Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo. Tomo X www.liberliber.it Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno di: E-text Web design, Editoria, Multimedia (pubblica il tuo libro, o crea il tuo sito con E-text!) http://www.e-text.it/ QUESTO E-BOOK: TITOLO: Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo. Tomo X AUTORE: Sismondi, Jean Charles Léonard Simonde : de TRADUTTORE: CURATORE: NOTE: Il testo è presente in formato immagine sul sito The Internet Archive (www.archive.org/). Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg (http://www.gutenberg.org/) tramite Distributed proofreaders (http://www.pgdp.net/). DIRITTI D'AUTORE: no LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/ TRATTO DA: Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo di J. C. L. Simondo Sismondi delle Accademie Italiana, di Wilna, di Cagliari, dei Georgofili, di Ginevra ec. Traduzione dal francese. Tomo 10. -16 - Italia, 1817-1819 - 480 p. ; 12 CODICE ISBN: mancante 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 9 maggio 2011 INDICE DI AFFIDABILITA': 1 : affidabilità bassa : affidabilità media : affidabilità buona : affidabilità ottima ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Distributed proofreaders, http://www.pgdp.net/ REVISIONE: Claudio Paganelli, [email protected] PUBBLICAZIONE: Claudio Paganelli, [email protected] Informazioni sul "progetto Manuzio" Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. 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Nel 15.° secolo la storia politica dell'Italia presenta un maraviglloso contrapposto colla sua storia letteraria; imperciocchè, mentre ogni giorno s'andava sempre più accostando colla ruina della libertà, quella pure de' costumi, dell'energia, e di ogni virtù pubblica e privata, vedevasi per lo contrario nascere ed aggrandirsi la passione per la poesia, l'ammirazione per l'eloquenza, ed in particolare per l'erudizione, che sembravano indicare qualche cosa di più nobile e di più elevato nel carattere del secolo. Ad ogni modo quando si fissano più a lungo gli sguardi sopra i celebri letterati che fiorirono in quest'epoca, per quanto ci sorprenda la loro laboriosa attività, per quanta riconoscenza c'inspirino i capi d'opera dell'antichità ch'essi ci conservarono, ed i capi d'opera de' moderni tempi ch'essi ci apparecchiarono, si scorgono però nel loro carattere e nel loro spirito gli effetti del disordine sociale, e scorgesi la ragione per cui non potevasi niente sperare dal loro lavoro che fosse degno di que' tempi che erano oggetto della loro ammirazione. In fatti i progressi dei lumi nel quindicesimo secolo non erano uno sviluppamento nazionale; non erano la riflessione, la meditazione, l'immaginazione italiana, che avevano fatti nascere i Guarini, i Valla, i Filelfo, i Poggio, ed i Ficino, ma l'ostinato studio di un'antichità che non aveva relazione col tempo presente, ma l'adozione dei pensieri, delle formole di ragionamento, d'immagini e di leggi poetiche, ch'erano state fatte per altre nazioni, per altre lingue, per altri costumi, ed un'assoluta preferenza accordata alla memoria in pregiudizio di tutte le altre facoltà, una servile sommissione del gusto individuale ai modelli ed all'autorità letteraria. Forse quest'assoluto abbandono delle naturali e vere impressioni, del pensiero originale, del gusto particolare d'ogni individuo in una nuova nazione, fu di maggior danno alle lettere in Italia ed in tutta l'Europa, che non furono loro di vantaggio i modelli, greci e romani, malgrado la loro sublime bellezza. Ma soprattutto nella politica del secolo presentemente vedremo come sia stato servile il carattere dato dall'erudizione al pensiero. La storia ci conduce a cercare le pubbliche virtù negli scrittori del quindicesimo secolo, e li troviamo mancanti di elevazione, di nobiltà, di amore di patria, di sentimenti politici. Le repubbliche ed i piccioli principati produssero dei filologi; la sola Firenze coi suoi Leonardo Bruno, Poggio, Ambrogio Camaldolese e Marzuppini poteva a quest'epoca avere la palma sopra tutti gli altri paesi: ma quantunque tre di questi siano stati un dopo l'altro cancellieri della repubblica, non si videro acquistare nello stato un'influenza proporzionata ai vasti loro studj, nè adoperare utilmente in servigio della patria i sommi loro talenti, nè introdurre ne' consigli e nel foro un'eloquenza persuasiva, nè ricordare colle virtù e coi talenti degli antichi l'antichità che essi imitavano. Il passaggio a Firenze dell'imperatore Federico III pose al cimento i talenti di questi pretesi oratori e politici. Carlo Marzuppini, ch'era succeduto a Leonardo Bruno d'Arezzo nell'ufficio di segretario della repubblica, venne incaricato di complimentare l'imperatore. Gli addirizzò un discorso in lingua latina, che compose in due giorni; la sacra e profana erudizione, onde l'aveva arricchito, e l'eleganza dello stile eccitarono, l'ammirazione degli uditori. Ma nè i consiglj, nè lo stesso oratore avevano pure pensato allo scopo politico di questo discorso d'etichetta. L'imperatore fece rispondere al Marzuppini dal suo segretario, Enea Silvio Piccolomini, che fu poi Pio II. Questi, ch'era ben più politico che filologo e ch'erasi accostumato nelle deliberazioni del consiglio di Basilea a parlare con uno scopo determinato, fece nella sua risposta alcune domande alla repubblica, ed alcune osservazioni, che richiedevano una replica; ma il Marzuppini, che non vi si era apparecchiato, si trovò incapace di dire una sola parola, e Giannozzo Manetti dovette prendere la parola invece del Marzuppini1. Questi uomini che non sapevano pensare che dietro gli altri, e che, sempre parlando al pubblico d'eloquenza, lasciarono il loro secolo così sterile nelle cose di quell'arte oratoria, che pure avrebbe dovuto esercitare il suo impero nelle repubbliche; questi uomini avevano più vanità che amore di gloria, più cupidigia che ambizione, e preferivano le corti dei principi nelle quali l'erudizione teorica era più stimata che la scienza applicata. Nelle repubbliche si sentivano umiliati, qualunque volta venivano paragonati a magistrati di fermo carattere, d'idee giuste, quali erano Neri Capponi, Maso degli Albizzi, o Cosimo de' Medici, che, sebbene ignorassero le eleganze del parlare latino e l'arte di prendere a prestito dagli antichi dei falsi ornamenti, pure sapevano muovere le menti colla forza dei loro pensieri. Si trovavano in migliori acque presso d'un Alfonso, d'uno Sforza, d'un Gonzaga, d'un marchese d'Este, di un Montefeltro; la loro vita era totalmente consacrata ad un genere d'erudizione, che non poteva adombrare il più sospettoso principe, nè turbarne lo stato. Quand'erano chiamati a qualche pubblica incumbenza, non richiedevasi che i loro discorsi d'etichetta fossero l'espressione dell'interno loro convincimento; perciò essi giustificavano senza scrupolo quegli atti tirannici, cui non avevano preso parte. Le 1 Roscoe Life of Lorenzo the Magnificent, t. I. p, 22. incumbenze loro non erano quelle d'analizzare o di giudicare le azioni, ma di velarle con belle frasi ciceroniane; impiegavansi non come pubblici magistrati, ma come retori; non si tenevano responsabili nemmeno agli occhi del mondo de' loro pensieri o dei loro giudizj, ma soltanto del loro stile; e quando avevano l'opportunità di sostenere il pro ed il contro, di parlare successivamente in due opposti sensi, vi ravvisavano una doppia gloria, avendo con ciò occasione di mostrare in tutto il suo lume il loro merito d'oratore e di sofista. Per avere in tal modo separata la scienza dall'azione, l'eloquenza dalla politica, lo stile dal pensiero, gli eruditi del quindicesimo secolo non procurarono ai tempi in cui fiorirono nè maggiori virtù pubbliche, nè nuovi lumi intorno alle scienze che hanno relazione col governo. Non pertanto alcuni di loro s'innalzarono alle più sublimi cariche della repubblica cristiana. Uno de' più illustri ad un tempo e de' più fortunati fu forse Tommaso da Sarzana, che sotto il nome di Niccolò V occupò la cattedra pontificia nel periodo da noi percorso. Protettore zelante degli eruditi, ai di cui lavori aveva avuta tanta parte, splendido rimuneratore delle belle arti, di cui ne moltiplicò in Roma i capi d'opera, non si mostrò egualmente favorevole alle opinioni liberali come alle arti liberali. Egli aveva presa nella società dei clienti e dei protetti di Cosimo de' Medici quell'indifferenza per la libertà, che rimpicciolì la loro anima; e segnalò il suo regno mandando al patibolo l'ultimo patriotta romano, e rendendo vano l'ultimo sforzo fatto per la libertà di Roma. Niccolò, allora chiamato Tommaso, era figlio di Bartolomeo Parentucelli, medico pisano, ammogliato a Sarzana, ed era nato nel 1398. Aveva ricevuto i primi ordini in età di dieci anni, poi era stato mandato a Bologna per continuarvi i suoi studj2. Essendo egli affatto povero, era stato costretto a tenersi lontano 2 Janotti Manetti vita Nicolai V., Script. Rer. Ital., t. III, p. II, p. 907-911. - Barth., Facii, l. IX, p. 141. da questa università dai diciotto fino ai ventidue anni, onde venire a Firenze a tenere scuola ai figliuoli di Rinaldo degli Albizzi e di Palla Strozzi3.
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