Flavio Frezza

IL DIALETTO DI NEI VERSI DI FILIPPO PAPAROZZI

Include “I cinquanta sonetti di Bocella De-Caoni” (1903) e il “Glossario” di Alessandro Gaddi (1932) Flavio Frezza

IL DIALETTO DI BAGNOREGIO NEI VERSI DI FILIPPO PAPAROZZI

Include “I cinquanta sonetti di Bocella De-Caoni” (1903) e il “Glossario” di Alessandro Gaddi (1932) INDICE

Presentazione - Francesco Bigiotti 3

Prefazione - Giuseppe Medori 5

Simboli e abbreviazioni 7

Saggio di un’analisi del dialetto bagnorese 9 1. Introduzione 9 2. Filippo Paparozzi, poeta civitonico 14 3. La grafia del poeta 20 4. Principali caratteristiche linguistiche 23 5. Le alterazioni linguistiche del Gaddi 34 6. Conclusioni 41

Introduzione ai sonetti 43

I cinquanta sonetti di Bocella De-Caoni (1903) - Filippo Paparozzi 45

Il glossario del Gaddi: descrizione e criteri d’edizione 95

Glossario (1932) - Alessandro Gaddi 101

Documenti orali 121 1. “Una questione religiosa” 121 2. Testi dialettali 121 3. Commenti linguistici 123

Bibliografia 125 PRESENTAZIONE

Il dialetto, le tradizioni popolari, i dettagli più minuti della cultura materiale, rappresentano, non meno degli innumere- voli pregi architettonici e paesaggistici di Bagnoregio e del suo territorio, importanti pagine della storia della nostra comunità, che abbiamo voluto omaggiare, in que- sto particolare periodo dell’anno, con una nuova pubblicazione, nella linea inaugura- ta lo scorso Natale con la stampa del bel libro di Vilma Catarcione, A la mi’ Civita: storie e vocaboli di ieri ( 2011). Il presente volume, ad opera di Flavio Frezza, studioso delle parlate della nostra Teverina, prende in esame i sonetti del poeta vernacolo di , Filippo Paparozzi, dati alle stampe nel 1903, con- frontandoli con la raccolta edita nel 1932 da un altro illustre bagnorese, il prof. Alessandro Gaddi, e quindi con i testi dialettali più recenti. Ciò che più conta, forse, è che l’autore non ha voluto fermarsi alla “parola scritta”, ma ha ritenuto fondamentale intervistare alcuni nostri concittadini, soprattutto anziani, andando così a ricostruire, con le loro testimonianze, l’evoluzione di alcuni fenomeni linguistici nell’arco di ol- tre un secolo. Come è noto, i dialetti sono sottoposti ad una sempre più rapida ero- sione e trasformazione. La godibilità di un testo da parte della popolazio- ne, l’incedere dei ricordi, il rinsaldamento del sentimento comunitario, devono quindi essere accompagnati da uno studio rigoroso e scientifico delle nostre parlate, oggi, per ovvi motivi, non più rimandabile.

Francesco Bigiotti Sindaco di Bagnoregio

3 Civita di Bagnoregio (foto di Massimo Calanca) PREFAZIONE

Flavio Frezza è autore di varie pubblicazioni che riguardano, per lo più, le tradizioni popolari. Esse riflettono soprattutto il suo ambiente e, in modo specifico, il territorio di Grotte Santo Stefano, dove è vissuto con i suoi genitori e i suoi nonni in alcuni periodi dell’anno. Stando in paese e sentendo parlare la gente del volgo, ed in particolare i vecchi, quando godevano la fitta ombra delle antiche case, è nato in lui, già incline a pro- fonde considerazioni, l’amore per questo semplice linguaggio, scoprendo in esso quelle parole dialettali che non esistono nei vocabolari. Questo modo di parlare, l’adolescente Frezza l’ha trovato vezzoso ed armonico e molto adatto a significare ciò che questa gente voleva dire. Da questo sentire e poi dal dialogare con questi vecchi è incominciata la sua interes- sante ricerca, estendendola a molti altri paesi della Teverina. Questa terra, quasi sub-regione ad ovest del medio corso del Tevere, trovandosi nell’Alto e avendo per confine la verde e le ridenti colline toscane, è una grande valle ricca di infiniti idiomi le cui parole hanno molteplici declinazioni, sintagmi e modi di dire che variano di paese in paese. Lo studioso Frezza, di alcuni dei tanti dialetti è diventato un fine e profondo conoscitore tanto che ne può parlare in maniera disinvolta, con grande cognizione e, soprattutto, con rara passione. L’autore, con la pub- blicazione di questo ulteriore studio sul vernacolo, ci consegna un mag- giore approfondimento del dialetto rurale di queste terre e, in particolare, di Bagnoregio, di cui Civita costituisce il vero ed antico centro storico. È nella troppo accidentata campagna di Civita, è nel suo difficile iso- lamento, è tra i “caoni” di “Bocella” che lo studioso di dialetti ha trovato la materia ideale per una più canonica esegesi della parole usate dal Papa- rozzi nel suo noto libro “I mi ’ersi”. È proprio di questo poeta vernacolo e del suo interessante libro, che per noi civitonici ha costituito il primo linguaggio trasmessoci dai nostri padri, che lo scrittore Bonaventura Tec- chi dice: “senza di lui, non è più possibile scrivere versi in dialetto nel nostro paese”.

5 Questo particolare idioma, così incisivo e fiorito, codificato dal grande poeta delle crete ed espresso in vero linguaggio locale, è stato il prototipo per altri poeti vernacoli che con i loro libri hanno dato lustro alla città di Bagnoregio. Il suo modo di poetare, sui problemi di “Bocella De-Caoni”, è piaciuto al maestro Angelo Ramacci che, sul suo esem- pio, sempre in dialetto ha scritto i “Sonetti cu’ la coa”; è piaciuto anche al Reverendo don Enrico Righi che, dotato di un facile parlare faceto, anch’esso ha pubblicato sull’esempio dei precedenti poeti dialettali, un suo libro dal titolo: “Sonetteria rotana”. Anche recentemente questo dia- letto è rivissuto negli scritti di Vilma Catarcione che, avendo trascorso la sua infanzia a Civita, fino all’età adolescenziale, l’ha assimilato meglio di altri con tutte quelle sfumature dovute alla trasformazione e alla nor- male evoluzione del linguaggio locale. Al Frezza, noi di Bagnoregio, dobbiamo essere riconoscenti perché fra i dialetti della Teverina ha preferito il nostro, facendone un’analisi approfondita, degna di un grande filologo. Prendendo in esame i libri di Paparozzi, del Ramacci, del Righi, della Catarcione e di altri ne è nata quasi una filologia comparata che Frezza, con il suo studio sulla parola dialettale, fa rivivere in noi un vasto panorama della cultura popolare di cui Paparozzi è il caposcuola.

Giuseppe Medori

6 SIMBOLI E ABBREVIAZIONI

accr. accrescitivo rust. rustico (v. in uso nel contado) agg. aggettivo s. sotto ant. antiquato (v. in via di disuso) sec. secolo antifr. antifrastico seg. seguente arc. arcaico (v. desueta) s.f. sostantivo femminile B v. in uso a Bagnoregio s.m. sostantivo maschile CB v. in uso a Civita di B. sopr. soprannome centr. v. dei dial. dell’Italia centrale SS Strada Statale cfr. confronta top. toponimo dial. dialetto; dialettale tr. transitivo dim. diminutivo uff. ufficiale dispr. dispregiativo v. voce; verbo es. esempio vd. vedi espr. espressione euf. eufemismo - può indicare un’interruzione f. femminile improvvisa della pronuncia. fig. figurato … tra parentesi quadre, possono fraz. frazione segnalare l’omissione gloss. glossario di un passaggio non rilevante; ibid. ibidem fuori parentesi, possono id. idem indicare una pausa breve. it. italiano () possono contenere un fonema impers. impersonale dalla pronuncia indefinita. impf. imperfetto [] possono contenere ind. indicativo un’integrazione inter. interiezione al testo originale. intr. intransitivo {} contengono una forma ipotetica lat. latino o ricostruita. lett. letterario; letteralmente <> contengono una forma loc. località del dialetto attuale. m. maschile * forma tratta dai sonetti. p. participio ? può segnalare un dubbio pass. passato del raccoglitore. perf. perfetto / scansione di versi. pl. plurale | separa i singoli contesti pres. presente linguistici e gli elementi pron. pronome; pronominale fraseologici. top. toponimo || separa funzioni grammaticali, tr. transitivo sezioni del glossario, ecc. raro v. di scarso impiego : → rinvio alla voce principale. rec. recente > introduce un’alterazione rif. riferito del Gaddi; evolve in. rifl. riflessivo < evolve da.

7 Ritratto di Filippo Paparozzi (tratto da I mi’ ersi, cit.) SAGGIO DI UN’ANALISI DEL DIALETTO BAGNORESE1

“I cinquanta sonetti di Bocella De-Caoni” (1903) nella riedizione di Alessandro Gaddi (1932)

1. Introduzione

a) Cenni sulla dialettologia nel Viterbese

La situazione linguistica della Tuscia viterbese, notoriamente fram- mentata, anche per via delle convergenze con le aree limitrofe, e per le numerose influenze da queste provenienti2, è stata per lungo tempo tra-

1) L’edizione originale del saggio era inizialmente destinata ad apparire in altra sede, ma i tempi dilatati di pubblicazione – con il conseguente rischio di dare alle stampe del materiale non più aggiornato – mi hanno spinto a rivolgermi al di Bagnoregio che – nella persona del Sindaco Francesco Bigiotti – ha intelligentemente accettato di pubblicare lo scritto, sebbene di tipo non strettamente divulgativo. Si terrà quindi conto del contesto in cui vede la luce il presente lavoro e della conseguente necessità di conci- liare le esigenze degli studiosi all’opportunità di rendere comprensibile quanto esposto a un pubblico non specializzato. Questi fattori mi hanno spinto, tra l’altro, a limitare l’impiego di tecnicismi e a rinunciare ad alcuni approfondimenti, pur cercando di man- tenere, nell’esposizione delle informazioni, il medesimo rigore metodologico che ne ha ispirato la raccolta (vd. note 12, 14 e 16). Colgo l’occasione per ringraziare, oltre al sig. Sindaco, l’Assessore Giuseppina Centoscudi per la disponibilità, il personale dell’uf- ficio anagrafe comunale per le informazioni procuratemi, Luigi Cimarra per i preziosi consigli, Enrica Ciorba per l’aiuto nella trascrizione dei sonetti e nella revisione delle bozze, Giancarlo Baciarello per le delucidazioni storiche, Massimo Calanca per le foto- grafie, Cesare Fanti per le operazioni di fotoritocco, Giuseppe Medori per la lusinghiera prefazione e, inoltre, tutte le mie fonti, tra le quali sono grato, in particolare, a Vilma Catarcione, Vincenzo Eleuteri e Bonaventura Rocchi. 2) “Se passiamo poi ad esaminare più da vicino la situazione linguistica del Viterbe- se, ci accorgiamo che nelle fasce periferiche del territorio appaiono salde convergenze con le regioni contigue: per esempio, lungo il confine settentrionale della provincia è ravvisabile una consistente pressione, durata nel corso dei secoli, del prestigioso mo- dello toscano; tendenze umbre vistose s’irradiano nella vallata del Tevere, penetrando all’interno; innegabili influenze romanesche sono percepibili soprattutto nella fascia meridionale. Inoltre, tali influenze e convergenze non restano circoscritte, come preve- dibile, alla periferia, ma coinvolgono più o meno l’intero territorio. Si sarebbe tentati di affermare alla prima impressione, senza tuttavia poterlo ancora provare che siamo

9 scurata dagli specialisti, complice la perdurante carenza di infrastrutture in grado di permettere rapidi collegamenti tra i maggiori centri di studio e la nostra provincia. Fatte salve le inchieste effettuate, nella prima metà del secolo scor- so, per l’Atlante linguistico ed etnografico italo-svizzero (AIS) e l’Atlan- te linguistico italiano (ALI, in corso di pubblicazione)3, e le rilevazioni svolte da Michele Melillo nel ’584, bisognerà attendere gli anni ’70 al- lorché i dialettologi Francesco Petroselli e Luigi Cimarra, entrambi di origine locale, diedero alle stampe i primi risultati delle proprie indagini, condotte secondo criteri scientifici, relative alle tradizioni orali (blasoni popolari5, detti e proverbi, folclore infantile) e alla cultura materiale (vi- ticoltura, canapicoltura) del territorio di nostro interesse6. Soltanto in anni recentissimi, a cura dei medesimi studiosi, si è potu- to disporre di un primo quadro d’insieme dei dialetti dell’area7 e dell’av- vio di uno strumento come l’auspicato “Vocabolario dialettale della Tu- scia viterbese”, avente lo scopo di salvaguardare il patrimonio lessicale della nostra provincia tramite la pubblicazione di una serie di volumi basati interamente sui documenti orali raccolti nel corso di quarant’anni in presenza d’una tipica area di transizione all’interno della più ampia realtà centrale della penisola, percorsa in epoche diverse da correnti linguistiche di varia provenienza” (C&P 2008:27-28). 3) Tra i punti d’inchiesta si elencano, per l’AIS, , , Ronci- glione e e, per l’ALI, Montefiascone, Bagnaia (oggi fraz. di Viterbo), , , Monteromano e . 4) Nell’estate del 1958 Melillo effettuò alcuni rilevamenti nel Bagnorese (nel capoluo- go, a Civita e nella borgata di Mercatello) e in altre località della Provincia di Viterbo, ovvero , Acquapendente, , Le Mosse (fraz. di Montefiascone), Chia (fraz. di ), La Quercia (fraz. di Viterbo), e . Stralci di queste registrazioni – depositate, in seguito, presso la Discoteca di Stato – appaiono, corredati da brevi ma significativi commenti linguistici, in: Melillo 1970:492-504, 514- 523. 5) Con il termine “blasoni popolari” si fa riferimento a quei documenti – in massima parte orali – mirati a enfatizzare le differenze tra il proprio gruppo di appartenenza e “gli altri”, considerati “diversi” per appartenenza etnica o di classe. 6) Ci si limita a citare le opere che includono, tra le località oggetto d’indagine, Bagno- regio e le sue frazioni. A cura di Petroselli: Blaspop. II, Vite I-II; a cura di Cimarra e Petroselli: C&P 2001, 2008. 7) Ci si riferisce al “Profilo linguistico della subarea cimina nel contesto della Tuscia viterbese” (C&P 2008:27-110).

10 di indagine sul campo8. Il quadro della conoscenza delle nostre parlate si allarga, poi, consi- derando i saggi descrittivi di alcuni vernacoli9 e i glossari settoriali dedi- cati alle attività lavorative tradizionali10, nonché alcune opere di carattere amatoriale, di qualità oscillante11. L’attenzione dedicata al patrimonio orale non implica, tuttavia, che debbano essere trascurate le fonti scritte, soprattutto remote, le quali per-

8) La collana, coordinata da Francesco Petroselli, si propone di coprire l’intero territo- rio provinciale tramite una serie di monografie relative ai centri maggiormente rappre- sentativi delle rispettive subaree. La serie include, al momento, tre volumi, dedicati ai dialetti di Viterbo (Petroselli 2009), (Petroselli 2010) e (Cimarra 2011). Nel momento in cui si scrive sono in fase di redazione i vocabolari dialettali di e Sant’Oreste (RM), entrambi a cura di Cimarra e Petroselli. È opportuno segnalare anche la prima raccolta lessicale, redatta secondo criteri scientifici, dedica- ta interamente a un centro della nostra provincia, (Monfeli 1993). Per quanto riguarda le immediate vicinanze di Bagnoregio, assume grande rilevanza un’opera relativa al territorio orvietano (M&U 1992), la quale, in virtù dell’affinità lin- guistica di detta subarea con una parte consistente del Viterbese, include tra le località d’inchiesta Acquapendente e Montefiascone. 9) Limitandoci agli scritti di carattere scientifico, si dispone, al momento, di una sinte- tica descrizione delle parlate dell’Orvietano, con notizie relative ad alcuni centri della nostra provincia (Mattesini 1983), nonché di contributi più dettagliati dedicati ai verna- coli di Blera (Mattesini 1996) e Canepina (Petroselli 1990). Per la Teverina, si rimanda alle brevi annotazioni sul dialetto della frazione viterbese di Fastello (Frezza 2012:5-8), mentre è in fase avanzata di redazione una monografia dedicata a Grotte Santo Stefano (fraz. di Viterbo), a cura dello stesso studioso. Si cita, infine, un saggio relativo alle “di- namiche linguistiche al confine tra Toscana e Lazio”, con cenni su alcuni dialetti della nostra subarea (Dinam. 2002). Vd. anche nota 7. 10) Si fa riferimento agli studi sulla pesca e sull’ambiente lacuale relativi ai laghi di Vico (Silvestrini 1984) e (Casaccia 1986) – quest’ultimo con glossario di Enzo Mattesini (ibid.:110-132) –, oltre che al recente repertorio lessicale dedicato ai settori semantici connessi alla “gara del solco dritto” di Fastello: allevamento bovino, aratura, semina, parti del campo, geomorfologia del territorio e composizione della società con- tadina (Frezza 2012:29-62). Occorre infine menzionare un accurato glossario settoriale proveniente dalla contigua campagna amerina (Zappetta 2006:135-174) e uno studio etimologico contenente un glossarietto con voci dialettali di alcuni centri del Viterbese, con l’inclusione di Bagnoregio (Alinei 2009). 11) Ci si limita a segnalare le monografie riguardanti due centri contermini, ovvero (Corradini 2004) e Bolsena (C&T 2005); quest’ultima risulta piuttosto affidabile, sia per la puntigliosità della ricerca che per quanto attiene il sistema di trascrizione utilizzato.

11 mettono, anzi, un’utile comparazione tra le antiche parlate e l’attuale uso orale12. Ci si riferisce, ad esempio, agli statuti dei nostri comuni13, ma an- che a raccolte di diverso spessore, contenenti testi formalizzati, racconti, poesie e sonetti14. 12) Al fine di poter disporre di informazioni aggiornate sulle parlate della zona, sono stati compiuti alcuni sopralluoghi a Bagnoregio e Civita, dove si è avuta cura di inter- vistare cittadini nativi, per lo più anziani, occupati in attività di diverso genere (agri- coltura, allevamento, sartoria, attività estrattive, commercio, insegnamento). Sono stati effettuati soltanto due rilevamenti nelle frazioni di Vetriolo e Castel Cellesi, dove, come si vedrà, sono emerse situazioni dialettali sensibilmente differenti da quelle riscontrate nel capoluogo. Allo scopo di non appesantire la lettura, si è stabilito di limitare i raf- fronti con i centri limitrofi, facendovi ricorso unicamente per contestualizzare alcune caratteristiche linguistiche di particolare interesse. Si è tenuto conto, a tal fine, sia dei testi in bibliografia che dei documenti orali raccolti nel corso di precedenti inchieste nella Teverina, i cui centri hanno fatto capo, per secoli, alla Diocesi di Bagnoregio, con le eccezioni di e Fastello, facenti parte di quella montefiasconese. Nel 1986 ambo i vescovadi vennero soppressi e i loro territori accorpati alla Diocesi di Viterbo, in virtù della bolla papale Qui non sine. 13) Ci si limita a citare, per l’area in esame, gli statuti in volgare di Bagnoregio (Statuto 1985), di Civitella d’Agliano (G&P 1985) e dell’odierno San Michele in Teverina (G&P 1995), nonché una raccolta di bandi comunali di (Mancini 2010). Per al- cune considerazioni linguistiche sugli statuti della subarea, si rimanda a Cipriano 1993. 14) Francesco Ugolini, nel basilare “Rapporto sui dialetti dell’Umbria”, utilizza pro- ficuamente una selezione di versi dialettali accanto a materiali raccolti sul campo; al fine di effettuare dei raffronti tra le parlate dell’Umbria e quelle del Viterbese, lo stu- dioso include alcune notizie relative al dialetto di Bagnoregio, basate, si direbbe, su uno spoglio dei sonetti del Paparozzi, che pure l’autore ha tralasciato di citare (Ugolini 1970:475-479). Per quanto riguarda il presente studio, si è fatto ricorso, oltre che alle risorse già segnalate, a testi di diverso genere, tra i quali assume particolare rilevanza il breve racconto “La Tonna” (Medori 1982:84-88), ove lo scrittore ha riprodotto fedel- mente, negli scambi di battute tra i protagonisti, la parlata in uso ai tempi della stampa; un incontro con lo studioso, nativo di Civita, ha permesso la verifica delle voci e la loro trascrizione in grafia fonetica semplificata. Si è dimostrata di una certa utilità la consul- tazione di Proietti 1995; l’autore, recentemente scomparso, fornisce vivide immagini della propria infanzia a Civita durante il ventennio fascista e, nel corso della narrazione, cita antroponimi, soprannomi, termini dialettali, scambi di battute, ecc. Assume rile- vanza, in una monografia di carattere storico dedicata alla frazione, la sezione “Civita oggi”, contenente un prezioso elenco di antroponimi, soprannomi e toponimi (Signorel- li 1979:43-47). Anche in questi casi, è stato possibile verificare buona parte dei materia- li presso i nostri informatori e trascriverli secondo criteri scientifici. Per quanto riguarda i componimenti poetici, omettendo, per ora, quelli del Paparozzi, si è tenuto conto, con una certa prudenza, di una raccolta proveniente dal capoluogo comunale, esposta, però,

12 b) Bagnoregio e Civita: due varietà distinte?

Prima di presentare il poeta e di addentrarsi nell’analisi linguistica, occorre almeno far cenno dell’appartenenza delle parlate del Bagnore- se, sotto il profilo fonetico e morfo-sintattico, al più ampio gruppo dei dialetti mediani15, nonché delle numerose concordanze con le subaree limitrofe, anche al di fuori dei confini provinciali. Per quanto attiene le differenze tra le varietà di Bagnoregio e Civi- ta – le quali, a dire dei parlanti, sarebbero sensibili e immediatamente percepibili (si sènte sùbbito, nò?) –, ci si limita, per il momento, a notare come, almeno nella fase attuale, i due centri condividano la medesima fenomenologia di base, e a sottolineare come le maggiori differenze ri- levate consistano, per quanto concerne il civitonico, nella persistenza di alcuni tratti antiquati o arcaicizzanti, che si vedranno meglio in seguito16. alle influenze dialettali di Civita, luogo di nascita dei genitori del versificatore (Ramacci 1969). Si è invece ritenuto superfluo utilizzare, ai fini di un raffronto linguistico, un’ul- teriore collezione poetica bagnorese, successiva a quella del Ramacci e, come questa, volutamente soggetta agli influssi civitonici (Righi 1983). Di grande ausilio sono risul- tati, poi, i testi di Vilma Catarcione, originaria di Civita: uno di questi è analogo, per forma e contenuti, a quello del Proietti (Catarcione 1997), mentre il secondo lavoro, re- centissimo (Catarcione 2011), è strettamente inerente all’oggetto della nostra ricerca; la disponibilità della scrittrice ci ha permesso di trascrivere con precisione le voci di mag- giore interesse. Si menziona, poi, una pubblicazione di carattere scientifico, contenente racconti e testi formalizzati, che include, tra le località d’indagine, Bagnoregio, Civita e Vetriolo (Galli 1992); tuttavia il sistema di trascrizione, estremamente semplificato, rende solo in parte le caratteristiche fonetiche. Le medesime osservazioni valgono per un volume relativo alla medicina popolare nella Teverina, ove sono incluse, tra le altre, le medesime località del Bagnorese indagate dal Galli (Amici 1992). 15) Il gruppo dei dialetti mediani include, grossomodo, le parlate in uso nel Lazio, in Umbria e in parte delle Marche e dell’Abruzzo. 16) Per quanto attiene le condizioni linguistiche del Bagnorese ai tempi del Gaddi, appare di qualche utilità una sua osservazione, secondo la quale la parlata di Civita “è più somigliante all’umbro, mentre spiccatissima è a Rota la tendenza toscana” (Gaddi in: Paparozzi 1932:XIX). L’asserzione dello studioso lascia pensare a una maggiore affinità tra il civitonico e le parlate dell’Umbria, o meglio dell’Orvietano, e alla mag- giore penetrazione, nel dialetto del capoluogo, di voci di lingua o italianizzanti, il che troverebbe conferma nelle condizioni attuali. Per quanto riguarda la situazione odierna, si è data particolare rilevanza, nei dati che si andranno a presentare, al piano fonetico, dedicando qualche attenzione ai campi del lessico e della morfo-sintassi. Sono esclusi, invece, i raffronti tra le cadenze dialettali; tuttavia si fa presente come, anche in questo

13 Meriterebbero, invece, una trattazione a parte le parlate delle fra- zioni di Vetriolo e Castel Cellesi – quest’ultima aggregata a Bagnoregio soltanto nel 192817 –, caratterizzate da una tipologia più spiccatamente “volsino-orvietana”18.

2. Filippo Paparozzi, poeta civitonico

a) “Bocella” e la prima edizione dei sonetti (1903)

Filippo Paparozzi nacque a Civita di Bagnoregio nel 1828 da una famiglia benestante il cui capostipite Scipione, notaio originario di Gal- lese, si stanziò nel Bagnorese nel 1594. Acculturato, dialettofono, dotato di interessi poliedrici19, il Paparozzi si fece portavoce degli umori della caso, secondo i parlanti, le differenze sarebbero notevoli. La provenienza dei materiali registrati viene indicata, di norma, con l’apposizione della sigla di località tra paren- tesi tonde: B = Bagnoregio, CB = Civita. Si segnala, tuttavia, che stante la sostanziale uniformità fenomenologica delle due parlate, si è preferito, nei casi non insidiosi, non apporre alcuna sigla, allo scopo di non appesantire la lettura. Si fa presente, inoltre, che data la comprensibile difficoltà nel trovare fonti civitoniche affidabili, la maggior parte dei materiali presentati è di provenienza bagnorese. 17) Vd. nota 24. 18) Con questa definizione di comodo si vuole indicare l’insieme delle parlate in uso nell’Orvietano, sulla sponda orientale del lago di Bolsena e in parte della Teverina, ca- ratterizzate dalla presenza del dittongo -jè- – in opposizione a -jé- (vd. nota 34) –, dalla trasformazione costante di -i finale in -e (vd. nota 56) e dalla preposizione ma “a” “in” (vd. nota 64). Tutti questi tratti si ritrovano anche nel dialetto del capoluogo provinciale (almeno nel registro antiquato), che però si distingue dalle varietà “volsino-orvietane” per l’assenza di alcune caratteristiche significative, tra le quali si citano, a titolo di esem- pio, il dileguo della consonante nella preposizione “di” (vd. nota 60), l’aggettivo indefi- nito che “qualche” (vd. nota 66) e il pronome le “lo” “li” “la” “le” (vd. nota 98), comuni, invece, al dialetto di Bagnoregio. 19) Le fonti scritte non indicano esplicitamente Civita quale luogo di nascita di Filippo Paparozzi, sebbene la popolazione locale dia la notizia per certa. Figlio di Francesco e Giacinta Gentili-Acciari, Filippo venne introdotto dal padre, perito agrimensore e amministratore patrimoniale, all’interesse per la musica, e fu iniziato allo studio del pia- noforte dal soprano Erminia Frezzolini, sua parente, originaria di Orvieto. Alla passione per la poesia contribuì, probabilmente, l’amicizia tra suo padre e un poeta umanista, il canonico Ottavio Zannini, professore nel seminario di Bagnoregio. La personalità del Paparozzi era caratterizzata, secondo lo studioso Alessandro Gaddi (vd. nota 26), da una “bontà trasparente […] mallevadrice al suo spirito faceto e satirico, che tutti acco-

14 popolazione del piccolo centro tiberino, assumendo l’identità del poeta contadino Bocella De-Caoni, ovvero, nell’antica parlata civitonica, “pic- cola voce dei calanchi”20. Votato all’improvvisazione, l’attività poetica del Paparozzi fu prin- cipalmente orale, tanto che i suoi testi vennero dati alle stampe, per la prima volta, soltanto nel 1903 – sei anni prima della sua scomparsa –, grazie all’iniziativa dell’amico farmacista, già garibaldino, Severo Venci, glievano in buona parte, pur naturalmente evitando d’esserne colpiti” (Gaddi in: Papa- rozzi 1932:XXI). Del versificatore civitonico scrissero anche intellettuali come Anto- nio Diviziani e Bonaventura Tecchi; se il primo lo definì “poeta di un popolo onesto, triste e laborioso”, nei cui sonetti è avvertibile “solo quel sapore di ingenuo, di umile, di buonsenso e di pacato umorismo che sorge dalla millenaria esperienza e saggezza della stirpe” (http://www.altatuscia.info/2010/03/uomini-illustri-bagnoregio.html), il secondo sottolineò come l’“isolamento di Civita, già allora, al tempo del Paparozzi, gravissimo, la ristrettezza singolare dell’ambiente, che ne faceva un piccolo mondo, un’isola lontana da ogni abitato, davano un colore, un sapore speciale alle ribellioni, ai lamenti del povero Bocella de’ Caoni, e infatti, nella prima parte della raccolta dei versi del Paparozzi (riedita egregiamente nel 1932 da Alessandro Gaddi […]), l’argomento principale è la rivalità tra Cita e Rota” (Tecchi in: Ramacci 1969:4). Che il poeta fosse dialettofono lo si evince da quanto riportato dallo stesso Gaddi, secondo il quale il Sor Pippo “Signor Filippo”, qualora non fosse “in vena” di recitare versi, si congedava da chi gliene facesse richiesta con la locuzione gna che aja! “bisogna che me ne vada” (Gaddi in: Paparozzi 1932:XXII). Le fonti consultate non danno notizie sui titoli di studio conseguiti dal poeta; ciò nonostante, il suo livello culturale si può evincere dalla conoscenza del latino, di cui fa uso in alcuni componimenti (ibid.:81-115). Non si hanno notizie certe neanche sulle sue fonti di reddito, sebbene i cittadini ricordino che il poeta fosse benestante e disponesse di alcune proprietà terriere. Sua moglie Agnese Daddi, originaria di Bolsena, morì nel 1882, trentasettenne, dopo dodici anni di matrimonio, ed ebbe con lui due figli, Francesco e Marianna, i quali, in seguito al nuovo matrimonio del padre, vennero accolti in casa Daddi a Bolsena. Francesco, nato nel 1874, venne quindi iscritto al seminario di Orvieto, che frequentò con successo, coltivando, almeno a partire da allora, la passione per il componimento in versi, come si evince dal sonetto “Risposta”, a lui dedicato dal padre (ibid.:120). Alcuni versi di Francesco, sia in lingua che nel dialetto di Bolsena, appaiono, a cura del figlio Filippo, in: Paparozzi 1995:60- 69. Per un quadro sommario della vita di Filippo Paparozzi e dei suoi familiari, cfr. ibid.:57-59, e Gaddi in: Paparozzi 1932:XIX-XXVI. 20) Secondo un informatore civitonico il poeta, nella scelta dello pseudonimo, si ispirò a un contadino realmente esistito, il cui appellativo, tramandato, si direbbe, in ambito familiare, è tuttora in uso: cfr. Bbocèlla e quélli di Bbocèlla “la famiglia di Bbocèlla”. Il nomignolo è documentato anche in: Signorelli 1979:46. Per brevi considerazioni lin- guistiche sul soprannome, vd. nota 62.

15 con il titolo Cinquanta sonetti in dialetto civitonico di Bocella De-Caoni (cit.)21. I versi del poeta, al quale, in anni recenti, il Comune di Bagnoregio ha intitolato una via22, raffigurano lo spirito contadino e la miseria della vita rurale, dei quali egli fu attento osservatore, senza perderne di vista gli aspetti più positivi e genuini (P’aì lo sgrao der fucatico VIII, Che ber campà ch’adera! X, Nun si caccia più a campà XXXIV, passim). Non mancano versi dedicati alla malinconia e alla rassegnazione della popolazione di Cîta “Civita”23 (Sempre di male in pejo XXXV), cosciente, secondo il Paparozzi, di un passato illustre (Imitanno l’antinati XLVI), ormai offuscato dall’impietoso accanirsi degli agenti atmosferici sui terreni argillosi del centro, causa primaria della sua rovina (La ruina di micchì VI). Le attenzioni di Bocella ricadono, in particolare, sulla schiacciante supremazia di Rota, l’attuale Bagnoregio24 (Chi fija e chi fijastra?! XIV, 21) Dallo scambio di corrispondenza tra il Venci e il Paparozzi, riprodotto nelle pagine iniziali del libretto, emergono la modestia del poeta e la sua ritrosia nel veder pubblicati i propri versi. Si trascrivono alcuni passaggi della lettera del Venci: “Anzitutto debbo indirizzarvi un sentito ringraziamento della gentil compiacenza che avete avuto verso di me nel secondare finalmente il mio vivo desiderio, espressovi da gran tempo, con concedermi vari vostri Sonetti di stile giocoso intorno al volgare dialetto degli abitanti dell’antica contrada di Civita. […] Col fermo convincimento di non fare cosa sgradevo- le a chicchessia, anzi di procurare qualche diletto agli amanti di poesie scherzose, così mi sono deciso di consegnare alla stampa i sunnominati Sonetti: e ciò che si ricaverà dalla vendita di essi, sarà erogato a vantaggio di un’opera meritoria” (Venci in: Papa- rozzi 1903:3-4). Segue la risposta del poeta: “Sono tenutissimo ai sentimenti espressi nel vostro grazioso foglio testè rimessomi in merito ad alcuni Sonetti, che ho composti, per mero mio diletto, sul vernacolo della Contrada di Civita. Son lieto altresì di averne fatto un dono, sebbene riconosca di nessun valore, perchè confortato dal dolce pensiero, che li avreste fatti stampare per un’opera degna di lode […]. Spero poi che i benevoli lettori dei surriferiti Sonetti mi useranno indulgenza, unendosi con voi per raggiungere il bramato scopo” (ibid.:5). 22) La targa reca l’iscrizione “Via Filippo Paparozzi. Poeta vernacolo 1828-1909”. La via si trova in un “rione” di Bagnoregio, di recente edificazione, detto popolarmente Cìvita Nòva, poiché vi risiedono numerose famiglie di origine civitonica. 23) Per la forma dialettale Cîta, con dileguo di -v- intervocalica, vd. nota 61. 24) La città di Bagnoregio, in seguito “Bagnorea”, era formata da tre contrade principa- li: Civita (la più antica e importante), Rota (l’odierno capoluogo) e Mercato (oggi Mer- catello, per un periodo sede del municipio). In seguito al rovinoso terremoto del 1695, a Civita subentrò Rota, con il trasferimento in questa contrada della sede comunale, del

16 La banna XXII, ‘R fiotto è libboro XLVIII, passim). È proprio l’eterna ri- valità tra la frazione e il capoluogo ad animare buona parte dei sonetti (La scunuscenzia II, ‘Na quistione riligiosa XXIV, La mostra de le rilichie XXXIX, passim), tanto efficaci da essere entrati a pieno nella tradizione orale del Bagnorese e dei centri limitrofi25. Altri argomenti ricorrenti sono l’esaltazione delle peculiarità del- la piccola contrada e della sua valle (Le campane di Cîta III, ‘R domo aripulito XII, L’aria barsamica di Cîta XXXVIII, passim), nonché la devozione al santo civitonico per eccellenza, San Bonaventura (La casa di san Minintura XXXIII, ‘R munumento di san Minintura XXXVII). Abbondano gli episodi umoristici (‘R cacciadenti IV, La svertezza d’un bannarolo VII, ‘R daguirotipo XLI, passim), talvolta segnati da una certa vena critica, soprattutto nei confronti dell’amministrazione comu- nale (La strada de’ Punticelli L). Altri componimenti, poi, denunciano vizi e cattive abitudini della popolazione (‘R pidocchio rifatto XX, Un pate scioperato XXXI, ‘R gio- co de’ lotto XLII, passim) e le precarie condizioni igienico-sanitarie del centro (Accidera che puzza! XXVI). In qualche caso, invece, la malizia, il sarcasmo, il campanilismo e la stessa figura del poeta contadino (descritta abilmente in Lo so da mì seminario e della sede vescovile. Nel 1922, con regio decreto, venne ripristinato l’antico nome di Bagnoregio, con il quale si fa attualmente riferimento al solo capoluogo. La popolazione residente nel Bagnorese conta attualmente 3.670 unità; di queste, soltanto una decina risiedono a Civita, mentre nelle più popolose frazioni di Castel Cellesi e Vetriolo risiedono rispettivamente circa 250 e 500 persone. Tra le località citate, merita un commento Castel Cellesi, il cui territorio è stato annesso al Bagnorese soltanto nel 1928, in seguito alla perdita dell’autonomia comunale. Per l’etimologia popolare del toponimo “Bagnoregio”, si rimanda a Blaspop. II:854; per un approccio scientifico, cfr. DT 1991:56 (s.v. Bagnorègio). 25) Si sottolinea come gli informatori, sia civitonici che bagnoresi, nel parlare dell’an- tica rivalità di campanile, abbiano spesso finito per citare spontaneamente i sonetti del Paparozzi. La rielaborazione, più o meno cosciente, dei versi in blasoni popolari è am- piamente documentata a Civita, Lubriano e San Michele in Teverina (Blaspop. II:910, 912, 945, passim). Alcuni versi del poeta sono giunti, inoltre, nel più distante centro di Proceno, dove, tuttavia, vengono utilizzati per dileggiare gli abitanti di Lubriano (ibid.:843). Cfr. anche Proietti 1995:125-126. In più di un caso si è notato come, da parte di individui che conoscono soltanto marginalmente i versi del poeta, rime e battute vengano attribuite non al Paparozzi stesso ma a non meglio specificati “contadini della valle”, e contestualizzati all’interno di storielle che si pretendono realmente accadute.

17 c’ho da fà I ed É mejo d’emicrà XXIX) sembrano svanire, dando luogo a versi intrisi unicamente di sentimenti benevoli quali l’affetto, la stima, la solidarietà (La maestra senza patente V, ‘R curato proisorio XIII, Ma sposi noelli XV, passim).

b) Le riedizioni del Gaddi (1932) e della Pro Loco (1993)

Ventinove anni dopo la stampa della raccolta, lo studioso Alessandro Gaddi, nativo di Bagnoregio26, decise di pubblicarne una nuova edizione, intitolata I mi’ ersi. I sonetti di Bocella De-Caoni. Il pranzo. Gli stoppi- nacei. Varie (cit.), arricchita da annotazioni storico-biografiche (ibid.:IX- XXVI), da una “Nota per la lettura e per il dialetto” (ibid.:XXIX-XXXI), da un glossario composto da 221 entrate (ibid.:125-135) e da numerosi testi inediti (ibid.:9, 30, 41, passim), ma non esente da ripetute e consi- stenti manipolazioni di carattere linguistico, stilistico e censorio27. 26) Alessandro Gaddi (Bagnoregio 1882-Roma 1974), figlio di Pio ed Emanuela Mac- chioni, celibe, fu direttore di un collegio per sordomuti a Roma, sua città d’adozione. Nel 1952 lo studioso prese la residenza nel paese natale, pur continuando a vivere nella capitale e trascorrendo a Bagnoregio soprattutto le stagioni estive. Non è stato possibile ottenere informazioni certe sui suoi titoli di studio, anche se il suo livello culturale e i suoi interessi sono desumibili, tra l’altro, da alcuni saggi di carattere filosofico e, so- prattutto, pedagogico, con particolare riguardo all’istruzione dei sordomuti (vd. alme- no Gaddi 1958a, 1958b). Cofondatore del Centro di Studi Bonaventuriani, “bagnorese autentico e di vecchia famiglia, attaccatissimo alle tradizioni del ‘natio loco’” (Tecchi 1958:24), ma non dialettofono, viene descritto, da chi ebbe modo di frequentarlo, come “una persona composta, dalle buone maniere, molto fine ed intelligente” (testimonianza di Giuseppe Medori). Per un accurato “albero genealogico con annotazioni storiche” dei Gaddi di Bagnoregio, si rimanda a Diviziani 1957. 27) Si nota come il Gaddi non accenni alle numerose alterazioni da lui adoperate, sebbe- ne queste riguardino tutti i sonetti riprodotti, e spesso numerosi versi del medesimo te- sto. L’unico tipo di modifica a cui fa riferimento riguarda l’eliminazione della resa gra- fica del rafforzamento sintattico (vd. nota 41). Rari, ma consistenti, sono gli interventi di tipo censorio (pe’ ffa cacà tre culi, bio cornuto! > pe fa sazià tre corpi, zio cornuto!, m’è scappa ’na correa “ho scoreggiato” > un vento mi scappò). Altre volte le modifiche sembrano dettate da preferenze stilistiche (assaggia un fiasco > arria ma’ n fiasco, ’sta moda nun cummiene a un cuntadino > ste mode ch’hanno ’r fume cittadino). Sistematici sono gli interventi sui segni diacritici e la punteggiatura, volti, almeno in qualche caso, a migliorare la leggibilità del testo da parte dei lettori non nativi (uscia “uscita” > ùscia, scarciofini “carciofi” > scarciòfini). Alle note esplicative del Paparozzi, che corredano alcuni sonetti, ne furono aggiunte altre dal Gaddi, allo scopo di precisare il significato di

18 Gli interventi arbitrari sui versi del poeta furono, già allora, oggetto di critica da parte di un altro intellettuale bagnorese, Antonio Diviziani, il quale si augurava che i componimenti, in un’eventuale ristampa, venisse- ro riportati alla forma originale28. Bisognerà attendere oltre sessant’anni affinché il suo desiderio potesse essere esaudito, grazie alla pubblica- zione di una nuova edizione intitolata I mi’ ersi (I sonetti di Bocella De- Caoni). Varie (cit.), curata dalla Pro Loco di Bagnoregio e arricchita da illustrazioni e da alcuni componimenti fino ad allora ignoti29. Tuttavia, per quanto attiene l’oggetto del presente studio, ossia il piano linguistico, si può osservare come le modifiche introdotte dal Gad- di offrano numerosi spunti per un’analisi diacronica – relativa, cioè, ai cambiamenti avvenuti nel tempo – del dialetto bagnorese, poiché, come si vedrà, esse tendono, in genere, a italianizzare il linguaggio del Papa- rozzi, adeguandolo, forse, alla parlata in uso ai tempi della ristampa30. certi termini dialettali, oppure di integrare le notizie storico-ambientali fornite dal poeta. Nell’edizione del 1932, i componimenti vennero suddivisi secondo la seguente struttu- ra: “I sonetti di Bocella De-Caoni” (Paparozzi 1932:5-77); “Il pranzo” (ibid.:81-100); “Gli stoppinacei” (ibid.:102-115); “Varie” (ibid.:119-122). Il primo capitolo contiene i cinquanta sonetti pubblicati in precedenza, riordinati secondo gli argomenti trattati e frammisti ad alcuni inediti; i capitoli restanti contengono, invece, materiali del tutto ine- diti. In anni più recenti, la prima parte venne ripresa integralmente, alterazioni incluse, in una monografia dedicata a Civita, all’interno della sezione “Vena poetica popolare” (Signorelli 1979:51-83). 28) Si veda, a tal proposito, l’introduzione alla più recente edizione dei sonetti (anoni- mo in: Paparozzi 1993:7). 29) L’edizione della Pro Loco può dirsi, al momento, la più completa e – se non fosse per i numerosi refusi, parzialmente corretti a mano nella copia in mio possesso – la più fedele, poiché basata, per quanto possibile, sui manoscritti del poeta, custoditi dal nipote Filippo, scomparso in anni recenti. Il volume contiene tutti i sonetti pubblicati in precedenza, più altri inediti, per un totale di 71 testi; restano esclusi soltanto “Il pranzo” e “Gli stoppinacei”, già editi dal Gaddi (vd. nota 27). Sono presenti, poi, 10 illustra- zioni ispirate ai sonetti, realizzate dal “capitano Balani Libero del XXXII Battaglione controcarro di C.A. Granatieri di Sardegna durante la sua permanenza a Bagnoregio nel periodo della II Guerra Mondiale” (anonimo in: Paparozzi 1993:8). 30) È opportuno segnalare come le forme linguistiche utilizzate dal poeta potrebbero non corrispondere esattamente a quelle in uso nel centro: il fatto che il Paparozzi, nel proclamare i suoi versi, si immedesimasse nel contadino Bocella, lascerebbe ipotizzare che abbia potuto adottare forme già allora arcaicizzanti o proprie del registro rustico, in uso nella valle. Per la possibile introduzione di voci estranee alla parlata dell’area, vd. anche nota 43.

19 3. La grafia del poeta

Il sistema di scrittura adoperato dal Paparozzi è, come ci si aspet- terebbe, estremamente semplificato. La grafia prescelta, oltre a non dar conto di alcuni fenomeni di interesse limitato, poiché diffusi nell’intero Viterbese e oltre31, non segnala, ovviamente, un tratto assai noto della parlata bagnorese, ovvero la presenza della cosiddetta “gorgia toscana”, che consiste nella pronuncia “aspirata” – o, meglio, spirantizzata – della consonante “c dura” o k in posizione intervocalica32. Gli accenti, se presenti, hanno mero valore tonico e non indicano il timbro delle vocali33. Dalla grafia non risulta, quindi, un tratto piuttosto vistoso della parlata bagnorese e civitonica, ovvero la pronuncia chiusa di e nel dittongo -jé- (chjésa, maniéra, piéde), predominante rispetto alla vocale aperta in -jè- (chjèsa, manièra, piède), propria della lingua nazio- nale e attestata, ad esempio, nelle frazioni di Castel Cellesi e Vetriolo34.

31) Non si rinvengono, ad esempio, notizie del passaggio sistematico di -s- a -z- nei nessi -ls-, -ns- e -rs- (fórze “forse”, divèrzi “diversi”, penzióne “pensione”), mentre si ha qualche traccia della modifica di -n- in -m- prima di -p- e -b- (’m po’ “un po’”). 32) A Bagnoregio è attestata la forma anta “canta” (C&P 2008:50). La tendenza – che riguarda anche altre consonanti, come la t – venne documentata pure dal Melillo, nel territorio di Montefiascone, che l’attribuì alle influenze del “toscano, che si ritira la- sciando impressioni profondissime” (Melillo 1970:500). Si rileva lo stesso fatto fo- netico al confine con il Senese (Acquapendente) e, in proporzioni differenti, in alcune località tiberine: a Grotte Santo Stefano, ad esempio, si registra il raro um bùo “un buco” e, a Fastello, apito “capito”. Tuttavia, a Bagnoregio, il fenomeno è tanto evidente da essere percepito, dagli abitanti della Teverina, come un tratto peculiare del dialetto di detto centro ed essere quindi imitato nella citazione di blasoni popolari (si rimanda, a tal proposito, a Blaspop. I:123). 33) Perciò non emergono le oscillazioni del timbro di -e- tonica nei suffissi in -ell-, per i quali si registrano le seguenti forme: Bbocèlla, Mercatéllo, Mercatèllo, Punticélli. Cfr., tra i numerosi esempi disponibili, anche vignarèlla “vigna di piccole dimensio- ni”, cancèllo, mucchjettéllo “mucchietto” (Vite I:14, 25, 134). Anche il toponimo Bba- gnorèa (rec. Bbagnorèggio) viene pronunciato, talvolta, con tonica chiusa. 34) Sia a Bagnoregio che a Civita si annotano fiéra, piéde, chjésa e piétra, accanto a fièra, da piède “in fondo”, marciapiède e piètra. Per Bagnoregio, cfr. anche il raro chjèsa (Blaspop. II:856). Nella Teverina e nelle subaree limitrofe si annotano ambo le forme: si registra il dittongo -jè-, con e aperta – oltre che a Castel Cellesi e Vetriolo –, a Castiglione, intorno al lago di Bolsena e nell’Orvietano e, nel territorio comunale viter- bese, nella borgata di Pratoleva – al confine con Bagnoregio –, a Fastello, a Grotte Santo

20 Il poeta, d’altro canto, ha cura di segnalare – sia pure non sistemati- camente – la pronuncia intensa di alcuni fonemi, quali la -i- intervocalica, resa col segno j (giojello)35, e la nasale gn, trascritta come ggn (maggnà “mangiare”, caggnata “cambiata”)36. Altre unità sonore per le quali il poeta segnala una realizzazione in- tensa sono soggette, nell’uso orale, a esiti oscillanti. Ci si riferisce, nello specifico, all’occlusiva bilabiale b in posizione iniziale, intervocalica e prima di consonante (bbon giorno, ribbustezza “robustezza”, ubbriaco)37 e alla fricativa palatale g (ggiù, fraggello)38. La grafia mette poi in evidenza, anche se non metodicamente, il raf- forzamento delle consonanti iniziali di alcuni avverbi (ccà “qua”, cchi “qui”, llà, llì, ttusì “così”)39 e dei pronomi “lo” “li” “la” “le” in certe Stefano e nello stesso capoluogo provinciale; la pronuncia -jé-, prevalente nell’Amerino e sui Cimini, è invece sistematica a Celleno, Graffignano, San Michele e in alcune fra- zioni del Comune di Viterbo (Montecalvello, Roccalvecce). 35) Il medesimo segno è utilizzato anche per indicare il passaggio -li- > -jj- (fijo), pres- soché generalizzato nell’uso orale. In altri casi, nella grafia del Paparozzi, il fonema è soggetto a dileguo, come nel toponimo Muntione. Nelle parlate attuali, cfr. pïà “piglia- re” (B), Muntijjóne (B) e Muntïóne (CB). Presso alcuni parlanti civitonici si è registrato un tratto non documentato dal Paparozzi, ma comune al registro antiquato di altri centri della subarea (Celleno, Fastello, ), ovvero la presenza di -gghj-, in luogo del più comune -jj- (cfr. cigghjo “ciglio”, figghjo “figlio”, figghja “figlia” e strégghja “stri- glia”), mentre a Bagnoregio il fenomeno è stato lessicalizzato in scanagghjà “valutare approssimativamente”. Forme analoghe sono documentate sia in prossimità della To- scana () che nella zona sud-orientale della provincia (cfr. C&P 2008:65). 36) Anche questo tratto è comune alle varianti locali della lingua nazionale. 37) Cfr. gli italianizzanti i bbuòi e tranzitàbbile, i quali appaiono accanto a numerose eccezioni, documentate anche dal Petroselli: cfr. Civita sò stati batiżżati “battezzati” (Blaspop. II:913); cfr. Bagnoregio Bagnorèa, bèlle, le bròsce “segmenti di corteccia” (ibid.:856, Vite I:95, 129). Si hanno oscillazioni analoghe anche in altri centri della Teverina: limitandoci all’area settentrionale del Comune di Viterbo, si registrano l mi babbo (Fastello, Grotte Santo Stefano, Pratoleva), dal tu babbo “a tuo padre” (Valle- bona), l’hanno butto “buttato” (Fastello) ed è brutto (Grotte Santo Stefano). Il mancato rafforzamento è solitamente confinato alle voci con b- iniziale, mentre, in corpo di pa- rola, il raddoppiamento si verifica sistematicamente, con rare eccezioni a Fastello (ròba, Robèrto). 38) Cfr. artiggiani e arrìvono ggiù, accanto a si piégono giù (CB), senza raddoppio. Anche in questo caso, analogamente a quanto rilevato per il fonema b (vd. nota prece- dente), il rafforzamento sembra però manifestarsi senza eccezioni all’interno di parola. 39) La consonante iniziale di questi avverbi è frequentemente soggetta a raddoppiamen-

21 strutture sintattiche (ce ll’à)40. La maggior parte di tali espedienti viene però epurata dal Gaddi, il quale, inoltre, ritiene opportuno modificare la grafia del poeta dove que- sta indichi il raddoppiamento sintattico, ossia la pronuncia intensa della consonante iniziale di un termine prodotta dall’elemento di sintassi che lo precede, il quale sarà di norma un monosillabo (più raramente un bisil- labo) oppure l’infinito di un verbo in forma tronca, terminante per vocale tonica.

Ess.: l’ha ffatti so pporello “sono povero” perchè mma mmì “perché a me” menà mma mmì “percuotermi, malmenarmi” e nno cchi “e non chi” a ffassi “a farsi” pe’ ffà “per fare”41

to, anche in posizione non sintattica. Cfr. gli attuali qqua, qqui, llà, llì, ccusì. 40) Anche questa tendenza è soggetta ad alcune oscillazioni: cfr. ce ll’ha, ce ll’avéino, te l’ha ddétto, quante l’émo passate “quante ne abbiamo passate”. 41) Lo studioso argomenta la propria decisione di eliminare la rappresentazione del tratto fonetico – propria, secondo lui, dell’“antica grafia del dialetto” –, citando il senese Giulio Ferreri (le cui attenzioni, come quelle del Gaddi, si rivolsero principalmente alla pedagogia dei sordomuti), il quale, attraverso alcune esemplificazioni, illustrava la pre- senza del rafforzamento sintattico nella lingua nazionale; essendo il fenomeno comune all’italiano, “tali doppie dovrebbero figurare allora anche nella grafia della lingua, che offre in Toscana, alcuni casi dello stesso fenomeno del dialetto” (Gaddi in: Paparozzi 1932:XXIX). Si nota, però, come il rafforzamento, a Bagnoregio e Civita, non si adegui necessariamente alla condizioni della lingua nazionale o del toscano: cfr. a Ccìvita, a Rróma, su qquésta, sólo tu cce le pòi fà, e ppói, più ppìccoli, qqui ddavanti, però cc’è qqué ddi differènza, pe mmàggio “nel mese di maggio”, hò ccuminciato, mi ci sò ttro- vato, è mmèjjo, mannà ttanta “mandare”. Gli elementi “perché” e “che” producono esiti oscillanti: cfr. perché ssiamo, e pperchè sennò, che nnói, che ddòrme, che cc’avéino, che c’èra, che divènta. In larga parte della Tuscia il fenomeno è prodotto anche dalla congiunzione “se”, ma nel bagnorese si registra regolarmente se piovéa, se lasciamo, si c’èra. Per alcune notizie sul rafforzamento sintattico nella subarea cimina (con cenni sulla situazione in altre località del Viterbese in nota), vd. C&P 2008:70-72.

22 4. Principali caratteristiche linguistiche

a) Concordanze tra il Paparozzi e il Gaddi

Sfogliando i testi del poeta emergono alcuni fenomeni di un certo interesse, talmente caratteristici da subire, da parte del Gaddi, soltanto modifiche sporadiche o di poco conto. Occorre segnalare, poi, come i tratti che si vanno a presentare, siano comuni, a meno che non si segnali diversamente, alle varietà tuttora in uso a Bagnoregio e a Civita42.

b) Cenni sul lessico

Un primo esame dell’impianto lessicale, senz’altro bisognoso di ap- profondimenti, permette di rilevare come il vocabolario del Paparozzi – in linea di massima abbastanza affidabile43 – accomuni in genere il dia- letto bagnorese alle subaree limitrofe44 e, in molti casi, alla stessa lingua nazionale. Si segnala come le voci vurticarai “rivoltolerai”, pronchisino “tipo di cappotto corto”, gnaolone “carponi”, grugno “volto”, le farde “il frac”

42) Data la sede di pubblicazione, ma anche per evidenti ragioni di spazio, ci si limiterà, in linea di massima, a citare i tratti più caratterizzanti, ignorando la maggior parte di quei fenomeni che, trovando attestazione soltanto in determinate voci, possono essere considerati marginali. 43) Non si darà conto, in questa sede, di alcuni lessemi utilizzati dal poeta, estranei al dialetto attuale e dovuti, forse, a influenze cólte o a influssi provenienti dall’esterno, la cui reale rappresentatività del civitonico di fine ‘800 va senz’altro approfondita. In qualche caso, specialmente in corrispondenza di rima, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a neologismi coniati dal poeta: in un sonetto (La strada de’ Punticelli L) si leggono, in rima, trappila “trappola”, sbottila (vd. gloss. sbottilà), frottila “frottola”, sfrappila (vd. gloss. sfrappilassi), Nottila (sopr.; altrove Nottola), nappila (lett. “nap- pa”; vd. gloss. nàppila), tippe e tappila (vd. gloss. tippe e ttàppila), fiottila “lamenti” (cfr. dial. fiòtti), a rottila “a rotoli”, mittala “metterla”, di nuovo sbottila, bittala “bet- tola”, borbottila “borbotta”, cittala (vd. nota 46); almeno alcune di queste forme sono quantomeno “sospette”. 44) La stessa considerazione vale, naturalmente, per le altre parlate del Viterbese: per un’esemplificazione dei termini comuni alla Toscana e al resto dell’Italia mediana, si rimanda a C&P 2008:28-30.

23 e la torre “cappello a cilindro, tuba” siano ben note agli anziani e come, nella maggior parte dei casi, trovino conferma ben al di là del territorio comunale45. Il termine cittala “bambina” richiama il toscano citto e ha riscontri nelle parlate del lago di Bolsena e dell’Orvietano46. La locuzione inorca su “carica sulle spalle!”47 è da relazionare al sostantivo òrca “spalla” – attestato a Bolsena, Orvieto48 e a San Michele in Teverina –, mentre trova riscontro, in ampia parte del Viterbese, la voce mazzarella, che indica un bastone di lunghezza variabile, dalla testa grande, usato come pungolo per il bestiame, ma anche come arma da difesa49. I verbi arzà “alzare” e cuntà “contare” sono immediatamente ricon- ducibili alle forme di lingua, così come le nomenclature dei dolci men- zionati dal poeta (ciarde, ciammelli)50. Facilmente comprensibili sono anche i termini mira “guarda!”, sciamo “folla” lett. “sciame”, untà “un- gere” e, in senso traslato, alocco “fesso, tonto”51. Anche l’arcaico muccì

45) Cfr., nella parlata attuale, vurticà, a gnaolóne e grugno. Nel capoluogo comunale si ricordano le voci plonchisino, farde e tórre, oggi sostituite rispettivamente da cap- puttino, fracche e tubba. Per quanto riguarda le subaree contermini, cfr. grugno (M&U 1992:231, Petroselli 2009:323), prònchise (ibid.:475), farda “falda del cappello” “falda di abito” (M&U 1992:187, Petroselli 2009:283). Per gli altri lessemi, vd. gloss. arïur- ticà, gnaolóne, tórre, vurticà. 46) Le voci cìtolo e cìtala, comuni al bagnorese e al registro rustico, non risultano in uso a Civita. Vd. anche gloss. cìtolo. Lo scempiamento di -tt- in cittala – ovvero la sua riduzione in -t-, attestata anche altrove (vd. nota 94) –, sembrerebbe dunque essersi realizzato successivamente alla redazione dei sonetti, ammettendo che gli stessi rispec- chiassero fedelmente l’autentico uso orale. 47) Nel citare i versi del Paparozzi, le fonti pronunciano sistematicamente annòrca sù! / innòrca sù!, con raddoppio di nasale. Vd. gloss. inorcà. 48) Cfr. gloss. inorcà. 49) Si hanno attestazioni del termine mazzarèlla dal confine con la Toscana, a Trevina- no (fraz. di Acquapendente), sino a Civita Castellana e Blera (Cimarra 2010:339-340, Petroselli 2010:448), passando per la Teverina (Fastello, Grotte Santo Stefano) e la subarea cimina (Canepina). 50) Per la voce ciarde, cfr. gli attuali ciarle (CB) e cialle (B). Per ciammelli (anche in: Proietti 1995:94), cfr. ciammèlli e l’italianizzante ciammèlle (CB), forse di recente introduzione. 51) La maggior parte di questi termini trova ampi riscontri nei materiali raccolti nella subarea, mentre mirà, d’uso corrente a Civita, è attestato in altre località del Viterbese e dell’Orvietano; cfr. gloss. sprumirà.

24 “fuggire”, non ricordato, in genere, dalle fonti, è ricollegabile all’italiano antico “mucciare”52. Non è un caso, si direbbe, che le modifiche del Gaddi, qualora non siano dovute a interventi censori, siano limitate a un numero ridotto di casi, i quali potrebbero scaturire – più che da constatazioni relative alla vitalità delle voci stesse – da preferenze di tipo stilistico.

Ess.: sprimuto (dalle tasse) > cirnuto (forse “cernuto, setacciato”) galla “giovane arrogante, bellimbusto”53 > canajume mutria (voce di lingua) > arbagia “albagia, alterigia”54

Lo stesso Gaddi, d’altronde, nell’evidente tentativo di nobilitare il dialetto locale, che egli definisce “umbro-toscano”, tende a sottolineare come il bagnorese abbia “tutta la sostanza e il fiore della lingua toscana, come se n’ha la prova nelle parole antiquate, o d’uso men generale nella lingua italiana, vive nel nostro parlare e nel senese”, e si caratterizzi per la presenza di “modificazioni fonologiche” che lo rendono “prossimo pa- rente dell’orvietano” (Gaddi in: Paparozzi 1932:XXX-XXXI)55.

52) Soltanto alcune fonti ricordano il termine muccì, attribuendolo, talvolta, al registro rustico. La voce era un tempo in uso anche in altre località della Teverina: cfr. Montecal- vello muccì, Vallebona mucci via!, Case Nuove (fraz. di Civitella d’Agliano) muccéte, munè! muccéte ché ècco i ggentarmi! (per la trasformazione -nd- > -nt- in “gendarmi”, vd. nota 93). Vd. gloss. muccì. 53) Vd. gloss. galla. 54) Cfr. arbàggia (Ramacci 1969:34). A Viterbo la voce arbaggìa “boria, albagia” è propria del registro cittadino (Petroselli 2009:133). 55) Lo studioso, partendo da queste considerazioni, cita alcune osservazioni del poeta vernacolo di Orvieto, Giuseppe Cardarelli, asserendo che il bagnorese, come l’orvieta- no, “più che vero dialetto potrebbe chiamarsi lingua provinciale caratterizzata da una certa pronunzia, da un certo accento o cantilena, e da certi costrutti atti a rendere la lingua più vera e naturale veste del pensiero del popolo che la parla” (Cardarelli, cit. da Gaddi in: Paparozzi 1932:XXXI; le parti in corsivo sono dell’autore). Il Gaddi avvalo- ra, in questo modo, un’opinione dilettantesca ma, purtroppo, ancora diffusa, la quale, più che nobilitare le parlate locali, finisce per svilirle, dipingendole come deformazioni della lingua nazionale, indegne, se ne potrebbe concludere, dello studio rigoroso e siste- matico che esse meritano.

25 c) Vocalismo

Si nota, innanzitutto, la conservazione di -i finale nei plurali maschi- li (i denti, li santi), la quale, secondo il Gaddi, costituirebbe una delle poche caratteristiche che distinguono la parlata bagnorese da quella di Orvieto, nella quale si registrano regolarmente uscite in -e (le dènte, le sante)56. Più interessante è il mantenimento di -i nella preposizione “di”, nei pronomi “mi” “ti” “gli” “si” “ci” “vi” e nelle voci verbali.

Ess.: la casa di quer santo ’n po’ di tutto ji resta poco “è in fin di vita” lett. “gli resta poco” nun si fida vi farò divvi “dirvi” passacci “passarci”

Tali forme, comuni al toscano, rappresentano una delle caratteristi- che più rilevanti delle parlate locali poiché risultano circoscritte a Ba- gnoregio e a Civita, in opposizione all’esito in -e registrato in quasi tutti i dialetti dell’Italia mediana (nun ze fida, divve, passacce, ecc.). Sembra, tuttavia, che l’area d’espansione del fenomeno fosse un tempo più vasta, visto che risulta in alcuni testi dialettali di San Michele in Teverina57. 56) Cfr. “Non digrada la i in e nel plurale dei nomi maschili e nella preposizione di, che riducesi nell’orvietano ad e e nel bagnoregese ad i” (Gaddi in: Paparozzi 1932:XXXI). Il plurale ambigenere, insieme alle forme maschili terminanti in -e, è attestato in par- te delle campagne bagnoresi (le libbre “i libri”, le sindacate), con l’inclusione delle frazioni Vetriolo (le sòrde, le civitònice) e Castel Cellesi (i castellane “gli abitanti di Castel Cellesi”, i sòrde, i faciòle e, al femminile, i patate), ed è in uso, poi, in altri centri della Teverina (Celleno, Pratoleva, Fastello, Castiglione, Lubriano), intorno al lago di Bolsena, a Viterbo e nell’Orvietano. Tuttavia, a Bagnoregio e a Civita, dove si ha, in ge- nere, il mantenimento di -i, si raccolgono alcune forme irregolari, come mórto attaccate “molto attaccati, affezionati” e le vècchje “i vecchi”. Cfr. anche li contadine (Vite I:1). Costituisce invece un fenomeno morfologico, e non fonetico, la presenza di -e finale nei sostantivi femminili che, in lingua, terminano in -i: cfr. le canzóne, le paréte, da tutte le parte “ovunque”, ste ggènte “queste persone”. Cfr. anche radice “radici” (Vite II:208). 57) Nelle commedie inedite di San Michele, redatte negli anni ’70 dall’autore dialettale

26 Anche le voci con assenza di anafonesi fiorentina – cioè con -é- e -ó- in luogo, rispettivamente, di -i- e -u- toniche – vengono rispettate dal Gaddi (gramegna “gramigna”, vence “vince”, donca “dunque”, ogna “unghia”). Il fenomeno doveva allora avere una certa vitalità, mentre oggi non risulta che in alcune voci58.

d) Consonantismo

Non subisce le alterazioni del Gaddi un tratto caratteristico dei dialetti mediani, ovvero la trasformazione dei nessi -mb- > -mm- (sopr. Bomma lett. “bomba”, cummatto “tratto, ho a che fare” lett. “combatto”, cumminà “combinare”) e -nd- > -nn- (annà “andare”, quanno “quando”), con la sola eccezione data da un antroponimo (Don Fiordinanno > Don Fiordinando). Se oggi l’assimilazione progressiva -nd- > -nn- appare in leggero regresso, dell’altra tendenza (-mb- > -mm-) non restano, ormai, montefiasconese Mario Lozzi in base alle testimonianze degli anziani del luogo, si leg- ge costantemente mi pare, sposàmisi! “sposiamoci!”, vi dico di nò, ecc. Il fenomeno è però del tutto desueto, tanto che oggi si registrano esclusivamente voci in -e, forse per influenza del capoluogo comunale, Civitella d’Agliano, a cui il piccolo centro venne aggregato nel 1928. A Bagnoregio e Civita, invece, tali forme rappresentano tuttora la norma, tanto da essere fatte oggetto di blasone da parte degli abitanti dei centri limi- trofi: cfr. dimmi!, fatti cónto!, ntennémisi! “capiamoci!”, sbrigàmisi! “sbrighiamoci!”, stammi bbène!, rifacémici! “rifacciamoci!”, cóme ti pare, m par di carzóni di cotóne “un paio”. Si rilevano, tuttavia, alcune eccezioni, come in me tòcca ridì “occorre che io ripeta” e sta cazzo e sta pulìtica “di”, registrate a Bagnoregio. Per lo stesso centro, cfr. anche pezzétto de légno, tèmpo de guèrra (Vite I:73, II:235). Originale è pure la situa- zione di Capranica, non distante dal confine con la Provincia di Roma, dove si possono udire costantemente i “di”, ci sentimo, si ni vanno “se ne vanno”, ti dico, ti si fa ggiórno, cóme si chjama? Nel dialetto viterbese risulta, poi, l’alternanza tra si, dajji / dalli, di, ni e i più noti ce / se, dajje, de, ne (Petroselli 2009:220, s.v. ce1, 262, s.v. dajje, 263, s.v. de, 406, s.v. ni2). 58) Cfr. Civita dónque (e l’arc. dónca), matrégna, patrégno, vénci “vinci” (e vencitóre), ncoméncia “comincia”. Per la frazione, vd. anche il soprannome Nasotenta (Signorelli 1979:46). Per il lessico della viticoltura, cfr. lémito “confine del campo”, fénto “finto” e pónta “estremità del tralcio” lett. “punta” (Vite I:30, 147, Vite II:259). Cfr. anche dipegna “dipingere”, lengua, donque, stregne “stringere”, malegna (Ramacci 1969:29, 45, 90, 103). Il Paparozzi scrive, inoltre, deto (oggi antiquato) e depegna (ma il Gaddi trascrive dipegna).

27 che poche tracce59. Molto vistosa è pure la caduta della consonante d- in “di”, fino alla totale scomparsa della preposizione.

Ess.: la cuntrad’i Rota “la contrada di Rota” a pipp’i cocco “nel migliore dei modi” lett. “a pipa di cocco” ’m po’ ciccia “un po’ di carne”60

La scomparsa di -v- tra vocali non costituisce, di per sé, una peculia- rità delle parlate locali, visto che risulta attestata ben oltre i confini della Tuscia. Ciò che colpisce è la sua generalizzazione, poiché – secondo i versi del Paparozzi, suffragati dai ricordi degli anziani – il dileguo, nel registro arcaico di Civita, sembra quasi non conoscere eccezioni, persino qualora la v si presenti in posizione iniziale in contesto di frase.

Ess.: diaolo nee “neve” traajo “travaglio, armatura per la ferratura o per la monta delle vacche” le ’ene “le vene” la mi ’ita “la mia vita” la saccoccia ‘ota “la tasca vuota” la ’all’i Cîta “la valle di Civita” ’mmi ’ersi “i miei versi”

59) La situazione è analoga a quanto rilevato negli altri centri della Teverina. Per il soprannome Bomma le fonti ricordano unicamente la variante Bbómba. Cfr., però, l’an- troponimo Colómma “Colomba”, ricordato dagli anziani, e il soprannome Piommotto (Signorelli 1979:43), da “piombo”, entrambi attestati a Civita. Le sole voci in cui, nei materiali registrati, si mantiene la trasformazione -mb- > -mm-, sembrano essere com- matta / commatte (vd. gloss. cummatta) e il già citato ciammèlli. Il fenomeno, un tempo, doveva essere piuttosto diffuso, come sembrano dimostrare la forma gamma “gamba”, un tempo in uso nella valle, e la presenza, nello Statuto di Bagnoregio, dell’ipercorret- tismo vendembia, confermato dall’attuale vellémbia (Statuto 1985:95, Vite II:276). Cfr. anche rimmombà, bomma, tromma, piommo (Ramacci 1969:26, 33, 46, passim). 60) Cfr. a ppipp’i còcco, la valle i Cìvita, la casa el fàscio di Bbagnorèggio, n quintale i grano, n quintal’i pane. Il fenomeno è comune alla subarea del lago di Bolsena, all’Or- vietano e al resto della Teverina, mentre ne rimane escluso il capoluogo provinciale.

28 Il fenomeno appare oggi con una certa frequenza soprattutto nelle voci verbali, e lo si registra in posizione iniziale soltanto in rari casi61. Si vuole segnalare, poi, un altro tratto arcaico, ovvero il betacismo, che consiste nella sostituzione di b a v (bboce “voce”, sbocià “svociare”). Di questa tendenza non restano ormai che poche tracce62.

e) Morfo-sintassi

Per il nesso latino -rj- che, nell’Italia mediana, si risolve general- mente in -r- (pecoraro “pastore di pecore”, porcaro “porcaio”), si regi- stra la scomparsa sistematica della consonante.

Ess.: ciuciao “ciociaro” gennao “gennaio” rifinaa “mucchio di neve o ciarpame accumulato dal vento” telao “telaio” tortoo “tortore del carico sul carro”

61) Forme come caa, caallo, caalla, diàolo (pl. diàili), nèe “neve”, pròa e véscoo erano un tempo ampiamente attestate a Civita. In posizione iniziale, si registrano, a Bagno- regio, due isolati sò nnato ìa “sono andato via” e le acche. Il toponimo Cîta, che gli informatori talvolta pronunciano con un percepibile allungamento di -i-, viene ascritto al registro arcaico, o ricordato con intento blasonico dagli abitanti dei centri limitro- fi: cfr. Castel Cellesi vò venì a Ccita? La vitalità del fenomeno, all’interno delle voci verbali, è invece comprovata dalla seguente serie: éi “avevi”, avéa, aémo “abbiamo”, dicéa, diceamo, dovéa, facéa, mettéa, metteamo, mettéino “mettevano”, portaa, toccaa, venìa. Il Gaddi, nelle sue note linguistiche, dà grande risalto alla “caduta quasi costante della v in principio e nel corpo della parola”, che costituirebbe una delle più peculiari “caratteristiche proprie del bagnoregese nei rispetti dell’Orvietano” (Gaddi in: Paparoz- zi 1932:XXXI). Nei sonetti del Ramacci, il dileguo di v- è attestato soltanto in alcune strutture che includono le voci del verbo “volere”: ciulìa “ci voleva”, ciòle “ci vuole”, j’olémo “gli vogliamo”, t’oi “ti vuoi” (Ramacci 1969:13, 18, 33, passim). Cfr. anche diino “divino”, ruidezza, Cita, impruiso “improvviso”, Vesco “vescovo”, nee (ibid.:11, 12, 13, passim). Per Civita, cfr. anche Don Daide (Signorelli 1979:46). A Grotte Santo Stefano cfr. il raro ddu òrte “due volte”, e a Fastello ddu acche “due vacche” e n’altra òlta “volta”. Cfr. C&P 2008:56-57. 62) Ai desueti bboce e sbocià va aggiunto il soprannome Bbocèlla (vd. nota 20). La forma bbóce è attestata sia nell’Orvietano che a Fabrica di Roma (vd. gloss. bbóce). Per la diffusione del fenomeno, cfr. anche C&P 2008:52-53.

29 Il tratto viene ricordato soltanto dagli anziani di Civita, e presso i parlanti è oggi possibile ascoltare esclusivamente forme in -aro (telaro) e nel sempre più frequente -ajjo (telajjo)63. Un elemento altamente caratterizzante è costituito dall’impiego del- la preposizione ma “a” “in”, comune ai centri della Teverina confinanti con l’Orvietano e con il lago di Bolsena e, almeno un tempo, nel capo- luogo provinciale e nelle sue immediate vicinanze.

ma “a”: ma nnoi “a noi” ma ‘n prete “ad un prete” ma run matto “a un matto” ma’ sordi “ai sordi” ma la su’ padrona “alla sua proprietaria”

ma “in”: mar sacco “nel sacco” jò mmar funno der caone “nel fondo del calanco” mma’ sturmenti “negli strumenti” ma le funtane “nelle fontane” mmin casa “in casa”

Tale elemento subisce, talvolta, le modifiche del Gaddi (ma chi “a chi” > man chi, ma qquer “in quel” > man quer), ma non viene mai ri- portato alle forme di lingua. Sebbene la preposizione sia in regresso, se ne può registrare l’uso, sia pure non sistematico, anche tra i parlanti non

63) Un’informatrice civitonica ricorda le seguenti voci, proprie del registro arcaico: ciociao, ggennao, febbrao, mulinao “mugnaio”, pecorao. Oggi il fenomeno soprav- vive all’interno di un testo formalizzato: Pecorao magnaricotta / va min chiesa e ’n s’anginocchia / nun si leva ’r cappelletto / pecorao malidetto (Catarcione 1997:163). Il tratto linguistico trova conferma fuori subarea, a Canepina – dove gallinao, molinaa e delao “telaio” sono tuttora d’uso comune (C&P 2008:65-66) – e nei pressi di Perugia – dove risultano, ad esempio, febbrèo “febbraio”, gennèo “gennaio”, mugnèo “mugnaio”, piecurèo “pecoraio” (Moretti 1973:237, 260, 367, 449). Le fonti sottolineano come, nel Bagnorese, le varianti in -ajjo siano di recente introduzione: cfr. carzolajjo e il già citato telajjo, accanto ai più conservativi carzulari, telaro, furnaro, capomulinaro. Nel lessico della viticoltura, cfr. vicciutara “vite selvatica”, scapicollatóro “pendio ripido”, piantinaro “vivaio” (Vite I:11, 43, 79).

30 particolarmente conservativi64. Assai appariscenti appaiono pure gli avverbi di luogo in me- / mi-, oggi in regresso ma ancora attestati in larga parte dell’area viterbese- orvietana, con l’inclusione dell’intera Teverina.

Ess.: micchì / micchine “qui” meccà “qua” mellà “là” mellaò “laggiù” (Gaddi: > mellajò)

Accanto a queste forme, si nota la presenza di “costì (lì, vicino a chi ascolta)” (lo scarco stì “il franamento costì”) e del derivato “costassù (lassù, vicino a chi ascolta)”, talvolta alterato dal Gaddi (stassù / mestas- sù > lassù / mellassù)65.

64) Il poeta scrive ma mmì, ma anche a mmì. Cfr. gli attuali ma m pòsto “in un posto”, ma la bbócca “in bocca”, man chi “a chi”, ma le pècore “alle”, man quésto “a”, ma mmé “a me”, ma llue “a lui” e, a Civita, min casa “in casa” e min chjésa “in chiesa”. Si rileva la preposizione ma “a” “in” in tutto il Bagnorese, sulla sponda orientale del lago di Bolsena, nell’Orvietano, a Viterbo (dove sopravvive quasi soltanto in locuzioni fisse) e, percorrendo la SS Cassia in direzione della capitale, la si registra fino a Blera, dove risulta, però, voce di scarsa occorrenza (Petroselli 2010:421). Per quanto riguarda la Teverina, la preposizione è attestata a Castiglione, Celleno, Fastello, Pratoleva e Lubria- no. Vd. anche gloss. ma. La particella, in questa subarea, si contrappone a da “a” “in”, in uso nei territori di Graffignano, Grotte Santo Stefano e Roccalvecce, così come in alcuni centri dei Cimini – anticipati da e Vitorchiano – e dell’Amerino. A tali forme si aggiunge la preposizione ne “a” “in” a San Michele (ne llui “a lui”, néi bbòvi “ai buoi”) e Civitella, confermata anche a Castiglione, dove appare in compresenza con ma: regalelo ne me, dallo ne lue (Corradini 2004:173, s.v. ne). 65) Si registrano, in contesto libero, gli avverbi di luogo meqquà “qua”, meqquassù “quassù”, miqquì “qui”, mellà “là”, millì “lì” e melaggiù “laggiù”. Forme come mi- stì “costì” e mellajjó “laggiù” – attestate a Civita fino alla fine del secolo scorso –, sono oggi ascrivibili al registro antiquato, mentre micchì, cca “qua” e ccajjó / meccajjó “quaggiù”, ricordate dagli abitanti della frazione, appaiono del tutto in disuso (la forma micchì, in particolare, viene ricondotta all’uso linguistico dei cittadini nati nella se- conda metà del XIX sec.). Si nota, a tal proposito, come l’assorbimento dell’elemento labiovelare qu- in kk- (ccajò “quaggiù”) venga rispettato dal Gaddi, il quale provvede anzi a introdurlo ove non lo abbia fatto il poeta (qui > chì). Cfr. “miccchì [sic] si dice a Civita - micqui a Bagnoregio” (Ramacci 1969:13; le parti in corsivo sono dell’autore). Vd. anche gloss. ccà, llà, stì.

31 Sembra significativa, poi, la presenza dell’aggettivo che “qualche” (’che vvorta “qualche volta”), affianco a quarche66, nonché dei tipi popò “un po’” (popò spiccio “un po’ veloce”)67 e di nuelle “da nessuna parte” “affatto, minimamente, mica”68. Si segnalano, inoltre, i pronomi tonici mì “me”, tì “te” e sì “se”, ancora in uso nella parlata civitonica di fine ‘900 e tuttora vitali in alcuni centri minori della Teverina69. Assumono una certa rilevanza alcuni casi di metaplasmo – ovvero di passaggio da una coniugazione verbale all’altra –, non estranei alla parlata odierna.

Ess.: stemo “stiamo” mittìa “metteva” parìa “sembrava”

Se il passaggio dalla seconda alla terza coniugazione parrebbe co- mune a tutta la subarea e oltre (almeno per quanto riguarda le parlate arcaiche)70, il cambiamento dalla prima alla seconda sembrerebbe cono- scere una minore espansione71.

66) L’aggettivo indefinito che “qualche” è attestato nell’intera Teverina, intorno al lago di Bolsena e a Orvieto; vd. gloss. che. 67) Il Gaddi interviene unicamente sulla forma grafica: quando il poeta scrive po’ po’, lo studioso provvede a uniformarne la grafia in popò. L’avverbio, ancora utilizzato da- gli anziani, viene registrato a Bagnoregio con accento tonico aperto (popò) e, a Civita, talvolta chiuso (popó). Vd. gloss. popò. 68) Cfr. l’attuale dinoèlle, utilizzato, però, soltanto da alcuni anziani. Cfr. anche di nuel- le (Ramacci 1969:13, 58). Vd. gloss. dinoèlle. 69) I pronomi mì e tì, d’uso corrente a Vetriolo e Castel Cellesi, erano un tempo attestati nello stesso capoluogo provinciale. Cfr. gli antiquati ma mmì “a me”, per mì e per tì, ricordati a Civita. Cfr. anche mammì, a mì, da ti, cun ti, a ti (Ramacci 1969:44, 51, 54, passim). 70) Il passaggio alla terza coniugazione è confermato da ìono “avevano”’ (B) e, a Civita, da putii “potevi” e vidii “vedevi”. A Bagnoregio è documentato anche mettìa “metteva” (Vite I:77). Cfr., inoltre, tinìa “teneva”, facìa “faceva”, parìa “pareva”, putii “potevi”, dicia “diceva”, facìino “facevano” (Ramacci 1969:17, 24, 35, passim). 71) Cfr. San Michele détijji! “dategli!” e, a Bagnoregio e Civita, déa “dava”, déino “da- vano”, ridémijji! “ridiamogli!” e stéa “stava”. Cfr. anche steino “stavano”, stea, stemo “stiamo” (Ramacci 1969:14, 28, 38, passim).

32 Di estremo interesse sono alcune voci verbali con suffisso in -ra, un tempo in uso, a dire dei parlanti, a Civita e nella campagne, ma non nel capoluogo comunale.

Ess.: credestara “credeste” (cong. impf.) doremmara “dovremmo” emmara “avevamo” fummara “fummo” potemmara “potevamo”72

È attestato, poi, il participio passato in forma tronca per i verbi della prima coniugazione (ha carco “ha tartassato” lett. “ha caricato”, ha ggiro “ha girato”), ma la tendenza è oggi vicina alla scomparsa. Degno di nota è un tratto che ancora oggi dimostra grande vitalità, ovvero l’impersonale “si” + verbo in luogo della quarta persona (si rima- se “rimanemmo”, si vide “vedemmo”), comune ai dialetti della Toscana e di altri centri del Viterbese73. Il Gaddi ritiene opportuno rispettare le forme della sesta persona del passato remoto in -ònno (scuttonno “scottarono”, trottonno “trottarono”), ormai antiquate74, mentre si registrano interventi dialettizzanti in altre

72) Rispettivamente: credéstara, dorémmara, émmara, fùmmara, potémmara. Tali voci, “con segno ridondante, nel plurale, in ara”, vengono percepite dal Gaddi come una delle più rilevanti differenze tra il bagnorese e l’orvietano (Gaddi in: Paparozzi 1932:XXXI). Una fonte civitonica ricorda con certezza le varianti émara e potémara, senza rafforzamento di nasale, come d’altronde avveniva nel contiguo centro di Bolsena (annàmara). Forme analoghe sono documentate nelle parlate arcaiche di alcuni centri contermini – cfr. Lubriano dàmmara “davamo” (Vite II:203) –, mentre sarebbero tuttora in uso a Pratoleva. Per la diffusione del fenomeno “in zona tosco-umbro-laziale”, cfr. Magnanini 2010. 73) In riferimento all’estrazione del basalto e alle successive fasi di lavorazione, a Ba- gnoregio si registra: si cava “estraiamo”, si bbattéa, si facéva tutta na scarpellatura, si lavoraa così, si stava anche da la mattina a la séra. Cfr. Civita si campava co la cam- pagna, s’andava in campagna, a la séra si rientrava. Per i centri limitrofi, cfr. Monte- calvello e nnóe a meżżoggiórno se magna “noi, a mezzogiorno, mangiamo” e Pratoleva ce s’andava pòco, s’andava a Ccelléno, jji se fa ll’offèrta, nun zi fa. 74) Si rileva l’uso delle forme in -ònno soltanto presso i parlanti più conservativi: cfr. levònno, portònno (Blaspop. II:857).

33 voci verbali (curri “corri!” > curre75, sarei > sarìa76, fariste “fareste” > faressito77). Resta intatto, naturalmente, un tratto estremamente vitale, ovvero il troncamento dell’infinito (fà, leccà “adulare” lett. “leccare”, murì) e dell’imperativo (guardà “guardate!”, sentì “sentite!”). Alle voci riportate si aggiungono le varianti dell’infinito con aggiunta di -ne paragogica (ab- bitane “abitare”, stordine “stordire”), la quale, oggi, sopravvive in poche forme cristallizzate78.

5. Le alterazioni linguistiche del Gaddi

a) Interventi sul vocalismo

È ampiamente documentata, nei versi di Bocella, la tendenza di -o- ed -e- atone a chiudersi rispettivamente in -u- (prutettore, cuntrada) e in -i- (manijà “maneggiare”), soprattutto prima di vocale tonica. Sebbene

75) L’apertura di -i finale in -e nella seconda persona dell’imperativo è attestata in altri centri, nei quali, di norma, si ha la conservazione di -i (Grotte Santo Stefano, Monte- calvello, Vallebona e, al confine con la Toscana, a ). Il fenomeno dimostra una certa vitalità nel Bagnorese: cfr. viène qqua! (B) e, a Civita, curre! “corri!”, fugge!, tène! “tieni!”, règge! e bbée! “bevi!”. 76) Le fonti non ricordano le voci del condizionale in -ìa, un tempo diffuse nella Te- verina (cfr. Grotte Santo Stefano cavarìa “estrarrei”), che il poeta alterna alle forme in -èbbe, ancora attuali: cfr. daria “darei”, jocarìa “scommetterebbe”, prutennaria “pre- tenderebbe”, vurrebbe “vorrei”. 77) Nei versi del poeta, cfr. anche ardissito “ardiste” (cong. impf.). Forme di questo ge- nere sono comuni ad altri centri tiberini: cfr. Grotte Santo Stefano annàssito “andaste”, bbevéssito “beveste”. 78) Si nota, però, come la paragoge, nei testi del poeta, non sia limitata alle forme ver- bali tronche ma sia riscontrata anche altrove (milline “lì”, llane “là”, piune, caritane), non necessariamente in corrispondenza di rima. Il fenomeno, oggi presente in poche forme enfatiche (chène? “che?”, sine!, nòne!), doveva essere ampiamente diffuso, come confermano i testi delle subaree limitrofe (Aquesiano, Castrense, lago di Bolsena), che precedono di pochi anni i sonetti del Paparozzi: cfr. Acquapendente perciòne, maestane, perchene, sane, ecc. (Papanti 1875:387-388); cfr. annone “andò”, que- ne “questo”, perchene, Rene, ecc. (ibid.:393-394); cfr. Montefiascone: Rene (ibid.:396); cfr. Rêne, vennicane “vendicare” (ibid.:403-404). Cfr. anche tine “te”, impaurine, muccine, tusine “così”, tribbolane, micquine (Ramacci 1969:30, 37, 87). Vd. gloss. -ne.

34 il fenomeno mostri tuttora una certa vitalità, si registrano frequenti mo- difiche dello studioso (protettore, contrada, manejà), che paiono, però, non sistematiche: se in certi casi viene rispettata la grafia del Paparozzi (bicchini, diputato), a volte si ricorre, invece, a interventi di tipo arcaiciz- zante (proisorio > pruisorio, maestrino > maistrino, sentì > sintì)79. La mutazione di -er- in -ar-, prima di vocale tonica, viene salvaguar- data dal Gaddi (ciarvello, peparone “grosso naso” lett. “peperone”), op- pure introdotta dove non lo avesse fatto il poeta (scellerato > scellarato)80. In posizione postonica, si ha la trasformazione -er- > -ar- nei verbi del- la seconda coniugazione, sottoposti a troncamento (veda “vedere”, rida “ridere”)81.

79) L’instabilità delle atone non è limitata a -o- ed -e-, come si può evincere dalle forme abbreo “ebreo”, funì “finire”, pricissione “processione” e sciabbile “sciabole”, lasciate inalterate dal Gaddi; lo stesso interviene, invece, su Accupinnente “Acquapendente” (> Accapennente) e tribbilane “tribolare” (> tribbolane). Cfr. gli attuali bbuttéga, cuntadi- ni, finì, maggiurménte “in particolare” “specialmente”, pirmésso, prucessióne, simentà “seminare”, vistito “abito” e, in posizione postonica, gànghino “ganghero della porta” (B) e żżìnghera “zingara” (CB). Dopo vocale tonica, cfr. anche quattòrdece “quattordi- ci”, ggióvine, ràdeca “radice” (Vite I:7, 86, 90, Vite II:212). In posizione protonica, cfr. anche raccòjja / riccòjja “raccogliere” (Vite II:193). La tendenza riguarda pure le vocali finali, qualora si trovino in posizione debole in contesto di frase (hò ncuminciatu io “ho cominciato io”). Per quanto riguarda la terza persona plurale dell’indicativo presente e imperfetto, la “precarietà” delle atone si risolve, nei versi di Bocella, puntualmente in -i-: oprino “aprono”, sparaggnino “risparmiano”, passaino “passavano”. La situazione attuale appare più articolata: cfr. avéano / avéino “avevano”, èrimo “eravamo”, èrino / èrono “erano”, facéino / facéono “facevano”, dicéino “dicevano”, stàono “stavano”, piàceno “piacciono”. Per Bagnoregio, cfr. anche cammìneno “camminano”, piéghino “piegano”, piantàvono “piantavano” e l’alternanza tra facévono e facéveno “facevano” (Vite I:145, Vite II:209, 264, 265). Per Civita, cfr. guardino “guardano”, scappaino “scappavano”, sopportaino “sopportavano” (Proietti 1995:124, 127). Anche il Ramacci scrive sistematicamente fioccàino “nevicavano”, èino “avevano”, aderino “erano”, di- ventaino “diventavano”, strillino “strillano, urlano” (Ramacci 1969:13, 17, 26, passim). 80) Solo in un caso, dovuto, forse, a una svista, si rileva un’alterazione italianizzante (diartimento > diertimento): sebbene nella trascrizione del sonetto si legga diertimento, il relativo richiamo in nota, a cura del Gaddi, riporta diartimento, il che potrebbe far pensare a un refuso o a un ripensamento dello studioso (Paparozzi 1932:33, nota 3). Per la parlata attuale, cfr. peparóne, a Civita anche come soprannome (vd. gloss. peparóne). 81) Tali forme, usate sistematicamente dal poeta, appaiono in netto regresso, in favore delle più italianizzanti voci in -e. Cfr., a Civita, bbéa “bere” e l’arcaico curra “correre”. Anche il Ramacci ricorre metodicamente alle varianti in -a: cfr. cocia “cuocere”, scria

35 L’armonizzazione, relativamente vitale nelle parlate attuali, è ampia- mente attestata (bittala “bettola”, mittolo “metterlo”), e viene addirittura estesa dal Gaddi a voci che, nei versi originali, non la prevedevano (trap- pile “trappole” > trappele, chiappateli “acciuffateli!” > chiappatili)82. Lo studioso interviene metodicamente sulla dittongazione di -o- to- nica in -uo- – d’altronde attestata in un solo lessema (buocco “baiocco” “soldo in genere” > baocco, pl. buocchi > baocchi)83 – mentre vengono salvaguardate la dittongazione di -e- in -ie- (vietro, tienghino “tengono”, vienga) e di -a finale in -ia (differenzia, scunuscenzia “irriconoscenza”)84. Frequenti sono i casi di caduta di vocale iniziale o aferesi (’gni “ogni”, ’n “un”). Su questi il Gaddi interviene in un solo caso (baja “ab- baia” > abbaja), provvedendo, anzi, a introdurre la forma aferetica qua- lora non sia stata registrata dal poeta (indiaolata > ’ndiaolata, indoini > ’nduini). Nell’uso attuale si rileva un’alternanza di forme con e senza aferesi85. Si ha il fenomeno opposto – ovvero l’aggiunta o prostesi di a – pri- ma della consonante vibrante r (arimitte “mette di nuovo”, aripulito). Ove il fenomeno oscilli, il Gaddi provvede a portare le voci alla forma prostetica (ti ringrazio > t’aringrazio, si rassumija > s’arissumija), forse perché ritenuta più rappresentativa della parlata locale86. “scrivere”, struggia “struggere”, piagna “piangere”, veda “vedere” (Ramacci 1969:12, 13, 23, passim). 82) L’armonizzazione delle vocali atone consiste, in questi casi, nella loro assimilazione o “adeguamento” all’atona finale, come avviene nell’antroponimo Càstere (CB) e nel sostantivo scòrzala “corteccia” (Vite II:232). Per Civita, cfr. anche diaili “diavoli” (Pro- ietti 1995:71, 116). Nei sonetti del Ramacci, cfr. taala “tavola”, tessara, arbiri “alberi”, nuele “nuvole” (Ramacci 1969:31, 58, 96, passim). 83) Si nota, però, come le fonti ricordino unicamente bbajjòcco (B) e bbaòcco (CB). Il Paparozzi registra un’altra forma di dittongazione ovvero il mutamento in -io di -o postonica finale, soggetto alle alterazioni del Gaddi (interessio “interesse” > interesso). 84) Per quanto riguarda il registro antiquato di Civita, cfr. stànzia, differènzia, viétro. Cfr. anche stansia “stanza” (e il diminutivo stansietta) e vietri (Ramacci 1969:20, 54, 93). 85) L’oscillazione segnalata è confermata dagli attuali n quél mòdo, nvéce, ci su ndato “ci sono andato”, nni còsa “tutto” lett. “ogni cosa”, nguattà “nascondere”, nnà “andare” e gnuno “ognuno”, accanto a imbastì e annà. Cfr. anche nnestino “innestatore” e l’anti- quato inzità “innestare” (Vite I:123). 86) Cfr. gli attuali ariparamo le pècore, vèngono arimésse, s’èra risciugata “asciugata di nuovo”, le ripezzaa “rattoppava”.

36 Tra le alterazioni arcaicizzanti, si nota l’introduzione di un caso di sincope, ovvero di caduta della vocale atona (lìbboro “libero” > libbro), confermato da altre forme usate dal poeta (orloggio / urlogio “orologio”, corco “coricato”, lettre “lettere”, barlozzetto “barilotto di legno”)87. Numerosi, poi, sono gli interventi dello studioso sulle vocali -o- ed -e- qualora, in posizione tonica, manifestino chiusure simili a quelle de- scritte in precedenza.

Ess.: fice > fece mitti > metti munno “mondo” > monno punte > ponte vidivvi “vedervi” > vedevvi vurriste > vurreste

Tutte queste forme, d’altronde, sono ormai pertinenti al registro ar- caico e, all’epoca della seconda edizione, erano probabilmente già supe- rate o in via di disuso88. Anche in questi casi, però, le modifiche del Gaddi non sono gene- ralizzate, come dimostrano sia i non rari casi di mantenimento di forme desuete (currite! “correte!”, ridutto “ridotto”), che il rispetto di voci ver- bali che, nei dialetti della subarea, non appaiono del tutto superate (ditto “detto”, fussi “fossi”, curse “corse”, curre “corre”). Isolati, invece, sono gli interventi dialettizzanti (metta “mettere” > mitta).

b) Interventi sul consonantismo

Nell’edizione del Gaddi non rimane traccia della trasformazione, or- mai desueta, di -nv- in -mm-, ampiamente attestata nei testi originali. 87) A Bagnoregio si registra l’ormai raro orlòggio. Cfr. anche corcà < CORICARE (Vite I:113). Per quanto riguarda la parlata antica, anteriore al XIX secolo, cfr. la forma carcasse “caricasse” (Statuto 1985:93), confermata dal Paparozzi nel già citato carco e in carcate “tartassate!” lett. “caricate!”. Il Ramacci scrive libboro, ma anche opra “opera”, opralla “operarla”, lettra (Ramacci 1969:11, 14, 42, passim). Vd. anche gloss. libbro, scarcà, scarco. 88) Si segnala la persistenza del toponimo r Furo (CB), riferito a una galleria scavata nella roccia, sotto la rupe di Civita; lo stesso luogo è noto a Bagnoregio come r Fóro.

37 Ess.: cummento “convento” > cunvento cumminiente “conveniente” > cunviniente immice > invece89

Le voci con metatesi – ovvero scambio di posizione della conso- nante r, all’interno dello stesso termine – vengono talvolta riportate alle forme di lingua (sturmenti > strumenti) e in altri casi lasciate intatte (cra- pioli, trisoro “tesoro”). Il fenomeno appare oggi circoscritto ad alcuni tipi lessicali dei settori dell’allevamento e dell’agricoltura90. Il Paparozzi offre numerosi esempi di rotacizzazione, ossia di tra- sformazione, in particolari condizioni, di l in r (’r domo “il duomo”, quarche e, dopo consonante, Framinio “Flaminio” e la coppia scramò “esclamò” e scramammi “esclamarmi”). Si annotano, tuttavia, frequenti eccezioni, peraltro riscontrate nell’uso attuale, che lo studioso ritiene di dover portare alla forma rotacizzata (albergà > arbergà, pel “per il” > per, quel > quer). La scelta è probabilmente spiegabile, anche in questo caso, con la volontà di utilizzare voci ritenute più “caratteristiche”, ma potrebbe anche testimoniare un’effettiva evoluzione del fenomeno91. Si nota, d’altro canto, l’assenza di interventi sulla forma astro “al- tro” – forse dovuta a dissimilazione, a partire da un ipotetico artro –, oggi dimenticata dai parlanti ma documentata nelle parlate arcaiche di altri centri prossimi alla Toscana92.

89) In base ai materiali disponibili, il fatto linguistico sembra trovare rispondenza sol- tanto nell’agionimo Sam Mintura “San Bonaventura”, attestato a Bagnoregio, mentre una fonte di Civita ricorda la variante San Vintura. Si nota che il Paparozzi scriveva, invece, San Minintura, voce riportata sistematicamente dal Gaddi alla forma di lingua. Ad oggi, è possibile udire unicamente Sam Bonaventura. Cfr. anche Bonaintura (Ra- macci 1969:24). 90) Cfr., in ambo i centri, l’alternanza tra castrà e crastà. Per Bagnoregio, cfr. anche accrapettà “riabbassare la vite” e crapa, che appaiono accanto a capra (Vite I:100, Vite II:183). 91) Per le parlate attuali, cfr. bbasarto, r cónto, r mi bbabbo, na vòrta e, a Civita, di- pròma, mórto, órtre, Roccarvécce. 92) Per “dissimilazione” s’intende la trasformazione di un suono per diversificarlo da un altro all’interno della stessa parola: nel caso dell’ipotizzata forma artro, dove si ha la presenza di due r, la prima di queste subirebbe il cambio in s. Il termine astro, però, è ignoto alle fonti, che pronunciano unicamente antro e artro, accanto alla forma di lingua. Tuttavia, a Civita, il fenomeno sopravvive nell’antroponimo Ggestruda. Cfr.

38 L’assordimento delle consonanti sonore d e g (sia nasale labiale o “g dolce” che occlusiva velare o “g dura”) – ovvero il loro passaggio rispettivamente a t (Antrea) e a fricativa c o “c dolce” (Cisummaria, s’in- cegna), e occlusiva velare c o “c dura” (lanquì “languire”, sciaquira- to “sciagurato”) –, qualora non trovi rispondenza nelle parlate odierne, viene, in genere, alterato dal Gaddi (Andrea, Gisummaria, s’engegna, languì)93. Lo studioso, inoltre, introduce talvolta la riduzione della doppia -tt- (quattrini, battisteo “scarica di percosse”) in -t- (quatrini, batisteo), in conformità all’uso attuale94. Altri tratti ormai in disuso vengono trattati dal Gaddi in maniera non sistematica, segno, si direbbe, che tali fenomeni erano, già ai tempi della seconda edizione, in forte regresso. Ad esempio lo studioso ha cura di cancellare i passaggi v > m e “g dolce” > “c dolce” (mancelo > vangelo), mentre tratta il mutamento “g dura” > “c dura” con qualche incoerenza, talvolta riportando le voci a forme italianizzanti (unguidia “invidia” > anvidia), in altri casi lasciandole intatte (goli “voli”)95.

Bolsena la Gestrude e, nel dialetto arcaico di Grotte di Castro, astre “altri” (Cerica 1992:6, Papanti 1875:51). Nei versi del poeta, cfr. anche astra “altra”, astre “altre”, voiastri (vd. gloss. vojjastri). Il Paparozzi offre un ulteriore esempio di dissimilazione di -r-, ma stavolta in -l-, nella voce arbili “alberi” (ma arboreti “alberate”), confermata a Bagnoregio da erbolato “alberata” e arboléto, che appaiono accanto ad àrbero e al- berétto (Vite I:139, 140, passim, Vite II:184). Cfr. anche arborato accanto alla forma dissimilata scola agralia (Ramacci 1969:23, 80). 93) Si notano una sola eccezione in senso opposto (batizzato “persona” lett. “battezza- to” > badizzato) e qualche caso di mantenimento (ripito “ripido”, buttiche “botteghe”). Rimangono intatte alcune forme di uso corrente (aco “ago”, sfocane “sfogare”), mentre una voce con sonorizzazione viene riportata alla variante sorda, ancora attuale (stroligà “congetturare” > strolicà). Si segnala come soltanto alcune voci con consonante sorda in luogo della sonora siano spiegabili con il mantenimento del fonema latino. Nell’uso corrente cfr. aco, sfocassi “sfogarsi”, strolicà e, a Civita, l’agionimo sant’Iltebbranno “Sant’Ildebrando” e il soprannome la Francettóna, da francétta “frangetta”. La voce batizzato, sonorizzata dal Gaddi, è attestata, nella parlata civitonica, nella stessa forma usata dal poeta (vd. nota 37). Cfr. anche Sant’Artibbranno, leggiatre e spiche (Ramacci 1969:25, 87, 106). Per il resto della subarea, cfr. a Case Nuove il già citato ggentarmi, sia pure come voce di scarsa occorrenza (vd. nota 52). 94) Cfr. quatrini, bbatistèrio (B), bbatistèro (CB); vd. anche gloss. bbatistèo. Si ha scempiamento di -tt- anche in fratèmpo (CB), cìtolo e cìtala. Vd. anche nota 46. 95) L’interscambio tra g- e v- iniziali è attestato in górpe (CB) e nell’alterato gorpolotto

39 c) Interventi su morfologia e sintassi

L’alternanza tra gli articoli determinativi i e li “i” “gli” – corrispon- dente alle condizioni attuali – subisce alcune modifiche del Gaddi (i Pun- ticelli > li Punticelli, i girelli “tipo di fuochi d’artificio” > li girelli)96. Lo stesso ha cura, inoltre, di segnalare la tendenza alla scomparsa dell’arti- colo i in contesto di frase (fa’ i cunti > fà conti), registrata, d’altronde, dallo stesso Paparozzi, anche all’interno delle preposizioni articolate (a’ santi “ai santi”)97. Il pronome “lo” viene trattato con qualche incoerenza (lu fo “lo fac- cio” > lo fo, lu so > lo so, lo dico > lu dico)98, così come l’avverbio “non” (non > nun, nun > ’n)99. Lo studioso interviene in senso arcaicizzante sulla congiunzione “se” (se > si), la quale, nell’uso attuale, si presenta sia nella forma dia- lettale che in quella (anche) di lingua100. Lo stesso avviene per l’avverbio “proprio” (proprio > propio). Vengono spesso riportate alle forme di lingua le voci verbali della sesta persona dell’indicativo presente e futuro, dove si ha sostituzione di -ò- ad -a- tonica. Tale tendenza, che trova riscontro in alcuni centri limi- trofi, è ormai prossima alla scomparsa.

(Ramacci 1969:30). Nella grafia del Paparozzi, cfr. l’alternanza, per “uscire”, tra viscì e guiscì (con dittongazione -i- > -ui-). Il Ramacci utilizza sistematicamente le forme in v-: viscì “uscì”, vesce “esce”, viscimo “usciamo” (ibid.:5, 24, 74, passim). Vd. anche gloss. gólo, guiscì. 96) Cfr. i Cii (top.), i càmio “camion”, li patri, li sarti, i sórdi, i sòrdi / li sòrdi, li somari. Anche nei sonetti del Ramacci la forma li risulta essere prevalente: cfr. li fossi, li Santi, i rami, li fiji, li stuji “studi” (Ramacci 1969:13, 96, 104, passim). 97) Cfr. a Castagnéti “ai” (top.), di qué tèmpi “all’epoca”. Cfr. anche ma’ cani “ai cani”, de’ fiji, ma’ fonni de’ caoni (Ramacci 1969:11, 13). 98) Non appaiono, nella grafia del poeta, esempi del pronome le “lo” “li” “la” “le”, ampiamente diffuso intorno al lago di Bolsena e nella Teverina (ma non nel capoluogo provinciale), il quale, in contesto di frase, può presentarsi con dileguo consonantico. Cfr. Bagnoregio le chjamamo “lo”, un ce e danno più “non ce lo danno più”, chi cce lo dava?, lu distinguéva. 99) Per “non” si annotano le seguenti forme: no è, nun è, un zi dice, n ci vò “non ci vado”, nu le lasciamo, nun zi lassa “lascia”. Vd. gloss. nun. 100) Cfr. anche l’avverbio sinnò, confermato dallo stesso Paparozzi.

40 Ess.: fònno > fanno faronno > faranno ònno > hanno (ma anche honno) saronno > saranno vonno > vanno101

Lo studioso interviene, pur non metodicamente, sull’infinito dei ver- bi della prima e della seconda coniugazione che, nella grafia del Paparoz- zi, terminano in -ì (sapì “sapere” > sapé, riciì “ricevere” > riceé, richiap- pì “acciuffare di nuovo” > richiappà). Il fenomeno non trova conferme nei materiali registrati102.

6. Conclusioni

Si è visto come, in genere, gli interventi del Gaddi tendano a italia- nizzare il linguaggio del Paparozzi, in vista, se ne potrebbe dedurre, di una maggiore diffusione dei suoi testi, anche al di fuori della subarea. Tuttavia, i numerosi casi di mantenimento o, addirittura, di introduzione di forme oggi antiquate o arcaiche (e allora, forse, già in regresso), po- trebbe avallare l’ipotesi accennata in precedenza, relativa al tentativo, da parte dello studioso, di adeguare l’antico dialetto civitonico alla parlata in uso ai tempi della seconda edizione, o comunque a forme linguistiche che a lui risultavano più familiari. Ciò che si può affermare con certezza è che le parlate del Bagnorese, anche se caratterizzate da una certa vitalità, tendano lentamente a trasfor- marsi, adeguandosi non soltanto alla lingua nazionale (nelle varietà vei- colate dalle scuole, dai mass media e dai nuovi mezzi di comunicazione), ma anche alle varianti di italiano (sub)regionale e dialetto italianizzante in uso nelle aree limitrofe e, in particolare, nei centri di maggior presti- gio.

101) A Bagnoregio, per ammissione degli stessi parlanti, sarebbero in uso le forme ònno e farònno, comuni al lago di Bolsena e all’Orvietano, delle quali, tuttavia, non è stato possibile raccogliere alcun esempio in contesto libero. 102) Il tratto appare ormai scomparso, ma il cambio dell’infinito dalla seconda alla terza coniugazione è attestato anche fuori subarea: cfr. Viterbo mantinì (Petroselli 2009:370, s.v. mantené).

41 Ai tratti in regresso, se ne aggiungono altri di cui si è persa o si sta perdendo completamente la memoria, a dimostrazione del fatto che lo “scolorimento” delle parlate in esame è in atto da numerosi decenni, e non soltanto a partire dalla maggiore scolarizzazione o dalla penetrazione dei mezzi di comunicazione tradizionali in tutti gli strati sociali. È ormai appurato, d’altronde, che il vagheggiato “dialetto puro”, chiuso a influen- ze esterne, non sia altro che un mito, e che le varietà linguistiche tendano, per la loro stessa natura, ad adattarsi alle trasformazioni economiche, sociali e culturali in corso103. Per quanto riguarda la realtà bagnorese, occorre poi prendere in con- siderazione altri fattori, squisitamente locali, tra i quali si citano l’ine- sorabile spopolamento di Civita e della sua valle, nonché l’afflusso, nel capoluogo comunale, di cittadini provenienti dai centri e dalle campagne limitrofe, a partire almeno dal secondo dopoguerra. Si terrà conto, poi, dell’importante ruolo svolto da Bagnoregio, fino a tempi recenti, quale sede diocesana di un territorio piuttosto esteso, in gran parte coincidente con il comprensorio della Teverina. Appare evidente, a questo punto, l’urgenza di avviare un’indagine sistematica e rigorosa sulle parlate del Bagnorese, sia al fine di documen- tarne tratti lessicali, fonetici e morfo-sintattici in via di scomparsa (ma anche di individuare con maggiore precisione le trasformazioni in atto, nonché le loro cause), che di registrare i fenomeni ancora attuali, ottenen- do, in tal modo, un quadro esauriente del dialetto bagnorese e della più conservativa varietà civitonica. Un’indagine di questo genere non potrebbe non prendere in consi- derazione le condizioni linguistiche dei territori limitrofi e, in particolare, della subarea tiberina, luogo di incontro e di scontro di tendenze dialettali di diversa origine.

103) Cfr. C&P 2008:81.

42 INTRODUZIONE AI SONETTI

Si riproduce, di seguito, la prima raccolta dei sonetti di Bocella De- Caoni (Paparozzi 1903), pubblicata quando il poeta era ancora in vita. Chi ha conosciuto i suoi versi grazie alla successiva, e forse più nota, edizione curata da Alessandro Gaddi (Paparozzi 1932), noterà senz’altro le numerose differenze (soprattutto di carattere linguistico) tra le due raccolte, parzialmente illustrate nelle pagine precedenti. Sarebbe stato sicuramente utile poter accedere agli scritti originali, ma questo, purtroppo, non è stato possibile, poiché, nonostante l’interessamento e la disponibilità della sig.ra Giuliana Baldacelli – vedova di Filippo Paparozzi (nipote del poeta), che li custodiva –, recentemente scomparsa, risultano, al momento, irreperibili. Si è perciò fatto riferimento alla prima stampa, confrontandola sistematicamente con l’edizione curata dalla Pro Loco di Bagnoregio (Paparozzi 1993), quest’ultima basata – almeno per quanto riguarda i componimenti qua riprodotti – sui manoscritti del poeta1. Pur trascrivendo fedelmente i sonetti – fatti salvi sporadici interventi di carattere tipografico, effettuati tenendo conto delle convenzioni attuali –, non si è potuto fare a meno di notare come la raccolta del 1903 presentasse alcuni evidenti refusi, qua corretti e posti tra parentesi quadre2. In qualche altro caso si è preferito, invece, segnalare il probabile errore di composizione facendolo seguire da un punto interrogativo, sempre entro parentesi quadre. Un ulteriore intervento ha riguardato le iniziali dei nomi propri, talora in carattere maiuscolo e, in altri casi, minuscolo. Nella convinzione che l’impiego della minuscole sia dovuto a una serie di sviste – come d’altronde sembrano indicare alcune correzioni manuali rilevate sulla copia da me consultata3 –, si è provveduto a ripristinare la maiuscola, evitando di segnalare i singoli interventi. Le annotazioni originali del Paparozzi sono state riprodotte per intero,

1) Si ricorda come l’edizione della Pro Loco sia costellata di refusi, che ne hanno resa incerta, in qualche caso, la consultazione. 2) Ma le stesse sono state omesse qualora la forma da me ipotizzata trovasse conferma nell’edizione della Pro Loco. 3) Gli interventi manuali potrebbero essere opera di Severo Venci, che curò l’edizione, o forse dello stesso Paparozzi. La copia a cui faccio riferimento è quella consultabile presso la “Biblioteca Comunale degli Ardenti” di Viterbo.

43 racchiudendole tra virgolette e facendole seguire dalla dicitura “nota del poeta”, posta tra parentesi tonde. Il testo “nota del Gaddi”, invece, segnala l’inserimento di alcune notizie utili estrapolate dall’edizione del 1932. L’impianto di note è stato quindi ampliato, inserendo, dove necessario, succinte annotazioni di carattere storico-ambientale o, assai più frequentemente, traduzioni di termini ed espressioni dialettali. Si è evitato, in linea di massima, di fornire spiegazioni delle voci presenti nel glossario del Gaddi – al quale il lettore dovrà fare riferimento –, così come di forme dovute a fenomeni frequenti o sistematici quali il troncamento dei verbi all’infinito (fa’ “fare”), la scomparsa di -v- intervocalica in corpo di parola (brao “bravo”), la monottongazione di -uò- (scòla “scuola”), la chiusura di -e- e -o- atone rispettivamente in -i- (crisciuto) e -u- (culori), ecc. Non si dà conto, in genere, di soprannomi e toponimi dialettali.

44 I CINQUANTA SONETTI DI BOCELLA DE-CAONI (1903)

Filippo Paparozzi

I. Lo so da mì c’ho da fà1

Mitti le farde (m’onno ditto tanti) E gira ‘r munno, che sei un brao pueta; Tusì non più vurticarai la creta2 E gran buocchi abbuscarai cu’ canti3.

[Ma] fussi matto di lanquì di dieta4 Pe’ portà pronchisino, torre e guanti5: La filastrocca già si sa di tanti Che ci scuttonno a fa’ ttusì le deta6.

Sin ch’ar traajo7 la mi ‘ita8 regge, Vojo la zappa manijà, e facioli Sgranà9 ‘gni sempre come ‘r zi’ Pelegge.

De la mi’ zucca se i rimati goli Faronno rida chi po’ po’ li legge, Sarto cuntento come i crapioli10.

1) Lo so da solo cosa devo fare. 2) Indossa il frac, mi hanno detto tanti, e gira il mondo, poiché sei un bravo poeta, così non rovescerai più l’argilla (con la zappa): “I terreni di Civita sono quasi tutti argillosi” (nota del poeta). 3) E guadagnerai molto denaro (lett. “baiocchi”) grazie ai canti. 4) Fossi matto a patire la fame (lett. “languire a causa della dieta”). 5) Per indossare pronchisino (tipo di cappotto corto), tuba e guanti. 6) Così facendo provarono un’amara delusione (lett. “si scottarono le dita”). 7) Travaglio, armatura per la ferratura o la monta delle vacche. 8) La mia vita. 9) Voglio maneggiare la zappa e sgranare fagioli. 10) Se i voli rimati che provengono dalla mia testa faranno ridere chi li legge, salto contento come i caprioli. 45 II. La scunuscenzia1

Nun oprino2 la bocca, se ‘r veleno Nu’ squizzino ccajò li brai Rotani3, E intanto spesso spesso, come i cani, Di ‘inicci a leccà nun ponno a meno4.

Qui cionno5 pe’ fà ‘r pane i mejo grani, L’erbaggini primotichi6 a Calleno, Rigazze di laoro7, che nemmeno Sparaggnino un minuto le su’ mani8;

Qui scope9, rusci10, spazzele, bocchini11, Ajo12, ginestra, lumachelle13, canne, Scarciofini tamanti14 e sopraffini:

Acqua surfura15, creta, du’ mulini16, Quatrello pe’ le sedie e le cappanne17 E a ffassi assutterrà pure i bicchini18.

1) L’irriconoscenza. 2) Aprono. 3) Gli abitanti di Rota (vd. VI, nota 4). 4) Non possono fare a meno di venirci ad adulare, a leccare come fanno i cani. 5) Hanno, possiedono. 6) Erbaggi primaticci. 7) Grandi lavoratrici. 8) Lavorano senza pausa (lett. “non risparmiano le proprie mani neanche per un minuto”). 9) Saggine da granate. 10) Il sost. rusci sta per “pugnitopi [sic], con cui si fanno nel viterbese delle scope per la pulizia delle pubbliche strade” (nota del Gaddi). 11) Spazzole, bocchini: “I dentali fossili che trovansi in que’ pressi servono per bocchini da fumare” (nota del poeta). 12) Aglio. 13) Piccole chiocciole biancastre delle siepi. 14) Carciofi grandissimi. 15) Sulfurea. 16) Due mulini. 17) Acoro, impiegato per fabbricare le sedie e le capanne. 18) E per farsi tumulare ci sono anche i becchini. 46 III. Le campane di Cîta1

Se sento le campane di micchì, Mi passa anche la ‘oja der maggnà2: I doppi ci saronno in ‘che città3; Però chi sa se sonino4 ttusì?

Petello sempre va meccà e mellà5; Eppure anche da lui ho ‘nteso di’ Che un doppio tusì bello come cchì, Per quanto munno ha ggiro6, nun ci sta.

Io spero a nun riacci e di murì7 Quanno ch’ar nostro Cîta mancarà La strada in quarche modo pe’ salì;

Sinnò, se le campane ‘issi a mmirà, Ma l’ogna de’ Rotani8, vi so ddì: Dall’orto der Ciuciao m’ojo buttà9.

1) Le campane di Civita. 2) La voglia di mangiare. 3) In qualche città ci saranno campane che suonano a doppio. 4) Suonano. 5) “Petello [sopr.] continuamente è in giro per traffico di bestiame” (nota del poeta). 6) Per quanto abbia girato il mondo. 7) Spero di non arrivarci e di morire. 8) Se dovessi vedere le campane nelle grinfie (lett. “unghie”) degli abitanti di Rota (vd. VI, nota 4). 9) Mi voglio buttare: “L’orto del Ciociaro sta a confine della più alta rupe di Civita” (nota del poeta). 47 IV. ‘R cacciadenti1

Come mine mar munno certamente Nun ci po’ èssa sciaquirato fijo2: Ma la fiera stassù der Boncunsijo3, Quanno da cane spasimao c’un dente4,

Un ciarlatano cun gran lusso abbijo: Lesti! currite!5 nun si paga gnente (Sento che strilla) e tra la forta gente, mi schiaffo sotto l’infernale artijo.

Llì cu’ la chiae increse6 mi macella Fintanto chene, doppo noe tironi7, Squizzò8 cur dente un pezzo di vascella9;

E quer ch’è pejo adera un di que’ boni10, E ‘r guasto mi fa anco’ la campanella11: Vatt’a fidà de st’asini birboni!

1) Il dentista. 2) Al mondo sicuramente non può esserci qualcuno sciagurato come me. 3) “Fiera [di merci e di bestiame] che annualmente ha luogo in Bagnorea 15 giorni dopo Pasqua” (nota del poeta), conosciuta anche come “festa della Madonna del Buonconsi- glio” (nota del Gaddi). 4) Soffrivo tantissimo a causa di un dente. 5) Correte! 6) Chiave inglese. 7) Finché, dopo nove tiri, strattoni. 8) Schizzò via. 9) “Tra gl’idiotismi civitonici evvi anche il dir vascella per mascella” (nota del poeta). 10) E ciò che è peggio è che era uno di quelli sani. 11) Quello cariato dondola ancora.

48 V. La maestra senza patente

Che c’è da di’, che c’è de ‘sta maestra? L’urlogio1 annasse ben come la scola: Vurriste ‘na scapata donnicciola Che stiesse a ciuittà su la finestra?2

Pe’ Cîta nun ci ‘ò ‘na ‘entarola Che ciaja li crapicci anche a minestra3: Quanno sa leggia, scria, fa ‘i cunti e destra Ade’ ppe’ l’aco e carze, a noi fa ggola4.

S’ardissito caccialla5 senza scorta D’addibbiti6 proati in faccia nostra, A Cîta nasciarebbe ‘che riorta7.

Lassate annà di faji ‘sta gran giostra8: Fa più che ‘r su’ duere9, e nun c’importa Se la patente ar prubbico nun mostra.

1) Orologio. 2) Vorreste una donnicciola distratta, che si affaccia alla finestra per civettare? 3) Per Civita non occorre, non ci vuole una banderuola, una persona volubile e capric- ciosa. 4) A noi piace se sa leggere, scrivere, “e sa insegnare a cucire e a far la calza” (nota del Gaddi). 5) Se aveste il coraggio di scacciarla. 6) Colpe, addebiti. 7) Scoppierebbe (lett. “nascerebbe”) qualche rivolta. 8) Smettete di tormentarla. 9) Il proprio dovere.

49 VI. La ruina di micchì1

Mirate ch’è ridutto2 Muntione, I Punticelli, i Cii e Mercatello3! P’annà a Rota4 c’è resto5 un muzzichello Di strada da passacci gnaolone.

‘Sti fossi malidetti so’ ‘l fraggello: Guardà6: diciotto stanzie a rrutolone Trottonno jò mmar funno der caone7 Tramente che der sonno era ‘r più bello8.

Pe’ l’acqua9 quella casa s’è scarcata10 Do’ nacque ‘r nostro Santo prutettore11: Pe’ l’acqua fu la peste indiaolata12.

Se l’acqua donca mali più di cento L’ha ffatti a ‘sta cuntrada sciaquirata13, Anche a laacci ‘r grugno lo fo a stento14.

1) La nostra rovina (lett. “la rovina di qui”). 2) Guardate com’è ridotto! 3) “Tutti luoghi devastati in gran parte dalle alluvioni” (nota del poeta). 4) Rota (o “Rhoda”), contrada dell’antica Città di Bagnoregio; il toponimo corrisponde all’odierno capoluogo comunale. 5) Restato, rimasto. 6) Guardate! 7) Rovinarono (lett. “trottarono”) in fondo al calanco. 8) “Diciotto stanze dell’antico palazzo Colesanti crollarono nottetempo tutte insieme” (nota del poeta). 9) A causa dell’acqua, della pioggia. 10) È franata. 11) “La casa dove nacque S. Bonaventura” (nota del poeta). 12) “Una frana da Caporipa vietò il corso al fosso sottostante, e le acque ivi imputridite causarono una micidialissima peste” (nota del poeta). “In quell’epoca (1585) vennero in Bagnoregio i Cappuccini, appunto per assistere, come usavano, gli appestati, condottivi dal P. Lucci dell’Oratorio, bagnoregese, destra mano di S. Filippo Neri nella costruzione della Chiesa Nuova in Roma, e suo confessore” (nota del Gaddi). 13) Sciagurata. 14) Riesco a malapena a lavarci la faccia. 50 VII. La svertezza d’un bannarolo1

Una gran taala2 preparata adène Pe’ ffà maggnà li preti cu’ la banna3; Però se ‘r bea da capo4 adè ‘na manna, Laggiù è ‘n cercone5 che ti fa cadene6.

Un bannarolo, che di sete affanna, Assaggia un fiasco, che ji garba bene: Ma nun si fida: vole ‘n po’ vedene7 Se quer culore di laggiù l’inganna.

Quanno che sente che millì è cifeca8, Caggna ma’ fiaschi zitto zitto loco9, Po’ lemme lemme a risonà10 si reca.

Pe’ ‘sto baratto, dientò di foco11 Ir diputato, lli scramò12: sa’, Meca13: Cu’ ‘sta canaja nun si vence14 un gioco!

1) La sveltezza di un bandista. 2) Tavola. 3) Per far mangiare il prete e la banda musicale. 4) In cima. 5) Difetto del vino. 6) Cadere. 7) Vuole vedere. 8) Cifeca sta per “vinello, anche difettoso” (nota del Gaddi). 9) Scambia i fiaschi silenziosamente, senza che se ne accorgano. 10) Suonare di nuovo. 11) Si infuriò a causa dello scambio, del baratto. 12) Gli esclamò. 13) “La moglie del deputato della festa” (nota del poeta), detta Meca “Domenica”. 14) Vince. 51 VIII. P’aì lo sgrao der fucatico1

Perchè mma mmì2 ‘r fucatico è crisciuto?! Ma nun sapete neh che so pporello? Carcate ‘r mulinao cun Petello3, E nno cchi si sdïuna a pane e sputo4.

Nun ciò che ‘na casuccia un buciarello5, E dal guerno6 ‘gni tanto so sprimuto: Pe’ ffa cacà tre culi7, bio cornuto8! Mar sacco9 lo cunuscio10 che fraggello.

Pe’ cert’abbrei di Rota11, che ‘gni tanto Ci spremino sinanta cul tortoo12, Ciorrebbe sant’Antrea pe’ daji ‘r guanto13!

Ma voi che mestassù cuntate tanto, Svortate chi m’ha carco più d’un boo14; Sinnò pure per voi prego quer santo.

1) Per avere, per ottenere lo sgravio del focatico (imposta riscossa per fuoco o famiglia). 2) A me. 3) Tartassate (lett. “caricate!”) il mugnaio e Petello (sopr.): “Sono le borse più accredi- tate di Civita” (nota del poeta). 4) E non chi si sdigiuna miseramente. 5) Un posticino (lett. “buchetto”). 6) Governo, “qui l’agente delle tasse ed il Consiglio Comunale” (nota del Gaddi). 7) Per sfamare tre bocche (lett. “per far defecare tre culi”). 8) Eufemismo di bestemmia. 9) Nel “sacco della farina” (nota del Gaddi). 10) Lo conosco. 11) Per certi spilorci (lett. “ebrei”) di Rota (vd. VI, nota 4). 12) Ci tassano eccessivamente (lett. “ci spremono persino con il tortore”). 13) Occorrerebbe, ci vorrebbe Sant’Andrea per schiaffeggiarli. 14) Convincete chi mi ha tassato eccessivamente, tartassato (lett. “caricato più di un bue”).

52 IX. ‘R vento de’ paesi bassi

M’è scappa ‘na correa sbarsimamente1 Nel trapassà daanti al sor2 Zenone; E tèsto allor m’ha dditto3: ah porcaccione! ‘Gnarebbe ti pijasse un acc…!4

Che crepino per mi5 l’astre6 persone Nun ci ò pensato mai; e ‘st’imprudente Prutennaria7 sui peti la patente? Manco ‘r suprano ma li culi impone8.

Che forse mi nutriscio9 da eccellenza? Nun sa che magno sempre li facioli10? S’attappi donca ‘r naso e aja pacenza11.

Eppò12 (giacchè qui semo13 soli soli) Ho ‘nteso anche quilor d’arta nascenza Tronà ccur tafanao da piazzaroli14.

1) Ho scoreggiato (lett. “mi è uscita una scoreggia”) sbarsimamente, ossia “di sbalzo, qui vale di sorpresa” (nota del Gaddi). 2) Signor (titolo di rispetto). 3) Detto. 4) Bisognerebbe, occorrerebbe che ti venisse un colpo (accidente, autocensura del po- eta). 5) Me. 6) Altre. 7) Pretenderebbe. 8) Neanche il sovrano dà ordini ai culi. 9) Nutro. 10) Fagioli. 11) Dunque si atturi le narici e abbia pazienza. 12) E poi. 13) Siamo. 14) Ho sentito anche gli altolocati tuonare con il deretano, come persone volgari.

53 X. Che ber campà ch’adera!1

Quanno ch’annaa un grosso la ‘accina E ‘l crastato tre sordi e ddui l’agnello2 Potemmara fa spesa mar macello3 ‘Che vvorta4 la domenica a mattina.

Adesso a denti sciucchi5 sto, poarello: Pe’ ffa’ po’ po’ pulente6, la farina L’ho paga7 anche tre sòrdi, e manco8 è fina, Che nner maggnalla raspa ‘l garganello9.

Vinissino di noo que’ tempi belli10 Che si sguazzaa llà fra certi ‘ini11 Da fa li ‘ecchi ‘ncò tornà munelli12.

Lo ‘edete13 se fummara indoini? Doppo scappiti fora14 ‘sti fratelli, La robba ha arzato e manchino i quattrini15.

1) Che bella vita si faceva (lett. “che bel vivere era”)! 2) Quando la carne vaccina costava un grosso (antica moneta papalina), l’agnello tre soldi e due l’agnello. 3) Al macello. 4) Qualche volta. 5) A digiuno (lett. “a denti asciutti”). 6) Per cucinare un po’ di polenta. 7) Pagata. 8) Neanche. 9) Raschia la gola, mangiandola. 10) Tornassero, venissero di nuovo quei bei tempi. 11) Vini. 12) Da far tornare bambini anche i vecchi. 13) Vedete. 14) Dopo che sono usciti fuori. 15) I prezzi sono aumentati (lett. “la roba è aumentata”) e manca il denaro.

54 XI. La gioine crapricciosa1

Cun ti, Framinio, ci si po’ sfocane; Pe’ cunsiquenzia t’ojo di’ ‘na cosa2: Sabbito a otto3 Billolongo sposa La Fraolina llà di Barbacane4.

È una rigazza bella come rosa, Cun mani d’oro e bona più che ‘r pane; E ccun quer guitto s’ha d’annà a affucane5 Che di giudizio manco l’ha ‘na dosa6?!

‘Gna che quiliei ciaja ‘r cap’i sasso Che nun l’ha svorta manco ‘l su’ patrone7: Pora mulaccia8 se farà ‘sto passo!

S’ero ‘r su’ pate9, chi ci stia a le bone? A forz’i carci la sfunnao pe’ spasso, Senza curammi di marcì in pricione10.

1) La giovane capricciosa. 2) Con te, Flaminio, ci si può sfogare, in conseguenza voglio dirti una cosa. 3) Il giorno di sabato otto. 4) Fraolina (sopr.), figlia di Barbacane. Nell’edizione del 1932 l’appellativo Fraolina (lett. “fragolina”) viene definito un “vezzeggiativo georgico. Altrettanto georgica, però, è la chiusa [del sonetto]” (nota del Gaddi). 5) Deve andare ad affogare. 6) Non ha neanche un po’ di giudizio, di accortezza. 7) Credo che colei sia dura di comprendonio (lett. “abbia la testa, il capo di sasso”), visto che non l’ha convinta neanche il suo datore di lavoro (forse “padre”?). 8) Povera ragazza. 9) Se fossi stato suo padre non avrei mantenuto la calma. 10) L’avrei ferita (lett. “sfondata”) a suon di calci per divertimento, senza preoccuparmi di marcire in prigione.

55 XII. ‘R domo aripulito1

Guiscite su, mi pa’, guiscite fòri2 Dar pilo mellaò p’un griggnolello: Mirate3 adesso ‘r domo quanto è bello Cull’oro, marmi e schirsi di culori4!

Astro5 che quanno ‘r poro6 Bassanello7 Mittìa8 la nostra chiesa a drappi e fiori Cur9 bussolo a calate10 e fiocchi indori, Ch’a nnoi parìa caggnata in un giojello11.

Meccà e mellà popò se vorto ‘r viso, O a’ santi mellassù, che so’ un portento, Mar munno12 nu’ sto più: sto in paradiso!!!

Se quarche bizzocaccia13 fa lamento Pe’ l’uscia de le sedie14, ho già ddiciso: Cun quattro sculacciate la cuntento15.

1) Il duomo ripulito: rif. alla chiesa di San Donato, a Civita, un tempo duomo della Città di Bagnoregio. Vd. nota 14. 2) Uscite fuori, mio padre! 3) Guardate! 4) Con oro, marmi e giochi (lett. “scherzi”) di colore. 5) Altro. 6) Defunto (lett. “povero”). 7) “Antico sagrestano di Civita” (nota del poeta). 8) Metteva. 9) Con il. 10) Festoni. 11) Sembrava mutata, cambiata in un gioiello. 12) Al mondo. 13) Qualche bigotta. 14) “L’abolizione delle sedie da detto tempio suscitò gran battibecco di donnicciole” (nota del poeta). Nell’edizione del 1932 l’ùscia (nella grafia “gaddiana”) viene glossata come “l’abolizione delle sedie dal vetusto Tempio di Civita restaurato e donato di ricchi drappi dal novello Parroco (1890) Rev.mo Can. D. Angelo Rossi” (nota del Gaddi). 15) L’accontento. 56 XIII. ‘R curato proisorio1

Gomme che bboce!2 Sa’ che brao curato Sarìa3 ‘sto prete pe’ spiegà ‘r mancelo4: Manco ma’ sordi sfuggirebbe un pelo5; Di facciolo6 sta’ sempre va pregato.

È tanto bono, che l’amaro felo Manco cunusce do’ che sta piantato7: Milani ‘ncone8, che cun lui c’è stato, Ne fice eloggi che riaino ar celo9;

E nun credete che quelui c’inganni, Ch’anche de’ preti (s’ònno ‘che difetto10) Nun po’ stà zitto manco se lo scanni.

Domani donca [a] cumminà mi metto Un mormoriale cul cumpar Giuanni11, Acciò12 curato di micchì sia eletto.

1) Il curato provvisorio. 2) Caspita, che voce! 3) Sarebbe. 4) Spiegare il vangelo, “[p]rimo compito del Curato” (nota del Gaddi). 5) Non sfuggirebbe niente neanche ai sordi. 6) Farcelo. 7) Non sa neanche dove si trovi. 8) Anche. 9) Ne fece elogi che arrivavano in cielo. 10) Se hanno qualche difetto. 11) Preparare (lett. “combinare”) un memoriale insieme all’amico Giovanni. 12) Affinché, acciocché. 57 XIV. Chi fija e chi fijastra?!1

L’acqua stassù ce l’ònno2 a Porta Arbana3, Di faccia4 ar Maestrino e all’Orfanelle; Aanti5 ar Domo ci so’ tre cannelle E in faccia6 a Fabi c’è ‘n’astra funtana7.

Se Cîta e Rota sone du’ sorelle8, Perchè micchì ‘sta differenzia9 strana Che p’ailla ci vo’ ‘na sittimana10 E annà a Calleno a scurticà la pelle?

Gorpe che ssora11! Qui a Funtana-secca, Ch’a ‘sta cuntrada sta bitì bitone, Sinanta un guercio a ritroalla azzecca12.

Cisummaria13 che sequolo14 birbone! Cîta, che d’esse ciuca adà la pecca, Da Rota è superchiata ‘gni popòne15.

1) Chi figlia e chi figliastra (modo di dire, rif. a chi non è imparziale). 2) Hanno. 3) Porta Albana, a Bagnoregio. 4) Di fronte. 5) Davanti. 6) Di fronte. 7) Un’altra fontana pubblica. 8) Se Civita e Rota (vd. VI, nota 4) sono due sorelle. 9) Differenza. 10) Per averla occorre, ci vuole una settimana. 11) Caspita, che sorella! 12) Persino un cieco riesce a ritrovarla. 13) Gesummaria! 14) Secolo. 15) Civita, che ha la colpa di essere piccola, viene spesso soverchiata, sopraffatta da Rota.

58 XV. Ma sposi noelli1

Dicetemi po’ po’, sor avvocà2: Vi pare cumminiente3 o no che sia ‘R campane senz’un pel’i cumpagnia Massime annanno aanti nell’età4?

Ma voi cun quer talento ch’ete ccà, Tutt’astro ch’annà reto a tar pazzia5, Sposate oji6 ‘sta donna che, perdia! È degna in tutt’i ‘ersi da lodà7.

Sicchè domminiddio vi benedica E vi cunceda presto un ber maschietto. Che un giorno vi sparagni8 ‘gni fatica.

Mai cali di nuelle ‘l vostro affetto9, Nè di bene vi manchi ‘na mujica10, E cull’ammene11 chiudo ‘r mi sunetto.

1) Ai nuovi sposi. 2) Ditemi un po’, signor avvocato! 3) Conveniente. 4) Il vivere senza un po’ di compagnia, soprattutto quando si invecchia. 5) Piuttosto (lett. “tutt’altro”) che assecondare (lett. “andare dietro a”) tale follia. 6) Oggi. 7) È degna di lode sotto ogni aspetto. 8) Risparmi. 9) Che il vostro affetto non diminuisca minimamente. 10) Una piccola quantità (lett. “mollica”). 11) Amen.

59 XVI. ‘R mardicente calummiatore1

La lengua2 velenosa di Greppello, Fa proa di screditì fino ‘che santo3: Ma quanno attacca4 a ffa’ ‘r solito canto, Scudella più bucie che farfarello5.

Che boja! Sa depegna6 per incanto Le trappile che cugna ‘r su’ ciarvello7; E guai se a tti daanti ti fa ‘r bello8, Che reto9 po’ ti sforbicia ‘gni tanto10.

Ciorrebbe11 de’ romani quel ber gioco Di stampà ma’ st’infame su la fronte Tanto di cappa cur un merco a foco12.

Ma mo’ che der campà ji resta poco, Lasciamolo sbocià ‘sto rudomonte Che già Berlicche ja preparo ‘l loco13.

1) Il maldicente calunniatore. 2) Lingua. 3) Cerca di mettere in cattiva luce, screditare persino qualche santo. 4) Inizia. 5) Dice più bugie di un farfarello (sorta di spiritello). 6) È in grado di dipingere. 7) Gli inganni (lett. “trappole”) che partorisce (lett. “conia”) il suo cervello. 8) Si comporta da ipocrita. 9) Dietro. 10) Ovvero “ti taglia i panni addosso, con la sua maldicenza” (nota del Gaddi). 11) Occorrerebbe, ci vorrebbe. 12) Marchio impresso a fuoco. 13) Ora che gli rimane poco da vivere, lasciamolo svociare questo rodomonte, questo individuo prepotente e spavaldo, poiché Berlicche (nome di un diavolo) gli ha già pre- parato un posto (all’inferno).

60 XVII. Gnente crapicci!1

Ji manca ‘r mastr’i casa2 a Mincislao: Ha fatto un cappelluzzo cicinino Come la cruculuzza d’Arlicchino O ‘r coccio3 che sta in cima d’un pajao.

‘Sta moda nun cummiene a un cuntadino4, Chè ‘r patrone5 po’ ddì: fa ‘r maramao6; Questui la fugga donca come ar: bao7! Si squaia a curs’i lepre un rigazzino8.

Io sempre vo a la moda che m’adatta9: Cappello a farda larga, brai scarponi, E bbrache di lazzetto10 cu’ la patta.

La giubba quanto ria ma’11 cinturoni, Nun porto petturina nè curvatta12; Ma ‘r cocco, a ffà ttusì, so’ de’ patroni13.

1) Niente capricci! 2) È senza cervello (lett. “gli manca il mastro di casa”). 3) Oggetto di terracotta. 4) Non conviene, non si addice a un contadino. 5) Datore di lavoro. 6) Ladruncolo. 7) Grido per spaventare i bambini (dall’omonimo spauracchio). 8) Un bambino scappa, veloce con una lepre. 9) Seguo sempre la moda che più mi si addice. 10) Pantaloni di lazzetto, ossia “tessuto ruvido (lazzo [in altri dial.]) di lana, che prima si faceva nel domestico telaio” (nota del Gaddi). 11) Arriva ai. 12) Non indosso né pettorina né cravatta. 13) Ma così facendo sono il prediletto dei datori di lavoro.

61 XVIII. ‘Na notte sciaquirata di gennao1

La moje che sarnaca2 fa ‘l frullone3, Dar vietro4 che stì manca entra la morte; Po’ ‘r vento ‘nzippatoo ma’ le porte5 Fa ‘r sono spiccicato der violone.

‘R Nappao cull’urghinetto fa ‘r chiassone ‘R canacc’i Cacafoco baja forte6 E ‘r fijo dell’Annuccia, in pejo7 sorte, M’introna cur su’ pianto scocciarone8.

‘R sumaro, se’! cu’ raji t’assordisce9 E i gatti supp’i tetti fònno: gnao!10 ‘Sta notte sino ‘r diaolo scappisce11.

Mo’ m’arzo12 a ffà ‘n sunetto proprio brao, Che ‘r tema prolibbato me l’offrisce ‘Sta notte tribbilosa di gennao13.

1) Una notte sciagurata di gennaio. 2) Russa. 3) Rumore (?). Cfr. gloss. frullà. 4) Vetro. 5) Poi il vento che preme sulle porte. 6) Il cagnaccio di Cacafoco (sopr.) abbaia forte. 7) Peggiore. 8) Mi rimbambisce con il suo pianto scocciante. 9) Senti l’asino! Ti assorda ragliando. 10) E i gatti sui tetti fanno: miao! 11) Stanotte scappa persino il diavolo. 12) Mi levo, mi alzo. 13) Il tema giusto, appropriato (lett. “prelibato”), me lo offre questa sofferta notte di gennaio.

62 XIX. I girelli appicciati di giorno1

Ah brutto Tufaraccio2! Ah Musotento!3 Chi v’ha strascino jo4 li farfarelli5 Pe’ dà foco6 di giorno a ‘sti girelli Ch’aderino pe’ nostro diartimento7?

Guiscini, Aletta, Chiodo, Rocco, Bielli, Fusetto, Battifoja, Bardo, Cento Chiappatili8, chiappateli un momento Pe’ ffaji ‘r battisteo su li ciarvelli.

Mannaggia! ci mancaa proprio st’intoppo D’annà a pija du trai jò ppe’ la ‘alle9 In cagno10 di questui ch’è menso zoppo;

Chè s’era popò spiccio11, ma’ ‘ste galle Sarei curso di reto a gran galoppo12 Pe’ daji ‘sto paletto su le spalle.

1) I girelli (tipo di fuochi d’artificio) accesi di giorno. 2) Secondo il Gaddi l’ingiuria tufaraccio farebbe richiamo ai “bei versi del suo conter- raneo Giuseppe Cardarelli sul Duomo d’Orvieto: ‘E noe ch’emo la sorte: - D’avecce drento ar tufo sto lavoro - Fatto de tutte intarsie e pietre d’oro’” (nota del Gaddi). 3) Brutto stronzo. 4) Strascino jo, ovvero “strascinato giù, a Civita” (nota del Gaddi). 5) Il termine farfarelli potrebbe indicare, in questo contesto, sia una sorta di spiritelli che dei mulinelli d’aria. 6) Accendere. 7) Erano destinati al nostro divertimento. 8) Acciuffateli! 9) Andare a prendere due travi nella valle. 10) Al posto. 11) Appena veloce. 12) Sarei corso dietro velocemente a quei bellimbusti.

63 XX. ‘R pidocchio rifatto1

Quanno a scòla liggio sull’abbeccène2 C’era quel brao mellaò che pippa3, Che sino i tozzi4 pe’ sgrinsà la trippa ‘Gni po’ piaggnenno mi vinia a chiedene5.

Ma mo’6 che ‘l porco s’è ingrassato bene, Nun mi darebbe manco ‘na frillippa7; E se m’accosto, curre a casa e inzippa L’uscio8, e ddar bucio sta li a ffa cecene9.

Mejo è di chieda10 ma ‘n ingordo gatto L’onto c’ha robbo ma la su’ patrona11, Ch’a ‘sto pidocchio proprio mó rifatto.

Ma un giorno o l’astro che s’arincantona12, Ji fo sul grugno (e manco ci cummatto)13 Una scorreggia come quanno trona14.

1) Persona arricchita che ostenta ricchezza. 2) Quando a scuola leggevo l’abbecedario. 3) Quella brava persona (antifr.) che fuma la pipa. 4) Persino i tozzi di pane. 5) Mi veniva spesso a chiedere, piangendo. 6) Adesso, ora. 7) Non mi darebbe neanche una “pagliuzza, un nonnulla” (nota del Gaddi). 8) Se mi avvicino arriva a casa e chiude la porta. 9) Fa capolino. 10) È meglio chiedere. 11) Il lardo che ha rubato alla sua proprietaria. 12) Un giorno o l’altro, quando torna povero (lett. “s’incantuccia di nuovo”). 13) Gli faccio sul viso, e neanche ci perdo tempo. 14) Tuona. 64 XXI. Ma ‘n prete fatto calonico1

Adesso pòzzo divvi: sor Calò, Perchè c’ete la cappa cu’ la cóa2; E mentre sarto e brillo ‘sta gra’ nnoa3; Armeno du’ strofiette4 vi farò.

Voi c’ete bboce grossa e bella a pproa5 Che, s’attaccate l grolia pò-pò-pò, L’antifine, li sarmi e ‘l criliesó6, Manco cu’ li trommoni vi s’accoa7.

Che sete bono, amabbile, sincero, Struìto e faticante schiattareccio8, Lo dice tanto ‘r popolo che ‘l clero.

Ma senza che smujichi tutto ‘r vero9 E mi spormoni a ffà gran chiacchiereccio, Der Giusti sete proprio ‘r prete Pero10.

1) Ad un prete nominato canonico. 2) Posso dirvi: signor canonico! Perché avete il mantello, la cappa con lo strascico. 3) Faccio i salti di gioia per questa ottima notizia. 4) Almeno due strofette. 5) Voce potente, stentorea. 6) Se intonate il Gloria in excelsis deo (inno angelico, dossologia intonata durante la messa), le antifone, i salmi e il Kyrie eleison (preghiera della liturgia cristiana). 7) Neanche con i tromboni è possibile coprire, superare la vostra voce. 8) Siete buono, amabile, sincero, istruito e faticante schiattareccio, ossia “che nel lavo- ro non si risparmia” (nota del Gaddi).. 9) Senza che elenchi (lett. “smollichi”) tutte le vostre doti. 10) Nell’edizione del 1932 si legge, invece, un prete per daero, glossato come “un prete per davvero, ideale” (nota del Gaddi). Lo studioso bagnorese ha rimosso, quindi, il riferimento alla composizione satirica “Il papato di Prete Pero” (1835), in cui il poeta toscano Giuseppe Giusti narra l’ascesa al papato di un sacerdote onesto e riformatore, del quale, avendo intac- cato alcuni privilegi del clero, viene negli ultimi versi ordinata la morte: “Questo è un Papa in buona fede: / È un papaccio che ci crede! / Diamogli l’arsenico”. Il riferimento a “prete Pero” – descritto da alcuni vocabolari di lingua come “figura immaginaria di sacerdote e maestro di grande ignoranza”, e presente già nel Carducci (“può darsi che di latino io ne sappia un po’ più di prete Pero”) – getta una luce differente sui versi precedenti, dei quali potrebbe essere data un’interpretazione anticlericale, forse volutamente oscurata dal Gaddi. 65 XXII. La banna1

Sentì2 chi a spalle nostre su3 si spassa, Cur zunna4! marce, porche e rrè-mi-fane5? ‘R viziacc’i superchià6, corpo d’un cane! Vurrebbe ‘n pò sapì7 quanno ji passa.

Mannassino ‘che vorta qui a sonane Armeno ‘r tammurello e la grancassa8; So’ boni a stroligà ‘gni po’ ‘na tassa Sinanta su i porelli senza pane9.

Eppure ma le sciabbile, carzoni, Cappelli cur pennazzo e mma’ sturmenti C’è ‘r sangue nostro ‘nco, sori minchioni10.

Si sfiatino stassù tutt’i mumenti11 Anche se piscia ‘r gatto, cu’ li soni, Tramente che micchì arrotamo i denti12.

1) La banda musicale. 2) Sentite! 3) A Bagnoregio. 4) Musica eseguita dalla banda musicale. 5) Polche e re-mi-fa (note musicali). 6) Il brutto di vizio di soverchiare, sopraffare. 7) Vorrei proprio sapere. 8) Mandassero a suonare, qualche volta, almeno il tamburello e la grancassa. 9) Sono capaci di congetturare nuove tasse, persino sui poverelli senza pane. 10) Nelle sciabole, nei pantaloni, nei cappelli con il pennacchio e negli strumenti, c’è anche il sangue nostro, signori furbacchioni! 11) Si spolmonano in continuazione. 12) Mentre qui soffriamo la fame (lett. “arrotiamo i denti”).

66 XXIII. Un quatruccio di ‘aja1

Più lo cuntempro2 e più ci troo quer bello Che quasi tutti i furistieri incanta: Mirà!3 mirà! se Catirina santa Pare che svienga a riciì l’anello4!

‘Sta rarità che la mi’ chiesa ‘anta5 Perchè viscì da la buttich’i quello6 Ch’era gran brao a manijà ‘r pennello7, Llì nu’ sta bene, che cchiun l’agguanta8.

V’aricordate pure che paliotto9 C’emmara10 cchi? Po’ si rimase muti, Quanno si ‘idde ch’ia preso ‘l trotto11.

Pensate donca da ciarvelli astuti A schiaffà ‘r quatro sotto chiae di botto12, Che ‘r munno è pieno di baron f…13

1) Un quadruccio di vaglia, di pregio. Vd. nota 4. 2) Contemplo. 3) Guardate! 4) Sembra che svenga ricevendo l’anello: “Il quadruccio rappresenta S. Caterina da Siena che in estasi riceve l’anello sponsale da Gesù bambino” (nota del poeta). 5) Vanta. 6) Perché fu dipinta nel laboratorio di quell’artista. 7) Era molto bravo, esperto, a maneggiare il pennello. 8) Poiché qualcuno potrebbe rubarla (lett. “qualcuno l’afferra”). 9) “Un superbo tessuto di Fiandra che rappresentava la visitazione di S. Elisabetta” (nota del Gaddi). 10) Avevamo. 11) Quando vedemmo che era scomparso: “Un superbo tessuto di Fiandra, che ad uso paliotto rappresentava la visitazione di S. Elisabetta, fu da mano ignota sacrilegamente derubato” (nota del poeta). 12) A mettere improvvisamente il quadro al sicuro, sotto chiave. 13) Poiché il mondo è pieno di mascalzoni (baron fottuti, autocensura del poeta).

67 XXIV. ‘Na quistione riligiosa

Vinisse anche ‘r dilujo1, ma’ Rotani2 ‘Sto Cristo3 nu’ lo lascio di nuelle4; Putite5 sputà sangue a catinelle, Che tanto ‘n ve lo do, corpo de cani!

Più facile sarìa cuntà le stelle Di quello che ficcà micchì le mani6: Se fischio, fò ‘n armata di ‘illani7 Cu’ sassi, brai bastoni e mazzarelle.

Billacci! inorca su8, mica è bullita9 St’acquaccia da formà l’impidimento; Sinnò, se resta qui, per noi [è] funita10.

Sfilate dui pe’ ddui11 senza sgumento, Che Dio ci aggiutarà p’annà ggiù a Cita12, Senza pijà malanni e in un mumento.

1) Diluvio. 2) Agli abitanti di Rota (vd. VI, nota 4). 3) Per “Cristo” s’intende l’antico crocifisso situato nella chiesa di San Donato, a Civita. Gode di qualche vitalità la credenza secondo la quale il “Cristo”, dopo la tradizionale processione del Venerdì Santo, che ha luogo nel capoluogo comunale, deve essere tra- sportato di nuovo a Civita, pena il suo “passaggio di proprietà” dai civitonici ai bagno- resi. Vd. anche nota seguente. 4) Di nuelle, ovvero “in nessun luogo; opponendogli i Rotani la sicurezza della custo- dia del sacro simulacro nel convento delle monache” (nota del Gaddi). Vd. anche nota precedente. 5) Potete. 6) Sarebbe più facile contare le stelle che mettere qui (sul “Cristo”) le mani. 7) Faccio, organizzo un’armata di villani (contadini che dispongono di una piccola pro- prietà terriera). 8) Billacci (sopr.), prendi il peso in spalla! 9) Bollente. 10) Finita. 11) Due alla volta. 12) Dio ci aiuterà ad andare a Civita. 68 XXV. ‘R munistero de santa Chiara1

C’era ‘na ‘orta2 un munistero cchì, Che ‘r terramoto lo scarcò3 e sparì: Accupinnente curse ar Papa a ddì: P’aripiantallo, dete i funni a mmì4.

Rispuse5 ‘r Papa: quanno adè ttusì, Ch’accomidà6 nun si po’ più millì, Accupinnente chiappi tutto a ssì E ‘r munistero ‘ncò si ficchi lì7.

Che gran passione nu’ riescio a ddì Ch’adè ppe’ Cîta di restà a vvidì Sor che macerie8 de lo scarco stì!

‘Gna che i salami stiessino a ssidì Rento ‘r Communo, che sinnò sapì: Quella po’ robba rimanìa micchì9.

1) Il poeta fa riferimento al monastero delle Clarisse e all’annessa chiesa di Santa Chia- ra, strutture scomparse in seguito al rovinoso terremoto del 1695. 2) C’era una volta. 3) Che il terremoto scaricò, fece crollare. 4) Acquapendente corse a dire al Papa: “Per ricostruirlo, date i fondi a me!”. 5) Rispose. 6) Riparare, accomodare. 7) Acquapendente prenda tutto per sé e anche il monastero venga costruito lì. 8) Non riesco a dire quale sofferenza sia, per Civita, vedere soltanto le macerie. 9) Credo che quei tonti (gli amministratori comunali) siano rimasti seduti in municipio, senza fare nulla, perché altrimenti quelle poche cose sarebbero rimaste qui. 69 XXVI. Accidera che puzza!1

A Rota ci so’ reguile per bene2: Li porci stanno fòra der paese, Le stalle so’ ppulite come chiese, E chi ffa sozzarie cià ‘n sacc’i pene3.

Ci so’ ddu’ brae guardie4, e a più riprese Survejino5 chi scopa se ia [?] bene, Se buttino i pitali6 e se ciadene7 Chi laa ma le funtane8 un sozzo arnese.

Insomma mellassù nun manca un’ette9; E quanno s’ha dda fà ppe’ la su’ pelle10, La cassa der Commun va a foje e fette11.

Ma nnoi però gnun pensa di nuelle12; E intanto, pe’ ‘ste puzze malidette13, S’arria14 cu’ vorta stommichi a le stelle.

1) Accidenti, che puzza! 2) A Rota (vd. VI, nota 4) ci sono regole ben fatte. 3) Chi sporca subisce punizioni severe (lett. “un sacco di pene”). 4) Ci sono due brave guardie. 5) Sorvegliano. 6) Se gettano in strada il contenuto dei vasi da notte. 7) C’è. 8) Nelle fontane pubbliche. 9) Non manca niente. 10) E quando si deve fare qualcosa per i propri interessi. 11) La cassa del comune viene svuotata. 12) Però nessuno pensa a noi minimamente. 13) A causa di queste puzze maledette. 14) Arriva.

70 XXVII. ‘Gni rosa ha li su’ spine1

Cucujala sta mejo d’un suprano2: Si gode cu’ la vigna un brao cummento3, Cià4 l’orto, pozzo, stalla e, a cumpimento, La grotte der mi’ santo paesano5.

Disotto cià la ‘alle6 ch’è un purtento: Di faccia cià Tanaje, Gioe, Arviano, Guardea e Ciuitella cun Lugnano7, E sente passà ‘r treno ‘gni momento8.

Di ‘ino9 ce n’ha più d’un botticello; Cià grano, ceci, fae, facioli10 e fieno, E, se vo’ sordi ‘ncò11 c’è brao Petello.

Eppure anche questui nun putì a meno ‘Na ‘orta di scramammi12: sa’, fratello, Micchì pure di tribbili so’ pieno13.

1) Ogni rosa ha le sue spine; l’art. li “le” potrebbe essere dovuto ad un refuso. 2) Sovrano. 3) Un bel “convento: l’antico di S. Francesco, dov’è ancora, nell’orto rimasto, la Grotta di S. Bonaventura, quanto mai suggestiva per la meditazione e la preghiera: affacciantesi nel masso, tutto rivestito di edera, a picco su la alle ch’è un purtento” (nota del Gaddi). 4) Ha, possiede. 5) La grotta del santo del mio paese. Vd. nota 3. 6) La valle. 7) “Tenaglie, Giove, Alviano, Guardea, Lugnano: splendida corona di paeselli sull’an- tistante Subappennino umbro [i Colli Amerini], dolcemente digradante fino al Tevere. Civitella d’Agliano, invece, con le due torri alto sfuggenti, sorprendente paesaggio ga- risendiano, è sulla riva destra del fiume” (nota del Gaddi). 8) Sente passare in continuazione il “treno della linea Roma-Firenze, che corre rasente il Tevere” (nota del Gaddi). 9) Vino. 10) Fagioli. 11) E se vuoi anche del denaro. 12) Una volta non poté fare a meno di esclamarmi. 13) Sono pieno di sofferenze, di tribolazioni.

71 XXVIII. ‘R tempurale

Bonella! So’ Cremente: viemm’a aprì1: Cur tempurale, aanti nun si ‘à2; Mi tocca, nel tornà da la città: Fermammi pe’ ricooro ccà ddi cchi3.

Che troni, gomme!4 Insomma, lesto ih! Sinnò vo in ch’astro loco ad albergà5: Ma doppo da per tutto si saprà Che pel coraccio tuo putìo murì…-6

Portrone! Ce ll’à fatta a scenna jò?7 Ma ci ‘ulìa tanto pe’ vvinì A dammi quell’aggiuto che si po’?8

Accenni un pel’i foco9, che ttusì La giubba e li carzoni asciuttarò10… Tramente ti ringrazio, e vva a dormì.

1) Sono Clemente, vieni ad aprire! 2) Col temporale non si può proseguire, andare avanti. 3) Nel tornare dalla città occorre che cerchi ricovero qui, da queste parti. 4) Che tuoni, caspita! 5) Altrimenti vado ad albergare altrove. 6) Ma poi si saprà ovunque che a causa della tua pusillanimità sarei potuto morire. 7) Pigrone! Sei riuscito a scendere? 8) Occorreva, ci voleva tanto per venirmi ad aiutare? 9) Avvia un fuocarello (lett. “un po’ di fuoco”). 10) Asciugherò.

72 XXIX. É mejo d’emicrâ1

Vojo muccì dar coo de ‘ste fiere, Cridissi fa ‘r bicchino in c’astro loco2: Vi pare che ‘r mi’ fusto sia da ggioco3 Se di pueta stuzzico ‘r mistiere?

Lu so che brai bocconi li fa ‘r coco, La barba si fa mejo da ‘n barbiere, Ci ‘ò ppe’ fà le strade un incegnere4 E scarco de’ muntini spett’ar boco5.

Ma doppo ch’a zappà mi so’ straccato6, Se corco a la marea cul barlozzetto7 Mi spasso a ffà ‘cche rima8, è un gran peccato?

Gnarebbe che san Midio benedetto Ma’ birbi che mmì ‘ersi ònno fischiato Pe’ farraolo ji scarcasse ‘r tetto9.

1) È meglio emigrare. 2) Andare a fare il becchino da qualche altra parte. 3) Vi sembra che possa essere canzonato? 4) Per fare le strade occorre, ci vuole un ingeniere. 5) Lo scarico dei mucchi spetta al boco, ovvero “bocco [voce non di lingua], la noce o il nocciolo di pesca più grosso usato dai ragazzi nel giuoco a montinello, o come dicono a Roma, a castelletto, per colpire e buttar giù il medesimo” (nota del Gaddi). 6) Dopo essermi stancato, a forza di zappare. 7) Coricato “a la merìa [all’ombra] col piccolo bariletto portatile, pieno di vino, vicino a sè” (nota del Gaddi). 8) Mi diverto a fare qualche rima. 9) Occorrerebbe che Sant’Emidio (protettore dai terremoti) scaricasse il tetto, a mo’ di mantello, sopra i birbanti che hanno fischiato i miei versi.

73 XXX. Malidetto scalambrone!1

Insomma don Pacifico, poraccio, pe’ ‘r pizzico2 d’un boja scalambrone Ha gunfi labbri, guance e peparone, E corco sta ma’ lletto menso jaccio3.

Vurrebbe annà a la festa4 da Cannone, Che già jà5 preparato un gallinaccio; Ma mo’ che s’è ridutto come straccio, Manco la caa annacci cur bastone6.

Abbada7 che jà fatto un brutto scherso; Non solo quella messa a cinque paili8, Ma ‘l pranzo ‘ncò pò mittolo pe’ perso9.

Se scagn’i pizzicà ‘sti pori diaili, Che so’ na past’i mele, annaa pel verso, Mica mi ci penao: manco pe’ caili!10

1) Maledetto calabrone! 2) A causa della puntura. 3) Ha labbra, guance e nasone gonfi, ed è coricato a letto, mezzo morto. 4) “Nella chiesa rurale della Guadagliona, di cui è custode un certo Cannone, annual- mente si celebra la festa di S. Antonio di Padova, ed in tale occasione, in casa del depu- tato, si dà un lauto pranzo” (nota del poeta). 5) Gli ha. 6) Ora che è ridotto così male, non riesce ad andarci neanche con il bastone. 7) Fai attenzione! 8) “5 paoli: 1 paolo, moneta papale, era uguale a 10 soldi” (nota del Gaddi). 9) Ma può considerare perduto anche il pranzo. 10) Se invece di pungere questi poveracci, queste brave persone (lett. “poveri diavoli”), avesse punto chi lo meritava, “mica mi ci davo pena: neanche per i cavoli” (nota del Gaddi). 74 XXXI. Un pate scioperato1

Sta stì, sta stì a jocà cur carachene2; E intanto mar tu’ fòra le petate Te l’ònno più di mense sciobbicate3 Che, se l’arrîi a ssajà4 mi vienga5 ‘r bene! Sta stì, sta stì a jocà cur carachene!

E nun ci pensi donca che sei pate, E sempre t’ariurtichi fra pene6? Pe ffà fumà ‘r cammino, io so per mene7, Che un pelo nun ci sto a mani piegate8: E nun ci pensi donca che sei pate?

Ridaji a buttà jò cull’arme e santo9, Eppò10, se perdi, senti le biastime Cur siquito min casa11 a bbotte e pianto: Ridaji a buttà jò cull’arme e santo.

‘Gnarebbe cunsumalli p’appiccime12 Que’ pati che di casa sò lo spianto E tienghino ’gni cosa llà a guaime13: ‘Gnarebbe cunsumalli p’appiccime.

1) Un padre ozioso. 2) Testa e croce, ovvero “carachè [dial.], noto giuoco, fatto solitamente con due grossi soldi di rame insieme lanciati in alto, detto in Toscana: a palle (l’arme dei Medici) e santo” (nota del Gaddi). 3) Nella tua campagna hanno già rubato (lett. “svuotato”) metà delle patate. 4) Se riesci (lett. “arrivi”) ad assaggiarle. 5) Venga. 6) Ti rigiri, ti rivolti sempre tra i dolori, le pene. 7) Per far fumare il comignolo, lo so bene (lett. “io so per me”). 8) Non sto mai a braccia conserte. 9) Gioca di nuovo a testa e croce! 10) E poi. 11) Con seguito, proseguimento a casa. 12) Occorrerebbe usarli per avviare il fuoco. 13) Tengono tutto “[i]n abbandono, come l’erba dei prati di seconda fienagione, detta appunto guaime” (nota del Gaddi). 75 XXXII. ‘R guiscino liticato1

Furgè! nun t’accustane: fatt’arreto2; Sinnò cull’ubbidente ma’ la faccia, Cridissi annà ’n galea, fo ‘che frescaccia3, E ppo’ t’appiatto llà mma quer sasseto4.

Lo ‘igghi, se tu proi d’arzammi un deto5, So’ pejo6 del pitrolio a che s’affaccia, D’anciniriji ‘ncò la su’ razzaccia7: E tu menà mma mmì8? (brù...m!) pija ‘r peto.

Sibbene ero ciciuco, m’aricordo Quanno ‘r mi’ pate9 ‘r guiscino piantòne10 Micchì, proprio micchì ddo’ d’è discordo11.

E ppo’ vo’ fà ‘r gradasso? (brù!) arritone! Pe’ sparagnà ‘cche carcio12, brutto lordo, Fa menso giro e ttroa ‘n astro minchione13.

1) Il vicino in lite. 2) Non ti avvicinare, indietreggia! 3) Altrimenti (ti colpisco) con il bidente in faccia. 4) Se anche dovessi andare in galera, faccio una sciocchezza, e poi ti nascondo in quel terreno sassoso. 5) Lo vedi? Se soltanto provi a toccarmi (lett. “ad alzarmi un dito”). 6) Peggiore. 7) Incenerire anche la sua famiglia. 8) Malmenarmi. 9) Mio padre. 10) Piantò. 11) Disaccordo. 12) Per risparmiarti qualche pedata. 13) Un altro tontolone.

76 XXXIII. La casa di san Minintura1

La casa di quer santo prolibbato2 Noi l’emmara più cara d’un trisoro3: L’ho ditto e lo dirrò sin quanno moro Che di scarcalla jò fu un gran peccato4,

Ch’adera a facci fa’ quarche laoro Pe’ rinfurzalla ‘n po’ ‘r tempo passato, E d’arbili piantacci un cunturnato5, E magari di canne e ‘n po’ d’alloro?

Mirà se di giudizio l’ònno un pelo6: Do’ ficchino l’ognacce fònno ‘r guasto7; Fino a sfascià la cunna8 a chi sta in celo!

Lassù mma quer palazzo9 se l’impasto Lo fònno10 vurticà da chi cià11 ‘r felo12, Va a funì che diento un cane guasto13!

1) La casa di San Bonaventura. 2) Prelibato. 3) Per noi era più cara, più preziosa di un tesoro (lett. “l’avevamo più cara di un tesoro”). 4) L’ho detto e lo ripeterò fino alla morte, che fu un peccato scaricarla, demolirla. 5) Cosa ci sarebbe voluto, in passato, a fare qualche lavoro per consolidarla, e a contor- narla d’alberi? 6) Guardate se hanno un po’ di giudizio, di accortezza! 7) Ovunque mettano le mani (lett. “infilano le unghie”) fanno danni. 8) Infastidire. 9) “Il palazzo municipale” (nota del poeta). 10) Fanno. 11) Ha, possiede. 12) Il sost. felo “fiele” starebbe, in questo contesto, anche per “idee contrarie alla reli- gione” (nota del Gaddi). 13) Va a finire che mi infurio (lett. “divento un cane rabbioso”).

77 XXXIV. Nun si caccia più a campà1

Ciò ‘r buc’i casa pe’ pputì abbitane2 Sarva da censi e ‘che ccusella ar sole3, Do l’asino a vittura ma chi vole4 E ciò ’n po’ cacio pe’ gabbacci ‘r pane5; Ma intanto, Biacio, nun si po’ campane6.

Sinanta a notte me ne sto a zappane7, P’ariistimmi ciò ‘ste brache sole8: Fo ‘n po’ di tutto e curro a chi mi ‘ole,9 Nun m’arimmejo quanno c’è da fane10; Ma intanto, Biacio, nun si po’ campane.

La Nena è stuta, Peppe ‘ncò s’incegna Cur fa’ capagni e fasci di gramegna11, La Tuta sempre sta millì a filane12. Ma intanto, Biacio, nun si po’ campane.

Nun ho bisogn’i spenna13 pe’ le legna, S’appiccio un lume, sta lì lì pe spegna14; La sborgna e ’l gioco nu lo so do’ stane15; Ma intanto, Biacio, nun si po’ campane. 1) Non si riesce più a vivere. 2) Ho una casa minuscola (lett. “un buco di casa”) in cui abitare. 3) Scarsa proprietà terriera (lett. “qualcosina al sole”). 4) Consento a chiunque di usare il mio asino, dietro compenso, come mezzo di trasporto. 5) E ho un po’ di formaggio da usare come companatico. 6) Ma intanto, Biagio, non si riesce a vivere. 7) Zappo finché non giunge la notte. 8) Per vestirmi ho soltanto questi pantaloni. 9) Faccio qualsiasi lavoro, corro da chi mi cerca. 10) Non indugio, non mi risparmio quando c’è da fare. 11) Nena (sicuramente ipocoristico per “Nazarena”) è astuta, e anche Giuseppe s’inge- gna, riempendo cavagni e facendo fasci di gramigna. 12) Filare. 13) Non ho bisogno di spendere. 14) Se accendo un lume, è sempre in procinto di spegnersi, a causa del “poco e cattivo olio che ci mette” (nota del Gaddi). 15) Non so cosa siano la sbornia o il gioco. 78 XXXV. Sempre di male in pejo1

Che comido ch’adera nell’istati D’aicci sotto Cìta l’arborati2, Che d’arrosticci ar sole eran dijeto3: Immice d’ann’aanti, annamo arreto4.

Lo sbasso ch’onno fatto st’ammazzati È ripito da rennici sfiatati5 Che, parrancà stassù ‘gna facci ‘r peto6: Immice d’ann’aanti, annamo arreto.

I muri ‘ncò der punte so’ spiommati, E in menso c’è ‘no spacco più d’un deto7: Immice d’ann’aanti, annamo arreto.

Currìmo8 su a ppagà mma’ nostri pati9 Braissimi a pulicci ‘r castagneto10, Che immice d’ann’aanti, annamo arreto.

1) Di male in peggio: “Per ricostruire la strada che conduce a Civita, fu d’uopo atterrare tutte le piante ombrifere che lateralmente esistevano, e quindi fare uno sbasso che a gran fatica or vi s’accede” (nota del poeta). 2) Che comodità era, durante le estati, avere degli alberati sotto (la rupe di) Civita. 3) Divieto (?). 4) Invece di andare avanti, di progredire, andiamo indietro, regrediamo. 5) Lo sbasso che hanno fatto questi rompiscatole, è tanto ripido da sfiancarci (lett. “ren- derci sfondati”). 6) Per salire costassù ci vuole un peto. 7) Anche i muri del ponte sono spiombati, e in mezzo c’è una spaccatura larga più di un dito. 8) Corriamo. 9) “Gli amministratori municipali” (nota del poeta), lett. “padri”. 10) Bravissimi a far piazza pulita, a portarci via tutto. 79 XXXVI. ‘R vitello che mucce1

Presto, pe’ carità, curri2 Bïello: Gola sur campanile come ucello3: Mira ddo’ ‘à4 cche, s’anche un grignolello S’aspetta, nun si troa più ‘r vitello.

Uh! s’issi dato retta5 ma Petello, No’ nun mi succidia6 sì gran fraggello Da fammici crepà quarche budello Pe’ curra a richiappì ‘sto farfarello7.

‘R patrone poi dirrà8: senza ciarvello! Uscìa9 da la mì’ ’igna10, ch’ar cancello ‘L catorcio non mittisti11 nè ‘r puntello!

E allora che farò? Quer zizichello Di terra s’issi a perda cur vitello, È mejo che m’ampicchi a un traicello12.

1) Il vitello che fugge. 2) Corri! 3) Vola sul campanile come un uccello! 4) Guarda dove va! 5) Se avessi dato ascolto. 6) Non mi sarebbe successo (lett. “non mi succedeva”). 7) Tanto da farmi esplodere le interiora (per la fatica), per correre a riacciuffare questo farfarello (in questo contesto: “bestia poco docile e mansueta”?). 8) Il proprietario poi dirà. 9) “Uscìa: Fuori” (nota del poeta). 10) La mia vigna. 11) Non mettesti il catenaccio. 12) Se dovessi rimetterci la mia piccola proprietà terriera, sarebbe meglio impiccarmi a una travicella.

80 XXXVII. ‘R munumento di san Minintura1

Ho visto don Astefino2 e ‘l sor3 Lia Sartà come crapetti dar cuntento4, Perchè san Minintura ha un munumento Che ppe’ bellezza proprio nun s’arrìa5.

Difatti ‘r culunnone adè un purtento: Ci sò quell’ariliei6 che, perdia7! Se li putissi aì min casa mia, Ciorrebbe fa’ ttrisori di spaento8.

La [statua] po’ che ritta9 sta llì sopra (Lo dico proprio forte e non adulo) Adè del sor Aureli10 un capo d’opra11.

Ma acciò nun mi credestara12 un mitulo, ‘Gna13 c’un difetto tanto ve lo scopra: Quer Santo mar su’ Cìta vorta ‘r culo14.

1) Il monumento di San Bonaventura. 2) Don Stefano. 3) Signor (titolo di rispetto). 4) Saltare come capretti per la gioia. 5) In quanto a bellezza è inarrivabile. 6) “Bassi rilievi” (nota del poeta). 7) Eufemismo d’imprecazione. 8) Se li potessi avere a casa mia, ne vorrei fare grandi tesori. 9) Dritta, eretta. 10) Il signor (Cesare) Aureli: “Chiarissimo scultore” (nota del poeta). 11) Capolavoro. 12) Credeste. 13) Occorre, bisogna. 14) “Ossia: volta le spalle a quella contrada ove nacque” (nota del poeta), ovvero Civita.

81 XXXVIII. L’aria barsamica di Cîta1

Porpa2 è quest’aria si po’ ddì senz’osso: L’acque stagnanti ccà di cchì nun sone, Quelle der celo sculino ar caone E un brao pezzo sta lontano ‘r fosso3: Porpa è quest’aria si po’ ddì senz’osso.

Scagno che giallo, c’emo ‘r viso rosso4; Sgruninellato5 nun c’è curnicione6, Gnun de straecchi marcia cur bastone, Chè ribbustezza l’onno sempre addosso7: Porpa è quest’aria si po’ ddì senz’osso.

Si po’ magnane pejo d’un lupone8, Chè manco i chiodi fònno9 indigistione, E doppo magno10, gnuno ha ‘r corpo smosso: Porpa è quest’aria si po’ ddì senz’osso.

A celo aperto se tu dormi ‘ncone11 Scarso e sbracato su di ’che12 scalone, Free di nuelle po’ vinitti addosso13: Porpa è quest’aria si po’ ddì senz’osso.

1) L’aria balsamica di Civita. 2) Polpa. 3) Qua non ci sono acque stagnanti; quelle che vengono dal cielo scolano in fondo al calanco, e il fosso è situato a una certa distanza. 4) Invece che giallo, abbiamo il viso arrossato. 5) Privo di rondini. 6) “I cornicioni e le gronde dei tetti di Civita sono quasi tutte gremite di rondini, le quali rendono vieppiù salubre quell’aria” (nota del poeta). 7) Nessuno, tra i più anziani, va in giro con il bastone, poiché sono ancora robusti, in forze. 8) Si può mangiare più di un lupo (accr.). 9) Provocano, fanno. 10) Dopo aver mangiato. 11) Ancora. 12) Qualche. 13) Non ti verrà affatto la febbre. 82 XXXIX. La mostra de le rilichie1

Guarda che sciamo curre jò da Rota2 P’aì le ciarde e li ciammelli3 a scrocco!4 L’ònno troato ‘sto paese alocco Ch’a chi dà carci fa la sopraddota5.

Bomma! scummitti che manc’un buocco Caccino fòra, e la saccoccia ‘ota L’empino su p’arimaggnacci a Rota6, Doppo trattati proprio a pipp’i cocco7?

Ma si capisce: testi brai scroccanti Vienghino solo che p’untà la gola, E no ppe’ veda arzà ccajò li santi8.

Se ppe’ disgrazia9 mi chiamao Nicola, Allora forse mi passaino aanti10; Ma ciò ‘l ciarvello e pòzzo11 fà la scola.

1) La mostra delle reliquie. Vd. nota 4. 2) Guarda che folla (lett. “sciame”) viene da Rota (vd. VI, nota 4), correndo. 3) Per avere ciarde e ciammelli (dolci tradizionali bagnoresi). 4) “Nel dì che mostransi le reliquie dei santi, usa che i civitonici passano ai padroni ed agli amici di Bagnorea un rinfresco di vino, cialde e ciambelle” (nota del poeta). 5) Hanno trovato questo paese sciocco (lett. “allocco”), che tratta benissimo chi lo mal- tratta (lett. “prende a calci”). 6) Bomma (sopr.)! Scommetti che non tirano fuori neanche un soldo (lett. “baiocco”), e riempiono la tasca vuota per mangiarci di nuovo a Rota? 7) Dopo che li abbiamo trattati nel migliore dei modi: “Dal gergo dei fumatori: loro ideale la pipa di cocco” (nota del Gaddi). 8) Questi bravi scrocconi, vengono soltanto per mangiare (lett. “ungere la gola”) e non per veder inalzare le immagini sacre (vd. nota 4). 9) Disgraziatamente, sciaguratamente. 10) Mi potevano buggerare, trarre in inganno. 11) Posso. 83 XL. ‘Sto munno è ‘na ‘all’i pianto1

Mà gnuna2 casa manca ‘l tribbilane3: Chi s’ arruella pe’ ‘n aì l’erede, Chi pe’ buocchi jocarìa la fede Chi manco un pelo si po’ sdijunane4: Mà gnuna casa manca ‘l tribbilane.

Pe’ mmorti, liti, malatie o pagane5 ‘Che vvorta frigge sino chi pussiede6; Mellà ’che fijo mar su’ pà nun crede7, E da stì nasce un gran tarapatane8: Mà gnuna casa manca ’l tribbilane.

Chi pe’ ‘iziacci presto fa cappotto9, Chi pe’ l’amore o gelusia è stracotto, D’unguidia10 o rabbia che s’attosca11 ‘r pane: Mà gnuna casa manca ‘l tribbilane.

Batte la sorfa quì ‘r marito cotto, Qua la servetta mucce12 cur fagotto13, Là ddù14 fratelli sono ‘r gatto e ‘r cane: Mà gnuna casa manca ‘l tribbilane.

1) Questo mondo è una valle di pianto. “Da notare che nel dlt. si ha anche monno. ‘L’o e l’u (diceva già il Varchi) hanno gran somiglianza, e si pongono spesso l’uno per l’altro’” (nota del Gaddi). 2) In nessuna casa. 3) Il soffrire, il tribolare. 4) Chi si arrovella il cervello per non avere eredi, chi per denaro (lett. “baiocchi”) si giocherebbe l’anello nuziale, chi non può neanche interrompere il digiuno. 5) A causa di morti, liti, malattie e pagamenti (lett. “pagare”). 6) Talvolta soffre anche chi dispone di qualche proprietà. 7) Qualche figlio non crede a suo padre, ovvero “[n]on obbedisce” (nota del Gaddi). 8) “Suono onomatopeico per significare peggio che confusione” (nota del Gaddi). 9) Chi perde tutto a causa dei viziacci. 10) Invidia. 11) Avvelena, intossica. 12) Fugge. 13) “Della refurtiva” (nota del Gaddi). 14) Due. 84 XLI. ‘R daguirotipo1

Cisummaria2 c’ho visto a Mercatello3!… Un coso fatto come un cassettone Ch’adà4 tre zampe sotto e un occhialone Che va su e jò toccanno un giocarello5.

Un mago po’6, c’un cencio sur cappello, S’è messo a sprumirà millì gorpone7; E doppo fruzzicato millì popòne, È rrento ma la casa di Petello8.

Viscito, doppo un pelo, da milline, Ha mostro su d’un vietro ariscurpito ‘L frabbicato di Cìta e le ruine9.

Appena che però millì ho capito Che ‘r diaolo fa ‘ste cose da stordine10, Cur santo sign’i croce so’ muccito11.

1) Il dagherrotipo (macchinario in uso nell’Ottocento, precursore delle odierne macchi- ne fotografiche). 2) Gesummaria. 3) Mercatello, piccola borgata situata dirimpetto a Civita; già Mercato, contrada dell’an- tica Città di Bagnorea. 4) Che ha. 5) Toccando un particolare della macchina. 6) Poi. 7) Accovacciato, rannicchiato, “imitando la volpe nello abbassarsi per nascondersi” (nota del Gaddi). 8) E dopo aver armeggiato per un po’, è entrato nella casa di Petello (sopr.). 9) Dopo un po’ di tempo, uscito di lì, ha mostrato impresso su un vetro il fabbricato di Civita e le rovine. 10) Stordire. 11) Facendo il santo segno della croce sono fuggito. 85 XLII. ‘R gioco de’ lotto

Ci ’ò1 ppe’ Battifoja un manganello Ch’ à lotto gioca ‘ncò le su’ ciaatte2: Vincesse quarche vorta, transiatte; Ma sempre ci dienta più porello: Ci ò ppe’ Battifoja un manganello.

S’aisse cuminciato da munello A empicci cun que’ sòrdi le pignatte, A forz’ì culumie lì rrento appiatte, Putìa vinì più ricco di Petello3: S’aisse cuminciato da munello.

Adesso che ci si pente del marfatto, L’ha ditto a mmì piagnenno in più d’un loco4: Pe’ smania d’arricchì, vo ppe’ l’accatto5: Adesso che si pente del mar fatto.

Chi squaja li buocchi ma ‘sto gioco, Si rassumija proprio ma run matto Che tutta la su’ casa manna a foco6: Chi squaja li buocchi ma ‘sto gioco.

1) Occorre, ci vuole. 2) Scommette al gioco del lotto persino le ciabatte. 3) Se avesse iniziato da bambino a fare economia, a riempire di denaro quelle pentole di terracotta, grazie ai risparmi nascosti sarebbe stato più ricco di Petello (sopr.). 4) Me l’ha detto piangendo, in più di un luogo. 5) Sono costretto a chiedere l’elemosina. 6) Chi dissipa il proprio denaro (lett. “scioglie i baiocchi”), ricorda un matto che incen- dia la propria casa.

86 XLIII. Mà un ricco aaròne1

Ho chiesto mà qquer cane scellerato Dù stari2 di granturco, da scuntassi3 Cur cao de la rena e de li sassi Quanno arimitte mano al frabbicato4;

E acciò che nun timisse di grattassi5, Perchè so’ porettuccio6 (ma onorato) L’urlogio der mi pate jò portato; Ma chene? Ho fatto bucia e butto i passi7.

Che core de tiranno! Me ne ‘ncaco8! M’ha dditto: di credenze nun fo un pelo9! ‘Gnarebbe fussi10 matto od ubbriaco!!!

Però c’è a tant’i lettre mar mancelo: Mejo ‘r camelo po’ viscì p’un aco, Che un ricco senza core entrà mar celo11.

1) A un ricco avarone. 2) Due stai (unità di misura per aridi). 3) Scontarsi. 4) Quando torna a lavorare al fabbricato, ci rimette mano. 5) E affinché non tema che non paghi i miei debiti. 6) Poverello. 7) Gli ho portato l’orologio di mio padre. Ma a che è servito? Ho sprecato il mio tempo (lett. “buttato i passi”). 8) “Non sento niente” (nota del Gaddi); più probabile il significato “me ne infischio”. 9) Mi ha detto: non faccio credito. 10) Dovrei essere. 11) C’è scritto a tanto di lettere nel Vangelo: è più probabile che un cammello esca da un ago, che un ricco senza cuore vada in paradiso. “Per la cruna [dell’ago], s’intende” (nota del Gaddi).

87 XLIV. L’amici pe’ l’interessio1

Però ‘sto munno2 come fatto adène! Se sici [?] di robba e di buocchi adorno, D’amici un branco ti si schiaffa attorno3 Cur mele4 in bocca a fatti mille scene: Però sto munno come fatto adène!

Finchè tu porti le saccocce piene5 E a buttà llane6 nun ci badi un corno, Cun gran rispetto ti dirron7 «bbon giorno: Oh lle ciò gusto di vidivvi bene8!» Però sto munno come fatto adène!

Se ppo’ la sorte t’abbannuna un poco, Manco pe sieda ti s’offrisce un loco; E gnuno allora ti po’ più vedene9: Però sto munno come fatto adène!

Brutto passane è da guardiano a coco10; E chi ha proato a spese sue ‘sto gioco, Nun pò fà a meno di scramà cu mmène11: Però sto munno come fatto adène!

1) Gli amici interessati. 2) Mondo. 3) Se sei ricco (lett. “adornato”) di cose e di denaro (lett. “baiocchi”), una grande quan- tità di amici ti circonda. 4) Miele. 5) Finché hai le tasche piene. 6) Ossia “a buttar là, a spendere senza misura, e anche regalare” (nota del Gaddi). 7) Diranno. 8) Come sono contento di vedervi in salute, in buone condizioni. 9) Se la fortuna ti abbandona per un po’, non ti offrono neanche un posto per sedere, e nessuno ti può più vedere. 10) È brutto, da guardiano, diventare cuoco: “Dal gergo fratesco: un tempo realmente nell’Ordine Minoritico potevasi passare da guardiano a cuoco” (nota del Gaddi). 11) Esclamare insieme a me.

88 XLV. La free1

Poretto mì2 (pu pu pu) che free! Nun pòzzo piune3 (pu pu pu) un trimore Li strabarzoni mi fa aì mmar core4, E mma le cianche sent’un fredd’i nee5.

Ddo’ e ddo’ ene6?… Presto cchì un dottore: Oh! ‘sto malanno (pu pu pu) mi bbee7: Gnun p’aggiutammi aricusà si dee8; Sinnò ’r pueta di micchì vvi more!

Senza rimmejo va a pijà ’r somaro, Po’ cur dottore porta giù ’m po’ ciccia9, E pe’ crompalla10, toh! Pija ’r dinaro11.

Se quarchiduno (pu pu pu) s’ampiccia D’addimannatti12 «chi sta mal neh carò?» Diji: fra ca…13! (pu pu pu) po’ alliccia14.

1) La febbre. 2) Povero me. 3) Non ne posso più. 4) Mi fa venire i sussulti al cuore. 5) E alle gambe avverto un freddo intenso (lett. “freddo di neve”). 6) Dove va e dove viene. 7) Mi affligge (lett. “mi beve”). 8) Nessuno deve rifiutare di aiutarmi. 9) Senza esitare vai a prendere l’asino, poi, insieme al dottore, portami un po’ di carne. 10) Comprarla. 11) Prendi i soldi! 12) Se qualcuno s’intromette e ti domanda. 13) Autocensura del poeta per fra cazzo “nessuno”. 14) “Alliccia: tira via” (nota del poeta).

89 XLVI. Imitanno l’antinati1

Mirà!2 quer cellettone3 su la porta: Le grolie4 der paese ci rammenta Di quanno Pirro e Vanno nun l’han venta5 E muccino currenno a coa torta6.

E tusì ’gna rifà: cur una spenta Frullà jò ppe’ caoni quella sorta Di gente che i porelli nun ascorta E di succhiaji ‘r sangue nun allenta7.

Vi pare sia ‘n pruceda8 da cristiani? Se vonno in ch’astro loco9 ‘sti demoni, Ji attacchino ‘r bidone come a’ cani.

Se ‘r nostro suppricane10 è donca invano, Mannamo Bomma a Roma acciò spironi Pe’ facci mitta sotto a Lubriano11.

1) Imitando gli antenati. 2) Guardate! 3) “Sulla porta di Civita v’è effigiata un’aquila con due leoni sotto i suoi artigli, i quali simboleggiano gli eserciti Baglioni e Monaldeschi sconfitti dai bagnoresi lorché tenta- rono di soggiogare la città” (nota del poeta). 4) Glorie. 5) Pirro Baglioni (signore di Castel di Piero, l’odierno San Michele in Teverina) e Van- no Monaldeschi (del ramo della Cervara, di Orvieto) non l’hanno avuta vinta. 6) Scappano con la coda tra le gambe (lett. “a coda torta”). 7) E bisogna fare nuovamente così: spingere in fondo ai calanchi quella sorta di gente che non ascolta i poveri e non smette di succhiargli il sangue. 8) Seguitare, procedere. 9) Se vanno altrove, in qualche altro luogo. 10) Supplicare. 11) Mandiamo Bomma (sopr.) a Roma affinché sproni, faccia pressione per farci diven- tare frazione di Lubriano, “[c]omunello a un tiro di fucile da Civita” (nota del Gaddi).

90 XLVII. Gelusia di campanile

Pejo di schiaa adè trattata Cîta Da certa razza mellassù di Rota1; E se sinanta vo’ ‘r bicchino Rota Caccià ‘r cappello ji cummiene a Cîta2.

L’ojo a bizzeffe nun arebbe Rota Senza l’ulii de la ‘all’ i Cîta3: E sse’ che santo nun scappìa da Cîta Manco ‘na festa ci putìa fà a Rota4.

Se un furistiero fa scaarco a Rota, Subito arrìo curre a veda Cîta, Che soprastaa ma la cuntrad’ i Rota5.

Sinanta ‘l Cristo se nun desse Cîta La pricissione6 nun brillaa7 su a Rota; Eppò8 ‘r macello s’ha dda fà9 ddi Cîta?!

1) Civita è trattata peggio di una schiava dagli abitanti di Rota (vd. VI, nota 4). 2) E fin quando Rota vuole un becchino, le conviene portare rispetto a Civita (lett. “to- gliersi il cappello di fronte a Civita”). 3) Rota non avrebbe olio a bizzeffe se non fosse per gli olivi della valle di Civita. 4) “Quella borgata ha vantato di essere culla di tutti i santi concittadini” (nota del poeta). “Civita fu la culla di tutti i santi concittadini: S. Bonaventura, S. Ildebrando vescovo di Bagnoregio, S. Bernardo vescovo di Castro e, fino a prova contraria, S. Leone Magno” (nota del Gaddi). 5) Se uno straniero giunge a Rota, appena arrivato corre a vedere Civita, che sovrastava la contrada di Rota: “Rhoda da oltre a due secoli dipendeva dalla borgata di Civita” (nota del poeta). 6) “Pe la rinnomata [sic] processione del Cristo morto, Bagnorea fa uso del simulacro di Civita” (nota del poeta). Nell’edizione del 1932, si specifica che “Bagnoregio fa uso del Crocefisso, splendido e veneratissimo, dell’antica Chiesa Cattedrale di Civita” (nota del Gaddi). 7) Non eccelleva. 8) E poi. 9) Si deve fare.

91 XLVIII. ‘R fiotto è libboro1

Se penso mar Communo quanto è brao2 Ner metta jò le paghe ppiù non pòzzo3, Veleno mi dienta anche quer tozzo Che a stento fo guiscì dar tafanao4, Se penso mar Cummuno quanto è brao. S’arrio ‘che giorno o l’astro a votà ‘r gozzo5, L’aete da sintì6 che pipinao: Ma’ furni vojo anna, ma’ ‘gni telao7 Anche a svià le donne da st’abbozzo, S’arrio ‘che giorno o l’astro a votà ‘r gozzo. Stassù cionno8 canali, acqua e lampioni, Cirusichi, brae strade e scole e banna9; E noi stemo micchì a fa li minchioni10? Stassù cionno canàli, acqua e lampioni. A Rota solo è ‘r pioa de la manna; Micchì gragnola e furmini cun troni11: S’è cagna12 ‘sta mitropili13 in cappanna14: A Rota solo è ‘r pioa de la manna?!

1) Il lamento è libero. 2) Se penso a quanto è bravo il comune. 3) Posso. 4) Anche quell’escremento che faccio uscire a stento dal deretano. 5) Se un giorno o l’altro arrivo a dire ciò che penso (lett. “arrivo a svuotare il gozzo”). 6) Dovete sentire. 7) Voglio recarmi ai forni, a ogni “telaio, dove prima, quasi in ogni casa, si tesseva, dalle donne, la canapa e il lino” (nota del Gaddi). 8) Hanno, possiedono. 9) Medici, belle strade, scuole e banda musicale. 10) E noi siamo qui a fare i tontoloni. 11) Grandine e fulmini con tuoni. 12) È cambiata, mutata. 13) “Il terremoto, cui nuovamente Civita soggiacque l’11 giugno 1695, fu causa che il vescovo col seminario e il capitolo, tutti i pubblici funzionari ed i primari cittadini si stabilissero nella contrada di Rhoda, ossia Bagnorea; ed è per questo che i civitonici tutt’ora belano in lor linguaggio: micchì, micchine adera la mitropili!” (nota del poeta). 14) Capanna. 92 XLIX. ‘No specch’i prete1

Don Fiordinanno2 adè ‘no specch’i prete: Abbusca ’r tozzo3 cu’ le su fatiche, Nun dà fastidio manco4 a le furmiche E a tutti incurca di sta in pace e in chiete5: Don Fiordinanno adè ‘no specch’i prete.

Ch’aja girone6? Ma nun ci credete, Né a murmurane là ppe’ le buttiche7; Ortre ‘r duere nun cià donne amiche E i birbi dorce sa tirà a la rete8: Don Fiordinanno adè ‘no specch’i prete.

Nun cià la mutria, sibbene è dotto9: gran caritane10 sa fà zitto e chiotto: Tutt’astro pensà che insaccà munete11: Don Fiordinanno adè ‘no specch’i prete.

Quanno ‘che galla vole di’ ch’è jotto12, Corpo d’un cane! Ji daria ‘r pilotto13: Spenne14 der suo: embè che ci ‘olete15? Don Fiordinanno adè ‘no specch’i prete.

1) Un prete ineccepibile (lett. “uno specchio di prete”). 2) Don Ferdinando. 3) Si guadagna il pane. 4) Neanche. 5) Quiete. 6) “Che vada troppo girando?” (nota del Gaddi). 7) Non ci credete! Non va neanche a sparlare, a mormorare dentro le botteghe. 8) Non ha donne amiche, se non per necessità, e sa trarre in inganno i birboni. 9) Non ha mutria, sfrontatezza, sebbene sia dotto. 10) Carità. 11) Pensa a tutto fuorché a intascare denaro. 12) Ghiotto. 13) Lo tormenterei. 14) Spende. 15) Volete. 93 L. La strada de’ Punticelli1

Mirà! qque’ Punticelli so’ ‘na trappila: Ma’ trai che stonno sopra se si sbottila, Credetelo ma mmì (nun dico frottila) ‘Che poro batizzato ci si sfrappila2.

Eppure già l’isimpio3 c’è di Nottila Che, retto dar sumaro e da la nappila, Durette4 a ffà per aria tippe e tappila Finchè nun curse gente a li su fiottila5.

Aanti che ‘r cunsijo vaja a rottila6, Priposta tocca a voi millì di mittala Pe’ ffà jo’ qque’ laori che si sbottila7.

Sinnò (cum’ònno ditto ma ‘na bittala, Ddo’ spesso der Communo si borbottila) Fariste la figura d’una cittala8.

1) I Ponticelli (top. uff.) erano un percorso, ormai intransitabile, ricavato grazie al po- sizionamento di alcune travi sugli scrimoli dei calanchi. La “strada” consentiva di rag- giungere, partendo da Civita, altre località della valle. 2) Guardate! Quei Ponticelli sono una trappola: se qualcuno urta le travi che vi sono posizionate, credetemi, non dico una frottola, qualche poveraccio (lett. “povero battez- zato”) finisce a brandelli. 3) Esempio. 4) Resistette, durò. 5) Finché non accorse gente, richiamata dai suoi lamenti: “L’asino nel precipitar dai burroni, conficcò i piedi tra polta cretacca; Il Nottola [sopr.] poi (cui per bona sorte non isfuggì di mani la cavezza) rimase lì dondolando a mezz’aria finchè non corse gente a liberarlo” (nota del poeta). 6) “Prima che smettansi le adunanze municipali” (nota del poeta). 7) Occorre che voi avanziate proposta di fare “quei lavori per cui si batte (si sbottila) e si preme” (nota del Gaddi). 8) Altrimenti, come hanno detto in una bettola, dove si borbotta spesso a proposito del comune, fareste la figura di una bimba.

94 IL GLOSSARIO DEL GADDI: DESCRIZIONE E CRITERI D’EDIZIONE

A corredo della riedizione dei sonetti di Bocella, Alessandro Gaddi aggiunse una raccolta di voci, intitolata semplicemente “Glossario” (Pa- parozzi 1932:125-135), allo scopo di favorire la comprensione dei versi del poeta1. Si è pensato di riproporre il lemmario, dopo essere intervenuto a vari livelli, sia per costituire una pur minima base per ulteriori ricerche lessicali, che per ricavare una più completa visuale delle conoscenze dia- lettali dello studioso bagnorese, che si confermano amatoriali e non sorret- te da metodologie scientifiche. Il glossario originale include 221 entrate, con lemma in grassetto e iniziale maiuscola (qua riportata a minuscola), generalmente prive di qua- lifica grammaticale (aggiunta o uniformata a criteri più coerenti in questa sede, ma ne restano prive le voci anche di lingua) e organizzate con qual- che incongruenza, soprattutto per quanto attiene le voci verbali2. I termini dialettali e la scarna fraseologia3 presenti sotto alcuni lemmi sono, in genere, in carattere corsivo, mentre traduzioni, spiegazioni e com- menti aggiuntivi del Gaddi appaiono in carattere tondo4.

1) Si noterà come alcuni dei termini glossati non compaiano nei cinquanta sonetti ori- ginali (Paparozzi 1903), riprodotti in questo volume, poiché il Gaddi li ha estrapolati dai componimenti inediti inclusi nella propria riedizione (Paparozzi 1932). Si vuole poi segnalare come ulteriori spiegazioni e traduzioni siano state inserite dal Gaddi in nota, a corredo di alcuni sonetti, talvolta con rimandi al glossario. Si è tenuto conto di queste annotazioni senza, tuttavia, inserirle nella presente edizione del lemmario poiché ne avrebbero alterato profondamente la struttura che, per quanto possibile, si è cercato di rispettare. 2) Per “avere”, ad esempio, si ha un totale di 6 lemmi: 2 per l’infinito (aé, aì) e 4 per le forme verbali (adai, ajja, éssino, éte), ognuna con traduzione propria. Per “volere”, invece, manca l’infinito, e le relative voci, separate da virgola, costituiscono un’unica entrata (òjjo, òle, ò). 3) Gli esempi fraseologici forniti sono, di norma, estrapolati dai sonetti, ma il Gaddi rimanda soltanto in pochi casi ad essi, tramite l’apposizione di numero romano, tra parentesi tonde. Vista la non sistematicità dei rinvii – che, peraltro, fanno riferimento all’ordine dei componimenti prescelto dallo studioso per la sua raccolta, diverso dall’o- riginale (Paparozzi 1903) – si è però deciso di sopprimerli. 4) Nei casi in cui lo studioso abbia utilizzato, per i termini dialettali bagnoresi, il carat- tere tondo, se ne è uniformata la grafia ripristinando il corsivo.

95 Il sistema di scrittura utilizzato dallo studioso è, naturalmente, lo stes- so impiegato nei sonetti. Si è perciò pensato di fare uso, in questa edizione, della grafia fonetica semplificata5, favorendo, in questo modo, il confronto con altri repertori linguistici6. Eventuali forme dubbie – ad es. per quanto riguarda il timbro dell’accento tonico – sono state segnalate ponendole tra parentesi graffe ({}). L’infinito dei verbi è talvolta presente in veste italianizzata (abbadare, grattarsi, ecc.) e, in altri casi (ad es. guiscì “uscire”), nella forma utilizzata dal poeta, più fedele all’uso orale. Si è deciso di intervenire ripristinando la forma tronca (abbadà), oppure, nei verbi riflessivi o intransitivi prono- minali, la tradizionale uscita in -ssi (grattassi). Qualora un infinito non risultasse immediatamente ricavabile dal glossario o dai testi del poeta, si è fatto uso di una voce ipotizzata (di nuovo tra parentesi graffe); nei casi più insidiosi, si è invece preferito ricorrere alla forma attuale (tra parentesi uncinate: <>). Non sono chiari i princìpi che hanno ispirato la compilazione della raccolta: a fronte della presenza di alcuni termini facilmente decifrabili, almeno da parte di chi disponga anche di blande conoscenze delle parlate dell’Italia mediana (dòmo, faciòli, peparóne, ecc.), si nota l’assenza di voci che avrebbero forse richiesto qualche spiegazione, quali, ad esempio, farfarèllo “sorta di spiritello” “mulinello d’aria” (ma anche con altri signi- ficati; cfr. it. lett. “farfarello”), mulàccia “ragazza”, scagno “invece”, ecc. Tra i termini glossati, alcuni meriterebbero ulteriori approfondimenti, visto che, salvo errori da parte del ricercatore, mancano o scarseggiano ri- scontri nelle parlate dell’area viterbese-orvietana. Si vedano, ad esempio, almeno arimmejjassi, calata, cruculuzza, frillippa, sughijjo, zzizzichéllo7. Altre forme elencate sono, verosimilmente, neologismi del poeta – ovvero sue creazioni, non corrispondenti all’autentico uso orale –, che pe- raltro si trovano esclusivamente in corrispondenza di rima (abbijjo, nàppi- 5) Il sistema prescelto consente, tra l’altro, di segnalare il timbro degli accenti tonici e il rafforzamento di certe consonanti iniziali sia dopo silenzio che in posizione sintattica. 6) Nel trasporre le voci nel sistema di grafia prescelto, si è tenuto conto sia della parlata attuale che delle raccolte lessicali dei centri limitrofi. Di qualche utilità sono risultate, poi, alcune registrazioni dei versi del Paparozzi – recitati a memoria o letti ad alta voce da informatori bagnoresi e civitonici –, effettuate nel corso dell’inchiesta. 7) Interessante è pure, da parte del Paparozzi, l’impiego del sostantivo pilo, glossato correttamente dal Gaddi come “sepolcro, tomba”, e presente in alcuni vocabolari di lingua, sia pure come voce antica.

96 la, tippe e ttàppila, ecc.). Per certi termini sono presenti più varianti fonetiche o formali. Il Gaddi le ha registrate, in genere, come entrate separate (ad es. arïurticà e rïurticà)8, ma anche come un unico lemma, separate da virgola (fòra, fòri). Assai incorente è pure il trattamento delle espressioni dialettali, a volte presentate all’interno dell’impianto fraseologico (ad es. fà bbùcia, s.v. bbùcia), ma in numerosi casi poste per intero a lemma (fà ccappòtto, fà la ggiòstra, gabbacci r pane, ecc.). Si è pensato di intervenire sulle incongruenze del lemmario riorga- nizzandolo nel seguente modo: a fianco del termine principale, in carattere tondo e in grassetto, appaiono le relative varianti, in corsivo; queste sono altresì presenti in ordine alfabetico, nella stessa veste grafica del lemma principale, a cui rimandano tramite apposito simbolo (→). Lo stesso pro- cedimento è stato utilizzato per le voci verbali, che rimandano ai rispettivi infiniti, sotto i quali vengono tradotte in lingua9. Qualora, come già rileva- to, il Gaddi abbia posto a lemma una costruzione, la relativa entrata è stata soppressa e sostituita dal termine di maggiore interesse, e quindi reinserita come esempio fraseologico (ad es. la locuzione fà ccappòtto appare, ora, s.v. cappòtto). Si includono, tra parentesi quadre ([]), alcune integrazioni alle dichia- razioni dello studioso, talvolta costituite da circonlocuzioni (caóne, frullà, ecc.), in altri casi sommarie (cummatta, mazzafrusto, ecc.) o parziali (ma, gna, ecc.), in qualche caso errate (spiccicato)10. Non mancano, sotto alcune voci, tentativi di etimologia, ovvero di ri- cerca delle origini di un termine. È bene avvertire il lettore non specialista

8) In presenza di varianti fonetiche o formali, il Gaddi ha in qualche occasione di- chiarato nuovamente il significato, rimandando comunque al lemma principale, tramite l’abbreviazione “v.”; in altri casi è presente soltanto detto rinvio. 9) Questo intervento non è però stato effettuato sulle forme del participio passato poste a lemma, quali, ad es., abbijjo, adórno, ariscurpito. 10) Si sottolinea come, in qualche caso, il Gaddi, nel tradurre le forme dialettali, oppure nel tentativo di spiegarne le origini, ricorra a lessemi che, pur risultando, in massima parte, presenti nei vocabolari di lingua, sono da questi contrassegnati come termini del toscano (“merìa” s.v. maréa, “sgrígliolo” s.v. grignoléllo), delle parlate dell’Italia centrale (“frappa” s.v. sfrappilassi, “zinzino” s.v. zzizzichéllo), oppure d’uso letterario o dialettale (“piche” s.v. picà). Tuttavia, in nessuno di questi casi lo studioso fa riferimen- to all’impiego circoscritto di tali voci, che sembra trattare come comuni termini della lingua nazionale.

97 della non affidabilità di tali annotazioni, poiché basate su metodologie non rigorose, con risultati, nella stragrande maggioranza dei casi, immediata- mente contestabili (cifèca, lanca, ma, ecc.)11. Oltre alla presenza di alcuni appunti grammaticali (s.v. ari-, llà, -ne, ecc.), si registrano sporadiche citazioni letterarie (s.v. bbatistèo, gabbà, ecc.) e, talvolta, raffronti più o meno pertinenti con altri dialetti, soprat- tutto con quelli della Toscana (s.v. inorcà, mitule, -ne) e con il romane- sco (s.v. cifèca, frillippa, vassallóne), ma anche con l’antico siciliano (s.v. -ne), il napoletano (s.v. sughijjo) e il romagnolo (s.v. sarnacà)12. Purtroppo mancano riferimenti ai vernacoli dei centri limitrofi, né vengono segnalate eventuali differenze tra il lessico civitonico e quello del capoluogo comunale. Il Gaddi, sotto determinati lemmi, segnala però altre voci della parlata locale (s.v. arrossicà, cifèca, ecc.), anche queste ora disponibili come entrate autonome e dichiarate entro parentesi quadre. Alle voci “gaddiane” sono state aggiunte, inoltre, altre forme utiliz- zate dal poeta, contrassegnate con asterisco (*) e trattate come varianti formali13. Sul glossario è stata effettuata, infine, un’ulteriore serie di interventi. Il lemmario è stato riordinato secondo il corretto ordine alfabetico, e gli esempi fraseologici, così come le voci verbali, sono stati separati da barra verticale (|), mentre la doppia barra verticale (||) è stata utilizzata per sepa- rare alcune sezioni aggiunte al lemma. La prima sezione addizionale even- tualmente presente include riscontri con i materiali personalmente raccolti nel Bagnorese14, corredati da apposite sigle:

B = Bagnoregio; CB = Civita di Bagnoregio; rust. = rustico (voce in uso nel contado)15.

11) Si è tuttavia deciso di non intervenire sulle parti dedicate all’etimo, anche perché l’operazione avrebbe richiesto, in più di un caso, trattazioni ben più estese e approfon- dite di quelle concesse dalla struttura del glossario. 12) Soltanto in qualche caso lo studioso ha citato la fonte bibliografica. 13) Queste varianti sono state estrapolate dall’intera opera del Paparozzi; alcune di loro sono pertanto assenti nei componimenti riprodotti in questo volume. 14) Fanno eccezione alcuni riscontri s.v. bbròscia, ggióine e maréa, per i quali sono state puntualmente citate le fonti. 15) Alcuni dei termini elencati sono antiquati, se non del tutto in disuso; in vista di ulteriori approfondimenti, ma anche per non appesantire la lettura, si è però stabilito,

98 Si avverte, tuttavia, che tali raffronti non sono sistematici, poiché ef- fettuati con i materiali che si avevano a portata di mano. Può seguire, poi, un’ulteriore sezione, nella quale si elencano, senza pretese di completezza, i riscontri con una selezione di lessici del Viterbe- se e dell’Orvietano, sia per mettere in evidenza la diffusione, più o meno ampia, di alcune voci, che per guidare il lettore a una migliore interpreta- zione del termine posto a lemma, in qualche caso scarsamente compren- sibile poiché in via di disuso o addirittura arcaico16. In questo spazio sono state utilizzate le seguenti abbreviazioni bibliografiche:

BL = Blera (Petroselli 2010); BO = Bolsena (C&T 2005); CC = Civita Castellana (Cimarra 2011); CNP = Canepina (C&P 2008); CT = Castiglione in Teverina (Corradini 2004); F = Fabrica di Roma (Monfeli 1993); FAS = Fastello (Frezza 2012); ORV = territorio orvietano (M&U 1992)17; VT = Viterbo (Petroselli 2009).

I rimandi interni del Gaddi sono stati soppressi e sostituiti da un’ulte- riore sezione, più coerente, nella quale si rinvia, con dicitura “vd. anche”, a voci riconducibili allo stesso etimo. Le sigle e le abbreviazioni utilizzate dallo studioso sono state rispet- tate, evitando sia di scioglierle che di dichiararne il significato, quasi sem- pre immediatamente comprensibile.

nella maggior parte dei casi, di non fornire notizie sulla frequenza o la vitalità delle voci stesse. 16) Nell’elencare le varianti di altre parlate si è evitato, anche per ragioni di spazio, di citare tutte le forme presenti nei lessici di riferimento; appaiono, in ogni caso, il lemma principale e le varianti più direttamente riconducibili alla forma bagnorese. Per esigenze tipografiche si è dovuto, in qualche caso (C&T 2005, Monfeli 1993), adattare la grafia utilizzata dagli autori al sistema di trascrizione fonetica semplificata. 17) Si ricorda come questo lessico includa, tra le località indagate, due centri della no- stra provincia, ovvero Acquapendente e Montefiascone.

99 La prima pagina del “Glossario” di Alessandro Gaddi (1932) GLOSSARIO (1932)

Alessandro Gaddi abbadà, v. intr., badare, guardare, nell’andare o tornare da un luogo stare attento || abbadà, bbadà (B) || [camminare svelto, andare di fret- abbadà, bbadà (BO 29, 37, ORV 1, ta]. Dal gergo delle tessitrici, che 58, VT 99, 169, BL 4, 106). allicciano, vale a dire dispongono abbijjo, v. tr., abbigliato. i licci, i quali servono per alzare abbuscà, v. tr., buscare, guada- e abbassare le fila dell’ordito, per gnare || abbuscà (B) || abbuscà, far subito la tela || alliccià “aizzare, bbuscà (BO 30, 41, ORV 4, 89, VT istigare” (B) || alliccià “camminare 103, 194, BL 9, 148), bbuscà (CC svelto, andare di fretta” (ORV 20). 78, F 78). annà, v. intr., [andare]: vajja, ajja, accoà, v. tr., accovare [italiani- a. [io vada]. b. egli vada || annà, smo] nel sign. att. di abbassare, nnà (B, CB) || annà (BO 33), annà, fare accovacciare, quindi supera- nnà (ORV 26, 325, VT 125, 407, re [fig.] || cfr. accoasse, accovasse BL 48, 495, CC 16, 397). “accovacciarsi” (ORV 7, 9), acco- annericà, v. tr., [annerire, scurire] vasse (VT 107, BL 16). || annericà (B) || annericà (CT 70). adai: → aé. appiattà, v. tr., nascondere l’og- adè: → èssa. getto adeguandolo al suolo, oppu- adène: → èssa. re al piano || appiattà “appiattire” adèra: → èssa. (B) || appiattà “nascondere” (BO adórno, v. tr., adornato. 33), “appiattire” (BL 62); cfr. ap- aé, aì, v. tr., lo stesso che avere: piattasse “nascondersi, mettersi in adai, tu hai | éte, voi avete | ajja, agguato” (VT 130) || vd. anche ap- egli abbia | éssino, essi avessero || piattóne. avé (B, CB) || aé (BO 31), aé, avé appiattóne, avv., nascostamente, (ORV 13, 55), avé (VT 165, BL propr. di chi si accovaccia per non 102, F 56). farsi vedere || appiattóne “fermo, aì: → aé. fisso, immoto” (B) || vd. anche ap- ajja1: → aé. piattà. ajja2: → annà. appiccime, s.m., esca da fuoco alliccià, v. intr., tirar via, far presto [legna minuta che serve per avviare

101 il fuoco] || appiccime (ORV 32, VT assajjà (F 55). 130, BL 63), appicciume (F 44). assutterrà, v. tr., sotterrare [an- ari-, pref., [in verbi e loro derivati che “seppellire, tumulare”] || cfr. esprime ripetizione o intensità; ri-]. arisotterrà, risotterrà (B) || assot- arimmejjassi, v. intr. pron., cer- terrà (BO 36, BL 95), assotterrà, care i proprii comodi, e quindi assutterrà (ORV 53, VT 162), ssot- perdere tempo, indugiare [esitare, terrà (CC 633). temporeggiare]. Da immegliare reso riflessivo con più l’iterativo bbaa, s.f., bava, [fig.] veleno || ari- “ri-”. bbaa (CB) || bbaa, bbava (BO 36, arincantonassi, v. intr. pron., 38), bbaa (ORV 57). rincantucciarsi, nel senso di ri- bbaciarèlli, s.m. pl., i bachi da diventar povero e quindi riavvi- seta, diminutivo quasi vezzeggia- cinarsi a chi prima si disdegnava tivo, forse per l’utilità dei medesi- [fig. “impoverirsi”] || cfr. accanto- mi || cfr. bbaciarèllo (CB), anche nassi (B) || cfr. incantonasse (ORV come sopr. || cfr. bbaciarèllo (CT 243, BL 377). 81, ORV 58). ariscurpito, v. tr., riscolpito, ben bbannaròlo, s.m., bandista, riprodotto nella fotografia [impres- membro del concerto musicale || so, inciso] || cfr. scorpì “scolpire” bbannaròlo (CB). (B) || cfr. scurpì (ORV 455, VT bbatistèo, bbattistèo*, s.m., bat- 539, CC 585). titura, schr. [scarica di percosse] arïurticà, rïurticà, v. tr., rivolto- Certo, tutt’altro è il significato dan- lare [rovesciare, rivoltare] || arivur- tesco della parola: E nell’antico vo- ticà, rivurticà (B) || rivurticà (BO stro Batisteo – insieme fui cristiano 96, BL 631), arivurticà, rivurticà e Cacciaguida. (Par. xv) || bbati- (ORV 46, 413), rivordicà (CC stèrio (B), bbatistèro (CB) || bbat- 537); cfr. rivulticasse (VT 502) || tistèro (ORV 66, F 62), bbattistèrio vd. anche vurticà. (VT 175), bbattistèro, bbattistèrio arrossicà, v. intr., arrossare [ar- (BL 117), bbattistièro “funzione rossire, diventare rosso]. Così pure, religiosa in rievocazione della fla- nel dlt., annericà per annerire. gellazione di Cristo” (CC 42). assajjà, ssajjà*, v. tr., assaggiare bbatòcco, s.m., batocchio, bat- || assajjà, ssajjà (B) || assaggià, taglio della campana || bbatòcco assajjà (ORV 52, VT 161, BL 94), (CB) || bbadòcchjo (BO 37, F 57),

102 bbatòcchjo, bbatòcco (ORV 65), (BO 39), bbidì bbidò (in un testo bbadòcchjo, bbatòcchjo (VT 169, legato ad un gioco inf.), bbitì bbitò 174, CC 32, 41), bbatacchjo, bba- “o sì o no” (ORV 72, 75). tòcchjo (BL 115). bbóce, s.f., voce || cfr. Bbocèlla bbattistèo: → bbatistèo. sopr. (B, CB) || bbóce (ORV 77, F bbéa, v. tr. e s.m., lo stesso che 69). bere, bevere, e anche ciò che si bbòne (a le), [nella seg. espr.]: beve: il vino || bbéa (B, CB) || bbéa stà a le bbòne, mantenersi calmo, (BO 38, CNP 122), bbé, bbéva, contentandosi di ascoltare e dire, in bbéve (ORV 66, 70), bbéa, bbéva, circostanze di gravi controversie, bbéve (VT 175, 178, BL 119, 123, solo buone parole. 124), bbéva, bbéve (F 65), bbéve bbrao, agg., bravo [anche antifr.], (CC 50). col significato generico di valore bbiastima, s.f., bestemmia || estensivo anche alle cose: bbrao bbiastima (B, CB); cfr. bbiastimà pèzzo, gran tratto | bbrai scarpóni, “bestemmiare” (B, CB) || bbastém- grosse e forti scarpe da lavori || mia (BO 38), bbestégna, bbiasti- bbrao (CB) || bbrao (ORV 82), ma (ORV 70, 71), bbiastima (VT bbrao, bbravo (CC 69). 180, CNP 123, F 66, CC 52); cfr. bbròscia, s.f., borsa || cfr. bròsce bbastemmià (BO 38), bbestegnà, “segmenti di corteccia” (Vite bbiastimà, bbestegnatóre, bbiasti- I:129), bbròsce “mammelle flo- matóre “bestemmiatore” (ORV 70, sce” “testicoli flosci”, bbroscióne 71), bbiastemà, bbiastimaménto “uomo anziano dalla pelle flacci- “il bestemmiare” (VT 180), bbe- da” (CB) || bbròscia “vescica nata- stemmià, bbiastimà (BL 122, 125), toria dei pesci” (BO 41), “vescica” bbiastimà, bbiastimó “bestemmia- (ORV 84), bròscia “borsa, gonfio- tore” (F 66), bbiastimà, bbiastima- re” (CT 89) || vd. anche sbrosciassi. to “maledetto, imprecato”, bbiasti- bbùcia, s.f., buca: fà bbùcia, but- matóre (CC 52). tare i passi, andando in un luogo bbitì bbitòne, loc. avv., voce e non trovandovi la persona o la onomatopeica del linguaggio in- cosa desiderata || bbùcia (B) || bbu- fantile: due passetti [a breve distan- ca, bbùcia (CC 73, 74) || vd. anche za] || bbitì bbitò “sì e no, malapena” bbùcio. (B) || bbidibbidò “frettolosamente, bbùcio, s.m., buco || bbùcio (B) || speditamente, in modo immediato” bbùcio (BO 41, ORV 87, BL 146,

103 F 77), bbùcio, bbuco (CC 74); cfr. fonda incavatura del terreno” (CC bbócio “ano” (VT 184) || vd. anche 119) || vd. anche cao. bbùcia. cappòtto: fà ccappòtto, [fig.] finir bbuttà, v. tr., [buttare, gettare] || tutto || cappòtto fig. “massimo del bbuttà (B, CB) || bbuttà (BO 41, punteggio (nei giochi a carte e si- ORV 90, FAS 33, VT 195, BL 149, mili)” (B). F 79, CC 79). ccà, cchì*, cchine*, avv., qua bbuttica, s.f., bottega [negozio; [qui]: meccà, qua | ccajjó*, mec- anche “laboratorio artigianale”] cajjó, quaggiù | meccassù, quassù | || bbottéga (ORV 80, VT 187, BL micchì, micchine, qui || ccà, ccajjó, 136, CC 66). meccajjó (CB), meqquà, miqquì (B, CB), meqquassù (B) || meccà, caà, v. intr., cavare, riuscire || meqquà, meqquì, qqua, qqui (BO cavà (B) || cavà (BO 47, VT 217, 74, 92, 93), cà, chi, meccà, mecchì BL 190), caà, cavà (ORV 91, 113). (CT 92, 105, 164), ca, meccà, mec- caccià, v. intr., lo stesso che caà chì, meqquà, meqquì, qua (ORV [anche “scacciare”] || caccià “to- 91, 295, 298, 389), ca, meccà, mec- gliere” “scacciare” (B) || caccià chì, meqquà, meqquì, qua (VT 197, (BO 42, ORV 92, VT 198, F 157, 378, 380, 482), ca, qua, meccà, CC 85). mecchì (BL 152, 198, 450, 598), calata, s.f., festone di drappi, o di ccà, cchi (F 177, 178), cà (CC 82). mortella e fiori. ccajjó: → ccà. cao, s.m., scavo, escavazione || cchì: → ccà. vd. anche caóne. cchine: → ccà. caóne, s.m., cavone [italianismo], cecè, cecène, s.m., [capolino]: fà dirupo scavato dalle acque [ca- ccecè, far capolino. Cecè, contra- lanco] || caóne (B, CB) || cavone zione di c’è? non c’è? || cecè (B). (CT 102), cavóne “burrone” (ORV cecène: → cecè. 113), “grande quantità” (VT 218), cécio, s.m., [cece]: mitta r cécio, “scavo a cielo aperto di grandi di- mettere il cece. Vuol dire propr. mensioni” “canalone, profonda in- esprimere il voto mettendo il cece cavatura del terreno” “sentiero cre- o il fagiuolo nell’urna. Per esten- atosi col tempo nel terreno” “strada sione, dire la sua || cécio (B, CB) antica, tagliata nella roccia” (BL || cécio (BO 48, ORV 115, VT 221, 193), cavó, cavóne “canalone, pro- BL 195, F 85, CC 126).

104 cellettóne, s.m., [accr.] uccellone, ipotizzata?] || cicino (CB) || cici- come l’aquila, ecc. || cfr. cellétto no (BO 49, CT 109), cicino, cino “uccellino”, ucèllo (B, CB) || cfr. (ORV 128, 130). cellétta “vulva”, cellétto “pène”, ciciuco, agg., molto piccolo nel ucèllo (BO 48, 114, ORV 116, senso mor. della irresponsabilità. 534), ucellétto “pène”, ucèllo (VT Da ciuco, raddoppiato e contratto 615), cellétto “uccellino”, ucèllo || ciciuco “lagnoso” (B), “piccolo” (BL 196, 806), cellétta, cellétto, (CB) || vd. anche ciuco. ucèllo (F 86, 507), cellettélla, cel- cifèca, s.f., vinello, anche guasto. lettéllo “uccellino, nidiace”, cellét- In romanesco ciufeca, che forse ci to, cèllo (CC 127, 128). guida alla sua etimologia: da ciu- che, quarche*, agg. indef., qual- folà “zufolare”; dato che nel dlt. che || che, quarche (B, CB) || che si usa anche fischjà nel senso di (CT 105, F 175), che, quarche bere. Per l’assonanza cfr. ribeca || (ORV 121, 390, CC 499), quarche ciofèca, ciufèca (B) || cifèca (BO (VT 483, BL 600). 49), cifèca, ciofèca (ORV 128, 132, chjacchjeréccio, s.m., chiacchie- BL 212, 214), ciufèca (CT 111, VT riccio. 233, F 95), cifèca, ciufèca (CC ciarvèllo, s.m., [cervello]: stràc- 138, 142). cio di ciarvèllo, [antifr.] lo stesso cìtolo, s.m., bambino || cìtolo (B); che dire un grande cervello; il poco cfr. cìtala “bambina” (B) || cìtolo che significa il molto. È qui l’uso (BO 50, CT 111, ORV 133); cfr. popolare della figura retorica che cìtala (BO 50, ORV 133). gli alessandrini chiamarono oximo- ciuco, avv., piccolo || ciuco (B) || ron || ciarvèllo (B, CB) || ciarvèl- ciuco (BO 50, ORV 134, VT 233, lo (BO 49, ORV 126), ciaravèllo, BL 217, F 95, CC 141) || vd. anche ciarvèllo (VT 228, BL 209). ciciuco. cica, pron. indef. e avv., niente || ciufolà, v. intr., [zufolare] || ciu- cica “qualcosa” “in nessun luogo” folà (B); cfr. ciùfolo (B) || ciufo- (ORV 127), “niente” (CNP 129), là (ORV 134), ciuffolà (VT 233), ciga “niente” (F 91). ciuffolà, ciufolà (BL 218), cifolà cicinino: → cicino. “chiacchierare continuamente, da cicino, cicinino*, agg., molto pic- annoiare” (F 91); cfr. ciùffolo (BO colo, nel senso mater. Da piccino, 50, VT 233), ciùffolo, ciùfolo (ORV abbreviato per aferesi in cino [voce 134, BL 218), cìfolo (F 91), ciùfolo

105 (CC 142). dia || dà (B, CB) || dà (BO 55, ORV cóa, s.f., coda [anche “strascico 158, VT 261, BL 263, CC 180). del mantello”] || cóa (CB) || cóa dajja: → dà. (ORV 135, VT 233, BL 219). dane: → dà. còcco, s.m., il preferito [predi- déta, s.f. pl., [dita]: scottassi le letto] || còcco (B) || còcco (BO 50, déta, [fig.] pagarla cara senza trop- ORV 136, VT 234, BL 220, CC po aspettare [subire un’amara delu- 144). sione, subire le conseguenze delle cólo, s.m., goccia || cólo “colatoio proprie azioni] || déta (CB), déte per la preparazione dei formaggi” (rust.); cfr. déto (B, CB) || cfr. déto (BO 51). (BO 55, ORV 163, VT 265, BL cóo, s.m., covo. 271, F 100, CC 188). còtto, agg., [fig.] ubriaco || còtto dinoèlle, dinüèlle*, avv., negazio- (B) || còtto (ORV 147, VT 248, BL ne circoscritta al complem. di luo- 246, CC 166) || vd. anche stracòtto. go: in nessun luogo [anche “mica, cruculuzza, s.f., piccolo cappello, per nulla, affatto”]. Da di novello, risultante quasi del solo cocuzzolo. che tuttora significa di nuovo, no- cu, cun, cur* (prima di voc.), avv., vellamente; ma che pure fu usato con || cu, cun, co (B, CB) || co (BO (Fr. Giord.) col significato di: da 50, CC 143), co, cu (ORV 135, principio, da prima, innanzi a tut- 152, BL 219, 255), co, cu, cun (VT ti. Donde prese le mosse il nostro 233, 253, 256), cun (F 201). dialetto, che con la stessa frase, fa- cugnà, v. tr., coniare. cendo dell’ironia, arrivò poi a dire {cummatta}, v. intr., combattere tutto l’opposto. Es.: nel senso di impiegar tempo [fa- D. Sei stato nel tal luogo? ticare, impegnarsi; anche “tratta- R. Di novello. re, avere a che fare”] || commatta, La risposta, ironica, invece che commatte (B) || commatta (BO 51, avanti a tutti, volle già dire per F 184), commatte (ORV 139, FAS niente affatto. Questo, credo, il si- 36, VT 238, CC 151), commatta, gnificato del nostro dinoèlle: Lucs commatte (BL 226, 227). a non lucendo || dinoèlle (B, CB) cun: → cu. || minuèlle, dinuèlle (BO 76, 122), cur: → cu. dinuèlle (CT 122), dinuèlle, doèlle anche “nessuna cosa, niente” (ORV dà*, dane*, v. tr., [dare]: dajja, egli 168, 172), donequèlle (CNP 133).

106 dinüèlle: → dinoèlle. èsse: → èssa. dòmo, s.m., duomo, la chiesa éssino: → aé. principale || dòmo (B, CB) || dòmo éte: → aé. (ORV 173, VT 272, BL 281, F 104, CC 196). fà, fane*, v. tr., [fare] || fà (B, CB) dónca, cong., dunque || dónca, || fà (ORV 183, VT 280, BL 294, dónque (CB) || dónque (BO 57), CNP 134, F 108, CC 207). dónca, dónqua (ORV 173, BL 281, faa, s.f., fava. La fava nell’urna 282), dónqua (VT 272), addunca della votazione significava voto (CNP 118), dónca, dunche (F 104, contrario || faa (BO 58), faa, fao 105), dùngue (CC 200). (ORV 184, 186), fava (VT 284, dorémmara: → dové. BL 303, F 113, CC 217); cfr. fao , v. intr., [dovere]: dorém- “favo” (CC 217). mara, noi dovremmo || dové (B, fane: → fà. CB) || dové (ORV 173, VT 274, BL fèlo, s.m., [fiele]: amaro fèlo, 284, CC 198). amaro fiele: [fig.] cattiveria || fèle (B) || fèle (ORV 189, VT 285, BL embè, inter., ebbene || ambè, embè 305, CC 218). (B) || ambè, embè, mbè (BO 32, 57, fischjà, v. intr., [fischiare; fig. 74), ambè, embè (ORV 22, 178, BL “ubriacarsi”] || fischjà, fistià (B) || 34, 287), embè (VT 276), ambè, fischjà, fistià (ORV 195, 196, VT bbè, embè (CC 12, 43, 203). 292, BL 317, CC 232, 233). éne, s.f. pl., vene || éne (CB). fòra, fòri, s.m., il campo colti- énna1, v. tr., lo stesso che vendere: vato, che è fuori del paese [cam- énna, egli venda || vénna (B) || vén- pagna; anche avv. “fuori”] || fòra na (BO 116, F 514), vénna, vénne (B) || fòra, fòre (BO 61, ORV 198, (ORV 544, VT 623, BL 818), vénne 199), fòra, fòre, fòri (VT 294, 295, (CC 698). BL 321, 324), fò (CNP 134), fòra énna2: → énna1. (F 125), fòra, fòri (CC 236, 239). èssa, èsse*, v. intr., [essere]: adè, fòri: → fòra. adène, egli è | adèra, egli era | fùm- fraggèllo, s.m., flagello, rovina || mara, noi fummo || èssa (B, CB) || fraggèllo (ORV 201, VT 297, BL èssa, èsse (BO 58, ORV 180, VT 327), flaggèllo (CC 233). 278, BL 292), èssa (F 107), èsse frésche, s.f. pl., eufemismo per (CC 205). cose che non vanno [cose, affari,

107 fatti] || frésche (B) || cfr. frésca (BO Tassiano: Succhi amari ingannato 62, ORV 204, VT 300, BL 331, F intanto ei beve || gabbà (B) || gabbà 130, CC 248). (ORV 209, BL 339, F 140). frìggia, v. tr., [friggere]: usato in- gabbacci: → gabbà. trans. nel senso di penare. Cfr. Son galla, s.f., giovanotto spericola- fritto! || frìggia (B) || frigge (ORV to ed allegro [giovane arrogante, 204, VT 300, BL 332, CC 249). bellimbusto; cfr. it. “galla”]. Cfr. frillippa, s.f., fuscellino, forse da galloria || galla (B) || galla “cosa frasca + lippa, che è il bastoncello o persona di poco valore” (ORV onde ha nome il noto giuoco fan- 209), “bambina birichina” “don- ciullesco, detto invece in romane- na pigra, scansafatiche” “donna sco nizza || cfr. filippa “gioco della incapace” (VT 306); cfr. gallóne lippa” (B) || cfr. frelléppaca “spa- “bellimbusto” (ORV 210), gallarìa vento” (BO 122), frelléppica “pel- “baldoria” (VT 306). licola sottile che avvolge la casta- ggióine, s.f., [giovane donna] || cfr. gna, la noce, la mandorla, l’uovo ggióvine (Vite I:90) || cfr. ggióene […] la cipolla” (CT 133), “velo di (BO 64), ggióine, ggióvene (ORV cipolla” “pellicola della castagna 216, 217), ggióvene, ggióvine (VT sotto la buccia” “pellicina del ghe- 313, BL 349, 350), ggióvine (CC riglio” “stoffa leggerissima” (ORV 263). 204). ggiòstra, s.f., [tormento, fastidio, frullà, v. tr., gettar via con forza baja]: fà la ggiòstra a qualcuno, un oggetto, farlo frullare [scara- dargli la baja || ggiòstra “capriccio” ventare, gettare lontano] || frullà (B) || ggiòstra (VT 312, CC 262). (B) || frullà (BO 62, ORV 205, VT ggiróne, avv., [in giro]: annà 301, BL 334, CC 250), frollà, frul- ggiróne, bighellonare || ggiróne là (F 132). “girandolone” (B) || ggiróne “che fùmmara: → èssa. sta molto fuori casa” “in giro” (VT 314), “in cerca” “girandolone” (BL gabbà, v. tr., [gabbare, imbroglia- 351), “persona che va in giro” (F re]: gabbacci r pane, gabbarci il 136), ggiró “girandolone, bighello- pane [fig. “mangiare insieme con ne” (CC 265). il pane, come companatico”]; vera- ggiù: → jjó. mente il gabbato è chi lo mangia, gna, v. intr. impers., bisogna [oc- allettato dal companatico. Cfr. il corre; anche “credo che, si vede

108 che”] || gna (B, CB) || na (BO 78, BL 363, F 146), grìgnolo, grìjjolo CNP 147), gna (CT 140), gna, na (ORV 229, 230), crìolo, grìjjo- (ORV 221, 316, VT 315, 398), ab- lo (CC 170, 276); cfr. sgrijjolasse bisognà, gna (BL 6, 352), gna chè “sbriciolarsi” (BL 713). (F 292). grónna, s.f., [grondaia] || grón- gnaolóne, avv., a guisa dei gatti na (B, CB) || grónna, gronnaléccia (del camminare) [gattoni, carponi] (ORV 230), grónna, gronnaréccia || gnaolóne (B) || gnaolóne (a) (BO (VT 322), grónna (BL 363, F 147), 64, ORV 221), gnavolóne (VT 315, grónna, gronnara (CC 276). BL 353). gruninèlla, s.f., rondinella, da gnènte, pron. indef., niente || gronna “gronda”, di cui è l’abitatri- gnènte (BO 64, ORV 222, VT 316, ce || grunninèlla, rondinèlla (ORV BL 353, F 292), gnènde (CC 267). 231, 415); cfr. gróndina “rondine” gnisèmpre: → ognisèmpre. (VT 322). gólo, s.m., volo || gólo (ORV 224, guaìme, s.m., il fieno di secon- BL 356); cfr. golà “volare” (VT do taglio, poco apprezzato, e cu- 318), golà, volà (BL 356, 828). rato meno [cfr. it. “guàime”] || a grani, s.m. pl., [granaglie] || gra- gguaìme*, loc. avv., [in stato di ab- ne (ORV 227, VT 320, BL 358). bandono] || cfr. guaìme (a) “fuor di grattassi, v. rifl., [grattarsi] detto stagione” (ORV 232). del creditore deluso, che non può guiscì, guiscine*, viscì, v. intr., lo prendersela con altri che con se stesso che uscire: viscì, egli uscì stesso, grattandosi || grattassi (B) || || oscì (Melillo 516) || escì, uscì cfr. grattà (ORV 228, VT 321, BL (ORV 180, 538, VT 278, 617, BL 360, CC 274). 291, 809), uscì (CC 689). grignoléllo, s.m., un pezzettino guiscine: → guiscì. [piccola quantità; anche “breve guitto, s.m., vagabondo propenso lasso di tempo”]. Con figura da al mal fare [cfr. it. “guitto”] || guitto sineddoche da sgrígliolo [tosca- “vagabondo, fannullone” “birban- no], il rumore caratteristico che fa te, discolo” “uomo vivace e dispet- la terra, o sabbia, sgretolandosi in toso” (B) || guitto “monello, disco- più minuti frammenti sotto i piedi || lo, ragazzino” (BO 66), “ragazzo cfr. grìgnolo “piccola quantità” (B, vivace o dispettoso” (CT 144), CB), dim. grignoléllo (CB), gri- “persona rozza” “poveraccio” gnolétto (B) || cfr. grìjjolo (BO 122, “bracciante agricolo” (BL 369),

109 “miserabile” “farabutto” (CNP 122), ancaciata, incaciata “atto di 140), “persona rozza” “miserabile” cospargere una pietanza di formag- (CC 280), “povero, nullatenente” gio grattugiato” “strato di formag- (ORV 234), “persona disonesta” gio grattugiato” “strato sottile di “ragazzo trasandato” “saltimban- brina o di neve” (BL 43, 376), nga- co” “poveraccio” (VT 325); cfr. ciata (CC 389); cfr. incacià (ORV guitta (a la) “al verde” (ORV 234), 242, VT 332, BL 376), ngacià (CC guittarìa “delinquenza” (VT 325), 389). guitta “gruppo di salariati agrico- indóri, agg., lo stesso che indorati li che lavoravano in Maremma” [dorati]. “puttana” (BL 369). inorcà, v. tr., prender su un ogget- gumità, v. intr., vomitare || gomità to e metterselo sulle spalle [mettere (B) || gomità (ORV 225, BL 356), un peso in spalla]; a Siena, invece, gomità, gumità, vommità (VT 318, sulle ginocchia || annorcà, innorcà 326, 631), vommità (CC 708). (B, CB) || annorcà (BO 121), orcà (VT 420); cfr. òrca “spalla” (BO i1, di*, de*, prep., [di] || di, i, de, e 123), “grappolo d’uva peduncola- (B, CB) || de, e (ORV 160, 177, BL to sull’asse centrale” “apice della 267, 286, CC 185, 202), de, di (VT spalla” (ORV 340). 263, 266), de (F 98). inzippà, v. tr., spingere [preme- i2: → li. re], da inzeppare || nzippì (CB) || in- impasto, mpasto*, v. tr., lo stesso zeppà, inzippì (ORV 260), azzeppà che impastato || cfr. impastà (ORV (VT 167), anzeppà (BL 60), nzeppà 240, VT 330), mbastà (CC 342). (CC 407) || vd. anche inzippatóo. incaciata, agg., detto di sposa con inzippatóo, nzippatóo*, agg., che dote, schr. [fig. “che costituisce spinge [che preme] || vd. anche in- un’ottima occasione di matrimo- zippà. nio”] || incaciata “leggero strato di ir*, r, l*, art. det. m., [il] || ér, èr, r, neve” (B); cfr. incacià “nevicare l (B, CB) || l, r (BO 67, 93, VT 345, leggermente” (B) || incaciata “leg- 486), er, l, r (ORV 179, 264, 393, gero strato di neve” (ORV 242), BL 290, 396, 604), o “il” (F 295), ancaciata “atto di cospargere una er, o, r (CC 203, 409, 503). sostanza di formaggio grattuggia- to” “strato di formaggio grattug- jjàccio, agg., freddo, ma perchè giato” “leggero strato di neve” (VT detto di cadavere, è passato a signi-

110 ficare anche morto: {mènżo jjàc- 155, ORV 268), le, li m. e f. (VT cio}, mezzo morto || ghjàccio, jjàc- 350, 354, BL 403, 409), i m. (F cio (B) || jjàccio (BO 66, BL 394, 152), li m. (CC 304). F 155, CC 287), diàccio, jjàccio lìbboro: → libbro. (ORV 164, 262, VT 266, 344). libbro, lìbboro*, agg., libero || lìb- jjó, ggiù*, avv., giù. Unito con i bero (B) || lìbbero (ORV 271), lìb- verbi, conferisce loro un significato bero, lìbboro, lìbbro (VT 354), lìb- iterativo: énna jjó qquér cól’i bbéa, bero, lìbboro (BL 409, F 211, CC venda giù quel poco di vino, senza 304), libbro (CNP 142). mai smettere, fino alla fine || ggiù, llà, llane*, llì*, avv., [là, lì] unito jjó (B, CB) || ggiù (BO 64, VT con i verbi, ne amplifica il signifi- 314), ggiù, jjó (ORV 219, 263, BL cato: bbuttà llà | si sguazzaa llà | 351, 395, CC 265, 290), jjó (CNP mellà, là | mellajjó, mellaó*, laggiù 141, F 156). | mellassù, lassù | millì, milline*, lì || jjocà: → jjucà. mellà (B, CB), melaggiù (B), mel- jjucà, jjocà*, v. intr., giocare || lajjó, mellassune (CB), millì (B, jjucà (B) || ggiocà (VT 311, BL CB), milline (CB) || llà, mellà, mellì 347), ggiocà, ggiogà (ORV 216, (BO 67, 74), mellà, mellì (CT 165), CC 260). là, lì, mellà, mellì, millì (ORV 264, 271, 296, 304), là, lì, mellà, mellì lanca, s.f., fame, dal battersi, per (VT 345, 354), mellà, mellì, millì la medesima, l’anca || lanca “de- (BL 452, 453, 464). bolezza” (B) || lanca “stanchezza, llane: → llà. sonnolenza” (ORV 265). lle: → le. lassà, v. tr., lasciare || lascià, lassà llì: → llà. (B, CB) || lassà (BO 68, F 206), la- scià, lassà (ORV 266, VT 348, BL ma, prep., a [anche “in”]: ma 400), lascià (CC 295). mmé, ma mmì*, a me. Quest’m eu- le, lle*, avv., quanto, come, valu- fonica premessa all’a, che designa tativo esclamativo, derivato da: l’è il complemento di termine, deriva, (lo è, la è) afferm. || le (B, CB) || le forse, dalla pronunzia strettamente (VT 350, BL 403, F 206). unitaria della 2a pers. sing. imperat. li, i2*, art. det. m. pl., [i, gli] || i, li dei verbi, usitatissimi, dare, dire e m. (B, CB), le m. e f. (rust.; raro a fare, col doppio complemento di B, CB) || cfr. le m. e f. (BO 68, CT termine, pure usitatissimo dal po-

111 polo, del pronome di ia pers. Es.: mì (F 242), mé (C 348). dammi a me, dimmi a me, fammi a méne: → mé. me. Donde, nulla cambiandosi nel meccà: → ccà. suono: da ma me, dì ma me, fa ma meccajjó: → ccà. me || ma “a” “in” (B, CB) || ma “a” meccassù: → ccà. “in” (BO 70, CT 159, ORV 279, mèjjo, avv., meglio [anche agg. VT 361), “a” (BL 421). “migliore”]: li mèjjo grani, i mi- maréa, s.f., merìa [toscano], luo- gliori grani || mèjjo (B, CB) || mèjjo go ombroso nel gran caldo || maréa (ORV 296, VT 378, BL 451, F 237, “ombra”, marèa “meriggio” (Ali- CC 350). nei 63); cfr. ammareasse “riposare mellà: → llà. in un luogo ombreggiato” (Alinei mellajjó: → llà. 63, s.v. ammareà), marijjà “merig- mellaó: → llà. giare” (Alinei 64) || merèa (ORV mellassù: → llà. 299), maréjjo (VT 372), meréjja, {mènżo}, agg., mezzo || mènżo meréjjo (BL 455); cfr. mereà (BO (ORV 297). 123, ORV 299), ammareà (FAS mestassù: → stì. 30), ammerejjà, merejjà (BL 40, métta: → mitta. 455), marïà, marijjà (F 228), me- micchì: → ccà. rijja (a) “all’ombra” (CC 353). micchine: → ccà. mazzafrusto, s.m., la frusta dei mìccia, s.f., asina, ritenuta più carrettieri e dei vetturini [pungolo stupida del maschio || mìccia (CB) costituito da un bastone di un me- || mìccia (ORV 302, VT 385, BL tro circa, su una cui estremità veni- 463, F 243, CC 358). va applicata una corda per frustare millì: → llà. i cavalli] || mazzafrusto (B, CB) || milline: → llà. mazzafrusta (CT 164), mazzafru- mistì: → stì. sta, mazzafrusto (ORV 293), maz- mitta, métta*, v. tr., [mettere] || zafrusto (BO 73, FAS 43, VT 376, métta (B, CB) || métta, métte (BO CC 339). 75, ORV 301, FAS 43, 44, VT 382, mé, méne*, mì*, mine*, pron pers. BL 458), métta (CNP 145, F 241), ton., [me] || mé (B, CB), mì (CB), métte (CC 355). mine (rust.) || mé, méne, mì (ORV mitule, mitulo*, s.m., stollo o an- 295, 302), mé, mì, mine (VT 377, tenna del pagliaio. Nell’aretino: 384, 386), mé, mì (BL 450, 463), mitrite || mitule (CB) || metule (BO

112 75), mitule (CT 168), mitule, mitu- tino; invece nell’aretino si ha je, e lo (ORV 305), metullo (VT 383). nell’antico siciliano (Jac. da Lenti- mitulo: → mitule. ni) ve; rispettiv.: mene, meje, meve. mózzico, s.m., [morso] || mózzico nòa, s.f., nuova, novella, notizia (BO 78, CC 373, F 252), mórzico, data or ora || nòa, nòva (ORV 325, mózzico (ORV 311, 312), mózzeco, 328), nòva (VT 410, BL 498, CC mózzico (VT 393, 394, BL 478) || 403). vd. anche muzzichéllo. nun, un, n*, avv., non || no, nun, mpasto: → impasto. un, n (B, CB) || nun (BO 81, F 287), muccì, v. intr., fuggire, da muc- n, nun, un (ORV 316, 330, 536, VT ciare [it. desueto] “trafugarsi, invo- 398, 412, 616, BL 485, 501, 808, larsi” || muccì (CB, rust.) || muccì CC 377, 404, 687) (ORV 313), muccià (VT 395). nzippatóo: → inzippatóo. munèllo, s.m., fanciullo viva- ce e svelto, sempre in senso buo- ò: → volé. no || monèllo “bambino” (B); cfr. ognisèmpre, gnisèmpre, avv., munèlla “bambina” (CB) || munèllo ogni momento, tutte le volte [sem- (ORV 314, VT 396, BL 482, CNP pre, continuamente] || cfr. nni 147, CC 375). “ogni” (B) || cfr. gni (BO 64, ORV muzzichéllo, s.m., morsello [fig. 222, VT 316, BL 354, F 292, CC “piccola quantità”]. Dal dialett. 269). mózzico “morso” || muzzichéllo òjjo: → volé. (CB) || vd. anche mózzico. òle: → volé. n: → nun. pàili, s.m. pl., plur. di paolo, mo- nàppila, s.f., piccola nappa, o neta pap. eguale a ½ lira || cfr. pào- fiocchetto, di lana rossa, che spesso lo, pàvolo (ORV 350, 356, VT 431, adorna la cavezza; quindi, per si- 440, BL 528, 542, CC 432, 445), neddoche, la cavezza stessa. pàvolo (F 314). -ne, suff., pleonasmo esclusiva- pajjao, s.m., pagliaio || pajjaro mente prosodico, o apoggiatura (B, CB) || pajjaro (BO 83, ORV delle parole tronche [particella 346, VT 427, BL 521, F 302, CC paragogica]: téne, te | cecène, lo 426). stesso che cecè | adène, lo stesso pasta: past’i méle, pasta di mele: che adè. Trovasi anche nel fioren- [fig.] uomo buono, trattabile e

113 compiacente. ro (CT 190, F 329), pipinara, pipi- peparóne, s.m., peperone: [fig.] naro (ORV 371, BL 569, CC 470). naso grosso, schr. || peparóne (B, pippa, s.f., [pipa]: pipp’i còcco, CB), anche come sopr. (CB) || pe- pipa di cocco [fig. “nel migliore paróne (BO 85, ORV 360, VT 445, dei modi”]: l’ideale dei fumatori, a BL 548), pepó (F 318), peperó (CC quanto pare || pippa (B, CB) || pip- 452). pa (BO 88, ORV 371, VT 458, BL picà, picane*, v. intr., ciarlare 569, F 329, CC 470) || vd. anche continuato e molesto come lo stri- pippà. dere delle piche [pica: voce lett., pippà, v. intr., fumar la pipa || comune ad alcuni dial.] || cfr. pica pippà “fumare la pipa” fig. “mori- “ghiandaia” (B) || cfr. pica (ORV re” (B) || pippà “morire” (BO 88, 365, VT 452, BL 560, CC 463), ORV 372, VT 459, BL 569, F 330, “donna loquace” (F 327). CC 260), “fumare la pipa” (F 330) picane: → picà. || vd. anche pippa. pilo, s.m., [it. antico] sepolcro, pitturina, s.f., pettorina, panciot- tomba. to || pettorina, petturina (BL 555). pilòtto, s.m., il grasso ardente poarèllo: → porèllo. che si fa colare sull’arrosto [fig. popò, popòne*, avv., un pochino “tormento, assillo”]. Da pillotto || [po’], da un po’ + un po’ || pó, pò, pilòtto “pillotto” fig. “tormento” popò (B, CB), popó (CB) || popò, (B); cfr. pilottà “pillottare” fig. popòco (BO 90), pò, popò, popòco “tormentare” (B) || pilòtto (BO 87, (ORV 375), pò, popò (VT 463, 466, VT 457, BL 567, F 328, CC 469), BL 573, 577, CC 476, 478). pillòtto (ORV 369); cfr. pilottà (BO popòne: → popò. 87, VT 457, BL 566, CC 469), pil- poràccio, s.m., poveraccio || po- lottà (ORV 369), mpilottà (F 256). ràccio (B) || cfr. poràccio, porétto, piòa, v. intr. impers., piovere || pòro (BO 90), pòaro, porétto, pòro, piòa (CB) || piòva, piòve (BO 88, pòvaro (ORV 375, 379, 381), pòro, VT 458, BL 568), piòa, piòe (ORV pòvero (VT 467, 470), porétto, 370), piòve (CC 469). pòro, pòvaro (BL 579, 584), pòro pipinao, s.m., gran chiacchieric- (F 337), poràccio, porétto, pòro, cio di donnicciuole, simili a passeri pòvoro (CC 478, 479, 483) || vd. pipilanti [vocio] || pipinara (B) || anche porèllo. pipinara (BO 88, VT 458), pipina- porèllo, poarèllo*, agg., poverello

114 || porèllo (B) || vd. anche poràccio. ro (VT 140). potémmara: → putì. rifinaa, s.f., dove il vento, trovan- primòtico, agg., che primeggia, do l’impedimento, rifinisce di ac- propr. delle frutta prime a venire cumulare ciarpame, polvere o neve [primaticcio; anche s.m. “primi- [mucchio di neve o ciarpame accu- zia”] || primòtico (B) || primòtico mulato dal vento] || refenajja (B) || (BO 91, CT 195), “pollo di prima arifinajjo, rifinara “neve ammuc- allevatura”, primòtica “primizia” chiata dal vento” (ORV 41, 405). (ORV 383), primòteco (VT 474), rïurticà: → arïurticà. premùtico (CNP 153), primòtico rusci, s.m. pl., pungitopi; il nome (CC 490) . dialett. dal rosso (rùscio) [voce ipo- prùbbico, s.m., pubblico || pùb- tizzata?] delle bacche || cfr. rùscio brico (ORV 385, BL 593, CC 492), “spazzatoio per il forno” (CB) || pùbbreco, prùbbeco (VT 477, 478). cfr. rùscio “pungitopo” (ORV 418, putì*, v. intr., [potere]: potém- BL 641). mara, a. noi potevamo. b. noi po- temmo || poté (B, CB) || podé, poté sabbenanche, sibbène*, cong., (ORV 376, 381, CC 476, 482), poté sebbene anche, ancorchè [benché, (VT 470, BL 583). sebbene] || abbenanche (VT 100), sibbenanche, sibbène (BL 715), quarche: → che. bbenanche (F 64), bbenanghe (CC quéllo: quer, [quel]. 48). quelui: → quilui. sancrepàzzio, inter., esclama- quér: → quéllo. zione di maraviglia per gl’ingordi questui, pron. dimostr., costui || mangiatori che non crepano, pro- questui (B) || questue (VT 485). tetti da Sancrepàzzio [santo imma- quilièi, pron. dimostr., colei || ginario] || cfr. crepàzzio “santo im- quelèe (VT 484). maginario” (B) || cfr. crepàzzio (VT quilòro, pron. dimostr., coloro || 250, BL 251). quelòro (VT 485). sarnacà, v. intr., russare. In Ro- quilui, quelui*, pron. dimostr., co- magna (Pascoli): sornacchiare || lui || quelue (VT 485). sarnacà (B) || sarnacà (CT 212, ORV 426), sornacà (VT 563, F r: → ir. 426), sornacchjà, sornacà (BL ricóoro, s.m., ricovero || aricóve- 728); cfr. sornacata “russamento”

115 (VT 562, BL 728), sornaco “russo” da chic. (VT 563). sciò, inter., [voce per scacciare le sbarzimaménte, avv., di sbalzo, galline] || sciò (B) || sciò (CT 222, di sorpresa [improvvisamente]. ORV 446, VT 531, BL 678), sció sbottà, v. tr., urtare || sbottà (B) || (CC 578). sbottà (ORV 430, VT 518, BL 659, sciobbicà, v. tr., vuotare, fare il CC 563); cfr. sbottata “colpo, scos- deserto [svuotare; fig. “rubare”]. sa” (ORV 430) || vd. anche sbottilà. Forse dalla voce onomatopeica con sbottilà, v. tr., urtare appena ap- cui le massaie scacciano le galli- pena || vd. anche sbottà. ne: sciò! sciò! || sciobbicà (rust.) sbrosciassi, v. intr. pron., [sbelli- || sciabbicà (BO 124), scioppicà carsi]: sbrosciassi di risate, sbelli- (ORV 447); cfr. sciòppico “vuoto” carsi dalle risa || cfr. sbroscià “pen- (ORV 447). zolare (di grasso superfluo sulle scocciaróne, agg., scocciante as- cosce o sui fianchi)” (ORV 432) || sai. vd. anche bbròscia. scottassi, v. rifl., [scottarsi, bru- scalóne, s.m., grosso gradino in ciarsi; fig. “subire un’amara delu- pietra || scalóne (B) || scalóne “so- sione”] || scottasse (VT 537); cfr. glia della porta” (ORV 433), “gra- scuttà (ORV 455). dino” “soglia di abitazione” (BL {scrizzà}, v. intr., [scherzare]: 663), scaló “limitare, soglia dell’u- scrizzo, io scherzo || scherzà (B) || scio” (F 404). scherzà (VT 527, BL 673, CC 574). scarcà, v. tr., scaricare, gettar giù scrizzo: → scrizzà. [demolire] || scarcà, scaricà (B, scùffia, s.f., sbornia || scùffia (B) CB) || scarcà (ORV 436), scaricà, || scùffia (BO 102, ORV 454, VT scarcà (VT 523, 524, BL 668, 669, 538, BL 691, CC 587). F 408), scargà (CC 570) || vd. an- sforbicià, v. tr., tagliare con le che scarco. forbici, e nel senso mor.: tagliare i scarco, s.m., scaricamento, nel panni di addosso, dir male || sforbi- senso di crollo e di demolizione cià (BL 708). [macerie, rovine; anche “operazio- sfrappilassi, v. intr. pron., andare ne dello scaricare”] || scarco “sca- a finire a brandelli [lacerarsi, squar- ricato” “sgombro” (VT 524) || vd. ciarsi], da frappa [centr.] “frangia”. anche scarcà. sgrinzà, v. tr., toglier le grinze sciccaménte, avv., squisitamente, [dalla pancia], [fig.] sfamare.

116 sguazzà, v. intr., [sguazzare]: stà*, v. intr., [stare; anche “esse- sguazzaa, egli sguazzava || sguazzà re collocato”]: stajja, egli stia || stà (B, CB) || sguazzà (ORV 469, VT (B, CB) || stà (BO 108, ORV 490, 553, BL 713, CC 604). VT 575, BL 745, F 445, CC 633). sguazzaa: → sguazzà. stajja: → stà. sguillà, v. intr., scivolare [sdruc- stassù: → stì. ciolare] || sguillà (B) || sguillà stì, avv., costì [lì, vicino a chi (ORV 469, VT 553, BL 714); cfr. ascolta]: mistì, costì | stassù*, me- sguillóne “scivolone” (VT 553). stassù*, costassù || mistì, mistine, sibbène: → sabbenanche. mestajjó “costaggiù” (CB) || mestà, sinanta, prep., financo [persino, mestì (BO 75, CT 166, 168, VT addirittura; anche “sin quando”] || 381, BL 457), mestà, mestì, stà, sinanta (B) || finanta, sinanta “fino stì (ORV 300, 301, 491, 494), stì a, sino a, sin quando” (BO 60, (CNP 162). 124), sinènte “finché, fintanto, fino strabbarzóni, s.m. pl., scossoni a” (CT 233), finanta “fino a” (ORV [sussulti]. Cfr. l’avverbio strabal- 194, VT 290), “fino a” “persino” zoni. (BL 314), nzinanta “fino a” (ORV stracòtto, agg., [fig.] ubriaco in 332), finènte, nzinènte “fino a” (F grado super [totalmente sbronzo] || 122, 290) nzinènde “sino a” (CC stracòtto (B) || cfr. stracòce “stra- 408), zzinande “fino a” (CNP 168). cuocere” (VT 581, BL 755, CC sòra, s.f., sorella || sòra (BL 726, 642) || vd. anche còtto. CNP 160). stralòde, s.f., gran lode. Cfr. stra- spiccicato, agg., spiccato [errato: vizio. l’agg. sta per “identico”]. Detto di stufaòla, s.f., stufaiola, tegame suono che non si confonde con altri fondo per lo stufato [tipo di tega- || spiccicato (B) || spiccicato (BO me a due manici] || stufaròla (CB) 107, ORV 485, VT 570, CC 626). || stufaròla (BO 110, ORV 503, VT sprumirà, v. tr., mirare bene, con 587, BL 762). comodo, in lungo e in largo, da pro sucà, v. tr., [succhiare]: sucà le o per + mirare [guardare con atten- éne, succhiare il sangue delle vene zione] || cfr. mirà “guardare” (B, [fig. “far pagare molto denaro”] || CB) || cfr. mirà (ORV 304, VT 386, sugà (B) || sugà (BO 110, VT 588, BL 737, CC 360). BL 764, CC 649), sucà, sugà (ORV ssajjà: → assajjà. 504, 505).

117 succicà, v. tr., [solleticare] || ciuc- manto (BO 111, CT 250, ORV 510, cicà (B) || succecà, succicà (VT VT 594), tammanto (F 488). 588, BL 763, 764), succicà (ORV taratapane, s.m., voce onomato- 504, F 461); cfr. succicatura “piaga peica per significare un subbuglio. causata dal continuo sfregare di un téne, tì*, tine*, pron. pers. ton., finimento sulla pelle del cavallo” [te] || té (B, CB), tì (CB) || té (ORV (CC 649) || vd. anche sùccico. 512), té, ti (VT 597, 601, BL 777, sùccico, s.f., l’ascella; succicà 783), ti (F 492), te (CC 658). “fare il solletico sotto l’ascella” || tésto, pron. dimostr., [cotesto]: ciùccico, sùccico (B); cfr. succi- tésto stì, cotesto costì || tésto (B) || carèlla “solletico” (CB) || sùccico tésto (BO 111, ORV 516), té (VT (ORV 504, BL 764, F 461), sùcce- 597), tisto (CNP 164, F 494). co, sùccico (VT 588), sùccica (CC tì: → téne. 649), zzùccico (CNP 169); cfr. suc- tine: → téne. cicarèllo “fastidio alla gola, causa- tippe e ttàppila, [nella seg. espr.]: to, in genere, dal catarro” (F 461) || fà ttippe e ttàppila, oscillare con vd. anche succicà. certa violenza in qua e in là. Dal sughijjo, s.m., piccolo sugo tratto linguaggio infantile onomatopeico. dalle regaglie di pollo per la mi- tórre, s.f., il cappello a stajo, schr. nestra con le regaglie. Cfr. il nap. [tuba, cilindro] || tórre (B). sughillo || sughijjo “sugo di pomo- traménte, avv., mentre, frattanto. doro piuttosto insapore” (B). Da tra + mente || ntraménte (B) || svòrta, v. tr., svoltata, rimossa (la ntraménte (VT 411), intraménte, ggióine capricciósa) dal suo pro- ntraménte (BL 389, 500). posito [influenzata, condizionata] tranziatte, transeat [lat.]: sia || cfr. svortà “cambiare direzione” pure, passi, meno male. “influenzare, condizionare” (B) || ttusì, avv., così || attusì, stosì, stu- cfr. svortà “cambiare direzione” sì (B) || tossì, tusì (BL 792, 804). (ORV 508, BL 770), “cambiare di- rezione” “influenzare” “far uscir di ubbidènte, s.m., bidente: gros- senno” (VT 592), svordà “svoltare, sa zappa a due asce gemelle dalla cambiare direzione” (CC 652). stessa parte || ubbidiènte (B) || ub- biènte (BO 124), ubbidiènte (ORV tamanto, agg., tanto grande 533, BL 806), bbedènte, obbidiènte [grandissimo] || tamanto (B) || ta- (VT 176, 415), bbïènde (CNP 123).

118 un: → nun. 553), vortastòmmeco (VT 632), ùscia1, inter., fuori! via! [vattene!] vortastòmmico, vortastòmmoco || ùscia (BO 115), usce (VT 617), (BL 830), vordastòmmico (CC usci “voce per incitare le pecore ad 709). uscire dall’ovile” (CC 689). vurticà, v. tr., rivoltare a poco a ùscia2, s.f., uscita, esodo [atto di poco, e in continuazione, come fa uscire]. lo zappatore con la terra [rovescia- re, rotolare] || vurticà (B) || vurticà vajja: → annà. (BO 117, CT 264, VT 632, BL vassallóne, s.m., mascalzone in 831), vorticà, vurticà (ORV 553, grado superlat. Idem nel romane- 554), vordicà (CC 709); cfr. vorti- sco || vassallo (BO 115, ORV 540, catina “mescolata”, vorticóne “ca- VT 620, CC 693, F 511); cfr. vas- pitombolo” (ORV 553), vurticóne sallàggene “comportamento male- (BO 117) || vd. anche arïurticà. ducato”, vassallata “birichinata da ragazzi” (VT 620). {zzizzichéllo}, s.m., un zinzino viscì1: → guiscì. [centr.; piccola quantità]. Da muz- viscì2: → guiscì. zichéllo “morsello” abbrev. per vói: → vojjastri. aferesi in zichello e raddoppiato e vojjastri, vói*, pron. pers., voi contratto || cfr. a zzico “con par- altri [voi] || voartri (CB), vojjar- simonia” (B, CB) || zzesichéllo tri (B), vóe (B, CB) || vartre, vóe, (CNP 168); cfr. zzésico “un poco vojjartre (BO 115, 117), vartre, vo- di” (CNP 168), zzico “carino” (VT artre, vóe (ORV 540, 551), vantre, 634) “un po’” (F 520), zzico (a) vóe, vojjaltre (VT 620, 630), voar- “con parsimonia” (CC 714). tre, vojjartre, vue (BL 828, 831). , v. intr., volere: òjjo, io vo- glio | òle, ò, egli vuole || volé (B, CB) || volé (BO 117, ORV 551, VT 630, BL 828, F 518). vortastòmmichi, s.m. pl., rivol- gimenti di stomaco, stomacaggini [voltastomaci, nausee] || cfr. vor- tastòmico (B) || cfr. vortastòmo- co (BO 117), vortastòmico (ORV

119 I caóni della valle di Civita (foto di Massimo Calanca) DOCUMENTI ORALI

1. “Una questione religiosa”

Si riproducono, di seguito, due brevi testi narrativi raccolti nel Ba- gnorese, al duplice scopo di fornire un saggio dello stato corrente del dialetto e di documentare la persistenza dei versi di Filippo Paparozzi nel patrimonio orale1. L’argomento prescelto, già trattato dal poeta (‘Na quistione riligiosa XXIV), riguarda la perdurante usanza, da parte dei civitonici, di riportare, anche affrontando condizioni climatiche avverse, un antico crocifisso li- gneo all’interno della chiesa di San Donato, a Civita, dopo la processione del Venerdì Santo. Secondo un’antica credenza esisterebbe “un diritto” in virtù del quale “il Cristo”, se sostasse per una sola notte nel capoluogo, ove si svolge la processione, diventerebbe proprietà dei bagnoresi2.

2. Testi dialettali

Il primo brano che si va a presentare è tratto da una conversazione con Bonaventura Rocchi (1930), detto Venturino, agricoltore, istruzio- ne elementare, sagrestano della chiesa di San Donato, puro civitònico, il quale, pur risiedendo a Bagnoregio, frequenta assiduamente il luogo natio. Nel corso dell’intervista, registrata all’interno di detta chiesa, le

1) Nei brani presentati, i trattini indicano interruzioni improvvise nel corso della pro- nuncia di un termine o di una locuzione; i puntini di sospensione, tra parentesi quadre, segnalano l’omissione di passaggi ritenuti non rilevanti, o scambi di battute tra il rac- coglitore e gli informatori; i puntini di sospensione, fuori parentesi, rappresentano le pause brevi, mentre le pause lunghe sono segnalate con la dicitura “pausa”, tra parentesi quadre; le parentesi tonde indicano la pronuncia non definita di un fonema; la punteg- giatura segue, in genere, le norme ortografiche di lingua. 2) Il crocifisso ligneo, databile al XV sec., proveniente, forse, dalla scuola di Donatello, è provvisto di braccia snodabili che ne rendono possibile il trasporto su una portantina di legno. Per quanto riguarda la tradizione popolare, cfr. il seguente testo, raccolto a Bagnoregio: se ddormiva cquì, rimaneva a Bbagnorèggio. C’è ppròprio ‘n diritto. Ap- pòsta lo portònno via (Blaspop. II:857). Cfr. Civita: O piòve o fiòcca “nevica”, Cristo di Bbagnorèggio a la sera deve ritornà a Ccìvita (ibid.:911).

121 citazioni dei versi di Bocella sorgono spontanee sulle labbra dell’infor- matore.

Venturino (Civita): Quélla sarà, anche magari una leggènda ccu- sì… antepàtica pure! Che nó-… Se rimane a Bbagnorèggio, un ce le déi- no “non ce lo davano” più! Fórze… Fórze ce ll’avéino ll’intenzióne, ma siccóme che nnói da Cìvita andiamo im prucessióne a Bbagnorèggio, pó “poi” ritornamo a Ccìvita! Allóra nu le “lo” lasciamo llì, si le “ce lo” por- tamo co nnói! Perché ssiamo, órtre devòti, mórto attaccate a qquést’òpe- ra d’arte. […] Dice: «Piovésse a ccatinèlle, r nòstro Cristo nun zi lassa “lascia” dinoèlle»… Da nessuna parte. Si ripòrta ar zu pòsto! […] Ècco! Quésto è r nòstro crucifisso. Quésto si lèva, si tìr(a)no giù le bbràccia, si piégono giù!… Pó si stacca da la cróce… e lo mettiamo su qquésta bbara “portantina” qqui! Guardi, vènga! Si métte su qquésta bbara. Qui cci métto un télo, cu m materazzo “materasso”, si métte qqui ssópra. Allo scopèrto ccusì. Nun è una bbara copèrta! Ècco perché qquéllo dicéa… Quér vècchjo… Tanti anni fa! (Di)ce: «Innòrca sù “metti il peso in spal- la”, Bbillà! Sólo tu cce le “la” pòi fà»! Si levàino “toglievano” la ggiac- ca, se piovéa! Si levàin-… Dònne, si levàino… quéllo che cc’avéino! E ccoprìino quésto crucifisso… pe nun fallo sciupà!

Nel testo successivo, registrato nel capoluogo comunale, si è seguito il procedimento inverso. Presso la bottega del sarto, Vincenzo Eleuteri (1933), detto Cincino, istruzione elementare, cultore di storia e costumi locali, si è reso palese l’oggetto della ricerca, e la menzione del succitato sonetto, ben noto alla fonte, ha provocato il ricordo di un fatto a cui ha assistito personalmente, nel corso della seconda guerra mondiale.

Cincino (Bagnoregio): Sì, ma io, mi ci sò ttrovato anch’io “è capi- tato anche a me”! […] Èh! Na prucessióne, na… Vénne ll’acqua “piog- gia” che Ddio sólo le potéa mannà ttanta! Tanta, tanta, tanta! Alló(r)a i civitònichi dìssero, dice, dice: «Nò!», dice, «Se lasciamo l Cristo», dice, «n ce le “non ce lo” danno più! Perché bbasta che ddòrme (na) nòtte a Bbagnorèggio, un ce e “non ce lo” danno più»! Alló(r)a che ffécero? Si cavàrono “tolsero” i cappòtti, le ggiacche… Cuprìrono sto Cristo! C’è una bbara. E ppartìrono! Quanno fùrono ggiù ppe lò-… Usciti di Bba-

122 gnorèggio… vénne r zeréno “tornò il sereno” co-… [pausa] Ne parlo mi ci commuòvo. [pausa] Dunque, sarà stato ne… ner quarantatré qua- randaquattro, appéna passata la guèrra “subito dopo il passaggio del fronte”.

3. Commenti linguistici

Sebbene i testi prescelti siano piuttosto concisi, permettono di con- statare come l’affinità dialettale tra i due parlanti – altamente rappresen- tativi delle rispettive comunità – sia quantomeno elevata. Essi stimolano, inoltre, alcune brevi osservazioni. Si noterà come, a parte certe forme di lingua nel primo brano (an- diamo, siamo, mettiamo, ecc.), senz’altro dovute al contesto3, persistano dei tratti conservativi già attestati nei versi del Paparozzi, quali la caduta di -v- intervocalica (piovéa, potéa, ecc.), il rotacismo (órtre, mórto, r ze- réno, ecc.), la preposizione cu “con” e l’avverbio un “non”. Si registra, poi, il cambio dalla prima coniugazione verbale alla se- conda (déino), mentre manca il passaggio dalla seconda alla terza, pre- sente invece nei sonetti (per cui si ha, ad esempio, dicéa e non dicìa)4. In un quadro di generale “instabilità” delle vocali atone, trovano conferma la tendenza di -a- a trasformarsi in -i- all’interno di certe voci verbali (avéino, levàino, ccoprìino, ma anche piégono) e la vitalità della chiusura di -o- in -u- (cuprìrono, prucessióne, ma anche dinoèlle, a fronte del “paparozziano” di nuelle). Persiste, poi, la peculiare conservazione di -i in mi, ci, si, di. Tra le caratteristiche non documentate da Bocella, si citano il prono- me le “lo” “li” “la” “le”, anche in forma aferetica (un ce e danno più) e il rafforzamento della consonante nasale n in innòrca. Per quanto riguarda le oscillazioni linguistiche, saltano all’occhio 3) L’utilizzo del pronome di cortesia “lei” (guardi!, vènga!), in luogo del tradizionale “voi”, sarà dovuto, più che alla situazione d’intervista, al divario generazionale tra l’in- formatore – avvezzo alla conversazione con i numerosi turisti che visitano Civita – e il ricercatore. 4) Più in generale, non si può fare a meno di constatare il sostanziale adeguamento del dialetto, per quanto riguarda il vocalismo tonico, alla lingua nazionale (es.: métte in luogo dell’antico mitte), evoluzione già documentata nell’edizione dei sonetti di Ales- sandro Gaddi.

123 l’insolita sonorizzazione in quarandaquattro e, nel brano di Civita, un’occasionale apertura di -i finale in -e (mórto attaccate) e due episodici casi di mancato rafforzamento di g- in posizione iniziale: si tìr(a)no giù le bbràccia, si piégono giù. Per la sintassi, vd. almeno le costruzioni anche magari, antepàti- ca pure “anche antipatica” e siccóme che nnói, la ridondanza di alcuni elementi sintattici (sì, ma io, mi ci sò ttrovato anch’io) e, nella rielabo- razione dei versi del Paparozzi, l’impiego di “si” + voce verbale nella locuzione nun zi lassa dinoèlle. Va da sé che la brevità dei brani riprodotti, oltretutto registrati presso due soli informatori, non consente una più esaustiva disamina dello “sta- to di salute” del dialetto bagnorese e delle trasformazioni linguistiche in atto. Una più vasta raccolta di testi permetterebbe, inoltre, di effettuare considerazioni più approfondite sul piano sintattico – settore particolar- mente carente di studi nella nostra provincia –, e di contribuire a fornire materiali per una descrizione sistematica della fenomenologia dialettale, nonché dello stesso atteggiamento psicologico dei parlanti nei riguardi dei cambiamenti in corso.

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127 © 2012 - Flavio Frezza. Tutti i diritti sono riservati a norma di legge.

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2012 presso la Tipolitografia Quatrini snc - Viterbo Flavio Frezza, nato a Viterbo nel 1974 da una famiglia originaria della Teverina, si è occupato a più riprese dei dialetti e delle tradizioni popolari di questa subarea del Viterbese, dapprima avviando una collaborazione, tuttora in corso, con la rivista La Loggetta – Notiziario di e la Tuscia e, più recentemente, come autore delle monografie Il paese del “Bucèfere”: il carnevale fa testamento a Grotte Santo Stefano (Viterbo 2012) e Il solco di Sant’Isidoro a Fastello: una ricerca folclorico- linguistica tra il lago di Bolsena e il Tevere (Montefiascone 2012).

Socio fondatore dell’Ass. Cult. “Ecomuseo della Tuscia” (Grotte Santo Stefano), collaboratore del gruppo di studi “Vocabolario dialettale della Tuscia Viterbese”, il ricercatore ha dato l’avvio a un’indagine approfondita e sistematica sulle parlate del Bagnorese, di cui il presente volume non rappresenta che un’anticipazione, e che si concretizzerà, prossimamente, con la pubblicazione del “Vocabolario del dialetto di Bagnoregio”.

Comune di Bagnoregio