Circolo Ufficiali Marina Mercantile Riposto

Storie e racconti di mare Volume XIV

RIPOSTO «Porto dell’Etna»: un piccolo centro marinaro capolinea di un affascinante itinerario turistico a�orno al Vulcano

Foto G. Copani Selezione di opere presentate ai concorsi “Fa�i di bordo” e “Narrativa” del Premio Nazionale Artemare sul tema “L’uomo e il mare” RIPOSTO 2008

Assess. turismo Provincia Regione Sicilia Dipartimento Comune Assessorato turismo, sport Regionale e spe�acolo Riposto Catania beni culturali, ambient. e p.i.

Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Il Presidente del Circolo Cap. d. m. Gioacchino Copani

PRESENTAZIONE DEL VOLUME

Il Circolo degli ufficiali della Marina mercantile di Riposto, sin dalla nascita avvenuta esattamente 40 anni fa, ha voluto inserirsi nel panorama culturale dell’Italia del mare, proponendo la manifestazione Artemare. Giunta quest’anno alla 34a edizione e, pregio importante, senza alcuna interruzione, essa è una manifestazione a tema sui rapporti che legano l’uomo e il mare e ogni anno prospetta questioni sempre diverse: la difesa dell’ambiente marino, il turismo nautico, la nautica da diporto, l’istruzione nautica, le autostrade del mare, l’inquinamento marino, l’Università del mare, lo stress dei naviganti, l’assistenza medica a mare e tante altre ancora. Allo scopo di lasciare testimonianza di quanto realizzato nel tempo, il fiore all’occhiello dell’iniziativa sono le raccolte “Riposto e il mare” e “Storie e racconti di mare”. Sono queste pubblicazioni che certificano la storia del Premio. La prima, costituita finora di quattro volumi (le cui foto delle copertine sono riportate a pagina 210), oltre alle varie attività del Circolo e ad articoli di giornali e riviste sulle manifestazioni, elencano il materiale fotografico e tipografico delle varie sezioni, e nel contempo riportano i nomi di tutti i premiati. La collana “Storie e racconti di mare”, composta con questo di 14 volumi (vedi pag. 96), raccoglie le opere migliori del concorso riservato ai naviganti “Fatti di bordo” e, da alcuni anni, anche i racconti premiati nella sezione “Narrativa” (sempre sul tema “L’uomo e il mare”) aperta alla fantasia di tutti. Il successo dell’iniziativa è dipeso indubbiamente dalla benevolenza delle Amministrazioni comunali, provinciali e regionali succedutesi nel tempo ed è, quindi, giusto riconoscere che il Circolo poteva fare ben poco senza l’aiuto delle Istituzioni. Dobbiamo tuttavia confessare con sincerità che riteniamo di essere penalizzati nell’assegnazione delle sovvenzioni. Il contributo comunale, pur essendo il più consistente tra quelli assegnati alle associazioni locali, è modesto per l’impalcatura della manifestazione.

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Ultimamente aumentano i costi e si riducono le sovvenzioni. Dubitiamo che questa nostra iniziativa possa proseguire. Per onestà, dobbiamo affermare che ci dispiace che il nostro impegno, speso in questi anni, venga perso. Quindi, ci permettiamo invitare l’Amministrazione comunale a far sua questa manifestazione. Il porto turistico è ormai una realtà. Ogni paese a vocazione turistica deve avere una manifestazione che lo caratterizzi, ed il Premio nazionale Artemare, per la sua storia e per l’importanza acquisita, può ben rappresentare la città di Riposto. Attorno a questa “Festa del mare”, che Riposto celebra dal 1975, possono confluire tante altre iniziative attinenti all’ambiente “mare”. Sono tantissimi gli spettacoli che possono congiungersi: da quelli sportivi a quelli tradizionali, popolari, tipici locali, ecc. L’operare in sinergia attorno ad un unico tema porterebbe ad un risultato migliore di quello ottenuto dalle singole ed isolate iniziative. E soprattutto si ridurrebbero i costi evitando quelle doppie, ed anche triple, iniziative che trattano lo stesso argomento. A Riposto sono tante.

Riposto «Porto dell’Etna» - Piazza della Vittoria - Balcone sul mare - Questa rada accoglie i super e i mega yachts che, ingiustamente, non possono entrare in un porto classificato “Interregionale con funzioni: commerciale, servizio passeggeri, turistica e da diporto, peschereccia”

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Il Sindaco di Riposto on.le prof. avv. Carmelo D’Urso

Ancora una volta il Circolo degli Ufficiali della Marina mercantile di Riposto, pur nella ristrettezza delle risorse, ha dato vita ad un altro volume, il XIV, della collana Storie e racconti di mare, nel quale sono raccolte le opere presentate nelle edizioni 2004, 2005 e 2007 del Premio nazionale Artemare. L’attività editoriale del Circolo documenta la vitalità del Premio che, come altre volte ho scritto, costituisce un fatto unico nel panorama culturale italiano. Il Circolo, per le sue iniziative, si è nel tempo avvalso dell’opera infaticabile del suo presidente prof. Gioacchino Copani, al quale si deve anche l’impaginazione del presente volume. Il Premio, per l’originalità della sua formula, merita un’ attenzione maggiore da parte delle istituzioni ed in modo particolare della Regione, che non può non tener conto delle caratteristiche di esso e dell’alto livello di tutte le sue edizioni. Ritengo che sia giunto il momento per il Comune di far sua la manifestazione, accogliendo la proposta del Circolo e facendo convergere tutti gli sforzi verso l’unico obiettivo di organizzare un’autentica Festa del mare di grande respiro che, in modo più incisivo, ponga Riposto al centro dell’attenzione del paese. In tal senso il mio augurio nel momento in cui, mi accingo, dopo dieci anni, a lasciare la carica di sindaco della città. Riposto, 30 giugno 2008.

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Ai Sindaci di Riposto, che si sono succeduti nei 34 anni di attività del Premio Artemare, va il nostro ringraziamento per il sostegno finanziario e soprattutto perché nessuno di loro ha mai disertato alcuna cerimonia conclusiva.

Avv. Salvatore Patti Dott. Francesco Di Pino

Sen. dott. Santi Rapisarda Cap.d.m. Mario Di Pino

Ing. Rosario Mirone On. prof. avv. Carmelo D’Urso

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Questo XIV volume della collana “storie e racconti di mare” contiene opere premiate nelle edizioni 2004, 2005 e 2007 del Premio Nazionale Artemare La Commissione giudicatrice del concorso“FATTI DI BORDO” (riservato agli uomini di mare) e di quello di “NARRATIVA” (aperto a tutti) - espletati negli anni 2004, 2005 e 2007 - è stata presieduta dal prof. universitario Orazio Licciardello e composta della dott.ssa Betty Denaro, Segretaria - dell’on.le prof. avv. Carmelo D’Urso, Sindaco del Comune di Riposto - del comandante della Capitaneria di Porto di Riposto pro tempore - della prof.ssa Sara Martello - del capitano di macchine Mario Di Pino e del capitano di lungo corso Angelo Leonardi. Nella commissione del 2004 ha fatto parte il Ten Vasc. Francesco Pantano, in quella del 2005 era presente il Ten. Vasc. Antonio Lo Giudice ed infine nel 2007 ha partecipato il Ten. Vasc. Francesco Terranova. Nell’edizione 2006 di Artemare, le sezioni “Fatti di bordo” e “Narrativa” hanno lasciato il posto ad una sezione dedicata alla ricorrenza del Centenario della posa della prima pietra del porto di Riposto. Gli autori, che nelle suddette tre edizioni hanno ottenuto più di una segnalazione, in questo volume troveranno solo uno dei loro racconti. Le altre opere saranno inserite in una successiva pubblicazione.

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SEZIONE FATTI DI BORDO 2004 - XVI edizione 1° Premio - Giovanni Pagano di Torre del Greco NA - “Quando il diavolo ci mette la coda” «Anche gli aspetti più difficili e più duri della vita di mare hanno un risvolto frivolo e godibile. La prova è in questo gustoso racconto, in cui la struttura cronicistica, con i suoi sillogismi e le sue successioni causali, camuffa a mala pena la costante e divertita ironia con cui si narrano le vicende del personale della “Gioacchino Lauro” e, soprattutto, le vicissitudini di “Aglitiello”, velate dall’ombra di un malizioso sospetto». 2° Premio - Igino Terramoccia di Porto S. Stefano GR - “Il pianto del delfino” «Semplice, delicato canto di ringraziamento, piccolo inno a sentimenti atavici e viscerali, capaci di unire esseri umani e marini con filo sottile ma tenace. Una volta tanto, l’uomo non distrugge ma protegge, non ostacola-ma unisce, ritrovando nel proprio intimo l’eco profonda dell’amore materno e rivivendolo, in un impeto di profonda empatia, nel legame tra un delfino e il suo piccolo». 3° Premio - Antonio Riciniello di Gaeta LT - “Lay-up” «Ritorna un incubo, quello dell’incendio a bordo. Ritorna con tutta la forza della sua crudeltà e la veemenza dell’imprevisto, e duramente colpisce. Perché spesso, anche in mare, la vita umana viene investita dall’inevitabile e di fronte ad esso, sconfitta, soccombe. L’autore conosce bene il mostro, ne tratteggia i lineamenti con mano dolente ma forte, regalandoci l’indimenticabile ritratto di un aspetto violento e inusuale della vita di bordo». MENZIONI Giovanni Colonna di Bari “La bambola di pezza” «Per l’accurata tecnica narrativa, attraverso cui un’umile bambola di stoffa, che pende tristemente dai resti di una capanna, diventa l’effige di un intero villaggio filippino distrutto da un tifone». Leonardo Fiore di Napoli “Il primo imbarco nel cerchio dei miei ricordi” «Per l’accorata ricostruzione di un vissuto emblematico, che si snoda lungo gli anni difficili del dopoguerra ed appare pregno di sentimenti radicati e profondi». Girolamo Melissa di Augusta SR “Burrasca provvidenziale per l’ingrassatore” «Per la commossa partecipazione con cui si narra un evento di bordo, che avrebbe potuto avere un tragico epilogo senza quei sentimenti di affetto e di protezione che sempre dovrebbero legare un comandante al suo equipaggio». Domenico Pischedda di Cornigliano GE “Pablito e il delfino bianco” «Per la delicata semplicità del racconto - quasi una favola - in cui due creature così diverse si trovano accomunate dall’amore per il mare e dal reciproco affetto». Pasquale Sortino di Palermo “Un passato mai assopito” «Per l’emblematicità della vicenda narrata, nella quale spiccano i sentimenti di solidarietà che legano gli uomini di mare e la semplicità con cui sono capaci di compiere anche atti di grande eroismo».

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Giovanni Pagano

QUANDO IL DIAVOLO CI METTE LA CODA

egli anni sessanta i contratti d’imbarco per i marittimi a tempo indeterminato Navevano la durata minima di un anno e se la nave si trovava all’estero ed era diretta in Italia si prolungava ancora di due mesi. Erano clausole che impedivano all’armatore di sbarcare il marittimo, senza giusta causa, ed il marittimo di rompere il contratto prima della conclusione evitando colpi di testa, poiché se questi decideva di sbarcare all’estero doveva pagarsi il viaggio per il rientro in Italia e tutte le spese d’imbarco del suo sostituto. Qualcuno che non sopportava la lontananza di casa aggirava l’ostacolo marcando visita medica al primo porto d’approdo e se riconosciuto effettivamente ammalato era la Cassa Marittima a farsene carico per il rientro. Quelli che ci riuscivano erano ben pochi, poiché i comandanti nei porti dove si arrivava avevano l’indirizzo e il numero di telefono del medico fiduciario convenzionato con la Cassa Marittima, facevano la loro bella telefonata prima che il tizio si presentasse a visita medica. Pertanto il medico messo accorrente della situazione del soggetto che doveva visitare, e lo rispediva a bordo, con qualche pillola o qualche bustina effervescente. Quindi per sbarcare bisognava essere effettivamente ammalati. Quello che vi sto a raccontare ha dell’inverosimile, poiché in 35 anni di navigazione non ho visto sbarcare tanta gente per infortuni o malattie in un solo viaggio. Eravamo ai primi di marzo del 1968, la nave Giacchino Lauro ormeggiata nel porto nuovo di Trieste era carica, pronta per partire per il Golfo Persico. Pilota a bordo, mollati gli ormeggi, dovemmo accostarci nuovamente in banchina con l’aiuto dei rimorchiatori. Era successo che l’Allievo di Macchina, Ciro Esposito non avvedendosi di una grisella in ferro tolta, cadde nel piano sottostante facendo un volo di cinque-sei metri. La caduta fu dritta come un chiodo e arrivò in piedi come i gatti, non riportando nessuna ferita ma una forte contusione a tutte e due le anche. Immediatamente il Comandante Martino Cafiero chiamò l’ambulanza e l’Esposito venne portato in ospedale per gli accertamenti del caso. Fu così che

Pagina 11 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° partimmo già dalla partenza con una persona in meno. «Il viaggio inizia sotto una cattiva stella», sentenziò il comandante. Mai sentenza fu così appropriata, infatti il Gioacchino Lauro ogni porto che scalava sbarcava una persona. Dopo circa venti giorni dalla partenza approdammo a Port Elizabeth per uno scalo tecnico di poche ore. Durante la sosta il Giovanotto di Macchina Aldo Patello scese a terra sul lungomare che costeggiava il porto e si mise a corteggiare una ragazza negra la quale vedendosi vezzeggiata si fermò a parlare, facendosi capire entrambi a gesti. Un uomo bianco del posto vide tutta la scena e li raggiunse. A questo punto la ragazza scappò via come una lepre, Aldo Patello rimase fermò come interdetto e si prese un sacco di improveri dall’uomo che l’aveva seguito, spiegandole che lui non si poteva accompagnare ad una ragazza africana era proibitissimo. Ma il povero Patello non sapeva nulla di queste cose, che in Sud Africa vigeva il regime politico-istituzionale basato sull’apartheid e poi non capiva una acca di inglese tanto che si arrabbiò, grignando i denti e facendo la faccia brutta. L’uomo bianco per tutta risposta lo fracassò di pugni e lo ridusse malconcio in malo modo, fu così che perdemmo il secondo membro dell’equipaggio. Fu portato in ospedale dalla polizia Sud Africana, ove ci rimase una decina di giorni prima di essere rimpatriato in Italia. Il comandante non voleva lasciarlo lì ma non ci fu niente da fare. Sentenziò ancora una volta: «Sono 2 e non siamo che agli inizi del viaggio». Partimmo da Port Elizabeth diretti a Karachi (Pakistan), fu una traversata tranquilla anche per le buone condizioni di mare e di vento. Appena ormeggiati a Karachi, sottobordo si fermò una lunga fila di mendicanti, giocolieri ed incantatori di serpenti ed altra gente che vendeva cianfrusaglie come souvenir. Avevamo terminato le operazioni di scarico quando il Garzone di Cucina Carminiello Borriello si sentì male, fu chiamato il dottore a bordo e diagnosticò subito attacco di appendicite acuta, con necessità urgente di essere operato, prima che si trasformasse in peritonite. Fu sbarcato immediatamente ed operato d’urgenza in ospedale. Il comandante lo raccomandò alle suore missionarie della Divina Provvidenza che durante la sosta erano venuta a bordo a questuare qualcosa per il loro orfanotrofio. Il cuoco, se avesse potuto, avrebbe svuotato tutta la cambusa per dargliela alle suore poiché si era invaghito di una suora veramente bella e oltretutto anche simpatica. Sulla camionetta delle suore fu caricato tutto un ben di Dio, tanto che ci invitarono nella loro missione, dove c’erano centinaia di bambini e bambine che ci fecero tanti inchini di ringraziamento. «È la terza persona dell’equipaggio che perdiamo», disse il comandante »e speriamo che sia finita qui, ormai abbiamo completato a tre, come dice il proverbio: non c’è due senza tre». Partimmo da Karachi alla volta di Dammam porto saudita, vicino al porto petrolifero di Ras Tanura, ove giungemmo dopo due giorni di navigazione. Ormeggiammo lungo un pontile di legno, con dietro delle dune di sabbia e non si vedeva altro, fino a che l’occhio poteva spaziare, che deserto. Dopo appena qualche

Pagina 12 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Quando il diavolo ci mette la coda Giovanni Pagano giorno di sosta si ammalò il Primo Ufficiale, la sabbia sollevata dallo sciamallo (vento del deserto) aveva arrossato i suoi occhi. Fu interpellata l’agenzia se c’era un medico sul posto o dalla vicina Ras Tanura, rispose che doveva venire da Riyadh e ci volevano dalle quattro alle cinque ore di macchina prima che arrivasse. Verso sera arrivò un uomo vestito tutto di bianco con il capo coperto, insomma con il classico abbigliamento arabo, visitò il Primo Ufficiale e gli diagnosticò un virus di una congiuntivite fulminante di tipo infettiva che gli aveva lesionato la retina dell’occhio sinistro. In Arabia Saudita a quei tempi era impossibile a persone straniere essere ricoverate in ospedale, bisognava curarli a bordo. A via di collirio di acido borico ed altre cure il Primo Ufficiale Donato Frulio riuscì a vederci un poco, tutto il viaggio si portò questo strascico di infezione agli occhi. Specialmente la mattina, non riusciva ad aprire gli occhi, che si muravano completamente e sentiva come degli spilli dentro le pupille. Per ripararsi dal sole abbagliante del Golfo Persico, si mise un paio di occhiali scuri e si bendò l’occhio sinistro con un batuffolo di garza. Il Comandante Martino Cafiero ringraziò Iddio che non gli fece perdere almeno il Primo Ufficiale, sebbene bendato gli era sempre di aiuto. Lasciammo così il porto di Dammam, dopo un giorno di navigazione giungemmo a Fao, imbarcammo il pilota e risalimmo lo Shatt Al’Arab (il grande fiume arabo) fino al porto di Bassora. Allora Bassora era una bella e tranquilla città posta alla confluenza del Tigri e l’Eufrate, una città immersa nel verde delle palme, le sue mura erano tappezzate di fiori di mille colori e dai balconi pendevano a grappoli i glicini come cascate di acque azzurre che mi facevano ricordare le reminescenze bibliche dei giardini di Babilonia. L’agenzia marittima per il disbrigo delle pratiche della nave era gestita da un iracheno, che fungeva anche da console onorario italiano ed aveva una padronanza perfetta della nostra lingua, avendo studiato all’università per gli stranieri a Perugia. Ci accolse con tanta benevolenza, tanto che regalò ad ogni persona dell’equipaggio un “carnet” di biglietti che servivano ad entrare in uno dei club più chic ed esclusivi della città, ove si potevano spendere questi “coupons” di diverso colore e diverso valore nei vari stands del circolo stesso. Fu una bellissima sosta, ma ancora una volta la sfortuna ci perseguitava, quando tutto sembrava che fosse andato “liscio”, purtroppo anche a Bassora si dovette sbarcare una persona. Proprio la sera prima della partenza il nostromo Arcangelo Lamoriello in preda ad un attacco di epilessia (malattia che nessuno di noi sapeva che avesse) si fracassò la testa contro lo spigolo della paratia della cabina. Solito copione ormai recitato a memoria, fu chiamata l’ambulanza, portato in ospedale, ove il medico riscontrò una profonda ferita, ed avendo battuto la testa dovemmo lasciarlo lì per gli accertamenti del caso, si temeva di un trauma celebrale. «E così siamo arrivati a quattro», bisbigliò il comandante, ma si vedeva che era triste ed esacerbato, ancora una volta il destino avverso puniva lui e la sua nave, proprio vero sussurrò a mala

Pagina 13 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° pena sono uno «scalognato». Ma non era ancora finita, la sfortuna stava ancora in agguato. Stavo approntando la macchina per la partenza, quando mi cadde in sentina una chiave a gancio (nel 1968 facevo il 1° macchinista), alzai il paiolo e scesi giù in sentina per prenderla, nel frattempo squillò il telefono, mi alzai di scatto e urtai con violenza contro “il volantino” di una valvola con conseguente ferita lacero contusa sulla parte destra occipitale, ferita che ancora ne conservo il ricordo nella cicatrice. Altra corsa in ospedale, ove fui medicato e fasciato con un bel turbante, facendo la fine di “Pasqualino o maragià”. Il Comandante mi fu vicino, e volle lui stesso accompagnarmi in ospedale, dicendomi: «Giannuzzo, stai tranquillo, supereremo anche questa, tu non sarai la 5a persona a lasciare la nave. Fui dimesso all’istante, tornammo a bordo e subito dopo la nave salpò, destinazione Goa (India). A Goa, caricammo il solito minerale di ferro diretto in Italia, all’Ilva di Trieste. Come dicevo, il comandante Martino Cafiero era un uomo calmo, tranquillo e pacifico, tutte queste disavventure che stava passando l’equipaggio della sua nave non le meritava. Ma lui aveva come si suole dire spalle larghe e buonumore, si dimostrava sempre allegro e scherzava con tutti. Noi tutti lo rispettavamo sia come uomo che come Comandante. Di tutto quello che ci era accaduto c’eravamo dimenticati, la sera giocavamo nella saletta a briscola e tressette, ed abbiamo organizzato anche un torneo con i vari gironi ed eliminatorie. Un marinaio di Torre del Greco soprannominato “Aglitiello” era, oltre ad essere un ottimo marinaio, anche un bravissimo giocatore di tressette, e scelse come suo compagno di gioco un altro marinaio detto “Papuscio”. Tutti e due facevano coppia fissa, ed erano uno più comico dell’altro, la sera era un appuntamento fisso di risate e spensieratezza. Dopo la partenza da Goa, puntammo la rotta sul Capo di Buona Speranza e la navigazione fu tranquilla, il tempo passava veloce, ma una sera il marinaio “Aglitiello” non si presentò in saletta per il torneo, doveva disputare la finale di briscola e tressette. Fu l’altro compagno di coppia il “Papuscio” a dire che Aglitiello non si sentiva bene, aveva dolori di pancia e gli era salita la temperatura a 38,5 gradi. Il Comandante chiamò il 3° Ufficiale e lo mandò nella cabina dove stava Aglitiello disteso in cuccetta in preda a forti dolori. Assieme al 3o Ufficiale ci accodammo due tre persone per vedere cosa era successo, fra cui il “Papuscio”, che nonostante l’amico si lamentasse per i dolori, lo prendeva in giro dicendogli che se aveva il mal di pancia era cosa da niente: «Saranno le doglie del parto, fra poco partorirai e si toglie tutto». Ma “Aglitiello” non rise affatto come era solito fare, ma si mise a piangere. Il Terzo Ufficiale, che ha anche il compito di assistere gli ammalati ed ha in consegna la farmacia di bordo, si fece spiegare bene i sintomi del dolore e riferì tutto al Comandante. Il Comandante andò anche lui a vedere per sincerarsi di persona delle condizioni dell’ammalato, lo visitò e notò che il pancione di Aglitiello oltre ad essere grosso come al solito era duro come un tamburo, ma non si preoccupò più di tanto. Poi rivolgendosi al 3° Ufficiale disse di dargli delle compresse di Buscopan e

Pagina 14 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Quando il diavolo ci mette la coda Giovanni Pagano delle gocce di Belladonna. Tutta la notte “Aglitiello” la passò in preda al dolore, il mattino seguente il comandante lo visitò nuovamente e gli chiese da quanto tempo non andava a gabinetto, e “Aglitiello” rispose: «Da più di una settimana». Allora il Comandante disse al 3° Ufficiale di somministrare all’ammalato una busta di sale inglese come purgante, ma non ci fu nulla da fare. Le grida di dolore di “Aglitiello” rimbombavano per tutta la nave, perdendosi nell’immenso dell’oceano. A bordo non si parlava altro che di “Aglitiello”, povero uomo soffriva come un cane bastonato. Alla fine il Comandante decise di fargli un “clistere”, era compito del 3° Ufficiale a compiere tale operazione. Il 3° Ufficiale Signor Graziosi, un ragazzone di Ortisei della Val Gardena, preparò l’infuso, spurgò l’aria dal beccuccio e lo infilò. Ma il beccuccio non entrava dentro, più spingeva e più tentava ad uscire fuori, non ci fu verso, aprì la farfallina del rubinetto, pose il recipiente più in alto per dargli più pendenza, non scese neppure una goccia. Provò e riprovò un sacco di volte, ma la spingarda non entrava, alla fina si accorse che mentre spingeva, c’era qualcosa di duro che impediva l’entrata, e provò a farla entrare a colpetti, ed allora si accorse che il beccuccio urtando emetteva un suono un po’ cupo “toc, toc, toc”. Fu a questo punto che “Aglitiello” oltre a lamentarsi per il dolore scoppiò a piangere come un vitello ferito a morte; ed assieme al pianto misto al dolore disse: «Quando il diavolo ci mette la coda» e spiegò tutto quello che gli era successo: «Otto giorni fa, smontato dal turno di guardia, sono andato a farmi la doccia; il diavolo volle che mentre mi facevo la doccia sono scivolato, nel piatto della doccia c’era la bottiglia dello shampoo di Pino Silvestre e nel cadere mi si infilò dentro come una supposta; tentai in tutti i modi di farla uscire, ma ormai era stata risucchiata dentro». Il 3° Ufficiale non finì neppure di ascoltare il racconto che scappò di corsa per riferire al Comandante. Il Comandante come sempre con pacatezza, senza fare una piega, era abituato alle disavventure, ormai come dice il proverbio “Ci aveva fatto il callo” senza scomporsi chiamò il Radiotelegrafista, dicendogli di chiamare il CIRM (cento italiano radio medico) dettandogli il seguente dispaccio: Il marinaio Aglitiello Michele di anni 52, accidentalmente mentre faceva la doccia scivolava infilzandosi nell’ano una bottiglia di plastica di pino silvestre. Il malcapitato è in stato febbrile elevato ed è in delirio per i tremendi dolori. Saluti comandante piroscafo Gioacchino Lauro (Martino Cafiero). L’equipe medica con a capo il Professore Condorelli, rispose: «Immediatamente sbarcare il malcapitato nel porto di approdo più vicino onde effettuare operazione chirurgica, per estrarre corpo estraneo infilzatosi. Cirm – Roma». Appena arrivato il dispaccio il comandante ordinò al 1° ufficiale di fare il punto nave per vedere la posizione esatta dove ci trovavamo. Eravamo esattamente a 40 miglia ad ovest di Capoverde esattamente 15° lat. nord – 17° long. Ovest. Lo scalo più vicino Dakar (Senegal). Invertì la rotta di quasi 45° e puntò dritto su Dakar, telegrafando all’agenzia marittima che fra 4 – 5 ore sarebbe stato fuori

Pagina 15 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° al porto per sbarcare un membro dell’equipaggio che stava male, e di portare anche un medico. Quando arrivammo a Dakar, la pilotina era già là ad aspettare, a bordo venne l’agente e il medico che salì lo scalandrone di corsa e a piedi nudi. L’attese il Primo Ufficiale. «What is the problem?», disse il medico in inglese un po’ stentato. Il Primo Ufficiale che di inglese ne masticava ancora meno di lui, gli rispose in napoletano torrese «Ma chesto che và truvann». Il medico e l’agente furono accompagnati dal Comandante e gli spiegò tutta la situazione, al che il medico esclamò: «Oh my God, a bottle in the botton», “Oh Dio mio, una bottiglia nel sedere!”. Sbrigate tutte le scartoffie per lo sbarco “Aglitiello” sbarcò in rada a Dakar. Prima di scendere lo scalandrone (scala reale) si aggrappò ai bastingaggi ed ai candelieri della scala, non voleva assolutamente scendere, aveva una paura tremenda, urlava: «Comandante non mi sbarcate, non ci voglio andare, chissà cosa mi faranno». Alla fine fu preso di forza, scese dalla scala e si imbarcò sulla pilotina, erano le ore 18 del giorno 15 maggio 1968. Noi riprendemmo la navigazione per Trieste commentando l’accaduto. Nessuno di noi si faceva capace di capire come mai un uomo così irreprensibile nei comportamenti gli fosse capitato un fatto simile, e per molti di noi rimase per sempre il dubbio se “Aglitiello” fosse un transessuale o no. Nei suoi lamenti ripeteva sempre “quando il diavolo ci mette al coda”, lui sapeva benissimo del fatto gravissimo che si era verificato e per la vergogna non aveva detto niente a nessuno rischiando di morire. Prima che i dolori l’assalissero, era sceso in macchina ed aveva parlato con un suo nipote che faceva il fuochista, “Palomba Giritiello” e gli aveva detto se per piacere gli faceva un filo di ferro a forma di gancio, dopo lo sbarco il nipote capì a cosa poteva servire tale aggeggio. Ormai il quadro era chiaro, arrivati a Trieste, avemmo notizia che “Aglitiello” era stato operato ed era già rientrato a Torre del Greco e si era del tutto ristabilito tanto che si recò a Napoli al Palazzo Lauro di Via Nuova Marina per iscriversi a turno particolare. Ma il buon capitano di Armamento, Comandante Gaggiano, gli rispose che dopo tutto quello che era successo non era il caso di continuare a navigare con la stessa società, ma di rivolgersi ad un’altra compagnia di navigazione, dove non sapendo il fatto non poteva essere oggetto di scherno. Questo mio racconto me lo ha suggerito una mia visita al cimitero di Torre del Greco ove sbirciando fra le tombe vidi la foto di “Aglitiello” con tanta di epigrafe scolpita sul marmo dove vi era scritto: “Marito affettuoso e padre esemplare, la moglie ed i figli posero – una prece”. Soffermandomi un poco ho recitato un requiem eterno per la sua anima – e mi sono ricordato della sua frase “Quando il diavolo ci mette la coda”.

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Igino Terramoccia

IL PIANTO DEL DELFINO

l Lividonia aveva salpato presto quel giorno, quando a levante lo “Stellone Idell’aurora” brillava ancora di una luce chiara e intensa. Era sempre buio sul mare, si sentiva riecheggiare dai poggi e dalla gola del Valle il rumore assordante delle catene e dei motori di altre barche che, una dietro l’altra, riprendevano la fatica di ogni giorno; la pesca al largo del Tirreno. A quel tempo, (anni ‘50 del secolo scorso) i motori lasciavano il Porto alle prime ore della notte e poco tempo restava per il riposo a casa, perché il ritorno avveniva, come dicono i marinai, a imbrucata di ponente, cioè al tramonto. Il “Lividonia”, scapolata la punta Madonnella, puntò la prua verso l’Isola del Giglio, che poi aggirò per portarsi verso ponente. Lo comandava Sino Scotto, più comunemente conosciuto come Sirio di Donna e fra gli amici, come Taifù, perché aveva prestato servizio in Cina con la Marina Militare. Lui in fatto di mare e di pesca era davvero eccezionale. Oltre alla tecnica della navigazione e ai cosiddetti “punti” di pesca che costituiscono ancora oggi il segreto dei pescatori, conosceva ogni tipo di pesce, le abitudini, le qualità, l’Habitat. Parlare con lui della vita di mare era un piacere. Sirio era di un animo semplice e sensibile, facile a commuoversi, come tutti i marinai, che sotto la rude scorza di un viso riarso dal mare e dai venti, nascondono un animo aperto a tutti i sentimenti. Quando poi un marinaio dalla lunga esperienza parla del mare e racconta episodi della sua vita fatta di sacrifici e di rinunce, gli occhi brillano di commozione, l’anima si apre, si fa grande e immensa come il mare, e chi ascolta partecipa. Sirio non si smentì quando raccontava questo episodio di cui fu protagonista. Quella mattina il mare era calmo, con una brezza di levante, leggera e fresca; il cielo sereno, punteggiato delle poche stelle che ancora resistevano alla prima luce dell’alba, presagio di una pesca fruttuosa. Così almeno pensavano i pescatori, intenti alle minime osservazioni meteorologiche. Il motore accelerò la corsa e in poco tempo il “Lividonia” giunse al largo dell’isola di Montecristo. Sirio studiò prima la direzione delle correnti di mare e d’aria, la temperatura dell’acqua e ogni altro elemento utile a scoprire la presenza di ammassi di pesce.

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Fanno così tutti i pescatori, ma in queste osservazioni egli usava un metodo tutto personale, frutto di esperienza e di conoscenze pratiche. Trovato il “punto” giusto, diede ordine della prima cala. I verricelli si misero in moto per calare la rezza, mentre la barca procedeva lentamente; il sacco, il cielo e le vanne legate alle lime e separate dai divergenti, si adagiarono sul fondo. Poi si attese il tempo necessario per trarre di nuovo la rete a bordo. Intanto alcuni marinai si concessero una pausa di riposo, mentre altri accudivano chi alla guardia, chi ai normali lavori di bordo e di corvé, in attesa di scocciare. Il sole si era fatto alto e illuminava i volti dei pescatori aperti alla speranza dì un buon pescato. Un silenzio regnava sulla distesa del mare, ogni tanto interrotto dal gracidare dei gabbiani che già avevano spiccato dalle selvagge rocce di Montecristo e volteggiavano intorno alla barca, per poi allontanarsi e ritornare in cerca di preda. All’improvviso il marinaio di guardia lancia un grido. Poco lontano qualcosa serpeggiava sulla superficie dell’acqua, scompariva e riemergeva con un caratteristico moto ondulatorio; balzava con tutto il corpo fuori dell’acqua, descriveva una breve parabola per immergersi e risalire alla superficie subito dopo. «C’è un delfino, correte!». L’equipaggio accorse. Era proprio un delfino, di un colore nero-bigio che mandava riflessi lucenti quando guizzava fuori per respirare; dal corpo zampillava un grazioso getto che ricadeva in mare fra numerose goccioline iridescenti alla luce del sole. Era piccolo, si direbbe un “cucciolo”, un “neonato”, grazioso ma incerto e inesperto nei movimenti rapidi e agili proprio dei delfini adulti. A quel tempo, quando capitava l’occasione, si catturavano delfini e fere per confezionare il musciame. Il “musciame” sono filetti di carne di delfino essiccata all’aria, di un gusto e di un sapore caratteristico di cui i marinai dell’Argentario sono ghiotti. «Presto, portatemi il fùlghero», ordinò Sirio. Il fùlghero è una specie di arpione legato ad una lunga cima e viene lanciato per catturare le fere e i pesci più grossi. Alcuni lo chiamano anche dalfinara o delfiniera. Presa la mira, Sirio lanciò con forza l’arpione e colpì inesorabilmente il piccolo delfino che si dibatteva ed emetteva gridolini di dolore mentre veniva tirato a bordo. «Per ora lasciatelo in coperta, alla seconda cala penseremo a sistemarlo». I pescatori pregustavano già la bontà e la freschezza del musciame che avrebbero prodotto da quella carne tenera. Il piccolo giaceva sul tavolato fra reti e cavi, immobile sotto gli spasimi del dolore, con i piccoli occhi che sembravano lacrimare e con deboli sospiri che forse invocavano la mamma. «Proprio come un bimbo», aggiungeva Sirio ogni volta che raccontava il fatto. Era trascorso qualche minuto quando fu visto improvvisamente un delfino più grosso. Si avvicinò senza alcuna paura alla barca, quasi a murata, emetteva flebili lamenti

Pagina 18 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il pianto del delfino Igino Terramoccia con una voce che sembrava implorare pietà o chiamare qualcuno. Pareva che dagli occhi uscissero lacrime da un pianto incontenibile. Un marinaio era già corso ad afferrare il fùlghero per arpionarlo. «Fermo!», gridò Sirio, che aveva assistito alla scena, «lascia stare. Sono creature come noi!». Aveva compreso il perché e il senso di quei lamenti, come espressione istintiva del dolore materno. Era, infatti, un delfino femmina, la mamma del piccolo catturato pochi attimi prima e che forse era sfuggito alla sua attenzione e aveva ancora bisogno del suo latte. Sirio si commosse a questa scena di amore materno e una lacrima irrigò il suo volto. Egli conosceva bene il linguaggio dei delfini, i più agili abitatori del mare. Essi familiarizzano facilmente con i marinai, portano una nota di allegria con le loro evoluzioni, si portano vicino alle barche, con le loro grida festose sembra che parlino e vogliano conversare con l’uomo. Tutto questo Sirio lo sapeva e lo aveva sperimentato più volte, ma non gli era mai capitato di sentire i gemiti e i sospiri d’implorazione. Li paragonò ai gemiti e ai sospiri delle creature umane. La madre comprese i sentimenti di pietà dell’uomo; fiduciosa si avvicinò ancora di più alla barca e nella posizione verticale del delfino lo fissò quasi con tenerezza. Questo sguardo implorante penetrò nel cuore dell’uomo come la punta di una freccia. Scosso nei suoi sentimenti di pietà, Sirio prese in braccio il piccolo delfino ancora e rianimato dalla voce della mamma, lo fece scivolare dolcemente in mare e lo riconsegnò alla madre con un gesto di amore paterno, unito al pentimento di avere arrecato dolore ad una mamma. Questa se lo pose sul dorso e, fissando il marinaio con occhi lucenti di gratitudine, si allontanò, ora immergendosi nell’acqua, ora riaffiorando con grida non più di lamento, ma di gioia e di contentezza. L’uomo guardava stupito e commosso la scena, immobile e pensieroso sul bordo della barca, finché la bianca scia serpeggiante lasciata dal delfino si disperse all’orizzonte. «D’ora in poi, - ordinò Sirio all’equipaggio, non ancora ripresosi dall’emozione - nessuno azzardi catturare delfini». Lui stesso promise solennemente e giurò sul nome della madre chiamando come testimone S. Andrea, patrono dei pescatori. Afferrò il fùlghero, lo troncò e ne gettò i pezzi in mare. Per il resto della sua vita mantenne la promessa e non assaggiò più alcuna trancia di “musciame”. Ogni volta che Sirio raccontava il fatto realmente accaduto e da lui vissuto fino a restargli impresso nella mente, non riusciva a contenere l’emozione e la gioia di avere salvata la vita ad una piccola creatura, e una lacrima scendeva dagli occhi abituati a scrutare l’orizzonte. II fatto fu raccontato da Siro Di Donna a Pietro Fanciulli. A tutt’oggi Sirio ci ha lasciato un fatto memorabile. Lui è mancato molti anni fa, è ancora vivo e vegeto l’ottantaquattrenne Pietro Fanciulli.

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Sabato 7 agosto 2004 - 30a edizione del Premio Nazionale Artemare - Consegna dei Premi all’interno del porto turistico “Marina di Riposto” su gentile concessione dell’Amministratore Delegato dott. Giuseppe Zappalà

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Antonio Riciniello

LAY-UP

n un’area remota dello Stato di Singapore, nascosta al traffico Marittimo dello IStretto di Malacca e del Mar della Cina Meridionale, quasi addossata alla Penisola della Malaysia, giacevano ben allineate una di fianco all’altra e quasi addormentate in attesa di risveglio, una serie dì grandi petroliere. Giacevano in lay-up, come dicono gli inglesi per indicare le navi in disarmo, con personale ridotto all’osso, pronte a rispondere velocemente a due possibili ordini: demolizione e rottamaggio all’Isola di Taiwan oppure ripresa del mare per migliorate prospettive di mercato. Correvano gli anni settanta e, a causa di una forte crisi mondiale, il traffico petroliero delle mammut del mare si era ridotto al lumicino. Dopo la corsa sfrenata ai grandi tonnellaggi, dopo la lunga agonia della navigazione a “fuel economy”, verso la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta, l’unica navigazione certa dopo il purgatorio di Singapore era quella verso il cimitero senza ritorno di Taiwan. Ma essendo la speranza l’ultima a morire, tutto il mondo marittimo sperava appunto in una ripresa abbastanza improponibile allora, visto che molte raffinerie chiudevano i battenti. La petroliera giunge al purgatorio del lay-up con le cisterne ben lavate e degassate. I rischi d’incendio, di esplosioni a causa di ogni forma che possa determinarli, sono ridotti al minimo. La sicurezza innanzi tutto, e poi le misure di emergenza che ognuno impara a memoria durante i periodi di imbarco e nei corsi di perfezionamento da “vigili del fuoco”, che quasi tutte le compagnie dì navigazione impongono ai loro equipaggi, dal mozzo al comandante. Se è vero che al lay-up la nave è quasi morta essendo spenti gli impianti principali, è anche vero che i servizi d’emergenza devono essere sempre assicurati. Inoltre, tutto l’apparato ausiliario e principale va controllato, mantenuto e tenuto al meglio, con particolare riguardo al sistema antincendio. L’incendio è il grande nemico, temuto da tutti in ogni dove. A bordo delle navi e particolarmente delle petroliere è il nemico numero uno per eccellenza, l’incubo di tutti, l’inferno. Due petroliere della stessa Compagnia di navigazione, la North Eagle e la South Eagle erano allineate al lay-up di Singapore. Entrambe erano

Pagina 21 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° ferme da oltre due settimane affiancate l’una all’altra, ma appartenenti a due gruppi differenti di cinque o sei unità. La North Eagle era l’ultima di un gruppo di cinque petroliere. Sulla fiancata di sinistra aveva operante lo scalandrone la cui piattaforma inferiore era posizionata a circa settanta centimetri dal pelo d’acqua per permettere le operazioni di imbarco/sbarco del personale sul barcone facente servizio da e per Singapore. Tutti gli organismi economici di Singapore sono organizzati con estrema pignoleria. Singapore vive di mare e di turismo. A quel tempo lo Stato-Città aveva una forma di governo socialista “sui generis” in cui le iniziative private erano tenute in alta considerazione. Ciò che può essere considerato come il nucleo industriale più importante, è la cantieristica navale, che pur non costruendo nuove navi ha sempre continuativamente decine di natanti di piccola o grande cabotaggio ormeggiati alle banchine o posizionate sugli scali dei bacini per le riparazioni periodiche. Ma la fonte economica più importante di questa piccola isola è il turismo, coltivato in modo cosi capillare, un fatto di cultura si direbbe, che si esplica attraverso mille sottigliezze, ma principalmente con la cortesia asiatica di tipo giapponese portata agli estremi, tesa a non creare alcun genere di disagio ai turisti. E tutta la città sia nella parte nuova, che in quella vecchia come la classica Chinatown con i rivoli fognari a cielo aperto, risponde allo scopo. Qui stands e bancarelle con i prodotti bellamente esposti in una confusione caotica e inebriante da fantascienza; là, nella parte nuova, splendidi parchi, innumerevoli aiuole, raffinati grattacieli, incantevoli alberghi, armoniosi “shopping center”, tutti forniti di ordinati parcheggi e che espongono nelle vetrine la più nutrita serie di prodotti che mente umana abbia potuto concepire: stoffe, elettronica, avorio e pietre preziose, ninnoli e giocattoli la fanno da padroni. Il mercanteggiare è l’arte atavica dell’asiatico, di quel frammisto di razze dai malesi ai giapponesi, dagli indiani ai cinesi e agli stessi arabi, che popolano la piccola isola, lo Stato Città di Singapore. Lo stesso oggetto lo si può pagare venticin- que, cento o cinquanta dollari a secondo della credulità, dell’inesperienza o della dabbenaggine dell’acquirente. I venditori sembrano nati tutti dallo stesso stampo, per mercanteggiare. Da queste parti il mercanteggiare è un’arte! Ma diceva il rappresentante di un’agenzia marittima col quale ero entrato in amicizia, che al primo sparato dal venditore bisogna subito togliere oltre la metà e poi cominciare a mercanteggiare mettendosi allo stesso livello del venditore. Soltanto così si potrà ridurre al minimo la fregatura! Lo slogan “clean, green and clear” che i governanti tutti, dai pionieri dell’indipendenza ai giorni nostri hanno adottato per Singapore, lo si riscontra positivamente nei fatti, nella quotidianità. Singapore è una città eccezionale, pulita, unica al mondo. Vi transitano oltre due milioni di turisti ogni anno, una media di quasi sei mila al giorno!

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Sulla cima dello scalandrone del North Eagle, appesa ad un candeliere di murata, era esposta la lavagnetta con gli orari di passaggio del barcone, quattro passaggi nelle ventiquattro ore: 08.00- 13.00- 18.00 - 23.00. Il personale di franchigia era in attesa del barcone delle ore 18.00 già visibile in lontananza, marittimi di nazionalità diverse perché diverse erano le bandiere dei compartimenti marittimi di appartenenza delle petroliere in disarmo: panamensi, inglesi, italiani, slavi e indiani. Tutto normale, tutto calmo, quella calma sudaticcia, lanuginosa e quasi irreale delle serate equatoriali. Già i primi marittimi franchi da guardia e dal lavoro giornaliero sono pronti sullo scalandrone. Alcuni di essi scendono verso la piattaforma inferiore per agguantare al volo il barcone, che con forte marcia indietro si sta posizionando alla meglio tra un massiccio ribollire di schiuma causato dall’elica. Tre fischi brevi seguiti da uno abbastanza lungo e poi un frastornante scampanellio. Giungono chiari e distinti nell’assoluto silenzio della sera. La franchigia appena iniziata ha un sussulto, s’arresta. S’intrecciano suoni di svariate lingue. L’avviso d’incendio appena percepito non proviene dal North Eagle e neppure dal gruppo di petroliere di cui la North Eagle fa parte. Dal gruppo di petroliere prodiero, dalla South Eagle sembra, un pennacchio di fumo nero sale lentamente verso il cielo, simile a tromba d’aria marina. Tutto cambia nel tic di una palpebra. Il pennacchio di fumo nero, quasi sbiadito, diventa una nuvola bassa e nerissima. I franchi da guardia pronti per la franchigia fanno marcia indietro. Risalgono lo scalandrone e ognuno si dirige verso la propria nave. Il barcone si scosta, va quasi alla deriva al largo, poco discosto dalla North Eagle, ma non parte, non va via. Sguardi di stupore, di paura, di incredulità ma anche di solidarietà s’incrociano sulla North Eagle, il cui Capo Macchinista rompe ogni indugio e di corsa, attraverso i vari ponteggi che uniscono le petroliere affiancate, raggiunge la banchina prima, il gruppo di navi prodiere poi. Qui lo fermano. Non si può salire. Si fa riconoscere dal watchman come Capo Macchinista della North Eagle e amico del Chef Engineer della South Eagle. Riesce a raggiungere la nave dove nella parte poppiera si avvicendano persone che imbrecciano manichette, estintori, lancia-schiuma. Nota il Chef Engineer Charles in tuta bianca sulla coperta antistante il locale del generatore d’emergenza. È là che è scoppiato l’incendio, è là in quel locale che sono entrati i due ufficiali della squadra antincendio. L’allarme è già stato dato alle stazioni di competenza del porto. Sono passati non più di sette-otto minuti e tutta la squadra della Marine Fire Station di Singapore trasportata da un elicottero è sul fronte del fuoco. Un altro elicottero volteggia sulla nave. Sono momenti di apprensione: il drago verde dagli occhi di brace che sputa fuoco dalle nari, nemico temutissimo, si è svegliato. Ma qui, sulla poppa della South Eagle

Pagina 23 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° tutto sembra tranquillo, tutto sembra sotto controllo. Le operazioni di spegnimento procedono in sincronia tra il bordo e la Fire Brigade di Singapore. Ma dove sono i due ufficiali che sono entrati per primi? E dove è il sottufficiale che nel momento dello scoppio dell’incendio stava effettuando il giro di controllo nel locale macchine? Cominciano a serpeggiare voci, congetture allarmanti di vario genere. La densa nuvola di fumo nero sta cambiando aspetto: volge adesso verso il colore grigio, ma è sempre intensa. Entrano ed escono dal locale d’emergenza tutti coloro che sono alle prese con lo spegnimento del fuoco. Si spruzza acqua dappertutto, particolarmente nelle zone dove si trovano le tanke di servizio del bunker, del gasolio necessario al generatore d’emergenza azionato da un Caterpillar ad otto cilindri. La macchia di fumo è scomparsa; un solo pennacchio grigio chiaro esce ora da un qualche punto del locale d’emergenza. Il drago verde sputa fuoco è agonizzante. Dà ancora un piccolo sussulto, poi muore vinto dall’azione dell’uomo, dalla solidarietà che unisce tutti nelle situazioni drammatiche. Ma non ha la pupilla dilatata del morto, dello sconfitto. Tutt’altro. Sembra guardare i vincitori col ghigno satanico di chi, pur vinto, sa di aver fatto pagare un alto prezzo ai suoi nemici. La North e la South Eagle erano due navi della stessa compagnia di navigazione. La prima era gestita da italiani; la seconda, da inglesi, Entrambe hanno raggiunto successivamente all’incendio, il cimitero di Taiwan. Estinto l’incendio, a bordo della South Eagle cominciavano a leccarsi le ferite mortali. La Fire Brigade di Singapore continuava le operazioni finali coadiuvata dalla squadra antincendio di bordo. Charles, in tuta bianca s’era avvicinato all’entrata del locale d’emergenza dove i vigili del fuoco si andavano assicurando del completo spegnimento di sempre possibili focolai. L’atmosfera rimaneva grave e greve e qualcosa di drammatico aleggiava intorno, quando due firemen della brigata, seguiti a breve distanza da altri due, uscirono dal locale con in braccio due corpi esanimi. Adagiati sul ponte poppiero a pochi metri di distanza dal locale d’emergenza, di essi si prese subito cura il medico della Fire Brigade, che dopo una prima visita di controllo chiamò alla “motorola” l’eliambulance di soccorso. Intanto il Chef Engineer Charles, parlottando con altri firemen era entrato nuovamente nel locale dove l’incendio era stato domato da poco. L’eliambulance giungeva sul ponte di coperta là dove un cerchio bianco di circa dieci metri di diametro indicava 1’esatto punto di atterraggio degli elicotteri, uno spazio apparentemente angusto ma libero da qualsiasi ostacolo, dentro il quale con circospezione e precauzione in mare aperto ma con più facilità all’attraccaggio del lay-up, gli elicotteri potevano atterrare. I due corpi esanimi, quelli dei due ufficiali che per primi erano entrati nel locale dove era scoppiato l’incendio, furono trasportati in barelle sull’elicottero, che

Pagina 24 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Lay - up Antonio Riciniello staccatosi dal ponte, dopo un ampio giro volò verso Singapore, verso un ospedale di già preavvertito e sempre all’erta per questo tipo di pronto soccorso. Charles, il Chef Engineer della South Eagle, che aveva guidato i vigili della brigade alla ricerca del sottufficiale addetto, alla turnistica per il controllo dei locali e ancora assente al momento, apparve col volto ancora più bianco della sua tuta. Amintor Greg, il giovane Caporale di macchina incaricato dei controlli giornalieri dei locali macchina ed ivi rimasto intrappolato ignaro di quanto stava accadendo nel locale d’emergenza, usciva in quel momento dallo stesso locale trasportato dai vigili del fuoco della brigata. Pochi minuti d’attesa e di nuovo l’eliambulance era pronto per questo secondo trasporto. Il Capo Macchinista della North Eagle rimaneva in disparte in un angolo, muto testimone di una scena apocalittica, sicuramente con finale tragico, visto quanto accadeva dinanzi ai suoi occhi. Non aveva potuto dare, dato le circostanze, nessun aiuto in quanto al suo arrivo tutto era sotto controllo e probabilmente la tragedia si era già consumata. II suo amico Charles, sebbene un poco avanti negli anni, si muoveva cori assoluta competenza e conoscenza dei sistemi di spegnimento. Ma quando il drago verde dagli occhi di brace sputa il suo livore dalle immense nari e dalla sua bocca cavernosa con fiammate d’inferno, allora i primi approcci per sconfiggerlo risultano quasi sempre inadeguati. E sono essi tanto più inadeguati e pericolosi quanto più si è emotivamente coinvolti. Il giovane sottufficiale addetto alle ispezioni giornaliere era cognato di uno dei due ufficiali, che per primi si erano addentrati nella tana del drago. Quasi certamente nella sua mente giovane e solidale, vi era principalmente il soccorso al cognato. II direttore di macchina del North Eagle rimaneva assorto in disparte, la mente lontana al porto di Barcellona dove un altro drago, ridestatosi improvvisamente dal suo letargo, con un incendio divampato nel recinto di una cisterna della vicina raffineria, durato trentasei ore, aveva ottenuto il sacrificio di due giovani vittime. Il Drago della South Eagle, appagato nella sua insana vendetta, lasciava in eredità alla smisurata stirpe dei draghi sparsi per il mondo e sempre in agguato, tre giovani corpi inanimati, da poco dichiarati morti e giacenti in uno sperduto obitorio di un lontano ospedale di Singapore. Quasi contemporaneamente alle tre vittime scompariva negli abissi del mare il drago della South Eagle. Scendeva il buio della sera quando gli uffici direttivi della Società di appartenenza delle due petroliere venivano avvertite dell’accaduto. La differenza di fuso orario, con gli uffici europei in piena attività, permetteva il contatto con i vari departments. In attesa di ordini futuri al comando della North Eagle fu consigliato di prestare il massimo aiuto, il massimo supporto di solidarietà alla nave danneggiata e a tutto l’equipaggio. Poi, consumatasi la tragedia, a bordo della South Eagle si leccano le ferite, si

Pagina 25 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° contano gli assenti. Due sono in franchigia. Ritorneranno col barcone delle 23.00. Tre stanno all’obitorio. Singapore appare in lontananza con le luci degli skyscrapers proiettate verso la volta celeste. I ristoranti dell’Hotel Marco Polo o del Majestic saranno in piena attività come tutte le sere. Affollati gli shopping centers di notte come di giorno, affollatissime le sale da ballo dove gruppi folcloristici si esibiscono nelle musiche di tutti i continenti. La vita continua, ignari tutti dei drammi quotidiani che consumano l’esistenza di pochi. “…sotto il cielo di Singapore in un mondo di stelle d’oro, è nato il nostro amore…”. Sono i versi di un’antica canzone che in una serata così tragica affiorano alla mente. Perché? Sì, nonostante tutto la vita continua! Passa qualche giorno e nel salone della South Eagle si svolge forse l’ultima riunione che ha per oggetto l’incendio. Da Genova e da Londra sono venuti i rappresentanti della Compagnia di navigazione. Sono presenti i Comandi delle due petroliere. È presente lo Staff della Fire Brigade. Dopo un’inchiesta sommaria portata avanti con l’aiuto della Fire Brigade e dal bordo, appaiono evidenti le prime cause dell’incendio: il gruppo del generatore d’emergenza era in moto per assicurare la ridottissima operatività della nave in disarmo. Un iniettore dell’ultimo cilindro, quello più vicino al prolungamento del collettore di scarico là dove si articola il giunto di espansione era in avaria e spruzzava gasolio tutt’intorno. Questo l’innesco dopo ore di malfunzionamento. Poi la bruciatura lenta ma continua dell’amianto, infine la grossa fiammata del gasolio sparso per il locale. Poi tutto il resto. Il sistema antincendio ha dato subito l’allarme ed è entrato immediatamente in funzione; quindi il solerte accorrere delle squadre antincendio, che hanno circoscritto e soffocato il fuoco che avrebbe potuto avere un esito catastrofico a causa della dislocazione delle cisterne del combustibile. Forse il giovane sottufficiale, se avesse cominciato il giro d’ispezione dal locale d’emergenza come sempre faceva, si sarebbe accorto subito dell’anomalia e magari avrebbe potato dare l’allarme prima che si sviluppasse l’incendio. Ma Amintor aveva cominciato il giro d’ispezione scendendo dal locale caldaia posto a proravia di quello d’emergenza: locale caldaie, locale macchine, sentine, lampade infrarosse a protezione dei motori elettrici, tubature e apparati vari. L’hanno trovato ai piedi delle scale che salgono verso il locale d’emergenza con una grande ferita in testa, dovuta probabilmente al ruzzolamento per le scale. Steven, il cognato che per primo era entrato nel locale invaso dal fuoco e dal fumo, morto d’asfissia come il suo compagno a pochi metri dal generatore, era caduto alla sommità delle scale che danno al locale macchina. Forse pensava d’incontrare il cognato. Alex, l’altro ufficiale entrato nel locale, pur munito di maschera come Steven, è morto per asfissia. Quando la tragedia si deve compiere, quando il destino suona la sua ora, tutto concorre affinché tutte le circostanze, tutte le situazioni

Pagina 26 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Lay - up Antonio Riciniello malefiche, convergano verso un unico, disastroso epilogo. Ci saranno altre riunioni. Discuteranno i legali della Compagnia di navigazione e quelli della Società di assicurazione. Spaccheranno il capello in quattro come si dice, passeranno degli anni alla ricerca del sesso degli angeli, ma per la vita di Amintor, di Steven e di Alex non ci saranno che tre croci piantate nei vari cimiteri inglesi ai piedi delle quali, fiori sempre freschi, innaffiati dalle lagrime di tre donne, sorrideranno alla vita.

Nota - L’episodio raccontato è vero ma i nomi delle navi e dei personaggi coinvolti sono immaginari.

3° Premio - Antonio Riciniello di Gaeta LT - “Lay-up”

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Il primo premio Pittura 2004 è andato ad Antonino Scarcella per il quadro“Paesaggio costiero”. Da Sn: la presentatrice Anna Pavone, i componenti della Giuria Angela Carbone e Maria Allo

Il terzo premio è andato a: Rosalba Confalone per il quadro “Giro in barca”

La Giuria ha voluto menzionare anche l’opera di Salvino Sciacca per il quadro “Mare in tempesta” Pagina 28 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Giovanni Colonna

LA BAMBOLA DI PEZZA

a nave scivolava silenziosa tra le isole che compongono l’arcipelago delle LFilippine, erano entrati nello stretto di Luzon diretti a Bugo, un posto dimenticato da Dio e dagli uomini ... fino a poco tempo fa, poi si sono accorti che ci sono miniere di carbone ed hanno pensato di trasformarlo in petrolio. Così sbarcarono dei macchinari che sarebbero serviti per effettuare questa trasformazione. Una spiaggia, un pontile di legno che scricchiolava paurosamente quando il fianco della nave vi si adagiò, nessuna attrezzatura per le operazioni di sbarco, come Dio volle la nave riuscì ad attraccarsi e dopo la solita invasione di doganieri, polizia, sanitari che si portarono la loro cospicua fetta di provviste, sigarette e whisky, cerchiamo di organizzare le operazioni di sbarco. Una volta avviate, decido di dare un’occhiata a terra, in compagnia del 1°Ufficiale e Maritza, munito di macchina fotografica, prevedendo di fare delle belle foto perché il paesaggio promette molto e poi c’è un piccolo villaggio nei pressi. La vita domestica mi ha sempre affascinato, ricordo quando a Venezia la sera me ne andavo in giro per le calli della periferia e sbirciavo nelle case dei Veneziani che si trovavano al piano terra, nelle cui camere illuminate si consumava la vita serale, una cena, una partita a carte, bimbi che piangevano, a quei tempi la televisione era ai primi passi. L’ingresso al Villaggio era molto accogliente, la vita mattutina si svolgeva all’aperto, grandi spiazzi di terra battuta, circondati da case costruite su palafitte tra le quali convivevano in normale promiscuità razzolando maiali, galline e bambini, mentre negli appartamenti, si fa per dire: solitamente un monovano con servizio di cucina, pranzo soggiorno e letti dove le donne svolgevano i loro servizi. Un nugolo di bambini più grandicelli ci venne incontro e tra questi delle bimbe di quattro, cinque anni che si atteggiavano a fare le signore, unghie laccate, bigodini in testa, bambola di pezza amorosamente tenuta al petto. Uno spettacolo indimenticabile, immortalate sulla pellicola sarebbe stato un ricordo bellissimo, ma quando mi accinsi a scattare la prima foto, un groppo salì qui, mi sembrava di sfruttare quella miseria che mi circondava, vedevo i nostri bambini pieni di giocattoli e di vizi, sovranutriti e li paragonavo a questi ragazzini poveramente vestiti, scalzi, che si divertivano con cerchi di legno ovalizzati che stentavano di scorrere sul terreno dissestato, il mio obiettivo era come una freccia che penetrasse nel fianco di quella bimbetta tutta occhi che si atteggiava a signora

Pagina 29 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° con le unghie e le labbra tinte di rosso. Rimisi la macchina nel fodero e non riuscì neanche per fotografare la bellissima vegetazione. La sera la discarica non era ancora terminata e decidemmo di allontanarci dall’ormeggio poco sicuro e andammo ad ancorare nella rada vicina. Un tifone ci era stato segnalato e mettemmo in atto tutte le precauzioni per affrontarlo o squagliarcela. Gli strumenti di bordo, la pratica professionale ed i bollettini di pericolo ci davano la possibilità di conoscerne l’evoluzione, anche se le cose si complicano quando il tifone raggiunge la terra, perché la sua traiettoria subisce delle deviazioni imprevedibili, le autorità del villaggio sono in contatto con noi per mezzo di segnalazioni ottiche, non hanno nessuna possibilità di ricevere notizie dai centri di emergenza. Gli abitanti sono pronti ad evacuare il villaggio e noi a salpare verso il mare aperto per avere più possibilità di manovra. Verso le dieci di sera il vento aumenta d’intensità, la direzione è purtroppo costante, ciò vuol dire che il path del tifone dirige verso di noi, il mare si fa grosso ed il barometro continua a scendere, alle 11 la direzione del vento tende a girare lentamente verso Nord, ma la sua forza aumenta sempre di più, il barometro sempre in discesa, le catene si fanno sempre più tese e cominciano a saltare sul barbotin, le macchine sono pronte e con molto adagio avanti cerchiamo di alleggerirne lo sforzo. I dati ricevuti dai bollettini sono più ottimisti della realtà. A questo punto consigliamo l’evacuazione del villaggio. Il vento che all’inizio proveniva dalla stessa direzione del mare, adesso comincia a ruotare meno lentamente, ma la sua forza è sempre in crescita, e la nave comincia a rollare a causa del mare incrociato, raffiche di vento sollevano il mare che si abbatte con sempre più forza sulla coperta. La nostra attenzione è sul barometro non dovrebbe scendere al di sotto dei 980 millibar, secondo i nostri calcoli, perché dovremmo essere nel cerchio maneggevole del ciclone, se scende al disotto c’è pericolo che cambi direzione e quindi ci tocca salpare. Per ora è 1000. 996, 990, continua a scendere. Ora scrosci violenti di pioggia si abbattono sulla nave, non ci fa vedere più nulla di prora. La tensione sulle catene aumenta sempre di più, oramai siamo con le macchine adagio. Restiamo incollati al barometro: 988, 987. Continua maledettamente a scendere: 986, 985,984, 984, pare si sia fermato, 983, 981, 980, 979....979. Dai forza 979 si ferma, ma non risale. La nave continua ad essere sbatacchiata, il vento arriva a forza 10, uragano, lampi, tuoni. Ecco 980, 981 finalmente risale, ancora un po’ di pazienza e di patimenti, l’incubo che le ancore non tengono, la manovra difficile di sfuggita sono ancora vissute, ma la certezza che il peggio sta passando ci lascia sperare ad una fine più o meno vicina. La mattina ritorniamo all’ormeggio, uno spettacolo triste, il villaggio è tutto distrutto, le case un mucchio di tavole, i tetti di paglia spazzati via, solo le palafitte che reggevano le abitazioni sono rimaste in piedi, per terra fango e carcasse di animali, trattenuto da una palafitta noto uno straccio grigio, mi avvicino: sono i resti di una bambola di pezza…

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Leonardo Fiore

IL PRIMO IMBARCO NEL CERCHIO DEI MIEI RICORDI

otrei rievocare avvenimenti, tempeste, porti splendidi e infidi dei miei Pnumerosi viaggi tra rudi marinai per quante volte ho visto il sole sorgere e declinare tuffandosi nel mare. Quanti paesi, quanta gente, quanti costumi e tradizioni diversi, ma sarebbero resoconti laconici e comuni a tanti altri del mondo marittimo. Parlerò invece di una storia legata alle vicende del mio primo imbarco sul piroscafo Rapallo per un senso di gratitudine. Ho amato il mare da quando lo vidi da vicino (così diverso da come lo avevo visto colorato solo sulle carte geografiche della scuola elementare Vittorio Alfieri) cioè da quando, ancora ragazzo, don Peppino, lo scaricante della compagnia portuale, una domenica mi portò al molo Carmine, dove rimasi incantato e meravigliato davanti a quell’immensa distesa d’acqua di colore azzurro luccicante con le grandi navi ormeggiate alla banchina, binari e vagoni ferroviari che arrivavano fin lì. Di anni ne sono trascorsi tanti da allora, ma l’amore per il mare è rimasto sempre lo stesso. Cosa c’è in fondo al mare? Perché il mare non sommerge la terra nel suo movimento di rotazione? Cosa c’è nel ciclo di là delle stelle? Da piccolo sono stato sempre abbagliato da queste domande. Nelle classi elementari gli insegnanti facevano sforzi enormi per essere all’altezza della nostra fantasia. Nelle testimonianze di alcune persone anziane s’intravedono ricordi che brillano, poi si spengono e guizzano via come una scia, ma talvolta aprono squarci del passato, riempiono le giornate, restano impressi nella mente e non sfuggono più. Per me è stata una lettera datata Genova 4 maggio 1950, un foglio ingiallito, su cui appare come intestazione la dicitura stampata: AZIENDA GENERALE ITALIANA PETROLI, indirizzata alla signorina Arangia Emma, Via Camillo Porzio, 44, Napoli, riguardante una piccola rimessa alla mia fidanzata, una fanciulla deliziosa, bellissima, che ebbi la sorte d’incontrare il 14 aprile 1943 della quale mi innamorai a prima vista, un amore grande come il mare.

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Terminate le elementari frequentai la Scuola Professionale dell’ENEM - Sezione Nautica, poi continuai gli studi all’Istituto Magistrale e al Tecnico Nautico “Luigi di Savoia duca degli Abruzzi”, dove scrissi anche i miei figli Gennaro e Armando. Era il 25 gennaio 1944, quando ottenni il libretto di navigazione, che ancora custodisco gelosamente, a seguito dell’iscrizione nelle matricole per la di prima categoria con la qualifica di mozzo, col numero 78569 del Compartimento Marittimo di Napoli. Ma per la grande crisi del settore marittimo lavorai nelle officine della Royal Air Porce, poi nelle acciaierie dell’Uva di Torre Annunziata e di Bagnoli, tra minerale di ferro e carbone che veniva sbarcato dalle navi, alle dipendenze della Società Cooperativa Lavoratori Esplosivi, un ricordo indelebile. Dopo quelle prime esperienze trovai un posto di guardiano diurno e notturno contemporaneamente sull’”Albatros”, un piccolo piroscafo di ferro e sulla “Maria Landi”, una motonave di legno di piccole dimensioni in disarmo nel porticciolo di Mergellina. In seguito sulla Maria Landi feci un brevissimo imbarco in qualità dì mozzo quando fu impiegata nel periodo estivo sulla rotta Napoli-Capri per i gitanti domenicali. Nel 1949 lavorai come corveista sulla motonave passeggeri “Roma” in allestimento presso la Navalmeccanica di Napoli e sulla “Sydney” in allestimento presso l’Ansaldo di Castellammare di Stabia. Tirai così la sciabica per aiutare i miei genitori vecchi e malati, poi finalmente arrivò l’imbarco sulla pirocisterna Rapallo con cui iniziai la navigazione fuori gli stretti. Questo piroscafo, costruito nel 1921 dalla Società Esercizio Bacini di Genova e iscritto nel Registro delle Navi Maggiori col numero di matricola 1072, era lungo 120 metri, largo 16 e l’altezza alla controplancia di circa 10 metri; la potenza della macchina di 2250 cavalli permetteva di raggiungere la velocità massima di circa 12 miglia orarie con vento e mare calmo, una velocità non eccessiva, ma certamente ragguardevole a quei tempi per una tanker. Delle nove navi della flotta AGIP la Rapallo di 5794 tonnellate era l’ammiraglia, dove veramente appresi la vita di bordo. Una nave che mi esaltava, aveva per me un che di magico, nella mia fantasia era diventata una creatura mitologica, di quelle che si vedono nei libri di scuola o sotto forma di statua in un museo. Mi avevano raccontato che ogni nave è stregata, che andando tra ciclo e mare assorbiva l’influenza dell’uno e dell’altro elemento. Erano le 4 a.m., l’ora d’inizio della prima guardia, quando il piroscafo si preparò alla partenza dalla darsena Vigliena a San Giovanni a Teduccio. Pur essendo io un allievo ufficiale di prima nomina fui addetto alla manovra del telegrafo di macchina e non nascosi la mia emozione, quando il Rapallo diede fiato alla sirena Typhori e innalzò nell’aria un pennacchio di fumo. La petroliera si staccò lentamente dalla banchina come gli fosse stato ordinato di fare il suo dovere e, mollato il rimorchiatore e sbarcato il pilota, si diresse verso Capri per intraprendere la navigazione con destinazione Abadan, in un mare calmo sotto un cielo stellato. Superata l’isola prese il largo e il comandante Gottardo Costagliela, un signore

Pagina 32 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il primo imbarco nel cerchio dei mie ricordi Leonardo Fiore di mezza età di puro sangue genovese, con gli altri due ufficiali lasciò il ponte di comando e restammo io, il primo ufficiale e il timoniere. All’alba nel respirare quel miscuglio di miasmi di salmastro, catrame e petrolio sentivo nausea e sforzi di vomito pur essendo la mia cabina al centro del ponte di coperta, dove i movimenti di rollio e di beccheggio erano più attutiti, ma ad aumentare il mio malessere vi contribuiva anche il fatto psicologico. Quando si rivivono i ricordi di ciò che a suo tempo non capivamo è il momen- to della riflessione. Allora si riaffacciano i sentimenti che furono risolutivi per la nostra vita. Sin da piccolo e da marinaretto che leggevo i libri di Verne, Salgari, Conrad e vedevo i films dei pirati e dei corsari il mio sogno era quello di imbarcare su un brigantino, tra vele e gomene, dormire in una cuccetta sotto coperta e vivere le fantastiche avventure di “Capitani coraggiosi”, ma quando mi fidanzai, al solo pensiero di stare lontano dalla mia ragazza, tale desiderio pian piano si allentò. Peraltro ero gelosissimo ed era questo che mi opprimeva e mi ossessionava. L’uomo soffre, non piange, ma a quella mia prima esperienza, alla mia età, si può anche piangere. Infatti, le prime notti, sommerso dalla malinconia, furono notti di pianto e quando montavo di guardia chissà cosa immaginava il cameriere vedendo, nel rassettare la cabina, il cuscino bagnato. Pensavo alle mie abitudini, sentivo il bisogno di rivedere la ragazza e venivo colto da improvvise sensazioni di vuoto, di solitudine. Ma non potevo ripercorrere quella strada a ritroso, non potevo rinunciare al mio avvenire, si trattava di una questione d’orgoglio, poiché, pur essendo disoccupato, rassicurai il futuro suocero, che aveva avuto per antenati arcidiaconi e vescovi spagnoli, di non essere preoccupato per la figliuola perché avevo intenzioni serie e il titolo di studio mi consentiva una brillante carriera che m’avrebbe dato la possibilità di metter su casa. Il comandante durante la traversata veniva di tanto in tanto sul ponte di comando per la scala interna che congiungeva la cabina con la sala nautica; lo precedeva una nuvoletta spiraliforme turchina e aromatica che sprigionava la sua pipa di radica e quando non faceva la sua brava pipata stringeva tra le dita la corona e recitava il rosario mentalmente. Mancava solo che ci facesse recitare l’antica preghiera del marinaio del Fogazzaro, opportunamente modificata, per il suo spirito religioso evangelico. Sentiva fortemente il senso della religione, ne era intessuto, ma non era superstizioso, aveva sangue e mare nelle vene. Il suo rapporto con il mare era di una fedeltà assoluta, accadeva che restava a fissarlo per ore, forse si parlavano: la religione del mare è fatta anche di contemplazione. Era un uomo taciturno dalla personalità rigorosa, dal temperamento chiuso e la sua riluttanza a intrecciare un qualsiasi dialogo con gli ufficiali era un fatto caratteriale. Aveva una visione antica del navigare, discendeva da marinai della marina velica dei grandi clippers e sapeva che era inutile imprigionare in strettoie razionali ciò che appare o si sente magico.

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Secondo me, era più abituato alla vita di bordo che a quella di terra. Ecco tutto. Anch’io durante la mia carriera ne ho visto troppe, ma sentivo di non saper nulla per l’incalcolabile fatalità: il bel tempo, le nuvole nerastre infilate dai fulmini durante le burrasche, le notti di veglia, l’insicurezza degli oceani. Navigavamo verso Port Said e ricordo che nell’ultima notte di luna mi affacciai all’aletta di plancia sul lato dritto e vedendo riflessa nel mare l’ombra della nave mi sentivo sicuro, quasi che il Rapallo fosse un gigante rispetto alla piccola motonave Maria Landi. Giungemmo a Port Said di notte. In lontananza, nell’atmosfera chiara, intravedevo i raggi di luce del faro e lo sfavillio delle luci della città. Ancorammo e la mattina venne a bordo l’agente Giulio de Castro per consegnare la posta e riferire sull’assegnazione del posto nel convoglio per attraversare il canale di Suez. Subito dopo il piroscafo venne letteralmente preso d’assalto dai mercanti egiziani che salirono a bordo con gli arpioni per vendere le loro mercanzie. La poppa, i carruggetti e le salette in un istante si trasformarono in bazar ambulanti. Io, in cambio di sigarette, presi due valigie che credevo di pelle, mentre erano di cartone e quando mi recai in agenzia comprai le Tavole Martelli, utili per eseguire più speditamente i calcoli di navigazione astronomica, essendo diventato operativo a fine ‘93 il sistema di navigazione satellitare NAVSTAR GPS. Salpammo nel pomeriggio del giorno successivo, a bordo presero posto due piloti, il barcaiolo e l’elettricista addetto al proiettore per l’illuminazione del canale durante le ore notturne. Percorsi i 162 km. del canale imboccammo il mar Rosso e da qui intravidi la vetta del sacro monte Sinai. Il caldo era umido e appiccicoso. Ci avvicinammo allo stretto di Bai El Manteb per passare poi dal golfo di Aden nell’oceano Indiano. Dopo alcuni giorni dì navigazione in vicinanza della costa bassa e uniforme doppiammo Masqat ed entrammo nel golfo Persico, dove ad Abadan in tre giorni caricammo il grezzo per le raffinerie di Gdynia. Durante le operazioni di caricazione assistevo il tanchista nelle manovre delle valvole in coperta poiché a quell’epoca per il pompaggio da terra e viceversa le petroliere non avevano ancora l’impianto del telecomando idraulico a distanza delle valvole con telelivello di controllo. In navigazione invece, oltre ai due turni di guardia col primo ufficiale, aggiornavo le carte nautiche con i fascicoli degli avvisi ai naviganti e, libero dai turni, aiutavo il secondo ufficiale sig. Bagatella nella contabilità o picchettavo in coperta. Con la nave presi subito dimestichezza, ero solerte a bordo, mi piaceva quel lavoro. Terminata la caricazione, staccarono le manichette dalla pipe-line e riprendemmo la navigazione. Lassù, nella barra dello Shatt Al Arab, a nave carica tutto sembrava fatale. Per l’elevato pescaggio bastava poco per finire in secca: una piccola distrazione, un infimo grado del timone a dritta o a sinistra poteva essere determinante, senza mai dimenticare l’indecifrabile volontà del bastimento, specialmente con vento e mare. A Pasqua eravamo nel mar Arabico. Il mare era calmo, faceva un caldo equatoriale,

Pagina 34 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il primo imbarco nel cerchio dei mie ricordi Leonardo Fiore non spirava un alito di vento. Nell’importante ricorrenza il comandante volle che tutto lo stato maggiore di coperta e di macchina pranzasse assieme a lui nel salone di rappresentanza a centro nave e assegnò al più piccolo il posto d’onore. Io arrossii per l’imbarazzo, ma ubbidii. Sarebbe stata orgogliosa la mia fidanzata se m’avesse visto seduto a capotavola. Non potrò mai dimenticare quella domenica di Pasqua del 9 aprile 1950 trascorsa nell’oceano Indiano, dove ricordai l’antica storia dell’isola di Pasqua sperduta nell’oceano Pacifico. Doppiammo Gibilterra, attraversammo la Guascogna, La Manica, il passo di Calais, il mare del Nord, i 98 km. del canale di Kiel, il golfo di Danzica e arrivammo a Gdynia. Il viaggio di ritorno con nave in zavorra fu tranquillo fino a quando non entrammo nuovamente nell’Atlantico. L’oceano si era improvvisamente incattivito, il mare molto agitato, la prua sprofondava e risaliva coperta di schiuma. L’Atlantico in quegli istanti aggrediva la nave di fianco, un vento gagliardo la fiancheggiò per varie miglia. Sì, ogni nave è stregata, ha la sua anima come hanno una loro anima le case, i quadri, i mobili impregnati del divenire della famiglia e tutte le gradazioni tra il bene e il male dell’esistenza umana. Il comandante era fortemente preoccupato, sapeva per esperienza che l’Atlantico era imprevedibile e maligno, come infatti i messaggi delle altre navi e i bollettini radio avevano indicato brutto tempo. Tutti a bordo consideravano Costagliela un uomo imperturbabile, il comandante di ghiaccio, ma io, benché il meno esperto, o forse proprio per questo, avevo la consapevolezza in un momento così difficile di come gli frullava il cervello, che se l’equipaggio l’avesse immaginato avrebbe certamente cambiato opinione. La notte ebbi un incubo causato senz’altero dalla tempesta; sognai che ero caduto in mare e non sapevo nuotare. Le onde mi spingevano sotto e la sensazione terribile fu che annegavo sfracellato dall’elica. Stentai ad aprire gli occhi e quando ripresi conoscenza annaspavo, non avevo più fiato. Era questo un segno premonitore? Quando un po’ prima delle 4 il cameriere venne a svegliarmi per la prima guardia il comandante già era in plancia col primo ufficiale. Di solito egli nella navigazione alturiera, con tempo buono, affidava la condotta della nave agli ufficiali dei turni di guardia, veniva in sala nautica per tracciare la rotta sulle carte nautiche, per controllare il punto nave durante la traversata e nei momenti particolari che richiedevano la sua presenza, come nelle manovre di ormeggio e disormeggio, nel passaggio dei canali stretti, ma durante i cattivi tempi rimaneva sul ponte ininterrottamente, anche di notte. E quella era una notte particolare, già molto distanti da Finisterre, in piena Guascogna. Il Rapallo tagliava le onde con potenza lasciandosi dietro i neri pennacchi di fumo. Il tempo non prometteva ancora niente di buono e il terzo ufficiale Salvatore Davì di ritorno dalla stazione RT entrò in plancia affannando con le ultime notizie sulle condizioni atmosferiche: «Sarà sempre peggio, comandante. Avremo dei piovaschi e più avanti, lungo la nostra

Pagina 35 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° rotta, alcune navi annunciano banchi di nebbia». Il Rapallo saliva e scendeva valli d’acqua, il mare sempre a traverso, rollio oltre i 20 gradi. La nave, benché ben zavorrata, era molto sensibile e sprofondava la prora nel mare che saliva sul castello fino alla campana delle ancore; la schiuma bianca frastagliata sulla coperta sembrava fatta di tentacoli pronti ad afferrarci e la prua stentava a venir su. Il comandante con apposite manovre tentava di diminuire il beccheggio. Il cielo era coperto, una cappa di nuvole basse correva sopra di noi in senso contrario alla nostra rotta. Durante la notte la nave affrontò un mare in burrasca con vento da SW che soffiava a una velocità di 60 nodi (30 m/sec.), ondate oltre i 6 metri di altezza, lontano lampi e tuoni e dopo poco si scatenò il diluvio; la nave si infilava sferzata da una pioggia battente, visibilità pessima. Finito di piovere, al levare del giorno fummo avvolti nella nebbia che diventava sempre più fitta da potersi tagliare col coltello. Il comandante impartì l’ordine di aumentare le vedette e di stare allerta per vedere se da quell’ovatta grigia uscisse all’improvviso la sagoma di qualche trasporto. La sirena come impazzita lanciava i suoi ululati: due colpi di sei secondi ciascuno ogni due minuti. Riducendosi la visibilità a poche centinaia di metri il rischio di una collisione aumentava con lo spessore della coltre, era come se corressimo in un banco di nebbia dell’estensione incalcolabile. Nessuno degli ufficiali si era ritirato in cabina e così il nostromo con i marinai. Tutti erano rimasti a vegliare, anche il personale di macchina, ufficiali e bassa forza, pronti ad intervenire per qualche manovra di emergenza. Davanti ai vetri del ponte di comando il cervello mi ordinava di stringere gli occhi per vedere meglio col mio bino-colo la benché minima ombra pericolosa sulla nostra rotta; lame gelate mi ferivano la faccia, il collo, le mani. Il comandante aveva già fatto ridurre la velocità come imponeva il regolamento per evitare gli abbordi in mare, ma se il fato si accaniva contro di noi, se un altro bastimento attraversava la nostra rotta chi poteva escludere che il Rapallo non fosse lanciato in una rotta di collisione? In uno squarcio di nebbia facemmo appena in tempo a scorgere sul lato sinistro a poche centinaia di metri, come un fantasma, il profilo scuro di un bastimento venirci contro con rotta opposta. Il comandante immediatamente gridò: «Tutto a dritta!» che il timoniere per rassicurarlo ripeté, ma diventò pallidissimo e stringeva i denti per la paura. Quel bastimento ci passò ad una distanza di 50-100 metri dal traverso. Fu un momento terribile, da brividi. Dal nominativo internazionale il marconista appurò che si trattava di un cargo olandese. Entrammo poi in una leggera schiarita, ma durò troppo poco perché la grande coltre di nebbia nuovamente riavvolse tutti noi. Avanzavamo verso Gibilterra in un alternarsi di banchi di nebbia e momenti di visibilità. Era come se l’Atlantico volesse ostacolarci con tutta la sua malvagità prima di uscirne. Più tardi rivedemmo uno squarcio di cielo, poi un altro e un altro ancora. Verso sera eravamo a poche

Pagina 36 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il primo imbarco nel cerchio dei mie ricordi Leonardo Fiore miglia da Gibilterra. Mi affacciai alla murata di sinistra a guardare il profilo del monte e il grande faro con i fasci di luce intermittente. Dall’altro lato si distingueva il promontorio di Ceuta: l’Africa. Nell’attraversare lo stretto fu un sospiro di sollievo per tutti, ci sembrava di ritornare a casa. Passammo davanti alle coste spagnole mediterranee alte e dirupate, più tardi Malaga e il promontorio con il faro sulla punta. Il Mediterraneo era mosso con creste spumeggianti e il Rapallo a tutto regime sfrecciava tra due ali di schiuma verso Suez. Mi tornò il buon umore che esplose in una euforica riconquista della libertà. Quando non venivo chiamato per lo straordinario trascorrevo le ore libere a scrivere alla mia fidanzata, raccontandole le mie impressioni sulle traversate e mi sembrava già vederla leggere nella sua stanzetta. Oh, come esserle accanto, incontrarla nelle chiesette del rione dove ci vedevamo la mattina di tutte le domeniche, luoghi cari dai quali mi ero allontanato per la prima volta così tanto. E non dimenticavo Napoli, Napoli mi restava sempre nel cuore di cui sentivo la nostalgia. Non furono poche le volte in cui provavo momenti di tristezza, di sconforto, come può accadere a un uomo che non ha un lavoro nella stessa città dove vive e che la sera può tornare a casa per godersi la famiglia. Sarebbe belle che si potesse vivere senza lasciare il proprio paese. Io ho sempre creduto nella telepatia e proprio in uno di questi momenti mi giunse la sua fotografia, che custodisco come una reliquia, con la scritta: “Affinché il mio volto possa esserti di gioia nei momenti di tristezza. Emma”. La baciai tante volte e la misi sul comodino vicino alla cuccetta, di fronte all’oblò in modo da poterla vedere sempre. Emma era una ragazza profondamente sincera, negli affetti attenta e premurosa, gentile nei modi e nel contegno, dal cuore magnanimo, una perpetua serenità aleggiava sul suo volto e atteggiava le labbra al sorriso sincero e cordiale. Le scrivevo lunghe lettere e le dicevo sempre: «Tornerò presto per sposarti». E lei, con ingenuo pudore: «Ti aspetterò». Mentre lavoravo sembrava sentirmi ripetere quella promessa dalla dolcezza della sua voce limpida, carezzevole, confortevole, rassicurante ed ero più sereno di spirito. Un risvolto amaro l’aveva privata del dolce e caloroso sorriso di mamma Elvira e più tardi della sorella maggiore Dora, che morì a seguito dello scoppio della nave Caterina Costa, carica di munizioni nel porto di Napoli la domenica del 28 marzo 1943 e si trovò così di fronte alla dura realtà fin dall’età più tenera tanto che più grandicella dovette ritirarsi dalla scuola media Ruggiero Bonchi per accudire il padre malato e cinque fratelli. Emma si è formata attraverso le vicende della propria vita, più in lei si profilava la donna e più veniva trascurata, incompresa in famiglia per timore, forse, che qualche pretendente volesse proteggerla e portarla via. Emma traeva la forza dai suoi ideali, viveva tra le sofferenze fisiche e morali per le ingratitudini della matrigna e per le condizioni di salute del padre amputato delle gambe, sempre vicino sin da giovanetta per aiutarlo, anch’essa cagionevole

Pagina 37 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° e timida. Crebbe così nel dolore e nello sgomento ben celati dal riserbo che le era congeniale, ma sempre pensava che nella vita ci possono essere vie che s’incontrano. Sapeva di non essere sola, era questo il suo rapporto con la Fede. Che cosa può dire a Dio, cosa può volere da Dio un’anima delicata come la sua? Tutto, Io serbavo tutte queste cose meditandole nel mio cuore e quando le morì papa Armando mi trovavo sulla motonave Donatella in costruzione a Mestre e non potetti esserle accanto per confortarla. Ecco perché quel distacco fu traumatizzante e si formò in me la convinzione che anche lei non poteva sopportare la lontananza e di ciò sembrava averne la riprova quando, arrivando nei porti, non ricevevo sue lettere. La verità era che non aveva il tempo di scrivere neanche una cartolina né che qualcuno andasse a impostarla. È impossibile rallentare il tempo eppure, stranamente, sembrava scorrere più lentamente sul Rapallo, vecchio di trent’anni, già tanti per una nave. Non superava 9 miglia orarie e mi dava l’impressione di contrastare il tempo come se volesse imporre alle lancette il proprio ritmo e rallentare la corsa per ritardare il più possibile il momento della sua fine ormai prossima. Sì, perché a volte la morte è come una sveglia che avrebbe suonato non il risveglio, ma il sonno eterno. A Natale e Capodanno eravamo a Venezia, percorremmo quasi tutto il Canal Grande. Era la prima volta che vedevo Venezia: un sogno meraviglioso. Ricordo che mi svegliai ai rintocchi delle campane dei mori e mi recai alla basilica di San Marco per assistere alla messa natalizia di mezzanotte, ma anche in quelle giornate mi sentivo rattristato perché pur trovandomi in Italia non potevo rivedere la mia fidanzata. Le giornate di festa portano un maggior carico di tristezza e prima di partire incaricai il fotografo di spedirle la mia fotografia in divisa. Dopo altri viaggi sempre dal golfo Persico per Trieste, Sidone, Beirut, Port de Bouc e dal Kuwait a Madras, Calcutta e altri porti dell’estremo oriente avevo girato quasi mezzo mondo, ma era come non avessi mai lasciato Napoli o che Napoli non avesse mai lasciato me. Finalmente seguì il viaggio Mena Al Ahmadi-Napoli, tornavo alla mia terra, la terra del bel canto, un regno che fa fremere e sognare fatto di dolcezza e felicità per chiunque viaggiatore approda - Goethe scrisse: se un uomo ha visto il golfo di Napoli sarà sempre felice - e, la cosa più importante potevo rivedere la mia fidanzata. Il Rapallo questa volta sembrava divorare l’orizzonte. Il Tirreno era di zaffiro, di quel blu intenso che fa innamorare i marinai. Dunque Napoli e la mia ragazza mi aspettavano. Sull’aletta di plancia tenevo lo sguardo puntato davanti a me. Avevo gli occhi lucidi di pianto: i grandi amori sono così. La bussola era orientata verso Napoli, distinsi a dritta l’isola azzurra di Capri, a sinistra Ischia. All’alba giungemmo alla meta, un’alba radiosa. Entrammo nell’incantevole golfo, una conca viva di smeraldo e, davanti a quel panorama reso ancora più suggestivo dalle tante luci ancora accese, rimanemmo alla fonda in attesa della libera pratica,

Pagina 38 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il primo imbarco nel cerchio dei mie ricordi Leonardo Fiore del rimorchiatore e del pilota per l’ormeggio. A destra la penisola sorrentina con le sue gemme e distese di verde sul profilo dei monti Lattari, dall’altro lato la collina di Posillipo che scende dolcemente a mare tra ville fiorite e amene spiaggette e là, sullo sfondo del Vesuvio, Napoli, la bella Partenope che sembra sorgere dal mare, una espressione di storia, di cultura, d’arte, di tradizioni. Attraverso il binocolo rivedevo i luoghi a me cari: la poetica, suggestiva Santa Lucia dove marinaretto imparai a nuotare, le bianche scogliere di Mergellina, al centro la curva maestosa di Via Caracciolo con la trionfale villa, Marechiaro con le dolci acque che fiottano e spumeggiano fra gli scogli. Sì, la costa napoletana è tutta una meraviglia, ha una fisionomia surreale che affascina sempre. Come non si può amare una terra così, come non si può rimanere incantati davanti a tanta bellezza. Imboccata la diga foranea e il molo San Vincenzo attraccammo a Vigliena da dove partii e dove c’era ora la mia ragazza ad attendermi. Oh la mia ragazza, sem- pre più bella, più deliziosa e nel riabbracciarla, nel baciarla il mio cuore esultò, ebro di gioia. Quando ripartii dagli occhi tristi due lucciconi calarono sul suo volto pallido e mi salutò con gli occhi più che con le parole e a quelle lacrime un groppo mi strinse la gola. La Compagnia fissò un altro viaggio per Venezia e qui, dopo la discarica, la nave fu messa a secco nel bacino di carenaggio San Marco per la visita speciale quadriennale di classe. Il 30 aprile 1951, prima che la nave partisse per Goteborg, sbarcai e la domenica del 5 agosto, dopo circa 9 anni di fidanzamento con i messi da parte, sposai la mia ragazza. Fu quello il giorno più bello di tutta la nostra vita: una festa benedetta, condizione fondamentale della vita. Per tutti noi, sempre soltanto l’amore, ineffabile come la Fede, è la ragione del cuore. E più volte la condussi a Venezia sostando al Danieli, al Bauer o al Park Hotel. Ora ritornano gli anni ‘40, quando da fidanzato andavo a trovarla nella casa paterna e da quel 3 aprile 2000 che ha lasciato questo mondo, non so perché, ogni domenica che vengo a trovarla mi vengono in mente quegli incontri di sessant’anni addietro. Dopo tutti questi anni trascorsi insieme vivo gli ultimi giorni nell’amabile ricordo della persona più cara che mi è stata fedele per tutto il tempo della vita, ora che si sta chiudendo anche il cerchio della mia vita. Così per quella vecchia petroliera che nel 1956 fu messa in disarmo. Ogni marinaio sa che questa parola significa morte. Precede una specie di coma durante il quale tutto arrugginisce, tutto ammuffisce con la grande anima impaurita e imprigionata nelle lamiere: un’anima in cui c’è un pezzo di quella di ogni marinaio che vi ha vissuto. Può vivere un’anima da sola? E può vivere un uomo senza anima? Così il Rapallo che per 35 anni era stata la casa di migliaia di naviganti, ciascuno con la sua storia, entro cui avevano trascorso una parte della loro vita lontano dalla famiglia, una nave che andando in giro per il mondo, dopo aver dato pane e lavoro, sogni e speranze a tanti marinai, ora come sempre, anche

Pagina 39 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° se malvolentieri, ubbidiva agli ordini. Nella manovra di partenza per Genova non aveva più nessuna fretta, chi lo vide mi disse che procedeva a lento moto davanti ad una lunga scia, come la fuga degli anni che se ne erano andati via per tutti gli uomini dei suoi equipaggi. Andava silenziosamente come un condannato a morte che non vuoi morire e che nessuno doveva accorgersi delle sue ultime ore di vita con quella gloriosa bandiera della marina mercantile italiana ammainata per sempre, che aveva portato orgogliosamente per il mondo. Forse, pur avendo raggiunto il limite massimo, avrebbe preferito riposare intatto su qualche fondale del proprio profondo immenso elemento naturale, invece il rimorchiatore, in assoluto silenzio, lo trascinò alla calata Gadda dove il cantiere OMSA lo demolì e nel 1956 fu cancellato dalle matricole di quel compartimento marittimo. Io mi considero come un suo figlio e come tale dovevo essere presente in quel triste momento, ma ero lontano. Se avessi potuto sarei stato in plancia ad accom- pagnarlo, usanza che si legge a pag. 25 della “Anima primitiva” di Levi Bruhl, anche se diversa e meno organica. Lo so che esagero ad umanizzarlo a tal punto, ma mi è rimasto nel cuore e per tutto questo tempo gli ho tributato una larga onda d’affetto. È stato il piroscafo su cui ho effettuato il primo anno di navigazione di lungo corso, mi ha dato grandi soddisfazioni e ha cambiato la mia vita. Quando a Venezia fu il momento della separazione pur nell’euforia di tornare dalla mia ragazza, mentre mi allontanavo, guardandolo, provai una grande emozione e mi cadde qualche lacrima. Nel 1966, dopo 15 anni, durante l’allestimento della motonave passeggeri “Achille Lauro”, la nave blu, nei Cantieri Navali Riuniti di Palermo, con l’aiuto del dott. Piero Calaciura, presidente degli spedizionieri, rintracciai l’amico palermitano Salvatore Davì e, come spesso avviene, parlammo di fatti e persone del Rapallo. Ciò che mi commosse profondamente fu l’inaspettata rivelazione dell’episodio di quel mio imbarco avvenuto nel 1950 nell’antica sede della stazione marittima dell’Immacolatella Vecchia adibita provvisoriamente a Capitaneria. Gli anni che seguirono la seconda guerra mondiale furono difficili per la ripresa della marina mercantile, dopo i numerosi bombardamenti che susseguirono quello delle 17,20 del 4 dicembre 1942; furono affondate le poche navi rimaste con a bordo i miei giovani amici ufficiali, nel porto gli uffici devastati e si vedevano ancora affiorare le murate delle navi che erano alla fonda. Erano trascorsi 5 anni da quando mi ero diplomato e in 5 anni molte cose erano cambiate al di qua e al di là della balaustra di granito e della cancellata che dividevano il porto dalla città, in cui la vita non scorreva facile e non ci assecondava mai abbastanza. Durante tutto questo tempo lavorai a terra per alcuni anni, come già accennato, e sempre con la speranza di trovare un posto d’imbarco in quel periodo vuoto di prospettive, frequentavo assiduamente come una sorta di rito l’Ufficio di collocamento e la Casa del marinaio, in cui trovavano assistenza i marittimi prossimi alla chiamata,

Pagina 40 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il primo imbarco nel cerchio dei mie ricordi Leonardo Fiore una istituzione così importante, poi soppressa, per una regione marittima come la Campania. Quand’ecco si presentò finalmente l’occasione della pirocisterna Rapallo sulla quale già si trovava imbarcato il giovane Davì, ma non conoscevo il suo ruolo a bordo. La nave, ormeggiata al pontile industriale di Vigliena, aveva terminato la discarica e dovendo partire in nottata per il golfo Persico ed effettuare navigazione fuori gli stretti, bisognava imbarcare il terzo ufficiale di coperta per completare la tabella di armamento. Non era improbabile che imbarcassi io essendo il solo presente alla chiamata fuori orario di quel 6 marzo 1950, tuttavia trovai l’allievo Salvatore Davì, che passò terzo, a darmi un aiuto fraterno. Capita nella vita che certi fatti non si possono risolvere da soli. A 25 anni ero digiuno da due giorni e quando il neo-terzo ritirò le spedizioni, vedendo forse la mia aria patita e combattuta, mi disse di passare per la saletta della mensa ufficiali. Dopo aver salutato la mia ragazza mi presentai a bordo a mezzanotte e, ricordandomi del suggerimento, mi recai nella saletta a poppa e mi catapultai sulle appetitose vivande che mi aveva fatto preparare. Mi tornano in mente le parole di Benedetto Croce: “L’uomo dimentica e si dà la colpa al tempo. Ma troppe cose buone e troppe ardue opere si sogliono attribuire al tempo, cioè a un essere che non esiste”. Chiunque porta nel cuore una venerazione per qualche persona, ebbene dopo oltre 50 anni non ho dimenticato Salvatore Davì, un uomo di gran cuore, anch’egli comandante in pensione. La dimenticanza, aggiungerebbe Croce, non è opera del tempo, è opera di chi vuoi dimenticare. Così nel rivivere i propri sentimenti si finisce col descrivere fatti di noi stessi, che non conoscevamo prima e che non ci scivolano addosso, ma entrano dentro, come l’epilogo di questo racconto.

Pescherecci nel porto di Riposto in un periodo di fermo-pesca Pagina 41 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

3° Premio alla canzone “Martina guarda il mare” di Vittorio Merlo cantata da Vittorio Merlo di Bissen Lussemburgo

2° Premio alla canzone “Nuvole e gabbiani” di Bonagura – Somma - Colasanto e cantata da Anna Maria Bozza di Pianura NA

1° Premio alla canzone “Echi di mare” di G. Conforti eseguita dal complesso Radical Kitsch di NA I tre Premi sono stati consegnati dalla prof.ssa Leda Leotta, Presidente della Giuria Pagina 42 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Angelo Luigi Fornaca

S O S

urante la notte le condizioni meteorologiche erano rapidamente mutate per Dl’approssimarsi di una profonda depressione che stava coinvolgendo gran parte dell’Oceano Atlantico. Di ora in ora la situazione era andata peggiorando ed alle prime luci dell’alba la Texaco Hannover si trovava ormai nel pieno di una violenta tempesta: investita da fortissimi venti e da altissime ondate, la Nave procedeva faticosamente a velocità ridotta sotto l’ininterrotto passaggio di densi cumuli nuvolosi che scaricavano un diluvio di violenti piovaschi. Quando entrai in Stazione Radio per l’inizio del mio turno di Servizio ed attivai le apparecchiature di ascolto, la situazione mi apparve immediatamente molto preoccupante: i segnali in Codice Morse, che pervenivano in rapida successione sulla frequenza internazionale di Soccorso, indicavano la presenza in zona di alcune Navi in serie difficoltà a causa della violenza della tempesta. Le previsioni per l’immediato non erano affatto incoraggianti. Il Bollettino Meteo di Portishead, in Inghilterra, informava che la profonda depressione aveva raggiunto l’intensità di un violento uragano e diffidava tutte le Navi dall’avventurarsi in quella zona dell’Oceano Atlantico: i venti avrebbero continuato a soffiare violentissimi ed il moto ondoso era previsto di dimensioni ‘fenomenali’. In Stazione Radio mi era estremamente difficile mantenere la posizione verticale a causa delle violenti rollate che minacciavano di scaraventarmi contro i Pannelli elettronici sulle paratie; ma, in mare, l’assenza dal servizio di Guardia per condizione ambientali avverse non è contemplata in nessun caso, ad eccezione di quello ‘estremo’. Sempre ‘ancorato’ nella mia precaria posizione alla console a monitorare il susseguirsi del Traffico Radiotelegrafico sulla frequenza Internazionale di Soccorso, improvvisamente, in un punto dell’Oceano, la situazione prese a precipitare; ed alle ore 10.45, ora Standard Universale, dall’altoparlante echeggiò forte e chiaro il sinistro segnale Morse:

Pagina 43 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

SOS SOS SOS Da quell’istante il tempo restò scandito dal ritmo dei drammatici messaggi di Soccorso ed il susseguirsi di quelle tragiche ore è riportato per iscritto sul Giornale della Stazione Radio della Texaco Hannover. La decodificazione e la traduzione appaiono nel seguente ordine e forma: 10.45 ORA GMT SOS SOS SOS A TUTTE LE NAVI DALLA MOTONAVE TESTAROSSA BATTENTE BANDIERA DELLA REPUBBLICA DELLE FILIPPINE. PIENO CARICO DI MINERALE DI FERRO. POSIZIONE LATITUDINE 46.32 NORD, LONGITUDINE 12.10 OVEST. STIVA NUMERO 1 PESANTEMENTE ALLAGATA. LA PRUA SI STA INABISSANDO. TUTTE LE NAVI NELLE VICINANZE SONO PREGATE DI ASSISTERCI.

11.00 ORA GMT SOS SOS SOS A TUTTE LE NAVI DA MOTONAVE TEXACO HANNOVER: MOTONAVE TEXACO HANNOVER DISTANZA 7 MIGLIA DA MOTONAVE TESTAROSSA PROCEDE AD ASSISTENZA.

12.30 ORA GMT SOS SOS SOS A TUTTE LE NAVI DA MOTONAVE TEXACO HANNOVER: ABBIAMO RAGGIUNTO POSIZIONE SEGNALATA DA MOTONAVE TESTAROSSA. STIAMO RICERCANDO AREA. VISIBILITA’ MOLTO SCARSA. MARE ESTREMAMENTE AGITATO.

13.15 ORA GMT SOS SOS SOS A TUTTE LE NAVI DA MOTONAVE TEXACO HANNOVER: ABBIAMO AVVISTATO ALCUNI ROTTAMI IN SUPERFICIE. INTENSIFICHIAMO RICERCHE ZONA CIRCOSTANTE POSIZIONE SEGNALATA DA MOTONAVE TESTAROSSA.

14.15 ORA GTM SOS SOS SOS A TUTTE LE NAVI DA MOTONAVE TEXACO HANNOVER: STIAMO RICERCANDO AREA ENTRO 6 MIGLIA DI RAGGIO DALLA POSIZIONE SEGNALATA DA MOTONAVE TESTAROSSA. SPIACENTI ANCORA NESSUN SUPERSTITE. ESSENDO STATI RAGGIUNTI DA MOTONAVE LIBERIANA BAJKA PROCEDIAMO A RICERCHE COMBINATE. MARE ESTREMAMENTE AGITATO. MOTO ONDOSO PESANTISSIMO. VISIBILITA’ MOLTO SCARSA.

15.15 ORA GMT SOS SOS SOS A TUTTE LE NAVI DA MOTONAVE TEXACO HANNOVER: DALLE 14.15 MOTONAVE BAJCA SI È UNITA ALLE RICERCHE. ENTRAMBI ABBIAMO OSSERVATO NUMEROSI ROTTAMI E CONSISTENTI Pagina 44 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania S O S Angelo L. Fornaca

QUANTITA’ DI BOLLE DI OLIO RISALIRE IN SUPERFICIE DALLA PROFONDITA’ DEL MARE IN POSIZIONE 46.34 NORD 12.08 OVEST. CONDURREMO RICERCHE COMBINATE PER SUPERSTITI FINO AL TRAMONTO. INFORMEREMO AL COMPLETAMENTO DELLE RICERCHE.

17.00 ORA GTM SOS SOS SOS A TUTTE LE NAVI DA MOTONAVE TEXACO HANNOVER: SPIACENTI NESSUN SUPERSTITE RITROVATO. VISIBILITA’ NULLA. RIPRENDIAMO NOSTRA ROTTA VERSO NORD EUROPA. MASTER

Quando abbandonammo l’area della tragedia l’oscurità era tale da impedire qualsiasi possibile avvistamento. Ormai non vi era più alcuna speranza di trovare qualche superstite ancora in vita: troppe ore erano trascorse dal momento del dramma e la bassa temperatura dell’acqua non consentiva di sopravvivere più di alcuni minuti. Non sapremo mai ciò che è seguito al disperato appello di Soccorso della Testarossa. Di certo il dramma si era compiuto in tempi immediatamente successivi al segnale di SOS. Probabilmente la Nave si era spezzata sotto l’effetto dell’allagamento della Prua e delle devastanti ondate che colpivano lo scafo danneggiato con il conseguente inabissamento in pochissimi minuti. Dopo quell’unico, breve messaggio di soccorso, nessun segno di vita fu più captato o avvistato: un silenzio ed un vuoto tristemente significativi dell’ultima tragedia del mare. Mentre fuori l’uragano continuava ad imperversare con immutato furore distruttivo, alle 17.15 GMT, i lunghi laceranti urli delle sirene della Texaco Hannover furono l’ultimo saluto a coloro che a bordo della Testarossa erano stati nostri compagni di viaggio sull’Oceano Atlantico in tempesta. Da quelle drammatiche ore molto tempo è passato e la mia lunga avventura sui mari si è ormai definitivamente conclusa, ma gli ultimi segnali Morse, provenienti da un punto sperduto nell’oceano, ritornano ancora oggi a risuonarmi ‘in cuffia’ con il loro monotono e disperato ritmo: SOS SOS SOS

- Nota: M/S TESTAROSSA Portata Lorda 115.000 Ton. Equipaggio: 36 Nazionalità: Isole Filippine

- Nota: M/T TEXACO HANNOVER Nord Atlantico – 13 Gennaio 1987

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La “Sardara” di Padron ‘Toni Malavoglia

Dopo un primo tentativo, naufragato tragicamente al largo di “Capo dei Molini”, a distanza di oltre un secolo approda alla Marina di Riposto la “Provvidenza”, la barca di Padron ‘Toni Malavoglia di Acitrezza che, a quel tempo, avrebbe dovuto scaricare, proprio qui, un carico di lupini

La barca, finanziata dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, nasce da un’idea progettuale del prof. Salvatore Finocchiaro. Hanno preso parte attiva alla costruzione il cap. Giuseppe Grasso, sponsor dell’armamento velico, il sig. Angelo Testa che ha forgiato le parti in ferro, la ditta “Veneziani” che ha fornito le resine ed i colori per la realizzazione delle decorazioni. Il Circolo ha voluto premiare, in occasione della manifestazione Artemare 2005, l’iniziativa e le persone che l’hanno realizzata Pagina 46 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Girolamo Melissa

BURRASCA PROVVIDENZIALE

ell’avvenimento che mi accingo a raccontare conservo un sentimento di Dimmensa gioia, ricordo di essere stato felice come un genitore che dopo notevoli peripezie riesce alla fine a salvare un proprio figlio. Il comandante è come un padre per il suo equipaggio, a volte burbero, a volte dolce e comprensivo; egli sente sulle sue spalle il peso di quella grande famiglia che si affida a lui con fiducia e, nei momenti di estrema difficoltà, deve saper nascondere le sue paure. Era il mese di luglio del 1979, quando mollammo gli ormeggi del porto di base di Augusta diretti a La Spezia, dove avremmo preso a rimorchio due navi di modeste dimensioni con destinazione Po’ di Levante. Fuori porto accostammo per il faro di S. Croce e, mentre le macchine venivano accelerate gradualmente, il “MARE JONIO” fendeva il mare acquistando velocità; il sole era ancora basso sull’orizzonte, ma i suoi raggi si facevano sentire preannunziando una giornata afosa, dopotutto eravamo in piena estate. Gli scogli nelle vicinanze del faro erano quasi deserti, osservando con i binocoli si intravedeva qualche pescatore con la sua fedele canna in paziente attesa, di lì a poco quelle nere pietre lambite dal mare sarebbero state invase da centinaia di bagnanti, e quella pace, quel silenzio che in quel momento regnavano avrebbero lasciato il posto ad un felice frastuono. Il mio pensiero andò subito ai miei figli, anche loro avrebbero fatto parte di quella folla e, conoscendo il loro carattere, sicuramente avrebbero pensato a me una volta immersi in quel blu. Anch’io adolescente, quando mi tuffavo nel mare di Riposto, rivolgevo spesso la mente a mio padre, lontano su una nave, chissà dove, e giocavo con la fantasia: bastava toccare con le mani quelle acque per sentirmi vicino a lui, mi sembrava quasi di accarezzarlo.

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Il paese di Augusta ora scompariva lentamente ai nostri occhi, il rimorchiatore viaggiava alla massima velocità e ciascuno di noi accantonava momentaneamente il pensiero della famiglia dedicandosi al lavoro; la navigazione procedeva regolarmente, all’ora di pranzo attraversammo lo stretto di Messina e una corrente generosa aumentò notevolmente la nostra velocità così in poco tempo fummo nel basso Tirreno. Era quasi sera quando arrivammo in vista di La Spezia, il sole si era immerso da poco in quel mare stupendo che è il Mar Ligure e i nostri occhi godevano l’incanto di un panorama senza dubbio tra i più belli al mondo; il faro imponente del “TINO” ci diede il benvenuto, mentre a lento moto accostavamo per l’entrata in porto. Come il solito la locale Capitaneria di porto ci assegnò il molo Italia per il nostro ormeggio, la stessa banchina utilizzata dai rimorchiatori locali; per noi era sempre un piacere scambiare quattro chiacchiere con i colleghi spezini, anche se i discorsi alla fine vertevano sempre sulla paga, sulla turnazione portuale e soprattutto sui compensi per i salvataggi. Appena ormeggiati, il primo pensiero è rivolto a casa, si corre al telefono più vicino con frenesia e, dopo essersi riassicurati sullo stato di salute dei propri cari, si torna a pensare a se stessi: a volte una passeggiata nei giardini è un ottimo svago e serve a mitigare la tensione accumulata nei giorni di navigazione. Il mattino successivo mi alzai molto presto e come di consueto ascoltai il bollettino meteorologico, avevo il presentimento che i noleggiatori avessero una certa fretta e sicuramente durante la giornata avremmo lasciato il porto di La Spezia; all’apertura della locale agenzia marittima mi fu comunicato via VHF di portarmi nelle vicinanze del cantiere dove si trovavano le due navi: la “ANAPO” e la “TUNA I”. Entrambe ormeggiate in andana erano strette l’una all’altra quasi fossero unite dallo stesso destino, in realtà, come appresi dopo, le loro storie erano diverse: la “TUNA I” era un moderno peschereccio oceanico di appena due anni di vita e sarebbe stato trasformato in una cisterna adibita al trasporto di gas, mentre la m/c “ANAPO” sarebbe stata demolita la sua operosa vita nei cantieri di Po’ di Levante. La distruzione di una nave ha sempre arrecato un senso di tristezza al mio cuore; lo so, per molti una nave non è altro che un accumulo di fredde lamiere, ma per l’uomo di mare è diverso, per lui la nave ha un’anima, con essa si stabiliscono dei sentimenti e durante le tempeste si riesce persino a dialogarci. Il sole si stava adagiando sull’orizzonte quando iniziammo a manovrare verso l’uscita del porto, avevamo già collegato i rimorchi e le due navi erano ormeggiate separatamente una a dritta e una sinistra del rimorchiatore pronte ad essere filate una volta oltrepassato la diga foranea; il mare era quasi calmo e una leggera brezza da ponente rinfrescava l’aria piacevolmente mentre il “MARE JONIO” arrancava spinto dal suo potente motore. A circa un miglio dall’isola del Tino in zona di sicurezza iniziammo a filare i due rimorchi, manovra assai delicata nella quale entrano in gioco la perizia del comandante e l’esperienza del nostromo che opera in coperta tra mille insidie; la prima ad essere filata fu l’Anapo e quando il grosso cavo di rimorchio venne in tensione ci liberammo della seconda nave. Pagina 48 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Burrasca provvidenziale Girolamo Melissa

La manovra fu esaurita in circa trenta minuti, ora entrava in gioco la bravura del direttore di macchina che regolandosi con la temperatura dei gas di scarico doveva far tirare il “MARE JONIO” alla massima potenza nei limiti della sicurezza; il convoglio iniziava così l’avventura e come ogni volta mentre osservavo con i binocoli i due mezzi rivolgevo il pensiero a DIO affinché ci proteggesse da ogni pericolo, ma nello stesso tempo provavo una sensazione di imbarazzo pensando di rivolgermi a lui soltanto in certi momenti. Avevo effettuato due punti nave ad intervalli e dal calcolo matematico risultava una velocità di sette nodi, ero ampiamente soddisfatto. La navigazione era regolare e a bordo le ore trascorrevano in armonia, poiché il mio equipaggio era formato da giovani affiatati; nella nottata avremmo attraversato il canale di Piombino e avremmo iniziato la navigazione in quel tratto di mare tanto temuto dai naviganti: la famigerata spiaggia romana; ma ero abbastanza tranquillo, dopo tutto eravamo in estate. Il mattino successivo come di consueto fui svegliato dal marinaio verso le cinque, mentre sorseggiavo il caffé che gentilmente mi aveva portato, notavo che il rimorchiatore beccheggiava notevolmente, stranamente durante il sonno non l’avevo avvertito forse a causa della stanchezza; prima ancora di aprire bocca il marinaio che conosceva profondamente il mio carattere, mi disse: «Comandante non si preoccupi, il vento è da libeccio e non è ancora forte, comunque i due rimorchi navigano magnificamente e non strapazzano per niente, ho appena passato il grasso sulla battagliola di poppa». Aveva letto il mio pensiero, mi vestii in fretta e raggiunsi il ponte di comando; «Buon giorno, come va?», dissi rivolgendomi al 1° ufficiale, «tutto sotto controllo comandante, anche se il vento sta aumentando notevolmente, per Giove siamo in estate non sarà nulla di eccezionale»; ero uscito fuori sull’aletta del ponte e stavo scrutando il cielo, quando alle mie spalle sopraggiunse il nostromo, il più anziano di bordo, un vero marinaio; evidentemente il movimento lo aveva buttato giù dalla cuccetta e ora imprecava contro gli americani, contro i francesi, contro tutti gli stati che effettuavano esperimenti nucleari: secondo il suo parere erano la causa dello squilibrio delle stagioni. Osservavo come correvano le nubi, e in cuor mio non sapevo dare torto al vecchio nostromo; nei racconti di mio padre grande uomo di mare una volta l’estate era estate, e l’inverno con tutti i suoi pericoli era inverno. L’attesa per l’ora del lancio del bollettino meteorologico sembrava più lunga del solito, volevo illudermi che quello che vedevo con miei occhi non fosse vero, ma la voce metallica dell’operatore radio distolse i miei pensieri, mentre il “MARE JONIO” sbuffava come una vecchia vaporiera; non volevo credere alle mie orecchie, nel Tirreno centrale era prevista una burrasca da SW forza 7/8, quello che più di serio poteva capitarmi in quel tratto di mare da me tanto odiato. Bisognava prendere una decisione; rimasi alcuni minuti ad osservare con i binocoli verso poppa: la TUNA I teneva il mare meglio di noi, mentre quella che mi dava seri problemi era la piccola e vecchia cisterna, colpi di mare investivano la sua prua, Pagina 49 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° mentre il grosso cavo di rimorchio che collegava le due navi alcune volte usciva dall’acqua facendosi tesa come una corda da violino. Avvisai il direttore di macchina di ridurre la motrice e iniziai a chiamare Civitavecchia radio pregando l’operatore di mettermi in contatto con la capitaneria di porto; pochi istanti dopo spiegavo all’ufficiale di servizio la nostra situazione e chiedevo autorizzazione ad entrare in porto. La risposta con mio grande stupore fu secca e repentina, mi veniva comunicato che era disponibile una sola banchina e che era riservata ad una grossa graniera attesa per il giorno successivo. Descrissi minuziosamente tutta la conversazione nel giornale di bordo, sottolineando che l’operatore di Civitavecchia radio era stato testimone, così fui costretto a ridurre ulteriormente la macchina e a far rotta per l’isola di Ponza. Per tutto il giorno fummo sballottati dalla burrasca che puntualmente arrivò, l’isola di Ponza sembrava irraggiungibile, osservavo continuamente il radar, la nostra velocità era scesa a quattro nodi. Durante la notte tirammo un sospiro di sollievo: finalmente avevamo doppiato l’isola trovando riparo alla furia del mare; mi sentivo come un naufrago che dopo aver lottato contro i marosi giunge esausto sulla tanto desiderata spiaggia; l’isola di Ponza fu per me quella notte la mia spiaggia. Ci portammo il più vicino possibile alla costa e dopo aver recuperato i due natanti affondammo le nostre due ancore; nonostante la stanchezza rimasi sul ponte, bisognava controllare la posizione, anche se il vento a ridosso delle montagne era diminuito notevolmente di intensità, eravamo pur sempre tre mezzi in forza alle sole ancore del rimorchiatore. Passata la paura, smaltita la tensione nervosa, mi piaceva osservare quel paesaggio notturno che appariva ai miei stanchi occhi come un gran favoloso presepe; quelle luci sparse qua e la portavano al mio cuore tanta nostalgia e il pensiero correva lesto verso casa. I primi raggi del sole mi trovarono sdraiato sulla comoda poltrona, mentre il profumo del caffé, che giungeva alle mie narici, mi annunciava che un altro giorno stava per iniziare con tutte le sue incognite con tutti gli imprevisti del nostro duro e affascinante mestiere. Carmelo, il giovane marinaio cuoco, mi diede il buon giorno mentre gentilmente mi porgeva la tazza fumante; subito dopo arrivò il direttore di macchina, il solito straccio tra le mani lasciava capire che il normale controllo in macchina era stato effettuato; notai in lui però, mentre rispondevo al saluto, una certa preoccupazione. «Tutto normale in macchina?» chiesi ancor prima che lui iniziasse a parlare, quasi come in un attimo volessi tranquillizzare me stesso; «Comandante» rispose, «giù è tutto regolare, la mia preoccupazione è per Peppino l’ingrassatore»; «Peppino?», chiesi io stupito, mentre osservavo il viso del giovane cuoco che si era trattenuto sul ponte. «Non mangia da ieri mattina ed è in cuccetta con un forte dolore allo stomaco» Pagina 50 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Burrasca provvidenziale Girolamo Melissa replicò il direttore, «non l’ ho fatto presente ieri poiché pensavo ad un malessere passeggero e poi non ho voluto aggiungere altri pensieri alle preoccupazioni che già lei aveva». Mi precipitai per l’angusta scala e in pochi secondi ero in cabina, il povero ingrassatore, uomo dal fisico possente, si dimenava in preda a forti dolori, ma ebbi subito l’impressione che la mia presenza lo tranquillizzasse; poi gli chiesi se fosse stato operato di appendicite, ma mi rispose quasi balbettando di no; in quell’attimo la mia mente tornò indietro nel tempo, mi rividi bambino, trascinato da mia madre in lacrime per la strada che da Riposto porta a Torre Archirafi: quell’espressione terrorizzata di mia madre è ancora viva dentro di me. Mio padre imbarcato sulla cisterna “BREZZA” era stato soccorso in alto mare e trasportato a Venezia dove era stato operato in condizioni disperate; quella triste notizia era giunta tramite un marinaio che era sbarcato dalla stessa nave e che abitava a Torre Archirafi; quella strada sembrava interminabile, nel vedere il giovane viso di quella povera donna solcato dalle lacrime, ricordo perfettamente come anch’io piangessi senza rendermi conto. E adesso mi rendevo conto che forse quel trauma era rimasto vivo nel mio inconscio, ma cercai di nascondere la mia preoccupazione, mentre rivolgendomi al nostromo ordinai di preparare il battello a motore. Erano passate da poco le ore nove, quando entrammo nel piccolo porticciolo di Ponza, il 1° ufficiale di macchina rimase sulla piccola imbarcazione, mentre io in compagnia del cuoco ci dirigevamo a passo sostenuto verso la piccola capitaneria di porto. «Buon giorno», dissi rivolgendomi al piantone, «sono il comandante del rimorchiatore in rada, dove posso trovare un dottore?». «In cima a quella salita, sulla destra, c’è un edificio tutto bianco, lì il sindaco sta tenendo un comizio», «il sindaco? Scusi forse non ha capito, io cerco un dottore»; «il dottore e il sindaco sono la stessa persona», rispose sorridendo il marinaio, «questo è un piccolo paese». Mi fermai un attimo prima di entrare in quella casa, la salita aveva prodotto un certo affanno; all’interno del grande salone l’intera cittadinanza era radunata ad ascoltare la persona che io stavo cercando; chiesi permesso a bassa voce e facendomi spazio provai ad attirare la sua attenzione; gli feci cenno con la mano ed egli mi tranquillizzò con un cenno d’intesa abbassando il capo. Un fragoroso applauso seguì la fine del discorso del sindaco, ed io involontariamente mi unii a loro, chissà a quale partito apparteneva il dottore di Ponza? Mi venne incontro subito, certamente aveva capito che non ero un suo compaesano e, dopo aver esposto il nostro problema, senza perdere altro tempo, afferrò la su piccola valigia e ci incamminammo verso il porticciolo. Durante il tragitto lo osservavo attentamente: era un uomo molto alto e robusto sulla cinquantina, capelli biondi su un viso bonario da padre di famiglia. Giunti in vista del nostro piccolo battello si bloccò di colpo: «Comandante io ho tutta la buona intenzione di visitare il suo malato, ma se lei mi vuol condurre a bordo con quel guscio di noce se lo può scordare». Pagina 51 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Non riuscivo a dargli torto, effettivamente la nostra lancia era troppo piccola. «Non dubiti dottore, cercherò di rimediare subito»; chiesi ad un pescatore locale se qualcuno era disposto ad accompagnarci a bordo, naturalmente dietro compenso; non ebbi nessuna difficoltà, poco dopo, infatti, eravamo in navigazione con un peschereccio, mentre il nostro battello ci seguiva con a bordo il 1° macchinista. Alla vista del dottore il buon Peppino si rincuorò; ultimata l’accurata visita quasi con un gesto patriarcale gli accarezzò il viso, «comandante mi scusi dove posso lavarmi le mani?». «Venga dottore nella mia cabina» e mentre facevo strada su per la ripida scaletta che dall’alloggio equipaggio portava al piano coperta capii subito che il dottore voleva comunicarmi qualcosa in privato. «Prego si accomodi», dissi appena varcata la soglia della mia piccola cabina, egli non si curò di lavarsi le mani, avevo visto giusto era stato un pretesto, si sedette sulla sponda del letto mentre io pendevo dalle sue labbra: «Comandante la situazione è drammatica, si tratta di peritonite in stato avanzato, se non si interviene in tempo il suo marinaio rischia di morire; sono le undici, dobbiamo fermare l’aliscafo per Anzio, altrimenti dobbiamo fare intervenire l’elicottero». L’ingrassatore assistito con voce tremante mi domandava la diagnosi sul suo malessere e facendomi forza dovetti nascondere la verità, così come un padre alla presenza del suo piccolo figliolo: «Non ti preoccupare Peppino ti mandano a terra per accertamenti, non dovrebbe essere niente di preoccupante». Il pescatore portò al massimo dei giri il motore della sua barca e quando nei pressi del molo incrociammo l’aliscafo il sindaco-dottore dall’alto della sua autorità ordinò al comandante di invertire la rotta e rientrare in porto. L’ingrassatore sembrava non rendersi conto della situazione; attraverso l’oblò incrociai il suo viso e a stento trattenni le lacrime; «buona fortuna Peppino» gridai dentro di me «che DIO ti assista». Ritornai a bordo dopo aver ringraziato il dottore per la sua grande disponibilità; nel pomeriggio il tempo era in netto miglioramento, tramite Napoli radio avvisai il mio armatore dell’accaduto e iniziammo a salpare. Lasciammo l’isola di Ponza quando il sole era ancora alto sull’orizzonte e mentre ci allontanavamo il pensiero andava all’ingrassatore; nei giorni che seguirono, fino al nostro arrivo a Po’ di Levante dove consegnammo i due rimorchi, non riuscimmo ad avere nessuna notizia; soltanto al nostro rientro ad Augusta, dopo circa dieci giorni, apprendemmo che Peppino si trovava presso l’ospedale di Nettuno e che era stato operato tra mille complicazioni: quella burrasca era stata davvero provvidenziale. Oggi Peppino è in pensione e il dottore dell’ospedale di Nettuno che lo ha salvato, quasi tutti gli anni, viene a trovarlo per trascorrere alcuni giorni di vacanza con la sua famiglia presso la sua campagna. Mi capita di incontrarlo raramente e ogni volta rievocando quella storia a lieto fine non posso fare a meno di rivolgere il pensiero a quel simpatico dottore di Ponza al quale va il nostro eterno riconoscimento.

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Domenico Pischedda

PABLITO E IL DELFINO BIANCO Fiaba di due creature marine

ablito, era un giovane pescatore, povero povero... P Viveva solo nella sua misera casetta, appartata da tutti vicina al Promontorio, con la barca ancorata giù in basso in una specie di minuscolo porticciolo, proprio davanti alla casa. Non è che dalla pesca traesse grandi guadagni, tutt’altro! La buona pesca nell’Atlantico, la facevano solamente i pescherecci d’alto mare. Per i pescatori della Costa, come lui, erano guai seri e miseria. Ma il giovane aveva una grande fiducia che il buon Gesù l’aiutasse prima o poi. Un mattino, dalla finestra, gli parve vedere nel porticciolo sottostante, una massa bianca muoversi. Però siccome l’alba era da poco spuntata, e lui aveva ancora gli occhi un poco assonnati, pensò di aver visto male... Ma aguzzando bene gli occhi, si accorse che sì, nell’anfratto abbastanza profondo di quella specie di insenatura naturale, vi era un grande pesce che si muoveva. Figurarsi la gioia del pescatore! Magari si fosse trattato di un Verdone o di un Pescespada... ne avrebbe tratto un bel po’ di soldi vendendolo a pezzi nelle trattorie del Paese. Ratto come il baleno, trasse dall’armadio fiocina e corde, e giù, a perdifiato, temendo che l’inatteso ospite se ne andasse. Arrivò trafelato in basso e stava per arpionare il grosso pesce, quando si accorse che era un giovane Delfino il quale squittiva lamentosamente come per chiedere aiuto... lo guardava il bestione marino con quei suoi occhi intelligenti, quasi umani, dalle sfumature cangianti dal giallo oro al verde edera, ma con una tale commovente intensità, che fu preso da compassione e abbassò la micidiale arma già pronta a colpire. Notò che l’acqua in giro alla piccola Baia, era arrossata di sangue. Gli venne in mente di chiedere aiuto ad altri pescatori, ma pensò bene rinunciarvi, sia perché erano troppo distanti dalla sua casa, sia perché essi, certamente, avrebbero finito a fiocinate il giovane cetaceo presi certamente dalla bramosia di far danaro... Ed invece lui, Pablito, ne aveva compassione... Che fare dunque? Vedeva lo specchio d’acqua farsi sempre più rosso e gli occhi del Delfino diventare sempre più spenti. Era chiaro che il cetaceo stava morendo dissanguato; il suo corpo era scosso da tremiti, da sussulti. Prendendo il coraggio a due mani, il giovane, che da buon portoghese nel mare ci sapeva fare davvero, si tuffò, e vide... sotto il ventre, vicino alla coda del

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Delfino, uno squarcio abbastanza vasto. Evidentemente era stato assalito da qualche feroce Orca, che aveva tentato di ucciderlo. Perito gravemente, aveva trovato rifugio in quella provvidenziale insenatura seminascosta. Pablito era un’anima semplice e buona. Quel giovane mammifero marino che lo guardava supplice, lo intenerì. Si disse: alla malora gli interessi... Partì al galoppo, salì l’erta e fu a casa dove si provvide di strisce di tela forte, che ricavò da un vecchio lenzuolo di lino. Non dimenticò la bottiglia di Rhum e delle lunghe e sottili funi, spago e un lungo ago del tipo usato dai materassai... Ritornò di corsa giù, si tuffò, disinfettò, la ferita del ferito con una pezzuola intrisa abbondantemente nel Rhum (di cui ne bevve prima un bel sorso) quindi, come si fa cucendo un materasso, unì con lo spago infilato nell’ago, i due lembi della ferita. Applicò sopra il taglio rabberciato alla meglio, tele e ancora tele, poi legò tutto il corpo fremente del grosso pesce, con le funi, per più giri, in modo che arginasse un poco la perdita di sangue con la sua stretta. Pablito ebbe agio di osservare quel1 esemplare di Delfino; era davvero magnifico, benché si indovinasse che era giovanissimo, potremmo dire che era un... adolescente... Aveva sul dorso una striatura verde scuro che lo attraversava dalla coda al capo... Finita l’operazione, assicurò con funi fissate alla roccia il ferito per evitare che l’alta marea lo trascinasse al largo. Il Delfino, aveva sopportato tutto senza dare un minimo segno di reazione. Anzi ora penetrava col suo sguardo buono gli occhi del giovane, come a dirgli: grazie! A farla breve, l’emorragia di sangue cessò e il giovane Delfino aveva buone speranze di farcela... Per diversi giorni Pablito, che non aveva detto a nessuno di quanto era accaduto, sorvegliò amorevolmente il Delfino ferito che chiamò: Bianchino, per il colore del suo corpo bianco come latte. Lo sfamò dandogli quasi tutto quanto pescava... Ci credereste? Il Delfino si salvò! Prese nuove forze, mangiando a crepapancia quanto il povero Pablito pescava, ringraziandolo (quando glielo buttava sotto il muso) sorridendogli quasi e mostrando i suoi denti aguzzi e forti. Finito il lauto pasto Bianchino, squittiva gioiosamente in un modo speciale che sembrava volergli dire qualcosa. Pablito sorrideva a sua volta e gli diceva: «Va bene amico, ho capito perfettamente! Tu vuoi ringraziarmi, lo so! Non c’è di che, Bianchino, era mio dovere!». E così per qualche settimana... Poi un giorno, Pablito trovò le funi che trattenevano il corpo del Delfino strappate. Bianchino se n’era andato per i fatti suoi. Ne fu rattristato profondamente! Chissà perché, ma si era affezionato a quel piccolo mammifero marino che sembrava una collinetta di burro. Non pensiamoci più, si disse il giovane, «che cosa speravo, che si fermasse a vivere con me? In fondo non è che un pesce, solamente un pesce... e senz’anima...». Però puntualmente, ogni mattina, il suo sguardo andava all’insenatura del Promontorio, in cuor suo sperava di rivedere il suo amico... Un giorno lo vide, infatti, e corse giù, trafelato, ma felice di rivedere quello sbarazzino dei mari. Bianchino, si era rizzato sul corpo, roteando vertiginosamente la coda per mantenersi diritto

Pagina 54 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Pablito ed il delfino bianco Domenico Pischedda col capo che svettava spavaldamente al cielo, squittendo all’amico in segno di saluto. Pablito si tuffò a sua volta in acqua e accarezzò il corpo lucido e liscio come l’avorio del Delfino disteso, il quale manifestava la sua gioia sollevando montagne di schiuma battendo il mare con la sua forte coda. Ragazzi, vi dico, i due erano commossi e felici! Si videro così (quando Bianchino era stanco dalle sue scorribande sul mare e tornava al suo naturale rifugio) per mesi, per anni! Erano ormai più che amici, qualcosa li legava, direi fraternamente: la bontà. Anzi vi dirò di più, tutti sappiamo della straordinaria intelligenza dei delfini, ebbene Pablito aveva col tempo imparato a decifrare lo squittire del delfino e lui, il delfino, aveva imparato alla perfezione a capire il linguaggio di Pablito. Insomma, i due si comprendevano e si parlavano perfettamente! Il giovane seppe così di storie meravigliose del mare. Di favolosi tesori sepolti entro Vascelli affondati da secoli, seppe di terribili lotte negli abissi, fra Polipi giganteschi, Piovre maligne, contro Balene o Capodogli impazziti... E ne seppe tante di cose Pablito, cose quasi incredibili, fantastiche... A volte il giovane si metteva a cavalcioni sul capo del suo amico, legato strettamente con funicelle... E scorrazzavano spensierati e allegri per il mare, emergendo e rituffandosi più volte in quelle acque piene di mistero. Bianchino aiutava Pablito anche nella pesca, portando sulla sua barca Cernie e Aragoste e altri pregiati pesci che azzannava con i suoi denti bianchi e aguzzi. Pablito vendeva agli albergatori (che se lo contendevano), ma non mancava di lasciare buona parte del pescato ai poveri del Paese. Tutti lo amavano per la sua bontà e lo consideravano il miglior pescatore del Mondo… dopo San Pietro! A chi gli domandava perché non si sposasse, rispondeva: “Miei cari, io ho dieci, cento figli, tutti i bambini poveri del Paese, sono come figli miei”. Intanto, gli anni si accumulavano agli anni. Pablito si era invecchiato! Una barba candida gli copriva in parte il petto, sempre forte e bruciato dal sole e salsedine. Finché un triste giorno, si sentì male. Gli doleva il cuore, aveva affanno. Temeva, il vecchio Pablito, di non poter rivedere il suo amico... le forze stavano scemando paurosamente. Si fece forza e lentamente, incespicando sulla roccia, si avviò verso l’insenatura giù in basso per salutare un’ultima volta Bianchino. II Delfino presago dell’imminente fine dell’unico amico sulla Terra, ne seguiva i passi sofferti che faceva per raggiungerlo. Lo guardava mestamente, guardava i suoi capelli e la barba fatti di neve dal tempo. Gli scese (stranamente) una grossa lacrima dagli occhi. Lo ricordava giovane e forte quando tanti anni prima lo aveva salvato... Ora, capiva che per il suo grande amico, era giunto il momento di presentarsi al cospetto del Grande Padre dei Mari. Quando finalmente Pablito poté sedersi su una pietra, Bianchino nel suo strano idioma (che Pablito ben conosceva) gli sussurrò commosso: «Vecchio mio, non spegnere la fiamma della tua vita fra gli uomini, vi sarà sempre fra loro, qualcuno che spoglierà la tua casa e forse gli abiti che indossi, preso dalla cupidigia. Vieni amico, legati a me con le funi, come quando si scorrazzava assieme, per il mare;

Pagina 55 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° faremo una galoppata come allora, ricordi Pablo? Una galoppata senza fine, sino alle stelle, vuoi?». L’uomo sorrise tristemente, senza parlare, tanto poco fiato gli rimaneva. Si alzò con grande fatica, prese la fune appesa alla parete rocciosa, poi, con grandi sforzi respirando a fatica, salì a cavalcioni sul corpo levigato dell’amico; vi si legò con speciali nodi (che solo i marinai provetti come lui sanno fare) passando la fune entro la bocca di Bianchino e attorno al suo corpo... poi esausto, si abbrancò in un ultimo affettuoso abbraccio alla testa del Delfino che agevolava, muovendosi, i gesti di Pablo. Terminata l’operazione del vecchio, Bianchino uscì velocemente dalla piccola insenatura, lasciandosi alle spalle quella casa, che li aveva visti felici per lunghi anni e che nessuno dei due avrebbe più rivista. Lontane, verso la spiaggia, alcune barche ballonzolavano pigramente cullate dolcemente dalle acque dell’Atlantico; a terra, sulla sabbia, s’intravedevano pescatori intenti al lavoro sulle reti e sulle nasse, immersi in un mare d’azzurro e di Sole... Il nostro Delfino, scattò come un cavallo di razza, scivolando agile sulle spume increspate del Mare, portando sul dorso il suo carico di fede e d’amore verso il GRANDE REGNO dei marinai e dei pescatori. Pablito, ormai inerte, suggeva golosamente l’ultima ventata di vita, sorrise al bacio salmastro del suo mare, di quel mare cui aveva donato tutto se stesso e...chiuse gli occhi stanchi, per sempre! Solo allora, Bianchino il Delfino bianco, come se avesse capito, spiccò un terribile salto, che squassò le acque del mare innocente, in uno scatto d’incontenibile dolore, quindi s’inabissò nella profondità dell’Oceano!... per l’eternità!

Il dott. Gaetano Ragunì, già Provveditore agli Studi di Catania, consegna le “Targhe d’argento al merito 2004” alla dott.ssa Rosaria Anna Rita Zammataro e al dott. Francesco Copani, conferite loro per la brillante carriera scolastica Pagina 56 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Pasquale Sortino

UN PASSATO MAI ASSOPITO

i trovavo a Roma, al bar Trombetta, il bar fuori la stazione e, mentre stavo Mper portare alle labbra una calda e profumata tazzina di caffé, lo sento: «Sior D’Agostino?». Resto con la tazzina a mezz’aria ed osservo la persona che mi si era parata davanti e mi guardava con aria interrogativa ed imbarazzata. «È lei sior D’Agostino?”. Continuo ad osservarlo mentre la sua fisionomia comincia a diventarmi familiare. Statura media, cinquantenne, capelli brizzolati, viso ovale simpatico, occhi profondamente verdi; il baffetto mi portava fuori strada, allora cercai di immaginarlo senza. Fu allora che dentro di me sentii un misto di incredulità, speranza ed emozione: «Da…Danilo Melli?» riuscii a pronunciare. «Sì, sior D’Agostino, ero sicuro che fosse lei». A stento riuscii a posare la tazzina del caffé sul bancone e gli gettai le braccia al collo: «Danilo…Danilo Melli, Oddio quanti anni sono passati, trenta …forse più, credo fosse il 1968, e che ci fai qui? Non ci siamo più incontrati, io sono rimasto sempre con la stessa Compagnia. E tu? Chiedevo sempre di te sulle navi dove imbarcavo, ma non ho mai avuto notizie». Lo svincolai dalle mie braccia e certamente ne fu ben lieto e non solo per la morsa in cui lo avevo stretto ma anche per l’imbarazzo che gli avevo creato. Il mio abbraccio era stato certamente sincero, ma forse un po’ troppo caloroso e magari anche eccessivo. Ma io sapevo perché! Quindi, sempre più emozionato, ripresi: «Sediamoci, raccontami di te, ora che ti guardo bene sei sempre lo stesso. Dove sei stato? Hai navigato ancora? Hai messo su famiglia? Certo che su quel vecchio “Liberty” abbiamo rischiato la vita, quel viaggio fu proprio un’avventura, ma eravamo giovani specialmente tu ed a quella età si è anche un po’ incoscienti». «Ho navigato poco, ho fatto altri due imbarchi con un’altra Compagnia, poi mi sono sposato e mio suocero mi ha voluto nella sua azienda di latticini. Mia moglie era figlia unica. Ho tirato avanti piuttosto bene. Ora ci bada principalmente mio figlio,

Pagina 57 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° ci sono altri dieci dipendenti ed io mi occupo soprattutto della parte burocratica. E lei? Se non fosse per i capelli bianchi, si direbbe che è rimasto tale e quale». «Cosa vuoi, il tempo passa e già i sessant’anni per me sono un ricordo. Però ti assicuro che dentro mi sento sempre un leone. Ma solo dentro, perché fuori purtroppo qualche acciacco non mi manca». «Ma è l’animo, quello che conta. Comunque io la trovo benissimo. Si ricorda quella gran mareggiata che prendemmo nel sud Africa? Andò in avaria il timone, il mare era molto grosso e andavamo pericolosamente di traverso. Bisognava andare a poppa nel locale timone e la sola ed unica via era dalla coperta. Andare però da centro a poppa, con il mare che con ogni ondata copriva la nave e spazzava via tutto quello che trovava e con il vento che soffiava all’impazzata, c’era da lasciarci la pelle. Negli occhi di tutti aleggiava la paura, benché quasi tutti fossero vecchi uomini di mare abituati ad ogni traversia. Il comandante, gran padre di famiglia, urlava come un pazzo perché non riusciva a manovrare e la situazione si faceva sempre più drammatica. Lei decise di andare, ma da solo poteva essere inutile, avrebbe potuto avere bisogno di aiuto, così venni con lei. Ci legarono con dei cavi per ripescarci qualora il mare ci avesse spazzato via e sperando in Dio, tra una ondata e l’altra, corremmo a poppa. Era difficile correre e mantenere l’equilibrio perchè la nave rullava e beccheggiava in balia del mare in tempesta, così non ce la facemmo in una sola volta e ci avvinghiammo allora ad un verricello quando ci coprì l’ondata. Attimi interminabili, la forza della disperazione fece sì che il mare non riuscì a strapparci dal nostro appiglio. Rivederci entrambi, quando l’ondata passò, fu una gran gioia ed avemmo addirittura l’incoscienza di accennare ad un sorriso, quindi scappammo a poppa. Riuscimmo ad entrare nel locale prima dell’ondata successiva e li, mentre venivamo sballottati da una parte all’altra, usando la manovra manuale, spostammo il timone dalla parte che il comandante ci gridava attraverso il portavoce e lentamente, molto lentamente, la nave tornò alla via. Nel frattempo, non senza difficoltà, riuscimmo a riparare il guasto. Ritornare a centro fu quasi una passeggiata, perché potendo governare, il comandante tenne la nave con la prua al mare. I compagni ci accolsero con gli ‘Urrà’e ci abbracciarono». «Sì, ricordo quel momento; non ho mai voluto parlarne con nessuno. Poteva sembrare di volersi dare un merito ed invece sono certo che dobbiamo ringraziare solo Dio se tutto è andato bene. Ti ricordi?…Drammatico se pur non così pericoloso, dal momento che eravamo in porto, fu anche quando scoppiò lo stop della caldaia… dove eravamo… ah! Sì in Cina, a Tientisin vicino Pechino. Stavamo scaricando i sacchi di fertilizzanti con quei catorci di verricelli a vapore, quando sembrò scoppiare una bomba in sala macchina. Andrea, il fuochista, riuscì a venire fuori del locale, ma finì in ospedale ustionato in buona parte del corpo. Fortunatamente non era grave e fece con noi il viaggio di ritorno. Entrare in macchina, intercettare l’altra caldaia e mettere tutto in sicurezza, non fu una cosa semplice. La temperatura nel locale era

Pagina 58 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Un passato mai assopito Pasquale Sortino altissima e scottava tutto ciò che toccavi. Noi due entravamo a turno. Un paio di minuti io, poi uscivo e dentro tu. Il tempo di iniziare una operazione, continuarla o completarla. Comunque anche quella volta, magari con qualche scottatura, ce la cavammo e come sempre tu eri al mio fianco». «Sì, lo facevo con piacere ma anche con passione ed interesse professionale. Ma, d’altro canto, non credo ci fosse alternativa». «Hai ragione, il personale di macchina era tutta brava gente, ma anziana. Il direttore, Capo Bianchi, era un vecchio autorizzato, del quale non si seppe mai quanti anni avesse. Era un vecchio praticone di macchine alternative e di lui si raccontava che ogni volta che imbarcava diceva sempre che quello sarebbe stato l’ultimo imbarco. Il secondo macchinista… non ricordo il nome, era anche lui un autorizzato, ex maresciallo di marina sessantenne, si comportava come se avesse ancora le stellette, ma in fondo non era cattivo e cercava anche di dare una mano. Il terzo, il Signor Romanazzi, era un tipino fragile che abbiamo dovuto sbarcare senza rimpiazzo a Singapore. La burrasca ed il conseguente dramma del timone, lo avevano mandato in tilt. L’elettricista, era un uomo in gamba, ma anche lui condizionato dall’età avanzata. Dei tre fuochisti, poveracci, non ci si poteva aspettare molto, gente di mestiere ma ormai dalle forze limitate. Solo tu, eri sempre appresso a me, avevi ventidue anni e la forza di un leone. Tra l’altro eri un collega perché diplomato nautico che non avendo trovato imbarco da allievo, avevi accettato l’imbarco da carbonaio. Ti ricordi quando sbarcammo Romanazzi? Pretesi dal comandante che facesse un fonogramma in Compagnia ed ottenni da questa che tu passassi terzo macchinista». «Ricordo sì; grazie a lei feci una rapida carriera; ma a parte gli episodi drammatici di cui abbiamo parlato, ce ne sono altri a cui penso invece con tanta simpatia. La gran rabbia, per esempio, che mi dava la boria di quei cinesi. Si ricorda quanti distintivi con l’effige di Mao Tse-Tung ci portarono a bordo e pretendevano che li indossassimo? E il libretto…il libretto rosso, che dettero a ciascuno di noi, con i pensieri di Mao tradotti in italiano e che, secondo loro, avrebbero dovuto servirci come guida nella vita? Ad ogni riunione di lavoro, prima di sedersi, aprivano il libretto e leggevano ad alta voce un pensiero, quindi s’inziava a discutere di lavoro. Noi dovevamo, purtroppo, stare al gioco altrimenti si arrabbiavano e ci creavano un sacco di problemi. La cosa che mi andò più di traverso, fu quando ci portarono in quella specie di teatrino ad assistere ad una finta guerra dove combattevano tanti soldati, uno di ogni nazione ed alla fine restava solo il soldato cinese. L’italiano, bontà loro, era l’ultimo a soccombere». «Sì, ricordo quei particolari e ricordo anche che tu, testa calda, come a volerti togliere la pietra dalla scarpa, incollasti nella lettera da mandare a casa i francobolli con l’immagine di Mao con la testa in giù. Madonna! Il casino che successe, vennero a bordo in tanti ed incazzatissimi, bisognò sostituire la busta, incollare

Pagina 59 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° nuovi francobolli ed il comandante dovette scusarsi. A te proibirono di scendere a terra per tutto il restante periodo di permanenza». «Meno male che successe un paio di giorni prima di partire, perché non poter mettere piede a terra era qualcosa che non sopportavo. Ma sa, sior D’Agostino, cos’è che ricordo invece con tanta tenerezza? È quel Natale, per me l’unico, passato in navigazione. Addobbammo alla meglio un alberello nel saloncino dove mangiavamo e, il giorno di Natale ci sbarbammo e ci mettemmo tutti in ghingheri. Mangiammo tutti insieme, ma prima tutti quanti in piedi, ascoltammo il comandante che ci fece un breve ma toccante discorso, rivolgendo il pensiero ai nostri cari lontani che sicuramente in quello stesso momento stavano pensando a noi. Poi quello che più ci commosse, fu il secondo Ufficiale che con voce, prima abbastanza ferma, poi via via strozzata dall’emozione, cominciò ad intonare la nenia di Natale. Piano piano ed a poco a poco, ci accodammo tutti e sicuramente non ero il solo ad avere la pelle d’oca e gli occhi lucidi. Poi ci abbracciammo e ci baciammo tutti, augurando, a noi ed ai nostri cari lontani, il Buon Natale». «Hai ragione, a me in seguito è capitato di passare altri Natali in mare, ma quello lo ricordo anch’io come tra i più emozionanti. E… il primo di coperta!… ti ricordi quando gli arrivò il fonogramma: “Nata Daniela tutto bene, baci…” Piangeva e rideva fuori di sé.“Sono papà, sono papà” gridava, beveva ed offriva da bere a tutti e noi, felici per lui e commossi, ci complimentavamo, gli stringevamo la mano e brindavamo ad una lunga e splendida vita per Daniela. Si prese una tale sbronza che ci vollero tre giorni per smaltirla». «Veramente, mi ricordo che in quell’occasione la sbronza se la prese pure lei e ci volle una scatola di aspirine per passarle il mal di testa. Ma lei mi dica: sarà certamente ispettore adesso, era molto in gamba, se non fosse stato per lei non so se saremmo tornati in Italia. Ho imparato molto da lei e non lo dico per farle un complimento. Lei è stato il mio esempio nella vita e non solo per la capacità professionale, ma per il carattere, la freddezza nei momenti più inquietanti, la perentorietà e la rudezza all’occorrenza, per non parlare poi del lato umano». «Ma dai, non stare a sviolinare adesso, di gente in gamba in giro ce n’è tanta e poi senza di te non ce l’avrei sicuramente fatta». E mentre dicevo questo, facevo uno sforzo immane per evitare che il nodo che avevo in gola prendesse il sopravvento. Lui non ricordava o quanto meno faceva finta di nulla, ma io sapevo benissimo cosa gli dovevo. «Feci un altro paio di imbarchi da primo macchinista e poi passai Direttore. Ora sono in pensione, ho due figli già laureati che lavorano ed una moglie che invecchia con me e mi sta tanto vicina. Capisce il mio stato d’animo, sa che sono felice di stare in casa, ma sa pure che a volte mi assale la nostalgia della vita trascorsa in mare. Quel mare e quelle navi che ci hanno segnato la vita. I pericoli superati, i disagi vissuti, le ansie sentite, le emozioni provate, i desideri repressi, le pene

Pagina 60 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Un passato mai assopito Pasquale Sortino patite, le gioie assaporate. Comunque non intristiamoci, quando sbarcai, parlai di te in Compagnia, ma in seguito non seppero darmi più notizie». «Sì, in effetti mi mandarono a chiamare un paio di volte, offrendomi anche d’imbarcare su navi nuove e da secondo macchinista. Avevo nel frattempo preso il patentino. Ma sa, mi ero intanto fidanzato ed ho preferito imbarcare con un’altra Compagnia su una nave che batteva solo l’Italia». «Ed hai fatto bene! Ma bando alle chiacchere, adesso cosa devi fare? Conosco un posticino dove si mangiano i migliori bucatini alla matriciana di tutta Roma e…». «No… non posso, deve scusarmi, anzi si è fatto un po’ tardi. Tra mezz’ora mi parte il treno per Bari e non posso perderlo. Mio figlio mi aspetta assieme a dei clienti». «Mannaggia, mi dispiace, avremmo potuto ancora ricordare i vecchi tempi. Allora ti accompagno, è il meno che possa fare». Ci scambiammo gli indirizzi ed i numeri di telefono, promettendoci di sentirci ogni tanto e mentre ci salutavamo con il treno che si allontanava, lui affacciato al finestrino, io non riuscii più a trattenere la commozione, ed istante per istante, rivissi con la mente quel dramma che mi segnò la vita. Ero a circa trenta metri dalla riva, il mare era un po’ increspato ed a me sembrava in tempesta, le forze non mi aiutavano più, bevevo e tossivo sputando acqua dai polmoni, annaspavo con le braccia e gridavo… gridavo aiuto. Gli altri erano quasi arrivati a terra e non mi sentivano o, chissà, forse dalla mia bocca non usciva nessun suono. Per me era finita, ero stato un incosciente a gettarmi in acqua. Eravamo in rada, c’eravamo fermati nel Madagascar. Si era un po’ scucita una lamiera a prua ed imbarcavamo acqua nella stiva. Il problema era abbastanza serio perché con la pompa sentina riuscivamo a stento ad esaurire l’acqua che entrava. Tra l’altro tornavamo in Italia con un carico di minerale di ferro che avevamo imbarcato in India e quindi eravamo già, di per se stesso, una bara galleggiante. L’armatore ci autorizzò a fermarci a Manakara in Madagascar dove c’era un piccolo cantiere ed era il porto più vicino alla nostra posizione. Il cantiere non poteva ricoverarci subito e abbiamo dovuto aspettare un paio di giorni in rada. Di fronte a noi c’era una spiaggia bellissima, un paesaggio primitivo e selvaggio. Al di là della spiaggia s’intravedeva, nascosto dietro alberi di cocco e banane, un villaggio di capanne. Gli indigeni, molto cordiali, venivano sotto bordo con le canoe ad offrirci noci di cocco e caschi di banane e noi in cambio davamo loro scatole di latte condensato, sigarette e qualche dollaro. Ad alcuni di noi venne in mente di raggiungere la spiaggia a nuoto, in fondo sembrava veramente vicina, forse neanche cento metri. Col permesso del comandante abbassammo a fior d’acqua lo scalandrone e ci buttammo in acqua. Io non sono mai stato un gran nuotatore, o almeno non ho mai avuta molta resistenza, ma la distanza mi sembrava sicuramente rientasse nelle mie possibilità e così senza starci a pensare tanto, mi avventurai. Mi sbagliai, forse avevo qualche problema, forse non stavo bene, certo che cominciai a restare indietro rispetto agli altri fino

Pagina 61 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° a quando sentii le forze abbandonarmi. Per me era veramente finita; ammesso che gli altri mi avessero visto o sentito, non credo avrebbero fatto in tempo a venirmi a soccorrere. Non so in quel momento cosa pensassi o se pensavo, se pregavo o se piangevo, non sono mai riuscito a ricordare nulla di quegli istanti, ricordo invece benissimo quella mano vigorosa che mi avvinghiò per un braccio e mi tirò su. «Tranquillo sior, stia tranquillo e si appoggi a me che ce la facciamo». Ansimando, sputacchiando e tossendo, sostenendomi alla sua spalla, arrivai a terra. Danilo mi tirò sulla spiaggia e là rimasi disteso almeno un’ora prima che mi riprendessi. Lui all’inizio mi accudì un bel po’, poi, quando vide che cominciavo a rimettermi, si allontanò facendo finta di tirare delle pietre. Gli dissi semplicemente «Grazie» ma lui schermendosi «E di cosa?» mi rispose. Ma sapevamo entrambi di cosa, o almeno io ne avevo la piena consapevolezza. Mi salvò la vita e non l’ho mai potuto ne voluto dimenticare. A bordo tornammo in canoa con un indigeno al quale diedi un paio di dollari. A Danilo non dissi più nulla, ma a bordo per il restante tempo che fummo insieme, da ogni mio gesto, da ogni mia attenzione, trapelava gratitudine ed affetto. Sbarcati tutti e due in Italia, lui ad Augusta, io a Genova, non ci vedemmo più, né io, a parte chiedere spesso di lui, feci qualcosa per rintracciarlo. Comunque è sempre stato nei miei pensieri e nelle mie preghiere e lui non seppe mai, né mai lo saprà, che il mio primo figlio lo chiamai “Danilo”.

Pasquale Sortino di Palermo premiato per il racconto “Un passato mai assopito”. La dott.ssa Betty Denaro, segretaria del Premio, legge la motivazione

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SEZIONE NARRATIVA 2004 - X edizione

Il primo premio è stato assegnato a: Nazario D’Amato di Reggio Emilia per il racconto “La pescatrice” «Nell’incedere lento e un po’ altero della scrittura ritroviamo subito le tracce d’un percorso conosciuto: quello che il cuore compie quando viaggia dalla solitudine all’amore. Qui l’amore è il sentimento tardivo, non la passione impetuosa dei giovani; è l’amore allo stato più elementare o austero, privo di illusioni o di fronzoli e dunque, se non più vero, più essenziale; è bisturi capace di portare a nudo, senz’altri orpelli, l’anima. Così il cammino interiore diventa scoperta di sé e non solo dell’altro, pellegrinaggio verso una terra un tempo promessa e poi, stranamente, dimenticata, viaggio a ritroso in cui non mancano avversità, lontananze, silenzi. Ed è giusto - lo sappiamo - che un amore così si nutra del profumo di certe sere e del sapore del mare, che stormisca alla brezza di settembre, inebriandosi al suo sole meno violento e più dolce».

Il secondo premio a: Alfonso Gaglio di Porto Empedocle AG per il racconto “Il ragazzo che suonava al mare «Forse è vero che d’amore si può morire, forse è vero che la passione può nutrirsi di se stessa, a dispetto di tutto, anche distruggendo ciò che incontra... Salvo nutre un amore viscerale e irrinunciabile per il mare e per la musica, e, fedele a se steso, sfida il destino, vive per passione, muore per libertà. Linguaggio senza enfasi che cattura, conduce, e magicamente ci fa credere, come ancora bambini, che davvero, in qualche notte di luna, potremo sentire il suono del flauto di Salvo provenire dal mare».

Il terzo premio a: Clelia Ambrosini di Procida NA per il racconto “La voce del silenzio” «Racconto dell’abbandono e della solitudine, sospeso tra un presente immoto - le dita artritiche del vecchio marinaio che sgranano all’infinito le maglie di un plaid lavorato a mano - e un passato vitale e pulsante - giochi di luce sull’acqua, canti di sirene immaginarie, tempeste improvvise e violente... La scrittura piana è ingannevole; dalle pareti asettiche del ricovero per anziani scaturiscono, come per incanto, immagini vivide e forti, che regalano a chi legge l’illusione di un viaggio a ritroso negli anni».

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La giuria ha ritenuto doveroso attribuire una menzione speciale alle opere:

“Una pesca meravigliosa a margine di un incubo” di Vincenzo Galvagno di Messina «Il racconto di una battuta di pesca è qui occasione ed alibi per affrontare un dramma dei nostri giorni: quello degli extra-comunitari, sventurati infelici che sfidano la morte per mendicare il nostro superfluo».

“Lui” di Franca Gambino di Cerri/Romito SP «Canzone d’amore e d’innocente abbandono verso il mare, che tocca a tratti accenti di autentica poesia».

Il porto di Francesco Persili di Roma «Per la forza evocativa di una scrittura lapidaria e incisiva, che sembra tracciare graffiti sulla pagina bianca, e si fa vedere - e apprezzare - prima ancora di farsi leggere».

Scuola di ballo “Centro Evoluzione Danza” di Mario e Gianpaolo Patanè

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Nazario D’Amato

LA PESCATRICE

affaele sapeva, mentre scendeva lentamente le scale della pensione e si Ravviava per la passeggiata pomeridiana, che l’avrebbe trovata lì, sulla scogliera, dove l’aveva conosciuta e poi salutata, l’anno prima. Quella era l’ora del giorno che più preferiva per fare quattro passi, quando il sole caldo di settembre declina lentamente verso l’orizzonte, lasciandosi dietro una scia di luce, un chiarore vivo, finché scompare nel punto dove la costa - una lunga curva sinuosa, diseguale, a tratti interrotta da piccole cale fra le montagne - si congiunge al mare, e i chiaroscuri della sera scendono piano sull’Etna, la valle d’agrumeti, il paese e il mare. Erano alcuni anni che aveva scelto quel lontano lembo di Sicilia per trascorrervi le vacanze estive, da quando, cioé, uscito dal tunnel dell’ipocondria, una mattina aveva deciso di ricominciare lentamente a vivere. Dopo che era morta sua moglie, infatti, si era chiuso in una solitudine espiatoria, aveva abbandonato ogni attività che lo distraesse e lo appagasse spiritualmente, e si era barricato fra casa e lavoro, convinto che l’arco del destino - beffardo e spietato - avesse sbagliato bersaglio e che la sua vita, ormai, dovesse essere un’attesa, dimessa e rassegnata, per la prossima freccia, che pareva non scoccasse mai. A lungo si era interrogato sul perché fosse andata così, aveva cercato di capire secondo quali progetti insondabili, imperscrutabili, fosse stata assegnata la pena a chi meritava ricompensa dalla vita e, in assenza di risposte, si era messo in attesa, semplicemente in attesa. Finché una mattina si era svegliato, aveva aperto le finestre di casa, vi si era affacciato e aveva visto, per la prima volta, ciò che l’accoglieva da cinquant’anni ad ogni risveglio e che salutava la notte, prima d’ogni riposo: un’interminabile distesa di campi di grano verde e sottile si muoveva leggero sotto la brezza, come onde del mare; vigneti antichi mostravano i primi germogli ed uliveti maestosi, anticipavano - in lontananza - il lago; più in là, oltre il “pantano”, una striscia di bosco ricco di liquirizie, di querce ed asparagi; infine, il mare, una lunga pennellata di azzurro rilucente e là, dove mare e cielo si incontravano, il profilo delle isole, che sembravano tanto vicine da potersi toccare con mano. Era primavera, una giornata tersa dopo la pioggia, profumi d’erba bagnata invadevano la stanza e lo stupore era tornato ad abitare con lui. Il pomeriggio era anche l’ora in cui Anna preferiva andare a pescare o, forse, a parlarsi sul mare; lì l’aveva incontrata. * * *

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Era la vigilia della partenza; “u frusteri” (così lo chiamarono, amichevolmente, fin dall’inizio) stava facendo l’ultima passeggiata, lenta e attenta, nel borgo di pescatori, un giro di commiato da quelle case e da quella gente, che si era abituata alla presenza di Raffaele e lo aveva acquisito alla comunità. Uscito dalle viuzze ombrose e lastricate di pietre, aveva attraversato la strada di porfido che divideva il paese dal mare e si era portato sul marciapiede attrezzato di rade panchine - qua e là reti stese ad asciugare - che accompagnava la strada dal porticciolo fino alla “cala larga”, dove una spiaggetta accoglieva pochi ombrelloni. Si era fermato un attimo a guardare il mare, aveva tirato un gran respiro a pieni polmoni e, mentre decideva se dirigersi verso le barche o la spiaggetta, era stato attratto da alcuni pescatori, un poco più in là, sul lungomare. In particolare, da quello che sembrava una donna anziana, in equilibrio sulle pietre laviche messe sulla battigia a fare da scogliera e da barriera alle onde del mare, che competeva con due ragazzi nella pesca con la canna. Le movenze, i gesti erano di pescatore esperto, avvezzo nel lanciare fili invisibili il più lontano possibile nell’acqua e ad attendere, con una pazienza che non gli apparteneva, che qualche ignaro pesce abboccasse. L’aveva osservata lungamente, incuriosito ed attratto, e aveva provato ad immaginarsi, senza che la fantasia gli andasse in aiuto, come sarebbe stata sua madre con una canna da pesca in mano. Spirava un vento fresco che faceva un poco muovere il mare, con gorgheggi che si perdevano fra gli scogli di quel lungomare senza pretese. Ad un certo punto, dopo interminabili minuti, nei quali aveva osservato - dalle spalle e non visto - quel corpo immobile in un’attesa che pareva non dovesse essere mai ricompensata, in un immobilismo tanto statico quanto inquietante, la donna aveva preso improvvisamente ad agitarsi: un pesce distratto o troppo giovane, aveva pagato caro il richiamo - l’inganno - dell’esca, e si dimenava, invano, nel vuoto. La donna, con esperienza, lo aveva immobilizzato con la mano sinistra e, con la destra, liberato dall’amo, dandogli l’illusione, in quegli attimi di smarrimento, che quella mano liberatrice lo riconsegnasse al mare, invece, era andato a fare compagnia ad altri pesci, raccolti in una cesta lì a terra. I due giovani, poco più in là, increduli, guardavano con ammirazione e invidia, quella pescatrice fortunata o molto esperta e si chiedevano per quale ragione, lo stesso mare, il medesimo specchio d’acqua, ripagasse in modo così diverso le stesse attese; la loro cesta giaceva, infatti, miserevolmente vuota. Nel deporre il pesce nella nassa, la donna si era voltata, mostrando il viso, fino a quel momento rivolto al mare, e Raffaele capì che si era sbagliato circa l’età della pescatrice. A trarlo in inganno erano stati i vestiti larghi che indossava, un comodo pantalone ed una blusa ampia, che coprivano le sue forme e avrebbero potuto far scambiare la donna per un uomo, se non fosse stato per i capelli lungi che le scendevano sulle spalle. Aveva pensato, infatti, mentre la osservava, che doveva essere una donna avanti negli anni, dal volto bruciato dal sole e scavato dal vento, e dallo sguardo dimesso; alla moglie di

Pagina 66 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La pescatrice Nazario D’Amato un pescatore che da egli aveva imparato il mestiere, subendone gli insulti e il segno del tempo e della fatica; ad una vedova, che al mare e ai gesti lenti della pesca, affidava ed ancorava i suoi ricordi per il marito che non c’era più, celebrandone in qualche modo perennemente la memoria. Si era chiesto perché gli venissero quei pensieri, mentre la guardava destreggiarsi con la canna; forse in lui emergevano echi di passati racconti sul Sud, sulla gente del profondo Sud, che esaltavano un certo modello di società, tratteggiata con colori romantici, a volte drammatici, a volte patetici. Nel momento in cui la sconosciuta si era girata verso di lui, quindi, aveva avuto la sorpresa di un volto giovanile, di un viso attraente, di uno sguardo deciso e dolce. Un volto ed uno sguardo che subito l’avevano attratto, senza una spiegabile ragione. Senza pensarci troppo, si era arrampicato sugli scogli e le si era avvicinato: «Salve», le aveva detto con discrezione, accompagnando il saluto con un sorriso, un saluto esso stesso, mostrato con educazione ma con l’intento di catturare la benevolenza della donna e, poiché non c’erano stati segnali di ostilità, aveva proseguito: «lei mi ha incuriosito, non avevo mai visto donne con la canna da pesca in mano», immediatamente pentendosi in cuor suo, per una simile banalità, ma era la prima cosa che gli era venuta in mente; e aveva aggiunto: «e per giunta, brava. Spero di non disturbare». «Salve» gli aveva risposto la donna, senza distrarsi dalla pesca e mostrando un sorriso misurato, «non disturba, non si preoccupi». Dopo una breve pausa, aveva aggiunto: «Brava, dice?». Quell’accoglienza non ostile, lo aveva incoraggiato ma, nello stesso tempo, colto impreparato; si era sentito spiazzato, tuttavia aveva risposto prontamente: «direi di sì, certamente più di quei ragazzi che non hanno pescato ancora nulla». «Fortuna, solo fortuna» aveva replicato con modestia la pescatrice, che pareva guardasse verso l’orizzonte, dove nuvole nere pesanti di pioggia sorgevano dal mare come montagne da una sterminata pianura nebbiosa; non là dove il galleggiante fuoriusciva dall’acqua, ma in lontananza non l’interessasse molto, o non sentisse il bisogno di concedere a quell’opra, niente più della sua immobile presenza, consapevole che dell’evento dell’incontro dell’amo con il pesce, ella non era altro che l’onesto notaio, un imparziale strumento, e nulla poteva modificarne l’esito, nessun intervento esterno, di maestria o di equilibrismo con la lenza. «Non vorrei spaventare i pesci; disturbarli con la mia voce» aveva insistito Raffaele e la donna, senza muovere ciglio, con una prontezza ed un tono che a Raffaele era sembrato irritato e che lo aveva intimidito, aveva risposto: «Pensa di fare un comizio?» ma, immediatamente, Anna si era voltata verso di lui e, con dolcezza e contrizione, si era corretta: «volevo dire che non li spaventa i pesci, nemmeno se volesse tenere un comizio, cosa che mi sembra molto improbabile; le pare che da lì sotto la possano sentire?». E per fugare ogni dubbio sul fatto che

Pagina 67 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° non aveva voluto essere scortese con lui, né che si era sentita infastidita della sua presenza, aveva ancora una volta precisato: «non disturba neppure me». Per qualche minuto c’era stato silenzio; Raffaele se n’era stato fermo lì, a pochi centimetri dalla pescatrice, con le mani in tasca, senza parlare, in attesa - con lei - del prossimo pesce, e infrangendo ogni tanto il silenzio con accenni di sorriso, smorfie impacciate di circostanza, che volevano essere di esultanza, di incitamento, quando sembrava ci fosse un abboccamento, o di disappunto quando, invece, esso svaniva, con la stessa condivisione complice di consumati amici, i quali, con piccoli e impercettibili gesti, socializzano, fra euforia e avvilimento, gli alterni momenti della pesca la donna gli era tanto vicino, che poteva sentirne il respiro leggero, e il profumo, che non pareva di essenza, ma del suo corpo, della sua pelle, forse leggermente sudata, un segnale identificativo e di riconoscimento, unico e originale, come quello degli animali, che permette all’uomo di riconoscerne, da sottovento, la specie e, alla preda, il cacciatore. Per un innato senso di pudore e di rispetto, forse di timidezza e di imbarazzo, quasi che la donna potesse leggergli i pensieri, aveva ricacciato immediatamente da sé l’idea dell’animale: doveva essere il gelsomino ad arrivargli alle narici, mischiato al salmastro del mare. Da quando andava in vacanza in quello sperduto paesino costiero della Sicilia, Raffaele aveva ripreso a vivere, recuperandosi lentamente da una condizione d’abbandono alla quale si era lasciato andare, una risurrezione dell’anima e del corpo, che lo stava riconciliando alla sua umanità tutta intera e piena di contraddizioni e, in tal modo, all’uomo e alla collettività, pur mantenendosene ai margini, più per paura di se stesso che degli altri o, forse, per non esserne completamente risucchiato, poiché aveva bisogno di spazi ampi per respirare e pensare. La comunità del borgo, tuttavia, lo rassicurava e vi si concedeva quanto non altrove; lì recuperava spazi di serenità e forse si sentiva felice, soprattutto quando, al termine delle lunghe passeggiate per le vie del paese o per le stradine di periferia che, con ampi percorsi attraverso la campagna, lo riconducevano al mare, si sedeva al tavolino della sua camera e iniziava a scrivere, a ricamare parole, con l’accortezza e l’amore della ricamatrice sul telaio per il suo corredo nuziale, e non se n’alzava, finché non aveva trovato la parola, la giusta ed insostituibile parola che mancava per chiudere il verso dell’ultima poesia. Forse si sentiva di nuovo libero, finalmente libero, come il delfino solitario che ogni tanto lo salutava da lontano con salti d’acrobata, quando si portava alla punta estrema del faro del porticciolo e si faceva sferzare dal vento, che lo avvolgeva con folate di spuma di mare. Non c’era giorno che Raffaele non facesse una puntata al faro, su quello scoglio collegato alla terra ferma da una predella di cemento, che più che segnalare il porto alle piccole imbarcazioni che vi trovavano riparo, sembrava una sentinella a guardia del borgo, sicché i suoi abitanti vi si sentivano sicuri e al riparo, come le barche nei giorni di bufera. Si metteva seduto sulla sporgenza di una roccia e ripensava alla sua vita, agli ultimi anni, rifletteva e

Pagina 68 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La pescatrice Nazario D’Amato cercava di capire le ragioni per le quali la sua nave, per quanto lui avesse cercato di mantenerla sulla rotta che aveva tracciato quando aveva iniziato la navigazione, avesse preso una deriva che non aveva mai potuto del tutto correggere. «Capitano, dove porta questa nave? C’é una rotta disegnata sul mare, la prua ha un faro da puntare? Quale porto ci aspetta alla fine del viaggio?». Erano queste le domande che si faceva, quando s’interrogava su se stesso - e che ora si riproponeva da una diversa e nuova prospettiva – tentando di darsi delle risposte. Per molti anni si era arreso alla convinzione che non ci fossero porti nel mare, ma solo tempeste e quando, nel mezzo di quegli sconvolgimenti della natura aveva la sensazione che la barca stesse per affondare, faceva proponimenti di acque tranquille per il futuro, tuttavia, passato l’uragano, alle paure della precarietà del contingente, si sostituivano euforie per lo scampato pericolo e le promesse, fatte quando sembrava che la barca dovesse sparire fra i flutti, scivolavano via dal ponte insieme all’ultima onda, e se ne perdeva ogni traccia. Sicché la sua vita negli anni della maturità, fino a quando sua moglie - che sempre l’aspettava a casa dopo ogni navigazione - non se ne fu andata, era diventata una rincorsa fra promesse e pentimenti, onde della stessa marea che lo trattenevano a galla e gli davano un’esaltazione incontrollata e incontrollabile del vivere, la certezza palpabile dell’esistenza, misurata e giustificata, biologicamente e psicologicamente, nel sangue che gli scorreva nelle vene e gli faceva palpitare forte il cuore, nell’attimo sospeso all’interrogativo di chi avrebbe vinto quell’ennesima battaglia con il mare, se sarebbe sopravvissuto oppure no, mentre dalla plancia di comando vedeva la prua e tutta la barca che, con scricchiolii di lamiera, s’inabissava dall’alto della cresta fin dentro il ventre dell’onda e lentamente ne risaliva, sfidando le leggi della fisica, arrampicandosi sulla parete ardita ed enorme della successiva, finché usciva dal buio spaventoso e terrificante, ma nello stesso esaltante, di quella cavità e dall’alto instabile della cresta dell’altra onda, arrivava la risposta. Era uscito così tante volte indenne dalle bufere, che si era convinto che la sua nave non dovesse mai affondare, poi un giorno d’altre promesse smentite, la nave affondò. Cosa mai penserà un naufrago, totalmente atterrito ed incredulo, mentre precipita lentamente ed implacabilmente verso l’abisso del mare, con gli occhi sbarrati protesi verso la luce del sole che, diafana, si allontana sempre di più, le braccia tese ad un appiglio introvabile, ad un legno che gli dia la speranza di un’ultima opportunità di salvezza, il cuore che sembra voler uscire dal petto, le giugulari che si gonfiano e la bocca testardamente chiusa a trattenere l’ultimo respiro, le ultime particelle d’ossigeno imprigionate nei polmoni, nell’illusione che possano lì dimorarvi per un’eternità? Quali pensieri accompagneranno il suo sbigottimento muto, mentre i piedi che sembrano di piombo lo trascinano sempre più giù, fino a toccare il fondo di quel mare che tante volte aveva sfidato, credendo che bastasse tenere bene in mano il timone per mantenere la barca a galla, e il suo corpo penetra quella massa d’acqua infinita quanto l’universo e come l’universo desolatamente vuota, dai colori

Pagina 69 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° sempre più scuri e dalla temperatura sempre più fredda man mano che si avvicina allo strato di sabbia o di roccia, sulla quale infine si affloscerà - guerriero sconfitto o stupido temerario - esanime, su se stesso, come una giara in un naufragio antico o come l’ancora che, rotto l’anello che la tiene alla catena, precipiti dall’occhio di cubia? In quella discesa agli inferi, lenta ed inesorabile, forse guarderà il film della sua vita e capirà che avrebbe potuto recitare una parte migliore e nell’istante in cui si vede dentro il passaggio definitivo verso un mondo sempre temuto ed esorcizzato, ma mai concretamente percepito come possibile, forse, finalmente, si deciderebbe a recitare la parte giusta, se ne avesse ancora l’opportunità. Ma se nel momento in cui tutto sembra perduto, nel quale i sensi si sono completamenti sopiti e lo spirito rassegnato, una mano invisibile lo afferrasse per i capelli, un attimo prima che il corpo si afflosci sul fondo, e lo tirasse su, velocemente, verso una luce che si fa sempre più chiara, più forte, e gli facesse ripercorrere a ritroso quel percorso che lo aveva portato all’abisso, finché, con la violenza roca e selvaggia della vita riconquistata, e con un urlo disperato e di liberazione, lo riconsegnasse al sole, al vento, ed altra aria, altro ossigeno entrasse nei polmoni ormai secchi ed appiattiti, cosa ne sarebbe di lui? E lui di sé cosa ne farebbe? Forse nulla più sarebbe come prima, nulla più. Da quando era scampato al naufragio, Raffaele non aveva mai più guardato una donna come aveva guardato quel tardo pomeriggio Anna, non lo aveva più fatto, da allora; su quegli scogli, invece, si era sentito assalire da una sensazione strana, e da un’irrequietudine che credeva dimenticata, sopita, accompagnata da un incomprensibile quanto inatteso turbamento, e d’un tratto gli era parso di osservare il mondo, con lo stesso rinnovato stupore di quella mattina di primavera tersa e fresca di pioggia: perché quella donna lo aveva interessato, cosa aveva quella pescatrice alquanto originale mimetizzata in panni da uomo, da tenerlo in piedi, lì, come uno scolaretto al primo approccio amoroso, senza che riuscisse a spiccicare una parola? Cosa di diverso, cosa in più delle donne che aveva incontrato fino a quel momento? Senza darsi una risposta, si era subito detto che era opportuno che la salutasse e continuasse la sua passeggiata: l’indomani sarebbe ripartito. Aveva ripreso, quindi, la parola, per il commiato: «Io sono…». «Lei è “u frusteri”» lo aveva anticipato la donna, impedendogli di finire la frase e con una foga sì contenuta, ma che tradiva il bisogno di parlare o, forse, di parlargli. «Già, “u frusteri”!». So che mi chiamano così i paesani» aveva risposto, e avrebbe voluto precisare che non stava dicendole chi fosse, ma solo che era un turista e che doveva salutarla, perché doveva rientrare e prepararsi per la partenza dell’indomani, ma non lo aveva fatto. I ragazzi più in là, poco fortunati, avevano deciso che non era più il caso di insistere

Pagina 70 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La pescatrice Nazario D’Amato in una pesca avara ed erano andati via, lasciandoli soli sulla scogliera. «Mi chiamo Raffaele» le aveva detto lui per fare uscire “u frusteri” dall’anonimato e allungando la mano verso di lei. «Anna», aveva risposto lei, semplicemente, porgendogli la sua. Le due mani, allora, si erano incontrate in un abbraccio timido ed impacciato e si erano trasferite calore e un leggero tremore, ed erano state così pochi attimi, nei quali i due sconosciuti si erano guardati negli occhi, per un istante che era parso ad entrambi un’eternità; il sole, ormai, mostrava - da dietro il mare dove si stava nascondendo, là in quel momento sgombro di nuvole - il suo ultimo spicchio rossastro, e il giorno che stava per finire, si consegnava alla sera. Poi Anna aveva continuato, mentre rimetteva a posto i suoi attrezzi della pesca: «Sono anch’io una “frustera”, per i miei paesani» e si era mossa per venire via da lì e Raffaele, come se avesse acconsentito ad un invito, si era messo al suo fianco per accompagnarla. Poco più avanti c’era un bar, con pochi tavoli all’aperto sotto un gazebo bianco, dove a volte si fermava per leggere il giornale, bere un caffé, guardare il mare, osservare ciò che avveniva intorno e gli capitava di buttare appunti su un taccuino che portava sempre con sé. Prima che potesse razionalizzare se fosse stato il caso che lo facesse oppure no, gli era sfuggito dalla bocca l’invito: «Le va di prendere un caffé?». «D’orzo, però» aveva risposto la donna, sorprendendolo ancora una volta; così, si erano portati al bar, si erano seduti a un tavolino e avevano ordinato al ragazzo che li aveva accolti con un sorriso. Dopo pochi minuti, stavano bevendo caffé. Ci sono molti modi per iniziare un dialogo, ma con una donna è sempre complicato decidere quale. Raffaele sapeva che toccava a lui rompere il ghiaccio ma si sentiva combattuto fra timidezza e spavalderia, non per strategia, ma perché quella sconosciuta gli aveva inaspettatamente ed imprevedibilmente fatto scoprire angoli di terreno incolto nella sua vecchia carcassa, nel quale sbocciavano sconosciuti germogli d’innocenza e di verginità, semi sopravvissuti ad una lunga glaciazione, o scampati per miracolo al fuoco della stoppia dopo la mietitura, che pensava non gli appartenessero più e lo mettevano nudo e disarmato di fronte a quel richiamo di femmina, di donna, lì davanti a lui, dalla quale voleva difendersi ostentando un’inefficace ed inutile sicurezza della maturità. Non voleva fare uscite goffe e neppure sfrontate, non banali e neppure fredde e, mentre sorseggiava il caffé, guardando la donna negli occhi aveva detto: «Ti avevo vista da lontano mentre pescavi e mi avevi incuriosito; pensavo fossi una donna anziana. Volevo vedere la tua faccia, perché mi ero fatto un’idea di te» e, dopo una breve pausa, aveva seguito: «ti ho osservata a lungo senza che tu mi notassi, poi ti sei voltata verso di me e… mi hai sorpreso». Nell’attimo in cui aveva finito la frase, si era accorto che gli era sfuggito il “tu”, e un leggero rossore deve avergli colorato il viso, percepito dalla donna, che gli aveva risposto:

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«Il “tu” va bene» e quasi a voler mascherare quella concessione che non le dispiaceva, con il carattere dei meridionali, aveva aggiunto: «qui al sud noi diamo facilmente il “tu” piuttosto che il “lei”». Poi aveva continuato: «hai detto sorpreso? In che senso? Del resto, non sono mica giovane». Quell’affermazione confidenziale aveva dato lo spunto per continuare una conversazione scherzosa, rilassata, non impegnativa, come Raffaele si augurava che fosse, per non impantanarsi in discorsi che potevano metterlo in difficoltà. «Sicuramente non hai la mia età, io sono ad un’età di svolta», poi aveva precisato: «cinquanta da poco», fingendo di commiserarsi. «Io quasi, sto cercando di raggiungerti». «Il quasi è molto tenero, prima o poi dovrai pur pronunciarlo quel numero». «Bene: quasi cinquanta». «Vuoi che mi fermi, così fai prima? Se vuoi, ti vengo incontro». «Sì, ho quasi il fiatone, ma si può? Non è nelle regole, mi pare: vuoi imbrogliare, confessa!». «No, hai ragione, non è nelle regole, ma ci possiamo inventare le regole che vogliamo, che dici?». «Certo, possiamo inventarci le regole che vogliamo, ma non mi sembra corretto». «Se ti va corriamo al contrario, tu ti giri ed inizi a correre ed io mi faccio venire il fiatone per rincorrere te», aveva aggiunto Raffaele, senza risponderle. «Ci fermiamo a venti?». «Se a te va bene venti, va bene anche a me; io ne avrò qualcuno in più». «Trenta, dai, facciamo trenta, venti mi sembrano pochi e, poi, a te potrebbe venire un infarto nel correre tanto», aveva detto Anna con ironia e accennando un sorriso. «No, no, venti vanno benissimo, a trenta il percorso si è già fatto troppo avanzato». «Mi sembri così lanciato, che potresti rischiare di trovarti all’asilo, ed io all’asilo non ci voglio tornare». «Ho dei buoni ricordi dell’asilo, potrebbe essere una buona idea, ma sarebbe troppo, oggettivamente, ci fermiamo a venti. Da vent’anni si può tutto ricominciare». «Perché, vorresti ricominciare? Qualcosa della tua vita vissuta non ti piace?». La domanda l’era partita con naturalezza, spinta dal gioco della metafora, ma si era accorta, però, che era arrivata all’orecchio di Raffaele come lo scoppio di un’arma da fuoco a pochi centimetri dal padiglione, e lo aveva lasciato intontito. Prima che trovasse parole appropriate per recuperare l’involontario incidente, Raffaele le aveva risposto: «Già!». Soffiava un vento ancora caldo, in quel pomeriggio di settembre siciliano; l’estate,

Pagina 72 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La pescatrice Nazario D’Amato come la primavera con le sue fioriture, si era annunciata in anticipo e si congedava in ritardo, si allungava fin dentro l’autunno e con esso si scambiava odori di grano falciato con profumi di mosto di passito. Stormi di gabbiani garrivano sul mare, planavano sospesi dalle correnti e con improvvise veloci picchiate, si precipitavano con il becco fra le onde per cacciare la loro preda. La pausa era stata breve, ma la conversazione era ripresa come se fosse durata un tempo lunghissimo. Ancora una volta Raffaele aveva rotto il ghiaccio e, glissando, aveva proseguito: «Perché ti chiamano la “frustera”? Mi pare di capire che tu sei di qua». Anna non aveva preso la domanda come una vendetta per la sua precedente, e aveva risposto con sincerità: «Forse perché sono stata lontana dal paese troppi anni; forse perché non faccio vita di società; forse perché vado da sola a pescare o mi fermo al bar a bere un caffé con un forestiero. Forse per tutte queste cose messe insieme». «Capisco» le aveva risposto Raffaele, senza che avesse colto il significato profondo di quelle parole. Anna avrebbe potuto fermarsi lì, Raffaele non le avrebbe chiesto altro, ma aveva sentito il bisogno di spiegarsi, di aprirsi a quel forestiero conosciuto da poco ma che aveva notato da quando era arrivato in paese e lo aveva discretamente osservato in compagnia della sua solitudine, muovere passi che somigliavano ai suoi, come non aveva mai fatto con nessuno dei suoi; quindi aveva proseguito: «Ero andata via da qui, quando ero giovane, credendo che altrove avrei potuto costruirmi un futuro adatto alla mia personalità, che avrebbe trovato libero sfogo il mio senso di libertà, che qui mi pareva compresso; che mi sarei realizzata come donna, appagata…». «Invece?». «Certo, mi sono realizzata nel lavoro, ho fatto carriera, ma dopo anni di corsa affannosa, un giorno mi sono sentita stanca, terribilmente stanca, affaticata, senza più voglia di fare nulla, come se le forze e l’energia che mi avevano spinta freneticamente in ogni direzione, fossero improvvisamente svanite. Per qualche anno ho tirato avanti, per cercare di capire e di capirmi, mi ero affidata anche alle cure di uno psichiatra, ma un malessere incomprensibile si era impossessato di me, mi ero intristita e non sapevo come uscirne. Tutto mi sembrava inutile, senza senso, finché un giorno non ho fatta l’amara scoperta che, per quanto avessi cercato di costruirmi un’identità in quella grande città che mi aveva attratto, e degli affetti, avevo costruito solo castelli di sabbia, crollati con la prima onda lunga». Raffaele l’aveva ascoltata senza interromperla, per non far cadere in frantumi, come un cristallo colpito nel suo punto debole, quel momento speciale. «Sicché, in quella città piena di gente, mi trovai improvvisamente sola, oppressa, nuovamente compressa. Mi mancava l’aria, non riuscivo a respirare; poi una mattina mi sono svegliata in un modo diverso, e mi sembrò di vedere le cose sotto una nuova

Pagina 73 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° luce, come se le osservassi per la prima volta. Così presi la decisione di abbandonare tutto, lasciare il lavoro e ritornare da dove ero partita, per ritrovare me stessa». A quel punto si era interrotta, aveva guardato la tazzina vuota del caffé, si era girata verso il mare come per osservarlo meglio, o per sottrarsi allo sguardo di Raffaele, mostrandogli, così, il suo profilo ravvicinato; poi si era rigirata di nuovo verso di lui e con una curva della lebbra che sembrava un sorriso timido o una smorfia di dolore malamente dissimulata, aveva concluso: «ero infelice!». Come si può parlare all’infelicità, alla tristezza, quali parole trovare, che non siano melassa? Egli sapeva cosa fosse quel sentimento costante che ti comprime il cuore, che ti accoglie al risveglio, ti accompagna per tutto il giorno, viene a letto con te e ti ruba i sogni, così ogni giorno della settimana, ogni settimana del mese, ogni mese dell’anno, perché un tempo non troppo lontano ne aveva attraversato tutto il sentiero tortuoso; aveva sperimentato che non ci sono parole giuste per alleggerire quel peso, per accorciare quel percorso, perché esso va fatto tutto fino in fondo e, per quanto si voglia esprimere un sentimento di solidarietà, esso non è mai condivisione, perché non si può condividere ciò che non si possiede, se mai ci sia qualcuno disposto a trasferire su di sé l’infelicità altrui. La tristezza, come il dolore, è un viaggio che si percorre sempre da soli. Cosa poteva dire, dunque, a quella donna che poco prima non conosceva e che ora lì al bar - testimone il mare – gli stava raccontando di sé, come una vecchia amica ritrovata dopo tanto tempo? «Amici non te ne eri fatti ?». «Amico è una parola troppo abusata, a volte concessa con troppa leggerezza, altre ingannata». «Io ne ho pochi, ma credo che una vita senza un’amicizia sia impossibile». «Hai pochi amici o qualche conoscente che ti è più vicino di altri?». «Non capisco….». «No, niente, lasciamo perdere, a volte m’incarto in ragionamenti complicati, forse perché lo sono io» e, così dicendo, aveva abbassato gli occhi e reclinato leggermente la testa. Raffaele, però, li aveva raccolti con i suoi, li aveva sostenuti con il suo sguardo e con garbata insistenza l’aveva pregata: «Ti prego, continua, spiegami». «Io penso che gli amici dovrebbero essere persone speciali, la nostra storia e la nostra identità; la nostra sponda, una voce che risponde all’altro capo del filo del telefono nel cuore della notte, uno che se incontri dopo vent’anni, non gli chiedi se si ricorda in che posto sedevi alle scuole elementari o di quale colore fosse la giacca della vecchia maestra, ma se è ancora capace di sognare, gli parli del tuo presente e lui del suo». «È bello quello che dici» l’aveva interrotta Raffaele; egli non aveva mai pensato all’amicizia in quei termini, forse non aveva mai voluto mettersi in discussione consegnandosi all’amicizia come ci si dovrebbe consegnare all’amore. E mentre

Pagina 74 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La pescatrice Nazario D’Amato ascoltava la sua compagna parlare con una passione serena ma convinta, come se avesse lungamente meditato quello che diceva, si era sorpreso a pensare alla parola “amore” con un certo richiamo, all’Amore, anzi, come ad un richiamo derubricato dalla sua vita. La donna aveva poi concluso, come se le fosse giunto l’eco dei pensieri dell’uomo: «L’amicizia è un bene molto raro». «Vedo che pretendi molto dalla vita, o da te stessa; ti capisco, sai? Qualche anno fa avrei potuto sorridere di quello che dici, ma ora ti capisco». E dopo una breve pausa, nella quale aveva sfogliato l’album dei suoi ricordi, aveva proseguito: «a volte abbiamo a portata di mano ciò di cui abbiamo bisogno e non lo vediamo». «Forse hai ragione». «Dovremmo imparare ad essere saggi e a volerci bene». «Ho dilapidato fortune nel volermi bene». Una affermazione lapidaria e malinconica, che avrebbe dovuto essere esplorata, ma Raffaele aveva risposto senza indagare e pensando alla sua vita: «quello che siamo, il nostro destino, la nostra vita è ciò che noi abbiamo costruito con le nostre mani» continuando: «a volte percorriamo strade che ci esaltano e in quella esaltazione, invece, ci perdiamo. Ci comportiamo come se la vita dovesse finire da un momento all’altro e da essa volessimo suggere tutto il possibile, finché non affoghiamo». «Per anni mi sono posata come una farfalla avida, su ogni fiore, finché non mi si sono scolorite le ali», aveva confermato Anna, «pensavo che la mia breve vita meritasse il massimo appagamento, ma ogni vita, per quanto breve, merita rispetto per se stessa. La vita di una farfalla è breve dal punto di vista di chi la osserva, ma dal suo no. Bene, io vivevo come osservandomi non da dentro di me, ma da fuori e avevo smarrito la gerarchia dei valori, il senso della priorità delle cose». Quale energia, quale mistero o intrigo del destino fa sì che due anime sconosciute e sole, un giorno si incontrino, fuori dalle loro piste e dalle loro rotte, e si consegnino così liberamente l’uno all’altra, come una barca che, combattendo con il mare in tempesta, abbia raggiunto finalmente il porto? Raffaele capiva benissimo quello che gli diceva la donna, ogni sua parola entrava dentro di sé con inequivocabile chiarezza, come se vi rientrasse, anzi, dopo che ne era, per qualche ragione, uscita. Si stava facendo tardi, il tempo scorreva senza che si percepisse il suo ansimare, Raffaele doveva andare, prepararsi per la partenza, ma non voleva staccarsi da quel tavolo, da quella voce, da quello sguardo che lo fissava e non si capiva se cercasse aiuto o ne volesse offrire. Stava succedendo qualcosa di inaspettato, di nuovo e di antico, che lo incollava a quel momento, dal quale non avrebbe mai voluto staccarsi. Era stata la donna, ad un certo punto, come riprendendosi da quell’attimo che le era sfuggito di mano e recuperando razionalità, che aveva detto: «Bisogna che vada, ti ringrazio per il caffé». «Devo andare anch’io, devo prepararmi per la partenza».

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«Ah, parti? Quando?» gli aveva chiesto Anna, con un tono di voce dimesso, forse di disappunto. «Ho l’aereo domattina». Entrambi avevano avuto la sensazione che qualcosa di importante stesse per sfuggirgli dalle mani, che come la sabbia sottile e asciutta stesse per scivolare via dalle loro dita e li lasciasse con il pugno serrato e vuoto: ciò che per tanto tempo avevano cercato e che ora, finalmente, senza che l’avessero preventivato, si mostrava disponibile; la barca che poteva traghettarli sull’altra sponda e cavarli fuori dall’isola in cui per anni si erano chiusi, diffidenti con sé stessi e con il mondo, in una quarantena che ora poteva finire. Forse era giunto il momento in cui bisognava rimettersi in gioco, di riconsegnarsi al mondo completamente, alla vita; di rischiare, anche nuovi errori, certo - da ogni inciampo ci si può rialzare – ma, soprattutto, l’amore. Ci sono momenti in cui il cuore prepotentemente cerca di farsi ascoltare e spera di trovarne un altro con cui dialogare; e i sensi, e il corpo, di vibrare come corde di violino, sotto mani esperte e capaci; per troppo tempo i loro strumenti erano giaciuti in scantinati bui e polverosi, abbandonati a se stessi ed era ora che ritornassero in orchestra. Se si erano inflitti una pena, ora l’avevano estinta. Così Raffaele si era sfidato: «Senti, possiamo cenare insieme questa sera?». «Sì» le aveva risposto Anna, come se si aspettasse quell’invito. «Allora preparati, più tardi passo a prenderti, dimmi dove». «Qui, sulla scogliera di fronte a questo bar; alle otto in punto. Indosserò uno sguardo seducente» aveva detto con un po’ di civetteria e per riconsegnare quell’incontro all’iniziale leggerezza. Raffaele stando al gioco, che gioco sentiva non essere, le aveva risposto: «Mi hanno già sedotto le tue parole». Si erano lasciati, dunque, l’uomo dirigendosi verso il porticciolo, la donna verso la cala grande. Era quasi sera e sul quel borgo non aveva mai spirato una brezza così carezzevole, così carica di profumi intensi. Il mare, con una complicità discreta, aveva assistito, testimone silenzioso, all’incontro di quei due gabbiani sulle onde, spinti dal vento che nasce lontano. Raffaele aveva camminato con una certa ansietà, pensando alla cena che avrebbero consumato dopo qualche ora, e a quella donna, alle sue parole, al suo viso, ai suoi occhi, alla sua voce, al suo seno, che il collo aperto blusa mostrava generoso. Prima che voltasse nella stradina che lo conduceva alla pensione, si era girato ed aveva visto la donna che si allontanava; un secondo dopo, anche Anna si era girata verso di lui e lo aveva visto voltare l’angolo. La sera era arrivata troppo tardi, qualunque orario si fossero dati per l’appuntamento, sarebbe arrivata troppo tardi e la loro cena era finita troppo in fretta. Anna aveva indossato un jeans color pesca, una camicia chiara ed una giacca di cotone leggermente tagliata in vita, in tinta col pantalone, con il bavero alzato, che nulla nascondeva della sua femminilità curata e giovanile. Avevano mangiato

Pagina 76 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La pescatrice Nazario D’Amato una grigliata di pesce, bevuto del buon vino, chiacchierato; alla fine della cena si erano trattenuti pochi minuti sul lungomare, poi si erano lentamente diretti verso il porticciolo, verso il faro, in silenzio. Arrivati là dove la donna aveva pescato nel pomeriggio, si erano fermati, erano saliti sugli scogli, e se ne erano stati in silenzio a guardare il mare illuminato dalla luna, che si nascondeva e poi ricompariva fra le nuvole che minacciavano pioggia. Non c’era nessuno a quell’ora, si era fatto veramente tardi e nel momento in cui dovevano salutarsi, erano stati presi dal bisogno ansioso di dirsi parole che non avevano avuto il coraggio di dirsi prima, che a tavola non avevano osato pronunciare, ma che in quell’attimo che tanto li univa e fatalmente li separava, sembravano di un’urgenza inderogabile, ma erano rimaste appese lì. «Allora ciao», aveva detto Raffaele «ci vediamo l’anno prossimo, se tornerò e se tu ci sarai». «Se ci sarò e se tornerai» aveva risposto lei. Così Raffaele si era avviato verso la sua pensione ma, fatti pochi passi, folgorato, si era girato di nuovo verso la donna, che era rimasta lì ferma ad osservarlo mentre andava e non capiva perché tornasse indietro; le si era avvicinato e le aveva detto: «possiamo scambiarci il numero di telefono?». «Certo», aveva risposto. Raffaele aveva preso dalla tasca il taccuino che portava sempre con sé e, su un foglio, aveva scritto il suo numero, quindi, aveva strappato la pagina e l’aveva data a lei. Poi stava per chiederle il suo, ma la donna gli aveva sfilato la penna dalle mani e reggendo con la sua mano quella dell’uomo, usata come un leggio, gli aveva scritto il numero di telefono. «Ciao». «Ciao». La sera dopo Raffaele era nel suo appartamento, a chiedersi se la dovesse chiamare oppure no. Aveva guardato l’orologio più volte con nervosismo, e si era detto ogni volta che forse quella non era l’ora giusta, ma sapeva che stava combattendo con se stesso, o, meglio, con i residui di malessere che ogni tanto andavano a visitarlo. Non voleva più confondere coraggio con temerarietà, non voleva più affrontare le bufere del passato, voleva vivere la pace che gli dava lo stare a poppetta durante la navigazione, da dove - in solitudine - seduto su rotoli di cime, osservava la scia spumosa della nave e pensava che quella era la strada che doveva abbandonare, senza avere mai avuto il coraggio di farlo. Verso le ventitré aveva alzato la cornetta e composto il numero, tre, quattro, cinque squilli, poi una voce gli aveva finalmente risposto: «pronto, pronto, pronto» e prima che quella riattaccasse, vinta l’ultima esitazione, aveva risposto, deglutendo saliva e scoprendosi avvampato, come se lei fossi lì con lui: «Ciao, sono Raffaele». Neppure la sera prima si era sentito così in imbarazzo, vicino al faro, mentre si scambiavano i numeri di telefono e la mano di lei

Pagina 77 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° accarezzava la sua, nel gesto di reggergliela per scrivere quel numero che aveva appena composto e che giaceva nella sua agenda come una reliquia. Avrebbero potuto banalmente parlare del viaggio, o della salute, lei chiedergli di come era andato il volo e lui di come stesse, invece Raffaele aveva esordito: «È da quando sono partito che penso al nostro strano incontro; se non mi fossi fermato a guardare quel pescatore sugli scogli, non ci saremmo incontrati…», e si era fermato, per aggiustare un po’ il tono della voce e nella speranza che lei lo interrompesse, che gli andasse in aiuto, ma il telefono era rimasto muto, quindi aveva proseguito: «é stata una bella giornata, quella di ieri, una bella giornata, una bella cena, una bella passeggiata e…», e aveva fatto un’altra interruzione, attendendo che dall’altro lato del filo giungesse una parola, una sola, che gli desse una mano a sostenere quella conversazione. Egli sapeva che lei era lì, ne sentiva il respiro, allora perché non parlava, perché lasciava parlare solo lui? Sembrava quasi che la donna lo facesse apposta, per costringerlo a tirare fuori dal petto le parole che lui non aveva il coraggio di pronunciare, le stesse che avrebbe dovuto dirgli la sera prima sul mare. Come un pugile alle corde, aveva continuato, un poco balbettando: «insomma, volevo dirti che ho pensato tanto a noi, ho pensato a te, scusami». Finalmente aveva detto la parola giusta, come il “cinquanta pronunciato da lei sugli scogli; ora quel telefono muto poteva parlare, ma taceva testardamente, finché, liberatoria la voce di Anna aveva rotto quel pesante ed insostenibile silenzio: «Non devi scusarti,è bello essere pensati». Aveva convissuto tanti anni con la tristezza e la melanconia, che aveva dimenticato cosa fosse un sentimento di gioia, forse non lo riteneva mai più disponibile per sé, precluso come ad un’anima nel suo lungo passaggio attraverso il purgatorio. Adesso, quindi, che pareva di nuovo alla sua portata, che il suo cuore ne percepiva, con accelerazioni di battito che gli facevano girare la testa e gli davano un senso di svenimento, la rivitalizzante presenza, come la luce alle piante, forse si stava approntando per lui il traghetto per il paradiso? Si era abituato a pensare, dopo il naufragio, che la gioia fosse rare briciole strappate alla quotidianità, attimi di follia della mente che fugge il dolore per un istante, e la razionalità, ma quello non era il paradiso, semmai una concessione di momentanea benevolenza, l’allentamento della pena, un togliere i ferri al condannato per qualche ora e lasciarlo camminare, allungare i passi, i piedi a lungo trattenuti nello spazio ristretto e duro della catena; oppure, al contrario, un inasprimento della stessa, attraverso l’illusione della concessione di un attimo di felicità, solo per ricordargli da cosa era tenuto lontano e in ciò alimentare il dolore per la sua privazione. Egli non aveva mai creduto fino in fondo al Paradiso, al Purgatorio, all’Inferno, ma solo interpretati attraverso le vicissitudini del vivere quotidiano; all’inferno c’era stato vicino, nel purgatorio aveva vissuto a lungo; se quella voce al telefono era un’anticamera del paradiso, dunque, non voleva lasciarsela sfuggire, anzi, non poteva.

Pagina 78 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La pescatrice Nazario D’Amato

«Ti disturbo a quest’ora?» le aveva chiesto Raffaele. «Sei ossessionato dall’idea di disturbarmi; dovresti sapere che qui si cena tardi e si va a letto ancora più tardi». «È vero! Cosa stai facendo?». «Sono qui, sul mare». «Sul mare?». «Sì, sul mare, vorrei fartelo ascoltare». «Davvero? Sarebbe bello». «Aspetta», gli aveva risposto Anna e, dopo qualche secondo, aveva sentito attraverso la cornetta il rumore del mare che si frangeva fra gli scogli; dopo, al rumore del mare, si era aggiunta la voce della donna: «lo senti?». «Sì, sì» aveva risposto con contentezza, «come hai fatto?». «Col cellulare, chiaramente». «Ah, giusto. Volevo salutarti, Anna, darti la buona notte. Questa sarà la mia prima notte fuori dalla Sicilia, spero di riuscire ad addormentarmi». «Ti addormenterai, fosse altro perché sei stanco del viaggio». «Credo che tu abbia ragione. Buona notte allora e…salutami il mare». «Certamente, te lo saluterò ogni giorno». Forse con quella telefonata di cortesia si era chiusa la storia di un incontro, aveva pensato Raffaele mentre tentava di prendere sonno; era stato difficile addormentarsi, ma poi la stanchezza aveva preso il sopravvento. Il mattino successivo era stato svegliato da uno scampanellio assordante, aveva allungato la mano per tacitare la sveglia, ma quella non smetteva di squillare, finché non si era accorto che era il telefono che squillava. Aveva alzato il ricevitore e con voce assonnata aveva dato il suo “pronto”. «Spero di non averti svegliato». Era Anna, inaspettatamente Anna. Non sapeva ancora com’era la giornata, se ci fossero nuvole o sole, ma, per lui si presentava radiosa. «Sì, cioé no, non disturbi, mi sarei alzato fra un po’» aveva balbettato. «Non sapevo a che ora andavi a lavorare e non volevo aspettare questa sera, se mai ti avessi trovato… non volevo perderti». «Volevi verificare che il mio numero fosse esatto, che non ti avessi ingannata?» aveva risposto lui, evidentemente scherzando. «No, no, che dici? Volevo salutarti e dirti una cosa?». «Cosa?». «Hai dormito questa notte?». «La stanchezza ha preso il sopravvento, e tu?». «Non bene, non bene, ho pensato al nostro incontro e…insomma…a noi, a te, scusami». «Non devi scusarti, è bello essere pensati». «Mi prendi in giro?» gli aveva chiesto; e subito si era data la risposta: «no, so

Pagina 79 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° che non lo faresti». «Come sta il mare?». «Il mare è lì dove l’ho lasciato ieri sera, dalla mia finestra posso vederlo. È calmo, piatto, silenzioso, plumbeo, come il cielo pronto alla pioggia. Il sonno della notte ha sopito i suoi spasimi, ruggiti stanchi di vecchio leone senza branco». «Salutalo per me». «Già fatto». «Vorrei poter essere lì con te ad osservarlo, Anna». «Sì?». «Sì. Sai, credo che porterò con me il ricordo del nostro incontro come un appiglio per le mie malinconie». «Per le nostre malinconie, o per le nostre euforie» aveva corretto lei. «Noi siamo due anime speciali, sospese fra fantasia e realtà, ma tanto distanti». «Possiamo osservare da lontano la stessa stella, però, e posarvi il nostro sguardo, così su quella stella il nostro sguardo potrà incontrarsi». «Un giorno ci incontreremo in riva al mare, ci faremo possedere dal vento». le aveva promesso Raffaele, prima di chiudere quella telefonata. Poi la vita aveva ripreso il suo ritmo, era arrivato l’autunno, l’inverno, la primavera, un lungo periodo nel quale non si erano mai più sentiti, come per soddisfare la tacita e reciproca promessa di far decantare l’euforia di quell’incontro, nella botte del tempo, lasciarlo fermentare come il mosto dopo la spremitura, per verificarne a S. Martino la consistenza, la bontà. Sapevano entrambi che quella era una cosa necessaria da farsi. Infine era giunta l’estate e verso la fine d’agosto, Raffaele aveva sollevato la cornetta del telefono ed aveva composto il suo numero, così con sicurezza. «Ciao Raffaele, stavo aspettando la tua telefonata» le aveva risposto Anna dall’altro capo del filo. «Ciao Anna, arriverò fra due domeniche». «Noi siamo qua». Invece Raffaele aveva anticipato le ferie di una settimana ed era sceso in Sicilia una domenica prima. *** Era arrivato la mattina tardi, verso mezzogiorno, aveva sistemato le sue cose nella pensione, consumato un pasto leggero e si era concesso qualche ora di riposo. Al risveglio si era fatta una doccia, rivestito e, poi, avviato per la sua abituale passeggiata, come se quel posto non l’avesse mai lasciato, come se da lì non fosse partito un anno fa. Il percorso era sempre lo stesso, una discesa per le viuzze, un saluto alla gente che incontrava per strada, poi l’imbocco del lungomare dalla parte del porticciolo, del faro, dove aveva sostato un poco, come per salutare un amico importante. Da lì verso la cala grande, percorrendo quel lungomare senza pretese,

Pagina 80 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La pescatrice Nazario D’Amato a tratti interrotto da buche per la nuova pavimentazione. C’era un sole caldo e il mare era una tavola d’olio, una distesa di variazioni d’azzurro, solcata da barche da pesca e, in lontananza, un piroscafo veloce tracciava sull’orizzonte una striscia di spuma bianca, che svaniva dopo un poco e riconsegnava cielo e mare, ininterrotti, all’unico scenario. Qualche pedalò si attardava al largo, a testimoniare che si era ancora nell’alta stagione e che anche in quel lontano lembo di Sicilia, quasi sconosciuto al turismo di massa, c’era qualche villeggiante. Dopo poche decine di metri intravide, in lontananza, il grande gazebo bianco sulla sinistra, e ancor prima, sulla scogliera davanti a lui, il profilo ancora indistinto di un pescatore con la canna in mano. Accelerò un poco il passo, mentre il cuore iniziava a pulsargli forte nel petto, vincendo la tentazione di correre verso quel pescatore, la cui immagine si faceva sempre più distinta, fino ad assumere le sembianze di Anna. Ancora pochi metri e l’avrebbe raggiunta, le si sarebbe avvicinato, messo accanto per condividere con lei gli esiti della pesca; forse l’avrebbe abbracciata, finalmente libero e sicuro di poterlo fare. Si stava avvicinando non visto e non atteso e questo gli faceva fermentare la gioia della sorpresa, quella gioia che è anticamera del paradiso, e che aveva deciso che doveva abitare presso di lui, anzi, presso di loro. In quel momento, la donna si era girata casualmente verso di lui e l’aveva visto. Stupita, rimase un attimo interdetta, poi gli occhi le si illuminarono e un sorriso largo invase il suo viso; fece cadere dalle mani la canna da pesca e si mosse verso di lui, prima con passo leggero, poi accelerando l’andatura. Raffaele iniziò anch’egli a correre e aprendo leggermente le braccia, le andò incontro. Vorrei trovare parole adatte per certe emozioni.

Il primo premio NARRATIVA 2004 è stato assegnato a Nazario D’Amato di Reggio Emilia per il racconto “La pescatrice”. La dott.ssa Betty Denaro consegna il Premio Pagina 81 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Il prof. Pietro Pavone, presidente della Giuria, consegna il terzo premio di fotografia 2004 a Giuseppe Aloi di Acireale CT per la foto “Quiete” (sopra) ed il secondo premio di fotografia 2004 a Franco Vettori di Livorno per la foto “Berretti bianchi” (sotto). Il primo premio di Fotografia 2004 - 11a edizione - è stato assegnato a Laura Attilio di Sanremo IM per la foto “Velisti in controluce”. L’autore non è potuto venire a Riposto a ritirare il Premio per improrogabili impegni

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Alfonso Gaglio

IL RAGAZZO CHE SUONAVA AL MARE (Il pastorello marinaio)

C’è chi ancora oggi, nella suggestione popolare crede di sentire, nelle notti di luna, il magico suono di uno zufolo provenire dal mare. “È il ragazzo che suonava al mare...”. Se la storia si racconta, questo racconto è una storia sfuggita dalle pagine del “Cuore” di E. De Amicis.

a storia che si sta per raccontare, è una come tante. Ma è vera? E qual è il Lconfine tra il reale e l’immaginario?... Pare che non esista, poiché un fatto non è sempre quello che accade, con tutti i suoi particolari, accidenti e coincidenze, occorre dell’altro, quello che l’uomo vede, osserva e sente e che riporta con i propri sensi. Cioè, un fatto umano che si trasforma in un amalgama molto particolare che può essere tradotto con un solo termine: sentimento. Quanto accaduto al protagonista del nostro racconto, può costituire una lunga traccia di vita verso il Cielo o una breve esistenza, toccata dal Meraviglioso. Quando suo padre, don Gerlando Catalioto, gli domandò: - Ed ora, che hai in mente di fare nella vita? -. Lui, calmo, buono, con uno sguardo innocente, con un sorriso triste, ma pieno di speranza, gli rispose: - Il marinaio -. Quella risposta, il padre, da quel figlio, non se la sarebbe mai aspettata, anche perché gli altri due suoi figli avevano manifestato anzitempo ed apertamente le loro idee ed avevano deciso di conseguenza. Allora, per la sorpresa, simulò un improvviso attacco di tosse che volle attenuare con una risata, che non c’entrava, tra balzi e sobbalzi in tutto il corpo. Sfogava, ostentatamente, la sua sorpresa con una lunga serie di Ih!...Ih!...Ih!...e poi, in un discorso esclamativo: - Ah!..Ah!... Ah!... Sì, che bella idea! Ma qui il mare non c’è! Dove lo troviamo il mare? Non lo abbiamo, Salvo!... Qui abbiamo montagne, zubbie, vadduna, timpi! Il mare, no!...- Così rispose don Gerlando, il padre-padrone per un abusato modo di dire e che tale appariva, dato che questo suo figlio gli aveva dato sempre preoccupazioni.

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Di contro, a Salvo sembrava che il padre ce l’avesse sempre con lui… “U’Spirticatu” lo intendevano in paese, per il suo collo lungo, ma anche per quel suo modo di fare assillante ed esasperante. Era un “burgisi” benestante nell’entroterra del territorio del comune di Pietrarossa. La casa colonica, con la campagna attorno, l’aveva ottenuta in enfitèusi, successivamente riscattata ed ora, di sua esclusiva proprietà. La contrada era denominata ‘”Nfacci u’ mari’, non perché fosse vicina al mare, non lo era in effetti, ma perché, in lontananza, il mare si scorgeva e, nelle belle giornate, si poteva anche ammirare. Dal centro abitato, distava un paio di miglia. La casa era composta da due piani con un terrazzo. Don Gerlando vi abitava con la moglie Annuzza e con il figlio Salvo che la madre chiamava Salvuccio. Gli altri figli, Stefano il primogenito, se ne era andato in Continente; la figlia, Maria, studiava in collegio ad Agrigento. Avrebbe proseguito gli studi per diventare medico. Dietro la casa colonica si estendeva la campagna pianeggiante, circa tre ‘salme’, coltivata in parte a frutteto, l’altra, a ciclo alterno, a maggese. Il magazzino per il deposito del raccolto era stato costruito accanto alla casa, quello per il ricovero degli attrezzi di lavoro, dietro accanto alla stalla per la giumenta del padrone. La mannara, all’aperto, in un ampio recinto. Il gregge era composto da circa cento pecore e da una ventina di capre di razza ‘girgentana’. La parte collinare veniva adibita a pascolo. Stava bene don Gerlando, il lavoro non gli mancava, anzi dovette assumere un bracciante, un certo Saro, per accudire al gregge ed eventualmente dare una mano anche per i lavori stagionali nella campagna, quando ce ne fosse stato bisogno. C’era sempre da lavorare per mandare avanti quella piccola azienda e tutti si prodigavano in modo esemplare. Alla programmazione dei lavori soprintendeva don Gerlando, alla conduzione della casa accudiva la moglie Annuzza. Saro, badava al gregge. Ad onor del vero, il padre-padrone non era il tipo che voleva sembrare. Sapeva essere, a modo suo, accomodante, aperto, disponibile. La sera leggeva anche il giornale e si interessava, per quanto potesse bastare ad essere informato della politica nazionale e locale. Sapeva i fatti suoi e si intrigava in quelli degli altri. La sua vita era regolata però in modo alquanto rigido e voleva che lo fosse anche quella degli altri. Era del principio: - “Dai a Cesare quel che è di Cesare”- e di quell’altro: - “Chi non lavora, non mangia!”. Nella sua casa doveva regnare la massima economia. Non si doveva buttare un tozzo di pane né sprecare ‘u’mangiari’, come faceva Salvo che, spesso rifiutava quello che sua madre gli aveva preparato. Ed allora succedeva l’ira di Dio! Insulti ed imprecazioni, con qualche colorita bestemmia. Niente botte, per fortuna, né ceffoni, ma la scena in quei momenti appariva ugualmente desolante. A parte ciò, tutto poteva andare bene ed anche meglio. Con moderazione, nel commisurato benessere, senza sfoggi né mettendosi in mostra, perché “la gente è sempre invidiosa anche dell’aria che respiriamo!”. Così era solito arringare don Gerlando ed ancor di più, non poteva sopportare quel ragazzo che, ormai grandicello, non imparava alcun mestiere, non mostrava nessun interesse per la proprietà né per qualcos’altro. Bighellonare, soltanto bighellonare, da mane a sera, per la campagna o in paese o Pagina 84 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il ragazzo che suonava al mare Alfonso Gaglio dietro a Saro, con le pecore. Questa cosa gli stava sullo stomaco e non la poteva sopportare, poiché riteneva che “mangiasse il pane a tradimento!” - Finché andava a scuola, va bene, ma ora no! Basta! - si diceva spesso. Quel ragazzo aveva avuto una nascita ed una crescita un po’ travagliata. Era venuto su alquanto gracile, delicato nel nutrimento, con il fiato corto ed affannoso e già, questo, non era segno di buona salute. Vedendolo cosi, la madre preoccupata chiese al marito di portare Salvuccio dal medico, in paese. Questi lo visitò e gli diede una cura ricostituente a base di olio di fegato di merluzzo. Il ragazzo, intanto, si era un po’ sviluppato, ma quella cura non ebbe grande effetto. Non c’erano stati apprezzabili miglioramenti. Quel sintomo più preoccupante, gli era rimasto e non era da trascurare. Si era temuto che fosse stato affetto da TBC ma, poi, quel pericolo fu scongiurato. Studio non ne voleva. Si stancava per ogni cosa che facesse. L’ultimo anno della scuola dell’obbligo, lo aveva ripetuto già due volte. Aveva difficoltà di memoria, di comunicazione. Nessuna disciplina scolastica lo interessava particolarmente. In Educazione Fisica aveva ottenuto l’esonero. In Matematica, non riusciva ad applicarsi, non la capiva. Andò avanti stentatamente, con difficoltà e con la massima comprensione dei professori che, alla fine del triennio, chiusero il suo curriculum scolastico con un giudizio di commisurata sufficienza e lo dichiararono: “Licenziato”. Finalmente, aveva superato gli esami di Licenza Media! La sua buona mamma, per festeggiarlo, gli preparò la torta rustica. Erano trascorsi parecchi giorni e il padre che, “non ci poteva sonno”, volle consultarsi con la moglie per sapere quali intenzioni, che propositi avesse ‘quel fannullone’. Quella santa donna, prontamente, lo zittì: - Lascialo stare tranquillo! Non lo assillare! Lasciamolo crescere ancora un po’, poi si vedrà!... Intanto, lasciamolo andare con Saro appresso alle pecore. Non ti ostinare...- Don Celiando non seppe e non volle replicare alla moglie ma, dentro di sé, s’incazzava, per dirla esplicita, sentendosi torcere le budella. Ubbidì, almeno così parve... Salvo continuava ad andare con Saro a pascolare il gregge. Ciò poteva diventare il suo lavoro se avesse avuto voglia di apprenderlo, come aveva fatto Saro ad impararlo, portando il gregge dove c’erano i buoni foraggi, pascoli verdi d’inverno, fieno e biade durante l’estate. Effettuando la transumanza in determinati periodi dell’anno. Mungendo le pecore, lavorando il latte per fare il formaggio e la ricotta, tosando la lana nel mese di maggio e raccogliendo, assiduamente, il letame depositato dalle pecore nell’ovile, per concimare e bonificare le terre della campagna di don Gerlando. Tutto ciò, procurava un discreto utile alla sua famiglia. Ma lui, Salvo, aveva soltanto una grande passione: lo zufolo, poterlo suonare a suo piacimento, magari, appresso alle pecore. Quando arrivava sull’altura, da lì scorgeva il mare in lontananza da lui tanto desiderato. Si sedeva sulla solita pietra, traeva lo zufolo dalla “sacchina” e, come ispirato da quella incantevole visione, suonava al mare motivi delicati, a volte, briosi ed allegri che mondavano la campagna circostante. Saro ascoltava attento, ma sempre con l’occhio vigile al gregge. Talvolta gli Pagina 85 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° chiedeva: -Suona una tarantella!- e lui, intonava subito quel ritmo allegro, ben cadenzato. Facevano anche un bel duetto, quando presi dal suono eseguivano qualche canzonetta. Il gregge, abituato a quei suoni e sotto la guardia attenta dei cani da pastore, continuava a brucare tranquillamente e sembrava non volesse allontanarsi da loro fino a quando non cominciava a ridiscendere gradatamente lungo la vallata. Si stava ore ed ore ad ascoltare con piacere, ma si avvertiva, però, in quel suono un sottile velo di tristezza. Pareva che quelle note esprimessero, nel tempo, un recondito dolore o un cocente desiderio. Quella musica diffusa nell’aria pungente autunnale o invernale, esprimeva una rassegnata malinconia nel silenzio assorbente della campagna circostante e si perdeva in echi lontani. Il padre, una sera d’estate, lo aveva ascoltato. Stava seduto a prendere il fresco davanti la casa colonica. Salvo, in disparte a poca distanza, suonava. Era rimasto sorpreso e meravigliato di quella bravura del figlio. - Ma dove ha imparato a suonare così bene? Non certo a scuola, dove ha dovuto sudare sette camicie per conseguire quella benedetta licenza! - Sapeva don Gerlando chi gli aveva regalato lo zufolo, ma non chi gli avesse insegnato a suonarlo. - Non, certamente, Calò! - quel suo vecchio mezzadro che glielo aveva regalato, pensava - Da allora, mutò atteggiamento nei confronti del figlio, fu più comprensivo, più disponibile. Volle considerare attentamente quella vocazione di Salvo per la musica. Non c’era altra spiegazione, era quella la realtà. Meditò a lungo sull’unico dubbio: - Probabilmente si sarebbe affermato con lo studio della musica! E perché, no? Perché, allora, non tentare?... Alla prima occasione che ebbe di andare a Pietrarossa, ne parlò con il maestro della banda musicale. Lo conosceva molto bene. Gli espose la situazione. Il maestro si dichiarò disponibile, gli consigliò di farlo venire per un primo approccio ed eventualmente di cominciare le lezioni. Appena tornato a casa, ne volle parlare al figlio, comunicandogli la sua decisione. Salvo rimase perplesso, esitante. Per l’occasione Don Gerlando aveva portato i migliori cannoli del paese. - Quando ci debbo andare? - domandò Salvo. - Quando vuoi. - Ci vado domani!... Con lo zufolo? - chiese, quasi rassegnato. - Non me l’ha detto. Ma, tu, portalo così potrà ascoltarti. Il giorno appresso, Salvo si recò dal maestro. Eseguì, con lo zufolo, prima un motivetto allegro, poi, uno melodico, romantico. Il maestro lo elogiò: - Bravo, hai un buon orecchio, ma non è sufficiente. Ci vuole anche l’impostazione. Bisogna conoscere la musica, per avere una buona base teorica e pratica. Cominciarono le prime lezioni, monotone, uggiose per Salvo che, appena si imbattè nel pentagramma, nei segni e nelle figure musicali, nelle battute, crome, semicrome, ecc., ecc., ebbe come un rigetto e cominciò a disertare le lezioni. - Non puoi suonare senza prima avere imparato queste cose! - insisteva il maestro per trattenerlo. - È inutile, non sono fatto per questo. Non ci riesco. - fu la sua conclusione e Pagina 86 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il ragazzo che suonava al mare Alfonso Gaglio decisione - Aveva avuto sempre coscienza di questo suo limite per lo studio e di ciò si amareggiava. Però, questo episodio non lo dissuase dal continuare a suonare a modo suo, ad orecchio (il maestro glielo aveva vietato), trasfondendo, nel suo celato malessere, motivi sempre più dolci e penetranti. Dopo due mesi, rinunciò ad andare dal maestro, con grande disappunto di suo padre. - Mi hai fatto sprecare denaro inutilmente! - gli rimproverava. - Tu l’hai voluto... - così tentò di discolparsi - Il padre ci restò male e perdette la pazienza. - Ma insomma, Cristo di Dio! Si può sapere cosa vuoi fare? Ormai sei abbastanza grande, mi pare, e un mestiere lo devi pure apprendere! Io non sopporto un “mangiapani a tradimentu!” - Te l’ho detto, voglio fare il marinaio... - Tu sei proprio fissato con questo mestiere, noi non siamo gente di mare. E tu non lo hai nemmeno mai visto! - Ti sbagli. La prima volta l’ho visto quando siamo andati ad Agrigento ad accompagnare mia sorella Maria al Collegio Granata. E da allora, me ne sono innamorato - disse, ed aggiunse - E poi lo ammiro, incantato tutte le volte che con Saro portiamo il gregge al pascolo sulla collina. - Ma tu, ricordati che sei stato esonerato dal servizio militare in Marina!... - Non importa, io voglio fare il marinaio, da civile, come uno dei tanti imbarcati che vive sul mare, con il mare. Sei fissato con il mare! - ruminò il padre e il discorso finì cosi. Quel pensiero, Salvo non se l’era mai tolto dalla mente. Don Gerlando, se pure un po’ sdegnato cominciò a pensarci su. Ne volle parlare, ancora una volta con la moglie. Annuzza, la madre, amorevole, come sempre: - Lascialo libero, come gli altri. Sarà sempre la migliore scelta per lui e, speriamo anche per noi. E tu, non mangiarti più il fegato!... A don Gerlando non mancavano amici al Vecchio Molo di Girgenti, quel paese di mare a circa trenta chilometri da Pietrarossa. Ci andava spesso a barattare i prodotti della sua campagna con il pesce fresco. Un giorno, a cavallo della sua giumenta, andò a trovare il capitano Di Mare (mai tal cognome fu sì appropriato!) con il quale aveva mantenuto rapporti di buona amicizia sin dalla guerra del 1940. I Di Mare, meritatamente, godevano di molto prestigio alla Marina. Possedevano due, o tre, pescherecci. Erano i maggiori esportatori di pesce della costa. Don Gerlando volle contattarli, sicuro che a loro non poteva mancare la possibilità di fare imbarcare Salvo, suo figlio. Dopo i soliti convenevoli e le attenzioni, quasi rituali (don Gerlando aveva portato una cassetta di pesche di prima scelta dal suo frutteto), si passò all’argomento. - C’avemu don Giurilà?... - Vegnu a prigarivi!... Pagina 87 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

- Vossia, n’havi a cumannari! Chi su’ ‘sti paroli grossi? Vossia, cà, è u’ patruni! C’è cosa? - Me’ figliu Salvu, si misi ‘ntesta ca voli fari u’ marinaru, ‘mbarcatu!... - E chissu è u’ problema?... ‘Un c’è difficoltà... ‘u facemu ‘mbarcari ne’ nostri piscaricci... Ma, iddu chi sapi fari?... O megliu, chi ci piacissi fari? - È chi v’haiu a diri, havi ‘a passioni p”u mari, e ‘un ci po’ nenti! - Bunu! Allura, va beni, benissimu! Quannu c’è ‘a passioni, c’è tuttu! Quannu po’ veniri? - Quannu voli!... ‘A me’ casa, o’ paisi, è sempri aperta e, a’ mari, puru ‘u piscariggiu! - Chi ci su’ bisognu, documenta? - ‘U librettu di navigazioni. Ma, pi chistu, ci putemu abbadari nautri, basta ca ‘ni duna i cunnutati. Don Gerlando, seduta stante, gli forni le generalità del figlio. Ringraziò il capitano Di Mare della cordiale accoglienza e per la disponibilità, salutò tutto il gruppo e prese la via del ritorno alla casa colonica. Diede la notizia alla moglie. Ne fu molto compiaciuta, ma ancor di più Salvo. Era felicissimo, il suo grande sogno stava per avverarsi. Da quel giorno, apparve sempre più sorridente e spensierato. Il rapporto tra padre e figlio era completamente mutato. Quel velo di malinconia era scomparso. Restava, soltanto l’ansia dell’attesa. Si preparava la partenza. La mamma gli volle allestire il corredo, l’essenziale: - ma che non gli mancasse niente, dovendo andare in un paese ‘straniu’! - così diceva a tutti. Intanto, il ragazzo, aspirante marinaio, continuava ad andare al pascolo con Saro, sempre con il suo zufolo. Ora suonava con più trasporto, motivi allegri e spensierati. Ma, quando si trovava sulla collina, alla vista del mare, dallo zufolo si propagavano melodie dolcissime, ispirate che penetravano nel cuore, nell’anima. Suonava al mare. Arrivò il giorno della partenza, dell’addio. I genitori vollero accompagnarlo alla stazione ferroviaria di Torre Salsa. C’era anche Saro. Ci furono momenti di grande commozione, specialmente quando si separò dalla madre. Abbracciò e baciò suo padre: - Buona fortuna, marinaio! - gli disse - E buon lavoro! - Il treno fischiò, salì in fretta, partì. Era la prima volta che si allontanava dalla sua terra. Salutava, col pensiero, le ultime case di Pietrarossa e la campagna luminosa circostante. Fu preso da una nota di profonda tristezza. Pianse. - Lascio il mio paese, la mia campagna. - disse tra sé, malinconicamente - Poi il suo pensiero andò al paese del mare, verso quella nuova vita che aveva tanto desiderato. Si sentì rincuorato, risollevato. Il treno giunse alla Marina con ritardo, non se ne accorse. Appena arrivato, domandò dove si trovava il mare. Gli fu indicata la via più breve e volle andarci subito, ancora con il bagaglio. A casa del capitano Di Mare, ci sarebbe andato dopo. Quando arrivò sulla spiaggia e con i suoi occhi guardò ed ammirò l’immensità di Pagina 88 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il ragazzo che suonava al mare Alfonso Gaglio quell’acqua, si chinò sulla sabbia, la tastò delicatamente, la baciò. Volle sfiorare anche l’acqua del mare che, spumeggiante, a piccole onde, lambiva i suoi piedi, con dolcezza, portandone anche il profumo. Si bagnò le dita e ne assaporò il gusto salino. Poi, preso dalla gioia intima ed incontenibile, si mise a correre lungo tutta la spiaggia. Dovette fermarsi per riprendere fiato, per riposarsi. Ansimava forte... Si riprese. Tornò in paese per farsi indicare la casa del capitano Peppe Di Mare. Si trovava alle Cannelle, in prossimità del mare. Fu accolto calorosamente. Gli indicarono la ‘sua’ cameretta, proprio di fronte al mare e gli raccomandarono di comportarsi liberamente, come se fosse stato a casa sua, senza soggezione. Ora, sentiva la stanchezza del viaggio. Durante quel giorno aveva vissuto grandi emozioni. Chiese il permesso di ritirarsi e subito si mise a letto, senza toccare cibo. Appena coricato, nel silenzio della sera, ascoltò come un motivo sussurrato con la sensazione di una carezza continua. Era il mare che aveva visto dal balcone della casa alle Cannelle. Il mare che cantava quel sussurro. Quel dolce mormorio costante accarezzava il silenzio della notte. Volle ascoltarlo a lungo, poi, come se cullato, si addormentò. Ora, l’amico-mare gli stava vicino e continuava ad accarezzarlo. Il mattino seguente, si alzò presto. Ogni stanchezza gli era svanita. Fece colazione. Si sentiva inondato da una gioia intima. Andò in giro per il paese. Gli sembrò ridente. La gente simpatica e cordiale, sempre pronta al sorriso e non come quella del suo paese, dove si incontravano i soliti musi lunghi e si parlava a denti stretti, sempre di lagne, di malattie, di cattivo tempo e di mala annata. Gli sembrava un altro mondo questo, un altro clima, c’era più sole, lì, ecco, e poi c’era il mare! - Ma certo, - spiegava a se stesso - qui c’è il mare che rende la gente allegra, spensierata, generosa, di un’altra pasta. Questo sarà il paese in cui starò, dove formerò la mia famiglia. Mi costruirò una casa alle Cannelle... e al ritorno dal mare, dalla pesca, rivedrò la moglie, i figli, la casa... Sognava e viveva! Viveva e sognava!... Il capitano Di Mare, con vivo compiacimento, avrebbe fatto imbarcare Salvo su di un peschereccio, nuovo, fiammante, il “Madonna del Carmelo Madre” che sarebbe arrivato da Aci Trezza dove era stato costruito dai migliori calafatari della Sicilia. Sarebbero passati, ancora alcuni giorni. Lui continuava a girare per il paese. Già conosceva il porto con i due moli, la cala dei pescherecci, la banchina dove ormeggiavano i piroscafi, dov’era la Capitaneria, la sede dei piloti assistenti alla navigazione interna al porto. Aveva visto come veniva svolto, con la ‘pilotina’, quel servizio. Sapeva delle Agenzie Marittime. Ma, quello che lo aveva affascinato più di ogni cosa, era l’arrivo e la partenza della nave per Lampedusa. Più di una volta aveva assistito alle operazioni di attracco e di ormeggio del “Paolo Veronese”, ma soprattutto si interessava al movimento dei pescherecci. Conosceva abbastanza delle attività e della vita che si svolgeva all’interno del porto ed aveva fatto anche molte conoscenze e qualche amicizia. Alla sera, durante quei giorni di attesa, con il chiaro di luna, se ne andava al Molo Pagina 89 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° di ponente, sugli ultimi scogli e lì scioglieva il suono dello zufolo, in un ‘assolo’, tutto per il mare. Davanti a quel mare aperto, immenso, maestoso, qualche spruzzo, al frangersi delle onde sulla scogliera, gli veniva addosso. - Era la benedizione del mare - si diceva. S’incantava a suonare e seguendo il suo estro, traeva da quello strumento motivi romantici, melodie dolcissime. Tutti brani melodici, liberamente ispirati ed eseguiti con lo stile e con il tocco del talento personale. Si sentiva inebriato, estasiato, per la gioia di potere suonare indisturbato al mare, al cielo, alla luna, al vento, alla natura. Una sera, si ritirò più tardi del solito e il capitano Di Mare e la famiglia, tutti preoccupati, al suo neutro, gli chiesero: - Ma dove sei stato? C’eravamo allarmati. - Al Molo di ponente. - A pescare? - No. A suonare. - E cosa suoni? - Veramente, il maestro della banda del paese mi ha detto che si chiama ‘flauto dolce’, ma è uno zufolo di canna che mi ha regalato ‘u zu’ Calò, un vecchio mezzadro di mio padre. - Ce lo farai ascoltare, qualche volta, no? - È uno strumento che deve essere suonato al mare, alla natura, davanti a tutto ciò che ci circonda. Venite domani sera al Molo di ponente, ci sarà anche la luna e lì, suonerò. Tutta la famiglia Di Mare, al completo, la sera del giorno appresso era al Molo per ascoltare Salvo che suonava al mare. Quel ragazzo era veramente un prodigio. Quel suono incantava. Fu come un concerto. Come se fosse stato in un ambiente chiuso, eseguì motivi struggenti per un pubblico di ascoltatori appassionati ma, in realtà, assente. Quel suono melodioso, però, nel silenzio della sera, accompagnato dal rumore della risacca, saliva distinto e fu ascoltato dagli abitanti dell’Altipiano lanterna. I Di Mare, entusiasti, si resero conto del grande talento di quel ragazzo e ne ebbero, ancora, maggiore stima. La luna, dal cielo, tracciava sul mare, un lungo solco luminoso che dal Molo, andava a congiungersi con la punta di Capo Rossello. Il peschereccio “Madonna del Carmelo Madre”, entrò nel porto della Marina a sirene spiegate ed agghindato del gran pavese per il battesimo. Tutta la gente di mare seguiva la cerimonia. L’arciprete, tra la folla assiepata sulla banchina, benedisse il peschereccio. Furono stappate bottiglie di spumante, di vino e di birra in gran quantità, per augurio e per ‘accompagnare’ tutto quel pesce fritto che era stato approntato per quell’evento. La banda musicale eseguì un lungo ed applauditissimo canzoniere le cui note si diffusero tutt’intorno e riecheggiarono in tutto il paese. L’equipaggio era già sul ponte, pronto a salpare. Per Salvo, ‘il pastorello-marinaio’, finalmente era arrivato il momento di realizzare il suo grande sogno. Avvertiva, con un certo tremore, una grande gioia, intima, profonda. Tra gli evviva, gli auguri Pagina 90 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il ragazzo che suonava al mare Alfonso Gaglio e con l’immancabile: - Buona fortuna e buona pesca! -, il “Madonna del Carmelo Madre”, al suono delle sirene, si staccò dalla banchina, raggiunse l’imboccatura del porto e prese il largo. Si faceva già sera. Quando Salvo si vide sul peschereccio, volle subito sperimentare la sensazione e l’effetto del movimento del motopesca. Perlustrò minutamente ogni angolo per rendersi conto di ogni cosa. Gli spiegarono come ci si preparava e come veniva effettuata la pesca. C’era da raggiungere la zona a mare alto, in un posto prestabilito, gettare le reti e lasciarle fluttuare nella corrente del mare e, dopo alcune ore, tirarle su, “sperando nella buona Provvidenza”, gli dissero. L’imbarcazione navigava veloce verso ponente, con quel rumore e ritmo caratteristico di un motore nuovo. Salvo vedeva il paese, ormai, lontano, indistinto, confuso... Poi diventò un alone di luce sempre più piccolo finché si restrinse in modo quasi impercettibile. Nella notte chiara, si scorgevano altri puntini luminosi. Erano altri paesi dislocati lungo la costa e qualcuno più in alto, sulle colline. Provvidenziali riferimenti per la navigazione notturna dei pescatori di quelle zone, pensò. Il giovane ‘marinaio’, partecipava con entusiasmo a tutte le operazioni per la pesca. Poi, un po’ affaticato, si sedette a poppa per riprendere fiato. Prese lo zufolo e cominciò a suonare. La sua musica era così carezzevole e dolce che tutto l’equipaggio, ad uno ad uno, si radunò attorno a lui per ascoltarlo. Qualcuno disse: - Tu ci incanti con questa musica! -. Un altro gli chiese di suonare “A Marechiare”. Suonò non soltanto quella canzone, ma gran parte del repertorio napoletano che conosceva. Nessun marinaio si distrasse dal ragazzo che suonava al mare. Con l’esperto macchinista, la barca andava sicura. La notte era già inoltrata ed era particolarmente fulgida, luminosa. La luna risplendeva di luce riflessa, nitida e con la luminaria delle stelle, offriva uno spettacolo d’incantevole bellezza a cui si aggiungeva la dolce musicalità di quel flauto ‘magico’. Salvo suonava da un bel po’, quando, tutto ad un tratto, quell’incantesimo si spezzò... Accasciato sul tavolato, lo videro boccheggiare. Con una mano si comprimeva il petto. Venne dato subito l’allarme. Prontamente soccorso, gli fu praticato un tentativo di massaggio cardiaco. Gli venne dato del caffè caldo. Non riuscì a berlo. Ebbe qualche sussulto, sembrava volersi sollevare... Il capitano diede l’ordine di invertire subito la rotta e di rientrare immediatamente alla Marina, mentre con la radio di bordo, il capitano Di Mare, a casa alle Cannelle, veniva informato di quanto stava accadendo. - “Salvo sta molto male!” - gli fu detto. Con grandi sforzi, prontamente, vennero issate le reti a bordo. Erano piene di tanto pesce, quanto non se ne era mai visto prima. Non si sapeva più dove mettere quel pescato, tanta era l’abbondanza. Madonna Santissima del Carmelo!... Che sta succedendo? - esclamava ‘u zu’ Simuni, il più anziano marinaio dell’equipaggio -. Giurava che mai, durante tutta la sua vita di uomo di mare, aveva visto tanta Provvidenza in una sola “calata”. - Santo Iddio, - continuava - che sta succedendo? - ripeteva - Qualcosa di grave, sta succedendo!... Lo sento, lo sento!... Salvo, il ragazzo!... Oh, Dio!... Pagina 91 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Navigavano a tutto vapore e sotto sforzo. Entrarono in porto e con manovre azzardate e spericolate attraccarono. A levante, già spuntavano i primi chiarori dell’alba. L’ambulanza, con il medico del pronto soccorso, attendeva sulla banchina. Salvo venne sbarcato sulla barella... Il medico ne constatò la morte, per arresto cardiaco. Le forti emozioni di quella giornata avevano stroncato la gioia e l’esistenza di quel giovane ‘marinaio’. Venne successivamente accertato che Salvo pativa di un soffio al cuore che non era stato mai diagnosticato. L’equipaggio fu subissato di domande per quella improvvisa morte e per quella pesca ‘miracolosa’. ‘U zu’ Simuni, ripeteva: - È stato quell’angelo, quel ragazzo che ha suonato lo zufolo tutta la notte, cosicché i pesci, attratti da quel suono, entravano nelle reti... Lo sentivo, lo sentivo che stava accadendo qualcosa di prodigioso!... Tutto il paese si strinse, nel dolore, attorno alla famiglia di Salvo, venuta da Pietrarossa per l’ultimo addio. Alla fine del mesto rito in chiesa, il corteo raggiunse il Molo di ponente. Venne gettata a mare una corona di gigli. È il pietoso gesto che la gente di mare compie per onorare i morti a mare. La salma venne tumulata alla Marina, il paese da lui prescelto, nel nuovo cimitero sull’Altipiano Lanterna, lassù, da dove si poteva vedere il mare...

Il capitano, Peppe di mare, volle ribattizzare il suo peschereccio “Madonna del Carmelo”, con il nome di “Madonna di Porto Salvo”, per onorare in tal modo, la memoria dello sfortunato “Pastorello - Marinaio”.

Ancora oggi, nella suggestione popolare, c’è chi crede di sentire nelle notti di luna, alle Cannelle e all’Altipiano della Lanterna, il magico suono di uno zufolo proveniente dal mare.

Il secondo premio NARRATIVA 2004 - X edizione è stato assegnato a: Alfonso Gaglio di Porto Empedocle AG per il racconto “Il ragazzo che suonava al mare”. Legge la motivazione e consegna il Premio la dott. Betty Denaro. Pagina 92 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Clelia Ambrosini

LA VOCE DEL SILENZIO

muri sono lindi, asettici, affrescati sembra ieri; il pavimento grigio effetto I bagnato attutisce i passi che vi scorrono sopra in simbiosi col silenzio teatrale... Le tende bianche, spesse, rifrangono il tiepido sole settembrino e nascondono il cielo terso e il volo delle cinciallegre. Il medico è passato, con la sua aria seriosa e col solito cipiglio: di chi sta offrendo la sua opera in un ultimo, vano atto di solidarietà... L’infermiera mi ha osservato distratta, mentre ingoiavo la mia compressa mattutina e l’inserviente ha pulito il pavimento e come il solito ha dimenticato le mie pantofole sulla sedia. Ho osservato le sue mani grosse e callose, chi sa se ha figli e come li abbraccia forte... Ecco, i rituali che movimentano un po’ questa stanza sono finiti, ora c’è il tempo che entra dalla porta socchiusa; è strano come in questo piccolissimo spazio, ristretto ed angusto, io mi ci senta perso e isolato, spaventosamente solo… II tempo è tanto, sembra non finire mai ed entra, entra, invade il mio spazio e pare che mi soffochi... Tempo che scorre, fluido, come sabbia in una clessidra, inafferrabile come la schiuma del bagnasciuga... Scandiscono i secondi che ho provato anche a contare, ma sempre subentra un ricordo a distrarmi e a salvarmi la vita e mi ritrovo a ripartire da zero... Le mie dita, instancabilmente allargano le maglie lavorate all’uncinetto di questo plaid color ocra che mio figlio mi ha regalato per Natale. Nel darmelo mi ha ancora una volta rassicurato: «Vedrai, papà, qui starai benone, verrai trattato da re, farai amicizia con gli altri ospiti...». Lui è convinto che io qui ho tutto ciò che “uno della mia età vorrebbe avere...”: la tv in camera, il bagno accogliente con la vasca e la doccia, la vista sul parco e il condizionatore… Il gelato il giovedì e le riviste ogni tre giorni... Lui pensa che tutto questo basti! Ancora una volta sono io a capire lui, le cose che uno della sua età desidera... Sfioro con le dita la foto che lo ritrae con la moglie e i miei due nipotini: ritraggo la mano premuroso di poterlo infastidire anche così... È così difficile comprendere? Chi come me ha la pelle bruciata dal sole, spaccata da anni di salsedine e brezza marina, chi come me è nato sul mare e con il mare

Pagina 93 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° ha condiviso dolori, sacrifici e gioie, come può, improvvisamente, fare a meno del suo profumo, della sua voce e delle sue carezze? La voce delle onde o delle sirene, che ogni sera mi cantavano dolci ninna nanne... Da quando sto qui la sera mi riesce difficile addormentarmi e cerco, disperatamente, nei perimetri del mio pensiero, quella voce incantevole e naturale che mi ha accompagnato per una vita... “Ninna nanna la vecchia ninna nanna la vecchia te sonna ha cotto li maccarune e nun me chiama Me chiama quanno coce fave Je tanno so malata e nen ne voglio Mmiez’ a lu mare è nata na scarola Tutte quante correvano a verè Chi cu la cimma e chi cu lu strappone Tutte qunte vulevano tirare”... Ecco, chiudo gli occhi e mi pare di sentirla... Come quando, nei pressi della Grotta del Bue Marino, mi incantavo a guardare il gioco di luci che l’acqua creava con i pochi raggi del sole che riuscivano a entrare fra gli scogli... Le pareti incrostate di molluschi riflettevano colori iridescenti e sembrava uno spettacolo creato per me spettatore... Quella voce, o per meglio dire quei suoni melodiosi, sgorgavano dalle pareti buie, quelle più nascoste anche al mio occhio attento, ma io non avevo timore e mi ci avventuravo col mio piccolo gozzo e sebbene per una vita io abbia cercato la creatura dalla quale proveniva il magnifico canto, alla fine ho dovuto accontentarmi di scoprire solo nuovi anfratti scavati nei secoli dall’acqua... E la mia casetta sulla banchina, a due metri dal mare, a volte la mattina nell’aprire la porta vi trovavo spesso davanti un granchio che di corsa raggiungeva il mare. Quanti pomeriggi mi sono appisolato sulla mia “Arca”, una barchetta grande appena per contenermi, e il dondolio dolce e costante mi faceva sognare gli oceani? Ricordo di una volta, forse trenta anni fa, il mare era particolarmente arrabbiato quel giorno, il cielo plumbeo non prometteva nulla di buono... Noi eravamo usciti per le alici, era quello un periodo che il mare ne donava in abbondanza! Improvvisa la tempesta… Il nostro peschereccio, vecchio di cent’anni, cominciò a rullare e subito dopo a beccheggiare... L’acqua che imbarcavamo era tanta, la rabbia delle onde esplodeva su quel piccolo scafo che sicuramente non avrebbe retto per molto... Cominciai a pregare, S. Michele non poteva abbandonarci cosi, eravamo tutti giovani padri e i nostri figli sicuramente ci aspettavano ansiosi... Il legno scricchiolava da tutte le parti e sembrava una trottola impazzita! Ormai non si governava più e per la prima volta in vita mia persi ogni speranza… La pioggia fitta e i banchi di nebbia non ci facevano capire dove eravamo... Il cielo era buio, rischiarato di tanto in tanto dai lampi che impietositi si avvicinavano... Lessi lo sgomento negli occhi dei miei amici e ancora una volta trovai la forza di rincuorarli e rassicurarli... Ma

Pagina 94 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania La voce del silenzio Clelia Ambrosini sapevo che le mie parole risuonavano false e ipocrite: pensavo l’esatto contrario, non ne saremmo usciti più da quel labirinto di onde infuriate e sferzate di vento che ci facevano inclinare fino all’inverosimile... Sentii uno schianto secco, misterioso, sinistro... Mi bastò guardare la chiglia e capii che era davvero giunta la fine: il paramezzale aveva ceduto, non ebbi il coraggio di guardare in faccia nessuno... Ma S. Michele aveva deciso diversamente: improvviso un grido... «A curricedda! Uagliù, chera è a Curricedda!». Era vero, cominciammo a vedere una luce e poi due, e poi tre, quattro... Luci fioche e tremolanti, quelle dei nostri lumi a petrolio, quelle che le nostre mogli accendevano quando la tempesta infuriava, ad annunciare la fine del patibolo... Mai come quella sera le luci della Corricella ci diedero forza e speranza! Eccoci a casa, ancora una volta salvi, ancora una volta debitori della vita verso quel santo che da sempre ha accompagnato i procidani per mare! Mai per una volta ho desiderato abbandonare il mio mestiere, mai ho pensato neanche lontanamente di lasciare il mio mare... L’ho nelle vene, sento che pulsa e sento che circonda il cuore e la mente... La mia vita è trascorsa su quel mare che mi ha dato da vivere e uno scrigno di ricordi... È con quelli che passo il tempo oggi... per potermi addormentare anche stasera nella mia Arca, ascoltando, io solo, il canto della mia sirena.... Dormirei per sempre così... Mio figlio ha ragione, qui mi trattano come un re, ho mille comodità e posso chiedere qualsiasi cosa, tranne il rifrangersi di un’onda o un canto melodioso...

Il terzo premio NARRATIVA 2004 - X edizione è stato assegnato a: Clelia Ambrosini di Procida NA per il racconto “La voce del silenzio”. Consegna il Premio la dott.ssa Betty Denaro, Segretaria della Giuria di Narrativa

Pagina 95 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

La collana completa dei volumi “Storie e racconti di mare”

Pagina 96 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Vincenzo Galvagno

UNA PESCA MIRACOLOSA A MARGINE DI UN INCUBO

lfredo Lucarelli, noto giornalista messinese e protagonista di numerose Ainchieste, pur se un po’ avanti negli anni, continuava a pubblicare sul quotidiano locale qualche pezzo in cui, come era solito fare, affrontava problemi di interesse sociale, particolarmente seguiti da un nutrito numero di lettori. Ricco di amici affettuosi, qualche mese addietro, verso la fine di Aprile, approfittando di una bella giornata piena di sole, in una escursione domenicale fatta in macchina compagnia di alcuni più intimi, fu portato a visitare alcuni luoghi ricadenti in quel tratto di strada che lambisce il lungomare della costa taorminese. Il programma iniziale della comitiva prevedeva anche di raggiungere la vicina Catania transitando dall’autostrada fino all’uscita di Giardini e da lì, successivamente, procedere lungo la strada nazionale in maniera da poter visitare i paesini più belli della litoranea, per ammirarne l’incanto paesaggistico e i pittoreschi ritrovi marinari ricadenti all’interno dell’area posta immediatamente sotto le pendici della Muntagna. Così sostando qua e là per scattare fotografie e assaporare l’aria dei vari paesaggi nessuno della comitiva si era reso conto del tempo tiranno che scorreva veloce. Ad un certo punto uno di loro notò che le ombre riflesse sulla strada si erano notevolmente accorciate e guardando l’orologio s’accorse che si era fatta già l’ora di pranzo. Per cui tutti, senza dire una parola, girandosi attorno si diressero verso una trattoria, dall’aspetto esterno molto pulito ed accogliente. Era la trattoria de I Malavoglia. Giunti davanti alla porta a vetrata, dando uno sguardo all’interno, decisero di entrarvi. Non era il top, ma era una delle tante, bene ordinate, che svolgeva una funzione turistica proprio sul lungomare dei Ciclopi, nel cuore del rinomato borgo marinaro di Aci Trezza, molto famoso per essere stato immortalato dal Verga nell’omonimo

Pagina 97 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° romanzo, da cui, per altro, prendeva nome il ristoro, che, proprio per il suo riferimento letterario quanto per la sua posizione strategica, solitamente serviva da richiamo per tutte le persone di passaggio oltre per quanti erano dediti al commercio del pescato. Una volta dentro, fatti accomodare attorno ad un ampio tavolo in prossimità di un’ampia veranda, che si affacciata sul mare, tra una pietanza e l’altra e qualche piacevole barzelletta spiritosa raccontata ad alta voce dal Lucarelli, il giornalista non tardò ad attirare su di sé e sul suo gruppo l’attenzione di quanti si trovavano vicini, tra cui anche un padrone dì barche, col quale, fra una battuta e l’altra, come si suole dire, nacque una specie di simpatia. Così la briosità dei commensali, fra un brindisi, si fa per dire, a compare Alfio ed una battuta scherzosa, senza alcun riferimento ai presenti, si allargò subito dopo, da quella iniziale discussione, senza pretese e senza che nessuno se ne rendesse conto, sulle bellezze di quei luoghi meravigliosi, che sembravano sbucare dal mare Jonio come colonne del regno di Poseidone e sulle molteplici attività che con quel mare erano connesse. Dopo il primo input la conversazione, inizialmente distaccata e informale, fu portata su un piano amichevole e confidenziale, quasi che gli interlocutori dei vari tavoli si fossero conosciuti da vecchia data. Alla fine, col trascorrere dei minuti, specie fra il giornalista e lo sconosciuto anziano pescatore si stabilì un rapporto a dir poco cameratesco. Difatti, da uomo di mondo e buon conversatore salottiero, quale era, non mancandogli né i modi né le trovate per accattivarsi la simpatia delle persone con cui entrava in discussione, anche in quell’occasione il Lucarelli riuscì a cattivarsi una amichevole simpatia con quel buontempone di don Carlo Russo, noto in quei dintorni come un rispettabile padrone di barche. Così tra una portata e l’altra, seguita dagli apprezzamenti per questa o quella pietanza e lo scambio di qualche buon bicchiere di vino, di produzione locale, il giornalista finì per portare la conversazione sul mondo della pesca, sui cantieri esistenti in zona, in cui venivano forgiati i grandi pescherecci, sulle attrezzature di bordo, sulle condizioni di vita dei pescatori, sulle rotte normalmente battute dai natanti del posto, su come veniva distribuito il pescato nei mercati e, per farla breve, su tante altre cose, che, in quei momenti infiammavano la fantasia e il suo desiderio di conoscenza, mal celando la speranza di poter fare un giorno un’esperienza diretta a bordo di qualche peschereccio. Don Carlo Russo, che da bravo capo pesca aveva imparato nel corso degli anni a conoscere bene non solo il mutar del tempo col soffiare del vento, ma anche le subdole correnti ascendenti e discendenti dello Ionio oltreché i lati nascosti della natura umana, intuendo la celata aspirazione che travagliava l’animo del suo occasionale conoscente, da uomo pratico e da buon pescatore, gettò, come si suole dire, l’amo invitando il giornalista a voler assistere ad una battuta di pesca al largo

Pagina 98 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno dei faraglioni dei Cìclopi per fargli così cogliere l’occasione per ammirare anche da vicino quegli scogli, che l’antica leggenda su di Ulisse vuole fossero stati scagliati da Polifemo, contro le navi di colui che aveva detto dì chiamarsi Nessuno e che, con l’inganno, dopo averlo accecato, si era dato alla fuga per altri lidi. Il pesce aveva abboccato. Alfredo non credeva alle sue orecchie e quasi abbracciandolo, senza porre di mezzo alcuno indugio, si mise subito d’accordo fissando giorno e ora della partenza. Come doveva vestirsi? Cosa doveva portare con sé oltre alla borsa con un quaderno di appunti e la penna? Gli era permesso di portare anche una macchina fotografica? Dove si sarebbero recati? Non lo frenava ormai più nessuno. Era diventato un mulino a vento. Alla sola idea di dovere assistere ad una battuta di pesca non stava più nei suoi panni. Rosso in faccia come un papavero, eccitato come se fosse stato morso dalla tarantola, pur se per mare c’era stato tante volte per diporto come, rivolto ai suoi amici di baldoria, che avevano già sentito tutto, li rese partecipi del grande evento. Ormai era incontenibile, non la finiva più di parlare di mare e di pesca, non tralasciando di darci dentro con altri bicchieri di buon vino dell’Etna, dimentico persino di proseguire per Catania. Intanto si era già nel tardo pomeriggio, quando, prima di salutarsi con don Carlo, tornò nuovamente a chiedere sul come doveva vestirsi per rendersi presentabile anche di fronte agli altri membri dell’equipaggio. Al che l’amico non potè fare a meno di sorridere e di sbottare: «Uh, quanta prescia, prqfessuri!... Vistitibbi comu a ogni jornu,... Semmai, vulennu, o postu d’i scarpi mettitobbi nu paru i stivali di gumma ed na scuzzitta ntà testa pi ripararibbi du soli, si ci saria i bisognu... No si sapi mai i sti tempi...». «Un binocolo, vale la pena che me lo porti?». Sembrava un bambino! A cui l’altro, con una smorfia di meraviglia, soggiunse: «Nu binocolu!... Ma che ed aviti a fari?... A bordo cinni sunnu d’avanzu... Aviti sulu a spirari mi cc’è napocu i bbunaccia, p’u restu, vircati ‘aviri suli fiducia, ntà manu du capitanu d’a varca...». «Bonaccia?». «Sapiti? I sti tempi no si sapi mai! E primi di Maiu i sciruccati sunnu sempi in agguatu... St’annu appoi!...». «Niente altro, allora?». «No, basta accussi... No stamu jennu ntà Merica... No, chistu basta e nn’avanza.... Circamu i fari na brevi passiata di quarchi jornu o, tuttu a cchiù, i quatchi jorno e menzu...». Dopo essersi salutati e stretti la mano non prima d’aver precisato l’appuntamento sul molo dove si trovava all’ancora 1’Agata secondo, Alfredo e gli amici, essendosi ormai fatto tardi, uscendo fuori dalla trattoria, trascorsero le ultime ore di luce passeggiando lungo la banchina dell’adiacente porticciolo, che, visto da certi

Pagina 99 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° angolazioni, sembrava più uno scalo turistico che il ricovero di una discreta flotta di barche da pesca. E mentre s’intratteneva a guardare qua e là, approfittando di quella poca luce del giorno ancora rimasta, non trascurava di fotografare il profilo dell’Isola Lachea, al cui centro era stata sistemata la Stazione di Studi biologi e di fìsica del mare mentre attorno a lei, come guardiani, si ergevano severi i Faraglioni dei Ciclopi. Era felicissimo come una pasqua, pur non sapendo nulla sull’Agata secondo, che da qualche anno non si era spinto più in là di qualche miglio dalla costa sia per l’età un po’ avanzata di Don Carlo che per lo scarso interesse manifestato dal figlio minore per la pesca, specie da quando aveva fatto ritorno dal servizio militare. Infatti, in più di una circostanza, date anche le continue sollecitazioni della moglie, proprio per non fargli tagliare completamente i rapporti col mare, don Carlo aveva preso in considerazione l’idea di trasformare il peschereccio in un cargo attrezzato per fare delle escursioni turistiche della durata di non più di due - tre giorni sempre lungo la costa orientale dell’Isola, pensando di spingersi non più oltre il ragusano, costituendo col resto delle altre barche una piccola cooperativa da lasciare in gestione ai due figli più grandi perché potessero proseguire nell’attività della pesca. D’altronde, in quella che sarebbe potuta diventare la sua nuova attività, data la sua esperienza più che cinquantennale nel piccolo cabotaggio avrebbe potuto girare tranquillamente in tutte quelle zone che conosceva come le sue tasche al punto da non avere bisogno di particolari carte nautiche. Conosceva a memoria tutte le formiche, i rasoi, i fondali e i ricoveri esistenti lungo la costa, A parte il fatto che essendo un patito del suo mestiere non aveva mai trascurato di mantenere sempre in perfetta efficienza i suoi natanti sottoponendoli a continue manutenzioni e coprendoli di assicurazioni marittime varie. Accorgimenti questi, per altro, comuni a tutti i padroni di barche, che come lui battevano quel tratto di costa. La sera precedente al giorno fissato per l’uscita e per l’appuntamento, come per altro aveva sempre fatto quando doveva levare l’ancora la mattina successiva per andare a pescare, don Carlo, rivolto ad Alfieddu, considerato ancora figlio di famiglia, lo informò che aveva stabilito per l’indomani di uscire con la barca, per cui, gradendo la sua presenza, riteneva necessario che si svegliasse per tempo. Il giovane, come già accennato, congedato da poche settimane dal servizio militare in marina, capì subito che il tempo della libera uscita era ormai finito, per cui, senza dire una parola, uscì di casa facendo capire che sarebbe rientrato presto. Don Carlo, sino ad allora, lo aveva lasciato libero da qualsiasi impegno particolare concordando con la moglie che u carusu doveva cominciare ad riabituarsi poco alla volta all’aria di casa. Per cui lo aveva lasciato nella più assoluta spensieratezza, libero cioè di fare persino le ore piccole in compagnia degli amici ritrovati o di frequentare la sua Lauretta, antica fiamma, con la quale anche durante il periodo della naia aveva continuato a corrispondersi col tacito consenso di entrambe le

Pagina 100 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno famiglie, che, come si usava fare, fingevano di non sapere nulla malgrado tutti nel paese ne erano a conoscenza. In fondo Alfieddu era ormai cresciuto; si era fatto grande; era maturato: e, pur se in quei giorni di assoluta libertà il controllo del vecchio non si era fatto sentire, dato che quest’ultimo aveva deciso di chiudere un occhio, ma non tutti e due, tuttavia non mancava di continuarlo a tenere sotto controllo con la complicità dei figli maggiori pur se, ogni sera, non si addormentava sino a quando non sentiva che u carusu non infilava la chiave nella toppa della parta chiudendosela poi alle sue spalle. Così, anche se si rendeva perfettamente conto che ormai i tempi erano cambiati, rispetto ai suoi, e che quel figlio s’era fatto grande non riusciva tuttavia a trattarlo completamente da adulto. Per lui, quel figlio, era sempre u picciriddu. Quindi, nolente o volente, di fronte alle novità, doveva cercare di portare pazienza, soprattutto per far regnate la pace e la tranquillità in famiglia. L’esperienza fatta coi figli più grandi non era servita a nulla. Non c’era niente fa fare, Alfieddu restava sempre u nicu. Stesso ragionamento, stesso patema d’animo e stesso dormiveglia erano vissuti anche dall’anziana madre, donna Sera/ina, meglio conosciuta nel quartiere come a piscatura. Pure lei dormiva con un occhio solo, ma non la dava a vedere al marito per paura che quello, col suo carattere, potesse uscire al naturale. Anzi, come madre, faceva di più, gli nascondeva certe marachelle, che, poi, nella sostanza, erano cose di poco conto. In un mondo completamente diverso, e sotto il vigile controllo diretto di donna Serafina, viveva la figlia minore, Carmelina, una graziosa fanciulla poco più che sedicenne, che a parere di tutti era una ragazza senza grilli per la testa e che, come si soleva dire, era tutta casa e chiesa. Fra l’altro era una ragazza che non usciva mai da sola e che, stando in casa, ad una certa ora della sera, dopo avere seguito la qualche trasmissione della televisione, andava presto a coricarsi dovendo il giorno dopo alzarsi di buon’ora per andare a lavorare come sartina presso una maestra di cucito sua mezza parente, donn’Angela a farota, persona seria, timorata di Dio e da tutti stimata e rispettata per le sue doti di bontà e bravura. Quel giorno fissato per l’appuntamento, di buon mattino, dai vicoli che si immettevano attorno al lungomare, alcune persone cominciavano ad avvicinarsi a passo svelto verso l’Agata, mentre sul molo don Carlo Russo, stando a vista sotto la luce di un lampione, fumava la sua pipa di radica. Poco dopo, in un angolo del posteggio in piazza si fermò una macchina e dalla stessa subito scese u prufessuri, che a vederlo, dall’aspetto, sembrava più vestito da cacciatore che da un uomo che doveva andare a pesca. Avvicinandosi all’amico gli strinse la mano scusandosi per aver fatto tardi: «È molto che aspettate?». «Non tanto p’a verità, anche se stannu suli, i minuti sembrano un’eternità...

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Questo è Alfieddu, l’ultimo di me fìgghi masculi. Solo da poco tempo si cungidau d’a Marina... Ddà facia u radiu-telegrafista...». I due, sorridendo, salutarono, mentre don Carlo, a mano a mano che gli uomini dell’equipaggio arrivavano, continuava con le presentazioni: «... E chisti sunnu i me omini che nni ccumpagnanu stamatina... Semu ntra nautri, tutti parenti e cumpari i S. Giuvanni...». Quattro persone bene in arnese, con cui Alfredo cominciò subito a familiarizzare parlando con loro e dando a ciascuno delle pacche sulle spalle. Dopo di che, da buon capo barca, don Carlo si rivolse alla ciurma dicendo: «...Uora nniputemu iri... Tutti a bordo!...». E così, in meno che non si dica, ciascuno di loro si portò nell’angolo assegnato mentre don Carlo, Alfieddu e il giornalista Lucarelli, da tutti inteso come u prufessuri si portarono in cabina, da dove, poco dopo, padron Russo diede l’ordine di mollare gli ormeggi. L’Agata secondo, levata l’ancora, lasciandosi sulla destra il porticciolo di Aci Trezza, sul cui sfondo, in alto, a Muntagna, sorniona sembrava salutarlo aspettando il tramonto dell’ultimo spicchio di luna, prese il largo. A prua si lasciava, intanto, gli scogli basaltici dei Ciclopi, mentre, molestati da una lunga scia di schiuma, gli scogli aspettavano che quelle leggere onde s’infrangessero su di loro. Quella scia, che dipartendosi dallo scafo, allontanandosi, si allargava nell’indifferenza di tutti, nello scomparire, si lasciava anche sulla destra quella striscia illuminata di strada che costeggiava il lungomare del paese, le cui luci, a mano a mano che il natante si allontanava, sembravano diventare sempre più opache ed invisibili ad occhio nudo. Sulla sinistra, invece, dopo una manciata di minuti, il sole cominciava a mostrare il suo faccione dalle estreme propaggini dei monti Calabri trasformando, con i suoi raggi luminosi, l’intenso azzurro del cielo in un piacevole turchino. L’Agata secondo, mantenendosi sotto costa, procedeva sicuro alla volta di Aci Castello, che con l’imponenza della sua Rocca bizantina, oggi adibita a museo civico, ricco di pregiati reperti subacquei, affondava la parte esterna della sua facciata per tre parti nei fondali dello Jonio, mentre continuava ad offrire, con le quasi sbiadite luci della sua lanterna, un bene augurale saluto a tutti i natanti che le transitavano davanti. Solo il silenzio, in quelle prime ore del mattino, veniva rotto dallo scoppiettio del motore della barca; un rumore monotono, che, per altro, sembrava perdersi lontano lungo le antiche rotte di ritorno battute dai colonizzatori greco - fenici. Lucarelli guardava estasiato, rapito dalla bellezza di quei meravigliosi panorami creati dalla forza della natura nel corso dei secoli, malgrado fossero, per quelli che andavano per mare, visioni abituali. D’un tratto nella cabina di comando quel silenzio apparentemente surreale

Pagina 102 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno venne interrotto da un bollettino della Capitaneria di Porto di Catania, in cui si avvertivano tutti i natanti, in transito per quella zona, che lungo la fascia costiera dello Jonio meridionale soffiava un leggero venticello da NW, forza 3, con prevalente tendenza da S E. Si avvertiva, altresì, che quelle previsioni erano valide fino alle ore 18 di quel giorno e che, in taluni specchi d’acqua della parte vicino a Catania, si potevano anche incontrare dei natanti, appartenenti alla Nuova Organizzazione Universitaria, intenti ad effettuare una campagna di ricerche marine. Per cui si raccomandava a tutte le barche in transito di prestare la massima attenzione mantenendosi a distanza di sicurezza dalle zone segnalate, evitando l’ancoraggio e qualsiasi attività di pesca. A sentire i commenti di don Carlo si trattava di un bollettino generico, anche se ce n’era d’avanzo per mettere in allerta i naviganti. Quindi rivolto al figlio lo esortava ad esplorare col cannocchiale la distesa che si apriva davanti a loro. Il Lucarelli, mentre il peschereccio costeggiava quell’incomparabile paesaggio che si perdeva per miglia e miglia, a vista d’occhio, fino ad oltre Catania, pur avendo avuto modo di averlo ammirato più volte percorrendo la nazionale, osservandolo dal mare, ora gli sembrava completamente diverso, rapito, com’era dalla conformazione differente che i profili dei vari luoghi presentava ai suoi occhi. Guardava tutti quei borghi disseminati lungo il litorale, che sembravano scivolare sulla destra via via che l’imbarcazione proseguiva verso Sud. Si presentavano eleganti, nitidi sotto quei primi raggi di sole; accoglienti come se avessero quasi un sorriso sulle labbra; come se cercassero di porgere oltreché un saluto, un invito al visitatore di passaggio. Avevano un aspetto tranquillo; sembravano quasi tutti rassicurati dall’ingannevole protezione dalla maestosità imponente d’a’ Muntagna, tanto amata e odiata nello stesso tempo dalle popolazioni residenti. Erano stretti, aggrappati ai suoi fianchi e, nonostante i molti pericoli che da essa incombevano su di loro, mostravano di aver sviluppato, sotto il suo infido sguardo, un’agricoltura di prim’ordine con notevoli benefici economici non solo per i locali ma per l’intera Regione. Osservava, qua e là, un fiorire continuo di nuove costruzioni grazie anche all’utilizzo di quella ricchezza naturale offerta dalla pietra lavica. Puntando il cannocchiale fornitogli da don Carlo verso terra, u prufessuri aveva modo di notare, di là della linea ferrata, che in taluni tratti costeggiava il mare, le strade alberate, che s’incuneavano sulla litoranea e che servivano a collegare i vari borghi tra loro, mentre, come per incanto, tutte, in quelle prime ore del giorno, cominciavano a risvegliarsi animandosi con la consueta circolazione. La gente, sin da quelle prime ore, cominciava a ripopolare le vie per avviarsi ai vari impegni quotidiani; ad iniziare il consueto tran - tran della vita giornaliera. Persino il paesaggio offerto dalle campagne, che si affacciavano come una corona

Pagina 103 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° su quei piccoli centri, appariva pittoresco. Il verde naturale degli alberi esplodeva attorno alla Muntagna, a macchia di leopardo, mescolandosi, qua e là, con le tonalità scure emergenti dalla sciara stessa. Mentre dai sentieri pietrosi che s’inerpicavano verso l’alto o dalle case, che, improvvise si mostravano come fantasmi, sul fronte del mare, emergevano dei colori bianco sporco, rossiccio o giallastro. Per non dire poi delle Chiese, dell’eleganza delle loro facciate, ricche di varia architettura di quel barocco siculo - spagnolo, dei cui ricami arabescati per molti versi si avvicinavano a quelli orientaleggianti. Essi arricchivano con i loro ornamenti, tratti dall’antico mondo mitologico siciliano, le colonne, i portali, le finestre e le scalinate alternando al colore biancastro della pietra di Siracusa quel colore tenue grigiastro tendente al nero intenso, tipico di quel paesaggio coperto dalla pietra lavica. U prufessuri, a quella vista, annotava e richiamava alla memoria i suoi ricordi sul mondo dell’arte. Sembrava, ad ogni novità, volere riflettere su questo o quello stile architettonico, collegando ogni tipo di costruzione a questo o a quell’artista, che magari si era trovato a transitare in passato da quelle parti. Notava, fra l’altro, che sin dal momento in cui si era imbarcato, inconsapevolmente, si era venuto a trovare immerso in un mondo, lontano da ogni sua immaginazione, detto in termini marinareschi, miglia e miglia e, perciò, fuori da ogni sua possibile fantasia. Da un lato l’immensità dello Ionio, che si perdeva all’orizzonte e, dall’altro, da quelle antiche contrade, viste dal mare, che in tempi lontani erano servite a dare rifugio ai colonizzatori greci. Forse quelle sagome umane, che, ora, aveva modo di osservare da lontano, chine sui solchi dei campi, altri non erano che i discendenti di quei coloni. Ma tutti quegli operai, che andavano avanti ed indietro trasportando enormi macigni lungo infiniti sentieri scoscesi attorno alla Muntagna da dove venivano, chi erano? Già anche su quei pigmei la curiosità d’u prufessuri si era fatta morbosa. Certamente si era fatto pesante! Sì, quelli tornavano lì, ogni giorno, sin dalle prime ore del mattino; erano lavoratori intenti a strappare alla bramosia del Vulcano larghe fasce di terre, già dallo stesso rapite, per renderle fertili, per restituirle nuovamente alla laboriosità dei contadini. Una lotta impari, come quella del topo col gatto. Da queste parti, però, tanto i contadini e i pastori, quanto quei lavoratori della pietra erano soliti dire sempre: a Muntagna dugna e a Muntagna pigghia, volendo significare che su quelle sciare millenarie generazioni di residenti erano e sono vissute decorosamente o avevano ed hanno sofferto con dignità la fame apprezzando l’intrinseco valore della vita. Per cui u prufessuri concludeva pensando che tutto quello lavoro poteva sembrava, sì, duro e faticoso per uomini, anche se si trattava di un lavoro continuo e diuturno, ma era anche un esempio di un continuo confronto che si svolgeva tra le forze avverse della natura e che, nella sua fervida fantasia, veniva, per molti versi, paragonato a

Pagina 104 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno quello svolto dalla gente del mare dedita alla pesca. Stessa tenacia, identica volontà, ricerca quotidiana di strappare al mare i saporiti e i gustosi frutti del suo mondo per garantire all’uomo un equilibrio nutritivo biologicamente sano. Ed anche in un contesto lavorativo come questo, da lui immaginato ogni giorno, svolto da quella gente ostinata e perseverante, notava quanto grande ed impari era lotta che l’uomo doveva combattere contro i capricci di quelle due divinità, Nettano e Vulcano, dalla cui variabile stabilità tutta la gente tanto che andasse per mare o quanto se fertilizzasse i campi doveva fare i conti, stando attenta a non cadere nelle grinfie alle loro furie. Eppure, tra le apparenti contraddizioni di questi mondi, la gente di questi luoghi ha saputo da sempre e sa conservare intatto il coraggio, ricevuto in retaggio dai propri padri, di vivere abbarbicati attorno a quella Muntagna o a solcare le acque, che lambiscono quei borghi che in esse si affacciano, insegnando a molti di loro le maniere e i modi per trarre tutti vantaggi necessari per la loro sopravvivenza, che la natura, talvolta in subbuglio, offre a quanti continuano a trascorrere la loro vita in quegli ambienti. Così pensava u prufessuri, mentre la sua fantasia continuava a galoppare lontano, pur ritornando sempre a quel piccolo lembo di terra da cui era partito, e ai tanti altri piccoli e grossi centri che stava incontrando, sparsi lungo la riviera. Mescolava le visioni di quei luoghi col ricordo di alcuni dipinti, che aveva avuto modo di ammirare in passato in diversi musei d’arte. Gli sembrava di vedere, accostandoli a quei paesaggi, di vedere i borghi dipinti di Gauguin, durante i suoi viaggi nei paesi marini del Nord Europa. Borghi unici, anche per Alfredo, quelli che stava ammirando, anche se selvaggi ed imprevedibili, in cui picchi di rocce fantastiche, come campanili, sembravano volessero puntellare dimore surreali, facendole apparire come se si stessero tuffando nella distesa marina: così la parte esterna di un Castello o la parete a strapiombo di un’altura, che scomparivano, in quel risveglio mattutino, nell’azzurro intenso dello Jonio. Gli tornava anche alla mente la generosità e la spontaneità con cui era stato accolto da quei suoi nuovi amici, come si fossero conosciuti da sempre; i saluti affettuosi con cui era stato accolto; l’atmosfera singolare creata in quel porticciolo accogliente, sotto la lacrimevole luce di quei lampioni, in cui si era sentito come se si fosse trovato a casa sua. Forse, chissà, gli sembrava che stesse muovendosi all’interno di un sogno pieno di colori vivaci, contornato da una sequenza di panorami in continua trasformazione. Persino quel piccolo borgo marinaro di Aci Trezza gli sembrava di rivedere ora specchiato all’interno di altri borghi, in un alone di mistero, da cui emergevano ombre indefinite di un mondo lontano, la cui memoria appariva coperta da una nebbia che si perdeva nella notte dei tempi. Già, forse era l’ebbrezza del mare che gli procurava questo effetto; che gli faceva apparire davanti agli occhi quelle strane visioni, agitandogli il petto, trasmettendogli

Pagina 105 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° quell’ardore giovanile ormai dimenticato. Guardando il volto di Alfìeddu, nella cui espressione silenziosa, profonda, credeva di leggere strane sensazioni, cercava di cogliere altri utili spunti per arricchire quel pezzo in embrione, che aveva in animo di scrivere una volta tornato in città. Avrebbe voluto interrogarlo a suo modo; chiedergli se, guardando l’immensità di quelle acque e la costa vicina, che scorreva a qualche miglio di distanza, non udisse anche lui un urlo sottile, antico, quello dello scirocco a levante che cominciava ad alzarsi; quell’urlo che quando, arrivava alla sua massima intensità, diventava assordante riuscendo a dare la misura della sua intensità quando andava a rimescolare non solo le viscere del selvaggio Poseidone, ma anche il profilo ondeggiante di quella placida costa e quello del volto indefinito della Muntagna. Strane idee gli passavano per la testa; ma ancor più strano ciò su cui avrebbe voluto saperne di più. Ma in quegli attimi di prolungato silenzio gli si rimescolavano nella mente anche fatti di cui aveva sentito parlare relativi a canti di marinai, in cui, per allontanare momenti di angoscia, levavano al Cielo per mantenere viva la speranza nella vita. Questa riflessione, forse, gli veniva suggerita inconsapevolmente da quella cantilena a più voci che in quegli istanti di bonaccia si levava dal fondo della barca mentre si procedeva giù, verso Sud Est. Poi, osservando don Carlo, u prufessuri cercava di cogliere nelle pieghe della sua fronte, nei suoi gesti, nelle mezze parole o in quell’attento silenzio di cui si circondava tutta la forza dell’esperienza marinara accumulata nei decenni o che gli era stata trasmessa dalle generazioni dei pescatori precedenti. Il tempo, già il tempo... Il tempo che in quella gente non cancellava mai il loro passato, né mutava i valori essenziali della loro vita trascorsa a contatto col mare, anche se ora gli riusciva difficile penetrarne lo stato d’animo. Solo chi era abituato a condividere gli usi, i costumi e le tradizioni di questo mondo affascinante, ad affrontare i problemi del quotidiano che esso poneva, si poteva rendere certamente conto di talune realtà; poteva tracciare un profilo verosimile del modo di vivere di quella gente che in quelle acque trovava la ragione profonda della propria esistenza; scoprire i legami culturali che inconsapevolmente legavano ciascuno di loro al mondo misterioso della pesca; cogliere ciò che univa quelle popolazioni con le tradizioni, gli usi e le abitudini del resto delle popolazioni della Sicilia. Ciò lo aveva anche spinto a cogliere l’invito di compiere un’escursione diversa da quelle che lui considerava esperienze di vita. Ma mentre così andava arzigogolando, don Carlo, stando al timone, pur non distraendosi da quella che era la sua rotta prescelta, non perdeva di vista il figlio, che, invece, se ne stava appoggiato taciturno accanto alla porta laterale della cabina. Forse inseguiva anche lui chissà quali pensieri, o, forse, pensava all’innamorata

Pagina 106 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno o, chissà, era preoccupato da questa sua prima uscita in mare dopo tanti mesi di lontananza. O, forse, trovandosi in navigazione, stava riandando ai suoi trascorsi spensierati mentre era in servizio nella Marina. Chissà.... Ad un certo punto, però, non badando più di tanto alla presenza dell’ospite, che era intento a scattare fotografie o a tracciare appunti su un taccuino, don Carlo si rivolse al ragazzo quasi a volerlo scuotere da quel torpore: «No’ dici nenti sta matina?... Che c’è, iai ancora sonnu o nostalgia d’a naia?». Alfìeddu, colto quasi di sorpresa, quasi non credesse che il padre si fosse rivolto a lui, dopo qualche attimo di esitazione, ostentando un finto sorriso, rispose: «Ma quannu mai, pà! Stavo osservando la nostra riviera e devo confessarti che mi sembra sempre più bella, anche se le nostre fatiche sono sempre tante...». «Fatiche? E chi nni sai tu!... Anzi oggi navigamu ‘ntà ll’oru...». Quindi, dopo una breve pausa, rotta solo dal canto stridulo dei gabbiani, tornando indietro di alcuni decenni, padron Russo, cominciò a ricordare, come se non si rivolgesse più al figlio, alternando il suo dire a brevi silenzi, gli anni in cui la buonanima di suo padre, fino ad oltre un decennio dopo della seconda guerra mondiale, aveva cercato, andando per mare, a fare anche i mestieri più umili sulle varie barche solo per portare a casa qualcosa da mangiare, dato che la famiglia era numerosa. Lui, a quei tempi, era ancora un ragazzo e lo seguiva ovunque come un’ombra. Alla fine, dopo aver dato un’ultima tirata alla pipa spenta, concluse il suo breve dire con la consueta frase: «Eh, già! Chiddi sì che ierano tempi tristi. Tempi unni a fame si cogghiva c’u coppu...». Alfredo Lucarelli, che apparentemente sembrava intento in tutt’altre faccende, ascoltava e prendeva nota; raccoglieva, come usava dire in gergo, materiale prezioso. L’Agata secondo, intanto, procedeva lungo quel solco ideale suggerito dalle esperienze passate e da generazioni di pescatori, come i Fontana e i Pulvirenti, che fra l’altro erano stati i primi maestri di padrone Russo. Lì, lungo i fondali di quei percorsi, gettando le reti, era possibile raccogliere una vasta diversità di generosi frutti che lo Ionio conservava abbondanti nel suo seno per la gente di mare quando aveva la buona. E così, mentre si allargava tranquillo verso il mare aperto, quella piccola ciurma, con calma, approntava le reti da buttare giù, accompagnandosi, in un linguaggio intraducibile, con canti in lode del Signore, che, in quel silenzio surreale, infondevano in tutti un senso di profonda spiritualità e di pace. Erano canti suggestivi che si perdevano nell’immensità di quel cielo - mare, in cui ciascuno vagheggiava un suo Paradiso fatto di pace, fede e abbondanza. U prufessuri aveva il suo bel da fare con l’annotare e col guardare lontano tra uno scarabocchio e l’altro. Scrutava a dritta e a manca l’immensa distesa circostante senza capire nulla; sentiva solo il rumore del vecchio motore diesel che si perdeva

Pagina 107 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° lontano e che si confondeva col grido stridulo dei gabbiani, che volteggiavano attorno al natante, tuffandosi di tanto in tanto nel mare per beccare, qua e là, i molluschi che apparivano in superficie. Avido come un predatore, l’occhio d’u prufessuri esplorava tutti gli angoli di quell’universo in continua esplorazione pronto a scoprire sempre cose nuove come tutti quegli stormi di uccelli migratori, che, provenienti dall’Africa o chissà da quale parte dell’Europa, facevano ritorno in Sicilia per stanziare in quei luoghi montani in cui la natura si era loro mostrata sempre benigna. Notava, indicando ora con la mano, ora con esclamazioni, che attiravano l’attenzione degli altri, che una parte di quei volatili si dirigevano numerosi verso le alture dell’Etna, a ridosso delle sporgenze rocciose, dove, accompagnati da un volteggio senza fine, nell’incessante corsa verso quelle anguste rocce, cercavano un sito in cui trascorrere sicure le stagioni più calde. Un’altra parte, invece, anch’essa molto numerosa s’inoltrava verso l’interno, lontano dal mare, cercando forse delle località più congeniali alla loro natura per nidificare. Erano volatili appartenenti a specie diverse: falchi, poiane, aquile, falconi, cicogne ed altri che, distanti gli uni dagli altri, a gruppi apparivano e sparivano nella luce di quel cielo turchino, tracciando una specie di percorso a “V”, dando l’impressione che, dal vertice, scorressero lungo le parti laterali, delle file nere, che finivano per confondersi con i raggi del sole che, intanto, si stava portando sempre più verso la parte centrale del suo zenith. U prufessuri osservava tutte quelle stranezze come fosse incantato, preso da una strana malia, pur cercando, nello stesso tempo, di non perdere un ette su quanto osservava o sentiva. Annotava tutto scrupolosamente, seguendo con esclamazioni piene di meraviglia le indicazione fatte ora da Alfìeddu ora dall’anziano pescatore, che, di fronte alla valanga di domande a cui li sottoponeva, sembravano divertiti, anche perché per loro tutte quelle cose erano ovvie, rientranti nella normalità. Tutto ad un tratto, mentre Alfìeddu osservava lontano la distesa marina che gli stava davanti, un’esclamazione mise tutti in allarme: «Na barca, na barca ddà ssutta, a Sud Est! Si trova a quattro migghia da unni semu nuiautri... Ie’ ghina ghina dì prissuni!... Va alla deriva!...». «Diavolo, - soggiunse subito don Carlo - Chista propriu propriu no cci vulia!». Poi, rivolgendo anche lui l’attenzione verso il punto indicato dal figlio, deviò dalla sua rotta cominciando a dirigersi verso la zona indicata, dove, a mano a mano che si avvicinava, appena appena riusciva ad intravedere fuori dalle acque come un puntino nero nel mare. Quindi con l’altoparlante informò l’equipaggio del cambio di rotta invitando tutti a tenersi pronti per soccorrere le persone che avrebbero trovato su quella barca. Anche u prufessuri, sforzandosi di guardare a destra e a manca, dopo qualche

Pagina 108 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno tempo riuscì a localizzare quel puntino nero sull’orizzonte, che con l’avvicinarsi del peschereccio andava sempre più evidenziando un carico di persone su un’imbarcazione in balia del lento ondeggiare delle acque. Giunti ad una certa distanza Alfìeddu e u prufessuri, catapultandosi fuori dalla cabina, cominciarono a fare segnali con le braccia con l’intento di attirare l’attenzione di quei poveri sventurati, ma dalla barca nessuno dava segni di vita. Don Carlo stentava a capacitarsi. Com’era possibile scorgere un simile spettacolo a sole poche miglia dalla costa? Chi era quella gente? Da dove venivano fuori? Giunto quasi sul posto notò che davanti ai suoi occhi vi era uno spettacolo veramente indescrivibile. La realtà che si era materializzata era immensamente più grande di quanto tutti avevano potuto immaginare a prima vista. Naufraghi? Ma quando mai! Erano extracomunitari. Tutta gente allo stremo delle loro forze, ammassati dentro una di quelle barca lunghe dalla carena affusolata: Era piena di uomini, donne e bambini di colore. Nessuno di loro dava più segni di vita. Come potevano essere giunti sin lì, si domandava don Carlo, a poche miglia dal porto dì Catania senza che nessuno li avesse scorti, neanche dal servizio della Guardia Costiera o da altri natanti di passaggio? Tutto ciò, a prima vista, per lui era poco chiaro. Tuttavia, a parte i commenti, ciò che si doveva fare subito era portare un aiuto immediato a quella gente cercando, dopo, di rimorchiarli a terra. Per cui, giunti ad un tiro di voce, Alfieddu, con l’altoparlante cominciò a dire loro di stare calmi e tranquilli. Ma vedendo che nessuno dava segni di vita uscì fuori dalla cabina cominciando a gesticolare usando la tipica mimica dei siciliani quando vogliono farsi intendere dalle altre persone, che parlano altre lingue, con i gesti. Una mimica, quella, usata dalla nostra gente e, per certi versi, internazionale come l’esperanto, che, nei momenti di difficoltà, ci consente di capire e di comunicare con chiunque e in qualsiasi parte del mondo. Quindi arrivati vicini alla barca, vennero lanciate delle corde e calate giù, dalla parte della fiancata sinistra del peschereccio, due scalette di corda. Ma neanche di fronte a tanto interesse, quelli, da parte loro, non si muovevano; sembravano inchiodati alla barca, ipnotizzati o appena svegliati da un profondo letargo, che consentiva loro di guardare a fatica la presenza degli altri. Continuavano a rimanere fermi, immobili, con le mani strette alle sponde, sballottati sulla barca da una parte all’altra dal lento ondeggiare del mare, mentre le donne stringevano ai loro petti i bambini o li tenevano serrati sul fondo del legno. Cosa fare? La ciurma era ormai pronta a scendere giù dal peschereccio per aiutarli a portarli a bordo, ma un gesto di mano di don Carlo bloccò temporaneamente i suoi uomini, che, increduli, si guardavano tra loro come per chiedersi o per stabilire sul da farsi.

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Solo dopo alcuni istanti, che sembravano un’eternità, il vecchio capitano, facendo un gesto indicativo, autorizzò solo alcuni dei suoi uomini ad avvicinare quei poveracci, principalmente per far capire loro di non avere paura perché presto altri sarebbero scesi per aiutarli a legare la barca alla prua del natante, in maniera da poterlo trainare in porto ed in attesa che qualche corvetta della Guardia Costiera li avesse raggiunti sul posto, dato che, con la radio di bordo, nel frattempo Alfieddu aveva avvisato la Capitaneria di porto della Città Etnea. Distratto da quell’improvviso fuori programma il piccolo equipaggio, in quel frangente, non pensava più alla pesca, ma, chi per un verso chi per un altro, tutti cercavano di prestare aiuto e dare coraggio a quei poveri relitti. A guardare bene in faccia tutti quei poveracci si faceva fatica a distinguere i lineamenti dei loro volti, coperti com’erano, gli uomini, da una folta barba incolta e da lunghi capelli meri, oltre che dal colore della loro pelle scura; mentre le donne, coperte da lunghi veli e da abiti cenciosi, avevano tutte un aspetto malandato, uguali nelle espressioni e distrutte dal sonno e dalla fatica, così come i bambini, che, tenuti in parte in braccia o giacenti sul fondo, non mostravano alcun segno di vita. A poco a poco, però, e a mano a mano che gli uomini dell’Agata si abituavano alla loro presenza, cominciavano ad emergere tra loro molte differenze sia di razza che di nazionalità. Quanti erano? Tanti!.. Un ammasso di gente, un carnaio stipato in pochi metri quadrati di barca, ricettacolo anche d’ogni genere di rifiuti. Tonio e Cicciu, della gente degli sciabbacoti, scesi per primi dalle scale di corda, stando attenti a non calpestarli si portarono per primi in mezzo a loro. Ma come fare a non pasticciarsi in mezzo a tutti quegli escrementi? Da quanti giorni si trovavano sul mare? Guardandoli da presso si accorsero subito che erano tutti disidratati. Per cui, aiutati anche dal resto dell’equipaggio, furono consegnati delle bottiglie di acqua minerale, del pane semi raffermo, del formaggio e qualche bottiglia di vino fresco. Le prime cose che vennero loro per le mani. Mentre per quanti non avevano più la forza di sorseggiare l’acqua, mettendo da parte ogni ritegno, si prodigavano ad imbeccarli come fossero degli uccellini. Per il Lucarelli, in quegli istanti terribili, ogni possibile visione del bellissimo panorama marino era passata in secondo piano. Anche per lui, la voce del vecchio padrone, suonava come un ordine al pari degli altri, così come quando la si udì nel momento in cui cominciò a gridare dal ponte di comando: «Un uomo in mare» indicando sulla destra uno di quei poveri diavoli, che, approfittando della confusione, si era lasciato scivolare in mare allontanandosi con insolite, ampie bracciate verso il largo. Però, Agatino Lo Surdo, inteso sarda salata, con quattro colpi di remi dati alla barca, che, intanto, era stata calata sulla sinistra della fiancata del natante, si portò a ridosso del fuggiasco obbligandolo, quasi con la forza, a salire a bordo dove, cinto

Pagina 110 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno da una coperta asciutta, venne consegnato a Pietro scalogna, che aveva ricevuto l’ordine perentorio di controllarne ogni minimo respiro. Il mare in quel momento era un incanto, calmo come l’olio. Rifletteva i raggi argentei del sole come fossero luccicanti spighe di brillanti. Sembrava avesse voluto contribuire, con la sua bonaccia, al miracolo di quella pesca. Era soddisfatto, forse, d’aver vegliato sull’incolumità di quei poveracci, che nella speranza di trovare nel nostro Paese migliori condizioni di vita che non nel loro, avevano rischiato di rimetterci tutti la pelle avventurandosi, forse, attraverso vie rischiose, lontano dalla loro terra d’origine. Dopo i primi soccorsi, mentre l’Agata secondo cominciava a fare rotta verso il porto di Catania, si udiva provenire da lontano il rumore di un motore. Era la corvetta della Capitaneria di Porto, che stava sopraggiungendo nella zona indicata dalle coordinate fornite da Alfìeddu, mentre dall’alto, nel cielo, proveniente chissà da dove, arrivava un elicottero della Polizia di Stato, che subito si era messo a volteggiare sopra il peschereccio. La corvetta della Marina, accostatasi al natante, imponeva l’alt, mentre un graduato della Marina Militare, dopo qualche minuto, passava sul peschereccio assumendone il comando e ordinando, dopo aver preso visione della situazione, di avviarsi lentamente alla volta del porto di Catania, dove s’erano adunati ad attendere salvatori e naufraghi, avvisati chissà da chi, giornalisti, fotografi, operatori delle televisioni locali, Agenti di Polizia, Guardie di Finanza, Carabinieri e altro personale proveniente da altri corpi dello Stato. Giunti in porto gli extracomunitari, dopo una prima visita da parte dei sanitari delle USL, vennero fatti salire su un pullman, eccetto una donna che si trovava in avanzato stato di gravidanza e che fu subito avviata in Ospedale, mentre tutti gli altri vennero accompagnati presso la sezione locale di un centro di accoglienza appartenente ad un ‘Associazione Umanitaria intestata alla Divina Misericordia, la cui sede principale si trovava nell’entroterra della Provincia Etnea. Ciò, naturalmente, serviva per dare loro una prima sistemazione provvisoria, in attesa di ulteriori sviluppi. Le cose, invece, sembravano assumere una piega diversa per quanto riguardava l’uomo che aveva tentato la fuga. Per costui, infatti, si erano aperte le porte della locale Caserma della Polizia Portuale per rispondere a circostanziate domande assieme a don Carlo e ad Alfieddu. Sul molo, invece, dove era stato attraccato l’Agata secondo, sempre tenuti a debita distanza, facevano ressa i rappresentanti dei mass media, che cercavano di raccogliere notizie sull’accaduto, cercando di captare qualcosa su quanto stava accadendo all’interno della Caserma. Gli addetti ai lavori, intanto, lontani dalla confusione, nel silenzio delle loro stanze, stavano, infatti, per certi versi, concludendo l’ascolto dei responsabili del peschereccio e a redigere i relativi verbali, mentre per quanto riguardava l’uomo

Pagina 111 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° nulla era stato fatto trapelare in giro. Alla fine, con tanti complimenti e strette di mano, fin sulla porta esterna degli uffici il vecchio pescatore e il figlio vennero accompagnati a bordo dell’Agata secondo e autorizzati a riprendere la navigazione, mentre l’uomo che aveva tentato la fuga veniva trattenuto per chiarire meglio la sua posizione. Da quando il peschereccio era stato portato in porto e messo in stato di fermo erano trascorse molte ore; delle lunghe ore e in cui tutto l’equipaggio era stato sentito da un Sostituto Procuratore e iscritto, come per prassi, nel registro delle persone informate sui fatti. Frattanto anche i giornalisti della carta stampata e delle emittenti private, intenti a conoscere modi, tempo e fatti sull’avvistamento di quegli extracomunitari, ora tempestavano di domande quei pescatori, che mal gradivano di essere diventati oggetto di tanta curiosità. Venivano chieste notizie sul tipo di lavoro svolto a bordo, spingendo qualche cronista più curioso persino a scavare sulla loro vita privata oltreché sulle condizioni delle loro famiglie, mettendo in non poche difficoltà alcuni di loro, abituati com’erano a parlare a mezze parole o in dialetto, al punto che anche da parte di qualche intervistatore, ascoltando certe espressioni, venivano chiesti chiarimenti sul loro pensiero, mentre gli operatori della TV e i fotografi avevano, intanto, il loro gran da fare per riprendere anche gli angoli più riposti del natante. La sequenza di quei fatti accaduti quella mattinata offriva anche l’occasione di far conoscere in diretta, attraverso i servizi televisivi, le fatiche cui andavano incontro tutte quelle persone che ogni giorno operavano nel campo della pesca; fatiche rese ancora più dure dalla mancanza di risposte certe, che solo dopo aver tirato le reti un barca potevano conoscersi. Le riprese delle televisioni locali, trasmesse in orari successivi, ricche di interviste e accompagnate dai commenti degli operatori, mettevano in luce tutta una serie di difficoltà, che tutti i lavoratori del mondo della pesca affrontavano in silenzio giornalmente, ma di cui nessuno si lamentava perché abituati, sin dalla più tenera età, ad adeguare la loro esistenza agli umori del mare, considerato padre padrone, e al rispetto che gli era dovuto, allo stesso modo di quanti erano dediti in genere al lavoro della terra, necessario per fornire all’uomo i prodotti necessari per la sua sopravvivenza. In quella circostanza la presenza del Lucarelli, noto nel mondo dell’informazione, teneva banco perché raccoglieva un inedito spaccato non solo sulla vicenda ma sulla complessa vita del mondo della pesca. Una volta a bordo, don Carlo e il figlio Alfieddu, ricompattata la ciurma, ripresero la navigazione portando il cargo verso il mare aperto, sino a quando, allontanatesi dal porto, la sua sagoma non sparì dalla vista di quanti lo seguivano trovandosi sul molo. Portava con sé una nota diffusa di felicità e, una volta tanto, ognuno si sentiva gratificato dalla soddisfazione d’avere concorso a salvare delle vite umane.

Pagina 112 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno

Per don Carlo il fatto di soccorrere in mare delle vite in pericolo faceva parte di un impegno prioritario che come marinaio veniva prima di ogni altra finalità, anche se in passato, più di una volta, aveva dovuto fare i conti con improvvise furie del mare o perturbazioni atmosferiche, che avevano messo in serio pericolo non solo l’incolumità della sua gente, ma anche l’integrità della sua barca. Per cui, alla luce di ciò che era stato fatto, quest’altro tassello di esperienza, diversa dalle altre nel suo genere, lo riempiva di legittimo orgoglio, ricordando al figlio ed all’amico, che gli stavano accanto, che le vie del mare non sempre erano fatte di gioie, ma quasi sempre erano costellati di sacrifici e da tante piccole e grandi soddisfazioni inesprimibili. Alfredo Lucarelli, nuovo a questo genere di avventure, mentre ascoltava l’anziano pescatore si sentiva pressato da una miriade di intime domande a cui non sapeva dare risposte precise: In quale settore della nostra società, indifferente a tutto ciò che le accadeva attorno, presa com’era solo da una frenetica corsa per affrontare i mille problemi del quotidiano, potevano cogliersi con la stessa intensità e lo stesso slancio tutte quelle sollecitudini mostrate verso quel prossimo sconosciuto ed abbandonato a se stesso? Chi erano quegli sconosciuti apparsi improvvisamente sul mare come fantasmi e pescati amorevolmente da altrettanti sconosciuti accorsi occasionalmente in loro aiuto? Da dove venivano o quale nave corsara, di passaggio sullo Jonio, li aveva abbandonati al loro destino magari in vista della Sicilia? E in quei momenti di intima riflessione quella parte nascosta dell’uomo vissuto continuava a tormentarlo facendogli tornare alla mente alcune frasi lette per caso in una lettera al Direttore, inviata da una studentessa e pubblicata nell’apposito spazio riservato nello specchio dei tempi del quotidiano locale della sua Città: «...Ci sono moltissime persone che emigrano dai loro paesi devastati dalle guerre e dalla fame(...)vengono qui(...)da noi per(...)cercare un lavoro, una vita migliore(...), ma anche qui, quando trovano un lavoro da noi, una volta inseriti nel sistema, vengono ...schiavizzati,(...) mal pagati(...)solo perché la loro pelle è di colore diverso (...)perché sono stranieri... E quelle persone il più delle volte le incontriamo... agli angoli delle strade o (presso) i semafori a(...) vendere accendini, fazzoletti (di carta) o a(....)stendere la mano per chiedere(....)un’elemosina, specie davanti ai supermercati (...) in concorrenza con i mendichi di casa nostra. È molto triste vedere disprezzare la vita di quelle persone (...) dopo che l’hanno rischiata per giungere da noi in cerca di una condizione di vita migliore. Bisognerebbe (...) riflettere (...) e domandarsi quale sia stata la grande povertà che li ha spinti ad abbandonare le loro case e le loro famiglie?... Molto spesso facciamo fìnta di non vederli (...), di non sapere in quale condizioni di promiscuità dormono sui marciapiedi o stipati assieme, in (fatiscenti) rifugi di lamiera o di cartone; sotto i ponti (...) per risparmiare (...) quel po’ (di euro) che riescono a reperire, per mandarli lontano, nelle loro terre, alle loro famiglie...».

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E di fronte a ciò che aveva visto continuava ancora a ricordare altri passi di quella lettera: « ...O se fosse stato possibile chiedere agli uomini di soffermarsi un attimo solo per riflettere sulle ragioni (che hanno spinto costoro) a fuggire dalle loro case in cerca del (nostro) superfluo, ad affrontare i mille pericoli tra i flutti in tempesta del nostro mare, non sempre calmo come oggi... Bisognerebbe guardarli nel profondo dei loro occhi neri; quante cose in comune (...) scopriremmo... Infondo non sono poi tanto diversi dai nostri connazionali quando, spinti dal bisogno e dalla mancanza di un‘occupazione, espatriavano clandestinamente per andare a cercare lontano un tozzo di pane, un lavoro sicuro...». «Quanto poco sarebbe necessario! (...) Basterebbe (solo) cercare di annullare la nostra indifferenza e offrire loro anche un solo cenno di sorriso... così come hanno fatto i pescatori dell’Agata secondo». «...Guardiamoci dentro, cerchiamo nella nostra storia e, forse, riusciremo a capirli un poco anche se in ciascuno di noi potrà rimanere sempre il rammarico che in pieno XXI secolo non siamo ancora riusciti ad eliminare dalla nostra Società questi tristi fenomeni di degrado che mortificano la dignità del nostro essere umano... Umano?...» «Alla luce di queste considerazioni che gli tornavano alla memoria il Lucarelli si chiedeva: dove saranno andati a finire quei poveri disgraziati!... Forse, subito, in un centro di raccolta, ma dopo?». «Anche se la Terra di Sicilia da sempre si è mostrata, per motivi storici, una società multi etnica, come può continuare ad accogliere ancora sciami di gente di un continente in permanente sofferenza?...». «Ma chi era quell’uomo che aveva tentato improvvisamente la fuga a nuoto quando è venuto a trovarsi in presenza del peschereccio! Che possibilità poteva avere di allontanarsi senza essere preso?». Chissà! Le congetture che si facevano erano tante e diverse ma la verità forse si sarebbe conosciuta dopo, attraverso qualche notizia di stampa. Dopo aver trascorso il resto della giornata ad un paio di miglia a S. E. delle coste della Praia di Catania, durante il ritorno verso Aci, u prufessuri, avvertendo negli amici che stavano con lui in cabina i segni di stanchezza, tanto per rompere la monotonia del silenzio, mentre osservava tutto quello sfolgorio di luci notturne che provenivano dalla riviera, cominciò a parlare ricordando l’antico fascino esercitato da sempre dalla Sicilia su tutte le popolazioni che si affacciano nel bacino del Mediterraneo; un fascino tale da spingerle ad avventurarsi sul mare per invadere le sue coste e per impadronirsene facendo uso anche con le armi. Il loro desiderio di possederla poteva paragonarsi quasi a quello morboso nutrito dagli uomini follemente innamorati di una donna affascinante bramata da tutti. Stesso desiderio, che ancora oggi, sotto forma di speranza per un avvenire migliore, viene manifestato da molti esuli o fuggiaschi di quelle nazioni che a

Pagina 114 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Una pesca miracolosa a margine di un incubo Vincenzo Galvagno causa delle loro particolari condizioni di vita si avventurano sul mare mettendo a rischio persino la loro vita. Così, tra un ricordo e l’altro, a mano a mano che l’Agata secondo si avvicinava al molo per gettare l’ancora nell’angolo a lei assegnato, il porticciolo cominciava ad apparire interamente illuminato dalle luci dei lampioni. Giunti sul posto, prima ancora che Alfieddu ed altri due suoi compagni di lavoro potessero mettere piede a terra per legare il natante, una gran folla di paesani, che aveva ascoltato la notizia del salvataggio dalla TV locale, vedendoli apparire cominciarono ad applaudirli e a gridare al loro indirizzo degli hippy hippy trattandoli come eroi, salvo poi ad abbracciarli, una volta scesi sul molo, invitandoli a raccontare fatti e particolari di cui erano stati testimoni diretti. Ma, ancora una volta, così come era accaduto molte ore prima, ogni singolo pescatore si sentiva impacciato, confuso, frastornato. In fondo, si domandavano, cosa avevano fatto di tanto importante! Chiunque, certamente al loro posto avrebbe fatto lo stesso, si sarebbe dato da fare per aiutare quei poveri disgraziati. La vita del prossimo, per la gente di mare, in taluni momenti di particolare difficoltà, non la si considera distinguendola dal colore della pelle, né dalla religione, ma è sacra; è frutto di un sentimento connaturato in ciascuno da una cultura che non ha testi ma che è stata tramandata da generazione in generazione come legge che non aveva bisogno di essere codificata. E ciò, in Sicilia, in uno agli usi, costumi e tradizioni della sua popolazione, fa parte ormai di un codice genetico insito in ogni isolano, ereditato come bene inalienabile dai propri antenati. Per cui andare per mare seguendo determinati i canoni della marineria, comuni a tutti i pescatori: da Aci Trezza, Mazzara del Vallo, Sciacca, Porto Palo o dalle Isole Eolie, è un fatto naturale che serve semmai a rendere interessante il loro modo di concepire la vita e l’appartenenza alla stessa natura di esseri umani. In quelle ore della tarda serata, dopo il momento delle acclamazioni, quel po’ di pesce azzurro pescato tra la Plaia di Catania e il Golfo di Augusta, sistemato in apposite cassette di legno, venne avviato con un furgoncino al mercato ittico per essere conservato nelle celle frigorifere. Domani, alle prime luci del giorno, in mezzo a quell’universo vociante di venditori e astatori, sarebbe passato da un acquirente all’altro per essere, poi, gustato nelle mense tanto dei più rinomati ristoranti quanto delle più modeste trattorie dell’angiporto, presentato nei menù con i nomi più diversi che la fantasia dei gastronomi locali dava ai vari piatti, accompagnando quelle gustose e genuine carni con bicchieri colmi di quel nettare divino, pieno di meditazione che solo l’Eldorato vinicolo locale sa loro conferire. U prufessuri, ormai al termine del suo viaggio, aveva di che scrivere questa volta anche se, nel corso della sua esposizione, poteva rischiare di diventare, per qualche verso, incomprensibile per i suoi lettori data la diversità del linguaggio della terminologia marinara usata in taluni pezzi del suo articolo.

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Durante i momenti di relativo riposo il Lucarelli aveva anche accennato a don Carlo di certe sue idee sul come unire all’attività della pesca il turismo di mare, avvicinando così i due fattori di richiamo, apparentemente lontani tra loro, in un’unica attività fatta di operosità e di relax nello stesso tempo; cioè, secondo il suo punto di vista, rendere più affascinante ed istruttivo lo spettacolo offerto dalla pesca unendolo a quello di una visione nuova del panorama rivierasco della costa meridionale dell’Isola, dando così la possibilità di potere ammirare meglio, per esempio, il fascino suscitato dalla Muntagna o quello spettacolare delle esplosioni dello Stromboli. Mentre così parlava u prufessuri Don Carlo ed Alfieddu lo guardavano con aria incantata, come se stessero assistendo ad una conferenza. In fondo, secondo lui, tutti i borghi marinari che si affacciano sulle nostre coste, con iniziative come quelle, potrebbero aggiungere altra ricchezza e varietà alla loro attività, per non contare anche all’offerta di una migliore conoscenza del vastissimo campionario di civiltà esistente lungo tutta la costa siciliana.

Il sindaco di Riposto, on. Carmelo D’Urso, consegna il Premio Città di Riposto 2004 - XXIII edizione - al senatore dott. Santi Rapisarda per la lodevole ed apprezzata attività professionale e per avere fortemente voluto la realizzazione del porto turistico di Riposto

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Franca Gambino

“LUI”

apitani coraggiosi, mirabolanti imprese tra vascelli e golette, incredibili Cavventure fra tempeste e bonaccia, inesauribili vicende, eroiche o fantastiche tra flutti, abissi e marosi terrificanti: non potrei raccontare di questo. Da tanto tempo però ho voglia di raccontare d’altro. Qualcosa di tremendamente importante che ha attraversato tutta la mia vita, ormai anche troppo lunga, e senza mai tradirla, senza lasciare di inondarla con il suo speciale profumo. Una fra le prime cose che imparai a riconoscere furono gli spruzzi sul naso. Anzi nasino, a quel tempo. Me lo asciugavo con le dita e poi ficcandomele in bocca sentivo che erano salate. «Non ti mettere le dita in bocca» predicava la mia tata. Non c’era verso di farle intendere che quel sale era una delle cose più golose che conoscessi, fra tutte quelle pappine di latte e di semolino, che mi propinavano varie volte al giorno. Subito dopo imparai che su quella riva rumorosa anche i sassi erano salati e pur sapendo che non sarei stata approvata li leccavo appena mi era possibile. Però di nascosto. A quel tempo, in un posto chiamato LA FOCE dove adesso c’è un enorme palazzo per le fiere e i congressi, arrivavano le barche con i pescatori e le reti. La tata e io ci andavamo spesso. I pescatori mi lasciavano prendere qualche manatina di pesciolini da ributtare in mare. Avevano squame così azzurre e fragranti di spuma! Alcuni erano ancora vivi e li vedevo scivolare via guizzanti sotto il pelo dell’acqua. Saltavo e correvo, piena di risate. Ridevano anche la tata e i pescatori. Qualche anno dopo la risacca accompagnava le sieste, durante le vacanze, subito dopo la fine della scuola. Si partiva al mattino presto, prendendo quei buffi tramvai che portavano a Boccadasse e ad Albaro. L’odore ti veniva incontro appena usciti dalle vie del centro. Non è un odore che si lasci raccontare: alga, scoglio, patelle, fritture, gridi che arrivano dalle barche, sentore d’acqua mossa dai remi, spruzzi violenti e iridescenti che facevano bruciare il naso, nelle giornate “da bandiere rosse”. «Guai a te se oggi fai il bagno», diceva mia madre, sapendo che avrei disobbedito. S’incrociavano i gridi, i nomi: «Silvia! Guido! Venite qua. Subito a riva! Allora andiamo subito a casa! Via, via… ». Scappavamo fuori dell’acqua ansimanti, supplicando di poter restare. Allora si stava in fila a riva a “prendere le onde”. Ma era bello ugualmente, pur di restare lì con lui.

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Durante tutti gli anni di guerra lui mi mancò terribilmente. Prima di partire per il nostro rifugio in montagna lo guardai un’ultima volta con la voglia di piangere. Non sapevo per quanto tempo non avrei più potuto correre al suo abbraccio. Furono quasi cinque anni. Papà aveva il suo ufficio nei vicoli e là mi aveva spiegato. «Cara, lo sai che qui è pericoloso… Ci sono i tedeschi… e quelle nuove Leggi… Lo sai che la mamma è ebrea. In montagna abbiamo amici. Là sarete al sicuro. Lo so che tu sei una ragazzina ragionevole…». Mio padre e lui erano una cosa sola: per questo papà capiva come fosse difficile per me questo distacco. Mio padre aveva così tanta confidenza con lui che per farmi imparare a nuotare mi aveva all’improvviso buttato giù da un trampolino tuffandosi dietro di me. Io ero subito risalita a galla e avevamo riso insieme. Le ore di nostalgia, lassù lontano lontano, fra i monti, furono infinite. Dalla mia terrazza, nella casa in città, potevo sempre scorgere la distesa azzurra dell’acqua, là in fondo, dietro a muri di case e tetti. E veniva il profumo; quel profumo di sale e di agro. Qui venivano odori buoni di boschi, di falò e di foglie. Anche di fiori. Ma non potevano bastarmi. Come ogni brava innamorata, io pensavo solo a lui. «Che cosa fai lì?» chiedeva mia madre vedendomi pensierosa alla finestra. «Penso», dicevo io. «Lo so che pensi a lui», diceva lei, che conosceva le mie debolezze. Vedrai che torneremo: Torneremo presto. Lo rivedrai tutti i giorni. E tutto sarà come prima”. In fondo aveva ragione. Anche la guerra era passata, e al ritorno quel luccicare pieno di pagliuzze d’argento mi fece impazzire di gioia. L’abbraccio tornò, sempre più grande. Passarono gli anni del Liceo e quelli dell’Università. Lui era sempre quello così immenso, così capace di accogliermi, così nuovo ogni giorno, così profumato. Così meravigliosamente salato. Le ragazze s’innamorano, a una certa età. S’innamorano di un uomo. Anche io m’innamorai di un uomo: un bel giovanotto che decise di sposarmi. Il fatto che facesse il giornalista non mi pareva una difficoltà, tutt’altro. Tuttavia ebbe un impiego lontano, e così dovetti scegliere fra lui e la mia casa di giovane sposa nel centro di Milano. Questa volta la “guerra” fu assai lunga: più di vent’anni. Non passò mai un’estate senza che ritornassimo da lui. Mio marito era innamorato di lui quanto me. E soffriva quanto me della sua lontananza. Del resto la sua era addirittura una tradizione di famiglia. Mio suocero, un omone con occhi azzurro cielo e piglio severo, ormai in pensione come tenente colonnello, era stato “capitano di macchina” sui sommergibili al tempo delle folli imprese della Prima Guerra mondiale. Passava sul bagnasciuga l’intera stagione estiva, dalla mattina presto al tramonto. Non l’avevo mai visto piangere per nessuno, però si scioglieva in lacrime

Pagina 118 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania “Lui” Franca Gambino se la Banda suonava la Marcia della Marina. Una volta gli chiesi: «Papà Giuseppe, su quale sommergibile sei stato Capitano di macchina?». «Sull’Enrico Toti» mi rispose. «Allora le macchine andavano ancora a palate di carbone…». Intanto gli occhi gli si erano subito fatti umidi. E non credo che fosse per il ricordo del fumo di quel carbone. Vent’anni sono tanti, lontano da un amore. Ma l’importante è sempre riuscire a ritornare. Ormai da tanto tempo sono di nuovo qui, vicino a lui. Il lavoro nella città del Nord è finito. I figli sono grandi e hanno imparato ad amarlo anche loro quanto l’ho sempre amato io. Appena possibile ci andiamo tutti insieme, e come facevo io con mio padre, ci buttiamo di corsa e poi ridiamo, e poi sguazziamo e poi facciamo gli spruzzi gridando e rincorrendoci. Non ci andiamo mai nei giorni di folla, però. Niente contro i turisti e gli stranieri, beninteso. Ma il nostro è un rapporto esclusivo. Lo vogliamo tutto per noi. E siamo abbastanza convinti che anche lui ci voglia tutti per sé. Di tutto quello che c’è intorno non c’importa granché. Quello che serve è un barbaglio, un gusto di sale nelle mani, una schiuma che appena ti lambisce, una vela bianca che corre laggiù in fondo all’orizzonte, un mistero che ti guarda da profondità che continueranno a incantarti ben sapendo che mai potrai raggiungerle. Quello che serve è sapere che di lui non potrai mai fare a meno, che lui non potrà mai venirti a mancare e che, finalmente, ormai, lo hai tutto per te, il tuo amore di sempre: lui, il mare.

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L’Accademia Navale di Livorno

L’Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Gaetano Sodano consegna il “Premio Protagonisti del mare 2004” - VIII edizione - all’Accademia Navale di Livorno. A ricevere il Premio il Capitano di Vascello Giuseppe Gallo

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SEZIONE FATTI DI BORDO 2005 - XXVII ed. 1° premio – Angelo Luigi Fornaca – “Il mare tra sogno e realtà” «Garbata, ironica e fantastica storia di un amore, di un amore particolare e difficile, di un amore tardivo, che giunge quando “l’arcobaleno delle attese sembra essere definitivamente offuscato dalle nebbie della vita quotidiana”: l’amore di un capitano per il veliero che ha sempre desiderato comandare. E come ogni amore – grande – che si rispetti, anche questo è capace di continuare dopo la morte: anche la storia tra Capitan Orsi e la Old Lady prosegue – in maniera curiosa e surreale, e dopo aver fatto i conti con l’animo burlone della ciurma – ben oltre il disarmo di questa, in una sorta di lungo, metaforico abbraccio». 2° premio – Antonio Riciniello – “Stretto della Manica” «Triste cronaca di viaggi senza ritorno, commosso saluto dinanzi a silenziose bare d’acqua, che sopiscono il tumulto di scontri concitati ed acquietano deflagrate agonie in un immenso nulla. Lo scrivere è voce che rimbomba, limpida rivincita dell’essere sul silenzio, è testimonianza e ricordo di morti troppo presto sopite nella memoria, pietoso omaggio a vittime senza gloria e senza fanfare, che si immolano consapevoli all’altare delle divinità marine». 3° premio – Anna Bartiromo – “L’ ultimo aliscafo” «Silenziosi andirivieni tra sponde lontane, infinite partenze, immancabili addii, pellegrinaggi quotidiani lungo sentieri invisibili e conosciuti…Questa è la vita su un aliscafo, un’esistenza che si snoda lungo il filo invisibile che lega rive opposte, filo che d’improvviso si spezza, si inabissa, minacciando di trascinare nei suoi vortici, come esili marionette del destino, pendolari, viaggiatori e bambini. Non sempre, per fortuna, la tragedia si compie; ma a qualcuno il mare riesce comunque a strappare l’anima, lacerandola tanto da renderla irriconoscibile. Dopo, su qualche riva, c’è sempre una donna che piange. È una madre, una moglie, una figlia. Forse è la dea del mare che attende le sue creature. Forse è quell’anima lacerata che si è persa e che ancora vaga. » Menzioni Gaetano Alfaro – “Un Natale speciale” «Allegra, delicata cronaca di un Natale per mare, in cui la lontananza dagli affetti più cari accomuna gli uomini, spingendoli a cercare l’un nell’altro fraternità e conforto e a scoprire, al di là di diversità e contrasti, le più recondite affinità». Mario Calabrò – “Antichi ricordi” «Il pacato ed emblematico racconto di una vita spesa sul mare, a cavallo degli anni difficili che seguirono la fine della guerra, tra difficoltà, stenti, piccole sconfitte e grandi vittorie».

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Vincenzo Marzullo – “Pratica mancata” «Tutta l’amarezza di una perdita in una narrazione incisiva e scabra, che respinge ogni sia pur legittima finzione letteraria, e vale a rendere, senza abbellimenti o fronzoli, la triste realtà della vita sul mare».

Sabato 6 agosto 2005 - 31a edizione del Premio Nazionale Artemare - Consegna dei Premi all’interno del porto turistico “Marina di Riposto”

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Anna Bartiromo

L’ULTIMO ALISCAFO

ra il tardo pomeriggio. Lampi violacei segnavano il ciclo come lama affilata Edi coltello su fragile tela. Il mare era cattivo e a bordo già serpeggiava una sorta di malessere e di disagio tra i passeggeri di ritorno dal lavoro. Il personale dell’equipaggio, come sempre attento e premuroso, specie in situazioni come questa, passava tra le file delle poltroncine cercando di tranquillizzarli. Era l’ultima corsa verso l’isola per i pendolari di ritorno dalla terraferma. L’Ali Velia, uno degli aliscafi veloci di costruzione moderna della “CHRIS ALPHA COMPANY” arrancava malamente sulle onde piegandosi da una parte e dall’altra con i suoi alettoni bianchi come un uccello ferito, lottando contro onde impietose che ne mordevano rabbiosamente lo scafo sicché pareva, a tratti, quasi sparire inghiottito in quella aggressiva spuma grigio-verdastra. Il porto non era distante ma mai come allora l’isola sembrava allontanarsi alla vista sempre più. In condizioni atmosferiche diverse quel percorso si copriva, in genere, in dodici minuti circa, ma ora, per l’approdo, si prevedeva molto di più, sebbene questo, in seguito, sarebbe dovuto rivelarsi solo il male minore. Il comandante Laslo, teso e accigliato era alla guida del mezzo sul vano ponte impegnato affinché tutto andasse per il meglio. Dopo ancora degli interminabili minuti di beccheggio e rollio un marinaio lo raggiunse visibilmente preoccupato e, con aria concitata, disse: «Comandante, abbiamo un problema». «Oltre a questo», fece lui di rimando quasi a voler sdrammatizzare la cosa, «c’è un incendio in macchina. Stiamo cercando di spegnerlo ma senza riuscirci». «E gli estintori?» - «Non sono sufficienti». Lasciati allora i comandi al fìrst-mate, Laslo scese di corsa i pochi scalini che lo separavano dal reparto motori onde rendersi meglio conto di quanto stesse realmente accadendo e la situazione gli apparve subito pericolosa e poco controllabile.

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Infatti, il fuoco, scoppiato chissà per quale motivo, si stava propagando rapidamente tutt’intorno aggredendo con le sue fiamme i materiali che rivestivano l’abitacolo. Intanto ci si stava finalmente avvicinando alla terra. Qui la gente era accorsa numerosa, trepidante, in preghiera, accalcandosi lungo la banchina e assistendo impotente a quanto stava accadendo a poche braccia di mare da loro. Uomini della capitaneria, vigili del fuoco, volontari e qualche ambulanza erano in allerta pronti a prestare soccorso. Dalla poppa specialmente usciva un fumo acre, denso e nero mentre le fiamme si estendevano a tutti i materiali interni del mezzo, legno, moquette, alluminio e supporti di plastica. Tra la gente era il panico. Chi gridava, chi piangeva, chi, impietrito dal terrore, guardava la riva poco distante col viso premuto contro gli oblò che ormai sapevano di prigione. Una volta nel porto, il moto ondoso concesse finalmente un po’ di tregua, ma non si poteva comunque attraccare. Lanciarono i gommoni di salvataggio mentre tutta la gente di mare, nonché l’equipaggio erano impegnati ad assistere e mettere in salvo i passeggeri mentre il comandante Laslo si fece carico, in particolar modo, dei bambini. Nove per l’esattezza, di cui uno di soli cinque mesi. I più indifesi e i più impauriti. Dall’aliscafo alle zattere e a terra, era un andirivieni spasmodico di quanti erano in grado di dare una mano e collaborare. Incurante del fumo e del crepitio delle fiamme intorno a lui, il capitano, i bimbi uno ad uno, fra le braccia, faceva la spola dalle lamiere ormai calde dell’AliVelia e gli appoggi a terra portandoli giù ed affidandoli a chi poteva, in un prodigarsi misto a coraggio e a dolore mentre la situazione continuava a precipitare. Da ultimo, nonostante gli sforzi, ci si rese conto che c’era ancora un bambino straniero a bordo. Allora avvolto in una coperta bagnata e protetto dagli scrosci d’acqua delle manichette dei pompieri, tra il fumo e le lingue di fuoco, ritornò di nuovo per salvare quel piccolo indifeso nonostante il suo corpo presentasse terribili ustioni. Soccorso immediatamente fu trasportato come gli altri in ospedale seguito dalla sua donna, trepidante per lui. A mano a mano che la banchina si liberava e la folla si diradava, di bocca in bocca, la notizia faceva il giro del paese. Intanto in quella serata infernale del 7 dicembre 2003 1’AliVelia affondava sparendo per sempre sul fondale. * * * Si parlò a lungo del Capitano Laslo e del suo coraggio. Di quest’uomo di quasi cinquant’anni che aveva speso la sua vita per mare impegnando tutte le proprie forze, presenza di spirito, abnegazione e notevole responsabilità professionale nel riuscire a mettere proprio tutti in salvo incurante del pericolo e della propria vita... Rimase un bel po’ in ospedale e quando gli si potè chiedere cosa avesse provato in quei momenti rispose: «Di tutto, dal dolore ad un forte senso d’impotenza, dall’angoscia alla paura e mi resta soltanto un’unica

Pagina 126 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania L’ultimo aliscafo Anna Bartiromo grande amarezza nel cuore, di non essere riuscito a salvare la nave e di non sapere né come né perché sia potuto accadere». * * * Intanto da quel giorno però la Compagnia sostituì agli aliscafi solo due navi veloci su quella rotta. Ci fu un’inchiesta che, comunque, scagionò il capitano Laslo da ogni responsabilità. Purtroppo però egli dovette, in seguito, fare i conti con una lunga e difficile depressione che non lasciò più spazio alcuno né al “sociale” né alla sua vita privata ed ai suoi affetti... Ed ora, a volte, in quelle sere in cui ancora i lampi squarciano il ciclo ed onde rabbiose vanno a schiantarsi lungo il litorale, una donna sola, il viso rigato dalle lacrime, lo sguardo rivolto verso il mare resta lì, per ore, sulla banchina del porto dell’isola in un’attesa, una incomprensibile attesa che il suo uomo, con quell’ultimo aliscafo, possa tornare.

N.B.: Sebbene tratto da un fatto realmente accaduto, nomi ed ambientazione devono considerarsi di pura invenzione.

Il 3° premio “Fatti di bordo 2005 - XVII edizione” è stato assegnato ad Anna Bartiromo per il racconto “L’ ultimo aliscafo”

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La partecipazione delle alunne della Scuola Media Statale “Luigi Pirandello” di Riposto e del cantastorie Luigi Di Pino alla rappresentazione teatrale de “La leggenda marinaresca di Hela e Kirbi” di Pino Correnti Pagina 128 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Gaetano Alfaro

UN NATALE SPECIALE

el 1982 ero in Norvegia a bordo di una nave in disarmo, una grossa petroliera Ndel mio Armatore. La nave si chiamava “Laura”. A bordo eravamo solo sei persone: io il comandante, il direttore di macchina, un nostromo, un marinaio ed un allievo di macchina. Le nostre mansioni erano in particolare di controllare gli ormeggi. Noi eravamo ormeggiati con solidi cavi a terra e con due ancore di prua. Nello stesso tempo eravamo attraccati col fianco sinistro con una grossa nave inglese, la Coast Rorqual, e per difenderci avevamo fuori bordo dei parabordi. La nave inglese, a sua volta, era attraccata ad una nave danese della Maersk sul suo lato sinistro e a terra di poppa. Fra queste navi avevamo costruito delle passerelle che ci permettevano di passare facilmente da un bordo all’altro. Questa unione di navi ci faceva avere una certa solidarietà fra noi, gli inglesi ed i danesi, specie quando per il cattivo tempo dovevamo rinforzare o tesare gli ormeggi, ci aiutavamo l’un l’altro. Perciò si era stabilito una grande amicizia tra noi, per cui la sera andavamo sulla nave inglese e ci vedevamo dei film che si noleggiavano a terra. I film erano tutti in inglese ed anche i film italiani erano parlati in inglese, così la sera, dopo cena, tutti sulla nave inglese, sia noi che i danesi a vedere questi film. A tutti, in particolar modo, piacevano i film italiani di Bud Spencer e Terence Hill. Sul nostro fianco sinistro non c’erano altre navi vicine, ma a distanza di un paio di miglia c’era un altro gruppo di navi. La prima nave di quel gruppo era spagnola. Passata l’estate, man mano il giorno diventava più corto e la notte più lunga. Il posto dove stavamo noi era il Fiordo di Romsdale, a sud di Molde, e la cittadina che ci ospitava si chiamava Vestness. Era ormai dicembre e noi la mattina, durante le poche ore di luce, eravamo andati nel bosco di poppa alla nostra nave ed avevamo preso due piccoli abeti, uno lo tenemmo per noi e l’altro lo demmo agli inglesi. Il direttore di macchina, quando arrivò l’albero a bordo disse: «Per addobbare l’albero dobbiamo andare a terra a comprare tutto l’arredo e sono certo che lo troveremo, ma io vorrei fare anche il Presepe per mostrarlo agli inglesi, certo, ci dobbiamo arrangiare noi». Io gli risposi: «Io dipingerò lo sfondo». La sera, quando andammo sulla nave inglese, il Comandante ci propose di festeggiare il Natale insieme. La proposta ci entusiasmò tutti e così ci impegnammo ancora di più. Intanto il Direttore, con la mollica di pane e con il ferro filato, stava facendo dei pastori per il presepe. Il

Pagina 129 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° nostromo, seguendo i suggerimenti del Direttore, costruiva il paesaggio del presepe con dei cartoni che stavano in cambusa. Dovetti ammettere che i pastori che faceva il Direttore erano veramente dei capolavori. Scendemmo a terra a comprare l’arredo per l’albero e tanti regalini da mettere sotto l’albero, considerando noi, gli inglesi ed i danesi che si erano aggiunti a noi. Più tardi anche gli spagnoli furono invitati per Natale. Allora restammo d’accordo che con tutti ci saremo riuniti sulla nostra nave la Vigilia di Natale, dove avremmo mostrato la tradizione tutta italiana del Presepe e dove avremmo distribuito le strenne. Il giorno seguente di Natale ci saremmo trasferiti a bordo alla nave inglese per il pranzo natalizio. Arrivò il 24 dicembre e la mattina, verso le 11, vennero a bordo i danesi, gli inglesi e gli spagnoli delle navi in disarmo nella rada del Fiordo di Romsdale. Ci fu una sincera allegria, specie quando tirammo fuori le strenne per ognuno dei presenti; cosucce, certamente, ma che fecero piacere a tutti, compresi noi stessi italiani. Piacque molto l’addobbo natalizio dell’albero, ma fece impressione il presepe, una cosa tipica tutta italiana. Tutti guardarono e si complimentarono. Dopo un aperitivo a base di vermouth italiano, ci mettemmo a tavola e mangiammo spaghetti con salsa a base di pesci, e pesce (merluzzo) con una salsetta di olio e limone. Alla fine il marinaio cuoco, Natale, ci fece la sorpresa di portarci le zeppole di Natale condite al miele. Il giorno dopo, giorno di Natale, ci ritrovammo tutti a mezzogiorno, nel salone della Coast Rorqual, la nave inglese. Vennero anche altri due ufficiali danesi che erano su un’altra nave, il Karama Maersk che era ormeggiato all’isola a circa quattro miglia da noi. Il salone della nave inglese era accogliente e riscaldato, addobbato con palline di vetro colorato e stelle filanti, ben illuminato a festa, ci dava la sensazione casalinga del Natale. La cosa più bella e più nuova era che eravamo riuniti come una famiglia e ci sentivamo tale. Tante nazionalità diverse, eppure queste diversità non apparivano, anzi, ci sentivamo uniti, sentivamo il calore e l’affetto di una grande amicizia. Noi portammo il tacchino al forno che il nostro cuoco aveva già preparato sulla Laura. In aggiunta al tacchino il nostro cuoco preparò le zeppoline condite con il miele e ancora struffoli napoletani ricchi di miele e confettini variopinti che ero riuscito a trovare al supermercato di Molde. Gli inglesi ci presentarono il capretto al forno, condito con una meravigliosa salsa verde a base di menta ed il loro dolce che era un pudding con la scritta a nastro rosso “Merry Christmas”. Dai danesi arrivò il prosciutto di maiale al forno, condito con un intingolo piccante ed il dolce tipico danese per il Natale, simile al nostro tronco al cioccolato. Gli spagnoli avevano preparato la famosa “paiella” e certi dolcetti fatti con la naspra rosa.

Pagina 130 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Un Natale speciale Gaetano Alfaro

Ci sedemmo a tavola assaggiando un po’ di tutto, solo un po’, eppure ci sentimmo pieni e soddisfatti, per cui restammo d’accordo che ancora avremmo continuato a ritrovarci l’indomani per poter consumare tutto quel ben di Dio. Birre, Coca-Cola, vino italiano e vino spagnolo innaffiarono il Santo pranzo natalizio che fu concluso con frutta e caffé all’italiana. Infine l’amico Tim, comandante del Coast Rorqual, tirò fuori una bottiglia di whisky a cui tutti facemmo onore. Passammo così ore in allegria ed armonia. La lingua che ci univa era l’inglese. Potei notare, e fu una mia riflessione, che le abitudini ed i modi di fare degli europei, proprio perché tali, siano più o meno uguali. Queste affinità ci diedero la sensazione di avere annullato i confini che dividevano i nostri Paesi e trovammo che stavamo bene insieme, che i sentimenti, i desideri, i gusti erano gli stessi per tutti, in quanto uomini appartenenti allo stesso genere umano. In quei giorni noi avevamo fatto, nel nostro piccolo, una “Unione Europea” ante litteram. La sera, tornando a bordo, eravamo tutti felici e soddisfatti.

Il Presidente del Circolo consegna una Targa Ricordo al bravo mandolinista Beppe Visy

Pagina 131 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Tre scene della Ballata di Pino Correnti “La leggenda di Hela e Kirbi”, meglio conosciuta come “U sbarcu di Saracini”. La rappresentazione è stata realizzata il 5 agosto 2005 all’interno del porto turistico “Marina di Riposto” dalla Compagnia Teatrale Ionica con la collaborazione del Gruppo Folcloristico Kallipolis Città di Giarre e di un gruppo di alunne della Scuola Media Statale “L. Pirandello” di Riposto e con la partecipazione straordinaria del cantastorie Luigi Di Pino Pagina 132 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Mario Calabrò

ANTICHI RICORDI

ra l’anno 1943. Avevo ultimato gli studi presso l’Istituto nautico di Catania, Ela guerra era ancora in corso e mieteva distruzioni e vittime. Aspettavo la chiamata alle armi e tale pensiero mi faceva venire i brividi. Non era trascorso neppure un mese che mi giunse la cartolina precetto con la quale mi obbligavano entro cinque giorni a presentarmi al comando Marina di Augusta. Vi giunsi l’ultimo momento, dato che non avevo alcun desiderio di andare in guerra. Là trovai una quindicina di giovani che erano giunti prima di me, tra i quali c’erano alcuni miei compagni di scuola. Ci dettero due gallette ciascuno ed una lattina di carne dal peso di circa 1 Kg da dividere tra noi. Un sottufficiale ci condusse a bordo di una corvetta che si trovava ormeggiata nei pressi della capitaneria e che si chiamava”BAIONETTA”. Brutto nome, pensai. Il sottufficiale, che ci accompagnava, ci condusse a proravia e dopo aver sollevato un boccaporto ci fece scendere giù. Era un locale angusto privo di oblò e illuminato da una sola lampadina appesa al soffitto. Ci gridò di stare calmi e dopo aver chiuso il boccaporto se n’andò. Non c’era alcuna sedia e fummo unanimi nel pensare che saremmo partiti entro poco tempo. Non passò molto che udimmo dei passi sopra di noi e fu aperto il boccaporto. Stavolta fu un ufficiale a farlo e gridando, quasi con rabbia, ci disse di salire in coperta. Aveva un foglio in mano e dopo aver letto i nostri nomi, c’invitò a scendere in panchina. Ci guardò e ci disse, sempre con rabbia, di ritornare alle nostre case nell’attesa di ulteriori ordini. Questa nuova disposizione ci rese gioiosi. Seppi, dopo alcuni mesi, che questa corvetta fu poi affondata dai tedeschi nel porto di Trieste. Giunsi a casa, ma non ero contento perché rimanevo in attesa di successivi ordini. Dopo alcuni mesi mi giunse il congedo illimitato per “esuberanza ai fabbisogni della reggia marina”. D’altronde, su quale nave mi potevano imbarcare se erano quasi tutte affondate? La guerra non risparmiò neppure i piroscafi della marina mercantile Italiana. Si salvarono quelli che si trovavano nei porti stranieri all’atto della dichiarazione di guerra.

Pagina 133 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Il 1944 mi trovò confuso e disorientato a casa. Non potevo starmene ad oziare e dati i tempi occorreva darsi da fare per vivere. Non conoscevo alcun armatore e neppure qualcuno che avrebbe potuto darmi una mano alla ricerca di un eventuale imbarco. Vedevo, però di tanto in tanto, un signore che andava verso il quartiere di Sant’Anna, dove allora esistevano alcuni cantieri navali nei quali si costruivano paranze e pescherecci di legno. Una mattina, vedendolo, lo seguii. Si fermò vicino ad un peschereccio la cui costruzione era quasi ultimata. Ebbi l’occasione di poter scambiare alcune parole e gli feci capire che avrei desiderato fare esperienza di bordo qualora ne avessi avuto la possibilità. Mi rispose che se avessi avuto la pazienza di attendere il varo avrebbe esaudito il mio desiderio. Infatti, mantenne la promessa e m’imbarcò come 2° motorista. Il peschereccio trasportava carrube, pasta, vino ed altro materiale da Catania a Portici. La barca era piccola e così, durante la navigazione, dovetti affrontare tante peripezie. Dopo sei mesi fu egli stesso a sbarcarmi dicendomi che fra qualche mese a Catania sarebbe giunto un vapore grosso il cui capo macchinista era un suo nipote e mi promise che mi avrebbe fatto imbarcare da allievo macchinista. Me n’andai in solluccheri, dato che per me rappresentava l’imbarco su una vera nave. Era il 19 marzo 1945, quando imbarcai, col grado di allievo macchinista in sopranumero, sulla nave “ EDERA” che apparteneva alla flotta Lauro. Non ero mai salito su di una nave così grande, almeno per quel tempo. Ero felice, poiché pensavo ai viaggi che dovevamo intraprendere, e pensavo pure che, col grado conferitomi, avrei fatto una vita con poche tribolazioni. Mi sbagliavo in pieno e subito capii che dovevo esercitare tutti i ruoli tranne quello di allievo ufficiale di macchina. Mancava un alloggio decente per me e fui costretto a vivere a proravia nel locale fuochisti, dove con me alloggiavano sei fuochisti, quattro carbonai, tre ingrassatori, il caporale di macchina e tanti topi che uscivano ogni notte in cerca di cibo. L’imbarco durò nove mesi, sufficienti per poter capire i sacrifici che tutto l’equipaggio doveva sopportare per fare andare avanti la nave. Il personale di bassa forza, all’atto dell’imbarco, doveva portare con sé il materasso ed il bugliolo per attingere l’acqua per potersi lavare. Neppure nelle cabine degli ufficiali c’era l’acqua corrente. C’era un piccolo lavandino, con sotto una latta per raccogliere l’acqua sporca; una volta riempita veniva svuotata in mare. L’acqua si attingeva da una pompa posta in coperta; in caso di cattivo tempo, era impossibile lavarsi, poiché prendere l’acqua era come farsi un bagno con acqua di mare per le ondate. Questo primo imbarco per me fu l’inizio di una carriera piena di sacrifici. Pensai di cambiare mestiere, ma i tempi non lo permettevano. Ci sono momenti nella vita in cui ognuno cerca di capire se il cammino intrapreso è quello desiderato o se è meglio cambiarlo. Ma i tempi erano molto difficili e mi dissi che, purtroppo, bisognava pazientare e sperare che col tempo la situazione migliorasse. Negli anni che seguirono la fine della guerra, gli armatori italiani compravano navi vecchie da proprietari stranieri e, dopo averle portate in Italia e con un ulteriore riassetto,

Pagina 134 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Antichi ricordi Mario Calabrò le mettevano in armamento. Alla gente che imbarcava dicevano di trattarle con cura. “Tutte le ruote debbono girare bene”, dicevano, “e se qualche volta rallentano dovete aiutarle a girare con le mani”. Mi recai a Genova e mi scrissi al turno di collocamento. Dato il gran numero d’iscritti ed il fatto che gli allievi ufficiali non erano tenuti in gran conto, occorreva avere conoscenze per poter imbarcare. Una mattina fu fatta la chiamata di un terzo ufficiale di macchina per la motonave Ravello. Questa nave apparteneva alla flotta Lauro ed era stata trasformata a nave passeggeri. Non avendo risposto nessuno alla chiamata, mi proposi. Mi risposero che ogni chiamata doveva essere fatta tre volte durante la mattinata. Fui fortunato: non essendosi presentato nessuno m’imbarcarono come terzo ufficiale di macchina. Era il 25 maggio 1948. Sbarcai il 15 settembre 1949 per avvicendamento. Rimasi con Lauro e ciò significava che non avrei più tribolato. A quell’imbarco ne seguirono molti altri e giunsi così al massimo grado della carriera. Ero direttore di macchina e per potere mantenere questo grado occorreva lavorare non tanto con il corpo ma col cervello. Le macchine, non ancora perfette, erano soggette alle tante avarie che accadevano durante la navigazione e che bisognava riparare. L’ultimo imbarco con la flotta Lauro avvenne il 24 settembre 1957 su una nave chiamata SPORTIVO. Era una vecchia petroliera inglese che Lauro aveva trasformato per il trasporto di carichi secchi. Facemmo tanti viaggi per il Venezuela e generalmente trasportavamo tubi per gli impianti petroliferi. Sbarcai a Genova il 2 agosto 1958 perché ero molto stanco. Questo sbarco non piacque all’armatore il quale mi disse che se non avessi fatto un altro viaggio l’imbarco successivo mi avrebbe mandato sulla nave LUCRINO. La nave in questione, durante la guerra, aveva preso una mina di sotto il locale macchina e non essendo affondata era stata rimorchiata nel porto di Cagliari. Alla fine della guerra le era stato impiantato un motore poco potente che sviluppava una velocità molto ridotta. Percepii la proposta come un vero e proprio ricatto e non accettai. Durante questa conversazione era presente l’ingegnere capo del compartimento di Genova. Costui era un uomo di rispetto ed essendo in buoni rapporti con lui mi invitò a recarmi nel suo ufficio per comunicazioni prima della mia partenza per casa. La notizia che mi diede era senz’altro piacevole: «Adesso tu andrai a casa, poiché ci vorrà ancora del tempo prima dell’arrivo della nave. Tu imbarcherai sulla nave FRANCESCO CRISPI che è stata costruita tre anni fa. La motivazione di questo imbarco la conoscerai quando giungerai a Napoli». Ma la mia gioia durò poco: «La nave è di mio zio Angelo Scinicariello». Non appena pronunziò questo nome, tutti gli oggetti che si trovavano in quella stanza si misero a girare dinnanzi ai miei occhi. Avevo sentito parlare, infatti, della dubbia fama di tale armatore. Mi venne il desiderio di fuggire dalla stanza. Egli capì il mio stato d’animo e, con un sorrisetto beffardo, mi tranquillizzò dicendomi «Non dare ascolto alle dicerie della gente, vedrai che ti troverai bene». Quelle parole mi tranquillizzarono un po’, ma ero

Pagina 135 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° assai confuso, mi sembrava di essere incappato in una tela di ragno. Giunsi a casa e dopo qualche tempo arrivò anche la sua lettera. L’indirizzo era scritto a mano, la lettera a macchina. La scrittura era colore violetto; i tasti delle lettere “R” ed “E”, essendo logore e non toccando bene il nastro, rimanevano un po’ sbiadite. Come ho saputo in seguito, la macchina era una vecchia REMINGTON inglese, che egli si era portata dall’Inghilterra, ove risiedeva per lunghi periodi di tempo. Giunsi a Napoli alle sei del mattino. La città non si era ancora svegliata e rimasi per qualche ora in stazione. Faceva caldo e come sempre, tutte le volte che dovevo imbarcare, brividi di freddo mi facevano star male. Uscii dalla stazione e presi un taxi. Dissi al taxista di portarmi in Via Depretis senza fare il nome di Scinicariello. Giunti nei pressi feci fermare il taxi e scesi. L’insegna della compagnia non esisteva. Chiesi allora ad un passante, ma costui mi guardò per alcuni istanti e se ne andò senza rispondermi. Aspettai ancora e vidi alcune persone che si erano fermate dietro un grande portone. Dal portamento e dai loro bagagli sembravano marittimi, così decisi di avvicinarmi. Non mi ero sbagliato ed entrai, al primo piano davanti ad una porta c’era un uomo un po’ avanti negli anni che ci stava aspettando. Si rivolse a me e salutandomi disse che l’armatore non era ancora venuto. Mi fece accomodare in un salottino, mentre invitò gli altri ad attendere fuori. L’armatore giunse alle otto e trenta. Era un ometto sorridente e dalla lucentezza degli occhi capii che doveva essere molto intelligente, mi scrutò alcuni istanti e sentii il suo sguardo penetrare in me. «Figliolo», mi disse, «so tutto di te, dalla lettera inviatami da mio nipote. Ti dirò ogni cosa dopo aver sistemato quella gente che c’è fuori». Il portinaio li fece entrare ad uno ad uno e si presentarono con il libretto di navigazione in mano. Mentre leggeva i dati sul libretto di ognuno alzava gli occhi verso il soffitto bisbigliando delle parole. Io non capivo perché lo facesse, poi seppi che controllava solamente le date d’imbarco e di sbarco. I periodi di navigazione degli imbarchi dovevano essere superiori ai dodici mesi, altrimenti l’interessato non veniva imbarcato. Quando ebbe finito si rivolse a me con un sorrisetto e mi disse: «Figliolo io mi trovo in una situazione ingarbugliata e sono sicuro che tu saprai tirare fuori il bandolo di questa matassa». Le sue parole suonavano dolci e ne fui attratto fortemente. «Quando questa nave è stata varata, alle prove di macchina, ha sviluppato la velocità di 17 nodi. Non capisco come mai siano stati sufficienti 3 anni a farla ridurre a 14 miglia. Non troverai il Direttore di macchina a bordo, poiché è andato in pensione. Dato che la nave è diretta in Cina, avrai il tempo sufficiente per studiare ogni cosa. Quando avrai risolto il problema, mi dovrai avvertire tempestivamente, poiché nel contratto d’affitto alla Società Costa risulta che la nave dovrebbe sviluppare 16 miglia orari». Io ascoltavo allibito tali parole e stentavo a credere come mai fosse tanto sicuro che io avrei potuto risolvere il problema non essendo a conoscenza delle condizioni

Pagina 136 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Antichi ricordi Mario Calabrò dell’impianto. Gli risposi che avrei fatto del mio meglio per poter soddisfare il suo desiderio. La nave si trovava nel porto di Venezia. Mi sembra opportuno descrivere ancor prima del viaggio a Venezia la composizione strutturale della Società di navigazione. 1) L’Armatore Angelo Scinicariello si interessava dei contratti di noleggio. Questi erano scritti in lingua inglese e venivano da lui tradotti in lingua italiana nei minimi particolari, per aiutare i comandanti che non conoscevano la lingua Inglese. 2 ) Don Ciccio Lauro era Suo cognato ed aveva la mansione di annotare su di un registro, che non era altro che un quaderno come quello che usano i ragazzi delle elementari, ogni cosa che ordinava l’Armatore. 3) Carminello, oltre ad essere il portinaio, svolgeva tutte le pratiche necessarie agli imbarchi e sbarchi del personale navigante. Tali mansioni in una Società di navigazione vengono sbrigate dal Capitano di armamento. 4) C’era poi un giovane, di cui non ricordo il nome, che s’interessava della contabilità. Era laureato in economia e commercio ed essendo impiegato a mezzo stipendio lavorava dalle ore 13 sino alla chiusura dell’ufficio che comunemente avveniva molto tardi. Giunsi a Venezia con mille pensieri che mi frullavano per la testa. Era pomeriggio e non si lavorava. Allora, la giornata lavorativa finiva alle ore 17.00. Giunsi al porto. Lo scafo di tale nave si presentò ottimo e degno di essere ammirato, ma l’impianto lasciava a desiderare. Di motonave c’era solamente il motore principale ed un piccolo motore a nafta che veniva messo in funzione solo nei porti e forniva la corrente elettrica necessaria alla nave. Tutto il resto era a vapore, compreso i verricelli per la discarica. Il motore principale era un DOXFORD ad iniezione pneumatica di fattura inglese. Penso che questo tipo di motore non esiste più. Il motore principale era composto di 6 cilindri, in ognuno dei quali scorrevano 2 stantuffi a senso alternato. La parte più importante del motore consisteva in due assi a camme montati uno sul lato sinistro e l’altro su quello destro e ruotavano su 24 cuscinetti lubrificati a grasso. Questi cuscinetti, per dimenticanza o per negligenza del personale, venivano lubrificati poco e male. Per tale motivo ne conseguì un consumo eccessivo di tutte le ralle inferiori che abbassando gli assi a camme riducevano il tempo d’apertura alle valvole della nafta che doveva andare ai cilindri. In Cina, avendo molto tempo a disposizione, invertii la posizione delle ralle mettendo le parti superiori buone sotto, le parti inferiori consumate sopra. Il risultato fu soddisfacente e permise al motore di raggiungere il numero normale dei giri. Comunicai il buon esito all’armatore il quale mi rispose con una lettera di encomio. Da quel momento entrai nelle sue grazie. Dopo questo imbarco ne feci altri sulle sue navi e mentre mi trovavo sulla motonave Antonio mi giunse

Pagina 137 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° la notizia della sua morte che mi provocò grande dispiacere. Le navi passarono ad un altro armatore con mio rammarico e disappunto. Però le condizioni di vita migliorarono, essendo subentrate navi di nuova costruzione. Io decisi di completare la mia carriera nell’anno 1980.

Il dott. Giuseppe Zappalà, Amm. delegato della società “Marina di Riposto” consegna i riconoscimenti a Mario Calabrò per il racconto “Antichi ricordi” (sopra) e a Vincenzo Marzullo per il racconto“Pratica mancata” (sotto). Legge le motivazioni la segretaria del Premio dott.ssa Betty Denaro

Pagina 138 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Vincenzo Marzullo

“PRATICA” MANCATA

a tre giorni il primo cuoco era in cuccetta per atroci dolori addominali. Il Dprimo ufficiale, nonché medico di bordo per l’occasione, spulciò il “first aid” in cerca di qualche rimedio. Le solite pillole dopo i pasti e però il dolore non accennava a diminuire. Al tramonto il comandante si recò a far visita al Giovanni che si torceva per il dolore come un’anguilla presa per la coda. Algeri, sulla dritta, era già tutta illuminata e quasi sottobordo come potersi toccare con mano. Le luci del faro, serpeggiando sul mare a specchio, venivano a frangersi sulla murata. Il Giovanni, sempre sotto tormento, pregò il comandante di virare per Algeri perché lui a Port Said, ancora a due giorni, ci sarebbe arrivato, ma non vivo bensì cadavere. Il Com.te gli diede coraggio, dicendogli di non essere pessimista che ce l’avrebbe fatta e che non conveniva accostare ad Algeri perché si doveva fare “la pratica”, operazione lunga e costosa e che, in fondo, da Port Said avrebbe avuto più passaggi per rientrare in Sicilia, sua residenza. Alle cinque del giorno dopo, il nocchiero dà la sveglia al secondo cuoco e fa per mettere sotto coperta il braccio sporto di Giovanni quando, con terrore, avverte che l’arto è freddo marmato. Il primo cuoco era bell’e morto. Non ce l’aveva fatta! La notizia si diffuse all’istante ed un profondo dolore costernò tutta la gente. Arrivò anche il comandante. In apparenza costernato, si limitò a qualche frase di circostanza ed ordinò una bara al maestro d’ascia. Tutto sommato, era rammaricato con se stesso, forse più per non aver previsto il peggio che per la perdita di un uomo padre di cinque figli. A poppa venne issata la bandiera a mezz’asta in segno di lutto. Ci incrociarono tre navi nella mattinata bruma e nuvolosa e tutte e tre issarono la bandiera a mezz’asta con tre fischi in segno di partecipazione al lutto. C’era di che commuoversi, e come! Il corpo del povero Giovanni, presenti tutti, venne riposto nella bara e poi chiuso nel frigorifero, sezione Siberia. Seguì un intenso via vai di marconigramma tra la nave e la Compagnia. Infine, da New York arrivò il consenso per accostare nel porto di Siracusa a deporre la salma del povero Giovanni.

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L’indomani mattina verso le otto si dava fondo nella baia di Archimede. Seguirono le dolorose operazioni di trasferimento accompagnate dallo straziante dolore della vedova, dei cinque figli e dei parenti arrivati sotto bordo alla scala reale, in strettissimo lutto. E così l’allegro, gioviale, generoso amico di tutti finì i suoi cinquant’anni sul mare in una fredda cabina d’acciaio, su nave battente bandiera straniera, lontano dagli affetti più cari, e forse per un atto di sconcertante ipocrisia. Tutto in tutto. Al dolore dell’amico scomparso, ironia del genere umano, presto subentrò l’allegria della gente che, per l’occasione, fece arrivare mogli e figli, estranei ed indifferenti tutti al dramma del mare. Giorni dopo arrivò la triste diagnosi: il Giovanni era stato colpito da un’appendicite perforante. Forse non si sarebbe salvato neppure se il comandante avesse accostato ad Algeri per un pronto intervento, ma il diavolo, come si dice, ci vuole mettere sempre la coda, perché per le tristi esequie il temuto tempo “perduto” per il comando diventò più che triplicato.

TRISTE DOPPIAGGIO

enerdì, 17 Marzo 1958. Stretto di Drake, Capo Horn, ore 02.00. Una Vnottataccia. Era come se arrivasse dal profondo degli abissi. Un terrificante urlo di morte, di disperazione, invocante, lacerante pervase tutta la nave. Sorpresa nel sonno la gente rimase inchiodata nelle cuccette come pietrificata da quella forma d’energia misteriosa, straziante. Durò appena trenta secondi; terrorizzò tutto l’equipaggio. Entrò con un’insaccata di vento e salmastro, di poppa, attraversò il ponte di coperta, si divise per tutti i carruggi, poi passò per il ponte lancia, quindi a quello di comando per dissolversi al belvedere. La mattina, verso le ore otto, il comandante chiamò a rapporto lo stato maggiore. Il secondo ufficiale si limitò a riferire che alla seconda quarta aveva sentito provenire da poppa un urlo strano ed assordante. Essendo visibilità zero, sia per le raffiche che per essere notte fonda, non aveva potuto individuare la strana causa di quel fenomeno, confermando altresì per la sua guardia il timoniere e le due vedette. Nel giornale di bordo aveva riportato: «Alle ore 02.00 abbiamo urtato (urtato) di prua un corpo non identificato, forse animato, accompagnato da strani segni provenienti da poppa. Allertate le vedette».

Pagina 140 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Triste doppiaggio Vincenzo Marzullo

Gli altri ufficiali di coperta, il primo ed il terzo, confermarono lo strano urlo ma non l’urto, non estrapolabile, secondo loro, dai colpi di mare; inoltre, essendo in cuccetta, avevano, come intuibile, recepito una sensazione trasposta. Ultimo l’R.T., il Radiotelegrafista. Abulico come abituale, il sig. Fink, quasi sillabando, dettò: «Per turno, secondo meridiano, sono stato in ascolto per tutta la notte, non ho captato alcun S.O.S., tranne due rilanci, un marcone da nave a nave per la “MAK0 MARU” a 350 miglia ad Est ed uno per la “Lord Calvert” in difficoltà a largo di Cape Town per avaria al timone. Ero sobrio, ho sentito lo strano urlo e non sono riuscito ad identificarlo». Il rapporto si chiuse così, in termini vaghi e ciascuno tenne in pectore la propria soluzione riservata in contrasto, tutte, con quella sarcastica del comandante. Secondo lui il mistero era da ricercare semplicemente in un guasto alla sirena di bordo che, per questo, aveva emesso quei fischi (lamenti) misteriosi, nient’altro che un’avaria alla sirena, il vento e la tormenta avevano completato “il mistero”. Anche qui il buon senso del sig. Septimius aveva risolto a favore di una soluzione tecnica accettabile, tenuto conto della depressione e dell’angoscia che aveva visto trasparire dai volti della gente, incline, da sempre, a propendere per l’inspiegabile, per le forze soprannatura1i, stante la desolazione della costa in cui si navigava. A colazione, nel quartiere di poppa, la chiacchiera della “bassa forza” accettava sì la tesi del comandante, ma non rinunciava all’alternativa personale. Il nocchiero, Adamo, ricordava quanto gli aveva riferito suo nonno, vecchio nostromo, sul doppiaggio dei Capi infestati dalle anime di tutti quelli morti annegati ed imploranti sepolture alle navi in transito. Secondo il nostromo avevano incocciato uno stormo di uccelli giganti e mai visti prima e se non c’era traccia in coperta era perché il mare li aveva spazzati. La maggior parte era convinta che avevano preso di prua un grosso banco di balene bianche, perché era proprio la stagione del passo dal Pacifico all’Atlantico. Ma la versione che ghiacciò a tutti il sangue nelle vene la diede il mozzo di cucina: tre notti prima era morto annegato, suicida, il vecchio maestro d’ascia. «Minchiate!», sbotto il nostromo, «il vecchio Gobbo l’abbiamo lasciato a terra a Buenos Aires per fine carriera». «Avrebbe dovuto», riprese il mozzo, «ma, di fatto, era rientrato a bordo di notte ed era vissuto come un fantasma, saputo che la nave avrebbe doppiato il Capo là dove anni prima era annegato suo padre. E voleva finire, ormai solo al mondo e pieno di acciacchi, là dove era finito suo padre». Disse pure che più volte, di notte, finito il turno, l’aveva intravisto in ombra aggirarsi per la cucina in cerca di cibo che egli regolarmente gli lasciava e che altrettanto regolarmente non trovava la mattina dopo. E così terminò la strana versione del mozzo, lasciando tutti a bocca aperta in un silenzio funereo, quasi di oltre tomba.

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Momento moda dell’Atelier “Lady Grazia” e la consegna della Targa ricordo ai titolari Grazia Crimi e Gaetano Camarda da parte del Presidente del Circolo Pagina 142 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

SEZIONE NARRATIVA 2005 - XI edizione

1° premio – Domenico Di Martino – “L’attesa” «La magia, il fascino, lo spleen dell’attesa, che percorre come una vena pulsante la pagina scritta; la sua capacità di prefigurazione e trasfigurazione; il suo potere di penetrare le cose, facendole vibrare di luce nascosta, in assonanza con le emozioni di chi attende, conferendo alla vita prospettiva e significato… Tutto questo in un racconto di grande suggestione, intriso di tenerezza e nostalgia. Ha una vita vera l’uomo, una vita fatta di una casa, una famiglia, un lavoro. Ma è la sua vita interiore, l’amore che lo permea., il desiderio continuo del contatto col mare, che riesce a dare davvero un senso al suo vivere, a dare prospettiva e significato a ciò che lo circonda, rappresentando il filo di una continuità indissolubile tra generazioni. Ci vuole talento per scrivere delle cose quotidiane riscoprendovi contenuti nuovi, restituendole alla loro primordiale bellezza, attraverso l’uso sapiente di metafore di straordinaria suggestione; in questo talento si nasconde l’eterno inganno della mente umana, che pur sapendo che “nessuno ci ridarà la luce che illuminò i nostri passi”, continua a cercare nella scrittura la chimera della salvezza dall’oblio».

2° premio – Amabilia Di Blasio – “Il pittore di Capoiale” «Un racconto “decentrato”, il cui titolo trae in inganno, inducendoci a cercare, tra le viuzze del paese dense di effluvi, la figura del pittore del mare, protagonista presunto della storia ma in realtà solo ombra, proiezione, pretesto o presagio. E mentre noi ancora aspettiamo, vittime di una sorta di trompe-l’oeil letterario, di incontrare il pittore, con sorpresa ci accorgiamo che la storia vera è un’altra, e ci scopriamo immersi nello strano, paradossale viaggio catartico di una donna che, dietro la facciata di un’esistenza ben costruita, scopre un io irrisolto, segnato da un antico addio. Grande è la magia delle parole, usate ad arte e forgiate con sapienza. E, come questa donna, anche noi ci ritroviamo a pensare che davvero, quando non si riesce ad andare avanti, bisogna tornare indietro, ritrovare origini e radici, aggrapparsi alla scala a pioli dei ricordi, da risalire lentamente, seppure stanchi e doloranti, fino a scoprire, oltre l’ultimo orizzonte, una nuova terra promessa».

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3° premio – Francesco Persili – “Il mare di Ellen” «Elogio della sfida, osanna al coraggio, alleluia al rischio, eterno grazie alla perseveranza e alla forza d’animo…Il ritmo sostenuto della narrazione, con i suoi periodi incalzanti, veloci, che procedono per sequenze, stacchi, dissolvenze, fotogrammi, riesce via via a delineare davanti ai nostri occhi una figura unica di donna: Ellen MacArthur, velista di fama mondiale. Ma allora – ci chiediamo - perché la parola “marinaio” non conosce il femminile?».

Menzioni

Vincenzo Galvagno – “Il corallaro” «Per la complessità strutturale, l’intima coerenza e la forza evocativa del racconto, che sulla scia di un apparente viaggio di svago ci rivela i tratti esotici e dolenti di una Trapani nascosta, lontana dagli itinerari consueti di turisti superficiali e distratti».

Angelo Maria Trovato – “Il gioco della vita” «Per lo stridente contrasto tra la sofferta evocazione delle tragedie del mare e la realtà amara degli sfregi che quotidianamente l’uomo infligge alla natura».

Il premio “Città di Riposto 2005” - 24^ edizione - è stato conferito al Cav. Pino Correnti. Consegna la targa d’argento e la medaglia d’oro il sindaco on. le Carmelo D’Urso

Pagina 144 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Domenico Di Martino

L’ATTESA

a una vita vera l’uomo. Una vita normale, forse anche banale... così gli capita Hdi pensare, a volte quando l’aurora stende i suoi tenui veli color indaco all’orizzonte, la prua punta quel fioco chiarore che nasce ad est appena fuori dal porto, e seduto a poppa si gode il canto antico del motore che alle sue spalle borbotta sicuro ingravidando l’acqua ferma d’una scia argentea. Ma in fondo quella è la sua vita, la vita che ha scelto, la vita che ha costruito con le sue mani giorno dopo giorno e allora l’uomo assapora la sua fortuna, mentre segue la lenza affondare nel cuore blu del mare, carica delle sue speranze e il primo sole del giorno incendia le piccole onde di bonaccia trasfigurando i contorni delle altre barche in pesca, danzanti nel blu come uno sciame di variopinte farfalle. In fondo laggiù sulla costa lontana, c’è la sua casa, c’è la sua famiglia ad aspettarlo e quel succedersi di giorni fatto di cose semplici ma sapide come un piatto di spaghetti al pomodoro in un mezzogiorno d’estate. Lo sa l’uomo, ora che il piombo tocca il fondo 200 braccia sotto di lui e ha inizio l’attesa e la caccia. Lo sa perfettamente che la vita non è sempre accucciata al suo fianco come un cane fedele, ma a volte digrigna i denti e tutto diventa maledettamente complicato. Lo sa, mentre quel filo “magico” sonnecchia indolente tra le sue dita, che una muta di problemi è pronta ad azzannare la sua gioia di vivere, spegnendo spesso i suoi sorrisi. Uno sguardo fugace alle “mire” a terra, quegli arcani segnali: un albero, una casa, un monte. Preziosi tesori d’esperienza che si tramandano di pescatore in pescatore in infinite chiacchierate sulla spiaggia. L’allineamento è perfetto e c’è anche buona rema, ma allora perché la lenza tace??? Queste domande volteggiano per la mente dell’uomo stemperandosi nel silenzio perfetto dell’alto mare appena interrotto dal guizzo festoso di qualche pesce che banchetta con la mangianza. Eppure quello scoglio sperduto negli abissi non lo ha mai tradito... L’attesa monta, ma dall’immensità di cobalto, nessun indizio arriva a confortare l’uomo che ora scuote la testa... Forse oggi è giornata storta. Ma poi dalle profondità erompe il momento magico, la lenza diventa oracolo tremolante e i suoi responsi sono torrenti di adrenalina che corrono impetuosi nelle vene. In fondo anche se a volte il senso di questa corsa diventa indecifrabile

Pagina 145 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° e nebuloso, l’uomo ha tirato su una famiglia e in fondo alla stradina ombrosa ha una casa linda dove far ritorno dopo il lavoro e dove una moglie lo aspetta, magari brontolando perché si sente trascurata in favore del mare e gli rimprovera sempre che tutti i loro momenti liberi vengono ingoiati dal demone della pesca. Ma in fondo quella donna continua a preparargli da mangiare ormai da più di vent’anni, è una buona madre per i suoi figli, è rimasta sempre al suo fianco nella buona ventura e nelle avversità, ed ha sempre uno sguardo dolce per ogni suo ritorno, cosicché è naturale che ora un nome di donna dia nome alla barca. Anna si chiama che quel miracolo di legno e passione, e ha lo stesso nome dell’amore. Le bracciate si succedono ora frenetiche, l’una dopo l’altra, ognuna come una preghiera innalzata al dio delle emozioni, la lenza attorciglia docile le sue spire sul tavolato della barca, ogni metro è un sollievo per l’uomo che adesso sente battere il cuore della preda e abbandona il suo sangue all’abbraccio ferino dell’istinto. Il rito raggiunge il culmine e mentre implora il nume della pesca perché trattenga l’animale che ha abboccato alle sue esche, ecco che nei pensieri dell’uomo si schiude il volto di quella bambina che con fierezza prende sotto braccio in piazza di domenica dopo la messa. Presto sarà una bellissima donna del paese e i giovanotti le faranno il filo; il suo cuore di padre si scioglie allora in un lago di sensazioni dolcissime e contrastanti: deve ancora abituarsi all’idea che la sua bimba sta diventando grande e ogni giorno sboccia un po’. Ma anche i suoi due ragazzi sorridono nei pensieri dell’uomo, mentre la fatica intorpidisce le braccia e dal profondo arrivano strattoni disperati e confortanti. Pesce non te ne andare! Ho fatto l’alba e tanta strada per questo incontro... Pesce rimani lì ben allamato all’esca che ti ho preparato, ormai manca poco. Rimani lì... non te ne andare. Sono questi i pensieri elementari che attraversano la mente dell’uomo, mentre ripassa a memoria tutti i nodi della sua lenza confidando nella perizia trasmessagli dagli antichi... Manca poco ormai e allora l’uomo sente la vita schiudere le sue imposte e lasciare che vi penetri la luce. In fondo anche se il rapporto con i suoi figli a volte, è burrascoso come un giorno di marzo, egli ama i suoi cuccioli più della sua stessa carne e sente che al di là degli atteggiamenti scontrosi anche i figli ricambiano quello stesso amore. Anche se le parole a volte sono affilate e creano distanze; anche se l’orgoglio spesso innalza muri di silenzi e incomprensioni l’uomo darebbe la vita per un sorriso delle sue creature, senza pensarci un solo istante. Sorride in silenzio l’uomo adesso che la corsa è finita e tre belle mupe rosate danzano leggiadre nel grande secchio blu. Oggi la giornata è iniziata bene; una mano asciuga il sudore, gli occhi accesi scrutano l’orizzonte colmi di soddisfazione. Giusto due colpi di remi per farsi di nuovo sul segnale. È già tempo di un’altra cala. Ma le permanenze nelle regioni delle emozioni, purtroppo, conoscono i morsi del tempo. Il sole è già alto. È ora di tornare a casa. Lui ha sempre pensato che i minuti

Pagina 146 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania L’attesa Domenico Di Martino che lo riportano nel mondo degli umani abbiano un sapore particolare ed ogni volta egli si nutre di quegli attimi assaporandone l’essenza agrodolce. La barca scivola sull’acqua rumoreggiando pigramente; le case si avvicinano con i loro volti noti ad uno ad uno, le braccia del porto si aprono famigliari e il paese sdraiato ai piedi dell’immensa montagna sonnecchia nell’ora del mezzogiorno, mentre i rintocchi della matrice corrono nell’aria immota allegri e rumorosi come una scolaresca al suono della campanella. Oggi è andata bene. C’è da raccontare agli amici che certamente gli chiederanno l’esito della mattinata. Così l’uomo prepara le alchimie di parole da propinare agli altri pescatori, quando all’approdo lo interrogheranno maliziosamente per sapere se a lui i pesci hanno detto di sì. Con raffinate perifrasi e sapienti giochi di sguardi dovrà rendere la sua soddisfazione, ma senza eccedere nei particolari trionfalistici. I pescatori sono una razza subdola e lui lo sa bene; potrebbero “occhiare” la sua barca, convogliare su di essa un qualche fluido negativo con il quale seccare l’abbondanza delle sue uscite, oppure potrebbero seguirlo e con lasciva adulazione soffiargli il punto, quel segnale che in pochi conoscono davvero, che lui ha imparato da suo padre e ora custodisce come una sacra reliquia. Già la superstizione...non è mai stato un uomo scaramantico, non ha mai creduto all’occulto, eppure quando va a mare non riesce a far a meno di certi rituali, a tutti quegli accorgimenti che garantiscano al suo guscio di noce il favore della sorte. Uno sguardo all’immaginetta di San Pietro, patrono del suo boccaporto, un pensiero riconoscente al protettore celeste, possono essere ottimi amuleti contro le maldicenze di chi per ore ha sondato vanamente le onde ricevendone solo responsi negativi. Ma l’uomo sa già che quando toccherà la sabbia dello scaro non saprà resistere alla tentazione di mostrarsi orgoglioso e anzi in quel reticolato di mezze parole e ammiccamenti con cui soddisferà la curiosità non proprio innocente dei vicini di barca, trae il gusto del suo andare per mare. Dirà loro quanto basta, si schernirà ed ammiccherà ad arte, ma per nessun motivo aprirà il coperchio del grande secchio blu. Mai un vero pescatore si abbandonerebbe ad un gesto tanto plateale. Mettere gli altri al cospetto della propria fortuna potrebbe avere infatti effetti deleteri. Ma al di là di queste strategie oggi il suo carniere di emozioni è ricolmo e gli occhi traboccano di colori. In fondo i pesci guizzano ancora nel secchio e tra poco si immoleranno sulla carbonella perché sia eterna gloria al dio dei sapori mediterranei. Così pregusta già il momento in cui il profumo di pesce fresco lieviterà sapido sulle tegole del paese cotte dal sole di tante estati. Ed è proprio il miraggio di gustose ricompense a rendere meno malinconico il ritorno sulla terra ferma. La fatica adesso è sua compagna. Chissà, si chiede, perché all’alba, quando la giornata di pesca sta per iniziare, gli attrezzi sembrano non aver consistenza e anzi pare che abbiano fretta di salire sulla barca, mentre al ritorno sulla spiaggia, quando il rito è concluso, tutto diventa così pesante e anche il semplice condurre il

Pagina 147 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° motore fino al furgoncino parcheggiato sotto le generose fronde del fico selvatico, diventa impresa ardua, da guardare con diffidenza. Forse è il mare a reclamare il suo pedaggio. Non lo si può abbandonare a cuor leggero, non si può spezzare l’incanto senza soffrire un po’. Non importa l’entità del bottino, non importa se la giornata è stata buona o se le onde si sono rivelate avare, il mare esige l’anima del pescatore, sa che gli appartiene indissolubilmente e allora il momento del distacco è sempre traumatico. Non è mai piacevole lasciarsi il blu alle spalle. Queste idee attraversano la mente dell’uomo, mentre il sudore gli riga la fronte e le sue mani odorano ancora di esca. Un ultimo sguardo alla barca, quasi una carezza con gli occhi e poi è tempo di rientrare nella dimensione dei mortali. Per una lunga settimana, lo sciabordio delle piccole onde continuerà incessante a lambire i pensieri; sarà croce e delizia; sarà ansia di ritornare e nostalgia tagliente; sarà una speranza, un’oasi di libertà cui indirizzare la carovana della sua vita. Eccola di nuovo la sua vita. Normale, puntellata di consuetudini, arricchita e variegata dall’affetto dei suoi cari, condizionata dal suo lavoro. Magari non sarà il massimo la sua attività di operaio specializzato, ma è quella che gli ha permesso di mettere radici sulla terra ferma, dopo gli anni passati a navigare sugli oceani di tutto il mondo. A volte, quando il furgoncino percorre il lungomare, ripensa ai tempi dell’Istituto Nautico, quei giorni in cui dalle finestre della vecchia scuola che si affaccia sul mare, poteva perdere il suo sguardo nell’immensità stesa dietro il porto. Quanti sogni custodiva quell’infinito campo di onde, quante speranze d’una vita avventurosa da vivere sulle navi alla scoperta del mondo. Il mare per professione era questo il desiderio di quel ragazzo che frequentava l’Istituto Nautico di mattina e nel pomeriggio si adoperava a fare i lavori più vari per racimolare qualche lira da spendere poi con gli amici inseguendo improbabili e rocambolesche avventure galanti in giro per i paesi limitrofi. Per lui che era nato nel cuore del borgo, in una di quelle strade che corrono in picchiata verso la spiaggia di sabbia nera, il mare non poteva che essere il passato, il presente e soprattutto l’avvenire. Aveva preso coscienza della salsedine che impregnava le sue vene in certe notti di pesca alla Secca, notti che non hanno mai smesso di dondolare nei suoi ricordi con lo stesso ritmo suadente delle lampare di allora, abbandonate alle bizze della corrente, come fiori accesi nell’oscurità. In quei momenti mentre i sauri facevano impazzire i vecchi pescatori con le loro imponderabili strategie, suo padre, uno che sulla barca c’era praticamente nato gli ripeteva che per lui il mare avrebbe dovuto essere il pane sicuro, il futuro certo e non un mestiere difficile, duro e imprevedibile come quello che gli aveva spezzato la schiena e tagliato le mani. Lui avrebbe dovuto studiare per diventare ufficiale, per affrancarsi da quella perenne incertezza in cui si dibattono i pescatori di lenza. Sempre con l’occhio vigile ai capricci degli elementi, sempre attenti ai tagli della rema che possono seccare il mare e vanificare un’intera notte di fatica. No! Per lui doveva esserci un altro futuro! Ecco perché suo padre

Pagina 148 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania L’attesa Domenico Di Martino lo aveva mandato alla Scuola Nautica a prezzo di infiniti sacrifici. Mille nottate a sauri là fuori alla secca era costato quel diploma, milioni di cale nell’acqua nera di buio, milioni di gocce di sudore nelle infinite mattine d’estate quando la bonaccia trasforma le onde in un deserto blu e i pesci si nascondono negli abissi a godersi la frescura infischiandosene delle esche. Era stato riscattato con la fatica quel pezzo di carta, ma alla fine era arrivato e gli era valso un buon imbarco, perché la scuola nautica del suo paese era una garanzia di affidabilità per le varie compagnie di navigazione e in quegli anni si faceva a gara per aggiudicarsi i servizi degli allievi provenienti da quel luminoso angolo di Sicilia, da sempre patria di valenti uomini di mare. Ancora oggi, dopo tanto tempo, in certe sere di primavera quando l’uomo si affaccia in balcone per inebriarsi di tutti i profumi che può contenere una notte dell’isola, c’è una fragranza che torna insistentemente a fargli visita, un’essenza che non è mai riuscito a dimenticare nonostante gli anni si stano accumulati sulle vicende come strati di foglie morte. Quel profumo è l’odore lindo di saponetta che suo padre portava addosso, sotto la camicia bianca, quel giorno alla stazione in cui tutta la famiglia venne a salutarlo. Lui, il ragazzino, stava per partire per il primo imbarco, doveva raggiungere la nave a Genova e tutti, compresa la vecchia nonna che ormai usciva solo per le grandi occasioni, erano assiepati sui binari per accompagnarlo. Il fischio del treno... i baci della mamma, e l’abbraccio di suo padre, quell’uomo piccolo, dalla pelle bruciata dal sole; quell’uomo austero che m vita sua non aveva mai visto piangere, quel giorno aveva gli occhi gonfi di lacrime. Ma con fatica immane riuscì a sopprimere la commozione, strinse a se il figlio e gli consegnò di nascosto da tutti una banconota da cinquemila lire. Non disse una sola parola, ma nel suo sguardo quel ragazzine, trent’anni fa, aveva cominciato a capire cosa significhi essere padre. L’immagine di quegli occhi rigati di pianto non he mai abbandonato l’orizzonte di quel giovane che poco alla volta è riuscito a colonizzare la vita che il destino aveva scritto per lui. Sono rimasti scolpiti nei suoi ricordi più cari e a quegli occhi spesso egli si rivolge quando la vita si complica, quando il suo mestiere di genitore diventa dannatamente difficile e non riesce a trovare le risposte giuste a tutti i perché che ruzzolano nei suoi giorni. Sono il suo santuario, l’icona preziosa di una lezione che non ha mai dimenticato, l’altare intimo dove accendere candele ai suoi lari, soprattutto ora che il padre ha finito di camminargli accanto e riposa sereno nel piccolo cimitero a due passi dal mare. Già i ricordi... i ricordi sono come i relitti di un naufragio... fluttuano nella memoria... ciascuno col suo carico di odori e colori sbiaditi e ognuno con il suo tagliente fagotto di rimpianti e nostalgie. Spesso i mortali ci illudiamo che questi fatui simulacri ci aiutino a vivere meglio, pensiamo stoltamente che tra le pieghe del vissuto si nascondano miracolose pozioni capaci di renderci ciò che è stato; ma la nostra è una tragica illusione! I ricordi esistono per predicarci del tempo perduto, per ribadirci senza pietà che la cera continua a sciogliersi inesorabile e nessuno mai

Pagina 149 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° ci restituirà la luce che ha già illuminato i nostri passi nel mondo. Ma il mare non si accontenta dei ricordi. Il mare esige il presente dei suoi adepti. Quell’infinita mano blu che cinge l’isola esercita un richiamo ancestrale sugli uomini che ne subiscono la malia. Il suo canto non ammette reticenze ed è più armonioso di quello delle incantevoli sirene che di notte i vecchi pescatori giurano di sentire fuori del porto, al largo del paese, in quel punto ormai leggendario ribattezzato non a caso “p’a signura”. A nulla vale distrarsi o cercare di sfuggire: il mare raggiunge chi gli ha consegnato il cuore; suadente scivola nelle ore lambendo il tempo dei suoi innamorati quasi fosse la sabbia nera delle nostre spiagge che in certe mattine di buon tempo accarezza mille e mille volte con le sue mani di piccole onde fino a renderla lucida e invitante. Il mare conosce l’arte sottile dell’attesa, sa aspettare, consapevole che presto o tardi l’innamorato verrà a tributargli omaggio. Ecco perché anche nei lunghi giorni che lo separano dalle sue albe, quelli lavorativi, l’uomo non può rinunciare al contatto con il suo elemento naturale. Durante la settimana il mare è un muro vivo di color turchese che si staglia in fondo alle stradine che corrono verso la marina. Gli occhi sanno sempre dove cercare quel drappo blu che garrisce oltre la diga del porto come un vessillo di libertà, così tra una commissione e l’altra, sempre al volante del fido furgoncino, il suo sguardo non manca mai di scrutare l’orizzonte per cogliervi auspici di speranza o forse solo per stabilire un contatto con quella dimensione fatata che solo il mare riesce a regalare. È il suo liquido amniotico, quella parte di se sempre viva e che lo fa sentire vivo davvero anche quando la quotidianità sembra prendere il sopravvento. Basta poco per sentirne l’abbraccio salmastro, anche una furtiva visita alla pescheria verso le dieci del mattino può essere sufficiente a respirare lo iodio, e non importa se il furgoncino rimane parcheggiato in doppia fila, tanto il vigile è sicuramente un amico e tutto si risolverà con un bonario rimbrotto. Gli piace passare dal mercato del pesce perché tra quelle mura tutto parla il linguaggio del mare. Il vociare dei venditori, sempre pronti con il loro foglio di carta in mano, che con artificiosa gentilezza invitano a gustare i prodotti del loro banco ed hanno occhi furbi e veloci che individuano al volo il forestiero dal paesano. I mille colori dei pesci sistemati sui letti di ghiaccio con perizia cromatica da vero artista. Le vasche dove i polpi si contorcono nella disperata ricerca di una via di fuga o i grandi secchi che ospitano le migliaia di occhi arancioni dei gamberi ancora vivi, portati a braccio dai pescatori del “ragno” appena scesi dalle loro barche ormeggiate proprio sotto il mercato. Tutto questo affresco, ogni giorno cangiante, può essere un eccellente surrogato del mare, un buon espediente per attutire i colpi della nostalgia e ascoltare il canto delle sirene azzurre senza straziarsi l’anima. Per questo l’uomo non rinuncia mai al suo pellegrinaggio quotidiano. Perché in fondo il mare è lì oltre le vetrate del mercato, invitante e promettente e perché c’è sempre qualche pescatore amico disposto a informarlo sulle novità più importanti della marina. Cosicché ogni giorno egli sente

Pagina 150 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania L’attesa Domenico Di Martino le onde lambirlo e basta qualche frase sentita o brandelli di discorsi rubacchiati ai vecchi lupi di mare per accendere la passione che lo divora. “Sotto la casa bianca, di notte, si stanno prendendo i sauri al fondo di trenta passi”... sembrerebbero parole banali, quasi insignificanti, ma quando piovono nelle orecchie giuste si rivelano potenti, ammalianti e hanno la forza di accendere nell’animo mille prospettive, mille speranze... In fondo sabato sta per arrivare... mancano solo pochi giorni e poi anche per l’uomo arriverà l’alba giusta e il rito catartico potrà avere luogo. C’è amore per il suo piccolo mondo nei percorsi di quel furgoncino in giro per il paese di mare. Ci sono tappe obbligate da onorare ogni giorno perché esse sono gli altari della sua appartenenza. Un giro veloce della piazza e il segno della croce davanti alla basilica perché sotto quelle volte bianche e solenni riposa il suo protettore, l’amico di tutti i pescatori del borgo, il personaggio celeste che ha scelto come nume tutelare cui affidare la barca e che non dimentica mai, soprattutto in quei giorni di Giugno quando arriva la festa e con essa l’estate trionfale prende possesso del paese. In quei giorni per le strade di basalto fioriscono i pali per le luminarie variopinte e in ogni balcone esplode il tripudio di pomelie, il fiore dal cuore bianco e dal profumo soave che la leggenda vuole importato proprio da un navigante di ritorno da un lungo viaggio in giro per il mondo. Nei giorni della festa grande non si lavora, ma l’uomo rinuncia anche al suo amplesso con il mare perché c’è il patrono da onorare e con il santo è il paese stesso a essere in festa e allora è il caso di lasciare che le sue radici traggano linfa vitale negli orizzonti angusti, ma straordinariamente famigliari in cui ha scelto di vivere la sua vita normale. Magari seduto in piazza con un occhio ai colori della festa e l’altro ai suoi ragazzi che parlano con gli amici poco più in là, per poi sciogliersi il cuore in un lago di amore quando la sua bambina accertasi della presenza discreta del padre corre a dargli un bacio e poi senza aggiungere una parola scappa dalle compagne per rituffarsi nei suoi sedici irripetibili anni. A volte, l’uomo pensa che quella del piccolo paese è una realtà troppo piccola, soprattutto per chi, come lui, ha avuto la fortuna di girare il mondo e che forse anche i suoi figli meriterebbero di crescere in un ambiente meno provinciale. Ma queste riflessioni “nuvolose” svaniscono come neve al sole quando egli si rende conto che qui è a casa, qui ogni pietra ha imparato il suo nome e da queste parti tutti lo conoscono e dopo tanti anni riesce a commuoversi ogni volta che passando dalla piazzetta in riva al mare ripensa ai giorni spensierati della sua gioventù, quando quello spazio civettuolo pullulava di giovani e le ragazze facevano le vasche sotto gli alberi, ansiose di abboccare alle esche dei giovanotti. Qui è a casa e a regalargli questa semplice ma vitale considerazione sono anche i pescatori che all’imbrunire si riuniscono sul bastione sotto l’Istituto Nautico e su quella immaginaria linea di confine tra mare e terra ferma discutono del “vento di canale” che d’estate rende difficile la pesca con la lenza o dei gamberoni della fossa di Fondachello che hanno

Pagina 151 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° inspiegabilmente deciso di prendersi una vacanza, proprio a Luglio che è il mese dei forestieri e il pescato avrebbe un po’ di prezzo. Oppure a volte rimangono semplicemente in silenzio perché tra uomini di mare non c’è molto da dire e tra una sigaretta e l’altra mandano sguardi premurosi alle loro barche che placide dondolano nell’acqua aranciata del crepuscolo. Gli orizzonti angusti... gli spazi limitati... la piazza del paese che diventa cortile di casa... quante volte in giro per il mondo, sul ponte di una nave, ha ripensato ai suoi piccoli percorsi a quelle rotte immutabili eppure sempre in grado di fornirgli le coordinate giuste per il suo viaggio nella vita. Spesso a Miami o a San Francisco, magari al termine di serate di baldoria nei localini attorno al porto, quando si rendeva conto che i suoi anni stavano regalandogli quanto di meglio può desiderare un ragazzo: un buon lavoro da ufficiale a bordo, denaro e la possibilità di girare il mondo, un gusto amaro s’impadroniva delle sue riflessioni. E allora una dopo l’altra si succedevano le immagini della sua dimensione abbandonata sulle coste orientali della piccola Sicilia, dove i ritmi sono lenti, i rapporti non cambiano e il tempo sembra stabilire una tregua con fragili mortali. La pasta con la salsa e le melanzane che faceva sua madre, l’odore di pulito della sua casa natale lì nella viuzza, il sapore antico ma irrinunciabile del pane con le acciughe salate che suo padre preparava quando andavano a pesca di sauri sulla Secca e si rimaneva in mare per tutta la notte con le barche che si legavano l’una all’altra e nella corrente si pescava, si mangiava, si litigava... Quella vita piccola piccola, fatta di cose minime ma vere, poco alla volta cominciò a mancargli. Quasi non voleva ammetterlo a se stesso, ma erano i morsi aguzzi della nostalgia a farsi sentire in certe notti stellate all’Equatore, mentre la prua possente della nave solcava le acque dell’Oceano, I pensieri andavano sempre più insistentemente a ciò che aveva lasciato a casa, alla vecchia barca di legno in secco sulla sabbia nera nella piccola spiaggetta dentro il porto, ai genitori, agli amici di sempre, ai colori unici della sua terra. Probabilmente fu in una di queste notti che si rese conto di essere nell’intimo un animale stanziale e che la vita di navigante andava fin troppo bene per il ragazzo che era stato, ma stava stretta all’uomo che stava diventando. Certe decisioni, d’altronde, maturano con il tempo, come i granelli di una clessidra che uno dopo l’altro scivolano fino al colmare la misura, lentamente, ma senza sosta. Poi fu Cupido a metterci lo zampino e a trasformare le riflessioni dell’uomo in ferme risoluzioni. Quella ragazza conosciuta in una sera d’estate mentre con le amiche passeggiava sul lungomare. Il suo volto acqua e sapone, il suo sorriso timido, il colpo di fulmine... i primi impacciati appuntamenti... i baci furtivi rubati nella penombra delle viuzze, sotto le alte mura di un giardino da cui una palma faceva capolino e sembrava quasi voler spiare le dolci parole dei due innamorati. Non fu facile dopo quell’estate tornare alla vita di mare. Le lettere della ragazza

Pagina 152 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania L’attesa Domenico Di Martino non facevano che acuire la nostalgia e il desiderio di starle accanto alla fine ebbe la meglio. Lasciare le navi non fu una decisione facile e suo padre quel giorno sul bastione del porto glielo sconsigliò quasi supplicandolo. Il pane sulla terra fermo sa essere amaro e difficile da conquistare, a bordo invece un ufficiale è rispettato e guadagna bene. Queste furono le ultime parole del vecchio, mentre passeggiavano sul muraglione di pietra lavica con il sole che tramontava alle spalle dell’immenso vulcano e le luci di Taormina che cominciavano ad accendersi ad una ad una sulle colline del Nord. Ma la decisione era ormai presa, la sua vita era lì, in quel piccolo angolo di mondo ed ad una carriera brillante sul mare, preferì la strada dura di una famiglia, dei figli, delle piccole cose che regalano la vera serenità. Non ebbe mai l’impressione di tradire il mare, quando decise di scendere dalle navi. Fu forse quello l’unico pensiero che non lo sfiorò. Perché in fondo egli sapeva benissimo che il mare è l’unico amore che non si può tradire, l’unica malattia da cui non si guarisce e soprattutto l’unico male da cui non si vuole guarire mai. Così, ogni sera, nella luce aurea del tramonto l’uomo è al porto. Non è necessario chiedersi perché. Basta trovare il coraggio per strappare una tregua al frenetico ruzzolare di vicende che chiamiamo vita, imboccare il molo e, immancabile, il suo furgoncino ci regalerà la più scontata delle conferme. Chi ha una barca assume un impegno... così scriveva qualcuno. Questo precetto l’uomo lo conosce bene. Lo ha imparato sulla sua pelle ammantata di sale nelle infinite mattine d’estate d’un tempo lontano, lo ha letto nelle rughe cotte dal sole delle sue origini, lo ha scoperto studiando da grandi mani callose solcate dai tagli della lenza. Ogni sera l’uomo onora il suo impegno con amore e dedizione. Quando il crepuscolo riversa i toni cremosi sul grappolo di case fiorito attorno alla chiesetta del Carmine, lui è lì. Non manca mai, perché risponde a richiami primordiali, ad ordini atavici. Come le rondini che sanno per istinto quando arriva il momento di partire sulle rotte del sole. Magari è lì con ancora addosso gli abiti del lavoro, sporchi della fatica di una giorno; magari solo per rimboccare alla barca il telo scompaginato dal vento degli inquieti mattini di primavera o forse anche solo per una carezza furtiva alla prua pronta, sempre bramosa di incontrare il blu. Ma l’uomo è lì, perché non può fare altrimenti, perché deve disperatamente colmare quella distanza infinita e dolorosa che a volte il quotidiano instaura tra lui e il mare. Piano il giorno si addormenta cullato dalle nenie rosate dell’imbrunire, si accendono le luci del porto e nell’aria sgombra della sera che incede la Montagna rivela ai paesi il suo profilo materno. È difficile resistere al richiamo dell’acqua che liscia come pelle di ragazza si dondola tra i pescherecci alla fonda. L’uomo si piega al suo fascino senza alcuna velleità di redenzione, senza alcuna voglia di sottrarsi alla malia che si insinua per le sue vene e lenta comincia a pulsare con lui. Allora soffia forte sui carboni della passione; soffia l’uomo e si affretta a trovare

Pagina 153 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° rifugio in quella regione del cuore dove crepitano desideri salmastri, quei piccoli germogli di speranza da tenere desti allattandoli con parole salse. Gocciolano i radi suoni di una liturgia corale da officiare con gli altri fedeli del blu i cui contorni emergono d’incanto per i sentieri tra le barche che aspettano, anch’essi sopraffarti dal canto struggente del legno che anela la prossima alba. Si immolano le sillabe sulle are dell’attesa, la dea più crudele e più agognata dai mortali innamorati, e le sigarette rosseggiano, sentinelle di consuetudine abbarbicate sugli avamposti della sera che ormai si prepara a sfumare nel vestito della notte. Con atavica sacralità si cercano i presagi del tempo buono, gli sguardi interrogano l’orizzonte che si staglia oltre il bastione, sotto il vecchio faro. Là fuori, tra le messi di onde, gli umani cessano di rumoreggiare e di essi rimane solo l’idea nel dondolio di una lampara che lentamente compie il rituale pellegrinaggio sotto costa e al suo passaggio ingravida l’oscurità disegnando verdi oasi di giardini sommersi. Quella era una sera buona, forse la più bella della settimana perché era la sera del Venerdì, l’ultimo giorno lavorativo, e l’uomo che mai aveva dimenticato le lezioni d’italiano acquisite sui banchi del Nautico, sapeva benissimo che la felicità esiste solo come attesa del domani. Lo aveva detto Leopardi e sebbene la letteratura non fosse mai stata una sua grande passione, questa riflessione lo affascinava da sempre. Così quella sera, seduto su una bitta del porto, baciava con gli occhi la sua barca pronta sulla spiaggia. Solo poche ore e poi il rito si sarebbe celebrato ancora una volta. Quella sera, fra il turbinio di pensieri che impazzava nella sua mente, come i pescetti attratti dalla luce della lampada quando si pesca a sauri, si ricordò di quell’amico che qualche giorno prima gli aveva chiesto il perché della sua “insana” passione per la pesca. Aveva mille risposte a quella domanda, ma ben presto si rese conto che nessuna poteva essere tradotta con le parole...Tutti i suoi perché erano fatti di sensazioni, di emozioni, di colori, di sapori e alla fine rassegnato aveva alzato bandiera bianca limitandosi a dire che la sua passione non era esprimibile con concetti concreti. Eppure ora che la sera stava per consegnarlo all’ultima notte d’attesa prima del varo, e le luci del paese si stemperavano nell’acqua calma in un caleidoscopio di sfumature diverse, egli aveva tutte le parole chiare in testa e avrebbe potuto rispondere con mille argomenti a quella crudele domanda. La pesca si ama perché essa può essere specchio della vita. Ogni volta che la prua della barca scivola in mare o le lenze iniziano la loro discesa verso le azzurre profondità, beh... quella volta può essere la volta buona... quella che ti regala l’emozione memorabile. Nessuno può dire a priori quale sarà l’esito di una battuta di pesca. In questo miracolo sta il succo di una passione che è amore per la sfida e celebrazione del culto della volta buona. In fondo ogni pescatore prega per un incontro...non ci sono certezze, non c’è nulla di scontato e quest’incontro forse non arriverà mai e magari lo si aspetterà per una vita intera. Ma la speranza che ogni volta sia quella buona, quella c’è ed è incorruttibile... beh...in questo poter sperare sta forse il segreto dell’andare a mare con ami e lenze.

Pagina 154 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania L’attesa Domenico Di Martino

L’uomo quasi si stupì di se stesso, stava diventando vecchio se ora riusciva a trovare le parole per qualcosa che finora aveva fatto senza mai chiedersi il perché, limitandosi semplicemente a seguire i codici dell’istinto. Ma ormai si è fatto tardi… tra poco la moglie che aspetta a casa potrebbe preoccuparsi e allora è meglio affrettarsi anche per anticipare il malefico trillo del telefonino. Così riparte il furgoncino per l’ultimo viaggio della giornata; procede lento per le strade del borgo che ormai si spopolano per concedersi al silenzio della notte. Un altro sguardo al mare dentro il porto prima di svoltare e girargli le spalle. Calma piatta... non si muove una foglia... domattina alle cinque si vara. La chiave gira nella serratura, si aprono le porte del suo mondo: una tana fatta di odori e suoni noti, abitata dal volto amico della sua donna che sta cucinando e gli si avvicina per una carezza. I due ragazzi più piccoli studiano nella loro camere, il grande deve ancora rincasare, ha la ragazza da poco, magari sarà uscito con lei. Tutto è consuetudine semplice, ordinaria a volte anche piccola, ma questa è la vita che ha scelto e della quale non si è mai pentito. La cena è serena, è questo il momento in cui egli avverte la consistenza della famiglia che ha tirato su. Ci ha messo del tempo ad abituarsi al fatto che, a volte, non si è tutti insieme a tavola. Quando era un ragazzo suo padre non ammetteva deroghe alla regola: i pasti riunivano la famiglia e anche se erano tempi grami, si stava bene insieme e si spartiva il poco che il mare concedeva con il sorriso sulle labbra. Ma i tempi cambiano e allora bisogna adeguarsi. Non ha voglia di polemizzare con il suo primogenito. Spesso non sa come prendere questo ragazzo che sta per diventare un uomo e vive un’età difficile. Tra di loro poco alla volta sono nate distanze impiegabili, piccoli rancori che hanno scavato trincee di lontananza e adesso nonostante l’amorosa mediazione della madre, il rapporto tra padre e figlio a volte traballa precario. È una spina nel suo cuore di uomo appagato, un tarlo che spesso lo fa stare male. Mille volte avrebbe voluto parlargli e capire perché quel ragazzo si è allontanato da lui, da lui che gli darebbe la vita se solo ne avesse bisogno. Ma l’orgoglio è una bestia maligna che sa mortificare le buone intenzioni e alla fine annacqua i propositi, seminando incomprensioni e pesantissimi silenzi. Quella sera dopo la cena l’uomo prese una sedia e si sedette in balcone. Con la scusa di sistemare le lenze per la battuta dell’indomani, decise di aspettare che suo figlio rincasasse. C’era la luna piena e il profumo di gelsomino rendeva il giardinetto uno scrigno di fragranze soavi. Controllava accuratamente che i nodi agli ami fossero ben saldi perché non gli andava affatto l’idea di perdere un pesce di taglia per la sua disattenzione. Ma ogni gesto era solo un pretesto per ingannare il tempo in attesa che il ragazzo tornasse a casa. Un padre non si abitua mai all’idea che le sue creature crescano e siano in grado di affrontare le insidie del mondo senza uscirne sopraffatti. Poi il rumore del motorino, i passi per le scale, la porta che si apre e il cuore che

Pagina 155 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° si acquieta. Non ci sono sguardi tra padre e figlio. L’uomo continua a sistemare le lenze come se nulla fosse accaduto, ma nel suo animo sente la pace diffondersi e le ansie sciogliersi finalmente. Il ragazzo gli chiede se domani andrà a pesca. La risposta è appena un impercettibile movimento delle palpebre sotto gli occhiali, ma basta per strappare un sorriso trafelato al giovane, che conosce bene suo padre e sa che sotto gli aculei di burbero in fondo è una persona buona. L’uomo non lo direbbe mai, ma sono questi i momenti in cui suo figlio sente di amarlo, nonostante le distanze c’è affetto puro nei loro silenzi. Mentre sta sistemando l’ennesima lenza per i sauri con i preziosissimi frammenti di peluche avuti da un vecchio amico dopo mesi di insistenze e contrattazioni, un pensiero conquista la sua attenzione. Quel ragazzo non è mai venuto a mare con lui. Ad un tratto si scopre desideroso di spartire il pane delle emozioni con il sangue del suo sangue, vorrebbe quasi chiederglielo, ma quelle maledette distanze ancora una volta gli impediscono di uscire dalle stupide trincee in cui si nasconde per compiere il primo passo. Ripensa per un attimo alla gioia con cui aspettava l’alba quando suo padre gli consentiva di andare a pesca con lui, rivede l’eccitazione e la frenesia di iniziare la giornata fianco a fianco all’ulivo secolare da cui aveva tratto origine. Altri tempi, mormora tra se e se, mentre suo figlio gli rivolge un saluto e poi va a dormire. Ma quella sera il ragazzo si soffermò a osservare suo padre per qualche istante nella penombra della stanza. Scrutò i suoi gesti lenti, capì che quelle movenze erano il tesoro più prezioso che quell’uomo aveva ereditato e adesso contribuivano a tenere accesa la lucerna sulla tomba degli affetti perduti. Capì che forse era arrivato il momento giusto per raccogliere un testimone che da sempre sapeva un giorno di dover impugnare. Quante volte aveva deluso le aspettative del padre. Quante volte aveva letto nei suoi occhi la voglia e quasi il bisogno di condividere l’incontro con il mare. Si era sempre schernito adducendo la scusa banale dei malori provocategli della barca, ma in fondo al suo cuore sapeva benissimo che era qualcos’altro ad allontanarlo dal rito. Qualcosa di cui non conosceva bene il volto: forse solo noia o forse pigrizia, oppure quell’atavico desiderio di ribellione che spinge i figli a contrapporsi ai padri, semplicemente per rivendicare il proprio posto nel mondo. Così quella notte capì molte cose ripensando a quella sagoma cara che si stagliava nella luce incerta della lampadina e prima di chiudere gli occhi tutto gli fu chiaro. Nel buio della cameretta prese una decisione. La notte prima della pesca è sempre infinita per chi sente ardere la passione. L’uomo dorme poco e conta quasi tutti i rintocchi della Matrice che lo separano dall’ora fatidica. Quella notte si alzò anche parecchie volte per ingannare l’attesa e per controllare furtivamente se le tendine della cucina non ondeggiassero sospinte dal vento. Tutto tranquillo! Il tempo notturno dipanava le sue spire silenti e profumate e per l’aria ferma non si muoveva foglia. Oggi sarà un buona giornata, se non ci mette di mezzo la rema.

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Verso le quattro non seppe più resistere. Si alzò con movenze felpate per non svegliare sua moglie, in cucina indossò gli indumenti della pesca con gesti lenti, quasi facessero parte di un antico rituale di vestizione cavalleresco. Prese il secchio con le lenze e l’esca, fece per chiudere la porta, quando fu sorpreso da un imprevisto frusciare di passi per la casa. Si maledisse in cuor suo. Ancora una volta aveva fatto troppo rumore svegliando sua moglie. Al suo ritorno avrebbe dovuto sentire i mugugni della donna contro quella fastidiosa passione che gli faceva passare le notti insonni e gli riempiva il congelatore di robaccia puzzolente. Meglio affrettarsi per evitare un sermone antelucano e rinviare la romanzina ad un’ora più consona. Poi però si accorse che le sue congetture erano sbagliate, i passi che aveva sentito per le stanze buie erano quelli del suo ragazzo più grande. I due allora incrociarono gli sguardi e fra l’impaccio generale il giovane gli sussurrò: semplicemente: «Andiamo?». Ci sono distanze talmente incolmabili che possono essere annullate da una semplice parola nella penombra. Allora c’è tempo per uscire dalla trincea e abbracciare anche solo idealmente chi fino a quel momento si era fronteggiato. In quell’alba d’estate, mentre i galli cantavano nei pollai del paese, l’aurora iniettava d’indaco l’orizzonte e per l’aria immota si diffondeva l’acre odore dei gusci di mandorla che bruciavano nel forno pronti a immolarsi perché il pane della mattina nasca fragrante e sapido, padre e figlio camminavano scivolando quasi sulla pelle del borgo addormentato l’uno a fianco all’altro remi in spalla. In fondo alla stradina c’era il mare lisciato di bonaccia ad attenderli e forse ad unirli di nuovo, come i rami dello stesso albero, nel cui cuore scorre la medesima linfa, tra le cui fronde stormirà ancora il vento dell’esistenza con le sue nenie antiche e confortanti. Ha una vita vera l’uomo. Una vita normale, forse anche banale, ma è la sua vita. Quella che ha scelto.

I l 1 ° p r e m i o NARRATIVA 2005 - XI edizione è stato assegnato a Domenico Di Martino di Riposto per il racconto “L’attesa”

Pagina 157 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Intermezzi di danze classiche di Valentina Greco con il gruppo della Scuola di danza Pax De Deus

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Amabilia Di Blasio

IL PITTORE DI CAPOIALE

ichela abbandonò la sala da pranzo per ultima, dopo che il cameriere le Maveva fatto capire, seppure con cortesia, che si era fatto tardi e dovevano chiudere. Dovette insistere un po’, prima che la sua voce penetrasse lo spazio della donna e la riportasse alla realtà, la recuperasse dalla dimensione fuori del tempo alla quale si era consegnata, mentre guardava il mare e la piccola casa rossa, quasi completamente sommersa dal verde, in cima alla scogliera. Era arrivata, in quel posto assente dalle carte geografiche, da due giorni, dopo essere stata a lungo combattuta se scegliere quell’anonima periferia di Capitanata per trascorrervi le vacanze, oppure andare con le amiche ai Caraibi. Alla fine aveva dato ascolto ad una voce che si ostinava a non sentire ma che navigava la sua anima da alcuni anni. Il viaggio era durato dodici ore, Torino era ancora immersa nel buio, quando era partita, in silenzio e senza disturbare. Il viaggio fu lungo, ma lei non si stancò, le piaceva guidare. Finché fu in autostrada, quasi non si era accorta di attraversare regioni e paesi diversi, perché uno stesso sfondo accomunava ogni cosa, un sipario di conformità alla modernità: nelle case, nei ponti, nelle strade, nei campeggi, nei grandi alberghi lungo la costa, anche nella campagna. L’alternarsi, infatti, di risaie, campi di granturco, distese di vigneti, di fieno, di frutteti, di spianate di pomodori e barbabietole e di grano, di boschi d’olivo e, ancora, di vigneti di diversa geometria, testimoniava la contaminazione delle culture e colture agricole del nord, del centro e del sud del paese, e l’uso della stessa tecnologia e organizzazione produttiva. La rivoluzione industriale, quindi, la fuga dalle campagne, l’emigrazione interna ed esterna d’intere generazioni a cavallo degli anni sessanta e settanta, aveva avuto, alla fine, un esito positivo, giacché pareva che il benessere e la “civiltà”, avessero toccato, allo stesso modo, ogni parte dello stivale. Imboccate, però, le strade secondarie che l’avvicinavano alla sua destinazione, aveva avuto la sensazione che lì il tempo avesse corso con battito più lento. Un’emozione si era impossessata di lei man mano che si avvicinava a Capoiale. Superata l’antica masseria dei “sette balconi”, aveva voltato per una strada dritta, che divideva in due una distesa di girasoli e andava ad incontrare un querceto. Uscita dall’oasi di quella pianura senza ombre, la strada si mise a fianco della

Pagina 159 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° collina, che si alzava sempre di più e si tingeva di verde, un verde intatto di ulivi e carrube, e l’accompagnò per un lungo tratto, finché non s’impennò a precipizio sul mare. Entrò nel paesino quasi deserto, alle quattro di pomeriggio del 11 agosto e parcheggiò vicino all’unico bar. Scese dalla macchina e rimase sorpresa di sentire il cuore batterle forte. Si guardò intorno e si sentì addosso il disagio di chi stesse sperimentando un déja vu e non sapesse spiegarsi il perché di quel fenomeno, un dejà vu che riguardava non solo l’architettura delle cose, di ogni cosa ma, anche, i profumi, l’aria che si respirava e le sembrò che il silenzio della controra, fosse carico di voci e di suoni. Ma era altro, lo sapeva. Girò la testa lentamente in ogni direzione: la piazza, la chiesa, il viale che moriva sulla spiaggia e, verso la montagna, stoppie e pomodori verdi precedevano uliveti che salivano verso boschi di carrube e, più in alto, pali della linea aerea di una ferrovia scavata nella roccia e, ancora più in su, sulla scogliera a strapiombo sul mare, una minuscola casa rossa, appena visibile nel fogliame rigoglioso del bosco. E il frignare di cicale. Si alzò, quindi e, scusandosi, si levò dal tavolo vicino alla finestra, che si era scelto quando era arrivata in quella pensione, e si diresse verso l’ascensore. La sua camera, al terzo ed ultimo piano, era immersa nella penombra, nel silenzio, nel profumo di pulito, di bucato fresco e di disinfettante che le piaceva tanto e le ricordava la casa dell’infanzia, dell’adolescenza, gli anni dell’attesa che prendano forma le ali, s’irrobustiscano per il volo; il nido sulla sommità del noce, dal quale a lungo misuri la distanza dalla terra e dal cielo finché, in un giorno speciale, in un momento speciale, per quanto forte appaia il richiamo di tutto ciò che vedi verso il basso, decidi di appartenere al cielo e di spiccare il volo. Come avvenne per quei due piccoli colombi che aveva trovato, tremanti e ancora privi di piume, sul balcone di casa, accanto ad un nido deflagrato, caduto dalla grondaia. Vicino c’era la mamma che li guardava con occhi attenti e che, ad intermittenza e con diffidenza, fissava anche lei. Aveva deciso che non sarebbe intervenuta, che avrebbe lasciato fare alla natura. Ogni mattina, con sorpresa, li trovava ancora vivi e vedeva che crescevano, s’irrobustivano, si riempivano di piume e si allontanavano dal muro, dove avevano trovato riparo, e guadagnavano il bordo del balcone. Per qualche giorno vi rimasero come in bilico, in un equilibrio sempre più precario. Il vento muoveva le loro giovani piume, mentre immobili, guardavano la strada sotto di loro, mai in alto, piuttosto indietro, come a verificare la possibilità di tornare alla sicurezza del muro. L’affascinava quell’evento straordinario, le trasmetteva un’emozione irripetibile ed unica, l’intrigava di un indecifrabile mistero, di cui si sentiva depositaria, testimone privilegiata e, nello steso tempo, compartecipe. C’era qualcosa di misterioso e di ancestrale in quel rito e di nobile, nell’austero persistere immobile dei colombi sul precipizio, in attesa del momento giusto in cui partorire se stessi alla loro natura, dopo che un parto biologico li aveva messi al mondo. Superata la prova della caduta dalla grondaia, li attendeva un’altra, forse

Pagina 160 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il pittore di Capoiale Amabilia Di Blasio ancora più difficile, ineludibile, decisiva. Un pomeriggio avvenne la magia e i due colombi, uno dopo l’altro, dopo aver lungamente guardato il baratro sotto di loro, aprirono le ali, vinsero la forza di gravità, spiccarono il volo e si confusero fra gli stormi che volteggiavano sulla città. Era un pomeriggio di un vento tiepido che muoveva le cime degli oleandri nel giardino. La sveglia appesa al muro segnava le 16,05; era mezzora che si era sdraiata sul letto, ma non riusciva a prendere sonno, del resto non era stanca. Da Capoiale i ritmi della città e del lavoro sembravano distanti anni luce. Tutto era rallentato in quel posto lontano dal mondo ed era piacevole accorgersi che c’erano altri modi di vivere, diversi dal suo, che pure un tempo le erano appartenuti, gli unici che aveva conosciuto e che non aveva mai pensato che, un giorno, avrebbe abbandonato, fino a dimenticarne completamente il sapore. C’era stato un lungo periodo, dopo che le sue radici erano state estirpate e piantate altrove, nel quale aveva pensato di non sopravvivere, che la terra nella quale erano state messe a dimora, fosse una terra arida ed acerba e che mai avrebbero portato fiori. Invece, dopo qualche anno, la pianta crebbe, s’irrobustì e sopravvisse al cambiamento. Era l’ora in cui, quando era bambina e viveva con i suoi nella casa di mattoni rossi sul promontorio, avrebbe dovuto fare il riposo pomeridiano ed invece usciva di soppiatto dalla stanza e se ne andava a giocare nei prati secchi, sotto il sole rovente, ad inseguire lucertole e ad arrampicarsi sugli alberi di fico, di pero selvatico, di albicocche, per catturare le cicale, oppure prendeva il sentiero di more e rovi che partiva dal pozzo, lambiva l’orto e il pollaio, saliva per un centinaio di metri fino alla sommità del “tuppo”1, scendeva verso la pineta lontana e andava a morire sulla roccia a strapiombo sul mare. Raggiunta quella “vetta” a metà strada fra il cielo e il mare, Michela si sedeva su una radice enorme di pino che usciva dalla roccia e reggeva il fusto per non farlo volare via, quando i venti forti invernali si battevano sulla scogliera, e osservava il mare. Rimaneva a guardarlo per ore, fino a sentirsene ubriaca, fino a che non le girava la testa in vortici di esaltazione nella prospettiva di volare, di tuffarsi come i rondoni annidati sulla parete della rupe, nel vuoto verso le onde che spumeggiavano fra gli scogli, per poi risalirne, dopo aver raggiunto, vittoriosi per la sfida, la meta. Voleva catturare ogni segreto di quella immensa massa d’acqua che, con movimenti sempre uguali, ma mai gli stessi, veniva dall’orizzonte a squarciarsi sulle rocce o a riposarsi, con risacche lente, sulle spiagge di rena. Voleva decifrarne i movimenti, i suoni delle onde e del vento che le originavano, che si ripetevano, si alternavano in fraseggi melanconici o festosi, come la nenia delle cicale durante la calura. E seguiva i gabbiani nei loro volteggi, mentre planavano, come l’aquilone che faceva suo fratello più grande – che chiamava “gabbiano” – che rincorrevano, ridendo di gioia, sulla mezzana2 della casa cantoniera dove vivevano, attaccati al filo tanto lungo che sembrava volesse raggiungere il sole, o volesse risucchiarla verso il cielo, tirarla vero l’alto, quando Giuseppe le metteva in mano il rocchetto del filo, le faceva

Pagina 161 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° governare l’aquilone e lei, felice, diceva che faceva volare il gabbiano. Poi la sera, seduta al tavolo della cucina, con i gessetti a cera, disegnava sui fogli bianchi del quaderno da disegno, lunghe curve azzurre e blu e verdi e rosse, tutte sovrapposte e, su di esse, celeste, il cielo, e un gabbiano. Un foglio, un altro, e un altro ancora; si accaniva con dolce caparbietà a cercare una perfezione, un dettaglio sfuggito alla traccia precedente, il tratto giusto perché quei segni acerbi la convincessero che aveva disegnato il mare che lei osservava ogni giorno, che le entrava dentro, le parlava, le faceva compagnia, meglio di certe amiche con le quali a volte faceva i compiti e che non volevano salire sugli alberi ad acchiappare le cicale. Certe sere sul tavolo si ammucchiavano pile di fogli, senza che riuscisse a concludere un solo disegno. Allora li metteva in fila l’uno accanto all’altro fino a coprire tutta la superficie del grande tavolo sul quale la madre impastava farina, squartava galline, snocciolava piselli e fave, riempiva i vasetti di marmellata e stirava e li osservava a lungo, poi ne cambiava la disposizione e tornava a guardarli per vedere se, tutti insieme, riuscivano a rappresentarle il suo mare, quello dei suoi sogni e delle sue osservazioni. Finché, stanca, si addormentava, con il gessetto in mano e sua madre raccoglieva i disegni, li riponeva in uno scatolone e la portava a letto. Poche volte, in futuro, avrebbe provato quelle emozioni, forse soltanto due, occasioni di fragilità, di nostalgia – si disse – rifuggendo l’idea che albergasse ancora in lei, dopo le mutazioni dello sradicamento e l’immersione nella maturità e nella professione di avvocato, nascosta negli anfratti più reconditi del suo cuore e della sua anima, la poesia e il desiderio del mare. La prima volta fu sulla scogliera di Byron a Portovenere, d’inverno, giunta là per un convegno dell’ordine. Rimase a lungo, protesa come una polena che sfida le onde, s’inabissa e riemergere dal mare, in piedi ai margini dello strapiombo. Sbattevano le onde rigogliose e potenti fra le cale di roccia, pioggia di spuma le bagnava il viso, l’odore del sale perforava le narici, la tramontana scuoteva i pini e sibilava fra gli orridi della costa e le logge della chiesa. I gabbiani volteggiavano impauriti come a cercare riparo dalla tempesta e lo trovavano, nel passaggio dal mare aperto, attraverso Palmaria, nella tranquillità del golfo “Sulla scogliera di Byron, note d’arpe e gabbiani…”, si era sorpresa a pensare. La seconda volta fu a Procida. C’era andata invitata da un’amica a trascorrervi qualche giorno, alla fine d’autunno, quando i turisti erano partiti e l’isola aveva recuperato la sua tranquillità e il ritmo delle sue abitudini e operosità. Se ne andò per giardini di limoni, per le viuzze del centro, sul porticciolo di pescatori, dove un’insegna davanti ad un portone ricordava che quel luogo era stato la locanda del “Il postino”. La sera, prima di andare a dormire, saliva sulla terrazza di Clelia e si tratteneva ad ascoltare il mare, ad osservarne i riflessi sotto la luna, nel silenzio della notte. “Arpeggia il cuore aritmie ingovernabili, sulla terrazza di Clelia…” le era sfuggito dalla testa, come se l’emozione avesse autonomamente preso la parola, estirpandola dal cervello. Sì, solo quelle due volte lì.

Pagina 162 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il pittore di Capoiale Amabilia Di Blasio

Michela si sollevò dal letto e decise di uscire. Si lavò i denti, si sciacquò la faccia, indossò una camicia abbondante e lunga fino alle ginocchia e fece le scale. La gente che incontrava la salutava con calore, quasi non fosse una di fuori. Lei non dava molta confidenza, più che altro perché aveva bisogno di stare sola ed evitava situazioni dalle quali fosse difficile liberarsi. Sulla spiaggia di sabbia sottile e pulita, c’erano pochi ombrelloni, pochi bagnanti, gente del posto che viveva altrove e che d’estate tornava al paese per le vacanze. Si tolse le ciabatte e si avvicinò alla battigia, entrò in acqua fino a bagnarsi le caviglie e n’ebbe una sensazione di benessere. Si abbassò, immerse la mano nell’acqua trasparente e si bagnò la fronte e la nuca. Passeggiò un po’ lungo la spiaggia, sul bagnasciuga, con le mani dietro la schiena e la faccia rivolta al cielo. Poco più avanti, appoggiato con il cavalletto sugli scogli, un signore, seduto su uno sgabello e la tavolozza in mano, dipingeva. Fu incuriosita da quel pittore, ma fu fedele alla consegna sulla riservatezza che si era data e non indagò. Si sedette ad un tavolino del chiosco, con le spalle mare e lo sguardo rivolto verso la scogliera, verso la casa rossa immersa nel verde. Ordinò una bibita. Torino era lontana, lontano lo studio associato di avvocati nel quale lavorava, lontane le amiche ai Caraibi, lontano Vittorio, il suo ragazzo. Già, il suo ragazzo. La relazione durava da tanti anni ed ora era in mezzo al guado. Dovevano decidere cosa fare di loro. Non era lui che titubava, ma lei. Vittorio voleva sposarsi, Michela tergiversava, pensava che non fosse mai il momento giusto, rimandava, così, da diversi anni. Il loro era un fidanzamento leggero, senza troppa convivenza, senza troppa frequentazione, perché così non si stancavano, dicevano, e si sarebbero amati di più, poi, invece, proprio l’argine che avrebbe dovuto difenderlo, si era rotto e lentamente lo stava facendo defluire, come un fiume uscito dal suo letto, in mille rigagnoli persi per i campi, confusi fra le pozzanghere della pioggia. Le aveva detto Vittorio, l’ultima volta che si erano parlati, nel bar dover si erano dati appuntamento per un aperitivo: «credevo che il nostro amore non corresse il rischio di logorarsi per eccessiva frequentazione, che il vederci poco lo preservasse dal virus della quotidianità, ne impedisse l’avvilimento nei limiti dei nostri difetti, quei nei della fisicità, quegli ictus della relazione che, nella pretesa di piacere e di appagamento, intristiscono ogni entusiasmo, ogni esaltazione, nella delusione, inconfessata, di scoprirsi esseri normali, assolutamente normali». Parlava e guardando negli occhi di Michela, che cercavano un orizzonte, una luce, un bagliore d’intesa. Lei aveva sussurrato: «La “normalità”, sai quanto mi spaventi. Il pericolo e il terrore è di scoprirsi, ad un certo momento, non più desiderabili, non più interessanti, senza più il desiderio, il bisogno di cercarsi quando si ha qualcosa da condividere, perché l’esserci continuamente lo renderebbe inutile, sicché non ci si parlerebbe più, tanto si può sempre farlo. E anche fare l’amore, il desiderarci, l’appartenerci senza esclusioni di colpi, come se fosse la prima volta di ogni nuova scoperta delle nostre sensibilità, temo avrebbe medesima sorte». Vittorio conosceva quelle parole, le appartenevano,

Pagina 163 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° le erano appartenute, sapeva quanto erano importanti e, in fondo, vere. Ma era necessario andare oltre. Le aveva ribattuto: «ero convinto, come te, che il nostro viverci senza conviverci fosse l’argine più efficace contro ogni noia». Inutilmente lei aveva difeso la loro scelta originale, nella quale ancora si aggrappava: «il nostro viverci senza conviverci, non impediva il condividerci», aveva replicato. Ma Vittorio aveva insistito, con molta convinzione, quella dei convertiti: «c’è qualcosa di sterile in quest’idea della convivenza non convissuta; proprio lì, inspiegabilmente, forse neanche tanto dolorosamente, si è arenato il nostro rapporto ed ora vive una lunga, interminabile agonia». Sillabava le parole con rammarico, pena e ricerca disperata di una via d’uscita, ancora possibile. Michela taceva. Proseguì: «il nostro io non è sopravvissuto alla prolungata assenza della presenza, alla mutilazione, all’inappagamento dei sensi della vista e dell’olfatto, che non hanno mai trovato soddisfacimento, il riscontro ad un’aspettativa che pure c’era, forse in modo latente, non pronunciata. Così, le sicurezze che avrebbero dovuto preservarci dal naufragio, i salvagente che avevamo indossato si sono sgonfiati e ci stanno inabissando. La sfida, Michela, è nella accettazione della normalità». Era stata una chiacchierata diversa dal solito, un appuntamento con loro stessi al quale non avevano potuto sottrarsi, il confine fra due territori diversi e bisognava decidere in quale vivere. Poi Vittorio aveva concluso, con tristezza ma con franchezza, prendendole la mano e costringendola a guardarsi negli occhi: «Tesoro, sta succedendo come in quegli orgasmi ritardati, tanto ritardati da naufragare in se stessi». Era con la testa in quell’ultimo dialogo con il suo ragazzo, quando il pittore, con il cavalletto in mano e la tela sotto il braccio, le passò a fianco. Non era più l’ora buona per dipingere. La donna lo guardò senza troppo interesse, l’aveva quasi sfiorata; poi, però, l’osservò meglio, perché le era sembrato di vedere qualcosa di strano. Infatti la tela sotto il braccio era bianca, assolutamente bianca. Eppure lei lo aveva visto dipingere. La donna al bar aveva notato la faccia stupita della straniera e le spiegò: «È uno strano pittore. Non è del posto, viene d’estate e alla fine d’agosto riparte. Passa tutto il giorno a dipingere sul mare, ma la sua tela è sempre bianca». Michela ringraziò per quella spiegazione. Quasi immediatamente si alzò e si avviò verso la pensione. Percorse il breve viale che portava alla piazza pensando al pittore. Quasi automaticamente alzò la testa verso la montagna, verso la casa rossa nascosta fra gli alberi. Si stava facendo sera. La sera precedente la partenza fu una sera triste, triste fu la cena, consumata in silenzio. Tutto era pronto, la casa cantoniera sulla scogliera, al Km 24+306 che le Ferrovie avevano assegnato a suo padre, guardia massi e custode di un passaggio a livello dove non passavano che carretti ed animali, era vuota, le masserizie erano state portate via la mattina con un trattore, in paese. In un angolo quattro valigie di cartone, chiuse con lo spago, attendevano, con loro, il mattino. Aveva quattordici anni, ad ottobre avrebbe frequentato le scuole superiori e iniziata una nuova vita.

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Passò la notte in compagnia di un pianto rassegnato e consapevole, adulto, senza lacrime. Il lavoro di guardia massi non esisteva più, la ferrovia lo aveva soppresso, dovevano cambiare vita, ma si erano preparati a questo. Non poche sere, infatti, avevano discusso sulla necessità di lasciare – prima o poi - quel posto senza futuro e senza prospettive per i figli ed andare altrove, magari al nord, a Torino, dove si erano stabiliti altri paesani. La Fiat cercava operai, ci sarebbe stata una vita più decorosa per loro. Quell’ultima mattina a Capoiale l’aveva passata sulla scogliera. Si era seduta sul pino, si era guardata intorno, poi si era soffermata ad osservare il mare, per tutto il tempo, per un lungo addio e la consegna della resa, dopo anni tentati a disegnarlo per impadronirsene: c’erano gabbiani, qualche barca e sull’orizzonte si perpetrava lo sposalizio fra mare e cielo, memoriale di un’antica appartenenza. E silenzio, silenzio della controra, neppure il canto delle cicale. Era agosto, il giorno dopo la festa dell’Assunta. Niente le sarebbe mancato più del mare: non le cicale d’estate, non l’odore di mirtillo, non i lampi e i tuoni d’inverno, non la pioggia scrosciante sui muri di tufo, non il vento, non l’odore del prato dopo la pioggia, non la pompa3 del pozzo, che lei manovrava con fatica, quando era piccina, ma la divertiva lo stesso. Neppure il fischio del treno, che si annunciava al Km 24+451 e ansimava fino al Km 25+072, il treno che batteva le ore del giorno e scandiva il tempo della vita domestica della famiglia, meglio del pendolo antico del nonno in cucina, le sarebbe mancato, quanto la sua rupe sul mare. Abbandonava quel monte portandosi con sé i tentativi, incompiuti e incompibili, di fissare sul foglio la mutevolezza infissabile del mare, poiché esso è tutto se stesso in se stesso, nella completezza inscindibile delle sue espressioni e dei suoi colori, dei suoi lamenti, dei suoi clamori, delle sue tempeste e delle sue quiete; senza essere riuscita a disegnarne i colori cangianti, il suo barbugliare d’onde insistenti e mai stanche. I suoi disegni giacevano, opere incompiute, sogni svaniti al risveglio, dentro un paio di scatoloni sotto il sottoscala. Poi si era levata dal pino, con uno scatto improvviso e aveva fatto, a ritroso, il sentiero verso casa, con il pensiero che non avrebbe mai più fatto volare “gabbiano”, che non si sarebbe più fatta tenere per mano dall’aquilone. Erano partiti chiudendo la porta di casa che, sapevano, non si sarebbe mai più riaperta, perché era finita l’era dei passaggi a livello e delle case cantoniere sperdute lungo la linea ferroviaria. Il mondo della sua adolescenza non sarebbe appartenuto a nessun altro; così il sottobosco, il sentiero, il pino e la scogliera non sarebbero appartenuti più a nessuno. Questa era l’unica consolazione per quello strappo. In qualche modo fra lei e il mare rimaneva un discorso aperto e, nello stesso tempo, chiuso, perché in nessun altro posto di mare dove sarebbe eventualmente andata, si sarebbe potuto riprendere il dialogo interrotto. Semmai solo dentro di sé avrebbe potuto riaprirlo e con le innumerevoli immagini del mare che aveva nella testa e nel cuore. Fu per questo che, all’ultimo momento, aveva deciso di non portarsi dietro i cartoni con i disegni, ma di lasciarli lì, sotto il sottoscala: non c’era un posto migliore per loro.

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La vigilia del quindici agosto, nella piazza del paese c’era il fermento delle grandi occasioni, alcuni operai stavano montando le luminarie e un palco per l’orchestra. Si festeggerà la ricorrenza dell’Assunta, ci sarà la messa, il passeggio nel corso, si ascolterà la banda, s’indosseranno i vestiti migliori, per vivere un giorno di allegria, di sentimento religioso, di mondanità. Per i bambini sarà un giorno speciale, come lo era per lei, che faceva la coda alla giostra del “calcio in culo”, insieme a suo fratello che la spingeva. Mentre andava in spiaggia ebbe l’impressione che una donna della sua età l’avesse salutata, chiamandola per nome; Michela accennò un sorriso appena percettibile, di sorpresa, imbarazzo, incredulità, ma non si tolse gli occhiali scuri e proseguì. In spiaggia c’erano pochi ombrelloni aperti, meno del solito; all’ombra di un pino, un contadino con l”Ape” carico dei prodotti della terra, vendeva pomodori, zucchine e meloni di pane4. Sugli scogli il pittore, seduto davanti al cavalletto, fissava il mare. Lo osservò, dal chiosco, per qualche minuto, poi gli si avvicinò, come rispondendo ad un richiamo, mantenendosi, tuttavia, discretamente a qualche metro di distanza. L’uomo non era del posto, lo capiva anche lei. Lui si girò, la guardò con uno sguardo interlocutorio, poi tornò a fissare la tela. Michela si sentì scoperta, arrossì e confessò: «m’incuriosiva vederla dipingere. Mi scusi». Il pittore non si scompose e, senza guardarla, le domandò: «Le piace la pittura? Ama dipingere?». «Sì», balbettò Michela, mentendo e dicendo il vero. Il forestiero – pantaloni di lino bianco fino alle ginocchia, coreana caki, ampio cappello di paglia sulla testa – continuò a pensare a se stesso. Guardava il mare, di tanto in tanto bagnava il pennello nella tavolozza, tirava una striscia di colore e la stendeva in tutte le direzioni, la frustava con i peli di setola, con un accanimento punitivo. Poi alzava gli occhi, fissava il mare, ancora la tela, prendeva un altro pennello più grande, intingeva nel bianco e cancellava tutto. Sul suo volto si alternavano esaltazione, delusione, sfida e attesa di una ricompensa che non arrivava mai. «È difficile, sa? È difficile disegnare il mare», si giustificò senza voltarsi verso Michela, «nel momento in cui ti sembra di averne catturata un’immagine, nello stesso istante essa svanisce, sostituita da un’altra diversa».Lo sguardo della donna si fece attento. Il pittore continuò: «di quel che osservo vorrei disegnare, afferrare il tutto, perché esso mi appartenga, sia dentro di me, faccia parte di me. È così con un vaso, una mela, un albero, una sedia, una montagna, un bimbo che piange, un vecchio che fuma la pipa: riesco a dipingerli per quello che sono, in tutte le loro sfumature. Anche la lacrima di un bimbo o le volate di fumo di una pipa, nel loro movimento, sono afferrabili. Capisce?». «Sì, sì, capisco», rispose la donna, che ascoltava le parole di quell’uomo come un eco che tornava da un bersaglio lontano nel tempo. E rimase lì, con lui a condividere il silenzio e a fissare il mare, senza parlare, senza scambiarsi più una parola. Non occorrono parole per parlare con il mare, bisogna solo ascoltarlo; tu potresti tacere,

Pagina 166 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il pittore di Capoiale Amabilia Di Blasio esso avrebbe sempre qualcosa da dirti. Dopo una pausa interminabile, senza voltarsi verso il pittore, si liberò: «Forse il mare, bastimento di mille voci e di mille echi, non va dipinto, ma ascoltato. Le onde che farfugliano sugli scogli o sussurrano sulla spiaggia, non è acqua che arriva dalle profondità e dalle lontananze ma voci di quegli abissi e di quei posti lontani, catturate e trasportate dal vento e dalla spuma. Sicché il mare che dipingi, non è mutevolezza inafferrabile, ma l’amico che ti viene a trovare e a parlare, l’uomo che ti riconosce, abbandona la folla e si ferma con te. Il vento si faceva spazio fra i capelli di Michela, con una carezza morbida, come sapeva fargliele Vittorio. Fece un gesto di saluto e andò via. La sera andò a letto presto, un temporale improvviso e breve mitigò il caldo d’agosto, avrebbe dormito bene, ma ci volle un po’ prima che prendesse sonno. Perché era andata laggiù, dopo tanti anni, per quale inconfessabile ragione era tornata al luogo da cui era partita il giorno dopo l’Assunta di trent’anni prima, senza rimetterci mai più piede? Forse aveva dimenticato qualcosa, forse doveva finire un discorso. C’era qualcosa che non andava nella sua vita e, quando non sai dove andare, ritorni da dove sei partita, per ritrovare una strada. Non le sarebbe dispiaciuto se avesse avuto al suo fianco Vittorio, quella notte. Ripensò alla loro storia, alle sue parole, forse aveva ragione. Si svegliò al suono delle campane che annunciavano la messa; alle dieci il sole era caldo, molto caldo, nessuna traccia del temporale della sera precedente. Fece colazione, uscì dalla pensione, passò davanti alla chiesa e si sorprese a farsi un segno di croce, un gesto che aveva completamente cancellato dalle sue abitudini e dalla memoria. La mano andò alla fronte meccanicamente, come la mattina del quindici agosto di trent’anni prima, quando la famiglia, tutta assieme, assistette alla messa festiva e poi salì alla casa in cima alla rupe per organizzare la partenza. Fu una festa dell’Assunta senza giostre, né luminarie, senza il pollo ripieno né le orecchiette, ma tutta intrisa del fervore dei preparativi della partenza e non c’era spazio né per la malinconia né per la gioia. Si conosceva il passato di cui ci si liberava, non il futuro che li attendeva. Non le dispiacque quel gesto ritrovato, ma non entrò in chiesa, si diresse verso la spiaggia e vi trovò l’uomo con il cappello di paglia. Gli si avvicinò, lo salutò con un sorriso, gli si mise accanto e si mise a guardare il mare. Era agitato, onde rumorose e vivaci invadevano la spiaggia con virilità. Guardò la casa rossa sulla rupe e cercò di individuare il suo pino, se mai c’era ancora. Poi, senza guardare in faccia il pittore, come parlando al mare o a se stessa, continuò il discorso del giorno precedente, parole che non aveva mai meditato prima, ma che sentì liberatorie, rivelatrici e che aveva bisogno di condividere con quello sconosciuto: «puoi anche non dipingere nulla, consumarti nella ricerca del tutto, cancellare continuamente i tratti del pennello, ma alla fine non ti rimarrà niente. Del tutto bisogna afferrare l’afferrabile: non è accontentarsi, non è chiudere gli occhi sull’orizzonte e non desiderare di abitarlo. Non è, neppure, starsene nel recinto della propria pochezza, della propria limitatezza e credere che lì, col gregge,

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finisca il mondo. Al contrario, è inchinarsi umilmente all’infinitamente grande e pacificarsi con se stesso fino al punto di saper aspettare che esso, un po’ alla volta, ti si rivelerà e ti apparterrà: non c’è altro modo che farne parte, che accettando il piccolo che riusciamo ad afferrare ogni volta, perché esso è immagine del grande». Il pittore taceva, con lo sguardo fisso all’orizzonte. «Di quell’orizzonte, che pure vedi nella sua grandezza, se gli vai incontro per afferrarlo, non ne afferrerai che un punto. Non per questo, non lo avrai afferrato». Fu come se parlò ancora a se stessa. Poi lo salutò con il gesto della mano e si avviò vero la pensione. Erano passate le tredici, attraversò l’androne delle scale e si portò nella sala da pranzo. Al suo tavolo era seduta un’altra persona, che vedeva di spalle. Rimase infastidita per quella presenza, sapevano che ella preferiva stare sola. Nel momento in cui fece per sedersi, quella persona si voltò verso di lei: Vittorio. Le luminarie illuminavano la notte di coriandoli intermittenti, passeggiarono nel viale del paese come in una festa di famiglia. Aveva tolto gli occhiali, le sembrò che la gente le sorridesse. Teneva la mano di Vittorio come ad un ancoraggio cercato da tempo. La felicità è un sentimento che ti libera il cuore, ti dà il coraggio di spiccare il volo. La notte si abbracciarono teneramente; dalla finestra aperta arrivava il profumo del mare. La mattina successiva fu giorno di partenza: «voglio andare sulla scogliera, in quella casa», confessò Michela. «Lo so», le rispose Vittorio, sono qui per questo. Arrivarono alla casa abbandonata e invasa dalla boscaglia, Le finestre erano senza imposte, la porta aperta. Non entrarono, ci girarono intorno. Michela guardò verso il tuppo e, con la mano di lui nella sua, si avviò verso quella direzione e acquistò un sentiero appena visibile fra le erbacce. Lo percorsero come se non lo avesse mai abbandonato. Il pino si vedeva in lontananza. Era calda la sua mano, lei la imprigionò fra le sue dita, strinse forte, come temendo che le sfuggisse. A pochi metri dal pino, Vittorio si staccò da lei, si liberò con dolcezza e determinazione della sua mano e si fermò, lasciò che Michela si affacciasse da sola alla scogliera. La bambina si mosse verso il precipizio e si sedette sulla radice del pino. All’orizzonte mare e cielo si tenevano per mano, rondoni si tuffavano dalla rupe verso le onde, i gabbiani planavano, senza filo, nel cielo su di loro. Si affacciò dallo scoglio, osservò il mare sotto di lei, lo riconobbe, gli parlò, stette ad ascoltare. Vittorio le si avvicinò e si rese partecipe di quel volo, le mise una mano intorno alle spalle e sentì che l’amava, come non aveva mai pensato potesse amarla. Ritornarono verso la casa cantoniera, mentre il fischio di un treno attraversava il bosco. Si fermarono davanti alla porta aperta della casa rossa, i tufi mostravano le ferite del tempo e dell’abbandono. Non c’era il movimento di quella partenza, non valige di cartone. Non seppe resistere, entrò. Vittorio si raccomandò che facesse attenzione, perché il tetto sembrava pericolante, ma la donna era già fra quelle mura. Passò un po’ di tempo, poi ricomparve davanti alla porta, come venendo da un lungo viaggio, con

Pagina 168 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il pittore di Capoiale Amabilia Di Blasio un cartone in mano. Aveva negli occhi una luce di cristallo, una goccia di mare. Vittorio la guardò con tenerezza. Lei fece pochi passi verso di lui, si lasciò abbracciare e non impedì alle lacrime di scorrerle sul viso.

Note 1 Piccola collinetta - 2 L’aia - 3 Pompa manuale per prelevare l’acqua dai pozzi. 4 I meloni gialli, chiamati così perché sono mangiati con il pane.

Il 2° premio NARRATIVA 2005 - XI edizione è stato assegnato ad Amabilia Di Blasio di Reggio Emilia per il racconto “Il pittore di Capoiale”

Il 3° premio NARRATIVA 2005 - XI edizione è sato conferito a Francesco Persili di Roma per il racconto “Il mare di Ellen”. Il Premio è stato ritirato, riconosciuti i giustificati motivi, dal sig. Antonio Caimi. I Premi sono stati consegnati dal dott. Giuseppe Zappalà, Ammnistratore delegato del porto turistico “Marina di Riposto” che ospita la manifestazione Artemare Pagina 169 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

1) La Compagnia Teatrale Ionica a conclusione della rappresentazione dello “Sbarcu di Saracini” 2) La Compagnia ci fa rivivere il personaggio “Fulippazzo” tratto dal racconto di Lio Tomarchio 3) La Compagnia riceve il Premio “Targa d’argento al merito 2005” per la lunga, intensa ed appassionata attività artistico-culturale esercitata, sempre con impegno e bravura, nel Comprensorio Ionico- Etneo Pagina 170 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Francesco Persili

IL MARE DI ELLEN

ettantuno giorni sopra un trimarano, dieci settimane, tempo che trascorre Ssenza date, senza coste, annusando salsedine, senza pelle. Cielo sopra e davanti l’azzurro capovolto, spazi infiniti nello sguardo. Albe battagliere, brume che si diradano, la musica del caso, il dondolio delle considerazioni sospese. Congetture stese ad asciugare, alla luce del primo sole si restringono le incertezze dense d’attesa, domanda silenzio la scarsa ombra. Niente succede, tutto è possibile. Ma il piacere ozioso è attimo fuggevole, stato di grazia insonne, scintillio che non lascia di sé che una traccia d’argento improvvisa, fugace. Il rimpianto. Intanto che una dopo l’altra le nuvole si volgono al nero. Screziate, mettono il broncio, screanzate, s’avvicinano, invadenti. Accidenti. Aria d’agguato e di mistero, altro a venire, all’improvviso l’umore mutevole dal pelago alla riva declina al peggio. Scrutare la superficie cangiante che si increspa riempie di sfiducia e di stupore, un esercizio inutile, si capisce, soffermarsi sulla bellezza estatica del continuo divenire, l’inafferrabile richiamo satanico di una sirena che incanta, imbroglia e poi delude. Attrezzarsi per l’emergenza. Pioggia in arrivo, le prime gocce sugli ultimi spruzzi di calma piatta. Correnti improvvise, cavalloni imbizzarriti che paiono sculture, sudore e lacrime, insomma acqua. Oceano dietro, davanti, intorno. In bilico tra ebbrezza e paura, rabbia e rassegnazione. Guardarsi dentro, tenere fermo il respiro. Non chiedere, né sperare. Preghiere e suppliche non bastano, serve una volta di più controllare i battiti, riflettere, come riuscire a venirne fuori. Attraversare la perturbazione, il pericolo. Uscirne a fatica, prendere il largo. Rinascere. Così Ellen MacArthur, 28 anni, velista, ha scelto nuovamente di sfidare se stessa, il batticuore, quell’orizzonte incerto che scivola e si sposta, il mare aperto. Stare lontano per molti giorni, circumnavigare in solitario e senza scalo la terra, le moltitudini della malinconia. Stringere nelle mani un biglietto di sola andata, staccarsi dal molo di Falmouth, filare via veloce, entri, trovi, arrivi. Dove nemmeno Sir Robin Knox- Johnsthon, altre barche, spostamenti lunghi affrontati senza fretta, altri tempi. Fino all’Antartide. Poi inverti subito la rotta, rientri. Dare forma al vento, fiutarne il salto, aggrapparsi al limite. Tornare giusto in tempo per provare ad attaccare il record, settantadue giorni, del francese Francis Joyon. Un altro uomo, così è se vi pare, ché ci vuole forza e consapevolezza per prendere il timone. Mettersi al timone, una Pagina 171 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° cosa non da poco, roba estrema per lupi di mare e corsari neri, capitani coraggiosi e comandanti di lungo corso. L’irriducibile pregiudizio duro a morire, il senso sbagliato, un po’ fondamentalista. Le donne meglio di no, di qua non si passa, mi dispiace, che rimangano a terra ad aspettare mariti, figli, compagni, a soffrire se ne hanno, non è data altra via. Tranquilli maschietti, con l’inglesina non attacca, lei se ne impipa, se ne è sempre impipata, ha un carattere ferrigno, passione smisurata e una pretesa. Partire sempre, alla pari. Che poi se non avesse avuto questa grande spinta, chiamiamola grinta va, quando mai una ragazza minuta nata in un posto che la spiaggia più vicina è distante miglia ce l’avrebbe fatta a diventare Nostra Signora delle Onde? Viene facile ammettere che questo scricciolo se l’è sudata, a costo di qualsiasi rottura, travaglio, ingiustificata discriminazione. Altrimenti non sarebbe quasi scappata di casa per inseguire il sogno d’infanzia impossibile. L’epica, il mare. Maturare il distacco, risvegliarsi adulti. Emergere dalle nebbie, lanciarsi. Non esiste gioia più grande che mollare gli ormeggi, immaginare lontano il ritorno, come fanno i marinai facili a dimenticare, quelli che lei ammirava estasiata per ore, andare, venire dal Paradiso. Superare la linea d’ombra, prendere coscienza, la vela. Un altro modo di stare al mondo, linguaggio, stile, occhiata insicura. Equilibrio precario, difficile, ci si strapazza, si balla, non si scherza. Un gioco innocente, dare i nomi alle barche: Kestrel, Iduna, la dea scandinava che custodiva le mele dell’eterna gioventù, quelle a cui è rimasta più affezionata. Prima di Moby, l’attuale compagno, l’ultima conquista, che del capodoglio di Melville ha il nome, il profilo, l’abitudine a destreggiarsi tra fantasie ed abissi. Alle regole scritte e non scritte, lei disobbedisce, e i punti di vista, quelli li afferra e li capovolge. Sovverte le leggi del mare e della vita, ostinata e capace di tutto. Protegge la sua speranza, Antigone, un’eroina, Wonder Woman, quanti nomignoli. Guardatela bene, alta un metro e sessanta, poco peso, il sorriso timido rubato a quella facciotta quadrata che tradisce l’ordine razionale dei suoi borghi natii, operosi, operai. I prati, i sentieri, le miniere di carbone, il tedio del Derbyshire. Proviene da una famiglia semplice. Lingua antica e valori contadini, si lavora con le mani, per mettere insieme il pranzo e la cena. È una ragazza di campagna, Ellen. Così risoluta che a 8 anni dopo una piccola crociera con la zia sceglie di portarsi via dai luoghi verdi dell’infanzia, il mare val bene serque di sacrifici, è la noia, la grande molla di ogni illusione. La piccola sogna, ma da chi avrà ripreso, c’è preoccupazione in casa. Quella va oltre, sprezzante, irrequieta, tetragona al punto da rinunciare a condividere con i coetanei le spensieratezze velleitarie di una stagione irripetibile. L’adolescenza, questa illustre sconosciuta. Ogni giorno una scelta, prendi qualcosa, no grazie ho già mangiato, e poi i soldi della merenda meglio che non li spenda, si educa ad aver fede nell’ignoto, combatte e difende la sua Idea. Mettere da parte un bel gruzzolo, risparmiare, che quei soldi le possono servire, eccome se le sono stati utili. Ci si è comprata quella barchetta, la prima, un investimento per il futuro. Ne puoi essere orgogliosa, bellezza.

Pagina 172 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il mare di Ellen Francesco Persili

A lei non basta, non sa stare ferma. Zaino in spalla e cerata grigia d’ordinanza gira per i moli bretoni in cerca di imbarchi, ha ansia di scoprire, voglia di imparare, ruba con gli occhi progetti e segreti dei navigatori solitari. Entusiasmo che non smette un momento, dorme in tenda. Ha gli dei dentro, una maglietta bianca, l’unico cambio. Aggiusta e rattoppa, si dà da fare, fiuta l’occasione. Con l’amore e la pazienza di quel pescatore che vedeva sempre piegato, ruga sbilenca, mani nodose, a rappezzare le sue reti, restaura un ventuno piedi. Cresce un desiderio, uno soltanto, non lasciare mai detto dove si va e quando si torna, veleggiare, in solitudine. Sarebbe la prima donna, buona fortuna, che ce ne vuole. A 21 anni il Mini Transat, una traversata dell’Atlantico, imprime il solito ritmo accelerato, stupisce, è la rivelazione. Si presenta ad altre partenze, colleziona imprese. La vittoria nella prestigiosa Rotta del Rhum, terribile e maledetta, ed il secondo posto nella Vendee Globe Race del 2000. La doppia soddisfazione di essere stata la più giovane velista ad aver mai completato la gara e la donna che l’ha conclusa nel tempo più breve. Quanti rimpianti nel “Jules Verne”, l’avaria ad un passo dal successo, il viso stremato nel tentativo di riparare quel guasto, la vittoria che sfuma, le parole strozzate, gola serrata, che non si può spiegare l’indicibile, il viso rigato dalle lacrime. Tutta l’Inghilterra piange con lei, altroché effetto Paperino, lassù sanno riconoscere talento e meriti. Sono fieri di lei, l’atleta perfetta. Lavoro indefesso e metodico, volontà d’acciaio. Concentrazione che resiste alla fatica e ad ogni tipo di sollecitazione, nei passaggi complicati si esalta, nel prolungato sforzo sempre leggera, nobile, Ellen, la magnifica. Tutti la chiamano così, non a caso, Piccola Roccia. E’per la tenacia, quando dice che tanto ci sarà sempre un dopo, domani. La rivincita, tra qualche tempo. Intanto lavora dodici ore al giorno, test e verifiche, per preparare con il suo gruppo la traversata intorno al globo. Si allena duramente. È un modello di comportamento, virtù. Esempio, di perseveranza, di generosità. La sua vita appartiene alla vela, alle onde. Chi la conosce sa già che ha allenato i pensieri a non arrendersi, ha studiato ogni particolare, come riuscire a far volare la barca. Faccia indurita dalle tante lotte per la sopravvivenza, niente la potrà fermare. Ha simulato migliaia di volte situazioni di gara, calcolato gli imprevisti, il suggerimento dell’esperienza. Quattro anni dopo è ancora lì, alla partenza della regata più esigente. Quella che giudica, spoglia, esilia. La più lunga e sfibrante. Solitaria, assoluta, finale. Il fardello gravoso del ricordo, Ellen vuole suturare le ferite, ritrovare quella parte di sé spregiudicata e dolente, muovere alla conquista. Qui e adesso. Chiudere con il passato, uscire, guidarsi alla scoperta. Vale sempre la pena rischiare, varcare un confine. Si riemerge rafforzati nel corpo, nell’anima. L’agonismo dal quale parte e al quale torna, perché non esiste mai più, perché è bello così, perché di una cosa è stata sempre convinta, il mare reclama sempre un’altra sfida come ogni refolo pretende che gli si dia la giusta direzione. Così ha navigato per ventisettemila miglia, si è portata lontano, finché la

Pagina 173 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° barca va lasciala andare, scivolare leggera.Ha attraversato l’Atlantico e l’Indiano, doppiato Capo di Buona Speranza e Capo Leeuwin, puntato verso Sud. Ha scansato l’Antartide, le insidie del continente gelato, i mari del sud, i venti più forti. E’risalita per il Pacifico, Capo Horn, la terra della punta, un punto di svolta, si torna a guardare con fiducia alle cose. Crepita la luce ampia, romantica, misteriosa dell’America, ha ripreso la via di casa. Il desiderio più grande, la meta al centro del viaggio. Strano destino, ogni traversata, quel destino. Tornare ad Itaca. Un’Odissea, tante piccole odissee, aveva ragione Calvino. Siamo naviganti, noi, dentro la storia liquida dell’eterno ritorno. Trauma e sollievo, travaglio e ricerca, il mare di Ellen, un romanzo di formazione, mappa di respiri bruschi, schiette coordinate, cicatrici, vita fedele alla vita. Sulla rotta degli alisei contrari, attenzione massima, nessuna distrazione. Che per realizzare l’impresa bisogna correre sulle onde, spingersi al limite. Per intere settimane l’inglesina ha guardato l’orologio, cercato di capire. L’unico scopo, far andare più veloce Moby, il trimarano di 22 metri, culla, sicurezza, destriero. A bordo nessuna pausa, sempre all’erta di notte, davanti ai capricci degli abissi imperscrutabili, ai crepacci della sorte. Quando a mutare sono le condizioni devi essere svelta a cambiare, lucida. Il mare non perdona la superbia e gli errori, se stringi troppo il vento te ne chiede conto.Ci si abitua a riposare poco, quasi niente. Brevi cicli di sonno, venti minuti possono bastare. Il cibo, un rito di cui non si avverte più la necessità. Si risparmia sull’acqua, lavarsi una volta sola a settimana, non è una vacanza, né una crociera per famiglie. Perdersi nell’infinito, sentirsi niente. Infinito un corno, ma quale illusione, qui si riscopre la nuda eleganza delle cose essenziali. La veglia e l’angoscia, il pudore scabro sottocoperta, la verità vera del mondo. Seguire i consigli, prevenire ed opporsi. Scattare da una parte all’altra dello scafo, non dare tregua alla stanchezza e al dolore. I cambi di vela, autocontrollo e sveltezza, l’occhio fisso al meteo. Non esiste fragilità, né felicità. Ma chi te lo ha fatto fare, maledire la crudeltà di una scelta intanto che incappi in una tempesta. Clima da tregenda. Segnalata presenza di iceberg, sei in mano a Dio. La sensazione precisa che non ci si possa fermare, non puoi far altro che continuare, e non pensare a domani, sarà forse peggio. Previsioni senza scampo. Un sentimento che affiora appena, aspro, ostile, la nostalgia, per il caminetto di casa. Rannicchiarsi nei ricordi, resistere. Affrontare il freddo, la paura, le assenze insopportabili. Non disdegnare la vicinanza delle balene, dei delfini, di qualche albatros occasionale, gradito compagni di viaggio. Internet, un supporto prezioso per comunicare con il mondo esterno. Ed ancora fronteggiare tramonti che infuocano l’anima, molte emergenze. Hai fermato la barca per salire in testa d’albero. Ti sei arrampicata, puntuta, lassù in cima a ventisette metri di altezza, non esattamente l’albero della cuccagna, un esercizio di perizia e forza, hai superato a pieni voti anche questa prova. Ti sei fatta male ad una gamba, non ti sei lamentata. Hai aggiustato il dissalatore, riparato un generatore, qualche ustione te la sei cavata. Hai esplorato luoghi e sensazioni, hai

Pagina 174 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il mare di Ellen Francesco Persili frugato coraggio, hai pianto, hai fatto tuo il sole. C’erano momenti - hai detto - in cui navigavi meravigliosamente e pensavi che non esistesse posto più bello, giorni che non se ne andavano più, ore troppo piccole e imperfette da trascorrere senza fretta. Gira che ti rigira aveva ragione il Poeta:non si sta bene che altrove. Quando non te ne frega niente di mettere i piedi per terra, si ragiona in mezzo a grandi spazi, lo scorrere dell’acqua che è fuggita o fuggirà. Volgere la prua sulla rotta più veloce, abbreviare l’agonia. Gli scherzi delle nuvole, l’irrequietezza dell’oceano. Su e giù, le onde, carezze improbabili, indagare il fascino e l’inganno del grande largo, all’inferno e ritorno, cento volte morire ed ancora rinascere. La seduzione dell’attraversamento. Speranza, cielo, stelle. La linea invisibile dell’orizzonte, un maledetto fronte, carpisce l’anima e ti muove in avanti, invalicabile se non riesci a trovare le correzioni giuste, avanti c’è poco tempo. Il resto è aria sulla faccia, in bilico tra gara e avventura, come imparare dal vento l’emozione perfetta, la vela. Spirito gregario ed ingegno mercuriale, Ellen ci sei, ormai non ti prendono più. Una notte di mezzo inverno chiara di luna hai respirato il profumo della terra, che sta lì vicino, l’odore intenso delle alghe e dello iodio. Per vedere meglio ti sei stropicciata gli occhi, il profilo della costa dolce, intermittente. Dormo o son desta. È tutto vero, la linea del traguardo a largo di Ushant, la conquista della felicità. Ad accoglierla amici, marinai, quante barche a festeggiarla, migliaia di scie a scodinzolare di gioia. 71 giorni, 14 ore, 18 minuti, 33 secondi, come te nessuno mai. Francis Joyon, prego un passo indietro. Record del giro in solitario e senza assistenza del globo, Miss Mondo, complimenti. Sei partita, hai navigato, sei tornata. Ti sei infilata in tasca gli oceani e i complimenti di Blair e della regina, sarai Dama di Sua Maestà, hai capito la MacArthur. Ha sognato l’impossibile, l’ha inseguito, l’ha realizzato. Tranquilli maschietti, potete lasciare il comando ed aspettarla sempre qui sul molo, se ne avete ancora. Il timone è in buone mani, sapienti e pazienti, di donna, generosa e sportiva. Lei che ora s’abbraccia parenti e sconosciuti e rammenta che un record è nulla se non lo si può condividere con altri. Famiglia, squadra, amici vecchi e nuovi, come quel militare di stanza in Iraq che le ha scritto e le ha saputo infondere fiducia, calma, serenità quando stava a pezzi e non riusciva a venire a capo di quella frontiera sgangherata. Non si conoscevano, si conosceranno. Nella festa, una promessa, questo record non sarà l’ultimo. Perché la storia non finisce con il ritorno di Ulisse ad Itaca. Il mare è la vela che può toglierti tutto ma restituirti una possibilità di salvezza, il prossimo viaggio. Curiosità, possibilità, desiderio. Qualcosa che orienta e dà senso all’esistenza, sulla linea sfuggente dell’orizzonte estremo, una spinta di progresso. Giocarsela sempre alla pari con tutti, anticipare le mosse. Navigare necesse lungo la rotta dei venti contrari, l’eterna sfida di Ellen.

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Il “Premio Protagonisti del mare 2005” è stato conferito al Corpo delle Capitanerie di Porto - Guardia Costiera

Il dott. Ignazio Gambino, Assessore Provinciale alle Politiche del mare, consegna il “Premio Protagonisti del mare2005” al Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto - Guardia Costiera, Ammiraglio Luciano Dassatti Il “Premio Speciale Artemare 2005” è stato conferito all’Amm. Ispettore Capo (CP) Luciano Dassatti

Il dott. Giuseppe Pagano, Presidente del Consiglio della Provincia Regionale di Catania, consegna il “Premio Speciale Artemare 2005” (medaglia d’oro e targa d’argento) all’mmiraglio Luciano Dassatti, giunto all’apice della carriera iniziata con il suo primo comando a Riposto, dove ha lasciato indelebili ricordi e, tra l’altro, ha visto nascere il Premio Artemare avendo partecipato, nel 1975, alla Giuria della prima edizione del concorso“Fatti di bordo” Pagina 176 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Angelo Maria Trovato

IL GIOCO DELLA VITA

vanzavo nell’oscurità appena rischiarata da un pallido sorriso di luna, Aavanzai sino al punto in cui il mare accarezzava placidamente la terra e, di fronte ad esso, mi fermai. Quell’enorme massa nera d’acqua appena increspata si stagliava di fronte a me, solcata da un solo raggio di luna, tanto quanto bastava per farla scintillare come l’argento, come l’argento della luna incastonata nel vellutato drappo blu dell’aere puntinato di stelle. Non c’era anima viva, era tutto immerso nell’oblio della quiete, la tranquillità copriva l’intero ambiente circostante, rallentava anche il tempo. Avvolto da quella greve solitudine mi sedetti sulla riva, vicino al mio amato mare. Stetti in religioso silenzio, inebriandomi del suo fragrante aroma salmastro e deliziandomi della sua soave melodia. Stetti lì fermo in estatica contemplazione. Tesi l’orecchio al mare, alle sue storie, alle sue avventure. Aspettavo che me le narrasse, che me le sussurrasse, che me le confidasse. Ero in trepidante attesa; ero molto entusiasta: come un bambino che aspetta con ingenua impazienza un regalo da tanto tempo atteso. Avevo voglia di ascoltare la sua voce ammaliatrice, tutti i suoi magnifici racconti, collezionarli in libro e farli conoscere al mondo. Scrutavo incantato l’orizzonte, quando vidi un oggetto galleggiare pacatamente sull’acqua. Mi drizzai e lo seguii con lo sguardo, mentre si lasciava cullare dalle placide onde. Nel momento in cui arrivò sulla riva lo raccolsi e con non poco stupore lo esaminai attentamente. Era una tavola di legno tinta su un lato con della vernice bianca chiazzata di rosso verso il basso. Provai dapprima un po’ di ribrezzo per quella spazzatura, ma poi notai con curiosità che quelle che apparentemente sembravano screziature, in realtà erano gli accenni di alcune lettere visibili nella loro parte superiore. Qualcuna si poteva intuire, ma era praticamente impossibile leggere l’intera scritta. Alla scoperta di quel rebus, il mio interesse per quell’oggetto ligneo crebbe ancor di più. Il mio cervello si arrovellò e si contorse per cercare di capire o almeno intuire quale poteva essere quella scritta. «Ecco, è possibile che sia il nome di una nave!». Pensai. Ne ero convinto tanto quanto non lo fossi. Cercai di ragionare su quella misteriosa scritta, ma non mi

Pagina 177 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° si presentava nulla in mente. Mi sforzai, senza ottenere alcun risultato. Giacché direttamente non ottenevo nulla, dovevo desumerla per vie traverse (considerai in quel momento). Cercai allora di immaginare quale grande storia avrebbe potuto avere quell’insignificante pezzo di legno. Cercai di concentrarmi guardandolo attentamente e prestando contemporaneamente le orecchie al mare. Vi fu un’onda più scrosciante delle altre. «Un peschereccio!». Gridai. Sì, doveva sicuramente appartenere ad una qualche nave di pescatori. Ma… se ora si trovava qui, rotta fra le mie braccia, doveva essere successo qualcosa. Per quanto era possibile comprendere, arrivai ad un’intuizione plausibile: durante una battuta di pesca, a causa di un maroso, un peschereccio è naufragato ed ora il mare ne riconsegna i resti. Se è affondato, ha trascinato con se tutti i pescatori, affidandoli al regno dei cieli. Poveri pescatori! Quel legno per me rappresentò la reliquia del sacrificio umano; stetti un po’ in rispettoso silenzio. Volevo ascoltare storie di mare e sono stato accontentato subito; quella reverenziale massa d’acqua aveva cominciato a parlare, a raccontarmi di uomini, delle disgrazie accorse ad uomini. Era una storia dall’epilogo non lieto, ma dimostrava la tenacia e la dedizione dell’uomo verso quella massa d’acqua, verso colui che è al contempo fonte di vita e fonte di rovina. Mi sembrava di udire chissà quale arcano mito in cui un’ingorda divinità in cambio di benevolenza vitale pretende sacrifici umani. Le anime cui il mare ha strappato il corpo non vanno in cielo, restano lì, diventano spiriti delle acque, diventano parte integrante di esso, diventano il simbolo della devozione, diventano ciò che hanno sempre tant’amato: diventano mare. Mare: mausoleo degli eroi! Queste povere anime alla loro partenza dal porto non sapevano ciò che li avrebbe accolti. Andavano verso il largo e dal largo sono stati incorporati. Non sapevano ciò che gli avrebbe riserbato il futuro, il futuro per cui si adoperavano affinché fosse migliore. Pianti di gioia alla loro partenza, pianti funerei al loro “non arrivo”. Ma loro hanno ricevuto una missione speciale: essere acqua nelle acque. L’unico motivo che ha spinto questi uomini ad andare per mare è stato il loro forte amore per esso: li ha chiamati con la sua suadente voce di ammaliante sirena e loro hanno risposto di sì. Loro sono nati in mare, sono nati per il mare e sono nati dal mare. Quelle acque sono state come una culla, come una mamma, come una ragazza da amare, come un figlio, come tutto… come un’urna. Anch’io vivo per il mare e con il mare, mi sento un po’ come quei pescatori. Mi vennero in mente tanti bambini, non bambini qualunque, ma quei pescatori da piccoli. Una chiassosa frotta di ragazzini che corre briosa sulla spiaggia. Festose urla si levano al cielo; ridenti schiamazzi sprizzano da loro. Giocano sulla riva, giocano a fare i pescatori, i pescatori come i loro padri, i loro padri andati per mare. Circondato da quella raggiante combriccola non mi sentii più solo, ero in compagnia

Pagina 178 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il gioco della vita Angelo Maria Trovato del chiasso di quei marmocchi pieni di vita. Mentre quei bambini pescavano per gioco, i loro padri erano in alto mare e pescavano per davvero. L’amore per quelle acque l’hanno congenito nel loro DNA, l’hanno insito nella loro stessa natura umana. Prima per gioco, poi per amore, dopo per lavoro ed infine… il nulla! Mi rattristai. Se il presente è certo, il domani di sicuro non lo è; mentre quei ragazzini davano forma al gioco della vita il futuro riserbava a loro una triste sorpresa. Questa gente, nata in mare, non aveva sangue nelle vene bensì acqua salata. Proprio per questo motivo provano un amore speciale per il loro mare. Spostarli da quei luoghi sarebbe come trapiantare un’alga marina in cima ad una montagna. Il peso di quell’intricata selva di pensieri mi fece venire le lacrime agli occhi, non so se per tenerezza o per mestizia. Le lacrime agli occhi come se stesse piovigginando. In quel momento sentii degli sparuti schizzi d’acqua bagnarmi la testa, alzai gli occhi verso l’infinito e mi accorsi che da lì stillavano calde goccioline d’acqua. Pure il cielo si era commosso per i miei pensieri e, facendomi compagnia, fece venire giù lacrime di pioggia. Contemplavo l’orizzonte con lo sguardo perso nel nulla, quando un’altra onda s’infranse con fragore sulla riva lasciandomi in omaggio un altro oggetto. Mi alzai e mi ci diressi; arrivato ad un metro da esso mi fermai: era un altro pezzo di legno. Un altro pezzo di legno identico al precedente. Alla sua vista il mio cuore si riempì di gioia. Mi chinai per prenderlo, ero commosso: ripensavo alla storia che mi aveva raccontato il precedente frammento. Il romanzo della vita di quei pescatori si stava componendo pezzo dopo pezzo sotto i miei occhi: come un puzzle. Ne ero coinvolto in pieno. Lo raccolsi. Era identico al precedente. Stessa forma, stessi colori, stesse incomprensibili lettere, ma… allora…! Presi pure l’altro pezzo di legno (che avevo messo da parte) per poterlo unire a quest’ultimo e finalmente svelare il nome della nave che navigando nel mare della vita ha traghettato quegli uomini verso un altro mondo. Con molta riverenza (come se avessi in mano un oggetto sacro) li unii e chiusi gli occhi. Mi tremavano tutte le ossa. Ero molto emozionato. Gradualmente aprii gli occhi, il tempo di abituarli alla poca luce che c’era e vidi che la scritta era completa. Lessi: «LIDO FLE…»! La scritta finiva lì. La mia storia finiva lì. La storia di quei pescatori finiva lì! La mia trepidante attesa si dissolse in una nube satura di disappunto. Il castello che avevo costruito si sgretolò sotto i colpi di quelle lettere. Quel legno per me rappresentò la reliquia della stupidaggine umana. Non era un oggetto sacro, bensì della banale spazzatura volgarmente buttata nel mare scambiato come un’immensa pattumiera. Volevo ascoltare storie di mare e sono stato accontentato subito. Quella reverenziale massa d’acqua aveva cominciato a parlare, a raccontarmi di uomini, delle disgrazie accorse ad uomini, ma in realtà si stava sfogando con me raccontandomi di disgrazie,

Pagina 179 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° di disgrazie causate dall’uomo, dalla balordaggine dell’uomo. Questa storia non era fatta di arditi eroi che solcano i mari, bensì di scriteriati che per vana ingordigia avvelenano il mare. Il mare è malato ed ha vomitato la causa del suo male. Quell’immensa massa d’acqua è diventata il Mausoleo della corruzione degli uomini. Naufragai nei miei mille pensieri. Volevo riflettere su tutto e su nulla, mi sarei rattristato ancor di più e così avvenne. Non avevo più voglia di ascoltare il mare, mi avrebbe raccontato solamente i suoi mali, quant’è empio l’uomo, quant’è incerto il futuro, quanto non esiste il futuro! La pioggia che cadde più intensamente mi destò da quell’intruglio d’idee che avevo per la mente. Pure il cielo si era commosso per i miei pensieri e, facendomi compagnia, fece venire giù lacrime di pioggia; ma questa volta piangeva per il dolore della malattia del mare. All’improvviso sentii un urlo. Mi girai di scatto verso di esso. Era un bambino che correva a braccia aperte sotto la pioggia. Scappava. Urlava. Si dimenava. Si diresse verso il mare. Giunto sulla battigia si arrestò e rimase fermo, dritto verso l’orizzonte. Stetti lì ad aspettare cosa facesse. Il cuore mi era saltato in gola sentendolo gridare. Cosa l’aveva fatto spaventare? Da cosa scappava? Quel bambino si voltò, si diresse verso una barca tirata sulla riva e vi entrò. Mi alzai per andargli incontro, ma non mi mossi. Quel bambino uscì la testa dalla barca, si muoveva facendo ondeggiare quei legni, sì, proprio come se fosse in balìa delle onde. Alzò le mani e le fluttuò in aria come se stesse armeggiando con una canna da pesca. Si girò versò di me e mi sorrise mentre dava forma al gioco della vita.

Una menzione della Giuria è andata ad Angelo Maria Trovato di Acireale CT per il racconto “Il gioco della vita”. Consegna il premio il dott. Giuseppe Zappalà Pagina 180 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

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SEZIONE FATTI DI BORDO 2007 - XVIII edizione

1° Premio – Felice Zanghì di Messina – “Il tifone Carlotta e la Franca” «Nell’occhio del tifone, la nave diventa l’ombelico del mondo, il cuore spalancato dell’universo, mentre il mare ritrova il suo più vecchio odore di disastri e di morte. Qui si misurano il coraggio e la forza degli uomini di mare, combattuti tra crudeli fatalismi ed indomabili certezze, fino a che, con incredula consapevolezza, non vedono giungere il momento dello scampato pericolo».

2° Premio – Francesco Mastropierro di Molfetta (BA) – “Periplo africano molto particolare” «Spesso - e la storia lo dimostra - la fortuna aiuta gli audaci, portandoli a superare limiti considerati invalicabili, spingendoli loro malgrado a sfidare vecchie convenzioni e prevedibili invidie. Perché non bisogna dimenticare che ogni viaggio, ed ogni viaggio per mare in special modo, è in primo luogo una scommessa di ricerca e di conoscenza».

3° Premio - Girolamo Melissa di Augusta (SR) – “Incendio a bordo in pieno Atlantico” «Il brusco impennarsi del linguaggio, che abbandona l’iniziale scorrevolezza per diventare concitato alternarsi di frasi spezzate e di ordini secchi, fa da contrappunto all’evolversi degli eventi, quasi accompagnando e sottolineando il propagarsi delle fiamme a bordo, da sempre evento tragico a ragione temuto dalla gente di mare».

Menzioni

Antonio Ciccarello di Roma – “Ritorno al passato” «Per la piacevole levigatezza ed il tratto conciso ed elegante con cui si evocano momenti ora privati e lieti ora tristi e coraggiosi della vita di mare».

Giovanni Pagano di Torre del Greco (NA) – “Demolizione” «Per aver saputo descrivere con composta commozione il momento ultimo della vita di una nave: la demolizione. In fondo, cos’è una nave, se non una sorta di creatura vivente che nasce, vive, invecchia, muore?».

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Il Premio “Protagonisti del mare 2006” è stato conferito a RAI Fiction, Sony Pictures Television International e Palomar Endemol coproduttori della serie televisiva “GENTE DI MARE”

L’Amm. Ispettore Capo (CP) Gaetano Sodano consegna i premi ai rappresentanti dei coproduttori della fiction “Gente di mare” Anna Falasca, Guido Giusti e Simona De Camillo

Il “Premio Speciale Artemare 2006” è stato conferito agli attori della serie televisiva “GENTE DI MARE”

Il Ten. Vasc. Antonio Lo Giudice, com.te dell’Ufficio Circondariale Marittimo di Riposto, consegna i premi agli attori Antonio Milo e Domenico Fortunato Pagina 184 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Felice Zanghì

IL TIFONE CARLOTTA E LA FRANCA

13 giugno 1959, 17° Latit. Nord; 132° Longit. Est. (Oceano pacifico). Ore 10,32: arresto del motore di propulsione per intervento dell’esclusore di sovraccarico dovuto ad “uscita di passo” della ruota polare rispetto al campo rotante. Causa dell’avaria: eccessivo regresso1 dell’elica, causato da eccessivo moto ondoso di prora con notevole squilibrio tra la coppia motrice e la resistenza della nave. Sul Giornale di Macchina, (corrispettivo del Giornale Nautico), nello spazio riservato ad “Annotazioni, Anomalie, Eventi vari”, fu riportata la nota sopradetta, laconica, scarna, meramente tecnica. Essa, infatti, non poteva essere sufficiente a far capire che proprio in quel momento parossistico del tifone, la nave aveva corso il rischio di affondare, perché a causa della perdita di spinta sarebbe stata “traversata”2 dalle onde. Non era stato altresì riferito che l’inconveniente si era ripetuto per ben tre volte, fino a che il mare non era divenuto meno impietoso. Non erano state annotate le innumerevoli avarie che fin dalla sera precedente, avevano coinvolto una buona parte delle apparecchiature di Macchina. Questo è un vezzo degli uomini di mare, che quando riescono a scampare ad un naufragio, tendono sempre a minimizzare l’accaduto; talvolta anche per timore di essere coinvolti nella responsabilità. La nave, in origine, era stata la Steam Ship Tanker two – YORK – Dept. Boston – costruita nei cantieri navali di Norfolk nel 1942 per la NAVY degli USA, ed era stata utilizzata, per le necessità belliche, come nave da rifornimento alle unità navali combattenti. In particolare avendo partecipato alla epica battaglia di Okinawa, ed essendone uscita indenne, era stata insignita di una targa ricordo, che portava affissa sul frontale della tuga, sotto il ponte di comando. Essa faceva parte adesso, di quelle navi che, secondo il piano Marshall, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, per generosità del popolo americano, erano state date agli armatori dei paesi sconfitti, che avevano perso navi, affondate nelle operazioni belliche. Quando era giunta in Italia e consegnata all’Armatore Ernesto Fassio, la nave era stata ribattezzata col nome di FRANCA FASSIO. Era una Petroliera, cioè nave adatta al trasporto di liquidi, in tal caso, prodotti petroliferi, della classe T Due (traduzione dall’inglese Tanker Two). Dopo quindici anni, ritornava nelle acque del Pacifico, dove era sfuggita a bombe e siluri; adesso in attività mercantile, con un carico di greggio3, proveniente dai Pagina 185 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° pozzi persiani di Ras Tanura, per le raffinerie del Giappone. Durante la navigazione, a bordo fiorirono le storie più fantastiche immaginabili, raccontate da quelli che in Giappone c’erano già stati. Esse parlavano di avventure favolose con le Geishe locali, dell’estrema cordialità dei Giapponesi, della possibilità di fare affari molto convenienti, comprando perle, ceramiche finissime, vasi Saxzuma e naturalmente i transistors, radio a t. ancora da noi poco diffusi. Queste storie accendevano la fantasia dei pivelli, come me, che per la prima volta mi accingevo a sbarcare su quella terra. Pensate che il Direttore di Macchina, vecchio bacucco già sessantenne, da una settimana, prima dell’arrivo, ancor prima di doppiare lo Stretto di Malacca, aveva preparato, distesi sul letto, tutti i vestiti che possedeva a bordo, e tormentava senza tregua il povero Cameriere: “Peppino, le scarpe! quelle altre, le rosse, le devi lucidare. Ah, le camicie, qua ce ne sono solo due, devi tirare fuori pure le altre, e stirale! mi raccomando”. Il 10 giugno 1959 la nave entrò nel porto di Matzuyama, nell’isola di Shikoku, accolta con grandi festeggiamenti: fu accompagnata, da rimorchiatori che in segno di festa, lanciavano con gl’idranti, fontane d’acqua per aria. Dopo l’ormeggio al pontile della raffineria, oltre alle normali rappresentanze, Consolare, Marittima, Doganale, si presentarono a bordo anche le Autorità cittadine precedute da un corteo di Gheishe in Kimono, che recavano fasci di fiori di loto. Era un’accoglienza particolare, a loro dire, poiché la nave entrava per la prima volta in quel porto. Quella sosta non deluse le aspettative di nessuno: tutti ebbero modo di sperimentare quanto fosse vero tutto ciò che si diceva a proposito dell’accoglienza dei Giapponesi. Ripartimmo la mattina del 12, diretti al Golfo Persico. La navigazione procedette in modo regolare fino al tardo pomeriggio, allorché, con meraviglia, mi accorsi che i colleghi di coperta erano venuti a poppa in anticipo sull’ora di cena4. Da ciò dedussi che c’era aria di burrasca, e da come erano accigliati e ammutoliti, pensai che avessero litigato. Il Direttore di Macchina entrò nella sua cabina, sbattendo la porta per non farsi vedere più fuori, come invece di solito usava fare. A togliermi i dubbi fu il Marconista5. Questi era riservato, timido, poco loquace, e di solito preferiva starsene in disparte, e raramente partecipava ai pur brevi intrattenimenti degli altri Ufficiali, nel dopocena; ma quella volta lo avvicinai e gli chiesi, con circospezione: “Sior, mi dica, cosa sta succedendo? perché hanno quelle facce?”. Ed egli di rimando: “Stormy weather, stormy, gale! (in inglese) sta arrivando Carlotta, un tifone6, questo è il terzo del mese”. In Quell’occasione appresi che i tifoni vengono nominati con la lettera iniziale in ordine alfabetico, piuttosto che dire il 1°, 2° ecc. di ogni mese. E continuò: “Il Comandante ha consigliato di anticipare la cena, perché fra un po’ saremo allo scoperto e comincerà la danza”. Il gruppetto si era incamminato verso la saletta, io lo seguii e mi avvicinai al 3° Ufficiale di Coperta, col quale avevo più confidenza, per avere maggiori dettagli. Gli chiesi: “Che sta succedendo? perché sono così nervosi? e cos’è un tifone?”. Ed egli: “Un casino, è successo al centro, il Direttore ha litigato col Comandante, perché voleva che tornassimo indietro. I bollettini meteo maru, danno in arrivo un tifone dal Mare Cinese Orientale, con direzione sud-ovest – nord-est con venti di 120 Pagina 186 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il tifone Carlotta e la Franca Felice Zanghì nodi (210-230 Km/h), speriamo che ci prenda solo di striscio. Il Comandante pensa che possiamo schivarlo; ma il Direttore voleva che tornassimo per rifugiarci dietro qualche isoletta, a ridosso7 di Kyùshù, pensa, ti pare possibile?”. Io non ero allora in grado di esprimere un giudizio in merito, e non aggiunsi altro; ma intimamente provai una sorta di emozione piacevole. Può sembrare strano, ma per la prima volta mi sentivo partecipe di una di tante avventure, di cui in precedenza avevo solo letto sui libri dei romanzi di Salgari e di Kipling. A tavola c’era un silenzio inusuale, quasi irreale, e faceva anche un caldo afoso insopportabile, ma normale per la latitudine in cui ci trovavamo e per la stagione tardo primaverile. I commensali si sbrigarono in fretta e partirono per il centro; i Macchinisti rimanemmo a poppa a commentare ciò che stava accadendo. Il Direttore, si può immaginare, contrariato com’era, chiuso in cabina, non era proprio il caso di stuzzicarlo. Mi misi a parlare con Giuseppe R., il 2° Ufficiale, più anziano di me, anche di età, caro amico, commilitone in quanto eravamo stati insieme in Accademia Navale a Livorno e successivamente anche al Dragaggio, a La Spezia. Per saperne di più, gli chiesi: «Dimmi, cos’è questo fatto di tornare indietro, non tornare? è veramente tanto pericoloso?». Mi ero rivolto a lui perché prima di venire in Marina, egli aveva già navigato, quindi supponevo avesse esperienza in merito; ma ahimè! questa volta mi deluse: aveva navigato solo in Mediterraneo e Mar Rosso, imbarcato sulle bananiere8, tuttavia mi rispose: «Il Comandante è un belinun9, io non sono esperto di tifoni, però so che quando capita, sono c. amari! il Direttore ha ragione, io so che in questi casi si puggia10, si và a ridosso». Questa volta, vedrai, prendiamo il battesimo del mare11. Mentre così discutevamo, mi accorsi che si erano fatte le ore venti, e dovevo montare al mio turno di guardia in macchina, per cui ci salutammo. La nave cominciò ad oscillare con un movimento ampio e lungo, quasi sonnolento. Mi affacciai dal carruggetto12 verso ovest: il sole era scomparso dietro una fitta muraglia di nuvole scure. A livello del mare non c’era vento, per cui la sua superficie appariva liscia come olio; mentre da sotto, gonfiava il ventre in modo pauroso. Le onde, passando sotto allo scafo, sollevavano la nave facendola dondolare da una parte all’altra, come se tutto fosse solo un gioco di altalena. Mentre stavo per cambiarmi d’abito, o per dir meglio, spogliarmi, dato che a causa dell’eccessivo caldo, si scendeva in macchina13 indossando solo dei pantaloncini e delle canottiere, bussò alla porta il Cameriere: «Si può?»; «Avanti, Peppino», gli dissi, «che c’è?». «Niente, Sciù14, sono venuto per mettere gli scuri15 agli ublò16 ». Questo fatto accrebbe in me la preoccupazione che stesse per avvenire qualcosa di serio. Sceso in macchina, presi le consegne dal collega superiore: tutto regolare. Verificai: pressione vapore in caldaia = 470 p.s.i. (pound/square inc) libbre su pollice quadrato; vuoto al condensatore = 64 cm hg (centimetri di mercurio), ovvero 81% come vuoto assoluto; giri elica = 98 r.p.m. (revolution per minute). Si sarà capito che l’impianto conservava ancora tutte le diciture in inglese. Non voglio ulteriormente annoiare il lettore con altri dati tecnici; ma ho voluto Pagina 187 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° dare questi cenni per introdurlo in un ambiente insolito, da dove intendo raccontare l’accaduto: la sala macchine. La prima cosa insolita che notai, fu però il fatto che il 1° Macchinista non si allontanò dal locale, come di consueto; ma vi rimase, ed insieme al Caporale ed al Carbonaio cominciarono a chiudere gli osteriggi17. Dopo un po’ apparve nel locale, anche il Direttore di Macchina, cosa insolita pure questa, dato che egli presenziava solo durante le manovre di arrivo e di partenza o in caso di avarie. Mi venne accanto, diede una rapida occhiata al brogliaccio18 , poi, rivolgendosi a me: «Sciù, passiamo ad andatura di manovra, passi la 114 libbre sulla calderina, chiudiamo gli spillamenti19, fermi l’evaporatore, metta in riscaldamento l’altra Coffin20». Tutto ciò, immaginate! a cenni o gridato e mimato, a causa dell’alto livello di rumore delle turbine. Io partii in fretta per eseguire tutte quelle operazioni e così cominciai a notare che il rullìo21 della nave andava aumentando ad ogni colpo, come pure il beccheggio22 che assunse dimensioni tali da dare, a tratti, la sensazione di restare sospesi per aria, senza peso. In origine, dato che la nave era stata costruita per le necessità belliche, tutti i macchinari erano stati predisposti per il funzionamento automatico dell’impianto: saggezza militare americana suggeriva di evitare di avere personale in macchina nell’eventualità che la nave fosse stata colpita. Gli Italiani, però, poco avvezzi a queste filosofie o per scarsa dimestichezza con gli automatismi, non avevano perso tempo, appena avute le navi, ad eliminare tutte le funzioni automatiche. Così adesso io, mi dovevo arrampicare sulle pareti per manovrare tante valvole che vi erano ubicate, aggrappandomi alle tubolature, come una scimmia, per non cascare. Ben presto dagli osteriggi non filtrò più la luce diurna, e la sala macchine rimase rischiarata solo dall’illuminazione elettrica, sebbene fosse ancora giorno. Il cielo si era fatto nero come la notte ed il vento che soffiava forte, sollevava gli spruzzi del mare e li spingeva dentro le maniche a vento23, di modo che in macchina giungevano cascatelle d’acqua salata. Queste mettevano a repentaglio l’isolamento degli apparati elettrici, con il connesso rischio di cortocircuito, incendio e pericolo grave di folgorazione per il personale addetto. Si cercarono, nei magazzini, quanti teloni fosse possibile reperire, e con quelli gli Ingrassatori ed il Carbonaio cercarono di coprire i macchinari ed i quadri di comando dei motori elettrici. A mano a mano che la forza delle onde andò aumentando, quelle cascate divennero sempre più abbondanti finché nel locale venne a piovere da tutte le parti. Al piano di manovra, cioè nella zona in cui è concentrata tutta la strumentazione di controllo dell’impianto, il Direttore di Macchina non riusciva a stare un attimo fermo: andava avanti e indietro, in palese stato di agitazione, con le mani dietro la schiena; mentre camminava borbottava frasi indecifrabili, probabili invettive verso il comandante. Non smetteva di guardare, ossessivamente, il vacuometro24 che progressivamente indicava valori in preoccupante calo. Era la conseguenza dell’eccessivo beccheggio della nave che scopriva le griglie di presa acqua mare delle pompe di raffreddamento, provocandone il disinnescamento25: il condensatore ricevendo acqua in quantità insufficiente, non esplicava a pieno la sua funzione di schok26, pertanto il vapore tardava a trasformarsi in acqua. Inoltre, a questo, si Pagina 188 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il tifone Carlotta e la Franca Felice Zanghì aggiungeva il cattivo funzionamento degli eiettori27, sempre per lo stesso motivo, il difettoso raffreddamento, ed invece di buttare fuori l’aria, dagl’impianti sotto vuoto, sbuffavano vapore in quantità tale da rendere problematica la permanenza del personale in quell’atmosfera. Addossati alla paratia poppiera che separava il locale macchine da quello delle caldaie, fischiando paurosamente, sembrava chiedessero soccorso: “acqua, acqua di raffreddamento”. Iniziò un corri – corri da una pompa all’altra, per rimediare all’inconveniente. Si aprivano gli spurghi d’aria sulle chiocciole per fare il pieno d’acqua, fermando momentaneamente i motori elettrici, e poi si riavviavano; ma mentre avevi innescato una pompa, un’altra ti lasciava28; insomma, un incubo, un lavoro di grande tensione. Mentre la nave combatteva la sua impari lotta contro le onde dell’oceano sconvolto dalle raffiche del vento, nel suo ventre, come un dinosauro morente, le macchine lanciavano grida all’arrivo di ogni onda, ad ogni colpo di mare. Il sibilo delle turbine saliva al massimo dei decibell29 disponibili, coprendo ogni altro rumore; ma non appena lo scafo, superata la cresta dell’onda, caracollava verso prora, l’elica, con grandi vibrazioni, usciva fuori dall’acqua, per cui il motore di propulsione tendeva a precipitare30, un dispositivo a masse centrifughe (autoregolatore) azionava una valvola che chiudeva il vapore alle turbine, facendole rallentare. In questa fase il sibilo si attenuava, facendo percepire altri rumori: quello lacerante, gracchiato, del by-pass31 dell’alimento caldaie, che scaricava verso il deaeratore32 l’acqua in eccesso. Ad ogni colpo di mare33, questa strana melodia si ripeteva con fedeltà: l’alto e basso del sibilo delle turbine, e nell’intervallo, oltre al gracchiare del by-pass, lo sbuffare degli eiettori, il ronzìo del generatore elettrico, il russare sordo del grande motore di propulsione. Di tanto in tanto, uno scossone avvertiva di un colpo di mare che si abbatteva contro il mascone34 cui seguiva un cigolare lamentoso delle strutture, un rimbombare dei plancè35 che sobbalzavano. Tutto ciò, per l’intera notte, senza tregua, e poi anche il mattino seguente. Facce stralunate, occhi carichi di sonno, capelli arruffati; con la mente piena di fuliggini, ci guardavamo, senza quasi riconoscerci; i dialoghi ridotti al minimo, sembravamo dei fantasmi. Ciascuno si chiedeva, dentro di sé, se l’avremmo scampata; nessuno aveva il coraggio di chiederlo al vicino: i subalterni, per timidezza; gli anziani, per sufficienza, ostentavano sicurezza, dissimulando quella naturale paura che invece li tradiva nel tremore delle mani, o nello strozzamento della voce al momento di parlare. Io osservavo con attenzione le reazioni degli anziani, in particolare, dei miei superiori: da essi cercavo di trarre risposte, ma sapevo bene che non me le avrebbero date esplicitamente. Alle ore otto di mattina, nominalmente cominciava il mio turno di guardia; ma quel giorno eravamo tutti lì, in sala macchine, fin dalla sera precedente. L’ingrassatore che faceva la guardia con me, come di consueto, preparò l’ennesimo caffè con la napoletana36 e lo prendemmo con avidità, per quel piccolo rianimo che poteva darci; la colazione era certo che sarebbe saltata. Chi era stato sopracoperta, riferiva che la cucina, che era ubicata a poppa, era semidistrutta dalle onde che erano riuscite a Pagina 189 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° montarvi sopra, facendola da padrone. Per fortuna, le porte corazzate dei carruggetti avevano retto impedendo all’acqua d’invadere le cabine dell’equipaggio. Durante la notte, nessuno si era potuto permettere di andare a dormire o almeno rilassarsi. Io stesso avevo fatto l’esperienza: ottenuto il permesso, ero salito in cabina ed avevo tentato di mettermi in cuccetta37; ma era stato impossibile restarvi in quanto il rollio mi buttava fuori, nonostante avessi messo dei salvagente sotto il materasso, per creare una sorta di culla, come si faceva quando c’era mare grosso38; ma quella volta era stato inutile, vi avevo rinunciato ed ero tornato a basso39. I guai non erano mancati: durante la notte si erano verificate tante avarie. Si era fermato un ventilatore per la combustione dei forni delle caldaie e si andava con quello di riserva, mentre una squadra stava provvedendo alla riparazione. Si era bloccata una pompa coffin di alimento; ma per fortuna ce ne erano altre due, così l’Operaio meccanico stava provvedendo insieme al 1° Macchinista ed un Carbonaio a rimetterla in ordine di funzionamento. A causa delle eccessive vibrazioni dello scafo, si erano rotti dei perni di connessione di un giunto della tubolatura di vapore per i gruppi elettrogeni. Io mi ero arrampicato tra i tubi e stavo provvedendo alla sostituzione di quelli, mentre il Direttore mi dava le istruzioni: “ Corri di là, trova i perni, presto, molla, leva, leva l’amianto40, indossa i guanti isolanti, quelli pesanti, attento al volto, attento alle braccia”. Intanto dalla fessura che si era prodotta, un getto di vapore a 28 Kg/cm2 di pressione e 400 gradi Celsius di temperatura, sibilava minaccioso, invisibile ad occhio nudo, rivelato soltanto dal profondo taglio che aveva prodotto sui materassini di rivestimento isolante dei tubi, dove andava a sbattere. Verso le ore nove, avendo osservato a lungo le facce e gli atteggiamenti dei più anziani, vi avevo scorto un senso di abulia, di abbandono, c’era naturalmente molta stanchezza; ma dagli impercettibili movimenti delle labbra di alcuni, avevo intuito che forse stavano pregando. Allora mi resi conto che forse la fine era prossima ed inevitabile. Entrai in uno stato d’animo fatalista che mi permise di accettare tutto come se fosse già accaduto. Avevo superato la barriera del timore, adesso non avevo più paura; tuttavia, prima che si verificasse, volevo vedere in faccia gli elementi che l’avrebbero provocata. Mi venne un gran desiderio di salire all’aperto. Chiesi il permesso al Primo Macchinista, e mi diressi ai ponti superiori, dove da un oublot41 della porta corazzata che guardava verso il ponte di coperta, potei ammirare ciò che accadeva fuori. Non c’era sole, in pieno giorno, e la sua luce, a mala pena, riusciva a filtrare attraverso un’emulsione fitta di acqua nebulizzata, sollevata dal mare dalla furia del vento. Un ululato assordante provocato dalle raffiche che percuotevano le strutture della nave, come raccapricciante sinfonia, spingeva la mia anima vero i ricordi d’infanzia, delle lezioni di Catechismo: l’apocalisse, le trombe del Giudizio Universale. In quel momento ebbi la sensazione che quello era il segno che il Padreterno, forse in forme diverse, fa provare ai suoi figli, prima del trapasso, così come dissero i Profeti. Osservando, per quanto fosse possibile vedere, la parte della nave verso prora, avvolta in quella fuliggine di acqua e di furia, restai ‘sbalordito’: si presentò davanti una muraglia d’acqua, nera come la notte, come un’enorme caverna, alta, dalla Pagina 190 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il tifone Carlotta e la Franca Felice Zanghì sommità della quale veniva giù una cascata argentea, frastagliata in miriadi di rivoli che a mezz’aria il vento rapiva e sollevava spazzandoli via. La prora della nave vi si ficcava sotto; ma veniva subito sospinta verso l’alto, sempre più su fino all’inverosimile, fino a quando lo scafo non cominciava a scivolare indietro, sempre più velocemente, quasi alla stessa velocità delle onde. Ora, accanto a me, nella parte poppiera, nella quale mi trovavo, il livello del mare si sollevava fino all’altezza del ponte del cassero. Allora tutta la nave caracollava, da una parte, poi di nuovo s’inclinava sottovento, molto di più, finché l’onda non veniva a lambire le pareti esterne delle cabine. Quindi, con un tonfo sordo ed uno scossone che faceva balzare tutto per aria, dopo essere stata per un attimo in bilico sulla cresta dell’onda, si precipitava in avanti, perdendosi in un tonfo senza fine. Poi ricominciava il meccanismo di prima contro una nuova onda. Tutto ciò avveniva con lentezza, come fosse il dibattersi di un dinosauro morente; forse era la mia mente che correva molto veloce. In quegli attimi pensai alla mia povera mamma, a quanto avrebbe sofferto alla notizia che anche il figlio “tanto desiderato” come spesso diceva, era scomparso in mare. Mi venne in mente l’immagine di lei, di quando, durante la guerra del Quarantatrè, aveva avuto notizia della scomparsa di due suoi fratelli, in un naufragio: vestita di nero, non si dava pace piangendo, mentre io, sebbene piccolino di soli sei anni di età, cercavo di rincuorarla, dicendole «Non temere, ora stanno in Paradiso», così, come mi insegnavano al Catechismo. Ma ella non smetteva di piangere, io non potevo capirne il motivo: era che per mare c’era pure mio padre, ed aveva buona ragione a pensare quanto anch’egli fosse in pericolo. Mi vennero in mente tutti gli ammonimenti di mio padre: «Figlio mio, lascia perdere il mare, ‘a mari nun c’è taverna’, vai al Seminario, fai il Prete, come il cugino Nicola, in Chiesa il mare non arriva! stai sempre all’asciutto; il latino ti piace, vedrai, poi la vocazione ti verrà. In chiesa è sempre bonaccia42 e poi, anche se piove il Prete non deve bagnarsi per il suo uffizio ché l’Altare comunica con la Sagrestia». Poveretto, non sapeva che non l’avrei ascoltato. Abbandonai questi pensieri all’oblio, che altrimenti mi avrebbero portato tristezza, e cominciai a rovistare nelle memorie scolastiche, fra gli studi di ‘teoria della nave’, riguardo la stabilità statica, dinamica; dalla scienza delle costruzioni, riguardo la meccanica, la resistenza dello scafo alle sollecitazioni longitudinali. Le risposte erano tutt’altro che incoraggianti: lo scafo sospeso su due sole creste di onde, è soggetto a spezzarsi nel mezzo; ancora peggio, quando la cresta d’onda è al centro, sono messi a dura prova i correnti di batteria43 e l’effetto è sempre lo stesso. Cercavo di vedere l’integrità dei trincarini44, quando emergevano e cercavo di calcolare mentalmente, attraverso l’osservazione dell’allungamento dei giunti di dilatazione dei tubi di vapore in coperta, quale fosse il limite di rottura. Stetti lì quanto bastava, quindi ridiscesi in sala macchine, ai miei obblighi di servizio, tanto più necessari in quella circostanza critica. Mentre scendevo le scale mi venne di pensare all’ultima serata passata a terra, in quella della città giapponese di Matzuiama. Mi tornarono alla memoria i suoni ed i colori di quella balera e le gheishe nel loro costume tradizionale, con le scarpette Pagina 191 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° strette strette e quei piedini piccoli piccoli, e pure esse piccoline, tanto da sembrare delle ragazzine, sebbene fossero almeno maggiorenni. Poi quella casa da the e mamasan45, le ragazze sedute per terra che giocavano al ‘domino’, le risatine quando avevano sentito arrivare la nostra comitiva. Poi la corsa su per le scale, e l’accesso in quelle stanzette piccoline che sembravano fatte di cartapesta, come quella di Biancaneve, e divertirsi a tradurre in inglese per comunicare. Entrare rapidamente in confidenza era indispensabile per stabilire un minimo rapporto umano. Noi cercavamo amore in cambio di soldi; esse cercavano soldi ma lo sapevano ben dissimulare, forse cercavano pure amore: forse è stato bello pure per questo!. «E tu, povera Michiko!». Dopo i primi approcci, si era aperta totalmente alle mie curiosità, regalandomi dolcezze che io non avrei immaginato, come se la nostra fosse stata una conoscenza consolidata dal tempo, dove un sentimento vero fosse maturato: da parte sua tutto avveniva con assoluta naturalezza. Successivamente mi spiegarono che per questo, in Giappone esiste una particolare cultura ed un’arte. Per me era stato tutto molto bello: il salotto, la balera, l’Osteria del pescatore, per gustare le specialità di mare, poi l’Osteria del cacciatore per le pietanze a base di selvaggina, ed il ‘sakè’46. «Oh povera Michiko, se la vita non fosse una favola! forse non avrei resistito alle tue preghiere di restare; ma è così che deve andare», pensavo, mentre attendevo ai miei compiti, al controllo dell’andamento dell’apparato motore, in quel frangente, abbastanza caotico. «Oh povero me! chi l’avrebbe detto che sarebbe finita così! da un giorno all’altro!. Com’è strana la vita del navigante!». All’improvviso ci fu uno schianto: le luci sobbalzarono, il motore elettrico di propulsione diede dei poderosi scossoni alle strutture del locale macchine e si arrestò. Il Primo Macchinista che già da un po’ balbettava frasi indecifrabili, era il più vicino alle leve di manovra, ma come un budino, si piegò di lato e si sciolse per terra. Fortunatamente si trovava nei pressi il Secondo Macchinista, il quale, dopo aver urlato qualcosa in perfetto genovese, certamente un improperio, corse alle leve e rifacendo tutta la sequenza necessaria, riuscì a rimettere in moto la propulsione. Era una procedura un po’ laboriosa, in quanto prima occorreva portare le leve a zero per riattivare le protezioni elettriche intervenute, quindi avviare il motore in modalità ‘asincrona’ e raggiunti i giri di regime passare alla modalità ‘sincrona’ di marcia. Quella fu la situazione critica più grave per la nave, la quale, se fosse rimasta un momento in più priva di spinta dell’elica, necessaria per tenere allineata la prora contro le onde, messa di traverso, sarebbe stata scaraventata a fondo come un fuscello. Pensai allora ad un vecchio detto marinaresco siciliano: «fidi ti salva, non lignu di bacca» (la Fede ti salverà più che non il legno della barca), ed ebbi una grande compassione per quel pover’uomo, il Primo Macchinista, che così indegnamente aveva ceduto di fronte al pericolo. L’uomo di mare non può permetterselo, la fede lo deve sorreggere. Corsi giù, da basso, su incitamento del Secondo Macchinista: «Vai! va’ a vedere il motore in che condizioni si trova!». Naturalmente le ultime parole non le sentii, perché ero volato via prima che egli avesse finito la frase. Lì c’era il Direttore con occhi sbarrati ancor più di prima, tanto da sembrare un pazzo, che guardava quel Pagina 192 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il tifone Carlotta e la Franca Felice Zanghì mostro enorme, il motore elettrico, con i suoi quattro metri di diametro, che si dimenava sui supporti imbullonati alle strutture rigide dello scafo, come se volesse scappare e camminare per il locale. Nonostante le enormi sollecitazioni, però, non aveva subito danni ed io potei controllare che le bullonerie avevano retto lo sforzo. Purtroppo l’inconveniente si ripeté ancora altre due volte nel giro di un’ora, dalle 9 alle 10 circa, di quella tremenda mattina, ma qualche Santo ci protesse. Chi ebbe Fede sufficiente seppe aspettare che la tempesta alla fine si placasse, almeno un po’, ed infatti questo avvenne. Verso le ore 13, sia pur dondolando fortemente, sulla nave si poté cominciare a ragionare, a rassettare le cose ed a riorganizzarsi. Si pensò pure di mettere qualcosa sotto i denti per mangiare in modo da far riprendere il personale. Il vento era cessato del tutto e qualcuno che era salito in coperta, riferiva che aveva visto pure il sole, anche se molto offuscato. Dagli osteriggi cominciò a penetrare una timida luce diurna. Il Cambusiere mandò giù i Garzoni di Camera, con delle ceste contenenti pane duro, la famosa galletta47, bibite,scatolette, formaggi, salumi e frutta, con cui si improvvisò uno strano ‘picnic’ nella sala macchine. In quel momento di pausa, qualcuno prese coraggio e fiato per parlare. Il Caporale di macchina, che forse era il più vecchio di quella comitiva, sospirò e poi soggiunse: «Però, ammazza che temporale! io ne ho prese batoste, ma così mai!» e poi, per suscitare il riso e farci rianimare, continuò: «qua sicuramente qualcuno non ha pagato la dama». Tutti scoppiarono a ridere e ciascuno si affrettò a scusarsi: «Io no, io no!». Intervenne il Direttore: «Attenzione ragazzi, che Dio ce la mandi buona, non cantate vittoria, c’è ancora da attraversare la coda4». Qualcuno ridendo, aggiunse: «E noi gliela taglieremo la coda a questo cane! la Franca è di ferro tagliente!», alludendo ad una vantata efficienza della nave. Uno si ricordò che quel giorno ricorreva la festività di S. Antonio, ed alzando gli occhi verso l’alto, profetizzò: «Sante Antone c’iaitasse!» (Sant’Antonio ci aiuterà). Sopra coperta, intanto, sembrava che la tempesta si fosse placata. Il Cameriere, Peppino, per zelo del suo compito, aveva pensato di portare qualcosa da mangiare a quelli che stavano a centro nave, il Comandante, gli Ufficiali di coperta ed i Timonieri, asserragliati sul ponte di comando fin dal giorno precedente. Si era procurato un bel cesto, nel quale aveva sistemato le vivande, con cura, legandovi sopra un grande tovagliolo, in previsione del percorso che doveva affrontare: quei maledetti cento metri di passerella che congiungevano il cassero49 di poppa alla tuga50 di centro. Peppino aveva ben ragione di dire ‘maledetti’ per le tante volte in cui aveva dovuto fare i conti con il mare agitato nell’affrontarli. Quel giorno si presentò col cesto in mano, ed aprendo i chiavistelli51 spinse la porta che dava sulla passerella; ma immediatamente fu investito da una raffica di spruzzi che si era sollevata da un’onda montata in coperta. Si ritrasse, ma poi ritentò, non appena gli parve che le onde che sciabordavano sul ponte di coperta non erano in grado di raggiungere la passerella. Aveva percorso forse una quarantina di metri, allorché, per un movimento improvviso della nave, un’onda montò su dal fianco sinistro, proprio a poppavia della tuga di centro, schiaffeggiò i boccaporti52, gli sfoghi d’aria delle cisterne e venne a colpire in pieno la passerella nella sua Pagina 193 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° zona centrale. Peppino per un attimo, scomparve in un turbine di bollicine, sotto quella massa d’acqua; poi riapparve, aggrappato alla ringhiera53, si resse, si tirò su, inzuppato come un pulcino e si vide che non aveva più in mano il cesto con le vivande. Quello era volato via insieme alla sua giacchetta bianca d’ordinanza, strappatagli da dosso inspiegabilmente dall’azione dell’onda. Il malcapitato si rifugiò per un momento nella garitta54, poi corse velocemente per tornare a poppa. Decise che per quel giorno «il Signor Comandante poteva fare il digiuno», tanto, «se l’era meritato». Non passarono molte ore: pian piano la forza del mare55 andò aumentando ed anche il vento ricominciò a fischiare. Adesso era freddo e le onde investivano la nave al giardinetto56; ma dopo un po’, il Comandante fu costretto a cambiare direzione di rotta, perché quelle onde diventavano sempre più possenti e minacciavano di sommergere la poppa, oltre che sfasciare ciò che vi era rimasto, col rischio inoltre di giungere fino al locale macchine. Si tornò a martellare57 il mare con la prora. La seconda notte venne presto, con venti furibondi che facevano fremere l’intera struttura, e scrosci di pioggia battente58 che s’infilavano dappertutto. Gli anziani però, in questo, videro buoni segni, nel senso che: «La pioggia fa lisciare il mare» dissero, ed il Caporale che si trovò vicino a me esordì: «Quando il mare è troppo forte, bisogna buttare a mare olio! io avrei buttato olio e nafta in mare». Evidentemente si riferiva alla leggenda che durante le tempeste, i marinai dei velieri buttassero dell’olio in mare, per renderlo liscio, appunto come l’olio. Poi continuò: «E le code di ratto?59 ci fosse oggi uno di quei marinai! con una preghiera ed un colpo di coltello, le tagliavano in un baleno. Altro che tempeste; essi stavano in mare per anni ed anni, sempre nella bonaccia60, con il vento a favore61». Io ascoltavo divertito queste storie, e quasi invidiavo l’ignoranza di quella persona che forse era veramente convinto di ciò che diceva. Era questo il segreto della sua serenità. Per tutta la notte continuò quel batti e ribatti contro gli elementi della natura, e tutti fummo impegnati, senza un momento di pausa, correndo su e giù, per garantire l’efficienza dell’apparato motore, delle pompe, degli eiettori, delle caldaie, dei condensatori: perché l’avaria di uno di essi avrebbe potuto significare la fine di tutto. Immaginai la scena come se ci fossi già stato: uno schiocco assordante, la nave che si spezza. La luce che sparisce, poi un chiarore strano, bianco e violetto, quello della fosforescenza, ed un fiume di bolle e bollicine che corre verso l’alto; poi la quiete. Niente più onde, niente più urti. Un silenzio assoluto ed altrettanta pace. Era tornata la luce, ed attraverso la trasparenza degli oublot un corteo di pesci curiosi, era venuto a spiare le nostre fattezze, “strani pesci!” al loro cospetto, caduti dal cielo nel loro abisso sereno. Passò anche la seconda notte, ed alle prime luci dell’alba, il moto ondoso si calmò, come pure il vento. Durante la notte, quando l’emergenza lo aveva consentito, il Direttore aveva mandato a riposare, a turno, un po’ tutti; però si era dimenticato di me che adesso avevo una stanchezza indescrivibile, tale sonno per cui mi si chiudevano letteralmente gli occhi. Quando tornò giù il 1° Macchinista, lo stesso Direttore gli passò le consegne ed andò pure lui in cabina a riposare. Spossato com’ero dalla stanchezza, chiesi al collega superiore di potermi Pagina 194 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il tifone Carlotta e la Franca Felice Zanghì appoggiare un po’. Nel locale non c’erano sedie né sedili di sorta, non si usava; c’erano, nei pressi dei trasformatori elettrici di potenza, due casse contenenti pezzi di rispetto, posizionate distanti circa cinquanta centimetri l’una dall’altra, in una zona tranquilla, dal lato opposto a quello del piano di manovra. Su di quelle mi adagiai, col busto su di una e le gambe sull’altra, e non mi accorsi di essermi addormentato. Il Secondo62, mio caro amico, fin dai tempi della Marina Militare, mi lasciò dormire, o forse si dimenticò di me. Mi svegliai che era già ora di pranzo, le undici antimeridiane, completamente disorientato, mi sembrava di essere in un altro mondo, tanto ero stordito. L’amico mi fece una battuta: «Credevo fossi morto, belin!63, vai, vai su! e torna presto, che ho una fame cane». Salito in coperta, finalmente potei respirare l’aria dell’oceano. Il sole era pure un po’ tiepido e mi piacque risentire sul corpo, gli effetti del calore e del vento, insomma, la sensazione di essere tornato in vita. La nave ora oscillava lentamente sopra grandi onde lunghe, che il mare aveva ereditato dalla tempeste del giorno precedente. A bordo, la vita era ripresa come sempre, come nulla fosse accaduto, scandita dal ritmo del cambio di guardia, quel tocco particolare della campana, che era una bombola del gas, cui era stato tolto il fondo, appesa al traliccio della scala di macchina, percossa con un martello o più spesso con una grossa chiave a gancio64. Il tocco indicava il quarto, quindici minuti prima del cambio della guardia; allo scadere dell’orario, venivano battuti tanti colpi, almeno tre. Rientrato in cabina, rialzai le poltrone che erano rotolate agli angoli e raccolsi tutti gli oggetti finiti per terra, levai i dischi di sicurezza dai due oublot, di modo che potei guardare fuori, fin dove l’orizzonte chiudeva la superficie liscia del mare. Avevo appetito; ma dalla porta che dava sul carruggetto65, non proveniva quel caratteristico odore di bollito e cavolo fritto, che a quell’ora, di consueto, manifestava l’attività alacre del Cuoco. Quasi istintivamente mi diressi verso la cucina. Lungo il percorso, il Cambusiere mi venne incontro e mi abbracciò, cosa che mi stupì non poco; ma egli era visibilmente emozionato, quasi con le lacrime agli occhi. Gli chiesi: «Maestro, che c’è?»; ma egli non mi fece finire la frase ed esordì: «Sciù66, ce l’abbiamo fatta! ce l’abbiamo fatta, siamo vivi grazie a Sant’Antonio!». Allora compresi meglio la sua agitazione, e successivamente mi fu spiegato che durante la tempesta, egli era stato colto da una crisi di panico, per cui i Marinai avevano avuto un bel da fare, nella saletta mensa, per tenerlo a bada e confortarlo. Appresi pure che tutto il personale di coperta, asserragliato in quella saletta, aveva combattuto la sua parte contro la furia del mare, rinforzando la chiusura delle porte corazzate, che le onde minacciavano di sfondare, stringendo i galletti67, per impedire che l’acqua irrompesse nei locali sottostanti. Ma la cucina, essendo situata all’estrema poppa, era rimasta alla mercé delle onde che vi avevano fatto da padrone. Recatomi sul posto, notai la rovina: non c’era traccia di pentole o tegami, nemmeno il bancone centrale era più al suo posto, con tutta la fila dei coltelli nella rastrelliera, di cui il Cuoco era tanto orgoglioso. C’era una squadra che stava tentando di ricostruire il forno, ed altri che cercavano di riattivare qualche fornello per cucinare almeno una Pagina 195 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° pietanza calda. Capii che per quel giorno e qualche altro ancora ci si sarebbe dovuti accontentare di pasti improvvisati. La sera del terzo giorno, ci ritrovammo a tavola insieme ai colleghi di coperta, che erano rimasti isolati al centro, per tutto quel tempo, e naturalmente i discorsi non poterono che riguardare gli episodi di quell’evento straordinario. Ogn’uno aveva qualcosa di particolare da aggiungere e raccontare. I discorsi palesi non erano tanto stuzzicanti; ma quelli sottaciuti o sussurrati all’orecchio, in confidenza!: «Quel fetente! lo avresti dovuto vedere, era pallido come un cencio, dopo che ha voluto fare l’eroe! a cacciarci nell’occhio del ciclone». Altro: «Che mi dici? che mi dici, quando s’è fermato il motore propulsore, com’è stato?». «Che vuoi che ti dica, menomale che c’è stato quel Santo che ci ha protetto; ma quell’altro santo che è corso a riavviarlo!». Poi giunse il Primo di coperta: «Ragazzi, prestate attenzione. Il Signor Comandante ringrazia tutti per il comportamento tenuto durante la tempesta e pertanto desidera offrire una festa per questo scopo e per ringraziare il Sant’Antonio, protettore. Pertanto bandisce una gara di pittura o disegno che illustri una fase dell’accaduto». Non disse che il Comandante, probabilmente voleva scusarsi, o quantomeno, imbonire la rabbia dell’Equipaggio, di cui forse aveva avuto sentore. I commenti a quella dichiarazione, vennero a denti stretti, non furono percepiti da nessuno. Il Comandante lo vedemmo, a poppa, dopo una diecina di giorni, quando già aveva fatto pace col Direttore di Macchina. Quella sera, dopo la cena, accettammo e bevemmo il fiaschetto68, offerto dal Comandante alla Mensa dei Signori Ufficiali: di norma, si beveva birra o cancarrone69. Dopo una diecina di giorni ancora, in un viaggio successivo, in cui eravamo diretti verso l’Indonesia, durante la sosta a Singapore, si svolse la Festa di ringraziamento al Santo. Fu preparato un pranzo speciale, durante il quale furono serviti antipasti con caviale, pietanze elaborate, nelle quali il Cuoco profuse la sua orgogliosa professionalità di chef70, e si brindò con vino d’annata e spumante. Dopo il pranzo, furono presentate le opere per il concorso pittorico, e la giuria scelse un quadro realizzato con pittura di bordo, su di un foglio di compensato, da un Marinaio. Raffigurava il Sant’Antonio in cielo, sopra le nuvole, che attraverso uno squarcio di quelle, col braccio proteso, attraverso un raggio di luce che partiva dalla mano, tirava su la nave dalle onde inferocite del mare. Il Comandante, quel giorno, si era presentato a poppa, con un sorrisetto stampato in viso,come di certi cani bastonati; ma poi, durante la festa, si riprese, perché l’Equipaggio, avendolo perdonato, gli seppe dimostrare affetto, o forse almeno comprensione. Alla fine fece il suo discorsetto, ringraziando tutti per il comportamento durante la tempesta ed evitando di scendere nei particolari; piuttosto ponendo l’accento sui miracoli, appunto di Sant’Antonio. In quel momento pensai: «Altro che Antonio! San Giuseppe, avrebbe dovuto ringraziare”». Se non fosse stato per l’intervento del mio amico Giuseppe R. che nel momento cruciale era corso a rimettere in moto il propulsore, saremmo finiti a fare compagnia ai pesci. Pagina 196 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il tifone Carlotta e la Franca Felice Zanghì

Mi venne in mente Ferdinando Magellano, il grande navigatore, e ragionai sul fatto che avesse chiamato quell’oceano, Pacifico; io non l’avrei mai detto. Magellano, forse paragonandolo all’Atlantico, che specie sulle rotte verso nord è più frequentemente burrascoso ed agitato, avrà voluto ingraziarsi con un oceano che gli era stato benevolo.

Post scriptum. Dopo quella batosta, la Franca fece altri viaggi tra il Golfo Persico e le destinazioni dell’Estremo Oriente, solcando i mari degli oceani, Indiano e Pacifico. Durante quei viaggi, furono compilati tutti i rapporti di avaria71, sia quelli di macchina che di coperta, conseguenti ai danni subiti. Dopo la scaricazione ed il degassaggio delle cisterne, si facevano ispezioni, dalle quali emersero danni pure allo scafo, con infiltrazioni di acqua. Tutto ciò fu, come di dovere, portato a conoscenza della Direzione Armatoriale, la quale dedusse che occorreva fare i grandi lavori72 di riparazione. Intercorsero frenetici scambi di comunicati fra il Comando e la Compagnia73, dove, alla fine, avendo valutato non economicamente conveniente una grande riparazione, fu deciso di mandare la nave al disarmo. Per l’ultimo viaggio, la nave fu mandata a caricare greggio74 a Rastanura, nel Golfo Persico, per la destinazione di Ravenna; quindi, dopo la discarica, pervenne a bordo, l’ordine di dirigere a vuoto, verso La Spezia. Il viaggio lo facemmo a lento moto, come era stato ordinato, in previsione di qualche cambio di decisione dell’ultima ora; ma questa non venne. La gloriosa Steam Ship York, ovvero, altrettanto valente Franca Fassio, dopo questo malinconico viatico, giunse e calò le ancore nella rada del Muggiano, accanto a tante altre carrette del mare disposte in una lunga riga, all’interno della Diga Foranea, per una lunga attesa, fino a quando il demolitore non avrebbe avuto tempo e convenienza di prelevarne il ferro per l’alto forno.

Il Presidente della Giuria Orazio Licciardello consegna il 1° Premio FATTI DI BORDO 2007 - XVIII edizione a Felice Zanghì di Messina per il racconto “Il tifone Carlotta e la Franca” Pagina 197 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Note 1) Regresso: differenza tra la percorrenza teorica ottenuta moltiplicando il passo dell’elica per il numero di giri e la percorrenza reale misurata. Si esprime in %. 2) Traversata: allorché la nave non è in grado di mantenere la prora contro le onde, viene investita lateralmente, e se supera un angolo d’inclinazione eccessivo, detto critico, viene ribaltata. 3) Greggio: petrolio di estrazione dai pozzi. 4) Ora di cena: ore venti. 5) Marconista: Ufficiale radiotelegrafista. 6) Tifone: ciclone dell’Oceano Pacifico, il cui nome è derivato da “t’ai fung” = vento di Formosa (T’ai Wan). 7) A ridosso: al riparo, termine marinaresco. 8) Bananiere: navi adatte al trasporto di banane, con celle frigorifere 9) Belinun: espressione genovese per stupido. 10) Puggia: andare con vento di poppa. 11) Battesimo del mare: quando si riesce a scampare ad una tempesta. 12) Carruggetto: corridoio laterale della nave, derivato dal termine genovese “carruggio”, stradina. 13) In macchina: in sala macchine. 14) Sciù: Signor, in genovese. 15) Scuri: dischi di acciaio sovrapposti agli oblò. 16) Ublò: finestrini circolari delle navi. 17) Osteriggi: finestroni di chiusura superiore della tromba del locale macchine. 18) Brogliaccio: libro su cui vengono annotati i dati di conduzione e le note di passaggio di consegne. 19) Spillamenti: prelievo di vapore da stadi intermedi delle turbine. 20) Coffin: turbopompa di alta pressione per alimento caldaie. 21) Rullìo: movimento laterale dello scafo. 22) Beccheggio: movimento longitudinale dello scafo. 23) Maniche a vento: tubi di aerazione terminanti in cima con un grande convogliatore a forma di pipa orientabile in direzione del vento. 24)Vacuometro: strumento che indica la differenza di pressione fra quella atmosferica e quella esistente nel condensatore. 25) Disinnescamento: fenomeno che si verifica quando la camera della pompa centrifuga si riempie d’aria e cessa l’effetto di pompaggio. 26) Schok: rapida condensazione del vapore. 27) Eiettori: apparecchi fluidodinamici che attraverso l’effetto d’induzione in particolari tubi convergente- divergente erano deputati all’estrazione dell’aria dai condensatori, sotto vuoto. 28) Lasciare: si dice di una pompa allorché smette di mandare in pressione il liquido. 29) Decibel: unità di misura del suono, rumore. 30) Precipitare: si dice quando un macchinario supera il regime normale di giri. 31) By-pass: sorpasso, deviazione di un fluido dalla sua destinazione. 32) Deaeratore: grande serbatoio provvisto di diaframmi, atto a separare le schiume dall’acqua di condensa ed eliminare l’aria. 33) Colpo di mare: onda che sbatte contro lo scafo. 34) Mascone: parte laterale anteriore della prora. 35) Plancè: lamieroni che costituiscono il pavimento nei locali macchine, dal francese ‘plongè’, appoggiati, su telai. 36) Napoletana: caffettiera per infusione a gravità. 37) Cuccetta: lettino addossato alla parete della cabina. 38) Mare grosso: mare agitato. 39) A basso: giù, in sala macchine. 40) Amianto: rivestimento isolante termico. 41) Oublot: oblò, finestrino circolare con vetro corazzato.

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42) Bonaccia: mare calmo ed assenza di vento. 43) Correnti di batteria: longheroni di acciaio di rinforzo longitudinale sotto il ponte di coperta. 44)Trincarino: struttura longitudinale di rinforzo che collega il ponte di coperta al fasciame laterale della nave. 45) Mamasan: nome giapponese corrispettivo di ‘padrona’ o del francese ‘madame’. 46) Sakè: vino ottenuto dalla fermentazione del riso. 47) Galletta: sorta di pizzetta azima durissima, della consistenza del legno, adatto a lunga conservazione in ambiente asciutto. 48) Coda: del ciclone. Uscendo dalla zona di calma dell’occhio, al centro della circolazione, si viene investiti dal fronte freddo; ma finalmente in uscita. 49) Cassero: parte poppiera della nave, costituita dalle sovrastrutture, in cui sono ricavati gli alloggi dell’Equipaggio. 50) Tuga: sovrastruttura centrale della nave. 51) Chiavistelli: levette di acciaio che bloccano la chiusura delle porte corazzate. 52) Boccaporti: chiusure orizzontali delle stive; sulle petroliere sono le torrette dei chiusini delle cisterne. 53) Ringhiera: parapetto realizzato con tubi orizzontali e montanti di sostegno, chiamati ‘candelieri’. 54) Garitta: casotto di riparo, piazzato al centro della passerella, proprio come rifugio in simili casi. 55) Forza del mare: stabilita in base all’altezza delle onde, in una scala che la meteorologia navale definisce da 1 a 9. 56) Giardinetto: parte laterale poppiera della nave. 57) Martellare: si dice della nave che insiste contro il mare di prora, e col beccheggio, va su e giù come un martello. 58) Pioggia battente: dal rumore degli scrosci. 59) Code di ratto: vortici ascensionali d’aria, detti anche trombe marine. 60) Bonaccia: mare calmo e cielo azzurro. Caratteristica delle zone equatoriali, dove maggiormente operavano gli antichi velieri. 61) Vento a favore: vento dai quadranti di poppa che agevolavano la navigazione dei velieri. 62) Secondo: nel gergo di bordo si usa per indicare, 1°, 2°, 3°, Ufficiale, sia di Macchina che di Coperta. 63) Belin: esclamazione tipica genovese, usata per intercalare. Letteralmente significa pene. 64) Chiave a gancio: attrezzo d’acciaio, composto da una forcella ed un gancio associati ad una leva, usata per girare con forza i volantini delle valvole. 65) Carruggetto: corridoio, dal genovese ‘carrugio’, stradina di campagna formatasi dall’erosione torrentizia. 66) Sciù: sta per Signore, in genovese anche ‘Sciur’. 67) Galletti: maniglie a vite di chiusura degli oblò. 68) Fiaschetto: era usanza, alla mensa Ufficiali, offrire da bere, come pegno o per ringraziamento. 69) Cancarrone: vino ordinario che sulle navi facilmente si deteriora, a causa del continuo sbattimento. 70) Chef: dal francese ‘chef d’hotel’, capo Cuoco 71) Rapporto d’avaria: relazione dettagliata dei danni riportati e delle circostanze che li hanno provocati. 72) Grandi lavori: lavori di revisione generale delle macchine e dello scafo, con immissione in bacino di carenaggio. 73) Compagnia: società di navigazione. 74) Greggio: petrolio grezzo, come estratto dai giacimenti, attraverso i pozzi.

******** Breve prefazione dello stesso autore. Questo racconto è un fatto di bordo veramente accaduto, vissuto direttamente dall’Autore, durante le prime esperienze di navigazione. Dei personaggi si sottacciono i nomi, per ovvii motivi di riservatezza, e perché alcun riferimento potrebbe essere difforme dal reale. I sentimenti sono veri. Dedicato: A chi ha fede e coraggio: agli eroi sconosciuti artefici di atti di valore sul mare. Agli scomparsi che non ebbero uguale fortuna.

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Da sinistra: Il presidente del Circolo Gioacchino Copani, il presidente della Giuria di Narrativa prof. Orazio Licciardello, l’amministratore delegato del porto turistico “Marina di Riposto” dott. Giuseppe Zappalà, il sindaco di Riposto on.le Carmelo D’Urso, il notaio Filippo Patti, il preside Girolamo Barletta, l’amm. Gaetano Sodano e l’assessore provinciale alle Politiche culturali dott.ssa Serafina Perra al tavolo di rappresentanza dell’edizione 2007 della manifestazione Artemare

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Francesco G. Mastropierro

PERIPLO AFRICANO MOLTO PARTICOLARE

ell’ultimo scorcio del 1956 mi fu proposto il comando della petroliera N“Stanvac Lanka” per il viaggio di trasferimento da La Spezia a Ceylon; la navetta da 500 tonnellate di portata sarebbe stata preposta ad operare nel porto di Colombo come bettolina da bunkeraggio. Essa era stata autorizzata a battere bandiera degli Stati Uniti per il viaggio di trasferimento; ciò allo scopo di assicurare l’assistenza della Marina statunitense durante la lunga ed impegnativa navigazione, ma non fu mai necessario richiedere l’intervento della US Navy in Atlantico, e nemmeno nell’Oceano Indiano. Diversi anni dopo, descrivendo ad un amico quel viaggio, mi sentii chiedere se la portata della nave si dovesse intendere 500.000 tonnellate: esibendo un sorrisetto replicai che si trattava, per l’esattezza, di 499,5 tonnellate, come risultava dai piani della nave! Quello fu il mio primo comando: avevo accettato di buon grado la proposta, anche perché all’età di 28 anni diventavo il Comandante più giovane della Compagnia: questo era per me e mio padre motivo di orgoglio; mia madre ormai non c’era più, portata via prematuramente da un male inesorabile. Nel porto di La Spezia fervevano i lavori di allestimento per il viaggio attraverso il Canale di Suez per raggiungere l’isola cingalese; nel frattempo, ebbe però luogo la ben nota crisi israelo-egiziana ed il canale rimase inagibile a causa di alcune navi affondate nell’importante via d’acqua. Ben presto ci si rese conto che il blocco del canale sarebbe stato imprevedibilmente lungo, mentre la Compagnia aveva urgenza di disporre della piccola unità a Colombo. Fui convocato d’urgenza presso la sede centrale della Compagnia a Genova per discutere la possibilità di raggiungere Colombo via Capo di Buona Speranza. Confesso che rimasi perplesso quando fui messo al corrente della prospettiva, tuttavia feci rapidamente delle riflessioni, la più importante delle quali fu: Del resto un lungo viaggio non è altro che una sommatoria di diversi viaggi brevi! Prima di assentire dovevo però puntualizzare alcuni principi: Avrò carta bianca sulla

Pagina 201 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° conduzione della nave? Sarò libero di decidere dove e quando sostare, se lo riterrò necessario? Dovrò comunque avere la cartografia completa del continente africano. Il coro dei “colletti bianchi” fu unanime: Lei è il Comandante; a noi preme avere l’unità a Colombo nel più breve tempo possibile, perché stiamo perdendo bunkeraggi, perciò passi nel deserto, sotto l’Africa, dove ritiene opportuno, ma consegni al più presto la nave a Colombo! Due delle otto cisterne furono adibite a contenere gasolio per la motrice e gli ausiliari, altre due (debitamente bonificate e cementate) destinate all’acqua di lavanda; la Stanvac Lanka non era stata progettata per affrontare viaggi di lungo corso, perciò furono previsti scali intermedi (Dakar, Durban e Mombasa) per ripristino di acqua potabile e viveri freschi, salvo altri scali da me identificati per necessità insorgenti durante il viaggio. La partenza da La Spezia era prevista per il pomeriggio del 31 dicembre, ma già dalla prima manovra cominciammo a sperimentare difficoltà: una delle nostre ancore era sotto quella di un liberty francese – l’Oradour – ormeggiato in andana di fianco a noi e ce ne volle per districarci; questo ritardo ci precluse la possibilità di tarare il radiogoniometro, perciò dovemmo accontentarci della compensazione delle due bussole magnetiche nella baia del Fezzano, ormeggiati sulla apposita boa amagnetica. Preciso che le bussole, un cronometro nautico (che in seguito appresi essere stato manutenzionato dal Direttore di Macchina Minutolo, ottimo motorista ma certamente non esperto di orologeria), il radiogoniometro senza taratura, il mio binocolo e il sestante personale costituivano tutta la strumentazione in dotazione. Dopo il tramonto potemmo finalmente dirigere verso le dighe: appena fuori fummo investiti da un furioso libeccio che imperversava nell’Alto Tirreno, perciò la navigazione per Livorno – ove dovevamo imbarcare il bunker per il viaggio – risultò piuttosto … movimentata. Doppiate le secche della Meloria, diressi decisamente per l’imboccatura sud del porto e tentammo di chiamare il pilota con una torcia elettrica, che costituiva la nostra “Lampada Aldis” da segnalazione. Finalmente il pilota rispose otticamente per informarci che non poteva uscire nella notte causa maltempo. Eravamo già stati furiosamente sbatacchiati per parecchie ore e, francamente, non me la sentivo di trascorrere tutta la notte di S. Silvestro in quel modo, perciò decisi di entrare comunque (anche senza pilota). Informai il Direttore di Macchina e mandai il Primo Ufficiale a preparare per dare fondo, quindi diressi decisamente per il fanale verde della Vegliaia; con mare e vento al giardino di dritta dovevo fare attenzione a non scadere troppo verso la testata del Curvilineo; anche il timoniere era teso e attentissimo ai miei ordini. Quando finalmente doppiammo il Curvilineo cominciammo a risentire il benefico effetto del ridosso; misi la motrice a mezza forza ed accostai a sinistra: solo allora mi resi conto che le navi ancorate erano tante – noi non avevamo il radar e perciò non avevo potuto verificare prima – ma

Pagina 202 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Periplo africano molto pericoloso Francesco G. Mastropierro non fu difficile reperire un po’ di spazio ove dare fondo. Manovrando “di forza” guadagnai un posticino e ancorammo, finalmente in relativa bonaccia: la prima tappa era completa! Convocato tutto il personale in saletta, stappammo lo spumante che avevo procurato a La Spezia e brindammo al 1957 e, naturalmente, al lungo viaggio che ci attendeva. Di buon mattino venne sottobordo il pilota, meravigliato che non aveva in lista di arrivo il “Punta Crena”; gli fu risposto che la nave aveva cambiato nome dopo essere stata venduta; il livornese chiese se avessimo avvistato al largo una petroliera americana arrivata nella notte: rimase un tantino smarrito nell’apprendere che egli si trovava attualmente a bordo di quella petroliera e che noi eravamo ansiosi di essere portati alla banchina per bunkerare. Sorbito il rituale caffé, andammo all’ormeggio e qui assistemmo ad una scenetta che non dimenticherò mai: appena sistemata la passerella notammo il Mozzo, vestito di tutto punto e con le valigie, che cercava di porre la maggior distanza possibile fra sé e la nave; richiamato per dare chiarimenti, egli si fermò un attimo soltanto per urlare che egli mai e poi mai avrebbe affrontato l’oceano con quel “guscio di noce”! Il Mozzo scappò – è il termine appropriato – senza preoccuparsi dello sbarco e della paga: gli interessava soltanto allontanarsi dalla nave, essendo rimasto spaventato a morte dall’esperienza della notte precedente! Essendo il 1° gennaio, potemmo soltanto imbarcare il gasolio dalle autobotti e chiamare il tecnico della radio, atteso che il Telegrafista aveva incontrato serie difficoltà a comunicare dal mare; concordai con l’Agente la prassi da seguire per non infierire ai danni del Mozzo, che poteva essere considerato “disertore”, inoltre per imbarcare un sostituto, prima di ripartire. Nella mattinata del 2 gennaio fu risistemata in qualche modo la Stazione Radio e ci si collegò con Genova e Roma, imbarcò il Sig. Lorenzi (che era stato panettiere a Livorno) e partimmo per Dakar nel primo pomeriggio; il tempo si era alquanto calmato e si navigava bene, ma il Telegrafista Viacava captò previmeteo che non promettevano nulla di buono sulla nostra rotta: il Golfo del Leone era sotto la malefica influenza del maestrale! Perciò decisi di portarmi dalla Giraglia sotto la costa francese, per passare fra Tolone e le Isole d’Hyères (il limitato pescaggio della nave lo consentiva), randeggiare poi la costa orientale del golfo, passando all’interno del Planier, sfiorare Marsiglia fino a giungere in vista di Sète, poi poggiare in poppa e uscire dal golfo. L’accostata a sinistra richiese impegno per evitare di trovarsi con l’ondata maggiore al traverso: contate le ondate un paio di volte e informato il personale di Macchina affinché si reggessero bene, accostai decisamente e il mare in poppa ci concesse di rilassarci alquanto. Nel frattempo il Telegrafista captava richieste di soccorso di navi di maggior tonnellaggio del nostro, che navigavano al largo: la nostra situazione, nonostante fossimo un barchino, era ben diversa.

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Attraversando lo Stretto di Gibilterra, fummo contattati otticamente dal Semaforo dei Lloyds – come è consuetudine – per comunicare il transito: posta mano alla torcia elettrica, risposi e mi ringraziarono, ma poco dopo richiamarono per chiedere conferma della destinazione: evidentemente suonava loro strano che una così minuscola petroliera uscisse in Atlantico per dirigere su Colombo. Quando confermai “Colombo, Ceylon”, risposero molto significativamente: Thanks and good luck! Invero, avevamo bisogno di tanta fortuna per affrontare quel viaggio, ma non solo fortuna… La navigazione in Atlantico rivelò ben presto un aspetto che definirei quanto meno curioso: la coperta della petroliera era a trunk con laterali molto bassi sull’acqua, perciò al sorgere del sole si trovavano tanti pesci volanti (exocoetus) lateralmente al trunk, ovviamente privi di vita, ma comunque freschissimi; essi costituivano la base per golose grigliate da consumare a colazione. Pensammo subito di attrezzarci su “base industriale”, con un tendaletto trincato longitudinalmente in coperta, da illuminare adeguatamente per non ostacolare la visuale al personale di guardia in plancia nelle ore notturne. Avevamo colto nel segno: il quantitativo del pesce fresco a disposizione ogni mattina era aumentato notevolmente, tanto che non si degustava soltanto a colazione… I pesci, attratti dalla debole luce, concludevano il loro volo con un brusco impatto contro il tendaletto o qualche struttura di coperta, ove restavano immobili dopo qualche frenetico saltello, a disposizione per finire sulla griglia. Il loro vero pregio non era quello di essere “fatti in casa”, bensì quello di garantire un’apprezzatissima freschezza. Questa vuol essere soltanto una nota atta a configurare la vita di bordo. In navigazione per Dakar incontrammo fitta nebbia, perciò dovemmo ridurre la velocità per parecchie ore; il lento moto procurò lo sporcamente delle valvole di lavaggio del motore per cui, avendo rallentato l’andatura nella manovra di avvicinamento al porto, avemmo problemi: in attesa del pilota, volevo fermare lo scarroccio della nave verso alcuni scoglietti affioranti sulla nostra dritta e ordinai «mezza indietro», ma la motrice – dopo ripetuti e vani tentativi – non voleva saperne di avviarsi. Siccome la brezzolina che soffiava ci faceva continuamente scadere, prima di avvicinarci troppo al pericolo, ordinai «fondo la sinistra», ma la risposta del Primo da prora mi gelò il sangue: «No!»; ripetuto freneticamente l’ordine, ottenni lo stesso secco diniego. Non sapevo più a quale santo votarmi, mentre quei maledetti scoglietti si avvicinavano inesorabilmente; per fortuna il Direttore chiamò per confermare che era pronto a manovrare e ordinai subito «indietro tutta». Nel frattempo il pilota uscì dal porto e potemmo procedere per l’ormeggio; in seguito potei sapere che il Primo non aveva trovato al loro consueto posto le maniglie per sbloccare le catene delle ancore (in mattinata i marinai avevano pitturato sul castello e dopo non le avevano rimesse al loro posto), mentre la motrice non partiva per incrostazioni accumulatesi durante il moto nella nebbia, a velocità ridotta. Per me erano stati momenti d’inferno, perché non c’era alcun rimorchiatore nelle vicinanze,

Pagina 204 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Periplo africano molto pericoloso Francesco G. Mastropierro né avrei avuto il tempo materiale per farne uscire uno dal porto. In navigazione per Durban tagliammo l’Equatore e non mancò la cerimonia di iniziazione di coloro che ci passavano per la prima volta: fu una cerimonia alla buona, in cui il Secondo di Coperta, Sig. Rossi – che era il più anziano di bordo - fu incaricato di impersonare il Dio Nettuno, ma dovette sostituire il tridente con una manichetta antincendio, con cui “benedisse” abbondantemente i neofiti. Proseguendo la navigazione incontrammo nuovamente nebbia e il fastidio alla motrice si ripeté; questa volta eravamo in navigazione in Atlantico e il Direttore un pomeriggio mi riferì che aveva necessità di fermare la motrice per qualche ora per procedere alla pulizia delle valvole di lavaggio; cercato invano un posto dove ancorare, chiesi al Minutolo di mantenere il moto fino al giorno successivo e misi la prora per il largo; nella notte creammo un “surrogato di randa” adoperando due remi di una lancia di salvataggio ed un tendaletto; con paranchi posticci issammo il tutto all’albero di poppa, a mo’ di “vela di cappa” trincata in mezzo. Fermata la macchina con la prora al vento, la petroliera si comportò egregiamente come se fosse stata un vecchio veliero alla cappa per il tempo necessario ad eseguire il lavoro, al quale naturalmente collaborammo tutti, salvo il Primo, che era rimasto di guardia in plancia. Avevamo realizzato una “petroliera a vela”, e la cosa aveva funzionato egregiamente! Il Marconista Viacava si lamentò nuovamente della scarsa portata della trasmittente in onde medie (l’unica che avevamo a bordo; per quanto concerne le onde corte, non avevamo il trasmettitore, ma il ricevitore di un vecchio telefono ci consentiva di ricevere gli stop orari, le liste traffico e alcuni bollettini); egli pensava d’avere individuata la causa del problema nelle incrostazioni presenti in corrispondenza dell’isolatore d’antenna in uscita dalla Stazione; convocato il Minutolo e stabilito che l’intervento doveva essere eseguito nell’intervallo di tempo fra due normali turni di guardia, allo scopo di non interferire con il normale servizio, preparammo il necessario e, quando fu il momento, smontammo l’isolatore incriminato: il cavo di rame che collegava il trasmettitore all’antenna passando attraverso il soffitto della Stazione era ridotto ormai ad un filo sottilissimo e ciò costituiva una notevole impedenza al passaggio degli impulsi radioelettrici da mettere in onda. Il Viacava ed io ci impegnammo a ripulire l’isolatore ed il resto, mentre il Minutolo provvedeva a costruire il nuovo conduttore in rame; nel giro di due o tre ore il tutto era stato rimontato, perciò il Marconista trasmise una chiamata a tutte le stazioni in ascolto per provare il trasmettitore; scambiate le posizioni con un mercantile che ci aveva captato, stabilimmo che eravamo stati ascoltati a circa 400 miglia di distanza, perciò potevamo essere ben soddisfatti del lavoro eseguito. Ciò costituiva senza dubbio un ulteriore apporto positivo alla sicurezza della nave. Dopo un paio di giorni incappammo ancora nella nebbia, la velocità ridotta causò gli stessi inconvenienti che avevamo già sperimentato e si prospettò nuovamente la

Pagina 205 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° necessità di fermare la motrice principale per la pulizia delle valvole di lavaggio. Questa volta individuai un luogo ove rifugiarci: in Angola, ad una ventina di ore di navigazione, c’era qualcosa che faceva al caso nostro, anche se era pomposamente chiamata Porto Alexandre, altro non era che una baietta, senza banchine, però ben protetta esternamente da una lingua di sabbia sulla cui testata sorgeva un fanaletto montato su un traliccio metallico: quella era l’unica segnalazione luminosa esistente Tutto sommato, quel “buco” faceva egregiamente al caso nostro; decisamente esso era molto meglio che restare al largo, alla cappa con una vela di fortuna… Il motore emetteva del fumo scuro, consumava più gasolio del normale e la velocità era un po’ ridotta, ma si trattava di tirare avanti fino a Porto Alexandre; lo raggiungemmo nel tardo pomeriggio e ancorammo nel bel mezzo della baia. Ci raggiunse l’Agente segnalatoci dalla Compagnia quando avevo informato di dover poggiare per eseguire l’indispensabile lavoro: egli era anche il proprietario dell’impresa di pesca locale; l’Autorità Portuale e Doganale era costituita dai notabili del posto; essi imbarcarono con l’Agente, che fungeva anche da interprete. Approfittammo della sosta per rifornirci di viveri freschi; volevamo anche acquistare un paio di tonnetti da un peschereccio che stava rientrando verso il tramonto, ma ci volle del bello e del buono per far loro accettare almeno due pacchetti di sigarette: benedetta manifestazione di simpatia verso i… pellegrini! Dopo il tramonto, acceso un cappellone fuori bordo, scoprimmo che galleggiavamo praticamente su una marea di grossi totani: armate subito un paio di arpette – seminascoste da stracci bianchi - assicurate a lezzini attaccati in cima ad aste per pitturare, catturammo molti chili di totani, che gustammo la sera stessa a zuppa e fritti. Conversando con l’Agente avevo appreso che il posto era sede di una fiorente industria conserviera del pesce, che partiva poi inscatolato, salato o secco, quando periodicamente arrivava il mercantile adibito al trasporto. Il mattino seguente eravamo pronti a ripartire; aspettavamo soltanto i documenti, pesce fresco, frutta, limoni e verdura: l’Agente ci recapitò tutto, ma mancava la fattura del pesce: due capaci ceste di pesce sbuzzato e ben pulito erano un suo omaggio personale a coloro che stavano affrontando un viaggio tanto lungo ed impegnativo con una petroliera così minuscola. Non trovavo le parole adatte per replicare a tutto ciò, ma confessai di essere commosso per tanta comprensione e gentilezza. Riprendemmo la navigazione verso ciò che ormai noi definivamo l’angolo, ossia il Capo di Buona Speranza, da dove avremmo risalito le coste africane nell’Oceano Indiano, noi che avevamo navigato a sud lungo le coste atlantiche africane; il tempo purtroppo peggiorava a mano a mano che aumentava la latitudine sud; non eravamo in grado di fare osservazioni astronomiche per fare il punto e per controllare le deviazioni delle bussole magnetiche; ero particolarmente preoccupato perché la compensazione era stata eseguita a La Spezia (latitudine nord), mentre ora eravamo bene a sud, perciò la barra di Flinders doveva aver cambiato polarità, influenzando negativamente le deviazioni riportate dalle tabelle, tanto che non davano più molto affidamento.

Pagina 206 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Periplo africano molto pericoloso Francesco G. Mastropierro

Tuttavia procedevamo a stima, ma è facile comprendere che detta “stima” non era molto attendibile; senza far trasparire minimamente le mie preoccupazioni, tenevo la situazione sotto controllo giorno e notte. In particolare, una sera era prevista l’accostata a Capo Agulhas – il lembo più meridionale dell’Africa – dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza; smontato di guardia alle ore 20, mi ero intenzionalmente trattenuto in plancia, fingendo di voler fare compagnia al buon Rossi. Sulla nostra sinistra, ossia verso terra, incombevano dei massicci nuvoloni neri, tutt’altro che rassicuranti; erano ormai tre o quattro giorni che il sestante era forzatamente inutilizzabile. Non riuscivo a capire se quella maledetta massa scura fosse costituita da nuvoloni o dalla costa; nemmeno il binocolo mi consentiva di stabilire alcunché di certo, perciò l’attenzione – e la derivante angoscia – erano ad un livello indescrivibilmente alto, eppure dovevo mostrare tranquillità; non avevamo il radar e nemmeno l’ecoscandaglio, perciò potevo disporre solo e semplicemente delle mie percezioni, acuite al massimo livello dalla situazione del momento. Improvvisamente – nonostante il buio incombente - il binocolo mi rivelò la presenza di crestine d’onda biancheggianti sul mare: queste potevano significare soltanto la vicinanza di bassi fondali: senza esitazione ordinai “tutto a dritta!” fino a dare la poppa a quella maledetta massa scura. Non posso dire quale fosse realmente la prora vera al momento, ma era comunque una di quelle che ci facevano allontanare dalla costa; credo di poter affermare che quella sera, se non fossi rimasto in plancia, quasi certamente il gran numero di relitti giacenti in quell’area sarebbe aumentato di una unità. Lungi da me l’idea di ascrivermi il merito dell’azione, ma le personali esperienze hanno dato i loro frutti in quell’occasione. Al crepuscolo mattutino del giorno seguente potemmo fortunatamente osservare un paio di stelle che si degnarono di fare capolino fra le nuvole, determinata la posizione e fatto un controllo delle bussole con il sole appena sorto, accostammo per Durban, perciò trasmettemmo l’ETA a quel porto e la richiesta, fra le altre, di compensazione delle bussole e taratura del radiogoniometro. Ormeggiammo al Buff, ove c’era possibilità di rinnovare le nostre scorte d’acqua dolce con l’ottima acqua potabile – unica nel continente africano – fruibile da apposite tubazioni; ovviamente ci rifornimmo anche di viveri freschi; colsi l’opportunità della presenza del Consolato statunitense per far vistare i giornali di bordo. L’Agente mi condusse alla sede del Consolato, ma qui sorsero notevoli difficoltà allorché il Console mi chiese quale fosse il nostro porto di iscrizione: in effetti non ne avevamo alcuno, essendo stati autorizzati – tramite il Consolato Generale statunitense di Napoli – a battere la bandiera stelle e strisce soltanto per il viaggio di trasferimento dall’Italia a Ceylon: tutto ciò era confermato dai documenti ufficiali che avevo già mostrato. Questi rimase imbarazzatissimo e discutemmo a lungo sull’argomento, fino a che fu deciso - di comune accordo - che ci saremmo ignorati a vicenda, atteso che non si prospettava soluzione di alcun tipo. Un buon

Pagina 207 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° bicchiere di “scotch on the rocks” suggellò il gentlemen’s agreement e ci salutammo, con un nulla di fatto. Il mattino seguente ricevemmo la visita di giornalisti del “The Natal Mercury” che scattarono delle foto e prepararono un articolo il cui titolo era “The biggest and the smallest” e citava la “Universe Leader” – una delle maggiori petroliere dell’epoca – in riparazione al momento presso i cantieri navali locali, e la “Stanvac Lanka” – una delle più piccole – in transito in quel porto nel viaggio di circumnavigazione dell’Africa. Il giorno dopo, compensate le bussole fuori il porto e calibrato il radiogoniometro con il radiofaro Coopers, sbarcammo i tecnici e facemmo rotta per Mombasa, ultimo scalo previsto prima di dirigere su Colombo. Ci sorbimmo una solenne “lustrata” nel Canale di Mozambico; quando ci presentammo dinanzi al porto di Mombasa c’era un profondo mare lungo, che impedì al pilota di uscire per noi: non avevamo il radiotelefono perciò il pilota comunicò con segnali ottici, a cui potei replicare con la solita torcia elettrica, via nuvole basse, rifacendomi ad una passata esperienza vissuta in arrivo a Melbourne, ove avevamo letto il messaggio a noi diretto e riverberato da nuvoloni bassi sul mare: avevamo risposto con lo stesso sistema; quella volta la distanza coperta era nell’ordine delle 18 miglia marine. Pendolammo al largo tutta la notte a lento moto ed all’alba entrammo a Kilindini; fu una sosta senza storia, a parte lo sbarco del Cuoco per malattia. Al rientro dall’ospedale, alcuni vagoni di un treno merci fermi dinnanzi alla petroliera me ne impedivano la visuale; passato attraverso una cabina da frenatore, mi venne il cuore in gola vedendo spuntare dal ciglio banchina soltanto i colombieri dei due alberi della nave; fortunatamente la “Stanvac Lanka” non era affondata: era semplicemente l’ora della bassa marea! Ripartimmo il giorno seguente con tempo abbastanza buono. Avevo programmato una rotta che ci portava a circa 50 miglia a levante di Socotra, da dove avremmo puntato direttamente su Bombay; a circa 200 miglia di distanza da quel porto avremmo invertito la rotta per Cochin (base navale indiana nel Kerala) e di lì per Capo Comorin e quindi Colombo; questa programmazione era stata studiata per poter mandare il messaggio radio giornaliero alla Compagnia, i cui dirigenti volevano seguire passo passo la nostra navigazione. Soltanto dirigendo per levante da Socotra verso Bombay per qualche giorno non potevo assicurare l’invio dei messaggi, data la distanza da terra e la limitata portata della nostra trasmittente ad onde medie; avremmo comunque cercato di farci fare transito da qualche nave che passava dalle nostre parti. Nell’Oceano Indiano navigammo senza problemi e riuscimmo un paio di volte a trovare qualche marconista disposto a favorirci; tuttavia non potemmo atterrare a Cochin per l’effettuazione di tiri balistici della locale batteria costiera della Marina Militare Indiana. Dal largo atterrammo a Capo Comorin e di là puntammo

Pagina 208 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Periplo africano molto pericoloso Francesco G. Mastropierro direttamente sulla nostra sospirata meta. Giunti ad una decina di miglia dal porto, senza alcuna nave in transito nei paraggi, feci mettere la motrice al minimo, legai la ruota del timone alla banda e feci prelevare dal frigorifero due bottiglie di spumante comperate a La Spezia: brindammo alla riuscita dell’impresa, mentre tutti eravamo commossi. Ormeggiammo sulle boe e ricevemmo i complimenti dei dirigenti la Compagnia a Colombo, del Comandante del Porto ed altre autorità che avevano voluto porgere il loro saluto e conoscere personalmente coloro che avevano portato a termine l’ardua impresa nel modo migliore. Il viaggio aveva comportato una percorrenza di ben 13.000 miglia. In serata l’Agente tornò a bordo con un telegramma proveniente dalla Sede Centrale di New York, che recitava in italiano: Avete fatto bene e tante grazie. Il giorno seguente un altro telegramma da New York, atteso che il viaggio preventivato in tre mesi era stato compiuto in soli 67 giorni e la nave era stata consegnata perfettamente efficiente e ben pitturata, assegnava ad ognuno di noi un mese di stipendio in premio quale segno tangibile della loro riconoscenza! Tutti eravamo molto soddisfatti, sia dal punto di vista amministrativo, che – e soprattutto, direi - da quello del riconoscimento per aver portato a termine in un tempo ampiamente inferiore al previsto e nel modo migliore, un viaggio tanto impegnativo e pieno di incognite. Ricordo bene i colleghi che ci avevano definiti “pazzi” quando avevamo accettato l’incarico; personalmente ero stato definito anche “incosciente” da colleghi più anziani (d’età e di comando), ma tutti ci avevano successivamente invidiato quando avevano appreso del premio assegnatoci.

Il 2° Premio FATTI DI BORDO 2007 - XVIII edizione è stato assegnato a Francesco Mastropierro di Molfetta (BA) per il racconto “Periplo africano molto particolare”. Il premio lo consegna il Presidente della Giuria O. Licciardello Pagina 209 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Questi quattro volumi testimoniano la vicinanza del Circolo ai problemi di Riposto, del mare e dei naviganti e riportano tutte le attività svolte nei suoi 40 anni di esistenza. Principalmente viene documentato quanto è stato fatto e scritto nelle edizioni del Premio Nazionale svolte finora. Vi figurano tutti i nomi dei premiati, tanti articoli di giornali e fotografie dei documenti più significativi Pagina 210 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Antonio Ciccarello

RITORNO AL PASSATO

arina di Tirrenia - Natale ‘90 M Dal grande piazzale sul mare guardavamo la grande distesa azzurra, allora teatro di una guerra aspra, da noi molto vissuta. Ci sovveniva il ricordo di un lontano Natale; lo sentivamo nell’aria in qualche remoto scampanio, nel languore dell’anima. Pochi chilometri ci separavano dalla mitica Accademia, ma cinquanta anni dal nostro primo incontro con lei. Cinquant’anni, una ricorrenza tutta nostra da festeggiare tutti insieme. Si era in attesa dell’indomani, quando avremmo varcato il familiare cancello di S. Jacopo a Livorno per dare alla circostanza la festosità solenne e rituale che normalmente richiede. Dalle vetrate aperte della grande sala entrava insieme al vento il fragore delle onde, quasi che il mare lì davanti volesse darci il suo caldo benvenuto. Si smorzavano i toni delle battute e dei ricordi mentre ognuno entrava in sintonia col pensiero di un passato lontano ma capace di legare tutti in uno stretto vincolo fraterno. Fu in quel momento che, anche a voler bandire dalla festosità conviviale una incipiente malinconia, si manifestò l’idea che qualcuno ricordasse una situazione o un personaggio legato in qualche modo al nostro comune passato: quasi un piccolo Decamerone ridotto e castigato, i cui attori stavano lì riuniti per ingannare l’attesa e l’emozione dell’indomani. Me ne assunsi io l’iniziativa per raccontare in che modo Guido incontrò, o meglio dire, costrinse una giovane fanciulla a diventare sua sposa. Era imbarcato nel Luglio del ‘47 come Direttore del tiro di un Cacciatorpediniere. La bella Unità alla fonda davanti a Finale Ligure richiamava turisti e bagnanti che si avvicinavano dalla spiaggia con ogni genere di imbarcazioni. Lui dava il primo saluto agli ospiti che salivano a bordo dal traballante barcarizzo, poi li affidava per gruppi ai Guardiamarina di comandata; ma volle riservare per sé, quasi un presentimento, due giovani e belle ragazze. Delle due, Olga lo aveva subito colpito oltreché per l’avvenenza anche per una certa freddezza nel portamento e nelle frasi convenzionali di saluto, quasi a sfidarlo di fronte al festoso e ammiccante cinguettare delle visitatrici.

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La visita alla nave fu ovviamente prolungata al massimo con dovizia di spiegazioni e di galanterie, ma non valse a stabilire un clima più che formale: Olga apparve del tutto indifferente alle sue garbate “avances” e non cedette alle sue pressanti richieste di uno scambio di indirizzi e di rivederla a terra a Finale o altrove. Ma non aveva fatto i conti con la cocciutaggine di Guido che da quel momento non aveva pace e che, sceso a terra l’indomani, setacciò inutilmente la città e la spiaggia nella speranza d’incontrarla. Eppure doveva trovare il modo di rivederla e anche presto, perché fra due giorni la nave avrebbe salpato le ancore. Si veste con la bianca, elegante divisa, scende a terra e va al Municipio dove si fa ricevere dal Sindaco: gli dice - con finta concitazione - che un collega ricoverato in ospedale per un grave incidente occorsogli a bordo chiede di poter rivedere la sorella Olga che si trova sicuramente in vacanza a Finale, ma ad indirizzo sconosciuto. Può il Sindaco aiutarlo a trovare la ragazza perché possa poi accompagnarla da lui? La disponibilità dell’interlocutore è immediata e caldissima; requisisce un’imbarcazione a motore e insieme con Guido naviga su e giù di fronte alla lunga spiaggia invitando con l’altoparlante la signorina Olga a mettersi in condatto urgentemente con l’ufficio del Sindaco. Il tentativo fallace. Ma il bravo Sindaco non disarma: per quel brillante e simpatico Ufficiale, quindi per la Marina, vuole fare ancora di più. La sera lo preleva con l’auto di servizio e inizia con lui il giro delle discoteche. Comincia dalla più vicina, entra, fa interrompere l’orchestra e chiede lui stesso al microfono se «una certa signorina Olga è in sala». Il tentativo va in porto. - è proprio il caso di dirlo - soltanto alla terza Discoteca: Olga sente l’annuncio e tenta di nascondersi ma Guido ha visto e non se la fa sfuggire. Il Sindaco capisce subito che il malato - un malato di cuore - è il giovane ufficiale, ma egualmente compiaciuto si eclissa discretamente. Olga è sbalordita, ma alla fine è vinta dalla perseveranza e dalla simpatica sfrontatezza di Guido con cui danzerà il più bel ballo della sua vita. Una giornata di riflessione le darà la misura di un nuovo sentimento e la certezza di un nuovo e felice destino: si tratterà, al più, di mandare a monte il matrimonio con il promesso sposo di Torino. Il compagno della sua vita sarà Guido (ma sempre così ostinato?) mentre lui, a sua volta, dovrà rompere il fidanzamento con la fanciulla in trepida attesa nella lontana Puglia. C’era il tempo per un altro ricordo, l’uditorio non era stanco e io ne approfittai. Il Sottotenente di Vascello B. arrivato nel ‘41 in Accademia fu destinato alla nostra seconda Classe. Alto e aitante portava con fierezza i nastrini azzurri di molte decorazioni fra cui spiccava la Medaglia d’Argento al Valor Militare. La guerra durava da un anno e alcuni dei migliori ufficiali reduci da fatti bellici o in attesa d’imbarco venivano là destinati; la loro esperienza, le testimonianze dirette di episodi e vicende in parte sconosciute stimolavano la nostra passione per gli studi,

Pagina 212 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Ritorno al passato Antonio Ciccarello stimolavano la nostra curiosità e accrescevano l’ansia di imbarcare al più presto. Il Signor B. era gioviale e aperto, amava parlare e ricordare e diversamente dai suoi colleghi infliggeva di rado ‘giri di barra’ o di corsa. Nei suoi occhi azzurri però e nei tratti mobili del viso si leggeva come un senso d’inquietudine e d’insoddisfazione che si potevano attribuire alla forzata lontananza dal mare. La sua personalità m’incuriosiva e non perdevo occasione per avvicinarlo e per farlo parlare del suo passato. Così, grande fu la mia emozione, quando un giorno, nell’intervallo di alcune attività, si avvicinò a me che stavo seduto sul muricciolo di fronte al mare e, stimolato da una mia domanda, mi raccontò del naufragio della Torpediniera dove era Ufficiale di rotta, silurata nel Canale di Sicilia. Colpiti a morte il Comandante e il Tenente spettò a lui prendere ogni decisione successiva; il sommergibile nemico era emerso e lui fece in tempo a speronarlo prima che la Torpediniera affondasse con quasi la metà del suo equipaggio. Scaraventato lontano e indenne da una provvidenziale bolla d’aria, fu salvato dopo un giorno e una notte di abbandono sulla zattera, insieme con marinai del sommergibile. Gli chiesi se la medaglia d’argento fosse legata a quella vicenda e mi rispose di sì, aggiungendo di non esserne soddisfatto. Dovette cogliere stupore e incomprensione nel mio sguardo perché si affrettò a precisare che se la scala delle decorazioni riconosce il valore di un comportamento, allora la medaglia conseguita e pur prestigiosa alimentava in lui il dubbio di non aver dato il meglio delle sue possibilità. Così l’aspirazione alla massima ricompensa (la Medaglia d’Oro al V.M.) si identificava per lui in un’azione positiva e risolutiva nei confronti del nemico, in un atto di puro eroismo spinto all’estremo, ma ragionato sacrificio. I suoi modelli erano i piloti dei mezzi d’assalto, i violatori delle basi avversarie, i comandanti che s’inabissavano con le loro navi. Il suo racconto e il suo stato d’animo s’inquadravano nel clima speciale di quegli anni, la sua personalità era certamente complessa ma le aspirazioni e gli ideali egualmente nobili e profondi. Lo considerai con accresciuta ammirazione, rallegrandomi peraltro che la buona sorta avesse mantenuto in vita un uomo di quella tempra. Lasciò l’incarico in Accademia prima che noi ne uscissimo, perché destinato su sue insistenti pressioni al Comando di un MAS e per due mesi non ne sapemmo più niente. Poi la notizia: la sua squadriglia aveva attaccato un convoglio nel Mediterraneo centrale e il suo MAS dopo aver affondato un grosso piroscafo, invece di cercare un sicuro disimpegno, si era diretto contro un caccia di scorta per tentarne il siluramento a distanza ravvicinata; centrato però e annientato dai cannoni avversari era scomparso in mare. La motivazione della Medaglia d’Oro al V.M. che aveva inseguito come il suggello di una vittoria e che gli fu subito concessa alla memoria n’esaltava il coraggio, la determinazione e la consapevolezza del rischio.

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Si chiuse con questi ricordi la serata per ritrovarci l’indomani a Livorno sul grande piazzale dell’Accademia. Nulla era cambiato: il brigantino interrato, il muricciolo, il riflesso del mare, la vita quotidiana scandite dai rintocchi del grande orologio, la campana di bronzo, i corridoi vuoti e freddi. E noi, dopo tanti anni, ancora lì quasi increduli e trasognati nella palestra delle nostre speranze e delle nostre illusioni. Se l’esercizio della memoria è spesso doloroso e inutile, quel ritorno un po’ festoso e goliardico attenuava però i rimpianti per una giovinezza passata troppo in fretta, votata soltanto al dovere e al rischio e leniva la profonda malinconia per i molti che mancavano all’appello, ma che la magia del luogo faceva sentire vivi e vicini come non mai.

La bravissima ballerina Valentiva Greco Pagina 214 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

SEZIONE NARRATIVA 2007 - XII edizione

1° Premio – Roberto Morpurgo – Bulgarograsso (CO) – “Conero” «Uno scritto che propone emozioni più che narrare ragioni, quasi che, dietro il solitario viaggio a ridosso delle alture del Monte, si celi un più suggestivo percorso immaginario in questo luogo di splendore e di pena, in cui sono destinati a combattersi gli opulenti ricordi della gioventù e la sterile prosaicità del presente. Una scrittura fortemente evocativa, dalle visioni di onirica luminescenza».

2° Premio – Giuseppe Martorino – Bagheria (PA) – “Lezione di nuoto” «Il mare come luogo d’iniziazione all’età adulta, testimone e complice di quella inconsapevole scommessa su se stessi che è l’adolescenza, inusuale miraggio di conquista che segna l’ingresso in un futuro agognato e possibile. Un racconto godibile e frizzante, il cui significato va ben oltre l’apparente semplicità».

3° Premio – Eugenia Pileggi – Catania – “Il mare…vita e morte” «Lo sguardo pacato e amorevole di una donna matura, in bilico tra ricordo e gesti quotidiani, ricrea il miraggio di un’infanzia ritrovata, cui fa da controfigura l’odierna tragedia degli scempi di cui il mare è oggetto e delle miserie cui è scenario».

Menzioni

Mario Gherbaz – Trieste – “Patto d’amore” «Gentile e delicato, il racconto suggella ancora una volta il mutuo legame esistente tra uomo e natura».

Momento Moda dell’Atelier Lady Grazia di Riposto

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Consegna Borse di Studio agli alunni meritevoli dell’Istituto Tecnico Nautico di Riposto La consegna delle borse di studio in memoria di due ex allievi dell’Istituto Nautico di Riposto: - il Ten. Vasc. Carmelo D’Urso, pluridecorato al V.M., deceduto il 13/12/1942 a seguito dell’affondamento del sommergibile Corallo; - il cap.l.c. Lorenzo Vigo Fazio, illustre letterato, nato a Riposto nel 1897 e morto a Catania nel 1986 lasciando una vasta e rilevante produzione letteraria.

Il prof. ing. Giovanni Romania, insegnante dell’Istituto Nautico ripostese, la presentatrice Anna Pavone, il prof. Ruggero Vigo,rappresentante della famiglia Vigo Fazio, e due dei quattro alunni premiati

Il Sindaco di Riposto, on.le Carmelo D’Urso, consegna la borsa di studio alla memoria del padre T.V. Carmelo D’Urso all’alunno Giovanni Valentino, diplomato del corso capitani con il massimo dei voti: 100/100

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Roberto Morpurgo CONERO (ANTEFATTO) Da Venezia al Gargano un solo battito di ciglia sembra infastidire il placido sogno dell’Adriatico. È il Cenerò: situato nel quasi esatto centro del corpo peninsulare, appare e scompare con là rapidità del presagio. Pare fatto per la nostalgia: un cenno languido, uno sguardo al mare, e il sonno, il lungo desolato sonno di coste orfane di laghi, di vere montagne, di isole. Solo il Monte Conero: triste, inspiegabile eccezione. È , come Venezia, una visione di incredulità: rara bellezza di gemma incastonata nel disadorno corpo di paesaggi che esiliarono la tempesta e ogni altra reminiscenza della vita selvaggia. E come il Gargano è bianco e verde, bianco e azzurro, pietrosa e ventosa isola di sogni. Solo nella lontananza dello spazio - dai tenui rilievi che precedono Ancona, o dalle pianeggianti ondulazioni della costa all’altezza di Recanati - o dall’alta quota degli aeroplani che fanno rotta verso la Puglia o la Grecia - appare nella sua remota solitudine. Uno scoglio che non riuscì a farsi isola; unico sommesso mormorio di una geologia altrimenti taciturna; fantasioso incidente già destinato al ricordo. Solo nella lontananza del tempo il Conero riappare con la sua quasi perfetta mutezza: come il brontolio di un animale ferito ignaro della sua stessa voce. IL CONERO NEI MIEI RICORDI ggi il Conero non è più che una macchia verde gettata fra bianchi ciottoli e Ofinissima polvere di sassi fra Ancona e Numana; grazie alla schietta benché dolorosa distanza che solo il tempo - lenta, sottomarina corrente - crea come una luce rifratta da un’unica nuvola immobile fra noi e il mondo, tu ne ricordi il passato. L’erta e imprevista collina che per pochi metri di altitudine i geologi e le mappe chiamano Monte fu per me il teatro delle prime scoperte e di lunghe, sognanti esplorazioni. Ma oggi: oggi non è più il Conero che ricordo dalla barca, quando le raffiche di borino sferzavano il mare sottostante e schiacciavano i gabbiani contro le chiare pareti del ciclo. E non solo perché sono cambiato io: perché con me è cambiato lui. Perché da allora quei luoghi di recenti e segrete antichità - il Monte e i suoi paesi, i suoi borghi, le sue spiagge e le sue tortuose pinete - non sono più gli stessi. Tutto in loro è cambiato - tutto: e sopra ogni altra cosa, l’atmosfera. Una volta... Un tempo il Monte Conero coricava nelle basse e a volte torbide acque dell’Adriatico marchigiano l’ombra di una leggenda. Le sue fitte ma corte chiome mediterranee custodivano segreti d’ombra e di luce che solo le pietre - i grandi e

Pagina 217 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° scintillanti lastroni basaltici che dal mare sembrano scivoli o tragici, icarici precipizi - che solo le pietre restituivano allo sguardo. Un tempo il Conero era un luogo solitario: lo sceglievano i giovani amanti per amorose e lascive interlocuzioni; lo eleggevano i gabbiani a padrino di chissà quali marini e terreni sponsali, e la domenica anche le famiglie - le vecchie, ordinate, brevimiranti famiglie anconetane vi portavano l’omaggio sornione e distratto del gitante. Un tempo il Conero era più un rifugio che una meta. Pochi amavano confondere il momentaneo destino di una giornata al suo millenario silenzio. Pochi incontravi nelle passeggiate che quasi sempre cominciavi a pomeriggio inoltrato dalla cima del monte per ridiscendere gli incauti sentieri che fra viottoli e dirupi conducono l’esploratore allo zenit dei Coccali e delle Due Sorelle. Laggiù fra quei picchi solitari solo i gabbiani e le ginestre davano voce e colore al ciclo e al mare. Navi in lontananza appena salpate dal vicino porto di Ancona già sembravano rapite lungo rotte oceaniche, e puntavano il muso verso le vicinissime e pur così assenti Dubrovnik, Igoumenitsa, Corfù, Patrasso. Lassù spesso sognavi vaniloquenti colloqui d’amore. Le ragazze amavano il Conero come un amante prodigioso e fecondo: i loro piedi denudati dagli sterpi e dalle erbe perlustravano quel corpo boscoso con insonne ingordigia: aprivano ogni anfratto - sgusciavano ogni fronda. Da uno dei suoi pochi belvedere miravano le brevi lontananze del mare con occhi lucidi che il languore non riusciva a inumidire. Il ciclo, fatto vicino dai cisposi giochi di luce delle foglioline dei lecci e dagli aghi di pino, assisteva azzurro a un’indifferenza quasi altrettanto sovrumana. Quante volte fuggivi fra i suoi alberi e quante volte cavalcavi a dorso di immaginari ippogrifi il versante sconosciuto che guarda Ancona! Dalla vetta aspra spirava un venticello di intime eminenti confidenze. Respirare quel vento era per te respirare il mondo. Guardavi oltre la staccionata che per un tratto corre lungo un certo sentiero e figuravi barche, cavalli, aeroplani. Eri solo? Era come se lo fossi stato. E oggi? Un triste chiarore immemore. Una luce cilestrina che tutto avvolge e tutto nell’oblio cieco accompagna. Tutte le facce sono cambiate - l’antico eremo della vetta è ora un albergo, e fu un convento. I forni a legna che sfornavano lo squisito pane sciapo, chiusi. Proliferano le case tutto intorno, si addensano come popoli nugoli di negozi, abitazioni, parcheggi, depositi, e nei mille simboli della forzosa convivenza scompare per sempre la maestosa e per me così nutriente solitudine del Cenero. Due paesi, anzi tre, lo contornano - lo inaugurano e lo concludono. La bella e sottile Portonovo; il povero e arroccato Massignano; Sirolo, ai piedi del Monte. Di questi tre solo uno - Massignano - è rimasto a ricordare l’atmosfera e il clima che sopra e intorno al Monte regnavano un tempo. Gli altri due hanno spalancato i cancelli alle dubitabili suggestioni del futuro, e perduto l’antico profumo. Benché ridotta a una striscia di bianchissimi sassi levigati, a un rudere di fortilizio napoleonico, a una

Pagina 218 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Conero Roberto Morpurgo chiesetta romanica che si sporge tra i flutti: Portonovo è asserragliata come dietro una siepe. La vegetazione, bassa e fitta, la occulta sino all’ultimo al tuo sguardo, ma la vera sorpresa è l’arrivo - l’ultimo passo prima del mare: quello che ti rivelerà l’inesistenza del paese. Dov’è? Due edifìci nascosti fra le rocce naturali e il verde: una passeggiata innaturalmente lenta sui grossi sassi della spiaggia che come un ponticello si snoda fra il mare e le pinete. Gli anconetani la assediano, gli stranieri quasi la ignorano. La sua bellezza è nella estrema rarefazione delle forme e nella quasi assoluta mancanza di edifìci: il fantasma di un paese - una spiaggia e un crocicchio di viuzze sabbiose nella pineta che dal declivio settentrionale del monte giunge quasi in riva al mare. Che laggiù è azzurro e quasi sempre lambiccato da bianchi spumosi cavalloni: termina contro il Monte nelle due schive mezzelune dei Coccali (qui chiamano così i gabbiani: che danno il nome alle due spiaggette più intime e inaccessibili). S’innalza il Monte sulla sua bassa striscia; svettano i venti in raffiche, in turbini, in improvvisi ritorni di fiamma. Una boa e uno scoglio a fìor d’acqua su cui vanno a posarsi gabbiani e bagnanti - e Portonovo - così com’è cominciata: in un’occhiata quasi furtiva - è già finita. Ma il Monte coltivava sino a non molti decenni orsono la sua unica vera colonia nella medievale Sirolo. Medievale nel centro racchiuso fra l’arco e le mura: perché intorno non la riconosci più. Così il Monte ha perduto la sua bella aura di complicità, a causa del paese che ne presidia le pendici e dalla modesta altura della piazza ne guarda con orgogliosa malinconia la verde vicina vetta. Da quella piazza l’azzurro avvolge lo sguardo in ampie bande di luce. Fra gli alberi secolari del piccolo parco cittadino si gode il fresco della brezza di mare e - la sera - l’umida esalazione delle campagne e degli infrequenti e irregolari venti di terra. Fra i tavolini dei due caffé passeggiano uccelli e bambini. L’estate porta le voci e i colori più vari - ma una volta questa varietà si nutriva anche e soprattutto di persone altrimenti lontane, provenienti dal Nord e dall’Ovest d’Italia, e dalla Germania, dalla Francia, talvolta anche dall’Inghilterra - mentre oggi sono soprattutto i marchigiani a popolare Sirolo. L’inverno il paese è secco e il monte torna ad apparire lontano e antico. Due solitudini si incrociano allora come correnti di un mare sulle cui superfici il vento si diverte a soffiare ora in qua, ora in là: la solitudine del monte e quella del suo paese. Il vento: il vento che soffia come uno zufolaio insonne e sale, dai brevi brividi delle raffiche e delle catatoniche bonacce della fascia di mare che avvolge il Monte intorno alla spiaggia delle Due Sorelle, sino alla cupola oblunga della sommità. Dove, rinforzato dal contrasto fra le erte pareti e gli spazi aperti che si estendono oltre la vetta, spira in volute misteriose, volteggia, inchina come un aereo il muso verso terra e non di rado confonde l’osservatore. Laggiù intorno allo spigoloso profilo del promontorio, il mare per brevi tratti crea giochi di correnti che quasi

Pagina 219 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° ricordano i piroettanti incroci di colore e tessitura che l’Adriatico intreccia con lo Ionio davanti a Santa Maria di Leuca. Ma qui tutto è piccolo e raccolto. Qui si interrompe e si confessa l’Adriatico. Che da Venezia sino ai rocciosi sommovimenti del Gargano e delle Isole Tremiti non concede tregua alla sua monotona litania di coste basse e basse, diluite spiagge: salvo il brevissimo, monadico interludio del Conero. Che, quasi, pare un ricordo: una lontana colonia: una improvvisa e provvidenziale reminiscenza delle montagne appenniniche. Fra l’Appennino e il mare le Marche svolgono la loro quieta opera civilizzatrice modulando la terra in morbide, fiorite, verdeggianti colline. Là si arano i campi di grano e di mais; si coltiva la vite e si accudisce l’ulivo; si fan crescere il fico, il pero, il biancheggiante mandorlo. Per i suoi frequenti giardini ovunque si inerpicano l’ibiscus e il gelsomino; raro e imprevisto riappare il giuggiolo: onnipresente e generoso richiamo, il multicolore oleandro. Ma qui: qui sul Conero solo il pino o quasi riesce a far breccia in una terra che alterna le friabili zolle delle argille con le più dure e impenetrabili coltri dei basalti, dei graniti, dei marmi. Accanto al pino marittimo (che lo veste e lo decora come un verde ariete mai bisognoso di tosatura) il Conero ospita la vite: fonte dell’omonimo e inebriante vino rosso. E poi la mimosa, la ginestra, e il leccio; i rovi da bacca, la quercia, il mandorlo... e cespugli anonimi ovunque nelle oscure fratte dei suoi più scoscesi pendii, compongono la flora di questa piccola exclave tirrenica (là le più ricche e tortuose coste, con le loro frequenti e pregiatissime propaggini insulari, già sul continente danno spesso l’idea dell’isola: con l’Argentario, il Circeo, e l’aspra propaggine di Gaeta... e qui è come se un frammento di quel paesaggio tirrenico si fosse separato dalla madrepatria e in una notte di caldo ponentino fosse venuto a decorare, solitaria conchiglia, il collo altrimenti ignudo della desolata sorella adriatica). Sul monte, così come di fronte alle sue bellissime coste, si avrà spesso la sensazione dell’isola. Una sola strada ne circumnaviga l’entroterra e passando per Portonovo entra in Ancona: così come un solo mare lo cinge o lo avvolge in spire più azzurre e in un riscontro di ciclo più profondo che nelle regioni circostanti. Due scogli bianchi a pochi metri dalla sua spiaggia più celebrata invitano il nuotatore a una piccola avventura acquatica: passandovi in mezzo egli fa scintillare l’azzurrino orizzonte nelle gocce che la bracciata solleva: e nelle sbuffate delle piccole creste d’onda che proprio su quelle rocce vanno a spegnersi. Sono esse rudimentali triangoli tagliati in una roccia biancheggiante che come in una titanica emersione lasciano l’acqua sottostante nell’impressione di una insondabile profondità: ma sono alte pochi metri, e anzi, scrutate dall’alto di una delle più impervie passeggiate sotto la vetta del Monte, paiono lontanissime isole schiacciate dal vento. Laggiù come un gabbiano mi piaceva immaginarmi perduto. Nuotando dalla barca le poche bracciate che ti portavano a riva, avevi l’impressione di un viaggio quasi pericoloso: lasciavi lo scafo, approssimandoti a una terra selvaggia e allora quasi deserta (solo in

Pagina 220 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Conero Roberto Morpurgo barca vi si giungeva allora, e non molti allora navigavano). La spiaggia è un taglio orizzontale nella roccia ancora visitata dai cespugli. Alte macchie gialle fermano la ginestra poco più sopra, talvolta chiazze viola contrastano col ciclo cilestrino in tenui splendori di tramonto. Laggiù si era soli nell’eco scintillante dei minimi sciabordii avvertiti, e nei nitidi rintocchi dei sassi sbalzati come biglie dal piede di alti passeggiatori - o dal tuo gioco di sonnolento tiratore (tirar sassi mi è sempre piaciuto: eleggevo vicine mete minerali e lanciavo, il braccio teso e la mira allora quasi precisa, piccoli ciottoli aerodinamici alla volta del lontano scoglio; il suono del contatto mi inebriava come una musica - e con immotivata trepidazione seguivo l’ultimo balzo del ciottolo prima che si inabissasse). Si era soli fra i pochi scafi; in legno e le cozze, i ricci, i paguri che popolavano quei paraggi marini. A destra e a sinistra si aprivano altre spiagge, si prolungava in brevi riluttanti prosecuzioni la riviera. Tutte le coste del Monte erano segrete e lontane, disabitate, aspre e selvagge. Come pinguini stupefatti dall’inconsueta calma del mare all’alba e all’imbrunire stavano sulle spiagge di Numana bassa gli ombrelloni chiusi: ma erano altrove, appartenevano a un altro mondo. Da là tutt’al più si partiva: per le lunghe escursioni in barca che sotto i tuoi occhi facevano scorrere le bianche e verdi coste del Monte alla augusta brontolante lentezza dei diesel marini, e all’immota ottica stasi delle barche a remi e delle piccole derive invelate di bianco. Visto da Sud, il Monte Conero è l’ombra verde di una grossa rupe; da Nord, un’erta parete subito conclusa dalla esile spiaggia di Portonovo. A Sud l’ultima spiaggia piana e tipicamente adriatica (malgrado i sassi e non la sabbia costituiscano il suo suolo) si trova a Numana bassa. A Nord bisogna invece attendere e passare Ancona per ritrovare il litorale chino e uniforme che poco più avanti darà luogo ai già romagnoli spiaggioni di Senigallia e di Fano. Il porticciolo di Numana era piccolo e anzi ridotto a un unico molo. Si protendeva, questo molo, per pochi passi entro il mare, fiancheggiato dalle boe ancorate ai corpi morti che nelle notti di tempesta non potevano più svolgere alcuna funzione protettrice. Le onde scavalcavano il molo come ragazzini che giocano alla cavallina. Il mare spumeggiava intorno alle poche barche - e nei giorni di mare duro solo i pescherecci sfidavano le corte e alte onde che fra Ancona e Zara l’Adriatico innalza sulle sue esigue ma indocili superfìci. A Numana si adunavano i marinai locali. Pescatori, addetti ai rimessaggi invernali, alle reti, alla calafatura degli scafi, al rattoppo delle vele (sugli scafi più vecchi erano in cotone), alla manutenzione dei motori. Per me erano personaggi tutti dotati di un fascino peculiare (benché un particolare rilievo acquisissero nel mio Olimpo personale i veri e propri marinai: i pescatori), e tutti nobilitati dal misterioso contratto che da lontane generazioni avevano stretto con il loro mare. Molti barcaioli estivi venivano in luglio e in agosto: le loro vele bianche e talvolta colorate solcavano il mare di Numana e di Sirolo in lenti e monotoni andirivieni (ma solo in quelle

Pagina 221 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° pennellate parallele alla costa appariva in tutta la sua opaca magnificenza il Monte Conero: e i naviganti si aggiravano in su e in giù fra l’inizio e il termine della riviera quasi increduli della sua esistenza). Poche barche si allontanavano dal Conero. Qualcuno salpava alla volta delle isole dalmate: più spesso al calar del sole, così da traversare con il mare calmo della notte e approdare con le prime luci del giorno. Prima che si diffondesse l’uso dei motori nautici applicati a ogni tipo di imbarcazione, i pescatori si spostavano intorno al porto su piccole barche a remi chiamate pattane (avevano il fondo piatto, la poppa squadrata e la prora timidamente affinata dalla forma a spigolo); i bagnanti inesperti nella navigazione o sprovvisti di un mezzo proprio remavano sui cosiddetti mosconi (altrove chiamati pattini), che in alcuni casi recavano anche il carrello tipico degli esemplari usati nelle competizioni. Oggi quelle piccole barche piatte a due scafi - a tutti gli effetti, catamarani a remi - che per lunghissimi anni mi furono inseparabili compagni di gioco e di solitari, lontani vagabondaggi - non esistono più. Li si vede ancora, a onor del vero, oziosi simulacri, ai piedi delle ridicole torrette dall’alto delle quali - nemmeno debbano arbitrare un torneo di tennis - i bagnini fingono di scrutare i vicinissimi orizzonti entro i quali guazzano i bagnanti. Sono i mosconi che portano la dicitura ‘bagnino’ e che appartengono agli stabilimenti balneari; sono rossi, e sempre ornati dal tondo salvagente appeso alla spalliera; ma non possono essere affittati, e sono invece nominalmente adibiti al salvataggio dei nuotatori in difficoltà. (Del resto, quasi nessuno nuota: può anche essere pericoloso, benché non a causa del mare, ma dei motoscafi che transitano accosti alle rive). Alcuni veleggiano: più nessuno rema. È questa forse la perdita più luttuosa e inconsolabile che le precipitose trasformazioni delle mode, gli affari, o i semplici accidenti dell’esistenza abbiano arrecato alla vita di mare. Io remavo su ogni genere di imbarcazione: si può quasi dire che cercassi di tramutare in remo ogni oggetto lungo e affusolato che si prestasse al caso. La pattana e il moscone hanno ceduto il passo ai kayak, che si incontrano un po’ ovunque in versioni singole e da coppia, e che - originari dei fiumi - accorti adattatori hanno piegato alle peculiari esigenze della navigazione marina (benché non possa dire di amare il loro aspetto né lo stile che impongono al vogatore, anch’io ho navigato con occasionale diletto su quelle strane piroghe: beandomi più di ogni altra cosa della piccola risacca che il mare crea a contatto del tuo vicinissimo corpo). In una delle mie ultime passeggiate marine navigai proprio su un kayak monoposto: percorrendo il tragitto che separa Numana bassa - attraverso il porto (che oggi si dà grandi arie di porto con la P masiucola) - da Numana alta, e di lì sin quasi alla spiaggia dei Sassi Neri (nome fra i più enigmatici: la spiaggia è la più lunga della riviera, e appare a ogni occhio desto come una collana di bianchissime perle rotolate fuori dal filo). Ma quanto più belle e avventurose erano le mie escursioni di ragazzo! Indelebilmente impressa nel mio ricordo è rimasta una ‘traversta’ in moscone da

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Numana bassa sino alle Due Sorelle: un ampio tratto di mare, per un moscone e per un ragazzino. Solo così potrai vedere il Conero: giacché, essendo breve e sempre quasi già finito, la lentezza e la fatica della navigazione a remi ti illustreranno ogni dettaglio, per te faranno sbocciare ogni anfratto, e ti mostreranno i grottini aperti nel corpo roccioso della costa fra la spiaggia di Numana alta e quella di Stirolo. In una di quelle cavarne marine si entrava con piccoli motoscafi. E dalla fresca oscurità di quella nicchia tanto più giallo il sole e azzurro il mare ti appariranno laggiù oltre l’imboccatura. Sopra di te seminascoste dal bosco che popola il ripido versante sono una piccola chiesa privata e alcune ville che solo dal mare si mostrano in tutta la loro nobile e riservata bellezza. Torni con lo sguardo a perlustrare la costa: l’ultima sua apparizione è proprio il duplice scoglio delle Due Sorelle, dietro le quali l’orizzonte nasconde e impreziosisce il mondo. Là si snoda la riviera e si raddoppia il suo breve incantevole intrattenimento. Dietro quegli scogli bianchi (e tanto più bianchi in lontananza: da presso venano lo sguardo di inattesi lucori grigi) seguita il Monte in più nobili e selvagge movenze, in più fitte e più verdi macchie e nei più ripidi e impervi declivi. Doppiando il promontorio delle Due Sorelle si giunge dopo un certo tratto di mare solitario alla spiaggia dei Coccali, quindi alla sua quasi identica replica (una spiaggetta però ancora più piccola e bianca dove non vedevi quasi anima viva), infine alla bianca e verde Portonovo. La riviera del Conero finisce laggiù: ma - quasi conscia della propria esiguità, e come vergognosa di togliere ai tuoi occhi sitibondi tanta atavica bellezza - sembra ricredersi e brevemente tornare in un cenno, in una pallida ma lodevole imitazione di se stessa: e cioè nei tozzi e argillosi bastioni naturali che la costa compone fra Portonovo e l’ultima altura su cui sorge Ancona. Si tratta di un piccolo altipiano, lungo quanto la riviera e alto come un terzo del monte, verde in cima e lungo la strada, e giallognolo e poi biancastro via via che dirupa verso il mare. Le spiagge sono brulle e anzi quasi sacrificate a una anonima striscia di terra. Ma una nota singolare anima e nobilita questo malinconico tratto della costa adriatica: il Trave. Così è chiamato uno sperone di roccia sottomarina che si inoltra come un molo sommerso abbastanza a lungo verso il mare aperto: e che con la sua coloritura di terra e con la sua forma vagamente geometrica rappresenta una vera e propria protrusione del continente quasi a additare in lontananza l’isola che non c’è, e che tu invece avresti voluto. Laggiù finisce per sempre il Monte Conero: in quella sua estrema e ormai estranea propaggine ha termine il breve sogno della riviera e del suo bel promontorio. E come in un sogno poche immagini per brevi istanti trovano accoglienza, pochissime sono le persone che abitano sul Monte Conero. Il suo aspetto è anzi propriamente quello di un luogo disabitato; le poche costruzioni che qua e là si intravedono sono infatti bar, ristoranti, una caserma della marina militare, un albergo, una chiesa sconsacrata, casematte e vecchissimi bunker, e alcune case

Pagina 223 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° di villeggiatura. Una di queste ricordo fra le altre. È una casa gialla costruita in fondo a uno scosceso sentiero di ghiaia e terra: nell’avvallamento del terreno che la ospita, in fondo a un campo di grano, è annunciata, dapprima da un mandorlo di vetusta età e austere sembianze, quindi da un albero che con le sue fronde a ombrello pare voglia farle ombra (un giuggiolo accanto alla porta d’ingresso fa le veci di un ozioso e taciturno custode). E nell’ombra del Monte è la casa intera: schermita agli sguardi di chi passa lungo la strada (che corre più alta, in cima al sentiero), quella casa è quasi una rievocazione architettonica del monte: entrambi isolati e forse involontariamente solitari, sorgono l’una nel duplice centro verticale e orizzontale di una montagna, l’altro nel punto mediano di un mare. E entrambi, pur non essendo stabilmente abitati, suscitano in chi vi passa accanto l’idea di una calda benché schiva ospitalità. Anche dal mare la si può scorgere, mirando attentamente a mezza costa, mentre si naviga lungo la spiaggia dei Sassi Neri: la si intravede appena, col suo tetto rosso e le pareti color dei covoni, riparata dagli alti pini e dai lecci della scarpata che dal terrazzo conduce nelle campagne sottostanti. Quantunque separata dal paese di Sirolo per il breve spazio di un boschetto, di due campi arati e del sentiero che costeggia il cimitero, da lassù il paese sembra lontanissimo, e anche dal mare la casa gialla e le prime case del paese appariranno estranee, appartenenti a due mondi che si guardano come un lupo e un can pastore. Dall’alto dell’unica strada che traversando il versante meridionale conduce alla vetta, si può intravedere il patio, e dal campo sottostante il solitario terrazzo. Sono complementi di semplice e antica eleganza, oggi quasi desueti, ma ancora capaci - qualora li si immagini abitati da lettori, animali randagi, o ospiti che vengono da molto lontano - di un’ospitalità schietta e quasi esclusiva. E se da lassù - dal punto dove ti eri fermato per osservare quel patio vuoto e silenzioso - prosegui il tuo cammino, traversi belle foreste e ascendi, per tortuosi tornanti e ombreggiati rettifìli, verso la vetta del monte. Là in cima ad attenderti è un ‘paese’ di pura immaginazione. Una volta era un convento (al centro della piazzetta sorge infatti una bellissima chiesa in stile romanico) e oggi è un albergo sobriamente ricavato dagli antichi edifici e quasi mimetizzato nel bosco. Là ritroverai la forma quadrilatera del patio: passato sotto l’arco in pietra, la piazzetta è in effetti il grande patio interno di quell’unico edifìcio che fu il convento. In fondo alla piazza lungo un lato della chiesa si apre una porticina di massiccio legno scuro che dà su un giardino interno. Un tempo - molto prima di divenire parte dell’albergo - quell’ala del convento fu una casa di villeggiatura. Misterioso itinerario fu l’infanzia che là mi condusse e mi fece talvolta lungamente soggiornare. Lassù fra le antiche pietre delle mura, dei pozzi, e le secolari piante che popolavano il giardino e tutto il bosco circostante... là scoprii i segreti, colloquiai con un mondo soltanto a me noto, e fui insonne segugio di incantesimi. Il bosco che come una nordica nebbia avvolge e protegge quella casa è una fata che orchestrava

Pagina 224 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Conero Roberto Morpurgo intorno a te virginee danze di nascondimenti e improvvise apparizioni; vialetti del giardino sfociano nei sentieri del bosco e di lì giungono in una chiara e imprevista radura: da cui altri sentieri si dipartono nel folto della foresta. Le foglie di quella foresta sono scaglie di luce opaca. La testa china sotto le basse fronde dei curvi pini - le braccia nude e accaldate che sfiorano i rovi e i cespugli dei sentieri - hai sopra di te il cielo terso, e nel più puro azzurro meridiano il bosco già annuncia la sera. Quando la sera scende sul Conero la luce si infittisce e il grigio si intreccia all’azzurro creando nel ciclo una fumosa velatura. Sopra quei boschi, ma più ancora fra ramo e ramo e tra foglia e foglia si lascia vedere la nascita di un’altra luce. Rapide ma inafferrabili avvisaglie annunciano la notte. I grilli e tristi fruscii dell’ombra presto trapassata in impenetrabile oscurità avvolgono la notte e la consegnano a un silenzio che tutto lascerà sentire. Ecco che la montagna si spopola di ogni ospite e torna selvatica e antica; e al tramonto e all’alba si fa nuovamente vuota e misteriosa. Il sole sorge di fronte al Conero nell’azzurro più tenue. Se lo osservi da quassù, vedi la sua lente opaca traversare l’invalicabile confine dell’orizzonte e creare sulla superficie marina un sentiero di luce che porta sino al monte. In un battito d’ali trascorre anche questo giorno: e la luna, da un’altezza che talvolta sembra identica a quella dalla quale ora ne contempli la triste solennità - anche la luna semina sul mare la sua trina di segni di luce, e pare volersi accasare, e sembrerà che abbia scelto la sua casa fra queste sbrecciate pareti vegetali. (Alta a mezzo cielo stava la luna in una notte ormai lontana. Il suo tondo chiarore - traversato dalle nere figure di uccelli notturni - dava una luce che dalla sua bianca sorgente via via si fece gialla: quasi un sole minore, quasi un’eco nel silenzioso universo dei colori. Laggiù io stavo nella notte come un albero fra gli alberi. Sul tetto della casa giungevano come un’onda che tutto senza nascondere sommerge gli scintillanti raggi. Porte e finestre erano chiuse e la casa e ogni altra creatura dormiva. Solo uccelli notturni di quando in quando incrinavano la perfezione del silenzio). Altre notti passarono, altri giorni. L’eremo di Monte Conero - il suo albergo, la sua antica casa estiva, la sua chiesa: tutto si richiuse come il guscio di un’ostrica sulle mani curiose di un pescatore d’occasione. E il Conero tornò a dormire, a sognare. Scesero inverni e lunghi intervalli di lontane e reciproche assenze. La neve che moltissimi anni prima aveva imbiancato le pinete e le spiagge - era forse tornata a nascondere l’ultimo suo segreto? E tutto tornando manifesta oscurità nelle luci e luci, vasti sonnolenti bagliori nella tenebra onnivora della gioventù. Poiché conobbi il Monte non solo nella mia infanzia e poi nella mia prima gioventù: ma quasi fosse quella la sua e la gioventù di tutti, e quasi che l’aria e il suo colore chiaro di cornice ampia e accogliente - e il suo cielo ossessionato dai tenui colori di collina, dalle biancastre argille che nelle sue lente nuvole basse si specchiavano...

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...Lassù su quella minima vetta si adunavano nembi come galassie di splendenti opacità. Intorno al suo corpo - quasi una boa di terra dimenticata da antichissimi navigatori - vorticosamente volteggiavano i venti, e le correnti d’aria piroettavano in giochi di danza che sul mare - appena poco più sotto - già originavano piccole ma insidiose tempeste locali. Navigare in quelle raffiche era però più bello che pericoloso. Il mare non gonfiava mai nei giorni di bora e di alta pressione; e il vento, già giunto dalle sue nordiche fonti con una velocità ancora sostenuta, pareva abbeverarsi a quella nuova insospettata sorgente che è il Monte Conero: e intorno alla sua roccia obliqua, sdraiata di sghimbescio intorno alla costa, dava luogo a magiche danze, pazzi caroselli di ebbrezza, coribantici sussulti della superficie. Piccoli e grandi motoscafi e piccoli e grandi yacht incrociavano quelle acque. Scambiavi, da lontano, la tumultuosa scia dei motoscafi per cavalloni anomali; indovinavi vele lontanissime là dove forse l’occhio percepiva, senza osarlo, un semplice ghirigoro dell’orizzonte. E, guardando, sognavi. Fra le mille barche che ancora come su un ultimo mare di mendicità navigano nel mio ricordo, una mi appare con la sua nobile benché goffa andatura, e la sua materna forma di vasca o di guscio fossile albergherà credo per sempre nelle mie fantasticherie. La vedevo passare di quando in quando davanti la costa di Numana bassa, per rivederla spesso in nuovi incontri al largo di Portonovo, all’ancora di fronte alle Due Sorelle, o all’orizzonte ne potevo indovinare la presenza a causa delle sue vele vivacemente colorate. Una volta ne osservai da vicino la singolare carena e ne spiai il nome. Era all’ormeggio nel porto di Numana: a bordo di una pattana (che spesso sottraevo quasi di straforo ai suoi liberali proprietari) stavo perlustrando le calme acque del porto, e la accostai. Aveva le vele colorate ripiegate come ali sui dormienti corpi degli alberi di maestra e di mezzana. Il pennone reclinato come una palpebra chiusa: e come un becco ancora pieno di foglie e vermi, intorno al bompresso vedevi àncore, catene, battagliela, bitte, e altri oggetti marinari che non potevo identificare. La circumnavigai e raggiunsi la poppa. Il suo grosso e pesante timone terminava a ridosso dello scafo, che in quel punto recava il nome: Giuggiola. Pur avendola ripetutamente cercata con lo sguardo nelle mie successive peregrinazioni, non la vidi più navigare quelle acque, e ne conclusi che il suo corpo - quello di una scialuppa di salvataggio appartenuta a un transatlantico d’anteguerra, venni a sapere in seguito - si era stancato di servire nelle instancabili gite estive dei proprietari, e come un vecchio elefante era andato a morire in un luogo ignoto. Molte sono le cose che vedesti e quasi infinite quelle che vorresti ricordare. Come in un palmo semidischiuso in te si raccoglievano immagini di mare e di montagna; come da una vetta instabile rotolavano nei brevi tratti di mare antistanti le Due Sorelle e i Coccali i sassi e le foglie dei soprastanti boschi - i profumi dei sentieri - i riflessi del sole sulle vergini rocce.

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Oggi il Conero è un luogo di curiose reminiscenze, ma non è più il generoso ricettacolo di misteri che affascinò la tua immagine di ragazzo. Soprattutto le persone non incontri più. E forse anche a causa di questo ti riesce difficile e stranamente doloroso dover riconoscere nel suo inconfondibile profilo l’unico volto di un tempo: e ti riesce più facile pensare e constatare che anche lui è cambiato, che non è più lo stesso, e che malgrado quelle tristi sembianze e quelle patetiche movenze silvane, non tornerà mai più come quando per la prima volta lo conoscesti. Anche perciò forse preferisci affrettarti a dire che questa sarà l’ultima.

La Segesta Jet a Riposto nel 2005. Sullo sfondo l’edificio del locale Istituto Tecnico Nautico

Il triste destino della nave veloce Segesta Jet a seguito della collusione avvenuta con una nave Russa nello Stetto di Messina il 15 gennaio 2007. A questa unità navale e ai suoi quattro uomini caduti nel compimento del proprio dovere va il commosso e grato ricordo del Circolo e della città di Riposto, memori delle ore spensierate trascorse a bordo della nave in occasione dei numerosi viaggi sociali alle isole Eolie effettuati negli anni dal 2000 al 2006 Pagina 227 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Premio “Targa d’argento Ricordo” alla nave Segesta Jet e al suo equipaggio

Il cap.d.m. Vito Mangano, Responsabile dei servizi tecnici del Settore Navigazione di Messina gestito dalla società Rete Ferroviaria Italiana del gruppo Ferrovie dello Stato, commemora la morte dei quattro membri dell’equipaggio della nave veloce Segesta Jet causata dall’incidente navale accaduto nello Stretto di Messina la sera del 15/01/2007, ed invita il folto pubblico presente alla cerimonia di premiazione di Artemare 2007 a partecipare con un minuto di raccoglimento

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Giuseppe Martorino

LEZIONE DI NUOTO

iacomo, allievo della Terza Liceo di Cefalù, era un ragazzo timido, molto Geducato, che amava lo studio e sognava tante cose belle. I suoi compagni di classe, vedendolo sempre serio e taciturno, immerso nel mare del sapere, lo prendevano spesso in giro. Anche Maria, la bella ragazza della quale egli era innamorato, segretamente, non gli risparmiava certe battute ironiche, mossa da una superba cattiveria, quando lo vedeva molto gentile ma sempre solitario. L’innamorato non degnava di una risposta i suoi beffardi compagni (alcuni dei quali erano stupidi e volgari nelle battute) ma l’ironia della sua bella, orgogliosa e sprezzante, lo faceva soffrire. I genitori, quando egli tornava a casa, notando il suo atteggiamento (cupo, silenzioso, distaccato e senza appetito a tavola), si preoccupavano. La madre, molto ansiosa, gli diceva: «Giacomino, dillo a mamma tua, che hai? Mi sembri malato! È il caso di chiamare il dottore?». Suo figlio, in questi casi, rispondeva: «Niente! Sono impegnato nello studio, perché voglio farmi avanti nella vita, onestamente, come tu sempre mi hai consigliato. È difficile oggi per i giovani trovare un posto. Mamma, non ti preoccupare!». Suo padre s’infuriava nel vederlo triste, pallido e mingherlino, e gli urlava: «Mangia di più, esci, divertiti come i ragazzi della tua età! Stai diventando nevrotico, a causa del tuo perfezionismo. Anche se qualche volta ricevi un voto cattivo, non è la fine del mondo! Non è possibile piacere a tutti. Credimi, la vita è assai diversa dalla scuola». Giacomo, rispettoso dell’autorità paterna, ascoltava la predica in silenzio. Quando la tempesta dei rimproveri passava, egli si chiudeva nella sua stanza, assieme ai suoi cari libri, i suoi dischi, la TV ed il computer, che sapeva usare alla perfezione e con il quale giocava a scacchi, distratto solo dal pensiero della sua regina. Un giorno alcuni suoi compagni di scuola (fra i quali c’era l’adorata Maria) decisero di mettere in pratica il programma di marinare la scuola, essendo Primavera, e di andare al mare portando con loro la radio con le audiocassette e la telecamera.

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Vito, uno del gruppo, esclamò: «Al diavolo gli insegnanti ed i loro voti!». Una sorpresa fu per gli scioperanti la domanda esitante ed un poco imbarazzante di Giacomo: «Posso venire con voi?». I compagni risero nell’udire la proposta inattesa del “primo della classe”, meravigliati. Vito, in particolare (essendo infatuato di Maria e non sopportando le sue attenzioni verso Giacomo) si mostrò contrario e, con tono sprezzante, rispose: «Vai a fare lo sgobbone a scuola, nella quale non sei mai stato assente! Saresti capace poi di accusarci di averti condotto nella cattiva strada». Egli considerava Giacomo un intellettuale fuori del mondo, figlio di genitori borghesi. Il padre di Vito era un povero muratore ma ricco di fede socialista come il padre di Carmela, una compagna di classe innamorata di lui in quel periodo. La risposta positiva fu quella di Maria: «Puoi venire, senza tante storie!». Nessuno si oppose a questa decisione, per timore di perdere la sua compagnia e quella di Carmela, sua amica. Iniziò così l’avventura esistenziale di Giacomo. Era una bella giornata siciliana, calda e serena, quindi il programma di andare al mare sembrò perfetto alle due ragazze. Quando la comitiva arrivò a destinazione, cioè sopra una scogliera, Giacomo ammirò la forma geometrica a semicerchio della spiaggia, situata sotto il celebre albergo “La Kalura”, ed una turista sopra uno scoglio, simile ad una mitica Sirena in mezzo al mare. Lo spettacolo gli sembrò favoloso come un racconto delle Mille ed una Notte, romanzo che lo incantava. I compagni intanto si erano messi in costume da bagno. Egli restò vestito perché non aveva intenzione di fare il bagno ed anche perché non sapeva nuotare. La sua fobia per il mare stava forse ritornando? Giacomo, preso dall’ansia, pensò: «Il sole brucia la pelle ed il mare da tempo è inquinato, senza contare i pericoli che nasconde in profondità!». L’odore del mare gli sembrò allora come quello del sangue e provò una sensazione di nausea. La comitiva cominciò ad ironizzare nel vederlo vestito di scuro, pensieroso ed esitante. Vito si divertiva a riprendere Maria con la telecamera. Due compagni, già presi da allegria, si davano spinte correndo mentre alcuni giocavano a palla ed altri ballavano. Quella baldoria nello sfondo non interessava a Giacomo che, annoiato, guardò un’altra volta la turista sopra lo scoglio e pensò: «Anche la Sirena sarà impestata come oggi è il mare, grazie ai petrolieri». Forse la nevrosi lo rendeva fobico? In quel momento Maria, prima di tuffarsi in mare, lo invitò con lo sguardo a seguirla. Egli fece finta di non capire, ma poi, irritato, si disse: «Idiota!». L’amica, seccata per quella noncuranza (da lei ritenuta odiosa), si tuffò nel mare con eleganza e fu seguita, subito dopo, dal compagno Vito, mosso da bellicose intenzioni che urtarono Carmela, muta osservatrice sopra lo scoglio e con i capelli neri sciolti al vento. Alcuni ragazzi nuotavano allegramente, sopra e sotto l’acqua, facendo loro compagnia. «Cosa sta dicendo Vito a Maria?», si chiese Carmela, preoccupata dell’accordo che stava nascendo fra loro, «Posso immaginare le sue proposte indecenti!», concluse. La sua amarezza nasceva da varie delusioni amorose. Dall’esperienza lei aveva imparato che l’amore esagerato può fare male e, in certi casi, fa spaventare

Pagina 230 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Lezione di nuoto Giuseppe Martorino l’essere amato. Il suo carattere esuberante, estroverso, l’aveva portato ad avere diversi “partners”, al contrario di Maria, tipo riflessivo ed introverso, che non aveva mai avuto un ragazzo in passato e, al presente, sognava un idillio con Giacomo, ragazzo serio ma problematico. Delle due ragazze si potrebbe dire, insomma, che erano la sintesi di tutte le canzoni d’amore, basate in genere su due motivi: “Con te” e “Senza te”. Carmen poi notò la calma di Giacomo e la considerò invidiabile, non sapendo come si struggesse di gelosia e come si disprezzasse per non avere mai imparato a nuotare nel passato. «Perché ti sei comportato così oggi? Buffone!», si disse mentalmente. Egli cercò di scordare le sue pene leggendo un libro di poesie tratto dallo zaino, ma essendo infuriato non riuscì a capire i versi del poeta da lui tanto amato. Il suo commento fu questo: «Quando si è arrabbiati non si capisce mai quello che si legge, come quando si è faziosi per convenienza». La vita, in quel momento, lo investiva come una tempesta, senza dargli la possibilità di evadere dalla realtà nel regno favoloso dell’arte. Egli prese il binocolo ed osservò una barca a vela sul mare e la scogliera in basso, dove in quel momento passò un pesciolino rosso, vivace e veloce. Questo gli fece ricordare una lezione dell’insegnante di scienze circa l’origine dell’uomo e la sua evoluzione dal grembo del mare alla terra ed alla sua futura vita nel cosmo, quando si spegnerà il sole, e restò perplesso nel pensare ai meteoriti che minacciano la terra. Quando ritornò con la mente nella scogliera, si disse: «Potresti imparare a nuotare in piscina con l’aiuto di un bravo istruttore, a pensarci bene. Si? Dove lo trovi il tempo se devi studiare? Rischi di fare una cattiva figura in classe. Cosa direbbe Maria del mio fiasco? Che stupido!». Un’idea brillante lo rianimò: «Perché non impari adesso a nuotare? Sarebbe la cosa più concreta e pragmatica da fare in questo momento, invece di rimuginare sogni e malinconie». A questo punto egli si diede un ordine categorico, di stile kantiano: «Devi nuotare!». Deciso a mettere in pratica il consiglio della ragione (valore universale per lui, eticamente), si tolse il vestito e in costume da bagno, ardito, scese verso il mare. Le onde, mosse dal vento, spumeggiavano urtando i vari scogli. Giacomo s’immerse nell’acqua agitata, staccandosi un poco dalla scogliera, spaventato, ma un’onda lo spinse indietro con forza, facendolo sbattere contro uno scoglio al quale poi si aggrappò, angosciato. Nell’attesa di trovare il coraggio di nuotare, egli risalì. In quel momento nella scogliera arrivò una banda rumorosa di giovinastri, arroganti ed allegri, un poco mafiosetti (alcuni forestieri), decisi ad inserirsi nella comitiva degli studenti (forse perché attirati dal profumo delle ragazze) dopo avere lasciato la macchina loro nei dintorni per ogni evenienza. Giacomo non era un tipo asociale né razzista ma si mostrò contrario a quest’intrusione di gente estranea, istintivamente. Quel branco, secondo lui, era un fatto anomalo a Cefalù (noto luogo turistico, festoso e ben sorvegliato dalla polizia nelle sue possibili uscite, in pratica verso Palermo e verso Messina), perciò disse a Vito: «Prudenza! Qui ci sono anche le ragazze… Sarebbe meglio in questo caso

Pagina 231 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° mandarli via in partenza, questi malandrini, prima che facciano gesti violenti ed incivili». Lorenzo, figlio di un appaltatore (il più robusto e violento del branco) intuì questa repulsione dello studente, ma fece finta di niente e si rivolse a Vito (suo vicino di casa ed anche amico, una volta, in certe avventure amorose) e gli disse: «Facciamo festa insieme! Così ci divertiamo di più, come nel passato». Vito fece una smorfia nel ricordare quel tempo da lui rimosso e poi, dopo una pausa, gli rispose: «D’accordo, a patto che non fai bordello. Qui ci sono brave ragazze. Nel lungomare puoi incontrare le turiste che ti piacciono e, se hai bisogno di sesso, altrove non ti mancano le puttanelle». Lorenzo lo rassicurò: «Giuro! Non ti preoccupare». Questa raccomandazione è giustificata dalla conoscenza che Vito aveva del suo ex amico. Lorenzo era ateo e senza scrupoli. Quando si trattava di affari o di conquistare una donna egli se ne infischiava dei Dieci Comandamenti, come un ossesso. Né la scuola né la famiglia avevano potuto domarlo. Giacomo ascoltò soltanto questo dialogo perché poi i vicini di casa, fumando, si allontanarono per confabulare. Grazie a Vito, ponte di collegamento fra la classe degli studenti ed il gruppo dei mafiosetti, la comitiva si allargò ed esplose un’allegria carnevalesca, a volte pesante e volgare. Alcune ragazze familiarizzarono con gli ospiti, ballando con loro (malgrado le critiche dei compagni di classe) e dividendo anche i panini imbottiti che avevano portato. Una lite, con tipi del genere, si poteva prevedere. Due “bulli” erano pronti a fare una guerra, decisi a contendersi la stessa ragazza durante un ballo molto jazzistico, lontano mille miglia dai valzer dei loro genitori. Lorenzo, il capobanda, li fulminò con lo sguardo e, mettendo la mano in tasca, riportò la pace in famiglia. Carmela, molto avvenente nel suo costume rosso, osservò con diffidenza quella scena e Maria, con il costume azzurro come i suoi occhi, guardò lei sorridendo. Lei, dopo la sua nuotata, si era sdraiata nel bagnasciuga e prese a pettinarsi i capelli. L’amica non aveva nessuna voglia di nuotare ed era occupata a passarsi l’abbronzante nella pelle, calda e vellutata. Giacomo, spinto dal suo imperativo categorico, scese in mare e fece altri tentativi per imparare a nuotare. Lorenzo, nel vedere le due amiche vicine, fu colpito dal contrasto: la bionda gli apparve snella ed elegante (come una bella normanna) e la bruna formosa e sensuale (come una donna araba o spagnola) ed entrambe sembravano uscite dal Duomo arabo-normanno, ubicato nella piazza di Cefalù, adornata di esotiche palme verdi. Il sole giocava con i loro corpi giovanili e seducenti, con riflessi di luce e d’ombra, in modo impressionistico. Maria, in quel momento, si pentì di aver guardato Giacomo con disprezzo, quando era tornata dal mare. Questo suo pentimento può sembrare strano per un carattere superbo, ma lei, in fondo, era una ragazza sentimentale. Carmela nel frattempo si era allontanata assieme ad un compagno. Lorenzo fu attratto dal corpo elegante e molto femminile di Maria e passò all’attacco (malgrado la promessa fatta a Vito) dicendo: «Maria, ti vorrei parlare». Lei, avendo intuito subito le sue erotiche intenzioni aggressive, rispose:

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«In questo momento ho bisogno di parlare con l’amica mia Carmela». La bella Maria a scuola era brava quanto Giacomo, amava la musica e conosceva bene l’arte della fuga in certe situazioni. La sua amica (in quel giorno imbarazzata dal ciclo mestruale) invece era più robusta e sportiva ed in politica preferiva i Verdi, perché amava la natura della quale si sentiva solo una parte. Quando Maria la prese a braccetto, impaurita, fu solidale con lei e prese a dialogare. Questa fuga, naturalmente, rincuorò Vito ed anche i suoi compagni. «Cosa diavolo si stanno dicendo quelle due? Le chiacchiere femminili non finiscono mai!» pensò Lorenzo, impaziente ma anche astuto, in attesa del momento favorevole per sferrare il nuovo attacco alla torre. Le sue imprese amorose egli le commentava sempre con i termini della strategia militare, reputandosi vincente o perdente nella guerra dei sessi. Da lontano egli non poteva ascoltare il seguente dialogo: - Carmela, cosa ne pensi di Giacomo? A volte mi sembra distratto, senza testa. - Maria, che dici? Egli ti sogna, ma è un timido idealista. Dagli il tempo e abbocca. - Di Vito cosa te ne pare? - Penso che voglia andare a letto con te. - Non essere maniaca! Tu sei fissata con il sesso. - E tu non fare l’isterica! Cosa credi che voglia da te quel magnaccio di Lorenzo? - Il giardino? - Indovinato! - Conosci il padre di Lorenzo? - Somiglia al Ritratto d’Ignoto di Antonello da Messina nel Museo Mandralisca. Il predatore diventò impaziente e cominciò a stancarsi di aspettare senza una risposta. Fra l’altro aveva fatto una promessa ed intuiva una possibile esplosione bellicosa degli studenti. La sua reazione violenta sarebbe stata condannata dalla famiglia, secondo la quale ognuno è un uomo oppure un pagliaccio, senza vie di mezzo. Si girò allora verso il mare ed osservò un battello in transito ed il volo dei gabbiani. Quando Lorenzo vide Giacomo, timido ed imbarazzato nella parte inferiore della scogliera, incapace di nuotare, scoppiò a ridere. La sua aggressività repressa cercava forse uno sfogo diverso? Egli, in modo bizzarro, prese un libro dallo zaino di Giacomo e lo fece volare in mare, destando le risate ed i commenti ironici del branco. Lo studente, vedendo il suo libro vicino la scogliera, cercò di recuperarlo, ma la mano sua non riusciva a prenderlo e perciò si adirò, poiché si trattava del suo libro di poesie preferito, con i versi a lui cari sottolineati. Indignato allora gridò a Lorenzo: «Perché mi hai buttato il libro in mare?». Il vandalo, non sapendo come giustificare il suo gesto incoscio, irrazionale, citò un proverbio a caso: «La vita è un mare e vi si annega chi non sa nuotare». Poi egli aggiunse: «Che te ne fai dei libri se la nave affonda? Impara a nuotare, cretino!». Giacomo, offeso, senza riflettere sulle conseguenze della sua rivolta gli rispose, con tono adirato: «Vigliacco! Io non ti avevo fatto nulla». Lorenzo aveva un carattere molto

Pagina 233 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° irascibile (incapace di sopportare le offese del prossimo, buono o cattivo) e fra l’altro, in quel momento, l’artrosi al ginocchio lo rendeva insofferente. Lo studente lo vide tuffarsi dalla scogliera, sprofondare nel mare e poi riemergere come uno squalo infuriato. La prima cosa che gli disse fu questa: «Adesso impari a nuotare o ti lascio affogare!». Giacomo si disse, mentalmente: «Da quale caverna è uscito questo arcaico scimpanzé? Sembra una mia allucinazione! Anche l’ordine suo d’imparare per forza a nuotare sembra l’eco della mia voce: “Devi nuotare!”». Egli lo guardò bene in faccia per capirlo meglio ed ebbe l’impressione di vedere un mostro espressionista, simile a quello visto in una mostra di pittura a Palermo. Poiché si rese conto che l’altro non scherzava, con la forza della volontà provò a nuotare senza allontanarsi dalla scogliera, per sicurezza. Lorenzo comprese questa sua astuzia e salì sopra uno scoglio ed ogni volta che egli si avvicinava, lo spingeva lontano con espressione sadica e beffarda. Quando Giacomo, impaurito, si aggrappò allo scoglio, temendo di annegare, Lorenzo si tuffò nel mare e gli immerse la testa nell’acqua, dicendo: «Te la faccio passare io la fobia del mare, coniglio!». Lo studente era disperato e cominciò a credere che l’altro volesse affogarlo, come aveva promesso. A questo punto egli guardò la parte superiore della scogliera e pensò: «Che fanno lassù i compagni? Può darsi che si godano lo spettacolo. Addio, mia bella Maria! Non ti vedrò mai più». Giacomo era un sognatore. In passato aveva anche pubblicato racconti e poesie ed era stato sorpreso dalla confidenza di un amico: «Ho copiato le tue poesie ed ho conquistato una ragazza, dicendo che erano mie. Ti dispiace? In guerra ed in amore tutto è lecito, dice il proverbio». Il poeta scoppiò a ridere, pensando a quel misto di falsità e di sincerità dell’amico. Nella sua bontà lo studente, serio e cattolico, non capiva l’accanimento nella cattiveria che aveva il suo nemico in quel momento. Si disse allora: «È forse il diavolo, incarnato in Lorenzo, che vuole farmi dannare?». Signore, aiutami tu! Miracolo? Fu a questo punto che Lorenzo si rituffò in mare e gli disse: «Non ti agitare così e vedrai che il mare ti sostiene, come fa una madre col suo bambino». Questa lezione di nuoto sembrò a Giacomo una specie di armistizio e, improvvisamente, gli donò coraggio. L’insegnante aggiunse: «Impara vedendo come io muovo le braccia, coricato a pancia sotto come sopra un lettino. Quando muovi il braccio destro alza la testa dall’acqua e girala a sinistra, per respirare e poi, quando muovi il braccio sinistro, gira la testa a destra per respirare. Sincronizza anche il movimento delle gambe e batti con i piedi la superficie del mare come se tu suonassi, in modo ritmico, i bongos. Quando nuoti sotto l’acqua, la posa cambia: devi nuotare come una rana, allargando le braccia verso l’esterno; con le gambe, come se fossero due remi, devi spingere l’acqua indietro. Forza e coraggio! Vedrai che nuotare è una cosa naturale per l’uomo come passeggiare». Il sole in quel momento abbagliò la vista di Giacomo e forse lo iodio, contenuto nel mare, irritò la sua tiroide, dandogli un senso di vertigine e quasi di spersonalizzazione. Il suo

Pagina 234 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Lezione di nuoto Giuseppe Martorino maestro non comprese questa sensazione del suo allievo e con stile severo, deciso a vincere tutte le resistenze, gli diede un ordine minaccioso: «Devi nuotare!». Lo studente si meravigliò di nuovo: «Come ha saputo, costui, l’imperativo che mi ero imposto? Mah! Forse è un caso». L’ordine però, nella sua assolutezza, gli aveva dato un coraggio al di sopra della sua individualità concreta, superiore alla sua drammatica situazione ed alla sua nevrosi, misteriosamente. Egli, seguendo l’esempio del suo insegnante, si mise a nuotare verso il largo, felicemente. Ad un certo punto si accorse di essere andato molto lontano dalla scogliera e non vide più, nell’inferno liquido, il suo “Virgilio”. Una grigia nube, improvvisamente, apparve nel cielo e sembrava minacciare pioggia. Un pensiero angosciò lo studente: «Come fai adesso a tornare in porto, avendo già sprecato le tue forze, perché vinto dall’euforia di saper nuotare? Icaro, hai perso la giusta misura!». «Forse è questa lunga nuotata, molto spossante, che Lorenzo desiderava in cuor suo, per vendicarsi? Dalla scogliera tutti avranno visto come io mi sono allontanato da solo, come un esperto nuotatore. Legalmente, se adesso affogo, la colpa è mia. Che astuzia diabolica ha messa in atto, il criminale! Che dico? Questa ipotesi mi sembra da romanzo giallo o da fantascienza». Giacomo era spossato e forse il delirio soltanto lo teneva a galla, evitandogli lo svenimento. Il suo pensiero fu rivolto alla “Dulcinea” del suo cuore: «Addio, amore mio! Forse ci rivedremo nell’altra vita». Era convinto che sarebbe affogato, fatalmente. Grande fu la sorpresa quando vide il suo maestro di nuoto accanto. «Che succede!» pensò allora, «Forse l’assassino si è pentito della sua cattiveria ed è venuto a salvarmi? Adesso mi trascinerà verso la scogliera, nuotando con un braccio solo e mi salverà la vita». Queste sue riflessioni buoniste però non corrispondevano alla realtà. Lorenzo lo guardò con scetticismo ed un misto di odio e d’ironia. «Ha forse paura di essere trascinato in fondo al mare dal suo allievo oppure non è capace di salvare una persona che si trova in procinto di affogare?». pensò Giacomo. Niente di tutto questo! Il suo insegnante, cono tono freddo e cinico, gli disse: «Impara a fare il morto adesso oppure affoghi». Lo studente, spaventato, cercò di riflettere (cosa che faceva sempre quando era angosciato) sulla situazione sua, drammatica ed incredibile: «La vita è considerata una maestra dalla gente. È mai possibile che una maestra sia così cattiva e spietata con gli allievi? Dannazione! Mi sembra un incubo nel quale un demonio mi dice: La vita si capisce quando si ha bisogno degli altri e ci troviamo circondati da lupi affamati, rabbiosi e vendicativi». Lorenzo, come se avesse letto nella sua mente, gli rispose: «Nuota da solo nella vita! Non cercare l’elemosina degli altri». Giacomo, pur non essendo lucido in quel momento, fu colto da un dubbio: «È forse un filosofo questo delinquente? A volte mi sembra un maestro di nuoto ed altre volte un mafioso». Lo studente esitava e perciò Lorenzo gli disse: «Non hai capito? Mi hanno detto che sei il primo della classe. T’invidio! Io ero l’ultimo

Pagina 235 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° ed odiavo l’insegnante di matematica, però so nuotare come un pesce». Gli spiegò allora come fare il morto nel mare: «Ti devi coricare e, allargando le braccia e le gambe, galleggerai. In questa posizione puoi starci quanto vuoi, se non ti mangiano gli squali». Giacomo, seguendo le parole del suo “guru”, imparò a fare il morto e dopo il riposo tornò alla scogliera a nuoto. Grande fu la sorpresa dello studente, quando i compagni in coro lo applaudirono: «Bravo!». Il gruppo dei mafiosetti, prima assai minacciosi e sarcastici, gridò:«Bravoo!». Anche Lorenzo partecipò agli applausi: «Bravo Giacomo! Hai imparato a nuotare». Il complimento di un “uomo d’onore”, dopo la violenza, sembrò assurdo allo studente. Vito osservò questa scena senza parlare. Lorenzo poi andò via assieme al branco, salutando gli studenti. Il suo ultimo sguardo fu per la preda che aveva abbandonato. Giacomo, nel vedere lo sguardo luminoso di Maria, pieno di amorosa dolcezza, senza chiedere permesso, la baciò davanti a tutti, meravigliati del suo gesto appassionato. Egli sentì la stessa ebbrezza di un tuffo nel mare e, per un istante, gli sembrò di nuotare nell’azzurro degli occhi di Maria. Il tempo si fermò nell’attimo dell’estasi! Il profumo di lei, dolce e misterioso, lo avvolse come un dorato incantesimo. Lei ricambiò il bacio, commossa e sorridente, poiché l’aveva tanto desiderato dal suo idolo, e sospirò: «Amore mio!». In quel momento la scogliera sembrò a Giacomo il paradiso e Maria la sua costola ritrovata, un sogno d’eterna felicità! I due amanti stavano abbracciati sotto il sole, in silenzio, immersi nello stesso incanto musicale dell’amore. Dopo si allontanarono per i fatti loro nella scogliera, sognando un futuro bello e felice. Vito guardò la scena idillica e fece una smorfia di disappunto e di malinconia. Carmela, avendo intuito il suo stato d’animo turbato, si affrettò a consolarlo con delicatezza, facendogli una carezza sul viso ed esprimendo un suo commento ironico: «Lasciali perdere! Sono due piccoli borghesi fuori del mondo!». Vito sorrise. La battuta gli sembrò uscita dalla sua bocca e per questo rispose: «Hai ragione!». Dopo guardò intensamente Carmela, come se vedesse per la prima volta i suoi occhi neri e dolci, il sorriso fanciullesco e seducente. Senza parlare, attratto dal suo corpo formoso e sensuale, ricco di cordialità, le mise il braccio sopra la spalla e, in quel momento, ferito da Eros, gli sembrò bellissima. Alla fine della scampagnata gli allievi ritornarono a casa, tranquilli, come se fossero andati a scuola. Giacomo era consapevole di non avere fatto il suo dovere nel marinare la scuola quel giorno, infischiandosene degli insegnanti, ma ricordando un proverbio citato spesso da suo padre, cioè «Sbagliando s’impara», si rasserenò perchè nella scuola della vita aveva imparato una lezione di nuoto indimenticabile.

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Eugenia Pileggi

IL MARE... VITA E MORTE

o ero quella ragazzina che guardava il mare e fissava l’orizzonte e pensava che Iil mare si baciasse con il cielo, poi, metteva le ali alla mia fantasia e pensava di potere andare in quel punto con una barca a vela e con un dito toccare il cielo. Io ero quella ragazzina che contava le stelle e parlava alla luna e spesso accostava una conchiglia all’orecchio per sentire la musica dolce del mare. In estate con la mia mamma e la sorellina andavamo a fare una passeggiata e ricordo che mi piaceva fermarmi a guardare Antonio, un vecchio pescatore che se ne stava sulla spiaggia con suo figlio Salvatore e, dopo aver preparato tutto quello che serviva loro per la pesca, si segnavano guardando il cielo come ad invocare l’aiuto di Dio. Mi emozionavo quando vedevo quella bianca barca scivolare in mare e auguravo loro una pesca abbondante. Mi piaceva sentire il rumore dell’acqua, che diventando bianca schiuma sbatteva sugli scogli mentre al chiar di luna gli innamorati sussurravano parole d’amore, ed io, che avevo forse dieci anni, sognavo che anche per me, sarebbe arrivato quel momento. Quando giocavo sulla spiaggia costruivo castelli con la sabbia e diventavo triste se qualcuno passando, o un forte vento, sciupava il mio piccolo castello. Più tardi ho capito che la vita a volte è generosa, ma spesso si riprende tutto come se passasse quel forte vento che abbatteva il mio piccolo castello, o un uragano o un fiume che trasporta tutto quello che incontra! Quando la luna si specchiava in quel dolce mare, l’acqua mi appariva come carta increspata e la paragonavo al volto dei vecchi pescatori, pieni di rughe, ogni ruga, un pezzo di storia vissuta, la loro stessa vita! Quante emozioni ho provato quando guardavo il mare, eppure, non imparai mai a nuotare per paura! Anche la divisa bianca del marinaio mi piaceva tanto e pensavo alla loro vita lontani dalla famiglia, chi meglio del marinaio conosce il mare, i colori con tutte le sfumature e tutte le creature che lo abitano! Se pensassimo che il 70% della superficie del globo è acqua avremmo più rispetto per questo mare e per tutte le cose belle che Dio ci ha voluto regalare! L’uomo purtroppo facilmente distrugge per una concezione edonistica della vita, il modo stesso di pescare tante volte illecito praticato dai bracconieri, per citare qualche

Pagina 237 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° caso: la pesca con le mani, la pesca a strappo, la pesca con la fiocina permessa solo in alcuni luoghi, e la più pericolosa quando vengono usati degli esplosivi o l’uso di stupefacenti; oggi però grazie a grandi pescherecci, il pesce arriva rapidamente al posto di mercato. Nei primi del 900 armatori siciliani iniziarono la pesca meccanica nello Ionio. Quanti poeti e scrittori hanno parlato delle meraviglie del mare, quante canzoni sulla spiaggia, quanto divertimento, per adulti e bambini offre nei mesi della calura questo nostro mare! I veri dominatori del mare sono i pesci che trovano a 200 metri di profondità un mondo vegetale che serve loro di nutrimento, mentre, nelle profondità abissali gli animali diventano carnivori e predatori; molti organismi marini finiscono in bocca ai loro compagni, ma molti altri muoiono per mancanza di alimenti o per variazione della salinità o per motivi geologici di varia natura, basta ricordare che, nel golfo di Napoli scomparve una spugna perché le ceneri del Vesuvio nel 1906 avevano otturato i pori del corpo dell’animale impedendo la circolazione dell’acqua e quindi il normale flusso di sostanze nutritive. Ma anche gli esseri che muoiono portano un grande contributo perché servono di nutrimento agli animali abissali. Nel mare quindi, troviamo non solo la vita, ma anche la morte come nella terraferma! Ero quella ragazzina che guardava le barche e le navi con un po’ di paura, ma solo perché si allontanavano troppo, io avrei voluto saltarci dentro, ma dovevo essere sicura di non essere molto distante dalla riva. Eppure, tutti i mezzi di trasporto che vedevo al porto di Catania o a Riposto, ricordo, volevo visitarli. Ci sarebbe tanto da dire! Sono tante le navi che attraversano i nostri mari, dalle piccole imbarcazioni ai traghetti, alle navi da carico, navi officina, navi ospedale, navi mercantile, navi passeggeri e anche navi da guerra, queste ultime vorrei che non esistessero più, vorrei che la stessa parola guerra non la trovassimo più nemmeno sui vocabolari, che i combattimenti avvenuti via mare si possano soltanto ricordare attraverso i libri di scuola perché ricordare serve a non commettere più gli errori del passato. Una mia insegnante condusse l’intera classe a visitare una nave e trattandosi di una grande nave passeggeri ci venne spiegato che richiedeva molti uomini d’equipaggio; ricordo, che fui curiosa di sapere tante cose, soprattutto siamo rimaste colpite dalla divisa bianca dei marinai. Il comandante della nave ci fece visitare ogni parte e ci spiegò che vi sono navi che hanno la cappella, l’auditorium, il teatro, il cinema, i club per i giovani, le piscine e tante altre cose, sono passati tanti anni, allora, tutto questo sembrava un sogno! Vi sono delle navi che mi mettono paura e sono le navi “Draga” perché servono anche al recupero di natanti affondati e penso che chi ci lavora vive momenti molto amari! Sappiamo tutti come è importante il compito della marina militare,

Pagina 238 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Il mare... vita e morte Eugenia Pileggi le sue storiche azioni nella prima e seconda guerra mondiale, basta ricordare il battaglione S. Marco, ma anche oggi è una grande organizzazione per la tutela dei nostri mari. La nostra bella Sicilia, isola del Mediterraneo, la più estesa e popolosa, bagnata dal mar Tirreno, dal mar Ionio, e dal mar di Sicilia; per la sua forma tricuspidale si chiamava Trinacria, è bella per il suo clima, per il suo vulcano, per i paesaggi, ma soprattutto per i suoi abitanti cosi ospitali e calorosi e non dimentichiamo che è ricca di storia e di cultura. Lungo il mar Mediterraneo e nelle isole sono sorti più civiltà e imperi che in qualsiasi altra parte della terra e sono stati tanti i prodotti arrivati a noi attraverso questo mare chiamato “mare nostrum” per ricordarne qualcuno: il papiro dall’Egitto, il cedro dal Libano e tanti altri. Quando guardo il mare, soprattutto nelle belle giornate estive, quando non è agitato, mi mette una serenità interiore, ma nelle sue alte maree, anche se so, che a provocarle è l’influenza del sole e della luna, mi mette paura e faccio un soliloquio: non somiglia forse alla stessa vita dell’uomo con i suoi momenti sereni che si alternano con quelli che ci danno angosce? Quando mi è capitato di traghettare con la mia famiglia, guardando il mare, provavo grande emozione nel vedere la Madonnina e raccomandavo a Lei che è la madre di tutti il buon esito del nostro viaggio. Il turista che viene in Sicilia si innamora soprattutto del nostro mare e mi auguro che possa trovarlo sempre più pulito, che la gente capisca quanto questo sia importante! Nella mia quotidianità quando metto il sale nei cibi dico a me stessa: il sale della vita! e penso al nostro grande mare, le emozioni che mi regalava ieri e la tristezza che oggi mi mette quando lo guardo. Ma, il mare non è cambiato, sono cambiati gli uomini, hanno perso i valori, vanno a caccia di soldi, vogliono arricchirsi sempre di più perdendo la loro anima! Oggi non sono più una ragazzina, ma una nonna con i segni del tempo sul volto e fili d’argento tra i capelli, raccontarmi su un foglio vuole essere uno sfogo alla mia rabbia, al dolore che provo, quando, vedo alla tv carrette del mare trasportare esseri umani come fosse carne da macello! Il mio pensiero corre al grande scrittore catanese Giovanni Verga, alla famiglia di pescatori nel romanzo “I Malavoglia”, miseria, ingiustizie per i ceti più disagiati, i più deboli sono quelli che debbono soccombere e, dopo oltre un secolo, i carusi del Verga sono aumentati! Quando guardo il mare lo sento gridare: perché tanti sventurati sono costretti a fuggire dalla loro terra per la guerra, la fame, le ingiustizie e, io, diventare per loro un letto di morte? Perché tanti bambini hanno vissuto soltanto l’alba della vita? Perché tanti sogni spezzati finiti in fondo al mare? In questo nuovo millennio l’Italia è diventata una nazione multietnica e, con il

Pagina 239 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° cuore grande come il mare ha aperto le sue ali per abbracciare tutti, ed è giusto perché anche se hanno il colore della pelle diversa dal nostro, il sangue che scorre nelle loro vene è rosso! È giusto però rispettare le nostre leggi e le nostre regole come noi veniamo incontro alle loro esigenze. Mi auguro che i giovani di oggi possano domani, accostando una conchiglia all’orecchio, sentire la musica dolce del mare. Che lo stesso sale che ci regala possa condire le menti più folli e i cuori più duri perché capiscano che la pace è il dono più prezioso che lo stesso Dio ci ha regalato venendo al mondo! Quando guardo il mare dico una preghiera rivolta al cielo, perché sono certa che nuove stelle brillano da lassù: gli occhi di tutti quelli che, per un mondo ingiusto, hanno trovato la morte, e se ho un fiore lo butto in mare, per non dimenticare!

Il 3° Premio di Narrativa 2007 - XII edizione è stato assegnato ad Eugenia Pileggi di Catania per il racconto “Il mare…vita e morte”. Legge la motivazione la segretaria della Commisione dott.ssa Betty Denaro e consegna il Premio il Presidente della stessa prof. Orazio Licciardello

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Mario Gherbaz

PATTO D’AMORE

ome ogni giorno, anche quel mattino Joze, dopo aver ritirato le reti notturne, Ccon la barca era tornato al suo posto sul molo del porto di Ossero. Joze era il decano dei pescatori e ad ottant’anni suonati era ancora arzillo al punto non solo di andare ancora a pesca ogni giorno, ma anche di svolgere tutta una serie di lavori decisamente faticosi. Aveva scaricato il mucchio delle reti sul molo, dove erano asciugate in un baleno, quindi Joze si sedette, ed iniziò la consueta pratica dei controlli e delle riparazioni da eseguire. Il suo viso scurissimo era solcato da innumerevoli e profonde rughe, frutto dei tanti anni trascorsi sotto l’azione del sole e della salsedine, con la bora e con la pioggia. Le grandi mani callose erano piene di tagli e screpolature che inequivocabilmente tradivano l’umiltà dei lavori che erano abituate a compiere. Con poche, abili mosse, portavano l’ago di legno ad intrecciare nuove maglie laddove la vetustà della rete cominciava ad avere il sopravvento. Lavorava veloce e nel contempo scambiava impressioni, e discorsi vari con gli altri pescatori impegnati in analoghe incombenze. Si conoscevano tutti, perché Ossero è una cittadina che conta ormai pochissimi abitanti, ma non era stata sempre così: nell’XI secolo, raggiunse il massimo del suo splendore, arrivando sembra ad oltre ventimila abitanti, un numero enorme se si considera l’epoca. . Joze era dotato di una cultura e di una memoria eccezionali, che sfruttava sempre nei suoi racconti e che non mancavano mai di affascinare i turisti che lo interpellavano. Ma la pesca rimaneva la sua passione, perché il Mare era tutto per lui. Oddio, non è che Joze si recasse a pesca proprio ogni giorno, ché non avrebbe potuto. Doveva, infatti, fare i conti con il maltempo e le giornate particolarmente ventose, quando il mare diveniva assolutamente impraticabile. Nei tanti giorni di fermo pesca che così s’imponevano, Joze poteva però dedicarsi agli svariati altri interessi ed attività che lo coinvolgevano durante l’anno. Non solo le api e gli orti, ma anche le olive e le pecore. Mentre rammendava le reti, mille ricordi si affollavano nella mente di Joze, ricordi di altri tempi, ed ogni tanto gli piaceva comunicarli al suo amico Frane, anche lui impegnato attorno alla sua barca. - E vù altri, Frane, come sé ‘ndai sta note?

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- Eh, caro Joze, no se pesca più come una volta, xe cambiadi i tempi! - A mi ti me disi! Ti ti son zovine, ma se ti savessi come iera zinquanta ani fa! Se ‘ndava nela baieta de Vier e se ciapava orade e branzini còla fozina. Quei sì che iera tempi! Joze non fece quasi in tempo a finire che qualcosa dall’alto cadde sul mucchio della sua rete. «E questo che cos’è?»- si chiese il vecchio, ma comprese subito che si trattava di un uccellino, che evidentemente gli era piovuto dal nido. Un batuffolo di peluche, ché le penne vere non c’erano ancora, anche se, in corrispondenza delle ali e dei vispi occhietti, un meraviglioso colore azzurro lasciava trasparire che si trattava di una piccola ghiandaia. Joze si sentì aprire il cuore e pervadere da un senso di tenerezza che non credeva di poter ancora provare. Quella creaturina, così indifesa, lo stava fissando ed ogni tanto emetteva un pigolìo, quasi a chiedergli qualcosa. La bestiola doveva aver fame, se non altro a giudicare dallo smisurato aprire del becco quando gli si avvicinava col dito. Pensò a cosa poteva dargli da mangiare, ma con sé non aveva proprio niente. A terra vide alcuni pesciolini che poco prima aveva staccato dalla rete quando la ripuliva. Li sminuzzò ed imbeccò come poteva la piccola ghiandaia, che divorò tre bocconi consecutivi prima di fermarsi. «Desso ti ga magnà, ma se no voio che i gati ti magni a ti, me sa che devo portarte a casa» - e così, dopo aver radunato alla meno peggio le sue cose, Joze la sistemò provvisoriamente in una scatola di cartone che aveva tappezzato con aghi di pino e quindi si avviò verso casa. Non immaginava certo che il destino lo aveva così coinvolto in una storia nuova e bellissima, che avrebbe condizionato la sua vita futura. «Ti ciamerò Gaia» - disse, ed aprì il portone di casa. La sua casa era particolarissima, in quanto frutto di continui ampliamenti che i suoi genitori vi avevano dovuto apportare man mano che la famiglia cresceva. Del resto, a quei tempi trovarsi ad essere in sedici, tra fratelli e sorelle, era cosa tutt’altro che rara. Per questo, la casa era un continuo alternarsi di vani di ogni misura e forma, collegati da porticine e scalette; il tutto completato da un caos di piccoli orticelli e pozzi vari che fungevano da cisterne per la raccolta dell’allora preziosa, insostituibile ed irrinunciabile acqua piovana «Dove ti meto mi adesso?» - si chiese il vecchio, in quanto c’era solo l’imbarazzo della scelta. In realtà, pur essendo ora la casa vuota, tra qualche giorno sarebbero arrivati i ragazzi di Trieste, per cui le loro camere erano da escludere. Joze decise che per il momento poteva sistemarla nella cameretta del figlio. Inevitabilmente, la cosa lo riportò a tanti anni indietro, quando aveva una famiglia

Pagina 242 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Patto d’amore Mario Gherbaz felice. Poi, come nella vita può succedere, il male gli aveva rubato la moglie, lasciandolo con un ragazzo da crescere ed in cui riponeva le sue speranze future. Anche lui, secondo le antiche tradizioni quarnerine, aveva studiato per potersi imbarcare. Si era sposato ed aveva dato un nipote a Joze, una ventata di giovinezza che aveva portato tanta allegria in casa. Ma il destino aveva deciso di accanirsi sulla famiglia del vecchio perché il figlio, mentre navigava nel mar del Giappone, scomparve con la sua nave e non fece mai più ritorno. Ora gli rimaneva soltanto il nipote, perchè, dei suoi tanti fratelli e sorelle, ad essere ancora in vita, oltre a lui, c’era soltanto un fratello, molto più giovane di Joze. Con dei giornali vecchi ricoprì il tavolato di legno del pavimento e quindi sistemò a terra la scatola con Gaia ed un piattino con dell’acqua, ma capì subito che la piccola ghiandaia doveva avere di nuovo fame. Dal frigo estrasse della carne di pollo, da cui sminuzzò alcuni minuscoli pezzetti con cui, appena non più tanto freddi, provvide ad ingozzare la smisurata gola di Gaia. Quasi senza rendersene conto, il vecchio si trovò così a parlare con la bestiola, e Gaia, ad ogni parola di Joze, rispondeva con il suo verso, quasi a volergli dire che lo capiva e ricambiava il suo affetto. La prese delicatamente in mano e se la portò verso il viso ed accennò ad un bacio, strofinandovi le labbra. Passò una settimana, durante la quale Joze abituò Gaia ai propri turni di lavoro fuori casa: pesca ed api, soprattutto. Al tramonto andava con la barca a posare le reti, poi tornava per cenare, bagnare gli orti e poi subito a dormire. Alle prime luci dell’alba, andava a ritirare le reti e tornava nel porto, dove smistava il pesce e provvedeva a consegnare il più pregiato al commerciante che ogni giorno a quell’ora veniva ad attendere i pescatori. Quindi, col pesce rimasto tornava a casa per una colazione ed un riposino, ma molto breve, perché doveva andare a controllare le arnie. Ne aveva parecchie, e le teneva nei campi che fiancheggiano la strada che porta a Punta Croce. Pertanto, data la distanza, saliva sul groppone del suo fidato mulo, rigorosamente “a pelo”, in quanto non era mai riuscito ad adattarsi alla sella. Di ritorno, rinchiudeva il mulo nel suo campo (dove teneva anche un asino) e tornava alla barca per i consueti lavori di manutenzione agli attrezzi da pesca, poi di nuovo a casa per il pranzo, quindi altro piccolo riposino, poi di pomeriggio solito giro per Ossero a chiacchierare con gli amici e bersi un bicchiere, eventualmente fare la spesa e portarla a casa, dove spesso era “costretto” ad incontrare sua cugina Domenica, che ogni tanto veniva a sbrigare le faccende domestiche e tenere così in ordine la casa. Ma per Joze, geloso della sua “privacy” e della sua solitudine, si trattava del classico rapporto “odio-amore”, per cui doveva sopportare, in fin dei conti ne aveva bisogno.

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Le aveva subito detto di Gaia e le aveva assolutamente proibito l’ingresso nel camerino del figlio, ma, per maggior sicurezza, ne aveva nascosto la chiave. E venne così anche il giorno in cui arrivarono i ragazzi di Trieste, che Joze era ormai abituato ogni anno ad ospitare in quel periodo. La loro venuta portava sempre una ventata di allegria, ed a loro Joze insegnava i segreti della pesca, le tecniche ed i luoghi giusti. Per contro, ogni sera i ragazzi gli tenevano compagnia con la loro chitarra e le loro canzoni. Quando i ragazzi videro Gaia, se ne innamorarono, la piccola ghiandaia gli svolazzava sulla testa e sulle spalle. Qualche sera, Joze si metteva a raccontare ai ragazzi alcune vicissitudini della sua lunga e travagliata vita. A chi gli chiedeva se si sentisse più croato o più italiano, il vecchio rispondeva che era nato sotto l’Impero d’Austria, aveva poi visto il ritorno all’Italia, il passaggio alla Jugoslavia ed infine quello alla Croazia. Ma lui si sentiva semplicemente di Ossero, e basta. I ragazzi vedevano in Joze il Grande Vecchio e stavano ore intere ad ascoltarlo, affascinati dal suo carisma. E lo aiutavano dove potevano, perché in lui vedevano come un secondo padre, un amico. Le loro due settimane volarono e con loro se ne andò tutto quell’allegro echeggiare di chiacchiere, risate e canti, ed a casa di Joze ritornò quel silenzio che ora forse gli pesava un po’, ma per fortuna era rotto dal gracchiare di Gaia. Fu allora che, in segno di prova dell’amore che portava per lei, all’improvviso si rese conto che la bestiola era ormai cresciuta ed avrebbe dovuto cominciare a volare nei cieli dell’isola. Aprì la finestra e posò Gaia sul davanzale, il cuore batteva forte, sapeva che forse stava per perdere quella compagnia meravigliosa, ma non poteva privarla della sua libertà. Joze continuò a guardare, in cuor suo desiderava che Gaia tornasse, ma non sapeva quanto e se lei gli avrebbe dimostrato ancora il suo affetto. Aveva letto, e se ne era anche reso conto, della particolare intelligenza di cui sono dotati i corvidi, nonché dell’importanza che l’imprinting viene ad avere nel loro comportamento. E fu così che, all’improvviso, vide che Gaia stava tornando e venne a posarsi sulla sua mano. A Joze vennero le lacrime agli occhi, accarezzava la testolina e la schiena di Gaia rivolgendole parole d’amore, cui la ghiandaia puntualmente replicava con il suo verso. «Picia mia, grazie per esser tornada, per no gaverme lassà solo» – disse il vecchio, ed aggiunse, con un groppo in gola: «Qua de mi ti gaverà sempre qualcosa de magnar e, se ti vol, anca una casa!». In effetti, Gaia non era ancora autosufficiente, non sapeva ancora come e dove

Pagina 244 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Patto d’amore Mario Gherbaz procurarsi il cibo, ma col tempo, vivendo tra i suoi simili, avrebbe imparato di certo. Così, quella sera Gaia tornò a dormire nella “sua” stanza, per cui Joze decise di trasferirvisi pure lui, previa una pulizia generale e la preparazione di un trespolo (sotto il quale c’era la carta di giornale) sistemato accanto al letto che era stato di suo figlio. Gaia sembrava gradire molto quella nuova sistemazione e quella nuova vita che le si apriva davanti. All’alba si svegliava e faceva colazione con Joze, poi lo seguiva sino alla barca, dove attendeva con pazienza che finisse i suoi lavori, non senza svolazzargli ogni tanto attorno e posarglisi sulla testa e sulle spalle. E mentre lavorava, il vecchio si rivolgeva a Gaia, quasi che fosse un essere umano, parlando e raccontandole un po’ di tutto, proprio come faceva con Frane, il quale, dalla sua barca, ascoltava la ghiandaia che puntualmente replicava ad ogni frase di Joze e si chiedeva quale tipo di rapporto si fosse ormai instaurato fra i due. Quando poi Joze tornava verso casa, a Gaia piaceva stargli appollaiata sulla spalla e da lì si divertiva a piluccargli dolcemente l’orecchio ed i peli della barba. Ad Ossero questa strana alleanza era ormai di pubblico dominio, erano divenuti famosi, e non c’era spostamento che non trovasse gente sorridente al loro passaggio. Ma il massimo della spettacolarità lo raggiungevano quando andavano verso le arnie per prelevare il miele: Joze sul mulo e Gaia su Joze formavano un insieme incredibile. Dopodichè Gaia volava a Vier dalle sue ghiandaie sino al tramonto, quando poi tornava a dormire a casa di Joze. I mesi passavano, non c’erano più i turisti, ed Ossero aveva riacquistato il suo fin troppo tranquillo aspetto. Arrivò l’autunno e poi iniziò l’inverno, ma, nonostante il freddo e la bora, i ritmi di Gaia rimanevano inalterati ed il vecchio sapeva di poter contare su di un affetto sincero, che anche lui stesso provava per la piccola creatura, per cui ormai lui rappresentava tutto: il genitore, il protettore, l’amico fidato. Ma sapeva anche bene che la durata della vita di una ghiandaia si aggira sui quattro - cinque anni, per cui tremava già al pensiero di quando sarebbe arrivato quel giorno. E, passato l’inverno, arrivò la primavera. Con il suo tepore, la natura si risvegliava ed anche per Gaia ci sarebbero stati dei cambiamenti, dei richiami naturali a cui non poteva sottrarsi.,ed il vecchio se ne accorse quando, per la prima volta, una sera Gaia non tornò a casa per dormire. E qualcosa si capì finalmente il mattino dopo, quando Gaia si presentò assieme ad un’altra ghiandaia, che Joze interpretò essere la sua partner. Come di consueto, Joze preparò dei pezzettini di pesce, che distribuì alla coppia, ma, contrariamente a Gaia, che vi era stata abituata fin dalla nascita, la sua compagna non volle assaggiare il pesce. E non si lasciò avvicinare o, tanto meno ancora, accarezzare come faceva Gaia. E fu la prima e l’ultima volta in cui la vide. Evidentemente, non avendo ricevuto alcun imprinting, ed essendo cresciuta allo

Pagina 245 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° stato selvatico, non aveva proprio niente da spartire con Joze. Da allora, però, Gaia smise definitivamente di dormire nella casa di Joze. Si era trovata una compagna ed aveva messo su famiglia, quindi ormai aveva il suo nido, ed era giusto così, anche se a Joze mancava tanto, al punto che decise di abbandonare il camerino del figlio (decisamente troppo piccolo e scomodo) e di tornare a dormire nella sua camera. In fin dei conti, durante la giornata Gaia passava sempre a salutarlo ed a piluccargli la barba, rinnovando così ogni giorno il patto d’amore intercorrente e dimostrandogli ogni giorno la sua gratitudine. Col suo gracchiare continuava a dirgli che gli voleva tanto bene e quanto lui era importante per lei. Anche per Joze la storia era ormai assurta ad un sentimento primario, per cui ormai stava vivendo anche (se non addirittura solo) in funzione della ghiandaia. Passarono le stagioni e gli anni, e per Joze la consapevolezza che ormai, tra non molto, anche Gaia gli sarebbe venuta a mancare, costituiva una preoccupazione sempre più forte, un affanno che certo non contribuiva alla sua salute. Non si prendeva più cura come prima dei suoi interessi; pesca, api, agnelli, orto non erano più questioni primarie, per la sua mente ormai c’era soltanto quella piccola ghiandaia. Gaia aveva ormai superato i suoi quattro anni di vita, quindi era entrata in un periodo in cui, ormai, in un qualsiasi momento, la sua esistenza poteva finire. Lui, così solitario, aveva trovato in Gaia una ragione di vita in più e, ormai tanto vecchio anche lui, si sentiva stringere il cuore al solo pensiero che Gaia potesse morire. Ma ormai anche Gaia dimostrava inequivocabilmente i suoi acciacchi, sia con l’incanutirsi delle piumette sul capo, che nel saltellare con sempre meno sicurezza da un appoggio all’altro. E così, arrivò anche la sera in cui Gaia, stranamente, non volle volare verso il suo nido, ma rimase appollaiata da Joze: tremava, ed il suo gracchiare era nuovamente divenuto un pigolìo. Con un presentimento che gli faceva male al cuore, Joze se la coccolava e le rivolgeva le più belle parole d’amore, parole cui Gaia replicava sempre di meno. Il vecchio se la teneva tra le mani, poggiata sul suo petto e così, quando Gaia si addormentò, non ebbe il coraggio di muoversi dalla poltrona, non voleva disturbarla. Non gli passava nemmeno per la testa che quella sera non era neanche andato a posare le reti. Il presentimento che la sua ghiandaia stava per morire lo andava opprimendo sempre più, come un macigno. Aveva persino paura di respirare, e nella sua mente vorticavano i ricordi della sua lunghissima vita, momenti felici e tristi che si affollavano, volti di persone amate e perdute. Passò così tutta la notte, con il suo povero cuore che scoppiava dal dolore, finché si rese conto, con indicibile disperazione, che il corpicino di Gaia era ormai freddo.

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Allora si mise a piangere come non aveva mai fatto in vita sua, un pianto disperato, convulso, irrefrenabile, i cui singhiozzi si tramutavano in pugnalate. Come ogni giorno, anche quel mattino i pescatori di Ossero animavano il porto e scaricavano il pescato. Fu così che qualcuno si accorse dell’assenza di Joze e quando si resero conto che la sua passera era ancora lì come l’aveva lasciata il giorno prima, iniziarono a preoccuparsi. In fin dei conti, Joze aveva sì ormai ottantaquattro anni, ma poteva anche essere solo che non si sentisse tanto bene. Però uno strano presentimento già pervadeva l’animo dei rudi uomini di mare. E così, senza dire niente, formarono un piccolo corteo che si avviò verso la casa del vecchio, che per tutti era come un padre, e come tale stimato, amato e rispettato. Il portone era chiuso a chiave, ma nessuno rispondeva ai richiami degli uomini. Allora i più giovani scalarono il muro di cinta e dal cortile entrarono in casa. La luce era ancora accesa, Joze era là, sulla sua poltrona, la testa reclinata in avanti, quasi a voler baciare il corpicino di Gaia che stringeva al petto in segno di protezione.

Se vi capiterà di andare sull’isola di Cherso, appena prima della prima casa di Ossero, sulla destra c’è il piccolo cimitero, il cancello sempre aperto a chi porta un fiore. Joze e Gaia sono sepolti là.

Il premio “Città di Riposto 2007” - 26a edizione è stato conferito al notaio Filippo Patti. Consegna la targa d’argento e la medaglia d’oro il sindaco on. le Carmelo D’Urso

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Fina Finistrella

A RIPOSTO

Mollemente adagiata ai piedi dell’Etna, Come la testuggine, dopo breve sosta disciogli le tue morbide e setose vesti sulla terra, in un fruscio di mare e di profumi. sente irresistibile il richiamo del mare, Di ceneri e lapilli ti lasci ammantare, anch’io ritorno a te e, dopo attento di spruzzi e salsedine irrorare. esame, L’occhio si ricrea spaziando e, gioisco se ti trovo ben curata, dalla vista dei dolci declivi al passo col tempo e ben governata, cosparsi di borghi, ville e giardini, soffro se negletta, apatica e trascurata. giunge fino all’alto Mongibello, Torno d’estate e con i tuoi emigranti al suo pennacchio a sera mi ritrovo a passeggiare e al suo rosso mantello. mentre tra gocce di spuma bianca All’alba, all’orizzonte, parlottano gli scogli, ad un tratto tutto riluce: tremano le luci delle lampare. vivo e ingrandito irrompe So che questa e’ tra le poche improvviso il sole, sorge il mare che mi restano da tornare, scrollandosi di dosso le goccioline di sale. pertanto voglio assaporare Tutto si anima e prende colore, gli antichi odori, le vecchie usanze suoni, voci e rumore il cielo turchino e le dolci fraganze. si mescolano insieme e, Mi immergero’ nei tuoi profumi: in una ridda di fremiti e d’ebbrezza, zagare, pomelie e gelsomini, ringraziano il Creatore. effluvi di terra natia Al tramonto, quando le campane del vespro sopiti da tempo nel cuore della mente annunciano il morir del giorno mia. e il sole, declinando dietro la bruna Ti saluto Riposto, montagna, culla e sepolcro dei miei avi, di rosso accende la campagna, vai avanti con il progresso nuvolette d’oro e di fiamma veleggiano tieni alto il tuo nome lente gonfia d’orgoglio il mio petto tra sbuffi di vapor e di fumo rendi il mio sguardo fiero. evanescente. È bello vederle scolorire, confondersi e lentamente svanire!

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UNA POESIA SUL MARE DI SICILIA Franca Grasso

MARE DI SICILIA

Oceani e mari d’altre regioni del mondo Ancora lo sogno ho contemplato estasiata, lievemente mosso ma il mare di Sicilia... con piccole onde spumeggianti Il mar Ionio di Riposto. sorvolate da stormi di gabbiani È quello che amo di più, che picchiano in discesa quello che mi resterà nel cuore, rapidi e fulminei fino all’ultimo alito di vita. per poi alzarsi d’improvviso Ci sono notti ancora che lo sogno nell’eterno gioco vita-morte. nei suoi smaglianti colori: Oh mare mio di Sicilia! azzurro, celeste, smeraldo Nelle notti insonni, con stilature giada multiformi; quando guado nel pantano inestricabile, quali vertigini per così tanta bellezza! ormai da te lontana Oppure lo sogno nel tempo e nello spazio, come immensa distesa argentea ancora ti rivedo così calma da trasmettere nell’ora più bella del mattino un’incredibile serenità, quando il sole sorge furioso anche dal grembo delle tue oscure profondità e tempestoso, maestoso spargendo scintillanti infinite scie nella terribile forza sulla tua placida azzurrina superfice dalla natura scatenata, che lievemente lambisce le bianche spiagge con altissime onde cosparse di pulviscolo dorato ripiegate su sé stesse nell’ora più bella del mattino. in spaventose cascate E mi pare di sentire che profondo terrore solleticare le narici incutono nell’animo smarrito dal tuo acuto mai dimenticato dei tanti naviganti salmastro odore. che una preghiera Ma è un’illusione. accorati levano al cielo. È solo una lacrima salina E pur fascinose nel medesimo tempo. che scivola piano dalle mie umide ciglia. Pagina 249 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

Rosaria Zammataro ETNA, SEI Stai come un vecchio sapiente seduto sul prato dei ricordi. Il manto bianco ricopre le spalle possenti che abbracciano con forza i figli della tua terra. Fumi. Dalla tua bocca s’innalzano imprendibili parole di fuoco, disegnano bianchi ricami sull’azzurro del cielo. Mediti. Pensieri profondi si agitano nel buio delle tue caverne, vortici oscuri che prendono la luce solo quando ti scuoti bruscamente. Taci. I tuoi silenzi sono parole inespresse ma tutti ascoltano la tua voce e temono la tua rabbia. Tu non odi il grido della valle ma sussulti quando i profumi dell’incenso ti elevano preghiere. Etna sei, e questo ti basta.

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L’ASSISTENZA MEDICA A MARE

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha adottato la convenzione C164 ILO, concernente la tutela della salute e le cure mediche dei marittimi, nell’ottobre del 1987. Tra le norme contenute nei 21 articoli c’è quella che impone il medico a bordo per le navi con oltre cento persone di equipaggio ed effettuano normalmente viaggi internazionali di oltre tre giorni. Se ne deduce che nella totalità delle navi adibite alla navigazione marittima commerciale, ad eccezione delle navi passeggeri, non c’è il medico tra i membri dell’equipaggio. Di conseguenza, il navigante quando si trova per giorni e giorni tra cielo e mare, lontano miglia e miglia dalla terraferma, solo in mezzo all’oceano, è naturale che si scoraggi. Nei 13 volumi della nostra collana “Storie e racconti di mare” che raccoglie i lavori migliori presentati al concorso “Fatti di bordo”, la Sezione del Premio Nazionale Artemare riservata ai naviganti, non sono pochi i racconti che evidenziano momenti drammatici della vita di bordo per fatti legati a cause d’infortuni o di malattie. Il nostro Circolo ha curato l’elenco dei concittadini rimasti vittime del mare con l’intento di dedicare loro un posto che possa ricordarli. N’è risultato un elenco abbastanza numeroso per un piccolo paese com’è Riposto. Chissà, quanti di queste vittime si sarebbero potute salvare se avessero avuto un’idonea assistenza sanitaria a bordo della nave. Attualmente le consultazioni mediche sono possibili per le navi in mare ad ogni ora del giorno e della notte. Oggi esistono vari Centri internazionali di telemedicina. In Italia abbiamo il CIRM. II CIRM (Centro Internazionale Radio Medico) nasce nel 1935 allo scopo di dare assistenza radiomedica ai marittimi imbarcati su navi prive di personale medico a bordo, di qualsiasi nazionalità e in navigazione su tutti i mari del mondo. Il primo Presidente del Centro fu Guglielmo Marconi. L’assistenza medica, dal 1946, viene estesa agli equipaggi e passeggeri degli aeromobili e ai residenti di comunità isolane senza presidi sanitari. Nel 1951 diventa una Fondazione senza scopo di lucro. Il CIRM ha la sede a Roma ed i suoi servizi medici sono gratuiti. Le richieste d’assistenza sono ricevute da 10 medici di guardia che possono comunicare con le navi almeno in tre lingue, che si avvalgono anche dell’apporto di una cinquantina di consulenti specialisti e che seguono il paziente fino alla guarigione o allo sbarco. Esso garantisce un servizio attivo 24 ore su 24, 365 giorni l’anno e include l’interessamento per un eventuale trasbordo del paziente su nave fornita di servizi medici o, se la distanza lo permette, il prelievo del malato con mezzi navali o aerei Pagina 251 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14° per una rapida ospedalizzazione. Il CIRM raccomanda anche i diportisti di mettersi in contatto diretto col Centro ogni qualvolta dovesse malauguratamente presentarsi a bordo un’emergenza medico-traumatologica. L’International Maritime Organization (IMO) con Circolare n. 960 del 2000 “Medical assistance at sea”, per un migliore coordinamento tra i Centri dei servizi di telemedicina, introduce il TMSA (Telemedical Maritime Assistance Service) che definisce standard e regole per una migliore assistenza ai naviganti. Il CIRM nel 2002, tra i pochi finora al mondo, ottiene il riconoscimento di essere il TMSA italiano. Contattare il Centro una volta era molto difficoltoso, specialmente, quando ci si trovava nell’immensità degli Oceani. I contatti avvenivano con una stazione radio ad onde corte e quando si era molto lontani si ricorreva a collegamenti attraverso le stazioni radio costiere. Attualmente contattare il Centro è molto semplice. Generalmente le navi utilizzano il Telex (612068 C.I.R.M. I) o il sistema satellitare Immarsat-C. Ma i collegamenti sono anche possibili per telefono (+39 06 54223045), cellulare (348 3984229), fax (+39 06 5923333), posta elettronica ([email protected]). di Gioacchino Copani

Il “Premio Protagonisti del mare 2007” è stato conferito al Centro Internazionale RadioMedico

Il premio “Protagonisti del mare 2007” - 11^ edizione - è stato conferito al Centro Internazionale Radio Medico. Riceve la targa d’argento e la medaglia d’oro il Presidente dell’Ente, Amm. Ispettore Capo (SA) Agostino Di Donna. Consegna il riconoscimento l’Amm. Ispettore Capo (CP) Gaetano Sodano Pagina 252 Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 14°

L’Ammiraglio Agostino Di Donna ringrazia per il conferimento del premio “Protagonisti del mare 2007” al C.I.R.M.

Il Sindaco di Riposto, on.le Carmelo D’Urso”, come ogni anno, conclude la cerimonia del Premio Artemare con un suo intervento

Pagina 253 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto INDICE Il Presidente del Circolo Cap. d. m. Gioacchino Copani PRESENTAZIONE DEL VOLUME Pagina 3 Il Sindaco di Riposto on. prof. avv. Carmelo D’Urso Pagina 5 Questo XIV volume della collana opere premiate negli anni 2004, 2005 e 2007 Pagina 7 SEZIONE FATTI DI BORDO 2004 - XVI edizione Pagina 10 Giovanni Pagano QUANDO IL DIAVOLO CI METTE LA CODA Pagina 11 Igino Terramoccia IL PIANTO DEL DELFINO Pagina 17 Antonio Riciniello LAY-UP Pagina 21 Giovanni Colonna LA BAMBOLA DI PEZZA Pagina 29 Leonardo Fiore IL PRIMO IMBARCO NEL CERCHIO DEI MIEI RICORDI Pagina 31 Angelo Luigi Fornaca S O S Pagina 43 Girolamo Melissa BURRASCA PROVVIDENZIALE Pagina 47 Domenico Pischedda PABLITO E IL DELFINO BIANCO Pagina 53 Pasquale Sortino UN PASSATO MAI ASSOPITO Pagina 57 SEZIONE NARRATIVA 2004 - X edizione Pagina 63 Nazario D’Amato LA PESCATRICE Pagina 65 Alfonso Gaglio IL RAGAZZO CHE SUONAVA AL MARE Pagina 83 Clelia Ambrosini LA VOCE DEL SILENZIO Pagina 93 Vincenzo Galvagno UNA PESCA MIRACOLOSA A MARGINE DI UN INCUBO Pagina 97 Franca Gambino “LUI” Pagina 117 SEZIONE FATTI DI BORDO 2005 - XXVII ed. Pagina 123 Anna Bartiromo L’ULTIMO ALISCAFO Pagina 125 Gaetano Alfaro UN NATALE SPECIALE Pagina 129 Mario Calabrò ANTICHI RICORDI Pagina 133 Vincenzo Marzullo “PRATICA” MANCATA Pagina 139 TRISTE DOPPIAGGIO Pagina 140 SEZIONE NARRATIVA 2005 - XI edizione Pagina 143 Domenico Di Martino L’ATTESA Pagina 145 Amabilia Di Blasio IL PITTORE DI CAPOIALE Pagina 159 Francesco Persili IL MARE DI ELLEN Pagina 171 Angelo Maria Trovato IL GIOCO DELLA VITA Pagina 177 SEZIONE FATTI DI BORDO 2007 - XVIII edizione Pagina 183 Felice Zanghì IL TIFONE CARLOTTA E LA FRANCA Pagina 185 Francesco G. Mastropierro PERIPLO AFRICANO MOLTO PARTICOLARE Pagina 201 Antonio Ciccarello RITORNO AL PASSATO Pagina 211 SEZIONE NARRATIVA 2007 - XII edizione Pagina 215 Roberto Morpurgo IL CONERO NEI MIEI RICORDI Pagina 217 Giuseppe Martorino LEZIONE DI NUOTO Pagina 229 Eugenia Pileggi IL MARE... VITA E MORTE Pagina 237 Mario Gherbaz PATTO D’AMORE Pagina 241 UNA POESIA SU RIPOSTO Fina Finistrella A Riposto Pagina 248 UNA POESIA SUL MARE DI SICILIA Franca Grasso Mare di Sicilia Pagina 249 Rosaria Zammataro ETNA, SEI Pagina 250 L’ASSISTENZA MEDICA A MARE di Gioacchino Copani Pagina 251 La battitura dei testi, la scansione di foto e documenti, l’impaginazione e la progettazione grafica sono a cura di Gioacchino Copani

Finito di stampare presso la Tipografia Litografia TM di Mangano Venera Via Nino Martoglio n. 93 95010 Santa Venerina CT Tel. 095/953455/ Luglio 2008

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