Borsellino quater, la Boccassini in aula: “Si capiva che Scarantino mentiva” “Già nel giugno del 1994 uscì fuori l'utenza di Gaspare Spatuzza nelle indagini su via d'Amelio” di Aaron Pettinari - 21 gennaio 2014 Il procuratore aggiunto della Dda di Milano, Ilda Boccassini, ha deposto questa mattina al quarto processo per la strage di Via D’Amelio che si sta celebrando davanti alla corte d’assise di Caltanissetta. Al dibattimento sono imputati di strage i boss Salvino Madonna e Vittorio Tutino e di calunnia i falsi pentiti Calogero Pulci, Vincenzo Scarantino e Francesco Andriotta, autori di un clamoroso depistaggio che è costato la condanna all'ergastolo a sette innocenti. All'interno dell'aula D del secondo piano del Palazzo di Giustizia di Caltanissetta, il magistrato milanese è stato interrogato dai pm Lari, Gozzo e Fontana in particolare sulla lettera fatta avere al procuratore della Repubblica Giovanni Tinebra in cui, assieme al procuratore aggiunto Roberto Saieva, esprimeva diversi dubbi sull'attendibilità di Vincenzo Scarantino, poi scopertosi falso pentito. “Quando arrivai a Caltanissetta, da parte di tutti c’erano perplessità rispetto alla caratura del personaggio Vincenzo Scarantino. Ricordo perfettamente che si trattava di dubbi nutriti non solo dai magistrati, ma anche dagli investigatori”. “Scarantino - ha raccontato la Boccassini che tra il '92 e il 94 fu applicata alla Procura di Caltanissetta per indagare sugli eccidi di Capaci e via D'Amelio - dal carcere faceva arrivare messaggi tramite la polizia penitenziaria. Accennava alla possibilità di parlare, poi si tirava indietro. Oscillava. Fino a giugno quando ci fu la ciliegina finale, decise di collaborare e andammo a Pianosa a sentirlo”. In quel momento infatti Scarantino veniva inquadrato particolarmente per quel che concerneva il furto della 126, la macchina utilizzata per la strage. Un'ipotesi investigativa che “al tempo risultava verosimile anche perché era cognato di Profeta” ma poi è arrivata “la prova regina”. Per la Boccassini: “La prova regina del fatto che Vincenzo Scarantino era un mentitore era già nel suo pentimento, nel suo background criminale. Diceva cose assurde, raccontava 'fregnacce', chiamava in causa collaboratori di giustizia di caratura ben più elevata che non era in grado neanche di riconoscere in foto (Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera che tra l'altro hanno più volte sbugiardato il falso pentito della Guadagna ndr). Con il collega Roberto Sajeva mettemmo nero su bianco le nostre perplessità, scrivemmo che si stava imboccando una pista pericolosa, lo dicemmo al procuratore Tinebra, ai colleghi della Procura, lo segnalammo in una nota inviata anche alla Procura di Palermo. Se ne doveva anche discutere ad una riunione che è stata celebrata poi nel giorno della mia partenza. Cosa sia successo poi non posso saperlo”. “Dissi che andava sospeso tutto – ha aggiunto – che dovevamo verificare, avvisare i colleghi di Palermo, fare i confronti e ricominciare con saggezza umiltà ed equilibrio, doti che dovrebbero avere i magistrati. Il mio dovere era mettere per iscritto che si stavano imbarcando in una strada pericolosa“. Nella missiva a Tinebra venivano indicati diversi punti lacunosi in particolare in merito alle dichiarazioni che Scarantino aveva rilasciato in merito alla riunione preparatoria dell'attentato. “Al termine della riunione – disse Scarantino – Aglieri, Profeta e Calascibetta mi diedero il duplice incarico di reperire un’autovettura di piccole dimensioni da usare quale autobomba e una bombola contenente una sostanza chimica, la cui denominazione Aglieri aveva annotato su un foglietto, idonea a potenziare gli effetti deflagranti dell’esplosivo”. Dichiarazioni false, scoperte negli anni soltanto dopo le rivelazioni di Gaspare Spatuzza che ha di fatto riscritto la storia dell'attentato di via d'Amelio svelando il depistaggio sulla fase esecutiva dell’attentato. Grazie alla collaborazione del pentito la Procura nissena guidata da Sergio Lari ha potuto ricostruire le fasi preparatorie dell’eccidio e scagionare i sette innocenti, che sono in attesa della revisione del processo, accusati da Scarantino, Pulci e Andriotta. E proprio su Spatuzza il procuratore aggiunto di Milano, ricordando le indagini condotte sulle stragi di Capaci e via D'Amelio, ha rivelato anche un dettaglio del tutto inedito: “Io mi occupai soprattutto delle indagini su Capaci, ma ricordo anche alcuni aspetti riguardo a via d'Amelio. Tramite l’analisi dei cellulari già nel giugno del 1994 uscì fuori l’utenza di Gaspare Spatuzza. Nello specifico scoprimmo che il 19 luglio del ’92, ma anche il 17, c’erano telefonate tra Gian Battista Ferrante e Fifetto Cannella e da lì si risaliva a Spatuzza. Fino ad allora insomma c’erano collegamenti che potevano portare allo spunto investigativo che ora si persegue”. Alla domanda se Arnaldo La Barbera, coordinatore del gruppo della polizia che indagava sulle stragi, fosse il dominus delle investigazioni la Boccassini ha detto: “Sicuramente di lui c'era stima e fiducia in Procura ma - così come ha ribadito più volte durante il dibattimento - è il pubblico ministero il dominus delle indagini. E se poi si è andati avanti per quella strada gli altri colleghi avranno ritenuto di farlo. Evidentemente erano convinti che le instabilità di Scarantino fossero dovute a momenti di debolezza. Resta che anche dopo le cose che avevamo scritto sono i pm a decidere di andare avanti”. Genchi e Falcone Proseguendo nella sua deposizione la Boccassini ha anche affrontato un altro tema, quello riguardante la misteriosa fuoriuscita di scena di Gioacchino Genchi il quale rassegna le dimissioni dal gruppo Falcone-Borsellino, dove era entrato da pochi mesi. Secondo Genchi la ragione fu la profonda divergenza con il questore per l’arresto di Gaetano Scotto che avrebbe fatto saltare la pista del coinvolgimento dei servizi segreti. La Boccassini ha invece fornito un'altra possibile motivazione di quel fatto spiegando il perché in una nota inviata nel maggio 1994, sempre a Tinebra, in cui assieme al pm Fausto Cardella misero per iscritto che le motivazioni addotte da La Barbera sull’allontanamento del tecnico, scrisse che erano state “generiche e non del tutto convincenti”. “Probabilmente è anche a causa mia che vi fu quella sorta di allontanamento. Nella nota di La Barbera non si spiegava molto. Io dissi al procuratore capo Gianni Tinebra che, considerato che avevamo la Dia e il gruppo Falcone-Borsellino, avrei avuto difficoltà a continuare con la polizia di Stato se fosse rimasto Genchi. Io sono rimasta, lui se ne è andato>>. E poi ha aggiunto: “Aveva un atteggiamento non istituzionale. Avevo notato in lui un certo gusto che andava oltre lo spunto investigativo. Voleva acquisire troppo e ci propose di indagare su Giovanni Falcone, sui suoi viaggi e sulle carte di credito. Non accettavo un atteggiamento di questo tipo. Poi se le motivazioni del suo allontanamento siano state solo queste o se ce ne fossero anche altre non lo so. Secondo me Arnaldo La Barbera subì la decisione di allontanare Genchi in quanto perdeva un consulente esperto del proprio gruppo, anche se per me ce ne erano di migliori”. Successivamente è stato ascoltato anche l'oggi procuratore di Sassari Roberto Sajeva che ha ricordato le motivazioni che portarono alla redazione della lettera, assieme alla Boccassini, in merito alla collaborazione di Scarantino. Quindi ha anche ricordato come per il primo filone del furto della 126, la partecipazione di Scarantino non fosse stata comunque messa in discussione anche al Borsellino bis. Il dibattimento è stato quindi rinviato al prossimo 28 gennaio. .
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