Battaglie navali sul Ceresio Storia – Nel Medioevo il lago di Lugano fu teatro di scontri tra Milano e Como. Le tracce sono quasi tutte scomparse. E l’unica fonte è un antico libro scritto da un testimone oculare / 22.10.2018 di Jonas Marti Quando le navi milanesi uscite dal porto di Lavena doppiano il capo di Morcote, le sentinelle comasche lanciano l’allarme. Dai boschi del San Giorgio parte subito una catena di segnali, giù fino alla punta della Poncia, da lì a Bissone e poi fino a Melano, il porto fortificato in mano al libero comune di Como. La flotta leva le ancore a tutta velocità e si dirige a colpi di remi verso nord per bloccare la via che porta al golfo di Lugano. Lo scontro è inevitabile. Tra Melide e Bissone le due flotte si dispongono a battaglia. Gli arcieri cominciano a scagliare frecce, i timonieri cercano di affondare i rostri nei ventri delle barche nemiche. Dopo una giornata di battaglia cala la notte e i milanesi battono in ritirata. È davvero sorprendente: nel Medioevo il Ceresio fu teatro di battaglie navali, nella guerra tra Como e Milano che allora si contendevano la regione. Gli storici la chiamano «guerra decennale», perché durò dieci anni, dal 1118 al 1127. Un periodo oscuro, che la conquista svizzera delle nostre terre ha presto relegato nell’oblio più profondo. Ma le cui vicende sono state tramandate in un libro rimasto fino al 1700 nei polverosi scantinati di un collegio di Milano: è il De bello Mediolanensium adversus Comenses, un breve poemetto epico scritto in versi latini da un misterioso prete comasco che afferma di essere stato testimone diretto degli eventi. È l’anno del Signore 1122 quando i venti di guerra cominciano a soffiare sulle acque del Ceresio. Ad aprire il nuovo fronte è la rivolta dei luganenses, gli abitanti della Valle di Lugano come allora veniva chiamato gran parte del Luganese, sobillati dalla diplomazia milanese. Da secoli sotto il dominio di Como, gli indomiti luganesi si ribellano e si alleano con la potente Milano, a cui cedono lo strategico passaggio di Ponte Tresa con il castello di San Martino e il porto di Lavena che viene subito fortificato. La risposta di Como è immediata. Nel villaggio di Melano, distante solo «10 miliaria» dalla città, i comaschi improvvisano in pochi giorni una vera e propria roccaforte: il porto viene munito di grosse catene tese all’entrata per impedirne l’accesso, tutto attorno sono innalzate palizzate e si scava un largo fossato che crea di fatto un’isola inaccessibile via terra. La guerra per il dominio del lago Ceresio è di fondamentale importanza per la supremazia regionale. Per chi vince c’è in palio il controllo delle vie che dai passi alpini scendono in Lombardia, chiave del commercio in tutta l’Italia. Le forze in campo sono però decisamente impari: Como non ha più di diecimila abitanti, Milano ne conta invece centomila ed è una delle città più popolose d’Europa. Eppure la prima battaglia navale, lo abbiamo visto, finisce con la sconfitta della flotta milanese. E così anche il secondo scontro qualche giorno dopo a Ponte Tresa, quando i comaschi vincono con un espediente pittoresco. Preso da furori epici, l’anonimo prete comasco – forse troppo intento a glorificare la sua «splendida Como» piuttosto che a riportare i fatti – racconta che davanti all’inespugnabile castello di San Martino ad un certo punto il «coraggiosissimo» soldato Giovanni Bono da Vesonzo ha un’idea: armato di tutto punto si fa mettere in una cesta e si fa calare da un improbabile sperone di roccia che sovrasta il castello, cominciando a lanciare «enormi sassi» sui milanesi. A quanto pare è una vera e propria mattanza. «I tetti schiacciano bambini. Frantumati fumano i tetti delle case. Le case crollano schiacciando gli uomini, le pareti rovinano sulle donne», scrive il poeta. Dopo queste cocenti sconfitte l’anno successivo – e siamo nel 1123 – i milanesi cambiano strategia e stabiliscono una nuova base militare sulla sponda opposta del lago a Porlezza. Questa volta sono loro a prendere l’iniziativa e «pongono assedio sia per terra sia per acqua» a un certo castello di San Michele, forse, dice qualcuno, in Valsolda poco sopra Cima, o forse altri credono a Castagnola, proprio dove oggi c’è l’omonimo parco San Michele. La conquista della fortezza appare presto ai milanesi impresa difficilissima. Durante la notte comincia a cadere una pioggia incessante e il mattino seguente il campo degli assedianti è completamente inzaccherato di fango. Si decide allora la via diplomatica, per trattare arriva da Milano addirittura l’arcivescovo in persona, ma ogni negoziato fallisce. E i comaschi escono ancora una volta vittoriosi. È difficile oggi, scorrendo i concitati versi latini del poema, localizzare con precisione i luoghi di quella guerra combattuta novecento anni fa. Le tracce sono pochissime, i tanti castelli che presidiavano le rive del lago sono quasi tutti scomparsi. Erano decine: a Ponte Tresa, a Caslano, a Bissone, a Riva San Vitale, a Castagnola, in Valsolda; le uniche fortezze oggi visibili sono a Morcote e a Barbengo, dove in località Casoro è ancora ben conservata a pochi metri dal lago una torretta d’osservazione. E naturalmente c’è il castello San Giorgio di Magliaso, che ancora svetta sulla collina sebbene sia ridotto a un rudere: è proprio qui che ha inizio la guerra tra Como e Milano, nel 1118, quando dopo un assedio sfiancante i comaschi fanno prigioniero il vescovo filomilanese Landolfo da Carcano e uccidono due suoi nipoti. Vincere tutte le battaglie non significa però vincere la guerra. Per conquistare definitivamente il fronte del Ceresio, i comaschi hanno una sola opzione: distruggere le navi milanesi una volta per tutte. La seconda battaglia navale è ancora più sanguinosa della prima. Quando i comaschi salpano da Melano in direzione di Porlezza, davanti a Gandria trovano ad aspettarli la flotta di Milano. Immediatamente viene dato l’ordine di disporre le navi per lo scontro, i rematori fanno forza sui lunghi remi facendo scivolare veloci le navi sull’acqua, i soldati si preparano alla battaglia con archi, pali ferrati e ganci. Trafitto da una lancia muore «il beneamato Alderamo de Quadrio», capitano comasco. Infine Como trionfa, conquista Porlezza nonostante «i massi che i milanesi in fuga sui monti fanno rotolare a valle» e riesce a distruggere la flotta milanese. La tenacia meneghina sorprende però per l’ultima volta. Dove le armi non vincono, vince l’astuzia. E con la sempre efficace promessa di denaro i milanesi giocano l’ultima carta: corrompono Arduino degli Avogadri «uomo malvagio e traditore», castellano della fortezza comasca di Melano, e si fanno consegnare il porto fortificato insieme alle navi di Como. Un tradimento pericolosissimo che può costare il dominio su tutto il bacino del Ceresio. Quando la notizia giunge in città, i comaschi prendono «l’Alberga» e «la Cristina», le navi più grandi della seconda flotta sul Lario. Le smontano, le caricano su due file di carri legati insieme e con il favore dell’oscurità le trasportano via terra fino a Riva San Vitale. Il mattino dopo, con i remi fasciati per attutire lo sciabordio, fanno rotta su Melano e prendono di sorpresa il castellano Arduino. «Siamo i cittadini di Como, mandati a difendere la Valle di Lugano e a proteggere le sue genti», gridano mentre entrano vittoriosi nel porto. Dopo due anni di guerra Como torna padrona incontrastata del lago Ceresio. Sarà una vittoria di Pirro: sugli altri fronti la superiorità dei milanesi è schiacciante, e quattro anni dopo a vincere la guerra sarà Milano. Un poema dimenticato, qualche rovina diroccata. E il lago Ceresio, testimone muto di una guerra antica..
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