Le mie parole con le tue Meine Worte mit deinen

Comune di Ferrara

2019 Una lingua diversa è una diversa visione della vita.

Eine andere Sprache ist eine andere Sicht auf das Leben.

(Federico Fellini) Introduzione

Non è mai facile realizzare un progetto, soprattutto se coinvolge una pluralità di enti e istituzioni; a maggior ragione se, pur all'interno della Casa comune europea, essi appartengono a Paesi diversi. Servono pazienza, tenacia, competenze e risorse economiche, ma prima di tutto un'idea da cui partire. È il caso della nostra antologia, che rappresenta il momento conclusivo di un percorso che ha visto operare fianco a fianco due scuole della città di Ferrara, il Liceo Roiti e il Liceo Ariosto, una scuola tedesca, l'Altes Kurfürstliches Gymnasium di Bensheim, il Comune di Ferrara e il Land Hessen attraverso il locale Consiglio per la Letteratura. Il tutto grazie al sostegno di Erasmus+, il programma dell’UE per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport in Europa. Un'idea da cui partire, si diceva: lasciare traccia del passaggio dello scambio residenziale tra scrittori che dal 2010 ad anni alterni coinvolge autori ferraresi e assiani, nel quadro del più vasto e consolidato rapporto di amicizia tra le regioni Emilia-Romagna e Assia. E quale altra testimonianza di questa esperienza possono lasciare degli scrittori se non le loro parole? Parole da rendere però anche nella lingua dell'Altro, nella convinzione che l'atto del tradurre non abbia nulla di meccanico ma implichi una seria e approfondita riflessione sul significato di ciò che si sta facendo e sulla responsabilità che ci si assume nei confronti di chi scrive e di chi legge. Un'operazione che ha dunque una sua forte valenza etica, incentrata sul principio di lealtà nei confronti del testo, un'operazione che ben si presta a svolgere una funzione formativa, se ad essere investiti del ruolo di traduttori sono dei giovani studenti. Le mie parole con le tue/Meine Worte mit deinen nasce dunque anche con questa finalità, ed è il frutto di una serie di laboratori, tenuti in Italia e in Germania, in cui i ragazzi delle scuole coinvolte hanno lavorato insieme sui testi forniti con grande disponibilità dagli autori e dalle case editrici. Le proposte lessicali, sintattiche e stilistiche che compaiono nella traduzione definitiva sono state oggetto di analisi, confronti e discussioni che hanno riguardato tanto la lingua originale dei testi quanto la qualità della loro resa nella lingua madre degli studenti. Forse il lavoro presenta difetti, ma lo scopo del progetto non è (sarebbe stato velleitario) formare giovani “professionisti”, la traduzione è stata piuttosto studiata nella sua dimensione di processo e non di prodotto, poiché durante il processo è possibile anche per i ragazzi coglierne la dimensione di strumento di comunicazione, di ponte fra testi e culture. La specificità della traduzione letteraria, sulla quale ci siamo concentrati, permette di esplorare la componente espressiva della lingua e di farla propria. Come spesso accade, poi, in corso d’opera il progetto si è arricchito di nuove idee, si è intrecciato con altre esperienze, ha consentito di accogliere ulteriori contributi, che lasciano intravedere, crediamo, possibilità di sviluppo future, in una prospettiva sempre più autenticamente europea. Di tutto questo diamo conto nell’Appendice alla presente pubblicazione. L’atto del tradurre si basa su un’esigenza di comunicazione e quindi di condivisione. Alla condivisione lenta, insita nel processo traduttivo, fa eco la diffusione immediata dei dati attraverso lo strumento digitale, a cui i giovani sono più avvezzi. Per questo motivo l’altro aspetto qualificante del progetto riguarda l’acquisizione di competenze in ambito editoriale e informatico. Le mie parole con le tue/Meine Worte mit deinen, antologia bilingue in formato digitale, è infatti il risultato del lavoro degli studenti che, oltre ad aver tradotto, hanno anche appreso come si realizza un libro e lo si diffonde attraverso i canali della rete. L’antologia è infine corredata da schizzi e disegni delle città di Ferrara e Bensheim realizzati dagli studenti della Hochschule Darmstadt – University of Applied Sciences, anche questo un risultato dell’impostazione di apertura e condivisione con cui è stato pensato e portato avanti il progetto. Tutto questo è stato possibile grazie alle istituzioni che hanno creduto in questa iniziativa, ma anche alla disponibilità di tutti coloro che hanno collaborato con passione e manifestando grande interesse per gli aspetti educativi e innovativi dell’iniziativa. A dimostrazione che, collaborando e facendo rete, si possono ottenere risultati concreti e rispondenti ai bisogni dei giovani.

Giorgio Rizzoni Roberta Bergamaschi Einführung

“Dasselbe nur mit anderen Worten” hat Umberto Eco das Übersetzen einmal genannt. Diese Aufgabe ist schon in der eignen Muttersprache schwer zu realisieren, denn Kommunikation ist nicht immer einfach. Was will mein Gegenüber sagen? Habe ich ihn oder sie richtig verstanden? Gerade in Zeiten von WhatsApp und Co ist Kommunikation oft reduziert und missverständlich. In unserem Projekt “My Words with yours/Meine Worte mit deinen” beschäftigen wir uns genau mit diesem Phänomen. Was will der andere genau sagen? Welche Zwischentöne verstecken sich in den Texten? Wie können wir sie für einen anderen Kulturkreis verständlich machen? Es geht nicht um Perfektion, sondern um das Sich-Einlassen auf die Komplexität von Sprache, um uns besser zu verstehen, über alle Ländergrenzen hinweg. Aus diesem Grund haben sich das Liceo Roiti und das Liceo Ariosto, zwei Gymnasien aus Ferrara, und das Altes Kurfürstliches Gymnasium in Bensheim zusammengetan und ein Erasmus-Projekt ins Leben gerufen, das auch von der Region Emilia-Romagna, der Stadt Ferrara und dem Land Hessen, sowie durch den Hessischen Literaturrats unterstützt wird. Deutsche Schüler übersetzen Texte aus dem Italienischen, die italienische Schriftsteller verfasst haben, die im Rahmen als Stipendiaten in Wiesbaden waren, die italienische Seite bringt analog dazu deutsche Texte der Autoren, die ihren Stipendiatenmonat in Ferrara verbracht haben, ins Italienische. Entstanden ist dabei ein Buch, das von Schülern des Liceo Roiti als E-Book erstellt und veröffentlicht wird. Doch damit nicht genug: Auch Schüler, die weder Deutsch noch Italienisch als Muttersprache haben, wurden in das Projekt integriert. Schüler mit Migrationshintergrund haben einen Text aus ihrer Heimat mit denen ihnen zur Verfügung stehenden sprachlichen Mitteln einem Muttersprachler erklärt, der das Gehörte in eine literarische Sprache verwandelt hat. Auf diese Weise haben sich die Schüler auf intensive Weise ausgetauscht und die jeweilige Kultur besser kennen- und wertschätzen gelernt. Im Laufe des Projekts haben sich weitere Partner gefunden: Studenten des Fachbereichs Architektur der Hochschule Darmstadt haben unter der Leitung von Prof. Waldemar Borsutzky eine Exkursion nach Ferrara organisiert und ihre Zeichnungen für das Buch zur Verfügung gestellt: Ihren Blick auf eine fremde Stadt in Bilder übersetzt, die sogar im Rahmen einer Ausstellung in Ferrara präsentiert werden. Desweiteren wurde das Projekt und die Methode des „erzählenden Übersetzens“ anlässlich des Salone del libro in Turin und auf der Frankfurter Buchmesse vorgestellt und im Rahmen der eTwinning-Plattform auf europäischer Ebene verbreitet. Dass das Projekt initiiert konnte und weiter leben kann, verdanken wir vielen Akteuren: unseren beiden Partnerschulen, den Regionen Emilia-Romagna und Hessen, der Förderung durch die EU, und vor allem unseren motivierten und engagierten Schülern, ohne die dieses Projekt nicht möglich gewesen wäre.

Ingrid Ickler Mit dem Blick der Deutschen

Lehrende und Studierende der Hochschule Darmstadt zeichnen Ferrara

Wir alle haben eine vorwiegend auf das Wort ausgerichtete Schule durchlaufen, und dies, obwohl der Mensch ein Augenwesen ist: Er sieht über 100-mal so viel pro Sekunde wie er hörend aufnehmen kann. Es ist bekannt, dass die bildliche Vorstellung, die man sich von einer Sache oder Situation macht, mehr über deren Logik auszusagen vermag, als das uns anerzogene geradlinig verlaufende Denken. Vielleicht ist sie ihm sogar überlegen, denn ein Bild vermag mehr zu Klärung beizutragen als tausend Worte. Leonardo da Vinci, selbst ein Wortgewandter, hat der Wahrnehmung durch das Auge eine erkenntnisreiche Bedeutung beigemessen. Neben einer seiner Zeichnungen vermerkte er: "Oh Schriftsteller, mit welchen Worten kannst Du dieses ganze Gebilde so vollkommen wiedergeben, wie es diese Zeichnung hier wiedergibt."

Im Frühjahr des vergangenen Jahres besuchte eine italienische Gruppe - die Lehrer Roberta Bergamaschi und Giorgio Rizzoni mit ihren Schülerinnen und Schülern aus Ferrara die Stadt Bensheim. Unter der Leitung von Ingrid Ickler, Lehrerin der Partnerschule in Bensheim, erkundeten die Gäste das Rhein-Main-Gebiet. Auf Initiative von Heike Gabriel, einer Tutorin unserer Hochschule, hatte ich die Aufgabe, die Gäste über die Darmstädter Mathildenhöhe zu führen, einem weltweit bedeutenden Jugendstilzentrum. Zu dieser Zeit hatte unser Fachbereich bereits die Planung für die im Mai stattfindende studentische Architektur- und Zeichenexkursion nach Bologna – mit zwei Exkursen nach Ferrara – abgeschlossen. Spontan erklärten sich Roberta Bergamaschi und Giorgio Rizzoni bereit, uns im Gegenzug während unserer Exkursion zu führen – für die kompetente und hochinteressante Führung in Ferrara HERZLICHEN DANK!

Eine Exkursion in ein fremdes Land, eine unbekannte ‘Kultur‘, hilft, die Dinge neu wahrzunehmen und die ihnen zugrundeliegenden Gefüge zu erkennen. Sie erfassen und entdecken Beziehungen und Zusammenhänge, die Ihnen im Alltag entgangen wären. Ich habe erfahren, dass ich das, was ich zeichne, auch wirklich wahrnehme. Und wenn ich eine alltägliche Situation zeichne, wird mir bewusst, wie besonders sie ist.

Ein Großteil der Gestaltungslehre am Fachbereich Architektur – mit den Studiengängen Architektur und Innenarchitektur – der Hochschule Darmstadt wird anhand der Zeichnerischen Gestaltungslehre vermittelt, eingeübt und angewandt. Sie wird als fortlaufender Prozess verstanden, ist in dem gesamten Studium (Bachelor und Master) fest verankert und vermittelt ein ganzes System wissenschaftlich begründeter und künstlerisch-praktischer Kenntnisse, Fertigkeiten und Fähigkeiten. Diese lassen sich auf alle anderen Gestaltungsfragen übertragen, vorausgesetzt, die Studierenden verfügen über ein ausreichendes Abstraktionsvermögen, um Querverbindungen herzustellen.

Die Zeichnung, wie ich sie verstehe und wie sie an unserem Fachbereich gelehrt wird, ist eine an die Linie gebundene Darstellung: Eine Skizze, eine kurze knappe Erzählung, die sich auf ein bis zwei Bildaussagen und eine räumlich plastische Beschreibung einer Situation oder eines Körpers beschränkt. Zeichnen heißt für mich jedoch nicht nur darstellen, was man sieht, sondern ausdrücken, was man fühlt und denkt. So stellen sich mir vor Beginn einer zeichnerischen Auseinandersetzung immer die gleichen Fragen: Was möchte ich mit der Zeichnung zum Ausdruck bringen, welches Motiv ist dafür geeignet und wie werde ich es abbilden? Nun, über das Zeichen und die Zeichenlehre zu schreiben ist schwierig und reizvoll zugleich. Die Zeichnung hat es einfacher: Sie spricht unmittelbar – ohne Einleitung, Ausführung und Schluss – und erzählt doch eine vollständige Geschichte.

So gilt es nun in der Ausstellung die Stadt Ferrara aus der Sicht des Fachbereiches Architektur der Hochschule Darmstadt neu zu entdecken – ich hoffe, es ist gelungen.

Darmstadt, im Februar 2019 Prof. Waldemar Borsutzky HOCHSCHULE DARMSTADT University of Applied Sciences

P.S. Im Juli vergangenen Jahres besuchte ich gemeinsam mit meinen Söhnen Anselm und Veith erneut Ferrara, um einige zusätzliche Zeichnungen zu erstellen.

Con gli occhi dei tedeschi

Docenti e studenti della Hochschule Darmstadt disegnano Ferrara

Noi tutti abbiamo frequentato una scuola fondata principalmente sulla parola, sebbene l’essere umano sia soprattutto sguardo: la vista percepisce al secondo cento volte di più rispetto all’udito. È noto che l’immagine mentale di un oggetto o di una situazione è più in grado di testimoniarne la logica di quanto non lo sia il pensiero lineare, a cui siamo stati educati. Forse è addirittura superiore ad esso, perché un’immagine può contribuire a far chiarezza molto più di mille parole. Lo stesso Leonardo da Vinci, un maestro della parola, attribuì alla percezione attraverso la vista una profonda funzione conoscitiva. Così recita una nota posta accanto a uno dei suoi disegni: "O scrittore, con quali lettere scriverai tu con tal perfezione la intera figurazione qual fa qui il disegno?".

Nella primavera dello scorso anno, un gruppo Erasmus proveniente da Ferrara - i docenti Roberta Bergamaschi e Giorgio Rizzoni con i loro studenti e studentesse – ha visitato la città di Bensheim. Sotto la guida di Ingrid Ickler, docente presso la scuola partner AKG, il gruppo ha viaggiato attraverso il Rhein- Main-Gebiet, la regione metropolitana di Francoforte. Su iniziativa di Heike Gabriel, tutor nella nostra università, ho guidato i nostri ospiti attraverso la Mathildenhöhe di Darmstadt, centro dello Jugendstil di rilevanza mondiale. In quel periodo il nostro dipartimento aveva già programmato un’escursione didattica a Bologna, finalizzata al disegno di luoghi e architetture, e due gite a Ferrara. Roberta Bergamaschi e Giorgio Rizzoni si sono resi disponibili a ricambiare la cortesia durante la prima gita ferrarese. Della guida molto interessante e competente sono MOLTO GRATO.

Un’escursione didattica in un paese straniero, una cultura sconosciuta, aiutano a percepire le cose in modo nuovo e a riconoscere la loro struttura essenziale. Si comprendono e si scoprono relazioni e nessi che sfuggono alla quotidianità. Ho sperimentato in prima persona che ciò che disegno lo percepisco davvero. E quando disegno una scena quotidiana mi rendo conto della sua peculiarità.

Al dipartimento di architettura della Hochschule Darmstadt (nei corsi di laurea in architettura e architettura d’interni) gran parte della teoria della figurazione si insegna, si esercita e si applica in base alla figurazione grafica. Questa viene intesa come processo progressivo, è parte sostanziale dell’intero percorso universitario (laurea triennale e magistrale) e trasmette un intero sistema di conoscenze, abilità e capacità artistico-pratiche scientificamente fondate. Esse possono essere trasferite in tutti gli altri ambiti della figurazione, a condizione che gli studenti possiedano una capacità di astrazione sufficiente per stabilire collegamenti trasversali.

Il disegno, per come lo intendo io e per come viene insegnato nel nostro dipartimento, è una rappresentazione legata alla linea. Uno schizzo, un racconto breve e conciso, che si limita a trasmettere uno o due messaggi e una descrizione spaziale plastica di una situazione o di un corpo. Tuttavia disegnare non significa per me solo rappresentare ciò che si vede, ma anche esprimere ciò che si sente e si pensa. Così, prima di confrontarmi con un nuovo disegno, mi pongo sempre le stesse domande: che cosa voglio esprimere con quel disegno, quale soggetto è adatto ad esso e come lo riprodurrò.

Ora, scrivere sul disegno e sulla teoria del disegno è difficile e allo stesso tempo affascinante. Per il disegno stesso è più facile: parla direttamente - senza introduzione, svolgimento e conclusione – e tuttavia racconta una intera storia.

Nei disegni è il tentativo di far riscoprire la città di Ferrara dal punto di vista del dipartimento di architettura della Hochschule Darmstadt – spero sia riuscito.

Darmstadt, Febbraio 2019 Prof. Waldemar Borsutzky HOCHSCHULE DARMSTADT

P.S. Nello scorso luglio sono ritornato a Ferrara con i miei figli Anselm e Veith per fare altri disegni della città.

Traduttori/Übersetzer

Lorenzo Antonioli, Simona Babbi, Thomas Becker, Alessandra Belcastro, Tommaso Bertelli, Desiree Bindini, Chiara Bombardi, Silvia Boni, Mariachiara Bonora, Giorgia Boschetti, Anna Braga, Alessia Bulgarelli, Giacomo Buzzi, Alice Calabretti, Emma Campana, Stefano Campari, Sebastiano Canazza, Laura Cattozzi, Francesca Cecchin, Riccardo Cervi, Alessandra Deserti, Ute Distler, Manfred Distler, Roberto Falbo, Claudia Felloni, Paola Fiammanti, Silvia Finessi , Heike Gabriel, Sara Gallottini, Viviana Ghesini, Francesca Gizzi, Andrea Grazzi, Livia Klostermann, Mariana Krasnozhon, Matteo Libanore, Nicole Maietti, Leo Marocco, Linda Mattuzzi, Federico Mazzanti, Pietro Melchiori, Katharina Merk, Francesca Mezzagno, Rainer Michels, Matteo Mignozzi, Silvia Mirizio, Sara Montanari, Nouhaila Mordi, Davide Morelli, Damiano Moscardi, Alberto Navilli, Davide Nistri, Daniela Olaru, Francesco Patroncini, Maria Grazia Perelli, Ilaria Pierri, Federica Pironti, Martina Piscitelli, Matilde Piva, Sofia Raimondi, Viola Ramponi, Lucrezia Rizzati, Lucrezia Sarto, Matteo Scalambra, Matilde Schincaglia, Michele Simioli, Giulia Simoni, Giacomo Solera, Edoardo Stabellini, Sara Tanzarella, Petra Tartari, Fabio Theiss, Lucrezia Trevisan, Giulia Trombelli, Elena Venturi, Jakob Wedel, Sofia Wolf, Waltraud Wünsch-Mamu, Ilaria Zanini.

Programmatori/Programmierern

Nina Adler, Giorgio Aleotti, Daniele Anibaldi, Mara Arzberger, Luca Balboni, Sebastiano Bellagamba, Paul Berg, Anna Bergamini, Sarah Beyer, Giulia Bianchini, Sara Boldrini, Diletta Boldrini, Iheb Boughattas, Lili Briggemann, Giacomo Buzzi, Sebastiano Canazza, Stefania Cersamba, Riccardo Cervi, Federico Colombani, Lorenzo Defalco, Ornella Di Paola, Filippo Di Pietro, Stella Fabbri, Francesco Faccini, Giovanni Ferrari, Giulia Ferri, Sebastiano Finotelli, Sara Gallottini, Camilla Gamberoni, Sara Govoni, Francesco Iannucci, Luca Jouin, Mike Löbert, Marta Mantovani, Sofia Martellozzo, Federico Mazzanti, Federico Mazzuccato, Matteo Menegatti, Simone Minotti, Matteo Miozzi, Davide Morelli, Nicolò Natali, Davide Nistri, Claire Paasche, Elena Pesci, Federica Piccoli, Paul-Philip Rechlin, Julian Reiter, Davide Sala, Gianluca Sandri, Agnese Sitta, Luca Tazzari, Alessandro Turrin, Francesca Vitali. Le mie parole con le tue Meine Worte mit deinen Britta Boerdner

Die Autorin

Britta Boerdner, geboren 1961 in Fulda lebt in Frankfurt am Main. Sie studiert der Amerikanistik, Germanistik und Historischen Ethnologien in Frankfurt. Während des Studiums jobbte sie als Texterin und Redakteurin in einer Werbeagentur, schrieb Reiseberichte, Städteporträts, Kurzgeschichten und Essays. 1999 Veröffentlichung von "Bockenheimer Bouillabaisse", einem Unikrimi, bei dem sie Co- Autorin war. Nach dem Studium war sie zunächst als freie Texterin und Konzeptionerin tätig. Dann folgte eine Festanstellung als Senior Marketing Manager bei der Gruppe Deutsche Börse; die sie aufgab, um sich dem Schreiben widmen zu können. 2012 Veröffentlichung von "Was verborgen bleibt" in der Frankfurter Verlagsanstalt, 2017 folgte die Veröffentlichung von "Am Tag, als Frank Z. in den Grünen Baum kam".

Der Tag als Frank Z. in den Grünen Baum kam. Im Sommer des Jahres 1969 ist der amerikanische Musiker Frank Zappa in Deutschland angekommen, genau eine Woche vor der Mondlandung. Er beschreibt in diesem Auszug (von seinem VW-Käfer aus) die hessische Landschaft der Wetterau und die surreale Nacht zuvor in Los Angeles.

L'autrice

Britta Boerdner nasce nel 1961 a Fulda. Studia Germanistica, Americanistica ed Etnologia storica a Francoforte, dove parallelamente lavora come copywriter e redattrice in un’agenzia pubblicitaria. Scrive diari di viaggio e ritratti di città, racconti brevi e saggi, ed è coautrice di un giallo, Bockenheimer Bouillabaisse. All’attività di copywriter segue l’assunzione in qualità di Senior Marketing Manager presso il gruppo Deutsche Börse. Britta Boerdner rinuncia a un avanzamento di carriera per dedicarsi alla scrittura. Esce nel 2012 Was verborgen bleibt (Quel che non si vede), Frankfurter Verlagsanstalt. Am Tag, als Frank Z. in den Grünen Baum kam (Il giorno che Frank Z. entrò all’Albero Verde) esce nel marzo 2017 per lo stesso editore.

Il giorno in cui Frank Z. entrò all’Albero Verde. Nell'estate 1969 il musicista americano Frank Zappa arriva in Germania, esattamente una settimana prima dello sbarco dell'uomo sulla luna. In questo estratto il musicista descrive il paesaggio della Wetterau nella regione dell'Assia dal suo maggiolino Volkswagen e la notte surreale appena trascorsa a Los Angeles. (Lorenzo Antonioli) Frank Zappa: Frank Zappa-Allmusic.it

Allunaggio: Die Mondlandung-Spektrum.de Il paesaggio della Wetterau: Die Wetterau-natur.we

Il muro di Berlino: Die Berliner Mauer-Berliner Zeitung

Am Tag, als Frank Z. in den Grünen Baum kam (Auszug)

Vom Taunus aus betrachtet ist die Wetterau ein stilles Land, weite Ebenen mit sanften Hügeln, im Vordergrund vielleicht ein ausgefahrener Feldweg, gesäumt von Apfelbäumen, Butterblumen, Kornblumen. Es sind die gegeneinander verkanteten Felder, erdfarben und grün, die Baumreihen und die Ortschaften, die den jungen Mann mit ihrer Sanftheit anziehen. Die Straße ist abschüssig, in unübersichtlichen Kurven führt sie auf ein Dorf zu. Im Schatten der Bäume lässt er den VW Käfer in die Mündung eines Feldwegs rollen, mit dem Anziehen der Handbremse bleibt auch die Landschaft stehen. Schottersteinchen, eben noch unter den Reifen, knirschen beim Aussteigen unter seinen Schuhen. Sein Körper ist noch betäubt vom Flug und der Fahrt. Kurz wird ihm schwindelig in der Nachmittagshitze. Zu Hause hat er sich nur knapp verabschiedet, I need a breather, eine Verschnaufpause brauche er, hatte er denen gesagt, die es anging, und einen Flug nach Deutschland gebucht. Im Jahr zuvor war er bereits dort gewesen, eine Tournee zum Test, außer regennassen nächtlichen Straßen, Scheinwerfern und trüben Backstage-Bereichen hatte er nichts gesehen. Die nüchterne Atmosphäre seiner Hotelzimmer, er alleine, die anderen in einem separaten Hotel, darauf hatte er bestanden. Niemand konnte ihm etwas vormachen auf der Bühne, er hörte alles, erahnte die Fehler, noch bevor sie passierten. Es erschöpfte ihn, er brauchte die Trennung von den anderen, den Raum für sich nach einem Gig. Spätabends hatte er seine Reisetasche gepackt, ein paar Sachen zum Anziehen, Musikkassetten, seinen tragbaren Rekorder, seine dunkelbraune Fransentasche zum Umhängen. Seit Jahren war er nicht mehr für sich gewesen, und sei es auch nur für einen Tag. Im Morgengrauen, der einzigen Stunde, in der Stille im Haus herrschte, war er hinunter ins Wohnzimmer gegangen. Vor der breiten Fensterfront dümpelten zwei Plastikluftmatratzen im Pool, rot und blau leuchteten sie über den Unterwasserstrahlern, man hätte sofort einen Song daraus machen können, der den frühen Morgen pries, der vom Springen ins Wasser und der amerikanischen Flagge in Form dieser beiden Luftmatratzen erzählte. Aus den Augenwinkeln sah er ein Paar, das auf der geschwungenen Sitzlandschaft schlief. Mehr als dreißig Leute hatten noch Stunden zuvor dort gesessen oder gelegen. Eine schmale Männerhand in den Haaren der Frau; Cocktailgläser, Stanniolpapier, Bierfaschen auf den Tischen. Über allem lag ein tiefer Summton und darüber ein Pfeifen, das in seiner Geradlinigkeit alles Ungeordnete der vergangenen Nacht noch verstärkte. Vorbei an Kleidungsstücken, die über Mikrofonständern hingen, ging er zum Kamin, schaltete zuerst die beiden Monitorboxen ab, die davorstanden, dann den Verstärker, schulterte seine Tasche und verließ das Haus. Unten wartete bereits der Fahrservice, der ihn zum Flughafen bringen sollte, eine schwarze Limousine, zwischen den Bäumen hindurch hatte er sie heranrollen sehen. Bougainvillea, feucht vom Tau, Wasserperlen auf seinem Jackenärmel. Die Luft war kühl. Auf dem Laurel Canyon Boulevard kroch der Nebel, der allmorgendlich vom Meer heraufzog, bis in die Wipfel der Eichen und Platanen. Der Fahrer nahm die engen Kurven langsam, es ging bergab, der Motor war kaum zu hören, niemand begegnete ihnen. In wenigen Minuten würden sie auf den La Cienega abbiegen, dann über den La Tijera und den Sepulveda Boulevard zum Flughafen kommen. Er stellte sich vor, wie die dunklen Wellen des Pazifiks über den Grund sogen und gegen den Strand rollten, sofort hatte er das Unterwassergeräusch im Kopf, es verband sich mit der Farbe der Luftmatratzen, eine Nation im Brandungssog, daraus könnte tatsächlich ein neuer Song entstehen, die Mädchen aus dem Haus würden dazu tanzen, als Wellen oder Nixen verkleidet, die Show würde weitergehen, irgendwoher musste das Geld kommen. Eines der Häuser hinter dem Country Store an der Ecke zum Kirkwood Drive war hell erleuchtet, jedes Fenster war geöffnet, und mit dem künstlichen Licht, das durch den Morgennebel drang, hallte Musik über die kleine Kreuzung, She’s Leaving Home von den Beatles, gerade so, als wäre etwas Unvorhersehbares geschehen in der Nacht. Und tatsächlich geschah in jeder Nacht etwas Unvorhergesehenes, es war ein Sommer der Sessions, der Partys, der Drogen, die alle sanft und unbeherrscht zugleich werden ließen, ein Sommer, in dem man den Kindern morgens bunte Schuhe mit Fingerfarben an die nackten Füße malte, ein Sommer, in dem alles mit Musik zu tun hatte. Man hörte sie aus jedem Garten, von jeder Terrasse im Canyon; Wochen zuvor hatten sich alle Anwohner telefonisch verabredet, ihre Fenster zu öffnen und zur selben Sekunde die Nadel des Plattenspielers auf Sympathy for the Devil von den Stones zu setzen, und wer die kleine, enge Laurel Canyon Road entlangfuhr, fühlte sich wie in einem Traum, der sich wiederholte und doch zeitlich versetzt war, eine manchmal übersteuerte, lauter und leiser werdende Klangcollage, die aus der Natur selbst zu kommen schien. Eine neue Zeit war angebrochen und bereits am Verglühen, man konnte es spüren in jeder Nacht, in der sie improvisierten bis in den Morgen. Ihre Musik, die Songs, die entstanden, wenn es kein Zeitgefühl mehr gab, trieb sie durch die dunklen Stunden in die Tage hinein. Sie lebten im Flow wie dieses ganze, sich die Küste entlangziehende Kalifornien, und an jedem verdammten Tag nach diesen Nächten fragte er sich, wie lange Love and Peace noch halten würde, überhaupt ernst zu nehmen sei. Er nahm Einfluss, er hielt sein Haus offen, er produzierte, er ging auf Tournee, er hatte es weit gebracht. Doch so viel Freiheit der Canyon auch gewährte, seit Wochen spürte er ein inneres Vibrieren, als würden sich die Straßen, würde sich ganz Kalifornien künstlich verengen. Mit den Unterarmen auf das Wagendach gelehnt, schaut er sich jetzt um, sein helles Gesicht scharf konturiert im Schatten der Apfelbäume. Kein anderes Auto ist zu sehen. Sein Blick, der diejenigen einschüchtert, die sich selbst nichts zutrauen, wird weicher vor der weiten Landschaft. In sanftem Schwung ziehen sich die Felder und Wiesen vor ihm hinab, weit unten stehen Scheunen nahe bei den Häusern, er ist anderes gewohnt, seine Vorstellung von Landschaft besteht aus den Weiten der Mojave- Wüste, dem Himmel über dem nächtlich glühenden Los Angeles, den Wäldern Connecticuts. Hinter ihm singt ein Vogel, hebt seine Strophe zum Ende hin an, als stellte er eine Frage. Der Käfermotor knackt beim Abkühlen, in der Motorhitze steigt Sommerstaub vom Feldweg auf. Zirruswolken stehen hoch am Himmel, ein seidiges Versprechen. Das hat immer etwas mit Sehnsucht zu tun, denkt er gerade, da scheint das Blau hinter den Wolken zu verblassen. Der Vogel setzt erneut an, bricht ab. In der Ferne zuckt ein Lichtstrahl auf, etwas bewegt sich mit großer Geschwindigkeit auf ihn zu und schiebt dabei ein Rauschen vor sich her, das die ganze Landschaft niederdrückt. Er nimmt die Arme vom Wagendach, öffnet die Fahrertür und wartet, mit einem Fuß schon auf dem Trittbrett, bereit, sich auf den Sitz fallen zu lassen, da sieht er, was auf ihn zukommt. Ein Starfighter. Eine Lockheed, die er seit seiner Kindheit kennt, aber hier nicht erwartet hat. Wie ein Messer durchschneidet sie im Vorbeiziehen das Blau. Er ist aufs höchste angespannt. Und da kommt er auch schon, der Knall, mit dem sie die Schallmauer durchbricht. Sein Körper wird zusammengepresst wie die Luft selbst. Erst dann zieht auch der Ton hinterher, ein metallenes Pfeifen, das keine Gegenwehr zulässt, mit seinem Sog alle Gedanken außer Kraft setzt, die weite Landschaft hin zum Horizont schiebt und in eine Fläche verwandelt, aus der alle Farben weichen. Zu spät, sich die Ohren zuzuhalten, die Lockheed ist das einzig Lebendige in diesem Augenblick, und als er kurz an den Vogel denkt, ist sie schon ein weit entfernter silbriger Punkt. Ein Dröhnen in seinen Ohren ist alles, was sie zurücklässt, die hohen Wolken bleiben unberührt. Eine Biene fliegt vorbei, schwer beladen. Er drückt die Fahrertür bis zum Anschlag auf, löst sich vom Wagen, bückt sich nach einem Stein, und schleudert ihn, so fest er kann, hoch über die Straße hinweg zu den gegenüberliegenden Feldern, sieht ihm hinterher, wie er dem Himmel entgegenfliegt, im Flug rotiert und auf seinem Zenit stehen zu bleiben scheint. In der Ferne ist die Sichel des Mondes zu sehen, auf den in etwas mehr als einer Woche ein Mensch seinen Fuß setzen wird, der Stein davor wie ein Artefakt, eine Vorstufe der Raumkapsel. Zum ersten Mal seit seinem Abflug aus Los Angeles atmet er tief durch.

(Auszug aus: Am Tag, als Frank Z. in den Grünen Baum kam, Frankfurter Verlagsanstalt, Frankfurt 2017) Hinweis: nichtexklusive und einmalige Verwendung als Digitalsatz Il giorno che Frank Z. arrivò all'Albero Verde

Vista dal Taunus, la Wetterau è una terra tranquilla, vaste pianure con dolci colline; in primo piano, forse, un dissestato sentiero di campagna, orlato da meli, ranuncoli e fiordalisi. Sono i campi, intrecciati, dai colori verdi e terrosi, i filari di alberi e i villaggi, ad attirare il giovane con la loro dolcezza. La strada, che scende in curve tortuose, conduce a un borgo. Lascia correre il Maggiolino all’ombra degli alberi fino all’imbocco del sentiero; tirando il freno a mano si ferma anche il paesaggio. La ghiaia scricchiola al passare delle ruote; e ora, mentre smonta, sotto le scarpe. Il suo corpo è ancora stordito dal volo e dal viaggio. Presto avrà le vertigini per il caldo pomeridiano. A casa si è congedato solo con poche parole, I need a breather, ho bisogno di respirare, aveva detto a quelli a cui importava quando aveva prenotato un volo per la Germania. Era già stato lì l’anno prima, una tournée di prova. Aveva visto soltanto strade notturne bagnate di pioggia, riflettori e scuri backstage. L’atmosfera sobria della sua stanza d’albergo, lui da solo, gli altri in un hotel diverso. Aveva insistito su questo. Sul palco nessuno riusciva a dargliela a bere, sentiva tutto, intuiva gli errori ancora prima che venissero commessi. Questo lo sfiniva, aveva bisogno del distacco dagli altri, di uno spazio per sé dopo il concerto. La sera tardi aveva preparato la borsa da viaggio, un paio di vestiti, cassette, il registratore portatile, la tracolla marrone scuro con frange. Da anni non viveva più per se stesso, neanche per un giorno. All’alba, l’unico momento durante il quale regnava il silenzio nella casa, era sceso in soggiorno. Davanti all’ampia vetrata galleggiavano due materassini gonfiabili nella piscina, luccicavano rossi e blu al di sopra dei faretti subacquei. Avrebbe potuto comporre subito una canzone che celebrasse le prime ore del mattino, che raccontasse dei tuffi nell’acqua e della bandiera americana formata dai due materassini. Con la coda dell’occhio, vide una coppia che dormiva sul grande divano ad angolo. Qualche ora prima, più di trenta persone si erano sdraiate o sedute lì. Un’esile mano maschile tra i capelli della donna; bicchieri da cocktail, carta stagnola, bottiglie di birra sui tavoli. Su tutto un basso ronzio e sopra un fischio, che con la sua linearità accentuava ancora di più il disordine della notte precedente. Passò davanti ai vestiti appesi alle aste dei microfoni, si avvicinò al camino, spense prima entrambe le casse e poi l’amplificatore, si mise sulle spalle la borsa e lasciò la casa. Di sotto era già in attesa il servizio con autista che lo avrebbe dovuto portare all’aeroporto, una limousine nera che aveva visto avvicinarsi attraverso gli alberi. Buganvillea bagnata dalla rugiada, gocce d’acqua sulla manica della giacca. L’aria era fresca. In Laurel Canyon Boulevard si insinuava la nebbia che tutte le mattine si alzava dal mare fino alla cima delle querce e dei platani. L’autista prendeva lentamente le curve strette, mentre scendeva il motore si udiva appena; non incontrarono nessuno. In pochi minuti svoltarono su La Cienega, poi su La Tijera, poi su Sepulveda Boulevard per arrivare all’aeroporto. Immaginava le scure onde del Pacifico assorbite dal suolo infrangersi sulla spiaggia. Subito gli venne in mente il rumore di quando si è sott’acqua e si combinò con i colori dei materassini: una Nazione nel vortice della risacca, da cui poteva davvero nascere una nuova canzone, che le ragazze avrebbero ballato travestite da onde o sirene. Lo show sarebbe andato avanti, da qualche parte i soldi dovevano pur arrivare. Una delle case dietro il Country Store, all’angolo di Kirkwood Drive, era ben illuminata, tutte le finestre erano aperte, una luce artificiale penetrava nella nebbia mattutina, della musica riecheggiava sul piccolo incrocio, She’s leaving home dei Beatles, come se qualcosa di imprevedibile fosse accaduto durante la notte. Ed effettivamente, ogni notte succedeva qualcosa di imprevedibile, era un'estate di session, di party, di droghe che si susseguivano in modo tanto dolce quanto incontrollato; un'estate in cui al mattino si dipingevano con colori a tempera delle scarpe sui piedi nudi dei bambini, un'estate in cui tutto aveva a che fare con la musica. Nel canyon la si udiva da ogni giardino, da ogni terrazza. Settimane prima, gli abitanti si erano accordati per telefono di aprire le finestre e di mettere tutti nel medesimo istante la puntina del giradischi su Sympathy for the Devil degli Stones. Chi percorreva la piccola e stretta Laurel Canyon Road si sentiva come in un sogno che si ripeteva trasposto nel tempo, a volte distorto, e diventava un collage di suoni più forti e più deboli che sembrava provenire dalla natura stessa. Una nuova epoca era iniziata e già si consumava. Lo si poteva percepire ogni notte, quando si improvvisava fino al mattino. La musica, le canzoni che nascevano quando non c'era più alcun senso del tempo, li spingevano attraverso le ore della notte nel giorno successivo. Vivevano nel flow, nella corrente, come tutta quella California che si estendeva lungo la costa, e ogni dannato giorno dopo quelle notti lui si domandava fino a quando sarebbero ancora durati Peace and Love, e se fossero da prendere sul serio. Esercitava un'influenza sugli altri e teneva aperta la casa, produceva, andava in tournée, aveva fatto molta strada. Eppure, per quanta libertà il canyon concedesse, da settimane avvertiva una vibrazione interna, come se le strade di tutta la California si fossero ristrette artificialmente.

Con gli avambracci appoggiati sul tettuccio dell’auto, ora si guarda intorno, il suo viso luminoso dai lineamenti netti all'ombra dei meli. Non si vede nessun'altra automobile. Il suo sguardo, che intimidisce chiunque non abbia fiducia in se stesso, si intenerisce davanti al vasto paesaggio. I campi e i prati scendono dolcemente davanti a lui, più in basso i fienili vicino alle case; è abituato ad altro, la sua idea di paesaggio consiste nell’ampio deserto del Mojave, nel cielo di notte sopra l’ ardente Los Angeles e nelle foreste del Connecticut. Un uccellino canta alle sue spalle, accentua il cinguettio verso la fine, quasi ponesse una domanda. Il motore del Maggiolino crepita, raffreddandosi; il calore del motore alza la polvere estiva dal sentiero di campagna. Cirri alti in cielo, una promessa di seta. Questo ha sempre qualcosa a che fare con la nostalgia, pensa, solo perché l'azzurro dietro le nuvole sembra impallidire. L'uccellino ricomincia, poi si interrompe. In lontananza lampeggia un fascio di luce: qualcosa si muove ad alta velocità verso di lui e spinge il rombo davanti a sé, così da appiattire tutto il paesaggio. Toglie il braccio dal tettuccio dell'auto, apre la portiera e aspetta, con un piede già sul predellino, pronto a lasciarsi cadere sul sedile: a quel punto vede cosa si sta avvicinando. Uno Starfighter. Un Lockheed, che conosce dall’infanzia ma che qui non si sarebbe aspettato. Avvicinandosi taglia il blu del cielo come un coltello. E' teso al massimo. Ed eccolo, il boato che rompe il muro del suono. Il suo corpo viene compresso come l'aria stessa. Solo dopo segue anche il suono, un fischio metallico che non permette alcuna resistenza e con il suo risucchio annulla tutti i pensieri, spinge il vasto paesaggio fino all'orizzonte e lo trasforma in una superficie piatta da cui tutti i colori si allontanano. Troppo tardi per tapparsi le orecchie, il Lockheed è l'unica cosa viva in quel momento, e quando per un attimo lui pensa all'uccellino, l’aereo è già un punto argenteo molto lontano. Un rimbombo nelle orecchie è tutto ciò che si lascia dietro; le alte nuvole rimangono intatte. Un'ape carica di polline gli vola davanti. Lui spinge la portiera fino a chiuderla del tutto, lascia l'automobile, raccoglie una pietra e la scaglia più forte che può, oltre la strada e verso i campi, la segue con lo sguardo, come se volasse verso il cielo; in volo ruota e allo zenit sembra fermarsi. In lontananza si vede la falce della luna, sulla quale tra poco più di una settimana un uomo metterà piede; la pietra è come un artefatto, un primo stadio della sonda spaziale. Per la prima volta dalla sua partenza da Los Angeles respira a pieni polmoni.

Luigi Dal Cin

L'autore

Luigi Dal Cin ha pubblicato oltre 100 libri di narrativa per ragazzi. Tradotti in 10 lingue, ha già ricevuto una decina di premi nazionali di letteratura per ragazzi, tra cui il Premio Andersen 2013 come autore del miglior libro 6/9 anni. Nel 2017 ha ricevuto il Premio Troisi per la sua attività di scrittura per ragazzi e di incontri-spettacolo con gli alunni di tutta Italia.

Der Autor

Luigi Dal Cin hat in Ialien mehr als 100 Kinder- und Jugendbücher verfasst, von denen einige in 10 Sprachen übersetzt wurden. Er hat bereits mehrere nationale Kinderbuchpreise gewonnen, wie 2013 den renommierten Premio Andersen. 2017 gewann er den Premio Troisi für sein Engagement im Bereich Leseförderung an Schulen. Nella pancia dell’elefante da un’antica fiaba Yoruba

C’erano un tempo, nelle calde terre d’Africa, due donne che vivevano in due capanne vicine, che avevano ciascuna una figlia. Una di loro un giorno disse: “Per favore, figlia mia, prendi il vaso: vai al fiume e portami dell’acqua”. La ragazza le sorrise, prese il vaso e si incamminò lungo il sentiero che portava al fiume.

Vicino alla riva c’era un branco di elefanti e non appena la ragazza ebbe riempito il vaso d’acqua un elefante le chiese da bere. “Certo – disse la ragazza – bevi pure!” e gli offrì l’acqua del vaso. Così però dovette ritornare al fiume e riempire nuovamente il vaso, ma ecco che un secondo elefante le chiese da bere. “Bevi pure!” disse la ragazza, e gli diede l’acqua. Così fece un terzo elefante, e un quarto, e così fece tutto il branco, e ogni volta la ragazza tornava a riempire il vaso al fiume.

Era arrivata ormai all’ultimo elefante, e già pensava che presto avrebbe portato l’acqua a sua mamma, quando proprio quell’ultimo elefante bevve così avidamente che inghiottì perfino il vaso. La ragazza dovette ritornare a casa a mani vuote. La madre dopo averla ascoltata le ordinò: “Torna dagli elefanti, e riprenditi il nostro vaso!”. “Ma non si può più: se l’è ingoiato un elefante grande così!”. “Non possiamo rimanere senza un vaso per l’acqua!” esclamò la madre, e non voleva sentire ragioni. La ragazza così si incamminò di nuovo lungo il sentiero che portava al fiume, e lì incontrò lo stesso branco di elefanti.

“Chi è tra di voi l’elefante che ha inghiottito il mio vaso?”. Tutti gli elefanti si guardarono l’un l’altro, finché uno di loro disse: “L’elefante che ha inghiottito il tuo vaso è andato di là” e le indicò la direzione con la proboscide. Quell’elefante era andato molto ma molto lontano, e la ragazza dovette camminare per ore e ore. Alla fine lo raggiunse.

“Devo recuperare il mio vaso!” gli disse allora la ragazza. “Oh, non c’è problema – rispose l’elefante – Ora spalancherò la bocca: tu entra pure nella mia pancia e, per scusarmi di quello che è successo, oltre al tuo vaso prendi pure tutto quello che vorrai!”. Nella pancia dell’elefante la ragazza non riusciva a credere ai propri occhi: c’erano oggetti di ogni genere, e molte pietre preziose, e non smise di raccoglierne finché il suo vaso fu pieno. Uscita dalla bocca dell’elefante, la ragazza lo ringraziò e ritornò con quel tesoro verso casa.

“Sei stata molto coraggiosa!” le disse la mamma, e la abbracciò, la strinse, e la baciò, ed era così felice che chiamò la vicina per raccontarle tutto, e per donarle alcune delle pietre preziose che sua figlia aveva preso nella pancia dell’elefante.

Ma la vicina era avida e invidiosa: ‘Mi ha regalato troppo poco!’ pensò. Così decise che anche sua figlia doveva fare la stessa cosa, e la mandò al fiume per prendere l’acqua. La ragazza incontrò gli elefanti e li costrinse a bere l’acqua dal suo vaso. “Ma io non ho sete!” disse il primo elefante. “Bevi e taci!” rispose la ragazza. E così fece con tutto il branco. Alla fine infilò il vaso nella bocca dell’ultimo elefante e ritornò a casa.

Quando la madre la vide tornare a mani vuote fece finta di arrabbiarsi, la trascinò di fronte alla porta della vicina, e le ordinò a voce alta: “Ora vai dagli elefanti e vedi di ritornare con il nostro vaso altrimenti…” e qui alzò una mano in alto. Ma poi si guardò intorno e le sussurrò: “E soprattutto ritorna con un bottino più ricco del loro!”.

L’elefante che aveva inghiottito il vaso le permise di entrare nella sua pancia, come aveva fatto con l’altra, e la ragazza ci si buttò a capofitto. Rimase incantata, perché lì dentro trovò oggetti di ogni tipo, e un gran numero di pietre preziose, proprio come le era stato raccontato. La ragazza cominciò a riempirsene le mani, ma era così avida e agitata che le sue mani e il suo vaso non riuscivano mai a tenere tutto ciò che avrebbe voluto portarsi via, e continuava a prendere, e più prendeva, più le cose le cadevano dalle mani, e traboccavano dal vaso, e così le raccoglieva di nuovo perché voleva tenersi tutto, e cadevano, e le prendeva, e cadevano. L’elefante, dopo aver atteso un po’, decise di raggiungere il branco che si stava spostando.

E quella ragazza è ancora lì, dentro la sua pancia, con le pietre preziose che le cadono dalle mani, lei le raccoglie, loro cadono, ma le vuole tutte, così le afferra di nuovo, e non si decide più ad uscire.

Racconto inedito Im Bauch des Elefanten

Es war einmal vor sehr langer Zeit im heißesten Teil Afrikas. Dort lebten in zwei kleinen, benachbarten Holzhütten zwei Frauen mit ihren Töchtern. Eines Tages sagte die eine Frau zu ihrer Tochter: „Bitte, liebste Tochter, nimm den Krug, geh‘ zum Fluss und hole Wasser“. Das Mädchen lächelte zustimmend, nahm den Krug und machte sich auf den langen Weg zum Fluss. Als sie dort ankam, sah sie eine Elefantenherde. Kaum hatte sie ihren Krug gefüllt, kam einer der Elefanten zu ihr und fragte sie nach etwas zu trinken. „Sicher“, antwortete das Mädchen, „trink nur!“ und sie gab ihm das Wasser. So musste sie noch einmal zum Fluss zurück, um ihren Krug erneut aufzufüllen, doch schau: Ein zweiter Elefant fragte sie nach etwas zu trinken. „Trink nur“, sagte das Mädchen und gab ihm das Wasser. Schon kam ein dritter, ein vierter, und bald hatte sie die ganze Herde versorgt und jedes Mal ging das Mädchen zurück, um ihren Krug am Fluss aufzufüllen. Als sie beim letzten Elefanten ankam und dieser so gierig trank, dass er sogar den Krug herunterschluckte, dachte sie sich, dass sie das Wasser lieber schnell zu ihrer Mutter gebracht hätte, denn so musste sie mit leeren Händen zurückkehren. Nachdem die Mutter ihr zugehört hatte, befahl sie dem Mädchen: „Geh zurück zu diesen Elefanten und hol unseren Krug zurück!“ Das Mädchen antwortete: „Aber das kann man nicht mehr, denn der große Elefant hat ihn verschluckt!“ Die Mutter schrie: „Wir können nicht ohne Wasserkrug leben!“ und duldete keine Widerrede. So machte sich das Mädchen erneut auf den langen Weg zum Fluss und traf dieselbe Elefantenherde wieder. Sie fragte: „Wer von Euch ist der Elefant, der meinen Krug verschluckt hat?“ Alle Elefanten schauten sich gegenseitig an bis einer antwortete: „Der Elefant, der deinen Krug verschluckt hat, ist dort hin gegangen“, und zeigte ihr den Weg mit seinem Rüssel. Nachdem das Mädchen ihn stundenlang suchen musste, fand sie den Elefanten. „Ich brauche meinen Krug“, sagte sie zu ihm. „Oh kein Problem“, antwortete der Elefant, „ich öffne jetzt meinen Mund und du krabbelst in meinen Bauch. Als Wiedergutmachung darfst Du außer Deinem Krug alles nehmen, was Du willst!“ Im Bauch des Elefanten traute das Mädchen seinen Augen nicht, denn dort waren Dinge aller Art und viele wertvolle Steine. Sie sammelte die Steine bis ihr Krug randvoll war. Als das Mädchen wieder aus dem Elefanten heraus geklettert war, dankte sie ihm und kehrte mit dem Schatz nach Hause zurück. „Du warst sehr mutig“, sagte die Mutter und umarmte sie, drückte sie an sich, küsste sie und war so glücklich, dass sie die Nachbarin rief, um ihr alles zu erzählen und um ihr einige der wertvollen Steine zu geben, die ihre Tochter aus dem Bauch des Elefanten geholt hatte. Doch die Nachbarin war gierig und neidisch: „Sie hat mir viel zu wenig gegeben“, dachte sie. Also entschied sie, dass auch ihre Tochter dasselbe tun müsse, und sie schickte sie an den Fluss, um Wasser zu holen. Das Mädchen traf die Elefanten und zwang sie dazu, Wasser aus ihrem Krug zu trinken. „Aber ich habe gar keinen Durst!“, sagte der erste Elefant. „Trink und sei leise“, antwortete das Mädchen. Und so machte sie es mit der ganzen Herde. Am Ende steckte sie den Krug fast in den Mund des letzten Elefanten und kehrte nach Hause zurück. Als die Mutter die Tochter zurückkommen sah, tat sie so, als würde sie sich aufregen, wütend zog sie ihre Tochter vor die Tür der Nachbarin und befahl mit lauter Stimme: „Jetzt geh zu diesen Elefanten und sieh zu, dass Du mit unserem Wasserkrug zurückkommst, sonst ...“, und dann hob sie eine Hand in die Höhe. Doch dann sah sie sich um und flüsterte ihrer Tochter zu: „Am besten kommst Du mit einer reicheren Beute als die Nachbarstochter zurück!“ Der Elefant, der den Krug verschluckt hatte, erlaubte ihr, in seinen Bausch einzutreten, wie es auch schon die Nachbarstochter getan hatte. Und das Mädchen warf sich kopfüber hinein. Sie hielt verzaubert inne, denn dort drinnen waren Dinge aller Art und viele wertvolle Steine, genau so, wie es ihr erzählt worden war. Das Mädchen begann, sich die Hände zu füllen, aber sie war so gierig und aufgeregt, dass ihre Hände und der Krug nie alles halten konnten, was sie nehmen wollte, und sie nahm sich immer mehr und mehr. Doch noch mehr verlor sie immer wieder aus ihren Händen und dem Krug. So sammelte sie weiter, denn sie wollte alles haben. Es fiel ihr aus der Hand und sie nahm es wieder, und wieder fiel es ihr aus der Hand. Nachdem der Elefant ein wenig gewartet hatte, entschied er, sich wieder der Herde anzuschließen, die schon weitergezogen war. Und das Mädchen ist noch heute dort im Bauch des Elefanten mit den wertvollen Steinen, die sie immer wieder verliert und wieder aufsammelt und wieder verliert. Doch sie will sie alle haben, und so beginnt sie wieder und wieder von vorne, und denkt gar nicht daran, den Elefanten zu verlassen, bevor sie alle Steine eingepackt hat.

Unveröffentlichte Erzählung

Jan Decker

Der Autor

Jan Decker, Jahrgang 1977, lebt und arbeitet als Schriftsteller in Osnabrück. Er studierte am Deutschen Literaturinstitut Leipzig. Für ARD, Deutschlandradio und SRF schrieb er mehr als 20 Hörspiele und Features. Daneben verfasste er zahlreiche Bücher, Theaterstücke, Libretti, Erzählungen, Essays, Gedichte und Artikel. Sein Werk wurde mehrfach ausgezeichnet. Jan Decker unterrichtete an der Staatlichen Hochschule für Gestaltung Karlsruhe und der Universität Osnabrück. Er ist Mitglied im PEN- Zentrum Deutschland.

L'autore

Jan Decker, nato nel 1977, vive e lavora come scrittore a Osnabrück. Ha studiato al Deutsches Literaturinstitut di Lipsia. Per il canale televisivo ARD, per Deutschlandradio e SRF ha scritto più di 20 radiodrammi e documentari radiofonici. Inoltre ha scritto numerosi libri, pièce teatrali, libretti d’opera, racconti, saggi poesie e articoli. Per le sue opere ha ricevuto diversi premi. Jan Decker ha insegnato alla Staatliche Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe e all’Università di Osnabrück. È membro del PEN- Zentrum nazionale tedesco. Seume. Ein Anfang

(i) Im letzten Winter war die Welt noch in Ordnung. Ich war Stipendiat der Denkmalschmiede Höfgen in Kaditzsch, nahe Grimma, und las Seume. Nicht nur das, ich ging täglich seine Wege. Zum Beispiel spazierte ich durch den Stadtwald zur Hospitalkapelle, der ersten Station von Seumes historischem Spaziergang, wo ich dann allerdings einhielt und wieder Richtung Kaditzsch zurückging. Ich wollte es nicht übertreiben. Es war eine tiefe Befriedigung, Seume auf diese Weise wiederzubegegnen. Zum ersten Mal hatte ich den Spaziergang nach Syrakus nach dem Gymnasium gelesen, in einer gehfaulen Zeit. Es war der Übergang vom Pennälerdasein zum Studentendasein, das graduell betrachtet kaum eine andere Lebensform war. Verrauchte Kneipen, voll besetzte Unterrichtsräume, verwirrende Begegnungen, unerfüllte Liebschaften. Und mein Fortbewegungsmittel Nummer eins war in all diesen Jahren das Fahrrad, gern rostblätternd und mit Aufklebern, kleinen blauen Windrädern und anderem Dekor versehen. Seume erreichte mich damals über eine Rundfunklesung, der gesamte Spaziergang nach Syrakus wurde in wöchentlichen Folgen ausgestrahlt, ich erinnere mich an die ruhige Lesestimme von Dieter Mann, vielleicht bilde ich mir das alles nur ein, jedenfalls besorgte ich mir das Buch und las es wenige Tage vor den Einführungsseminaren an der Universität. Ich fand diesen Seume skurril, und brachte ihn vage mit einem Sportlehrer meines Gymnasiums in Verbindung, der einmal nach Unterrichtsschluss am Schultor losgejoggt war und ein paar Tage später seine Ehefrau anrief, sie möge ihn bitte aus Italien abholen. Ich stieg auf das Fahrrad oder in den Bus, und kam spätnachts aus der Kneipe zurück.

(ii) Was mich heute an diesem Schriftsteller am meisten fasziniert: Seume wertete alle fiktionalen Schreibweisen als unverbindlich und kindisch ab, und hielt sich doch nicht an sein eigenes Urteil. Denn gleichzeitig lieferte er mit dem Spaziergang nach Syrakus ein wohlkomponiertes literarisches Werk ab. Sein Reisebericht gehört zur Reiseliteratur, und ist doch ein wahrer Schmöker und eine Räuberpistole. Vielleicht konnte Seume nur deshalb zwischen erfunden und wohlkomponiert, zwischen schlechter Fiktion und spannender Reportage, unterscheiden, weil die konkrete Geschichte stark in sein Leben hineinwirkte. Aus der eigentümlichen Spannung zwischen Kontemplation und äußerer Revolution schöpft dieses Buch, das seinen Verfasser bis heute bekannt macht, seine Kraft. Es gilt als ein programmatisches Buch, allerdings programmatisch für etwas ganz anderes. Nämlich für den Spaziergang eines Spätaufklärers, mit Betonung auf den Spaziergang. Ich finde gerade die Vermischung von Ratio und Natur in Seumes Werk interessant. Geschichte wird erlaufen und in einem halbfiktiven Bericht reflektiert. Nichts an diesem Buch ist erfunden, und alles.

(iii) Auf meinem alten Laptop schrieb ich vier Jahre lang, bis die A-Taste kaum noch als solche zu erkennen war. Sie war vielmehr ein weißer Fleck geworden. Ich verfasste neun Hörspiele, ein Feature und viele andere Texte auf dem Schreibgerät. Die abgeschrammelte A-Taste störte mich nicht, auch Wanderschuhe gewinnen durch Kratzer und Dellen an Charakter. Was mich störte, war das Geräusch des Lüfters. Ein ohrenbetäubendes Föhnen sprang alle paar Sekunden an, durchbrach den Fluss der Gedanken, riss mich aus der Fiktion heraus. Ich erkannte, dass ich in einem abgeschlossenen Zimmer saß, zu dem ich zwar den Schlüssel besaß, das mir aber dennoch das Wichtigste verwehrte: Die Freiheit der Schritte, die Freiheit der Gedanken, all das, was ich im Reich der Fiktion simulieren wollte. Mein Traum war es, beim Schreiben einen Spaziergang durch die Sprache zu machen, so wie man in der Natur einen Spaziergang machen konnte. Ich erinnerte mich an Seume, den ich vor meinen ersten Schreibversuchen gelesen hatte. Jetzt kam er mir wie ein freier Mensch vor, der sich klugerweise nicht hatte einsperren lassen. Und er war ein Schriftsteller! Ich verließ meine Stube und machte mich auf den Weg einmal um den Häuserblock. Ich simulierte den Spaziergang nach Syrakus, so wie der Mensch von heute vieles simuliert, was zu Seumes Lebzeiten noch echt zu haben war. Ein Schreiben in Stille zum Beispiel, oder der Blick in die unberührte Natur. Alles Dinge, die ich als Stadtmensch mit Fantasien vertauscht hatte, mit Ersetzungen im Kopf. Denn es ist eine Fantasie, sich einzureden, in der Stadt sei es relativ still oder die Natur sei dort relativ unberührt. Ich beschloss, Seume wieder zu lesen. Und Schluss zu machen mit dem wild föhnenden Laptop, der seine beeindruckende Geräuschkulisse ganz serienmäßig entfaltete. Ich hatte vier Jahre lang verdrängt, dass es das andere gab: Stille und einen Spaziergang, der über den Häuserblock hinausführte.

(iv) Folglich schrieb ich im letzten Winter als Stipendiat der Denkmalschmiede Höfgen in Kaditzsch, einem Künstlerhof mit langer Tradition, die allerdings nicht bis zu Seume zurückreicht, mit der Hand. Ich wartete auf den neuen Laptop, der eine Lieferzeit von zwei Wochen hatte, und machte meinen täglichen Spaziergang. Das Umstellen der Schreibgewohnheiten bewirkte eine wohltuende Veränderung. Mit mehr Sauerstoff im Kopf ausgestattet, durch manche Beobachtungen bereichert, zu deren Höhepunkten das Vereisen der Mulde gehörte, das sich über mehrere klirrend kalte Tage hinzog, kehrte die Geduld wieder in meinen Schriftstellerhaushalt ein. Ich las den Spaziergang nach Syrakus in Kaditzsch noch einmal, und jetzt kam mir das Buch nicht mehr fremd und skurril vor, sondern wie eine plausible Art der Schilderung eines Schriftstellertags. Ob ich nun bis zur Hospitalkapelle spazierte oder weiter bis nach Syrakus, meine Sensoren reichten mit Seume über das rein Erfundene hinaus, ein klarer Blick für die Zustände trat ein. Im Gehen erkannte ich, dass wir in einer Restaurationsepoche leben, von Seumes Zeit grundlegend verschieden, und dass es sich lohnen würde, über die 50er-Jahre nachzudenken, über das Streben nach Statussymbolen, das Ideal der Gehfaulheit, das sich in der Gegenwart wiederholte. Ich war oftmals der einzige Spaziergänger auf meinen Wegen, und fragte mich, wie Seume die Begleitung von Autos anstatt von Mitspazierenden auf seinen heutigen Spaziergängen vorgekommen wäre. Denn ich stellte mir Seume nicht so vor, dass er vorauseilend auf die Naturlehrpfade ausgewichen wäre. Dort geriet ich aber zunehmend hin.

(v) Es war nicht reine Ehrfurcht vor der Wirklichkeit, die Seume zur Abwertung fiktiver Schreibstrategien führte, sondern seine Fähigkeit, einer Hauptaufgabe des Schriftstellers gerecht zu werden, der Chronistenrolle. In jüngster Zeit ist sie etwas in Vergessenheit geraten. Liegt es daran, dass dem Schriftsteller die schönen Spaziergänge fehlen? Dass er sich dem harten ökonomischen Druck beugen muss, Fiktion zu erzeugen? Neue Erfindungen für den Buchmarkt werden verlangt, eine gefallene Arzttochter oder ein neurotischer Bankdirektor. Wie schön muss es dagegen sein, einem Freund von einem ausgedehnten Spaziergang zu berichten! Seumes Buch zeugt von einer Lockerheit ohnegleichen, bei gleichzeitig hoher Brisanz. Nicht zu vergessen: Sein Spaziergang durch halb Europa galt von den äußeren Bedingungen her als gefährlich. Doch geschenkt. Denn welcher Lohn ist süßer als derjenige, Chronist seiner Zeit zu sein? Der Spaziergang nach Syrakus muss folglich als ein programmatisches Werk im Schafspelz gelesen werden. Idealtypisch formulierte Seume darin seinen Anspruch, die Wirklichkeit in einer groß angelegten Inspektion einzufangen. Und er wies konkret darauf hin, dass die Literatur der Wirklichkeit im Jahr 1802 hinterherhinkte. Man könnte in Anlehnung an den Bitterfelder Weg (jener Bewegung der DDR-Kulturpolitik, die sich den konkreten Themen der Arbeitswelt verschrieb, und die unter dem programmatischen Motto „Greif zur Feder, Kumpel!“ stand) vom Grimmaer Weg sprechen, der Seume von der Schreibstube in die Wirklichkeit führte. Und der mir ungleich sympathischer ist, da er die Schriftsteller nicht, wie der Bitterfelder Weg, in die Produktion schickte (zum Beispiel in den VEB Schwarze Pumpe), sondern in die Welt hinaus.

(vi)

Das Schreiben ist nicht nur ein Spaziergang durch die Sprache. Es simuliert eine Ordnung, wie ich sie immer wieder in der Natur finde. Das Dahingestreute, das nicht Festgefügte, das dennoch mit weiser Hand Komponierte, finde ich nicht in der Schreibstube, sondern auf dem freien Feld. Mit einem Wort: Wirklichkeit. Es gibt nichts Schöneres als sie. Doch ich muss mich fiktional auf die Jagd nach der Wirklichkeit begeben, sonst wird sie unerträglich. Ein Überschuss an Bildern und Fakten entsteht, ein Gefühl der lähmenden Untätigkeit. Brecht hat es beschrieben, das Unbehagen, das den Schriftsteller in der Natur überkommt. Rein beobachtend verliert er sich in ihr. Die Bewegung muss dazukommen, der gleichbleibende Schritt. Wie die Geschichte zu jeder Zeit ein eigenes Gleichgewicht von Revolution und Restauration erzeugt, so hält die Bewegung das Band zwischen Kontemplation und wacher Beobachtung gespannt. Und was braucht man mehr, um Chronist zu sein? Eine Poetologie des Gehens ist gefragt. Es ist etwas anderes, als Schriftsteller von heute Seume zu lesen oder seine Programmatik fortzudenken. In zwei meiner Hörspiele spielte das Gehen eine herausragende Rolle. Sie fielen mir wieder ein, da ich in der Denkmalschmiede Höfgen wartend auf mein neues Schreibgerät unverhofft zum winterlichen Spaziergänger geworden war. Hatte ich bereits eine Poetologie des Gehens entworfen? Mitnichten. Meine Karriere als Gehender kam mir nun selbst merkwürdig vor.

(vii) Zwar gibt es zahllose Neuauflagen von Seumes Fußreise, sprichwörtliche Wiedergänger und eine eigene Literatur zu diesem Genre. Aber die Bewegung als Movens des Schreibens finden wir in den immer noch herrschenden Begriffen von Gattung und Form nicht ausgearbeitet. Arztroman und Bankdirektorroman. Aber nicht: Schreiben als Wanderschaft. Hätte Seume eine kleine populäre Schrift zum Spaziergang verfasst, ein Manifest wie Martin Heideggers Der Feldweg, wäre er heute bekannter? Vermittelte der Spaziergänger Seume nicht stark genug eine Programmatik des Gehens? Es kam bei ihm eben jener Schuss Pessimismus hinzu, der ihn bis heute nicht zu einem frühen Wandervogel werden lässt. Sondern zu einem Schriftsteller zwischen den Epochen. Und doch ist etwas an ihm klassisch: Noch heute muss jeder Chronist mit dem Spaziergang nach Syrakus vertraut sein, wenn er seiner Rolle gerecht werden will. Wolfgang Koeppen zum Beispiel, der in seinen Reiseessays meisterhaft Kontemplation und politische Beobachtung mischte, war mit ihm vertraut. Nein, Seume war kein Schwärmer, sondern ein hellwacher Mensch, und das vor allem aufgrund seiner sozialen Herkunft.

(viii) Zurück in Leipzig war die Welt nicht mehr in Ordnung. Ich musste auf meine Kaditzscher Spaziergänge verzichten. Der Grimmaer Weg schien für Schriftsteller nur im Rahmen von Stipendien denkbar zu sein. Ein Dauerleben als Stipendiat konnte ich mir nicht vorstellen. Ebenso wenig wollte ich in meinen Hörspielen weiterhin Spaziergänger nur als Flüchtende beschreiben. Ich wälzte die Literatur über Fußreisen, die es gab. Vielleicht hatte jemand in Seumes Nachfolge eine gangbare Programmatik ausgearbeitet, eine Art modernen Leitfaden für den Stubenhocker in der Stadt, der gerade nicht nach Italien entschwinden konnte, so wie es Seume oder der Sportlehrer auf meinem Gymnasium taten. Da war zunächst Friedrich Frommanns Taschenbuch für angehende Fußreisende, das so allgemeingültige Wahrheiten bereithielt wie diejenige, dass man bei der Auswahl der Wandergesellschaft nicht vorsichtig genug sein könne, und im Zweifelsfall lieber allein gehen solle. Bevor ich in der Literatur über Fußreisen weiterging, hielt ich inne. Ja, es gab einen Weg, auf Seumes Spuren zu gehen. Als Simulation natürlich. Sonst müsste ich bei jedem Schreibimpuls aufspringen und in Wanderschuhen die Wohnung verlassen. Etwas musste diesen Gedankenblitz verursacht haben. Ich machte eine Pause, und ging um den Häuserblock spazieren.

(ix) Gehen heißt nicht davonlaufen (wie mancher Spaziergang Seumes nahelegt), sondern sich gezielt verirren. Auf Anfang gehen. So verschwindet der Gegensatz von Fiktion und Reportage. Wichtig ist der erste Schritt. Ob äußere oder innere Bewegung: Hauptsache ist, dass ihm das störende Föhngeräusch nicht dazwischenkommt, das heute eine Vielzahl von Erscheinungsformen hat. Es kann die vorbeifahrende Müllabfuhr sein, die nahe Großbaustelle, eine dauerkreischende Alarmanlage, oder schlichtweg die tägliche Nachrichten- und Sensationsflut aus dem Internet. Eine Form der Einkehr ist gefragt, die Seume auf seinem Spaziergang musterhaft vorgezeichnet hat. Eine Form der Abkehr, die ein neuer Anfang ist. Der Chronist denkt in Bewegungen, und er denkt in wiederkehrenden Abschnitten. Natürlich, auf meinen Radtouren mit einem Schulfreund, jedes Jahr im Sommer, praktizierte ich das Abstoßen vom Alltag bereits. Und kamen mir während dieser Tage auf Radwanderschaft nicht immer Ideen für neue Hörspiele? Worüber grübelte ich noch nach? Es war der Mensch Seume, der mich daran erinnerte, dass ich bei meiner Suche nach dem Ausweg aus der Stubenhockerei allein bleiben würde. Der Schulfreund kehrte immerhin nach München zurück, zum FC Bayern, dem Oktoberfest, und wie die anderen Späße dort hießen. Auf mich wartete die Schreibstube, die wiederkehrende Stubenhockerei. Und wenn mir nach einer Begleitung zumute war, einem Mitspaziergänger, jenem imaginären Du, das Seume in seinem Spaziergang nach Syrakus ansprach, würden die Arbeitenden beschäftigt abwinken, während die Schriftsteller in unerreichbarer Ferne ihr eigenes atomisiertes Dasein pflegten. Das war der große Wermutstropfen, den ich mit Seume teilte. Aber war Seume wirklich der Einzelgänger, als den ich ihn sah?

(x) Seume war nicht das, was man gemeinhin einen Naturburschen oder Wandergesellen nennt. Seine Herkunft aus dem Kleinbürgertum machte ihn für die Abhängigkeit von objektiven Interessen sensibel. Er war denkbar unromantisch, konnte in schroffer Weise gegen Adel und Kirche wettern. Gleichzeitig wollte er die Gesellschaft nicht spalten, sondern suchte nach einer übergreifenden Harmonie durch spätaufklärerische Ideale. Dafür neue Kunstgesetze aufstellen? Nein, er war eher von Wieland als von den Klassikern geprägt. Am meisten von sich selbst, dessen eigener Bildungsweg unvergleichbar erschien. Nur mithilfe der oberen Klassen hatte der junge Seume zur Schule gehen und studieren können. Schon bei Fichte hatte dieser Bildungsgang eine ziemliche Radikalisierung bewirkt. Auch wenn dieselben Klassen Seume als Soldat zwangsrekrutierten (oder gab sich Seume von selbst in ihre Hände?), radikalisierte er sich nicht so weit, dass er gewisse Bildungsideale aufgegeben hätte. Er war sich bewusst, dass sein Mäzen eine janusköpfige Gestalt besaß. Und so flüchtete er mit seinen Bildungsidealen in gewisser Weise nach vorne. Bei allen Entbehrungen der fünfmonatigen Überfahrt mit dem Schiff bekam er vom hessischen Kurfürsten, dem furchtbaren Mäzen, ein Bildungsabenteuer erster Güte geliefert, einen Spaziergang nach Amerika. Seume empfand seitdem den Vorzug der Chronistenrolle gegenüber der des huldvollen Erzählers. Erfindung war ihm wirklich billig, während das von ihm Erfahrene nach einem literarischen Ausdruck verlangte. War ein gewisser Kompensationspunkt erreicht, konnte er die literarische Sache gut sein lassen. So weit meine Lesart. Schon als 18-jähriger Student war Seume übrigens davongelaufen, und wurde per Zeitungsanzeige gesucht. Ein Leben auf der Flucht, ein Leben im dauernden Sich-Finden.

(xi) Wer sich heute für einen monatelangen Spaziergang abmeldet, dem ergeht es anders als Seume. Die Reisewege sind gesichert, die Routen können im Internet recherchiert werden. Nach meinem Winter in der Denkmalschmiede Höfgen, der Entdeckung des Grimmaer Wegs, als den ich den täglichen Spaziergang für Schriftsteller bezeichnen möchte, der eine Pflicht sein sollte, halte ich es mit Xavier de Maistre, der 1825 einen Nächtlichen Spaziergang um mein Zimmer beschrieb. Wobei ich den Titel metaphorisch verstehe, nichts anderes als ein nächtlicher Spaziergang um mein Zimmer ist das Schreiben. Egal wohin er führt: Ein Anfang ist gemacht, und wir können auf die fürsorgliche Begleitung unserer Freunde vertrauen. Es verwundert nicht, dass der Verleger Göschen dem Freund und Lektor Seume nach dessen Aufbruch nach Italien einen Gedenkstein setzen ließ. Schließlich wimmelte Seumes Reiseroute vor ruchlosen Banditen und Mördern. Nimbus, Fiktion, Todesangst – dieser bürgerliche Schreckenskomplex konnte aber vor dem hellwachen Seume nicht bestehen. So manifestierte sich seine Radikalität weniger in seiner Auffassung von Literatur, als vielmehr in der Wahl seiner Reisemethode. Seume, unterwegs zu seiner Klasse, wusste, dass er sie nicht finden würde, dass er als derselbe Seume zurückkehren würde, als der er aufgebrochen war. Als ein Einzelgänger, ein Schriftsteller ohne allzu großen fiktiven Mitteilungsdrang, ein verlässlicher Beobachter und genauer Chronist. Im Reich der Literatur musste sein Ansatz die Gemüter spalten. Italien bot auch anderes Futter, den ganzen klassischen Spuk. Seume las noch seine antiken Vorbilder mit dem leicht getrübten Blick des Spätaufklärers. Er konnte eben nicht aus seiner Haut. Und er wusste, dass es darauf ankam, zu dieser Haut zu stehen. Sie ist das am besten eingelaufene Paar Wanderschuhe, das wir besitzen. Als Schriftsteller aber auf seinen Charakter zu setzen, und die leichte Muse Erfindung zu verschmähen, ist riskant und verwegen. Seume tat es. Diese Haltung ist, ob klassisch geworden oder nicht, bis heute einfach klasse.

Seume. Ein Anfang. Essay von Jan Decker, zugleich seine Dankesrede für den Erhalt des Johann- Gottfried-Seume-Literaturpreises 2017 gehalten in Grimma 2.12.2017

© Jan Decker Die Pressefotos von Jan Decker sind rechtefrei. Bei Benutzung der Fotos bitte angeben: "Foto: Christoph Busse"

Nota

Il testo da noi tradotto è un saggio di Jan Decker. Si tratta del discorso pronunciato a Grimma il 2 dicembre del 2017 in occasione del conseguimento del premio letterario "Johann Gottfried Seume". Il romanzo selezionato per quel riconoscimento è intitolato "Der lange Schlummer" ("Il lungo sonno") e propone una rivisitazione del libro "Passeggiata a Siracusa" di Johann Gottfried Seume, un classico della letteratura di viaggio. Il libro di Decker racconta la “passeggiata” a piedi del tardo illuminista Seume che, risvegliatosi dopo duecento anni di lungo sonno, deve intraprendere un nuovo cammino per tornare a Grimma. Il protagonista guarda con ironia al mondo del presente a lui completamente ignoto. (Giacomo Solera)

La traduzione, molto lunga ma soprattutto laboriosa, ha permesso a noi studenti di accostarci ad un testo complesso di un'altra lingua, analizzando e soffermandoci su ogni singola parola e frase per poter attribuire il significato più adeguato ad esprimere quanto raccontato da Decker in un contesto di rilettura critica, e creativa allo stesso tempo, del celebre classico di Seume. I nostri errori di traduzione, e quindi interpretazione, non hanno fatto mancare momenti di assoluto divertimento. Seume. Un punto di partenza.

(i) L’inverno scorso era ancora tutto a posto. Avevo una borsa di studio alla Denkmalschmiede Höfgen di Kaditzsch, vicino a Grimma, e leggevo Seume. Non solo: ripercorrevo ogni giorno i suoi passi. Per esempio, attraversavo lo Stadtwald per andare alla Hospitalkapelle, la prima tappa della storica passeggiata di Seume, ma non mi spingevo oltre e tornavo verso Kaditzsch. Non volevo esagerare. Era una profonda soddisfazione rincontrare Seume in questo modo. Avevo letto per la prima volta la "Passeggiata a Siracusa" dopo il liceo, in un periodo in cui ero troppo pigro per camminare. Era il passaggio dall’essere studente liceale a studente universitario, un cambiamento graduale, non certo un altro modo di vivere. Pub pieni di fumo, aule stipate, incontri sconcertanti, amori non corrisposti. E il mio mezzo di trasporto numero uno in tutti questi anni era la bicicletta, bella arrugginita e tappezzata di adesivi, piccole girandole blu e accessori di altro genere. All’epoca Seume mi raggiungeva attraverso la radio: una lettura integrale della "Passeggiata a Siracusa" veniva trasmessa a puntate una volta a settimana; mi ricordo la voce pacata di Dieter Mann che leggeva – o forse me lo sto solo immaginando. In ogni caso mi procurai il libro e lo lessi a pochi giorni dai seminari introduttivi all’Università. Trovavo questo Seume bizzarro, e lo associavo vagamente a un mio insegnante di ginnastica del liceo, che una volta, dopo la fine delle lezioni, era corso fuori dal cancello per poi chiamare sua moglie qualche giorno più tardi perché lo andasse per favore a prendere in Italia. Salivo sulla bicicletta o sull’autobus e tornavo a tarda notte dal pub.

(ii) Ciò che oggi più mi affascina di questo scrittore è che Seume giudicava tutti gli scritti di finzione come non impegnativi e infantili; tuttavia non si atteneva al suo stesso giudizio. E infatti, contemporaneamente pubblicò la "Passeggiata a Siracusa", un’opera letteraria ibrida. Il suo resoconto appartiene alla letteratura di viaggio ed è però una grande storia, avvincente come un romanzo d’avventura. Probabilmente il fatto che Seume fosse in grado di distinguere tra immaginario e reale, tra finzione di pessima qualità e cronaca appassionante, dipende dal forte impatto che l’esperienza concreta ebbe nella sua vita. Questo libro, a cui l’autore deve ancora oggi la sua notorietà, trae la sua forza dalla particolare tensione tra pensiero contemplativo e movimento esteriore. Esso ha il valore di un libro programmatico, anche se programmatico per qualcosa di completamente diverso da questa tensione. Ovvero per la passeggiata di un tardo illuminista, con enfasi sulla passeggiata. Trovo interessante proprio la promiscuità tra ragione e natura nell’opera di Seume. La storia si crea passeggiando e si rispecchia in un resoconto semifittizio. Nulla in questo libro è immaginario, eppure tutto lo è.

(iii) Scrissi per quattro anni sul mio vecchio portatile, fino al punto che il tasto A era irriconoscibile. Era diventato molto più simile a una macchia bianca. Composi nove radiodrammi, un documentario radiofonico e molti altri testi su quella tastiera. Il tasto rovinato non mi infastidiva: dopo tutto anche gli scarponi acquistano carattere grazie a graffi e ammaccature. Quello che invece mi infastidiva era il rumore della ventola. Un ronzio assordante partiva ogni due secondi, interrompendo il flusso dei miei pensieri, trascinandomi fuori dalla finzione. Mi rendevo conto di essere seduto in una stanza chiusa, di cui possedevo la chiave, che tuttavia mi negava la cosa più importante: la libertà, dei passi e dei pensieri, tutto ciò che volevo simulare nel regno della finzione. Il mio sogno era camminare attraverso la lingua scrivendo, proprio come fare una passeggiata nella natura. Mi ricordai di Seume, che avevo letto precedentemente ai miei primi tentativi di scrittura. In quell’istante mi apparve come un uomo libero, che saggiamente non si era lasciato rinchiudere. E lui era uno scrittore! Lasciai la mia stanza e feci un giro dell’isolato. Simulai la "Passeggiata a Siracusa", come l’uomo di oggi simula tante cose che al tempo di Seume erano ancora autentiche. La scrittura in silenzio, per esempio, o lo sguardo sulla natura incontaminata. Tutte cose che io come uomo di città avevo scambiato nella mia testa con fantasie, con surrogati. Perché è una fantasia convincersi che in città è relativamente tranquillo o che la natura è relativamente incontaminata. Decisi di rileggere Seume. E di chiudere con il ronzio ingestibile del portatile, che produceva in serie quel suo impressionante paesaggio sonoro. Per quattro anni avevo rimosso che c’era dell’altro: il silenzio e una passeggiata che portava oltre l’isolato.

(iv) Pertanto nell’ultimo inverno da borsista alla Denkmalschmiede Höfgen di Kaditzsch, una casa per artisti con una lunga tradizione che tuttavia non arriva fino a Seume, scrivevo a mano. Aspettavo il mio nuovo portatile - il tempo di consegna era di due settimane - e facevo la mia passeggiata giornaliera. Il variare delle abitudini di scrittura provocò un benefico cambiamento. Con più ossigeno in testa e arricchito da ciò che vedevo, soprattutto dal lento ghiacciarsi della Mulde che durò per molti giorni di freddo pungente, la calma tornò di nuovo nella mia quotidianità di scrittore. Lessi a Kaditzsch "Passeggiata a Siracusa" ancora una volta, e ora il libro non mi appariva più estraneo o bizzarro, bensì un modo plausibile per descrivere la giornata di uno scrittore. Con Seume, sia che arrivassi fino alla Hospitalkapelle o proseguissi fino a Siracusa, i miei sensi andavano oltre la pura finzione, arrivando a una più chiara visione delle cose. Nel camminare mi accorsi che noi viviamo in un’epoca di restaurazione, fondamentalmente diversa da quella di Seume, e che varrebbe la pena pensare agli anni ’50, alla brama degli status symbol, alla pigrizia nel camminare che ritorna nel presente. Spesso ero l’unico a passeggiare lungo il mio percorso e mi domandavo come Seume avrebbe visto l’essere accompagnato dalle auto invece che da altri camminatori nella sua passeggiata moderna. Perché non mi figuravo Seume ripiegare in anticipo sui tempi per sentieri naturalistici. Io invece mi ci ritrovavo sempre più spesso.

(v) Non era il puro rispetto per la realtà che spingeva Seume a svalutare le strategie di scrittura fittizie, ma la sua capacità di rendere giustizia al compito principale di uno scrittore: il ruolo di cronista. Di recente è stato un po’ dimenticato. Dipende forse dal fatto che allo scrittore mancano le belle passeggiate? Che deve piegarsi alle dure pressioni economiche per creare finzione? Per il mercato librario sono richieste nuove trovate, la figlia libertina di un medico o un direttore di banca nevrotico. Come dev'essere bello, invece, raccontare a un amico una lunga camminata! Il libro di Seume testimonia una scioltezza senza eguali, e al contempo un’alta carica esplosiva. Da non dimenticare: la sua passeggiata attraverso mezza Europa era ritenuta pericolosa per le condizioni esterne. Che importa. Perché quale più dolce ricompensa che essere cronista del proprio tempo? La "Passeggiata a Siracusa" deve quindi essere letta come un'opera programmatica sotto mentite spoglie. In modo ideale Seume ha realizzato la sua pretesa di rappresentare la realtà in un’ispezione su larga scala. Egli ha sottolineato in particolare il fatto che la letteratura della realtà nel 1802 era rimasta indietro. Si potrebbe, con riferimento al Bitterfelder Weg , la via di Bitterfeld, (il movimento della politica culturale della RDT, dedicato alle questioni concrete del mondo del lavoro, che aveva come motto “Afferra la penna, compagno!“) parlare del Grimmaer Weg, la via di Grimma, che ha portato Seume dal suo studio alla realtà; e che mi è molto più simpatico, poiché non conduceva lo scrittore nel mondo della produzione come il Bitterfelder Weg, (per esempio nell’azienda di stato Schwarze Pumpe), ma nel grande mondo.

(vi) La scrittura non è solo una passeggiata attraverso la lingua. Simula un ordine che riconosco sempre nella natura. La casualità, l’instabilità, orchestrate tuttavia con mano saggia, non le trovo nel mio studio, ma all'aria aperta. In sintesi: nella realtà. Non c'è niente di più bello. Però devo andare a caccia della realtà attraverso la finzione, altrimenti diventa insopportabile. Emerge un eccesso di immagini e fatti, una sensazione di inattività paralizzante. Brecht lo ha descritto il disagio che invade lo scrittore nella natura. Solo osservandola, si perde in essa. Il movimento deve subentrare, il passo deve essere costante. Come la storia genera in ogni tempo il proprio equilibrio di Rivoluzione e Restaurazione, così il movimento mantiene l’equilibrio tra contemplazione e osservazione vigile. E di che cosa si ha più bisogno per essere un cronista? È richiesta una poetica del camminare. È qualcosa di diverso per gli scrittori di oggi leggere Seume o portare avanti il suo programma. In due dei miei radiodrammi il camminare giocava un ruolo fondamentale. Essi mi ritornarono in mente poiché, mentre aspettavo il mio nuovo portatile alla Denkmalschmiede Höfgen, ero diventato un inaspettato camminatore invernale. Avevo forse concepito una poetica del camminare? Affatto. La mia carriera di camminatore mi sembrava strana in quel momento.

(vii) Effettivamente esistono innumerevoli ristampe della passeggiata di Seume, vere e proprie repliche e uno specifico genere letterario. Ma il movimento inteso come movente della scrittura non lo troviamo elaborato nei concetti ancora dominanti di genere e forma. Troviamo Il romanzetto di un medico o di un direttore di banca, ma non la scrittura come vagare. Se Seume avesse composto un breve testo sulla passeggiata, un manifesto come Il sentiero di campagna di Martin Heidegger, sarebbe più conosciuto oggi? Il camminatore Seume non ha trasmesso in modo abbastanza efficace la poetica del camminare? Alla sua opera si aggiunge proprio quella dose di pessimismo, che fino ad oggi non gli ha permesso di essere un precursore dei Wandervögel, ma uno scrittore di transizione tra le epoche. E infatti c'è in lui qualcosa di classico: ancora oggi ogni il cronista deve avere familiarità con la "Passeggiata a Siracusa" se vuole essere all'altezza del proprio ruolo. Il testo era familiare per esempio a Wolfgang Koeppen, che nei suoi saggi di viaggio combinò magistralmente contemplazione e osservazione politica. No, Seume non era un entusiasta ma un uomo attento e ciò soprattutto grazie alla sua origine sociale.

(viii) Tornato a Lipsia il mondo non era più a posto. Dovetti rinunciare alle mie passeggiate a Kaditzsch. Il Grimmaer Weg sembrava concepibile solo per uno scrittore con una borsa di studio. Non potevo immaginarmi una vita intera da borsista. Né volevo continuare a descrivere, nei miei radiodrammi, i camminatori solo come fuggitivi. Divoravo tutta la letteratura sull’escursionismo che riuscivo a trovare. Forse qualcuno, sulle orme di Seume, aveva elaborato una poetica percorribile, una sorta di vademecum per pantofolai, per chi proprio non poteva fuggire in Italia come avevano fatto Seume o il mio professore di ginnastica del liceo. C’era innanzitutto il Taschenbuch für angehende Fussreisende (Piccolo manuale per aspiranti camminatori) di Friedrich Frommann, che forniva verità universalmente valide, come quella di non essere mai abbastanza prudenti nella scelta dei compagni di viaggio e nel dubbio andare da soli. Prima di addentrarmi ulteriormente nella letteratura di viaggio, mi fermai. Sì, c’era un modo per seguire le orme di Seume. In senso figurato, ovviamente. Altrimenti avrei dovuto balzare in piedi ad ogni impulso di scrittura e lasciare l’appartamento in scarpe da camminata. Qualcosa doveva aver innescato questo lampo di genio. Feci una pausa e andai a passeggiare attorno all’isolato.

(ix) Camminare non è fuggire (come dà ad intendere qualche passeggiata di Seume), bensì smarrirsi in modo mirato. Tornare al punto di partenza. Così scompare la contrapposizione tra finzione e reportage. L’importante è il primo passo, sia esso un movimento interno o esterno: la condizione essenziale è che non interferisca il fastidioso rumore di una ventola, che oggi può assumere molteplici forme. Può essere il camion della raccolta dei rifiuti che passa, il grande cantiere vicino, un antifurto che suona in continuazione, o semplicemente la giornaliera ondata di notizie sensazionali da internet. E’ richiesta una forma di meditazione, che Seume ha tracciato in modo esemplare nella sua passeggiata. Una forma di distacco che è un nuovo inizio. Il cronista pensa per movimenti e per sezioni ricorrenti. Naturalmente, nei miei giri in bicicletta con un amico di scuola, ogni anno in estate, sperimentavo già il distacco dalla quotidianità. E non mi venivano forse sempre idee, durante questi giorni di gite, per nuovi radiodrammi? Su cosa rimuginavo ancora? Era l’uomo Seume a ricordarmi che sarei rimasto solo nella ricerca di scappatoie dalla vita pigra e sedentaria di un pantofolaio. Il mio compagno di scuola tornava sempre a Monaco per vedere il Bayern, per l’Oktoberfest o come si chiamano tutti gli altri divertimenti. A me invece attendeva lo studio, la vita da pantofolaio. E quando avevo voglia di un accompagnatore, di qualcuno che camminasse con me, come quel Tu immaginario a cui si rivolgeva Seume nella sua Passeggiata a Siracusa, da una parte i lavoratori facevano cenno di no, mentre gli scrittori erano occupati ad assistere, da un’irraggiungibile distanza, alle loro esistenze da monadi. Questa era la punta di amarezza che condividevo con Seume. Ma Seume era realmente quel camminatore solitario, che io credevo?

(x) Seume non era quello che si potrebbe definire un ragazzo ingenuo o un vagabondo. La sua origine piccolo borghese lo rendeva incline alle occupazioni pratiche. Era di temperamento decisamente non romantico, inveiva ferocemente contro la nobiltà e la Chiesa. Allo stesso tempo, non voleva che la società si scindesse, cercava piuttosto un’armonia generale attraverso gli ideali tardo illuministi. A questo scopo formulare nuove norme estetiche? No. Fu influenzato più da Wieland che dai classici. Soprattutto da se stesso, il cui percorso educativo sembrava senza uguali. Solo con l’aiuto delle classi agiate il giovane Seume poté andare a scuola e studiare. Già all’epoca di Fichte il sistema educativo si era estremizzato. Anche se le stesse classi avevano forzatamente reclutato Seume come un soldato (o si mise Seume nelle loro mani?), non era stato portato così tanto all’estremo da rinunciare a certi ideali culturali. Sapeva che il suo mecenate era una specie di Giano bifronte. E perciò, in un certo senso, fugge in avanti con il suo bagaglio di ideali culturali. Nonostante tutte le difficoltà della traversata di cinque mesi in nave, gli fu regalata dal principe elettore dell’Assia, temibile mecenate delle arti, un’esperienza formativa di prima classe, una passeggiata in America. Da allora, Seume preferì essere un cronista piuttosto che un narratore benevolo. L’invenzione era davvero poca cosa per lui, mentre quello che sperimentava richiedeva una vera e propria veste letteraria. Raggiunto un certo equilibrio, poté mettersi il cuore in pace. Fino a qui la mia interpretazione. Già studente diciottenne Seume era fuggito, e venne cercato tramite un annuncio sul giornale. Una vita in fuga, tutta trascorsa alla ricerca di sé.

(xi) Chiunque lasci tutto, oggi, per una camminata di mesi, farà un’esperienza diversa da Seume. Gli itinerari sono sicuri, i percorsi sono tracciati e si possono trovare su internet. Dopo il mio inverno alla Denkmalschmiede Höfgen, dopo la scoperta del Grimmaer Weg, così mi piacerebbe chiamare la passeggiata quotidiana dello scrittore, che dovrebbe essere un obbligo, mi trovavo d’accordo con Xavier de Maistre, che nel 1825 descrisse una "Spedizione notturna intorno alla mia stanza". Nonostante io comprenda il significato metaforico del titolo, nient’altro che una passeggiata notturna attorno alla mia stanza è lo scrivere. Non importa dove conduca: l’inizio è tracciato e possiamo affidarci alla compagnia premurosa dei nostri amici. Non stupisce che l'editore Göschen facesse porre una lapide commemorativa all'amico e lettore Seume dopo la sua partenza per l'Italia. Infatti l'itinerario di Seume brulicava di banditi malvagi e di assassini. Mistero, finzione, paura della morte: questi incubi borghesi non potevano reggere dinanzi alla lucidità di Seume. Il suo radicalismo si manifestò meno nella sua concezione della letteratura che nella scelta del suo modo di viaggiare. Seume, in cammino verso la sua classe, sapeva che non l’avrebbe trovata, che sarebbe tornato lo stesso Seume che era partito. Un solitario, uno scrittore senza un’urgenza eccessiva di inventare storie, un affidabile osservatore e un cronista accurato. Nel regno della letteratura il suo approccio doveva dividere gli animi. L’Italia offriva anche ben altro nutrimento, vale a dire le vestigia della classicità. Seume leggeva ancora i suoi antichi modelli con lo sguardo leggermente offuscato del tardo illuminista. Non poteva uscire dalla sua pelle. E sapeva che la cosa importante era stare nella propria pelle. Essa è il miglior paio di scarpe da camminata che abbiamo e che ci calzano a pennello. Ma uno scrittore che punta sul proprio carattere e disdegna la musa leggera della pura invenzione compie un’operazione rischiosa e temeraria. Seume lo fece. Che sia o non sia diventato un classico, questa presa di posizione è ancora oggi semplicemente una dimostrazione di classe.

La Denkmalschmiede Höfgen è una istituzione culturale privata nelle vicinanze di Lipsia che ha lo scopo di promuovere l’arte e la cultura così come la scienza e la ricerca – in primo luogo l’arte figurativa, la musica, la composizione, la sound art, la letteratura, il cinema, la videoarte, la fotografia e progetti intermodali. La Denkmalschmiede è fra l’altro una residenza per artisti con un hotel e una galleria.

Affluente di sinistra dell'Elba, in cui sbocca a valle di Dessau, dopo avere attraversato Sassonia, Prussia e Anhalt.

Un combinat nell’ambito della produzione di gas. Verso la fine dell’Ottocento, il movimento degli Uccelli migratori (Wandervögel) nacque come reazione alla rigida ed autoritaria società tedesca. Esso volle essere, prima di tutto, un luogo di incontro per soli giovani, uno spazio in cui essi non fossero più sottomessi al mondo degli adulti né soggetti alla rigida disciplina in vigore sia in famiglia che a scuola. Il movimento dei Wandervögel nacque in Germania verso la fine dell’Ottocento come espressione di protesta delle giovani generazioni.

Nuovo riferimento alla politica culturale del Bitterfelder Weg, il cui nome deriva dalla conferenza tenutasi nel 1959 a Bitterfeld, in Sassonia, allo scopo di superare la distanza tra scrittori e lavoratori: essa prevedeva che gli operai facessero esperienza di scrittura e che gli scrittori lavorassero per un periodo in fabbrica.

Christian Foersch

Der Autor

Christian Foersch wurde 1968 in Bayern in der Nähe des "Eisernen Vorhangs” geboren, in einem kleinen Vorort von Bad Kissingen, Sitz eines wichtigen Militärstützpunkts. Damals lebten dort nicht nur 20.000 Deutsche, sondern auch 10.000 Amerikaner. Seine Kindheit ist von einer strengen katholischen Erziehung, von der Liebe zur Musik und zum Wald geprägt. Nach seinem Schulabschluss studierte er Deutsch, Musikwissenschaft, Philosophie und Italienisch. Nach einem Jahr in Wien zog er nach Berlin, heute pendelt er zwischen Ferrara und Berlin. Während eines Frankreichaufenthalts lernt er seine Frau Giulia, sie haben zwei gemeinsame Kinder. Mit Hilfe von Giulia und dank des Studiums lernt er Italienisch. Seine Leidenschaft für das Schreiben begann früh, aber erst nach der erfolgreichen Teilnahme an einem Hörspielwettbewerb machte er daraus einen Beruf.

Er ist Autor von Romanen und Sachbüchern, Ghostwriter und Übersetzer, u.a. von Hanno tutti ragione von Paolo Sorrentino und von den Detektivgeschichten von Claudio Paglieri. Seine Leidenschaft für SPAL entstand in dem einzigartigen und unnachahmlichen Klima der Westkurve des Paolo-Mazza-Stadions, das er 1997 auf Drängen eines Freundes öfter zu besuchen begann. Die Idee von Mist aus der Wundertüte verdankt er seinem Sohn Claudio der regelmäßig eine deutsche Sportzeitschrift liest. Foersch schlägt der Zeitschrift vor, einen Artikel über das Sportwunder des historischen Ferrarese-Teams zu veröffentlichen, das in kurzer Zeit von der zur aufgestiegen ist. Das Projekt wurde anfangs mit etwas Skepsis aufgenommen, aber die Begeisterung der Redaktion nach der Lektüre des Textes machte den Autor und natürlich seinen Sohn immens glücklich. Christian Foersch, Musik- und Sportfan, begeisterter Schriftsteller und Übersetzer, bezeichnet sich selbst als ewiger und unersättlicher Neugieriger. L'autore

Christian Foersch nasce nel 1968 in Baviera, vicino alla "cortina di ferro", in una piccola frazione di Bad Kissingen, cittadina sede di una importante base militare, che contava allora, oltre ai 20.000 abitanti tedeschi, 10.000 americani. La sua infanzia è segnata da un’educazione cattolica ferrea, dall’amore per la musica e per i boschi. Dopo la maturità studia materie umanistiche, nello specifico Germanistica, Musicologia, Filosofia e Italiano. Dopo un anno a Vienna si trasferisce a Berlino, dove tuttora vive facendo il pendolare con Ferrara. Durante un’estate in Francia conosce Giulia, sua moglie e madre dei suoi due figli. Proprio con l’aiuto di Giulia e grazie agli studi accademici impara l’italiano. La sua passione per la scrittura inizia presto, ma incomincia a farne una professione dopo aver partecipato con successo a un concorso di radiodrammi.

Romanziere, documentarista, scrittore ombra e traduttore, tra l’altro di Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino e dei gialli di Claudio Paglieri. La sua passione per la SPAL nasce nel clima unico e inimitabile della curva Ovest dello stadio "Paolo Mazza”, che inizia a frequentare nel ’97 grazie all’insistenza di un amico. L'idea di scrivere Dal letame nascono i fiori arriva dalla lettura abituale di suo figlio Claudio di una rivista sportiva tedesca, alla quale invia la proposta di pubblicare un articolo sul miracolo sportivo della storica squadra ferrarese, passata in pochissimo tempo dalla serie D alla serie A. Il progetto viene accolto inizialmente con un po' di scetticismo, ma una volta letto il pezzo, la redazione ne rimane entusiasta, con immensa felicità dell’autore e naturalmente di suo figlio. Appassionato di musica, sport, nonché di scrittura e traduzione, Christian Foersch si definisce un eterno e insaziabile curioso. (Matilde Piva e Sofia Rimondi) Kuhmist aus der Wundertüte.

Peinlichkeit und Pleiten, Leiden über Jahrzehnte. Doch dann wurde alles anders bei SPAL Ferrara. Ein italienisches Fußballmärchen, erzählt von einem deutschen Fan.

Dies ist die Geschichte von Verrückten. Von 133 000, um genau zu sein. Die Geschichte ist 110 Jahre lang. Aber keine Angst, ich erzähle nur einen Tag, und davon, wie ich einer dieser Verrückten wurde.

Paolo klingelt. Er steht unten mit Fahrrad und weiß-blauem Schal. Donnerstagabend, Ende Mai, der letzte Spieltag, und heute geht es noch einmal um alles. Gewinnt die SPAL, sind wir Meister. Die Krönung des Aufstiegs in die Serie A. Unfassbar. Nach Krisen, Zwangsabstiegen, Lizenzentzug und Konkurs. Nachdem wir vor vier Jahren im Amateurlager gelandet und fast von der Landkarte des italienischen Fußballs verschwunden waren.

Wir radeln durch die Innenstadt, durch Menschentrauben in weiß-blauen Trikots, Schals und Perücken. Ganz Ferrara ist in Partylaune, schon seit einem Jahr. Da hatten wir gerade erst den Aufstieg aus der dritten Liga gefeiert, mit dem kleinsten Budget aller Vereine. Dieses Jahr waren wir wieder das Aschenputtel, galten bei Buchmachern und TV-Experten als sicherer Absteiger. Und tatsächlich haben wir aus den ersten sechs Spielen nur fünf Punkte geholt, Tabellenkeller, und dann … Dann ist etwas gewachsen, was keiner so recht erklären kann.

Weiträumig ist das Stadion abgesperrt, wir müssen uns einen Weg durch Nebenstraßen suchen, und einen freien Pfahl, um unsere Räder festzuketten. Dann stellen wir uns hinter der "Curva Ovest" an der Sicherheitsschleuse an. In Italien ist der Stadionbesuch zur Tortur geworden, selbst in Provinzstädten. Fanpass, personalisierte Tickets, Leibesvisitationen, Ausweiskontrollen. Zu Auswärtsspielen fährt die "DIGOS", der Staatsschutz mit, man wird bereits an der Autobahn abgefangen, in Shuttle-Busse umgeladen und wie ein Gefangenentransport durch abgeriegelte Straßen gekarrt. Die Fans sollen nicht in die maroden Stadien kommen, sie sollen ein Pay-TV-Abo kaufen und zu Hause auf dem Sofa bleiben.

Die "Curva Ovest" ist eine Stunde vor Anpfiff schon gut gefüllt. Aber wir müssen auf unsere Stammplätze, direkt neben dem Block der Ultras, alles andere bringt Unglück. Wir finden eine Lücke und breiten unsere Klamotten auf den Sitzschalen aus. Für Davide, Massimo, Stefano, Antonia und Emma. Drei gute Kumpels und ihre Töchter. "SPAL alé, non tifo per gli squadroni tifo te", wird intoniert. "Auf geht’s SPAL, mein Herz schlägt nicht für die reichen Klubs, es schlägt für dich." Endlich laufen die Mannschaften auf, wir decken uns in einer Choreo mit den Vereinsfarben zu und singen unter dem künstlichen Dach: "Ce ne andiamo in Serie A." - "Serie A, wir kommen." Die letzten beiden Spielzeiten waren so turbulent, dass fast für jede Partie neue Texte gedichtet werden mussten. Gänsehautstimmung. Bei uns. Von den gegnerischen Fans ist kaum etwas zu hören. Zwar spielen wir gegen Bari, eine Großstadt, die mit großem Budget und Anspruch in die Saison gestartet war, mit tollem Stadion und riesiger Anhängerschaft. Aber von den Ansprüchen ist nichts geblieben, von den Fans nur ein jämmerliches Häuflein. Das Spiel beginnt, und es beginnt nicht gut für uns. Leonardo Semplici, unser Trainer, lässt die "Ergänzungsspieler" ran, um Vertrauen und Dankbarkeit zu zeigen, Harmonie und Zusammenhalt zu fördern. Außerdem sind die Stammkräfte angeschlagen. Luca Mora, bärtiger Philosophiestudent, Linksfuß, unermüdlicher Zweikämpfer, sitzt nur auf der Bank, ebenso sein Partner im Mittelfeld: Pasquale Schiattarella, neapolitanisches Heißblut, Pass- und Taktgeber mit tiefem religiösem Glauben. Bari hat etwas gutzumachen und brennt ein Feuerwerk ab. Presst, rennt, schnürt uns ein. Ein feiner Pass in die Spitze und wir brüllen: "Meret". Alex Meret, unser junger Torwart, ist in dieser Saison immer wieder über sich hinausgewachsen und zum Lohn zuerst in die U21, dann gar in die A- Nationalmannschaft berufen worden. Er wirft sich dem Ball entgegen. Umsonst. Ein feiner Lupfer: 1:0 für Bari. Wir sind bedient. Eine komische Stimmung. "Come cazzo si fa a tifare la Spal?", intonieren wir ironisch. "Welcher Arsch ist schon so blöd, Spal-Fan zu sein?" Sind unsere Jungs noch von der Aufstiegsfeier betrunken? Satt? Wir alle sind ausgelaugt. Die Saison ist ein mörderisch langes Crescendo gewesen, mit unerträglicher Anspannung am Ende. Wir hatten eine komfortable Führung, schienen so gut wie aufgestiegen, und dann vergaben wir einen Matchball nach dem anderen. Aber so wollen wir uns nicht verabschieden. "Forza Spal, Forza Spal", schreien wir: "Vinci per noi …" , "Gewinne für uns." Wir wollen wieder das wahre Gesicht unserer Mannschaft sehen. Die 133 000 Ferraresi leben seit dem Mittelalter eingeschlossen hinter eine gewaltige Stadtmauer, ein Bollwerk gegen Invasoren, Stechmücken, Hochwasser und frischen Wind. Man sagt ihnen nach, sie geizten mit Geld und Gefühlen. Nicht so im Stadion. Eigentlich habe ich Fußball immer gehasst. In dem unterfränkischen Dorf, in dem ich aufwuchs, gab es für einen Jungen nämlich nur zwei Möglichkeiten, sich Anerkennung zu verschaffen: Ministrieren und Fußball spielen. Ich irrte glücklos durch Straf- und Altarraum, und als ich mich vom Hartplatz und der katholischen Kirche lossagte, war das eine Erlösung für alle. Doch dann nahm mich 1997 - ich jobbte in Ferrara an einer Sprachschule - ein Freund mit in die "Curva Ovest". Damals kämpfte die SPAL um den Aufstieg in die dritte Liga, mit bescheidenen technischen Mitteln, aber mit Herz, Leidenschaft und einem großen Trainer, Gianni De Biasi, der jüngst sogar Albanien zur EM geführt hat. Und ich verfiel der Magie der Fankurve. Später kam Massimo Allegri, heute Juve-Trainer, es kamen Altstars aus den hohen Ligen, vor allem kamen immer neue Präsidenten, Eigentümer, Sportvorstände. Die Versprechungen wurden immer vollmundiger, die Bankbürgschaften zweifelhafter, die Altstars älter, die Niederlagen peinlicher. Bald standen mehr Gerichtsvollzieher als Zuschauer an den Kassenhäuschen an. Gerüchte über verschobene Spiele machten die Runde, manchmal liefen die Spieler nur noch, um den Schneebällen aus der eigenen Fankurve auszuweichen. 2008 fuhr ich nach Portogruaro, ein Stück hinter Venedig. Es ging mal wieder um den Aufstieg in die dritte Liga. Schon ein Unentschieden hätte uns gereicht. Aber gegen Ende sanken unsere Spieler - wir führten 2:1 - reihenweise zu Boden. Krämpfe, Zerrungen, Erschöpfung, Fake? Den Gegnern war es egal, sie spazierten mit dem Ball vorbei und schossen noch zwei Tore. Ein unwürdiges Schauspiel. Wenn einen die Freundin betrügt, schickt man sie in die Wüste. Aber was macht man mit dem Verein seines Herzens? "Ich fahre jetzt gegen einen Betonpfeiler", sagte mein Kumpel, bei dem ich auf der Rückfahrt hinten auf dem Motorrad saß. Er tat es nicht. Ich hatte damals genug und sagte mich offiziell los. Ich hatte inzwischen Kinder, reichlich Arbeit. Versuchte, vernünftig zu werden. Aber ich litt weiter mit der Mannschaft, heimlich. Wenn ich mit dem Auto aus Deutschland kam, fragte ich an der Mautstation "Ferrara Nord" zuerst: "Und, wie haben wir am Wochenende gespielt?"

Jetzt ist unsere Mannschaft durch den Gegentreffer aufgewacht, vielleicht auch durch unsere Wut und die Anfeuerungen. Gianmarco Zigoni, Leihgabe vom AC Mailand, wird in den Strafraum geschickt, dort behauptet er sich gegen einen Verteidiger, läuft fast bis zur Grundlinie und flankt aus dem Fußgelenk. Der Ball wird immer länger, fliegt über den Torwart und senkt sich ins lange Eck. 1:1. Unglaublich. Da sind sie wieder, unsere Nehmerqualitäten und der unglaubliche Wille, mit dem wir Spiel um Spiel umgebogen haben. Und die Magie. Die aus einer verunglückten Flanke das Tor des Monats macht und das nächste verrückte Kapitel in diesem Märchen schreibt. Denn Zigonis Vater, Gianfranco, schoss vor 49 Jahren hier im Paolo-Mazza-Stadion ebenfalls ein historisches Tor. Allerdings für Juventus, sein 1:0 bedeutete für die SPAL den Abstieg aus der Serie A. Seither warteten wir auf die Rückkehr, und sein Sohn schießt uns zurück ins Paradies. Unser Märchen beginnt am 12. Juli 2013. Nach dem dritten Bankrott in sechs Jahren. Die Fans stehen auf der Straße, das Stadion verfällt, die SPAL, der einst gloriose Fußballverein, ist ein Trümmerhaufen. Ganz Italien ist seit der Wirtschaftskrise schwer gebeutelt, aber Ferrara hat es besonders schlimm erwischt: Das staatliche Chemiewerk zerschlagen, die örtliche Sparkasse und die Baugenossenschaft, zugleich wichtigste Arbeitgeber und Sponsoren, sind pleite. Die Kommune, einst blühende Agrarhochburg, im Spätmittelalter das "New York Europas", hat einen Schuldenberg von über 140 Millionen Euro. Im Mai 2012 hatte ein schweres Erdbeben der Stadt scheinbar den Rest gegeben. Fußball ist dabei das geringste Problem. Geschichte wiederholt sich nicht, sagt man. In Varianten wiederholt sie sich doch. Die SPAL wurde 1907 von Salesianern gegründet, von katholischen Mönchen, ihre goldene Ära begann aber 1951, als ein Po- Hochwasser die ganze Region verwüstete. Damals führte Paolo Mazza, der "Magier vom Lande", ein Kaufmann für Elektrobedarf, den Verein in die Serie A. Mit eiserner Regentschaft und schmalem Geldbeutel schuf er die "provinciale d’oro", das goldene Team aus der Provinz. Mazza war Eigentümer, Präsident, Trainer, Scout, Manager in einem. 1962 war er zwischendurch sogar mal italienischer Nationaltrainer. Eine One-Man-Show der Bauernschläue. 40 Jahre lang. Nationalspieler wie Fabio Capello, Edy Reja und kamen aus seiner Talentschmiede. Jetzt ist mit der Familie Colombarini eine ähnliche Philosophie eingekehrt. Die Colombarinis haben den Dorfverein "Giacomense" aus der untersten Kreisklasse bis in die Profiliga geführt und 2013 die SPAL übernommen. Francesco, heute 76, handelte mit Eiswaffeln, versuchte, aus allem Möglichen Geld zu machen und erfand in den sechziger Jahren Kunstharzpaneele für Kühl-LKW, die er bei sich zu Hause auf dem Dachboden produzierte. Aus einer kleinen Manufaktur wurde eine Fabrik, Zweigstellen in Brasilien und den USA. Wachstum in kleinen, beharrlichen Schritten. Auch im Fußball. Es gibt ein Führungsteam, das eingeschworen ist, die Atmospäre ist familiär. Nachwuchszentrum und Stadion werden schrittweise renoviert, das zerrüttete Verhältnis zur Bevölkerung gekittet. Die Familie Colombarini arbeitet nach klaren Prinzipien: Solides Wirtschaften, knallharte Kalkulation, Zuverlässigkeit, Vertrauen und totale Hingabe. Die Budgetgrenzen für den Sportdirektor, unseren ehemaligen Spieler Davide Vagnati,Trainer sind zwar eng gesetzt, aber innerhalb dieser Grenzen ist er frei. Er klappert landauf, landab die Fußballplätze ab und sucht verkannte Talente, Bankdrücker, Studien- und Karriereabbrecher. Einziges gemeinsames Merkmal: Italiener, mit Wut im Bauch, Lernbereitschaft und Teamgeist. Zuerst kommt die Einstellung, dann die Trickkiste. Keine Allüren, keine hohen Gehälter, keine Hängepartien mit Spielerberatern.

Trainer Semplici will unbedingt das letzte Spiel gewinnen und wechselt Mirco Antenucci ein, unseren Torschützenkönig, außerdem Francesco Vicari, Jungtalent, das in Novara auf der Ersatzbank verkümmerte, bei uns aber in wenigen Monaten zum Abwehrgiganten gereift ist. Die Mannschaft zeigt wieder Biss und Souveränität. Und sie spielt auf "unser" Tor, unter der "Curva Ovest". Antenucci schießt aus der Distanz, der Torwart pariert, während Zigoni umgerissen wird. Ein klarer Elfmeter. Der Schiedsrichter pfeift nicht. Wie so oft in letzter Zeit. Die Fehlentscheidungen gegen uns haben Paranoiker und Verschwörungstheoretiker auf den Plan gerufen. Wir sind nur ein armer Provinzverein, man will uns nicht in der Serie A. Wir haben trotzdem den Aufstieg geschafft. Und jetzt schaffen wir das Führungstor, denn im Liegen erwischt Zigoni den Abpraller: 2:1. Bari wirkt machtlos, stümperhaft. Und wir können es noch immer nicht fassen. Nächste Saison laufen da unten Higuain und Dybala, Insigne und Dzeko auf. Dann kommt Leidenschaft wieder von Leiden. Es sei denn, unser Trainer schafft das nächste Wunder…

Semplici, Jahrgang 1967, ist einer der Glücksgriffe unseres Sportdirektors. In den unteren Spielklassen hatte er mehrere Teams zum Aufstieg geführt, war nach zwei Entlassungen aber von der Bildfläche verschwunden. Scheinbar. In Wirklichkeit betreute er erfolgreich den Nachwuchs der Fiorentina und lernte, einen ständig fluktuierenden Kader taktisch immer neu einzustellen. Es ist nicht die große Bühne, aber Vagnati schaut auch hinter die Kulissen. Im Dezember 2014 übernimmt Semplici eine strauchelnde Mannschaft - und verliert 0:2, zu Hause. Die Zuschauer beschimpfen die Mannschaft, sie würde sich nicht mit dem Verein identifizieren, hätte keine Haltung. Semplici geht mit den Spielern in die Fankurve und erklärte den Fans, dass sie falsch lägen. Die Spieler hätten Moral und Potenzial, aber um es auf den Platz zu bringen, brauchten wir bedingungslose Unterstützung. Die Fans ziehen mit, erste Siege stellen sich ein, locken eine neue Generation ins Stadion. Meine Kumpels und ich kaufen Dauerkarten, wir bringen unsere Kinder mit. Die alten Nörgler, die nur noch kommen, um zu sehen, dass früher alles besser war, verstummen oder werden übertönt. Bald sind alle Partien ausverkauft. Vor Heimspielen stehen die Fans nächtelang am Kassenhäuschen an. Mit Schlafsack, Zelt, Thermoskanne. Als käme Real Madrid. Es kommen die Spieler der SPAL. Die meisten mit dem Fahrrad.

Und dann pfeift der Schiri ab, und die SPAL hat mehrere Rekorde aufgestellt: Noch nie hatte eine Mannschaft hintereinander die Meisterschaft in dritter und zweiter Liga gewonnen, noch nie hat ein Präsident den Aufstieg von der untersten Kreisklasse bis in die Serie A geschafft. SPAL bedeutet "Società Polisportiva Ars et Labor". Kunst und Arbeit. Harte Arbeit. "A sen di grez e di aldamar", singen wir im Dialekt: "Wir sind Hackklötze aus Kuhmist." Eine Bühne wird aufgebaut, die Feierlichkeiten beginnen. Plötzlich kommt Wehmut in mir hoch. Die Partie, diese ganze unfassbare Saison, die Fahrten zu den Auswärtsspielen, die karneveleske Stimmung - alles vorbei. "Wieso dürfen wir nicht wenigstens noch die Playoffs spielen?", frage ich. Alle lachen. Aber sie wissen, was ich meine. Wir haben Tausende Kilometer gemeinsam abgespult, in stinkenden Bussen, in Trikots, die aus Aberglauben nicht gewaschen werden durften, wir haben Schikanen, Demütigungen, Dramen überstanden. Wir sind eine große Familie. Zu der die Spieler gehören, die von der Bühne springen, zu uns laufen, sich vor uns auf den Bauch werfen.

Ich fahre nach Hause, und als ich ins Bett gehe, sage ich zu meiner Frau: "Lass uns ein Kind machen." "Was für ein Kind?" "Ein Kind für die Serie A." "Du hast sie nicht alle." Am nächsten Morgen kommt mein Sohn an den Frühstückstisch, nachdenklich. "Weißt du was?", fängt er an. "Nächste Saison bin ich Fan von zwei Mannschaften." "Aha?", frage ich skeptisch zurück. Er ist nämlich Inter-Mailand- und Bayern-Fan, wofür ich nur wenig Verständnis aufbringe. "Von Inter-Mailand, aus Sentimentalität, und von der SPAL, damit ich wenigstens einen starken Klub habe." Kinder sind eben doch das Schönste auf der Welt.

Kuhmist aus der Wundertüte, in "11 FREUNDE. Magazin für Fußallkultur", 11 Freunde Verlag GmbH & Co. KG, n.88, Juli 2017

Nota

L'articolo "Kuhmist aus der Wundertüte" di Christian Foersch, ci ha creato qualche difficoltà a partire dalla traduzione del titolo (letteralmente "Letame dal sacco delle meraviglie"). Ho dunque proposto di sostituirlo con una citazione, "Dal letame nascono i fior(i)", prendendola in prestito dalla canzone "Via del campo" di Fabrizio de André. Le canzoni di questo cantautore sono davvero poesie che raccontano storie di prostitute, ribelli ed emarginati, tanto che egli, con il suo coraggio, la sua morale e la sua incredibile leggerezza nel parlare della dolorosa realtà umana, fu definito "la voce di chi non aveva parola". Ecco allora che i versi di Faber sembrano ricordare la storia della nostra squadra di calcio, considerata alla stregua di un mucchio di letame dopo un passato di sconfitte e fallimenti, ma capace di risollevarsi e, con passione e costanza, di "sbocciare come un fiore” sulla scena del calcio italiano. (Giulia Trombelli) Dal letame nascono i fiori

Imbarazzo e fallimenti, decenni di sofferenza. Ma poi tutto è cambiato per la SPAL. Una fiaba del calcio italiano raccontata da un tifoso tedesco.

Questa è una storia di pazzi. Di 133.000, per essere precisi. È una storia lunga 110 anni. Ma niente paura, racconterò di un giorno soltanto, e di come io sia diventato uno di loro. Paolo suona. È di sotto con la bici e una sciarpa biancazzurra. Giovedì sera, fine maggio, l’ultima di campionato, o la va o la spacca. Se vinciamo, siamo primi. Sarebbe il coronamento dell’ascesa in serie A. Incredibile. Dopo crisi, retrocessioni, revoca della licenza e fallimenti. Dopo essere finiti per 4 anni tra i dilettanti ed essere quasi scomparsi dalla mappa del calcio italiano. Andiamo in bici per il centro, passando in mezzo a gruppi di persone con sciarpe, magliette e parrucche biancazzurre. Già da un anno in tutta Ferrara si respira un’aria di festa. Avevamo appena festeggiato la promozione in , con il budget più basso di tutti i club. Quest’anno eravamo di nuovo la Cenerentola del campionato, i bookmaker e gli esperti TV ci davano per spacciati. E in effetti nelle prime sei giornate avevamo totalizzato solo cinque punti, fanalino di coda, e poi… Poi qualcosa è cambiato, qualcosa di inspiegabile. Tutta la zona intorno allo stadio è transennata, dobbiamo cercare un modo di arrivare attraverso strade secondarie e un palo libero a cui legare le nostre bici. Poi ci mettiamo in fila dietro la Curva Ovest per un controllo di sicurezza. In Italia andare allo stadio è come sottoporsi ad una tortura, anche nelle città di provincia. Tessera del tifoso, biglietti nominali, perquisizioni, controllo documenti. Alle partite in trasferta va anche la DIGOS, ti fermano già in autostrada, ti caricano sulle navette, ti scarrozzano come un carcerato per strade transennate. I tifosi non dovrebbero entrare in stadi fatiscenti, ma piuttosto abbonarsi alla pay tv e rimanere a casa in poltrona. La Curva Ovest è già piena a un'ora dal fischio di inizio. Noi dobbiamo stare nel nostro solito posto accanto agli ultras, cambiare porta sfortuna. Troviamo un buco vuoto e con i nostri vestiti occupiamo i posti a sedere per Davide, Massimo, Stefano, Antonia ed Emma, tre vecchi amici in compagnia delle loro figlie. Si canta "Spal, alé, non tifo per gli squadroni, tifo te”. Finalmente le squadre entrano in campo: "Ce ne andiamo in serie A”, ci ritroviamo a cantare coperti da un enorme telo biancazzurro. Le ultime due stagioni sono state così combattute che, quasi ad ogni partita, sono stati composti nuovi cori. Da noi atmosfera da brivido. I tifosi avversari si sentono a malapena. È vero che giochiamo contro il Bari, una grande città con un fantastico stadio e un enorme seguito, che ha iniziato la stagione con un budget alto e grandi aspettative. Ma ormai di quelle ambizioni non è rimasto più nulla, e dei tifosi solo un sparuto gruppetto. La partita inizia, e non bene per noi. Leonardo Semplici, il nostro allenatore, schiera le riserve, in segno di fiducia e gratitudine, per accrescere l’armonia e lo spirito di squadra. Inoltre i titolari sono esausti. Luca Mora, barbuto studente di filosofia, mancino, instancabile combattente, siede in panchina, ed è lo stesso per il suo partner a centrocampo: Pasquale Schiattarella, dal caldo sangue napoletano, dalla profonda fede religiosa, che confeziona assist e imprime ritmo al gioco.

Il Bari ha qualcosa da riscattare e fa scintille. Ci pressa, corre, ci chiude. Un passaggio di fino e noi subito gridiamo: "Meret!”. In questa stagione Alex Meret, il nostro giovane portiere, ha sempre superato se stesso e come ricompensa è stato convocato dapprima nell'Under 21 e poi addirittura nella Nazionale maggiore. Si tuffa verso la palla. Invano. Un pallonetto preciso. 1 - 0 per il Bari.

Ne abbiamo abbastanza. C'è un'atmosfera bizzarra. "Come cazzo si fa a tifare la Spal?” ironizziamo. I nostri ragazzi sono ancora ubriachi dai festeggiamenti per la promozione? Sazi? Tutti noi siamo sfiniti. Il campionato è diventato un micidiale, lungo crescendo con un'insopportabile tensione sul finire. Eravamo tranquillamente al comando, sembravamo già promossi. E poi abbiamo regalato una partita dopo l’altra. Ma non vogliamo andarcene in questo modo. "Forza SPAL, forza SPAL" gridiamo. "Vinci per noi!". Vogliamo vedere di nuovo di che pasta è fatta la nostra squadra. Sin dal Rinascimento i ferraresi vivono rinchiusi da un’imponente cinta muraria, un baluardo contro invasori, zanzare, inondazioni e ventate di aria fresca. Si dice che siano avari di denaro e sentimenti. Non è così allo stadio.

In realtà ho sempre odiato il calcio. Nel paese della Bassa Franconia nel quale sono cresciuto, per un ragazzo c'erano solo due possibilità per guadagnarsi il rispetto: servire messa o giocare a calcio. Io vagavo senza speranza tra l'area di rigore e quella dell'altare, e quando mi allontanai sia dal campo che dalla chiesa cattolica fu una liberazione per tutti. Ma nel 1997 -lavoravo in una scuola di lingue a Ferrara- un amico mi portò con sé in Curva Ovest. Allora la SPAL lottava per la promozione in serie C1, con modesti mezzi tecnici, ma con cuore, passione e un grande allenatore: Gianni De Biasi, che recentemente ha portato anche l’Albania agli Europei. Mi lasciai andare alla magia della curva. Più tardi arrivò Massimiliano Allegri, oggi allenatore della Juve, arrivarono vecchie glorie dalle serie maggiori, arrivarono soprattutto sempre nuovi presidenti, proprietari, consigli d’amministrazione di società sportive. Le promesse divennero sempre più azzardate, le garanzie delle banche più sospette, i campioni più vecchi, le sconfitte più imbarazzanti. Presto si misero in coda al botteghino più ufficiali giudiziari che spettatori. Si vociferava di partite truccate, molte volte i giocatori correvano per schivare le palle di neve lanciate dalla curva. Nel 2008 andai in trasferta a Portogruaro, un po’ oltre Venezia. Ci giocavamo di nuovo la promozione in C1, anche un pareggio ci sarebbe bastato. Ma verso la fine, stavamo vincendo 2-1, i nostri giocatori caddero a terra uno dopo l’altro. Crampi, stiramenti, stanchezza, finzione? Agli avversari non importava, li superavano andando a spasso con la palla e segnarono altri due gol. Uno spettacolo indegno. Se una donna ti tradisce la mandi a quel paese. Ma cosa si fa con la squadra del cuore? "Ora vado a schiantarmi contro un pilastro di cemento”, disse l’amico con cui tornavo, seduto sulla sella posteriore della sua moto. Non lo fece. A quel punto ne ebbi abbastanza, e presi ufficialmente le distanze. Nel frattempo avevo avuto due figli, da fare non mi mancava. Cercai di metter giudizio. Però in segreto soffrivo ancora per la squadra. Quando tornavo in auto dalla Germania, per prima cosa chiedevo al casello di Ferrara nord: "Allora, cosa ha fatto la Spal, domenica scorsa?”.

Ora la nostra squadra si è rianimata grazie al gol subito, e forse anche grazie alla nostra rabbia e al nostro incitamento. Gianmarco Zigoni, giocatore in prestito dal Milan, viene chiamato in area di rigore. Elude la difesa, corre quasi fino alla linea di fondo e crossa di esterno. La palla si allunga sempre di più, vola sopra il portiere e si infila nell’angolo. 1 - 1. Incredibile. Abbiamo dimostrato nuovamente la resistenza e l'incredibile volontà che, di partita in partita, ci hanno permesso di ribaltare le sorti del gioco. E la magia. Che fa di un pallonetto malriuscito il gol del mese, e scrive un nuovo folle capitolo di questa favola. Perchè anche il padre di Zigoni, Gianfranco, segnò 49 anni fa qui allo stadio Paolo Mazza una rete storica. Tuttavia per la Juventus, il suo 1-0 significò la retrocessione per la SPAL. Da allora abbiamo aspettato di tornare in serie A, e suo figlio ci catapulta di nuovo in paradiso.

La nostra favola comincia il 12 luglio 2013. Dopo la terza bancarotta in sei anni. I tifosi sono in strada, lo stadio cade a pezzi, la Spal, un tempo una gloriosa squadra di calcio, è un cumulo di macerie. Tutta l'Italia è pesantemente scossa dalla crisi economica, ma gli effetti su Ferrara sono particolarmente gravi: lo smantellamento dello stabilimento chimico e la bancarotta della locale cassa di risparmio, delle cooperative edili e allo stesso tempo dei più importanti imprenditori e sponsor. Il comune, prospera roccaforte agraria e "New York d’Europa” dell’epoca rinascimentale, ha una mole di debiti di oltre 140 milioni di euro. Un pesante terremoto nel maggio 2012 a quanto pare ha fatto il resto. Il calcio è per questo l’ultimo dei problemi. La storia non si ripete, dicono. E invece si ripete con delle varianti. La SPAL venne fondata nel 1907 dai Salesiani, sacerdoti cattolici, ma la sua età d’oro cominciò nel 1951, quando una piena del Po causò problemi nella zona. All’epoca Paolo Mazza, il "mago di campagna”, un commerciante di articoli elettrici, condusse la società in serie A. Con una volontà ferrea e un budget limitato, creò la provinciale d'oro. Mazza era proprietario, presidente, allenatore, scout, manager tutto in uno. Nel 1962 è stato per breve periodo anche allenatore della Nazionale italiana. Un one-man-show dalla furbizia contadina. Per quarant’anni. Calciatori del calibro di Fabio Capello, Edy Reja e Luigi Delneri provenivano dalla sua fucina di talenti. Ora con la famiglia Colombarini è tornato lo stesso spirito. I Colombarini hanno portato la Giacomense, una squadra di paese, dal campionato di livello più basso al calcio professionistico e nel 2013 hanno preso le redini della SPAL. Francesco, oggi 76 anni, che commerciava dapprincipio cialde, cercò tutte le possibili fonti di guadagno e inventò negli anni Sessanta i pannelli in vetroresina per i camion frigoriferi, che produceva nel sottotetto di casa. Una piccola manifattura divenne una fabbrica con filiali in Brasile e negli Stati Uniti. Una crescita a passi lenti e tenaci. Anche nel calcio. I dirigenti sono pochi, fedelissimi, l’atmosfera è familiare. Il centro sportivo del vivaio e lo stadio vengono gradualmente ristrutturati, viene ricucito il rapporto logoro con la cittadinanza. La famiglia Colombarini lavora secondo saldi principi: amministrazione solida, calcolo dei costi al centesimo, affidabilità, fiducia e completa dedizione. I limiti del budget del nostro direttore sportivo Davide Vagnati, ex giocatore della Giacomense, sono sì stretti, ma all’interno di questi limiti lui ha margine di manovra. Vagnati batte i campi sportivi di tutto il Paese alla ricerca di talenti misconosciuti, tra quelli che stanno in panchina e quelli che abbandonano gli studi o la carriera. Le uniche caratteristiche che hanno in comune è che sono italiani, con la rabbia dentro, voglia di imparare e spirito di squadra. Prima arriva l’ingaggio e poi le istruzioni per l’uso. Niente capricci, niente compensi alti, nessuna impasse con gli agenti. L’allenatore Semplici vuole assolutamente vincere l’ultima partita e fa entrare in campo Mirco Antenucci, il re degli attaccanti e anche Francesco Vicari, un giovane talento, che stava appassendo in panchina nel Novara, e che da noi è diventato un gigante della difesa. La squadra mostra ancora grinta e superiorità. E gioca verso la "nostra” porta, sotto la Curva Ovest. Antenucci tira dalla distanza, il portiere para, mentre Zigoni viene messo a terra. Rigore netto. L’arbitro non fischia. Com’è spesso accaduto negli ultimi tempi. Gli errori d’arbitraggio contro di noi hanno fomentato paranoie e teorie del complotto. Siamo solo una povera squadra di provincia, non ci vogliono in Serie A. E ciò nonostante abbiamo centrato l’obiettivo promozione. E adesso centriamo anche il gol del vantaggio, perché da terra Zigoni aggancia un rimpallo: 2-1. Il Bari appare impotente, confuso. E a noi non sembra ancora vero. Laggiù, nel prossimo campionato, correranno Higuain e Dybala, Insigne e Dzeko. E ci ricorderemo di nuovo che passione deriva da patire. A meno che il nostro allenatore non riesca a compiere un altro miracolo… Con Semplici, classe 67, il nostro direttore sportivo ha avuto uno dei suoi colpi di fortuna. Nel campionato per dilettanti aveva portato parecchie squadre alla promozione, ma dopo due esoneri era sparito dalla circolazione. Così sembrava. In realtà si occupava con successo delle giovanili della Fiorentina e imparava a schierare formazioni variabili ogni volta rinnovate da un punto di vista tattico. Non è il grande palcoscenico ma Vagnati sbircia anche dietro le quinte. Nel dicembre 2014 Semplici eredita una squadra zoppicante – e perde 0-2 in casa. Gli spettatori inveiscono contro i giocatori che non sono attaccati alla maglia, che non hanno spina dorsale. Semplici va con la squadra in Curva e spiega ai tifosi che hanno torto. Dice che i calciatori hanno valori e potenziale, ma per metterli in campo hanno bisogno di sostegno incondizionato. I tifosi gli danno retta, arrivano le prime vittorie, che attirano allo stadio una nuova generazione. I miei amici ed io compriamo l’abbonamento e portiamo con noi anche i nostri figli. Le voci dei vecchi criticoni, che venivano soltanto per sottolineare che prima tutto andava meglio, ammutoliscono o vengono sovrastate dalle altre. Presto si registra a ogni partita il tutto esaurito. Per le partite in casa i tifosi fanno la fila per notti intere alle casse. Con il sacco a pelo, la tenda e il thermos. Come se dovesse arrivare il Real Madrid. Arrivano i giocatori della SPAL. La maggior parte in bicicletta.

Ecco il fischio dell’arbitro, e la Spal ha stabilito diversi record: è una delle poche squadre ad aver vinto uno di seguito all’altro il campionato di e B, mai prima d’ora un presidente aveva portato una squadra dal campionato dei dilettanti alla serie A. Spal sta per "Società Polisportiva Ars et Labor”. Arte e Lavoro. Duro lavoro. "A sen di grez e di aldamar” cantiamo in dialetto: "Siamo dei grezzi e dei letamai”. Viene montato un palco, iniziano i festeggiamenti. Improvvisamente mi sale la malinconia. La partita, questa stagione incredibile, i viaggi per le trasferte, l’atmosfera carnevalesca – tutto passato. "E così non possiamo proprio giocarceli i playoff?” domando io. Tutti ridono. Ma sanno quello che voglio dire. Ci siamo fatti migliaia di chilometri insieme, dentro autobus puzzolenti, con addosso maglie che per scaramanzia non potevano essere lavate. Abbiamo sopportato angherie, umiliazioni, drammi. Siamo una grande famiglia. Alla quale appartengono anche i giocatori, che saltano giù dal palco, ci corrono incontro, si tuffano di pancia davanti a noi. Torno a casa e quando vado a letto, dico a mia moglie: "Facciamo un bambino!” "Che bambino?” "Un bambino per la serie A” "Tu sei fuori” La mattina seguente, mio figlio scende pensieroso a fare colazione. "Vuoi sapere una cosa?” inizia. "La prossima stagione tiferò per due squadre.” "Ah sì?” rispondo scettico. Infatti è già tifoso dell’Inter, e del Bayern che sopporto a fatica. "Sì, l’Inter perché ci sono affezionato e la Spal perché devo avere almeno una squadra forte!” I bambini sono davvero la cosa più bella del mondo.

Martino Gozzi

L'autore

Martino Gozzi è nato a Ferrara nel 1981. Nel 2002 vince la borsa di studio del Mondrian Kilroy Fund e nel 2004 pubblica il suo primo romanzo, Una volta Mia (peQuod). Ha tradotto, per varie case editrici, diversi autori inglesi e statunitensi. Attualmente lavora alla Scuola Holden – Storytelling & Performing Arts di Torino. Incontri ravvicinati in sala parto

Be’, la storia ormai la conosci.

Io non ci volevo andare, in sala parto. Non mi sembrava una buona idea. E non perché sono insensibile, anzi. Semmai, sono troppo impressionabile. Non capivo come avrei potuto rendermi utile là dentro, travestito da chirurgo. E non volevo in alcun modo essere d’intralcio a nessuno, ecco. La lista degli amici rampognati dalle ostetriche era troppo lunga.

Il primo era stato Stefano, naturalmente. Un quintale di stazza, due metri d’altezza, tre tatuaggi sulla schiena — eppure era finito gambe all’aria dietro al lettino prima ancora che le contrazioni entrassero nel vivo. Gli era bastato sentire la parola ossitocina.

L’ultimo, in ordine di tempo, era stato Carlo. Forse l’episodio più inquietante, a pensarci bene. Sì, perché in passato Carlo aveva dimostrato saldezza, perfino un certo ardire, presenziando, tifando e documentando su video i primi due parti della moglie. Un vero duro. Al terzo deve aver preso la cosa sotto gamba. Non ha pensato alle profonde implicazioni del cambio di location — il parto in acqua. Quando ha visto la vasca tingersi di rosso si è appoggiato alla parete, ma ormai era fatta. Per evitare di ritrovarselo tra i piedi, l’ostetrica l’ha dovuto inchiodare al muro con un braccio.

Mi capisci, adesso? Io, per anni, mi ero costruito un’altra immagine in testa. Un’immagine romantica, forse, presa in prestito da qualche film o dai racconti di mio padre. Mi vedevo camminare avanti e indietro per un corridoio illuminato dai neon, stoicamente raccolto nei miei pensieri, straordinariamente padrone di me stesso nonostante l’attesa snervante. Indossavo un maglione a collo alto e bevevo caffè nero da un termos. Alla fine, un’infermiera mi guidava alla nursery per vedere una distesa di bambini tutti uguali, perfetti e addormentati, attraverso un vetro. In sottofondo c’era una canzone di Frank Sinatra.

Un amico, consapevole dei miei limiti, mi aveva perfino regalato un termos per l’occasione. Un termos di seconda mano, acquistato durante un viaggio negli USA. Molto vintage, di quelli con il tappo che si svita e diventa una tazza. Probabilmente qualche padre di famiglia se l’era portato in campeggio sul Lago Michigan trent’anni prima. Faceva esattamente al caso mio.

Peccato che poi mi sono scolato tutto il caffè appena arrivato in reparto, durante il tracciato. A quel punto ho perso ogni certezza. Ho vacillato. Panico. Poi ho avuto un’illuminazione — se fossi entrato, non avrei assistito a un incidente stradale. No, avrei partecipato a una cosa bella, naturale, che si ripete ogni giorno da millenni.

E così ho fatto, alla fine. Mi sono buttato.

Aveva ragione tua mamma, sai? Sono stato utile. Le ho dato da bere, le ho asciugato la fronte. Le ho stretto la mano. Ho aggiornato i futuri nonni che aspettavano in sala d’attesa. Ma soprattutto ho visto con i miei occhi la sua forza soprannaturale, il suo coraggio da tigre. Qualcosa di miracoloso, giuro.

E poi ti ho stretta tra le braccia. È stato in quel momento, quando ormai pensavo di aver superato tutti i momenti critici, che ho cominciato a singhiozzare come un poppante. Ti avevo appena incontrata e non sapevo nulla di te, eppure ero già perdutamente innamorato. Non assomigliavi affatto alla bambina che mi ero immaginato nei nove mesi prima. Non avevi la pelle chiara o i capelli biondi di tua madre. Eri una lupetta, mora e scura di carnagione. Piangevi, ma non sapevo perché. Non eri più il frutto della mia immaginazione — eri una creatura nuova, autonoma e ancora tutta da conoscere.

Ricordo che sulla tua schiena c’era ancora una peluria finissima, nera. E lì ho pensato: non ho mai amato nessuna donna con la schiena così pelosa.

Va bene, piccola. Questa è la storia. Dormi adesso. Se vuoi, domani te la racconto un’altra volta.

Racconto inedito Kreißsaal

Nun, die Geschichte kennst du inzwischen.

Ich wollte da nicht hin/hinein, in den Kreißsaal. Schien mir keine gute Idee. Nicht weil ich unsensibel bin, im Gegenteil. Eher zu sehr zu beeindrucken. Ich habe auch nicht verstanden, wie ich dort hätte von Nutzen sein können, verkleidet als Chirurg. Und ich wollte auf keinen Fall im Weg sein/stören, so bin ich eben. Die Liste der Freunde, die von Hebammen gescholten wurden, war wirklich lange.

Der Erste war Stefano, natürlich. Ein 2 Zentner Schrank, 2 Meter groß, 3 Tattoos auf dem Rücken- und dennoch landete er auf dem Boden hinter der Liege mit den Füßen/Beinen in der Luft bevor die Wehen überhaupt einsetzten. Es reichte, das Wort: Oxytocin zu hören.

Der Letzte, in chronologischer Reihenfolge, war Carlo. Die berunruhigendste Episode, wenn wir darüber nachdenken. Ja, denn in der Vergangenheit hatte er Zuverlässigkeit bewiesen., sogar eine Art Mut, ein Begeisterter, der die ersten beiden Entbindungen seiner Frau auf Video zeigen konnte. Er hatte leider nicht an die bedeutsamen Folgen eines Locationwechsels gedacht- die Wassergeburt. Als er die Wanne sich rötlich einfärben sah, musste er sich an der Wand abstützen, aber er war bedient. Um zu verhindern, dass er ihr vor den Füße landete, musste sie (die Hebamme) ihn mit einem Arm an der Wand festnageln.

Du verstehst mich jetzt, oder? Ich hatte mir seit Jahren ein anderes Bild im Kopf zurechtgebastelt. Ein romantisches Bild, aus einem Film oder aus Erzählungen meines Vaters entlehnt. Ich sah mich hin- und herlaufen in einem neonbeleuchteten Flur, in meine Gedanken vertieft, Herr der Lage trotz der nervenden Wartezeit. Ich trug einen Pulli mit hohem Kragen und trank schwarzen Kaffee aus einer Thermoskanne. Zum Schluss führte mich eine Krankenschwester zum Kinderzimmer, um eine Reihe von gleichen Babies anzusehen, perfekt, schlafend, jenseits einer Glasscheibe. Im Hintergrund ein Lied von Frank Sinatra. Ein Freund, meiner Grenzen bewußt, hatte mir sogar eine Thermoskanne für die Gelegenheit geschenkt. Eine second hand Thermoskanne, die während eines Aufenthaltes in der USA gekauft wurde. Sehr alt/Vintage, von der Sorte, wo der Deckel als Tasse dient. Möglicherweise hat ein Familienvater sie einmal auf einem Campingplatz am Lake Michigan mitgenommen vor 30 Jahren. (Tat es) wie ich in meinem Fall jetzt. Schade war nur, dass ich den ganzen Kaffee bei der Ankunft in der Station verschüttete. An diesem Punkt verlor ich jegliche Sicherheit. Ich wartete. Panik.

Dann hatte ich eine Offenbarung. Ging ich hinein, hätte ich nicht bei einem Autounfall geholfen. Nein, ich hätte an etwas Schönem teilgenommen, einer natürlichen Angelegenheit, die sich jeden Tag millionenfach wiederholt. Und das tat ich. Am Ende. Hab mich hineingestürzt.

Deine Mutter hatte Recht, weißt du. Ich war von Nutzen. Ich gab ihr zu trinken, trocknete ihr die Stirn, hielt ihr die Hand. Hielt die zukünftigen Großeltern auf dem neuesten Stand, die im Wartezimmer saßen. Aber vor allem sah ich mit meinen eigenen Augen ihre übernatürliche Kraft, ihren Mut eines Tigers. Etwas Wunderbares, ich schwöre.

Und dann nahm ich dich in die Arme. Und es war in diesem Augenblick, als ich dachte alle kritischen Momente überwunden zu haben, als ich begann wie ein Jammerlappen zu heulen. Ich hatte dich gerade kennengelernt, ich wusste nichts von dir, und doch war ich hoffnungslos verliebt.

Du ähnelste nicht dem Kind, das ich mir in den letzten 9 Monaten vorgestellt hatte. Du hattest nicht diese helle Haut und die blonden Haare deiner Mutter. Du warst ein kleines Wölfchen, dunkelhaarig und mit dunklem Teint/dunkler Gesichtsfarbe. Du hast geschriehen, ich wusste nicht warum. Du warst nicht das Ergebnis meiner Vorstellung- eher ein neues Wesen, selbstständig und neu kennen zu lernen. Ich erinnere mich, dass auf deinem Rücken noch feine dunkle Härchen waren. Und da dachte ich, ich habe noch nie eine Frau mit einem derartig behaarten Rücken geliebt.

Gut so, meine Kleine. Das ist die Geschichte. Schlaf jetzt. Wenn du möchtest, erzähle ich sie dir morgen noch einmal….

Unveröffentlichte Erzählung

Matthias Göritz

Matthias Göritz, 1969 bei Hamburg geboren, ist ein deutscher Dichter, Dramatiker, Übersetzer und Romancier. Nach dem Studium der Philosophie und Literaturwissenschaften lebte er in Moskau, Paris, Chicago und New York. Sein erster Gedichtband, „Loops“, erschien 2001 beim Berlin Verlag. Es folgten die Gedichtbände „Pools“ (2006) und „Tools“ (2011), in dem die hier übersetzten Gedichte Café Karma und Erzähl mir nichts enthalten sind. 2005 erschien Göritz’ erster Roman „Der kurze Traum des Jakob Voss“, für den er im selben Jahr den Mara-Cassens-Preis der Hansestadt Hambuurg erhielt. Sein zweiter Roman „Träumer und Sünder“ erschien 2013 bei C.H. Beck in München. Göritz lebt heute in St. Louis, wo er an der Washington University kreatives Schreiben unterrichtet. Seine Werke sind in mehrere Sprachen übersetzt.

Matthias Gõritz, poeta, drammaturgo, traduttore e romanziere nasce nel 1969 ad Amburgo. Dopo la laurea in Filosofia e Scienze letterarie vive a più riprese all’estero, a Mosca, Parigi e Chicago. La sua prima raccolta di poesie, Loops, esce nel 2001, per i tipi di Berlin Verlag, seguita da Pools (2006) e Tools (2011), da cui sono tratte le poesie Café Karma e Erzähl mir nichts, qui tradotte. Per il suo debutto come narratore, con il romanzo Der kurze Traum des Jakob Voss (Il breve sogno di Jakob Voss) ottiene nel 2005 il premio Mara Cassens. Nel 2013 esce per l’editore C.H. Beck di Monaco il suo romanzo Sognatori e peccatori. Attualmente tiene corsi di scrittura creativa presso la Washington University di St. Louis. Le sue opere sono tradotte in più lingue. Café Karma

Dies war ein Tag, der aus Staub bestand,

unser Leben in einer Nussschale;

wirklich sind nur die Dinge

draußen, die Hand,

die das Kleingeld abräumt

noch vor den Tassen.

Tools, Gedichte. Herausgegeben von Anvar Cukoski, Berlin Verlag, Berlin2001

FOTO – Markus Gessner Café Karma

Questo è stato un giorno fatto di polvere.

La nostra vita in un guscio di noce

vere sono solo le cose fuori. La mano

che gli spiccioli sparecchia

prima ancora delle tazze.

Nota

Un verso di questa poesia di Matthias Göritz ci è particolarmente piaciuto: Unser Leben in einer Nussschale, la nostra vita in un guscio di noce. Una metafora, che abbiamo deciso di tradurre letteralmente, per lasciare intatta l’immagine nel passaggio da una lingua all’altra. L’immagine di raccolta di una cosa piccola.

Ein Vers dieses Gedichtes von Matthias Göritz hat uns sehr gefallen: Unser Leben in einer Nussschale, la nostra vita in un guscio di noce. Eine Metapher, die wir wörtlich übersetzt haben. Damit das Bild, beim Übergehen von einer Sprache in eine andere, unverändert bleibt. Das Bild, das eine kleine Sache beschreibt. Erzähl mir nichts (An der ul. Spacerowa)

Junge, sagt mir ein Mann mit ausgeschlagenen Zähnen an der Bushaltestelle: das Leben mag den Tod nicht, währenddessen umarmt mich das Rauschen des Winds in den Birken.

Wir sind alle Versuchsmenschen. Vielleicht brauche ich dich. Vielleicht nicht.

Vielleicht bin ich vielstimmig. Antworte mit dem Herzen, obwohl es verboten ist.

Jedenfalls lag der Mann am nächsten Tag unter der Decke. Ein anderer hielt seine Hand.

Zwei Polizisten schrieben die Todeszeit in ein kleines Buch. Es roch nach Sommer, Urin und Alkohol.

Die Birkenrinden so schmutzig wie vergessenes Papier.

Tränen hinterlassen keine Spur. Ähnlich ist es mit dir.

Tools, Gedichte. Herausgegeben von Anvar Cukoski, Berlin Verlag, Berlin2001 Non raccontarmi (Sulla via Spacerowa)

Ragazzo, mi disse un uomo dai denti rotti alla fermata dell’autobus: alla vita non piace la morte nel frattempo il fruscio del vento mi avvolge tra le betulle.

Siamo tutti cavie, forse ho bisogno di te, forse no.

Forse io sono più voci. Rispondi col cuore, sebbene non sia concesso.

Ad ogni modo il giorno dopo l’uomo stava sotto un telo. E un altro gli teneva la mano.

Due poliziotti appuntavano l’ora del decesso in un taccuino. Odore d’estate, urina e alcol.

Le cortecce delle betulle, così sporche, come carta dimenticata;

le lacrime non lasciano traccia è lo stesso con te. Dame ohne Hermelin

Du warst so schön wie ein Bild, das grade im Schloss hing, die Dame mit Hermelin von Da Vinci, nur du warst di ohne. Ohne konnte man einfach mehr sehn.

Dichter sind Verwandler. Sie verwandeln di Zeichen im Mund zu Erdbeeren, Papageien, Teigtaschen, Fell. Fast alles geht - weg wie warme Semmeln, wie maine Großmutter einwerfen dürfte. Wer Ahnung von Backwerk hat weiß, das bei Marzipan Bittermandelöl notwendig ist. Süße braucht einen Gegenpol.

Die Dame den Hermelin. Dama senza ermellino

Tu eri bella come un quadro, che allora era appeso nel castello, la Dama con l'ermellino di Da Vinci, solo, tu eri quella senza. Senza si poteva vedere di più.

I poeti sono trasformazione. Trasformano con la bocca i segni in fragole, pappagalli, ravioli, pelliccia. Quasi tutto va- via come il pane, come direbbe mia nonna. Chi s’intende di pasticceria sa, che l'olio di mandorle amare per il marzapane è necessario. La dolcezza ha bisogno di un opposto.

La Dama dell'ermellino. Mobile

Ohne dass du es merkst, werden die Hügel von einer Frauenstimme gepierct. Cecilia Bartoli singt übers Eis, und die Landschaft erzittert. Wären wir eine halbe Stunde später

gefahren, wir hätten den Stau vermieden. Aber du Wolltest weg. Die eigene Haut steht in Flammen.

Das Ende eines weiteren Tags löst sich auf. Nach dem Lied kommen die Nachrichten. Ich wäre gern in Korea

geblieben. Aber der Norden droht wieder mit Krieg. Dann ist der Stau hier doch besser. Bei so vielen Dingen kapituliere ich. Granatäpfelkerne gehören nicht dazu. Mobile (versione 1)

Senza che tu te ne accorga una voce di donna, come piercing attraversa i colli. Cecilia Bartoli canta sul ghiaccio, e il paesaggio trema. Se fossimo partiti mezz’ora

dopo, avremmo evitato la coda. Ma tu volevi andar via. La pelle in fiamme.

La fine di un altro giorno si scioglie. Dopo il canto tocca alle notizie. Io avrei voluto restare

in Corea. Ma il Nord minaccia di nuovo guerra. In fondo è meglio qui, in coda. A molte cose mi arrendo. I semi delle granate non sono tra quelle. Mobile (versione 2)

Senza che tu te ne accorga i colli sono bucati da una voce di donna. Cecilia Bartoli canta sul ghiaccio, e il paesaggio trema. Se fossimo partiti mezz’ora

dopo, avremmo evitato la coda. Ma tu volevi andar via. La pelle in fiamme.

La fine di un altro giorno si disperde. Dopo il canto arrivano le notizie. Io avrei voluto restare

in Corea. Ma il Nord minaccia di nuovo guerra. In fondo è meglio qui, in coda. A molte cose mi arrendo. I semi delle granate non sono tra quelle. Mobile (versione 3 - prima strofa)

Senza che tu te ne accorga le colline diventano la collana di una voce femminile. Cecilia Bartoli canta sul ghiaccio, e il paesaggio trema. Se fossimo partiti mezz’ora

Nota

Tools, la raccolta da cui sono tratte queste poesie, sono gli strumenti letterari, lirici, di cui il poeta si serve per ricostruire-costruire una realtà frammentaria, fatta di ore, giorni, e momenti perduti nel tempo. In cui la perdita dell’amore si sovrappone alle immagini di una realtà in apparenza “altra” e “distaccata”, che tuttavia sempre riflette una dimensione interiore.

Tools - der Gedichtband, der diese Gedichte enthält - sind literarische, lyrische Werkzeuge, mit denen der Dichter eine fragmentarische Realität, die aus Stunden, Tagen und in der Zeit verlorenen Augenblicken besteht, wiederaufbaut oder einfach baut. In der der Liebesverlust sich mit den Bildern einer scheinbar „anderen“ und „losgelösten“ Realität überschneidet, die dennoch immer eine innere Dimension widerspiegelt.

Monica Pavani

L'autrice

Monica Pavani ha pubblicato tre raccolte di poesia, Fugatincanti, Con la pelle accanto e Luce ritirata (Premio Senigallia). Come traduttrice collabora con varie case editrici fra cui Adelphi, Guanda, Il Saggiatore, Mobydick e Rizzoli. Le sue più recenti traduzioni sono: La sovrana lettrice di Alan Bennett (Adelphi) e Movimento dalla fine di Philippe Rahmy (Mobydick).

Die Autorin

Monica Pavani hat bislang drei Gedichtsammlungen veröffentlicht, Fugatincanti, Con la pelle accanto und Luce ritirata (ausgezeichnet mit dem Premio Senigallia). Als Übersetzerin aus dem Englischen ist sie für mehrere wichtige italienisch Verlage tätig, wie Adelphi, Guanda oder Rizzoli. Zu ihren jüngsten Übersetzungen gehört Alan Bennetts Roman Die souveräne Leserin.

Il più bel viaggio sei tu la tua schiena che brilla nell’ora scampata e scarnita lentamente nel dolore dell’attesa

cos’era davvero cos’era chi respirava in quell’aria staccata e piena nel vertiginoso movimento della sinfonia

corpo attento al corpo accanto nella febbre rimpianto acutamente come un destino promesso sulla pelle

tremiti segreti raccolti in un codice di strette

non parole ma la felicità di uscire insieme dagli spiragli

le note i gesti le lacrime le dolci pieghe delle danze

aperti e nudi amati come siamo dai silenzi

Un tratto silenzioso, a cura di Elio Talon e Andrea Trombini, 2016, Kammer Edizioni

Die schönste Reise bist du. Dein Rücken, der glänzt In der wundervollen Stunde Und man löst sich voneinander Im Schmerz des Wartens.

Was war es wirklich? Waren es Tränen? Wer atmete in dieser Luft, Abgestanden und drückend, In schwindelerregender Bewegung Einer Vollkommenheit der Gefühle?

Körper achtet auf Körper, Im Fieber, Hefitige Sehnsucht Wie ein versprochenes Schicksal Auf der Haut.

Geheimes Zittern, Vereint im stummen Verständnis Aus Nähe.

Keine Wörter, Sondern Erfüllung, Die Noten, die Gesten, die Tränen. Die weichen Bewegungen Der Tänze werden gemeinsam verlassen.

Friedlich und nackt, Geliebt wie wir sind In der Stille.

Scrivo parole per spingerle oltre, per farle stare nel cuore del bene ma c’è un tratto silenzioso in mezzo sulla pagina un’attesa – la voce parla, ritratta, sfuma è un correr dietro a quel malore che dissolve, abnega in modo del tutto simile alla gioia

gravoso far essere le cose vere

amore entra tu ti prego sconquassa queste carte disperdine l’ordine infermo mettici tu il tuo canto

Un tratto silenzioso, a cura di Elio Talon e Andrea Trombini, 2016, Kammer Edizioni

Ich schreibe Worte um vorzudringen, zu anderen, um sie im Herzen des Guten zu verankern aber dort, ein leiser Zug inmitten. auf blanker Seite ein Erwarten, die Stimme spricht, verblasst, verstummt ein Jagen nach dem Schmerz der sich auflöst, entsagt es der Freude gleichtuend wie schwierig die Dinge wahr erscheinen zu lassen Liebe erfülle endlich, ich bitte dich Mische diese Karten neu Zerstreu‘ die giftige Ordnung Bringe du dort deine Melodie hinein.

Norbert Zähringer

Der Autor

Norbert Zähringer wurde am 4. Mai 1977 in Stuttgart geboren und ist in Wiesbaden auf-gewachsen. Er lebt mit seiner Familie in Ber-lin. 2001 erschien sein erster Roman So. Danach folgten die Romane Als ich schlief (2006), Einer von vielen (2009) und Bis zum Ende der Welt (2012). Für einen Ausschnitt aus seinem nächsten Roman Wo wir waren, der 2019 erscheint, wurde er mit dem Ro-bert-Gernhardt-Preis vom Hessischen Minis-terium für Wissenschaft und Kunst und der Infrastrukturbank Hessen ausgezeichnet.

L’autore

Norbert Zähringer è nato il 4 maggio 1957 a Stoccarda ed è cresciuto a Wiesbaden. Vive con la sua famiglia a Berlino. Nel 2001 è uscito il suo primo romanzo: So. Ha pubblicato in seguito i romanzi Als ich schlief (2006), Einer von vielen (2009) e Bis zum Ende der Welt (2012). Per un estratto dal suo prossimo romanzo, che uscirà nel 2019, ha ottenuto il Premio Robert Gernhardt assegnato dal Ministero per la Scienza e l’Arte e dalla Infrastrukturbank dell’Assia. Bis zum Ende der Welt

INTRODUZIONE

Dopo la morte dell’amata nonna, Anna, una studentessa ucraina, non ha più nessuno al mondo tranne il padre, un uomo disgustoso che la tormenta insieme ai suoi compagni di bevute. Lei non riesce a difendersi e sogna di lasciare l’Ucraina. Così decide di rivolgersi ad una agenzia internazionale di incontri e viene messa in contatto con Laska, un pensionato di Berlino. L’uomo è vedovo e da molto tempo non ha più contatti con il figlio. Ha scelto la giovane ucraina, perché lei ha dichiarato di essere interessata alle stelle e lui è un astronomo dilettante. Anna si trasferisce con Laska in una villetta a schiera alla periferia di Berlino. Suo padre, però, la fa rintracciare e rapire dalla mafia ucraina, che la trascina a forza in un bordello, dal quale però riesce a scappare. Qualche tempo dopo, Anna viene a sapere che Laska ha soltanto sei mesi di vita. Lui le promette ventimila euro, se gli farà compagnia fino alla morte nella sua casa di vacanza in Portogallo. Anna accetta: ha bisogno di denaro, ma soprattutto deve scomparire, perché suo padre e i suoi compagni di bevute la stanno di nuovo cercando.

Nell’ottavo capitolo compare Yuri Fernao, che fa il poliziotto nel paese di Sagres, in Portogallo. Suo padre era stato il milionesimo immigrato in Germania, lui stesso è nato e cresciuto lì, finché i genitori non hanno deciso di tornare in Portogallo. Da allora si sente diviso tra due mondi. Una giovane ucraina che si interessa di astronomia e fugge dal proprio padre e dalla propria patria, un anziano astronomo dilettante di Berlino che sta per morire e un portoghese nato in Germania, che vive al margine occidentale dell’Europa: questi sono i protagonisti del romanzo. Tre individui in qualche modo perdenti, che, simili a corpi celesti che si dirigono verso una meta comune, finiscono per ritrovarsi, alla “Fine del mondo”. Nel brano qui presentato, tratto dal romanzo Bis zum Ende der Welt, Yuri Fernao racconta la storia della propria vita.

EINFÜHRUNG

Nachdem ihre geliebte Großmutter gestorben ist, hat Anna, eine ukrainische Studentin, keinen Men- schen mehr auf der Welt außer ihrem Vater, einem widerlichen Mann, der sie mit seinen Saufkumpa-nen drangsaliert. Sie vermag sich nicht zu wehren und träumt davon, die Ukraine zu verlassen. So wendet sie sich an eine internationale Partnerschaftsagentur und wird an Laska, einen Rentner aus Berlin, vermittelt. Er ist Witwer und zu seinem Sohn hat er schon lange keinen Kontakt mehr. Er hat die junge Ukrainerin ausgewählt, weil sie angegeben hatte, sie interessiere sich für Sterne, und er ist Amateurastronom. Mit Laska zieht Anna an Berlins Stadtrand in ein Reihenhaus. Doch ihr Vater lässt sie von der ukrainischen Mafia auffinden und entführen. Sie wird in ein Bordell verschleppt, aus dem sie aber entfliehen kann. Kurz darauf erfährt Anna, dass Laska nur noch ein halbes Jahr zu leben hat. Er verspricht ihr zwanzigtausend Euro, wenn sie ihm bis zum Tod in seinem portugiesischen Ferienhaus Gesellschaft leistet. Anna akzeptiert. Sie braucht Geld aber vor allem muss sie verschwinden, weil ihr Vater und seine Saukumpanen wieder nach ihr suchen. In Kapitel acht taucht Yuri Fernao, der in dem portugiesischen Ferienort Sagres einen Polizeiposten besetzt. Sein Vater war der millionste Gastarbeiter in Deutschland, er selbst ist in Deutschland geboren und aufgewachsen, bis die Familie beschlossen hat, wieder nach Portugal zurückzukommen. Seitdem empfindet er sich zwischen zwei Welten. Eine junge Ukrainerin, die sich für Astronomie interessiert, aus ihrer Heimat und vor ihrem Vater flieht, ein alternder Hobbyastronom aus Berlin, der bald sterben muss, und ein in Deutschland geborener Portugiese, der am westlichen Rand Europas lebt, sind die Hauptfiguren dieses Romans. Drei Menschen, die in ihrem Leben irgendwie scheiterten und dann wie planetarische Gestirne, die auf ein gemeinsames Ziel zusteuern, sich am „Ende der Welt“ zueinanderfinden. Im folgenden Auszug aus dem Roman Bis zum Ende der Welt erzählt Yuri Fernao die Geschichte seines Lebens.

Bis zum Ende der Welt Kapitel 8

Wie ein Geist schlich die Gestalt des Bruders meines Vaters, meines Paten und Onkels Marcelo, durch unser Leben in Deutschland. Es gab die Fotos, auf denen er bei meiner Taufe zu sehen war – darauf hält er mich, lacht sein gewinnendes Lächeln, mein gewinnendes Lächeln danke ich angeblich ihm. Vergebens hatte mein Vater vor meiner Taufe versucht, ihn dazu zu bewegen, zu uns nach Deutschland zu kommen. Marcelo hörte nicht auf ihn. Ich glaube, weniger aus Trotz denn aus Trägheit – er konnte sich wohl nicht entschließen, die vertraute Umgebung, die kleine verschlafene Stadt, in der er aufgewachsen war, zu verlassen. So verpasste er den richtigen Moment. Die Wehrpflicht wurde von achtzehn Monaten auf vier Jahre heraufgesetzt, und nun mochte er sich gewünscht haben, er hätte auf seinen Bruder gehört. Deutschland war nicht so weit entfernt wie Afrika. Aber inzwischen war es leichter, nach Afrika zu gelangen als nach Deutschland. Seine Einheit operierte im Osten Angolas, einer Gegend, die sie «Terras do Fim do Mundo» nannten, die Länder am Ende der Welt. Viele Jahre später fand ich unter den Dingen meines Vaters ein Notizbuch meines Onkelns. Vielleicht hatte Marcelo vorgehabt, eine Art Tagebuch zu führen, denn auf der ersten Seite gibt es unter einem Datum diesen Eintrag: Sind von Luanda Richtung Landesinnere aufgebrochen. Francisco hat den ganzen Tag gekotzt. Stimmung ist gut.» Er muss sein Vorhaben recht früh aufgegeben haben, denn dies blieb der einzige Eintrag. Zwischen den leeren Seiten fand ich Fotos. Sie waren nicht eingeklebt, sondern einfach nur hineingelegt worden, als hätte Marcelo im Sinn gehabt, sein Tagebuch nachträglich zu vervollständigen. Ich hatte mir die Kameraden meines Onkels immer als knallharte, scherbewaffnete Kerle mit kahlgeschorenen Schädeln und dunklen Sonnenbrillen vorgestellt, doch die Soldaten auf den Fotos waren ganz gewöhnliche junge Männer mit normal langen Haaren und einem normalen Gesichtsausdruck. Auf manchen Fotos lächelten Sie (vor allem mein Onkel), auf manchen rauchten sie oder stützen sich mit erschöpfter, aber nicht unglücklicher Miene auf die Läufe ihrer Gewehre. Es gab Bilder, auf denen sie vor einem Lkw auf dem Boden lagen und dösten oder etwas aßen, Bilder, auf denen sie im Schatten weit ausladender Bäume in einem Fluss badeten. Auf den meisten Fotos jedoch durchstreiften sie eine leere Savannenlandschaft, die bis an den Horizont zu reichen schien – hüfthohes Gras, in dem irgendwo das Ende von allem in Gestalt einer Tellermine auf meinen Onkel wartete. Auch wenn ich davon zunächst nichts mitbekam: Der Tod seines Bruders veränderte meinen Vater. Er hatte immer an die Zukunft und sein Glück geglaubt. Er war der «Millionen-Mann», es konnte nur aufwärtsgehen, dachte er, der Sonne entgegen. Deshalb hatte er mir, obwohl er kein Kommunist war, den zweiten Vornamen Yuri gegeben, nach Juri Gagarin, dem ersten Menschen im All. Der Tod meines Onkels, dieses ferne, völlig unverständliche Verschwinden eines lachenden Menschen aus der Welt (niemand aus der Familie hatte ihn noch einmal gesehen, niemand hatte ihm die Lider zugedrückt und ein leises Gebet gesprochen, niemand hatte an seinem Totenbett die letzte Wache bis zum Morgengrauen gehalten, weil es nichts mehr gegeben hatte, was man von ihm noch hätte ansehen können, nur Überreste), diese endgültige Abwesenheit führte meinem Vater zum ersten Mal vor Augen, dass die Dinge nicht immer gut ausgehen mussten. Dass es Ereignisse gab, die sich nicht rückgängig machen ließen, und Dämonen, die man nach loswerden konnte. Dass eine Geschichte nicht immer ein Happy End hatte. Dass am Ende des Weges vielleicht nichts auf einen wartete.

Seit zehn Jahren arbeitete er nun schon in der Fabrik, in der der Kleister hergestellt wurde, mit dem die Deutschen in ihren Eigenheimen ihre hässlichen Tapeten an die Wände klebte. Es war der 6. April 1974, als meine Eltern mit einer gewissen Ergriffenheit der Stimme Paulo de Carvalhos lauschten. Paulo de Carvalho sang beim Grand Prix de la Chanson für Portugal. Meine Mutter war davon überzeugt, dass er den Wettbewerb gewinnen würde. Er sang von der vergangenen Liebe: E depois do adeus – Und nach dem Abschied. Er wurde letzter, zusammen mit den deutschen Cindy und Bert. Drei Wochen nach diesem Desaster erklang in Portugal Carvalhos Lied ein weiteres Mal im Radio: Für eine Gruppe junger, durch den Krieg am Ende der Welt zornig gewordener Männer war es das vereinbarte Signal, sich gegen ihre Befehlshaber zu erheben. So begann die Befreiung Europas. Für meinen Onkel begann sie zu spät. Von da an dachten meine Eltern an Heimkehr. Möglich, dass meine Mutter davon zu reden anfing, vielleicht auch mein Vater. Die Nelkenrevolution hatte gesiegt, was wollte man mehr, vor allem, was wollte man noch in Deutschland? Nun durfte man daheim so oft und so laut und so viel auf die Demokratie trinken, wie man Lust dazu hatte. In Deutschland tranken nie welche mit meinem Vater, außer ab und an die Fernfahrer in der Spelunke neben dem Getränkemarkt, die ihn regelmäßig unter den Tisch soffen und dann auch noch dafür bezahlen ließen, während im Hintergrund Cindy und Bert trällerten: «Immer wieder sonntags / kommt die Erinnerung …»

Ich erinnere mich an den Wagen, einen ausgemusterten Personentransporter des Katastrophenschutzes, einen übergroßen Ford-Transit-Kleinbus, den der Spediteur für Kurierfahrten benutzt hatte. Ich erinnere mich, dass es zwei Tage dauerte, bis meine Eltern unseren gesamten Besitz darin verstaut hatten, auf so ausgeklügelte Weise, dass nicht das kleinste Eckchen Raum verschwendet wurde. Ich erinnere mich, dass für mich auf der zweiten Rückbank ein Platz frei gelassen worden war, der so klein war, dass ich kaum die Beine ausstrecken und gerade sitzen konnte. Ich war eingekeilt zwischen Schränken, Kisten, dem Kühlschrank, der Abflussschlauch der Waschmaschine baumelte vor meiner Nase. Alles war so zugebaut, dass ich mir wie in einer Höhle vorkam. Ich konnte nicht nach draußen sehen und sah auch niemanden von meiner Familie. Mein Vater und meine Mutter saßen mit einer meiner beiden Schwestern vorn, meine andere Schwester hatte ein ähnliches Kabuff wie ich zugeteilt bekommen, irgendwo im Bus. Ich konnte sie nicht sehen, sie konnte mich nicht sehen, wir konnten nicht nach draußen sehen. Ab und zu gaben wir Klopfzeichen. Tief im Inneren des Transits aber war, umgeben von einer Mauer aus Umzugskartons und geschützt durch die Federbettwäsche meiner Eltern, das immer noch chromblitzende Zündkapp Mockik verborgen. Abgesehen von dem Hausrat und den bescheidenen Ersparnissen, war es das einzige bedeutsame, das mein Vater aus der Fremde nach Hause mitbrachte.

Später, als wir wieder in dem Dorf wohnten, aus dem meine Eltern stammten und wo sie sich von den bescheidenen Ersparnissen ein bescheidenes Haus kauften, fuhr mein Vater an den Wochenenden mit dem Mokick durch die Straßen und erzählte jedem die abenteuerliche Geschichte, wie es in sein Besitz gekommen war, in immer neuen Variationen. Er merkte gar nichts, dass ihm immer weniger Leute zuhörten. Man hatte jetzt Autos, die mit Ratenkrediten abbezahlt wurden. Niemand war mit einem alten Mockik zu begeistern. Eine Zeitlang hatte er zudem die Angewohnheit, herablassend von seinen Landsleuten zu sprechen. «So eine Schlamperei wäre in Deutschland nicht passiert», sagte er etwa, oder: «In Deutschland würden sie dir Feuer unterm Hintern machen», oder: «In Deutschland, da wird nicht gejammert, sondern gearbeitet.» Eines Tages, als wir an der Tankstelle hielten, mein Vater auf seinem Mockik und ich hintendrauf, und der Tankwartgehilfe, ein pickeliger Zwanzigjähriger, dem eine schmutzige Mütze schief auf den fettigen Haaren klebte, den Benzinstutzen aus dem Tank zog und den Preis nannte, warf mein Vater einen Blick in den Tank und hielt dem Gehilfen einen Geldschien hin, und sobald er das Wechselgeld bekommen hatte, gab er eine kleine Münze als Trinkgeld und sagte: «Fürs nächste Mal: In Deutschland machen sie einem den Tank voll, wenn man sagt „Einmal volltanken, bitte“ – und nicht fast voll oder ein bisschen voll». Der pickelige Gehilfe glotzte ihn an und gab ihm die Münze wieder, drückte sie ihm regelrecht in die Hand. «Dann geh doch zurück, wenn’s dir hier nicht gefällt. Na los, fahrt doch nach Deutschland auf eurem ollen Moped, mal sehn, wie weit ihr mit dem Schrotthaufen kommt.» An jenem Abend wünschte ich mir, wieder in Deutschland zu sein. Man hatte mich dort gehänselt, hatte mich Knoblauchfresser genannt. War ich auf dem Schulhof in eine Prügelei verwickelt gewesen, galt immer ich als der Schuldige. Ich war kein richtiger Deutscher. Ich war das Gastarbeiterkind. Aber hier, an dem Ort, den meine Eltern Zuhause nannten, war ich gar nichts. Als ich in jener Nacht in meinem Bett lag und vor Scham nicht einschlafen konnte (während meine zwei Schwestern nebenan zufrieden schnarchten), da hatte ich vergessen, wie schlecht ich mich manchmal in Deutschland gefühlt hatte. Noch vor dem Morgengrauen stand ich auf. Ich hatte einen kleinen Stoffbeutel neben dem Bett hängen, in dem ich zweimal die Woche meine Turnkleidung verstaute. Jetzt stopfte ich die mir wichtigen Sachen hinein: das Taschenmesser, die Feldflasche, die nachtleuchtende Sternkarte. Verzweifelt schlich ich den Flur entlang, am Zimmer meiner Schwestern vorbei, an dem meiner nichts ahnenden Eltern. Dann verließ ich das Haus, ging durch die stillen Straßen zum Fluss und über die Brücke, wo der Ort zu Ende war, und weiter Richtung Osten, wo ich, viele Tagesreisen jenseits des Horizonts. Deutschland vermutete. Ich war noch keine zwei Stunden unterwegs und die Sonne gerade erst aufgegangen, als mein Vater mich einholte. Er hielt mit seinem Mockik vor mir und nickte mir zu – ich sollte aufsteigen. Ich schüttelte den Kopf. Er stieg ab, ging drei, vier Schritte auf mich zu und verpasste mir eine schallende Ohrfeige. Dann standen wir uns gegenüber und starrten uns an, jeder bemüht, seine Tränen zurückzuhalten. Schließlich nahm er mich in die Arme. Wir gingen zu Fuß. Ich fragte ihn, was mit dem Mockik sei, und er sagte, er werde es später holen. Wir liefen durch den Anbeginn des Tages, und es roch nach feuchter Erde und trocknendem Unterholz. Vögel zwitscherten, und in der Ferne bellte ein Hund. Es war das letzte Mal, Valentina, dass ich an der Hand meines Vaters ging. Meine Mutter ist immer dagegen gewesen, dass ich zur Polizei gehe. Als sie erfuhr, dass ich mich bei der Guarda Nacional Republicana beworben hatte, drehte sie den Fernseher leiser und erhob sich schnaufend aus ihrem Sessel. «Bist du völlig plemplem geworden, Fernao?» Sie war nicht unbedingt politisch, aber sie hielt die Guarda nicht für eine richtige Polizei. «Das sind Soldaten, verstehst du? Wenn du bei denen mitmachst, können die mit dir anstellen, was sie wollen! Hast du deinen Onkel Marcelo schon vergessen, hast du vergessen, wie du bei seiner Beerdigung geweint hast?» Das hatte ich in der Tat vergessen. Wahrscheinlich, weil ich gar nicht geweint hatte. «Soll ich eines Tages einen Brief von so einem General bekommen, der mir mitteilt, dass du fürs Vaterland irgendwo in der Welt auf eine Mine getreten bist?» «Aber wir haben doch keine Kolonien mehr» entgegnete ich naiv, «und es herrscht auch kein Krieg in Europa.» Das ist jetzt über zwanzig Jahre her. 1990 – die Deutschen wurden in Italien zum dritten Mal Fußballweltmeister. Italien gewann zwar nicht di WM, aber dafür den Gran Prix de la Chanson mit dem Lied Insieme:1992. Der Refrain ging so: «Insieme, unite, unite, Europe!» Damit würden die Italiener heute wohl nichts mehr gewinnen, aber damals war das anders. Der Eiserne Vorhang war gefallen, die letzten Diktatoren gestürzt. Warum sollten wir uns nicht alle vereinigen? Wir Portugiesen hatten uns gegenüber dem Grand-Prix-Desaster von 1954 verbessert – wir wurden diesmal Vorletzter. Der Wettbewerb fand wie immer beim Vorjahressieger statt, also in Jugoslawien. Jugoslawien, Valentina, ist ein Land, das es heute nicht mehr gibt. Ein paar Arbeitskollegen meines Vaters in der Kleisterfabrik waren Jugoslawen. Keine Ahnung, was sie jetzt sind. Jedenfalls gingen sich die Menschen, die in Jugoslawien lebten, im Jahr nach dem Grand Prix gegenseitig an die Kehle. «Siehst du!», rief meine Mutter von ihrem Sessel aus, «von wegen, kein Krieg mehr in Europa!» Ich hatte gerade meine Ausbildung beendet und stand in meiner neuen Uniform vor ihr. Aber das interessierte sie gar nicht. Wie eine Keule schwang sie ihre Fernbedienung und deutete auf den Bildschirm, auf dem die Panzer rollten. «Sie wollen Friedenstruppen senden! Hurra! Friedenstruppen! Was für Soldaten sollen das bitte sein – Friedenssoldaten? Gibt es so was? Schießen die mit Friedensmunition? Wahrscheinlich werden sie auch ein paar Friedensbomben werfen! Und ich wette mit dir, dass sich irgendein dummer portugiesischer Friedensgeneral findet, der da unbedingt mitmachen will! Sind ja nicht seine Söhne. Sind ja nur die von ein paar einfachen armen Leuten, wie wir es sind. O Jesus Maria!», rief sie und hob die Hände (mit der Fernbedienung) zum Himmel, wo über ihr, über dem herzkranken Alkoholiker ein Stockwerk höher, über der alleinerziehender Mutter mit den getönten Haaren und den wechselnden Freunden und den zwei klauenden Kindern, über dem schweigenden Nachtwächter aus Mosambik, über dem kettenrauchenden Veteranen im Rollstuhl, dem riesige Büschel gelbweißer Haare aus den Ohren wuchsen, über dem Studentenpärchen, das sich im Jahr darauf trennen sollte (woraufhin sie versuchte, sich mit Schlaftabletten umzubringen, aber nur Pillen zum Abführen erwischte, sodass der gesamte Abflussstrang in diesem Teil des Mietshauses eine Woche lang verstopft und also nicht zu benutzen war), über dem Dach, auf dem Satelliten-Spiegel vor sich hin rosteten, über dem aufsteigenden Dröhnen des Berufsverkehrs und dem Lärm zur Landung ansetzender Flugzeuge, über dem Smog von Odivelas, irgendwo, allen privaten Säkularisierungsversuchen meines Vater zum Trotz, immer noch der Allmächtige wohnte und wahrscheinlich gerade mit meiner Mutter einer Meinung war. Sie sah mich an. «Ist das die neue Uniform?» «Die Stiefel gehören auch dazu?» «Ja.» «Di siehst aus wie einer von der Shilo Ranch.» Sie zog eine Grimasse. «Wenn dich dein Vater so sehen könnte.»

In diesem Moment wichen Hohn und Bitterkeit aus ihrem Gesicht und machten der Trauer und der zärtlichen Erinnerung an meinen Vater Platz, der damals bereits seit über vier Jahren tot war, gestorben aus einer Krankheit, für die es keine Heilung gab, für deren Heilung meine Eltern allerdings ihre verbliebenen Ersparnisse ausgegeben und schließlich auch das Haus verkauft hatten. Vergeblich. Mein Vater hatte sich immer gewünscht, dass ich studiere, war fest davon überzeugt gewesen, dass seinem Sohn, dem er (gegen den Widerstand seiner Frau und des Allmächtigen) den Vornamen eines überzeugten Kommunisten und Helden der Sowjetunion gegeben hatte, et was Außergewöhnliches gelingen würde. «Du kannst Wissenschaft studieren und dann zum Beispiel mit so einem Space Shuttle ins All fliegen, wo du in der Schwerelosigkeit ein neues chemisches Element entdeckst, das später deinen Namen bekommt – Goveium! Oder du beobachtest einen unbekannten Stern – Alpha Gouveia! Ach», hatte er geseufzt, «Du hast so viele Möglichkeiten. Das macht mich manchmal richtig neidisch!» Noch auf seinem Sterbebett hatte er meine Mutter angewiesen, sie solle, was von den Ersparnissen noch übrig sei, für mein Studium ausgeben. Er wusste nicht oder hatte es vergessen: Es war kein Geld mehr da. Nach seinem Tod begann jene Zeit, in der wir wie Vagabunden lebten und meine älteren Schwestern Männer heirateten, die sie, hätten sie Geld gehabt, wohl nicht so schnell geheiratet hätten. Meine Mutter und ich wechselten häufig die Wohnungen, je nachdem, wo sie gerade Arbeit bekam – als Küchenhilfe uns später als Näherin. Damals waren die Löhne in Portugal niedrig, so niedrig wie nirgends sonst in Europa, und deswegen wurde in die Textilindustrie investiert, was so lange gutging, bis die Manager der Firmen entdecken, dass man in der Türkei oder in Pakistan oder in China noch billiger nähen lassen konnte. Ich erinnere mich an diese ersten Jahre nach dem Tod meines Vaters als eine Zeit ständiger Knappheit, erinnere mich an die Angst meiner Mutter, auch nur einen Escudo zu viel auszugeben, weil dann das Geld am Ende des Monats für das Überleben im nächsten nicht reichen würde. Das war einer der Gründe, warum ich mich zur Nationalgarde meldete. Der andere Grund lag tiefer. Ich wollte endlich Portugiese sein. Ein ganzer Portugiese, nicht nur ein halber, zugewanderter, Kind einer Familie, die es in Deutschland nicht geschafft hatte. Das sollte die Uniform für mich erledigen. Das war der geheime Handel, den ich mit der Guarda eingegangen war, ohne dass man dort davon gewusst hätte.

Nur einmal in meinem Leben bin ich ein Deutscher gewesen. Ein hundertprozentiger Deutsche – so deutsch, wie man es nur als Deutscher sein kann. Ironischerweise widerfuhr mir dieser kurze Moment echten Deutschtums auf unserer Heimfahrt nach Portugal, kurz nachdem wir Deutschland und der Kleisterfabrik für immer den Rücken gekehrt hatte. Weil mein Vater Geld sparen wollte, fuhren wir nicht auf der Autobahn, wo man uns für den übergroßen Katastrophen-Ford vermutlich Lkw-Gebühren abgenommen hätten. Auf der Landstraße zuckelten wir quer durch Frankreich. Ich bekam, wie gesagt, wenig davon mit. Irgendwann fing meine irgendwo neben mir vom Hausrat eingemauerte Schwester an zu jammern. Sie müsse auf die Toilette. Mein Vater fragte, ob sie es nicht wenigstens noch bis hinter Bordeaux aushalten könne. Konnte sie nicht! Wir hielten in einem kleinen Dorf vor einem etwas heruntergekommenen Café an einer Kurve. Auf dem Parkplatz daneben stand ein Lkw, und auf einem Schild wurden in mehreren Sprachen belegte Baguettes angepriesen. Wahrscheinlich glaubte man, so den einen oder anderen Fernfahrer, der die Nationalstraße nach Süden nahm, hineinlocken zu können. Ich schaute zu dem Lkw und hatte plötzlich die wilde Hoffnung, wir könnten hier einen der Fahrer aus der Spedition treffen. Aber der Lkw kam aus Frankreich. Ein schmaler Bach floss jenseits der Straße, und vor einem der niedrigen Häuser liefen hinter einem Drahtzaun Hühner herum, die zuckend zu uns herübersahen, als wir alle aus dem vollgepackten Fahrzeug stiegen. Meine Familie – meine zwei Schwestern, meine Mutter, mein Vater – bewegte sich auf den Eingang des Cafés zu, und da ich zurückblieb, drehte mein Vater sich zu mir um. «Must du nicht auch mal?» Ich schüttelte den Kopf. «Aber wehe, wenn dir in fünfzig Kilometern einfällt, dass du doch musst! », rief er, und schon waren sie alle vier in den dunklen Eingang des Lokals verschwunden. Ich gähnte und streckte mich, dann lief ich etwas hin und her. Schließlich setzte ich mich auf einen der verlassenen Stühle, die vor dem Café standen. Ich blickte die Straße hinunter, in die Richtung, in die wir gleich weiterfahren würden, und so bemerkte ich die Frau nicht sofort, die sich von der anderen Seite näherte. Erst als ich das kratzende, quietschende Geräusch hörte, wandte ich mich um. Sie zog einen stoffbezogenen einachsigen Handkarren hinter sich her, wie ihn ältere Menschen zum Einkaufen benutzen. Es war schwer zu sagen, wie alt sie war – fünfzig, sechzig, siebzig? Sie trug ein gelb gemustertes Kleid, eine Art Kittelschürze, und eine graue Strickjacke darüber. Sie war dick – ihre Haut faltig, rosig, schwabbelig, ihr Gesicht irgendwie konturlos. (Tatsächlich kann ich mich nicht an das Gesicht erinnern.) Schnaufend stand sie neben dem Ford und starrte ihn an. Auf der Hecktür war von dem ursprünglichen Schriftzug «Katastrophenschutz» bloß noch das Wort «Schutz» zu erkennen. Lange betrachtete sie es. Ich dachte mir nichts dabei, glaubte, sie wolle sich nur ausruhen. Bis sie herumschnellte und mir mit stechendem Blick in die Augen sah. Sie deutete auf das Autokennzeichnen. «Deutsch?», fragte sie mich. Was hätte ich sagen sollen? Ja? Nein? Jein? Ich war mal deutsch, aber jetzt bin ich nicht mehr? Eigentlich bin ich Portugiese, aber in Deutschland geboren? Meine Schulkameraden haben mich Knoblauchfresser genannt? Mein Portugiesisch hört sich an, wie wenn ein Deutscher mit vollem Mund Holländisch spricht? Das schien mir alles zu kompliziert, und so nickte ich einfach nur. Ihr Blick wanderte zum Nummernschild und dann zurück zu mir. Ihre Augen und auch ihr Mund wirkten plötzlich so Hasserfüllt, dass ich Angst bekam. Ich fürchtete, sie würde gleich auf mich losgehen. Aber das tat sie nicht. Sie krempelte nur den linken Ärmel ihrer Jacke hoch und hielt mir ihren nackten Unterarm hin. Ich hatte schon mehr als einmal eine Tätowierung gesehen: bei den Fernfahrern der Spedition, die mir ihre Hautmalerei bereitwillig und oft gezeigt haben. Anker, gekreuzte Säbel, barbusige Frauen, unter denen die häufig falsch geschriebenen oder unleserlichen Namen einer lange schon verlorenen Liebe standen. Auf dem Unterarm der Frau erkannte ich nur eine Nummer. Eine blaue, eintätowierte Nummer. Ich starrte die Nummer an, dann die Frau. Ihr Blick schien jetzt nicht mehr wütend, nicht mehr stechend, sondern eher forschend, als wäre sie gespannt auf meine Reaktion. Ich wusste nicht, was das zu bedeuten hatte. Was hatte diese Nummer mit mir oder mit unserem Auto zu tun? Ich sah zum Nummernschild unseres Fords und dann wieder auf den Unterarm der Frau, vielleicht hoffte ich ja, die beiden Nummern wären ähnlich. Ich suchte nach einem Zusammenhang. Noch einigen Sekunden lang schaute mich die Frau an, dann spuckte sie mir vor die Füße. Ohne sich noch einmal umzudrehen, ging sie, den kleinen Karren quietschend hinter sich herschleifend, die Straße hinunter in die Richtung, die auch wir bald nehmen würden. Ich saß auf dem Stuhl und bewegte mich nicht, bis sie hinter der Kurve verschwunden war. «Was ist mit dir los?», fragte mein Vater, als sie wieder zurückkamen, «was guckst du so komisch?» «Da war eine Frau», antwortete ich. «Hoho! Hast du gehört», rief er meiner Mutter zu, die bereits an der Beifahrertür stand, «die kleinen Französinnen interessieren sich schon für ihn!» «Allmächtiger!», entgegnete meine Mutter. Mein Vater lachte. «Was hat sie denn von dir gewollt, die Frau?» «Nichts.» Er stutzte. Einen Moment überlegte er wohl, ob er der Sache auf den Grund gehen solle, aber dann zuckte er mit den Achseln und stieg ein.

Cabral hatte schlechte Laune. Er saß hinter dem Schreibtisch und breitete Papiere vor sich aus, als wären es Tarotkarten, von denen sich sein Schicksal ablesen ließ. Hinter ihm stand eine neue weiße Tafel. Eine von der Sorte, auf der mit Magnethaltern Fotos befestigt und mit speziellen Filzstiften Pfeile und Linien gezogen werden konnten. Eine weiße Tafel, wie es sie in jeder Folge einer mittelmäßigen amerikanische Krimiserie gab, um den scharfsinnigen Ermittlern und damit auch dem Zuschauer die rätselhaften und letztlich immer doch logischen Zusammenhänge der vergangenen fünfundvierzig Minuten zu offenbaren. Die Tafel war leer. «Was machst du da?», fragte ich ihn. «Ich bereite alles vor.» «Du bereitest alles vor? Wofür?» Er lehnte sich zurück, sah mich trübe an. «Der Finger ist wieder da.» «War er denn je verschwunden?» «Tritão war ihn losgeworden, ja. An die PJ. Und jetzt ist der Bericht gekommen.» Das machte mich neugierig. «Und?» «Er gehörte einer Frau. Aber sie war schon tot, als sie ihn verloren hat». «Heißt das, die PJ übernimmt doch?» «Das heißt, die schicken uns einen her». «Was heißt herschicken? Wieso übernehmen das nicht einfach die aus Portniao?» «Keine Ahnung. Sie schicken jemanden vorbei. Morgen oder übermorgen. Vielleicht aber auch erst am Montag. Personalengpässe, sagen sie, Einsparungen. Wir sollen schon mal alles vorbereiten.» «Was denn, bitte schön?» «Alles für den Spezialagenten, den sie aus Lissabon schicken wollen, damit er sich hier einnistet und wir für ihn die Tasche wischen». Er deutete hinter sich. «Die kam heute mit UPS. UPS! Und die reden von Einsparungen!» Noch etwas anderes war geschehen. In einer Ferienanlage östlich von Sagres hatte es einen Einbruch gegeben. Das war nichts Ungewöhnliches. Ungewöhnlich war, was man dem belgischen Touristen gestohlen hatte: Socken, Unterwäsche, Hemd, ein Paar Joggingschuhe sowie einen Trainingsanzug, auf dem in Großbuchstaben «BELGIUM» stand. Der Bestohlene war früher einmal Mitglied der belgischen Basketball-Nationalmannschaft gewesen. «Das ist ein unersetzliches Erinnerungsstück!», hatte der Belgier Eufemia und Cabral angeblafft. «Und was hat dieser Schwuli mir dafür dagelassen, mhm? Seinen weißen Plüsch-Bademantel! Na toll!», rief er auf Englisch. Cabral schwieg. Eufemia nickte mechanisch. Sie hatte kein Wort verstanden. Gleichmütig hielt sie dem Belgier ein Formular hin: «Please sign here», sagte sie. Danach hatte sie den Bademantel eingepackt.

Schon immer mochte meine Mutter die einfachen Dinge. Sie mochte zum Beispiel die einfachen Lieder, mit denen portugiesische Sänger sich beim Grand Prix de la Chanson regelmäßig auf die letzten Plätze katapultierten. Immer noch mag sie diese alten amerikanischen Schwarz-Weiß-Filme, die an einem einzigen Ort spielen, vorzugsweise in einem einzigen Haus oder Zimmer, Filme, deren Besatzung bestenfalls nur aus vier Schauspielern besteht und deren Dramaturgie sich nach einer dem Zelluloid gleichsam innewohnenden Notwendigkeit abspult. Sie mag die kleine Welt, die nicht nur vom Allmächtigen, sondern auch von ihr selbst verstanden werden kann. Deswegen mag sie, was selbst meine Schwester überrascht, keine Telenovelas. Und deswegen mag sie auch keine Nachrichten. «Weil die Nachrichten mittlerweile wie die Telenovelas sind», erklärte sie mir, «ich meine: Wer soll denn da noch durchblicken?» Für sie sind wir alle Teil einer Geschichte jenseits von Radio, TV und Internet, einer Geschichte, die einen Anfang, eine Mitte und ein Ende hat und in der Vorbestimmung und Verhängnis, Schicksal, Schuld und Erlösung die treibende Kräfte sind. «Oder», sagte sie, «um es anders auszudrücken: Gott würfelt nicht.»

Das war und bleibt ihr liebster Satz. Er ist geworden, als ich ihr mit fünfzehn die Relativitätstheorie erklären wollte und sie daraufhin eine Woche lang nicht mit mir sprach. In dieser Woche der weltanschaulichen Stille zwischen uns begann sie populärwissenschaftliche Bücher über Einstein zu lesen, und jenes Zitat war am Ende ihre Antwort, die das Schweigen brach: Gott würfelt nicht. Von da an führten wir regelmäßig Streitgespräche: Wenn es einen Schöpfer gab, wer hatte denn den Schöpfer geschaffen? Konnte aus nichts etwas entstehen, und wenn ja, mit welchem Ziel? Warum – Maria hin oder her – war Gott ein Mann? «Würdest du denn gern ein Mädchen sein?», fragte mich meine Mutter misstrauisch. Was auch immer Gott unserer Ansicht nach war, tat oder vorhatte, eine Frage blieb im Raum stehen: Welchen Sinn hatte der frühe Tod meines Vaters gehabt? Er, der sein Leben lang hart für seine Familie gearbeitet hatte, der seiner Frau treu gewesen war und seine Kinder geliebt, der niemals betrogen, gelogen, gestohlen oder auch nur seine Hand gegen irgendjemanden erhoben hatte, war dafür mit einem qualvollen Ende bestraft worden. Aber natürlich stellte ich ihr diese Frage nie. Wenn ich sie später, nachdem ich meine Stelle bei der GNR angetreten hatte, an meinem freien Tag besuchte und sie für mich gekocht hatte, wenn ich dann satt und müde und mit einem Rest Erinnerung an meine Kindheit auf der Zunge an ihrem abgenutzten Esstisch saß, brachte ich es einfach nicht über mich, sie danach zu fragen, obwohl sie wusste, dass ich mir diese Frage schon lange stellte. Vor allem dann, wenn ich kurz zuvor wieder einmal einen Blick in die Fahndungskartei geworfen hatte, die voll war mit den Toten und Verschwundenen, deren Entführer und Mörder wir niemals finden würden. Sie sah es mir wohl an. «Denk bloß nicht, dass du meinen Glauben prüfen kannst», sagte sie. Ich versuchte es gar nicht. Stattdessen flüchtete ich mich ins große Ganze. «Was, wenn wir nur in der Mitte sind?» «In der Mitte wovon?» «In der Mitte von deiner großen göttlichen Geschichte.» «Yuri, Fernao, Liebling, was soll denn dieser Quatsch nun wieder bedeuten?» «In jeder Telenovela gibt es am Anfang der Mitte, so zwischen Folge 200 und 300, Figuren, die plötzlich auftauchen und hundert Folgen später wieder rausgeschrieben werden.» «Deswegen schaue ich mir diesen Mist ja auch nicht mehr an.»

«Das Universum war bereits Milliarden Jahre alt, als die Menschen darin auftauchten.» « Hast du immer noch diese Flausen im Kopf? Du bist fast vierzig. Das Universum! Kleiner geht’s nicht? Allmächtiger!», rief sie aus und hob einmal mehr die Hände zum Himmel, völlig überzeugt davon, dass das Universum eine mehr oder weniger große Ansammlung physikalischer Phänomene sei, die sich letztlich der Allmacht des Schöpfers unterzuordnen habe. «Wir werden wahrscheinlich lange vor dessen Ende, dessen richtigen Ende, wieder verschwunden sein. Wir sind vielleicht die Nebendarsteller, nicht die Superstars, das meine ich damit.» «Ach, Junge», erwiderte sie und stellte den Fernseher lauter. Das war in der Woche, bevor es passieren sollte. Auf dem Bildschirm rasten mit Flugabwehrschützen bestückte Picups über eine Wüstenpiste. «Gott ist groß!», riefen die Männer, die auf der Ladefläche saßen und ihre Gewehre zeigten. Gaddafi hielt eine Rede. Er trug eine weiße Phantasieuniform und eine riesige Schirmmütze. Ich ging in die Küche. Machte mir einen Kaffee. Als ich das Blubbern und Röcheln im Kaffeebereiter hörte, suchte ich im Schrank nach einer Tasse. Das heißt, ich tastete danach, während ich aus dem Küchenfenster blickte, über die Dächer von Odivelas. Es war das letzte Mal, dass ich meine Mutter dort allein zum Mittagessen besuchte, aber das wusste ich natürlich nicht. Was soll ich sagen – eine Tasse fiel mir herunter. Sie zerschellte auf dem Küchenboden. Der Küchenschrank meiner Mutter barg ein Sammelsurium von Tassen, die irgendwann einmal zu ihr gefunden hatten. Die Tasse auf dem Boden war recht alt. 1984 stand darauf. Eine anlässlich der Fußball-Europameisterschaft 1984 in Frankreich hergestellte Tasse. Da hatte Platini uns Portugiesen in der letzten Minute aus dem Finale geschossen. Mir fiel wieder ein, wie wir fiebernd vor dem Fernseher gesessen hatten, meine Mutter mit der Tasse in der Hand, die Knöchel ihrer Hand weiß und der Sieg im Halbfinale so greifbar nah, dass wir bereits insgeheim vom Gewinn der Europameisterschaft träumten. Aber dann traf Platini in der letzten Minute der Verlängerung den Ball, so wie ihn nur Platini treffen konnte. Ich sehe den großen Platini noch vor mir, wie er jubelnd durch das Stadion rannte und sich sein Ebenbild in unseren weit aufgerissenen, traurigen Augen spiegelte. In den Tagen, die darauf folgten, hatte ich mich leer und ohne Antrieb gefühlt. Ich wollte nicht zur Schule gehen. Irgendwann kam mein Vater, legte seine Hand auf die Schulter und sagte: «Es war doch nur ein Spiel, Yuri. Es gibt Schlimmeres.» «Ist was passiert?», rief meine Mutter aus dem Wohnzimmer? «Mir ist eine Tasse runtergefallen.» «Es gibt Schlimmeres», rief sie zurück, ohne den Fernseher leiser zu stellen, «lass es einfach liegen, ich mache es später weg.» «Nein», rief ich, nahm den Handfeger und schob die Scherben auf die Kehrichtschaufel. Alles verschwindet irgendwann, aber das ist nicht das Problem. Das Problem ist, dass bis dahin alles eine Geschichte hat. Selbst eine Tasse.

(Aus: Norbert Zahringer, Bis zum Ende der Welt, Kap. 8, Reinbeck bei Hamburg, Rowholt, 2012) Fino alla fine del mondo Capitolo 8

Come uno spettro, la figura di zio Marcelo, fratello di mio padre e mio padrino, si insinuò nella nostra vita in Germania. C'erano le foto del mio battesimo, in cui mi teneva in braccio e rideva in modo accattivante; a quanto dicono, il mio sorriso lo devo a lui. Prima del battesimo mio padre aveva provato a convincere lo zio a venire da noi, in Germania. Invano. Marcelo non gli diede retta. Non penso che l'abbia fatto per dispetto, né per pigrizia. Forse non riuscì a decidersi a lasciare l’ambiente familiare, la piccola e sonnolenta città in cui era cresciuto e che gli era familiare. Così perse il momento giusto. Il servizio militare fu prolungato da diciotto mesi a quattro anni e, in quel momento, forse Marcelo avrebbe desiderato aver dato ascolto al fratello maggiore. La Germania non era lontana come l'Africa. Nel frattempo, però, era più facile finire in Africa piuttosto che in Germania. La sua unità operava nell'Angola orientale, una zona denominata «Terras do Fim do Mundo», i territori alla fine del mondo. Molti anni dopo trovai un taccuino di mio zio fra le cose di mio padre. Probabilmente Marcelo aveva pensato di tenere una specie di diario, infatti nella prima pagina c’era questa annotazione sotto una data: «Scappati da Luanda verso l'interno del paese. Francisco ha vomitato tutto il giorno. Il morale è buono». Deve aver abbandonato presto la sua idea, perché quella rimase l'unica annotazione. Tra le pagine vuote ho trovato delle foto. Non erano incollate, ma semplicemente inserite, come se Marcelo avesse avuto l’intenzione di completare il suo diario in un secondo momento. Avevo sempre immaginato i compagni di mio zio come tipi tosti, armati fino ai denti, con il cranio rasato e occhiali da sole scuri, invece i soldati nelle foto erano ragazzi comuni con capelli normali e un’espressione normale. In alcune foto sorridevano (soprattutto mio zio), in altre fumavano o si appoggiavano alle canne dei loro fucili con il volto esausto, ma non infelice. C'erano immagini in cui erano sdraiati per terra davanti a un camion e sonnecchiavano o mangiavano qualcosa e immagini in cui facevano il bagno in un fiume riparati da grandi alberi. Tuttavia, nella maggior parte delle foto, vagavano in una savana deserta, che sembrava arrivare fino all’orizzonte. Lì, da qualche parte, fra l’erba alta fino ai fianchi, la fine di tutto attendeva mio zio sotto forma di mina antiuomo. All'inizio non mi resi conto di niente, ma la morte del fratello cambiò mio padre. Aveva sempre creduto al futuro e alla sua buona sorte. Era il «Millionen-Mann», il milionesimo immigrato in Germania; poteva solo andare meglio, pensava, verso il sole. Ecco perché, sebbene non fosse un comunista, mi aveva dato come secondo nome Yuri, come Juri Gagarin, il primo uomo che andò nello spazio. La morte di mio zio, questa scomparsa lontana e assolutamente incomprensibile di un uomo sorridente - nessuno della famiglia aveva più visto mio zio, nessuno gli aveva chiuso gli occhi, nessuno aveva sussurrato una preghiera, nessuno aveva fatto la veglia funebre fino all’alba accanto al suo letto di morte, perché non c’era rimasto più nulla di lui su cui piangere, solo ricordi -, questa assenza definitiva fece capire a mio padre, per la prima volta, che le cose non andavano sempre bene, che c'erano eventi irreversibili e demoni da cui non ci si può liberare. Capì anche che una storia non ha sempre un happy end e che, alla fine del cammino, forse non c’è niente che ti stia aspettando.

Da dieci anni mio padre lavorava nella fabbrica in cui veniva prodotta la colla con cui i tedeschi attaccavano orribili tappezzerie alle pareti delle loro case. Era il 6 aprile del 1974. I miei genitori ascoltavano rapiti la voce di Paulo de Carvahlo. Paulo de Carvahlo cantava per il Portogallo all’Eurofestival della Canzone. Mia madre era convinta che avrebbe vinto la gara. Cantava di un amore finito: E depois do adeus, E dopo l'addio. Si classificò ultimo, insieme ai tedeschi Cindy e Bert. Tre settimane dopo questo disastro, la canzone di Carvalho fu trasmessa di nuovo alla radio portoghese: per un gruppo di giovani inferociti a causa della guerra alla fine del mondo fu il segnale convenuto per ribellarsi a chi li comandava. Così, grazie a una canzonetta portoghese, al limite estremo dell’Europa iniziò la liberazione. Troppo tardi per mio zio. Da quel momento i miei genitori pensarono di tornare in patria. Può darsi che mia madre avesse iniziato a parlarne, forse anche mio padre. La Rivoluzione dei Garofani aveva vinto, che cos’altro si pretendeva di più, e soprattutto in Germania? Ora, in Portogallo, a casa, si poteva brindare alla democrazia quando, come e quanto si voleva. In Germania nessuno beveva con mio padre, ad eccezione, ogni tanto, di qualche camionista che lo faceva ubriacare e poi gli faceva anche pagare anche il conto nella bettola accanto al Getränkemarkt, il mercato delle bevande, mentre in sottofondo Cindy e Bert canticchiavano: «Immer wieder sonntags / kommt die Erinnerung …» (Di domenica, sempre e nuovamente, viene il ricordo…)

Ricordo l’auto, un furgone della Protezione Civile dismesso, un enorme Ford Transit che una ditta di spedizioni aveva usato per i suoi servizi. Ricordo che occorsero due giorni ai miei genitori per riempirlo con tutti i nostri averi. Lo fecero in un modo così ingegnoso che non fu sprecato nemmeno il più piccolo angolo di spazio. Ricordo che mi fu lasciato sul sedile posteriore un posto talmente piccolo che riuscivo a malapena ad allungare le gambe e star seduto dritto. Ero incastrato tra armadi, scatole e il frigorifero, con il tubo di scarico della lavatrice che mi penzolava davanti al naso. Mi sentivo come in una caverna. Non riuscivo né a guardare fuori, né a vedere nessuno della mia famiglia. Mio padre e mia madre erano seduti davanti con una delle mie due sorelle, mentre l’altra si trovava in un buco simile al mio, da qualche parte nel furgone. Non riuscivo a vederla, né lei non riusciva a vedermi; entrambi non riuscivamo a guardare fuori. Di tanto in tanto ci mandavamo dei segnali bussando. Nelle profondità del Transit, circondata da una catasta di scatoloni e riparata da un copripiumino dei miei genitori, c’era la Zündapp Mokick dalle cromature sempre lucide. A parte i mobili, le cose di famiglia e i modesti risparmi, era quella l’unica cosa importante che mio padre portava a casa dalla Germania.

In seguito, quando abitavamo di nuovo nel villaggio di origine dei miei genitori, dove avevano acquistato una modesta casa con i loro modesti risparmi, mio padre, durante il fine settimana, se andava giro per le strade con la Mokick e raccontava a tutti l’avventurosa storia di come ne era entrato in possesso, ogni volta in un modo diverso. Non si rendeva nemmeno conto che sempre meno persone lo ascoltavano. Adesso la gente aveva le macchine comprate a rate. Nessuno si poteva più entusiasmare per una vecchia Mokick. Per un po’ prese anche l’abitudine di parlare dei suoi compatrioti con supponenza. «Un casino del genere non sarebbe successo in Germania», diceva, ad esempio, oppure: «In Germania ti avrebbero messo il fuoco sotto il culo», o ancora: «In Germania non ci si lamenta, si lavora». Un giorno ci fermammo alla stazione di servizio, mio padre in sella alla sua Mokick e io dietro. Quando l’aiuto benzinaio, un ventenne brufoloso con un berretto sporco appiccicato di traverso sui capelli unti, tirò fuori la pompa dal serbatoio e disse il prezzo, mio padre guardò dentro e gli allungò una banconota. Non appena ebbe ricevuto il resto, gli diede una monetina di mancia e disse: «Per la prossima volta: in Germania quando dici: “Il pieno, per favore”, ti fanno il pieno - e non quasi pieno o un po’ pieno». L’aiuto benzinaio brufoloso spalancò gli occhi, lo guardò e gli restituì la moneta, mettendogliela direttamente in mano e premendola a fondo. «Torna pure indietro se non ti va bene qui. Forza, andate in Germania sul vostro catorcio, vediamo quanto andate lontano con questo rottame». Quella sera desiderai essere di nuovo in Germania. Là mi avevano sfottuto, mi avevano chiamato Knoblauchfresser, mangia-aglio. Se ero coinvolto in una rissa nel cortile della scuola, ero sempre io il colpevole. Non ero un vero tedesco. Ero il Gastarbeiterkind, il figlio di un immigrato. Ma lì, nel luogo che i miei genitori chiamavano casa, ero praticamente una nullità. Quella notte, a letto, mentre non riuscivo ad addormentarmi per la vergogna (invece le mie due sorelle, nella stanza di fianco, russavano beate), avevo dimenticato quanto mi ero sentito male, a volte, in Germania. Mi alzai poco prima dell'alba. Avevo una piccola sacca di stoffa appesa di fianco al letto in cui, due volte alla settimana, mettevo la roba da ginnastica. Infilai dentro tutte le cose più importanti per me: il temperino, la borraccia, la mappa fosforescente delle stelle. Disperato, sgattaiolai lungo il corridoio, passai davanti alla camera delle mie sorelle e a quella dei miei genitori ignari di tutto. Poi uscii di casa, camminai fino al fiume lungo le strade deserte, attraversai il ponte alla fine del paese, poi m’incamminai verso est, dove, a molti giorni di viaggio, al di là dell'orizzonte, pensavo ci fosse la Germania. Ero in cammino da neanche due ore e il sole era appena sorto, quando mio padre mi raggiunse. Si fermò davanti a me con la sua Mokick e mi fece cenno di salire. Dissi di no con la testa. Lui scese, fece tre o quattro passi verso di me e mi mollò un sonoro ceffone. Poi rimanemmo uno di fronte all'altro a fissarci, entrambi sforzandoci di trattenere le lacrime. Alla fine mi abbracciò. Andammo a piedi. Gli chiesi come avrebbe fatto con la Mokick, lui mi rispose che sarebbe passato a prenderla più tardi. Camminammo attraverso l’inizio del giorno; c’era odore di terra umida e di sottobosco che cominciava ad asciugarsi. Gli uccelli cinguettavano e un cane abbaiava in lontananza. Fu l'ultima volta, Valentina, che camminai mano nella mano con mio padre.

Mia madre è sempre stata contraria al fatto che io entrassi in Polizia. Quando venne a sapere che avevo fatto domanda per la Guarda Nacional Republicana, abbassò il volume del televisore e si alzò dalla poltrona respirando affannosamente. «Sei diventato completamente matto, Fernao?» Non seguiva la politica, ma non considerava la Guarda una vera e propria polizia. «Sono soldati, capisci? Se ti unisci a loro, possono fare di te quello che vogliono! Hai già dimenticato lo zio Marcelo, hai già dimenticato come hai pianto al suo funerale?» In effetti lo avevo completamente dimenticato. Probabilmente perché non avevo pianto affatto. «Un giorno dovrei ricevere una lettera da un qualche generale che mi comunica che tu, per servire la patria, hai pestato una mina da qualche parte nel mondo?» «Ma non abbiamo più colonie» ho ribattuto ingenuamente, «e non c’è più la guerra in Europa». Sono passati più di vent’anni da allora. Era il 1990: in Italia i tedeschi vincevano per la terza volta i campionati mondiali di calcio. L’Italia non vinse il mondiale, ma l’Eurofestival, con la canzone Insieme: 1992. Il ritornello faceva cosi: «Insieme, unite, unite, Europe!» Oggi, con questa canzone, forse gli italiani non vincerebbero più nulla, ma allora era diverso. La cortina di ferro era caduta, gli ultimi dittatori rovesciati. Perché non dovevamo unirci tutti? Noi portoghesi eravamo migliorati rispetto al disastro nell’Eurofestival del 1974: questa volta ci classificammo penultimi. Come sempre, la competizione ebbe luogo nel paese del vincitore dell’anno precedente, quindi in Jugoslavia. La Jugoslavia, Valentina, è una nazione che oggi non c’è più. Alcuni colleghi di lavoro di mio padre nella fabbrica di colla erano jugoslavi. Non ho idea di cosa siano ora. Ad ogni modo, l’anno dopo l’Eurofestival, gli jugoslavi si scannavano tra loro. «Vedi?» esclamò mia madre dalla sua poltrona, «e poi dici che non c’è più guerra in Europa!» Avevo appena finito il mio addestramento e me ne stavo in piedi davanti a lei nella mia nuova uniforme. Ma questo non le interessava affatto. Agitò il suo telecomando come una clava e indicò lo schermo, in cui si vedevano passare dei carri armati. «Vogliono inviare truppe di pace! Urrà! Truppe di pace! Che razza di soldati dovrebbero essere i soldati di pace? Esiste una cosa del genere? Sparano con munizioni di pace? Probabilmente tireranno anche un paio di bombe di pace! E scommetto con te che troveremo qualche stupido generale portoghese di pace che vorrà ad ogni costo prendere parte a tutto questo! Tanto non sono figli suoi. Sono solo figli di alcune semplici, povere persone, come noi. O Jesus Maria!», gridò e alzò le mani verso il cielo (insieme al telecomando). Lì, sopra di lei e sopra l’alcolizzato cardiopatico del piano superiore, sopra la madre single con i capelli tinti, due figli ladruncoli e un amante sempre nuovo, sopra il silenzioso guardiano notturno del Mozambico, sopra il veterano in sedia a rotelle che fumava una sigaretta dietro l’altra e aveva ciuffi di capelli biondo-bianchi che spuntavano dalle orecchie, sopra la coppietta di universitari che si sarebbe separata l’anno dopo (dopodiché lei provò ad uccidersi con dei sonniferi, ma prese per sbaglio dei lassativi, così l’intero impianto di scarico in quella parte del condominio rimase intasato e quindi inutilizzabile per una settimana), sopra il tetto, dove le antenne satellitari si arrugginivano lentamente, sopra il frastuono crescente del traffico nelle ore di punta e il rombo degli aerei in fase di atterraggio, sopra lo smog di Odivelas, lì, da qualche parte, a dispetto di tutti i tentativi privati di laicizzazione fatti da mio padre, continuava a vivere l’Onnipotente e probabilmente era d’accordo con mia madre. Mi guardò. «È la nuova uniforme, questa?» «Sì, mamma». «Anche gli stivali?» «Sì». «Sembri uno degli Shilo Ranch». Fece una smorfia: «Se tuo padre ti potesse vedere così». In quel momento, il sarcasmo e l'amarezza abbandonarono il suo viso, lasciando il posto al dolore e al tenero ricordo di mio padre che allora era già scomparso da più di quattro anni, morto di una malattia per cui non esisteva una cura, ma per la quale i miei genitori avevano speso tutti i loro risparmi e alla fine venduto anche la casa. Invano. Mio padre aveva sempre desiderato che io frequentassi l’università; era fermamente convinto che suo figlio, al quale aveva dato (contro la volontà della moglie e dell'Onnipotente) il nome di un convinto comunista, eroe dell'Unione Sovietica, sarebbe riuscito a fare qualcosa di straordinario. «Puoi studiare scienze e poi, ad esempio, volare con uno Space Shuttle nello spazio, dove, in assenza di gravità, scoprirai un nuovo elemento chimico al quale sarà dato il tuo nome: Gouveium! Oppure osserverai una stella sconosciuta - Alpha Gouveia! Ah», aveva sospirato, «hai così tante possibilità. Questo, a volte, mi rende davvero invidioso!» Ancora sul letto di morte aveva dato disposizione a mia madre di spendere per i miei studi tutto ciò che restava dei loro risparmi. Non sapeva o l'aveva dimenticato: non avevamo più un soldo. Dopo la sua morte, iniziò il periodo in cui vivemmo come vagabondi e le mie due sorelle maggiori sposarono uomini che non avrebbero mai sposato così in fretta, se fossero state ricche. Mia madre e io cambiavamo spesso abitazione, a seconda di dove lei trovava lavoro - come sguattera, poi come cucitrice. A quel tempo i salari in Portogallo erano bassi, più bassi che in qualunque altra parte d’Europa, e perciò furono fatti investimenti nell’industria tessile. Questo durò fino a quando i manager delle aziende scoprirono che far cucire abiti poteva essere ancora più a buon mercato in Turchia, in Pakistan o in Cina. Mi ricordo quei primi anni dopo la morte di mio padre come un periodo di costanti ristrettezze; mi ricordo ancora la paura di mia madre di spendere anche un solo escudo in più, perché poi, alla fine del mese, i soldi non sarebbero stati sufficienti per sopravvivere il mese successivo. Questo fu uno dei motivi per cui mi arruolai nella Guarda Nacional. L'altro motivo era più profondo. Finalmente volevo essere un portoghese. Un vero portoghese, non solo un mezzo portoghese, un immigrato, figlio di una famiglia che non aveva fatto fortuna in Germania. A questo mi serviva l’uniforme. Questo era l'affare segreto che avevo fatto con la Guarda senza che là nessuno lo sapesse.

Solo una volta nella mia vita sono stato un tedesco. Un tedesco al cento per cento: tedesco, come può esserlo solo un tedesco. Ironia della sorte, questo breve momento di vero germanesimo accadde sulla via del ritorno in Portogallo, poco dopo che avevamo voltato per sempre le spalle alla Germania e alla fabbrica di colla. Dato che mio padre voleva risparmiare, non viaggiavamo in autostrada. Lì, con il nostro enorme Ford Transit della Protezione Civile, avremmo probabilmente pagato il pedaggio dei camion. Ci muovevamo lentamente attraverso la Francia, su strade provinciali. Come ho detto, mi rendevo conto di poco e niente. A un certo punto, mia sorella, sepolta da qualche parte vicino a me fra gli oggetti di casa, cominciò a lamentarsi. Doveva andare in bagno. Mio padre le chiese se poteva resistere almeno fino a Bordeaux. Non ci riusciva! Ci fermammo in un piccolo villaggio, di fronte a un caffè un po' fatiscente, vicino a una curva. Nel parcheggio accanto al caffè c'era un camion. Su un cartello, in parecchie lingue, erano pubblicizzate baguette farcite. Probabilmente pensavano di poter attirare così qualche automobilista che percorreva la strada nazionale verso sud. Guardai il camion e, all'improvviso, ebbi la folle speranza di poter incontrare lì uno degli autisti della ditta di spedizione. Ma il camion proveniva dalla Francia. Un piccolo ruscello scorreva al di là della strada e, davanti ad una delle basse case, alcune galline zampettanti guardavano verso di noi da dietro una rete metallica, mentre scendevamo dal Transit sovraccarico. La mia famiglia - le mie sorelle, mia madre e mio padre – s’incamminò verso l'ingresso del caffè. Io rimasi indietro. Allora mio padre si voltò verso di me: «Non devi andare anche tu?» Scossi la testa. «Ma guai a te, se fra cinquanta chilometri ti viene in mente di doverci andare!», gridò, e tutti e quattro sparirono nell'ingresso scuro del locale. Sbadigliai e mi stiracchiai, poi mi misi a correre avanti e indietro. Alla fine, mi sedetti su una delle sedie abbandonate che si trovavano davanti al caffè. Guardai in fondo alla strada, nella direzione in cui dovevamo proseguire, così non notai subito la donna che si avvicinava dall'altra parte. Solo quando udii un rumore stridente e cigolante mi voltai. Trascinava dietro di sé un carrello, come quelli che le persone anziane usano per fare la spesa. Era difficile dire quanti anni avesse: cinquanta, sessanta, settanta? Indossava un vestito con una fantasia gialla, una specie di grembiule, e un cardigan grigio. Era grassa, con la pelle rugosa, rosea, cadente, il viso in qualche modo privo di contorni. (In realtà, non ricordo la faccia.) Ansando, si fermò accanto al Ford Transit e lo fissò. Sul portellone posteriore, della scritta originaria «Protezione Civile» si leggeva ancora soltanto «Protezione». La guardò a lungo. Non feci particolarmente caso a lei, pensavo volesse solo riposarsi un poco. Finché non si voltò di colpo e mi fissò negli occhi con uno sguardo pungente. Indicò la targa. «Tedeschi?», mi chiese. Cosa avrei dovuto dire? Sì? No? Ni? Una volta ero tedesco e adesso non lo sono più? In realtà sono portoghese, ma sono nato in Germania? I miei compagni di scuola mi chiamavano mangia-aglio? Il mio portoghese suona come quando un tedesco parla olandese con la bocca piena? Mi sembrava tutto troppo complicato, quindi mi sono limitato ad annuire. Il suo sguardo si spostò da me alla targa, poi di nuovo su di me. I suoi occhi e anche la sua bocca si erano improvvisamente riempiti di tanto odio da farmi paura. Temevo che stesse per aggredirmi. Ma non lo fece. Si tirò su solo la manica sinistra della giacca e mi mostrò l’avambraccio. Avevo già visto più di una volta un tatuaggio: con i camionisti dell'agenzia di spedizioni, che spesso e volentieri mi avevano mostrato i loro tatuaggi. Ancore, sciabole incrociate, donne a seno nudo, tra le quali spuntavano i nomi spesso sbagliati o illeggibili di un amore perduto da tempo. Sull'avambraccio della donna, riconobbi solo un numero. Un numero blu tatuato. Fissai il numero, poi la donna. Adesso il suo sguardo non sembrava più adirato, neppure ferito, ma piuttosto curioso della mia reazione. Non sapevo che cosa significasse. Cosa c'entrava questo numero con me o con la nostra auto? Guardai la targa della nostra Ford e poi di nuovo l'avambraccio della donna, forse speravo che i due numeri fossero simili. Stavo cercando un collegamento. La donna mi fissò per qualche secondo, poi mi sputò davanti ai piedi. Senza più voltarsi, trascinandosi dietro il piccolo carrello cigolante, si incamminò nella direzione che presto avremmo preso anche noi. Restai seduto e non mi mossi finché lei non scomparve dietro la curva. «Che ti succede?» chiese mio padre quando tornarono, «cosa guardi con quella faccia strana?». «C'era una donna», risposi. «Oh, oh! Hai sentito?» gridò a mia madre, che era in piedi vicino allo sportello del passeggero, «le giovani francesi si interessano già a lui!». «Signore Onnipotente!», replicò mia madre. Mio padre rise. «Cosa voleva da te, quella donna?» «Niente.» Troncò il discorso. Per un momento rifletté se fosse il caso di approfondire, ma poi scrollò le spalle e salì in macchina.

Cabral era di cattivo umore. Era seduto dietro la scrivania e disponeva davanti a sé una serie di documenti come fossero tarocchi da cui leggere il suo destino. Dietro di lui c’era una nuova lavagna bianca. Una di quelle su cui fissare le foto con i magneti e disegnare frecce e linee con pennarelli speciali. Una lavagna bianca, come quelle che si vedono in ogni episodio di una mediocre serie poliziesca americana e servono a rivelare agli astuti investigatori, e quindi anche allo spettatore, le misteriose ma, alla fine, comunque sempre logiche connessioni dei precedenti quarantacinque minuti. La lavagna era vuota. «Che stai facendo?» gli chiesi. «Preparo tutto.» «Prepari tutto? Per che cosa?» Si appoggiò allo schienale della poltrona e mi guardò, scuro in volto. «Il dito è tornato». «Quando era scomparso?» «Tritão si era liberato di lui. Lo aveva passato alla Polizia Giudiziaria. E adesso è arrivato il rapporto». La cosa mi incuriosì. «E allora?» «Apparteneva ad una donna, ma era già morta quando l'ha perso.» «Vuol dire che se ne occuperà la Polizia Giudiziaria?» «Vuol dire che ci manderanno qui uno». «Che significa ‘ci manderanno qui uno’? Perché non se occupano quelli di Portimão?» «Non ho idea. Spediscono qui qualcuno. Domani o dopodomani. Forse anche già lunedì. Riduzione del personale, dicono, taglio dei costi. Dobbiamo preparare tutto». «Tutto cosa?» «Tutto per l’agente speciale che ci vogliono spedire da Lisbona affinché metta radici qui, e noi puliremo la lavagna per lui». Indicò dietro di sé. «È arrivata oggi con l’UPS. UPS! E parlano di taglio dei costi!» Era successo anche qualcos’altro. In un villaggio turistico ad est di Sagres c’era stato un furto con scasso. Non era una cosa insolita. Insolito era quello che era stato rubato al turista belga: calzini, biancheria intima, una camicia, un paio di scarpe da jogging e una tuta su cui era stampata a grandi lettere la scritta “BELGIUM”. L’uomo, che aveva subito il furto, aveva fatto parte in passato della nazionale belga di basket. «È un ricordo insostituibile», aveva gridato il belga in faccia a Cabral e a Eufemia. «E questo frocio, che cosa mi ha lasciato in cambio, eh? Il suo accappatoio di peluche! Fantastico!», urlò in inglese. Cabral non disse nulla. Eufemia annuì meccanicamente. Non aveva capito una parola. Imperturbabile porse un modulo al belga: «Please sign here», disse. Poi impacchettò l’accappatoio.

Da sempre mia madre amava le cose semplici. Le piacevano, ad esempio, le canzoni semplici con cui i cantanti portoghesi si catapultavano regolarmente agli ultimi posti dell’Eurofestival. Le continuano a piacere ancora quei vecchi film in bianco e nero, girati interamente nello stesso luogo, preferibilmente in un’unica casa o stanza; quei film i cui interpreti, nel migliore dei casi, sono solo quattro attori e la cui drammaturgia si sbobina secondo una necessità insita, per così dire, nella celluloide. Le piace il piccolo mondo che può essere compreso non solo dall’Onnipotente, ma anche da lei. Per questo non le piacciono – cosa che sorprende perfino mia sorella – le telenovele. E per questo non le piace neanche il telegiornale. «Perché oggi il telegiornale è diventato come una telenovela», mi ha spiegato. «Voglio dire: chi è che riesce a capirci qualcosa?» Per lei siamo tutti parte di una storia che va al di là della radio, della TV e di internet, una storia che ha un inizio, un centro e una fine, una storia in cui la predestinazione, la fatalità, il destino, la colpa e la redenzione sono le forze trainanti. «Oppure», mi ha detto, «per dirlo in altre parole: Dio non gioca a dadi». Questa è, e resta, la sua frase preferita. Lo è diventata da quando io, a quindici anni, decisi di spiegarle la teoria della relatività e lei poi non mi parlò per una settimana. In quella settimana di silenzio ideologico tra di noi, cominciò a leggere libri di carattere divulgativo su Einstein e quella citazione, alla fine, fu la risposta con cui interruppe il silenzio: Dio non gioca a dadi. Da quel momento in avanti abbiamo fatto regolarmente una serie di discussioni sul tema: Se esiste un creatore, chi ha creato il creatore? Qualcosa può nascere dal nulla? E, se sì, con quale scopo? Perché – Maria sì e Maria no – Dio è un uomo? «Ti piacerebbe essere una ragazza?», mi domandò mia madre sospettosa. Che cosa fosse Dio secondo noi, che cosa facesse o che cosa avesse intenzione di fare, c’era comunque una domanda che rimaneva sospesa nell’aria: che senso aveva avuto la morte prematura di mio padre? Lui, che aveva lavorato duramente tutta la vita per la sua famiglia, che era stato fedele a sua moglie e aveva amato i suoi figli, che non aveva mai truffato, mentito, rubato o anche soltanto alzato le mani contro qualcuno, era stato punito con una morte fra mille sofferenze. Ma naturalmente non le feci mai questa domanda. Una volta, dopo l’arruolamento nella Guarda Nacional Republicana, la andai a trovare nel mio giorno libero. Aveva cucinato per me ed io, sazio e stanco, me ne stavo seduto al vecchio tavolo da pranzo con un residuo di ricordi della mia infanzia sulla punta della lingua; ma anche allora non ebbi il coraggio di chiederglielo, anche se lei sapeva che da tempo mi ponevo quella domanda. Soprattutto da quando, qualche tempo prima, avevo dato un’occhiata nello schedario delle indagini pieno di morti e scomparsi i cui assassini e rapitori non sarebbero mai stati trovati. Me lo lesse in faccia. «Non pensare di mettere alla prova la mia fede», disse. Non ci provai. Mi rifugiai, invece, in una dimensione più ampia. «E se fossimo soltanto al centro?» «Al centro di che cosa?» «Al centro della tua grande storia divina». «Yuri, Fernao, mio caro, che vuol dire ora, di nuovo, questa idiozia?» «In ogni telenovela, all’inizio della parte centrale, all’incirca tra la puntata 200 e la 300, ci sono personaggi che compaiono all’improvviso e che cento puntate più tardi escono dalla storia». «Per questo non guardo più quelle schifezze». «L’universo aveva già miliardi di anni, quando comparve l’uomo». «Continui ad avere questi grilli per la testa? Hai quasi quarant’anni! L’universo! Non c’è qualcosa di più piccolo? Signore Onnipotente»!», esclamò e alzò ancora una volta le mani al cielo, del tutto convinta che l’universo fosse un ammasso più o meno grande di fenomeni fisici che alla fine dovevano sottomettersi all’onnipotenza del creatore. «Probabilmente noi saremo scomparsi molto tempo prima della sua fine, della vera fine. Forse siamo solo le comparse, non le superstar; questo è quello che intendo». «Ah, ragazzo», replicò e alzò il volume del televisore. Questo fu la settimana prima che accadesse. Sullo schermo correvano lungo una pista nel deserto dei pick-up dotati di mitragliatrici antiaeree. «Dio è grande!», gridavano gli uomini seduti sul retro dei pick- up, mostrando i loro fucili. Gheddafi tenne un discorso. Portava un’uniforme di fantasia bianca e un gigantesco berretto con visiera. Andai in cucina. Mi feci un caffè. Quando sentii il gorgoglio nella macchina del caffè, cercai una tazza nella credenza. O meglio, andai a tastoni, mentre guardavo fuori dalla finestra della cucina, sopra i tetti di Odivelas. Fu l’ultima volta che andai a trovare a mia madre a pranzo da solo, ma naturalmente non lo sapevo. Che devo dire: la tazza mi cadde. Si ruppe in mille pezzi sul pavimento della cucina. La credenza di mia madre nascondeva un’accozzaglia di tazze che, in qualche modo, erano arrivate a lei. La tazza rotta era piuttosto vecchia. Sopra c’era scritto: 1984. Era una tazza prodotta in occasione dei campionati mondiali di calcio in Francia del 1984. Quella volta Platini buttò fuori dalla finale noi portoghesi con un gol all’ultimo minuto. Mi tornò alla mente quando eravamo seduti agitatissimi davanti al televisore, mia madre con la tazza in mano, le ossa della mano bianche e la vittoria in semifinale così a portata di mano che già sognavamo in segreto di vincere gli Europei. Ma poi Platini, all’ultimissimo minuto dei tempi supplementari, colpì il pallone come solo Platini sapeva fare. Vedo ancora il grande Platini davanti a me, mentre correva esultante attraverso lo stadio e la sua immagine si rispecchiava nei nostri occhi spalancati e tristi. Nei giorni successivi mi ero sentito vuoto e senza energia. Non volevo andare a scuola. A un certo punto arrivò mio padre, mi mise una mano su una spalla e disse: «Era solo una partita, Yuri. Ci sono cose peggiori». «È successo qualcosa»? gridò mia madre dal soggiorno. «Mi è caduta una tazza.» «Ci sono cose peggiori», disse lei, senza abbassare il televisore, «lasciala lì, dopo pulisco.» «No», gridai, presi la scopa e spinsi i cocci nella paletta. Tutto scompare prima o poi, ma questo non è il problema. Il problema è che, fino a quel momento, tutto ha una storia. Perfino una tazza.

Matteo Bianchi

L'autore

Matteo Bianchi è nato a Ferrara, dove vive, nel 1987. Laureato in Lettere, è giornalista freelance, libraio e scrittore. Ha numerose pubblicazioni al suo attivo, tra cui le raccolte poetiche Poesie in bicicletta (2007), Fischi di merlo (2011), La metà del letto (2015), Fortissimo (2019).

Der Autor

Matteo Bianchi wurde 1987 in Ferrara geboren, wo er heute noch lebt. Er hat Literaturwissenschaften studiert und arbeitet heute als freier Journalist, Buchhändler und Schriftsteller. Er hat u.a. mehrere Gedichtsammlungen veröffentlicht: Poesie in Bicicletta (2007), Fischi di merlo (2011), La metà del Letto (2015), Fortissimo (2019).

La tua pelle sapeva di glicine nelle strette premurose al collo. Era la crema per il corpo, per il dovuto riposo. Ti davo ancora un bacio, così duravi di più.

«Tutto sommato, siamo una bella famiglia. Tornerei dai miei cari, ma le ragazze hanno bisogno di me. Voglio restare qui, ho detto a Quello lassù».

Le parole di un malato terminale hanno più diritto di restare di qualsiasi altra? Compreso un «grazie di essere passato».

Bastava una volta ogni tanto. Non le dovevo promettere che il giorno seguente sarei tornato.

La metà del letto, Barbera Editore, Siena, 2015

Deine Haut duftet in den lieblichen Falten Deines Halses nach süßen Glyzinien. Nach der Creme, die du aufgetragen hast. Ganz entspannt. Ich gebe dir noch einen Kuss, damit ich deinen Duft noch ein wenig länger genießen kann.

„Alles in allem, sind wir Eine gute Familie. Ich würde zu meinen Lieben zurückgehen, aber die Mädchen brauchen mich. Ich will hier bleiben“, Habe ich zu Ihm dort oben gesagt.

Die Worte eines Todkranken Haben sie nicht mehr Geltung Als die einer beliebigen anderen? Das „Danke, dass es vorüber ist“ eingeschlossen.

Es genügt ein Mal hin und wieder. Ich musste ihr nicht versprechen, dass ich am nächsten Tag zurückkommen würde. Appendice Il progetto Erasmus plus “Le mie parole con le tue” prevede laboratori di “traduzione creativa”, in cui la lingua e la traduzione della letteratura rappresentano un contenitore che favorisce la comunicazione fra pari. Gli studenti che partecipano ai laboratori devono negoziare la scelta delle parole necessarie a riprodurre il messaggio e lo stile di testi della tradizione popolare, della letteratura per ragazzi del canone letterario. L'esercizio si svolge a coppie o a piccoli gruppi, all'interno dei quali almeno uno dei partecipanti è esperto della lingua di partenza, mentre gli altri possiedono le competenze e la fantasia essenziali per rielaborare una traduzione "grezza" con espressività e stile.

I laboratori si fondano dunque sul dialogo: fra alunni di origine straniera che frequentano corsi di italiano L2 e alunni italofoni, ma anche fra alunni che si riconoscono reciprocamente competenze diverse e sono disponibili a integrarle, finalizzando il loro lavoro di collaborazione alla produzione di un testo scritto.

Nascono così le traduzioni dal filippino e dal moldavo, ma anche dal tedesco o dall'inglese lingua di contatto. Lontano dalla pretesa di essere professionali, esse rappresentano un modo per parlare di storie attraverso le storie, per raccontare all'altro la visione del mondo di un'autore attraverso la propria visione del mondo. Le traduzioni di Calvino, tutte imperfette e tutte diverse, sono dunque frutto di una molteplice e originale intuizione. Lo stesso vale per le leggende e i racconti dell'Asia o dell'Africa, per le avventure narrate ai più piccoli nell'est dell'Europa.

Il testo letterario diventa mezzo di comunicazione e integrazione: scegliendo una propria, originale "lingua per raccontare", il lettore si fa tramite non solo dei contenuti, ma della propria esperienza di vita.

Das Erasmus-Plus-Projekt "My words with yours" integriert auch Workshops zum Thema "Kreative Übersetzung". Sprache und Übersetzung von Literatur werden zu einer Möglichkeit, die Kommunikation unter Mitschülern und zwischen Schülern aus beiden Ländern zu fördern. Die an den Workshops teilnehmenden Schüler müssen sich über die Wortwahl austauschen, die zur Wiedergabe der Botschaft und des Stils bekannter Klassiker oder Kinderliteratur wichtig sind. Die Werkstatt wird in Paaren oder in kleinen Gruppen durchgeführt, in denen mindestens einer der Teilnehmer Experte für die Ausgangssprache ist, während die anderen über die notwendigen Fähigkeiten verfügen, um eine "grobe" Übersetzung zu überarbeiten, um Stil und Ausdruck des Autors wiederzugeben.

Die Werkstätten basieren auf einem Dialog zwischen Schülern ausländischer Herkunft, die Italienisch als Zweitsprache lernen und Muttersprachlern, aber auch zwischen Schülern, die die Kompetenzen des jeweils anderen kennen und bereit sind, sich gemeinsam mit einem Text auseinanderzusetzen.

So entstehen Übersetzungen aus der philippinischen und moldawischen Sprache, aber auch aus dem Deutschen oder Englische als Kontaktsprache. Es geht nicht um den professionellen Aspekt der Übersetzung, als vielmehr um die Möglichkeit, Geschichten durch Geschichten zu erzählen und den anderen durch die Sicht eines Autors auf die Welt von seiner eigenen Weltsicht zu berichten. Die Übersetzungen von Calvino, sind alle verschieden und das Ergebnis einer intuitiven Herangehensweise. Dasselbe gilt für die Legenden und Geschichten aus Asien oder Afrika oder die Abenteuer, die Kindern in Osteuropa erzählt werden.

Der literarische Text wird zu einem Kommunikations- und Integrationsmittel: Durch die Wahl der eigenen "Erzählssprache" wird der Leser nicht nur durch den Inhalt, sondern durch seine eigene Lebenserfahrung Übersetzer und Autor. Liebes Leben du brauchst Schönheit mit deiner kalten Traurigkeit so zweideutig

Cara vita, hai bisogno di bellezza con la tua fredda tristezza tanto ambigua

Ruxanda Balan Liceo Ariosto

Laboratorio Bensheim

"Le mie parole con le tue" Durante il nostro primo incontro a Bensheim abbiamo sperimentato le possibilità offerte dalla traduzione letteraria come mezzo di comunicazione. Il gruppo italiano con i referenti Roberta Bergamaschi e Giorgio Rizzoni ci ha presentato un brano tratto da una raccolta di racconti di Italo Calvino, “Marcovaldo ovvero le stagioni in città”. Gli alunni sono stati suddivisi in gruppi misti: i tedeschi, che per la maggior parte non parlavano italiano, insieme agli italiani. In ogni gruppo c'erano "esperti linguistici" italiani, che parlavano tedesco e italiano, e alunni tedeschi, esperti della loro lingua madre. Gli studenti italiani hanno iniziato a tradurre il testo in tedesco parola per parola, spiegando i termini poco chiari o ambigui, i tedeschi a porre domande, cercando di entrare in empatia e di immedesimarsi nella situazione descritta. Com’è il silenzio dopo una nevicata? Con quali aggettivi tedeschi è possibile descrivere questa atmosfera? Frase per frase si è sviluppata una versione tedesca del testo italiano: narrata, frutto di una riflessione e di una discussione, un processo eccitante per entrambi i gruppi - gli italiani dovevano entrare in profondità nel testo e nel suo significato, i tedeschi dovevano riflettere sulla loro lingua e sulle sue possibilità espressive. Alla fine, non solo i ragazzi hanno comunicato attraverso la letteratura, ma hanno vissuto la letteratura.

„Meine Worte mit deinen“ Bei unserem ersten Treffen in Bensheim ging es darum, die literarische Übersetzung als Kommunikationsmittel einzusetzen und mit den Möglichkeiten zu experimentieren. Die italienische Gruppe und ihre beide Betreuer Roberta Bergamaschi und Giorgio Rizzoni hatten uns einen Text von Italo Calvino mitgebracht. Die deutschen Schüler, die zum großen Teil kein Italienisch sprechen, wurden zusammen mit den Italienern in Gruppen aufgeteilt. In jeder Gruppe gab es die italienischen „Sprachexperten“, die neben Italienisch auch Deutsch sprachen, und die deutschen Schüler, Experten für ihre Muttersprache. Die italienischen Schüler begannen den Text wörtlich zu übersetzen und unklare und mehrdeutige Wörter zu erklären, die Deutschen stellten Rückfragen und versuchten nach und nach sich in die geschilderte Situation hineinzuversetzen. Wie ist die Stille, wenn es geschneit hat? Mit welchen deutschen Adjektiven lässt sich diese Atmosphäre schildern? Satz für Satz entwickelte sich eine erzählte, durchdachte und hinterfragte deutsche Fassung des italienischen Textes, die für beide Schülergruppen spannend war – die Italiener mussten tief in den Text und seine Bedeutung eindringen, die Deutschen sich Gedanken über ihre Sprache und ihre Ausdrucksmöglichkeiten machen. Schlussendlich wurde nicht nur kommuniziert, sondern Literatur wurde erlebt.

La città smarrita nella neve – Italo Calvino Quel mattino lo svegliò il silenzio. Marcovaldo si tirò su dal letto col senso di qualcosa di strano nell'aria. Non capiva che ora era, la luce tra le stecche delle persiane era diversa da quella di tutte le ore del giorno e della notte. Aperse la finestra: la città non c'era più, era stata sostituita da un foglio bianco. Aguzzando lo sguardo, distinse, in mezzo al bianco, alcune linee quasi cancellate, che corrispondevano a quelle della vista abituale: le finestre e i tetti e i lampioni lì intorno, ma perdute sotto tutta la neve che c'era calata sopra nella notte. La neve! - gridò Marcovaldo alla moglie, ossia fece per gridare, ma la voce gli uscì attutita. Come sulle linee e sui colori e sulle prospettive, la neve era caduta sui rumori, anzi sulla possibilità stessa di far rumore; i suoni, in uno spazio imbottito, non vibravano. Andò al lavoro a piedi; i tram erano fermi per la neve. Per strada, aprendosi lui stesso la sua pista, si sentì libero come non s'era mai sentito. Nelle vie cittadine ogni differenza tra marciapiedi e carreggiata era scomparsa, veicoli non ne potevano passare, e Marcovaldo, anche se affondava fino a mezza gamba ad ogni passo e si sentiva infilare la neve nelle calze, era diventato padrone di camminare in mezzo alla strada, di calpestare le aiuole, d'attraversare fuori dalle linee prescritte, di avanzare a zig-zag.

Da Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, Einaudi, Torino, 1963

GRUPPO 1 Die Stadt ist im Schnee versunken Dieser Morgen wurde von Stille begleitet. Marcovaldo stand auf und spürte sofort, dass etwas Seltsames in der Luft lag. Er wusste nicht wie spät es war, denn das Licht, das durch die Jalousie fiel, war anders als sonst. Er öffnete das Fenster: Die Stadt -wie er sie kannte- gab es nicht mehr. Stattdessen lag auf ihr eine weiße Decke aus Schnee. Er beobachtete sie und inmitten von dem weiß sah er Konturen, so gut wie ausradiert, die mit dem gewohnten Anblick übereinstimmten: die Fenster sowie Dächer und Laternen um ihn herum waren verschwunden unter dem Schnee, der jene Nacht gefallen war.

GRUPPO 2 Die im Schnee versunkene Stadt An jenem Morgen weckte ihn die Stille. Marcovaldo steht mit dem Gefühl auf, dass Etwas in der Luft liegt. Er hatte sein Zeitgefühl verloren, weil das Licht, dass durch die Spalten der Klappläden dringte, anders war als sonst. Er öffnete das Fenster: Die Stadt war unter einer weißen Schneedecke veschollen. Um besser sehen zu können, kneift er seine Augen zusammen. Somit kann er die Umrisse der ihm bekannten Fenster, Dächer und Laternen von der weißen Schneedecke unterscheiden, jedoch sieht er sie durch den über die Nacht gefallenen Schnee verschwemmen.

GRUPPO 3 Die Stadt, die im Schnee versunken ist. Eines Morgens wacht Marcovaldo von der Stille auf. Eri st mit dem Gefühl aufgestanden, dass etwas seltsames in der Luft liegt. Er wusste nicht, wie viel Uhr es ist, denn das Licht, das durch die Jalousie schien, war anders als sonst. Er hat das Fenster geöffnet: Die Stadt war verschwunden und anstelle der Stadt war ein weiser Blatt Papier. In der Mitte des Weißen waren verschwommene Linien, die er täglich sah. Die Fenster, die Dächer und die Straßenlaternen waren von Schnee verdeckt, welcher in der Nacht gefallen war. Der Schnee!, ruft Marcovaldo seiner Frau zu, aber seine Stimme war nicht kräftig genug. Der Schnee bedeckt die Unruhe, und jede Möglichkeit Unruhe zu stiften.

GRUPPO 4 Die Stadt, die im Schnee versunken ist. Am Morgen wachte er, weil es so still war, auf. Marcovaldo stand mit dem Gefühl, dass etwas Ungewöhnliches in der Luft lag, auf. Er wusste nicht, wie viel Uhr es war, weil das Licht anders war, als es Nächtesein müssen. Er öffnete das Fenster: Die Stadt gab es nicht mehr, sie war durch weißes Papier ausgetauscht worden. Er fokussierte seinen Blick auf die verwischten Linien inmitten des Weißen, sie waren ähnlich mit dem, was er sonst sah: Die Fenster und die Dächer und Laternen vor dem Fenster waren unter dem Schnee versschwunden, der in der Nacht gefallen war.

Liceo Ariosto – Ferrara A.S.2017/2018 Progetto: Traduzioni/tradizioni: parallelismi e convergenze nella cultura e nella lingua

Per i dettagli relativi al progetto si può consultare il sito www.mywordswithyours.eu

Gianandrea De Cesare e John Valens Dela Torre.

Ang Alamat ng araw at gabi Noong unang panahon ay liwanag lamang at walang dilim, sapagkat sina Adlaw at Bulan ay mag- asawang maligayang namumuhay. Sila ay nagkaroon ng maraming anak. Ang kanilang mga anak ay mga tala at bituin na nagkakalat kung kaya't lalong nagliliwanag sa kalangitan.

Isang araw nagkaroon ng away ang mag-asawa na humantong sa paghihiwalay. Pinamili ang mga anak kung kanino sasama. Sapagkat mas mabait ang ina, sa kanya sumama ang lahat ng mga tala at bituin. Walang nagawa si Adlaw kundi tanggapin ang kanyang kapalaran. Simula noon. Kapag araw mag-isang nagbibigay liwanag si Adlaw. At sa gabing madilim tulong-tulong na nagpapaliwanag ang mag-iinang Bulan at ang mga anak niyang tala at bituin.

La leggenda del giorno e della notte C’era un tempo in cui era presente solo la luce. Adlaw e Bulan in quel tempo conducevano una vita felice insieme ai loro figli, i quali brillavano come le stelle del firmamento. Un giorno i genitori litigarono e così si separarono. Chiesero ai figli con chi volessero stare. Essendo stata la madre più gentile, i figli la scelsero. Adlaw accettò la scelta dei figli e da quel giorno Adlaw illumina il cielo da solo, mentre la madre illumina il firmamento insieme ai figli.

Ang alamat ng saging Noong unang panahon, isang magandang babae nakakilala ng isang kakaibang lalaki. Ito ay isang engkanto. Masarap mangusap ang lalaki at maraming kuwento. Nabihag ang babae sa engkanto. Ipinagtapat naman ng engkanto na buhat siya sa lupain ng mga pangarap, at hindi sila maaaring magkasama. Gayunman, umibig ang babae sa lalaki.

Isang araw, nagpaalam ang binata sa babae. Sinabi niyang iyon na ang huling pagkikita nila. Nang magpaalam ang engkanto, hindi nakatiis ang babae. Ayaw niyang paalisin ang lalaki. Maghigpit niyang hinawakan ang kamay ng lalaki para huwag itong makaalis. Pero nawala ang lalaki, at sa matinding pagkabigla ng babae, naiwan sa kanya ang kamay nito. Nahintakutan ang babae. Dali-dali niyang ang kamay sa isang bahagi ng bakuran.

Kinaumagahan, dinalaw niya ang pook na pinagbaunan ng kamay. Napansin niyang isang halaman ang tumutubo. Makaraan ang ilang buwan, tumaas ang puno na may malalapad na dahon. Nagkabunga rin ito na may bulaklak na itsurang daliri ng mga kamay. Ito ang tinatawag na saging ngayon.

La leggenda delle banane C’era una volta una ragazza molto bella e graziosa che incontrò un uomo dalle strane abitudini, che raccontava storie molto accattivanti, perciò la ragazza s’innamorò di lui. Lui però disse che non potevano stare insieme perché lui veniva da un posto misterioso ed estraneo a tutti. Ma alla ragazza questo non importava e così continuò ad amarlo. Arrivò il giorno in cui lui doveva partire e dicendo alla giovane che sarebbe stato il loro ultimo incontro, lei decise d’incatenargli la mano così lui non poteva andare via. Il giorno seguente lui svanì e di lui rimase solo la mano incatenata. La ragazza spaventata gettò la mano in giardino e dopo un po’ di tempo crebbero anche dei frutti a forma di dita, così nacque l’albero delle banane.

Valentine Santia Tolle classe 2F

La tortue, l’animal le plus sage Tiré d’une histoire vraie : Le Monde Animal Dans un petit village, la vie était saine et des clans se formaient , puis un jour le leader de celui des ‘’plus forts’’ qui était un chien, décida d’humilier une tortue d’un autre clan en lui proposant de faire une course et de voir qui serait le gagnant; la tortue accepta. Le jour de la course arriva. Plus le temps de la course approchait , plus le chien se vantait parce qu’il savait qu’il allait gagner; voyant la tortue calme il se moquait encore plus. Quand la course commença il dit à la tortue : « Prends de l’avance, ça te servira ». Ils se mirent à courir. La tortue mit à exécution son plan qu’elle avait passé toute la nuit à mettre sur pied. Son plan était simple: vu qu’elle avait quatre fils et que la distance à parcourir était de 200 mètres, elle plaça chacun de ses fils sur le parcours à 50 mètres de distance comme ça, à un certain moment quand elle se sentit fatiguée elle se retira de la course et son fils le plus proche continua et ainsi de suite. Bien sûr sans l’avoir dit au chien. À l’arrivée la foule vit la tortue et se demanda où était passé le chien, cinq minutes plus tard on vit le chien arriver épuisé; du coup il se sentit ridicule et la foule se moquait de lui. NE JAMAIS SOUS-ESTIMER SON ADVERSAIRE, peu importe comment il est.

La tartaruga, l'animale più saggio Tratto da una storia vera: Le Monde Animal In un piccolo villaggio la vita era tranquilla e si formavano dei clan, poi un giorno il leader dei clan dei "più forti", che era un cane, decise di umiliare una tartaruga di un altro clan proponendole di fare una gara e di vedere chi sarebbe stato il vincitore; la tartaruga accettò. Il giorno della gara arrivò. Più il tempo della sfida si avvicinava, più il cane si vantava perché era sicuro che avrebbe vinto; vedendo la tartaruga calma si prendeva ancora più gioco di lei. Quando la gara cominciò disse alla tartaruga:"Prendi vantaggio, ti servirà". Si misero a correre. La tartaruga mise in atto la strategia che aveva progettato durante tutta la notte. Il suo piano era: visto che aveva quattro figli e che la distanza da percorrere era di 200 metri, collocò ciascuno dei suoi figli sul percorso ogni 50 metri di distanza, cosicché quando la tartaruga si sarebbe stancata si fosse ritirata dalla corsa e il figlio più vicino avrebbe continuato e così via. Ovviamente senza averlo detto al cane. All'arrivo la folla vide la tartaruga e si domandò da dove fosse passato il cane, cinque minuti più tardi videro il cane arrivare sfinito; di colpo si sentì ridicolo e la folla si prese gioco di lui.

Non sottovalutare mai il proprio avversario, non importa come esso sia.

Guemne Chassem Rick Jordan Classe 1M

Le moustique est le véritable roi de la jungle Dans une jungle, il y avait un lion robuste et musclé. Il était le roi de la jungle. Chaque année, le lion devait choisir un animal pour combattre contre lui. Cette année -là, le lion choisit la tortue, et là, on entendit une petite voix : « Prends –moi à sa place ». C’était le moustique. En le voyant, tout le monde se mit à rire. Le moustique dit au lion : « Comme tu te moques de moi, si je gagne, je deviens roi ». Et le lion accepta. Le lion donna exactement une semaine au moustique pour se préparer. Le jour du combat, le lion sûr de gagner, vint avec toute sa famille. Quand le combat commença, le lion donnait des coups en vain jusqu’à s’épuiser et donc, le moustique en profita pour entrer dans son corps et le tuer.

La zanzara è la vera regina della giungla. In una giungla, c’era un leone robusto e muscoloso. Era il re della giungla. Ogni anno, il leone doveva scegliere un animale contro cui combattere. Quell’anno il leone scelse la tartaruga, e poi si sentì una piccola voce: «Prendi me al posto suo». Era la zanzara. Vedendola tutti si misero a ridere. La zanzara disse al leone: «Visto che ti burli di me, se vincerò, diventerò la regina.» Ed il leone accettò. Il leone diede esattamente una settimana alla zanzara per prepararsi. Il giorno dell’incontro il leone, sicuro di vincere, venne con tutta la sua famiglia. Quando il combattimento cominciò, il leone diede dei colpi a vuoto fino ad esaurire le sue forze e quindi, la zanzara ne approfittò per entrare nel suo corpo ed ucciderlo.

Guemne Chassem Rick Jordan Classe 1M

Pourquoi les chauves-souris fuient le soleil Autrefois, la chauve-souris et le soleil étaient de très bons amis. Ils se parlaient toujours, chacun avait une grande confiance et étaient toujours là l’un pour l’autre. Leur amitié ne pouvait pas ​être séparée. Un jour, la mère de la chauve-souris mourut. Le jour du deuil¹, la chauve-souris était en retard sur son programme. Le soleil répétait sans cesse : « Dépêche- toi, je dois partir ». Et alors, l’heure du coucher du soleil arriva. La chauve-souris suppliait le soleil de ne pas partir mais le soleil s’en alla. À la fin, la chauve-souris fit son deuil sans le soleil et depuis ce jour, ils sont devenus les plus grands ennemis.

¹ deuil = enterrement

Perchè i pipistrelli fuggono dal sole Un tempo, il pipistrello e il sole erano grandissimi amici. Si parlavano sempre, entrambi avevano una gran fiducia e c'erano sempre l'uno per l'altro. La loro amicizia non poteva essere spezzata. Un giorno, la madre del pipistrello morì. Al funerale, quest'ultimo era in ritardo sul programma. Il sole ripeteva senza sosta: “Sbrigati, devo andare”. Arrivò così l'ora del tramonto. Il pipistrello supplicava il sole di non partire, ma questi se ne andò. Alla fine, il pipistrello fece il funerale senza il sole e, da quel giorno, sono diventati i più grandi nemici.

Spărgătorul de nuci Fără Guguță nu se culegeau nucile în satul Trei Iezi. Guguță se cățăra unde nu ajungea cea mai lungă prăjită. Cine avea cîte un pom mai înalt, tot la tatăl lui Guguță venea. -Fă bine, cumetre, și dă-mi băiatul, că altfel mi le fură ciorile. Îți dau nucile in parte. Și curgeau grîlă nucile la casa omului. De la o vreme tata lua numai nuci de cele lunguiețe. Trosneau și scîrţîiau ușile seara și dimineața, iarna și vara de atîta nucăraie. Tata căra în spate, la tîmplar, cînd o ușă, cînd alta. Și vindea omul pîinea din pod ca să le dreagă. Nu le aducea bine acasă și băgau alte nuci în crăpătura ușilor. Cînd vedea tata în pragul toamnei că nucile prind a lepăda coaja și oamenii o să-i bată iar în poartă, își lua fiul cu binișorul: -Măi Guguță, poate că te doare vre-un picior? -Mi-a trecut, tată. Și se cățăra încă mai sus și iar zuruiau nucile în curtea omului... Bucuris că o să aibă și anul ăsta de lucru, l-a luat și tîmplarul pe Guguță la bătut nuci. Tatăl lui Guguță umbla cu fruntea in sus și nasul în jos.

Trejevi, un paesino come tanti, era noto per le sue piantagioni di noce. Quando le noci maturavano ed erano pronte per il raccolto i proprietari cercavano di coglierle, ma nessuno ci riusciva senza Guguzo. Infatti egli arrivava alla cima di ogni albero grazie alle sue doti nell'arrampicarsi. Coloro che possedevano nella loro proprietà gli alberi più alti, erano costantemente a rischio di furto, ed il padre di Guguzo doveva risarcire il proprietario per le noci rubate dal figlio. Il figlio, richiesto per le sue doti, era sempre soggetto alle conversazioni degli abitanti ed il padre sentiva spesso le richieste d’aiuto nei loro dialoghi: "Cedimi il ragazzo, amico mio, che mi raccolga le noci, altrimenti andranno in pasto ai corvi. Se il raccolto sarà abbondante, ve ne cederò la metà." Grazie a Guguzo le noci a casa non mancavano mai, ve ne erano talmente tante che la casa era sempre in procinto di rompersi, tant’è che il padre andava vantandosi tra la gente dicendo che le porte e le finestre erano sempre rotte e doveva portarle dal falegname a farle riparare! Ma la vanità del padre non era limitata alle parole: considerando le abilità del ragazzo tanto da farne un lavoro, iniziò a scegliere con criterio le noci da raccogliere. Dispregiando quelle tonde preferiva quelle a forma di mandorla. Guguzo offriva il suo operato arrampicandosi sugli alberi e muovendoli; le noci, venendo scosse, si staccavano. Guguzo era felice del suo lavoro di “schiaccianoci” - soprannominato così dagli abitanti di Trejevi – così come lo era il falegname nel riparare le porte. Il padre, orgoglioso del figlio, camminava a testa alta ma con il naso all’ingiù imbarazzato dai furti iniziali del figlio.

Traduzione dal moldavo di Ruxanda Balan e Anastasia Mella

Gugutze e le noci Nel paesino di Trei Iezi, nessuno riusciva a raccogliere le noci negli alti alberi, ma Gugutze poteva anche arrivare fino alle cime più alte e ai rami più lontani. Purtroppo la gente che possedeva i noci era a rischio di essere derubata. “Fai bene a darmi tuo figlio in servizio, altrimenti i corvi ruberebbero le mie noci. Se riuscirà a raccoglierle tutte, te ne darò la metà.”: questo era ciò che il padre di Gugutze sentiva dirsi da tutti. Grazie all’aiuto del figlio, il padre possedeva tante noci. Dopo un po’ di tempo, le noci a forma ovale erano le più gettonate; veniva quasi applicato un “criterio” di scelta. Le noci erano talmente tante da occupare lo spazio di tutta la casa, le finestre e le porte venivano caricate in spalla dal padre, che le portava a farle riparare perché si rompevano spesso. Questo ragazzo ha continuato ad arrampicarsi sugli alberi e le noci tremavano sui rami. Lui era molto contento di fare questo lavoro… e anche il falegname era contento di ottenere soldi riparando le porte! Il padre andava in giro orgoglioso del figlio ma anche un po’ imbarazzato dal tipo di lavoro.

Traduzione dal moldavo di Ruxanda Balan e Marina Pachelli

Lo schiaccianoci Guguze viveva nel piccolo paese di Treijezi, famoso per i suoi noci bellissimi ed imponenti, ed aveva il compito di raccogliere tutti i frutti perché nessun altro riusciva a farlo. Guguze, infatti, aveva un talento sensazionale: era capace di arrampicarsi, abile come una scimmia, sino alla cima degli alberi, arrivando perfino ai rami più lontani e periferici. E coloro che possedevano i noci più alti e ricchi di frutti invitanti tremavano al sentir pronunciare il nome del ragazzo, che si sarebbe sicuramente intrufolato nei loro giardini per rubare più noci possibili. Oh, povero il padre di Guguze, che si trovava ogni volta pieno di debiti da saldare! Ma venne il momento in cui ci fu chi ebbe bisogno dell’agile Guguze, tanto che per il padre era diventata un’abitudine udire frasi del tipo: “Amico mio, ascolta bene le mie parole: se lascerai venire da me il ragazzo per raccogliere tutte le noci dei miei alberi, in modo che i corvi non riescano a rubarle rovinando così il mio duro lavoro, io ti donerò metà del mio raccolto” E così, a poco a poco fu impossibile non riconoscere la piccola e modesta dimora di Guguze: al suo interno c’erano così tante noci che la casa sembrava scoppiare! Il padre di Guguze si vantava persino che, mensilmente, doveva caricarsi porte e finestre in spalla, perché l’eccesso di noci in casa sua faceva rompere i serramenti e lui era costretto ad andare dal falegname per farle riparare. Con il passare del tempo, e a forza di vedere noci, il padre di Guguze era diventato un esperto nel riconoscere quelle più belle, buone e succulente, ossia quelle ovali; Guguze era entusiasta per quante noci aveva raccolto e il falegname non era da meno perché per via di tutte le porte rotte faceva affari d’oro! Eppure il padre di Guguze andava in giro per Treijezi a testa alta e spalle basse, fiero del lavoro di suo figlio, ma anche un po’ imbarazzato.

Traduzione dal moldavo Ruxanda Balan e Carolina Battaglia

Nota: nella versione originale della storia, il padre di Guguze va in giro per il paese a “testa alta e naso in giù”. Abbiamo deciso di sostituire il naso con le spalle, per rendere il detto più comprensibile ad un pubblico di lettori italiani, essendo questo un modo di dire più diffuso. Questo eBook è frutto di una collaborazione tra Comune di Ferrara e Liceo Scientifico “A. Roiti” di Ferrara.

ISBN 9788898786374 2019 Comune di Ferrara

LE MIE PAROLE CON LE TUE è un progetto finanziato dal programma ERASMUS+

Direzione del progetto: i Dirigenti scolastici Mara Salvi (Liceo Ariosto), Donato Selleri (Liceo Roiti), Nicola Wölbern (AKG) Responsabile editoriale: Mario Sileo Direzione amministrativa: Donatella Verna (Liceo Ariosto), Giuseppina Favaron (Liceo Roiti) Da un’idea di: Roberta Bergamaschi, Ingrid Ickler, Giorgio Rizzoni

Hanno condotto i laboratori: Roberta Bergamaschi, Stefania Borini, Hans-Jürgen Boysen-Stern, Francesca Cis, Hendrik Dietz, Paola Gnani, Ingrid Ickler, Andrea Klein, Anne Kliba, Florian Krumb, Maria Cristina Meschiari, Rainer Michels, Andrè Puhalo, Micaela Rinaldi, Giorgio Rizzoni, Mario Sileo.

Progetto grafico e realizzazione eBook a cura del Liceo Scientifico “A. Roiti” di Ferrara con la collaborazione della classe 4S del Liceo Ariosto di Ferrara e degli allievi di AKG Bensheim

Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.

Un particolare ringraziamento al dott. Hartmut Holzapfel - Vorsitzender des Hessischen Literaturrats, Staatsminister a. D. al prof. Waldemar Borsutzky – Hochschule Darmstadt, University of Applied Sciences alla dott.ssa Heike Gabriel – Hochschule Darmstadt, University of Applied Sciences alla dott.ssa Laura Marcolini Caggiano a Silvia Boni, allieva del Liceo Roiti per la realizzazione del logo del progetto Si ringraziano autori ed editori per la gentile concessione dei testi pubblicati nella presente antologia.

Si resta a disposizione degli eventuali aventi diritto sul materiale iconografico con i quali non è stato possibile comunicare e ci si impegna in tali casi ad aggiungere prontamente le referenze.