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Schiavi dell’Inferno di

Rileggo con piacereSchiavi dell’Inferno (The Hellbound Heart), uscito circa vent’anni fa per Bompiani e ora riproposto dalla meritoria Indipendent Legions Publishing. Scrittore estremo e coraggioso, concittadino dell’altrettanto famoso Ramsey Campbell (sono entrambi di Liverpool), Clive Barker o si ama o si odia, senza mezzi termini.

Spirito ribelle, provocante e provocatorio, sempre in prima linea a esporre il proprio pensiero e i propri gusti, del tutto liberato dai collari sociali delle forme e dell’eticamente corretto. Un talento monumentale, capace di esprimersi a trecentosessanta gradi; ora pittore, ora regista, ora scrittore e perché no drammaturgo e fumettista. Qualità poliedriche tali da farlo emergere giovanissimo, scalando con la disinvoltura dei predestinati gli impervi gradini che conducono dall’anonimato alla notorietà internazionale. Apprezzatissimo da Stephen King, se ne discosta per un taglio più votato all’intrattenimento che all’analisi del contesto socio-politico. Se King guarda il quadro di insieme, Barker entra nella testa dei singoli, meglio se sono coloro che abbandonano i sentieri imposti da chi stabilisce le regole del gioco sociale. Barker mostra laddove King ammicca, Barker va subito al sodo laddove invece lo scrittore del Maine tende a ricamare. Se King frena onde evitare di veder giudicate le proprie opere troppo truci e politicamente scorrette, Barker fa l’opposto, premendo sul pedale del grandguignolesco e delle perversioni sessuali. Possiamo dire che con Clive Barker la narrativa horror cambia per la quarta volta la propria pelle. Se con Walpole e la Radcliffe il genere era nato quale gotico (con fantasmi, catene che sbattono tra loro e finestre che si aprono d’improvviso in castelli diroccati, lasciando all’immaginazione il ruolo di completare ciò che il mistero suggeriva) e con Lovecraft e gli scrittori griffati weird tales si era trasportato l’horror ai confini della fantascienza con forze aliene trascendenti pronte a ritornare nel nostro mondo, per poi ricondurre il tutto agli orrori quotidiani con la triade Leiber-Matheson-King, con Barker irrompe in narrativa l’orrore estremo, visionario, caratterizzato dalla disgregazione dei corpi e dal sangue a fiume che sgorga dalle ferite. Un orrore in cui sofferenza e piacere si confondono tra loro come facce impazzite della stessa medaglia lasciata vorticare in un cielo controllato da demoni ambigui non ben definiti nella loro reale natura. Chi rappresenta il bene e chi invece il male…? Non è ben chiaro, perché tale non vuol essere.

Schiavi dell’inferno, uscito due anni dopo i primi volumi dell’antologia Libri di Sangue (1984-85), è il manifesto dell’intera carriera dell’autore. Romanzo breve o, se preferite, racconto lungo, è l’ideale anello di congiunzione tra i visionari e cruentissimi racconti e la successiva e copiosa produzione. Si tratta di un romanzo che risente ancora della giovane età dell’autore, all’epoca trentaquattrenne, non ancora maturo e suscettibile di pochi sviluppi ulteriori al mero narrato per la presenza di contenuti intrinseci, a mio avviso, non sufficienti a elevarlo dal mero intrattenimento. Ciò nonostante si tratta di un romanzo cardinale, sia per essere il testo che ha dato il là a una fortunatissima quanto duratura saga cinematografica () con tanto di pantheon diabolico di creazione barkeriana (assai più vicino a quello dantesco che a quello lovecraftiano), sia per proporsi da contenitore di quegli argomenti che caratterizzeranno buona parte della produzione dell’autore di Liverpool.

Sono infatti già presenti i temi del piacere fisico e sessuale, delle perversioni viste come soluzioni, evidentemente mendaci e pericolose, in quanto non conosciute a fondo e dettate dall’ignoranza o dal male di vivere piuttosto che dalla conoscenza, per sfuggire alla noia quotidiana col fine di scoprire quel qualcosa in più che possa stonare e regalare brividi nuovi. “I piaceri della gioventù avevano portato il fascino della novità ma, con il procedere degli anni e l’esaurirsi delle sensazioni più tenui, erano diventate esperienze sempre più forti.” Il sesso dunque utilizzato quale parte integrante e speculare dell’orrore e della menzogna, sulla scia di una lunga serie di maestri soprattutto cinematografici (il più evidente è ). Barker sviluppa il tema con una proprietà di linguaggio aulica, ma non pesante, e con grande gusto descrittivo (attentissimo ai colori e alle scenografie). Mette al servizio della narrativa il proprio faro guida pittorico, tratteggiando contorni onirici che toccano il loro apice nelle scene in cui i supplizianti, ovvero i demoni invocati (qua non si chiamano ancora Cenobiti), entrano in azione. Contrariamente a quanto si possa pensare, Schiavi dell’inferno è la storia di un amore malato, non molto lontano da quello che sta alla base delle coppie assassine che hanno insanguinato le pagine della cronaca nera, soprattutto americana. Una personalità dall’apparenza forte (in realtà debole e alla deriva tanto da aver accarezzato l’idea del suicidio), quella di Frank Cotton, e una debole, quella della moglie del fratello di Frank Cotton, infatuata dalle caratteristiche che l’uomo le mostra e che divergono da quelle del fratello (“come hai fatto a sposare quel mollusco lì?”). Barker gioca a mettere a nudo l’ipocrisia del cosiddetto uomo (o donna) etico e lo fa giocando con la donna che dovrebbe esser felicemente sposata ma che invece pensa alle perversioni che le permettono di rompere la triste quotidianità per immaginare una realtà diversa.

È quest’ultima a scatenare il vero inferno che sta alla base del romanzo, non sono i supplizianti. I demoni, peraltro tutt’altro che antipatici: rispettano persino la parola data e fanno quello per cui sono stati creati. Restano sullo sfondo per intervenire solo quando vengono espressamente invocati, mediante una serie di combinazioni rompicapo utili a risolvere l’enigma costituito dalla scatola di Lemarchand. Il vero male allora diventano le pulsioni represse, sembra suggerirci Barker, ma anche, allo stesso tempo, la non conoscenza dei propri limiti. L’autore di Liverpool sembra dirci che spingerci oltre all’umanamente concesso è tanto letale quanto castrare le proprie emozioni e le proprie voglie per allinearci ai dettami voluti dalla società in cui viviamo. Nel primo caso, come farà Frank Cotton, si finirà in balia dell’ignoto (“aveva rischiato vita e mente in nome della conoscenza”). Non a caso l’uomo invoca i supplizianti convinto che questi gli mostreranno il piacere estremo, cadendo così vittima di un letale fraintendimento, peraltro dovuto alla banalità delle sue richieste. Nel secondo invece si finirà nelle maglie della pazzia fino a giustificare le proprie azioni assassine in nome di un amore che tale non è. Ecco allora che la scatola a sei facce di Lemarchand (“E’ un mezzo per rompere la superficie del reale… per mettersi in contatto con l’Ordine dello squarcio”) diviene l’emblema dell’ignoto di impronta magico-esoterica, una via per aprire quel percorso che può condurre l’uomo sugli altari del piacere e della conoscenza ma anche farlo implodere in un dolore tale da disgregare corpo e anima. Sono appena accennati, eppur presenti, i riferimenti subliminali ai movimenti che hanno dato il là alle famose sette segrete di ordine iniziatico. Barker è cruentissimo nel descrivere le scene in cui vediamo il protagonista dilaniato da ami e catene ma, soprattutto, involuto dal rango di sfaccendato ricco in cerca di emozioni a quello di implacabile assassino in cerca della linfa necessaria a permettere alle sue cellule di ricrearsi. Un impulso, quest’ultimo, assimilabile al tossico in cerca di droga, indispensabile per permettergli di sfuggire dall’inferno dallo stesso invocato e riconquistare quella faccia che ha perso come un giocatore d’azzardo al cospetto di un croupier del casinò. “Non sei il primo a esserti stancato delle meschinità del mondo. Ce ne sono stati altri. Alcuni hanno osato ricorrere alla configurazione di Lemarchand. Uomini come te, ansiosi di investigare nuove possibilità, che avevano sentito delle nostre capacità sconosciute al vostro mondo.” Si fa notare inoltre che i supplizianti sono cinque (numero esoterico per eccellenza) con il quinto di essi, l’Ingegnere, caratterizzato in un modo così misterioso ed evanescente che mi ha fatto venire in mente il personaggio misterioso che condivide gli scantinati dell’Opera con il fantasma protagonista del capolavoro di Gaston Leroux. Bellissima la descrizione finale con l’ingegnere che appare per consegnare alla superstite la scatola e scomparire nelle ombre della città silente, tra nebbia e mistero. A far storcere la bocca, a mio avviso, c’è la facilità con cui ben due soggetti riescono a decriptare gli enigmi che stanno alla base della scatola di Lemarchand e, più in particolare, quel retrogusto cinematografico da boogeyman che si respira per tutto il corso del romanzo. Barker, probabilmente, lo ha scritto pensando già a un’eventuale trasposizione cinematografica da sviluppare nell’alveo dei slasher movie. Cosa che peraltro farà, con grande successo, appena un anno dopo dall’uscita del romanzo. L’autore di Liverpool ha tuttavia il grosso merito di rimodulare temi classici quale il fantasma intrappolato in un muro (che funge da trappola di confine tra la dimensione del reale e la parallela) o quello del vampiro (Frank Cotton è costretto a nutrirsi di sangue per ricreare i propri tessuti) o ancora quello dell’invocazione satanica (Barker riscrive in chiave fantastica i tratti fisici e “morali” dei demoni), così da dar vita a un romanzo horror al tempo stesso classico e innovativo. Gli anni a seguire dimostreranno a chiare lettere il talento dello scrittore e soprattutto faranno di questo “piccolo” romanzo un’opera centrale nel panorama horror cinematografico, fumettistico e letterario. Consigliato agli appassionati di grand guignol, ai fan dell’horror estremo e a chi intende farsi una cultura a trecentosessanta gradi del genere.

L’AUTORE Clive Barker inizia scrivendo per il teatro, poi passa alla letteratura e alla pittura. In seguito si interessa all’adattamento per il cinema delle sue opere ma ne rimane insoddisfatto a causa dei paletti posti dai produttori durante le riprese, questo è il caso di Rawhead Rex e Underworld. Così si impegna nella direzione diretta degli adattamenti e il suo primo, Hellraiser: Non ci sono limiti, ebbe un notevole successo. Più tardi la Eclipse e la Epic si interessarono per la trasposizione in fumetti dei Libri di sangue creando la serie Tapping the vein e dei Cenobiti di Hellraiser creando una saga apposita chiamandola The harrowing dove hanno partecipato i disegnatori di fumetti americani di più grande successo. Sulla Epic abbiamo anche il seguito di , una saga che descrive l’esodo degli abitanti di Midian. Per la Marvel ha creato quattro nuovi supereroi inediti in Italia: Hyperkind, Ectokid, Hokum & Hex, . Nel 2015 è uscito nelle librerie statunitensiThe Scarlet Gospels, nuovo romanzo di Barker in cui Harry D’Amour (detective del paranormale apparso nel racconto L’ultima illusione contenuto nel sesto volume dei Libri di sangue) si scontra con . Come scrittore lo si può ricordare con I libri di Sangue, The Inhuman Condition, In the flesh, The forbidden, ed Hellraiser. Il suo stile feroce e sanguinario però non lo fa restare uno scrittore di nicchia ma un maestro del brivido amato in tutto il mondo. I film dell’orrore vengono messi in risalto soprattutto da effetti speciali e make-up efficaci. Tra i suoi personaggi più noti possiamo ricordare Pinhead, indiscusso antagonista della saga Hellraiser, e , l’uomo con l’uncino che appare dallo specchio, personaggio dell’omonima trilogia.

Schiavi dell’inferno Autore: Clive Barker Editore: Indipendent Legions Publishing Pag: 185 Prezzo: € 14,50

a cura di Matteo Mancini

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Orrore a largo di Retirnia di Matteo Mancini “Coloro che sognano di giorno sono consapevoli di molte cose che sfuggono a coloro che sognano solo di notte. Nelle loro visioni grigie captano sprazzi d’eternità, e tremano, svegliandosi, nello scoprire di essere giunti al limite del grande segreto. …” Eleonora – E.A. Poe

La spiaggia era deserta, così come la terrazza che vi si apriva sul retro. Silente, se ne stava quieta sotto l’ultimo abbraccio diurno. Non vi erano ombrelloni, né sdraie. Le membra del gigante sabbioso si snodavano tra dune e graminacee, dipingendo il luogo dell’aspetto tipico del decrepito giunto alla soglia del trapasso. Era il triste periodo invernale. La stagione in cui i turisti dimenticano Retirnia, sacrificando il tempo al dio denaro o facendo volare i cuori verso altri lidi. Due figure si stagliavano sullo sfondo violaceo. Tagliavano in due il globo che si eclissava nelle acque del Tirreno. Un disco scarlatto, prossimo a naufragare in una tavola turchina, sospeso sulla linea dell’orizzonte. Era il preludio della notte. Gli attimi che separano il tangibile dall’occulto. Il più vecchio dei due osservatori era incurvato sulle transenne della terrazza. Un piede poggiato su una sbarra, le braccia raccolte sul petto. Le pupille, intente a scorrere nell’immenso, gli dardeggiavano sotto i deboli spruzzi solari. Piccole quanto brillanti, sembravano ardere di una vitalità ascetica. Alle spalle del vecchio, un ragazzo prendeva appunti su un taccuino. Una sigaretta serrata tra le labbra, il bavero della giacca rialzato. Da buon giornalista di storie paranormali, il giovane si stava documentando su uno strano episodio verificatosi nel 1939 sulla costa toscana. Più di preciso, a largo di Retirnia. Dopo mesi di ricerche, aveva ottenuto ciò a cui ambiva: un appuntamento con il pescatore più vecchio del litorale nonché unico testimone oculare della vicenda. Certo, avrebbe preferito incontrarlo in un pub o in un bar, ma l’altro non aveva acconsentito. “Sono troppo vecchio per quei luoghi” si era giustificato, pretendendo un’ambientazione all’aria aperta. La penna aveva appena cessato di scrivere sul foglio le indicazioni preliminari, quando il giovane alzò la testa. Il vecchio se ne stava immobile, a godersi il tramonto. Aveva una folta barba e dei lunghi capelli sciolti nel vento. Erano bianchi, ma una patina di unto li avvolgeva tanto da dare l’impressione che fossero spruzzati da polvere di stelle. Il volto, ricoperto di rughe, testimoniava i troppi anni trascorsi sotto la morsa del sole. In particolare, stupiva lo stato della pelle: era incartapecorita, simile a una pergamena di un’antica civiltà. “Tu vuoi sapere. Non è vero, ragazzo?” ridacchiò l’uomo, senza voltarsi. La voce roca metteva brividi. L’accento era apatico, pressoché monocorde. “Ho fatto molti chilometri per questo” rispose l’altro, grattandosi i baffi. “Gliene sarei molto…” “L’ho visto di decine di colori. Blu, verde, talvolta nero, ma è quando diviene lavagna che il terrore mi corrode l’anima” lo interruppe il vecchio. “In quei momenti, il cielo si trasforma in un turbine di nuvole fangose, mentre il vento inizia a ululare allo stesso modo di un crotalo pronto a sputare il suo siero.” Il giovane immaginò di trovarsi su una barca di pescatori. Una di quelle raffigurate nei libri di un tempo, con i remi e la struttura in legno. Poteva già sentire il mormorio delle onde e gli spruzzi di salsedine attingergli il viso. Vedeva il mare spumeggiare mentre, in un continuo sali e scendi, vi ballava sopra. Gli parve, persino, di udire un crepitio; là, oltre lo strato di nubi. Un tuono, forse. L’odore del salmastro però non lo sopportava. Lui, uomo di città, non lo poteva proprio tollerare: mai avrebbe potuto affrontare quella distesa sussultante. Un conato gli azzannò le budella, inducendolo a tossire. “Beh, già in crisi?” gracchiò il vecchio, sfilando da un taschino del tabacco da masticare. Ruotò il capo di centottanta gradi e sfoderò un sorriso di soddisfazione. Aveva denti neri, macchiati dal tabacco appena ingerito. “Dobbiamo ancora cominciare…” farfugliò, prima di sputare un catarro. “Insomma, è allora che un risolino mi si incolla sul volto” proseguì il pescatore. “Si, una forbice malata; figlia di un delirio che non mi vuol abbandonare. Un ricordo che mi porto dietro dalla giovinezza… Ricordo? Farei meglio a dire visione; in quanto la mente fa brutti scherzi, specie se costretta a nutrirsi con determinati messaggi. E a suo tempo, le opzioni possibili erano poche” Il vecchio fece una pausa, ammirando l’ultimo raggio solare fuoriuscire dalle acque. “Che cos’è la realtà, se non una concatenazione di eventi filtrati da occhi e recepiti da cellule cerebrali? Prova a sciogliere questo quesito, mio giovane amico, e ti renderai conto di quanto sia flebile il confine che divide il reale dal fantastico, il quotidiano dall’incubo. I filtri, ragazzo. È tutto una questione di filtri” Il giovane sbuffò, innervosito. “Sono venuto per parlare della sua esperienza e non per sentire cosa ne pensa di…” Il vecchio agitò un braccio. Le pupille fiammeggianti, il volto contratto in un’espressione austera. “Ti accontenterò, ma sappi che certe porte dovrebbero restare chiuse. La pace dell’animo gode di un equilibrio precario, fatto di illusioni e falsi miti. Basta un attimo per perderlo e smarrirsi nell’imponderabile. Solo chi si è preparato può intraprendere il cammino verso l’onniscienza.” Il buio ormai era calato sulla cittadina, incrinato da una pallida luna affacciatasi a ponente. Il vecchio serrò le mascelle, ruminando il tabacco, quindi iniziò a narrare l’avventura che lo aveva visto protagonista. Una storia verificatasi più di mezzo secolo prima, sbiadita dai lustri di sviluppo economico. “A quel tempo, Retirnia non era la cittadina di ora. Nossignore. Era un ammasso di dune sabbiose e di case disperse nei boschi. Un posto isolato, da poco sottratto alle paludi. Un solo viale la connetteva alla civiltà industrializzata, il resto era ingoiato dalla vegetazione. I cittadini che vi vivevano erano forestieri venuti in cerca di fortuna. Nutrivano la speranza di affermarsi in un paese che avrebbe dovuto ancora nascere. Per fortuna della mia famiglia, vivevano per lo più di pesca. Mio nonno era stato un pescatore, e mio padre e io ne avevamo raccolto l’eredità. Venne, però, un periodo – di cui non troverai traccia nei volumi della biblioteca comunale – in cui i pesci si ridussero in massa” il vecchio strizzò le palpebre, osservando il faro che baluginava a largo. Lo scrittore distolse l’attenzione dal taccuino, e penetrò nella zona d’ombra adiacente al fascio di luce vomitato da un lampione. “Tenga” disse, porgendo all’altro una boccetta metallizzata “ma veda di proseguire.” Il pescatore lo squadrò, stupefatto. Poi, distese l’indice in segno di ammonizione. “Mi hai preso per un alcolizzato?” Il giovane scoppiò in una risata. “Guarda troppa televisione, signore. C’è dell’acqua dentro…” L’altro gli strappò dalla mano il contenitore e se lo portò alla bocca. Bevve con avidità, dopo si pulì le labbra con il dorso della mano. Gli occhi semichiusi, quasi da sfida. La lingua impastata, ma pronta di nuovo per comporre parole. “Televisione? Beh, lasciamo perdere… Fu una decade lunga e dolorosa. Mentre lo Stato si avviava verso la grande guerra, i pesci – a poco a poco – scomparvero. Ma non furono gli unici a dissolversi. La disperazione, del resto, incoraggia l’incoscienza e spinge dove solo i saggi dovrebbero inoltrarsi. Così, diversi pescatori non fecero più rientro nelle loro case. Svanirono nel nulla con le loro imbarcazioni, quasi fossero stati dei tributi versati dalla razza umana a chissà quale divinità marina” al vecchio sfuggì una risata isterica. “Molti persero la speranza e si dedicarono ad altre professioni. Le famiglie iniziarono a nutrirsi con i prodotti provenienti dalle campagne. Il pesce fu considerato un alimento prelibato, di cui si poteva fare a meno. Si giunse, persino, a ignorare il problema dell’assenza della fauna marina: c’era altro a cui pensare. “Questo però non fu sufficiente a farci stare a casa o a farci cambiare lavoro. Un vero pescatore ha il mestiere nel sangue. È un sigillo con cui nasce e che nessuno può più togliergli. “Io, mio cognato e suo figlio tredicenne non facemmo eccezione alla regola. Salpammo dalla costa incuranti del pericolo, spingendosi in direzione di aree vergini. Nutrivamo la speranza di ritornare con un carico tale da rendere felici i nostri cari. Remammo con vigore, superando le secche e domando i cavalloni. “Pian pianino, vedemmo la terra assottigliarsi a oriente; sempre più piccola, sempre più lontana. “Butta le reti!” mi gridò mio cognato. Era un tipo burbero, per cui gli obbedii senza storie. Afferrai la cima della rete e mi apprestai a calarla in mare. Fu allora che avvertii qualcosa di insolito.” “Insolito?” domandò lo scrittore, battendo la penna sul taccuino. “Lo puoi dire forte, figliolo!” ruggì l’altro. “Ho ancora nelle narici l’odore dolciastro e stucchevole che galleggiava nell’etere. Un aroma simile al tanfo di un mattatoio. Uhm… scommetto che non hai mai sentito il puzzo di un mattatoio, giusto?” “Beh, non significa che io non lo possa immaginare” rispose il giovane. Il vecchio piegò le labbra in una forbice compiaciuta. “Immaginare… è la via apparentemente più salutare per sottrarsi dalla realtà. Bada, ragazzo, dico apparentemente. Il rischio è di rimanere confinati in un mondo privo di regole e di non distinguere più quale sia la dimensione così detta reale.” “Si, certo. Può procedere adesso?” protestò, annoiato, lo scrittore. Il vecchio scrutò di nuovo il Tirreno. La luna adesso disegnava un corridoio argentato sulle acque, facendole cangiare alla stregua di diamanti. Bevve un altro sorso dalla borraccia, quindi riprese la narrazione. “Facemmo in tempo a scorgere un’area più chiara del resto. Una sorta di macchia che spiccava nell’azzurro. Era in direzione di essa che ci conduceva la corrente. In un attimo, le nuvole – sospinte da un libeccio levatosi dal nulla – oscurarono il firmamento. Le onde si incresparono in una spuma biancastra. In un turbine di bollicine, la superficie divenne lavagna e iniziò a sbattere sulla prua; nel modo in cui un flagellatore si appresta a saggiare le carni della vittima. In un battito di ciglia, il sole fu spazzato via. “Scese la notte. Non quella che conosci tu; ma una notte fuori luogo, priva di astri e di luna. Sentivamo la barca scivolare via, mentre ci tenevamo l’uno con l’altro per non esser sbalzati nell’ignoto. ““Un vortice…un vortice!” urlava mio cognato. Ma si sbagliava. Eravamo ciechi, in balia di sibili che ci echeggiavano intorno. “Vedemmo sorgere dagli abissi un disco fosforescente. Risaliva da lontano, molto lontano, e ascendeva là dove sarebbe dovuto esservi il cielo. La sua era una luce fredda, malata. Di tonalità azzurrognola, iniziò a smascherare ciò in cui ci trovavamo a navigare. “L’astro straniero saliva e saliva ancora. Sono sicuro che stesse ridendo di noi, osservando la nostra sorpresa per un mondo che non avremmo potuto concepire. Il mare intanto mugghiava. Il suo era un ruggito che penetrava nelle ossa e slabbrava i nervi. “Lentamente, iniziammo a scorgere nel buio. Dapprima notammo le acque. Si erano trasformate di un grigio tale da sembrare cenere liquida. In seguito, scorgemmo un qualcosa che vi emergeva; in obliquo, rispetto alla nostra prospettiva. Lacerava la penombra, irradiando un’aurea gassosa. Infine, divenne nitido e ci rendemmo conto che ve ne erano altri. “Ci trovammo accerchiati dalle colonne di una città dimenticata. Monoliti di pietra che fuoriuscivano da uno specchio oleoso; cupo e impenetrabile. Sulla pietra levigata delle costruzioni si attorcigliavano spire di alghe di un verde putrido. Erano marce, perché esalavano un odore rancido di pesce avariato. “Restammo infatuati da uno spettacolo così insolito, quanto desolato. Ma non era che l’inizio. A mano a mano che l’astro conquistava il cielo, una serie di palazzi si materializzarono al nostro cospetto. “Strutture di un’eleganza accecante, frutto del genio di esseri vissuti in un’epoca perduta. Templi, eretti con chissà quale lega, emergevano dal Tirreno. Scalinate consunte, sfuggite dalle profondità, conducevano verso portali d’oro zecchino. “Rimasi colpito dagli strani rilievi che ornavano le mura degli edifici, e dai rosoni che impreziosivano gli stabili più maestosi. Erano realizzati con cristalli che cangiavano, a seconda dell’inclinazione dell’osservatore, riproducendo forme di creature indefinibili.” “Si sforzi di descriverle” intervenne il giovane. Il vecchio fece un cenno col capo. Mise una mano nei pantaloni e sfilò una medaglia unita a una catena. Una volta estratta, distese il braccio e la lasciò ciondolare. Incerto sul da fare, lo scrittore si passò la lingua sulle labbra. “Su, ragazzo. Vuoi restare lì impalato tutta la notte?” Il giovane sospirò, quindi afferrò la catena. “Beh?” “Guarda bene, troverai lo spunto per la descrizione che ti interessa… sempre che tu riesca a tradurla in parole” farfugliò il pescatore. Lo scrittore osservò ciò che aveva nel palmo. Era un oggetto discoidale, forse d’oro. In rilievo, vi era scolpita una creatura avvolta da sette ramificazioni protese a mo’ di tentacoli su una figura centrale. Non era una piovra, perché il tutto si sviluppava da una specie di fusto umano. Difficile dirlo con certezza, si poteva tuttavia intravedere una sorta di pinna uncinata che spuntava dal dorso. Ma era davvero una pinna o piuttosto una croce spezzata? La risposta era tutt’altro che di pronta soluzione. “L’ha trovata in quel luogo?” azzardò il giovane. “A parte la catenina, si. Quel simbolo era dappertutto, ma la cosa più macabra fu dove rinvenimmo l’amuleto.” “Bene, prosegua allora. Sono tutto orecchie.” “La barca scivolava intrepida, senza che noi la sostenessimo con i remi. Costeggiava pareti millenarie, progredendo in un corridoio di brodaglia stagnante. Era come risucchiata verso il centro dell’agglomerato edilizio. Lungo il tragitto incrociammo imbarcazioni di vario tipo. La maggior parte erano sventrate e i resti galleggiavano alla deriva. Altre erano integre, ma con poco o niente in coperta. “Mio cognato cominciò a bestemmiare, mentre mio nipote piangeva. Tuttavia, si sarebbe dovuto far qualcosa. Imbracciai un arpione e attesi che la corrente ci affiancasse a qualche relitto. Non dovetti aspettare molto. “Superata una patina di muschio, riuscii a spingere verso di noi una piccola barca di legno. All’interno, c’era un corpo prono. La speranza di trovare un sopravvissuto svanì subito. Non appena lo voltai, mi trovai di fronte un volto che avrebbe funestato per mesi le mie notti. Un teschio rivestito da una pelle coriacea, disposta su membra ormai spolpate di carne e di muscoli. Era mummificato! “Mio nipote iniziò a urlare. Peggio di lui fece mio cognato: si strappò il crocefisso dal collo e lo lanciò in mare, urlando eresie che non mi sarei mai atteso neppure da un ubriaco. “Per fortuna, in quel pandemonio, riuscii a mantenere la lucidità opportuna per scorgere un leggero luccichio tra le dita scheletriche del cadavere. Avvolto da una pellicola squamosa, rinvenni la medaglia che ora hai….” Un rumore metallico coprì la voce del pescatore. L’amuleto era caduto sul piastrellato. Il vecchio dette sfogo alla sua risata cavernosa. “Ma non sei quello che vorrebbe aprire certe porte?” “Mi è scivolato, che crede?” “Certo… certo…” gracchiò l’altro, ingozzando l’ultimo sorso dalla borraccia. “Comunque, non appena presi la medaglia, delle strane cantilene principiarono a gorgheggiare dagli abissi. Più che cantilene, erano melodie che incantavano i sensi. La loro intensità raggiunse l’apice quando l’astro interruppe la sua ascesa. Era perpendicolare alle nostre teste, alto come il sole a mezzogiorno. Le acque iniziarono a gorgogliare. Sembravano in ebollizione, finché una schiuma fangosa spazzò via dalla superficie la mucillagine. “La cantilena divenne più chiara. Era un coro che si ripeteva di continuo, componendo frasi costituite da vocaboli alieni.” “Alieni? In che senso?” “Impronunziabili da corde vocali umane. Martellavano le orecchie, eppure inducevano in uno stato di catalessi. Strani esseri serpentiformi iniziarono a nuotare sotto il pelo dell’acqua. Era impossibile ammirarli nel dettaglio, perché il mare era torbido. Ricordo solo i loro ventri color panna e i dorsi scuri. “Il terrore si cibò della mia ragione. Temetti che un tentacolo fuoriuscisse dall’inferno e ci portasse giù con sé, nelle fauci del demonio. “Lo ammetto, feci un gesto deplorevole. Ormai, a distanza di anni e sempre più vicino alla morte, posso confermarlo. Ghermii l’impermeabile di mio nipote e lo spinsi di sotto. Suo padre non se ne accorse neppure. Era sdraiato a prua, perduto in un lago di lacrime: le palpebre chiuse, le mani sulle orecchie. Sperai che quel gesto potesse placare l’ira delle bestie che ci stavano pregustando; già, sperai…” Il vecchio si interruppe. “Hai ancora da bere, ragazzo?” chiese, distogliendo gli occhi dalle tenebre che celavano il mare. Il giovane non lo sentì. Era con la mente immersa nel fondale marino. Stimolato dal racconto del vecchio, si vedeva seduto nella melma; massaggiato dalle correnti del baratro e circondato da pesci delle specie più disparate. C’era una grande pace là sotto, unita a una sensazione di completezza. Aveva la convinzione di essere a conoscenza di tutti i segreti dell’esistenza: niente per lui era inesplicabile. Sopra a sé non vi erano pesci, ma creature tentacolari intente a serpeggiare fra le strutture ciclopiche. Le pareti si innalzavano sino a fendere la pellicola sfuocata che separava il mondo dell’acqua da quello dell’aria. Non aveva paura dei mostri, perché erano un lato di una stessa medaglia: una proiezione di un insieme più vasto di cui ora anche lui ne era parte integrante. E là, adagiata sulla pellicola, l’oscura sagoma di una barchetta. Un agnello sacrificale posto sull’altare di un Dio da adulare, ma troppo spesso accantonato nei luoghi più reconditi del creato. “Ehi…Ehi…” gridò il vecchio, strattonando il braccio del suo compagno. “Hai ancora da bere?” “Da bere? No…” scrollò il capo l’altro. Il volto paonazzo, le pupille dilatate. “Vada avanti, la prego” aggiunse, senza più prendere appunti. Il pescatore tossì, massaggiandosi il pomo d’adamo. “Urlava come un indiavolato, mio nipote. L’acqua gli cingeva la gola e, delle volte, lo sovrastava. Poi, lo vidi emergere per metà. Pareva fluttuare. Gli occhi spalancati, la bocca contratta alla massima estensione; ma muta. Trascorse un pugno di secondi, che mi parvero ore. Dopo, un fiotto di sangue gli zampillò sul mento. Anziché dibattersi, iniziò a ridere a crepapelle. Percepii il suono delle ossa che si spezzavano, mentre lui rideva sempre più forte. Quindi lo vidi discendere nell’occulto, in una gora di sangue. Fu la svolta cruciale. Corpi squamati iniziarono a perforare la superficie per immergersi di nuovo. Erano affusolati, simili ad anaconde. “Credetti che il mio cuore non avrebbe retto all’orrore. ‘È la fine’, pensai. D’un tratto, vidi i palazzi tremare. I calcinacci si staccarono dalle mura, scavando profonde crepe. Le acque colarono a picco, risucchiate da quella che poteva essere solo una voragine apertasi nella crosta terrestre. La barca si inclinò e scese giù, per poi sollevarsi in aria d’un colpo. “Davanti a me, si stava levando una creatura mastodontica. Il suo raglio mi tolse l’udito: era un urlo di rabbia. Riuscii appena a intravedere le scaglie della pelle che ricoprivano il cranio. Velate da una vegetazione parassita, erano tanto spugnose da vomitare una pioggia fangosa di colore amaranto. Non posso aggiungere altro, perché persi i sensi stringendo tra le dita l’amuleto che ti ho mostrato. “Il resto è storia nota…” “Fu recuperato da una motovedetta, a diverse miglia dalla costa e a più di due giorni dalla scomparsa.” Il vecchio assentì col capo. “Sulla barca furono rinvenute macchie di sangue” proseguì il giovane. “Ma di suo cognato e di suo nipote nessuna traccia. Né un vestito, né un capello. Niente di niente, svaniti nel nulla. Fu accusato di omicidio volontario, ma le prove non furono sufficienti a condannarla.” Il vecchio socchiuse le palpebre. Aveva gli occhi lucidi, anche se non si comprendeva se per la commozione o per l’eccitazione. “Sostenne di esser finito in una tormenta, ma la guardia costiera smentì la possibilità di una tale ricostruzione. In tutta la costa toscana, nel giorno della vostra scomparsa, non vi era stata alcuna tempesta…” “Proprio così dissero” lo interruppe il vecchio. “Nessuna tempesta, però il fatto che fossimo scomparsi dal braccio di mare interessato è rimasto per loro un nodo tuttora da sciogliere.” “Perché non raccontò la vicenda che mi ha narrato?” Il vecchio arricciò le labbra, quindi si guardò le mani. “Per due motivi” proseguì mettendo in mostra il pollice e l’indice. “In primo luogo, nessuno mi avrebbe creduto. Probabilmente, si sarebbero convinti che avessi da nascondere qualcosa. Per non parlare della speculazione che ne sarebbe derivata. Senza dubbio, mi avrebbero messo in croce per questo. In seconda battuta, ebbi paura. Non tanto di quello che mi sarebbe potuto succedere, ma di me stesso. Ero davvero sicuro che vi fosse un portale sospeso tra la realtà e un altro mondo? O forse avrei dovuto cercare tale confine nel mio cervello? In altre parole, ero davvero sicuro di essermi imbattuto in qualcosa di tangibile piuttosto che in una via di fuga elaborata dalla mia coscienza?” “Via di fuga… mi sta dicendo che forse potrebbe esser stato lei a uccidere i…” “Considerazioni, amico mio… ipotesi che una mente razionale dovrebbe porsi. Del resto, è la ragione a dettare le regole nel mondo; almeno è ciò che dicono i saggi” “E l’amuleto?” Il vecchio scrutò il giovane, dopo si voltò verso il mare. Pareva osservare un punto determinato, avviluppato dall’ombra. Forse il faro, che ammiccava sullo sfondo – sotto il riflesso lunare. “Ogni uomo, finché non ha un incontro con l’imponderabile, crede che questo sia una metafora. Pensa di essere intoccabile, certo delle sicurezze che la quotidianità gli offre. Ma è quando l’inspiegabile irrompe nella ragione che qualcosa si spezza. Le certezze si sgretolano, come castelli di sabbia, la paura cresce in fondo all’animo. Ed è solo allora che ci preoccupiamo di ciò che i nostri sensi non possono affrontare. In quegli esatti istanti, veniamo ingoiati da un humus occulto che non ci siamo preparati a metabolizzare. Talvolta, le illusioni e la pazzia sono le uniche vie d’uscita dal labirinto di sostanza in cui veniamo sbalzati. Preconcetti e forme non trovano più spazio in questa nuova dimensione. “L’amuleto, ragazzo mio, è una prova che – là fuori – c’è un qualcosa di cui ignoriamo l’esistenza; qualcosa che vuol interagire con noi e comunicarci messaggi, forse addirittura premonitori, che non siamo in grado di comprendere.” “Oppure fa parte di una concatenazione di eventi, filtrati da occhi e recepiti da cellule cerebrali. Una questione di filtri, per dirla con sue parole” rispose il giovane, chiudendo il block notes. Il pescatore dondolò la folta chioma bianca, infine fece schioccare la lingua. “Ragazzo mio, ogni buona storia ha più di una chiave di lettura e quella da te prospettata ne è una. Spetta al cuore di chi ascolta interpretare il senso degli avvenimenti.” “Penso che possa bastare” concluse il giovane, porgendo la mano all’altro. “Verificherei la sua storia di persona, ma… sa com’è, ho la nausea del mare. Per cui, non mi dirigerò oltre il faro; e poi preferisco dormire sonni tranquilli, in mezzo ai palazzi illuminati dal sole.” I due si salutarono e si inoltrarono nella notte. “Ehi, ragazzo, la borraccia?” urlò, infine, il vecchio. “La tenga per la prossima volta… chissà che non trovi il coraggio per aprire quella porta…” gli rispose il giovane. Il vecchio scosse la testa, certo che tale eventualità non si sarebbe mai verificata. D’altronde, è più facile trincerarsi in una visione consolidata, anziché imbarcarsi alla ricerca di una verità scomoda.

LʼAUTORE Matteo Mancini nasce a Pisa nel 1981 e vive a Tirrenia (Pi), nel palazzo pertinenza dei vecchi studi cinematografici Pisorno. Laureato in legge con una tesi sulla repressione penale del doping, scrive narrativa da undici primavere. È stato premiato, nel corso degli anni, da Carlo Lucarelli (Strategia della Tensione. 2007), Edoardo Montolli (Cronaca Nera, 2008), Biagio Proietti (Giallolatino, 2009), nonché segnalato da Gianfranco De Turris, dal Premio Urania Giovanni De Matteo e da Andrea Vaccaro. È stato pubblicato in oltre cinquanta antologie e anche in monografie cinematografiche varie (cinema di Ciccio & Franco, volume su Bruno Mattei e un volume ufficiale incentrato sull’attrice, ex Miss Italia, Daniela Giordano), con vittorie e piazzamenti in concorsi di quasi tutti i generi (gli manca il comico). È stato pubblicato, tra gli altri, da Delos Book, Nasf, Edizioni Ferrara, Historica Edizioni, Giovane Holden, Del Bucchia Editore, Il Foglio Letterario, Gds Edizioni, Eds, oltre che sulla rivista sci-fi Next e su Cronaca Vera. Ha pubblicato inoltre le antologie La Lunga Ascesa dal Mare delle Tenebre (2010) e Sulle Rive del Crepuscolo (2011) con Gds Edizioni, oltre il saggio, diviso in quattro volumi, Spaghetti Western (2012-19) con le Edizioni Il Foglio, e il volume sportivo I Re Senza Corona della Formula 1(2017) sempre con il Foglio. Curatore di tre antologie collettive, pubblicate da Gds e Il Foglio, è un grande appassionato di narrativa fantastica tanto da aver curato la prefazione del saggio Com’era Weird la mia Valle (2018) edito da Milena Edizioni e scritto dal duo Lastrucci e Barone Lumaga. Ha diretto un mediometraggio fantastico terminato nel 2016 intitolato Z3D, oltre ad aver scritto la sceneggiatura di un cortometraggio giallo intitolato Non Urlare diretto da Francesco Bernardini e selezionato al FI-PI-LI Horror Festival edizione 2017. Ritornato alla narrativa nel 2017 e nel 2018 ha ottenuto sette pubblicazioni (su nove partecipazioni a concorsi), con menzioni al Premio Hypnos e a L’Orrore di Lovecraft edito dal Circolo Culturale Esescifi, concorso quest’ultimo in cui ha conquistato la seconda moneta. Grande cultore anche di cavalli, settore corse in ostacoli, è stato il primo in Italia ad aprire, nel 2015, un blog (ippicaostacoli.blogspot.com) interamente dedicato al movimento italiano con presentazione corse, pronostici, statistiche, riassunti stagionali, schede di caratura (per i contenuti) internazionale incentrate sulla genetica e alla carriera dei cavalli vincitori dei più importanti gran premi nazionali. In questa veste ha visto pubblicare, pur se non accreditato, una propria foto sul principale giornale di settore, Trotto & Turf, in un numero del marzo del 2018 e ha pubblicato un articolo sulla stagione in ostacoli pisana sul mensile di informazione e cultura ippica Il Paese dei Cavalli del marzo 2015. Possiede inoltre un ulteriore blog, giurista81.blogspot.com, dove recensisce tutto ciò che legge (circa quaranta libri l’anno). Attualmente sta meditando di preparare una nuova antologia con all’interno il meglio della sua produzione fantastica.

Caccia Selvaggia di Mariateresa Botta

Ultimamente la figura del vampiro è diventata fin troppo inflazionata: saghe come quella di Twilight di Stephene Meyer hanno spopolato fra il pubblico giovanile con uno stile grossolano e di facile presa. Sinceramente non ho mai amato neanche Anne Rice anche se ammetto che è a un livello superiore. Invece nel genere vampirico ho apprezzato in particolare La fortezza di Paul F. Wilson, Io sono leggenda di Richard Matheson e Le notti di Salem di Stephen King, a suo modo un grande omaggio al Dracula di Bram Stoker. A proposito del romanzo di StokerLovecraft – in L’orrore soprannaturale in letteratura − elogiava la prima parte mentre trovava la seconda più stucchevole, romantica e meno riuscita: un giudizio da me pienamente condiviso. Mi sono venute in mente queste considerazioni sulla deriva di certa letteratura vampirica a proposito diCaccia selvaggia di Mariateresa Botta, giovane autrice campana appassionata di fantasy e horror. Si tratta di un racconto lungo da cui traspare un approccio originale e profondo a una tematica ipersfruttata. La Botta va alle radici del mito del vampiro presentandoci la mitica e mitologica figura che ha ispirato Dracula di Bram Stoker ovvero Vlad Tepes di Valacchia, il famigerato voivoda soprannominato “l’impalatore” per via della sua abitudine di trattare così i suoi nemici. Troviamo così Vlad Tepes prigioniero del sovrano ungherese Mattia Corvino: in pratica fa la vita del recluso in preda ai fumi dell’oppio e a incubi terrificanti in cui vede o crede di vedere suo fratello Radu che gli ha usurpato il trono. Vlad attende la sua occasione di riscatto che infine giungerà anche a causa del suo comportamento efferato e crudele che crea grossi problemi a Matteo Corvino. Riesce a fuggire grazie all’aiuto di una creatura mitologica con cui ha stretto un patto e che vive, dimenticata dall’uomo, nei sotterranei del castello. Si tratta di una sorta di Dio Cervo munito di corna e di un fallo enorme che potrebbe essere il Cernunnos della mitologia celtica ma che, in realtà, si trova in molte culture antiche: personalmente mi ha fatto venire in mente anche il Gran Dio Pan di Arthur Machen. A questo punto Vlad riesce a mettersi alla testa di un esercito per riconquistare il suo regno. Non vengono taciuti i particolari truculenti con cui vengono impalati i soldati e la crudeltà e il sadismo di Vlad Tepes. Tuttavia la scomparsa della figura del fratello Radu rimane un enigma che porterà Vlad ad entrare in una dimensione onirica e soprannaturale per venire a capo del mistero. Sicuramente Caccia selvaggia è una storia avvincente che si legge tutta d’un fiato e appassionerà tutti i seguaci della figura di Dracula. La Botta scrive bene con un linguaggio ricco di immagini corrusche ma mai troppo barocco – nella scia del suo amato Robert E. Howard – e ha curato molto l’ambientazione storica: vengono citati luoghi come la fortezza Draculesti a Giurgiu e le descrizioni sono molto dettagliate. Vlad Tepes appare come un personaggio tormentato e cupo in preda ai suoi fantasmi interiori. Alla fine rimane però la sensazione di avere letto un prologo a qualcosa che potrebbe essere ulteriormente sviluppato. In ogni caso consigliato a tutti gli amanti del fantasy, di Dracula e dei vampiri.

L’AUTRICE

Mariateresa Botta è nata a Salerno nel 1986, ha tanti gatti ed è la proprietaria di una bioprofumeria. Sin dall’infanzia è un’appassionata lettrice di sword & sorcery, fantascienza e fantastico in generale, con una predilezione per autori iconici come Robert E. Howard, C.L. Moore e Tanith Lee. Nel 2011 il suo primo racconto, Simulacro d’anima, appare sulla rivista IFInsolito e Fantastico (Tabula Fati). Da allora, la passione per la scrittura ha continuato a crescere, portandola a pubblicare su varie antologie: 365 racconti horror per un anno; 365 storie d’amore; 365 racconti di natale; Il magazzino dei mondi 2 (Delos Books); C’era una volta (Rosso China). Per Fantasy Magazine ha scritto il raccontoNon accarezzare Bastet!

Collabora con i blog True Fantasy, Italian Sword&Sorcery, Hyperborea, Andromeda, Terre di Confine, Weird Magazine, scrivendo recensioni e articoli di approfondimento; un suo saggio è incluso nell’antologia Eroica (Watson); ha scritto la prefazione al romanzo di Giuseppe Recchia,Maledetti dalle Fiamme (Watson).

Caccia selvaggia

Autrice: Mariateresa Botta

Editore: Delos Digital

Collana: Fantasy Tales,

Prezzo ebook € 1,99 a cura di Cesare Buttaboni

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Erotic Horror di autori vari Rispolveriamo un’antologia uscita nel lontano 1994, reperibile ormai solo su ebay, su ibs o in qualche mercatino di libri usati. Antologia che raccoglie una selezione dei primi tre numeri della fortunata serie The hot blood series giunta in America, a oggi, a ben tredici uscite. Dietro al progetto c’è un trittico di curatori (Jeff Gelb, Lonn Friend e Michael Garrett) che hanno pensato bene di dar vita a un progetto in cui fondere l’erotismo (marcato) col racconto di tensione sia a sfondo fantastico-orrorifico, sia più realistico tendente al noir senza però rinunciare alle sfumature macabre. Al fianco di autori poco noti, troviamo “mostri sacri” della narrativa fantastica come Robert Bloch, Richard Matheson, Theodore Sturgeon e altri autori di richiamo qualiRamsey Campbell, Dennis Etchison, Richard Laymon, Robert McCammon e Paul Wilson per un totale di diciotto racconti. L’opera può essere analizzata dividendola in due grossi blocchi: quello fantastico-orrorifico da una parte e quello realistico- drammatico dall’altra. Il primo gruppo si rivela predominante rispetto al secondo e annovera alcune perle visionarie degne di nota. Tra i testi di maggiore spicco non si può non segnalare il disperato e al contempo romantico Passi di Harlan Ellison, probabilmente il più bel racconto dell’antologia. Sullo stesso piano si assesta il gotico con tracce di romanticismo Ricongiungimento di Michael Garrett. Assai spassosi infine i folli Generentola di Ron Dee e L’aggeggio di Robert McCammon, con subito alle spalle il qualitativo sci-fi La modella di Robert Bloch.

Procediamo però con ordine partendo da quello che abbiamo definito come il miglior elaborato dell’antologia:Passi (Footsteps). Scritto nel 1980 da Harlan Ellison, scrittore assai prolifico e pluripremiato (sette Hugo. Tre Nebula, un British Fantasy Award, un Edgar dai Mistery writers of America) con alle spalle trascorsi anche in veste di sceneggiatore in serie tv quali Alfred Htichcock presenta, Star Trek e Ai confini della realtà. Ciò che rende il testo particolare è il substrato metaforico. Abbiamo difatti una splendida donna-lupo che seduce gli uomini con la sua bellezza e la sua sensualità. Tutti gli cadono ai piedi e sono attratti dal suo modo di apparire fisico, dalle sue curve, al punto da esser disposti a far tutto pur di averla per loro. Così, nelle notti di Parigi, la donna si trasforma in lupo e sbrana le prede prescelte, continuando a vivere nella tristezza tra un uomo e un altro. Sarà un’altra creatura fantastica (non catalogabile tra quelle convenzionali) a fermare la sete di sangue della donna, assumendo il controllo della coppia e ricercando nel profondo del cuore del licantropo la vera bellezza e facendole così scoprire il vero amore. Un testo che si contraddistingue per non essere un mero esercizio stilistico.

Ancora romanticismo con Ricongiungimento (Reunion) di uno dei tre curatori dell’antologia ovvero Michael Garrett. Garrett propone una storia che rievoca le tematiche e le atmosfere tipiche della narrativa di Edgar Allan Poe seppur rendendo moderno lo stile ed esplicitando la componente erotica che non è più accennata ma decisamente manifesta. Nelle vesti di protagonista abbiamo un uomo ossessionato dal ricordo della sua prima ragazza e più in particolare dei loro focosi amplessi. Sono ormai passati venti anni dal giorno della loro separazione, eppure un misterioso richiamo porta l’uomo a mettersi sulle tracce della ragazza. Di lei non ha notizia dal giorno in cui l’ha lasciata, ma ciò non lo ferma. Si ritroverà così dapprima nel paese di origine della donna e infine al cospetto di una tomba, incapace di muoversi immobilizzato da una sorta di sabbie mobili che lo trascinano giù verso la bara della ragazza che si è suicidata per causa sua e che ora lo tormenta donando la propria voce al vento.

Se i due racconti sopramenzionati possono ritenersi, seppur in modo diverso, legati alla narrativa classica, Ron Dee e Robert McCammon stravolgono completamente gli schemi con delle parodie finalizzate a deridere rispettivamente la favola di Cenerentola e i rituali voodoo.Ron Dee con Generentola (Genderella) del 1993 riscrive in chiave horror e soprattutto dissacrante la favola di Cenerentola, condendo il tutto con una forte componente erotica. Al posto della sfortunata ragazzina, Dee inserisce un giovane omosessuale che sogna di partecipare al ballo di fine scuola con un robusto giocatore di football suo compagno di classe. Respinto dal ragazzo, il desiderio dell’omosessuale verrà accolto da una bizzarrissima fata turchina (un trans vestito di azzurro!?) che lo trasformerà, fino alla mezzanotte, in una bellissima ragazza con cui tutti gli uomini vorrebbero andare. Il sortilegio ha così effetto e, con il nuovo corpo, l’omosessuale riuscirà ad avere per sé il giocatore facendogli giurare di non abbandonarlo mai. Bizzarrissimo e memorabile il finale che richiama tematiche cronomberghiane. Se il testo di Dee è folle lo è ancora di più L’aggeggio (The thang) di Robert McCammon. Questi porta in scena un giovane insoddisfatto delle dimensioni del proprio pene e disposto a pagare qualunque cifra pur di vederne crescere le dimensioni. Il desiderio del protagonista sarà esaudito da un sortilegio, innescato da una specialista voodoo, che produrrà controindicazioni indesiderate che porteranno l’uomo a rimpiangere la sua precedente vita. Il testo è più grottesco che erotico, pur non mancando momenti piccanti come un balletto in un night.

Interessante infine è La modella (The model) del maestro Robert Bloch, il papà dello Psycho poi portato sul grande schermo da Alfred Hitchcock. Siamo in una nave con protagonista un fotografo che si innamora della modella a cui fa le foto. Benché penalizzato da una prima parte blanda, il testo cresce alla distanza e culmina con un finale terrificante e visionario che farà la felicità degli amanti del b-movie. I cinque testi analizzati possono definirsi di primo ordine ma non sono alla stessa altezza gli altri, seppur piacevoli. Tra i più riusciti, per stile e tematiche, sono Julie di Richard Matheson del 1962 e La vendetta esiste di Theodore Sturgeon – aventi in comune, il ribaltamento di ruoli tra seduttori violenti che diventano vittime e sedotti che si trasformano in carnefici – nonché e soprattutto Menage a trois dell’esperto Paul F.Wilson, il quale perde punti solo a causa di un finale in cui si ricerca il colpo a sorpresa a tutti i costi (protagonista una paralitica, tutt’altro che sexy, capace di assumere il controllo di belle donne e di intrattenersi sessualmente con il suo giovane domestico all’oscuro di tutto), e il poco erotico La casa degli insetti di Lisa Tuttle (testo che terrorizzerà soprattutto il pubblico femminile) la quale sviluppa tecniche di caccia proprie degli insetti adattandole al contesto umano. Deludenti e peraltro poco o per nulla erotici Cambio di vita di Chet Williamson, nonché i testi di due tra le presenze più costanti delle antologie horror cioè Ramsey Campbell col suo confusionario Ancora (di cui si ricorda solo l’ottima atmosfera claustrofobica) e Dennis Etchison con Figlia del vecchio west (poco erotismo e fantasmi). Terminata la disamina del primo gruppo di racconti, passiamo a quelli di stampo realistico. Su tutti, è da citare La vasca da bagno (The Tub) di Richard Laymon. A questo racconto si ispirerà Stephen King per il romanzo Il Gioco di Gerald. Nel testo di Laymon ci sono tutti gli elementi che caratterizzeranno il successivo romanzo di King: abbiamo una donna che resta intrappolata (nella fattispecie in una vasca sotto il peso del compagno culturista) durante un amplesso che culmina con la morte per infarto del partner; abbiamo tutti i tentativi bislacchi della donna di liberarsi e che puntualmente vanno falliti; abbiamo l’alternanza del giorno con la notte; troviamo riscontri evidenti anche nelle location (abitazione isolata, porte di ingresso lasciate aperte con conseguente timore di voyeuristi pervertiti che spiano nel buio). La componente erotica è ben gestita, così come la capacità di inquietare con punte di ironia macabra che stemperano la drammaticità della vicenda (la donna che teme che il cadavere possa rianimarsi e terminare l’amplesso, ma anche i movimenti frutto dei gas produttivi che fanno impaurire la donna che pensa che l’amante stia per ritornare dal regno dell’oltretomba). Il finale è un po’ frettoloso, tuttavia regala un paio di colpi di scena: il primo (un po’ scontato) è quello relativo al tentativo omissivo di vendicarsi del marito della donna; il secondo, è il macabro escamotage (decisamente all’insegna dello splatter) ordito dalla donna per liberarsi dal peso del cadavere.

Sesso e morte tornano protagonisti anche nei testi molto perversi ma interessanti di Patrick Gates e Stephen Gallagher. Gates con È bello trovare un uomo duro (A hard man is good to find) del 1991 propone l’ossessione del raggiungimento dell’orgasmo perfetto di una ninfomane che troverà pace solo durante l’amplesso con un uomo che muore al momento della massima eccitazione con conseguenziale irrigidimento duraturo del pene. Non meno perverso è Lo strumento del vizio (DeVice) del 1991 dove il masochismo (incarnato da un bizzarro macchinario da collezione e dal vecchio protagonista che cerca in tutti i modi di eiaculare pur di generare una prole ed evitare che il suo ingente patrimonio passi alla sorella) diviene protagonista indiscusso del racconto.Gallagher dimostra talento indiscusso nello scandire un ritmo seducente con bellissime descrizioni che ricordano, per gli amanti dell’underground italico, certi testi di Giovanni Buzi. Tra i restanti tre testi è più che sufficiente il noir di Julie Wilson (Appuntamento al buio) in cui due sconosciuti in cerca di partner vengono ingaggiati da un inconsueto voyeur disposto a pagarli pur di assistere ai loro amplessi. Meno riusciti gli allucinati deliri psicotici diCarnaio (anche se è presente un velato messaggio metaforico connesso agli adescamenti in discoteca) e L’ultima traversata (testo scontatissimo) rispettivamente della coppia John Skipp-Craig Spector e di Thomas Tessier.

In definitiva un’antologia che si legge bene e che annovera tra le sue pagine alcuni elaborati che fanno della bizzarria e del coraggio le loro armi vincenti. Non sempre i testi sono all’altezza delle aspettative, ma tutto sommato per essere un’antologia di genere si può essere più che soddisfatti.

Erotic Horror Autori vari Editore: Bompiani Prezzo di copertina: € 8-10 (a seconda delle condizioni) su ebay; € 8,64 su ibs

A cura di Matteo Mancini

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La cura del diavolo di Andrea Brando La Redazione Ghost segnala La cura del diavolo di Andrea Brando, pubblicato da Todaro Editore.

In questo racconto gotico, ambientato nel Seicento, viene ripreso il mito delle janare, le streghe di Benevento che, secondo la leggenda, solevano celebrare i loro sabba sotto un enorme noce. Quando una nobildonna napoletana si ammala di vaiolo, non trovando un valido rimedio nella medicina del tempo, decide di rivolgersi proprio alle janare per ottenere la guarigione. Le cure cui le serve del demonio la sottopongono sono a loro modo efficaci e sono prestate gratuitamente. Le streghe non vogliono infatti denaro e neppure costringono la nobildonna e il suo ansioso consorte a firmare un patto con il diavolo. Ma chi si affida alle janare deve sempre affrontarne le conseguenze, immancabilmente terribili. La coppia di aristocratici scoprirà a sue spese che la cura del diavolo è davvero un rimedio di gran lunga peggiore del male.

La cura del diavolo è disponibile sui principali media store.

L’AUTORE Andrea Brando (pseudonimo) nasce a Milano il 25 giugno 1973. È avvocato civilista. Ha pubblicato un romanzo giallo nel 2013 con la Todaro Editore dal titolo A che ora cenano i cannibali? Nel 2015 ha pubblicato il romanzo gotico Per il sabba sempre dritto. Nel 2019 ha pubblicato con Apollo Edizioni il romanzo horror Angela Merkel contro i morti viventi.

La cura del diavolo Autore: Andrea Brando Editore: Todaro Editore Collana: I Gechi Prezzo e-book € 2,99

Cinquecento Anime di Luca Franceschini

La Redazione Ghost segnala Cinquecento anime diLuca Franceschini, pubblicato da Delos Digital.

È disponibile da marzo il nuovo racconto della collana Horror Story, per Delos Digital. Giunta al numero 32 la serie di racconti ha scandagliato le più svariate tematiche orrorifiche unendo scrittori affermati a giovani emergenti. I racconti sono scelti e curati da Luigi Boccia (scrittore, sceneggiatore e regista, membro dell’Horror Writers Association). Cinquecento anime è la seconda presenza in collana di Luca Franceschini, dopo L’orologio a pendolo (Horror Story 19).

Il male non dimentica. E non muore mai.

Boccamara conta cinquecento anime. Un piccolo paese dell’entroterra toscano dalla vita tranquilla e regolare, che da un giorno all’altro viene turbata dalla scomparsa di un bambino. È solo l’inizio di una agghiacciante vendetta attesa centinaia d’anni. E che non attenderà oltre.

L’AUTORE Luca Franceschini è nato a Barga (LU) il 1° luglio 1980. È cresciuto e vive a Lucca, respirando fumetti e interessandosi di scrittura, poesia e musica. Laureato in filosofia, è tra i soci di un’azienda di comunicazione. È stato finalista al Lucca Underground Festival Contest nel 2015 e nel 2016. A dicembre 2015 è risultato secondo classificato al Premio per sceneggiatori di fumetti Ade Capone. Dal 2016 collabora con l’editore Cronaca di Topolinia per il quale cura la serie fumetti noir/hard boiled Lucky Town, la serie di fantascienza Lunar Lex e lo storico-fantascientifico Nyx. Collabora anche con la Bugs Comics con storie contenute nelle riviste Mostri e Alieni. Con Delos Digital ha pubblicato il racconto Alternative Birth Experiment nella collana Futuro Presente e il racconto L’orologio a pendolo nella collana Horror Story. Oltre alla scrittura si dedica anche alla musica con la rock band Free-Go con la quale ha inciso un EP e un LP.

Cinquecento anime Autore: Luigi Franceschini Editore: Delos Digital Collana: Horror Story n. 32 Formati: Epub, Kindle Prezzo: Euro 1.99 Tutte le informazioni: http://delos.digital/9788825408362/cinquecento-anime

La casa nella nebbia di Alda Teodorani

La vecchia viveva sola, in una casa di campagna della pianura romagnola, vicino a Pontesanto. Una casa in mezzo al nulla. Solo una piatta distesa nebbiosa. Per questo il cadavere fu ritrovato solo parecchie settimane dopo. Il contadino raccontò che aveva sete, e si era fermato a bere al pozzo della vecchia. “Quella là,” disse ai carabinieri sforzandosi di parlare in buon italiano, non in dialetto, “non usciva mai di casa. Ciò, l’è longa in bicicletta da Sasso a Toscanella e mi fermo sempre là a bere e magari a cambiare l’acqua ai lupini. Lei non mi ha mai detto niente, non l’ho mai vista, neppure.” E alle domande dei carabinieri, che non sapevano cosa voleva dire cambiare l’acqua ai lupini ma erano più interessati a un’ipotesi di delitto, rispondeva: “A’ ne so, gli portavano da mangiare quelli del comune. Dicevano tutti che era una strega, o qualcosa del genere. Ma io non l’ho mica neanche mai vista.” I carabinieri conclusero che la vecchia doveva essersi buttata nel pozzo da sola, e commentavano su quel disgraziato di Pirotti, che era stato il primo ad arrivare sul posto e aveva dovuto aiutare a tirar su la morta, già mezzo putrefatta. La vecchia non aveva parenti, e il comune di Imola aveva pagato i funerali, facendo suoi casa e podere. E la storia parve finita. La casa fu assegnata a una famiglia di profughi polacchi. Non era proprio la politica del comune, fare favori a simile gente, specialmente quando gli imolesi stessi si ritrovavano sfrattati e costretti a pagare affitti da infarto, ma così fu. E fu scelta quella casa proprio per lo stesso motivo. La madre guardava il bambino giocare con un fagottino di stoffa quadrato cucito a mano. Non era pratica delle usanze del posto e pensò si trattasse di un giocattolo lasciato lì da qualche bimbo. Non si preoccupò assolutamente. E nemmeno si preoccupò quando non vide suo figlio rientrare a cena, la sera. Era estate, faceva buio tardi e, ora che avevano una casa in campagna, non le dispiaceva che il figlio rimanesse fuori a giocare. Lo credeva lontano da ogni pericolo. Fu solo più tardi, verso le otto e mezzo, dopo che il padre era rientrato dal lavoro (faceva i turni in una fabbrica di ceramiche) che la polacca cominciò a preoccuparsi. Dapprima, fu da dentro la casa che chiamò ad alta voce il bambino. Poi, visto che non otteneva risposta, si affacciò al portone e, guardandosi intorno, urlò più volte il nome del figlio. Le rispose solo il silenzio della campagna, interrotto ogni tanto da un monotono canto di grilli. L’aria cominciava ad oscurarsi. Verso Bologna, le luci della via Emilia si sostituivano al chiarore del sole morente. La madre d’improvviso sentì che doveva essere capitato qualcosa di molto grave. Le tornò alla mente il giocattolo di stoffa che il figlio aveva trovato. D’istinto si rese conto che forse non si trattava di un giocattolo. Il volto le si raggrinzì tutto di rughe, mentre correva verso il pozzo. E mentre capiva che suo figlio era lì dentro. La famiglia dei polacchi, ormai ridotta a due sole unità, decise di lasciare subito la regione. Dove potessero mai andare, non si sapeva. Forse l’uomo progettava di andare a lavare vetri sugli incroci, nella capitale. Forse avevano deciso di tornare a Stettino. Ma mentre partivano con grandi accelerate sulla piccola utilitaria rossa e la donna urlava a tutto spiano contro quelli che stavano lì intorno, in un andirivieni di carrelli davanti al supermercato del centro commerciale, un prete che sapeva il polacco si mise a ridere E poi disse a chi lo volle ascoltare che la donna ce l’aveva contro le streghe romagnole, e che gli imolesi potevano andare tutti all’inferno. Quello era il suo saluto alla città.

Non passò molto tempo, e la casa fu affittata nuovamente. Troppo poche, le case a Imola, e troppo casuali la morte di una vecchia sola che si era suicidata e di un bambino un po’ distratto, pronto in ogni momento a cadere nel primo pozzo gli fosse capitato a tiro. L’ipotesi della stregoneria non era assolutamente da prendere in considerazione. La vecchia era un po’ pazza ma innocua. Aveva le sue piccole manie e ogni tanto dormiva nel pollaio, sotto il vecchio forno per il pane, tutto qui. “Da questo a pensare che la vecchia fosse una strega, be’…” disse l’assessore ai servizi sociali del Comune quando si trovò di fronte il trepidante padre di famiglia, cinque figli per l’esattezza, che cercava casa a Imola: era venuto dall’Abruzzo apposta per loro, così disse all’assessore. E, convinto, alla fine prese in affitto la casa. E gli conveniva, anche, perché l’affitto, dopo la morte del piccolo polacco, da basso che era, divenne simbolico. La donna non sapeva nulla delle usanze del posto. Ma quando vide tra le mani del piccolo Giovanni quello straccetto cucito a forma di rombo, non le piacque. Glielo strappò dalle dita grassocce, e lo scaraventò nel pozzo. Il piccolo iniziò a piangere disperato ma la donna non ci badò. Tornò a lavare il bucato al canale: con cinque figli piccoli ce n’era parecchia, di roba da lavare. Furono trovati tutti con la testa immersa nell’acqua. Sembravano cinque piccoli animaletti che fossero scesi a bere. Ma quando li girarono, trovarono che le facce erano coperte di sanguisughe, e gli uomini chiamati dagli abruzzesi per farsi aiutare a ritrovare i figli, per la maggior parte contadini, vomitarono tutta la cena. Perché era successo all’imbrunire. La donna non aveva più visto i suoi bambini, dispersi fin dal primo pomeriggio a giocare nei campi e a mangiare le pesche dei vicini. Gli abruzzesi lasciarono la casa il giovedì successivo alle cinque, due ore dopo la sepoltura dei bambini. Stavolta nessuno udì urlare la madre. Però il marito, quella mattina, aveva mandato l’assessore all’ospedale a suon di pugni. Una settimana dopo, l’assessore tentò di impiccarsi: qualcuno gli aveva fatto trovare sulla scrivania le foto dei bimbi dopo che le sanguisughe erano state tolte dalle loro facce. Come avessero fatto ad avere le fotografie, non si poteva sapere. L’assessore non era riuscito a farla finita perché la moglie era entrata proprio mentre lui dava il calcio allo sgabello, e glielo aveva subito piazzato sotto i piedi, urlandogli di non fare lo stupido. Però diede le dimissioni, e non ci fu verso di fargli cambiare idea.

I seguaci del santone indiano cercavano da tempo un posto dove richiamare i fedeli del luogo. Furono quasi stupiti, quando il nuovo assessore li convocò per comunicar loro dell’assegnazione della casa. Erano due coppie, ragazzi sui venticinque anni, vestiti di arancione. Organizzarono subito una giornata di preghiera e meditazione. Iniziarono a costruire uno strano aggeggio, proprio vicino alla strada. I contadini che abitavano lì vicino, trovandosi alla sera nel bar a bere, fumare e giocare a carte, avevano un nuovo argomento di conversazione. “Che quel à là,”, così avevano soprannominato la fatica degli arancioni, e scommettevano sulle forme che avrebbe potuto avere, una volta ultimata. “Par mè l’è una dona nuda,” diceva uno ridendo, succhiando il sigaro. “Par mè l’è un caz,” diceva un altro. Però quando “’e quel,” fu ultimato, nessuno sapeva dire a cosa somigliasse. “L’è una statua del Buddha, ignoranti!” disse quella sera il maestro Bardi, quando qualcuno gli chiese il suo parere “come si vede che non siete mica stati a scuola, oscia! Le elementari di corsa, i v’a fat fer!” Fu proprio quando la curiosità era al culmine che accadde. Era una sera d’inverno. Bastianì, passando di lì, vide che, al cancello degli arancioni, qualcosa era cambiato. L’alto obelisco che aveva ospitato alla sua sommità la statua del Buddha era stato distrutto. E sotto, tutti nudi, c’erano i corpi dei quattro ragazzi. Non sarebbe stato mortale, per loro, trovarsi lì sotto mentre quel coso era crollato. Ma le pietre li avevano colpiti alla testa. Come avesse fatto a crollare, perché i quattro fossero completamente nudi, come mai si trovavano là sotto, non si poteva capire. La gente cominciò a parlare con terrore della casa stregata, che aveva già ucciso dieci persone, di cui sei bambini. Nessuno volle più sapere di andarci ad abitare. A poco a poco, i rovi di more la coprirono, e i contadini giravano al largo, dicendo che portava sfortuna anche solo tentare di avvicinarsi e che la notte si accendevano in casa delle luci. Che era la vecchia strega, tornata dalla tomba. “Sono stato proprio bravo. che bravo,” diceva tra sé l’uomo ridendo, mentre saliva le scale illuminandosi la strada col lume a petrolio. “Non sarà una reggia ma porca l’oca m’ero proprio stufato, so’nca me, di dormire alla stazione, su quelle panche di legno e il termosifone sempre spento, e i diretti per Rimini o Bologna che passano ogni mezz’ora… Sono proprio bravo. Specialmente quelli là degli indiani gli ho sistemati proprio bene. Dormivano tutti nudi, una bela bota in testa, una bella botta e passa la paura, drett in paradis, ma però c’ui vegna un azident, quant’erano pesanti quando li ho portati fuori,” e borbottava qualcos’altro, insieme a qualche bestemmia perché aveva inciampato e aveva rischiato di cadere. “Ac fatiga buttare giù quel coso a picconate,” diceva ancora, riprendendo a salire quella scala che sembrava interminabile “che bravo che son stato, così adesso di qui non mi manda più via nessuno… finalmente ho una casa anche io…” e proprio in quel momento vide per terra un quadrettino di stoffa cucito a mano. Si chinò a raccoglierlo ma quando s’accorse che era solo un vecchio straccio, lo buttò via, dicendo: “Un azident!” Fu l’ultima cosa che disse. Inciampò, cadde, e si spaccò il collo. La lampada si ruppe, e il fuoco cominciò a lambire il pavimento di legno. Quando i contadini di Pontesanto e Casola Canina seppero che la vecchia casa era bruciata, tirarono un sospiro di sollievo. E la sera, al bar del prete, qualcuno offrì un bicchiere di spumante a tutti.

L’AUTRICE Alda Teodorani ha pubblicato un centinaio di racconti e numerosi romanzi per varie case editrici (Stampa Alternativa, Datanews, Addictions, Rizzoli, Einaudi, Mondadori, Profondo Rosso e altre), ha firmato alcune delle più visionarie pagine della letteratura. Ha inoltre pubblicato libri di poesie. I suoi lavori sono stati tradotti in francese, spagnolo e inglese. Buona parte della sua produzione è disponibile anche in ebook e audiolibri. Ha tradotto numerosi saggi, racconti e romanzi e svolge un’intensa attività di editor. Scrive libri di saggistica new age sotto pseudonimo. Dai suoi racconti sono tratti film e fumetti. Le sono stati dedicati saggi e tesi di laurea, anche in lingua straniera. Ha partecipato a convegni e tenuto conferenze in università italiane e straniere. Insegna scrittura creativa alla Scuola Internazionale di Comics di Roma. Personal Website www.aldateodorani.it La seconda morte di Maurizio Cometto 2° parte

Mercoledì si svolse tutto come lunedì. Non la vidi in treno la mattina, del resto non la cercai neppure. Non venne a lezione di Costruzione di macchine. Non la incontrai sul treno del ritorno, su cui invece c’erano, seduti uno di fronte all’altro, il sacerdote e il tipo con “Il Sole 24 Ore”. Dovevano conoscersi, perché facevano sempre coppia. Prima di dar sfogo al mio disappunto, decisi di aspettare il venerdì. Non l’avevo incontrata proprio di venerdì, sul treno per Cuneo delle diciotto e venti? Qualcosa voleva pur dire. Ma venerdì, sia sul treno delle dodici e venti per Torino (del resto abbastanza deserto, e lo perlustrai tutto), sia a esercitazione di Costruzione di macchine, io non la vidi. Arrivai alla stazione alle diciotto precise. Sapevo che se non l’avessi vista sul treno, probabilmente non l’avrei vista mai più. Anche se la settimana dopo avrei continuato a cercare. Poi non ci sarebbe stato più nulla da fare, perché finivano le lezioni e iniziavano gli esami. Feci il giro del treno, già abbastanza affollato. Non la trovai. Mentre risalivo sconsolato le carrozze, notai nuovamente il sacerdote grassoccio (già mezzo addormentato) e il tipo elegante nascosto dal “Sole 24 Ore”, ovviamente seduti uno di fronte all’altro. Rallentai il passo. Mi venne in mente di sedermi lì, di fianco al tipo elegante, lato finestrino, come avevo fatto il venerdì precedente. Chissà che non avrebbe portato fortuna? Ma il posto era già occupato. Da uno studente di Informatica di Savigliano, un tipo solitario e taciturno, che aveva fama di genio e che conoscevo di vista. Aveva lo sguardo fisso fuori del finestrino. Sembrava che dormisse a occhi aperti. Decisi comunque di sedermi vicino a loro. Due dei quattro sedili dall’altra parte del corridoio erano liberi; ne occupai uno. Appena il treno fosse partito, avrei fatto un ultimo, disperato giro di controllo. E poi mi sarei dedicato all’autocommiserazione, arte in cui ero maestro.

Devo ripetermi ancora una volta, purtroppo. Girai tutto il treno e non la trovai. Tornai al mio posto. Maledicevo la mia sfiga in generale, la mia tendenza a imbattermi nelle situazioni più strane, nelle persone più inaffidabili. Imprecavo mentalmente contro di lei per non aver tenuto fede alle sue promesse. Mi sentivo stanco, depresso, con nessuna prospettiva sentimentale. Mi consideravo un fallito. Canticchiavo a memoria una canzone dei Danny Wilson di un album uscito cinque anni prima, Imaginari girl. Si adattava perfettamente allo stato d’animo in cui mi trovavo. Dopo Carmagnola, abbastanza prevedibilmente, stavo già sbollendo. Ero troppo stanco per continuare a compatirmi. Inoltre cominciavo ad almanaccare che forse lunedì avrei potuto rivederla. E se fosse stata a casa un’intera settimana per un malanno? Magari un’influenza intestinale, con il caldo che aveva fatto… Chissà, forse c’era ancora qualche possibilità… Rivolsi l’attenzione ai tre tipi seduti alla mia sinistra. Il sacerdote dormiva e ogni tanto russava. La faccia del tipo elegante, al solito, era nascosta dal “Sole 24 Ore”. Mi colpì l’atteggiamento dell’informatico saviglianese. Fissava un po’ fuori del finestrino, un po’ davanti a sé, il posto rimasto vuoto, con occhi spalancati e aria imbambolata. Ebbi l’impressione che ogni tanto parlasse da solo. Forse il troppo studio l’aveva fatto uscire di testa. In prossimità di Savigliano cominciò a prepararsi per scendere. Si alzò e recuperò lo zaino con mosse impacciate, come se temesse di urtare qualcuno o disturbare troppo. Si portò sul corridoio. Stava per allontanarsi, quando d’improvviso si voltò a guardare il posto vuoto, davanti a quello che aveva appena lasciato. Fece un timido sorriso. Poi disse, come in risposta a qualcuno: – Va bene, a lunedì mattina. Si allontanò verso la piattaforma di uscita, con passo rapido. A lunedì mattina… Proprio in quel frangente di improvviso smarrimento ricordai un particolare. Venerdì scorso, appena uscito dal treno, avevo dato un’occhiata attraverso il finestrino, al posto in cui lei doveva essere seduta. Volevo farle ciao con la manina. Il posto era vuoto. Lei non c’era più. O forse non c’era mai stata?

Solo più tardi mi resi conto che il sacerdote grassoccio, subito dopo che l’informatico saviglianese aveva lasciato la scena, si era svegliato emettendo una specie di tremendo gorgoglio. E che il tipo elegante finalmente aveva ripiegato con cura la sua copia del “Sole 24 Ore”, rivelando la faccia scavata e il paio di occhiali con spesse e rotonde lenti nere che già conoscevo. I due si erano scambiati un sorriso.

Il fine settimana fu terribile. Di giorno non studiavo, di notte non dormivo. Avevo paura di essere uscito di testa. Mi telefonò tre volte Luca: voleva parlarmi di Anna. Fui disturbato da altri conoscenti che da tempo non sentivo. Mia sorella mi chiedeva lumi sulle travi reticolari. Declinavo sempre, adducendo scuse con quel poco di lucidità che mi era rimasta. Di notte se chiudevo gli occhi rivedevo lei. Ogni particolare mi era tornato alla mente, nitido e preciso. I capelli biondo- rossi e le ciocche intorno al volto. Gli occhi azzurro-viola, tanto che pareva indossasse lenti a contatto. L’altezza superiore al metro e settanta, la pelle delle braccia nude bianchissima, la scollatura generosa e le belle gambe… Poi aprivo gli occhi, accendevo la luce, e lei si dissolveva. E mi sembrava di udire il suo lamento, addirittura un urlo, come se davvero il suo corpo si fosse smembrato. Soprattutto quell’urlo, sentito o immaginato, era insopportabile. Ancor prima di domenica sera avevo già deciso. Avrei parlato con l’informatico saviglianese. Eravamo in due a essere coinvolti. Si trattava di unire le forze. Di capire cosa stava succedendo. Di portare luce in quell’oscurità. Quando presi questa decisione, mi sentii meglio.

Lo sorpresi il mattino, a Savigliano. Entrò proprio nel vagone dov’ero sistemato io. Capii dalla faccia che nel fine settimana non aveva dormito. Avanzò nella calca guardandosi attorno con aria fintamente casuale. Era già in caccia, poverino. Mi alzai e gli andai dietro. Come non avevo fatto io, percorse tutto il treno del lunedì mattina, ovviamente senza risultato. Si sedette in fondo al treno, dove c’era ancora qualche posto libero, e io mi sedetti di fronte a lui. Guardava fuori del finestrino, malinconico. Affrontai l’argomento nell’unica maniera possibile: quella diretta. – Guarda che è inutile: lei non esiste -, affermai deciso. Spostò lentamente gli occhi su di me. Sembrava infastidito, più che sorpreso. – Come savebbe? -, domandò. Non sapevo avesse la erre “moscia”, ma da noi non è infrequente. – La ragazza che hai visto venerdì scorso, in treno, e che ti ha dato appuntamento per oggi. Alta, bionda, occhi azzurro- viola, aria aristocratica. Gran bel pezzo di figliola. Ebbene, non esiste. – Come fai a sapeve… Ova vicovdo! Evi seduto vicino a noi! – Non solo per quello. Il venerdì precedente l’ho veduta io! E mi ha dato appuntamento al lunedì successivo, a lezione di Costruzione di macchine. Figurati se poi l’ho incontrata. Né a lezione né in treno; né lunedì né mercoledì né venerdì. Niente: scomparsa nel nulla. Ma c’è un’altra cosa, ben più importante… – Ah, sì? Sentiamo… – Venerdì scorso seduto davanti a te non c’era nessuno! Il posto era vuoto! Questo sembrò scuoterlo. – Non c’eva nessuno…? Intendi dive che non c’eva lei? Ma se io l’ho vista! – Dietro gli occhiali strabuzzò gli occhi. – Non c’era nessuno. Vedevo te gesticolare e parlottare, scusa se mi permetto, come un pazzo con sé stesso. E non c’era nessuno. Ma soprattutto, ho visto come alla fine, in piedi, hai salutato e dato appuntamento a lunedì prossimo a “qualcuno” … Ti stavi rivolgendo al sedile! Arrossì improvvisamente. – È lei che mi ha dato appuntamento, non io. Non mi savei mai pevmesso. Diceva di conoscevmi, ma io non l’avevo mai vista pvima d’ova, te lo giuvo! Mi fece compassione. – Non ci cvedo che non c’eva nessuno. Io non sono pazzo. Sono cevto che oggi a lezione la vedvò. – Ok, imbecille. Incontriamoci sul treno delle tredici e venti, se ti va, e vedremo cos’avrai da raccontarmi. Annuì. Non mi pareva sconvolto o incredulo. Era semplicemente offeso.

– Avevi vagione. Non s’è fatta vedeve, quella stvega. Eppuve sembvava sinceva, diceva di conoscevmi… – Non te la prendere. Vieni con me. Dobbiamo andare dai due tipi, il prete e quella specie di broker, li ho visti in cima al treno. Era ovvio che c’entravano qualcosa. Nelle due occasioni in cui lei era apparsa, erano stati presenti. E avevo ricordato il brusco risveglio del prete, il giornale ripiegato sulle ginocchia dell’altro, il sorriso complice che si erano scambiati.

Esistono visioni che possono condurre un semplice studente sull’orlo della pazzia. L’urlo disumano, il sangue che filtra da sotto la porta, la gente che passa indifferente… Sono immagini che temo perseguiteranno le mie notti prima tranquille. Notti popolate tutt’al più da ingenue paranoie sugli esami più pesanti, o da sogni romantici o erotici accompagnati dalla musica pop. Avrei fatto meglio a non propormi come cavia per l’esorcismo escogitato da quei due. Del resto, che dire? L’informatico saviglianese non aveva il coraggio; io, da parte mia, volevo rivederla. Ed è stato un caso, in fin dei conti, che proprio io sia rimasto coinvolto? Il prete grassoccio si rivelò un esorcista con facoltà medianiche. Il tipo elegante dall’aria del broker, un famoso studioso del paranormale. Il prete quando andava in trance si addormentava e russava, e in tal modo attirava in questo le creature dell’altro mondo. Il falso broker aveva inventato una sorta di “visore paranormale”, complicatissimo, che per i comuni mortali aveva forma di un paio di occhiali da sole. I due, ci dissero, erano stati ingaggiati in gran segreto dalle Ferrovie dello Stato. Dovevano liberare la linea Cuneo – Torino da una presenza fantasma, più volte avvistata dal personale ferroviario e da alcuni passeggeri. Dieci anni prima una studentessa di Scienze Politiche di nome Esmeralda Giordanengo si era tolta la vita nel bagno del treno, tagliandosi le vene dei polsi. La causa del suicidio era stata una delusione amorosa. Esmeralda aveva sorpreso il suo ragazzo, Giuseppe Giraudo, mentre si sbaciucchiava con un’amica, in uno scompartimento con le tendine tirate. Era corsa nel bagno del treno e aveva posto fine ai suoi giorni, utilizzando come arma un paio di forbici da unghie. Di questa cruenta storia non avevo mai saputo niente. Neppure l’informatico saviglianese l’aveva mai sentita. Era così, ci spiegarono i due, perché le famiglie coinvolte e le Ferrovie dello Stato avevano cercato di far trapelare il meno possibile. La ragazza che avevamo visto era Esmeralda. Il suo fantasma si aggirava sui treni della Cuneo – Torino e faceva promesse d’amore ai ragazzi più “solitari e indifesi” (così dissero), promesse che ovviamente non manteneva. Era il suo modo per vendicarsi del torto subito da Giuseppe. – Solitavi e indifesi? Cosa intendevebbe dive…? -, saltò su il mio compagno. – Vuol dire più predisposti da un punto di vista psicologico - , spiegò il falso broker, ghignando apertamente. Per far cessare le apparizioni esisteva una sola soluzione, a detta dei due. Bisognava far “rivivere” (usarono questo verbo) al fantasma di Esmeralda la scena che l’aveva portata al suicidio. Solo così, riaffrontando lo shock, avrebbe finalmente avuto pace. Un po’ come succede in una seduta psicanalitica. D’istinto mi offersi di convincere Esmeralda. L’informatico saviglianese avrebbe sostenuto la parte di Giuseppe, chiudendosi in uno scompartimento, e facendo finta – al momento opportuno – di sbaciucchiare qualcuna. Qualcuna che poi sarebbe stata sua sorella, appassionata lettrice – venne fuori – di Dylan Dog. Combinammo tutto per il giorno dopo, treno delle undici e quarantacinque per Torino, uno dei meno affollati. “Giuseppe” e sua sorella andarono a chiudersi in uno scompartimento. Io mi sedetti di fianco al “broker”, nervoso all’idea di rivedere Esmeralda. Mentre il “broker” infilava gli occhiali da sole (il “visore paranormale”) e spiegava la sua copia del “Sole 24 Ore” (vecchia di un mese), il prete grassoccio chiuse gli occhi e in men che non si dica il sonno diede un’aria ancora più placida al suo volto già placido. Cominciò a russare. Esmeralda arrivò e si sedette esattamente come la volta precedente. – Perché non sei venuta lunedì scorso? -, le domandai subito. La timidezza che avevo provato era scomparsa. – Lunedì scorso? Dovevamo vederci? E perché? Accavallò le gambe e mi guardò, con quegli occhi splendidi e dal colore indefinibile, in attesa di una risposta. – Mi avevi dato appuntamento a lezione di Costruzione di macchine… Sorrise lievemente. – Guarda che ti sbagli. Io sono iscritta a Scienze politiche, non a Ingegneria. E poi sono già impegnata. Deglutii a vuoto. Mi sentivo doppiamente preso in giro, perché non ammetteva di avermi ingannato. È solo un fantasma, pensai. Un’entità priva di coscienza. In fondo, nulla di ciò che fa è voluto. Ma il mio disappunto non voleva retrocedere. – Sei già fidanzata, certo -, dissi. – A proposito… Come sta Giuseppe? Avvicinò il polso sinistro agli occhi, per consultare l’orologio, con un movimento che mi diede i brividi. Aveva i polsi intatti, bianchissimi. – Non sapevo che tu conoscessi Giuseppe. Grazie, sta bene. Però è in ritardo. Avrebbe già dovuto essere qui… – Infatti è già in treno -, le dissi, freddo. – Scusa se mi permetto. L’ho visto in uno scompartimento, insieme a una ragazza. Si stavano baciando. – Non è possibile -, disse. Il sorriso le si spense, il labbro inferiore cominciò a tremarle. – Invece è così. Non ti fidi di me? Vieni che ti faccio vedere… Mi alzai, scavalcai le gambe dei due prezzolati delle FS e mi portai sul corridoio; lei mi seguì. Mi domandai se il rumoroso sonno del prete avrebbe mantenuto in vista l’apparizione anche a distanza. Ma forse Esmeralda viveva di una vita propria, indipendente da qualsiasi prete “medianico”. Il treno era quasi deserto. Mister Visore Paranormale ci seguiva a distanza. Incrociammo un bigliettaio che ci lasciò passare (o mi lasciò passare?) senza dire nulla. Finalmente raggiungemmo lo scompartimento. Aprii lo sportello con gesto violento. “Giuseppe” e sua sorella stavano fingendo di baciarsi, o si baciavano davvero, non so. “Giuseppe” era di spalle. La sorella da dietro occhieggiava avida verso di noi. Era uno spettacolo a dir poco nauseante. Esmeralda li vide. La sua pallida faccia si fece di fuoco. Vene sulle tempie cominciarono a pulsarle. D’un tratto fuggì via. Io le corsi dietro. Pur essendo più veloce, non riuscii – o non volli? – raggiungerla. Arrivai davanti alla porta del bagno, ansante, e mi fermai. Non toccai neppure la maniglia. L’aria fu subito invasa da un urlo disumano. Un rivolo di sangue cominciò a filtrare attraverso la fessura del battente della porta. Un’atmosfera di cupa tragedia, simile a un odore appestato, si stava posando su tutto. In quei momenti transitarono delle persone davanti alla porta del bagno. Nessuno diede segno di vedere o di sentire qualcosa. Sembravano di un’altra dimensione, dimensione a cui avrei tanto voluto appartenere. – Entriamo -, disse mister Visore Paranormale. La sua voce, improvvisa e inaspettata, mi fece trasalire. Scoprii che la porta del bagno era aperta. Fiotti di sangue imbrattavano il lavabo, lo specchio, la tazza. Sul pavimento se n’era già formata una pozzanghera. Esmeralda non c’era, ma si avvertiva la sua angosciata presenza, e faceva male dentro. – Stavolta s’è uccisa davvero -, disse l’uomo. Si tolse gli occhiali e cominciò a fissarmi. Aveva gli occhi tra l’azzurro e il viola, lo stesso colore indefinito di quelli di Esmeralda. Sarei pronto a giurare che il suo sguardo mi accusasse di qualcosa. Che fosse stato il padre? mi chiesi. No, impossibile. Chissà se anche lui portava lenti a contatto…

Poco dopo ci raggiunsero il prete-esorcista, l’informatico saviglianese e sua sorella. – Se n’è andata davvevo…? Intanto anche il sangue era sparito. – Sì, se n’è andata per sempre -, rispose il prete, parlando per la prima volta. Io mi sentivo come se l’avessi uccisa. Pensai a come avevo frenato nella rincorsa. Al fatto che non ero riuscito a raggiungerla; che non avevo neppure tentato di aprire la porta del bagno. Lo sguardo accusatore di mister Visore Paranormale. Ricordai il sogno, le mani imbrattate di sangue. Già allora sapevo che l’avrei uccisa. Eppure nel contempo mi sentivo sollevato.

Dopo questi eventi, inaspettatamente, cominciai a stare meglio. Ero più sereno, mi applicavo nello studio con maggiore impegno, la mia mente era sgombra come una limpida mattina di primavera. Sembrava che mi fossi sgravato di un peso.

Rividi Luca in occasione del trattato di pace con Anna. Eravamo nel dehor del caffé Roma, era domenica e faceva di nuovo caldo. Luca era raggiante. – Adesso stiamo insieme -, disse, davanti a un gelato alla fragola. Rimasi stupito. Per la prima volta gli sentivo fare un’affermazione simile. – Ehi, veramente? Sono contento. Ma non eravate insieme già da un po’? Mi scoccò un’occhiata fintamente offesa. – In un certo senso sì, però non ufficialmente. Ora invece ci siamo impegnati. Lei ha accennato addirittura alla convivenza… Mi trattenni a fatica dal ridere. Lui se ne accorse. Si rabbuiò un poco, cercò di sviare il discorso. – E tu, quella bionda? L’hai poi rivista? Ecco, ci siamo, pensai. Feci due respiri lenti, belli lunghi. – Sì, l’ho rivista. Una sola volta. Ma era già impegnata. I due prezzolati delle FS ci avevano fatto promettere di mantenere il silenzio. In fondo non era difficile. Chi avrebbe mai creduto a una storia del genere? Lui scosse la testa, sornione.

Mai più parlai di quanto accaduto, né con Luca né con nessun altro. Ma col trascorrere del tempo prese forma una certezza dentro di me. Che a uccidere Esmeralda, a ucciderla davvero, ero stato io. Io le avevo dato la seconda morte, quella definitiva. E in fondo me ne vantavo, perché l’avevo liberata dalla sua terribile prigione. Un giorno, forse, mi avrebbe ringraziato.

L’AUTORE Maurizio Cometto è nato a Cuneo nel 1971. Tra i suoi libri pubblicati, il romanzo Il costruttore di biciclette (Il Foglio 2006), la raccolta L’incrinarsi di una persistenza e altri racconti fantastici (Il Foglio 2008), il romanzo per istantanee Cambio di stagione (Il Foglio 2011). Nel 2016 sono usciti in e-book il racconto lungo La macchia, per Acheron Books, e il romanzo di formazione Michele e l’aliante scomparso, per Delos Digital. Nel dicembre 2017 è uscita la raccolta di racconti Heptahedron, per Acheron Books. A fine 2018 è uscito per le edizioni Il Foglio Magniverne, contenente la riedizione de Il costruttore di biciclette insieme ad altri racconti lunghi accomunati da temi e ambientazioni. Nel settembre 2018 il racconto La Tierra Blanca, tradotto in inglese da Rachel S. Cordasco, è stato incluso nel primo numero della prestigiosa rivista The Silent Garden, edita da Undertow Publications. Ha pubblicato numerosi racconti in antologie, siti internet e riviste. Laureato in Ingegneria Meccanica, vive a Collegno.