rivista di studi ai confini tra africa, mediterraneo e medio oriente

Quadrimestrale dell’Associazione Afriche e Orienti C.P. 41 - 40100 Bologna centro Registrazione al Tribunale di Bologna n. 6875 del 7/1/1999 numero 2-3/2016

Direttore Mario Zamponi

Condirettore Corrado Tornimbeni Direttore Responsabile Isabella Fabbri Caporedattore Roberta Pellizzoli Segreteria di Redazione Anna Caltabiano, Raffaello Petti, Maria Pia Santarelli, Fulvia Tinti Comitato Scientifico Marco Aime, Riccardo Bocco, Salvatore Bono, Anna Bozzo, Matilde Callari Galli, Carlo Carbone, Giancarla Codrignani, Francesca Corrao, Ben Cousins, Federico Cresti, Teresa Cruz e Silva, Momar Coumba Diop, André Du Pisani, Marcella Emiliani, Maria Cristina Ercolessi, Anna Maria Gentili, Ralph Grillo, Christof Hartmann, Salah Hassan, Katherine Homewood, Preben Kaarsholm, Nur Masalha, Henning Melber, Liliana Mosca, Marco Mozzati, Paul Nugent, Annalisa Oboe, Ilan Pappe, Ian Phimister, Adriana Piga, Alain Ricard, Lloyd Sachikonye, Maddalena Toscano, Alessandro Triulzi, Pierluigi Valsecchi, Itala Vivan, Philip Woodhouse

Comitato di Redazione Matteo Angius, Livia Apa, Anna Baldinetti, Franco Barchiesi, Barbara Bompani, Carlos Cardoso, Uoldelul Chelati Dirar, Davide Chinigò, Lorenzo Cotula, Sebastiana Etzo, Cristiana Fiamingo, Elisa Giunchi, Claudia Gualtieri, Jolanda Guardi, Federica Guazzini, Samuel Kariuki, David Lawson, Anna Maria Medici, Eric Morier-Genoud, Giorgio Musso, Arrigo Pallotti, Antonio Pezzano, Tim Raeymaekers, Bruno Riccio, Timothy Scarnecchia, Massimiliano Trentin, Nadia Valgimigli, Anna Vanzan, Fabio Vescovi, Massimo Zaccaria

Collaboratori editoriali Francesco Correale, Fabio De Blasis, Beniamina Lico, Michela Marcatelli, Marcello Poli, Alessandro Soggiu

Sito web www.comune.bologna.it/iperbole/africheorienti a cura di Fabio Vescovi E-mail: [email protected]

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Interno 2-3-2016.indd 1 19/07/17 16:59 in questo NUMERO

DOSSIER LE PRATICHE DELLO STATO IN AFRICA: SPAZI SOCIALI E POLITICI CONTESTATI a cura di Antonio Pezzano

Introduzione. Le pratiche dello Stato in Africa: spazi sociali e politici contestati Antonio Pezzano ...... p. 4

La cultura burocratica di uno Stato africano Jean-Pierre Olivier de Sardan ...... p. 22

L’utilizzo dello Stato: discorsi e pratiche sull’erogazione di servizi in Sud Sudan Sara de Simone ...... p. 39

Corruzione, ideologia e neutralità: cosa può dirci la corruzione sulla forma dello Stato. Il caso del Sudafrica Ivor Chipkin ...... p. 56

Conflitti fondatori e frontiere nazionali in Marocco. Per un approccio discreto alla statualità Irene Bono ...... p. 78

Interno 2-3-2016.indd 2 19/07/17 16:59 “Diritto di fatto alla città”. Soggettività dei cittadini sfollati o ricollocati e riordino neoliberale dello spazio a Città del Capo e Lomé Marianne Morange, Amandine Spire ...... p. 97

La governance asimmetrica del commercio informale nel centro di Johannesburg Antonio Pezzano ...... p. 114

L’ideologia neoliberista e lo “sviluppo” delle città africane: il caso del mercato di Kisekka (, ) Anna Baral, Luca Jourdan ...... p. 134

Situare la “città futura” africana. Spazialità del potere e dislocazione della politica nei margini urbani in una prospettiva gramsciana (Nouakchott, Mauritania) Riccardo Ciavolella, Armelle Choplin ...... p. 155

La discarica di Dakar e i recuperatori di rifiuti. Marginalità urbana, produzione di valore ed etica del lavoro Raffaele Urselli ...... p. 177

Interno 2-3-2016.indd 3 19/07/17 16:59 Introduzione. Le pratiche dello Stato in Africa: spazi sociali e politici contestati. Antonio Pezzano

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Questo volume doppio di afriche e orienti trae spunto dal Colloquio internazionale “Practices of the State in Africa: Contested Social and Political Spaces”, che si è tenuto a Napoli, presso il Rettorato dell’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”, il 26-27 marzo 2015, nell’ambito del PRIN “Stato, pluralità e cambiamento in Africa”. L’inten- zione del Colloquio era quella di interrogarsi, con studiosi internazionali provenienti da diverse aree geografiche e disciplinari, su come gli attori, gli spazi e le pratiche riconfigurino lo Stato post-coloniale1 in Africa, analizzando il potere, che governa la conflittualità politica delle realtà locali, nella sua dimensione relazionale. La ristrutturazione dello Stato africano costituisce un paradosso dei processi della go- vernance neoliberale, soprattutto a livello locale, dove si riconfigura attraverso pratiche quotidiane che rafforzano ed espandono la sua presenza e influenza, ma ne eviden- ziano anche la sua porosità e debole sovranità. Queste entità statali non soddisfano pienamente i requisiti essenziali di uno Stato weberiano - il controllo e l’uso legittimi e unici della forza e del potere su un determinato territorio e sulla sua popolazione. Se si considera però la natura autoritaria ereditata dallo Stato coloniale, si comprende come lo Stato post-coloniale abbia fatto fatica a consolidarsi e includere le masse, che sono state spesso “captate” (captured), incorporate o marginalizzate, in un rapporto di sud-

Le pratiche dello Stato in Africa: spazi sociali e politici contestati

Interno 2-3-2016.indd 4 19/07/17 16:59 ditanza più che di cittadinanza. Tuttavia, lo Stato in Africa continua a giocare un ruolo centrale nella creazione di spazi per l’interazione e la negoziazione politica tra attori pubblici e privati, siano essi locali, nazionali o transnazionali, ma non è l’unico luogo di potere. Ne consegue spesso una politica (politics) ibrida e politiche (policies) asimme- triche, soprattutto in quegli spazi contestati dove si assiste a un’interazione tra diversi modi di potere. Il focus di questo volume, dunque, è sulla governance reale dell’infor- malità come un modo di governo e di relazione politica tra Stato e attori sociali. I contributi multidisciplinari che hanno dato vita al colloquio sono tutti basati su ricer- che empiriche che interrogano: da un lato, lo Stato nella sua (inter)azione quotidiana con attori politici e sociali in termini di processi di costruzione/negoziazione dello Sta- to/statualità, della Nazione/nazionalità e della cittadinanza, prestando attenzione alle pratiche e ai discorsi, ma anche alle traiettorie personali; dall’altro, la governance reale con cui si declinano e articolano le nuove nozioni di cittadinanza in spazi urbani più o meno contestati socialmente o politicamente, con un certo rilievo per l’informalità urbana e i complessi e ambigui processi, pratiche, risorse e repertori normativi e go- vernativi con cui le plurali autorità politiche e burocratiche negoziano la statualità con una molteplicità di agenti sociali.

Le negoziazione della statualità e le pratiche quotidiane dello Stato tra livello nazionale e locale Alla fine degli anni ’80, nel pensiero mainstream influenzato dalla Banca Mondiale, che 5 introduce il nuovo concetto di governance (World Bank 1989), fa breccia una visione scettica sulle capacità delle leadership politiche africane. Queste sono considerate la causa principale della crisi dello Stato post-coloniale e un ostacolo allo sviluppo del continente, perché “deboli” e “corrotte”, e, quindi, incapaci di permeare e integrare la società. A esse si contrappongono gli attori non-statali, genericamente definiti “società civile”, che diventano così i nuovi destinatari dei progetti di aiuto e sviluppo, ma anche gli attori principali dei processi di democratizzazione e good governance o dei mecca- nismi di fornitura di servizi sociali più efficienti di quelli statali. I programmi di aggiustamento strutturale, prima, e i processi di democratizzazione e decentramento, poi, hanno così aumentato il numero di attori, arene e oggetti di nego- ziazione della statualità, ma hanno anche facilitato il ritorno di centri di potere locali e nuove «forme di potere e autorità» (Ferguson 2006: 102) e, allo stesso tempo, nuove forme di “estroversione” (Bayart 1999), soprattutto nei modelli di accountability.2 Il risultato è spesso una politica ibrida e delle politiche asimmetriche, soprattutto in spazi socialmente e politicamente contestati dove emergono diversi modi di potere e una pluralità di modi della governance (Olivier de Sardan 2014: 419-22). Le autorità pubbliche cercano di “regolare” l’accesso al potere, alle risorse e ai diritti, usando spes- so procedure informali, ma anche una repressione e una coercizione violenta nei loro meccanismi di dominio (Roitman 2005).

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Interno 2-3-2016.indd 5 19/07/17 16:59 Da un lato, quindi, l’apertura di nuovi spazi di interazione e negoziazione politica ed economica a una moltitudine di attori non-statali, a livello locale, nazionale e trans- nazionale (ONG internazionali, imprenditori economici e politici, eserciti e forze ribelli, reti etniche, movimenti religiosi) ha provocato un’erosione della sovranità e della ca- pacità (ossia delle competenze) dello Stato africano, accrescendone la sua porosità e debolezza; dall’altro, questi stessi spazi hanno finito col rafforzare ed espandere la presenza e influenza dello Stato stesso, che ha così continuato a giocare un ruolo centrale nei processi di negoziazione degli interessi e di risoluzione dei conflitti, nella mediazione dei processi decisionali, nella legittimazione e nel controllo politico e so- ciale degli attori locali. Per sciogliere questo paradosso è necessario abbandonare la nozione normativa della (good) governance delle Istituzioni finanziarie internazionali (IFI), superando la dico- tomia Stato/non-Stato, Stato-società. Quindi, anziché negare l’autorità dello Stato e considerare il suo ritiro come un vuoto di potere o un’assenza di governo, sarebbe utile analizzare il concetto relazionale di potere che governa la politica quotidiana del conflitto delle realtà locali in Africa per cui le autorità e le istituzioni statali sono impegnate in una relazione conflittuale e contestata con altre forze sociali e politiche per il dominio e la sovranità.3 Lo Stato in Africa non può essere compreso se non nella sua dimensione relazionale e negoziale. Al centro di un’analisi della statualità bisogna prima di tutto considerare e 6 comprendere le «relazioni Stato-società» (Bratton 1989: 408) attraverso un approccio che veda lo “Stato nella società” (Migdal 2001). Nella “costruzione dello Stato” (Migdal, Schlichte 2005), infatti, insieme a una molteplicità di autorità pubbliche sono coinvolte e interagiscono altre organizzazioni e attori, o forze sociali, sia in cooperazione che in competizione con esso, in una relazione mutualmente trasformativa per affermare il monopolio sull’uso legittimo della forza e il controllo sociale. Le forme conflittuali, an- che quelle violente, di ordine e autorità fanno parte dei processi di formazione/azione dello Stato in cui una moltitudine di attori compete su molteplici scale di coinvolgi- mento nell’istituzionalizzazione delle relazioni di potere (Hagmann, Péclard 2010: 545). Siamo di fronte a processi di riconfigurazione del potere che evidenziano la natura negoziata della statualità e, di conseguenza, la natura contestata dello Stato, che è anche il luogo in cui le lotte politiche e i rapporti di forza materialmente si condensano (Poulantzas 2013: 191-192).4 La natura dello Stato è dunque intrinsecamente conflittuale e asimmetrica come si evince nei processi di appartenenza nazionale nella formazione della statualità nel caso del Marocco studiato da Bono o in quello sudafricano descritto da Chipkin in questo vo- lume, in cui si scontrano diverse, e anche opposte, concezioni del mondo e relativi modi di governo. Questi processi, a volte, seguono pratiche di “governo discreto”, così come nella traiettoria personale raccontata da Bono, altre volte, costituiscono quell’informa- lità urbana che, lungi dal sottrarre spazio allo Stato, diventa invece costitutiva della

Le pratiche dello Stato in Africa: spazi sociali e politici contestati

Interno 2-3-2016.indd 6 19/07/17 16:59 statualità e dell’esercizio della sovranità nella continua negoziabilità delle relazioni di potere che riconfigurano le istituzioni governative e consolidano le diverse forme di autorità, come si può vedere nei saggi della seconda parte del volume sulla cosiddetta “governance urbana”. Le questioni che si cerca di affrontare attraverso i contributi multidisciplinari del volu- me, basati su metodi empirici di ricerca e relativa analisi di grounded theory (Meagher 2009), sono: chi negozia la statualità nell’Africa contemporanea (attori, risorse e re- pertori); dove avvengono questi processi di negoziazione (arene di negoziazione, spazi contestati); cosa riguardano questi processi (oggetti della negoziazione); quali tipi di relazione hanno luogo tra gli attori (formalizzazione, regolarizzazione, integrazione, cooptazione, marginalizzazione, elite empowerment, accountability). La ricerca sul campo ha evidenziato un divario netto tra il livello normativo delle politiche e la loro implementazione, ponendo forti interrogativi sul modello di good governance neoliberale. Questo divario rende necessaria un’analisi della governance reale, che è composta da una molteplicità di dimensioni, tanto convergenti quanto conflittuali, da micro-dinamiche locali e da un pluralismo di modi di azione (Olivier de Sardan 2008). I lavori di ricerca presenti nel volume evidenziano come lo Stato, nella sua configurazione e organizzazione complessa e plurale, produca le politiche per controllare il territorio e, allo stesso tempo, nelle sue pratiche regolamentative, riman- ga invischiato nella vita quotidiana reale e produttiva dello stesso territorio. Queste pratiche sono state spesso definite e interpretate, nella letteratura africanistica, attra- 7 verso le categorie generiche dell’“informalità” (Hart 2008), del “neopatrimonialismo” (Médard 1991; Sandbrook 1986), del “clientelismo” (Blundo, Olivier de Sardan 2006). Pur avendo il merito di considerarle come comportamenti diffusi, rispondenti a logiche regolamentate, organizzate e strutturate, e non attività marginali, ossia criminali o patologiche, queste interpretazioni analitiche finiscono col ridurre tali pratiche a una dimensione macro-sistemica che perde di vista il funzionamento quotidiano delle am- ministrazioni statali e l’azione dei funzionari pubblici, trascurando la molteplicità delle dimensioni e la pluralità dei fattori. Una ricerca empirica contestualizzata può invece ridare all’analisi quella profondità tale da svelare e identificare le relazioni di potere che intercorrono nell’interazione tra cittadini e Stato, determinando i meccanismi e i modi della governance. L’attenzione si pone, quindi, sull’agency degli attori non-statali nella negoziazione con lo Stato e su come quest’ultimo agisca per riaffermare la pro- pria sovranità, intesa, in una prospettiva foucaultiana, come «codificazione di relazioni di potere molteplici» (Foucault 1977: 16). In questo processo, gli attori statali hanno livelli plurimi di responsabilizzazione (accountability) nei confronti degli attori sociali che, a loro volta, impiegano strategie differenziate per relazionarsi alle diverse sfere dello Stato, nel tentativo di affermare la propria visione e i propri interessi, raggiungere gli obiettivi prefissatisi e ottenere risultati favorevoli nell’implementazione delle politi- che. Quest’agency, che emerge soprattutto nei contesti urbani, articola nuove nozioni

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Interno 2-3-2016.indd 7 19/07/17 16:59 di cittadinanza attraverso diverse forme di contestazione e mobilitazione in relazioni contingenti con lo Stato, che vanno dalla «tranquilla invasione dell’ordinario» (Bayat 2004) ai movimenti urbani di protesta di massa, come nel caso delle città sudafricane (Alexander 2010). In questa prospettiva, per comprendere i diversi modi della governance reale, alcuni antropologi, come Jean-Pierre Olivier de Sardan, hanno cominciato a orientare i propri lavori di ricerca sulle pratiche quotidiane dello Stato nell’attuazione delle politiche pubbliche, introducendo concetti esplorativi come le “norme pratiche” (De Herdt, Oli- vier de Sardan 2015). Quest’approccio disarticola le nozioni normative che raffigurano le amministrazioni e le politiche pubbliche africane in termini di mancanza delle ca- ratteristiche fondanti della vera burocrazia, ossia dell’ideal-tipo weberiano (Bierschenk, Olivier de Sardan 2014). L’idea di fondo è che i divari tra le regole ufficiali e le pratiche, ossia tra norme legali e norme pratiche, sono governate sia dallo Stato che dagli attori sociali, o meglio dalla loro interazione. Lo Stato africano non può essere ridotto, in una visione oppositiva tra un modello importato dall’esterno e pratiche politiche tradizio- nali, a una mera struttura deprivata della cultura burocratica weberiana e quindi facile strumento neopatrimoniale al servizio di élite rapaci e predatorie (Darbon 1990; 2001; 2002), né può essere ridotto a cliché essenzialisti in nome di una presunta natura delle culture africane, visione in cui cadono anche autori quali Chabal e Daloz (1999; 2006), che pure avevano avuto il merito di riportare l’analisi sui contesti e sulla prospettiva 5 8 degli attori locali. La storicità dello Stato, la complessità delle sue forme di ibridazione e la negoziazione come temi centrali nel processo di costruzione della statualità rientrano nel concetto di “ricerca egemonica” di Jean-François Bayart (1989), che descrive il tentativo delle élite al potere di stabilire un equilibrio tra coercizione ed esercizio della forza, da un lato, e consolidamento del “dominio legittimo”, dall’altro. La ricerca dell’egemonia è dunque un processo storico contingente, spesso contraddittorio, che è frutto tanto di lotte sociali e dunque di una politica del conflitto, quanto di una soggettivazione, intesa nel senso foucaultiano della governamentalità, come incrocio di tecniche di dominazione calate dall’alto – coercizione autoritaria dello Stato – e tecniche del sé interiorizzate dagli attori sociali. Lo Stato in Africa, come altrove, resta un luogo di potere e, quindi, è soggetto alla cattura e appropriazione da parte di gruppi di interessi o élite locali e nazionali, che a loro volta cercano legittimazione dal sistema internazionale nel quadro di programmi di state-building che privilegiano i discorsi centrati sul decentramento e sull’erogazione di servizi (service delivery). In questo senso, il saggio di de Simone in questo volume evidenzia come, nel caso del Sud Sudan, la percezione e l’uso degli apparati statali da parte della popolazione locale siano intrecciati ai diversi modi di governance e all’ac- cesso alle risorse. La rivendicazione dei bisogni e dei diritti avviene attraverso norme, pratiche e repertori dettati dai modelli tecnocratici di sviluppo locale delle istituzioni

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Interno 2-3-2016.indd 8 19/07/17 16:59 internazionali piuttosto che attraverso una negoziazione politica nelle istituzioni. La fornitura dei servizi diventa quindi un modo per le élite al potere di legittimarsi attra- verso il consenso dei dominati (Hibou 2011). Quindi, lo Stato fornitore di servizi (deli- very state) è catturato dalle élite, le quali, per assicurarsi il dominio sulle popolazioni locali, fanno ricorso tanto alla repressione e alla violenza quanto alle pratiche statali in un complesso intreccio tra formalità (norme ufficiali) e informalità (norme pratiche). I processi di neoliberalizzazione avvenuti negli ultimi tre decenni hanno in effetti evi- denziato una crescente informalizzazione delle pratiche politiche, sociali ed economi- che nei Paesi africani, che, nei decenni successivi alle fasi dell’indipedenza, una legitti- mazione formale esterna aveva eluso. Emerge dunque la complessità dei comportamenti delle autorità statali per cui è utile analizzare le questioni della governance nella prospettiva introdotta da Olivier de Sardan dei modi della governance intesi come «dispositivi particolari di fornitura dei servizi di interesse generale, secondo un insieme di norme ufficiali e di norme pratiche specifiche e in funzione di determinate forme di autorità e di legittimazione» (Olivier de Sardan ivi: 28). I modi della governance si differenziano rispetto ai contesti storici, politici e sociali e vedono gli Stati africani negoziare, collaborare, concorrere con altri soggetti, formali o informali, dando vita a: da un lato, partenariati pubblico-privato con organizzazioni “comunitarie”, associazioni della società civile, ONG e agenzie internazionali all’interno dei modi della governance neoliberale ispirati al New Public Management, nella cornice delle riforme di decentramento; dall’altro, a forme ibride 9 di governance con attori privati o intermediari, che esulano dai modelli normativi. Quest’interazione tra diversi modi di governance favorisce il pluralismo normativo, storicamente ben presente in Africa e ampliatosi in epoca coloniale, per cui il diritto positivo europeo, alla base dello stesso stato di diritto, importato dal colonizzatore, coesiste con regimi giuridici diversi: quelli cosiddetti “consuetudinari”; quelli religiosi; quelli di “diritto privato” delle compagnie concessionarie in epoca coloniale; quelli dei “progetti legge” della governance sviluppista post-coloniale. Quest’ibridazione e questo pluralismo che contraddistinguono le pratiche della burocrazia statale sono considerati tout court come corruzione - un concetto largamente discusso e abusato, ma analiticamente poco compreso - dal pensiero mainstream della governance. Partendo dalla definizione di “economia morale della corruzione” di Olivier de Sardan (1999) che cerca di spiegare le pratiche corruttive di amministrazioni disfunzionali, si arriva a quella di Chipkin (ivi) che, nel caso sudafricano, cerca di legare questo concetto alla costruzione stessa della forma dello Stato. Entrambe condividono una prospettiva che si discosta da una concezione normativa della moralità individuale, per cui la corruzione non è sintomo dell’assenza di etica nella gestione degli affari pubblici, dovuta a una “cattiva” governance, ma può essere letta come la compresenza di differenti pratiche e idee (ideologie) dello Stato. Nel caso del Sudafrica esaminato da Chipkin, a scontrarsi sono l’idea liberale di Stato e la teoria della “rivoluzione

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Interno 2-3-2016.indd 9 19/07/17 16:59 democratica nazionale”, d’ispirazione leninista. Il risultato odierno è la difesa, nel nome della trasformazione dello Stato, di pratiche patrimoniali e clientelari da parte dell’élite al Governo. Anche in quest’analisi, lo Stato, in quanto luogo di condensazione materiale dei rapporti di forza, è anche campo e strumento privilegiato dei processi di formazione delle classi dominanti (Poulantzas 2013: 201). In Sudafrica, il focus di alcuni studi sociologici sullo Stato e sulle “proteste per i servizi pubblici” (Von Holdt 2010; Von Holdt et al. 2011) è proprio sulla lotta per l’accesso allo Stato e alle sue risorse in quanto strumento di formazione di classi sociali e di dominio delle élite politiche. La neutralità assunta dall’ideologia liberale a sistema politico per cui lo Stato dovrebbe garantire a priori uno spazio neutrale in cui si possano perseguire diverse concezioni del bene comune (Kymlicka 1989), in realtà non tiene in considerazione ciò che lo stesso Weber concettualizzava. La neutralità è un ideale per cui lo Stato, per essere davvero neutrale, deve darsi forma e tecniche di governo che riducono la discrezionalità dei funzionari: questa è la burocrazia moderna, che si limita ad applicare le politiche programmate dai Governi. È dunque l’applicazione e la pratica burocratica a dover sot- tostare alla neutralità liberale, mentre le politiche dello Stato-Nazione, incluse quelle urbane, sono «configurazioni di idee» (Shore, Wright 1997: 13) mai neutre. Nella visione leninista, che ha prevalso nel movimento anti-apartheid, lo Stato deve essere smantel- lato e sostituito da un nuovo apparato, in cui l’esecutivo controlla e limita l’autonomia della pubblica amministrazione. Dunque, ciò che da una prospettiva liberale è conside- 10 rata corruzione, per l’ANC è virtù pubblica, che attiene alla formazione e costruzione stessa dell’identità nazionale. La costruzione della Nazione e della nazionalità in rapporto a quella della statualità è presente anche nel saggio di Irene Bono, che, attraverso la biografia di un imprendi- tore militante e della sua traiettoria politica, analizza il carattere discreto del Governo in Marocco. Attraverso questa traiettoria biografica, Bono ricostruisce i conflitti che emergono in spazi sociali e privati nel processo di formazione dello Stato, ben prima dell’avvento del paradigma dominante neoliberale, e che definiscono la sovranità. La prospettiva analitica discreta nell’elaborazione della traiettoria di vita, in funzione di un nuovo modo di pensare la Nazione e la statualità, permette di comprendere alcu- ni livelli di formazione dello Stato-Nazione generalmente trascurati: la discontinuità dovuta alla continua negoziazione; la marginalità, dovuta alla pluralità dei modi e degli spazi di governo; la soggetivazione, che consente di comprendere quanto la le- gittimazione della sovranità nazionale passi anche attraverso la partecipazione delle esperienze personali alla costruzione del paradigma egemonico nazionale, sia seguendo la logica della cooptazione, che «recupera» chi devia dal discorso dominante, sia quella della repressione e dello stato d’eccezione, che rinnova discorsi di appartenenza e di fedeltà e rinegozia la frontiera dell’esclusione di un nemico esterno da eliminare. Allo stesso modo, Pezzano (ivi) analizza, nelle politiche sul commercio informale a Johan- nesburg, un modo di governo di “incorporazione selettiva”, basato sul controllo e sulla

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Interno 2-3-2016.indd 10 19/07/17 16:59 regolarizzazione degli attori informali in relazione a spazi differenziati di governance, che viene attuata attraverso una produzione di scarsità e stati d’eccezione. La cooptazione o l’incorporazione selettiva possono essere comparate alla «assimila- zione molecolare» delle élite dell’opposizione in Mauritania (Ciavolella 2009). La le- gittimazione dello Stato passa per il legame “tradizionalista” e si articola attraverso pratiche clientelari. Questo modo di governo mauritano integra il clientelismo al triba- lismo e all’etnicismo, stabilendo un legame saldo tra Stato e società e dando vita a una configurazione del potere che permette la riproduzione delle élite (Marchesin 1992). Questo sistema sposta la contestazione ai margini, negli spazi sociali di esclusione dalla cittadinanza. Seguendo una prospettiva gramsciana, le forme di governo degli Stati post-coloniali sono state incapaci di creare un legame organico tra le élite e le masse, dando luogo a sistemi gerarchici di cittadinanza e processi disuguali e selettivi di inte- grazione. Anche i discorsi di costruzione della Nazione, analizzati nel saggio di Choplin e Ciavolella (ivi), escludono interi gruppi di popolazione mauritana. In questo caso, la costruzione dello Stato si è identificata con il processo di modernizzazione equiparato a quello di urbanizzazione, formando quindi un “uomo nuovo mauritano”, cittadino di uno Stato moderno. Tuttavia, questo progetto di costruzione nazionale attraverso la modernizzazione ha sempre trovato dei limiti in termini di espansione della cittadinan- za, che si sono rinnovati anche nella fase di democratizzazione a partire dagli anni ’90. Le élite al governo dall’indipendenza hanno giocato sulle fratture sociali e politiche, sfruttandole come reti asimmetriche di solidarietà e di fedeltà politica (Ciavolella 2012) 11 e rinegoziando ulteriormente le frontiere della marginalità ed esclusione.

Governance reale, informalità e cittadinanza negli spazi urbani Il focus della seconda parte del volume è sulla governance reale dell’informalità urbana, intesa sia come un modo di governo che come un modo di relazione o di “incontro” (encounter) (Wafer, Oldfield 2015) tra attori statali e attori sociali, che potenzialmente può trasformarsi in un impegno politico reciproco tra Stato e cittadini. Questa gover- nance stratificata e intricata entangled( ) modella la natura e le rappresentazioni dello Stato così come i modi della cittadinanza, soprattutto nei contesti urbani. In una tale prospettiva, che privilegia gli aspetti relazionali del potere (Foucault 2014; Deleuze 2002), lo Stato, più che un’entità definita e monolitica, è un “progetto”, incompiuto, che tenta di affermare la propria esistenza ed egemonia. Il “progetto di Stato” (Wafer, Oldfield 2015) si costruisce attraverso la molteplicità di questi modi di “incontri”: un immaginario collettivo della città che prende forma attraverso gli spazi e le tecniche di potere. La cittadinanza, come forma di soggettività che si relaziona al progetto di Stato, emerge dunque in questi spazi e modi di incontro, piuttosto che negli “spazi di partecipazione” imposti dal modello della good governance neoliberale. Quest’approccio relazionale all’analisi del potere è utile soprattutto per comprendere il coinvolgimento dello Stato nei confronti degli attori informali o non-statali, e come

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Interno 2-3-2016.indd 11 19/07/17 16:59 esso assuma comportamenti e azioni politiche multiformi e complesse in circostanze diverse. Le relazioni tra attori informali e Stato non si possono ridurre solo a modelli verticali di potere, che producono antagonismi espliciti, più o meno repressi, criminaliz- zati o marginalizzati, o reti clientelari ibride in contrapposizione a uno Stato predatore (Roitman 1990; Bayart 1989; Reno 2006), ma vanno considerate come un continuum costitutivo della riconfigurazione del potere statale tra istituzioni formali e informali. Per capire le dinamiche e le relazioni di potere in cui lo Stato è coinvolto, bisogna studiare le forme di mobilitazione, di agency e di resistenza di tutti gli attori della governance. Fondamentale, quindi, diventa la ricerca empirica sulla “politica urbana” o “micropolitica” (Bénit-Gbaffou et al. 2013).6

Agency o azione dal basso L’agency degli attori informali può manifestarsi in maniera plurale e diversificata, tal- volta contraddittoria, tanto in termini di protesta (voice) che di defezione (exit) o in una condotta combinata (Lindell 2010b). La prima letteratura sul settore informale, negli anni ’80, evidenziava comportamenti individuali e collettivi, che potevano classificarsi come forme di distacco o disimpegno (disengagement) dallo Stato (Rothchild, Chazan 1988). Negli ultimi decenni, un’ampia letteratura ha evidenziato piuttosto le forme di azione collettiva degli attori sociali che, nell’interazione con lo Stato, ne contestano le politiche e, allo stesso tempo, reclamano legittimità, diritti socio-economici fondamen- 12 tali e maggiore partecipazione (Lindell 2010a). Le soggettività degli attori informali sono molteplici e complesse e tali sono le loro organizzazioni e la loro interazione con le istituzioni e gli altri attori della governance (Lindell 2010b). L’agency di questi attori è un continuum che va dall’azione individuale a quella collettiva, ed è composta da diverse strategie, che spaziano dall’advocacy e azione legale alle proteste. L’attenzione, dunque, si concentra sulle pratiche quotidiane attraverso le quali i gruppi urbani subalterni si appropriano gradualmente degli spazi, non solo in opposizione allo Stato, ma anche in alleanza, competizione o collaborazio- ne. Tuttavia, una serie di problemi impedisce a questi attori e alla loro azione collettiva di raggiungere una dimensione politica. Per Brown e Lyons (2010), le organizzazioni degli attori informali non riescono ad avere una voce politica efficace e ascoltata a causa della loro marginalizzazione politica, economica, sociale e giuridica; ciò che av- viene in molti casi è una cooptazione o captazione (capture) politica (Meagher 2010) oppure un’esclusione dai processi decisionali politici, come evidenziato nel saggio di Pezzano (ivi) rispetto alle diverse fasi e luoghi di partecipazione all’interno del processo di policy-making sul commercio informale a Johannesburg. Ma ci sono anche fattori interni alle organizzazioni collettive degli attori informali che concorrono a un mancato consolidamento della rivendicazione politica: la personalizzazione e la ristretta rap- presentatività della leadership, le scarse risorse, la mobilitazione occasionale, limitata a obiettivi pratici, e non sempre molto partecipata. Sempre a proposito dell’esperienza

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Interno 2-3-2016.indd 12 19/07/17 16:59 sudafricana (Pezzano ivi), si possono osservare in una prospettiva storica leader che hanno usato le organizzazioni collettive per aver accesso allo Stato o a posizioni di vertice nelle organizzazioni formali, così come divisioni e stratificazioni che agiscono secondo linee di reddito, età, genere, origini geografiche e identità (etnicità, razza, nazionalità). Nel commercio informale è una costante la scarsa rappresentanza delle donne nella leadership delle organizzazioni che interagiscono con lo Stato, nonostante la loro massiccia presenza nel settore. Il grado di coinvolgimento degli attori informali nei processi decisionali è inversamente proporzionale al peso degli interessi in gioco. La partecipazione e la rappresentanza è più forte e attiva negli spazi cosiddetti “inventati”, a base locale (i mercati o le singole strade), che però così cessano di essere luoghi di potere. L’interazione tra gli attori sociali e statali è dunque fluida e dinamica e non può essere ridotta a una relazione binaria tra Stato e società civile, perché è incorporata in relazioni complesse e in processi contestati di costruzione del “progetto di Stato”. In questo senso, si può comprendere l’azione/reazione dei commercianti a Kisekka, de- scritta nel saggio di Baral e Jourdan (ivi), che segue lo schema della “politica del ru- more” (Goodfellow 2013) secondo cui i lavoratori cercano di ottenere l’attenzione della politica attraverso un repertorio consolidato di manifestazione della rabbia. L’occupa- zione dello spazio pubblico urbano è una strategia centrale anche per il movimento dell’IRA in Mauritania, che, consapevole della propria marginalizzazione ed esclusione sia spaziale che sociale, cerca così di rendersi visibile per reclamare il proprio diritto di cittadinanza nei confronti del potere costituito (Ciavolella, Choplin ivi). 13 Tuttavia, queste mobilitazioni non si configurano come un’azione politica in grado di riequilibrare le strutturali forme di esclusione. Per usare le parole di Kate Meagher (2010: 62), «la politica della defezione non è stata ancora soppiantata da una forza politica dell’informale».

La governance urbana: spazi di conflittualità, contestazione, cooptazione e margi- nalità Nella cosiddetta governance urbana neoliberale lo spazio fisico è diventato uno dei luoghi principali di conflitto, sia per la competizione degli interessi economici sia per un dissolvimento istituzionale del “politico”, che dovrebbe sovraintendere alla loro ne- goziazione. Come conseguenza si assiste a una moltiplicazione degli attori coinvolti nella gestione urbana e a una mancanza di responsabilità politica. Questi modelli di gestione urbana, veri e propri laboratori di governamentalità e arene di dominio, hanno favorito contemporaneamente una depoliticizzazione, rispetto a logiche di inclusione, e una legittimazione delle politiche pubbliche nella costruzione egemonica delle élite (Swyngedouw 2011) e hanno aumentato il divario tra la città normata e la città reale. Le politiche urbane (nel senso di policies) si basano su ideali di good governance, parte- cipazione e lotta alla povertà, ma producono esclusione e depoliticizzazione. La pianificazione urbana neoliberista dello Stato prevede pratiche di implementazio-

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Interno 2-3-2016.indd 13 19/07/17 16:59 ne tanto coercitive, violente e punitive per la maggioranza della popolazione a basso reddito, quanto incorporanti per sezioni della società più funzionali agli interessi del capitale. Ma quest’azione dello Stato non avviene incontestata; pratiche di resistenza e sopravvivenza quotidiane ne rallentano l’attuazione come nel caso del mercato di Kisekka a Kampala. In queste “world cities” (Robinson 2002), i mercati o gli spazi di commercio di strada rappresentano nodi cruciali per il funzionamento della governance urbana (vedi saggi nel volume di Morange e Spire, Pezzano, Jourdan e Baral). Nel caso di Kisekka, gli attori sociali agiscono in maniera diversificata: si va da una forte critica e contestazione politica a tattiche di resistenza o di «tranquilla invasione del quotidiano» e «silenzioso e graduale attivismo della base» (Bayat 2000: 546) che cercano di impegnare le istituzioni al soddisfacimento dei propri bisogni. La governance reale, nel caso di Kampala, è regolata tanto dal conflitto quanto dalla compartecipa- zione fra attori formali e informali, secondo pratiche di “assemblaggio”, in cui le forme di potere e resistenza sono circolari più che lineari (Li 2007). Gli spazi informali della città sono spesso strumento e arene in cui si esercita l’egemonizzazione delle politiche istituzionali. Nel saggio di Morange e Spire (ivi) l’agency degli attori sociali non sfocia tanto in protesta o movimento politico, quanto in spazi di assoggettamento al potere costi- tuito. Tuttavia, questi quadri normativi e giuridici vengono quotidianamente attuati, aggiornati, applicati (o trasgrediti e contestati) nelle e dalle pratiche cittadine, come 14 con l’introduzione del meccanismo della licenza, nel caso dei commercianti informali di Cape Town, o dei dispositivi attuati dopo la rilocazione forzata degli abitanti di un quartiere di Lomé. L’agency dei cittadini subalterni a Nouakchott si sviluppa dalle pratiche informali di sopravvivenza, chiamate localmente tieb-tieb, agite negli interstizi della città e in una relativa autonomia rispetto ai poteri, a pratiche di squatting o di pirateria dei servizi (in particolare di acqua ed elettricità), che sono piuttosto risposte “subalterne” alle carenze delle autorità pubbliche. Secondo Ciavolella e Choplin (ivi), queste tattiche, pur evocando la “politica informale del popolo” o della uncivil society di Bayat (1997), non compiono una “tranquilla invasione dell’ordinario” nel sistema, capace di opporsi alle ingiustizie e negoziare una propria posizione politica, sociale ed economica, ma si configurano piuttosto come un «sovversivismo sporadico, elementare, disordinato delle classi popolari» (Gramsci 1975: Q 8 § 25, 957), che consente alle classi dominanti di reagire e consolidare il proprio potere, accogliendo o incorporando «una qualche parte delle esigenze popolari». Nel caso di Dakar descritto invece da Urselli (ivi), l’interazione, anche talvolta violenta, tra le comunità di popolamento e la pianificazione delle autorità urbana ha prodotto nuovi modi e pratiche di costruzione degli spazi, sia pubblici che privati. In particolare, la discarica di Mbeubeuss rappresenta, oltre a un luogo di marginalizzazione alter- nativa, il luogo in cui si condensano le azioni repressive e di controllo delle autorità

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Interno 2-3-2016.indd 14 19/07/17 16:59 pubbliche, secondo una “distribuzione del sensibile” che «organizza le forme politiche dell’inclusione e dell’esclusione nello spazio urbano» (Rancière 2000: 22), e quelle di emancipazione sociale dei boudiouman, che affermano il proprio diritto a essere ri- conosciuti «soggetti produttivi». Nel caso di Mbeubeuss, dunque, l’azione dello Stato ha generato “condizioni di marginalità produttive”, in cui le sub-popolazioni urbane trovano una nicchia di sopravvivenza. Dietro la violenza, il potere neoliberale cela una volontà produttiva e redentiva, che passa attraverso processi di soggettivazione politica e di produzione di nuove “moralità positive”. La questione delle relazioni di potere in città e delle resistenze all’ordine urbano disu- guale del modello di governance neoliberale ci portano a ragionare su un altro aspetto molto dibattuto negli studi urbani in Africa: l’informalità.

Informalità L’informalità urbana è uno spazio politico in cui gli attori sociali collettivi negoziano i diversi interessi su più scale con i vari centri di potere, ossia è un «modo di produzione dello spazio» (Roy, AlSayyad 2004; Roy 2009a), più che un settore economico secon- do la definizione liberale (de Soto 1989, 2000). L’informalità, in quest’interpretazione politica, è prodotta dallo Stato, al suo interno e non fuori. Lo Stato, nella sua pluralità d’azione, in molti casi opera secondo una “informalità calcolata” (Roy 2009b), ossia pratiche di “flessibilità territorializzata” attraverso cui esercita il potere sovrano e trae vantaggio dalla valorizzazione differenziata delle risorse del proprio territorio. Lo Stato, 15 dunque, utilizza l’informalità come strumento di accumulazione e autorità (Roy 2009b: 81), creando “stati” e “zone” d’eccezione (Agamben 2003; Ong 2013) in cui si situa al di fuori della legge per implementare le politiche locali di sviluppo che, così, si sclero- tizzano in una negoziazione frammentata tra una pluralità di attori e interessi in gioco. La rivendicazione degli spazi da parte degli attori informali, che ne vengono esclusi, è spesso contestata e non si trasforma in un’acquisizione di diritti perché piuttosto segue e rimane invischiata in pratiche arbitrarie e clientelari dello Stato. L’informalità, oltre a essere un modo di sovranità, è anche espressione del potere di classe, che discrimina e criminalizza alcune forme e pratiche informali, normalizzando- ne altre come pratiche dello Stato; attraverso un sistema de-regolamentato, si crea un modo di regolamentazione con logiche selettive di allocazione di risorse, di accumula- zione e di autorità, che sono in continuità con i sistemi formali di regolamentazione.7 L’asimmetria e l’ambiguità alimentano il modo di sovranità e disciplina che è alla base del potere delle autorità statali. In questo senso, l’informalità è una struttura di potere (Roy 2009b: 84) più che un fenomeno popolare democratico nato dal basso (Appadurai 2001) o pratiche para-legali di gruppi sociali subalterni (Chatterjee 2004; Bayat 2000). Questa prospettiva ci aiuta a capire come la governance, spesso contrassegnata da reti informali nei contesti urbani africani, sia definita dall’interazione e dalla relazione con lo Stato e con istituzioni e forme di autorità variabili e plurali, più che dall’assenza dello

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Interno 2-3-2016.indd 15 19/07/17 16:59 Stato o da un’autonomia rispetto ad esso. Queste relazioni possono essere di dialogo o di esclusione, di sostegno istituzionale da parte degli attori sociali o di cooptazione da parte dello Stato (Meagher 2009). Ma è comunque lo Stato che ha il potere di determi- nare e definire i confini tra legalità e illegalità, tra formalità e informalità, e di creare la marginalizzazione e criminalizzazione degli attori informali. In questo senso, il caso dei «sans fiche sans photo» a Nouakchott è esemplificativo su chi produca l’illegalità e sul potere dello Stato e dei suoi attori nel definire l’accesso alla cittadinanza (Ciavolella, Choplin ivi). Le diverse traiettorie e circostanze che conducono lo Stato a reprimere, co- optare o creare alleanze con gli attori informali variano nelle diverse situazioni sociali e nei diversi contesti storici.

Informalità, sovranità, soggettivazione La letteratura africanistica ha sviluppato una serie di concetti analitici per spiegare la complessa articolazione tra informalità, agency e soggettività subalterna. In questa visione, l’informalità è un modo di soggettivazione che si manifesta in contesti urbani con scarse risorse: si tratta dell’analisi della “città elusiva” (Mbembe, Nuttall 2004: 349) e dell’“estetica del superfluo” di Mbembe (2004: 378) e dei concetti di “città pirata” e di “persone come infrastrutture” di Simone (2004, 2006). Questo dibattito considera i soggetti subalterni sia come attori politici che come sudditi della neoliberalizzazione (Roy 2009a). Il caso dei recuperatori di Mbeubeuss analizzato da Urselli (ivi) mostra 16 l’intreccio tra le «tecniche di governo e i processi di soggettivazione» (Blundo, Le Meur 2008: 13) per cui i boudiouman sono contemporaneamente assoggettati al dominio dei modelli di governance neoliberale, ma anche agenti attivi che creano valore, tra- sformando così la discarica in uno spazio di produzione capitalistica e di disciplina sociale. I processi di neoliberalizzazione (Steck et al. 2013) su scala urbana avvengono non solo in linea verticale, ma anche in modo orizzontale nel corpo sociale e nelle pratiche quotidiane attraverso il consolidamento di nuove norme di «buona condotta» in città, che i cittadini interiorizzano in nuove soggettività. Dunque, l’assoggettamento non avviene semplicemente attraverso una sottomissione a un ordine esteriore, ma attraverso l’inserimento in un dispositivo normativo, quello delle politiche pubbliche neoliberali, che li produce e trasforma in soggetti (Macherey 2011: 77). Tuttavia, questa è un’“inclusione simbolica” (Miraftab 2004), che maschera un’“esclusione materiale”, nello Stato neoliberista, in cui i cittadini hanno l’impressione di partecipare alla produ- zione dello spazio urbano, ma che, depotenziati delle componenti politiche di questo processo, finiscono con legittimare e riprodurre l’ideologia delle istituzioni neoliberali, come nel caso di alcuni commercianti informali a Cape Town, Johannesburg o Kampala (Morange 2015; Pezzano ivi; Baral, Jourdan ivi). Le attività informali nel centro di Kampala rispondono a logiche di soggettivazione per una parte dei commercianti di Kisekka, analizzati da Baral e Jourdan (ivi), che s’inte- grano nelle politiche pubbliche non come soggetti passivi, ma in quanto “imprenditori

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Interno 2-3-2016.indd 16 19/07/17 16:59 di se stessi”. Ma questo percorso di soggettivazione di un nuovo cittadino neoliberista sembra vanificato da condizioni strutturali che riattivano ordini coloniali, secondo uno schema di “stigmatizzazione territoriale” (Wacquant 2007), in cui le istituzioni rista- biliscono l’ordine con atti di forza, oltre che attraverso la moralità nei comportamenti dei cittadini («moral behaviourism», Wacquant 2012: 67). Queste azioni dimostrative di polizia nel governo della città sono indirizzate contro i settori poveri della società, che vengono così esclusi dai pieni diritti di cittadinanza e dagli spazi urbani migliori. Anche le forme di rivendicazione degli abitanti sfollati di Sans Fiche a Nouakchott (Cia- volella, Choplin ivi) chiedevano un «miglioramento delle condizioni di vita quotidiana» più che protestare contro il sistema. Una parte minima tra loro chiedeva addirittura un proprio titolo di proprietà nel nuovo quartiere, trasformandosi in agenti di un’incor- porazione selettiva dal basso, come nel caso dei commercianti informali di Johannes- burg analizzati da Pezzano (ivi). Qui, il «riordino neocoloniale dello spazio» (Steck et al. 2013: 147, 155-157) attraverso forme intolleranti e repressive di controllo dello spazio, s’intreccia a un «riordino neoliberale dello spazio» (Steck et al. 2013: 158-162), che si realizza nell’integrazione parziale o incorporazione selettiva di una minoranza di ven- ditori di strada informali nei cosiddetti City Improvement Districts (CID), un modello di gestione imprenditoriale che diventa un riferimento per gli stessi commercianti infor- mali, secondo uno schema di passaggio da una “tecnologia di potere” a una “tecnologia del sé” (Foucault 1992: 13). In questi casi, il diritto alla città, nella sua concezione lefebvriana di inserimento in una 17 cittadinanza urbana e di giustizia sociale e spaziale, è raramente rivendicato in quanto tale.8

Diritto di fatto alla città e città futura: concetti trasformativi Per concludere, sembra utile citare i due saggi di Morange e Spire e quello di Ciavo- lella e Choplin presenti nel volume che, pur avendo approcci e percorsi diversi, hanno entrambi lo scopo di fondare un concetto non solo analitico, ma trasformativo, quindi politico, per le realtà urbane locali; da un lato, il “diritto di fatto alla città”; dall’altro, la “città futura” gramsciana. La letteratura sul «diritto alla città», che ha rielaborato il pensiero di Henri Lefebvre (2014), ha posto l’attenzione sulle lotte e sulla resistenza al neoliberismo più per le città del Nord del mondo o dell’America Latina che per l’Africa sub-sahariana dove le società urbane più che opporsi in maniera conflittuale, rimodellano gli spazi attraverso le pratiche ordinarie. La nozione di «diritto di fatto alla città», elaborata dalle due au- trici (Morange, Spire ivi), tenta di collegare queste pratiche alle questioni della giustizia sociale e dei diritti in città. Esso riguarda, quindi, il modo in cui gli abitanti definisco- no il proprio posto in città attraverso le loro pratiche quotidiane, le quali mettono in moto un processo di trasformazione delle soggettività, che può costituire anche un potenziale di contestazione dell’ordine spaziale neoliberale, al pari della mobilitazione

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Interno 2-3-2016.indd 17 19/07/17 16:59 politica. Il tentativo è quello di far emergere le nuance nell’esercizio del potere in un “riordino neoliberale dello spazio”, al di là della coercizione diretta e di rapporti di forza asimmetrici. Anche l’approccio gramsciano ispirato al concetto di “città futura”, che è utilizzato da Ciavolella e Choplin per il caso di Nouakchott, si concentra sulle forme quotidiane di resistenza e di contestazione dei gruppi subalterni, cercando di sfuggire a una visione “rivoluzionaria” dei gruppi subalterni, per capire se, in questi spazi di marginalità delle città africane contemporanee, si costruiscano nuove forme di cittadinanza politica. La città futura è intesa come uno spazio che può essere modificato dall’azione storica e politica di soggetti apparentemente privi di potere, che rivendicano collettivamente la propria partecipazione ed emancipazione nei processi di formazione e configurazione della statualità. Nel saggio gli autori cercano di capire se, nel caso di Nouakchott, la moltiplicazione delle iniziative e delle esperienze “dal basso” stiano gradualmente trasformando la politica delle istituzioni statali, non solo attraverso un riconoscimento normativo dei diritti di cittadinanza, ma come condizione di una trasformazione sociale e di un’emancipazione dalla subalternità degli attori informali.

NOTE: 1 - L’uso del termine ha solo una valenza di periodizzazione temporale. 18 2 - In questo senso vedi i concetti di esternalizzazione dell’accountability (Clapham 1996; Olukoshi 2004) e di democrazie senza scelta (choiceless democracies di Mkandawire 1999). 3 - Non si vuole qui entrare in una ormai abusata questione sulla natura dello Stato africano che, a interpretazione della crisi sottostante ai processi di democratizzazione degli anni ’90, ha visto attribuire allo stesso una serie di sinonimi che esprimevano una mancanza sia di legittimità popolare che di competenze amministrative, ossia un’assenza degli elementi considerati fondamentali per un’entità statale dal sistema internazionale. In questo senso vanno le categorizzazioni attribuite allo Stato africano da molti autori: “collassato” (Zartman 1995), “fallito” (Rotberg 2004), “fragile” (Stewart, Brown 2009), “debole” (Jackson, Rosberg 1982); “ombra” (Reno 2000), “quasi-Stato” (Hopkins 2000; Jackson 1990). 4 - Quest’approccio, che include le varie prospettive della “governance without government” (Raeymaekers et al. 2008), dei “mediated states” (Menkhaus 2008), della “negotiating statehood” (Hagmann, Peclard 2010); della “hybrid governance” (Meagher 2012), delle “twilight institutions” (Lund, 2006) nel continente africano, non è epistemologicamente molto differente dagli studi della governamentalità in altri contesti come quello indiano (vedi Chatterjee 2004; Ferguson, Gupta 2002). 5 - Per una critica al culturalismo vedi Bayart (1996), Olivier de Sardan (2010) e Meagher (2006). 6 - In questa prospettiva, alcuni saggi del volume (Pezzano, Ciavolella e Choplin, Morange e Spire) fanno riferimento a interpretazioni concettuali elaborate in contesti diversi dal continente africano: il lavoro di Asef Bayat (1997; 2000; 2004) che, a sua volta, fa esplicito riferimento all’invenzione del quotidiano di De Certeau (2012), su repertori e tattiche degli attori informali urbani, che attraverso una “tranquilla invasione dell’ordinario” creano una “politica di strada” nelle città mediorientali e africane; l’analisi neo gramsciana di Chatterjee (2004) dei gruppi subalterni nelle città indiane, che li definisce come “società politica”, distinta dalla “società civile”, e li vede protagonisti in una sorta di “governamentalità dal basso” (Appadurai 2001). 7 - L’informalità per Roy (2009b: 80) è «uno stato di deregolamentazione [...] in cui [...] la legge è resa aperta e soggetta a molteplici interpretazioni e interessi» ed è «inscritta in una relazione sempre mutevole tra ciò che è legale e illegale, illegittimo e legittimo, autorizzato e non-autorizzato. Questa relazione è arbitraria e instabile e tuttavia è il luogo di potere e violenza di Stato notevoli». 8 - Sulla rivendicazione del diritto alla città di ispirazione lefebvriana si sofferma il saggio di Marianne Morange e Amandine Spire, ricercatrici del programma DALVAA.

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Interno 2-3-2016.indd 21 19/07/17 16:59 La cultura burocratica di uno Stato africano1 Jean-Pierre Olivier de Sardan

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Introduzione: le pratiche dello Stato Nella vasta letteratura consacrata allo Stato, le prospettive adottate dai ricercatori sono varie e molteplici. Ma le pratiche dello Stato (ovvero lo Stato al quotidiano o al “concreto”, Padioleau 1982) sono state a lungo poco studiate rispetto ai registri norma- tivi, alle strutture organizzative, alle forme simboliche o ai discorsi relativi allo Stato. Ciò è ugualmente vero se si considera più specificatamente l’antropologia dello Stato in Africa (Bierschenk, Olivier de Sardan 2014), osservazione che può sembrare parados- sale nella misura in cui l’antropologia, attraverso i suoi metodi di inchiesta sul campo, tra le scienze sociali è quella che più delle altre è in grado di studiare i comportamenti abitudinari degli attori dello Stato. Eppure l’antropologia dello Stato si è focalizzata più sulle “idee dello Stato” che sulle relative pratiche (Hansen, Stepputat 2001; Sharma, Gupta 2006), interessandosi più all’analisi dei suoi margini che alla grande massa dei suoi agenti (Roitman 2005), o più alla sua inserzione nella globalizzazione neoliberale che alla varietà di forme intermediarie e locali dei singoli Stati (Chalfin 2010). Per le scienze sociali lo Stato africano è dunque restato a lungo uno Stato disincarnato, a volte dipinto addirittura come un guscio vuoto (Chabal, Daloz 1999). Quando gli è stata accordata una qualsiasi sostanza, questa è spesso stata ridotta a un’espressione esotica della dominazione neoliberale o uno strumento neopatrimoniale al servizio di

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Interno 2-3-2016.indd 22 19/07/17 16:59 una casta di avidi dirigenti. Si è addirittura potuto dire che lo Stato africano sembrava essere “senza funzionari” (Copans 2001) e che le amministrazioni fossero “introvabili o innominabili” (Darbon 2001). Tuttavia ormai si assiste all’emergere di una nuova generazione di ricerche di africa- nisti,2 fondate su indagini qualitative di tipo etnografico, che hanno come oggetto le amministrazioni e i funzionari, l’erogazione dei servizi pubblici, le azioni pubbliche e il modo di governance burocratico. Si tratta di nuovi cantieri, di nuove traiettorie e di nuove prospettive, non soltanto rispetto alla disciplina della “antropologia” (sebbene molti si interessino deliberatamente a oggetti che abitualmente riguardano la scienza politica), ma anche rispetto alla “scienza politica” (laddove molti oramai ricorrono con frequenza a metodi che abitualmente sono propri dell’antropologia). Un dialogo in- novativo e originale si instaura dunque tra una certa corrente dell’antropologia e una certa tendenza della scienza politica.3 Questi nuovi approcci si collocano principalmente entro due registri complementari che a loro volta si intersecano, ma che tuttavia restano relativamente distinti. Il primo concerne lo studio degli attori e degli impieghi dello Stato. Le analisi riguardano la bu- rocrazia di Stato (Anders 2010; Bierschenk 2014b) e più precisamente le diverse profes- sioni che la compongono, le relazioni interne e le interazioni con gli utenti: istruzione (Bierschenk 2007; Chabi Imorou 2014; Charton 2014; Fichtner 2012; Willott 2014), sanità (Gobatto 1999; Jaffré, Olivier de Sardan 2003; Korling 2011), giustizia (Hamani 2014, 2015; Tidjani Alou 2001, 2006), dogane (Cantens, Raballand 2009; Chalfin 2010), 23 imposte (Munoz 2010, 2014), risorse idriche e forestali (Blundo 2011a, b; 2014), sistema carcerario (Martin, Jefferson, Bandyopadhyay 2014; Martin 2015), «burocrati in unifor- me» (Blundo, Glasman 2013). Il secondo registro si interessa allo studio delle politiche pubbliche adottate dallo Stato. Le ricerche si focalizzano sull’elaborazione, strutturazione e attuazione di determinate politiche in specifici campi: la decentralizzazione (Bako-Arifari 1999; Blundo 1998; Fay, Koné, Quiminal 2006; Hahonou 2010), le esenzioni di pagamento dai servizi per i bam- bini sotto i 5 anni (Olivier de Sardan, Ridde 2014), le riforme fondiarie (Lavigne Delville 2010; Le Meur 2011; Lund 2001) e amministrative (Anders 2014), le strategie di lotta contro la povertà (Bergamaschi 2014). I lavori svolti a partire da questi due registri hanno in comune il fatto di provare, per quanto possibile, a evitare una prospettiva normativa troppo frequente nella scienza politica o nelle scienze amministrative, che tende a caratterizzare le amministrazioni e le politiche pubbliche africane da un punto di vista della «mancanza», cioè come assenza – deplorabile – degli elementi fondamentali della «vera burocrazia» (nel senso occidentale).4 Questi lavori si orientano invece sulle realtà quotidiane, sulle dinamiche proprie dei funzionari e sull’attuazione delle politiche pubbliche. Non si tratta di dis- simulare i problemi, le inefficienze o i fallimenti, ma anzi di porre questi aspetti sullo stesso piano degli eventuali successi - come nel caso delle «sacche di efficacia» (Roll

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Interno 2-3-2016.indd 23 19/07/17 16:59 2014a, 2014b). Si tratta in sostanza di descrivere e comprendere le routine, le intera- zioni, le pratiche e i vissuti. Questi approcci devono confrontarsi con due questioni teoriche interdipendenti che esigono delle concettualizzazioni innovative: quella dei “divari” (gap issue), e quella dell’erogazione dei servizi di interesse generale (delivery issue). Qui faccio riferimento a questi problemi e a queste concettualizzazioni, tentando, infine, di considerarle in relazione a una nuova prospettiva della cultura burocratica in Africa.

La questione dei “divari” (gap issue) Le analisi delle pratiche degli agenti dello Stato e dell’attuazione (implementation) delle politiche pubbliche mettono in evidenza rispettivamente due tipi di divari.

Il divario comportamentale (behavioral gap) Da una parte si constata in maniera diffusa il divario tra le condotte prescritte agli agenti pubblici e i comportamenti effettivi. I funzionari sono tenuti ad agire in con- formità a un insieme di regole prestabilite (varie leggi e codici, ma anche regolamenti, circolari o procedure) che sono tuttavia ben lontane dall’essere realmente rispettate, sia nei principi che alla lettera. Ci sono dei divari importanti, ricorrenti e significativi tra le norme ufficiali che disciplinano le azioni professionali dei burocrati e i comportamenti quotidiani, che poi sono quelli reali. 24 Si deve a Lipsky (1980) uno studio pioniere su tali divari in seno all’amministrazione americana (più precisamente gli “street-level bureaucrats”, che io chiamo “burocrati d’interfaccia”, in contatto diretto con gli utenti). Essenzialmente Lipsky interpreta que- sti divari come un margine di manovra o uno spazio discrezionale di cui beneficiano i funzionari e che, anzi, essi stessi si creano nel trattare le pratiche e i casi esaminati. Tali divari sono stati oggetto di numerosi lavori nei Paesi sviluppati, in particolare nell’am- bito della sociologia delle organizzazioni (Crozier, Friedberg 1977; Friedberg 1993; Wa- rin 2002) o della sociologia del lavoro (Reynaud 2004). Al contrario, in Africa, benché siano particolarmente importanti per ragioni storiche legate alla colonizzazione e agli aiuti allo sviluppo (Cooper 2005; Darbon 2002; Olivier de Sardan 2008), è solo recente- mente che questi studi sono divenuti oggetto di analisi più approfondite e sistematiche (Anders 2010; Bierschenk, Olivier de Sardan 2014; Blundo, Le Meur 2009a; De Herdt, Olivier de Sardan 2015; Hagmann, Péclard 2011). Chiamerò “divario comportamentale” (behavioral gap) questo tipo di scarto per distin- guerlo da quello successivo, il “divario di attuazione” (implementation gap).

Il divario di attuazione (implementation gap) Altri tipi di divari si manifestano in questo caso tra una politica pubblica, così com’è sulla carta, e la maniera in cui è implementata sul campo. Questi divari hanno un nome generico: implementation gap, o divari d’attuazione. Nessuna politica pubblica

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Interno 2-3-2016.indd 24 19/07/17 16:59 è attuata secondo le previsioni, per il semplice fatto che essa presuppone, per la sua esecuzione, la collaborazione di numerose categorie di attori che hanno interessi dif- ferenti e che rispondono a logiche sociali multiple. L’opera di riferimento, redatta da Pressman e Wildawski (1973), fa anch’essa riferimento al caso statunitense. Tutta una letteratura nell’ambito della scienza politica e dell’amministrazione pubblica è stata consacrata alle ricerche sull’attuazione delle politiche pubbliche5 ed esiste anche una rivista dedicata a questo tema (implementation studies). Da parte sua, dagli anni ’80 la nuova antropologia dello sviluppo in Africa andava nella stessa direzione (Olivier de Sardan 2005a), sottolineando le “derive” che subivano i progetti di sviluppo nel mo- mento dell’attuazione (questi ultimi, dopo tutto, non sono che un tipo particolare di politica pubblica, il più delle volte elaborati dall’esterno).6 È dunque a partire da questa corrente che si è sviluppata l’antropologia delle politiche pubbliche (Olivier de Sardan 2005b; Bierschenk 2014). I divari di attuazione, come quelli comportamentali, sono universali. Essi hanno una particolare rilevanza in Africa e solo recentemente sono diventati oggetto di ricerca.

L’analisi empirica dei divari L’approccio sui divari non è nuovo nelle scienze sociali. Contrariamente alle idee sulla burocrazia “weberiana”, che dovrebbe limitarsi alla realtà delle burocrazie europee, Max Weber può essere considerato in un certo senso il padre di un approccio sui “di- vari”, nella misura in cui l’ideal-tipo della burocrazia di cui ha tracciato le linee fonda- 25 mentali non era, a suo avviso, altro che un “modello” intellettuale (derivato dall’espe- rienza prussiana) che bisognava confrontare con realtà inevitabilmente differenti e più complesse, Europa compresa (De Herdt 2015). Si potrebbe sostenere che la concezione weberiana dell’ideal-tipo faccia riferimento al “divario metodologico”: l’ideal-tipo è uno strumento concettuale che serve ad analizzare lo scarto tra questa costruzione e la realtà. Per ciò che riguarda l’Africa, l’esistenza di divari importanti tra le regole ufficiali e le pratiche dei burocrati è indubbiamente stata constatata da tempo. Ma, paradossal- mente, questi divari non sono stati sufficientemente fatti oggetto di analisi empiriche approfondite sino a questi ultimi anni. Al contrario, si è assistito a una moltiplicazione delle proposte teoriche in larga parte fondate su stereotipi e cliché relativi alla natura o all’essenza di questi divari, imputati alle culture africane e/o al dominio del “neopa- trimonialismo” (opposizione tra Stato straniero importato e non fatto proprio, da una parte, e pratiche politiche tradizionali, dall’altra).7 È infatti in continuità con la nuova antropologia dello sviluppo africanista (anni ’90) che si situa l’ondata recente di analisi empiriche sugli impieghi statali e sulle politiche pubbliche (anni 2000-10), che tra l’altro si concentrano sullo studio empirico approfon- dito dei divari comportamentali e d’attuazione.

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Interno 2-3-2016.indd 25 19/07/17 16:59 Le norme pratiche Le “norme pratiche” costituiscono una delle basi concettuali di quest’approccio.8 Po- tremmo riassumerle in questo modo: le pratiche “non osservanti” (non-compliant prac- tices) degli attori dello Stato, definite anche come comportamenti quotidiani che si allontanano più o meno dalle norme prescrittive ufficiali, formali ed esplicite, sono spesso convergenti, prevedibili e abitudinarie; esse sono regolate de facto e seguono norme pratiche latenti, informali e implicite, che definisco appunto “norme pratiche”. Gli esempi abbondano:9 in Niger, un caposervizio non sanzionerà praticamente mai i suoi subordinati che commettono errori professionali; la maggior parte dei giudici accetterà dei doni dalle parti coinvolte nei procedimenti presi in esame; non si potrà ottenere un documento di stato-civile senza una somma minima di denaro da elargire alla segretaria che registra la domanda. Queste norme pratiche non sono distinte soltanto dalle norme ufficiali vigenti negli spazi pubblici, ma anche dalle norme sociali presenti negli spazi privati: le norme di cortesia o di socievolezza, le norme religiose e familiari sono spesso violate dagli stessi funzionari pubblici, come quando un giovane infermiere in città si mostra indifferente e sprezzante nei riguardi di una donna anziana povera che viene dalla campagna per chiedere un consulto, o quando una levatrice insulta una partoriente che non “spinge” abbastanza durante un parto (questi casi sono stati registrati frequentemente durante le indagini del LASDEL).10 Di certo alcune norme sociali possono nondimeno legittimare 26 certe norme pratiche, o trasformarsi in esse, come nel caso dell’“assenteismo sociale” generalizzato (assentarsi per mezza giornata o, peggio, per un battesimo, un matri- monio o un funerale di una cerchia allargata di conoscenti, è una pratica comune che svuota regolarmente tutti i servizi di una cospicua parte della forza-lavoro). Le norme pratiche sono di diversa natura. Esse possono celare forme quotidiane di corruzione, fenomeno che a sua volta è ampiamente regolato da codici informali di condotta (Blundo 2000; Blundo, Olivier de Sardan 2006); ma può trattarsi anche di favoritismo e di clientelismo, di commiserazione, di arrangiamenti, di conformismo o ancora di pratiche “palliative” che permettono di portare a termine un compito esplici- tamente assegnato che, altrimenti, il rispetto delle norme ufficiali non permetterebbe di eseguire. In effetti, si possono distinguere diverse categorie di norme pratiche: quelle adattive (l’insieme delle regole del gioco); le norme pratiche quasi tollerate (“non os- servanti”, ma comunque ammesse da tutti e praticate apertamente); le norme pratiche trasgressive (che restano discrete e relativamente nascoste); le norme pratiche pal- liative (non conformi alla regola, ma compatibili con lo spirito della stessa); le norme pratiche dissidenti (che contestano le norme stabilite).11 Questo concetto, che ai miei occhi resta “esplorativo”, genera dei vantaggi che sono legati alla sua produttività empirica (distinguendosi in questo modo dai concetti “espli- cativi”, che invece sono sostanziati dalla loro virtuosità interpretativa). Esso consente di esplorare l’informalità “interna allo Stato” e le pratiche informali della stessa bu-

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Interno 2-3-2016.indd 26 19/07/17 16:59 rocrazia, sebbene la nozione di informalità fosse stata riservata finora ai settori della realtà economica e sociale che sfuggivano al controllo dello Stato e della legge. In altri termini, le pratiche della burocrazia statale sono costituite da un complesso intreccio tra formalità (norme ufficiali) e informalità (norme pratiche). Le norme pratiche sono per definizione al centro dei divari comportamentali degli at- tori dello Stato. Ma esse giocano un ruolo importante anche per i divari d’attuazione, nella misura in cui i funzionari pubblici sono uno dei maggiori gruppi strategici (oltre ai beneficiari) necessari all’esecuzione delle politiche pubbliche e, allo stesso tempo, co-producono le derive delle stesse per via della prova di realtà cui si sottopongono. Al centro dell’universo burocratico e delle politiche pubbliche vi è la fornitura di servizi di interesse generale, che tuttavia lo Stato non è il solo ad assicurare. È questa partico- lare dimensione che ora desidero prendere in esame.

La questione della fornitura dei servizi d’interesse generale (service delivery issue) Impiego qui l’espressione “servizi di interesse generale” intendendo quei “servizi co- munemente percepiti dagli attori implicati come riguardanti l’interesse generale”, per evitare gli inconvenienti legati all’uso di espressioni più comuni come bene o servizio pubblico. La definizione di “bene pubblico”, ereditata da Samuelson (1954), è in effetti puramente formale (rinvia alla proprietà duale di “non rivalrous” e “non excludable”) e non si applica che a una gamma molto limitata di beni. Quanto all’accezione di “servi- zio pubblico”, essa è di ordine istituzionale ed è associata a una visione stato-centrica 27 (state-centered). Un’espressione come “servizio di interesse generale” è interessante perché, da una parte, fa riferimento alle rappresentazioni emiche, ovvero alle percezio- ni locali di ciò che riguarda o meno l’interesse generale, il cui perimetro può variare a seconda dei contesti storici e culturali;12 dall’altra, non presume il tipo di istituzione che fornisce questi servizi (essendo lo Stato una tra le tante alternative). Mettere in evidenza l’erogazione di servizi come una delle funzioni centrali della buro- crazia dello Stato in Africa (a prescindere che questa abbia o meno il monopolio, sem- mai l’abbia avuto) permette di riequilibrare le visioni dello Stato proposte dalle scienze sociali, che spesso privilegiano una prospettiva centrata sulle sole funzioni di dominio e repressione, facendo frequente riferimento ai lavori di Michel Foucault e di James Scott o a quelli più recenti di Giorgio Agamben e Judith Butler. La celebre frase di Max Weber che caratterizza lo Stato attraverso il “monopolio della violenza legittima” appare sullo sfondo, pur essendo ben lontana dal riassumere tutta la complessità delle analisi dello Stato di Weber, che peraltro ha approfondito molte altre dimensioni oltre a quella della violenza (Bierschenk, Olivier de Sardan 2006; De Herdt 2015). Per questa ragione non voglio opporre lo Stato fornitore di servizi (delivery state) a quello repressivo, ma insistere sulla combinazione di questi due aspetti, spesso occul- tata da riferimenti troppo esclusivi e ripetitivi al solo ruolo repressivo. Di conseguenza ancora troppi pochi studi empirici, nella letteratura africanista e/o antropologica, si

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Interno 2-3-2016.indd 27 19/07/17 16:59 occupano delle modalità di erogazione dei servizi di interesse generale dello Stato (o di altre istituzioni). Lo Stato certamente resta un luogo di potere e, ovunque in Africa (ma anche altrove), è catturato dalle élite che fanno ricorso alla violenza per assicurarsi la supremazia e l’ar- ricchimento. Ma anche lo Stato più repressivo fornisce beni e servizi al popolo; anche le élite più avide assicurano un minimo di sanità, istruzione o acqua.13 A questo punto si pongono una serie di questioni empiriche: in che maniera sono ero- gati questi servizi? Da chi? In che forme? Chi vi ha accesso? Qual è la qualità? L’Africa è a tal proposito un enorme cantiere che si apre per le scienze sociali in generale, e per l’antropologia in particolare.

I modi della governance Queste questioni consentono una nuova prospettiva sulla governance, se si accetta di porre come elemento centrale della sua definizione l’erogazione di servizi di interesse generale. Per evitare le accezioni normative (“buona” o “cattiva” governance), genera- lizzanti (“la” governance) o troppo astratte (la governance come “process of collective action”), propongo di ricorrere al concetto di “modi di governance”, che in termini di valori è neutro, necessariamente plurale (ci sono sempre diversi modi di governance) ed empiricamente radicato (quali dispositivi permettono la fornitura di servizi di interesse generale?). Un modo di governance è in questo senso un dispositivo particolare di for- nitura dei servizi di interesse generale, secondo un insieme di norme ufficiali e di norme 28 pratiche specifiche e in funzione di determinate forme di autorità e di legittimazione. C’è sempre una coesistenza tra diversi modi di governance rispetto ai contesti storici. Per esempio, in Niger, ad oggi si possono distinguere otto modi di governance locale:14 il modo burocratico (proprio dello Stato, che è quello che qui ci interessa), il modo svilup- pista (dei progetti e delle agenzie di sviluppo), il modo comunale (delle municipalità), il modo associativo (di gruppi, cooperative e altri comitati di gestione), il modo “dei capi” (delle chefferies), il modo dei mecenati (dei big man e dei “ressortissants”),15 il modo religioso (delle chiese, delle confraternite e delle reti confessionali) e infine il modo di mercato (degli operatori privati che esercitano una funzione di interesse pubblico). Ogni modo di governance è disciplinato da regole del gioco formali, specifiche e ben conosciute, che costituiscono un sistema di norme ufficiali e che definiscono l’identità pubblica dell’istituzione o delle istituzioni che erogano il servizio. Ma ogni modo di governance è normato anche da regole del gioco informali, cioè da un insieme di norme pratiche che strutturano i divari rispetto alle norme formali dell’istituzione. Da ciò si può notare in che maniera la questione dei divari e delle norme pratiche coincida con l’erogazione dei servizi di interesse generale e dei modi di governance.

Il modo di governance burocratico e la co-fornitura dei servizi in contesti africani A lungo considerato come il modo di governance dominante e a volte anche, benché eccessivamente, come il modo di governance esclusivo (come nei regimi dittatoriali di

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Interno 2-3-2016.indd 28 19/07/17 16:59 tipo o eredità comunista, come la Guinea di Sékou Touré o l’Etiopia del Derg) il modo di governance burocratico oggi ha praticamente perso ovunque il monopolio della for- nitura dei servizi. Anche nei settori un tempo considerati i più rappresentativi della sovranità come le dogane o la sicurezza, e ancor più in quelli sociali come la sanità o l’istruzione, dove il servizio pubblico era egemonico, gli Stati africani devono oggi ne- goziare, collaborare e concorrere con altri modi di governance. Le milizie garantiscono la sicurezza, le aziende private presidiano le dogane, gli ospedali confessionali sono sempre più affollati, i comuni assumono insegnanti a contratto. Si tratta quindi di un disimpegno dello Stato, a prescindere che questo sia avvenuto sotto condizionalità esterne (indotto dai piani di aggiustamento strutturale) o a causa della propria deprivazione (con le finanze pubbliche depredate o dirottate verso altre spese). Questo disimpegno è associato a un calo evidente della qualità dei servizi forniti dallo Stato, che in tutta l’Africa è stato oggetto di una critica generalizzata da parte degli utenti/cittadini, pronti a evocare le epoche precedenti (comprese le dittature mili- tari o la colonizzazione) in cui lo Stato era ancora in grado di fornire servizi di migliore qualità (Booth, Cammack 2013). Due elementi devono tuttavia indurre a relativizzare quest’elogio delle passate esperienze di fornitura statale dei servizi: da un lato, una tendenza diffusa a idealizzare il passato; dall’altro, il fatto che questi servizi erano ero- gati a un numero molto più ridotto di destinatari e in contesti economici più favorevoli. Ad ogni modo lo Stato è ormai, volente o nolente, obbligato a inserirsi in forme di co-fornitura dei servizi di interesse generale con altre istituzioni, che siano formali 29 (partenariato pubblico-privato, decentramento, aiuto allo sviluppo, ecc)16 o informali (scambi di favori, “débrouillardise” o “arte di arrangiarsi”, erogazione palliativa, cor- ruzione, ecc).17 La co-fornitura formale si esprime attraverso un altro vocabolario: le politiche pubbliche sono oggi co-prodotte e co-attuate dallo Stato e da una gamma variegata di partner istituzionali. Quanto alla co-fornitura informale, sta alle scienze sociali descriverne le modalità. Dalla maniera in cui ogni modo di governance sviluppa le proprie regole del gioco e le proprie norme pratiche, la co-fornitura favorisce e amplifica un pluralismo normativo particolarmente prolifico in Africa e in crescita sin dall’epoca coloniale,18 in cui il diritto occidentale importato coesisteva con diversi regimi giuridici consuetudinari tollerati o riconosciuti (più o meno ben rappresentati dal modo di governance delle chefferie), così come con i diritti religiosi (islam, cristianesimo) e con i diritti «privati» (compagnie concessionarie). Il “diritto dei progetti”19 (tipico della governance sviluppista) dal canto suo ha progressivamente preso piede dopo le indipendenze. Quest’esacerbato pluralismo normativo porta evidentemente gli attori statali ad al- lontanarsi dalle norme burocratiche e professionali ufficiali e a ispirarsi, almeno indi- rettamente, all’ampia gamma di norme alternative che li circondano, sempre capaci di garantire il repertorio delle norme pratiche disponibili. Questo processo rende ancor più complessa la cultura burocratica locale.

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Interno 2-3-2016.indd 29 19/07/17 16:59 Sulla cultura burocratica Grazie a questa prospettiva possiamo riconsiderare il concetto di cultura burocratica e integrarvi le norme pratiche. Questo concetto è stato utilizzato sinora nei suoi signifi- cati più disparati. Qualcuno lo identifica con la realizzazione dell’ideal-tipo weberiano (regolamentazione attraverso le procedure, rispetto della gerarchia, ecc.). Sulla stessa base implicita, altri lo assimilano a una serie di stereotipi “alla Courteline” o addirittura “alla Kafka”, insistendo sulla rigidità, l’indifferenza, la lentezza o ancora sull’assurdità delle pratiche burocratiche. All’interno delle scienze sociali vi sono infatti numerosi significati e accezioni che non sfuggono alle insidie dell’ideologia culturalista e che in- sistono sull’esistenza di valori e visioni del mondo che si suppongono essere largamente condivisi e appartenenti al passato.20 Da parte mia desidero fare riferimento a un’accezione empiricamente fondata del con- cetto di cultura, espressa dalla definizione: «un insieme di pratiche e rappresentazioni che la ricerca ha mostrato essere condivise in maniera significativa da un dato gruppo (o sotto-gruppo), in contesti e campi determinati» (Olivier de Sardan 2015a: 84). In questa prospettiva, le organizzazioni o le professioni possono, più facilmente di molti altri gruppi sociali, essere oggetto di studi empirici che pongano in evidenza comporta- menti e rappresentazioni condivise. Le norme pratiche diventano, al fianco delle norme ufficiali, un elemento centrale delle culture professionali o organizzative. «Una cultura professionale è un intreccio complesso di norme ufficiali (professionali) e di norme pra- 30 tiche» (Olivier de Sardan 2015a: 4). Il modo di governance burocratico va di pari passo con una cultura burocratica dei suoi attori che si dispiega nello spazio aperto situato tra norme ufficiali e norme pratiche. Possiamo andare ancora oltre, sempre in una prospettiva essenzialmente empirica: si constata facilmente che ogni “impiego statale” implichi un proprio sistema di norme ufficiali (quelle che istruiscono le formazioni professionali) e di norme pratiche (acces- sibili soltanto attraverso le ricerche sul campo). In questo modo sono state abbondan- temente descritte le principali norme pratiche caratterizzanti la cultura professionale delle levatrici di diversi Paesi africani, peraltro abbastanza simili da un Paese all’altro (Diarra 2010, 2012; Koné 2003; Moussa 2003; Moumouni, Souley 2004; Olivier de Sar- dan, Bako-Arifari 2011; Sambieni 2012; Souley 2003; Vasseur 2009). Ma al di là delle norme pratiche specifiche di un certo impiego, attraverso le ricerche si osserva che anche gli impieghi più disparati, rappresentati dal modo di governance burocratico, condividono certe norme pratiche. Levatrici, dipendenti pubblici, poliziotti o ispettori dell’allevamento hanno in comune certe pratiche corruttive, subiscono le stesse forme di interventismo politico e si situano in egual maniera in un sistema gene- ralizzato di scambi di favori.21 C’è quindi una cultura burocratica comune, trasversale ai diversi impieghi statali e alle sue culture professionali specializzate.

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Interno 2-3-2016.indd 30 19/07/17 16:59 Conclusione. Cambiamento, riforme, contestazione Vorrei cercare ora di andare al di là del rigoroso ruolo del ricercatore, che è il mio mestiere, e riflettere come cittadino sulle riforme necessarie e sui problemi che queste pongono. In effetti, ovunque in Africa, i cittadini/utenti sono scontenti dei servizi d’interesse generale forniti dallo Stato; ovunque il modo di governance burocratico è severamente criticato. Nelle ricerche portate avanti dal LASDEL per oltre 15 anni, in Niger come nei Paesi vicini, non abbiamo mai incontrato un utente contento e soddisfatto! C’è una forte richiesta di riforme che proviene “dall’interno” (che non bisogna confondere con quella proveniente dagli enti finanziatori, che invece proviene “dall’esterno”). Ma è necessario integrare immediatamente questa constatazione con due osservazioni che la relativizzano e che mettono in evidenza le difficoltà da superare. In primo luogo, chiunque contesti i comportamenti “non osservanti” degli attori dello Stato quando ne è vittima, si affretta a sollecitarli o a riprodurli quando invece può trarne vantaggio. C’è quindi un fenomeno di “doppio linguaggio”. In secondo luogo, dobbiamo tener presente che ci sono pochissime espressioni pubbli- che coerenti di lotta contro i comportamenti “non osservanti”. Le denunce dei militanti dell’opposizione sono puramente retoriche nella misura in cui, una volta arrivati al potere, gli stessi militanti riproducono in maniera identica i comportamenti che prima criticavano. Stesso discorso per gli attivisti delle ONG della società civile nel momento in cui accedono a posizioni di potere politico. L’ambizione della maggior parte delle 31 élite (di cui fanno parte i quadri delle ONG nazionali) è infatti quella di accedere ai privilegi derivanti dalle alte funzioni dello Stato. La società civile è inoltre particolar- mente dipendente dagli aiuti esterni, elemento che favorisce il fenomeno del “doppio linguaggio”: compiacere i finanziatori (i riformisti esterni) da un lato e inserirsi nella routine della cultura burocratica dall’altro.

La contestazione radicale Tuttavia esistono dei focolai di contestazione radicale. Ma questi si collocano nella sfera religiosa e non politica (da quando quest’ultima ha visto quasi estinguersi le contestazioni rivoluzionarie di ispirazione marxista). Si tratta dei salafiti da una parte e dei jihadisti dall’altra. Per salafiti intendiamo i movimenti puritani che auspicano un ritorno al passato, in par- ticolare d’ispirazione wahabita come Izala in Niger e Nigeria (Sounaye 2007) e di ten- denza “quietista” (non jihadista) ma molto intolleranti nei confronti sia dei cristiani che dell’Islam delle confraternite. Essi diffondono una dura contestazione dello Stato, della corruzione che vi regna, e anche della cattiva qualità dei servizi (proponendo spesso una fornitura di tali servizi gestita dal mondo religioso: scuole coraniche e madrasa; medicina coranica o centri sanitari islamici). Se ne possono ricercare gli equivalenti da parte cristiana, per esempio presso i pentecostali (Laurent 2003). Quanto ai jihadisti, che arruolano militanti dal movimento salafita facendo riferimen-

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Interno 2-3-2016.indd 31 19/07/17 16:59 to sulla sua visione del mondo, essi si spingono ancora oltre opponendosi in maniera violenta e radicale allo Stato, alla scuola moderna e all’Occidente intero (Boko Haram). Queste due forme di contestazione radicale, una non violenta e l’altra violenta, rappre- sentano inoltre due forme di progetto politico: una volta a instaurare la sharia all’inter- no dello Stato moderno; l’altra a promuovere un califfato che lo sostituisca.

Le riforme Se a essere intrapresa è la via riformista – che mi sembra oggi la sola possibile e l’unica realista – bisogna innanzitutto constatare che è quella avanzata dai riformatori esterni (finanziatori e agenzie di sviluppo). In che maniera opera? Essenzialmente sollecitando o imponendo delle riforme che introducano dei “pacchetti” di nuove norme ufficia- li (professionali e burocratiche). Queste categorie di regole importate costituiscono l’ambiente normativo dei “modelli itineranti” (travelling models),22 ciascuno centrato su un non meglio definito “meccanismo” miracoloso (del tipo magic“ bullet”) e quin- di relativamente indipendente dai contesti. Le tecniche del New Public Management, sempre più esportate verso l’Africa (McCourt, Minogue 2001), ne forniscono una chiara illustrazione, come nel caso dei pagamenti subordinati alle prestazioni promossi con costi enormi dalla Banca Mondiale in Africa (Lannes et al. 2015). Si può essere scettici su queste riforme “provenienti dall’esterno” che si accumulano su innumerevoli e antichi strati di norme ufficiali, che a loro volta vengono “aggirate” e “deviate” dalle norme pratiche in vigore. Ma in particolare ci si può augurare un altro 32 tipo di riforme, promosse e sostenute dai “riformatori interni” e radicate nei contesti lo- cali. Per cambiare i comportamenti inappropriati dei funzionari (condizione necessaria per ogni miglioramento delle politiche pubbliche) e modificare la cultura burocratica affinché i servizi forniti siano di migliore qualità, le norme pratiche rappresentano un punto di partenza imprescindibile. Bisogna conoscerle per poterne conservare alcune, modificarne altre e rimpiazzarne altre ancora. Questo non può che avvenire sollecitan- do dibattiti e processi deliberativi con gli stessi funzionari che si confrontano quotidia- namente con queste norme pratiche, e che, solo essi, possono cambiare.

Jean-Pierre Olivier de Sardan è direttore di ricerca emerito del Centre national de la re- cherche scientifique (CNRS), Francia, Direttore di studi della École des hautes études en sciences sociales (EHESS) e Ricercatore presso il Laboratoire d’Etudes et de Recherche sur les Dynamiques Sociales et le Développement Local (LASDEL), Niamey, Niger

Traduzione di Raffaele Urselli

NOTE: 1 - Questo capitolo sviluppa diverse riflessioni teoriche frutto di indagini portate avanti da ricercatori del LASDEL (Laboratoire d’études et recherches sur les dynamiques sociales et le développement local, Niamey, Niger, www.lasdel.net) principalmente in Niger (Observatoire de la décentralisation au Niger; Les comportements non-observants au sein des services publics nigériens), ma anche nei Paesi vicini (nel quadro

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Interno 2-3-2016.indd 32 19/07/17 16:59 dei programmi di ricerca internazionali: States at Work. Public Services and Civil Servants in West Africa: Education and Justice in Benin, Ghana, Mali and Niger; Etat local, gouvernance quotidienne et réformes du service public dans quatre pays africains: Bénin, Burkina Faso, Mali, Niger). L’autore è uno dei fondatori del LASDEL, vive in Niger e ha diretto diversi di questi programmi. 2 - Per “africanisti” si intendono i ricercatori in scienze sociali che lavorano su temi empirici in Africa, a prescindere dal fatto che tali ricercatori siano o meno africani. 3 - Queste due correnti sono minoritarie nelle rispettive discipline: l’antropologia “mainstream” resta marcata dal culturalismo e dall’esotismo (per una critica del culturalismo tradizionalista africanista, vedi Olivier de Sardan (2015a) e la scienza politica è oggi dominata dai metodi quantitativi. È a Jean- François Bayart (1981, 1989) che si deve il primo dialogo approfondito tra scienza politica e antropologia nell’africanistica, ma in una prospettiva e su oggetti differenti. 4 - Persino un osservatore così attento come Dominique Darbon, che ha da tempo invitato a studiare le amministrazioni africane, si lascia andare nel caratterizzare i piccoli funzionari come privi di «cultura burocratica»; per questi, secondo Darbon (2002: 76), «il “servizio” dello Stato si assimila al servizio dell’incomprensibile». 5 - Vedi tra gli altri Crosby (1996); de Leon (2002); Erasmus, Gilson (2008); Hupe (2014). 6 - Si vedano i lavori di Elwert, Bierschenk (1988); Bierschenk (1988); Olivier de Sardan (1985, 1988). 7 - Per una critica del paradigma neopatrimoniale, vedi Therkildsen (2005); Olivier de Sardan (2014b). 8 - Il concetto di norme pratiche è presentato in maniera sistematica in Olivier de Sardan (2015b); si troveranno diversi esempi del suo impiego in Blundo (2015); Cleaver (2015); Hahonou (2015); Rubbers, Gallez (2015); Vasseur (2009). 9 - Per un’analisi dettagliata delle norme pratiche nell’amministrazione nigerina, vedi Olivier de Sardan (2015c). 10 - Su questo punto si veda Koné (2003); Moumouni, Souley (2004); Moussa (2003); Souley (2003). 11 - Si deve tuttavia fare attenzione a una certa tendenza “populista” in seno alle scienze sociali che tende a interpretare ogni non-osservanza come una forma di “resistenza”, tendenza illustrata da James Scott (1990, 1998), malgrado l’interesse delle numerose analisi di questo autore (1976). 12 - Spesso uso anche l’espressione “beni o servizi pubblici collettivi” con lo stesso significato (Olivier de Sardan 2014a). 13 - Beatrice Hibou (2011) ha tentato di combinare questi due aspetti dello Stato, rendendo la fornitura 33 di servizi una modalità centrale della legittimazione delle élite al potere e del consenso dei dominati alla dominazione che viene esercitata su di essi. Ma penso che sia necessario andare ancora più a fondo e considerare l’erogazione dei servizi in quanto tale, come campo semi-autonomo (Moore 1973) dotato di un proprio spessore sociale, al di là della questione della legittimazione. 14 - Per approfondire nel dettaglio i modi di governance in Africa occidentale, si veda Olivier de Sardan (2011a, 2011b). 15 - [N. d. T.] Si tratta dei cittadini residenti all’estero che trasferiscono rimesse in denaro o investono nel Paese d’origine. 16 - «Non esiste più in Africa un servizio pubblico, la cui fornitura non includa il maggiore o minore coinvolgimento dei quattro seguenti casi: i servizi amministrativi dello Stato, le amministrazioni dello sviluppo (ONG e agenzie internazionali), le organizzazioni ”comunitarie” (dalle associazioni al consiglio comunale) e gli attori privati» (Blundo, Le Meur 2009: 15). 17 - Per degli esempi nigerini di co-fornitura informale dei servizi tra agenti dello Stato e altre istituzioni, vedi: Abdoulkader (2012) per la sicurezza; Hamani (2014) per la giustizia; Issa (2011) per l’acqua e le fogne. 18 - La scuola detta del “pluralismo giuridico” si è largamente diffusa a partire dallo studio dei contesti coloniali. 19 - Per un approfondimento degli aspetti giuridici della governance, si veda Benda-Beckmann, Eckert (2009). 20 - Per Michel Crozier (1963), autore di uno studio pioniere sulla burocrazia francese, la cultura burocratica esprimerebbe in ultima istanza una cultura francese radicata nella storia, della quale riusciamo appena a metterne a fuoco contenuti e contorni. Questo punto di vista è stato criticato da Friedberg (2005), ma anche da Olivier de Sardan (2014b). 21 - Il LASDEL ha condotto in Niger numerosi studi su diversi impieghi statali (sanità, giustizia, allevamento ed erario) mostrando di volta in volta la specificità di ognuno (Hamani 2015a; Issaley 2015; Moha 2015; Elhadji Dagobi 2015) e in che maniera essi possano essere considerati come comportamenti caratterizzanti di una cultura burocratica comune (Olivier de Sardan 2015c). 22 - Su questo si veda Rottenburg (2007); Behrends, Park, Rottenburg (2014), ma anche Darbon (2009).

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Le pratiche dello Stato in Africa: spazi sociali e politici contestati

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Interno 2-3-2016.indd 38 19/07/17 16:59 L’utilizzo dello Stato: discorsi e pratiche sull’erogazione di servizi in Sud Sudan Sara de Simone

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Introduzione Negli ultimi 25 anni, gli interventi internazionali in Paesi in via di sviluppo in situa- zioni di conflitto sono sempre più stati caratterizzati da ciò che Duffield ha chiamato «la confluenza di sviluppo e sicurezza» (Duffield 2001), basata sul presupposto che se uno Stato non è in grado di promuovere politiche di riduzione della povertà e di incentivare lo sviluppo economico, insicurezza e conflitti saranno più probabili. In con- testi conflittuali, caratterizzati dalla scarsa capacità delle strutture statali di rispondere alle aspettative dei propri cittadini, l’erogazione di servizi pubblici è stata sempre più spesso considerata come un fondamentale «dividendo della pace» (Pantuliano et al. 2008), nonché come una strategia di rafforzamento della legittimità dello Stato.1 In contrapposizione con l’approccio che aveva caratterizzato gli anni ’80, quando il ruolo dello Stato nelle politiche di sviluppo era ridotto al minimo, negli anni ’90 le strategie di peace-building ne hanno recuperato la centralità. L’enfasi sulla necessità di accre- scere le capacità gestionali dell’amministrazione statale soprattutto a livello locale ha spostato l’attenzione dallo Stato centrale a quello decentrato, al fine di rendere più efficace ed efficiente l’erogazione di servizi alla popolazione.2 Il Sud Sudan, ufficialmente entrato nella fase “post-conflitto”3 nel 2005 dopo la firma del Comprehensive Peace Agreement (CPA) tra il Sudan People’s Liberation Movement/

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Interno 2-3-2016.indd 39 19/07/17 16:59 Army (SPLM/A)4 e il Governo del Sudan, ha visto un coinvolgimento importante della comunità internazionale di donatori in progetti di state-building, concentrati principal- mente sulla formulazione di leggi e documenti di policy che guidassero la realizzazione di programmi di sviluppo del Governo e di agenzie internazionali. Il rafforzamento del- la capacità di erogazione di servizi essenziali (come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’acqua potabile) ha costituito una delle principali motivazioni per la scelta di un regime politico decentrato, ed è alla base di gran parte degli interventi di institution-building e capacity-building che hanno visto coinvolto il Governo sud sudanese. Quest’articolo propone un’analisi delle strategie messe in campo dalla popolazione per migliorare il proprio accesso ai servizi di base attraverso l’appropriazione di pratiche discorsive tipiche della comunità di donatori internazionali. L’analisi si concentra su una località, la contea di Yirol West, interessata da un progetto di sviluppo finanziato dalla Banca Mondiale (BM), il Local Governance and Service Delivery (LGSD, noto an- che come LOGOSEED), che si propone di coinvolgere direttamente i governi locali nel partenariato anziché il Governo nazionale o statale,5 combinando una componente di capacity-building con una di tipo infrastrutturale per facilitare l’erogazione di servizi pubblici. La scelta di Yirol West, tra le diverse zone di realizzazione del progetto, è stata dettata principalmente da motivi di accessibilità sia logistica che sociale, grazie a una rete di rapporti che mi ha consentito di avvicinarmi facilmente ad alcune delle figure che ruotavano attorno alla realizzazione del progetto. Attraverso il caso studio, si cerca 40 di dimostrare come i discorsi tecnico-amministrativi sul decentramento e l’erogazione di servizi da parte dei donatori vengano reinterpretati dalle comunità locali. L’utilizzo che ne fanno queste ultime, allo scopo di rivendicare l’accesso alle risorse e ottenere un maggior peso nei processi decisionali sulle priorità di sviluppo delle proprie aree, porta invece a una loro forte ripoliticizzazione. Aspettative elevate sull’erogazione di servizi di base e la percezione di quali siano le strategie migliori per accedervi influenzano il modo in cui le comunità locali plasmano la loro relazione con lo Stato e altri erogatori di servizi (principalmente le ONG), contribuendo alla produzione di uno Stato locale solo apparentemente in linea con quello promosso dai programmi di state-building. L’articolo si basa su una serie di interviste realizzate tra ottobre e dicembre 2013 a Juba, Rumbek e Yirol nell’ambito della ricerca sul campo per la tesi di dottorato. Nel tentativo di esplorare il rapporto tra la popolazione, il governo locale e le agenzie di sviluppo, e in particolare l’influenza di queste ultime sul contesto locale in termini di apporto di risorse materiali e simboliche, le interviste hanno coinvolto lo staff di alcune organizzazioni internazionali, esponenti del governo locale sia a livello nazionale (nel Local Government Board, LGB) che negli uffici distaccati a livello di Stato e di contea, e capi tradizionali riuniti in corti consuetudinarie. Questi ultimi hanno partecipato atti- vamente a interviste di gruppo con l’ausilio di un interprete dal dinka all’inglese.

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Interno 2-3-2016.indd 40 19/07/17 16:59 “Taking towns to the villages”: l’accesso ai servizi nelle aree rurali L’erogazione di servizi pubblici è tradizionalmente considerata come una strategia di penetrazione dello Stato nelle periferie, rendendo le istituzioni «visibili ai cittadini» (Van de Walle, Scott 2009). Nella storia della formazione degli Stati in Europa occidentale, essa ha sicuramente rappresentato uno strumento di penetrazione e consolidamento delle strutture statali tra il XVII e XIX secolo: la fornitura di sicurezza, la creazione del pubblico impiego e lo sviluppo di curricula scolastici hanno aumentato la legittimità e visibilità degli Stati permettendo loro di andare oltre il controllo del territorio attraver- so la forza (Tilly 1975, 1991). Questa concezione materialistica della legittimità, legata alla capacità degli Stati di offrire qualcosa in cambio, ha influenzato non soltanto il pensiero accademico sul legame tra servizi pubblici e forza dello Stato (Rotberg 2003), ma anche e soprattutto il modo in cui la capacità di erogazione di servizi è diventata una sorta di “nuova frontiera” degli interventi internazionali di state-building negli anni 2000. Mentre negli anni ’80 e primi anni ’90 si pensava che i servizi di base nei Paesi in via di sviluppo fossero erogati in modo più efficace ed efficiente da attori pri- vati piuttosto che da Stati centralizzati e corrotti (Hydén 1983; Bates 2014), a partire dagli anni 2000, con la Dichiarazione di Parigi (2005), i donatori hanno cominciato a formulare politiche volte a rafforzare la capacità di coordinamento e di indirizzo dei Paesi che ricevono gli aiuti, in modo che essi possano progressivamente assumersi la responsabilità della relazione coi propri cittadini. 6 Se da un lato questo processo viene descritto in modo abbastanza lineare, la realtà è 41 ben diversa. Anche nella storia europea di formazione degli Stati, infatti, l’erogazione di servizi pubblici è rimasta per lungo tempo legata a rapporti clientelari, quando non alla soppressione dei possibili concorrenti (Van de Walle, Scott 2009). In Africa, ancora oggi, essa appare «avvolta, per così dire, in pratiche di patronage, privilegi, corruzione, disprezzo per utenti anonimi» (Bierschenk, Olivier de Sardan 2014: 40). È proprio per ridurre il rischio di corruzione e di altre pratiche “devianti” dal modello weberiano di burocrazia legal-razionale che il New Public Management, l’approccio amministrativo che domina le politiche di institution-building promosse dai donatori internazionali, attribuisce allo Stato un ruolo di coordinamento più che di reale erogazione dei ser- vizi essenziali (Laurence 1998). Quest’ultima funzione è svolta da attori privati, per lo più ONG e organizzazioni internazionali, soprattutto in quelle situazioni “instabili” in cui all’importanza di questa funzione si aggiunge anche l’urgenza, considerandola una sorta di disincentivo a pratiche violente di interazione sociale. In questo contesto, le politiche di sostegno all’erogazione di servizi a livello locale sono spesso legate a quelle di decentramento, e si concentrano principalmente sull’efficacia ed efficienza della funzione senza tenere in alcun conto la sua dimensione politica né, spesso, il contesto specifico in cui questi programmi vengono realizzati (Darbon 2003; Laurence 1998; Samoff 1990).

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Interno 2-3-2016.indd 41 19/07/17 16:59 In Sud Sudan, il discorso sull’erogazione di servizi si è intrecciato a quello sui “dividendi della pace” fin dal 2005, nella convinzione che rafforzare la capacità delle istituzioni statali locali di provvedere ai bisogni materiali dei propri cittadini, soprattutto nelle aree rurali, fosse fondamentale per evitare “ricadute” nel conflitto e per rafforzare la legittimità di uno Stato che aveva storicamente ignorato le esigenze e le aspirazioni dei suoi cittadini del Sud.7 Questa strategia era già emersa negli anni ’90 con la riforma del sistema di controllo del territorio promossa dall’SPLM in risposta a una serie di sfide sia interne che internazionali. Nel 1991, infatti, con la caduta di Menghistu, l’SPLM aveva perso il suo principale alleato e fornitore di armi, nonché tutte le basi militari in Etiopia. L’autorità del leader dell’SPLM, John Garang, basata sostanzialmente sulla sua capacità di distribuzione di armamenti, si era momentaneamente indebolita. Approfittando di questo indebolimento, pochi mesi dopo due comandanti militari della regione dell’Upper Nile, Riek Machar e Lam Akol, cercarono invano di appropriarsi della leadership del movimento, provocando invece una scissione che ha dato vita a una sanguinosa guerra intestina tra le popolazioni sud sudanesi. Spinto dalla necessità di trovare nuovi alleati e di consolidare il movimento, l’SPLM ha abbandonato la retorica marxista adottando un lessico molto più vicino a quello dei donatori internazionali, avviando una serie di riforme della propria struttura e creando un’amministrazione civile decentrata nelle aree sotto il proprio controllo, conosciuta come Civil Administration of the New Sudan (CANS) (African Rights 1997; Johnson 2003; Rolandsen 2005). Nel 2000, il documento Peace through Development in the Sudan chiariva che l’SPLM 42 considerava lo «sviluppo sociale» e l’erogazione di servizi di base alla popolazione come elemento fondamentale della propria strategia di peace-building (Sudan People’s Liberation Movement 2000). Con la fine della guerra nel 2005 e la creazione del Governo del Sud Sudan (GOSS), la CANS, è stata trasformata nella struttura di governo locale (Government of Sudan, SPLM 2005) con il sostegno di una serie di donatori. In seguito a un processo di consultazione sostenuto dallo United Nations Development Program (UNDP) e dell’agenzia di cooperazione tedesca Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit (GIZ) il GOSS ha adottato il Local Government Framework nel 2006 e il Local Government Act (LGA) nel 2009, riaffermando ancora una volta l’impegno dell’SPLM per la creazione di un sistema di governance decentrata. «Portare le città ai villaggi» (taking towns to the villages), una tra le più celebri frasi di John Garang, è stata scelta come sottotitolo del Local Government Framework (Government of Southern Sudan 2006). L’interpretazione più comune di questa frase è che lo Stato, soprattutto lo Stato locale, debba espandere la sua capacità di raggiungere le aree più remote attraverso l’erogazione di servizi alle popolazioni rurali, trasformando i villaggi in città e garantendo la creazione di opportunità di sviluppo economico equamente distribuite sul territorio. Quest’idea emerge anche dal rapporto stilato dalla Joint Assessment Mission, condotta tra il 2004-2005 da un team composto da rappresentanti della BM, dell’UNDP, dell’SPLM e del Governo sudanese per verificare le priorità di intervento nell’immediato dopoguerra. Il rapporto afferma la necessità di sostenere programmi

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Interno 2-3-2016.indd 42 19/07/17 16:59 di state-building, di incentivare la good governance e di erogare «dividendi della pace» sotto forma di servizi pubblici al fine di rafforzare il processo di pace e di migliorare i catastrofici indicatori di sviluppo umano della regione meridionale del Sudan.8 Indicazioni simili sono contenute nel South Sudan Development Plan (Government of the Republic of South Sudan 2011), in cui peace-building, state-building e nation- building sono considerate priorità assolute che dipendono dalla creazione di strutture di governo inclusive, dallo sviluppo economico e, ancora una volta, dall’erogazione di servizi essenziali. Nonostante l’accesso alla maggior parte dei servizi essenziali (istruzione, assistenza sanitaria e acqua potabile) sia ancora principalmente garantito da attori non stata- li che lavorano con risorse internazionali,9 il quadro costituzionale e legislativo sud sudanese considera i Governi locali come le principali istituzioni statali responsabili dell’erogazione di servizi pubblici in base al principio di sussidiarietà (Government of South Sudan 2006, 2009; Government of the Republic of South Sudan 2011). Gli Stati costituiscono il primo livello di governo sub-nazionale. Ogni Stato è suddiviso in con- tee10 che rappresentano il livello più alto di Governo locale. Gli Stati e le contee hanno un esecutivo guidato rispettivamente da un governatore e da un commissario eletti a suffragio diretto, un’assemblea legislativa, anch’essa eletta, e un apparato giudiziario.11 Le contee sono suddivise in payam, a loro volta suddivisi in boma. Payam e boma sono unità amministrative coordinate da un funzionario governativo nel ruolo di ammini- stratore locale. Allo stesso modo che in altri Paesi africani, le “autorità tradizionali”12 sono state incluse nel sistema di governo locale con poteri esecutivi a livello di payam 43 e soprattutto di boma. Essi esercitano il loro potere principalmente nel sistema giudi- ziario attraverso tre livelli di corti consuetudinarie che corrispondono ai tre livelli di go- verno locale e sono organizzate in un sistema gerarchico in cui la sentenza della corte di livello inferiore può essere portata in appello a una di livello superiore (Government of South Sudan 2009). Nonostante la teorica coesistenza di autorità consuetudinarie e statutarie a tutti i livelli di governo locale, in realtà spesso i capi tradizionali si trovano a essere gli unici “rappresentanti” dello Stato, soprattutto a livello di boma. In ogni caso, la loro autorità appare sempre «strettamente intrecciata» a quella delle strutture formali di governo locale (Sarzin, Bekalu 2011). Anche se nessuna delle unità di governo locale è ancora stata fondata ufficialmente attraverso un’ordinanza specifica che ne precisi i confini territoriali, a Stati, contee e payam viene generalmente riconosciuto un ruolo importante nell’erogazione di servizi all’interno delle loro ipotetiche giurisdizioni. Le contee, in particolare, sono considerate fondamentali in quanto livello più alto di governo locale con una connotazione più politica che amministrativa, anche se la distinzione delle loro responsabilità specifiche rispetto ad altri livelli di governo resta poco chiara.13 A causa di una base fiscale piutto- sto debole, i governi locali dipendono in larga parte da risorse provenienti dal Governo nazionale e dai Governi degli Stati, o da agenzie di sviluppo, con le quali, in base all’L- GA, i governi locali possono in teoria stipulare accordi diretti.

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Interno 2-3-2016.indd 43 19/07/17 16:59 State-building decentrato per l’erogazione di servizi Dalla fine della guerra, i governi locali sono stati coinvolti in numerosi programmi di state-building finalizzati alla formazione e al sostegno al processo di pianificazione e di elaborazione del bilancio pubblico.14 Tuttavia, il sostegno internazionale destinato direttamente ai governi locali per migliorare le loro capacità di erogazione di servi- zi sembra essere un fenomeno relativamente nuovo. La project manager del progetto dell’UNDP Local Government Recovery Program (LGRP) tra il 2009 e il 2011 e program manager del progetto LGSD, al momento del nostro incontro, l’ha definito un «cambio radicale di paradigma».15 Nel 2011, dopo l’indipendenza, con il sostegno dell’UNDP, del Department for Interna- tional Development (DFID) britannico e della BM, il Governo della Repubblica del Sud Sudan ha avviato una serie di iniziative a sostegno delle contee nell’erogazione dei servizi di base. Il progetto LGSD, finanziato dalla BM, s’inserisce nel quadro del Local Services Support Aid Instrument (LSSAI), l’iniziativa governativa che sostiene l’eroga- zione di servizi pubblici e lo sviluppo comunitario. Una missione preliminare condotta nel 2011 confermava l’esclusione di gran parte della popolazione dall’accesso ai servizi pubblici e il fatto che fossero le ONG a garantire buona parte dei servizi, spesso senza nessun coordinamento con le autorità locali (Sarzin, Bekalu 2011). Di conseguenza, tut- ta una serie di attività di sviluppo, nonché di erogazione di servizi di base, per esempio nell’istruzione, non rientravano nel processo di pianificazione delle contee,16 mettendo 44 dunque a repentaglio la sostenibilità dei progetti. «Invece di creare tutti questi sistemi paralleli di erogazione di servizi», spiega la project manager del LGSD, «[abbiamo deciso che] valeva la pena cercare di rafforzare direttamente il governo locale».17 L’LGSD è dunque un progetto quinquennale che coinvolge direttamente i governi e le assemblee legislative delle contee per migliorare l’erogazione di servizi essenziali, che, in questo caso, sono stati definiti non più solo come “dividendi della pace”, ma anche come «dividendi dell’indipendenza» (Sarzin, Bekalu 2011). Il progetto è composto di una serie variegata di componenti che vanno dall’erogazione di finanziamenti a fondo perduto alle contee per lo sviluppo dei payam, al coinvolgimento delle comunità nel processo di pianificazione, realizzazione e supervisione delle attività di sviluppo a li- vello di boma, payam e contea, e attività di capacity-building per i governi locali sui processi di pianificazione, elaborazione del bilancio, gestione finanziaria, monitoraggio e valutazione.18 Il progetto è realizzato in partenariato con l’LGB, l’ente nazionale inca- ricato del coordinamento dei governi locali, attraverso un’unità di gestione del progetto diretta da un consulente della BM e fisicamente situata nello stesso complesso in cui si trova l’LGB.19 Una delle aree selezionate per la realizzazione della fase pilota del progetto LGSD è la contea di Yirol West, nello Stato di Lakes. Pur essendo caratterizzata da una situazione di relativa stabilità (soprattutto rispetto ad altre aree dello Stato, come la capitale Rumbek, dove i conflitti intercomunitari sono frequenti), Yirol West vive una forte spin-

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Interno 2-3-2016.indd 44 19/07/17 16:59 ta verso la frammentazione amministrativa a causa delle frequenti domande dal basso di creazione di nuovi payam. In passato, la creazione di nuove unità amministrative era piuttosto semplice e dipendeva da decisioni più o meno arbitrarie da parte dell’autorità locale legata all’SPLM. Storicamente, essa dipendeva dalla necessità di creare nuove posizioni governative da usare come merce di scambio per ottenere l’appoggio di po- tenziali oppositori politici o militari. Questo fenomeno si è poi acuito anche a causa del massiccio afflusso di aiuti umanitari negli anni ’90 e nei primi anni 2000, quando il numero di unità amministrative ha cominciato ad aumentare anche su pressione delle popolazioni locali per poter negoziare autonomamente con le ONG internazionali la realizzazione di progetti nelle proprie aree (Rolandsen 2005). Nel 2009, l’LGA ha introdotto parametri precisi per la creazione di nuove contee, payam e boma. Durante le consultazioni per la formulazione della legge, sembrava che il cri- terio basato sul numero di abitanti di un’area sarebbe prevalso rispetto a quello basato sul numero di sotto-unità che payam e contea dovevano avere. L’LGA infatti stabilisce che una contea debba avere una popolazione di 70.000-100.000 abitanti, ma aggiunge anche che può essere composta da 3-4 payam. Un payam può invece essere composto da 3-4 boma, mentre ogni boma deve avere una popolazione di 5.000-10.000 abitanti (Government of South Sudan 2009: Appendix I). Lo stesso articolo aggiunge anche altri criteri che possono concorrere all’ottenimento di un’unità amministrativa autonoma: la sostenibilità economica (capacità di coprire il 35-45% della spesa pubblica), l’efficacia (capacità di controllo del territorio), l’«interesse comune delle comunità» (gruppi etnici 45 minoritari o maggioritari potrebbero essere presi in considerazione dal Parlamento sud sudanese a seconda dei casi) (Government of South Sudan 2009: Appendix I). Tutto questo suggerisce che alcune unità di governo locale possano, in effetti, essere create su basi etniche. Inoltre, la considerazione del numero delle sub-unità di cui si compon- gono, spesso non coerente col calcolo della popolazione, resta valido a livello di payam e di contea, probabilmente a causa della mancanza di dati demografici affidabili.20 Allo stesso tempo, comunque, la rigidità dei criteri oggettivi introdotti è resa più flessibile dall’interpretazione della legge da parte dell’LGB, secondo cui ognuno di essi «potrà essere variabilmente applicato per la creazione di ogni unità di governo».21 È opinione diffusa che questo restituisca una buona dose di arbitrarietà alle autorità locali e che il numero delle sotto-unità amministrative sia ancora considerato come la base fonda- mentale per richiedere la formazione di payam e contee.22

I villaggi vanno in città. Rivendicazioni dal basso sui processi decisionali La contea di Yirol West è nata tra il 2003 e il 2004 in seguito alla divisione in tre parti della contea di Yirol: Awerial, Yirol East e Yirol West. Secondo il commissario di contea di Yirol West, l’area è stata divisa, su base etnica, per «portare l’amministrazione più vicino alla comunità»,23 seguendo la presunta classificazione coloniale degli insedia- menti e riconoscendo amministrativamente tre sotto-sezioni della sezione dinka agar.

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Interno 2-3-2016.indd 45 19/07/17 16:59 La sotto-sezione dinka di Yirol West, l’atuot, è piuttosto numerosa ed è a sua volta suddivisa in sei clan. Attualmente Yirol West ha un consiglio cittadino e sei payam “ufficialmente” riconosciuti. Poiché non esistono ordinanze ufficiali che riconoscano legalmente l’esistenza di payam e contee, in questo caso il riconoscimento ufficiale è dato dal fatto che questi sei payam sono inseriti nel processo di pianificazione e di elaborazione del bilancio consolidato di contea. Nel 2013, i capi di tre sotto-clan hanno presentato domanda per la creazione di tre nuovi payam: Panlieth (attualmente un boma del payam di Geng-Geng), Panakar e Watchabath (attualmente boma del payam di Abang). Gli argomenti principali portati a sostegno di questa richiesta sono l’aumento della popolazione della zona e la man- canza di servizi essenziali nelle aree che si trovano lontano dai capoluoghi dei payam esistenti. Secondo un membro della corte consuetudinaria del boma di Bany Loum, nel payam di Abang, la divisione in più unità amministrative è causata dall’insufficienza di servizi nell’area: «Ci siamo divisi perché siamo molti ad Abang. Se i servizi arrivano dal Governo, non riusciamo a beneficiarne tutti. Quindi abbiamo deciso di dividerci, in modo che, se i servizi arrivano, tutti possiamo beneficiarne».24

Tabella 1: “LGSD project targeted areas” a Yirol West

Payam Località Status Abang Panakar Boma – richiesta di diventare un payam 46 Betoi Boma – Rivendicato dal nuovo Watchabath Payam Aruau (Wuntiit) Boma – Rivendicato dal nuovo Watchabath Payam Boma – amministrativamente sotto la giurisdizione di Kunyr Geng-Geng Payam, rivendicato dal nuovo Panlieth Payam Villaggio in attesa di approvazione per essere riconosciu- Gengeng: Madbar to come boma Pobur Boma Akekoi Boma Mapuordit Mabui Boma Aguraan Boma Fonte: Elaborazione dell’autore

Il commissario di contea e il segretario di contea dell’SPLM sono fondamentalmente d’accordo con questa idea. Il commissario di contea sostiene che «l’area [di Abang] è molto vasta. Se si vuole erogare servizi, e dividere i servizi che arrivano dal governatore [dal Governo dello Stato] in modo equo tra i payam, Abang non ne riceverebbe abba- stanza perché è più grande degli altri payam. Se si divide, tutti potranno avere la loro parte e nessuno si lamenterà di essere escluso».25 Essendo originario del nuovo payam di Panakar, il segretario di contea dell’SPLM è stato particolarmente disponibile a so-

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Interno 2-3-2016.indd 46 19/07/17 16:59 stenerne la causa, scrivendo di suo pugno una lettera indirizzata al governatore dello Stato di Lakes perché velocizzasse il processo di approvazione. In generale, da questi estratti di interviste emerge chiaramente l’idea che l’erogazio- ne di servizi essenziali avvenga unicamente nelle aree dove si trovano i capoluoghi di payam. Anche se il principio di Garang di portare le città ai villaggi non è stato direttamente menzionato dai capi locali e dai membri delle corti consuetudinarie, il riferimento all’estensione territoriale dei payam esistenti, al numero degli abitanti e alle lunghe distanze tra gli insediamenti rurali e i capoluoghi di payam esistenti si sono rivelati essere molto frequenti.26 Nonostante il Governo dello Stato non li abbia ancora approvati ufficialmente, i tre nuovi payam hanno già corti regionali funzionanti che si riuniscono regolarmente per discutere casi relativi a matrimoni, divorzi, adulteri, pagamento della dote, ecc., coin- volgendo i sotto-clan nella loro giurisdizione.27 I capi esecutivi (executive chiefs) sono stati eletti dalle comunità e accettati dal commissario di contea. Anziché essere una conseguenza della creazione di nuovi payam, l’esistenza di troppi capi esecutivi e corti regionali viene utilizzata come evidenza del fatto che un nuovo payam di fatto già esi- ste e ha solo bisogno di essere ufficializzato. La presenza di una corte che si riunisce e amministra la giustizia, infatti, viene presentata come una chiara prova del fatto che lo Stato, nella forma di payam, è già presente in quel luogo, e che il riconoscimento uffi- ciale non è che la ratifica di una situazione di fatto già esistente. Giocando sul confine ambiguo tra Stato e società, essendo da un lato riconosciuti come struttura di governo locale e dall’altro come emanazione “naturale” delle proprie comunità, i capi insistono 47 sulla loro posizione di “custodi” della comunità, dando voce alle rivendicazioni locali relative all’assenza di servizi pubblici, e allo stesso tempo rivendicando essi stessi il loro “essere parte” dello Stato attraverso lo svolgimento di una delle sue funzioni fonda- mentali: l’amministrazione della giustizia. I capi ricordano spesso la mobilitazione della popolazione a sostegno dei ribelli durante la guerra per giustificare la rivendicazione di compensazioni sotto forma di progetti di sviluppo nei loro territori come un atto do- vuto da parte di un Governo che non sarebbe mai diventato tale senza il loro sostegno. Richiamando spesso il loro ruolo di intermediari tra ribelli e popolazione e di mediatori nella risoluzione delle dispute locali attraverso l’amministrazione della giustizia, per se stessi rivendicano una forma di compensazione particolare: il riconoscimento dello status di funzionari governativi regolarmente stipendiati.28 Se da un lato questa riven- dicazione viene rappresentata come legittima in virtù dell’appartenenza dei capi alla “comunità”, dall’altro rende la loro posizione ancora più ambigua. Così come in molte altre regioni del Sud Sudan, a Yirol West l’accesso ai servizi è in gran parte garantito dalle ONG internazionali, mentre il governo locale svolge per lo più la funzione di facilitatore.29 Le ONG sono dunque una presenza ben visibile e riconosciuta nella zona. Una di esse è stata coinvolta nel progetto LGSD per “preparare” le comunità locali alla ricezione dei finanziamenti a fondo perduto e alla rendicontazione traspa- rente del denaro ricevuto. Queste ONG hanno condotto analisi dei bisogni preliminari

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Interno 2-3-2016.indd 47 19/07/17 16:59 nelle aree interessate dal progetto e creato comitati di sviluppo locale a livello di con- tea, payam e boma. I Boma Development Committees (BDC) eleggono i loro rappresen- tanti sulla base dei sotto-clan che vivono nell’area, includendo alcune categorie sociali specifiche su richiesta della ONG (donne, giovani, disabili).30 I rappresentanti dei BDC formano poi il Payam Development Committee (PDC), presieduto dall’amministratore di payam.31 Questi comitati hanno partecipato all’analisi dei bisogni preliminari e le loro priorità sono state trasmesse ai livelli superiori di governo in modo da essere incluse nella pianificazione generale della contea dopo un processo di valutazione e selezione ad opera del County Development Committee (CDC),32 presieduto dal direttore esecuti- vo della contea e composto da rappresentanti dei PDC.33 Il progetto pilota non ha coinvolto però tutti i payam e boma di Yirol West. I payam selezionati sono stati Abang, Geng-Geng e Mapuordit. All’interno di questi payam, solo alcuni boma sono stati coinvolti.34 Uno di questi boma è Kunyir, abitato dal clan jillek e amministrativamente situato nella giurisdizione del payam di Geng-Geng. A causa della sua prossimità geografica con Abang, però, la direzione del progetto LGSD ha deciso di assegnarlo ad Abang. Questa decisione non ha suscitato nessuna particolare reazione, né da parte delle autorità del payam di Abang, né da quelle del payam di Geng-Geng, né dai capi di Kunyir. Secondo l’animatore di comunità locale assunto dalla ONG internazionale per lo svolgimento delle attività previste da LGSD, ci sarebbe infatti una grossa differenza tra una decisione tecnica presa da un donatore sulla base di un 48 criterio pratico (la prossimità geografica) e una politica, «proveniente da lassù» (cioè dal Governo) per «indebolire» Geng-Geng «dando uno dei suoi boma ad Abang».35 Il fatto di considerare i payam come l’unità fondamentale sulla base della quale di- stribuire risorse economiche e progetti di sviluppo deriva, in effetti, dalla strategia go- vernativa di divisione “equa” delle risorse tra Stati e governi locali, senza considerarne la popolazione effettiva (Sarzin, Bekalu 2011). Payam più o meno popolosi ottengono dunque lo stesso numero di scuole o di pompe dell’acqua indipendentemente dal nu- mero degli abitanti. Anche se ciò è dovuto probabilmente alla mancanza di dati demo- grafici affidabili, le interviste collettive con i capi sembrano suggerire che, nella pratica, questo tipo di politica incentivi la creazione di nuove unità amministrative: «Il Governo non ci permette di richiedere abbastanza aiuti se non ci dividiamo in molti payam. Il Governo considera i payam, non la popolazione (…). Anche altre cose sono divise sulla base dei payam. Le ONG per esempio vengono dalla gente di un payam e cercano una o due persone per ogni payam perché lavorino con loro.36 Avere più payam porterà benefici a più persone».37 «La divisione dei payam è molto importante perché soddisferà molte persone. (…) Per esempio, se fossimo solo un payam, se tu venissi in visita, se Kunyir fosse da solo potresti incontrare solo [i leader] di Kunyir. Se invece fossimo due, Kunyir e Panlieth, allora potresti incontrare entrambi. Ecco perché vogliamo dividerci, per essere tutti soddisfatti dai servizi».38 Per essere «tutti soddisfatti dai servizi», però, la creazione di un payam attraverso la

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Interno 2-3-2016.indd 48 19/07/17 16:59 presenza di una corte regionale non è sufficiente. I capi e le loro corti hanno bisogno di essere visibili, possibilmente in città, vicino ai centri di potere che decidono dove i progetti di sviluppo verranno indirizzati. «Il ruolo del capo è di essere responsabile della vita della comunità, e responsabile per l’arrivo di ONG nell’area (…). Se arriva un de- legato del Governo, andrà dove è possibile arrivare con la strada [nei payam esistenti] e incontrerà i capi esecutivi.39 Ma noi abbiamo anche villaggi più remoti: se non c’è la strada, non riusciremo a incontrare il delegato del Governo. [Abbiamo bisogno] che il capo (…) incontri i direttori esecutivi di qualsiasi ONG e del Governo».40 In tutti gli estratti delle interviste riportate emerge la natura ibrida delle entità che erogano servizi e la scarsa distinzione tra ONG e Governo nella percezione delle popo- lazioni locali. I capi sono consapevoli che le risorse economiche e la gestione dei servizi pubblici spesso sono in mano alle ONG, ma considerano comunque lo Stato responsabi- le nell’indirizzare queste risorse verso una comunità piuttosto che un’altra. Poiché i capi ritengono che il commissario di contea svolga sempre un ruolo nell’indirizzare le risorse, quasi tutte le corti regionali, comprese quelle nuove, non si riuniscono nei loro payam nelle aree rurali, bensì nella piazza di fronte all’ufficio del commissario di contea nella città di Yirol. Si tratta di un’arena molto visibile non solo agli occhi dei funzionari del governo locale della contea, ma anche a quelli di ogni agenzia di sviluppo diretta presso gli uffici governativi per discutere della realizzazione di eventuali progetti. Benché la decisione del management del progetto LGSD di spostare un boma da un payam all’altro sia presentata come una soluzione tecnica motivata dalla prossimità 49 geografica tra Kunyir e Abang, l’obiettivo del progetto di promuovere lo sviluppo dei payam attraverso un processo partecipato di pianificazione ha delle conseguenze molto più politiche. Questo processo comporta l’attuazione di un meccanismo collettivo di pianificazione e preparazione del budget, l’identificazione delle priorità di una certa area, e la presa di decisioni sulla spesa in base a programmi amministrati da autorità locali.41 Questo potere è conferito in primo luogo ai PDC, che hanno il delicato compito di fondere insieme le priorità dei boma in modo da poter presentare una richiesta di finanziamento al CDC per un unico progetto alla volta, identificando dunque un solo boma in cui il progetto sarà realizzato. Secondo il project manager dell’ONG interna- zionale coinvolta nel LGSD, il processo decisionale può dunque essere molto contestato: «Quando abbiamo discusso le priorità [nel payam di Mapuordit], la gente voleva una scuola nel boma di Aguraan e anche una nel boma di Mabui. Quando i due programmi sono arrivati al payam per essere fusi insieme, la scuola è diventata la priorità numero uno del payam. Il problema è stato però che entrambi i boma ne volevano una, ma non si potevano mettere due scuole nel budget per lo stesso anno».42 La decisione viene presa attraverso un processo di negoziazione molto lungo alla fine del quale le proposte vengono messe a votazione e poi presentate dal PDC al CDC.43 Nel caso di Kunyir, il progetto crea una differenza tra la sua posizione amministrati- va ufficiale (nelpayam di Geng-Geng) e quella attribuitagli dal progetto che passa,

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Interno 2-3-2016.indd 49 19/07/17 16:59 di fatto, attraverso una divisione amministrativa diversa (sotto al payam di Abang). Nonostante il processo partecipativo di identificazione e pianificazione degli interven- ti avviato dal progetto, Kunyir rimane comunque legato alla divisione amministrativa “ufficiale” per quanto riguarda altre questioni che vanno dalla raccolta delle tasse (che vengono trasmesse dal livello di boma fino a quello di contea, trattenendone una per- centuale ad ogni passaggio) al processo di formulazione del bilancio per altri eventuali progetti governativi. Allo stesso tempo, questa differenza fornisce un modo per dare ulteriore legittimità alla richiesta di autonomia amministrativa: «Kunyir è stato identi- ficato come obiettivo del progetto e non ha nessuna importanza sotto quale payam si trova. Se Panlieth fosse riconosciuto ufficialmente comepayam , Kunyir andrebbe con Panlieth ma sarebbe comunque inserito nel progetto».44 Questa sorta di “indipendenza amministrativa” sembra essere uno dei motori dei ten- tativi di riorganizzazione amministrativa di Yirol West. Come mostrato nella Tabella 1, la maggior parte dei boma coinvolti nel progetto hanno chiesto di diventare payam autonomi, come nel caso di Panakar, oppure sono stati coinvolti nei progetti di auto- nomia amministrativa di altri boma non coinvolti dal progetto, come nel caso di Betoi e Wuntiit (rivendicati da Watchabath) e di Kunyir (rivendicato da Panlieth). Esistono dunque due spinte a favore di questa riorganizzazione: da un lato, quella da parte dei boma esclusi dal progetto; dall’altro, quella da parte dei boma che sono stati inclusi nel progetto, ma che temono che le loro richieste non verranno soddisfatte a causa 50 della loro condizione di “minoranza” all’interno del payam cui sono sottoposti. I capi di Kunyir hanno espresso chiaramente la sensazione che il progetto non stesse tenendo in debito conto i loro bisogni: «Durante i meeting di progetto, la comunità di Kunyir ha chiesto che il progetto portasse [delle pompe per] l’acqua, ma abbiamo aspettato fino ad ora e l’acqua non è arrivata. (…) Vogliamo diventare un payam perché siamo molti, la nostra popolazione è molto numerosa. E abbiamo molti bisogni».45 D’altra parte, trovan- dosi a votare un progetto da realizzare in uno dei suoi boma, è assai improbabile che il PDC di Abang scelga proprio quello di un boma che in realtà fa parte di un altro payam. L’“indipendenza amministrativa” è dunque considerata come la strategia migliore per intercettare risorse e servizi direttamente alla fonte: governo locale e agenzie di svi- luppo. Essa presenta però anche una dimensione più direttamente politica, relativa alla possibilità di partecipare ai processi decisionali sull’allocazione delle risorse. I payam costituiscono la base per la creazione dei collegi elettorali a livello di Stato. Spiegando come mai il numero di richieste per la creazione di nuovi payam fosse alto, un membro del Parlamento dello Stato di Lakes ha menzionato l’aspetto politico del portare le città ai villaggi: «Chi vuole un payam ha anche capi e una corte regionale, (…) e poi probabil- mente riuscirà a ottenere un rappresentante nell’assemblea legislativa dello Stato. (…) Portare le città ai villaggi ha un aspetto di sviluppo ma anche uno politico».46 Un mem- bro della neonata corte regionale di Watchabath fa eco a questa affermazione soste- nendo che: «[Adesso] non c’è nessuno che ci rappresenta nell’assemblea legislativa, nel

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Interno 2-3-2016.indd 50 19/07/17 16:59 Parlamento, e nessuno studente che rappresenta il payam di Watchabath ha ricevuto borse di studio dal Governo. Se ci separiamo dall’altro payam, ci aspettiamo che queste cose succedano in futuro. Quel boma di cui abbiamo parlato, Betoi, non ha una clinica. Non c’è acqua. (…) Siamo molti ma nessuno ci rappresenta in Parlamento, quindi se ci saranno le elezioni e noi siamo divisi, potremmo avere anche noi un rappresentante».47

Conclusioni Quest’articolo ha mostrato come le aspettative sull’erogazione di servizi influenzano il modo in cui lo Stato locale è percepito e, in un certo senso, prodotto attraverso le pratiche della popolazione nel tentativo di assicurarsi un migliore accesso alle risorse. A livello locale, lo Stato funziona più come una sorta di etichetta sotto la quale avviene la distribuzione di servizi e di progetti di sviluppo. Non ha importanza quale sia la fonte reale di queste risorse, il Governo o agenti esterni: nell’immaginario collettivo della popolazione sud sudanese l’accesso ad esse dipende dalla capacità di appropriarsi dello Stato e delle sue strutture. Il riconoscimento di unità amministrative e la presenza visi- bile dello Stato (attraverso la corte regionale) in un determinato territorio diventano il mezzo per ottenere un maggiore accesso alle risorse (anche esterne) e ai processi deci- sionali da cui dipende la loro allocazione senza tuttavia formulare queste rivendicazio- ni in modo esplicitamente politico. Il linguaggio tecnico dell’efficacia e dell’efficienza derivanti dai discorsi internazionali sul decentramento e sull’erogazione di servizi es- senziali nel quadro di programmi di state-building forniscono infatti un repertorio piut- 51 tosto vasto a cui attingere per giustificare le rivendicazioni locali sull’apparato statale. La necessità di aumentare l’accesso ai servizi, di migliorarne l’equità, di avviare processi partecipativi e di identificare intermediari affidabili con le comunità rurali sono tutti elementi che emergono chiaramente dalle interviste con i capi locali ma anche con gli amministratori di payam e col commissario di contea, i quali, mostrando sempre pieno sostegno ai capi locali, sembrano essere perfettamente consapevoli che l’attenzione alle istituzioni comunitarie e alle autorità tradizionali fa parte del linguaggio donor- friendly sul decentramento. In un certo senso, il progetto finanziato dalla BM a Yirol West rafforza l’immaginario collettivo che guarda al “possesso” di “pezzi” dell’apparato statale come chiave di accesso a risorse che vengono percepite come erogate solo laddove lo Stato è visibile. I tentativi di ottenere questa presenza visibile nel proprio territorio derivano quindi da un utilizzo dell’idea di Stato fortemente strumentale, che, se da un lato sembra rafforzare la tendenza alla governance decentrata sostenuta dai donatori internazionali, dall’altro produce particolarismo e frammentazione.

Sara de Simone è dottore di ricerca in Africanistica presso l’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”, e in Scienze Politiche presso l’Université de Paris I, Panthéon- Sorbonne

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Interno 2-3-2016.indd 51 19/07/17 16:59 NOTE: 1 - Sudan Joint Assessment Mission. Framework for Sustained Peace, Development and Poverty Eradication. Volume I, Synthesis. UNDP, The World Bank, SPLM, Government of Khartoum, 2005: http://postconflict. unep.ch/sudanreport/sudan_website/doccatcher/data/documents/Joint%20Assessment%20Mission%20 (JAM)%20Volume%20I.pdf. 2 - Si veda: The World Bank (2008), Comments on the Draft Strategic Options Paper: Making Decentralization work for basic service delivery, documento reperito presso il Local Government Board Archive di Juba. L’archivio in questione non ha ancora una catalogazione ufficiale dei documenti, che sono stati consultati dall’autrice grazie a un permesso speciale. 3 - La definizione del Sud Sudan come di un contesto post-conflitto fa parte di un insieme di pratiche discorsive che enfatizzano il successo dell’accordo di pace, sottovalutando invece lo stato di costante instabilità che ha continuato a caratterizzare molte aree e l’esplosione di nuovi conflitti locali. “Post- conflitto” si trova qui tra virgolette per segnalare la problematicità di questa definizione. 4 - Nel resto dell’articolo, l’SPLM/A sarà citato come SPLM. Questa scelta è dettata non solo da ragioni di praticità, ma anche dalla volontà di focalizzare l’attenzione sul ramo politico del movimento ribelle. 5 - Come si vedrà in seguito, il Sud Sudan ha un sistema di governo su quattro livelli: governo nazionale, Stati, contee, payam e boma. 6 - B. Martin, What is Public about Public Services?, Background Paper for World Development Report 2004, “The World Bank”, 2004: http://publicworld.org/files/WhatIsPublic.pdf. 7 - Il rafforzamento di una legittimità dello Stato che non fosse solo basata sulla retorica della liberazione dell’SPLM dall’oppressore arabo è diventata un’esigenza sempre più sentita dalla comunità internazionale presente in Sud Sudan dopo che il Paese ha raggiunto l’indipendenza nel 2011. Si veda, per esempio, il lavoro di ricerca dell’Overseas Development Institute britannico nell’ambito del progetto di ricerca Secure Livelihoods Research Consortium (http://www.securelivelihoods.org/). 8 - Secondo il South Sudan Development Plan 2011-2013, il Paese ha un tasso di analfabetismo dell’83%, una mortalità infantile del 102 per mille e una mortalità materna del 2054 per 100.000 nati vivi (il tasso di mortalità materna più alto del mondo). 9 - Si veda per esempio il General Education Strategic Plan 2012-2017 del Ministero dell’Istruzione sud sudanese per un’idea della discrepanza tra risorse stanziate dal Governo e necessità del settore soddisfatte 52 dagli aiuti allo sviluppo (Ministry of General Education and Instruction, Republic of South Sudan 2012). 10 - L’LGA (2009) distingue tra Rural Councils e Urban Councils. Il termine county (contea) viene generalmente riferito esclusivamente ai Rural Councils, che nel 2013 costituivano la maggioranza delle istituzioni di governo locale esistenti. 11 - In realtà, a livello di contea, sia il commissario che l’assemblea legislativa (laddove esistente) sono ancora nominati dal governatore dello Stato. 12 - Le autorità tradizionali nel Sud Sudan contemporaneo hanno un’origine fondamentalmente coloniale: solo due popolazioni, Shilluk e Azande, avevano infatti una struttura politica con un sovrano facilmente identificabile. Le altre società erano di tipo cosiddetto acefalo: in questi casi, nel corso della dominazione anglo-egiziana varie figure di intermediari e di leader spirituali sono state potenziate al fine di svolgere funzioni amministrative. Nonostante alcuni tentativi di sopprimerle, queste figure hanno continuato a rappresentare un livello di intermediazione indispensabile tra i vari Governi post-coloniali e la popolazione rurale fino ad oggi. La stessa struttura di corti consuetudinarie ha origini coloniali (Leonardi 2013). 13 - La centralità delle contee era già stata riconosciuta e sostenuta nell’ambito del Sudan Transitional Assistance for Rehabilitation Program, il primo programma di capacity-building dell’amministrazione locale dell’SPLM sostenuto dall’United States Agency for International Development (USAID) nel 1999-2001 (Dembowski 2002). 14 - Un esempio particolarmente significativo è il Local Government Recovery Program (LGRP), realizzato dall’UNDP in partenariato con l’LGB tra il 2006 e il 2012. 15 - Intervista a Naoko Anzai, project manager della Banca Mondiale per il progetto LGSD, Juba, 1 novembre 2013. 16 - Il bilancio consolidato è una delle aree su cui l’LGRP finanziato dall’UNDP si è maggiormente concentrato, assicurandosi che tutte le unità amministrative locali fossero in grado di adottare programmi e budget di spesa annuali da far confluire in un unico programma a livello di contea. 17 - Intervista a Naoko Anzai, project manager della Banca Mondiale per il progetto LGSD, Juba, 1 novembre 2013. 18 - Per maggiori informazioni, si veda il sito web del progetto: http://www.worldbank.org/projects/

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Interno 2-3-2016.indd 52 19/07/17 16:59 P127079/local-governance-service-delivery-program?lang=en. In realtà, i finanziamenti a fondo perduto alle contee saranno erogati dal Governo del Sud Sudan attraverso un prestito da parte della BM che dovrà essere ripagato entro 40 anni, dopo un periodo di grazia di 10. Intervista a Naoko Anzai, project manager della Banca Mondiale per il progetto LGSD, Juba, 1 novembre 2013. 19 - Intervista a Naoko Anzai, project manager della Banca Mondiale per il progetto LGSD, Juba, 1 novembre 2013; intervista a Jaqueline Lwoki, consulente della Banca Mondiale, coordinatrice della Unità di Gestione del progetto LGSD, Juba, 25 ottobre 2013. 20 - I risultati del censimento nazionale del 2008 sono infatti fortemente contestati dal GOSS a causa della loro faziosità: il Governo del Sudan avrebbe infatti spinto verso una sottorappresentazione della popolazione sud sudanese per questioni legate alle elezioni nazionali del 2010 e al referendum per l’indipendenza del 2011. 21 - Si veda: Man N.A. (2009), Decentralization and Good Governance for Effective Service Delivery, paper presented at 7th Governors’ Forum, Juba. Documento reperito presso il Local Government Board Archive di Juba. 22 - Intervista a Marial Amoum Malek, membro dell’Assemblea Legislativa dello Stato di Lakes. Rumbek, 6 dicembre 2013; intervista a Eli Achol Deng, membro del LGB. Juba, 13 dicembre 2013. 23 - Intervista a Majak Ruei, commissario di Contea di Yirol West, Yirol Town, 3 dicembre 2013. 24 - Intervista collettiva con la Corte del Boma di Bany Loum, Abang Payam, 4 dicembre 2013. 25 - Intervista a Majak Ruei, commissario di Contea di Yirol West, Yirol Town, 3 dicembre 2013. 26 - Intervista a Majak Ruei, commissario di Contea di Yirol West, Yirol Town, 3 dicembre 2013; intervista collettiva con la Corte Regionale del Payam di Geng-Geng, 5 dicembre 2013; intervista collettiva con la Corte Regionale congiunta di Panlieth e Kunyir, 5 dicembre 2013; intervista collettiva con la Corte Regionale del Payam di Watchabath, 4 dicembre 2013. 27 - La Corte regionale è il modo in cui in alcune regioni viene chiamata la corte funzionante a livello di payam (B court nel Judiciary Act 2009). Essa è composta dai capi esecutivi dei boma di quel payam e da un presidente della Corte. Si veda Leonardi et al. (2010). 28 - Intervista collettiva con la Corte del Boma di Bany Loum, Abang Payam, 4 dicembre 2013. 29 - L’ONG internazionale che gestisce l’ospedale di Yirol consulta regolarmente il commissario di contea e il responsabile della South Sudan Relief and Rehabilitation Commission (SSRRC), l’organismo incaricato di coordinare gli aiuti allo sviluppo, nell’organizzazione delle campagne di vaccinazioni e in altre attività 53 di routine per la prevenzione di malattie (Comunicazione personale con lo staff della ONG, Yirol Town, dicembre 2013). 30 - Intervista al project manager dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto LGSD a Yirol West, Rumbek, 19 novembre 2013. 31 - Nei PDC, solo uno o due rappresentanti di ogni sotto-clan sono ammessi, a seconda del numero di sotto-clan, in un determinato payam. Qualora appartenente a uno dei clan locali, anche l’amministratore di payam viene calcolato in quota al suo clan. Intervista al community mobilizer dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto LGSD a Yirol West, Yirol Town, 3 dicembre 2013. 32 - I CDC sono comparsi la prima volta nel 1999 in un progetto finanziato dagli Stati Uniti. Il loro ruolo era quello di fare da trait d’union tra ONG internazionali, la South Sudan Relief and Rehabilitation Commission e la popolazione, in particolare formulando strategie di indirizzo e realizzando progetti di sviluppo. Anche se non sono sopravvissuti al progetto che li aveva creati (Dembowski 2002), secondo Naoko Anzai nel 2007 ci sarebbe stato un tentativo di rivitalizzarli come organo amministrativo dei Fondi di Sviluppo di Circoscrizione. Questi ultimi sono fondi nazionali che ogni membro del Parlamento ha a disposizione da utilizzare nella propria circoscrizione. A Yirol West, comunque, il CDC non esisteva prima dell’inizio del progetto LGSD. Intervista a Naoko Anzai, project manager della Banca Mondiale per il progetto LGSD, Juba, 1 novembre 2013. 33 - Intervista al project manager dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto LGSD a Yirol West, Rumbek, 19 novembre 2013. 34 - Le aree di svolgimento del progetto sono state identificate da un team composto da membri dell’LGB e della BM, coinvolgendo i commissari delle contee selezionate. Secondo il project manager dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto, sarebbe stato soprattutto l’LGB a indirizzare la scelta. Intervista al project manager dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto LGSD a Yirol West, Rumbek, 19 novembre 2013. 35 - Intervista al community mobilizer dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto LGSD a Yirol West, Yirol Town, 3 dicembre 2013; intervista a Daniel Mangar Ayod, amministratore di payam di Geng-Geng, Yirol Town, 5 dicembre 2013.

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Interno 2-3-2016.indd 53 19/07/17 16:59 36 - Ci si riferisce qui in particolar modo ai progetti, come quello finanziato dalla BM, che prevedono la figura dicommunity mobiliser. Questa figura è presente in molte tipologie di progetto perché rappresenta, in un certo senso, l’impegno dell’ONG a promuovere la partecipazione e il coinvolgimento della comunità locale. 37 - Intervista collettiva con la Corte del Boma di Bany Loum, Abang Payam, 4 dicembre 2013. 38 - Intervista collettiva con la Corte Regionale congiunta di Panlieth e Kunyir, 5 dicembre 2013. Panlieth è una delle aree che ha fatto richiesta di diventare un payam. Attualmente è un boma sotto la giurisdizione del payam di Geng-Geng, ma è abitato principalmente dal sezione jillek dei dinka agar, diversa dalla sezione di maggioranza del payam di Geng-Geng, gli atuot. Anche Kunyir è abitato da jillek e quando Panlieth sarà ufficialmente riconosciuto payam si sposterà sotto la sua giurisdizione. Nel lungo periodo, anche Kunyir mira a diventare un payam indipendente sostenendo che tutte le capitali di payam esistenti (Geng-Geng, Abang e anche Panlieth) sono troppo lontane dagli insediamenti perché possano garantire l’accesso ai servizi essenziali alla popolazione locale. Intervista collettiva con la Corte Regionale congiunta di Panlieth e Kunyir, 5 dicembre 2013. 39 - Anche in quest’intervista appare chiaro il collegamento tra esistenza di un payam e accesso alle infrastrutture che permettono di comunicare e muoversi, suggerendo che, se è vero che dove esistono payam arrivano le strade, la creazione di nuovi payam porterà naturalmente alla costruzione di altre strade. 40 - Intervista collettiva con la Corte Regionale del Payam di Geng-Geng, 5 dicembre 2013. 41 - Intervista a Marial Amoum Malek, membro dell’Assemblea Legislativa dello Stato di Lakes. Rumbek, 6 dicembre 2013. 42 - Intervista al project manager dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto LGSD a Yirol West, Rumbek, 19 novembre 2013. 43 - Nel caso di Aguraan e Mabui, alla fine è stato scelto il progetto di Aguraan perché il suo BDC funzionava meglio, avendo addirittura avviato un’attività agricola collettiva come fonte di reddito per contribuire alla vita del comitato stesso. D’altra parte, il boma di Mabui è stato rassicurato che in una seconda fase del progetto la loro richiesta di scuola elementare sarà senz’altro considerata in modo prioritario. Ciò nonostante, poco dopo l‘approvazione del progetto ad Aguraan da parte del PDC, il BDC di Mabui ha presentato comunque anche il suo progetto. La situazione tra Mabui ed Aguraan è complicata dal fatto che i due sotto-clan della zona, kuk e peleu, hanno in corso una faida di vecchia data che, nei periodi di maggiore 54 tensione, impedisce ai membri di un sotto-clan di accedere ad aree sotto il controllo dell’altro sotto-clan, inclusi servizi essenziali come l’ospedale. È dunque verosimile che la questione sollevi ancora tensioni una volta che la scuola sarà effettivamente costruita. Intervista al project manager dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto LGSD a Yirol West, Rumbek, 19 novembre 2013. 44 - Intervista al Community Mobilizer dell’ONG internazionale coinvolta nel progetto LGSD a Yirol West, Yirol Town, 3 dicembre 2013. 45 - Intervista collettiva con la Corte Regionale congiunta di Panlieth e Kunyir, 5 dicembre 2013. 46 - Intervista a Marial Amoum Malek, membro dell’Assemblea Legislativa dello Stato di Lakes. Rumbek, 6 dicembre 2013. Un membro del LGB ha espresso un’idea simile parlando dei criteri molto ambigui per la creazione di nuove unità amministrative: «Queste nuove contee che vogliono creare ( ) hanno bisogno di più payam per sostenersi, e questi payam avranno bisogno di più boma e alla fine l’intera popolazione dipenderà da stipendi statali!» (Intervista a Eli Achol Deng, membro del LGB. Juba, 13 dicembre 2013). 47 - Intervista collettiva con la Corte Regionale del Payam di Watchabath, 4 dicembre 2013.

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Interno 2-3-2016.indd 55 19/07/17 16:59 Corruzione, ideologia e neutralità: cosa può dirci la corruzione sulla forma dello Stato. Il caso del Sudafrica Ivor Chipkin

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Introduzione Chinua Achebe è autore della narrazione contemporanea sulla corruzione in Africa. Nel suo Ormai a disagio, incontriamo un giovane idealista che lavora nella pubblica ammi- nistrazione di una Nigeria neoindipendente (Achebe 1960) che si ritrova intrappolato tra le richieste contraddittorie della sua famiglia e della burocrazia. Achebe ci mostra il “crollo”1 del giovane nella corruzione attraverso l’utilizzo della sua posizione per assi- curare favori ai membri della sua famiglia allargata. Nella letteratura accademica, la discussione sulla corruzione utilizza termini simili. Lo Stato, in questa analisi, è strumento privilegiato di accumulazione e di formazione di classe delle élite. Di conseguenza, i funzionari pubblici abusano abitualmente delle pro- prie posizioni pubbliche per interesse personale (Bayart 1993). Quest’analisi è applicata in modo molto ampio, spiegando, tra le altre cose, come mai l’Italia e la Spagna siano caratterizzate da una corruzione molto più pervasiva rispetto ad altri Paesi europei (della Porta, Vannucci 1999; Heywood 1997), come mai la corruzione persista in Mes- sico, Brasile, Venezuela e Argentina (Weyland 1998) e perché ci sia corruzione negli USA (Galbraith 2005). In Sudafrica, un approccio del genere caratterizza gli studi sullo Stato come strumento di formazione di classi sociali (von Holdt, Murphy 2007; von Holdt 2010), i dibattiti sull’emersione di élite politiche2 e le analisi delle “proteste per

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Interno 2-3-2016.indd 56 19/07/17 16:59 i servizi pubblici” (von Holdt et al. 2011). In tutti questi casi, il focus è sulla lotta per impadronirsi degli strumenti e delle risorse dello Stato usandole per soddisfare i propri obiettivi personali. Nella tradizione della sociologia storica comparativa, soprattutto quella di Theda Skocpol e di Peter Hall, che si propone di capire come mai alcune pratiche economiche e politiche si radicano in alcuni contesti e non in altri, la corruzione diventa spesso una risposta per spiegare la performance economica deludente di alcuni Paesi. Per esempio, molti economisti attribuiscono alla corruzione la bancarotta o le performance econo- miche negative degli Stati. Secondo questo approccio, il problema non è tanto che i funzionari pubblici non sappiano quali siano gli interventi e le politiche appropriate; piuttosto, le politiche vengono distorte a favore degli interessi personali dei politici, dei legislatori e/o dei burocrati (Kurtz, Shrank 2007).3 Da questo punto di vista, si ritiene che la corruzione si presenti quando politici e funzionari perdono di vista il bene pub- blico e si concentrano sui loro interessi e bisogni particolari. Questa prospettiva presenta dei limiti. Si basa su una concezione normativa della mo- ralità individuale, dell’accumulazione di ricchezza e dello sviluppo dell’economia, e del- la forma dello Stato. La corruzione, tuttavia, non è solo un sintomo di un’assenza – per esempio, l’assenza di etica nella gestione degli affari governativi o della good gover- nance – ma anche di una presenza: di ideologie (idee e pratiche) differenti di Stato. Attraverso il caso del Sudafrica, si mostrerà che la lotta alla corruzione ha davvero a che fare con la forma di Stato. In questo senso, il termine stesso identifica uno spazio 57 di contestazione ideologica: da un lato ci sono i sostenitori di un’idea liberale di Stato; dall’altro, coloro che difendono il patrimonialismo nel nome della “trasformazione dello Stato” o della “teoria della rivoluzione democratica nazionale”. Questo articolo sosterrà che è difficile comprendere la tenacità della corruzione in Sudafrica e altrove senza ri- conoscere che le pratiche di corruzione sono anche pratiche discorsive, cioè esprimono un impegno politico-ideologico.

Lo stato della corruzione in Sudafrica Nel 2015, le organizzazioni della società civile e i sindacati hanno lanciato la campagna “Uniti contro la corruzione” a partire dall’idea che 700 miliardi di rand (circa 50 miliardi di dollari)4 siano andati persi dal 1994 a causa della corruzione. Sembra che tale cifra rappresenti circa il 20% del PIL del Paese degli ultimi vent’anni. Questa cifra ha una storia tortuosa, ma sembrerebbe avere origine in un documento di Transparency Inter- national pubblicato nel 2006, che stimava che tra il 10% e il 25%, e in certi casi fino al 40-50%, la quota di spesa pubblica stanziata per le gare di appalto del Paese fosse drenata dalla corruzione. Africa Check, una ONG che promuove il rigore giornalistico, nota che il rapporto non menzionava mai il Sudafrica in modo specifico e che la stati- stica non si riferiva alla corruzione come una percentuale del PIL. Ciò nonostante, i 700 miliardi di rand (o 25 miliardi per anno) sono rimasti nel discorso pubblico. Sono stati

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Interno 2-3-2016.indd 57 19/07/17 16:59 menzionati da funzionari del Tesoro e persino da funzionari di una delle agenzie anti- corruzione sudafricane, la Special Investigating Unit (SIU). Rimane il fatto che per giu- stificare quella cifra non ci sia alcuna base empirica più solida di speculazioni generiche rispetto a quanto si pensa che gli intermediari chiedano per le transazioni sui contratti. Africa Check conclude che quella cifra è «tirata a indovinare», una stima arbitraria.5 L’idea che tra i 25 e i 30 miliardi di rand siano andati persi ogni anno dal 1994 a causa della corruzione rispecchia verosimilmente più la sensazione popolare che l’effettiva perdita. Transparency International, con il suo Corruption Perception Index (CPI) del 2013, ha rivelato che il Sudafrica è sceso di 29 posizioni dal 2001 attestandosi al sessantunesimo posto su 168.6 Numerosi sondaggi mostrano inoltre che la percezione della corruzione è alta. Lo Human Sciences Research Council ha scoperto che la mag- gior parte del campione selezionato (91%) pensava che la corruzione fosse un problema serio in Sudafrica. Mentre nel 2003 solo il 9% degli intervistati pensava che la corru- zione fosse uno dei tre problemi principali del Sudafrica, nel 2011 questa cifra era salita al 26% (Gordon et al. 2012: 13). Tentativi di arrivare a numeri precisi sulla corruzione in Sudafrica di solito si basano sui rapporti dell’Auditor General,7 un’istituzione di natura costituzionale (Capitolo 9 della costituzione) che ha il compito di verificare in che modo il Governo spenda i soldi dei contribuenti. Nel 2010/11 e 2014/15, l’Auditor General ha scoperto che le spese irre- golari nei dipartimenti nazionali e provinciali erano cresciute da 16,5 a 25,7 miliardi di 58 rand, un salto del 36% in quattro anni. Le spese non autorizzate erano diminuite, così come gli sprechi e le spese non produttive. Le spese irregolari nei governi locali avevano raggiunto 11,4 miliardi di rand nel 2014/15. Complessivamente, nel 2014/15, escluden- do le aziende statali il Governo era responsabile di una spesa irregolare che ammontava in totale a più di 37 miliardi di rand. La categoria di spesa irregolare è spesso utilizzata come indicatore per la corruzione perchè indica una non conformità con i processi e le regolamentazioni governative. Si presume che tali deviazioni implichino fenomeni di corruzione. Di conseguenza, un aumento consistente in questo senso viene generalmente registrato come corruzione fuori controllo. Tuttavia, non è sempre così. Come dimostra il lavoro del Public Affairs Research Institute (PARI), la non conformità tra aspettative di spesa e spesa reale può avere molte cause, incluso che i processi operativi sono spesso mal organizzati e/o il personale non è adeguatamente preparato per poterli applicare (PARI 2012). Tuttavia, è legittimo considerare che una parte della non conformità registrata sia espressione di abusi di potere pubblico a favore di interessi privati, anche se rimane molto difficile ottenere dati certi. Sulla base delle frodi documentate e dei casi di infrazione presentati in Parlamento e riportati dalla Public Service Commission (PSC), uno dei più grossi studi legali sudafri- cani sostiene che nel 2011/12 sia andato perso più di 1 miliardo di rand, un aumento notevole rispetto ai 130 milioni del 2006/07.8 È impossibile trarre conclusioni generali

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Interno 2-3-2016.indd 58 19/07/17 16:59 da queste cifre perché esse si basano solo sui casi documentati, ma anche se le cifre reali fossero più alte del 1000%, questi dati dimostrerebbero comunque che solamente meno di un terzo delle spese irregolari è causato da fenomeni corruttivi. Se il furto di risorse pubbliche da parte di funzionari pubblici non è un problema così serio come invece spesso si pensa, vedremo che il discorso sulla corruzione tradisce ad ogni modo una preoccupazione reale rispetto alla perdita di autonomia della pubblica ammini- strazione.

Corruzione e neutralità La concezione di corruzione è cambiata nel corso della storia. Le definizioni contem- poranee del termine rappresentano innovazioni del XVIII secolo. Se prendiamo Monte- squieu come rappresentante del periodo “classico”, allora la corruzione è considerata una caratteristica di qualsiasi comunità politica (democratica, aristocratica, monarchi- ca o dispotica) nel momento in cui i suoi leader smettono di agire sulla base dei suoi principi fondativi (Buchan, Hill 2007). Questa concezione si ritrova in conversazioni contemporanee pubbliche e private, anche se rimane ancora un po’ distante da una definizione “moderna” del termine.9 È nel lavoro di Edmund Burke e di Adam Smith del tardo XVIII secolo che la corruzione comincia a essere associata ad attività specifiche che minacciano di sovvertire l’inte- grità della funzione pubblica (soprattutto concussione, tangenti e frodi elettorali). La corruzione continua a essere definita in questo modo, per esempio, da Carte interna- zionali, leggi nazionali e, in particolare, dalla legge sudafricana (si veda il rapporto dello 59 United Nations Development Programme, Corruption and Good Governance, del 1997, i vari Corruption Barometer e Report di Transparency International e il Prevention e Com- bating of Corrupt Activities Act, 2004 del Sudafrica). In genere, le definizioni di corru- zione identificano un atto di abuso privato o uso improprio o appropriazione indebita al centro del fenomeno corruttivo. Sulla base del lavoro di J. S. Nye, per esempio, la Banca Mondiale definisce la corruzione come «l’abuso di un publico ufficio per un tornaconto privato» (World Bank 2006). Questa fraseologia esprime un senso di uso improprio di una funzione pubblica con un intento violento o ingiurioso (si pensi all’abuso coniu- gale o all’abuso di alcolici). La fraseologia di Nye era in realtà più sottile, includendo nella definizione di corruzione una varietà maggiore di attività. Nye si riferisce non al- l’«abuso», ma alla «deviazione dai doveri formali di un ruolo pubblico per un tornaconto privato» (Nye 1967: 419). La sfumatura è importante perchè porta nel dibattito pratiche di non conformità con regolamenti e procedure interne non necessariamente intenzio- nali. Brooks ne parla in termini simili: la cattiva performance o negligenza nell’esercizio del dovere o l’esercizio di potere arbitrario, finalizzato all’ottenimento di vantaggi più o meno personali (Brooks 1910: 46). Burke e Smith non avrebbero avuto difficoltà a riconoscere i termini del dibattito con- temporaneo sulla corruzione; in effetti, fondamentalmente rimaniamo, o torniamo, al loro quadro concettuale – più di 200 anni dopo. La loro definizione di corruzione si

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Interno 2-3-2016.indd 59 19/07/17 16:59 fondava su una distinzione netta tra interesse privato e doveri pubblici. Questa di- stinzione sarebbe ben presto diventata il marchio del pensiero liberale.10 Il rinnovato interesse verso la corruzione, emerso alla fine del periodo sovietico,11 riflette l’ascesa del liberalismo non solo come ideologia economica, ma anche come quadro costituzionale. In realtà, quest’ultimo aspetto, anche se spesso ignorato, è persino più importante. Le definizioni moderne di corruzione non sono necessariamente legate a ricette di politi- ca economica liberale o neoliberista, ma sono intimamente legate ad una concezione liberale dello Stato.

Lo Stato liberale Una caratteristica distintiva dell’idea liberale di Stato è l’enfasi posta sulla sua neutra- lità - lo Stato dovrebbe garantire uno spazio neutrale in cui diverse concezioni del be- nessere comune possano essere perseguite (Rawls 1971; Kymlicka 1989; Galston 1991; Raz 1986). Il contributo specifico di Weber (1966) al liberalismo è stato di concettualiz- zarlo come una forma di Stato e non semplicemente come ideologia o sistema politico. In questo senso, dovremmo considerare la distinzione tra Governo e burocrazia come un avanzamento teorico importante. I Governi, soprattutto in democrazia, rappresen- tano interessi particolari e decidono tra diverse concezioni del benessere comune. Al contrario, lo Stato, nella forma della burocrazia, non prende decisioni; il suo compito è quello di applicare le politiche e i programmi dei Governi in carica. In questo senso lo 60 Stato è neutrale. Weber sapeva che si trattava di una neutralità ideale e che in pratica i burocrati aveva- no la tendenza a sviluppare interessi propri. In questo senso, la corruzione si riferisce a: - qualsiasi tipo di interesse di parte che i burocrati esprimono sia a livello individuale (la principale preoccupazione di Weber) che in quanto classe o gruppo sociale (come obietta Burke); - qualsiasi deviazione dalle politiche e dai programmi dei Governi in carica nel lavoro dei burocrati. Tuttavia, il punto centrale della concezione di burocrazia di Weber è che lo Stato può essere organizzato in modo tale da operare più o meno neutralmente nei confronti di qualsiasi classe sociale o gruppo di individui e diventare uno strumento affidabile per chiunque sia al Governo. Secondo Weber, la neutralità deriva da una serie di elementi strutturali: l’attitudine al rispetto delle regole e della propria posizione; una struttura decisionale chiara e regolamentata; il reclutamento dei funzionari attraverso un siste- ma universalistico di formazione ed esami e incentivi sotto forma di avanzamento di carriera, stipendi e status; uno spirito di corpo professionale. Ciò che oggi chiamiamo burocrazia è dunque un insieme di tecniche di governo fina- lizzate alla riduzione delle opportunità dei funzionari di perseguire i propri interessi specifici, che sostituiscono pratiche che erano basate sul biopotere. Nell’Impero otto- mano, per esempio, i funzionari della pubblica amministrazione erano spesso schiavi

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Interno 2-3-2016.indd 60 19/07/17 16:59 europei catturati in guerra. Il fatto che non avessero nessun radicamento nella società ottomana rendeva quasi impossibile per loro ottenere ricchezza e potere attraverso matrimoni con dinastie potenti. Allo stesso modo, in varie parti dell’Asia come in Cina, Corea e Vietnam, varie dinastie utilizzavano gli eunuchi come funzionari nei palazzi reali. Questa pratica era diffusa anche nei sultanati indiani (Finer 1997). Il reclutamento meritocratico (così come altre procedure burocratiche basate sul meri- to) attrae senz’altro funzionari scaltri e qualificati per le posizioni pubbliche, ma non è questa la sua funzione principale. L’universalismo garantito dal concorso per l’accesso alla posizione impedisce il reclutamento attraverso reti personali (di classe, di famiglia, di partito politico). In questo senso, il suo scopo è trascendentale: creare le condizioni per la neutralità del servizio pubblico. L’adozione di queste misure negli Stati europei del tardo XIX secolo ha trasforma- to radicalmente le loro amministrazioni pubbliche. Napoleone ha distrutto le pratiche dell’ancien regime “aprendo ai talenti” le nomine nella pubblica amministrazione. Fa- cendo riferimento a testi confuciani tradotti dai gesuiti, giuristi prussiani come Justi introdussero questi principi nella creazione del sistema bicamerale tedesco (Lee 2013). Dopo le riforme di Trevelyan nel 1850, anche la Gran Bretagna cominciò ad attribuire le cariche pubbliche sulla base del merito piuttosto che sulle origini aristocratiche. Rubinstein descrive questo processo come il passaggio dalla “corruzione antica” alla burocrazia moderna in Gran Bretagna (Rubinstein 1983). Quando queste misure furo- no introdotte, il numero di ricchi il cui reddito dipendeva da posizioni statali diminuì 61 sensibilmente (Rubinstein 1983: 73-74). Come vedremo, nel XX secolo anche gli “Stati sviluppisti” hanno incorporato alcune di queste caratteristiche nella strutturazione dei loro sistemi amministrativi.

Uno Stato illiberale Per gran parte del XX secolo, l’idea che la burocrazia potesse essere neutrale rispetto a gruppi o classi sociali dominanti è stata rifiutata completamente. La neutralità della pubblica amministrazione rispetto all’autorità politica è stata affrontata decisamente nei mesi successivi alla rivoluzione di febbraio nel 1917. Il pamphlet di Lenin, Stato e rivoluzione, fornì i termini di riferimento per buona parte della discussione e dell’attività politica di sinistra per più di un secolo (Wright 1979: 194). Erik-Olin Wright riassume il dibattito in questo modo: «Lo Stato deve essere considerato un apparato essenzialmen- te neutrale che ha solo bisogno di essere “catturato” da un partito socialista della classe operaia perchè possa servire gli interessi della classe operaia, oppure l’apparato dello Stato in una società capitalistica è un apparato decisamente capitalistico che non può in alcun modo essere “usato” dalla classe operaia, e di conseguenza deve essere distrut- to e rimpiazzato da qualcosa di radicalmente diverso dallo Stato?» (Wright 1979: 195). Lenin dà una risposta enfatica: lo Stato deve essere smantellato e sostituito da un nuovo apparato. Una domanda simile è stata poi ripresa anche dai movimenti anti-

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Interno 2-3-2016.indd 61 19/07/17 16:59 coloniali. I gruppi di liberazione possono prendere il potere e usare la pubblica ammini- strazione dell’epoca coloniale per perseguire gli interessi delle popolazioni precedente- mente sottomesse? In Sudafrica, la visione leninista dello Stato ha avuto la meglio nel movimento anti-apartheid. L’African National Congress (ANC) sosteneva che non solo i diversi governi del National Party avessero applicato leggi e politiche razziste ma che la struttura stessa dello Stato avesse lavorato a favore degli interessi bianchi. Con un vocabolario simile a quello di Lenin, l’ANC dichiarava nel documento The State, Property Relations and Social Transformation del 1998: «Noi [il National Liberation Movement, NLM] abbiamo ereditato uno stato illegittimo e strutturato per servire gli interessi di una minoranza bianca. [...] Per raggiungere questi e altri obiettivi, è diventato terre- no fertile di corruzione e attività criminali sia all’interno del Paese che all’estero. [...] L’NLM non può dunque appropriarsi della macchina statale dell’apartheid sperando di usarla per raggiungere i propri obiettivi. Lo Stato dell’apartheid deve essere distrutto in un processo di radicale trasformazione. Il nuovo Stato dovrà essere, per definizione, l’antitesi dello Stato dell’apartheid».12 Alla base di questo discorso leninista esisteva una politica nazionalista che, soprattut- to sotto l’influenza di Thabo Mbeki, tendeva a sovrapporre l’interesse generale con le politiche dell’ANC. Fin dal 1994, le maggioranze elettorali servirono semplicemente a confermare ciò che si riteneva vero a priori, e che l’organizzazione fosse l’autentico rap- presentante del “popolo” (Chipkin 2007, 2015). Come vedremo brevemente, l’obiettivo 62 della trasformazione dello Stato non era quello di creare uno stato neutrale. Accusare il Governo dell’ANC di aver fallito da questo punto di vista non sarebbe corretto. L’o- biettivo era di portare lo Stato sotto la direzione politica del partito. Ciò su cui bisogna dunque soffermarsi è l’impressionante lavoro di politicizzazione della pubblica ammi- nistrazione che il Governo dell’ANC è riuscito a portare avanti.

La riforma del settore pubblico in Sudafrica: 1994-2000 La burocrazia dell’apartheid era considerata inadatta a eseguire gli ordini di un Governo democratico. In primo luogo, i suoi vertici erano composti in gran parte da uomini bian- chi che parlavano afrikaans – gli stessi responsabili della realizzazione dei programmi dei Governi precedenti (Picard 2005: 302). La trasformazione dello Stato dunque neces- sitava «l’estensione del potere dell’NLM su tutte le leve del potere: l’esercito, la polizia, la burocrazia, le emittenti pubbliche, la Banca centrale, e così via».13 La posta in gioco era il cambiamento del profilo razziale dell’amministrazione post-apartheid. Nel 1994, i dirigenti dei dipartimenti statali erano in maggioranza bianchi e di sesso maschile, rispettivamente il 94% e il 95%. Tuttavia, a settembre 2011, la composizione razziale dell’amministrazione era stata quasi invertita. Secondo il più recente rapporto del Department of Public Service and Administration (DPSA), di 1.327.548 funzionari nei dipartimenti nazionali e provinciali (esclusi i governi locali), 760.501 (57,29%) sono attualmente di sesso femminile, mentre 567.047 (42,71%) sono di sesso maschile. In-

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Interno 2-3-2016.indd 62 19/07/17 16:59 credibilmente, gli africani sono oggi 1.050.692 (79,15%) nelle posizioni dirigenziali, i coloured 110.929 (8,35%) e gli asiatici 43.187 (3,25%). I bianchi rappresentano oggi meno del 10% dei funzionari pubblici (122.740) (DPSA 2013: 32). Questi numeri non includono le municipalità, dove i cambiamenti sono altrettanto formidabili. La politica dell’affirmative action14 e i cambiamenti demografici nella pubblica ammi- nistrazione non sono stati accompagnati da misure di reclutamento basate sul merito. In effetti, l’ANC si è mosso in direzione opposta. L’idea di introdurre un sistema di accesso universale tramite concorso pubblico per gli incarichi pubblici è stata discussa brevemente dopo il 1994 per essere immediatamente scartato. Il Green Paper on a New Employment Policy for a New Public Service del 1997, comparando le buone pratiche di reclutamento, concludeva che i «Paesi stranieri» erano «flessibili» nei loro strumenti di reclutamento, preferendo principi di equità, affidabilità e oggettività a quelli di merito o esperienza (DPSA: 1997, 14.2.1, 14.3.1).15 Il DPSA dà poi il colpo di grazia: «l’ugua- glianza di opportunità non riconosce le disuguaglianze del sistema educativo sudafri- cano né le barriere razziali del passato alle opportunità di lavoro» (DPSA 1997: 14.3.2). Questo tipo di ragionamento era difficilmente criticabile. Alla fine, il Sudafrica ha optato per un “sistema di carriere aperte”, in cui le nomine e le promozioni sono pubblicizzate all’interno e soprattutto all’esterno della pubblica am- ministrazione. La tendenza a un reclutamento politico è andata oltre: la responsabilità del reclutamento è stata sottratta agli organi statutari (per esempio la PSC) e/o agli uffici delle risorse umane nei dipartimenti governativi. Essa è stata attribuita, invece, ai 63 ministri e ai loro equivalenti nei governi provinciali. Vale la pena di analizzare questo aspetto in modo più approfondito: esso rappresenta una scelta radicale che non deriva solo dalla semplice volontà di accelerare le misure di affirmative action nei confronti della pubblica amministrazione post-apartheid. Il Sudafrica ha un sistema di governo con forti caratteristiche federali. In aggiunta al Governo nazionale, il Paese ha nove province amministrate da Governi eletti formati da un premier e da un Executive Committee - il nome della Giunta provinciale. L’articolo 3(7) del Public Service Act attribuisce ai ministri del Governo nazionale e agli asses- sori della Giunta provinciale (Members of the Executive Committee, MECs) il potere di nomina (PSC 2016: 29). Questa responsabilità è talvolta delegata ai dirigenti dei dipartimenti sia dai ministri nazionali che dai MECs, ma più spesso è esercitata diret- tamente, creando ciò che la Presidential Review Commission (PRC)16 e successivamente il National Development Plan (NDP)17 hanno definito tensione «nell’interfaccia politico- amministrativa». Si tratta di un eufemismo per un limite strutturale della burocratizza- zione del Governo, rappresentato dal fatto che le nomine e le promozioni siano dettate da calcoli politici più che da considerazioni professionali e amministrative. Consideriamo il processo di reclutamento stesso. Esso ha inizio con la creazione di una posizione. Ogni posizione o gruppo di posizioni prevede una job description e un titolo che spieghi i suoi obiettivi principali, le abilità richieste e i risultati che il can-

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Interno 2-3-2016.indd 63 19/07/17 16:59 didato deve portare a termine per ottenere una promozione (PSC 2016: 28). Si tratta di mansioni tecniche che sono state storicamente assolte dalla PSC insieme ai capi amministrativi dei dipartimenti coinvolti, in linea con le necessità e il mandato del dipartimento interessato. Nel Sudafrica post-apartheid, tuttavia, «la discrezionalità nel definire i profili dei candidati è di competenza dei ministri o assessori interessati» (PSC 2016: 28). La posizione viene poi bandita e si forma una commissione per la selezione dei candidati prescelti. I candidati non sostengono un esame, anche se per le posizioni dirigenziali devono sottomettersi a una «verifica delle competenze», ma vengono invece intervistati dalla commissione. Il rapporto del 1998 della PRC sulla pubblica ammini- strazione descrive il processo in termini decisamente poco lusinghieri: «L’impressione generale (…) è che non esistano linee guida sulle buone pratiche per assistere i membri della commissione nel processo di selezione e intervista dei candidati. [...] Non esi- stono linee guida neanche per la selezione dei membri della commissione in nessuno dei dipartimenti oggetto dell’indagine. In molti casi, essi sembrano essere selezionati all’ultimo minuto senza che vengano loro fornite informazioni specifiche sulla natura del loro compito. [...] I sistemi di valutazione in generale sono vaghi e poco chiari, e non è chiaro come si arrivi alla presa di decisioni. Inoltre, le linee guida sull’uso dei referees sono vaghe. [...] Le decisioni sulla selezione sembrano spesso prese unicamente in base alle interviste e senza un chiaro collegamento con i requisiti necessari per la posizione [corsivo aggiunto dall’autore]» (PRC 1998: 4.4.6.3). 64 Le commissioni di selezione sono migliaia nella pubblica amministrazione. Dato che queste commissioni hanno l’obiettivo di massimizzare la discrezione politica nelle no- mine e che esse operano sulla base di considerazioni soggettive, esse causano una grande variabilità nella qualità delle nomine. Spesso, suggerisce la PSC, i candidati vengono reclutati pur non avendo le abilità, le conoscenze o l’esperienza necessaria a svolgere il proprio lavoro. Inoltre, l’articolo 12 del Public Service Act stabilisce che i ministri e i MECs possano derogare a questo processo – minimamente – competitivo nella nomina dei consulenti (PSC 2016: 29). Complessivamente, la discrezionalità politica nel processo di reclutamento e nella crea- zione di nuove posizioni, insieme all’assenza di concorsi per l’accesso alle cariche e per l’avanzamento di carriera, hanno riorganizzato la pubblica amministrazione post-1994 in modo da ridurre drasticamente la sua autonomia. Recentemente, la PSC ha timidamente cercato di rivendicare una parte della sua gloria passata. Come affermava la PRC nel 1998, enti come la PSC esistono essenzialmente per «proteggere e sostenere il principio del merito» (PRC 1998: 2.5.5). Il fatto che questo principio avesse assunto un «carico politico ed emotivo» (PRC 1998: 2.5.5) dopo il 1994 significa che la PSC in Sudafrica abbia perso la sua ragione d’essere. Infatti, la PRC mostrava una certa difficoltà nell’identificare un ruolo per la commissione nel nuovo sistema. La PSC stessa ha proposto furbamente di conservare la propria importanza comparando il processo di reclutamento in Sudafrica con quello di altri Stati svilup-

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Interno 2-3-2016.indd 64 19/07/17 16:59 pisti per affermare il valore della selezione meritocratica. Fin dalla fine degli anni ’90 il Governo dell’ANC si è autodefinito Stato sviluppista sia dal punto di vista delle sue politiche economiche che sotto il profilo delle sue relazioni internazionali. La PSC ha identificato quattro differenze principali: - «Le nomine non sono fatte sulla base di considerazioni politiche o altre considerazioni primarie» (PSC 2016: 29). - «I vertici sono tecnocrati nominati all’interno della pubblica amministrazione» (PSC 2016: 25). La PSC insiste sul fatto che persino in Paesi come la Cina o Singapore, dove i funzionari pubblici sono “quadri”, cioè membri del partito di Governo, essi sono comunque nominati sulla base delle proprie qualifiche e della loro abilità nell’adem- piere alla funzione richiesta (PSC 2016: 24). - «Il livello d’istruzione è un fattore cruciale per l’accesso a cariche burocratiche» (PSC 2016: 25). La PSC nota che il 92% dei funzionari pubblici in Cina ha una laurea qua- driennale e la maggior parte (60%) ha un master. Perfino in Brasile il 50% dei funzio- nari pubblici sono laureati. In Sudafrica, si lamenta la PSC, solo il 3% dei funzionari pubblici ha una laurea di base o un diploma. - «Il merito si sostiene attraverso esami aperti, trasparenti e competitivi» (PSC 2016: 26). Notando che la pubblica amministrazione risponde alle logiche rappresentative dell’affirmative action, la commissione si è chiesta se non fosse tempo di tornare a un sistema di carriere in cui le nomine fossero effettuate all’interno della pubblica amministrazione attraverso un processo gestito dalla PSC stessa. Il problema non erano 65 le nomine politiche nell’amministrazione pubblica, di per sé. Altrove, come negli Stati Uniti o anche in Cina e a Singapore, esse sono limitate a posizioni specifiche18 e sono comunque soggette a valutazione competitiva e meritocratica. Il discorso portato avanti dalla PSC si riferiva piuttosto al fatto che, in Sudafrica, una logica politica si oppone alla logica burocratica, permeando l’intero sistema in modo indiscriminato. In particolare, la PSC raccomandava che la responsabilità della pubblicizzazione delle posizioni bandite fosse sottratta a quella che definiva l’«autorità esecutiva» (ministri e MECs) e collocata invece tra le mansioni dei capi di dipartimento, e che i candidati interni fossero considerati prima di pubblicizzare la posizione all’esterno. Inoltre, la PSC proponeva che i candidati fossero presi in considerazione per eventuali promozioni solo dopo essere rimasti in servizio nel loro livello precedente per un periodo di tempo ade- guato, e che la loro idoneità per una promozione fosse verificata attraverso un esame. Per finire, la PSC sollevava la possibilità di reclutare manager di medio livello (da cui potenzialmente pescare per le posizioni superiori) attraverso un concorso pubblico. A testimonianza di quanto controversa fosse questa idea, la PSC presentava anche una serie di riserve, compresi i casi in cui si consigliava il processo di nomina politica. I timi- di tentativi di spingere il Sudafrica lontano da un sistema di “burocrazia aperta” sono rimasti grida nel deserto (PARI 2014: 47).19

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Interno 2-3-2016.indd 65 19/07/17 16:59 Battaglioni di rivoluzionari Nel 1997, Nelson Mandela ha pronunciato il discorso conclusivo della 50° Conferen- za Nazionale dell’ANC a Mafikeng. Si era appena dimesso dalla carica di presidente dell’ANC a favore di Thabo Mbeki e Jacob Zuma era inoltre stato eletto vice presidente. I due sarebbero diventati rispettivamente presidente e vice presidente del Paese poco tempo dopo. Nel 2005, Mbeki ha licenziato Zuma per corruzione, innescando una se- quenza di eventi che avrebbe posto fine alla sua Presidenza provocando la nemesi della sua stessa permanenza al potere. Nel 1997, però, era ancora troppo presto per sapere che la situazione sarebbe poi precipitata. Questi eventi hanno finito per distogliere l’attenzione dall’importanza che questa con- ferenza ha avuto per un’altra ragione: essa ha segnato il lancio della politica di “dispie- gamento dei quadri” dell’ANC. Quest’espressione era entrata a far parte del vocabolario dell’ANC almeno dal 1985, quando veniva usata in riferimento alla disciplina dei membri nel corso della lotta contro l’apartheid. Nel 1996 Joel Netshitenzhe, un consigliere chiave di Mbeki, che sarebbe poco dopo diventato il capo dell’ufficio politico e strategico della Presidenza, l’ha riutilizzata in relazione all’esercizio dei poteri statali. Dal giornale interno dell’ANC, Umrabulo, Netshitenzhe suggeriva che, al fine di assicurare il controllo e l’egemonia dell’ANC, si sarebbero dovuti dispiegare i suoi quadri in tutti i «centri di potere», inclusa l’economia, l’istruzione, lo sport, le arti e i media. Il documento esortava l’ANC a creare 66 un database di quadri e delle loro competenze in modo che il loro dispiegamento potes- se avvenire in modo più organizzato. Inoltre, suggeriva che i membri dell’ANC dovessero rispondere prima di tutto al partito. Il documento affermava: «Dobbiamo comprendere appieno il sistema di supervisione e di direzione delle decisioni [...] in modo da essere sicuri che il nostro esercito di quadri adempia alle proprie responsabilità in accordo con le decisioni prese dal movimento».20 Il rapporto finale della 50° Conferenza Nazionale spiega come mai ciò fosse necessario: «Abbiamo vissuto episodi di resistenza alla trasformazione della pubblica amministra- zione, con rappresentanti del vecchio sistema che hanno utilizzato ogni mezzo in loro potere per assicurarsi di mantenere una posizione dominante. Alcuni tra essi non hanno nessuna lealtà al nuovo ordine costituzionale e politico, né al Governo in carica, e non hanno nessuna intenzione di applicare i programmi del nostro Governo [corsivo aggiun- to dall’autore] che mirano alla ricostruzione e allo sviluppo».21 Questa rete «contro-rivoluzionaria», continua il documento, era basata sulla pubbli- ca amministrazione ed era coinvolta in «azioni di disturbo», incluso «l’indebolimen- to e l’incapacitazione della macchina statale» e il «furto di proprietà pubbliche, armi e munizioni». In questo contesto, l’ANC ha proposto il dispiegamento di «battaglioni di rivoluzionari» presso «assemblee legislative e governi locali, provinciali e nazionali, [presso] strutture dell’ANC a tutti questi livelli, [presso] la pubblica amministrazione e l’economia».22

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Interno 2-3-2016.indd 66 19/07/17 16:59 Questa logica politica spiega in parte le caratteristiche della pubblica amministrazione sudafricana come descritte in precedenza. In particolare, un modello di reclutamento che privilegia considerazioni politiche su quelle amministrative nel processo di selezio- ne serviva, come ha detto Geraldine Fraser-Moloketi, il ministro del Serivizio Pubblico e dell’Amministrazione nel Governo Mbeki, a «stabilire un controllo sulla burocrazia e a inculcare un nuovo sistema di valori e una nuova filosofia coerente con il programma del partito di Governo» (Fraser-Moloketi 2006: 20). Una tale affermazione non è sufficiente, tuttavia, per spiegare il rifiuto di un modello di governo burocratico. A questo punto si afferma un’altra logica, la cui origine e il cui vocabolario non derivano dall’ANC ma dal discorso emergente della “nuova gestione pubblica” (new public management).

La nuova gestione pubblica Solo un paio d’anni dopo le prime elezioni democratiche, la preoccupazione che ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato nell’amministrazione pubblica si diffondeva sempre di più in vari settori del Governo. Per esempio, la Presidential Review of the Public Service nel 1998 esordiva stranamente affermando che «in gran parte [...] gli elementi essenziali della good governance sono ancora assenti, incluso lo sviluppo di una cultura efficace di governance democratica» (PRC 1998: 1.5). Il rapporto era un documento molto ampio che considerava strutture e funzioni della pubblica amministrazione, la gestione e lo sviluppo delle risorse umane, la gestione finanziaria e la gestione, i sistemi e la tecnologia per la pianificazione e le informazioni. Il rapporto raccomandava, in pri- 67 mis, un «cambiamento radicale» nella creazione di «un servizio pubblico professionale, guidato da professionisti e rispondente a un’etica professionale» (PRC 1998: 7.2.1.1). In particolare, la commissione si mostrava preoccupata della «confusione» nel- l’«interfaccia politico-amministrativa». Il problema era che la responsabilità dei ministri e dei MECs, da un lato, e quella dei dirigenti, dall’altro, non era chiaramente definita. La commissione suggeriva: «se i ministri e i MECs agiscono come manager, interferendo con ogni dettaglio della vita amministrativa, e se i dirigenti della pubblica amministra- zione agiscono da politici, interferendo coi processi politici al di fuori dei loro dipar- timenti, significa che essi vengono meno alla correttezza e necessità del loro ruolo» (PRC 1998: 2.1.6). Il rapporto era visibilmente vago sulla definizione di interferenza politica e, a differenza delle raccomandazioni successive della PSC, non menzionava il controllo politico del processo di reclutamento. Ne consegue che esiste attualmente un’incomprensione tra politici e funzionari a proposito dei limiti dei rispettivi ruoli. In realtà, però, questa incomprensione era del tutto assente nell’ANC o nell’amministra- zione di Thabo Mbeki. Con l’eccezione delle istituzioni economiche - la Banca Centrale (Reserve Bank), il Tesoro (National Treasury) e l’Agenzia delle entrate (South African Re- venue Service, SARS) – l’intenzione era proprio quella di politicizzare l’amministrazione attraverso il dispiegamento dei quadri. È quindi ben poco sorprendente che la stessa preoccupazione sia stata sollevata 15 anni più tardi dall’NDP.

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Interno 2-3-2016.indd 67 19/07/17 16:59 La PRC ha espresso numerose raccomandazioni su come migliorare la performance del servizio pubblico, tra cui stabilire un «centro di governo» per monitorare e coordinare i vari dipartimenti e assicurarsi che seguano le decisioni governative (PRC 1998: 7.2.1.4). Inoltre, ha raccomandato una radicale «riorganizzazione» della pubblica amministrazione, sostenendo che fosse sovradimensionata e che rischiasse di consumare una porzione troppo consistente delle entrate del Governo (PRC 1998: 7.2.1.3).23 La proposta principale della PRC, almeno nell’interpretazione del DPSA era il cosiddetto «Professional Management Corps» (“corpo di manager professionisti”) (PRC 1998: 7.2.1.10). La proposta era la seguente: - abbandonare il modello tradizionale basato sulle carriere nella pubblica amministra- zione a favore di un sistema di impiego basato su contratti a tutti i livelli dirigenziali; - far crescere manager polivalenti con esperienza in diversi settori, creando opportunità per una maggiore mobilità; - sviluppare uno spirito di corpo manageriale attraverso workshop e opportunità di formazione. È possibile che la PRC intendesse che questo corpo di manager dovesse agire in modo neutrale rispetto all’autorità esecutiva, anche se il termine non viene mai usato nel documento. Ciò che è sicuro è che la riforma avesse lo scopo di rigettare le pratiche burocratiche, ed era proprio in questo che stava parte del suo fascino. Il DPSA si è mosso in fretta per implementare le raccomandazioni della PRC. Ha creato 68 la commissione Baskin nel 2000 per capire come procedere, e poi nel 2001 ha lanciato il Senior Management Service (SMS) – il nome attribuito al «corpo di manager profes- sionisti». La tendenza a muoversi verso la nuova gestione pubblica in Sudafrica ha una storia sbalorditiva che ho analizzato altrove (Chipkin, Lipietz 2012). In questo conte- sto, basti ricordare che essa fonda le proprie origini nella critica thatcheriana e post- thatcheriana (la terza via di Tony Blair) al welfare state. Al momento della transizione democratica del Sudafrica, una serie di metafore dominava il settore della pubblica amministrazione. Patrick FitzGerald e Anne McLennan, entrambi personaggi influenti all’epoca, danno un’idea dell’umore generale in Sudafrica: «l’insegnamento e la teoria della pubblica amministrazione in Sudafrica stanno vivendo un cambio di paradigma. Assistiamo a un tentativo di abbandonare un approccio accademico e descrittivo che enfatizza i processi e le procedure, a favore di un approccio di gestione pubblica orien- tato al valore [corsivo aggiunto dall’autore]» (McLennan, FitzGerald 1991: 8). Si trattava di una critica della “burocrazia” come forma organizzativa. Geraldine Fraser- Moleketi si laureò mentre occupava una carica politica. Nella sua tesi, le burocrazie sono definite inutili e inefficienti, «superate» – un termine usato di frequente nella letteratura accademica e politica di quel periodo. Al contrario, i manager sono liberi dai vincoli burocratici e definiti innovativi e capaci di imprenditorialità. Essi sono orientati alla produzione e ai risultati, più che al rispetto delle regole. In altre parole, il new pu- blic management è «moderno» (Fraser-Moleketi 2006).

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Interno 2-3-2016.indd 68 19/07/17 16:59 La creazione di un servizio di alti dirigenti veniva fondamentalmente associata con una serie di misure che distanziassero i dirigenti dalle pratiche di routine basate sulle regole, dando loro discrezionalità su una grande varietà di attività come, per esempio, formulare strategie per adempiere al meglio alle funzioni del dipartimento (come si dice in Sudafrica, la formulazione di un “service delivery model”), decidere la struttura del proprio dipartimento e la gestione finanziaria. Il Public Finance Management Act (PFMA), approvato nel 1999 per regolamentare le questioni finanziarie del Governo nazionale e dei governi provinciali, al Capitolo 5 in- tendeva «lasciare che i dirigenti dirigessero», dando ai capi di dipartimento una grande discrezionalità nelle decisioni di spesa. I dirigenti dovevano anche ricevere uno stipen- dio alto, tanto che il Fondo Monetario Internazionale ha confermato di recente che i funzionari pubblici sudafricani sono tra i meglio pagati dei Paesi emergenti (IMF 2016: 76). L’elemento cruciale in tutto questo, cioè il reclutamento dello staff, è rimasto una prerogativa politica che ha creato, come abbiamo visto, tensioni nell’«interfaccia politico-amministrativa». Non è difficile capire come mai l’idea di un servizio di alti dirigenti sia stata approvata rapidamente dal Governo. Si trattava di uno strumento attraente con cui il Governo dell’ANC poteva assumere il controllo dell’amministrazione. Inoltre, era coerente con le “buone pratiche” internazionali. In altre parole, il controllo politico non avrebbe dovuto contrapporsi all’efficacia e all’efficienza, o almeno così sembrava. Benché i funzionari pubblici in teoria non dovessero essere più di 3.000, nel 2005 gli impiegati erano già 69 7.283, principalmente nei dipartimenti a livello nazionale (DPSA 2006: 37). Anche se non esistono dati pubblicati sul “dispiegamento dei quadri” in Sudafrica, è probabile che la maggior parte dei funzionari dell’ANC fossero stati collocati a questo livello.

Decentramento Gli sforzi di de-burocratizzare lo Stato sono stati particolarmente forti negli spazi tran- sazionali del Governo. Dalla fine degli anni ’90 in Sudafrica era diventato normale definire lo Stato come un “facilitatore” di sviluppo piuttosto che come suo “promotore” (Chipkin 2003: 75). Sotto l’influenza del New Public Management, questo cambio di metafora s’è tradotto spesso concretamente nel decentramento. Abbiamo visto che nel PFMA i capi di dipartimento erano diventati dei “contabili” con un’ampia discrezionalità finanziaria, che includeva la responsabilità per l’acquisto di beni e servizi. Il PARI ha lavorato a lungo sulle procedure delle gare d’appalto in Sudafrica.24 Storicamente, sostiene il PARI, il sistema di appalto in Sudafrica era molto centralizza- to. Prima del 1994, vari Governi sudafricani avevano seguito la norma internazionale che prevedeva l’istituzione e il funzionamento di un ente statale per le gare d’appalto. Inoltre, ognuna delle quattro province di allora aveva il proprio ente. Il processo di decentramento sarebbe dovuto procedere senza intoppi dopo il 2003. I vari enti degli appalti furono aboliti e tra i regolamenti del PFMA fu pubblicato un Framework for

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Interno 2-3-2016.indd 69 19/07/17 16:59 Supply Chain Management. La responsabilità degli appalti fu devoluta ai dipartimen- ti. L’implementazione del nuovo sistema è associata a due evoluzioni principali: «in primo luogo» sostiene il rapporto del PARI, «le gare d’appalto sono diventate uno dei compiti principali, probabilmente la funzione principale, dei dipartimenti governativi» (PARI 2014: 34). Oggi la stima di spesa dei dipartimenti governativi per beni e servizi si aggira attorno ai 500 miliardi di rand (circa 34 miliardi di dollari), più della metà della spesa nazionale, al netto del debito. In altre parole, la fetta più grossa delle re- sponsabilità quotidiane del Governo è data in appalto a fornitori di servizi esterni, ge- neralmente aziende private. In secondo luogo, «gli appalti di beni e servizi si svolgono con un sistema molto frammentato e decentrato. In alcuni casi, persino il meccanismo dell’outsourcing stesso è a sua volta subappaltato a terzi» (PARI 2014: 34). Il risultato è che in Sudafrica oggi «ci sono letteralmente decine di migliaia di luoghi in cui sono banditi e attribuiti gli appalti e in cui sono gestiti i contratti per la prestazione di ogni tipo di servizi e funzioni» (PARI 2014: 34). Il livello di decentramento è straordinario sia rispetto ad altri Paesi che rispetto allo stesso Sudafrica in passato. Inoltre, il sistema di gare d’appalto è generalmente con- siderato la causa della grande variabilità nella performance degli uffici governativi – molto dipende infatti dal modo in cui i dipartimenti possono selezionare e gestire gli appaltatori – e della corruzione nel Governo. Fino a poco tempo fa, per esempio, gli im- piegati pubblici potevano partecipare alle gare di appalto per ottenere contratti gover- 70 nativi. Il problema, secondo la PSC nel 2010, era che «mentre alcuni di questi contratti potrebbero essere stati attribuiti onestamente, il livello di rivelazioni [...] suggerisce che molti siano stati attribuiti impropriamente, e di conseguenza abbiano danneggiato la “fiducia pubblica”» (PSC 2010: 9). «Questo porta alla domanda» continuava la commis- sione: «gli impiegati pubblici o i loro partner possono fare affari col Governo?» (PSC 2010: 9). La risposta era: sì. La cosa importante, per la commissione, era che i contratti fossero attribuiti sulla base della procedura in vigore. Questa risposta sorprendente rifletteva gli umori politici. Così come l’adozione del Framework for Supply Chain Management derivava dai presunti benefici in termini di efficienza del decentramento, questa concessione al mercato nello svolgimento delle funzioni governative aveva anche un’altra ragione d’essere. Era un’opportunità per il Governo di sostenere il proprio progetto di Black Economic Empowerment. Almeno dal 1998, il Governo sudafricano era interessato a utilizzare le risorse governa- tive per creare una classe di capitalisti neri. Secondo la logica della Presidenza Mbeki, espressa nel documento The State, Property Relations and Social Transformation, un contributo teorico importante di quel periodo, uno dei compiti dell’ANC era di sovver- tire le relazioni di proprietà in Sudafrica, inclusi i modelli di titolarità, investimento e appalto. Come fare, dal momento che il capitale era concentrato principalmente nelle mani dei bianchi? Si pensò che la soluzione risiedesse nella creazione di una classe di capitalisti neri; una classe da crearsi essenzialmente attraverso le pratiche di appalti

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Interno 2-3-2016.indd 70 19/07/17 16:59 governativi e interventi regolatori che imponevano che una quota minima di azioni di aziende private (bianche) fosse di proprietà di azionisti neri. «In modo sistematico, la rivoluzione democratica nazionale deve assicurarsi che la proprietà del capitale privato a tutti [...] i livelli [...] non sia attribuita su base razziale. Dunque il nuovo Stato, nelle sue politiche di appalto, nel suo programma di ristrutturazione delle proprietà statali, nell’utilizzo di strumenti di empowerment, pressione e altri meccanismi, promuove l’e- mergere di una classe capitalistica nera [enfasi aggiunta]».25 In questo modo il Governo che lavora esternalizzando le proprie funzioni ad aziende private potrebbe far leva sul suo budget di spesa per sostenere il progetto di trasfor- mazione economica.

Things Fall Apart26 Ciò a cui abbiamo assistito rappresenta la coincidenza di due logiche di riforma, la prima politica e la seconda amministrativa, che si congiungono talvolta per caso e talvolta volutamente, per indebolire e bloccare l’organizzazione burocratica dello Stato post-apartheid. Cioè, la combinazione dell’ideologia dello Stato dell’ANC, insieme ai discorsi rapidamente egemonici sul new public management degli anni ’90, sono serviti a indebolire le procedure e i meccanismi amministrativi per disciplinare i funzionari pubblici e ridurre la probabilità che perseguissero i propri interessi privati. Ricordiamoci che nel modello burocratico i funzionari sono soggetti agli apparati disci- plinari dell’amministrazione, agli organi responsabili delle nomine meritocratiche, alle 71 regole che definiscono le procedure quotidiane di lavoro. In Sudafrica, dal 1994, questi meccanismi sono stati volutamente abbandonati o indeboliti. L’attuale organizzazione della pubblica amministrazione ha però comunque alcuni elementi di neutralità: i fun- zionari sono sottoposti alla disciplina del partito, ed è proprio lì che si trova il risvolto amaro del modello attuale. I rapporti sulla corruzione sono accolti con tipica costernazione dai partiti di opposi- zione, dalla società civile e dai media. La novità è che anche l’ANC oggi si dichiara pro- fondamente preoccupato. Si tratta di una presa di distanze notevole rispetto al modo in cui l’ex presidente Thabo Mbeki reagiva alle accuse di corruzione nel commercio di armi nel 2006. «Alcuni nel nostro Paese» aveva dichiarato in un articolo pubblicato sul sito internet dell’ANC, «si sono autonominati “pescatori di uomini corrotti”».27 Quelli che avanzavano queste accuse, sosteneva Mbeki, cercavano di perpetuare lo stereotipo per cui «gli africani come popolo [...] sono corrotti, votati a mentire, inclini al furto e all’arricchimento personale con mezzi immorali, un popolo che è, in altre parole, spre- gevole agli occhi dei “civilizzati”».28 Cosa è cambiato? Non si tratta di una concessione ideologica al liberalismo. In realtà, si riflette la convinzione che a beneficiare degli appalti e delle spese pubbliche siano le persone “sbagliate”. Il documento sul rinnovamento organizzativo sostiene che all’in- terno dell’ANC ci sia stato «un silenzioso ritiro dalla politica per le masse a una politica

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Interno 2-3-2016.indd 71 19/07/17 16:59 fazionalistica di palazzo e di continua lotta intestina» (ANC 2012: 9). «La lotta interna ruota attorno alla contesa per il potere e per le risorse dello Stato, più che su idee diverse su come realizzare le politiche del movimento. Questa situazione ha distolto l’attenzione dei quadri dirigenti e dei membri del movimento dalle questioni sociali e dalle aspirazioni della gente. Queste circostanze hanno prodotto un nuovo tipo di leader e di membro dell’ANC che vede la scarsa disciplina, le divisioni, il fazionalismo e la lotta intestina come pratiche normali e forme necessarie di sopravvivenza politica. (ANC 2012: 9). Secondo l’ANC, quando questo «nuovo tipo di quadro», egoista e incline a perseguire il proprio interesse personale attraverso alleanze divisive, trae beneficio dalle azioni del Governo e del partito, allora significa che c’è un «uso improprio» delle ri- sorse pubbliche; in altre parole, c’è corruzione. Questa deviazione è relativa alla cultura dell’ANC, alle sue norme e tradizioni. È per questo che secondo l’ANC la soluzione alla corruzione è da cercare in un rinnovamento organizzativo interno: rafforzare la cultura del movimento e attrarre membri dediti alla visione più ampia dell’organizzazione (ANC 2012: 34). L’ANC propone dunque alcune riforme interne: - la creazione di una nuova squadra di quadri con una preparazione politica, etica, accademica e tecnica; - rafforzare la capacità della Luthuli House29 di gestire non solo l’esercizio del potere politico e la produzione costituzionale dello Stato con la sua moltitudine di membri e di sostenitori, ma anche di relazionarsi con la società civile – inclusi intellettuali, 72 artisti e media – non in quanto vittima e contestatrice, ma come leader; - rendere operative le decisioni della Integrity Commission (commissione per l’integri- tà): una commissione che avrebbe la legittimità e l’autorità di richiamare all’ordine i membri trasgressori; - dare una svolta radicale nella contesa per la leadership in modo da smettere di fingere che si aspetti ottobre per conoscere le nomination, mentre tutti organizzano riunioni di fazione nel cuore della notte.30 Joel Netshitenzhe si spinge oltre, suggerendo che i membri dell’ANC che vogliono con- correre a qualche posizione vengano sottoposti a un esame accurato nelle sezioni e nelle sedi regionali del partito.31 Gli attuali problemi dei membri dell’ANC sono descritti come un «peccato originale dell’incarico» che deriva dalla transizione. La caratteri- stica peculiare del Sudafrica di società coloniale particolare consiste nel fatto che il colonizzato e il colonizzatore abitassero lo stesso territorio. Ne consegue, dice Netshi- tenzhe, che i sudafricani neri, soprattutto quelli che sono tornati dall’esilio e/o quelli dei «ceti medi» hanno dovuto «far fronte a stili di vita dell’ex metropoli (essenzialmente la comunità bianca) che erano profondamente pervasivi. Questi stili di vita», inoltre, «si basano su uno standard che è artificialmente alto rispetto alla “classe media” globale contemporanea, in termini di proprietà, numero di automobili per famiglia, collabo- ratori domestici, piscine, emulazione dell’alta società europea e così via. [...] Questa prima generazione di ceto medio-alto aspira a e persegue abbastanza legittimamente

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Interno 2-3-2016.indd 72 19/07/17 16:59 lo standard di vita artificialmente alto [corsivo aggiunto dall’autore] della metropoli. [...] Tuttavia, a differenza delle loro controparti bianche, questi ceti medi emergenti non hanno proprietà pre-esistenti e hanno famiglie nucleari e allargate molto numerose da mantenere. Di conseguenza, devono necessariamente ricorrere all’indebitamento e/o al patronage».32 In queste condizioni, molti quadri ed “elementi intermedi” africani dell’ANC si sono indebitati e sono diventati vulnerabili alla corruzione. Il motivo per cui queste persone si sono sentite obbligate a vivere secondo standard “bianchi” richiederebbe una spie- gazione a parte.33 In questa sede, è importante soprattutto sottolineare il fatto che in Sudafrica i discorsi sulla corruzione vengono sempre più riferiti ai membri dell’ANC che assumono un comportamento diverso da quello che ci si aspetta da loro, sia dal punto di vista degli standard dell’ANC in quanto organizzazione politica che da quello degli standard della pubblica amministrazione. Avendo trasferito la responsabilità di control- lo sui funzionari della pubblica amministrazione dalla stessa all’ANC, l’organizzazione ha di fatto perso il controllo del processo.

Conclusione La definizione di corruzione nel sistema legale sudafricano, così come quella utilizzata dalla maggior parte degli enti internazionali, da Transparency International alla Banca Mondiale, si fonda, come si è sostenuto, su una concezione liberale dello Stato che distingue nettamente tra interessi privati e bene pubblico. In questo senso, il potere 73 statale è uno “spazio vuoto” temporaneamente riempito dal partito politico che vince le elezioni e forma il Governo dando vita alla propria idea di bene pubblico. Il ruolo della pubblica amministrazione è di applicare fedelmente le politiche del Governo in carica senza sviluppare interessi propri. Per assicurarsi questa neutralità, si sono svi- luppate una serie di tecniche – il reclutamento meritocratico, le procedure interne. Queste tecniche formano ciò che Weber chiamava burocrazia. Da questa prospettiva, la corruzione ha luogo quando i funzionari pubblici si allontanano dagli standard e dalle regole dell’amministrazione per intraprendere azioni che portano beneficio a loro stessi, alle loro famiglie e/o alle associazioni private e/o partiti politici di cui essi fanno parte. In Sudafrica, fin dal 1994, abbiamo visto che questa concezione dello Stato è stata re- spinta in favore di un’altra. L’ANC ha creduto a lungo che, in quanto rappresentante au- tentico del “popolo”, avesse un diritto privilegiato nella determinazione di cosa fosse il bene pubblico (Chipkin 2007, 2015). Così, ha intrapreso una serie di riforme per ridurre l’autonomia della pubblica amministrazione rispetto all’esecutivo. Quando i funzionari violano la legge o i regolamenti dipartimentali per seguire un ordine politico, siamo davanti non tanto a un fallimento morale o etico, quanto a un atto di disciplina politica. Dunque, ciò che da una prospettiva liberale è considerata corruzione, per l’ANC è virtù pubblica. Se l’ANC fosse in grado di costringere i suoi funzionari a rispondere delle pro- prie azioni e di tenerli sotto controllo, il sistema potrebbe potenzialmente funzionare.

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Interno 2-3-2016.indd 73 19/07/17 16:59 Dopo il 2009, però, la capacità dell’ANC di controllare il proprio Governo, i propri fun- zionari e i propri quadri al Governo si è deteriorata sensibilmente. Esiste una contesa crescente su chi detenga l’autorità legittima all’interno dell’organizzazione, e chi di fatto il potere. Non si tratta semplicemente del fatto che la leadership del partito sia a volte in contrasto col Governo – la situazione che si era verificata durante il Governo di Thabo Mbeki - ma che oggi ci siano molteplici “cabine di regia” (i cosiddetti “kitchen cabinets”) nel Governo, nel movimento e al di fuori. Inoltre, si accusa il presidente Jacob Zuma di aver permesso alla sua famiglia e ai suoi partner in affari (la famiglia Gupta) di “catturare” istituzioni chiave. Il licenziamento inaspettato del ministro delle Finanze a dicembre 2015 è stato interpretato come un tentativo di interessi di parte di ottenere il controllo del Tesoro.34 Questi intrighi hanno in comune il fatto che si concentrano sulla riduzione dell’auto- nomia delle istituzioni statali e/o sulla sostituzione di quelli che attualmente le con- trollano a favore di una nuova configurazione di forze. Questa politica di purghe ed epurazioni è propriamente una politica patrimonialistica, che ha distrutto le strutture di Governo preposte all’ordine pubblico e alla giustizia - la polizia, i corpi investigativi speciali (vedi gli “Hawks”),35 la National Prosecution Authority, la SARS - e alcune delle aziende statali, tra cui recentemente Denel, un’azienda di Stato produttrice di armi. Tutto questo tradisce un atteggiamento illiberale verso lo Stato e le sue diverse istitu- zioni. 74 Ivor Chipkin è direttore del Public Affairs Research Institute (PARI) e professore asso- ciato alla University of the Witwatersrand, Johannesburg

traduzione di Sara de Simone

NOTE: 1 - [N. d. T.] Il riferimento è a un altro romanzo di Chinua Achebe (1958), Il crollo, che precedette Ormai a disagio. 2 - J. Netshitenzhe, Competing Identities of a National Liberation Movement and the Challenges of Incumbency, in «ANC Today» (on-line), vol. 12, n. 23, 15-21 June 2012: http://www.anc.org.za/docs/ anctoday/2012/at23.htm#art2. 3 - Kurtz e Shrank offrono un’eccellente panoramica di questa letteratura, sostenendo, con validi argomenti, che non c’è una chiara relazione tra le misure della good governance, incluse quelle per combattere la corruzione, e lo sviluppo economico. 4 - [N. d. T.] Nel corso del 2015 il rand ha subito una forte svalutazione. Il tasso di cambio utilizzato si riferisce al mese di settembre 2015. 5 - S. Chiumia, A. van Wyk, Has SA Lost R700 Billion to Corruption Since ’94?, “Africa Check”, 30 September 2015,https://africacheck.org/reports/has-sa-lost-r700-billion-to-corruption-since-1994-why-the- calculation-is-wrong/. 6 - Corruption Perceptions Index 2014: Results, “Transparency International”, aprile 2014: https://www. transparency.org/cpi2014/results. 7 - [N. d. T.] È il corrispondente della nostra Corte dei Conti. 8 - H. Tamukamoyo, R. Mofana, If Corruption-Busting Agencies Aren’t Insulated From Political Interference, South Africa’s Compliance With Anti-Corruption Conventions and Protocols Will Look Good on Paper Only,

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Interno 2-3-2016.indd 74 19/07/17 16:59 “ISS Today”, 9 July 2013: https://issafrica.org/iss-today/is-south-africa-really-complying-with-the-anti- corruption-protocols-it-has-ratified. 9 - Le discussioni a proposito della corruzione durante l’apartheid sono spesso espresse in questi termini “classici”, in cui il punto di riferimento è l’universalità e l’uguaglianza della cittadinanza. In questo senso, il Governo dell’apartheid era considerato corrotto perchè rifiutava l’uguaglianza politica, civile e sociale su base razziale e perseguiva attivamente misure che producessero la disuguaglianza razziale in tutta la loro violenza. 10 - Non è irragionevole leggere nelle campagne anti-corruzione di Burke nella Compagnia delle Indie Orientali alla fine del XVIII secolo il fondamento delle ideeliberal di governo della Gran Bretagna del XIX secolo. 11 - Nonostante la sua apparente ubiquità nel XX secolo, la corruzione ha ottenuto un posto importante nell’agenda politica internazionale soltanto alla fine del secolo. Nel 1996, la Banca Mondiale, all’epoca diretta da James Wolfensohn, l’ha messa all’ordine del giorno come parte della discussione sulla good governance (vedi Doig, Theobald 2000: 1). Hodgson e Jiang (2007) attribuiscono l’equiparazione della corruzione al settore pubblico a un’ideologia libertaria e individualistica che vede lo Stato come un freno alla libertà personale. In altre parole, essi vedono l’attenzione alla corruzione degli anni ’90 come funzionale alla politica liberista di riduzione dello Stato. «Da questa prospettiva individualistica e libertaria (…) la soluzione al problema della corruzione [è] la riduzione dello Stato» (Hodgson, Jiang 2007: 1047). Non era forse questa l’intenzione degli aggiustamenti strutturali somministrati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale in molti Paesi africani negli anni ’80? 12 - ANC, The State, Property Relations and Social Transformation, in «Umrabulo» (on-line), n. 5, 3rd Quarter 1998: https://amadlandawonye.wikispaces.com/1998,+ANC,+State,+Property+Relations,+Social+Transfor mation. 13 - Ibidem. 14 - [N. d. T.] La politica dell’affirmative action fu introdotta nel nuovo Sudafrica democratico attraverso una serie di leggi tese a riequilibrare le discriminazioni nei posti di lavoro, in particolare nel pubblico impiego, ereditate dall’apartheid, a favore dei gruppi razziali e sociali precedentemente svantaggiati. 15 - Esso si concentrava su quei Paesi, soprattutto la Nuova Zelanda, all’avanguardia in quello che è stato poi chiamato New Public Management, un nuovo credo riformista fortemente critico dei modi “burocratici” di organizzazione. 16 - [N. d. T.] La PRC fu istituita nel 1996 per fare una revisione del sistema di pubblica amministrazione e degli enti statutari, così come delle procedure amministrative che riguardavano la pianificazione, la 75 contabilità finanziaria e il budget in tutti gli enti pubblici. 17 - [N. d. T.] Il National Development Plan è il piano strategico elaborato da una commissione presidenziale, tra il 2010 e il 2013, che delinea le scelte di politica economica per eliminare la povertà e la disuguaglianza sociale entro il 2030. 18 - Negli Stati Uniti, la maggior parte dei funzionari pubblici esonerati dalle pratiche di reclutamento gestite dall’Ufficio Gestione del Personale del Governo federale, l’equivalente sudafricano della PSC, si trovano nell’intelligence o nei dipartimenti e agenzie di sicurezza nazionale. 19 - Il PARI definisce così una “burocrazia aperta”: «Le burocrazie aperte sono quelle in cui i politici mantengono una discrezionalità legale sulla nomina, la promozione e, in casi estremi, il licenziamento dei funzionari pubblici. In questo modo, i politici sono autorizzati ad andare oltre le regole formali e imparziali per imporre la propria volontà sulla pubblica amministrazione. I politici con un potere di nomina e promozione possono occupare posizioni chiave con persone a loro vicine e colludere con esse in comportamenti non conformi» (PARI 2014: 47). 20 - J. Netshitenzhe, The National Democratic Revolution – Is It Still on Track?, in «Umrabulo» (on-line), n. 1, 4th Quarter 1996: http://www.anc.org.za/docs/umrabulo/1996/umrabulo1d.html. 21 - ANC, Report by the President of the ANC, Nelson Mandela to the 50th National Conference of the African National Congress Mafikeng, 16 December 1997: http://www.sahistory.org.za/archive/report-president- anc-nelson-mandela-50th-national-conference-african-national-congress-mafik#sthash.GSJKjmXg.dpuf. 22 - Ibid. 23 - Durante la presidenza di Thabo Mbeki ci sono stati tentativi di ridurre le dimensioni della pubblica amministrazione, ma dopo il 2009 l’elezione di Jacob Zuma come presidente ha visto una crescita esponenziale delle dimensioni del Governo. Nel Governo Mbeki i ministri erano 28, numero che è salito a 35, più 37 vice ministri, nell’attuale Governo. Inoltre, tra il 2005 e il 2012, la spesa per gli stipendi della pubblica amministrazione è cresciuta del 145,6% e il numero di impiegati governativi è aumentato del 27,3% (vedi Africa Check: Does SA Really Employ More Civil Servants Than The US?, in «Daily Maverick» (on line), 16 October 2014: http://www.dailymaverick.co.za/article/2014-10-16-africa-check-does-sa-really- employ-more-civil-servants-than-the-us/#.V4CzuFefTVo). La pubblica amministrazione rappresenta oggi la seconda voce della spesa pubblica dopo il servizio del debito.

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Interno 2-3-2016.indd 75 19/07/17 16:59 24 - In questo paragrafo si fa riferimento al lavoro di ricerca coordinato da Ryan Brunette. 25 - ANC, The State, Property Relations and Social Transformation, in «Umrabulo» (on-line), n. 5, 3rd Quarter 1998: https://amadlandawonye.wikispaces.com/1998,+ANC,+State,+Property+Relations,+Social+Transfor mation. 26 - [N. d. T.] Il riferimento è al titolo di un altro romanzo di Chinua Achebe (1958), già citato in precedenza Il crollo, recentemente ritradotto con il titolo Le cose crollano. 27 - T. Mbeki, Letter From the President: Our Country Needs Facts, Not Groundless Allegations, in «ANC Today» (on-line), vol. 3, n. 21, 30 May – 5 June 2003: http://www.anc.org.za/docs/anctoday/2003/at21.htm. 28 - Ibid. 29 - [N. d. T.] La Luthuli House è la sede centrale dell’ANC, a Johannesburg; con questo nome s’intende quindi in senso lato la leadership del partito. 30 - J. Netshitenzhe, Competing Identities of a National Liberation Movement and the Challenges of Incumbency, in «ANC Today» (on-line), vol. 12, n. 23, 15-21 June 2012: http://www.anc.org.za/docs/ anctoday/2012/at23.htm#art2. 31 - Ibid. 32 - Ibid. 33 - Nel Mass Democratic Movement degli anni ’80 e ’90 esisteva una critica pungente e un rifiuto dello stile di vita “bianco” e/o “borghese”. È per questo che sobborghi come Yeoville a Johannesburg, per esempio, sono diventate icone. Non era solo per il carattere di contaminazione razziale che offriva un’anteprima di cosa sarebbe stato il Sudafrica dopo la fine dell’apartheid, ma anche perché i suoi residenti spesso rifiutavano le regole “bianche” – a volte rifiutando i valori della classe media (la famiglia, la sessualità, il consumo), a volte rifiutando il razzismo e il razzialismo, a volte rifiutando entrambi. 34 - J. Pearson, S. Pillay, I. Chipkin, Provincial Elites Use Zuma as Trojan Horse to Hit Treasury, «Business Day», 17 December 2015. 35 - [N. d. T.] Il Directorate for Priority Crime Investigation, meglio conosciuto con il nome di Hawks (Falchi), è un corpo speciale di polizia, alle strette dipendenze governative, il cui compito è d’investigare la criminalità organizzata ed economica, e la corruzione. Fu istituito dal neo presidente Zuma nel 2009, in sostituzione della precedente agenzia investigativa, Directorate of Special Operations, meglio conosciuta come Scorpions (Scorpioni), che dipendeva dalla National Prosecution Authority, organo investigativo più indipendente, seppur di nomina politica, che aveva aperto l’inchiesta sulle tangenti nella compravendita di 76 armi, in cui era coinvolto lo stesso Zuma. Riferimenti bibliografici Achebe C. (1958), Things Fall Apart, Heinemann, London [Tr. It. Il crollo, Edizioni e/o, Roma (2002); Le cose crollano, La nave di Teseo, Milano (2016)] Achebe C. (1960), No Longer at Ease, Anchor Books, New York [Tr. It. Ormai a disagio, Jaca Book, Milano (1994)] ANC (2012), Organisational Renewal: Building the ANC as a Movement for Transformation and a Strategic Centre of Power, a discussion document towards the National Policy Conference, 10 April Bayart J.-F. (1993), The State in Africa: The Politics of the Belly, Longman, London Brooks R. (1910), Corruption in Politics and American Life, Dodd, Mead and Company, New York Buchan B., L. Hill (2007), From Republicanism to Liberalism: Corruption and Empire in Enlightenment Political Thought, Proceedings of the Australasian Political Studies Association conference, Melbourne, Monash University, 24-26 September Chipkin I. (2003), ‘Functional’ and ‘Dysfunctional’ Communities. The Making of National Citizens, in «Journal of Southern African Studies», vol. 29, n. 1 Chipkin I. (2007), Do South Africans Exist? Nationalism, Democracy and the Identity of ‘The People’, Wits University Press, Johannesburg Chipkin I. (2015), The Decline of African Nationalism and the State of South Africa, in «Journal of Southern African Studies», vol. 42, n.2 Chipkin I., B. Lipietz (2012), Transforming South Africa’s Racial Bureaucracy: New Public Management and Public Sector Reform in Contemporary South Africa, PARI Long Essays n. 1, Public Affairs Research Institute, Johannesburg Della Porta D., A. Vannucci (1999). Corrupt Exchanges: Actors, Resources, and Mechanisms of Political Corruption, Aldine de Gruyter, New York Doig A., R. Theobald (eds.) (2000), Corruption and Democratization, Frank Cass, London DPSA (1997), Green Paper on a New Employment Policy for a New Public Service, DPSA, Pretoria, 31 May DPSA (2006), Senior Management Service: Overview of Reports 2000 – 2006. “A Genesis of the Senior Management Service Dispensation in the Public Service”. SMS Resource Pack: Part 1, DPSA, Pretoria

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Interno 2-3-2016.indd 77 19/07/17 16:59 Conflitti fondatori e frontiere nazionali in Marocco. Per un approccio discreto alla statualità Irene Bono

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Guardare oltre la “biografia nazionale” In Marocco, come in genere avviene nelle situazioni politiche che hanno conosciuto la dominazione coloniale, l’indipendenza nazionale è considerata una trasformazione politica paradigmatica. Gli attori del movimento nazionalista ne sono riconosciuti come i principali protagonisti e il conflitto che ha opposto questi ultimi alle autorità coloniali è pensato come il fenomeno per eccellenza per ripercorrere e comprendere la storia dell’affermazione nazionale. Il fatto che la data dell’indipendenza, il 2 marzo 1956, sia generalmente assunta come una sorta di orizzonte naturale per osservare tale pro- cesso completa i presupposti per la formulazione di quella che con Antonio Gramsci si potrebbe chiamare una «biografia nazionale» (Gramsci 2017: Q3 §159, Q19 §50):1 una maniera di concepire la storia che poggia sul presupposto che «ciò che si desidera sia sempre esistito e non abbia potuto affermarsi per l’intervento di forze estranee o per l’addormentarsi delle virtù intime» (Gramsci 2017: Q3 §159). Questa maniera di pensare la storia, alla base di una letteratura assai fiorente che si de- dica a identificare le origini, le principali tappe e il compimento del progetto nazionale in Marocco (Deschamps 1954; Landau 1956; Halstead 1967; Laroui 2001; Zisenwine 2010), sposta l’attenzione dallo Stato come fenomeno politico al nazionalismo come processo di riconquista della sovranità statuale. Soffermarsi su tale processo porta a

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Interno 2-3-2016.indd 78 19/07/17 16:59 presupporre che lo Stato sia sempre esistito nelle sue fattezze odierne, e invita a inda- gare l’ideologia e il movimento politico che ne avrebbero permesso il recupero anziché il suo continuo processo di formazione. Il fatto che biografie, testimonianze e memoria- li siano le principali fonti sulle quali poggia la storiografia contemporanea in Marocco contribuisce a muovere ulteriormente l’attenzione dal processo agli attori che ne sono considerati i protagonisti. Le biografie dei nazionalisti diventano così iconiche della maniera consolidata di raccontare la riconquista dello Stato-Nazione. Tali narrazioni biografiche oscillano tra una doppia tensione: da un lato, la logica della storia di vita rafforza la dimensione teleologica che caratterizza il racconto nazionale, il che può portare a sopravvalutare le intenzioni personali, e a trasformarle in volontà collettiva; dall’altro lato, la storia di vita è raccontata in maniera selettiva e piuttosto imperso- nale, come se fosse avvenuta una fusione tra il soggetto narrato e il corpo sociale di cui si vuole dare conto che non lascia spazio agli elementi che sfuggono al racconto nazionale.2 I limiti di questa maniera di affrontare la storia, che descrive il nazionalismo in Ma- rocco «come fosse qualcosa di organico» (Lawrence 2012: 479), sono ormai oggetto di un dibattito consolidato. Alcuni contributi recenti hanno permesso di approfondire lo studio del nazionalismo al di là della periodizzazione e della scala generalmente prese in considerazione (Sefrioui 2012; Ait Mous 2013). Altri hanno analizzato criticamente la presunta omogeneità del movimento nazionale e hanno messo in luce la varietà e le tensioni tra le sue diverse correnti (Lawrence 2012; Stenner 2012). Altri ancora si sono 79 concentrati su personalità politiche o forme di contestazione che rimangono general- mente ai margini della storiografia consolidata (Ryad 2011; Guerin 2015). I contributi che si sono spinti ad approfondire che cosa sia la Nazione sono più rari, e si limitano in genere a esplorare la formazione nazionale sul piano culturale e simbolico (Rachik 2003; Burke III 2014; Wyrtzen 2016). Il processo di formazione e trasformazione dello Stato come campo della sovranità nazionale è rimasto così sullo sfondo: dal momento in cui l’attenzione si concentra sul “chi” ha lottato per l’indipendenza e sul “come” la Na- zione è stata liberata o difesa, si tende a dare per scontato “che cosa” sia lo Stato-Nazione, come se le sue frontiere fossero definite in partenza e stabili nel tempo. Nel momento in cui le caratteristiche di ciò che è comunemente considerato “nazionale” sono considerate un oggetto di senso comune, si tende a considerare pleonastica l’esplorazione dei processi che possono aver contribuito a definirle. La maniera coerente e organica con cui la storia nazionale è raccontata ufficialmente trova nei diversi episodi riconducibili al conflitto coloniale un ritmo e una trama, che orientano non solo le maniere di narrarla e tramandarla, ma anche di esprimerla nello spazio pubblico. L’attenzione dedicata ai conflitti coloniali ritenuti fondatori dello Stato indipendente è forse la dimensione per antonomasia che mette in luce il carattere ege- monico del racconto nazionale. Tali conflitti scandiscono infatti ciò che è raccontato come il “risveglio” delle manifestazioni nazionaliste ogni qualvolta occorra recuperare

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Interno 2-3-2016.indd 79 19/07/17 16:59 o salvare la Nazione da nemici e minacce esterne: contro l’autorità coloniale prima, contro le forze che occupano indebitamente il territorio poi, e contro gli interessi che ne limitano l’emancipazione culturale ed economica. Guardare oltre i conflitti fon- datori è un’operazione preliminare per spostare l’attenzione dal nazionalismo come fenomeno intermittente e circoscritto a quell’insieme di credenze, abitudini, modi di fare e pratiche che Billig (1995) chiama «nazionalismo banale». Che le Nazioni siano da considerare comunità immaginate (Anderson 1983), lungi dall’essere fondate su elementi naturali, è certo un presupposto di tale ottica, ma è forse più importante as- sumere che tale processo di immaginazione non sia necessariamente condiviso: è così possibile rivolgere l’attenzione verso quei conflitti tra concezioni del mondo e modi di fare differenti che fanno sì che attori diversi partecipino di continuo alla definizione di ciò che si considera di volta in volta nazionale. Prendere in considerazione tali conflitti permette di osservare la statualità come un fenomeno dai confini mobili e dai contenuti in continua trasformazione, che le diverse maniere di definire la Nazione contribuisco- no a precisare, disciplinare e governare.3 Ho scelto di esplorare tali conflitti e le loro ripercussioni sulla definizione della statua- lità a partire dalle esperienze personali di un solo individuo: Abk è nato nel 1927 in una famiglia altolocata, tra le più abbienti di Marrakech, impegnata in una fiorente attività commerciale. Militante nazionalista fin dall’età dei suoi studi, il suo nome figura rara- mente tra quelli degli eroi dell’indipendenza, che sono generalmente più anziani di lui di una generazione e hanno un maggior radicamento nelle strutture del partito nazio- 80 nalista dell’Istiqlal (Gaudio 1972). Ha ricoperto svariati incarichi di alta responsabilità nei primi Governi dopo l’indipendenza, alla guida di alcuni dei più importanti uffici pubblici dell’epoca e successivamente come ambasciatore; è stato inoltre in Parlamento e nella squadra di Presidenza della confederazione degli imprenditori. La storia ufficiale, che si concentra sulle personalità dei re e sulla loro ristretta cerchia di fedelissimi, tiene però scarsa traccia dei suoi incarichi pubblici (Dalle 2004). Per tutto il corso della sua vita Abk è stato inoltre impegnato in svariate attività imprenditoriali a livello nazionale e internazionale, in particolare in ambito finanziario e assicurativo ed è stato fonda- tore, editore e direttore di alcune testate giornalistiche. Benché abbia personalmente sperimentato la repressione e l’esercizio del potere autoritario, tanto nelle sue attività economiche quanto in quelle giornalistiche, Abk è raramente annoverato tra le vittime degli “anni di piombo”, che sono generalmente più giovani di lui di almeno una gene- razione e hanno spesso avuto esperienze di militanza in movimenti anti-sistema che operavano in clandestinità (Daoud 2007). Abk oggi ha 89 anni e vive distante dalla vita pubblica a Casablanca con sua moglie. Alcuni anni fa mi ha permesso di accedere al ricco fondo di documenti personali e di fotografie che ha accumulato nel corso della sua vita, che rimandano alla sua attività politica, agli affari che ha condotto e ai ruoli pubblici che ha esercitato.4 Attraverso tale documentazione ho potuto ripercorrere le esperienze che Abk ha vissuto, ma so- prattutto esplorare la memoria e i ricordi che ne conserva. Mi sono quindi concentrata

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Interno 2-3-2016.indd 80 19/07/17 16:59 sulla biografia di Abk senza farne il mio oggetto d’analisi, ma adottandola come punto d’accesso a partire dal quale stabilire un “campo biografico”.5 Ho condotto insieme ad Abk oltre un centinaio di interviste mnemoniche a partire da tale materiale, non per farne un tipo-ideale di uomo del suo tempo (Corbin 1998), ma per ripercorrere l’esperienza singolare che Abk ha avuto della formazione nazionale. Contestualizzare gli attori, gli episodi e i processi a cui la documentazione rimanda nelle concezioni del mondo, nelle logiche di appartenenza e conflittualità e nelle emozioni, che le interviste hanno permesso di evocare, mi ha portata a mettere in luce le modalità con cui Abk ha vissuto gli episodi che ricorda. Osservare le modalità di selezione e razionalizzazione di tali ricordi mi ha resa consapevole del peso che le esperienze passate hanno tutt’oggi sulla sua vita.

Dal nazionalismo alle istituzioni nazionali: disciplina militante e disciplina bu- rocratica Nel dicembre 1955, quando fu costituito il primo Governo nazionalista con il mandato di negoziare i termini dell’indipendenza dalla Francia, Abk aveva poco più di 28 anni. Le funzioni pubbliche che gli furono assegnate a partire da quel momento lasciano pensare a una carriera in ascesa: dopo essere stato capo di Gabinetto del Ministero del Commercio, dell’Industria e della Marina mercantile nel primo e nel secondo Governo, dal settembre 1957 fu promosso sottosegretario di Stato al Commercio e il suo incarico fu confermato nel terzo Governo costituito nel maggio 1958.6 Le responsabilità che esercitò in questi anni riguardavano in particolare la regolamentazione del commercio 81 estero tanto dal punto di vista dell’equilibrio monetario del Paese, ancora privo di so- vranità sulla sua Banca centrale e completamente dipendente dagli equilibri della Zona del franco per i suoi scambi internazionali, quanto dal punto di vista della regolamenta- zione delle importazioni e delle esportazioni. Durante questi anni il nome di Abk acquisì una certa notorietà pubblica e gli articoli che riferivano della sua attività ministeriale si moltiplicarono tanto sulla stampa francofona quanto su quella di partito.7 A una prima considerazione, gli incarichi pubblici di crescente rilievo che furono suc- cessivamente assegnati ad Abk possono sembrare in perfetta continuità con la sua carriera in ascesa: nel 1959 partecipò ai negoziati per l’uscita del Marocco dalla Zona del franco e il recupero della Banca centrale ancora sotto la tutela del Governo francese e del gruppo Paribas,8 rappresentò il Marocco al primo summit economico delle Nazioni Unite sull’Africa9 e partecipò alle Conferenze Mediterranee organizzate da Giorgio La Pira a Firenze.10 La documentazione che ha conservato di tali incarichi presenta però una peculiarità: la corrispondenza relativa alle missioni ufficiali è spesso indirizzata al suo domicilio personale, le minute e gli appunti sono più frequenti degli incartamenti protocollati e, negli inviti che gli sono rivolti per presenziare a occasioni pubbliche, Abk viene spesso qualificato come «ex sottosegretario di Stato», o «ex ministro», o persino «plenipotenziario del Governo».11 Abk tende a ricondurre la conclusione della sua esperienza al Governo con l’assunzione

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Interno 2-3-2016.indd 81 19/07/17 16:59 da parte del re della Presidenza del Consiglio dei ministri nel maggio 1960. Il raffor- zamento del ruolo della monarchia all’interno del panorama politico nazionale, che si consoliderà negli anni successivi, si fa convenzionalmente iniziare in questa data (Dalle 2004; Vermeren 2010). Quando faccio notare ad Abk le caratteristiche della do- cumentazione relativa al 1959, che rimanda a incarichi ufficiali, ma lo fa in maniera informale, mi racconta di essersi dimesso già nel novembre 1958 dal ruolo che aveva occupato fino a quel momento nella squadra di Governo. Nella stampa dell’epoca trovo in effetti riferimento al fatto che Abk, insieme ad altri giovani funzionari, aveva deciso di dimettersi per esprimere la sua solidarietà al ministro dell’Economia nazionale e vice presidente del Consiglio Abderrahim Bouabid, che aveva rimesso il suo incarico nelle mani del re Mohamed V.12 La base tradizionale del partito dell’indipendenza, costituita per buona parte da commercianti originari della città di Fez che dovevano la loro fortu- na principalmente al commercio internazionale fiorito durante il protettorato, criticava in maniera crescente le misure introdotte dal Ministero per la regolamentazione del commercio estero e la protezione dell’industria locale, di cui Abk era stato uno dei principali responsabili dopo il recupero della sovranità in materia di tariffe doganali nel marzo 1957.13 Dopo la crisi che si aprì con le dimissioni del ministro dell’Economia, l’ala progressista del partito venne incaricata di formare un nuovo Governo che vide la luce a fine dicembre 1958. Un mese dopo, il neo designato presidente del consiglio Abdallah Ibrahim fu tra i protagonisti della fondazione dell’Union Nationale des Forces 82 Populaires (UNFP), nuovo schieramento politico che riuniva molti esponenti dell’ala progressista del partito dell’indipendenza, alcuni giovani militanti e la componente sin- dacale del movimento nazionale. Abk, pur sollecitato, non accettò né di riprendere il suo incarico all’interno del Governo, né di unirsi alla nuova formazione politica, che pur vedeva impegnate nelle sue fila molte delle personalità con le quali si sentiva politica- mente più affine. Pensando a quel periodo, i ricordi di Abk tornano al conflitto complesso che si consu- mava tra i leader tradizionali e le nuove leve del movimento nazionale. Alla distanza di generazione tra la vecchia e la nuova guardia, di almeno 15 anni più giovane, si aggiungeva una socializzazione alla militanza nazionalista radicalmente diversa. La vecchia guardia si era costruita sulla base dei legami tra un gruppo ristretto di intel- lettuali di diversa estrazione sociale, che avevano elaborato la proposta ideologica del partito, e un milieu molto più ampio, radicato nella borghesia commerciale che aveva assicurato fin da principio le basi finanziarie e relazionali del movimento nazionale. Le esperienze della clandestinità e dell’esilio dei leader tradizionali erano state molto importanti per consolidare i loro rapporti e le loro modalità di fare politica. Abk faceva parte della nuova generazione di militanti, costituita per la maggior parte dai figli della borghesia commerciale. La nuova guardia si era formata grazie alla socializzazione politica permessa dal partito, ma soprattutto grazie alle esperienze di studio universi- tario all’estero: i giovani militanti avevano scoperto il nazionalismo fin dall’infanzia e

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Interno 2-3-2016.indd 82 19/07/17 16:59 lo avevano vissuto apertamente durante gli studi superiori all’estero, grazie all’attività di inquadramento promossa dal partito. Abk racconta del suo ritorno in Marocco, nel momento in cui la vecchia guardia era in esilio, e dell’esperienza della resistenza nazio- nalista, come determinanti per caratterizzare il suo orientamento politico e la sua rete di relazioni che andava ben al di là dei ranghi del partito. Con l’indipendenza, forti della loro esperienza politica, i leader storici assunsero ruoli dirigenziali all’interno del partito e portarono al Governo legittimazione simbolica e spessore ideologico. Abk, come la maggior parte delle nuove leve, fu sollecitato ad assumere ruoli esecutivi nelle istitu- zioni. Le competenze che la nuova guardia aveva acquisito durante gli studi superiori, e il capitale relazionale che aveva accumulato negli anni immediatamente successivi, furono risorse importanti nei primi anni del Governo. All’epoca, l’epurazione dei collaboratori del protettorato e la marginalizzazione di co- loro che non avevano parteggiato per l’indipendenza rendevano naturalmente trascu- rabili queste differenze, pur evidenti, che attraversavano il movimento nazionale. Fu proprio l’esperienza istituzionale a mettere a repentaglio l’apparente complementarietà tra vecchia e nuova guardia. Progressivamente, la disciplina burocratica necessaria al funzionamento delle istituzioni si affermò accanto alla disciplina militante che fino a quel momento aveva regolato i rapporti tra le diverse generazioni del movimento nazionale: all’interno dell’amministrazione si doveva rispondere al superiore gerarchi- co più che al leader, e le competenze specialistiche di cui disponevano le nuove leve valevano più delle esperienze politiche sulle quali poggiava la legittimità della vecchia 83 guardia. La definizione delle gerarchie amministrative all’interno del Governo, che ve- deva le nuove leve affermarsi rapidamente con l’aumentare degli incarichi loro confe- riti, non trovò però traduzione all’interno degli organi di partito, che rimasero sotto il controllo dei leader storici. Parlando dell’attività che svolse all’epoca all’interno della macchina governativa Abk qualifica a volte i leader storici del movimento nazionale come «gli anziani» o persino «i vecchi dinosauri». La disciplina burocratica che era ne- cessario rispettare indebolì progressivamente la disciplina militante, ridefinendo ruoli e pesi all’interno del movimento nazionale. L’interazione quotidiana necessaria per far funzionare la macchina governativa consolidò i rapporti sociali e amicali tra gli espo- nenti della nuova guardia. Abk si ricorda in particolare delle riunioni a casa di alcuni di loro in cui si discutevano i problemi politici e le iniziative da promuovere. La nuova guardia si affermò così progressivamente all’interno delle istituzioni, senza riuscire a mettere in discussione l’autorità della vecchia guardia all’interno del partito. Entrambi i tentativi delle nuove leve di acquisire il controllo degli organi di informazione del partito e di affermarsi all’interno del congresso fallirono. La fondazione dell’UNFP nel gennaio 1959 avvenne in continuità con tali tentativi: non riuscendo ad affermarsi all’interno del partito dell’indipendenza, le nuove leve finirono per confluire in gran numero nel nuovo schieramento. Il fatto che la conclusione dell’esperienza di Abk al Governo non abbia coinciso con la

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Interno 2-3-2016.indd 83 19/07/17 16:59 fine della sua esperienzadi Governo sembra quindi suggerire che il conflitto, possibile da contenere all’interno del partito, fosse divenuto ingovernabile nelle istituzioni. Ad Abk, ormai formalmente estraneo all’apparato governativo, furono assegnate funzioni di governo in un momento in cui le istituzioni governative in senso proprio erano para- lizzate dal conflitto tra le due componenti del movimento nazionale: l’opposizione tra la vecchia guardia alla guida del partito e le nuove leve che controllavano le istituzioni portò l’attività di governo a uno stato di semi paralisi. Svolgere incarichi di governo al di fuori delle istituzioni ufficiali, e senza legame formale con i partiti in campo, apriva un margine per consentire la continuità e la diversificazione dell’azione di governo. Il consumarsi di questo conflitto contribuì così a mettere in discussione la corrispondenza tra partito e Stato che aveva caratterizzato i primi anni dell’indipendenza e la vocazio- ne dell’Istiqlal a essere partito unico. È interessante a questo proposito osservare come, per tutto il 1959, il conflitto interno al partito e al Governo si fosse trasformato in opposizione tra Governo e parti sociali: nella stampa di partito si parlava molto poco e con imbarazzo degli scontri interni al movimento nazionale, mentre il susseguirsi degli scioperi che bloccavano la vita politica ed economica nazionale veniva trattato con particolare enfasi.14 Gli incarichi di governo che Abk svolse alla fine della sua esperienza al Governo suggeriscono che, con il venir meno della corrispondenza tra il partito e lo Stato, le frontiere nazionali si stavano progressivamente spostando nella direzione della creazione di uno spazio politico plurale. 84 Dalle istituzioni al mercato nazionale: disciplina burocratica e disciplina finan- ziaria Oggi il nome di Abk è in genere associato a Maroc informations, quotidiano di infor- mazione economica che fondò insieme a due associati all’indomani della sua uscita dal Governo, nel dicembre 1960.15 L’interesse dell’iniziativa apparve evidente in un con- testo in cui il panorama mediatico era dominato dalla stampa di partito, che si era consolidata e diversificata nei primi anni dopo l’indipendenza, e dai titoli francofoni pubblicati fin dal protettorato da gruppi editoriali stranieri. Il fatto che la testata fosse specializzata in informazione economica fu un ulteriore elemento che rese il progetto degno di interesse. L’abrogazione del trattato di Fez nel marzo 1956, che sancì la con- clusione del protettorato francese sul Marocco, aveva riconosciuto alle autorità maroc- chine piena sovranità sul territorio andando a creare una cesura tra il «Paese legale» e il «Paese reale» simile a quella riscontrata da Bayart nell’analisi dello Stato in Africa (Bayart 2006): il tessuto economico, ampiamente dominato da interessi e investimenti stranieri risalenti all’epoca del protettorato, era forse l’ambito sul quale la sovranità ac- quisita dalle nuove autorità indipendenti si esercitava in maniera più fragile. Che fosse una personalità marocchina a fondare un giornale di informazione economica apparve come una novità senza precedenti. La linea editoriale esposta fin dal primo numero ben riassumeva la posizione che la testata intendeva assumere in tale panorama: «contribu-

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Interno 2-3-2016.indd 84 19/07/17 16:59 ire alla promozione dell’economia marocchina attraverso lo sviluppo del suo potenziale umano, sociale, tecnico e finanziario».16 La fondazione di Maroc informations fu uno degli elementi che confermarono e conso- lidarono la posizione che Abk aveva acquisito nello spazio pubblico, in particolare dopo la sua uscita dalla compagine governativa nel novembre 1958. L’aver preso le distanze prima dal partito e poi dalle istituzioni aveva conferito ad Abk un certo margine di ma- novra, e lo aveva posto in una posizione privilegiata per fondare e dirigere un giornale. Tuttavia, la maggior parte della documentazione risalente a quell’epoca che ritrovo nei suoi archivi non riguarda l’attività della redazione, ma una serie di affari di cui Abk iniziò a occuparsi fin dalla conclusione degli incarichi di Governo che gli vennero assegnati tra il 1959 e il 1960. Ripercorrendo la documentazione d’affari dell’epoca, che rimanda principalmente al mondo della finanza, riesco a ricostruire una cronologia piuttosto precisa delle attività in cui Abk si impegnò in parallelo alla fondazione di Maroc informations: in pochi mesi assunse la direzione generale di una banca privata la cui casa madre aveva sede a Tangeri e operava nella zona nord dell’ex protettorato spagnolo,17 divenne azionista di una compagnia di assicurazioni legata a un gruppo francese,18 partecipò alla costituzione di una società di ricerche e investimenti di ca- pitale a maggioranza americano19 e fu cooptato nel consiglio di amministrazione di una banca d’affari che faceva capo ad alcune grandi famiglie protestanti della finanza internazionale.20 Lo studio di tali dossier permette di ricostruire in maniera più precisa il tipo di attività in cui Abk era impegnato all’epoca e la complessa configurazione di rapporti nei quali era inserito. 85 L’opinione pubblica si interessa raramente delle attività finanziarie di Abk. Egli stesso, nel ricordare quel periodo della sua vita, afferma spesso che il giornale è stata la sua attività principale: quella in cui ha investito la maggior parte del suo tempo, delle sue energie e del denaro che aveva ereditato da suo padre, scomparso nel febbraio del 1959. Quando domando ad Abk maggiori dettagli sulle sue attività imprenditoriali, mi racconta di aver fatto ingresso in quei diversi affari non tanto per una scelta deli- berata quanto piuttosto in risposta alle proposte e alle sollecitazioni che gli capitava di ricevere. Al suo ritorno a Casablanca, a conclusione dei suoi incarichi di governo, Abk aveva 31 anni e conduceva una vita mondana molto attiva. I principali contesti in cui riceveva le proposte d’affari erano le serate, i club e i salotti che frequentava. Abk racconta che le crisi ministeriali, l’assunzione da parte del sovrano della Presidenza del Consiglio dei ministri, l’intensificarsi degli scioperi e il rafforzamento del potere nego- ziale dei sindacati avevano reso particolarmente fragile il clima degli affari. Pur avendo deciso di non riprendere gli affari di famiglia, Abk accettò le proposte d’affari che gli furono rivolte principalmente in ragione della sua conoscenza del funzionamento delle istituzioni marocchine e del suo capitale relazionale. In un contesto politico in rapido cambiamento, entrare in affari permise ad Abk di finanziare il giornale e di rafforzare i suoi legami, la sua conoscenza e la sua comprensione del mondo economico al quale la testata si rivolgeva.

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Interno 2-3-2016.indd 85 19/07/17 16:59 Ripensando al mondo economico dell’epoca, nella memoria di Abk riemergono le frat- ture che attraversavano la borghesia nazionale fin dai primi anni dopo l’indipendenza. Gli interessi economici e finanziari stranieri che si erano affermati durante il protet- torato (Gallissot 1990; Hatton 2009; Saul 2016) non erano stati rimessi in discussione dall’indipendenza. Le difficoltà a esercitare la sovranità in campo economico avevano portato le nuove istituzioni a sollecitare l’imprenditoria locale a investire in direzioni utili agli orientamenti politici promossi (Agourram, Belal 1970): in una situazione ca- ratterizzata da una penuria monetaria drammatica e da crescenti tassi di disoccupa- zione, era necessario favorire la produzione locale per limitare le importazioni e creare posti di lavoro. Dopo il recupero della sovranità monetaria, la razionalizzazione delle importazioni e delle esportazioni era inoltre stato un obiettivo strategico delle autorità nazionali per rafforzare le entrate dello Stato. Per questi fini venne creato un circuito di credito pubblico a sostegno degli investimenti produttivi e del commercio estero e fu introdotto un sistema di licenze all’importazione (Lahaye 1961). Abk ricorda che, nei primi anni dopo l’indipendenza, di tali opportunità di investimento e di arricchimento beneficiava quasi esclusivamente la borghesia commerciale di più antica affermazione, quella che aveva costituito la base finanziaria del partito dell’indipendenza fin dalla sua fondazione. Con la fine del protettorato, la borghesia tradizionale disponeva di risorse da investire e di legami di prossimità con le autorità nazionali che potevano dar luogo, in certi casi, a logiche che Gaxie (2005), riferendosi a tutt’altro contesto, ha 86 qualificato di «retribuzione della militanza». Abk mi racconta di diversi episodi in cui i borghesi che avevano finanziato il movimento nazionale si rivolgevano alle autorità quasi a «chiedere il conto» al nuovo Governo, creando molto imbarazzo tra i funzionari ed escludendo la borghesia di diversa estrazione geografica o di più recente ingresso nel mondo degli affari. Abk ricorda che il rapporto con la base finanziaria del partito fu uno degli elementi che contribuirono ad accentuare il divario tra la vecchia guardia, più vicina alla borghesia tradizionale per generazione e per sensibilità politica, e le nuove leve. La pubblicazione di un editoriale dall’eloquente titolo L’indipendenza non è un bot- tino che ci si divide, comparso sulle colonne del settimanale Al-Istiqlal, fu uno dei primi episodi espliciti di tale conflitto.21 La simpatia dimostrata da alcuni degli esponenti di spicco della nuova borghesia per lo schieramento politico che nacque dalla scissione del partito dell’indipendenza è da leggere in tale contesto. La vita mondana di quegli anni, che aveva avvicinato gli uomini d’affari stranieri a esponenti della borghesia nazionale di diversa estrazione, contribuì a rimettere in di- scussione tale frattura. A frequentare i club e le serate erano raramente i grandi nomi della borghesia tradizionale. Si trattava più generalmente di giovani benestanti appena entrati nel mondo degli affari, che non disdegnavano la vita sociale che si potevano permettere grazie alla loro fortuna in ascesa. Le sollecitazioni che ricevevano dagli uo- mini d’affari stranieri non domandavano investimenti finanziari cospicui, ma piuttosto una presenza costante e la disponibilità a fare da mediatori con una società in trasfor-

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Interno 2-3-2016.indd 86 19/07/17 16:59 mazione. Gli spazi economici che si aprirono in associazione con il capitale straniero, come quelli in cui Abk fece ingresso in parallelo alla sua attività giornalistica, contri- buirono quindi a ridefinire la gerarchia tra patrimoni di diversa estrazione e in diverso rapporto con le istituzioni nazionali. Il tessuto economico nelle mani degli stranieri permise occasioni di investimento e di arricchimento che sfuggivano alle logiche della militanza e che non dipendevano dalla disciplina burocratica richiesta dal funziona- mento delle istituzioni. Nella vita mondana di Casablanca, che era spesso all’origine di tali opportunità, poco importava la propria posizione rispetto al partito dell’indipen- denza o rispetto alle istituzioni, la propria provenienza nazionale non era considerata rilevante e l’origine del proprio denaro lo era ancora meno. In tali spazi non occorreva rispondere né al leader politico né al superiore in grado, ma la disciplina da seguire era quella legata al valore finanziario e non finanziario del denaro (Pinçon, Pinçon-Charlot 1998): i rapporti si giocavano sulla socialità permessa dal denaro e sulla capacità di fare da tramite tra mondi sociali diversi che si trovavano ormai a condividere lo stesso spazio economico e sociale. Le esperienze pregresse di militanza e di governo facevano di Abk un candidato par- ticolarmente ambito per le proposte d’affari. Le diverse attività in cui s’impegnò all’e- poca avevano in comune il fatto di svolgersi in settori economici che, a cinque anni dall’indipendenza, si rivendicavano marocchini, ma ancora ampiamente dominati da attori e capitale stranieri. L’associazione con il capitale straniero non permise soltanto di ridefinire il conflitto tra fortune di diversa estrazione, che propendeva a favore della 87 borghesia tradizionale fin quando le opportunità di arricchimento erano legate alle logiche di partito. Oltre a garantire cospicui guadagni senza comportare un investi- mento iniziale consistente, intrattenere rapporti sociali con i protagonisti della finanza internazionale era un modo per appropriarsi di spazi economici ancora dominati dal ca- pitale straniero. In un contesto in cui le autorità nazionali non riuscivano a rivolgere al settore della finanza più che inviti informali a tenere conto delle esigenze economiche del nuovo Stato indipendente,22 la mondanità aperta dal denaro facilitò l’ingresso nei gruppi assicurativi e finanziari di giovani marocchini che assunsero responsabilità cre- scenti. Informalmente e gradualmente, l’affermazione di personalità marocchine negli spazi economici degli stranieri permise di avviare un processo di nazionalizzazione di tali spazi, attraverso l’appropriazione privata e non attraverso la confisca da parte del pubblico. Le attività economiche non smisero necessariamente di essere di proprietà straniera, ma su di essi si estese progressivamente la sovranità nazionale in virtù della prossimità e della familiarità di esse con gli attori nazionali (Cerutti 2012). L’esperienza di Abk nel mondo degli affari contribuì così alla distinzione progressiva tra le istituzioni nazionali, che avevano cercato senza successo di costituire uno spazio economico at- traverso l’investimento pubblico, e il mercato nazionale, che si stava costruendo in ma- niera autonoma dalle spinte istituzionali, nonostante le forti pressioni in senso opposto.

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Interno 2-3-2016.indd 87 19/07/17 16:59 Dal mercato nazionale alla ragion di Stato: disciplina finanziaria e condotta patriottica A metà degli anni ’60, la carriera di Abk subì una netta virata. In pochi mesi, la società di ricerca e investimenti alla cui costituzione aveva partecipato uscì dagli affari e l’i- stituto di credito che aveva diretto negli anni precedenti venne posto sotto tutela delle autorità finanziarie nazionali dopo essere uscito dai parametri richiesti per esercitare l’attività bancaria. Nell’aprile 1966, Maroc informations sospese le pubblicazioni. Meno di sei mesi dopo Abk fu promosso alla direzione generale del principale strumento di politica monetaria del Marocco, la Caisse des Dépôts et de Gestion (CDG), in un periodo di importante rafforzamento delle sue mansioni: pochi mesi prima era stata costituita una società di partecipazioni collegata alla cassa, incaricata di far fruttare e ampliare il portafoglio azionario di quest’ultima.23 Due anni dopo fu nominato alla guida dell’Offi- ce du Commerce Extérieur (OCE), incaricato della nazionalizzazione delle esportazioni agricole e artigianali, istituito dal re Hassan II nel 1965 e direttamente associato da quest’ultimo alla linea politica che il sovrano intendeva promuovere per emancipare il Paese dagli interessi economici stranieri.24 Dopo essere pienamente rientrato nei ranghi dell’alta funzione pubblica grazie a questi due incarichi, all’inizio degli anni ’70 Abk fu investito di nuove responsabilità di primo piano: dapprima incaricato di rifondare la redazione dell’ultimo giornale coloniale per farne una testata vicina agli orientamenti governativi,25 fu poi designato ambasciatore a Bruxelles con il mandato di negoziare il 26 88 primo accordo commerciale tra il Marocco e la CEE. La documentazione dell’epoca rafforza l’immagine di discontinuità che emerge dall’av- vicendarsi di tali episodi. I dossier sugli affari s’interrompono bruscamente, i documenti che rimandano agli incarichi ufficiali sono relativamente poco numerosi e sono conser- vati in maniera frammentaria. Tanto lo studio della documentazione quanto le intervi- ste che conduco sul tema con Abk non lasciano dubbi sul fatto che dietro alla battuta d’arresto dei suoi affari e alla cessazione della pubblicazione del suo giornale vi fossero state forti pressioni politiche. La crisi di liquidità, che portò alla messa sotto tutela della banca, fu preceduta dalla chiusura repentina dei conti di deposito che una serie di importanti uffici pubblici avevano presso l’istituto di credito. A condurre all’uscita dagli affari della società di ricerca e investimenti sarebbero state continue pressioni per l’esclusione dal consiglio di amministrazione di una serie di personalità non gradite alla monarchia. Abk racconta della chiusura della redazione di Maroc informations come del colpo più duro che ricevette all’epoca. La linea del quotidiano era cambiata negli anni: la cronaca e la critica politica avevano progressivamente preso il posto dell’in- formazione economica, in un contesto caratterizzato dal generalizzarsi della censura e dal moltiplicarsi dei sequestri delle principali testate giornalistiche di proprietà dei partiti politici.27 Nel numero pubblicato il 27 aprile 1966, in un piccolo riquadro a metà pagina, si legge: «In seguito alla pubblicazione nel numero del 23-24 aprile di un’in- tervista ad Ali Yata [segretario del Partito comunista marocchino decretato illegale], il

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Interno 2-3-2016.indd 88 19/07/17 16:59 nostro giornale del 26 aprile è stato vittima di confisca. Ci scusiamo con i nostri lettori di questa sospensione involontaria, e protestiamo energicamente contro questo nuovo attacco alla libertà di stampa».28 Dopo ripetute pressioni, episodi di censura e continui piantonamenti della redazione da parte delle forze dell’ordine, quello rimase l’ultimo numero che il giornale riuscì a pubblicare. La natura repressiva di tali episodi aggiunge alla discontinuità un’apparente incoerenza: come spiegare la concomitanza dell’esclu- sione e della promozione, della repressione e della ricompensa, nella traiettoria di uno stesso attore? Nel raccontare il suo repentino cambio di percorso Abk ha la tendenza ad affermare con una certa amarezza di essere stato «recuperato». Tale termine ben esprime la logica di cooptazione alla quale Abk riconduce la sua inversione di rotta: «Come le farfalle che girano intorno a una luce: se ci si avvicina troppo ci si brucia» ripete spesso, come se si fosse trattato di un braccio di ferro tra lui e il re. Una ricostruzione più accurata delle circostanze politiche in cui avvengono la crisi dei suoi affari e la sua repentina promozione suggerisce che tale percorso non sia affatto eccezionale. Il 1963 si aprì con la nomina di un Governo in cui per la prima volta non sedeva nemmeno un ministro del partito dell’indipendenza: il potere era nelle mani di un gruppo di tecnocrati e di militari particolarmente fedeli al re. Nel mese di marzo avvenne il più grave episodio di repressione dall’indipendenza del Paese, a margine di manifestazioni studentesche, il cui numero di vittime è ancora oggi imprecisato. I leader del partito dell’UNFP furono accusati di aver organizzato un complotto contro lo Stato e vennero condannati a mor- 89 te in contumacia. Dopo ripetuti episodi di repressione, nel giugno 1965 il sovrano sciol- se il Governo e proclamò lo stato d’emergenza, assumendo i pieni poteri. Il 29 ottobre Mehdi Ben Barka, leader dell’indipendenza a capo della scissione del partito, che negli ultimi anni aveva guidato dall’esilio l’attività politica della sinistra radicale, scomparve a Parigi e venne dichiarato morto dopo alcuni mesi.29 L’instabilità politica si ripercosse drammaticamente sulla situazione economica: l’incertezza crescente convinse molti investitori stranieri a cercare interlocutori affidabili a cui cedere gli affari. In un clima di arbitrio crescente e indiscriminato, accettare gli incarichi che gli furono proposti dopo essere stato allontanato dalle sue attività fu per Abk un modo per continuare ad avere un ruolo nello spazio pubblico.30 Abk ricorda il cedimento progressivo delle norme sociali, giuridiche ed economiche che si erano andate affermando nei decenni precedenti e come tale circostanza avesse portato alla radicalizzazione delle fratture sociali. Non si trattava di conflitti che op- ponevano gruppi dai contorni stabili e facilmente distinguibili per estrazione o com- posizione sociale, ma di contrasti che si venivano a creare tra diversi modi di intendere e vivere le interazioni sociali e il rapporto con le diverse forme di autorità. I crescenti margini di arbitrio indebolirono la disciplina militante, la disciplina burocratica, e per- sino la disciplina finanziaria che si erano affermate nei decenni precedenti. Nel mondo politico e nel Governo le logiche clientelari sostituirono progressivamente la lealtà e la

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Interno 2-3-2016.indd 89 19/07/17 16:59 certezza dei rapporti fondati sulle esperienze condivise. Negli affari la logica del dono iniziò a prevalere su quella dello scambio, le obbligazioni che il dono comportava resero più fragili i legami di fiducia costruiti attraverso gli scambi. L’affermarsi della corte sul mondo politico ed economico dell’epoca si giocò in buona parte in tale clima, in cui le repentine trasformazioni sociali potevano ribaltarsi con la stessa rapidità.31 Si può forse spiegare in questi termini il fatto che i crescenti benefici in cambio dei quali il sindaca- to aveva accettato di garantire la “pace sociale” non avessero impedito l’incarcerazione del suo principale leader nel 1965. Anche i due tentativi falliti di golpe militare, nel 1971 e nel 1972, dopo che i militari sono stati per tutta la seconda metà degli anni ’70 tra i principali beneficiari di tali circostanze, possono essere letti in tal senso. In un clima di arbitrio crescente si faceva fortuna con la stessa rapidità con cui si cadeva in disgrazia, le alleanze cambiavano con la stessa fluidità con la quale si costituivano e la convenienza e il disaccordo potevano essere simultanei. Abk racconta che «tutti ne approfittavano, ma tutti si lamentavano». La violenza si fece quotidiana e si perse ogni forma istituzionalizzata di gestione del conflitto. La nuova centralità della corte fu l’unico elemento che contribuì a dare una certa stabi- lità agli schieramenti che si strutturarono attorno a quest’ordine, rispetto al quale ogni conflitto venne ridefinito come nazionale. La promulgazione dello stato d’emergenza portò a un rinnovamento del discorso sul nemico esterno, che funse da argomento di legittimazione per estendere i confini della sovranità nazionale tanto sul piano econo- 90 mico, con la nazionalizzazione delle esportazioni del 1965, quanto su quello culturale, con la confisca dell’ultimo importante giornale coloniale nel 1971, quanto su quello territoriale, con l’occupazione simbolica dei territori del Sahara occidentale ancora sot- to giurisdizione spagnola grazie alla Marcia verde del novembre 1975. Il discorso con il quale Hassan II trasformò l’aggravamento delle tensioni sociali in una responsabilità degli interessi economici coloniali per giustificare la nazionalizzazione delle esporta- zioni è emblematico di tale tendenza: «Nel mio ultimo discorso ti avevo detto che dopo dieci anni i benefici che hai tratto dall’indipendenza non sono stati commisurati ai tuoi sacrifici. In un Marocco ricco i marocchini sono rimasti poveri. I lavoratori hanno godu- to dei benefici morali della libertà e dell’indipendenza, ma non hanno potuto accedere ai suoi vantaggi materiali ed economici».32 Ogni conflitto sociale e politico cominciò così a essere presentato come un conflitto esterno: opporsi, o semplicemente non al- linearsi, era un comportamento da nemici della patria. La strategia adottata contro chi non si adeguava alla ragion di Stato non era però quella dell’eliminazione: in tutti questi casi il potere non «distrugge» ma «raddrizza» e «rimette al passo», come Abk mi racconta spesso. La profonda conoscenza di Abk dello spazio pubblico e del tessuto imprenditoriale stra- niero ne fecero un candidato molto apprezzato per i ruoli di responsabilità che gli furono proposti. Sarebbe riduttivo ricondurre le successive promozioni di Abk a una semplice strategia di cooptazione alla quale non sarebbe stato in grado di resistere. Le

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Interno 2-3-2016.indd 90 19/07/17 16:59 sue designazioni a ruoli di responsabilità sempre più importanti suggeriscono che la strategia scelta fu quella dell’associazione dello Stato con il mondo privato. L’idea non fu quella di sostituire il capitalismo privato con quello pubblico in campo economico né quella di affermare l’autorità pubblica in campo culturale o territoriale, ma quella di associare il pubblico al privato affinché la condotta di quest’ultimo potesse essere «raddrizzata» e «rimessa al passo» rispetto alla ragion di stato che si andava afferman- do. Emblematico appare a questo proposito il fatto che gli affari di Abk nella società di partecipazioni, che negli anni successivi ebbero crescente successo, furono la sua unica attività economica che venne risparmiata all’epoca delle sue concomitanti punizioni e promozioni: perché privarlo di un’attività finanziaria fruttuosa e prestigiosa, se i ruoli pubblici che era chiamato a esercitare ne avrebbero potuto beneficiare? Nella distin- zione tra mercato nazionale e ragion di stato si aprirono così nuovi spazi di sovranità prima preclusi allo Stato in campo economico. L’allontanamento di Abk dal resto dei suoi affari, i ripetuti conflitti che si trovò ad affrontare nell’esercizio delle funzioni pubbliche a lui attribuite, e le sue conseguenti dimissioni, suggeriscono però che non bastava trovarsi a operare nello Stato né per farsi portatori della ragion di stato né per poterne beneficiare: nonostante il peso crescente della disciplina patriottica, restava un margine di libertà che gli attori potevano scegliere di conservare se erano disposti ad affrontarne i costi personali.

Esperienza discreta della statualità e riconfigurazione neoliberale dello Stato 91 Un consolidato dibattito storiografico insiste sulla necessità di «salvare la storia dalla Nazione» (Duara 1996) o, più generalmente, dai grandi paradigmi interpretativi che tendono a ricondurre il divenire storico a un percorso coerente e teleologico.33 Riper- correre l’esperienza singolare che Abk ha avuto della formazione nazionale è un modo per prendere le distanze dalla coerenza che contraddistingue il racconto della storia nazionale e andare a indagare le manifestazioni disgregate, incoerenti e disarticolate che si possono ricostruire di tale fenomeno. Questo metodo di lavoro mi ha permesso di esplorare la Nazione come un campo dai contorni instabili, variabile a seconda della concatenazione di connessioni tra periodi, attori e fenomeni che una singola traccia poteva suscitare, e di osservarne le ripercussioni sul processo di formazione dello Stato. L’esperienza riflessiva che ho condiviso con Abk è diventata a sua volta una fonte per esplorare diverse concezioni del mondo, stati d’animo, emozioni e traumi che alcune esperienze passate possono provocare nel presente. Queste diverse maniere di entrare in rapporto con il passato sono metonimiche dei conflitti, dei rapporti di potere, delle logiche di dominio che caratterizzano l’esperienza nazionale, che si costituisce attor- no alla dialettica continua tra memoria collettiva ed esperienze individuali. Pensare la Nazione in questi termini mi ha consentito di avvicinarmi alla statualità da una prospettiva discreta.34 Tale espressione mi permette di mettere in luce tre livelli di analisi generalmente trascurati nella comprensione dello Stato-Nazione: quello della

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Interno 2-3-2016.indd 91 19/07/17 16:59 statualità come esperienza discontinua, presupponendo l’indefinitezza costitutiva delle frontiere nazionali e la loro continua rinegoziabilità; quello della statualità come espe- rienza marginale, prendendo in considerazione la pluralità dei modi e degli spazi per fare politica non riconducibili a ciò che avviene al centro della scena pubblica e il loro carattere mutevole e congiunturale; quello della statualità come esperienza personale, andando a osservare la tensione tra ricordi personali e memoria collettiva e a esplorare come si può partecipare di un paradigma egemonico come quello nazionale sulla base di un’esperienza personale della Nazione. Le tracce che ho seguito rimangono ai margini di ciò che Halbwachs (1997) chiama i «quadri sociali della memoria», non godono di riconoscimento pubblico, ma sopravvivo- no nell’intimità di Abk e degli attori che le hanno vissute o condivise con lui. Il ricordo non è sempre nitido nemmeno per i protagonisti: all’effetto della distanza temporale, che contribuisce a offuscare la memoria, si unisce quello ben più rilevante della manie- ra consolidata di pensare la storia nazionale, che porta a considerare trascurabili e privi di importanza i fenomeni che non vi si possono ricondurre e, quindi, in un certo modo a dimenticarli (Dakhlia 1990). Si può trattare anche di ricordi che tormentano chi li conserva, perché suscitano un sentimento doloroso e traumatico di disfatta, di perdita, di scomparsa di una comunità politica vissuta altrimenti, a cui si aggiunge la solitudine legata alla fragilità del senso di appartenenza che essa suscita. Il fatto che, anche in seguito all’indipendenza, la tradizione storiografica nazionale abbia continuato a oc- cuparsi prevalentemente del periodo pre-coloniale ha portato a trascurare tali fenome- 92 ni anche sul piano dell’analisi, lasciando ampio margine alla storiografia nazionalista, prima, agli storici ufficiali, poi, e infine alle istanze di giustizia di transizione, nella definizione degli episodi e delle fasi considerati rilevanti per raccontare e interpretare la storia nazionale. Il diritto di parola è riconosciuto ai testimoni privilegiati dei conflitti ritenuti fondatori delle diverse fasi della storia nazionale: la storiografia nazionalista si concentra sui leader del movimento nazionale considerati gli eroi del conflitto co- loniale; la storia ufficiale si concentra prevalentemente sulle personalità di Mohamed V, Hassan II e Mohamed VI, i tre sovrani che si sono succeduti sul trono del Marocco e che hanno guidato rispettivamente la contesa per l’indipendenza nazionale, la battaglia per l’integrità territoriale e la lotta per affermare una nuova maniera di governare; le istanze di giustizia di transizione hanno, infine, permesso di dare voce agli oppositori che si sono battuti contro l’autoritarismo e che oggi sono pubblicamente riconosciuti come le vittime degli “anni di piombo”. La doppia assenza, dalla memoria collettiva e dal discorso storiografico, di esperienze che rimandano alla natura discreta della statualità è particolarmente rilevante nella costruzione del discorso pubblico sulla transizione politica che si è sviluppato in Ma- rocco a partire dagli anni ’90 e si è andato amplificando con la successione al trono del 1999 (Vairel 2007). Il processo di giustizia di transizione avviato dal sovrano Mohamed VI nel 2004 si basa sulla denuncia dell’oppressione dello Stato sulla società che avrebbe caratterizzato il Marocco dall’indomani dell’indipendenza, rivendicando così la necessi-

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Interno 2-3-2016.indd 92 19/07/17 16:59 tà di un progressivo ritiro dello Stato, tanto sul piano politico quanto su quello econo- mico, per garantire la piena emancipazione della società. All’unico conflitto ammesso fino a quel momento – quello contro il nemico esterno – si è andato così aggiungendo un nuovo conflitto fondatore: quello che oppone lo Stato alla società (Sater 2007). Nel- la definizione di tale conflitto autoritario come legittimo si possono riscontrare limiti simili a quelli che caratterizzano il conflitto contro il nemico esterno: entrambi riman- dano a una visione monolitica e reificata dello Stato e a una concezione teleologica del suo processo di formazione. Tali caratteristiche portano oggi a pensare al momento neoliberale come a un momento che favorisce la liberazione della società dallo Stato.35 Osservare i conflitti che emergono dall’esperienza di Abk aiuta a comprendere la rile- vanza di attori e spazi privati nel processo di formazione dello Stato, senza considerarla una specificità del momento neoliberale (Hibou 1999). L’importanza dell’informalità nell’edificazione delle istituzioni governative, della mondanità e degli interessi perso- nali nell’affermazione di sovranità degli spazi economici, e della continua negoziabilità dei rapporti alle diverse forme di autorità non appaiono dinamiche che sottraggono spazio allo Stato, ma si rivelano costitutive del suo processo di formazione e contri- buiscono a modificare le frontiere dell’esercizio della sovranità nazionale. Guardando all’epoca contemporanea, in cui lo Stato è immaginato in una forma minima, prendere in considerazione le pratiche del governo discreto, così come suggerito dalle esperienze di Abk, può rivelarsi un’operazione di particolare rilevanza. La non-visibilità di pratiche costitutive dei processi di governo, benché raramente pensate come tali, è un elemento fondamentale del processo di legittimazione dello Stato neoliberale. Tali pratiche sono 93 rivelatrici della natura intrinsecamente conflittuale della statualità, fatta di opposizioni continue tra diverse concezioni del mondo e diverse maniere di pensarsi e comportarsi all’interno della società.36 A differenza di quei conflitti interpretati come fondatori, i conflitti costitutivi della statualità attraversano la società senza che sia possibile relegarli al suo esterno. La difficoltà a riconoscere questi fenomeni come costitutivi dello Stato deriva forse dal fatto che, come suggeriva Pavone (1991: 223) riferendosi alla reticenza a interpretare la resistenza italiana in maniere diverse da una mera lotta per la liberazione contro il nemico esterno, «il fatto stesso della guerra civile reca in sé qualcosa che alimenta la tendenza a seppellirne il ricordo».

Irene Bono è Ricercatrice in Scienza Politica presso il Dipartimento di Culture, Politica, Società (DCPS) dell’Università di Torino, e Chercheure associée al Centre de Recherche Economie, Société Culture (CRESC) Université Mohamed VI Polytechnique, Rabat

NOTE: 1 - L’espressione «biografia nazionale» è proposta da Antonio Gramsci in ripetute note dei Quaderni del car- cere, in riferimento al Risorgimento italiano. Per un’analisi critica dell’espressione si rimanda a Imbornone (2009). 2 - Queste tendenze non hanno nulla di specifico al Marocco ma si riscontrano più generalmente negli usi

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Interno 2-3-2016.indd 93 19/07/17 16:59 della biografia nelle scienze sociali. Su questi aspetti, si vedano in particolare Levi e Olivier (1989), Dosse (2005), Loriga (2012), Bayart (2014). 3 - Un lavoro particolarmente utile per affrontare il carattere negoziale della Nazione è Brubaker (1996). Per problematizzare la duttilità delle frontiere di altri tipi di gruppi costruiti come tali su basi considerate oggettive, si rimanda per analogia a Barth (1969) e a Kopytoff (1987). 4 - Tale documentazione, qui di seguito indicata come Fondo Abk, è composta da circa 4.100 dossier, 1.000 fotografie e alcune collezioni di giornali e riviste dell’epoca. Parallelamente alla mia analisi, ho condotto la riorganizzazione archivistica e la digitalizzazione di tale documentazione. Un archivio digitale che permetterà la consultazione di tale materiale è in corso di realizzazione grazie a un progetto promosso in maniera congiunta dal CRESC dell’Université Mohamed VI Polytechnique e dal DCPS dell’Università di Torino. 5 - Tengo a ringraziare Yasmine Berriane, Aymon Kreil e Philipp Casula per la ricca discussione che ho potuto avere su questo approccio nel seminario Snapshots of Change. Assessing Social Transformations in Qualitative Research, Università di Zurigo, 23-24 ottobre 2015. 6 - Fondo Abk, CA04/4-11; CA09/8-9-10; CA13/4-9, Dossiers Ministère du Commerce, 1955-1959. 7 - Si vedano, tra gli altri, l’intervista Une nécessité pour le Maroc. Augmenter ses marchés extérieurs et ses sources d’approvisionnement, «La vie française édition marocaine», n. 1865, 13 dicembre 1957, e l’articolo Le nouvel accord commercial maroco-soviétique, «Al Istiqlal», n. 105, 11 maggio 1958. 8 - Fondo Abk, CA10/06, Mission pour la sortie de la zone Franc et la récupération de la Banque d’Etat du Maroc, 1958-1959. 9 - Fondo Abk, CA21/7, Commission économique des Nations Unies pour l’Afrique, 1959-1960. 10 - Fondo Abk, CA02/15, Conférences méditerranéennes de Florence, 1959-1961. 11 - Espressioni usate in più documenti contenuti in Fondo Abk, CA04/19, Correspondance diverse, 1959. 12 - Crise au sein du gouvernement ou de l’Istiqlal?, «Combat», 24 novembre 1958. 13 - Sulla stampa dell’epoca si trova un’ampia copertura di tali episodi. Si vedano, per esempio: Un tournant capital pour l’économie marocaine. Le nouveau tarif douanier, «Le Petit Casablancais», n. 1838, 8 giugno 1957; Les nouveaux tarifs douaniers et leurs incidences, «Al Istiqlal», n. 62, 8 giugno 1957. 14 - Di cui si trova ampia copertura sulle pagine del settimanale Al-Istiqlal. Si veda, per esempio, La situation syndicale au Maroc, «Al Istiqlal», n. 166, 16 aprile 1960. 15 - Maroc informations è un quotidiano di informazione economica fondato il 4-5 dicembre 1960, che riprende il formato e la pagina delle inserzioni di Stocks et Marchés, il giornale del porto di Casablanca 94 fondato durante il protettorato. Nel Fondo Abk sono conservati 8 degli 11 volumi che raccolgono la collezione semestrale del quotidiano. Ho potuto consultare i volumi mancanti alla Bibliothèque nationale de France (BNF). La collezione completa del giornale fa parte del materiale che sarà disponibile nell’archivio online in corso di realizzazione. 16 - Editoriale, «Maroc informations», n.1, 4-5 dicembre 1960. 17 - Fondo Abk, CA04/35, Dossier BMEE, 1960-61. 18 - Fondo Abk, CA12/06, Dossier Comassur-Aceca, 1960. 19 - Fondo Abk, CA08/07, Dossier MADCO, 1961-62. 20 - Fondo Abk, CA08/13, Dossier CPM, 1960. 21 - M. Ben Barka, L’indépendance n’est pas un butin qu’on partage, «Al-Istiqlal», n. 61, 1 giugno 1957. 22 - Come l’invito rivolto dal ministro dell’Economia in occasione della «colazione delle banche». Si veda: M. Douiri au déjeuner des banques: il faut instituer une structure bancaire nationale, «Maroc informations», n. 273, 28 ottobre 1961. 23 - Fondo Abk, CA10/07, Dossier CDG, 1966-68. 24 - Fondo Abk, CA04/08, Dossier OCE, 1969-1970. 25 - Le Petit Marocain, fino a quel momento di proprietà del gruppo editoriale Mas, prende il nome diLe Matin du Sahara. 26 - Fondo Abk, CE01, Dossier Bruxelles, 1973-1976. 27 - Per indicare il cambio di linea editoriale, il sottotitolo del quotidiano abbandona la dicitura «Quotidien économique, financier, maritime» per diventare «Quotidien maghrébin» fin dal numero 269 del 24 ottobre 1961. 28 - «Maroc informations», n. 1612, 27 aprile 1966. 29 - La storiografia su questa fase della storia marocchina è ancora molto fragile e frammentaria. Le principali fonti per ricostruire tali episodi sono costituiti dalla memorialistica e dalla saggistica di denuncia pubblicate a partire dagli anni ’90. Si vedano, tra i più recenti, Daoud (2007) e Buttin (2010). 30 - Questa analisi critica della cooptazione si avvicina per analogia a quella che Hibou e Tozy (2000) propongono della corruzione, altra pratica oggi condannata in maniera generalizzata. 31 - Il primo a denunciare esplicitamente il ruolo del re in tale congiuntura storica è stato Perrault (1990); sempre tra la saggistica di denuncia, più precisamente sul clima generalizzato di arbitrio negli affari si veda Diouri (1992).

Le pratiche dello Stato in Africa: spazi sociali e politici contestati

Interno 2-3-2016.indd 94 19/07/17 16:59 32 - Questo passo del discorso con cui Hassan II annuncia la nazionalizzazione delle esportazioni, è stato pubblicato da «Maroc informations», n. 1367, 2 luglio 1965. 33 - Su questo tema vedasi Levi (1985); Colonna, Le Pape (2010); Bayart J-F., Comparer par le bas, in «Sociétés politiques comparées», n. 1, gennaio 2008: http://fasopo.org/sites/default/files/papier1_n1.pdf. 34 - Questa è la proposta analitica della monografia sul carattere discreto del Governo in Marocco che sto elaborando a partire dalle tracce di Abk, di prossima pubblicazione. I lavori di Levi (1985), Duara (1996), Tozy (1999), Bayart (2006) e Hibou (2011) mi sono stati particolarmente utili per l’elaborazione di tale approccio. 35 - La letteratura sul tema è molto ampia, ben al di là del caso marocchino. Tra i più recenti contributi sullo Stato neoliberale in Nord Africa che problematizzano questa visione reificata, si veda Guazzone, Pioppi (2012). 36 - Prendere in considerazione tali pratiche nei processi di governo del sociale è la proposta analitica di Bono, Hibou (2016).

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Interno 2-3-2016.indd 96 19/07/17 16:59 “Diritto di fatto alla città”. Soggettività dei cittadini sfollati o ricollocati e riordino neoliberale dello spazio a Città del Capo e Lomé Marianne Morange, Amandine Spire

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In numerose città africane in cerca di competitività, la nuova pianificazione strategica urbana legata agli sforzi d’inserirsi nella globalizzazione economica accelera gli sfratti e le delocalizzazioni delle popolazioni e delle attività giudicate non adatte ai territori vetrina (Bénit, Gervais-Lambony 2003) o emergenti (Morange 2011), specialmente nei centri città in via di rigenerazione urbana. Il commercio di strada è oggetto di pro- grammi di regolarizzazione e si tenta di confinarlo all’interno di mercati. Inoltre, alcuni grandi progetti urbani infrastrutturali provocano trasferimenti di popolazioni e attività economiche. Negli studi urbani critici d’ispirazione neomarxista, l’imposizione di questo nuovo ordine spaziale è interpretata come il risultato di un progetto politico d’estensio- ne e consolidamento del neoliberismo delle élite urbane (Harvey 1989, 2007, 2012; vedi anche le analisi di Miraftab 2007 su Città del Capo). Parallelamente, si sviluppa una letteratura sul “diritto alla città” come scudo contro la neoliberalizzazione (Brenner et al. 2009), abbastanza vicina all’utopia sperimentale di Henri Lefebvre (1968) riattivata e interpretata a partire dagli anni 2000. Secondo tale letteratura, i progressi della neoliberalizzazione sono legati alla forza di repressione da parte dello Stato di pratiche e usi dello spazio considerati come devian- ti o indesiderabili ai fini dell’accumulazione capitalista. Quest’approccio negativo del

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Interno 2-3-2016.indd 97 19/07/17 16:59 potere (inteso come ciò che obbliga, che limita, specialmente attraverso la legge e i regolamenti urbani) risulta affascinante per spiegare la convergenza delle traiettorie di città molto diverse verso progetti neoigienisti ed elitari molto simili, che costitu- irebbero il destino comune delle società urbane africane post-coloniali. Il potere di riordinare lo spazio è di competenza, in gran parte, della sfera pubblica e non si tratta certo di negare la forza normativa delle leggi. Questo vale ancora per le città africane. Tuttavia, questi quadri normativi e giuridici vengono quotidianamente attuati, aggior- nati, applicati (o trasgrediti e contestati) nelle e dalle pratiche cittadine. L’ipotesi di quest’articolo è che i cittadini si reinventino un posto nella città all’interno del nuovo sistema di costrizioni che inquadra e regola le loro pratiche. In altre parole, s’ipotizza che la neoliberalizzazione metta in moto dei processi per ridefinire quale sia il giusto posto dei cittadini nella città di cui sono parte attiva e non solo vittime passive. A que- sto proposito parliamo di un “diritto di fatto alla città”. Questa nozione ha per noi valore di categoria esplorativa. Mira ad arricchire la nostra comprensione della neoliberalizzazione a scala urbana intendendola non come un pro- cesso di diffusione verticale, ma considerando il modo in cui si diffonda orizzontalmen- te nel corpo sociale e nelle pratiche quotidiane attraverso il consolidamento di nuove norme. S’ipotizza che queste nuove soggettività emergano attraverso un processo pro- duttivo per mezzo del quale i cittadini ridefiniscono le modalità della loro appartenen- za alla città grazie a nuove norme di “buona condotta” in città. Il soggetto è inteso 98 come produttivo e attivo nel senso in cui lo intende Pierre Macherey nella sua lettura foucaultiana delle norme (2011: 77): «essere “assoggettato”, non però nel senso della sottomissione a un ordine esteriore che suppone una relazione di pura dominazione, ma nel senso dell’inserimento degli individui, di tutti gli individui senza eccezioni né esclu- sione, in una rete omogenea e continua, in un dispositivo normativo, che, producen- doli o piuttosto riproducendoli, li trasforma in soggetti». Questi processi si appoggiano per noi sulla trasformazione materiale molto concreta dello spazio e delle disposizioni socio-spaziali provocate dalle politiche pubbliche neoliberali. Abbiamo scelto di osservare come si ricompongono le pratiche ordinarie dei cittadini trasferiti o ricollocati nello spazio pubblico nei momenti di post-crisi (post-espulsione, riconfigurazione di uno spazio), per esaminare i modi di riadattamento che si fanno strada in questi momenti di ri-creazione di un ordine spaziale e sociale: in che modo i cittadini riconfigurano un posto in città, quando le cose si ri-creano e si ri-stabilizzano? Si cerca di identificare le nuove regolarità spaziali e sociali che procedono al riordino dello spazio urbano grazie alla quotidianità delle pratiche, per individuare l’emergere di razionalità, in relazione con gli usi sociali ordinari dello spazio. Questa visione attraver- so lo spazio permette di integrare gli approcci antropologici che analizzano i processi di elaborazione di norme a partire dagli ambienti sociali (vedi su questo stesso numero il lavoro sulle “norme pratiche” di Olivier de Sardan nel settore medico-sanitario in Niger).

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Interno 2-3-2016.indd 98 19/07/17 16:59 Le nostre ricerche etnografiche s’ispirano alla micro-sociologia delle pratiche e sono fondate sui dispositivi dell’intervista e dell’osservazione che permettono di far vedere e capire le razionalità pratiche su una scala micro-locale. Il carattere molto circoscritto delle analisi dà loro una portata esplorativa. Le ricerche1 sono state condotte a Città del Capo e a Lomé, due città le cui divergenze in termini di traiettorie politiche permettono d’interrogarsi sull’elaborazione delle norme in contesti politici contrastanti: a Città del Capo, il Governo locale si è fortemente impegnato in un’agenda di rigenerazione urbana neoliberale e opera in un contesto democratico post-apartheid; a Lomé, la rigenera- zione imprenditoriale è meno avanzata ma la capitale sta conoscendo grandi sforzi di “modernizzazione”, in un contesto di ritorno dei finanziatori e di centralizzazione statale autoritaria. Nella prima parte, s’individuano i limiti degli approcci esistenti al diritto alla città, inteso come baluardo contro il neoliberismo. La seconda parte sviluppa la nozione di “diritto di fatto alla città” e le promesse analitiche che contiene. La terza e la quarta parte presentano i casi di studio.

Il “diritto alla città” come baluardo contro la neoliberalizzazione e le “forze del mercato” La letteratura sul “diritto alla città”, essenzialmente anglofona e centrata sulle città del Nord,2 si sviluppa in cinque assi. Tutti forniscono una visione analoga del potere. Il primo studia i movimenti sociali, sempre più numerosi nel Nord e nel Sud, che riven- dicano apertamente il “diritto alla città” nel contestare il neoliberismo. Ci s’interroga 99 sulla portata di questo slogan politico, sul suo potenziale emancipatore e sulla sua efficacia nel federare i collettivi in lotta (Uitermarket al. 2012). Si suppone qui una concezione conflittuale del potere che oppone lo Stato (che detiene il potere; che lo esercita) e i cittadini (in lotta contro il potere; che cercano di prendere il potere). Que- sta letteratura tende a insistere sui fenomeni di resistenza e sul potenziale liberatore del “diritto alla città”, forse in uno sforzo performativo e auto-realizzatore. Un secondo asse, legato alle ricerche della geografia radicale neomarxista e vicino al testo di Henri Lefebvre, considera il «diritto alla città» come un programma politico di lotta contro il neoliberismo (vedi Holm 2010 per una prospettiva teorica). I membri del progetto “cities for people not for profit” discutono così degli agenti politici del cam- biamento (Brenner et al. 2009; Marcuse 2009) e delle forme di urbanistica alternativa come espressioni politiche sovversive contro il potere delle élite urbane capitaliste.3 Marie Huchzermeyer (2011), rovesciando lo slogan della Banca Mondiale delle città “senza baraccopoli”, sostiene l’urgenza di attuare il diritto all’occupazione sancito dalla legge sudafricana per proteggere gli occupanti. Per questi studiosi, la neoliberalizzazio- ne deriva dalla violenza che lo Stato capitalista esercita contro le classi sociali sfruttate ed emarginate. Nel mezzo tra i due dibattiti, si trovano i lavori teorici di Mark Purcell (2002, 2003) sulla cittadinanza urbana e la democrazia locale. Egli mette l’accento sulla “local trap”

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Interno 2-3-2016.indd 99 19/07/17 16:59 e sulle limitazioni scalari della rivendicazione per il “diritto alla città”: quest’ultima mette in secondo piano le zone rurali ed è pensata su scala micro-locale. Come ci si può assicurare, in queste condizioni, che il “diritto alla città” sia progressista e non strumentalizzato nelle lotte nimby (not in my back yard)? Purcell si pone così il proble- ma dell’efficacia e delle possibilità concrete di realizzazione di questo diritto: chi deve esercitarlo, chi è legittimato a farlo e in che misura? Egli s’interroga sulle dinamiche di potere in termini di rapporti di forza, di negoziazioni ma anche di riconoscimento politico. Una quarta branca della letteratura s’interessa ai rapporti tra il “diritto alla città” e la legge. In essa Don Mitchell, che ha rilanciato il concetto di “diritto alla città” già all’i- nizio degli anni 2000 per denunciare l’aumento della gentrificazione, dell’esclusione e della privatizzazione nello spazio pubblico delle città nord-americane, studia la nega- zione del “diritto alla città” per i poveri e le minoranze attraverso il diritto e l’esercizio della legge: quando i tribunali decidono in favore dei proprietari contro gli usi sociali dello spazio, che mettono a repentaglio il valore di scambio dei loro beni immobiliari (Mitchell 2005); quando un apparato statale di sorveglianza permette di bandire dalle strade gli indesiderabili (Mitchell 2003). Diversamente, ma sempre interrogandosi sul rapporto del “diritto alla città” con la legge, Lopez de Souza (2001) e Fernandes (2007) mostrano come lo Stato brasiliano, pioniere in questo campo, si è impadronito della nozione di “diritto alla città” per codificarla e darle un contenuto legale, e con quali 100 difficoltà l’abbia fatto. Parallelamente, si sviluppa una letteratura che riguarda più specificatamente le città del Sud in cui il “diritto alla città” si riferisce a sfide classiche dello sviluppo. In questo corpus, esso smette d’essere un’utopia sperimentale un po’ tautologica (il “diritto alla città” che si realizzerebbe poiché costantemente rivendicato e reinventato) e diventa un orizzonte accessibile, un obiettivo misurabile, ossia quantificabile. Si possono così definire alcuni indicatori del “diritto alla città” per vedere se viene realizzato o meno e in che misura (Zérah et al. 2011; Parnell, Pieterse 2010). I settori in cui si realizza sono chiaramente identificati e di due ordini: l’accesso alle risorse urbane, in linea con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio; la partecipazione democratica, uno dei pilastri della good governance imposta al Sud dalla Banca Mondiale. Si tratta della partecipazione come un processo istituzionalizzato, ben lontano dall’appropriazione della produzione dello spazio da parte dei cittadini invocata da Henri Lefebvre. L’oggetto in questione è il riconoscimento sostanziale o procedurale dei cittadini poveri da parte dello Stato. Questi studi hanno in comune il fatto di interrogarsi sulla relazione tra cittadini e Sta- to, sia in termini di riconoscimento che di opposizione, due processi che rientrano alla fine in una stessa dinamica. Tali ricerche privilegiano la questione dell’azione pubblica (buona o cattiva, che si combatte, che si vuole modificare). Esse focalizzano l’attenzio- ne sulle lotte, le resistenze o l’uscita dal neoliberismo. Ciò porta a interessarsi ad alcune città e spazi in cui la rivendicazione per il “diritto alla città” è forte (il Nord, l’America

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Interno 2-3-2016.indd 100 19/07/17 16:59 Latina, i Paesi emergenti) e a trascurare l’Africa sub-sahariana le cui società urbane non oppongono resistenza in massa e in ogni caso non sulla base di questo slogan (ma più per questioni legate alla democratizzazione). Mettendo l’accento sulle mobilitazioni collettive, questa letteratura privilegia i tempi forti dei conflitti sociali della vita urbana e dialoga poco con gli studi sugli usi dello spazio che s’interessano alle pratiche ordina- rie. Avremmo, così, da un lato una geografia politica delle lotte urbane, che si mescola con le scienze politiche, incentrata sul conflitto e su alcuni attori molto visibili (leader comunitari, rappresentanti politici) e dall’altro una geografia sociale degli usi dello spa- zio, interessata alle pratiche cittadine senza collegarle alle questioni di giustizia e diritti in città. La nozione di “diritto di fatto alla città” tenta di fare questo collegamento.

Dal “diritto alla città” come progetto politico al “diritto di fatto alla città” Per il momento, il legame tra “diritto alla città” ed esperienza cittadina ordinaria è stato studiato soprattutto attraverso la questione dell’impegno politico. Sull’argomento esistono delle ricerche di sociologia urbana che analizzano il peso dell’esperienza ur- bana nella formazione di una coscienza politica e della capacità a mobilitarsi. Walter Nicholls4 s’interroga così sul diritto “attraverso” la città dei lavoratori giornalieri di Pasadena (California), nel senso in cui la loro mobilitazione politica sarebbe facilitata e potenziata attraverso la loro esperienza della città, che fornisce incontri e reti sociali. Julie-Anne Boudreau (Boudreau et al. 2009) s’interroga sul ruolo dell’esperienza indi- viduale e collettiva urbana e psicologica delle lavoratrici domestiche latino-americane 101 nella loro decisione di partecipare alle manifestazioni contro la riforma sui diritti degli immigrati a Los Angeles negli anni 2000. In tutt’e due le ricerche si tratta di cittadini comuni, che altri definirebbero subalterni nel senso che sono sfruttati economicamente e invisibili politicamente. La loro esperienza ordinaria è tenuta in conto nella misura in cui è collegata alla lotta, eccezionale nel tempo e nello spazio, e permette loro di formare un gruppo militante e di uscire dalla subalternità anche se in maniera effimera. Qualunque sia l’interesse di queste letture, proponiamo di legare “diritto alla città” ed esperienza cittadina ordinaria in un altro modo. Il “diritto di fatto alla città” riguarda per noi il modo in cui gli abitanti della città definiscono i contorni di un ordine urbano che si sforzano di riprodurre, aggiornare e definire quotidianamente attraverso le loro pratiche. Sosteniamo che le condizioni materiali della vita cittadina influenzano i modi d’essere e di proiettarsi in città. Con ciò non intendiamo la capacità di rivendicare, né la domanda di riconoscimento politico, ma la formazione nell’esperienza della vita cittadina di una concezione normativa del proprio posto in città, di ciò che può e deve essere l’ordine urbano, spaziale, politico e sociale. Non si tratta di negare le sofferenze e le lotte quotidiane delle popolazioni sfruttate, indigenti o emarginate. E non voglia- mo nemmeno lodare l’ingegnosità dei poveri o le presunte potenzialità delle pratiche informali. Ciò che vogliamo dire è che l’ordine spaziale identificato con delle politi- che neoliberali (gli sfratti forzati, le migliorie, il marketing urbano, la gentrificazione

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Interno 2-3-2016.indd 101 19/07/17 16:59 commerciale e residenziale) è sicuramente il risultato dell’applicazione di regole, leggi, regolamenti che esprimono la sovranità dello Stato sul territorio, ma che esso mette in moto anche un processo di costruzione dei comportamenti e di trasformazione delle soggettività in cui i cittadini sono dei soggetti attivi dal momento che le loro azioni possono essere governate, e questo vale per i loro usi dello spazio. La nostra ipotesi è che questi comportamenti esprimono un potenziale di allineamento o contestazione rispetto all’ordine spaziale neoliberale, e che essi contribuiscono ad attuarlo o a com- batterlo quanto la mobilitazione politica. La questione delle relazioni di potere in città e delle resistenze all’ordine urbano di- suguale è stata formulata in diversi modi. La letteratura critica legata al dibattito sul neoliberismo mette l’accento sui rapporti di forza conflittuali e i momenti di crisi legati specialmente ai mega-eventi. Altri approcci, più specifici per le città del Sud, mettono l’accento sulle resistenze silenziose e invisibili legate alle pratiche quotidiane di soprav- vivenza e al ricorso alle pratiche informali nel settore degli alloggi o, soprattutto, in quello della proprietà terriera. Così, per James Holston (2008), queste pratiche di lungo periodo finiscono per produrre una «cittadinanza insorgente» che modifica le regole e le modalità del riconoscimento politico di questi cittadini da parte dello Stato. Per Asef Bayat (2000), le pratiche quotidiane e ordinarie contribuiscono a una «tranquilla invasione», a una resistenza passiva; anche queste sono di lungo periodo, non conflit- tuali ma sovversive perché avrebbero un potere di destabilizzazione, seppur limitato, 102 dell’ordine sociale e politico dominante, in un rapporto con lo Stato più antitetico di quello considerato da Holston. Questo campo di riflessione teorica è molto ricco e stimolante. La nostra analisi ne fa riferimento per rispondere a quegli appelli che vogliono ridare un significato politi- co alle pratiche ordinarie, andando oltre una lettura economica o culturale della loro valenza sociale, e pensare all’importanza delle regolarità, del lungo periodo e delle routine nella costruzione degli ordini spaziali. Rispondiamo anche all’invito ad andare oltre la lettura binaria (passività/rivolta) che rimanda all’opposizione tra cittadini e Stato. Per noi, la questione del rapporto con lo Stato si formula meno in termini di riconoscimento politico e di cittadinanza (come per Holston) che d’integrazione in un progetto sociale grazie all’adozione e al consolidamento di norme di condotta. Infine, le persone sfollate o ricollocate che evochiamo non sono cittadini subalterni privati della capacità d’espressione politica nel senso in cui l’intende Asef Bayat. Hanno capacità, senz’altro disuguali e limitate, di mobilitazione politica che interferiscono con le loro pratiche ordinarie. Questo complica l’analisi, ma ci sembra che un approccio attraverso le norme permetta di superare la frattura tra subalternità politica e capacità di mobi- litazione. Sono queste le piste che seguiamo nelle due parti successive, in cui tentiamo di individuare i contorni del “diritto di fatto alla città” di commercianti “ricollocati” in un mercato di Città del Capo e di cittadini sfollati a Lomé.

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Interno 2-3-2016.indd 102 19/07/17 16:59 Città del Capo: licenze individuali e costruzione di un ethos imprenditoriale ambiguo tra i commercianti di strada Da una quindicina d’anni, il centro di Città del Capo è stato profondamente modificato da una politica di rigenerazione urbana molto aggressiva (Pirie 2007; Dewar 2004) che ha avuto un’accelerazione durante i preparativi della Coppa del mondo FIFA del 2010. Il commercio di strada, in particolare, è giudicato problematico dal Governo metropolita- no perché, come in numerose città africane, s’inserisce male nella “visione” politica di una metropoli di livello mondiale (Steck et al. 2013). Città del Capo ha dunque riattivato una delibera municipale coloniale ed elaborato un documento di politica locale per limitarne l’espansione, assegnare spazi di piccole dimensioni a circa 8.000 commer- cianti attivi, anche se solo 2.000 sono i permessi ufficialmente autorizzati a lavorare nel Central Business District (CBD) (CCID 2014), e gestire le loro pratiche. Cinque anni dopo questa dimostrazione di forza, i commercianti hanno stabilito delle nuove routine di lavoro nell’attuale situazione in cui si osserva un riordino “tranquillo” degli spazi pubblici commerciali del CBD che riflette l’espressione di un “diritto di fatto alla città”. Il caso di Greenmarket Square, una delle piazze pubbliche più antiche del centro città, è molto evidente in tal senso. Essa si trova nel cuore del perimetro di rigenerazione urbana ed è dotata di un forte valore patrimoniale, economico e turistico. È occupata da un piccolo mercato artigianale d’arte africana (200 stand) che si è ingrandito ne- gli anni ’90, con l’arrivo di immigrati venuti dalla Repubblica Democratica del Congo, dal Kenya, dal Camerun e dal Senegal. Questi ultimi si sono lanciati nel commercio di 103 souvenir (maschere, statue, tessuti, gioielli). È il solo mercato di questo tipo a Città del Capo. Le dinamiche qui sono dunque molto diverse da ciò che si osserva altrove nel CBD e nelle township. È un luogo interessante perché i commercianti, che si sono insediati qui, in generale, da più di 15 anni, hanno sperimentato due modelli di gestione: una delega a un operatore privato (nel 1997, Badih Chaaban, un consigliere municipale dalla reputazione tristemente nota, che aveva ottenuto dalla municipalità un contratto per gestire questo mercato), cui ha fatto seguito un deciso controllo da parte del co- mune. Nel 2007, il comune ha messo fine a questo contratto e ha tentato di spostare il mercato per ospitare un fan park della FIFA. I commercianti hanno allora negoziato la loro permanenza a costo di una normalizzazione sociale e spaziale: diminuzione delle dimensioni del mercato; regole commerciali più severe, specialmente riguardo alla disposizione delle bancarelle; e, soprattutto, l’istituzione di una licenza individuale nominativa rilasciata dal comune. In questo senso, sono dei ricollocati, non degli sfol- lati (Morange 2015). Si può interpretare questo processo come il passaggio da un liberalismo che lasciava agire le forze del mercato (il comune non si preoccupava dell’importo delle imposte che esigeva Chaaban né dei metodi di riscossione utilizzati dai suoi agenti che rastrellavano il mercato ogni giorno per far pagare i commercianti) a un regime neoliberale in cui lo Stato ridefinisce le sue modalità d’azione nel quadro di un proprio progetto imprendito-

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Interno 2-3-2016.indd 103 19/07/17 16:59 riale, di cui Greenmarket Square è un elemento chiave: il cuore dell’iconografia ufficiale e della strategia di marketing urbano della città. In particolare, l’introduzione di una licenza di lavoro individuale funziona come strumento di normalizzazione sociale tra- mite l’inclusione dei poveri nel progetto imprenditoriale dello Stato. Il “diritto di fatto alla città” che ne risulta è tuttavia ambiguo. L’introduzione della licenza ha istituito un dispositivo di auto-dichiarazione più traspa- rente. I commercianti fanno una domanda individuale presso il comune per ottenere la loro postazione. Sono registrati in una banca dati informatica e rinnovano la loro licenza ogni mese presso gli uffici delTraffic Department. I funzionari municipali che pattugliano il mercato si accontentano di verificare la conformità delle pratiche met- tendo delle multe. L’imposta ha cambiato di senso: si è passato da un sistema di rendita clientelare (Chaaban) al pagamento di un diritto d’uso dello spazio pubblico e a un faccia a faccia anonimo con degli agenti dello Stato. Quest’atto ha modificato il senso della razionalità imprenditoriale dei commercianti, tentando di riconnetterla diversa- mente al progetto del Governo locale. Innanzitutto, la licenza definisce il campo d’azione dei commercianti introducendo un’ingiunzione alla conformità spaziale e sociale che rinforza la tolleranza di alcuni margini di manovra o di negoziazione con lo Stato. Funziona come una guida normativa dei comportamenti individuali: non bisogna superare le linee gialle, bisogna comportar- si bene (non bere, non provocare delle risse, ecc.), bisogna vendere questo e non quello, 104 non bisogna fare rumore; tante regole ricordate in un codice di buona condotta distri- buito ai commercianti, che, tuttavia, viene rapidamente perso, dimenticato, nascosto. Queste regole sono di fatto integrate e applicate attraverso un controllo sociale collet- tivo. La licenza rinforza così la sorveglianza individuale degli uni sugli altri: si sorveglia il vicino senza averne l’aria, non solo per rimproverarlo, ma anche per misurare quali scarti sono tollerati e riprodurli. Il fatto che la licenza sia associata a una postazione in- dividuale numerata facilita anche il processo di appropriazione dello spazio dello stand e dello spazio circostante (che i commercianti controllano con occhio vigile) secondo queste norme, a scapito dello spazio collettivo del mercato. I commercianti percepi- scono questa licenza come il pagamento di un diritto per poter usare questo pezzetto di spazio pubblico, definito come «appartenente al comune» (designato da alcuni come «proprietario» dello spazio e percepito come il partner legittimato a imporre le regole del gioco in questa relazione squilibrata), nel quadro delle prassi autorizzate. Inoltre, promuovendo l’imprenditorialità individuale, la licenza ha messo fine alle vel- leità di auto-organizzazione collettiva del mercato di una parte dei commercianti ve- nuti da altri Paesi africani, che sognavano di riprodurre a Città del Capo pratiche os- servate o imparate altrove: il comune ha rifiutato di delegargli la gestione del mercato. Questo ha creato paradossalmente delle aspettative da parte di alcuni commercianti verso il Governo locale, in quanto fornitore di servizio pubblico. Il doppio meccanismo (appropriazione individuale dello stand / disimpegno dalla gestione collettiva del mer-

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Interno 2-3-2016.indd 104 19/07/17 16:59 cato) ha alimentato la sensazione che spetti al comune occuparsi del mercato (della sua organizzazione spaziale, della pulizia e della sicurezza; una promessa fatta nel 2009) ma anche assicurare la sua promozione pubblicitaria. Se, a questo proposito, alcuni stimano che il Governo locale «si mangia i nostri soldi; se li tiene per sé; non si sa a cosa serve; farei come loro, me li metterei in tasca…», altri affermano che il comune debba fornire tutti questi servizi; una conseguenza abbastanza inaspettata dell’indivi- dualizzazione. Ora, il comune si accontenta di assicurare (indirettamente, tramite il Central City Im- provement District, CCID) la pulizia e la sicurezza, rifiutandosi di svolgere il ruolo d’a- gente gestore, che si accinge a trasferire al CCID. L’attività nel mercato quindi vegeta, a conferma delle nostre osservazioni. Il periodo di Chaaban, ricostruito nelle memorie nel corso delle interviste, appare così come un Eden imprenditoriale: le tasse per la licenza erano elevate (1.500 rand al mese contro i 440 di oggi), soprattutto rispetto all’importo del contratto d’affitto (200.000 rand a fronte di guadagni mensili stimati da 400.000 a 600.000 rand) ma «Badih», come viene chiamato ancora tra l’affettuoso e il rispettoso, attirava clienti grazie a un partenariato con i tour operator. Tutti i commercianti hanno dichiarato che facevano affari migliori in quell’epoca. Lo ricordano come un momen- to di flessibilità e di libertà: «potevamo pagare 50 rand un giorno, 60 l’indomani», le transazioni erano registrate manualmente in un quaderno. La mobilità sociale e le possibilità d’espansione imprenditoriale erano più forti: quando uno stand si libera- va, i commercianti occasionali (casual, una pratica ormai vietata) potevano diventare 105 commercianti stabili (permanent traders). Le transazioni illegali (rivendita di posti per 10.000, 15.000 o 20.000 rand) non sono state riconosciute dal comune e sono ormai proibite. Il sistema di licenze municipali blocca queste possibilità in nome di una forma di egualitarismo anti-imprenditoriale (tutti gli stand devono avere la stessa taglia; è vietato accumulare più stand; si dà solo uno stand a famiglia) senza offrire un servizio all’altezza delle possibilità del mercato, che tutti descrivono come ricco di potenzialità. Insomma, questo paradosso rispecchia la tensione tra due concezioni dell’imprendito- rialità urbana legata al piccolo settore informale, tra le quali i commercianti cercano di collocarsi: I) un’immagine che valorizza la vitalità dell’imprenditorialità artigianale popolare di strada; II) un’immagine svalutata delle pratiche informali di sopravvivenza, necessariamente effimera, uniche ragioni per cui lo Stato le tolleri. Infatti, la licenza dà luogo a una forma di riconoscimento e di legittimazione, seppur minima, che ricorda ai commercianti la precarietà della loro condizione: deve essere rinnovata tutti i mesi; è individuale e non trasmissibile, senza valore patrimoniale. I commercianti si sono visti rifiutare il diritto di pagare diversi mesi in anticipo. Pertanto, la licenza non ha nessun ruolo nell’accesso al credito. Solo uno dei 17 commercianti intervistati ha riferito di averla usata per convincere uno sportellista a ritirare dei soldi dal suo conto bancario. L’orgoglio imprenditoriale non si fonda quindi concretamente su questo documento che assomiglia più a una ricevuta che a un permesso ufficiale. Non è esibito, né mostrato

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Interno 2-3-2016.indd 105 19/07/17 16:59 durante le interviste. I commercianti hanno tutti esitato a mostrare questo pezzo di carta che trattano con poco riguardo (lo conservano generalmente sgualcito nel loro portafoglio, in mezzo ad altri documenti), non comprendendo l’interesse del ricercatore per quell’oggetto banale, o avendone un po’ vergogna come testimoniano i commenti accompagnati spesso da un gesto, come per dire: «questo è!». Questo riconoscimento al ribasso si manifesta nel modo in cui si sono formalizzate le gerarchie sociali dopo l’introduzione della licenza. Si distinguono l’“owner” (chi possie- de lo stand e paga la licenza) e il suo “assistant” (l’impiegato di quest’ultimo), categorie comunemente impiegate dai commercianti. Il sottoproletario (facchini, coolies pagati a cottimo o alla settimana) è invece rinviato all’anonimato e all’anomia sociale: «ho qualcuno che lavora per me». Queste gerarchie esistono in tutti i mercati. Ma qui, queste categorie sono in parte locali e in parte importate, cosa che rispecchia la tensio- ne intorno all’identità imprenditoriale. Il termine di “owner” è un’eredità dell’epoca di Chaaban, in cui alcuni commercianti «compravano» illegalmente il loro posto, cosa che non è più possibile (possiedono solamente la struttura metallica che montano e smon- tano ogni giorno). Il comune parla di permit holder (titolare di una licenza). Al contrario, il termine “assistant” deriva da una delibera municipale, che consente di collocare il titolare della licenza in cima alla gerarchia imprenditoriale designandolo come un po- tenziale datore di lavoro. Ma questo termine è ambiguo perché, se ognuno al mercato capisce che si tratta di persone retribuite, la delibera municipale non precisa la natura della relazione: legame contrattuale, legame familiare o entrambi? L’invisibilizzazione 106 del lavoro dei facchini e degli operai nei testi ufficiali riflette la negazione stessa dell’e- sistenza di un’economia urbana informale complessa e la designazione del commercio di strada come un’attività individuale o familiare marginale. I commercianti dicono tuttavia di aver guadagnato una forma di sicurezza e di tranquil- lità con questo cambiamento e ciò spiega il perché assolvano volentieri alle procedure di registrazione presso il comune. Gli costano poco, in tutti i sensi: gli uffici sono vicini (ci si può andare a piedi) e il costo delle licenze è diminuito. Dunque, l’adesione a que- sto nuovo ordine spaziale e sociale non è tanto il risultato di una disciplina (che pur c’è) quanto un’adesione a ciò che considerano un buon ordine spaziale, a tutti i livelli: quel- lo dello stand (cercano di conformarsi all’immagine del chiosco ufficiale); della stradina (il passaggio è sicuro, il flusso regolare); del mercato concepito come spazioso, ben ordinato, in seguito alla diminuzione del numero delle bancarelle, anche socialmente, in cui ognuno «minds his own business». Tutte nozioni in sé positive, in contrapposizione al mercato ammassato e congestionato sotto Chaaban in cui la concorrenza economica e spaziale era feroce.

Lo spazio-tempo del ricollocamento legato al progetto della Grande Circonvallazio- ne di Lomé La città di Lomé (1,5 milioni di abitanti nella sua estensione metropolitana nel 2011) si caratterizza nel 2015 per la permanenza al potere di un regime autoritario, cristallizza-

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Interno 2-3-2016.indd 106 19/07/17 16:59 to attorno a un partito politico dominante, l’UNIR – Union pour la République (nuovo nome dell’ex partito unico, fino al 2012 noto come RPT – Rassemblement du Peuple Togolais), malgrado l’istituzione di un multipartitismo di facciata dal 1992. Al contem- po, le dinamiche socio-spaziali della capitale sono fortemente influenzate dalla ripresa, a partire dal 2007, della cooperazione internazionale (sospesa dal 1998 per «deficit democratico» - Toulabor 1999). In questo contesto, sono ricominciati recentemente nella capitale gli sgomberi forzati, in ordine sparso e in maniera massiccia. L’analisi riguarda qui lo spazio-tempo prodotto in seguito a questi sfratti; riguarda cioè i luoghi della città dove i cittadini sono ricollocati con la forza, o più precisamente, a causa di una costrizione politica particolarmente forte.5 Questi trasferimenti coatti intra-urbani sono il corollario di politiche di modernizzazione delle infrastrutture urbane, ma anche di cambiamenti socio-politici ed economici che riguardano il valore e l’uso dell’immobi- liare nella capitale di uno stato autoritario, a partire dal 2010. Il caso di studio6 analiz- zato è l’area di ricollocamento di Djagblé a Lomé, dove più o meno 1.500 persone7 sono state trasferite a causa della creazione della nuova circonvallazione di Lomé. Attraverso questo caso di studio ci interroghiamo sulle modalità di costruzione di un “diritto di fatto alla città”, cioè sui processi attraverso i quali si creano un nuovo ordine e nuove norme sociali nei momenti di riconfigurazione dei poteri, focalizzando l’attenzione sulle pratiche ordinarie. Queste pratiche ordinarie sono osservate congiuntamente nei luoghi di ricollocamento e in prossimità degli spazi distrutti e abbandonati, allo scopo di ca- pire come si crea il “diritto di fatto alla città”, cioè un ordine accettabile in funzione di 107 norme accettate e rinnovate a Lomé. In Togo, gli anni ’90 sono stati caratterizzati da profondi disordini socio-politici (Ger- vais-Lambony 1994; Toulabor 1999; Spire 2011) e crisi economiche: la paralisi della democratizzazione del Paese ha reso impossibile il processo di decentramento del po- tere e delle competenze. Dal 1990 al 2005, fino alla morte del generale Eyadéma, la sospensione ufficiale dei programmi di cooperazione internazionale ha privato lo Stato delle sue risorse portando alla paralisi dei servizi pubblici e a un forte degrado delle infrastrutture e degli impianti urbani, maggiormente visibile nelle periferie notevol- mente cresciute dal 1990 al 2015 (Gervais-Lambony, Nyassogbo 2007; Biakouyé 2014). Il ritorno dei finanziatori nel 2010 rappresenta una svolta nelle politiche urbane, con la ripresa di grandi progetti urbani e una netta priorità data, a livello della capitale, al rifacimento e alla creazione di nuove infrastrutture, specialmente stradali. Tuttavia, questi grandi lavori e gli sgomberi causati non sono al centro del dibattito pubblico né provocano una vera mobilitazione politica; queste questioni passano in secondo piano rispetto ad altre rivendicazioni come la richiesta di una riforma costituzionale (che riguarda in particolare il limite del numero di mandati presidenziali) e istituzionale (il ruolo degli enti locali). È in questo contesto che, nel 2010, parte il progetto della Grande Circonvallazione di Lomé nelle periferie della capitale (oltre il perimetro della municipalità). Questo grande

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Interno 2-3-2016.indd 107 19/07/17 16:59 progetto urbano, ampiamente finanziato da investimenti cinesi e fortemente sostenuto dal Governo (attraverso il ministero dei Lavori Pubblici), è una vetrina della moderniz- zazione della capitale. Il recupero dei terreni immobiliari necessari alla realizzazione di questa larga arteria viaria (in particolare a est della strada di Tsévié, nel sobborgo di Kégué) ha portato alla distruzione di diverse zone residenziali e allo spostamento delle attività commerciali esercitate in precedenza. Il nuovo collegamento passa infatti per una zona residenziale, che viene così divisa dalla nuova circonvallazione, accessibile da una parte e dall’altra dai pedoni. Insieme alla rigenerazione del centro città e dell’area attorno al Grande Mercato della capitale, nella logica di promozione degli spazi vetrina (Bénit, Gervais-Lambony 2003; Leimdorfer 2003; Biehler 2006), questi sgomberi avven- gono nei quartieri periferici in nome della modernizzazione della capitale e del riordino di aree considerate come urbanizzatesi “in modo anarchico”. Come altrove (Cernea, McDowell 2000; Talercio 2008; Spire et al. 2014), le condizioni di partenza sono state negoziate, in questo caso dal CII. Si tratta di una struttura na- zionale creata ad hoc, situata all’intersezione di sette ministeri, nel quadro delle rac- comandazioni della Banca Mondiale (direttiva 4.12) (World Bank 2001) e in assenza di un effettivo Governo locale decentrato in Togo. Questo comitato rispecchia l’instabilità degli accordi locali nell’attuazione di politiche urbane dettate da regole internaziona- li (Fourchard 2007) e, allo stesso tempo, l’adeguamento di procedure standardizzate come quelle che regolano la partecipazione cittadina. In effetti, le operazioni di sgom- 108 bero obbediscono a delle regole che consistono, in particolare, nell’organizzazione di tre riunioni di concertazione, seguite da un censimento delle persone che possono ave- re diritto al risarcimento. Dettato dai finanziatori internazionali, il dispositivo attuato espressamente per lo sgombero ha così prodotto, per numerosi cittadini, un primo in- contro e un’interazione inedita tra popolazioni aventi pochi o inesistenti diritti politici e i rappresentanti dello Stato togolese. Mediante questo dispositivo, per ogni famiglia è stato valutato l’importo dei risarci- menti, in funzione del valore del terreno e della natura dell’edificato. Le famiglie sono state ricevute a turno in uno degli uffici del CII per fissare l’importo del risarcimento, che è stato tenuto segreto. Il monitoraggio del progetto da parte del CII si è dunque tradotto in processi di forte individualizzazione. Nel quadro di una procedura unitaria, i responsabili del CII hanno in effetti risarcito diversamente ogni famiglia, facendo leva su alcuni cittadini per comunicare la politica di ricollocamento e farla accettare meglio. In quest’operazione di sgombero forzato, anche se negoziata in partenza, i cittadini ricollocati si auto-definiscono come coloro che sono stati «colpiti» dalla modernizza- zione, facendo capire che si sentono confinati e hanno la sensazione di non appartenere alla città che si sta costruendo. In particolare, nel caso della zona studiata nella peri- feria di Kégué, i residenti hanno avuto la proposta del CII di ricevere un risarcimento in natura, ovvero un terreno situato oltre i confini dell’insediamento, a Djagblé (lungo la strada di Vogan), con la promessa che i titoli fondiari sarebbero stati decretati in breve

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Interno 2-3-2016.indd 108 19/07/17 16:59 tempo (cosa non avvenuta nel 2014). Cosa ci insegnano le pratiche dei «colpiti», così come quelle dei residenti della zona trasformata, sull’accettazione del riordino e della regolarizzazione dei quartieri periferici? Quando c’è mobilitazione intorno al progetto urbano, le pratiche ordinarie predomina- no sul registro di contestazione senza che siano denunciati il trattamento differenziato e la forte coercizione che hanno accompagnato il trasferimento dei «colpiti». Infatti, secondo i rappresentanti di un’associazione che ha seguito il dislocamento dei cittadini dal luogo di realizzazione del progetto, il potere autoritario dello Stato rende impossi- bile qualsiasi occasione di confronto diretto, esprimendosi esclusivamente sull’importo delle indennità (non si discute del progetto, che porta in sé una certa concezione della città, ma delle condizioni della partenza). La rassegnazione impera e il valore commer- ciale del posto occupato in città assume la precedenza, come testimoniano le parole di un famoso attivista a Lomé: «quando lo Stato arriva, bisogna cedere visto che vie- ni pagato». Le interviste fatte ai «colpiti» della Grande Circonvallazione testimoniano dell’inclusione della norma commerciale nella considerazione del posto occupato in città sebbene quest’ultimo sia in qualche modo negato. Paradossalmente, piuttosto che notificare l’espropriazione e la negazione dello statuto di cittadino, il trasferimento partecipa così, in un primo momento, all’inserimento dei cittadini in un dispositivo nor- mativo commerciale che sarebbe una delle componenti della soggettivazione operata dal “diritto di fatto alla città”. In un secondo momento, i registri di contestazione informano sui processi di norma- lizzazione e di accettazione del cambiamento urbano nei momenti che seguono lo 109 sgombero. I residenti della nuova strada non contestano le modalità di trattamen- to differenziato e coercitivo dei vicini sfrattati. Oltre alla denuncia della corruzione nell’avviamento dello stesso cantiere, sono le pratiche spaziali quotidiane sconvolte dalla creazione della strada a essere considerate inammissibili. L’attraversamento della strada degli abitanti separati da una parte e dall’altra della via occupa così un posto importante nelle interviste, indicando che al centro delle questioni socio-politiche ci sono domande concrete e materiali. Per quanto riguarda la zona di ricollocamento, cinque anni dopo l’arrivo degli abitanti, un embrione di micro-società urbana si è (ri)creato in un contesto di conflittualità con le popolazioni residenti rispetto all’accesso alle risorse urbane - allontanamento dal centro della città, scarsità dei servizi (scuola, centri di cura, ecc.). Nonostante l’im- portanza della questione dell’accesso ai servizi e al centro della città, questi non sono gli unici criteri attraverso i quali è possibile capire le differenziazioni dell’integrazione alla città. Come dimostra Biehler (2006), nel caso dell’insediamento degli sfollati della Zaca nella periferia di Ouagadougou, la mobilità forzata genera una miglior conoscenza della città a causa della frantumazione delle famiglie e della dispersione degli amici. Le nuove pratiche di mobilità sembrano quindi un fattore importante da considerare nell’analisi del diritto alla città, inteso secondo un’accezione dinamica: la ricostruzione di nuove norme in un nuovo contesto.

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Interno 2-3-2016.indd 109 19/07/17 16:59 Per analizzare tali processi di costruzione delle norme, si possono analizzare le modalità di definizione delle regole d’organizzazione e di controllo dello spazio. Fuori dalla città, il “diritto di fatto alla città” si costruisce secondo un processo di controllo della propria condotta e di quelle degli altri attraverso la creazione di nuovi dispositivi. Il CII, per esempio, ha istituito regole socio-economiche nuove, riguardanti in particolare la for- nitura dei servizi a pagamento (elettricità, acqua corrente, bonifica) che trasformano le attività economiche e i ritmi di vita familiari. Parallelamente, la costruzione delle case e la sistemazione dello spazio domestico sono inquadrate da alcuni contratti pubblici che conducono alla standardizzazione delle strutture e dei materiali usati; il ritmo dei can- tieri è monitorato e controllato dalla prossimità dei vicini che hanno vissuto lo stesso trasferimento coatto, che però considerano come una traiettoria sociale ed economica diversa (la rapidità di alcuni cantieri è così oggetto di contese e sfide sulla natura delle risorse economiche). Il ricollocamento coatto in un dato momento ridefinisce così le gerarchie locali, liberate in qualche modo dal peso delle chefferies tradizionali e dei lignaggi che controllano l’accesso alla terra, sistema che prevaleva nei quartieri peri- ferici abbandonati. A Djagblé, un giovane capofamiglia svolge così il ruolo di delegato del quartiere in stretta collaborazione con i rappresentanti del CII per preservare «la buona gestione» del quartiere; al momento del sopralluogo del CII sul posto, i conflitti tra vicini vengono riportati dal portavoce del quartiere, che può così chiedere la media- zione o l’intervento del rappresentante del CII per sostenere la sua autorità politica e 110 finanziaria presso gli abitanti. Infine, l’analisi di questo recente sfratto forzato nella capitale togolese permette di stu- diare le dinamiche di potere nella costruzione di un “diritto di fatto alla città”. Questo “diritto di fatto alla città” non è prodotto all’interno di una contestazione dell’ordine neoliberale progressivamente affermatosi a Lomé, ma attraverso delle relazioni ambi- gue tra i cittadini comuni, i portavoce dei movimenti sociali, le voci dell’opposizione po- litica e i rappresentanti dello Stato. Queste relazioni si caratterizzano per l’accettazione di un processo di responsabilizzazione e d’individualizzazione dei cittadini sfollati, nel contesto di una neoliberalizzazione delle politiche urbane.

Conclusione Ci siamo proposte di utilizzare la nozione di “diritto di fatto alla città” come una cate- goria analitica non normativa per studiare i processi di riordino dello spazio da parte del potere normalizzante della costruzione di razionalità. Essa non pregiudica il potenziale emancipatore delle dinamiche in azione. A Città del Capo, il progetto di responsabiliz- zazione dei commercianti attraverso l’introduzione di una licenza individuale ha di fat- to rafforzato le loro aspettative verso il Governo locale. L’introduzione di nuove regole del gioco e il trasferimento/ricollocamento spaziale messi in atto dalla neoliberalizza- zione ridiscutono le razionalità in un modo che può produrre degli effetti inaspettati (Ferguson 2009). Il “diritto di fatto alla città” dunque implica certamente una modifica

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Interno 2-3-2016.indd 110 19/07/17 16:59 dell’oggetto delle analisi, disinteressandosi dei gruppi politicamente costituiti nella lot- ta, per interessarsi ad altri tipi socio-spaziali (in questo caso, alcuni gruppi di commer- cianti e di “sfollati”), ma ciò non coincide con la chiusura di ogni prospettiva e speranza politica. Al contrario, se per pensare le condizioni del cambiamento politico e sociale è cruciale capire come sorgano gruppi collettivi in un determinato luogo e momento, come si muovano, come considerino le loro lotte, quale senso vi diano, ossia quali sono le loro strategie, pensiamo che questo non sia abbastanza. Questi studi invitano spesso a combattere dei regimi politici di natura autoritaria supponendo che l’insediamento di un regime più democratico basterà a permettere una dissidenza. Tuttavia, se la de- mocratizzazione è una condizione necessaria all’espressione della dissidenza politica, in numerosi regimi in cui la parola pubblica è abbastanza libera, il riordino neoliberale dello spazio urbano prosegue allo stesso ritmo se non più velocemente che nei regimi autoritari. Il confronto dei casi di Città del Capo e Lomé lo mette chiaramente in luce. Il riordino neoliberale non dipende solamente da una costrizione e da una coercizione diretta né da rapporti di forza asimmetrici. Il “diritto di fatto alla città” permette così, senza voler negare l’efficacia delle analisi classiche sul potere, di renderne le sfumature. Permette anche di pensare alle possibilità di produrre contro-razionalità al progetto neoliberale, contro-attacchi che esso stesso talvolta lancia indirettamente.

Marianne Morange è Maître de Conférences in geografia all’Università Paris-Diderot e membro dell’Institut Universitaire de France. 111

Amandine Spire è Maître de Conférences in geografia all’Università Paris-Diderot.

Traduzione dal francese di Paola Granaiola e Antonio Pezzano

NOTE: 1 - Queste ricerche sono effettuate all’interno di un programma di ricerca collettivo di cui le autrici ge- stiscono il coordinamento scientifico: DALVAA – Ripensare il diritto alla città nelle città del Sud – Africa/ America Latina – un programma finanziato dal comune di Parigi (progetto “Emergences”) (dalvaa.hypothe- ses.org/). 2 - M. Morange, A. Spire, A Right to the City in the Global South?, in «Metropolitics» (on-line), 17 aprile 2015: http://www.metropolitiques.eu/A-Right-to-the-City-in-the-Global.html. 3 - N. Brenner, Is ‘Tactical Urbanism’ an Alternative to Neoliberal Urbanism?, “POST: Notes on Modern and Contemporary Art Around the Globe” (On-line), 24 marzo 2015: http://post.at.moma.org/content_ items/587-is-tactical-urbanism-an-alternative-to-neoliberal-urbanism. 4 - Si veda Rights through the City : the Fight for Immigrant Rights One Street Corner at Time, paper presen- tato al seminario DALVAA, Repenser le droit à la ville depuis le Sud, Amérique latine/Afrique Subsaharienne, coordinato da Marianne Morange e Amandine Spire, Programme Emergences Ville de Paris, UMR CESSMA, Université Paris Diderot, 16 gennaio 2015. 5 - J. Blot, A. Spire, Déguerpissements et conflits autour des légitimités citadines dans les villes du Sud, in «L’Espace Politique» (on-line), vol. 22, n. 2014/1: https://espacepolitique.revues.org/2893. 6 - Questa parte si basa su una ricerca in corso, iniziata nel novembre 2014. 7 - Secondo uno dei responsabili del CII (Comitato Interministeriale delle Indennità) - intervista del 20 novembre 2014 - sono le famiglie identificate dal CII nel 2010, che hanno ricevuto come indennità soldi e anche terra in Djagblé. Nel 2011, 118 famiglie vi si sono realmente insediate.

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Interno 2-3-2016.indd 111 19/07/17 16:59 Riferimenti bibliografici Bayat A. (2000), From ‘Dangerous Classes’ to ‘Quiet Rebels’. Politics of the Urban Subaltern in the Global South, in «International Sociology», vol. 15, n. 3 Bénit C., P. Gervais-Lambony (2003), La mondialisation comme instrument politique local dans les métropoles sud-africaines (Johannesburg et Ekhuruleni): les ‘pauvres’ face aux ‘vitrines’, in «Annales de géographie», vol. 112, n. 634 Biakouyé H. (2014), Lomé au-delà de Lomé. Étalement urbain et territoires dans une métropole d’Afrique Sud- Saharienne, Thèse de doctorat en géographie, Université de Lomé Biehler A. (2006), Renouveau urbain et marginalisation. Le cas d’habitants du centre-ville de Ouagadougou - Burkina Faso, in «Revue Tiers Monde», 2006/1, n. 185 Boudreau J.-A., N. Boucher, M. Liguori (2009), Taking the Bus Daily and Demonstrating on Sunday: Reflections on the Formation of Political Subjectivity in an Urban World, in «City», vol. 13, n. 2-3 Brenner N., P. Marcuse, M. Mayer (2009), Cities for People not for Profit, in «City», vol. 13, n. 2-3 Cape Town Central City Improvement District (CCID) (2014), The State of Cape Town Central City Report. 2014: a Year in Review, CCID, Cape Town Cernea M. M., C. McDowell (eds.) (2000), Risks and Reconstruction: Experiences of Resettlers and Refugees, The World Bank, Washington Dewar N. (2004), ‘Stemming the Tide’: Revitalizing the Central Business District of Cape Town, in «South African Geographical Journal», vol. 86, n. 2 Ferguson J. (2009), The Uses of Neoliberalism, in «Antipode», vol. 41, n. S1 Fernandes E. (2007), Constructing the ‘Right to the City’ in Brazil, in «Social & Legal Studies», vol. 16, n. 2 Fourchard L. (ed.) (2007), Gouverner les villes d’Afrique. Etat, gouvernement local et acteurs privés, Karthala, Paris Gervais-Lambony P. (1994), De Lomé à Harare: le fait citadin: images et pratiques des villes africaines, Karthala-IFRA, Paris-Nairobi Gervais-Lambony P., G. K. Nyassogbo (eds.) (2007), Lomé: dynamiques d’une ville africaine, Karthala, Paris Harvey D. (1989), From Managerialism to Entrepreneurialism: The Transformation in Urban Governance in Late Capitalism, in «Geografiska Annaler.Series B, Human Geography», vol. 71, n. 1 Harvey D. (2007), Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano Harvey D. (2012), Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre 112 corte, Verona Holm A. (2010), Urbanisme néolibéral ou droit à la ville, in «Multitudes», 2010/4, n. 43 Holston J. (2008), Insurgent Citizenship: Disjunctions of Democracy and Modernity in Brazil, Princeton University Press, Princeton and Oxford Huchzermeyer M. (2011). Cities with ‘Slums’: From Slum Eradication to a Right to the City in Africa, Juta/UCT Press, Cape Town Lefebvre H. (1968), Le Droit à la ville, Éditions Anthropos, Paris [(2013) (3ème edition), tr. It. Il diritto alla città, Ombre corte, Verona, 2014] Leimdorfer F. (2003), “L’espace public urbain à Abidjan. Individus, associations, État”, in F. Leimdorfer, A. Marie (éds), L’Afrique des citadins. Sociétés civiles en chantier (Abidjan, Dakar), Karthala, Paris Lopez de Souza M. (2001), The Brazilian Way of Conquering the ‘Right to the City’. Successes and Obstacles in the Long Stride towards an ‘Urban Reform’, in «disP – The Planning Review», vol. 37, n. 147 Macherey P. (2011), Da Canguilhem a Foucault. La forza delle norme, Edizioni ETS, Pisa Marcuse P. (2009), From Critical Urban Theory to the Right to the City, in «City», vol. 13, n. 2-3 Miraftab F. (2007), Governing Post-Apartheid Spatiality: Implementing City Improvement Districts in Cape Town, in «Antipode», vol. 39, n. 4 Mitchell D. (2003), The Right to the City: Social Justice and the Fight for Public Space, The Guilford Press, New York and London Mitchell D. (2005), Property Rights, the First Amendment, and Judicial Anti-Urbanism: The Strange Case of Virginia V. Hicks, in «Urban Geography», vol. 26, n. 7 Morange M. (2011), ‘Emergence locale’ et régénération urbaine au centre-ville du Cap, in «Bulletin de l’Association des Géographes français», vol. 88, n. 3 Morange M. (2015), “Participation, Neoliberal Control and the Voice of Street Traders in Cape Town: A Foucauldian Perspective on ‘Invited Spaces’”, in C. Bénit-Gbaffou (ed.), Popular Politics in South African Cities. Unpacking Community Participation, HSRC Press, Cape Town Parnell S., E. Pieterse (2010), The ‘Right to the City’: Institutional Imperatives of a Developmental State, in «International Journal of Urban and Regional Research», vol. 34, n. 1 Pirie G. (2007), Reanimating a Comatose Goddess’: Reconfiguring Central Cape Town, «Urban Forum», vol. 18, n. 3

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Interno 2-3-2016.indd 113 19/07/17 16:59 La governance asimmetrica del commercio informale nel centro di Johannesburg Antonio Pezzano

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Introduzione Questo saggio esplora la governance reale delle politiche sul commercio informale nella città di Johannesburg basandosi su una ricerca empirica svolta dall’autore, in più fasi, nel periodo tra novembre 2010 e aprile 2013, attraverso un’osservazione partecipa- ta dei processi di costruzione delle politiche pubbliche (forum, piattaforme, meeting, workshop) e interviste ai diversi attori coinvolti nella governance (funzionari pubblici, manager del settore privato, venditori di strada). L’analisi delle politiche in vigore, av- valendosi di una prospettiva storica, si concentra più sugli aspetti politici che su quelli normativi, cercando di andare oltre la retorica neoliberale della governance urbana e considerando l’informalità come una modalità delle pratiche e delle strutture di potere dello Stato (Roy 2009). Pertanto, utilizzando un concetto relazionale del potere, si cerca di analizzare come le politiche pubbliche, nella fattispecie quelle del commercio infor- male, siano prodotte da autorità statali plurali (sfere di governo, autorità municipali politiche e amministrative, aziende municipalizzate), coinvolte in una molteplicità di pratiche legate a una pluralità di attori sociali ed economici (commercianti informali, sindacati, stakeholder), che competono con esse nell’istituzionalizzazione delle relazio- ni di potere (Hagmann, Péclard 2010). L’ipotesi è che, nel centro di Johannesburg, le autorità municipali non formino un’en-

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Interno 2-3-2016.indd 114 19/07/17 16:59 tità omogenea e, quindi, non perseguano un’unica strategia trasparente e coerente nel governare la complessità del fenomeno, ma che si assista piuttosto a una governance asimmetrica, ossia a un bricolage di interventi statali, che combina diverse pratiche e tecniche di governo. Da un lato, l’amministrazione comunale produce un’ampia docu- mentazione normativa sul commercio informale (policy e by-laws), che sembra seguire strategie di legittimazione dei commercianti informali attorno a concetti di “forma- lizzazione” e “integrazione” o piuttosto si potrebbe dire di “incorporazione”. Dall’altro, diversi attori statali, esercitando il proprio potere, agiscono pratiche arbitrarie, che possono definirsi “predatorie”, in funzione di interessi propri. Queste pratiche creano zone differenziate di sovranità e cittadinanza, in base ai diversi interessi di mercato (Ong 2006), e rimodellano le relazioni tra lo Stato e i commercianti informali. Questa logica contingente di governo, basata sul controllo e sulla regolarizzazione degli attori informali, in relazione a spazi differenziati di governance, è realizzata attraverso una produzione di scarsità e stati d’eccezione. L’ambiguità e l’asimmetria del sistema di governance hanno lo scopo di creare una logica selettiva nell’allocazione delle risorse, che è anche la base su cui i diversi attori statali possono esercitare l’autorità. È il potere dello Stato che determina l’informalità e discrimina in base ad essa, creando forme d’il- legalità nella regolamentazione e nel riordino spaziale. L’informalità, in questo senso, può essere considerata come un modo di sovranità e disciplina (Roy 2009), ma, allo stesso tempo, è anche un modo capitalistico di produzione dello spazio, che genera asimmetrie nella valorizzazione degli spazi stessi (Roy, AlSayyad 2004). 115 Tuttavia, poiché lo Stato non esercita univocamente e coerentemente un potere op- pressivo o repressivo (Lindell 2008, 2010a, 2010b), si possono aprire nuovi spazi d’in- terazione per i commercianti informali, che così possono influenzare l’attuazione delle stesse politiche pubbliche. Si può dunque affermare che questa governance asimmetrica sia funzionale a una neoliberalizzazione delle politiche urbane: da un lato, forme intolleranti di controllo dello spazio, che possiamo definire in termini di «riordino neocoloniale dello spazio» (Steck et al. 2013: 147, 155-157), riproducono continuità storiche di cooptazione e repressione che limitano e frammentano l’azione (agency) dei commercianti informali; dall’altro, una pluralità e varietà di attori e interessi emergono sul terreno e si organizzano autonomamente in nuovi modelli di gestione imprenditoriale del commercio informale, che possiamo considerare come un «riordino neoliberale dello spazio» (Steck et al. 2013: 158-162). Questi nuovi modelli, nel caso specifico di Johannesburg, sono realizzati e condotti principalmente dal settore privato e integrano o incorporano in maniera parziale ed esclusiva solo una minoranza di venditori di strada informali nei cosiddetti City Improvement Districts (CID),1 mentre la maggioranza di essi resta ubicata in aree sovraffollate del centro cittadino, male o per niente amministrate, esclusa dall’accesso ai pieni diritti di cittadinanza sociale ed economica.

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Interno 2-3-2016.indd 115 19/07/17 16:59 I commercianti informali e lo Stato in Africa I venditori di strada sono figure emblematiche dell’informalità delle città africane. La loro presenza non è un fenomeno nuovo (Coquery-Vidrovitch 1991). Sin dal primo co- lonialismo, la gestione degli hawkers, come erano dispregiativamente denominati, è stata percepita dalla maggior parte delle autorità municipali come una questione di accesso alla cittadinanza per i residenti urbani africani. I venditori di strada sono sem- pre stati un problema per le autorità delle città coloniali e post-coloniali perché occu- pano spazi pubblici centrali e strategici in una pianificazione modernista della città. Di fronte alla difficoltà nel controllare e governare il fenomeno, le autorità statali hanno sviluppato un atteggiamento intollerante verso i commercianti informali cui hanno impedito l’accesso agli spazi pubblici, escludendoli dal diritto alla città e confinandone la gestione alle politiche della marginalità. Quest’agenda modernista dello sviluppo ha trovato continuità nelle pratiche “imprenditoriali” delle città africane contemporanee, concepite per essere world-class e attrarre investimenti internazionali nello scenario della competizione globalizzata. In esse, le attività informali, considerate espressione di un’arretratezza “africana”, vanno “regolarizzate” o, altrimenti, eliminate dai centri urbani trasformati in spazi “vetrina” (Steck et al. 2013: 146-149). Sfratti e vessazioni hanno contraddistinto la storia delle relazioni tra commercianti informali e autorità locali urbane (Potts 2008). Tuttavia, «le relazioni tra lo Stato e gli attori informali non possono essere ridotte o a univoco antagonismo o a ibride reti 116 clientelari (…). All’interno dello Stato possono coesistere e combinarsi diverse – e ap- parentemente contradditorie – modalità di esercizio del potere» (Lindell 2010a: 16-17). Una prospettiva storica ci consente di individuare le diverse traiettorie e circostanze che hanno condotto lo Stato a reprimere, cooptare oppure creare alleanze con i com- mercianti informali, la cui risposta è variata nelle diverse situazioni (Hansen, Vaa 2004; Brown 2006; Lindell 2010a, b). Allo stesso modo, l’azione dei commercianti informali, in relazione con lo Stato, è plurale e diversificata, talvolta contraddittoria, variando da un atteggiamento passivo di allontanamento e ritorno al luogo di vendita a quello che Ba- yat (1997, 2004) definisce la «tranquilla invasione dell’ordinario» fino a forme di conte- stazione collettiva. Essi sono capaci di trarre vantaggio dalla pluralità dello Stato, così come dalle dinamiche della politica locale (Bénit-Gbaffou et al. 2013). Come sostiene Lindell (2010b), l’azione (agency) degli attori informali può essere spiegata in termini di protesta (voice) oltre che di defezione (exit). Buona parte della prima letteratura sul settore informale, negli anni ’80, concepiva l’azione degli attori sociali in termini di “defezione”, sia sotto forma di comportamenti individuali che di traiettorie collet- tive di distacco o disimpegno (disengagement) dallo Stato (Rothchild, Chazan 1988). Nell’ultimo decennio, una vasta letteratura ha evidenziato l’ampio e complesso spettro delle forme di azione collettiva con cui gli attori sociali interagiscono con lo Stato, sia contestando le politiche e le leggi a loro sfavorevoli, sia reclamando legittimità, diritti socio-economici fondamentali e maggiore partecipazione (Lindell 2010a). Tuttavia, non

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Interno 2-3-2016.indd 116 19/07/17 16:59 possiamo considerare queste mobilitazioni come un’azione politica capace di riequili- brare ogni forma di esclusione. Sebbene forme di protesta dei lavoratori e imprenditori informali stiano aumentando in tutta l’Africa, come ci suggerisce Meagher (2010: 62), la politica della defezione non è stata soppiantata da una forza politica (political voice) dell’informale. Benché sia riscontrabile una continuità dall’azione individuale a quella collettiva nelle molte- plici scale d’impegno e nei vari modi di potere della politica urbana, bisogna chiedersi come s’interconnettono le diverse azioni sociali (individuali e collettive) e le pratiche politiche, e a beneficio di chi; come e perché gli attori sociali passano da strategie di “defezione” a forme di “protesta” in determinate situazioni. Per capire meglio la politica dell’informalità, è necessario guardare ai diversi livelli delle relazioni di potere, sia nei meccanismi interni delle organizzazioni di base che nelle relazioni con gli altri attori non-statali, siano essi attori sociali, come sindacati e movimenti globali di lavoratori informali, o stakeholder, come le imprese del settore privato che stanno giocando un ruolo sempre maggiore in contesti improntati a modelli di governance “aziendale” (Me- agher, Lindell 2013).

Continuità storiche nelle politiche pubbliche sul commercio informale a Johannesburg La storia del commercio informale a Johannesburg2 risale alla sua stessa fondazione ed è stata caratterizzata da contraddizioni di difficile gestione, che si possono riassumere 117 nella definizione di una “doppia agenda” delle autorità municipali. Esse, infatti, hanno costantemente e contemporaneamente seguito sia una strategia cooptativa, funzionale allo sviluppo capitalista e modernista della città, che ha incorporato segmenti di com- mercianti informali “regolarizzati” nella governance urbana e nei processi di accesso alla cittadinanza, sia una strategia repressiva, che ha teso a escludere la maggioranza degli stessi, identificati come “illegali”. La visione modernista della città, preoccupata dell’ordine, sicurezza e igiene pubblica, è l’approccio di lunga durata che le autorità municipali hanno utilizzato nelle politiche sul commercio informale. Questa visione ha alimentato il pregiudizio razziale e di classe delle élite nei confronti dei commercianti di strada, che hanno impersonato tutte le loro paure e ansie. La proibizione del commercio informale è stata dunque giustificata dall’idea che gli ambulanti fossero portatori di criminalità e sporcizia (crime and grime), e si è avvalsa di una macchina repressiva, basata su alcuni pilastri legislativi: licenze e assegnazioni; creazione di zone “proibite”, sia nel tempo che nello spazio. In epoca di segregazione e apartheid queste politiche seguivano il principio del “commercio a tem- po determinato per soggetti a tempo determinato”. Tuttavia, le misure repressive nei confronti dei commercianti di strada non raggiunsero l’obiettivo di sradicare il feno- meno, perché non erano accompagnate da politiche adeguate per l’occupazione della popolazione africana, soprattutto per le donne che, espulse o mai intercettate dalla

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Interno 2-3-2016.indd 117 19/07/17 16:59 domanda di lavoro nel settore formale, non avevano opportunità di reddito alternative al commercio informale. Questo processo non è stato lineare, né privo di tensioni e resistenze degli attori so- ciali o di comportamenti corruttivi dell’apparato burocratico. L’immagine del venditore di strada che sfida le autorità municipali e torna a commerciare nello stesso posto, nonostante le multe, le confische e le rimozioni, dovute sia ai procedimenti legali che alle vessazioni e agli abusi arbitrari, è un aspetto costante del tessuto urbano di Jo- hannesburg. L’attenzione dei policy-maker nei confronti dei commercianti di strada è sempre stata subordinata agli interessi del capitale “bianco”, anche con la deregulation del setto- re informale urbano iniziata durante l’apartheid “riformista” nella seconda metà degli anni ’80; questa, infatti, era una politica conservatrice che aveva lo scopo di formare e “incorporare” nel sistema una classe di piccola borghesia imprenditoriale africana legata agli interessi del regime dell’apartheid, così da preservare potere e privilegi della minoranza bianca e contenere la politicizzazione radicale delle township (Rogerson 1989; Rogerson, Beavon 1985; Rogerson, Hart 1989). Johannesburg con la sua hawker deregulation era all’avanguardia (minore persecuzio- ne, snellimento delle procedure amministrative, riduzione delle zone proibite, struttu- re autorizzate di stoccaggio, centri di servizi). I commercianti informali furono per la prima volta riconosciuti come parte integrante dell’ambiente economico metropoli- tano e si assistette a fine anni ’80 a una rapida espansione del commercio informale 118 nell’inner city. Sebbene la maggiore tolleranza beneficiasse realmente solo una parte di essi (Rogerson 1989), va detto però che la deregolamentazione aprì gli spazi per l’or- ganizzazione dei commercianti informali. La liberalizzazione delle licenze, che avvenne nel 1988 nella municipalità di Johannesburg,3 fu dovuta proprio alle strategie di advo- cacy e boicottaggio delle associazioni di categoria, in particolare all’azione e pressione dell’African Council of Hawkers and Informal Business (ACHIB) e della Small Business Development Corporation (SBDC), un’agenzia di sviluppo imprenditoriale.4 Ma queste strategie più tolleranti furono osteggiate dai commercianti formali che denunciavano la competizione sleale di quelli informali. Nel gennaio 1988, proprio mentre le autorità municipali stavano negoziando con le organizzazioni dei commercianti informali in una conferenza organizzata dall’ACHIB, la polizia compì raid di massa contro gli ambulanti nel centro cittadino (Rogerson 1989: 297-8; 1990: 126). Questo caso rivela la “doppia agenda” della municipalità nelle politiche del commercio informale, una caratteristica che persiste fino ad oggi. Le misure più “accomodanti” sono sempre state accompa- gnate dall’applicazione severa della legge secondo lo schema e i dettami di “ordine e sicurezza”. Nel momento in cui si negoziano maggiori concessioni ai commercianti informali, attraverso una nuova politica o il rilascio di migliaia di permessi, sembra ine- vitabile e necessario far piazza pulita di tutte le attività “illegali”, come più di recente è avvenuto con gli sgomberi durante il processo di costruzione della strategia urbana Joburg 2040 nel 2011 e l’Operation Clean Sweep nel 2013.

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Interno 2-3-2016.indd 118 19/07/17 16:59 L’attuale policy metropolitana sul commercio informale Attualmente, nell’inner city di Johannesburg, le cifre ufficiali parlano di circa 10.000 commercianti informali, ma le stesse autorità municipali considerano che ce ne siano quasi il doppio;5 il fatturato annuo del commercio informale è stimato in circa 4,2 mi- liardi di rand6 (City of Johannesburg (JDA) 2009: 37). Dopo l’esplosione del commercio di strada durante la transizione democratica dei primi anni ’90, il comune di Johannesburg ha quindi cercato di sviluppare meccanismi di re- golamentazione del settore all’interno dei programmi di riqualificazione dell’inner city. Questi piani miravano a creare un vibrante centro-città residenziale e commerciale sul modello delle città globali (world-class city) dove la presenza nelle strade di commer- cianti informali senza licenza era considerata un fenomeno residuale della cosiddetta “seconda economia” da rimuovere.7 Nello scorso decennio, invece, i nuovi piani strategici del comune di Johannesburg si sono ispirati a un approccio “sviluppista” più inclusivo, secondo i dettami del post- Washington consensus: lo Human Development Strategy,8 il Growth and Development Strategy 20069 e il più recente Joburg 2040: Growth and Development Strategy.10 Di conseguenza, anche la retorica ufficiale nei confronti del commercio di strada, così come i comportamenti e i discorsi degli imprenditori immobiliari, dei pianificatori ur- bani e dei funzionari pubblici sono cambiati.11 Da attività pericolosa e disordinata, il commercio di strada è diventato potenzialmente la via sostenibile alla riduzione della povertà e disoccupazione urbana in una cornice sviluppista di crescita sostenibile e in- 119 clusiva (van der Heijden, Skinner 2012). Tuttavia, nonostante la retorica dell’inclusione e dell’integrazione nello sviluppo economico, spaziale e sociale, il comune di Johan- nesburg stenta ad attuare una politica coerente per il commercio informale e palesa un’evidente disparità tra l’apparato normativo e le pratiche attuative, non considerando la complessità della cosiddetta “economia informale”, intesa come un più ampio ed eterogeneo continuum che va dalle imprese più strutturate a quelle survivalist, ai lavo- ratori occupati nell’informale. Nel recente Joburg 2040 si evidenzia il ruolo essenziale di un «settore informale so- lido» nel «sostenere la resilienza e sostenibilità economica» e il bisogno di progettare «approcci normativi di supporto alla gestione del commercio informale» (City of Johan- nesburg 2011: 25, 98, 34). Tuttavia, l’Informal Trading Policy, approvata in una prima stesura nel 2007, pubblicata nella versione definitiva nel 2009 e al momento in cui si scrive ancora in vigore, e la successiva Informal Trading By-Laws, redatta nel 2009 e pubblicata in gazzetta nel 2012, sono una strana e ambigua combinazione di approcci diversi e contraddittori, che risentono anche dei tempi diversi di ideazione, stesura e attuazione. Se, da un lato, si punta a un approccio basato fondamentalmente sulla “formalizzazio- ne” e “promozione” dei commercianti di strada in strutture regolamentate quali “mer- catini” e “mercati lineari” (linear market) all’interno dei business improvement district,

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Interno 2-3-2016.indd 119 19/07/17 16:59 secondo la visione esclusiva e incorporante della world class African city elaborata nei precedenti piani strategici,12 dall’altro si segue un approccio sviluppista13 che considera queste attività survivalist come una protezione sociale per le famiglie povere che non hanno beneficiato della crescita a causa della crisi economica. In realtà, la stessa defi- nizione del commercio informale nelle politiche municipali risente ancora dell’approc- cio dualistico e riduttivo del concetto di «due economie» di Mbeki,14 mentre il modello dominante di riferimento è sempre quello neoliberale di una “governance aziendale” del governo locale.15 In questo contesto, nell’aprile 1999, il consiglio municipale di Johannesburg istituì la Metropolitan Trading Company (MTC), un ente partecipato, ma di diritto privato, allo scopo di sviluppare e gestire le strutture per il commercio informale e il trasporto pubblico. Negli anni seguenti, sono state create altre municipalizzate, che partecipano alla governance: il Johannesburg Metropolitan Police Department (JMPD), la polizia municipale, e la Johannesburg Development Agency (JDA), un’agenzia di sviluppo con il particolare mandato della rivalutazione del capitale immobiliare all’interno del proces- so di riqualificazione del centro cittadino Inner( City Renewal). L’attuale strategia politica del comune di Johannesburg post-apartheid rispecchia, in materia di commercio informale, la deregulation del tardo apartheid di fine anni ’80. Nell’ultimo decennio, l’assessorato allo sviluppo economico (Department of Economic Development, DED), nell’implementazione delle politiche, ha cercato di istituire un mo- dello che di fatto crea una categorizzazione dei commercianti informali, stabilendo 120 delle priorità nello sviluppo infrastrutturale e nella gestione amministrativa a favore dei mercati strutturati, “lineari” e “permanenti”.16 In pratica, non essendo riusciti a elimina- re del tutto il commercio informale non regolamentato nell’inner city, si sono nuova- mente disegnate strategie cooptative d’incorporazione selettiva di un ristretto numero di commercianti informali, funzionali agli interessi delle aziende private che investono nella riqualificazione del centro urbano. Così facendo, la maggior parte dei venditori di strada si trova riallocata in zone circoscritte prive di particolari servizi o infrastrutture e scarsamente amministrate.

Modelli normativi e modelli empirici nella gestione del commercio informale Nel centro di Johannesburg è evidente il divario tra i modelli normativi e quelli empirici. Un’analisi sul campo più approfondita ha consentito di capire meglio le dinamiche della governance reale nella gestione del commercio informale e, quindi, di rispondere ad al- cune questioni sui processi di “inclusione” – che avvengano attraverso un’“integrazione” o meglio attraverso un’“incorporazione”. Sintetizzando, si può dire che, da un lato, un sistema integrato, ma non aperto e partecipato, regolamenta il settore per un numero ristretto di commercianti informali che operano nei “mercati lineari” nei CID; dall’altro, una caotica gestione lascia la maggioranza dei venditori di strada in aree della città affollate, scarsamente amministrate, dove sono esclusi dall’accesso ai pieni diritti di cittadinanza sociale ed economica.

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Interno 2-3-2016.indd 120 19/07/17 16:59 In realtà, la municipalità di Johannesburg presenta un sistema complesso di governance del commercio informale in cui una molteplicità di attori interagisce a diverse scale e fasi del processo, come sintetizzato nella tabella 1. In queste dinamiche, è di particolare rilevanza analizzare i meccanismi che sono alla base dei processi decisionali e della ripartizione delle responsabilità.

Tabella 1: Attori e interessi coinvolti nella governance asimmetrica del commercio in- formale nell’inner city di Johannesburg FASI ATTORI INTERESSI

Formulazione della Le massime autorità comunali (sin- Sviluppo locale e opportunità politica metropo- daco e Giunta), stakeholder. Esclusi economiche a livello regionale e litana i commercianti informali globale

Demarcazione Autorità municipali (politiche e Uso della terra urbana amministrative), stakeholder. Parte- cipazione limitata dei commercianti informali

Assegnazione degli Autorità municipali (DED), commer- Accesso agli spazi commerciali spazi cianti informali

Applicazione delle Autorità municipali (JMPD), com- Controllo degli spazi urbani leggi e dei regola- mercianti informali menti comunali 121 La politica municipale ufficiale delinea uno schema di gestione, che però, come detto in precedenza, viene attuato solo per le categorie strutturate del commercio – mercati permanenti e lineari. La responsabilità nell’attuazione delle diverse fasi è affidata a diverse entità municipali: il DED demarca le aree da destinare al commercio informale; l’MTC, dal 2013 rimpiazzata dalla Johannesburg Property Company (JPC),17 assegna gli spazi e riscuote i canoni di affitto; la JMPD applica le leggi. In tutte queste fasi, le auto- rità municipali dovrebbero consultare gli stakeholder, portatori di interessi organizzati, e gli attori sociali. Il grado di coinvolgimento non è uguale per tutti: la partecipazione e l’influenza dei commercianti informali sono inversamente proporzionali al peso degli interessi in gioco; allo stesso modo, i luoghi di potere si restringono fino a recedere dalla base all’aumentare degli interessi in gioco.

Demarcazione La demarcazione delle aree concesse al commercio informale è il livello in cui vi sono minore trasparenza e partecipazione. In esso, i processi decisionali sono più chiusi ed esclusivi ed è verosimile pensare che, all’interno di un più generale processo di pianifi- cazione urbana, la più alta autorità politica municipale, ossia il sindaco e la sua Giunta, condivida la responsabilità del processo decisionale con attori pubblici e privati, a livel- lo nazionale e internazionale.

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Interno 2-3-2016.indd 121 19/07/17 16:59 I commercianti informali hanno protestato apertamente in merito alle decisioni su quali aree dovessero essere demarcate e quali proibite al commercio. Al primo punto del documento presentato alle assemblee preparatorie del Joburg 2040 è scritto: «più partecipazione dei venditori nelle decisioni e nella gestione del commercio di strada», in particolare «partecipazione a livello cittadino nelle decisioni sulle politiche da attuare e nelle modifiche da apporre ai regolamenti municipali» (Coalition of Johannesburg Street Traders 2011).18

Assegnazione degli spazi La responsabilità dell’implementazione, invece, è demandata al DED, che dovrebbe consultare i commercianti informali attraverso lo spazio “invitato” (Cornwall 2008) dell’Informal Trade Forum (ITF). Secondo i commercianti, l’ITF non viene regolarmen- te convocato e funziona solo per le questioni operative, come spiega un leader dei commercianti: «non c’è un forum in cui tutti gli stakeholder - inclusa la gente, i com- mercianti informali - siano chiamati a discutere questioni come la demarcazione, che comportano una più ampia discussione sulla pianificazione e riqualificazione della cit- tà. Invece, la municipalità sta vendendo siti ai grandi investitori. I grandi proprietari immobiliari decidono di sfrattare la gente e i venditori di strada!».19 Il coinvolgimento dei commercianti nelle pratiche di governance, in questa fase, è più diretto proprio perché sono minori gli interessi in gioco. Ma, attraverso l’analisi del 122 processo di assegnazione degli spazi, è altrettanto evidente l’entanglement dello Stato. Il processo è stato a lungo ed è ancora il pilastro su cui le autorità burocratiche muni- cipali basano il proprio potere, controllando e limitando il numero di commercianti. È in questa fase che si pone la questione molto complicata di definire la “legalità” e “legitti- mità” dei commercianti a operare nel centro cittadino. Come sottolinea Bénit-Gbaffou (2015: 61): «ci sono situazioni e posizioni diverse dei commercianti tra la legalità e l’illegalità. Essere registrati nei database del Comune o in quelli della CJP;20 possedere un tesserino magnetico (smart card); avere un posto in affitto e conservarne le ricevute di pagamento; avere assegnato un posto demarcato in una zona adibita a commercio – sono tutti diversi modi di definire cosa sia “legale”, che non sempre sono ben articolati e in cui è sicuramente difficile farsi strada». Una volta demarcata un’area, il comune dovrebbe identificare i commercianti da asse- gnarvi e, quindi, attribuire una smart card che avvalori legalmente il loro status. I criteri e le procedure per definire le liste dei commercianti cui assegnare i posti rappresentano tuttora una questione spinosa, come evidenziato dall’osservazione sul terreno delle diverse pratiche di interazione tra le autorità statali e i commercianti informali.21 Le au- torità municipali collaborano con i rappresentanti dei commercianti nell’identificazione e registrazione degli assegnatari, per cui diventa cruciale la questione della rappresen- tanza. Dall’evidenza empirica, emerge una disparità nel grado di partecipazione dei commercianti informali, denunciata anche dalla coalizione dei commercianti di strada

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Interno 2-3-2016.indd 122 19/07/17 16:59 di Johannesburg, nella piattaforma preparata in occasione del lancio della Joburg 2040, con la mediazione del sindacato, il Congress of South African Trade Unions (COSATU), in cui appunto si chiedeva di affrontare la corruzione del sistema e di partecipare al processo decisionale nella fase di assegnazione dei posti e di attribuzione delle tessere magnetiche (Coalition of Johannesburg Street Traders 2011).22 L’opacità e la lentezza nel processo cruciale dell’assegnazione possono essere conside- rate “disfunzionali” a un modello di governance orientato al mercato, ma sono “fun- zionali” al modo di potere attraverso cui le autorità municipali esercitano il controllo sui commercianti di strada. Si può ipotizzare che il sistema sia amministrato in modo da creare deliberatamente incertezza, per favorire interessi personali e mantenere la massa dei commercianti informali in una posizione passiva e sottomessa. A conferma di quest’interpretazione, si possono considerare le numerose zone mal amministrate, per lo più popolate da migranti o venditori non organizzati, in cui la presenza delle autorità municipali è visibile solo nella riscossione dei canoni di affitto e nel mantenimento dell’ordine attraverso una dura e severa applicazione della legge da parte della polizia municipale. Questo processo genera uno “stato d’eccezione” che mantiene i commer- cianti informali in una posizione di debolezza nei confronti delle autorità municipali e gli stranieri e i nuovi arrivati, a loro volta, in una posizione più debole rispetto ai com- mercianti sudafricani già stanziati, con conseguenti conflitti tra venditori sudafricani e stranieri, che si cristallizzano quando aumenta la concorrenza per la scarsità di siti (Bénit-Gbaffou 2015). 123

L’emergere di modelli empirici “privati” In questo sistema asimmetrico di governance, la cattiva gestione delle autorità muni- cipali va di pari passo con l’emergere di modelli imprenditoriali e aziendali di gestione dello spazio pubblico come quelli dei CID, in cui i mercati lineari sono gestiti dal settore privato in partenariato con le autorità pubbliche. Il CID è diventato un modello dominante nella ristrutturazione del governo locale in Sudafrica.23 Sebbene l’amministrazione del CID debba essere a sostegno delle autorità municipali, concentrandosi sui servizi di marketing, sicurezza, pulizia e manutenzio- ne degli spazi pubblici, la municipalità di Johannesburg si è progressivamente ritirata dall’amministrazione del centro, delegandola ed esternalizzandola a potenti agenzie del settore privato che sostengono i programmi di riqualificazione urbana, come la CJP. Naturalmente, anche il commercio informale di strada è stato toccato da questo processo di neoliberalizzazione. Inizialmente, i commercianti informali hanno preso posizione contro questo model- lo. In particolare, la South African National Traders’ Retail Alliance (SANTRA) criti- cò la rilocazione forzata di venditori di strada dalle zone “proibite” del nuovo CID di Braamfontein.24 Una volta che il modello del CID si è diffuso, la gestione del commercio informale nei linear market, come quello di Kerk Street nel Retail Improvement District

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Interno 2-3-2016.indd 123 19/07/17 16:59 (RID), è diventata la best practice da seguire (figura 1). È interessante notare che gli stessi leader dei commercianti informali, che in principio erano contrari alla formazione dei CID, sono ora quelli propensi a un modello di gestione cittadina che ne rispecchi l’efficace integrazione dei venditori di strada,25 nonostante esso sia un modello chiuso ai nuovi arrivati e non democraticamente partecipato. Infatti, la partecipazione dei commercianti si limita a una mera consultazione su alcune questioni operative che li riguardano direttamente, mentre il potere decisionale è strettamente nelle mani del consiglio di amministrazione del CID, controllato dai proprietari immobiliari e dalla grande distribuzione commerciale. La costruzione del consenso attorno a questo mo- dello, voluto non solo dal settore privato, ma anche dalle autorità municipali e dagli stessi commercianti informali, provoca riflessioni, nella prospettiva foucaultiana della governamentalità, sulla capacità del sistema di produrre “tecnologie del potere” e di alimentare “tecnologie del sé”, che servono gli interessi dei capitali (Steck et al. 2013: 159; Morange 2015).

Figura 1: Il modello di gestione dei commercianti informali nel Retail Improvement District

Sorveglianza dei Sicurezza h24 Servizi di pulizia commercianti

124 DED demarca le aree per il Pagamento commercio di strada imposta (parte del Media / Risolve diritto di problemi / co- JDA proprietà/valore decide costruisce le infrastrutture commerciale) Proprietari immobiliari e per il commercio di medio-grandi imprese RID operational manager

JMPD Discussioni quotidiane sui problemi applica le leggi incontrati dai commercianti/ soluzioni locali

Block leader MTC Eletto / informa sulle assegna gli spazi e riscuote i questioni in corso canoni di affitto

Commerciante di Commerciante di strada informale strada informale

Fonte: Grafico preparato per la Yeoville Studio Exhibition, 26 novembre 2011

Strategie diversificate nell’azione dei commercianti informali in relazione allo Stato La caotica amministrazione delle autorità municipali e l’emergere di un modello aziendalista nella gestione del commercio informale potrebbero non essere molto

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Interno 2-3-2016.indd 124 19/07/17 16:59 favorevoli all’azione delle organizzazioni di commercianti e alla creazione di movimenti sociali. Ma le forme di partecipazione, sebbene calate dall’alto, possono aprire spazi per contrattare visibilità, legittimità e rivendicazione dei diritti dei commercianti informali. Nel periodo esaminato tra il 2011 e il 2013, si è assistito sul terreno ai diversi modi dei cosiddetti processi partecipati e all’interazione dei commercianti con le autorità statali. Dall’analisi di tre momenti salienti (il lancio della strategia municipale del Joburg 2040, la piattaforma organizzata dal Governo provinciale del Gauteng e l’Operation Clean Sweep), si possono tirare le somme su mutamenti e continuità nella governance asimmetrica del commercio informale nel centro di Johannesburg: la “doppia agenda” delle autorità municipali e la conseguente diversificazione dell’agency dei commercianti informali. Durante il processo “partecipato” di elaborazione del Joburg 2040 nel settembre 2011,26 i commercianti informali furono invitati, insieme a tutte le altre parti interessate, a esprimere le loro rivendicazioni e presentare la loro piattaforma. Tuttavia, l’approccio dei funzionari comunali del DED non fu veramente partecipativo. Prima di arrivare agli incontri cittadini generali, fu convocata un’assemblea preliminare nella sede munici- pale, in cui i dirigenti comunali cercarono di condurre la discussione su temi predefi- niti, bloccando ogni questione proveniente dalla platea. Ma i commercianti informali, sostenuti da alcuni rappresentanti del COSATU e dai ricercatori dello Yeoville Studio, chiesero e ottennero più incontri in cui discutere ed elaborare una piattaforma prima di andare alla consultazione pubblica. Gli spazi “creati” di partecipazione (Cornwall 2008) produssero quindi un documento di posizione in cui i commercianti informali chiedeva- 125 no maggiore partecipazione, autogestione e impegno delle autorità municipali.27 Mentre i rappresentanti dei commercianti furono invitati a esprimere la loro opinione e presentare la loro posizione in incontri ufficiali, la polizia municipale vessava quelli che operavano nelle strade cittadine e, immediatamente dopo il processo di consultazione, alcuni funzionari municipali con l’ausilio di consiglieri dell’opposizione notificavano gli sfratti e cacciavano alcuni venditori dalle strade di diversi quartieri residenziali dell’in- ner city di Johannesburg.28 Nei mesi successivi si sono verificati ulteriori episodi di aggressione, tanto che i commercianti hanno richiesto e ottenuto, dopo diverse trat- tative, un’assemblea, l’11 maggio 2012, per discutere leggi e regolamenti sul commer- cio informale. Sebbene la municipalità dichiarasse ufficialmente di aver raggiunto un accordo con i commercianti sulla revisione dei regolamenti municipali, una tra le più attive associazioni, la SANTRA, che si presentò all’assemblea con dei legali, fu prati- camente estromessa.29 Questo episodio è interessante perché dimostra che, quando il confronto con le autorità municipali diviene conflittuale, le stesse bloccano il processo partecipativo; come dimostrato in altre situazioni in Sudafrica, la partecipazione delle parti interessate negli spazi “invitati” spesso si traduce in una “politica da spettatori” (Williams 2006). Il lancio di una nuova politica è ancora oggi, come in passato, l’occasione per le autorità municipali di riaffermare il proprio controllo sullo spazio e far rispettare “ordine e sicu-

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Interno 2-3-2016.indd 125 19/07/17 16:59 rezza”. Come denunciato dagli stessi rappresentanti dei venditori di strada,30 la strategia del comune di Johannesburg sembra essere una costante incorporazione selettiva di un numero limitato di venditori di strada, funzionali al proclamato sviluppo di una World Class African City, con l’esclusione, invece, della maggioranza di essi, criminalizzati e perseguiti come “illegali”. Tuttavia, i commercianti informali non sono passivi e la loro azione è capace di aprire e riconfigurare spazi e di combinare strategie differenziate nell’interazione con i diversi livelli dello Stato, come nei casi della piattaforma organizzata dal Governo provinciale del Gauteng tra il 2012 e il 2013 e il ricorso alla Corte Costituzionale contro le rimo- zioni forzate dell’Operation Clean Sweep a dicembre 2013.31 Sebbene quest’azione dei commercianti non abbia effettivamente riequilibrato le sfavorevoli relazioni di potere, ha comunque costretto il governo metropolitano a riformulare la propria governance urbana. Di fronte all’ambivalente strategia di stop and go del comune di Johannesburg, alcuni leader dei commercianti intensificarono i rapporti con il livello superiore del Governo provinciale, in particolare con il Gauteng Economic Development Portfolio Committee and il Gauteng Department of Economic Development. Il Governo provinciale del Gauteng aveva, infatti, adottato una politica sviluppista di crescita economica inclusiva nel Gauteng Employment Growth and Development Stra- tegy in cui fu data enfasi all’economia informale poiché considerata in grado di «ge- nerare reddito per coloro che non hanno accesso a nessuna fonte di reddito» (Gauteng 126 2011: 25). In linea con quest’approccio, tra il 2012 e la prima metà del 2013, i com- mercianti informali ebbero alcuni incontri prima con la Commissione per lo sviluppo economico, presieduta dal consigliere Nkosipendule Kolisile, e poi con l’assessorato, quando lo stesso Kolisile divenne assessore provinciale allo sviluppo economico. La piattaforma di dialogo creatasi fu utilizzata dai partecipanti per motivi diversi, ma tutti convergenti su un punto comune: aggirare il livello di Governo metropolitano. I commercianti informali giocarono sulla competizione politica tra i livelli di Governo, provinciale e locale, e tra gli attori politici per legittimare e consolidare la propria po- sizione e accountability.32 Si venne a creare un combinato disposto per cui, da un lato, l’assessore Kolisile, esponente del South African Communist Party (SACP) e dell’ala più laburista dell’African National Congress (ANC), portava avanti un’agenda politica basa- ta sull’economia inclusiva e sul lavoro dignitoso, per allargare e rafforzare il suo elet- torato in vista delle elezioni del 2014; dall’altro, i commercianti informali cercavano di rafforzare la propria posizione in opposizione a un’amministrazione municipale ostile, guidata da esponenti dell’ANC più inclini ai dettami della governance urbana neolibe- rale, per cui era prioritario raggiungere un certo livello di competitività internazionale. I commercianti informali legittimavano così la posizione del Governo provinciale nel costruire una piattaforma per la coalizione delle organizzazioni di categoria, in alter- nativa ai Governi metropolitani locali che invece, con le loro pratiche, ne acuivano la frammentazione e divisione.

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Interno 2-3-2016.indd 126 19/07/17 16:59 La strategia del Governo provinciale è stata quindi esplicitata in alcuni seminari tenutisi tra novembre 2012 e giugno 2013, in cui sono stati invitati a partecipare i rappre- sentanti dei commercianti informali (Matjomane 2013: 90-108). L’obiettivo primario era una “normalizzazione” del settore, assicurando un quadro giuridico in linea con il processo normativo nazionale, la regolarizzazione dei commercianti informali e la creazione di una piattaforma comune. Gli appelli alla regolarizzazione e all’unità fu- rono accolti favorevolmente dalla maggioranza dei rappresentanti delle associazioni dei commercianti, soprattutto nel seminario del 22 aprile 2013, quando rividero le loro posizioni sulle strategie di “regolarizzazione”, intravedendo delle opportunità nei nuo- vi programmi governativi. Sebbene la maggioranza delle organizzazioni comprendesse l’importanza dell’unità, emersero comunque divisioni nella conduzione del processo, che, insieme a vicende contingenti, portarono all’interruzione dello stesso.33 Questa strategia diversificata dei commercianti può esser letta come una «incorpora- zione selettiva dal basso» (Meagher, Lindell 2013: 68), che di per sé non implica però un consolidamento delle forme di organizzazione politica dei commercianti. La rete dei commercianti informali è, infatti, ancora fragile e ha difficoltà a rappresen- tarsi come un gruppo d’interesse e a raggiungere un livello di rivendicazione e azione politica. Le organizzazioni dei commercianti informali si mobilitano principalmente su temi che riguardano le attività quotidiane, come gli sgomberi, i soprusi della polizia e la confisca delle merci, qualche volta anche come strategia dei leader per controllare il processo di assegnazione degli spazi e trarne un vantaggio personale, piuttosto che su 127 rivendicazioni collettive sindacali che riguardano la loro posizione di classe in quanto lavoratori “casuali”, “marginalizzati”, “precari” sfruttati. Tuttavia, nonostante una lea- dership frammentata e personalizzata, i commercianti sono capaci di resistere e opporsi con successo alle ingiustizie strutturali, come nel caso dell’Operation Clean Sweep. Nell’ottobre 2013, il sindaco lanciò l’Operation Clean Sweep, che risultò in una ri- mozione forzata di migliaia di commercianti informali dal centro di Johannesburg. La campagna, ideata dall’assessore all’urbanistica, Roslynn Greeff, aveva come obiettivo il “risanamento” del centro urbano e la “lotta all’illegalità”, identificando come problemi principali da risolvere: il commercio illegale, lo smaltimento dei rifiuti, l’occupazione abusiva degli edifici e le connessioni illegali alle reti idriche ed elettriche. Sebbene il programma di azione fosse indirizzato ad affrontare il più generale problema del degrado urbano, conformemente al nuovo piano di trasformazione dell’inner city, l’at- tenzione fu posta solo sul breve termine operativo più facile da realizzare: rimuovere i venditori dalle strade – senza però offrire loro una soluzione alternativa. Quest’operazione era stata in realtà preparata da tempo, come si evince da due rap- porti redatti dall’assessore Greeff nell’ottobre 2012, che delineavano l’iniziativa Mayo- ral Clean Sweep all’interno della strategia più generale della città. Prima che partis- se l’operazione, il comune aveva intrapreso delle trattative con alcuni rappresentanti dei commercianti per individuare e rimuovere i commercianti “illegali”. Fu, infatti, solo

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Interno 2-3-2016.indd 127 19/07/17 16:59 quando la polizia, senza previa consultazione, cacciò indiscriminatamente autorizzati e non-autorizzati che i commercianti cominciarono a contestare l’operazione (Bénit- Gbaffou 2014: 6). Questo dimostra ancora una volta la contraddittoria doppia agenda delle autorità municipali. Nel momento in cui la municipalità cerca di attuare una nuo- va strategia “coesiva e partecipativa”, sostenuta da discorsi di sostenibilità e resilienza, contemporaneamente riattiva repertori e pratiche restrittive e repressive conseguenti a un “riordino neocoloniale dello spazio”. Nell’annunciare la riformulazione di una po- litica più proattiva, che coinvolgesse tutti gli stakeholder in un processo inclusivo, si è sentita la necessità di procedere a un’operazione di “piazza pulita” per tener fuori gli attori sociali indesiderati e incorporarne un numero ristretto. Ma, in questo caso, i commercianti criminalizzati hanno reagito con un’azione conflittuale che, in una certa misura, ha ostacolato e messo in discussione la strategia municipale. Dopo alcune trat- tative fallite con la municipalità per la verifica di un processo di ri-registrazione e una sentenza negativa dell’Alta Corte del Gauteng meridionale, due organizzazioni, la SAITF e la SANTRA, fecero appello con urgenza alla Corte Costituzionale. Il 5 dicembre 2013, la Corte sentenziò a favore dei commercianti, riconoscendo l’urgenza di fermare gli sgomberi e consentire agli stessi di tornare nei propri luoghi di lavoro. La sentenza della Corte fu una vittoria per tutti i commercianti, sia che fosse letta come il risultato di un’efficace strategia legale condivisa sia come una reazione degli interessi più ristretti dei commercianti “legali”. Nelle motivazioni della sentenza, pubblicate il 4 aprile 2014, 128 la Corte, oltre a condannare l’operazione come un atto in sé di «umiliazione e abiezio- ne», smascherava e limitava la politica restrittiva comunale, considerata come «illegit- tima», «indiscriminata», «fallace» e «in palese violazione dei diritti dei commercianti».34 In pratica, l’azione legale vincente ha mostrato le pratiche esclusive delle autorità mu- nicipali, basate su un’applicazione restrittiva della legge, giustificate cinicamente in termini di “convenienza” per nascondere il fallimento cronico della gestione del com- mercio di strada, nonostante un quadro normativo nazionale e municipale sviluppista. Inoltre, ha costretto, almeno temporaneamente, il comune di Johannesburg a trovare altre modalità legali meno restrittive per implementare la sua politica e a riaprire gli spazi di negoziazione con gli attori sociali. Dove porterà questo processo, è tutto da vedere. Sembra che le due associazioni che hanno fatto ricorso abbiano guadagnato un certo credito e una capacità di far leva sui funzionari comunali, cosa che, in prospettiva, potrebbe ristabilire un dialogo costruttivo tra le parti. Tuttavia, il processo “partecipa- to”, ma sterilizzato e depoliticizzato, intrapreso dal comune nel 2014 per delineare la nuova regolamentazione degli spazi per il commercio di strada in linea con la sentenza della Corte costituzionale, induce a una certa cautela. Contemporaneamente, sul terri- torio stanno nascendo forme di dialogo tra alcune organizzazioni dei commercianti e il settore privato per costruire proposte innovative di gestione, come il progetto pilota di Park Station, proposto dalla SANTRA e dal CJP, immediatamente dopo l’Operation Clean Sweep (Bénit-Gbaffou 2015).

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Interno 2-3-2016.indd 128 19/07/17 16:59 Conclusioni Negli ultimi decenni, il processo di neoliberalizzazione delle autorità municipali a Jo- hannesburg ha prima considerato le attività informali come un fenomeno temporaneo da eliminare con una crescita economica sostenibile. Quindi, per l’azione resiliente dei commercianti informali, il comune di Johannesburg ha elaborato discorsi più “inte- grati” di gestione del commercio informale, che però non sono stati corroborati da un’implementazione delle politiche adottate. Sono emerse contraddizioni evidenti tra i modelli normativi e quelli empirici di gestione. Il risultato è un sistema asimmetrico di governance del commercio informale nel centro di Johannesburg. In pratica, si possono osservare continuità storiche di strategie cooptative nelle politiche pubbliche: una “in- corporazione selettiva” di un ristretto numero di commercianti informali, che è funzio- nale agli interessi delle aziende che investono nella riqualificazione del centro, ma che produce l’esclusione, la criminalizzazione e la marginalizzazione della maggioranza dei commercianti informali. Le autorità municipali hanno così esercitato il loro controllo e potere sui venditori di strada attraverso una contraddittoria “doppia agenda”, in cui la retorica della partecipazione contrasta con l’applicazione repressiva della legge. Nono- stante ciò, i commercianti informali sono stati capaci di aprire e riconfigurare spazi e di combinare varie strategie nei rapporti con i diversi livelli dello Stato. Questa strategia diversificata d’impegno può essere vista come una “incorporazione selettiva dal basso”, per cui sarebbe utile capire quali gruppi o individui tra i venditori ne stiano benefician- do in termini di accesso alle strutture e alle politiche statali e/o in termini di voce poli- 129 tica. L’abilità di relazionarsi con lo Stato non sempre alimenta azioni politiche collettive perché le condizioni, le modalità e i tempi dell’interazione sono più spesso decisi dagli attori statali o del settore privato, soprattutto in un contesto di governance urbana asimmetrica e deliberatamente frammentata. Più i commercianti informali si vedono ristretto l’accesso allo Stato, più si pregiudicheranno gli spazi di negoziazione e rappre- sentanza collettiva che possono cambiare le politiche statali. Tuttavia, i commercianti informali di Johannesburg sono stati capaci di formare nuove, seppur embrionali, forme di azione e rivendicazione collettiva e di creare alleanze strategiche con altre istituzioni e organizzazioni per meglio rivendicare i propri diritti e proteggere le proprie attività.

Antonio Pezzano è Ricercatore a Tempo Determinato in Storia e Istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo dell’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”.

NOTE: 1 - Secondo la definizione data sul sito del Johannesburg City Improvement District (CID) Forum, i «City Improvement Districts (CIDs) sono aree geografiche in cui la maggioranza dei proprietari immobiliari decide di comune accordo di finanziare servizi aggiuntivi e integrativi a quelli normalmente forniti dalle autorità locali per provvedere alla manutenzione e alla gestione dell’ambiente pubblico a un livello superiore e così mantenere o incrementare i loro investimenti»: http://cidforum.co.za.

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Interno 2-3-2016.indd 129 19/07/17 16:59 2 - Per la storia dei commercianti informali di Johannesburg vedi Rogerson (1990), Rogerson, Beavon (1985), Beavon, Rogerson (1980, 1982). 3 - Dai 200-250 commercianti informali stimati in un’indagine del 1979, a Johannesburg si era passati, alla fine del 1987, a 1.004 venditori di strada registrati con una regolare licenza, per arrivare a 14.000 micro- commercianti, compresi quelli che lavoravano per i rivenditori formali, nel 1988, quando, nel solo mese di luglio, furono rilasciate 7.000 nuove licenze (Rogerson, Hart 1989: 35). 4 - Sul ruolo dell’ACHIB e della SBDC nelle politiche di deregulation dell’informale, vedi Pezzano (2004: 353-393). 5 - In un recente rapporto, Bénit-Gbaffou (2015: 60-61) discute le cifre dei commercianti di strada stimati nel centro di Johannesburg. 6 - Questa cifra rappresenta circa il 5% dell’intero fatturato dell’inner city, in confronto al 16% del settore commerciale formale. 7 - Per una critica allo sviluppo urbano post-apartheid di Johannesburg che produce nuove dinamiche di esclusione spaziale, vedi Murray (2008, 2011). 8 - City of Johannesburg (2005). 9 - City of Johannesburg (2006). 10 - City of Johannesburg (2011). 11 - Vedi interviste con Justice Mashele, MTC acting CEO, 22 novembre 2011; Hans Jooste, CJP general ma- nager, 28 ottobre 2011; Lebo Mashego, AFHCO Urban Development Manager, 18 ottobre 2011. Vedi anche Seminar on The South African Informal City, “The South African Informal City”, 15 novembre 2011: http:// www.informalcity.co.za/. 12 - GJMC (2001); City of Johannesburg (2007). Per un esame dell’elaborazione delle politiche, vedi Hlela (2003). 13 - Per l’approccio sviluppista al settore informale in Sudafrica vedi Dewar (2005); Davies, Thurlow (2009). 14 - Sul dibattito attorno ai concetti di «due economie» di Thabo Mbeki e della «economia informale», vedi Bond (2007); Frye (2007); Devey et al. (2007). 15 - Per il Sudafrica vedi Bond (2014) e Beall et al. (2002). 16 - Nella Parte C della Informal Trading Policy, riguardo allo sviluppo infrastrutturale, si afferma: «il DED creerà delle categorie e definirà i diversi tipi di mercati del commercio informale. In base a ciò, si stabili- ranno delle priorità nello sviluppo infrastrutturale. […] L’approccio del Comune allo sviluppo infrastrutturale 130 del commercio informale si riferirà alla categorizzazione dei mercati del commercio e all’identificazione delle priorità di sviluppo individuate dal DED». I “mercati permanenti” sono mercati al coperto attrezzati con servizi e strutture fisse; generalmente sono stati costruiti vicino alle stazioni dei taxi collettivi. I “mercati lineari” offrono riparo ai commercianti attraverso strutture essenziali di copertura e servizi minimi. Dal 2009, il comune di Johannesburg ha puntato allo sviluppo di questi ultimi nei nodi e nelle strade commer- ciali della City e dei CID. 17 - Il cambio di gestione dall’MTC alla JPC ha creato molta confusione tra i commercianti informali, pre- occupati di dover interagire sempre con gli stessi criticati manager e funzionari dell’ex MTC, trasferiti alla JPC (Matjomane, 2013). Sebbene questo passaggio sia stato presentato in termini di maggiore efficienza, in realtà si può sostenere che l’interesse principale della municipalità sia stato piuttosto l’ottimizzazione del valore delle proprietà comunali, funzione precipua della JPC, attraverso una più attenta gestione dei canoni di affitto per l’occupazione del suolo pubblico. 18 - Nel focus group del seminario sul settore informale organizzato dal Khanya-AICDD, il 24 ottobre 2011, Zacharia Ramutula, presidente di One Voice of All Hawkers Association, affermò che «la demarcazione era motivo di scontro», come è stato nel caso delle vie Rockey e Raleigh a Yeoville. 19 - Intervista con Sam Khasibe, 14 ottobre 2011. 20 - La Central Johannesburg Partnership (CJP) è una compagnia fondata nel 1992 per riqualificare l’inner city. Uno dei suoi principali compiti è la gestione dei CID. Ha diretto anche la lobby dei proprietari immo- biliari dell’inner city (JICBC) riconosciuta come uno degli stakeholder dalla Inner City Regeneration Charter. Attualmente la CJP lavora attraverso accordi di outsourcing, in partenariato con la Urban Genesis, e si occupa sempre più dell’amministrazione del commercio informale e dei taxi collettivi. 21 - Nel processo di elaborazione e attuazione del sistema elettronico di registrazione basato sulle smart card, l’MTC costruì un database empirico attraverso indagini e rilevazioni condotte con l’assistenza dei task team, organi consultivi composti da commercianti informali nominati - non eletti - nei forum, e dei block leader, individui che operano da molti anni in una determinata area, riconosciuti come tali dalla comunità. I primi sono percepiti dai commercianti come uno strumento della strategia cooptativa e di divide et impera, nelle mani delle autorità municipali; i secondi, invece, sono più popolari per la loro presenza duratura e conoscenza approfondita del territorio (Pezzano 2016: 504).

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Interno 2-3-2016.indd 130 19/07/17 16:59 22 - In una situazione in cui non c’è un’archiviazione dei dati affidabile - non essendoci database registrati elettronicamente, ma liste stilate a mano in ogni mercato - le autorità municipali, per controllare e gestire meglio il territorio, finiscono col favorire e rafforzare poteri informali, come già avvenuto in passato (Hlela 2003: 2), e col creare divisioni e contese tra le associazioni dei commercianti informali, incoraggiando com- portamenti corruttivi a discapito dei venditori più deboli e più poveri. 23 - Per un’analisi dell’emergere del modello dei CID a Johannesburg e in Sudafrica, vedi Peyroux (2008); Didier et al. (2012, 2013). 24 - Come espresso in SANTRA (May 2007), Johannesburg Inner City Summit: a community perspective of ur- ban regeneration, pp. 2-3, e altri comunicati stampa citati in Tissington (2009: 29; 32-33; 41-44), Edmund Elias, portavoce della SANTRA, era preoccupato che solo un numero ristretto di venditori di strada potesse operare in sicurezza nelle aree dei CID, mentre la maggioranza di essi sarebbe stata confinata in aree poco remunerative, sempre più affollate e mal amministrate, del centro cittadino o nelle township. 25 - Edmund Elias, comunicazione personale, 19 marzo 2013. 26 - Il Joburg 2040 è la strategia generale della città di Johannesburg lanciata dal neoletto sindaco, Parks Tau, nel 2011. L’approccio prefigurato contemplava un processo aperto al pubblico in cui erano previste, oltre ai dibattiti in seno all’amministrazione comunale e alle consultazioni con gli esperti, nove settimane tematiche, tra agosto e settembre, in cui stakeholder e decision-maker (le imprese, la società civile, le comunità e il governo) s’impegnavano a discutere tra loro. In particolare, la settimana sulla “crescita eco- nomica” si svolse tra il 24 e il 30 settembre. I contributi provenienti dai diversi settori furono sintetizzati ed elaborati nel documento programmatico pubblicato nell’ottobre del 2011. Vedi City of Johannesburg (2011). 27 - Vedi Coalition of Johannesburg Street Traders (2011). Gli slogan presentati nei titoli di alcuni dei punti programmatici erano «Nothing for us without us!» e «Work with us not for us!». 28 - Zacharia Ramutula in Johannesburg Informal Trading Forum, 14 settembre 2011; Lesego Motshegwa, Norwood street traders given the boot, in «North Eastern Tribune», 4 October 2011; Democratic Alliance cha- se the last three Norwood hawkers, SANTRA Press Release, 17 October 2011; Lesego Motshegwa, «National Traders’ Alliance fight -for street traders», «North Eastern Tribune», 20 October 2011. 29 - Pongoma, L., Informal traders rubbish ‘deal’ with Johannesburg, «The New Age Online», 17 May 2012: http://www.thenewage.co.za/50962-1009-53-Informal_traders_rubbish_deal_with_Johannesburg; The City of Johannesburg has lied about reaching amicable agreement with Informal traders, “ESSET Ecumenical Service for Socio-Economic Transformation”, 23 May 2012: http://esset-esset.blogspot.com/2012_05_01_ archive.html. 131 30 - Vedi le dichiarazioni di Edmund Elias, portavoce della SANTRA: «mentre l’assessorato allo sviluppo economico del comune di Johannesburg continua a predicare lo sviluppo, anche le repressioni continuano. L’assessorato continua ad agire in cattiva fede e a sostenere azioni punitive della polizia contro le stesse persone per cui hanno il mandato di amministrare», in SANTRA, Press Release, 19 February 2012. Già in passato, SANTRA aveva denunciato: «non si può continuare ad attuare vecchie politiche oppressive, mentre s’invocano nuove politiche sviluppiste», vedi SANTRA, Analysis of Johannesburg Micro Retailing and Servi- cing Status Quo, cit. in Tissington (2009: 43). 31 - Per maggiori dettagli vedi il sito Joburg Trade Resources: http://joburgtraderesources.wordpress.com/ 32 - Qui intesa nella sua componente sanzionatoria, vedi Kitschelt, Wilkinson (2007). 33 - La SAITF (South African Informal Traders Forum), una delle organizzazioni che da più tempo era stata coinvolta nelle pratiche del governo provinciale, fu invitata a organizzare incontri preparatori e una road map per arrivare con una posizione unitaria al successivo summit di luglio. Nonostante divisioni e compe- tizione tra i leader, il Summit si tenne, il 9 e 10 luglio, preceduto il giorno prima da una visita dell’assessore Kolisile nel centro di Johannesburg, e delineò la strada verso la creazione di un ente associativo di secondo livello, che rappresentasse tutti i commercianti informali del Gauteng, e la formulazione di una politica provinciale, che considerasse, oltre a progetti di micro-finanza, la xenofobia e la corruzione nel settore, le vessazioni della polizia e la vittimizzazione dei venditori di strada. Questa strategia si sarebbe dovuta realizzare insieme alle municipalità locali e alle forze dell’ordine, seguendo un approccio inter-governativo, per concludersi nel luglio 2014. Qualche giorno dopo il Summit, l’assessore Kolisile morì in un incidente stradale. La sua morte improvvisa arrestò il processo, a dimostrazione del fatto che, spesso, l’attuazione del- le politiche pubbliche, così come la capacità dei cittadini di essere ascoltati, più che rispondere a strategie formalizzate più generali e universali, è influenzata dalla competizione politica dei e nei partiti, sia verticale che orizzontale (Bénit-Gbaffou et al. 2013). 34 - Per le motivazioni della sentenza e tutta la documentazione legale, vedi: http://www.seri-sa.org/index. php/19-litigation/case-entries/206-south-african-informal-traders-forum-and-others-v-city-of-johan- nesburg-and-others-saitf.

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Interno 2-3-2016.indd 133 19/07/17 16:59 L’ideologia neoliberista e lo “sviluppo” delle città africane: il caso del mercato di Kisekka (Kampala, Uganda) Anna Baral, Luca Jourdan1

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1. Introduzione Le politiche dello Stato-Nazione, incluse quelle urbane, possono essere descritte come formazioni discorsive che dipingono un ideale di realtà mai neutro, «configurazioni di idee che forniscono i fili con cui le ideologie sono tessute» (Shore, Wright 1997: 18). La pianificazione urbana ha pertanto un forte carattere ideologico che nell’età con- temporanea assume le sembianze del neoliberismo (Gunder 2010; Kinyanjui 2014) e, aggiungiamo, uno scopo morale e moralizzante di modellare assieme alla città anche i suoi cittadini. Lo Stato neoliberista infonde poi nelle pratiche di implementazione una violenza nuova, punendo voci alternative. Nonostante ciò, lo Stato non agisce incon- testato. Pratiche di resistenza e sopravvivenza quotidiane rallentano i grandi piani, alle cui aspirazioni morali vengono contrapposti dal basso codici diversi. Le città africane sono un contesto privilegiato per osservare il modo in cui le politi- che neoliberiste riconcepiscono il governo delle società, producendo al contempo una profonda trasformazione degli spazi urbani. Questi ultimi, in particolare quelli situati nelle zone centrali, diventano oggetto di speculazione e sono al contempo sottoposti a un’azione di “ripulitura” sociale e di securitizzazione. La pianificazione delle città sem- bra sempre più orientata alla produzione di uno spazio funzionale alle forze del libero mercato all’interno di un progetto che prevede l’eliminazione e la rimozione di tutto ciò

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Interno 2-3-2016.indd 134 19/07/17 16:59 che viene considerato un ostacolo allo sviluppo di tali forze. Gli slum, gli insediamenti e i mercati informali, dove prende vita un’economia che assicura il sostentamento di una parte importante della popolazione, sono il bersaglio principale delle politiche di stampo neoliberista che agiscono anche attraverso la produzione di nuove moralità il cui denominatore comune è la stigmatizzazione della povertà urbana. Ne consegue necessariamente un conflitto fra i valori istituzionali e quelli espressi dai soggetti de- stinatari delle politiche di pianificazione, che spesso tendono a rinegoziare le condizioni e i requisiti per l’inclusione nello spazio urbano. Nella capitale ugandese, Kampala, quanto delineato sopra si è manifestato con sempre maggiore forza nell’ultimo decennio. Questo articolo esplora dapprima i precedenti storici di questi processi, per coglierli successivamente nella loro dimensione concreta contemporanea, a partire dall’analisi etnografica del caso del mercato di Kisekka, situa- to nel centro della città. Kisekka rappresenta un luogo di osservazione privilegiato per illuminare i processi di formalizzazione e razionalizzazione dello spazio urbano nelle loro implicazioni non solo economiche, ma anche di governance e morali. Sino a qual- che hanno fa, Kisekka ospitava un grande mercato informale in cui l’attività principale era la vendita di pezzi di ricambio per autoveicoli. Nel 2014, in seguito a un accordo fra l’amministrazione cittadina e quella del mercato, Kisekka è stato raso al suolo con il progetto di sostituirlo con un grande centro commerciale. Vedremo come i lavoratori hanno reagito a questo progetto, sia appropriandosi delle ideologie del potere, sia ma- nipolandole a loro favore. 135 Nella prima parte dell’articolo ci soffermeremo sull’evoluzione delle politiche di pianifi- cazione di Kampala a partire dall’epoca coloniale sino alla metà degli anni ’80, quando salì al potere Yoweri Museveni, ancora presidente al momento della stesura di questo testo. Come vedremo, la pianificazione di Kampala durante la dominazione britannica si è articolata intorno a due assi principali: da un lato, l’esigenza di produrre uno spazio urbano che rispettasse i canoni coloniali della segregazione razziale, la quale veniva le- gittimata attraverso un discorso prima igienista e poi sviluppista; dall’altro, l’utopismo dei movimenti urbanisti europei che spesso hanno concepito le città africane come un contesto “vuoto” e quindi ideale per la sperimentazione. In entrambi i casi, ci sembra che un importante motore della pianificazione sia stata la preoccupazione di domare spazi percepiti come pericolosi, malsani, fuori controllo. Nella seconda parte dell’articolo sposteremo lo sguardo sulla pianificazione contempo- ranea per osservare che, così come nella colonia, ancora oggi la pianificazione urbana si configura come un intervento sui cittadini e risponde al bisogno di governare quanto a quello di “moralizzare” gli spazi urbani, in una nuova prospettiva, quella neoliberista. Dopo aver presentato le principali caratteristiche delle politiche di gestione urbana di Kampala negli ultimi decenni, ci soffermeremo sulle vicende del mercato di Kisekka che fornirà sostanza etnografica alla nostra riflessione. Il materiale è stato raccolto fra giugno 2014 e gennaio 2015 per mezzo di interviste, conversazioni e un’assidua

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Interno 2-3-2016.indd 135 19/07/17 16:59 frequentazione degli spazi di Kisekka in cui i lavoratori si preparavano ad affrontare le conseguenze della demolizione del mercato. Come vedremo, le parole e le pratiche di alcuni gruppi che frequentavano quotidianamente questo luogo dimostrano la capacità che anche i cittadini più vulnerabili hanno di appropriarsi delle politiche istituzionali ed esercitare controllo sulle loro conseguenze, realizzando così la “governance reale” urbana tipica degli spazi informali.

2. La pianificazione coloniale di Kampala Per comprendere le implicazioni della pianificazione contemporanea in Kampala, è ne- cessario volgere prima lo sguardo a un passato con cui possiamo rintracciare importanti continuità. Nel periodo pre-coloniale l’area dell’attuale Kampala era la sede della capitale del re- gno del Buganda. Prima della dominazione inglese, la kibuga (termine in lingua luganda traducibile con “capitale”) era il centro del potere e delle istituzioni del regno: essa ospitava il palazzo reale (lubiri), ovvero un enorme compound dove risiedeva il re (Ka- baka) con le sue mogli e numerosi schiavi, l’esercito, le dimore dei differenti capi e un importante mercato. Si trattava, dunque, del cuore politico, economico e spirituale del regno (Roscoe 1911; Kaggwa 1934; Gutkind 1963; Médard 2007). Le vestigia del pas- sato pre-coloniale sono ancora visibili nella Kampala d’oggi: è sufficiente pensare alle tombe reali, situate all’interno di un grande edificio dal tetto in stoppia sulla collina di 136 Kasubi, che rappresentano al contempo un centro spirituale e un simbolo del potere del regno. Quest’ultimo, restaurato nel 1994 con un ruolo esclusivamente culturale, si pone di fatto in forte competizione politica con il Governo centrale (Oloka-Onyango 1997; Baral, Brisset-Foucault 2009). Per quanto la memoria dell’epoca pre-coloniale abbia ancora oggi una notevole impor- tanza nella rappresentazione locale del potere, l’organizzazione spaziale attuale della città è sostanzialmente avulsa da quel periodo. È durante la fase coloniale, infatti, che Kampala divenne un luogo di importanti trasformazioni e sperimentazioni urbanistiche che nel tempo hanno plasmato la città odierna. È dunque da questo periodo che pren- derà le mosse la nostra analisi per poi esplorare più a fondo le trasformazioni attuali legate alle politiche di stampo neoliberista. Ma prima di addentrarci in questa storia, è opportuno ricordare che durante il periodo coloniale il centro amministrativo britan- nico era Entebbe. A inizio del secolo scorso, Entebbe ospitava un numero maggiore di europei, perlopiù funzionari coloniali e qualche commerciante, rispetto a Kampala, seb- bene quest’ultima continuasse ad avere un’importanza maggiore in quanto capitale del Buganda. Tuttavia, in breve tempo Kampala confermò la sua centralità in tutti i campi, per poi divenire capitale dell’Uganda con l’indipendenza nel 1962. Concentriamoci dunque sull’area di Kampala. Il primo insediamento inglese fu il forte costruito intorno al 1890 da Frederick Lugard, militare e amministratore coloniale al servizio della Imperial British East Africa Company, sulla collina che prenderà il nome

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Interno 2-3-2016.indd 136 19/07/17 16:59 di Kampala (l’attuale Old Kampala). L’area, il cui nome deriva da una specie di antilope diffusa nella regione, era all’epoca terreno di caccia del Kabaka. In poco tempo l’inse- diamento inglese, affollato e colmo di empori, si espanse alla vicina collina di . L’anno fondamentale per le relazioni fra il regno del Buganda e l’impero britannico fu il 1900 quando venne siglato il cosiddetto “Buganda Agreement”, un accordo che stra- volgeva il sistema di gestione della terra. Le terre del regno, sino allora sotto l’egida del Kabaka, vennero divise e ridistribuite: la terra sotto il controllo del Kabaka e della sua famiglia fu notevolmente ridimensionata e alcuni capi locali furono cooptati nel siste- ma di gestione fondiaria. L’accordo segnò una nuova stagione nel rapporto fra spazio e potere e influenzò profondamente gli equilibri socioeconomici del regno poiché favorì l’emersione di una classe di piccoli proprietari. Dal canto suo, l’amministrazione ingle- se si accaparrò una parte consistente del patrimonio fondiario (Oloka-Onyango 1997; Médard 2007; Mutibwa 2008).2 A partire dal 1900 l’area della capitale venne divisa in due: da un lato la Kibuga, ovvero la zona adiacente alla collina di Mengo dove risiedevano i nativi africani e posta sotto il Governo del Kabaka; dall’altro Kampala, ovvero la municipalità sotto il controllo bri- tannico dove risiedevano europei e asiatici. Sebbene, come vedremo meglio in seguito, tale divisione si protrasse sino al 1968, nel corso degli anni la municipalità di Kampala continuò a espandersi andando a includere le colline adiacenti e parte della Kibuga. A sette anni dall’indipendenza, secondo i dati del censimento del 1969, l’intera area contava una popolazione di circa 332.000 persone (Langlands 1971: 66). La parte afri- 137 cana della città, esclusa da ogni serio tentativo di pianificazione urbana durante i primi decenni della colonia, si trasformò presto in un agglomerato di slum, antecedente dei più recenti insediamenti urbani informali (Omolo-Okalebo 2011). Nel periodo coloniale (1898-1962) le autorità britanniche perseguirono una logica di segregazione razziale nel governo e nella pianificazione della capitale. Il primo piano regolatore fu varato nel 1903 e ne seguirono numerosi altri.3 In linea generale, la storia della pianificazione urbana di Kampala può essere divisa in tre fasi principali: quella coloniale, caratterizzata come detto da un’organizzazione dello spazio urbano su base razziale; quella tra l’indipendenza e l’ascesa al potere del presidente Museveni (1962- 1986), caratterizzata da crisi politiche e violenza diffusa che trasformarono lo spazio urbano; infine il periodo attuale, che coincide con la presidenza di Museveni (dal 1986 a oggi) in cui la Banca Mondiale ha giocato un ruolo centrale nel definire le politiche urbane della capitale ugandese. Come detto, sino al 1968 la capitale era divisa in due: l’area della Kibuga, riservata ai nativi (soprattutto baganda), e quella di Kampala, riservata agli europei. La prima fu ignorata dall’amministrazione inglese che applicò i precetti della moderna pianifica- zione urbana soltanto alla seconda. Come argomenta Fredrick Omolo-Okalebo (2011: 96), la trasformazione urbana di Kampala nel periodo coloniale fu influenzata da tre principali correnti: in primo luogo, dalle idee utopistiche del XX secolo; in secondo luo-

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Interno 2-3-2016.indd 137 19/07/17 16:59 go, dalle politiche di sanità pubblica in difesa della salubrità della popolazione europea minacciata da patologie locali quali la malaria e la malattia del sonno; in terzo luogo, dalla segregazione razziale. Ci concentreremo ora su questi ultimi due punti che, come vedremo, sono profondamente intrecciati. La scoperta del plasmodio della malaria e della sua trasmissione per mezzo della zanza- ra anofele, a seguito degli studi del medico britannico Ronald Ross insignito del premio Nobel nel 1902, influenzò profondamente la pianificazione delle città coloniali (Njoh 2012). In particolare, si affermò l’idea che gli europei dovessero vivere separati dagli africani allo scopo di evitare le punture delle zanzare infette: il discorso bio-medico an- dava così a legittimare le politiche coloniali segregazioniste e razziste tipiche del primo ventennio del secolo scorso. Per quanto concerne Kampala, l’intreccio fra disposizioni sanitarie e razzismo emerge con chiarezza nel piano regolatore del 1919 che venne ela- borato dal Central Planning Board, un’istituzione che recepì le raccomandazioni di Wil- liam J. Simpson. Quest’ultimo, medico e professore presso la London School of Hygiene and Tropical Medicine, aveva redatto un rapporto a seguito di una missione in Kenya, Zanzibar e Uganda in cui sosteneva che, nell’interesse di ogni comunità, era indispen- sabile che la pianificazione cittadina predisponesse quartieri ben distinti e separati per europei, asiatici e africani (Omolo-Okalebo et al. 2010: 158). Secondo Simpson, la distanza fra gli europei e gli altri gruppi sarebbe dovuta essere di almeno 300 iarde da adibire a una cintura verde che in Kampala è ancora ben visibile oggi nel grande campo 138 da golf alle pendici di , la collina che un tempo era riservata ai bianchi e dove si trovano oggi le residenze più prestigiose della città. Sebbene, a partire dai primi anni ’20, il Governo coloniale avesse rinunciato formalmen- te alla politica segregazionista, tale idea continuò di fatto a guidare i piani regolatori di Kampala negli anni a venire. Per il piano del 1930 l’amministrazione britannica in- gaggiò Albert E. Mirams e il tenente colonnello James: il primo era un noto consulente di pianificazione urbana con una lunga esperienza in India, mentre il secondo era un esperto di malaria. Il risultato fu un piano regolatore basato ancora una volta sull’idea di segregare gli europei, gli asiatici e gli africani in zone urbane distinte. Come in pas- sato, non era prevista la costruzione di una zona residenziale per gli africani ai quali era riservato lo spazio della Kibuga che non era oggetto di alcuna pianificazione. L’ammi- nistrazione britannica, infatti, preferiva che i nativi non risiedessero permanentemente in città e tentava di far sì che questi migrassero stagionalmente fra la zona urbana e i villaggi rurali (Omolo-Okalebo 2011: 67-70). Disordine, sporcizia e malattie erano i pericoli associati alle zone abitate da africani, che venivano così arginate grazie a una pianificazione “razionale”. Con la fine della seconda guerra mondiale furono introdotte alcune novità. Nella se- conda metà degli anni ’40, la capitale ugandese fu al centro del lavoro dell’architet- to tedesco Ernst May, il quale era fuggito dalla Germania nazista e aveva iniziato a collaborare con le autorità coloniali britanniche, dapprima in Kenya e, dal 1945, in

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Interno 2-3-2016.indd 138 19/07/17 16:59 Uganda. Ispirato dal Garden City Movement, May realizzò un piano di estensione della città che prevedeva la creazione di nove insediamenti connessi fra loro, ciascuno dei quali collocato su una collina circondata da una cintura verde, che avrebbero dovuto ospitare i nuovi migranti dall’Europa e le classi lavoratrici africana e indiana. Per quan- to lo stesso May fosse persuaso che gli africani fossero poco propensi a trasferirsi in città, egli intendeva favorire l’inurbamento poiché, secondo un’idea piuttosto diffusa all’epoca, questo avrebbe incentivato la crescita economica e di conseguenza avrebbe permesso agli africani di migliorare il proprio tenore di vita. Tuttavia nei suoi lavori in Africa adottò uno stile architettonico meno audace rispetto ai suoi progetti europei, presupponendo che il continente necessitasse di un passaggio graduale dalle forme abitative tradizionali a quelle moderne. Lo studio di May fu pubblicato in un rapporto (May 1947) e, successivamente, il protettorato decise la costruzione a Kampala di due quartieri, e Naguru, che furono i primi insediamenti pensati esplicitamente per ospitare la forza lavoro africana e indiana da impiegare nelle industrie a guida statale a cui si affidava lo sviluppo del Paese (Byerley 2013). Non veniva però abbandonato il principio segregazionista: i quartieri progettati per gli europei sulle pendici nord e ovest di Kololo prevedevano residenze in ampi compound, mentre il quartiere popolare di Nakawa, pensato per gli africani, si sarebbe articolato in fitte abitazioni a schiera (Gutschow 2004). L’universalismo architettonico, che aveva caratterizzato il lavoro di May in Germania e nell’Unione Sovietica, veniva di fatto abbandonato per lasciare spa- zio ancora una volta a una logica segregazionista. 139 Probabilmente anche a seguito del lavoro di May, con il piano regolatore del 1951 (Kampala Outline Scheme) si fece strada una nuova logica nella progettazione dello spazio urbano: sebbene non venisse abbandonata l’idea segregazionista, emergeva un tentativo di riorganizzare la città secondo criteri funzionali allo sviluppo industriale. Il territorio di Kampala fu diviso in cinque differenti categorie d’uso: 1) le aree residen- ziali; 2) la zona commerciale; 3) la zona industriale; 4) le riserve di foresta; 5) gli spazi aperti sia pubblici sia privati (Omolo-Okalebo et al. 2010: 164). Tuttavia il paradigma sviluppista si rivelò ben presto più un mito che una realtà: molte aree che erano state progettate per ospitare la classe operaia emergente furono trascurate dall’amministra- zione cittadina e andarono incontro al degrado e in breve tempo iniziarono ad avere la reputazione di luoghi amorali (Byerley 2013). Negli anni che seguirono l’indipendenza, l’idea di uno sviluppo industriale tramontò e le numerose crisi politiche portarono a uno stallo della progettazione urbana della capitale. Lungo tutta la fase coloniale, dunque, diversi paradigmi (razziale, modernista, svilup- pista) tradussero le stesse preoccupazioni di fondo: separare spazi europei e spazi afri- cani, questi ultimi interpretati alternativamente come fonte di malattie, di disordine e sporcizia e rifugio di un’umanità percepita come profondamente “altra”.

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Interno 2-3-2016.indd 139 19/07/17 16:59 3. La Kampala post-coloniale A partire dall’indipendenza (1962), Kampala conobbe una forte crescita demografica. Gli uffici amministrativi, compreso il Parlamento nazionale, e gli uffici centrali di -di verse compagnie (le poste, l’East African Development Bank, le ferrovie, le compagnie aeree, ecc.) si spostarono definitivamente da Entebbe alla capitale, andando a incre- mentare la massa di lavoratori salariati di diversa origine etnica e impiegati in modo stabile oppure stagionale. Tuttavia, l’area metropolitana era ancora governata da quat- tro diverse autorità: da un lato, Kampala City e Mengo Municipality, di gran lunga le amministrazioni più importanti, al punto che si parla di dualità amministrativa per la citta; dall’altro lato, le unità amministrative minori di Nakawa Township e Town Board. Tale organizzazione rendeva difficile il coordinamento delle politiche ur- bane e soprattutto ostacolava l’attività della cooperazione, in particolare quella delle Nazioni Unite (Omolo-Okalebo, Sengendo 2011), un’istituzione destinata ad avere un ruolo centrale nella pianificazione della città negli anni a venire. Una prima missione delle Nazioni Unite, a seguito di uno studio condotto sul terreno, produsse un rapporto nel 1964 (Recommendations for Urban Development in Kampala and Mengo) in cui si sottolineava la necessità di creare un’unica unità amministrativa per l’intera area metropolitana, ma la proposta non ebbe seguito (Calas 1998: 66). Tut- tavia, l’abolizione dei regni tradizionali, compreso quello del Buganda, con la Costitu- zione del 1967 a opera di Milton Obote, segnò una svolta anche nella storia della città. 140 La destituzione del Kabaka, infatti, portò nel 1968 alla definitiva incorporazione della Kibuga (area di Mengo), la capitale del Buganda, nella municipalità di Kampala sotto l’egida del Kampala City Council (Omolo-Okalebo 2011: 69), un passaggio che sancì la fine del dualismo amministrativo che aveva sin lì caratterizzato il governo della città. Tale decisione era stata preceduta, nei due anni precedenti, da un continuo allargamen- to della municipalità di Kampala che aveva incorporato le aree di Kawempe, Lusanja, , Kiwatule, , e Mulungu (Omolo-Okalebo, Sengendo 2011: 66). Gli studi delle Nazioni Unite influenzarono il piano regolatore approvato nel 1973, il Kampala Master Plan. Per la prima volta si affermava l’idea di modificare radicalmente la capitale: da agglomerato circolare costruito lungo gli assi stradali che si diramavano da un unico centro, la città avrebbe dovuto svilupparsi lungo linee di comunicazione più lineari e disposte a griglia, prendendo così una forma pluricentrica. Come sostiene Ber- nard Calas, «il piano [...] si adattava alla rapida crescita demografica e, tenendo conto della forte percentuale di poveri (80% della popolazione), era sufficientemente demo- cratico per soddisfare i bisogni e i mezzi di tutti» (1998: 67). Ma la grave crisi politica che si abbatté sul Paese impedì la sua realizzazione: il Governo di Idi Amin (1971-1979) si trasformò ben presto in una dittatura estremamente cruenta basata sul terrore e i grandi piani urbani lasciarono spazio a più estemporanee campagne di “ripulitura” della città, che offrivano un pretesto per purghe urbane e per l’eliminazione degli avversari politici (Decker 2010). Sebbene gli anni ’60 e ’70 siano stati a livello internazionale un

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Interno 2-3-2016.indd 140 19/07/17 16:59 periodo ricco di idee innovative nel campo dell’urbanistica, nessun intervento di rilievo fu realizzato a Kampala a causa dell’instabilità politica e della mancanza di risorse. Come argomenta ancora Calas (1998: 108-129), negli anni ’70, il paesaggio cittadino venne plasmato non dalle politiche urbane, ma dalla violenza politica: il protagonismo dei militari lasciava le sue tracce nei muri trivellati della città dove vigeva un ordine dettato dal terrore, mentre l’espulsione degli asiatici per volontà di Idi Amin nel 1972 trasformò sia l’assetto sociale sia quello urbanistico. Essi, infatti, appartenevano per- lopiù a una classe media di commercianti, negozianti e lavoratori dell’industria, occu- pavano appartamenti popolari e spesso lavoravano in piccoli negozi con un deposito annesso. Tutti questi beni furono confiscati e vennero ridistribuiti fra la rete clientelare del dittatore: l’economia del Paese entrò in crisi e parallelamente il panorama urbano, privato di una classe sociale piuttosto attiva, si trasformò pesantemente; il regime di terrore finì per zombificare la città. I tumulti successivi alla caduta di Idi Amin, uscito di scena nel 1979, lasciarono spazio a una nuova stagione urbanistica, inaugurata dal Governo di Museveni e caratterizzata da un’ideologia neoliberista, che è divenuta egemone soprattutto a partire dal nuovo millennio. Fra le altre cose, essa prevede l’interazione di diversi attori politici a livello locale e internazionale; fra questi ultimi, la Banca Mondiale ha avuto indubbiamente un ruolo di primo piano. È dunque su questa fase contemporanea che si focalizzerà il resto dell’articolo. 141 4. Politiche urbane contemporanee a Kampala Le politiche neoliberiste, per quanto universali nella loro aspirazione, non possono pre- scindere da una dimensione locale e contestuale su cui si misuri il loro successo (Ahmed 2011; Parnell, Robinson 2012). Anche la governance attuale di Kampala si articola su più livelli, condizionata tanto da politiche internazionali quanto da conflitti politici locali e suggestionata dall’ambizione che la capitale debba rappresentare il Paese. «Kampala è la porta di ingresso e la vetrina dell’Uganda», sintetizzano i documenti degli urbanisti; «dipende dal Governo, ma la relazione è simbiotica, e il Governo dipende [...] dalla città» (Kampala Capital City Authority – KCCA 2012). Scale di rappresentazione e appartenen- za diverse imbrigliano Kampala e tracciano un’equazione fra lo sviluppo della capitale e l’amor patrio: chi critica le politiche urbane viene accusato non solo di ostacolare il progresso tout court (Byerley 2013), ma anche di mancare di patriottismo; viceversa, chi lamenta di essere danneggiato dalle politiche municipali esprime il proprio disagio come il risultato di un’esclusione dalla comunità nazionale. Allo stesso modo, guardare a un caso etnografico limitato e specifico come quello di Kisekka consente di rilevare tendenze locali e nazionali e il loro intreccio nelle vite dei cittadini. Riflettendo sviluppi globali, le vicende della governance contemporanea di Kampala hanno radici nelle politiche di aggiustamento strutturale degli anni ’90: decentraliz- zazione e privatizzazione hanno attirato investimenti locali e stranieri, coinvolgendo

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Interno 2-3-2016.indd 141 19/07/17 16:59 anche i mercati cittadini (Lindell, Appelblad 2009). Vent’anni dopo, l’aspirazione a «un settore privato vivace, indipendente e competitivo» e a un «Governo locale capace e re- sponsabile» (KCCA 2012: 181) rimane in gran parte irrealizzata, sebbene incoraggiata a più riprese dalle istituzioni internazionali. Sin dall’approvazione del First Urban Project del 1990, che prevedeva la modernizzazione di alcuni mercati e la fornitura di supporto tecnico per il management urbano (Gombay 1994), la Banca Mondiale ha sostenuto la municipalità con ingenti finanziamenti, l’ultimo del valore di circa 175 milioni di dollari.4 La governance di Kampala è inoltre terreno di un confronto politico tutto locale. Dal 2010 la città è governata dalla Kampala Capital City Authority (KCCA), presieduta sia da un sindaco, eletto ogni 5 anni e storicamente proveniente dalle fila dell’opposizione, sia da un direttore esecutivo nominato dal Presidente della Repubblica e incaricato di «assicurare una pianificazione urbana appropriata» (Government of Uganda 2010: parte III, art. 19). I due assurgono ormai a simbolo di due filosofie di governo urbano divergenti, strumentalizzate ai fini della competizione politica. Il sindaco attuale, avvo- cato di professione, ha riscosso successo nelle aree disagiate e fra i critici del Governo, presentandosi come difensore dei poveri e prestando talvolta la sua assistenza legale a casi dal forte valore politico. Il direttore esecutivo ha successo invece presso la classe media, mentre viene considerato dalle classi più povere responsabile delle sempre più aggressive politiche urbane che producono senzatetto e disoccupati. Il sindaco, sol- 142 levato dall’incarico nel 2013 per incompetenza e abuso di ufficio, ha dichiarato che questa e altre sue vicende giudiziarie sarebbero una «macchinazione di Museveni per screditare l’opposizione», attribuendo a questa i fallimenti nel governo della capitale e giustificando così la nomina correttiva di alleati del Governo alla massima carica cit- tadina.5 Parallelamente, il direttore esecutivo smentisce le accuse, affida ai suoi legali la gestione del conflitto e persegue con convinzione una politica indirizzata a rendere Kampala una città «vivace, attraente e sostenibile».6 Parte fondamentale di questa poli- tica è un ideale estetico tutt’altro che neutrale, la cui realizzazione ha coinvolto sinora i quartieri residenziali: pulizia, bellezza e sicurezza, ingredienti dell’«utopia neoliberista» (Ahmed 2011), escludono i quartieri poveri e consegnano la città ai paesaggisti e alle forze di polizia. L’arena più significativa del conflitto fra la politica militante del sindaco e quella ri- gorosa della KCCA, e dunque del Governo nazionale che vede in Kampala il banco di prova della sua efficienza, è il settore informale. Come riportato da Titeca e Goodfellow (2012: 8), l’83.7% dell’impiego in area urbana negli anni ’90 in Uganda proveniva dal settore informale; la Banca Mondiale rilevava nel 2005 come il 90% delle imprese pri- vate non agricole nel Paese fossero informali e prevedeva una crescita del settore del 20% annuo (World Bank 2005: 1). Nonostante la sua progressiva organizzazione in for- me di associazionismo ed esperimenti di integrazione nei sindacati, il settore informale rimane fragile ed esposto a strumentalizzazioni.

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Interno 2-3-2016.indd 142 19/07/17 16:59 La battaglia sul terreno dell’informalità è riassunta dallo slogan del trade order, parola chiave che sintetizza diversi compiti della KCCA - dalla regolazione della concorrenza all’amministrazione quotidiana del commercio informale, incluso l’arresto dei venditori non autorizzati e dei loro clienti. Nell’agosto 2011, il sindaco si è appellato alla Corte Suprema affinché annullasse le disposizioni emerse da un meeting sull’implementazio- ne del trade order, in cui il direttore esecutivo aveva ordinato lo sgombero di venditori ambulanti dalle strade del centro. Benché respinto dalla Corte, il gesto del sindaco ha rinvigorito la sua popolarità fra i venditori informali di Kampala.7 Se le parole chiave sono terreno di contestazione e mezzi fondamentali per l’egemo- nizzazione di una politica (Shore, Wright 1997), la spaccatura della cittadinanza, pro o contro il trade order, dimostra il successo solo parziale delle politiche di pianificazione recenti e fa eco a dinamiche del passato. La promessa di una città produttiva, sgombra di ambulanti e insediamenti temporanei - un’immagine non troppo lontana dagli ideali coloniali di una Kampala razionale, segregata e sgombra di cittadini improduttivi - lu- singa la classe media, ma esclude i lavoratori informali dalle deliberazioni sull’uso dello spazio cittadino e moltiplica la disoccupazione. Gli spazi informali della città continua- no così, decennio dopo decennio, a essere il banco di prova dell’egemonizzazione delle politiche istituzionali.

5. Kisekka Market: formalizzare per moralizzare Per molto tempo, i paradigmi succedutisi nello studio dell’economia informale hanno 143 considerato l’informalità un problema da risolvere (AlSayyad 2004; Munck 2013; Kin- yanjui 2014). Se la letteratura recente riabilita l’agency di chi lavora e abita nell’infor- malità, mostrando come i cittadini fruiscano produttivamente degli spazi urbani anche al di là delle regolazioni statali (Lindell 2010a), la città informale rimane un luogo da redimere: la dignità di chi pratica lavori informali viene riconosciuta a fatica e si sotto- valuta come formalità e informalità siano in realtà in rapporto osmotico (Hansen, Vaa 2004), come i lavoratori informali forniscano servizi essenziali alla città (Ahmed 2011), o come il settore informale coinvolga attivamente anche le élite globali (Lindell 2010b), rappresentando spesso una nuova forma di urbanizzazione più che un impedimento ad essa (AlSayyad 2004). Molti nostri interlocutori convenivano perciò con il Governo nell’interpretare l’implementazione del trade order come una via di fuga da malavita e povertà. Le attività svolte nel downtown di Kampala (che non a caso corrisponde alle zone ri- servate ai soggetti africani durante la colonia), il paesaggio urbano qui poco attraente e l’identità della popolazione che vi vive e lavora finiscono per influenzarsi negati- vamente a vicenda, in quel processo che Wacquant (2007) ha notoriamente definito «stigmatizzazione territoriale». Le istituzioni reagiscono a questa percezione rafforzan- do la vigilanza e ristabilendo ordine, regolarità, ma anche moralità nei comportamenti dei cittadini. L’affermazione del direttore esecutivo della KCCA, definitasi «sollevata»

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Interno 2-3-2016.indd 143 19/07/17 16:59 che uno dei più grandi mercati di Kampala fosse stato finalmente distrutto - privando circa diecimila persone del loro luogo di lavoro e fonte principale di sostentamento - suggerisce l’apprensione delle istituzioni nei confronti degli spazi informali.8 Wacquant (2012: 67) parla di «moral behaviourism» riferendosi al modo in cui Stato e polizia governano la città a colpi di sgomberi e azioni dimostrative contro i settori poveri della società, mentre Samara (2010) osserva come le politiche per la sicurezza si traducano in realtà nell’esclusione di gran parte della cittadinanza dagli spazi urbani migliori, lungo linee di razza e classe. Come durante le campagne di Idi Amin, anche oggi l’esercizio della forza dello Stato non si limita a pulire la città, ma arriva a moralizzarne i cittadini, trattando la povertà come un vizio e dunque eliminando quell’informalità che sembra incoraggiarlo. La KCCA è intervenuta in particolare sui mercati urbani come Kisekka, dove esercizi commerciali regolarmente registrati convivono con migliaia di venditori informali, privi di contratti, garanzie e protezione. I mercati rappresentano nodi cruciali per il funzio- namento della governance urbana e non stupisce che la municipalità vi abbia investito tante energie, prendendone diversi in gestione (come Usafi), distruggendone altri e sostituendoli con centri commerciali multipiano (come ), agendo talvolta attraverso il Markets and Trade Improvements Program (MATIP) sostenuto dal Governo e dall’African Development Bank. La riqualificazione di altri mercati (come Kisekka e Owino) è stata invece affidata a privati o ad associazioni di lavoratori. Indipendente- 144 mente dalla formula scelta, i venditori sono stati perlopiù costretti a spostarsi nei centri commerciali di grandi dimensioni proliferati in città, spesso proprietà di noti impren- ditori.9 Il centro commerciale spicca come simbolo estetico della città post-coloniale contrapposto ai mercati, che rimangono covo di quegli «elementi parassitari che mina- no gli sforzi di sviluppo nazionale», come venivano considerati i senzatetto e i disoccu- pati che affollavano le città coloniali (Burton 2007: 129). Tuttavia, fatta eccezione per quelli sontuosi sorti nelle aree residenziali, i negozi dei sovraffollati centri commerciali di Kampala sono piccole celle mal areate, illuminate solo dalla luce elettrica e pertanto esposte a costanti interruzioni di corrente. Rispetto ai mercati urbani, competizione e affitti qui sono alti, mentre i clienti scarseggiano soprattutto ai piani più elevati. Fra i mercati distrutti in vista di una riqualificazione vi è Kisekka Market, che fino al dicembre 2014 si estendeva su un’area di quasi due ettari. Con un numero stimato (per mancanza di registri completi) di circa diecimila lavoratori, quasi tutti informali, il mercato era diviso in una sezione interna dedicata alla vendita di parti di ricambio per autoveicoli e una strada esterna lungo la quale mediatori (brokers) procuravano i clienti, connettendoli ai venditori all’interno o ai meccanici che riparavano i veicoli sul posto. Il mercato è stato distrutto per essere riqualificato ed entro la fine del 2016 un moderno centro commerciale multipiano dovrebbe prendere il suo posto. Kisekka ha acquisito negli anni la reputazione di una zona mal frequentata: un posto di bayaaye (sing. muyaaye), termine luganda dalle molteplici sfumature e dalle impli-

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Interno 2-3-2016.indd 144 19/07/17 16:59 cazioni fortemente morali, che può essere reso con l’italiano “brutta gente”. È muyaaye chi mente, ruba, tradisce un’amante o un amico, ma anche chi non rispetta le norme culturali “tradizionali”, come osservavano i nostri informatori, o quelle contenute nel decalogo di ipotetici “valori nazionali” diffuso dal neonato Direttorato per l’Etica e l’Integrità. In un periodo in cui l’Uganda si spende in numerose e ambigue battaglie morali (si pensi alle leggi contro corruzione, pornografia e omosessualità del 2014) il campo semantico della parola bayaaye si amplia a includere le azioni di chiunque eluda le norme sociali e a chi sopravvive nella precarietà sottraendosi al controllo statale. Le condizioni di lavoro del settore informale a Kisekka hanno rafforzato lo stigma tanto sul luogo quanto sui suoi lavoratori. I mesi di ricerca sul campo hanno consentito di raccogliere testimonianze più lunghe, e seguendo un metodo longitudinale, fra i venditori; i negozi del mercato hanno rap- presentato angoli privilegiati di incontro in cui misurare la febbre del cambiamento urbano. Più frammentarie sono state le interviste ai brokers, generalmente più sospet- tosi nei confronti di un’etnografa non interessata a fare affari. Erano proprio questi ultimi a subire l’etichetta di bayaaye nel mercato; giovani quali erano, spesso privi di istruzione e alla loro prima esperienza lavorativa. Mobili nel paesaggio urbano e privi di legami con un settore specifico del mercato, essi ne rappresentavano la sezione più volatile, sempre disposta a manifestare violentemente. «Sono giovani, senza mogli né figli»,10 raccontava un commerciante seduto nel suo negozio all’interno di Kisekka, sug- gerendo che sia la mancanza di controllo del clan a rendere i bayaaye tali. Nonostante 145 svolgessero un ruolo fondamentale nel connettere mercato e clienti (nelle parole di un interlocutore, «i commercianti mettono il capitale, i mediatori [mettono] i clienti»), questi giovani uomini soffrivano lo stigma di ladri e malviventi. La reputazione di Kisekka è peggiorata con gli scontri che hanno segnato gli anni ’90 e 2000, in corrispondenza con l’affitto del suo titolo terriero a diversi attori – perlopiù associazioni semi-formali di lavoratori e imprenditori cittadini. Gli scontri più impor- tanti hanno avuto luogo nel 2007, quando il titolo è stato acquisito da un colonnello dell’esercito molto vicino a Museveni (Goodfellow, Titeca 2012). Non sarebbero state le prime né le ultime manifestazioni violente: ciclicamente, i disordini a Kampala trovano in Kisekka una fucina che ne moltiplica la veemenza. Secondo uno schema routinizzato che Goodfellow (2013) ha definito «politica del rumore», i lavoratori chiudono i negozi, lanciano sassi, bruciano copertoni, brandiscono cartelli e rami di alberi, un gesto che si ritrova nelle cerimonie tradizionali per segnalare rabbia o euforia. I giornali e i social network raccolgono un diffuso disprezzo del pubblico nei confronti di queste manife- stazioni da «hooligans»,11 ma, come nota Goodfellow, è questo il repertorio consolidato e più efficace con cui i lavoratori riescono a ottenere l’attenzione della politica. Ottenuto un incontro con Museveni nel 2009, i rappresentanti del mercato sono stati incoraggiati a costituire un’associazione che potesse rafforzare il loro controllo su Kisekka.12 È nata così la Nakivubo Road Old Kampala (Kisekka) Market Vendors Ltd., dalle

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Interno 2-3-2016.indd 145 19/07/17 16:59 cui fila si sono poi generati diversi comitati destinati alla direzione, amministrazione e sicurezza del mercato. I membri più abbienti hanno pagato l’equivalente di circa 300 dollari per contribuire all’acquisizione del titolo terriero e hanno lavorato alla stesura di un piano per la riqualificazione. Qualche mese dopo, una quota di circa 1000 dollari è stata richiesta a chi volesse partecipare alla costruzione del nuovo centro commerciale e assicurarsi un negozio al suo interno. Lo sforzo economico è stato ingente, ma l’accordo ha inizialmente portato grande ottimismo e un forte senso di legittimazione. Nelle nostre conversazioni a fine 2014, molti si dicevano orgogliosi («i lavoratori ora possiedono il mercato»), mentre i funzionari della KCCA descrivevano l’accordo come il successo di una politica di privatizzazione ormai matura e il portavoce di Kisekka apprezzava come i lavoratori, dopo tanti anni di «testardaggine» (stubborness), fossero finalmente «cresciuti».13 Una narrativa tanto ottimistica serve tuttavia alle politiche municipali (e indirettamen- te al Governo centrale che si serve della municipalità per mantenere il controllo sulla città più importante del Paese) per raggiungere l’egemonia cui aspirano. Trasmettere un’illusione di trasparenza e fiducia e sovrastimare la responsabilizzazione dei fruitori dei piani urbani è parte di quella «inclusione simbolica» che secondo Miraftab (2004) maschera una più profonda «esclusione materiale» nello stato neoliberista, mal celata dal linguaggio paternalistico del potere. Persuasi di partecipare alla produzione dello spazio urbano, i cittadini dimenticano le componenti più fortemente politiche di questo 146 processo e legittimano, riproducendola, l’ideologia delle istituzioni. Nel caso in questione, aspetti più stridenti dell’accordo sono stati a lungo sottovalutati. Se ai lavoratori è stata richiesta l’eroica presa in carico del progetto, il Governo ha con- temporaneamente sottratto loro sostegno economico e legale. Inoltre, l’associazione responsabile dell’accordo è costituita da una minoranza benestante dei lavoratori, che si è eretta a interlocutore privilegiato ma parziale della KCCA. Migliaia sono stati gli esclusi da quella che i media hanno salutato come una «tendenza moderna a incorag- giare i venditori a sviluppare i propri mercati, sotto la guida della KCCA».14 Inoltre, e più drammaticamente, una clausola dell’accordo condizionava la locazione del mercato a un’effettiva riqualificazione dello stesso entro cinque anni dalla firma, pena la restituzione del titolo terriero alla municipalità. Soli di fronte a un progetto complesso, i lavoratori hanno dovuto dar prova di comprendere e saper utilizzare gli strumenti burocratici e finanziari necessari. Il disegno del nuovo centro commerciale e la gara di appalto per la costruzione, rallentati da controversie interne, hanno subito nel 2014 una drammatica accelerazione, accompagnata da violenti confronti fra la di- rigenza e i lavoratori. Fatto interessante, tali confronti sono stati elaborati ancora una volta attraverso un vocabolario morale: il portavoce del mercato durante le riunioni con i lavoratori li incoraggiava a «mostrare il proprio potenziale», a «portare sviluppo» a Kisekka, ma anche a «comportarsi bene» (behave well) per «dimostrare» di «essere in grado» di gestire il mercato.15 Consapevoli di aver poco tempo per dimostrare il proprio

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Interno 2-3-2016.indd 146 19/07/17 16:59 valore, sotto esame, incalzati da scadenze e responsabilità, i lavoratori si dividevano fra speranzosi e disillusi.

6. “Brutta gente”, “bella vita”: la governance reale di Kisekka Market Un pomeriggio di gennaio 2015 Fred, meccanico di 56 anni che ha lavorato per almeno un decennio a Kisekka, stava appoggiato a una vecchia auto nel perimetro del mercato ormai ridotto a un deserto di macerie, con una birra in mano. Vedendo arrivare uno de- gli autori, l’ha invitata ad avvicinarsi per vedere il suo «nuovo business». A terra era teso un cavo di ferro, fra due blocchi di macerie: sembrava delimitare, su un lato, uno spazio che tuttavia non aveva altri confini. Questo« è il mio nuovo business», ha detto, «ho preso il controllo di quest’angolo. Adesso è un parcheggio. Tremila [scellini] al giorno, custodito: un buon affare! Nella nuova situazione, uno deve pur inventarsi qualcosa».16 Fred era membro di un gruppo che si era dato il nome di “Good Life” (Bella Vita). I suoi membri - una quindicina, informalmente uniti da vincoli di rispetto e amicizia - erano ex lavoratori informali di Kisekka che si incontravano quotidianamente in un angolo nascosto dietro le mura perimetrali del mercato, prima del suo smantellamento. Qui fumavano cannabis, bevevano birra e masticavano khat (un’erba stimolante), ma gesti- vano anche circoli di micro-credito per membri in difficoltà. «Bella Vita significa sentirsi al sicuro. Se qualcosa succede a me, succede a tutti» dicevano, descrivendo Kisekka come una rassicurante comunità morale per le vittime di uno Stato assente. Ogni giorno, i membri della Good Life, di volta in volta accompagnati da fidanzate, 147 mogli o amici, sapevano di potersi incontrare e discutere in questo spazio. Leggevano i giornali e consultavano i social network sugli sviluppi della guerra in Sud Sudan, le ventilate dimissioni di Mugabe o le manifestazioni contro Museveni. Uno dei membri, soprannominato “Avvocato” per la sua passione per la Legge, portava con sé Costitu- zione e Codice Penale e intratteneva con letture estemporanee le serate dopo lavoro. L’Articolo 1, «tutto il potere appartiene al popolo, che eserciterà la propria sovranità nel rispetto della Costituzione», suscitava sempre animate discussioni su come il piano di sviluppo del mercato non avesse invece tenuto conto della sovranità popolare. I Good Life lamentavano di essere stati esclusi dalla svolta epocale che l’accordo avrebbe dovuto rappresentare, non potendo permettersi né la quota associativa né quella per la costruzione del nuovo complesso. Accusavano i firmatari di aver imposto il proget- to alla maggioranza dei lavoratori senza offrire loro alternative e il Governo di averli dimenticati, venendo meno alle proprie responsabilità. Ritenevano dunque necessario rimandare la realizzazione del progetto a quando tutti i lavoratori avessero trovato una sistemazione temporanea in cui continuare a lavorare. La Goof Life che abbiamo incontrato nel 2014, sotto le tende di plastica che dovevano ripararci dal caldo sole pomeridiano, era il risultato di quasi un decennio di amicizie e condivisioni fra i membri “storici”, accomunati dai tanti scontri con la polizia, dagli sgomberi e dalla costante lotta per arrivare a fine giornata con qualcosa per le pro-

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Interno 2-3-2016.indd 147 19/07/17 16:59 prie famiglie. Non rappresentavano certo un’esperienza isolata, come ha dimostrato la ricerca condotta con altri gruppi interni al mercato dai nomi altrettanto evocativi. Un esempio sono i “Boko Haram”, noti per la loro tendenza alla violenza, ma parados- salmente guidati dal “Mandela di Kisekka”, un uomo musulmano conosciuto per aver ottenuto spesso compromessi con la municipalità e il governo del mercato. In un’altra sezione del mercato si potevano incontrare i ragazzi del “Benghazi”, giovani con una passione per la resistenza, «così come i libici». I ragazzi del “Corner”, invece, intervi- stati a lungo all’interno del mercato, rifiutavano la violenza ed erano meno critici nei confronti del Governo, tanto che, come vedremo, si sarebbero rassegnati più presto alle richieste della municipalità. La mappatura politica del mercato lasciava dunque spazio a tutte le posizioni; il caso di Good Life ci sembra particolarmente interessante perché unisce una forte critica politica ad un’astuta scelta delle tattiche a disposizione per resistere, contestare o piegare le istituzioni alle proprie necessità. La discussione su come lo Stato funziona e dovrebbe funzionare era portata avanti, fra loro, anche nel sovraffollato mercato urbano che l’opinione pubblica dipingeva come una roccaforte di teppisti disinteressati al convivere civile. Come negli insediamenti informali nel Mozambico di Nielsen, «no- nostante la produzione di idee locali sullo Stato avvenga attraverso ciò che i funzionari statali considerano pratiche informali e spesso illegali, i costrutti immaginari [ideatio- nal constructs] che ne derivano spesso finiscono per rafforzare gli obiettivi che lo Stato 148 si prefigge state-derived[ objectives]» (Nielsen 2007: 695). Le discussioni della Good Life, terapeutiche nella condivisione della frustrazione per «il sistema» (come Stato e Governo venivano definiti), non portavano infatti al rifiuto di identificarsi con il Paese, ma piuttosto al desiderio di essere interpellati nelle politiche di governance urbana e all’aspirazione a una cittadinanza piena. La frequente battuta «forse non siamo ugan- desi, siamo sudanesi?!» esprimeva ironicamente il rancore per l’esclusione da entrambe le dimensioni, urbana e nazionale, ancora una volta dimostrando come le vicende della governance di Kampala siano articolate su più livelli. I rapporti fra lavoratori informali e istituzioni non erano dunque univoci: la Good Life imparava, discuteva e proponeva tattiche disparate tanto per resistere quanto per confrontarsi produttivamente con «il sistema» e con il progetto di riqualificazione di Kisekka. Alcune tattiche avevano natura squisitamente spaziale, dimostrando come le politi- che neoliberiste possano vacillare proprio per via delle loro «limitazioni territoriali» (Dierwechter 2006). Il «nuovo business» di Fred ne era un esempio: escluso dall’accordo, con quell’atto fisico di delimitazione di un angolo di macerie Fred mimava l’ideale di imprenditorialità promosso dalle istituzioni, seppur rimanendo ancorato al profondo valore simbolico che quella terra aveva per lui. Uno spazio poroso, accessibile, im- bevuto di resistenza sfidava la parcellizzazione e privatizzazione volute dalla KCCA. Mentre tutti attorno procedevano a smantellare i propri negozi, la Good Life rimaneva ferma nei propri spazi, sulle proprie panchine improvvisate con assi di legno e tondini

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Interno 2-3-2016.indd 148 19/07/17 16:59 metallici, ultimo bastione contro un progresso ineguale. Queste tattiche non avevano l’aspetto di un’aperta resistenza, ma piuttosto quello della «tranquilla invasione» (quiet encroachment) di Bayat, un «silenzioso e graduale attivismo della base» (2000: 546) che ha tenuto lontane a lungo le pretese della municipalità. Informandosi sui loro diritti e doveri, i Good Life si preparavano inoltre agli inevita- bili confronti con polizia e giustizia, lubrificati negli anni da scambi di favori che un linguaggio intenzionalmente neutro nelle sue implicazioni morali definiva creativa- mente come «comprare il pranzo» o «pagare un servizio». Nonostante condannassero duramente la corruzione nel Governo, i membri della Good Life definivano la «piccola corruzione» (little bribe) uno strumento necessario per ottenere il rispetto dei potenti. Grazie a questa pratica, i membri potevano essere avvisati delle retate che la polizia spesso conduceva immotivatamente e hanno mantenuto la loro posizione all’interno del mercato quando altri l’avevano già evacuato. Altre tattiche erano più tipicamente insurrezionali: come detto sopra, manifestazioni violente sono scoppiate a più riprese, portando anche all’arresto di diversi membri della Good Life nel dicembre 2014. Anche in questo caso, pratiche direttamente antagoni- stiche al potere si sono intrecciate a negoziazioni per vie legali e formali. Se in passato il sindaco di Kampala, Erias Lukwago, aveva dato il suo appoggio legale ai lavoratori di Kisekka, gli scandali che l’hanno coinvolto negli ultimi anni hanno fatto allentare i rapporti e i lavoratori di Kisekka hanno dovuto procurarsi legali in grado di aiutarli. A dicembre 2014 gli arrestati sono stati trattenuti incostituzionalmente per più di tre 149 giorni nelle celle di polizia, per poi essere processati da un giudice che è sembrato prevenuto nei confronti di Kisekka sin dall’inizio dell’udienza. Di fronte a un giovane collega degli arrestati comparso per fornire la sua testimonianza, il giudice ha intimato che si chiudesse la camicia: «non siamo a Kisekka». Rivolto a una donna seduta vicino a noi durante l’udienza, in compagnia di un neonato, il giudice ha poi urlato: «allatti il bambino fuori dall’aula, non siamo a Kisekka». Queste frasi sono un ulteriore segno che presso le istituzioni il mercato è associato a modelli negativi di comportamento e alla mancanza di senso civico - un luogo di “brutta gente” da rieducare. Eppure al processo, mentre un avvocato inesperto pronunciava un’arringa confusa che non ha convinto il giudice, i membri della Good Life criticavano la sentenza con inaspettata dovizia di ter- mini legali. Le ore trascorse con i Good Life in tribunale ci hanno concesso di osservare la loro capacità di utilizzare gli strumenti che lo Stato ritiene legittimi per decidere della governance del mercato. Una delle vittorie registrate da chi in Kisekka era contrario al progetto di sviluppo è stata la sospensione del pagamento di tasse e licenze negli ultimi mesi del 2014: un accordo non scritto (ma confermatoci dagli ufficiali della KCCA) fra municipalità e mercato, finalizzato ad allentare la tensione fra attori formali e informali e a facilitare la transizione durante l’implementazione del piano. Se da una parte questo atteggia- mento rappresenta un «patto diabolico», come Tendler (2002, citato in Goodfellow,

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Interno 2-3-2016.indd 149 19/07/17 16:59 Titeca 2012: 8) definisce l’esenzione dalle tasse in cambio di appoggio politico, altre interpretazioni sono possibili. Come osservava Gombay in una Kampala meno recente ma già dominata dagli attriti fra mercati e municipalità, la scarsa legittimazione delle istituzioni e la loro incapacità di far valere il regime fiscale non significano la scompar- sa, ma semplicemente la trasformazione della governance urbana: essa ora «è portata avanti dai poveri urbani», mentre i ministeri e il municipio perdono terreno (Gombay 1994: 94). È questa, pensiamo, la governance urbana “reale” (Titeca, De Herdt 2011; De Herdt, Olivier de Sardan 2015), regolata tanto dal conflitto quanto dal concorso fra attori formali e informali, che caratterizza Kampala negli anni recenti e che le vicende di Kisekka Market esemplificano. Negli ultimi mesi del 2014, mentre in città registravamo battute e commenti su come Kisekka fosse ormai un mucchio di macerie abbandonato nell’anarchia, il mercato era invece tutt’altro che ingovernato. Per quanto non sempre legali, le tattiche della Good Life e la loro capacità di mobilitare l’appoggio di altri lavoratori esemplificano come il governo cittadino non si riduca a un grande piano im- posto dall’alto, ma rappresenti piuttosto un assemblaggio (nel senso inteso da Li 2007) di attori, pratiche, strumenti e documenti, in cui potere e resistenza circolano senza fissarsi una volta per tutte. Vorremmo perciò concludere con un’ultima osservazione su come tale assemblaggio non si fermi ai rapporti fra istituzioni e cittadini, ma influenzi profondamente anche 150 le soggettività di questi ultimi. Le politiche «[influenzano] il modo in cui le persone costruiscono se stesse, la loro condotta e le loro relazioni» (Shore, Wright 1997: 5) e hanno efficacia solo se i cittadini sono disposti a cambiare se stessi «in modo da contribuire... non per forza consciamente» alla realizzazione di modelli prescritti dalle istituzioni (Shore, Wright 1997: 6). Il modello di cittadino funzionale alle politiche della KCCA non è passivo, ma «autosufficiente, autonomo e autogestito» (Shore, Wright 1997: 33), imprenditore di se stesso. Fra i lavoratori di Kisekka, non tutti hanno in- trapreso un percorso di resistenza come quello dei Good Life: qualcuno fra i nostri informatori più abbienti ha tentato questa trasformazione, ma le condizioni strutturali hanno vanificato tale percorso di soggettivazione del cittadino-lavoratore neoliberista. Dopo la distruzione, i lavoratori che avevano risparmiato a sufficienza per permettersi affitti più alti di quelli pagati nel sobrio Kisekka Market si sono spostati negli edifici multipiano circostanti, arcades dai nomi esotici talvolta ancora in costruzione quando i lavoratori vi si sono trasferiti. Il trasferimento è avvenuto in corrispondenza col Capo- danno 2015, in un’atmosfera di ottimismo e speranza. Tornati sul campo pochi giorni dopo la demolizione di Kisekka, ed entrati nelle arcades brulicanti di persone, abbiamo osservato come molti avessero acquistato nuovi abiti da lavoro, le ragazze dei ristoranti avessero cambiato pettinature, alcune avessero anche ottenuto delle divise. I gruppi di colleghi che avevano lavorato per anni vicini, nel mercato aperto, si cercavano lungo i corridoi, incoraggiandosi; sulle porte dei negozi comparivano numeri di telefono, bi-

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Interno 2-3-2016.indd 150 19/07/17 16:59 glietti da visita improvvisati, nuovi loghi, nel tentativo di attirare nuovi clienti o ren- dersi accessibili ai vecchi. Facebook, WhatsApp e le e-mail venivano introdotte a pieno titolo nelle strategie di marketing per la promozione dei nuovi negozi, oltre a risultare fondamentali per mantenere i rapporti con le reti di informatori prima rintracciabili nei corridoi di Kisekka. Per qualche settimana, le interviste hanno raccolto l’entusiasmo per la sensazione di essere finalmente «professionisti» professionals( ). Tuttavia, l’ottimismo è durato poco. I lavoratori restavano ora più a lungo fuori casa, attendendo spesso invano i clienti; mentre Kisekka veniva chiuso da guardie armate alle 19.00 ogni sera, era ora più facile incontrare gli informatori due o tre ore più tardi, nelle arcades in cui si rimaneva a parlare, mangiare e bere sperando in un ultimo affare prima di tornare nelle proprie case. Lo sforzo fisico dei mediatori si era moltiplicato per connettere clienti in strada e venditori ai piani alti; la noia si era insinuata nei corridoi e agli imprenditori frenetici delle prime settimane si andavano sostituendo lavoratori stanchi e desiderosi di condividere le loro recriminazioni nel corso delle nostre conver- sazioni. La Good Life ha mantenuto invece il suo posto nel mercato (ormai ridotto a un deserto di macerie) fino a metà gennaio 2015. La loro presenza rappresentava un’ennesima tattica di resistenza e la prova del diniego di questo e di altri gruppi nei confronti del cambiamento in atto. Fermi sulle loro panche, nelle vecchie salopette blu sbiadite dal tempo, i membri ostentavano nelle nostre interviste uno sguardo sicuro e continuavano a bere e fumare fingendo di non sentire chi domandava cosa pensassero di fare ora che il mercato era ufficialmente scomparso. Dalle loro postazioni in cui li incontravamo, 151 ormai senza riparo né dal sole né da occhi indiscreti, guardavano i balconi delle arcades, pieni di lavoratori ozianti in attesa di affari. I Good Life ridicolizzavano l’illusione di progresso di cui secondo loro i colleghi più benestanti erano caduti vittima. Per membri come l’Avvocato, il piano di riqualificazione era chiaramente una mossa per liberarsi di cittadini-lavoratori scomodi, quelli informali senza capitale identificati con la crimi- nalità urbana. Ben consapevole delle tecnologie al lavoro per costruire cittadini ideali, l’Avvocato sorseggiava la sua birra calda e protestava: «Anche noi vogliamo il progres- so, ma il progresso non si può realizzare senza le persone... Vogliono solo cancellarci, perché noi siamo bayaaye». Questa sensazione si è rafforzata quando i lavoratori più precari hanno iniziato a spo- starsi nelle periferie meno costose di Kampala o sono tornati al villaggio dove hanno ricominciato a coltivare la terra del proprio clan. È sembrata così realizzarsi la profezia pronunciata nel 2007 dal ministro del Governo Locale, in occasione delle prime propo- ste per una riqualificazione di Kisekka: «Solo i commercianti con magazzini e chioschi registrati con la KCCA parteciperanno al progetto [...], non gli ambulanti e i piccoli criminali che operano [a Kisekka], vendendo pezzi di ricambio rubati».17 Otto anni dopo, i lavoratori informali più poveri, che per la loro condizione continuano a essere stigma- tizzati come inoccupati e ladri anche quando questo non corrisponda a realtà, pagano il prezzo del progresso urbano, abbandonando la città e rinunciando alle proprie attività.

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Interno 2-3-2016.indd 151 19/07/17 16:59 7. Conclusioni Nella prima parte dell’articolo abbiamo dato conto delle più importanti trasformazioni storiche del tessuto urbano di Kampala. In particolare, abbiamo cercato di svelare il nesso fra i regimi discorsivi e le politiche di pianificazione urbana nella situazione co- loniale. Come si è visto, le teorie igieniste hanno avuto un ruolo centrale nell’informare tali politiche e nel produrre di fatto uno spazio cittadino razzializzato in cui africani, europei e asiatici vivevano segregati. Nella seconda parte dell’articolo, invece, abbiamo osservato le vicende di un mercato urbano, che esemplificano la direzione delle politi- che urbane contemporanee a Kampala, influenzate tanto da tendenze globali tipiche dell’era neoliberista quanto da pratiche locali. Abbiamo suggerito che la pianificazione urbana abbia una missione anche morale, indirizzata soprattutto ai lavoratori informali, e mostrato alcune tattiche di resistenza e confronto che questi mettono in atto. Oggi come nella colonia, le politiche urbane rappresentano tanto un progetto di organizza- zione e formalizzazione spaziale quanto un laboratorio di formazione di un’umanità gradita al potere. Le politiche neoliberiste, tuttavia, non restano incontestate, come la “governance reale” di un mercato cittadino ha, speriamo, dimostrato.

Anna Baral è Dottoranda in Antropologia Culturale presso l’Università di Uppsala, Svezia.

152 Luca Jourdan è Professore associato di Discipline Demoetnoantropologiche presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, Università di Bologna

NOTE: 1 - Per quanto l’articolo sia il frutto di un lavoro collettivo, l’attribuzione della versione finale può essere ripartita nel modo seguente: parr. 1-3 Luca Joudan; parr. 4-7 Anna Baral. 2 - Il testo dell’accordo è reperibile online. The Uganda Agreement of 1900, “Buganda.com”, n.a: http://www. buganda.com/buga1900.htm#define. 3 - Altri piani regolatori furono promulgati nel 1912, 1919, 1930, 1951, 1963/4, 1972 e nel 1994 (Omolo- Okalebo 2011). 4 - Dettagli del progetto sono consultabili all’indirizzo: Second Kampala Institutional and Infrastructure Development Project, “The World Bank”, n.d.: http://www.worldbank.org/projects/P133590/kampala- institutional-infrastructure-development-project-2?lang=en&tab=details. 5 - Intervista a Erias Lukwago, gennaio 2015. 6 - Come si può leggere sul sito della KCCA: http://www.kcca.go.ug/. 7 - Vision Reporter, Lukwago requires KCCA chief not to evict street traders, «», 5 September 2011. 8 - Intervista a Jennifer Musisi, dicembre 2014. 9 - È il caso delle modernissima Acacia Mall, di proprietà del gruppo industriale Mukwano, il cui amministratore delegato è Amirali Karmali, uno degli uomini più ricchi in Uganda secondo fonti Forbes (Mfonobong Nsehe, Five Ugandan Multi-Millionaires You Should Know, “Forbes”, 6 novembre 2012: http://www.forbes.com/sites/mfonobongnsehe/2012/11/06/five-ugandan-multi-millionaires-you-should- know/#6f1f29a656a1). In occasione della sua inaugurazione, Museveni in uniforme militare ha pronunciato un discorso in cui fra l’altro si elogiava la laboriosità della famiglia Karmali, imprenditori da generazioni. Si può leggere il discorso del 20 giugno 2014 su Tap Into Abundant Wealth In the Country-President Museveni,

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Interno 2-3-2016.indd 152 19/07/17 16:59 “Uganda Media Centre”, 20 giugno 2014: http://www.mediacentre.go.ug/press-release/tap-abundant- wealth-country-president-museveni. 10 - Intervista a Y. S., 16 luglio 2014. 11 - Si vedano, per esempio, simili reazioni a questo post: https://www.facebook.com/nbstelevision/ posts/539708376120132. 12 - Taddeo Bwambale, Kisekka traders demand land title, «New Vision», 7 September 2011. 13 - Conversazione con L. S., gennaio 2015. 14 - Emmy Allio, Chris Kiwawulo, Madinah Tebajjukira, Sh13b to turn Kisekka Market into mall, «New Vision», 26 maggio 2007. 15 - Parole raccolte durante l’assemblea generale del 3 agosto 2014 nel mercato. 16 - Dalle note di campo del 2 gennaio 2015. 17 - Emmy Allio, Chris Kiwawulo, Madinah Tebajjukira, Sh13b to turn Kisekka Market into mall, «New Vision», 26 maggio 2007.

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Interno 2-3-2016.indd 154 19/07/17 16:59 Situare la “città futura” africana. Spazialità del potere e dislocazione della politica nei margini urbani in una prospettiva gramsciana (Nouakchott, Mauritania) Riccardo Ciavolella, Armelle Choplin

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Una recente letteratura interdisciplinare sugli studi urbani in ambito post-coloniale dipinge la città africana come uno spazio caratterizzato da dinamiche politiche contra- stanti. Prima di tutto, la governance urbana neoliberale, con i suoi linguaggi e procedu- re tecniche e gestionali che nascondono interessi parziali, avrebbe come conseguenza quella di depoliticizzare lo spazio pubblico urbano, soprattutto nei casi di grandi pro- getti urbani di impronta capitalistica o di programmi di riqualificazione di quartieri precari che, nell’ultimo decennio almeno, hanno trasformato tanto il paesaggio urbano quanto le strutture sociali delle città dei Paesi un tempo considerati periferici o «out of the map» (Robinson 2002) nella globalizzazione, come la Mauritania. All’effetto inibi- torio che la governance urbana vorrebbe indurre nella società urbana per condurre le proprie politiche si opporrebbe, per contrasto, una ripoliticizzazione dello stesso spazio urbano da parte degli abitanti. Nuove forme di mobilitazione e di contestazione pren- derebbero forma, in particolare, a partire dalle zone e dai quartieri più marginali. Nello studio delle città contemporanee, in effetti, gli urban studies insistono molto sulla ca- pacità di iniziativa e resistenza dei cosiddetti gruppi sociali “subalterni” urbani, ossia di quelle fasce della popolazione escluse dalla scena politica ufficiale e dai deboli processi di inclusione sociale ed economica della città.

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Interno 2-3-2016.indd 155 19/07/17 16:59 All’opposizione tra depoliticizzazione dall’alto e ripoliticizzazione dal basso corrisponde quello che potremmo considerare un doppio dislocamento spaziale della politica. Prima di tutto, lo spazio fisico, inteso in ambito urbano come terreno edilizio, è diventato uno dei luoghi principali di conflitto a causa dello sviluppo della speculazione e degli inve- stimenti capitalistici in ambito fondiario. Parallelamente, di fronte all’evoluzione post- politica delle istituzioni statali e internazionali verso una governance tecnocratica, il politico, inteso come dimensione conflittuale della vita sociale per dare direzione a un destino collettivo, si è gradualmente spostato dai centri istituzionali ai margini della società, se intendiamo con essi sia i margini sociali (gruppi subalterni) che i margini più propriamente fisici e spaziali, come periferie e baraccopoli. Molti studiosi di orientamento post-coloniale e post-marxista interpretano la dialettica tra tentativi di disinnesco della contestazione e l’emergere di movimenti di rivendica- zioni - ossia tra depoliticizzazione e ripoliticizzazione - come un’opposizione, in ter- mini gramsciani, tra un’egemonia urbana neoliberale e una politica locale che emerge negli strati subalterni della società urbana. Quest’articolo assume questa prospettiva, con l’intento tuttavia di superare alcuni limiti di un’applicazione troppo schematica e dicotomica del pensiero gramsciano per comprendere il divenire della città africa- na e le lotte politiche in suo seno. Si tratta di andare oltre alcuni limiti impliciti, da una parte, ad un’analisi della città “post-politica”, la quale insisterebbe troppo sulla capacità “egemonica” della governance di depoliticizzare la città, e dall’altra ad una 156 prospettiva “populista” che sovraccarica la “società civile” di aspettative rivoluzionarie. Attraverso il caso di Nouakchott, capitale della Mauritania, ci si propone di affrontare la questione inserendola in un quadro teorico gramsciano ispirato al suo concetto di “città futura” e possibilmente rigoroso dal punto di vista filologico, a proposito della “politica subalterna urbana”, tentando tuttavia di evitare la visione romantica, per non dire populista, che talvolta offusca il dibattito sulla subalternità. Con questi presupposti teorici, l’articolo si concentra sulle forme quotidiane di resistenza e di contestazione di alcuni gruppi “subalterni” mauritani: i giovani privati di prospettive, gli abitanti delle baraccopoli e alcuni gruppi sociali di origine servile. In quest’articolo, infatti, l’obiettivo è capire se le città africane contemporanee, e in particolare i loro margini, possono diventare il contesto sociale per la produzione di nuove forme di cittadinanza politica.

“La città futura”, la subalternità e la gioventù Cominciamo col vedere il modo in cui Gramsci ha teorizzato la questione della subalternità e come questa si relazioni con quelle della città e della cittadinanza. Negli ultimi anni, le scienze sociali hanno fatto un uso diffuso della nozione gramsciana di “subalternità” per analizzare forme di resistenza e mobilitazione politica popolare. Questo è vero per l’antropologia politica già dagli anni ‘80 (Comaroff 1985; Scott 1990; Ortner 1995; Moore 1998; Sivaramakrishnan 2005; Gledhill, Schell 2012), ma nell’ultimo decennio anche gli urban studies e la geografia critica sulle città hanno fatto

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Interno 2-3-2016.indd 156 19/07/17 16:59 ampio uso dell’armamentario teorico gramsciano. Ispirandosi più ai subaltern studies che direttamente a Gramsci, queste correnti di ricerca hanno infatti recuperato alcune nozioni del subalternismo di origine indianista per riscattarlo dalla sua origine “ruralista” (Guha 1997a) e così tradurle e applicarle all’ambito urbano, accentuando d’altronde la dimensione spaziale dei concetti gramsciani (Robinson 2006; Gidwani 2006; Roy 2011; Purcell 2012; Ekers et al. 2013; Kipfer 2013; Jazeel 2014). Questa letteratura pone grande enfasi sulla capacità di produzione di una politica autonoma da parte dei subalterni ed è evidente che in tale contesto il pensiero gramsciano assuma un posto centrale tra i riferimenti teorici. Tuttavia, tali riferimenti a Gramsci, alla sua nozione di subalternità e alla sua possibile traduzione per interpretare la situazione urbana odierna rimangono talvolta impressionistici, come si può desumere confrontandone l’uso con gli studi filologici più rigorosi del pensiero gramsciano sviluppatisi negli ultimi anni sia in Italia che a livello internazionale. In questa prospettiva, al fine di comprendere il legame tra città e politica dei subalterni, una riflessione filologica su alcuni concetti gramsciani - come quello celebre e molto utilizzato di “subalternità”, ma anche di altri meno dibattuti e impiegati, come quello di “città futura” che costituirà il cardine della nostra riflessione - può rivelarsi utile per esplorare nuove frontiere di senso che il pensiero gramsciano può offrire nello studio della politica dei subalterni nelle società e più particolarmente nelle città contemporanee. Nel 1917, mentre le gioventù europee erano costrette alle trincee della prima guerra mondiale, l’allora ventiseienne Antonio Gramsci pubblicò La città futura, un 157 numero speciale unico di rivista socialista. Tale scritto è oggi da molti considerato un’anticipazione di quello che diventerà, più tardi, il pensiero gramsciano maturo dei Quaderni del carcere (1975).1 La pubblicazione aveva una vocazione pedagogica, essendo votata a spronare e incitare i giovani, al contempo vittime del presente e potenziali artefici del futuro, ad assumere un ruolo storico e attivo nella trasformazione della società. Fu con questo intento di incitare i giovani alla responsabilità politica che Gramsci formulò l’espressione «città futura» e l’utilizzò «giocando» con la polisemia della parola «città». Se si tenta di tradurre in inglese o francese il titolo La città futura ci si rende immediatamente conto che il termine «città» ha in italiano una ricchezza semantica che in altre lingue si perde: la città al tempo stesso come urbs, come civitas e come polis, ossia come spazio urbano, come spazio legale e come luogo politico. Nell’invitare i giovani ad assumere un ruolo storico per la trasformazione sociale nella «città» Gramsci insisteva soprattutto sulla dimensione metaforica del termine. «I giovani», scrisse Gramsci, «sono come i veliti leggeri e animosi dell’armata proletaria che muove all’assalto della vecchia città infracidita e traballante per far sorgere dalle sue rovine la propria città». Ma per assumere pienamente tale ruolo avrebbero dovuto superare la loro «indifferenza» per la «città». Gramsci riconosceva nel fatalismo politico un tratto caratteristico del sentire di ogni classe subalterna, la cui condizione, secondo Gramsci, la pone in uno stato passivo, di indifferenza, di apatia politica (l’“apolitismo” di cui parlerà

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Interno 2-3-2016.indd 157 19/07/17 16:59 nei Quaderni). Le celebri parole d’apertura dell’articolo Odio gli indifferenti, apparso in La città futura, sono alquanto esplicite a questo proposito: «Odio gli indifferenti. Credo ( ) che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare […]. L’indifferenza è il peso morto della storia [...]. È […] la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica» (Gramsci 1917a). Gramsci intendeva infatti diffondere tra i gruppi popolari e in particolare tra i giovani una concezione della storia come un campo di battaglia e di opportunità aperte e in divenire, un terreno suscettibile d’essere modificato dall’azione storica e politica di soggetti che solo all’apparenza sono privi di potere: è questa la “città” come terreno di scontro politico e come terreno per la fondazione di una società emancipata, una “città futura”. L’espressione “città futura” può essere compresa appieno facendo riferimento ad altri concetti che tratta la pubblicazione gramsciana del 1917, come “ordine”, “buon senso”, “utopia” e “futuro”. Benché essi possano apparire in un primo momento slegati da questioni propriamente urbane, tali concetti permettono a Gramsci di declinare in modo organico i diversi significati di “città” e di “città futura” nei modi da lui intesi, poiché egli li riconduce alla questione della città come spazio di cittadinanza politica attiva e di trasformazione del reale. Per Gramsci, la parola “ordine” è dotata, nel linguaggio 158 della politica, di «un potere taumaturgico. Essa fa apparire l’esistente come qualcosa di «armonicamente coordinato» a tal punto che «la conservazione degli istituti politici è affidata in gran parte a questo potere» (ibid.).2 Questo spiega perché «la moltitudine dei cittadini esita e si spaura nell’incertezza di ciò che un cambiamento radicale potrebbe apportare». Come «terribile negriero degli spiriti», il senso comune oscura «l’ordine nuovo possibile, meglio organizzato del vecchio, più vitale del vecchio, perché al dualismo contrappone l’unità, all’immobilità statica dell’inerzia la dinamica della vita semoventesi. Si vede solo la lacerazione violenta, e l’animo pavido arretra nella paura di tutto perdere, di aver dinanzi a sé il caos, il disordine ineluttabile». Questa paura del cambiamento non conduce a una soppressione totale di ogni speranza di miglioramento presso le masse, ma queste trasferiscono tali speranze verso immaginari utopici, la cui funzione è appunto quella di identificare il miglioramento al di fuori del reale e dunque, se vogliamo, di situare la “città futura” al di fuori di un orizzonte storico. È così che Gramsci spiega la profusione di «profezie utopistiche»: in un contesto dove ordine e stabilità sono principi e valori ancorati al senso comune, l’unica maniera di pensare un’alternativa per le masse di allora era di «prospettare un assetto nel futuro che fosse ben coordinato, ben lisciato, e togliesse l’impressione del salto nel buio», che sostituisse all’ordine ingiusto, ma apparentemente inevitabile, dell’oggi un ordine giusto a venire. L’immaginario utopico delle masse trova nutrimento in alcune espressioni artistiche atte a interpretare, tradurre e manifestare i sentimenti popolari in

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Interno 2-3-2016.indd 158 19/07/17 16:59 un linguaggio letterario. È l’esempio in particolare della letteratura di viaggio d’evasione e utopistica dei vari Moro, Campanella o Swift, nella quale, attraverso la «fantasia e il sogno», «l’umanità ha cercato di evadere i limiti angusti dell’organizzazione cha la schiacciava» (Gramsci 1975: Q 6 § 28). Queste riflessioni matureranno più tardi nel celebre quaderno 25 intitolato Margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni, quaderno che costituisce il passaggio nevralgico e la formulazione più precisa della riflessione gramsciana sulla subalternità. In esso, Gramsci considera i romanzi popolari come «fonti indirette» (Gramsci 1975: Q 25 § 7) delle aspirazioni politiche dei subalterni, poiché «riflettono, molto deformate, le condizioni di stabilità e di ribellione latente delle grandi masse popolari» e «implicitamente le aspirazioni più elementari e profonde dei gruppi sociali subalterni, anche dei più bassi» (ibid.). Pur esprimendo una critica implicita dell’ordine esistente, l’utopia delle masse non è in grado di superarlo o sostituirlo. Se l’utopia popolare è sintomo acerbo e talvolta implicito di una critica dell’esistente, tale immaginazione critica deve tradursi in un progetto politico concreto, capace di affrontare le contraddizioni storiche del presente.3 Le utopie rappresentano una di quelle “tracce” che bisogna necessariamente recuperare per ricostruire il sentimento popolare e l’aspirazione politica all’emancipazione dei subalterni che secondo Gramsci, come si desume dallo stesso quaderno 25, sono da individuare, per pensare la possibilità che essi si attivino politicamente, in una «iniziativa politica autonoma» (Gramsci 1975: Q 25 § 2). Secondo il senso espresso in La città futura, immaginare il futuro, dunque, non dovrebbe significare, come è il caso 159 per gli utopisti, tentare di prevedere la società ideale a venire, ma manifestare una costante tensione verso la realizzazione di un principio morale, vale a dire il principio dell’emancipazione, «la possibilità di attuazione integrale della propria personalità umana» (Gramsci 1917a). Tale possibilità deve essere data a tutti coloro i quali Gramsci chiama i “cittadini”. Attraverso una disamina del concetto di futuro non come utopia ideale, ma come aspirazione radicata nella storia, Gramsci giunge così all’immagine della “città”: dalla città utopica dei romanzi popolari sognata in altro luogo e in altro tempo, si opera il passaggio alla città futura, intesa come uno spazio storico di cui, pur non lasciandosi prevedere nella forma, sarà il prodotto dello sforzo per l’emancipazione umana dei «cittadini». Gramsci ha avuto un enorme successo nella letteratura scientifica degli ultimi decenni nei cinque continenti anche perché le realtà, soprattutto italiane, da lui descritte negli scritti politici e nei Quaderni si prestano alla formulazione di analogie e “traduzioni” reciproche (Boothman 2012; Frosini 2003) - con le situazioni coloniali e post-coloniali più recenti nel Sud del mondo. È in questa prospettiva che ci apprestiamo ad effettuare una disamina di una situazione concreta africana come quella mauritana, in un esercizio che un teorico gramsciano ha chiamato «contrappunto» (Baratta 2007). A Nouakchott, i “giovani” si riconoscono come un gruppo sociale emarginato, escluso da un ambito politico percepito non solo come esclusivo ma anche gerontocratico,

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Interno 2-3-2016.indd 159 19/07/17 16:59 e poco considerato dalle politiche pubbliche d’ordine sociale e soprattutto culturale. Quella dei “giovani” è una categoria a cui spesso si fa riferimento nella retorica dei di- scorsi politici come “risorsa” per costruire il futuro della Mauritania, il contesto urbano non offre loro molte opportunità di affermazione individuale e sociale; di conseguenza, l’età in cui si è ritenuti “giovani” si sta espandendo, impedendo a una fascia sempre più larga della popolazione di accedere a una cittadinanza piena, rappresentata dall’acces- so al lavoro, alle sfere decisionali e alla possibilità di una riproduzione sociale. Tuttavia, tali giovani a tempo indeterminato trovano nell’ambito culturale e artistico una valvola di sfogo e uno spazio di espressione del loro malessere, dimostrando la loro capacità di articolare autonomamente discorsi culturali e politici spesso dissenzienti, ironici o criti- ci nei confronti tanto della società in generale che delle élite in particolare, in sostanza di ciò che spesso è percepito come “sistema”. La città, intesa come lo spazio urbano di Nouakchott, è il principale luogo di mobilitazione politica e culturale. Ma la città, come concetto, si presenta anche come principale riferimento della retorica di espressioni e manifestazioni artistiche e culturali, o più semplicemente dei discorsi correnti, dei giovani nelle affermazioni identitarie e nelle rivendicazioni di diritti di cittadinanza. Le questioni sollevate dai giovani trovano eco e al tempo stesso una loro elaborazione nelle espressioni artistiche, e in particolare nella musica rap, le cui rime manifestano un desiderio condiviso di trasformazione radicale della società presso i giovani di Nouakchott. Dagli anni 2000, rapper, pittori o musicisti partono dall’ambiente urbano 160 per creare ed esprimere i loro punti di vista sulla società. Il legame con la gioventù è spesso evidente, poiché essi stessi rivendicano di essere i portavoce dei giovani, i quali a loro volta li riconoscono volentieri come rappresentanti e megafoni del loro sentire e delle loro rivendicazioni, rendendoli dunque portatori della cultura urbana e giovanile emergente. Fortemente influenzati dalla “società civile” senegalese e dalla scena di Dakar, analizzate da Diouf e Fredericks (2013), giovani rapper e artisti hip-hop, provenienti dalle periferie povere di Nouakchott, hanno messo in pratica interessanti forme di espressione contestataria. Disegnando parallelismi con quello che in francese chiamano “cités” e “banlieues difficiles” o con i “ghetti”, in riferimento agli Stati Uniti, questi giovani emarginati vedono i loro quartieri come luogo di produzione di identità e di espressione politiche e culturali. Alla retorica dell’identità del “ghetto” e della “cité” fa da sfondo una critica della condizione stessa in cui sono costretti, per non dire relegati, i suoi abitanti. Quel che potrebbe apparire come un’ambiguità tra la celebrazione dell’identità di quartiere e la volontà di uscire dalla condizione sociale a cui il quartiere sembra destinare i suoi abitanti si spiega intendendo questo tipo di discorsi come l’espressione di una politica di “riconoscimento”, di enunciazioni critiche che tentano di dare visibilità e al tempo stesso dignità agli abitanti. Per il caso mauritano può valere quando detto da Diouf e Fredericks (2013) a proposito della sfera artistica e giovanile senegalese, dove l’insistenza retorica sulla cittadinanza locale, per noi espressa dall’identificazione con un quartiere urbano, serve a controbilanciare la

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Interno 2-3-2016.indd 160 19/07/17 16:59 debolezza di una cittadinanza nazionale che non è più, o non è mai stata, garantita dallo Stato. Al tempo stesso, però, la cittadinanza nazionale non è riconosciuta come l’ambito di emancipazione, per cui i giovani associano le affermazioni identitarie legate al proprio quartiere precario a speranze e aspettative il cui orizzonte sembra posto al di fuori della storia, attraverso discorsi e immaginari di evasione: lo stesso slittamento della contestazione dall’ambito politico a un’espressione puramente culturale e artistica sta a significare una sfiducia per la realtà politica del Paese. Questo non significa però che si possa sottovalutare la dimensione politica delle loro rivendicazioni e dei loro discorsi. Un cantante mauritano, Monza, fondatore del collettivo “Rue Publik” (un gioco di parole in francese tra “strada pubblica” e “repubblica”), ha recentemente spiegato che «il rap è la vera opposizione politica in quanto il rap parla al popolo. Alla fine, sono i rapper che diventano i veri rappresentanti del popolo».4 In modo simile, i testi dell’ultimo album del gruppo hip-hop Diam Min Tekky (Noi portiamo la pace), chiamato Rivoluzione, illustrano un crescente dissenso: «È come se non esistessimo in Mauritania [...] Nessuno gode dei propri diritti [...] Il giovane è oppresso [...] Noi, i “figli della città”, non abbiamo posti di lavoro, [...] Libera te stesso da questo governo, che non è qui per aiutarti [...] Non vi è alcun rifugio, senza futuro [...] Get it? Siamo arrabbiati» (Diop 2013: 317-318). Diam Min Tekky, Monza e tanti altri “figli della città” (fils de la cité) hanno cominciato a farsi sentire. Cogliendo l’opportunità di appropriarsi dei pochi spazi di libertà trascurati dallo Stato, in particolare quelli dell’espressione artistica e più recentemente dei nuovi 161 mezzi di comunicazione legati a internet, questa gioventù urbana sembra essere in grado di fare sentire il proprio peso. Se seguiamo la prospettiva gramsciana, tuttavia, è legittimo chiedersi se tale enfasi artistica e discorsiva sulla voglia di emancipazione e trasformazione sociale espressa da una gioventù senza prospettive sia in grado di tradursi in un progetto politico. Gramsci insisteva chiaramente sulla necessità di non slegare tali slanci retorici sulla “città futura” dalle concrete dinamiche storiche e da una prospettiva propriamente politica, affinché lo sfogo liberato dall’espressività artistica non porti alla sua soddisfazione e dunque all’esaurimento di ogni impulso e rivendicazione per un cambiamento reale. È per questa ragione che Gramsci non si accontenta di utilizzare il concetto di “città” in termini puramente metaforici, per evitare di produrre lui stesso dei vaghi proclami demagogici. Tanto ne La città futura quanto nei Quaderni la “città” in senso metaforico è infatti messa in relazione con l’analisi che egli fa della città reale, intesa come spazio materiale costruito, organizzato e densamente popolato. Per questa ragione passeremo ora alla disamina della lettura che Gramsci fece del processo disarmonico di urbanizzazione, in particolare per quanto riguarda l’impatto della città sulla subalternità delle masse popolari nel contesto di costruzione dello Stato italiano, per poi continuare nel nostro esercizio di analogia e contrappunto con il contesto mauritano.

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Interno 2-3-2016.indd 161 19/07/17 16:59 Il blocco storico tra città-campagna La città futura fu scritto a Torino dove, come noto, Gramsci giunse emigrando dalla Sardegna rurale, potendo così riflettere sui contrasti e i legami tra una regione essenzialmente rurale dove perdurava una situazione semi-coloniale di dipendenza nei confronti dello Stato unitario italiano e la città che da vecchia capitale sabauda si era trasformata in centro propulsore dello sviluppo capitalistico e della modernizzazione italiana. In quanto centro nevralgico della modernizzazione del Paese, Torino si rivelava, agli occhi del giovane attivista politico, il laboratorio potenziale della lotta rivoluzionaria del proletariato italiano in via di formazione. È in questo quadro che si può comprendere il legame tra l’uso politico e metaforico del concetto che Gramsci fa e l’analisi storico-politica della (incompiuta) modernità italiana attraverso il rapporto città-campagna. Per Gramsci, la questione della “città” serve soprattutto a gettare luce sul processo di costruzione della “cittadinanza” che accompagna la modernizzazione, e quindi l’urbanizzazione, di uno Stato in formazione: uno Stato che cerca una sintesi organica - un rapporto di rappresentanza e di articolazione reciproca - tra quel che Gramsci chiama la “società politica” e la “società civile”. Per Gramsci, il rapporto città-campagna è inizialmente caratterizzato da reciproco disprezzo di cittadini e contadini - usurpatori amorali gli uni e barbari incivili gli altri. Nonostante queste rappresentazioni intendano creare distinzioni e opposizioni tra i gruppi, Gramsci mette in evidenza come esse sussistano in un quadro dove aree urbane e aree rurali 162 si articolano reciprocamente. Il problema è che il loro rapporto rimane inorganico, nel senso che esso non sfocia in un’alleanza tra gruppi sociali - i proletari urbani e le masse rurali. L’interdipendenza tra gente della città e gente della campagna è invece assicurata da pratiche clientelari, facilitate dalla mediazione dei cosiddetti “intellettuali tradizionali” che connettono i due spazi rendendo però al tempo stesso inimmaginabile un’alleanza tra le rispettive masse. Per Gramsci, tutto ciò ha una conseguenza sulla costruzione del rapporto tra élite dirigenti e masse e tra Stato e società. Le opposizioni tra città e campagna sarebbero, infatti, fomentate dalle ideologie del potere, siano esse borghesi o fasciste. Queste ideologie sarebbero il riflesso di culture elitarie che, pur interessandosi al “popolo”, sarebbero tutto fuorché “popolar-nazionali” (Gramsci 1975: Q 15 § 20). Esse infatti descrivevano campagna e città in un’opposizione dicotomica che rifletteva e si spiegava con quelle antropologiche di natura e cultura, tradizione e modernità, autenticità e artificio e infine, per restare nel campo etimologico della “città”, di selvatichezza e civilizzazione. Benché prodotte da élite urbane, queste rappresentazioni non erano sempre critiche del mondo contadino: al contrario, di esso hanno spesso restituito un’immagine idilliaca, in una proiezione immaginaria di valori positivi sul mondo rurale dalla vocazione morale ed estetica che Gramsci definiva «strapaesana» (Gramsci 1975: Q 1 § 74, § 4; Q 22). Ma anche i discorsi positivi sul mondo rurale servivano a cristallizzare l’opposizione tra i mondi rurale e urbano. Di fatto, essi impedivano l’istituzione di un legame organico tra le due sfere, il solo a

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Interno 2-3-2016.indd 162 19/07/17 16:59 poter consentire l’allargamento della cittadinanza e la modernizzazione della società italiana.5 Questo era anche possibile perché l’Italia non aveva, eccezion fatta per Torino, città capaci di porsi come centri propulsori di modernizzazione sotto il segno e la guida di un proletariato urbano alleato alle masse rurali. In Mauritania, il processo di urbanizzazione non si è tradotto in un’espansione della cittadinanza. Se guardiamo alla storia del rapporto tra città e campagna, noteremo l’assenza di uno sviluppo urbano capace di assorbire e integrare socialmente grandi masse rurali che si sono riversate nelle città, soprattutto nella capitale Nouakchott, in particolare a partire dalle grandi siccità degli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso. La capitale è una città costruita ex nihilo nel 1957, per decisione di un regime coloniale agli sgoccioli e nella prospettiva di dare un tessuto urbano “moderno” al Paese in via di indipendenza. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuti attendere, Nouakchott non è stata in grado di trasformare lo status sociale tradizionale dei nuovi urbani e quindi di trasformare ex-schiavi, contadini e allevatori in proletariato urbano e ancor meno in classe media. Questo deriva anche dall’eccezionalità del processo di urbanizzazione, con la città che è passata da 500 abitanti alla sua fondazione a oltre un milione ai giorni nostri. Il ruolo economico di Nouakchott, peraltro, è orientato alle attività commerciali e terziarie. Le industrie sono assenti e la bassa capacità produttiva del Paese si concentra in risorse primarie estratte nel deserto o off-shore (estrazione mineraria e petrolifera, pesca) le cui attività transitano piuttosto dalla capitale economica, la città di Nouadhibou nel nord del Paese. Tali attività primarie, peraltro, sono controllate da società estere in un 163 tipico esempio di “estroversione” e i loro benefici sono redistribuiti localmente solo alla ristretta élite economica, e in parte politica, locale (Choplin, Lombard 2009). La vita dei mauritani si articola oggi in intense mobilità tra la capitale e le regioni rurali del Paese, mettendo questi spazi in dipendenza reciproca. Eppure, il notevole sviluppo di Nouakchott ha comunque prodotto una cultura “urbana” che si pone in maniera dialettica, e spesso critica, nei confronti del mondo rurale visto come “tradizionale”. Ne consegue talvolta un disprezzo reciproco, con gli urbani che considerano i rurali “selvaggi”, mentre questi criticano l’immoralità dei comportamenti dei cittadini. Allo stesso tempo, la città è vista dai villaggi come l’unico luogo dove ci siano opportunità di accumulazione di risorse, di diversificazione economica e di percorsi di vita collettiva e individuale emancipata. Al tempo stesso, la savana (badyyia per i mauri e ladde per i fulani) viene mitizzata dall’élite urbana come il “paese profondo”, la fonte di identità tribale o etnica e dell’autenticità della vita nomade, agreste e tradizionale del Paese (Choplin 2009). Come nell’analisi di Gramsci sullo “strapaese”, questi discorsi hanno un’implicazione politica: servono a stabilire un rapporto di rappresentanza tra la classe dirigente e la cosiddetta “Mauritania profonda”, svolgendo una funzione di legittimazione di un rapporto tra Stato e società, tra istituzioni e masse, che si articola in modi clientelistici (Ciavolella 2009, 2012a). Con tali discorsi populisti intesi a parlare a nome di un paese “profondo” - rurale e tradizionale - interdetto però alla modernità

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Interno 2-3-2016.indd 163 19/07/17 16:59 del potere, i diversi governi presidenziali, sia pretoriani che para-democratici, che si sono susseguiti fin dall’indipendenza hanno insistito su un presunto legame diretto tra la figura del capo, disegnata sulla matrice più antica del “sultano” (Ould Cheikh 2003), e gli abitanti della Mauritania profonda per restituire così l’immagine di un legame “organico” tra dirigenti e popolo, di una rappresentazione diretta che non ha dunque bisogno di ogni intermediazione politica. Questo collegamento simbolico, che potremmo dunque definire “populista”, costituisce una retorica demagogica che intende palliare l’assenza di una rappresentanza democratica delle masse da parte dello Stato e delle sue istituzioni. Si tratta di un populismo che delimita il “popolo” alla sua rappresentazione tradizionale, finendo così per essere funzionale alle logiche delle classi dirigenti in cerca di legittimità, ma incapaci, o proprio nolenti, a farsi portatrici degli interessi e delle aspirazioni di quelle masse che ormai da decenni si presentano sulla soglia dello Stato e della società. Tale legittimazione dello Stato e dell’élite attraverso il richiamo a un legame “tradizionale” con la “Mauritania profonda” non ha una funzione puramente simbolica e discorsiva. Essa intende fornire il quadro ideologico e discorsivo all’interno del quale poter giustificare e dunque sviluppare le pratiche clientelari, fondate appunto su reti e legami sociali “tradizionali” - tribalisti, etnicisti o localisti - che stabiliscono concretamente il legame tra classi dirigenti e masse: il clientelismo, lo ricordiamo, era per Gramsci una terza opzione dell’egemonia, a metà strada tra la coercizione violenta 164 e il consenso puro, per instaurare un rapporto egemonico tra classe dirigente e masse. Come dimostrato da diversi studi sulla Mauritania, tali pratiche permettono, oltre alla distribuzione di risorse, la costruzione di solidarietà sociali e fedeltà elettorali che associano le élite politiche, governative come d’opposizione, ai villaggi o alle regioni rurali di origine. Un ancoraggio “rurale” è infatti indispensabile, per esempio, per avere séguito e legittimità in qualsiasi campagna politico-elettorale in ambito nazionale e nella capitale (Lechartier 2005). Nel suo celebre studio su politica e identità etniche e tribali in Mauritania, Marchesin (1992) ha dimostrato come il clientelismo sia un «modo di governare» (mode de gouvernement) nevralgico del funzionamento del sistema politico e sociale del Paese. Tale clientelismo si regge su reti, alleanze, affiliazioni - e dunque obbligazioni - di tipo tribalista ed etnicista. Attraverso tali canali di solidarietà, ma soprattutto tali reti di dipendenza e interdipendenza che egli stesso crea o alimenta, il clientelismo permette di rinsaldare in modo relativamente stabile il legame tra Stato e società. Ciò costituisce un quadro favorevole alla stabilità di una certa configurazione di potere, poiché permette la riproduzione delle élite che beneficiano del sistema, potendo operare grandi e piccole «rivoluzioni passive» (Ciavolella 2009): per esempio, ricorrendo a strategie di «assimilazione molecolare» delle contro-élite che possono eventualmente sorgere in seno all’opposizione. Questo spiega perché i “cittadini” sviluppino l’impressione, e spesso la convinzione, che, nonostante i colpi di stato ricorrenti e le ricomposizioni interne, il Governo così come l’élite che detiene il potere

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Interno 2-3-2016.indd 164 19/07/17 16:59 siano essenzialmente stabili e impermeabili. Questo non significa però che il potere di governanti ed élite in Mauritania sia davvero impermeabile o che sia insensibile alle trasformazioni storiche e sociali determinate tanto da dinamiche interne che dall’integrazione del Paese a reti di flussi culturali ed economici internazionali le cui conseguenze sulla società non possono essere pienamente controllate da quelle stesse élite che in tali flussi tentano esse stesse di trovare nuove fonti di accumulazione.

Cittadinanza incompiuta e fratture sociali La tradizione indiana dei subaltern studies, sia per quanto concerne il periodo coloniale (Guha 1997b) che per quello post-coloniale (Chatterjee 2004), ha visto come limite principale alla costruzione della cittadinanza nel mondo uscito dall’Impero l’assenza di una classe - la “borghesia” nell’immaginario liberale europeo - in grado di farsi promotrice e dunque rappresentante degli interessi di altre classi, con le quali instaurare un legame organico. Per quanto riguarda l’Europa, questa lettura è stata recentemente criticata, peraltro dall’interno dello stesso dibattito indiano, da Chibber (2013), perché rappresenterebbe implicitamente la storia europea come segnata da una vera e propria egemonia borghese. Lo stesso Gramsci aveva infatti dimostrato che l’allargamento della cittadinanza borghese in senso universalistico restava un ideale, ma non un risultato compiuto. Secondo Gramsci, nell’Italia post-risorgimentale il potere borghese che guidava la costruzione nazionale e la modernizzazione del Paese non riuscì a istituire un’egemonia completa, sul modello idealtipico della borghesia e 165 dello Stato francese, poiché non riuscì a generare una cittadinanza borghese diffusa. La nostra ipotesi è dunque che, in Mauritania, le faglie potenziali nella stabilità del potere o quantomeno gli spazi sociali per l’emergere di contestazioni anti-egemoniche siano da ricercare nelle zone di esclusione della cittadinanza. La coesistenza tra pratiche clientelari e processi di modernizzazione, senza passare però attraverso la produzione di un proletariato urbano, è per Gramsci la condizione sociale necessaria per l’istituirsi di un blocco sociale tra città e campagne alla base dell’esclusione delle masse dal potere politico. Tale blocco sociale avrebbe infatti avuto come conseguenza, in Italia, di impedire una «dinamica espansiva» del regime di cittadinanza (Burgio 2007). Come nell’Italia descritta da Gramsci, anche gli Stati post-coloniali hanno avuto forme di governo incapaci di creare un vero e proprio legame organico tra élite e masse, dando luogo a sistemi gerarchici di cittadinanza e processi disuguali e selettivi di integrazione. A proposito di cittadinanza incompiuta, la Mauritania sembra rappresentare un caso coloniale e poi post-coloniale abbastanza tipico (Ould Cheikh 2014). Fin dall’indipendenza, il Governo ha inteso il processo di nation-building come un’opera di modernizzazione di un Paese quasi esclusivamente rurale: costruzione dello Stato faceva rima con urbanizzazione, ma anche e soprattutto con la formazione del cosiddetto “uomo nuovo mauritano”, in grado di muoversi dalla sua vita rurale tradizionale allo status di cittadino di uno Stato moderno, dal villaggio alla nuova

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Interno 2-3-2016.indd 165 19/07/17 16:59 capitale, grazie al lavoro delle sezioni territoriali del partito unico. Più volte rilanciato dai Governi succedutisi e rinnovatosi anche nella cosiddetta, seppur tentennante, era democratica cominciata agli inizi degli anni ’90, il progetto di costruzione nazionale attraverso la modernizzazione ha sempre trovato dei limiti in termini di espansione della cittadinanza. Pur fondando la loro legittimità su un rapporto populista con la Mauritania “profonda”, i Governi succedutesi e la classe dirigente hanno spesso accusato il presunto tradizionalismo della società civile mauritana di determinare la loro incapacità di integrarsi alla modernità; teoria secondo la quale, in pratica, l’assenza di una cittadinanza inclusiva sarebbe “colpa” dei cittadini stessi (Ciavolella 2012b). Una lettura più complessa permette invece di capire che la stessa modalità di governo che assicura il perdurare del blocco sociale al potere e che lega società politica e so- cietà civile - fondata su elitarismo, tribalismo, localismo, etnicismo e clientelismo - pur consentendo la costruzione di alleanze politiche e di legittimità, riproduce la frattura organica tra città e campagna, classe dirigente e masse, Stato e società, e sempre di più, in un contesto di accumulazione di risorse legate alle circolazioni globali da par- te di pochi, tra ricchi e poveri. Queste fratture sociali e politiche legate allo sviluppo dello Stato si sono così sovrapposte, senza confondervisi completamente, ad altri tipi di frammentazione della società mauritana sviluppatesi storicamente. Si tratta in par- ticolare delle gerarchie statutarie, che includono addirittura forme più o meno latenti di schiavitù, la cui eredità pesa sulle possibilità di una cittadinanza piena per una parte 166 significativa - e alcuni sostengono perfino della maggioranza - della popolazione; e si tratta anche della questione identitaria, più volte riaccesa nel dibattito pubblico e politico attorno all’appartenenza del Paese al mondo arabo o al mondo africano, con la ricorrente messa in discussione della cittadinanza mauritana - intesa nel senso di na- zionalità - delle persone identificate come “negro-mauritane” (wolof, fulani e soninké) originarie delle regioni meridionali, così come dei rifugiati, o dei loro discendenti, che furono costretti a lasciare il Paese nel 1989-91 per sfuggire a persecuzioni dette “etno- razziali”. Di fronte a tali fratture sociali e politiche - e non prettamente “culturali” - le élite governanti dall’indipendenza si sono spesso dimostrate reticenti, se non proprio nolenti, a eliminarle, con molti membri di tali élite che le hanno anzi fomentate, o quantomeno acconsentite, potendole sfruttare come reti asimmetriche di solidarietà e di fedeltà politica e così trarne benefici materiali e simbolici: in tal modo, la “Maurita- nia profonda” delle tribù e delle etnie, così come delle gerarchie statutarie, è presentata tanto più come la sorgente autentica della Nazione quanto essa si presenta divisa e frammentata e dunque innocua per il sistema politico (Ciavolella 2012b).

La governance urbana e il soggetto neoliberale come nuova egemonia “Tradurre” Gramsci in altri tempi (l’oggi) e in altri luoghi (l’Africa), non significa, se ci atteniamo al concetto gramsciano stesso di “traduzione”, trovare infinite analogie e corrispondenze. Si tratta piuttosto di applicare un medesimo metodo d’indagine

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Interno 2-3-2016.indd 166 19/07/17 16:59 storica e politica per comprendere le configurazioni di potere specifiche in un luogo e a un tempo nell’articolazione tra ideologie e dinamiche sociali e tra società politica e società civile. Nel gioco di parallelismi e analogie tra Italia post-risorgimentale e Mauritania contemporanea, quest’ultima si distingue necessariamente per il posto inedito nella globalizzazione. Il “blocco storico” che vediamo in Mauritania oggi deve essere analizzato alla luce dell’articolazione dello Stato con configurazioni di potere internazionali e con la moltiplicazione degli attori della cosiddetta “governance”, come proposto dalla corrente “neo-gramsciana” delle relazioni internazionali a partire dai lavori di Cox (1981, 1983). Diversi antropologi, ispiratisi a Gramsci, hanno insistito sul fatto che le soggettività sociali e politiche che stanno prendendo forma nelle società civili post-coloniali non possono essere lette solo nella loro interazione con o in opposizione allo Stato (Ferguson 2006; Fouquet 2013). Ma, soprattutto per quanto riguarda la “società politica”, la configurazione del potere e la governamentalità sono rette non solo dalle azioni che passano dalle istituzioni statali, ma anche da istituzioni ed entità transnazionali, quali organizzazioni internazionali e ONG, che fanno della Mauritania attuale un Paese articolato alla governance globale. Ciò appare evidente soprattutto in materia di politiche urbane sulle quali ora ci concentriamo per comprendere il modo in cui la governance globale dà forma a una nuova configurazione egemonica del potere nel Paese. Studi recenti hanno cercato di dimostrare che le città contemporanee, influenzate dalla governance neoliberale, costituirebbero l’opposto della polis greca, intesa come luogo 167 di dibattito e partecipazione politica. Questo è almeno quello che pensa il geografo Swyngedouw (2011) con la sua teoria della “città post-politica”. Quest’ultima sarebbe caratterizzata da modalità di governance sempre più complesse e oscure, e dunque certamente anche “post-democratiche”, in cui le responsabilità dei governanti per l’intervento pubblico si trovano diluite. La moltiplicazione del numero di attori coinvolti nella gestione urbana ha come conseguenza la perdita di vista, da parte dei cittadini, dei rapporti di responsabilità con le istituzioni politiche che sono in principio preposte a rappresentarne i loro interessi. La gestione tecnocratica legittimerebbe qualsiasi azione pubblica negando la dimensione politica delle scelte governative. In questo modo, la responsabilità di un intervento inefficace non può ricadere sui governanti o su chi prende le decisioni. Inoltre, lo stesso processo decisionale, già predeterminato da interessi economici e politici più alti e più grandi, viene interinato da un simulacro di partecipazione democratica con attori scelti della “società civile” la cui funzione è quella di legittimare le scelte già fatte giungendo senza esitazioni a una parvenza di consenso. Secondo Swyngedouw, la conseguenza di questa depoliticzzazione dell’intervento pubblico in ambito urbano è di inibire qualsiasi forma di protesta. Swyngedouw ha formulato l’idea di una “città post-politica” per parlare della governance urbana nel mondo occidentale. La traduzione della sua teoria alle città post-coloniali, africane in particolare, si rivela utile per dimostrare l’intento di depoliticizzazione e al

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Interno 2-3-2016.indd 167 19/07/17 16:59 tempo stesso di legittimazione delle politiche urbane. Per quanto riguarda Nouakchott, i modelli di sviluppo e pianificazione urbana e i metodi di gestione attuali non fanno altro che approfondire una depoliticizzazione delle politiche urbane che ha sempre tentato, negli ultimi cinquant’anni, di giustificare l’incapacità politica di inglobare le masse - prima giunte dalla campagna e poi nate nei quartieri popolari, nei termini dell’inclusione sociale e politica. Fin dalla sua nascita agli albori dell’indipendenza del Paese, Nouakchott è stata il luogo di una costruzione egemonica dell’élite governante che è passata, tra le altre cose, dalla pianificazione urbana come laboratorio di governamentalità e arena di costruzione del rapporto di dominio e di rappresentanza tra Stato e società. Questa funzione della pianificazione urbana persiste ancora oggi, ma assume nuove forme: da luogo simbolo del potere, la capitale diventa luogo di attrazione e investimento per i capitali internazionali, in particolare nei settori fondiario e immobiliare. Negli ultimi anni, come nella maggior parte dei casi di città africane, l’élite urbana sta prendendo come modello Dubai, mobilitando i modelli egemoni “globali” delle “worlding cities” (Roy, Ong 2011), in quanto simbolo del capitalismo. Questa voglia di modernità urbana è indissolubilmente legata alla competizione territoriale tra le grandi città a livello globale. Essa si traduce in “megaprogetti” (Barthel 2010): i terreni su cui si edifica sono spesso venduti su mercati opachi, i quali attirano l’appetito di governanti e notabili locali che si propongono come mediatori o che sono essi stessi investitori, e sono favoriti dalla liberalizzazione e dalla deregolamentazione richiesta 168 dalla governance globale. A Nouakchott, questo tipo di “urban fantasies” (Watson 2014) si traduce, per esempio, nel megaprogetto Ribat el-Bahr, finanziato da fondi kuwaitiani e sauditi, che prevede la costruzione di un porto e di un lungomare turistico, o il Nouakchott New Town, un complesso residenziale di lusso a venti chilometri a nord della città e finanziato dal Qatar. Questa città pianificata, come in altri contesti post-coloniali (Chatterjee 2004), si basa sull’idea che i progetti urbani e il capitalismo consentiranno il consolidamento della borghesia e di una cittadinanza propriamente urbana, con tutta la complessità semantica di tale nozione legata non solo all’idea di città, ma anche di comportamenti adatti e convenienti, opposti alle pratiche anarchiche e selvagge attribuite spesso agli abitanti dei quartieri precari. Eppure, il divario tra questa città sognata e la città reale dei suoi abitanti, che vivono per lo più nelle baraccopoli e nei quartieri poveri, è enorme (Choplin 2009). Accanto ai progetti faraonici, la cui esecuzione non è certa, data la volatilità degli investimenti, sono stati attuati programmi di risanamento edilizio, basati sulle “best practices” delle istituzioni internazionali, e fondati dunque su logiche “bottom-up” di “good governance” e su idee che richiedono agli abitanti stessi una trasformazione delle proprie pratiche e abitudini: la loro responsabilizzazione, il rafforzamento delle loro capacità, la formalizzazione del settore informale, l’accesso al microcredito, ecc. Queste strategie hanno come obiettivo di produrre dei soggetti neoliberali, dai comportamenti “urbani”, integrati alla città in quanto proprietari

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Interno 2-3-2016.indd 168 19/07/17 16:59 indebitati di un lotto edilizio. Questa visione si traduce a Nouakchott, in particolare, nel progetto di eradicazione del più grande slum del centro della città, da applicare secondo le direttive del Programma di Sviluppo Urbano finanziato dalla Banca Mondiale. Effetto collaterale del progetto, più di 20.000 persone sono state cacciate dal quartiere. Da questo punto di vista, Nouakchott sembra rientrare chiaramente nella categoria di città post-politica: le politiche urbane si basano nominalmente su ideali di buon governo, di partecipazione e di lotta contro la povertà e marginalità, ma che alla fine producono esclusione e depoliticizzazione. Eppure, con Swyngedouw (2011), dovremmo chiederci se questa città post-politica non possa dare vita ugualmente a una “insurgent polis”; in altre parole, se possa prendere forma una “città futura” costruita dai «senza-parte» come li chiama Rancière (2007): costruita non dalle “politiche” (nel senso di policies), ma dalla “politica” (politics) degli emarginati della città presente.

Cittadinanza e iniziativa storica ai margini della città Secondo Gramsci, la versione borghese della cittadinanza, pur essendo tendenzialmen- te espansiva nel voler integrare sempre più strati della popolazione alla classe media, riduce la cittadinanza a un concetto giuridico formale e nominale (l’appartenenza) e non a una condizione sostanziale, e a dei diritti d’ordine economico (nel nostro caso l’individuo neoliberale) e non alla partecipazione politica. Tuttavia, secondo Gramsci, pur producendo esclusione, le forme borghesi e nominali di cittadinanza, come la de- mocrazia puramente elettorale, favoriscono, senza volerlo, una dinamica di politiciz- 169 zazione delle masse, soprattutto urbane. Qualora gli ideali sbandierati di universalità, di integrazione, di sviluppo e di partecipazione politica dimostrino di essere concetti vuoti e promesse non rispettate essi possono essere ripresi e fatti propri dagli stessi gruppi subalterni, come Gramsci sostenne a proposito dell’allargamento della parteci- pazione elettorale: «si è irriso, e si irride ancora al valore numero, che sarebbe solo un valore democratico, non rivoluzionario: la scheda, non la barricata. Ma il numero, la massa, ha servito a creare un nuovo mito: il mito dell’universalità, il mito della marea che sale irresistibile e fragorosa e raderà al suolo la città borghese sorretta sui puntelli del privilegio. Il numero, la massa [...] ha saldato la convinzione che ogni singolo ha di partecipare a qualcosa di grandioso che sta maturando» (Gramsci 1917b). Quest’apertura sulle possibilità di una politica dei subalterni, di questi integrati-esclusi della città, ci invita a riflettere sul legame tra città e cittadinanza intesa non in senso puramente formale, ma in senso politico. In un precedente articolo (Choplin, Ciavolella 2008), si è fatto riferimento al concetto gramsciano di “margine” per capire come un’iniziativa politica di abitanti subalterni può emergere in quei margini, sia spaziali che sociali, della città prodotti dalla governance urbana e dall’esclusione politica. Il nostro approccio si approssima a quello di alcuni altri studiosi, d’ispirazione post-coloniale, che applicano idee gramsciane alla teoria urbana, come Partha Chatterjee, Ananya Roy e Asaf Bayat, ma il nostro uso di Gramsci e le nostre conclusioni, come vedremo,

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Interno 2-3-2016.indd 169 19/07/17 16:59 sono diverse. Sovvertendo e deviando la nozione gramsciana di “società politica”, che si riferisce originariamente allo spazio sociale dello Stato, Chatterjee identifica con essa la politica di emarginati lasciati al di fuori della società civile borghese e dalla cittadinanza formale, ma le cui vite comunque dipendono dalla governamentalità neoliberale. Chatterjee (2004) mette in evidenza la capacità di questi gruppi di produrre una politica autonoma, prendendo le distanze dall’idea di Gramsci di un necessario processo di inclusione dello stato civile nella società politica, cioè della società nello Stato, ai fini dell’emancipazione. In modo simile a Chatterjee, Roy (2011) parla di “subaltern urbanism” per qualificare la capacità di azione politica di abitanti dei quartieri poveri, in una prospettiva che disloca e al contempo allarga la stessa nozione di “politica”, da attività esclusiva di chi occupa il potere e le istituzioni, a pratiche, strategie ed enunciati dei soggetti sociali “dal basso”. Queste idee sono utili per capire l’agency dei cittadini subalterni a Nouakchott. In opposizione alle forze omogeneizzanti ed egemoniche dei modelli urbanistici, si sviluppano delle pratiche informali, chiamate localmente tcheb-tchib (Ould Ahmed Salem 2001) e altre coping strategies che permettono di sopravvivere ed evolvere negli interstizi della città e in relativa autonomia rispetto ai poteri che, almeno in parte, controllano il suo sviluppo. Si tratta in particolare di strategie di squatting - denotate localmente con il termine di gazra6 con cui si indicano gli stessi quartieri precari - o di pirateria di servizi (in particolare di acqua ed elettricità), che si presentano come 170 risposte subalterne di fronte delle carenze delle autorità pubbliche. Queste tattiche evocano ciò che Bayat (1997) ha definito la «politica informale del popolo» o della uncivil society. Qui, Bayat gioca chiaramente, in un modo simile a Chatterjee, con i concetti di ascendenza gramsciana, ma si ispira anche alle «forme quotidiane di resistenza» di James Scott (1985). Secondo Bayat, queste forme di resistenza non sarebbero da considerarsi come esplicitamente “politiche”, in quanto non si riconoscono coscientemente come tali: sono piuttosto un modo di praticare una «tranquilla invasione» (quiet encroachment) nel sistema, tattiche quotidiane per affrontare le ingiustizie e per negoziare la loro posizione politica, sociale ed economica nel sistema urbano. Le teorie di Bayat sulla quiet encroachment hanno ispirato studi urbani sul Global South, in particolare nella comprensione delle forme di dissenso, mobilitazione e negoziazione con lo Stato attraverso le resistenze individuali quotidiane (Bénit-Gbaffou, Oldfield 2011). Vale la pena notare che, per teorizzare questa «tranquilla invasione», Bayat (1997: 57) fa riferimento a Gramsci e al suo concetto di “rivoluzione passiva”: benché le tattiche popolari non siano rivoluzionarie, esse apportano lievi, ma continue modifiche al sistema. In assenza di una rivoluzione politica aperta, la gente sarebbe in grado di modificare le condizioni della propria esistenza urbana attraverso forme quotidiane di resistenza e, così, di eludere il potere. Tuttavia, questo ci distoglie da una prospettiva propriamente gramsciana. Con «rivoluzione passiva», Gramsci non si riferisce alla politica dei deboli, ma alla politica dei forti una «rivoluzione senza

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Interno 2-3-2016.indd 170 19/07/17 16:59 rivoluzione» (Gramsci 1975: Q 1 § 44, 41), un cambiamento introdotto dalle classi dominanti in situazioni di crisi per rigenerare il loro potere, beneficiando di una «mancanza di iniziativa popolare». In una prospettiva gramsciana, la politica della gente comune identificata da Bayat dovrebbe piuttosto essere considerata, secondo le parole di Gramsci, un «sovversivismo sporadico, elementare, disordinato delle classi popolari», che lascia spazio alla possibilità, per le classi dominanti, di reagirvi con un certo riformismo paternalistico e dunque un «restauro» del potere che accoglie «una qualche parte delle esigenze popolari» (Gramsci 1975: Q 8 § 25, 957). La prospettiva di Gramsci ci permette, dunque, almeno nel caso di Nouakchott, di andare al di là di una visione romantica della politica nei margini della città, richiedendo di guardare anche agli ostacoli incontrati da queste forme di resistenza subalterna nel trasformarsi in iniziative politiche per l’emancipazione.

La resistenza nelle baraccopoli A Nouakchott, i programmi di miglioramento delle baraccopoli prevedono, come altrove, di concedere titoli di proprietà sulla terra agli abitanti come capitale iniziale per entrare nella moderna economia di mercato. Tali programmi hanno però avuto come conseguenza anche imponenti sfratti (Choplin 2014). Con il programma già citato di slum upgrading finanziato dalla Banca Mondiale, la maggior parte degli abitanti delle baraccopoli interessate dal progetto si è vista negare il diritto di accedere al titolo di proprietà che era in principio previsto per loro: l’idea era che avrebbero rinunciato 171 alla loro baracca e alla loro terra occupata informalmente per vedersi poi riconosciuto un diritto di proprietà su un lotto formale nello stesso quartiere. Questo processo richiedeva un censimento degli abitanti e una lottizzazione della terra. Tuttavia, per gran parte degli abitanti del quartiere il dossier di censimento è stato considerato come inesistente o come incompleto, per l’assenza di una foto identificativa o di un numero di registro catastale del loro appezzamento. Così, sono stati schedati nella categoria dei “sans fiche, sans photo” (“senza scheda, senza foto”) e non hanno potuto ottenere il titolo di proprietà sulla terra che avevano fino ad allora effettivamente occupata in un quartiere prossimo al centro di Nouakchott. Nel 2008, 20.000 persone sono state sfrattate e reinsediate lontano, in una zona sabbiosa e desertica a sud della città priva di tutte le utenze e i servizi. Non senza una certa tragica ironia, “sans fiche sans foto” è il nome che gli sfollati hanno dato al loro lontano nuovo quartiere di reinsediamento, dove è stato concesso loro non più di un diritto temporaneo di occupazione della terra. Nel corso delle nostre recenti indagini, abbiamo capito che, al momento del programma di riqualificazione, i funzionari pubblici e gli attori responsabili del programma di sviluppo avevano preso i loro documenti per manometterli e rivendere, per grandi somme di denaro, le schede catastali a persone di classi sociali superiori. Nel 2012, quattro anni dopo il dislocamento, le stesse persone sfollate hanno deciso di

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Interno 2-3-2016.indd 171 19/07/17 16:59 scrivere lettere al prefetto. Come dimostra una di queste lettere che abbiamo potuto recuperare,7 esse non denunciavano la corruzione, l’abuso di fondi o altre ingiustizie che avevano provocato il loro sfratto, ma si limitavano a chiedere un «miglioramento delle condizioni di vita quotidiana nel presente sito», ossia nel nuovo quartiere periferi- co, e, in particolare, il riallaccio alla rete elettrica, una scuola e turni notturni di polizia per la sicurezza. Parallelamente, una piccola minoranza, avendo capito il sistema, si è preoccupata di chiedere al più presto la trasformazione dei loro diritti di occupazio- ne temporanea del suolo nel nuovo quartiere periferico in un vero e proprio titolo di proprietà, mostrando grande competenza tattica nel competere, con le loro armi dei deboli, con le condizioni poste dai forti, ma finendo per integrare completamente l’idea di un accesso alla proprietà attraverso un sistema che resta selettivo, arbitrario e di- scriminatorio. Entrambi i tentativi di mobilitazione suggeriscono l’idea che gli abitanti di questo quartiere periferico sono certamente in grado di attivarsi sul piano locale per esigere servizi e diritti di proprietà, partecipando essi stessi alla loro trasformazione in individui proprietari. Tuttavia, il “diritto alla città”, nella sua concezione lefebvriana di partecipazione a una cittadinanza urbana e di giustizia sociale e spaziale, è raramente rivendicato in quanto tale.

Gli haratin in città, dalla schiavitù all’agency Se focalizziamo la nostra attenzione su tali progetti urbani, arriviamo facilmente alla 172 conclusione che le mobilitazioni e le capacità di resistenza delle popolazioni locali restano deboli, visto che, in nessun caso, a Nouakchott, si è assistito a mobilitazioni efficaci. Tuttavia, se allarghiamo la visuale, vedremo che tali margini urbani stanno diventando luoghi per nuove e inaspettate forme di politicizzazione con cui potrebbero articolarsi le rivendicazioni locali e particolari. Ciò vale in particolare per la situazione degli haratin, come vengono chiamati i discendenti di ex-schiavi, che rappresentano la maggioranza relativa, ma spesso invisibile, della popolazione mauritana (Ould Saleck 2003). La maggior parte di essi vive nei margini della città, come riflesso della loro posizione marginale nella società. Paradossalmente, questi margini urbani sono diventati anche spazi di relativa libertà dai loro ex-padroni che vivono in altre parti della città (Ahmed 2015). Certo, gli haratin rimangono ancora intrappolati nelle reti clientelari di dipendenza, ma negli slum e nei quartieri precari fanno esperienza della marginalità condividendo le stesse condizioni urbane con altre persone, avendo acceso ad altre iniziative (associazioni femminili, collegamenti con i progetti delle ONG, progetti di scolarizzazione). I margini urbani diventano così laboratori di nuove identità condivise e di nuove solidarietà sociali e quindi, forse, luoghi propizi alla formazione di un nuovo soggetto politico. Ciò è particolarmente vero per questi ultimi anni, durante i quali le aspirazioni locali entrano in risonanza con un nuovo e forte movimento anti-schiavista nazionale, guidato dal leader haratin Biram Dah Abeid. Fondatore dell’“Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista” (Initiative pour la résurgence du mouvement

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Interno 2-3-2016.indd 172 19/07/17 16:59 abolitionniste de Mauritanie - IRA), Biram lotta contro la schiavitù, ma, più in generale, per promuovere la parità tra tutti i cittadini mauritani. Cercando di abbattere i confini etnici e comunitari, che hanno tradizionalmente frammentato le forze dell’opposizione al potere, egli invoca una grande alleanza che coinvolga tutti i marginali per rivendicare l’inclusione sociale e il riconoscimento dei loro diritti e della cittadinanza. Queste richieste di cittadinanza inclusiva e attiva sono in stretto collegamento, anche se non in maniera esclusiva, con le questioni urbane. Infatti, occupare lo spazio urbano è diventata una strategia centrale per farsi sentire e rendersi visibili: in esso, ci si rende conto di condividere una comune condizione di cittadini di seconda classe, sia all’interno del Paese che all’interno della città, ma anche di far parte della maggioranza della popolazione e, quindi, di essere nelle condizioni di poter svolgere collettivamente un ruolo politico. Il movimento IRA tiene regolarmente sit-in davanti ai ministeri e organizza marce attraverso la città e il Paese. Il Governo ha reagito, sopprimendo le manifestazioni di piazza e imprigionando i leader, ma senza, al momento, riuscire a soffocare il movimento. Nouakchott fa da sfondo oggi a manifestazioni di dissenso, attraverso proteste apertamente politiche. Nel mese di maggio 2014, alcuni gruppi haratin hanno manifestato per le strade. Pochi giorni dopo, altri gruppi cosiddetti “negro-mauritani” - “minoranze” wolof, pulaar e soninke - si sono lanciati in una nuova protesta. Erano essenzialmente persone che, nel 1989, furono deportate in Senegal per volontà o con la complicità del Governo mauritano e che sono state rimpatriate negli ultimi dieci anni con 173 promesse non mantenute di riconoscimento della loro cittadinanza e di reinserimento nella vita sociale e politica del Paese, o con il riconoscimento dei diritti sulle terre che furono allora sottratte loro, o con l’opportunità di una reintegrazione sociale nella città. I movimenti degli haratin e dei rifugiati non sono interconnessi, ma l’IRA lavora a una nuova alleanza di persone emarginate, in modo inedito per un’opposizione da sempre frammentata. Al momento, questi movimenti distinti convergono verso il centro della città per rivendicare una cittadinanza più inclusiva.

Conclusione A Nouakchott, le dinamiche recenti dimostrano chiaramente, se non una politicizzazione generalizzata, almeno una moltiplicazione di iniziative ed esperienze “dal basso”. In quest’articolo, abbiamo tentato di mostrare il graduale spostamento della stessa politica delle istituzioni statali ai luoghi interstiziali e informali dell’emarginazione nella società civile. In questo nuovo contesto, i margini urbani appaiono sempre più come «spazi di speranza» (Harvey 2000) per gruppi subalterni, siano essi gli abitanti delle baraccopoli, gli haratin o i giovani. Nel mobilitarsi, chiedendo una cittadinanza più inclusiva e globale, essi stanno plasmando il futuro della città di Nouakchott. Tuttavia, da una prospettiva gramsciana, dobbiamo interrogarci sulla capacità di queste mobilitazioni di produrre la “città futura”, una polis che permetta forme innovative di cittadinanza urbana e non

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Interno 2-3-2016.indd 173 19/07/17 16:59 urbana per esprimersi, non solo attraverso un regime giuridico che riconosce i diritti, ma come condizione per l’espressione di iniziative politiche in grado di garantire la trasformazione sociale e l’emancipazione dalla subalternità. Se il futuro della città, in senso gramsciano, emergerà dal centro o dai margini di Nouakchott rimane ancora una questione aperta.

Armelle Choplin, geografa, maître de conférence, Université de Paris Est, École d’urba- nisme de Paris, Parigi.

Riccardo Ciavolella, antropologo, chargé de recherche CNRS, IIAC (EHESS Parigi) e “chercheur résident” all’École française de Rome (Roma).

NOTE: 1 - Per quanto riguarda i riferimenti ai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, in questo articolo è usato il sistema convenzionale di indicazione così come esso è accettato e usato dagli studiosi gramsciani internazionali, con la lettera Q per indicare il quaderno e il simbolo § per la sezione. 2 - Tutte le citazioni seguenti sono tratte da La città futura tranne quando indicato altrimenti. 3 - In questo senso, la visione gramsciana si avvicina a quella di Henri Lefebvre, che distingueva tra un’utopia, chiaramente da respingere e criticare, come «sintomo di fallimento e di impotenza», e un’utopia, politicamente utile, come «manifestazione di un impulso emotivo verso l’azione» (Lefebvre 1962: 73; vedasi anche Busquet 2013). 4 - Intervista a Monza su “Radio France Internationale”, 21 aprile 2009: http://www.rfimusique.com/ musiquefr/articles/112/article_17590.asp. 174 5 - La difficoltà di stabilire un rapporto diretto tra città e campagna è dovuta, secondo Gramsci, alla mancanza di città industriali, con l’eccezione di Torino: il ricco tessuto urbano italiano è infatti fiorito in epoca pre-industriale, articolandosi nelle città tardo-medievali e nei principati del Rinascimento. L’Italia non era stata in grado di sviluppare un’urbanità borghese e, pertanto, di stabilire uno Stato liberale, che, come è avvenuto per l’Inghilterra e soprattutto per la Francia giacobina (Gramsci 1975: Q 1 § 48), mettesse in rapporto organico la città e la campagna. 6 - Il termine gazra indica originariamente l’occupazione indebita del demanio pubblico e come tale è utilizzato per nominare i quartieri di occupazione informale. A partire da questo significato, il termine è utilizzato in modo generico per indicare pratiche e attività che escono dai limiti imposti dalla legge, insistendo sul carattere informale e débrouillard di chi le compie. 7 - Lettera degli abitanti del quartiere sans fiche indirizzata al cali (governatore) e all’hakem (prefetto) di Nouakchott del 17 novembre 2011.

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Interno 2-3-2016.indd 176 19/07/17 16:59 La discarica di Dakar e i recuperatori di rifiuti. Marginalità urbana, produzione di valore ed etica del lavoro1 Raffaele Urselli

177 Introduzione Le attività di recupero informale dei rifiuti rappresentano una strategia di sopravviven- za molto diffusa tra le popolazioni svantaggiate di tutto il mondo. Una stima di Martin Medina calcola che l’1% della popolazione del Sud globale (circa 15 milioni di persone) si guadagni da vivere con queste attività (Medina 2007), molto spesso trasformando le stesse discariche in luoghi di “esistenza precaria”, seppur caratterizzati da una forte intensità di attività economiche (Coletto 2015; Millar 2006; Samson 2009). Anche se questa nuova dimensione del lavoro globalmente osservabile non ha ancora ottenuto una propria legittimazione politica e sociale, in numerosi Paesi i recuperatori di rifiuti stanno sfidando attivamente lo status di invisibilità attraverso la creazione di coope- rative del settore, siglando accordi con le industrie del riciclo e lottando per avere un riconoscimento pubblico (Magaji, Dakyes 2011; Samson 2008). Per esempio, in Brasile la mobilitazione dei catadores ha portato i recuperatori a essere ufficialmente ricono- sciuti come categoria professionale impiegata nelle politiche di gestione dei rifiuti (Dias 2011; Medina 2005; Millar 2006), mentre al Cairo le autorità municipali, dopo aver forzatamente formalizzato il settore, sono ritornate sui propri passi riassegnando una cospicua parte della gestione dei rifiuti della megalopoli egiziana alla comunità copta degli zabbalyn, che per decenni si è specializzata in questo settore garantendo presta- zioni efficienti esostenibili (Furniss 2012; Meyer 1987; Medina 2007).

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Interno 2-3-2016.indd 177 19/07/17 16:59 Questi processi giocano un ruolo cruciale nella trasformazione delle politiche muni- cipali, producendo spesso soluzioni più adatte ed efficienti di quelle che le autorità pubbliche perseguono ostinatamente. Nonostante questa evidenza, nei Paesi del Sud la questione rifiuti è ancora oggetto di continue riforme del settore, promosse da classi dirigenti che fanno un uso strumentale e clientelare del rapporto osmotico istituitosi tra le autorità municipali e i nuovi attori emergenti delle politiche di gestione dei rifiuti (ONG, associazioni di quartiere, gruppi di interesse economico, ecc.). Lo strutturarsi di questa forma di interdipendenza deve essere considerata, al di là degli aspetti tecnici e organizzativi, «privilegiando l’analisi delle relazioni di potere» (Blundo, Le Meur 2008: 13). Da un punto di vista della governance urbana, la relazione che si articola tra l’a- zione dello Stato e queste pratiche sociali e politiche emergenti ci permette di dare il giusto peso al ruolo delle istituzioni informali, e alla maniera in cui queste agiscono e inter-agiscono parallelamente alle istituzioni formali (Bekker, Fourchard 2013: 3, 16). In Africa sub-sahariana, è almeno dagli anni ’80 che le attività informali di recupero dei rifiuti si sono diffuse su larga scala, in un momento storico in cui, da una parte, si registrava il rapido cambiamento dei modelli di consumo e, dall’altra, lo Stato si vedeva ridimensionare l’accesso alle risorse finanziarie per via degli aggiustamenti strutturali (Boone 1992; Diop 1996, 2002). È dunque negli ultimi trent’anni che la trasformazione della struttura economica della società e l’esponenziale crescita urbana stanno eser- citando una pressione straordinaria sulle già limitate risorse destinate alla fornitura di servizi urbani di base, favorendo l’espansione delle pratiche informali di recupero dei ri- 178 fiuti (Blundo 2009; Grestet al. 2013; Onibokun 2001). Questi aspetti diventano cruciali nelle capitali africane poiché rientrano nel controverso processo di decentralizzazione (Blundo, Le Meur 2008; Fourchard, Bekker 2013) rappresentando, spesso contradditto- riamente, «l’unica manifestazione dell’autorità politica» (Bouju 2008: 145). Quest’articolo prenderà in analisi, in particolare, il caso del Senegal, dove le attività informali di estrazione del valore dai rifiuti si sono sviluppate sin dai primi anni ’60 (Diawara 2009; Waas, Diop 1990), ma è a partire dalla fine degli anni ’80 che que- sta «categoria professionale» ha iniziato a espandersi e a contare un numero sempre crescente di lavoratori attivi (Cissé 2007: 62). Questa nuova fase emancipativa viene formalizzata all’inizio degli anni ’90, quando gran parte dei recuperatori più costan- temente impegnati nelle attività di raccolta all’interno della discarica della capitale, decide di costituirsi come associazione. Quest’articolo cercherà di analizzare il ruolo che i recuperatori giocano nel contesto urbano e socio-politico della capitale senegalese, prestando particolare attenzione all’importanza che la storia sociale della grande discarica di Dakar ha svolto, e tuttora svolge, nello sviluppo urbano e socio-economico della capitale. Nella prima parte, è de- scritto l’inserimento della discarica nel contesto urbano di Dakar, in particolare rispetto alle traiettorie di migrazione interna. Nella seconda, è analizzato, da un punto di vista storico e sociologico, il ruolo che le politiche di déguerpissement (sgomberi forzati) e di lotta contro il “sovraffollamento” hanno giocato nel processo di gestione repressiva

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Interno 2-3-2016.indd 178 19/07/17 16:59 dello spazio urbano nello Stato post-coloniale,2 condizioni che hanno contribuito a ca- ratterizzare la discarica come “luogo di produzione”. Rispetto a quest’ultimo elemento, viene quindi esaminata la divisione sociale dello spazio e del lavoro e il peso che certi tratti socio-culturali esercitano sulle strategie organizzative di Mbeubeuss. Infine, il tema dell’emancipazione politica dei recuperatori è affrontato sia sul piano nazionale che su quello internazionale.

I rifiuti a Dakar tra inadeguatezza politica ed economia informale: la scoperta di Mbeubeuss La questione della gestione dei rifiuti è essenzialmente vissuta dagli Stati africani come un enorme problema che si sviluppa in due principali direzioni: da una parte, vi è la gestione interna (di rifiuti solidi urbani e speciali) e dall’altra il traffico trans-nazionale proveniente dai Paesi occidentali.3 Entrambe le dinamiche alimentano in maniera parti- colarmente rilevante l’“economia informale urbana” (Alexander, Reno 2011; Blundo, Le Meur 2008; Coletto 2015; Fourchard, Bekker 2013; Hart 1985; Meagher 2013; Medina 2007), oltre a produrre una serie di conseguenze ambientali e sanitarie di gravissimo impatto sui territori e sulle popolazioni coinvolte (Cissé 2012). Rispetto all’esperienza di gestione municipale e locale, mi limito a sottolineare come in Senegal i fallimenti registrati in oltre cinquant’anni di gestione dei rifiuti siano larga- mente condizionati, da una parte, dalla natura “estrovertita” delle politiche pubbliche (Bayart 1999) – che per decenni si sono rivolte a modelli e imprese occidentali per la delega della gestione dei rifiuti – e, dall’altra, da una marcata effervescenza politica a 179 livello di municipalità che ha determinato una lunga sequenza di fallimenti e riforme; basti pensare che, spesso per ragioni di alleanze o di trame politiche, il settore è stato riorganizzato ben 12 volte negli oltre dieci anni di governo dell’ex presidente Abdoulaye Wade (Fredericks 2009: 436). Ciò ha causato un progressivo scollamento tra le neces- sità materiali del Paese e le soluzioni standardizzate proposte dalle autorità municipali, quasi sempre inadatte ai contesti specifici. Questa disfunzionalità ha prodotto un mal- contento popolare che ha avuto il suo apice negli anni ’80, quando il movimento del Set Setal (in wolof “pulire ed essere pulito”) è balzato sulla scena pubblica nazionale e internazionale. In quest’occasione, l’accostamento tra «sporco urbano» e «sporcizia mo- rale» della classe politica animò il movimento, che si organizzò per gruppi di quartiere col fine di preservare il volto estetico della città e di protestare contro la disoccupazio- ne, l’arricchimento illecito della classe dirigente e la corruzione (Diop 2002: 86; Diouf 2005: 44); la tensione sociale era inoltre acuita dai programmi di aggiustamento strut- turale imposti dalle istituzioni finanziarie internazionali. In seguito a questi programmi vi è stata un’enorme contrazione della spesa pubblica, fenomeno che ha favorito una pluralizzazione degli attori che partecipano all’erogazione di beni e servizi pubblici non più garantiti dallo Stato, come i gruppi di interesse economico (GIE) e le ONG (Blundo, Le Meur 2008). In un tale quadro di precarietà occupazionale, economica e sociale, la discarica di Dakar ha iniziato a caratterizzarsi come un luogo di «possibilità» (Appadurai

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Interno 2-3-2016.indd 179 19/07/17 16:59 2014: 221), in cui intraprendenza e auto-organizzazione sono diventati i cardini di una forte spinta verso il riscatto sociale.4 Mbeubeuss, unica discarica pubblica del Senegal in funzione da oltre quarant’anni, riceve una media annua di oltre 400.000 tonnellate di ogni genere di rifiuti (speciali, industriali, ospedalieri, solidi urbani, ecc.) che non vengono trattati, separati o smaltiti, se non dalla comunità dei recuperatori che opera informalmente al suo interno. Come sottolineato da Omar Cissé, direttore dell’Istituto africano di gestione urbana (IAGU) di Dakar, «urbanizzazione e crescita demografica, combinati a modi di produzione e modelli di consumo urbani e moderni», sono gli elementi caratterizzanti di un cre- scente e sempre meno gestibile volume di rifiuti (Cissé 2012: 16). Per comprendere la complessità di questo fenomeno nei suoi contenuti sociologici e antropologici,5 è utile soffermarsi in particolar modo sui processi storici e sugli eventi politici che hanno con- corso ad articolare lo “spazio dei rifiuti” nel sistema urbano della capitale senegalese. Da un punto di vista di sociologia urbana, la grande banlieue entro cui la discarica è inserita rispondeva (e risponde) a un’esigenza politica determinata a “ripulire” il centro della capitale dall’invasione di migranti rurali, ambulanti e mendicanti, che ne compro- mettevano l’ordine estetico e il decoro urbano. Pikine fu creata nel 1952, a tal proposi- to, per ospitare «i rifiuti umani» (déchets humaines)6 sfrattati dal centro (Vernière 1973: 226; Collignon 1984: 85). Come emerso dalle interviste con i recuperatori della discarica,7 numerosi degli espulsi ricollocati nella banlieue si sono poi stabiliti nella discarica (chi temporaneamente, in 180 attesa di una sorte migliore, chi stabilmente), che nel corso dei decenni è divenuta una sorta di ultima spiaggia per chi migrava verso la città in cerca di fortuna e non riusciva a collocarsi nell’intollerante contesto metropolitano. La testimonianza di H.N., giovane recuperatore di Mbeubeuss, descrive chiaramente questa soluzione: «Le persone che ar- rivano in città spesso non sanno dove andare […] allora vedono che c’è tanta gente qui in discarica che vive dignitosamente, quindi capiscono che qui ci deve essere qualcosa. Guadagni da vivere e mantieni la famiglia».8 Mbeubeuss oggi è intelaiata nell’abnorme periferia di Dakar attraverso una serie di scambi che fanno fulcro sui maggiori mercati della banlieue, la cui intensità di traffici e commerci è in continua crescita. Le attività di recupero dei rifiuti all’interno della discarica sono svolte dalla comunità dei recuperatori, che in questo sito opera in forma (semi)organizzata da oltre vent’anni. Come già accennato, il fenomeno di popolamento di Mbeubeuss si è infatti intensificato a partire dagli anni ’90, ma molti deiboudiou - man9 “notabili” vi si stabilirono già alla fine degli anni ’60. Se da una parte la discari- ca è quindi l’ultima occasione per integrarsi nell’economia moderna e urbana e avere qualche chance di sostenere i ménage familiari (Waas 1990), dall’altro essa è motivo di grandi proteste da parte delle comunità limitrofe, avvelenate da oltre quarant’anni di sedimentazione incontrollata di residui di ogni genere (Cissé 2012: 17). La densità di problematiche, contraddizioni e tensioni che si concentrano attorno alla grande discarica (sfruttamento del lavoro, inquinamento, combustione di rifiuti, am-

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Interno 2-3-2016.indd 180 19/07/17 16:59 biente sgradevole per il vicinato, presunta malvivenza, ecc.) hanno trovato una vasta eco nel dibattito pubblico senegalese da quando il Governo ha deciso di chiuderla e aprirne una nuova regolare nei pressi di Sindia (a sud della capitale), scatenando la fe- roce opposizione delle comunità destinatarie del nuovo progetto (decise a contrastare «una nuova Mbeubeuss sul territorio»)10 e le proteste dei recuperatori «spodestati» dal luogo di lavoro.11

La banlieue: respingimenti, déguerpissement e marginalizzazione “alternativa” Il quadro socio-urbano all’interno del quale si è sviluppata la discarica pone in rilievo come questa sia un luogo di particolare rilevanza sociologica, il cui interesse si articola tra dinamiche migratorie interne e soluzioni popolari di adattamento urbano (Cissé 2007; Collignon 1984; Diawara 2009; Fredreicks 2013; Vernière 1973). La crescita spaziale della periferia di Dakar nel periodo coloniale e post-coloniale è stata scandita dalle operazioni di déguerpissement e da politiche brutali e stigmatiz- zanti che hanno profondamente segnato la memoria collettiva delle comunità espulse. L’analisi di Vernière della fine degli anni ’70 sul processo di urbanizzazione della capi- tale senegalese è ancora oggi molto attuale rispetto alle dinamiche in corso, che, per il geografo, si polarizzavano tra il tentativo dello Stato post-coloniale di preservare e riaffermare la propria autorità - «volontarismo di Stato» – e le reazioni adattive dei neo cittadini – «spontaneismo popolare» (Vernière 1977a). Le politiche di déguerpisse- ment, il respingimento e l’isolamento della sovrappopolazione urbana nelle periferie, l’«haussmanizzazione» (Vernière, 1973: 257) del centro della capitale, l’esodo rurale e 181 l’adattamento spontaneo delle classi subalterne all’ambiente urbano possono essere sinteticamente indicate come le cause storiche del processo di popolamento della di- scarica, in quanto questa, trovandosi a ridosso della periferia, attirava chi, respinto dal centro e in cerca di un posto nella città, non aveva alternativa se non quella di «fare un ultimo tentativo»12 a Mbeubeuss. La storia coloniale di Dakar è sin da subito caratterizzata dai déguerpissement dei villaggi indigeni e dal confinamento dei migranti (per lo più rurali) in habitat precari, localizzati in luoghi sufficientemente distanti dal centro coloniale. I respingimenti e gli allontanamenti non riguardavano solo le popolazioni che riproducevano un modo di vita rurale e ingombrante, ma assumevano una connotazione politica e socio-sanitaria (Faye 1989; Salem 1992). Già l’epidemia di peste del 1914 aveva fornito l’occasione alle autorità coloniali per costruire un luogo definito di segregazione, destinato a ospitare gli appartenenti alle “classi pericolose” che abitavano gli slum della città, attraverso un processo di esodo urbano forzato (M’bokolo 1982: 18; Marie 1982: 353). L’emergenza sanitaria favorì una pericolosa connivenza tra ragione medica – contenere e prevenire il contagio – e ragione politica – cogliere l’occasione per ripulire la città da mendicanti, déchets humaines, ambulanti, irregolari o presunti criminali (Bernault, Boilley, Thioub, 1999; Diédhiou 1991; Diop 1994, Fassin 1992). Questo fenomeno ha consentito al potere coloniale di «tenere fuori dal proprio giar-

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Interno 2-3-2016.indd 181 19/07/17 16:59 dino» l’indigeno «sporco» e avverso alle regole d’igiene, che spesso coincideva con il migrante che si opponeva alla politica di assimilazione culturale o con il proprietario di un immobile incapace di sostituire la sua «immonda baracca» con una costruzione con- forme alle regole coloniali. La trasposizione del progetto haussmaniano nel centro di Dakar segna così un profondo solco nella storia della «vetrina dell’Africa Occidentale».13 Con la nascita dello Stato post-coloniale la politica brutale di gestione dello spazio si è particolarmente concentrata sulla repressione di quella parte di sottoproletariato urbano composto da venditori ambulanti, prostitute, mendicanti, vagabondi e boudiou- man. Stampa e autorità pubbliche e governative si sono particolarmente accanite sulla stigmatizzazione di tali «soggetti improduttivi», anche se sin da subito alla rigidità dei margini spaziali si è accompagnata la necessità di disporre di serbatoi di manodopera prelevata dalle bidonville (Agier, Copans, Morice 1987: 30, 48). Quest’interazione violenta tra comunità di popolamento e azione pubblica urbana ha prodotto nuovi metodi e pratiche di costruzione degli spazi, sia pubblici che privati (Seck 1970; Sinou 1993). L’intero contesto urbano dell’estensione nord-orientale di Dakar si è così sviluppato incorporando al suo interno la discarica di Mbeubeuss, che si trova all’incrocio tra Pikine, Gediawaye e Rufisque, che insieme costituiscono la quasi totalità della regione di Dakar. Quest’area, con un tasso di urbanizzazione del 96,5%, concentra circa un terzo della popolazione urbana dell’intero Paese - circa 3 milioni di persone (Thiam 2008: 197). Pikine, che oggi ne ospita oltre un milione, registra il più alto tasso di crescita demografica del Paese. La nuova città nata dal nulla nel 1952 con- 182 tava da subito al suo interno oltre 200.000 persone precedentemente sgomberate dai quartieri centrali (Vernière 1973: 217). Negli anni ’50 e ’60, infatti, migliaia di “proletari urbani” furono espulsi dalla Medina sovrappopolata (e in via di ristrutturazione) e tra- sferiti nei quartieri di emergenza dell’estesa banlieue (come appunto Pikine, Dagoudane e Guedj Awaye). La macrocefalia urbana della capitale è dunque stata profondamente segnata da una pianificazione urbanistica spietata e impietosa (Dalberto, Charton, Goerg 2013). Tale dato è emerso in maniera rilevante dalle interviste con i recuperatori della discarica. Su una quarantina di intervistati, almeno la metà afferma di aver subito uno sgombero forzato in seguito al quale, grazie al molteplice incontro fra traiettorie familiari, lavora- tive e abitative, nel ripiegare nella banlieue, molti sono venuti a conoscenza della pos- sibilità (per alcuni estrema) di cercare il proprio gagne-pain a Mbeubeuss.14 I ripetuti déguerpissement hanno, infatti, provocato nei recuperatori un sentimento di vergogna e di assoggettamento che li ha portati a raggrupparsi nello stesso luogo, in maniera tale da ridurre la visibilità pubblica e da contenere la “collera” delle autorità, sempre preoccupate di conservare un aspetto “da vetrina” nei quartieri centrali di Dakar, dove il turismo esercita un forte condizionamento sull’azione politica. In molti dei racconti dei recuperatori più anziani della discarica ricorre un frammento narrativo comune, legato all’esperienza violenta degli sgomberi e delle deportazioni, e al ricordo di Mbeubeuss come un luogo «di pazzi». Il racconto di P.N., uno dei più

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Interno 2-3-2016.indd 182 19/07/17 16:59 anziani, è molto eloquente: «Lo Stato aveva preso tutti i pazzi di Dakar e li aveva portati a Mbeubeuss. [...] Prima si diceva che Mbeubeuss era un covo di banditi, ladri e malviventi, poi hanno iniziato a chiamarci boudiouman perché ci vedevano sempre con le mani nell’immondizia; oggi invece hanno capito il valore del nostro lavoro e ci chiamano recuperatori».15 Molte testimonianze dei recuperatori riportano ricostruzioni simili o con piccole va- rianti. Qualcun’altra invece confuta completamente questo racconto, etichettandolo come frutto della fantasia di chi è in cerca di visibilità; tale “falsità” sarebbe invece entrata nelle narrazioni dei boudiouman dopo che un telegiornale ne aveva ripreso il contenuto. Tuttavia, la presenza di un padiglione per i déguerpit nell’ospedale psi- chiatrico di Thiaroye, distante pochi chilometri da Mbeubeuss (Osuf, Sylla, Collignon 1977: 2),16 può aiutare a intuire le ragioni per cui tale frammento ritorni sempre nel racconto dei recuperatori («lo Stato aveva preso tutti i pazzi di Dakar e li aveva portati a Mbeubeuss»): il respingimento dozzinale degli indesiderati aveva portato a una discri- minazione essenzializzante tra soggetti improduttivi, deviati e ingombranti, che com- ponevano le classi pericolose destinate a popolare «l’immagine in negativo» di Dakar (Vernière, 1977b: 53). Il ruolo cruciale di Mbeubeuss in questa logica di deportazione emerge in maniera chiara dall’incontro con P.D.: «Quando c’erano dei vertici istituziona- li a Dakar, si facevano preventivamente delle retate sommarie di vagabondi... [...] questi scarti umani (déchets humaines) venivano poi inviati a Mbeubeuss, perché, non essendo criminali, non potevano essere portati in carcere».17 La discarica diventò così un luogo di marginalizzazione alternativa, regolato da leggi 183 di carattere estetico-politico che rispondevano alla necessità di preservare l’immagine e la «distribuzione» di un determinato ordine sociale (Rancière 2000).18 Mbeubeuss rappresenta in questo senso il punto di convergenza tra le azioni di repressione con- tro gli encombrements humaines, il tentativo delle autorità pubbliche di instaurare un’«organizzazione topologica coerente» e il percorso di emancipazione sociale che i boudiouman hanno avuto nello Stato post-coloniale – da «pazzi e banditi» a «soggetti produttivi» («ora riconoscono il valore del nostro lavoro»). La confluenza di tali processi mostra l’importanza dell’incrocio tra le «tecniche di go- verno realizzate dallo Stato post-coloniale e i processi di soggettivazione» (Blundo, Le Meur 2008: 25-29) e ci aiuta a comprendere il soggetto (in questo caso i recuperatori) in due sensi: da una parte, come oggetto del dominio e, dall’altra, come agente attivo “creatore di valore”; condizioni che favoriscono la trasformazione di Mbeubeuss in uno spazio di produzione sottomesso alle leggi del capitale e della disciplina sociale (Ber- nault, Boilley, Thioub, 1999; Foucault 2014).

Mbeubeuss: l’emancipazione dei recuperatori e la divisione sociale del lavoro L’atteggiamento che i poteri dello Stato assumono nei confronti dei recuperatori (wa- stepicker), come sottolineato da Medina (2005), si polarizza tra tentativi di integra- zione (cioè di inserimento nel sistema di gestione municipale, come avviene in Egitto,

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Interno 2-3-2016.indd 183 19/07/17 16:59 Indonesia o Brasile) o di repressione, condanna ed esclusione. Le autorità municipali di Dakar, dopo decenni di ostilità e riprovazione, hanno lentamente iniziato a riconsidera- re il ruolo che i boudiouman svolgono nella società senegalese attraverso timidi e an- cora limitati cenni di riconoscimento rispetto ai benefici economici, sociali e ambientali che deriverebbero dalle attività di recupero informale di rifiuti. La ricostruzione degli eventi e delle ragioni che all’inizio degli anni ’90 portarono al graduale processo di riconoscimento e alla nascita dell’associazione dei recuperatori Bokk Diom,19 è ben riassunta da P.N., socio fondatore: «L’associazione è nata perché ci fu qualcosa che ci colpì molto. [...] Un giorno la polizia è venuta per fare una retata. La sera abbiamo visto nell’unica televisione che c’era, che si parlava di noi [dei recuperato- ri, N. d. A.] come di banditi e malviventi. Abbiamo discusso con Haziz, uno degli anziani, per capire come difenderci da queste dicerie, in forza del fatto che tutti lavoravamo onestamente. Siamo partiti in nove persone e siamo andati a presentarci al prefetto: abbiamo detto che siamo recuperatori e lavoratori onesti. [...] Allora il prefetto dopo averci ascoltato ci ha detto che anche lui pensava che Mbeubeuss fosse un brutto posto e che spettava a noi stessi di difenderci. [...] Ha preso i nostri nomi e la polizia ci ha schedati. Quando, grazie al lavoro di Enda,20 dopo tre mesi ci hanno dato la ricevuta di registrazione,21 siamo divenuti i referenti istituzionali della discarica».22 Questo processo di emancipazione, la cui legittimazione politica deriva dall’atto forma- lizzato di registrazione dell’associazione, si è accompagnato in modo complementare a un’evidente stratificazione sociale all’interno della discarica. Il sottoproletariato urbano 184 dirottato a Mbeubeuss si è sin da subito costituito come forza-lavoro nella filiera dei rifiuti urbani. Questo fenomeno, ascrivibile a un contesto più ampio di “economia spon- tanea e di sussistenza” (De Miras 1987; Diop 1994; Morice 1985; Fall 2010; Waas, Diop 1990), si è intensificato in maniera significativa a partire dagli anni ’90 (in concomitan- za con gli effetti mortificanti delle riforme strutturali e della svalutazione del franco), trovando nella grande discarica un luogo particolarmente favorevole alla riproduzione di queste dinamiche. È a partire da questo cambio di passo che l’economia informale subisce una spinta in avanti per rispondere al disimpegno finanziario dello Stato, soprattutto a livello di erogazione dei servizi pubblici (Blundo, Le Meur 2008; Boone 1992; Grest et al. 2013; Meagher 2013), e che le attività di valorizzazione dei rifiuti diventano parte integrante di questo processo: oltre 2.500 persone lavorano infatti a Mbeubeuss (circa un migliaio ci vivono stabilmente), per un volume di affari di oltre 50 milioni di franchi Cfa (Cissé, 2007: 27). Al suo interno si possono identificare tre principali poli di attività: i quartieri di Guye Gui e Baol e la piattaforma di sversamento. Guye Gui è il quartiere più vicino all’in- gresso e raccoglie circa duecento persone operanti in una trentina di pakk.23 Il campo principale in cui i recuperatori di Guye Gui sono specializzati è quello dei rifiuti speciali e industriali. Questo sito è frequentato (e abitato) principalmente dai recuperatori più anziani, che sono allo stesso tempo i più attivi nell’associazione che raggruppa tutti i

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Interno 2-3-2016.indd 184 19/07/17 16:59 lavoratori della discarica. L’elemento distintivo di questo raggruppamento è il capitale sociale strategico a disposizione, che consente loro di ricevere i rifiuti da aziende priva- te direttamente nel quartiere (si tratta di rifiuti speciali e industriali, quindi più redditizi e di migliore qualità). La relazione tra i privati e i recuperatori si configura come uno scambio in cui entrambi traggono beneficio, giacché i privati hanno interesse a disfarsi rapidamente degli scarti della produzione. Più all’interno della discarica, si trova un vero e proprio villaggio, denominato Baol poiché accoglie lavoratori provenienti per la maggior parte dalla regione omonima all’interno del Paese. Data l’origine rurale, la maggior parte di essi rientra nei villaggi d’appartenenza durante la stagione delle piogge per riprendere le attività agricole. A differenza del quartiere degli anziani, i recuperatori di Baol non dispongono di alcun capitale sociale che consenta un accesso a rifiuti più redditizi, ragione per cui la mag- gior parte di essi lavora sulla piattaforma di sversamento, dedicandosi completamente alla selezione di rifiuti solidi urbani, in un ambiente mefitico scandito da ritmi di lavoro molto duri ed estremamente concorrenziali. La tensione tra queste due classi di recu- peratori si è acuita nel novembre del 2014 quando i baol si sono ribellati ai privilegi di Guye Gui bloccando i camion dei rifiuti e dando fuoco alle barricate all’ingresso della discarica. Se da una parte la comunità baol è dunque attraversata da antagonismi e rivalità, dall’altra la socialità ne è l’elemento preponderante, come dimostrato dal dinamismo dell’associazione dei discepoli muridi (daa’ira) di Mbeubeuss.24 Questa è stata creata nel 1997 e ogni anno organizza un piccolo pellegrinaggio a Touba (città santa e sede 185 del muridismo) per ricevere la benedizione del marabutto. Come spiegato dal capo dell’associazione, le risorse mobilitate per il daa’ira sono destinate al marabutto e ad altri “affari sociali” legati alle attività di recupero.25 L’associazione influisce persino sull’acquisto delle materie recuperate e sulle relazioni tra recuperatori e rivenditori, fungendo da meccanismo di regolazione della competizione sociale, oltre che di soli- darietà. La quasi totalità dei baol, elemento interessante, appartiene alla confraternita sufi26 dei muridi. «Ligey thi diamou yalla la boke» («lavorare è uno dei comportamenti dello schia- vo di Dio») recita una famosa massima muride che riassume in maniera emblematica uno degli aspetti più importanti dell’etica del muridismo, un’etica alimentata dal sa- crificio e dalla santificazione del lavoro. La radicalizzazione di questo fattore è tuttavia diventato l’elemento dominante di una «frangia liminale» del muridismo (Piga 2000: 85), ispirata alla figura di Cheikh Ibra Fall, uno dei discepoli più importanti di Cheikh Amadou Bamba, padre del muridismo, la cui popolarità trova una vasta risonanza tra i boudiouman; l’ideologia bayfalista (dei seguaci di Ibra Fall) funge da base morale che spinge i recuperatori a lavorare sodo in un ambiente ostile come quello della discarica, perché, come sostiene il capo del daa’ira, «grazie alla buona volontà e al sacrificio ogni lavoro diventa nobile».27 Il riconoscimento da parte del marabutto è in questo senso percepito dai recuperatori come una forma di accettazione e di validazione sociale di

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Interno 2-3-2016.indd 185 19/07/17 16:59 un mestiere altrimenti fortemente stigmatizzato. L’emancipazione sociale ed economica dei recuperatori è dunque consentita da un graduale processo di legittimazione – politico-formale nel caso dell’associazione Bokk Diom, ed etico-religiosa nel caso dei baol – che ha favorito la crescita dei boudiouman come gruppo quantitativamente più importante della catena della valorizzazione in- formale dei rifiuti. Questo percorso emancipativo ha portato i recuperatori a giocare un ruolo sempre più importante nella filiera dei rifiuti, favorendo una relazione concorrenziale con gli altri protagonisti del mercato, costituiti da grossisti, unità di riciclo, rivenditori, artigiani e micro-imprenditori.28 Pur restando il soggetto più penalizzato nella divisione del la- voro interna alla discarica – una manodopera sottopagata e dipendente dai mediatori commerciali, che svolge l’attività più svantaggiosa, meno remunerata e più onerosa – il boudiouman acquisisce più potere contrattuale quando riesce a smarcarsi dal rapporto di forza costituito dal circuito intermediario dei rivenditori e grossisti, rivolgendosi di- rettamente all’unità industriale di riciclo, soprattutto nel caso di materiali ferrosi.29 La crescente richiesta di mercato di materie prime seconde ha infatti portato le industrie del riciclo ad acquistare anche piccoli stock direttamente dai recuperatori, a discapito del circuito dell’intermediazione. Seppur inscritta in un quadro di subalternità economica, di marginalizzazione urbana e di repulsione sociale, la discarica si è trasformata in un “luogo di lavoro”, di “possibilità” e di riscatto, in cui i boudiouman hanno creato un proprio repertorio di riferimento: si 186 parla della piattaforma (ove le condizioni di lavoro sono le più estreme e insopportabili) come di un “campo di battaglia” in cui farsi valere. Qui il recuperatore ha sviluppato una particolare abilità nel riconoscere e assemblare materiali e soprattutto nel “capi- talizzare” potenziali rifiuti di valore, distinguendo la diversa composizione dei prodotti recuperati, l’eventuale destinazione d’uso e la relativa domanda. Per questa ragione, la performance predatoria sulla piattaforma è alimentata da un elevatissimo grado di competizione per accaparrarsi “i rifiuti migliori” (in wolof mbalit“ tubab”, letteralmente “i rifiuti dei bianchi”) sversati dai camion che trasportano la spazzatura dei quartieri più agiati di Dakar. Il carattere predatorio delle pratiche di recupero ha reso la discarica un luogo di «attesa perenne» («non bisogna mai distrarsi […] perché la discarica è come una donna incinta, potrebbe partorire in qualsiasi momento»),30 in cui pervicacia e labo- riosità si caratterizzano come elementi funzionali all’auto-sostentamento (Appadurai 2014; De Certeau 2010; Honwana, 2013).

Conclusioni Collocandosi in un campo tra spazio pubblico e privato, dove molteplici espressioni della cittadinanza urbana prendono corpo (Blundo 2009; Samson 2008), negli ultimi anni la gestione dei rifiuti si è dimostrata essere strettamente correlata all’agenda po- litica internazionale,31 in quanto sempre più spesso funge da catalizzatore della realtà sociale e del disagio urbano. Analizzare tale realtà attraverso il prisma dell’immondizia

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Interno 2-3-2016.indd 186 19/07/17 16:59 può essere considerato uno strumento adeguato per comprendere i fatti urbani del- la società senegalese contemporanea, che trovano nella discarica di Mbeubeuss un luogo di singolare laboriosità e di profonde contraddizioni. Nella sua storia recente si condensano, infatti, le esperienze più dolorose e gli eventi più emblematici della città africana. Questi fenomeni, oscurati dalla metanarrativa sull’urbanizzazione e sulla mo- dernizzazione attraverso l’insistenza sul carattere «patologico e anormale» del disordine metropolitano, meritano di essere ribaditi (Mbembe, Nuttall 2004: 352). I meccanismi punitivi e la dimensione repressiva messi in atto dalla politica dei déguerpissement, in questo senso, rappresentano il nucleo storico-sociologico del processo di “trasforma- zione” della discarica, della sua strutturazione interna e delle traiettorie che ne hanno determinato il popolamento. Questi elementi ci aiutano a comprendere in che maniera Mbeubeuss si relazioni al resto del tessuto urbano di Dakar, in particolare rispetto all’azione dello Stato e alla sua capacità di generare “condizioni di marginalità produttive”. A questo proposito, Bauman ha messo in evidenza come il dissolvimento delle frontiere entro cui convogliare le popolazioni «eccedenti» abbia spinto la società moderna a creare luoghi progettati per il contenimento e lo «smaltimento di esseri umani di scarto» – banlieue, nuovi ghetti, campi per immigrati, ecc. (Bauman 2011: 81, 106). Allo stesso modo Chari considera tale surplus di popolazione come “detrito” dell’accumulazione capitalista, costretto dal progetto (neo)coloniale a trovare il modo di riprodursi al di fuori del rapporto di lavoro salariato, trasformando gli stessi rifiuti della produzione capitalista in risorsa (Chari 2005). In questo lavoro di rianimazione e di “messa in valore”, i rifiuti sono recuperati 187 all’interno di circuiti secondari del capitale (Appadurai 2009; Gidwani 2014), fornendo una nicchia di sopravvivenza per le sub-popolazioni urbane. Tale economia di “valoriz- zazione” dei rifiuti mostra come dietro la valenza distruttrice si celi una natura pro- duttiva e redentiva (Douglas 2007), che favorisce il passaggio da uno status di degrado e reiezione a uno di «redenzione e di moralità positiva» (Graeber 2011: 282). Questo sviluppo è particolarmente significativo per comprendere il processo emancipativo che ha portato i recuperatori di Mbeubeuss dall’essere considerati “campo negletto della produzione” (Blincow 1986), all’essere riconosciuti come attori legittimi della gover- nance urbana. Attraverso il processo di soggettivazione politica e di interazione col sistema di gestione urbana, la “moralità positiva” sostanziata nelle attività svolte dai boudiouman ha trovato giustificazione sia nell’etica del duro lavoro professata da una corrente “liminale” del sufismo senegalese, che nella legittimità politica derivante dalla costituzione ufficiale dell’associazione Bokk Diom presso il tribunale. Oltre a vedersi parzialmente legittimati come forza sociale dalle istituzioni – politiche o religiose – senegalesi, i boudiouman partecipano anche a un network globale che opera per il riconoscimento e l’emancipazione dei lavoratori informali. Mentre le poli- tiche promosse dalle istituzioni internazionali non tengono conto dei «limiti relativi a certi paradigmi globali di gestione e di governo delle città» (Fouchard 2007: 10) – non attribuendo il giusto peso al continuum che si è creato tra istituzioni formali e informali

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Interno 2-3-2016.indd 187 19/07/17 16:59 all’interno del settore della gestione municipale dei rifiuti – i recuperatori, coscienti di giocare un ruolo chiave nelle strategie di governance urbana e consapevoli delle enormi implicazioni economiche, sanitarie e ambientali derivanti dalla produzione di rifiuti,32 con il supporto dalla rete WIEGO,33 hanno creato un coordinamento internazionale che riunisce le organizzazioni di wastepicker di più di 40 Paesi, prevalentemente provenien- ti da Asia, Africa e America Latina,34 con l’obiettivo di fare pressione sugli organismi nazionali e internazionali affinché la loro causa sia posta come priorità nelle politiche di sostenibilità.

Raffaele Urselli è dottorando in Africanistica all’Università degli studi di Napoli “L’O- rientale”.

NOTE: 1 - Quest’articolo è in parte frutto del lavoro di ricerca per il dottorato in Africanistica presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. L’oggetto principale della tesi riguarda la politica dei rifiuti a Dakar, che negli ultimi trent’anni ha giocato un ruolo di primo piano sulla scena politica senegalese. 2 - Quest’analisi è stata sviluppata attraverso «l’incrocio tra il metodo storico» (ricerca d’archivio presso l’IFAN, presso la biblioteca centrale dell’UCAD e inizialmente presso gli Archivi di Stato - quest’ultima si è poi dovuta interrompere a causa della chiusura degli archivi per motivi di digitalizzazione) «e l’analisi qua- litativa delle scienze sociali» (Fourchard 2007: 10), realizzata attraverso le interviste. 3 - La questione del traffico internazionale di rifiuti assume particolare rilevanza rispetto alle culture mate- riali locali, subordinate in maniera crescente alla ricezione di merce di seconda mano. Si veda il concetto di “secondhandhood” proposto da Hansen (2000) rispetto al crescente mercato di merci di seconda mano che si muovono dai Paesi industrializzati verso i porti delle coste atlantiche dell’Africa e, in particolare, il libro 188 Recycling economies. The global transformation of materials, values and social relations (Alexander, Reno 2011) che ripercorre le nuove traiettorie di circolazione dei rifiuti nelle politiche globali di riciclo, prestando particolare attenzione alle trasformazioni sociali e alle rappresentazioni culturali che ne corrispondono. Sulle battaglie contro il traffico illegale di rifiuti si veda il lavoro che sta svolgendo la rete BAN (Basel Action Network) per il rispetto e l’implementazione della Convenzione di Basilea (http://www.ban.org/). 4 - Si veda: Honwana A. (2013), Youth, Waithood, and Protest Movements in Africa, International African Institute, Lugard Lecture at Fifth ECAS - Lisbon, p. 19: http://www.internationalafricaninstitute.org/down- loads/lugard/Lugard%20Lecture%20%202013.pdf. 5 - Per anni l’antropologia e le scienze sociali hanno considerato la produzione di rifiuti come “specchio del- la produzione” (Pinna 2011; Rathje 1992), cioè come uno strumento per riflettere sulla condizione umana: in quanto «esterno costitutivo della società» (Gidwani 2014: 3), la caratteristica principale dei rifiuti è infatti quella di «affermare o negare un dato ordine sociale» (Douglas 1966: 20). Sulla specificità del contesto africano ci sono diversi lavori che si concentrano sul rapporto tra produzione di rifiuti, cultura materiale e rappresentazioni politiche. In particolare diversi studi hanno recuperato le intuizioni di Mary Douglas sul rapporto tra economia domestica, spazi pubblici e privati e le diverse concezioni e pratiche relative allo “sporco” (Douny 2007; Furniss 2012; Guitard 2012; Bouju, Ouattara 2002). Ci sono tuttavia i lavori di Fre- dericks (2013), Samson (2008), Medina (2005, 2007), Magaji e Dakyes (2011) che hanno affrontato il tema dei rifiuti privilegiando la dimensione del lavoro e analizzando il rapporto tra le nuove forme di cittadinanza urbana e la strutturazione delle reti di wastepicker e di sindacati del settore dei rifiuti. L’approccio stret- tamente culturale allo studio dei rifiuti è stato integrato negli ultimi due decenni da un crescente campo di ricerca che ha pian piano colmato i vuoti lasciati dall’impostazione simbolica e strutturale, cercando di superare certe rigide categorizzazioni e orientandosi verso una prospettiva pluridisciplinare che integra al punto di vista antropologico quello degli studi di geografia critica della globalizzazione e dell’analisi della teoria del valore (Appadurai 2014; Alexander, Reno 2011; Chari 2005; Graeber 2011). 6 - Questa espressione ha avuto una larga diffusione in seguito alla “favola sociale” raccontata nel libro di Aminata Sow Fall, La grève des battus. Ou les déchets humaines (Sow Fall 1980). 7 - Il lavoro di ricerca sul campo si è svolto in due fasi: la prima volta all’identificazione dei diversi attori implicati nel settore dei rifiuti e la seconda incentrata sulla costruzione della difficile relazione etnografica con i recuperatori della discarica della capitale. Sono state realizzate 42 interviste semi-strutturate e in profondità con informatori-chiave e testimoni privilegiati (Gianturco 2005: 69-70). Impostare la relazione

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Interno 2-3-2016.indd 188 19/07/17 16:59 etnografica è stato un lavoro delicato a causa della mancanza di fiducia dei recuperatori che, per via del forte stigma sociale legato all’attività di lavoro con le impurità dei rifiuti, sono molto diffidenti e restii alle relazioni esterne. Per far fronte a questo problema e per rispondere all’esigenza di rivolgersi alla «persona intera», si è cercato di costruire una relazione anche al di fuori del contesto etnografico. Riprendo questa postura metodologica da De Martino (1961: 14, 137). 8 - Intervista con H. N., giovane recuperatore a Guye Gui, Mbeubeuss-Dakar, Gennaio 2014. La decisione di omettere i nomi per esteso degli intervistati è stata presa per rispettare le richieste di anonimato. 9 - Letteralmente in wolof: “chi immerge le mani”; il termine è usato comunemente per indicare i recupe- ratori di rifiuti wastepicker( ). 10 - Intervista con un attivista del comitato contro la discarica di Sindia, Febbraio 2014. 11 - I toni emergenziali e la campagna pubblica di denigrazione contro Mbeubeuss hanno determinato una strumentalizzazione della questione ambientale e sanitaria. Molti articoli giornalistici della stampa nazio- nale hanno rincarato la dose parlando di Mbeubeuss come “una bomba pronta a esplodere”, descrivendola come un luogo macabro e pericoloso. Si vedano i seguenti articoli: Horreur à la décharge de Mbeubeuss: 14 cadavres de bébés retrouvés, “Xibaaru” (on-line), Settembre 2014: http://xibaaru.com/people/horreur-a- la-decharge-de-mbeubeuss-14-cadavres-de-bebes-retrouves/; e Réunion interministérielle sur une bombe écologique: la décharge de Mbeubeuss, “Rewmi.com” (on-line), Marzo 2011: http://www.rewmi.com/reu- nion-interministerielle-sur-une-bombe-ecologiquela-decharge-de mbeubeuss.html. 12 - Intervista con A. Z., recuperatore a Baol, Mbeubeuss-Dakar, Gennaio 2014. 13 - Archives Nationales du Senegal (ANS), Village et mosquée de Médina. 1914-1918, Ifan, Dakar. 14 - Un percorso biografico particolarmente indicativo è quello raccontato da Aliou che, arrivato a Dakar in cerca di fortuna, dopo aver girovagato per giorni in centro città ed esser stato più volte allontanato dalla polizia e fermato per vagabondaggio, decide di seguire a piedi i camion che raccoglievano rifiuti nei quar- tieri più agiati della città, sino alla “stupefacente” scoperta di Mbeubeuss, che oggi gli consente di sostenere economicamente la propria famiglia a Djourbel. 15 - Intervista con P. N., anziano recuperatore di Guye Gui, Mbeubeuss Dakar, Gennaio 2014. 16 - L’articolo di Osuf, Sylla, Collignon (1977) sull’ospedale psichiatrico di Thiaroye ci ricorda che un pa- diglione su tre era dedicato alle persone sgomberate dai déguerpissement, quindi non necessariamente sofferenti mentali. 189 17 - Intervista con P. D., recuperatore a Guye Gui, Mbeubeuss-Dakar, Dicembre 2014. 18 - Faccio riferimento al concetto di “distribuzione del sensibile” (partage du sensible) elaborato da Jacques Rancière e definito come «l’organizzazione che assegna luoghi, compiti specifici e posizioni a diversi attori in base alla gerarchia sociale dominante […] all’interno della quale la distribuzione del sensibile organizza le forme politiche dell’inclusione e dell’esclusione nello spazio urbano» [traduzione dell’autore] (Rancière 2000: 22). 19 - Letteralmente in wolof: “avere la stessa visione”. 20 - Enda Tiers Monde è una della più grandi e attive ONG del Senegal. 21 - Si tratta della registrazione come associazione presso il tribunale. 22 - Intervista con P. N, recuperatore a Guye Gui, Mbeubeuss-Dakar, Novembre 2014. 23 - Il pakk è l’unità produttiva di riferimento nella catena della valorizzazione informale dei rifiuti. Oltre a quelli all’interno di Mbeubeuss, i pakk sono situati vicino ai mercati, nelle zone industriali e nei pochi spazi interstiziali lasciati dall’urbanizzazione pressante. I circuiti di rifornimento sono molto complessi e ogni pakk è specializzato in una determinata filiera (Cissé 2007: 54). 24 - La Muridiyya è una delle principali confraternite sufi del Senegal, mentre i daa’ira sono associazioni religiose muridi che proliferano in contesto urbano. Il lavoro di Adriana Piga sugli ordini sufi a Dakar mette chiaramente in luce come il daa’ira sia «frutto di un notevole sforzo organizzativo della classe marabuttica, diretto a rafforzare i legami con i discepoli immigrati in città» (Piga 2000: 90). 25 - Le risorse finanziarie provengono dal pagamento di quote regolari versate periodicamente. Come anco- ra evidenziato da Piga, «il risvolto economico-finanziario della loro attività è estremamente significativo in quanto le associazioni provvedono regolarmente alla colletta delle quote sociali di iscrizione da devolversi annualmente al proprio marabutto insieme alle varie offerte in denaro» (Piga 2000: 91). 26 - Le confraternite sufi (oltre alla Muridiyya, le più diffuse sono la Tijaniyya e la Qadiriyya) dominano la scena religiosa in Senegal sin dal primo periodo coloniale (Coulon 1982; Cruise O’Brien 1971; Piga 2000). 27 - Intervista con B. F., recuperatore e capo del daa’ira a Baol, Mbeubeuss-Dakar, Dicembre 2014. 28 - I micro-imprenditori, che costituiscono piccole unità di produzione domestica, si riforniscono a Mbeu-

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Interno 2-3-2016.indd 189 19/07/17 16:59 beuss di sacchi di juta, bottiglie, recipienti, contenitori, ecc., per sostenere la vendita al dettaglio e le micro- attività di trasformazione alimentare. Grazie a questi circuiti la discarica è diventata il punto di approvvi- gionamento di numerose reti di auto-produzione collegate ai maggiori mercati della regione (in particolare quelli di Sandaga, Colobane e Thiaroye). 29 - I pakk legati all’industria informale del ferro costituiscono la parte più importante dell’economia del riciclo e dei rifiuti sin dagli anni ’50 (Cissé 2007: 58). Per favorire gli investitori cinesi il governo di Macky Sall nel 2012 ha bloccato le esportazioni di ferraglia dal porto di Dakar affinché restassero sul suolo nazio- nale; a questa decisione ha fatto seguito una lunga e tesa protesta da parte dei commercianti del settore danneggiati dal blocco delle esportazioni (si veda l’articolo Les ferrailleurs sénégalais en guerre contre les Chinois, “SlateAfrique” (on-line), Luglio 2013: http://www.slateafrique.com/102967/senegal-guerre-ferrail- leurs-senegalais-chinois. 30 - Intervista con H. N., recuperatore a Guye Gui, Mbeubeuss-Dakar, Gennaio 2014. 31 - Si veda Un-Habitat (2014), Urbanisation Challenges, Waste Management and Development, 11th Re- gional Meeting (East African Region) of the ACP-EC Joint Parliamentary Assembly, 12-14 February, Port Louis, Mauritius: http://www.europarl.europa.eu/intcoop/acp/2014_mauritius/pdf/un_habitat_presentati- on_en.pdf. 32 - Una quota tra il 3% e il 5% delle emissioni mondiali di gas serra sono legate al settore dei rifiuti (si veda: European Environment Agency (EEA) (2011), Projections of Municipal Waste Management and Gre- enhouse Gases, ETC/SCP working paper 4/2011: http://scp.eionet.europa.eu/wp/2011wp4); il recente Waste Atlas Report stima invece che le vite di oltre 64 milioni di persone subiscono quotidianamente le conseguen- ze della prossimità con le 50 discariche più grandi del mondo, tra cui Mbeubeuss. Si veda: D-Waste Team (2013), Waste Atlas 2013 Report: http://www.atlas.d-waste.com e D-Waste Team (2014), Waste Atlas 2014 Report. The World’s 50 Biggest Dumpsites: http://www.atlas.d-waste.com. 33 - WIEGO è una rete globale che lotta per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni più povere, con una particolare attenzione verso il ruolo delle donne, che lavorano nell’economia informale (http://wiego.org/). 34 - Nel marzo del 2008 i recuperatori provenienti da più di trenta Paesi si sono riuniti a Bogotà, per la pri- ma Conferenza Mondiale dei raccoglitori di rifiuti, cui ha partecipato anche una delegazione di Mbeubeuss (http://globalrec.org/).

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