Storia Militare della Popolazione Cimbra

…parono più atti ad ogni atione e per la disposicione dell’aria ivi più d’ogni altro luogo di quelle montagne di maggior bontà, che perciò rende gli uomini più abili et disposti alla milizia nella quale hanno fatto e fanno tuttavia grandissima riuscita…

I Sette Comuni, ritenuti figli prediletti dalla Repubblica di San Marco, più volte sparsero per essa generosamente il sangue e più volte, orgogliosi, vinsero e ributtarono dai loro confini le orde nemiche che minacciose volevano irrompere nelle contrade. Non si tratta certo di gente del mestiere delle armi, ma di alpigiani che intendono difendere da chiunque i passi montani. "I miei montanari Cimbri e Bassanesi sono i miei soldati più coraggiosi e fedeli: gli altri Veneti, confrontati con questi, sono delle femminucce”così disse dei Cimbri Ezzelino da Romano, in varie battaglie questi si guadagnano fama di valorosissimi combattenti. Scomparso Ezzelino, i comunigiani pretendono la totale indipendenza e la difendono per secoli contro chiunque attenti alla loro libertà, costituendo la famosa “Reggenza dei Sette Comuni”, con piccolo ma proprio esercito. L’elemento maschile della popolazione sa fare buon uso delle armi, ma il minuscolo esercito é raccogliticcio e non troppo bene organizzato: mancano soprattutto esperti capi militari e armi efficaci, che solo la vicina Repubblica Veneta può fornire. La Spettabile Reggenza dei Sette Comuni decide dunque di legarsi ad essa, salvaguardando ogni immunità ed ogni privilegio: “Pristina iura tenent – dantes sua sponte Leoni” (Si concedono di propria volontà al Leone, mantenendo gli originali diritti). Il Doge Michele Steno (1404) gradisce l’offerta, promettendo forniture militari, invio di capi militari per l’istruzione delle reclute comunigiane, rapporti commerciali particolarmente favorevoli alla Reggenza. I montanari promettono a loro volta di salvaguardare i confini settentrionali con soldati propri, di permettere l’arruolamento di volontari alpigiani nell’esercito regolare di San Marco, di fornire legname per le navi e carbone vegetale. L’alleanza durerà quattro secoli. Gli abitanti dei Sette Comuni (“Sleghe un Lusaan – Genewe un Wusche – Ghelle, Rotz Rowan – dise sain sieben alte Komeun – prudere liben!”: , , , , Gallio, e , questi sono i sette vecchi comuni, fratelli cari. La contrada di godeva degli stessi diritti del Comune di Lusiana, cui faceva parte), si battono per la difesa della propria terra, facendo contemporaneamente gli interessi di Venezia. “Essendo questi popoli ferocissimi, nati ed allevati nel freddo e nel caldo e in continue fatiche e sudori, e fatti molto robusti et bellicosi et naturalmente inclinati alle guerre …parono più atti ad ogni atione e per la disposicione dell’aria ivi più d’ogni altro luogo di quelle montagne di maggior bontà, che perciò rende gli uomini più abili et disposti alla milizia nella quale hanno fatto e fanno tuttavia grandissima riuscita…”. Ciò è quanto disse l’inviato di Venezia sull’Altopiano in una sua relazione, proponendo nel contempo la costituzione sull’Altopiano di una milizia stabile locale, con unico scopo la custodia del proprio paese e dei passi alpini di confine, esonerata da qualsiasi servizio militare al di fuori del proprio territorio. Tra il 1500 e il 1600, parecchi volontari altopianesi diventano capitani e condottieri nell’esercito regolare veneziano. Il più glorioso fatto d’arme per i montanari della Reggenza avviene negli anni 1508-1509. L’imperatore Massimiliano I, in un inverno mite e senza neve, sale dalla Valsugana con l’intenzione di prendere alle spalle l’esercito che stanzia in pianura. Pochi ma valorosi soldati dei “Sette Comuni gli contendono a lungo il passo, ma l’imperatore scatena le sue bande nella conca dell’Altopiano ad incendiare e depredare. Il paese di Lusiana, con montanari di Conco e Gomarolo, riesce a fermare i nemici al passo del Pùffele, e Massimiliano ripiega ad Asiago da dove, costretto da improvvise e straordinarie nevicate, é obbligato a ritornare per la Valdassa verso la Valsugana. Per punire gli altopianesi della resistenza opposta e del rifiuto del proprio governatore, l’imperatore Massimiliano I tenta ancora, dopo aver cercato per la Val Brenta (con fiera opposizione di ardimentosi di Foza, Enego e Valstagna che fanno precipitare sulle truppe imperiali, all’andata al ritorno, massi dalla montagna) la via della Valdassa, ma gli alpigiani sbarrano la strada con tagliate e trincee da Val Scaletta al Restello, mentre il capitano veneto Angelo Caldogno si mette all’agguato con 1.000 fidi alpigiani. Giunta al Restello, l’avanguardia tedesca viene prima arrestata dai difensori dello sbarramento e poi assalita da ambo i lati dai montanari del Caldogno. Gli imperiali di Massimiliano “funestati da ogni parte da varie e spaventose forme di uccisione e di morte”, prima indietreggiano e poi si danno a fuga precipitosa, travolgendo il resto dell’esercito che sta risalendo dalla Valsugana, incalzati dai militi Settecomunigiani. È una splendida vittoria: la popolazione dell’Altopiano, ammirata, ne è orgogliosa. I suoi uomini sanno battersi proprio bene. Dopo un ennesimo tentativo di Massimiliano di salire sull’Altopiano, e questa volta da Marostica, bloccato dai montanari di Lusiana e di Conca nel novembre 1509, è la volta dei francesi del generale La Palisse che, respinto dalla locale milizia alpigiana di Lusiana e di Conco, arretra a Marostica. Squadre montanare assaltano di sorpresa i soldati francesi di scorta ai convogli delle armi e rifornimenti: su 400 ne uccidono 200 e altri 200 vengono catturati. Non basta: nel 1513 tocca agli spagnoli: non hanno nemmeno il tempo di lambire i margini dell’Altopiano che i settecomunigiani al comando di Manfrone li assalgono all’improvviso a Sandrigo, catturando armi e prigionieri. All’arrivo dei rinforzi spagnoli, i nostri si ritirano in buon ordine sulle colline di Crosara. L’anno dopo, in febbraio, un migliaio di soldati teutonici al comando di Caleppino sono fermati in Val Brenta dagli uomini di Valstagna (una delle contrade annesse della Reggenza), armati alla meglio “con archibugi, ferri taglienti ed ascie”; tutta l’avanguardia tra cui Caleppino, viene catturata e consegnata a Venezia. Dopo le lotte contro gli eserciti della Lega di Cambrai, un tentativo dell’imperatore Carlo V si spegne agli inizi e gli alpigiani badano a frenare tentativi di usurpazioni del loro territorio da parte dei Valsuganotti: nell’agosto del 1602 li ricacciano giù dalla strada della Pertica, costringendo i mandriani e i pastori restanti a giurare fedeltà a Venezia. Si trova il modo, così, di istituire la nuova Milizia Stabile. Lo consente, nel 1606, un decreto del Doge che mette a disposizione 1.200 archibugi. Tutti gli uomini possono portare armi, perfino in chiesa (prima era vietato dal vescovo di Padova). Il capitano veneto Francesco Caldogno organizza i reparti, ripristinando una ferrea disciplina militare. La denominazione ufficiale del piccolo esercito che era dapprima: “Milizia dei Sette Comuni”, con l’annessione di paesi della Val Brenta diventa: “Milizia dei Sette Comuni e del Canale del Brenta”. Nella milizia si continua a parlare la lingua cimbra ma a poco a poco viene introdotto la lingu a veneta. Il motto é: “Siben Commeun bohùtent- sich” (I sette Comuni si difendono) e la bandiera é un grande drappo bianco con Leone di San Marco sul verso e stemma dei Sette Comuni (sette teste) sul retro. Una volta riorganizzata, la milizia non ha però più occasione di venir impiegata in battaglia. Durante la guerra tra Venezia e i turchi, i Sette Comuni forniscono aiuti in uomini e materiali alla Serenissima che riconoscente, premia la Reggenza con l’invio di uno stendardo che ancor oggi si conserva nel municipio di Asiago. Nei fatti d’arme contro i turchi si distinguono l’asiaghese Domenico Barbieri con una centuria di fanti, a sue spese arruolati, e il roanese Marco Sartori, condottiero veneto e governatore della Dalmazia. La pretesa di Vicenza di incorporare tra le sue truppe anche gli alpigiani dei Sette Comuni e di obbligare personale della reggenza a prestare lavoro nella fortezza di Palmanova viene annullata dal Senato Veneto: nessun servizio al di fuori dei propri confini se non assolutamente volontario, affermano i patti con Venezia. Ed ecco l’ultimo intervento armato della Milizia Stabile Locale: Napoleone Bonaparte scende in Italia e cancella Venezia dalla scena politica: il piccolo esercito cimbro, con armi e bandiere, scende a Verona per ostacolare i francesi ma tutto ormai è inutile.

Alla Patria

Poesia di Maria Fasolo Con il mio onore, io ti difenderò sempre, oh Veneto, faro splendente della nazioni. Tu resterai eternamente il mio Ideale, anche quando ti contemplo da lontano. Contro le vili calunnie dei mascalzoni che negano la tua identità, io, con la torcia della verità irrefutabile, proclamerò all’universo che la SERENISSIMA non è estinta: che ella vive, e fiorirà per sempre! Il tuo onore è il mio: non ti deluderò.

Ti difenderò con la mia forza: quel sereno, ma inestinguibile vigore di una donna; voglio essere un baluardo di resistenza contro tutti i “giuristi” e politici malefici che, con perfidia e ipocrisia, cospirano a distruggere la nostra Repubblica.

Con la mia penna ti loderò e ti difenderò. Giustamente si dice che la parola è più forte della spada. Come Omero, bardo degli antichi eroi, io canterò uno splendido passato, elogiando nell’assemblea degli statisti giusti il tuo Governo, modello ai popoli. Descriverò anche il tuo presente, tanto tragico, ma calmo di speranza. Esalterò, soprattutto, il tuo FUTURO del Veneto: quel futuro non distante quando la Serenissima sarà di nuovo libera e sovrana… Sul futuro comporrò inni di vittoria Che i nostri figli fortunati canteranno.

Carminio e oro sono i tuoi colori indelebili. Innalzerò, con fierezza, il tuo stendardo; sfidante, confronterò i nemici più feroci. Difenderò l’amatissima Patria con la mia vita, con tutto ciò che possiedo e se tu, Veneto mia Madre, richiedi da me quell’ultimo sacrificio, ecco! Nel martirio, il mio sangue, vero carminio marciano, si mescolerà con l’oro raggiante del tuo splendor immortale.

Lissa

Canto Patriottico composto da Maria Fasolo.

Spinta sulle onde, sul soffio del destino, la flotta “austriaca” si avvicinò silenziosamente, come un felino guardingo con la preda in mira. Abile e audace era la ciurma. Pochi erano gli austriaci fra loro, giacché la maggior parte erano figli del Leone Alato, non dell’aquila predatrice. Veneta era l’anima che sospinse le navi, Veneta la loro fierezza.

Si avvicinò la flotta degli eroi. Nel frattempo, sommersi in noia e torpore, i lacchè della marina italiana, senza patrimonio, senza memoria del passato, giocavano con le carte dell’ozio sulla coperta della loro corazzata prepotente. Piccoli uomini di legno… cioè, di paglia… a bordo di mostri di ferro. Il comandante, indegno della sua stirpe piemontese, fece un cinico brindisi a “Italia” e bevve d’un sorso un altro bicchiere di vino veneto, sogghignando nella sicurezza del suo prossimo trionfo.

Ma la flotta marciana si avvicinò mentre l’Italia sonnecchiava.

Ricordiamo, esultanti, questa pagina della nostra storia! Il trionfo era NOSTRO, come nostra è la gloria! Roma ci opprime, ci imprigiona, ci escoria, ma non è capace di toglierci la vittoria!

Non per favorire lo sfarzo dell’alleato abbiamo combattuto a Lissa, ma nel nome della Veneta Serenissima Repubblica! Per Ella…santa Patria nostra…abbiamo lottato e vinto. Quale Carlomagno, quale Bonaparte o Kaiser scaltro osa…e può annientarci? Nell’avversità, LA FIAMMA MARCIANA SI RINNOVA, NON SI SPEGNE. Il Veneto è stato occupato, ma MAI CONQUISTATO! Sull’alberatura, le navi imperiali Battevano bandiera austriaca, ma nel cuore di ogni marinaio veneto ondulava il Vessillo della Serenissima; da ogni petto virile eruppe il grido “Viva San Marco!” e l’Italia “invincibile” (quel guerriero ancora in pannolini) è andata ignominiosamente al fondo del mare.

Ricordiamo, esultanti, questa pagina della nostra storia! Il trionfo era NOSTRO, come nostra è la gloria! Roma ci opprime, ci imprigiona, ci escoria, ma non è capace di toglierci la vittoria!

La lotta di quel tempo è la stessa di oggi. Siamo eredi autentici degli eroi di Lissa: quegli intrepidi uomini di ferro sulle vecchie navi di legno.

Saremo degni di loro. Paladini di San Marco, marceremo alla battaglia, non per uccidere o distruggere ma per ricostruire il Patrimonio Veneto. La spada della nostra difesa, luminosa e risoluta, si chiama GIUSTIZIA: quella giustizia che vince con pace, con perseveranza, con serenità.

Maria Fasolo

A tutti i cari amici del Veneto Serenissimo Governo, a tutti i Patrioti che, impavidamente, hanno fatto innumerabili sacrifici per un Ideale, io dedico questi versi. Il mio desiderio più fervente è di ricordare a questa generazione contemporanea che noi abbiamo una Patria gloriosa, meritevole del nostro amore; e che questa Patria non si chiama Italia, ma VENETA SERENISSIMA REPUBBLICA! Il mondo deve riconoscere un fatto palese; che la storia della Nostra Repubblica non finisce nel 1797, e neanche nel 1866: si tratta di un processo storico INTERROTTO illecitamente dalle circostanze, ma NON TERMINATO.

Il 7 ottobre festa nazionale della Veneta Serenissima Repubblica

Il Veneto Serenissimo Governo proclama solennemente il 7 ottobre festa nazionale della Veneta serenissima repubblica in onore della Vittoria di Lepanto.

Il Veneto Serenissimo Governo, erede e continuatore della storia, tradizioni e cultura della Veneta Serenissima Repubblica, proclama la settimana che va dal 6 al 12 ottobre sia dedicata al ricordo della Battaglia di Lepanto, e di tutti quei valorosi che lì perirono per la difesa dell’Europa tutta. Il terrorismo ed il fanatismo internazionale dopo l’11 settembre 2001 si sono riproposti come problemi che urgono di una soluzione stabile. È compito di ogni donna e uomo, oggi come allora, impegnarsi per la difesa dei sacri valori che caratterizzano la civiltà veneta ed europea. Quella millenaria civiltà europea che si fonda sui 10 Comandamenti che Dio ci ha dato. Essi, ora più che mai, devono essere il punto di riferimento per ogni progetto di società futura. È bene ricordare a tutti quale sia la struttura delle tavole della Legge: Esse sono divise nei 3 comandamenti religiosi, e nei 7 laici che indicano quale debba essere la condotta morale di ogni persona che vuole vivere nella nostra società. Il Veneto Serenissimo Governo è conscio dell’importante compito che la storia gli affida per la salvezza delle millenarie tradizioni Venete, ed è convinto altresì che con la protezione di San Marco, del proprio Patrono Beato Marco d’Aviano e la determinazione del Popolo Veneto l’obbiettivo è raggiungibile. Gli esempi di condotta per ogni Veneto che si consideri tale sono Sebastiano Venier che con indomito coraggio guidò la flotta Veneta durante la Battaglia di Lepanto, Marcantonio Bragadin che diede la vita per la difesa della Veneta Patria, e Beato Marco d’Aviano che con la sua guida spirituale guidò gli eserciti cristiani nella difesa di Vienna e per la liberazione di Buda e Belgrado. Il Veneto Serenissimo Governo invita tutto il Popolo Veneto ad onorare, durante questa settimana, presso ogni Santuario Mariano recitando il Rosario, tutti i marinai e fanti di mare caduti sul campo d’onore per difendere l’Europa tutta e le sue capitali: Vienna, Venezia, Roma; ricordando i comandanti della Lega Santa: Don Giovanni d’Austria, Sebastiano Venier, Agostino Barbarigo, Marcantonio Colonna e il Marchese di Santa Cruz. I soldati della flotta cristiana sono veri martiri caduti per la difesa della nostra Europa.

Venezia, 26 settembre ’05

Il Presidente del Veneto Serenissimo Governo Luigi Faccia

7 Ottobre 1571

Come nel passato il Veneto Serenissimo Governo è diventato guardia e punto di riferimento certo per tutti coloro, Veneti e non, che non intendono arrendersi o patteggiare con chi ci vuole annichilire. Anche quest’anno il Veneto Serenissimo Governo e tutti i Patrioti Veneti che lo sostengono, ha ricordato a Venezia con la dovuta solennità la vittoriosa battaglia navale di Lepanto, evento di straordinaria importanza storica. Lepanto è l’apice del coraggio della dignità di migliaia di Veneti, e di altre migliaia di fratelli in armi provenienti da tutta Europa, che seppero uniti ergersi a diga nella difesa dei supremi valori su cui si fonda la nostra civiltà dallo strapotere dell’impero Turco Islamico. Mai in 433 anni il simbolismo di quest’immane scontro ha assunto tanti significati come in questi ultimi 3 anni. Aggrediti con una ferocia senza limiti dal fanatismo integralista Islamico che sta mettendo a repentaglio, oltre alle nostre vite e i nostri beni, l’essenza più profonda del diritto sacrosanto alla libertà di ogni essere umano. La nostra gloriosa Veneta Serenissima Repubblica ha saputo con la forza delle sue armi, i suoi alti principi morali e religiosi, la sua illuminata saggezza, tenere fuori dai suoi confini per secoli questa mortale minaccia, contribuendo cosi in maniera determinante a salvare l’Europa. La folle stupidità, meschini calcoli politici, interessi economici di breve respiro, la mancanza totale del senso della storia e della dignità di intere classi dirigenti politiche imprenditoriali, hanno provocato squarci paurosi nelle mura della nostra civiltà. Torme di sedicenti "intellettuali" veri tromboni, imbonitori che annunciavano l’irreversibilità e le future meraviglie della società multietnica, multireligiosa, corroborati anche da una parte del clero che ha smarrito gli insegnamenti di Cristo, hanno fatto il resto del disastro. Il Veneto Serenissimo Governo, memore degli insegnamenti della nostra millenaria storia, da anni denuncia questa delirante corsa verso il suicidio collettivo, chi distrugge la propria storia, cultura, tradizione, viene inesorabilmente sopraffatto. E quello che sta accadendo ormai tutti i giorni purtroppo lo dimostra senza più alcun dubbio. Quando il Veneto Serenissimo Governo da solo ricordava Lepanto, gli immortali eroi martiri Veneti fulgidi esempi di coraggio, lealtà, senso del dovere, fatti scientificamente sparire dalla memoria collettiva del nostro Popolo da una storiografia falsa e giacobina, era deriso, beffeggiato, umiliato dai rappresentanti del potere occupante italiano tronfi delle loro imbecilli "certezze" partitiche. Ma la storia non perdona il suo maglio si è abbattuto ancora una volta provocando paura e sconforto. Come nel passato il Veneto Serenissimo Governo è diventato guardia e punto di riferimento certo per tutti coloro, Veneti e non, che non intendono arrendersi o patteggiare con chi ci vuole annichilire. I distinguo, i sotterfugi, i giochetti più o meno furbi, non pagano più, Veneti in alto il millenario vessillo Marciano serriamo le fila. Il Presidente del V.S.G. Luigi Massimo Faccia

24 giugno 1405: La dedizione di Verona alla Serenissima

Approfondimento di Luca Peroni sulla dedizione di Verona alla Serenissima.

E’ sicuramente accettato che il rinascimento della terraferma veneta coincide con la fine delle signorie e la dedizione volontaria dei territori alla Serenissima. Verona ricorda la sua il 24 giugno 1405. Nei primi anni del 1400, Verona è sistematicamente teatro di battaglie da parte di eserciti al soldo delle varie casate "egemoniche" del nord Italia. Una delle più crudeli è quella di Francesco da Carrara che nel 1404 riesce a conquistare la città e farsi proclamare signore. Ben poco dura il suo governo, però, che minacciato all’esterno dall’armata veneta, si ritrova assediato anche all’interno dalla popolazione affamata e minacciata dalle epidemie che abbandonati gli indugi, prende le armi, occupa la piazza grande e obbliga il Carrara con una fuga precipitosa a riparare in castelvecchio. In quei momenti, è acclamato capitano del popolo Pietro Da Sacco che avrà il compito di trattare la dedizione della città alla serenissima con i rappresentanti veneti. Davanti alla porta di Campo Marzo, gli oratori veronesi capeggiati da Pietro Da Sacco conferirono con la delegazione veneziana guidata a sua volta da Gabriele Emo e Jacopo Dal Verme; fu consentito l’ingresso di 3 compagnie di fanti veneti con il compito di guardar la piazza mentre gli ambasciatori veronesi si portarono rapidamente al campo veneziano in prossimità o probabilmente all’interno del castello di Montorio. Furono immediatamente fissate le condizioni molto onorevoli della dedizione. Fu permesso che Verona continuasse a godere della libertà derivante dalla "podestà di ragunar senato, di crear magistrati, di far leggi e di governar la città, e le cose pubbliche, rimanendo ai veneti senatori il travaglio, i pericoli e la spesa" (Maffei). Furono concessi anche dei privilegi particolari ai contadini della valpolicella per essersi mostrati favorevoli a S. Marco nel corso delle guerre contro i visconti. Erano le stesse che dopo meno di un mese, il 16 luglio, furono solennemente convalidate a Venezia in una "ducale" con bolla d’oro, lettera ufficiale del doge, con sigillo aureo, avente forza di legge. Il 23 giugno i veneziani entrarono con gran pompa in Verona dalla porta del Calzaro sita tra Porta Nuova e Porta Palio. L’avvenimento fu consacrato con la nomina di molti cavalieri fra cui Pietro Da Sacco che lascio’ la carica di capitano del popolo. In cattedrale poi si cantò un Te Deum di ringraziamento e finalmente le nuove autorità venete presero alloggio nel palazzo che era stato degli Scaligeri. I veneziani, preso ufficialmente possesso di Verona, intesero farlo quindi militarmente. Il 24 giugno, provenienti da S. Michele Extra, giunsero le milizie guidate da Jacopo Dal Verme e sfilarono "in bella ordinanza con severissima disciplina" acclamate dal popolo. Entrarono dalla porta di Campo Marzo, attraversarono tutta la città passando da piazza delle Erbe, uscirono dalla porta del Calzaro e si accamparono fuori delle mura nella attuale zona dello stadio. Nello stesso giorno del 1405, si riunì il consiglio cittadino detto dei 12 che elesse gli ambasciatori che dovevano recarsi a Venezia per la dedizione pattuita. Continuarono poi le sincere manifestazioni di esultanza per la coscienza di trovarsi, dopo tante inquietudini, sotto un governo saggio e forte. Partirono i 21 ambasciatori l’8 luglio e giunsero in pompa magna a Venezia con 120 cavalli, ed alloggiarono nel palazzo del Marchese di Ferrara". In testa Leone Confalonieri, fra Zenone Negrelli e Pace Guarienti, reggeva la bandiera del Comune; preceduta pero’ dal nobile Aleardo Aleardi, fra Clemente dell’Isolo e Tebaldo del Broilo, che portava quella dei Cavalieri. Il Doge, circondato dal Gran Consiglio, accolse i Veronesi, tutti vestiti di bianco per significare la loro purezza e sincerità di mente e di volontà. Tutti erano solennemente riuniti su un palco eretto in Piazza S. MARCO tra la chiesa e le mercerie. Pietro da Sacco, affiancato da Torneo de Caliari e Gaspare da Quinto, consegno’ le 3 chiavi della città e dei suoi distretti, in segno di dominio e possesso. I 21 ambasciatori tornarono in Verona acclamati dal popolo festante, il 26 luglio 1405 recando il gonfalone con il leone di S. MARCO avuto in dono dal Doge e le bolle d’oro. Il 2 agosto il gonfalone fu portato solennemente in piazza delle Erbe, issato sul carroccio che era custodito in S ZENO e quindi levato sopra l’altissima antenna vicino al capitello. I veronesi celebrarono da allora, il 24 giugno, con una solenne processione dal Duomo a S GIOVANNI in valle e con una pubblica grandiosa giostra che richiamava valenti cavalieri da tutta Italia.

Luca Peroni Vice Presidente V.S.G.

Figlie della Patria: il ruolo della donna veneta attraverso i secoli ricerca sulle donne venete di Maria Fasolo

Benché i nostri antenati, i Paleoveneti, fossero una nazione Indoeuropea con un concetto essenzialmente patriarcale della società, la creatività, l’influenza sociale e l’autorità politica delle femmine, non sono mai state assenti dalla nostra civiltà. E’ altamente significativo che la divinità principale nel Panteon Paleoveneto era una femmina: la veneratissima Reitia, dea della giustizia, dell’educazione e della cultura, alquanto simile all’Atena dei Greci ma senza le tendenze belliche di questi. Reitia, con tutta probabilità, era una dea vergine, poiché nessun consorte è associato a lei. Il suo nome sembra derivare dalla radice protoindoeuropea "Reikt…" (retta), nel senso civicomorale. Reitia era, infatti, una divinità di rettitudine, tolleranza e armonia sociale. E’ stata molto amata e venerata da tutti i Paleoveneti, tanto dalle donne quanto dagli uomini. Era un raggiante modello, un’ispirazione, per le mogli e figlie Venete, e per gli insegnanti di ambedue i sessi. Così, la nostra storia nel territorio Veneto comincia con il benevolo governo di una femmina. La città di Venezia, dalla sua fondazione è sempre stata concepita come una femmina. Numerosi grandi artisti come Tiziano, Tintoretto e Veronese hanno rappresentato l’amata Serenissima come una donna di straordinaria bellezza, con capelli aurei e sereno portamento maestoso. Come la dea Reitia, Venezia vera Patria di giustizia, armonia e progresso, è stata immaginata come l’incarnazione di tutte le virtù garbate: grazia, tranquillità, candore, fedeltà ingegno creativo: in breve, le qualità associate con le donne sagaci e onorate. Nel mio libro (in stampa) "Uno spirito che non muore: la continuità della civiltà Veneta", ho commentato che le donne Paleovenete erano internazionalmente rinomate per la loro beltà, modestia, diligenza, dedizione alla Patria al culto e alla famiglia. In contrasto con le loro contemporanee degli altri paesi d’Europa, queste donne Venete spesso partecipavano alle attività commerciali, firmavano contratti in nome proprio, lavoravano nei Templi, università come istruttrici, redigevano i propri testamenti, amministravano la loro proprietà a piacimento. E’ interessante osservare che in tutte le epoche della nostra plurimillenaria storia, anche nell’Alto Medioevo (quando il resto dell’Europa era immerso nell’intolleranza), la donna Veneta ha fieramente conservato questi diritti civici, giuridici e commerciali. Durante il Medioevo e nel Rinascimento, numerosi sono i casi delle dame cui abnegazione, eroismo, e spirito di servizio alla Patria Veneta sono altamente lodevoli. Le femmine intellettuali che hanno dedicato tutta l’energia feconda delle loro menti al progresso scientifico/culturale della Serenissima, sono troppe per enumerarle in questo breve articolo. Voglio citare solo le più importanti; le prime donne laureate in tutto il mondo, perché queste due gentildonne Veneziane servono come epitomi degni di tutte le loro sorelle Studiose: · CASSANDRA FEDELE (1456-1558), nata e morta a Venezia. "Ammaestrata nelle lettere Greche e latine, nella retorica, nella filosofia e nelle musica", questa straordinaria donna, tra il 1477 e il 1478, ha ricevuto il dottorato in medicina all’università di Padova: così, lei tiene il primato assoluto fra le donne laureate e addottorate. Poetessa, musicista, conferenziera, Cassandra Fedele era anche una grande filantropa: lei ha gestito, durante molti anni della sua lunghissima vita, un orfanotrofio dove le bambine abbandonate hanno potuto ricevere un’eccelsa educazione classica e culturale. · ELENA LUCREZIA CORNER PISCOPIA, nata il 5 giugno 1646 a Venezia. Morta a soltanto 38 anni d’età. Elena era parente della Regina Caterina Corner. Come Cassandra Fedele, era una bambina prodigio; dalla prima infanzia, mostrò eccezionale intelligenza e curiosità, quasi avidità per imparare, Elena Corner si dilettava nella composizione di versi poetici e nella musica. Imparò sei o sette lingue… Ma la sua vera passione era la filosofia. Lei si recò all’università di Padova; in quel celebre istituto di erudizione, il 25 giugno 1678, Elena Corner "Con raro impegno di cerimonia, fu onorata della laurea Dottorale alla presenza d’innumerabili Letterati…" (da Giovanni Grevembroch, "Gli abiti da Veneziani"). Profondamente religiosa, Elena Corner professava il terzo ordine di San Benedetto. Indossava quasi sempre il severo abito nero dell’ordine, il quale, tuttavia, non ha potuto diminuire la sua serena bellezza, evidente nei suoi ritratti. Fra le donne Venete cui, magnanimità, eroismo e dedizione, ci ispirano anche oggi ad imitare il sublime esempio, spiccano particolarmente le seguenti: · Le generose dame che, nell’anno 1379, durante la guerra contro Genova, offrirono i loro gioielli e regali dotali per rifornire il pubblico erario. · La moglie, (purtroppo anonima) di Battaglia Motta, una giovane donna che, il 22 maggio 1667, a Candia organizzò "Un manipolo di donne che con animo virile e con generosi esempi si diedero ad animare tutti i lavori di munizionamento per alleviare la fatica dei combattenti (Veneti avversari dei Turchi a Candia), esponendosi agli stessi loro rischi o pericoli." (da Eugenio Miozzi, "Venezia nei Secoli"). · Le eroine Venete di Famagosta: "I difensori (a Famagosta) non raggiungevano il numero di 7400, ma resistettero per lungo tempo agli assalti nemici, sotto il comando di Marcantonio Bragadin e di Astorre Baglioni. Fu allora che videsi, pietà grande e commendevole, accorrere ognidì le femmine stesse, e nobili e plebee, sulle mura… recando e somministrando a combattenti acqua, sassi, legne, ne partire se prima con lanciamento di pietre verso la fossa non avessero, per quanto potevano, offeso il nemico; ciò continuando sempre fino al giorno dell’ultimo esizio." (Miozzi op. cit.) · Le molte Dogaresse benefattrici che hanno mostrato la munificenza più spontanea, donando liberalmente alle buone cause, lavorando diligentemente nelle opere pie: loro, con fondi propri, hanno fondato orfanotrofi, scuole, ospedali, collegi, conservatori, centri culturali… I loro nomi sono, in generale, quasi dimenticati ma il bene che hanno fatto le Dogaresse per la società rimane come una contribuzione permanente alle iniziative culturali e umanistiche. · BELISSANDRA MARAVIGLIA, aristocrata Veneziana in Cipro, "Fata prisoniera durante l’assedio de Nicosia, in t’el setembre 1570, insieme co tante done sipriote… la xe stada strassinada su la nave patrona turca, co’l destin de esser vendua come mercanzia de lusso a qualche arem de musulmani…" (da Mariù Salvatori de Zuliani, "Venezia da no perdar: storie e leggende Veneziane"). Sentendo compassione per le sue compagne di sfortuna (alcune di quelle prigioniere Venete avevano solo dodici anni d’età) "La dama ga deciso, ela per tute che gera assae megio morir che restar s’ciave de i nemici. Ghe gera una camaron pien de barili de polvere da sbàro; ghe xe passà per testa che sarìa sta belo far saltar per aria ela medesima co le so compagne, soldai e botin de guera. La zentildona ga destacà na fiamòla tignula impissada per far l uce ne la stiva, butandola po drento in t’uno de i diti barili… A onor de’l vero s’à da dir che anca in te la difesa de Cipro, le done Veneziane s’à mostra altretanto coragiose che i omeni" (Salvatore de Zuliani op. cit.). · CATERINA CORNARO (Corner), nata a Venezia nel 1454. Regina di Cipro. Eugenio Musatti, nel suo libro "La donna in Venezia", la descrive come "bella della persona, lepida nel conversare, istruita nelle lettere e nella storia." Il 6 giugno 1489, questa ammirevole abnegata dama, consapevole dell’importanza strategica dell’isola di Cipro alla difesa della V.S.R. e dell’Europa intera, "Cedo il suo dominio alla cara Patria." Per questo atto di dedizione e amore alla Serenissima, Caterina Cornaro veniva dichiarata "Figlia della Republica". Era, per lei, un onore anche più prezioso del titolo di Regina. · Le innocenti, valorose donne di Verona (alcune erano incinta) che hanno perso la vita durante la disperata resistenza delle Pasque Veronesi. Sui partecipanti in questa resistenza, l’autore Eugenio Miozzi (op. cit.) dice "Il popolo alla fine comprese il tradimento perpetrato da coloro che avevano predicato le gioie degli immortali principi, e che si erano concluse con la distruzione della Patria e con il dominio degli stranieri. E si ribellò: ma era troppo tardi… Il nuovo governo che aveva assunto per Motto LIBERTE’, FRATERNITE’, EGALITE’, per primo suo atto mitragliò i figli del popolo, per colpa la grave di amare la Patria." I figli, si; ma non dobbiamo dimenticare che c’erano anche tante FIGLIE DELLA PATRIA che donarono l’inestimabile tesoro del loro sangue in quell’orrendo massacro. · CATERINA DOLFIN TRON, aristocrata Veneziana, poetessa, che, proprio al crepuscolo della Serenissima: "Volle anche lei esprimere l’amarezza angosciosa del suo animo e la tenacia della sua volontà di fronte alla tremenda sventura": …mi fia d’un Dolfin, muger de un Tron, bato grinta per Dio, mi no me mazzoe se casco, non casco in zenocion… (tratto da Eugenio Miozzi, op. cit.) Chiudo questo tributo alla Donna Veneta auspicando che i veri valori quali: onestà, coraggio, spirito di sacrificio dedizione alla Patria e alle cause giuste, umiltà e amore verso il prossimo, vengano assorbiti dalle donne odierne, affinché, guardando al passato, possano aiutarci a costruire un raggiante futuro Marciano. Maria Fasolo

L'elezione del Doge

Luca Peroni spiega quali fossero le modalità di elezione del Doge durante la Serenissima.

Nel momento in cui l’entroterra fu devastato dai Barbari, le tribù Venete si unirono tutte nella laguna plasmando la loro capitale futura. La V.S.R. durò quasi tredici secoli e nel suo pieno splendore avrà la forza di sostenere guerre sanguinose ed estenuanti con quasi tutti gli altri stati che fra il XIV e il XVII secolo fecero "la storia del mondo". Quando per mano straniera cadde, era lo stato più antico del mondo. Arrigo Pecchioli scrive: "nulla è paragonabile alle istituzioni della repubblica del leone: le sue navi, i suoi soldati, i suoi diplomatici, i suoi giudici e funzionari furono, come i Dogi, quanto la storia dei popoli conoscono di più retto ed esemplare. La Serenissima ebbe sin dall’inizio una chiara impronta governativa popolare. I Magistrati popolari (o Tribuni) venivano eletti dalle varie assemblee degli abitanti che in gravi circostanze si riunivano in un assemblea generale chiamata "Concione" o "Arengo" nelle quali risiedeva la vera sovranità.

Con il mutare dei tempi, le colonie Venete, spinte dal rapido progresso e dai vari cambiamenti interni ed esterni ai suoi confini, andrà piano piano e senza rivoluzione alcuna ad attualizzare le sue istituzioni creando quell’insieme di ordinamenti cosi ben congeniati da permettere alla V.S.R. stessa di rigenerarsi ogni qual volta i tempi lo richiedessero. Di tutte le cariche della repubblica, la più simbolica era quella del Doge, unica ad essere a vita. Da principio il Doge nasce come capo militare eletto direttamente dal popolo; il suo potere fu sempre limitato e via via che le istituzioni Venete presero forma, diminuì sempre più fino a diventare un vero e proprio schiavo della repubblica. In lui si incarnava lo spirito dello stato Veneto, la sua magnificenza doveva essere assoluta. Il primo Magistrato della Serenissima era talmente limitato che gli era praticamente impossibile qualsiasi manipolazione dei meccanismi costituzionali a suo vantaggio. "Era partecipe d’ufficio a tutte le assemblee decisionali della Serenissima, eppure condannato ad ogni sorta di limitazioni riguardanti l’intera sua famiglia e costretto a chiedere il permesso di assentarsi, fosse pure per qualche ora." (Alvise Zorzi). L’elezione del Doge, poi, era una questione complicatissima, giacché, ad evitare il più possibile brogli e voti di scambio, la procedura, ideata da Ruggero Zorzi capo del consiglio dei quaranta nel lontano trecento, prevedeva un complesso lavoro intrico di votazioni ed estrazioni. Il Maggior Consiglio si radunava e venivano allontanati tutti i membri che non avessero ancora trent’anni; si contavano i rimanenti e si mettevano in un’urna tante ballotte quanti essi erano, 30 di queste ballotte contenevano un foglietto con la parola "elector". Intanto il consigliere più giovane si recava alla basilica di San Marco, vi faceva una fervente preghiera, e tornando al palazzo, doveva condurre con sé il primo fanciullo che avesse incontrato. Questo fanciullo, capitato per caso, doveva estrarre dall’urna una ballotta per ciascun consigliere, quei 30 a cui toccava la parola "elector" restavano nella sala, gli altri dovevano uscire. Le 30 ballotte venivano poi riposte nell’urna; questa volta solo 9 contenevano il biglietto, i 30 si riducevano cosi a 9. I 9 estratti si riunivano in una specie di conclave, durante il quale, col voto favorevole di almeno 7 di loro, dovevano indicare il nome di 40 consiglieri. Col sistema delle ballotte contenenti il foglietto i 40 venivano ridotti a 12; questi col voto favorevole di almeno 9 di loro, ne eleggevano altri 25, i quali venivano ridotti di nuovo a 9 che ne avrebbero eletto altri 45 con almeno 7 voti favorevoli. I 45, sempre a sorte, venivano ridotti a 11, i quali con almeno 9 voti favorevoli, ne eleggevano altri 41 che finalmente sarebbero stati gli ultimi veri elettori del Doge. Questi 41 si recavano ad ascoltare una messa, poi si raccoglievano in un apposito salone dove facevano giuramento di votare solo per il bene dello stato, poi ciascuno gettava in un urna un foglietto con un nome. Ne veniva estratto uno a sorte che se si trovava nella sala doveva subito allontanarsi, dopo di che gli elettori potevano fare le loro eventuali obbiezioni ed accuse contro il prescelto. Questi veniva poi chiamato a rispondere ed a fornire le eventuali giustificazioni. Dopo averlo ascoltato si procedeva ad una nuova votazione; se il candidato otteneva il voto favorevole di almeno 25 elettori su 41, era proclamato Doge, se non si riusciva ad ottenere questi voti si procedeva ad una nuova estrazione finché l’esito non risultasse positivo. Tra i centoventi Dogi, spiccano personalità di altissimo livello; furono eletti Dogi in virtù della loro ricchezza patrimoniale, o dell’avanzata età che prometteva un ricambio a breve scadenza. A nessuno di loro, salvo qualche caso isolato, si possono disconoscere, tuttavia, la consapevolezza del proprio dovere, spinto talvolta fino all’eroismo, un patriottismo profondo e sincero ed un enorme senso del bene comune, caratteristica questa che rappresenta, senza dubbio, uno dei motivi più importanti dell’eccezionale durata dell’indipendenza e della grandezza della Serenissima. Una mentalità riassunta assai bene da un Doge, Domenico Contarini, quando affermava, nelle proprie volontà testamentarie, di aver "avuto sempre in cuore le cose pubbliche et eternamente San Marco nel petto."

Luca Peroni

Timocrazia

…chi dimostra di amare il Veneto, e i suoi cittadini, deve avere l’onore di servirlo…

La Repubblica Veneta è considerata come esempio di Nazione liberale, dove il potere difendeva gli interessi del Popolo, pensiamo solo che su circa un milione di Veneti, chi esercitava il potere, erano, nel massimo dell’espansione del Maggior consiglio, in 1700 circa tutti col diritto di partecipare attivamente ad ogni decisione che riguardava il Veneto. Inoltre, a chi continua a dire, nonostante l’evidenza, che la Repubblica Veneta era un’oligarchia, ricordiamo solo che ai tempi della Serenissima tutti i Popoli Europei, e non solo, erano sottomessi al volere di poche decine di Re e Regine, che, ognuna nel proprio paese, poteva decidere della vita di ognuno dei propri sudditi senza dover tener conto a nessuno. I rappresentanti del Popolo Veneto Veneti non venivano eletti, solo il Doge arrivava alla carica di Presidente dopo una consultazione dei membri del maggior consiglio, ma la sua non era proprio un’elezione, bensì una scelta fatta dai senatori Veneti che agivano pensando solo al bene della Nazione. Tutti facevano parte della nobiltà Veneta, la gran parte di loro erano mercanti che avevano fatto fortuna con i commerci, ma esistevano anche uomini che appartenevano a famiglie povere e senza titolo nobiliare che entravano a far parte del maggior consiglio per aver dimostrato, in particolari situazioni, il proprio amore, dedizione e senso di appartenenza alla Patria e quindi meritavano di servirla a fianco del Doge e degli altri Senatori. Questo modo di fare politica e di amministrare la cosa pubblica veniva chiamato "TIMOCRAZIA": Dal greco timè, stima, onore e successivamente censo, e kràtos, potere. Una costituzione quindi basata sulla partecipazione alla vita politica dei soli cittadini meritevoli di pubblica stima. Ed è questo che il Veneto Serenissimo Governo vorrebbe, in chiave moderna, riproporre: solo chi dimostra di amare il Veneto, e i suoi cittadini, dovrebbe avere l’onore di servirlo; non con le solite elezioni dove si vota una persona solo per simpatia oppure perché appartiene ad un determinato schieramento politico, che puntualmente, quando i propri interessi lo richiederanno, lo rinnegherà passando con chi fino al giorno prima era considerato nemico, tradendo cosi gli elettori che l’avevano votato. Il buon politico deve rifiutare gli ideali partitici, tutto quello che farà lo farà per il bene della Patria e dei suoi cittadini che gli daranno fiducia purché continui a fare il suo dovere. Andrea Viviani

La Bandiera di San Marco a Forno di Zoldo

Storia della bandiera di San Marco a Forno di Zoldo. Vessillo che sventolò sulle navi Venete durante la battaglia di Lepanto del 1571.

Il 7 ottobre 2002 il Veneto Serenissimo Governo ha celebrato la Memoria della gloriosa Battaglia di Lepanto rendendo omaggio ad una delle Bandiere militari che sventolò sulle navi vittoriose della Serenissima. Dopo lunghe ricerche si è trovata una labile traccia che portava a Forno di Zoldo: la Repubblica, in segno di riconoscenza per il contributo dato dal popolo zoldano, donò questa Bandiera di Guerra la quale, da allora, diventò simbolo identificativo di radici e cultura per gli abitanti della Valle. Un breve ma significativo scritto di un ex sindaco di Forno di Zoldo riassume efficacemente la storia del vessillo ed il suo significato per la popolazione della Valle: “La gloriosa, sebben stracciata, bandiera che sventolò in ogni greppo ed in ogni gola in quel fatidico 1848 e che come emblema di unione e di sacrificio stimolava i nostri a combattere fino all’ultima stilla, esiste tuttora sebbene a brani ed a stento si discerne lo storico leone do San Marco. Questa bandiera venne portata a sventolare a Lepanto nella battaglia che i Veneziani combatterono contro i Turchi, dove la vittoria arrise agli armi Veneziani ed in ringraziamento della Vittoria riportata venne istituita la festa della Madonna del Rosario. Da Lepanto la bandiera venne portata qui da uno di Pra che si trovava ivi a combattere, ed era della famiglia Pra Floriani. E la portò poi nelle processioni facendola sventolare come se fosse stato un gonfalone, e cosi i suoi discendenti. Ora è in municipio e viene portata nei funerali di qualche vecchio veterano. Quando morì il Gonella di Baldi, invece di mettere il lenzuolo da morto sopra la cassa, misero la bandiera. Venne sepolto con funerale civile poiché era ateo. ….per copia conforme. Dozza, li 4 Maggio 1974” Le brevi note riportate testimoniano l’amore del popolo per la Repubblica e l’identificarsi di essa con le proprie radici. Effettivamente, sia dall’analisi iconografica, confrontata con i testi marciani riportanti le icone dei vessilli militari Serenissimi, che anche da un semplice e diretto esame del vessillo stesso, lo si può far risalire al XVI°/XVII° secolo. La bandiera a scacchi bianchi e blu, o rossi, venne effettivamente utilizzata quale vessillo militare navale nella Flotta della Repubblica. Il drappo in parola reca, seppur malamente ritoccato a mano in epoca tardiva (XIX° sec. ?) ancora il Leone di San Marco in icona da guerra nel riquadro in alto a sinistra. Mentre nel riquadro in basso a destra, dipinto dalla medesima mano dei ritocchi al Leone, trova posto il simbolo della Val Zoldana: l’incudine e il ferro dei chiodi, dipinto probabilmente in occasione dei moti del 1848 e della Repubblica di Manin. Come Veneto Serenissimo Governo ringraziamo il Sindaco, il Vice Sindaco e la popolazione zoldana tutta per l’ospitalità concessaci e per la disponibilità farci rendere omaggio alla Gloriosa Bandiera ed ai Caduti Veneti per la causa della libertà delle nostre terre e per la difesa del Mondo Cristiano.

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