1 PEARL JAM – BACKSPACER (2009) ANTOLOGIA DI RECENSIONI Riccardo Bertoncelli http://delrock.it 17/09/2009 Questo disco è una carezza per chi crede (e come potrebbe essere altrimenti?) che i Pearl Jam siano la più bella band della loro generazione, i soli reduci grunge ad aver raggiunto vivi e forti la matura età. Un album di bella energia, intenso inquieto, che smentisce con i fatti certe dichiarazioni soft rilasciate da Vedder nelle settimane scorse, quando aveva detto basta alla musica politica e tessuto l'elogio di una tranquilla vita in famiglia. "A volte le canzoni sono come bambini, sono puri ma poi crescono e diventano difficili da controllare, ostinati e insolenti." Può essere andata così. I PJ sono entrati in studio con l'idea di un morbido disco da quarantenni e poi si son lasciati trascinare da quello che han trovato, dai germogli di idea lanciati da Vedder e dal produttore, il primo mentore Brendan O'Brien. Eddie V sembra confermare. " Backspacer non è nato come un progetto scientifico, piuttosto come un fiore che sboccia." Di solito diffido di O'Brien, produttore con un marchio forte che tende a prevalere e a omologare. Qui però è tutta un'altra storia, perchè la banda Vedder ha un segno altrettanto forte e quel che viene non è mai banale o prevedibile; i Pearl Jam sono puro mercurio, sfuggono alle facili sottolineature, alle delimitazioni, ai luoghi comuni, con una energia nervosa che scuote, avvince e sa proiettarsi nel passato rock anche prima, molto prima, del grunge, fino ai giorni di certa acidula new wave. Bel chiaroscuro chitarre/voce, il perno dell'album, più antipatiche certe convenzionali tastiere. I brani si chiamano Supersonic , Velocità del suono, Forza della natura , per rendere l'idea di elettrico dinamismo; ma se volete catturare dieci minuti di pura magia e brividi, lasciate quelle vie trafficate e prendete due "strade blu" come Just Breathe e The End . Lì, nell'intimità di un voce/chitarra appena screziato da altri suoni, l'Eddie Vedder più emozionante e nudo, e la migliore conferma di quel che dicevamo all'inizio sulla vita e longevità dei Pearl Jam. [4/5] Ernesto Assante http://www.repubblica.it 22/09/2009 Tornano i Pearl Jam, e non ci sono grandi novità da sottolineare. Il che, se posso permettermi, non è una cattiva notizia. Nel senso che i Pearl Jam sono ormai a tutti gli effetti una band di “classic rock” (sempre che la definizione sia comprensibile e abbia senso alle vostre orecchie) e nel genere le variazioni non solo sono inutili ma sono addirittura prive di significato, anzi, controproducenti. Attenzione, però, perchè il Pearl Jam non sono certamente una band di maniera, che sfugge al contatto con la realtà, che non si immerge nelle cose del mondo, anzi questo continuo contatto che la formazione americana ha con la realtà e il mondo è il fuoco che tiene vivo il motore della band e che consente al gruppo di produrre dischi come questo nuovissimo “Backspacer”. 11 brani, 37 minuti in tutto, senza fronzoli o “riempitivi”, un lavoro compatto, essenziale, che mette insieme il lato più fragile e personale di Eddie Vedder e l’elettricità tesa della band, in un insieme che risulta estremamente vario e affascinante, brani acustici che sembrano uscire da “In to the wild” e canzoni in perfetto stile Seattle. Produce Brendan Benson, levigando dove serve il suono rude del gruppo. Il disco è bello e conferma che i Pearl Jam sono tra i pochi gruppi che in America sa ancora cosa sia il rock. John Vignola http://www.ilmucchio.it Sempre riconoscibili, i Pearl Jam: fin dalle prime note di Amongst The Waves, che Eddie Vedder affronta di petto, per poi lanciarsi nel consueto coagulo elettrico ad alto voltaggio che caratterizza 2 una buona metà di Bakcspacer. Addio alla Sony, bentornato a Brendan O’Brien, coinvolto anche nella ristampa ad alta definizione di Ten, esordio mai dimenticato. Le energie vengono spese quasi subito, per esempio nella trascinante Gonna See My Friends, che replica all’infinito il modulo del rock-and-roll contemporaneo. I Pearl Jam, del resto, questo sono: un incrocio pesante e pensante fra le origini, il punk e quanto ha capovolto l’idea di hard nei Novanta. Un suono da strada principale e non secondaria, comunque, dove nella maggior parte dei casi è la velocità a dettare legge: lo dimostrano il sussiego di Got Some, tanto per fare un esempio, oppure il martello percussivo di Force Of Nature che avanza all’unisono con le chitarre. Che poi in tutto questo siano le melodie (da quelle di Johnny Guitar alle armonie country-pop di Speed Of Sound, fino alla canzone più rotonda, una The End toccante senza retorica) a dettare legge non deve né può stupire: anche alle origini i Pearl Jam le hanno curate, pur nello stravolgimento strategico dei canoni. Ora che sono pure loro un canone, come affrontare questo ennesimo disco? Da fan, con sicura devozione; da critico - e scusate l’espressione, ma questo si cerca di essere, ogni tanto - con l’apprezzamento per la tenuta del lavoro nel suo complesso, di molte delle singole tracce, e con una discreta perplessità da comunicare. Nella loro intransigenza Vedder e soci raccontano storie direttamente al cuore di chi li segue: i riferimenti sono sempre più inestricabilmente interni e le rotte sonore rimangono, necessariamente, limitate. Questo non riduce, ovviamente, molte delle emozioni del disco, che riesce ad avvicinarsi a quanto di meglio la band di Seattle abbia fatto negli ultimi quindici anni: semplicemente, non lascia margini allo stupore, sentimento importante per riuscire a volare davvero. [3/5] Marco Denti Il Buscadero 09/2009 La ristampa di Ten e l’enorme successo che ha riscosso sembrano aver influito non poco sulla natura di Backspacer. I Pearl Jam devono essersi accorti, come del resto mezzo mondo, che, piaccia o meno, ormai sono dei classici e in quanto tali più vicini agli Who che ai Black Flag. Ciò vuol dire, più di tutto, che sono durati nel tempo, un traguardo raggiunto con una formazione integra nella sua identità (con Matt Cameron ormai protagonista alla batteria) e soprattutto nei propri ideali (anche Backspacer è frutto di una lunga battaglia che ha portato i Pearl Jam all’indipendenza discografica) perseguiti con una coerenza più unica che rara. Una resistenza umana e artistica che comporta anche l’assestarsi sulle proprie posizioni, se non proprio il ripetersi, ma ripetersi a questi livelli ha tutt’altro che un’accezione negativa, anzi. Vuol dire reggere le pressioni, le tentazioni, le incognite e rimanere fedeli prima di tutto a se stessi, visto che per essere dei classici serve una storia e quella dei Pearl Jam è lì da vedere. Per cui Backspacer fugge il disordine sperimentale dei dischi più spigolosi (No Code su tutti) e anche le giuste asperità di Riot Act e si rivolge ad un sound più lineare, diretto e molto attento allo sviluppo delle canzoni (e alla bellissima voce di Eddie Vedder, sempre in risalto). Con questo, i Pearl Jam non hanno tirato il freno a mano perché a parte due canzoni essenzialmente acustiche (la splendida Just Breathe e The End), Backspacer è il disco di una rock’n’roll band e delle sue chitarre (elettriche) che vengono modulate nei crescendo di Unthought Known e di Amongst The Waves, nei riff di Got Some, di The Fixer e di Gonna See My Friend. Il lavoro di Brendan O’Brien, a parte qualche minimo ritocco strumentale, sembra sia stato quello di mettere i Pearl Jam nelle condizioni migliori e infatti il suono di Backspacer è molto “live”, energico e compatto e lo rende un disco solido e immediato che già al primo ascolto dispiega con convinzione una linea, che è poi sempre quella dei Pearl Jam. Forse per comprensibilissime ragioni chimiche, Brendan O’Brien ha riportato nella classicità dei Pearl Jam anche qualcosa di quella springsteeniana, che nella sua migliore versione si traduce in un rock’n’roll sfrenato (Supersonic) e in quella meno ispirata nell’unica canzone di Backspacer (Force Of Nature) che confonde il classico con lo standard e sfiora le logiche e i suoni del maistream. Comunque sia, sempre a distanza da sicurezza dei dischi inventati da sei produttori, quaranta tecnici del suono e 3 creati sul nulla per il nulla: Backspacer è il presente di una rock’n’roll band che, a vent’anni dagli esordi, è ancora una solida realtà. Potrà sembrare anche un disco “normale”, ma se si guarda agli annali del rock’n’roll si capisce che è parte di una storia speciale. Dei gruppi che esordirono negli anni Sessanta, sono rimasti soltanto i più grandi, i Rolling Stones (e metà degli Who). Dei debuttanti negli anni Settanta sono rimasti mille veterani, altrettanti necrologi e Bruce. Di tutti gli anni Ottanta sono rimasti i R.E.M. (con grande dignità) e gli U2 (non senza qualche fatica). Degli anni Novanta, i Pearl Jam. Magari manca qualche nome, ma non sono molti quelli che, fermo restando le dimensioni e le condizioni, possono ancora fare un disco come Backspacer. [4/5] Giulio Brusati http://xl.repubblica.it 15/09/2009 Se la coerenza è una virtù, nessun’altra band suona così fedele ai suoi ideali (e alle sue contraddizioni). Non è difficile capire perché The Real Me degli Who sia una delle canzoni che i Pearl Jam amano reintepretare. Quel ritornello - «Riuscite a vedere il vero me stesso, chi sono io veramente?» - sembra cucito addosso a una band che da sempre lotta per "keep it real", restare con i piedi per terra e mantenere una dimensione umana, reale, lontana da quella finta delle rockstar.
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