Fig. 125. Sezione Nocera Superiore, F.° 467, Sez. IV.

231 Sezione Nocera Superiore

La carta topografica da esaminare fa parte della nuova produzione della cartografia al 25:000 dell’I.G.M. Non si tratta della tradizionale divisione dei Fogli al 100:000 (numerati da 1 a 277, rigidamente da ovest a est e da nord a sud), in quadranti al 50:000 (indicati col numero del Foglio e con un ordinativo romano da I al IV a partire dall’angolo superiore destro e seguendo l’andamento orario), quadranti a loro volta divisi in Tavolette al 25:000 (quattro per ogni quadrante e sedici per Foglio) che, oltre al numero di quest’ultimo e di quello del quadrante, contengono l’indicazione del punto cardinale che esse occupano nel quadrante stesso (NO-NE-SO-SE). In questo caso l’Italia appare suddivisa solo in Fogli e Sezioni, designate col numero romano come i vecchi quadranti e corrispondenti solo in parte alle precedenti tavolette, rispetto alle quali rappresentano una superficie più estesa di circa 50 Kmq. Prima di entrare nel merito della rappresentazione, si rimarca che il confronto tra i due manufatti (la vecchia Tavoletta e la nuova Sezione) consentirebbe una proficua lettura, per confronto, delle dinamiche territoriali nel tempo. Inoltre, anche queste sezioni, al pari delle Tavolette della vecchia serie (non tutte, in verità), recano la quadrettatura chilometrica, ossia la presenza di quadrati di 4 cm di lato, corrispondenti a 1 kmq sul terreno. La simbologia usata è più o meno la stessa, con alcune integrazioni, come ad es. la colorazione in verdino chiaro delle aree boschive, arricchite da simboli di dettaglio relativi alle singole specie, nonché un retinato per indicare il rimboschimento e così via. Entrando nei contenuti, si osserva che questa è la Sezione IV del Foglio 467, denominata “Nocera Superio- re” dall’oggetto geografico più importante della nostra area, la cittadina rappresentata in toto nella pianta. In realtà, come vedremo, tanti altri sono i centri (e rispettivi comuni) ragguardevoli di questa Sezione, anche se non tutti osservabili nell’intera estensione (Cava de’ Tirreni, Mercato S. Severino, Castel S. Giorgio, , , ecc.), sui quali ci intratterremo in seguito. L’area rappresentata è prevalentemente collinare-montana: ad oriente abbiamo le ultime propaggini salernitane, verso il mare, dei Monti Picentini, che da questo lato registrano il famoso Monte S. Michele di mezzo e di cima (quest’ultimo non visibile), noti per un Santuario che è ancora meta di tradizionali pellegrinaggi provenienti da tutti i centri dei versanti vicini, anche irpini. In questo settore i Monti Picentini si ergono a 1203 m. col P.zo del Capello (estremità nord-orientale della carta) e a m. 953 col Monte Stella, posto a ridosso del di ; al centro della carta una vasta area di bassa montagna (M. Caruso, 763 m; P.gio S. Antonio, 751 m.; P.gio Caviglia, M. Torre del Gatto, R.ce del Monaco, ecc., posti tra i 500 e i 700 m.) divide il Solco dell’Irno e del medio-alto Solofrana da quello del Cavaiola e del basso Solofrana; al margine sinistro in basso della carta, cioè ad ovest della città di Cava, si riscontra l’attaccatura dei Monti Lattari, diretti verso ovest, in cui le cime più alte sono la P.ta Nevarra, con 979 m, e la P.ta Romito, con 638 m. È naturale che tra queste alture si interpongono zone al di sotto dei 200 m., corrispondenti per lo più a solchi vallivi intervallati da conche interne. In particolare, è evidente in tutta la sua lunghezza il fiume Irno, originantesi appena a nord di Baronissi e accresciuto da una ricca rete di affluenti, che si dirige in perfetta direzione nord- sud nel mare Tirreno, dopo aver attraversato Salerno: quest’ultima città non appare perché il limite inferiore della Sezione corrisponde alle sue frazioni settentrionali o nord-orientali (Fratte, Ogliara, ecc.), ma è evidente che essa incide nell’economia e nel paesaggio del suo intorno. La Valle dell’Irno prosegue a nord (ma non idrograficamente) nel bacino del fiume Solofrana, di cui fanno parte, confluendo alla sua sinistra, i torrenti La Calvagnola e Lavinaro: ciò ha indotto a parlare impropriamente di “Valle dell’Irno” anche per i territori dei comuni di Fisciano, Mercato S. Severino e , che rientrano invece nel più ampio bacino del , nel quale la Solofrana si immette più a valle, fuori del campo di rappresentazione (verso Sud-Ovest). È pur vero, tuttavia, che questo errore idrografico si spiega coi profondi rapporti economici e culturali che nei secoli ci sono stati tra i territori dei due bacini, al punto che sarebbe più corretto parlare di Solco Irno-Solofrana. Lungo di esso peraltro si distendono Ð e non poteva essere altrimenti Ð le arterie principali, antiche e moderne che da secoli hanno collegato la città di Salerno e il suo porto ad Avellino, Benevento e la Puglia in generale: la Statale n. 88, ex via dei Due Principati (quello Citra, identificabile con l’attuale provincia di Salerno e quello Ultra, corrispondente alle odierne province di Avellino e Benevento); la ferrovia Salerno-Mercato S. Severino-Codola, che da pochi anni si congiunge con la Cava-Salerno a formare una “circolare” al servizio di tutta l’area; il raccordo autostradale Fratte-Mercato S. Severino, collegato all’autostrada per Roma attraverso Nola e Caserta, che continua comunque verso nord fino ad Avellino, congiungendosi alla Napoli-Bari.

232 Dal lato ovest della Sezione si osservano l’alto corso del Cavaiola che, partendo dalle colline di Cava de’ Tirreni, con il contributo di una ricca rete di affluenti, si dirige verso nord-ovest confluendo poi nel Sarno. A sua volta il Solofrana, proveniente da nord, all’altezza di Mercato S. Severino devia bruscamente verso ovest/sud- ovest per congiungersi, come già s’è detto, con il Sarno. Anche in questi casi le due valli ospitano più a nord la Statale 266 e, nel tratto iniziale, l’autostrada Mercato S. Severino-Nola-Caserta-Roma; più a sud, ma non figu- ranti nel campo di rappresentazione, la “vecchia” Statale 18 (famosa “delle Calabrie”) e l’autostrada Salerno- Napoli. Per completare il discorso strettamente idrografico, va rilevato che tutti i fiumi (e non propriamente torrenti, come vuole la toponomastica), principali e secondari, sono ben ricchi di acqua e a regime abbastanza regolare, in quanto alimentati spesso da sorgenti carsiche (perenni e intermittenti): è ovvio che il loro apporto di prezioso liquido sia scemato negli ultimi cinquant’anni, a causa dell’eccesso di urbanizzazione e dell’intensivazione dell’agricoltura, comportanti un forte emungimento, effettuato anche attraverso i pozzi (la falda freatica è in genere poco profonda, specie nella parte ovest della rappresentazione, corrispondente ad una zona di passaggio verso l’agro Nocerino-sarnese, di cui comincia ad assumere le caratteristiche). Ciò non toglie che nei periodi di concentrazione della piovosità si presenti il fenomeno dell’alluvionamento, che causa frane e smottamenti, favoriti peraltro dalla copertura vulcanica diffusa dappertutto sul nucleo di base delle alture che è notoriamente di natura carbonatica. Ciò spiega anche la forma relativamente arrotondata o spianata di questi rilievi nella loro sommità (con qualche eccezione, dovuta alla prevalenza della dolomia sul calcare, che proprio per questo viene rilevata dalla toponomastica: Le Creste, ai confini comunali di , Cava e Salerno) e la presenza di grotte e doline, tipica espressione dell’erosione acquea della roccia calcarea (per i relativi toponimi, cfr. infra). Ciò spiega altresì la notevole copertura boschiva (caratterizzata da specie come il castagno, l’ontano napoleta- no, la quercia, ma qualche volta anche il faggio nelle aree più alte), dove il bosco ceduo nettamente prevale. Tale mantello vegetale è stato nel passato e lo è in parte nel presente una grande ricchezza, per il legno che fornisce (spesso trasformato in carbonella), come stabilizzatore dei versanti e soprattutto come fattore climati- co: intendo riferirmi agli effetti umidificanti del clima prodotti dalla vegetazione, che è abbondante anche a causa della esposizione dei versanti, quasi mai francamente a Mezzogiorno, sicché la mancanza di una forte insolazione a sua volta non causa troppa evapo-traspirazione, favorendo così la vita delle piante. I caratteri climatici sono – come c’era da aspettarsi – mediterranei nella zona meridionale e sub-continentali allontanan- dosi dal mare (conche di Mercato S. Severino e area di Castel S. Giorgio e Nocera Superiore). La piovosità è comunque una costante, dovuta al fatto che le correnti caldo-umide provenienti da sud/sud-ovest si incanalano lungo le valli, scaricando la loro umidità sui rilievi circostanti; una maggiore piovosità tocca alla zona di Cava in quanto, oltre che da sud (mare di Vietri-Salerno), tali correnti vi giungono anche da nord-ovest, entrando dal Golfo di Castellammare e distribuendosi per tutta l’area (Sarno compresa!). Questa condizione climatica si alterna, nel corso dell’anno, con l’irruzione dei venti freddi dal nord che producono giornate secche e limpide. Passando dal quadro fisico-naturale a quello antropico, va subito annotata la stretta e secolare relazione tra l’abbondanza di acqua e il clima relativamente umido, alternato a periodi secchi, da una parte e, dall’altra, le attività industriali di tutto il territorio, con particolare riguardo al ramo tessile-laniero nella Valle dell’Irno, dove è stata sempre possibile la lavorazione del filo di lana e dove è esistita una ricca borghesia imprenditoriale, a partire già dal periodo aragonese. Il fatto che ci troviamo ai margini dell’agro nocerino-sarnese spiega anche la presenza di industrie del ramo alimentare, con particolare riguardo al comparto conserviero (pomodoro di S. Marzano e altra frutta): da Cava a Nocera Superiore è un susseguirsi di capannoni industriali, ben visibili in carta, di superfi- cie molto ampia. In questo caso possiamo parlare di una identità agro-industriale, data la presenza di una ricca agricoltura intensiva i cui prodotti freschi, com’è noto, raggiungono i mercati italiani ed europei. Il Solco Irno-Solofrana, invece, anche per la sua relativa ristrettezza nonostante l’apertura in conche (di Baronissi, di Fisciano, di Mercato S. Severino), mostra sì una discreta agricoltura (meno intensiva e più carat- terizzata dalla trilogia mediterranea) ma ha più una caratterizzazione strettamente residenziale e secondaria (zona industriale di Fisciano-Mercato S. Severino), con vari comparti rappresentati da imprese medio-piccole (alimentare, meccanico e della lavorazione dei minerali non metalliferi, laterizi, profilati metallici, ecc.), un po’ tradizionali e un po’ voluti dalle scelte di politica industriale degli anni ‘70 del Novecento (ci troviamo, come a Cava, all’interno dell’A.S.I., cioè dell’Area di Sviluppo Industriale, che ha il suo centro nella Salerno orienta- le). Nella zona industriale di Fisciano è dato registrare anche qualche punta di eccellenza, come l’azienda “CPS D’Auria”, che costruisce macchinari per la produzione di energia alternativa: turbine idroelettriche, a gas o a vapore; compressori centrifughi; macchinari utilizzati nell’estrazione di gas e petrolio.

233 Spicca, fra gli oggetti richiamanti le attività extra-agricole, la “pianta” dell’Università degli Studi di Salerno, tra la frazione Lancusi e il capoluogo di Fisciano dell’omonimo comune, che da 20 anni sta cambiando la geografia della zona col suo indotto: espansione edilizia e del ramo dei servizi nell’ambito del settore terziario (Cartolibrario, editoriale, informatico, ec.). L’espansione dell’edificato, che spesso ha finito per unire le dimore isolate caratteristiche di tutta l’area, come delle vie di comunicazione principali e secondarie, è comunque visibile in tutto il campo di rappresentazione. Alle case tradizionali, costruite con materiale locale o prodotto dall’industria dei laterizi (pietra calcarea, tufo grigio, mattoni ed embrici per i tetti) si affiancano dunque ora purtroppo palazzi anonimi in cemento armato, tipici della massificazione post-bellica dei moduli edilizi. Il territorio è occupato, dal punto di vista della geografia amministrativa, da vari comuni (in parte uniti nella Comunità Montana dell’Irno): Pellezzano, Baronissi e Fisciano al completo; parzialmente Mercato S. Severino, Castel S. Giorgio, Nocera Superiore, Cava de’ Tirreni, Calvanico e, come già si accennava, Salerno alta. Non mancano aree riservate a Parco, come quello “di Diecimare”, tra Pellezzano, Baronissi e Cava de’ Tirreni, e quella ai margini dell’asta del fiume, da Baronissi al Ponte di Fratte (“Parco Fluviale dell’Irno”), che allo stato non riescono a decollare a pieno nel raggiungimento dei loro obiettivi ecologici, di qualità della vita e di connessa occupazione. Un rapido sguardo meritano pure le città principali. Nonostante dia il nome alla Sezione, Nocera Superiore non è certo la più importante, pur vantando una buona dotazione di industrie e un’agricoltura intensiva. Ciò si può dire anche di Castel S. Giorgio. In realtà le città più ragguardevoli sono Cava e Mercato S. Severino. La prima ha invaso con i suoi edifici e le sue industrie quasi tutto il solco vallivo (che è insieme una conca e un valico fra Salerno e l’agro nocerino-sarnese), ma conserva tuttavia la sua classica popolazione a nuclei sparsi (ora più di una trentina di frazioni) in tutte le direzioni. Lo spazio agricolo qui ha dovuto cedere il passo all’industria e soprattutto a un buon artigianato e un efficiente settore terziario, storicamente caratterizzato dal turismo (il Comune veniva chiamato la “Svizzera del Sud”). Mercato S. Severino, a sua volta, si è molto sviluppata dal suo nucleo originario, posto alla confluenza del Solofrana col Calvagnola, verso sud-est e an- ch’esso conserva nelle molte frazioni attuali l’antica caratteristica dei casali annucleati e sparsi. A parte Calvanico, un po’ emarginata dagli assi stradali e autostradali, gli altri due Comuni di rilievo sono Baronissi, in fortissima espansione negli ultimi tempi per l’effetto indotto dell’Università, e Pellezzano che maggiormente gravita verso Salerno. Un cenno merita di essere fatto, per la Geografia delle sedi, a parecchie ville padronali (più ville- fabbrica che ville-masseria) distribuite specie nella Valle dell’Irno e alla presenza in quest’ultima delle Mani- fatture Cotoniere Meridionali (M.C.M.), che continuavano fino a poco tempo fa la grande tradizione degli imprenditori tessili e meccanici di origine svizzera, qui richiamati dai Borboni negli anni ‘20 dell’Ottocento. Oggi, purtroppo, restano a testimoniare l’antico sviluppo industriale di questa zona, chiamata nell’Ottocento la “Manchester” della , soltanto gli incantevoli Villini Svizzeri, i capannoni abbandonati delle M.C.M., che attendono di essere rivalorizzati, anche per il preziosissimo archivio che conservano.

La Toponomastica della Sez. ÇNocera S.È

Tante sarebbero le annotazioni di dettaglio che in questa sede per motivi di spazio e tempo non è possibile fare. Ritengo tuttavia opportuno riservare, nell’ultimare l’interpretazione della carta, un congruo spazio ai nomi dei luoghi, che ci documentano le trasformazioni indotte dalle comunità umane nei secoli su questo territorio e, quindi, sono anche spie d’identità stratificata. Dopo un inquadramento generale su quantità e distribuzione dei toponimi, segnalando le tipologie prevalenti, faremo riferimento specifico ai più emblematici tra essi e, infine, a quelli che – per la loro rarità e antichità – sono da considerare “beni culturali” e, in quanto tali, conservano un più marcato valore identitario. È evidente che, sotto tale profilo, il nome dei capoluoghi dei comuni riveste un particolare interesse, per cui conviene subito illustrarne il significato. La città da cui la nostra sezione prende il nome, Nocera Superiore, occupa in parte il sito e ripete l’antica denominazione di Nuceria Alfaterna, città osca, poi sannita e poi romana (N. Constantia), probabilmente scom- parsa in epoca longobarda e comunque rivelatasi nel tempo di rango minore rispetto a , così detta perché posta altimetricamente a quota più bassa rispetto alla consorella. Il toponimo, riferito anche ad altri centri, come Nocera Terinese (Cz) e N. Umbra (Pg), viene di massima interpretato come “città nuova”, anche se qualche autore ha pensato alla presenza di noceti o a una deformazione del latino Luceria. Tutt’altra storia spiega l’origine di Cava de’ Tirreni: il segreto è nel plurale latino-medioevale cavee, rife-

234 rito a molte grotte carsiche presenti lungo l’erta sul cui culmine sorse ai primi del secolo XI la Grotta Arsicza, primo nucleo dell’Abbazia della SS. Trinità (donde il suo attributivo “della Cava”). Il passaggio al singolare si deve al fatto che alle spalle e al di sopra di questo sito, divenuto la grotta prediletta del Santo fondatore (S. Alferio Pappacarbone), si formò la città fortificata detta Corpo di Cava, quale primo nucleo fondante il centro della sottostante valle (la quale è anche una conca e uno spartiacque), sviluppatosi in secondo momento attorno al nucleo detto il Borgo Scacciaventi e poi magnificamente fiorito nell’economia, nel sociale e nelle arti soprat- tutto in periodo aragonese, con la corona di decine di nuclei dispersi in . Ciò gli diede la possibilità di divenire sede vescovile e guadagnarsi il titolo di Città della Cava, in dialettico rapporto di odio-amore rispetto alla celebre abbazia benedettina di cui può esser considerata scaturigine. L’appellativo “de’ Tirreni” fu scelto dal consiglio municipale al momento dell’Unità (quando tutti i comuni omonimi d’Italia furono invitati a di- stinguersi con uno specificativo particolare), per ricordare la presumibile origine etrusca della popolazione originaria (si ricordi che gli Etruschi erano chiamati Tirreni dai romani), che la tradizione vuole essersi rifugiati Ð dopo la distruzione, dovuta a Genserico, di Marcina, centro etrusco-romano sito presso l’attuale Marina di Ð sui monti circostanti, proprio dove c’erano le tante caverne di origine carsica prima citate, tra le quali poi, come s’è visto, emerse quella “per eccellenza”, ancora ora inglobata nell’edificio abbaziale. Mentre il significato di Castel S. Giorgio e è facile orientarsi, in quanto entrambi i toponimi si riferiscono a due siti fortificati coagulanti i rispettivi abitati, uno qualificato col nome del santo venerato in una sua parrocchia (ma non con quello del patrono, che è S. Rocco), l’altro dalla posizione pedemontana, ben altra storia occorre ripercorrere per sviscerare l’origine e lo sviluppo del toponimo Mercato S. Severino. Il primo termine deriva da un quartiere nel quale si svolgeva un importante mercato di vettovaglie, grazie alla particolare funzione di nodo stradale da parte del centro, testimoniata dal suo primo nome di età tardo-romana e poi longobarda (Rota=posto dove si pagava il rotaticum, dazio sulle merci trasportate): in realtà questo primi- tivo abitato, sito nei pressi dell’attuale ospedale civile (zona Curteri), un po’ per cause naturali (alluvioni) e un po’ per effetto di distruzioni belliche, viene trasferito con le sue funzioni di capoluogo di Gastaldato longobardo ai piedi della collina del castello, ben presto fortificato ad opera dei Normanni, data anche la sua importante posizione strategica a difesa di Salerno. Si deve appunto alla stirpe normanna dei Torgisio l’assunzione del nome “Sanseverino”, in onore dell’omonimo santo del Norico, una cui reliquia era stata trasportata in zona. Questo secondo appellativo viene aggiunto al primo termine con l’Unità d’Italia, che sancisce il toponimo doppio Mercato S. Severino, momentaneamente modificato in epoca fascista con S. Severino-Rota e ripristinato come tale dal secondo dopoguerra. Non pone difficoltà interpretative Fisciano, chiaro esempio di formazione prediale da un personale latino Fisius; lo stesso dicasi, con qualche dubbio, per Calvanico, dal nome Calva, e per Pellezzano, da un ipotetico Pellicius: in quest’ultimo caso si può tuttavia anche pensare alla presenza delle pecore pellitianae (dotate di un particolare mantello lanoso) o alla diffusa presenza del muschio (pellizza, nel dialetto locale, un toponimo peraltro presente in questa forma semplice, senza suffisso di appartenenza, nella nostra sezione), favorito dalla notevole umidità della zona. Resta il toponimo Baronissi, un evidente plurale a valore etnico che riflette un piccolo spostamento più a valle, nella conca che si apre tra il bacino dell’Irno e quello del Solofrana, degli abitanti di Casal Barone. Allargando ora lo sguardo al complesso dei toponimi riportati in carta, sorprende, sotto il profilo quantitativo, il loro alto numero complessivo (ben 465), nonché la loro distribuzione quasi omogenea per tutta la superficie, con un ovvio diradamento nelle aree di montagna più alta e all’interno dei centri principali e nelle immediate vicinanze (cfr. specie nell’intorno di Nocera Superiore), dove però va precisato trattarsi di una mancata apposizione, da parte dei topogafi, per assenza di spazio rappresentativo, occupato per lo più dai simboli degli edifici e delle strade. Questa notevole densità ed equidistribuzione toponimica conferma la ricchezza del suolo agricolo da parte a parte e lo sviluppo della civiltà fin dall’Antichità, facendo il pari con il numero alto dei centri principali (capoluoghi di comuni) e le tante frazioni e località all’interno delle 9 entità comunali raffigurate in tutto o parzialmente. A conferma di una antropizzazione diffusa e costante nel tempo stanno innanzitutto i tipi prevalenti di nomi locali, quali risultano dalla suddivisione per “classiche” categorie concettuali. Numericamente esorbitanti, ri- spetto alle altre tipologie, sono i toponimi richiamanti le sedi umane, con 121 attestazioni, pari al 28% del totale dei toponimi inscritti nella sezione. Al loro interno, tuttavia, occorre fare le necessarie distinzioni: innanzitutto, si ritrovano una quarantina di nomi di semplici case sparse, testimonianti la presenza di singole famiglie (C. Galdi; C. Marletta: al singolare) o quella di veri e propri “quartieri di lignaggio” extraurbani, come

235 li definisce Gerard Delille, riferendosi al coagulo, nella stessa zona, di membri dello stesso casato, per naturale accrescimento intergenerazionale nel tempo (C.se Trezza; C.se di Maiorino al plurale, che in certi punti assu- mono anche il più eloquente titolo di casali: Casal Mari, Casal Siniscalco, Casali S. Potito). Poche, ma signifi- cative della presenza, in epoca tardo romana e longobarda, della “curtis” del Signore, che colonizzava e sfrut- tava ampie fette di terre, sono attestazioni del tipo Cortedomini (corte del Signore, appunto), Curteri e Corticelle (anche C.se Vignadonica riferisce di una vigna signorile, come, con più chiaro riferimento all’etnia longobarda, la Sala, Faraldo e Lombardi), affiancate da sedi minori di servizio, del tipo Casiello, Caselle, Casaccio, Casone, ecc. Altre volte le sedi rurali mostrano più spiccato carattere produttivo, oltre quello abitativo, sicché i cognomi sono preceduti dal termine masseria (Mass.a De Falco, Mass.a Greco, Mass.a Mesànole, ecc.) che, com’è noto, si riferiscono a un edificio rurale più grande, spesso provvisto di una corte centrale, nonché a un più vasto terreno di riferimento proprietario. In pochi casi, poi, c’è testimonianza di ville di campagna, sorte per sfrutta- mento agricolo-industriale o semplicemente a scopo di “delizie” (Villa Pastore, Trofimena, Maria), di Castelli (della Rocca, Castelluccio) o un casino di campagna (Cas.o Grimaldi-ruderi) o semplici case isolate e fortifica- te (Torre, Torre gatto,Torrione). Ancora più espliciti di un intervento antropico sul territorio sono i toponimi di natura agricola che, nel loro complesso, assommano a circa una novantina (più del 20% del totale), conteggiando in essi sia quelli riferentisi prettamente ai campi e alle specie coltivate, sia ai prediali romani, sia alla presenza di chiese o cappelle di campagna, che indirettamente ci dicono della presenza di comunità contadine, pur essendo inquadrabili categorialmente tra gli agionimi. Il campionario dei nomi locali specificamente legati all’attività primaria (salvo caccia e pesca) assomma a 20 attestazioni, specchio dell’esistenza di campi coltivati genericamenti intesi e talora esprimenti anche le dimensioni o la posizione (I campi, Campovascio, il Fondone, Aiello, Campomànfoli, Ariella), oppure delle specie presenti (la Vigna, Nocelleta, Regoste [deformazione per arbusto=vite maritata ad albero vivo], Settefichi, Sorbo, Iardino [promiscuità intensiva di alberi da frutta e colture ortive], o anche la messa a coltivazione, tra M. Evo ed Età Moderna, di zone incolte (Pastene, Starza, Mazzi), talora con riferimento alle clausole invisibili del contratto (Diecimare=contadini che pagano le decime). Ad essi vanno aggiunti 9 classici prediali romani, in cui la terminazione in -ano indica l’appartenza, com’è noto, a famiglie altolocate dell’antichità (Antessano, Casignano, Fisciano ben due volte, Gaiano, ecc.) o anche a casati più recenti (Campanile, Fimiani, Orilia, Rocco, ecc.), quindi alcuni toponimi allevativi (Mandrili, Capriglia, Pecorari, Paglarulo) o di boschicoltura (Scarico). Per esaurire le denominazioni espressive della geografia antropica, occorre richiamare i toponimi relativi ad attività extragricole e artigianali, dalla lavora- zione di prodotti agricoli o allevativi o industriali (Fornillo, Molino Marcello, Palmenta, Macello, Fusara [fosse di macerazione di lino o canapa]) o produzione di laterizi (Fornace), all’estrazione della pietra calcarea e alla sua cottura per ricavarne calce (Cava di Pietra; Calcara), fino all’offerta “terziaria” (Taverna, Scuola). Rinviando a infra la trattazione della categoria toponimica comunicazionale e degli agionimi, diamo ora uno sguardo ai toponimi legati a caratteri della geografia fisico-naturale. In tale ambito la fanno da padroni (80 attestazioni, il 17% circa del totale) quelli derivati da natura, forma e altri aspetti visibili del terreno, che confermano in pieno, insieme a quelli di posizione-esposizione e a quelli relativi a selle e relativi varchi di passaggio, le già annotate caratteristiche collinari e montane di gran parte della superficie raffigurata nella nostra sezione. Per intanto, sgombriamo prima il campo dai pochi toponimi espressivi (genericamente o speci- ficamente) della natura del terreno (Arenola, la marna, Petrara, Piesche Grande), termini che si commentano da sé, ad esclusione di Pizzolano, che non è affatto un prediale latino ma segnala l’accumulo di materiali piroclastici in zona (la pozzolana, appunto) a seguito delle millenarie esplosioni del Vesuvio e dei Campi Flegrei. La maggior parte di tali toponimi denunciano una particolare plastica convessa del terreno: innanzitutto, i nomi dei rilievi detti genericamente monte o con accrescitivo/diminutivo: il Montagnone, Monticello o Ð con duplicazione linguistica, Monte Torello), oppure composti con monte (M. Bastiglia; M. Caruso [privo di vege- tazione]; M. Stella, ecc.), serra (Serra Croce; Serra Piano), toro o tuoro (Tuoro della Farinata, Tuoreluorne, ma anche Toriello), tempa (Tempone); altre volte l’intento designatorio delle collettività onomaturgiche del passa- to è volto a segnalare il carattere piatto delle sommità più o meno alte (Poggio Cuculo, P.gio Caviglia; il Toppo) o, inversamente, appuntito (Pizzo Acuto, le Creste: il che denuncia anche, nella qualità della roccia, una presen- za di dolomia; Punta Nevarra, con riferimento a una neviera), quando non è semplicemente indicata la penden- za accentuata (Pendino, Penta, l’erta, Scarpe, Sgarrupo, Sgarraposa) o un semplice rilievo (Sgobbo), un costone

236 roccioso (Costa), che magari caratterizza le rive di un fiume (Ripa di Lustro; Ripa Parula) o ha la forma di cuneo (Cognoli). Non difetta di denominazione appropriata la plastica del terreno inversa, ossia piana (o ripianata lungo un versante) e soprattutto concava: si va dalle pianure di varia ma giammai amplissima superficie (Valle Cerasuole; Valle S. Severino; Piano di Cerreto; Pianelle S. Angelo) a concavità o sprofondamenti del terreno (la Covella; Cratere) e varie grotte carsiche (Gr. di Mele; Gr. S. Salvatore; Gr. S. Bartolomeo; Gr. degli Sbirri). Strettamente legati a tali situazioni morfologiche sono i toponimi esprimenti posizione o esposizione rispetto ai punti cardinali: mentre un solo nome “georeferenzia” una zona con la faccia rivolta a mezzogiorno (Giraso- le), gli altri sono formati con il termine capo, indicante testata di valle (Capezzano Inf.re; Capo Casale; Capo Saragnano) o con altre locuzioni che sottolineano la posizione soprana, sottana o mediana (Campovascio; Mezzina e Piè di Calvanico; Corrite e Monticelli, di sopra e di sotto; Sottopozzale; Piano Mezzano). A conferma del paesaggio morfologicamente mosso, ma non tanto aspro e montano da inibire le comunica- zioni tra le varie valli e vallecole che incidono i rilievi, registriamo una serie di selle, regolarmente attraversate da sentieri o mulattiere, cui in un solo caso è attribuito il nome di forcella (Forcella della Cava) e due volte quello di foce (dal latino faux), sebbene come secondo termine apposto a specificazione di una insellatura (varco). Abbiamo così, oltre Varco della Foce, V.co della Callavricia; S. Lucia; ; del Pastino; della Neva; Diecimare; Faeta; Uccua [=bocca?]). Siamo entrati, dunque, nella categoria concettuale trasporti e comunicazioni, che annovera solo una deci- na di casi, relativi a toponimi vecchi Ð salvo il caso del recente raccordo autostradale Avellino-Salerno Ð sorti a designare incroci stradali (Bivio Penta; Crocevia; Quatroviale), ponti (P.te Marame; Monaco; Catavato: que- st’ultimo di chiara origine greco-bizantina), scali ferroviari (Staz.e di Pellezzano; ex Staz.e Fisciano [ora invece riattivata!]) e perfino il residuo terminologico di una installazione che assicurava un vecchio tipo di comunica- zione via etere (il Telegrafo). Il capitolo dei toponimi derivati da fatti idrografici, sia naturali che artificiali, è abbastanza ampio, ri- guardante una cinquantina di designazioni (circa il 10% del totale); di esse solo una decina esprimono un intervento degli uomini, atto a modificare la situazione originaria, ma si tratta di opere di poco conto, al servizio dell’agricoltura e dell’allevamento (vasche, abbeveratoi), in assenza di corsi d’acqua navigabili e non essendosi registrate in zona grandi opere di bonificamento. L’unica costruzione di rilievo è l’Acquedotto dell’Ausino, il cui toponimo compare più di una volta in carta, in relazione al suo tragitto sotterraneo; per il resto sono segna- lati due generici Serbatoi dell’acqua, un Pozzillo (per la presenza della falda freatica) e alcune cisterne (tra cui un Cisternone), per la raccolta dell’acqua piovana. Tutta l’articolata rete idrografica che confluisce nei princi- pali corsi d’acqua (Il Solofrana, l’Irno e il Cavaiola) ha poi i nomi più disparati, legati spesso al nome dell’og- getto geografico da cui discendono e che attraversano, e aggregati di solito a un primo membro toponimico, Vallone (Vall.e Acquara, Bagnara, Gesine, del Faito, della Foce, del Capello, ecc.), salvo tre torrenti (T. la Collegnola; Lavinaro; Mandrizzo) e un affluente di destra del Cavaiola, dal nome semplice e unitario (Pisciricoli). Gli altri idronimi di rado si riferiscono a zone soggette a inondazione (Pantanone), ma per lo più attengono a venute d’acqua, assai diffuse su un terreno prevalentemente permeabile per intrinseca natura calcarea, chia- mate sorgenti (Sorg.te Morillo; Palombara; Travertino) o vene (Vena Crespa; Vene rosse; Venelle) o, quando danno luogo a scorrimento superficiale, semplicemente acqua (Acqua del Corvo [errore per Corno]; Acqua del Pioppo; Acquarola; Acquamela [fiumiciattolo, col significato non di liquido dolce come la mela, ma di acqua che scende da altura, che dà il nome di una frazione di Baronissi]). Casi di denominazioni vernacolari di sorgen- ti collinari sono Cannolicchio e Bocca dell’Acqua. La copertura vegetale endemica è inscritta in una ventina di toponimi, di cui quasi la metà sono generiche selve o boschi (tener conto che quest’ultimo ha un’accezione più “detrattiva” rispetto a una selva, fatta oggetto di migliore manutenzione): Bosco Borbone; tre pini; la Foresta; Selva; Selvagnola e anche Galdo [=bosco, dal ted. wald] di Carifi. Si ha contezza anche di alcune specie caratterizzanti il mantello boschivo, sia arboree (Carpineto; Cerreto; le Teglie; Ormiello; Castagnole, identificative del castagno da frutta) che erbacee (Cardogna; Ervanita; Rosara; Pellizza; Cannetiello; Iuncara), dove le ultime tre rimandano a un ambiente umido, solita- mente ripuario di fiumi. Per dare un’idea dei culti prevalenti e delle tendenza della pietà popolare, approfondiamo ora il discorso sugli agionimi e sui nomi legati alla sfera ecclesiastico-religiosa. Essi lo meritano quanto meno per il loro consistente numero (62, pari a quasi 1/8 del totale) e a motivo della distribuzione omogenea per tutto il territo- rio, a testimonianza di quanto la religione (con i suoi edifici e la sua influenza sociale) caratterizzasse il paesag-

237 gio visibile e invisibile delle collettività del passato. Con o senza presenza di edifici religiosi (talvolta diruti o totalmente scomparsi), registriamo infatti il nome di ben 36 chiese o chiesette con altrettanti intitolazioni di santi (più ricorrenti: S. Angelo, Giovanni, Salvatore, Martino, Michele [cfr. antea gli accenni la ritualità di S. Michele di Basso e di cima]), cui aggiungere 15 luoghi di culto dedicati alla Madonna (di Loreto, del Gallo, del Soccorso, della Stella, delle Grazie, di Costantinopoli, quest’ultima legata alla religiosità italo-greca). Oltre alla presenza di cimiteri (toponimo Morti), di Croci o cappelle erette su luoghi di solito eminenti (Croce, Croc.ta di Spiano, Cappella Taborre), a completare il quadro della “copertura toponimica sacra”, resta- no a caratterizzare il paesaggio e gli atteggiamenti socio-religiosi della popolazione gli edifici conventuali del clero regolare, come i Cappuccini (Convento a Baronissi) e gli Agostiniani di Colloreto (edificio dello Spirito Santo a Pellezzano). A marchiani errori dei topografi, poi, va addebitato qualche santo denominante una casa padronale (S. Oro), laddove si tratta del noto cognome salernitano Santoro. La fertilità della fantasia popolare, come altrove anche all’interno della nostra Sezione I.G.M., ha avuto modo di esprimersi con attribuzioni nominative locali di notevole calore emotivo, anche se esse non hanno dato luogo a leggende di grande diffusività sul territorio. Si tratta dei cosiddetti toponimi connotativi, che fanno riferimento a oggetti, animali o personaggi particolari (P.gio del tesoro; Bosco Mammone [che è anche un cognome locale]; Coda del Lupo; Vallone del lupo, Piesco del Diavolo). Tra i circa 20 toponimi che restano oscuri nel significato, sicuramente ce ne sarà ancora qualcuno che allude a storie, leggende o miti locali, sui quali si potrebbe appoggiare una politica di valorizzazione dell’identità territoriale. Su questa linea, per ora ci si contenta di rimarcare che, tra le varie stratificazioni di civiltà che hanno interessato il territorio qui considerato, ci sono quella paleo-mediterranea (Callavricia; Sava), romana (attraver- so i già segnalati prediali o toponimi come Mesànole [piccolo tavolato]), quella longobarda e greco-bizantina (espressa, rispettivamente, da termini come Starza, Mànfoli, Cortedomini, Vignadonica, da un lato, e dall’altro Barbuti, Madonna di Costantinopoli, Catavato). Trattasi di toponimi da considerare, salvaguardare e rimettere in circolo come veri e propri “beni culturali” immateriali, per i quali l’UNESCO ha raccomandato ormai da tempo una particolare attenzione.

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