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Gianni Asdrubali, Stermeneide, 2012 Anno II, numero 4 – Novembre 2012 Due anni dopo e una novità: ‘I libri di AAR', p. 1; Vladislav Ivanov, Il teatro estatico di Evgenij Vachtangov, p. 3; Monica Cristini, Rudolf Steiner al lavoro con l’attore: l’immaginazione creativa come chiave dello studio del personaggio, p. 36; Rudolf Steiner, L’esoterismo dell’attore. Traduzione di Monica Cristini e Sabine Zubeck, p. 68; Costanza Boccardi, La direzione del casting e la ricerca del personaggio, p. 81. Materiali Jan Fabre, Il corpo si fa scena. Intervista e introduzione di Franco Paris, p. 89; J. Fabre, Giornale notturno 1978-1984, p. 140; Renato Carpentieri, Teatro come pensiero, teatro come emozione. Intervista e nota introduttiva di Annamaria Sapienza, p. 156; Andrea Renzi, Costruire il personaggio: il mestiere dell’attore artigiano. Intervista e nota introduttiva di Laura Ricciardi, p. 200. I Libri di AAR Pierre Rémond de Sainte-Albine, Le Comédien. Traduzione introduzione e note di Edoardo Giovanni Carlotti, p. 251. Anno II, numero 4 – Novembre 2012 Due anni dopo e una novità: ‘I libri di AAR’ Con questo numero, il quarto, AAR compie due anni e si può tentare un bilancio. Per la quantità delle pagine pubblicate siamo quasi sgomenti. Nei quattro numeri della rivista sono più di milletrecento, poi ci sono i supplementi (la sezione degli ‘Essays’), in tutto finora diciotto saggi, altre cinquecento pagine, e poi il catalogo dei trattati di recitazione arrivato alla pubblicazione di trecentocinquanta schede delle millecinquecento in programma. Ma naturalmente più della quantità delle pagine conta la strategia di lavoro. Innanzi tutto l’esigenza di operare in campo internazionale sulla frontiera più avanzata degli studi sull’attore e la recitazione, e di qui la presenza degli interventi di studiosi stranieri, lo sviluppo della sezione degli ‘Essays’ in lingua inglese, e la redazione bilingue delle schede del catalogo. Quindi i contenuti. Per quanto riguarda il catalogo è presto detto. L’obiettivo è fornire uno strumento rigoroso e pratico per lo studio della teoria della recitazione mediante l’individuazione dei trattati all’interno della letteratura occidentale, la ricostruzione della loro storia editoriale e l’accesso immediato ai loro testi pubblicati in rete. Sistemata la ricerca relativa a tre secoli, dal cinquecento al settecento, stiamo lavorando ai testi dell’ottocento. Gli ‘Essays’ procedono invece in due direzioni: offrire ampie ricostruzioni di fasi storiche o di temi chiave della storia della recitazione (come gli otto saggi Theory of Acting, sulla teoria della recitazione dall’antichità al settecento, o i recenti studi di Elena Tamburini sulla nozione di commedia dell’arte, o di Alessandro Tinterri sulla figura del grande attore); e interventi puntuali su argomenti e problemi nevralgici (la composizione di The Art of the Theatre di Craig, la documentazione della recitazione settecentesca nelle immagini di Faesch, le Lettres di Noverre, il rapporto Stanislavskij e Grotovski, e via dicendo). Infine la rivista. L’intenzione, nella scelta degli articoli, è di nuovo duplice. Da un lato l’esplorazione di temi e figure particolarmente presenti nella storia passata, oppure recentissimi, ma comunque importanti e ancora poco o per nulla trattati, e dall’altro la ripresa di argomenti canonici, indagati secondo un taglio, o un punto di vista, o alla luce di ritrovamenti, essenzialmente inediti. Accanto agli interventi di taglio saggistico ci è inoltre parso essenziale fornire materiali utili per l’avanzamento degli studi, e in particolare testimonianze dirette del lavoro di diversi interpreti e operatori oggi attivi sulle scene, stralci di diari, considerazioni, interviste, sempre corredate da note introduttive sulle figure selezionate, con le relative teatrografie indispensabili per favorire ogni successivo approfondimento. Il tutto inserito in un’apposita sezione della rivista, intitolata appunto ‘materiali’. 1 © 2012 Acting Archives AAR Anno II, numero 4 – Novembre 2012 Ma è poi emersa un’altra esigenza: contribuire a colmare lacune essenziali nella conoscenza di opere indispensabili per lo studio storico della recitazione, testi scarsamente conosciuti, che tuttavia hanno segnato svolte significative nella considerazione dell’arte dell’attore, oppure classici, generalmente noti ma privi di un’adeguata traduzione italiana, o di un’edizione scientificamente aggiornata. Nell’ultimo numero abbiamo perciò pubblicato tra i ‘materiali’ la fondamentale – e ampiamente ignorata – Seconda lettera del suggeritore della Comédie di Rouen al garzone del caffè, che nel primo settecento inaugura la moderna critica della recitazione, tradotta da Valeria De Gregorio, e un classico, la raccolta dei saggi contenuti nella Teoria delle recitazione di Iffland, tradotti da Daniela Minichiello. Si trattava di testi pubblicati, all’origine, come veri e propri libri, e così abbiamo pensato di proseguire nell’iniziativa inaugurando la serie ‘I libri di AAR’, collocati al termine di ogni fascicolo e dotati di copertina e di tutti i necessari dati editoriali, in modo da poter essere scaricati e stampati come singoli volumi. Iniziamo la serie in questo numero con un classico, Le comédien di Pierre Rémond de Sainte-Albine, tradotto da Edoardo Giovanni Carlotti. E proseguiremo nei prossimi numeri. 2 Anno II, numero 4 – Novembre 2012 Vladislav Ivanov Il teatro estatico di Evgenij Vachtangov La stagione moscovita 1921/1922 è passata alla storia come la grande stagione teatrale del XX secolo. È sufficiente menzionare soltanto alcuni degli eventi di spicco di quel periodo: Il magnifico cornuto di Fernand Crommelynck (regista Vsevolod E. Mejerchol’d, Teatro dell’Attore), la Fedra di Jean Racine (regista Aleksandr Ja. Tairov, Teatro da Camera), il Dibbuk di S. An-Skij (E. B. Vachtangov, Teatro ‘Habima’), La principessa Turandot di Carlo Gozzi (Terzo Studio). È qui che furono messe in luce le problematiche essenziali e le contraddizioni irrisolte alle quali continuavano ad approdare le prassi teatrali del XX secolo nel loro sforzo di conciliare vita quotidiana e mito, grottesco e psicologismo, maschera e personaggio, interpretazione e verità, disciplina e spontaneità. Negli anni ‘30 Antonin Artaud sognava un teatro che permettesse il raggiungimento di uno stato di ‘trance cosmica’. Nel 1922, Vachtangov aveva realizzato questo tipo di teatro nel Dibbuk, partendo da un testo teatrale già di per sé denso, dalla complessa storia testuale. L’autore S. Anskij (pseudonimo di Shloyme-Zanvl Rappoport), scrittore, giornalista, etnologo e socialista rivoluzionario, aveva concepito il Dibbuk dopo una spedizione etnografica compiuta fra il 1912 e il 1914 nei villaggi ebraici della Podolia e della Volinia, con la collaborazione del compositore Joel Engel e del pittore Shlomo Judovin. In quell’occasione An-skij aveva raccolto una notevole quantità di manoscritti, oggetti rituali, aveva registrato canti popolari, scattato foto e realizzato interviste utili a ricostruire credenze e pratiche delle locali comunità chassidiche. Ma soprattutto, stando alle testimonianze dei suoi compagni di spedizione, era rimasto fortemente suggestionato dal dolore di una ragazza, disperatamente innamorata di uno studente povero della scuola talmudica, che ricambiava il suo amore profondo, ma promessa in moglie contro la sua volontà ad un giovane di famiglia benestante. Da questo nucleo tematico già nel 1912 nasceva, quasi certamente in russo, il Dibbuk, rielaborato fino al 1919, riscritto, persino alterato nella sua struttura originaria, tradotto dall’autore stesso in yiddish e dal poeta Bjalik in ebraico, nel tentativo, fallito finché An-skij fu in vita, di far rappresentare il testo almeno in una delle tre lingue. Nello stato fluido in cui il dramma rimaneva per circa sette anni, An-skij, pur commettendo delle ingenuità da drammaturgo inesperto qual era, riusciva a intrecciare sapientemente la precisione etnografica e il lirismo della storia d’amore dei * Traduzione di Enza Dammiano. Revisione editoriale di Aurora Egidio. 3 © 2012 Acting Archives AAR Anno II, numero 4 – Novembre 2012 due protagonisti, Leah e Hanan. Ma l’intreccio perdeva i suoi connotati ordinari, quotidiani, per elevarsi ad evento paradigmatico e leggendario. Hanan, pur di congiungersi alla sua amata, moriva per diventare dibbuk, cioè uno spirito ‘attaccato’ ad un essere vivente (questo il significato letterale del termine ebraico), sospeso fra il mondo dei vivi e quello dei morti, come chiarisce bene il sottotitolo del dramma stesso, Fra due mondi. E il dibbuk si palesava con grande sconcerto dei presenti, proprio quando la sposa, come una vittima sacrificale, veniva condotta al baldacchino nuziale per «sposare un estraneo», come dice lei stessa. Il padre di Leah, Sender, ricorreva così allo tzadik Ezriel, il capo spirituale della comunità di Miropol’, perché fosse praticato l’esorcismo. Ma nel frattempo dall’oltretomba tornava Nissan, padre di Hanan e compagno di studi di Sender, mostrandosi in sogno al rabbino Šimšon per chiedere giustizia. Come il defunto chiariva poi dinanzi al tribunale rabbinico, Sender aveva infranto la promessa scambiata in gioventù con Nissan di unire in matrimonio i figli ancora non nati. Passati gli anni, morto precocemente l’amico, Sender aveva dimenticato il voto pronunciato, o forse, più cinicamente, aveva cercato un partito migliore per sua figlia. Hanan e Leah erano dunque davvero predestinati l’uno all’altra, in un legame indissolubile e invincibile. Eppure veniva ugualmente pronunciata la temporanea

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