GABRIELLA EBANO

Nata a Roma il 5 agosto 1954, laureata in Storia. Tra il 1987 e il 1996 vive e lavora prima a Bergamo e poi a Milano. Oltre all’attività di fotografa di scena e di ritrattistica, si dedica in particolare all’organizzazione di mostre e rassegne fotografiche e tiene corsi di fotografia nell’ambito delle iniziative dell’associazione culturale “Il filo di Arianna”, di cui è presidente. Approfondisce la sua esperienza fotografica seguendo corsi e seminari di importanti fotografi, quali Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna e Giuseppe Leone. Collabora con Lanfranco Colombo, direttore della galleria fotografica “Il Diaframma” di Milano, alla 13° edizione della Sezione Culturale del SICOF (Salone Internazionale foto- cine-video) nel 1989. Scrive articoli di fotografia per il quotidiano “Il giornale di Bergamo oggi”. Realizza vari reportages, tra i quali “Il Circo Americano dietro le quinte” nel 1988, “Effetto Donna – attrici in bianco e nero: immagini e parole al femminile da una stagione teatrale”, Teatro Donizetti di Bergamo, nel 1993, “Destinazioni sconosciute, immagini dall’ex Jugoslavia” nel 1994 (svolgendo nel contempo attività di volontariato in alcuni campi profughi in Croazia), “Fiera del Libro di Torino” nel 1996. Dal 1997 vive in Sicilia, terra natale del padre, dove si dedica in particolare alla fotografia sociale ed etnografica, collaborando con agenzie italiane e straniere. Nel 2003 realizza la mostra “Ribellarsi è giusto” dedicata a Peppino Impastato, che viene esposta a , Partinico, Forlì, Modena ed Anzola dell’Emilia (Bo). Nel 2005 pubblica il libro con interviste e fotografie “Felicia e le sue sorelle – dal secondo dopoguerra alle stragi del ’92-93: venti storie di donne contro la mafia”, ed. Ediesse. Ha realizzato varie mostre personali e collettive e sue fotografie sono apparse su numerose riviste e quotidiani. Dal 2003 insegna fotografia presso scuole pubbliche ed istituzioni private.

FELICIA E LE SUE SORELLE Dal secondo dopoguerra alle stragi del ’92-93: venti storie di donne contro la mafia

In questo libro sono raccolte venti conversazioni con madri, figlie, sorelle e mogli, che attraverso i loro ricordi, riportano a noi queste figure: i sindacalisti, i magistrati, i giornalisti, gli uomini delle forze dell’ordine, e anche persone comuni e meno note, ma tutti costretti, per sempre, al silenzio per mano della mafia. E’ un percorso nella memoria storica siciliana per ricordare le tante vittime della mafia, in un momento difficile, come l’attuale, in cui da troppe parti si sente dire che parlare di mafia nuoce alla Sicilia e alla sua immagine. Le donne raccontano e si raccontano, andando al di là del dolore e affrontando anche temi di stringente attualità: l’impegno per la legalità e la convivenza civile, la difesa dei diritti di libertà e giustizia, la lotta alla connivenza e all’omertà. Poi da queste storie emergono anche emozioni diverse, con ricordi, aneddoti che ci fanno conoscere qualche cosa in più, anche dell’aspetto umano e privato delle persone ricordate. E’ un racconto corale, con diverse protagoniste, nel quale, come sul palcoscenico di un teatro, ognuna aggiunge un tassello alla storia di tutte, cercando di colmare il vuoto di memoria che purtroppo accompagna tante di queste drammatiche vicende.

Accanto alle parole di queste donne, ci sono poi le fotografie che le ritraggono, spesso con oggetti e ricordi delle persone che non ci sono più. L’idea del libro è nata dall’incontro determinante avuto nel maggio 2003 dall’autrice con Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato. A lei, in particolare, il libro è dedicato.

INTERVISTE

1 Antonella Azoti, figlia di Nicolò Azoti, (Baucina 21 dicembre 1946) 2 Tatiana Klimenco, (ricordata dal figlio Nico), moglie di Accursio Miraglia (Sciacca 4 gennaio 1947) 3 Graziella Di Blasi (ricordata dal figlio Giuseppe), moglie di Giuseppe Casarrubea (Partinico 22 giugno 1947) 4 Pina Rizzotto, sorella di Placido Rizzotto (, 10 marzo 1948) 5 Francesca Serafino, moglie di Calogero Cangelosi ( 2 aprile 1948) 6 Felicia Bartolotta, madre di Giuseppe Impastato (Cinisi, 9 maggio 1978) 7 Michela Buscemi, sorella di Salvatore e Rodolfo Buscemi ( 5 aprile 1976 e Palermo 26 maggio 1892) 8 Maria Sagona, moglie di Mario Francese (Palermo 26 gennaio 1979) 9 Giovanna Giaconia, moglie di (Palermo 25 settembre 1979) 10 Simona Dalla Chiesa, figlia di Carlo Alberto Dalla Chiesa (Palermo 3 settembre 1982) 11 Elena Fava, figlia di Giuseppe Fava (Catania 5 gennaio 1984) 12 Laura Iacovoni, moglie di Ninni Cassarà (Palermo 6 agosto 1985) 13 Pina Campagna, sorella di Graziella Campagna (Saponara (ME) 12 dicembre 1985) 14 Rosalia Corvo (ricordata da Ida Abate, insegnante del figlio), madre di Rosario Livatino ( 21 settembre 1990) 15 Pina Maisano, moglie di Libero Grassi (Palermo 29 agosto 1991) 16 Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone (Palermo 23 maggio 1992) 17 Rita Borsellino, sorella di Paolo Borsellino (Palermo, 19 luglio 1992) 18 Piera Aiello, cognata di Rita Atria (Roma 26 luglio 1992) 19 Vita D’Angelo, moglie di Paolo Ficalora (Castellammare del Golfo (TP) 28 settembre 1992 20 Suor Carolina, collaboratrice di don Pino Pugliesi (Palermo 15 settembre 1993)

PREFAZIONE di GIUSEPPE CASARRUBEA

Le interviste ad alcuni familiari di vittime di mafia che qui Gabriella Ebano ha voluto raccogliere, per i tipi della Casa Editrice della CGIL nazionale, hanno un pregio singolare: rappresentano, nel loro insieme, una storia diacronica del processo di democratizzazione avvenuto nel nostro Paese, visto dal versante femminile delle vittime. E’ il pianto delle vedove, dei figli, o delle madri le cui vite, improvvisamente, si sono interrotte nel seguire la quotidianità di un impegno, e deviando in modo traumatico dal loro corso naturale, sono state proiettate su un altro piano, inedito, tutto da definire, quasi mai indagato. Queste storie accomunano le ragioni di quanti, volevano cambiare la realtà delle cose, perché i nostri figli avessero un futuro migliore. Sono rappresentative, perciò, di centinaia di altre storie, analoghe, tutte fondate sul sacrificio, sull’adempimento del dovere: di sindacalisti, d’imprenditori non disponibili a cedere ai ricatti, di politici decisi a non essere servi, di

magistrati e uomini dello Stato che credevano nei valori della cittadinanza e della libertà e si battevano per la giustizia senza guardare in faccia a nessuno. In queste pagine sono racchiusi cinquant’anni di storia. Non dei perdenti, ma degli uomini che le nuove generazioni devono conoscere, perché il loro domani sia diverso da quello dei loro padri e il loro futuro sia veramente vincente sulla cultura della violenza. Il lavoro della Ebano è, perciò, nuovo e importante. E’ nuovo perché esce dal cliché agiografico (e spesso vittimistico) delle storie di coloro che hanno perduto rispetto alla violenza e alla negazione di ogni ragionevolezza; o perché introduce il tema di una cinquantenaria cultura del “martirio” che, per quanto presente alla condizione del cristianesimo, è stata, tuttavia, ritenuta debole, insufficiente a dominare le forze sociali sottoposte alla cultura secolare della morte. E’ nuovo anche perché proiettato sul versante di una inedita resistenza dalla doppia faccia: quella dei caduti e l’altra dei superstiti. Come se i primi fossero stati ammazzati due volte, rimossi fisicamente prima, calpestati, ignorati, dopo, nei diritti di quanti erano sopravvissuti col loro carico di bisogni e di pene. Nella sequenza cronologica che va dal 1946 ai nostri giorni vi è la storia di questa seconda faccia, ancora in gran parte senza giustizia, senza Stato, deturpata dalle menzogne ufficiali di sempre. Alcuni casi sono veramente intollerabili per uno Stato che voglia definirsi democratico. Si pensi, ad esempio, agli assassini di Nicolò Azoti, Accursio Miraglia, Giuseppe Casarrubea, Vincenzo Lo Iacono, Vito Pipitone; agli stessi morti di Portella: bambini, ragazzi, donne e lavoratori indifesi che avevano avuto il torto di festeggiare il primo maggio e che perciò furono immolati, sull’altare pagano di un dio sconosciuto, ostile alla nuova democrazia nata dalla guerra di Liberazione. Doppiamente mortale la violenza esercitata su di loro: per i depistaggi messi in opera, per gli imperdonabili ritardi; per tutte le forme di ignoramento istituzionale del loro sacrificio. In molti casi non si sono neanche aperti i processi; in altri, come in quello di Placido Rizzotto, sindacalista di Corleone, i familiari non hanno una tomba su cui deporre un fiore. Perché per lo Stato Rizzotto non è mai esistito e il suo corpo, fatto sparire da Luciano Liggio, non è stato mai ritrovato. Neanche quando fu consegnato ai suoi familiari, nel lontano 1949, da un giovane capitano, Carlo Alberto Dalla Chiesa, e gli stessi parenti, come la sorella Giuseppina, ebbero a riconoscere, i frammenti dei suoi abiti, i pochi oggetti recuperati. Per Miraglia i giudici avocarono ad altra sede le indagini e tutto si bloccò da quel momento. Per Miraglia l’orologio della giustizia si è fermato alla data del 4 gennaio 1947, quando fu assassinato. Non diversamente è accaduto per Portella e per tutti gli altri sindacalisti assassinati dalle mafie e dal terrorismo politico che le guidava. Per i morti di Portella fu Scelba a porre su ogni indagine una pietra tombale. Intervenendo alla Costituente, subito dopo i fatti, disse che quella strage era un episodio circoscritto, legato a situazioni locali. Inutile andare oltre. Anche per Portella siamo fermi al 1° maggio 1947. Per i caduti negli attacchi alle Camere del lavoro del successivo 22 giugno lo Stato ancora oggi ignora mandanti ed esecutori. E potremmo continuare fino alla strage di Piazza Fontana, alle dichiarazioni di Galloni sull’infiltrazione della Cia (Central Intelligence Agency) tra le BR, nella vicenda Moro, alle stragi del 1992 e a tutti quegli altri morti per i quali ancora non c’è piena verità e giustizia. Ma per i pionieri di questa lunga battaglia di coscienza e per la democrazia, abbiamo tutti un debito particolare. Essi non hanno avuto finora alcun riconoscimento. E’ come se lo Stato continuasse ancora oggi ad ignorarli. Ci auguriamo che presto arrivi in Parlamento una proposta di legge per l’approvazione di un articolo unico che sancisca finalmente che quei morti (non solo quelli considerati in questo volume, ma tutti gli altri: Carnevale, Guarino, Bongiorno e tutti quelli dei quali in questo libro non si parla), possano avere un riconoscimento speciale. Per questo siamo fiduciosi, vista anche la premessa di una norma della regione Sicilia, risalente al governo Capodicasa (1999) con la quale si riconosceva lo status di “caduti” a una cinquantina di sindacalisti e uomini politici, o semplici cittadini morti in ragione della difesa dei diritti di libertà e per la

democrazia. L’auspicio è che questo accada prima che sia troppo tardi visto che gli ultimi testimoni delle battaglie del secondo dopoguerra ogni anno ci lasciano con la nostra coscienza sporca, le nostre inerzie, le nostre colpe. Anche in virtù di una sollecitazione di tale natura questo libro ci incoraggia ad esaminare il lungo divario di tempo e di civiltà subito dal movimento sindacale e dalla democrazia politica dell’Italia dal 1944 ai nostri giorni: dall’assassinio di Andrea Raia, avvenuta a Casteldaccia durante le battaglie per i granai del popolo, agli ultimi esiti della lotta antimafia. In questa storia occorre tenere presente la costante dell’interdipendenza mafiosa dalle reti che la univano allo Stato e ai suoi servizi d’intellingence, come adesso emerge in modo inequivocabile dalle radici dello stragismo che incrociamo nelle ricerche su Portella o in quelle sul caso Moro. Per cui alla costante della coerenza genetica di Cosa nostra non va mai sottratta la parallela e intrinseca connessione con le vicende dell’eversione e con gli atteggiamenti, più o meno coerenti, assunti dai rappresentanti dello Stato preposti a tutelare l’ordine costituito, la Carta Costituzionale, la lotta contro il neofascismo o qualunque altro tipo di eversione. Anche sotto il profilo delle percezioni e delle immagini, se così possiamo dire, di sfondo, è perciò utile cogliere le rappresentazioni che dagli ambienti descritti derivano, come fatti esaustivi di un’unità più complessa e completa sotto il profilo diacronico, pur nelle diversità delle scene e dei personaggi che vi si immortalano. Si può dire che ogni storia raccolta in questo libro si riflette su tutte le altre, arricchendole e completandole. Ma al tempo stesso si deve notare che ogni storia è un racconto completo, esaustivo nella sue tragicità. Evoca mondi perduti, valori irripetibili, battaglie singolari di uomini e donne, famiglie e collettività, per la libertà, i diritti fondamentali. Ogni storia segna anche, nel lungo periodo, gli effetti di questa tragicità sulla carne di chi è sopravvissuto, testimone solitario e unico del grido, dell’urlo inascoltabile del dolore. E’ quanto riscontriamo nel racconto di Antonella Azoti sulla sua fanciullezza negata, di Nico Miraglia e di sua madre Tatiana, la moglie di Accursio, esule russa, aristocratica e quasi evanescente nel suo fascino esotico; è la storia di questa nobildonna che ce l’aveva contro i sovietici, ma che al contempo amava il suo compagno anarchico e comunista che aveva diretto le più grandi battaglie contadine della storia del secolo scorso. E’ la storia di Giuseppina, sorella di Placido Rizzotto, e di Francesca Serafino, moglie di Calogero Cangelosi, il sindacalista di Camporeale ucciso da Vanni Sacco; è la storia di questa donna quasi novantenne, figura da tragedia greca, soave e solenne come una divinità sacra che ancora accusa col suo indice puntato gli uomini che cancellano identità e memorie, come se questo potesse accadere senza smarrire il senso della propria vita. Ma è anche la storia di quanti sono caduti per la difesa dei diritti dei cittadini e delle prerogative dello Sato: uomini che pensavano a voce alta come Paolo Ficalora, Rita Atria, doppiamente vittima dello Stato, come dice la cognata Piera Aiello, Rita Borsellino che indica nel cristianesimo del fratello Paolo la via da percorrere per uscire dal tunnel della disperazione e che traduce il perdono in un binomio inscindibile con la giustizia (“non c’è perdono senza giustizia”). E’ la storia di Maria Sagona, moglie di Mario Francese, di Laura Iacovoni, moglie di Ninni Cassarà e di Giovanna Diaconia, moglie di Cesare Terranova; di Simona Dalla Chiesa, figlia di Carlo Alberto e del suo attaccamento di bambina ad un padre mitico, che trasmetteva ottimismo e sicurezza; o di Pina Maisano, moglie di Libero Grassi, l’imprenditore che non volle piegarsi a Cosa Nostra. Come tutti gli altri che avevano assunto il motto di Accursio Miraglia: “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. E’ la storia di mia madre, umile donna che morì, quasi novantenne, sperando in una giustizia e in una verità che non arrivarono mai. E’ la storia di Elena Fava, figlia di Giuseppe Fava, di Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone, e di suor Carolina, collaboratrice di don Pino Puglisi. E’, in ultimo, la storia di madri, insegnanti, sorelle, come Felicia Bartolotta, mamma di Peppino Impastato, Ida Abate, l’insegnante di Rosario Livatino, di Michela Buscemi, sorella di

Salvatore e Rodolfo Buscemi, di Pina Campagna, sorella di Graziella Campagna. Sono tutte storie che il lettore avrà modo di ripercorrere, non senza il trasporto necessario e spontaneo da cui si è presi penetrando nei meandri dei sentimenti umani che, certamente, ad li là di ogni considerazione sull’eroicità o meno dei casi qui contemplati, emblematicamente, sono il versante universale e più intenso di questa silloge di racconti.

INTRODUZIONE di GABRIELLA EBANO

“Ricordami che devo raccontarti una cosa…”. Così, spesso, Felicia Bartolotta, la mamma di Peppino Impastato, mi diceva durante i nostri incontri. L’ho conosciuta negli ultimi anni della sua vita, questa Donna indimenticabile, e l’ho frequentata il più assiduamente possibile; e ogni volta erano parole di fuoco le sue, di dolore e di fermezza nel ripercorrere i momenti tragici della vicenda del figlio. Ma nei suoi racconti emergeva anche tanto di lei e della sua di storia, forte e controcorrente. Così, grazie a questo stimolo determinante, ho ripercorso i lunghi anni nei quali la mafia ha soffocato per sempre la voce dei magistrati, sindacalisti, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine. Ed erano tanti quei nomi, un numero impressionante che affollavano la mia mente. Ma pensavo anche alle mogli, le sorelle, le figlie, le donne che erano state vicine a questi uomini. E’ nata, perciò, l’idea di questo lavoro che raccoglie un numero rappresentativo di testimonianze al femminile, per ricordare non solo i loro più cari parenti, vittime della mafia, ma anche per ribadire la forza di queste donne, il loro coraggio ed il loro impegno, che, al dì là del dolore immenso, le vede protagoniste ancora oggi nelle tante e necessarie battaglie per la legalità in una Terra come la Sicilia, in un momento difficile come è l’attuale, in cui da troppe parti si sente dire che parlare di mafia nuoce all’Isola ed alla sua immagine. Durante gli incontri con queste donne, per conoscere qualcosa in più anche dell’aspetto umano e privato dei loro uomini, alle madri ed alle sorelle ho chiesto dell’infanzia, dei giochi, di ricordi anche lontani; con le mogli ho parlato di come si sono conosciuti, dei loro primi incontri; e le figlie mi hanno ricordato quanto dei padri è ancora in loro. C’è tanto lutto, in questi racconti, per le troppe e crudeli morti. Poi, però, a sprazzi, qua e là, oltre il lutto, si intravede la luce, rappresentata da questo filo luminoso che unisce questi racconti di donne. La luce è energia, ed energia è la parte di loro che si indigna, che parla con forza e il tono della storia tocca corde dai toni più alti. Sono donne diverse tra di loro, per estrazione sociale, per cultura, per educazione. Ma per le vicende che con un’unica matrice ha azzerato la vita ai loro parenti più cari, sono tutte vicine e parlano lo stesso linguaggio, il codice è unitario. I sindacalisti hanno una forte rappresentanza, perché sono le storie più sconosciute e perché allora, nella Sicilia del secondo dopoguerra, avvenne una vera e propria “decapitazione” del movimento sindacale isolano. Furono quaranta queste vittime della mafia: dirigenti sindacali, segretari delle varie Camere del Lavoro e delle sedi della Confederterra. Per ricordare Accursio Miraglia e Giuseppe Casarrubea, le cui mogli sono scomparse da diversi anni, ci sono i racconti dei due rispettivi figli maschi, come uniche eccezioni in queste storie al femminile. Ho debiti di riconoscenza, per la realizzazione di questo libro, nei confronti di Anna Puglisi, Sandra Passerotti e Stella Scirè, Giuseppe Casarrubea, Tamer Favali, Giuseppe Casadio, Stefano Maffioletti e Umberto Santino, del cui “Storia del movimento antimafia” mi sono avvalsa per alcune delle schede biografiche.

Ma il mio più grande ringraziamento va, soprattutto, ad Antonella Azoti, Tatiana Klimenco, Graziella Di Blasi, Pina Rizzotto, Francesca Serafino, Felicia Bartolotta, Michela Buscemi, Maria Sagona, Giovanna Giaconia, Simona Dalla Chiesa, Elena Fava, Laura Iacovoni, Pina Campagna, Rosalia Corvo, Pina Maisano, Maria Falcone, Rita Borsellino, Piera Aiello, Vita D’Angelo e suor Carolina, che con la loro disponibilità hanno permesso questo lavoro. E a mio padre, Salvatore, infine, che oltre alla passione per la fotografia, mi ha trasmesso quanto di più nobile aveva in sé per l’amore e l’attaccamento alla Sicilia, sua Terra natale.