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EDITORIALE I pirati insubrici, storie del Verbano e del Lario

Oggi le acque dei nostri bellissimi laghi sono solcate dai placidi battelli della navigazione e, nei fine settimane estivi, da centinaia di roboanti e debordanti motoscafi. Difficile crederlo, ma 5- 600 anni fa ben altri tipi di navigli si sarebbero potuti avvistare al largo... quelli di pirati pronti all’arrembaggio! È a questi personaggi che dedichiamo lo speciale di questo numero. A ben guar- dare, per i più famosi di essi, i Mazzarditi di o il Medeghino del Lario, l’appellativo di ‘pirata’ sta un po’ stretto, da un punto di vista storico. Si tratta infatti di individui che seppero ri- tagliarsi ruoli politico-militari specifici e importanti, all’interno del contesto politico dell’epoca, interagendo e rapportandosi direttamente con le autorità e le potenze dominati in quei secoli. Le loro vicende si possono leggere come singolari e affascinanti pagine di storia locale, all’inter- no di processi storici di più vasta e amplia portata che interessarono fasi critiche della vita del Ducato di Milano, come il tormentato periodo di transizione successiva a Gian Galeazzo Viscon- ti o il primo trentennio del Cinquecento che vide la fine della sua indipendenza, nonostante i “disperati tentativi” degli ultimi Sforza. Uno Stato, quello visconteo-sforzesco, definito “leggero” dagli storici ma, forse proprio per questo, più congeniale a cultura e mentalità dei Lombardi... Un’eredità che sarebbe opportuno valorizzare anche in chiave moderna. Tornando alla pirateria, essa fu fenomeno endemico e di lunga durata sui nostri laghi, autostrade d’acqua su cui veniva- no trasportate quantità enormi di merci, fino all’avvento delle prime vie ferrate e del motore a scoppio, destinate ad allettare molti, anche i malintenzionati. Ciò appare chiaro nel contributo di Roberto Corbella, al di là dell’alone leggendario che avvolge le figure dei suoi pirati. In ambito celtico presentiamo le nostre valutazioni sulla recente mostra svoltasi a Brescia che ha riguardato il ritrovamento di una tomba di guerriero cenomane di IV secolo a.C. Il focus si sofferma su Ezra Pound, protagonista della poesia del XX secolo a lungo “silenziato”, nonostante l’assoluto spessore artistico, a causa della sua fede politically uncorrect. Qui è presa in considerazio- ne la sua prima produzione poetica, oltre ai trentennali rapporti d’amicizia col lariano Carlo Li- nati, scrittore al quale - in occasione del festival Insubria terra d’Europa - abbiamo dedicato la pic- cola ma preziosa ristampa di un testo del 1939 dedicato alla Bretagna. Evento la cui terza edizio- ne si è conclusa con piena soddisfazione, come potrete leggere. Segnaliamo infine l’intervista a Paolo Pirola di Brianze, rivista che come noi ha appena doppiato la cinquantesima uscita e che mostra come difesa dell’ambiente e identità debbano necessariamente andare a braccetto, oltre le barriere ideologiche, per il bene della nostra terra, sempre più minacciata dalla cementificazione. Cari amici, a presto, al prossimo numero!

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“ Dentro al Castello c’era il silenzio e la solitudine dei luoghi abbandoanti. Quasi tutti gli antichi saloni, le arme- rie e i magazzini, erano scoperchiati, le scale e i cammini di guardia impraticabili. Tra le rovine e nei cortili

serpeggiavano i rovi e le edere, spuntava l’erba e si allargavano i cespugli di capelvenere. Contro il buio di un antro fiammeggiava una rosa sospesa a un ramo“ pendulo. Un albero troneggiava nello spiazzo dove in antico si erano incrociate le alabarde e gli archibugi.

Piero Chiara “Fioriva una rosa” Le corna del diavolo e altri racconti

Cannero: la Rocca Vitaliana, costruita un secolo dopo la distruzione della Malpaga, il castello che fu covo dei Mazzarditi. INTERNO TI#50 18-07-2009 19:33 Pagina 3

STORIA La parabola dei Mazzardìt, i terribili pirati del Verbano

DI GIANCARLO MINELLA

L’ascesa e la caduta dei cinque celebri fratelli di Cannobio si spiegano con le dinamiche politiche del Ducato di Milano all’inizio del Quattrocento, tra crisi e rinascita.

I cinque figli di Lanfranco Mazzardi, di mestiere beccaio, ovvero macellaio, originario di Ronco, piccolo insediamento del Piaggio Citraponte oggi incluso in Cannobio, ma che sul finire del Trecento dimorava nello stesso borgo che si affaccia sul Verbano là dove il torrente Cannnobino confluisce nel lago, sono passati alla storia con il nome collettivo di Mazzardi- ti o, per meglio dire in lingua locale, Mazzardìt, plurale metafonetico di Mazardìn cioè “pic- colo Mazzardi”. Simonello, Giovannolo, Petrolo detto “il Sinasso”, Antonio detto “il Carma- gnola” e Beltramino nel periodo compreso tra il 1403-1404 e il 1414 de facto presero il con- trollo del centro rivierasco, esercitando il loro potere con metodi brutali, violenti, al di fuori della legge e mettendo letteralmente a ferro e fuoco molti centri lacuali. I Mazzarditi fra storia e leggenda. Il loro nome e le loro imprese, già note agli storio- grafi e corografi antichi che si occuparono delle vicende verbanesi, quali Gaudenzio Merula1, il Macaneo2 e Paolo Morigia3, ben presto lasciarono la storia per confluire nel mondo trasfigurato ed evanescente della leggenda, così come sospesi in una dimensione ir- reale e impalpabile appaiono all’osservatore i ruderi della for- tezza eretta su- gli isolotti di Cannero, indissolubilmente legati al nome dei Mazzarditi che ivi edificarono il castello della Malpaga, quando il pal- lido sole autunnale riesce improvvisamente a squarciare gli avvolgenti fumi e le brume autunnali che si levano dalla su- perficie dell’acqua. Eppure è proprio in questo luogo langui- do e suggestivo, che sa commuovere pittori e poeti, che si consumarono turpi vicende di assassini, torture e stupri.

(1) G. Merula, De Gallorum Cisalpinorum Antiquitate, Typis Comini Venturae, , Bergamo, 1592, cap. II, pp. 110 e ss. (2) Dominicum Machaneum, Chorographya Verbani lacus, U. Scinzenzeler, Milano, 1490, pp. 24 e ss. (3) P. Morigia, Historia della nobiltà et degne qualità del Lago Maggio- re, ristampa anastatica dell’edizione milanese del 1603, Alberti libraio editore, Intra, 1983, pp. 106 e ss.

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Pirati lì definì già il Macaneo nella sua opera scritta poco meno di un secolo dopo l’epopea mazzardiana e con tale appellativo sono stati i protagonisti dei più o meno fantasiosi racconti nelle sere d’inverno davanti ai camini di pescatori, naviganti, contadini e mercanti del lago Maggiore. Una tradizione orale che ha solleticato la fantasia di tanti romanzieri, anche mo- derni, e che certo non poteva sfuggire a . Fra questi autori locali occorre ricor- dare Giuseppe Torelli, autore de I castelli di Cannero (1861), incentrato sulla triste vicenda di Cristina Vitani, vittima delle brame del Carmagnola, e Antonio Giovanola che scrisse nel 1839 il racconto storico La Malpaga (Castelli di Cannero) che ci ha restituito anche il canto dei Mazzarditi: “Liber scorre il lago, spogliando i passagier. Di vino e belle vago Felice il masnadier!”. Ma torniamo all’ambito storico e vediamo quali fonti abbiamo a disposizione per meglio definire le vicende di questi avventurieri. Pierangelo Frigerio e Pier Giacomo Pisoni hanno prodotto un’ottima e completa ricerca sui fatti che qui ci interessano nel volume I fratelli del- la Malpaga: storia dei Mazzarditi4, dotato di un’ampia appendice documentale. I due stori- ci riconoscono che un valido e oggettivo inquadramento sulle vicissitudini dei Mazzarditi fu dovuto al giureconsulto cannobiese Giovanni Francesco del Sasso Carmine (1568- 1636) che scrisse l’Informazione istorica del borgo di Cannobio5, in una prima stesura fra il 1601-16. Il Sasso Carmine si basò, a sua stessa detta, su documenti autentici e cioè sul resoconto di un processo del 1459 che vide opporsi davanti al podestà e commissario di Arona i fratelli Pietro e Giovanni Mantelli, figli di quell’Antonio e nipoti di quel Paolo che furono le principali vit- time della ferocia mazzardiana, contro i fratelli Gianpietro e Gianmatteo Mazzardi, eredi dei persecutori. Si trattava di una causa civile con la quale i Mantelli intendevano provare la nul- lità di alcuni atti di vendita notarili, rogati più di mezzo secolo addietro, poiché la sotto- scrizione era stata estorta con l’uso della forza. Furono ascoltati all’uopo più di venti testimoni. Fra le mani del Sasso Carmine anche un documento milanese del 1429, l’atto di clemenza del Duca di Milano verso i noti fratelli. Fu proprio merito del Pisoni rinvenire nel 1978 il fascicolo processuale che era stata la fonte pri- maria del Sasso Carmine presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, oltre due testamenti can- nobiesi del 1410 e del 1413 che fanno riferimento ai Mazzarditi. La rilettura degli atti confer- mava l’attendibilità della ricostruzione del Sasso Carmine e permetteva ai due autori di presen- tare le vicende dei fratelli cannobiesi secondo i criteri della moderna storiografia, legandole an- che criticamente al più ampio sfondo storico delle vicissitudini del Ducato milanese del perio- do, ducato cui Cannobio e le altre terre locarnesi appartenevano sin dal 1342. Fu il De Vit, nel- la sua opera dedicata al lago Maggiore6, a relazionare meritoriamente la storia locale dei Maz- zarditi a quella più vasta del Ducato di Milano. L’ascesa di questo gruppo famigliare fu infatti resa possibile dalla grave crisi che investì i domini dello Stato milanese all’avvio del XV secolo.

(4) P. Frigerio e P. G. Pisoni, I fratelli della Malpaga. Storia dei Mazzarditi, Alberti libraio editore, Intra, 1993 (5) G. F. del Sasso Carmine, Informazione istorica del borgo di Cannobio e delle famiglie di esso borgo (a.c. di P. Carmine), s.l., s.a. ma, 1912. Di questo scritto era a conoscenza anche il Morigia, si veda p. 94 dell’op. cit. in nota 3. (6) V. De Vit, Il lago Maggiore. e le Isole Borromee, vol. I, Prato, 1875, pp. 531 e ss.

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LEVENTINA

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B V A L L E C N H I AMBITI DI INFLUENZA O IA V E N V A 1410-11 AL V. N LE IN A C M L AG G IA ESO OSSOLA SUP. . M V BELLINZONA

VALLE VIGEZZO VALTELLINA CANNOBIO V A L LUGANO S A OSSOLA INF. S S I A N LI A AG AV R T V. MAZZARDI UVIA VALC FACINO CANE RUSCA DE SACCO VALSESIA COMO VIZZERA ARONA S Rielaborazione da P. Frigerio e P.G. Pisoni, op. cit. Frigerio e P.G. Rielaborazione da P. Se qualche anno dopo la raccolta documentale si completava presso l’archivio Borromeo, ove veniva rinvenuta la relazione della prigionia patita da uno dei Mazzarditi preso le dure car- ceri ducali di Milano, ulteriori significativi apporti critici sono stati dovuti a Giancarlo Anden- na, ordinario di Storia medievale presso l'Università Cattolica di Milano e a Leonida Besozzi7. Quest’ultimo - approfondendo le vicende del borgo di Angera a inizio Quattrocento, l’antica Staciona sede del contado voluto dal primo duca Giangaleazzo Visconti nel 1397 ed esteso su tutte le terre rivierasche del lago Maggiore, quindi anche su Cannobio - aggiunse interessanti notizie, basandosi su altri atti notarili di XV secolo. Mettendo assieme tutti questi contribu- ti, le imprese dei Mazzarditi possono così uscire dalle nebbie della leggenda e del mito popo- lare per assumere connotati più veritieri, soprattutto contestualizzati, che aprono uno squar- cio su un periodo storico particolare, foriero, nella terra dei laghi, di morte e distruzione. L’ascesa dei Mazzarditi, riflesso della crisi del Ducato tra Lario e Verbano. Il 3 settembre 1402 Giangaleazzo Visconti, detto anche il “duca di virtù”, morì inaspettatamente nel castel- lo di Melegnano, colto dalla peste. A seguito della sua improvvisa scomparsa il Ducato di Mi- lano (ormai un esteso stato pluriregionale che oltre all’Insubria comprendeva la Lombardia Orientale, buona parte del Piemonte, dell’Emilia, del Veneto e, Oltreappennino, Siena, Pisa, Perugia e Assisi) si sgretolò nel giro di poco tempo. I suoi nemici esterni, il Papa, gli Este, i Malatesta, Firenze e Francesco Novello da Carrara rialzarono la testa e presto Pisa, Siena, Perugia, Assisi e Bologna furono perse. Ma quella che non resse alla dipartita del carismatico primo duca fu la situazione politica interna, sotto la reggenza della duchessa Caterina, che si avvaleva del supporto del camerario Barbavara, alla guida del Consiglio segreto dei sedici nobili voluti dallo stesso Gian Galeazzo, essendo i suoi figli tutti in minore età, Giovanni Ma- ria, Filippo Maria e il loro fratellastro Gabriele Maria. Si ridestarono in molti ambiti cittadi- ni le lotte fra le due opposte fazioni dei guelfi, filopapali e tradizionalmente antiviscontei, e i ghibellini, filoimperiali, benché ormai in quest’epoca si assistesse a uno svuotamento ideolo- gico per cui la contrapposizione Chiesa-Impero appariva sempre più un pretesto, venendo a

(7) Storico e dirigente industriale (Milano 1920-2004), è stato un decano degli studi verbanesi e suoi saggi sono stati ripor- tati su prestigiose riviste storiche locali.

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designare invece le due maggiori parti che lottavano duramente per la conquista del potere. Scoppiarono tumulti e rivolte, anche a Milano, fomentate sia dai guelfi sia da Antonio Visconti, appartenente a un ramo collaterale della famiglia ducale, che ac- cusava il camerario di seguire una politica filoguelfa e che aspi- rava al trono ducale: Barbavara fu costretto così alla fuga, men- tre la duchessa Caterina fu arrestata e poco dopo morì a Monza. Il giovanissimo Giovanni Maria, passato dalla parte dei ribel- li contro la madre, assumeva il comando ducale (1404). Intanto i condottieri viscontei, epigoni del potente esercito che Gian Galeazzo aveva allestito, manifestavano la tendenza a costituire 8 Stemma dei Rusconi, da dei propri domini, come il celebre Facino Cane , che assunse il Como (Museo Civico). pieno comando ad Alessandria nel 1403 e a Pavia, dove risie- deva Filippo Maria. Anche gli altri rami della famiglia Visconti cercarono di approfittare dell’incapacità del potere centrale e gli eredi mai domi di Bernabò9 presero il potere a Bergamo. Nel 1402-1403 la fascia pedemontana e alpina insubre si spez- zò in una miriade di situazioni particolari, sovrastate dalla minaccia dei cantoni elvetici di Uri e Obvaldo, desiderosi di controllare la via del Gottardo, che per circa un ventennio riuscirono a mettere le mani su Leventina e altre valli ticinesi. Mentre il conte Alberto di Sacco nel 1402 si impossessava di Bellinzona e della Val di Blenio, a Como infuriò la faida tra i ghibellini Rusca e i guelfi Vitani, fomentata da alcuni seguaci dei primi confinati a Roveredo, in Mesolcina, cui risposero i rivali mettendo a ferro e fuoco Civello e Lucino. Nel giugno del 1403 Franchino Rusca, già governatore ducale di Pisa, e Ottone Rusca, capitano di duecento lance a Parma, uni- rono le loro forze e si mossero alla volta della città lariana, tolta ai Rusca da Azzone Visconti nel 1335. I due Rusconi scacciarono i Vitani, prendendo il controllo di Como. Franchino dovette però lasciare la città già a novembre dello stesso anno dopo la sconfitta subita ad opera del con- dottiero ducale Pandolfo Malatesta a Montorfano, cui seguì l’orribile saccheggio di Como. Il Rusca si ritirò a Lugano: nel Sottoceneri la presenza di quella famiglia era assai numerosa e da qui avrebbe potuto ricevere sostegni per la riconquista di Como. Franchino organizzò ter- ritorialmente e amministrativamente il proprio dominio come “Comunità del borgo e Valle di Lugano”, benché dovesse sempre stare attento alla presenza della compagine vitana che aveva partigiani anche nel Luganese. Nel Comasco la lotta tra le due famiglie si prolungò nel tempo. A Cernobbio, come capobanda della masnada ruscona contro i Vitani di Nesso, si trovava il Bianco da Lezzeno, soggetto che avrò un certo ruolo anche all’interno delle vicende mazzar- diane. Nel 1408 Franchino Rusca riuscì infine a strappare Como al dominio visconteo, scac-

(8) I Cane erano originari di Pavia e di parte ghibellina. Bonifacio II, detto Facino, nacque a Santhià (VC) nel 1360 circa e divenne capitano di milizia al comando del Marchese del Monferrato e poi di Giangaleazzo Visconti per il quale conquistò Bologna, distinguendosi in molti altri scenari di guerra. (9) Bernabò Visconti, già signore della parte orientale dello Stato di Milano, fu fatto arrestare ed eliminare da suo nipote Giangaleazzo Visconti nel 1385, il futuro primo duca (1395).

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ciò i Vitani superstiti, guelfi ma sostenuti da Giovanni Ma- ria, e instaurò una signoria estesa dal Comasco al Luganese. Franchino Rusca, nonostante la secolare tradizione ghibelli- na della famiglia, cercò in questi anni rapporti di amicizia e alleanza con i guelfi e con i parenti ostili al duca. Questo spiega la sua presenza anche sullo scacchiere del Verbano, raf- forzata dal rapporto di parentela con Pietro Besozzi. Infatti nella pieve di , il centro di fu un attivo fo- colaio della rivolta antiducale in quanto sede del ramo politi- camente più importante dei de Besutio, antica casata di capi- tanei degli imperatori germanici e fidati ghibellini votati sin Angera, dai tempi dell’arcivescovo Ottone alla causa viscontea. Ma o- edificio medievale ra la fedeltà alla famiglia del Biscione veniva meno. Pietro, il di Via Visconti. maggior esponente dei de Besutio, aveva sposato Donnina Rusca, figlia di Lotterio, lo spodestato signore di Como ai tempi di Azzone Visconti, e sorella di Franchino. Le politiche antiducali di questi due casati non potevano non convergere. Atti notarili coevi attestano i rapporti di cooperazione tra Franchino Rusca e Pietro de Besutio10. Nell’area verbanese ben presto Angera rimase l’unica isola lealista fedele al duca di Milano, accerchiata a nord e a est dai possedimenti dei de Besutio, dei pavesi Franchignoni da Cecina, che tenevano la rocca di Caldè, dei de Sessa in Valtravaglia. A sud, da , i Visconti di Castelletto, in buoni rapporti con i de Besutio, da decenni investiti di fictalitia arcivescovi- li, si appropriavano di terre e diritti di giurisdizione del comitatus Angleriae. Nel 1408 Facino Cane allungava il suo domino personale sino all’Ossola inferiore, a Vogogna, mentre, assunto anche il prestigioso titolo di Conte di Biandrate nel 1406, andava costituendo un vasto domi- nio. Egli, con i Rusconi e gli altri alleati ghibellini, costituì la lega antiducale a cui aderiva anche il ribelle Estorre Visconti, uno dei figli naturali di Bernabò. Pietro Besozzi nel 1410 aveva ricevuto l’infeudazione della pieve di Brebbia da Facino Cane come ricompensa della fedeltà mostrata al condottiero che nel 1408-09 concretizzava il controllo di gran parte del Seprio. In questo contesto, in cui il Ducato è incapace a sostenere un controllo effettivo sui terri- tori più periferici11, si colloca il successo dei Mazzarditi. I testimoni del processo del 1459 fu- rono tutti concordi nel collocare tra il 1403-04 l’inizio della tirannide da loro esercitata. È da rilevare la precocità della loro scalata al potere rispetto alla crisi scoppiata dopo la morte del primo duca e il sincronismo con i coevi colpi di mano dei Sacco a Bellinzona e dei Rusca a

(10) Il 19 agosto 1408 Pietro Besozzi anticipa 250 fiorini a un messo del cognato per assoldare due bannerie di balestrieri che furono inviati a rafforzare l’esercito di Franchino, impegnato nella presa di Como. Lo stesso Rusca è presente a Besozzo, pres- so la casa di Pietro, già nel 1405. Tali atti sono citati dal Besozzi in “Le incursioni degli antiducali ad Angera al tempo di Gio- vanni Maria Visconti”, in Libri&Documenti, Archivio storico civico e Biblioteca Trivulziana, anno XIII, n. 2, 1987, Milano. (11) Così esprime il concetto Francesco Cognasso: “Ovunque nelle città viscontee attraverso le notizie che arrivavano da Milano si ebbe la sensazione che vi fosse un cedimento nel governo centrale. Dovunque i rappresentanti del governo, i referendari, i podestà rimanevano incerti sul modo di eseguire gli ordini, sentendo che alle spalle non vi era più persona che fortemente volesse." (I Visconti, Dall’Oglio editore, Milano, 1966, p. 363)

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Como e Lugano. Pur mancando una documentazione a suffragio, è molto probabile che anche nel Locarnese si creasse una fazione favorevole ai Rusca, data l’ascendenza che tale fami- glia esercitava e aveva in passato esercitato in questi territori. La relazione fra i Mazzarditi, il partito ruscone e l’area lariana è avvalorata da alcune circostanze di contorno, come il supporto prestato ai fratelli cannobiesi dal Bianco di Lezzeno12 e in figure minori di accoliti mazzardiani originari dell’area lariana, ad esempio il Cazzetta da Cantù. Negli atti del processo recuperati dal Pisoni si dice esplicitamente che l’avvento dei Mazzarditi fu supportato dai Rusca, men- tre il Sasso Carmine riferisce di come loro intervennero “a richiesta e con intendimento, di al- cuni principali Cannobini della fazione guelfa”. Questo fatto nel confuso quadro di inizio XV secolo non deve sorprendere poiché i Rusconi, ghibellini, pur combattendo contro i guelfi Vita- ni, sostenuti dal Duca, cercarono alleanze con altri guelfi in chiave antiducale. In Cannobio, che dal 1207 godeva della qualifica di borgo, la fazione guelfa filovitana raccoglieva i membri delle famiglie Mantelli, Cervetti, Zacchei e quasi tutti gli abitanti della villa di Cinzago. Ghibel- lini erano i Mazzirono, i Poscoloni, i Sasso e quasi tutte le famiglie del borgo di Cannobio. Il Sasso Carmine ritrae i cinque fratelli come arditi, valenti e con una certa propensione a commettere atti violenti; essi divennero seguaci dei Rusconi e commisero contro i Vitani “mol- ti ladroneggi, omicidi ed altri mali”13. Finchè, con un autentico golpe, una notte con alcuni seguaci entrarono nel borgo di Cannobio e lo presero senza trovare resistenza. Immediata- mente fecero rafforzare e ristrutturare l’alto campanile cittadino, con l’annesso Palazzo della Ragione, ed iniziarono a perseguitare le famiglie guelfe, in particolar modo i Mantelli, ucci- dendone molti oppure facendoli prigionieri, mentre le loro case venivano saccheggiate e le loro vigne tagliate al piede. I Mantelli imprigionati nel campanile della città furono sottopo- sti a sevizie e torture da parte degli ac- coliti dei Mazzarditi, tutti di estrazio- ne popolana e villica, mentre altri fug- girono dal borgo abbandonando le lo- ro proprietà. Fra questi fuggitivi, an- che Paolo e Antonio, i più ricchi e po- tenti di tale nobile e antica famiglia cannobina. Antonio trovò rifugio a Bi- zozzero, presso Varese, Paolo a Locar- no, ove la fazione guelfa vitana era mol- to influente. Ma la longa manus dei Mazzarditi riuscì a colpirli. Antonio fu Nella cartolina del pittore Ferdinando Tami (1930), i Mazzar- catturato dal Bianco di Lezzeno e dai diti fanno impiccare due componenti della famiglia Mantelli. suoi sgherri, mentre Paolo fu preso da

(12) Altrove definito Bianco da , per via della trascrizione di questo toponimo verbanese, originariamente Lezeduno (si noti la chiara etimologia celtica Leze+dunum), quindi Lezuno, Lezono, che in effetti si può facilmente equivocare col centro di Lezzeno (Lèscien) sul lago di Como. Il De Vit cade nell’errore e lo chiama Bianco da Leggiuno, p. 511, op. cit., nota n. 6. (13) Op. cit., nota n. 4, p. 20.

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alcuni ghibellini della villa di Lossono e da questi venduti ai Mazzarditi in cambio di una certa somma di denaro che fu raccolta dagli stessi imponendo una taglia a tutti i residenti di Canno- bio e della sua pieve. I due furono im- prigionati, ceppi ai piedi, nel campa- nile della casa-fortezza di Cannobio e sottoposti a maltrattamenti e torture fino a che consentirono a dare in mo- glie a Giovannolo una loro sorella, Ia- copina, nel frattempo rifugiatasi a Pa- Ancora Tami: i Mazzarditi in una sadica scena di supplizio. via, e costringendoli a cedere loro, a ti- tolo di dote e di vendita, senza però alcuna pagamento, proprietà e beni. I Mantelli rimase- ro prigionieri per circa dieci anni in condizioni miserabili. Il potere del terrore. L’azione dei Mazzarditi volle prevedere la costruzione di alcune for- tificazioni che presto fecero realizzare. Un’incursione dei Vitani locarnesi che attaccarono Cannobio, si risolse senza alcun risultato poiché i mazzardiani si rinserrarono nel campanile e nella casa-fortezza mentre attesero i rinforzi rusconi i quali, superiori per numero ai Vitani, costrinsero quest’ultimi a lasciare il borgo: i Mazzarditi compresero subito che abbisognava- no della fondazione di castra per rinsaldare il controllo del territorio. Poco fuori Traffiume, a ovest di Cannobio, sulla via che porta in Val Cannobina, Petrolo eresse un suo castello, di cui oggi rimangono dei resti decadenti sommersi dai rovi e dalla ve- getazione. Tuttavia l’edificio doveva essere di una certa consistenza come si può dedurre da un testamento risalente al 1413 d’un Bartolomeo dei Cortesi redatto “in camera cubicularia” posta “in castro d.ni Petroli de Mazardis”. Interessante rilevare che il sito in cui sorge il castel- lo è la località chiamata Duno, tipico toponimo celtico che identifica alture fortificate: sul posto doveva già quindi esistere un insediamento d’età protostorica del quale però, a quanto ben sappiamo, l’archeologia non ha mai fornito riscontro14. Una terza fortificazione, oltre alla torre campanaria con il vicino Palazzo della Ragione adat- tato a casaforte nel centro di Cannobio, fu edificata nel villaggio di Carmine, dove la famiglia eponima era alleata dei Mazzarditi, su uno sperone roccioso. Infine fecero costruire sul più este- so degli scogli del mini-arcipelago di Cannero il castello della Malpaga sia come riparo da attac- chi provenienti da sud dall’acqua sia come punto d’appoggio da cui agevolmente assalire navi- gli nemici e centri rivieraschi vicini. La consistenza di tale castello è a noi ignota poiché i rude- ri della costruzione oggi visibile appartengono alla Vitaliana, una rocca fatta erigere nel 1519 da Ludovico Borromeo in onore della famiglia padovana capostipite dei Borromeo, probabil-

(14) In questo posto esisteva una stazione per la riscossione delle gabelle lungo la strada che collegava il centro lacuale con la Val Vigezzo attraverso la Val Cannobina.

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mente in accordo con la Lega svizzera e in chiave antifrancese (sono questi gli agonizzanti anni che sancirono la fine del Ducato indipendente). A seguito di alterne vicende politiche, egli fu costretto a rifugiarvisi e vi morì nel 1526. Nel corso dei secoli la rocca fu progressiva- mente abbandonata e oggi restano solo rovine delle antiche mura rafforzate da torri. Dai testi documentali si può dedurre che originariamente fosse innalzata una torre circo- lare centrale, con prigioni e alloggi per la guarnigione, circondata da una cinta e/o da una pa- lizzata. L’insediamento fu realizzato grazie al lavoro forzato, senza ricompensa, cui i Mazzar- diti sottoposero molti cannobiesi e al recupero di massi e materiali dallo smantellamento dei muretti di sostegno delle vigne, di case rustiche o di rivali. Alla Malpaga si insediò Antonio detto il Carmagnola. La tattica dei cinque fratelli e del padre Lanfranco, ancora vivente nel 1413 e probabilmente vera mente del clan famigliare, era semplice, cinica e spietata. Essa può essere efficacemente riassunta nei punti che seguono... 1. Essi si impossessavano di proprietà altrui, obbligando i titolari alla vendita, redigendo il relativo atto presso un notaio amico e versando regolarmente il corrispettivo in denaro al ven- ditore. Se non che, recuperavano subito la somma versata senza che il venditore osasse recri- minare oppure inviavano immediatamente i loro sgherri a riprendere con la forza il denaro presso il venditore. Chi si opponeva era imprigionato nel campanile e torturato fino a che non cedesse, ottenendo in questi casi non solo la proprietà ma anche la vita. Pur colpendo con que- ste iniziative soprattutto i guelfi, talvolta ne erano vittime anche famiglie ghibelline. 2. Rapivano persone per chiederne il riscatto. Se questo non era versato, il rapito veniva ucciso. In particolare “al Minardo sono arrivati a tagliargli via il membro virile, e poi glielo hanno messo in mano per maggior scorno della sua famiglia che si sapeva amica dei Mantelli”15. 3. Non mancavano di usare violenza anche alle donne, nubili o sposate che fossero. Il gesto più eclatante fu il rapimento della moglie del podestà di Cannobio, vicario locale del capita- no reggente il contado di Angera, il giureconsulto vigevanese Giacomo Pozzi: Cristina fu vio- lentata presso la villa di Sant’Agata. Il Sinasso, come risulta dalla deposizione del testimone Gu- glielmo Zaccani al processo di Arona, volle fare sua con la forza una giovinet- ta, Francesca, figlia di un suo accolito, tal Antonio detto “Boffo” di Canno- bio, di cui il Mazzardi era stato padri- no! Le donne che si opponevano ai tentativi di stupro venivano uccise… 4. Uccidevano gli avversari e colo- ro che avevano imprigionato nei più svariati modi: a colpi di mazza, taglian- do loro la gola, impiccandoli, gettan-

Nella cartolina, il ratto della sposa del podestà di Cannobio. (15) Op. cit., nota n. 4, p. 33.

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doli dall’alto ponte dell’Agostiana, nei pressi di Traffiume nel torrente oppure nel lago. Il caso più raccapricciante si verificò quan- do, legati tra loro con una grossa fune dieci uomini di Ascona, fatti prigio- nieri e successivamente uccisi in vario modo dagli sgherri dei Mazzardi, questi furono trascinati in riva al lago per poi essere gettati, con una grossa pietra allacciata alla fune, nelle sue acque... i loro corpi furono rinvenuti Il lanciamento delle vittime, legate e imbavagliate, nel lago... qualche giorno dopo a . 5. Uccidevano anche coloro che, pur della stessa parte, non approvavano il loro modo di fare o non si mostravano collaborativi. Martino Mazzirono, ricco e potente ghibellino di Can- nobio, cercò di ostacolarli in qualche loro malaffare e per questo motivo fu imprigionato nella torre campanaria, torturato, infine ucciso e ivi sepolto, con la sua abitazione saccheggiata. 6. Effettuavano scorribande per tutto il lago e attaccavano ripetutamente i centri di Ascona, Locarno e Angera. Saccheggiavano e davano alle fiamme le abitazioni dei Guelfi e dei Vitani e facevano anche prigionieri. Uno di questi, Guglielmo Porro, fu testimone del processo del 1459 e raccontò come fu preso ad Ascona dai Mazzarditi all’età di sedici anni durante un attac- co e comprato per cinque soldi da Giovannolo Mazzardi per essere usato come servo di casa. Gli atti del processo rivelano che i testimoni mai usarono l’espressione ‘pirati’ per definire i Mazzarditi e non accennano ad abbordaggi e affondamenti di navigli nemici. Azioni di questo tipo non sono documentate dagli atti. Edgcumbe Staley16 in un libro che si propone di delizia- re il colto pubblico statunitense con le bellezze della terra dei laghi della Lombardia, ricorre con frequenza a questo appellativo, affermando che i Mazzarditi, di ritorno da un raid, si trovaro- no di fronte la flotta armata e unita dei battelli da pesca di Laveno e e una grande flot- tiglia di Pallanza sulla rotta di congiungimento con i navigli dei vicini. Con audacia i corsari di Cannobio riuscirono però ad affondare le navi avversarie e a far ritorno alle acque amiche. Il vicario Pozzi e gli altri ufficiali furono impotenti davanti a tanta prepotenza. Ma certo i Mazzarditi non trascurano anche l’aspetto formale del loro potere. Dopo il 1407 nominarono come proprio “vicario” l’accondiscendente Ambrogio Adobba, a cui affidarono l’estensione de- gli strumenti di acquisto, frutto della loro attività illecita. Velocemente questo clan famigliare e- stese il proprio potere e le proprie ricchezze, nonostante la perdita di Simonello, morto con sicu- rezza prima del 1413. Frigerio e Pisoni ben colgono lo spirito di questi protagonisti che “por- tavano nell’impresa fervore e livore di parvenu, invidia verso chi da tempo aveva raggiunto l’a-

(16) E. Staley, Lords and Ladies of Italian Lakes, Little, Brown & Co., Boston, 1912 (reprint Kessinger Publishing, 2004). Il libro contiene marchiani errori, ad esempio la denominazione di Traffiume e Malpaga per i due fortilizi sorti sugli isolotti di Cannero.

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giatezza e brama di mettere le mani sul peculio altrui. Sperimentata la scorciatoia per arricchi- re, trascurarono la dura e rischiosa carriera del mercante per muovere guerra spietata ai colleghi più facoltosi”17. Tuttavia è necessario fare una riflessione oggettiva su questi comportamenti, ripresi e stigmatizzati dalla leggenda popolare ma anche dalla letteratura romanzesca. Giancarlo Andenna, nel suo contributo, “normalizza” le pratiche violente seguite dai Maz- zarditi: “Fu un episodio complesso, da inserire nei difficili anni delle lotte per l’affermazione ducale di Filippo Maria Visconti, dominati dalla violenza di Facino Cane e dal metodo del terrore applicato coscientemente verso i gruppi rivali, che non si comportavano a loro volta in modo dissimile. Si tratta dunque di un fatto da smitizzare e da collocare entro il secolo in cui avvenne, non assumendo come unica ed assoluta verità le deposizioni testimoniali di parte”18. Una valutazione incontestabile, esemplificata anche dalla ferocia dello scannamento fra Rusconi e Vitani per il controllo di Como nel 1404-0819, benché alcuni episodi specifici riflet- tano un sadismo e una perfidia particolare che certo contraddistinse i Mazzarditi, come la ri- corrente pratica dello stupro o le raffinate tecniche di tortura a cui sottoposero i loro prigionie- ri, in particolare gli sfortunati Paolo e Antonio Mantelli, costretti a bere acqua con calcina, a prendere “pügn sóta’l barbaròzz”, a sopportare getti di acqua bollente e sassaiole. Apogeo e caduta dei Mazzarditi: la dura legge della Vipera. Nel 1406 la guerra, così la defi- niscono esplicitamente i testimoni del processo aronese, divampava per tutto il Verbano. Il 24 ottobre 1406 presso la chiesa di Angera furono convocate tutte le comunità della pieve per stabilire pace e concordia fra le opposte fazioni di guelfi e ghibellini che avevano causato uccisioni, omicidi, incendi, distruzioni, ruberie, furti, ferite... “et percussiones et alia diversa enormia”. Un evento spia del clima antiducale che si respirava fu il tentativo di scaraventare nel lago, dall’alto della rocca di Caldè, il messo Jacobus de Laveno che portava alcune impor- tanti missive di Giovanni Maria al castellano: questa rocca era tenuta dai Franchignoni da Cecina, assieme ai castelli di Locarno, cugini dei Rusca20. Nel 1407 Pietro de Besutio riceve la procura della pieve di Brebbia e Valcuvia per trattare la pace col duca Giovanni Maria. Intanto i Mazzarditi, eliminati i Mantelli, munitisi di fortezze, presero a spadroneggiare per il Verbano. Assalirono Ascona e la Valtravaglia. Fra il 1406-07 attaccarono Locarno, mentre le ricerche del Besozzi hanno permesso di datare fra 1405 e inizio del 1406 un blitz notturno con- tro Angera, sede del contado verbanense, tenuto dall’allora capitano generale, residente nella su- perba rocca, dominus Johannes de Valperga: due atti notarili del 31 dicembre 1454 e del 2 gen- naio 1455 redatti dal notaio Balzarino Morigia di Angera ne permettono di ricostruire i fatti21.

(17) Op. cit., nota n. 4, p. 79. (18) G. Andenna, Andar per castelli. Da Novara tutto intorno, Edizioni Milvia, Torino, 1982, p. 661. (19) C. Cantù, Storia della città e della diocesi di Como, Como, 1829, pp. 460 e ss. (20) L. Besozzi, “Butta a lago l’ambasciatore”, in Verbanus, Alberti libraio editore, Intra, 1990. (21) L. Besozzi, “Le incursioni degli antiducali ad Angera al tempo di Giovanni Maria Visconti”, in Libri&Documenti, Archivio storico civico e Biblioteca Trivulziana, anno XIII, n. 2, 1987, Milano. Gli atti sono riportati in appendice all’articolo. Da rile- vare che a deporre furono chiamati sei cittadini angeresi.

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La possente fortificazione della Rocca di Angera.

Qui Arnoldino de Marris, che deteneva l’appalto delle gabelle e apparteneva a una nobile famiglia originaria del Gallaratese, consegnò agli assalitori, chiamati da un ghibellino locale, Alberto de Lucho, gli Angeresi che avevano cercato scampo nel campanile durante l’assalto. Molti abitanti del borgo furono rapiti, altri uccisi, il campanile incendiato così come la maggior parte del borgo. Uomo di pessima reputazione secondo le testimonianze rilasciate dagli Angeresi negli atti citati, egli tramò per la caduta della rocca di Angera in mano ai ribelli. Non riuscì nel- l’intento e Giovanni da Valperga lo imprigionò e preparò una forca sopra il monte di Bronazolo di fronte alla rocca per giustiziarlo, ma il tempestivo intervento di Dionigi da Cardano, nobile del Gallaratese, permise di riscattare la libertà di Arnoldino dietro pagamento di una taglia. Le vicende dell’attacco ad Angera furono narrate anche da due testimoni nella deposizione resa nel 1459 davanti al podestà di Arona (Antonius Mazardinus e Alberto de Cavarono) senza aggiungere altri particolari significativi. Il Besozzi, dal confronto del numero di presenti del borgo angerese e costituenti il numero legale della vicinantia (più dei tre quarti degli abitanti) in due riunioni, una del 26 marzo del 1403, quindi prima di ogni possibile attacco dei Maz- zarditi, l’altra il 24 ottobre 1406 per cercare la riappacificazione delle opposte fazioni che ave- vano causato la “vigente guerra estesa per tutto il lago Maggiore”, constata che il nu- La morte di Giovanni mero delle famiglie angeresi decrebbe da Maria Visconti 100 a poco più di 50: il borgo s’era dimezza- di L. Pogliaghi (1889) to, parte degli abitanti fuggita, molti erano rimasti vittime delle incursioni antiducali22. Nel 1408 Antonio Mazzardi ebbe una fi- glia e, a sottolineare il prestigio di cui ormai godeva il clan famigliare, sappiamo che pa- drini al battesimo furono proprio Pietro Be- sozzi e il nipote Giovanni23. Il 1412 fu un anno di svolta: Giovanni Maria, al culmine della sua impopolarità, fu ucciso a Milano

(22) L. Besozzi, “Famiglie di Angera nel Medioevo (1123-1449)” in Fabularum patria. Angera e il suo territorio nel Medioevo, Cappelli editore, Bologna, 1988. Lo stesso concetto è riproposto nell’op. cit., nota n. 21. (23) Questi, non volendo attraversare il lago a gennaio, con atto notarile a noi giunto delegarono due procuratori in loro vece, il figlio Antoniolo e un tal Maffiolo Luini. Si veda op. cit., nota n. 4, p. 84 e op. cit., nota n. 21, p. 15.

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durante una congiura, poco dopo moriva anche il suo avversario Fa- cino Cane senza lasciare figli legittimi. Il ventenne Filippo Maria (fi- gura a lato), residente a Pavia fin dalla morte della madre, e sprovvi- sto di mezzi economici e truppe, non era in grado di assumere il titolo di duca che gli spettava di diritto. Fu così combinato un matrimonio di interessi con Beatrice Lascaris, figlia di Pietro Balbo II conte di Tenda, e fresca vedova di Facino: benché ella fosse molto più anziana del giovane duca, avrebbe portato in do- te a Filippo Maria, quale erede del celebre condottiero, oltre a 400 mila ducati, Pavia, Tortona, Alessandria, Novara, il contado di Biandrate, Varese, il Seprio, Abbiategrasso, la Brianza, la Valsas- sina, Rosate e tutte le terre del Verbano occidentale sino a Vogogna. Le truppe di Facino deci- sero di rimanere fedeli al legittimo erede che ben presto potè sperimentare le capacità militari del Carmagnola. Alla testa di esse egli marciò su Milano, retta da Estorre Visconti e Giovanni Carlo il Piccinino, unico discendente legittimo di Bernabò, che prese dopo un breve assedio il 19 giugno 1412. Filippo Maria fu subito acclamato duca e signore dello Stato di Milano, pron- to a riestendere il dominio della Vipera sui territori perduti sotto l’incauta reggenza del fratel- lo. E a nord la vipera viscontea avrebbe in breve tempo morso mortalmente il leone rosso, simbolo ruscone, e le famiglie minori che ne sostenevano la causa... Filippo Maria conosceva i padroni di Cannobio: alcuni documenti ufficiali d’archivio lo di- mostrano. Il 22 giugno 1412, solo sei giorni dopo la sua entrata a Milano, il “dux Mediolani et comes Papiae” fa atto di donazione a favore di Giovannolo Mazzardi della casa milanese confi- scata a Lanzallotto Bossi, maestro delle entrate ducali perito durante gli scontri fra lealisti e ri- belli. Il 24 febbraio 1413 Filippo Maria, che si qualifica anche come Angleriae comes, fa conces- sione di cittadinanza a Giovannolo, Pietro detto il Sinasso, Antonio detto il Carmagnola (Cul- mignole) e Beltramino Mazzardi. I Mazzarditi si professano “servitori fedelissimi” e sono chia- mati “buoni e notabili cittadini e mercanti esperti e probi, nonché persone da lodare”24. Definizione che mal si concilia con quanto in realtà i Mazzarditi andavano compiendo in que- gli anni nelle terre verbanesi. Già Giovanni Maria doveva essere ben conscio della difficile situa- zione in cui era precipitato il borgo di Angera a causa della guerra scatenata dai “fratelli della Malpaga”25 se con diploma del 1409 concedeva agli Angeresi l’esenzione decennale dai tributi dovuti alla Camera e al Comune di Milano, vero e proprio atto riparatore nei confronti di que- st’isola lealista. Ma le difficoltà dei suoi fedeli sudditi non angustiarono Filippo Maria nei suoi rapporti coi Mazzardi... dunque, una professione di realpolitik del Duca: ma per quale motivo? Già Frigerio e Pisoni convengono che dietro questi atti si intravede “un complesso quadro

(24) Per Frigerio il padre dei Mazzarditi, Lanfranco, non era un macellaio ma un mercante: “Del resto il casato ben noto e a torto famigerato dei Mazzardi o Mazzarditi deriva da un capofamiglia mercante, secondo la qualifica con cui fu loro conces- sa la cittadinanza di Milano; trafficava probabilmente nei pellami, ciò che gli ottenne la scadente nomea di ‘beccaio’.” (in Industrie e commercio a Cannobio dal medioevo all’età moderna, 2004, p. 43, disponibile in rete su www.cannobio.net) (25) Usiamo questa felice definizione, coniata da Frigerio e Pisoni e posta anche a titolo della loro opera.

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di relazioni politiche e militari”26 ipotizzando che prima del 1412 i Mazzarditi avessero intrat- tenuto con Filippo Maria, “semplice” conte di Pavia sotto la tutela di Facino Cane, buoni rap- porti in funzione dell’alleanza con i Rusconi e che essi si fossero concretizzati con un contri- buto di uomini e armi contro gli usurpatori milanesi Estorre e Giovanni Carlo Visconti: ciò spiegherebbe l’entità e la rapidità della donazione dell’abitazione milanese. Salito al trono ducale, Filippo Maria incassò velocemente tutta una serie di attestazioni di fedeltà da parte delle comunità lacuali, dal giugno al dicembre 1412, tra i quali anche quelle di , Tronzano, Pino e Bassano, particolarmente interessanti poiché antiche dipendenze sulla sponda “lombarda” della chiesa cannobiese e anche del comune del borgo, nonché Pallan- za, Intra, Suna, Locarno e le sue valli, e infine la Valveddasca e la Valtravaglia. Anche una parte del Luganese si dava al nuovo duca. La signoria dei Rusconi si sgretolava. Franchino, prima di morire nel 1412, firmò una tregua con Filippo Maria, rinnovata nel dicembre dello stesso anno dal suo figlio Lotterio, grazie anche allo sforzo diplomatico dei due emissari del rex Romanorum Sigismondo, giunti in Lombardia ad annunziare la sua prossima venuta. Infatti nel novembre 1413 Sigismondo era a Como, proveniente da Bellinzona, ove fu solennemente ricevuto da Lot- terio Rusca che ricevette il titolo di principe dell’Impero e Vicario imperiale per Como e Lo- carno. Nello stesso mese si svolse l’incontro di Cantù tra Sigismondo e Filippo Maria che aveva come ordine del giorno l’incoronazione a Milano di Sigismondo a Re d’Italia e la conferma del titolo ducale a Filippo Maria. Ma l’intesa fallì per gelosie e rancori scoppiati fra i due protago- nisti. Filippo Maria dovette aspettare così sino al 1426 per ricevere tale agognata conferma. La politica antiviscontea di Sigismondo portò alla rottura della tregua con Lotterio Rusca. In questa situazione Filippo Maria tentò, attraverso le regalie documentate dagli atti citati, di accattivarsi l’alleanza dei Mazzarditi con lo scopo di togliere un altro mattoncino dal muro di- fensivo dei Rusca. Lusinghe che certo allettarono i Mazzarditi, ma alla fine essi “dovettero ben presto capire che la politica volpina di Filippo Maria era volta a dividere gli avversari, lusigan- done taluni in attesa di schiacciarli tutti insieme, con implacabile violenza”27. L’intervento di Sigismondo, una cui eco deformata probabilmente rimane nel racconto di fra Leandro Alberti nella sua celebre Descrittione di tutta l’Italia (1550), bollato come falso dallo stesso Sasso Car- mine, che illustra l’incontro che sarebbe avvenuto fra l’imperatore Federico III e Antonio Maz- zarditi che avrebbe ottenuto, grazie al sontuoso ricevimento, il titolo di conte, fece propende- re i quattro fratelli per il partito rusconiano “lusingati dalle concessioni che si attendevano dal re e che certo gli furono promesse, prima fra tutte la legittimazione del conquistato potere”28. L’atteggiamento di Filippo Maria verso i Mazzarditi improvvisamente mutò. Non sappia- mo se vi fu anche un preciso casus belli. L’Andenna arguisce che i rapporti divennero compli- cati in seguito al problema della fortezza della Malpaga: “Una precisa legislazione impediva

(26) Op. cit., nota n. 4, p. 84. (27) Op. cit., nota n. 4, p. 86. (28) Evidente l’errore dell’Alberti: in quei tempi il futuro Federico III non era neppure nato. Federico III d'Asburgo (Innsbruck, 21 settembre 1415 - Linz, 19 agosto 1493) fu eletto Re dei Romani quale successore di Alberto II nel 1440. Era figlio di Ernesto I e di Cimburga di Masovia. Col titolo di duca asburgico d'Austria divenne Federico V (1424), Federico IV come re tedesco e infine Federico III con l'incoronazione a imperatore del Sacro Romano Impero.

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infatti di costruire castelli e fortificazioni Veduta de’ castelli di Canero entro il Ducato e Filippo, dopo aver otte- sul lago Maggiore di F. e C. Lose (1818) nuto il titolo e il supremo potere, deside- rava riportare l’ordine entro lo Stato”. La distruzione che ne seguì di lì a poco raf- forzerebbe l’ipotesi che l’oggetto del con- tendere tra il duca e la famiglia cannobina fosse proprio tale fortezza. “Filippo volle mostrare che i privati cittadini, seppure ricchi o nobili, non potevano possedere o erigere fortificazioni senza il beneplacito o l’approvazione del potere centrale. (...) I castelli dovevano appartenere al sovrano, o essere in qualche modo controllati da lui. La colpa dei Mazzarditi fu probabilmente di essersi opposti su questo importantissimo punto.”29 Ma vi fu forse un altro evento che fece precipitare la situazione. Frigerio e Pisoni annotano come, durante la deposizione dell’angerese Antonio Mazzardini al processo del 1459 di Arona, questi riferisse di un’ulteriore scorreria dei Mazzarditi contro Angera nel 1413. All’epoca della testimonianza costui aveva 66 anni e narra di accadimenti che lo coinvolsero quando ne aveva 20, ben 46 anni prima. Un errore di 7 anni, rispetto al blitz del 1405-06 sembrerebbe eccessi- vo per il teste. Besozzi non prende in considerazione questo secondo assalto nel suo studio. In effetti la sua conferma dovrebbe rappresentare uno degli scopi di una nuova e mirata ricer- ca di archivio. È evidente che se questo secondo attacco alla sede del contado verbanese fosse stato compiuto, Filippo Maria Visconti non avrebbe potuto perdonarlo, a maggior ragione se consideriamo il fatto che nel 1413 iniziò la politica di infeudazione ai suoi migliori colla- boratori e congiunti delle località verbanesi. Nel gennaio 1413 a Gaspare Visconti, consigliere e marescalco generale, è infatti attri- buita Arona mentre da febbraio a maggio le concessioni feudali riguardano il Vergante, Or- navasso, Pombia e Varallo Pombia, Sesto Calende, Omegna e Galliate. Ma soprattutto in data 5 agosto 1412 Filippo Maria aveva confermato, a favore di Angera, il diploma di esen- zione dai tributi già emanato dal suo trapassato fratello Giovanni Maria, intendendo in que- sto modo “antiquam diginitatem et amplitudinem Angleriae restituere”: una dignità che i Maz- zarditi avrebbero infranto in aperta ostilità al duca. Nel marzo del 1414 il dux Mediolani invia a Cannobio un piccolo esercito di 4-500 armati al comando di Giacomo da Lonate (ovvero Jacopo da Lunate o Giacomo Lunati), nativo di Pavia, cui aderirono anche i lacuali desiderosi di vendetta, come Gervaso Poscolonna che fu costretto a cedere la sua vigna ai Mazzarditi, e anche alcuni dei testimoni del citato processo aronese. Il condottiero visconteo espugna il castrum di Traffiume, di Carmine e la casaforte del borgo di Cannobio, indi pone sotto assedio navale la fortezza della Malpaga. Privati dei

(29) Op. cit., nota n. 18, p. 660.

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rifornimenti, i Mazzarditi si arresero venendo a patti e salvando la vita. Storicamente priva di fondamento la versione che li vorrebbe uccisi e gettati nel lago con una pietra al collo. Secondo il Morigia l’assedio si prolungò per due anni. I castelli della Malpaga e di Traffiume furo- no distrutti e completamente spianati. La pace ritornò sul Verbano ma certo furono necessari molti anni prima di tornare ad una completa normalizzazione se è vero che solo nel 1428 la comunità di Ascona richiese al duca di poter ri- pristinare l’antico mercato, sospeso dopo le di- struzioni provocate dalla guerra.30 Nel 1416 an- che la questione ruscona fu risolta: Lotterio, te- mendo il peggio, dopo aver retto ad un primo at- tacco del Carmagnola portato al Baradello, venne a patti e cedette Como a Filippo Maria, ottenen- done in cambio un indennizzo economico e l’in- feudazione di Lugano, della sua valle e degli altri Locandina dello spettacolo sui Mazzarditi allestito dal centri del Sottoceneri, la città di Locarno com- Gruppo Caronte per il festival Insubria terra d’Europa. presa. Nel 1417 anche i de Besutio dovettero ri- nunciare al feudo della pieve brebbiese, restringendo il loro possesso al solo castello eponimo. Il Carmagnola cannobino passò molti anni agli arresti e nel 1421 lo troviamo imprigionato nella rocchetta di Porta Romana, come risulta dal registro del castellano. Il Sinasso invece andò in esilio a Cerano, ove regolarizzò il suo rapporto con Francesca Boffi, sposandola. Leandro Al- berti cita come luoghi di esilio Intra e Varallo, forse per Giovannolo e Beltramino, che morì pri- ma del 1429. I numerosi beni dei Mazzarditi furono confiscati e donati dal duca al capitano ducale Opizino da Alzate e non furono loro più restituiti, nemmeno dopo il perdono di Filippo Maria Visconti promulgato il 16 luglio 1429, col quale vennero assolti da tutti i loro crimini e delitti di lesa maestà, liberati dal bando e ripristinati nei loro diritti. Nessuno quindi denunziò i Mazzarditi come malfattori e delinquenti comuni. Come chiosa l’Andenna, “i loro delitti era- no politici e la loro pena, il bando e l’esilio, era una pena politica”31. Con buona pace di chi fu sommariamente assassinato e depredato in quei difficili anni di transizione per il nostro Stato. Per le amministrazioni locali interessate a rappresentare lo spettacolo teatrale "I Mazzarditi, i pirati del lago", con conferenze sulla pirateria nei laghi insubrici, si prega di contattare la segreteria di Terra Insubre.

(30) La concessione del diritto di mercato è rilasciato da Filippo Maria il 22 aprile 1428 ed è scaricabile dal sito www.patriziato- ascona.ch. Vi si legge: “A quei tempi, durante quelle guerre, la nostra terra fu devastata e la popolazione si dovette allontanare, cosicché il mercato cessò del tutto e non fu più ripristinato in seguito. Ora però la popolazione è ritornata ad abitare in quella vostra terra, e desidera ripararla dai guasti e bonificarla.” (31) Op. cit., nota n. 18, p. 661.

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FOLKLORE Storie di pirati del lago Maggiore tra realtà e leggenda

DI ROBERTO CORBELLA

A trent’anni dalla scomparsa, Milano ha reso omaggio al suo illustre figlio: noi lo facciamo ricordando il suo film più “centrale”, “Il gattopardo”.

Il lago Maggiore (o Verbano) dal Medio Evo in poi fu sempre covo di pirati. Le sue rive così varie con coste rocciose, canneti e spiagge offrivano rifugio a bande di disperati che, agendo da soli per puro istinto di sopravvivenza e rapina oppure protetti da una poco credibile copertura politica, trovavano nella pirateria un modo più che discreto per arricchirsi. Certamente i più noti di questi Signori del lago furono i fratelli Mazzarditi. Davanti a Cannero sulla sponda oc- cidentale del lago Maggiore sorgono, edificate su di un grande scoglio di roccia, le rovine di un antico castello: secoli fa, per molto tempo, fu il covo di questi quattro fratelli di Cannobio, che divennero pirati al servizio della famiglia Rusconi, di parte guelfa. Con le loro veloci imbarca- zioni assalivano le grandi barche da carico dirette a Locarno o Arona, derubavano i passeggeri e rapivano le donne. Naturalmente solo quelle giovani e belle. Anche i paesi rivieraschi erano spesso vittime delle loro incursioni. La tecnica era sempre la stessa: arrivavano di notte, sac- cheggiavano, incendiavano e se qualcuno cercava di opporsi veniva ucciso subito a coltellate o, se riconosciuto nemico dei Rusconi, catturato e condotto fino sul ponte dell'Agostana, dove veniva massacrato a colpi di mazza ferrata di fronte alla gente di Cannobio. I cadaveri degli avversari politici erano buttati nel fiume dove l'acqua ribolle fra le rocce. Una delle loro più famose imprese fu l’assalto alla città di Angera. La scusante politica ad- dotta era che dovevano uccidere un membro della famiglia ghibellina dei Vitaneschi, residen-

Barconi da trasporto sul lago. Questo e i due successivi disegni furono realizzati da Emma Mazza per La sponda magra di Costanzo Ranci, volume stampato nel 1931 dalla Libreria Editrice Ambrosiana di Milano.

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te nel borgo. Giunti silenziosamente di notte. sbarcarono a Ranco per non avere a che fare con eventuali milizie di guardia al porto della cittadina. A Ranco i pirati avevano un complice che li attendeva coi cavalli. Così arrivarono ad Angera e circondarono il borgo, ma il rumore degli zoccoli, nel gran silenzio di allora, si udì da lontano e mise in allarme il loro avversario. Costui, sceso al lago, salì su una barca e remò fino all'Isolino Pantegora, nascondendosi tra i cespugli. Intanto i pirati erano entrati in paese. Si sentivano le loro grida accompagnate dai colpi delle mazze contro le porte delle case, poi le urla e il pianto delle donne, aggredite da quei diavoli scatenati. Nel suo nascondiglio fra le canne, l'uomo che era motivo di tutto quel disastro non ebbe il coraggio di uscire. Sarebbe stato immediatamente sopraffatto e non avrebbe nemmeno giovato alla gente del paese che i Mazzarditi ormai stava uccidendo, violentando e rapinando con la scusa che la riteneva colpevole di avergli dato asilo. I pirati, raccolto un ingente bottino, incendiarono alcune case. Le fiamme si estesero a tutto l'abitato, ormai avvolto in una densa cortina di fumo. Completata l’opera, i pirati se ne andarono. Quando lo scalpitio dei cavalli si perse in lontananza, l'uomo uscì dal nascondiglio e fuggì lontano. Questa fu probabilmente la più eclatante impresa dei pirati del Verbano. Mai più, in seguito, essi osarono assalire un borgo. Il “Lupo” di Angera. Angera nell’ultima decade del Seicento vide le gesta di una figura mi- steriosa, un pirata nativo di Arona di cui non si ricorda il nome ma solo il soprannome: Ur Luff (il “Lupo”). Attorno a questo personaggio sono nate diverse leggende. Pare fosse un omone gi- gantesco, scuro di carnagione e con una gran barba ispida. Protetto dal corrotto governatore della città, cui cedeva parte del bottino, il “Lupo” agiva generalmente d’inverno, quando, coper- to dalla nebbia o dalla pioggia assaliva i barconi carichi di merci che transitavano di fronte ad Arona diretti a nord. Il suo ricetto (dove nascondeva il bottino temporaneamente) era l’Antro mitraico, ai piedi della Rocca, che forse proprio da lui più tardi prese il nome di “Tana del Lupo”. Lavorava con una banda di pochi seguaci e si mormorava fosse spietato e crudele. La leggenda dice che, per vendetta, uccise e cucinò un bam- bino figlio di un suo nemico di Taino e poi se lo mangiò. Un'altra leggenda racconta che fece costruire dai suoi prigionieri un tunnel che passava sotto il lago nel tratto tra Angera e Arona. Completata la costruzione, li uccise tutti per impedire che ne rivelassero l’ubicazione. La galleria gli serviva per comparire o scomparire a sorpresa da una città all’altra, per avere sempre una via di fuga sicura. Come tutti i masnadieri dell’epoca anche il “Lupo” aveva il suo punto debole: le belle fanciulle, soprattutto molto giovani. Si nar- ra che una notte con la sua banda rapisse due sorelle di cui si era incapricciato e le trascinasse attraverso la famosa gal- leria fino ad Arona, dove aveva il suo covo, tra i ruderi di una vecchia fortificazione. Dovette essere una notte di vio- lenze alla fine della quale il brigante, distrutto dalla fatica, cadde in un sonno profondo. Le due fanciulle, non reg-

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gendo alla vergogna, si arrampicarono sui resti smozzi- cati di una torre e si suicidarono gettandosi nel vuoto. Questo provocò le ire del pievano di Arona che sco- municò il pirata. Bisogna dire che fino a quel momento il “Lupo” aveva goduto di una certa impunità perché protetto dal signorotto del luogo, uno dei tanti Visconti di ramo cadetto. Ora, di fronte alle ire della Chiesa, an- che il Visconti dovette abbandonarlo sia pure a malin- cuore dato che ricettandone la refurtiva costui faceva col “Lupo” degli ottimi affari. Dopo questi fatti le imprese del brigante di Arona vanno diradandosi e il “Lupo” scompare, resta il suo ricordo nel toponimo della “Tana del Lupo” che ne perpetra la leggenda. Se confuse e poco certe sono le notizie riguardanti la vita di questo brigan- te, ancora più fumose sono quelle relative la sua morte: tradizionalmente si dice che sia morto annegato durante il crollo della sua galleria sotto il lago, ma un autore ottocentesco accenna a una morte violenta in seguito a una rissa in taverna. Luison Braghett e Polidoro da Cerro. Anno Domini 1686: il gran barcone a vela del ban- chiere di Bellinzona, proveniente da Sesto Calende, sta compiendo le manovre di ancoraggio. Al largo la tramontana incalza, le onde si sono fatte minacciose, soprattutto per chi deve risa- lirle; per mettersi al riparo, gli Svizzeri sono venuti a ormeggiare al riparo nel porticciolo natu- rale di Travaglia. Come se niente fosse, i pirati, sulle barche nascoste nel canneto, spiano le loro più piccole mosse, mentre quelli, senza accorgersi di niente, stanno placidamente sul ponte ad aspettare che il vento si calmi. Passa il pomeriggio, arriva la notte e il tempo non migliora. L’indomani mattina, infine, al sorgere del sole, il lago sembra più docile. Tosto la barca col teso- ro alza la vela e prende il largo. I pirati, armati fino ai denti, remando, spingono l’imbarcazio- ne fuori dal canneto, alzano anch’essi la vela e salpano. Le due imbarcazioni corsare, a vele spie- gate, intraprendono l’inseguimento. Ma la tramontana riacquista forza. Sotto le violente raffi- che gli scafi si inclinano pericolosamente. I Ticinesi, che non hanno motivo di diffidare, dimi- nuiscono la velatura e decidono di ritornare verso riva, per mettersi al riparo. La fortuna è dalla parte dei camisardi. In una sola lunga bordata manovrano verso il largo per non insospettire la preda, lasciando il barcone svizzero molto indietro, poi virano di colpo e puntano sul castello di Caldè, dove si acquattano sotto riva aspettando il passaggio del loro bottino. Alcune ore più tardi, la tramontana di nuovo perde vigore e la barca del tesoro riprende il suo viaggio. Eccola! Essa costeggia la riva molto serenamente con una velatura ridotta. E, al momento buono, i pirati le compaiono dritto davanti. È l’abbordaggio, sciabole in pugno. “Giù le vele, arrendetevi!”, grida il loro capo. Stupito, l’equipaggio non si difende neppure e mentre le due imbarcazioni derivano col vento i pirati trasportano il bottino a bordo. Poi tagliano tutti i cor- dami, spezzano i remi, legano i marinai alle loro panche e, particolare divertente, fanno loro giurare solennemente di non guardare in quale direzione si sarebbero allontanati! Per maggio-

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re precauzione, fanno finta di dirigersi verso Cannobio. Quindi. velocemente, cambiano dire- zione per avvicinarsi a Luino. dove hanno il nascondiglio alla foce del . Sulla riva li aspet- tano con dei carri, sui quali caricare il bottino. Qualche istante dopo, nella più grande anima- zione, comincia la spartizione del mucchio d’oro e d’argento rubati. Una parte di queste ric- chezze andrà all’oste di Sesto Calende che ha fatto la spiata ai Luinesi. Questa è la ricostruzio- ne di una classica azione piratesca effettuata sul lago Maggiore nel Seicento. Luigi Bassani (o forse più probabilmente “da Bassano”), detto Luison Braghett (Luigione coi calzoncini), fu uno di questi pirati che operarono sul Verbano nel periodo susseguente la Con- troriforma. Di lui si sa poco, come d’altronde degli altri masnadieri dell’epoca. Forse Luigi da Bassano era tra quei pirati che per qualche tempo imperversarono tra e il Gamba- rogno, trovando rifugio per le loro barche in quel tratto di costa dirupa che ora fa parte del comune di Tronzano ed è il paradiso dei surfisti. Per diversi anni questi pirati di piccolo cabo- taggio uscivano dai loro covi con le loro veloci pinnacce nei giorni in cui il Maggiore soffiava più forte e le grandi barche da carico dirette a Locarno si trovavano in difficoltà. Raggiunta la preda, un veloce abbordaggio, qualche pistolettata o sciabolata tirata bene sistemava la questio- ne, seguiva un rapido trasbordo del bottino e quindi le imbarcazioni corsare scomparivano in direzione di Maccagno, a quei tempi terra libera e indipendente, che addirittura batteva mone- ta propria. La libertà d’azione di questi briganti durò un ventennio, quindi le continue la- mentele dei buoni borghesi spinsero le milizie dei Tre Cantoni (Uri, Schwyz, Unterwald), a quel tempo tutori o padroni del , ad agire decisamente: in poche settimane i pirati dell’Alto Verbano si dileguarono, fuggendo verso sud, in Lombardia, dove l’ingarbugliata situazione poli- tica e l’ignavia delle autorità permetteva loro ampie libertà. Tracce su questi “pirati” si possono trovare a Berna all’Archivio di Stato, nelle relazioni in lingua tedesca dei Balivi dei Tre Cantoni e negli scritti del Ranci (1895-1942), del Morigia e di altri autori dei secoli scorsi. In questi però non vi sono dati storici sicuri quanto, per lo più, resoconti di imprese leggendarie e aneddoti curiosi: quello, cioè, che più piaceva ai lettori del loro tempo. Così viene ricordata la figura di Polidoro da Cerro (in realtà era di Ceresolo) che aveva il suo covo in una forra impenetrabile vicino a Reno e teneva la barca alla fonda in una insenatura nei pressi. Polidoro era uno di quei pirati che sarebbero piaciuti a Sal- gari: bello, virile, di buona educazione, forse di nascita nobile. In contrasto la sua ciurma era composta da avanzi di galera ributtanti e malvagi. Più che abbordare i battelli al lar- go questi pirati preferivano attaccare in ac- que basse di modo che, se anche il naviglio si fosse rovesciato sarebbe stato facile recuperare la refurtiva. Tra le sue imprese si ri- corda la cattura di un navicello che trasportava i forzieri pieni di zecchini d’oro delle “gabelle”, i proventi delle tasse incassate. Si dice che avesse nascosto ingenti tesori, proventi dei suoi ab- bordaggi, vicino a Laveno, in un’anfratto del Sasso del Ferro, e che progettasse di ritirarsi a vita privata e vivere la vecchiaia gaudente

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L’eremo di Santa Caterina del Sasso.

del ricco borghese. Purtroppo commise l’errore di innamorarsi di una sposina, una certa Ce- cilia, che fece rapire proprio il giorno delle nozze e, dopo averla violentata, diede in pasto ai suoi uomini col risultato che possiamo immaginare. La cosa fece molto scalpore e il Capitano di Giustizia locale non potè esimersi dal raccogliere un piccolo esercito di cinquanta soldati, tutti armati di moschetti e picche, e marciare contro i pirati di Polidoro. I militari batterono inutilmente le forre boscose tra Cerro e Arolo finchè non scoprirono e incendiarono le imbar- cazioni dei pirati, ben nascoste alla foce del Bardello. Disperato Polidoro attaccò una cascina a Mirasole ma venne respinto, inseguito e i suoi uomini in gran parte uccisi. Catturato, venne impiccato a Ceresolo in riva al lago che aveva visto le sue gesta. Ul Bianc de Santa Caterina. Il “Bianco”, pirata leggiunese vissuto pare nel XVII secolo, è una figura ancora più misteriosa del “Lupo” di Angera. Di lui e delle sue imprese sono rimaste poche tracce scritte e anche queste appartengono più alla leggenda che alla storia. Sfrondando le sue storie dagli stereotipi dell’epoca (assalti ai conventi per procurarsi prede femminili, aggua- ti con le barche ai ricchi mercanti che transitavano sotto la parete di roccia del Motto Scigolino, fuga dal carcere travestito da frate e susseguente rifugio nell’eremo di Santa Caterina da dove sarebbe poi fuggito portandosi via un tesoro di ex-voto d’oro e d’argento e tanti altri episodi più o meno fantasiosi), rimane poco a cui uno storico possa aggrapparsi per delineare un ritratto più o meno reale di questo brigante di lago. Sarebbe bello, al riguardo, se qualche lettore potes- se fornire notizie sul “Bianco”. La mia impressione è che ci troviamo di fronte ad un depistag- gio d’epoca molto ben riuscito. A quei tempi numerosi Valdesi in fuga dalla Provenza, dove erano perseguitati dal re di Francia, si rifugiarono in Svizzera e quindi da lì in Lombardia. Questi, perduti tutti i loro averi, per sopravvivere si erano spesso compromessi col brigantag- gio. Tra di essi vi era un certo Jean-Pierre Blanchet, proveniente dalla piccola città di Lutry. Blanchet già da adolescente si lanciò sulle grandi strade dell’avventura: preso possesso dei rispar- mi paterni, li sperperarò fino all’ultimo soldo. Finite le ricchezze, visto che non gli piaceva lavo- rare, fece per un po’ la spia e poi il truffatore, spesso in fuga ma sempre affascinante e di buon umore. Da truffatore a pirata sul lago Lemano il passo è breve, ma quando sente la Legge alle calcagna eccolo fuggire a Sion, passare il Sempione e giungere in Val d’Ossola, dove le sue trac- ce si perdono. E se il misterioso “Ul Bianc”, pirata a Leggiuno, fosse stato il nostro Blanchet (letteralmente “Bianchetto”) che aveva italianizzato il proprio nome? Non lo sapremo mai. Blanchet ricompare a Losanna anni dopo, tanto ricco da poter acquistare un castello, sposar- si e ottenere una carica politica. Ma evidentemente i soldi non bastano mai e il Nostro si accor- da nientemeno che col duca di Savoia per fare un colpo grosso alle spalle dei banchieri di Lo-

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sanna che trasportano su vascelli il loro oro da una parte all’altra del lago. Con un temerario ab- bordaggio il colpo grosso riesce. Prima Blanchet accantona 26 sacchi di monete d’oro destinati al duca, quindi si preoccupa di nascondere il bottino nella cantina del suo castello. Il pirata, si- stemati per sempre i problemi economici, pensava di poter riprendere il ritmo placido della sua vita borghese... ma questa volta si era spinto troppo in là. Il subbuglio, l’agitazione e il via-vai di tutti quei brutti ceffi nel giardino di Blanchet erano stati notati dai vicini. Egli verrà denuncia- to e la perquisizione al castello porterà al recupero del bottino: arrestato, torturato, venne infine decapitato. Resta il dubbio se Blanchet non fosse stato “Ul Bianc” in una parentesi lombarda... I Naufragatori. Nei secoli XVII e XVIII vi fu anche un altro tipo di pirateria che interessò i grandi laghi lombardi. In periodi di crisi economica o turbolenza politica, quando si allentava la morsa del governo centrale e si era a un passo dell’anarchia, ecco gli abitanti dei piccoli cen- tri rivieraschi formare delle bande dedite al brigantaggio sommerso. Possiamo chiamarle “co- operative di pirateria”, imprese criminali - alle quali partecipavano spesso tutti gli uomini validi del paese in tempo di carestia - che si scioglievano quando l’emergenza passava o era stato rac- colto sufficiente bottino per supplire alle magre risorse del loro mestiere di pescatori-contadini. Capolago per il lago di Varese, Arolo, , e Feriolo per il lago Maggiore sono a volte citate quali covi di queste bande criminali occasionali. La tattica di quella gente era molto sem- plice: una spia (di solito donne che giravano per i mercati) avvertiva quando si sarebbe effettua- ta una spedizione di merci preziose via lago. Il giorno convenuto, gli uomini del paese prepara- vano una trappola: un gruppo di donne con bambini (per non destare sospetti) si imbarcava su una zattera saldamente ancorata in un punto (ad esempio le “Fornaci” di Ispra o il Sass Cavalasc di Ranco), dove vi era una fila di scogli sommersi a poca distanza dalla riva. Alla vista del barco- ne da trasporto che attendevano, le donne si mettevano a gridare aiuto e ad attirare in tutti i mo- di l’attenzione. Solitamente l’equipaggio del naviglio accostava, vuoi per curiosità vuoi perché attratti da donne giovani e piacenti, e il barcone si arenava e a volte fracassava la prua sugli sco- gli. Nella confusione che seguiva, gli uomini del paese si gettavano in acqua e salivano numerosi a bordo, massacravano a coltellate e a colpi d’ascia tutti i membri dell’equipaggio per non lasciar testimoni e, portato a riva il bottino, bruciavano il barcone per cancellare ogni traccia della loro impresa. Questa era pirateria imposta. Imposta dalla fame, dal malgoverno e dalla disperazione. Tra i nostri antenati ci furono anche questi naufragatori, diventati pirati per nutrire i loro figli. Armi, tattiche e imbarcazioni. Una trappola frequentemente usata dai pirati lacustri era quella detta “del naufrago”: saputo dell’arrivo di una nave contenente preziosi, le barche dei pi- rati si nascondevano dietro una punta boscosa e quando il battello era in vista, uno di loro si gettava in acqua aggrappato a un trave e nuotava incontro al vascello gridando aiuto. I buoni marinai lo issavano a bordo e il pirata recitava la parte del povero naufrago e raccontava una sto- riella plausibile. La nave proseguiva il viaggio e quando si trovava all’altezza dell’imboscata il finto naufrago repentinamente tagliava le sartie facendo cadere l’albero. Disalberata, la nave era impossibilitata a muoversi e veniva facilmente abbordata dai pirati con le loro veloci pinnacce. Altro trucco di cui facevano spesso uso i corsari era quello di lasciare uno dei loro in un ango-

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lo remoto del lago, in un punto dove le “nonne” “Nonna” da carico erano costrette a bordeggiare. Attirata l’attenzione dei marinai, il finto frate li chiamava a riva e quando il battello stava per approdare, i pirati l’accerchiavano con le loro barche più maneggevoli e seguiva la battaglia. Solitamente, se si arrivava all’abbordaggio, i pirati avevano la meglio mentre in caso di scontro in acque aperte il risultato era deciso dalla potenza di fuoco e dalla velocità di manovra dei contendenti. Quali erano le imbarcazioni usate ai quei tempi sui nostri laghi? Innanzitutto vi era la gran- de chiatta a fondo bombato, senza deriva, timone a remo e albero dotato di una grande vela quadra. Lenta e poco manovrabile, poteva però portare grandi carichi ed era molto sicura in ac- que agitate. Era la più usata per le merci. Questi barconi andavano solo col vento in poppa o tutt’al più al gran lasco, potevano bolinare poco per cui se dovevano andare da sud a nord sfrut- tavano il vento Inverna che soffia di mattina, mentre al pomeriggio vi era il vento di Tramonta- na (se forte, era chiamato Maggiore) per andare da nord a sud, per cui generalmente la mattina all’alba partivano da Arona o Sesto e risalivano il lago finché vi era vento. Se quando cadeva il vento non avevano raggiunto la meta, allora accostavano e passavano la notte presso la riva. La mattina ripartivano. Il ritorno seguiva le stesse modalità in senso inverso. Il vento più forte era il Mergozzo che soffiava da Fondo verso Cerro e a volte faceva paura, tant’era violento. Dopo la chiatta, vi era l’imbarcazione detta “lucia”, soprannominata anche “nonna”, la clas- sica barca del lago di manzoniana memoria, a fondo piatto con la copertura di tela a galleria, lunga a volte anche 8-10 m, usata per la pesca ma anche per il trasporto di merci e persone; so- litamente era mossa coi remi ma, se vi era una bella brezza di poppa, montava un piccolo albe- ro con vela quadra. L’imbarcazione utilizzata dai pirati per le loro imprese era la “pinnaccia” che poteva raggiungere una lunghezza di 8 m. Veloce e agile era attrezzata con albero e vela latina e poteva portare una ciurma di 6 marinai. A volte per gli agguati ai navigli che si accostavano o bordeggiavano sotto riva i pirati usavano i “triass” a remi: a fondo piatto. lunghe 6-7 m, veni- vano manovrate solo coi remi ed erano simili alle più piccole barche da pesca tradizionali dei nostri “Triass” laghi tuttora usate. Furono in uso fino a tutto il XX secolo. La barca detta “galeone” o “battell” in- vece non si usa più: lunga 15-20 m, cabinata con stiva, aveva un piccolo castello a poppa che ripa- rava il timone e un albero con vela latina e fioc- chi (o “genova”) sul bompresso. Fu la più grande imbarcazione che solcò i nostri laghi. Questi na- vigli erano armati con una o più spingarde (simi- li a quelle usate ancora oggi per la caccia alla sel-

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vaggina di passo) e con grossi archibugi montati su perno rotante che sparavano a mitraglia, Armi dei ovvero venivano caricati con tutto: dai cocci pirati. di vetro ai pezzi di ferro, chiodi e anche pie- tre. Quando colpivano avevano un effetto de- vastante e provocavano delle orribili ferite. A volte per disalberare le barche o stracciare le vele, e così immobilizzare il naviglio, si usava sparare con l’archibugio, da distanza ravvicinata, due palle di piombo incatenate tra loro. Il tiro a mitraglia era mirato ad allargare il più possibile il campo di tiro utile, più che a uccidere si tendeva ad azzoppare e a mutilare gli avversari, per poi finirli in fase d’abbordaggio. Grosse pi- stole a pietra focaia con caricamento a ruota e archibugi leggeri detti moschetti (da cui ‘mo- schettiere’) che sparavano palle tonde di piombo con discreta precisione. Le spade non erano certo i fioretti dei film di cappa e spada ma lunghi e pesanti spadoni manovrati con due mani, a volte con lama ondulata o seghettata, capaci di troncare la gamba di un uomo con un colpo. Ma più comunemente si usavano i c.d. cutlass, sciabole corte a lama larga. In assalti e abbor- daggi la ciurma era armata di coltellacci eredi degli scramasax longobardi, di scuri da macellaio col manico lungo un metro o più, da usare a due mani, nonchè di mazze chiodate o ferrate. Conclusione. Questa, per sommi capi, la storia di alcuni dei più noti pirati del lago Maggio- re, storia intrigante e piena di misteri in cui è difficile scindere la realtà storica dal complesso di tradizioni orali e romantiche leggende ottocentesche. Restano infatti pochissimi documenti d’e- poca e le storie sono sempre di seconda mano, riferite anni dopo i fatti. È possibile, col tempo, che possano anche emergere nuove fonti. Ma già così mi pare logico trarre questa conclusione: il lago Maggiore, gloria dell’Insubria e uno dei più belli al mondo, si merita questi personaggi, questi pirati, queste vicende di lotte selvagge, belle donne, oro e sangue: tutto ciò fa parte del suo fascino. L’autore di questo scritto lo percorre da cinquant’anni con amore e affetto, prima come giovane pescatore su un triass, poi in barca a vela a far regate, ora con un kayak che scivola tra le onde e penetra negli anfratti più nascosti. Posso assicurarvi che, soprattutto d’inverno, quando solo i veri laghitt escono al largo, strane ombre emergono dalla nebbia e le canne sussurrano di tesori perduti e di feroci abbordaggi. Veri o leggendari che siano, lasciamo al lago i suoi pirati.

Bibliografia AA.VV., Grida della Lombardia austriaca prenapoleonica (a c. di R. Leydi); AA.VV., Inchieste napoleoniche sui costumi e tradizioni nel Regno Italico (carteggio cisalpino), Archivio di Bellinzona (tramite concessione AAT) L. Bertarelli, Piemonte, Lombardia, Canton Ticino, Touring Club Italiano, Milano, 1913 P. A. Curti, Tradizioni e leggende, Colombo, Milano, 1856, voll. I-IV A. Gheerbrant, Bianco, AST, vol. I, AV Losanna C. Avalle, Leggende diaboliche della storia italiana, Torino, 1846 AA.VV., Streghe, briganti, diavoli e santi (Racconti della Lombardia), Manoscritto Gribaudo, Torino C. Ranci, La sponda magra, Libreria Editrice Ambrosiana, Milano, 1931 AA.VV., L’albero del tempo, Angera, 2003 Le fonti orali: P. Muschin, L. “Gnacia” Costantini, A. “Balin” Cantabene

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