Il Trittico Vecchie Ferite

Il Trittico Vecchie Ferite

Il trittico Vecchie Ferite Da San Cataldo a Catania e ritorno: 4 settembre 1774 1935 2011 Sommario del trittico Vecchie ferite 3 Prima parte : Alla memoria di mia madre e di mio padre 3 Seconda parte 10 Terza parte 17 Quarta parte 24 Quinta parte 37 Sesta parte 44 Settima parte 54 Ottava parte 62 Nona parte 75 Decima parte 83 Undicesima parte 88 Dodicesima parte 98 La collina di mia madre 104 Seconda parte 110 Terza parte 114 Quarta parte 119 Quinta parte 124 La depressione 127 Sesta parte 130 Settima parte 133 La spuma della risacca 152 Una cento, mille voci di bimbi 153 La siepe 154 “Tra la mia casa e il mare: ” 155 L'aldilà e l'aldiquà 156 Strade parallele 160 Le cugine e i cugini di campagna 173 Ricordi e memoria 174 Vento di tempesta 180 Morire a 16 anni 183 Delirio 186 La panchina 193 La caduta degli Angeli 195 Mia madre e Mio Padre PREFAZIONE Questa storia l’ho scritta per le persone che mi vogliono bene e continuano a passeggiare sul mio cuore, con le mani dietro la schiena e non mi danno calci negli stinchi, né cercano il pelo nell’uovo, ma si accontentano di quello che posso offrire. Una cosa è certa, questa è una storia partorita dal profondo del cuore, con piccole verità qua e là, con molti strafalcioni, dovuti alla mia, modesta cultura. Quelli che arricciano il naso e credono di possedere la scienza infusa, quelli che non si daranno la pena di leggermi e mi cestineranno, ritornino pure a letto, tanto con loro o senza, mi avventurerò lo stesso verso l'epilogo di questa mia storia. Perdonate la mia tecnica e gli errori d'ortografia e se vi riuscirà facile, leggetemi. Tanto, così è. Ricostruire tassello dopo tassello, il grande o il piccolo mosaico genealogico di una famiglia è come fare un grande viaggio nell'incognito. Svolgere una qualsivoglia ricerca storica non vuol dire andare a caccia d’ascendenti illustri per ricostruire le origini del proprio ceppo familiare, ma risalire all'indietro, con la memoria, nelle generazioni e nei secoli, grazie alle fonti disponibili, è doveroso. Chi non ha memorie da raccontare, non ha futuro. Chi possiede i ricordi dei suoi avi, a buon titolo, si sente immortale.” Vecchie ferite Alla memoria di mia madre e di mio padre: Prima parte : Eravamo giovani, figli del ventennio infame, abitavamo in via del Teatro Massimo n°17 e questa è la storia di una famiglia senza pretese, che si svolse in Sicilia e più esattamente a Catania. La nostra casa era situata, sette piani più sotto del settimo cielo, un piano terra-terra che malgrado si trovasse a quel livello, si prendeva e non si prende più, per un grattacielo solo perché, cinque gradini le davano la sensazione di non essere un volgare basso. In quella casa non ci veniva il sole e nemmeno le nuvole. Un piccolo balcone che dall’ammezzato dava nell’enorme cortile del n°15, si lasciava bagnare da un sole pallido e smunto, come i figli di quell'ultima guerra. Per vedere il cielo, bisognava andare in piazza del Teatro Massimo. In quella casa, oltre a noi, c’erano venuti ad abitare i topi, che erano grossi come conigli e non avevano alcun rispetto per noi, contendendoci il poco spazio vitale che mamma faceva bastare. Quelle bestiacce non amavano la nostra compagnia ma solo quello che possedevamo: venti sacchi di grano e dieci galline; e c’erano una cagna e una gatta che non erano capaci d'impensierirli, anche se cercavano di catturarli, riuscendovi solo di tanto in tanto. I topi non temevano nessuno, anzi, 3 animali domestici e umani, battevamo in ritirata. Per bambini e grandi, era l’inferno. Il solo a non aver paura, come al solito, era papà. Noi, a più riprese, avevamo risentito e subito l’umiliazione di chi doveva vivere in quelle condizioni: sette piani più sotto del settimo cielo! Papà e mamma avevano tanti soldi, con i quali, se l'avessero voluto, avrebbero potuto comprare l’appartamento del settimo cielo. Ma Papà, l'altruista, il cittadino del mondo, diceva e lo ripeteva incessantemente: “A cosa ci servirebbe comprarlo! Presto il comunismo andrà al potere e avrà bisogno di tutti noi e di tutte le case. Non reclamate nulla e non complicatemi la vita. I topi, dopotutto, sono bestie simpatiche e creature di Dio. Non lamentatevi. Per voi, tutto va bene; negli appartamenti dei ricchi, il partito della giustizia, ci metterà i poveri. Adesso, poche chiacchiere e contentatevi di quello che passa il convento!” Papà ne era convinto e da tempo immemore aspettava l’arrivo dei comunisti al potere e in quell'ottica, metteva in pratica la sua militanza in seno al partito delle giustizie a venire, dividendo il nostro benessere con i suoi poveri. La nostra tavola da pranzo, l’aveva fatta fabbricare in maniera intelligente, per aggiungere più posti a tavola. Ai suoi compagni di partito, dava tutto ciò che per noi era di vitale importanza, così, per colpa della sua generosità, restammo condannati a vivere con quei topi, che si nutrivano col grano della collina di mia madre. Le galline odiavano quelle bestiacce, ma come noi le temevano! Fu in quel periodo là, che il credo politico di mio padre mi rubò l'infanzia e la sua ragione. Mi ricordo, che spesso, quando osavo affrontarlo, mi diceva: “Calati giunco, che passa la piena”. Era convinto di possedere la verità e la speranza per un domani migliore, diceva che ero testardo e duro di comprendonio, ma aveva torto, perché io, suo figlio, vedevo oltre la siepe delle sue utopie ed ero certo che presto se ne sarebbe accorto anche lui. Non l’ascoltavo più, mille e una ragione, mi spingevano a vivere la vita contro corrente! A mia sorella e ai miei fratelli, voglio dire una cosa: -Se non vi trovate d’accordo con questo mio racconto, non fa niente, ma non ridete di me; non l'ho scritto per voi. Voi conoscete il nostro passato, e lo raccontereste col metro delle vostre budella; questa storia è per i miei figli, affinché possano diventare migliori di me! Questa voglia di scrivere m'è venuta a causa di una vecchia fotografia che mi ricorda nonna, nonno e i loro tre primi figli: Michelangelo, Peppino e nostro padre Vincenzino. E' grazie a loro, se ho intrapreso queste ricerche, e ora fermiamoci per qualche pagina e ritorniamo indietro nel tempo. 4 settembre 1950; in via del teatro massimo, dove si stava festeggiando il mio anniversario con i piatti di mamma e le crespelle di ricotta dei fratelli Stella. Mi ricordo che, tra un piatto e l’altro mio padre, che non accettava la mia maniera d'interpretare la vita, ancora una volta, mi tirò fuori, dalla sua coppola: “Calati giunco che passa a china!”. Non gli risposi e lo lasciai dire senza tenergli testa. Ora che sono vecchio e lui non c'è più, spesso mi chiedo: Perché cercava sempre di correggermi? Cosa facevo di male?Per me, quella sua frase suonava come un’eresia! Papà non era stato diverso da me e non si era piegato mai davanti ai potenti e ai prepotenti. E quel giorno, e tanti altri, dopo di quello, continuò a stuzzicarmi per motivarmi, nella speranza, secondo lui, d'insegnarmi a vivere. E senza rendersene conto, con i suoi consigli e con il suo credo politico, avrebbe incasinato la sua e la mia vita! Ed io che mi prendevo per Masaniello, non accettavo l'idea che potesse avere ragione. Mi ricordo che, da quell’ultima volta, incominciai a vivere senza regole, senza mai abbassare le corna, e come fanno certi uccelli, cagai nei nidi degli altri e ogni volta che mi chiudevano i coglioni in gabbia, metaforicamente, la sfasciavo come non l’avrebbe fatto “ l'uccellino della comare... Che non sapeva volare!” Cantavo sempre più forte e quando la mia voce dispiaceva o faceva male, continuavo ancora e ancora. Se i cattivi pensieri cercavano d’accecarmi l’anima, resistevo e volavo sempre più lontano. Mi trasformavo in pipistrello, ma avendo scelto il peggiore degli uccelli, cieco e sordo, mi spezzavo le ali. Quante fermate per raccomodare il timone e le ali, per non rompermi l'osso del collo; tentavo di ragionare e volare basso ma spesso, non riusciuscivo. Poi, dopo brevi soste, sazio e rassicurato, mi rimettevo a spiccare timidi voli, ma sempre maldestri. Imparai a mangiar poco, a non restare mai nello stesso posto, a passare il mare senza farmi inghiottire dalle 4 paure, a non essere tributario di una donna, d’un padrone e nemmeno di una casa. Vagabondo senza meta! Il tempo passò inesorabile e quando i miei voli diventavano impossibili, mi fermavo e rimpiangevo di non aver dato ascolto a mio padre! E in tanto arrivava l’età ingrata e facevo mille domande, ma il tempo passava lo stesso; A venti anni chiesi a mio padre: “Chi furono i nostri antenati?” Ed egli mi raccontò una storia che smarrii per strada. Di una cosa sola ero certo, che nonno Cristofaro doveva esser nato tra 1850-60 ed era stato figlio di un certo massaio Michelangelo. Per qualche anno mi bastò, anche perché era il tempo nel quale la mia vita stava per diventare aceto. Era come se, qualcuno, m’avesse messo una palla al piede, cosa che mi sembrava quasi vero. A mio padre, insistentemente, chiedevo come avrei potuto fare per liberarmene, convinto che conoscesse la maniera migliore per giocare con i colori dell’arcobaleno, senza farmi male ma lui, come d’abitudine, non aveva mai il tempo, perché era preso dal suo debordante credo politico! 4 settembre 1996, quanto tempo è passato d'allora! 46 sei anni e non sembra ieri, perché si vede e si sente.

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