zuanna, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione, Laterza, Roma-Bari 2016; S. Allievi, Immigrazione. Cambiare tutto, Laterza, Roma-Bari 2018; M. Ambrosini, Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Cittadella, Assisi 2014; Id., Fighting discrimination and exclusion: civil society and immigration policies in Italy, in «Migration Letters», X, 3, 2013, pp. 313-323; Id., Governare città plurali. Politiche locali di integrazione per gli immigrati in Europa, Franco Angeli, Milano 2012; Id., Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 20112; D. Bramanti, Generare luoghi di integrazione. Modelli di buone pratiche in Italia e all’estero, Franco Angeli, Milano 2011; V. Cesareo, La sfida delle migrazioni, Vita & Pensiero, Milano 2015; R. Guolo, Modelli di integrazione culturale in Europa, in Le nuove politiche per l’immigrazione. Sfide e opportunità, a cura di V. Cardinali e M. Lucidi, Marsilio, Venezia 2010; Integrazione. Il modello Italia, a cura di M. Impagliazzo, Guerini, Milano 2013; F. Lazzari, La sfida dell’integrazione. Un patchwork italiano, Vita & Pensiero, Milano 2015; A. Riccardi, L’Europa dei migranti. Modelli di integrazione, in op. cit. a cura di M. Impagliazzo, pp. 87-109; L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari 2007; L. Zanfrini, Sociologia della convivenza interetnica, Laterza, Roma-Bari 20082.

163 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

l’Italia può essere considerata un caso emblematico di un Paese con una lunga e importante tradizione di emigrazione che ha continuato, anche dopo diversi anni dall’avvio della transizione migratoria, a percepirsi come un popolo di emigranti, secondo un’iconografia custodita dalla memoria collettiva e molte volte rappresentata dal cinema, dalla musica e dalla letteratura7. Questa peculiarità è data dal fatto che l’Italia è stata teatro spesso in contemporanea8 di emigrazione, immigrazione interna ed immigrazione, con il risultato di un lungo periodo di incertezza giuridica9, che ha iniziato ad essere risolto solo negli anni Novanta, dopo il primo episodio di immigrazione di massa dall’Albania del 199110. Riccardi asserisce provocatoriamente che mentre in altri paesi si elaboravano modelli di integrazione, da noi non si pensava ad alcun modello. Si realizzava nella prassi un “non-modello”. [...] La Gran Bretagna multiculturale [...] la Francia assimilazionista [...] avevano una storia di contatti con i mondi altri, che all’Italia mancava, come mancavano le istituzioni di studio dell’altro. L’integrazione si è fatta “da sé”, grazie alla buona volontà di molti italiani e al sogno di molti migranti11. E infatti, a differenza di altri paesi europei con un vissuto immigratorio e coloniale più radicato, l’Italia non ha un vero e proprio modello di integrazione, né in termini legislativi, né a livello di politiche nazionali. Anzi, la sua situazione frammentaria ha portato all’uso di definizioni come “non-modello” – come si è appena visto – o anche di “patchwork” italiano12. Per valutare la positività o meno della situazione italiana sulle possibilità di rinascita per i migranti, è opportuno avanzare alcune considerazioni sui tre altri principali modelli di integrazione europei – assimilazionista, multiculturalista e dell’esclusione differenziale – che, per una ragione o per l’altra, hanno dimostrato di essere se non fallimentari, almeno molto lacunosi in termini di inclusione, proprio

7 L. Zanfrini, Introduzione alla sociologia delle migrazioni, cit., p. 162. 8 V. Cesareo, op. cit., p. 39. 9 L. Zanfrini, Sociologia della convivenza interetnica, cit., pp. 51-52. 10 V. Cesareo, op. cit., p. 43. 11 A. Riccardi, op. cit., p. 98. 12 F. Lazzari, op cit., p. 178.

164 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale in relazione alla questione della necessità o meno di una rinascita – e di quale rinascita – dei migranti. Se si considera il modello assimilazionista adottato in Francia, si nota come la rinascita del migrante sia vincolata alla capacità del soggetto di gestire in modo armonico ed equilibrato la scissione tra sfera pubblica e sfera privata. Tale modello infatti prevede che i migranti si conformino completamente alla cultura della società ospitante, quella del cittadino astratto dei diritti universali dell’uomo, mantenendo le proprie tradizioni unicamente nella sfera privata: «l’integrazione, così come l’uguaglianza davanti alla legge, è considerata una dimensione dell’individuo e non comunitaria. Non ci sono, dunque, riconoscimenti di diritti collettivi per le minoranze, etniche o religiose che siano»13. Il fallimento del modello francese deriva in buona parte dal fatto che esso «ha generato una sorta di “invisibilità” degli immigrati nello spazio pubblico»14, concorrendo all’accendersi di fenomeni di marginalità e di radicalizzazione; inoltre esso evidenzia la «percezione di una distanza tra un’assimilazione culturale apparentemente riuscita e un’integrazione socio-professionale rivelatasi ben più difficile del previsto»15. Secondo il modello multiculturalista adottato in Gran Bretagna e, con alcune varianti, nei Paesi Bassi e nei paesi scandinavi, ai migranti viene chiesto il rispetto delle leggi democratiche, ma viene lasciata molta libertà e autonomia ai singoli gruppi etnici, con la conseguenza del rafforzarsi di ciascuna comunità etnica a scapito della comunità nazionale e dello svilupparsi di difficili relazioni interetniche. Come osserva Guolo, «l’eccesso di riconoscimento particolaristico spinge, infatti, all’autochiusura identitaria e induce le comunità a vivere non l’una con l’altra ma una accanto all’altra. Si forma così una società popolata da comunità parallele [...]»16. In questo contesto, sembra difficile poter parlare di una vera e propria rinascita per i migranti; pare piuttosto che essi continuino semplicemente a mantenere nel paese di accoglienza le stesse tradizioni del paese di origine. Il modello tedesco, un modello di incorporazione ispirato all’esclusione differenziale, prevede l’inserimento dei migranti solo

13 R. Guolo, op. cit., p. 170. 14 L. Zanfrini, Introduzione alla sociologia delle migrazioni, cit., p. 152. 15 Ivi, p. 154. 16 R. Guolo, op. cit., p. 172.

165 Rinascite, rinascenze, rinascimenti in alcuni ambiti della vita pubblica – in particolare il mondo del lavoro, come testimonia la figura del Gastarbeiter, il lavoratore ospite – negando invece la partecipazione politica e la cittadinanza. Pare evidente che, in un contesto in cui i migranti sono incoraggiati «a coltivare la propria cultura originaria in vista della prospettiva del loro ritorno al paese d’origine»17, la loro rinascita sia non solo non favorita, ma addirittura osteggiata. In questo quadro, la peculiarità della situazione italiana sta nel fatto che «in Italia [...] le politiche di integrazione sono state prese in carico, attraverso meccanismi di supplenza istituzionale, da soggetti impropri: la magistratura, le forze dell’ordine, il volontariato, la scuola, gli enti locali»18. Questo controbilanciamento dell’assenza di politiche migratorie da parte di altri attori sociali contribuisce alla transizione dell’Italia verso una società multietnica19, con il paradossale esito delle possibilità di rinascita che dai migranti si estendono ai territori in cui essi si insediano. Un esempio di quanto finora esposto si può ritrovare nella situazione di alcuni piccoli comuni italiani, dove, proprio grazie alla collaborazione e compenetrazione tra iniziative statali e non governative, si assiste a una vera e propria rinascita dei territori. La presenza di famiglie migranti ha portato non solo il rinnovamento del tessuto sociale dei comuni, ma anche nuove opportunità di occupazione20.

17 Ivi, p. 173. 18 Ivi, p. 174. 19 M. Ambrosini, Fighting discrimination and exclusion, cit., p. 313. 20 Oltre al noto caso di Riace, è possibile trovare notizia di casi di rinascita dei comuni grazie ai migranti nella stampa online, per es.: Quei piccoli comuni rinati grazie ai migranti, http://www.hihere.eu/blog-post/accoglienza-diffusa-comuni-rinati- migranti/ (Accesso 05-02-2020); Migranti, il modello di accoglienza dei Comuni solidali che funziona, 05-08-2016, https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/05/migranti- il-modello-di-accoglienza-dei-comuni-solidali-che-funziona/2956090/ (Accesso 05-02- 2020); Non solo Riace, demolire l’accoglienza ai migranti è una rovina per tutto il Sud, 16- 10-2018, https://www.linkiesta.it/it/article/2018/10/16/riace-lucano-migranti-sprar/39765/ (Accesso 05-02-2020); L’accoglienza dei piccoli Comuni che genera sviluppo, 14-11-2018, http://www.vita.it/it/article/2018/11/14/laccoglienza-dei-piccoli-comuni-che-genera- sviluppo/149735/ (Accesso 05-02-2020). Si rinvia inoltre a Migrazioni e piccoli comuni, a cura di M. Balbo, Franco Angeli, Milano 2015 per ulteriori approfondimenti sul tema dell’impatto dei migranti in alcuni piccoli comuni italiani.

166 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale

I processi di abbandono dei centri minori, infatti, portano a una percezione dell’immigrato come “risorsa” non solo per il mantenimento di realtà produttive di nicchia, ma anche per la rinascita di luoghi ormai ai margini dei circuiti socio-economici e per la sopravvivenza di alcuni servizi21. Più in generale, per quanto controverso, è stato sottolineato da molti il contributo che offre la migrazione alla rinascita dell’Italia o almeno al contrasto del suo declino demografico, economico, culturale, sportivo, religioso, comunitario22. La sinergia tra le istituzioni e gli altri attori sociali – associazioni, cooperative e ONG, ma anche la Chiesa cattolica, le famiglie e le comunità locali – sembra dunque essere la chiave di volta del processo di inclusione sociale e di rinascita dei migranti in Italia.

3. Rinascere dai traumi dell’emigrazione L’importanza della questione della rinascita nelle persone che migrano in modo definitivo è stata messa in luce dall’etnopsichiatria23. In

21 Op. cit., a cura di M. Balbo, p. 70. 22 Per approfondire questi aspetti si rimanda in particolare a: Venticinquesimo Rapporto sulle migrazioni 2019, a cura di Fondazione ISMU, Franco Angeli, Milano 2019; International Migration Outlook 2019, a cura di OECD, OECD Publishing, Parigi 2019; Dossier Statistico Immigrazione 2019, a cura del Centro Studi e Ricerche IDOS, 2019. 23 Sembra qui opportuno ricollegarsi al tema del teatro e salute mentale, di cui si segnalano alcuni spunti bibliografici: I. Donegani – G. Gallo – A. Tomelli, La scena terapeutica del Teatro, in «Narrare i gruppi» XI, 1, 2016, pp. 43-56, https://www.narrareigruppi.it/index. php?journal=narrareigruppi&page=article&op=view&path%5B%5D=maggio%20 2016-4 (Accesso 06-02-2020); G. Innocenti Malini-A. Repossi, Il teatro come ponte per la comunità, numero speciale di «Errepiesse», V, 3, 2011; M.C. Italia, Esperienze teatrali nell’area del disagio psichico. Il teatro tra socializzazione, integrazione e cura, in I fuoriscena. Esperienze e riflessioni sulla drammaturgia nel sociale, a cura di C. Bernardi, B. Cuminetti e S. Dalla Palma, Euresis, Milano 2000, pp. 149-185; C. Meldolesi, Forme dilatate dal dolore: tre interventi sul teatro di interazioni sociali, in «Teatro e Storia», IV, 33, 2012, pp. 357-378; Il teatro illimitato. Progetti di cultura e salute mentale, a cura di C. Migani, M.F. Valli e I. Donegani, Negretto, Mantova 2012. Si segnalano inoltre i portali web: http://www.arteesalute. org/progetto-teatro-e-salute-mentale/ e http://www.teatralmente.it/Engine/RAServePG. php/P/250011440403/T/Home (Accesso 06-02-2020) e il documento Studi e ricerche.

167 Rinascite, rinascenze, rinascimenti particolare Leon e Rebeca Grinberg, nel loro pionieristico studio sulla psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio del 198424, equiparavano l’esperienza migratoria ad una vera e propria “esperienza di rinascita”. Questa straordinaria intuizione ci aiuta a ricostruire la profondità psichica di un elemento traumatico che si radica

Teatro e salute mentale in Emilia Romagna a cura dell’Osservatorio dello spettacolo della Regione Emilia Romagna (2016), https://spettacolo.emiliaromagnacreativa.it/ wp-content/uploads/2017/06/Studio-Teatro-e-Salute-Mentale-1.pdf (Accesso 06-02- 2020). L’etnopsichiatria è il ramo della psichiatria che studia i disturbi psichici dei diversi gruppi etnici in rapporto alle loro caratteristiche storiche, sociali, culturali, economiche e somatologiche. Citando Ghilardi, «gli studi in psicologia clinica e sociale evidenziano infatti che, nel momento in cui persone provenienti da contesti etnici, sociali, culturali e psicologici molto diversi s’incontrano, si attivano una serie di meccanismi di tipo prevalentemente difensivo». L’incontro tra realtà diverse è un’esperienza che necessariamente modifica gli equilibri preesistenti e che non si risolve da sé in modo “naturale”, ma al contrario richiede l’impiego di strategie specifiche che possano supportare tanto il soggetto migrante, quanto la popolazione residente nel paese di accoglienza. Queste strategie non possono essere soluzioni preconfezionate e sempre valide, ma presuppongono una conoscenza approfondita delle parti in causa per essere efficaci. Per approfondire questo tema si suggerisce: R. Beneduce, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura, Carocci, Roma 2007; Id., Migrazione e disagio psichico: le sfide dell’ambivalenza. Contributo alla costruzione di servizi di salute mentale antropologicamente competenti, in «Psychiatry online Italia», http://www.psychiatryonline.it/node/3623 (Accesso 06-11-2019); D. De Luca, Migrazione e salute: etnopsichiatria e svolta etno- pedagogica, 05-09-2019, https://anankenews.it/migrazione-salute-etnopsichiatria-svolta- etno-pedagogica/ (Accesso 08-02-2020); V. De Micco, Trapiantare/tramandare. Legami e identificazioni nei transiti migratori, in «Interazioni», XXXIX, 1, 2014, pp. 32-46; Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni, a cura di V. De Micco e P. Martelli, Liguori, Napoli 1993; A. Ghilardi, Noi e loro. L’integrazione psicologica nell’emigrazione, in «International Journal of Phsycoanalysis and Education», I, 1, 2017, pp. 143-160; M. Risso – W. Böker, Sortilegio e delirio. Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale, a cura di V. Lanternari, V. De Micco e G. Cardamone, Liguori, Napoli 1992. Rispetto al tema del disagio psichico legato alla migrazione si ritiene infine opportuno citare la cosiddetta “sindrome Italia”, una sindrome da abbandono degli immigrati dell’Est Europa che colpisce soprattutto le donne impegnate nei lavori di cura (colf, badanti). Per un approfondimento sul tema si rimanda a: M. Pacini, La sindrome migratoria, Edizioni clandestine, Massa 2018. 24 L. Grinberg – R. Grinberg, Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio, Franco Angeli, Milano 1990.

168 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale

nella necessaria disarticolazione, e dunque poi nella successiva ri- articolazione, di quel nesso fondativo tra psiche individuale, relazioni primarie ed intelaiatura culturale che le regge entrambe25. Per comprendere il trauma migratorio occorre rifarsi alla dimensione costitutiva dell’esperienza culturale per la psiche individuale, in particolare all’interno di quelle relazioni primarie che danno letteralmente “corpo” alla dimensione linguistico-simbolica che costituisce la dimensione culturale. La cultura è in questo senso corpo-affetto, dimensione letteralmente incorporata e che struttura la percezione/rappresentazione della propria corporeità/affettività e della stessa immagine di sé26. La frattura culturale «connessa alla migrazione non è tanto una frattura interpsichica»27, orizzontale, rispetto alla condivisione di significati del contesto esterno, «quanto una frattura intrapsichica»28, verticale, «in cui si altera un fondamentale senso di “continuità” culturale»29 con i propri genitori, avi e comunità. La dimensione genealogica «costituisce l’asse portante del sentimento di identità, sentimento radicato nel senso di appartenenza affettiva ad una comunità simbolica che lega le generazioni»30. L’esperienza migratoria inevitabilmente altera tali nessi strutturali, con modalità diversificate e specifiche tra prime e seconde generazioni in particolare: il trauma “migratorio” per la sua particolare natura, infatti, non esaurisce i suoi effetti nell’arco di una generazione, ma necessariamente si “propagherà” nelle successive, e questo esattamente per la sua natura di trauma “culturale”31. L’esperienza migratoria riporta dunque ad una condizione infantile, in cui si ridiventa preda di bisogni primari che costringono a sperimentare nuovamente una condizione di inermità e di dipendenza. Non solo, l’estraneità al contesto linguistico costringe a ricadere letteralmente nella condizione dell’infans, sperimentando nuovamente i frammenti

25 V. De Micco, Trauma migratorio, https://www.spiweb.it/spipedia/trauma- migratorio/ (Accesso 10-02-2020). 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Ibidem. 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ibidem.

169 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

pulsionali ed emotivi arcaici che abitano la lingua, mentre il processo di simbolizzazione primaria dell’esperienza deve essere in un certo senso “ripercorso” e, almeno parzialmente, rifatto alla luce del nuovo codice simbolico in cui ci si ritrova immersi, con tutto il rischio che questo rinnovato processo di simbolizzazione psichica possa fallire. Vorrei sottolineare come si tratti proprio di rimettere in gioco aspetti della simbolizzazione primaria, che coinvolgono l’esperienza della corporeità e dell’affettività: non si tratta semplicemente di apprendere una nuova lingua e delle nuove consuetudini quanto piuttosto di un intero “modellamento” degli habitus corporei, per usare l’espressione cara a Pierre Bourdieu, che modifica la stessa autopercezione e autorappresentazione dell’immagine di sé [...]32. Questi aspetti sono molto evidenti nelle recenti ondate migratorie, in cui le violenze di cui i migranti sono stati vittime causano sradicamento e perdita di identità del guscio, «col risultato di trovarsi spesso di fronte a individui che hanno subito una violenta “deculturazione” piuttosto che essere portatori di una presunta “identità” culturale, solida e riconoscibile»33. Ogni migrante, specie se traumatizzato, necessita «di un continuo lavoro di rifondazione identitaria che si muove su di un crinale molto sottile, in cui si fa sentire con forza l’instabilità»34 dei referenti metapsichici e metasociali. Se il soggetto ha bisogno di un corpo-gruppo per costituirsi, e soprattutto mantenersi come tale, si intuisce come il migrante sia in realtà costantemente a rischio di smarrire la sua dimensione “soggettuale”, restando costantemente a rischio di sperimentarne la costitutiva fragilità. Anche dopo molti anni di una migrazione di successo resta alta la probabilità di sviluppare gravi crolli depressivi, patologie psicosomatiche invalidanti, attitudini rivendicative subdeliranti. Il trauma migratorio possiede dunque molteplici declinazioni, la sua complessità non si esaurisce affatto nel momento drammatico dello “sbarco” nel paese ospite, si tratta in realtà di un “processo” ramificato e pluristratificato capace di distendersi nel tempo, attraverso le generazioni, e di espandersi nello spazio, coinvolgendo le comunità di partenza e di arrivo.

32 Ibidem. 33 Ibidem. 34 Ibidem.

170 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale

Processo traumatico, dunque, costruzione soggettiva che ha bisogno di incontrare un ascolto attento, capace di intenderne le profonde eco attraverso i suoi molteplici travestimenti, in particolare le sue perfette mimesi in maschere di riuscita integrazione, le quali potrebbero subitaneamente dissolversi. La migrazione richiede un incessante lavoro di lutto delle origini, che non si può mai compiere definitivamente, perché questo equivarrebbe a sottrarre definitivamente ai propri antenati la loro stessa discendenza, è per questo che anche il “processo” traumatico che la accompagna non può mai essere davvero “elaborato”, dal momento che quella “ferita congelata” è spesso l’unico segno residuo del legame ad una memoria altrimenti inattingibile. Per i migranti, dunque, non si tratta tanto di sopravvivere al trauma quanto di continuare a sopravvivere nel trauma35. E rinascere.

4. Rinascere grazie al teatro: il progetto Teatro utile 2019 In un contesto di cura dello «shock culturale vissuto dal migrante nell’affrontare una realtà nuova e sconosciuta»36, si pone il caso del progetto Teatro utile promosso dall’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 2019 in collaborazione con il servizio di etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda. Ci si propone qui di indagare le possibilità di rinascita insite nella migrazione attraverso la prospettiva del teatro sociale e di comunità, partendo proprio da questo caso di studio, con l’obiettivo di evidenziare come le arti e ancor di più le pratiche di ordine performativo, rituale e festivo possano contribuire al processo di cura e rinascita dei migranti all’interno della nuova comunità nel paese di accoglienza. Le arti e le pratiche performative, infatti, da tempo promuovono processi creativi, attivi e riflessivi intorno al complesso fenomeno della migrazione37. Esse attivano processi per favorire l’inserimento dei soggetti migranti nella società di accoglienza, cercando di scongiurare

35 Ibidem. 36 M. Risso – W. Böker, op. cit., p. 29. 37 Vedi: R. Carpani – G. Innocenti Malini, Introduction, in Playing inclusion. The Performing Arts in the Time of Migrations: Thinking, Creating and Acting Inclusion, a cura di R. Carpani e G. Innocenti Malini, numero monografico di «Comunicazioni Sociali», I, 2019, pp. 3-20.

171 Rinascite, rinascenze, rinascimenti lo svilupparsi di dinamiche di isolamento, scarsa integrazione e insorgenza di patologie psichiatriche38. Possono inoltre agire in opposizione alle politiche populiste ed estremiste; come scrive Ruffini in proposito «il binomio teatro-migranti è sempre più radicato. [...] I progetti performativi si moltiplicano, proponendo modelli di convivenza e sfidando le asfittiche nozioni di identità culturale difese dai nuovi estremismi»39. Infine possono offrire utili strumenti per coadiuvare i percorsi di cura del disagio psichico generato dall’esperienza migratoria, come è successo nel caso qui in esame. Il progetto Teatro utile (Arte e sviluppo)40 nasce nel 2012 nell’ambito dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano, dall’iniziativa dell’attrice, regista e formatrice Tiziana Bergamaschi. Per le prime tre edizioni del progetto l’Accademia, prima scuola teatrale in Italia a proporre un programma specificamente rivolto ad artisti immigrati, si è avvalsa della collaborazione delle associazioni culturali Sunugal41 e Mascherenere42. Alle origini del progetto vi è il seminario di perfezionamento annuale “Incontri con la drammaturgia”43, tenuto da Tiziana Bergamaschi dal 2006 al 2012 presso l’Accademia dei Filodrammatici e rivolto a giovani attori, drammaturghi e laureati in discipline dello spettacolo. Il progetto, dedicato alla drammaturgia straniera contemporanea,

38 Si segnala a questo proposito come esempio virtuoso il lavoro di alcune realtà che nei rispettivi territori si occupano dell’inclusione dei migranti creando una sinergia tra l’offerta di servizi e le pratiche performative: Asinitas ONLUS a Roma, https://www.asinitas.org/ (Accesso 06-02-2020); il Centro Interculturale Zonarelli a Bologna, https://centrozonarelli.wordpress.com/ (Accesso 06-02-2020); il Teatro dell’Argine a San Lazzaro di Savena https://www.teatrodellargine.org/site/index.php (Accesso 06-02-2020). 39 R. Ruffini, op. cit., p. 3. 40 http://accademiadeifilodrammatici.it/teatro-utile/ (Accesso 29-05-2019). Per ulteriori approfondimenti sulle origini e sulle prime tre edizioni del progetto si suggerisce inoltre la lettura di T. Bergamaschi, Teatro utile (Arte e Sviluppo), in «Quaderns de Filologia: Estudis Literaris», XIX, 2014, pp. 205-221. 41 https://www.sunugal.it/ (Accesso 24-05-2019). 42 https://www.facebook.com/Mascherenere-Laboratorio-di-teatro-132204316799842/ (Accesso 09-01-2020). 43 http://accademiadeifilodrammatici.it/corsi-di-perfezionamento/ (Accesso 14- 01-2020).

172 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale si focalizzava ogni anno su una nazione o area linguistica specifica e si concludeva con una rappresentazione teatrale a partire dai testi studiati. L’esperienza degli incontri con la drammaturgia ha offerto la base per la nascita del progetto Teatro utile, il cui obiettivo principale è «incoraggiare la creazione di un gruppo misto di artisti in grado di lavorare insieme per diffondere un teatro multiculturale44». Il progetto si propone di supplire alla dispersione professionale degli artisti stranieri presenti a Milano, numerosi ma privi di un’organizzazione definita, coniugando la formazione teatrale con la pedagogia interculturale e contribuendo alla formazione di nuove figure professionali. Inoltre, esso punta a valorizzare la ricchezza espressiva che deriva dalle differenti culture, superando la concezione che limita il coinvolgimento degli artisti stranieri al solo aspetto folcloristico. La partecipazione al laboratorio Teatro utile è gratuita e l’accesso è regolato da un bando di concorso. Dal 2012 ad oggi il progetto Teatro utile ha attraversato diverse tematiche, pur mantenendo sempre il filo conduttore del viaggio, dell’esilio e della migrazione. Il percorso si è sviluppato in diverse direzioni espressive: accanto al laboratorio teatrale rivolto agli attori, si è infatti inserito negli anni un laboratorio di scrittura indirizzato ai drammaturghi e, nell’edizione 2018, si è deciso di dedicarsi a diversi tipi di scrittura: giornalistica, drammaturgica, autobiografica, sempre declinate in chiave interculturale. Si è inoltre introdotta sempre dal 2018 la proposta di affiancare al laboratorio un ciclo di incontri di approfondimento con artisti e operatori che si occupano del tema della migrazione45. Ai fini di questo intervento, ci si sofferma sull’edizione 2019 del progetto Teatro utile, il cui titolo è “I am – Je suis – Io sono. La restituzione dell’identità46“. Si tratta di un laboratorio teatrale sperimentale, realizzato in collaborazione con il servizio di

44 T. Bergamaschi op. cit., p. 208. 45 http://accademiadeifilodrammatici.it/news/teatro-utile-2018-programma- appuntamenti/ (Accesso 21-01-2020). 46 http://accademiadeifilodrammatici.it/news/progetto-teatro-utile-2019/, (Accesso 29-05-2019).

173 Rinascite, rinascenze, rinascimenti etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda di Milano47 e indirizzato a giovani migranti vittime di tortura in cura presso il servizio stesso. L’Ospedale Niguarda e in particolare il suo Dipartimento di Salute Mentale adotta le attività riabilitative a espressione artistica come prassi, attraverso la proposta di laboratori di Arteterapia condotti da professionisti che lavorano in costante dialogo e collaborazione con psichiatri e psicoterapeuti, con l’obiettivo di rendere l’arte una possibilità di scambio di idee e linguaggi. Quanto viene prodotto all’interno di questi laboratori entra in contatto con la realtà esterna attraverso mostre, convegni, pubblicazioni e altre iniziative di divulgazione48. Gli esiti più significativi in quest’ambito sono il MAPP (Museo d’Arte Paolo Pini, situato nell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini)49, ideato nel 1993 dall’Associazione Arca (Associazione per il Recupero della Creatività Artistica e la Riabilitazione Psicosociale) ONLUS50 e realizzato in collaborazione con il Niguarda; e le Botteghe d’Arte, che nel tempo hanno dato vita alla NAG – Niguarda Art Gallery, una collezione di livello internazionale51. Nel 2000, inoltre, è nato presso l’Ospedale Niguarda il Centro di Consultazione Etnopsichiatrica52, un ambulatorio di salute mentale che offre servizi di sostegno psichiatrico ai migranti qui indirizzati dal pronto soccorso, dal reparto di neuropsichiatria, dai consultori e dagli altri servizi di zona rivolti agli immigrati. Il centro, uno dei pochissimi in Italia ad offrire questo genere di servizi, opera all’interno di una rete assistenziale attiva sul territorio e si avvale della collaborazione di mediatori linguistico-culturali, che affiancano psichiatri, psicologi ed educatori nell’obiettivo di offrire un percorso di cura che tenga conto dei diversi orientamenti culturali dei pazienti. I fruitori del servizio di etnopsichiatria sono soprattutto uomini: per le donne vittime di tratta, infatti, sono previsti percorsi di riabilitazione specifici in cui è compresa l’assistenza psicologica. Inoltre, se nei primi

47 https://www.ospedaleniguarda.it/news/leggi/etnopsichiatria (Accesso 16-01-2020). 48 https://www.ospedaleniguarda.it/in-evidenza/leggi/arte-terapia-il-mapp-e-le-botteghe- darte (Accesso 21-01-2020). 49 http://www.mapp-arca.it/ (Accesso 21-01-2020). 50 https://www.ospedaleniguarda.it/servizi-al-paziente/associazioni-di-volontariato/info/ arca-onlus-associazione-per-il-recupero-della-creativita-artistica (Accesso 21-01-2020). 51 http://www.ospedaleniguarda.it/artgallery/ (Accesso 21-01-2020). 52 Tutte le informazioni sul Centro di Consultazione Etnopsichiatrica sono tratte da: https://www.ospedaleniguarda.it/news/leggi/etnopsichiatria (Accesso 21-01-2020).

174 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale anni di attività il centro riceveva soprattutto migranti economici, partiti per scelta dai propri paesi di origine per sostenere le famiglie rimaste a casa, dalla crisi libica del 2011 hanno iniziato a presentarsi i primi rifugiati e vittime di tortura, che costituiscono ora la maggioranza dei pazienti in cura. In questo contesto, il progetto teatrale “I am – Je suis – Io sono. La restituzione dell’identità” si propone di favorire l’incontro umano tra clinici e pazienti, con l’obiettivo di coadiuvare la rinascita del migrante come riappropriazione della propria identità, perduta o distorta in seguito al trauma migratorio o all’essere stati sottoposti a tortura. Il proposito è di attivare processi di reintegrazione dell’identità non solo a livello soggettivo, inteso come recupero della fiducia in se stessi e della capacità progettuale, ma anche in relazione al gruppo e al contesto. Ideatori e responsabili del progetto sono Tiziana Bergamaschi – coadiuvata da un’equipe multietnica di esperti (danzatori, musicisti, insegnanti di canto e così via)53 – insieme allo psichiatra Lorenzo Mosca54 e alla psicoterapeuta Katia Larocca55. Il progetto vede inoltre il patrocinio di UNHCR56 e la partecipazione di Casa della Carità57, C.R.I. (Croce Rossa Italiana)58, Naga59, Refugees Welcome60, Art.361, Artepassante62.

53 Si segnala inoltre la collaborazione di tre tirocinanti del Corso di Alta Formazione per Operatori di Teatro Sociale e di Comunità “I Conviviali” dell’Università Cattolica, che hanno seguito a vario titolo i lavori e redatto il Diario di bordo. 54 https://www.ospedaleniguarda.it/professionisti-e-aziende/i-nostri-professionisti/ profilo/mosca-lorenzo (Accesso 04-02-2020). Tra le sue pubblicazioni si segnala: L. Mosca, Extreme trauma and memory. The autobiographic memory and its impairment following traumatic experiences, in «Minerva Psichiatrica», XLIX, 2008, pp. 235-246. 55 https://www.ospedaleniguarda.it/professionisti-e-aziende/i-nostri-professionisti/ profilo/larocca-katia (Accesso 04-04-2020). 56 https://www.unhcr.it/ (Accesso 04-02-2020). Si segnala la presenza allo spettacolo finale di Carlotta Sami, Portavoce dell’UNHCR per il Sud Europa. 57 http://www.casadellacarita.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1 (Accesso 04-02-2020). 58 https://www.cri.it/home (Accesso 04-02-2020). 59 https://naga.it/ (Accesso 04-02-2020). 60 https://refugees-welcome.it/ (Accesso 04-02-2020). 61 https://www.art3.it/index-s.htm (Accesso 04-02-2020). 62 https://www.artepassante.it/ (Accesso 04-02-2020).

175 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

I migranti coinvolti nel progetto sono quindici, uomini e donne, di età compresa tra i 16 e i 34 anni e tutti provenienti da paesi africani (Nigeria, Mali, Camerun, Costa D’Avorio, Senegal, Egitto). Di questi, alcuni sono in cura presso il servizio di etnopsichiatria per stati post- traumatici complessi, altri per scompensi psicotici63. In generale, come esplicitato da Lorenzo Mosca all’avvio del progetto, di persone gravemente traumatizzate, spesso prive di appartenenze e di legami sociali, non in grado di esprimere le proprie emozioni né di fidarsi del prossimo. Il senso di frammentazione che essi manifestano non è solo mentale, ma investe anche la dimensione corporea, portandoli a non riconoscere più il loro stesso corpo e a vivere una situazione di dissociazione. Proprio il corpo è il punto di partenza del laboratorio, che nella sua prima fase è rivolto al solo gruppo di migranti. Le attività proposte sono volte a promuovere il recupero della percezione e della consapevolezza corporea, a partire da esercizi sul respiro e sulla voce e sul recupero della fiducia nel proprio corpo come luogo privilegiato di espressione del sé e di costruzione della relazione con l’altro e non come oggetto estraneo e ostile. Viene inoltre indagato il corpo nello spazio e il corpo in relazione con l’altro, attraverso la proposta di esercizi di improvvisazione finalizzati alla creazione di relazioni interpersonali tra i partecipanti. Solo dopo i primi due mesi il gruppo è stato condotto a mettersi alla prova con delle improvvisazioni. Il vissuto dei partecipanti entra nel laboratorio: a ciascuno è infatti richiesto di portare un testo nella propria lingua – nell’ottica di favorire il metissage dei linguaggi – oppure una canzone, o un sogno o un ricordo, tutti materiali che vengono condivisi ed utilizzati nelle improvvisazioni, fino a diventare patrimonio comune e a contribuire alla creazione dell’identità di gruppo. Anche la musica, il canto e la danza vengono utilizzati per creare canali di comunicazione alternativi. Il filo conduttore del percorso è il tema del viaggio, inteso sia nella sua accezione concreta sia in quella simbolica, come condizione che accomuna tutti gli esseri umani. Il racconto della propria esperienza di viaggio, riletto e mediato dal filtro dell’ironia, è pensato nell’ottica

63 Dove non diversamente specificato, le informazioni circa la composizione del gruppo, le attività proposte e i risultati ottenuti sono tratte dal materiale inedito fornito dalla responsabile del progetto Teatro utile Tiziana Bergamaschi. Si fa riferimento in particolare al diario di bordo e al report conclusivo del progetto.

176 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale di sublimare l’esperienza traumatica vissuta e nel renderla universale. Nella seconda fase del laboratorio, i rifugiati vengono affiancati da due registi, quattro attori e due operatori sociali. Il gruppo così composto nella terza fase lavora per la realizzazione dello spettacolo finale, il cui testo viene costruito da un team di drammaturghi guidato da Marco Di Stefano64 raccogliendo le esperienze e gli elementi emersi dalle improvvisazioni e dai momenti di condivisione. Lo spettacolo finale, dal titolo Io ero io, è andato in scena il 26 giugno 2019, giornata del rifugiato che ha subito torture, presso il Teatro Franco Parenti di Milano. Il tema del testo e dello spettacolo è la riconquista della propria identità. Il protagonista si sveglia in un luogo che non riconosce e ha in mano un oggetto di cui non sa né l’origine né il senso. Inizia così un viaggio, accompagnato da un personaggio creato dalla sua fantasia, e attraverso i più svariati e anche divertenti incontri arriva a ricomporre i frammenti della sua storia e a ritrovare la sua identità65. Dalla relazione conclusiva66 di Lorenzo Mosca emerge il complessivo miglioramento da un punto di vista clinico dei pazienti coinvolti nel progetto teatrale, miglioramento confermato dall’andamento della terapia psicofarmacologica: in molti casi è stato possibile ridurre significativamente il dosaggio dei farmaci o addirittura interromperne l’assunzione. Inoltre, sembra utile citare le testimonianze dirette di alcuni dei partecipanti al laboratorio circa il proprio vissuto dell’esperienza teatrale a supporto della terapia. Particolarmente interessanti sono i riscontri di due giovani provenienti dal Camerun e in Italia da circa tre anni, Bosco e Laura. Bosco riferisce: nel mio Paese ero un commerciante: avevo due negozi e nessun problema economico. Sono stato costretto a scappare per motivi politici. Quando sono arrivato qui e ho capito che, non avendo in tasca nemmeno un euro, ero costretto a dipendere dagli altri, mi sono sentito

64 https://www.laconfraternitadelchianti.eu/team/marco-di-stefano/ (Accesso 04- 02-2020). 65 Vedi: https://withrefugees.unhcr.it/eventi/io-ero-io-il-teatro-come-strumento-di- restituzione-dellidentita/ (Accesso 04-02-2020). 66 La relazione conclusiva fa parte dei materiali inediti forniti dalla responsabile del progetto Teatro utile Tiziana Bergamaschi.

177 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

perso. Per un lungo periodo non ho parlato con nessuno. Passavo il tempo al parco, sempre da solo. Poi ho iniziato una terapia con il dottor Mosca e le psicologhe di Niguarda e piano piano ho iniziato ad aprirmi. Il teatro è stato fondamentale per ricominciare ad avere rapporti con gli altri67. Quanto all’esperienza di Laura: il teatro mi occupa, mi svuota dei pensieri negativi. Penso che il titolo di questo laboratorio, “I am/Je suis/Io sono” sia importante. Mi ero un po’ persa, avevo smarrito il gusto della vita. Ho passato molti momenti in cui ho patito la solitudine ed ero depressa. Ma ora se dico “I am” sento che sto cominciando a ritrovarmi, a ricordarmi chi sono [...] il lavoro con il teatro mi sta aiutando a vedere le cose da un altro punto di vista: non negare la realtà, perché il passato non lo puoi seppellire, ma concentrarmi sul ritrovare me stessa per affrontare il passato68. Complessivamente il laboratorio sembra dunque aver conseguito buona parte degli obiettivi che si prefissava. Dal punto di vista della divulgazione esso è senz’altro riuscito a raggiungere e interessare un ampio pubblico, grazie non solo alla rappresentazione finale al Teatro Franco Parenti, ma anche agli incontri di approfondimento sui temi del teatro sociale, della drammaturgia e delle migrazioni69. Tuttavia rimane aperta una questione critica: la continuità. Infatti, il rischio di un laboratorio così strutturato è quello che il processo di recupero dell’identità dei migranti coinvolti subisca un’interruzione con la conclusione del progetto, dando loro un sollievo solo temporaneo e non favorendo il loro reinserimento nel tessuto sociale della comunità di accoglienza. Sarebbe invece auspicabile che i migranti coinvolti potessero continuare un percorso di accompagnamento per arrivare a potersi servire degli strumenti acquisiti nel corso dell’esperienza nell’ambito della propria vita quotidiana.

67 Vedi: G. Grasso, Il teatro come terapia dell’anima, 21-06-2019, https://www. qcodemag.it/indice/interventi/il-teatro-come-terapia-dellanima/ (Accesso 02-02-2020). 68 Ibidem. 69 http://accademiadeifilodrammatici.it/news/teatro-utile-2019-approfondimenti/ (Accesso 04-02-2020).

178 Un teatro utile alla rinascita. Migranti traumatizzati e inclusione sociale 5. Per una rinascita felice: la prospettiva del teatro sociale Il progetto Teatro utile 2019 sembra offrire nel suo complesso un esempio di rinascita felice. Esso pare inoltre ricalcare il modello del teatro sociale e di comunità70 – pur non identificandovisi apertamente71 – nella sua definizione di teatro d’azione, di «arte dei corpi che mira alla costruzione e al benessere delle persone, dei gruppi, delle comunità»72. Se l’obiettivo del teatro sociale «non è andare a teatro, ma far fare teatro a tutti»73, ecco che il progetto Teatro utile mostra di sapersi muovere in questa direzione servendosi della pratica teatrale «non solo per comprendere e analizzare situazioni, cambiamenti, conflitti, problematiche individuali e collettive, ma anche per ridare forza, vigore, energia a persone e gruppi, e per curare i malesseri e i disagi del vissuto quotidiano»74. L’approccio del progetto “I am – Je suis – Io sono. La restituzione dell’identità” è di ordine biopsicosociale, in quanto nella sua realizzazione si propone di ristabilire il benessere sia fisico

70 Il teatro sociale, la cui definizione risale a studi condotti in Università Cattolica a partire dagli anni Novanta, nasce nei contesti di disagio e svantaggio con l’obiettivo di ristabilire il benessere di individui, gruppi e comunità. Esso non ha come finalità primaria il prodotto estetico e la rappresentazione, bensì il processo di costruzione pubblico e privato dell’individuo, pertanto il teatro è al servizio della vita, l’estetica è subordinata all’etica, in un ribaltamento del processo creativo. Per un approfondimento su questo argomento si suggerisce: C. Bernardi, Il teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Carocci, Roma 2004; Id., Eros: sull’antropologia della rappresent-azione, EDUCatt, Milano 2015; Id., La piccola rivoluzione del teatro sociale, in «Ateatro», 21-03-2017, http://www.ateatro.it/webzine/2017/03/21/la-piccola- rivoluzione-del-teatro-sociale/ (Accesso 08-02-2020), C. Bernardi – G. Innocenti Malini, From performance to action. Il teatro sociale tra rappresentazione, relazione e azione, in Thinking the theatre – new theatrology and performance studies, a cura di G. Guccini e A. Petrini, Alma DL, Bologna 2015, pp. 390-401; Teatro comunità. Community Theatre, a cura di A. Pontremoli, Atti del Seminario Internazionale, Stalker Teatro, Torino 2002; A. Pontremoli, Elementi di teatro educativo, sociale e di comunità, UTET, Novara 2015; A. Rossi Ghiglione, Teatro sociale e di comunità. Drammaturgia e messa in scena con i gruppi, Dino Audino, Roma 2013. 71 Dice Tiziana Bergamaschi in G. Grasso, op. cit.: «Io non faccio psicodramma, né teatro-terapia, né teatro sociale: per me il teatro è sempre sociale, non mi pongo il problema di definirlo tale». 72 C. Bernardi, Il teatro sociale, cit., p. 59. 73 C. Bernardi – G. Innocenti Malini, op. cit., p. 393. 74 Ivi, p. 391.

179 Rinascite, rinascenze, rinascimenti che psicologico dei partecipanti, prendendosi contestualmente cura della dimensione sociale e relazionale del gruppo. Un simile approccio appare tanto più significativo se si tiene conto dell’appartenenza culturale dei destinatari dell’intervento: per chi proviene da culture extra-occidentali, infatti, «quella divisione tra mente e corpo tipica dell’impostazione occidentale»75 viene sostituita e superata da una «visione maggiormente olistica e diversamente complessa della malattia e della salute»76. L’approccio biopsicosociale è fondamentale nella metodologia del teatro sociale, che parte dalla persona nella sua interezza, dimostrandosi particolarmente efficace nelle situazioni di emergenza77 e laddove vi sia necessità di rinnovamento, attraverso «la creazione di luoghi, tempi, spazi, ritualità, informalità, gruppi, legami di sollievo, conforto, sostegno, calore, a partire dalle persone in difficoltà fisica e psichica»78. Nel caso del Teatro utile, è possibile osservare inoltre come le tre fasi costitutive della metodologia del teatro sociale – laboratorio, performance e rito – vengano rispettate. In particolare pare opportuno evidenziare l’impegno affinché vi sia una «ricaduta etica ed estetica del lavoro teatrale nella vita e nelle relazioni quotidiane»79 delle persone coinvolte, in un’ottica secondo cui «il lavoro teatrale stimola l’ingaggio e l’investimento personale, la relazione, il confronto ludico e performativo con se stessi e con gli altri in un processo di co-creazione etica ed estetica»80. In questo processo di apertura alla comunità è fondamentale la rete di partner e collaboratori: è questa sinergia la chiave della capacità di un progetto di essere generativo e trasformativo. Solo in presenza di questo elemento è possibile parlare di una vera rinascita per i soggetti coinvolti.

75 D. De Luca, op. cit., p. 5. 76 Ivi, p. 6. 77 Sul tema del teatro sociale nelle situazioni emergenziali si rimanda in particolare al testo Teatri di guerra e azioni di pace. La drammaturgia comunitaria e la scena del conflitto, a cura di C. Bernardi, M. Dragone e G. Schininà, Euresis, Milano 2002. 78 C. Bernardi, La piccola rivoluzione del teatro sociale, op. cit. 79 Ibidem. 80 C. Bernardi – G. Innocenti Malini, op. cit., p. 394.

180 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria

ANNA A NGUISSOLA

That Roman art, and sculpture in particular, depended heavily upon Greek antecedents in matters of subject, style, and iconography, has been common opinion for centuries. This paper focuses on three main points, which illuminate the potential of replicas after famous prototypes as instruments for communication. First, it explores the perception, awareness, and visualization of the techniques and processes involved in the production of sculptural copies. Second, it engages with the value and meaning of artistic materials to the purpose of either tightening the relationship with the prototype or lending the image a different identity. Third, it discusses displays that include two or more versions of the same sculptural type. These perspectives allow to combine the comparative approach at the core of traditional Kopienkritik and consideration of each work of art within its distinctive architectural and cultural context. They address both the vertical (diachronic) relationship between a work of art and its putative model, and the horizontal (synchronic) network of references within the replica series. By means of a small set of case studies, this paper argues for a broader and more inclusive narrative of Roman sculpture, to accommodate self-conscious retrospection, as well as formal and functional innovation.

Una recente mostra presso la sede milanese della Fondazione Prada, co-curata da chi scrive, ha affrontato, attraverso casi di studio esem- plari, le ragioni e le funzioni della serialità nella cultura artistica ro- mana1. Più precisamente, il percorso espositivo indagava le dinamiche e la portata di un fenomeno che da oltre due secoli domina lo studio dell’arte classica: l’appropriazione, nel mondo romano, dell’esperienza artistica greca attraverso un vasto corpus di repliche da celebri opera

1 Si rimanda, per quell’esperienza (Serial Classic: Multiplying Art in Greece and Rome, 2015), al catalogo Settis, Anguissola, Gasparotto 2015.

181 Rinascite, rinascenze, rinascimenti nobilia. Da lungo tempo superata l’impostazione della Kopienkritik tradizionale, l’archeologia classica riconosce oggi la dimensione crea- tiva della copistica romana – tanto nelle sue premesse culturali, quanto negli aspetti tecnici e produttivi2. Sebbene, come indagato nella sezione introduttiva di quella mostra, la serialità abbia radici assai profonde nella cultura materiale greca3, un vero e proprio interesse verso i ‘capolavori’ del lontano passato sem- bra documentato a partire dall’età ellenistica, in particolare in seno alla corte attalide, la cui committenza avrebbe riguardato, nel corso del II secolo d.C., anche repliche di antichi originali4. Come attesta un piccolo, ma significativo nucleo di opere realizzate agli inizi del I secolo a.C., insieme al carico delle navi naufragate a Mahdia e Antici- tera, la circolazione di prodotti d’arte seriale doveva essere assai intensa nel Mediterraneo tardo-ellenistico, ormai ampiamente sotto il control- lo romano5. Nei secoli successivi, il paesaggio delle città, degli horti, delle case e delle ville romane sarebbe stato dominato da un ampio

2 Per una introduzione agli studi sulla copistica romana, vd. Anguissola 2015; una bibliografia ragionata sul tema è Anguissola 2012b. I principali lavori monogra- fici o miscellanei, pubblicati nell’ultimo ventennio, sulla produzione, circolazione, fruizione di repliche d’arte nel mondo romano sono: Gazda 2002; Perry 2005; Bar- banera 2006 [ed. in lingua italiana 2011], Trimble, Elsner 2006; Junker, Stähli 2008; Marvin 2008; Anguissola 2012a e 2018c. 3 Settis, Anguissola, Gasparotto 2015, 214-215, 225-227. 4 Niemeier 1985, 108-110, 128-129, 145-146, 154-157. Esiste testimonianza epi- grafica (SIG, n. 682) dell’invio a Delfi da parte di Attalo II, nel 140-139 a.C., di tre pittori pergameni incaricati di riprodurre un dipinto non meglio specificato, forse dalla celebre Lesche decorata da Polignoto (ὥστε ἀπογράψασθαι τί[να τῶν τὰ Λέσχα]ς); vd. Anguissola 2012, 75, 105 nota 26, 179, con riferimento alla bibliografia e discussione precedente. Vd. anche Blume 2015, I, 235-236 n. 57 e II, tavv. 180-190 per la statua di divinità femminile da Pergamo (Berlino, Antikensammlung, AvP.VII.23), datata agli anni Settanta del II secolo a.C., il cui aspetto ‘antico’ è sottolineato dalla decorazione policroma del panneggio. Per la committenza d’arte nel mondo ellenistico, in relazio- ne a un gusto per le repliche di opera nobilia, un’utile sintesi è Cain 1998. 5 Per i relitti di Mahdia (in viaggio dall’Attica all’Italia e naufragato in acque tunisine intorno all’80-70 a.C.) e di Anticitera (in viaggio dall’Egeo orientale pro- babilmente verso l’Italia, affondato a Sud del Peloponneso nel secondo quarto del I secolo a.C.), si vedano rispettivamente Hellenkemper Salies 1994 e Kaltsas, Vla- chogianni, Bouyia 2012, nonché, per il corpus di statuaria in marmo da Anticitera, Bol 1972. Per precoci esperienze di riproduzione consapevole di antichi originali, vd. Rebaudo 2016.

182 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria ventaglio d’immagini (affreschi, pitture da cavalletto, mosaici, scultura in grande e piccolo formato, gemme incise) a vario titolo retrospetti- ve6. La circolazione di modelli disegnativi per la pittura e di bozzetti fittili o in gesso per la scultura permetteva di produrre repliche anche assai fedeli di ‘capolavori’ del passato, oltre che di realizzare variazioni potenzialmente infinite sul tema, desumendo solo aspetti isolati della composizione originaria (Fig. 1).

Fig. 1 – Milano, Fondazione Prada 2015. Due versioni in marmo della figura di Aristogitone, dal gruppo dei Tirannicidi, oggi perduto e originariamente in bronzo (davanti: Musei Capitolini, Centrale Montemartini, inv. 2404; dietro: Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 6010). Davanti alle statue sono montati, su un pannello trasparente, i frammenti in gesso di un bozzetto relativo alla medesima figura, appartenuto a una bottega di scultori a Baia (I sec. d.C., Baia, Museo dei Campi Flegrei, qui riprodotti a cura dell’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali, CNR).

6 Si vedano le osservazioni in Zanker 1992 per l’imitazione come “destino cultu- rale” del mondo romano.

183 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Nel corso degli ultimi cinquant’anni e soprattutto in riferimento alla produzione statuaria, il graduale spostamento dell’interesse dalla (presunta) prospettiva dell’artista a quella (altrettanto sfuggente) del committente e poi del pubblico ha permesso di descrivere un per- vasivo “ethos dell’emulazione” che, nella cultura artistica romana, avrebbe risposto a precisi nodi ideologici e avrebbe condizionato la selezione, combinazione e lettura d’immagini e stili precedenti. Il medesimo sguardo si è appuntato al corpus della pittura antica, con l’obiettivo dapprima di visualizzare, per mezzo degli affreschi parie- tali di età romana, i perduti dipinti illustri menzionati dalle fonti let- terarie, nel tentativo di comprendere le dinamiche produttive della pittura romana e i criteri decorativi ai quali essa rispondeva. Al centro del dibattito sulle tendenze retrospettive dell’arte romana rimane tut- tavia la scultura e, soprattutto, la categoria collettivamente definita come statuaria ideale (Idealplastik): versioni di noti tipi statuari o opere all’apparenza prive di un modello univoco, ma debitrici di un vocabolario iconografico e stilistico desunto da epoche precedenti. È evidente come, all’interno del medesimo panorama, trovassero le- gittimo spazio l’interesse puntuale per precise opere d’arte dell’anti- chità greca e per la loro replica, la rielaborazione creativa di celebri modelli, la costruzione di vere figure ‘eclettiche’, in grado di mutuare e accostare elementi disparati del linguaggio artistico greco7. Pur in un quadro tanto articolato, rimangono a tutt’oggi in ombra alcuni aspetti cruciali della scultura ideale romana, relativi soprattut- to all’identità materiale delle opere e ai meccanismi di lettura che la serialità poteva attivare. Sulla scorta di queste premesse e rifletten- do sull’esperienza scientifica e divulgativa della mostra milanese, si esplorano di seguito alcune linee d’indagine in relazione a tre nodi tanto rilevanti, quanto marginalizzati nello studio della scultura ro- mana, intorno ai quali dovranno di necessità articolarsi future ini- ziative di ricerca. Anzitutto, si considerano la percezione e la con- sapevolezza delle sfide tecniche legate alla produzione di copie. Di

7 Rivelano un vivo interesse per la riproduzione ‘filologica’ di opere d’arte del pas- sato Plinio il Vecchio, Naturalis Historia 34.47 (a proposito delle coppe cesellate da Calamide e imitate, ut vix ulla differentia esset artis, da Zenodoro, l’autore del celebre Colosso di Nerone) e Luciano, Zeuxis 3 (su una replica del celebre quadro dei Centauri, ammirata da Luciano stesso ad Atene in sostituzione dell’originale, perduto a seguito dell’assedio sillano).

184 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria seguito, si esaminano il valore e il significato dei diversi materiali (bronzo, marmo, pietre colorate, doratura) al duplice – e antitetico – fine di simulare un più stretto rapporto con l’originale o di attribuire una diversa identità all’immagine. L’ultima parte del saggio s’inter- roga invece sulle funzioni di allestimenti con più di una replica del medesimo tipo statuario – veri ‘multipli’ di una medesima immagine.

1. Le tecnologie della serialità Le opere esposte presso la Fondazione Prada erano quasi esclusiva- mente statue di grande formato in marmo bianco – una categoria di manufatti dominante nel corpus dell’Idealplastik, in virtù certo del riuso dei metalli in età post-antica, ma anche della crescente acces- sibilità del marmo lungo il I e il II secolo d.C., in conseguenza di sistemi di gestione delle cave, stoccaggio e trasporto sempre più effi- cienti. Del resto, che la statuaria in marmo costituisse un elemento vistoso del paesaggio di una città romana emerge con chiarezza in un luogo della Naturalis Historia pliniana (36.27), in cui l’autore, a proposito della scultura in marmo, lamenta la multitudo operum che rendeva impossibile, agli indaffarati abitanti di Roma, comprendere analiticamente e memorizzare le tante opere di cui erano circondati. Nel quadro di un discorso sulla copistica romana, la generale prevalenza di opere marmoree solleva quesiti complessi e ramifica- ti. Come rivelano celebri serie quali, per esempio, le repliche dal- le Cariatidi dell’Eretteo, esiste un nutrito novero di marmi romani riconducibili a originali di età classica o ellenistica nel medesimo materiale8. Sovente, tuttavia, l’osservatore moderno si trova di fronte a numerose versioni in marmo di figure identificabili, sulla base delle descrizione contenute nelle fonti letterarie antiche, con un perduto prototipo in bronzo. Le rare versioni bronzee, spesso miniature, non di rado si discostano anche significativamente dal resto della serie in termini di bilanciamento della figura e statica, potendo sfruttare la duttilità della lega metallica e il suo peso assai inferiore rispetto alla pietra (Fig. 2). Queste considerazioni aprono interrogativi cruciali circa il rapporto morfologico tra i perduti originali bronzei e le opere in marmo da essi derivate – in altri termini, circa l’effettiva fedeltà al modello.

8 Vd. L. Franchi Viceré in Settis, Anguissola, Gasparotto 2015, 228.

185 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Può fornire indicazioni relative all’apprezzamento per una reale o esibita fedeltà la frequenza con cui, sui marmi romani, compaiono i cosiddetti ‘punti’, protuberanze dotate di un minuto foro centrale evidentemente funzionali ad alloggiare il braccio fisso di un compas- so durante il processo di trasferimento di misure e proporzioni dal bozzetto al blocco9.

Fig. 2 – Milano, Fondazione Prada 2015. Due versioni del Discobolo attribuito a Mirone (in marmo: Museo Pio-Clementino, inv. 2346; miniatura in bronzo: Monaco di Baviera, Staatliche Antikensammlungen, inv. 3012). Sullo sfondo, repliche del Satiro a riposo e dell’Afrodite accovacciata.

9 L’unica trattazione organica del tema è Pfanner 1989, che pur fornendo un utile catalogo si limita all’esame di aspetti tecnici, con particolare riferimento alla ritrattistica, senza affrontare il ruolo di questi elementi ai fini dello studio dell’Ide- alplastik romana. Si vedano anche le osservazioni in Fittschen 1977, 81; Geominy 1999, 45; Zanker 2002, 100; Anguissola 2018a, 606-607.

186 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria

Non di rado, tali ‘punti’ sono collocati in un punto assai visibile sopra la fronte della figura, risparmiati con attenzione in una capigliatura accuratamente finita: si pensi, per esempio, al celebre Discobolo Lancellotti, dotato di due vistosi ‘punti’ tra le ciocche brevi e ordinate (Fig. 3)10, o ancora allo squisito Satiro Versante oggi a Palazzo Altemps, con due ‘punti’ risparmiati sopra la benda che ne cinge il capo ricciuto (Fig. 4)11.

Fig. 3 – Dettaglio della testa del Discobolo Lancellotti, prima età antonina. Altezza 156 cm. Roma, Museo Nazionale Romano, inv. 126371.

10 Roma, Museo Nazionale Romano, inv. 126371. Per questa statua si veda An- guissola 2005, 318-319 n. 1 (con bibliografia precedente). È bene ricordare come, nella lettera al Cardinale Guglielmo Pallotta in cui, solo dieci giorni dopo la scoperta del Discobolo Lancellotti, Giovanni Battista Visconti ne riconosceva il soggetto, col- legando la statua al passo pliniano relativo a Mirone e ad altri esemplari della serie, le protuberanze tra le ciocche dell’atleta siano considerate una sobria allusione a corna taurine, che identificherebbero Perseo, mitico inventore del disco (in Cancellieri 1806, 4-6). Un’immagine del dettaglio è in Anguissola 2018a, 607 fig. 18. 11 Roma, Palazzo Altemps, inv. 8597. Cfr. Gercke 1968, 5-6 n. St.6; A. Amadio in Giuliano 1992, 194-199 n. 24; De Angelis D’Ossat 2002, 257 e 2011, 179. Due ulteriori punti sono collocati sul retro della testa; secondo Pfanner 1989, 249 n. 16, la diversa distanza tra i punti posti sulla fronte e sul retro testimonia l’uso di due dif- ferenti strumenti di misurazione.

187 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Fig. 4 – Dettaglio della testa di una versione in marmo di età antonina del tipo del Satiro Versante, attribuito a Prassitele. Altezza 156 cm. Roma, Palazzo Altemps, inv. 8596. La critica ha dedicato una certa attenzione alla tecnologia delle co- pie statuarie, soprattutto con l’obiettivo di stabilire se fossero impie- gati strumenti analoghi alla ‘macchina per i punti’ in uso in epoche successive e quanto numerosi fossero i ‘punti’ stessi (e, dunque, quale il grado di fedeltà al modello concretamente raggiungibile)12. In en- trambi i casi, le conclusioni sono alquanto controverse – con ampi margini d’incertezza circa la strumentazione del copista e le consuetu- dini relative a numero e trama dei punti (nell’impossibilità di stabilire quanti di essi fossero marcati sul blocco a carboncino o rimossi nelle varie fasi di lavorazione). Più rilevanti paiono le questioni relative al significato di queste tracce di lavorazione, risparmiate anche in opere finite e in zone (come le ciocche sulla fronte) trattate con particolare

12 Oltre al già citato Pfanner 1989 sui ‘punti’, si vedano Landwehr 1985 e 2020 per l’uso di bozzetti in gesso, Richter 1962 e Touchette 2000 per le tecnologie della copia statuaria, nonché Weitmann 2012 per la possibilità che i frammenti di uno strumento metallico rinvenuto a Efeso appartengano a una sorta di pantografo, utilizzato anche per la produzione di copie d’arte (contra I. Kovalleck in Krinzinger 2010, 324, 328-329 n. A-B 35).

188 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria cura. Sembra ragionevole, almeno nel caso di statue finite e di eleva- ta qualità, pensare ai ‘punti’ come a segni di sapienza artigiana e di fedeltà al modello – sinonimi, in un codice visuale immediatamente intellegibile per l’osservatore antico, dell’uso di affidabili procedimenti di misurazione13. Ha sollevato analoghe perplessità un espediente tecnico ben più vistoso e pressoché ubiquo nel corpus della scultura romana in marmo (in statue colossali e in miniature, in opere di fattura corsiva e in al- tre di notevole impegno): i cosiddetti ‘tenoni’, ‘ponti’ o ‘puntelli’, con- nettori di diversa taglia e forma più o meno regolare posti a sostegno di proiezioni rispetto all’asse di equilibrio verticale della figura (noti in inglese come structural supports o struts, in tedesco come Stützen, Stege e Streben, in francese come tenons e ponts). La maggior parte degli esemplari del cosiddetto Satiro Versante, ricondotto a un modello prassitelico, per esempio, è dotata di un breve puntello, in genere qua- drangolare o talora cilindrico e abbellito da un motivo a spirale (com’è il caso della statua Ludovisi), a fissare il braccio sinistro proteso alla figura14. In un limitato numero di casi – in questa e altre serie – i pun- telli assumono fisionomia e dimensioni straordinarie, talora più lunghi della proiezione che dovrebbero sostenere. In una versione del Satiro da Torre del Greco, oggi al Museo Salinas di Palermo, un alto tronco liscio è posto sulla destra della figura e collegato ad essa tramite due puntelli; sulla sinistra, una lunga barra di marmo, sagomata con cura, corre tra la gamba e il dorso della mano (Fig. 5a-b)15. Non stupiscono

13 Circa l’interesse verso i sistemi di misurazione per realizzare copie d’arte fedeli, vd. Quintiliano, Institutio Oratoria 10.2.6 (che parla di mensurae e lineae impiegate per la copia di dipinti) e Luciano, Zeuxis 3 (che menziona il ‘regolo’, στάθμη, usato da un pittore ateniese della sua epoca per creare la ‘replica’, ἀντίγραφος, dei Centauri di Zeusi). 14 Il braccio sinistro della statua già nella collezione Borghese, ora al Louvre (inv. 2333) era sostenuto da un puntello cilindrico decorato da un motive a spirale. Un puntello analogo doveva essere stato eseguito anche per la replica Ludovisi oggi a Pa- lazzo Altemps, che i restauratori moderni completarono come un eccentrico rhyton. Per restauri del Satiro Versante a Palazzo Altemps si rimanda ad A. Amadio in Giu- liano 1992, 194-199 n. 24. 15 Palermo, Museo Archeologico A. Salinas, inv. 1556. La figura è alta 146 cm (o 163 cm con il braccio destro e l’oinochoe); il supporto a forma di tronco sul lato destro del satiro misura 86.5 cm e il puntello tra la mano e la gamba sinistra ben 39 cm. Per questa statua si vedano Gercke 1968, 4-5 n. St. 5; J.-L. Martinez in Pasquier, Mar-

189 Rinascite, rinascenze, rinascimenti le resistenze, da parte degli osservatori moderni, nei confronti di un puntello tanto vistoso, che è parso uno “sgraziato” intruso nell’elegante composizione prassitelica16.

AB

Fig. 5.a – Statua in marmo del tipo del Satiro Versante, da Torre del Greco, metà circa del I secolo d.C. Altezza 146 cm (163 cm con la mano destra levata e l’oinochoe). Palermo, Museo Archeologico A. Salinas, inv. 1556. Fig. 5.b – Disegno di dettaglio del tenone. Altre serie legate a tipi statuari assai noti e ricondotte a prototipi di celebri maestri della grecità classica presentano un panorama del tutto analogo – si pensi, per esempio, alle versioni del Discobolo, in antico sovente dotate di lunghi puntelli tra il fianco dell’atleta e il disco, oc- tinez 2007, 272-273 n. 66. In particolare, a proposito del puntello, vd. Anguissola 2018c, 63, 72, 87, 133-134, 150-156. 16 J.-L. Martinez (in Pasquier, Martinez 2007, 252) definisce il puntello del Sa- tiro palermitano un “disgracieux pont”; un giudizio analogo, a proposito della stessa opera, è formulato in Ridgway 1966, 35.

190 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria casionalmente finiti con un’eccentrica lavorazione a spirale (com’è il caso del braccio oggi al Museo Barracco, esposto nel contesto della mostra milanese in maniera tale da permettere l’esame ravvicinato del tenone)17. Se i sostegni conformati come elementi del paesaggio (tronchi, pi- lastrini), attributi o figure ancillari, pur rispondendo ad un’essenziale necessità statica, sembrano trovare una certa giustificazione narrativa nell’economia dell’opera, la funzione dei semplici tenoni pare esclusi- vamente legata alla sfera tecnica e produttiva, una spiacevole ma ine- vitabile conseguenza delle caratteristiche fisiche del marmo18. In lette- ratura, i tenoni sono di norma considerati strumentali alla produzione copistica, necessari per ‘tradurre’ in marmo composizioni originaria- mente ideate in bronzo, un materiale più duttile, leggero e resistente a colpi e vibrazioni. I tale prospettiva, i puntelli funzionerebbero come spie della riproduzione e segno dell’identità di una certa statua (ro- mana) in marmo quale replica di un originale (greco) in bronzo. Una tale spiegazione, tuttavia, non esaurisce la varietà e complessità del materiale, giacché l’uso di tenoni è attestato con altrettanta frequenza per repliche di modelli in marmo e, soprattutto, per figure prive di antecedenti nella tradizione greca. In alternativa, è stato proposto che i tenoni servissero a proteggere la statua durante il trasporto: la loro presenza, dunque, indicherebbe che un’opera è stata eseguita lontano dal luogo d’esposizione19. Di contro, è rimasta pressoché inesplorata la possibilità che, alme- no in alcuni casi, nelle strategie adottate adottate dallo scultore per garantire la stabilità dell’opera si celi la manifestazione di un sapere artigiano e di un preciso gusto nella costruzione di figure in marmo. La presenza stessa di vistosi tenoni in numerose miniature, a fissare al torso minuscoli arti o attributi, che di per sé non abbisognano di ausili

17 Sui puntelli nelle repliche del tipo del Discobolo (anche nel caso di miniature), vd. Anguissola 2018a, 579-581. 18 In generale, la letteratura scientifica dedica ai puntelli rare menzioni, consi- derandoli al più come sgradevoli apprestamenti funzionali, ineludibili ai fini della solidità della statua. Una visione d’insieme più equilibrata è proposta in un ridotto numero di contributi: Anguissola 2018a e 2018c; Hollinshead 2002; Geominy 1999, 49-51, 56-59. 19 Gli argomenti addotti da quanti ritengono i puntelli una necessità strutturale imposta dalla tecnica copistica o dal trasporto sono riassunti in Anguissola 2018c, 5-10, 107-111, 114.

191 Rinascite, rinascenze, rinascimenti statici, suggerisce un diverso approccio20. Sembra indirizzare nella me- desima direzione la presenza anche nella statuaria maggiore di tenoni spropositati rispetto alle reali esigenze della composizione. Pur utile a stabilizzare la statua finita, un tenone come quello del Satiro Versante palermitano impone delicate operazioni di sagomatura e regolarizza- zione. La cura con cui alcuni tenoni sono stati realizzati, sovente con superfici regolari, talora impreziositi da eleganti motivi a spirale (in particolare durante l’età antonina), consiglia prudenza nel ritenere tali parti della statua oggetto di attenzione limitata21. Esistono, infine, solu- zioni alternative al fine di assicurare la solidità di una statua in marmo. Più vantaggiosa in termini di duttilità, risparmio e semplicità nel tra- sporto è la pratica di lavorazione in parti separate, attestata fin dall’età arcaica e giunta, nel periodo ellenistico, a risultati di notevole finezza ed efficacia22. Alla luce di queste osservazioni, pare acquisire consisten- za una cursoria osservazione formulata da Wilfred Geominy, secondo cui i tenoni, richiamando l’attenzione dell’osservatore sui limiti statici del marmo, segnalerebbero l’abilità dello scultore nel creare pose ardi- te in una materia inclemente (o nel ripetere fedelmente composizioni ideate nel più duttile bronzo)23. I ‘punti di misurazione’ e i tenoni rendono visibili momenti e tec- niche essenziali per la lavorazione del marmo, rammentando così all’osservatore le sfide legate al materiale. Se, tuttavia, i punti risultano superflui a opera conclusa, i tenoni continuano a garantirne la solidità. Mentre, inoltre, la creazione e la rimozione dei punti non compor-

20 Scondo Bartman 1992, 39, i tenoni sarebbero “visually synonymous with the copy”; nel caso di statue di piccolo formato, rafforzerebbero l’associazione con un celebre prototipo, ripetendo una consuetudine tecnica propria della statuaria di di- mensioni maggiori. 21 Per i puntelli con decorazione a spirale, vd. Anguissola 2018c, 90-94, 132-134, 190-191. 22 Sulla tecnologia dei giunti nella scultura greca e romana si rimanda ai fonda- mentali Claridge 1988 e 1990, oltre che i più recenti Jacob 2003 e 2019. Per una rassegna della letteratura dedicata a questa tecnica in diverse aree geografiche, vd. Anguissola 2018c, 120 nota 54. 23 Geominy 1999, 49-50. È in parte analoga la posizione espressa in Hollinshead 2002, 148, 152, secondo cui i tenoni “demonstrate how important a particular pose is to the marble carver” e avrebbero reso possibile la ripetizione in marmo di pose e composizioni ispirate anche a modelli bidimensionali, quali dipinti, rilievi o scene a mosaico.

192 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria tano alcuna difficoltà tecnica, realizzare un lungo sostegno costitui- sce un’operazione complessa e delicata. Infine, i puntelli sono visibili anche ad una distanza considerevole, mentre il riconoscimento dei segni delle misurazioni richiede un’ispezione attenta e ravvicinata. Se pure è ragionevole pensare, come suggerisce Geominy, che entrambi gli accessori funzionassero quali Treuzeichen e Kopiendetektoren, sol- lecitando l’osservatore a soffermarsi sull’acribia nella creazione della copia, rimane tuttavia impossibile dimostrare, nel caso di opere prov- viste di punti o di ingombranti tenoni, un’effettiva, superiore fedeltà al modello. Si tratta, evidentemente, della manifestazione di un interesse per la fedeltà e della consapevolezza dei processi produttivi ad essa legati. In quanto strumenti per il trasferimento delle misure e per la stabilità dell’opera, punti e tenoni segnalano anzitutto la natura artifi- ciale della statua, una rappresentazione mimetica creata da un artefice esperto. In altri termini, entrambi gli elementi sollecitano una piena comprensione dell’opera, relativa sia del soggetto raffigurato, sia della sua identità tecnica e materiale.

2. La materia della serialità Punti e tenoni, dunque, visualizzano le tecnologie legate alla lavora- zione del marmo e, con esse, anche le sfide poste dal fedele trasferi- mento di forme e dimensioni da un modello in metallo. Una com- prensione articolata della scultura retrospettiva ellenistico-romana, tuttavia, non può limitarsi alla dialettica tra marmo e bronzo e al di- verso comportamento statico di pietra e metallo. In effetti, l’esistenza di un ampio repertorio di versioni di tipi assai noti in materiali diversi sollecita una più approfondita discussione delle scelte in tal senso e dei loro significati. È il caso, soprattutto, delle repliche di piccole dimensioni, che anche in virtù della possibilità d’impiegare materiali assai economici (terracotta) o, di contro, rari e pregiati (come metalli preziosi, cristallo di rocca, avorio) potevano raggiungere gli opposti estremi del mercato – una clientela dotata di mezzi limitati e l’élite più ambiziosa e raffinata24. La fruizione di questi oggetti in ambito

24 Per le repliche in miniatura il riferimento fondamentale rimane Bartman 1992; una revisione del tema (in particolare alla luce dei tipi dell’Ercole a Riposo e dell’Afrodite che si slaccia il sandalo) è proposta in Colzani 2021. Più in generale sulla scultura ellenistica e romana in materiali preziosi, vd. Gagetti 2006.

193 Rinascite, rinascenze, rinascimenti eminentemente privato e la relativa facilità nell’apportare modifiche alle forme del modello sconsigliano di rubricare le versioni in minia- tura a semplici ‘parafrasi’ di tipi celebri, ma anzi invitano all’indagine dei gusti e della collocazione socio-culturale della committenza. Una squisita miniatura quale la piccola Afrodite Accovacciata in cristallo di rocca, oggi nelle collezioni Getty, sollecita un’articolata serie di considerazioni relative alle qualità fisiche del materiale e al suo rapporto con il soggetto raffigurato (Fig. 6)25.

Fig. 6 – Statuetta in cristallo di rocca del tipo dell’Afrodite accovacciata, I secolo a.C. Altezza 8.6 cm. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, inv. 78.AN.248.

25 Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, inv. 78.AN.248 (I secolo a.C., altezza 8.6 cm); vd. L. Franchi Viceré in Settis, Anguissola, Gasparotto 2015, 235 n. PC24 con bibliografia precedente.

194 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria

Del cristallo di rocca, le fonti antiche esplorano la genesi ‘miraco- losa’, che si riteneva legata alla solidificazione dell’acqua in virtù di un gelo intenso – una sorta di ghiaccio estremamente com- patto. Per tale motivo, questa sostanza, che si pensava affiorasse naturalmente dal terreno in forme regolari di prismi per essere poi trasportata dalle acque di fiumi e torrenti, era considerata inadatta a contenere bevande calde, tanto delicata da non ammettere ripa- razioni nel caso di fratture26. La dimensione sensuale del rapporto con una sostanza ‘ibri- da’ emerge in una serie di epigrammi di Claudiano, dedicati a una goccia d’acqua rimasta intrappolata nel cristallo, che l’autore immagina oggetto della curiosità dei fanciulli, dei quali descrive (Carmina minora 39) le piccole mani avvolte intorno alla pietra (gelidum tenero pollice versat onus) e le avide labbra con cui ten- tano di suggere l’irraggiungibile liquido (et siccum relegens labris sitientibus orbem / inrita quaesitis oscula fixit aquis). Come il cristallo stesso in cui è raffigurata, il mito vuole Afro- dite emersa, con le sue forme squisite, dalle acque. La materia e il soggetto della statuetta stimolano, insieme, i sensi dello spettatore, offrendosi alla vista e al tatto in un’esperienza tanto intensa quan- to effimera – giacché la pietra, al contatto con il calore umano, potrebbe tornare allo stato liquido e l’epifania divina dissolversi tra le mani di chi l’osserva. Non meno ricca di suggestioni è un’o- pera come il minutissimo Ercole a Riposo in avorio nel medesimo museo: l’associazione del materiale, nel pensiero romano, all’idea di mollitia e alla sfera femminile ed erotica contribuisce a conno- tare lo stato d’animo dell’eroe e il contrasto tra la sua leggendaria forza fisica e lo stato di spossatezza in cui è raffigurato (Fig. 7)27.

26 Si vedano in particolare, a proposito delle caratteristiche attribuite al cristallo di rocca, Posidippo, Epigrammi 16 AB; Plinio il Vecchio, Naturalis Historia 37.23, 26, 29, 30, 204; Claudiano, Carmina minora 33-39. Per l’immaginario antico legato a questo materiale si rimanda agli eccellenti Crowley 2016 e 2020; Buettner 2020. 27 Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, inv. 88.AI.47 (II secolo d.C., altezza 6.4 cm); vd. Gagetti 2006, 345 n. G63. Per i significati associati all’avorio nel mon- do greco e romano, vd. Heinemann c.d.s.

195 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Fig. 7 – Statuetta in avorio del tipo dell’Ercole a riposo, II secolo d.C. Altezza 6.4 cm. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, inv. 88.AI.47. Considerazioni analoghe possono essere estese alla scultura di dimen- sioni maggiori, soprattutto a proposito di serie che includano esemplari di materiali diversi, com’è il caso, per esempio, di celebri tipi policletei ripetuti in bronzo e in vari tipi di pietra (Fig. 8). È necessario, a tale proposito, interrogarci sulla misura in cui le differenze fisiche, tecni- che ed economiche tra i diversi materiali fossero oggetto di riflessione e intenzionalmente valorizzate al fine di costruire – per somiglianza e differenza – il rapporto con il modello. In particolare, l’impiego di pie-

196 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria tre colorate, alquanto diffuso a partire dalla prima età imperiale, rivela un’acuta consapevolezza del valore economico e delle qualità ottiche della materia.

Fig. 8 – Milano, Fondazione Prada 2015. In primo piano, una ricostruzione novecentesca in bronzo del tipo policleteo identificato con il Doriforo (Stettino, Museo Nazionale, inv. MNS/AH/28) e la statua in marmo rinvenuta a Pompei (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 6011). Sullo sfondo, da destra verso sinistra, altri esemplari dello stesso tipo: un’erma in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 4885), una testa in marmo dalle Terme di Caracalla (Roma, Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco, inv. 108), una testa e un torso in scisto verde (rispettivamente San Pietroburgo, Ermitage, inv. A.292 e Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 308). Con la loro superficie scura e lucida, le statue in scisto verde (‘basalto’), pregiata pietra cavata in Egitto e ampiamente sfruttata nella tradizione faraonica, mettevano in scena una raffinata imitazione delle caratteri- stiche fisiche del bronzo (Fig. 9)28. La qualità calligrafica dei bronzi,

28 Per la scultura romana in ‘basalto’, vd. Belli Pasqua 1995 e, a proposito dell’uso di pietre colorate nella produzione copistica, Gasparri 1994, 269 (con bibliografia a p. 278).

197 Rinascite, rinascenze, rinascimenti con linee finemente incise per i capelli, i capezzoli e il pube, o ancora netti profili per ciglia e sopracciglia, era riprodotta con straordinaria accuratezza in questa pietra.

Fig. 9 – Testa del tipo identificato con il Doriforo in scisto verde, I secolo a.C.- inizi del I secolo d.C. Altezza 26 cm. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage, inv. A.292. A un ulteriore e più preciso livello, la superficie scura della pietra ricre- ava l’effetto non solo di un diverso materiale, bensì anche di un diverso stato di conservazione: il bronzo antico, la cui patina, da chiara e dora- ta, avesse assunto una tonalità bruna a seguito della lunga esposizione

198 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria alle intemperie29. In tal senso, la scultura sembra partecipare di una più ampia curiosità per i processi degenerativi dei materiali ben attestata nelle fonti letterarie e nella cultura materiale romana, come rivelano per esempio alcune produzioni di fine ceramica da mensa invetriata (lead-glaze ware), il cui rivestimento verde scuro, creato dall’ossido di piombo, imita l’aspetto di vasellame metallico invecchiato30. Già dal II secolo a.C., del resto, erano in uso, per la piccola plastica fittile, tecni- che volte a riprodurre l’opacità delle patine metalliche, in linea con un documentato interesse per l’aspetto e il colore dei bronzi antichi, tanto spiccato da giustificare la produzione di nuove statue rivestite da una patina artificiale intenzionalmente scura, a base di solfuro di rame31. Tornando alla scultura in scisto verde, a un osservatore scaltrito non poteva sfuggire la profonda differenza tra il più duttile e accessibile bronzo e una pietra esotica e difficile da lavorare, che non ammette errori da parte dello scalpellino. Nel caso specifico delle versioni di noti tipi statuari, legati ad antichi e celebri prototipi, si utilizza una pietra estremamente pregiata per replicare un modello inaccessibile anche per il più facoltoso collezionista, ma realizzato in un materiale assai meno raro. Il dialogo tra i materiali – e il loro valore, economico e simbolico – è altrettanto complesso in opere nelle quali conviva una duplicità o, addirittura, una molteplicità di materie diverse, come per esempio le statue composte da blocchi in diverso materiale, impreziosite da una policromia dipinta o, più raramente, sottoposte a doratura32. Nel caso di una miniatura fittile tardo-ellenistica riconducibile al tipo dell’atleta che si cinge il capo con una ταινία, il Diadumeno creato in bronzo da

29 Vd. i commenti in Anguissola 2018c; J. Daehner in Daehner, Lapatin 2015, 280-281 n. 44. Il colore dei bronzi antichi è oggetto di una vivace discussione, i cui termini non possono essere esplorati in questa sede; si rimanda pertanto per una sin- tesi a Formigli 2013 e, per la patina scura del bronzo invecchiato, a Muller-Dufeu 2006, 96-98 e a Descamps-Lequime 2006, 83. 30 Un interesse per i processi d’invecchiamento di metalli e pietre è evidente in diversi passi dell’enciclopedia pliniana: Naturalis Historia 34.99, 140-141, 143, 146; 37.70-71, 109, 134. 31 Questa rivoluzione nel gusto e nell’apprezzamento dei bronzi è discussa in Heilmeyer 1994, 802; Descamps-Lequime 2006, 84-85. Per alcuni esempi, vd. An- guissola 2019, 33. 32 Per una sintetica visione d’insieme delle questioni legate alla policromia nello studio di statue appartenenti a più ampie serie, vd. Østergaard 2015.

199 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Policleto (Fig. 10), a contraddire l’apparente umiltà della materia sono non solo il finissimo trattamento delle superfici, ma anche le tracce di doratura sulla benda33.

Fig. 10 – Statuetta fittile del tipo del Diadumeno, ca. 100 a.C. Altezza 29 cm. New York, Metropolitan Museum of Art, Fletcher Fund 1932, acc. no. 32.11.2.

33 New York, Metropolitan Museum of Art, inv. 32.11.2. Per questo pezzo, che si ritiene provenire da Smirne, vd. Murray 1885, spec. 245 per la doratura; Zanker 1974, 14-15 n. 12.1; Kreikenbom 1990, 196 n. V.32; L. Bartlett Stoner in Picón, Hemingway 2016, 154-155 n. 61; S. Hemingway in Zanker 2020, 39. Per un inqua- dramento della statuetta nella produzione di Smirne si rimanda a I. Hasselin Rous in Hasselin Rous, Laugier, Martinez 2009, 134-135 n. 56 (per altre statuette fittili di altissima qualità provenienti da Smirne e riconducibili a tipi policletei vd., nella me- desima pubblicazione, 130-133 nn. 53-55), mentre per una più approfondita discus- sione della sua doratura nel quadro della piccola plastica ellenistica, vd. Bourgeois, Jeammet, Pagès-Camagna 2012-2013, 506-507.

200 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria

Caratterizzata da una vistosa accentuazione del movimento delle braccia e da un profilo morbido e sinuoso, la statuetta coniuga la libertà compositiva consentita dalla modellazione in terracotta a una scaltrita trama di somi- glianze e differenze tra i diversi materiali (il prezioso oro che riveste la sem- plice terracotta e che, nel colore, richiama il tono fulvo del – più economico – bronzo di recente produzione). La più completa replica in marmo di dimensioni maggiori di questo tipo di atleta, il Diadumeno tardo-ellenistico rivenuto a Delo e oggi al Museo Ar- cheologico Nazionale di Atene, partecipa a un simile dialogo tra i materiali della scultura e il loro significato, volto ad attribuire una nuova identità allo schema e a radicare l’opera nel suo contesto storico e geografico (Fig. 11)34.

Fig. 11 – Statua in marmo (anticamente dorata) del tipo del Diadumeno, da Delo, ca. 100 a.C. Altezza 195 cm con il plinto, 186 cm senza il plinto. Atene, Museo Archeologico Nazionale, inv. 1826.

34 Atene, Museo Archeologico Nazionale, inv. 1826 (Kaltsas 2002, 111-113 n. 201).

201 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

La statua, finemente lavorata in marmo pario, include un singolare tronco nodoso, privo di confronti tipologici nel repertorio della scul- tura ellenistica e romana35. Posto a una certa distanza dalla figura, con la quale ha pochi punti di contatto, non sembra configurarsi, dal punto di vista struttivo, come un vero sostegno. Piuttosto, la sua fun- zione risiede nella possibilità di costruire un’ambientazione esterna per l’immagine e di ospitarne gli attributi: un mantello e, soprattutto, una faretra. Come ho argomentato in altra sede, è ragionevole pensa- re che, al di là del soggetto dell’originale policleteo (del quale sembra essersi persa contezza nei secoli cui la serie copistica risale), la statua di Delo rappresentasse , il dio arciere, nativo di Delo e vene- rato sull’isola in un importante santuario36. La sovrapposizione dell’i- dentità divina a una figura atletica pare, del resto, particolarmente appropriata per la sede di antichi e rinomati agoni atletici. Il tronco collocato accanto all’atleta partecipa forse a questa metamorfosi, al- ludendo al sacro olivo che segnava il luogo natale del dio37. La natura materiale dell’opera aggiunge un significativo tassello a questo quadro. Indagini recenti, infatti, hanno rivelato come la statua fosse stata interamente rivestita in foglia d’oro, utilizzando il raffina- tissimo metodo ‘a bolo’ caratteristico delle botteghe dell’isola38. La doratura, di cui oggi rimangono minute tracce legate alla preparazio- ne di ocra gialla stesa su un finissimo strato di biacca, doveva senza

35 Nel suo primo esame sui supporti figurati, F. Muthmann datava il sostegno – e con esso l’opera – al II secolo d.C. (Muthmann 1927, 21-23); in seguito, propose di assegnare l’opera alla tarda età ellenistica (Muthmann 1951, 23-24). Tale ripen- samento riflette le difficoltà nel collocare un elemento di forma tanto inconsueta entro il percorso evolutivo della scultura ellenistica e romana (come già osservato da Hauser 1906, 281). Per il sostegno del Diadumeno da Delo, vd. anche Weinstock 2012, 108-110. 36 Anguissola 2019, 26, 29-34 (cui si rimanda per la nutrita letteratura relativa all’identificazione della statua di Delo con Apollo, che tuttavia non prende in consi- derazione la fisionomia del tronco e la doratura dell’opera). 37 Callimaco, Inno a Delo, v. 322. 38 Per le tracce di doratura sul Diadumeno di Delo, vd. Bourgeois, Jockey 2004, 335-339 (per il tronco in particolare p. 339); Bourgeois, Jockey, Karydas 2011, 647-651, 653-654; Blume 2015, I, 221-223 n. 45 (che tuttavia menziona solo la do- ratura della figura atletica) e tavv. 45.8-16. Per la nutrita letteratura sulla tecnologia del rivestimento in foglia d’oro a Delo durante l’età ellenistica, che non è in questa sede possibile citare estesamente, si rimanda ad Anguissola 2019, 32 e note relative.

202 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria dubbio incrementare il valore economico della statua, per il pregio intrinseco del materiale e per la finezza del procedimento, affidato a manodopera altamente specializzata. In linea con una scelta non infrequente nella scultura ellenistica, la doratura dell’incarnato en- fatizza lo statuto divino del soggetto, saldando il legame tra il tipo del Diadumeno e il soggetto per il quale esso è impiegato39. Il fatto, peraltro, che non solo la figura atletica, ma anche il tronco accanto ad essa e gli attributi fossero rivestiti in foglia d’oro sembra precisare il riferimento apollineo dell’opera, coinvolgendo in esso il paesag- gio e la tradizione dell’isola. Il Diadumeno si trasforma così nel dio πολύχρυσος della luce, il cui splendore s’irradia sugli oggetti di cui si serve (“d’oro è la tunica di Apollo […] la sua lira, il suo arco littio e la sua faretra” canta Callimaco nell’Inno ad Apollo) e la sua epifa- nia lascia un’impronta aurea anche sul paesaggio (al momento della nascita del dio si ricoprono d’oro, nell’Inno a Delo, gli edifici, il lago, l’olivo sacro, il suolo stesso dell’isola)40. A un ulteriore livello – legato non già al soggetto della mimesi, bensì al rapporto con il prototipo e con altri esemplari della serie – la doratura metteva in scena, nella sua somiglianza rispetto alla patina chiara e brillante del bronzo ap- pena uscito dalla bottega dello scultore, un sottile gioco di riconosci- mento e confronto tra le diverse materie, le loro qualità fisiche e tec- nologiche, le loro potenzialità espressive e il loro prestigio41. Almeno gli osservatori più colti e attenti potevano peraltro essere al corrente della leggendaria fama di cui si narrava che la lega bronzea prodotta a Delo avesse goduto nel V secolo a.C., materiale d’elezione proprio di Policleto (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia 34.9-10)42. Attraverso il materiale, la statua può creare articolate associazioni tematiche e, nel caso della versione di un noto tipo, rescindere o atte-

39 Questo punto è sottolineato in Blume 2014, 178, 180. A proposito del corpus di scultura in marmo da Delo, in Bourgeois, Jockey 2001, 660 si nota come il contri- buto del colore (in forma di policromia pittorica o di doratura) risulti maggiormente significativo nel caso delle opere più ambiziose, le cui superfici marmoree siano trattate con particolare cura. 40 Callimaco, Inno ad Apollo, vv. 32-34 e Inno a Delo, vv. 261-263. Per un fram- mento degli Aitia callimachei in cui si menziona la statua di culto dorata di Apollo a Delo, vd. Harder 2012, I, 311-312 n. 114; II, 892-902. 41 Così anche K. Hallof, L. Lehmann, S. Kansteiner in Kansteiner et al. 2007, p. 73; Bourgeois, Jockey, Karydas 2011, 653-654. 42 Un commento in tal senso è già in Bourgeois, Jockey, Karydas 2011, 654.

203 Rinascite, rinascenze, rinascimenti nuare il riferimento al contenuto del prototipo, pur conservandone la forma. Grazie a una selezione di attributi caratterizzanti e alla dora- tura, il soggetto del Diadumeno di Delo diviene dunque Apollo e, per estensione, l’isola stessa e il suo paesaggio sacro. Allo stesso tempo, l’osservatore può riflettere sulle caratteristiche fisiche dei materiali (il colore del bronzo nuovo e invecchiato, dell’oro e dello scisto verde, la pesantezza del marmo e la sua fragilità alle sollecitazioni, visualizza- te talora da robusti tenoni) e, dunque, sulle loro somiglianze ottiche (colore, lucentezza, intaglio calligrafico) e sulle profonde differenze tecnologiche ed economiche. La materia sollecita una lettura seriale e comparativa degli oggetti, in una trama di confronti che include l’originale lontano nel tempo e sovente nello spazio (conosciuto, nel- la maggior parte dei casi, solo in maniera indiretta), così come la più ampia serie delle versioni del medesimo tipo.

3. L’esperienza della serialità Dovevano sollecitare una vera ‘esperienza seriale’ i contesti, mai inda- gati in una prospettiva organica, in cui due o più versioni dello stesso tipo fossero esposte come pendant43. Come la produzione di multipli o repliche è saldamente attestata già in età classica ed ellenistica, così la pratica di collocare immagini pressoché identiche in un medesimo luogo non è, in quanto tale, esclusiva del mondo romano44. Innovati- vo è, piuttosto, il gusto per allestimenti costruiti attraverso la ripetizio- ne un certo tipo statuario, con differenze più o meno marcate, talora in contesti costruiti al fine d’invitare una lettura analitica dei singoli pezzi. Nella prospettiva dello studioso moderno, l’interesse per il tema risiede nella possibilità che esso offre di coniugare l’approccio compa- rativo della Kopienkritik, volto a ricostruire il rapporto formale con il modello ‘greco’, e l’indagine della relazione tra l’opera e il suo contesto ‘romano’. Se nella prima di queste prospettive lo statuto di un oggetto quale copia (e dunque il suo rapporto con una serie) è prioritario, nel

43 A questo proposito, i pochi riferimenti dedicati a specifici contesti sono Bart- man 1988 (sulla domus di via Cavour a Roma); Slavazzi 2002 (a proposito di Villa Adriana); Pafumi 2007 (per i palazzi sul Palatino). Si vedano anche i commenti in Lippold 1923, 163-165; Koortbojian 2002, 195-204; Reinhardt 2019, 119-128 (quest’ultimo a proposito di rilievi esposti come pendant). 44 Si pensi alle Cariatidi dell’Eretteo, o al duplice rilievo ateniese di Telemaco, discusso in Beschi 1967-1968 e 1982.

204 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria secondo la lettura prescinde da legami diacronici ed esterni al contesto di esposizione – o, in un’ottica più ampia, all’ambito sociale e culturale di pertinenza. Certamente, la principale ragione della duplicazione, in uno stesso luogo, di più versioni di un medesimo tipo era legata alle esigenze decorative di grandi complessi architettonici (terme, teatri, ninfei), che imponevano alle botteghe di scultori un ricorso massiccio alla produ- zione in serie45. Non di rado, tuttavia, repliche della stessa composi- zione erano esposte una accanto all’altra, com’è il caso dei “quattro faunetti giovani antichi” dal teatro dell’Albanum Domitiani a Castel Gandolfo (Fig. 12), esemplari di una serie concordemente ricondot- ta al satiro pais prassitelico “che porge una coppa”, visto da Pausania lungo la via dei Tripodi ad Atene (1.20.1-2)46. Le vicende moderne dei quattro satiri da Castel Gandolfo sono indicative di un sostanziale di- sinteresse, nella storia delle collezioni e degli allestimenti museali, per il tema della serialità ‘sincrona’ (dell’esperienza, cioè, di una molte- plicità) a favore della serialità ‘diacronica’ e della dipendenza da un modello più antico. Rinvenuti nel 1657, i “faunetti” entrarono nella collezione Chigi e, di lì, giunsero a Dresda, dove rimasero quale grup- po coerente per oltre un secolo.

45 Le Terme di Caracalla, per esempio, dovevano ospitare più di un esempla- re di diversi celebri tipi, come per esempio l’Ercole a Riposo (menzionato infra), il Doriforo (Vermeule 1977, 111-112 nn. 12, 20; Manderscheid 1981, 75 nn. 61-62; Marvin 1983, 366, 374 e 383 nn. 9, 19; Gasparri 1983-1984, spec. 140) e, forse, il Discobolo mironiano (allo stato attuale delle conoscenze non si può escludere che i due frammenti provenienti dal complesso, per cui vd. Anguissola 2005, 327-328 nn. 16-17 con bibliografia precedente, appartengano a un’unica replica). 46 Oggi i quattro Satiri si trovano a Dresda (Staatliche Kunstsammlungen, Skulp- turensammlung, inv. Hm 100 e Hm 102), Londra (, inv. 1838,1231.1, Sculpture 1468), Los Angeles (The J.P. Getty Museum, inv. 2002.34). Vd. C. Vor- ster e W. Geominy in Knoll, Vorster, Woelk 2011, 863-876 nn. 207-208; Risser, Daehner 2006; Anguissola 2018b, spec. 222-224; per il luogo di rinvenimento si rimanda a Neudecker 1988, 140-141. Un caso analogo è quello delle tre repliche del Fanciullo che strozza l’oca dalla Villa dei Quintili (Monaco, Glyptothek, inv. 268; Paris, Louvre, inv. MR 168, Ma 40; Musei Vaticani, Galleria dei Candelabri, inv. 66), cui B. Andreae aggiunge un quarto esemplare (Ginevra, Musée d’Art et d’Historie, inv. 8944, vd. Andreae 2001, 159). Le statue erano destinate alla decorazione di fon- tane, come rivela la conduttura per l’acqua ricavata nel puntello e attraverso il corpo dell’animale; è stato ipotizzato che esse ornassero un medesimo bacino (Schädler 1992, 211, 215 fig. 17).

205 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Fig. 12 – Milano, Fondazione Prada 2015. Quattro versioni in marmo del Satiro Versante attribuito a Prassitele, ultimi decenni del I secolo d.C.: Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Skulpturensammlung (inv.Hm 100 e Hm 102); Londra, British Museum (inv. 1838,1231.1, Sculpture 1468); Los Angeles, The J.P. Getty Museum (inv. 2002.34). L’unità s’interruppe nel 1838, quando la conoscenza di grandi complessi di ‘originali greci’ innescò una consapevolezza sempre più viva della na- tura retrospettiva delle statue di Roma – e il senso di una loro inferiorità rispetto agli opera nobilia perduti. Uno dei satiri venne così ceduto al British Museum in cambio, significativamente, di calchi in gesso dai marmi del Partenone. Un ulteriore membro del gruppo, restituito agli eredi dei principi elettori di Sassonia a seguito della riunificazione tede- sca, fu acquistato all’inizio del ventunesimo secolo dal J.P. Getty Mu- seum. Le quattro statue si sono trovate nuovamente riunite solo in oc- casione di Serial Classic, in un allestimento volto a favorirne l’ispezione ravvicinata e metterne in luce le somiglianze legate al tipo e alla comune

206 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria destinazione d’uso, oltre alle differenze tecniche e stilistiche forse dovute al lavoro di diversi scultori47. È evidente come l’esposizione di repliche di un medesimo tipo ri- spondesse sovente a criteri di simmetria, per esempio grazie alla colloca- zione di statue pressoché identiche ai lati di un ingresso monumentale in edifici pubblici (le due versioni dell’Ercole a Riposo nelle terme di Cara- calla o i due gruppi delle Tre Grazie a inquadrare l’accesso al frigidarium nelle terme di Cirene) o privati (i Pothoi dalla domus di via Cavour a Roma)48. Il gusto per la ripetizione d’immagini non riguardava, beninte- so, le sole repliche di prototipi più antichi, ma coinvolgeva anche la nu- trita produzione di scultura ‘eclettica’, ispirata a modelli classici ma priva di un preciso, univoco antecedente – si pensi alla coppia di corridori in bronzo dal vasto giardino della Villa dei Papiri a Ercolano49. A questo proposito, sembra rilevante notare come in nessun caso sia con certezza attestata l’esposizione, come coppia di pendant, di versioni speculari di una certa composizione – un tipo di modifica sul prototipo peraltro assai

47 W. Geominy (in Knoll, Vorster, Woelk 2011, 870-876 n. 208) suggerisce d’impostare la questione relativa all’identità della bottega autrice del gruppo a partire da un’analisi stilistica delle teste e dei sostegni in forma di tronco. L’analogia delle prime gli sembra “eher als Resultat derselben Zeit als desselben Bildhauerateliers”. Quanto al secondo aspetto, Geominy nota come i tronchi di uno dei satiri di Dresda (Hm 100) e di quello oggi a Los Angeles presentino evidenti somiglianze nell’impo- stazione generale; tuttavia, il diverso punto di contatto tra il tronco e la gamba, oltre alla le difformità nella resa dell’attacco dei rami, gli paiono sconsigliare l’attribuzione a una stessa bottega. La somiglianza, invece, tra i tronchi di cui sono dotati l’altro satiro dell’Albertinum (Hm 102) e quello al British Museum non gli sembra tale da ipotizzare una medesima mano. 48 Per il luogo di rinvenimento dell’Ercole Farnese e della replica oggi a Caserta del medesimo tipo, vd. Moreno 1982, 389-390, oltre alla scheda di F. Rausa in Gasparri 2010, 17-20 n. 1. A proposito dei gruppi delle Tre Grazie in corrisponden- za dell’ingresso del frigidarium nelle Terme di Cirene (Shahat, Museo, inv. 14.346, 14.348), vd. H. Sichtermann in LIMC, III, 209 nn. 129-130; Paribeni 1959, 108-109 nn. 301, 303; Manderscheid 1981, 103 nn. 285-286). Il caso dei Pothoi dalla domus di via Cavour (Musei Capitolini, Centrale Montemartini, inv. 2416, 2417) è discusso in Bartman 1988. 49 Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 5625, 5627. Vd. Mattusch 2005, 189-194 (che ritiene le due figure create nella stessa bottega, con la statua inv. 5627 forse da identificare quale modello per l’altra).

207 Rinascite, rinascenze, rinascimenti infrequente nel corpus della scultura antica50. I rari studiosi interessati al fenomeno della serialità ‘sincrona’ hanno suggerito come simili scelte espositive fossero intese a creare efficaci strategie di scansione spaziale, attraverso strumenti visuali sostanzialmente analoghi alla tecnica della conduplicatio in retorica51. L’ampiamente indagata contiguità di mez- zi critici e forme di razionalizzazione teorica applicata alle arti figurati- ve e del discorso conforta una lettura in tal senso, invitando a riflettere sull’applicazione di analoghi mezzi espressivi, nel segno del parallelismo e dell’antitesi, a testi e contesti materiali. Le differenze stilistiche tra i membri della coppia o del gruppo, ascrivibili a distinti artefici, come for- se i Satiri Versanti da Castel Gandolfo, o a un diverso orizzonte cronolo- gico, com’è stato proposto per i Pothoi oggi alla Centrale Montemartini (datati l’uno alla tarda età tiberiana, l’altro a quella adrianea), incorag- giano a esplorare la possibilità di una valorizzazione consapevole della varietà formale. Sono, in effetti, noti diversi pendant costruiti attraverso l’accostamento di repliche di una stessa composizione realizzate in età diversa – un’operazione che se in generale pare legata alle esigenze de- corative del contesto, in alcuni casi permette d’immaginare un riutilizzo ‘stilisticamente consapevole’ del pezzo più antico accanto a un’interpre- tazione alquanto lontana del modello52. Particolarmente affascinante è

50 Sulle repliche speculari si rimanda alle cursorie osservazioni in Lippold 1923, 166-168; Vermeule 1977, 27-35 (e 35-38 a proposito di rilievi e pittura); per repliche speculari di singoli tipi, vd. Lauter 1967, 123, 126 (Apoxyomenos); Bartman 1992, 100-101 n. 20 (Satiro a Riposo); Neudecker 1988, 68.8-9 e tav. 12.1-2 (due versioni speculari di una figura di Satiro seduto da Tivoli, forse in origine esposte assieme come statue da fontana, Musei Vaticani, Braccio Nuovo, inn. 32-33). Un caso interessante, in cui la specularità riguarda la collocazione del supporto in due repliche probabil- mente esposte assieme, è rappresentato dal cosiddetto Palestrita di Koblanos al Museo Nazionale di Napoli (con supporto conformato come erma accanto alla gamba destra) e da un frammento del medesimo tipo, relativo alla sola gamba sinistra con supporto, ora al Museo Barracco: vd. Gasparri 2005, 209-210 (per il contesto, spec. p. 207 nota 1). È possibile ipotizzare la pertinenza a un pendant di questo tipo anche per il Satiro Versante a Palermo, discusso supra, il cui alto sostegno in forma di tronco trova singo- lare collocazione sulla destra della figura (laddove tutti gli altri esemplari della serie presentano un supporto verticale sul lato sinistro, sotto al braccio proteso). 51 Per una lettura in tal senso, vd. soprattutto Bartman 1988, 219, 222; Slavazzi 2002, 60. 52 Queste considerazioni sono sviluppate in Bartman 1988; vd. anche Pafumi 2007, 217 a proposito di una possibile “consapevolezza stilistica” delle differenze tra i membri del pendant. Per esempi nel medesimo senso, si veda la coppia di repliche del Meleagro scopadeo provenienti dalla villa di Santa Marinella (Berlino, Staatliche

208 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria il caso delle due versioni, rinvenute insieme nel Settecento nella villa di Monte Cagnolo (presso Lanuvio) e oggi al British Museum, di un tipo di Pan attestato in un consistente numero di repliche e riconosciuto come una nuova creazione (Neuschöpfung) classicistica tardo-ellenistica53. Pur divergendo nella datazione (l’una eseguita nella prima metà del I secolo a.C., l’altra nell’età augustea), nel materiale (la più antica in marmo pro- connesio, la più recente in marmo di Carrara) e nella tecnologia (la più antica con la calotta cranica lavorata a parte e rapportata) (Figg. 13-14), entrambe recano, in identica posizione sul supporto in forma di tronco, la firma in greco di uno scultore di nome Markos Kossoutios Kerdon.

Fig. 13 – Dettaglio della testa della statua di Pan dalla villa di Monte Cagnolo, firmata da Markos Kossoutios Kerdon, prima metà del I secolo a.C. Londra, British Museum, inv. 1805,0703.29 (Sculpture 1667).

Museen, Antikensammlung, inv. 215: I a.C.; Cambridge MA, Fogg Art Museum, inv. 1926.48: I-II d.C.; per il contesto, vd. Neudecker 1988, 217-218 nn. 58.1-2, menziona- to anche in Bartman 1988, 221-222), o ancora le due statue di corridori rinvenute as- sieme a Velletri, nelle rovine di una villa in località Cento Cappelle (Musei Capitolini, inv. 912: tarda età flavia; inv. 909: età adrianea; vd. Neudecker 1988, 245 nn. 75.1-2). 53 Londra, British Museum, inv. 1805,0703.29 (Sculpture, n. 1667), 1805,0703.28 (Sculpture, n. 1666). Per il tipo, si rimanda a Vorster 1993, mentre per il contesto, vd. Neudecker 1988, 162-163 nn. 21.12, 21.18.

209 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Fig. 14 – Dettaglio della testa della statua di Pan dalla villa di Monte Cagnolo, firmata da Markos Kossoutios Kerdon, età augustea. Londra, British Museum, inv. 1805,0703.28 (Sculpture 1666). Se, in letteratura, è stata avanzata l’ipotesi che la seconda statua sia stata creata appositamente quale Gegenstück della prima, replican- done finanche la firma, sembra più prudente, in assenza di dati con- creti, scindere il momento della produzione e quello dell’impiego nel contesto decorativo della villa54. Le due figure possono essere sta- te create, a una certa distanza l’una dall’altra, all’interno della me- desima bottega o ‘scuola’, in una cornice dunque che autorizzerebbe l’impiego di una medesima firma (com’è il caso, per esempio, della scuola di Pasitele, cui si riferiscono due celebri firme caratterizzate dall’uso del termine μαθητής)55. Nell’allestimento della villa, si sa- rebbe scelto di collocare insieme una coppia di statue accomunate da soggetto e iconografia, prodotte da artigiani tra loro molto vicini – esposte, non create come pendant. Altrove, i termini del confronto non sembrano riguardare sottili divergenze stilistiche tra versioni scultoree dello stesso tipo, bensì la

54 Così Kreikenbom 2013, 72. 55 Vorster 1993, 202 parla di una “authorisierte Wiederholung aus einer firme- neigenen Werkstatt”.

210 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria sua resa attraverso diversi mezzi espressivi, con un’attenzione per le rispettive potenzialità non distante dal ‘paragone delle arti’ codificato nel pensiero rinascimentale. È il caso, per esempio, degli arredi della villa di Erode Attico a Loukou, che ha restituito un gruppo frammen- tario di Achille e Pentesilea e uno del cosiddetto Pasquino, entrambi riconducibili a tipi statuari attestati in numerose repliche. Nella villa, i due gruppi erano collocati presso altrettanti pannelli a mosaico raf- figuranti le medesime scene – nelle stesse iconografie56. Nella Villa Adriana, il gusto per la serialità sembra inteso tanto alla lettura d’insieme (in termini spaziali e tematici), quanto al con- fronto analitico dei singoli pezzi. Gli arredi della villa includevano infatti nuclei composti da iterazioni di opera nobilia (il Discobolo mironiano), repliche d’immagini già in origine pressoché identiche (le Cariatidi dell’Eretteo), versioni individualizzate di uno stesso tipo (le statue di Marte e Mercurio collocate presso l’estremità settentrio- nale della vasca del Canopo, create dotando di attributi specifici un medesimo corpo ideale), copie di tipi statuari tra loro molto simili ma probabilmente legati all’opera di diversi maestri della classicità greca (le amazzoni Sciarra e Mattei)57. Se, in tutti questi casi, è evidente il desiderio di costruire effetti di simmetria compositiva, non seconda- ria doveva essere la volontà di sollecitare l’interesse di uno spettatore artisticamente avvertito, in grado d’interrogarsi sulla qualità e la ge- nesi delle difformità stilistiche e iconografiche tra immagini apparen- temente simili. In particolare, le due repliche del Discobolo vennero alla luce, insieme ad altre figure di atleti, nella medesima area della villa, durante gli scavi Marefoschi del 1790-1791 entro le proprietà della famiglia Fede58. Gli studiosi non hanno mancato di osservare come la generale preponderanza di soggetti atletici possa contribuire a comprendere la destinazione funzionale di questo settore della vil-

56 Spyropoulos 2002, 129-132 e tavv. 5-8; Spyropoulos, Spyropoulos 2003, 468; Kelby Rogers 2021, 101-103 e figg. 10-11. Per le due serie copistiche, vd. Ma- iuro 2007 (Pasquino, spec. p. 184 per l’esemplare da Loukou); Berger 1999 (Achille e Pentesilea, spec. p. 120). 57 In generale, sugli arredi scultorei di Villa Adriana, si rimanda a Raeder 1983. 58 British Museum, inv. 250; Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino, inv. 2346. Per queste due repliche e la nutrita bibliografia relativa al contesto di rinvenimento, della quale non è possibile rendere conto in questa sede, si rimanda ad Anguissola 2005, 321-322 nn. 4-5 e 2007, 28-29, 38 note 10-14.

211 Rinascite, rinascenze, rinascimenti la (una palestra o un ginnasio)59. Una lettura più puntuale, tuttavia, permette di cogliere la dimensione narrativa dell’accostamento di due repliche del Discobolo, che non sembra legato al solo desiderio di creare un pendant simmetrico – soluzione resa vieppiù efficace dal disegno distortum et elaboratum del lanciatore. L’insistenza sulla figura del Discobolo può mettersi in relazione con altre opere recu- perate negli stessi anni presso il Casino Fede: un gruppo di Apollo e Giacinto, in seguito entrato nella collezione Hope, e il busto di Antinoo pais ora nella Sala Rotonda del Museo Pio-Clementino60. È noto come in età imperiale fosse divenuto topico il nesso tra l’atleta mironiano (la più celebre immagine di un lanciatore) e la saga di Apollo e Giacinto (il mito per eccellenza legato al lancio del disco)61. Il gruppo Hope rappresenta la coppia in un momento di serenità, pri- ma del lancio fatale, quando il disco scagliato dal dio colpirà a morte il giovinetto – un tragico esito cui allude il disco, in parte antico, che il fanciullo regge nella mano destra restaurata. A illuminare il signi- ficato dell’insieme è il busto di Antinoo, un giovane bello come un atleta dell’antichità greca ma sfortunato come il povero Giacinto, cui è accomunato dalla morte prematura. In un caso, a proposito dei frammenti di due repliche del cosid- detto symplegma ‘tipo Dresda’ di Satiro ed Ermafrodito rinvenuti nel teatro di età flavia di Dafne, presso Antiochia sull’Oronte, è possibile che la ripetizione fosse intesa a rendere pienamente fruibile il con- tenuto del gruppo stesso. La coppia, cioè, poteva arredare la scenae frons o il pulpitum in modo da offrire visioni complementari dell’in- terazione tra i personaggi, innescando il singolare processo di curiosi- tà, riconoscimento e sorpresa che si compie muovendosi intorno alla

59 Sul significato generale del contesto si rimanda in particolare a Slavazzi 2002, 54-58. 60 Le figure di Apollo e Giacinto, unite dal restauro moderno, dovevano apparte- nere a uno stesso gruppo anche in antichità (Waywell 1986, 73-74 n. 8). Per il busto di Antinoo al Museo Pio-Clementino (inv. 251), vd. Spinola 1999, 254 n. 9. 61 Uno dei quadri nella galleria ricreata da Filostrato (Imagines 1.24.3) raffigura proprio il mito di Giacinto: l’autore descrive la posizione del dio, a pochi istanti dal lancio fatale, in termini del tutto analoghi all’iconografia mironiana. In un nicolo di età imperiale al British Museum (inv. 1865), invece, le forme del Discobolo sono attribuite a Giacinto stesso, il cui nome è iscritto accanto a un’immagine dell’atleta. Per una discussione, vd. Anguissola 2007, 30 (e note relative per l’ampia letteratura precedente).

212 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria composizione62. A confortare questa lettura sono gli arredi musivi di un’abitazione a breve distanza dal teatro, detta la Casa della Barca di Psiche, dove, nel III secolo d.C., vennero posati rivestimenti pavi- mentali evidentemente ispirati all’ornato del vicino edificio pubbli- co63. Il manto del portico colonnato, in corrispondenza dell’accesso a eleganti locali di rappresentanza dominati da temi dionisiaci, inclu- deva ben due rappresentazioni del symplegma, con l’androgino visto dal retro (Fig. 15) e frontale (Fig. 16), così da valorizzare l’intreccio sensuale delle membra e l’ambigua relazione di ritrosia e aggressione tra i personaggi.

Fig. 15 – Mosaico raffigurante il cosiddetto symplegma di Dresda, con l’androgino di schiena, dalla Casa della Barca di Psiche. Antakya, Museo, inv. 840.

62 Per quest’interpretazione, vd. Retzleff 2007, passim. Sui frammenti rinvenuti nel teatro di Dafni (ora conservati ad Antakya e a Princeton), vd. Stähli 1999, 309- 310 n. 1.1, 319 n. 1.14. 63 Antakya, Museo, inv. 840. Verzár Bass 2004, 916-918; Retzleff 2007, 464- 466 e 465 figg. 6-7. Kondoleon 2000, 72 fig. 5 fornisce una restituzione in pianta dei mosaici nella casa.

213 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Fig. 16 – Mosaico raffigurante il cosiddetto symplegma di Dresda, con l’androgino frontale, dalla Casa della Barca di Psiche. Antakya, Museo, inv. 840. Lo spettatore era invitato a osservare le immagini di lotta erotica consecutivamente, in un’esperienza diacronica assai vicina a quella offerta da un gruppo statuario – che, visibile da tutti i lati, rendesse possibile la graduale scoperta della duplice identità di Ermafrodito. In tal senso, la duplicazione era funzionale a guidare la compren- sione dell’immagine, saldando il suo contenuto ai modi e ai tempi della lettura.

4. Conclusioni La serialità costituiva un essenziale principio di articolazione del Bilderwelt romano – strumento per l’appropriazione del vocabolario artistico greco e per la maturazione di forme espressive eclettiche, origine di saldi nessi semantici tra schema e soggetto, consuetudine nell’organizzazione degli spazi architettonici.

214 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria

La familiarità dello spettatore romano con la serialità, di cui la creazione di copie intenzionali di un celebre modello non è che una manifestazione, emerge in un denso passo del romanzo Leucip- pe e Clitofonte, di Achille Tazio (3.6-8). All’inizio del terzo libro, i protagonisti, sopravvissuti a un nau- fragio e approdati a Pelusium, lungo la costa egiziana, fanno visita a un tempio in quella località e lì, nell’opistodomo, ammirano un dittico pittorico (ὁρῶμεν εἰκόνα διπλῆν) con Andromeda e Prome- teo, recante il nome di un pittore di nome Evante. L’ekphrasis si apre con alcune osservazioni, attribuite a Clitofonte, circa le ra- gioni d’interesse di questo “doppio quadro”, un pendant (ἀδελφαὶ … αἱ γραφαί) legato ad aspetti tematici e compositivi: a dominare entrambe le scene è una roccia, cui il personaggio è incatenato, sottoposto al supplizio di tormentatori ferini (rispettivamente, un κῆτος provienente dal mare e l’aquila di Zeus). Non stupisce che i lettori moderni si siano interrogati sul rapporto tra la descrizione contenuta nel romanzo e il corpus della pittura greca e romana, nel tentativo di rintracciare corrispondenze puntuali tra il romanzo e le attestazioni figurative dei supplizi di Andromeda e Prometeo64. Tuttavia, gli elementi del contatto tra testo e immagini – traccia di un immaginario comune, più che del riferimento a una specifica elaborazione pittorica del mito – sembrano meno rilevanti rispetto agli indizi che l’ekphrasis offre circa i criteri, la consapevolezza e la fruizione di un pendant. Pare rispondere a strategie compositive alquanto simili, per esempio, la celebre coppia di quadri dalla Villa di Boscotrecase, capolavori della pittura parietale di età augustea (e riprodotti, in un pendant più corsivo, nella Casa del Sacerdos Amandus a Pompei)65. Al centro dei pannelli domina un’alta roccia frastagliata. In uno dei due quadri, alla roccia è legata Andromeda (Fig. 17), mentre nell’altro il paesaggio rupestre ospita la figura di Polifemo (Fig. 18).

64 Per questo passo del romanzo di Achille Tazio e la letteratura ad esso relativa si rimanda a D’Alconzo 2014; Setaioli 2014. 65 Vd. von Blanckenhagen, Alexander 1990 per gli affreschi della villa di Bo- scotrecase; per la decorazione della Casa del Sacerdos Amandus a Pompei (I 7, 7), si rimanda a Maiuri 1938.

215 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Fig. 17 – Affresco con la scena di Andromeda incatenata, dalla villa di Boscotrecase. Altezza del pannello staccato 159.39 cm, larghezza 118.75. New York, Metropolitan Museum of Art (Rogers Fund, 1920, acc. n. 20.192.16).

216 Tecnica, materia, visione. La scultura romana tra serialità e memoria

Fig. 18 – Affresco con la scena di Polifemo e Galatea, dalla villa di Boscotrecase. Altezza del pannello staccato 187.33 cm, larghezza 119.38. New York, Metropolitan Museum of Art (Rogers Fund, 1920, acc. n. 20.192.17).

217 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

In entrambi i casi, lo stato emotivo dei protagonisti è determinato dal personaggio che emerge dalle acque nella porzione in basso a sinistra del dipinto (rispettivamente, il temuto mostro marino e l’amata nerei- de Galatea). Sulla destra, si dipana, in lontananza, un diverso momen- to del mito – in un pannello, l’incontro tra l’eroe Perseo e il sovrano Cefeo, padre della fanciulla, nell’altro la fuga di Ulisse. Pur nell’im- possibilità di ricostruire, nella sua complessità, la tradizione cui queste immagini appartengono, è evidente come esse partecipino, da un lato, a una generale prassi d’iterazione di schemi e modelli, dall’altro al gu- sto per l’esperienza della serialità. In queste pagine si è esplorato il nodo tra pratiche di bottega, imma- ginario ed esperienza, nel tentativo di superare la cesura tra la presunta prospettiva di artigiano, committente e spettatore (questi ultimi distinti sulla base di un ruolo più o meno attivo nella scelta programmatica delle immagini), di difficile definizione e in ultima analisi improdutti- va ai fini di un’indagine della serialità nell’arte romana. In particolare, tre nuclei tematici sono sembrati emergere dallo sforzo di sintesi legato all’organizzazione di Serial Classic, tutt’oggi in larga misura inesplorati e ricchi di potenziale per una più articolata e organica comprensio- ne del fenomeno: le tecnologie della copistica (o meglio, le strategie di visualizzazione delle stesse), la dimensione semantica associata ai materiali, il funzionamento di allestimenti all’insegna dell’iterazione. L’enfasi sui procedimenti tecnici sembra suggerire riflessioni circa la fedeltà al modello e le capacità dell’artefice. Attraverso il materiale, era possibile istituire una raffinata trama di riferimenti verticali (rispetto all’originale) e orizzontali (interni alla serie copistica), consolidando il legame con il prototipo o costruendo nuove identità alternative per la replica. L’opera si arricchiva, peraltro, dell’insieme di nozioni e sugge- stioni legate al materiale stesso e relative alle sue proprietà fisiche, alla sua origine, al suo pregio commerciale. Infine, l’abitudine all’iterazio- ne, evidente in sistemi decorativi che includano più di una replica del medesimo tipo, è alla radice dell’assimilazione stessa di opere e stili del passato all’interno di un vero sistema semantico.

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226 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici

LUIGI GALASSO

After a tyrant’s death, it is possible to begin to live again. The language of panegyric develops the theme of rebirth: a new golden age is coming with a new ruler. But sometimes it is not easy to contrast the new and the old emperor, as in the case of Velleius Paterculus. A complex example of this topic could be found in the Eclogues of Calpurnius Siculus (especially ecl. 1), where Virgil’s works are used in an innovative way in order to celebrate Nero.

Il ritorno alla vita dopo la caduta di un tiranno è un’immagine forte, ma direi sufficientemente entrata nell’uso; certo, se ci si riflette, difficilmente un testo in cui sia attestata può essere più memorabile e più inevitabile dell’inizio della Vita di Agricola di Tacito. Pochi inizi di un’opera letteraria, peraltro, sono più intrinsecamente tragici di quello dell’Agricola. Leggiamo della passata tirannide di Domiziano, quando figure di straordinaria integrità vennero condannate a morte e si infierì anche contro le loro opere bruciandole (2, 2-3): Scilicet illo igne vocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabantur, expulsis insuper sapientiae professoribus atque omni bona arte in exilium acta, ne quid usquam honestum occurreret. 3 Dedimus profecto grande patientiae documentum; et sicut vetus aetas vidit quid ultimum in libertate esset, ita nos quid in servitute, adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio. Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere.

[Si intende, con quel fuoco pensavano che venisse eliminata la voce del popolo romano, la libertà del senato e la coscienza del genere umano, quando furono espulsi anche i maestri di pensiero e fu cacciata in esilio ogni qualità morale, perché non rimanesse in nessun luogo

227 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

un minimo di onestà. Certo abbiamo dato una straordinaria prova di sottomissione, e come il tempo antico vide qual è il limite estremo della libertà, così noi abbiamo visto quello della schiavitù, quando per mezzo delle delazioni ci fu tolta anche la facoltà di parlare e di ascoltare. E con la voce avremmo perso anche la memoria, se solo fosse in nostro potere dimenticare, come tacere.] Poi però tutto cambia (3, 1-2): Nunc demum redit animus; et quamquam primo statim beatissimi saeculi ortu Nerva Caesar res olim dissociabilis miscuerit, principatum ac libertatem, augeatque cotidie felicitatem temporum Nerva Traianus, nec spem modo ac votum securitas publica, sed ipsius voti fiduciam ac robur adsumpserit, natura tamen infirmitatis humanae tardiora sunt remedia quam mala; et ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris facilius quam revocaveris: subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur. 2 Quid, si per quindecim annos, grande mortalis aevi spatium, multi fortuitis casibus, promptissimus quisque saevitia principis interciderunt? Pauci et, ut ita dixerim, non modo aliorum sed etiam nostri superstites sumus, exemptis e media vita tot annis, quibus iuvenes ad senectutem, senes prope ad ipsos exactae aetatis terminos per silentium venimus?

[Ora finalmente ritorna la coscienza. E benché subito, fin dal primo sorgere di questa epoca pienamente felice, Nerva Cesare sia riuscito a conciliare due elementi una volta incompatibili, il principato e la libertà; e Nerva Traiano accresca poi ogni giorno la felicità dei tempi, e ormai la sicurezza pubblica non sia più solo una speranza o una preghiera, ma abbia acquisito una forte certezza nell’esaudimento di questa preghiera; nonostante ciò, per la fragilità della natura umana, i rimedi sono più lenti dei mali, e come il nostro corpo cresce piano ma si estingue in fretta, così il talento e la cultura sono più facili da soffocare che da riportare in vita, perché si insinua anche la seduzione dell’inerzia e l’inattività, dapprima odiosa, alla fine viene desiderata. E cos’altro poteva accadere, se per quindici anni, un enorme spazio di tempo per la vita umana, molti sono morti per circostanze accidentali, ma tutti i migliori per la crudeltà del principe? Siamo rimasti in pochi, e per così dire, superstiti non solo agli altri, ma anche a noi stessi, dopo che ci sono stati tolti dal pieno dell’esistenza tanti anni, nei quali attraverso il silenzio siamo divenuti da giovani vecchi, e da vecchi siamo giunti ormai agli estremi limiti della vita.]

228 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici

Il nunc iniziale indica la morte di Domiziano nel settembre del 96. L’espressione redit animus, di per sé molto comune, è segnata da un elemento di ambiguità: dato che il contesto la pone in contrasto con il timore, implicito in quanto precede, animus dovrebbe indicare «il coraggio»; poiché però Tacito, subito dopo, descriverà il regno di Domiziano come una «sospensione della vita», il valore che gli diamo è «coscienza, consapevolezza morale»1. Il dettato tacitiano si caratterizza per un’effettiva densità. In questo paragrafo, in maniera molto esibita, Tacito pronuncia parole di entusiasmo per il principato di Nerva e Traiano, che segna la nascita di una nuova era. Ortu introduce la metafora del nuovo giorno che sorge: l’alba di Nerva nel recente passato viene contrapposta in qualche modo agli sforzi continuati e quotidiani del suo collaboratore Traiano. Il presupposto sta nella identificazione del sovrano con il sole, ben attestata a partire dall’età ellenistica e poi parte del lessico panegiristico romano, che si unisce al motivo del ritorno delle età, topico all’inizio di un nuovo regno. Nerva ha attuato la conciliazione tra due realtà che parevano effet- tivamente irriducibili, la libertas e il principatus, la cui incommensu- rabilità è sottolineata da dissociabilis, un termine significativo: la sua unica attestazione precedente si ha in Orazio, carm. I 3, 22, dove è rife- rito all’Oceano rispetto alle terre (vv. 21-23): «nequiquam deus abscidit / prudens Oceano dissociabili / terras», «invano un saggio dio / separò i continenti dall’Oceano con essi / inconciliabile». Dissociabilis, «in- compatibile», indica qualcosa di irriducibile, che divide sia fisicamen- te che moralmente: terra e mare non devono essere mischiati e gli uomini non avrebbero dovuto affrontare la navigazione. La rarità del termine enfatizza la particolarità del risultato raggiunto da Nerva, che ha agito come un medico in grado di preparare medicine mescolando svariati ingredienti. Nel proemio dell’Agricola viene largamente impiegato il linguaggio della propaganda politica: felicitas, ad es., è termine tecnico dell’ideologia imperiale. Prima, virtù militare, poi, con un valore più generale2, nel nesso con temporum si rinviene in Tacito nel proemio delle Historiae (I 1, 4, sempre riferita a Nerva e a Traiano) e anche

1 A.J. Woodman, Tacitus, Agricola, Cambridge 2014, 82. 2 A.J. Woodman, Velleius Paterculus, The Tiberian Narrative (2.94-131), Cambridge 1977, 145.

229 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Plinio la applica al regno di Traiano, epist. X 12, 2 «felicitas temporum, quae bonam conscientiam civium tuorum ad usum indulgentiae tuae provocat et attollit», «la felicità dei nostri tempi, che invita ed eleva la buona coscienza dei tuoi cittadini a ricorrere alla tua indulgenza». L’accostamento specifico di felicitas temporum e securitas3 omnium si legge in un editto di Nerva riportato da Plinio (epist. X 58, 7) e la monetazione dello stesso Nerva documenta in abbondanza gli slogan libertas publica, salus publica e felicitas Augusti, diffusi già sotto Nerone e Domiziano. Anche l’unione di principatus e libertas è di per sé, in certa misura, tradizionale4. La nostra attuale sensibilità ci pone in questo caso di fronte ad un problema sottile, giacché saremmo quasi portati a dire che qui Tacito non riesce ad esprimere in modo partecipato e personale l’entusiasmo per il nuovo corso, ma si limita a riecheggiare le formule ufficiali. Questo è però un approccio troppo modernizzante. Nonostante la libertà di parola ora propagandata, l’esaltazione del princeps in carica rimaneva pur sempre un atto dovuto per ogni intellettuale che aspirasse al successo o anche soltanto alla sopravvivenza. In più, Tacito si trovava in una posizione delicata, dato che avrebbe potuto essere facilmente sospettato di collusione con il vecchio regime domizianeo, durante il quale aveva pur sempre continuato ad avanzare nella propria carriera politica5. In ogni caso, il contesto richiede che lo si ritenga perfettamente sincero e i contemporanei del resto non avrebbero avuto motivi specifici per mettere in discussione questa terminologia conformista e quanto

3 Su questo valore, in particolare in riferimento ad una ‘restaurazione’, cfr. G. Migliorati, L’idea di inizio e di fine della storia in Velleio Patercolo, in Ricerche storiche e letterarie intorno a Velleio Patercolo, a c. di A. Valvo e G. Migliorati, Milano 2015, 131-96: 190-95. Securitas publica era, del resto, concetto corrente: Sen. epist. 73, 2 «multum ad propositum bene vivendi confert securitas publica», «la pubblica tranquillità ha una grande importanza per il proposito di vivere bene»; ben. VI 15, 8; clem. I 13, 1; cfr. I 1, 8 securitas alta con la nota ad loc. di S. Braund, Seneca, De clementia, Edited with translation and Commentary, Oxford 2009, 180. 4 Mart. V 19, 6 «sub quo libertas principe tanta fuit?», «sotto quale principe ci fu tanta libertà?»; Plin. Pan. 36, 4 «eodem foro utuntur principatus et libertas», «il principato e la libertà si servono dello stesso foro»; 44, 6; Plut. Galb. 6, 4 (lettera di Galba a Virginio Rufo); l’opposto in Lucan. VII 695-96 (con la nota ad loc. in M. Annaei Lucani Belli Civilis liber VII, a c. di N. Lanzarone, Firenze 2016, 459). 5 R. Oniga, Tacito, La vita di Giulio Agricola, in Tacito, Opera omnia, a c. di R. Oniga, Torino 2003, I, 807-808.

230 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici essa esprime. È troppo facile proiettare nell’Agricola le attitudini autoriali che sono abitualmente associate alle Historiae e specialmente agli Annales. Nonostante i meriti di Nerva e Traiano, la vita intellettuale è difficile da resuscitare, come viene detto attraverso l’impiego, ancora, di una metafora medica («natura tamen infirmitatis humanae tardiora sunt remedia quam mala»). Naturalmente se pensiamo che nel regno di Domiziano erano attive figure come Marziale, Silio Italico, Stazio, Quintiliano e forse Valerio Flacco, possiamo percepire come si tratti di un’affermazione tendenziosa, e se leggiamo Plinio il Giovane, che ci racconta di una vivace vita intellettuale, sentiamo una voce molto diversa. Una delle ragioni che Tacito adduce è rappresentata dall’inerzia, prima odiosa e poi amata, che non consente che sorgano nuovi autori. Un’altra spiegazione sta poi nel semplice fatto che non esiste più una massa di potenziali scrittori: quindici anni sono uno spazio enorme nella vita di un uomo e in tanti, e tra i migliori, sono stati uccisi. I pochi che sono sopravvissuti, per motivi diversi, mancano dell’esperienza necessaria per il compito. Ci sono rarissime eccezioni, e una può essere costituita da Tacito stesso, che dopo le circostanze avverse del regno di Domiziano ha solo una voce rozza per scrivere degli eventi a partire dall’81. Lo stile di tutto il proemio è particolarmente notevole, con espressioni molto rilevate e altre densissime, come nostri superstites, «sopravvissuti a noi stessi». Difficile trovare paralleli significativi: più volte si dice che qualcuno metaforicamente muore e ritorna a vivere per quanto gli è accaduto6, ma qui il concetto è diverso: noi siamo morti e soltanto una parte di noi, svilita, è ancora viva. Forse il parallelo più interessante viene da Lucrezio (III 870-875), dove si raffigura l’uomo che, dopo la morte, direbbe di risentire del fatto che viene sepolto e bruciato, con cui ha una qualche analogia Sen. epist. 32, 5. Questo guardarsi dall’esterno è suggestivamente vicino alla concezione tacitiana secondo la quale lui e altri sono sopravvissuti ad una morte metaforica durante il regno di Domiziano. Non si tratta però di sovrapponibilità, e «nostri superstites

6 Cicerone diceva del ritorno dall’esilio come dell’inizio di una seconda vita (Att. IV 1, 8), e come di un giorno di rinascita (Att. III 20, 1). Si ha dunque un Cicerone vecchio che muore e che è seguito da un Cicerone nuovo. Questo non è esattamente il caso del proemio tacitiano, e questa stessa osservazione vale per un paio di passi di Seneca (tranq. 11, 12; epist. 30, 5); cfr. Woodman, Tacitus, Agricola, 90.

231 Rinascite, rinascenze, rinascimenti sumus» rappresenta uno sviluppo altamente inusuale dell’idea della divisione interna del soggetto. Gli inizi di un’opera, come quelli del potere di ogni singolo princeps, sono momenti particolari. Gli imperatori, soprattutto nei loro primi atti, ostentarono una legalità che poi si rivelava impossibile da osservare, per la natura stessa della posizione in cui si trovavano. Il principato nasce con Augusto, che proclama di restaurare la res publica con le sue istituzioni e si fonda sul perpetuo contrasto tra le promesse e la loro attuazione, dato che nel tempo è inevitabile che i veri rapporti di potere si facciano sentire in tutta la loro forza. Questo è il motivo per cui tutti gli imperatori iniziano bene e finiscono male, tanto male da rendere sempre facile ai loro successori l’acquisto di una felice fama. Presto o tardi, prima della fine, ogni Cesare prendeva la via sbagliata, quasi come se fosse impossibile non inverare la riflessione che Marco Aurelio consegna ai suoi Ricordi (X 27): la storia come è, così fu e sarà. Derivi dall’esperienza personale o si rifaccia alla cronaca dei tempi antichi, essa si svolge davanti agli occhi di un uomo come una sequenza di rappresentazioni sceniche. Il teatro è lo stesso, solo gli attori sono differenti. Nel proemio dell’Agricola, dunque, così toccante, in cui si dice del ritorno alla vita dopo la morte di un tiranno, Tacito in realtà dà espressione memorabile a temi diffusi, come possiamo agevolmente renderci conto se guardiamo ad un autore di minore levatura, Velleio Patercolo. Per lui il regno di Tiberio costituisce il culmine di tutta la storia di Roma: lo dipinge come un periodo di restaurazione, nello stesso modo in cui aveva descritto il periodo successivo ad Azio (II 89, 3-6) e l’adozione di Tiberio da parte di Augusto (II 103). Nella sua ottica, la storia contemporanea è scandita da questi tre momenti, evidentemente paralleli, sia nel significato sia negli effetti che producono. Il passo più notevole, anche per i problemi che pone, è costituito da II 126: Horum sedecim annorum opera quis cum ingerantur oculis animisque omnium, partibus eloquatur? Sacravit parentem suum Caesar non imperio, sed religione, non appellavit eum, sed fecit deum. 2 Revocata in forum fides, summota e foro seditio, ambitio campo, discordia curia, sepultaeque ac situ obsitae iustitia, aequitas, industria civitati redditae; accessit magistratibus auctoritas, senatui maiestas, iudiciis gravitas; compressa theatralis seditio, recte faciendi omnibus aut incussa voluntas aut imposita necessitas: 3 honorantur recta, prava puniuntur,

232 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici

suspicit potentem humilis, non timet, antecedit, non contemnit humiliorem potens.

[Chi potrebbe parlare nei particolari delle realizzazioni di questi sedici anni, dal momento che sono impresse negli occhi e nell’animo di tutti? Cesare deificò suo padre non d’autorità, ma con un culto, non lo chiamò, ma lo rese un dio. 2 Nel foro fu riportata la buona fede, da lì furono rimosse le sedizioni, dal Campo Marzio gli intrighi, dalla curia la discordia, furono restituite alla città la giustizia, l’equità, l’operosità, sepolte o ricoperte di muffa; tornò ai magistrati l’autorità, al senato la maestà, ai tribunali la dignità; furono repressi i disordini in teatro, si suscitò in tutti la volontà di agire bene o se ne impose la necessità; 3 si onora la rettitudine, si punisce il vizio, l’umile guarda con ammirazione il potente, ma non lo teme, il potente ha la precedenza sull’umile, ma non lo disprezza.] L’enfasi sulla restaurazione potrebbe però essere intesa come una critica implicita al regno di Augusto, un problema, dato che si trattava del padre di Tiberio e dell’exemplum a cui egli stesso si richiamava. A ciò si è risposto osservando che è una delle indicazioni che ci mostrano come Velleio abbia utilizzato le tecniche del panegirico7, e così infatti si configura in maniera del tutto evidente la parte finale dell’opera (che concerne anche la prima successione che ha luogo nel principato) e questo può essere applicato specificamente al capitolo 1268. Prudenza metodica dovrebbe peraltro spingerci a diffidare dello scetticismo che vorrebbe che questo panegirico non abbia nessuna relazione con i fatti storici: quasi ogni affermazione di Velleio può essere corroborata da altre fonti antiche.

7 Woodman, Velleius Paterculus, 238-39. 8 Un confronto significativo ad es. in Capitol. Max. Balb. 17, lettera del console Claudio Giuliano a Pupieno e Balbino: «Quae quanta et cuius modi sit, iam in ipso exordio principatus vestri cognoscere potuimus, qui leges Romanas aequitatemque abolitam et clementiam, quae iam nulla erat, et vitam et mores et libertatem et spem successionum atque heredum reduxistis [...] Nam quod nobis vita per vos reddita est, quam [...] sceleratus latro [...] petit [...] quomodo dicam aut prosequar?», «La sua entità e le sue qualità le abbiamo potute riconoscere nell’esordio stesso del vostro principato, dato che avete ridato vigore alle leggi romane, all’equità che era stata abolita, alla clemenza che ormai più non esisteva, alla vita e alla moralità e alla libertà e alla speranza nelle successioni e negli eredi [...] Voi ci avete restituito la vita, che quello scellerato criminale [...] aveva insidiato [...]: in che modo lo dirò o lo narrerò?».

233 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

La giustizia, l’equità, l’operosità sono «civitati redditae» nello stesso modo in cui prima si è detto «revocata in forum fides» (1). Queste espressioni implicherebbero che si tratti di qualità assenti almeno dagli ultimi anni del regno di Augusto, un’assenza che sembrerebbe confermata dall’espressione «sepultae ac situ obsitae». Come è noto, la sua ultima decade era stata travagliata da problemi di vario tipo e si è suggerito che Velleio qui lo stia dicendo, anche se in maniera sfumata. La formulazione si mantiene anonima ed è condotta ad un livello generale, mentre le azioni di Tiberio sono contestualizzate con precisione. C’è dunque, anche se con tutte le cautele, l’elemento della critica al predecessore9, che si combina con quelle che sono le tecniche abituali del panegirista10. Se una convenzione di questo genere letterario voleva che i governanti fossero lodati nel paragone con i predecessori, questo poteva avvenire in più modi: il sovrano attuale viene confrontato con i suoi predecessori “per quanto questi siano stati grandi”; in alternativa, perché i suoi raggiungimenti e le sue virtù sono così diversi dalle loro manchevolezze. Un’ulteriore convenzione, che è chiaramente legata a quest’ultimo tipo di argomentazione, prevedeva che si sostenesse che il sovrano attuale aveva riportato in vita gli elementi positivi di un tempo che erano stati obliterati. Velleio ha perciò sviluppato una celebrazione più vicina al secondo metodo, quindi con un’implicita critica rivolta ad Augusto. Verrebbe quasi da dire che il panegirista vive nel momento; tuttavia si è visto come Velleio abbia proceduto nello sfumare la determinazione individuale precisa di quanto dice di Augusto. La restituzione, il ritorno e la rinascita sono dunque concetti centrali nella panegiristica imperiale e questo fin dall’età augustea, come può essere esemplificato da un testo celeberrimo, l’ultima delle odi oraziane del IV libro (vv. 4-14):

Tua, Caesar, aetas fruges et agris rettulit uberes 5

9 Tiberio stesso avrebbe desiderato un prudente distacco rispetto al suo predecessore: U. Schmitzer, Velleius Paterculus und das Interesse an der Geschichte im Zeitalter des Tiberius, Heidelberg 2000, 301. 10 E.S. Ramage, Velleius Paterculus 2.126.2-3 and the Panegyric Tradition, «Classical Antiquity», 1 (1982), 266-71. Il medesimo procedimento si verifica nel Panegirico di Plinio (6-7) a proposito di Traiano in rapporto a Nerva: D. Kienast, Nerva und das Kaisertum Trajans, «Historia», 17 (1968), 51-71.

234 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici

et signa nostro restituit Iovi derepta Parthorum superbis postibus et vacuum duellis Ianum Quirini clausit et ordinem rectum evaganti frena licentiae 10 iniecit emovitque culpas et veteres revocavit artes per quas Latinum nomen et Italae crevere vires [...]

La tua era, o Cesare, ai campi ha restituito pingui le messi, 5 e al nostro Giove le insegne strappate ai superbi battenti dei Parti, e chiuso, libero da guerre, il tempio di Giano Quirino, e imposto giusto ordine, a freno d’una 10 debordata licenza, e spazzato via i crimini, e risuscitato le regole antiche del vivere, per cui il nome latino e le itale forze crebbero [...]

Rivolta ad Augusto, l’ode è del 13 a.C. ed è stata composta quando, dopo il ritorno del princeps dalla Spagna e dalla Gallia, il Senato deliberò la consacrazione nel campo Marzio di un altare dedicato alla Pax Augusta, l’Ara Pacis Augustae. Come scrive Elisa Romano nel suo commento11, «ancor più che per i riferimenti esterni, l’ode si colloca in tale periodo per lo stato d’animo collettivo che traspare attraverso di essa: una sensazione di raggiunta sicurezza, ed insieme di gratitudine per il princeps [...] 4, 15 insiste sulla coralità della lode, come proveniente dalla popolazione intera»12. In realtà le sensazioni prodotte da quest’ode sono state molto diverse e si articolano su uno spettro che va da quanto dice Michèle Lowrie: «My flesh crawls whenever I read

11 Q. Orazio Flacco, Le opere, I, Le Odi, il Carme secolare, gli Epodi, tomo secondo, Commento di E.R., Roma 1991, 920-21. 12 Un’affermazione quest’ultima, che Romano ripropone, di E. Fraenkel, Horace, Oxford 1957, 452-53.

235 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Odes 4.15»13 a quello che osserva Jasper Griffin, che non vede una grande differenza tra questo componimento, le Res Gestae, il Carme Secolare o l’Ara Pacis, e non si sente a disagio per la commistione di pubblico e privato, con Orazio che intende gestire un ruolo pubblico: gli eventi della comunità possono produrre emozioni e l’artista non perde la sua indipendenza quando se ne fa portavoce14. Certo canemus (v. 32), ultima parola del liber, è un futuro che sposta in un tempo a venire ciò che alla fine non sarà cantato, una sorta di ultima recusatio15. In tanta diversità di reazioni, è meglio partire dall’analisi del testo. Le res gestae di Augusto sono enumerate in uno stile molto lontano dal registro lirico che Orazio può ottenere. L’aetas Augusta è soggetto di sei perfetti indicativi, ognuno preceduto da congiunzione (cinque volte et e una -que); le uniche subordinate sono date da due participi e dalla relativa in chiusa, la cui accumulazione (quattro soggetti di crevere, con et due volte e -que una volta sola, ed un participio, porrecta) riprende la linearità della frase principale. Infine vi è una sequenza non poetica di composti che indicano allontanamento, restituzione, istituzione: 5 re-; 6 re-; 7 de-; 10 e-; 11 in-; e-; 12 re-. L’effetto complessivo è un po’ quello di un cliché formulare, certo, ma il lungo polisindeto, che continua nella frase relativa della quarta strofa, fa pensare ad una serie quasi illimitata di benefici. Un’altra caratteristica degna di nota di questa serie è l’uso del prefisso re-. Il ricorso a tale ripetizione da parte di uno stilista come Orazio, che sta bene attento a variare le frasi, deve essere intenzionale. L’accumularsi di composti con re- indica un’idea fondamentale del regime di Augusto. Lungi dall’ammettere che ciò che era avvenuto era stato una “rivoluzione romana”, il principe si adoperava per fare apparire il nuovo sistema come la restaurazione della res publica e di tutto ciò che questa rappresentava. Egli stesso dice (Res Gestae 8, 5): Legibus novis me auctore latis multa exempla maiorum exolescentia iam ex nostro saeculo reduxi et ipse multarum rerum exempla imitanda posteris tradidi.

13 Horace’s Narrative Odes, Oxford 1997, 351. 14 Look your last on lyric: Horace, Odes 4.15, in Classics in Progress. Essays on Ancient Greece and Rome, a c. di T.P. Wiseman, Oxford-New York 2002, 311-32. 15 R.F. Thomas, Horace, Odes Book IV and Carmen Saeculare, Cambridge 2011, 260.

236 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici

[Con nuove leggi, proposte su mia iniziativa, rimisi in vigore molti modelli di condotta degli avi, che ormai nel nostro tempo erano caduti in disuso, e io stesso consegnai ai posteri esempi di molti comportamenti da imitare.] L’immagine del canto comune nell’ode di Orazio, si è detto16, implica che sia l’imperatore ad entrare nel componimento, il poeta a uscirne, come se fosse sazio di un gioco che non lo diverte più – rimane peraltro più convincente pensare ad una dialettica tra il poeta-individuo e il poeta-portavoce della collettività. Opportuna l’evidenza al fatto che i temi e la forma dei versi sono virgiliani17: per i versi 6-8, cfr. Aen. VIII 720-22; per 8-11 cfr. I 293-96; per 12-16 cfr. VI 851-53; I 278-79; 286-88 e VI 777-84, come si vede passi che provengono dalla profezia di Giove nel I libro, dal catalogo dei grandi Romani nel libro VI e dall’ecfrasi dello scudo di Enea nel libro VIII. Secondo un procedimento del tutto appropriato al modello del panegirico, la poesia epica è inglobata in quella lirica e le fornisce il materiale. Laddove però l’Eneide si trattiene dalla lode immediata di Augusto e della sua epoca, Orazio non soltanto affronta l’encomio diretto, ma anche sottintende Virgilio in questo encomio18. L’autore lirico rende esplicita quella che nel poeta epico è solo una possibilità e corregge sottilmente gli intertesti virgiliani, non limitandosi semplicemente a trasformare ciò che è una predizione per il futuro in un passato che si è realizzato, ma suggerendo anche che l’Eneide canta Augusto personalmente. Quella che in Virgilio è l’età dell’oro, aurea saecula, diviene tua, Caesar, aetas. Questo implica, peraltro, tutta una serie di delicati problemi, legati al fatto che una nuova età dell’oro può essere eterna, mentre un’epoca vincolata individualmente ad un princeps è destinata a finire, ancorché tardi, con la sua stessa persona, che dunque per acquisire una sorta di immortalità ha bisogno del canto del poeta. Al di là di tali motivi celebrativi, la riproposizione di Virgilio per esprimere di volta in volta queste esperienze di restaurazione, ritorno e rinascita, diviene in qualche modo un procedimento codificato, come

16 E. Oliensis, Horace and the Rhetoric of Authority, Cambridge 1998, 152-53. 17 Cfr. M.C.J. Putnam, Artifices of Eternity. Horace’s Fourth Book of Odes, Ithaca- London 1986, 274-80. 18 B.W. Breed, Tua, Caesar, Aetas: Horace Ode 4.15 and the Augustan Age, «Amer. Journ. Philol.», 125 (2004), 245-53: 246.

237 Rinascite, rinascenze, rinascimenti si può osservare da un esempio particolarmente istruttivo, la poesia legata all’ascesa al trono di Nerone. Il giovane principe è un nuovo Augusto, a lui, anzi, superiore. In un tale contesto si sviluppa una poesia panegiristica che è apertamente incoraggiata a livello della corte e, più in generale, pubblico. Ce ne è rimasto poco: oltre a Calpurnio Siculo e ai Carmina Einsiedlensia, ne restano lacerti in Seneca e tracce in Lucano e nell’Ilias Latina. Colpisce una certa compattezza, forse esito della nostra prospettiva, stante il numero ridotto dei testi. Probabilmente però i tratti comuni, a livello tematico e di scelte di poetica, nella produzione associata alla corte non sono casuali. Una lettura complessiva offrirebbe risultati significativi; se ci si deve limitare ad un unico esempio, un interessante punto di partenza potrebbe essere individuato in alcuni aspetti della prima ecloga di Calpurnio Siculo, un componimento di intonazione messianica19. In un lungo vaticinio che due pastori leggono inciso su un albero20, il dio Fauno annuncia l’imminente ricomparsa dell’età dell’oro e del regno di Saturno, per opera di uno iuvenis, che riporterà sulla terra la giustizia, la pace, la clemenza. Il tema dell’età dell’oro è ben presente nei testi prima richiamati, in particolare nella seconda delle ecloghe di Einsiedeln; inoltre, nell’Apocolocintosi di Seneca, la Parca che fila la vita di Nerone vede scendere dallo stame aurea saecula (4, 9). Modello imprescindibile è la quarta ecloga di Virgilio, dove si dice il vaticinio della Sibilla Cumana e si preannuncia la nascita di un puer con il quale si rinnoverà l’età dell’oro21. Con quest’opera decisiva si afferma durevolmente il legame tra l’inizio dell’età dell’oro e l’avvento di un personaggio carismatico22. La generazione aurea non rappresenta più un’epoca remota, secondo il modello esiodeo, una

19 Sintesi critica sulla componente panegiristica nella poesia di Calpurnio Siculo in R. Mayer, Latin Pastoral after Virgil, in Brill’s Companion to Greek and Latin Pastoral, a c. di M. Fantuzzi e Th. Papanghelis, Leiden-Boston 2006, 451-66: 457- 59; cfr. in particolare M.A. Vinchesi, Calpurnio Siculo e le nuove prospettive della bucolica latina, in Calpurnio Siculo, Ecloghe, Milano 1994, 5-51: 13-29. 20 Per l’elemento della scrittura cfr. T.K. Hubbard, The Pipes of Pan. Intertextuality and Literary Filiation in the Pastoral Tradition from Theocritus to Milton, Ann Arbor 1998, 151. 21 Punto di partenza sulla questione in A. Cucchiarelli, P. Virgilio Marone, Le Bucoliche. Introduzione e commento, Roma 2012, 237-42. 22 J. Küppers, Die Faunus-Prophezeihung in der 1. Ekloge des Calpurnius Siculus, «Hermes», 113 (1985), 340-61: 348.

238 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici preistoria irrecuperabile rispetto alla quale si è verificata una decadenza inarrestabile, ma può essere di nuovo una realtà presente, che sta per concretizzarsi. Dopo l’accordo di Brindisi tra Ottaviano e Antonio, Virgilio proponeva una visione di pace e di rinascita, di rigenerazione della società immettendo il mito nella storia. Mentre però con lui ci si trova ad un livello di simboli – la figura del puer rimane misteriosa –, per quanto i lettori contemporanei avranno legittimamente cercato di incarnarli in individui, la poesia di Calpurnio rende più precisi e riconoscibili i riferimenti a fatti storici determinati. Nella sostanza è del tutto chiaro chi sia lo iuvenis che è cantato, anche se per le convenzioni del genere bucolico non si può dirne il nome, e quali siano gli elementi che intendono caratterizzare la sua azione di governo. L’età dell’oro è dunque in stretta connessione con il suo avvento, un tratto per il quale Calpurnio ha tenuto presente non solo il Virgilio delle Bucoliche, ma anche quello dell’Eneide, che aveva identificato i Saturnia regna con la pace di Augusto. In più non è da escludere che ci sia anche un legame diretto tra le vicende personali dell’autore e quanto si dice in questo componimento e negli altri panegiristici23. Nella IV ecloga Virgilio propone una profezia dopo aver annunciato che l’argomento del suo canto sarebbe stato più elevato rispetto alle ecloghe precedenti; Calpurnio preferisce mantenere la cornice bucolica, che anzi viene sottolineata. Si inizia con un dialogo tra due giovani, Coridone e il fratello Ornito: l’estate, ormai alla fine, non mitiga tuttavia la sua calura (benché abbia già avuto luogo la vendemmia) e i due entrano in una grotta alla ricerca di fresco. Il tempo e il luogo, l’antro di Fauno con i pini e il faggio sacro sulla cui corteccia leggono la profezia, sono descritti con una forte caratterizzazione nel segno della poesia pastorale: tutta la parte iniziale è fitta di simboli intesi a connettere questa poesia a quella di Virgilio e del suo modello Teocrito. Il vaticinio è stato inciso con la falce direttamente dal dio dei pastori, che si autopresenta come figlio dell’Etere24 e le sue parole sono divine e indubitabili. Calpurnio attualizza il ruolo che Fauno riveste nell’Eneide (VII 81-106), dove annunciava al figlio Latino il futuro glorioso di Roma. Nel contesto accentuatamente regolato dal

23 Ch. Schubert, Studien zum Nerobild in der lateinischen Dichtung der Antike, Stuttgart-Leipzig 1998, 57. 24 M.A. Vinchesi, Calpurnii Siculi Eclogae, Firenze 2014, ad loc., 122. Nell’Eneide (VII 48) suo padre è Pico.

239 Rinascite, rinascenze, rinascimenti codice bucolico, è inserita così una profezia che, rispetto a quella della Sibilla virgiliana, come si diceva, presenta legami stretti con l’attualità della storia. Si preannunciano la tranquillità e la pace che d’ora in poi sono destinate a caratterizzare la vita dei pastori, che non dovranno più temere un praedator (v. 40), un ladro25, che porti via a loro gli animali – una chiara allusione all’assenza di sconvolgimenti e guerre civili. Una volta rassicurati gli abitanti del mondo bucolico, il testo ha uno scarto con la proclamazione solenne (v. 42): «aurea secura cum pace renascitur aetas», «rinasce l’età dell’oro con una pace sicura». Questo si accompagna al ritorno di Temi, la Giustizia (v. 44), che ha dismesso il suo aspetto derelitto. È una figura che ha un legame con la realtà concreta più stretto della vergine Astrea virgiliana e che trova la sua sede nel mondo dei campi, inverando quanto si diceva nel finale del II libro delle Georgiche (vv. 473-74): «extrema per illos / Iustitia excedens terris vestigia fecit», «fra gli agricoltori la Giustizia / pose le sue ultime orme quando abbandonò la terra». L’evento è connesso con il manifestarsi del giovane (v. 45) «maternis causam qui vicit Iulis», «che ha vinto la causa per gli antenati Giulii di sua madre». Questo iuvenis richiama quello di cui si dice nella prima ecloga di Virgilio (v. 42) e quindi si propone con chiarezza l’assimilazione tra Augusto e Nerone. Il nuovo salvatore viene identificato per mezzo di un dettaglio inequivocabile: si allude infatti all’orazione Pro Iliensibus tenuta da Nerone adolescente nel 53 d.C. a favore dei Troiani, che nella fattispecie reclamavano esenzioni fiscali. Questo evento, in realtà, era denso di significato. Come è noto, Troia/Ilio aveva uno speciale legame con la casa imperiale, dato che attraverso Iulo, figlio di Enea, era la patria degli antenati della gens Iulia, alla quale il principe apparteneva per ramo materno26. Il fatto che Nerone fosse figlio di Domizio Enobarbo richiedeva a compensazione una particolare insistenza sulla sua ascendenza giulia, che veniva costantemente evidenziata dai suoi fautori. Ciò era avvenuto fin dai primi momenti della competizione per il potere, anche in opposizione a Britannico, il figlio di Claudio. C’è dunque anche un motivo molto specifico nella connessione tra

25 Vinchesi, Calpurnii Siculi Eclogae, ad loc., 125. 26 T.P. Wiseman, Calpurnius Siculus and the Claudian Civil War, «Journal of Roman Studies», 72 (1982), 56-67.

240 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici

Nerone e Augusto e al posto della indeterminatezza dell’oracolo, si ha una identificazione storicamente precisa. L’operazione di Calpurnio implica la fusione degli elementi che definiscono Ottaviano nella prima ecloga virgiliana, dove per Titiro egli era un deus in quanto gli aveva consentito di mantenere i suoi possedimenti (vv. 6-7; 42), e il puer della quarta, che è destinato a governare un mondo sereno (v. 17). In Calpurnio il nuovo dio porterà la pace, una pace totale, e non ci saranno più i conflitti civili. La raffigurazione dell’impia Bellona (vv. 46-47) ricorda quella del Furor a conclusione della profezia sui destini della gens Iulia che Giove rivolge a Venere nel I libro dell’Eneide (vv. 294-96)27. I gesti di Bellona sono quegli stessi che metaforicamente compie il popolo romano nel corso della guerra civile, come ci è detto nel proemio alla Pharsalia di Lucano (vv. 1-12), un passo con cui l’ecloga presenta interessanti contatti. La menzione di Filippi (v. 50), simbolo delle guerre civili del passato, introduce il motivo, poi ulteriormente sviluppato, della superiorità del governo di Nerone rispetto a quello di Ottaviano Augusto28. Oltre alla pace sono la giustizia e la clemenza, i valori sui quali Ottaviano aveva impostato la costruzione del consenso, ad essere centrali per il giovane dio. A queste medesime virtù, in quegli anni, rivolgeva l’attenzione la cultura celebrativa ufficiale, proprio per costruire un ritratto del principe che potesse riproporre e superare il modello augusteo. Così la ricomparsa della vergine Astrea (modello, si è visto, della Temi calpurniana) e degli antichi mores è annunciata anche dall’ignoto autore della seconda bucolica di Einsiedeln (2, 23- 24), in un contesto ricco di spunti virgiliani, mentre la clemenza resta virtù cardine nel ruolo del buon principe che Seneca viene disegnando per il giovane Nerone, appunto nel De clementia. Da Virgilio, che in questo periodo acquista importanza paradigmatica e che qui viene visto attraverso la lente del poeta di corte29, Calpurnio traeva inoltre l’esempio di Saturno e del regno di Numa30 quali termini di confronto per il nuovo corso politico (vv. 63-

27 P.J. Davis, Structure and Meaning in the Eclogues of Calpurnius Siculus, «Ramus», 16 (1987), 32-54: 41. Analisi minuta del parallelo in E. Karakasis, T. Calpurnius Siculus. A Pastoral Poet in Neronian Rome, Berlin-Boston 2016, 25-28. 28 Hubbard, The Pipes of Pan, 161. 29 J. Küppers, Tityrus in Rom–Bemerkungen zu einem vergilischen Thema und seiner Rezeptionsgeschichte, in «Illinois Classical Studies», 14 (1989), 33-47: 41. 30 Schubert, Studien zum Nerobild, 59.

241 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

68). Sono coinvolte tutte e tre le opere, che si combinano in un quadro complesso: dalla IV ecloga (v. 6) deriva la connessione tra Giustizia e governo del mitico Saturno; dalle Georgiche (II 538) l’aureus Saturnus, simbolo di una originaria vita felice, secondo natura; dall’Eneide (VI 791-94) il parallelismo esplicito tra Augusto e l’età dell’oro durante il regno dell’antico sovrano del Lazio. Nel medesimo contesto Calpurnio trovava il riferimento a Numa e alle sue opere pacifiche, là dove Anchise addita al figlio il re che ai Romani ha dato le leggi civili e religiose. Dalle Bucoliche all’Eneide resta così delineato il percorso “formativo” di Calpurnio Siculo, che fa assumere alla pastorale i toni dell’epica per cantare la storia contemporanea. L’età dell’oro, con tutti i suoi simboli e raffigurazioni, conosce un riferimento specifico all’attualità, quando si deve mettere in evidenza il ritorno alla legalità e alla concezione virtuosa e originaria dei rapporti tra princeps e senato che era stata completamente cancellata da Claudio: dopo che il console era stato semplicemente chi aveva acquistato una magistratura puramente dell’apparenza, ora il diritto tutto intero sarà presente nel foro (vv. 69-73), mentre fino ad oggi era stato rinchiuso nell’interno di una sola casa, alla mercé dell’imperatore e dei suoi potentissimi liberti. È motivo che si ripresenta nella letteratura del periodo: il ritorno alla legalità ad opera dello iuvenis viene evidenziato nel carme profetico di Apollo nell’Apocolocintosi (4, v. 24 «legum [...] silentia rumpet»)31, mentre nel De clementia è Nerone stesso che afferma di aver riportato alla luce le leggi traendole «ex situ ac tenebris» (I 1, 4); in Calpurnio, si è detto, Temi torna sulla terra «squalore situque [...] posito» (vv. 43-44), quasi emergendo dalla oscura desolazione di un carcere. Qui riusciamo di nuovo a individuare un tratto specifico, dato che il nuovo e giovane princeps vi aveva dato risalto già nel discorso programmatico del futuro governo che, scrittogli da Seneca, tenne dinanzi al senato all’indomani della morte di Claudio e di cui Tacito (ann. XIII 4) riporta una sintesi: Ceterum peractis tristitiae imitamentis curiam ingressus et de auctoritate patrum et consensu militum praefatus, consilia sibi et exempla capessendi egregie imperii memoravit, neque iuventam armis

31 A. Bonandini, Il contrasto menippeo: prosimetro, citazioni e commutazione di codice nell’Apocolocyntosis di Seneca, Trento 2010, 350-51; vd. anche Karakasis, T. Calpurnius Siculus, 36-38. Il motivo è implicito nella figura dello iudex raffigurato sullo scudo di Achille nell’Ilias Latina (878-79).

242 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici

civilibus aut domesticis discordiis imbutam; nulla odia, nullas iniurias nec cupidinem ultionis adferre. Tum formam futuri principatus praescripsit, ea maxime declinans, quorum recens flagrabat invidia. Non enim se negotiorum omnium iudicem fore, ut clausis unam intra domum accusatoribus et reis paucorum potentia grassaretur; nihil in penatibus suis venale aut ambitioni pervium; discretam domum et rem publicam. Teneret antiqua munia senatus, consulum tribunalibus Italia et publicae provinciae adsisterent: illi patrum aditum praeberent, se mandatis exercitibus consulturum.

[Una volta conclusa la messinscena del lutto, Nerone fece il suo ingresso in senato. Dopo aver dedicato un preambolo all’autorità del senato e al consenso dei soldati, ricordò insegnamenti e modelli cui intendeva attenersi per esercitare il potere nel modo più nobile; affermò che la sua giovinezza non era stata bagnata dal sangue di guerre civili o di contrasti familiari, e di non recare perciò né odio, né rancore per oltraggi subiti, né bramosia di vendetta. Delineò quindi il programma del suo futuro regno, ripudiando in particolar modo gli abusi contro i quali divampava ancora l’ostilità; egli non intendeva essere giudice in ogni causa così da permettere che il potere di pochi imperversasse, dal momento che accusatori e colpevoli stavano rinchiusi in un’unica casa; nella sua abitazione sarebbero state sbarrate le porte a corruzione e intrighi; la corte e lo stato sarebbero state due realtà distinte. Il senato doveva mantenere le sue antiche funzioni; l’Italia e le province senatorie dovevano ricorrere ai tribunali dei consoli, e questi fare da tramite per il senato; lui si sarebbe occupato degli eserciti che gli erano stati affidati.] Nerone dunque dichiara di voler regnare secondo quello che era stato il programma di Augusto (cfr. anche Suet. Nero 10, 1) e di voler evitare quegli aspetti del governo di Claudio che avevano suscitato un maggior risentimento, vale a dire l’amministrazione domestica, in senso proprio, della giustizia e la riduzione della gestione dello stato alla sua stessa casa. È una riproposizione del riconoscimento delle prerogative del senato che sta alla base dell’ideale equilibrio dei poteri di quest’organo con quelli del principe. Si determina perciò una tranquillità interna simboleggiata in Calpurnio dalla candida pax (1, 54), che è un’immagine di splendore dopo le cupezze che precedono e che non è legata dunque solo alle guerre esterne: bisogna escludere possibili strascichi di odio prodotti dall’ascesa al potere del nuovo princeps, la cui clementia coopera a realizzare una concordia ordinum. Proprio la clementia impedisce

243 Rinascite, rinascenze, rinascimenti che le carceri si riempiano di senatori e che questi stanchino la mano del carnefice (vv. 60-62), un quadro che intende stigmatizzare l’operato del predecessore, Claudio, contro cui si scaglia anche Seneca nell’Apocolocintosi. Gesto che in fondo ci si può attendere da un principe appena salito al trono, la dichiarazione di voler ristabilire l’autorità del senato secondo l’ideologia nobile della divisione dei poteri esibisce una riproposizione degli intenti che avrebbero animato il fondatore dell’impero. Il pensiero che rimane sullo sfondo, ma è presente, è che in realtà il giovane imperatore possa risultare superiore allo stesso Augusto, come abbiamo visto più volte anche attraverso il ricordo delle guerre civili. Seneca (clem. I 9) su questo è esplicito: Nerone, che ha una innata bonitas (clem. I 1, 6), si mostra clemente fin dalla più tenera età, a differenza di Ottaviano che lo fu solo dopo aver arrossato di sangue il mondo intero32. Calpurnio esprime questo concetto, dopo aver presentato l’universo esultante per la ritrovata concordia, interpretando in senso positivo l’apparizione per venti notti consecutive nel cielo puro di una cometa priva di luce rossastra. Qui si avverte un’allusione al finale del I libro delle Georgiche, i segni che prefigurano lo scoppio di un nuovo conflitto civile dopo la morte di Giulio Cesare: «nec diri totiens arsere cometae», «non arsero tante volte tremende comete» (v. 488), un riferimento che comprende specificamente anche quella apparsa dopo l’assassinio. L’opposizione evidenzia con chiarezza come debba intendersi l’avvento del nuovo potere: radicalmente diverso dal male che precede e decisamente superiore al bene che ne è il modello. Pur nel naufragio della produzione panegiristica neroniana, siamo indotti a pensare che Calpurnio dia voce a motivi diffusi, potremmo dire strutturali, in cui la successione acquisisce la sua legittimità perché ripropone un miglioramento della versione originaria della restaurazione augustea, del tutto privo di semi della discordia. Quanto fosse centrale il problema della successione e come certe immagini siano pervasive, può essere illustrato, per offrirne solo un esempio, dalla ricorrenza del modello di Fetonte. La possibilità che il nuovo imperatore, neos Apollon, si trasformi in Fetonte è un pensiero soggiacente che va continuamente combattuto e sempre troviamo

32 In generale sui limiti di Augusto come modello cfr. F.R. Berno, Eccellente ma non troppo: l’exemplum di Augusto in Seneca, in La costruzione del mito augusteo, a c. di M. Labate e G. Rosati, Heidelberg 2013, 181-96.

244 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici specificazioni in tal senso, come ci viene detto da Lucano nel proemio della Pharsalia (I 47-51):

seu sceptra tenere seu te flammigeros Phoebi conscendere currus telluremque nihil mutato sole timentem igne vago lustrare iuvet, tibi numine ab omni cedetur.

[sia che a te piaccia tenere lo scettro oppure salire sul cocchio fiammeggiante di Febo e con fuoco errante percorrere la terra che non ha paura per il cambiamento di Sole, ogni divinità ti farà largo.]

Timentem (v. 43) allude sinteticamente, ma con efficacia, alla storia di Fetonte, forse con un riferimento minimo a Ovidio, dove era stato proprio l’intervento di Tellus a spingere Giove a scagliare il suo fulmine (vv. 272-303). Quando si dice di dettagli come questo, si deve tenere conto del fatto che alla trattazione del mito di Fetonte nelle Metamorfosi si può assegnare quasi uno statuto canonico, anche perché era sostanziata di implicazioni etiche e politiche in senso lato. L’auriga inesperto rischia di farci ritornare nel caos originario, come dice appunto Tellus (II 299), «in chaos antiquum confundimur». La guerra civile è lo scatenamento del caos. A proposito della pervasività di queste immagini, consideriamo un altro momento di poesia celebrativa, nell’Apocolocintosi di Seneca (4, 25-31):

Qualis discutiens fugientia Lucifer astra aut qualis surgit redeuntibus Hesperus astris, qualis cum primum tenebris Aurora solutis induxit rubicunda diem, Sol aspicit orbem lucidus, et primos a carcere concitat axes: talis Caesar adest, talem iam Roma Neronem aspiciet.

[Come Lucifero che sbaraglia gli astri in fuga o come Espero sorge al ritorno degli astri,

245 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

come il Sole, quando l’Aurora, appena dileguate le tenebre, conduce rosseggiante il giorno, guarda il mondo, luminoso, e comincia a lanciare il carro fuori dai cancelli: così Cesare giunge, d’ora in poi Roma contemplerà siffatto Nerone.]

Ha una sua ovvietà che il sole sia colto nella bellezza del suo sorgere, ma in fondo è questo il momento critico in cui si può dimostrare che lui è l’autentico signore del cielo, e non Fetonte. In più, a questo punto è molto evidente («primos a carcere concitat axes») l’elemento della gara, che evoca l’importanza del ruolo dell’auriga e della dimensione ideologica e simbolica del Circo Massimo, un presupposto importante proprio nell’episodio ovidiano di Fetonte33. Ben diverso sarebbe stato il ritratto del princeps alla fine del suo regno. Non mi sembra tuttavia inappropriato concludere ricordando come Nerone faccia parte di un gruppo di personaggi ormai leggendari che non sarebbero mai morti, una nozione comune a diverse epoche storiche, un gruppo che annovera tra gli altri Re Artù, Carlo Magno, l’imperatore Federico II, Elvis Presley. Sono figure che hanno goduto di una fama di immortalità, quantomeno limitata: non si sarebbero spenti, ma nascosti in una località misteriosa, ai confini della terra, per ritornare a tempo debito; Nerone, in particolare, si è apprestato ad essere una delle incarnazioni dell’Anticristo34. C’è però un modo forse più sottile di intendere la mancata morte di Nerone, quello in cui Tacito avrebbe potuto considerare l’evento. La sua età infatti fu spettatrice di tutta una serie di falsi Neroni. L’improvvisa scomparsa dell’imperatore, il terrore o l’ammirazione che il suo nome evocava, e il prevalere di illusioni apocalittiche giocarono a favore di questi impostori procurando fastidi al governo romano. Per motivi facilmente intuibili, si era pensato che Nerone fosse fuggito oltre l’Eufrate per trovare aiuto tra i Parti e, sebbene in effetti questi consegnassero un Nerone a Domiziano, tale credenza persistette saldamente sotto Traiano. Negli anni difficili che videro il

33 A. Barchiesi, Phaethon and the Monsters, in Paradox and the Marvellous in Augustan Literature and Culture, a c. di P. Hardie, Oxford 2009, 163-88: 170-73; vd. anche Id., Le Cirque du Soleil, in Le Cirque romain et son image, a c. di J. Nelis- Clément e J.-M. Roddaz, Bordeaux 2008, 521-37: 522-24. 34 E. Champlin, Nero, Cambridge Mass., London 2003, 9-35.

246 La rinascita dopo i tiranni: aspetti culturali e ideologici fallimento della spedizione romana in Mesopotamia e la grande rivolta degli Ebrei, si ebbe un momento estremamente propizio per la sua ricomparsa. Serpeggiava l’idea della fine del potere di Roma e ciò era confermato da oracoli e prodigi. L’Oriente avrebbe riconquistato la supremazia. Cinquant’anni prima proprio una predizione di questo tipo, secondo cui un uomo che avrebbe dominato il mondo sarebbe apparso in Giudea, aveva incitato gli Ebrei alla ribellione. I Romani avevano ribattuto dicendo che si era avverata con la proclamazione di Vespasiano, ma questa soluzione non era stata accolta da tutti e i compositori ebrei di versi sibillini vi aggiunsero presto il tema del ritorno di Nerone, che veniva inglobato nelle loro speranze. Uno storico particolarmente lucido e disilluso avrebbe poi potuto constatare che con Adriano, fin dai primi giorni di regno, si manifestavano molti dei tratti che avevano caratterizzato Nerone, a partire da un certo senso dell’arte, della vita e del rapporto con la grecità. Per Tacito o per alcuni dei suoi amici non dovette essere confortante sapere che ciò che nell’ellenismo di Nerone era stato problematico o discutibile, era adesso in accordo con la politica razionale di chiunque governasse un mondo greco-romano35. Anche per Tacito, evidentemente, la storia era sempre storia contemporanea e le rinascite dopo i tiranni troppo facilmente potevano configurarsi come rinascite dei tiranni.

35 R. Syme, Tacitus, II, Oxford 1958, 518-19.

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Nietzsche. Cristianesimo e palingenesi

STEFANO FERRARIO

A goal, the health of man. An enemy, Christianity. A will, the beginning of a new era of history. Palingenesis. The transformation of all the conceptual, political and social structures of humanity becomes, with the passing of time, a real mission for Nietzsche, which soon degenerates into obscure obsession, into madness. An anxiety for renewal linked by a double thread to the struggle, existential before even theoretical, that the thinker engages with what he considers to be man’s true enemy: Christianity. To free oneself from two thousand years of Christian yoke; to restore what was strong and noble before it. This is the goal. Reading together the works and the epistolary of Nietzsche’s gives back both the radicality of this project – often dampened by criticism – and a great, albeit unacknowledged, sense of responsibility for the future of humanity.

LEGGE CONTRO IL CRISTIANESIMO Data nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell’anno uno (il 30 settembre 1888 della falsa cronologia) Guerra mortale contro il vizio: il vizio è il cristianesimo Friedrich Nietzsche, L’Anticristo

1. Spaccare in due la storia «Assurdamente solo», completamente isolato, come scrive a Reinhart von Seydlitz il 12 febbraio 1888, nella sua «lotta implacabile e sotterranea contro tutto quello che gli uomini hanno venerato e amato finora»1, Nietzsche vive tra il maggio 1888 e il gennaio 1889

1 F. Nietzsche, Epistolario, a cura di G. Campioni e C. Fornari, Adelphi, Milano 2011, Vol. V, p. 555. I riferimenti alla solitudine nelle lettere di Nietzsche sono costanti, già a partire dal 1882, ma durante l’inverno 1887-1888 diventano

249 Rinascite, rinascenze, rinascimenti un periodo di intensa creatività, in cui porta a termine Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, L’anticristo, Ecce homo, Nietzsche contra Wagner e i Ditirambi di Dioniso. Da queste opere e soprattutto dall’epistolario degli ultimi mesi di vita cosciente, emerge – all’inizio quasi celandosi, ma poi in maniera sempre più convinta – quello che si potrebbe chiamare un tono palingenetico del pensiero nietzschiano, una volontà di «dar fuoco fino a dividere in due la storia dell’umanità»2. Nietzsche reputa infatti di aver finalmente concluso quella liberazione da tutti i valori morali che egli chiama Trasvalutazione di tutti i valori, il «più grande avvenimento filosofico di tutti i tempi, con il quale la storia dell’umanità si spezza in due»3. Fulmine «distruttore» che «metterà la terra in convulsioni»4, la Trasvalutazione di tutti i valori secondo Nietzsche è «dinamite ad altissimo potenziale» capace di spaccare «letteralmente in due la storia dell’umanità»5. Fulmini, convulsioni, dinamite, dar fuoco, spaccare, dividere: questi sono i termini apocalittici utilizzati da Nietzsche per descrivere quell’«avvenimento che non ha pari», quella «vera catastrofe» che è la «scoperta della morale cristiana»6. Negare il tipo d’uomo che fino a oggi è stato ritenuto il più alto, sconfessare la morale della décadence, recuperare finalmente quello «che fino ad ora è stato interdetto, disprezzato, maledetto»7 dal cristianesimo. Ecco che cosa significa trasvalutare tutti i valori. Se il non aver aperto gli occhi davanti al cristianesimo è la «più grossa sudiceria che l’umanità abbia sulla sempre più numerosi: si vedano a titolo di esempio la lettera alla madre del 23 gennaio 1888 in cui N. scrive di sentirsi «privo di qualsiasi collegamento con il resto del mondo», Ivi, p. 541, e quella del 17 febbraio 1888, sempre alla madre, in cui Nietzsche lamenta «la sensazione di essere solo, la mancanza di amore, la generale ingratitudine e persino la meschinità», Ivi, p. 565. Cfr. L. Chamberlain, Nietzsche. Gli ultimi anni di un filosofo, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 24 e A. Fallica, La malattia di Nietzsche, in Filosofare con Nietzsche, a cura di G. Penzo e G. Praticò, Ferv Edizioni, Roma 2002, p. 104. 2 F. Nietzsche, Epistolario, cit., p. 768. 3 Lettera datata 4 ottobre 1888 a Malwida von Meysenbug, Ivi, p. 762. 4 F. Nietzsche, Ecce homo (1888), in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1970, Volume VI, Tomo III, p. 374. 5 Lettera datata 9 dicembre 1888 a Heinrich Köselitz in F. Nietzsche, Epistolario, cit., p. 828. 6 Id., Ecce homo, cit., p. 383. 7 Ivi, p. 340.

250 Nietzsche. Cristianesimo e palingenesi coscienza»8, oltrepassare questa illusione significa davvero dare inizio a nuova era, rompere «in due la storia dell’umanità»9.

2. Trasvalutazione di tutti i valori Quella che Nietzsche evoca sotto il nome di Trasvalutazione di tutti i valori è «l’esigenza più grave» che sia mai stata posta, un «momento di sublime autocoscienza», un «grande mezzogiorno» in cui l’umanità possa per la prima volta guardare indietro e davanti a sé stabilendo il perché, l’a che scopo della sua esistenza. Questo compito per Nietzsche deriva necessariamente dall’idea che il destino dell’umanità non sia retto da una provvidenza ma «dai malriusciti, dai maligni vendicativi, dai cosiddetti ‘santi’, questi calunniatori del mondo e denigratori dell’uomo»10, i cristiani. È giunta l’ora, sembra dire Nietzsche, di liberarsi da questo giogo nefasto, di emettere un verdetto contro «tutto ciò in cui si era creduto, che si era preteso e consacrato»11, contro tutti i concetti di valore più sacri – Dio, anima, virtù, peccato, al di là, verità, vita eterna – nient’altro che falsità in cui domina la corruzione, l’istinto di negazione della vita, l’istinto della décadence. «Non c’è mai stato momento più cruciale nella storia»12, scrive Nietzsche all’amico Franz Overbeck il 18 ottobre 1888 di quello in cui, finalmente, si assiste al capovolgimento di tutti i valori fino allora esistenti: il «giorno della decisione»13 è ormai prossimo. Esso porterà, attraverso una «rinnovata autoriflessione» e a «un approfondimento dell’umanità»14, alla radicale rimozione dei valori cristiani. La «più

8 Ivi, pp. 381-382. 9 Ivi, p. 265. 10 Ivi, p. 340. 11 Lettera all’imperatore Guglielmo II dei primi di dicembre del 1888 in F. Nietzsche, Epistolario, cit., p. 818. 12 Ivi, p. 769. 13 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 360. Cfr. Id., Genealogia della morale. Uno scritto polemico (1887), in Opere di Friedrich Nietzsche, Volume VI, Tomo II, p. 327, in cui Nietzsche parla di un uomo dell’avvenire che nel momento della «grande decisione» restituirà alla terra «la sua meta e all’uomo la sua speranza». 14 Id., Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’Avvenire (1886), in Opere di Friedrich Nietzsche, Volume VI, Tomo II, p. 43.

251 Rinascite, rinascenze, rinascimenti profonda collisione di coscienze all’interno dell’umanità»15 che si sia mai vista avrà degli effetti devastanti: chiamando a giudizio la morale cristiana ci saranno «guerre, come non se ne sono mai viste»16 con sconvolgimenti, sussulti e terremoti che non risparmieranno nessuna forma di potere – Reich e Triplice Alleanza comprese. In questo scenario apocalittico vi è però lo spazio per una «grande decisione», per una «nuova strada»17 che conduca, attraverso l’annientamento del cristianesimo a una nuova epoca tragica in cui a dominare sarà infine l’ideale di un uomo «più tracotante, più pieno di vita e più affermatore del mondo»18 di quello cristiano, che avrà dietro di sé «la coscienza delle guerre durissime, ma assolutamente necessarie»19, senza però che questo fatto provochi sofferenza o rimorso dato che ci si sarà sbarazzati degli antichi valori cristiani, compassione compresa.

3. Cambiare il computo del tempo La Trasvalutazione di tutti i valori è quindi un avvenimento così importante che l’umanità tutta, almeno secondo le sue previsioni, ne subirà le conseguenze. Rovesciando le credenze che per millenni hanno funestato la storia e la coscienza umana, fiutando per la prima volta la menzogna in quanto menzogna e non in quanto verità, secondo Nietzsche si provocherà una crisi così profonda che si vivrà computando il tempo a partire proprio da questa fattura. È nell’ultimo paragrafo dell’Anticristo che emerge con maggiore chiarezza questa volontà di misurare il tempo a partire non dal dies nefastus – il «primo giorno del cristianesimo» – ma «dal suo ultimo giorno»20, quel 30 settembre 1888 in cui si realizza la

15 Lettera dei primi di dicembre 1888 all’imperatore Guglielmo II in Id., Epistolario, cit., p. 819. Cfr. Id., Ecce homo, cit., p. 375. 16 Id., Epistolario, cit., p. 819. Cfr. lettera dell’8 dicembre del 1888 a Helen Zimmern, Ivi, p. 827. Guerra che come ben evidenzia Ernst Nolte in Nietzsche e il nietzscheanesimo, Sansoni, Firenze 1991, p. 99 «non è affatto una ‘guerra spirituale’, come oggi cercano di far credere gli interpreti di Nietzsche». 17 F. Nietzsche, Epistolario, cit., p. 819. 18 Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 66. 19 Id., Ecce homo, cit., p. 322. 20 Id., L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo (1888), in Opere di Friedrich Nietzsche, 1968, Volume VI, Tomo III, p. 261. Parole censurate nella prima edizione dell’opera.

252 Nietzsche. Cristianesimo e palingenesi

Trasvalutazione di tutti i valori: come l’avvento del Cristo ha modificato il calcolo del calendario anche quella dell’Anticristo-Nietzsche dovrà farlo. «È possibile che cambi il computo del tempo» scrive in una lettera a Constantin Georg Naumann del 26 novembre 1888, «io Ti giuro che la forza di cambiare il computo del tempo»21 scrive, sempre il 26 novembre, all’amico Paul Deussen. E ancora: «cambieremo il computo del tempo, Glielo giuro»22, «io preparo un evento che con ogni verosimiglianza spaccherà in due la storia, al punto che avremo un nuovo computo del tempo: a partire dal 1888 come anno Uno»23. Dichiarazioni iperboliche al limite della follia in cui il filosofo sprofonderà nei primi giorni del Gennaio 1889, che testimoniano però la convinzione principale dell’ultimo Nietzsche: quella cioè di aver distrutto il cristianesimo e tutto ciò che è concresciuto con esso, dando inizio a una nuova epoca. È una vera e propria coscienza destinale quella che Nietzsche va maturando nell’ultimo periodo, accompagnata da un forte senso di responsabilità. È un compito, una «missione di carattere storico- universale»24, quella che Nietzsche si attribuisce, lui, il «primo uomo di tutti i millenni»25, autore dello Zarathustra, il «primo libro di tutti i millenni! in cui è racchiuso il destino dell’umanità!»26. Lo Zarathustra ma anche Ecce homo27 e il Crepuscolo degli idoli28 sono i libri con cui, secondo Nietzsche, si decide del destino dell’umanità gettando tutto il mondo in preda a convulsioni, necessarie affinché ci si possa liberare di quel morbo che per duemila anni ha infettato la storia: il cristianesimo. Un’euforia crescente spinge Nietzsche ad affermazioni che possono apparire smisurate ma che in realtà sono perfettamente coerenti con tutta la sua filosofia. Ich bin ein Verhängnis. Io sono un destino, una fatalità, scrive Nietzsche a Georg Brandes in una lettera datata 20 novembre 188829, mentre alla sorella scrive che il proprio nome «sarà

21 Id., Epistolario, cit., pp. 806-807. 22 Lettera dell’8 dicembre del 1888 a Helen Zimmern, Ivi, p. 827. 23 Lettera dei primi di dicembre del 1888 a Georg Brandes, Ivi, p. 815. 24 Lettera del 26 novembre 1888 a Paul Deussen, Ivi, p. 807. 25 Lettera dell’8 dicembre 1888 a Malwida von Meysenbug, Ivi, p. 825. Ma anche lettera del 18 novembre 1888 indirizzata a Ernst Wilhelm Fritzsch, Ivi, p. 792. 26 Lettera del 26 novembre 1888 a Constantin Georg Naumann, Ivi, p. 806. 27 Lettera dei primi di dicembre del 1888 all’imperatore Guglielmo, Ivi, p. 819. 28 Lettera dell’8 dicembre 1888 a Hippolyte Taine, Ivi, p. 826. 29 Ivi, p. 798. Anche Perché sono un destino, in F. Nietzsche, Ecce homo, p. 375.

253 Rinascite, rinascenze, rinascimenti legato a un indicibile destino30. Ancora: «Talora guardo la mia mano con una certa diffidenza, perché mi sembra di aver “in mano” il destino dell’umanità»31, «ho letteralmente in mano il futuro dell’umanità»32. Stringere nel pugno della mano il futuro dell’umanità non è però impresa facile neppure per Nietzsche, che a tal proposito scrive a Constantin Georg Naumann il 26 novembre 1888 di essere in «un momento in cui la mia vita si trova di fronte a un’immane decisione e sento gravare su di me una responsabilità per la quale non ci sono parole»33, un’espressione che si trova pressoché identica anche in Ecce homo34. Portare sulle spalle il destino dell’umanità, anche per chi si fa beffe dell’asino filosofico che perisce «sotto un peso che non può portare né gettare via»35, rimane «un compito immane»36, un qualcosa che «può quasi schiacciare»37. Certo, Nietzsche scrive di giocare baldanzoso «con un carico che schiaccerebbe qualsiasi mortale»38 e ammette che sino ad ora questo terribile divertimento è andato molto bene vista la sua capacità di far rotolare il peso assegnatogli dal destino come se fosse un unsterblicher Lastträger, un facchino immortale39. Eppure, è lui stesso a dire che la Trasvalutazione di tutti i valori è un interrogativo «così oscuro, così immane da gettar ombra su colui che lo pone» e «avere per destino un tale compito costringe a ogni istante a correre al sole, a scuotersi di dosso una serietà divenuta pesante, troppo pesante»40. Troppo pesante

30 Lettera di metà novembre 1888 alla sorella, in Id., Epistolario, cit., p. 788. 31 Lettera del 30 ottobre 1888 al fidato discepolo Heinrich Köselitz, Ivi, p. 777. 32 Lettera di metà novembre 1888 alla sorella, Ivi, p. 789. 33 Ivi, pp. 805-806. 34 Id., Ecce homo, cit., p. 374. Nietzsche parla addirittura di una «responsabilità per tutti i millenni dopo di me», Ivi, p. 306. 35 Id., Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello (1888), in Opere di Friedrich Nietzsche, Volume VI, Tomo III, p. 56. 36 Lettera del 10 dicembre 1888 a Ferdinand Avenarius in Id., Epistolario, cit., p. 831. 37 Id., Ecce homo, cit., p. 374. 38 Lettera di metà novembre 1888 alla sorella in Id., Epistolario, p. 789. 39 Lettera del 14 novembre 1888 a Meta von Salis, Ivi, p. 786. 40 Id., Crepuscolo degli idoli, p. 53. Cfr. Id., Frammenti Postumi 1887-1888, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1970, Volume VIII, tomo 2, frammento 11[25], p. 228 «Gli uomini che sono destini, che, portando se stessi, portano destini, tutta la specie di portatori di pesi eroici: oh, come volentieri si riposerebbero, una volta tanto, di se stessi! Come sono

254 Nietzsche. Cristianesimo e palingenesi anche forse per Nietzsche, che non riuscirà a «scuotersi di dosso» il proprio destino, impazzendo a Torino da lì a pochi mesi41.

4. Attentato al cristianesimo Un «attentato, senza il minimo riguardo, al crocefisso» che «termina con tuoni e folgori contro tutto quello che è cristiano o infetto dal cristianesimo, tanto da far perdere la vista e l’udito»42. Questo per Nietzsche significa la Trasvalutazione di tutti i valori, un avvenimento che fa tremare tutto ciò che esiste nella speranza che nulla di quanto è stato edificato nei duemila anni dell’«infezione cristiana»43 rimanga in piedi. Solo a partire da un «annientamento del cristianesimo»44 è dunque possibile per Nietzsche pensare un nuovo inizio, una rinascita. A tal fine è necessario però prima imbastire un processo, chiamare a giudizio – un «giudizio universale» – l’imputato, ossia il cristianesimo, e «pronunciare una sentenza di morte»45 già scritta. Tutto ciò deve essere compiuto in modo «totalmente sovrumano» dato che, come in ogni giudizio universale che si rispetti, non vi può essere «nulla di così minuto e nascosto» che «non possa esser visto e portato alla luce»46.

assetati di cuori e di schiene forti, per liberarsi almeno per qualche ora di ciò che li opprime!». 41 Anche un autore influenzato da Nietzsche come Julius Evola in Cavalcare la tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 2009, p. 58 riconosce che la forza di «recidere ogni vincolo, l’insofferenza per ogni limite, il moto puro e incoercibile del superare, senza uno scopo determinato, del portarsi sempre più avanti di là da qualsiasi stato dato, da qualsiasi esperienza e idea, e, naturalmente, ancora più, di là da ogni attaccamento umano ad una data persona, non temendo né le contraddizioni né le distruzioni, quindi il movimento puro con tutto ciò che esso comporta di dissolutivo», rimasta nel circuito chiuso dell’immanenza della vita, possa aver dato luogo «ad un voltaggio che questo circuito non poteva reggere» causando il «crollo finale dell’uomo Nietzsche». Anche Ernst Nolte in Nietzsche e il nietzscheanesimo, cit., p. 15 sostiene che, sebbene la malattia non possa derivare da condizioni esclusivamente psichiche, la durezza dello scontro tra fattori così contrastanti della storia europea possa essere «una concausa del crollo di Nietzsche». 42 Lettera a Georg Brandes datata 20 nov. 1888 in F. Nietzsche, Epistolario, cit., p. 797. 43 Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 61. 44 Id., Epistolario, cit., p. 797. 45 Lettera a Georg Brandes datata primi di dicembre 1888 in Id., Epistolario, cit., p. 816. 46 Ivi, pp. 816-817.

255 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Nietzsche è molto chiaro: ogni misfatto del cristianesimo, anche il più piccolo e trascurabile, deve essere giudicato. Così facendo, sarebbe finalmente possibile concludere quella «lotta contro la secolare oppressione cristiano-ecclesiastica», che pur avendo creato in Europa una «splendida tensione dello spirito come ancora non si era avuta sulla terra», è vissuta dall’uomo europeo come una condizione penosa che deve essere risolta. Nietzsche è convinto che questa «tensione dello spirito» che stritola l’uomo europeo possa essere sfruttata, proprio come la tensione di un arco, per mirare a «mete più lontane»47, al di là del bene e del male, al di là del cristianesimo e della sua morale. E a scoccare la freccia vuole essere lui stesso.

5. La grande sciagura del cristianesimo Sentendosi «chiamato alla redenzione del mondo»48, Nietzsche sferra tra il 1886 e il 1888 l’attacco decisivo alla «funesta fatalità»49 che il cristianesimo è stato per l’umanità. Le invettive si susseguono con ritmo sempre più precipitoso e con veemenza crescente: ad essere sotto accusa sono principalmente il cristiano, il «tipo d’uomo che fino ad oggi è stato ritenuto il più alto»50, e la sua religione, l’«unica grande maledizione, l’unica grande e più intima depravazione, l’unico grande istinto della vendetta [...] l’unica immortale macchia d’infamia dell’umanità»51. Per Nietzsche è fondamentale comprendere perché il cristiano, colui che è «malato, meschino, incattivito contro se stesso, pieno di odio verso gli impulsi alla vita, pieno di sospetto per tutto quanto fosse ancor forte e felice»52, ricorrendo a qualsiasi mezzo che sia furtivo e sotterraneo – la morale in primis – abbia cercato di contagiare lo spirito di chi per valore personale lo sopravanza. Egli infatti, più «assurdo, più bugiardo, più vanitoso, più sconsiderato, più dannoso a se stesso di quanto il maggior dispregiatore dell’umanità avrebbe

47 Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 4. 48 M. Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, Milano 1989, p. 56. 49 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 156. 50 Id., Ecce homo, cit., p. 377. 51 Id., L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo (1888), in Opere di Friedrich Nietzsche, Volume VI, Tomo III, pp. 260-261. 52 Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 95.

256 Nietzsche. Cristianesimo e palingenesi mai potuto sognare»53 non si accontenta di farsi male: ha bisogno di infettare con il proprio veleno, reso ancora più mortale dal fatto che si vuol far passare come medicina, gli altri – i ben riusciti, i forti, i signori. A che pro tutto questo? Perché condurre una strenua lotta contro tutto ciò che vi è di nobile, di lieto, di riuscito su questa terra? Per sfuggire alla legge naturale della selezione – che è «essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole»54. Se non si vuole essere schiacciati è necessario che i condannati dalla vita – i cristiani – attraverso la morale della compassione, del rispetto, dell’uguaglianza degli uomini davanti a Dio, rendano innocuo l’uomo superiore, trasformandolo in un loro simile, in un loro fratello. Disprezzo del corpo, avvelenamento dello spirito, odio contro la terra e il terrestre, degradazione e denigrazione dell’uomo fiero e compiuto, in una sola parola negazione della vita superiore, sono le armi con cui l’intera «feccia e schiuma dell’umanità»55, un «residuo di tarati, di malati, di degenerati, di esseri difettosi, di necessari sofferenti»56 ha reso sospetta «la felicità nella bellezza, spezzare ogni forma di autodominio, di virilità, di spirito di conquista, di bramosia di potere, ogni istinto proprio del tipo ‘uomo’ più elevato e meglio riuscito»57.

6. Un sublime aborto Il frutto di questo piano diabolico è stato un «deterioramento della razza europea», la riduzione di quest’ultima a «un sublime aborto»58. Diciotto secoli di dominio ecclesiastico secondo Nietzsche hanno trasformato l’uomo europeo, l’erede dell’Imperium romanum – la «più grandiosa forma d’organizzazione [...] che sia mai stata raggiunta fino a

53 Id., Ecce homo, cit., p. 382. 54 Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 197. 55 Id., L’Anticristo, cit., p. 170. Il corpo rappresenta «uno dei fulcri attorno a cui ruotano le polemiche nei confronti del cristianesimo, considerato da Nietzsche una delle massime espressioni della civiltà contro il corpo» in P. Scolari, Nietzsche. Tracce Morali, Mimesis Edizioni, Milano 2018, p. 26. 56 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, p. 73. 57 Ivi, pp. 74-75. 58 Ivi., p. 75.

257 Rinascite, rinascenze, rinascimenti oggi»59 – in un malaticcio e mediocre animale da gregge. Abbassando il tipo d’uomo superiore al gradino più infimo e innalzando il malriuscito al più alto, il cristianesimo ha abolito ogni distanza fra uomo e uomo, il presupposto «di ogni elevazione, di ogni sviluppo della cultura»60. Proprio di ogni epoca forte è invece «il baratro tra uomo e uomo, tra classe e classe»61, che spinge i tipi superiori a risaltare, a voler primeggiare su tutti gli altri. Senza una forza organizzatrice, che separi i forti dai deboli, i signori dagli schiavi e che subordini i secondi ai primi, non è infatti possibile che si crei «quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, l’elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste» che provoca l’«autosuperamento dell’uomo»62. A partire dalla premessa che nessuna società possa esistere che come «infrastruttura e impalcatura» su cui una specie di individui prescelti deve «innalzarsi al suo compito superiore e soprattutto a un essere superiore»63 è ovvio che Nietzsche critichi aspramente il cristianesimo, per lui colpevole di propugnare quell’uguaglianza di tutte le anime davanti a Dio che, trasformata con la rivoluzione francese nella retorica dei diritti dell’uomo, finisce per diventare «principio di decadenza dell’intero ordine sociale»64. Trasvalutazione dei valori significa dunque liberarsi il più in fretta possibile da quest’idea malsana e tornare a una società dove la casta dominante consideri gli altri sudditi e strumenti, che creda «in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo»65, e che con tranquilla coscienza accolga «il sacrificio di

59 Id., L’Anticristo, cit., p. 252. 60 Ivi, p. 221. 61 Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 136. 62 Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 195. 63 Ivi, p. 196. 64 Ivi, p. 260. Rivoluzione francese, il femminismo, la democrazia, il socialismo, l’anarchia non sono che diverse maschere dietro cui si cela sempre la medesima «ostilità dei plebei per tutto quanto è privilegiato e sovrano» (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 30). 65 Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 195. Che Nietzsche volesse essere l’ideologo «di un nuovo blocco sociale, un’aristocrazia guerriera che abbia il coraggio di proclamare apertamente la necessità di ‘una nuova schiavitù» e quanto sostiene Domenico Losurdo, citato in M. Ferrari Zumbini, Nietzsche: storia di un processo politico. Dal nazismo alla globalizzazione, Rubbettino Editore, Catanzaro 2011, p. 27.

258 Nietzsche. Cristianesimo e palingenesi innumerevoli esseri umani che per amor suo devono essere spinti in basso e diminuiti fino a divenire uomini incompleti, schiavi, strumenti»66.

7. Sacrificio Nietzsche per primo capisce che il discrimine tra la cultura cristiana e tutte le altre è l’attenzione che la prima tributa agli emarginati, i fanciulli, le donne, gli individui minorati, i prigionieri, i rifiuti della società su cui normalmente le comunità scaricano la loro aggressività. Anziché entusiasmarsi per il progetto di un mondo senza vittime, invece di mettersi al suo servizio, Nietzsche, benché malato, vi oppone «il rifiuto più assoluto, più isterico»67, fustigando la protezione dei deboli. Se il cristianesimo, con il suo assurdo rispetto per la persona umana, ha indebolito «la forza di sacrificare uomini»68, diventa obbligatorio allora restaurare l’andamento naturale dello sviluppo della specie, che prevede lo sfruttamento e la morte di tutto quanto è debole e malriuscito. Ben venga dunque una cultura che, ispirandosi ai grandi modelli del passato precristiano – l’Impero Romano, la Grecia classica, l’India vedica – sia disposta, per la crescita e il benessere di un gruppo ristretto di uomini forti, a ricorrere alle peggiori forme di violenza contro i deboli. Specularmente all’addomesticamento con cui la Chiesa ha ridotto l’europeo a «un sublime aborto» si dovrà esercitare nel futuro immediato, secondo i piani di Nietzsche, un’azione di allevamento dell’uomo che,

66 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 196. Nietzsche, come nota acutamente Julius Evola, che aveva voluto restituire al divenire la sua innocenza liberandolo da ogni finalismo e da ogni intenzionalità «finisce lui stesso in una concezione finalistica quando, per dare un senso all’umanità attuale, prospetta come un fine, a cui essa deve consacrarsi e per il quale deve sacrificarsi e perire, l’ipotetico uomo futuro in veste di superuomo» in J. Evola in Cavalcare la tigre, cit., p. 49. Su Nietzsche e le logiche sacrificali P. Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano, Mimesis Edizioni, 2013, pp. 151-159. 67 R. Girard, Nietzsche, la decostruzione, e la moderna preoccupazione per le vittime, versione modificata di Nietzsche, Deconstruction, and the Modern Concern for Victims, conferenza tenuta all’Università di Stanford (California) il 14 aprile 1996, in R. Girard – G. Fornari, Il caso Nietzsche. La ribellione fallita dell’Anticristo, Marietti Editore, Bologna 2002, p. 109. 68 F. Nietzsche, Frammenti Postumi 1888-1889, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., Volume VIII, tomo 3, frammento 14[5], p. 10.

259 Rinascite, rinascenze, rinascimenti attraverso una rigida divisione castale, il ristabilimento di un’«autorità sovrana e arcaica»69, e soprattutto il sacrificio di molti, faccia rivivere dopo duemila anni di oblio tutti quei valori che il cristianesimo ha combattuto, come «la nobiltà dell’istinto, il gusto, l’indagine metodica, il genio dell’organizzazione e dell’amministrazione, la fede, la volontà dell’avvenire umano, il grande sì a tutte le cose»70. A ragione, Lucio Colletti scrive che nella grecità – ma anche nel lontano oriente, si dovrebbe aggiungere – Nietzsche cerca non soltanto quello che meno si può conciliare con la visione cristiana del mondo e la sua mortificazione dell’uomo, ma anche ciò che può «far da leva per scalzare quel mondo alle radici e dalle fondamenta»71. Una weltanschauung che disconosca la preoccupazione per le vittime è ciò che serve da modello per cercare di dare vita a un nuovo tipo d’uomo, per dare inizio a una nuova epoca della storia.

8. Conclusione Una palingenesi, un rinnovamento, un nuovo inizio che però si tinge di tinte malinconiche e nostalgiche per strutture gerarchico-sacrificali di un lontano passato, che assicuravano sì l’esistenza di un tipo superiore d’uomo, ma a prezzo di immani e ingiusti sacrifici. L’unica risposta al dilemma posto dal destino dell’umanità sembra essere per Nietzsche il proiettare antiche meccaniche sacrificali nel futuro, in modo che quest’ultimo prenda la forma di un rassicurante «ritorno all’origine»72. Un’origine segnata dal dominio dell’uomo sull’uomo, del signore sul dominato, del forte sul debole, perché, come scrive Nietzsche in una lettera a Georg Brandes dei primi di dicembre del 1888, una volta che si è sbarazzati del cristianesimo «rimane una gerarchia solo tra uomo e uomo», una «scala gerarchica estremamente lunga»73. Trasvalutazione di tutti i valori!

69 M. Ferraris, Spettri di Nietzsche, Guanda, Milano 2014, p. 123. 70 F. Nietzsche, L’Anticristo, cit., p. 255. 71 L. Colletti, Prefazione a Ernst Nolte in Nietzsche e il nietzscheanesimo, p. X. 72 M. Ferraris, Spettri di Nietzsche, cit., p. 117. 73 F. Nietzsche, Epistolario, cit., p. 817. Che espressioni del genere non possano essere ridotte a semplici metafore è il parere di Massimo Ferrari Zumbini che in Nietzsche: storia di un processo politico. Dal nazismo alla globalizzazione, p. 257 definisce Nietzsche come un filosofo «un autore antiegalitario e anti-democratico nel significato più radicale».

260 Corruzione. Cultura. Rinascita

1 FRANCO RIVA

Facing the global phenomenon of corruption, the reason for culture as a privileged antidote is being spent even too soon. But what can this mean? That culture is immune from corruption? That it cannot be corrupted? That can only be corrupted by outside pressure, extrinsic interests, constraints and so on? That culture does not generate any premise of corruption of its own? That it is always innocent, never ‘partner in crime’ and never cause of widespread corruption? It’s not quite the same thing. It’s not even that simple. Culture is involved in corruption from different points of view: because it has always represented itself and its seasons in terms of corruption and rebirth; because it elaborates schemes unsuitable to say it and think corruption along the lines of the biological clichés of ‘fi rst intact and then corrupt’; because it twists the relationship with the truth into possession and identity; because it confuses integrity with fundamentalism, which is the myth of itself and some of its historical forms; because it unloads corruption outside itself as if it was not; because it loses in liberty and honesty when he is ensnared for extrinsic, instrumental and power purposes; because in the name of truth it justifi es complicities, cunnings, opportunisms. There are corrupted cultures and morals, «truths that lie and “lies that tell the truth”» (Jacques Maritain). Slogan-Culture prêt-à-porter: intact/corrupt, before/after, Enlightenments/ dark centuries, Renaissance/barbarism, us/others.

Non si tratta di decidere onticamente se l’uomo sia “sprofondato” nel peccato, se si trovi nello status corruptionis, se proceda nello status integritatis, o se viva in uno stato intermedio, lo status gratiae. Martin Heidegger, Essere e Tempo La fi ne di un mondo, anche se è di proporzioni veramente universali non è la fi ne del mondo. Jacques Maritain, Umanesimo integrale

1 Università Cattolica del Sacro Cuore.

261 Rinascite, rinascenze, rinascimenti 1. Cultura contro corruzione? Di fronte al fenomeno globale della corruzione si spende anche troppo presto il motivo della cultura quale antidoto privilegiato per combatterla. Ma questo cosa può mai significare? Che la cultura è immune dalla corruzione? Che non si lascia corrompere? Che può corrompersi solo per spinte da fuori, interessi estrinseci, coercizioni e quant’altro? Che la cultura non genera di suo nessuna premessa di corruzione? Che è sempre innocente, mai complice e mai causa del suo stesso corrompersi? Non si tratta proprio della stessa cosa. D’altra parte, niente come la cultura fa letteralmente esplodere la tensione integro/corrotto. Niente come la cultura traffica con le idee d’integrità e corruzione. Niente come la cultura giudica se stessa e le sue stagioni negli stessi termini di integro/corrotto tra albe e tramonti, origini e decadenze, luci e tenebre, progressi e regressi, civiltà e barbarie. Basterebbe questo, se non altro, per testimoniare la possibilità di culture più o meno integre, più o meno corrotte. Senza ricorrere, cioè, ai sospetti feroci di Rousseau – e non è certo l’unico – in risposta al famoso quesito, rispetto a presunte virtù naturali e originarie dell’uomo: «il rinascimento delle lettere e delle arti ha contribuito alla purificazione o alla corruzione dei costumi»?2 Dove balza all’occhio che a essere trascinata nella tensione integro/corrotto è nientemeno che un’icona esemplare di cultura, tradita con la parola simbolo «rinascimento». Il che è tutto dire. In effetti, nelle immagini che la cultura elabora di se stessa si possono scorgere segni di corruzione pronti a diventare poi macroscopici quando s’incarnano in vissuti collettivi ormai dimentichi di reggersi in fondo su contrasti schematici d’integro/corrotto, spesso legati per di più all’ossessione per l’impuro, il «nemico», il pericolo. La propaganda accecante di culture e politiche nazionaliste ad esempio elabora strada facendo, per Bernard Waldenfels, un vero e proprio catalogo di polarità concettuali contrapposte e ispirate all’odio3. Vi si riconosce senza difficoltà la tensione in generale tra cultura e corruzione, tradotta in spaccature irreparabili che si rincorrono senza tregua e senza molte

2 Cfr. J.J. Rousseau, Discorso su il rinascimento delle scienze e delle arti, in Opere, Firenze 1989, 3. 3 Cfr. B. Waldenfels, Pensare l’estraneo, in «Iride», a. XXIII, n. 61, Bologna 2010, 539; cfr. Id., Fremdheit, Gastfreundlichkeit und Feindschaft, «Links», V-2005, 31-40.

262 Corruzione. Cultura. Rinascita ragioni all’insegna di un tutto bene o tutto male: ragione/violenza, civilizzati/barbari, acculturati/selvaggi, cittadini/stranieri, legge/senza- legge, fedeli/infedeli, credenti/miscredenti.

2. Clichés biologici Ma, di nuovo, in riferimento a che cosa? Come va intesa per la cultura la coppia integro/corrotto? Seguendo schematismi biologistici del passaggio in natura inevitabile tra sano e malato, giovane e vecchio, fresco e avariato, sulla scia della coppia «generazione e corruzione»?4 O piuttosto inseguendo schemi mitici e culturali di età dell’oro e di età corrotte dell’umanità, felici e infelici, fortunate e rovinate che viaggiano a ricalco fin troppo facile, ma passato sotto silenzio, dello stesso cliché biologistico? Schematismi invero, gli uni e gli altri, abusati da tempo per indurre pensieri mitici e religiosi di qualche irrimediabile «paradise lost» alla John Milton5, di verginità macchiate, di mondi felici e sepolti. Va da sé che il rapporto tra cultura e corruzione è più articolato e complesso, sottile e intimo, di quanto non sembri nelle battute alla mano sulla cultura come antidoto generico alla corruzione, come di un portentoso e utopico farmaco polivalente. Senza neppure rendersi conto che proprio lo sfruttamento a oltranza di slogan e retoriche sulla corruzione ricalcati con enfasi su clichés biologistici, e applicati con indifferenza al mondo umano, rivelano qualcosa di corrotto in quella stessa cultura che si esibisce, impaludata, quale panacea contro la corruzione. Senza nemmeno intuire che la corruzione può prendere in contropiede la cultura nello stesso momento in cui se ne interessa e cerca di pensarla. Né tanto meno che la corruzione possa erodere quasi in anticipo la cultura infiltrandosi nelle sue logiche e nelle sue parole. Logiche e parole, in definitiva, dettate dalla corruzione applicando al mondo umano, libero e storico, clichés biologistici di un corrompersi inevitabile di qualcosa che sarebbe prima solo integro e dopo solo corrotto. Mondo umano dove le possibilità contrarie prendono significato l’una accanto all’altra, dandosi sempre in contemporanea. Mondo umano, perciò, dove l’integro non precede il corrotto, il corrotto non segue l’integro. Per il semplice fatto che si sceglie volta a volta

4 Aristotele, Generazione e corruzione, Torino 1968, 16 ss. 5 Cfr. J. Milton, Paradiso perduto, Milano 2016.

263 Rinascite, rinascenze, rinascimenti di farsi integri o corrotti senza che la possibilità contraria scompaia del tutto, scippata all’indietro in mitici paradisi d’innocenze perdute o gettata in avanti dentro storie irrecuperabili e sataniche di corruzioni apocalittiche. Mondo paradossale, dove per essere integri non basta astenersi dalla corruzione. Come evitare di compiere un’azione disonesta non è sufficiente per avere delle persone oneste, dato che si può farlo semplicemente per il timore di venire scoperti e subire il castigo6, così astenersi dal compiere un atto di corruzione non rende per forza di cose le persone integre. Vera e propria pietra d’inciampo per i codici etici in crescita dedicati, in tutto o in parte, alla corruzione. Nella loro impostazione repressiva e irritata mirano a contenere il reato, a impedire di corrompersi, senza rimuoverne tutte le premesse. Fatto salvo appellarsi prima o poi, data la persistenza del fenomeno, a virtù infine eroiche e personali d’integrità. Pur fondamentale, contrastare il reato non esaurisce lo spettro delle possibilità di agire in alternativa alla corruzione, di farsi integri7. Improbabili per il mondo degli uomini, i clichés biologistici di un prima integro e di un dopo corrotto risultano a maggior ragione inapplicabili per la cultura; e si traducono presto in mappature estrinseche e discriminatorie di civiltà a partire da un identificarsi previo quale cultura incorrotta e incorruttibile che palesa, proprio per questo, la sua corruzione. Se c’è qualcosa d’incorrotto, sarà casomai la verità.

3. Wanted: una cultura corrotta Nel costruire se stessa ogni cultura porta con sé la tensione a essere integra o corrotta. Senza però che neppure per la cultura tutto sia salvo a priori, tutto perso in anticipo. C’è anche una cultura corrotta, una cultura che corrompe; e non solo per cause o spinte esterne. Ma quali le tracce, quali i segnali di una cultura corrotta nel suo essere cultura? A mo’ d’indice trasversale, ecco un cartello di Wanted con l’identikit d’una cultura corrotta nel suo essere e nel suo costruirsi in quanto cultura in rapporto a una verità. Espulsione preventiva della

6 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, Milano 1993, 85-87, 161. 7 Cfr. F. Riva, Corruzione, Roma 2018, cap. 1 (La libertà di dire di no) e cap. 3 (Pensieri corrotti).

264 Corruzione. Cultura. Rinascita corruzione sia da sé (ritenendosi immune), sia trovando capri espiatori (scaricare su altri). Nostalgia per stati mitici (senza corruzione) o storici (civiltà perfette) d’integrità idealizzata, dove dietro al mito si nasconde una storia e nella storia un mito. Mitologismi: anche se il mito è cultura, la cultura non può essere mitica nel suo proporsi e costruirsi in quanto cultura. Perché non c’è nessuna coincidenza tra cultura e verità: né sul lato della verità che in ogni caso trascende le stesse forme culturali che pure l’esprimono, né su quello delle culture che pure tendono alla verità. Culture senz’ombra di corruzione, come corruzioni senza nessuna cultura, sono dunque delle imposture. Integralismo: ossia l’integrità di una cultura che si corrompe sacralizzando se stessa in forme univoche date una volta per tutte rispetto un certo ideale, e mai a rischio di corruzione. Quintessenza stessa di corruzione. Relativismo e opportunismo storico-culturali perfetti, che mascherano di assoluto la loro misera contingenza. Ipocrisia essenziale, perché il rapporto con la verità è corrotto in possesso, primato, appartenenza; e così alla verità si mescola la menzogna, come alla menzogna la verità, impedendo di distinguerle l’una dall’altra. Malafede di esibire retoricamente cultura, di mettersi a recitare la parte della cultura contro la corruzione. Come il cameriere, il sarto, il droghiere di Jean-Paul Sartre che recitano e danzano con agilità il mestiere che già fanno, che già sono, con un’affettazione, una cerimoniosità e una simulazione insopportabili. Come non fossero altro che quello che sono, del tutto a servizio del cliente, nello stesso e piatto senso con cui si dice che «questo calamaio è calamaio, o il bicchiere è bicchiere». Quando invece nessuno si può «imprigionare» immediatamente e fino in fondo in ciò che è. Come fosse garantito per sempre in quella parte o quel ruolo, senza sceglierlo, spendervisi dentro, tentare di «giocare a esserlo», di farlo esistere. In malafede8. A maggior ragione per la cultura, quando mette in scena e recita la sua parte di cultura contro la corruzione. Cultura e corruzione. Corruzione e cultura. Situazioni estreme di culture in regimi d’eccezione o totalitari. Situazioni normali di culture in regimi ordinari. Situazioni di culture corrotte.

8 Cfr. J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Milano 1975, 100-102.

265 Rinascite, rinascenze, rinascimenti 4. Archetipi e storie Corruzione e cultura. Stati d’integrità/stati di corruzione. Schemi del prima e del dopo. Archetipi e storie. Mito e cultura. Riferendosi ai modi della caduta esistenziale nell’inautentico, alla deiezione, Martin Heidegger fa presente senza mezzi termini che «non si tratta di decidere se l’uomo sia “sprofondato” nel peccato, se si trovi nello status corruptionis, se proceda nello status integritatis, o se viva in uno stato intermedio, lo status gratiae»9. Quanto piuttosto di riflettere sulla possibilità sempre latente di rinnegare se stessi inabissandosi in forme di esistenza subumana. Da questo punto di vista, serve a poco cercare d’indicare con certezza lo stato preciso in cui ci si troverebbe di volta in volta, se corrotti, integri, o a mezza strada. Proprio perché nella scelta o nella rinuncia a diventare finalmente responsabili di se stessi, integro e corrotto smettono il rapporto prefissato del prima e del dopo, della grazia e del peccato (o viceversa), per scoprirsi casomai dei gemelli inseparabili. Per contro, anche Mircea Eliade denuncia che «la validità delle soluzioni “storicistiche”, da Hegel a Marx all’esistenzialismo, si trova implicitamente messa in discussione» dall’interno nello stesso momento in cui si parla vieppiù d’inesorabilità del divenire, di «necessità storica», di «amor fati», di «destino» e di altri pericolosi controsensi del genere dal sapore più che mitico. Fino al tante volte sperimentato «terrore» della storia che attanaglia l’uomo contemporaneo, al punto da doversi quasi rallegrare per l’improvvisa ripresa del «mito dell’eterna ripetizione», «abolizione del tempo» compresa10. Il che è tutto dire. Cosa che scompagina non poco, per Eliade, il «conflitto» scontato e a priori «delle due concezioni: la concezione arcaica, che chiameremo archetipica e anistorica, e la moderna, posthegeliana, che si vuole storica»11. Tra le alternative a disposizione per pensare il tempo e la successione delle «epoche» dunque, quella archetipica di tempi ciclici dove tutto ritorna inesorabile e quella storica di un tempo lineare che progredisce di prima in dopo senza apparenti ritorni, non si sa in definitiva quale prevalga, cosa preferire, visto che si ritrovano tanto più incastrate l’una all’altra quanto più credono invece di districarsi. In effetti, l’intreccio

9 M. Heidegger, Essere e Tempo, trad. it. a cura di F. Volpi, Milano 2005, 162. 10 M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Roma 1999, 143, 145-148. 11 Ivi, 137.

266 Corruzione. Cultura. Rinascita tra storia e mito è talmente forte da travolgere entrambi: l’oceano della storia in cui galleggiano come montagne gli iceberg del mito; e le montagne sacre del mito percorse da sentieri inequivocabili di storie. Ancor più non appena sembra di essersi messi al riparo da una parte o dall’altra, nei templi laici (talora) della storia o in quelli sacri (ma non solo) del mito. Stato d’integrità/stato di corruzione. Archetipi/storie. Pur con intenti diversi, sia Heidegger che Eliade mettono in guardia dal procedere per contrapposizioni nette tutte da verificare, dal fissarsi su certezze presunte e assodate. Dall’utilizzo, cioè, di schemi interpretativi del prima integro e del dopo corrotto che non reggono fino in fondo; e che si rilevano troppo mitici quando stanno sul lato della storia, ben storici sul lato opposto del mito. Ma ancora, troppo integri nello stato di corruzione e troppo corrotti nello stato d’integrità. Schemi interpretativi, ossia: una cultura già investita dallo choc dello schema inadeguato di prima integro e dopo corrotto, che si sforza e insiste nell’applicare come niente fosse.

5. La corruzione ci pensa Storie che diventano mitiche, miti che si scoprono storici. Integrità più corrotte della corruzione, corruzioni più integre dell’integrità. Quale il problema? Che gli schemi scontati sfalsano, che i conflitti aprioristici non tengono. Che la cultura è subito chiamata in causa mentre pensa integro e corrotto. Che la cultura stessa può essere integra, può essere corrotta. Ma non prima integra e dopo corrotta, mitica e poi storica. Corrotta, piuttosto, nello stesso momento in cui si crede integra, integra può darsi nello stesso istante in cui si ritiene corrotta – e forse proprio per questo. Ma soprattutto, corrotta e integra mentre sta pensando a integrità e corruzione proprio come se non la riguardassero, come le avesse davanti a sé alla stregua di mille altri argomenti possibili di discorso e di studio che non la toccano dal di dentro e nel suo stesso essere e operare in quanto cultura. Quanto ingenuo e semplicistico, da questo punto di vista, appare il luogo quasi comune della cultura – e senza altre specifiche – quale mezzo privilegiato di contrasto alla corruzione. Come se la cultura ne fosse esente. Come se non potesse corrompersi proprio nel suo essere cultura, e non solo perché coinvolta suo malgrado in qualche malaugurato status corruptionis, comunque poi si chiami questo

267 Rinascite, rinascenze, rinascimenti in dettaglio, se decadenza, rovina, barbarie, tenebre con tutti i loro contrari. Come se il corrompersi della cultura fosse questione di tanto quanto, di evidenza o meno. Come fosse sempre colpa di altro, degli altri. Come se... Siccome non si tratta d’indicare improbabili stati definitivi nella tensione integro/corrotto, mito/storia12, vale anche per la cultura quanto dice Jean Baudrillard circa il male che ci pensa in anticipo e c’impone i suoi di pensieri nello stesso istante in cui si crede di pensarlo, più intelligente lui – il male – delle nostre stesse intelligenze. Anche per la cultura, dunque, vale che la corruzione è già implicata «automaticamente in ciascuno dei nostri atti»13. Anzi, tanto più per la corruzione che è male nel male, menzogna nella menzogna, inganno nell’inganno, peccato nel peccato. Più ancora del male, la corruzione rafforza il dubbio se non sia lei a comprenderci mentre cerchiamo di comprenderla, a pensarci mentre cerchiamo di pensarla, più intelligente di ogni intelligenza che si crede intelligente – fino a parlare nelle nostre parole e a pensare nei nostri pensieri.

6. Corruzione dentro Come il male, la corruzione ci pensa mentre la pensiamo. Nessun segnale sarà più eloquente della difficoltà, dell’impossibilità quasi, di sentire e di vedere la corruzione già in atto nella cultura mentre questa tenta di pensarla e di affrontarla. Nessun segnale più drammatico del vicolo cieco in cui si mette la cultura quando si ritiene al sicuro e si propone anzi come antidoto per eccellenza alla corruzione nello stesso momento in cui le ha già concesso tutto quanto si può concederle, lessico, logica e significati. Dallo schema scontato di prima integro e dopo corrotto fino a una serie di ambivalenze non da poco che tirano acqua al mulino della corruzione, giudicandola e giustificandola a turno in modi contrapposti, come fisiologica e storica, assoluta e relativa, nociva e utile, scongiurata e benvenuta. Nessun segnale più

12 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., 162 ss. 13 J. Baudrillard, Il Patto di lucidità o l’intelligenza del male, Milano 2006, 15, 135; cfr. F. Riva, La domanda di Caino. Male. Perdono. Fraternità, Roma 2016; Id., Corruzione, cit., cap. 3, 83 ss.

268 Corruzione. Cultura. Rinascita pericoloso di una cultura che tende a mitizzare se stessa fosse pure per contrastare il fuoco della corruzione, soffiandovi tuttavia sopra. Per corruzione e cultura succede così, ora lontane per forza di cose mille miglia da mondi archetipici, da miti di età dell’oro e di luoghi paradisiaci incontaminati, di status integritatis e ancestrali quali che siano, ora a subirne il fascino tornando la cultura stessa a farsi mitica e sacrale nell’eterno ritorno di decadenze e rinascite sempre incerte sui tempi e sui luoghi, se proiettati in avanti verso esiti escatologici e palingenetici di consumo finale della storia o all’indietro verso archetipi mitici prima di ogni storia. A maggior ragione quando corruzione e cultura si guardano in faccia, vuoi perché accompagnate nella crisi tra sconforti e speranze, vuoi perché dissociate nei mitemi contrapposti di culture senza corruzione e di corruzioni senza culture. Perfino qui, nella spaccatura, la corruzione penetra la cultura e la cultura sperimenta la corruzione come fanno le decadenze con le rinascite e le rinascite con le decadenze. Fatto è che la possibilità di corrompersi (come di rigenerarsi) è intrinseca alla cultura. Nessuna illusione, nessuna ingenuità in proposito. La corruzione è infatti «presente come possibilità fin dall’inizio in ciò che chiamiamo “opera dell’uomo”, “dominio della natura”, “cultura” nel senso più ampio»14. Romano Guardini ha ragione mentre riflette sull’esperienza tragica dell’associazione di studenti universitari la Rosa Bianca nella Germania nazista; ed è solo un caso, eclatante, fra i molti. Perché una cultura si corrompe nello stesso momento in cui s’incrina il suo rapporto con la verità, poco importano i motivi e le spinte contingenti. Se l’uomo non è libero nei confronti della verità. Se prevalgono per la cultura interessi, fini estrinseci, coazioni, esigenze e imposizioni di apparato. La cultura si rigenera invece quando l’uomo torna libero nella sua ricerca, cadono sottomissioni estrinseche e strumentali, e l’annuncio stesso della verità che non si possiede, che è un rapporto sempre testimoniale, non si confonde più con il protagonismo corrotto e idolatrico di sé, singoli o comunità che siano, in quanto voce e portatori di verità. Perché si testimonia verità solo dicendo «eccomi» e non «io», decentrandosi e non rubando la scena, dialogando e non imponendo, responsabili anziché complici15.

14 R. Guardini, La Rosa Bianca, Brescia 1994 (1958, IV), 55; cfr. 52 ss. 15 Cfr. E. Lévinas, Etica e Infinito, Roma 2018, 101-102.

269 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Fuori dubbio che il rapporto con la verità porta l’assoluto «qui e ora», nella cultura, luogo e tempo in cui viene annunciato, in un’«interiorità» quindi inaudita e impensabile16. Non di meno, e d’immediato rimbalzo, il testimone – la cultura stessa – è allontanato da sé e condotto lontano, verso la verità che lo trascende al punto da esigerne la messa a nudo, da pretendere, si può dire, un’autentica e ascetica «spoliazione» di sé in sua presenza17. Nel rapporto con la verità difatti «il sé non si ricopre mediante sé, qui non c’è riparo né schermo»18.

7. Illuminismi. Umanesimi. Rinascimenti Nella cultura che si ricopre di sé, che si autoesalta come fonte di luce che irradia tutt’intorno, che prende le distanze dalle tenebre dei miti solo per mitizzare di rimbalzo se stessa, sta la sua corruzione, la radice totalitaria di ogni totalitarismo. Dramma di ogni illuminismo, che può rivelarsi presto una logica del dominio al servizio del potere e della sopraffazione su altri uomini, dato che «l’oscuro orizzonte del mito è rischiarato dal sole della ratio calcolante, ai cui gelidi raggi matura la messe della nuova barbarie»19. E bugia di ogni umanesimo che si sostituisce alla verità esaltando se stesso in proclami universali di diritti umani subito sfruttati per giustificare l’aggressione e il predominio. Per Sartre siamo oramai di fronte a uno «spettacolo inaspettato: lo streap-tease del nostro umanesimo», che si rivela «un’ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio», al punto che essere un «uomo da noi vuol dire essere un complice» o poco più20. C’è pure una tragedia dell’umanesimo nel fare della libertà un «movimento assolutamente primario» e autoreferenziale21, un creare se stessi ex novo e dal nulla, una ruota che gira da sola. Nel porsi quale punto di riferimento e di controllo sul mondo e sugli altri. C’è perfino

16 Cfr. P. Ricoeur, Testimonianza, parola e rivelazione, Bologna 1997, 54; E. Lévinas, Altrimenti che essere, o al di là dell’essenza, Milano 2006, 187; F. Riva, La collana spezzata. Comunità e testimonianza, Assisi 2011, 19-36. 17 Cfr. J. Nabert, Le désir de Dieu, Préface P. Ricoeur, Paris 1966, 265 ss. 18 Cfr. E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, Milano 1996, 266 ss. 19 Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino 20104, Parte I. 20 J.P. Sartre, in F. Fanon, I dannati della terra, Torino 1966, XXI. 21 Cfr. J. Maritain, Umanesimo integrale, Roma 2009, 65 ss., 80 ss.

270 Corruzione. Cultura. Rinascita un rinascimento di corruzione22, un punto critico delle scienze e delle filosofie come crisi di senso di un modo inumano di essere uomini nel fare cultura, per dirla con Husserl, ormai allontanato dalla realtà della vita, dai suoi problemi e dalle sue domande, dalla capacità di cogliere la crisi esattamente come crisi di senso, da rinnovamento e speranza, da persona e comunità, dal «tornare alle cose stesse». Perfino Galilei, da questo punto di vista, è un «genio che scopre e insieme occulta»23.

8. Rosa bianca A ben vedere, nella vicenda già richiamata della Rosa Bianca è con armi culturali che gli studenti universitari sono stati condannati a morte nella Germania nazista, con governi eletti, con strumenti legali, con tribunali formalmente legittimi, con università perfettamente funzionanti, come niente fosse, nella ricerca e nell’insegnamento, con professori che, nel dovere della propria professione, potevano perfino scegliere quale profilo di solidarietà esprimere con la nazione in guerra, se per via di una prudente ma non di meno complice distinzione o di una più diretta ed esplicita adesione. Non fosse che si viveva allora in «un’epoca di oppressione», di «profonda oscuri tà, quando sembrava non aver più valore né il diritto, né la verità, né la libertà»24. In una specie cioè d’impero della corruzione, nell’assoluto del male per nulla estraneo e indifferente alla cultura: a quella corrotta direttamente come a quella che riteneva di potersi costruire a lato nella sua isola sapiente e felice. Per questo bisogna fare attenzione, perché la cultura non si corrompe solo dal di fuori come fosse costretta dall’esterno e controvoglia. Fosse così, si tornerebbe al mitema Umanesimo & Company di una nobiltà integra della cultura, mai a rischio per sé di corruzione nella sua immaginaria età dell’oro. Mentre una cultura si corrompe prima ancora nell’istante stesso in cui fraintende il rapporto con la verità, a cui non ci si può sostituire, con cui non ci si può immedesimare. D’altra parte, nessun motivo occasionale, contingente o d’interesse che sia, determina per intero la corruzione d’una cultura, specie

22 J.J. Rousseau, Opere, cit., 3 ss. 23 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, 20082, 55 ss. 24 R. Guardini, La Rosa Bianca, cit., (1958, I-II), 47-48.

271 Rinascite, rinascenze, rinascimenti quando questa si predispone da sola in ideologia, propaganda, imposizione. Se rimuovere dunque i motivi estrinseci e opportunistici così discriminanti, e non solo nei totalitarismi di un tipo e di un altro, è decisivo ai fini di un contesto più favorevole per una cultura integra, non per questo spariscono d’un colpo i rischi e le possibilità d’una cultura corrotta. Si torna così all’inizio. Non si danno culture senza corruzioni e corruzioni senza culture. Se si vuole giocare la carta della cultura per contrapporsi alla corruzione, bisogna prima rendersi conto del rischio di una cultura corrotta nel suo stesso essere e proporsi in quanto cultura.

***

9. «No» corrotti? Che non ci siano culture senza corruzione e corruzione senza culture si può anche capire. Ma che dire quando entra in gioco la morale, così determinante per ogni civiltà, che si costruisce per definizione in ricerca del contrario stesso della corruzione, di qualche auspicata integrità? Le cose si fanno allora davvero difficili. Non solo per le varianti notevoli e le incertezze di non poco conto che trapelano nel dibattito etico, contemporaneo e non, intorno alla corruzione. Dove lottano tra loro atteggiamenti che vanno da no categorici a concessioni più o meno relativiste verso la corruzione, fino a ritenerla legittima entro certi contesti culturali e/o operativi molto particolari. Fino all’idea, cioè, di una «corruzione per nobile causa». Esempi. Può essere la storia di Oskar Schindler (film e libro), di nuovo nella Germania nazista, dove si passa da una corruzione malevola in vista del successo aziendale a una benevola per salvare vite umane nel tragico momento dell’Olocausto (Schlinder’s List, 1993). Oppure quella del professore universitario che cerca di aiutare la figlia, dopo uno stupro brutale, a superare l’esame di Stato in vista dell’ingresso in una università estera, ottenuto nel frattempo con le sue sole forze (Baccalaureat, 2016). E altri ancora, con non pochi conflitti morali intorno alla corruzione25.

25 Cfr. F. Riva, Corruzione, cit., cap. 2; cfr. G. Nissim, Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l’uomo che creò il Giardino dei Giusti, Milano 2003.

272 Corruzione. Cultura. Rinascita

Non solo per incertezze esterne e di contesto, dunque, ma anche tutte interne all’etica sempre più impegnata sulla scena globale per ribadire il rifiuto della corruzione a ogni livello. Basti pensare ai ricorrenti casi di cronaca, ai numerosi scandali di corruzione, e al parallelo, capillare, diffondersi dei codici etici: dalle singole aziende agli organismi internazionali passando per ambiti istituzionali come per associazioni professionali e di categoria. Fatto è che, tra corruzione che si propaga a macchia d’olio e no che di continuo devono essere ribaditi e rafforzati – nonostante siano già stati espressi a chiare lettere –, sembra talora di finire in una rassegnata situazione di stallo. Proprio lo schema mitico biologico di stati prima integri e dopo corrotti, costringe l’etica nell’angolo, come un pugile suonato, a giocare sempre in difesa e di seconda battuta, quasi che il gioco in attacco e il ruolo da protagonista fossero già assegnati da tempo alla corruzione. Quasi che i no rivolti alla corruzione siano in qualche modo indeboliti e... corrotti... in partenza nei modi di dirli e pensarli.

10. Agire o reagire? Etiche incerte Fosse così, l’etica si consegna da sola al reagire più che all’agire, rinunciando alla sua principale prerogativa di dare vita a corsi di azione liberi e originali, svincolati dalla catena fisiologica di cause ed effetti che tiranneggia il mondo naturale. Gli indizi che vanno in questa direzione non sono pochi, dai luoghi comuni agli slogan ricorrenti sulla corruzione, dalle frasi di circostanza alla scrittura dei codici etici tanto ossessionati da mille no e da mille divieti come riuscissero a dire la condanna solo in negativo, senza progetti in alternativa. Come se per essere integri bastasse astenersi dalla corruzione, fatto salvo (e senza nulla togliere alla necessità di contrastare e prevenire) dissanguarsi coatti nel rincorrere e resistere ai suoi assedi26. Come se, a contatto con la corruzione, anche l’etica potesse corrompersi. Non perché inverta tra vizi e virtù, male e bene, corrotto e integro (c’è pure questo, trattandosi di corruzione, con vizi personali alla fine virtuosi per la collettività e virtù viziose, per così dire, sulla falsariga di Mandeville con la Favola delle api)27. Ma perché, ricalcando

26 Cfr. F. Riva, Corruzione, cit., cap. 1, 40 ss. 27 Cfr. B. Mandeville, La favola delle api, Torino 1961, 17 ss.

273 Rinascite, rinascenze, rinascimenti schemi biologistici inadatti, concede di partenza alla corruzione una potenza e una necessità pressoché invincibili – questo il pensiero corrotto, l’inganno che la rinforza – che non si può in nessun modo avere nel mondo umano, libero e morale. Mondo dove non si nasce integri, dove non si muore corrotti. Mondo in cui si diventa integri e corrotti, liberi e posseduti, nelle scelte personali e comuni di ogni giorno. Mondo dove il no e il sì sono originari e contestuali. Mondo che resiste alla tentazione di lasciarsi cullare sulla scia dell’antico detto per cui «le cose per natura si generano e si corrompono, allo stesso modo per tutte» (Aristotele)28. Ma subito girato in senso immorale e diabolico da qualche Faust di turno che trae l’inevitabile conseguenza: «tutto ciò che nasce merita di perire; perciò meglio sarebbe che niente nascesse»29. Mondo umano che giudica e condanna la corruzione, cosa impensabile per il mondo naturale, dove ci si limita a cercare cause e meccanismi di un processo inevitabile. Di fronte alla corruzione l’etica diventa incerta quando accetta per se stessa un no come derivato anziché originario, indispensabile ma non libero, negativo (divieti, proibizioni, lotte) più che positivo (progetti, alternative, prevenzioni). Altro modo per dire di sì a qualcosa di diverso dalla corruzione non c’è se non la libertà responsabile (e la responsabilità libera) di dire un no altrettanto originario, altrettanto costitutivo a ogni livello etico e culturale, sociale e politico.

11. Tutto integro, tutto corrotto Quando integro e corrotto vengono dissociati, quando non sono possibilità sempre simultanee, degenerano in miti. Miti dove cultura e morale si prestano a schematismi conflittuali di un tutto perfetto o di un tutto perverso, integro o corrotto, enfatizzando e idealizzando a pari titolo, ma con valenza contraria, età illuminate e secoli bui. Epoche, cioè, in cui la cultura e l’etica si rispecchiano volentieri ed epoche invece di degrado e corruzione. Epoche della morale e di corruzione della morale – dove è difficile capire se sia l’Atlantide sommersa della cultura (se mai è esistita) che permette di giudicare della corruzione, o piuttosto l’insofferenza per un’epoca ritenuta corrotta a inventarsi mondi integri scomparsi. Tanto, chi può controllare?

28 Aristotele, Generazione e corruzione, cit., p. 17, 314a 1-5. 29 J.W. Goethe, Faust, Einaudi, Torino 1967, 40.

274 Corruzione. Cultura. Rinascita

Succede sempre così quando si ragiona in termini di prima integro e dopo corrotto, fino a inventarsi anche per la cultura, anche per la morale, delle età di una felice pienezza e altre di dolorosa perversione. Senza neppure accorgersi che, se si parte dal mito di un’età dell’oro, di un luogo virtuoso e idilliaco, di una stagione sublime e inarrivabile a cui guardare come modello, si mitizza e si rende inevitabile, per contraccolpo, anche la corruzione. Com’è per Esiodo nel ciclo di Prometeo: «prima infatti sopra la terra la stirpe degli uomini viveva lontano e al riparo dal male, e lontano dall’aspra fatica, da malattie dolorose che agli uomini portan la morte – veloci infatti invecchiano i mortali nel male»30. E poco importa se il modello integro e quello corrotto siano posti dentro o fuori la storia, perché il mitema di una corruzione sopravvenuta funziona bene lo stesso sia nel mito che al di là del mito. Mito che riflette nel suo narrare delle culture idealizzate tanto quanto nella storia si tende a mitizzare situazioni e culture. Ogni cosa si genera però nella strategia dello strappo tra integro e corrotto, che porta a pensare nei termini di un tutto salvo o di un tutto perso all’ingrosso, mitizzando momenti felici e infelici nello stesso tempo e con pari forza e necessità. Miti e storie, in definitiva, di eterni ritorni dell’identico.

12. Morali corrotte Nietzsche denuncia morali e culture corrotte con un meccanismo di uscita e rientro costanti tra stati d’integrità e di corruzione che prende nome nell’eterno ritorno dell’identico, adatto a narrare – fin troppo agilmente – la vicenda di un disastro annunciato. Nietzsche si muove così, tra sguardi sulla morale corrotta che fanno rimbalzare per contraccolpo quella integra, e nostalgia per una morale integra che fa disperare di quella corrotta. Sguardi, in definitiva, di condanna su tutta la cultura moderna e democratica, sociale e cristiana, che logora l’energia della morale aristocratica di uomini superiori che vive al contrario di una «natura ancor naturalmente primitiva», ancora così integra31. Di qui vengono ora fotografie lucidissime dell’epoca corrotta, riconoscibile perché priva di libertà, oppressiva e piena di una violenza

30 Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 90 ss. 31 Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Milano 1977, § 257.

275 Rinascite, rinascenze, rinascimenti così capillare e così mascherata, dato che «gli uomini della corruzione sono arguti e calunniosi; sanno che ci sono altri mezzi per uccidere oltre al pugnale e all’aggressione»32. Ora invece l’auspicio che la corruzione compia il suo corso fino in fondo e tutto finisca presto all’insegna di un tanto peggio tanto meglio. Affinché proprio dalle sue rovine possa infine rinascere la morale incorrotta dell’uomo nuovo, ma nello stesso tempo antico, di valori originari e dimenticati. Perché, si sa, è proprio «durante i periodi di corruzione che cadono le mele dagli alberi», che sorgono i veri «individui, i portatori del seme del futuro, gli autori della colonizzazione spirituale e della ricostruzione dei legami statuali e sociali»33. Nietzsche s’interessa da vicino del corrompersi di cultura e morale senza uscire da schemi naturalistici inadatti a comprenderlo. Sono proprio questi schemi a permettergli il gioco all’eterno ritorno, nell’ingenuità di credere che basti la rovina totale di morali corrotte per qualche ritorno escatologico di quelle incorrotte. Come se la corruzione potesse portare di suo da qualche parte, a qualche mondo, a qualche uomo nuovo, mentre conduce soltanto a mondi e uomini ancora più corrotti. La corruzione non porta a nessuna rinascita se non a quella della corruzione stessa. Anche se la metafora medicale salute/ malattia continua ad avere successo e a spendersi in abbondanza in entrambi i sensi di marcia, per la corruzione nel mondo degli uomini le cose non vanno per nulla così.

13. In nome della corruzione Stati incorrotti e stati di corruzione. Idealizzare età dell’oro per cultura e morale porta a mitizzare anche la corruzione rendendola inevitabile, indispensabile, fisiologica. Questo per poter inscenare storie implacabili di decadenza che scorrono miticamente e senza rimedio a partire dal punto critico d’una caduta, come in Esiodo nel mito di Pandora con il rebus della speranza che rimane solitaria nell’otre scoperchiato dei mali; o che s’alternano, storicamente, ad altre epoche di rinascita e risurrezione.

32 F. Nietzsche, La gaia scienza, Milano 1977, af. 23; cfr. Al di là del bene e del male, cit., § 258; L’Anticristo, Milano 1977, I, 468; Umano, troppo umano, Milano 1979, vol. I, af. 468. 33 F. Nietzsche, La gaia scienza, Milano 1977, af. 23.

276 Corruzione. Cultura. Rinascita

Mescolata all’impianto mitico di prima integro e dopo corrotto è impossibile non avvertire anche in Nietzsche, ma sfalsata, l’eco biblica e religiosa della caduta, del peccato d’origine, che ha animato come non mai per la corruzione un dibattito dai forti contrasti sullo sfondo della diatriba cruciale tra «libero» (Agostino) e «servo arbitrio» (Lutero). Proprio riferendosi a Lutero Ernst Bloch fa presente che gli uomini in quanto sono «“caduti”, corrotti totalmente o a metà, di propria iniziativa non possono fare che male e procedere nell’errore. Dal veleno del serpente in poi ogni sforzo dell’uomo fin dalla sua infanzia è malvagio; in termini luterani l’uomo è del tutto corrotto, cosicché in genere non può non peccare»34. Lamentandosi nello stesso tempo come una simile «formula» di «assoluta corruzione», che predispone tanto all’«assenza di responsabilità personale» quanto a sfoghi di natura «mistica», finisca per tacere circa le ingiustizie sociali tacciando addirittura di «diabolico ogni tipo di rivolta contro l’autorità costituita», a differenza del «cristianesimo originario» che aveva ai suoi tempi nientemeno che «infiammato Roma»35. La memoria di Bloch della formula pessimistica di assoluta corruzione dell’uomo conferma, a maggior ragione in chiave religiosa, lo stretto rapporto tra corruzione e cultura, lo scontro socio-culturale che vi gira intorno (culture contro culture), e la regolare esperienza di una smentita per tutte le parti in causa. Come a dire che l’interpretazione e l’atteggiamento assunto nei confronti della corruzione guida per una cultura il selfie fatto con la Kodak del prima e del dopo, di qui e non là. Persino gli ideali più nobili (religiosi, cristiani in questo caso), possono corrompersi. Fermo restando dunque che l’«uomo è una corruzione in cammino», sarà proprio nell’interpretazione di questa situazione che le morali si spaccano. Potendola intendere appunto nei termini di una teoria disperata della corruzione che tutto inquina senza rimedio e della condizione umana che lascia ben poche chance all’uomo (come il peccato originale), sia pure per far risaltare ad effetto la potenza salvifica di Dio. Piuttosto che della coscienza di una «natura irrimediabilmente corrotta» che lascia però all’uomo, quanto meno,

34 E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo. Per una religione dell’Esodo e del Regno, Milano 2005, 69. 35 Ivi, 131, 161.

277 Rinascite, rinascenze, rinascimenti la libertà di un’«iniziativa del grido» verso Dio36. Il che è più che sufficiente per scardinare gli schemi del tutto salvo o tutto perso per sempre.

14. Culture contro culture Cultura contro cultura, quindi, per la corruzione anche quando sono così prossime, così a condividere le stesse matrici, gli stessi libri «sacri», gli stessi racconti di «salvezza». Morali contro morali all’insegna della corruzione, per scoprire infine che il corrompersi risorge nell’integrità e che l’integrità non mette al riparo dalla corruzione. Scontro tra riforma e cattolicesimo, nel caso appena considerato, che si riflette e si propaga ancora oggi nei codici etici di faticosi no alla corruzione che non mettono del tutto al riparo. Non è certo un mistero che anche la Riforma sia insorta al grido di «corruzione, corruzione!» innalzando vessilli di «libertà», «giustizia», «vangelo»: contro Roma nuova Babele, papato principesco, clero, lucro, compravendita della salvezza, alleanza di trono e altare, ingiustizia sociale. Sperimentando tuttavia presto e da capo lo smacco del riaffacciarsi dentro se stessa di corruzione e tradimento che mette drammaticamente di nuovo riforma contro riforma, cultura contro cultura pronti a creare nuovi capri espiatori37. L’identico problema di denunce contro la corruzione in cui tuttavia si ricade si ripresenta, inaspettato, nella stagione dei codici etici che dilagano a macchia d’olio, in un crescendo di accuse reciproche che si sgonfiano presto, un’altra volta, nella comune esperienza di un ricadere pur sempre nella corruzione. Difatti, uno dei luoghi comuni della cultura contro la corruzione è quello di una maggior sensibilità riformata, calvinista in particolare, per contro a un maggior permissivismo cattolico, il che spiegherebbe la nascita tempestiva dei codici etici negli U.S.A. calvinisti a dispetto dell’indubbio ritardo europeo, specie nei paesi cattolici. Non fosse che i grandi scandali di corruzione economica scoppiano proprio in quel mondo riformato e calvinista d’oltreoceano che assume come mission e responsabilità di

36 J. Maritain, Umanesimo integrale, cit., cap. 2, 23. 37 Cfr. F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Milano 2014; E. Bloch, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione, Milano 1980; F. Riva, «Noi riformati» (Søren Kierkegaard). Vivere esodi, sperimentare riforme, in A. Barzanò – C. Bearzot, Rivoluzione, riforma, transizione, Milano 2018, 51-62.

278 Corruzione. Cultura. Rinascita evangelizzare la sfera pubblica, per nulla estranea all’ottica religiosa della salvezza. Per un altro verso succede che, proprio nei paesi di tradizione cattolica a prima vista più propensi a delegare nel pubblico le responsabilità personali, sia invece la chiesa a denunciare e riconoscere con coraggio la corruzione fuori e dentro se stessa38. Non è più tempo d’accuse incrociate tra cultura e cultura, l’una che si ritiene severa e l’altra complice nei confronti della corruzione. Per quanto nell’era dei codici etici se ne avverta lo strascico, ma a parti invertite e cattoliche, nell’accusa di ritorno di una vera e propria idolatria delle regole e del dovere a discapito dei valori e del bene, di una responsabilità apocalittica per avere contribuito alla corruzione, niente meno, che della morale stessa39. Non è più tempo di accuse contrapposte perché l’esperienza della smentita attraversa tutte le culture, tutte le morali, quella della regola come quella del bene, sempre ammesso e non concesso che tengano fino in fondo sia le divisioni drastiche che i giudizi massimalisti su epoche e culture – spie inequivocabili della fabbrica di capri espiatori su cui scaricare una corruzione che morde anche se stessi. La corruzione pensa dentro i pensieri che la pensano – mentre le culture si accapigliano per scaricarla l’una sull’altra in una gara tra poveri per primati improbabili d’integrità, di cultura, di autenticità, di corruzione. Forse è il caso di ricordare il detto inciso su di una lastra di ardesia incastrata nel muro esterno a nord della chiesa di San Julián a Salamanca, che senza smentite di sorta invita a essere un po’ più seri e cauti, perché, in fondo, «chi dà consigli certi ai vivi, sono i morti» («Los que dan consejos ciertos a los vivos son los muertos»).

15. Corrotti sono gli altri Idealizzare l’integrità dell’origine mitizzando in negativo la corruzione dell’epoca innesca il pilota automatico per guerre fratricide di cultura contro cultura. Dove denuncia, condanna, estromissione vengono a coincidere nella convinzione in malafede che la corruzione riguardi (solo) gli altri. È in questo preciso momento che la ricerca di capri espiatori sposa una pseudocultura disponibile a generarli tanto quanto

38 Cfr. F. Riva, Corruzione, cit., 55 ss., 115 ss. 39 Cfr. C. Taylor, L’età secolare, Milano 2009, 883-887; Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Milano 1993.

279 Rinascite, rinascenze, rinascimenti questa pseudocultura si coagula proprio intorno ai capri espiatori disponibili di turno: a cause di corruzione che sono nemici, a nemici che diventano cause. È nello stesso momento che la cultura implode dall’interno separando fini e mezzi come fossero indifferenti gli uni agli altri, come se ogni mezzo fosse lecito per raggiungere il fine di trarsi d’impaccio dalla corruzione e riproporre la purezza infangata delle origini. Logica perfetta della corruzione che ama nutrirsi di divisioni nette tra tempi (prima e dopo) e luoghi (là e non qui), integro e corrotto, puro e impuro, amico e nemico, fine e mezzo. Logica perfetta di complicità tra cultura e corruzione nel momento in cui si pretende di denunciarla a tutto campo ma fuori, ricorrendo a ogni mezzo, corrompere compreso, per superarla e tornare a qualche stato incorrotto e originario. Può darsi prova più sicura di corruzione per una cultura? Proprio nessuna. Quale che sia in concreto la ragione che spinge a farsi complici della corruzione invertendo fini e mezzi, se più nobile, di calcolo, d’occasione. Di guerra, come per i giovani cattolici discepoli di Karl Schmitt, tedeschi e nazisti, che scelgono un nome di combattimento tutto da interpretare, Croce/Fuoco (Kreuzfeuer), data la vicinanza tra il simbolo cristiano di salvezza e qualcosa che brucia e dà la morte, che evoca armi da fuoco, la guerra moderna. Nella metafora Croce/ Fuoco, chi ci capisce? Sarà la croce a essere un’arma di salvezza o sono le armi a salvare come la croce? Intanto, i Kreuzfeuer giudicano che nell’Europa della Germania nazista tutto sia corrotto, niente rimediabile, che bisogna tornare alle origini individuate nel Sacro Romano Impero tedesco. Per farlo, niente di meglio che aiutare la corruzione a finire la sua corsa in qualche guerra purificatrice e totale. E così pace è fatta: la croce spinge al fuoco delle armi tanto quanto il fuoco delle armi sospinge la croce. Stessa logica del tanto peggio tanto meglio dell’eterno ritorno nietzschiano, della vena apocalittica del nazismo, di ogni ortodossia socialista e non, di ogni après moi le deluge, del prima integro e dopo corrotto perché si possa tornare integri. Logica della corruzione che si mitizza nei nostri pensieri come medicina indispensabile perfino per porre termine alla sua malattia. In nome dell’integrità – tutto permesso, tutto consentito. Il sofisma è lampante e assassino. Per i Kreuzfeuer la mitica età dell’oro coincide con il momento storico del Sacro Romano impero e del cristianesimo medievale, ipotecato dall’uso sacrale della forza e della sfera temporale a servizio

280 Corruzione. Cultura. Rinascita di Dio. Il loro progetto di restaurazione va a nozze con la «vecchia nostalgia» del mito secolare della nazione tedesca, rianimatasi nella politica del primo dopoguerra. Altrove può accadere invece, come osserva Jacques Maritain per i paesi latini, che si sogni direttamente una «restaurazione cristiana»40. Sia come sia, il modello della guerra contro la corruzione resta lo stesso, sempre affidato all’interazione esplosiva del doppio mito di una corruzione epocale iperbolica e della restaurazione di qualche purezza originaria a cui si tornerebbe semplicemente – si fa per dire – per rimozione salvifica della corruzione, con tutti i mezzi. Corruzione compresa. ***

16. Nostalgia Nella cultura che sprofonda nei miti di una corruzione iperbolica e di una restaurazione a tutti i costi, nostalgia e integralismo agiscono a pari merito. In apparenza diversi, sono il diritto e il rovescio della stessa medaglia dato che, se la nostalgia fraintende l’anima di una cultura identificandola in via definitiva con una sola delle forme storiche che assume, l’integralismo scambia in compenso se stesso per integrità culturale. Nostalgia e integralismo mettono a nudo la corruzione in atto di una cultura che non vede, e che non fa vedere, intorno a sé nient’altro se non corruzione. La nostalgia di un’epoca perduta d’integrità si alimenta nel rifiuto dell’epoca presente di corruzione più o meno totale, che deve essere negata tanto più quanto più deve risaltare lo stato integro delle origini inabissate. La nostalgia vive negando, accusando, stilando liste di nemici, diffondendo paure, proclamando guerre più o meno sante. Nella nostalgia per mondi culturali scomparsi la cultura vien meno in quanto cultura: insofferenza per la propria contemporaneità, camminare con la testa rivolta all’indietro, rimpianto che si nutre di rimpianto, annuncio funebre per ciò che è morto e per ciò che è vivo, logica della morte, della fine, di costi quel costi. Ogni cultura nostalgica soffre d’incapacità nei confronti del presente, quali che siano in concreto i suoi orientamenti e le sue propensioni. Dal punto di vista del paradigma cristiano-medievale, e contro ogni

40 J. Maritain, Umanesimo integrale, cit., 181.

281 Rinascite, rinascenze, rinascimenti cultura di tendenza nostalgica e idealizzante, Maritain controbatte, ad esempio, che «la fine di un mondo, anche se è di proporzioni veramente universali, non è la fine del mondo» e che, se «le civiltà muoiono» nelle loro configurazioni storiche, non muoiono di certo per questo gli ideali che le hanno promosse41. Se dunque la fine di un mondo non equivale in nessun modo – e non equivale mai – alla fine del mondo, una cultura nostalgica si ritrova smascherata per sempre nella sua sostanziale bugia. Nella sua corruzione essenziale, nella sua stessa perversione, anche se dissemina a tutto campo con generosità accuse di corruzione e perversione intorno a sé. Scuse non ve ne sono. La cultura nostalgica fraintende ad arte in modo idolatrico lo spirito di una cultura con una determinata forma storica che assume. Nasconde sempre qualcosa, dei secondi fini, a partire dalla copertura della sua mancanza di coraggio per un impegno rinnovato. Le forme emergenti e parallele di giustificazionismo o di negazionismo appartengono a una cultura corrotta. Proprio perché la cultura nostalgica sacralizza in definitiva una sola forma storica, un determinato stato di civiltà, come fosse l’unico possibile, si consegna di necessità a un credo integralista che spaccia se stesso per integrità mentre gli è distante mille miglia. Tra nostalgia e integralismo c’è rapporto diretto e ad alta velocità. Si può infatti confondere l’integrità con l’integralismo solo a patto di mitizzare prima una sola forma storica di civiltà rispetto a un certo ordine di valori che l’ispira, di modo da considerare grossolanamente corrotto tutto ciò che non ricalca in modo pedissequo la sua preventiva mitizzazione nostalgica.

17. Integralismo L’integralismo è al tempo stesso causa ed effetto di una cultura corrotta che rinuncia al suo essere cultura, preferendogli la scorciatoia mortale di idealizzare una sua qualche espressione storica secondo la logica di una volta per tutte e per sempre, il che abilita senza patente lo schema sbrigativo di prima integro/dopo corrotto. Prima ancora che per i contenuti, l’integralismo si riconosce per il metodo senza metodo che una cultura adotta, dove interagiscono a piacere, e senza tante ragioni, la favola di un mondo unico e di un unico modello, una

41 Ivi, 262, 177.

282 Corruzione. Cultura. Rinascita visione univoca delle cose, la cultura ridotta a cattiva apologetica, ogni sorta di opportunismo e strumentalità in nome della verità, e in primo luogo tra mezzi e fini. Tuttavia integrale non equivale e non significa integralista. L’opportunismo dei mezzi rispetto ai fini in nome della verità è la quintessenza di una cultura corrotta, che ha già rinunciato a se stessa e alla propria libertà, che si sta indurendo e sclerotizzando in ideologismi, che sta mitizzando momenti storici passati come unici e ineguagliabili, che è già complice di ogni possibile complicità, già corrotta e corruttrice, mentre si scaglia contro il presente corrotto. In nome dell’integrità, in nome della verità, l’integralismo arriva a corrompere la dignità che i mezzi devono avere in rapporto a un «fine degno dell’uomo»42. Fuori dubbio, per Maritain, che ci sia sempre bisogno di «purificare»43, perfino il mondo tanto decantato che viene dal Rinascimento e dalla Riforma, «sconvolto» sì da «energie spirituali potenti» ma anche «mostruose, nelle quali l’errore e la verità si mescolano strettamente e si nutrono l’una dell’altro, verità che mentiscono e “menzogne che dicono la verità”»44. Purificazione e riti di purificazione che stanno peraltro «sullo sfondo di tutti i nostri comportamenti relativi alla colpa», sollevando un immaginario dell’impurità e del peccato a quello del puro e del salvo. Anche se poi, da capo, ci si dovesse domandare quale sia «il nucleo che rimane attraverso tutte le simbolizzazioni dell’impurità, bisognerebbe rispondere che il suo senso si manifesterà soltanto nel processo della coscienza che nello stesso tempo la supera e la trattiene»45. Purificare non significa cedere alla tentazione di quella cultura che si corrompe nella forma nostalgica dello sguardo all’indietro. Per Maritain, ancora, la concezione sacrale trapassata del cristianesimo medievale è retta dalla subordinazione della politica alla religione, dalla tensione verso un’«unità organica», dall’uso diretto di potere e istituzioni a proprio servizio, da un’autorità autoreferenziale. Senza che la cultura nostalgica che ne deriva a distanza neanche s’accorga che questa forma è implosa e degenerata senza molto onore in

42 Ivi, 268. 43 Ibidem. 44 Ibidem. 45 P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Bologna 1970, 294; cfr. 271 ss.

283 Rinascite, rinascenze, rinascimenti assolutismo, servilismo, opportunismo, autoritarismo, imposizione46. Quando si tratta invece «di promuovere con tutte le nostre forze il giusto e il bene nella storia» in spirito allargato di partecipazione e bene comune, anziché «pretendere di imporli con la forza»47. Vale lo stesso per la cultura, quando si lega in generale a «una concezione univoca» e passata. Quando si lega a «forme morte, invece di assicurare la tradizione vivente dell’opera del passato»48. Ed è una regola generale. Integro/corrotto riguarda ogni cultura, nessuna esclusa. L’ideale è integro («integrel») non nel senso del sogno all’indietro, dell’espediente nostalgico e interessato dell’integralismo. Nulla spartisce con opportunismi e tornaconti, con stili disinvolti e compromissori, con sante alleanze di mezzi cattivi per fini buoni che si fanno complici di corruzione fingendo nel frattempo di salvare l’anima a sé e agli altri. Di restare integri con mezzi indegni in virtù di fini più che degni. Integrale indica al contrario la via di una presenza partecipe e impegnata, appassionata e coinvolta, nella città degli uomini ma in modo corretto, convinto, non opportunistico, strumentale, complice. In modo non corrotto.

18. Fedeltà/Creazione/Impegno Non importa tanto come si smascheri e si sciolga la corruzione di una cultura integralista, cosa che ha comunque a che fare con la distorsione e il tradimento di quella stessa verità a cui proclama solennemente di appellarsi. Se al modo, cioè, di Romano Guardini o di Emmanuel Mounier, che mettono a loro volta in guardia dal presupporre uno stato naturale e più autentico per l’uomo – uomo che non è mai né solo natura, né solo cultura. Oppure se al modo di Jacques Maritain, davvero impietoso nell’ironia con cui denuncia l’integralismo cristiano medievaleggiante e passatista rileggendo le stesse fonti della tradizione a cui pretende di appellarsi con veemenza, fraintendendole tuttavia. Per dire, in particolare, che non ci si può richiamare alla parola «principi» senza qualificarla con un aggettivo strategico per Aristotele e ancor più per Tommaso d’Aquino, ossia «analogici». Tant’è che persino l’«ideale» di una cultura cristiana non potrà che essere «un

46 Cfr. J. Maritain, Umanesimo integrale, cit., cap. 3. 47 Ivi, 245. 48 Ivi, 181.

284 Corruzione. Cultura. Rinascita nuovo analogato concreto», e cioè una forma di pensiero non univoca, astratta e prefissata, ma incarnata volta a volta nel mondo e nella storia. La cultura si rapporta al proprio ideale storicamente, incarnando di sicuro gli «stessi» principi, ma secondo tipi «essenzialmente» differenti49. La verità e la fedeltà dei principi non implica e non obbliga in alcun modo né a un’unica forma concreta, né a un macerarsi all’indietro in ciò che è morto e imputridito; e neppure che la cultura si trasformi in un’apologetica preventiva e mascherata, in un organicismo mentale e autoreferenziale. Di qui la sfida, il compito e l’impegno incessanti di ogni cultura che cerchi davvero di esprimere un ideale, di restare fedele ai principi. Non importa dunque con quale stile si sbugiardi una cultura corrotta. Importa piuttosto che il corrompersi dell’integrità in integralismo riporta alla tensione di fondo, integro e corrotto, per ogni cultura. Al di là di clichés biologistici fatti di cause ed effetti univoci, privi di libertà e dati una volta per tutte, il mondo umano sceglie se corrompersi o meno, se farsi integro o corrotto. La cultura sceglie tra integrità e integralismo, verità e corruzione, dignità e indegnità di rapporto per mezzi e fini. Per la cultura, soprattutto, la questione della corruzione sta tutta qui, in una tradizione pur forte che non esclude l’innovazione – e che poi è il farsi stesso della cultura –, nell’innovazione pur scattante che non rinnega la tradizione – che è poi, di nuovo, la cultura stessa. Anche per la cultura, che vive di tradizione come d’innovazione, di fedeltà e di creazione. Anche per la cultura, che si corrompe altrettanto bene confondendo creazione con stravolgimento e fedeltà con reiterazione. Tradizionalismi e progressismi, oscurantismi e illuminismi, implo- dono di colpo e perdono improvvisamente di senso nell’enfasi della spaccatura. La fedeltà si misura sulla creatività, come la creatività sulla fedeltà. Nessuna fedeltà è possibile senza creatività, nessuna creatività senza fedeltà. Fedeltà sempre creatrice. Creazione sempre fedele (Ga- briel Marcel)50. Fedeltà creatrice. Creazione fedele. La cultura è fedele a se stessa creativamente, ricrea se stessa fedelmente. In fondo, è da sempre questo il compito della cultura che non esaurisce, non si sostituisce, alla verità che l’interpella e cui s’ispira. Alla sua stessa integrità.

49 Cfr. Ivi, 176-177. 50 Cfr. G. Marcel, Essai de philosophie concrète, Paris 1940, pp. 212 ss.

285 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Fig. 1 – Chi dà consigli certi ai vivi, sono i morti «Los que dan consejos ciertos a los vivos son los muertos». (Salamanca, lastra di ardesia, chiesa di San Julián)

a. b.

c. Fig. 2 – A. De Carolis, A. Moroni, illustrazioni (xilografia) per Esiodo, I poemi, Bologna 1929, pp. 3, 7, 9

286 Il paragone: metodo sovrano della critica d’arte

CLAUDIA CONFORTI1

The term “Paragone” is polysemous: it can refer to comparison, simile, anal- ogy and also competition. In Italy, since the second half of Quattrocento and then along the Cinquecento, the “Paragone” played a primary role in the theoretical debate concerning the nature and the purpose of each art. If, in the ancient period, the term was used to fi nd conceptual equivalence between poetry and painting, during the Italian Renaissance the “Paragone” was ba- sically used to discuss the character of the two imitative arts par excellence: painting and sculpture. This paper explores the use of “Paragone” across the years and introduces two more topics: the appearance of Architecture during the 20th Century and the comparison between works made with the same medium in different ages.

La crescente musealizzazione delle opere d’arte dell’Ottocento ha potenziato la storia dell’arte, incrementandone gli strumenti critici. Ciononostante non si può non concordare con Andrea Emiliani quando afferma che, nonostante la versatilità della moderna strumentazione critica, «ogni giudizio è tuttavia legato al criterio del paragone, il metodo sovrano della critica d’Arte»2. La parola “paragone”, mutuata dalla pietra nera su cui si accerta, per sfregamento, la purezza dell’oro, è polisemica: essa implica comparazione, similitudine, analogia e anche competizione. La pluralità semantica ha favorito il ruolo memorabile del paragone nella più vivace e acuminata disputa teorica che, dalla seconda metà del Quattrocento a tutto il Cinquecento, infiammò le stampe e le nascenti accademie intorno alla natura e alla finalità delle arti, soggetti e vettori di idealità nuove e di un ordine culturale fino ad allora inedito. Artisti, filosofi, poligrafi e letterati, prendendo le mosse

1 Università di Roma Tor Vergata, Ingegneria dell’impresa. 2 A. Emiliani, Lo studio delle arti e il genio dell’Europa, Scritti di A.C. Quatremère de Quincy e di Pio VII Chiaramonti (1796-1802), Nuova Alfa, Bologna 1989, p. 9.

287 Rinascite, rinascenze, rinascimenti dalla locuzione oraziana ut pictura poesis3, ovvero dall’equivalenza concettuale tra poesia e pittura, si misurarono in un agone dialettico, serrato e plurale, il cui obiettivo ultimo consiste non tanto nella sbandierata gerarchia delle arti (a che scopo?), quanto nell’asseverare, attraverso la retorica del dialogo e dei “pareri”, il valore intellettuale dell’azione artistica, facendo piazza pulita dei vincoli servili e plebei, che ostacolavano la piena legittimazione sociale degli artisti. Dunque se il bersaglio dichiarato è teorico e uggiosamente astratto, quello reale è concretamente politico e operativo. Francesco Petrarca, in passi disseminati in varie opere e, in particolare, nel De statuis, introduce per la prima volta nel mondo post antico il tema del “paragone” fra le due principali arti imitative: pittura e scultura, aprendo un dibattito che infiammerà la letteratura artistica dei due secoli successivi4. L’architettura per il suo carattere aniconico e antinaturalistico, non viene generalmente fatta scendere in campo fino al XX secolo. Nei trattati di Pittura, Leon Battista Alberti (1435 in latino e 1436 in volgare) e Leonardo (1498); Baldassar Castiglione (1528) e Pietro Bembo (1525) in dialoghi di ascendenza neoplatonica a carattere prevalentemente letterario; Paolo Pino (1548), Anton Francesco Doni (1549), Ludovico Dolce (1557), Benedetto Varchi (1547/1550), Giorgio Vasari (1550, 1568) e altri ancora, costruiscono, anno per anno, mattone per mattone, l’affrancamento culturale delle arti (e quello sociale dell’artista), contrastando il sentire comune di un’epoca che, come asserisce il conte Lodovico Canossa nel Cortegiano (1528), vedeva la pittura, (e ancor più la scultura), come attività prevalentemente fabbrile, ovvero «…meccanica e poco conveniente a gentilomo»5. Ed è certamente con intenzionale consapevolezza che

3 Si deve all’età augustea la fortunata asserzione che equipara la pittura (poesia muta) alla poesia (pittura parlante). 4 F. Federici, Paragoni fra le arti in Petrarca (non pubblicato, 1999: https://www. academia.edu/2377430/Paragoni_fra_le_arti_in_Petrarca). 5 La citazione è tratta da B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, Venezia 1528, cap. XLIX; sul dibattito rinascimentale la bibliografia è vastissima, qui ci si limita ad alcune voci: B. Varchi – V. Borghini, Pittura e scultura nel Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Sillabe, Livorno 1998; J. Shearman, Giorgio Vasari and the paragons of art, in Vasari’s Florence. Artists and literati at the Medicean court, a cura di P. Jacks, Cambridge University Press, Cambridge 1998; A. Payne, Alberti and the Origins of the paragone Between Architectural and the Figural Arts, in Alberti teorico delle arti, a cura di A. Calzona, F.P. Fiore, A. Tenenti, C. Vasoli, Olschki, Firenze 2007, pp. 347-

288 Il paragone: metodo sovrano della critica d’arte

Castiglione tra nobildonne e nobiluomini, colti e letterati interlocutori del dialogo del Cortegiano, introduce uno scultore, Giovanni Cristoforo Ganti (Gian Cristoforo Romano), cui spetta di argomentare il primato della statuaria sulla pittura. Un compito che il raffinato scultore assolve egregiamente, anche se senza particolare originalità, chiamando in campo le pedisseque potenzialità mimetiche e le maggiori difficoltà tecniche della scultura rispetto alla pittura, difesa quest’ultima dal Canossa stesso, che si rifà alle sublimi prove di Raffaello. La disputa sul paragone tra pittura e scultura, arti che Vasari per primo nel Proemio delle Vite denominò «figlie del disegno», culminò, ma non terminò, nella celebre Lezzione tenuta da Benedetto Varchi nel marzo del 15476. Essa si travaserà anche nel Seicento, come diremo7. Le ampollose considerazioni filosofiche di Varchi sono corredate da pareri espressi in prima persona da artisti in forma epistolare: come Castiglione, Varchi è consapevole dell’importanza delle parole dirette degli artisti. Le lettere, risultato di un sondaggio (e non sarà l’unico in questa storia), sono prodotte da otto celebri pittori e scultori, tutti membri della neonata Accademia Fiorentina, patrocinata da Cosimo

368; A. Giannotti, La disputa del paragone: arti “sorelle” o “cognate”?, in Vasari, gli Uffizi e il duca, catalogo della mostra, a cura di C. Conforti con F. Funis, F. De Luca, Giunti, Firenze 2011, pp. 396-397; D.H. Bodard – S. Handler, Firenze 13 marzo 1547. Il primo sondaggio della storia dell’arte, in Atlante della letteratura italiana, Ei- naudi, Torino 2011, II, pp.103-110; E. Carrara, Il tema del Paragone delle arti da Le- onardo a Benedetto Varchi, in Nodi vincoli e groppi leonardeschi. Etudes sur Léonard de Vinci, a cura di F. Dubard de Gaillarbois e O. Chiquet, Spartacus-idh, Paris 2019, pp.241-256. Illuminante sui rapporti tra letteratura e arti figurative il classico R.W. Lee, Ut pictura poesis. La teoria umanistica della pittura, trad. it, Sansoni, Firenze 1974; S.S. Scatizzi, Ut pictura poesis, la descrizione di opere d’arte fra rinascimento e neoclassicismo: il problema della resa del tempo e del moto, in «Camenae», n.10 (La représentation: enjeux littéraires, artistiques et philosophiques, de l’Antiquité au XIX siècle), febbraio 2012, pp. 1-21: http://saprat.ephe.sorbonne.fr/toutes-les-revues- en-ligne-camenae/camenae-n-10-fevrier-2012-la-representation-enjeux-litteraires-arti- stiques-et-philosophiques-de-lrantiquite-au-xixe-siecle-235.htm. 6 B. Varchi, Lezzione nella quale si disputa della maggioranza delle arti e qual sia più nobile la cultura o la pittura, Firenze Torrentino 1549 (stile fiorentino), 1550 (stile comune). 7 Il concetto di paragone (tra pittori e scultori, tra antichi e moderni) è stato di recente adottato come chiave interpretativa di alcuni capolavori rinascimentali e barocchi da R. Preimsberger, Paragons and Paragone: Van Eyck, Raphael, Michelangelo, Caravaggio, Bernini, Getty Publications, Los Angeles 2011.

289 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

I de’ Medici, duca di Firenze8. Gli artisti, seppur talvolta reticenti, come Michelangelo, espongono argomentazioni spesso tautologiche, sostenute talvolta da ragionamenti fragili e scontati, oscillanti tra tecnica e teoria, che tuttavia attestano una sorprendente disinvoltura nel maneggiar la penna (e non solo pennello, scalpello e gradina). Tale familiarità attesta di per sé, in primo luogo, la loro non estraneità al mondo intellettuale. La condivisione tra gli intellettuali fiorentini di corte dell’obiettivo sociale, sotteso al sondaggio di Varchi, non mette al riparo da critiche le sbrigative ingenuità degli artisti. Le loro lettere infatti sono bersaglio di taglienti giudizi vergati, ma prudentemente non resi pubblici, da don Vincenzio Borghini, eruditissimo benedettino, Spedalingo dell’Ospedale degli Innocenti e Luogotenenente dell’Accademia Fiorentina, oltre che amico e consigliere di Vasari e intrinseco del duca9. La gara tra le due principali espressioni figurative, allo scopo dichiarato di verificarne l’affinità e la diversità, per assegnare all’una delle due il primato, si gioca in primo luogo sulla verosimiglianza con cui ciascuna di esse sa raffigurare «tutte le cose del mondo, […] le cose naturali e le umane e le divine»10. È certo significativo che Vasari nelle Vite associ ripetutamente ai ritratti che apprezza l’aggettivo “naturale”, declinato al superlativo per quelli più riusciti. La sfida che accende le contese artistiche è una costante della storia dell’arte, e si avvale di celebri quanto remoti precedenti tratti dalla cultura greca e latina, trasmessi soprattutto da Plinio il Vecchio11. Al poligrafo latino si deve la divulgazione di alcuni folgoranti aneddoti: quello del cavallo dipinto da Apelle, di fronte al quale i cavalli vivi nitriscono, riconoscendolo come uguale, mentre passano indifferenti di fronte ai fratelli equini dipinti da artisti meno virtuosi. Quello dei grappoli d’uva dipinti da Zeusi, la cui impareggiabile perizia inganna

8 Giorgio Vasari, Bronzino, Iacopo da Pontormo, Giovan Battista del Tasso, Francesco da Sangallo, Tribolo, Benvenuto Cellini, Michelangelo. 9 I sarcastici commenti borghiniani («per esser cose più da ridere che da disputare») sono pubblicati in Benedetto Varchi, Vincenzio Borghini. Pittura e scultura, cit., pp. 87-140. 10 L’affermazione è di I. Mazzoni, Discorso in difesa della Comedia di Dante distinta in sette libri, Cesena 1587, p. 10, citata in Scritti d’arte del Cinquecento, I: Generalia arti e scienze. Le arti, a cura di P. Barocchi, Einaudi, Torino 1977, p. 116. 11 Plinio il Vecchio, Storia delle arti antiche (introduzione M. Harari, traduzione e commento di S. Ferri), Rizzoli, Milano 2000, pp.185, 210-211; gli aneddoti sono ripresi e ampliati da Paolo Pino, Dialogo di pittura, Venezia 1548, pp.111-113: http://www.memofonte.it/home/files/pdf/scritti_pino.pdf.

290 Il paragone: metodo sovrano della critica d’arte gli uccelli che, ingolositi, si lanciano in volo per beccarli. Ma l’episodio più immaginifico e curiosamente surreale, riguarda il dipinto di Parrasio di un drappo gettato negligentemente a coprire un’opera d’arte. Zeusi, il pittore antagonista di Parrasio, impaziente di valutare il virtuosismo del concorrente, lo esorta a sollevare il lenzuolo per scoprire finalmente il dipinto nascosto. Scoperto l’artificioso inganno, Zeusi stesso proclama vincitore Parrasio, in quanto non si è limitato a ingannare l’occhio ingenuo degli animali, ma ha catturato, con il suo illusionismo pittorico, anche l’occhio smaliziato dell’artista. Abbiamo anticipato che questa disputa, il cui testimone rimbalza da una generazione all’altra del più fulgido Rinascimento, non è meramente teorica, ma persegue un obiettivo concretamente pratico e politico, rivolto al rovesciamento di secolari gerarchie sociali, aprendo all’artista, liberato dal vituperio fabbrile, la dignità delle corti e delle accademie. All’avvilente considerazione sociale degli artisti, perdurante nel Rinascimento, si mostra sottilmente sensibile perfino il “divino” Michelangelo che, piccato nella sua acuitissima suscettibilità, in una lettera del 14 aprile 1543 prescrive seccamente al nipote Lionardo «[…] quando mi scrivi, non far nella sopra scritta: Michelagniolo Simoni, né scultore; basta dir Michelagniol Buonarroti: che così son conosciuto qua […]»12. L’attributo professionale (degradante?) deve essere proscritto in documenti che, come le lettere, passano per mani estranee. L’incessante scandagliare, vagliare e confrontare la natura delle arti, le loro affinità e differenze, i limiti e gli scopi, gli strumenti e i metodi, anche se talvolta il buonsenso cede alla pedanteria hanno stimolato la curiosità intellettuale degli artisti, ne hanno acuminato la consapevolezza espressiva, ne hanno potenziato la strumentazione tecnica, affinato e ampliato il repertorio figurativo. Bronzino, per esempio, nel 1552 tentò una pratica dimostrazione del primato della pittura nel singolare doppio ritratto di Morgante nudo, il nano giullare di corte di Cosimo I de’ Medici, raffigurato come “uccellatore”, prima e dopo una partita di caccia13: «la qual pittura in quel genere è bella e meravigliosa», chiosa Vasari nella vita di Bronzino. Nell’immagine

12 Michelangiolo Buonarroti, Lettere, a cura di E.N. Girardi, Arezzo 1976, n. 246, p. 195. 13 Il Nano Morgante di Agnolo Bronzino. Un dipinto “a due dritti” restaurato, a cura di M. Ciatti, D. Kunzelman, Edifir, Firenze 2012; S. Hendler, Un mostro

291 Rinascite, rinascenze, rinascimenti frontale Morgante è in attesa di catturare le prede, servendosi come esca di un rapace (un gufo?) che, assicurato a una cordicella, gli sta appollaiato sulla mano destra. Sul retro Morgante è di schiena e volge il volto verso lo spettatore, stringendo nella destra le prede. Il soggetto è pertanto visibile interamente, come fosse una scultura e la dimensione temporale è convocata dal tempo che trascorre da prima a dopo la caccia. Se è innegabile che l’ossessivo discettare sulla natura delle arti sia tedioso e retorico, tuttavia ad esso sono in parte debitrici anche altre ingegnose sperimentazioni pittoriche, supportate dall’uso degli specchi, che furono una delle risposte dei pittori all’accusa di inadeguatezza della loro arte, priva della flagrante plasticità della statuaria. Quando l’osservatore gira intorno a una statua, oltre a coglierne il turgore tridimensionale, perspicuo delle figure reali, fonde percettivamente lo spazio e il tempo, colmando momentaneamente il divario tra ciò che si vede e ciò che c’è. La sfida lanciata dagli scultori spalanca dunque all’ingegno dei pittori, come abbiamo visto in Bronzino, terreni insondati, nel tentativo di trasformare il limite dell’arte in una frontiera attraversabile, dove si attuano gli scambi tra percezione e realtà. Ne è (o ne sarebbe?) prova esemplare il leggendario San Giorgio (di cui si sono perse le tracce, se mai è esistito) dipinto da Giorgione «a perpetua confusione degli scultori», come asserisce un ammaliato Paolo Pino (pochi anni più tardi ripreso da Vasari)14. Nel grazioso e bello. Bronzino e l’universo burlesco del Nano Morgante, Maschietto, Firenze 2016. 14 P. Pino, Dialogo di pittura, cit., p. 132: «chiuderò la bocca a questi che voranno diffendere la scultura, come per un altro modo furno confusi da Georgione da Castel Franco, nostro pittor celeberrimo e non manco degli antichi degno d’onore. Costui, a perpetua confusione degli scultori, dipinse in un quadro un San Georgio armato, in piedi, appostato sopra un tronco di lancia, con li piedi nelle istreme sponde d’una fonte limpida e chiara, nella qual transverberava tutta la figura in scurzo sino alla cima del capo; poscia avea finto uno specchio appostato a un tronco, nel qual riflettava tutta la figura integra in schena et un fianco. Vi finse un altro specchio dall’altra parte, nel qual si vedeva tutto l’altro lato del San Georgio, volendo sostentare ch’uno pittore può far vedere integramente una figura a un sguardo solo, che non può così far un scultore; e fu questa opera, come cosa di Georgione, perfettamente intesa in tutte le tre parti di pittura, cioè disegno, invenzione e colorire». La descrizione è ripresa da Vasari che nelle due edizioni delle Vite del 1550 e 1568 nella biografia di Giorgione scrive come l’artista di Castelfranco «ragionando con alcuni scultori nel

292 Il paragone: metodo sovrano della critica d’arte chimerico dipinto in questione la figura del santo si riflette scorciata in uno specchio d’acqua, mentre i suoi fianchi e il dorso appaiono simultaneamente su due specchi, che entrano nella composizione del dipinto. L’ingegnoso dispositivo, destinato a una certa fortuna, entusiasma i letterati: Cassiano dal Pozzo, nel suo soggiorno francese (1625) al seguito del cardinale Francesco Barberini, tra i quadri esposti a Fontainebleau, registra un ritratto di Gaston de Foix, (in realtà un autoritratto del 1529 di Giovan Girolamo Savoldo, oggi al Louvre), dove la visione simultanea del soggetto è raggiunta tramite il medesimo congegno dei due specchi contrapposti, sperimentato da Giorgione15. Non è irrilevante che Cassiano, narrando del quadro, senta il bisogno di richiamare, come fosse in atto, il cinquecentesco paragone tra scultura e pittura. Anche Pierre Dan che nel 1642 illustra in un volume i fasti di Fontainebleau, indugia sul medesimo quadro, associandolo a sua volta alla celebre disputa, che si è evidentemente radicata nella panoplia teorica della critica d’arte16. Agli inizi del Seicento in effetti il paragone sembra irrompere di nuovo sulla scena artistica tra Roma e Firenze. Argomentato in termini fisici e ottici, esso è affrontato da un autorevolissimo personaggio, che non è artista né teorico letterario, ma geniale fisico e matematico. Si allude a Galileo Galilei e alla sua celebre lettera, inviata da Firenze a Roma il 26 giugno 1612, in soccorso dell’amico pittore Ludovico Cigoli, provocato all’abusata discussione da Pietro Bernini e da altri scultori fiorentini attivi nel cantiere della tempo che Andrea Verrocchio faceva il cavallo di bronzo, che volevano, perchè la scultura mostrava in una figura sola diverse positure e vedute girandogli attorno, che per questo avanzasse la pittura, che non mostrava in una figura se non una parte sola; […] Dipinse uno ignudo che voltava le spalle ed aveva in terra una fonte d’acqua limpidissima, nella quale fece dentro per riverberazione la parte dinanzi; da un de’ lati era un corsaletto brunito che s’era spogliato, nel quale era il profilo manco, perchè nel lucido di quell’arme si scorgeva ogni cosa; dall’altra parte era uno specchio che drento vi era l’altro lato di quello ignudo; cosa di bellissimo ghiribizzo e capriccio, […] e mostrava in una vista sola del naturale più che non fa la scultura […]». 15 D. Del Pesco, Au Château de Fontainebleau avec Cassiano dal Pozzo en 1625, in Fontainebleau. “La vraie demeure des Rois, la maison des siècles”, Swan editeur, Paris 2015, p. 61. 16 P. Dan, De la Maison Royale de Fontainebleau, Paris 1642, citato in ibi: «[…] dans lequel, donnant une réponse à la dispute si la Peinture peut représenter le devant et le derrière [d’un corps] de la même façon que la Sculpture, il fait voir les deux côtés du sujet, peignant deux miroirs dont l’un se reflète dans l’autre».

293 Rinascite, rinascenze, rinascimenti cappella Paolina17. Fiorentino, padre del celebre Giovan Lorenzo, Pietro lavora (1611-1613) fianco a fianco del Cigoli nella decorazione della cappella funeraria di Paolo V Borghese, detta appunto Paolina, in Santa Maria Maggiore. Parrebbe che le argomentazioni di Galileo, presumibilmente note a Giovan Lorenzo Bernini che, tredicenne all’epoca della lettera, affiancava il padre nell’azione artistica, si siano fissate come una sorta di sfida, carsica e irriducibile, nel subconscio del giovane scultore. Decenni più tardi, nel 1665, Bernini è a Parigi, chiamato da Luigi XIV per il progetto del Louvre. Conversando con il suo accompagnatore ufficiale, Paul Fréart de Chantelou, per far capire la difficoltà che l’opera in marmo, a causa dell’assenza di colore, incontra nella mimesi della natura, Giovan Lorenzo ricorre a un’ipotesi fantasmatica, che potrebbe essere germinata dalle pungenti asserzioni di Galileo. Bernini afferma: «[…] si quelqu’un se blanchissait les cheveux, la barbe, les sourcils et, si cela se pouvait, la prunelle des yeux, et le lèvres, et se présentait en cet état à ceux même qui les voient tous les jours, qu’ils auraient peine à le reconnaitre […] »18. I volti, completamente bianchi, dunque equiparati alla mancanza di colore

17 Scrive Galileo: «Di quel rilevo che inganna la vista, ne è così partecipe la pittura come la scultura, anzi più; poiché nella pittura, oltre al chiaro et allo scuro, che sono, per così dirlo, il rilevo visibile della scultura, vi ha ella i colori naturalissimi, de’ quali la scultura manca. […] Non ha la statua il rilevo per esser larga, lunga e profonda, ma per esser dove chiara e dove scura. […] E tutto questo è nella pittura non meno che nella scultura, dico il chiaro, lo scuro, la lunghezza e la larghezza: ma alla scultura il chiaro e lo scuro lo dà da per sè la natura, ed alla pittura lo dà l’arte: adunque anche per questa ragione si rende più ammirabile un’eccellente pittura di una eccellente scultura». La lettera galileiana, a lungo ritenuta persa, ispirò il celebre scritto di E. Panofsky, Galileo as a critic of the Art, Spriger, The Hague 1954, tradotto e pubblicato in E. Panofsky, Galileo critico delle arti, Abscondita, Milano 2008. Sulla lettera, la cui autenticità è frequentemente messa in dubbio, si vedano L. Tongiorgi Tomasi, Cigoli e Galilei: cronaca di un’amicizia, e F. Tognoni, Il carteggio Cigoli-Galileo: 1609-1613, in Il carteggio Cigoli-Galileo: 1609-1613, a cura di F. Tognoni, ETS, Pisa 2009, pp. 13-26 e pp. 27-36; la lettera in questione, sulla cui autenticità il curatore Tognoni mi ribadisce in una comunicazione email di nutrire severi dubbi, è pubblicata in ivi, pp.91-95. Ringrazio Federico Tognoni per la squisita gentilezza e per le informazioni che mi ha tempestivamente fornito insieme al pdf del volume da lui curato. 18 Chantelou. Journal de voyage du Cavalier Bernini en France, a cura di M. Stanic, Macula-L’Insulaire, Paris 2001, p. 47 (samedi 6 juin).

294 Il paragone: metodo sovrano della critica d’arte del marmo, dissolvono la fisionomia, al punto da rendere difficile il riconoscimento anche ai famigliari. Questa, aggiungiamo noi, è la ragione per cui i mimi e i Pierrot adottano tale artificio. Circola un aneddoto secondo cui gli argomenti edotti da Galileo per castigare la scultura, sarebbero stati scherzosamente indirizzati dal critico Roberto Longhi all’amico scultore Leoncillo, mentre ne presentava (1954) la prima personale alla Galleria “Il Fiore” di Firenze. L’episodio, vero o inventato, ben si inquadra nelle istanze culturali di Longhi che, non a caso, intitolerà proprio «Paragone» la sua rivista, dedicata al confronto tra le arti figurative e la letteratura, in un paese, afferma il critico, «incerto se la “maggiore gloria della lingua” tocchi alla poesia “in parola” o a quella “in figura”». La citazione è tratta dallo scritto di Stefano Setti, qui di seguito pubblicato, che perlustra, con disinvolta acribia, la fortuna critica del paragone nel XX secolo. Come la fenice, il paragone rinasce incessantemente, portando in dote sondaggi, dibattiti, pareri e polemiche. Esso riesce a conquistare trionfalmente anche la ribalta novecentesca, dove assume declinazioni più concrete e ribalde rispetto ai precedenti rinascimentali e barocchi. «[...] E la questione è rimasta, come dal tempo di Michelangelo e del Varchi, aperta; e lo rimarrà sempre» osserva Mario Labò recensendo il Congresso CIAM di Bergamo del 1949, con cui si apre il rammentato saggio di Setti, che insegue e decifra sussulti, ambiguità, nodi e aporie dell’irriducibile necessità critica del paragone, capace di infiammare simposi e riviste anche nel cuore turbolento del Novecento europeo19. L’avventura moderna del paragone, autentico grimaldello che scardina il farsi dell’arte, monopolizza il sesto convegno Volta, organizzato dalla classe delle Arti dell’Accademia dei Lincei, dal 25 al 31 ottobre 1936, dominato da Le Corbusier e presieduto dallo scultore Romano Romanelli, in sostituzione del designato Marcello Piacentini. La disputa tra le arti, lo abbiamo detto, si estrinseca in termini modificati rispetto ai precedenti storici: ora i contendenti sono tre. L’architettura infatti scende apertamente in campo per farla da padrona, tanto che il titolo del convegno Volta recita Rapporti dell’architettura con le arti figurative. E sarà questa nuova formulazione, intrinsecamente

19 M. Labò, I Ciam e il congresso di Bergamo, in «Comunità», n. 5, settembre- ottobre 1949, pp. 30-31, citato in S. Setti, Dal Paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in Italia 1936-1955, in questo volume.

295 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

(e provocatoriamente) gerarchica a mutarsi, in altri simposi, nel più conciliante titolo di “Sintesi delle arti” e a trainare, non solo nell’Italia fascista e post-fascista, ma anche in Europa, un appassionato e ingarbugliato dibattito, che intreccia istanze corporative e sindacali (ben oltre la caduta del Fascismo), a modelli ideali congiunti a stringenti proposte normative e di salvaguardia professionale. Queste ultime in Italia troveranno sbocco (1942) nella cosiddetta legge del 2%, discussa e contestata, ma alla fine adottata e ripresa anche dall’Italia fattasi democratica e repubblicana (1949)20. I fili cangianti della tumultuosa matassa, che ordiscono il dibattito artistico del secolo scorso, sono sbrogliati con sottile lievità dal saggio di Setti, che chiama in scena architetti, critici, pittori e scultori: da Gideon a Le Corbusier, da Egidio Bonfante a Carlo Perogalli fino a Van Eyck, Sartoris, Michelucci, Sert, Rogers21 e, naturalmente, il perspicace e tonante Bruno Zevi, per limitarci all’architettura. In definitiva il paragone diventa, nella penna di Setti, il prodigioso specchio delle energie creative, degli equivoci, delle frizioni e delle copule dell’animosa convivenza tra le arti del secolo breve. Ma il paragone è anche confronto e gara tra opere congeneri. I concorsi, che hanno prodotto alcuni dei capolavori dell’arte rinascimentale fiorentina, da cui muove la questione del paragone, sono frutto del confronto tra proposte in competizione. Nel 1401 l’apollinea ieraticità della formella del Sacrificio di Isacco, modellata da Lorenzo Ghiberti per la porta Nord del Battistero, si affermò sul turbinante dinamismo di quella presentata da Filippo Brunelleschi. La contrapposizione spaziale tra la battaglia di Anghiari, assegnata (1503) a Leonardo, e la battaglia di Cascina, affidata (1504) a Michelangelo, nel salone del Maggior Consiglio di palazzo Vecchio a Firenze avrebbe perennemente testimoniato la dirompente energia sprigionata dal paragone. Ma, com’è noto, gli affreschi non andarono a buon fine e le fazioni fiorentine furono private di un ghiotto oggetto di contesa, del quale invece furono corredate le partigianerie parigine dai due

20 Legge 839/1942 poi sostituita con la Legge 717/1949 destina il 2% dell’importo dell’opera edilizia alle opere d’arte che, secondo alcuni critici, avrebbero dovuto mitigare la “nudità” dell’architettura contemporanea. 21 S. Setti, Una relazione tra individui liberi: Domus 223-225, 1947 e il rapporto arte-architettura secondo E.N. Rogers, in “Aistarch. Studi e ricerche di storia dell’architettura”, n. 8, 2020, pp. 96-113.

296 Il paragone: metodo sovrano della critica d’arte busti di Luigi XIV, quello ventoso e turbinante Bernini, l’estroverso genio italiano, e quello severo e raggelato di Jean Warin, il fiammingo, medaglista del re di Francia22. Il paragone può lanciare anche richiami tra spazi lontani e tempi remoti, rivelando parentele, suggestioni e prelievi, consapevoli o inconsci; affinità espressive, sensibilità cromatiche e metodi compositivi condivisi, capaci di suggerire genealogie artistiche, reali o presunte. Su questa accezione fa leva il saggio di Elia Siddharta Gaetano, polarizzato su George Seurat e soprattutto sul suo straordinario capolavoro Un dimanche après-midi à l’Île de la Grande Jatte (1884- 1886) ora all’Art Institute di Chicago e sulle relazioni che legano l’esigua, ma formidabile produzione del pittore francese, morto poco più che trentenne, all’arte di Piero della Francesca23. Un’ipotesi critica dall’enunciato acrobatico, che tuttavia ha una lunga storia, le cui tracce sono accuratamente raccolte e meditate in sapienti relazioni da Gaetano, che, come nella trama di un giallo classico, conduce passo passo il lettore attraverso un’intricata vicenda critica, le cui conclusioni restano tuttavia illuminanti, anche se congetturali. Introdotta un’efficace sintesi critica e biografica di Seurat, Gaetano si getta a capofitto nella ricostruzione delle tappe della genesi di un giudizio critico tanto folgorante quanto, apparentemente arbitrario. E, di primo acchito, sconcertante. Occorre premettere che l’opera di Seurat è soggetta fin dall’inizio a interpretazioni che chiamano in causa precedenti classici, più o meno remoti. Già nel 1888 il critico Gustave Kahn denunciò un aperto riflesso del fregio del Partenone nell’armonia delle linee e nella purezza di toni di Puvis de Chavannes e nelle sperimentazioni pittoriche dei neo-impressionisti, il cui capofila era Seurat stesso. Nel 1996 Silvia Panichi sviluppa quel paragone, comparando le Panatenaiche del fregio ateniese di Fidia alla Grande Jatte di Seurat24.

22 D. Del Pesco, Gian Lorenzo Bernini et Jean Warin, les portraits de Louis XIV: une compétition au service du pouvoir in La sculpture au service du pouvoir dans l’Europe de l’Époque moderne, a cura di S. Frommel, P. Migasiewicz, Campisano Editore, Roma 2020, p. 167-182. 23 E.S. Gaetano, “Il fait du Quattrocento”. Georges Seurat e Piero della Francesca: storia di un presunto dialogo, in questo volume. 24 S. Panichi, La Grande-Jatte: “un moderno fregio panatenaico”, in «Commentari d’arte», II, n. 5, 1996, pp. 61-75. Ringrazio l’amica Silvia per avermi messo a disposizione il pdf del suo scritto.

297 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Ma Gaetano insegue le tracce del confronto con un classico rinascimentale, che aggancia la stupefacente tela di Seurat, grande come un affresco (circa 2 per 3 metri), al limpido rigore “matematico” del grande Piero. Il primo filo della trama critica Seurat-Piero è intercettata nell’annotazione di un anonimo commentatore americano che intravvide «le qualità dei primi affreschi italiani» nelle opere di Seurat. L’occasione della recensione fu la prima mostra Oltreoceano degli impressionisti francesi, aperta a New York nel 1886. La Grande Jatte non era esposta, ma figurava in uno dei numerosi studi preparatori predisposti da Seurat. Gaetano perlustra il panorama critico e riallaccia le intuizioni e le argomentazioni di osservatori e di artisti, inanellando una catena lunga quasi un secolo. Essa si avvale dell’occhio di Edgar Degas che, «ben allenato al rinascimento Toscano per i suoi trascorsi fiorentini», osservando il luminoso dipinto di Seurat, chiese al giovane pittore se e quanto conoscesse gli affreschi di Giotto. In realtà Seurat non ha mai messo piede in Italia. Dunque non solo non conosce dal vivo gli affreschi di Giotto, ma neanche quelli di Piero. Ma allora come e dove può aver maturato quella familiarità con Piero, che saprà illustrare il formidabile ingegno di Roberto Longhi, a cui si deve la sfaccettata argomentazione del sorprendente paragone? Non anticipo la soluzione dell’enigma. Seguendo la narrazione di Gaetano il mistero sarà risolto con un colpo di scena, che apre un’altra affascinante storia, traumaticamente interrotta, relativa al visionario progetto di un ecumenico Museo delle Copie che avrebbe raccolto a Parigi i capolavori artistici del mondo.

298 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in Italia, 1936-1955

STEFANO SETTI1

Between the forties and the fi fties the debate on the “Synthesis of the Arts” represented a dilemma for artists, architects and critics all across Europe and especially in Italy. This essay tries to go deep inside this issue through the lens of survey: a way of inquiry that seems to be strictly related to this debate through the old tradition of “Paragone delle arti” in the Italian Renaissance which demonstrates the permanence of some rhetorical aspects that continue to represent the Synthesis of the Arts itself.

1. Dal paragone alla sintesi Tra l’estate e l’autunno del 1949 quasi tutte le riviste italiane di architettura, e non solo, dedicano ampia attenzione al settimo congresso internazionale di architettura moderna (CIAM) tenutosi a Bergamo nel luglio di quell’anno. Sulla rivista «Comunità», l’architetto e storico dell’architettura Mario Labò passa in rassegna le diverse sessioni del simposio soffermandosi con una certa ironia sulla retorica dei dibattiti2. Il congresso era diviso in commissioni presiedute da esperti della materia individuata, chiamati a proporre e condurre una discussione con colleghi e partecipanti. La seconda commissione del VII CIAM di Bergamo, coordinata da Sigfried Giedion era dedicata all’estetica e aveva come scopo quello di dibattere sulla necessità di una nuova

1 Approfondisco un aspetto del mio dottorato di ricerca, in corso, dedicato alla ricostruzione del dibattito sulla sintesi delle arti in Italia nel secondo dopoguerra: Università Cattolica – Milano in cotutela con Graduate Center, CUNY – New York. 2 M. Labò, I Ciam e il congresso di Bergamo, in «Comunità», n. 5, settembre-ottobre 1949, pp. 30-31.

299 Rinascite, rinascenze, rinascimenti sintesi delle arti plastiche. Non era la prima volta che Giedion provava a portare l’attenzione su un tema a lui molto caro come quello della relazione tra le arti. Già durante il CIAM precedente (Bridgwater 1947) un gruppo di studio si era occupato della stessa tematica, ma in seguito all’impossibilità di giungere a una conclusione appagante il dibattito venne riproposto a Bergamo. Malauguratamente anche da quest’ultima seduta non si ricavò nulla di soddisfacente come evidenziato dalla penna di Labò: «[...]Si poteva supporre che la commissione di Giedion riuscisse a determinare in via categorica i rapporti fra le famose arti? Ci si è gingillato, per non parlare che dell’Italia, e di tempi recenti, un Congresso Volta di nove sedute. “Primato” bandì in seguito un referendum. E la questione è rimasta, come dal tempo di Michelangelo e del Varchi, aperta; e lo rimarrà sempre»3. Nonostante Labò si dimostri diffidente nel voler definire la questione dei rapporti tra le arti, ricordando le radici storiche di questa discussione, le sue battute sono un ottimo pretesto per provare a far luce su una questione sfaccettata che caratterizza il dibattito internazionale degli anni quaranta e cinquanta del ’900, qui analizzata in forma parziale con uno sguardo privilegiato all’Italia e con un’attenzione particolare a una modalità di indagine connaturata alla disputa: il questionario. Questa tipologia di inchiesta si configura come strumento fortunato adottato da intellettuali, critici o storici, per sollecitare opinioni scritte a pittori, scultori e architetti in un momento storico che sceglie di riportare alla ribalta questo tema, ravvisando nel Rinascimento italiano un prototipo ambivalente: un contenitore di esempi concreti e un riferimento necessario che legittima la possibilità di continuare a disquisire sull’argomento. Il chiamato in causa Benedetto Varchi, da pioniere, nel 1547, promosse infatti a Firenze un’inchiesta pubblica su quale fosse l’arte più nobile tra pittura e scultura: ai tempi l’architettura era assente, o giocava un ruolo autonomo, essendo l’unica arte al di sopra della natura e quindi inflessibile alle leggi delle arti sorelle che, preferibilmente, gareggiavano con musica e poesia. Il “Paragone delle arti” divenne una vera e propria categoria retorica: una relazione di comparazione, per l’appunto, volta a decretare un possibile ordine gerarchico tra le arti per mezzo di analogie e metafore4.

3 Ibidem. 4 Mi limito a indicare: M. Collareta, Le arti “sorelle”. Teoria e pratica del “paragone”, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, a cura di G. Briganti, Tomo II,

300 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955 2. Prove di convivenza Queste prerogative, presto diventate tradizione a cui fare riferimento, in Italia evidentemente rafforzarono la volontà di continuare il dibattito anche a distanza di secoli mantenendo, nel complesso, alcune caratteristiche. Nella prima metà del XX secolo, con particolare enfasi tra gli anni trenta e gli anni cinquanta, si assiste in maniera sempre più incalzante a una sorta di rivalsa da parte di pittori e scultori nei confronti degli architetti, sostenuti anche da una certa critica impegnata a leggere l’architettura moderna come una costola della pittura e delle sue conquiste. A partire dagli anni trenta le occasioni per dibattere attorno al tema dell’unione delle arti (poi nota anche come “sintesi” delle arti), sono all’ordine del giorno con un conseguente proliferare di inchieste dovute anche alla rinascita della pittura murale che impose un raffronto diretto tra artisti e architetti5. Tuttavia, proprio questi momenti, non furono altro che occasioni per ogni “arte” di rivendicare la propria superiorità. Manifesti, dichiarazioni ed esposizioni esaltavano l’unione delle arti intesa come decorazione dell’architettura, funzionale a riabilitare un “rinascimento moderno” e un «tutto armonico adatto alla nostra terra e al nostro cielo», come pronunciò nel 1936 Romano Romanelli presidente del VI Convegno Volta dedicato al rapporto dell’architettura con le arti figurative6. In concomitanza di questo fatto e in linea con una prassi già consolidata di promozione delle arti all’interno del canale privilegiato della pubblicistica periodica specialmente di architettura7, nel

Electa, Milano 1988, pp. 569-580; A. Payne, Alberti and the Origins of the paragone Between Architectural and the Figural Arts, in, Alberti teorico delle arti, a cura di A. Calzona, F.P. Fiore, A. Tenenti e C. Vasoli, Olschki, Firenze 2007, pp. 347-368; A. Giannotti, La disputa del paragone: arti “sorelle” o “cognate”?, in Vasari, gli Uffizi e il duca, catalogo della mostra a cura di C. Conforti con F. Funis e F. De Luca, Giunti, Firenze 2011, pp. 396-397. 5 Muri ai pittori. Pittura murale e decorazione in Italia 1930-1950, catalogo della mostra a cura di V. Fagone, G. Ginex, T. Sparagni, Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano 1999. 6 R. Romanelli, in Convegno di arti. Rapporti dell’architettura con le arti figurative, 25-31 ottobre 1936, Reale Accademia d’Italia, Roma 1937, pp. 13-19. 7 P. Barbera, Le arti figurative nelle riviste di architettura, in Architettura dell’Eclettismo. Il rapporto tra l’architettura e le arti (1930-1960), a cura di L. Mozzoni, S. Santini, Liguori Editore, Napoli 2009, pp. 139-151. Lo strumento dell’inchiesta sembra congeniale alla pubblicistica del Ventennio. Tra i tanti ricordo: l’inchiesta

301 Rinascite, rinascenze, rinascimenti novembre del 1936 la rivista «Rassegna di Architettura», prendendo atto dell’insuccesso del convegno Volta per un eccessivo smembramento della questione, «come succede sempre», indìce un referendum per fare chiarezza con la speranza di giungere a un risultato positivo da cui possa nascere un concreto piano di attività. Vengono poste quattro domande: dalle linee generali dei rapporti tra architettura e arti figurative, a come devono essere intesi questi rapporti; dalla formazione all’apprendimento di specifiche tecniche8. In redazione arrivano le condotta da Bottai su «Critica Fascista» tra il 1926 e il 1927 (Arte fascista, in «Critica Fascista», n. 20, 15 ottobre 1926, p. 383; G. Bottai, Resultanze dell’inchiesta sull’arte fascista, in «Critica Fascista», n. 4, 15 febbraio 1927, p. 61); Il referendum sul rapporto tra fascismo, tradizione e modernità a cura di Lamberto Vitali su «Domus» (dal titolo Dove va l’arte italiana. Un referendum che interessa quanti seguono gli sviluppi della giovane arte italiana) in cui si ponevano cinque domande ad artisti (tra cui Luigi Veronesi, Fausto Pirandello, Renato Birolli, Aligi Sassu, Giacomo Manzù) di cui una specificatamente dedicata alla rinascita dell’affresco e al rifiorire della grande decorazione. Le risposte compaiono su «Domus» n. 108, dicembre 1936, pp. 54-55, «Domus», n. 109, gennaio 1937, pp. 30-31 e «Domus», n. 110, febbraio 1937, pp. 30-31; Il referendum indetto tra l’11 dicembre 1938 e il 9 gennaio 1939 da Telesio Interlandi sulla rivista «Quadrivio» dal titolo Referendum sull’arte moderna. 8 L’inchiesta di Rassegna di Architettura, in «Rassegna di Architettura», novembre 1936, p. 381. In calce a un breve sommario delle varie e diverse posizioni emerse al Convegno Volta (I rapporti dell’architettura con le arti figurative al Convegno Volta, pp. 377-381) sono elencate le quattro domande: «I) Si può impostare efficacemente il problema dei rapporti dell’architettura con le arti figurative nelle sue linee generali? Non è forse più opportuno tentar di definire quali dovrebbero essere i rapporti della pittura e della scultura con le diverse forme dell’architettura. E principalmente con l’architettura religiosa; con l’architettura civile di carattere pubblico; con l’architettura delle case di abitazione? II) Come si devono intendere questi rapporti? Ammesso che l’architetto concepisca l’opera sua completa di ogni elemento decorativo si deve richiedere una contemporaneità di realizzazione dell’architettura e delle parti figurative che le si accompagnano? Non è preferibile ammettere anche per i nostri tempi quella certa indipendenza quella più tranquilla successione di opere, per cui la pittura e la scultura si innestavano e si adattavano ad opere esistenti assolvendone il programma decorativo? Quale deve essere il rapporto di misura, di equilibrio fra le arti figurative e l’architettura, quale l’importanza e la funzione dell’elemento decorativo? III) Le figure del pittore, dello scultore e dell’architetto, oggi nettamente distinte, in passato si confondevano spesso in una sola persona; comunque esse derivavano da un unico ceppo e, nella pratica dell’arte, erano strettamente legate fra loro da una comunanza di vita e di lavoro. È desiderabile un ritorno ad una più stretta colleganza spirituale degli artisti delle diverse arti, almeno nel loro periodo di

302 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955 risposte di Ambrogio Annoni (architetto), Aldo Carpi (pittore), Gio Ponti (architetto), Carlo E. Rava (architetto), Alberto Neppi (critico), Emilio Lancia (architetto), Mario Tinti (critico), Ottavio Cabiati (architetto), Marziano Bernardi (critico), Duilio Torres (architetto). Ad eccezione del pittore Carpi, che in realtà si esprime in qualità di docente dell’Accademia di Brera, sono assenti pittori e scultori le cui sorti sono decise dai “fratelli maggiori” architetti, essendo l’architettura l’unica forma d’arte plastica che racchiude in sé tutte le altre arti, come specifica Torres nell’ultimo intervento pubblicato. Dopo molteplici opinioni in merito alle prime questioni, in cui si invoca anche la collaborazione direttamente nei cantieri quali moderni modelli di corporazioni9, le varie risposte sono quasi tutte orientate nel riconoscere l’importanza di un insegnamento completo soprattutto dal punto di vista delle tecniche proprie di ogni disciplina: l’unità delle arti necessita il ripristino delle specializzazioni così da prevenire figure “ibride” che potrebbero solo creare confusione10. In seguito e grazie a queste discussioni, dopo diversi anni, nel 1942 si promulgò una legge che stabiliva l’obbligo di “convivenza” tra le arti, riservando il 2% del

formazione? IV) Devono le scuole d’arte aumentare e perfezionare l’insegnamento delle varie tecniche o è più utile per l’allievo che esse limitino l’insegnamento ai problemi generali dell’arte e della cultura lasciando che l’allievo impari dalla pratica diretta dell’arte o del mestiere i procedimenti e gli accorgimenti della tecnica?». 9 È Mario Tinti a intravedere la necessità di moderne corporazioni fasciste ispirate a modelli medievali, come aveva già sostenuto in una lunga trattazione sull’argomento comparsa in tre puntate sulla rivista «Quadrivio»: «Quando si parla di organizzazione corporativa delle arti plastiche, bisogna avere in vista come suprema meta e supremo problema, l’architettura e precisamente l’edificio pubblico». M. Tinti, Unità e gerarchia delle arti, in «Quadrivio», n. 9, 1 ottobre 1933, p. 7; n. 10, 5 ottobre 1933, p. 7; n. 11, 15 ottobre 1933, p. 6. 10 I risultati della nostra inchiesta, in «Rassegna di Architettura», dicembre 1936, pp. 444-448; gennaio 1937, pp. 33-36. Ancora nel 1940 la rivista «Rassegna di Architettura» dedica un numero intero ai rapporti tra architettura e arti figurative attraverso un fascicolo riccamente illustrato così da dare voce alle opere piuttosto che alle svariate elucubrazioni sull’argomento. Le due pagine introduttive lamentano l’inutilità dei convegni che «trascurano l’analisi qualitativa e quantitativa delle opere» alimentando pensieri utopici perché «i desideri sono superiori alle risultanze». B.M., L’architettura e le arti figurative, in «Rassegna di Architettura», n. 1, gennaio 1940, pp. 1-2.

303 Rinascite, rinascenze, rinascimenti costo di edifici pubblici a opere di artisti invitati a partecipare con «decorazioni artistiche», come indica un primo abbozzo della norma11. Nel 1942 come preannunciato da Labò, comparve uno dei più completi e famosi sondaggi dedicati all’argomento su «Primato», la rivista dedicata alle arti e alle lettere diretta dal fautore della legge: il ministro Bottai12. L’inchiesta era rivolta a pittori, scultori e architetti chiamati a discutere sulla natura e sul risvolto pratico dell’emendamento13. Per l’occasione furono interpellati 12 pittori, 7 architetti, 2 scultori e Pietro Maria Bardi come critico14. Nessuno contrastò la validità della legge;

11 In seguito al Convegno Volta e a una circolare del 29 aprile 1937 «Decorazioni artistiche nelle opere edilizie» venne promulgata la Legge 839/1942 poi sostituita con la Legge 717/1949. D. Guzzi, 2% considerazioni in margine, Joyce & Co, Roma 1990, p. 177; 2% / 717 / 1949. La legge del 2% e l’arte negli spazi pubblici, Cura. Books, Roma 2017. 12 Sulla nascita della rivista, sulla corrispondenza inedita che Bottai ha intrattenuto con gli artisti, nonché sul citato sondaggio del 1942: S. Salvagnini, Il sistema delle arti in Italia. 1919-1943, Minerva Edizioni, Bologna 2000, pp. 403-427. Sulla figura di Bottai: A. Masi (a cura di), G. Bottai. La politica delle arti. Scritti 1918-1943, Libreria dello Stato, Roma 2009 (è presente un’antologia dei suoi scritti redatti per «Primato»). 13 Gli interrogativi sono elencati in una nota redazionale su «Primato», n. 8, 1942, p. 152: «Come vedono, gli artisti praticamente configurarsi il loro concorso alla nuova iniziativa promossa dallo stato? Quali possono essere i modi più idonei di una collaborazione, veramente proficua ed efficace, tra l’architetto e l’artista al quale sia commesso di eseguire le opere destinate alla decorazione dell’edificio pubblico? E, tenuto conto dell’esperienza sin qui fatta, degli inconvenienti lamentati in passato e di quelli che, in maggior numero, possano eventualmente verificarsi in futuro, quali potrebbero essere i mezzi più opportuni per eliminarli? Come si può intendere il problema della decorazione degli edifici pubblici nei riguardi della tecnica? Codesta nuova pratica della decorazione potrà influire, a lungo andare, sullo svolgimento del gusto? E il sindacato delle Belle Arti, quale azione potrà esercitare circa la scelta degli artisti incaricati delle opere decorative? La partecipazione, certamente vasta quando non addirittura totalitaria, della categoria degli artisti alla decorazione degli edifici pubblici avrà influenza sulla funzione e gli scopi delle esposizioni sindacali e delle massime mostre nazionali?» D. Guzzi, 2% considerazioni in margine, cit. (sono riportate le risposte degli artisti interpellati dalla rivista «Primato»); V. Zagarrio, “Primato”. Arte, cultura, cinema del fascismo attraverso una rivista esemplare, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2007, in particolare i dettagliati capitoli II e III. 14 M.G. Messina (2% / 717 / 1949. La legge del 2% e l’arte negli spazi pubblici, cit., p. 20), mette in evidenza il tono e l’andamento pacato del sondaggio anche

304 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955 piuttosto, tutti gli interpellati (compresi i promulgatori) vi scorsero l’occasione perfetta per rivendicare la superiorità della propria arte, sfoderando, come da tradizione, le armi migliori: non pennelli e squadre, ma carta e penna. L’inchiesta, condotta dal braccio destro di Bottai, il pittore Virgilio Guzzi, era squilibrata a favore della pittura e velatamente pretendeva una sorta di “J’accuse” da parte degli architetti imputando loro colpe arcaiche riferite anche a quel retaggio culturale sulla superiorità della loro arte. A “depistare” l’andamento del sondaggio fu la stessa introduzione di Guzzi che sottolineava come questa nuova legge «impone l’obbligo di considerare le arti figurative sullo stesso piano dell’architettura» poiché immette «l’attività artistica in un preciso ordine di fatti e di responsabilità sociali». Per Guzzi il riconoscimento di una funzione delle arti (pittura e scultura) da parte dello Stato avrebbe infatti cancellato pregiudizi sulla loro “subordinazione” nei confronti dell’architettura. Preconcetti affermati durante il Convegno Volta del 1936 dominato da Le Corbusier che non si era fatto scrupoli a sostenere che l’architettura non ha alcun bisogno di «vecchie rifritture» come gli affreschi e che i pittori, non avendo il «dono» dell’osservazione, non possono più pretendere di lavorare sui muri15. La replica di Guzzi arriva tardiva: «La verità è che se il pittore, come vuole il Le Corbusier, dev’essere degno dell’architettura, l’architetto bisogna che sia degno della pittura. E le arti, in quanto espressioni dell’umanità, sono tutte primordiali e necessarie»16. per l’assenza di nomi ben più coinvolti e divisivi come Oppo, Mariani e Sironi. La rubrica si esaurisce in 5 numeri (11-15) nel 1942 e i protagonisti intervistati, in ordine di comparsa, sono: Marcello Piacentini, Ferruccio Ferrazzi, Ottone Rosai, Massimo Campigli, Melchiorre Bega, Giuseppe Pagano, P.M. Bardi (unico critico d’arte), Giovanni Vagnetti, Felice Casorati, Arnaldo Foschini, Michele Guerrisi, Carlo Carrà, Nino Bertocchi, Renato Birolli, Quinto Martini, Filippo De Pisis, Mario Labò, Gio Ponti, Alberto Salietti, Enrico Paolucci, Gino Severini, Giovanni Michelucci. 15 Le Corbusier, Le tendenze dell’architettura razionalista in rapporto alla collaborazione della pittura e della scultura, in Convegno di arti, cit., pp. 119-129. Sulla partecipazione di Le Corbusier al convegno: R. Golan, Equivoci. Le Corbusier al convegno Volta, in L’Italia di Le Corbusier, catalogo della mostra a cura di M. Talamona, Electa, Milano 2012, pp. 286-295. 16 V. Guzzi, La legge per le arti figurative, in «Primato. Lettere e arti d’Italia», n. 8, 1942, p. 153. Guzzi aveva esposto le stesse perplessità in seguito al convegno Volta: «Come discutere sui rapporti fra l’architettura e le arti figurative senza essersi chiesto avanti che cosa sia quell’architettura o pittura e scultura cioè l’arte stessa?». V. Guzzi,

305 Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Ulteriore evidenza di come intendesse traghettare la faccenda alle origini. All’interno del sondaggio le opinioni di pittori e scultori della cosiddetta “arte figurativa” (gli astrattisti, traditori, andavano a braccetto con gli architetti “nudisti”) si dividono tra ponderati riconoscimenti (Bertocchi, Martini), precisazioni tecniche sul mestiere (Severini) e invocazioni all’eroico passato in cui la funzione del pittore era determinante per un’architettura (Carrà). A conti fatti e attraverso alcune punzecchiature, emerge un desiderio di equiparazione delle discipline perché, a dirla con Birolli, «non v’è ragione che prevalga a qualunque costo il complesso, se la parte lo ha superato»17. D’altro canto anche gli architetti si dimostrano entusiasti di questa rinnovata fratellanza per una nuova unità e sostengono di voler fare il possibile per creare condizioni ottimali, sottolineando però che ragioni pratiche impongono la “sottomissione” della pittura e della scultura all’architettura (Bega, Michelucci). Tutto sommato gli architetti concordano nel fatto di aver sempre ricercato e avvalorato la collaborazione come conferma Pagano, già sostenitore dell’apporto decisivo dei “maestri pittori”18. In maniera remissiva, seppur fiducioso nei confronti dell’architettura “nudista” più preparata «a trovare le applicazioni veramente attuali della pittura e della scultura», l’interrogato Mario Labò (ignaro dei futuri sviluppi, o non sviluppi) già notava come questa legge, volente o nolente, riproponesse l’annosa questione: «[...] è opinione diffusa, per non dire volgare, che l’architettura ‘moderna’, valendosi di quella sua autorità, abbia decretato l’ostracismo della pittura e della scultura; ed è anzi un’accusa volentieri ripetuta. La legge del due per cento verrebbe in un certo senso ad accreditarla, dimostrando che occorreva un atto di imperio per far rientrare la scultura e la pittura dove i padroni di casa (gli architetti) non la volevano; ed è a garantir loro un minimo di ospitalità, commisurato appunto al due per cento»19. In definitiva gli architetti si dimostrano uniti nel rivendicare il loro mestiere e mettono

Arte contemporanea. Architettura e arti figurative al VI Convegno Volta, in «Nuova Antologia», 16 novembre 1936, p. 233; F. Carli, Il Convegno Volta del 1936, in Muri ai pittori. Pittura murale e decorazione in Italia 1930-1950, cit., p. 103. 17 R. Birolli, in «Primato. Lettere e arti d’Italia», n. 13, 1942, p. 253. 18 «[...] I nostri primi amici, e direi anzi i nostri primi maestri, sono stati i pittori. Ricordo Casorati, Carrà, Sironi e i futuristi di anteguerra. È assolutamente infondato il pregiudizio di ostilità degli architetti verso i pittori». G. Pagano, Discussioni sulla relazione di Ugo Ojetti, in Convegno di arti, cit., p. 60. 19 M. Labò, in «Primato. Lettere e arti d’Italia», n. 13, 1942, p. 254.

306 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955 in guardia i futuri colleghi sostenendo il diritto di avere l’ultima parola su un’opera nata dal loro intelletto: ben accetti pittori e scultori purché scelti e “pilotati” dal regista architetto. Lo scopo dell’inchiesta, appare in realtà come una “messa in scena” per arrivare a un (forse) desiderato scontro finale tra Guzzi e Piacentini che aveva già espresso la sua opinione sul tema in una comunicazione inviata al Convegno Volta: occasione in cui aveva ribadito il “disagio” (per stili, indirizzi e formati) della pittura contemporanea la quale avrebbe ritrovato la sua funzione solo grazie al “supporto” dell’architettura, da sempre «a capo delle altre sorelle»20. Anche su «Primato» Piacentini non accetta che qualsiasi maestranza possa dire la sua: «il pittore non può considerarsi uno al quale s’è dato un muro da dipingere a suo piacimento: egli deve fare opera coordinata e armonica con tutto l’edificio, altrimenti con quale scopo si ricorrerebbe a lui?». Sostiene inoltre l’effettiva possibilità che un’opera d’arte possa rendere maggiormente espressiva ed emotiva un’architettura e arrivare addirittura a ribaltare il rapporto come si verificò nella Cappella Sistina dove prevale il valore pittorico su quello architettonico. Esempio che gli è funzionale a mettere in luce l’assurdità del dibattito dal momento che «quando un’opera d’arte arriva a tali altezze le nostre discussioni si svuotano di senso». Come a dire che una forzata collaborazione e ricerca di unità è un fatto da mediocri perché quando avviene spontaneamente «non sai scoprire dove termina l’opera dell’architetto e dove comincia quella dell’artista, quale l’animo dell’uno e quale dell’altro. Qui l’arte è veramente una e indivisibile»21. Questo è il punto: meglio saper fare piuttosto che chiedersi come fare. Guzzi non accetta una virgola del ragionamento a partire dalla terminologia partigiana che vuole gli architetti “direttori d’orchestra”, “datori di lavoro”, “padroni di casa”. Il pittore è infatti convinto che questa legge possa combattere la mancanza di fiducia tra le parti e sconfiggere l’antico pregiudizio ai suoi occhi ancora in voga e non debba per forza arenarsi su distinzioni di opere murali o da cavalletto nonostante, tra le righe, anche lui torni a riproporre quell’equivoco concetto di “nuovo

20 Il discorso di Piacentini, assente perché ammalato, fu letto da Romanelli e in seguito pubblicato: M. Piacentini, Le tendenze dell’architettura razionalista in rapporto all’ausilio delle arti figurative, in Convegno di arti, cit., pp. 95-107. 21 M. Piacentini, in «Primato. Lettere e arti d’Italia», n. 17, 1942, p. 317.

307 Rinascite, rinascenze, rinascimenti monumentalismo” da cui evidentemente era molto difficile liberarsi22. Prende in contropiede Piacentini e porta l’esempio di Michelangelo a suo favore: «una pittura può, non dico avvalorare, ma addirittura creare una architettura». Forse appagato per aver affrontato l’emblema di una visione politica dell’arte opposta alla sua, Guzzi chiude l’intera rubrica con una sottomessa considerazione: «La polemica, come si vede, è ancora in una fase prevalentemente teorica»23. L’indagine non poteva che arenarsi seppur scaturita dalla concretezza di una legge: una legge fatta per gli artisti, ma di cui si preoccupano maggiormente gli architetti24. Ciononostante, negli anni a venire non si rinunciò a trovare possibili risposte: troppo facile liquidare un dibattito lungo cinquecento anni, meglio continuare anche perché, agli occhi dei protagonisti (in larga parte ancora architetti), le contingenze storiche resero la faccenda più attuale che mai. Si prospettavano infatti tempi giusti per pensare a una “ri-sintesi” delle arti maggiori, come sostenne Le Corbusier in risposta a una domanda, posta da una rivista, sulla relazione tra le arti25. In effetti questo dibattito assunse un carattere decisamente ampio come ben si evince da una sommaria valutazione di interventi su scala internazionale apparsi tra il 1940 e il 1945: essenzialmente un’eco scaturita dai pensieri di Giedion sulla necessità di ripensare al ruolo degli artisti per rendere più comunicabile il linguaggio architettonico e “umanizzare” i suoi eccessi arrivati all’apice della disumanità con le fasi più estreme del funzionalismo26.

22 S. Salvagnini, Il sistema delle arti in Italia, cit., p. 426. 23 V. Guzzi, in «Primato. Lettere e arti d’Italia», n. 17, 1942, p. 318. 24 G. Ginex, Il dibattito critico e istituzionale sul muralismo in Italia, in Muri ai pittori, cit., pp. 25-43. 25 «[...] In the epic of architecture now emerging from the womb we can already read the signs of a re-synthesis of the major arts.» Da: C. Pearson, Le Corbusier’s “synthesis of the major arts” in the context of the French Reconstruction, in “The Built Surface. Architecture and the pictorial arts from Romanticism to the twenty- first century” Vol. 2, a cura di K. Koehler, Ashgate, Farnham 2002, pp. 209-227, in particolare p. 214 e nota 16. Non è specificato il nome della rivista neanche da Le Corbusier che utilizzerà in seguito le risposte per la sua pubblicazione Propos d’urbanisme, Bourrelier, Parigi 1946. 26 Á. Moravánszky, Re-Humanizing Architecture: The Search for a Common Ground in the Postwar Years, 1950-1970, in Re-Humanizing Architecture: New Form of Community, 1950-1970 a cura di Á. Moravánszky e J. Hopfengärtner, Birkhäuser,

308 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955 3. I questionari CIAM Nell’immediato dopoguerra, in un contesto politico ben differente, i questionari sull’argomento proseguirono, tanto che all’interno dei CIAM, roccaforti del razionalismo europeo, gli architetti si trovarono a pilotare il dibattito e a discutere su come coinvolgere i colleghi artisti. Nel 1947 Giedion, interessato a sfruttare i congressi come cassa di risonanza della possibilità per l’architettura di soddisfare aspetti legati alla sfera “emotiva”, non senza esitazioni decide di dedicare una sessione del primo CIAM del dopoguerra a problemi di natura estetica: lavori di squadra tra architetti, pittori e scultori, come avveniva nel medioevo e nel Rinascimento27. Seguendo il monito lanciato dall’inglese gruppo MARS (Modern Architectural Research Group), interessato a esaminare le reazioni emotive dell’uomo comune (l’uomo della strada) di fronte all’arte e all’architettura moderna, Giedion e Hans Arp predispongono un questionario per i partecipanti con un’apposita sezione dedicata all’impatto delle arti sorelle e al rapporto tra architetti pittori e scultori con due precise domande: una sulla funzione della pittura e della scultura all’interno dell’architettura, una sulle effettive possibilità e modalità di questa cooperazione. Quest’ultima contemplava: la collaborazione tra architetto e pittore in fase di progetto, soluzioni per superare l’attuale problema della separazione delle arti, possibilità di iniziativa per il pittore e lo scultore in particolari progetti28. Purtroppo non si conoscono le risposte di tutti i componenti eccetto una relazione di J.M Richards (direttore della rivista inglese «Architectural Review») sull’importanza di promuovere valori condivisi con e per l’“uomo della strada”; una sentita lettera della scultrice Barbara Hepworth che denuncia l’allontanamento degli architetti interrogandosi sul motivo per cui non si collabora più; l’entusiasta Le Corbusier (che aveva da poco redatto il suo più intimo, ma ancora poco spendibile, credo

Basel 2017, pp. 23-41; M. Panzeri, Architettura e progetto umanistico, Jaka Book, Milano 2013. 27 Il VI CIAM si svolse a Bridgwater dal 7 al 14 settembre 1947. Per gli atti ufficiali: S. Giedion, A Decade of New Architecture, Edition Girsberger, Zürich 1951, pp. 31-37. 28 Ivi, 32.

309 Rinascite, rinascenze, rinascimenti sulla sintesi delle arti con il testo sullo “Spazio indicibile”)29 che invoca la (ri)formazione di una coscienza individuale per arrivare a un’armonia quale sinonimo di collaborazione; Aldo Van Eyck che si interroga sulla missione dei nuovi CIAM per combattere l’impoverimento umano30. Nell’introduzione al questionario è Giedion stesso a chiarire lo scopo dei rinnovati CIAM invitando a superare stereotipi legati al passato: «Abbellire un edificio è un bisogno eterno dell’uomo e un problema sociale è come si debba soddisfare oggi tale bisogno. Non è più possibile coprire le mura indifferentemente con affreschi come durante il Rinascimento, oppure spalancare i soffitti a celestiali illusioni come nel periodo barocco. E il pavimento deve avere un trattamento diverso dai mosaici dell’epoca romana. [...] in tempi precedenti l’artista poteva affrontare il problema fin dall’inizio»31. Come anticipato in apertura, data l’impossibilità di definire al meglio il dibattito, Giedion decise di riproporlo al successivo VII CIAM tenutosi a Bergamo nel luglio del 194932. Gli atti ufficiali riportano il lavoro della II commissione dedicata alla collaborazione tra architetti pittori e scultori presieduta da Giedion e Richards paladini della necessità di una «nuova sintesi delle arti plastiche» che rispetti i principi dei CIAM e sia il più sincero specchio dell’epoca33. Con grande “stupore” viene subito anticipata la richiesta di rimandare la discussione al successivo CIAM a cui si dovrà arrivare con esempi concreti (positivi e negativi) di collaborazioni, grazie alla formazione di un’ulteriore commissione per gestire i lavori preparatori34.

29 Le Corbusier, L’Espace Indicible, in «Art», numero speciale di «L’Architecture d’Aujourd’hui», gennaio 1946, p. 10. 30 S. Giedion, A Decade of New Architecture, cit., pp. 33-37. 31 Ivi, p. 31. Traduzione italiana da dattiloscritto in Archivio Piero Bottoni, DAStU, Politecnico di Milano (71. 135-149 / VI CIAM, 1947). 32 Il VII CIAM si svolse a Bergamo dal 22 al 31 luglio 1949. La riunione di preparazione del congresso (Parigi 1948) aveva individuato due temi principali: la messa in pratica della “Carta di Atene” e la Sintesi delle Arti Maggiori. E. Mumford, The CIAM Discourse on Urbanism, 1928-1960, The MIT Press, Cambridge-London 2000, pp. 179-200. 33 7 CIAM Bergamo 1949. documents, edizione Kraus Reprint, Nendlen 1979, s.p. 34 All’interno degli atti dell’VIII CIAM (Hoddesdon 1951) non vi è traccia dei risultati di queste commissioni: CIAM 8. The Heart of the City, a cura di J. Tyrwhitt,

310 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955

Fig. 1 – Durante il VII CIAM (Bergamo 22-31 luglio 1949) nello studio dei BBPR a Milano si riuniscono artisti e architetti come recita la didascalia di questa immagine pubblicata all’interno dell’articolo di Ernesto N. Rogers, Architetti a nudo, in «Tempo», n. 33, 13-20 agosto 1949, p. 27: «Nello stesso studio durante un ricevimento offerto ai congressisti, Marino Marini abbevera il cavallo del proprio “gentiluomo”. Alla scherzosa cerimonia partecipano, da sinistra, i pittori e scultori Weber, Marini, Noguchi, Teresa Caro, Max Bill. La loro presenza è giustificata dal fatto che a Bergamo sono stati discussi i rapporti fra l’architettura e le altre arti plastiche». A Bergamo i colloqui vertevano essenzialmente su due punti: il vecchio sondaggio di Arp e Giedion sui rapporti tra le arti plastiche, per l’occasione condensato e attualizzato, e la ricezione dell’uomo comune (“l’homme de la rue”) di fronte a queste manifestazioni. In aggiunta vi erano cinque domande volute da Richards e il gruppo MARS incentrate sulle finalità personali e collettive delle scelte progettuali, con attenzione al possibile contributo delle arti plastiche per soddisfare necessità emozionali. Le risposte sono discusse all’interno della seduta plenaria aperta da Giedion che ribadisce il dovere dei CIAM di mostrare una strada possibile di fronte al problema e sottolinea come i questionari proposti non servono a fare statistiche ma a orientare il pensiero, compiacendosi di aver appreso che due architetti tra cui Gropius (per il campus di Harvard), in seguito a queste riflessioni, abbiano ben pensato di chiamare artisti a collaborare a progetti in corso35. I partecipanti sono: Ernesto N. Rogers; Le Corbusier che parla di architetto plasticien e annuncia la creazione del parigino Padiglione della sintesi delle arti; J. Luis Sert; Max Bill che elogia il progetto di Le Corbusier per le Unité di Marsiglia e propone griglie per individuare

J.L. Sert e E.N. Rogers, Pellegrini and Cudahy Publisher, New York 1952. 35 7 CIAM Bergamo 1949. Documents, cit., s.p.

311 Rinascite, rinascenze, rinascimenti concretamente spazi destinati all’etica e all’estetica; Helena Syrkus; lo scultore Noguchi36 che sostiene la necessità dell’opera d’arte “anonima” per la riuscita della sintesi; l’architetto-pittore Gabriele Mucchi che auspica un cambio di linguaggio per produrre una sintesi decifrabile e il critico americano Sweeney, già curatore del MoMA e futuro direttore del Solomon R. Guggenheim. Dal garbuglio delle opinioni emergono aspetti da non sottovalutare che puntano al superamento dell’ostacolo senza nostalgie: dalla necessità di fornire in maniera ambivalente gli strumenti per educare all’arte addetti ai lavori e non, all’autonomia delle discipline al fine di definire collaborazioni funzionali tra individui liberi, come sostiene Rogers. La necessità di coordinazione piuttosto che di collaborazione forzata sembra essere un punto accettato da tutti a cui segue l’urgenza, avanzata da Sert, di individuare, grazie a un’urbanistica intelligente e al supporto di istituzioni, luoghi adatti in cui si possa sviluppare una sintesi delle arti lontana da logiche capitaliste (seguendo il monito della rappresentante sovietica Syrkus) la cui riuscita sarà definita dall’imprevedibilità del tempo e della vita: perché la sintesi non si può stabilire a tavolino o attraverso questionari37. Diversamente da quanto annunciato a Bergamo anche l’irriducibile Giedion non riproporrà più in maniera diretta questo motivo nei CIAM successivi, lasciandolo emergere spontaneamente dai dibattiti38. Al di fuori di questo registro “alto” il contesto italiano stressa l’argomento in lungo e in largo, tanto da farlo diventare uno dei soggetti principali

36 Noguchi è l’unico artista che partecipa attivamente al congresso nonostante gli inviti fossero arrivati a Léger, Miró, Moore e Picasso. E. Mumford, The CIAM Discourse on Urbanism, cit., p. 185 e nota 236. Nessun artista italiano sembra essere stato ufficialmente coinvolto anche se in qualità di uditori partecipano verosimilmente diversi pittori e scultori come testimoniato dall’immagine pubblicata all’interno dell’articolo di Ernesto N. Rogers, Architetti a nudo, in «Tempo», n. 33, 13-20 agosto 1949, p. 27, qui riprodotta. 37 7 CIAM Bergamo 1949, cit., s.p. Esistono anche due estratti interamente dedicati alla commissione editati dallo stesso Giedion: A Decade of New Architecture, cit., p. 38-40 e Architecture you and me. The diary of a development, Harward University Press, Cambridge 1958, pp. 79-90. E. Mumford, The CIAM Discourse on Urbanism, cit., pp. 193-195. 38 S. Giedion, Architecture you and me, cit., p. 91; A. Pedret, CIAM: From “Spirit of the Age” to the “Spiritual Needs” of People, in Re-Humanizing Architecture, cit., pp. 43-61.

312 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955 di discussione del secondo dopoguerra anche perché affrontato indifferentemente da artisti, architetti e critici39. Parallelamente a una miriade di opinioni su casi concreti, impossibili da elencare in questa sede, non mancano interventi che mirano a “manipolare” la questione in senso retorico attraverso quella condotta già individuata. Qualche mese prima dell’intervento di Labò, sempre sulla rivista «Comunità», Egidio Bonfante pubblica l’articolo Le arti figurative nell’architettura dove intravede un divorzio in corso tra le arti figurative. Lamenta una mancata volontà di collaborazione (da ambo i lati) che auspica possa risolversi elogiando l’unità di stile del passato e delle avanguardie, assieme alla voglia di rivedere, come sembrerebbe da alcuni riferimenti abbastanza eterogenei, affreschi alle pareti, o meglio, “pitture murali”: proprio quello che alcuni architetti durante il CIAM di Bergamo avrebbero in parte tacciato come modello da superare40. L’anno successivo l’architetto Carlo Perogalli (vicino al Milanese MAC – Movimento Arte Concreta), tuona sulle pagine della rivista «AZ» con un articolo intitolato L’architettura non è più la madre di tutte le arti sostenendo che il divorzio tra le arti non è mai esistito e che soprattutto nel XX secolo la pittura ha avuto un ruolo trainante41. Da grande sostenitore della sintesi delle arti Perogalli riprende in maniera più fine l’argomento all’interno dell’insospettabile rivista «Architettura / cantiere» nella rubrica “La Polemica”. In questa occasione il suo contributo Il concetto di architettura quale arte difende l’assioma paventando l’assurdità di dover creare una «“Terra di nessuno” in cui poter sfollare le opere scartate dagli uni e dagli altri per presunti limiti di competenza»42. Negli anni a venire invece di leggere i fatti in maniera originale come avevano provato a fare alcuni architetti

39 Per una panoramica dei dibattiti italiani e delle concrete realizzazioni quali frutto della collaborazione tra artisti e architetti: E. Cristallini, Dialoghi tra arte e architettura negli anni della ricostruzione 1945-1955, Gangemi Editore, Roma 2017. 40 E. Bonfante, Le arti figurative nell’architettura, in «Comunità», n. 3, maggio-giugno 1949, pp. 46-49. 41 C. Perogalli, L’architettura non è più madre delle arti, in «AZ», n. 4, gennaio 1950, s.p. 42 Id., Il concetto di architettura quale arte, in «Architettura cantiere», n. 2, 1953, pp. 74-76. Nel successivo numero le affermazioni di Perogalli sono in parte obiettate da Liliana Grassi che mette in luce la pericolosità di adottare posizioni o filosofie perentorie: L. Grassi, L’architettura non è didascalica od oratoria, in «Architettura cantiere», n. 3, 1953, pp. 69-70. Per una più ampia visione del pensiero dell’autore in

313 Rinascite, rinascenze, rinascimenti durante i CIAM, sono numerose le riflessioni che si “accontentano” di intravedere una bella unità tra le arti, alias unità di stile.

4. Ancora agli architetti In questo panorama non viene certamente meno la smania di domandare agli architetti le loro intenzioni in merito alla collaborazione con i colleghi artisti: quasi come se dovessero continuamente motivare il loro operato mentre pittori e scultori, a braccia conserte, attendono le loro proposte. Nel 1953 la fiorentina rivista «Numero» diretta da due difensori della causa, Fiamma Vigo e Alberto Sartoris, predispone un’“Inchiesta” tra architetti italiani e francesi corredata da un questionario in cui veniva chiesto: «Crede che l’apparente povertà dell’architettura verrà sostituita da una tendenza dove le altre arti (colore, scultura, ecc.) si saranno affiancate all’architettura?; Come concepisce la sintesi dell’architettura con le altre arti?; C’è una plastica dell’architettura attuale che possa far nascere uno stile?»43. Gli architetti interrogati sono Giovanni Michelucci, Ludovico Quaroni, Ico e Luisa Parisi, Franco Albini, Figini e Pollini, André Sive, André Wogenscky, Claude Parent, Yonel Shein, P.A. Emery, L. Miquel e, come da canovaccio, le risposte ribadiscono la volontà di collaborazione, secondo un intendimento reciproco della disciplina. È scongiurata la decorazione “posticcia” poiché gli elementi plastici dell’architettura già costituiscono nel loro insieme un valore scultoreo-pittorico, come ribattono Sartoris e Michelucci (che nel 1942 su «Primato» intravedeva i medesimi risultati estetici nei materiali dell’architettura), tanto che, per dirla con Quaroni: «La sintesi dell’architettura con le altre Arti [...] non potrà che essere definita ‘architettura’, giacché è sintetizzato in questa parola, da sempre, l’impegno costruttivo e sociale della forma e del colore». Nel sondaggio fiorentino simili posizioni sono ribadite dai francesi attenti a puntualizzare, come fa Wogenscky, già collaboratore di Le Corbusier, che l’armonia e le proporzioni dell’architettura purista rappresentavano un’unione, diversamente dalla decorazione applicata che esprime l’esatto contrario: una separazione. Aspetto merito alla sintesi delle arti rimando al suo Introduzione all’arte totale. Neorealismo e astrattismo. Architettura e arte industriale, Salto, Milano 1952. 43 Un’inchiesta, in «Numero», numero speciale dedicato a Benedetto Croce e all’architettura contemporanea italiana e francese, gennaio-marzo 1953, pp. 15-25.

314 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955 curioso quest’ultimo dal momento che nell’Italia del dopoguerra la volontà di trattare la decorazione come arte applicata e non integrata, come era avvenuto in alcuni celebri modelli del Ventennio, diventa un sinonimo (comodo) di sintesi delle arti44. Non a caso gli architetti Ico e Luisa Parisi, che in quegli anni grazie alle loro ville con mosaici, ceramiche e affreschi, erano più di altri associati alla nozione di sintesi delle arti, nel sondaggio sostengono con determinazione la necessità della decorazione quale «elemento indispensabile alla vita dell’uomo»45. Considerata la fortuna delle loro opere, questa valutazione ben riassume la confusione delle opinioni, ma anche la linea vincente e “mediatica” in merito all’argomento: non di certo quella che entusiasmava la maggior parte degli architetti e forse anche dei pittori.

5. Pittori e scultori giudicano l’architettura Dopo due anni, nel 1955, arriva finalmente il turno per questi ultimi chiamati da Bruno Zevi a rispondere ad alcune domande per la rubrica Un pittore / uno scultore giudica l’architettura all’interno del neonato periodico «L’Architettura cronache e storia». Il primo editoriale di Zevi, significativamente intitolato Colloquio aperto, mette in evidenza l’importanza di questa rubrica che testimonia un’«affinità spirituale e di gusto più valida di tante fittizie elucubrazioni sull’unità delle arti figurative»46. Nel 1955 per Zevi la sintesi delle arti consisteva quindi nel pronunciamento di un’opinione piuttosto che in pericolosi risvolti pratici, come avrà modo di specificare più tardi: «l’unità di linguaggio nelle varie manifestazioni artistiche si è effettuata naturalmente in ogni età della storia» e il coinvolgimento degli artisti non deve essere una regola perché «tra le soluzioni del problema della collaborazione tra le arti figurative c’è anche quella di non ammetterla [...] se ogni parete, ogni pavimento, ogni soffitto può essere distrutto nella sua realtà architettonica dalle decorazioni, non si rischia di preoccuparsi soltanto

44 R. Golan, La doppia scommessa dell’Italia: dalla sintesi delle arti all’opera aperta, in «Il caffè illustrato», novembre 2006, pp. 60-72 e R. Golan, Muralnomad. The Paradox of Wall Painting, Europe 1927-1957, Yale University Press, New Haven and London, 2009, in particolare le pp. 181-247. 45 Ico e Luisa Parisi, in «Numero», cit., p. 17. 46 B. Zevi, Colloquio aperto, in «L’Architettura. Cronache e storia», n. 1, maggio- giugno 1955, pp. 3-5.

315 Rinascite, rinascenze, rinascimenti delle decorazioni?»47. Dal 1955 fino al 1962, all’interno della rivista, la rubrica compare in forma pressoché costante e i tre “giudizi” richiesti attenevano: sull’architettura antica, sull’architettura moderna e sul rapporto pittura/scultura e architettura. Compaiono i pareri di Nino Franchina, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Pietro Consagra, Mirko Basaldella, Emilio Vedova, Fausto Pirandello, Giuseppe Capogrossi, Renato Birolli, Pietro Cascella solo per nominare alcuni rappresentanti dei primi anni. Il bilancio delle risposte, in merito al terzo quesito, sembrerebbe affermare un pensiero dominante che non crede al “servizio” di una disciplina nei confronti di un’altra e intravede la necessità di “respirare la stessa cultura”, seppur alcune dichiarazioni riabilitino la possibilità di una decorazione contemporanea senza tante implicazioni concettuali. A grandi linee emerge come l’attenzione e la volontà di conoscere la disciplina sorella determini non solo il risultato, ma il metodo con cui si affronta la questione. È lo stesso Zevi a ricordare come, in seguito a innumerevoli congressi, il tema non ha mai raggiunto sensate conclusioni poiché «quando i problemi non hanno soluzione, significa che sono mal posti»48. Nonostante i suoi dubbi sui risultati concreti, verosimilmente riversava una sorta di smania circa il risvolto produttivo come ci lascia intendere lo scultore Caron che sostiene di essere stato “perseguitato” dal direttore con domande quali: «Lei vedrebbe una sua statua in una casa di Wright?; che effetto avrebbe un suo pannello su uno spazio o una parete di Aalto?; che ambientazione architettonica chiede questo suo stilizzato neorealismo?»49.

6. Dalla sintesi al paragone Gli artisti intervistati dalla redazione di Zevi rappresentano una casistica rassicurante, seppur eterogenea, in linea con l’andamento “conservatore” del sondaggio. Soprattutto a ridosso della chiusura della rubrica, sono perlopiù ascoltati esponenti defilati rispetto al dibattito specifico e ai suoi possibili sviluppi già avvertiti dalle poetiche della

47 B. Zevi, Commento, in Colori e forme nella casa d’oggi, catalogo della mostra, Como 1957, s.p. 48 Id., Il colore rifiuta il riscatto, in «L’Architettura. Cronache e storia», n. 13, novembre 1956, p. 511. 49 Uno scultore giudica l’architettura. Aldo Caron, in «L’architettura. Cronache e storia», n. 3, 1956, p. 398.

316 Dal paragone alla sintesi / dalla sintesi al paragone. Questionari sull’unione delle arti in italia, 1936-1955 neoavanguardia. Sono per esempio assenti gli esponenti del MAC, dello spazialismo, dell’arte nucleare, del situazionismo e delle esperienze cinetico-programmate che da alcuni anni iniziavano a farsi strada proponendo alternative alla consueta interpretazione di sintesi delle arti: l’utilizzo di nuovi media imponeva infatti il ripensamento delle più canoniche discipline50. Le risposte degli interpellati chiarificano come la questione, così riferita, con l’enfasi posta su singoli specialismi e su “categorie” tradizionali, non faccia altro che inserirsi e proseguire la linea retorica individuata senza abbracciare nuove modalità di indagine e di metodo. Accusa imputata a Zevi da lettori e colleghi tra cui Ragghianti che intravede, in questo coinvolgimento degli artisti, un tono amatoriale nonostante l’intento del direttore fosse quello di proteggere l’architettura da un pericoloso isolamento51. Il colpo di coda del sondaggio di Zevi da un lato conferma come la metodologia che sottende a questo criterio di indagine sull’unione delle arti sia funzionale a riabilitare una certa retorica, dall’altro convalida la funzione “liberatoria” dell’arte della parola poiché, in questi termini, discutere di sintesi delle arti sembra essere l’unico modo per metterla in pratica dato che la prova dei fatti appare sempre compromettente. A cavallo tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta la cosiddetta questione della sintesi delle arti, a cui si arriva tramite una miriade di appellativi (integrazione, relazione, unione, rapporti ecc.), rappresenta un modello di indagine che fa ancora perno sulla funzione retorica del “paragone”. Termine curiosamente adottato a partire dal 1950 da Roberto Longhi per la sua neonata rivista attenta a porre «sullo stesso piano le arti figurative e la letteratura», in un paese dove è «incerto se la “maggiore gloria della lingua” tocchi alla poesia “in parola” o a quella “in figura”»52. Senza dubbio esiste anche una narrazione differente rispetto a queste preoccupazioni perennemente irrisolte, che contempla altri indirizzi di ricerca. Al pari delle tante parole spese per giungere a un esito condiviso, esistono anche esempi di collaborazione

50 R. Golan, La doppia scommessa dell’Italia, cit. 51 B. Zevi, Rompiamo con i pittori e gli scultori – e poi?, in «L’Architettura. Cronache e storia», n. 55, maggio 1960, p. 5; E. Cristallini, Zevi e il dialogo tra arte e architettura negli anni Cinquanta, atti del convegno a cura di P.O. Rossi, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 175-184. 52 R. Longhi, Editoriale, in «Paragone», n. 1, gennaio 1950, pp. 3-4.

317 Rinascite, rinascenze, rinascimenti concretamente realizzati, potenzialmente decifrabili attraverso una lettura problematica, compiuti da protagonisti capaci di concepire un’unità prima di tutto tra il fare e l’ideare. Nella stessa misura non mancano quelle personalità che scelsero di percorrere la via della “auto-sintesi” di michelangiolesca memoria53, rovesciando il modello di “sintesi” come “unione” di elementi e conoscenze autonome, per riaffermare la tradizione rinascimentale in cui l’esercizio delle tre arti del “disegno” si intrecciava all’interno dell’operato di un singolo artista. Così, nonostante le leggi, artisti e architetti proseguono abilmente per la loro strada senza curarsi delle più diplomatiche risposte circa i rapporti con le arti sorelle che, di tanto in tanto, sono chiamati a dare tramite appositi questionari.

53 Definizione adottata per descrivere l’operato di Le Corbusier da Catherine de Smet e riportata in J. Ockman, A plastic Epic: The Synthesis of the Arts Discourse in France in the Mid-Twentieth Century, Architecture + Art. New vision, new strategies, a cura di in E.L. Pelkonen, E. Laaksonen, Alvar Aalto Academy, Helsinki 2007, p. 43.

318 «Il fait du Quattrocento». Georges Seurat e Piero della Francesca: storia di un presunto dialogo

ELIA SIDDHARTA GAETANO

Before the development of Neo-Impressionism, Georges Seurat’s training was rather contradictory, in particular his relationship with the École nationale supérieure des beaux-arts in Paris. After two years of academic teaching, he preferred to undertake a solitary research, which if on the one hand did not see him give up the study of ancient models, on the other hand it allowed him to assimilate the experiences of the closest artistic antecedents: Realism and Impressionism, ignored by the Academy. Through the concerted application of contemporary aesthetic and psychophysiological theories, he created images of refi ned elegance and purity, characterized by a mathematical harmony; forms, these, which some art historians have led to think of a possible correlation with Renaissance painting models and in particular with the most “mathematical” of Renaissance artists: Piero della Francesca

1. Premessa Georges Seurat fu il capofila del Neoimpressionismo, movimento artistico promotore di una tecnica pittorica “scientifica”: al fine di restituire il massimo grado di luminosità, i colori erano stesi sulla tela puri, e affiancati ad altri toni in base ai rapporti tra i complementari. Allontanandosi dalla pittura impressionista, basata su una traduzione soggettiva della realtà, e solo empiricamente regolata da principi scientifici, Seurat concepì una pratica artistica rigorosa, fondata su principi chimici e fisici, pensata in rapporto alle potenzialità dell’occhio umano. Tale distanza rispetto all’impressionismo fu riconosciuta con straordinaria lucidità da Félix Fénéon, che già a partire dal 1886 definì

319 Rinascite, rinascenze, rinascimenti la pittura di Seurat: «Neoimpressionista»1. Grazie all’applicazione della nuova tecnica – detta impropriamente «puntinismo» – Seurat riformò il movimento impressionista, sancendone al contempo la fine2. Durante la sua formazione, Seurat sviluppò un rapporto contraddittorio con l’École nationale supérieure des beaux-arts di Parigi. Infatti, dopo due anni di studio, ritenendo insufficienti e inapplicabili le acquisizioni ricevute dall’insegnamento accademico, preferì intraprendere un solitario percorso di ricerca; che se da un lato non lo vide rinunciare allo studio dei modelli antichi, dall’altro gli permise di assimilare le esperienze degli antecedenti artistici più prossimi: realismo e impressionismo, ignorati dall’Accademia. Attraverso l’applicazione concertata di teorie estetiche e psicofisiologiche dell’epoca, creò immagini di eleganza e purezza ricercata, caratterizzate da un’armonia matematica; forme, queste, che ad alcuni storici dell’arte hanno fatto pensare a un eventuale correlazione con modelli di pittura rinascimentale. Nelle prossime pagine daremo conto della vicenda critica che ha messo in relazione Georges Seurat con l’opera di Piero della Francesca.

2. Georges Seurat (1878-1891) Tra il 1886 e il 1889, Georges Seurat visse un breve momento di prestigio nel cerchio intellettuale dell’avanguardia parigina. Nel 1886, a soli ventisei anni, con la Grande Jatte aveva posto

1 Il termine “Néo-impressionnisme” fu coniato dal critico d’arte Félix Fénéon in un articolo apparso sulla rivista belga «L’Art Moderne». Cfr. F. Fénéon, L’impressionnisme aux Tuileries. Correspondance particulière de L’Art moderne, in «L’Art Moderne» VI, n. 38, 19 settembre 1886, pp. 300-302. 2 Nello scritto teorico D’Eugène Delacroix au néo-impressionnisme, Signac chiarì che la forma del tocco pittorico era indifferente: il fine non consisteva nel trompe-l’oeil degli oggetti ma nel mostrare i diversi elementi colorati delle tinte. Diventava perciò necessario un dosaggio metodico degli elementi, di modo che ogni pigmento abbia il massimo dell’intensità. Per Signac solo «des gens insensibles aux résultats d’harmonie, de couleur et de lumière» potevano pensare che la tecnica neoimpressionista consistesse esclusivamente nel ricorso alla cifra stilistica del punto. Del resto, come si precisa nello scritto, la divisione non esige un tocco a forma di punto, se non nelle tele di piccole dimensioni: il tocco diviso richiede di essere proporzionato alla grandezza della tela. Cfr. P. Signac, D’Eugène Delacroix au néoimpressionnisme, Éditions de la Revue Blanche, Paris 1898.

320 «Il fait du Quattrocento». Georges Seurat e Piero della Francesca: storia di un presunto dialogo. simbolicamente fine alla stagione impressionista, divenendo l’homme du jour. Ma a partire dal 1890, la direzione radicale presa dalla sua pittura lasciò sconcertato anche il ristretto numero dei suoi sostenitori. Morì l’anno successivo, a trentuno anni, a causa di una infezione e nel giro di poco tempo la sua figura fu dimenticata. La sua riscoperta fu infatti più complessa di quanto possa apparire. Basti pensare che la prima mostra retrospettiva di ampio respiro dedicatagli dallo Stato francese risale soltanto al 19913. Georges Seurat nacque a Parigi nel 1859 in quella che ci è stata descritta come la tipica famiglia borghese del Secondo Impero: il padre era di mestiere uno speculatore immobiliare e la madre una gioielliera4. Nel 1876 Georges si iscrisse alla scuola municipale di disegno di rue des Petits Hotels 17, destinata alla formazione di professionisti delle arti applicate e diretta, in quegli anni, dallo scultore Justin Lequien. L’apprendimento si svolgeva principalmente attraverso la realizzazione di copie da incisioni e gessi; ma mosso dalla curiosità, Seurat frequentava anche musei e biblioteche parigine, ciò gli permise di conoscere precocemente due testi che furono fondamentali per lo sviluppo delle sue teorie estetiche: De la loi du contraste simultané des couleurs et de l’assortiment des objets coloriés del chimico francese Michel Eugène Chevreul e la Grammaire des arts du dessin di Charles Blanc, manuale di architettura, scultura, pittura, e arti grafiche5. Nel febbraio del 1878 Seurat superò l’esame d’ammissione alle Belle Arti e il mese successivo debuttò nell’atelier di Henri Lehmann. Nel corso dei suoi studi accademici, Seurat non si distinse

3 Durante la sua carriera Seurat non lavorò mai per un mercante, per questa ragion riuscì a vendere solo pochi dipinti. Dopo la sua morte Paul Signac e Félix Fénéon vendettero i dipinti rimasti nello studio a mercanti e collezionisti stranieri. La fuoriuscita dei quadri dai confini francesi complicò la riscoperta di Seurat: Une baignade, Asnières fu comprato da Fénéon e nel 1924 fu venduta allo Stato inglese: dapprima figurando nel catalogo della Tate Britain e in seguito alla National Gallery, dove è tutt’ora conservata; la Grande Jatte fu comprata da Lucie Cousturier che poi la rivendette all’Art Institute di Chicago; mentre Les poseuses furono acquistate da Gustave Kahn, e sono oggi conservate alla Barnes Foundation di Philadelphia. 4 J. Rewald, Seurat. L’œuvre peint. Biographie et Catalogue critique, Les Beaux Arts, Paris 1959, p. XXXIII. 5 Cfr. M.E. Chevreul, De la loi du contraste simultané des couleurs, Paris, Pitois- Levrault, 1839. Cfr. C. Blanc, Grammaire des arts du dessin, Paris, Renouard, 1867.

321 Rinascite, rinascenze, rinascimenti per un particolare talento ma ebbe comunque modo di prendere dimestichezza con il disegno dei grandi maestri: Ingres, Raffaello, Poussin, Michelangelo, Bellini, Perugino, Pontormo e Tiziano. Sono questi i nomi degli artisti di cui ci sono pervenute copie realizzate dal giovane Seurat. Durante gli anni d’Accademia Seurat scoprì una grande ammirazione per Ingres, in modo particolare per il disegno, ma i suoi interessi spaziavano anche al di là della tradizione accademica. Un istinto rabdomantico e gusti raffinati lo spinsero verso la ricerca sperimentale di soluzioni estetiche a quesiti ignorati dall’Accademia. Per tali ragioni, nel 1879, decise di rinunciare all’insegnamento accademico. A seguito di questa rinuncia, in quello stesso anno fu obbligato a rispondere alla chiamata del servizio militare francese. Dopo un anno di stanza a Brest, ritornò a Parigi. Avvenne in questo lasso di tempo un grande cambiamento nel disegno di Seurat: l’abbandono della linea come mezzo di precisione, in favore di una esecuzione per masse. Un ulteriore cambiamento riguardò le iconografie, nell’abbandono dei soggetti accademici, in favore di tematiche realiste, derivanti dall’esempio di Millet e Courbet. Seurat consacrò il biennio 1882- 83 unicamente al disegno: grazie anche allo studio dell’opera grafica di maestri come Rembrandt, Goya e Daumier, creò opere d’una maturità precocissima. Questi disegni si presentano come semplici costruzioni di luci e ombre che occupano tutta la superficie del foglio: apparentemente astratte, definiscono in realtà figure umane. Per poter raggiungere tali risultati tecnici, Seurat usava una carta di una granulosità molto densa, di modo che la mina, quando veniva strisciata sulla superficie, marcasse solamente le asperità della carta, senza entrare nei solchi. Di conseguenza, in questi disegni i grigi hanno un vero rilievo proprio perché il bianco della carta è visibile tra i segni scuri. Un risultato questo impossibile da raggiungere con l’utilizzo del carboncino, per questo Seurat usava una Conté, un matita dalla mina grassa e compatta, grazie alla quale l’intensità dei grigi è proporzionale alla pressione data dalla mano6. Nel 1883, il disegno Ritratto di Aman Jean (Fig. 1) fu accettato al Salon. Ripercorrendo le cronache dell’epoca ci rendiamo conto che solo un critico, Roger Marx, notò l’opera: definendola un

6 Cfr. G. Seligman, The drawings of Georges Seurat, Curt Valentin, New York 1947, pp. 29-32.

322 «Il fait du Quattrocento». Georges Seurat e Piero della Francesca: storia di un presunto dialogo. eccellente studio di chiaroscuro, «un disegno che non è l’opera del primo venuto»7.

Fig. 1 – Georges Seurat, Ritratto di Aman-Jean, 1883, Met Museum, New York. Per quanta riguarda invece la pittura, le rare opere conservate di questa fase iniziale sono caratterizzate da una palette e da una pennellata prossime alla lezione di Eugène Delacroix. Cui Seurat si era avvicinato attraverso gli scritti di Blanc e Chevreul (Fig. 2).

7 R. Marx, Le Salon, in «Le Progrès Artistique», Juin, Paris, June 1883, p. 78.

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Fig. 2 – Georges Seurat, Il falciatore, 1881-82, Met Museum, New York. Blanc presentava Delacroix come il maestro del mélange optique, uno dei migliori coloristi dei tempi moderni, capace di intuire empirica- mente le regole sottese al colore. Per assimilare il colorismo di Dela- croix, Seurat si dedicò allo studio delle sue opere, in particolare degli affreschi della Chapelle des Anges di Saint Sulpice, a Parigi. Alle intu- izioni empiriche di Delacroix e allo studio di altri grandi coloristi del Rinascimento, Seurat aggiunse lo studio e l’applicazione di scoperte scientifiche del suo tempo. Nel 1879 il fisico statunitense Ogden Rood aveva pubblicato Textbook of color, nel quale, sviluppando le teorie di Chevreul, dimostrò che la luminosità della mescolanza ottica è supe- riore a quella fisica dei pigmenti8. Lo stesso Rood fu utile a Seurat anche per la comprensione del concet- to di inesistenza del colore locale: il colore non esiste da sé ma solo in rapporto ad altri colori. Così, dal 1882, Seurat iniziò a eseguire dipinti formati da tocchi divisi. Prima dell’esecuzione, affidava a una lunga fase preparatoria lo studio della composizione: tutti i dettagli che sareb- bero diventati parte del dipinto, venivano analizzati separatamente, in modo da subordinare le singole osservazioni alla composizione gene- rale. Negli studi preparatori di Une Baignade, Asnières, (1883) si rivela una meticolosa attenzione alla realtà (Fig. 3) e (Fig. 4).

8 Cfr. O. Rood, Students’ Text-book of Color. Or, Modern Chromatics, with Applications to Art and Industry, D. Appleton and Company, New York 1879.

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Fig. 3 – Georges Seurat, Giovane accovacciato (studio per Une Baignade), 1883-84, Yale University Art Gallery, New Haven.

Fig. 4 – Uomo seduto (studio per Une Baignade), 1883, Museum of Art, Cleveland.

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Nel 1884 Seurat inviò il dipinto al Salon ma il giurì lo respinse; riuscì ad esporlo al Salon des Indépendents9. In questa occasione, nonostante la mancata comprensione del dipinto da parte della critica e un’accoglienza fredda da parte del pubblico, un giovane artista, Paul Signac, ne rimase sedotto. Da quel primo incontro, tra i due nacque un progetto di collabora- zione artistica, cui aderirono anche Camille e Lucien Pissarro. Nel 1886, questo nuovo gruppo partecipò alla Huitième exposition des impressioni- stes, la comparsa dei dipinti a tocchi divisi di Seurat, Signac e dei Pissarro fece scandalo, tanto che Monet, Renoir, Sisley e Caillebotte si ritirarono dall’esposizione, Degas decise di partecipare a condizione che fosse rimos- sa la dicitura «impressionistes» dal manifesto della mostra. Tale rottura non faceva che ufficializzare una divaricazione già in atto tra le opere degli “impressionisti romantici” e quelle degli “impressionisti scientifici” – se- condo la distinzione allora proposta da Félix Fénéon10. Seurat esponeva cinque paesaggi, tre disegni e la tela La Grande Jatte (Fig. 5).

Fig. 5 – Georges Seurat, Un dimanche après-midi à l’Île de la Grande Jatte, 1884-86, Art Institute, Chicago

9 La Société des artistes indépendants fu fondata da Signac e da Seurat insieme a Henri- Edmond Cross, Odilon Redon, Albert Dubois-Pillet, Louis Valtat, Armand Guillaumin, e Charles Angrand, al fine di riuscire ad esporre al pubblico le opere rifiutate dal Salon officiel de Paris. Differenziandosi al tempo stesso dal Salon des Refusés per una totale indipendenza dalle istituzioni officiali. Nel maggio del 1884 si inaugurò la prima esposizione del gruppo alla quale parteciparono 450 artisti. La nascita ufficiale de la Société des artistes indépendant fu rettificata solo a conclusione del Salon, nel giugno del 1884. 10 F. Fénéon, VIIIe Exposition Impressionniste. Du 15 mai au 15 juin, rue Laffitte, in «La Vogue», I, juin 1886, pp. 261275.

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Questo dipinto lo aveva occupato dal 1884 al 1886, a cominciare da un’analisi preliminare del paesaggio, alla quale seguirono gli studi in- dividuali dei singoli personaggi, realizzati, in alcuni casi, in sedute di posa in atelier. L’integrazione dei personaggi nel paesaggio è armoniz- zata dall’equilibrio dei toni; e i colori non sono stesi per punti ma per pennellate divise, senza mescolanze sulla tela. Le tinte usate da Seurat si ritrovano sul disco di Chevreul che riunisce i colori del prisma lu- minoso, e sul quale i colori fondamentali – blu, rosso, giallo e verde – sono regolati tra loro da tinte intermedie che permettono la riunione in cerchio (Fig. 6). Un ulteriore accorgimento usato da Seurat era la stesura, al di sotto della coperta di tratti divisi, di larghe pennellate: questo spiega perché non ci siano zone in cui si veda la tela.

Fig. 6 – Eugène Chevreul, Cercle Chromatique. Critici e spettatori non compresero né accettarono la tecnica neoimpres- sionista. In particolare, fu La Grande Jatte a destare il maggiore scandalo. La critica disapprovò la tecnica pittorica di Seurat, un metodo che soffo- cherebbe ogni peculiarità del singolo artista: fu infatti scritto che l’opera avrebbe potuto essere realizzata indifferentemente da Signac o dai Pissar- ro. Alcuni critici definirono la nuova tecnica pittorica una tappezzeria;

327 Rinascite, rinascenze, rinascimenti altri, ancora, più sinteticamente: una farsa11. L’unico critico realmente preparato all’avvento del Neoimpressionismo era Félix Fénéon, che sulle pagine de «La Vogue» dedicò uno studio monografico a La Grande Jatte, dichiarandone il valore e la novità12. Nel 1888, dopo due anni di lavoro, Seurat portò a termine l’opera Les Poseuses (Fig. 7). In questa tela l’artista applicò il suo metodo a un soggetto codificato della tradizione storico mitologica: la tripla nudità, iconografia che rimanda al Giudizio di Paride, alle Tre grazie e alle Esperidi. E tuttavia Seurat trasforma il soggetto in una scena di genere, ambientata nel suo atelier, nel quale possiamo anche riconoscere Baignade. Il tema delle modelle nello studio era uno dei cliché della pittura del Salon ufficiale ma la scelta del neologismo “Poseuses” segna una ironica distanza con questo tipo di rappresentazioni: esso allude all’azione del posare. Se fino a quel momento Seurat non si era mai cimentato con il nudo femminile, se non con copie da Ingres o da Delacroix, risolse brillantemente le figure delle modelle, dimostrando di poter applicare il proprio metodo non solo al paesaggio ma anche al nudo.

Fig. 7 – Georges Seurat, Les Poseuses, 1888, Barnes Foundation, Filadelfia.

11 Cfr. F. Fénéon, Georges Seurat et l’opinion publique, L’Echoppe, Paris 2011. 12 Cfr. Id., L’impressionnisme en 1886, Publication de la Vogue, Paris 1886.

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Les Poseuses fu esposto nel 1888 al Salon des Indépendants insieme a Parade de cirque (1887-88) (Fig.8). Anche se Seurat non considerava quest’ultima un’opera particolarmente importante, essa segna un mo- mento di svolta nella storia della sua tecnica pittorica, trattandosi del primo notturno. Inoltre, questo è il primo dipinto che rappresenta uno spettacolo popolare, tema privilegiato negli anni finali della sua breve carriera. Parade è un dipinto tenebroso, il cui significato è complicato da una composizione di grande sapienza geometrica, nonostante la sua apparente semplicità.

Fig. 8 – Georges Seurat, Une parade de cirque, 1887-88, Met Museum, New York. Il dipinto che meglio racconta l’interesse di Seurat per gli spettacoli notturni è Chahut, esposto nel 1890 alla Societé des Artistes indépen- dents insieme ad altri nove dipinti e due disegni. Si svela in questo caso un rigido antinaturalismo, derivato da un’applicazione rigorosa delle teorie di Charles Blanc, secondo cui, le linee come i colori, hanno un rapporto diretto con i sentimenti13. La direzione delle linee e il grado degli angoli gli erano dettati invece dall’utilizzo del Rapporteur esthèti- que, una sorta di goniometro capace di misurare l’armonia degli angoli, inventato da Charles Henry e in commercio dal 1889. In questo modo, Seurat regolava con precisione matematica la composizione, facendo

13 Cfr. C. Blanc, op. cit., pp. 364-371.

329 Rinascite, rinascenze, rinascimenti in modo che tutto tendesse all’armonia, giocando con il sistema delle analogie e della compensazione dei contrari, secondo il proposito di restituire una sensazione di raggelata eccitazione. L’adesione a queste teorie e la loro applicazione estende il gusto di Seurat per il meccanico e per le misure esatte alle forme dell’umano. In questa ultima fase, i personaggi sono contraddisti da espressioni impersonali e nel caso in cui esprimano emozioni, i loro volti si trasformano in rigide caricature. Georges Seurat morì a 31 anni a causa di una infezione fulminante, il 29 marzo del 1891. Ciononostante, come scrisse Fénéon, soli sette anni di carriera gli furono sufficienti a lasciare la propria impronta nella Storia dell’Arte14.

3. Seurat-Piero: una vicenda critica Il riconoscimento da parte della critica di una componente arcaizzante nell’opera di Seurat fu precoce: il pittore era ancora in vita quando fu scritto che la sua arte rivelava in filigrana una regolarità di antica provenienza. Alcuni critici ricondussero questa eco primitiva alla conoscenza di reperti provenienti dall’antico Egitto e conservati al Louvre, altri ancora allo studio accademico del classicismo greco. Dopo la morte del pittore, apparve sulla «Revue Blanche» un articolo intitolato Seurat un primitif d’aujourd’hui, firmato da Thadée Natanson, direttore della rivista. In polemica con l’uso inflazionato dell’attributo di “primitivo”, Natanson lo considerò tuttavia pertinente se riferito a Seurat, in particolare per la «sua applicazione della verità svelata»15. È invece senz’altro curioso che il primo accostamento tra Seurat e il Rinascimento sia stato formulato dalla critica statunitense: nel 1886, quando Paul Durand Ruel organizzò la prima mostra impressionista negli Stati Uniti16. Allora Seurat scelse di esporre uno studio d’insieme della Grande Jatte e Une Baignade, Asnieres. Fu in questa occasione

14 F. Fénéon, Au Pavillon de la Ville de Paris, Société des Artistes Indépendants, in «Le Chat Noir», 2 avril, Paris 1892, p. 36. 15 T. Natanson, Seurat un primitive d’aujourd’hui, in «La revue blanche», 21, 15 April 1900, pp. 612-613. 16 La mostra Works in Oil and Pastel by the Impressionists of Paris, fu organizzata da P. Durand-Ruel a New York all’American art galleries, e in seguito riallestita alla National academy of Design, a New York.design.

330 «Il fait du Quattrocento». Georges Seurat e Piero della Francesca: storia di un presunto dialogo. che un anonimo redattore del giornale «Art Amateur» lesse nelle opere di Seurat «le qualità dei primi affreschi italiani»17. Quello stesso anno, a Parigi, Edgar Degas, un occhio ben allenato al Rinascimento toscano per i suoi trascorsi fiorentini, davanti alla La Grande Jatte domandò a Seurat se avesse mai visto dal vivo Giotto. Seurat non era mai stato in Italia. Le sue opere, invece, giunsero per la prima volta nel nostro Paese nel 1920, in occasione della Biennale di Venezia. La curatela del padiglione francese era affidata a Paul Signac, il quale selezionò alcune delle opere più significative di Seurat. Fu in questa occasione che Roberto Longhi, in compagnia di Giorgio Morandi, vide per la prima volta dal vivo delle opere di Seurat. Longhi citò per la prima volta Seurat nel 1914 nella Breve ma veridica storia della pittura italiana18. Poi ancora nel 1925, in un articolo pubblicato su «Arte» riguardante il mentore di Piero della Francesca, Domenico Veneziano di cui si rilevano certi «effetti di lume più diviso con intenzioni quasi simili a un Seurat di quei giorni»19. Siamo in questo caso di fronte ad un soggettivo e audace parallelo, frutto dell’assorbimento nel patrimonio di conoscenze visive di Longhi, della pittura di Seurat. Questa rimase a ogni modo una citazione generica, mentre il primo accostamento tra Piero della Francesca e Seurat avvenne nella prima edizione del Piero della Francesca (1927)20. Descrivendo Il sogno di Costantino, Longhi paragonava la luce usata da Piero con il «luminismo costruttivo del Caravaggio [...] quello magico di Rembrandt e, persino, [...] la pesatura pulviscolare del Seurat». Anche in questo caso, Longhi non andava oltre un’analogia soggettiva: in un’affascinante progressione che metteva in fila Piero, Rembrandt, Caravaggio e Seurat sulla base di un particolare impiego della luce. Fu tuttavia nella successiva edizione del Piero (1946) che Longhi inserì un corredo di note, dedicandone una alla fortuna di Piero nella Francia dell’Ottocento, e ipotizzando che Seurat avesse potuto vedere copie di opere di Piero della Francesca.

17 Anonimo, The French Impressionists, «The Art Amateur», Avril, 1886, p. 21. 18 R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana, Abscondita, Milano 2013, pp. 137-141. 19 Id., Un frammento della pala di Domenico Veneziano per Santa Lucia, in «L’Arte: rivista di storia dell’arte medievale e moderna», 1, 1925, pp. 31-35. 20 Id., Piero della Francesca, Sansoni, Firenze 1927.

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Copie a Parigi degli affreschi di Piero. A proposito delle copie degli affreschi di Arezzo eseguite intorno all’80, per incarico di Charles Blanc, dal pittore Loyeux, e che dovrebbero trovarsi ancora nella Cappella della Ecole des Beaux-Arts, sarebbe molto importante ricercare se su di esse non abbia forse meditato il giovane Seurat che molto frequentò quelle aule d’accademia. Verrebbe così a indicarsi una fonte molto più solenne che non sia Puvis de Chavannes per il “neo-impressionismo” e per il “sintetismo”. Non ne scapiterebbe il genio di Seurat, ma la mediocre Oceania di Gauguin, com’era da aspettarsi, di ridiventare un cavallaccio di ritorno dal contando aretino21. Le copie parigine degli affreschi di Piero sono due tele rappresentanti La riscoperta della Vera Croce e La battaglia di Eraclio contro i Persiani (Fig. 9) e (Fig. 10)22. In questa breve nota, Longhi impostò le premesse di una linea interpretativa secondo la quale i neoimpressionisti e i sintetisti trovarono soluzione al rinnovamento della pittura impressionista rivolgendosi alla pittura del Quattrocento, e non, come era stato affermato fino ad allora, a una «fonte secondaria» come Puvis de Chavanne.

Charles Loyeux, (da Piero della Francesca) La battaglia di Eraclio contro i Persiani, 1872, école nationale supérieure des Beaux-Arts, Parigi.

21 Id., Piero della Francesca, Sansoni, Firenze 1946, p. 87. 22 La copia di Loyeux de La riscoperta della Vera Croce deve essere presa in considerazione anche come un documento storico per le integrazioni che il restauratore fiorentino Gaetano Bianchi aveva apportato tra il 1858-1861 e in seguito rimosse.

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Fig. 10 – Charles Loyeux, (da Piero della Francesca) La scoperta della vera Croce, 1873 école nationale supérieure des Beaux-Arts, Parigi. La suggestione di Longhi fu accolta da uno degli allievi più brillanti di Bernard Berenson, Kenneth Clark, che in Landscape into art (1949), propose un paragone formale tra Seurat e Piero, traendo però con- clusioni diverse da quelle longhiane23. Clark confrontò gli affreschi di Arezzo e Une Baignade Asnieres, sottolineando che i punti in comune tra questi due artisti riguardavano piuttosto la monumentalità delle fi- gure e la disposizione matematica delle forme. Nel 1950 l’articolo di Longhi Piero in Arezzo appariva su «Paragone»24. In questo scritto, la suggestione avanzata nel 1946 appariva evoluta e problematizzata, entrando in relazione con uno dei passaggi interpretativi più importanti dell’opera longhiana: quello che congiunge Piero agli sviluppi della pittura veneta. È l’accordo trovato da Piero tra forme e colori sul fondamento della prospettiva che facilita l’apertura del famoso colorismo veneto. Assai più tardi, dopo la lunga interruzione che per più secoli ha avuto i nomi generici di barocco e romanticismo quelle autentiche supreme ricerche di misura formale e cromatica, riaffiorano, per vie tortuose o non ancora ricuperate, nei ricostruttori che accompagnano o seguono alla tenera poesia dell’impressionismo: in Cézanne, in Seurat, in qualche aspetto del “sintetismo”. Qui è la storia segreta anche se

23 K. Clark, Landscape into art, J. Murray, Londra 1949. 24 R. Longhi, Piero in Arezzo, in «Paragone», 11, 1950, pp. 3-16.

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inconscia, del temporaneo ritorno a Piero della Francesca non tanto dei critici, che questo importa meno, ma degli artisti stessi25. Longhi rilevava che dopo le cesure del barocco e del Romanticismo, le «ricerche di misura formale e cromatica» riaffiorano «per vie tortuose o non ancora ricuperate» in Seurat, in Cézanne, «ricostruttori» di quelle ricerche. Seurat veniva così presentato come prosecutore delle ricerche di sintesi di luce e di colore condotte da Piero, con la precisazione che questo legame andava considerato come una derivazione non programmata, anzi inconscia. Nello stesso 1950 Longhi scrisse un articolo su una mostra tenuta alla Biennale di Venezia di quell’anno, riguardante i disegni di Seurat e curata, dietro suo suggerimento, da John Rewald. L’articolo si intitola Cultura formale di Seurat26. Secondo Longhi, il disegno fu per Seurat il mezzo predestinato per esprimere il suo genio, ma la critica aveva perso troppo tempo intorno alle questioni legate del colore e della luce, senza notare la profondità della cultura formale di Seurat: «Per questo bisogna riparare, è necessario leggere Blanc e saperlo leggere. Cosa dice Blanc? Ci parla di disegno geometrizzante. Di che disegno si tratta? Era un disegno legato ad Ingres e al suo essere più che classicista, un primitivista. Uno che copiava Raffaello però guardando a Masolino. A quell’epoca era una battuta per un pittore d’intelletto come poteva esserlo Puvis era “il fait du Quattrocento”»27. Per Longhi era necessario rivedere i giudizi su Seurat: a partire dai suoi disegni e tenendo come testo a fronte la Grammaire di Blanc. Questa suggestione attende ancora di essere approfondita nella sua complessità di riferimenti tra antico e moderno, ciononostante, la vicenda critica riguardante il supposto legame tra Seurat e Piero ha trovato seguito negli studi di Albert Boime. A partire dall’intuizione longhiana, lo storico dell’arte americano Albert Boime ha condotto uno studio pubblicato poi su «The art bulletin» nel 1956, Seurat and Piero della Francesca. Boime impostò il proprio intervento in due parti: nella prima propone confronti formali;

25 Ivi, p. 16. 26 Id., Un disegno per la Grande-Jatte e la cultura formale di Seurat, in «Paragone Arte», numero 1, Firenze 1950, 40-43. 27 Ivi, p. 41.

334 «Il fait du Quattrocento». Georges Seurat e Piero della Francesca: storia di un presunto dialogo. nella seconda presenta una ricostruzione storica28. Sono confrontate Poseuses e la Morte di Adamo; Baignade e la Resurrezione; Parade e la Scoperta della vera Croce. Secondo una prospettiva vicina alla lettura di Kenneth Clark, Boime notava che i legami tra i due artisti potevano essere colti nella stilizzazione delle attitudini figurative e nelle calcolate espressioni imposte ai personaggi: «Entrambi hanno esplorato viste coordinate, mostrando figure frontalmente, di profilo, da tergo. Ciò può essere spiegato con il desiderio di ridurre l’attività figurale e indurre un effetto di stasi»29. Volendo indagare se le similitudini fossero accidentali o dovute alla conoscenza di Piero da parte di Seurat, Boime propose dei confronti certamente affascinanti, ma talmente superficiali da potersi dire fortuiti. Più interessante è invece la ricostruzione riguardante la storia delle copie da Piero realizzate dal pittore Charles Loyeux30. Poiché l’ubicazione delle tele – già correttamente indicata da Longhi – apre scenari inaspettati. Le copie sono nella Ancienne chapelle du couvent des Petits-Augustins, all’interno del complesso dell’Ecole nationale supérieure des beaux-arts, insieme a un numero ingente di altre copie rinascimentali31. Boime ricostruì l’iter attraverso il quale queste copie vi giunsero. Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, la sfida lanciata dagli impressionisti aveva posto l’Accademia su posizioni ancora più conservatrici. Il direttore dell’Accademia, Charles Blanc, – autore della Grammaire cara a Seurat – considerava la pittura di paesaggio degli impressionisti disumanizzante, e preoccupato per il calo qualitativo dell’arte francese e la contemporanea ascesa della produzione americana, segnalò la necessità urgente di studiare un programma per risollevare le arti francesi. Propose quindi un revival rinascimentale, guardando in particolare ai primitivi. Per seguire il suo programma estetico-ideologico diede vita a un progetto spettacolare: un museo di copie rinascimentali scala 1:1. Nell’ottobre del 1871 sottopose al Ministro della Cultura l’idea per il “Museo delle copie”. Il Musée des copies aprì i battenti

28 A. Boime, Seurat and Piero della Francesca, in «The art bulletin», Volume 40, 1958, pp. 265-271. 29 Ivi, p. 268. 30 Charles Loyeaux (Paris, 1823 – Arnouville, 1899) era stato raccomandato a Blanc per la sua capacità di copista. I da Jean-Léon Gérôme, i due pittori si erano conosciuti nello studio di Delaroche a Firenze. 31 A. Boime, Le Musée des copies, in «Gazette des Beaux-Arts», ottobre 1964, pp. 237-247.

335 Rinascite, rinascenze, rinascimenti nel 1872 presso il Palais de l’Industrie. A causa di un susseguirsi di capovolgimenti politici, che videro al finale il licenziamento di Blanc, alla fine del 1873 il museo delle copie fu smantellato. Le opere furono trasferite alla scuola di Belle Arti nella cappella des Petits Augustins, dove tuttora si trovano e affidate ad un curatore, l’“italianista” Eugène Müntz, studioso molto vicino alle idee di Blanc, altrettanto interessato al Rinascimento e a Piero della Francesca32. Seurat avrebbe così visto le copie da Piero all’Accademia; e Boime ricostruì anche i legami tra il pittore, Blanc e Muntz che spiegherebbero la conoscenza di Piero da parte di Seurat.

4. Conclusioni Siamo convinti che gli studi critici sopra analizzati sollevino, tra l’altro, una questione che merita ancora oggi di essere approfondita: ci riferiamo alla rilettura di alcuni momenti del postimpressionismo secondo una prospettiva di revival classico33. Prescindendo ora dalla ricerca del dato che certifichi lo studio di Piero della Francesca da parte di Seurat, riteniamo che quanto analizzato finora possa suggerire una convergenza di sensibilità artistica tra i due artisti. Secondo André Chastel, ciò che li accumunava era il sogno di originare un “Arte-scienza”34. Un simile obiettivo richiede l’osservanza di regole e leggi scientifiche; e sia Seurat che Piero furono devoti alla scienza, in particolare alla matematica e alla geometria, ed entrambi approfondirono gli studi sulla luce per vie sperimentali. Le ragioni culturali e ideologiche che li spinsero in questa direzione non furono certamente le stesse ma lo sperimentalismo e la tenacia nel provarsi in una pittura in grado di sfidare la natura, li accomuna di certo. Essi condivisero una comune

32 E. Müntz, Un nouveau manuscrit du traité de perspective de Piero della Francesca, in Les Archives des arts. Recueil de documents inédits ou peu connus, Libraire de l’art, Paris 1890. In questo articolo l’autore definisce Piero «simbolo di rigore scientifico e spontaneità, al tempo stesso un impressionista e un matematico». 33 Un fondamentale punto di partenza per questo filone di studi è ancora oggi rappresentato dalla tesi di dottorato di Robert Rey, discussa all’Università di Parigi nel 1931, e scritta grazie al fondamentale contributo di Félix Fénéon. Cfr. R. Rey, La Renaissance du sentiment classique dans la peinture française à la fin du XIXe siècle: Degas, Renoir, Gauguin, Cézanne, Seurat, Les Beaux-Arts, Parigi 1931. 34 A. Chastel, Seurat, Rizzoli, Milano 1972, pp. 5-9.

336 «Il fait du Quattrocento». Georges Seurat e Piero della Francesca: storia di un presunto dialogo. forma del vedere e sentire l’arte, caratterizzata da un intrinseco rigore e da una logica scientifica. Al tempo di Piero arte e scienza non erano separate: l’unica distinzione riguardava arti meccaniche e arti liberali; Seurat visse il “secolo della scienza” e sognò di ricomporre la frattura tra arti e scienze campionando conoscenze tra loro apparentemente incompatibili: la psicofisiologia ottocentesca, le scoperte fisiche sul colore, l’impressionismo e il gusto per l’arte primitiva. Piero studiò e applicò le teorie del De pictura (1435) dell’Alberti, che aveva dettato le coordinate del rinnovamento delle arti a Firenze. La pittura, fattasi scienza, richiedeva l’indispensabile conoscenza delle leggi della geometria. Si imponeva un’idea di bellezza antica ma rinnovata nelle sue forme, fondata su una metrica delle proporzioni presente in natura, trascendendo quindi l’uomo stesso. Per Piero e Seurat il disegno non era solo un richiamo al mondo classico, ma alle regole della natura; e la medesima, scientifica, attenzione riguardava anche l’utilizzo del colore e la realizzazione di luci e ombre. Entrambi hanno realizzato opere il cui rispetto delle proporzioni naturali ha fatto spesso pensare all’impiego di una formula matematica. Nella storia dell’arte non si annoverano molti esempi di artisti che oltre ad aver concepito e scoperto un proprio linguaggio espressivo, abbiano manifestato la necessità di costruire un sistema razionale dentro al quale verificare le proprie intuizioni. Tale fu l’atteggiamento degli innovatori del Quattrocento, come Piero della Francesca, e tale, crediamo, sia stato quello di Georges Seurat. Desideriamo concludere con le parole di Georges Seurat in risposta alle sovra-interpretazioni della sua opera: «vedono della poesia in quello che faccio ma io non applico che il mio metodo». E proprio attraverso l’applicazione del metodo, Seurat intendeva riformare l’arte del proprio tempo: paragonandosi a un Fidia moderno, rivelò a Gustave Kahn: Le panatenee di Fidia erano in processione. Io voglio fare ambulare così su questi fregi i moderni, e in quello che hanno di essenziale, piazzarli nelle tele organizzati secondo armonia di colori, per direzioni di toni in armonia con le linee, per la direzione delle linee, la linea e il colore disposti l’uno dopo l’altro.

337 finito di stampare nel mese di febbraio 2021 presso la Litografia Solari Peschiera Borromeo (MI) Rinascite, rinascenze, rinascimenti

Atti della Summer School 2019

A CURA DI ALBERTO BARZANÒ E CINZIA BEARZOT

CONTRIBUTI DI A CURA DI M. Ghelardi, C. Azzolini, L. Masetti, L.F. Pizzolato, ALBERTO BARZANÒ E CINZIA BEARZOT G. Colombo, N. D’Acunto, F. Arlati, P. Procaccioli, Rinascite, rinascenze, rinascimenti F. Gatti, M. Guerinoni, A. Anguissola, L. Galasso, S. Ferrario, F. Riva, C. Conforti, S. Setti, E.S. Gaetano Atti della Summer School 2019

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