Corso di Laurea in Valorizzazione e Tutela dell’Ambiente e del Territorio Montano

VALORIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE DI FORMAGGIO DI ALPEGGIO IN VAL DOSSANA.

Relatore: Prof. Alberto Tamburini

Elaborato Finale di:

Marina Poletti

Matricola: 855963

Anno Accademico 2016-2017

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2 1. INTRODUZIONE pag. 4 1.1 La produzione lattiero-casearia dell’arco alpino italiano pag. 4 1.2 La produzione lattiero-casearia in Lombardia pag. 14 1.3 La produzione lattiero-casearia in provincia di Bergamo pag. 18 1.4 La produzione lattiero casearia in val Seriana pag. 21 1.5 L’alimentazione della bovina da latte al pascolo pag. 23

2. SCOPO DELL’ELABORATO pag. 34

3. MATERIALE E METODI pag. 35 3.1 Inquadramento territoriale dell’area di studio pag. 35 3.2 Gli alpeggi pag. 36 3.3 Rilievi in campo pag. 46 3.4 Modalità di elaborazione dati pag. 47

4. RISULTATI E DISCUSSIONE pag. 49 4.1 La gestione degli animali e la produzione di latte pag. 49 4.2 Le tecniche di caseificazione pag. 54 4.3 L’alimentazione delle bovine al pascolo pag. 68

5. CONCLUSIONI pag. 85

6.BIBLIOGRAFIA pag. 87

7.RIASSUNTO pag. 90

3 1. INTRODUZIONE

1.1 La produzione lattiero-casearia dell’arco alpino Italiano

Il territorio alpino italiano si configura come estremamente variabile sia in termini di diversità ambientali che socioeconomiche, per questo motivo fare studi d’insieme sull’evoluzione del settore lattiero-caseario risulta piuttosto complicato, soprattutto se si considera che l’industria in questione è strettamente ancorata a tradizioni e risorse locali. Un aspetto sicuramente comune a questi territori è come l’allevamento stanziale della vacca da latte e l’alpeggio in quota abbiano contribuito negli anni a costruire la tipica immagine del paesaggio alpino, ottimo esempio di equilibrata integrazione tra agglomerati urbani, prati-pascoli, boschi e rocce (Cozzi et al., 2014).

Oggi tuttavia, l’integrità di questa immagine appare fortemente compromessa. Accanto a sistemi produttivi legati alla tradizione come l’utilizzo estivo dei pascoli in quota e l’allevamento di animali rustici ed adatti al territorio, si sono progressivamente imposti modelli intensivi. Inizialmente questi sistemi hanno permesso l’aumento delle produzioni unitarie e dei ritorni economici agli allevatori ma successivamente generarono problemi ambientali, abbandono delle terre marginali e perdita di biodiversità (Cozzi et al., 2006; Gusmeroli et al., 2006, 2010; Sandrucci et al., 2010).

La risultante di questa crescente e costante intensificazione è stata una forte riduzione del numero di allevamenti e una notevole crescita della produzione per azienda. Questo paradosso è stato possibile grazie all’affermarsi di razze sempre più ad alta specializzazione produttiva che inevitabilmente risultano però più esigenti dal punto di vista della loro alimentazione (tabella 1.1).

4 Tabella 1.1: Numero di allevamenti di bovina da latte (con quota) e relativa produzione commercializzata, nei territori montani delle regioni alpine (Fonte: Osservatorio latte su dati Agea; Pieri, 2010).

Questo andamento è confermato anche dagli ultimi tre Censimenti Generali dell’Agricoltura (ISTAT, 1990-2000-2010) dove si evince come negli ultimi vent’anni il 60% delle aziende che allevano bovini da latte in montagna siano uscite dal mercato, determinando anche il fenomeno riflesso della riduzione di prati e pascoli, destinati alla foraggicoltura (Tabella 1.2 e 1.3).

Tabella 1.2: Evoluzione del numero di aziende che allevano bovini da latte e della superficie destinata alla produzione di foraggi e al pascolo nelle regioni alpine italiane (Fonte: censimenti agricoltura).

5 Tabella 1.3: Evoluzione delle superfici prato-pascolive in alcune regioni e province alpine (ha). (Fonte: censimenti agricoltura).

Analizzando i dati riportati nella tabella 1.4, sempre estrapolati dagli ultimi tre censimenti dell’agricoltura nazionale, invece, si evidenzia che ad uscire di scena sono stati per lo più i piccoli allevamenti, anche a causa della scarsa remunerazione contrapposta ai costi eccessivi che comunque la gestione di un allevamento comporta. Sono invece aumentate le realtà produttive di maggiori dimensioni che hanno adottato modelli gestionali di tipo intensivo, sempre più simili alle aziende della pianura modificando progressivamente il proprio modus operandi (Cozzi et al., 2014).

Tabella 1.4: Effetto della dimensione della mandria sull’evoluzione del numero di aziende che allevano bovini da latte in nelle regioni alpine italiane. (Fonte: censimenti agricoltura).

Questa nuova filosofia produttiva, è riuscita ad imporsi con forza sui territori montani grazie all’aumento del prezzo del latte e al contemporaneo calo di valore dei mangimi. Per questi motivi è stato appunto possibile l’affermarsi di bovine sempre più produttive, della tecnica di alimentazione di tipo “unifeed” e di altre tecniche di allevamento proprie dei territori di pianura.

6 La rapidità con cui sistemi così fortemente divelti dal territorio abbiano contagiato l’intero arco alpino ha avuto importanti ripercussioni sullo storico legame tra animale e superfici foraggere. È difatti noto che proprio la dinamica evolutiva del comparto latte e il generale declino della pratica alpicolturale abbiano favorito una gestione inappropriata dei territori che nelle zone alpine spesso si traduce con l’abbandono delle superfici prative e pascolive che inevitabilmente vanno incontro a processi di rinaturalizzazione (Gusmeroli, 2012). Le ripercussioni economiche a questa deriva ambientale sono state principalmente due e si sono rivelate, in poco tempo, svantaggiose. In primo luogo la totale noncuranza di prati e pascoli in quota, soprattutto di quelli marginali e più difficilmente meccanizzabili ha originato svariati fenomeni di dissesto idrogeologico. Alluvioni, smottamenti e slavine hanno colpito con sempre maggiore frequenza le aree alpine con perdite umane ed enormi costi economici per il recupero e la messa in sicurezza di infrastrutture e paesi (Cozzi et al., 2014). Secondo, ma non per importanza, il calo di attrattività turistica del comparto alpino. È noto a tutti che in montagna una corretta gestione delle superfici foraggere faccia da calamita per il turista, e consapevoli di ciò, le nostre più prestigiose località turistiche alpine hanno reso obbligatoria la pratica dello sfalcio dei prati. È evidente che il sistema zootecnico ‘tipico’ alpino non può reggere una competitività basata solo sulla capacità di ridurre i costi di produzione. È quindi opinione comune che il settore caseario debba spostare l’ambito competitivo sulla qualità, sia di prodotto sia di processo, sulla diversificazione e, non ultimo, sulla capacità di evocare il territorio di produzione e i suoi valori ambientali, storici e culturali (Dovier, 2004; Tregear et al., 2007). Solo in questo modo infatti, l’azienda agricola di montagna che per sua natura è produttrice di “esternalità positive”, potrà anche accedere ad una serie di indennità e pagamenti previsti dalla PAC. Se si riuscisse ad esempio, a far leva sull’aspetto della qualità e sul servizio di tutela del territorio operati dai modelli estensivi, allora sì che il sistema lattiero-caseario alpino potrà riprendere a funzionare in maniera soddisfacente, in primis per i produttori, e in secondo luogo per l’intera collettività.

7 Le problematiche produttive del sistema zootecnico alpino devono oggi trasformarsi in un surplus e un vantaggio competitivo. Mai come in questi anni infatti, Il cittadino-consumatore è alla ricerca di prodotti identitari, attento alle tematiche ambientali, alla sicurezza alimentare ed al benessere animale, insomma, a tutto ciò che i francesi riassumono volgarmente con il termine terroir. Il problema di fondo sono i cambiamenti di gestione ed allevamento sopracitati, che negli ultimi anni hanno caratterizzato l’industria lattiero-casearia montana e che hanno avuto importanti ripercussioni sulle caratteristiche organolettiche e nutrizionali del latte e dei formaggi di montagna e sull’ambiente. Tradizionalmente, infatti, l’esistenza di un intimo rapporto tra animale allevato e territorio alpino, attraverso il massimo sfruttamento delle disponibilità foraggere e il limitato consumo di mangimi di derivazione extraaziendale assicurava il trasferimento nel latte e nei suoi derivati caseari di un’ampia serie di sostanze ad azione aromatizzante che imprimevano un’impronta organolettica esclusiva ed inimitabile a tali alimenti (Bargo e coll., 2006; Mantovani e coll., 2003). Con la continua industrializzazione dei processi produttivi rischiamo di perdere tutto questo, che, nei secoli, ha reso proprio la montagna alpina culla storica di un’ampia varietà di formaggi, assolute eccellenze nel paniere caseario nazionale. Coerentemente con lo sviluppo delle aziende zootecniche, nell’ultimo secolo le latterie e i caseifici di montagna, sono diminuiti di numero e aumentati di dimensione, questo perché l’aspetto più importante è diventato appunto la quantità della materia prima che viene bene retribuita a dispetto della qualità. Si è imposta una lavorazione intensiva, che se da un lato può rappresentare un vantaggio per la sicurezza igienico-sanitaria dei prodotti, dall’altro ha stravolto il settore zootecnico alpino. Le aziende hanno dovuto ricorrere alla stanzialità, rinunciando sempre più alla pratica dell’alpeggio estivo, alla destagionalizzazione dei parti e all’adozione di piani alimentari di tipo “tutto secco tutto l’anno” per sopperire alle esigenze delle bovine da latte ad alta produzione (BLAP). Addirittura non è difficile trovare situazioni in cui il latte di malga, conferito ad un caseificio, non venga trasformato separatamente da quello prodotto nelle stalle di

8 fondo-valle, proprio ad indicare un totale disinteressamento nei confronti del valore naturalmente aggiunto di questa materia prima. Se, dunque, l’adozione di pratiche di allevamento spesso inadeguate per l’ambiente alpino e l’industrializzazione della fase di trasformazione portano a un rischio concreto di banalizzazione dei prodotti caseari di montagna, i marchi legati a un disciplinare di produzione giocano, o potrebbero giocare, un ruolo determinante per mantenere o recuperare un legame degli stessi con il territorio di origine e le sue risorse (Bovolenta et al, 2010). Per perseguire questo scopo, il disciplinare dovrà essere in grado di raggruppare le caratteristiche qualitative dei prodotti, quali aroma e valori nutrizionali, e al contempo anche tutto ciò che riguarda la multifunzionalità dell’azienda, in altre parole, le esternalità positive originate da specifici processi di produzione. Per quanto concerne le caratteristiche qualitative di latte e derivati, queste, sono il riflesso dall’alimentazione della bovina da latte, in quanto, il legame con il territorio di un prodotto caseario si realizza principalmente attraverso il foraggio. In alpeggio aumentano inevitabilmente i fabbisogni della vacca, per tutta una serie di motivi che verranno analizzati a seguire, e contemporaneamente l’apporto nutritivo del pascolo è sempre nettamente inferiore al foraggio di pianura. È inevitabile quindi, al fine di assicurare il benessere animale, ricorrere ad una modesta integrazione con mangimi extra-aziendali, soprattutto per coloro che portano in alpeggio animali con maggiori livelli produttivi e quindi con maggiori esigenze nutrizionali. Questa aggiunta nella dieta non penalizza né la materia prima, né il prodotto finito che si dimostra in grado di mantenere quelle caratteristiche di peculiarità e tipicità che rendono unico un formaggio d’alpeggio (Lodi et al, 2005). La cosa più importante da tener presente è che i prodotti caseari di montagna possiedono caratteristiche sensoriali peculiari e di maggior apprezzabilità proprio grazie alla ricchezza floristica del foraggio che imprime uno specifico valore aromatico (Leiber et al., 2005; Piasentier e Martin, 2006; Verdier-Metz et al., 2000). I prodotti caseari “da pascolo” sono ricchi di vitamina E, polifenoli e carotenoidi, tutte sostanze ad azione anti-ossidante che rendono questi prodotti ancora più ricercati sul mercato di oggi (Noziere et al., 2006).

9 Inoltre è sempre maggiore il contenuto di acidi grassi polinsaturi, in grado di favorire nell’uomo il sistema cardio-vascolare, e di acidi coniugati dell’acido linoleico (CLA) che pare abbiano un potere antitumorale, seppur scientificamente ancora dibattuto. Oltre a questi effetti salutistici e qualitativi, emerge anche un aspetto di tipo ambientale, a cui un riconoscimento, più o meno importante, attraverso un marchio di produzione non può che porvi attenzione: è evidente che una foraggicoltura che voglia essere effettivamente al servizio dell’allevamento e del territorio montano non può che verificarsi sul tema della sostenibilità, nella sua triplice accezione, economica, ambientale e sociale (Gusmeroli et al, 2006). Il sistema foraggero estensivo di tipo tradizionale risulta vincente sul territorio alpino a discapito del sistema intensivo specializzato. Infatti, il modello tradizionale è caratterizzato da livelli produttivi vegetali e animali modesti. L’ alimentazione animale è a base quasi esclusiva di foraggio di prato stabile autoctono e pascolo, i seminativi sono pressoché assenti o se presenti prevedono una concimazione completamente organica. Il modello intensivo invece ha livelli produttivi animali elevati. La dieta degli animali prevede dosi robuste di concentrati ed una componente foraggera costituita da prati artificiali ed erbai che richiedono inevitabilmente lavorazioni del terreno e impiego di materiali di sintesi (concimi, diserbanti e antiparassitari). Inoltre, vi è una certa propensione ad addensare e stabulare in modo permanente il bestiame ed il rendimento energetico è ridotto, si producono scarti che si disperdono nell’ambiente e che sono sostanzialmente inquinanti. Nel modello tradizionale l’input energetico è quindi prevalentemente naturale, quello intensivo, al contrario, presenta una dipendenza più o meno forte alla fonte di energia supplementare di origine fossile, esterna. Sotto il profilo ecologico non vi è dubbio che solo il modello estensivo tradizionale può considerarsi sostenibile. L’intensificazione produttiva, semplifica il sistema, eutrofizzandolo, abbattendone la biodiversità, alterandone gli equilibri trofici e rendendolo, in definitiva, più fragile (Gusmeroli et al, 2006)

10 Nella tabella 1.5 è lampante quanto la zootecnia tipica della piccola azienda di montagna si differenzi dalle grandi realtà, senz’altro in termini di dimensione, mercato e produttività ma anche per tipo di alimentazione e razze allevate che riflettono una maggior qualità dei prodotti (latte e formaggi). La remunerazione del latte è maggiore per questo motivo.

Tabella 1.5: I principali indici tecnici di identificazione. (Fonte: ISMEA 2015 scheda di settore, il settore lattiero-caseario).

La sfida per l’agricoltura alpina sarà l’inevitabile superamento dei sistemi più intensivi, esageratamente energivori ed inquinanti, per ripristinare forme di produzione più sobrie e naturali che non compromettano la resilienza degli ecosistemi e consentano l’acquisizione di un valore aggiunto per i prodotti del territorio. Per i motivi sopracitati è proprio il latte di montagna ad essere in larga parte trasformato in prodotti caseari che compaiono nell’elenco nazionale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani, oppure che si fregiano del marchio Denominazione di Origine Protetta dell’Unione Europea. Il marchio DOP è concesso ai prodotti le cui fasi del processo produttivo vengono tutte realizzate in una specifica area geografica e sono conformi a un disciplinare di produzione, mentre i PAT sono definiti come prodotti le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultino consolidate ed omogenee in un determinato

11 territorio da almeno 25 anni (vincolo previsto per la definizione di un prodotto “tradizionale” anche in sede europea in base al Reg. CE 509/06). I formaggi prodotti in territorio alpino che hanno ottenuto il riconoscimento PAT sono 173 (di cui oltre 90 totalmente alpini) su 457 riconosciuti a livello nazionale. Per la maggioranza sono formaggi di latte vaccino, a seguire i caprini e i misti, e molto meno rilevanti quelli pecorini. È possibile evidenziare un’elevata incidenza di formaggi prodotti in area montana anche tra quelli che hanno ricevuto il riconoscimento DOP (tabella 1.6), infatti risultano ben 29 i formaggi DOP delle regioni dell’arco alpino su un totale di 54 del territorio nazionale.

Tabella 1.6: I formaggi DOP dell’arco alpino. (Fonte dei dati: Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali).

12 Nell’arco alpino oltre a questi marchi riconosciuti sono molteplici i prodotti commercializzati con l’ausilio di marchi territoriali, ad esempio “Qualità Alto Adige – Südtirol”, “Qualità Trentino”, “Saveurs du Val d'Aoste”, e che non sono soggetti a specifiche normative ma grazie a questi riconoscimenti acquistano un valore aggiunto sul mercato. Altra iniziativa interessante è rappresentata dai prodotti cosiddetti “monorazza”. Sulla scia dello storico legame tra Pezzata Rossa Valdostana e la DOP sono nati recentemente i marchi “Disolabruna”, “Solo di Pezzata Rossa Italiana” ed “Formaggio Razza Rendena”. Per dare ancora più valore alle produzioni montane con la conferenza stato-regioni del 22 giugno 2017 è stato approvato il decreto per l’utilizzo dell’indicazione facoltativa di qualità “prodotto di montagna”. Il Regolamento UE n. 1151/2012, ha revisionato i regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari dell’Unione Europea e introdotto queste indicazioni facoltative di qualità. In particolare l’indicazione “prodotto di montagna”, l’unica ad oggi concretamente regolamentata e quindi attiva, è apponibile a tutti i prodotti che provengono da determinate aree del territorio dell’Unione a patto che rispettino minime regole comuni. In altre parole questo riconoscimento non si avvale né di disciplinari tecnici di produzione né tanto meno di un logo, che sono invece elementi che caratterizzano i regimi di certificazione DOP, IGT e STG. Di conseguenza l’indicazione “prodotto di montagna” può essere utilizzata da tutti i soggetti che rispettino le norme dalla Commissione Europea elencate nel citato Regolamento 1151/2012 e nel successivo regolamento delegato n. 665/20146. In assenza quindi di procedure particolari per l’uso di questa indicazione, è responsabilità dell’operatore, al momento di eventuali controlli, dimostrare di aver rispettato le regole stabilite. Riassumendo le disposizioni dell’UE, l’indicazione di qualità è concessa solo se: gli animali sono stati allevati per almeno gli ultimi due terzi del loro ciclo di vita in zona di montagna; gli animali transumanti sono stati allevati per almeno un quarto della loro vita in pascoli di transumanza nelle zone di montagna; i prodotti destinati all’alimentazione del bestiame non contengano più del 50 % della materia prima

13 proveniente non da zone di montagna (il 40% nel caso dei ruminanti, il 75% nel caso dei suini); per le api, queste devono aver raccolto il nettare e il polline esclusivamente nelle zone di montagna; i prodotti di origine vegetale come ad esempio ortaggi, frutta, cereali e leguminose devono provenire solo da piante coltivate nelle zone di montagna; gli ingredienti per i prodotti trasformati possono anche provenire da zone non di montagna ma solo se non superano il 50 % del peso totale; le operazioni di trasformazione di latte, di macellazione e di spremitura dell’olio di oliva devono avvenire in zona di montagna e se queste sono effettuate parzialmente anche al di fuori, è bene che la distanza dalla zona di montagna in questione non sia superiore a 30 km.

1.2 La produzione lattiero-casearia in Lombardia

In Lombardia l’allevamento di bovini da latte è caratterizzato da una produzione che corrisponde a circa il 40% di quella nazionale, sulla quale si basa un’importante industria di trasformazione che fa della nostra regione il primo produttore di formaggi in Italia (Direzione Generale Agricoltura di Regione Lombardia, 2014). Ma per comprendere a fondo come si presenta oggi il panorama lattiero-caseario Lombardo, è necessario partire da un inquadramento di tipo territoriale. Il territorio della Lombardia (figura 1.1), esteso su una superficie di 23.863 km2, occupa circa il 7,9% della superficie nazionale ed è costituito da un’eterogeneità di ambienti, vi si trovano infatti aree pianeggianti (47,1%), collinari (12,4%) e montuose (40,5%).

14 Figura 1.1: la Lombardia per zone altimetriche. (Fonte: www.wikipedia.it).

Già da queste informazioni si può facilmente dedurre che le produzioni zootecniche, nel nostro caso d’analisi i formaggi, saranno ben differenziate e distribuite sul territorio a seconda delle fasce altimetriche. Come spesso accade anche per altri prodotti alimentari tradizionali: vi sono, da un lato, prodotti quantitativamente significativi e con grande diffusione sul mercato nazionale e internazionale, come ad esempio il Padano DOP e il Parmigiano Reggiano DOP e, dall’altro, prodotti di nicchia con un mercato per lo più locale o che interessa le regioni limitrofe (Marcomini, 2014). È scontato dire che le prime produzioni citate siano tipiche dei territori di pianura e le seconde degli ambienti montani, sui quali vogliamo porre i riflettori. Se è vero che la Lombardia è la regione italiana più densamente abitata con un numero di residenti che sfiora i 10 milioni è anche vero che l’elevata densità abitativa e il vivace andamento di crescita della popolazione si traduce in un esteso tasso di antropizzazione del territorio, che secondo dati DUSAF (2012) risulta di circa il 14,5%. Confermando il trend descritto nel paragrafo precedente per l’arco alpino, la marcata presenza dell’uomo e lo sviluppo dell’industria hanno prodotto costantemente una maggior erosione dei suoli agricoli, e questo è un fenomeno ormai consolidato. In pianura è dovuto per lo più a cause antropiche di urbanizzazione, nelle zone collinari e montane si assiste invece ai fenomeni di rinaturalizzazione.

15 Fra il 2007 e il 2012, secondo le rilevazioni DUSAF, le superfici agricole regionali sono diminuite dell’1,7%, con una punta del 6,6% nella provincia di Lecco. In sei decenni, ovvero dal 1955, la perdita delle superfici agricole è stata del 22,4%, a fronte di un incremento delle aree antropizzate di circa il 250% (Giuca et al, 2015). Sulla base dei dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura fra inizio e fine decennio hanno cessato l’attività ben 4090 aziende agricole montane (-24,3% rispetto al 2000), in misura più contenuta in pianura (-19,4%). Il tasso di diminuzione della superficie utilizzata (SAU) è più elevato per le aziende ubicate in montagna (-38.440 ettari rispetto al 2000, tabella 1.7) e questo sottolinea nuovamente lo scarso interesse e le difficoltà nell’utilizzare le superfici più difficili da lavorare. La contrazione della superficie agricola è un fenomeno molto marcato in due province lombarde: Bergamo (con una riduzione di circa il 24% di SAU e SAT) e Sondrio (con una riduzione di SAU del 19% e di SAT del 24%).

Tabella 1.7: Aziende, SAU e SAT. Anni 2000 e 2010, valori assoluti e variazioni percentuali. (Fonte: ISTAT,6° censimento dell’agricoltura, risultati definitivi).

Il fenomeno della perdita della SAU ha riflessi anche sul tasso di autoapprovvigionamento alimentare (TAA) della regione. È stimato infatti che la Lombardia riuscirebbe a mantenere in termini calorici solo il 60,1% dei suoi abitanti. Come in tutto l’arco alpino, la numerosità degli allevamenti italiani è in netto calo. In Lombardia le aziende con allevamenti hanno subito negli ultimi dieci anni una riduzione pari al 21,8%, fermandosi a quota 22.064 aziende. Anche qui le aziende più colpite sono ubicate in montagna (-19,8%) che registrano nel decennio una riduzione di 1879 aziende (tabella 1.8).

16 Tabella 1.8: Aziende con allevamenti. Anni 2000 e 2010, valori assoluti e percentuali. (Fonte: ISTAT,6° censimento dell’agricoltura, risultati definitivi).

Di riflesso e sempre a conferma di quanto descritto sopra per i territori alpini, il turismo nelle località montane è ridotto (solo il 5,6%). Il 60% del flusso annuo di ospiti negli esercizi ricettivi lombardi interessa località turistiche (tabella 1.9) e in particolare le città di interesse storico ed artistico (Milano, Bergamo, Como). Le cause di ciò possono essere molteplici, ma sicuramente la noncuranza di prati, pascoli e dell’ambiente in generale è una di queste.

Tabella 1.9: Movimento dei clienti negli esercizi ricettivi lombardi. (Fonte: elaborazioni dati ISTAT, 2012).

Ciononostante nel panorama nazionale la Lombardia può comunque vantare 73 prodotti a denominazione, di cui 19 DOP, 12 IGP, 5 DOCG, 22 DOC, e 15 IGT. La maggior parte dei prodotti DOP è costituita da formaggi, mentre tra le IGP predominano gli insaccati. Il latte lombardo, infatti, viene destinato per l’80% circa alla trasformazione, soprattutto di prodotti a Denominazione di Origine Protetta (DOP) di grande pregio, e sono 14 i formaggi DOP che vengono prodotti in questa regione. Per quanto riguarda queste onorificenze a livello nazionale, i territori montani si pongono finalmente in una posizione di vantaggio, circa il 50% delle DOP lombarde sono infatti provenienti da vallate pre-alpine o alpine (tabella 1.10).

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Tabella 1.10: Formaggi DOP e luoghi di produzione della Lombardia. (Fonte dei dati: Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali).

Se la vocazione zootecnica e il deciso orientamento alla trasformazione in prodotti tipici costituisce uno dei principali punti di forza in termini reddituali per i territori di pianura, diversi sono gli elementi di complessità presenti nel quadro del contesto produttivo montano, che mettono in pericolo la redditività della piccola impresa. Per questo l’impegno dei politici oggi deve essere quello di adottare scelte strategiche, capaci di dare prospettive al futuro dell’agricoltura e dell’agroalimentare. Una buona pratica sembra essere quella di valorizzare i prodotti strettamente legati al territorio e a processi produttivi poco impattanti e naturali, muovendosi all’interno dell’ottica della filiera corta, che promuove una stretta connessione tra agricoltura – turismo – ristorazione.

1.3 La produzione lattiero casearia in Provincia di Bergamo

Il settore agricolo della provincia di Bergamo non è sicuramente uno dei più rilevanti dal punto di vista produttivo o da quello occupazionale. l’agricoltura Bergamasca è invece di primaria importanza, soprattutto nelle aree più svantaggiate (collina e

18 montagna) che nel nostro territorio rappresentano i tre quarti della superficie complessiva, per i riflessi ambientali, culturali e sociali (Oldrati e Gherardi, 1999). Questo principalmente perché all’epoca dell’industrializzazione, la conformazione territoriale delle valli, che le rendevano particolarmente idonee e l’incapacità dei politici di tutelare gli ambienti hanno permesso in maniera incontrollata lo sviluppo di aziende, capannoni ed agglomerati urbani. Si è deciso di promuovere ed agevolare il progresso dell’industria manifatturiera e di abbandonare tutto ciò che ruota attorno alla naturale vocazione agro-zootecnica di questi luoghi, produzioni locali e turismo. Il risultato di questo lungo percorso evolutivo è oggi chiaramente visibile da chiunque, sia dagli abitanti, sia dal turista, che seppur attratto dalla bellezza di questi luoghi lo è molto meno rispetto ad altri contesti, che hanno scelto preventivamente percorsi di crescita differenti (come ad esempio il Trentino Alto Adige o la Valle d’Aosta). L’elevata diversificazione altitudinale del territorio provinciale ha determinato lo sviluppo di attività agricole estremamente differenti: in pianura (24,4% della superficie totale) vi è la predominanza di una zootecnia intensiva, competitiva non solo a livello nazionale ma anche sul mercato europeo e mondiale; in collina (12,1%) vi è un’urbanizzazione massiccia oppure la coltivazione di produzioni legnose come vite e fruttiferi; in montagna (63,5%) sono predominanti le aziende zootecniche con produzioni non quantitativamente competitive ma qualitativamente valide. Il materiale storico reperibile sulla produzione lattiero casearia nella bergamasca non è moltissimo ma dai periodici dei Comizi Agrari, della Cattedra Ambulante e dell’ispettorato Provinciale dell’Agricoltura emerge già a fine 1800 come le produzioni casearie più tipiche e ricercate sono sempre state soprattutto quelle di montagna (Oldrati e Gherardi, 1999). I Comizi Agrari vennero istituiti nel 1868 ed erano tre, quello di Bergamo, Treviglio e Clusone. Queste nuove istituzioni sopravvissero fino all’inizio della guerra del 1915- 1918 e avevano il compito di presentare al governo le innovazioni che si consideravano in grado di migliorare le sorti dell'agricoltura, raccogliere le notizie che fossero richieste nell'interesse dell'agricoltura, fare opera di informazione tra i contadini per diffondere le coltivazioni migliori, i metodi più adatti alla coltivazione, gli strumenti più

19 moderni e perfezionati, promuovendo esposizioni e concorsi di macchine e strumenti agricoli, e infine controllare che fossero rispettate le norme di pulizia sanitaria. Sotto la loro guida, l’agricoltura si è andata modernizzando, e nel 1900 per loro iniziativa venne istituita la Cattedra Ambulante di Agricoltura. L’obbiettivo era quello di diffondere in provincia l’istruzione agraria degli agricoltori, procurando con ogni mezzo il progresso agricolo; in sostanza era un anello di congiunzione tra scuola agraria e agricoltore. Nel 1906 venne istituita una Cattedra Ambulante specifica per i territori delle valli bergamasche, perché vi era la necessità di migliorare l’attività di assistenza tecnica in montagna. Le citate organizzazioni agirono sui luoghi della provincia, promuovendo la costruzione di cooperative e caseifici sociali, in sostituzione a quelli turnari. Per le prime tre decadi del 1900 ebbe successo la cooperazione casearia di montagna e di pianura e ciò per un’opera concorde di enti pubblici, privati e Cattedra: in primo luogo si evitò la dannosa concorrenza al ribasso tra i produttori e il numero dei caseifici sociali in uno solo anno passò da 9 a 19, in seconda battuta si superò la ripartizione differenziale dei guadagni che si originava dalla precedente divisione di compiti tra i diversi operatori (produttori di latte, trasformatori, stagionatori e commercianti). In seguito, per diverse cause, la cooperazione è entrata in un periodo di profonda crisi. La produzione lattiero-casearia si presenta attualmente e percentualmente distribuita come mostrato in tabella 1.11).

Tabella 1.11: produzione lattiero-casearia bergamasca. (Fonte: Oldrati e Gherardi, 1999).

In sostanza si vede che i singoli produttori ed associati trasformano il prodotto solo per il 17,4%, utilizzano per l’azienda il 2,60% mentre il restante 80% viene ceduto alle industrie, il che dimostra ampiamente lo scarso potere contrattuale degli agricoltori di fronte agli industriali.

20 È chiaro che a livello provinciale, l’unico modo per permettere ai produttori un maggior cespite di guadagno è la costituzione di organizzazioni cooperativistiche o associazionistiche molto più consistenti ed efficienti, che sappiano commercializzare i prodotti facendo leva sulla loro qualità, evitando il gioco del ribasso e promuovendo un marketing intelligente, basato sull’informazione del consumatore. Inoltre, come già visto, sfruttare marchi, certificazioni e premi europei per il servizio di gestione e tutela del territorio può essere indubbiamente una strategia vincente. Sull’onda di questa strategia promozionale, le valli bergamasche sono state in grado di proporsi con una certa dignità sul mercato italiano, per la loro storica tradizione casearia. Da sempre sono note le produzioni di formaggio delle vallate bergamasche, e le più celebri sono la val Brembana e la val Taleggio; infatti, in provincia di Bergamo sono 9 i formaggi DOP. Ciò significa che il 31% dei formaggi DOP nazionali proviene da questi luoghi, e che la provincia di Bergamo detiene il 64,3% delle DOP lombarde. Numeri non indifferenti, che conferiscono alla provincia il vanto di essere un fiore all’occhiello per l’industria casearia italiana.

1.4 La produzione lattiero casearia in Valle Seriana

La valle Seriana rispecchia appieno quanto descritto per la provincia di Bergamo. Un numero sempre maggiore di aziende si sono stabilite nei fondovalle, abbandonando la pratica dell’alpeggio e del mantenimento di prati-pascoli in quota. Alcuni dati DUSAF (2012) mostrano come dal 1999 al 2012 le aree deputate all’utilizzo agricolo siano diminuite (tabella 1.12 e1.13).

Tabella 1.12: Variazione in ettari delle superfici destinate all’agricoltura. (Fonte: DUSAF, 2012).

21 Tabella 1.13: Tasso del decremento annuale delle aree agricole. (Fonte: DUSAF, 2012).

Come ci mostra la tabella 1.14, allo stesso modo è diminuito il numero di bovini presenti sul territorio e la tabella 1.15 indica il numero di allevamenti di sole bovine da latte in tutta la valle Seriana.

Tabella 1.14: Variazione nel numero di bovini sui territori dell’alta valle Seriana. (Fonte: Comunità montana di Clusone).

Tabella 1.15: Variazione nel numero degli allevamenti di bovine da latte in tutta la val Seriana. (Fonte: SIARL, sistema informativo agricolo della regione Lombardia).

22 Volendo fare un focus sulle produzioni lattiero casearie di queste zone dobbiamo affidarci a quanto viene riportato dal Caseificio dei fratelli Paleni, unico presente in tutta la valle. Le origini del Caseificio Fratelli Paleni risalgono al primo dopoguerra, dove, sui pascoli del monte Avaro, in alta Valle Brembana, il padre fondatore, Celestino Paleni, trasformava il latte raccolto in prodotti tradizionali della zona. Nel 1960 il sig. Paleni venne chiamato a svolgere la mansione di casaro presso la latteria sociale di Vall’Alta di Albino in Val Seriana. Successivamente ne diventò proprietario, e nacque così il caseificio Paleni. Attualmente il caseificio a sede a Gromo e qui vengono lavorati circa 100 quintali di latte al giorno, tutto proveniente esclusivamente da allevamenti presenti nelle zone montane della Valle Seriana. I formaggi che vengono prodotti sono originati tutti dal latte delle aziende montane della valle e principalmente si produce la formaggella Val Seriana che ha ottenuto il riconoscimento PAT con il decreto n° 4079 del 2010, un formaggio a pasta semidura di media o breve stagionatura. Altri formaggi tipici prodotti sono il formaggio Val Seriana e la torta orobica (entrambi PAT), il bombolone Monte Pora, lo Scalet di Lizzola, lo strachi de Grom e la toma alta valle. Sono tutti formaggi qualitativamente interessanti ma che hanno una piccola produzione la quale consente di affacciarsi al solo mercato locale, sono comunque molto ricercati anche dal turista di questi luoghi.

1.5 L’alimentazione della bovina da latte al pascolo

Molteplici sono le differenze che si riscontrano confrontando un sistema di allevamento di tipo intensivo con l’allevamento di bovine al pascolo. Tra queste, importante è la differenza tra i livelli di produzione di latte, infatti, la pratica dell’alpeggio, spesso si traduce in un peggioramento qualitativo e quantitativo della produzione. Le cause sono principalmente l’aumento dei fabbisogni dell’animale e la contemporanea insufficienza del pascolo (De Ros et al, 2006). Il calo produttivo si fa tanto più marcato quanto maggiore è il merito genetico degli animali. Infatti, anche se si considerano le razze meno specializzate, negli ultimi

23 decenni le potenzialità produttive delle vacche da latte allevate nelle Alpi sono aumentate. Questa spinta produttivistica è avvenuta per mezzo della selezione genetica e ha comportato un incremento dei fabbisogni nutritivi delle bovine a cui spesso il pascolo da solo non riesce a sopperire (Bovolenta et al, 2005). La produzione di latte In alpeggio, dove le bovine in genere sono alimentate quasi esclusivamente con erba, diminuisce anche di oltre il 50% rispetto alla media registrata prima della monticazione (Andrighetto e Ramanzin, 1987). Nonostante il livello produttivo di questi animali possa essere già modesto prima dell’alpeggio (14 kg/d) il pascolo in quota comporta generalmente una perdita produttiva media nell’intera lattazione di circa il 9% rispetto alla produzione attesa sulla base dei controlli funzionali effettuati prima dell’alpeggio. Il riflesso di questo calo produttivo legato al cambio di alimentazione in alpeggio e al maggior movimento degli animali, comporta spesso un marcato calo ponderale. La diminuzione della condizione corporea delle bovine, oltre al danno diretto per l’allevatore, presenta delle complessità in termini di “benessere animale”. Svariati sono stati negli anni i tentativi di spiegare questo complesso concetto tra cui troviamo la definizione di Hughes che nel 1976 ha definito il benessere animale come “uno stato di salute completo, sia fisico che mentale, in cui l’animale è in armonia con il suo ambiente”. L’interesse per questa tematica parte nel 1964 quando Ruth Harrison pubblicò il libro “Animali Macchine” sollevando la questione del benessere degli animali allevati intensivamente. In seguito allo scalpore causato da questo libro il governo inglese commissionò un rapporto ad un gruppo di ricercatori, tra i cui membri vi era un veterinario; ne scaturì il Brambell Report. Questo rapporto, oltre ad essere uno dei primi documenti ufficiali relativi al benessere animale, enunciò il principio (ripreso poi dal British farm animal welfare council nel 1979) delle cinque libertà per la tutela del benessere animale (figura 1.2). Nell’immaginario comune l’attività del pascolo e dell’alpeggio costituiscono il prototipo migliore, ideale di allevamento per la vacca da latte, ma in realtà questa pratica può limitare alcune delle 5 libertà e quindi non è corretto parlare di benessere nella sua più completa accezione.

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Figura 1.2: le cinque libertà. (Fonte: Brambell Report, 1965; Farm Animal Welfare Council, 1992).

Oggi è il consumatore stesso che ha acquisito una nuova consapevolezza e sensibilità nei confronti di questa tematica, poiché si rende conto che una buona protezione del benessere degli animali contribuisce, direttamente e indirettamente, alla salubrità e qualità dei prodotti alimentari. Per dare risposta a questa esigenza, la normativa UE su questo argomento si è costantemente ampliata negli ultimi anni e sembra destinata ad intensificarsi ulteriormente negli anni a venire. Appare ovvio quindi ribadire quanto sia fondamentale porre attenzione alla nutrizione e all’alimentazione della bovina al pascolo, se si vuole commercializzare i prodotti su un mercato che appare oggi fortemente più sensibile. Per ovviare al problema della sottoalimentazione si ricorre sempre più spesso alla somministrazione di mangimi concentrati, la cui efficacia però non sempre risulta pari a quella attesa. Il motivo principale di questa inefficienza è conosciuto come tasso di sostituzione, fenomeno per cui le bovine che ricevono concentrato tendono naturalmente a ridurre l'ingestione di erba (Stockdale, 2000). Altro aspetto negativo dell’integrazione è che questa può peggiorare l’ambiente pascolivo e la qualità dei prodotti di malga, che progressivamente perdono le peculiarità aromatiche legate proprio all’alimentazione foraggera della bovina (Bovolenta et al, 2005).

25 Il consiglio che si può fornire agli alpeggiatori a fronte di una ridotta produttività è quello di ottimizzare l’alimentazione con l’integrazione, soprattutto se le bovine al pascolo sono di tipo ad alta produzione e alta geneaologia, e al contempo agire sulla gestione dei pascoli per sfruttarli in pienezza.

 L’aumento dei fabbisogni energetici

I fabbisogni energetici delle vacche da latte al pascolo vengono sempre calcolati a partire da quelli consigliati per gli animali stabulati (INRA, 1988; Fox et al., 1992; NRC, 2001). Teniamo presente che c’è un’enorme differenza nella valutazione energetica di un alimento per i bovini rispetto all’uomo e per comprendere quali siano i fabbisogni della bovina, dobbiamo aver ben chiaro come questa utilizza l’energia che gli viene fornita. Lo schema presentato in figura 1.3 riporta quella che i tecnici chiamano l’utilizzazione dell’energia alimentare in una bovina da latte.

Figura1.3: La cascata dell’energia. (Tamburini, 2017).

La prima cosa che si nota è che la bovina non è in grado di utilizzare il 100% dell’energia ingerita: nei monogastrici (come nei suini e nell’uomo) la digeribilità è circa pari al 90-95% mentre ruminanti ed erbivori, che si nutrono di alimenti con

26 abbondante parete vegetale, anche con l’aiuto di batteri, non riescono ad utilizzare tutta l’energia alimentare (Energia Lorda) e l’energia digeribile cala, mediamente al 70%. La cellulosa viene degradata dai microrganismi a livello ruminale per circa il 60%, mentre tutta la cellulosa, l’emicellulosa e la lignina che escono dal rumine e dal reticolo non degradate, non hanno più la possibilità di essere utilizzate dal ruminante stesso e vengono così perse tramite le feci (30% circa). Le feci sono dunque ricche di cellulosa e emicellulosa, e quindi di energia. La percentuale di energia digeribile varia tra il 50% (nel caso di alimentazione con predominanza di alimenti ad alto contenuto di parete vegetale, come fieni di bassa qualità e paglia) e l’80% (nel caso di un utilizzo maggiore di concentrati). Ma l’energia digeribile non è comunque totalmente a disposizione, nel caso dei ruminanti, infatti, una parte di questa viene persa sotto forma di metano da fermentazioni ruminali (8% circa). Oltre al metano vi è anche una perdita del 5 % per l’urina, che contiene principalmente acqua e composti azotati di scarto. Quindi non bisogna considerare l’energia digeribile ma l’energia metabolizzabile, cioè quella che le singole cellule dell’animale possono effettivamente usare. Di fatto è la differenza tra: l’energia digeribile (70% dell’ingerita) – l’energia del metano (8%) – l’energia persa con le urine (5%). I poligastrici, nel nostro caso le bovine da latte, dunque usano mediamente in razioni miste circa il 57% dell’energia rispetto a quello che ingeriscono. Questa energia viene poi destinata a differenti esigenze, quali l’energia per il mantenimento, ovvero tutta quella che viene fornita alle cellule sotto forme diverse per svolgere le varie attività cellulari. Più correttamente si parla di energia netta di mantenimento poiché dato che non tutta l’energia metabolizzabile può essere trasferita, si perde sempre una porzione di energia sotto forma di calore (extracalore). Analogamente si parla di energia netta latte, che è l’energia presenete in tutti ilegami dei composti del latte. Infine c’è l’energia contenuta nei legami del grasso corpore o dei muscoli in acrescimento, legati quindi all’aumento o alla diminuzione di peso (energia netta carne).

27 Tutto questo è da tener ben presente nel momento in cui viene formulata una razione alimentare o quando, come in questo caso, vengono considerati i fabbisogni energetici di una bovina. Oltre ai fabbisogni di mantenimento, produzione ed accrescimento, nelle condizioni di alpeggio è necessario tenere conto che l’attività motoria aumenta e vi è anche una spesa energetica per la termoregolazione imposta dalle basse temperature notturne (e talvolta anche diurne) non indifferente. Destinando parte dell’energia per sopperire alle nuove esigenze insorte, inevitabilmente l’energia netta disponibile per la produzione lattifera diminuisce. Ad esempio per la sola deambulazione in piano si calcola un incremento del 3% dei fabbisogni di mantenimento per ogni chilometro di cammino. Secondo l’ARC (1980), la richiesta energetica aggiuntiva è di 2 J/kg PV per metro lineare nei movimenti orizzontali, che diventano 28 J/kg PV per metro di dislivello sui terreni declivi. Per quanto riguarda la termoregolazione la Cornell University (CPM, 2004) prevede invece un aumento di circa il 5% del fabbisogno energetico di mantenimento, passando da una temperatura media ambientale di 20° ad una di 10° e un aumento di circa il 4% con un calo di temperatura ambientale da 10° a 0°. L’aggravio dei fabbisogni raggiunge facilmente anche tassi elevati, infatti, se ai cambiamenti legati alla termoregolazione si sommano un tragitto di almeno 2000 metri percorsi dalle bovine durante il pascolamento orizzontale si raggiunge già il 18% in più, con l’aggiunta di 200 metri di dislivello si arriva al 25% di incremento della richiesta energetica.

 Ingestione di erba al pascolo.

È stato verificato che il principale fattore limitante la produzione di latte al pascolo è l‘insufficiente ingestione di erba (Leaver, 1985; Kolver e Muller, 1998). Sapendo che la regola generica è che la bovina, meno latte fa, meno ingestione ha e meno ingestione ha meno latte fa, è fondamentale, al fine di assicurare una buona produzione lattifera, non limitare in alcun modo l’ingestione. L’ingestione volontaria della vacca, sia al pascolo sia in stalla, è regolata dalla digeribilità dell’erba consumata. Ciò significa che

28 Figura 1.4: L’ingestione di sostanza secca nei ruminanati. (Tamburini, 2017). tanto più l’alimento è digeribile, tanto più facilmente viene consumato e viceversa (Freer, 1981).

Dalla figura 1.4 è possibile notare che man mano che aumenta il contenuto di parete vegetale (NDF) nella razione (dal 20 al 50%) l’ingestione cambia, la curva di ingestione cala. Per aumentare l’ingestione devo diminuire l’ingombro fisico della razione e quindi ridurre la quantità di NDF, e di conseguenza aumentarne la digeribilità. L’ingombro della razione è legato al volume delle cellule non ancora degradate, e più le pareti vegetali sono giovani meno parete hanno, meno ingombro e quindi più ingestione. Con piccole variazioni di NDF della razione (tra 45 e 30%) l’ingestione aumenta di molto. Dopo il 30%, nel caso d’esempio di una vacca che produce in media 40 kg di latte giornalieri (figura 1.4), se si riduce l’NDF ulteriormente non si riesce comunque ad aumentare l’ingestione. Quindi l’ingombro, il limite fisico, ad un certo punto non è più il fattore limitante. Nei monogastrici il regolatore ormonale del senso di fame è legato al glucosio nel sangue (glicemia), ma nei ruminanti la glicemia non regola il senso di fame, poiché il glucosio ingerito viene subito fermentato nel rumine. Oltre un certo livello, l’ingestione

29 di sostanza secca appare dunque regolata anche da un limite che viene definito metabolico, di cui non si conoscono ancora esattamente i meccanismi ma che appare come una sorta di mix tra la concentrazione di acidi organici nel rumine ed il sistema di termoregolazione. Da questo punto in poi l’animale ingerisce lo stesso quantitativo di energia netta dagli alimenti e se l’alimento è più concentrato, tende a mangiarne di meno. Per un’ingestione ottimale il contenuto di NDF deve essere quello nel punto di interazione tra limite fisico e metabolico. Detto questo, sappiamo che i pascoli in quota sono caratterizzati da un breve ciclo vegetativo e quindi da un rapido e progressivo aumento delle frazioni fibrose, dalla diminuzione della digeribilità, della sostanza organica e del tenore di proteine. Per questo motivo, un ritardo sull’inizio del pascolamento può provocare una significativa perdita di qualità dell’erba disponibile per gli animali a causa del contenuto fibroso nel foraggio e della sua progressiva lignificazione. Questo tipo di alimento rimane trattenuto per un tempo maggiore a livello ruminale per via del suo maggiore ingombro e di conseguenza si abbassa il livello di ingestione, e logicamente l’animale è penalizzato nella copertura dei propri fabbisogni e abbassa la produzione di latte. Per ovviare a questa problematica possiamo agire sulla gestione del pascolo. Esistono due diverse principali modalità di conduzione del pascolo: Il pascolamento libero e il pascolamento controllato. Quest’ultimo a sua volta è suddiviso in pascolamento a rotazione (o turnato) e pascolamento razionato. Nel pascolamento libero gli animali vengono messi in un appezzamento di grandi dimensioni e sono lasciati liberi di pascolare senza restrizioni di movimento. Ovviamente questo sistema non è il metodo migliore per il miglioramento dell’ingestione e della qualità del pascolo. Il pascolamento a rotazione consiste, invece, nel suddividere la superficie pascoliva in tanti appezzamenti che vengono pascolati in sequenza, ritornando eventualmente sulla prima quando l'erba ha adeguatamente ricacciato. Il pascolamento razionato è, infine, un perfezionamento del pascolo a rotazione e consiste nel suddividere ulteriormente la superficie pascoliva in appezzamenti più

30 piccoli in cui il bestiame rimanga confinato per un giorno (Marengoni, 1997; Colombini, 2014). Ovvio che applicando la tecnica del pascolo turnato o razionato si realizzano alti carichi istantanei e anche se la produzione di erba è soddisfacente, è inevitabile che ci sia una certa riduzione della sua disponibilità per le singole bovine. In genere un aumento del grado di utilizzazione del pascolo (figura 1.5) corrisponde una proporzionale diminuzione dell’ingestione.

Figura 1.5: Andamento dell’ingestione di erba (linea continua) e del livello di utilizzazione del pascolo (linea tratteggiata), in funzione della disponibilità di erba per l’animale. (Bovolenta et al, 2005).

Se dunque l’obiettivo unico del pascolamento fosse quello di massimizzare l’ingestione di sostanza secca, sarebbe necessario non limitare in nessun modo la disponibilità di erba alle bovine predisponendo un pascolo libero o libero guidato. Ma nel lungo periodo quest’ultima tecnica di pascolamento, per via dei bassi livelli di utilizzazione, porta al degrado della cotica con l’aumento continuo di specie vegetali poco appetibili. Alla luce di queste considerazioni teoriche è chiaro che il piano di pascolamento da adottare in una certa situazione reale dovrà essere programmato in funzione delle finalità produttive o conservative che s’intendono perseguire. Resta comunque preferibile un pascolamento controllato poiché permette sì una maggior utilizzazione del pascolo ma al contempo è minore la selezione esclusiva delle specie più appetibili da parte degli animali, è minore il calpestio e il tempo dedicato

31 all’attività locomotoria. Ciò comporta globalmente un minor dispendio energetico che in termini di produzione lattifera è come abbiamo visto, importantissimo (Gusmeroli, 2004). Qualora risulti necessario ottenere buoni livelli di utilizzazione del pascolo ma non si voglia penalizzare l’ingestione di erba, si può agire cercando di aumentare il tempo a disposizione degli animali per alimentarsi sul pascolo adottando da un lato il pascolamento integrale (animali sul pascolo giorno e notte) e dall’altro riducendo le necessità di spostamento ai fini della mungitura utilizzando carri di mungitura mobili.

 Integrazione alimentare al pascolo

Alla base di un’ottima gestione malghiva c’è sicuramente un corretto studio dei piani di pascolamento perché le risorse foraggere presenti risultino la principale fonte alimentare per gli animali al pascolo. Data l’impossibilità della bovina di soddisfare i propri fabbisogni energetici solamente con il pascolo, appare corretto prevedere che gli animali, soprattutto quelli più produttivi, possano disporre anche in alpeggio di un’adeguata quota di alimenti concentrati, che non comprometta però la tipicità delle produzioni di montagna. L’obiettivo dell’integrazione con concentrati è quello di aumentare la quantità di energia ingerita dalla vacca al pascolo per meglio sostenere le prestazioni produttive. Teoricamente ad 1 kg di concentrato dovrebbe corrispondere un aumento di produzione pari a 2,0-2,5 kg di latte, ma alcune sperimentazioni hanno evidenziato valori molto variabili e spesso inferiori. Motivo di questa scarsa efficienza è appunto il tasso di sostituzione che viene calcolato come rapporto fra le variazioni dei consumi di erba e la quantità di concentrato somministrato ed è uno dei principali fattori in grado di spiegare le risposte non sempre adeguate in termini di produzione di latte che si registrano quando si ricorre all’uso di concentrati. Per ridurre il più possibile questo valore si può agire anche qui tramite la gestione dell’erba al pascolo: osservando i risultati riportati dallo studio di Grainger e Mathews del 1989, si nota facilmente come, con la stessa quantità di concentrato, le vacche che

32 usufruiscono dei pascoli peggiori, con meno disponibilità di erba, reagiscano meglio all’integrazione. I risultati sono tanto più positivi quanto maggiore è l’aumento dell’ingestione di erba e la produzione di latte. Figura 5: Effetto della disponibilità di pascolo sull’ingestione di erba e sulla produzione e qualità del latte. (Grainger e Mathews, 1989).

Al contrario, quando il pascolo è ricco e l’ingestione di foraggio massima, quello che si realizza fornendo il concentrato non è prettamente un’integrazione, ma una sostituzione. Dopo la somministrazione del mangime si registra un calo del consumo di erba (-2,2 kg SS/d) e l’aumento della produzione lattifera è molto contenuto (+0,9 kg/d). Si può quindi affermare che tanto maggiore risulta la quota dei fabbisogni energetici e proteici che viene garantita dall’ingestione di foraggio, quanto minore sarà la risposta produttiva che consegue all’integrazione alimentare (Meijs, 1986; Grainger e Mathews, 1989; Robaina et al., 1998; Bargo et al., 2003). Questi dati non vogliono assolutamente premiare pascoli scadenti o consigliarne una “cattiva” gestione per ottenervi risultati migliori con l’integrazione. Il presupposto è che l’integrazione in montagna è possibile, e va fatta per il benessere delle bovine e per incrementare la produzione, ma non deve essere la componente principale nella dieta di questi animali. Non solo perché comporta dei costi extra, che spesso l’allevatore non riesce a sostenere, ma anche perché se così fosse, tutti i benefici sui prodotti caseari e sull’ambiente in termini di esternalità positive, che intrinsecamente l’attività dell’alpeggio produce, sarebbero vanificati. In linea di massima le reali situazioni dei pascoli alpini permettono un tasso di sostituzione basso o nullo a causa dalla scarsa densità dell’erba e dall’insufficiente tempo per l’alimentazione sul pascolo.

33 2. SCOPO DELL’ELABORATO

L’obbiettivo del presente lavoro è stato quello di analizzare le principali problematiche, di carattere zootecnico, che caratterizzano la produzione di formaggelle di alpeggio in val Dossana, inquadrando il contesto territoriale in una logica di valorizzazione delle potenzialità presenti nel sistema produttivo caseario. Attraverso l’attività di tirocinio svolta nell’estate del 2016 sono stati rilevati, per quattro alpeggi presenti, i dati di produzione di latte bovino, le tecniche di caseificazione e alcuni parametri dell’alimentazione delle bovine da latte. Lo studio si propone dunque di essere uno strumento utile al progetto “ValOrobie – alpeggi da vivere!”, al fine di agevolarne gli interventi volti ad istituire un marchio di produzione collettivo.

34 3. MATERIALI E METODI

L’attività di tirocinio, svolta nell’estate 2016 si è inserita nel contesto di un Progetto intercomunale mirante alla valorizzazione dei prodotti d’alpe, denominato “ValOrobie”. Questo progetto è stato ideato da 5 comuni della medio-alta valle Seriana, ovvero i comuni di Parre, Ponte Nossa, Premolo, Gorno e Oneta con l’obbiettivo di creare una sinergia tra pubblico e privato che possa in qualche modo migliorare l’offerta didattico- turistica di questi luoghi. Tutto questo si potrà realizzare a partire dalla promozione dei prodotti delle quattro aziende zootecniche presenti sul territorio, che limitatamente al trimestre classico (giugno – settembre), praticano l’attività dell’alpeggio.

3.1 Inquadramento territoriale dell’area di studio

Il sistema degli alpeggi analizzato si trova quasi totalmente all’interno del perimetro dell’area protetta regionale “Parco delle Orobie bergamasche”, le valli interessate sono nello specifico, la val Dossana e la valle del Riso. La Valle Dossana (detta anche valle Nossana) è una valle laterale della Val Seriana in Provincia di Bergamo. È delimitata a Nord dalla catena montuosa che include il passo del Re ed i monti Secco (2.267 m.s.l.m.) e Fop (2.322 m.s.l.m.), ad Est dalla costa della Forcella e dal monte Trevasco, ad Ovest dalla costa di Belloro, dalla Costa Bruciata e dal monte Golla. A livello amministrativo è inclusa nei comuni di Premolo (lato orografico destro), Parre (lato sinistro) e Ponte Nossa (parte terminale prima dello sbocco nella valle Seriana). Il corso d’acqua da cui prende il nome la valle è il torrente Nossana, che ricopre enorme importanza in ambito provinciale poiché grazie alla sua elevata portata, soddisfa il fabbisogno idrico di parte della bergamasca. La presenza dell'uomo è concentrata a fondovalle, nel resto della vallata vi sono sporadici nuclei, il più grande dei quali è Cossaglio, piccola contrada in territorio di Parre. Per il resto vi sono cascine isolate, un tempo utilizzate da pastori e mandriani.

35 Tra queste importantissima la baita Forcella, tutt’ora funzionante, tanto che è stata, assieme al vicino alpeggio Vaccaro, tra le sedi di analisi del tirocinio. Anche la valle del Riso è una valle laterale, più precisamente, una diramazione occidentale della Val Seriana. Si apre con il colle di Zambla e si estende tra il monte Alben ed il monte Arera. È percorsa dal torrente Riso che dà il nome alla valle e in cui confluiscono numerosi torrenti minori. Amministrativamente il suo territorio è diviso in tre comuni: Oneta, Gorno e Ponte Nossa, i quali a loro volta sono suddivisi in numerose frazioni. Su questi territori insistono altri alpeggi che hanno interessato l’attività di tirocinio: Grem e Golla.

3.2 Gli alpeggi

 Forcella e Foppo

Sono due alpi del comune di Parre, confinanti fra loro e gestite dallo stesso alpeggiatore. La superficie totale è di 370 ha, di cui 227 ha effettivamente pascolabili, e sono raggiungibili tramite una strada sterrata che attraversa la malga Vaccaro e raggiunge prima baita Forcella (1718 m.s.l.m.) e poi baita Foppo (1597 m.s.l.m.), qui la strada s’interrompe.

36 Figura 3.2: Inquadramento malghe e baite di Forcella e Foppo. (Fonte: studio di fattibilità ValTeMo).

La baita Forcella si colloca in una conca protetta da valanghe e fenomeni franosi, con una superficie caratterizzata da pendici mediamente lievi ma a tratti anche pianeggianti, ripide e sassose. Le porzioni a maggiore pendenza sono occupate da boschi e cespugli, mentre i salti di roccia delimitano il confine della malga in direzione Val Nossana. Il terreno è profondo, con cotico a flora un po' grossolana e dura ma di discreta qualità; vi è però molta flora ammoniacale vicino alla baita. La malga Forcella è il centro aziendale dell’alpeggio: qui viene portato il latte munto anche presso l’alpe Foppo, viene trasformato e i formaggi vengono conservati per la stagionatura. Consiste in una grande struttura che oltre all’abitazione, comprende il locale lavorazione del latte, la cantina di stagionatura, il locale servizi igienici, una stalla per il ricovero degli animali malati e tre depositi accessori ricavati nel sottotetto.

37 È dotata di tre pozze di abbeverata: due sono funzionanti, una terza necessita di opere di manutenzione ai fini del buon funzionamento. Sfrutta una sorgente captata che si trova ad una quota inferiore e necessita di un sistema di pompaggio per l’utilizzo. Vi è però una sorgente non captata che si trova a quota maggiore rispetto alla baita. È inoltre dotata di pannelli solari per la produzione di energia elettrica oltre che di un generatore a benzina e di un sistema di raccolta dell’acqua piovana in vetroresina. Nelle vicinanze della baita è presente una piccola piazzola per l’accesso al carro mungitura da parte delle vacche. Le condizioni della struttura sono buone, anche se necessita di interventi di manutenzione straordinaria.

Figure 3.4 e 3.5: La baita Forcella e i suoi pascoli. (Fonte: Attività di tirocinio).

La baita Foppo si trova invece in una conca con pendici ripide, diffusi affioramenti rocciosi e depositi ghiaiosi anche nelle vicinanze della baita. Sono presenti piccoli abeti, macchie a rododendro e vicino alla cascina vi è un dosso pianeggiante. È presente una sorgente con la quale vengono riempite le vasche d’abbeverata. Inoltre vi è una baita in cui non è possibile condurre la trasformazione del latte, in quanto non dotata dei necessari locali, e viene quindi utilizzata solo come appoggio per l’attività casearia e la vita dei conduttori presso la baita Forcella.

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Figura 3.6: La baita Foppo. (Fonte: studio di fattibilità ValTeMo).

 Vaccaro

Ubicata nel bacino della valle dei Frati la malga Vaccaro è raggiungibile tramite strada asfaltata che dal centro abitato di Parre sale al monte Alino e arriva fino alla baita di mezzo. Da qui la strada sterrata prosegue fino alla baita alta per continuare poi in direzione della malga Forcella. Si estende per circa 164 ha, dei quali 125 a pascolo nudo, 24 a incolto produttivo e 14 di bosco di resinose e misto.

39 Figura 3.7: Inquadramento malga Vaccaro e baite. (Fonte: studio di fattibilità ValTeMo).

La superficie è caratterizzata da dolci pendii con ampi avvallamenti. Il terreno presenta una cotico abbastanza continuo, con la presenza di specie vegetali medio-buone anche se non mancano zone ricche di erbacee poco appetite dai bovini. Il Pascolo si sviluppa da 1380 m a 1850 m, con tre baite dislocate a livelli differenti: la Baita bassa (1412 m.s.l.m.) utilizzata per l’allevamento dei suini, la Baita di mezzo (1496 m.s.l.m.) residenza degli alpeggiatori, dotata di locale per la caseificazione e la Baita alta (1649 m.s.l.m.) ad oggi inutilizzata ed in stato di abbandono. L’alpe è dotata di sorgente che fornisce acqua corrente alla baita bassa e alla baita di mezzo. La baita di mezzo è il vero centro aziendale, dove si concentra la quasi totalità della vita d’alpeggio: qui il caricatore conduce la trasformazione del formaggio grazie alla presenza dei locali a norma di legge, stagiona i formaggi nella cantina e vi soggiorna per tutta la durata della monticazione. La baita è dotata di servizi igienici, corrente elettrica e acqua calda.

40 Figura 3.8: Vaccaro, baita di mezzo. (Fonte: studio di fattibilità ValTeMo).

Nelle immediate vicinanze della baita c’è una piazzola in calcestruzzo per il posizionamento del carro mungitura, un parcheggio per le auto, una vasca per l’abbeverata in calcestruzzo e un piccolo ricovero per i vitelli.

Figure 3.9 e 3.10: Vasca per l’abbeverata e ricovero vitelli. (Fonte: attività di tirocinio).

41 Specialmente durante il periodo estivo, l’area è abbastanza frequentata, soprattutto per la presenza del vicino rifugio Vaccaro e di diverse vette montuose, mete conosciute da molti escursionisti.

Figura 3.11: La baita di mezzo vista dal rifugio Vaccaro. (Fonte: www.google.it)

 Grem

L’alpe Grem, ubicata nel comune di Gorno, si estende in due valli parallele: la val dell’Orso e la valle del Riso, poco profonde, ampie e caratterizzate da dolci pendii. La superficie totale è di 260 ha di cui 58 a pascolo, 158 ad incolto produttivo e pascolo cespugliato, 32 a bosco ceduo ed il resto ad incolto improduttivo. Il pascolo si sviluppa tra i 1100 m e i 2000 m, interrotto in buona parte dalle cave minerarie. L’alpe è suddivisa in tre stazioni: baita Bassa a quota 1222 m.s.l.m., baita di Mezzo a 1458 m.s.l.m. e la baita Alta a 1631 m.s.l.m. Sono state tutte ristrutturate negli anni passati e almeno esternamente appaiono in buono stato, a differenza dei fabbricati accessori alle baite che presentano invece diverse parti degradate. La baita Alta è di grandi dimensioni ed è dotata di pannelli fotovoltaici e la baita di Mezzo è stata sistemata nel 2015 e si presenta molto ben strutturata.

42 Tutte vengono comunque utilizzate dall’alpeggiatore durante la stagione di pascolo e sono dotate di locali per la caseificazione.

Figura 3.12: Inquadramento malga Grem e baite. (Fonte: studio di fattibilità ValTeMo).

La baita Bassa della malga Grem è raggiungibile da una strada asfaltata, sterrata solo nel tratto terminale, che origina dal paese di Gorno. Da qui è possibile raggiungere le altre baite a piedi perché le condizioni della strada sterrata che prosegue sono pessime. Per questo motivo la mungitura viene ancora effettuata manualmente. La baita Bassa presenta un pascolo con sentieramenti e micro dissesti diffusi, oltre ad un dissesto piuttosto importante che interessa una porzione estesa a monte dell’edificio, provocato dalle acque di ruscellamento superficiale. È presente una pozza d’abbeverata, superata questa il pascolo risulta invaso da arbusti, principalmente rosa canina, e da felci.

43 Percorrendo a piedi la strada sterrata si in contra una pozza asciutta ed un capanno da caccia e si raggiunge la baita di Mezzo. Percorrendo la strada oltre la seconda baita, salendo verso la baita Alta, si incontra una parte di pascolo con evidenti problemi di sottopascolamento. Su tutto il territorio non sono presenti sorgenti ma solo alcune pozze in terra che però non sempre soddisfano le esigenze del bestiame, le baite sono quindi tutte attrezzate con cisterne. L’intera malga è attraversata da un sentiero che conduce alla cima di Grem, per questo motivo è un’area molto frequentata in estate ma anche in inverno poiché la presenza della neve rende questa montagna ideale per gli appassionati dello sci alpinismo.

Figura3.13 e 3.14: Baita di Mezzo e pozza di abbeverata dell’alpe Grem. (Fonte: attività di tirocinio).

 Golla

L’alpe è situata nella Val Nossana, più precisamente sul territorio del comune di Premolo ed è di proprietà privata. Lo stesso proprietario gestisce gli alpeggi sfruttandoli nel periodo estivo. Sono attualmente monticate 3 stazioni: Baita Piazza (1259 m.s.l.m.), Casere (1372 m.s.l.m.) e Foppelli (1608 m.s.l.m.). L’accesso non è immediato: da Premolo si può giungere in macchina fino alla località Belloro, e poi si prosegue a piedi; da Gorno invece si raggiunge la località Grina e poi si prosegue camminando lungo una mulattiera. Per questo motivo in questi pascoli le operazioni di mungitura sono ancora manuali ed appare difficile l’affermarsi della mungitura meccanica.

44 Il pascolo si sviluppa tra i 1200 m e i 1900 m poco sotto al monte Golla. Ha una superficie di 329 ha di cui 183 a pascolo, 96 a incolto produttivo, 48 a bosco ceduo; il resto ad incolto e improduttivo. La parte superiore è formata da un altopiano ondulato, con avvallamenti e zone pericolose per il bestiame; nella parte inferiore le pendici sono più dolci.

Figura 3.15: Inquadramento malga Golla e baite. (Fonte: studio di fattibilità ValTeMo).

Baita Piazza si trova nella zona a valle, la più pianeggiante, non viene utilizzata per le operazioni di caseificazione ma solo come appoggio alle attività ed oggi si trova in cattivo stato d’uso. Baita Casere è quella più utilizzata e l’unica dove gli alpeggiatori possono soggiornare; è dotata di un’area adibita alla caseificazione molto rudimentale, che si avvale ancora del fuoco a legna per riscaldare la caldaia. Inoltre vi è anche un locale per la stagionatura. Si caseifica anche presso l’ultima baita, la baita Foppelli anche se la struttura appare decadente.

45 Figura 3.16: Baita Casere. (Fonte: attività di tirocinio).

Figure 3.17 e 3.18: L’operazione di mungitura e il locale caldaia. (Fonte: attività di tirocinio).

3.3 Rilievi in campo

Il primario obbiettivo del progetto ValOrobie è quello di promuovere i prodotti dei sopracitati alpeggi, per arrivare a utilizzare un marchio facilmente riconoscibile e promuovibile. I rilievi effettuati hanno avuto lo scopo di monitorare le produzioni casearie dei 4 alpeggiatori, che producono abitualmente “formaggio di monte” in alpeggio, anche se durante il 2016 è stata maggiormente prodotta la formaggella d’alpeggio.

46 I dati riguardanti la caseificazione sono stati rilevati direttamente negli allevamenti in alpeggio, seguendo le operazioni tenutesi di prima mattina in malga. I rilievi complessivi sono stati 16, equamente distribuiti tra i 4 alpeggi ma, per il semplice fatto che sono stati raccolti in numero maggiore dati relativi alla caseificazione della formaggella, nel presente studio, verranno elaborati ed analizzati principalmente questi. Infine, in occasione dell’ultima visita, è stato compilato un questionario richiedente informazioni circa l’entità e tipologia del bestiame allevato, l’integrazione alimentare, la destinazione del latte, la quantità di latte per capo ed i costi legati alla gestione dell’alpeggio.

3.4 Modalità di elaborazione dati

I dati relativi all’alimentazione delle bovine alpeggiate sono stati rimaneggiati attraverso un programma denominato CPM dairy. Si tratta di un software bastato su un modello matematico nutrizionale, in grado di valutare attraverso l’inserimento della quantità dei componenti della razione per caratteristiche definite, l’apporto energetico e proteico della razione, l’utilizzo da parte di bovine con caratteristiche definite, la produzione ottenibile e l’efficienza dei batteri ruminali. È stato elaborato da tre ricercatori americani Cornell, Penn e Miner, ripettivamente della Cornell University, Università di Pennsylvania e del W.H. Istituto di ricerca dell'agricoltura. Il metodo di fondo è quello Cornell Net Carbohydrate Protein System o CNCPS. Comprendere ed utilizzare correttamente questo sistema non è semplice, sono richieste profonde conoscenze delle nozioni fondamentali di nutrizione e di metabolismo dei ruminanti, ma anche informazioni relative agli animali, all'ambiente di allevamento, al management e agli alimenti somministrati in azienda. A differenza di molti altri modelli però il CNCPS è utilizzabile in qualsiasi situazione di allevamento e, se correttamente impiegato, la produttività aziendale migliora notevolmente.

47 la struttura del modello inoltre, consente di aggiornare, sulla base di nuovi risultati che provengono della ricerca scientifica, le equazioni di previsione e di calcolo dei fabbisogni e delle performance degli animali. La versione utilizzata nel seguente elaborato richiede una serie di informazioni che l’allevatore può facilmente mettere a disposizione e che il nutrizionista è in grado di valutare. La libreria degli alimenti può essere personalizzata inserendo la composizione chimica degli alimenti prodotti in azienda o acquistati da un determinato allevatore.

48 4. RISULTATI E DISCUSSIONI

Numerosi sono stati i dati raccolti durante l’attività di tirocinio, e di particolare rilievo sono state le informazioni relative alla gestione degli animali e produzione di latte, alle tecniche di caseificazione e alle tipologie di alimentazione previste per le bovine alpeggiate.

4.1 La gestione degli animali e la produzione di latte La tabella 4.1 mostra i valori rilevati nelle quattro malghe durante la caseificazione della formaggella. Per ogni alpeggio vengono riportati i dati di tre lavorazioni e per ognuna di queste viene specificato il numero di vacche munte giornalmente, la quantità di latte prodotta (totale e per capo), i kg di formaggio prodotto e dunque la resa casearia.

Tabella 4.1: Rilievi sulla caseificazione della formaggella per ogni alpeggio.

Alpeggio FORCELLA 19-lug 09-ago 02-set media dev.STD Vacche munte (nr) 44 36 31 37 6.56 Quantità di latte (kg) 430 350 290 357 70.2 Quantità unitaria latte (kg) 9.8 9.7 9.4 9.63 0.21 Formaggio prodotto (kg) 49 36 32 39 8.89 Resa casearia (%) 11 10 11 10.7 0.58 Alpeggio VACCARO 04-lug 28-lug 02-set media dev.STD Vacche munte (nr) 35 35 33 34.3 1.15 Quantità di latte (kg) 300 260 240 267 30.6 Quantità unitaria latte (kg) 8.6 7.4 7.3 7.77 0.72 Formaggio prodotto (kg) 35 25 24 28.0 6.08 Resa casearia (%) 12 10 10 10.7 1.15 Alpeggio GREM 02-ago 08-ago 26-ago media dev.STD Vacche munte (nr) 15 16 17 16.0 1.0 Quantità di latte (kg) 90 95 90 91.7 2.89 Quantità unitaria latte (kg) 6 5.9 5.3 5.73 0.38 Formaggio prodotto (kg) 10 9 10 9.67 0.58 Resa casearia (%) 11 9 11 10.3 1.15 Alpeggio GOLLA 21-lug 25-lug 29-lug media dev.STD Vacche munte (nr) 25 25 25 25.0 0.00 Quantità di latte (kg) 180 175 160 172 10.4 Quantità unitaria latte (kg) 7.2 7 6.4 6.87 0.42 Formaggio prodotto (kg) 20 18 16 18.0 2.00 Resa casearia (%) 11 10 10 10.3 0.58 NB: Per la malga Vaccaro vengono riportati i dati relativi ad una sola caseificazione a formaggella (28-lug), ma essendo valori tra loro molto simili è possibili utilizzarli omogeneamente.

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Si può notare come i rilievi non siano distribuiti in modo del tutto omogeneo nel tempo, e se era auspicabile effettuare una rilevazione per mese, per motivi organizzativi questo non è stato possibile. I rilievi riportati sono in ordine cronologico di rilevamento. Il primo dato riportato in tabella fa riferimento al numero di bovine munte: tra tutte le malghe, Forcella registra un valore maggiore, pari a 37 capi medi munti al giorno. A seguire abbiamo l’alpeggio Vaccaro con 34,3 capi, Golla con 25 e Grem con 16 bovine in lattazione. Ad eccezione dell’alpe Golla, guardando ai singoli rilievi e non ai dati medi, si nota come il numero delle bovine non è rimasto costante nel tempo. Soprattutto nella malga Forcella questo valore è calato parecchio, a luglio venivano infatti munte 44 vacche al giorno, ad agosto 36 ed infine 31 a settembre, e la variabilità dei dati è sottolineata da un’elevata deviazione standard, pari a 6,56. Anche Vaccaro ha registrato un piccolo calo nel tempo passando da 35 a 33 bovine in lattazione, con una deviazione standard di 1,15. Anche presso malga Grem il numero delle bovine munte non è rimasto costante ma non si è evidenziata una relazione tra la riduzione delle bovine ed il tempo trascorso. In Golla invece la situazione è rimasta costante per tutta la stagione, con 25 capi munti. Il motivo del calo del numero di animali in lattazione verso la fine della monticazione può essere dovuto principalmente ad una scarsa attenzione nella gestione dell’organizzazione aziendale. Solitamente infatti, le aziende di pianura, diversamente da quelle di montagna, sono interessate a mantenere costante la quantità della produzione di latte durante l’anno, e per questo, si assicurano di avere sempre lo stesso numero di bovine da mungere nelle diverse fasce di produzione. L’allevamento infatti si suddivide per comodità in gruppi: vi sono le primipare, le secondipare e le terzipare che mediamente producono quantitativi di latte differenti e di diversa qualità. Una pluripara generalmente produce meno latte e di peggiore qualità, questo principalmente a causa dell’usura del capezzolo e dello sfintere capezzolare esponendo così il latte ad un elevato rischio di contaminazione batterica e quindi di infezione mastitica. Per ognuna di queste categorie sono previsti numeri omogenei di bovine gravide, all’inizio della lattazione, a metà e verso l’asciutta. Solo in questo modo

50 e predisponendo una corretta rimonta l’azienda può assicurarsi una produzione che resta abbastanza costante durante l’anno, a prescindere dall’andamento individuale della curva di lattazione. Tendenzialmente in montagna questo avviene meno frequentemente, sia perché il mercato di vendita dei prodotti derivati ha un andamento stagionale, sia per le difficoltà logistiche organizzative, poiché seguire un’organizzazione di questo stampo implica un certo impiego di sforzi che in alpeggio sono in genere difficilmente sostenibili. La tabella 4.1 riporta i valori in riferimento alla produzione totale di latte. Anche qui malga Forcella emerge tra le altre per un numero medio maggiore di latte prodotto (357 kg), evidentemente legato al maggior numero di bovine in lattazione. Ovvio che l’alpeggio Grem con solo 16 vacche in lattazione è tra tutti quello che ha prodotto meno kg di latte al giorno, pari a 91,7 kg. I valori rilevati per la malga Vaccaro indicano un quantitativo medio giornaliero di 267 kg e per malga Golla invece pari a 172 kg. Risulta dunque molto più interessante indagare la produzione per capo, che viene calcolata semplicemente dividendo i kg di latte totale prodotti con il numero di capi munti giornalmente. In Forcella la produzione media per capo è risultata pari a 9,63 ± 0,21 kg/d, in Vaccaro sono stati prodotti 7,77 ± 0,72 kg/d per capo, in Golla 6,87 ± 0,42 kg/d capo e nell’alpe Grem solo 5,73 ± 0,38 kg/d per capo. Osservando i dati relativi ai singoli rilievi ottenuti in tutti e quattro gli alpeggi (figura 4.1) la produzione di latte unitaria è sempre calata durante la stagione di pascolamento.

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Figura 4.1: Andamento della produzione di latte individuale nel tempo.

L’alpeggio Forcella è quello che dove è calata di meno, poiché è passato da una produzione unitaria di 9,8 kg/d a una produzione pari a 9,4 kg/d; mentre l’alpeggio Vaccaro è passato da 8,6 kg/d a 7,3 kg/d; l’alpeggio Grem da 6 kg/d a 5,3 kg/d; l’alpeggio Golla da 7,2 kg/d a 6,4 kg/d. Questo fatto è spiegabile dalla diminuzione del numero di vacche munte per via dell’entrata in asciutta, oppure per il calo della produzione totale di latte o per entrambi. E’ noto inoltre che in alpeggio, l’avanzare della stagione riduce la qualità del pascolo, e le bovine trovano ancora più insufficiente questa componente nella loro dieta e se non è previsto un aiuto attraverso l’integrazione alimentare con mangimi concentrati, l’inefficienza facilmente si traduce in una riduzione del latte prodotto. Tra gli alpeggi monitorati, Vaccaro è quello che risente maggiormente di questo calo, probabilmente anche perché osservando i dati nel grafico si nota come questo sia stato campionato con rilievi distribuiti più uniformemente nell’arco temporale.

52 Prendendolo ad esempio notiamo che la differenza di produzione tra luglio e settembre è risultata di circa 1,3 kg/d di latte in meno per capo, che moltiplicato per 34,6 capi munti sono circa 45 kg/d in meno di produzione di latte. Ciò significa che invece di produrre 298 kg di latte al giorno, ne vengono prodotti 252 kg, e che, con una resa media del 10,7% si sono tradotti in circa 5 kg di formaggio in meno al giorno. Ovvio che se nel mese di settembre la produzione si mantenesse costante su questo valore o addirittura peggiora, a fine mese i kg di formaggio persi ammonterebbero almeno a 150 kg, e considerando un prezzo medio di vendita pari a 10 €/kg si arriverebbe facilmente ad una perdita di 1500 € rispetto al un valore ottimale. Il quarto dato riportato in tabella 4.1 mostra la quantità (in kg) di formaggio prodotto. È il risultato del dato medio di alcune pesate di forme campione, misurate mediamente a 10/15 giorni di stagionatura. Logicamente il quantitativo di formaggio prodotto giornalmente è direttamente proporzionale ai kg di latte munti in giornata. Dunque con il calare della quantità di latte disponibile, si riduce il quantitativo di formaggio prodotto. L’alpeggio Forcella ha registrato un valore medio di 39,1 kg/d di formaggio prodotto, l’alpeggio Vaccaro ha avuto 28,2 kg/d di formaggio, Golla 18,1 kg/d e infine Grem 9,67 kg/d. Infine la resa casearia è il dato più importante in assoluto. Essa indica infatti l’efficienza di trasformazione, è la quantità di formaggio (in kg) ottenibile da 100 kg di latte. Molteplici sono i fattori che la influenzano; tra questi, la tecnologia di trasformazione riveste il ruolo principale, ma non di meno risulta essere importante la qualità del latte. Infatti, il grasso e la caseina forniscono un contributo importante nel determinare la resa in formaggio del latte. Il grasso assume un ruolo che possiamo definire passivo poiché viene intrappolato nel reticolo caseario in coagulazione, mentre la caseina rappresenta il vero e proprio fulcro dell’intero processo di coagulazione presamica del latte. Quindi ad un aumento del contenuto in caseina del latte assistiamo ad un forte aumento di resa, e maggiore sarà la quantità di formaggio ottenibile. La resa del latte in formaggio varia in misura notevole anche in base al tipo di formaggio, sostanzialmente per il diverso contenuto in acqua.

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4.2 Le tecniche di caseificazione

Nei quattro alpeggi aderenti al progetto si sono prodotte nel 2016 principalmente formaggelle, formaggio di monte e piccole quantità di burro di malga. Nel caso dell’alpe Vaccaro due caseificazioni a settimana sono dedicate anche alla produzione di , che viene poi ritirato dal caseificio Latini di Bergamo. Per i fini del progetto ValOrobie è utile evidenziare quali siano soprattutto le differenze tra i produttori nelle varie fasi del processo di caseificazione. In questo modo sarà più semplice comprendere tutte le correzioni che saranno previste da un futuro disciplinare di produzione. Poiché se l’obbiettivo è quello di arrivare ad un marchio comune, i prodotti dovranno essere il più possibile uniformi, soprattutto per le dimensioni e le forme. Ogni malga trasmetterà comunque sempre un’impronta tipica al suo formaggio, questo sarà inevitabile poiché dipende fortemente dalle caratteristiche del pascolo e dalla tipologia di bovine alpeggiate. Sarà dunque auspicabile che vengano previste all’interno del marchio di produzione comunale, delle etichette che possano agevolare il consumatore a riconoscere in maniera efficacie il produttore responsabile della caseificazione e il periodo di produzione. Il processo di caseificazione seguìto per le produzioni predominanti, formaggella e formaggio di monte, è rappresentato nello schema mostrato in Figura 4.2.

54 Figura 4.2: Linea di caseificazione dei formaggi d’alpe della val Dossana e val del Riso.

Una volta terminate le operazioni di mungitura, il latte viene portato, tramite contenitori in acciaio, nel locale adibito a caseificio. La mungitura viene eseguita ancora manualmente negli alpeggi di Golla e Grem, mentre in Forcella (figura 4.3) e Vaccaro si utilizza il carro mungitore con postazione fissa al di fuori della struttura della baita.

Figura 4.3: La mungitura in Forcella.

55 Il latte viene dunque trasferito nella caldaia, che per tutti e quattro gli alpeggi è risultata di rame. Le dimensioni di questo contenitore sono variate in base ai quantitativi di latte che solitamente vengono lavorati. In Forcella sono state utilizzate 2 caldaie, una con capienza di circa 300-350 kg di latte e l’altra da 150 kg. In Vaccaro la caldaia presente conteneva al massimo 350 kg di latte, mentre Golla e Grem erano dotate di caldaie di dimensioni minori, di circa 100-150 kg di capacità. Al latte munto giornalmente viene addizionato un innesto di tipo naturale (fugura 4.4), che deriva da una lavorazione precedente.

Figura 4.4: formaggi in maturazione con innesti naturali nell’alpeggio Vaccaro.

Ogni caseificazione seguita in malga ha permesso di raccogliere numerosi dati riguardanti tempi, temperature e strumenti utilizzati. La tabella 4.2 riassume i valori rilevati per la malga Forcella durante la caseificazione di formaggelle.

56 Tabella 4.2: Schede di lavorazione per l’alpeggio Forcella. Forcella formaggelle date rilievi 19-lug 09-ago 02-set media dev.STD temperatura ambiente °C 12 13 17 14.0 2.65 quantità di latte in caldaia L 430 350 290 357 70 n° vacche munte 44 36 31 37.0 6.6 latte prodotto L/vacca 9.8 9.7 9.4 9.6 0.23 temperatura all'aggiunta del caglio °C 37 37 37 37 0 quantità del caglio ml 90 60 48 66 21.6 durata coagulazione min 30 50 47 42.3 10.8 temperatura siero °C 37 34 35 35.3 1.53 tempo di sosta min 1 0 0 0.33 0.58 cottura °C 45 42 40 42.3 2.52 min 39 31 17.4 29.1 10.9 temperatura siero °C 41 40.5 38.5 40 1.32 durata riposo min 13 14 20 15.7 3.8 stagionatura °C 7 7 7 7 0 d 12.5 12.5 12.5 12.5 0.0

La prima cosa che si individua è come la temperatura ambientale sia aumentata nei mesi, mediamente con valori intorno ai 14° C, valore perfettamente in linea con la temperatura ottimale o comfort termico per la bovina da latte (tra 7° e 20 °C). Bisogna però considerare che le temperature venivano registrate la mattina, mentre probabilmente in orari notturni la temperatura è calata a causa dell’escursione termica, senza incidere particolarmente sullo stato di salute degli animali. Il processo vero e proprio di caseificazione inizia con l’aggiunta del caglio. Si tratta di una sostanza (detta anche presame), costituita in gran parte da enzimi (chimosina o rennina, pepsina e tripsina), che si adopera per far coagulare le micelle caseiniche del latte permettendo così la formazione della cagliata. Ha un’efficacia misurata dal parametro “Forza” o titolo del caglio, un indice dato dal rapporto tra volume di latte coagulato ed il prodotto in condizioni di temperatura standard (35°). Può essere di origine animale (ricavato dall’abomaso o quarto stomaco di animali ruminanti ancora lattanti), vegetale (ricavato da fiori di carciofo selvatico, lattice di fico, funghi) oppure sintetico (prodotto da batteri modificati geneticamente). Viene commercializzato in forma liquida (la più diffusa, forza 10.000), in polvere (il più puro, perché è privato della frazione di pepsina che non è specifica e taglia tutte le proteine e contiene solo chimosina, forza 100.000-200.000), in pasta (contenente anche enzimi lipolitici, forza 100.000).

57 I produttori dei quattro alpeggi hanno utilizzato tutti un caglio in forma liquida di derivazione animale e la dose media calcolata è di 100 ml ogni 300 litri di latte come riportato dalla Tabella 4.2. Nel caso della malga Vaccaro, i quantitativi di caglio impiegati sono inferiori alla media generale, ovvero 66 ml di caglio per 357 litri di latte. La temperatura all’aggiunta del caglio si è mantenuta perfettamente costante in ogni lavorazione. Una volta aggiunto il caglio prende avvio il processo di coagulazione, mediamente sono trascorsi circa 42/43, minuti ma con una deviazione standard elevata, pari a 10,7. Nelle tre lavorazioni si è notato infatti una profonda variazione, passando da 30 minuti di durata per 430 l di latte, a 50 per 350 l, e 47 per 290 l. Ogni allevatore ha cercato di adattare quantità di caglio e tempi di sosta in funzione della propria sensazione e conoscenza, e non è possibile fare valutazioni dettagliate sulle conseguenze di queste scelte. Trascorsi i necessari minuti si procede con il primo taglio della cagliata. La temperatura del siero è sempre inferiore a quella del latte iniziale, ovviamente ad una coagulazione di maggior durata corrisponde un maggior abbassamento di temperatura. Questo taglio prevede una spaccatura della cagliata che interessa solo gli strati più superficiali. Ed è stata eseguita in tutte le malghe con lo stesso strumento, denominato in dialetto “Basgiòt” in rame o acciaio (figura 4.5).

Figura 4.5: Primo taglio con Basgina in Vaccaro.

Per il secondo taglio invece si utilizzano solitamente due strumenti in sequenza, il tris (conosciuto anche come spinetto o spino) e la rondella. Il primo è costituito da un

58 lungo manico che termina con una struttura tagliente in acciaio e ha la funzione di sminuzzare grossolanamente la cagliata; La rondella provvede ad uno sminuzzamento più accurato (per il formai de mut è prevista una frantumazione molto più fine rispetto alle formaggelle). La figura 4.2 ci ricorda però che prima di procedere con il secondo taglio è prevista una sosta da uno a cinque minuti mediamente, mentre tra gli alpeggi nel 2016 è stato della durata massima di un minuto. La sosta del coagulo determina infatti il grado di viscosità e la consistenza della cagliata. La rottura invece determina l’aumento della superficie che favorisce lo spurgo ed è indispensabile per la lavorazione di qualsiasi formaggio. Se si vuole una notevole perdita di siero, la cagliata viene tagliata a chicco di riso (come avviene normalmente per il formai de mut). La fase successiva è la cottura, ovvero l’ulteriore riscaldamento a coagulazione già avvenuta, questa determina la selezione dei microrganismi e il grado di spurgo della cagliata. Infine la sosta sotto siero determina un ulteriore spurgo della cagliata e l’aggregazione dei grumi caseosi. Lo spurgo della cagliata è favorito soprattutto dalla rottura, seguito dal riscaldamento (accentuato appena dopo lo spegnimento della fiamma, cioè la fase di sosta sotto siero) e infine dall’acidificazione, come evidenziato dalla relazione in figura 4.5.

Figura 4.5: Quantità di siero spurgato in funzione del tempo e di differenti fattori

59 Sfuggono alla fase di cottura i formaggi definiti a pasta cruda (vedi crescenza, taleggio, ), mentre distinguiamo a seconda dell’intensità della cottura:  Formaggi a pasta semicotta: temperatura portata al max a 48° (vedi fontina)  Formaggi a pasta cotta: temperatura tra 48° e 56° (vedi Grana)  Formaggi a : cagliata che prima è fatta maturare (acidificata) e poi portata in acqua calda a 80°-90° (vedi , ). Tempi e temperature della cottura in alpe Forcella non sono risultati costanti. Con la caseificazione del 19 luglio 2016 la cagliata è stata scaldata fino a raggiungere i 45°C, questo processo ha richiesto circa 39 minuti. Il 9 agosto invece si è scaldato fino a 42°C ed il tempo richiesto è risultato inferiore, circa 31 minuti, poiché è stata minore la quantità di latte da riscaldare e la temperatura raggiunta. Il rilievo del 2 settembre invece ha registrato una temperatura di 40°C in 17,4 minuti. Mediamente dunque per poco più di 350 kg di latte la temperatura si è innalzata fino a 42,3°C in mezzora di tempo. Nel tentativo di uniformare le produzioni casearie, questi valori di tempi e temperature andrebbero ravvicinati tra i produttori e nei diversi momenti della stagione di alpeggio. Con la cottura, la cagliata precipita sul fondo della caldaia, viene leggermente pressata e lasciata a riposare nel siero per qualche minuto. I dati rilevati in alpeggio indicano che è avvenuta una sosta da un minimo di 13 minuti ad un massimo di 20 minuti, con una media quindi di 15,7 minuti. Con la sosta è inevitabile che la temperatura del siero diminuisca, poiché una volta raggiunta la temperatura massima di cottura si cessa di scaldare. Di media la temperatura si è abbassata di 2,3°C. Per agevolare le operazioni di estrazione si procede con il terzo taglio, in malga Forcella è stato utilizzato il filo. La cagliata viene dunque suddivisa in più porzioni che ad una ad una vengono estratte e messe in posa nelle fascere. L’estrazione, cosi come la pressatura avvengono manualmente.

60 Figura 4.6: Fase di spurgo dopo la messa in fascera, malga Forcella.

Una volta che il formaggio, con l’aiuto di continui rivoltamenti (4/5 all’ora e dopo le prime quattro ore solo una volta), ha spurgato tutto il siero, viene salato e riposto nel locale attiguo, adibito alla stagionatura. Il locale offre una temperatura ottimale di 7°C che si mantiene perfettamente per tutta la durata della stagione. Le formaggelle vengono fatte stagionare per circa 12 giorni in malga (figura 4.7), vengono poi trasferite nelle celle frigorifere a fondovalle, di proprietà del malgaro per essere vendute.

Figura 4.7: Locale stagionatura, malga Forcella.

61 La tabella 4.3 mostra i risultati principali delle caseificazioni in alpe Vaccaro, e i dati sono relativi a tre lavorazioni differenti, stracchino, formai de mut e formaggelle.

Tabella 4.3: Schede di lavorazione compilate per alpeggio Vaccaro. Vaccaro stracchino formai de mut formaggelle date rilievi 04-lug 19-lug 28-lug media dev.STD temperatura ambiente °C 12 13 22 15.7 5.51 quantità di latte in caldaia L 300 260 240 267 30.6 n° vacche munte 35 35 33 34.3 1.15 latte prodotto L/vacca 8.6 7.4 7.3 7.76 0.71 temperatura all'aggiunta del caglio °C 32 38 36 35.3 3.06 quantità del caglio ml 100 120 100 107 11.5 durata coagulazione min 20 26 20.2 22.1 3.41 temperatura siero °C 32 36 33 33.7 2.08 tempo di sosta min 1 1 1 1 0 cottura °C 37 45 40 40.7 4.04 min 8 32 16.0 18.7 12.2 temperatura siero °C 36.5 43 38 39.2 3.40 durata riposo min 6.50 30 4.39 13.6 14.2 stagionatura °C 9 9 9 9 0 d 1 180 15 65.3 99.6

Rispetto a malga Forcella la temperatura media ambientale è risultata superiore di due gradi, ed essendo alpeggi contigui, questo è dovuto principalmente alla maggiore esposizione solare della seconda baita. La temperatura prevista nel momento di aggiunta del caglio è variata nelle tre caseificazioni: si è passati da una temperatura di 32°C per lo stracchino, a 36° per la lavorazione della formaggella (un grado in meno rispetto a Forcella) e 38°C per il formaggio di monte. Mediamente il caglio è stato aggiunto alla temperatura di 35,3°C. Anche in questo caso, come nel precedente, la quantità di caglio aggiunta non è stata sempre la stessa e non viene calcolata in proporzione alla quantità di latte presente in caldaia. Mediamente sono stati utilizzati 107 ml di caglio per 267 litri di latte. Anche la durata della coagulazione, che precede il primo taglio non è omogenea come nel caso precedente. Sono infatti trascorsi 20 minuti per 300 l di latte, 26 minuti per 260 l e infine 20,2 per 240 l. Il taglio superficiale è stato effettuato sempre con la ‘basgina’, si lascia in sosta sempre per un minuto e poi si procede al secondo taglio. Nell’alpeggio Vaccaro si utilizza solo il tris come strumento, la rondella non viene mai utilizzata.

62 Figura 4.8: Secondo taglio con tris, malga Vaccaro.

La tabella 4.3 riporta i gradi di cottura realizzati per ciascuna lavorazione, e si nota come per lo stracchino le temperature sono state inferiori rispetto alla lavorazione di formaggelle e ancor di più rispetto a quelle del formaggio di monte. Lo stracchino ha raggiunto la temperatura di 37°C, le formaggelle sono state portate a 40°C e il formaggio di monte a 45°C, rispettivamente in 8 minuti, 16 minuti e 32 minuti. Dopo la cottura la cagliata precipita e viene fatta sostare nel siero per 6 minuti e mezzo per lo stracchino, 4,39 minuti per le formaggelle e ben 30 minuti per il formaggio di monte. Confrontando con malga Forcella notiamo che se prima le formaggelle sostavano mediamente 15,7 minuti, con la caseificazione in Vaccaro del 28 luglio vi è stata una differenza di circa 10 minuti. Il terzo taglio se necessario viene svolto con l’ausilio di un filo, altrimenti tutta l’operazione, estrazione compresa, avviene manualmente. I rivoltamenti delle formaggelle sono stati 2 subito dopo l'estrazione, uno dopo mezz'ora e poi uno ogni ora. La stagionatura avviene anche qui in un ambiente consono, dove la temperatura si mantiene costante a 9°C. I giorni di stagionatura sono variati moltissimo in base ai

63 prodotti, lo stracchino viene consegnato fresco, la formaggella stagiona almeno per 15 giorni e il formaggio di monte richiede minimo sei mesi per essere venduto.

I dati dell’alpeggio Grem sono riassunti nella tabella 4.4.

Tabella 4.4: Schede di lavorazione compilate per alpeggio Grem. Grem formaggelle date rilievi 02-ago 08-ago 26-ago media dev.STD temperatura ambiente °C 14 13 20 15.7 3.79 quantità di latte in caldaia L 90 95 90 91.7 2.9 n° vacche munte 15 16 17 16.0 1.00 latte prodotto L/vacca 6.0 5.9 5.3 5.74 0.39 temperatura all'aggiunta del caglio °C 37 37.5 37 37.2 0.29 quantità del caglio ml 20.5 20.5 30.5 23.8 5.77 durata coagulazione min 44.4 32.5 51.2 42.7 9.46 temperatura siero °C 32.5 32.5 33 32.7 0.29 tempo di sosta min 2.42 4.5 6 4.31 1.80 cottura °C 40 40.5 38 39.5 1.32 min 12.5 13.6 12.5 12.8 0.62 temperatura siero °C 38.5 38 37 37.8 0.76 durata riposo min 6.57 5.38 8.45 6.80 1.55 stagionatura °C 14 12 13 13.0 1.00 d 10 10 10 10.0 0.00

La temperatura media ambientale è risultata simile a quella registrata in Vaccaro. La temperatura del latte al momento dell’aggiunta del caglio si è mantenuta molto costante (a 37°), con una deviazione standard di solo 0,29. La quantità di caglio liquido non è stato molto preciso, e mediamente sono stati aggiunti 23,8 ml per 92 litri di latte. Anche la durata della coagulazione è variata di molto: l’8 agosto sono stati necessari 32,5 minuti prima di procedere con il taglio superficiale, il 2 agosto 44,4 e il 26 agosto 51,2. Questi dati forniscono una media di durata della coagulazione pari a 42,7 minuti con una deviazione standard di circa 10 minuti. Queste variazioni sono indicatori di una certa difformità di lavorazione. Tra il primo ed il secondo taglio, rispetto alle precedenti lavorazioni analizzate, è trascorso più di un minuto, mediamente 4,31 minuti. Come in malga Forcella anche qui per il secondo taglio si sono adoperati entrambi gli strumenti, tris e rondella.

64 Il binomio tempo-temperatura nella fase di cottura della cagliata non si è presentato eccessivamente differente nelle tre lavorazioni, mediamente per 92 l di latte si sono raggiunti circa i 40° C in 13 minuti. La cagliata formata e precipitata sul fondo della caldaia è restata immersa nel siero mediamente per 7 minuti circa, poco più della malga Vaccaro e esattamente la metà di Forcella. A questo punto si procede all’estrazione tramite l’ausilio di un pannello di lino. Una volta riposta la cagliata all’interno di una bacinella in acciaio, avviene il terzo taglio che diversamente da tutti gli altri avviene per mezzo di un coltello come ci mostra la figura 4.9.

Figura 4.9: Estrazione e taglio della cagliata per la messa in fascera, malga Grem.

I rivoltamenti sono due subito dopo l'estrazione della cagliata, dopo mezzora e dopo un’ora. Le forme vengono riposte in un locale per la stagionatura per almeno dieci giorni. La temperatura di questo ambiente è risultata maggiore rispetto ai precedenti, con 13°C di media stagionale.

65 Infine, i dati dell’alpeggio Golla sono riportati nella tabella 4.5.

Tabella 4.5 Schede di lavorazione compilate per alpeggio Golla. Golla formaggelle date rilievi 21-lug 25-lug 29-lug media dev.STD temperatura ambiente °C 17 19 18 18.0 1.00 quantità di latte in caldaia L 180 175 160 172 10.4 n° vacche munte 25 25 25 25.0 0.00 latte prodotto L/vacca 7.2 7 6.4 6.9 0.42 temperatura all'aggiunta del caglio °C 36 36 36 36.0 0.00 quantità del caglio ml 60 30 25 38.3 18.9 durata coagulazione min 41.3 43.4 44.6 43.1 1.65 temperatura siero °C 32 34 33 33.0 1.00 tempo di sosta min 7.3 7.32 4.37 6.3 1.70 cottura °C 40 40.5 40.5 40.3 0.29 min 10 14.0 12.4 12.1 2.02 temperatura siero °C 37 37 39 37.7 1.15 durata riposo min 13.3 12.6 14.4 13.4 0.91 stagionatura °C 10 10 11 10.3 0.58 d 10 10 10 10.0 0.0

Tra tutti gli alpeggi analizzati Golla ha avuto ambienti molto più caldi, con una temperatura media stagionale di 18°C. La caseificazione è iniziata costantemente a 36°C con l’aggiunta del caglio, e le quantità sono variate in relazione ai quantitativi di latte presente in caldaia. Con 180 l vengono impiegati 60 ml di caglio, con 175 l si adoperano 30 ml di caglio e per 160 l sono previsti 25 ml. In media a 172 l di latte corrispondono 38 ml di caglio. I dati medi riportano una durata della coagulazione pari a 43 minuti, guardando ai singoli rilievi si nota come per quantitativi maggiori di latte la durata è inferiore, infatti si è passati da 41,3 minuti (per 180 l di latte), a 43,4 (per 175 l) a 44,6 (per 160 l), probabilmente influenzato dalla quantità di caglio che invece è stata proporzionalmente minore all’aumento della quantità di latte. Anche la temperatura del serio è calata in modo particolare, indipendentemente dal tempo trascorso per la coagulazione. Mediamente è calata di 3 °C ma con una deviazione standard di 1 °C. Anche qui, terminata la coagulazione si procede al primo taglio, si utilizza uno strumento che per la funzione svolta è molto simile alla basgina, presenta dei fori e viene chiamato ‘cazzuola’ (figura 4.10).

66 Figura 4.10: Strumenti del casaro, malga Golla.

Dopo il primo taglio, sono previsti dei minuti di sosta: nelle prime due lavorazioni si è mantenuto un tempo di 7,30 minuti, per la terza caseificazione invece la sosta è durata circa 4,37 minuti. Il secondo taglio si effettua anche qui, come in Vaccaro solo con l’ausilio del tris. Poi si procede con la cottura della cagliata che prevede il raggiungimento di una temperatura pari a 40°C, con minime differenze nelle tre lavorazioni. La particolarità di questo alpeggio sta nella modalità di riscaldamento del latte, in tutte le altre malghe infatti, il locale del caseificio è dotato di bombola a gas, qui invece si utilizza ancora il fuoco a legna. Per raggiungere la temperatura stabilita il latte ha impiegato tempi differenti e non si è individuata una corrispondenza con i quantitativi contenuti in caldaia. I 180 l della prima lavorazione hanno impiegato 10 minuti per riscaldarsi adeguatamente, con 175 l il tempo richiesto sale a 14 e con 160 l sono necessari 12,4 minuti.

67 Una volta che si è formato il coagulo e che si deposita sul fondo la sosta prevista mediamente è stata di 13,4 minuti. Dopo di che non è previsto un terzo taglio ma si procede manualmente all’estrazione e alla messa in fascera. Le forme vengono rivoltate per le prime due ore, due volte all'ora, poi solo una. E successivamente riposte nel locale di stagionatura, dove la temperatura è rimasta abbastanza costante a 10°C. Solo dopo un minimo di 10 giorni di stagionatura le formaggelle sono state pronte per la vendita. Numerose sono dunque le differenze individuate nel processo di caseificazione dei diversi alpeggi. Alcune di queste saranno risolte solo dopo una ricerca eseguita da tecnici esperti, è il caso ad esempio della tipologia e quantità di caglio da impiegare per massimizzare la resa evitando sprechi. Altri interventi invece potrebbero essere semplici ed immediati, come l’uniformare le strumentazioni utilizzate dai casari, i tempi di sosta, i rivoltamenti delle forme e la temperatura del latte al momento dell’aggiunta del caglio che varia tra 36°C e 37°C. Per quanto riguarda la temperatura di cottura, nel caso delle formaggelle, tutti gli alpeggi hanno lavorato a circa 40°C, anche se emerge la necessità di essere più precisi e quindi misurare sempre la temperatura raggiunte. Infine anche i locali per la stagionatura non consentono, per via dei differenti climi, l’adeguata omogeneità che dovrebbe invece essere richiesta.

4.3 l’alimentazione delle bovine al pascolo

Nei quattro alpeggi interessati dell’attività del tirocinio è stata svolta un’indagine anche riguardo l’alimentazione delle bovine al pascolo. Attraverso il questionario compilato da ciascun allevatore e la ricerca di dati derivanti da studi pregressi, soprattutto riguardanti la razza bovina monticata, tipologia e quantità di integrazione e valore nutritivo del pascolo, è stato possibile estrapolare informazioni utili alla valutazione della razione media delle bovine in alpeggio. Il parametro relativo alla qualità dei pascoli è stato ricavato dalle determinazioni florisitiche effettuate nel 2016 (Zanoli, 2017). È bene ricordare che i pascoli non sono tutti uguali e ciascuno differisce dagli altri per quantità e qualità del foraggio prodotto.

68 Tali differenze sono principalmente dovute alle diverse condizioni ambientali ed edafiche. Sia la resa che la qualità sono elevate in presenza di climi temperati, precipitazioni regolari e abbondanti e suoli profondi, ben strutturati, ricchi di acqua e nutrienti (Gusmeroli, 2012). Quantità e qualità però non variano solo tra un pascolo e un altro, ma anche nel corso del tempo all’interno di un singolo pascolo. Ciò è dovuto al ciclo di crescita e sviluppo del cotico erboso. Osservando la figura 4.11 si nota come la resa aumenti gradualmente a partire dalla ripresa vegetativa, mentre la qualità diminuisce.

Figura 4.11: Variazione quanti-qualitativa di un pascolo nel tempo. (Gusmeroli, 2012).

Il peggioramento qualitativo è dovuto principalmente al fatto che con la crescita del fusto il foraggio tende ad accumulare lignina, che aumenta l’ingombro e dunque riduce la digeribilità. Per questo motivo è da considerarsi vincente la scelta di chi utilizza il pascolo nei primi periodi dopo la ripresa vegetativa. Detto ciò resta comunque la necessità di una valutazione precisa della qualità di un pascolo che può essere effettuata solo tramite analisi chimiche o biologiche di laboratorio. Queste analisi sono molto dispendiose e per di più forniscono informazioni relative esclusivamente ai campioni nel momento in cui vengono raccolti. L’alternativa

69 da preferire è quindi l’utilizzo di indici di valore pastorale, che sono meno precisi ma più semplici e soprattutto in grado di fornire dati più stabili nel tempo (Tagliabue, 2007). Vari autori si sono cimentati nella realizzazione di indici, che risultano però tra loro disomogenei. Ciò a causa dei diversi criteri con i quali sono stati stabiliti, delle diverse scale di misurazione adottate, del diverso significato espresso e della diversa specie animale di riferimento (Gusmeroli, 2012; Tagliabue, 2007). Nel nostro caso di studio sono stati calcolati il Valore Pastorale secondo le indicacazioni di Cavallero (VPc) che misura la qualità foraggera complessiva dei pascoli per bovini, oltre al Valore Pastorale proposto da Gusmeroli (VPg) e l’indice di Shannon (H) che misurano rispettivamente il valore pastorale per caprini e il grado di biodiversità e quindi il valore ecologico. I due VP hanno un range teorico da 0 a 100, mentre l’indice di Shannon può arrivare all’infinto e più è elevato e più la biodiversità aumenta.

 Forcella L’alpeggio Forcella è stato campionato attraverso 10 rilievi, dal 24 luglio al 26 agosto 2016. Sull’alpeggio sono state rilevate 58 specie più importanti. Le Graminacee costituiscono la famiglia predominante, seppur non in maniera schiacciante, con una percentuale di copertura media del 54,1 %. Le Leguminose presentano, invece, una scarsa copertura pari al 5,3 % medio, infine, le altre specie costituiscono il restante 40,6 %. Tra le Graminacee, Deschampsia caespitosa è sicuramente la più presente poiché è stata rilevata dieci volte su dieci con una presenza media pari al 16,6 %, a seguire troviamo Agrostis tenuis con 11,1 % ed infine il genere Carex, rilevato otto volte su dieci con una percentuale media di 7,9 %. Tra le leguminose predomina il Trifolium pratense rilevato otto volte su dieci con una presenza media del 5,4%. È stata poi rilevata una forte presenza di Rhinantus (14,4%), Centaurea nervosa (8,0%), Hypericum maculatum (4,5%), e del genere Alchemilla (4,4%).

70

Tabella 4.6: Dati medi per l’alpeggio Forcella. Alpeggio Forcella MEDIA dev.STD VPc 28,58 10,07 VPg 36,65 10,31 H 2,38 0,36

Il valore pastorale per i bovini (tabella 4.6) è risultato essere basso con un VPc=28,58, migliore, invece, per i caprini con un VPg=36,65. La buona uniformità nella distribuzione della copertura percentuale tra le specie fa sì che l’alpeggio Forcella presenti una biodiversità abbastanza buona, con un indice di Shannon pari a 2,38.

 Vaccaro Sull’alpeggio Vaccaro sono stati condotti dieci rilievi dal 24 luglio al 28 agosto 2016. Sono state in totale rilevate 57 specie tra le più importanti. La famiglia delle Graminacee, in questo alpeggio, è risultata fortemente preponderante con una percentuale di copertura media superiore al 65 % e con punte del 90 %. In particolare si è evidenziata una fortissima presenza di Deschampsia caespitosa, rilevata in tutti e 10 i rilievi e con una copertura percentuale media del 25,6 %, accompagnata da Agrostis tenuis (18,0 %) e Phleum alpinum che è stato individuato 9 volte su 10 con percentuale media del 4,3 %. Le Leguminose sono state rilevate in tutti i campionamenti e con una discreta copertura percentuale media pari a 5,3 %, presente prevalentemente il Trifolium pratense (4,3%). Tra le altre specie (29,3 % di copertura) si segnala una significativa presenza di Rhinantus (10,8%), Prunella vulgaris (5,2%) e Centaurea nigrescens (5%).

Tabella 4.7: Dati medi per l’alpeggio Vaccaro. Alpeggio Vaccaro MEDIA dev.STD VPc 33,76 6,35 VPg 44,53 7,38 H 2,04 0,52

71 Per quanto concerne la qualità pastorale, facendo riferimento alla tabella 4.7, l’alpeggio si è assestato su un VPc medio basso, pari a 33,76, mentre il VPg è risultato decisamente migliore con un punteggio medio di 44,5. Questa differenza può essere causata dalla sopracitata abbondanza di Deschampsia caespitosa che è discretamente appetita dai caprini, ma quasi del tutto rifiutata dai bovini. A livello di biodiversità l’indice di Shannon è risultata pari a 2,04 con una deviazione standard di 0,52.

 Grem Sull’alpeggio di Grem sono stati effettuati 17 rilievi a partire dal 2 agosto fino al 12 settembre 2016. Sono state rilevate ben 109 specie. Le Graminacee hanno mostrato ancora la loro prevalenza con una copertura percentuale media del 56 %, scarso invece l’apporto delle Leguminose che si assestano a un 3,2 % di copertura. Le altre specie invece hanno mostrato una presenza pari al 40,8%. Tra le singole specie nessuna è stata riscontrata in tutti 17 i rilievi, quelle più frequenti e con una copertura percentuale degna di nota sono state: Agrostis tenuis (11/17, 8,1 %), Dactylis glomerata (9/17, 16,6 %) e le festuche (9/17, 11,9 %). Sono emerse però notevoli differenze nella composizione floristica all’interno delle diverse zone campionate, in particolare, la qualità dei pascoli è calata sensibilmente salendo di quota.

Tabella 4.8: Dati medi per l’alpeggio Grem. Alpeggio Grem MEDIA dev.STD VPc 33,16 18,09 VPg 40,35 14,76 H 2,19 0,40

La tabella 4.8 mostra i dati di valore pastorale che mostrano deviazioni standard molto elevate, sintomo di una forte disomogeneità. Il valore VPc si presenta identico a quello calcolato per l’alpeggio Vaccaro, leggermente superiore alla malga Forcella.

72  Golla Sull’alpeggio di Golla sono stati effettuati 21 rilievi in un arco temporale che va dal 21 luglio all’11 Settembre 2016. L’elevata superficie occupata e il consistente numero di rilievi hanno fatto sì che siano state rilevate ben 88 specie. La famiglia delle Graminacee, anche qui è risultata prevalente con una media di copertura percentuale del 57,6 %; al suo interno le specie preponderanti sono risultate essere Agrostis tenuis (9,4 %) presente in 19 rilievi su 21, Deschampsia caespitosa (14/21, 9 %), Carex (10/21, 21 %), Dactylis glomerata (12/21, 14,4 %) e le varie festuche (13/21,10,7 %). La famiglia delle leguminose, seppur presente in tutti i rilievi, si è attestata su percentuali medio basse (3,1%) e ha ricevuto un contributo consistente da Trifolium pratense (16/21, 3,1%). Per quanto riguarda le altre specie, si è rilevata una copertura del 39,3% e si segnalano per buona numerosità Achillea millefolium (15/21, 2,4 %), Centaurea nigrescens (16/21, 6,4 %) e Ranunculus acris (14/21, 4,2 %). Dal punto di vista pastorale l’alpeggio è risultato possedere, nel suo complesso (Tabella 4.9), un punteggio medio basso per i bovini (VPc=35,91) e leggermente più elevato per i caprini (VPg=39,76).

Tabella 4.9: Dati medi per l’alpeggio Golla. Alpeggio Golla MEDIA dev.STD VPc 35,91 11,10 VPg 39,76 10,87 H 2,24 0,42

Tra i quattro alpeggi è sicuramente quello che ha riportato un valore pastorale superiore, mentre dal punto di vista della biodiversità invece, l’indice di Shannon medio tra i rilievi è risultato pari a 2,24, di poco inferiore alla malga Forcella.

Gli indici VP di Cavallero stimati per ciascun alpeggio sono stati utilizzati all’interno del programma CPM-dairy per ipotizzare un corretto quantitativo di ingestione di erba al pascolo.

73 Nel programma sono stati inseriti anche i dati relativi alla quantità e tipologia di concentrato somministrato, dal momento che la dieta della bovina negli alpeggi è la risultante del connubio tra pascolo e mangime. La tabella 4.10 riassume e permette un confronto diretto tra gli alpeggi in merito all’integrazione prevista e alle relative produzioni di latte.

Tabella 4.10: Correlazione tra produttività e integrazione. Integrazione (kg) Produzione unitaria latte (L) produzione media FORCELLA 4 9.8 9.7 9.4 9.6 VACCARO 3.5 8.6 7.4 7.3 7.8 GREM 3 6 5.9 5.3 5.7 GOLLA 2 7.2 7 6.4 6.9

E’ facile intuire come in linea di massima, ad una maggior integrazione corrisponda una maggiore produzione. Ovviamente non è propriamente corretto non considerare anche altri fattori, come appunto il valore pastorale o la tipologia di razza bovina, ma la figura 4.12 mostra una linearità tra integrazione e produzione.

Figura 4.12: Ipotesi di linearità nella relazione tra produttività e integrazione.

74 Con il programma CPM-dairy ed i dati raccolti nel periodo del tirocinio è stato possibile stimare la ipotetica razione quotidianamente ingerita o a disposizione delle bovine, e quindi il relativo bilancio energetico e proteico per ciascuno dei quattro alpeggi. La tabella 4.11 riporta quanto è stato realizzato per la malga Forcella.

Tabella 4.11: stima della razione alimentare con CPM-dairy, baita Forcella.

75

La razione è stata formulata per una bovina Bruna e in questo caso abbiamo considerato una Bruna Originale (Original Braunvieh) dal momento che, come dichiarato dall’allevatore nel questionario, la totalità delle bovine appartengono a questa razza. Per questo motivo è stato stimato un peso medio di 600 kg/capo, un BCS (misura della Condizione Corporea) pari a 3 (in una scala da 1 a 5) ed una crescita corporea molto bassa e pari a di 0,05 kg/d. La produzione di latte media per capo è stata imposta come dai dati rilevati in stalla e pari a 9,6 kg/d, mentre le percentuali di grasso e proteine sono state ipotizzate rispettivamente a 4,2% e 3,7%. Avendo imposto quindi alcuni dati relativi alla tipologia di animale e alla sua spesa energetica per produzione e mantenimento, viene calcolato e proposto dal programma un fabbisogno di ingestione di sostanza secca pari a 14,1 kg/d. Per quanto riguarda la razione: l’integrazione fornita alle bovine è stata pari a 4 kg di mangime al giorno per capo, prevalentemente costituito da germe e farine di mais (97%). Il pascolo invece è stato valutato con un indice di Cavallero pari a 28,6. Dunque, per far sì che l’ingestione di sostanza secca reale sia pari a quella ideale (14,1 kg/d) le bovine devono aver assunto dal pascolo circa 10,3 kg/d di sostanza secca. Il programma calcola quindi il bilancio energetico (ME) della bovina, che nel caso di Forcella si presenta praticamente nullo, con un valore di 0,1 MJ/d. Quindi in realtà l’animale avrebbe bisogno di ingerire più sostanza secca o trovare pascolo o integrazioni più energetiche, infatti il sistema CNCPS su cui si basa il programma CPM Dairy auspica un bilancio energetico positivo del 5-10 % del fabbisogno totale (pari a circa 6-12 MJ/d su 130 MJ/d di fabbisogno totale). Per quanto riguarda le proteine metabolizzabili (MP) il bilancio giornaliero è risultato di 72 g, quindi leggermente in eccesso, la razione sopperisce abbastanza alle richieste proteiche dell’animale e questo può essere uno svantaggio. Se l’allevatore riesce ad arrivare a 3,70 % di proteine nel latte significa che da quel punto di vista la razione sembrerebbe abbastanza vicina all’ottimale, ma se il valore proteico del latte fosse più basso allora potremmo indicare che tale sbilancio possa essere perso sotto forma di urea nel latte. La razione andrebbe rivalutata magari optando per alimenti più energetici e meno proteici.

76 E’ possibile anche effettuare una breve analisi economica: supponendo un prezzo di vendita pari a 10 €/kg per i formaggi prodotti e quindi con una resa del 10 %, si stima un prezzo del latte pari a 1 €/kg di latte, e considerando i costi per l’alimentazione, si ottiene un valore di IOFC pari a 7,92 €/d. Dove l’IOFC è il reddito al netto delle spese di alimentazione, che l’allevatore riceve da ogni vacca al giorno. Ciò che modifica maggiormente questo valore è il prezzo del mangime, che nel nostro caso di studio viene proposto a 400 €/t, mentre per via dell’ammontare basso degli affitti delle malghe la cifra spesa per il pascolo è considerata pari a 0,1 €/t di erba di pascolo. Dato molto interessante è quello relativo all’energia netta latte (NEl), la razione proposta dall’allevatore offre alla bovina 5,3 MJ/kg SS. Questo valore può essere espresso in UFL (Unità Foraggere Latte) e quindi pari a 0,83 UFL/kg SS. Per quanto riguarda gli altri parametri nutritivi, possiamo notare dalla Tabella 4.11, che la razione avrebbe una concentrazione in proteine grezze (CP) pari all’ 11,7 % e quindi un po’ bassa e avrebbe il 36,8 % di proteine indegradabili a livello ruminale (RUP) in percentuale sulle proteine totali. Per quanto riguarda le frazioni fibrose, la razione avrebbe una NDF pari al 55,4 % SS e una ADF pari al 29,5 % SS.

I valori relativi alla malga Vaccaro sono riportati nella tabella 4.12 che segue. La baita Vaccaro presenta una maggior percentuale di bovine di razza Pezzata Rossa. Infatti, il 57% degli animali monticati appartiene a questa razza, il 15% sono invece Frisone e il 28% Brune. Il peso medio dell’animale è per questo motivo di 20 kg superiori alle precedenti Brune Originali. La crescita è sempre bassa e pari a 0,05 kg/d, così come il BCS pari a 3. La produzione di 7,8 kg/d determina come la quantità media di latte prodotto per vacca sia inferiore rispetto a quello della malga Forcella di 1,8 kg/d. Nell’elaborazione dei seguenti dati è stato imposto al programma di mantenere costante, per tutti i quattro alpeggi, il contenuto percentuale di grasso e proteine, in questo modo sarà dunque possibile e considerato valido fare confronti tra i dati.

77 Tabella 4.12: stima della razione alimentare con CPM-dairy, baita Vaccaro.

78

Da quanto dichiarato dall’allevatore sappiamo che per l’integrazione sono stati somministrati 3,5 kg/d di mangime. La composizione di questo alimento era abbastanza complessa ma principalmente vi troviamo: farina di mais (1,5 kg), crusca di frumento (0,75 kg) e semi di soia (0,75 kg). Il pascolo è valutato anche qui mediante l’indice di Cavallero che risultava pari a 33,76, questo valore indica che questo pascolo è migliore del precedente in termini di valore foraggero. Considerando la tipologia di animale allevato e la sua produzione media, quindi lo sforzo richiesto, il programma stima un fabbisogno di ingestione di sostanza secca pari a 13,9 kg/d. Per far sì che l’ingestione effettiva sia pari a quella stimata, tolti i 3,5 kg del mangime la bovina potrebbe assumere tramite pascolamento circa 10,9 kg/d di sostanza secca. Il bilancio energetico (ME) anche in questo caso è risultato leggermente positivo e pari a 1,1 MJ/d, mentre, il bilancio proteico (MP) è sbilanciato ed indica un eccesso di proteine di 141,7 g. In funzione di ciò è vivamente consigliabile una sostituzione dell’alimento integrativo usato con un’alternativa anche qui meno proteica e possibilmente più energetica. Il conto economico è stato stimato con un IOFC pari a 6,44 €/d per capo, ciò significa che una sola bovina, tolto i costi per il mantenimento (mangime e pascolo) produrrebbe un reddito inferiore di 1,48 €/d rispetto a malga Forcella. L’energia netta latte (NEl) è stimata pari a 5,77 MJ/kg SS, questa è la quantità di energia resa disponibile dalla razione per l’animale e per la sua produzione lattifera, che può essere espressa in UFL pari a 0,83 UFL/kg SS. Gli ultimi dati riportati dalla tabella 4.12 indicano un contenuto in proteine grezze (CP) pari a 12,37 %, leggermente superiore rispetto al valore relativo all’alpeggio Forcella ma comunque basso. Il 32,43% sono invece le proteine indegradabili a livello ruminale (RUP). Per quanto riguarda le frazioni fibrose, la razione avrebbe una NDF pari al 55,1 % SS e una ADF pari al 30,8 % SS.

Nella tabella 4.13 troviamo invece i valori per l’alpeggio Grem.

79 Tabella 4.13: stima della razione alimentare con CPM-dairy, baita Grem.

Nell’alpeggio Grem le bovine monticate appartengono per l’80% alla razza Bruna, il restante 20% è di razza Pezzata Rossa. A differenza dei precedenti casi analizzati infatti, il peso medio stimato per capo è maggiore e pari a 630 kg con un tasso di crescita invece leggermente inferiore di 0,02 kg/d.

80 La quantità media di latte prodotto per capo è stata pari a 5,8 kg/d, valore molto al di sotto dell’alpe Forcella e Vaccaro, rispettivamente di 3,8 kg e 2 kg. Il motivo di questo notevole calo potrebbe essere dovuto alla scelta poco corretta di alpeggiare con animali di notevole merito genetico. Questa pratica va difatti sconsigliata in quanto le esigenze in termini di alimentazione aumentano notevolmente rispetto a bovine appartenenti a razze più rustiche. La soluzione dunque potrebbe essere quella di sostituire le bovine, oppure, di aumentare notevolmente la quantità di concentrato da somministrare. Dunque è bene non dimenticarsi di tutti gli aspetti negativi sull’eccessivo ricorso all’integrazione spiegati nell’introduzione. Agli animali veniva somministrato giornalmente un quantitativo di concentrato pari a 2,5 kg. L’alimento utilizzato è costituito da: farina di mais, semi di soia e farina di estrazione di girasole. Le caratteristiche dell’ambiente pascolivo invece sono rappresentate sempre dall’indice di Cavallero che, per questa malga è lo stesso del precedente alpeggio Vaccaro, ovvero 33. Per sopperire alle richieste nutrizionali calcolate dal CMP dairy abbiamo ipotizzato un’ingestione di sostanza secca al pascolo corrispondente a 10,8 kg/d. Analogamente ai precedenti alpeggi anche qui il bilancio energetico (ME) e quello proteico (MP) non riportano una situazione ottimale. Con un valore di 292,2 g le proteine metabolizzabili sono assolutamente oltremisura, mentre per l’energia, 4,1 MJ è un valore discreto, che rispetto a Forcella e Vaccaro si avvicina maggiormente al 5%, ovvero a quanto è minimamente previsto come ottimale dal programma. Il conto economico è stato stimato con un IOFC pari a 4,6 €/d per capo. Anche questo valore si discosta abbastanza dai precedenti. L’energia netta latte (NEl) fornita da un kg di sostanza secca corrisponde a 5,67 MJ, che in UFL sono pari a 0,80 UFL/kg SS, questo dato si mantiene pressappoco identico ai precedenti alpeggi. Gli ultimi dati riportati dalla tabella 4.13 indicano un contenuto in proteine grezze (CP) pari a 15,9 %, superiore rispetto al valore relativo all’alpeggio Forcella alla malga Vaccaro e Golla. Il 32,1 % sono invece le proteine indegradabili a livello ruminale (RUP). Per quanto riguarda le frazioni fibrose, la razione avrebbe una NDF pari al 54,0 % SS e una ADF pari al 31,2 % SS.

81 L’ultimo alpeggio è Golla, i dati ricavati dalle elaborazioni sono illustrati nella tabella 4.14.

Tabella 4.14: stima della razione alimentare con CPM-dairy, baita Golla.

82 Anche nella malga Golla la quasi totalità delle bovine presenti sono di razza Bruna, per cui è stato impostato un peso di 630 kg ed una crescita giornaliera nulla. La quantità media di latte prodotto è pari a 6,9 kg/d per capo, e come in tutti i casi è stata prevista una percentuale di grasso e proteine rispettivamente di 4,2% e 3,7%. Stando a quanto dichiarato dall’allevatore, la quantità di mangime destinata alle bovine è stata di circa 2 kg/d, inferiore rispetto agli altri alpeggi studiati. La scelta della tipologia di mangime è orientata verso un prodotto composto principalmente da farina di mais e cruschello di frumento nelle medesime percentuali, più un quantitativo di semola glutinata di mais. Interessante è l’indice di Cavallero calcolato e che risulta di 36. Questo significa che, tra tutti, il pascolo di Golla è sicuramente il migliore in termini di valore foraggero e quindi è da preferire in termini di qualità. Essendo a conoscenza delle esigenze della bovina, del valore pastorale e della quantità e tipologia di integrazione, si calcola un fabbisogno di ingestione di sostanza secca pari a 13,5 kg/d, per non andare in deficit si stima che la bovina assuma dal pascolo esattamente 11,8 kg/d sul secco. Il bilancio energetico riporta un valore di 5,6 MJ/d, volendo fare un confronto, è il valore più corretto ed ottimale tra quelli riscontrati nelle altre malghe. In tutti i casi di studio il bilancio non è mai stato negativo ma sono auspicabili valori superiori di circa un 5-10%. Anche per Golla però il livello di proteine metabolizzabili è nettamente superiore a quanto richiesto con un valore di 235 g, e dunque, crea sicuramente una situazione ruminale svantaggiosa. Sappiamo infatti che i batteri ruminali per crescere e fermentare hanno bisogno contemporaneamente di energia e proteine, uno scompenso in anche solo una componente non permette un regolare funzionamento nel tempo. Il conto economico è stato stimato con un IOFC pari a 5 €/d per capo. L’energia netta latte (NEl) fornita da un kg di sostanza secca corrisponde a 5,7 MJ, che in UFL sono 0,80 UFL/kg SS, esattamente lo stesso valore emerso per la baita Grem. Gli ultimi dati riportati dalla tabella 4.14 indicano un contenuto in proteine grezze (CP) pari a 12,6 %, pressappoco analogo all’alpeggio Forcella e Vaccaro. Il 33,8 % sono invece le proteine indegradabili a livello ruminale (RUP). Per quanto riguarda le

83 frazioni fibrose, la razione avrebbe una NDF pari al 55,8 % SS e una ADF pari al 30,0 % SS. Nella tabella 4.15 è proposto un riassunto dei dati elaborati, al fine di rendere immediato il confronto tra gli alpeggi.

Tabella 4.15 Differenze e analogie emerse dal CPM-dairy.

PARAMETRI Forcella Vaccaro Grem Golla razza bovina Bruna Originale Pezzata Rossa Bruna Bruna produzione media latte (L/capo/d) 9,6 7,8 5,8 6,9 indice di Cavallero 28,6 33,76 33 36 quantità integrazione (kg/d) 4 3 2.5 2 ingestione di S.S. totale richiesta (kg/d) 14,1 13,9 13,5 13,5 ingestione di S.S. dal pascolo (kg/d) 10,3 10,9 10,8 11,8 bilancio energetico, ME (MJ) 0,1 1,1 4,1 5,6 bilancio proteico, MP (g) 72 141,7 292,2 235 reddito al netto delle spese di alimentazione, IOFC (€/capo/d) 7,92 6,44 4,6 5 energia netta latte,NEL (MJ/kg SS) 5,93 5,77 5,67 5,7 unità foraggere latte, UFL (UFL/kg SS) 0,83 0,81 0,80 0,80 proteine grazze, CP (%) 11,66 12,37 15,87 12,6 proteine indegradabili a liv. ruminare, RUP (%) 36,78 32,43 32,07 33,75 fibra non degradabile, NDF (%/SS) 55,35 55,13 53,99 55,82 fibra acido detersa, ADF (%/SS) 29,46 30,79 31,24 29,96

84 5. CONCLUSIONI

In tutto l’arco alpino italiano si è assistito ad una netta riduzione del numero di allevamenti, soprattutto quelli di montagna. Le poche aziende che hanno saputo difendersi sono quelle che hanno deciso di lavorare in controtendenza, ricercando e valorizzando la qualità dei prodotti e non la quantità. Operare secondo questa filosofia è possibile per diversi motivi: storici, poiché da sempre le produzioni casearie più importanti e ricercate, riconosciute con marchi DOP e PAT, sono tipiche dei territori montani e culturali, grazie alla nuova forma-mentis del cittadino-consumatore che lo porta oggi alla ricerca di prodotti identitari, all’attenzione verso le tematiche ambientali, alla sicurezza alimentare ed al benessere animale. Infine anche i motivi socioeconomici possono contare, perché la gestione dell’ambiente montano tramite l’allevamento, offre la possibilità di mantenere e curare prati e pascoli in quota, prevenendo così scenari catastrofici (come frane e alluvioni) e regalando paesaggi migliori al turista.

Il progetto “ValOrobie-Alpeggi da vivere!” vuole offrire al territorio della val Dossana una nuova prospettiva di crescita partendo dalla promozione dei prodotti lattiero caseari delle quattro malghe presenti.

Il lavoro di ricerca ha permesso di individuare e descrivere quali siano le principali problematiche, di carattere zootecnico, degli alpeggi di Forcella, Vaccaro, Grem e Golla. Due sono le principali questioni emerse: l’eccessiva discrepanza tra gli alpeggi in termini di quantitativi di produzione e tecniche di caseificazione e l’inefficienza energetica delle razioni proposte alle bovine.

Il numero di bovine in lattazione per ogni alpeggio varia moltissimo, ovviamente questo si riflette sui quantitativi di latte e formaggi prodotti giornalmente e quindi sul reddito familiare, nonostante la resa dei quattro alpeggi sia praticamente identica.

Nell’estate 2016 è stata registrata una comune tendenza a ridurre i quantitativi di latte verso la fine dell’alpeggio, e le cause ipotizzate sono state l’entrata in asciutta delle bovine e l’inevitabile riduzione della qualità dei pascoli. Per far sì che anche in alpeggio la produzione di latte e formaggi resti quantitativamente il più costante possibile, gli

85 allevatori potrebbero studiare meglio la mandria da monticare predisponendo delle suddivisioni in gruppi di bovine gravide, all’inizio della lattazione, a metà e verso l’asciutta.

Il pascolo di ogni malga è stato campionato per ottenere un indice di valore pastorale (indice di Cavallero) che indica la qualità delle essenze presenti per i bovini. Per tutti i casi i valori calcolati sono scarsi, ma comunque migliorabili. Si potrebbe pensare a diverse soluzioni di miglioriamento del pascolo come l’aumento delle UBA/ha. In questo caso si impedirebbe al bestiame di operare la selezione delle erbe migliori, evitando che solo quelle scartate producano seme e quindi prevalendo nella stagione successiva. Lo sfalcio diretto invece difficilmente sarà attuabile, per via delle superfici impervie che non consentono o rendono troppo oneroso l’utilizzo delle macchine. Da ultimo, anche la raccolta del fiorume in zone di alto valore, da poter riutilizzare nelle trasemine, potrebbe contribuire a rendere migliore i pascoli della val Dossana negli anni successivi.

Le numerose lavorazioni seguite nelle diverse malghe hanno permesso la raccolta di numerosi dati e risultati che hanno dato indicazioni pratiche utili per il miglioramento. In particolare è necessario uniformare il più possibile il processo di caseificazione, sia all’interno del singolo alpeggio, sia tra gli alpeggi, al fine di istituire un marchio di produzione collettivo identificato in produzione più simili tra loro. Nello specifico, il futuro disciplinare, dovrà contenere informazioni restrittive riguardo a: strumenti di lavoro, tipologia e quantità di caglio, temperatura all’aggiunta del caglio, soste, temperatura di cottura, rivoltamenti. Nell’impossibilità di avere un locale stagionatura identico per ogni alpeggio, sarà auspicabile la costruzione di un locale stagionatura collettivo, meglio se a fondovalle, così da rendere più agevole anche la vendita diretta dei prodotti.

Attraverso l’utilizzo del programma CPM-dairy è emerso infine che le razioni somministrate dagli allevatori alle bovine sono tutte carenti di energia. Per preservare la tipicità del prodotto è sconsigliabile il tentativo di risolvere le carenze nutrizionali con un aumento della dose di concentrato, e quindi andrebbero considerate tutte le azioni volte al miglioramento del pascolo e possibilmente orientare la scelta verso mangimi non eccessivamente proteici.

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7. RIASSUNTO

Negli ultimi anni diversi sono stati i cambiamenti subiti dall’industria lattiero casearia in tutto l’arco alpino. In particolare, accanto a sistemi produttivi fortemente ancorati alla tradizione come l’utilizzo estivo dei pascoli in quota e l’allevamento di animali rustici ed adatti al territorio, si sono progressivamente imposti modelli intensivi, tipici degli ambienti di pianura. La risultante di questo processo è stata una forte riduzione del numero di allevamenti e una certa crescita della produzione per azienda, resa possibile dall’affermarsi di bovine con meriti genetici sempre maggiori. La rapidità con cui sistemi così fortemente slegati dal territorio abbiano contagiato i territori di montagna ha avuto importanti ripercussioni sulle superfici prative e pascolive che inevitabilmente vanno incontro ad abbandono, aumentando così il rischio di dissesto idrogeologico e la perdita dell’attrattività turistica. L’industrializzazione ha interessato anche la fase di trasformazione del latte, che può quindi costituire un rischio concreto di banalizzazione dei prodotti caseari di montagna. Per questo motivo diviene oggi sempre più importante tutelare e valorizzare le produzioni tipiche attraverso marchi di riconoscimento utili al cittadino-consumatore attento. Gli alpeggi della Val Dossana (Vaccaro, Forcella, Grem e Golla) in val Seriana (BG), presso cui è stato svolto il tirocinio nell’estate 2016, sono il fulcro del progetto intercomunale “ValOrobie – Alpeggi da vivere!”. L’obbiettivo è quello di aumentare l’offerta turistica e ricreativa di questi luoghi, partendo proprio dalla promozione dei prodotti lattiero-caseari delle malghe, in particolare del formaggio di montagna realizzato durante il periodo estivo di alpeggio. L’indagine zootecnica proposta è stata effettuata con l’intento di fornire ai responsabili del progetto uno strumento utile per il coordinamento degli interventi futuri sugli alpeggi. L’indagine ha previsto diverse uscite di monitoraggio sulla produz

90 caseificazione e alimentazione delle bovine. Queste difformità andranno necessariamente ridotte al fine di ottenere una produzione omogenea che potrà avvalersi successivamente di un marchio di produzione. È emerso che l’alpeggio Forcella ha prodotto in media le quantità maggiori di latte in quanto ha caricato l’alpe con un numero superiore di bovine in lattazione. A seguire abbiamo l’alpe Vaccaro, Golla ed infine Grem. Il valore della resa casearia in formaggelle (quantità di formaggio in kg ottenibile da 100 kg di latte) è variato poco tra gli alpeggi, risultando pari al 10,5 ±.1,15. È stata registrata una tendenza comune a ridurre i quantitativi di latte prodotti per vacca, verso la fine della stagione estiva, probabilmente a causa dell’entrata in asciutta delle bovine e dell’inevitabile riduzione della qualità dei pascoli. Lo schema di produzione del formaggio è stato mantenuto abbastanza costante in tutti e quattro gli alpeggi. Sono cambiati alcuni parametri come la temperatura all’aggiunta del caglio (tra 37 e 36°C), le quantità di caglio (da una media di 0,17 a 0,42 ml per litro di latte), la durata della coagulazione e delle soste, la temperatura prevista dalla cottura (da una media di 39,5 a 42,3°C) e quella del locale stagionatura (da 7 a 13°C). Anche gli strumenti utilizzati dai casari non erano sempre gli stessi. Tutte queste disuguaglianze che sono state registrate anche per diverse lavorazioni di una stessa malga rendono la caseificazione un processo non facilmente ripetibile, sia tra malghe sia all’interno di ciascuna malga ed ovviamente questo appare un primo problema da affrontare nella costituzione di un consorzio di produzione. Infine è stata fatta un’analisi sull’alimentazione del bestiame. I pascoli avevano qualità foraggere differenti, e l’indice di Valore Pastorale di Cavallero è risultato maggiore per Golla (35,91), a seguire Vaccaro (33,76), Grem (33,16) e Forcella (28,58). Anche la quantità e la tipologia di concentrato previsto dagli allevatori non è risultato omogeneo: 4 kg/d capo in Forcella, 3,5 kg/d capo in Vaccaro, 3 kg/d capo in Grem e 2 kg/d capo in Golla. Attraverso il programma CPM-dairy e le informazioni ottenute relativamente alla razza bovina allevata, alla qualità del pascolo e all’integrazione, è stato possibile stimare l’ipotetica razione quotidianamente ricevuta dalle bovine, e quindi il relativo bilancio energetico e proteico per ciascuno dei quattro alpeggi.

91 L’esito ottenuto riporta valori diversi ma per tutti si evidenzia un eccesso proteico, a discapito dell’energia, che invece sembra il limite maggiore in tutti e quattro gli alpeggi: le razioni andrebbero necessariamente rivalutate, optando per alimenti più energetici e meno proteici. Non è consigliabile aumentare la dose di concentrato, altrimenti la tipicità del prodotto andrebbe compromessa, ma varrebbe la pena mettere in campo alcune tecniche di miglioramento della qualità del pascolo e della gestione della mandria.

92 RINGRAZIAMENTI

Ringrazio innanzitutto il mio relatore, professor Alberto Tamburini, per il tempo dedicatomi, la grandissima disponibilità e la passione che è riuscito a trasmettermi. Ringrazio Omar Rodigari, tutta la cabina di regia del progetto ValOrobie e gli allevatori per avermi offerto l’opportunità di lavorare sul mio territorio. Dico grazie alla mia famiglia, per avermi insegnato a credere in me stessa e per avermi supportato costantemente. Dico grazie a mia nonna Lorenza per tutto il bene donatomi. Ringrazio le amiche di sempre per i momenti di gioia e di conforto. Ringrazio Federica e tutti i miei compagni per aver reso quest’esperienza un bellissimo esempio di amicizia. Dico grazie a Mathieu per le attenzioni e l’affetto di ogni giorno.

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