La spettacolarizzazione nella televisione italiana

Dissertation zur Erlangung des akademischen Grades eines Doktors der Philosophie

Eingereicht von Francesco Marinozzi an der Kulturwissenschaftlichen Fakultät der Europa-Universität Viadrina in Frankfurt (Oder)

März 2004

Gutachter:

Prof. Dr. Eckhard Höfner Professur für Vergleichende Literaturwissenschaft und Medienforschung Europa-Universität Viadrina Frankfurt (Oder)

Prof. Dr. Peter Schulz Lehrstuhl für Kommunikationswissenschaft Università della Svizzera Italiana Lugano

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Mit der finanziellen Unterstützung der Otto-Wolff-Stiftung und der Hanns-Seidel-Stiftung

3 Indice

INTRODUZIONE 6

I. DALLA CATTEDRA AL PALCOSCENICO: lo iato tra paleo- e neo-televisione 8

1. Dalla pedagogia al marketing: le strategie dell’industria culturale 11

2. La “ricostruzione” attraverso l’immaginario visivo: secondo dopoguerra e 21 nascita della televisione

3. Dal “boom” economico alla guerriglia urbana: gli anni ’60 e la scomparsa 34 delle lucciole

4. The catcher in the rye e il ritorno a casa: gli anni ’70 tra rivoluzione e 41 riflusso

5. La centralità del “gatto”: gli ’80 e ’90 tra logica di mercato e politica 54 industriale

6. Il paese dei balocchi e la fine del “grillo”: dalla paleo- alla neo-televisione 64

7. L’identità attraverso il flusso: i palinsesti di paleo- e neo-televisione a 70 confronto

Appendice (Palinsesti) 77

II “LOADING MATRIX”: l’universo televisivo tra spettacolo e simulazione 113

1. Dalla “spettacolarizzazione” alla “simulazione”, ovvero il perfezionamento 117 del dispositivo “artefattuale”

2. Dalla menzogna alla presenza, ovvero dalla simulazione alla realtà 132

3. Il gioco delle parti: la testualità tra manipolazione e comunicazione 153

4. La conversazione simulata: il patto fiduciario nella neo-televisione 175

- Conclusioni 180

III. “TORNO SABATO… E 3”: spettacolo e simulazione nel varietà del sabato sera 183

1. Il linguaggio televisivo: grammatica e sintassi delle immagini 183

2. Dall’ideazione alla trasmissione: genesi e gestazione del programma 187 televisivo

3. “Torno sabato… e 3”, il varietà del sabato sera 188

- Conclusioni 222

4 CONCLUSIONI 225

BIBLIOGRAFIA GENERALE 232

5

Introduzione

È il lontano 1972 quando Raymond Williams, già professore all’università di Cambridge, viene chiamato a tenere un semestre alla Stanford University, in California. Una sera come molte altre, “facendo dello zapping” nella sua stanza d’albergo, si accorge delle enormi differenze esistenti tra la televisione inglese (dominata ancora da forti istanze pedagogiche) e quella americana (molto più commerciale e spettacolare). Lo studioso resta impressionato anzitutto da tre cose: dalla frequenza con cui ricorrono gli spot pubblicitari, dall’assenza di una qualche segnalazione degli stessi e, infine, dal fatto che essi vadano a fondersi proprio con le trasmissioni che interrompono (anche perché, molto spesso, gli assomigliano). Profondamente segnato da questa esperienza, in una ricerca del 19731, conia il termine “flow”, “flusso”, che applica alla programmazione americana. La tv, oltre oceano, è uno strumento di puro intrattenimento, pienamente e felicemente inserito in un regime di concorrenza, in un regime cioè dove quasi ogni mezzo è lecito per “rosicare” ascolti all’avversario, dove il divertire deve essere un servizio a portata di mano, un servizio accessibile in qualunque momento della giornata. In questo senso, il medium deve inscriversi nella quotidianità, deve pianificare la sua offerta in modo tale da inserirsi, da fondersi con la vita dei suoi spettatori: la televisione fluisce (“to flow”), scorre come un fiume, o meglio, come un ruscello e accompagna le attività dell’ascoltatore, come un sottofondo, come una sorta di colonna sonora dell’esistenza. La tv americana è retta infatti da appuntamenti che ricorrono regolarmente, tutti i giorni, alla stessa ora, sullo stesso canale e che si succedono, fondendosi fra loro, senza interruzioni di sorta. Ciò ha due conseguenze: - una mescolanza dei formati (risultato finale del flusso); - una “teatralizzazione”, o meglio, una “spettacolarizzazione” della vita: la televisione, in quanto strumento spettacolare, riproducendo e inserendosi nella quotidianità, trasforma la stessa a propria immagine e somiglianza, come se dovesse assolvere a istanze pedagogiche di tipo nuovo. Secondo Williams, è proprio questo l’aspetto più sconvolgente, l’aspetto più scioccante della tv statunitense. Alla luce di questa considerazione, va ad affermare quanto segue:

«(…) una delle caratteristiche peculiari delle società industriali avanzate è che l’esperienza teatrale sia divenuta parte integrante della quotidianità a un livello quantitativo tale, rispetto alle epoche precedenti, da apparire una radicale trasformazione qualitativa. Quali che siano le ragioni sociali e culturali profonde, è chiaro ormai che, attualmente, assistere alla simulazione drammatica di un’ampia serie di esperienze della vita reale fa parte a pieno del modello culturale contemporaneo…» (R. WILLIAMS: 2000, 80).

Ma, a noi, cresciuti con la tv commerciale, considerazioni di questo tipo ci paiono né più né meno che una constatazione fenomenologica di un certo stato di cose. I toni vagamente “drammatici” invece ci sembrano del tutto “naïf”. Tuttavia, la lettura del testo di Raymond Williams ci ha fatto riflettere su un aspetto molto importante: il fatto che il mezzo televisivo imiti la quotidianità e che questa ne resti in qualche modo condizionata è solo un accidente storico. Detto in altri termini, i formati, il linguaggio, la struttura della programmazione di cui la tv oggi si serve ci appaiono del tutto normali, o meglio, i

1 Si tratta di un’analisi comparata tra la televisione inglese e quella americana, pubblicata nel testo: - R. WILLIAMS, Televisione. Tecnologia e forma culturale, Editori Riuniti, Roma, 2000.

6 soli possibili, soltanto perché sono stati “fagocitati”, “digeriti” e “metabolizzati”, fino a diventare quasi una parte del nostro DNA. In realtà, tutto ciò che vediamo, seduti comodamente sulla poltrona di casa nostra è l’effetto di un’evoluzione del mezzo, cominciata cinquant’anni fa e determinata da una serie di cause complesse e di natura eterogenea. La televisione delle origini, in effetti, doveva assomigliare molto di più a quella che aveva presente il nostro studioso, quando si recò per la prima volta in america, che non a quella odierna, di flusso, “quotidianizzata” e “spettacolarizzante”. Ci siamo domandati allora anzitutto che cosa significassero alcuni termini essenziali come “quotidianità” e “spettacolo” (visto che l’ibridazione dei formati, oggi, va tutta in direzione dell’intrattenimento [info-tainment, culture-tainment, docu-tainment…]) e in secondo luogo che cosa poteva aver causato certi effetti nei linguaggi audiovisivi contemporanei. Nel corso della ricerca, ci siamo accorti che un vero e proprio “iato” si è prodotto nella seconda metà degli anni ’70, quando nascono le prime emittenti private; ci è sembrato allora doveroso mostrare al lettore in che cosa tale iato consisteva e che tipo di cambiamenti esso ha generato. Detto in altri termini, abbiamo rilevato la necessità di fornire una chiave di lettura storica, che potesse servire in qualche modo a isolare le cause scatenanti, o meglio, gli elementi che hanno prodotto e introdotto delle novità nell’universo televisivo. Successivamente, abbiamo cercato di chiarire alcuni dei termini di cui sopra, offrendo, in aggiunta, degli strumenti per l’analisi di alcuni programmi. Forti di queste solide basi teoriche, abbiamo potuto analizzare una trasmissione di tipo tradizionale, per vedere quanto le sopra citate novità, quanto i sopra citati cambiamenti abbiano influenzato un “formato spettacolare paleo-televisivo”. Nella speranza di non aver anticipato troppo i temi d’analisi e di aver stimolato un certo interesse, rimandiamo immediatamente alla lettura del testo.

7 CAP. I “DALLA CATTEDRA AL PALCOSCENICO” Lo “iato” tra paleo- e neo-televisione

Preliminarmente allo svolgimento del nostro lavoro, ci sembra doveroso giustificare la presenza di un capitolo di tipo storico-massmediologico (come quello che ci accingiamo a scrivere), all’interno di un volume che ha la pretesa di definirsi “semiotico”. Le ragioni sono svariate e di diversa natura, ma a noi interessa sottolinearne principalmente due. La prima concerne la natura stessa del tema della nostra ricerca, riguardante un fenomeno che da un lato si estende nell’arco di due decenni (penetrando ogni ambito della programmazione e diventando a tutti gli effetti l’elemento peculiare della tv dei giorni nostri) e dall’altro affonda le sue radici in ambiti differenti, nutrendosi e proliferando grazie ad “alimenti” di natura eterogenea. Del resto, la televisione stessa, proprio a causa della centralità che assume, è (molto più degli altri media) l’anello di congiunzione tra una serie di campi di forza che ne condizionano lo sviluppo e la programmazione. Da sempre, infatti, la tv (come prodotto) è nient’altro che la risultante della negoziazione e dello scontro fra quattro soggetti: mondo politico (almeno per quanto riguarda la televisione statale), operatori del settore, finanziatori pubblicitari e infine, last but not least, il pubblico. Nel sostenere questa ipotesi di lettura, ci riallacciamo a una lunga tradizione di studi sui media che, lungi dal descrivere in modo lineare il rapporto tra consumatore e produttore, cerca di individuare tutti gli elementi in gioco, secondo una complessità e un polimorfismo dei collegamenti. In questa sede, ci sembra opportuno citare due opere, che chiarificano meglio di altre quanto stiamo per dire. Il primo è un testo dell’americana Wendy Griswold, Sociologia della cultura2, nel quale si trova uno schema che indica inequivocabilmente i fattori che concorrono (con peso più o meno maggiore) non solo alla produzione, ma anche all’attribuzione di significato a un oggetto; stiamo parlando del celeberrimo diamante culturale3 che riportiamo qui di seguito.

Mondo Sociale

Creatore Ricevitore

Oggetto Culturale

Il presente grafico ha un vantaggio: quello di non definire a priori da chi è ricoperto e in che direzione si esercita il ruolo predominante. La Griswold in effetti si limita a compiere due operazioni: da un lato stabilire quanti e quali sono i diversi attori sociali, dall’altro sottolineare tutte le possibili relazioni e tutti i possibili giochi di forza fra di essi. La figura del diamante può essere letta pertanto da più punti di vista, da più prospettive: ciascun vertice può venire collegato con tutti

2 W. GRISWOLD, Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna, 1997. 3 Ib., 31. 8 gli altri, mediante gli assi verticale, orizzontale od obliqui, in maniera tale che le diverse relazioni ottenute esprimano un differente equilibrio delle parti. Tale descrizione ci pare particolarmente rilevante, in quanto sottolinea due punti di sostanziale importanza: a. La complessità delle cause produttrici dell’oggetto culturale. b. La possibilità concreta che ciascuna di queste cause ricopra un ruolo di primo piano. Esiste però anche un’altro schema, che ci sentiamo qui in dovere di riportare; è quello di Hirsch4, ripreso peraltro dalla stessa Griswold nel testo citato. Si tratta di un grafico attraverso il quale lo studioso tenta di descrivere il processo che conduce un qualsivoglia oggetto industriale (per esempio un’opera discografica) al lancio sul mercato, sottolineando tutte le funzioni di “filtro” che intervengono a definirne qualità e caratteri.

Sottosistema Tecnico Sottosistema Manageriale Sottosistema Istituzionale Consumatori/Mercato (artisti, creativi) Filtro 1 (Organizzazioni) Filtro 2 (Media) Filtro 3

Area di input Area di output Feedback

Tale disegno ci sembra abbastanza esplicativo, in quanto rende giustizia dell’iter complesso che un disco, un film, un libro o un qualsivoglia oggetto (che voglia fare il proprio ingresso sul mercato dei consumi di massa) deve affrontare. Il sottosistema tecnico è costituito dall’insieme degli artisti, dei creativi, dei geni e di tutto coloro che hanno idee nuove e originali da proporre. Tali idee sono tuttavia più numerose di quelle che il mercato può effettivamente accogliere e, per questo, è necessario che venga operata una selezione, finalizzata alla riduzione dell’eccedenza quantitativa. Per arginare quest’opera di “epurazione” (che tale eccedenza ridurrebbe), i potenziali innovatori si rivolgono a dei soggetti (manager, impresari…) che li aiutino a “entrare” nel circuito mediatico: si tratta del sottosistema manageriale, vera e propria interfaccia fra i mezzi di comunicazione ufficiali e il mondo artistico. Ma il processo di filtraggio non può arrestarsi qui, perché la selezione appena avvenuta non è capace di eliminare totalmente l’eccessiva disponibilità di idee. I media si dotano pertanto di altre interfacce (come per esempio i talent scout), per effettuare un’ulteriore cernita (che si basa questa volta su una sorta di percezione empatica dei gusti del pubblico). È questo il “Filtro 2”, che compare nel grafico. Successivamente, le istituzioni (mediali) intervengono in prima persona a decidere su quali prodotti scommettere (la scelta ricade solitamente su quelli che sembra rispondano meglio agli orientamenti di consumo): siamo al “Filtro 3”. Finalmente, l’oggetto arriva sul mercato, “ultimo tribunale”, verifica finale di tutte le strategie industriali. Tale verifica è rappresentata graficamente dalle due zone di feed back, in cui i sottosistemi istituzionale e manageriale valutano: - quantità delle vendite; - risposta dei mezzi di comunicazione, non implicati nel lancio. Dall’analisi di questi due risultati vengono ottenuti, “secunda facie”, i criteri di produzione dei futuri beni di consumo. I due esempi descrivono in modo abbastanza preciso la complessità che definisce ogni “oggetto culturale” e, quindi, ogni messaggio/programma televisivo (in quanto oggetto culturale esso stesso): esso è l’esito finale di un processo di negoziazione continua fra “centri di potere” differenti (siano essi di natura sociale, economica o politica), fra soggetti che definiscono in maniera diversa, a seconda del momento storico, le caratteristiche e il significato di un certo artefatto. Acquisito questo guadagno, possiamo tornare al nostro discorso sull’utilità di fornire una prospettiva, una spaccato sulla storia della televisione in Italia.

4 P. M. HIRSCH, Processing Fads and Fashions: an Organisation Set Analysis of Culture Industry System, in American Journal of Sociology, n° 77, 639/659. 9 Una cronologia (seppur breve) di quegli avvenimenti che hanno coinvolto il medium consentirebbe in effetti di definire in modo più preciso quella complessità di fattori che sia la Griswold, sia Hirsch consideravano caratteristica (quasi) ontologica del prodotto culturale. Poiché il nostro tema (pur comportando un’analisi dell’oggetto televisivo) implica una riflessione e un giudizio su un intero fenomeno, ci è sembrato utile cercare di andare oltre una semplice griglia di analisi e un metodo puramente teorico, per cercare di spiegare in che modo e perché il suddetto fenomeno è venuto all’essere. Un metodo esclusivamente teorico, per l’appunto, è senza dubbio il mezzo migliore (anzi forse l’unico sistema possibile) per scoprire che cosa accade, nello specifico, in un testo televisivo in quanto tale; tuttavia, da un altro lato, esso ci sembra insufficiente a isolare gli elementi scatenanti, le cause che hanno prodotto un determinato effetto, all’interno di una macchina così complessa come la tv. Uno sguardo alla storia del mezzo, imbrigliata inesorabilmente nelle maglie della storia della società italiana, permetterebbe invece di mettere in relazione l’argomento che ci accingiamo ora a trattare con le sue varie concause. Del resto, già Aldo Grasso, preliminarmente all’analisi di alcune fiction e alcuni spot televisivi, aveva riconosciuto la necessità di utilizzare una “metodologia comparata”, sintesi di sistemi interpretativi differenti.5 Ci sembra di poter condividere questo giudizio. La seconda ragione per cui ci è sembrato necessario tratteggiare una cronologia è che, il nostro, è un lavoro che si rivolge a dei lettori stranieri i quali, in quanto tali, potrebbero non aver presente in quale quadro si svolge un certo processo o si colloca un determinato fenomeno. Tuttavia, non si ha qui la pretesa di scrivere una storia che esaurisca in se stessa il quadro degli eventi che coinvolgono il mezzo, perché ciò sarebbe impossibile, nell’economia del lavoro. Si tratta infatti di un lasso di tempo alquanto esteso (circa un quarantennio, o forse più), in cui l’Italia ha subito diverse metamorfosi economiche, sociali e politiche. Sarebbe impossibile riportare qui tutti i fatti, sarebbe impossibile rendere giustizia di ogni avvenimento; forse non basterebbe neanche un libro intero. Per questo motivo, abbiamo dovuto operare un’attenta selezione, pervasi dal timore di aver tralasciato qualcosa di decisivo. In questo, ci siamo “lasciati aiutare” dalla lettura dei testi di coloro che, prima di noi, hanno dovuto affrontare questo problema, vagliando passo per passo e verificando, talvolta in prima persona, la ragionevolezza delle loro scelte. Tutto ciò ha un’implicazione abbastanza importante: il fenomeno è stato letto a partire da un punto di vista preciso e definito, tanto preciso e definito da condizionare la prospettiva di lettura, come “lente (quasi) deformante” che si frappone fra l’oggetto e l’occhio. In ogni caso, le ragioni delle nostre scelte verranno palesate nel corso della narrazione. Qui ci appare doveroso inserire un’ulteriore giustificazione, relativamente alla scelta per cui abbiamo deciso di prestare maggiore attenzione agli anni settanta e ottanta. Perché questo periodo è per noi così importante? In primo luogo, perché il fenomeno in questione inizia a manifestarsi in tutta la sua pregnanza proprio a cavallo di questi due decenni, acquistando maggior forza negli anni ’80 e affermandosi del tutto negli anni ’90; in secondo luogo perché tale fenomeno è la risultante di una serie di mutamenti

5 Così Aldo Grasso nella sua introduzione alle schede di analisi di alcuni prodotti di fiction: «Anziché chiudersi nel comodo guscio di un approccio teorico, magari verificato da numerosi riscontri empirici e fortificato da illustri sistematizzazioni teoriche, ma pur sempre parziale, appare più utile recuperare e selezionare dalla ormai vasta tradizione di studi e ricerche sui testi mediali gli approcci che sembrano particolarmente significativi, perché illuminano punti diversi di quell’oggetto complesso che è, nel nostro caso, la fiction televisiva. Per l’approccio ai testi di fiction è possibile attingere a diversi campi disciplinari, ciascuno dei quali evidenzia uno dei molteplici “significati” che il testo mediale può assumere: se la moderna narratologia ha approfondito l’analisi degli elementi e delle strutture del racconto, differenziando e distinguendo le categorie utilizzate nei diversi linguaggi (…), la semiotica enunciazionale ha descritto il testo come un dispositivo che mette in relazione il soggetto enunciatore e il suo pubblico; così, se l’approccio dei Cultural Studies indaga sul ruolo dell’audience e delle variabili quali gender, age, class, race nella produzione e nella fruizione dei testi mediali, la storia dei media e della televisione aiuta la comprensione dei fenomeni comunicativi inquadrandoli in cornici di riferimento più ampie», A. GRASSO, Radio e televisione, Vita e Pensiero, Milano, 2000, 212, 213. 10 sociali, economici e politici che si realizzano proprio nel lasso di tempo in questione. Ecco dunque la particolarità del ventennio: quella di essere al centro di una serie di “sconvolgimenti” (non c’è davvero termine migliore per definire l’entità di questi fatti), dati dall’opposizione dialettica di forze (di natura politica e sociale) eterogenee; si tratta cioè di un periodo caratterizzato dallo “scontro” e le lotte e le violenze di piazza ne rappresentano l’emblema.6 Ma in ogni guerra, in ogni conflitto, ci sono vinti e vincitori, così la belligeranza degli anni ’70 (e la vittoria di una delle varie fazioni in gioco) produrrà gli anni ’80, segnati dalla vittoria della logica di mercato e di un consumo con caratteristiche nuove.7 Non vogliamo tuttavia esaurire in questa sede la descrizione del periodo; ci premeva qui soltanto fornire una giustificazione della nostra scelta. Del resto, le ragioni di questa nostra opzione saranno evidenziate maggiormente più avanti, quando si sarà entrati più appieno nella narrazione, quando cioè tutto quello che stiamo dicendo non sembrerà così astratto, ma risulterà invece strettamente legato alla dimensione reale dei fatti. Per ora, ci basti soltanto sottolineare con forza la crucialità del periodo ‘70/’80. Ma perché allora, se la fase più importante della storia della tv (almeno per quel che riguarda il nostro oggetto di studio) è tale ventennio, la nostra narrazione comincia dalla nascita del servizio regolare nazionale nel 1954? La risposta è molto semplice; perché, come si vedrà, l’appiattimento del prodotto televisivo sul genere “spettacolare”, da un lato produce una cesura rispetto a ciò che esisteva prima, dall’altro introduce dei modi totalmente differenti di intendere il medium e le sue funzioni (creando una realtà mediale completamente “altra”). La tv, in sostanza, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, prende una nuova rotta, dispiega nuove strategie nell’elaborazione del messaggio e nella costruzione del rapporto con il suo pubblico. Fatte queste precisazioni, è possibile procedere oltre con il lavoro di analisi.

1. Dalla pedagogia al marketing: le strategie dell’industria culturale

Il percorso storico che qui vogliamo tracciare non vuole essere una semplice e magari sterile cronologia, ma un vero e proprio “strumento interpretativo” di cinquant’anni di televisione. Tuttavia, per realizzare un simile obiettivo, non ci si può limitare alla narrazione di alcuni fatti (più o meno importanti), ma è necessario invece cercare di azzardare delle ipotesi su “chi” o “che cosa” può avere tali fatti prodotto e “in base a quali idee” ha agito. Pur riconoscendo il grande rischio di valutare scorrettamente un complesso abbastanza delicato di avvenimenti, dobbiamo prenderci la briga di affrontarlo, nell’obiettivo di fornire al potenziale lettore un’analisi che sia degna di tale nome, uno spaccato del nostro passato che possa essere illuminato davvero da una luce chiarificatrice. A questo fine, per poter cioè comprendere meglio il significato del quadro che ci accingiamo a dipingere, vogliamo offrire delle categorie paradigmatiche, attraverso le quali osserveremo le vicende del mezzo televisivo, come attraverso una lente di ingrandimento. Si tratta di una serie di macro-categorie che descrivono, sostanzialmente, le strategie in base alle quali, non solo la tv, ma tutti i mezzi di comunicazione sono stati utilizzati; esse indicano cioè modi differenti di intendere l’utilizzo dei media, modi che spesso convivono anche assieme ma che, di volta in volta, a seconda

6 In merito agli attriti, agli scontri e alla violenza che caratterizzano gli anni ’70, scrive Fausto Colombo: «Lo scontro politico e sociale ha segnato obiettivamente (anche se in modo non esclusivo) il periodo: basti pensare alla durata delle contestazioni studentesche (assai più lunghe che in qualunque altro Paese dopo la fiammata del ’68), o al terrorismo come svolta radicale e drammatica dei conflitti di piazza, culminata con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978…», F. COLOMBO, Gli anni delle cose, I.S.U., Milano, 2000, 9, 10. 7 Colombo segnala bene come ci fossero delle forze contrapposte, alla base dello sviluppo sociale italiano, a cavallo fra anni ’70 e ’80: «(…) il contrasto evidente fra questo brusco scarto di modernizzazione e il successivo riflusso (…) accentuando la pulsione alla soggettività, segnala la profonda ambiguità delle istanze che attraversarono la società italiana, che da un lato potevano apparire antagoniste, dall’altro potevano essere lette sotto alcuni aspetti come puramente funzionali a uno sviluppo liberal-moderno, con l’accentuazione dei diritti di consumo e garanzia rispetto a quelli di partecipazione», Ib., 10. 11 del periodo storico, assumono un equilibrio reciproco diverso (determinando il clima mass- mediatico generale). Di tali categorie non possiamo assolutamente rivendicare la paternità, poiché coniate da Fausto Colombo8, il quale ci ha fornito del materiale preziosissimo, sia da un punto di vista storico, sia da un punto di vista paradigmatico. Procediamo per gradi. Se diamo uno sguardo allo sviluppo dell’industria culturale nel nostro paese, possiamo riconoscere la presenza di due strategie, che percorrono, in lungo e in largo, la cronologia della mass- comunicazione; ognuna di esse è poi, a sua volta, declinabile in altri due rispettivi atteggiamenti: alla fine, individueremo pertanto quattro approcci. Osservando sinotticamente le complesse e travagliate vicende che coinvolgono il mondo dell’editoria in primis, e della radio e della tv in secundis, possiamo identificare un uso del sistema mediatico, finalizzato alla diffusione di un sistema di valori, condiviso da una certa élite; questo approccio fa capo a una strategia ben precisa che definiremo pedagogizzante9, all’insegna della quale nascerà l’industria dell’immaginario, meglio definita “industria culturale” dalla “Frankfurter Schule”10. Esiste tuttavia anche un altro modo, un’altra prospettiva, un’altro orizzonte verso il quale i media si sono mossi: l’intrattenimento, vale a dire una concezione “ludico- industrial-culturale” del prodotto. Questa è quella che chiameremo strategia dell’intrattenimento. Ma come si diceva, questi due approcci (che evidenziano l’esistenza di due finalità differenti all’interno del processo di codifica del messaggio) sono declinabili, a loro volta, in altri due atteggiamenti distinti. Cominciamo dalla strategia pedagogizzante, che è, in fondo, quella che segna l’inizio, la nascita dell’industria culturale. Siamo alla fine del diciannovesimo secolo; l’unità politica dell’Italia è appena avvenuta ma, nello stivale, esistono ancora differenze enormi, solchi profondi da colmare. Il nostro, è un paese segnato da piaghe come quelle dell’analfabetismo (oltre che della povertà), dell’utilizzo prevalente del dialetto, della compresenza di culture, usi e costumi talvolta incompatibili fra loro… Di fronte a un quadro di questo tipo (vagamente catastrofico), sia il potere politico, sia le élites culturali hanno come preoccupazione principale quella di “fare gli italiani”, cioè di creare un’identità nazionale anzitutto da un punto di vista assiologico (attraverso l’offerta di un complesso sistema di valori identico per tutti) e poi da un punto di vista culturale e dei consumi (soprattutto dopo la seconda guerra mondiale). La rotta intrapresa da chi detiene il timone dello Stato è allora quella della costruzione di un’identità (in parte) ancora inesistente; si capisce dunque come i mezzi di comunicazione di massa (ma anche le scuole e le università) siano strumentali alla realizzazione di questo obiettivo, come essi vengano piegati a una strategia di tipo pedagogizzante.11

8 Ci riferiamo, in particolare, alla sua lettura storica contenuta in: F. COLOMBO, La cultura sottile, Bompiani, Milano, 1998, in particolare le pp. 7/36. Per quanto riguarda, invece, gli anni ’70, segnaliamo l’opera già citata: F. COLOMBO, Gli anni delle cose, I.S.U., Milano, 2000. 9 Si veda in proposito sempre: F. COLOMBO, La cultura sottile, Bompiani, Milano, 1998, 16. 10 Ci riferiamo, in particolare, alle idee espresse in: M. HORKHEIMER – T.W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung. Philosophische fragmente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003; tr. it. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966. 11 Scrive Fausto Colombo: «(…) (i) media (…) divengono un veicolo di valori condivisi dalle élites, che entro ben determinati limiti li “impongono” al pubblico. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che i media sono, in questo caso, o aule scolastiche o salotti allargati, in cui la tradizione circolare dei “gruppi di punta” viene resa pubblica e proposta ai ceti sociali di solito esclusi da essa. Nella fase nascente dell’industria culturale nazionale questa tendenza fu particolarmente evidente per ovvi motivi: la recente unificazione del paese, l’alto tasso di analfabetismo, lo sforzo si “fare gli italiani” attraverso la scuola, lo sport, l’esercito, l’organizzazione del lavoro secondo la nascente ottica industriale, in una parola attraverso l’intero delle occasioni della vita sociale e pubblica, dovettero comportare da parte delle élites uscite dall’esperienza risorgimentale una visione naturalmente pedagogica dei media», F COLOMBO: 1998, 16. 12 Ma tale strategia si è incarnata storicamente in due logiche differenti: a. logica del grillo e b. logica del corvo. a. Perché si parla di logica del grillo e perché essa indicherebbe un preciso modo di intendere la codifica del messaggio? Chi è il grillo? Il grillo non è altro che il “grillo parlante”, il famoso personaggio de Le avventure di , celeberrimo romanzo scritto dal toscano Carlo Collodi. Questa figura ha un ruolo ben preciso e, oseremmo dire, sostanziale all’interno dell’economia del racconto: quello di richiamare il burattino al proprio dovere, di impartire, di volta in volta, di fronte agli errori, degli insegnamenti che possano valere per la vita, delle regole che possano aiutarlo a vivere la quotidianità e il rapporto con gli altri esseri umani. È questa dunque una precisa funzione pedagogica, che penetra in profondità il testo, dipanandosi in tutta la sua lunghezza e attribuendo un senso che inscrive lo stesso testo all’interno di un grande e ambizioso progetto sociale. Si tratta della medesima logica che domina e pervade un altro celeberrimo romanzo, fondamentale in quanto proprio attraverso di esso la nostra classe dirigente ha tentato di costruire “l’identità” nazionale, fornendo valori comuni a “buon mercato” e facendo leva (lasciatecelo dire) su una sfera emozionale, variamente stimolata; stiamo parlando di Cuore di Edmondo De Amicis. La storia è collocata sullo sfondo di una classe scolastica della Torino di fine ottocento e descrive, in modo fortemente drammatico, le “ferite” più profonde di quella complessa realtà sociale che vive e soffre, all’ombra della mole antonelliana: i flussi migratori provenienti dal sud Italia (con l’annesso problema dell’integrazione), le situazioni di povertà estrema, il lavoro minorile in fabbrica, la violenza verso i minori… Per quale ragione abbiamo fatto questi due esempi, tratti dal mondo letterario di fine ‘800? Perché i due testi in questione: da un lato segnano l’inizio della produzione “industrial- culturale” nello stivale12, dall’altro si collocano all’interno di una logica che si oppone nettamente alla strategia dell’intrattenimento, vista come luogo della frivolezza, per non dire della perdizione. A proposito di tale opposizione (fondamentale per comprendere in profondità l’ideologia delle élites), non è un caso che tutto ciò che, ne Le avventure di Pinocchio, rappresenta il male è, in qualche modo, costituito sempre da qualcosa che richiama la cosiddetta “società dello spettacolo”. È per questa ragione che, per lungo tempo, tutto ciò che i media producono, resta legittimato solo se inserito all’interno di un quadro educativo. La televisione degli anni ’50 per esempio si inscrive proprio in questa grande prospettiva, in una prospettiva cioè per cui essa deve essere anzitutto uno “strumento paidetico”, uno strumento necessario a lanciare il paese verso la modernizzazione, o meglio ancora, un organo di controllo, affinché tale modernizzazione possa realizzarsi all’ombra di un certo quadro di valori.13 b. Tuttavia, l’utilizzo dei media ai fini della diffusione di principi etico-culturali, conosce anche una versione più perversa: la logica del corvo. È questa “l’altra faccia” della strategia pedagogizzante, quella di una logica finalizzata alla diffusione di valori, che una certa élite culturale ritiene back ground assiologico possibile di un futuro vivere comune. Ma mentre la logica del grillo implica un consenso, una certa intesa e condivisione di intenti fra chi diffonde le idee e il pubblico, la logica del corvo comporta invece un’opposizione a

12 Per una giustificazione accurata di questa affermazione, rimandiamo alla lettura del testo di Fausto Colombo (:1998), già ampiamente citato. In quella sede, viene dimostrato in modo davvero pregnante, per ricchezza di argomentazioni, la veridicità di un simile giudizio. 13 «E forse non è un caso che, fra i grandi pericoli corsi da Pinocchio, almeno due – il teatro di Mangiafuoco e il Paese dei Balocchi – richiamino più o meno direttamente la società dello spettacolo con le sue lusinghe “immorali”. In diverse fasi l’industria culturale italiana ha fatto i conti con questo fantasma, che legittimava i media soltanto all’interno di un progetto pedagogico, come una sorta di “scuola parallela” (…) Insomma, lo sguardo morale dell’intellettualità si posò inizialmente dall’alto in basso sui media, come quello del grillo sul povero burattino. Anche la televisione degli anni ’50 fu un medium costruito all’interno di un progetto di controllo della modernizzazione…», Ib. 16, 17. 13 un modello che diffonde valori “contrapposti”14; la logica del corvo è dunque un uso ideologico dei mezzi di comunicazione, una strumentalizzazione degli organi informativi. Tale strategia ha conosciuto l’apice del suo sviluppo negli anni del fascismo, anni durante i quali la propaganda del regime aveva imbevuto delle sue visioni del mondo gran parte della produzione cinematografica, radiofonica, letteraria e via dicendo. È dalla necessità di diffondere a tutti i costi i propri valori, i propri ideali, che deriva il controllo della cultura nazionale: attraverso la propaganda, attraverso l’uso ideologico dei canali di informazione, il (o un) regime cerca di costruire, di plasmare un pubblico a propria immagine e somiglianza.15 Ma perché la si è definita logica del corvo? Chi è il corvo? Il corvo è nient’altro che uno dei protagonisti del film Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini; il personaggio, nell’economia del film, è l’intellettuale figlio del dubbio e della certezza e ha la funzione fondamentale di impartire ordini e precetti, in forza della sua posizione culturale, cioè in forza del fatto che appartiene a una certa “crème” di tipo socio- culturale. Ma il volatile, come tutti i regimi totalitari (e, nella fattispecie, il regime fascista), è segnato dalla morte fin dalla sua nascita, e finisce perciò arrostito. Un sistema fondato sull’opposizione è destinato infatti, per sua stessa natura, prima o poi, a scomparire: nell’atto di opporsi a qualcos’altro, non può essere perennemente vincitore. Come disse già il grande cantautore e poeta Francesco De Gregori, in un brano celeberrimo di evidente contenuto antifascista: «(…) e i cavalli a Salò sono morti di noia, a giocare con il nero perdi sempre; Mussolini ha scritto anche poesie. I poeti! Che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa…» Ma questo è un altro problema. Quello che ci interessava qui sottolineare era come questa figura riuscisse in sé stessa a incarnare una complessa strategia, utilizzata primieramente (ma non solo) dal regime fascista. Del resto, il corvo, come nota Fausto Colombo, descrive molto bene il “gracchiare” della radio durante “il trentennio”, come pure il colore delle famose “camicie nere”, braccio armato del partito di Mussolini. Si tratta, tuttavia, di una logica che non muore con la fine della seconda guerra mondiale, ma che continua a persistere anche successivamente, fino ai giorni nostri, come strumento dell’ideologia; logica del corvo, significa pertanto: uso ideologico e propagandistico del sistema mediatico. Esiste tuttavia un utilizzo diverso, più “frivolo”, se così si può dire, dei mezzi di comunicazione di massa, un utilizzo che fa riferimento a un altro tipo di strategia: la strategia dell’intrattenimento. Agli albori dell’Italia post-unitaria, quando l’industria culturale inizia a emettere i primi vagiti, non tutti i suoi settori “si prostrano” alla logica delle élites culturali; esistono infatti ambienti del mondo letterario, musicale e artistico in generale che traggono ispirazione da una tradizione più propriamente spettacolare: il melodramma, l’avanspettacolo, la letteratura popolare…16

14 Ib., pp. 16/18. 15 Come scrive Fausto Colombo: «Ecco allora che la propaganda comincia a costruire in se stessa un’immagine del pubblico come obiettivo da raggiungere prima e meglio degli “altri”, e così facendo scende a un importante e anzi decisivo compromesso con quel pubblico che, nella logica del grillo, è soltanto un destinatario obbligato, senza possibilità decisionale». Ib., 18. 16 Si tratta dunque di una strategia che vive “a latere” di quella pedagogizzante. Alcuni di quei prodotti (anche di grande successo), che nascono nei periodi in cui corvo e grillo signoreggiano, si spiegano infatti soltanto alla luce di una logica dell’intrattenimento. Come scrive Fausto Colombo: «Molti dei contenuti dei primi prodotti di intrattenimento si spiegano dunque in questi termini: le dipendenze salgariane dai testi melodrammatici, la vocazione al movimento di massa del cinema italiano del primo quindicennio del secolo, così come la tradizione più tarda del cinema seriale in costume, la ripresa nel cinema e nella radiofonia dell’avanspettacolo sono tutti indizi della necessità di trovare e riattivare legami da un lato con una tradizione imprenditoriale (quella appunto dell’opera musicale), dall’altro con i contenuti più “popolari” e immediati», Ib., 19. 14 Questa è dunque una strategia che vivrà per lungo tempo nelle retrovie, schiacciata dai colossi del grillo e del corvo e conoscerà il successo solo nell’Italia repubblicana, quando esploderà nei media degli anni ’80 e ’90, segnati in modo ineluttabile dalla presenza di logiche spettacolari e sensazionalistiche. La strategia dell’intrattenimento può essere declinata anch’essa in due forme differenti: a. logica del topo, b. logica del gatto. a. È una logica di tipo artigianal-industriale, basata su una percezione empatica (da parte del produttore) dei gusti del pubblico. La logica del topo è, in questo senso, la strategia tipica di coloro che non hanno come fine primario il guadagno, bensì l’espressione, lo sfogo della propria passione e, dunque, della propria competenza artistica; questi soggetti perciò, essendo più dei “patiti” che non dei grandi imprenditori, si riferiscono soprattutto a un pubblico di nicchia, a un pubblico cioè di appassionati di cui riescono a intuire gusti e bisogni. Ma, a questo punto, permane un interrogativo: che cosa significa logica del topo? Chi è il topo? Il topo non è nient’altro che Topolino, il personaggio della Disney, il cui nome e il cui adattamento italiano hanno la paternità nell’editore Nerbini. Le ragioni per cui si è scelta questa figura sono svariate.17 In primo luogo perché è esemplificativa di un tipo di atteggiamento che un certo settore dell’industria culturale italiana ha avuto, ha e, probabilmente, continuerà ad avere: quello di ispirarsi a dei modelli esteri (nella fattispecie americani), adattandoli alla sensibilità e alla tradizione del nostro paese; in secondo luogo, perché il modo di agire di questo soggetto (:Nerbini) è realmente tipico, o meglio, rappresenta molto bene il tipo di strategie adottate dagli “artigiani industriali”: individuare il gusto di una certa fascia di pubblico, facendo sì che un determinato prodotto (e un determinato genere) diventino sinonimo del proprio marchio. È in forza di questa equazione (prodotto = marchio di fabbrica), scaturita dalla volontà di rincorrere obiettivi di mercato relativamente modesti, che Nerbini e poi l’editore Bonelli (per non citare tutti gli altri che a questo tipo di logica si riallacciano) si concentrano sulla produzione soprattutto di “un” tipo di bene, su una produzione cioè nella quale si specializzeranno e dalla quale non si allontaneranno mai.18 b. Giungiamo così al quarto tipo di logica, esistente senz’altro anche alle origini, agli albori dell’industria culturale italiana, ma “esplodente” soltanto negli anni ’80 (quando cioè la televisione commerciale inizia a diventare una realtà ormai consolidata), (quasi) tiranneggiando in tutti i settori della creazione artistica.19 Questa è la strategia di chi guarda ai “grandi numeri”, di chi vuole che il prodotto sia consumato dal maggior numero di persone possibile. In questo senso, assumono un ruolo di primo piano il marketing, la pubblicità, la promozione a 360 gradi della propria attività: la presente è cioè una logica davvero industriale, una logica di produzione in larga scala, una logica che rincorre un’utenza di massa, un’utenza di proporzioni il più possibile estese. Ma perché si è scelto di descrivere tutto questo con la figura del gatto? Chi è il gatto? Il gatto non è nient’altro che l’immagine, l’archetipo alla base della “statuetta” del “Telegatto”, alla base cioè di quel premio per la produzione televisiva, organizzato

17 Tutto ciò che si sta dicendo, lo si trova in modo più approfondito nel testo di Fausto Colombo (:1998) tra le pagine 19 e 20. 18 Anche Fausto Colombo riconosce infatti che: «Questa industria ha un’idea modestamente commerciale del proprio compito: intercettare il gusto del pubblico, certo, ma anche creare un prodotto dotato di una propria fisionomia specifica confidando nel marchio di fabbrica, e spesso nella sbrigliata invenzione del genere. Fu così per i prodotti di Cinecittà, per la serialità di Totò, di Peppone, di don Camillo, per gli originali televisivi autoprodotti, sulla base di polizieschi di vera o finta origine anglosassone e così via», Ib., 20. 19 «Può inserirsi in questo filone tanto il romanzo popolare italiano, fino al dime-novel della Nerbini negli anni ’20, quanto certo cinema di serie come il mitologico, fino naturalmente alla televisione commerciale dei grandi networks berlusconiani (…) Benché questa logica sia stata presente da sempre (…) essa subisce una svolta decisiva con il boom della televisione commerciale berlusconiana…», Ib., 20, 21. 15 annualmente dalle reti Mediaset. Ma per quale ragione un siffatto “oscar” per il broadcasting televisivo è così importante? Perché questa sorta di “trofeo” non fa altro che premiare il successo di pubblico, cioè (come si è visto) l’obiettivo primario di una strategia di tipo industriale. Di conseguenza, il gatto diventa metafora, figura paradigmatica di una produttività realizzata in base a criteri di fabbricazione “industrial-seriale”, cioè in base a criteri che hanno come scopo principale un consumo quanto mai massificato. Riassumendo, abbiamo qui descritto due strategie, all’interno delle quali rientrano due logiche ben distinte; vediamo di sintetizzare graficamente il tutto: a. Strategia pedagogizzante: - Logica del grillo - Logica del corvo b. Strategia dell’intrattenimento: - Logica del topo - Logica del gatto Come si diceva all’inizio, si tratta di quattro modi differenti di intendere la comunicazione di massa, di quattro modi che, in linea di principio, tendono a convivere, tendono a coesistere. Ma convivenza non significa “equi-potenza”, “equi-importanza” così, in ciascuna fase (della storia dei media), ognuna di queste “Medien-Anschauungen” tende a prevalere su tutte le altre, costruendo, o meglio, imponendo una sorta di clima prevalente. Detto in altri termini, in un determinato periodo storico, vi sono strategie predominanti e non predominanti; quelle non predominanti certamente esistono (e per qualcuno rappresentano anche e senz’altro un archetipo ispiratore), ma “in sordina”, all’ombra cioè di una logica che signoreggia incontrastatamente su tutte le altre. Bisogna poi aggiungere (fatto non secondario) che ciascuno di questi quattro quadri paradigmatici è lo strumento privilegiato di un determinato centro di potere, di una certa élite o di un certo attore sociale; grillo, corvo, topo e gatto sono perciò mezzi attraverso cui fini differenti possono venire “inverati”. È necessario, dunque, chiarire quali sono queste forze in gioco, quali sono questi “attori sociali” che ricoprono un ruolo così importante da determinare le caratteristiche conclusive di un prodotto.20 I “giocatori in campo” (e anche qui ci riallacciamo al già citato testo di Fausto Colombo), ci sembrano essere fondamentalmente quattro: politica, economia, creativi (tradizionali o integrati) e pubblico. Quando si parla di élites (ovvero di soggetti in grado di determinare le caratteristiche dei prodotti mediali) si fa riferimento ai primi tre. Partiamo dal primo, cioè dalla politica. È facile capire il peso, l’influsso che essa può aver avuto, per vario tempo e in vario modo, nell’instaurazione di un certo clima culturale. Nell’Italia post- unitaria o nella prima età repubblicana per esempio, tutti i settori dell’industria culturale sono stati in qualche modo influenzati da un progetto di tipo sociale, da un progetto cioè la cui paternità è attribuibile proprio al mondo politico; il “fare l’Italia” o il creare un popolo culturalmente omogeneo, pronto alla modernizzazione del paese, sono infatti due obiettivi “sposati” proprio dalla classe dirigente. Il primo dei quattro attori in gioco, dunque, è orientato verso un tipo di strategia pedagogizzante che si declina, nel caso delle istituzioni, in logica del grillo e, nel caso dei partiti, in logica del corvo. Passiamo al secondo fattore, cioè ai soggetti economici. Essi appartengono a due categorie: a. industriali-artigiani, b. industriali tout court. a. Si tratta, in questo caso, di personaggi caratterizzati da un orizzonte commerciale particolarmente ristretto (come si diceva già in relazione alla logica del topo); gli industriali artigiani sono cioè individui che hanno una formazione specifica e che, perciò stesso, hanno sviluppato competenze in un campo particolare; ora, proprio sulla base di tali competenze (ovvero sulla base della passione per ciò che producono) cercano di misurare il gusto del

20 Per tutto questo discorso rimandiamo nuovamente al testo di Fausto Colombo (:1998), già ampiamente citato. 16 pubblico, o meglio, non “del” pubblico (cioè non di un pubblico in generale), bensì di “un” pubblico (ovvero di un pubblico di nicchia), cioè di un gruppo di soggetti con cui condividono la “predilezione”, la “propensione verso”, il “culto di” un determinato genere. In questo senso, cioè in forza del fatto che il rapporto produzione/utenza è di tipo empatico, è difficile che l’ “artigiano” sconfini in altri “scomparti”, in altri settori, di cui non ha esperienza.21 L’industriale-artigiano, in quanto tale (cioè in quanto artigiano), foggia perciò un bene quasi esclusivamente per una cerchia di appassionati, per una cerchia di individui di cui condivide gusti e, molto spesso, anche idee. b. Per quanto riguarda invece gli industriali tout court, si può forse affermare che il loro obiettivo primario sia anzitutto quello di “far acquistare” i propri artefatti. A differenza degli artigiani, essi estendono infatti il proprio campo di azione “tentacolarmente”, cioè in maniera tale da “colonizzare” tutti i settori della cultura di massa.22 L’obiettivo principale è perciò, in questo caso, la vendita massiccia dei prodotti, o meglio (detto in modo forse un po’ troppo diretto) il guadagno. Per questa ragione, gli industriali sono spinti a percorrere strade differenti, o meglio, fuor di metafora, a occuparsi di tutti i campi che il mondo mediatico gli offre; è infatti seguendo vie così diverse, quasi agli antipodi l’una dell’altra, che la moltitudine dei consumatori, tutta la moltitudine dei consumatori, considerata in tutte le sue articolate sfaccettature (cioè in tutta la sua eterogeneità di gusti e bisogni), può essere pienamente soddisfatta. È questa un tipo di strategia che potremmo forse definire “globalizzante”, nel senso che l’industriale pensa alla propria attività economica nei termini di “impresa globale”, ovvero di un’impresa che si muove alla ricerca di un mercato “universale”. In entrambi i casi, sia che si tratti di artigiani, sia che si tratti di industriali, la strategia comunicativa primieramente utilizzata è quella dell’intrattenimento: il consumatore è “affabulato” attraverso l’attrazione spettacolare. Tuttavia, l’artigianato non è del tutto assimilabile all’industria, almeno per quel che concerne la finalità e la concezione del prodotto: la figura che descrive meglio il ruolo di chi punta su una percezione empatica del gusto del pubblico è quella del topo (ma questo forse era già abbastanza chiaro). Al contrario, chi ha come obiettivo principale il consumo di massa dei beni che produce, rientra nel paradigma interpretativo del gatto. Dopo esserci occupati dell’ “apparato produttivo”, ci sembra opportuno chiarire il ruolo di coloro che, concretamente, sono all’origine del concepimento e della gestazione di un qualsivoglia oggetto culturale, ovvero i creativi. È qui che i “nodi iniziano a venire al pettine”, nel senso che la figura dell’ “artista” in se stessa e la sua relazione con la “committenza” sono aspetti estremamente complessi, estremamente variegati e, quindi, non riassumibili in poche categorie. Tenteremo tuttavia di rintracciare ugualmente dei macro-paradigmi interpretativi, che ci consentano di chiarire, in modo più o meno generale, questo problema. I creativi, nel corso della storia, hanno assunto due posizioni contrapposte nei confronti dell’industria culturale: una esterna (ovvero quella di chi si pone al di fuori dell’universo mediatico) e una interna (ovvero quella di chi vi si pone dentro, rispondendo alle sue logiche); vi saranno perciò degli “intellettuali esterni” e degli “intellettuali interni”.

21 «Emblematico – per esempio – è il caso dell’editore Sergio Bonelli, che continua a produrre fumetti senza spostarsi su altri campi, e facendosi convincere solo con grandissima difficoltà e per brevi periodi a gestire iniziative anomale (come il Festival del film horror organizzato sull’onda del successo di “Dylan Dog”). L’editore è tanto intenzionato a stare dentro competenze che “maneggia” con consapevolezza e intuito, da rifiutare di dare spazio a fenomeni altrimenti molto cavalcabili come il collezionismo (Bonelli ha più volte ripetuto di guardare soltanto al “lettore tradizionale” di comics come proprio interlocutore)», Ib., 27, 28. 22 «È il caso di Arnoldo Mondadori o di Silvio Berlusconi (per certi versi, anche di Rizzoli). Il successo economico non è legato sempre – in questi casi – alla centralità del prodotto, bensì alla centralità della strategia di vendita: altrettanto rispettabile, si intende, e tuttavia profondamente diversa – come prospettiva – da quella in qualche modo interna alla specificità del prodotto culturale». Ib., 28. 17 I primi sono degli individui che, pur contrapponendosi idealmente alle logiche del mondo della comunicazione di massa, ne sfruttano le possibilità tecniche, per portare avanti un discorso autonomo. I secondi sono invece dei soggetti che si mettono al servizio della macchina industriale (non ricoprendo necessariamente un ruolo di subalternità o di subordinazione), cedendo parzialmente alla macchina stessa la paternità dell’opera d’arte.23 Come si è già detto, contrapponendo queste due categorie, abbiamo voluto esemplificare in modo estremo il discorso; a onor del vero, esistono molte gradazioni intermedie, derivanti dall’atteggiamento che il creativo assume, di volta in volta, rispetto all’apparato mediatico, cioè dalla comunione o opposizione di intenti fra sé e il suddetto apparato.24 Questo discorso ci rimanda ad altre problematiche, per esempio quella della categorizzazione del sopra descritto rapporto: padre dell’opera/mondo produttivo. Procediamo per gradi. L’atteggiamento che l’artista assume rispetto alla committenza può essere riassunto in due grandi paradigmi: mecenatismo industriale e relazione professionale. La prima forma di legame si addice maggiormente alla figura dell’intellettuale esterno, infatti:

«(…) nelle forme più avanzate di mecenatismo è piuttosto l’artista a utilizzare per la propria immagine il canale offerto dal committente, mentre a quest’ultimo è concesso di appropriarsi delle poetica del primo» (F. COLOMBO: 1998, 30).

Per ciò che concerne invece la relazione professionale, si può dire che essa sia un tipo di rapporto che coinvolge di più l’ “intellettuale interno”, implicando una maggiore anonimità dell’artista e una maggiore unità di intenti rispetto all’apparato industriale.25 Veniamo ora all’ultimo punto, ovvero al ruolo del pubblico. Anche in questo caso, la questione è abbastanza complessa, in quanto non si può dire che esista un solo tipo di legame, storicamente attualizzatosi, tra produzione e utenza. Probabilmente, ai primordi dell’industria culturale, il peso che il consumatore aveva nella definizione delle caratteristiche dei beni non era così forte come ai giorni nostri, in cui, attraverso le ricerche di mercato, le statistiche e quant’altro, le imprese tentano di monitorare, secondo per secondo, la direzione verso cui si orientano gli acquisti (traendo, con ciò stesso, dei giudizi di valore sulla merce). Tuttavia, poiché all’utenza si può guardare in modo diverso, è bene rimarcare la distinzione26 fra industria propriamente detta e industria culturale. La seconda, infatti, non sarebbe in grado di produrre bisogni “ex novo”, di indurre una tendenza al consumo, ma, al contrario, inseguirebbe dei desideri già sedimentati, già presenti ed espressi dall’eventuale acquirente. La macchina

23 «(…) fondamentalmente sono due i tipi di professionalità implicate. Da un lato autori che si considerano “esterni” alla macchina dell’industria culturale e che coltivano una propria identità specifica; in questo caso il medium è trattato come pura occasione tecnica di un discorso espressivo che si vuole fortemente personalizzato. Sull’altro versante si trovano autori che accettano una “internità” (…) alla macchina stessa (…) Entro certi limiti è piuttosto facile distinguere fra il primo e il secondo tipo di autori: sul primo versante, infatti, stanno certamente, per esempio, Collodi, De Amicis e D’Annunzio, ma anche Fellini o Hugo Pratt; sul secondo i caricaturisti del “Guerin Meschino”, il disneyano Romano Scarpa, Matarazzo o i registi della prima commedia all’italiana», Ib., 28, 29. 24 «Tuttavia, non appena si scende più in profondità, le cose si complicano, in quanto è facilmente riscontrabile una lunga serie di gradazioni intermedie. Salgari, per esempio, è certamente un autore “interno”, ma l’utilizzo che la macchina editoriale ne fa, usando il suo nome come marchio di fabbrica e stile espressivo, finisce per ricorrere all’armamentario estetico dell’autore “esterno”. E d’altronde numerosi autori “esterni” si sono vergognati del proprio ruolo nei media (è il caso di molti letterati nei confronti proprio del cinema, come Verga), pur continuando a usare la risorsa anche economica come un elemento essenziale», Ib., 29. 25 In realtà, il rapporto di relazione professionale si declina empiricamente in diversi modi e gradi, che implicano, a loro volta diverse forme di collegamento artista/committenza. Per un’analisi un po’ più approfondita dell’argomento rimandiamo alla lettura del testo di Fausto Colombo (:1998), già citato ampiamente, e un’altra opera fondamentale per la problematica in questione (a cui, fra l’altro, lo stesso Colombo si richiama): - R. WILLIAMS, Culture, Collins-Fontana, Glasgow, 1981.

26 Ib., 22/26. 18 dell’immaginario rincorre e si appiattisce sulle trasformazioni in atto nella società, soddisfacendo richieste ed esigenze, magari non ancora estrinsecate, ma già da lungo tempo esistenti in nuce.27 Lo stesso concetto di pubblico poi, nel corso degli anni, cambia sicuramente i suoi connotati. Gli individui a cui si rivolgevano le élites culturali di fine ottocento, non sono assolutamente paragonabili ai telespettatori della tv commerciale; nel primo caso si tratta infatti di una platea ideale che è, in qualche modo, già un’élite, vale a dire un insieme di soggetti alfabetizzati e perciò appartenenti quanto meno alla media borghesia (dato che, in questa fase storica, l’alfabetizzazione costituisce ancora un privilegio riservato a pochi) o, in ogni caso, non alla massa del proletariato urbano o rurale. Il consumatore di oggi, sempre più massificato e, per così dire, “onnivoro”, ha invece poteri e caratteristiche totalmente differenti. Con il passare del tempo infatti, l’utenza si è sempre più emancipata, ricoprendo quasi la funzione di “ultimo tribunale”, cioè di “corte” giudicante del successo o dell’insuccesso di un certo prodotto. In questo modo, essa (: l’utenza) può imporre, in maniera più o meno indiretta, i propri standard, i propri gusti, certamente neutralizzabili da operatori intermedi, ma anche abbastanza forti da suggerire all’industria alcune delle caratteristiche del bene che essa andrà a lanciare sul mercato.28 Per mettere ordine in tutto quello che si è detto finora sui ruoli degli attori sociali, può forse essere utile tracciare uno schema riassuntivo:

Politica (gatto/corvo)

Economia Artigianato industriale (topo) (Produz./Committ.) Industria tout court (gatto)

ATTORI SOCIALI

Intellettuale esterno

Creativi Intellettuale interno

Pubblico

Dunque, dopo aver chiarito un po’ meglio le linee di forza che concorrono, in misura più o meno maggiore, alla formazione dell’oggetto di consumo, ci sembra opportuno spostare la nostra attenzione sull’oggetto stesso, o meglio sul suo valore.29 Quando un prodotto può essere definito di qualità? Non lo si può stabilire in maniera univoca, vale a dire che non c’è un solo sistema di valori che permetta di valutare un bene; esistono invece molteplici criteri, differenti paradigmi assiologici, strettamente dipendenti dalla strategia e dalla logica di riferimento. Ciò che per il gatto è di qualità,

27 «Per fare qualche esempio (…) si può dire che la richiesta di letteratura per l’infanzia, generata dalla crescente scolarizzazione comportata dall’unità italiana, fu una causa non indifferente della nascita del prodotto editoriale moderno nel nostro paese. E così la democratizzazione del consumo di musica rese possibile la nascita dell’editoria musicale come la intendiamo oggi, e quindi la valorizzazione delle tecnologie di riproduzione (…) Occorre dunque fare giustizia dei luoghi comuni sulla capacità dell’industria culturale di indurre dall’esterno il desiderio di consumo da parte del pubblico. Semmai sono le forme dell’offerta a direzionare le forme del consumo, il quale tuttavia, sembra mostrare la capacità di orientarsi anche su vie non battute dall’offerta in quanto tale», Ib., 23, 24. 28 Anche su questo aspetto sarebbe possibile scrivere un intero saggio, tuttavia, in questa sede, era nostra intenzione fornire soltanto alcune coordinate generali che potessero evidenziare alcuni dei ruoli possibili. In ogni caso, per un approfondimento sul ruolo del consumo ci sembra opportuno rimandare ad altra letteratura sull’argomento; in particolare, accanto al testo di Colombo (:1998), rimandiamo soprattutto a quello già citato della Griswold (:1997) 29 Anche su tutto questo discorso siamo fortemente debitori del contributo di Fausto Colombo (:1998, 32/36). Pertanto, per una lettura più approfondita del concetto di qualità del prodotto, rimandiamo proprio alla lettura del testo in questione. 19 non lo è per il corvo o per il grillo e viceversa; così come ciò che per il topo è di valore, non lo sarà magari per il gatto. Che cosa allora, in base ai diversi paradigmi interpretativi, può essere considerato “di qualità”? Per rispondere a questa domanda è necessario procedere con ordine. Cominciamo dalle strategie pedagogizzanti: se l’obiettivo principale è quello della diffusione di un determinato tipo di contenuti, ritenuti validi da una certa élite, sarà “di qualità” un prodotto che veicola tali contenuti, che risponde precisamente all’obiettivo dell’élite stessa. Tuttavia, se all’interno di questo tipo di strategia sono riscontrabili due logiche differenti, anche il valore di un certo artefatto sarà misurato, in relazione a due diversi sistemi di valutazione. In effetti, mentre per il grillo è “di qualità” ciò che ha un riferimento immediato e un legame diretto con la cultura delle famose élites, di cui si parlava sopra, per il corvo lo è ciò che ha una corrispondenza profonda con l’ideologia. In entrambi i casi, l’oggetto è definito più o meno valido in relazione all’origine (anch’essa più o meno valida) da cui prende le mosse. Nel secondo caso, cioè in relazione alle strategie dell’intrattenimento, il paradigma valutativo è totalmente esogeno, totalmente esterno al bene di consumo: il successo. Anche qui, poiché ci troviamo in presenza di due logiche ben distinte, il prodotto sarà giudicabile in relazione ad altrettanto distinti sistemi di valori. Si è visto come, per il topo, l’estetica di un prodotto sia suggerita da un rapporto di empatia fra l’artigiano e il pubblico; di conseguenza il “successo” viene visto come una conferma del fatto che a quell’archetipo di “qualità” corrisponde una “qualità reale” ed effettiva: il successo è solo una “prova” del valore del prodotto.30 Al contrario, secondo la logica del gatto, tale successo è l’unico e il solo “criterio di misurazione”. Se l’obiettivo principale dell’industriale è quello di rendere i consumi sempre più “massivi”, si capisce come la popolarità e la diffusione di un determinato oggetto diventino il solo fine. In realtà, secondo le strategie neo-televisive, “prodotto” non è ciò che viene proposto all’utenza attraverso i palinsesti, bensì il pubblico stesso31; è esso infatti che la tv offre agli inserzionisti, quando vende i propri spazi pubblicitari: l’audience è ridotta alla stregua di una enorme massa di potenziali consumatori. Questo verrà tuttavia chiarito meglio in seguito, quando si avrà occasione di approfondire il discorso sulla televisione commerciale.32 Per avere uno sguardo sinottico sulla problematica del valore dell’oggetto culturale, è forse utile riportare in una tabella il discorso affrontato poc’anzi.

Strategie Qualità dell’oggetto Logica del grillo Corrispondenza della logica del prodotto con la cultura d’élite Logica del corvo Corrispondenza dei contenuti del prodotto con l’ideologia della classe che governa i media Logica del topo Successo inteso come “prova” della qualità Logica del gatto Successo inteso come criterio ultimo e fondativo della qualità

Fornite queste categorie e questi macro-sistemi interpretativi è possibile partire con la narrazione della storia del mezzo.

30 Come scrive Fausto Colombo: «Può accadere infatti che il pubblico non gradisca: se ne prende atto a volte malincuore, ma questo non svaluta il prodotto in sé; semmai ne mette in dubbio la compatibilità “attuale”. Oppure, in qualche caso, si insiste, fino a far emergere questa compatibilità: è il caso delle trasmissioni radiofoniche e televisive di Renzo Arbore, costruite dinamicamente e progressivamente messe a punto fino a diventare dei veri fenomeni cult», Ib., 35. 31 «Per l’artigianato industriale (…) il prodotto è l’opera, che in effetti si confronta con il mercato e che viene venduta e acquistata. Per la vera e propria industria dell’intrattenimento, che ha il proprio rappresentante esemplare nella televisione commerciale, il prodotto è il pubblico», Ib., 36. 32 «La televisione commerciale (e anche pubblica) degli anni ’80 è un tipico esempio del risultato di vendita come criterio privilegiato di giudizio sui propri prodotti; ma la stessa filosofia permea in fondo già le pubblicazioni di Mondadori e di Rizzoli negli anni ’30 o la nascita dei rotocalchi di Rusconi», Ib., 36. 20 2. La “ricostruzione” attraverso l’immaginario visivo: secondo dopoguerra e nascita della televisione

Il nostro viaggio nel mondo della memoria televisiva comincia nel secondo dopoguerra, a Milano, in corso Sempione. È una domenica, è pieno inverno e, secondo le cronache dell’epoca, è anche molto freddo. Sono le 11 di domenica 3 gennaio 1954 quando iniziano le trasmissioni regolari della Rai, radiotelevisione italiana.33 In realtà, il grande traguardo chimerico di riuscire a trasmettere delle immagini via etere, di riuscire a creare una “fabbrica per l’immaginario visivo”, è un sogno iniziato già molti anni prima e precisamente nel 1929, quando, sempre nel capoluogo lombardo, gli ingegneri Alessandro Banfi e Sergio Bortolotti creano un laboratorio sperimentale per la tv.34 Si tratta di un progetto straordinario dal punto di vista ideale, ma che, tuttavia, non riesce a fornire i risultati sperati: i nostri ricercatori non partoriscono nulla di “autonomo”, ma si limitano a registrare i progressi ottenuti all’estero. A conferma di questo sta il fatto che la prima dimostrazione pubblica per la trasmissione a distanza di immagini, realizzata in occasione della IV Mostra della radio, alla fiera di Milano, si basa su un dispositivo di fabbricazione tedesca. La ragione profonda di tale inferiorità tecnologica risiede nell’arretratezza del nostro apparato industriale, il quale si dimostra nei fatti incapace di strutturare organi di ricerca, in grado di produrre risultati di una certa consistenza (o comunque autonomi).35 I maggiori progressi tecnici si registrano tra il 1933 e il 1934, quando il passaggio da un sistema meccanico a un sistema elettronico rende possibile la trasmissione di immagini in movimento: quel sogno, quell’obiettivo “onirico-chimerico” di realizzare un’emittente con un ciclo di programmi regolari inizia a diventare realtà.36 Anche l’industria, intanto, si occupa in modo più sistematico delle ricerche, le quali, in questo modo, forti di un capitale alle spalle, possono dare frutti più concreti, possono muovere cioè i primi passi verso l’elaborazione di un congegno tecnico “definitivo” (ovvero tale da poter essere lanciato immediatamente sul mercato): nel 1939, per la precisione il 22 luglio 1939, vengono diffusi i primi segnali video. I prototipi di quel tipo di onde elettromagnetiche, che trasportano con sé immagini, sono irradiati da un trasmettitore sito a Monte Mario in Roma37. È questo un evento di notevole importanza, è l’esordio di un servizio “pubblico” essenziale, che, al momento, non supera ancora i confini dell’Urbe.

33 La fase iniziale della nascita della televisione è ben descritta, in tutti i suoi dettagli, in: F. MONTELEONE, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio, Venezia, 1992, 268/290. 34 «Lontani ancora dall’analisi elettronica, con un impianto basato su un disco rotante provvisto di tanti piccoli fori attraverso i quali filtrava un “pennello” di luce che esplorava il soggetto da trasmettere, i due pionieri televisivi riuscirono ad analizzare una bambola di panno di Lenci, cercando di sincronizzare tutti i punti. Apparve così, su un rudimentale monitor, la prima figura della televisione italiana», A. GRASSO, Radio e televisione, Vita e Pensiero, Milano, 2000, 161. 35 F. MONTELEONE:1998, 271. 36 «La televisione non è più solo la semplice riproduzione di foto o disegni, ma il suo “specifico” diventa la trasmissione di immagini. Le prime esperienze con il vecchio sistema “a filo” vennero effettuate a Torino nel 1930 e a Milano nel 1932. Nell’aprile dell’anno successivo, la I Conferenza internazionale per lo studio della televisione, che si tenne a Nizza, ebbe lo scopo di coordinare gli interventi e le ricerche che le industrie europee e americane stavano portando avanti con rapidi processi di accelerazione negli investimenti e anche nei risultati», Ib., 272. 37 «Il 22 luglio 1939 entra in funzione il trasmettitore tv di Monte Mario a Roma. Iniziano regolarmente alcune trasmissioni sperimentali, limitate alla sola zona urbana. Vengono prodotti anche alcuni programmi, che ricalcano gli schemi della rivista teatrale, mentre gli attori e i personaggi più popolari della radio fanno qualche apparizione sul video ancora sfocato. Il “Radiocorriere”, la stampa nazionale, le riviste specializzate si occupavano dell’avvenimento», Ib., 272. Aldo Grasso (:2000, 161), ci fornisce anche ulteriori informazioni rispetto alle sperimentazioni televisive, questa volta però nel capoluogo lombardo: «Nel 1939 l’EIAR installò sulla sommità della Torre Littoria del Parco Nord due trasmettitori, collegati tramite un cavo coassiale, in grado di trasmettere immagini e suoni, ricevibili entro un raggio di circa 50 chilometri. In occasione della Mostra Nazionale della Radio, fu possibile, così, dare vita al primo programma sperimentale. “Per la prima volta, i visitatori del Padiglione vedranno televisivamente uno dei principi del nostro Varietà, cioè Odoardo Spadaro, il brillantissimo canzoniere che è egli stesso squisito interprete delle sue composizioni così popolari. Nel programma inaugurale della televisione figurano (è proprio il caso di usare questo verbo) accanto a 21 Il regime ha una grossa aspettativa nei confronti del nuovo artefatto tecnologico e si attende che esso possa diventare in breve tempo un bene di consumo di massa, un secondo focolaio domestico da affiancare alla sorellina più grande, la radio. In questo senso, non è lontano dal vero pensare che il governo fascista stesse pensando già di estendere il raggio di azione della futura azienda televisiva. Esistono però almeno due ostacoli, perché la nuova “scatola magica” possa avere una diffusione davvero di massa: a. il costo degli apparecchi, ancora troppo elevato per le tasche di tutti. b. la guerra, che, attirando su di sé tutta l’attenzione (e dunque anche gran parte del denaro) dei governi, contribuisce indirettamente a frenare gli studi e perciò anche gli eventuali progressi tecnici.38 Ma le aspirazioni, i desideri e i sogni legati al mondo della tv, benché medium ancora in fasce, sono già diventati bisogni, elementi strutturali della società, prima ancora che la “pugna” possa irrompere in tutta la sua forza devastante; per questa ragione sostanziale, questi bisogni sopravvivono a quel “conflitto bellico globale” nel quale il nostro paese, assieme alla maggior parte delle nazioni europee, si ritrova coinvolto. È così che, nel 1949, a soli quattro anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ricominciano le ricerche e vengono costruiti i primi studi a Milano e Torino.39 Nel 1952, i tempi sono già maturi per “avviare il meccanismo” e, tra il 12 e il 27 aprile, viene mandato in onda un primo ciclo di trasmissioni sperimentali.40 L’anno successivo, la programmazione subisce un ulteriore incremento, grazie anche a un nuovo studio ausiliario allestito a Roma e collegato, mediante un ponte radio, al capoluogo lombardo. Tutto sembra essere pronto per il lancio di un servizio televisivo nazionale. È questo del resto

Spadaro, la deliziosa attrice cinematografica Nelli Corradi e lo squisito disegnatore e caricaturista Walter Molino (Articolo redazionale, La radiovisione a Milano, in: Radiocorriere, 24-30 settembre 1939)”». 38 «La “radiotelevisione”, come allora si chiamava, sembrava avviata sulla strada del successo: non appare impossibile l’auspicio fatto a Mussolini dai dirigenti dell’EIAR di poter disporre, in occasione del secondo decennale, di un bene accessibile a tutti. In realtà, gli ostacoli che si opponevano a una vera e propria diffusione commerciale della tv erano ancora molti; non ultimi quelli dovuti all’altissimo costo degli apparecchi riceventi. In ogni caso l’inizio del conflitto mondiale interruppe l’attività sperimentale», F. MONTELEONE: 1992, 272. 39 Franco Monteleone e Aldo Grasso ci informano sulle vicende che coinvolgono la ripresa delle ricerche sulla trasmissione delle immagini: «Nel dopoguerra, precisamente nell’estate del 1949 – cioè nel momento di forte espansione tecnica della Rai – vengono ripresi gli studi e gli esperimenti che in pochi anni porteranno a mettere a punto il piano tecnico del servizio di televisione regolare. Una prima trasmissione fu effettuata l’11 settembre a Torino, dove sono stati installati uno studio e un trasmettitore importato dagli Stati Uniti. L’attività sperimentale si era molto perfezionata rispetto ai tentativi d’anteguerra e, proseguita con una serie di dimostrazioni comparative fra i vari standard televisivi allora in discussione, consentì agli organismi tecnici del Ministero delle poste di studiare, sulla base di elementi concreti predisposti anche dalla direzione della Rai, il problema della scelta di uno standard più idoneo: studi che si conclusero con l’adozione per l’Italia dello standard europeo a 625 linee. Dopo questa decisione, presa dal Consiglio superiore delle telecomunicazioni sul parere del CNR, l’attività sperimentale venne intensificata dalla Rai fino a giungere, nella primavera del 1952, all’installazione a Milano di un secondo trasmettitore funzionante, e di due studi», F. MONTELEONE: 1992, 272, 273.

«L’11 settembre del 1949, sempre per la Mostra della Radio, venne mandato in onda, all’interno del Palazzo dell’Arte, una serie di trasmissioni realizzate da personale prevalentemente americano. Nel 1951 si svolse il primo Congresso Nazionale della televisione e, per iniziativa del CNR (Centro Nazionale delle ricerche), venne istituito il Centro Studi sulla televisione, per discutere sui diversi schemi di trasmissione», A. GRASSO: 2000, 161. 40 «(1952) In occasione dell’apertura della Fiera Campionaria viene messa in onda la cerimonia inaugurale. Dal 12 al 27 aprile la Rai organizza un ciclo di trasmissioni sperimentali dalla stazione di Milano che vengono quotidianamente proseguite con orario fisso comprendente circa sei ore giornaliere di programmazione. Milano è collegata con gli studi Torinesi di via Montebello per mezzo di un ponte radio a microonde studiato e realizzato dai laboratori della Magneti Marelli. Numerosi sono i programmi di prosa, di varietà, di balletto che vengono messi in onda. Il 9 settembre viene anche trasmesso il primo telegiornale della televisione italiana (…) guidato da Sergio Pugliese (…) Il telegiornale è ispirato al modello della Settimana Incom con pochi servizi commentati da una voce fuori campo. La redazione è formata da due giornalisti che svolgono anche compiti di annunciatore, due operatori, un montatore e cinque inviati nei capoluoghi dell’Italia settentrionale. In un secondo tempo, ad occuparsi della televisione arrivarono a Milano alcune delle migliori firme della radio dell’epoca, Bruno Ambrosi, Aldo Salvo, Roberto Costa», F. MONTELEONE: 1992, 273. 22 l’obiettivo principale, il fine ultimo che la classe dirigente si pone: unificare l’Italia attraverso l’immagine. Sempre nel 1953, in occasione del venticinquesimo anniversario della nascita della radiofonia, viene predisposto il piano tecnico per la realizzazione degli impianti di ripetizione. Proprio in questo periodo, l’azienda telefonica sta lavorando per raggiungere un traguardo tutt’altro che semplice: il cablaggio di tutto lo stivale, per mezzo di cavi coassiali. È questa un’opera di grande portata infrastrutturale, di grande utilità pubblica, della quale può servirsi proprio la stessa Rai; attraverso la nuova linea in rame, essa potrebbe infatti collegare ripetitori anche molto lontani fra loro, evitando così di creare inutili ponti radio e puntando immediatamente all’utenza dei grandi centri urbani. In ogni caso, nella successiva convenzione fra Stato e Rai, viene stabilita una data (quasi inderogabile), entro la quale la seconda si impegna ad avviare il servizio televisivo, anche nel caso in cui l’opera di cablaggio non fosse stata completata. Tale documento stabilisce inoltre che la diffusione del segnale deve avvenire in tre fasi distinte, servendo tre aree diverse del paese.41 Se l’azienda telefonica non fosse riuscita (come poi, effettivamente, non riuscì) a portare a termine la propria impresa, la Rai avrebbe dovuto dare vita a due programmi diversificati: uno per Milano e Torino e uno per Roma. Il servizio pubblico radiotelevisivo decide allora di predisporre un piano alternativo, anticipando l’allestimento degli impianti di ripetizione nel centro Italia e realizzando, in questo modo, un ponte tra il Nord e il Sud del paese: all’alba del 1954 è già quasi tutto pronto per partire.42 E infatti, come si diceva, tutto comincia domenica 3 gennaio 1954, alle ore 11: in questo preciso momento della storia, inizia un fenomeno inarrestabile, una rivoluzione socio-culturale, di cui non si conoscono ancora gli sviluppi, ma di cui, forse, si può già intuire la portata. La prima trasmissione non è altro che un collegamento di un inviato che, davanti alla sede milanese di corso Sempione, commenta le cerimonie di apertura, i festeggiamenti che accompagnano l’esordio, la nascita ufficiale della tv di Stato. Successivamente, i programmi continuano con uno “show”, che ha luogo, per la precisione, nello studio TV3, il più grande d’Europa (per lo meno, in questo periodo).43

41 «Un primo gruppo di trasmettitori (Torino, Milano, Monte Penice e Roma) avrebbe dovuto entrare in funzione entro 18 mesi dalla data in cui era stato fissato lo standard legale, cioè l’ottobre del 1953. Un secondo gruppo (Monte Venda, Portofino, Castel S. Elmo, Monte Serra, Firenze-Trespiano) avrebbe dovuto essere attivato entro 12 mesi dalla messa in funzione del canale televisivo dei corrispondenti tratti dei cavi coassiali di collegamento. Un terzo gruppo di trasmettitori (previsti, in base a un primo studio, nelle località di Gargano-Monte Calvo, Murge-Monte S. Paolo, Reggio Calabria-Monte Cendri, Palermo-Monte Pellegrino) avrebbe dovuto essere pronto entro 6 mesi dall’entrata in funzione della rete meridionale dei cavi coassiali», Ib., 291, 292. 42 «(…) il funzionamento autonomo del trasmettitore di Roma rispetto al gruppo del Nord, con la conseguente necessità di realizzare due programmi diversi, sarebbe stato troppo oneroso. D’altra parte, appariva sempre più evidente, agli effetti dello sviluppo dell’utenza, l’opportunità di poter servire fin dall’inizio l’area più estesa possibile. Un funzionamento separato del gruppo Nord e della stazione di Roma avrebbe inoltre tolto al servizio il carattere di rete nazionale che nell’intenzione della direzione generale della Rai era indispensabile conferire subito alle trasmissioni tv. La Rai predispose una variante al piano iniziale. Essa prevedeva l’anticipata costruzione di alcuni trasmettitori appartenenti al secondo gruppo (Portofino, Monte Serra e Firenze-Trespiano) e la loro realizzazione contemporanea con quelli del primo, nonché la costruzione di un trasmettitore a Monte Peglia, non previsto. Questa catena di trasmettitori, completata da un posto ripetitore installato in una località dell’appennino ligure, rese possibile il collegamento bilaterale tra Roma e il Nord (…) L’attuazione della prima fase del piano, così modificato, all’inizio del 1954 era pressoché completa. Mancava solo il trasmettitore definitivo di Firenze e quello non ancora ultimato del Monte Venda, ma tutti gli altri erano entrati in funzione il 1° Gennaio 1954, giorno inaugurale del servizio televisivo italiano. La rete serviva un’area di circa 80.000 kmq con più di 20 milioni di abitanti, pari al 43 per cento del totale della popolazione nazionale. In pochi mesi venne realizzata una rete televisiva all’altezza delle maggiori esistenti in Europa. Nel corso del 1954 la rete venne estesa a tutto il Centro del paese; nel 1955 toccò la Campania e l’anno successivo raggiunse la punta meridionale della Calabria e poco dopo anche la Sicilia», Ib., 274, 275. 43 Oggi, gli studi del capoluogo lombardo ricoprono una funzione subalterna rispetto a quelli della capitale; tuttavia, negli anni ’50, era Milano il centro di produzione principale dell’azienda pubblica. Come scrive Aldo Grasso (:2000, 162): «Il centro produzione Rai di Milano, costruito tra il 1940 e il 1943, costituiva un punto nevralgico per la produzione della comunicazione via etere, i suoi studi fornivano alla televisione italiana l’85% delle trasmissioni e già impiegavano 400 dipendenti fissi (…) venne inoltre costruito un ulteriore studio presso la fiera». 23 Il mezzo e i suoi programmi sono certamente delle realtà inedite, ma, nonostante ciò, riescono ad attirare su di sé un grande interesse; è questa la ragione per cui la Rai può contare fin dall’inizio su un enorme bacino di utenza, su una grande massa di “aficionados”. Tuttavia, esistono ancora dei grossi ostacoli a una vera e propria diffusione di massa del mezzo; per esempio il costo degli apparecchi, non ancora alla portata delle tasche di tutti (benché le tariffe siano già calate rispetto all’immediato dopoguerra44). È proprio questo lo “Schwerpunkt” principale: per quale motivo, nonostante l’abbassamento dei “prezzi al dettaglio”, sono ancora pochi coloro che possono permettersi di avere un televisore in salotto? Perché la maggioranza degli italiani, nonostante la rapida crescita economica, futura via di fuga da un lacerante stato di povertà e unica premessa possibile di uno sviluppo finanziario-industriale concreto, vive ancora in condizioni di sussistenza, impiegata in settori (come per esempio l’agricoltura) non ancora modernizzati, o meglio, non ancora modernizzati al punto tale da offrire sufficienti fonti di guadagno.45 Ma la società è comunque in crescita e, in alcuni fenomeni, si possono leggere già i macroscopici cambiamenti a cui sarà sottoposta in seguito: l’emigrazione verso i grandi centri urbani, l’aumento della scolarizzazione, l’industrializzazione, la sedimentazione di nuovi valori all’interno della cultura popolare… tutti elementi che contribuiranno in modo indiretto al decollo della mass- comunicazione e alla penetrazione capillare di radio, tv e strumenti per la riproduzione della musica.46 Il numero degli abbonamenti è dunque, fin dall’inizio, abbastanza elevato (nonostante le difficoltà di cui sopra) e destinato a subire un ulteriore impennata nel corso degli anni.47 Tuttavia emettere un giudizio soltanto sulla base di questo dato, sarebbe un grave errore, poiché esso non è sufficiente a

44 «Nella seconda metà degli anni ’50, la diminuzione del prezzo degli apparecchi riceventi è determinata infatti dalla concentrazione industriale che unifica il 75 per cento della produzione nelle mani delle maggiori ditte del momento (…) sei delle otto aziende più importanti hanno i loro stabilimenti in provincia di Milano (Magneti Marelli, CGE, Philips, FIMI, Geloso, Siemens), mentre una è in provincia di Torino (Magnadyne) e una in provincia di Roma (Autovox). Ci troviamo di fronte a una produzione e a un consumo squilibrati, direttamente investiti da tutte le contraddizioni dello sviluppo italiano di quegli anni, all’interno del quale sono presenti il nord industriale e il Sud consumatore; grandi concentrazioni e piccole imprese tecnologicamante arretrate; sviluppo e sottosviluppo», Ib., 277. 45 «La maggior parte degli italiani, fra il 1945 e il 1955, si guadagnava da vivere ancora nei settori tradizionali: piccole aziende tecnologicamente arretrate e con uno sfruttamento intensivo, pubblica amministrazione, negozi e piccoli esercizi commerciali moltiplicatisi a dismisura. Il tenore di vita restava assai basso e l’agricoltura continuava ad essere il più vasto settore d’occupazione», Ib., 269. 46 «L’emigrazione, la nuova dinamica impressa al mercato del lavoro, i nuovi consumi, la più elevata scolarizzazione, i fenomeni di urbanizzazione, le grandi spinte produttivistiche, cioè tutti i fenomeno che sono all’origine del cosiddetto “miracolo” economico italiano non potevano non mettere in crisi il modello sociale sul quale si era fondato il primato della radio. La trasformazione dei vincoli familiari, l’irruzione di nuovi valori ideologici, la progressiva laicizzazione della società stavano preparando il terreno al nuovo modello televisivo…», Ib., 269. 47 «Dal punto di vista dell’utenza privata alla fine del 1954 la tv conta poco più di 88.118 abbonati, ma nel corso del 1955 tale numero si raddoppia; al termine del 1956 il numero degli utenti privati raggiunge i 306 mila abbonamenti; tra il 1956 e il 1957 le utenze salgono fino a 600 mila», Ib., 277. Per avere uno sguardo sinottico su ciò che avviene realmente nel mercato degli abbonamenti tv, riportiamo qui di seguito una tabella che racchiude in se stessa dei dati che vanno dal 1954 al 1963:

Anni Tot. Abbon. Incremento 1954 88.118 1955 179.753 102,90 1956 366.151 104,79 1957 673.080 83,82 1958 1.096.185 62,86 1959 1.572.572 43,46 1960 2.123.545 35,04 1961 2.761.738 30,05 1962 3.457.262 25,18 1963 4.284.889 23,94 Fonte: Ib., 292.

24 descrivere il successo della televisione in tutta la sua profondità. Infatti, nonostante la non ancora capillare diffusione degli apparecchi, tutti gli italiani hanno un contatto frequente con il mezzo, un contatto che deriva da un’abitudine di consumo non domestica o familiare, bensì comunitaria.48 La tv è dunque al centro di un interesse ampiamente diffuso, di un interesse di “gruppo” (per così dire) e, in questo senso, essa funge da elemento aggregante, da agente socializzante. Perciò, spinti proprio da tale interesse, gli spettatori si ritrovano nei locali pubblici (bar, taverne, osterie…) per assistere ai programmi di grido, alle trasmissioni di maggiore popolarità. La Rai, intanto, sulla base di questo seguito, può iniziare a svilupparsi organicamente, può cioè da un lato organizzare in senso aziendalista il suo apparato di gestione interna (mossa che si rivelerà vincente, soprattutto in termini di politica di costruzione dell’immagine), dall’altro dotare i suoi studi di strutture tecniche all’altezza degli standard delle altre emittenti europee.49 Detto in altri termini, la concessionaria pubblica per i servizi radiotelevisivi può consolidare, poco a poco, il proprio Hintergrund economico, tecnologico e professionale. Esistono però sicuramente elementi imprevisti con cui la dirigenza televisiva si trova a fare i conti: come succede ogni volta che “irrompe sulla scena” un fatto nuovo, di qualunque tipo esso sia, gli entusiasmi iniziali si accompagnano sempre alle polemiche. Poco tempo dopo l’esordio delle trasmissioni regolari, si “accende” infatti un dibattito, che si protrae per diversi anni, anzi si potrebbe addirittura affermare che esso non ha mai termine e prosegue fino ai giorni nostri: l’attrattiva ipnotica (di derivazione cinematografica) delle immagini e la penetrazione pervasiva degli apparecchi, pongono la questione del rapporto mezzo-spettatore in termini quanto mai drammatici. Le élites culturali cominciano a interrogarsi così sulle funzioni, sugli influssi, sul potere che il mezzo ha, potrebbe e dovrebbe avere ed è così che da più parti comincia a essere (per differenti ordini di motivi) demonizzato. Fausto Colombo50 riconosce ben tre posizioni in merito; sebbene tale suddivisione sia estremamente esemplificata, estremamente riduttiva (come Colombo stesso ammette), essa rende comunque giustizia in modo abbastanza completo delle varie forze in campo.51 a. Una prima macro-fazione è costituita da coloro che si pongono, per diverse ragioni, contro la tv. Si tratta di un gruppo composto, fondamentalmente, dagli intellettuali della sinistra post-bellica, da un lato debitrice delle dottrine della “Frankfurter Schule” (le cui idee iniziano a diffondersi nel nostro paese proprio alla fine degli anni ’50), dall’altro caratterizzata da una formazione fondamentalmente “anti-tecnica”. b. Una seconda fazione è costituita dalla cultura cattolica e dalla sua sedicente espressione politica, la Democrazia Cristiana. Lungi dal demonizzare il medium, i cattolici si pongono in una posizione che potrebbe essere definita “pro tv”. Tali soggetti infatti vorrebbero fare della televisione un mezzo (se non addirittura “il” mezzo) privilegiato per la diffusione dei grandi ideali di modernità e sviluppo, nel rispetto della morale e dei valori tradizionali. Per questa ragione, e solo in forza di essa, la tv deve essere anzitutto un veicolo di cultura e di conoscenze, cioè una sorta di scuola parallela: è infatti proprio la scuola il luogo in cui, per

48 «In questo periodo si assiste al fenomeno della tv nei bar e nei locali pubblici, fenomeno che contribuisce ad allargare in modo elevato gli spettatori dei singoli spettacoli televisivi (…) tale sviluppo spiega, in buona parte, come la frequenza fosse estremamente più alta delle singole teleutenze», Ib., 277. 49 «(…) la situazione economica e finanziaria della Rai si presentava più che mai solida. Il patrimonio immobiliare era in continuo incremento (tra l’altro, il centro di produzione tv di Roma era stato quasi completato), le attrezzature tecniche erano tra le più moderne d’Europa. Il personale ammontava a 5.688 unità. Il bilancio 1956 chiudeva con un saldo attivo ufficiale di 1 miliardo e 700 milioni. Gli introiti erano costituiti per 13 miliardi e 600 milioni da abbonamenti radio e per 3 miliardi e 900 milioni da abbonamenti tv. Altri introiti erano rappresentati dalla pubblicità (4 miliardi e 700 milioni) e da introiti diversi e sopravvenienze attive per altri 2 miliardi e 400 milioni. Le spese consistevano in 9 miliardi e 300 milioni (di cui 4 circa per la radio; 2,6 per la televisione; 1,1 per i servizi giornalistici). Le spese tecniche ammontavano a 5 miliardi e 800 milioni e quelle amministrative e commerciali a oltre 7 miliardi», Ib., 276. 50 Op. Cit. (:1998, 226/229). 51 Rimandiamo poi alla lettura di un altro testo, citato dallo stesso Colombo, come chiarificatore dell’argomento in questione: F. PINTO, Intellettuali e tv negli anni ’50, Savelli, Roma, 1977. 25 tradizione, vengono forniti i maggiori impulsi allo sviluppo sociale e i principali paradigmi assiologici del vivere comune. Come la scuola, anche la “nuova scatola dell’immaginario” viene investita di una missione sociale. Tale logica, descrivibile attraverso una figura che oscilla tra grillo e corvo, domina la Rai per lungo tempo, fino all’alba degli anni ’80. c. La terza fazione è costituita invece dagli intellettuali di formazione laica, che inseguono un obiettivo molto più pretenzioso: quello di “creare una cultura del mezzo”. Anche questi in sostanza sono soggetti che hanno un atteggiamento “pro”, favorevole alla televisione. Ma che cosa significa, in concreto, creare una cultura del mezzo (visto che il significato di tale espressione non è immediatamente evidente)? Vuol dire trasformare la tv in una sorta di “università popolare”, in una sorta di strumento per la formazione del “gusto”. Questa “Tv- Anschauung” rientra a pieno titolo in un’ottica pedagogizzante e la figura che la rappresenta meglio ci sembra essere quella del grillo. C’è evidentemente un punto che accomuna queste tre posizioni: il fatto che fanno tutte riferimento a delle strategie di tipo pedagogizzante. Anche nel caso a. in effetti, la ragione per cui la tv viene demonizzata è la sua assenza di legami con un’ideologia di riferimento (sia essa di destra o di sinistra), il suo essere emblema e paradigma di una “mass-comunicazione”, intesa come manipolazione delle coscienze (è questa una vera e propria logica del corvo).52 Fra queste tre tendenze, alla fine, prevarrà soltanto la seconda, per cui la Rai (anche in quanto azienda pubblica) verrà posta alle dirette dipendenze del governo, retto da una coalizione centrista e nella fattispecie democristiana, cioè sedicente cattolica. La cultura marxista dal canto suo sceglierà di utilizzare altre strade, altre forme di espressione del pensiero come l’editoria e il cinema, modelli comunicativi percepiti, probabilmente, meno manipolatori e più conformi a una “pubblica professione” del proprio credo ideologico.53 La tv dunque, nel momento della sua nascita, è retta da una logica pedagogico-grillesca (a tratti corvesca), e si caratterizza per essere uno “strumento formativo”, nelle mani della classe dirigente (ovvero dell’area politica della D.C.). Ma in cosa consiste questa “formazione” che la televisione dovrebbe impartire? Il contenuto, l’obiettivo ultimo dell’attività educativa della tv è quello di preparare culturalmente e lanciare definitivamente tutta la nazione verso una concreta modernizzazione, verso uno sviluppo socio-economico-culturale, quanto mai repentino. È un proposito di notevole peso e consistenza ideale, che, secondo l’ideologia democristiana, doveva essere realizzato all’ombra dei valori tradizionali, sotto l’egida cioè della morale cristiana. Ma come può essere declinato concretamente un obiettivo così nobile, vale a dire che tipo di prodotto deve offrire la tv ai suoi spettatori? Un pubblico/società, affinché possa essere preparato a uno sviluppo degno di tale nome, deve essere reso omogeneo; omogeneo in quanto a cultura, omogeneo in quanto a consumi, omogeneo in quanto a sistema assiologico. Lo scopo è dunque quello di creare un comune Hintergrund, un comune back ground che possa essere alla base di una nuova “cittadinanza”, di una nuova società, di una società cioè che sia preparata a una modernizzazione dai tratti idilliaci, a una modernizzazione depurata da tutti i suoi connotati negativi, ovvero una modernizzazione libera da quegli aspetti liberal- capitalistici, tipici della cultura individualista americana.54

52 «(…) la differenza fondamentale tra l’atteggiamento cattolico e quello della sinistra mi pare consistere essenzialmente nella differente lettura dei media come veicoli: la televisione, a differenza del cinema (ma anche del fumetto) viene esclusa dai marxisti come strumento di formazione “ideologizzata” (nel senso neutro di “inserita in una visione del mondo”), mentre le sue potenzialità in questo senso vengono colte dal mondo cattolico in modo straordinariamente precoce. Quanto alla posizione “laica”, mi sembra di ravvisare in essa il sogno del grillo, dove l’idea di modernizzazione industriale si sostituisce radicalmente a quella di costruzione della cittadinanza. Rimane tuttavia l’idea del medium (qua la tv, là la letteratura) come strumento formativo comune e sostanzialmente universalistico», F. COLOMBO: 1998, 228. 53 Su questi punto e sui successivi, rimandiamo sempre alla lettura di: F. MONTELEONE: 1992, 275/280. 54 Questa è un’opinione ormai largamente condivisa da coloro che, per lavoro, si sono preoccupati di osservare la storia della televisione in Italia; come scrive sempre Franco Monteleone, infatti: «La televisione nelle mani dei governi 26 Ma se la finalità primaria della tv è quella di fornire un Hintergrund, un back ground, essa deve essere innanzitutto un veicolo di cultura, un veicolo di contenuti “alti”, un veicolo di conoscenze tali da poter arricchire il patrimonio personale di ogni spettatore. Ciò è tanto più vero se si pensa che, nell’Italia post-bellica, il tasso di analfabetismo è ancora altissimo55 e il fatto che il medium venga investito del difficile, difficilissimo ruolo di insegnante è, nella mente della classe dirigente, una risposta concreta a questa “piaga”: non c’è alcun dubbio infatti, che uno dei meriti indiscutibili della “scatola magica” sia stato proprio quello di unificare linguisticamente lo stivale. Prima ancora di essere “la” “fabbrica dei sogni”, “la” “fabbrica dell’immaginario”, la tv è anzitutto “maestra”.56 Ma un’operazione pedagogica può incarnarsi in forme differenti, può esprimersi attraverso diverse modalità comunicative; è così che ogni singolo aspetto della programmazione, ogni piccola porzione di palinsesto viene intriso, “imbevuto” di finalità moral-educative. Forte di questi nobili intenti, la televisione può lanciarsi nell’arena mass-comunicativa, sperimentando senza timore i più svariati formati, da quelli più propriamente “istruttivi” a quelli di “intrattenimento”. Ma da dove provengono le idee? Da dove provengono gli spunti? Da dove proviene il materiale messo in onda? La tv è un medium relativamente nuovo, quand’anche le prime forme di proto-televisione risalgano già alla fine degli anni ’20; per questa ragione, essa non ha ancora sviluppato delle caratteristiche proprie, delle forme comunicative che le siano peculiari57: essa dona semplicemente la novità tecnica dell’immagine a linguaggi cronologicamente precedenti, a linguaggi “totalmente altri”. Nascono così formati come lo “sceneggiato” (prodotto assimilabile alla più moderna “fiction”), di chiara matrice letteraria, ispirato ai grandi classici della letteratura. Grazie a esso compaiono sul piccolo schermo le storie del Manzoni, di Fogazzaro, di Verga… talvolta realizzate con la collaborazione di grandi professionisti, di coloro che sarebbero diventati, successivamente, dei registi cinematografici di fama internazionale.58

cattolico-moderati (con lo sguardo rivolto a sinistra, secondo la nota formula di Alcide De Gasperi), ha avuto una funzione importantissima di attento e quotidiano mediatore di un cambiamento che fu scandito secondo ritmi tumultuosi e spesso contraddittori. Più che agente di mutamento essa è stata la garanzia che il mutamento avvenisse senza troppi traumi (…) in quel progetto politico di governo del sistema televisivo vi era una solida intenzione di contribuire alla crescita culturale del paese e di rafforzare il processo di modernizzazione e stabilizzazione del giovane esperimento di democrazia repubblicana», Ib., 279, 280. 55 Secondo le nostre fonti, il tasso di analfabetismo, nel 1951, è pari al 12,9% della popolazione, mentre, nel 1961, all’8,3% (Ib., 308). Si tratta però di dati che riguardano la totalità del paese; è facile supporre che ci fossero profonde differenze nelle diverse aree geografiche; per esempio nel mezzogiorno o nelle zone rurali in genere (probabilmente anche per l’assenza di strutture scolastiche), si può credere che tale tasso fosse più alto della media. 56 Rispetto a queste due funzioni che, la televisione ha ricoperto nel corso della sua storia, ci sembrano molto eloquenti le parole di Franco Monteleone: «L’unificazione della lingua avviene parallelamente alla crescita delle antenne televisive e determina la sconfitta dei dialetti come strumenti di separazione (…) per quanto riguarda i comportamenti, le abitudini e gli stili di vita, sono convinto che la televisione sia stata, piuttosto, uno specchio per la maggioranza degli italiani, che in essa hanno visto realizzati i loro sogni e rispettate le proprie convinzioni», Ib., 279. 57 Si tratta di un concetto sottolineato a più riprese anche nelle storie della tv: «(…) la tv delle origini manca di identità mediologica, è ancora scarsamente consapevole delle proprie autonome potenzialità (…) È naturale quindi che essa si rivolga ad altri riferimenti culturali, “saccheggiando” generi e repertori della radio, del teatro, del cinema, manifestando in ogni caso, in tutta la sua produzione, un solido ed esplicito aggancio con le radici umanistiche della cultura e del pensiero nazionale», Ib., 302, 303. 58 Tanto per fare degli esempi: «(…) dalla sede di Milano venne prodotto, nel 1957, Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, il primo romanzo italiano portato in televisione senza alcuna particolare rielaborazione, introdotto da letture dirette del testo, per la regia di Silverio Blasi (…) Sandro Bolchi, uno dei padri dello sceneggiato televisivo italiano, diresse nel 1963 Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, rievocando una Milano ottocentesca, agli albori della sua rivoluzione industriale. E fu proprio lo stesso Bolchi che per la prima volta tradusse televisivamente, coadiuvato per la sceneggiatura da Riccardo Bacchelli, I promessi sposi: otto puntate sulla Rete 1 a partire dal 1° gennaio 1967, in prima serata. Nel 1968 la sede di Milano produsse Questione di vita, di Francesca Sanvitale, regia di Silverio Blasi, girato con l’elettronic-cam (…) con la quale poco tempo prima, Gianfranco Bettetini aveva fatto i primi esperimenti, riprendendo, proprio a Milano, Ma non è una cosa seria di Pirandello (…) Nel 1974 Raffaele Meloni tornò al romanzo ottocentesco con Malombra di Fogazzaro, così come Anton Giulio Majano, l’anno dopo, diresse il Marco Visconti di Tommaso Grossi», A. GRASSO: 2000, 163. 27 Quella di riferirsi a modelli letterari, è una tendenza che prosegue per molto tempo (fino agli anni ’70 e oltre) e, grazie a essa, molte opere cardine della nostra cultura e tradizione vengono fatte conoscere alla massa, raggiungendo la (quasi) dovuta fama e popolarità. Forse è anche questo un altro dei grandi meriti della tv delle origini. Tuttavia, il rimando al romanzesco o al letterario in genere è molto spesso non una semplice ispirazione, una “vampirizzazione” di una trama, riproposta attraverso una forma di linguaggio nuova, ma è al contrario una vera e propria riproposizione delle opere in toto, una riproposizione in presa diretta, effettuata dal palcoscenico: il teatro diventa così l’appuntamento “clou” del venerdì sera.59 Come la “paleo-fiction”, anche i cosiddetti “programmi di intrattenimento” si riallacciano, in qualche modo, alla tradizione dello spettacolo pre-televisivo; in questo caso, il modello archetipico di riferimento è la radio. Quello che, in tv, diventerà uno dei formati di maggior successo, cioè il quiz, nasce infatti negli anni ’30 proprio in territorio radiofonico, dove diventa popolare grazie a I quattro moschettieri60 di Nizza e Morbelli61. Questo genere ottiene il favore della classe dirigente perché è quello che meglio si presta a coniugare l’educazione con il divertimento: le domande e le risposte dei concorrenti contribuiscono a completare e a consolidare quell’ “Hintergrund culturale”, la cui costruzione era affidata primieramente agli appuntamenti pedagogici in senso stretto.62 Un'altra caratteristica del quiz (per lo meno nella modalità secondo cui viene “declinato” in Italia) è quella per cui esso non è mai realizzato in forma “grezza” se così si può dire, cioè non è mai solo ed esclusivamente una gara. La gara è infatti inserita in un “media event”, in un contesto spettacolare più ampio: le performances dei concorrenti si inscrivono in una più estesa cornice fatta di musica, cabaret, risate… I programmi di intrattenimento (collocati, per lo più, al sabato sera) possono, in questo senso, essere definiti “prodotti mediatici compositi”, nella misura in cui presentano, al proprio interno, generi differenti, ispirati a loro volta a forme di linguaggio diverse: avanspettacolo, cinema seriale popolare… In ogni caso, ciò che va qui notato è che anche gli aspetti più “frivoli” si rifanno sempre a qualcosa che esiste già, a qualcosa che è già stato ampiamente “fagocitato e digerito” in altri luoghi e situazioni. Molto spesso, si tratta poi di format importati addirittura dagli Stati Uniti e riadattati alla sensibilità e ai consumi del nostro paese. È quello che accade con Lascia o raddoppia? (senza dubbio, uno dei quiz di maggiore successo) condotto da Mike Bongiorno, versione italiana del The $ 64,000 Question. Nonostante la stretta dipendenza dal modello originale, le differenze rispetto a esso sono abbastanza profonde: nell’ edizione americana, il programma era un quiz tout court, della durata di mezz’ora, concentrato esclusivamente sulla performance del concorrente, e assurgeva alla funzione di specchio di quegli ideali di “arrivismo”, “individualismo”, “competizione” e “successo personale”, tipici della società americana; nel riadattamento italiano, la trasmissione diventa un varietà dove prevale la mescolanza dei generi e dove l’elemento spettacolare (se così può essere

59 Anche qui vogliamo fornire degli esempi: «È un teatro televisivo ricostruito prevalentemente in studio – rare le riprese in diretta – proposto nella tradizionale collocazione del venerdì (giorno di espiazione) e replicato la domenica pomeriggio. Il repertorio è tradizionale ma il successo non manca. Dopo L’osteria della posta, nel 1954 si va da Candida di G.B. Shaw a Così è se vi pare di Pirandello, da Romeo e Giulietta di Sheakespeare a Spettri di Ibsen ecc. Negli anni successivi le trasmissioni di Teatro in tv reggono il ruolo di punto di forza della programmazione televisiva con un cartellone solido, vasto, intelligente», F. MONTELEONE: 1992, 304. 60 Si tratta di una trasmissione particolarmente degna di nota in quanto, fra le altre cose, origina il primo fenomeno di “merchandising”, realizzato per conto della Buitoni-Perugina. 61 Si veda in proposito il testo di Colombo (: 1996, 180/189). 62 Come scrive Fausto Colombo: «(…) la vocazione pedagogizzante mantenne la sua continuità con la giovane tradizione radiofonica, modellando una cultura che da un lato doveva essere un genere come tanti, e dall’altro doveva occupare un posto preminente (…) Persino la fortuna del quiz televisivo (a partire dalla trasmissione che viene considerata la sua principale matrice, Lascia o raddoppia? con Mike Bongiorno) deve forse la sua longevità e la sua capacità di successo alla mediazione fra l’intrattenimento e la vocazione pedagogica dei primi anni, che metteva in scena uno spettacolo dell’erudizione», Ib., 224. 28 definito) viene moltiplicato all’ennesima potenza. Scompaiono i valori di matrice statunitense, soppiantati da un’ “assiologia popolare” tipica della società post-contadina: “speranza nella fortuna”, “arte di arrangiarsi”, “esibizionismo”…63 La trasmissione, in forza della popolarità e del successo ottenuti, porta alle estreme conseguenze quelle modalità di consumo che caratterizzano la fruizione del mezzo durante gli anni ’50 (ovvero una fruizione “comunitaria”).64 Lascia o raddoppia? diventa in breve tempo un appuntamento imperdibile, un vero e proprio fenomeno di costume, un sinonimo del giorno della settimana in cui viene mandato in onda: tutti gli italiani, il giovedì sera, alle ore 21, si ritrovano al bar, in parrocchia, in osteria o in qualunque altro locale pubblico per guardare assieme questo popolarissimo programma.65 Ma per quale ragione il quiz di Bongiorno ottiene così tanto successo? Secondo Franco Monteleone66 a causa della partecipazione del pubblico, che esce dal quotidiano anonimato per comparire sul teleschermo, quasi in un atto di eroismo, celebrato dalla nuova eloquenza narrativa delle immagini. In questo frangente della storia, si avvia dunque un processo, inizia un fenomeno, che condizionerà la tv degli anni ’90 prima e del nuovo millennio poi: l’ingresso negli studi e la partecipazione attiva del telespettatore.67 In questo modo, le periferie, quelle realtà rimaste per decenni nascoste agli occhi dei riflettori, vengono “liberate dalle tenebre dell’ignoto” e mostrate a tutto il paese, a tutto lo stivale, senza barriere, confini o riduzioni di sorta. Anche questo è, in fondo, un passo importante per la costruzione dell’identità nazionale, obiettivo che la classe dirigente tenta di raggiungere ogni giorno a fatica.68 Un altro spettacolo, che ha come scopo proprio quello di dare voce alle comunità locali, è Campanile Sera, condotto sempre da Mike Bongiorno. La trasmissione è un gioco a premi che ruota attorno a una sfida fra comuni differenti, rappresentati dalle squadre che si contendono la posta in palio. L’aspetto interessante è che, chiamando a partecipare diversi “campanili”, viene data visibilità all’Italia “reale”, cioè a un’Italia caratterizzata dalla frammentazione, dall’eterogeneità, dalle differenze, oltre che geografiche, anche sociali, culturali, linguistiche ed economiche. La pretesa del programma di Bongiorno è perciò quella di raccogliere in unità tali differenze, di rimettere assieme tali frammenti sotto l’egida di un’armonia superiore, come in un puzzle, dove il singolo pezzo ha senso solo in relazione al tutto. È questa, probabilmente, una delle ragioni principali dell’esistenza stessa di Campanile sera: contribuire in maniera forte alla costruzione di un’idea di appartenenza comune.69

63 F. MONTELEONE: 1992, 332, 333. 64 Come scrive Monteleone: «(…) al suo apparire, la tv è uno strumento di intrattenimento comunitario: la si guarda al bar, in parrocchia, nella sede del club, nelle sezioni di partito (…) Si consuma la televisione insieme ad altre persone, prevalentemente al di fuori del nucleo familiare, con le quali si condivide una visione del mondo e una organizzazione del tempo libero. Anche se di breve durata, questa prima fase del consumo televisivo è importante: essa rafforza il sentimento di gruppo, alimenta la discussione, promuove la “conversazione” in un paese che conosce poco questo strumento fondamentale della convivenza», Ib., 302. 65 Aldo Grasso scrive addirittura che: «(…) Lascia o raddoppia? (…) riuscì a creare un’attesa collettiva e un immaginario che si insinuò fra le pieghe della società italiana cambiandone la fisionomia», A. GRASSO: 2000: 165. 66 Scrive infatti Monteleone: «Lascia o raddoppia? è per gli italiani il momento della scoperta della tv e, al tempo stesso, il momento in cui la tv scopre l’Italia, legittimandosi come strumento privilegiato dello status culturale medio (…) la chiave (del) successo era proprio la gente, senza distinzione di ceto o di classe. In particolare la provincia si affacciava con prepotenza sui teleschermi e, nello stesso tempo, la presenza dell’apparecchio televisivo nei luoghi più lontani produceva reazioni di confessione pubblica, di recupero storico, di solidarietà manifestate, di sfruttamento di opportunità inconsapevoli (…) La televisione svelava una patria sconosciuta, fortemente simbolica, agli occhi del suo stesso popolo, offrendo immagini, luoghi, situazioni che rompevano con l’esperienza quotidiana e aprivano orizzonti fino allora rimasti chiusi o quantomeno circoscritti», F. MONTELEONE: 1992, 322, 323. 67 Per un’analisi approfondita e dettagliata di come, nel corso della storia del mezzo, il pubblico viene rappresentato nelle trasmissioni rimandiamo a: M. P. POZZATO, Dal gentile pubblico all’auditel, VQPR, Eri Ediz. Rai, Torino, 1992. 68 Per una storia approfondita della trasmissione Lascia o raddoppia? rimandiamo a: A. GRASSO, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano, 2000, 43/49. 69 «In questa fortunata trasmissione la televisione rivelò il suo ruolo unificatore della realtà sociale del paese che altri strumenti dell’industria culturale, e la stessa scuola, non erano riusciti a realizzare; essa ebbe inoltre la funzione, non 29 È evidente, in entrambi i casi (Lascia o raddoppia? e Campanile Sera), quanto fosse forte l’istanza pedagogizzante di matrice corvesco-grillesca, pur trattandosi di intrattenimento: da un lato abbiamo infatti la diffusione di contenuti attraverso il divertimento del quiz, dall’altro la costruzione dell’identità attraverso la sfida fra le realtà locali. Tuttavia, qualcosa di estremamente importante sfugge alla classe dirigente, preoccupata di depurare il mito del progresso dalla sua matrice ideale liberistico-capitalista: il fatto che programmi come quelli in questione, così come il varietà in genere, contribuiscano in modo forte all’ “americanizzazione” della nostra cultura. Come la Coca Cola, gli elettrodomestici, i blue jeans, i chewing gum, la televisione, nonostante l’opera epuratrice della politica, si rivela uno dei massimi centri di diffusione del “mito” oltreoceanico, del sogno di una modernità/ricchezza a portata di mano e facilmente raggiungibile70: nell’obiettivo di voler controllare ideologicamente tutte le forme di messaggio, qualcosa sfugge a chi possiede il timone della tv. Ma torniamo a noi. Neanche la pubblicità può sottrarsi a un’ottica strettamente pedagogizzante e a un controllo rigido dei contenuti; prova ne è la creazione della SACIS, istituzione avente il compito di vigilare sulla moralità dei contenuti, attraverso precise normative interne.71 Da tali normative sarebbe scaturita la forma tipica del messaggio promozionale in Italia: (a partire dal 3 febbraio 1957), versione nazionale dell’advertising americano. La pubblicità, di fronte agli occhi della classe dirigente, rappresenta una grande e irripetibile possibilità per spingere il paese verso il progresso e la modernizzazione. Tuttavia, come nel caso dell’intrattenimento, tale modernizzazione e tale progresso non devono ledere un certo sistema di valori tradizionali, riconosciuto come buono e come possibile base di una civile e pacifica vita comunitaria. In questo senso, viene realizzato un prodotto che, non solo fa riferimento a un sistema assiologico cristiano-cattolico, ma che ha caratteristiche espressive proprie, tipicamente italiane, riallacciandosi a una lunga tradizione di spettacolo leggero. Vengono così realizzati degli “spot”, come li chiameremmo oggi, che hanno nella forma del “racconto breve” la loro “quidditas”: una gag simpatica o una scenetta (più o meno corta) precede sempre il nome dell’oggetto pubblicizzato, che compare sempre alla fine, quando lo sketch si è già concluso.72 La scelta di impostare in questo modo il messaggio, lungi dall’essere limitativa e castrante, è invece una grande possibilità espressiva, con la quale si sono misurati tutti i grandi personaggi del mondo dello spettacolo

meno importante, di integrare classi sociali diverse nel processo di formazione di una moderna società industriale», F. MONTELEONE: 1992: 324. 70 Ragone sottolinea bene come l’americanizzazione dei consumi, realizzatasi nella seconda metà degli anni settanta, abbia delle radici molto più lontane nel tempo, rintracciabili proprio nei primi anni della tv: «L’american way che si afferma in questi anni non è il vero fine del consumismo, ma solo il mezzo per un’operazione culturale assai più sottile, determinante, che è appunto quella di creare un nuovo conformismo, una omogeneizzazione di aspirazioni e di comportamenti attraverso l’accentuazione delle specificità culturali di individui, gruppi, e categorie sociali. Il vero consumismo inizierà infatti solo nel periodo successivo, verso la metà degli anni ’70, ma per potersi affermare e diffondere, era appunto necessario che si creasse un terreno comune e che, quindi si azzerassero, per quanto possibile, le differenti fisionomie culturali dei suoi protagonisti», C. RAGONE, Consumatori con stile, in: AA. VV., Tra sogno e bisogno, Milano, 1986, 239. Come, del resto, sottolinea anche Franco Monteleone: «La televisione rappresentò il veicolo primario attraverso il quale la penetrazione statunitense si impose nel nuovo processo di socializzazione delle masse che l’Italia stava sperimentando…», F. MONTELEONE: 1992, 320. 71 «La SACIS agì costruendo un sistema di norme che da un lato riguardavano il formato tecnico dei messaggi, dall’altro costituivano una sorta di codice etico imposto dall’istituzione, e che teneva conto sia di una difesa dell’utente, sia dei valori ritenuti fondanti nella società di quegli anni», F. COLOMBO: 1998, 238. 72 «Dal 3 febbraio 1957, fino all’immotivata e improvvisa abolizione del programma dopo la riforma del 1975, la formula pubblicitaria del “racconto breve” – due minuti di spettacolo cui seguiva un rapido advertising – diventa un appuntamento di grandissimo richiamo popolare. Ogni sera, dopo il telegiornale, al suono di trombe e mandolini, dietro un sipario inventato dallo scenografo Giulio Coltellacci, si susseguono le piazze e le fontane più celebri d’Italia disegnate dalla matita di Artioli: è la preparazione allo “spettacolo” per eccellenza che ha accompagnato le serate di un’intera generazione di telespettatori», F. MONTELEONE: 1992, 318. 30 (peraltro ottenendo ottimi risultati).73 È attraverso questa specifica modalità linguistica che viene declinato l’obiettivo primario della classe dirigente, poiché la reclamizzazione del prodotto, emblema in se stesso di modernità e progresso, viene incarnata nelle forme espressive di una già nota tradizione artistica, vessillo della dottrina morale sposata dalla classe politica.74 Accanto ai programmi “leggeri” con intento pedagogico, vi sono poi le trasmissioni pedagogiche “tout court”, che non hanno altro obiettivo se non quello di diffondere contenuti, di elevare il grado culturale della popolazione, soprattutto di quelle fasce rimaste escluse (per ragioni di diversa natura) dalla dispensa dei benefici del sistema scolastico. Nel 1958, nasce così Telescuola (trasmissione che proseguirà fino al 1966), vero e proprio corso completo di istruzione secondaria per l’avviamento professionale75; sulla stessa lunghezza d’onda si colloca Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi, che si rivolge invece a quanti non possiedono neanche la licenza elementare, cioè agli analfabeti76. Attraverso questo genere di trasmissioni, la tv italiana contribuisce davvero alla diffusione di saperi, assolve davvero a quel compito pedagogico-educativo che aveva contraddistinto la sua nascita. Grazie ad appuntamenti come Telescuola e Non è mai troppo tardi, ma anche grazie ai programmi di intrattenimento (seppur in misura minore), viene fornito davvero quell’Hintergrund culturale necessario per porre l’opera di modernizzazione su più solide basi. Una società con troppe e troppo grandi differenze sociali e culturali, non può infatti essere ritenuta “progredita”, non può definirsi, per l’appunto, moderna. Il merito della tv in questo senso sarà, quanto meno, quello di creare un’unità linguistica, punto sul quale, da sempre, l’istruzione pubblica aveva fallito. Ma una televisione che assolve a finalità pedagogico-educative non può non occuparsi dei ragazzi, non può non coinvolgere nel suo progetto anche i più piccoli, coloro che più di tutti hanno bisogno di essere istruiti, sia dal punto di vista del bagaglio di conoscenze, sia dal punto di vista dei valori morali. È per queste ragioni che vengono inaugurate le fasce pomeridiane dedicate agli “under 14”; la cosa singolare è che ragazze e ragazzi vengano considerati due bacini d’utenza distinti, a cui riferirsi, ovviamente, con due generi di prodotto altrettanto distinti. Nascono così una serie di trasmissioni caratterizzate dalla mescolanza di pedagogia e spettacolo, non ultimo Lo zecchino

73 «Carosello va inoltre ricordato come compendio di storia dello spettacolo e del cinema italiano. “Cassa integrazione” per registi in difficoltà, come fu definito, il programma pubblicitario stimolò la fantasia di più di un autore: Age e Scarpelli e Luigi Magni furono i più assidui. Ma anche Gillo Pontecorvo, Lina Wertmüller, Dino Risi, Ermanno Olmi, Pupi Avati, i fratelli Taviani, Francesco Maselli, Sergio Leone, Ugo Gregoretti, Valerio Zurlini, lavorarono per la pubblicità televisiva. Nelle scenette di Carosello, apparvero attori come Macario, Peppino De Filippo, Gassman, Manfredi, Nino Taranto, Sergio Tofano, Dario Fo, Raimondo Vianello, Carlo Giuffrè, Rascel, Fabrizi, Paolo Panelli, Totò. L’obiettivo pubblicitario, il tentativo di dare una giustificazione artistica a una forma di comunicazione merceologica, fecero nascere un gusto e un linguaggio non banali», Ib., 318, 319. 74 Fausto Colombo, addirittura, parla di un doppio progetto morale, alla base di Carosello:«(…) Carosello era una trasmissione obiettivamente rivolta agli adulti in quanto potenziali compratori, ma di fatto – quanto ai contenuti – ideale per i bambini. Ne deriva che la sua progettazione fu doppiamente pedagogica, e del tutto inserita in una logica del grillo allo stato puro (…) in quanto rivolta agli adulti, mostrava la via della modernizzazione rendendola compatibile con i valori tradizionali protetti dai codici della Sacis: essa lasciava intendere alla massaia che l’uso di elettrodomestici o di cosmetici era socialmente tollerabile, e anzi auspicabile nel salto di qualità della vita che la crescita economica avrebbe comportato. In quanto rivolta ai bambini, questa medesima pedagogia insegnava loro (…) che c’era una società di cui loro facevano parte, protetta da un mondo adulto che cominciava – con un alone di mistero – quando loro andavano a dormire», F. COLOMBO: 1998, 240. 75 «Con la consulenza del Ministero della pubblica istruzione venne organizzato, nel 1958, il primo corso completo di istruzione secondaria per l’avviamento professionale. Le trasmissioni si rivolgevano ai ceti più poveri e disagiati, ragazzi domiciliati in piccoli paesi di montagna, in località mal collegate e non fornite dalle scuole secondarie. Nasce così Telescuola, un esperimento di educazione a distanza che prosegue fino al 1966, con diverse impostazioni metodologiche e sempre condotto attraverso una capillare anche se modesta organizzazione di posti d’ascolto collettivo. Con l’inizio degli anni ’60 i corsi di Telescuola assumono addirittura carattere sostitutivo e si propongono di surrogare le strutture scolastiche là dove non esistevano», F. MONTELEONE: 1992, 309, 310. 76 «Non è mai troppo tardi (…) Nacque il 15 novembre del 1960, in concomitanza con la campagna di alfabetizzazione delle aree depresse voluta dai governi dell’epoca. Si trattava di un vero e proprio corso di insegnamento della lingua italiana per analfabeti con trasmissioni trisettimanali, realizzate mediante l’installazione di 2.000 televisori collocati in altrettanti punti di ascolto sparsi in tutta Italia. Ad Alberto Manzi, il maestro che assicurò il grande successo popolare della serie, va riconosciuto il merito di aver fatto prendere la licenza elementare a più di un milione di analfabeti», Ib., 310. 31 d’oro77 (la cui prima edizione risale al 1957), condotto dal famoso mago Zurlì (Cino Tortorella), affiancato dal burattino Topo Gigio. Si è parlato di generi televisivi e si è detto che essi nascono dalla “vampirizzazione”, dal “saccheggio” da altri media. Si tratta in realtà di un processo che non caratterizza soltanto la tv e che non è giustificato dalla relativa giovinezza di questa; è infatti un fenomeno che pervade tutto il sistema mediatico, che pervade ogni settore dell’industria culturale. L’intermedialità78 che compare nell’Italia degli anni ’50 (si veda per esempio quello che è successo al genere western79) è l’indizio di un fatto ben preciso: la maturità della macchina comunicativa nel nostro paese. Proprio negli anni ’50 infatti, la suddetta cultura e la sua macchina subiscono un “processo di industrializzazione globale”. È questo un concetto abbastanza altisonante, ma sta a indicare, in concreto, la popolarità, la massificazione estrema della domanda di prodotti industrial-culturali. Se Cuore di Edmondo De Amicis o Le avventure di Pinocchio (grazie ai quali, come si è visto, nasce l’industria culturale nel nostro paese) erano oggetti destinati a soddisfare i bisogni posti da un pubblico, in certa misura, ancora di nicchia (i giovani alfabeti), non solo la tv, ma anche tanti altri mezzi di comunicazione, hanno in questo periodo la pretesa di rispondere a esigenze largamente diffuse, sono orientati cioè a rivolgersi alla totalità dei consumatori: la tv si rivolge a tutti gli italiani e tutti gli italiani chiedono più tv; siamo di fronte a un rapporto di tipo biunivoco (tv – vs – italiani, italiani – vs – tv).80 Dunque, la dipendenza dei generi televisivi da altri media e, nella fattispecie, da un certo tipo di “cultura alta”, è un fenomeno che non dipende soltanto dalla formazione della classe dirigente e dai suoi obiettivi pedagogizzanti (anche, ma non solo), ma anche da un macro-processo che coinvolge tutti i media, cioè da una vera e propria “trasversalità dei generi”, data da una crescente massificazione dei mezzi e di cui l’ascesa della tv rappresenta l’emblema. C’è tuttavia un altro aspetto che qui ci preme analizzare brevemente (anche se verrà ripreso alla fine del capitolo): in che modo il medium si inserisce nella vita degli italiani, vale a dire, qual è lo schema orario delle trasmissioni?81 Se la televisione è maestra, se ricopre un ruolo educativo, essa allora non potrà “disturbare” i telespettatori nel momento in cui si trovano in ufficio, a scuola o in fabbrica a svolgere la propria attività lavorativa; dovrà inserirsi invece negli spazi dedicati al tempo libero, cioè al pomeriggio e alla sera. Così, i programmi vengono predisposti su due fasce orarie: dalle 17,30 alle 19 (trasmissioni per i più piccoli) e dalle 20,45 alle 23 (trasmissioni per adulti).82 Quando si inaugurerà

77 Si tratta di una gara canora fra giovani artisti (solitamente “under 11”), che si svolge annualmente a Bologna, presso il teatro dell’Antoniano. 78 F. COLOMBO: 1998, 205/213. 79 «È evidente la dipendenza della produzione fumettistica italiana da quella cinematografica statunitense (…) con le loro grandi differenze “Il grande Blek”, “Pekos Bill”, “Oklahoma”, “Il piccolo Ranger” e “Il piccolo sceriffo”, nonché, naturalmente, “Tex”, mostrano una straordinaria capacità di rielaborazione in chiave narrativa, stilistica, metalinguistica del contenuto ideale americano…», Ib., 210. 80 «Due esempi: il primo è rappresentato dallo sviluppo della musica da un lato, dell’avanspettacolo dall’altro (…) Per quanto concerne lo sviluppo della musica di massa, il boom dei cantanti napoletani, la nascita del Festival di Sanremo, i nuovi assetti discografici sono esempi lampanti di una radicale messa in moto del fenomeno nel nostro paese (…) Anche sul fronte dell’avanspettacolo la rielaborazione della rivista e dei suoi elementi (…) predispone un teatro popolare di massa che in qualche modo farà da contraltare da un lato alla produzione dei grandi teatri, dall’altro a quella versione nobile del dramma che fu costituita dal teatro televisivo della Rai (…) Un ulteriore elemento è costituito dall’evoluzione e dallo slancio del fenomeno sportivo, dove – di nuovo – è perfettamente possibile leggere i sintomi dell’evoluzione futura (…) Nel secondo dopoguerra (…) si costituisce embrionalmente un sistema di sport-spettacolo fortemente legato a un certo immaginario sociale: il tifo cittadino e metropolitano di massa radicalizzato attorno a figure-simbolo, il Totocalcio che connette lo sport all’ideologia della fortuna e della lotteria, un sistema di giornalismo specializzato che ben presto assumerà i connotati peculiari tipici del nostro paese (…) Ce n’è abbastanza, insomma, per ribadire la centralità del decennio ’50; e per dare il senso di quanto leggervi le tendenze in atto significhi riconoscere alcune caratteristiche dell’attuale sistema italiano dei media», Ib., 212, 213. 81 Per una storia del palinsesto in Italia rimandiamo a: N. RIZZA, Costruire palinsesti, VQPT, Eri Ediz. Rai, Torino, 1989. 82 «Le ore di trasmissione erano divise in due grandi fasce: dalle 17,30 alle 19 lo spazio era dedicato ai ragazzi; dalle 20,45 alle 23 ci si rivolgeva agli adulti. La domenica le trasmissioni si aprivano di mattina per i consueti appuntamenti religiosi…», F. MONTELEONE: 1992, 297. 32 anche una fascia mattutina, lo si farà per dare spazio ad appuntamenti educativi come Telescuola: quelli che nella realtà sono gli “orari d’ufficio” restano tali anche in tv. Un tale schema, rimarrà quasi invariato fino al 1968, quando qualcosa, nelle strategie di “impaginazione”, inizierà a cambiare; tuttavia, modifiche davvero palesi, si riscontreranno solo nella seconda metà degli anni ’70, quando la concorrenza con i privati imporrà anche alla tv di Stato l’adozione di “tattiche di palinsesto”, orientate a coprire il maggior numero di ore possibile.83 Altro punto da notare è che gli appuntamenti, inseriti all’interno della programmazione generale, sono assolutamente autonomi, sono testi a sé stanti, senza soluzione di continuità con ciò che precede e con ciò che segue84: ciascuna fascia oraria, di ciascun giorno della settimana, va a identificarsi con il programma che contiene; è questa la “festività” tipica della tv delle origini, fondata su trasmissioni con frequenza settimanale, le quali, proprio in forza di tale frequenza, sono capaci di creare delle attese, di costruire un’aspettativa forte nel telespettatore.85 Anche su questo punto dunque, il medium non ha ancora trovato una strada propria, una caratteristica che gli sia peculiare; non ha ancora sperimentato in sostanza una vera “tecnica di palinsesto”, cosa che gli avrebbe senz’altro giovato dal punto di vista dell’immagine e delle strategie di “marketing”.86 Del resto, una parola come “marketing”, per l’appunto, è ben lontana dalla formazione culturale della classe dirigente. “Marketing” è un termine che, molto spesso, si pone in antinomia a “educazione”, la quale resta senza dubbio l’obiettivo principale del regime democristiano. La preoccupazione che muove coloro che hanno in mano la gestione della Rai è innanzitutto quella di restare il più lontano possibile dal modello americano, nel quale invece le logiche di palinsesto, inteso come “flusso” continuo di immagini e suoni, giocano un ruolo decisivo. La televisione non deve essere “tentatrice” (si potrebbe dire), non deve “affabulare” con la forza delle immagini, distraendo dai doveri e inserendosi prepotentemente nella quotidianità. Essa deve semplicemente istruire oppure divertire istruendo, cioè né più né meno che avere una funzione pedagogica. Probabilmente, anche per queste ragioni (accanto a una misconoscenza delle possibilità espressive del mezzo), gli operatori radiotelevisivi sono restii a creare un palinsesto di “flusso”. Ecco dunque che cos’è la tv negli anni ’50: uno strumento nelle mani del corvo/grillo per dare un’impronta anti-laicista alla società, per preparare questa stessa società a una modernizzazione priva di “strappi” con la tradizione, una modernizzazione adattata a un sistema di valori cristiano- cattolici. La televisione, dal canto suo, ha davvero il merito di creare un’unità nazionale ideale, di sottrarre la popolazione alle “tenebre dell’ignoranza”, di mostrare “la periferia al centro” e “il centro alla periferia”, di dare visibilità alle realtà più nascoste.87 Per questo essa riscuote maggiore

83 Si veda: G. P. CAPRETTINI, La scatola parlante, Editori Riuniti, Roma, 2000, 40. 84 «Nella televisione degli anni Cinquanta, Sessanta e dei primi anni Settanta i programmi erano rappresentati come blocchi di materiali ben distinti rispetto al proprio esterno e omogenei al proprio interno. Anzitutto le singole trasmissioni erano nettamente separate rispetto agli altri programmi: le sigle, di una certa lunghezza e consistenza, delimitavano inizio e fine in modo inequivocabile. All’interno dei programmi dominava l’omogeneità dei ritmi e dei tempi delle inquadrature: in genere venivano largamente usati il piano medio e il primo piano, in quanto appropriati alle esigenze rappresentative del piccolo schermo. La camera era statica nella maggior parte dei casi, in particolare nell’informazione da studio…», Ib., 36. 85 «Nella televisione degli inizi si aspettava con ansia l’appuntamento settimanale con il genere preferito, come si attendevano le feste. La tv della concorrenza diventava feriale perché non aveva più un palinsesto settimanale ma tendeva a riprodurre ogni giorno la più ampia scelta di contenuti, per accontentare tutte le fasce del pubblico. Ciò comporta il passaggio da un palinsesto settimanale a uno giornaliero», E. MENDUNI, I linguaggi della radio e della televisione, Laterza, Roma-Bari, 2002, 125. 86 «Come è stato varie volte osservato, la tv delle origini manca di identità mediologica, è ancora scarsamente consapevole delle proprie autonome potenzialità, è ben lontana dall’avere scoperto le opportunità di un “palinsesto” nel quale si organizza tutta l’offerta delle trasmissioni. Questa è essenzialmente ispirata a due preoccupazioni: da un lato costruire una sequenza cronometrica delle trasmissioni, dall’altro orientare il pubblico, con un intento chiaramente pedagogico, a un ascolto “corretto”…», F. MONTELEONE: 1992, 302, 303. 87 Si tratta di un punto che Franco Monteleone sottolinea molto bene: «Gli italiani sentono per la prima volta di avere un punto di riferimento nazionale e collettivo alle loro azioni private, al loro vissuto quotidiano. La tv allarga l’orizzonte della comunità domestica, ma nello stesso tempo rende i membri di quella comunità consapevoli di una comune appartenenza; mostra tutta la forza della sua novità, opera una violenta azione dirompente, apre orizzonti chiusi, 33 successo proprio nei luoghi più sfortunati, nelle zone più disagiate, in quei settori del paese rimasti più lontani dallo sviluppo economico e industriale. Questo è un fatto evidente, riconosciuto da più parti quasi come indiscutibile. Ma accanto a questi aspetti positivi, la tv, nonostante l’attenta pianificazione democristiana, porta con sé anche aspetti più deleteri come il mito del progresso, nella sua matrice più consumista, come, del resto, si è già notato. Con questi ideali, con questi valori laici si fonderà il boom economico che, nella prima metà degli anni ’60, renderà la nostra una delle nazioni più ricche al mondo: nulla di religioso rimarrà più nell’Italia delle rivolte sessantottine e nell’Italia dei colletti bianchi; resterà solo una società laicizzata e secolarizzata, contraddistinta da un’ideologia crescentemente borghese e individualista. Un duro scacco matto a tutte quelle strategie attentamente progettate a tavolino dalla nostra classe politica.

3. Dal “boom” economico alla guerriglia urbana: gli anni ‘60 e “la scomparsa delle lucciole”88

Il nostro “viaggio” prosegue e l’itinerario prevede una “tappa” negli anni ’60, periodo abbastanza delicato e difficile non soltanto per la televisione, ma per la realtà italiana nel suo complesso. Anzitutto, la società è cambiata in modo profondo e ciò appare evidente agli occhi di tutti89. Lo sviluppo economico (e quindi il miglioramento delle condizioni di vita) e la crescita democratica del paese, a cui pure la tv aveva dato impulso, sono solo alcune delle principali ragioni della metamorfosi socio-culturale che l’Italia sta subendo. Detto questo, una domanda sorge spontanea: quando iniziano concretamente gli anni ’60? Cominciano con la definitiva spinta alla modernizzazione, ovvero con l’emergere di quella tendenza, che condurrà al “boom economico”, emblema e avvio di un benessere più generalizzato: gli anni ’60 iniziano perciò con la “fine delle lucciole”, come sosteneva il grande Pier Paolo Pasolini90. Ma che cosa vuole dire “fine delle lucciole”? Le “lucciole” che da sempre avevano rischiarato le tenebre, durante le sere di primavera, improvvisamente, scompaiono91; scompaiono, si volatilizzano nel nulla, così come scompaiono e si volatilizzano nel nulla quei valori che avevano rappresentato la “stella polare”, il “faro nella notte” di tutta la cultura popolare negli anni precedenti. L’assiologia cristiano-cattolica, trasformata in morale nazionale, subisce un radicale cambiamento, una metamorfosi, reincarnandosi e riplasmandosi negli ideali consumisti, individualisti, liberisti, tipici della civiltà urbana occidentale.92 È questo il prezzo della modernizzazione. Quando terminano invece gli anni ‘60? propone nuovi codici linguistici, insegna comportamenti più liberi, insomma porta letteralmente “il mondo in casa”», Ib., 296. 88 Per una cronistoria completa della tv negli anni sessanta, che tenga conto di tutti gli aspetti (soprattutto economici e politici), rimando al testo già citato di Franco Monteleone: 1992, 333/376. 89 Per una storia della società italiana negli anni sessanta, rimandiamo a: P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1989, 344/468. 90 P. P. PASOLINI, Il vuoto del potere, in: Corriere della sera, 1.2.1975. 91 «Nei primi anni ’60, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più (…) Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare fra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (…) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi», Ib. 92 Come nota Fausto Colombo, proprio a proposito dell’articolo in questione: «Questi valori, continua Pasolini, erano “reali”, perché oggettivamente radicati nelle “culture particolari e concrete” dell’Italia agricola e paleoindustriale. Ma, nel divenire valori “nazionali”, essi non potevano che snaturarsi e falsificarsi in una cultura completamente “altra” rispetto alla precedente. Questa nuova cultura è la cultura moderna e industriale, la cultura delle metropoli e del consumismo, della meccanizzazione e della diffusione di gusti di massa», F. COLOMBO: 1998, 244. 34 Con la fine della pulsione al progresso economico, quando emergono cioè, dalle viscere della società, delle forze che si oppongono a un modello di sviluppo capitalistico-consumistico: sono le rivolte studentesche e operaie del 1968, che tentano di operare un’inversione di marcia, di far prendere una piega diversa alla modernizzazione.93 Dunque, è proprio in questo periodo che a una tendenza generale allo sviluppo (che inizia ad assumere connotati sempre più individualisti e consumisti), imposta al paese dalla classe dirigente, si contrappone una neonata e opposta linea culturale, che ha il suo punto focale nell’opposizione dialettica verso tutto ciò che esiste. Si tratta di due forze antitetiche e contrarie che percorreranno trasversalmente tutto il decennio successivo, venendosi a scontrare, spesso in modo drammatico. È anche a causa della coesistenza sullo stesso terreno di queste differenti correnti ideali (alla base della disomogeneità del pubblico) che gli anni ’70 sono caratterizzati dalla frantumazione dei consumi. Al contrario, gli anni ‘60 sono contraddistinti da una assoluta omogeneità dell’offerta, laddove lo scopo principale della classe politica è ancora quello di rendere gli italiani, la massa della popolazione, un’entità unitaria.94 Tuttavia, qualcosa inizia a cambiare, qualcosa inizia a muoversi, nel mondo della comunicazione e dei consumi: i giovani incominciano a diventare economicamente autonomi e divengono pertanto un soggetto, un interlocutore interessante per tutta l’industria culturale nel suo complesso95; si tratta chiaramente di un target unico, di un unico gruppo di consumatori, cioè essi non sono ancora (come nel decennio successivo) un universo, un insieme composito di individui, aventi gusti e bisogni differenti.96 Forse, la frazione temporale, che in questa sede ci stiamo accingendo ad analizzare, potrebbe essere letta anche sotto quest’altra prospettiva: quella per cui gli anni ’60 sono il periodo che conduce dall’omogeneità alla frantumazione dei consumi. Ma una tale chiave interpretativa ci sembra un po’ troppo centrata sull’aspetto economico-mercantile e non ci pare renda davvero giustizia delle cause di natura sociale, che pure hanno avuto un ruolo, all’interno di quel processo che ha condotto alla frammentazione del mercato. A difesa di quanto sosteniamo sta il fatto che, nell’universo mediatico, si registrano cambiamenti anche di altra natura, che nulla hanno a che vedere con l’economia, ma che hanno però un peso nella modifica del sistema mass-comunicativo in generale. Registriamo per esempio l’inizio di una certa autonomia e dignità culturale di alcuni linguaggi espressivi come il fumetto e la radio97; pensiamo a un’opera editoriale come Linus, uno dei tanti vessilli della generazione sessantottina; grazie a essa, il “comix” raggiunge una forma espressiva piena, una forma che lo rende meritevole

93 Su questo punto, cioè su un’interpretazione in termini “antimodernisti” delle rivolte sessantottine, ci riallacciamo a delle affermazioni di Paul Ginsborg, riprese e condivise anche da Franco Monteleone: «(…) come ha acutamente osservato Paul Ginsborg (op. cit.), la rivoluzione culturale del 1968, con tutti i suoi corollari, fu un tentativo straordinario ma vano di sfidare i valori dominanti di una società in rapido cambiamento. “Essa era in diretto conflitto con il percorso della modernizzazione” (P. GINSBORG: 1989, 463), e i progetti sociali e politici della generazione del 1968 erano in grave ritardo rispetto alle tendenze di lungo periodo della società italiana», F. MONTELEONE: 1992, 373. 94 Questo è un punto sul quale, Fausto Colombo, fa una profonda riflessione: «(…) la generazione nata con il boom ebbe a disposizione per una lunga fase, in quanto consumatrice, una straordinaria e praticamente irripetibile omogeneità di offerta. Ciò valse tanto a livello delle strategie, in quanto prevalsero largamente (…) quella del grillo e quella del topo, quanto a livello dei mezzi e dei contenuti. Per quanto concerne i mezzi, si pensi a cosa significò avere a disposizione una sola televisione, nel senso di emittente, fondata su un piano ideologico largamente condiviso anche dalla scuola. Sul fronte dei contenuti si rifletta invece sul fatto che la musica di massa, o i fumetti, venivano letti non secondo segmenti, ma – più o meno – dall’intera gioventù (…) la generazione nata e cresciuta durante e subito dopo il boom fu un unico grande target che come un gigantesco polmone respirò un’atmosfera unitaria (…) Per quella generazione i media furono davvero una “cultura sottile”, perché respirata ovunque, discussa fra i pari, incastrata fra le pieghe della cultura alta, ancora assorbita e guardata con rispetto», F. COLOMBO: 1998, 241, 242. 95 Come scrive Paul Ginsborg, i giovani delle città iniziano a sperimentare una vera e propria autonomia dei consumi: «I giovani delle città (…) godevano di una libertà mai conosciuta, con la possibilità di trovarsi lavoro da soli, di spendere i propri guadagni, di rompere il soffocante circuito della vita familiare». P. GINSBORG: 1989, 339. 96 «Per la prima volta c’era un “mondo giovanile” astratto dal mondo adulto: un mondo che sarebbe stato protagonista di varie avventure, e che infine si sarebbe sfrangiato e diviso, ma che comunque ancor oggi fa da base a molte strategie di marketing e di comunicazione», F. COLOMBO: 1998, 242. 97 Ib., 246/253. 35 di essere inscritto a pieno titolo nei linguaggi della cosiddetta “cultura alta”. Le vignette riportate sulle pagine del periodico vengono utilizzate come strumento di critica sociale, come “sprone per il sommovimento delle coscienze”. Come si vede, (forse per la prima volta in assoluto) una ben precisa élite (quella rivoluzionaria), che si era sempre rifiutata di mantenere contatti di sorta con la comunicazione di massa, si serve di un prodotto seriale per criticare la stessa. Per quanto riguarda la radio invece, un esempio emblematico del cambiamento in atto è il programma Bandiera Gialla di Arbore e Boncompagni. La trasmissione, indirizzata prevalentemente a un pubblico “under 25/30”, introduce un modo assolutamente nuovo di intendere la radiofonia. Sulla scia delle onde “mitologico-alternative” di emittenti come Radio Montecarlo, Radio Luxemburg, o le radio pirata, dopo anni di sudditanza alla tv, la “sorellina maggiore” sembra avere ritrovato un’autonomia, sembra aver recuperato una propria peculiarità linguistica. Nel contesto di questi cambiamenti, che cosa succede alla televisione, che cosa succede al mezzo che, di fatto, è già diventato il centro di gravità di tutta la comunicazione di massa? Bisogna registrare anzitutto un episodio molto importante: la nascita, alla fine del 1961, del secondo canale.98 Accanto a questo avvenimento, si colloca l’importazione dall’America di nuove invenzioni tecnologiche, che danno innegabilmente un “input” notevole all’evoluzione e allo sviluppo in senso autonomo nella codifica e nella costruzione del messaggio.99 Di sostanziale importanza, risultano, in particolare, le innovazioni in fatto di montaggio (offerte dalla registrazione audiovisiva)100 e in fatto di collegamento in diretta (offerte dal satellite). Sull’onda delle novità introdotte dalle nuove apparecchiature, la tv inizia a battere sentieri mai percorsi, sentieri che la condurranno, lentamente, a maturare una completa autonomia dai mezzi di comunicazione più anziani. Dal punto di vista dei consumi poi, si registra una vera e propria svolta, una vera e propria modifica delle modalità di fruizione del mezzo. Il miglioramento generalizzato delle condizioni materiali di vita consente infatti una diffusione più capillare degli apparecchi, facendo sì che la tv prenda definitivamente il posto della radio in salotto o in sala da pranzo, e si ponga dunque al centro della

98 «L’incremento dell’utenza e dei relativi abbonamenti avevano consentito all’azienda ingenti investimenti tecnici e immobiliari, malgrado la diminuzione del canone. Alla fine del 1961 era stata completata la seconda rete televisiva. Erano stati potenziati i centri di produzione di Roma e di Milano, iniziata la costruzione del centro di Napoli e della nuova sede della direzione generale di Roma in viale Mazzini», F. MONTELEONE: 1992, 330. 99 «Dall’America arrivano (…) due grosse novità tecniche: la registrazione videomagnetica, brevettata dalla statunitense Ampex, che rende possibile non solo registrare ma anche montare l’immagine elettronica; e il lancio dei primi satelliti di telecomunicazione, che consentono di collegare in diretta i più lontani punti del globo. Va ricordato che il 18 ottobre 1961 era stata costituita la società Telespazio, con capitale ripartito fra la Rai e l’Italcable. Nel luglio del 1962 veniva stipulata tra la nuova società e lo Stato una convenzione per la “concessione in esclusiva per dieci anni dell’impianto e dell’esercizio a scopo sperimentale di sistemi atti a realizzare collegamenti televisivi, telegrafici e telefonici a mezzo di satelliti artificiali”. Da quel momento la Rai conserverà per molti anni il monopolio delle trasmissioni via satellite sul territorio nazionale. Nell’ottobre, lo storico avvenimento dell’apertura del Concilio ecumenico verrà seguito via satellite in tutto il mondo. Due anni dopo Telespazio aderisce al consorzio di Washington acquistando una partecipazione nel consorzio internazionale di telecomunicazioni spaziali (INTELSAT) per la gestione commerciale di un sistema mondiale di satelliti», Ib., 341, 342. 100 Il fatto di poter “videoregistrare” e di poter poi montare con maggiore libertà di un tempo il materiale filmico, produce inevitabilmente notevoli cambiamenti in fatto di codifica del messaggio; Franco Monteleone, analizzando questo nuovo tipo di tecnica, pone l’accento su due elementi in particolare. Nello stesso tempo però, fa notare come, accanto ad essi, vi siano anche dei fattori negativi e, sotto certi aspetti, pericolosi: «Il montaggio elettronico favorisce l’abitudine dello spettatore al ritmo cinematografico del racconto, determinando un duplice effetto positivo: da un lato, l’inizio di una programmazione cinematografica di alto livello filmico e culturale e, dall’altro, una autonoma produzione di cinema per il piccolo schermo che porterà a lavorare per la Rai i più grandi autori italiani (…) Ma accanto a questi risultati, il controllo della tecnologia ebbe anche esiti negativi attraverso la “rottura della contemporaneità” in quelle trasmissioni che avrebbero dovuto consacrarne l’esaltazione: i programmi informativi. L’uso delle cronache dirette è andato paradossalmente diminuendo nel corso degli anni (…) Soprattutto da parte delle sinistre si volle dare a questa riduzione il significato di una pratica manipolatoria esercitata dall’apparato, con la conseguente rinuncia a volere rappresentare liberamente la realtà. Una tesi ingenua, ma che impiegò molto tempo a invecchiare…», Ib., 342, 343. 36 vita familiare. Tutto questo ha un’immediata e logica conseguenza: la fruizione, da comunitaria, diventa individuale.101 Di fronte a una simile penetrazione, l’azienda di Stato deve ripensare la propria offerta, ridisegnandola in maniera tale da rispondere alle nuove esigenze di consumo e, quindi, da soddisfare i nuovi bisogni. In questa direzione si inserisce la nascita del secondo programma televisivo, alla fine del 1961, il cui segnale verrà esteso su tutto il territorio nazionale soltanto con il passare degli anni.102 È proprio grazie all’entrata in scena di questo nuovo canale che la Rai sarà incentivata a puntare di più sulle peculiarità del mezzo, creando dei prodotti strettamente “televisivi”, in quanto aventi forme linguistiche proprie, a sé stanti (e non più vampirizzate da altri settori dell’industria culturale). Il primo segno di cambiamento lo si riscontra in quello che potrebbe essere definito il “bigliettino da visita” di un’emittente, in quell’aspetto in cui (più di ogni altro) emerge la politica d’immagine di un canale: il palinsesto. Solo con la nascita della futura Rai Due, l’azienda di Viale Mazzini inizia a sperimentare delle strategie di programmazione pianificata, delle strategie che gli consentono di allontanarsi, progressivamente, da quella disomogenità che aveva fino allora caratterizzato la sua offerta. Se l’obiettivo, lo scopo primario della tv, è quello di omogeneizzare il pubblico, il secondo programma rappresenta una grandissima opportunità per ottimizzare gli ascolti, per ampliare il numero degli utenti. Si tratta di un proposito di indubbia importanza, ma di oggettiva difficoltà. Il problema principale in questo senso è la ricerca di un’identità di rete, di un qualcosa che possa cioè caratterizzare il neonato canale, distinguendolo, per ciò stesso, dal primo. Viene istituito a tal fine un organismo che si preoccupi di pianificare l’offerta su entrambe le emittenti, in gran parte gestendo un magazzino di prodotti già confezionati e assemblati, grazie alle nuove tecniche di montaggio.103 Il fatto che si tratti di cose pre-registrate consente poi un controllo capillare dei contenuti, una censura di tipo “soft”: è una delle tante opportunità, offerte dalle nuove tecnologie.104

101 Ci sembra questa un’affermazione abbastanza delicata, in quanto coinvolge fattori numerosi e di diversa natura. Ci sentiamo pertanto in dovere di riportare una citazione di chi, prima e meglio di noi, ha affrontato il problema: «La dinamica sociale del miracolo economico aveva accentuato la dimensione privata e atomizzata della vita civile. Il ruolo del singolo nucleo familiare, cellula produttiva e non più soltanto affettiva, ebbe un’importanza sempre maggiore nel processo di rapida urbanizzazione (…) L’automobile e la televisione incoraggiano ulteriormente un uso del tempo libero prevalentemente privato. Progressivamente, più cresce il numero degli abbonati, più il consumo della televisione diventa di tipo domestico: alla data del 31 dicembre 1960 gli abbonati erano saliti a 2.123.000, mentre quelli della radio erano circa 8 milioni (…) in soli cinque anni la televisione era diventato il mezzo di comunicazione dominante. Nel 1961, il numero degli apparecchi riceventi era così distribuito: 1.436.690 al Nord, 634.623 al Centro, 485 mila al Sud e 205.269 nelle Isole. Gli abbonamenti alla televisione erano aumentati di circa 500 mila unità», Ib. 334, 335. Come sempre Monteleone riconosce: «il possesso e la fruizione della tv non rappresentano più un motivo di leadership. Mutano le abitudini di consumo anche perché muta l’organizzazione della vita familiare. Chi lavora ormai quasi esclusivamente fuori dell’abitazione è indotto a consumare a casa la maggior parte del suo tempo libero. Poco a poco scompare il consumo comunitario della televisione tipico dell’esordio, e si afferma quello familiare. È in questa fase che “la famiglia si ritrova intorno allo schermo”… È certo (…) che proprio la televisione riesce a creare le principali occasioni dell’unità familiare», Ib. 338, 339. 102 «Con una convenzione del 7 febbraio 1963 (approvata con D.P.R. 18 aprile 1963 n. 983) la Rai si impegna a estendere la rete del nuovo programma in modo da servire entro l’anno tutti i capoluoghi di provincia e arrivare per la fine del 1966 a coprire l’80 per cento della popolazione», Ib., 339. 103 Sull’argomento, ci informa Nora Rizza: «(…) nel 1963 (…) fu istituito un “ Comitato per la programmazione”, che riuniva il Direttore generale, i quattro direttori centrali e il direttore del nuovo servizio per la programmazione. Il comitato aveva il compito di distribuire i programmi già pronti tra i due canali, costruendo le serate televisive, mentre l’impostazione della produzione era demandata ad altri comitati. La separazione delle funzioni e l’accentramento delle scelte di palinsesto in un’unica struttura risultò ulteriormente accentuata dopo la ristrutturazione del 1966 che istituì una direzione per la programmazione cui erano interamente demandate il controllo, l’approvazione e la collocazione in palinsesto di tutti i programmi. È significativa la netta separazione che questo tipo di organizzazione implica tra produzione e programmazione (…) la programmazione consisteva decisamente nella gestione di un magazzino di prodotti già confezionati, ideati e realizzati e “per sé”, perlopiù senza alcun riferimento specifico (…) alle caratteristiche del pubblico», N. RIZZA: 1989, 167, 168. 104 Sempre Nora Rizza rileva bene come questo tipo di abitudine fosse ben radicata presso coloro che gestivano le emittenti pubbliche: «(…) il sistema di programmazione fondato sulla gestione del magazzino dava ai programmatori la possibilità di controllare i contenuti delle trasmissioni senza esercitare (o subire) pressioni troppo dirette, facendo 37 Ma che cosa viene fatto in concreto? Come vengono distribuiti i programmi sulle due reti? Se l’obiettivo è quello di massimizzare l’ascolto, allora le due emittenti vanno governate secondo una logica unitaria, in maniera tale che non siano in concorrenza l’una con l’altra, ma si “integrino”. Si pensa allora che una strategia vincente possa essere quella di contrapporre a un appuntamento forte su un canale un appuntamento debole sull’altro: è quello che Franco Monteleone definisce “meccanismo di protezione del programma forte” e di “traino di quello più debole” (F. 105 MONTELEONE: 1992, 341). Evidentemente, la Rai comincia ad accorgersi che non è più possibile proporre in modo relativamente casuale gli appuntamenti, sia da un punto di vista dell’immagine, sia da un punto di vista ideologico-pedagogico. Una programmazione razionalizzata consente infatti da un lato di definire (sulla base dei prodotti trasmessi) un’identità ben precisa, dall’altra di controllare a-priori il valore contenutistico dei prodotti stessi. Dunque, riassumendo, sono tre gli elementi principali che determinano l’evoluzione del mezzo televisivo, nel decennio ‘60: a. il cambiamento della società e dei suoi consumi; b. una ristrutturazione sostanziale dell’offerta televisiva; c. l’evoluzione tecnologica. E proprio a causa dell’aspetto c., si animano numerosi dibattiti in parlamento: la scienza, in fatto di ricezione e fruizione dell’immagine, fa ulteriori progressi (per esempio inventa il colore) e lo Stato italiano deve prenderne atto. La sperimentazione (: del colore) inizia nel 1962, quando viene installato un trasmettitore a Monte Mario, in Roma. L’anno successivo, sempre a Roma, viene allestito uno studio destinato a produrre programmi a colori. Nel 1965 però, il parlamento decide di rinviare al 1970 l’esordio del servizio, con notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei, che, già nel 1967, sono in grado di adoperare la nuova tecnologia su larga scala. La storia ci insegna che la Rai, inizia a fare uso del colore solo nel 1975.106 Ma questo è

decantare trasmissioni “scomode” o “imbarazzanti” (per ragioni diverse, non sempre e non solo perché troppo “sinistrorse”) fino a “dimenticarle” una volta per tutte, o viceversa valorizzando altri titoli già disponibili con collocazioni in palinsesto tempestive e favorevoli», Ib., 168. 105 Nora Rizza, organizza una tabella, relativa al prime time, nei diversi giorni della settimana (1989: 172), mostrando bene questo meccanismo di integrazione:

Appuntamento forte Appuntamento debole Lunedì Film (PP) Dibattito Martedì Sceneggiato giallo (PP) Culturale Mercoledì Film (SP) Cultura spettac. Giovedì Quiz (SP) Tribuna Polit. Venerdì Giornalistico spettacolare (PP) Prosa Sabato Varietà (PP) Culturale Domenica Sceneggiato (PP) Giornalistico PP: Primo programma SP: Secondo programma 106 Franco Monteleone ci illumina sulle ragioni di questo inspiegato ritardo: «(…) la Rai – che pure è attrezzata a farlo – ne viene impedita da una allarmata e vasta polemica condotta parallelamente dal Partito repubblicano (per ragioni di rigore economico), dalle industrie automobilistiche (che vedono nel nuovo consumo durevole una pericolosa alternativa all’acquisto della seconda macchina) e, complessivamente, dalla carta stampata che intuisce quanto il nuovo mezzo concorrente possa essere rafforzato dall’introduzione del colore soprattutto in ordine alla ripartizione del gettito pubblicitario (…) La Rai viene così a trovarsi in una situazione di arretratezza tecnologica proprio nel momento e negli anni in cui, sotto la spinta del rinnovamento proveniente dalla società, comincia a formarsi un vasto fronte politico e di opinione pubblica che preme per la riforma del servizio radiotelevisivo (…) La responsabilità di questa mancata espansione non era dell’azienda ma di alcuni partiti e della grande industria. Ancora una volta potenti lobbies politico- imprenditoriali lavorano contro i processi della modernizzazione in nome di una cultura elitaria che continuava a vedere nella televisione non uno strumento di democrazia ma una minaccia alla conservazione del loro potere economico e finanziario», F. MONTELEONE: 1992, 344, 345. 38 solo uno dei tanti punti su cui, nel corso degli anni ’60/’70, l’azienda di Viale Mazzini si dimostra deficitaria. Se da un lato però la radiotelevisione pubblica manca di tempismo nella gestione delle innovazioni tecnologiche, da un altro lato è ancora in grado di inventare, di sperimentare nuove forme di linguaggio. Per esempio, è proprio in questo periodo che nascono quei programmi che hanno segnato (finalmente) la nascita di generi “televisivi”, di generi cioè fortemente emancipati dalle tradizioni mediali precedenti. Queste novità si focalizzano intorno a tre aree tematiche (F. MONTELEONE: 1992, 346/358): a. Varietà e spettacolo in genere. b. Musica leggera. c. Programmi culturali e d’informazione. Dal punto di vista dell’informazione (c.), si segnalano per esempio i rotocalchi, veri e propri antesignani dell’odierno “info-tainment”. Da un altro lato (ma sempre sul piano dell’ “information service”), si nota un inizio della spettacolarizzazione degli eventi sportivi; ne sono una prova programmi come La Domenica sportiva (che, da semplice notiziario, si trasforma quasi in un rotocalco di attualità della domenica sera), che sopravive tutt’oggi (seppur in forme diverse) o come Processo alla tappa, in cui il giornalista Sergio Zavoli intervista i protagonisti del Giro d’Italia (ciclismo), cercando di mostrare il loro lato umano e scavando in aspetti che, per certi versi, riguardano la loro sfera intima (avviando quel processo in base al quale la tv cerca di far emergere il lato più nascosto o, comunque, più quotidiano del vip).107 Ma vi sono anche molti altri appuntamenti “giornalistici” degni di nota; per esempio quelli che hanno il loro fulcro tematico nell’attualità, cioè quelli che hanno come obiettivo principale l’approfondimento o la rilettura degli avvenimenti più importanti della settimana. Tv7 (nato il 20 gennaio 1963) è proprio uno di questi, noto per aver accompagnato e analizzato a fondo gli eventi cardine della storia del paese e diventato poi paradigmatico del genere perché “ha fatto scuola”, perché è stato un vero e proprio archetipo, al quale si sono ispirati gli autori dei rotocalchi successivi.108 Tv7 è, in breve, un “fenomeno mediatico”, l’emblematico inizio di un nuovo genere. Sempre sul piano informativo, si segnala poi la sperimentazione dei primi programmi di divulgazione scientifica e storica, in parte liberati dalle eccessive pretese di pedagogismo. È così che nasce il documentario, genere che avrà grande fortuna anche in seguito, quando diventerà il centro della programmazione delle emittenti “all docu” (come per esempio “Discovery Channel”). Tuttavia, le maggiori innovazioni si registrano nel campo dello spettacolo, dell’intrattenimento. Nel settore musicale per esempio, vengono ideate delle trasmissioni di grandissimo seguito, di grandissima popolarità, che consentono, proprio grazie alla fruizione generalizzata, di realizzare quell’omogeneizzazione del pubblico, che costituiva (come si è visto) l’obiettivo primario della classe dirigente. (dal palcoscenico della cui trasmissione vengono lanciate sul mercato alcune delle voci più famose [tanto per fare un esempio: Mina]), collocata al sabato sera e divenuta subito appuntamento di culto, e il Festival di Sanremo (manifestazione che sopravvive tutt’oggi, nonostante una storia fatta di alti e bassi) sono inscrivibili proprio all’interno di questa logica. Si tratta, in entrambi i casi, di programmi compositi, caratterizzati da una certa eterogeneità dei materiali; in questo senso, grazie cioè a tale complessità linguistica, divengono strumento di

107 Come nota pure Monteleone: «(…) con Processo alla tappa (…) Sergio Zavoli, al seguito del Giro d’Italia, scoprirà che i campioni possono diventare personaggi, che si può fare una grande televisione con le loro angosce e le vittorie, i disinganni e le frustrazioni», Ib., 347. 108 Sull’importanza, da un punto di vista del linguaggio televisivo, della rubrica in questione ci informa sempre Franco Monteleone: «(…) la rubrica ha saputo scandagliare la realtà italiana registrandone i cambiamenti e denunciandone i ritardi, le disfunzioni e le ineguaglianze. Considerata una trasmissione di denuncia fino al punto di aver portato alla saturazione quel modello di giornalismo televisivo, Tv7 è stato in realtà un programma che ha rivelato subito il gusto di scrutare, in Italia e all’estero, nei segni del tempo, conquistando spazi di intervento lasciati liberi dalla cauta ufficialità del telegiornale», Ib., 354. 39 “omogeneizzazione” e, nello stesso tempo, di “ottimizzazione degli ascolti”: è la complessità delle forme linguistiche che consente di raggiungere le differenti nicchie di pubblico.109 Altro aspetto di non secondaria importanza è che, in forza della popolarità di questi “media event”, può nascere uno “star system” televisivo completamente italiano e dai caratteri strettamente popolari.110 Accanto a queste novità, sono rilevabili anche grosse innovazioni all’interno di quei generi che avevano sempre attinto in modo passivo agli altri canali mediatici; il teatro televisivo per esempio si trasforma in prosa, iniziando un percorso di avvicinamento progressivo alla moderna fiction. Se le storie, le trame continuano a intrattenere dei rapporti di dipendenza con la cultura d’élite, con la tradizione letteraria, le forme espressive, i moduli linguistici si muovono in piena autonomia. Anche altri formati come lo sceneggiato e, ancor più, il teleromanzo si orientano in questa direzione.111 Ma mentre la tv perfeziona il suo linguaggio, nelle viscere più profonde della società italiana qualcosa inizia a trasformarsi; forze sempre più incontrollabili si preparano a esplodere, dimostrando l’inefficacia di quel tipo di strategie “omogeneizzanti”, adoperate dal potere politico. Il “popolo” tende a diventare un’entità disomogenea, da molteplici punti di vista: dalle categorie assiologiche di riferimento fino alle condizioni economiche. Tali differenze, tali elementi disorganici, contrariamente a quanto avveniva poco tempo prima, fanno pressione per avere la parola, fanno pressione per avere visibilità. In questo senso, una Rai nelle mani del solo governo è sentita lontana dalle esigenze degli italiani, che sono diventati ormai un universo “frammentato” in varie fazioni, un universo caratterizzato da visioni del mondo divergenti.112 Siamo all’alba delle rivolte del 1968; siamo all’alba di una nuova rivoluzione culturale: in questo preciso momento della storia, l’azienda di Stato decide di ampliare i propri tempi di programmazione, inaugurando, proprio nel gennaio del 1968, una fascia meridiana: dalle 12,30 alle 14 nei giorni feriali e fino alle 14,45 alla domenica. Si tratta di una prima apertura a quelle strategie di pianificazione “all’americana” (abbracciate definitivamente negli anni ’80), che collocano il mezzo televisivo, da un lato in piena continuità con i principi ideologici che avevano governato il “boom” economico di inizio decennio, dall’altro in una certa contrapposizione alle forze “rivoluzionarie” che animano le proteste (le cui idee, in qualche modo e in una seppur ristretta misura, riescono a penetrare nel medium in questione). Ecco dunque le due forze contrapposte, la tesi e l’antitesi della dialettica storica che caratterizzerà gli anni ’70:

109 Si veda sempre il testo di Franco Monteleone (Op. Cit.), tra pagina 347 e 348. 110 Come scrive infatti Monteleone: «(…) il divismo assume una fisionomia del tutto particolare e “nostrana”. Senza questo retroterra, senza l’assoluta centralità che la tv aveva assunto nella vita degli italiani, non sarebbe stato possibile il nascere di personaggi come Pippo Baudo o Raffaella Carrà, soprattutto non sarebbe stato possibile creare uno star system dai connotati così popolari. La concorrenza con le televisioni commerciali svilupperà ancora maggiormente questo trend, ma negli anni sessanta le premesse c’erano già tutte», Ib., 347, 348. 111 «Il modello teatrale, che verrà progressivamente ridotto fino a scomparire quasi del tutto, era già stato messo in crisi (…) dalla grande trasformazione dello sceneggiato tendente a stemperare la dicotomia dramma/racconto in una forma più agile e più digeribile da parte di un pubblico popolare. Esso diventa così un prodotto tipicamente televisivo che supera i modelli dell’esperienza teatrale, affermando un genere dotato di forti caratteristiche originali e, soprattutto, realizzando un legame irripetibile tra la specificità della sua proposta linguistica e la domanda di immaginario del pubblico espressa nella fase più omogenea di tutta la storia del consumo di televisione», Ib., 357. 112 Si tratta di affermazioni di un certo peso, che andrebbero giustificate in modo più approfondito. Riportiamo pertanto di seguito l’attenta analisi di Franco Monteleone, della quale ci siamo serviti per maturare un simile giudizio: «Con il passare degli anni lo scenario politico e sociale dell’Italia comincia a frammentarsi in molteplici direzioni e non tutte corrispondono alla linea che i mezzi di comunicazione di massa, radio e televisione, avevano ormai assunto nel paese (…) Dal 1964 l’Italia comincia ad assistere a numerosi tentativi di sovvertire l’ordine democratico (…) Una classe politica ormai chiusa in difesa dei propri privilegi si preoccupava soprattutto di attutire l’urto dei nuovi rapporti di forza (…) Il pubblico [dal canto suo] era diventato più maturo; l’informazione della carta stampata aveva aperto nuovi spazi alle problematiche sociali che in televisione non “passavano” facilmente; in molte sedi si cominciava a discutere di tutto di più (…) Silenziosamente la protesta stava allargandosi a moltissime fasce sociali del paese (…) la Rai [però] si configurava sempre più con il volto dell’istituzione. Ma una crescente opposizione politica sollecitava nuovi ruoli e nuove funzioni per l’azienda pubblica. Gianni Granzotto [l’allora presidente] comprese che era giunto il momento di cambiare metodi di gestione e di ridimensionare la presenza democristiana», Ib., 367, 368, 369. 40 a. Da un lato una spinta (consumistica) verso un ulteriore progresso economico e una più decisiva modernizzazione del paese, in piena continuità con i principi alla base dello sviluppo di inizio decennio. b. Una spinta anti-modernista, di matrice estremista (di destra o di sinistra), totalmente contrapposta ad a., le cui espressioni più crude sono da ricercare nel terrorismo rosso e nella strategia del terrore di matrice neo-fascista. La lotta fra queste due correnti sociali condizionerà ampiamente il divenire socio-economico- culturale del decennio. Tuttavia b. è una controtendenza, un’antitesi per l’appunto, un qualcosa cioè che si oppone a un processo già avviato, a uno sviluppo già cominciato e cronologicamente radicato. Per questa ragione, alla fine, uscirà vincitrice dallo scontro proprio la tendenza a., ulteriormente rafforzata e ulteriormente libera di estrinsecare appieno le sue radici ideali di tipo consumistico-capitalistico.113 Inizia la fine del predominio assoluto delle strategie pedagogizzanti: come il corvo del film Uccellacci Uccellini (figura che, in fondo, può rappresentare metaforicamente Pasolini stesso114) finisce cotto, allo stesso modo gli obiettivi “ideologico educativi” vengono schiacciati dalla forza delle logiche spettacolari (soprattutto del gatto): è la crisi dell’intellettuale tradizionale, in relazione al suo progetto di orientamento della società. Gli anni ’70 sono dunque alle porte e le forze intestine, ancora nascoste nelle viscere del paese, stanno per esplodere in tutta la loro violenza.

4. The Catcher in the Rye e il ritorno a casa: gli anni ’70 tra rivoluzione e riflusso

Esiste una somiglianza impressionante fra la storia del “giovane Holden”, raccontata dallo scrittore americano Salinger, nel suo famoso romanzo The catcher in the Rye115, e quello che succede alla società italiana negli anni ’70.116 Siamo negli anni ’50 e ci troviamo in America, ma è un’America diversa da quella che conosciamo oggi, lontana dallo stereotipo che i mezzi di comunicazione di massa alimentano quotidianamente nel nostro immaginario. Si tratta di un paese le cui fondamenta ideologiche, riposano ancora su valori tradizionali come la famiglia, il lavoro, il mito della libertà, il mito della costruzione autonoma del proprio destino, il mito del “self made man”… Holden è un adolescente come tanti altri, uno studente appartenente a una “middle class” sempre più emancipata e sempre più ricca e, se non fosse stato per il suo spirito ribelle, per la stringenza di un certo tipo di esigenze esistenziali, il suo destino sarebbe stato identico a quello di tanti suoi coetanei: vivere nell’attesa di diventare adulto, studiare per avere un ruolo nella società di domani. Proprio così funzionavano le cose negli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra; i giovani non avevano un’identità propria, non avevano un’autonomia di consumo, essi non erano altro che degli

113 Come nota sempre Monteleone: «(…) la dimensione sociale del progresso economico italiano, la prosecuzione, nonostante tutto, del “miracolo” ebbero la meglio su tutte le spinte regressive, di destra e di sinistra. La modernizzazione italiana, come quella di altri paesi, non fu il risultato dell’azione collettiva che, anzi, si manifestò spesso in forme accentuatamente reazionarie o falsamente progressiste; fu il risultato delle grandi opportunità che un modello di sviluppo economico crescente era in grado di offrire alle famiglie italiane per migliorare il proprio tenore di vita», Ib., 372. 114 Come scrive Colombo: «Pasolini è davvero (…) il corvo di Uccellacci e uccellini: da un lato lo sorregge (almeno in una prima fase) una fiducia, nella qualità universale dei suoi valori, nel sogno che su di essi si possa ricostruire una società a misura d’uomo. Dall’altro lo inquieta la consapevolezza che questi valori hanno una concorrenza forte nelle forme della società di massa, e che il modello consumistico rischia di essere vincente laddove l’ottica pedagogica non sia più sorretta dalla forza delle istituzioni del sapere», F. COLOMBO: 1998, 245, 246). 115 J.D. SALINGER, The catcher in the Rye, tr. it.: Il giovane Holden, Einaudi, Torino, 1961. 116 Nel dare una simile interpretazione ci riallacciamo a uno studio di Francesco Anzelmo, nel quale si tenta di descrivere metaforicamente, attraverso la figura di Holden, la parabola storica del medium libro durante gli anni ’70. È nostra convinzione, invece, che tale metafora sia adeguata a descrivere tutto il decennio nel suo complesso. In ogni caso rimandiamo alla lettura di chi “ha dato alla luce” questa idea: F. ANZELMO, Più di un decennio. Gli anni ’70 e i libri, in: F. COLOMBO, Gli anni delle cose, I.S.U., Milano, 2000. 41 apprendisti, degli scolari che, nel mondo della scuola e nel calore dell’unità familiare, avrebbero appreso i valori fondamentali e le regole per affrontare la vita: la civiltà americana era una civiltà adulta, nel senso di fatta “da” e “per” gli adulti. Il divenire generazionale era perciò indolore, era un divenire quasi esclusivamente biologico, allo stesso modo dell’andare delle stagioni, dello scorrere degli anni: come l’alba annuncia un nuovo giorno che viene, così un ragazzo costituiva una nuova promessa per un mondo futuro… per un mondo totalmente “adulto”. Ma a Holden, questo tipo di valori, questa vita vissuta nell’attesa di essere grandi per diventare qualcuno, questo preparasi a qualcosa che verrà, non va a genio: “la vita è adesso”, per questo bisogna viverla appieno. Non si tratta semplicemente di una rivendicazione “cronologica” della propria identità, perché quello che al protagonista del romanzo proprio non va giù è il “contenuto” stesso della proposta del mondo dei grandi: egli ha un bagaglio cultural-assiologico completamente nuovo, un bagaglio che definisce la sua identità, la sua personalità ed è per questo che ne rivendica le esigenze. Il nostro “Catcher in the rye” si sente diverso perché sente di non condividere più niente, di non avere più niente in comune con quello che i suoi genitori e la società in cui aveva vissuto gli stavano proponendo; per questo non accetta supinamente, passivamente, la schiera di idee, di “Weltanschauungen” che, da decenni, venivano propinate ai suoi coetanei, nell’attesa che diventassero qualcuno: egli scopre di avere un’identità propria, di avere un qualcosa che indica la sua irripetibile individualità e che dunque è insopprimibile. È dalla coscienza di essere “diverso” (e che è giusto che così sia), di essere un individuo “altro dagli altri”, che nasce la ribellione di Holden. La ribellione parte dalla scuola, cioè dal luogo che per tradizione ricopre il difficile ruolo di “introduzione alla vita”. Il giovane si distingue dai suoi compagni perché parla una lingua diversa (lo slang), perché legge dei libri diversi (quelli che «quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e chiamarlo al telefono tutte le volte che ti gira»117), fa delle cose diverse da tutti i suoi coetanei (dice bugie, beve alcolici, ha un’esperienza sessuale con una prostituta, si fa beffa delle persone)… Per questo decide di abbandonare sia la famiglia, sia la scuola della sua città, Pencey, verso la quale ha ormai un rifiuto strutturale. Lascia la sua città dunque, lascia la sua storia passata, lascia tutto il suo bagaglio di esperienze per iniziare un viaggio, un viaggio verso la metropoli, verso la grande città, grande quanto la sua chimera, la chimera cioè di trovare una risposta alle sue domande di senso. Già, perché l’identità di Holden non è chiara, non è distinta, poiché egli non sa bene di cosa essa consista; egli capisce solo che il mondo “dei grandi” non gli corrisponde, non realizza i suoi desideri. Ecco chi è “Cather in the rye”, un individuo, non ancora uomo (non più bambino e non ancora adulto), che ha dei bisogni ben precisi, che ha delle richieste ben definite che, nella società in cui vive, non trovano risposta; l’essenza di questo personaggio consiste proprio in questo: in una domanda, che è una domanda di senso ultimo, una domanda profonda sull’origine della propria identità. Da qui nasce l’idea del viaggio. Holden vuole liberarsi della propria infanzia, ma, nello stesso tempo, ne sente nostalgia; vuole allontanarsi dal mondo degli adulti, ma, nello stesso tempo, vuole dare un significato alla sua vita, per cambiare lo stesso mondo da cui proviene. Prima di partire, visita il suo vecchio insegnante di inglese, il professor Spencer, convinto probabilmente del fatto che questo possa fornirgli una risposta ai suoi “perché”, una risposta inserita ancora nell’assiologia di quel vecchio mondo costruito dai genitori; niente di tutto questo, egli fa solo esperienza della caducità e della morte, scoprendo, nel maestro di un tempo, soltanto un individuo capace di enunciare frasi prive di senso. Prive di senso come quella per cui la vita è una partita; ma lo è, pensa Holden, solo nell’universo dei “Grandi Calibri”; altrove non c’è nulla da giocare e, soprattutto, nulla da vincere. Allora decide di partire, di iniziare un viaggio che possa illuminare i suoi interrogativi. Egli sente davvero di non avere più legami con chi lo ha preceduto, ma nello stesso tempo vuole ugualmente diventare

117 J. D. SALINGER (tr. it.: 1961, 23). 42 grande, vuole ugualmente creare una società adulta, anche se migliore di quella da cui proviene. Per questo prende una decisione che appare come un voler “tagliare le radici”, come un “lanciarsi verso il futuro” senza guardare al proprio passato. Ma il nostro eroe, alla fine, tornerà a casa, tornerà nel punto da cui era partito: la tradizione è un dato che non si può cancellare. Abbraccerà la sua sorellina, l’unica alla quale aveva sempre potuto raccontare tutto ciò che sentiva (è come se questo abbraccio fosse uno “stringersi accanto” di tutta la generazione che egli rappresenta); poi si riavvicinerà ai suoi genitori (è il ritorno a casa) ai quali racconterà la sua storia, sottolineando come fosse un peccato che loro non fossero lì con lui. È il finale, carico di nostalgia: nel ricordo c’è sempre l’attesa che il momento felice vissuto (ma anche non felice, come insegna la poetica del vago e dell’indefinito del grande Leopardi) possa riaccadere; se ne sentono i rumori, gli odori, il calore umano di chi era presente. Ma il viaggio, questo tentativo ribelle di trovare una risposta ai propri quesiti (risposta mai trovata), non è stato inutile, non è stato vano; Holden ha accumulato delle esperienze di cui fa tesoro e che, come si è visto, mette in comune con il vecchio mondo: la ribellione e il ritorno, ovvero “la rivoluzione e il riflusso”, cioè la storia degli anni ‘70. Perché è possibile fare un parallelo fra questo racconto e il divenire cronologico del decennio in questione? In che senso la vicenda di Catcher in the rye chiarirebbe quello che stiamo dicendo? Alla fine del paragrafo precedente, si era rilevata la presenza di due forze: a. una modernista e b. una anti-modernista di matrice estremista (di destra o di sinistra). Si è visto anche che si trattava di due elementi antitetici, in rapporto dialettico fra loro, rapporto che sarebbe sfociato in un vero e proprio scontro. Ebbene a. può essere rappresentata metaforicamente dal “mondo adulto” da cui Holden proviene (una cornice assiologica di tipo tradizionale), mentre b. da Holden stesso, nel suo atto di ribellione e, successivamente, nel suo ritorno a casa. Da un lato dunque la tradizione, che aveva contribuito alla crescita economica del paese e che era ormai avviata verso uno sviluppo ulteriore, dall’altro chi riconosce, in questa crescita e in questo sviluppo, qualcosa di “non corrispondente”, qualcosa di estraneo. È qui che scoppia la rivolta contro l’ “universo dei padri”, la ribellione contro la società in cui si era cresciuti, una rivolta e uno scontro, mossi da esigenze reali, da un’identità ben precisa, radicata in domande altrettanto ben precise, a cui si tenta di rispondere (come nel caso di Catcher in the rye) con delle realtà chimeriche, utopiche. Nella ricerca di tali risposte e nella progressiva coscienza dell’irragionevolezza di molte utopie, le forze anti-moderniste maturano il proprio ritorno a casa, tristi e malinconiche come il giovane Holden, in quanto quel “senso” che esse cercavano è introvabile (perlomeno in ciò in cui credevano di trovarlo). Tuttavia anche la loro ribellione, il loro viaggio non è stato vano, perché sono maturate e di questa loro maturità renderanno beneficio alla società tutta. In effetti, le istanze del sessantotto, delle proteste studentesche riusciranno, in qualche modo e sotto certi aspetti, a penetrare la cultura dominante, modificando alcune visioni del mondo e alcuni parametri assiologici: è un dato di fatto che, se un certo tipo di istanze non si fossero mai poste, la nostra società e le sue regole, oggi, sarebbero totalmente differenti. Quindi se da un lato la lotta fra tesi a. e antitesi b. vede una vittoria della a., dall’altro bisogna pur riconoscere che vi è stata una sintesi che ha inglobato alcuni aspetti di b. In ogni caso, quello che stiamo dicendo (in modo un po’ troppo libero, troppo poetico e, forse, poco scientifico) risulterà più evidente da quello che ci accingiamo a esporre; la descrizione per mezzo del romanzo di Salinger voleva essere una chiarificazione preliminare, una sorta di premessa che, semplificando i termini in gioco, potesse aiutare a chiarire meglio i fatti. Veniamo dunque alla storia: quando cominciano gli anni ’70? Dalle righe che abbiamo scritto finora, credo risulti chiaro che, per noi, iniziano nel 1968, due anni prima del 1970.118 E quando invece si concluderebbero?

118 Anche questa lettura non è “farina del nostro sacco”, come si suol dire, ma si rifà a una interpretazione di Fausto Colombo che, per quel che ci riguarda, ci sembra abbastanza condivisibile. Si veda: F. COLOMBO: 2000, 7/12. 43 Nel 1980, quando 40.000 manifestanti, appartenenti a classi sociali differenti, si riversano per le strade a protestare affinché si concluda un grande sciopero alla Fiat. Questo fatto dimostra che qualcosa di importante, di storico, di epocale è avvenuto: le grida dei movimenti “rivoluzionari”, “antagonisti”, si spengono per sempre; è il “riflusso”, la fine delle utopie e la vittoria del progresso nella sua accezione più consumistico-individualista. Chiaramente, stabilendo una datazione di questo tipo, diamo un taglio ben preciso alla nostra ricerca; un taglio decisamente “politicizzato”, “ideologizzato”, in ogni caso molto forte. Tuttavia, ci sembra di aver fatto una scelta abbastanza sensata, in quanto essa renderebbe giustizia dell’effettiva realtà storica, dell’effettivo svolgersi dei fatti. È un dato, una evidenza che gli anni ’70 sono stati caratterizzati da uno scontro politico-sociale molto forte e che tale scontro abbia indubbiamente segnato il corso degli eventi in modo irreversibile.119 Ma lo scontro, la coesistenza “bellicosa” di due tendenze contrapposte e antitetiche condizionano anche il mercato dei consumi mediatici, creando una situazione produttiva davvero singolare: accanto ai “nuovi generi alti”, ovvero quelli in cui le forze rivoluzionario-oppositive rispecchiano le proprie idee, vengono concepiti anche “beni” più commerciali, talvolta di bassa qualità (come per esempio tutta una serie di prodotti trash/kitsch, che hanno nel filone [cinematografico] “erotico- pecoreccio”120 il loro emblema); due logiche dell’oggetto culturale completamente diverse, da un lato una logica del corvo, dall’altro una marcatamente del gatto. È così che il mercato, una volta caratterizzato da un’offerta unitaria, inizia a frammentarsi in una serie di “nicchie”, in una molteplicità di settori ai quali si indirizzano prodotti sempre più specifici. È quello che succede per esempio al consumo giovanile: non esiste più una macro-categoria commerciale chiamata “giovani”; il concetto stesso di “gioventù” diventa un universo, all’interno del quale è possibile ritrovare domande, richieste, gusti, bisogni completamente differenti, se non addirittura contrapposti.121 Si pensi al mondo della musica leggera: esso è davvero una macrocategoria, un macroinsieme, una “terra di confine”, entro la quale “trovano dimora” le sonorità più disparate (: discomusic, rock psichedelico, punk, hard rock…)122 In definitiva, si può parlare di una crescente complessità delle richieste dei consumatori, causata da una sempre maggiore eterogeneizzazione della società. Qui sorge però una domanda: l’offerta (nella fattispecie quella televisiva) risponde a questa frammentazione? O meglio, c’è un’effettiva risposta a quello che, in definitiva, non è altro che un bisogno di pluralismo? Come si è visto, la Rai, negli anni ’50 e ’60, era stato uno strumento utilizzato dal potere esecutivo per dare corpo a un progetto unitario: plasmare la società italiana per renderla omogenea, e per

119 Riportiamo qui di seguito le ragioni che hanno spinto Fausto Colombo a scegliere una simile datazione: «Scegliendo come inizio e fine del periodo eventi che riguardano la lotta sociale e politica si è dato un particolare taglio interpretativo alla ricostruzione storica, taglio che qualcuno potrà non condividere. Questa scelta è comunque motivata da due ordini di ragioni: - Lo scontro politico e sociale ha segnato obiettivamente (anche se non in modo esclusivo) il periodo: basti pensare alla durata delle contestazioni studentesche (assai più lunghe che in qualunque altro paese dopo la fiammata del ’68), o al terrorismo come svolta radicale e drammatica dei conflitti di piazza, culminata con il rapimento e l’uccisione di Moro nel 1978 (…) - La rivolta giovanile è stata un’arma determinante nell’imprimere alla società italiana una spinta alla modernizzazione dei costumi che forse avrebbe altrimenti richiesto più tempo e si sarebbe esercitata con più mediazioni (…) - Infine, il contrasto fra questo brusco scarto di modernizzazione e il successivo riflusso, che comunque fa propri gli elementi del consumismo accentuando la pulsione alla soggettività, segnala l’ambiguità profonda delle istanze che attraversarono la società italiana, che da un lato potevano apparire antagoniste, dall’altro possono essere lette come puramente funzionali a uno sviluppo liberal-moderno, con l’accentuazione dei diritti di consumo e di garanzia rispetto a quelli di partecipazione», Ib., 9, 10. 120 Per avere una rapida istantanea della realtà cinematografica negli anni ’70, si veda: A. BELLAVITA, Il cinema dei mostri, in: F. COLOMBO (2000: 55/74) 121 Così si esprime Fausto Colombo: «(…) l’incremento dell’offerta generò la frammentazione dei consumi, la differenziazione dei gusti e la specializzazione della fruizione. Il “mondo giovanile” divenne così quello che è oggi, ossia una “galassia” in cui tendenze anche contraddittorie convivono e si scontrano», F. COLOMBO (1998: 242). 122 Per una breve storia della discografia negli anni ’70, si veda: L. FACCHINOTTI, L’industria discografica tra produzione e consumo, in: F. COLOMBO: 2000, 83, 107. 44 lanciarla verso il progresso e la modernizzazione. Tale “mono-ideologia” fa sì che l’azienda di Stato, all’alba degli anni ’70, si trovi strutturalmente e idealmente impreparata a operare secondo criteri di “pluralismo” (unico valore corrispondente alla frammentata realtà dei consumi). Per questa ragione, emergono esigenze dal basso che chiedono con forza una riforma della Rai, affinché la radiotelevisione italiana possa essere davvero uno “specchio della società”, cioè possa dare voce davvero alle diverse visioni ideologiche.123 Si tratta di un progetto senza dubbio legittimo, ma, per due ordini di ragioni, di non così facile attuazione: a. Perché ci troviamo in Italia e, in Italia, per attuare una riforma, è necessario che trascorrano decenni. b. Perché si tratta di dare spazio a istanze che, come si è visto, fanno capo a forze antitetiche, contrapposte. Allora, se il principio di non contraddizione di cui parlava Aristotele è ancora valido (cioè se a non può essere, nello stesso tempo, il suo contrario), non è possibile che tesi e antitesi convivano nella stessa realtà, perché l’una esclude l’altra. E in effetti, la storia della riforma della Rai, durante gli anni ’70, è caratterizzata proprio da un continuo oscillare fra istanze rivoluzionarie e istanze di tipo “aziendalistico-capitalista”. Alla fine, queste due tendenze si distruggeranno a vicenda e, nei fatti, verrà attuata un terzo tipo di politica, magari suggerita dalla concorrenza con i privati: quella del capitalismo selvaggio.124 Ma torniamo a noi! La prima proposta, la prima istanza in senso pluralista è quella di affidare il controllo dell’azienda al parlamento, sottraendolo al governo, troppo orientato a una gestione “di parte”; il legislatore (si credeva), in quanto maggiormente rappresentativo della realtà popolare, avrebbe potuto amministrare in maniera più imparziale o quanto meno più in linea con la complessità delle posizioni ideologiche.125 Alla fine degli anni ’60, arriva un documento firmato da tre membri del “management” della stessa Rai (Bruno, De Rita, Martinoli), divenuto celebre con il nome di “documento dei tre esperti”, che vuole una Rai riformata non soltanto in senso pluralista, ma soprattutto “aziendalista”, cioè in una direzione che si pone perfettamente in sintonia con le spinte al progresso e alla modernizzazione. Si tratta di un progetto di cui la Rai aveva certamente bisogno per vincere la sfida con i privati, con quei privati che, di lì a qualche anno, avrebbero cominciato a popolare l’etere. Tuttavia, chi avrebbe dovuto riconoscere il pregio di simili proposte preferisce arroccarsi su posizioni conservatrici, benché formalmente rispettose di quelle idealità rivoluzionare che, in questo preciso momento

123 Come scrive Franco Monteleone: «Il ’68 non solo aveva mandato in frantumi il “miracolo economico” ma aveva messo in crisi tutto l’assetto e il ruolo del sistema di comunicazione di massa, aveva fatto saltare le sue rigidità, aveva liberato nuove forze ed espresso nuove domande sociali e politiche. Negli anni immediatamente successivi, il sistema appare quindi improvvisamente arretrato e inadeguato rispetto ai livelli di coscienza sociale che si vanno producendo (…) In quel clima nasce un movimento di opinione politico, sindacale, professionale e culturale, che dagli anni ’70 comincia a porsi concretamente l’obiettivo di riformare, o meglio di rifondare la Rai, ma che in realtà aveva già fatto sentire la sua voce (…) fin dall’immediato dopoguerra, con lo scopo di dotare il paese di un servizio pubblico radiofonico, e televisivo, rispondente a quelle caratteristiche di autonomia e di pluralismo che la Rai, nonostante i suoi meriti e i suoi pregi, non aveva certo incoraggiato», F. MONTELEONE: 1992, 378, 379. 124 Anche in questo ci siamo affidati al giudizio di Franco Monteleone: «Forse, anche un po’ semplicisticamente, si può affermare che la storia della radiotelevisione, per un periodo limitato che va dal 1970 al 1975, può essere vista come una continua oscillazione tra fermenti rivoluzionari e istanze di ristrutturazione capitalistica. Nel compromesso che si stabilì tra l’una e l’altra di queste opzioni finirà per vincere una terza strada, quella di un mercato da capitalismo selvaggio, che inizialmente sembrava accontentare un po’ tutti ma che, durante il tormentato ultimo decennio, riuscirà a imporre l’assolutismo del duopolio», Ib., 378. 125 Nel porre le istanze di riforma della Rai, Franco Monteleone riconosce tre grandi gruppi: «(…) un primo gruppo comprende le maggiori forze politiche, tra le quali si distingue il Partito socialista che, della battaglia riformatrice finirà per fare il suo fiore all’occhiello; un secondo gruppo raccoglie tutte quelle istanze che emergono dai sindacati, dagli uomini di cultura, dai costituzionalisti e anche dalle numerose frange del movimentismo di ispirazione francofortese; un terzo gruppo si identifica con lo stesso management della Rai ben consapevole che occorre mutare qualcosa affinché, gattopardescamente, tutto resti uguale», Ib., 381. 45 storico, hanno il grosso demerito di rallentare l’evoluzione e la modernizzazione del sistema radiotelevisivo nazionale.126 Intanto, nel 1969, viene preparato l’Ordine di servizio, mai firmato dall’allora presidente dell’azienda; da qui prendono il via feroci polemiche, che, lungi dallo “spegnersi”, si protraggono oltre il 1980. In realtà però non c’è molto tempo per polemizzare dato che, il 15 dicembre 1972, sarebbe scaduta la convenzione fra Stato e Rai, mentre le prime emittenti radiofoniche e televisive via cavo sarebbero sbocciate come fiori in primavera, seminando breccia sul terreno della sempre indiscussa predominanza della radiotelevisione pubblica. Ed è proprio questo il secondo problema su cui si discute e ci si divide: l’apertura ai privati. Su questo “Schwerpunkt” si formano due fazioni: a. I partiti politici che premono affinché venga riformata a fondo la Rai e venga lasciato il minore spazio possibile ai privati.127 b. Un movimento di opinione e di stampa, di cui si fa portavoce in un articolo128 anche l’opinionista Eugenio Scalfari (che, negli anni ’90, sarebbe stato stranamente uno dei maggiori oppositori di Silvio Berlusconi e, dunque, delle tv private), che vede nelle neonate emittenti “libere” una possibilità concreta per creare un effettivo pluralismo. Da quanto abbiamo detto finora, risulta chiaro che i “nodi al pettine”, i punti su cui infuria la polemica sono sostanzialmente due: a. La riforma della Rai. b. L’apertura ai privati.129 Ma la storia della televisione commerciale in Italia ha in realtà radici più lunghe nel tempo e risale agli anni ’50, quando, nel 1957 (grazie anche all’intervento della società americana RCA), nasce a Milano la TVL. Tuttavia, prima ancora che questa emittente possa cominciare a trasmettere, facendo magari diretta concorrenza alla tv di Stato, un commissario di Pubblica sicurezza mette sotto sequestro le apparecchiature. Nel 1960 poi, arriva anche una sentenza della Corte Costituzionale, la numero 59, che decreta l’impossibilità, per dei privati, di operare in campo televisivo (a causa di un evidente rischio per la formazione di oligopoli).130 Da questo momento in

126 Nella lotta fra quelle due forze contrapposte di cui abbiamo parlato, le istanze rivoluzionarie ottengono una qualche vittoria che tuttavia, qualche anno più tardi, in un regime di concorrenza, sarebbe costata davvero cara all’azienda di Stato, incapace, per obsolescenza di strutture gestionali, di reggere il passo con i privati: «Gli ideali di una radicale eguaglianza sociale ed economica erano in forte contrasto con la direzione di marcia che la società italiana aveva assunto fin dal miracolo economico. La modernizzazione del paese stava prendendo altre strade, prima fra tutte quella dell’individualismo (non a caso cardine del successo della televisione commerciale e della cosiddetta neo-tv). A molti anni di distanza si prova un forte disagio nel rileggere certi atti dei numerosi convegni preparatori della riforma della Rai, gli interventi della stampa di sinistra, le dichiarazioni dei politici. Questi ultimi, soprattutto, mostrano di essere costantemente in ritardo nella capacità di prevedere le trasformazioni rapidissime di un paese industriale (…) sotto una pesante ipoteca di tipo collettivistico, che animava ogni discussione a quell’epoca, le istituzioni e le strutture pubbliche non vennero mai trasformate in senso moderno, né si fu in grado di porre un freno ai peggiori eccessi di uno sviluppo non programmato, come dimostrò la rapidità con cui si accrebbe la dimensione caotica della presenza commerciale nell’etere», Ib., 380. 127 «Quanto ai partiti (…) Ciò che li accomuna è il consenso generale nel respingere la privatizzazione. Sulle altre questioni, la Democrazia Cristiana insite per la riforma interna della Rai e invoca un intervento più efficace del parlamento; il Partito comunista vuole un rafforzamento della funzione di servizio pubblico, la sua regionalizzazione, il controllo democratico sulla sua gestione e l’assoluta separazione dal potere esecutivo; il Partito socialista rifiuta ogni concessione ai privati e auspica la creazione di un ente pubblico a statuto speciale, con una più precisa accentuazione del monopolio, un controllo parlamentare, una forte spinta al decentramento», Ib., 383. 128 E. SCALFARI, E ora, libertà d’antenna, in: L’espresso, 23 gen. 1972. 129 Per un’analisi dettagliata di tutto il dibattito legislativo attorno alla tv privata e alla riforma della Rai, si veda sempre: F. MONTELEONE: 1992, 384/402. 130 La storia ci viene raccontata da Aldo Grasso: «(…) il primo aprile 1952 confluirono a Milano per seguire i lavori di impianto e preparare i programmi da trasmettere: gli ingegneri Andrea Cuturi, Sergio Bertolotti, Andrea Magelli, Renato Mori e Ugo Motta; i primi registi specializzati Franco Enriquez, Mario Landi e Daniele D’Anza; i cameramen: tutti pronti a dare vita alla magia del nuovo medium. Il 16 maggio del 1957 nacque la Spa TVL (televisione libera) con l’obiettivo di creare una rete televisiva in concorrenza con la Rai, William Berns, dirigente della Radio Corporation of America, proprietaria del network NBC, fornì i macchinari, i tecnici e molte trasmissioni pronte per essere doppiate, 46 avanti, non ci sarà più nessun’altra iniziativa nel settore, finché… nel 1971, in Piemonte, nasce Telebiella, stazione via cavo (tecnologia abbastanza inusitata nel nostro paese). Dopo questo primo esperimento, altre emittenti dello stesso genere sorgono in tutto lo stivale, generando un vero e proprio fenomeno di costume. Tuttavia, l’avventura della tv piemontese rischia di concludersi pochi anni più tardi, nel 1973, quando la magistratura interviene a farne chiudere le attività; sarà un successivo pronunciamento dello stesso organo giuridico a permetterne la riapertura. Ma accanto alle tv via cavo, esiste un altro importantissimo fenomeno: quello delle tv estere. I fratelli Marcucci installano, sul territorio italiano, antenne destinate a ripetere il segnale della ticinese RTSI e dell’istriana Capodistria, creando una situazione di forte concorrenza con la Rai. Queste due emittenti rappresentano un pericolo da due punti di vista: a. Da un punto di vista pubblicitario, in quanto offrono delle possibilità promozionali all’investitore italiano, senz’altro più concorrenziali rispetto all’azienda di viale Mazzini. b. Da un punto di vista tecnologico, perché possiedono già il colore, servizio che gli apparecchi, nelle case degli italiani, sono predisposti a ricevere. Molti spettatori infatti, per questa ragione, preferiranno seguire i mondiali di calcio del 1974 (quelli che hanno avuto luogo nella Germania Federale) sulle reti estere invece che sulla Rai. Ma il 7 giugno del 1974, un decreto del ministro Togni impone lo smantellamento dei ripetitori installati dai fratelli Marcucci, impedendo quindi alle reti straniere di operare sul nostro territorio. Questo fatto causa una serie di scontri politici alla Camera come al Senato e una vera e propria “partita di tennis” fra il parlamento e la Corte Costituzionale; nel luglio del medesimo anno infatti, la stessa Corte pronuncia due sentenze, la n. 225 e la n. 226, con le quali stabilisce l’illegittimità di alcuni articoli del Codice postale del 1973, affermando due principi sostanziali: a. La parzialità e la faziosità di una Rai governata dall’esecutivo, quindi la necessità di attribuire al legislatore i compiti di gestione, per garantire maggiori condizioni di pluralismo. b. L’illiceità di quei provvedimenti che hanno interrotto le attività delle tv estere via etere e delle tv locali via cavo.131 Dunque, quanto meno indirettamente, i privati sono incentivati a continuare per la strada che avevano iniziato a battere; tuttavia, accanto a quello delle emittenti via cavo, vi è un’altro fenomeno importante: la nascita delle tv e delle radio locali via etere. Siamo all’alba della “stagione dei cento fiori”. Intanto, il parlamento si mette in moto per trovare una soluzione legislativa ai problemi posti dalla Corte. Le direzioni in cui si muove sono sostanzialmente tre: a. Dare spazio alle iniziative in ambito radiotelevisivo a livello locale, attribuendo alle Regioni e al Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni il compito di regolarne l’accesso.132

mentre Giovanni Vittorio Figari mise parte del capitale iniziale, ma prima che l’emittente potesse trasmettere, gli impianti di TVL vennero sequestrati. La nuova televisione, infatti, avrebbe dovuto prendere il via il 6 novembre con la presenza in studio di Frank Sinatra, ma una sera d’ottobre dello stesso anno un commissario di pubblica sicurezza si presentò al grattacielo di piazza della Repubblica e sigillò le porte dei quattro appartamenti che erano diventati sede di TVL. Il 13 luglio 1960 la Corte Costituzionale depositò la sentenza n. 59, che riaffermava l’oggettiva esistenza di un “monopolio naturale”, determinato dalla limitatezza dei canali utilizzabili (…) la Corte stabilì che la comunicazione via etere non potesse essere lasciata in mano a privati per non creare pericolose situazioni oligopolistiche; inoltre solo lo Stato era stato in grado di garantire le condizioni di imparzialità, obiettività e completezza affinché il servizio televisivo fosse di utilità pubblica», A. GRASSO: 2000, 174, 175. 131 Questo è quanto scrive Roberto Zaccaria nel 1977, dunque molto tempo prima di diventare presidente della Rai: «[Nella prima sentenza], in sette punti la corte trovò il modo di dire che il monopolio radiotelevisivo per essere legittimo avrebbe dovuto escludere una preponderanza del potere esecutivo nella gestione, lasciando ampio spazio a direttive tese a garantire l’imparzialità dei programmi e il pluralismo delle idee, assicurando al contempo indipendenza ai lavoratori interni ed in particolare ai giornalisti, il diritto di accesso e di rettifica ed adeguate limitazioni ai proventi pubblicitari per tutelare in termini sostanziali la libertà di stampa (…) [Nella seconda sentenza] si dichiarava invece la illegittimità delle nuove disposizioni del Codice postale del 1973, quelle cioè che avevano determinato la chiusura delle varie stazioni sorte in Italia nei mesi precedenti, affermando, per la televisione via cavo di carattere locale il principio della piena liberalizzazione». R. ZACCARIA, Radiotelevisione e Costituzione, Giuffrè, Milano,1977, 74. 47 b. Riformare in senso “aziendalista” la Rai, rendendola un’azienda privata a totale partecipazione pubblica.133 c. Realizzare nel miglior modo possibile un decentramento interno e regionale della suddetta azienda.134 Si tratta di tre punti contenuti in un progetto di legge della Democrazia Cristiana; tuttavia, un testo, un disegno deve seguire vie abbastanza tortuose, prima di venire effettivamente approvato. Di conseguenza, l’atto di promulgazione di una nuova normativa in materia radio-tv deve passare attraverso accesissimi dibattiti parlamentari. Il governo Rumor, proprio a causa di questo “Schwerpunkt” è costretto a dimettersi. Per superare i contrasti all’interno della camera, il nuovo esecutivo, presieduto dall’onorevole Aldo Moro, sceglie la via del decreto. Il documento prevede: a. Una riqualificazione della Rai, in quanto azienda privata a totale partecipazione pubblica. b. Una giustificazione del monopolio della radiotelevisione di Stato, sulla base del “carattere pubblico” del suo servizio. c. La creazione di un terzo organo (accanto al Consiglio di amministrazione e alla Commissione parlamentare): il Comitato nazionale per la radiotelevisione, composto da delegati del parlamento, delle Regioni e dei sindacati, più alcuni membri eletti dal Presidente della Repubblica.135 Allo scadere della validità del provvedimento, il testo non diventa legge per un’opposizione dell’MSI, che non si vede rappresentato nel Comitato. Allora, il 22 gennaio 1975, il governo decide di doppiare il decreto, lasciandolo fondamentalmente identico, nella sostanza dei suoi contenuti. Tuttavia, l’esecutivo ha coscienza del fatto che, quella che ha scelto, è una via tortuosa, una via che incontrerà sempre l’opposizione del partito della fiamma tricolore (il quale peraltro, per far valere le sue posizioni, non farà altro che proporre emendamenti, con l’unico risultato di bloccare un iter già di per sé impervio). Il decreto allora viene trasformato in un disegno di legge che: a. lascia pressoché immutati i punti principali del precedente provvedimento, b. elimina definitivamente il Comitato nazionale per la radiotelevisione, per evitare un ulteriore ostruzionismo missino. È l’8 febbraio 1975. Questo testo diventa normativo nell’aprile dello stesso anno, il 14 per la precisione, mentre viene pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 17: è la famosa “legge 103” per le “Nuove norme in materia radiotelevisiva”. I nodi fondamentali sono i seguenti:

132 Lo stesso Zaccaria ci informa su come un progetto dell’allora Democrazia Cristiana intendeva risolvere questo problema: «La proposta di legge D.C. (…) Dettava norme sulla installazione dei cavi e sull’esercizio delle trasmissioni; attribuiva alla Regione, oltre che al ministero delle Poste, la competenza in materia di autorizzazioni, ma soprattutto imponeva ai privati di utilizzare cavi pluricanali, concedendo spazi gratuiti agli enti locali, alle istituzioni pubbliche… erano, poi, posti limiti all’estensione della rete, onde evitare ipotesi oligopolistiche e limiti erano posti anche all’impiego della pubblicità commerciale…», Ib., 77. 133 Anche in merito a questo punto rimandiamo a una citazione di Zaccaria: « (…) il testo (…) indicava una concreta soluzione di compromesso riguardo alla natura dell’ente, scartando l’ipotesi dell’ente pubblico ma prefigurando una società privata a totale partecipazione pubblica (con il capitale ripartito fra Stato e Regioni…)», Ib., 76. 134 « (…) il testo (…) conteneva alcune originali soluzioni sul piano del decentramento interno ed in particolare di quello regionale». Ib., 76. 135 Così Zaccaria: «Il monopolio esteso alla radio e alla televisione via etere e via cavo di carattere non locale, per la prima volta, veniva giustificato facendo leva sul carattere di servizio pubblico riprendendo così un indirizzo manifestato dalla Corte costituzionale (…) La forma privata della società restava sì inalterata, ma con profonde modificazioni strutturali e con l’attribuzione dell’intero pacchetto alla mano pubblica. Accanto alla commissione parlamentare (…) veniva costituito un organismo (…) il Comitato nazionale per la radiotelevisione (…) con il compito di sovrintendere alla delicata materia dell’accesso». Ib, 80. 48 a. Attribuzione allo Stato (in forza dell’articolo n. 43 della Costituzione) del compito di curare il servizio radiotelevisivo, in quanto “servizio pubblico essenziale”, impedendo l’iniziativa privata nello stesso settore.136 b. Concessione ai privati (art. 1) di trasmettere via cavo in ambito locale. c. Attribuzione (art. 2) del compito di installare gli impianti per la trasmissione via etere al solo Stato, ad eccezione delle emittenti estere, già operanti sul territorio italiano. Con un “colpo di spugna”, vengono cancellate tutte le imprese radiofoniche e televisive via etere (si tratta di diverse decine): la loro attività, diventata ormai consuetudinaria per un gran numero di telespettatori/ascoltatori, affonda “nel mare dell’illegalità”. Ma la domanda che a questo punto sorge spontanea è la seguente: può il legislatore intervenire a modificare uno stato di cose già ampiamente radicato, cioè, nella fattispecie, può interrompere l’azione di tanti operatori mass- mediali, che hanno trasformato in breve tempo la loro impresa in una vera e propria azienda? La risposta è chiaramente negativa, soprattutto se si considera il fatto che, nel momento in cui le tv nascono, non sono teoricamente in contraddizione con i principi contenuti nel Codice postale: perché le emittenti locali dovrebbero essere considerate “piratesche” o “anarchiche”, se non esiste alcuna normativa che permetta di stabilirne la condizione legale? È questo il punto fondamentale: il legislatore, nel corso di questo decennio (ma anche di quello successivo), si dimostra incapace di creare delle regole lungimiranti, capaci cioè di prevedere, a partire dal presente, una potenziale situazione futura. Il parlamento, pertanto, si troverà sempre di fronte a delle situazioni di fatto, che non potrà far altro che registrare; come si può far chiudere i battenti, di punto in bianco, a migliaia di aziende? Come si può far cessare, senza preavviso, l’attività di così tante imprese? Dove andranno a finire gli occupati del settore, in un paese che non è certo noto per le sue infinite possibilità di impiego? A difendere le radio e le tv locali, ci pensa la Corte Costituzionale che, nel luglio 1976, emana un’altra sentenza, la n. 202, con cui dichiara incostituzionali gli articoli 1, 2, 14 e 45 della legge 103/1975137: viene lasciato così libero il passo agli imprenditori “via etere”, operanti in ambito locale.138 È questo il primo colpo al monopolio Rai; crolla così una di quelle solide certezze (:il monopolio) che avevano accompagnato l’attività dell’azienda di Stato, durante tutti gli anni ’50 e ’60. L’unica esclusività, che la radiotelevisione pubblica conserva, è il diritto a trasmettere su tutto il territorio nazionale (resta cioè l’unico “network” riconosciuto dalla legge).139 Roberto Zaccaria, attraverso un suo intervento al VII Convegno nazionale sulle comunicazioni sociali, organizzato dalla Pia Società San Paolo, nel 1977 ad Ariccia, ci aiuta a capire quali sono i principi fondamentali contenuti nel documento140: a. Pluralismo: libertà di espressione in ambito locale e rappresentanza, all’interno dell’azienda pubblica, di tutte le posizioni esistenti all’interno della società civile.

136 Su questo aspetto ci informa sempre Zaccaria: «Così il primo comma della 1. n. 103 del 1975: “La diffusione circolare di programmi radiofonici via etere o, su scala nazionale, via filo e di programmi televisivi via etere, o, su scala nazionale, via cavo e con qualsiasi altro mezzo costituisce, ai sensi dell’articolo 43 della costituzione, un servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale, in quanto volta ad ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del paese in conformità ai principi della costituzione. Il servizio è pertanto riservato allo stato” (…) Questa riserva (…) impedisce qualsiasi attività imprenditoriale privata nello stesso settore e si pone, al tempo stesso, come presupposto per la definizione dell’ambito del monopolio statale». Ib., 86, 87 137 Si veda sempre: F. MONTELEONE: 1992, 391. 138 Come fanno notare Doglio e Richeri: «La radiotelevisione considerata fino a questo momento (…) “un servizio pubblico essenziale e di preminente interesse generale” viene ricondotta nel sistema del mercato. Si riconosce quindi anche per essa la correlazione fra libertà di informazione, di espressione e libertà di impresa…», D. DOGLIO – G. RICHERI, La radio, Mondadori, Milano, 1980, 189. 139 In questo ci rifacciamo a un’idea di Robero Zaccaria: « (…) la Corte (…) ha dichiarato (…) parzialmente illegittimi, sia l’art. 1 che l’art. 2 della legge del 1975, per il fatto che includevano indebitamente nella riserva allo stato anche l’installazione e l’esercizio degli impianti radiotelevisivi, via etere, di carattere locale e così ha determinato una restrizione nell’ambito del monopolio statale che ora risulta circoscritto alla sola e sia pure rilevantissima dimensione di carattere nazionale». R. ZACCARIA: 1977, 89. 140 R. ZACCARIA, La disciplina delle radio private di carattere locale, in: G. GAMALERI, Un posto nell’etere, Ediz. Paoline, Roma, 1978, 41. 49 b. Economicità di gestione: creazione di realtà economicamente autosufficienti, attraverso il ricorso a risorse pubblicitarie. c. Preminenza del servizio pubblico: priorità della Rai nell’utilizzo delle frequenze. Resta però un problema sostanziale: la sentenza lascia un grosso vuoto normativo in merito alla disciplina dell’accesso. Per esempio, non chiarisce che cosa si intende per “ambito locale”, contrariamente alla 103 che invece ne dava una chiara spiegazione: a. Aree topografiche che non superano il perimetro di un centro abitato. b. Aree costituite da una continuità di comuni o centri abitati che non superano il raggio di 115 chilometri. c. Aree metropolitane con un raggio inferiore ai 20 chilometri.141 Si tratta dunque di una disciplina molto chiara, molto precisa, ma sulla quale restano delle perplessità: è giusto basarsi solo su elementi geografico-topografici nella definizione di un concetto come quello di “ambito locale”? Ci pare, sinceramente, di no! Mentre una tv di Milano può trovare risorse pubblicitarie facilmente, anche nel raggio di un chilometro, un’emittente lucana farà magari invece molta fatica, nel raggio di diversi chilometri. E poi, non è forse oggettivamente più utile la presenza di una stazione televisiva in Basilicata, realtà poco rappresentata dai mezzi di comunicazione ufficiali, piuttosto che a Milano (almeno da un punto di vista semplicemente informativo)? Nell’analisi della storia della legislazione del mezzo, ci pare che simili interrogativi non abbiano giocato un ruolo forte, non abbiano avuto quella dovuta attenzione che meritavano. Per quel che concerne invece le nuove normative riguardanti la Rai, la 103 resta valida; i punti più importanti sono i seguenti: gestione dell’azienda da parte del parlamento e non solo del governo, pluralismo accentuato all’interno dell’impresa, attribuzione di poteri (diritto di accesso e di rettifica) alle regioni, accentuazione della dimensione aziendale e creazione di un terzo canale che avrebbe dovuto dare voce alle realtà locali. Tuttavia, una riforma di questo tipo si dimostrerà inadeguata (e ciò in modo ancora più macroscopico nel settore radiofonico) a rispondere alle esigenze di una società ormai già radicalmente cambiata rispetto ai decenni precedenti; in breve, la nuova normativa non è nient’altro che un “ultimo sussulto” di una logica del grillo che, nell’imporre ideologicamente i suoi contenuti, fa propri gli strumenti del corvo.142 Il pubblico, tutto il pubblico, di tutte le posizioni ideologiche, ha una sola esigenza, una sola richiesta (è questo in fondo l’unico minimo comun denominatore tra le due forze culturali in lotta): la partecipazione, ovvero la rottura di quel muro di separazione, di quella distanza, esistente da sempre, tra “mittente e destinatario”. In questo senso, sarebbe stata necessaria, immediatamente, una Rai “de-istituzionalizzata”, un’azienda dotata di un apparato organizzativo veloce, de-burocratizzato e capace di cogliere, nell’immediato, le richieste del pubblico.143 Nonostante le innovazioni (di cui la tv di Stato pure è capace), la radiotelevisione pubblica risponde spesso troppo tardi alle esigenze del mercato (per esempio, nel caso del colore

141 Sull’argomento si veda: G. RICHERI, Radiotelevisione: verso un monopolio imperfetto, in: Ikon, Sett. 1978, 142. 142 Nel merito, Franco Monteleone esprime un giudizio ancora più negativo del nostro: «La riforma del 1975 (…) aveva rappresentato il tipico prodotto di una cultura della comunicazione paleoindustriale e anticapitalistica, frutto di un compromesso politico fra ideologie spesso addirittura contrapposte che consisteva nel fare proprie le istanze della sinistra mantenendo inalterate le premesse culturali della tradizione cattolica. Il risultato fu un rilancio difficile della programmazione e la perdita di competitività tecnologica (tra cui l’abbandono di qualsiasi strategia nell’utilizzazione del cavo)», F. MONTELEONE: 1992, 398. 143 In questo senso, sempre Franco Monteleone nota come, in realtà, sia per effetto della domanda del pubblico (che trova risposta più nella televisione commerciale) e quindi della conseguente ascesa della tv privata che il monopolio viene rotto; tale rottura, alla lunga, sarà un beneficio per la stessa Rai, la quale riuscirà a dotarsi di una struttura più snella e aziendalizzata: «La tv cambia volto, cambia la domanda e l’atteggiamento del pubblico nel momento in cui cambia la società italiana. La rottura del monopolio non fu una causa ma un effetto necessario di questa trasformazione che la politica riuscì a governare solo in parte. Soltanto con la rottura del monopolio, l’azienda, anche se a tentoni inizialmente, ma con forte dinamismo nel volgere di due anni, riuscirà a superare il vecchio modello di consumo recuperando la sua dimensione d’impresa. Senza il contesto esterno, per quanto turbinoso e sregolato, la Rai sarebbe rimasta un ente monopolistico e ministeriale (tentazione mai sconfitta) del tutto scollato dalla realtà del paese», Ib., 398. 50 [servizio che diviene ufficiale solo il primo febbraio 1977144] o nel caso dell’apertura di una terza rete [avvenuta nel 1979, ben 4 anni dopo la pubblicazione della legge 103145]). Ma mentre la Rai non si può dire che navighi in buone acque, con un timone retto da una classe dirigente non proprio al passo con i tempi, i privati iniziano a costruire la propria ascesa, legittimati dagli interventi della Corte costituzionale.146 Il 24 settembre 1974 inizia a trasmettere Telemilano via cavo; l’emittente dell’allora costruttore Silvio Berlusconi si rivolge a un utenza abbastanza limitata: i residenti del quartiere di Milano due. Si tratta di una stazione di servizio dunque, che gli affittuari/proprietari degli appartamenti trovano compresa nel pacchetto di optional che “Edilnord” (l’impresa edile del futuro capo di governo) offre ai suoi clienti. Nulla di pretenzioso dunque: una serie di annunci letti da una ex-centralinista alle 12 e alle 19, più qualche film, di tanto in tanto, alla sera. Ma il cavo è una tecnologia costosa, non soltanto per quel che riguarda la sua messa a punto, ma anche e soprattutto per la sua manutenzione. È per questa ragione di ordine economico che gli imprenditori radiotelevisivi preferiscono l’etere. Iniziano a fiorire così le prime emittenti; solo per fare qualche esempio, citiamo le più importanti, quelle cioè che diventeranno, più in là, dei network: Antenna Nord dell’editore Rusconi, Telealtomilanese (acquistata dal gruppo Rizzoli-Corriere della Sera nell’aprile del 1978), Antenna 3 Lombardia di Enzo Tortora e Renzo Villa, Telenova della Pia Società San Paolo… Nel frattempo, Berlusconi trasforma la sua tv di quartiere in una vera e propria emittente: nel maggio 1978, Telemilano cavo si trasforma in Telemilano 58 (via etere). Inoltre, l’imprenditore milanese tenta di dare fin da subito una struttura aziendale solida al proprio canale, segmentando e ripartendo le varie occupazioni, attraverso la creazione di apposite società: - Publitalia, per la vendita degli spazi pubblicitari. - Videoprogram, per la produzione. - Reteitalia, per l’acquisto e la vendita delle trasmissioni. - Videotecnica, per il controllo dei materiali e per il servizio di assistenza. Tutte sono sottoposte al controllo finanziario della COFINT. È possibile intravedere perciò fin da ora il grande successo che avrebbero ottenuto le imprese radiotelevisive del futuro Presidente del Consiglio dei ministri. Dopo aver accennato brevemente all’evoluzione storica, si comprende meglio il discorso relativo alla lotta di due forze contrapposte: la progressiva ascesa dei privati, nella seconda metà degli anni ’70, dimostra in modo ineluttabile come un tipo di logica liberal-capitalistica (con gli annessi valori di tipo individualista) si sia inesorabilmente affermata, a discapito di qualunque ideologia collettivistico-anticapitalista. Questo è il segno più evidente di quanto la società sia cambiata e stia cambiando.147

144 Si tratta di un ritardo che causa pesanti ripercussioni: «Soltanto dal 1° febbraio 1977 la Rai aveva avviato ufficialmente le trasmissioni televisive a colori: un ritardo che aveva pesato su tutto il comparto della nostra industria elettronica», Ib., 398. 145 Il creare una terza rete televisiva era in realtà un vero e proprio errore politico, scaturito sempre da una logica politica vecchia, “lottizzante”.Questo è quanto riferisce Franco Monteleone: «Con l’inizio delle trasmissioni della terza rete, il 15 dicembre del 1979, la Rai intende continuare ad assolvere ad alcune funzioni ormai del tutto decadute dai palinsesti delle altre due (…) dal punto di vista del palinsesto la terza rete rappresentava già allora una scelta di retroguardia (…) la Rai scelse, o meglio fu costretta a scegliere, per la terza [rete], la strada del regionalismo e della programmazione paraculturale. Contro questa neonata creatura si formò subito una santa alleanza. All’interno, i direttori della prima e della seconda, impegnati a farsi concorrenza fra loro, vedevano mal volentieri l’irrobustimento di un terzo soggetto; all’esterno, gli interessi economici e politici legati al mondo dell’emittenza privata lavoravano per mantenere basso il profilo di questa rete. La spiegazione del suo sostanziale fallimento, negli anni dell’esordio, non sta nella scarsa diffusione del segnale (…) e neppure negli stanziamenti modesti, nella mancanza di pubblicità e nella qualità non sempre eccellente dei suoi programmi, ma sta nel fatto che si era dato vita a qualcosa che nessuno aveva veramente voluto, tranne le forze politiche e sindacali locali che si battevano da anni per il “decentramento ideativo e produttivo della Rai”», Ib. 400, 401. 146 Per una storia in breve delle televisioni commerciali in Italia, si veda: A. GRASSO: 2000, 174. 147 Franco Monteleone riconosce tre tipi di fenomeni che incidono sullo sviluppo televisivo: «Il primo cambiamento riguarda l’area della convivenza sociale: c’è un ritorno al privato, un’ansia di soddisfare bisogni individuali. Si assiste a una mutazione nei bisogni del pubblico, delle sue attese, dei suoi rapporti con i consumi culturali. Un secondo 51 Ma una società che cambia implica nuove richieste, nuove domande nel mercato dei consumi e, nella fattispecie, nel mercato del consumo televisivo. Per questa ragione, la tv deve rinnovare il suo panorama, deve rivedere l’offerta. Risalgono a questo periodo, cioè alla fine degli anni ’70, quelle innovazioni che segnano da un lato la fine della “paleo-televisione” e dall’altro l’inizio di un nuovo fenomeno chiamato “neo-televisione”. Vogliamo qui rilevare solo sommariamente le maggiori novità.148 In primo luogo, l’azienda pubblica estende le sue fasce d’ascolto, inserendo le prime “strisce quotidiane” (cioè quegli appuntamenti che si ripetono tutti i giorni alla stessa ora) e le strategie tipiche del palinsesto di “flusso” (elemento distintivo della tv commerciale degli inizi). In secondo luogo, nascono i generi della neo-tv, caratterizzati, nella maggior parte dei casi, da una fusione di formati diversi: a. Programma contenitore: trasmissione il cui obiettivo è massificare il più possibile gli ascolti149, proponendo agli spettatori momenti spettacolari differenti (talk show, musica, cabaret, balletto, fiction…). I primi esempi di programma contenitore sono L’altra domenica (1976) e Domenica in, (Rai Uno, 1979). b. Talk Show: genere che debutta con Bontà loro di Maurizio Costanzo (Rai, 1976). Si tratta di un programma in cui domina non il “discorso”, bensì la “chiacchiera”; ospiti illustri e non vengono invitati a parlare “del più e del meno”, da una prospettiva del tutto personale. Inizia quel fenomeno della “confessione” e della “personalizzazione” che caratterizzerà la tv degli anni ’90. c. Fiction seriale: telefilms, soap operas, cartoons, telenovelas… che abituano gli spettatori a un ascolto di flusso, con ricorrenza quotidiana. d. Prime ibridazioni di generi “alti” con l’intrattenimento. È il caso di quelle inchieste giornalistiche e di quei documentari che puntano sull’aspetto sensazionalistico (sono gli antenati dei più moderni “info-tainment”, “docu-tainment” e “culture-tainment”). Siamo all’inizio di un cambiamento epocale nel sistema della comunicazione di massa, di un cambiamento i cui effetti saranno visibili solamente dieci anni più tardi. Se, come si è detto, l’istanza comune a tutta la società, è la domanda di partecipazione150, allora è necessario che la tv tenti di rispondere meglio a questa esigenza, che tenti di avvicinarsi di più “a coloro che stanno dall’altra parte”. Tutte le strategie (ma lo si vedrà meglio in seguito) di cui abbiamo parlato, cioè tutti gli elementi di novità introdotti hanno proprio questo come obiettivo ultimo: “appiattirsi sulla vita quotidiana dell’ascoltatore”. È questa la finalità del flusso (scandire la programmazione sul ritmo della quotidianità), la finalità del talk show (restituire allo spettatore un vip dal volto “umano”). Nello stesso tempo, le emittenti scoprono che il pubblico non è più “uno”, ma che esistono diversi pubblici, diversi soggetti, diverse nicchie di mercato alle quali devono rivolgersi (a questo fine

cambiamento riguarda le innovazioni tecnologiche messe a disposizione dal progresso scientifico in tutti i campi dell’elettronica, che moltiplicano i canali di diffusione, di distribuzione e di utilizzazione dei segnali televisivi. Un terzo cambiamento si verifica nella sfera economica, dove si espande l’ideologia dell’impresa e della competizione che sta alla base degli innegabili successi del sistema produttivo italiano nell’ultimo decennio», F. MONTELEONE: 1992, 426, 427. 148 Per un sunto del cambiamento dell’offerta televisiva nel corso degli anni ’70 si veda: Ib., 396/418. 149 Si tratterebbe, secondo Monteleone, di una strategia che caratterizzerebbe in realtà tutta la neo-televisione, le cui radici vanno ricercate addirittura alla fine degli anni ’60: «Se nel vecchio progetto pedagogico le fasce di pubblico erano alquanto rigidamente separate, al contrario, nella nuova offerta che tende alla massimizzazione dell’ascolto concorrenziale (in un primo tempo fra le reti Rai e, in un secondo tempo, fra queste e i network commerciali), l’obiettivo del genere leggero è quello di accontentare contemporaneamente i gusti e gli interessi più contrastanti. Il modello di questo nuovo stile è già presente in un programma del 1969, Speciale per voi di Renzo Arbore», Ib., 414. 150 L’ascesa di un fenomeno come quello delle radio libere non fa che dimostrare questo; si veda sull’argomento: - E. MENDUNI, La radio nell’era della tv, Il Mulino, Bologna, 1994. - D. DOGLIO – G. RICHERI, La radio, Mondadori, Milano, 1980. - M. GAIDO, Radio libere?, Arcana, Roma, 1976. - P. HUTTER, Piccole antenne crescono, Savelli, Roma, 1978. - P. DEL FORNO – F. PERILLI, La radio… che storia!, Larus, Bergamo, 1997. 52 nasce il contenitore): la frammentazione dei consumi, di cui parlavamo all’inizio, è sostanzialmente già avvenuta. A queste istanze e a questi bisogni sembrano rispondere, per certi versi, molto meglio le neonate emittenti commerciali, piuttosto che la “vecchia azienda di Stato”, ancora arroccata su posizioni di tipo grillesco-corvesco, ormai obsolete. Allora, se le cose stanno in questo modo, perché non dare spazio a iniziative che, almeno apparentemente, sembrano garantire un maggiore pluralismo e offrire davvero ciò che il telespettatore vuole? È questo l’argomento su cui fanno leva coloro che difendono l’operato della radiotelevisione commerciale.151 Tuttavia, anche questa è una posizione poco lungimirante: pochi si accorgono del fatto che in Italia c’è davvero il rischio del formarsi di oligopoli, il rischio che il vecchio monopolio si trasformi in duopolio. Un mercato “anarchico”, “deregolato”, non è infatti caratterizzato dall’assenza di regole, ma, al contrario, dalla legge del più forte. Del resto, il fatto che diversi soggetti, appartenenti al mondo dell’alta finanza, entrino in campo fa prevedere che i futuri gruppi mediatici possano essere più d’uno, che dunque possa realizzarsi davvero un regime di concorrenza. Questo non avverrà e soltanto uno degli attori in gioco si dimostrerà capace di saper gestire un’impresa televisiva; l’assenza di una normativa anti-trust pensata ad hoc gli permetterà poi di realizzare un vero e proprio impero. Il legislatore, come sempre, si troverà ad operare con troppo ritardo, non potendo poi far altro che prendere atto di un certo stato di cose.152 Del resto, come si è detto anche prima, è davvero giusto cancellare con un colpo di spugna un’azienda già consolidata? Dove andranno a finire le centinaia (se non migliaia) di persone ivi occupate? Le regole vanno decise prima che il gioco cominci, giammai dopo. Così, inizia la scalata al successo della televisione commerciale e questo rappresenta il segno più evidente del “riflusso”, ovvero (come si diceva all’inizio) della vittoria delle “logiche di mercato”, nella loro accezione individualista e consumista. Il giovane Holden, dopo un lungo viaggio, dopo aver arricchito il suo bagaglio di nuove esperienze, ritorna a casa; ritorna in quel vecchio mondo che i genitori avevano costruito per lui, in quel vecchio mondo nel quale non si riconosceva più e al quale si era ribellato. Le domande e i desideri nei quali aveva riposto tutte le sue speranze sono rimasti senza risposta, senza una soluzione ben precisa, ma il suo peregrinare in lungo e in largo per l’America non è stato inutile, perché la sua vita è cambiata: ora può guardare i suoi genitori e riabbracciare la sua sorellina con una coscienza diversa.

151 Monteleone ci sembra metta a fuoco molto bene la situazione: «Con la nascita dei nuovi soggetti, che in breve tempo si organizzano e assumono precise identità, si scopre che ci sono tanti pubblici che hanno caratteristiche, gusti e interessi sempre più frammentati. La scolarità di massa e il benessere economico li ha inoltre resi anche più attenti ed esigenti. Una domanda culturale così diversificata e cresciuta non avrebbe mai potuto trovare nella televisione monopolistica il proprio soddisfacimento. In secondo luogo, nel breve perdurare dell’assetto monopolistico riformato il sevizio pubblico era il garante della libertà di espressione e del pluralismo. Con il sorgere di una situazione di concorrenza parve che gli spazi di libertà e di pluralismo sarebbero stati da questa assicurati più e meglio del monopolio. In terzo luogo, non sembrò scandaloso che la legittimità della riserva allo Stato del diritto di diffusione circolare dei messaggi, in base alla nozione giuridica di interesse generale, potesse essere applicata anche a tutte quelle imprese che avessero esercitato, con regole definite e condivise, il medesimo servizio. (…) da un lato un servizio pubblico che deve continuamente ricercare la propria identità e combattere per la sua sopravvivenza minacciata da molteplici fattori di cambiamento; dall’altro una televisione privata che assume subito una precisa identità, quantomeno merceologica, che lotta anch’essa per la sua affermazione, ma che finisce per assumere una posizione di monopolio commerciale inversamente proporzionale alla perdita di monopolio culturale e istituzionale del servizio pubblico», F. MONTELEONE: 1992, 427, 428. 152 «L’assenza di una normativa in grado di regolamentare fin dall’inizio l’insieme del sistema radiotelevisivo, così come le dinamiche economiche, sociali e politiche lo stavano trasformando, ha comportato in un primo tempo uno sviluppo anarchico e frammentato e, in un secondo tempo, il formarsi di una gigantesca concentrazione, il gruppo Fininvest, che nella seconda metà degli anni ’80 disporrà di tre network televisivi, un network radiofonico, oltre a notevoli partecipazioni nell’editoria, nel cinema, nell’industria televisiva europea e alcuni giornali. Si possono distinguere due fasi: la prima, dal 1976 al 1979, riguarda la proliferazione delle radio e delle televisioni private a carattere locale, nonché il susseguirsi di numerosi progetti di regolamentazione legislativa: la seconda, dal 1980 al 1984, vede la formazione di un solo gruppo privato, quello di Silvio Berlusconi…», Ib., 428, 429. 53 C’è stato un momento in cui una parte della società italiana, figlia del “boom” economico, della televisione democristiana, si è interrogata sulle premesse, sui valori (apparentemente incrollabili) su cui era cresciuta e si è accorta che tali valori erano diventati lontani, insufficienti a rispondere a un certo tipo di domande percepite stringenti. Sull’onda di tali domande e in risposta a un sistema assiologico che appariva astratto, scoppia la rivolta, una rivolta attraverso la quale frange (anche abbastanza estese) del corpo sociale chiedono di poter essere ascoltate. Esigenze dunque, domande, alle quali questa generazione tenta di rispondere, inseguendo realtà chimeriche, utopiche come un mondo di eguali, senza differenze di classe, collettivistico (oppure attraverso l’anarchia)… Ma la nazione italiana, nel suo complesso, come Monteleone stesso nota, aveva già intrapreso una direzione di marcia diversa, una rotta difficilmente deviabile; non si potevano perciò più mettere in discussione i principi dello sviluppo economico, del progresso, soprattutto se essi conducevano a un benessere materiale generalizzato, ovvero indirizzato alla popolazione in tutta la sua complessità. Non è possibile cancellare il passato, non è possibile cancellare “il mondo dei propri genitori”(come avrebbe voluto fare il giovane Holden), non è possibile eliminare le tracce di una tradizione che ci ha preceduto con un improvviso colpo di spugna. In una lettura dialettica della storia, i movimenti di rivolta hanno forse creduto che ciò fosse possibile, hanno creduto davvero che un’antitesi potesse ribaltare una tesi, generando una nuova sintesi; i fatti avrebbero poi dimostrato il contrario. Quando si recidono improvvisamente i legami con qualcosa o con qualcuno, accade sempre di essere pervasi da una improvvisa malinconia, o meglio, da una nostalgia (per quanto irrazionale possa essere) che ci spinge a tornare indietro: è questo il ritorno a casa di Catcher in the rye e il riflusso della società italiana. I movimenti di rivolta studenteschi e operai, il terrorismo, di fronte alla crescita economica del paese, vedono sfumare all’orizzonte le utopie che avevano inseguito153, ma, come Holden, hanno maturato una nuova coscienza: possono ora osservare la vecchia realtà con occhi diversi. Così, anche il nostro paese resta segnato da questo “viaggio”, da questo tentativo di cambiamento di rotta: l’Italia è ormai una nazione completamente laica, dove quei vecchi valori pseudo-cattolici (che con il cattolicesimo avevano già da prima poco a che vedere) sono ormai completamente scomparsi; l’esistenza di una legge sul divorzio prima e sull’aborto poi dimostrano proprio questo.154 Tuttavia, per quel che riguarda la comunicazione di massa, la più grande eredità che il movimento di rivolta lascia a tutta la società è una sola: la domanda di partecipazione, aspetto che caratterizzerà in modo crescente la codifica del messaggio, fino a diventare, con un fenomeno come Big Brother, l’elemento centrale della televisione degli anni ’90. Il viaggio dei “ribelli” si conclude qui, in questo preciso momento della storia; ora non resta che tornare indietro per “riabbracciare il vecchio mondo”.

5. La centralità del “gatto”: gli anni ’80 e ’90 tra logica di mercato e politica industriale

L’industria culturale, come si è visto, assume una dimensione propriamente “industriale” (nel senso di macchina orientata alla produzione massificata di beni), per l’appunto, fin dagli anni ’50. Essa tuttavia, a differenza dell’industria tout court, fa completamente proprie le logiche di mercato solo trent’anni più tardi, quando il monopolio inizia a trasformarsi in duopolio.155 È solo con

153 Ciò avviene probabilmente anche in conseguenza della presa di coscienza di ciò che tali utopie avevano causato nei paesi del blocco comunista, dove, appariva evidente anche agli occhi della nostra sinistra, c’era davvero ben poco di democratico ed egualitario. 154 Per verificare tutto quello che stiamo dicendo, rimandiamo sempre al testo di P. GINSBORG: 1989. 155 Ecco quanto scrive in proposito Fausto Colombo: «Se gli anni ’60 vedono le strategie pedagogica e d’intrattenimento confrontarsi per la prima volta sul terreno dei nuovi consumi, e in fondo contaminarsi inavvertitamente; se gli anni ’70 segnano una fase di conflitto e di crisi di un modello pedagogico che trova nel movimentismo una paradossale reincarnazione, gli anni ’80 sono caratterizzati da una rapida ascesa della logica del gatto, ossia della valorizzazione assoluta del successo di pubblico come criterio di qualità, e della centralità del marketing nel processo di ideazione e produzione dell’industria culturale italiana», F. COLOMBO: 1998, 261. 54 l’instaurarsi di un regime di concorrenza, con la lotta per la conquista di “porzioni” di pubblico, che le strategie di marketing prendono il sopravvento sulle logiche di tipo pedagogizzante o di “percezione empatica” (:topo) dei gusti dell’utenza: ciò che decide della riuscita, della qualità di un prodotto televisivo, non è più la sua bontà oggettiva, stabilita in base a una schiera di valori di riferimento, bensì la quantità degli ascolti.156 Ma perché, per quale ragione il successo di pubblico assume una tale importanza? Perché diventa un elemento così centrale, così sostanziale da determinare, in taluni casi, una vera e propria “dittatura dell’audience”? Come fa notare Fausto Colombo, per rispondere a queste domande e dunque per isolare le cause che hanno determinato l’ascesa della logica del gatto, è necessario comprendere il peso che la pubblicità ha crescentemente assunto. Un fenomeno come quello della “settimanalizzazione dei quotidiani”157, a metà degli anni ’80, indica proprio quanto le inserzioni possano incidere sull’ “attivo” di un’ azienda. In effetti, in che modo possono auto-sostenersi delle imprese “no pay” come le tv locali, se non offrendo piccole porzioni di palinsesto agli investitori? E una volta che queste emittenti, ancora a gestione “familiare”, sono diventate network nazionali, non hanno forse un’esigenza ancora maggiore di entrate sicure? Queste domande chiariscono molto il motivo per cui la televisione, alla soglia degli anni ’80, ha come obiettivo principale la conquista di una massa crescente di spettatori: quanto più gl’indici di ascolto di una data emittente sono alti, tanto più gli inserzionisti saranno interessati ad acquistare da quella gli spazi pubblicitari. Una logica di questo tipo cambia il concetto stesso di “prodotto”: esso non è più il programma trasmesso, bensì il pubblico che vede tale programma (poiché è esso ciò che concretamente, come in un unico pacchetto, viene venduto all’investitore)158; tanto per chiarire i termini in gioco: l’offerente è l’emittente televisiva, il cliente è l’inserzionista pubblicitario, mentre il prodotto è il pubblico. È la vittoria definitiva del mercato. Ma prima di fare bilanci, andiamo a vedere come si svolgono concretamente i fatti. Come si è visto, il decennio precedente si era aperto con l’entrata in scena nel mercato televisivo di ben 4 grossi imprenditori: Berlusconi, Rusconi, Rizzoli e Mondadori. Nel 1980, Telemilano 10 diventa Canale 5, un circuito di emittenti locali che diffondono il segnale irradiato dal capoluogo lombardo su tutto il territorio nazionale. La stessa strategia viene adottata da Rusconi per Italia 1 e da Mondadori per Rete 4: in breve tempo, all’inizio degli anni ’80, ci sono già tre network, tre canali a dimensione iperregionale che possono porsi in diretta concorrenza con la Rai. Dal 1982, compare sul palcoscenico un altro soggetto: dalla fusione di due agenzie pubblicitarie, la STO e Radiovideo, nasce Euro Tv, di proprietà di Callisto Tanzi, ma controllata dalla finanziaria Fincom; gli attori diventano addirittura quattro.

156 Anche su questo punto ci rifacciamo a una posizione di Fausto Colombo: «Negli anni ’80 tutto cambia: è la fruizione concreta del pubblico a dire cosa piace e cosa no (…) il modello di pubblico è davvero autoreferenziale: i grandi, i grandissimi ascolti sono il punto di riferimento strategico delle emittenti», Ib., 263. 157 Colombo riporta alcuni esempi che dovrebbero chiarire meglio il concetto di “settimanalizzazione”: «Nel 1985 viene superato il tetto di sei milioni di copie di quotidiani al giorno: un record nel nostro paese. Infine, nel 1987, “Repubblica” lancia “Portfolio”, un gioco che ne aumenterà la tiratura di circa 200.000 copie (due anni dopo anche il “Corriere” lancerà un gioco di formidabile successo, “Replay”), e il “Corriere della Sera” realizza il nuovo supplemento settimanale, “Sette”, ottenendo una eccellente risposta (il numero con la prima uscita si attesta attorno alle 900.000 copie). Perché ho scelto proprio questi eventi e non altri? Perché mi sembra che essi significhino (in forma diversa) un passaggio a un nuovo modo di intendere il quotidiano, che altri ha definito la “settimanalizzazione”, ovvero la decisione di abbandonare l’empireo dell’opinione pubblica in senso nobile per allargare come che sia il numero dei lettori, e soprattutto per rendere più appetibile il prodotto in quanto veicolo pubblicitario», Ib., 262. 158 È proprio quello che nota Fausto Colombo: «Quello di cui immediatamente non ci si avvede è che mettere al centro la pubblicità significa modificare il concetto stesso di prodotto televisivo, e quindi cambiarne la funzione. Il pubblico diviene oggettivamente il centro del processo, non più il destinatario del prodotto. Si tratta di un fenomeno nuovo nel nostro paese, in queste proporzioni, anche perché quel pubblico viene identificato non tanto con i target differenziati che popolano il mondo del consumo, quanto piuttosto con le audiences oceaniche dei grandi prodotti massivi», Ib., 263. 55 Rizzoli nel frattempo è costretto a ritirarsi da un lato per una serie di vicende “torbide”, dall’altro per una male oculata gestione del palinsesto.159 Dopo qualche tempo, anche la politica di Rusconi a Italia 1 si dimostra fallimentare e l’editore milanese è costretto a vendere. La battaglia per l’acquisto del network vede in prima fila Berlusconi e Mondadori, anche se, alla fine, è il primo a spuntarla: è il 1982 e l’imprenditore di Arcore possiede già due network. Poco tempo dopo, anche Rete 4 viene “baciata dalla cattiva sorte”. Tra le concorrenti della Fininvest, è probabilmente questa l’unica che, fin dall’inizio, crede in ciò che sta facendo e proprio per questo investe molto da un punto di vista ideativo. Essa non è però in grado di gestire ponderatamente le risorse del suo magazzino, le risorse di un archivio fatto di prodotti senza dubbio di grande qualità, ma che devono però essere distribuiti in maniera oculata nel palinsesto: in sostanza, l’emittente in questione risulta priva di un’adeguata logica di programmazione. Un’altro punto su cui Rete 4 risulta perdente è la sua politica di immagine: Mondadori, provenendo dal mondo dell’editoria, ci tiene a costruire un’identità di rete che richiami il suo marchio di fabbrica, ovvero un marchio legato alla produzione di libri e periodici: è un tentativo estremo di far vivere una nuova giovinezza alla logica del grillo.160 Così, nel 1983, Rete 4 perde (nell’attività di esercizio) ben 25 miliardi di lire, accumulando 106 miliardi di debito con creditori terzi, più 14 miliardi (sempre di debito) con la Mondadori stessa: in una tale situazione, la casa editrice milanese è costretta, evidentemente, a vendere tutto. Tramite la mediazione di Enrico Cuccia, la Fininvest “assoggetta” al proprio impero un terzo network, trasformando il regime di concorrenza in duopolio: da una parte la Rai, dall’altra Berlusconi.161 Ma la scalata dell’imprenditore di Arcore continua: nel 1983 per esempio, acquista anche il circuito Rete A dell’Editore Peruzzo. Tuttavia, l’ascesa non può essere misurata soltanto con parametri di tipo finanziario. Già qualche anno prima infatti, Berlusconi aveva sfidato la Rai su un duro campo di battaglia: quello della diretta (una delle ultime prerogative rimaste all’azienda di viale Mazzini). I fatti si svolgono nel modo seguente: nel 1980, Canale 5 acquista i diritti televisivi di un torneo di calcio sudamericano, il “Mundialito”162 ma, affinché possa mandarlo in onda in contemporanea (“live”), è necessario che

159 La vicenda nel settore televisivo dell’editore Rizzoli resta tuttora nel torbido; sul suo operato ci informa Franco Monteleone: «(…) Rizzoli fu in breve tempo costretto a ritirarsi dalla competizione, anche per la sua gestione dissennata e politicamente assai torbida condotta dal suo amministratore delegato Bruno Tassan Din. Il tentativo dela gruppo si era infranto su tre ostacoli: una cattiva valutazione delle condizioni in cui stava nascendo l’industria della televisione privata che produce pubblicità e non programmi; lo scontro perdente ingaggiato con la Rai sull’informazione radiotelevisiva; e infine la questione della Loggia P2 nella quale l’intero gruppo dirigente si trovò invischiato fino al collo», F. MONTELEONE: 1992, 431, 432. 160 Ecco come Monteleone racconta la storia di Rete 4: «Fra le reti private Retequattro sembra quella che, più di ogni altra, anche per il know how editoriale che ha alle spalle, voglia realmente “fare televisione”. Tuttavia il network esita a fare un palinsesto che produca contemporaneamente anche pubblico. Saranno proprio alcuni clamorosi errori di programmazione – in seguito ai quali “pacchetti” importanti del magazzino di Retequattro furono praticamente buttati in pasto alla concorrenza – a determinare la sconfitta dell’emittente di Mondadori che, tra l’altro, non seppe neanche sfruttare fino in fondo le geniali intuizioni di un giovane programmatore, Carlo Freccero, in un primo tempo strappato alla Fininvest e rientratovi successivamente insieme all’assorbimento di Retequattro da parte del biscione (…) I dirigenti del network si sentivano responsabili dell’immagine culturale della Mondadori. Non a caso a presiedere la Telemond, la società che tutelava gli interessi televisivi del gruppo, era stato mandato un giornalista del prestigio di Piero Ottone (…) nel maggio del 1982 Retequattro firmò un accordo con l’americana ABC per lo scambio di programmi: news, sport, cartoni animati, telefilm, programmi culturali. Un altro accordo con il network brasiliano Tv Globo avrebbe dovuto assicurare alla rete di Mondadori l’esclusiva delle telenovelas (…) Ma durante il 1983 Retequattro diventa un peso troppo grande per i suoi azionisti», Ib., p. 440. 161 Così si sono svolti i fatti: «Con la mediazione di Enrico Cuccia, la Fininvest acquista infine Retequattro, in un momento in cui il deficit stava aggravandosi in misura non più sostenibile, a condizioni estremamente vantaggiose: 120 miliardi di lire dei quali 105 scaglionati in quattro anni senza interessi e 25 sotto forma di spazi pubblicitari sui canali Fininvest a favore dei periodici Mondadori. L’editore cede inoltre tutto lo stock dei programmi e offre un credito di 12 miliardi per spazi pubblicitari sui propri giornali a favore dei programmi televisivi delle reti Fininvest. Berlusconi aveva salvato non solo Retequattro ma la stessa Mondadori le cui perdite, in due anni, si aggiravano intorno ai 200 miliardi», Ib., 440, 441. 162 Per una sintesi della storia relativa al Mundialito si veda: A. GRASSO: 2000, 177. 56 richieda al Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni l’autorizzazione per l’utilizzo del satellite Telespazio. L’organo statale si pronuncia negativamente, dando il via a una vera e propria diatriba. La soluzione arriva il 22 dicembre del 1980, in base alla quale: la Rai avrebbe trasmesso in diretta tutte le partite dell’Italia e la finale, mentre Canale 5 tutte le altre partite (in diretta in Lombardia e in differita nelle restanti parti d’Italia). Si tratta di una vittoria fondamentale non soltanto per le future reti Fininvest, ma per la tv privata in generale, poiché la concessione rilasciata dal Ministero alla stazione di Segrate (non ancora di Cologno Monzese) rappresenta un primo passo verso la rottura del diritto esclusivo all’utilizzo della diretta, da parte delle tv pubbliche. Non sempre però procede tutto per il verso giusto. Nel 1981 infatti, arriva una nuova sentenza della Corte Costituzionale, la 148, con la quale viene impedito all’emittente dell’editore Rizzoli di mandare in onda il notiziario, che deve rimanere una prerogativa della sola Radiotelevisione pubblica; viene esortato inoltre, secunda facie, il legislatore a varare una normativa immediata che regoli un sistema misto (quale quello vigente, di fatto, in Italia).163 Nel dicembre dello stesso anno, l’allora ministro Remo Gaspari presenta perciò un disegno di legge… che resta tuttavia tale. Dunque, la ragione vera per cui la Fininvest può assoggettare a sé indisturbatamente altre reti, più Rete A, è proprio la mancanza di una regolamentazione in materia. Ma torniamo ai fatti. Nel 1984, arrivano altre sorprese. Alcuni pretori in Piemonte, Lazio e Abruzzo decidono di oscurare le tv di Berlusconi. Per evitare che tali provvedimenti ostacolino troppo a lungo l’attività di Canale 5 e Italia 1, il governo interviene con un Decreto (che si trasformerà in legge nel febbraio del 1985 [legge n. 10]), grazie al quale viene permessa l’interconnessione ai “ripetitoristi”, per mezzo di videocassette pre-registrate. La magistratura romana, attraverso un’altra sentenza, pronunciata lo stesso anno, sancisce la legalità di tale provvedimento. Tuttavia, all’inizio del 1986, alcuni giudici torinesi intervengono nuovamente per interrompere i programmi Fininvest, nel territorio di propria competenza. La situazione viene chiarita attraverso l’appello ai principi contenuti nella 202, emessa dalla Corte Costituzionale nel 1976. In tutto questo guazzabuglio, bisogna riconoscere un merito alla legge n. 10: quello di aver realizzato, se non altro, una piccola riforma della Rai, attribuendo maggiori poteri al direttore generale e limitando quelli del consiglio di amministrazione. Nel frattempo, mentre tutto quello che abbiamo raccontato sta accadendo, un nuovo soggetto compare sulla scena a complicare la situazione: la brasiliana Rete Globo, che acquista Telemontecarlo (si tratta di una tv originariamente straniera, ma che, con il passare degli anni, inizia a rivolgersi esclusivamente al pubblico italiano, coprendo tutto il territorio nazionale). Berlusconi164 resta però ancora il soggetto principale e nel 1986 ha modo di “estendere i confini” del suo impero (e non soltanto in territorio televisivo): - Inizia a prendere possesso della Mondadori, pur restando questa ancora nelle mani della famiglia Formenton (almeno a livello gestionale). - Crea dei canali tv nei seguenti paesi: Spagna, Portogallo, Grecia, Germania, Francia e Belgio. - Ottiene la gestione per inserzioni pubblicitarie in: Polonia e Unione Sovietica. Nel 1987: - Acquista “Il Giornale” di Indro Montanelli. - Stipula un accordo con la Società Telespazio che gli consente: di utilizzare due canali dell’Intelsat, l’uso di una stazione mobile e l’installazione di 14 parabole che gli avrebbero permesso di usufruire della diretta. - Attraverso Publitalia, inizia a controllare la tv iugoslava Capodistria (avendo così maggiori possibilità di utilizzare la diretta). Nello stesso anno: - Callisto Tanzi fonda il network Odeon Tv.

163 Si veda: F. MONTELEONE: 1992, 436, 437. 164 Per una storia esaustiva di tutto quello che qui si sta affermando, rimandiamo a: Ib., 468/473. 57 - Dalla dissoluzione di Euro-Tv nasce Italia 7. - Nasce il circuito Cinquestelle con una forte partecipazione della Rai. All’alba dell’87, nel mercato televisivo, troviamo dunque anche altri soggetti, accanto ai due oligopoli Rai/Fininvest; vi sono infatti degli attori minori (che minori rimarranno) come: Telemontecarlo, Italia 7, Cinquestelle, Odeon e Capodistria. Il 1988 si apre con una proposta di legge del Ministro Mammì, la famosa “opzione zero”, in base alla quale (qualora essa diventasse normativa di fatto) diventerebbe illegale possedere un quotidiano e una rete televisiva insieme; il disegno prevede inoltre l’istituzione della figura di un Garante per le telecomunicazioni, che abbia il compito di dirigere, dirimere e governare le questioni nell’ambito radio-tv-telefonia e in tutti quegli ambiti legati al mondo delle trasmissioni via etere. Tale proposta diventa legge nel giugno dello stesso anno, ma senza “opzione zero”; in sostituzione, viene istituita una normativa anti-trust, in base alla quale ogni operatore non può possedere più di tre canali: anche in questo caso, come si vede, si è agito legalizzando uno stato di cose preesistente. Il mese successivo, la Corte interviene nuovamente per ribadire la provvisorietà della normativa appena nata. Nel frattempo, Berlusconi acquista anche la squadra di calcio A.C. Milan, i supermercati Standa, la Mondadori e la Penta Film, mentre la Ferruzzi Finanziaria di Raul Gardini compra il 40% delle azioni di Telemontecarlo. La legge definitiva sulla radio e sulla televisione, arriva nell’agosto 1990 (legge 6 agosto n.° 223/1990), quando il futuro Presidente del Consiglio lancia sul mercato anche tre canali “pay”: i tre programmi Tele +. I punti fondamentali della nuova normativa sono i seguenti: a. In base all’articolo 6, viene istituita la figura del “Garante per la radiodiffusione e l’editoria”. Si tratta di una carica della durata di 3 anni, ricoperta da un soggetto nominato dal Presidente della repubblica, sotto proposta del Presidente della Camera dei deputati, e scelto fra le seguenti categorie: professori universitari di materie giuridiche, aziendali o economiche, esperti nel settore delle comunicazioni o fra persone che hanno ricoperto la carica di Presidente della Corte Costituzionale. Le funzioni del garante sono stabilite al comma 10 e sono quelle di: «(…) tenere il registro nazionale delle imprese radiotelevisive (…); esaminare i bilanci e l’annessa documentazione dei concessionari privati (…), della concessionaria pubblica, nonché, ove lo ritenga, bilanci e documentazioni delle imprese di produzione e distribuzione di programmi o concessionarie di pubblicità (…); compiere l’attività istruttoria e ispettiva necessaria per lo svolgimento delle funzioni di cui al presente comma, avvalendosi anche dei competenti organi dell’Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni, nonché dei servizi di controllo e vigilanza dell’Amministrazione finanziaria dello Stato (…); a vigilare sulla rilevazione e pubblicazione degli indici d’ascolto delle emittenti e reti radiofoniche e televisive pubbliche e private anche avvalendosi di organismi specializzati». b. Con l’articolo 7, vengono istituiti poi dei “Comitati regionali per i servizi radiotelevisivi”, le cui funzioni sono stabilite al comma 1: «Ogni Consiglio regionale elegge, con voto limitato almeno a due terzi dei membri da eleggere e da scegliersi fra esperti di comunicazione radiotelevisiva, un comitato regionale per i servizi radiotelevisivi. Il comitato regionale è organo di consulenza della regione in materia radiotelevisiva, in particolare per quanto riguarda i compiti assegnati alle Regioni dalla presente legge. Il Comitato altresì formula proposte al Consiglio di amministrazione della concessionaria pubblica in merito a programmazioni regionali che possano essere trasmesse sia in ambito nazionale che regionale; regola l’accesso alle trasmissioni regionali programmate dalla concessionaria pubblica». c. All’articolo 8 invece vengono stabilite le “Disposizioni sulla pubblicità”, diventata fin troppo opprimente sulle televisioni commerciali. - «La pubblicità radiofonica e televisiva non deve offendere la dignità della persona, non deve evocare discriminazioni di razza, sesso e nazionalità, non deve offendere

58 convinzioni religiose e ideali, non deve indurre a comportamenti pregiudizievoli per la salute, la sicurezza e l’ambiente, non deve arrecare pregiudizio morale o fisico a minorenni, e ne è vietato l’inserimento nei programmi di cartoni animati» (: comma 1). - «La pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione» (: art. 2). - «Il Garante, sentita un’apposita commissione, composta da non oltre cinque membri e da lui stesso nominata tra personalità di riconosciuta competenza, determina le opere di alto valore artistico, nonché le trasmissioni a carattere educativo e religioso che non possono subire interruzioni pubblicitarie» (: comma 4). - «È vietata la pubblicità radiofonica e televisiva dei medicinali e delle cure mediche disponibili unicamente con ricetta…» (: comma 5) - «La trasmissione dei programmi pubblicitari da parte della concessionaria pubblica non può eccedere il 4 per cento dell’orario settimanale di programmazione e il 12 per cento di ogni ora; un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso di un’ora deve essere recuperata nell’ora antecedente e successiva» (: comma 6). - «La trasmissione di messaggi pubblicitari televisivi da parte dei concessionari privati per la radiodiffusione televisiva in ambito nazionale non può eccedere il 15 per cento dell’orario giornaliero di programmazione e il 18 per cento di ogni ora; una eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso di un’ora, deve essere recuperata nell’ora successiva…» (: comma 7). - «La trasmissione di messaggi pubblicitari televisivi da parte dei concessionari privati per la radiodiffusione televisiva in ambito locale non può eccedere il 20 per cento di ogni ora di programmazione e il 15 per cento dell’orario giornaliero di programmazione. Un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso di un’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva» (: comma 9). - «I programmi non possono essere sponsorizzati da persone fisiche o giuridiche la cui attività principale consista nella fabbricazione o vendita di sigarette o di altri prodotti del tabacco, nella fabbricazione o vendita di superalcolici, nella fabbricazione o vendita di medicinali ovvero nella prestazione di cure mediche disponibili unicamente con ricetta…» (: comma 14). - «Entro il 30 giugno di ciascun anno il Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, di concerto con il Ministro delle partecipazioni statali e sentiti il Garante e il Consiglio dei ministri, stabilisce il limite massimo degli introiti pubblicitari quali fonte accessoria di proventi che la concessionaria pubblica potrà conseguire nell’anno successivo…» (: comma 16). c. Con l’articolo 15 invece, viene regolato il mercato, per evitare che vi siano posizioni dominanti. - «Al fine di evitare posizioni dominanti nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa è fatto divieto di essere titolare: • di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura annua abbia superato nell’anno solare precedente il 16 per cento della tiratura complessiva dei giornali quotidiani in Italia; • di più di una concessione per la radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi l’8 per cento della tiratura complessiva dei giornali d’Italia;

59 • di più di due concessioni per la radiodiffusione televisiva in ambito nazionale qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dalla lettera b (sopra)» (: comma 1). - «Le concessioni in ambito nazionale riguardanti sia la radiodiffusione televisiva che sonora, rilasciate complessivamente a un medesimo soggetto, a soggetti i quali a loro volta controllino altri titolari di concessione, non possono superare il 25 per cento del numero di reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque il numero di reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque il numero di tre» (: comma 4) - «Qualora i concessionari privati, la concessionaria pubblica o i titolari di autorizzazione (…) si trovino in situazioni di controllo o di collegamento nei confronti di imprese concessionarie di pubblicità, queste ultime non possono raccogliere pubblicità per più di tre reti televisive nazionali, o due reti nazionali e tre reti locali o una rete nazionale e sei locali ivi comprese quelle di cui sono titolari i soggetti controllati o collegati…» (: comma 7). La normativa prevede poi una nuova regolamentazione delle funzioni degli organi interni della Rai, più nuove disposizioni relative al pagamento del canone. La ragione per cui ci siamo soffermati così a lungo sulla 223 deriva dal fatto che essa rappresenta il primo e unico provvedimento valido (cioè non provvisorio) per la regolamentazione del mercato radiotelevisivo, a partire dal 1976: devono trascorrere ben quattordici anni (dal momento in cui la Corte Costituzionale pone all’attenzione del legislatore il problema dell’accesso e della regolamentazione delle imprese) prima che il parlamento trovi una soluzione definitiva, una soluzione che piaccia a tutte le parti politiche e metta d’accordo tutti gli attori in gioco. Ma quattordici anni sono tanti e chi aveva avuto la possibilità economica di espandersi il più possibile, lo aveva fatto. E di nuovo (come era sempre accaduto), di fronte a uno stato di fatto (cioè di fronte a dei soggetti che si sono economicamente espansi), la Camera non può far altro che registrare passivamente uno stato di cose, può cioè soltanto evitare che la situazione degeneri ulteriormente. In ogni caso, una normativa arriva e resta valida, nella sostanza, fino ai giorni nostri. Piccole modifiche, o semplici precisazioni, si rilevano nella Legge n. 229 del 31 luglio 1997, per l’ “Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo”. All’articolo 1, vengono stabilite le norme di elezione e le funzioni della detta autorità. All’articolo 2, invece (e questo è l’oggetto del nostro interesse), vengono stabiliti i principi relativi al “Divieto di posizioni dominanti”. Ecco quanto viene stabilito al comma 6: «Ad uno stesso soggetto o a soggetti controllati da o collegati a soggetti i quali a loro volta controllino altri titolari di concessione in base ai criteri individuati nella vigente normativa, non possono essere rilasciate concessioni né autorizzazioni che consentano di irradiare più del 20 per cento rispettivamente delle reti televisive o radiofoniche analogiche e dei programmi televisivi o radiofonici numerici, in ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri, sulla base del piano delle frequenze. Al fine di consentire l’avvio dei mercati nel rispetto dei principi del pluralismo e della concorrenza, relativamente ai programmi televisivi o radiofonici numerici l’Autorità può stabilire un periodo transitorio nel quale non vengono applicati i limiti previsti nel presente comma…». Al comma 8 viene inoltre stabilito che: «i soggetti destinatari di concessioni televisive in ambito nazionale per il servizio pubblico, di autorizzazioni per trasmissioni codificate in ambito nazionale, ovvero di entrambi i provvedimenti possono raccogliere proventi per una quota non superiore al 30 per cento delle risorse del settore televisivo in ambito nazionale riferito alle trasmissioni via etere terrestre codificate. I proventi di cui al precedente periodo sono quelli derivanti da finanziamento del servizio pubblico al netto dei diritti dell’Erario, nonché da pubblicità nazionale e locale, da spettanze per televendite e sponsorizzazioni, proventi da convenzioni con soggetti pubblici, ricavi da offerta televisiva a pagamento, al netto delle spettanze delle agenzie di intermediazione…»

60 In sostanza, con questo provvedimento vengono rafforzati i principi relativi alla non predominanza di un soggetto nel mercato televisivo e, in più, vengono stabiliti dei criteri per la raccolta pubblicitaria, in maniera tale che gli spot non siano in proporzione predominante rispetto alla normale programmazione. L’urgenza di creare una simile normativa è data, del resto, da un fatto abbastanza singolare: l’entrata in politica del proprietario della Fininvest; si tratta di un episodio che scatena dure polemiche e violenti dibattiti, ma che tuttavia, di fatto, non risulta essere contrario ai principi contenuti nella Costituzione, la quale consente la candidatura di qualunque cittadino abbia la maggiore età. Questo non toglie il fatto che si tratti di una situazione abbastanza anomala, alla quale è necessario porre un rimedio immediato. Nella sostanza, vengono trovati degli espedienti (che Berlusconi, questo bisogna riconoscerlo, ha accettato) per impedire che egli abbia accesso diretto ai mezzi di informazione e per garantire le pari opportunità, durante le campagne elettorali. Questo è tuttavia un problema diverso, che non ci sembra opportuno discutere in questa sede; lasciamo ai giuristi l’onere di “sbrogliare una tale matassa”. Il discorso sugli aspetti legislativi ci ha fatto allontanare forse un po’ troppo dal prodotto televisivo in quanto tale, che è, in fondo, l’elemento determinante nell’ascesa della tv commerciale.165 La cosa davvero innovativa introdotta dai privati è il modo in cui i programmi sono assemblati assieme, vale a dire la tecnica di palinsesto166; come si è visto, la Rai non si era mai curata troppo di strategie efficaci in questo senso, avendo come preoccupazione principale quella di non invadere troppo il tempo dedicato al lavoro o quella di proporre il maggior numero possibile di trasmissioni pedagogizzanti. Ne risulta un “mix” di ingredienti abbastanza composito, caratterizzato dal contrasto e dalla giustapposizione, piuttosto che dalla simbiosi e dall’armonia. La ricorrenza dei programmi (durante gli anni ’50, ’60 e poi ’70) aveva poi una scadenza settimanale, in maniera tale che lo spettatore potesse identificare un determinato giorno e una determinata ora con il nome di una certa trasmissione: su questo faceva leva la cosiddetta festività della “paleo-televisione”. Questo tipo di meccanismo, viene messo fortemente in discussione dalle emittenti commerciali. In primo luogo, esse cominciano a colonizzare gli spazi in cui la Rai o è più debole, o non trasmette affatto, in secondo luogo si servono di prodotti “seriali”, cioè realizzati per una emissione quotidiana: viene creato così una sorta di “flusso televisivo”, che, come si vedrà meglio in seguito, rappresenta l’esatto opposto della “festività”. Il fatto che la tv privata si serva di: soap opera, telefilm, telenovelas, cartoni animati… (cioè oggetti industriali nati laddove quel processo di “quotidianizzazione del mezzo” era già in fase avanzata) ha introdotto un nuovo modo di intendere il palinsesto, più vicino a quelle strategie americane, contro cui l’azienda pubblica si era sempre battuta: a causa della loro cadenza (giornaliera), gli appuntamenti vengono “routinizzati”. Ma la caratteristica del flusso è proprio quella di essere “fluido”, per l’appunto, quindi di rendere omogeneo tutto ciò che è al suo interno; in questo modo, quei “paletti” posti fra un programma e l’altro iniziano a scomparire e le trasmissioni vanno a fondersi l’una con l’altra. In questo modo, il palinsesto tutto diventa paragonabile a una vera e propria terra di confine, in cui soggetti diversi per tradizione e cultura vivono armoniosamente. Anche questa caratteristica è data dal ricorso a generi che hanno nella mescolanza il loro tratto distintivo: sono i “programmi contenitore”, l’ “info- tainment” e il “talk show” che, accanto alla eterogeneità, presentano anche tratti “quotidiani” (attivando il processo di “quotidianizzazione”). La programmazione tende in generale a prolungarsi nel tempo fino a diventare ininterrotta, scorrendo come le acque di un fiume e insinuandosi negli angoli più nascosti della routine degli spettatori. È la fine delle trasmissioni che fanno clamore, relegate ora nel “prime time”, rimasto l’unico luogo del “media event” e terreno principale, su cui si combatte la guerra degli ascolti. La maggior parte dei prodotti mandati in onda è “discreta”, “silenziosa”, tanto discreta e silenziosa da

165 Per avere uno sguardo sinottico e sintetico della programmazione della tv negli anni ‘80, rimandiamo nuovamente al testo di F. MONTELEONE: 1992, 447/468. 166 Ci siamo già occupati delle strategie di palinsesto della neo-televisione in: F. MARINOZZI, La frammentazione testuale nella televisione italiana, in:www.medienanalyse-online.de. 61 potersi inserire nella vita di tutti i giorni: la tv deve diventare come la radio, un medium di flusso167, un medium che, proprio come la radio, non sia né più né meno che un “rumore di fondo”.168 Sembra strano affermarlo ma è proprio su questo sfondo che la tv tenta di costruire un rapporto con il proprio pubblico: scandendo il ritmo della programmazione sulla base del ritmo della vita, riesce a entrare nell’intimità dello spettatore, come una vecchia amica. È questa una “quotidianizzazione dei tempi” che si affianca a una più generale “quotidianizzazione dei contenuti”. Si tratta di un punto centrale, di un punto che può essere inteso in due modi: a. Molti più telespettatori partecipano attivamente alla costruzione del messaggio. b. Il messaggio ruota attorno a temi o contenuti “comuni”, o meglio, “quotidiani”; ma questo concetto (= “quotidianizzazione”) è suscettibile a sua volta di due ulteriori significati: - Il discorso si incentra su temi davvero quotidiani. - Si mostra il volto umano e quotidiano del personaggio famoso o del politico di turno.169 Dunque, gli elementi di novità che si affermano sempre di più come caratteristiche peculiari del mezzo, sono fondamentalmente due: - flusso ininterrotto di suoni e immagini - quotidianizzazione e routinizzazione del messaggio.170 È più chiara ora la ragione per cui si è sostenuto che, negli anni ’80, sia avvenuta una vera e propria metamorfosi al livello di ideazione e proposizione del prodotto. Ma se, come si è detto, il suddetto prodotto è fatto per essere fruito dal maggior numero di persone possibile, o meglio, se il maggior numero di persone possibile è il vero prodotto che l’emittente vende agli inserzionisti, diventa necessario costituire un organismo che possa monitorare in modo preciso, immediato e tempestivo la quantità degli ascolti. Dopo una serie di esperimenti di poco successo, nel 1984, viene istituto l’Auditel, un ente autonomo che ha il pregio di servirsi di un meccanismo modernissimo nella rilevazione dei dati: sul televisore di alcune famiglie campione viene posizionato un “meter”, ritrovato che comunica in tempo reale, mediante rete telefonica, tutti gli spostamenti effettuati da quel nucleo umano, attraverso il telecomando. I numeri diffusi da questo organismo costituiscono il “tribunale” che decreta la riuscita, la popolarità e anche la qualità di una dato programma. Le quantità di telespettatori che le emittenti commerciali “vendono” agli investitori, si basano principalmente sui dati diffusi dall’Auditel. Si vede chiaramente come vi sia al fondo una logica marcatamente industriale, marcatamente seriale del prodotto; è questa quella che si definiva all’inizio logica del gatto, cioè né più né meno che l’inseguimento accanito di una massa di numeri. È un tipo di strategia che è comprensibile da parte delle emittenti private (che hanno nella pubblicità l’unica fonte di sostegno); tuttavia, per effetto della concorrenza, questo “morbo dei grandi risultati” ha contagiato anche le emittenti di Stato, le quali, sintomaticamente, hanno iniziato a perdere di vista le finalità pedagogiche. Il grillo e il corvo restano un retaggio del passato. Per riassumere in breve quello che si è detto finora, le caratteristiche della tv negli anni ’80 e poi ’90, sono le seguenti: a. Un palinsesto inteso come flusso ininterrotto di immagini e suoni. b. Una “quotidianizzazione” dei contenuti e dei ritmi televisivi. c. Una fusione dei generi. d. Un’abbandono quasi totale delle logiche pedagogizzanti e informative in luogo delle strategie spettacolari. e. Il successo di pubblico come obiettivo principale e come criterio di giudizio del prodotto.

167 Quello di utilizzare la tv come rumore di sottofondo è una caratteristica introdotta proprio dai “programmi contenitore”, lanciati dalla tv pubblica. 168 In questa sede, ci sembra opportuno trattare velocemente questi argomenti. Per approfondimenti ulteriori rimandiamo sempre all’articolo sopra citato. 169 Nell’elaborazione di queste strategie, come abbiamo sottolineato nell’articolo già citato, giocherà un grosso ruolo anche la costruzione spaziale. 170 Si avrà comunque modo in seguito di riflettere meglio e in modo più approfondito su questi aspetti. 62 Sono queste le conseguenze estreme di un’industria come quella televisiva che, per la prima volta nella sua storia, fa i conti con un mercato concorrenziale, un mercato capitalistico “tout court”, dove la rincorsa al soddisfacimento dei bisogni del consumatore (quindi del maggior numero possibile di utenti) diventa la finalità principale. Per quanto riguarda la televisione non satellitare in chiaro, abbiamo oggi in Italia tre grandi soggetti: La Rai, con tre canali televisivi (+ altri 5 canali radiofonici); Mediaset con tre reti televisive (Canale 5, Italia 1 e Rete 4); La 7 (nata dalle ceneri di Telemontecarlo). A questi si aggiungono due network minori (Italia 7 e Odeon), più due tv musicali: l’ormai internazionale MTV e Rete A (una volta VIVA). Da qualche tempo, ha cominciato a trasmettere sul segnale terrestre anche un’altra emittente musicale, Video Italia Solo Musica Italiana, ma non copre ancora tutto il territorio nazionale. Tuttavia, chi detta le regole del gioco sono ancora soltanto la tv di Stato e Mediaset, cioè coloro che, fin dalla nascita delle stazioni commerciali, hanno sempre giocato “più duro degli altri”, centrando lo scontro non soltanto sulla programmazione in quanto tale, ma anche sulle strategie di costruzione dell’immagine, cioè sul marketing. In questo forse, Berlusconi ha avuto delle carte in più degli altri, poiché proveniva da un mondo che ha poco a che vedere con l’editoria. Probabilmente è questo che gli ha permesso da un lato di avere a disposizione subito una certa consistenza di capitali (ricordiamo che l’imprenditore si occupava precedentemente di edilizia), dall’altro di sperimentare, al livello del messaggio, qualcosa di completamente nuovo, che non fosse in qualche modo legato a quelle visioni del mondo dipendenti dalle logiche del grillo o del corvo.171 Inoltre, e questo va ricordato con forza, egli ha saputo fronteggiare una situazione quanto mai difficile, ovvero una situazione data dall’assenza totale di una legislazione ad hoc. Laddove esiste un vuoto normativo, è vero che è possibile agire liberamente e senza vincoli, ma è anche vero, nello stesso tempo, che non vi è alcuna tutela dell’impresa, la quale è lasciata assolutamente in balìa di tutti i contraccolpi del caso. Checché se ne dica, Berlusconi si è saputo muovere bene. È questo dunque quello che avviene negli anni’80 e poi ’90: il trionfo del cosiddetto riflusso, ovvero l’affermazione di una logica di mercato “tout cour”, che dipende in gran parte dalla diffusione di valori consumistici e individualisti; il fantasma contro cui la classe dirigente, per più di un ventennio, aveva lottato, si afferma nella sua più piena forza reale. Di quella vecchia tv degli anni ’50 e ’60, non resta più nulla.

171 Ecco quanto scrive Aldo grasso: «La possibilità di una liquidità finanziaria immediata e non legata alla televisione rappresentò, certamente, un fattore di decisiva importanza e in parte spiega come gruppi editoriali, quali Mondadori, Rizzoli o Rusconi, che dovevano investire ingenti finanziamenti nella nuova attività televisiva, furono costretti ad abbandonare la via dell’etere per cedere il passo all’intraprendente neoeditore. Indubbiamente l’ascesa di Berlusconi fu caratterizzata da un forte elemento innovativo che portò all’introduzione in Italia di un diverso modo di fare televisione, tale da diventare modello trainante perfino per la Rai. Il fatto di non provenire dal mondo dell’editoria (…) costrinse Berlusconi a tentare strategie di comunicazione completamente nuove che, anche se prive di esperienza a cui fare riferimento, erano almeno distanti da quelle derivate dalla stampa che i grandi gruppi editoriali avevano imposto alle loro televisioni (…) Innanzitutto la programmazione doveva essere regolata dagli indici di ascolto: la quantità di pubblico era il fattore fondamentale per attirare la pubblicità; in secondo luogo era importante dare un’immagine molto forte di rete attraverso la continua promozione del marchio e dei programmi di successo; si doveva inoltre fornire un panorama internazionale, soprattutto americano, e rispondere alle esigenze spettacolari ed evasive che la Rai, ancora cosciente della sua funzione educativa, non soddisfaceva fino in fondo», A. GRASSO: 2000, 179. 63 6. Il paese dei balocchi e la fine del “grillo”: dalla paleo- alla neo-televisione172

Gli anni ’70 e poi ’80, come si è visto, sono attraversati da un vento di rinnovamento che riguarda la società tutta e che, di conseguenza, coinvolge anche i mezzi di comunicazione di massa in generale e la tv in particolare. Nella fattispecie, si assiste all’abbandono quasi totale delle logiche pedagogizzanti in luogo dell’adozione di strategie spettacolari, finalizzate alla conquista di fette di pubblico, il più estese possibile. È nell’arco di questo ventennio che si consuma il passaggio dalla paleo- alla neo-televisione, due categorie di paternità echiana, che racchiudono al proprio interno visioni del mezzo e universi di valori completamente opposti. In un articolo173, ci siamo già occupati in modo abbastanza analitico di questo aspetto e vorremmo riportare in questa sede soltanto i guadagni ivi ottenuti174; tale breve digressione ci aiuterà a comprendere meglio quali sono le caratteristiche della tv di oggi, cioè della neo-televisione, alla luce della storia del medium. In quella sede (cioè nel nostro articolo), preliminarmente al discorso sui programmi in quanto tali, avevamo utilizzato il concetto di “testo”, affinché potessimo meglio chiarire il valore “semiotico” di una trasmissione televisiva in particolare e del medium in generale.175 Che cos’è un testo? Nient’altro che un sistema ordinato e organicamente strutturato di segni fortemente coesi (anche se talvolta [come nel caso del testo televisivo] di natura diversa) fra loro. Ma “nel” testo e nella fruizione “del” testo giocano un ruolo fondamentale due categorie, quelle di tempo e di spazio; si tratta di macro-paradigmi complessi, che cambiano di significato in relazione alla prospettiva dalla quale si guarda il testo stesso. In questo senso, abbiamo cercato di individuare tutte le variabili possibili, rilevando tre accezioni per le categorie temporali, e quattro per le categorie spaziali. Procediamo con ordine e partiamo dal primo dei due termini in gioco. Esiste un: a. Tempo dell’enunciato, cioè il tempo del racconto rappresentato, il tempo a cui la vicenda rimanda. b. Tempo dell’enunciazione, cioè il tempo in cui la storia viene rappresentata, il tempo dell’atto di enunciazione della storia, per l’appunto. c. Tempo della lettura, ovvero il tempo della fruizione della vicenda rappresentata. È chiaro che, nel caso del cinema e della tv, b. e c. coincidono: l’attualizzazione della storia è contemporanea alla lettura. Veniamo ora al secondo punto, ovvero allo spazio. Abbiamo riconosciuto: a. Uno spazio del testo, vale a dire il singolo programma. b. Uno spazio dei testi, cioè lo spazio in cui il singolo programma è inserito (:il palinsesto).

172 I concetti di paleo- e neo-televisione, ormai universalmente accettati come paradigmi esplicativi della differenza fra la tv degli ultimi anni e quella delle origini, sono di paternità echiana, coniati in: U. ECO, Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano, 1983. 173 F. MARINOZZI, Op. Cit.. 174 Per un approfondimento ulteriore delle ragioni che ci hanno condotto a condividere e ad abbracciare determinate posizioni, rimandiamo alla lettura del brano in questione. Ci sembra però opportuno riportare qui di seguito alcuni testi fondamentali di cui ci siamo serviti: - G. BETTETINI, L’audiovisivo, Bompiani, Milano, 2001. - G. BETTETINI, Tempo del senso, Bompiani, Milano, 2000. - G. P. CAPRETTINI, Del Maurizio Costanzo Show e della religione rumorosa, Aleph, Torino-Enna, 1992. - G. P. CAPRETTINI, La scatola parlante, Editori Riuniti, Roma, 2000. - F. CASETTI, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano, 1986. - E. MENDUNI, I linguaggi della radio e della televisione, Laterza, Roma-Bari, 2002. - M. P. POZZATO, Dal “gentile pubblico” all’Auditel. Quarant’anni di rappresentazione televisiva dello spettatore, Vqpt – Nuova Eri Ediz. Rai, Roma-Torino, 1992. - M. WOLF, Tra informazione ed evasione i programmi televisivi di intrattenimento, Eri Ediz. RAI, Torino, 1982. 175 Si tratta di un concetto sul quale si tornerà successivamente in modo più approfondito. 64 c. Uno spazio nel testo, ovvero la costruzione spaziale e la rappresentazione di tale costruzione (studio, arredamento, ma anche inquadrature…). d. Uno spazio psicologico-astratto, che è ciò che separa lo spazio domestico dall’istituzione televisiva. A causa delle strategie introdotte dalla neo-televisione, attraverso i nuovi programmi, questi quattro strumenti macro-paradigmatici, subiscono una vera e propria metamorfosi. Ma quali sono, nello specifico, le trasmissioni portatrici di maggiori novità? Come abbiamo già fatto nel lavoro citato, potremmo cominciare l’analisi dalla fiction, o meglio dal modo in cui le reti di Berlusconi fanno uso della stessa, introducendo una “serialità” di tipo industriale nelle logiche di programmazione. Il serial in questione è Dallas, mandato in onda qualche anno prima (: nel 1981) proprio dalla Rai, ma rivelatosi un fiasco. La ragione del “flop” risiede tutta nella strategia che le emittenti pubbliche decidono di utilizzare nella sua messa in onda (peccando di obsolescenza). Che cosa fa l’azienda di viale Mazzini che non va? In che cosa sbaglia? La soap opera di cui stiamo parlando è prodotta in America dalla televisione americana, la quale è caratterizzata da una programmazione seriale e di “flusso”. Il prodotto in questione è pertanto concepito alla luce di queste caratteristiche, di caratteristiche cioè che incentivano il telespettatore a seguire la storia nel suo intero, costringendolo ad accendere il suo apparecchio tutti i giorni alla stessa ora. Ma come si può realizzare un simile obiettivo? Semplicemente lasciando che la storia resti aperta, facendo sì che ogni puntata non sia semanticamente autonoma, ma rilanci la conclusione all’appuntamento successivo. Dunque, come si vede, non è il singolo episodio a “fare testo”, bensì tutta la serie nel suo complesso. È su questo piano che si pone l’errore commesso dalla Rai, la quale decide di mandare in onda la soap non secondo la cronologia effettiva dello svolgersi degli eventi, bensì secondo una scelta casuale delle puntate, come se esse fossero delle unità semantiche autonome, come se fossero cioè dei singoli film. Ne consegue una disgregazione totale di quell’omogeneità che caratterizza l’opera, e questo (come è ovvio che sia) genera un disinteresse da parte dello spettatore. Al contrario, Canale 5 rispetta fedelmente la cronologia degli eventi: quello di Dallas è infatti un appuntamento settimanale, nel quale lo spettatore ha la possibilità di seguire lo svolgersi delle vicende, secondo l’ordine che la casa di produzione aveva inteso dargli. Inoltre, l’emittente berlusconiana enfatizza molto (attraverso una vasta campagna promozionale, fatta di promo disseminati in tutto il palinsesto) la contemporaneità fra la programmazione italiana e quella americana, sottolineando così la novità assoluta dell’evento. Questo fatto (la messa in onda di Dallas da parte di Canale 5) è, da un punto di vista storico, di fondamentale importanza, perché introduce elementi di assoluta novità. Ma quali sono in concreto questi elementi? In primo luogo (come già si è visto), la “logica orizzontale”, introdotta mediante la programmazione di un prodotto concepito alla luce di tale logica (vale a dire un prodotto che si inserisce in una programmazione in cui gli appuntamenti hanno una cadenza quotidiana): comprando un prodotto di tipo “orizzontale”, per l’appunto, è necessario inscriverlo in una strategia dello stesso genere, pena la perdita della sua unità semantica. In secondo luogo, la “serialità”, una caratteristica dell’industria “tout cour”, ma che, soltanto ora, dopo anni di grillo e di corvo, si insinua definitivamente nel mondo della televisione: Dallas è come un puzzle costituito di tanti tasselli, ciascuno dei quali ha senso in rapporto agli altri, cioè solo in rapporto all’insieme. Allo stesso modo, tutti i programmi di questo tipo (= di tipo seriale), sono costituiti da una serie di appuntamenti che “significano”, non autonomamente, ma in relazione a un “tutto” di cui sono parte. In terzo luogo, le strategie promozionali, utilizzate nella reclamizzazione che Canale 5 fa della soap in questione; esse rientrano in una logica di marketing che la televisione pubblica non aveva mai adottato prima; il marketing, per l’appunto, è un qualcosa che può essere implicato soltanto da un “ideologia” (se così la si può definire) di tipo commerciale, anzi marcatamente commerciale,

65 marcatamente liberista, un’ideologia insomma contro la quale la vecchia classe dirigente si era sempre battuta: è su questo piano che si consuma la vittoria definitiva del gatto. In ultimo, con Dallas, la tv privata inizia ad attaccare la Rai direttamente e, per di più, sul terreno in cui è più forte: il “prime time”. Inizialmente, le reti di Berlusconi, Rizzoli e Rusconi concentravano i propri programmi di successo nei momenti della giornata in cui le emittenti di Stato erano più deboli, oppure in cui non trasmettevano affatto (è la cosiddetta logica verticale). Con la proposizione di un “appuntamento forte” in prima serata invece, Canale 5 si confronta con le reti pubbliche nel loro punto di forza. Il successo ottenuto è enorme, tant’è che la dirigenza dell’emittente lombarda decide di proporre un secondo episodio settimanale. La serialità dunque; è questo il primo guadagno in senso forte. Passiamo ora a un altro dei punti caratteristici della “neo-televisione”, ovvero la “quotidianizzazione”. Si tratta di un aspetto che è senz’altro legato alla serialità del telefilm, nella misura in cui il programma seriale tende a inserirsi nel ritmo della vita quotidiana; tuttavia, tale aspetto, prima ancora che nella soap opera, lo si ritrova in altri due generi, apparsi in annate precedenti a Dallas e lanciati incredibilmente proprio dal servizio pubblico; stiamo parlando del talk show e del programma contenitore. Il primo talk show della storia della tv italiana va in onda il 18 ottobre 1976, in seconda serata, ed è condotto da Maurizio Costanzo, cioè dall’uomo che sarebbe diventato, qualche anno più tardi, il talk show man per antonomasia. Si tratta di Bontà loro, una trasmissione di grandissimo successo, sebbene sia realizzata con poche risorse. Tutto viene organizzato in uno studio, allestito con una scenografia abbastanza scarna: né più né meno che un salotto di un normale appartamento, con le classiche poltrone (sulle quali vengono fatti accomodare gli ospiti) e uno sgabello riservato al conduttore (spostato a seconda del centro fisico della conversazione). Dunque, come si vede, una “quotidianizzazione” si ha già nell’organizzazione dello studio. Ma quale fine, quale obiettivo ha la riproduzione di un ambiente “domestico”? L’instaurazione di un clima di intimità, di un clima di confidenzialità, che permetterà all’anchor man di “strappare” una confessione improbabile al “V.I.P.”, alla “very important person” di turno. I partecipanti sono dunque persone di prestigio, persone che ricoprono un ruolo di primo piano nel mondo della politica o dello spettacolo; tuttavia, a esse vengono affiancati molto spesso soggetti più comuni (i futuri “talkin’ heads”), che il fiuto, il sesto senso di Costanzo (vero genio della comunicazione di massa) percepisce adeguati alla telecamera. La rivoluzione vera e propria avviene però sul piano delle tematiche: il divo di turno o il politico non sono chiamati, in linea di massima, a discutere di problemi che attengono alle proprie competenze, bensì alla vita privata, alle inclinazioni, agli hobbies… A parlare delle cose importanti, quelle che riguardano l’economia domestica, le inadempienze della burocrazia nazionale, ci penseranno infatti i “talkin’ heads”, persone comuni, la cui notorietà deriva solo ed esclusivamente dalla partecipazione a questo genere di trasmissioni. Il vip deve essere restituito al telespettatore nel suo aspetto più quotidiano, dunque più umano; la persona comune, o meglio il fatto che essa prenda parte al dibattito, deve invece suggerire al pubblico a casa l’idea, l’impressione che attraversare quella soglia, quel muro che divide mittente e destinatario non sia poi così difficile, che lo studio sia qualcosa a portata di mano. Ma, nel talk show, vi è poi un altro attore importante: il pubblico in sala. Esso è un soggetto che può partecipare attivamente alla trasmissione nei seguenti modi: - ponendo delle domande; - sottolineando con degli applausi il proprio accordo; - intervenendo in altri modi predisposti dal conduttore. In tutti i casi, egli rappresenta, all’interno del “testo-programma”, proprio il fruitore, colui cioè che, a casa, in salotto, è seduto davanti all’apparecchio. Infine, c’è l’anchor man, che è in fondo l’attante principale. È lui infatti il “demiurgo semantico”, vale a dire colui che crea, che attribuisce, che dona senso al messaggio: il conduttore cuce i discorsi fra loro, disapprova o sottoscrive mediante le espressioni del volto, interpella il pubblico a casa

66 attraverso gli sguardi verso la telecamera, benedice o maledice mediante la mimica… in breve ha sempre l’ultima parola su tutto e ciò vale in maniera particolare proprio per Maurizio Costanzo176. I punti di novità del talk show sono dunque due: - Una quotidianizzazione dello studio, funzionale a una quotidianizzazione delle tematiche. - Una prima rottura del muro di separazione fra mittente e destinatario o, detto in altri termini, una dissimulazione dell’esistenza di un canale comunicativo. Passiamo ora all’altro dei due generi in questione: il programma contenitore. Il primo esempio in questo senso è rappresentato da Domenica In, trasmissione che nasce alla fine degli anni ’70 e che abbraccia temporalmente tutta la domenica pomeriggio (ed esiste tuttora). Proprio a causa della sua lunghezza, è necessario che essa non sia indirizzata soltanto a una nicchia, bensì a tutto il pubblico; in questo senso, cioè per soddisfare gusti differenti, presenta diversi generi al proprio interno: uno spazio riservato alla musica, uno riservato all’informazione o allo sport, uno al talk show, uno al telefilm… e procede per quattro, cinque o sei ore in questo modo, senza interruzione, dalle 14 alle 20: si tratta di un vero e proprio flusso di immagini e suoni, che accompagna, come un sottofondo, come una colonna sonora, la domenica pomeriggio della famiglia italiana media (composta, per l’appunto, da persone aventi esigenze e inclinazioni differenti). Accanto al “flusso”, l’altra novità introdotta da questa tipologia di programma è la “rottura dei generi”. Che cos’è in definitiva Domenica In? Nient’altro che un programma che contiene in se stesso tutto ciò che il panorama televisivo può offrire. La conseguenza estrema di una programmazione intesa come “fluire” è la cancellazione definitiva delle frontiere fra un programma e l’altro. Ma chi è che garantisce che un simile formato sia davvero un “flusso”, ovvero un “testo composito” dove le varie unità narrative sono raggruppate in un “unicum” omogeneo (invece che essere giustapposte a mò di accozzaglia amorfa)? Né più né meno che il conduttore. A questo punto però sorge un altro interrogativo: che cosa fa concretamente tale conduttore per costruire tale omogeneità? Egli cuce, mette assieme, attraverso il linguaggio e attraverso le sue abilità narrative, i vari pezzi del puzzle. Si vede come, nel regno dello scorrere delle immagini, ciò che attribuisce unità al tutto è ancora la “parola”. In conclusione, le novità introdotte dal programma contenitore sono fondamentalmente due: - Flusso (interno). - Rottura dei generi. Le caratteristiche fin qui descritte di serial, talk show e contenitore si ritrovano tutte assieme in un programma di , cronologicamente collocabile a metà degli anni ’80: è Pronto Raffaella, condotto dalla show girl (anche se, data l’età già allora avanzata, sarebbe il caso definirla “show woman”) Raffaella Carrà, per la regia di Japino. Per quale ragione si sostiene che tale trasmissione riassuma in se stessa tutte le caratteristiche dei generi appena analizzati? Fondamentalmente, per quattro ordini di motivi. Primo perché Pronto Raffaella è principalmente un programma contenitore, che, in quanto tale, riprende tutte le caratteristiche del genere. In secondo luogo, perché è una striscia quotidiana, mandata in onda tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, fino alle ore 14; si serve dunque della serialità tipica del telefilm. In terzo luogo, perché concede ampio spazio alla discussione con gli ospiti, che avviene nel solito salotto; in questo senso, sconfina anche nel territorio del talk show. Da ultimo, perché lascia ampio spazio alla partecipazione del pubblico, attraverso il quiz telefonico. Ecco dunque che si ritrovano assieme tutte le innovazioni tipiche della neo-tv: - Flusso. - Quotidianità. - Rottura dei generi.

176 Si veda a questo proposito: G. P. CAPRETTINI, Del Maurizio Costanzo Show e della religione rumorosa, Aleph, Torino-Enna, 1992. 67 - Rottura del muro di separazione tra mittente e destinatario/dissimulazione dell’esistenza di un canale comunicativo. - Serialità del prodotto. Ma vediamo che cosa succede alle categorie spazio-temporali con le quali avevamo descritto il prodotto audiovisivo. Da un punto di vista dei tempi, c’è sempre una maggiore identificazione tra “tempo del racconto” (che tende a riprodurre la temporalità della vita stessa), “tempo dell’enunciazione” e “tempo della fruizione” (che coincide con la quotidianità): racconto, enunciazione e fruizione si appiattiscono sulla vita. Anche da un punto di vista degli spazi, si riscontra una crescente simbiosi e sintesi fra le quattro categorie; per effetto del flusso, lo spazio del testo tende a fondersi con quello dei testi, così come lo spazio nel testo tende a essere riprodotto sulla base di quello domestico: lo spazio psicologico astratto esistente fra mittente e destinatario viene dissimulato. Dunque, l’aspetto più macroscopico prodotto dalla neo-televisione è senza dubbio la “quotidianizzazione”, che ha come risultante finale la rottura della distanza fra la televisione (intesa come istituzione) e lo spettatore. La tv non è più una finestra (per lo meno non solo) sul mondo, bensì uno specchio della realtà.177 Non si tratta però, come nel caso dell’esperienza speculare, di una riproduzione fedele, di una riproposizione per intero dei particolari dell’oggetto, ma di una rappresentazione che, in quanto tale, descrive soltanto alcuni aspetti dell’archetipo.178 E quali sono allora gli elementi del quotidiano (ovvero dell’archetipo) che la tv intende rappresentare? Quelli più individuali, più intimi, più soggettivi, che coincidono con la sfera affettiva e passionale: la neo-televisione fa leva sull’empatia con l’ascoltatore, per creare un rapporto di confidenzialità179. Ma riproducendo la realtà, a partire da una certa prospettiva, da un certo modo di osservare la stessa, ne produce, in qualche modo, un’interpretazione, che, per ciò stesso, ha carattere normativo. Ecco che ricompare dal nulla, quasi come un “deus ex machina”, la funzione pedagogica. Che cosa fa la tv rappresentando la società e il mondo? Molto semplicemente, cambia la società e cambia il

177 Si tratta di un’interessante interpretazione che riprendiamo da Renato Stella, che afferma quanto segue: «(…) - La televisione diventa un dispositivo etnografico: “la televisione si trova a replicare costantemente l’universo quotidiano: essa non solo funge da finestra aperta sulla realtà, attraverso cui cogliere i profili delle cose, ma anche da specchio delle forme di socialità (e di sociabilità) diffuse nel mondo della vita. Detto altrimenti essa riproduce non solo il nostro visibile ma anche il vivibile (F. CASETTI, Tra me e te. Strategie di coinvolgimento dello spettatore nei programmi della neotelevisione, Eri Ediz. Rai, Torino, 1988, 24) (…) - Il dispositivo etnografico funziona attraverso un circuito normativo: “La televisione mutua dalla realtà quotidiana dei comportamenti che elegge a fonte della propria attività comunicativa; contemporaneamente però essa restituisce alla vita quotidiana un’immagine di questi comportamenti che diventa norma per l’attività comunicativa ordinaria (…) Perciò il mondo di vita, che pur funziona da referente del mondo televisivo, nel momento in cui viene rappresentato diventa principio di se stesso” (F. CASETTI: 1988, 25) (…) la rappresentazione mediale del mondo vero (…) si sposta ai mondi possibili, di pura invenzione, i quali allargano l’esistente alla dimensione del virtuale. - Attraverso l’uno e l’altro la neo-tv riconquista un ruolo pedagogico: “ la televisione non si propone soltanto come un enorme dispositivo etnografico, ma anche pedagogico; è davanti ad essa che impariamo la grammatica del vivere” (F. CASETTI: 1988, 26) (…) La neotelevisione non mostra la realtà del “mondo vicino e domestico” (…) ma lo interpreta, nel senso che lo rimette in scena con regole di verosimiglianza proprie (…) essa illustra e dice quali sono e quali dovrebbero essere i canoni della quotidianità cui lo spettatore si socializza secondo standard etici e negoziali e predefiniti», R. STELLA, Box Populi, Donzelli, Roma, 1999, 21, 22. 178 Anche su questo punto rimandiamo a un affermazione di Stella: «(…) la realtà sociale in cui vive lo spettatore e la rappresentazione televisiva tendono a mischiare e sovrapporre i loro linguaggi definendo un continuum fondato su un contratto comunicativo di verosimiglianza», Ib., 46. 179 È quella che Stella definisce “femminilizzazione dei palinsesti”: «[Si parla di femminilizzazione dei palinsesti] sia dal punto di vista della maggiore attenzione prestata agli aspetti emozionali degli eventi, sia per il massiccio impiego di saperi che si rifanno a competenze quotidiane; tanto per l’accento posto ai problemi connessi al corso di vita, quanto, infine, per il più stretto legame venuto a crearsi tra bisogni proiettivi ed empatici delle audience e struttura dei programmi. “Femminilizzazione” significa non solo un più largo utilizzo del mezzo televisivo da parte delle donne (che hanno più tempo da dedicargli), ma anche una riscrittura dei confini che separano la dimensione privata dello spazio domestico, dalla dimensione pubblica neotelevisiva», Ib., 60, 61. 68 mondo, attraverso il mondo stesso. In questo senso, si può affermare che la televisione conservi ancora la sua vecchia funzione “socializzante”. La tv in sostanza fornisce una rappresentazione della realtà, che è presentata come verosimile, tanto verosimile da creare l’illusione che sia vera (esattamente come avviene nell’esperienza speculare180), mentre in realtà essa non è altro che una “presentazione parziale in prospettiva”. Questa verosimiglianza, questa pseudo-esperienza speculare, utilizzata dal mezzo, non ha come obiettivo quello di fornire una visione distorta del mondo, cioè di mentire, bensì di creare una “nuova verità” accanto alla verità del mondo. La cosa che si deve sottolineare però è che, se da un lato ricompaiono delle finalità pedagogiche, dall’altro esse sono state pure ridefinite, mediante un progetto “negoziale”, fondato sulla “mediazione dei contenuti”. È questo ciò che emerge dall’analisi di un genere come quello del talk show, senz’altro uno degli strumenti privilegiati per una riproduzione pseudo-speculare della realtà. Nel “talk” infatti, i comportamenti e i valori proposti emergono dalla discussione, dal dibattito tra gli ospiti (fra i quali ve ne sono sempre alcuni che fanno le veci del pubblico): la realtà è portata sul palcoscenico e giudicata assieme; il giudizio che ne emerge sarà alla base di una nuova schiera di valori o di un possibile atteggiamento da adottare.181 Dunque, attraverso la quotidianità (espediente per avvicinarsi alle esigenze del pubblico), la tv riacquista un vecchio ruolo, una vecchia funzione; la cattedra, “scaraventata dalla finestra”, “rientra dalla porta principale”. Non si può parlare tuttavia di una strategia pedagogizzante vera e propria, in quanto l’obiettivo primario della tv di oggi non è assolutamente educare, fornire insegnamenti, bensì produrre pubblico (come del resto si è già visto). Data questa premessa, i contenuti di tipo moralistico- comportamentale di cui si è detto non sono altro che strumenti per ottenere un risultato completamente “altro”, di natura completamente diversa; in altri termini, la tv propone dei modelli solo in quanto e nella misura in cui ciò crea audience. Detto in modo un po’ più puntuale, non si sta qui dicendo che faccia audience proporre un determinato comportamento, bensì il fatto che tale comportamento sia la risultante di un’attività di negoziazione e che sia proprio una siffatta attività di negoziazione a produrre audience. Dunque, il segreto del successo è il dibattito e in particolare il dibattito con i vicari dell’ascoltatore (cioè gli spettatori in sala). Risulta più chiaro ora come il centro di gravità della neo-televisione sia evidentemente, sempre e assolutamente il pubblico. Prima di abbandonare definitivamente questo argomento, vorremmo aprire brevemente una discussione che riguarda i concetti stessi di paleo- e neo-televisione. Fausto Colombo, personalità verso la quale siamo debitori di molte idee, relativamente a questi due concetti fa le seguenti affermazioni:

«(…) da quanto abbiamo messo in rilievo sin qui, dovrebbe risultare chiaro che i limiti di questa opposizione [paleo – vs – neo] sono di doppia natura: da un lato essa non tiene conto dell’evoluzione dell’intero sistema dei media nazionale, dall’altro offre una visione assai parziale e semplificatoria delle due fasi anche relativamente al solo piccolo schermo» (F. COLOMBO: 1998, 265).

180 Nell’esperienza speculare, l’oggetto è riprodotto sulla superficie dello specchio in tutta la sua totalità. Al contrario, in tv, i particolari da rappresentare sono selezionati e ridotti a una schiera parziale. Tale selezione e rappresentazione è realizzata però secondo il criterio della verosimiglianza, che tende a dissimulare il processo di rappresentazione. In questo senso, la tv tende a porsi come “specchio della realtà”, vale a dire che offre all’utente un’immagine di se stessa come quella di uno strumento di visione “vera” del reale. 181 «(…) la televisione moderna trasmette progressivamente meno conoscenze intese, in senso cognitivo, quale offerta di informazioni rispetto a fatti e circostanze ignorate da chi guarda. Essa mette a disposizione invece la rappresentazione di esperienze che sono condivise, più che apprese, scambiate e rielaborate, piuttosto che acquisite, grazie a un’accentuazione delle modalità di “dialogo” consentite dal mezzo. Con ciò diviene molto stretto il rapporto tra il ruolo della televisione come contenitore di storie, raccontate in un talk show o in un film ad esempio, e il ruolo della televisione quale attore che quotidianamente interagisce con la propria audience in molte forme diverse», Ib., 47. 69 Certamente i due concetti sono “semplificatori” e non valgono se presi in assoluto (nel senso che è inaccettabile affermare che ad un certo momento, quasi di punto in bianco, sia avvenuto come uno “strappo”, una “frattura” rispetto a ciò che c’era prima). Se però li si intendono come definizioni che indicano un processo di trasformazione lungo un intero decennio (gli anni ’80), che soppianta un vecchio modo di intendere la comunicazione televisiva, un intero universo di valori, allora ci sembra possano valere. È vero, come abbiamo riconosciuto all’inizio, che tutte le strategie enumerate (corvo, gatto, topo, grillo) convivono assieme, ma è pur vero del resto che, a seconda della fase storica, una prevale su tutte le altre. È quello che è avvenuto nel caso della neo-televisione, la quale, seppur nell’arco di un decennio, ha introdotto una schiera di novità che hanno occupato il posto della vecchia logica corvo/grillesca. Ma se da un lato non si può affermare che vi sia stato un cambiamento istantaneo e radicale, un varco di confine repentino, dall’altro bisogna pur riconoscere che, in un dato momento della storia, determinati programmi hanno introdotto degli elementi di assoluta originalità, azionando un processo che ha cambiato radicalmente il modo di comunicare. È evidente il fatto che tra la tv degli anni ’60 e quella degli anni ’80 c’è un abisso ed è perciò altrettanto evidente che le due categorie descrivono molto bene tale differenza. Se le cose vengono lette in questi termini, se si intende cioè il passaggio dalla paleo- alla neo- televisione come non repentino, ma fatto di diverse variabili in gioco, ci sembra che i due paradigmi possano rappresentare un’interpretazione davvero interessante. Ecco dunque quello che è avvenuto negli anni ’80 e ’90: la logica spettacolar-commerciale vince su quella educativa; dopo più di un secolo dalla pubblicazione de Le avventure di Pinocchio, la società spettacolare può prendersi una rivincita: il corvo è finito arrosto, mentre il grillo resta imprigionato nelle pareti di una classe scolastica. Comincia l’epoca del paese dei balocchi.

7. L’identità attraverso il flusso: i palinsesti di paleo- e neo-televisione a confronto

Arriviamo così al punto probabilmente principale della nostra ricerca, quello in cui le strategie di impaginazione dei programmi di paleo- e neo-televisione vengono messi a confronto. Il palinsesto rappresenta infatti il luogo fisico in cui le diverse logiche si concentrano, essendo esso una sorta di “interfaccia fra produzione e consumo”, il territorio in cui, concretamente, l’emittente offre il suo prodotto al pubblico. È qui, su questa “griglia” (se così la si può definire), che viene costruita l’identità di una rete, la quale, inevitabilmente, emerge dalla totalità delle parti che compongono la programmazione. Come fa notare Nora Rizza182, ciò che deve essere trasmesso, durante l’arco di tutto un anno (quindi di che tipo, quali e quanti film, quali e quante soap, quali e quanti show…), viene deciso in sede di pianificazione dell’offerta, cioè sono coloro che si occupano della scrittura del palinsesto a decidere questioni centrali del tipo: produzione, acquisto e messa in onda finale delle trasmissioni. In linea di massima, l’anno solare viene diviso in tre macro-stagioni: autunno/inverno, primavera ed estate. La massima attenzione da parte dei programmatori è indirizzata però verso il periodo invernale, quando, per ragioni climatico-fisiologiche, lo spettatore è portato a trascorrere più tempo in casa, davanti alla televisione. È in questa fase che gli appuntamenti di punta, i media event, i formati più popolari vengono messi in onda, attingendo a un magazzino, i cui prodotti sono anch’essi stabiliti in sede di pianificazione dell’offerta. Una volta decisi con criteri di massima i generi e i programmi da trasmettere, le griglie vengono perfezionate di continuo, (quasi) fino al momento in cui diventano operative. La stagione a cui, in assoluto, viene riservata minore (o quasi nulla) attenzione è l’estate, quando l’audience complessiva cala; è il periodo in cui i responsabili “rispolverano” i prodotti d’archivio,

182 Per un’analisi completa e approfondita delle strategie e della storia del palinsesto in Italia si veda: N. RIZZA, Costruire palinsesti, VQPT, Eri Ediz. Rai, Torino, 1989. 70 cioè (in genere) film e fiction del passato. In questo senso, come nota la Rizza, il periodo caldo è importante anche da un punto di vista finanziario, in quanto permette di recuperare le perdite accumulate in inverno e in primavera. La ragione per cui, nel corso degli anni, il palinsesto ha assunto una sempre maggiore importanza, dipende dal fatto che, in un certo momento della storia del mezzo, gli operatori hanno compreso che esso poteva diventare lo strumento privilegiato, attraverso il quale costruire un’identità di rete e un rapporto solido fra pubblico ed emittente. Così, esso è diventato in breve una sorta di “Treffpunkt” fra il produttore e il consumatore. In forza della centralità assunta negli ultimi anni, abbiamo ritenuto doveroso dedicare alcune pagine all’analisi di questo aspetto. Preliminarmente, è necessario però chiarire le ragioni di alcune delle nostre scelte. Anzitutto, siccome la tv non sviluppa inizialmente alcuna strategia di palinsesto, cominceremo il nostro studio a partire dal 1963 (anno di nascita della nascita della seconda rete), quando vengono sperimentate le prime proto-forme di impaginazione. In secondo luogo, porremo la nostra attenzione sulla programmazione del 1980, anno in cui l’emittenza privata è diventato un fenomeno consolidato e la terza rete Rai (nata alla fine del 1979) trasmette ormai regolarmente. Ci sposteremo poi al 1985, quando la concorrenza si fa più agguerrita e quando, naturalmente, la sfida si trasforma in un faccia a faccia. Successivamente, vedremo come cambiano le cose dieci anni più tardi, nel 1995, quando si consuma il passaggio dalla paleo- alla neo-televisione. Infine si vedrà che cosa succede oggi. In tutti questi casi, si è deciso di analizzare un palinsesto invernale, che, come si è visto, è quello su cui si concentrano gli sforzi maggiori dei programmatori. Ma prima di partire definitivamente con l’analisi, ci sembra doveroso chiarire anche le categorie attraverso le quali si è deciso di etichettare le trasmissioni. Si è detto, che una delle tante caratteristiche della neo-tv è la continua fusione fra formati, come conseguenza estrema di quel flusso incessante di suoni e immagini, prodotto proprio dai palinsesti. Tale fusione è all’origine di una grande quantità di “sottogeneri”, all’origine di nuove forme di organizzazione strutturale del linguaggio audiovisivo: culture-tainment, docu-tainment, soap opera, serial, film per la tv… Per questo, abbiamo deciso di adottare dei paradigmi interpretativi di tipo “macro”, che inglobino al proprio interno le eventuali “micro-differenze”. Abbiamo così enumerato ben 15 categorie: - Informazione: si sono inclusi sotto questa dicitura soltanto i telegiornali, le informazioni metereologiche e i notiziari sulla vita parlamentare. Gli approfondimenti, le discussioni, le analisi, sono stati invece inseriti nell’insieme rotocalco oppure info-tainment. - Rotocalco o info-tainment: come si è visto, si tratta di quei programmi che intendono approfondire i fatti di maggiore rilevanza. Resta però il problema di distinguere i due formati. La questione è stata risolta in questi termini: fino agli anni ’70, le trasmissioni di analisi avevano una funzione meramente ed esclusivamente informativa, pertanto le si è etichettate con il termine “rotocalco”. A partire dagli anni ’80, tale funzione ha iniziato a mescolarsi con quelle istanze spettacolari e sensazionalistiche, tipiche dei programmi di intrattenimento; per questa ragione, essi (tali programmi) sono stati indicati con ambo le nomenclature (“rotocalco/info- tainment”). Negli anni ’90 invece l’aspetto “entertainment” inizia a prendere piede in modo più deciso, producendo un effetto “info-tainment” vero e proprio; per questa ragione, gli appuntamenti di riflessione, di approfondimento, ma anche più propriamente di studio di questioni non strettamente di cronaca, sono stati inglobati nella suddetta categoria.

71 - Sceneggiato: si tratta dell’antenato della moderna fiction, di cui si è ampiamente parlato nei paragrafi precedenti. Il genere, a partire dalla fine degli anni ’70, inizierà a venire soppiantato dalla fiction. - Fiction: macro-categoria all’interno della quale sono stati inclusi tutti i racconti seriali: soap operas, telenovelas, serials, film per la tv a più puntate, sit-com… - Sport: non solo gli avvenimenti sportivi, ma anche i programmi di informazione, di sintesi e di approfondimento. - Musica: hit-parade, trasmissioni fatte di video-clip, settimanali di informazione musicale… - Ragazzi: Cartoni animati, fiction, programmi di intrattenimento destinati ai più piccoli. - Entertainment: Show, cabaret, varietà… - Tv Verità: è uno degli aspetti più interessanti della neo-tv; rientrano in questa categoria tutte quelle trasmissioni che intendono offrire un aiuto concreto all’ascoltatore, tentando di risolvere i suoi problemi personali (cercando per esempio delle persone scomparse), i problemi legati alle disfunzioni pubbliche o burocratiche… - Contenitore: è, come si è visto, l’emblema della neo-televisione, in quanto “summa” di tutti i generi. - Documentario: credo che tale categoria non abbia bisogno di presentazione. - Cultura: con questa dicitura si sono etichettate tutte le trasmissioni centrate sull’approfondimento delle tematiche legate al mondo della cultura scolastico- accademica. - Educazione-educational: programmi aventi finalità pedagogizzanti, istituite o per la diffusione di massa della scolarizzazione (anni ‘50/’60), o per la diffusione di contenuti di tipo scolastico. - Religione: rientrano in questa categoria non solo le messe, ma anche i rotocalchi e i programmi di informazione religiosa. - Prosa/Teatro. Questi sono i paradigmi interpretativi principali dei quali ci siamo serviti; verranno talvolta utilizzate altre nomenclature, tuttavia il lettore non avrà problemi a comprendere il genere di riferimento. Procediamo con ordine e partiamo dal 1963.183 Già a una prima occhiata, risulta evidente tutto quello che si diceva nel paragrafo relativo alla televisione degli anni ’50 e ’60; il concetto di flusso non esiste, così come non esiste un’idea di serialità. Gli unici appuntamenti ricorrenti tutti i giorni, alla stessa ora, sono i notiziari e Carosello. Il mattino è riservato ai programmi educativi, che terminano alle ore 14, per riprendere alle 16,45; sono queste le trasmissioni attraverso le quali la logica del grillo meglio si dispiega: la tv, negli orari in cui la maggioranza degli italiani si trova a scuola o a lavoro, non deve costituire una tentazione alla fuga, bensì assolvere a una funzione educativa. Per la stessa ragione (cioè per il fatto che non possono essere occupate le fasce orarie in cui gli spettatori lavorano), non può esistere un “flusso”. Notiamo poi dei formati che, con il trascorrere degli anni, scompariranno del tutto; in particolare, pensiamo allo sceneggiato o alla prosa. Questo per quel che concerne la prima rete. Per quanto riguarda invece il secondo canale, l’esordio delle trasmissioni è collocato alle 21, in prima serata (eccetto alla domenica). Tale limitatezza dell’offerta indica in modo ineluttabile il carattere meramente accessorio e subordinato della seconda rete rispetto alla prima. Facciamo un salto di ben diciassette anni e passiamo al 1980, quando compare una terza rete Rai. Alcune caratteristiche tipiche della neo-televisione sono già palesi.

183 Le tabelle relative all’organizzazione dei programmi sono state poste tutte in appendice. 72 Anzitutto rileviamo una netta differenza di impaginazione fra il week-end e i giorni infrasettimanali. In secondo luogo, notiamo come i palinsesti siano retti da una sorta di proto-programmazione a “flusso”, con trasmissioni che, dal lunedì al venerdì, prima del prime time, vengono mandate alla stessa ora: la serialità della tv privata si introduce nelle stazioni di Stato. Da ultimo, registriamo la nascita di nuovi formati e la metamorfosi dei vecchi: il rotocalco si trasforma in info-tainment, lo sceneggiato in fiction e viene alla luce il talk show … Vi sono poi, ovviamente, anche altri elementi degni di nota. Per esempio, la distinzione fra il “pre prime time” (luogo del flusso) e il “prime time” stesso (luogo del media event), in cui è collocato, ogni sera, un appuntamento diverso e, tendenzialmente, di forte richiamo. Da un punto di vista dell’immagine, Rai Due sembra aver fortificato la sua identità, attraverso il consolidamento di un palinsesto, che resta deficitario solo al mattino: la subordinazione al primo canale è finita. La neonata Rai Tre, dal canto suo, appare chiaramente accessoria, con una programmazione che comincia a partire dalle 18,15. Spostiamoci allora al 1985, quando le emittenti commerciali sono diventate già dei veri e propri network e quando l’imprenditore Silvio Berlusconi riesce a controllare le tre maggiori stazioni del paese. Partiamo dai canali pubblici. Rai Uno conserva uno schema di flusso ben preciso, fino al prime time, mentre Rai Due e Rai Tre attuano un flusso di massima, con piccole differenze di orario fra un giorno e l’altro: le diversità relative ai programmi sono di poco conto e riguardano esclusivamente il secondo canale. Per quel che concerne la terza stazione invece, essa risulta ancora deficitaria nella fascia post- prandiale, fino alle ore 15,25/16,10, in cui si rileva un vero e proprio vuoto di programmazione: il flusso, se è realmente tale, non ha pause. Si nota poi come i generi tipici della paleo-tv tendano a scomparire: il rotocalco si trasforma quasi completamente in info-tainment, si affermano il talk show e la fiction, viene fatto ampio uso del contenitore… Rileviamo infine la distinzione fra il week-end e i giorni infrasettimanali. Passiamo ora alle tv berlusconiane: anzitutto, il flusso è realizzato perfettamente, con appuntamenti che, a partire dal mattino, dal lunedì al venerdì, fino al “prime time”, vengono mandati alla stessa ora. In secondo luogo, vediamo come il palinsesto di queste reti ci fornisca davvero un’immagine ben precisa di ciascuna: Canale 5 è una televisione generalista per tutta la famiglia (con programmi che si rivolgono un po’ a tutte le fasce di età), Rete 4 è generalista anch’essa, ma diretta soprattutto alle casalighe (con una gran numero di fiction [soap operas/telenovelas]) e Italia 1 è per i più piccoli o per i teen agers (con ampi spazi dedicati ai cartoni animati, alla musica, alle sit-com americane…). In terzo luogo, notiamo che le griglie di programmazione sono state riempite esclusivamente con generi tipici della neo-tv: non compaiono voci come “teatro”, “sceneggiato”, “prosa” o “rotocalco”. Esiste poi, ovviamente, una differente strategia per il week-end rispetto alla settimana. Spostiamoci al 1995, quando la situazione di concorrenza dovrebbe essersi stabilizzata. Cominciamo sempre dalle televisioni di Stato. Il flusso viene realizzato perfettamente: le trasmissioni iniziano ogni giorno tra le 6,30 e le 6,45 e ricorrono quotidianamente, alla stessa ora. Per quanto riguarda il prime time poi, ciascuna emittente tende a proporre degli appuntamenti forti, seguendo una strategia contraria alla vecchia logica di subordinazione di una rete all’altra. Si nota poi come Rai Tre sembri aver trovato un’identità: quella di canale “culturale”, con ampi spazi di palinsesto dedicati all’educazione, alla cultura, al teatro… In più, fatto di non secondaria importanza, essa lancia uno dei generi più tipici della neo-tv: la tv verità. Dal punto di vista dei formati, scompaiono il rotocalco e lo sceneggiato, mentre prendono ampiamente piede i “neo-generi”: talk, contenitore, info-tainment…

73 Viene prolungata infine la fascia notturna: la televisione si avvia a coprire le 24 ore. Passiamo alle reti commerciali. Il primo dato rilevabile è che compare la voce “informazione”, e “informazione” vuol dire TG; solo all’alba degli ’90 infatti le reti berlusconiane hanno la possibilità di servirsi della diretta, espediente tecnico che gli consentirà, tra l’altro, di trasmettere gli eventi sportivi (per questo si moltiplicano anche le voci relative allo sport). Si nota poi che ciascun canale tende a rafforzare la propria immagine e che, anche in questo caso, le fasce notturne vengono estese quasi fino a coprire l’arco delle 24 ore. Veniamo ai giorni nostri, al 2002. Partiamo di nuovo dalle reti di Stato. I formati prevalenti sono quelli della neo-tv e la cultura o l’educational si trasformano in “culture- tainment”. La logica di flusso sostanzialmente rimane, anche se, talvolta, sembra venire compromessa dalla presenza degli eventi sportivi. Le strategie spettacolari, relative alla prima serata, vengono poi in parte accentuate: ciò che viene proposto assume il carattere di evento, di appuntamento unico e irripetibile. Lo stesso prime time appare poi posticipato rispetto alla collocazione in cui lo spettatore era tradizionalmente abituato a trovarlo: le 21 (20,55) in luogo delle 20,30. Altro aspetto sostanziale, relativamente a questa fascia, è la sua estensione temporale: obiettivo dell’emittente è quello di non perdere, in seconda serata, gli spettatori conquistati nella prima. Per quel che concerne invece le tv commerciali, il flusso pare persistere ancora in modo pronunciato, nonostante qualche piccola differenza fra un giorno e l’altro. Le tre reti Mediaset sembrano aver consolidato definitivamente la propria immagine, rafforzando le tre differenti identità di cui si era parlato in precedenza. La serialità scompare ovviamente nel prime time, che è il terreno sul quale avviene lo scontro con le reti pubbliche; come si è già ricordato, è in questo preciso momento della giornata che si concentrano i maggiori sforzi dei programmatori, è qui cioè che viene collocato il “media event”. Anche nel caso delle tre emittenti di Berlusconi poi (così come in quello delle emittenti Rai) esiste una strategia diversificata per il week-end e per i giorni infra-settimanali. Per quanto riguarda i generi, sono quasi completamente scomparsi quelli che hanno segnato la nascita della televisione; formati come l’educazione o la cultura ricoprono settori marginali del palinsesto, probabilmente anche in conseguenza della nascita di canali satellitari appositi (Rai Sat Art, Rai Sat Leonardo…). È poi evidente come, in ogni caso, la programmazione tenda a coprire completamente l’arco delle ventiquattro ore, senza pausa alcuna: l’idea per cui la tv non può occupare il tempo dedicato allo studio/lavoro è ormai vecchia, all’alba del nuovo millennio ciò che conta è “rosicchiare” ascolti al concorrente con ogni mezzo e in qualunque istante della giornata. Giungiamo così alle conclusioni. Le differenze fra la tv di oggi e quella delle origini sono molto più che macroscopiche e, in ogni caso, rendono giustizia delle categorie di paleo- e neo-televisione. Si è detto che, oggi, in piena era “neo-televisiva”, il palinsesto è lo strumento privilegiato attraverso cui un’emittente definisce e mostra la sua immagine e, nello stesso tempo, l’ “artiglieria” con cui partecipa alla battaglia, allo scontro con i propri concorrenti. In questo senso, sono state sviluppate delle vere e proprie strategie per competere “ad armi impari” col proprio avversario. Paolo Caprettini (La scatola parlante, op.cit.: 74/76) ne enumera dieci: I. «Counter programming: la collocazione di un programma di genere diverso da quello mandato in onda dalla rete concorrente nella stessa fascia oraria. II. Competitive programming: si compete con l’avversario utilizzando lo stesso formato. III. Checkerboarding: posizionamento, in una stessa fascia oraria, di un programma ogni giorno differente. IV. Stripping: o striscia, indica la strategia tipica della neo-tv di proporre quotidianamente, alla medesima ora, la medesima trasmissione.

74 V. Lead in e lead out: principi per cui si presuppone che il pubblico di un determinato appuntamento televisivo possa seguire anche l’appuntamento successivo. VI. Spinoffs: è la tecnica di costruire, attorno a personaggi già noti per altre ragioni, dei programmi appositi e “ad hoc”. VII. Hammocking: un programma nuovo e poco seguito viene collocato tra due appuntamenti di forte richiamo. VIII. Bridging: posizionamento di formati “di grido” in corrispondenza della messa in onda, sulle reti concorrenti, di altri appuntamenti, in maniera tale da bloccare il pubblico sulle proprie frequenze. IX. Blocking: incasellamento in sequenza di trasmissioni aventi lo stesso target di riferimento. X. Stunting: consiste nel cambiamento improvviso di formato.» (F. MARINOZZI, La frammentazione testuale nella televisione italiana, in: www.medienanalyse- online.de) Si capisce dunque quanto siano importanti le logiche di impaginazione e di come la sequenza dei programmi non possa avvenire assolutamente in modo casuale. Risulta più chiaro perciò quanto si sosteneva in precedenza, il fatto cioè che il palinsesto costituisca l’immagine, il “bigliettino da visita” di una certa emittente. Ma se l’insieme delle trasmissioni è il “paradigma identitario” di un dato canale, il suo “segnale di riconoscimento”, si comprende quanti e quanto diversi volti ha assunto il mezzo televisivo nel corso della sua storia. L’analisi delle griglie ci ha mostrato in effetti proprio questo: la tv è un mezzo in evoluzione continua che, nel suo divenire storico, ha ricoperto funzioni differenti, si è incarnata in forme comunicative eterogenee, ha risposto a bisogni di consumo contrapposti… In questo processo di metamorfosi, il medium trova e sviluppa un linguaggio che gli è proprio, trova delle peculiarità che lo rendono indipendente dai modelli, nel seno dei quali era cresciuto. In questa ricerca e scoperta della propria identità mediale, esso abbandona, lascia alle sue spalle alcune di quelle funzioni fondamentali che avevano costituito la sua stessa ragion d’essere (funzione pedagogica, educativa…). Nel tramonto della figura del grillo, la tv assume tutte le caratteristiche, anzi diventa essa medesima, il “paese dei balocchi”, restando vittima delle strategie affabulatrici dello spettacolo: il messaggio diventa così sempre di più una proiezione fittizia della realtà, sempre più un’entità virtuale. Ma che cos’è in realtà lo spettacolo? Che cos’è questo concetto di cui tutti parlano, ma di cui ben pochi si azzardano a dare una definizione? Cercheremo di chiarirlo nel capitolo successivo.

75 76

Rai Uno184 (24-30/IX/1963)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 08, 30 Educazione (fino 08,30 Educazione (fino 08,30 Educazione (fino 08,30 Educazione (fino 08,30 Educazione (fino 08,30 Educazione (fino alle 14) alle 14 alle 14) alle 14) alle ore 14) alle ore 14) 10,15 Rotocalco 11,00 Religione 11,30 Educazione 15,30 Sport 16,15 Sport 16,45 Sport 16,45 Educazione 16,45 Educazione 17,00 Rotocalco 16,45 Educazione 17,30 Ragazzi 17,30 Ragazzi 17,30 Ragazzi 17,30 Ragazzi 17,30 Ragazzi 17,30 Ragazzi 17,30 Ragazzi 18,30 Sceneggiato/Fict. 18,30 Educazione 18,30 Educazione 18,30 Educazione 18,30 Educazione 18,30 Educazione 18,30 Educazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,20 Rotocalco 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,15 Cultura 19,15 Rotocalco 19,15 Cultura 19,15 Musica 19,50 Sceneggiato/Fict. 19,15 Sport 19,15 Show 19,55 Religione 19,45 Rotocalco 20,15 Sport 20,05 Sport 20,00 Sport 20,15 Sport 20,15 Sport 20,15 Sport 20,15 Sport 20,30 Informazione 20,30 Informazione 20,30 Telegiornale 20,30 Informazione 20,30 Informazione 20,30 Informazione 20,30 Informazione 20,55 Pubblicità 20,55 Carosello/Pubblic. 20,55 Carosello/Pubblic. 20,55 Carosello/Pubblic. 20,55 Carosello/Pubbl. 20,55 Carosello/Pubbl. 20,55 Carosello/Pubblic. 21,05 Entertainm. 21,05 Sceneggiato/Fict. 21,05 Rotocalco. 21,05 Sceneggiato/Fict. 21,05 Teatro 21,05 Entertainm. 21,05 Sceneggiato/Fict. 22,15 Cultura 22,40 Balzac? 22,05 Sceneggiato/Fict. 22,40 Documentario 21,55 Entertainm. 22,25 Rotocalco 23,00 Religione 23,00 Sport 22,30 Musica 23,00 Rotocalco 22,25 Informazione/roto. Informazione 23,15 Informazione 23,10 Informazione 23,25 Informazione Informazione

184 Fonte: Radiocorriere Tv, 24/30 nov. 1963. Rai Due185 (24-30/IX/1963)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato

18,00 Teatro

20,00 Ragazzi 20,15 Rotocalco 21,05 Informazione 21,05 Informazione 21,05 Informazione 21,05 Informazione 21,05 Informazione 21,05 Informazione 21,05 Informazione 21,15 Show/Musica 21,15 Film 21,15 Rotocalco 21,15 Sceneggiato/Fict. 21,15 Docum./Cult. 21,15 Entertainm. 21,15 Scenggiato/Fict. 22,30 Pubblicità 22,50 Pubblicità 22,05 Pubblicità Pubblicità 22,15 Pubblicità 22,30 Pubblicità 22,10 Musica 22,35 Sport 22,55 Sport 22,50 Ragazzi (Cartoni) 22,20 Sport 22,35 Documentario 22,55 Documentario 23,15 Sport 23,00 Sport 23,10 Sport 23,35 Sport

185 Fonte: Radiocorriere Tv, 24/30 novembre 1963. 78 Rai Uno186 (20-26/I/1980)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 11,00 Religione 11,55 Religione 12,30 Fiction 12,30 Educazione 12,30 Educazione 12,30 Educazione 12,30 Educazione 12,30 Educazione 12,30 Rotocalco/Docu. 13,00 Rotocalco 13,00 Cultura 13,00 Rotocalco 13,00 Cultura 13,00 Rotocalco 13,00 Rotocalco 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 14,00 Contenitore 14,00 Rotocalco 14,00 Rotocalco 14,10 Educazione 14,10 Rotocalco 14,10 Educazione 14,00 Sport 14,25 Educazione 16,10 Sport 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Entertainm. 18,00 Educazione 18,00 Educazione 18,00 Educazione 18,00 Educazione 18,00 Educazione 18,40 Religione 18,30 Ragazzi 18,30 Rotocalco 18,30 Ragazzi 18,30 Ragazzi 18,30 Rotocalco 18,50 Rotocalco 18,50 Religione 19,00 Ragazzi 19,00 Rotocalco 19,00 Rotocalco 19,00 Ragazzi 19,20 Fiction 19,20 Fiction 19,20 Fiction 19,20 Fiction 19,20 Fiction 19,20 Fiction 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,40 Fiction 20,40 Film 20,40 Film tv/Fiction 20,40 Fiction 20,40 Fiction/Scengg. 20,40 Rotocalco 20,40 Entertainm. 21,45 Sport 22,15 Religione 22,20 Documentario 21,10 Talk Show 21,55 Rotocalco 21,30 Film 21,55 Fiction/Scenegg. 22,45 Rotocalco 22,15 Sport 22,30 Rotocalco 23,05 Informazione 23,00 Telegiornale 23,05 Informazione 23,00 Informazione 23,15 Informazione Informazione 23,35 Informazione

186 Fonte: Radiocorriere Tv, 20/26 gennaio 1980. 79 Rai Due187 (20-26/I/1980)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 12,30 Ragazzi 12,30 Rotocalco 12,30 Rotocalco 12,30 Rotocalco 12,30 Rotocalco 12,30 Rotocalco 12,30 Fiction 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Fiction 13,30 Educazione (fino 13,30 Educazione (fino 13,30 Educazione (fino 13,30 Educazione (fino 13,30 Educazione (fino 13,30 Rotocalco alle 14) alle 14) alle 14) alle 14) alle 14) 14,05 Fiction 14,25 Sport 14,00 Rotocalco 15,00 Rotocalco 15,00 Telecronaca di un 14,30 Educazione (fino evento pubblico alle 15) 15,15 Sport 16,30 Teatro 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,50 Fiction/Scenegg. 18,00 Educazione 18,00 Educazione 18,00 Educazione 18,00 Educazione 18,00 Educazione 18,15 Rotocalco 18,15 Sport 18,30 Informazione, 18,30 Informazione, 18,30 Informazione, 18,30 Informazione, 18,30 Informazione, Sport Sport Sport Sport Sport 18,40 Sport 18,50 Entertainm. 18,50 Entertainm. 18,50 Entertainm. 18,50 Entertainm. 18,50 Entertainm. 19,00 Sport 18,55 Fiction 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,45 Rotocalco 19,50 Informazione 20,00 Sport 20,40 Entertainm. 20,40 Fiction/Scenegg. 20,40 Rotocalco 20,40 Fiction/Scenegg. 20,40 Fiction 20,40 Entertainm. 20,40 Sceneggiato 20,55 Fiction 21,55 Rotocalco 21,40 Rotocalco 21,30 Film 21,45 Rotocalco 21,50 Rotocalco 21,40 Film 22,50 Informazione 22,40 Religione 22,25 Fiction 22,45 Documentario 22,55 Rotocalco 23,05 Musica 23,15 Informazione 23,25 Informazione 23,20 Informazione 23,30 Informazione 23,30 Informazione 23,35 Informazione

187 Fonte: Radiocorriere Tv, 20/26 gennaio 1980. 80 Rai Tre188 (20-26/I/1980)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 09,00 Sport (fino alle ore 13)

18,15 Info-Tainm. 18,15 Info-Tainm. 18,15 Info-Tainm. 18,15 Info-Tainm. 18,15 Info-Tain. 18,15 Info-Tainm. 18,15 Info-Tainm. 18,30 Talk 18,30 Educazione 18,30 Educazione 18,30 Educazione 18,30 Educazione 18,30 Educazione 18,30 Educazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,15 Entertainm. 19,15 Entertainm. 19,20 Rotocalco 19,30 Sport 19,30 Rotocalco 19,30 Rotocalco 19,30 Rotocalco 19,30 Documentario 19,30 Entertainm. 19,35 Rotocalco 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,05 Rotocalco 20,05 Rotocalco 20,05 Film 20,05 Musica 20,05 Teatro 20,05 Fiction 20,30 Sport 21,00 Educazione 20,45 Documentario 21,00 Rotocalco 21,15 Sport 21,30 Informazione 21,30 Informazione 21,35 Talk 21,30 Informazione 21,30 Informazione 21,30 Fiction 22,00 Entertainm. 22,00 Entertainm. 22,05 Informazione 22,00 Entertainm. 22,10 Informazione 22,00 Entertainm. 22,00 Informazione 22,35 Entertainm. 22,40 Entertain. 22,15 Entertainm.

188 Fonte: Radiocorriere tv, 20/26 gennaio 1980. 81 Rai Uno189 (27/I-2/2-1985)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato

10,00 Musica 10,00 Videotext 10,00 Videotext 10,00 Videotext 10,00 Videotext 10,00 Videotext 10,00 Ragazzi 11,00 Religione 11,00 Document. 11,55 Religione 11,55 Informazione 11,55 Informazione 11,55 Informazione 11,55 Informazione 11,55 Informazione 11,55 Informazione 12,15 Rotocalco/Inf.Tai. 12,05 Contenitore 12,05 Contenitore 12,05 Contenitore 12,05 Contenitore 12,05 Contenitore 12,05 Fiction 13,00 Rotocalco 12,30 Info/Tain. 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 14,00 Contenitore 14,00 Contenitore 14,00 Contenitore 14,00 Contenitore 14,00 Contenitore 14,00 Contenitore 14,00 Info/Tain. 14,05 Documentario 14,30 Informazione 15,00 Informazione 15,00 Rotocalco/Inf.Tai. 15,00 Ragazzi 15,00 Rotocalco/Inf.Tazi. 15,00 Rotocalco/Inf.Tai. 15,00 Sport 15,30 Educazione 15,30 Educazione 15,30 Educazione 15,30 Educazione 15,30 Educazione 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Sport 16,00 Sport 16,30 Sport 16,25 Fiction 16,25 Fiction 16,30 Fiction 16,25 Fiction 17,00 Informazione 17,00 Informazione 17,00 Informazione 17,00 Informazione 17,00 Inforamzione 17,00 Informazione 17,05 Ragazzi 17,05 Ragazzi 17,05 Ragazzi 17,05 Ragazzi 17,05 Ragazzi 17,05 Ragazzi 18,10 Rotocalco 18,10 Rotocalco 18,10 Rotocalco 18,10 Cultura 18,10 Religione 18,20 Rotocalco 18,20 Rotocalco 18,40 Ragazzi 18,40 Ragazzi 18,40 Ragazzi 18,40 Ragazzi 18,40 Ragazzi 18,40 Entertainm. 18,50 Rotocalco/Inf.Tai. 18,50 Rotocalco/Inf.Tai. 18,50 Rotocalco/Inf.Tai. 18,50 Rotocalco/Inf.Tai. 18,50 Rotocalco/Inf.Tai. 19,35 Rotocalco 19,35 Rotocalco 19,35 Rotocalco 19,35 Rotocalco 19,35 Rotocalco 19,35 Rotocalco 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,30 Fiction 20,30 Film 20,30 Talk 20,30 Fiction 20,30 Entertainm. 20,30 Film 20,30 Entertainm. 21,35 Sport 21,40 Informazione 21,35 Musica 21,50 Film 22,00 Informazione 22,00 Informazione 22,15 Informazione 22,10 Film 22,10 Film 22,25 Inf./Tain. 22,15 Informazione 22,30 Rotocalco/Inf.Tai. 22,30 Informazione 22,25 Musica 22,40 Inf./Tain. 22,50 Fiction 22,50 Musica 22,45 Sport 23,10 Info/Tainm. 23,15 Educazione 23,20 Informazione Informazione 23,30 Informazione 23,45 Informazione 23,45 Informazione 23,45 Informazione 23,50 Informazione 23,55 Educazione

189 Fonte: Radiocorriere Tv, 27 gennaio – 2 febbraio 1985. 82

Rai Due190 (27/I-2/II-1985)

h Domenica h Lunedì h Martedì H Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 08,25 Sport

10,00 Videotext 10,00 Videotext 10,00 Videotext 10,00 Videotext 10,00 Videotext 10,00 Info/Tainm. 10,45 Teatro 10,55 Sport 11,20 Rotocalco/Inf.Tai. 11,50 Film 11,55 Entertainm. 11,55 Entertainm. 11,55 Entertainm. 11,55 Entertainm. 11,55 Sport 11,55 Sport

13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,30 Contenitore 13,30 Fiction 13,30 Fiction 13,30 Contenitore 13,30 Fiction 13,30 Fiction 13,30 Info/Tainm. 14,00 Sport 14,00 Educazione 14,30 Informazione 14,30 Informazione 14,30 Informazione 14,30 Informazione 14,30 Informazione 14,35 Contenitore 14,35 Contenitore 14,35 Contenitore 14,35 Contenitore 14,40 Film 15,30 Contenitore

16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,15 Info/Tainm. 16,25 Educazione 16,25 Educazione 16,25 Educazione 16,25 Educazione 16,25 Educazione 16,50 Sport 16,55 Fiction 16,55 Fiction 16,55 Fiction 16,55 Fiction 16,55 Fiction 17,30 Informazione 17,30 Informazione 17,30 Informazione 17,30 Informazione 17,30 Informazione 17,35 Entertainm. 17,35 Informazione. 17,35 Info/Tainm. 17,40 Entertainm 17,40 Entertainm. 17,40 Entertainm. 17,40 Entertainm. 17,50 Info/Tainm. 18,05 Spaziolibero 18,05 Spaziolibero 18,20 Informazione 18,20 Informazione 18,20 Informazione 18,20 Informazione 18,20 Informazione 18,40 Sport 18,30 Fiction 18,30 Fiction 18,30 Fiction 18,30 Fiction 18,30 Fiction 18,30 Informazione 18,40 Fiction 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,50 Informazione 20,00 Sport 20,30 Show 20,30 Rotocalco/Inf.Tai. 20,30 Film 20,30 Fiction 20,30 Film 20,30 Talk Show 20,30 Film 21,25 Fiction 21,30 Film 21,35 Fiction 21,50 Fiction 22,00 Informazione 22,00 Informazione

190 Fonte: Radiocorriere Tv, 27 gennaio – 2 febbraio 1985. 83 22,10 Info/Tain. 22,05 Film 22,15 Informazione 22,15 Informazione 22,15 Sport 22,20 Fiction 22,20 Informazione Informazione 22,25 Informazione 22,30 Info/Tainm. 22,35 Rotocalco/Inf.Tai. 22,35 Rotocalco/Inf.Tai. 22,35 Informazione 22,40 Informazione 22,45 Fiction 22,50 Info/Tain. 23,05 Educazione 23,05 Religione 23,10 Documentario 23,35 Informazione 23,30 Informazione 23,25 Sport 23,40 Informazione 23,40 Educazione 23,45 Informazione 23,40 Sport 23,55 Informazione 00,10 Informazione

84 Rai Tre191 (27/I-2/2-1985)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 11,45 Videotext (fino 11,45 Videotext (fino 11,45 Videotext (fino 11,45 Videotext (fino alle 13) alle 13) alle 13) alle 13) 12,15 Musica 12,45 Musica

13,45 Entertainm. 13,50 Sport

14,45 Sport 15,25 Sport 15,20 Sport 15,45 Educazione 16,10 Educazione 16,10 Educazione 16,10 Educazione 16,25 Educazione 16,45 Film 17,00 Entertainm. 17,10 Entertainm. 17,10 Entertainm. 17,15 Entertainm. 17,20 Film 18,15 Musica 18,15 Musica 18,15 Musica 18,15 Musica 18,15 Musica 18,25 Info/Tain. 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,20 Sport 19,35 Info/Tainm. 19,40 Entertainm. 19,35 Cultura 19,35 Rotocalco 20,05 Educazione 20,05 Educazione 20,05 Educazione 20,05 Educazione 20,05 Educazione 20,15 Info/Tainm. 20,30 Sport 20,30 Entertainm. 20,30 Rotocalco/Inf.Tai. 20,30 Film 20,30 Film 20,30 Teatro 20,30 Info/Tainm. 21,30 Entertainm. 21,30 Informazione 21,30 Musica 21,30 Sport 21,40 Educazione 21,45 Informazione 22,00 Sport 22,05 Informazione 22,10 Sport/Talk 22,15 Sport 22,15 Informazione 22,20 Fiction 22,30 Sport 22,30 Fiction 22,25 Sport 22,40 Informazione 22,45 Informazione 22,50 Musica 23,15 Musica 23,15 Informazione 23,15 Informazione 23,15 Musica 23,15 Musica 23,20 Fiction

191 Fonte: Radiocorriere Tv, 27 gennaio – 2 febbraio 1985. 85

86 Canale 5192 (27/I-2/II-1985)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 08,30 Film 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 09,00 Fiction 09,30 Film 09,30 Film 09,30 Film 09,30 Film 09,30 Film 09,30 Fiction 10,00 Film 10,30 Sport 11,30 Musica 11,30 Entertainm. 11,30 Entertainm. 11,30 Entertainm. 11,30 Entertainm. 11,30 Entertainm. 11,55 Entertainm. 12,10 Entertainm. 12,10 Entertainm. 12,10 Entertainm. 12,10 Entertainm. 12,10 Entertainm. 12,30 Info/Tainm. 12,45 Entertainm. 12,45 Entertainm. 12,45 Entertainm. 12,45 Entertainm. 12,45 Entertainm. 12,50 Entertainm. 13,30 Contenitore 13,25 Fiction 13,25 Fiction 13,25 Fiction 13,25 Fiction 13,25 Fiction 13,30 Film 14,25 Fiction 14,25 Fiction 14,25 Fiction 14,25 Fiction 14,25 Fiction 15,25 Fiction 15,25 Fiction 15,25 Fiction 15,25 Fiction 15,25 Fiction 15,30 Film 16,30 Fiction 16,30 Fiction 16,30 Fiction 16,30 Fiction 16,30 Fiction 17,00 Fiction 17,30 Fiction 17,30 Fiction 17,30 Fiction 17,30 Fiction 17,30 Fiction 18,00 Sport 18,30 Entertainm. 18,30 Entertainm. 18,30 Entertainm. 18,30 Entertainm. 18,30 Entertainm. 19,00 Fiction 19,00 Fiction 19,00 Fiction 19,00 Fiction 19,00 Fiction 19,00 Fiction 19,30 Entertainm. 19,30 Entertainm. 19,30 Entertainm. 19,30 Fiction 19,30 Entertainm. 19,30 Entertainm. 20,30 Fiction 20,30 Fiction 20,30 Fiction 20,30 Film 20,30 Entertainm. 20,30 Fiction 20,30 Entertainm. 21,30 Fiction 22,25 Fiction 22,25 Docu/Tainm. 22,30 Sport 22,30 Info/Tainm. 22,50 Entertainm. 23,05 Film 23,15 Info/tainm. 23,25 Info/Tainm. 23,25 Sport 23,30 Film 23,50 Informazione 23,45 Sport 00,00 Film 00,25 Film 00,25 Film 00,50 Film

192 Fonte: Radiocorriere Tv, 27 gennaio – 2 febbraio 1985. 87 Rete 4193 (24/I-2/II-1985)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 08,30 Film 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,50 Fiction 08,50 Fiction 08,50 Fiction 08,50 Fiction 09,30 Film 09,40 Fiction 09,40 Fiction 09,40 Fiction 09,40 Fiction 09,40 Fiction 10,10 Film 10,30 Fiction 10,30 Fiction 10,30 Fiction 10,30 Fiction 10,30 Fiction 10,50 Fiction 10,50 Fiction 10,50 Fiction 10,50 Fiction 10,50 Fiction 11,20 Fiction 11,20 Fiction 11,20 Fiction 11,20 Fiction 11,20 Fiction 11,30 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,10 Fiction 12,45 Fiction 12,45 Fiction 12,45 Fiction 12,45 Fiction 12,45 Fiction 12,45 Fiction 13,00 Ragazzi 13,15 Fiction 13,15 Fiction 13,15 Fiction 13,15 Fiction 13,15 Fiction 13,15 Fiction 13,30 Documentario 13,45 Fiction 13,45 Fiction 13,45 Fiction 13,45 Fiction 13,45 Fiction 13,45 Fiction 14,00 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 15,00 Fiction 15,10 Ragazzi 15,10 Ragazzi 15,10 Ragazzi 15,10 Ragazzi 15,10 Ragazzi 15,10 Ragazzi 16,00 Film 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,20 Fiction 16,20 Fiction 16,20 Fiction 16,20 Fiction 16,20 Fiction 16,20 Fiction 17,15 Fiction 17,15 Fiction 17,15 Fiction 17,15 Fiction 17,15 Fiction 17,15 Fiction 17,50 Film 18,05 Fiction 18,05 Fiction 18,05 Fiction 18,05 Fiction 18,05 Fiction 18,05 Fiction 18,55 Fiction 18,55 Fiction 18,55 Fiction 18,55 Fiction 18,55 Fiction 18,55 Fiction 19,30 Fiction 19,25 Entertainm. 19,25 Entertainm. 19,25 Entertainm 19,25 Entertainm. 19,25 Entertainm. 19,25 Entertainm. 20,00 Fiction 20,30 Film 20,30 Film 20,30 Film 20,30 Talk Show 20,30 Film 20,30 Entertainm. 20,30 Film 22,20 Fiction 22,20 Fiction 22,20 Sport 22,30 Fiction 22,30 Film 22,30 Fiction 22,50 Fiction 23,00 Fiction 23,20 Film 23,20 Film 23,30 Film

193 Fonte: Radiocorriere Tv, 24 gennaio – 2 febbraio 1985. 88 00,00 Film 23,50 Film 23,50 Film 00,40 Film 01,20 Fiction

89 Italia 1194 (27/I-2/II-1985)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 08,30 Ragazzi 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 08,30 Fiction 09,30 Film 09,30 Fiction 09,30 Fiction 09,30 Fiction 09,30 Fiction 09,30 Fiction 10,15 Film 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,15 Info-Tainm.

13,00 Sport 13,00 Fiction 13,00 Fiction 13,00 Fiction 13,00 Fiction 13,00 Fiction 13,00 Fiction

14,00 Musica 14,00 Musica 14,00 Musica 14,00 Musica 14,00 Musica 14,00 Musica 14,00 Sport 14,30 Fiction 14,30 Fiction 14,30 Fiction 14,30 Fiction 15,30 Fiction 15,30 Fiction 15,30 Fiction 15,30 Fiction 15,30 Fiction 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,45 Fiction

17,45 Fiction 17,40 Fiction 17,45 Fiction 17,45 Fiction 17,45 Fiction 17,45 Fiction 17,45 Musica

18,45 Fiction 18,40 Fiction 18,45 Fiction 18,45 Fiction 18,45 Fiction 18,45 Fiction 18,45 Fiction

19,50 Ragazzi 19,50 Ragazzi 19,50 Ragazzi 19,50 Ragazzi 19,50 Ragazzi 19,50 Ragazzi 1950 Ragazzi

20,30 Entertainm. 20,30 Film 20,30 Fiction 20,30 Fiction 20,30 Fiction 20,30 Fiction 20,30 Fiction 21,30 Fiction 21,30 Fiction 22,10 Fiction 22,05 Fiction 22,30 Sport 22,30 Fiction 22,30 Fiction 22,30 Entertainm. 22,30 Fiction 23,05 Film 23,00 Film 23,00 Film Info-Tainm. 23,30 Sport Film Fiction 23,30 Musica Film Fiction 00,30 Film 01,45 Fiction

194 Fonte: Radiocorriere TV, 27 gennaio – 2 febbraio 1985. 90 Rai Uno195 (12/18-II-1995)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,45 Documentario 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 07,30 Ragazzi 07,00 Ragazzi 08,00 Ragazzi 08,30 Ragazzi 09,00 Ragazzi 09,30 Ragazzi 10,00 Info-Tainm. 10,05 Film 10,05 Film 10,05 Film 10,05 Film 10,05 Film 10,00 Documentario 10,45 Rotocalco 10,55 Religione 11,00 Informazione 11,00 Informazione 11,00 Informazione 11,00 Informazione 11,00 Informazione 11,15 Entertainm. 11,40 Entertainm. 11,40 Entertainm. 11,40 Entertainm. 11,35 Entertainm. 11,55 Religione 11,50 Entertainm. 12,15 Info-Tainm. 12,20 Info-Tainm. 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,35 Fiction 12,35 Fiction 12,35 Fiction 12,35 Fiction 12,35 Fiction 12,35 Info-Tainm. 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 14,00 Contenitore 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,20 Informazione 14,20 Entertainm. 14,20 Entertainm. 14,20 Entertainm. 14,20 Entertainm. 14,50 Fiction 14,50 Fiction 14,50 Fiction 14,50 Fiction 14,50 Fiction 15,15 Informazione 15,45 Ragazzi 15,45 Ragazzi 15,45 Ragazzi 15,45 Ragazzi 15,45 Ragazzi 15,45 Ragazzi

17,40 Info-Tainm. 18,00 Informazione 18,00 Informazione 18,00 Informazione 18,00 Informazione 17,55 Informazione 18,00 Informazione 18,20 Fiction 18,20 Fiction 18,20 Fiction 18,20 Fiction 18,20 Fiction 18,15 Entertainm. 18,50 Entertainm. 18,50 Entertainm. 18,50 Entertainm. 18,50 Entertainm. 18,50 Entertainm. 19,35 Religione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,40 Entertainm. 20,40 Film 20,40 Entertainm. 20,40 Film 20,40 Entertainm. 20,40 Documentario 20,40 Entertainm. 22,40 Sport 22,45 Informazione 22,45 Informazione 22,55 Talk 22,55 Talk 23,05 Informazione 23,05 Informazione 23,05 Informazione 23,15 Talk 23,20 Informazione 23,15 Talk 23,15 Info-tainm. 23,25 Informazione 23,30 Sport 23,30 Sport

195 Fonte: Radiocorriere Tv, 12/18 Febbraio 1995. 91 00,05 Informazione 00,05 Informazione 00,05 Informazione 00,05 Informazione 00,05 Informazione 00,15 Info-Tainm. 00,15 Info-Tainm. 00,20 Film 00,25 Educational 00,25 Educational 00,25 Informazione 00,25 Educational 00,25 Educational 00,45 Educational 00,55 Talk 00,45 Talk 00,55 Talk 01,10 Sport 01,15 Talk 01,25 Info-Tainm. 01,30 Musica

92 Rai Due196 (12/18-II-1995)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 06,30 Entertainm. 06,35 Documentario 06,35 Documentario 06,35 Documentario 06,35 Documentario 06,35 Documentario 06,35 Entertainm. 06,55 Contenitore 06,55 Contenitore 07,00 Ragazzi 07,00 Ragazzi 07,00 Ragazzi 07,00 Ragazzi 07,00 Ragazzi . 08,10 Religione 08,40 Fiction 08,40 Fiction 08,40 Fiction 08,40 Fiction 08,40 Fiction 10,05 Ragazzi 10,00 Informazione 10,05 Info-Tainm. 10,30 Contenitore 10,30 Contenitore 10,30 Contenitore 10,30 Contenitore 10,30 Contenitore 10,55 Religione 11,15 Tv-verità 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,40 Entertainm. 13,45 Ragazzi 13,45 Ragazzi 13,45 Ragazzi 13,45 Ragazzi 13,45 Ragazzi 14,00 Film 14,25 Film 14,30 Fiction 14,30 Fiction 14,30 Fiction 14,30 Fiction 14,30 Fiction 15,40 Contenitore 15,40 Contenitore 15,40 Contenitore 15,40 Contenitore 15,40 Contenitore 16,20 Ragazzi 16,00 Fiction 16,45 Film 18,00 Info-Tainm. 18,00 Info-Tainm. 18,00 Info-Tainm. 18,00 Info-Tainm. 18,05 Info-Tainm. 18,05 Informazione 18,05 Informazione 18,05 Informazione 18,05 Informazione 18,05 Info-tainm. 18,10 Sport 18,10 Sport 18,10 Sport 18,10 Sport 18,10 Sport 18,25 Informazione 18,25 Informazione 18,25 Informazione 18,25 Informazione 18,25 Informazione 18,35 Info-Tainm. 18,35 Info-Tainm. 18,35 Info-Tainm. 18,35 Info-Tainm. 18,35 Info-Tainm. 18,45 Fiction 18,45 Fiction 18,45 Fiction 18,45 Fiction 18,45 Fiction 18,45 Fiction 19,00 Sport 19,35 Informazione 19,35 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazion 20,00 Sport 20,20 Entertainm. 20,20 Entertainm. 20,20 Entertainm. 20,20 Entertainm. 20,20 Entertainm. 20,40 Fiction 20,40 Film 20,40 Film 20,40 Film 20,40 Entertainm. 20,40 Film 21,00 Fiction 21,50 Talk 22,20 Fiction 22,20 Fiction 22,20 Film 22,40 Talk 22,30 Info-Tainm. 23,30 Informazione 23,30 Informazione 23,30 Informazione 23,30 Informazione 23,30 Informazione 23,30 Informazione 23,30 Informazione

196 Fonte: Radiocorriere TV, 12/18 febbraio, 1995. 93 23,50 Religione 00,00 Info-Tainm. 00,00 Info-Tainm. 00,00 Info-Tainm. 00,00 Info-Tainm. 00,00 Info-Tainm. 00,10 Informazione 00,10 Informazione 00,10 Informazione 00,10 Informazione 00,10 Informazione 00,15 Film 00,15 Info-Tainm. 00,15 Sport 00,15 Info-Tainm. 00,15 Info-Tainm. 00,20 Info-Tainm. 00,20 Educational 00,30 Sport 01,00 Sport 00,50 Sport 01,20 Fiction 01,15 Sport 01,15 Sport 02,00 Info-Tainm. 02,00 Info-Tainm. 02,00 Info-Tainm. 02,00 Info-Tainm. 02,00 Info-Tainm.

94 Rai Tre197 (12/18-II-1995)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,45 Film 06,45 Educational 06,45 Educational 06,45 Educational 06,45 Educational 06,45 Educational 06,50 Entertainm. 07,30 Documentario 09,00 Info-Tainm. 09,45 Musica 09,50 Sport 10,15 Film 11,35 Film 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,15 Sport 12,30 Cultura 12,30 Cultura 12,30 Cultura 12,30 Cultura 12,30 Cultura 12,40 Info-Tainm. 12,40 Info-Tainm. 12,40 Info-Tainm. 12,40 Info-Tainm. 12,40 Info-Tainm. 12,55 Sport 13,15 Sport 13,30 Sport 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,25 Sport 14,50 Info-Tainm. 15,15 Sport 15,15 Sport 15,15 Sport 15,15 Sport 15,15 Sport 15,15 Sport 17,00 Sport 17,00 Educational 17,00 Educational 17,00 Educational 17,00 Educational 17,00 Educational 17,55 Film 18,00 Info-Tainm. 18,00 Documentario 18,00 Documentario 18,00 Documentario 18,00 Documentario 18,30 Sport 18,30 Sport 18,30 Sport 18,30 Sport 18,30 Sport 18,35 Informazione 18,35 Informazione 18,35 Informazione 18,35 Informazione 18,35 Informazione 18,45 Sport 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,45 Sport 19,50 Entertainm. 19,50 Entertainm. 19,50 Entertainm. 19,50 Entertainm. 19,50 Info-Tainm. 20,00 Entertainm. 20,05 Entertainm. 20,10 Entertainm. 20,10 Entertainm. 20,10 Entertainm. 20,30 Tv-Verità 20,30 Talk Show 20,30 Tv-Verità 20,30 Tv-Verità 20,30 Talk 20,30 Film 20,30 Entertainm. 22,30 Informazione 22,30 Informazione 22,30 Informazione 22,30 Informazione 22,30 Informazione 22,30 Informazione 22,45 Entertainm. 22,45 Info-Tainm. 22,45 Info-Tainm. 22,45 Info-Tainm. 22,45 Info-Tainm. 22,45 Talk Show 23,15 Informazione 23,20 Info-Tainm. 23,50 Info-Tainm. 23,50 Entertainm. 23,50 Info-Tainm. 23,50 Entertainm. 00,00 Informazione 00,20 Film 00,30 Informazione 00,30 Informazione 00,30 Informazione 00,35 Informazione 00,30 Informazione 00,40 Informazione 01,00 Entertainm. 01,00 Film 01,05 Film 01,00 Film

197 Fonte: Radiocorriere Tv, 12/18 febbraio 1995. 95 01,10 Film 01,40 Film 01,45 Film 01,55 Sport 01,55 Sport 03,00 Film

96 Canale 5198 (12/18-II-1995)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 06,30 Informazione 08,45 Informazione 08,45 Informazione 08,45 Informazione 08,45 Informazione 08,45 Informazione 08,45 Informazione 09,00 Religione 09,00 Talk Show 09,00 Talk Show 09,00 Talk Show 09,00 Talk Show 09,00 Talk Show 09,00 Entertainm. 09,45 Documentario 09,30 Info-Tainm. 10,00 Enterainm. 10,30 Info-Tainm. 10,30 Fiction 11,45 Entertainm. 11,45 Entertainm. 11,45 Entertainm. 11,45 Entertainm. 11,45 Entertainm. 11,45 Entertainm. 12,00 Ragazzi 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,30 Entertainm. 13,25 Satira 13,25 Satira 13,25 Satira 13,25 Satira 13,25 Satira 13,25 Satira 13,45 Contenitore 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 15,20 Entertainm. 15,20 Entertainm. 15,20 Entertainm. 15,20 Entertainm. 15,20 Entertainm. 15,25 Info-Tainm. 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 16,00 Ragazzi 18,00 Informazione 18,02 Entertainm. 18,02 Entertainm. 18,02 Entertainm. 18,02 Entertainm. 18,02 Entertainm. 18,02 Enteratainm. 19,00 Entetainm. 19,00 Entertainm. 19,00 Entertainm. 19,00 Entertainm. 19,00 Entertainm. 19,00 Entertainm. 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,25 Satira 20,25 Satira 20,25 Satira 20,25 Satira 20,25 Satira 20,25 Satira 20,30 Film 20,40 Film 20,40 Film 20,40 Entertainm. 20,40 Fiction 20,40 Entertainm. 20,40 Entertainm. 22,30 Info-Tainm. 22,30 Info-Tainm. 22,45 Fiction 22,40 Info-Tainm. 22,45 Info-Tainm. 23,00 Info-Tainm. 23,00 Talk Show 23,00 Talk Show 23,15 Talk Show 23,15 Talk Show 23,15 Talk Show 23,10 Satira 23,30 Entertainm. 23,30 Film 00,00 Informazione 00,00 Informazione 00,00 Informazione 00,00 Informazione 00,00 Informazione 00,00 Informazione 00,00 Informazione 00,15 Info-Tainm. 00,15 Talk Show 00,15 Talk Show 00,15 Talk Show 00,15 Talk Show 00,15 Talk Show 00,10 Film 00,45 Satira 01,15 Fiction Repliche Inf.-Tai. Informaz. (1 ediz 01,30 Satira 01,30 Satira 01,30 Satira 01,30 Satira 01,30 Satira 01,30 Satira del TG l’ora) Repliche Inf.-Tai. Repliche Inf.-Tai. Repliche Inf.-Tai. Repliche Inf.-Tai. Repliche Inf.-Tai. Repliche Inf.- Tai. Informaz. (1 Informaz. (1 ediz. Informaz. (1 ediz. Informaz. (1 ediz. Informaz. (1 ediz. Informaz. (1

198 Fonte: Radiocorriere Tv, 12/18 febbraio 1995. 97 ediz. del TG del TG l’ora) del TG l’ora) del TG l’ora) del TG l’ora) ediz. del TG l’ora) l’ora)

98 Rete 4199 (12/18-II-1995)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 07,00 Fiction 07,00 Fiction 07,00 Fiction 07,00 Fiction 07,00 Fiction 07,00 Fiction 07,30 Fiction 07,30 Fiction 07,30 Fiction 07,30 Fiction 07,30 Fiction 07,30 Fiction 07,50 Film 08,00 Fiction 08,00 Fiction 08,00 Fiction 08,00 Fiction 08,00 Fiction 08,00 Fiction 09,05 Fiction 09,05 Fiction 09,05 Fiction 09,05 Fiction 09,05 Fiction 09,05 Fiction 09,30 Televendita 09,30 Fiction 09,30 Fiction 09,30 Fiction 09,30 Fiction 09,30 Fiction 09,30 Fiction 10,00 Musica 10,00 Televendita 10,00 Televendita 10,00 Televendita 10,00 Televendita 10,00 Televendita 10,00 Televendita 11,00 Entertainm. 10,55 Fiction 10,55 Fiction 10,55 Fiction 10,55 Fiction 10,55 Fiction 10,55 Fiction 11,30 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 12,00 Info-Tainm. 11,55 Fiction 11,55 Fiction 11,55 Fiction 11,55 Fiction 11,55 Fiction 11,55 Fiction 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 14,00 Film 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,00 Info-Tainm. 14,00 Infotainm. 14,20 Fiction 14,20 Fiction 14,20 Fiction 14,20 Fiction 14,20 Fiction 15,20 Fiction 15,20 Fiction 15,20 Fiction 15,20 Fiction 15,20 Fiction 16,00 Film 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 17,00 Entertainm. 17,00 Entertainm. 17,00 Entetainm. 17,00 Entertainm. 17,00 Entertainm. 17,00 Entertainm. 18,00 Film 18,00 Talk 18,00 Talk 18,00 Talk 18,00 Talk 18,00 Talk 18,00 Film 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,30 Film 19,30 Talk 19,30 Talk 19,30 Talk 19,30 Talk 19,30 Talk 19,00 Film 20,30 Entertainm. 20,35 Fiction 20,35 Film 20,45 Fiction 20,45 Film 20,45 Film 20,45 Film 22,30 Fiction 22,35 Film 22,30 Film 22,30 Film 22,45 Film 22,40 Film 23,00 Film 23,30 Informazione 23,30 Informazione 23,30 Informazione 23,40 Musica 23,45 Informazione 23,45 Informazione 23,45 Informazione 23,40 Film 23,40 Film 23,55 Film 23,55 Film 23,55 Film 00,35 Informazione 00,35 Informazione 00,45 Film 00,50 Informazione 01,00 Informazione 00,50 Informazione 00,45 Info-Tainm. 00,45 Info-Tainm. 02,20 Informazione 6 Fiction 6 Fiction 01,00 Film 5 Fiction 5 Fiction 5 Telefilm 1 Film 1 Film 7 Fiction 1 Film 1 Film 1 Film 01,50 Informazione 3 Fiction Film 2 Fiction

199 Fonte: Radiocorriere Tv, 12/18 febbraio 1995. 99 Italia 1200 (12/18-II-1995)

h Domenica h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato 06,30 Ragazzi 06,30 Ragazzi 06,30 Ragazzi 06,30 Ragazzi 06,30 Ragazzi 06,30 Ragazzi 06,30 Ragazzi 09,25 Fiction 09,25 Fiction 09,20 Fiction 09,20 Fiction 09,20 Fiction 09,20 Fiction 10,25 Fiction 10,25 Fiction 10,25 Fiction 10,25 Fiction 10,25 Fiction 10,25 Fiction 10,20 Fiction 11,00 Entertainm. 11,25 Fiction 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 12,30 Fiction 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,50 Ragazzi 12,50 Ragazzi 12,50 Ragazzi 12,50 Ragazzi 12,50 Ragazzi 12,50 Ragazzi 13,00 Sport 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,30 Film 14,30 Entertainm. 14,30 Entertainm. 14,20 Entertainm. 14,30 Entertainm. 14,30 Entertainm. 14,30 Entertainm. 16,00 Contenitore 16,00 Contenitore 16,00 Contenitore 16,00 Contenitore 16,00 Contenitore 16,30 Fiction 16,15 Info-tainm. 16,45 Entertainm. 17,30 Film 17,45 Fiction 18,10 Fiction 18,10 Fiction 18,10 Fiction 18,10 Fiction 18,10 Fiction 18,15 Informazione 18,20 Fiction 18,45 Informazione 18,45 Informazione 18,45 Informazione 18,45 Informazione 18,45 Informazione 18,50 Fiction 18,50 Fiction 18,50 Fiction 18,50 Fiction 18,50 Fiction 19,30 Informazione 19,30 Informazione 19,30 Informazione 19,30 Informazione 19,30 Informazione 19,30 Informazione 19,30 Informazione 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,00 Entertainm. 20,30 Fiction 20,45 Film 20,45 Film 20,45 Film 20,45 Film 20,45 Film 20,45 Film 22,30 Sport 22,40 Info-Tainm. 22,40 Info-Tainm. 22,40 Info-Tainm. 22,40 Info-Tainm. 22,40 Info-Tainm. 22,45 Talk 22,45 Fiction 22,45 Info-Tainm. 20,45 Fiction 23,15 Musica 23,15 Fiction 23,45 Satira 23,45 Sport 23,45 Info-Tainm. 00,00 Sport 00,00 Sport 00,15 Sport 00,15 Sport 00,45 Entertainm. 00,40 Sport 00,45 Sport 01,00 Satira 01,10 Film 01,15 Satira 01,15 Satira 4 Fiction 01,15 Satira 01,45 Satira 01,40 Satira 4 Fiction 1 Film 4 Fiction 2 Film

200 Fonte: Radiocorriere Tv, 12/18 febbraio 1995. 100 04,30 Fiction 4 Fiction 3 Fiction 1 Film 1 Film 1 Fiction 05,30 Entertainm. 1 Film 1 Film 06,00 Fiction

101 Rai Uno201 (21/X/02 - 27/X/02)

h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato h Domenica 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione (2 Programmi)) 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore 10,50 Info-Tainm. 10,50 Info-Tainm. 10,50 Info-Tainm. 10,50 Info-Tainm. 10,50 Info-Tainm. 10,30 Info-Tainm. 10,00 Info-Tainm. 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,25 Informazione 11,00 Info-Tainm. 10,30 Religione 11,35 Contenitore 11,35 Contenitore 11,35 Contenitore 11,35 Contenitore 11,35 Contenitore 12,00 Entertainm. 10,55 Religione 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 12,00 Entertainm. 13,30 Informazione 12,20 Info-Tainm. 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 14,00 Info-Tainm. 13,30 Informazione (2 Trasmiss.) 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,15 Documentario 14,00 Contenitore 16,15 Entertainm. 16,15 Entertainm. 16,15 Entertainm. 16,15 Entertainm. 16,15 Entertainm. 15,30 Documentario 20,00 Informazione 18,45 Entertainm. 18,45 Entertainm. 18,45 Entertainm. 18,45 Entertainm. 18,45 Entertainm. 16,00 Documentario 20,45 Film 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 17,00 Informazione 22,45 Info-Tainm. 20,35 Fiction 20,35 Fiction 20,35 Fiction 20,35 Fiction 20,35 Fiction 17,15 Religione 23,35 Entertainm. 20,45 Entertainm. 20,45 Entertainm. 20,45 Entertainm. 20,45 Entertainm. 20,45 Entertainm. 17,45 Fiction 00,15 Informazione 20,55 Film 20,55 Entertainm. 20,55 Fiction 20,55 Entertainm. 20,55 Fiction 18,45 Entertainm. 00,35 Talk Show 22,50 Informazione 23,05 Informazione 23,00 Informazione 23,05 Informazione 23,00 Informazione 20,00 Informazione 01,20 Film 22,55 Talk Show 23,10 Talk Show 23,05 Talk Show 23,10 Talk Show 23,05 Info-Tainm. 20,40 Entertainm. 03,00 Documentario 00,30 Informazione 00,30 Informazione 00,30 Informazione 00,30 Informazione 00,00 Informtion 23,45 Informazione 04,05 Fiction 00,50 Info-Tainm. 00,50 Info-Tainm. 00,50 Info-Tainm. 00,50 Info-Tainm. 00,10 Cultur-tain. 00,00 Film 04,50 Entertainm. 01,05 Informazione 01,05 Informazione 01,05 Informazione 01,00 Informazione 00,30 Informazione 01,55 Film 01,10 Info-Tainm. 01,10 Info-Tainm. 01,10 Info-Tainm. 01,05 Info-Tainm. 01,05 Info-Tainm. 03,35 Documentario 01,15 Talk Show 01,15 Talk Show 01,15 Talk Show 01,10 Talk Show 01,15 Talk Show 04,25 Fiction 01,45 Cultur-Tain 01,45 Cultur-Tain 01,45 Cultur-Tain 01,15 Info-Tainm. 01,45 Info-Tainm. 05,00 Entertainm. 02,15 Contenitore 02,15 Contenitore 02,20 Film 02,10 Contenitore 02,15 Contenitore 03,30 Fiction 05,00 Entertainm. 05,30 Informazione

201 Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X). 102 Rai Due202 ( 21/X/02 - 27/X/02)

h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato h Domenica 06,05 Info-Tainm. 06,05 Info-Tainm. 06,45 Info-Tainm. 06,15 Info-Tainm. 06,20 Info-Tainm. 06,00 Info-Tainm. 06,15 Docu. 06,30 Info-Tainm. 06,25 Info-Tainm. 06,15 Info-Tainm. 06,25 Info-Tainm 06,45 Info-Tainm. 06,30 Info-Tainm. 06,45 Contenitore 06,45 Contenitore (Ancora 3 Trasmiss.) 07,00 Ragazzi 07,15 Ragazzi 07,15 Ragazzi 07,15 Ragazzi 07,15 Ragazzi 10,00 Informazione 10,00 Informazione 08,55 Ragazzi 08,45 Ragazzi 08,45 Ragazzi 08,45 Ragazzi 08,45 Ragazzi 10,25 Religione 10,05 Ragazzi 09,30 Religione 09,20 Fiction 09,20 Fiction 09,20 Fiction 09,20 Fiction 11,05 Fiction 10,40 Ragazzi 10,00 Informazione 09,45 Info-Tainm. 09,45 Info-Tainm. 09,45 Info-Tainm. 09,45 Info-Tainm. 11,30 Contenitore 11,30 Contenitore (6 Trasmiss.) 11,00 Entertainm. 10,00 Informazione 10,00 Informazione 10,00 Informazione 10,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 11,00 Entertainm. 11,00 Entertainm. 11,00 Entertainm. 11,00 Entertainm. 13,25 Sport 13,25 Informazione (3 Trasmiss.) 14,05 Entertainm. 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 14,00 Entertainm. 13,45 Sport 15,30 Info-Tainm. 14,05 Entertainm. 14,00 Entertainm. 14,05 Entertainm. 14,05 Entertainm. 15,00 Fiction 14,55 Sport 16,30 Entertainm. 15,30 Info-Tainm. 15,30 Info-Tainm. 15,30 Info-Tainm. 15,30 Info-Tainm. 15,45 Film 17,10 Sport (2 Trasmiss.) 17,20 Ragazzi 16,30 Entertainm. 16,30 Entertainm. 16,30 Entertainm. 16,30 Entertainm. 16,40 Ragazzi 18,00 Info-Tainm. 17,50 Informazione 17,20 Ragazzi 17,20 Ragazzi 17,20 Ragazzi 17,00 Ragazzi 16,50 Ragazzi 18,50 Info. (3 Trasmiss.) 18,20 Info-Tainm. 17,50 Informazione 17,25 Sport 17,40 Inform.(3 Tr.) 17,15 Informazione 18,15 Info-Tainm. 19,05 Fiction 18,40 Fiction 18,20 Info-Tainm. 18,15 Informazione 17,55 Sport 17,50 Informazione 19,05 Fiction 20,00 Ragazzi 19,05 Fiction 18,40 Fiction 18,20 Sport 20,30 Informazione 18,20 Info-Tainm. 20,00 Ragazzi 20,30 Informazione 20,00 Ragazzi 19,05 Fiction 19,25 Fiction 20,55 Film 18,,40 Fiction 20,20 Entertainm. 20,55 Film 20,30 Informazione 20,00 Ragazzi 20,00 Ragazzi 23,15 Entertainm. 19,05 Fiction 20,30 Informazione 20,30 Sport 20,55 Entertainm. 20,30 Informazione 20,20 Entertainm. 00,15 Informazione 20,00 Ragazzi 20,55 Film 23,45 Informazione 23,10 Entertainm. 20,55 Fiction 20,30 Informazione 00,40 Info-Tainm. 20,30 Informazione 22,45 Sport 23,50 Sport 23,40 Religione 22,40 Film 20,55 Film 00,45 Sport 20,55 Entertainm. 23,20 Info-Tainm. 00,10 Religione 00,15 Informazione 00,15 Informazione 23,25 Entertainm. 04,15 Cultura 23,15 Entertainm. 00,05 Informazione 00,45 Sport (3 Trasmiss.) 00,40 Info-Tainm. 00,45 Info-Tainm. 00,10 Inform.(3 Pr. 05,45 Infotainm. 00,15 Informazione 00,35 Prosa 04,15 Cultura 00,45 Sport (2 Tr.) 00,50 Sport 00,40 Info-Tainm. 00,40 Info-Tainm. 02,35 Info-Tainm. 04,15 Cultura 04,15 Info-Tainm. 00,45 Sport 00,45 Sport 03,10 Entertainm.

202 Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X). 103 05,45 Info-Tainm. 04,15 Cultura 04,15 Cultura

104

Rai Tre203 (21/X/02 - 27/10/02)

h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato h Domenica 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 07,00 Info-Tainm. 06,00 Entertainm. 08,05 Info-Tainm. 08,05 Info-Tainm. 08,05 Culture-Tain. 08,05 Culture-Tain. 08,05 Culture-Tain. 07,35 Info-Tainm. 07,30 Film 08,30 Info-Tainm. 08,30 Info-Tainm. 09,10 Film 09,00 Sport 09,05 Entertainm. 09,05 Entertainm. 09,05 Entertainm. 09,05 Entertainm. 09,05 Entertainm. 12,00 Informazione 12,00 Info-Tainm. 09,50 Entertainm. 09,50 Entertainm. 09,50 Entertainm. 09,50 Entertainm. 09,50 Entertainm. 12,55 Fiction 12,40 Info-Tainm. 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 14,00 Informazione 13,15 Culture-Tain (2 Trasmiss.) 12,25 Info-Tainm. 12,25 Info-Tainm. 12,25 Info-Tainm. 12,25 Info-Tainm. 12,25 Info-Tainm. 14,50 Info-Tainm 14,00 Informazione 13,10 Fiction 13,10 Fiction 13,10 Fiction 13,10 Fiction 12,55 Informazione 15,50 Sport 14,30 Info-Tainm. (2 Trasmiss.) 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,00 Informazione 14,10 Informazione 13,40 Entertainm. 15,55 Sport 18,00 Entertainm. (2 Trasmiss.) 14,50 Cultura 14,50 Cultura 14,50 Cultura 14,50 Cultura 14,00 Informazione 16,30 Sport 18,55 Informazione 15,00 Info-Tainm. 15,00 Info-Tainm. 15,00 Infotainm. 15,00 Sport 14,50 Cultura 17,00 Sport 20,00 Entertainm. 15,10 Ragazzi 15,10 Ragazzi 15,10 Ragazzi . 15,00 Info-Tainm. 17,30 Sport 20,30 Satire 15,20 Ragazzi 15,20 Ragazzi 15,25 Sport 15,10 Ragazzi (2 18,00 Sport 20,50 Talk Show Trasmiss.) 16,40 Info-Tainm. 16,40 Info-Tainm. 17,25 Info-Tainm. 16,50 Info-Tainm 16,40 Info-Tainm. 19,00 Informazione 22,50 Informazione 17,30 Info-Tainm. 17,30 Info-Tainm. 17,50 Info-Tainm. 17,30 Info-Tainm. 17,30 Info-Tainm. 20,00 Info-Tainm. 23,10 Info-Tainm. 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,00 Informazione 19,30 Informazione 20,30 Satire 00,00 Informazione (3 Trasmiss.) 20,10 Satira 20,00 Satira 20,10 Satira 20,10 Satira 20,10 Satira 20,50 Documentario 00,10 Info-Tainm. 20,30 Fiction 20,30 Fiction 20,30 Fiction 20,30 Fiction 20,30 Fiction 23,00 Informazione 00,50 Informazione 20,50 TV-VERITÀ 20,50 Info-Tainm. 20,50 TV-VERITÀ 20,50 Fiction 20,50 Film 23,20 TV-VERITÀ 00,55 Film 23,00 Informazione 22,50 Informazione 23,15 Informazione 22,25 Informazione 23,05 Informazione 00,25 Film 02,55 Film (3 Trasmiss.) 23,35 Entertainm. 23,30 Entertainm. 23,30 Entertainm. 23,30 Documentario 23,40 Entertainm. 01,55 Film 00,10 Informazione 00,05 Informazione 00,00 Informazione 00,20 Informazione 00,15 Informazione 00,20 Documentario 00,15 Documentario 00,10 Cultura 00,30 MUSICA 00,25 Cultura 00,45 Info-Tainm. 00,40 Info-Tain.(2 00,45 Info-Tainm. 01,25 Info-Tainm. 00,55 Info-Tainm. Trasmiss.) 00,50 Entertainm. 01,20 Entertainm. 00,50 Documentario 01,30 Entertainm. 01,00 Entertainm.

203 Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X). 105 01,00 Film 01,50 Entertainm. 01,50 Entertainm. 01,50 Entertainm. 01,05 Film (3 Film) 03,00 Informazione 02,00 Informazione 02,00 Informazione 02,00 Informazione

106

Canale 5204 (21/X/02 - 27/X/02)

h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato h Domenica 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione (4 Trasmiss.) 08,45 Info-Tainm 08,45 Info-Tainm. 08,45 Info-Tainm. 08,45 Info-Tainm. 08,45 Info-Tainm. 08,30 Info-Tainm. 08,40 Religione 09,30 Informazione 09,30 Informazione 09,30 Informazione 09,30 Informazione 09,30 Informazione 09,15 Entertainm. 09,20 Info-Tainm. 09,35 Talk Show 09,35 Talk Show 09,35 Talk Show 09,35 Talk Show 09,35 Talk Show 09,45 Film 09,50 Film 11,20 Entertainm. 11,20 Entertainm. 11,20 Entertainm. 11,20 Entertainm. 11,20 Entertainm. 12,00 Fiction 12,00 Fiction 12,30 Fiction 12,30 Fiction 12,30 Fiction 12,30 Fiction 12,30 Fiction 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,00 Informazione 13,40 Fiction 13,35 Contenitore 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 14,10 Entertainm. 18,15 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 14,15 Fiction 16,15 Film 18,45 Contenitore 14,40 Entertainm. 14,45 Entertainm. 14,45 Entertainm. 14,45 Entertainm. 14,45 Entertainm. 16,30 Film 20,00 Informazione 16,10 Entertainm. 16,10 Entertainm. 16,10 Entertainm. 16,10 Entertainm. 16,10 Entertainm. 18,40 Entertainm. 20,30 Entertainm. 17,00 Fiction 17,00 Fiction 17,00 Fiction 17,00 Fiction 17,00 Fiction 20,00 Informazione 23,10 Info-Tainm. 18,00 Info-Tainm. 18,00 Info-Tainm. 18,00 Info-Tainm. 18,00 Info-Tainm. 18,00 Info-Tainm. 20,30 Satire 00,05 Entertainm. 18,45 Entertainm. 18,40 Entertainm. 18,40 Entertainm. 18,40 Entertainm. 18,40 Entertainm. 21,00 Entertainm. 00,40 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 20,00 Informazione 00,00 Entertainm. 01,10 Info-Tainm. 20,30 Satire 20,30 Satire 20,30 Satire 20,30 Satire 20,30 Satire 00,35 Informazione 01,55 Film 21,00 Film 21,00 Fiction 20,40 Sport 21,00 Fiction 21,00 Entertainm. 01,05 Satire 03,45 Informazione 00,35 Informazione 23,00 Talk Show 22,45 Talk Show 23,00 Talk Show 22,45 Fiction 01,35 Film 04,15 Fiction 01,00 Satire 01,00 Informazione 01,00 Informazione 01,00 Informazione 23,15 Talk Show 03,15 Fiction 05,00 Fiction 01,30 Fiction 01,30 Satire 01,30 Satire 01,30 Satira 01,00 Informazione 03,45 Informazione 05,30 Informazione 02,00 Informazione 02,00 Fiction 02,00 Fiction 02,00 Fiction 01,30 Satire 04,15 Fiction 02,30 Fiction 02,30 Informazione 02,30 Informazione 02,30 Informazione 02,00 Fiction 05,00 Fiction 03,15 Informazione 03,00 Fiction 03,00 Fiction 03,00 Fiction 02,30 Info-Tainm. 03,45 Fiction 03,45 Informazione 03,45 Informazione 03,45 Informazione 03,00 Fiction 04,30 Informazione 04,15 Fiction 04,15 Fiction 04,15 Fiction 03,45 Informazione 05,00 Fiction 05,00 Fiction 05,00 Fiction 05,00 Fiction 04,15 Fiction 05,30 Informazione 05,30 Informazione 05,30 Informazione 05,00 Fiction 05,30 Informazione

204 Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X). 107

Italia 1205 (21/X/02 - 27/X/02)

h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato h Domenica 07,00 Ragazzi 07,00 Ragazzi 07,00 Ragazzi 07,00 Ragazzi 07,00 Ragazzi 07,00 Info-Tainm. 07,00 Info-Tainm. (5 Trasmiss.) 09,00 Fiction 09,00 Fiction 09,00 Fiction 09,00 Fiction 09,00 Fiction 07,30 Ragazzi 07,30 Ragazzi 09,30 Film 09,30 Film 09,30 Film 09,30 Film 09,30 Film 11,00 Fiction 12,00 Info-Tainm. 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,30 Fiction 11,55 Info-Tainm. 12,35 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 12,25 Informazione 13,00 Sport 13,00 Fiction 13,00 Fiction 13,00 Fiction 13,30 Fiction 13,30 Fiction 13,00 Fiction 13,35 Sport 13,40 Ragazzi 13,40 Ragazzi 13,40 Ragazzi 13,40 Ragazzi 13,40 Ragazzi 13,30 Entertainm. 13,40 Ragazzi 14,05 Ragazzi 14,05 Ragazzi 14,05 Ragazzi 14,05 Ragazzi 13,40 Ragazzi 14,10 Film 15,30 Film 14,30 Entertainm. 14,30 Entertainm. 14,30 Entertainm. 14,30 Entertainm. 14,30 Entertainm. 16,10 Film 18,30 Informazione 15,15 Fiction 15,15 Fiction 15,15 Fiction 15,15 Fiction 15,15 Fiction 18,00 Fiction 19,00 Fiction 16,10 Ragazzi 16,10 Ragazzi 16,10 Ragazzi 16,10 Ragazzi 16,10 Ragazzi 18,30 Informazione 20,00 Entertainm. 16,40 Ragazzi 16,40 Ragazzi 16,40 Ragazzi 16,40 Ragazzi 16,40 Ragazzi 19,00 Entertainm. 21,30 Entertainm. 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 17,00 Ragazzi 20,00 Entertainm 22,35 Sport 17,25 Fiction 17,25 Fiction 17,25 Fiction 17,25 Fiction 17,25 Fiction 21,00 Film 00,40 Sport 18,00 Fiction 18,00 Fiction 18,00 Fiction 18,00 Fiction 18,00 Fiction 22,50 Entertainm. 01,05 Sport 18,30 Informazione 18,30 Informazione 18,30 Informazione 18,30 Informazione 18,30 Informazione 23,00 Entertainm. 01,30 Fiction 19,00 Entertainm. 19,00 Entertainm. 19,00 Entertainm 19,00 Entertainm. 19,00 Entertainm. 00,00 Sport 02,30 Film 19,30 Fiction 19,30 Fiction 19,30 Fiction 19,30 Fiction 19,30 Fiction 00,30 Sport 04,30 Fiction 19,55 Entertainm. 19,55 Entertainm. 19,55 Entertainm. 19,55 Entertainm. 19,55 Entertainm. 01,30 Film 05,40 Entertainm. 21,00 Fiction 21,00 Entertainm. 21,00 Entertainm. 21,00 Film 21,00 Fiction 03,10 Film 05,45 Fiction 23,05 Film 23,15 Sport 00,00 Entertainm. 23,30 Entertainm. 22,50 TV-VERITÀ 01,05 Informazione 00,45 Informazione 00,30 Informazione 00,30 Informazione 23,50 Info-Tainm. 01,20 Sport 00,55 Sport 00,40 Sport 00,40 Sport 00,20 Informazione 01,45 Sport 01,25 Fiction 01,10 Fiction 01,10 Fiction 00,30 Sport 02,40 Fiction 02,20 Entertainm. 02,05 Entertainm. 02,50 Entertainm. 00,50 Info-Tainm. 03,35 Entertainm. 02,45 Film 02,30 Film 02,30 Film 01,05 Fiction 04,40 Film 03,40 Informazione 04,05 Entertainm. 03,50 Informazione 02,10 Entertainm. 05,40 Entertainm. 03,35 Film 05,10 Fiction 05,00 Fiction 02,25 Film 06,30 Fiction 04,25 Entertainm. 06,00 Entertainm. 06,00 Entertainm. 03,30 Informazione 05,25 Fiction 06,10 Fiction 06,05 Fiction 03,40 Film

205 Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X). 108 06,15 Entertainm. 04,00 Entertainm. 06,20 Fiction 05,05 Fiction

109 Rete 4206 (21/X/02 - 27/X/02)

h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato h Domenica 06,00 Fiction 06,00 Fiction 06,00 Fiction 06,00 Fiction 06,00 Fiction 06,00 Fiction 06,00 Entertainm. 06,40 Fiction 06,40 Fiction 06,20 Fiction 06,40 Fiction 06,40 Fiction 06,40 Fiction 06,15 Fiction 07,15 Fiction 07,15 Fiction 07,00 Info-Tainm. 07,15 Fiction 07,15 Fiction 07,20 Fiction 07,10 Fiction (2 Trasmiss.) 08,05 Info-Tainm. 08,05 Info-Tainm. 07,35 Documentario 08,05 Info-Tainm. 08,05 Talk Show 08,10 Informazione 08,10 Informazione 08,20 Informazione 08,20 Informazione 08,20 Informazione 08,20 Informazione 08,20 Informazione 08,30 Film 09,30 Entertainm. 08,45 Info-Tainm. 08,45 Info-Tainm. 08,45 Info-Tainm. 08,45 Info-Tainm. 08,45 Info-Tainm. 10,30 Entertainm. 10,00 Religione 09,45 Fiction 09,45 Fiction 09,45 Fiction 09,45 Fiction 09,45 Fiction 11,30 Informazione 10,45 Entertainm. 10,30 Fiction 10,30 Fiction 10,30 Fiction 10,30 Fiction 10,30 Fiction 11,40 Entertainm. 12,30 Info-Tainm. 11,30 Informazione 11,30 Informazione 11,30 Informazione 11,30 Informazione 11,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 11,40 Entertainm. 11,40 Entertainm. 11,40 Entertainm. 11,40 Entertainm. 11,40 Entertainm 14,00 Entertainm. 14,00 Film 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 13,30 Informazione 15,00 Entertainm. 16,50 Film 14,00 Entertainm. 14,00 Entertainm. 14,00 Entertainm. 14,00 Entertainm. 14,00 Entertainm. 16,00 Entertainm. 18,55 Informazione 15,00 Documentario 15,00 Documentario 15,00 Documentario 15,00 Documentario 15,00 Documentario 17,00 Entertainm. 19,35 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 16,00 Fiction 18,00 Entertainm. 21,00 Film 17,00 Film 16,50 Film 17,00 Film 16,45 Film 16,55 Film 18,55 Informazione 23,30 Film 18,55 Informazione 18,55 Informazione 18,55 Informazione 18,55 Informazione 18,55 Informazione 19,35 Fiction 01,35 Informazione (2 Trasmiss.) 19,50 Fiction 19,50 Fiction 19,50 Fiction 19,50 Fiction 19,50 Fiction 20,15 Fiction 02,00 Musica 21,00 Entertainm. 21,00 Sport 21,00 Film 21,00 Entertainm. 20,50 Fiction 21,00 Film 03,20 Film 23,20 Documentario 23,05 Film 22,50 Sport 23,45 Film 23,00 Fiction 23,00 Info-Tainm. 04,50 Informazione 00,25 Film 00,00 Info-Tainm. 00,,55 Film 01,40 Informazione 23,55 Film 23,45 Film 05,10 Entertainm. 01,15 Informazione 01,05 Informazione 01,40 Informazione 02,05 Film 00,50 Informazione 01,20 Informazione (2 Trasmiss.) 02,45 Film 01,30 Film 01,50 Film 03,40 Informazione 01,00 Film 01,45 Film 03,15 Informazione 03,20 Film 03,10 Film 03,50 Film 02,35 Film 03,30 Film 03,25 Film 04,30 Info-Tainm. 03,40 Informazione 04,45 Info-Tainm. 04,10 Info-Tainm. 04,20 Info-Tainm. 05,15 Info-Tainm. 03,50 Film 05,30 Info-Tainm. 04,55 Talk Show 05,05 Info-Tainm. 05,25 Informazione 04,40 Info-Tainm. 05,40 Entertainm. 05,05 Informazione 05,15 Informazione 05,45 Entertainm. 05,25 Info-Tainm. 05,25 Entertainm. 05,35 Entertainm. 05,35 Informazione 05,45 Entertainm.

206 Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X). 110 La 7207 (21/X/02 - 27/X/02)

h Lunedì h Martedì h Mercoledì h Giovedì h Venerdì h Sabato h Domenica 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 06,00 Informazione 08,00 Informazione 09,25 Documentario 07,00 Informazione 07,00 Informazione 07,00 Informazione 07,00 Informazione 07,00 Informazione 08,30 Ragazzi 10,20 Fiction 07,15 Info-Tainm. 07,15 Info-Tainm. 07,15 Info-Tainm. 07,15 Info-Tainm. 07,15 Info-Tainm. 09,25 Documentario 11,20 Info-Tainm. 07,45 Informazione 07,45 Informazione 07,45 Informazione 07,45 Informazione 07,45 Informazione 10,20 Fiction 12,00 Informazione 08,15 Info-Tainm. 08,15 Info-Tainm. 08,15 Info-Tainm. 08,15 Info-Tainm. 11,20 Info-Tainm. 12,20 Info-Tainm. 09,50 Informazione 09,50 Informazione 09,50 Informazione 09,50 Informazione 09,50 Informazione 12,00 Informazione 13,00 Info-Tainm. 09,55 Fiction 09,55 Fiction 09,55 Fiction 09,55 Fiction 09,55 Fiction 12,30 Entertainm. 13,25 Info-Tainm. 10,50 Entertainm. 10,55 Talk Show 13,00 Entertainm. 14,00 Film 11,00 Talk Show 11,00 Talk Show 11,00 Talk Show 11,00 Talk Show 13,45 Film 16,25 Film 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 12,00 Informazione 15,45 Documentario 18,40 Ragazzi 12,30 Entertainm. 12,30 Entertainm. 12,30 Entertainm. 12,30 Entertainm. 12,30 Entertainm. 16,50 Sport 19,45 Informazione 12,40 Informazione 12,40 Informazione 12,40 Informazione 12,40 Informazione 12,40 Informazione 17,50 Sport 20,40 Info-Tainm. 12,45 Fiction 12,45 Fiction 12,45 Fiction 12,45 Fiction 12,45 Fiction 18,40 Ragazzi 22,40 Entertainm. 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 13,40 Fiction 19,45 Informazione 14,05 Film 14,05 Film 14,05 Ragazzi 14,05 Film 14,05 Film 20,40 Info-Tainm. 14,15 Film 22,40 Info-Tainm. 15,55 Fiction 15,55 Fiction 15,55 Fiction 15,55 Fiction 15,55 Fiction 23,40 Info-Tainm. 16,50 Entertainm. 16,50 Entertainm. 16,50 Entertainm. 16,50 Entertainm. 16,50 Entertainm. 17,25 Talk Show 17,25 Talk Show 17,25 Talk Show 17,25 Talk Show 17,25 Talk Show 18,20 Informazione 18,20 Informazione 18,20 Informazione 18,20 Informazione 18,20 Informazione 19,20 Documentario 19,20 Documentario 19,20 Documentario 19,55 Documentario 19,20 Documentario 19,20 Info-Tainm. 19,20 Info-Tainm. 19,20 Info-Tainm. 19,20 Info-Tainm. 19,20 Info-Tainm. 19,45 Informazione 19,45 Informazione 19,40 Informazione 19,45 Informazione 19,45 Informazione 20,30 Talk Show 20,30 Talk Show 20,30 Talk Show 20,30 Talk Show 20,30 Talk Show 21,00 Entertainm. 21,30 Film 21,30 Fiction 21,30 Film 21,30 Info-Tainm. 23,30 Fiction 23,30 Fiction 22,30 TEATRO 23,30 Fiction 23,30 Fiction 00,00 Talk Show 23,55 Talk Show 23,30 Fiction 00,00 Talk Show 00,00 Talk Show 00,05 Informazione 00,00 Informazione 00,00 Talk Show 00,05 Informazione 00,05 Informazione 00,15 Talk Show 00,10 Talk Show 00,05 Informazione 00,15 Talk Show 00,15 Talk Show 01,15 Fiction 01,10 Fiction 00,15 Talk Show 01,10 Fiction 01,10 Fiction 02,10 Talk Show 02,05 Talk Show 01,10 Fiction 02,10 Talk Show 02,10 Talk Show 02,40 Culture-Tain. 03,10 Culture-Tain. 02,10 Talk Show 03,10 Culture-Tain. 03,10 Culture-Tain. 02,45 Entertainm. 03,15 Entertainm. 03,10 Cultur-Tain. 03,15 Entertainm. 03,10 Entertainm. 03,15 Informazione 03,45 Informazione 03,15 Ent.+Inf(3,45) 03,45 Informazione 03,45 Informazione

207 Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X). 111

112

Cap. II “LOADING MATRIX” L’universo televisivo tra spettacolo e simulazione

Dopo aver percorso la storia del mezzo, il nostro itinerario esplorativo all’interno del fenomeno tv in Italia va a imbattersi nell’unico vero “Schwerpunkt” della presente ricerca: il concetto di spettacolo e il processo di spettacolarizzazione. Si tratta di una coppia di idee a cui ciascun individuo (anche quello comune) fa riferimento e a cui tutti gli studiosi di comunicazione di massa spesso si richiamano; questo fatto tuttavia non deve farci pensare che la loro comprensione, il loro significato sia immediatamente evidente. Infatti, di fronte alla stringenza di domande del tipo: quale fenomeno denotano termini come spettacolarizzazione e spettacolo? Quale potrebbe essere una loro definizione?, sembriamo incapaci di indicare il referente reale, di additare quell’oggetto “per cui stanno” queste due entità verbali rispettivamente di venti e di dieci lettere. Iniziamo allora a balbettare frasi prive di senso, o comunque prive di quella incontrovertibile scientificità che il problema esigerebbe, frasi cioè che additano, come esempio ineluttabile di spettacolarizzazione, da un lato lo stato attuale del medium televisivo e dall’altro i nuovi usi e costumi sociali, introdotti nel “mainstream”, per effetto del medium stesso. Ciò che ci appare evidente, assolutamente pacifico è il fatto che del suddetto spettacolo i media siano il veicolo privilegiato e che la nostra quotidianità ne sia conseguentemente invasa a causa della loro azione. Ma che cos’è questa “spettacolarità”, che cos’è questo aspetto finzional-fittizio verso il quale si intrattiene un rapporto quasi erotico, espresso dalla contraddittoria relazione di condanna (a livello ufficiale) e di desiderio (a livello intimo)? Nell’atto stesso in cui tali quesiti si pongono in tutta la loro pregnante inesorabilità, le nostre facoltà teoretiche restano quasi disarmate, si percepiscono cioè prive del contenuto di una nozione non solo utilizzata, ma perfino abusata. È una situazione paragonabile, per certi versi, alla questione del tempo in Agostino: “che cos’è il tempo? Finché nessuno me lo chiede lo so, ma nel momento in cui qualcuno me lo chiede non lo so più”. La misconoscenza dunque di un concetto profondamente, si potrebbe dire ontologicamente legato alla comunicazione mediale ci ha spinto ad approfondire le nostre risicate conoscenze e a dare corpo e fondamento alle nostre intuizioni. Il destino ha voluto che, lungo il percorso di ricerca, incontrassimo personalità insigni, veri e propri decostruzionisti (oseremmo definirli) della società di massa208 (visionari o geniali, a seconda della prospettiva abbracciata). Tali soggetti hanno tentato di tratteggiare e di descrivere in vario modo i confini della nozione di spettacolo, ancorandola innanzitutto non ai mezzi di comunicazione, bensì a un più o meno indefinito (talvolta definito, talvolta no) potere, che dei mezzi di comunicazione stessi si servirebbe. Il quadro che ne deriva è quello di uno scenario desolante, di uno sfondo in cui sembrerebbe impossibile, in certi momenti, trovare una via di fuga. Ciò che esiste, ciò che è vero, ciò di cui la nostra quotidianità è costituita è la “concretezza di un mondo parallelo”, coesistente a quello reale, alimentato da soggetti vivi che, con questo stesso atto di alimentazione, decretano la propria morte, ovvero la fine della vita reale e l’inizio di una vita fittizia, l’abbandono del corpo reale in luogo dell’appropriazione del suo simulacro. È un cosmo dai contorni futuristici, un cosmo costituito interamente grazie alla demiurgica attività umana, un cosmo popolato non più da oggetti e

208 Il nostro percorso di ricerca attraverso gli archivi della critica della società dello spettacolo e del linguaggio mediale ci ha fatto impattare con tre testi, nell’ordine cronologico: - G. DEBORD, La société du spectacle, Gallimard, Paris, 1992 (si tratta dell’edizione di cui ci siamo serviti, sebbene quella originale risalga al 1967 e sia stata pubblicata da Buchet-Chastel, sempre a Parigi). - J. BAUDRILLARD, Le crime parfait, Galilée, Paris, 1995. - J. DERRIDA – B. STIEGLER, Échographies de la télévision, Galilée, Paris, 1996. soggetti reali, ma delle loro immagini, dai loro “fantasmi” (“fantômes”), da fantasmi che, per ironia della sorte, sono più perfetti di quelli veri; è un cosmo in cui il tempo presente è artificialmente prodotto209, in cui l’attualità si trasforma in “artefattualità” (“artefactualité”) e in “attuvirtualità” (“actuvirtualité”): tutto ciò che è attuale è costruito, è fabbricato.210 La descrizione di questo scenario ci ha fatto tornare alla memoria due film, entrambi dei fratelli Wachowski: si tratta dei celeberrimi Matrix e Matrix Reloaded, laddove il secondo costituisce il seguito del primo.211 Il primo dei due racconti prende corpo nella stanza di un programmatore informatico (: Neo). Non si tratta di un programmatore qualunque, ma di uno straordinario specialista, di uno cioè in possesso di grandi abilità tecniche, di grandi conoscenze pratiche e teoriche, sfruttate per guadagnare più del normale. La sua occupazione consiste infatti nel realizzare, per conto di terzi, dei “lavoretti” per così dire illegali (ovvero violare “sistemi” protetti, rubare via rete informazioni nascoste…), dietro pagamento di una lauta parcella: una sorta di “hackeraggio su committenza” insomma. Nel corso di una delle sue tante “piratesche navigazioni” nel mondo della “rete”, si imbatte e riesce a violare “il” Sistema, ovvero quello che poi scoprirà essere il “Matrix”. All’inizio, non è ancora pienamente cosciente della vera natura di tale “Sistema”, di conseguenza non è in grado, per il momento, di percepire l’enorme portata del suo imminente rinvenimento; il senso della quantità di numeri e di codici che il suo computer registra, gli risulterà chiaro infatti soltanto con il passare del tempo, dopo essere diventato a pieno titolo uno dei maggiori antagonisti della “Matrice”.

209 Si tratta di una citazione quasi letterale: «Aujourd’hui plus que jamais, penser son temps, surtout quand on court à son sujet le risque ou la chance de la parole publique, c’est prendre acte, pour le mettre en œuvre, du fait que le temps de cette parole même est artificiellement produit. C’est un artefact». (J. DERRIDA : 1996, 11) 210 «Schématiquement, deux traits désignent ce qui fait l’actualité en général. On pourrait se risquer à leur donner deux surnoms-valise : l’artefactualité et l’actuvirtualité. Le premier trait, c’est que l’actualité, précisément, est faite…», Ib., 11. 211 In realtà, in un’intervista concessa a Le Nouvel Observateur del 19 giugno 2003, Jean Baudrillard prende apertamente le distanze da Matrix. L’interesse della stampa alle sue opinioni in merito nasce fondamentalmente dal rifiuto della proposta di collaborazione con i due registi ai lavori di Matrix Reloaded (nonostante la citazione del suo Simulacres et simulation [del 1981] nel primo dei due film). Dalla lettura di queste poche pagine, non ci sembra tuttavia che Baudrillard condanni i due film in questione; al contrario, come descrizione della realtà simulata, paiono funzionare. Il punto su cui sono carenti, vale a dire l’aspetto che non delinea in modo fedele lo stato reale della simulazione, quale entra in gioco nella ineludibile concretezza della quotidianità, è invece il fatto che l’individuo, il soggetto umano può esistere o nella Matrice o nella città di Zion, quella dei ribelli. Questo non funziona! La questione sostanziale e necessaria che andava meglio sviluppata era, al contrario, vedere che cosa succedeva nel punto di congiunzione tra questi due cosmi. La simulazione nasce dalla coscienza dell’illusione radicale della realtà, di fronte alla quale, o meglio, dall’angoscia rispetto alla quale si è portati a “fabbricare” un mondo fittizio, finzionale, simulato per l’appunto, in cui l’illusione è fatta fuori. Quindi, se ci è consentito interpretare questo concetto (ma tale problematica apparirà più chiara quando si analizzerà nei dettagli il testo di Baudrillard citato in nota 1), l’individuo sarebbe co-presente in entrambi i cosmi: quello reale simulato e quello reale illusorio, coscientemente negato. Ecco quanto dichiara il profeta della postmodernità sulle pagine de Le Nouvel Observateur: « le dispositif y est plus grossier et ne suscite pas vraiment le trouble. Ou les personnages sont dans la Matrice, c’est-à-dire dans la numérisation des choses. Ou ils sont radicalement en dehors, en l’occurrence à Zion, la cité des résistants. Or ce qui serait intéressant, c’est de montrer ce qui se passe à la jointure des deux mondes (…) Le monde vu comme illusion radicale, voilà un problème qui s’est posé à toutes les grandes cultures et qu’elles ont résolu par l’art et la symbolisation. Ce que nous avons inventé, nous, pour supporter cette souffrance, c’est un réel simulé, un univers virtuel d’où est expurgé ce qu’il y a de dangereux, de négatif, et qui supplante désormais le réel, qui en est la solution finale» (Baudrillard décode ‘Matrix’, in : Le Nouvel Observateur, n° 2015, 19 giu 2003). L’altro aspetto rispetto al quale Matrix risulterebbe carente è il fatto che non suscita nello spettatore quell’ “ironia critica”, vista come condizione essenziale per l’inizio della presa di coscienza del meccanismo simulativo: «Ce qui est très frappant dans ‘Matrix 2’, c’est qu’il n’y a pas une lueur d’ironie qui permette au spectateur de prendre ce gigantesque effet spécial à revers» (Ib.). L’unica cosa che Matrix descriverebbe in modo corretto è la “matrice della matrice”, ovvero l’atto di creazione della matrice che produrrebbe la realtà simulata. In questo senso e solo in questo, cioè in quanto affresco del mondo dei simulacri, ci riferiremo a questo film. 114 Durante la notte, viene “assalito” da un incubo, da un sogno perturbante, angoscioso; perturbante e angoscioso in quanto sembra avere tutti i connotati della tangibilità, dell’esistenza reale: il confine tra il concreto e l’onirico gli pare estremamente sfumato, estremamente sottile, quasi annullato, comunque non immediatamente e totalmente presente alle sue facoltà percettive. Quello che gli si configura è uno scenario desolante, uno scenario dominato dal nulla, dal puro vuoto. In questo vuoto, gli esseri umani, nella loro essenza fisica, vale a dire nei loro corpi, costituiscono solo l’appendice terminale di un sistema. Posti in vere e proprie bare trasparenti, immobili, quasi in uno stato di “coma fisico”, sono collegati, attraverso dei cavi, a un elaboratore digitale che plasma, istante per istante, tramite formule binarie, un’esistenza e una vita dal carattere esclusivamente mentale. Già, mentale! Questi uomini, questi prolungamenti in carne e ossa di un demiurgo “bioforo” centrale non sperimentano nulla di concreto, non saggiano nulla che abbia una qualche consistenza: vivono e logorano i propri corpi fisici, per effetto di un rapporto sclerotico con delle immagini, con delle entità virtuali, la cui esistenza ha luogo solo ed esclusivamente nel loro intelletto. È questo il mondo di Matrix, un mondo digitale, un mondo di cifre, plasmato hic et nunc da un computer che ne regola istantaneamente il divenire. Di fronte a questo scenario, Neo, il nostro programmatore, non può far altro che svegliarsi di soprassalto, cercare di cancellare l’angoscia derivante dall’aver visto ciò che ha visto. Ma tale angoscia è ineludibile, tale angoscia è ineliminabile; nella mente del protagonista rimane il dubbio, la preoccupazione che tutto ciò che ha percepito possa essere vero. Può essere vero? Se lo fosse, questo significherebbe che quello che appare reale, in verità, è una simulazione, un gioco di oggetti “fantasma”, generati da formule e privi di concretezza, mentre al contrario la realtà (quella vera) sarebbe il nulla, il non senso. Come si potrebbe sopportare una simile evidenza? È a questo punto che tale personaggio (già in qualche modo cosciente dell’inganno onto- cosmologico) viene ricercato da due categorie di persone: da un lato dagli agenti di Matrix, che cercheranno di ucciderlo, o meglio, che cercheranno di cancellare nella sua mente le evidenze da lui raggiunte, da un altro lato dai ribelli della città di Zion (i quali vorrebbero coinvolgerlo nella loro lotta al Sistema), che fanno dell’opposizione alla Matrice la loro ragione di vita. Nel momento in cui Neo decide di ribellarsi e di combattere contro i fautori e i fattori del mondo artificiale, impara a conoscerne anche i segreti e il funzionamento. Il suddetto mondo è un cosmo creato digitalmente, dove tutto ciò che avviene e dovrà avvenire è stato già stabilito e dove ogni avvenimento deve rispondere alla incontrovertibile razionalità del programma informatico, che presiede alla produzione perpetua della “concretezza simulata”. In tale concretezza, vige il principio della perfezione, laddove anche l’errore, il male, rientrano in un superiore disegno di bontà finale. Ma un concetto di finalità superiore, rimanda al principio di causalità, che, in quanto espressione suprema della ragione, in quanto vertice della razionalità, è ciò che presiede al divenire del cosmo, dell’universo di Matrix. All’interno di questa razionalità, anche ciò che è per definizione imprevisto, cioè l’avvenimento, l’evento (“événement”), è stato già ampiamente previsto, in quanto finalizzato allo sviluppo del tutto. Ogni cosa funziona cioè come ognuno si aspetta che funzioni, ogni cosa va come ognuno desidera che vada. Ma questo universo profondamente logico, questo universo dotato di senso, questa dimensione quasi idilliaca governata dai rapporti di causa-effetto è una pura simulazione, è la risultante finale delle potenzialità quasi infinite di un software informatico. Gli oggetti, nella loro perfezione, le città, i negozi, i parchi, l’esserci e il manifestarsi del tutto sono delle pure immagini, prive di consistenza, prive di referenza, o meglio la cui consistenza e referenza non sono altro che un insieme ordinato di numeri, un insieme ordinato di codici di tipo binario. Come tutti i programmi però, anche Matrix non è privo di errori, non è privo di calcoli mal riusciti. L’esempio più macroscopico di tali errori è costituito dai “déjà vu”, eventi psichici per mezzo dei quali i soggetti umani hanno l’impressione di aver vissuto già ciò che stanno vivendo. In un simile sistema informatico, non è escluso che una determinata esperienza sia già stata fatta. Ma, come si diceva, la realtà è, per l’appunto, l’esito di tale siffatto sistema: è una realtà non reale, non reale proprio in quanto reale, cioè proprio in quanto è come ognuno vorrebbe che fosse; in questo senso è, da un punto di vista ontologico (e non ovviamente fenomenologico), il luogo dove

115 l’imprevisto, l’avvenimento, l’evento (inteso in tutta la sua pregnanza, in tutta la sua “quidditas” significativa) non può verificarsi. Tutto infatti è spiegabile da una causa che viene prima, quindi tutto è ontologicamente prevedibile. Ovviamente però, ciò di cui si sta parlando è un qualcosa di virtuale, un qualcosa che fa parte della mega-simulazione del reale. Emblematico, da questo punto di vista, è il dialogo (in Matrix Reloaded) di Neo con una sorta di “tombeur des femmes” francese (affiancato dalla bellissima quanto irreale [perché prodotta dal computer] Monica Bellucci), che conosce molto bene i segreti oscuri di Matrix. Il gusto sublime delle lussuose pietanze servite nel locale, in cui i due si incontrano, non è reale; il sapore delle ostriche con caviale e champagne, la fragranza indescrivibile dell’aragosta, tutto questo non è reale. In seguito a una piccola, lieve modifica al sistema di programmazione globale infatti, potrebbero diventare piacevoli anche lo sterco o l’urina. E come non sono concrete le sensazioni del palato, allo stesso modo non è concreto neanche quel concetto magico che si chiama causalità; esso è qualcosa di inventato di sana pianta e posto come principio alla base del divenire, regolato dal mega cervello elettronico. Nel mondo reale, non esistono cause ed effetti, nel mondo reale non esiste una spiegazione razionale, non esiste un qualcosa che precede qualcos’altro; nel mondo reale tutto accade perché deve accadere, nel mondo reale tutto avviene per effetto di una misteriosa casualità, perché tale mondo è il regno del non essere, dell’irrazionale, del caos, dell’illusione. È dunque per riportare alla luce questo mondo reale e per smascherare la finzione che Neo e i ribelli della città di Zion combattono; è contro gli agenti di Matrix, in quanto emblemi di un’ipostatica e razionalistica (che tutto regola e stabilisce a priori [e quindi nega in definitiva un’esistenza libera]) logica, che i nostri protagonisti si scagliano. E al di là di qualunque logica, al di là di qualunque spinta razionale, sembra essere l’atto di amore della compagna di Neo (anch’ella ribelle), che, in un impeto di profonda affezione, salva la vita del suo uomo perdendo la propria; un gesto forse irrazionale, ma profondamente umano. Ma se la realtà vera è la negazione dell’essere, il regno dell’illusione, perché gli uomini dovrebbero rinunciare a Matrix, che, in fondo, riproduce “il” tipo di realtà che essi desiderano? O forse è proprio per questo che, di fatto, non vi rinunciano ed è proprio per questo che Matrix viene inventato? Di fronte al non senso, di fronte a una realtà ontologicamente illusoria, ontologicamente priva di ontologia, l’uomo non può che mettere in atto un’opera di “disillusione”, di “invenzione del reale”. L’idea che il mondo sia un’illusione radicale è inaccettabile. È proprio questa la teoria di Jean Baudrillard, che scrive quanto segue:

«Donc, le monde est une illusion radicale. C’est une hypothèse comme une autre. De tout façon, elle est insupportable. Et pour la conjurer, il faut réaliser le monde, lui donner force de réalité, le faire exister et signifié à tout prix, lui ôter tout caractère secret, arbitraire, accidentel, en chasser les apparences et extraire le sens, l’ôter à toute prédestination pour le rendre à sa fin et à son efficacité maximale, l’arracher à sa forme pour le rendre à sa formule» (J. BAUDRILLARD : 1995, 35).

Dunque il mondo non esisterebbe e sarebbe un prodotto artificiale, mentre la realtà, non reale, sarebbe illusoria. La verità è il nichilismo. L’alternativa radicale è tra un mondo popolato di cose fasulle, fantasmatiche, e il regno dell’illusione, del nulla, del non essere, ovvero tra due diversi tipi di non essere. Se la verità del cosmo è il non essere, allora l’uomo, in quanto parte del cosmo, e dunque in quanto egli stesso non essere, non può produrre dell’essere, ma solo un’apparenza di esso: dal non essere non può derivare l’essere. Il crocevia si colloca tra un nulla fittizio e un nulla reale.

116 1. Dalla “spettacolarizzazione” alla “simulazione” ovvero il perfezionamento del dispositivo “artefattuale”

Il richiamo ai due film dei fratelli Wachowski può essere valido come descrizione esemplificativa di quel tipo di realtà che ci siamo costruiti nella mente, dopo aver letto i testi citati in nota, senz’altro molto affascinanti per quanto riguarda il linguaggio, la minuzia delle descrizioni e i ragionamenti, ma tuttavia abbastanza perturbanti. In fondo, tutte le letture del mondo in chiave catastrofica esercitano un grande interesse, una passione morbosa, quasi un’attrazione erotica, e sarebbe interessante analizzarne la ragione; forse essa risiede nel fatto che tali concezioni ci consentono di attribuire la colpa agli altri, che ci danno la possibilità di provare quello straordinario piacere di tipo masochistico, legato alla percezione dell’essere vittima di qualcosa, oppure nel fatto che ci offrono semplicemente la possibilità di opporci a qualcuno, fornendoci dei presupposti esistenziali. In ogni caso, qualunque sia il movente psicologico (movente che purtroppo, o per fortuna, non ci è dato di poter chiarire, né sarebbe comunque questa la sede per farlo), ci sembra che tali teorie creino dei veri e propri “mulini a vento” contro cui, esattamente come Don Quichotte e Sancho Panza, ci troviamo inaspettatamente a combattere. Cerchiamo però di procedere per gradi e di cercare di non emettere giudizi affrettati su ciò che, magari, potrebbe rivelarsi non del tutto falso. La prima grande lettura critica dello spettacolo in cui ci siamo imbattuti è quella di Guy Debord212, uno dei tanti “profeti per caso” del movimento sessantottino. Come si diceva all’inizio, comunemente, tale nozione si configura come uno degli aspetti peculiari dei mezzi di comunicazione di massa, un aspetto che produrrebbe, a sua volta, un processo di “spettacolarizzazione” generale, riguardante la società tutta. Questo è in parte vero, ma, dalle parole del “decostruzionista” francese, una siffatta idea (= spettacolo) sembrerebbe prerogativa non dei media, bensì di qualcuno che utilizza i media per spettacolarizzare il mondo intero. Dunque, la tv, la radio, la stampa sono spettacolari “per accidens”, non “per substantia”. Ma che cos’è, in definitiva, lo spettacolo? È possibile darne una definizione chiara? Il testo di Debord inizia con una citazione della prefazione (in versione francese) alla dodicesima edizione de L’essenza del cristianesimo di Feuerbach:

«Et sans doute notre temps… préfère l’image à la chose, la copie à l’original, la représentation à la réalité, l’apparence à l’être… Ce qui est sacré pour lui, ce n’est que l’illusion, mais ce qui est profane, c’est la vérité. Mieux, le sacré grandit à ses yeux à mesur que décroît la vérité et que l’illusion croît, si bien que le comble de l’illusion est aussi pour lui le comble du sacré».

È una tesi che riecheggia le descrizioni della realtà prodotta da Matrix: è giunta l’epoca in cui alla cosa si preferisce l’immagine, in cui all’oggetto si preferisce il suo simulacro. Non si tratta ancora però di un tipo di visione paragonabile a quella che ritroviamo nei film dei fratelli Wachowski, la quale è assimilabile, sotto un certo rispetto, a quella di Baudrillard o di Derrida; Debord, in effetti, è figlio di una concezione del mondo marxiana o marxista, ovvero di una concezione che gli impedisce di approdare al nichilismo, all’ontologia del nulla e alla realtà come illusione. Ultimamente, l’uomo ha la possibilità di fuggire dall’universo dei fantasmi, dal cosmo delle immagini, dal regno dell’inconcreto. Questo universo, questo cosmo, questo regno è una creazione umana, o meglio una creazione di una parte della società umana che deve essere capovolta, che deve essere rovesciata. Lo spettacolo è inscindibilmente legato alle moderne condizioni di produzione, o meglio, è l’espressione più eloquente di tali condizioni, in quanto generano una divisione, una lacerazione all’interno della società.

212 G. DEBORD: 1992. 117 Lo spettacolo ha origine dal fatto che una piccola parte del mondo si pone e si rappresenta, attraverso di esso (in quanto suo strumento inseparabile), come superiore alle altre.

«L’origine du spectacle est la perte de l’unité du monde, et l’expansion gigantesque du spectacle moderne exprime la totalité de cette perte : l’abstraction de tout travail particulier et l’abstraction générale de la production d’ensemble se traduisent parfaitement dans le spectacle, dont le mode d’être concret est justement le spectacle. Dans le spectacle, une partie du monde se représente devant le monde, et lui est superieure» (G. DEBORD : 1992, 30).

La lacerazione dell’unità, la separazione di una parte del mondo da tutte le altre: si tratta di un lembo, di un brandello di società che intende collocarsi al vertice di essa, di una piccola scheggia, ben cosciente di sé, che vuole signoreggiare incontrastatamente. Signoreggiare dunque, ma non è questo un obiettivo semplice, non è questo un traguardo così facile da raggiungere. Per pervenirvi, è necessario ristabilire i rapporti di forza tra le varie componenti del mondo, è necessario riscrivere le regole del gioco delle parti, è necessario in breve ricostruire l’universo dei viventi, o meglio, un universo parallelo che possa essere affiancato e sostituito a quello reale. È questo lo spettacolo, nient’altro che una ridefinizione dei rapporti sociali, per mezzo delle immagini artificiali di essi, per mezzo di simulacri che permettano di realizzare una divisione delle classi: la visione del mondo della borghesia viene “reificata” in un mondo concreto.213 In questo senso, tutto ciò che è fabbricato nell’universo massificato e massificante della classe al potere risulta essere simulacrale, risulta essere un’immagine intangibile di un oggetto reale. Tutta la produzione nel suo complesso, dunque, non è altro che una generazione perpetua di “fantasmi”, di ologrammi.214 La realtà si configura come mondo dell’astrazione.215 Ma se i rapporti, le relazioni tra gli individui sono mediate dalle immagini, in una realtà fatta essa stessa di immagini, è evidente che la società è composta da individui alienati, da individui che si identificano in ologrammi e, così facendo, si ritrovano nella condizione inesorabile di non poter comprendere più la propria esistenza e la propria condizione di schiavitù. In questo senso, lo spettacolo si configura come una gigantesca e perpetua attività produttiva di alienazione: è questo il fine dell’economia e dell’industria, la fabbricazione continua di merce spettacolare in quanto merce alienante.216 Tuttavia, un interrogativo si impone: come può l’uomo accettare una simile condizione di sudditanza a delle entità, per così dire, ologrammatiche, a delle entità che lo collocano in una

213 Ci sembra che le parole di Debord, che qui di seguito riportiamo, possano essere proprio interpretate in questo modo: «Le spectacle n’est pas un ensemble d’image, mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images (…) Le spectacle ne peut être compris comme l’abus d’un monde de la vision, le produit des techniques de diffusion massive des images. Il est bien plutôt un Weltanschauung devenu effective, matériellement traduit. C’est une vision du monde qui est objectivé», G. DEBORD : 1992, 16, 17. 214 Ed è per questo che Debord può affermare: «Toute la vie des société dans lesquelles règnent les conditions modernes de production s’annonce comme une immense accumulation de spectacles. Tout ce qui était directement vécu s’est éloigné dans une représentation (…) Les image qui se sont détachés de chaque aspect de la vie fusionnent dans un cours commun, où l’unité de cette vie ne peut plus être rétablie (…) La spécialisation des images du monde se retrouve, accomplie, dans le monde de l’image autonomisé, où le mensonger s’est menti à lui-même. Le spectacle en général, comme inversion concret de la vie, est le mouvement autonome du non vivant», Ib. 15, 16. 215 Debord fa notare, a questo proposito, che l’essere a contatto con un mondo di immagini produce un cambiamento addirittura delle nostre modalità percettive: «Là où le monde réel se change en simples images, les simples images deviennent des êtres réels, et les motivations efficientes d’un comportement hypnotique. Le spectacle (…) trouve normalement dans la vue le sens humain privilégié qui fut à d’autres époques le toucher ; le sens le plus abstrait, et le plus mystifiable, corrspond à l’abstraction généralisé de la société actuelle. Mais le spectacle n’est pas identifiable au simple regard, même combiné à l’écoute. Il est ce qui échappe à l’activité des hommes…», Ib. 23. 216 «L’aliénation du spectateur (…) s’exprime ainsi : plus il contemple, moins il vit ; plus il accepte de reconnaître dans les images dominantes du besoin, moins il comprend sa propre existence et son propre désir (…) Le spectacle de la société correspond à une fabrication concrète de l’aliénation. L’expansion économique est principalement l’expansion de cette production industrielle précise», Ib. 31, 32. 118 dimensione “onirico-simulativa”? Che cosa trovano gli individui di così attraente nel proprio doppio irreale e nel doppio irreale delle cose? Che cosa c’è di tanto affascinante in delle pure immagini speculari? La risposta è molto semplice: l’epifania della “copia” connota la stessa come il “maximum” di bontà e di positività possibile. È questa la menzogna suprema dello spettacolo: “tutto ciò che appare è buono e tutto ciò che è buono appare”. Di fronte a questa presunta evidenza non c’è alcuna possibilità di replica.217 Così gli individui abbandonano, si “spogliano” della propria esistenza reale, si “spogliano” della vita concreta per “indossare la maschera, gli abiti e il ruolo” proposti o imposti dal sistema dominante, dalla logica di produzione della società borghese. Lo spettacolo, in quanto strumento di controllo e di manipolazione della suddetta società, offre al singolo una “vedette”, ovvero il personaggio in cui ciascuno dovrà identificarsi, contribuendo, a partire dalla propria individualità (questa volta concreta), alla costruzione del corso generale degli eventi. È in questo modo che l’uomo rinuncia a tutti i tratti che lo costituiscono come tale, a tutte quelle caratteristiche che contraddistinguono, a livello ontologico, la sua irripetibile individualità. Si trasforma così in un soggetto che non è più soggetto, bensì soggetto fittizio, oggetto dell’alterazione realistica, della “fantasmatizzazione” generale del potere vigente: letteralmente, si auto-aliena, in quanto diventa prigioniero di una falsa immagine di sé.218 Ma il processo di generazione di “vedette” è inscindibilmente legato al funzionamento del sistema dominante, al funzionamento del sistema regolatore e manipolatore della società, dunque al sistema produttivo, in quanto fabbricatore di immagini. Bisogna però precisare che, nel mondo, non esistono uno solo, ma due tipi di sistemi, che, a loro volta, si servono di due modelli differenti di spettacolo: lo “spettacolare concentrato” (“spectacle concentré”) e lo “spettacolare diffuso” (“spectacle diffus”).219 Il primo è lo strumento nelle mani del potere, figlio dell’ideologia stalinista, vigente nei paesi del blocco “rosso” (luogo del “capitalismo burocratico” [“capitalisme burocratique”])220, il secondo è invece l’espressione dell’abbondanza del mercato, inteso come realizzazione pratica del capitalismo moderno.221

217 È questa quasi la trasposizione letterale del pensiero di Debord: «La spectacle se présente comme une énorme positivité indiscutable et inaccessible. Il ne dit rien de plus que ce qui apparaît est bon, ce qui est bon apparaît. L’attitude qu’il exige par principe est cette acceptation passive qu’il a déjà en fait obtenue par sa manière d’apparaître sans réplique, par son monopole de l’apparence», Ib. 20. 218 Ecco quanto scrive, in modo abbastanza dettagliato, Debord: «En concentrant en elle l’image d’un rôle possible, la vedette, la représentation spectaculaire de l’homme vivant, concentre donc cette banalité. La condition de vedette est la spécialisation du vécu apparent, l’objet de l’identification à la vie apparente sans profondeur, qui doit compenser l’émiettement des spécialisations productives effectivement vécues. Les vedettes existent pour figurer des types varié de styles de vie et de styles de compréhension de la société, libres de s’exercer globalement (…) L’agent du spectacle mis en scène comme vedette est le contraire de l’individu, l’ennemi de l’individu en lui-même aussi évidemment que chez les autres. Passant dans le spectacle comme modèle d’identification, il a renoncé a toute qualité autonome pour s’identifier lui-même à loi générale de l’obéissance au cours des choses», Ib., 55, 56. Più in là, il nostro autore fa notare come anche gli individui umani concreti (in carne e ossa), presentati dal sistema come modelli da imitare, come “vedette”, per l’appunto, sono offerti come tali non a causa dei loro caratteri individuali, bensì a causa di quelli in cui il suddetto sistema si identifica e in cui loro decidono di incarnarsi. Essi sono divenuti grandi scendendo al di sotto della soglia della propria individualità: «Les gens ammirables en qui le système se personnifie sont bien connus pour n’être pas ce qu’ils sont ; ils sont devenus grands hommes en descendant au-dessous de la réalité de la moindre individuelle, et chacun le sait», Ib., 57. 219 Ecco la modalità in cui Debord divide le due forme di spettacolo: «Selon les nécessité du stade particulier de là misère qu’il dément maintient, le spectacle existe sous une forme concentrée ou sous une forme diffuse. Dans les deux cas, il n’est qu’une image d’unification heureuse environnée de désolation et d’épouvante, au centre tranquille du malheur», Ib., 58. 220 Così Debord definisce lo spettacolare concentrato, rendendo giustizia anche dell’uso del termine “capitalismo burocratico”, applicato al sistema economico dei paesi del blocco comunista: «Le spectaculaire concentré appartient essentiellement au capitalisme burocratique (…) La propriété burocratique en effet est elle-même concentrée en ce sens que le burocrate individuel n’a des rapports avec la possession de l’économie globale que par l’intermédiaire de la communauté burocratique, qu’en tant que membre de cette communauté (…) La 119 Se la caratteristica peculiare dell’apparato economico, che contraddistingue gli stati dell’area “comunista”222, è quella dell’accentramento burocratico, di un accentramento cioè che riassume tutto quello che esiste sotto il suo “onnipresente” controllo, allora in esso vi sarà una sola “vedette”, un solo personaggio, nel quale il singolo individuo dovrà identificarsi. La totalità, il tutto, il fine di un intero universo si concentra nell’immagine di un bene, nell’ologramma artificiale di una bontà fittizia. Di fronte a questa “singolarità di positività”, di fronte a questo positivo unico, l’alternativa è tra l’adesione e la sparizione. Tra l’adesione, realizzata attraverso l’annullamento della singolarità e l’abbraccio del solo modello di vita esistente, e la sparizione, messa in atto dal potere dominante, mediante la violenza poliziesca. È quello che è accaduto, per esempio, nella Cina di Mao.223 Al contrario, nel regno dello “spettacolare diffuso”, c’è una moltiplicazione talvolta anche contraddittoria delle “vedette”: la società si realizza mediante una progettualità frammentata che l’individuo, il soggetto reale è invitato a consumare.224 In entrambi i casi, cioè sia nel caso dello “spettacolare concentrato” che nel caso dello “spettacolare diffuso”, ciò che viene offerto all’individuo è un ammasso di immagini, un ammasso di entità prive di consistenza. Questo è il fine dell’apparato produttivo, la fabbricazione di fantasmi, di simulacri che, poi, gli esseri umani andranno a consumare, nella convinzione che si tratti di oggetti concreti: il consumatore è consumatore di pure illusioni. Tutto ciò a cui egli può ambire, tutto ciò che può desiderare, tutto ciò che la sua forza di volontà gli permette di raggiungere è, di nuovo, un immenso ammasso di illusioni.

«C’est la réalité de ce chantage, le fait que l’usage sous sa forme la plus pauvre (manger, habiter) n’existe qu’emprisonné dans la richesse illusoire de la survie augmentée, qui est la base réelle de l’acceptacion de l’illusion en général dans la consommation des marchandises modernes. Le consommateur réel devient consommateur d’illusion. La marchandise est cette illusion effectivement réelle, et le spectacle sa manifestation générale» (G. DEBORD : 1992, 43, 44).

Affinché l’opera sia perfetta, affinché un brandello, un lembo, una piccola cellula riesca davvero a dominare, a signoreggiare, a manipolare a proprio piacere il tutto di cui è parte, è necessario che diventi padrona unica, regina incontrastata delle strutture regolatrici dell’esistenza, vale a dire del tempo (e dunque della storia) e dello spazio. Il tempo è dunque anch’esso legato, o sarebbe meglio dire, piegato, prostituito al progetto di controllo, esercitato dalla classe al potere; il tempo è perciò prodotto, fabbricato, modellato esattamente come tutti gli altri oggetti. Il tempo è quindi un’illusione, un fantasma, un ologramma, un’immagine priva di referente: è una produzione meramente artificiale. dictature de l’économie burocratique ne peut maisser aux masses exploitées aucun marge notable de choix, puisq’elle a dû choisir par elle-même...», Ib., 59. 221 Questo è quanto il decostruzionista francese riferisce a proposito dello spettacolare diffuso: «Le spectaculaire diffus accompagne l’abondance des marchandises, le développement non perturbé du capitalisme moderne. Ici chaque marchandise prise à part est justifiée au nom de la grandeur de la production de la totalité des objets», Ib., 60. 222 Il termine è inserito nelle virgolette poiché l’attribuzione di questo aggettivo ai paesi dell’ex blocco sovietico è nostra. Francamente non sappiamo se Debord avrebbe accettato la nostra scelta linguistica. Probabilmente no. 223 Debord insiste in modo particolare sul concetto di “vedette assoluta”, come garanzia della coesione del sistema totalitario: «La dictature de l’économie burocratique (…) doit s’accompagner d’une violence permanente. L’image imposée du bien, dans son spectacle, recueille la totalité de ce qui existe officiellement, et se concentre normalement sur un seul homme, qui est le garant de sa cohésion totalitaire. À cette vedette absolue, chacun doit s’identifier magiquement, ou disparaître. Car il s’agit du maître de sa non-consommation, et de l’image héroïque d’un sens acceptable qu’est en fait l’accumulation primitive accélérée par le terreur. Si chaque Chinois doit apprendre Mao, et ainsi être Mao, c’est qu’il n’a rien d’autre à être. Là où domine le spectaculaire concentré domine aussi la police», Ib., 59. 224 «Des affirmations inconciliables se poussent sur la scène du spectacle unifié de l’économie abondante ; de même que différentes marchandises-vedettes soutiennent simultanément leur projets contradictoires d’aménagement de la société (…) Donc la satisfaction, déjà problématique, qui est réputée appartenir à la consommation de l’ensemble est immédiatement falsifiée en ceci que le consommateur réel ne peut directement toucher qu’une succession de fragments de ce bonheur marchand, fragments d’où chaque fois la qualité prêtée à l’ensemble est évidemment absente», Ib. 60 120 Ma tutto ciò non è nuovo, tutto ciò non è strettamente e prettamente tipico, in senso proprio, della società spettacolare: l’uomo, in tutte le epoche, ha sempre voluto essere padrone del divenire cronologico. La storia, nella sua forma storica, non è mai esistita, non ha mai avuto una sussistenza reale. La storia, come parte della storia naturale, è una costruzione umana; la storia, nella sua essenza, non è altro che l’umanizzazione del tempo.225 Così, ciascuna epoca ha introdotto in questo tempo la propria visione del divenire, imponendo l’ideologia della classe dominante.226 Si tratta però, come sempre, di un’immagine, di un fantasma, di una sovrastruttura appiccicaticcia; tale immagine, tale fantasma, tale struttura appiccicaticcia non è in grado di cancellare i veri rapporti di forza, le vere strutture esistenti nel mondo reale; in breve, il simulacro non soppianta definitivamente ciò di cui è simulacro per il solo fatto che tutti lo credono concreto. Esso è come un candido velo che lascia trasparire l’ineffabile tangibilità di ciò che copre. Questo discorso vale soprattutto per l’operazione storica della borghesia, ovvero per la creazione del tempo come affermazione definitiva della storia, intesa nella sua accezione più marcatamente storica, intesa cioè come divenire regolato dalla produzione economica227: il tempo borghese è in sostanza il tempo delle cose, in quanto artefatti illusori e manipolatori.228 Ma anche in questo caso, come nelle epoche precedenti, il meccanismo ingannatore può venire scoperto; il “velo” che ottunde il reale può essere sollevato, perché c’è qualcuno che rivendica il diritto di prendere parte alla costruzione della storia:

«Pour la première fois le travailleur, à la base de la société, n’est pas matériellement étranger à l’histoire, car se maintenant par sa base que la société se meut irréversiblement. Dans la revendication de vivre le temps historique qu’il fait, le prolétariat trouve le simple centre inoubliable de son projet révolutionnaire» (G. DEBORD : 1992, 143).

Non è ancora chiaro tuttavia quali siano le caratteristiche peculiari, la “quidditas” che definisce il tempo borghese, in quanto tempo spettacolare. Di che cosa è fatto? Di che cosa è costituito? Esso è un tempo trasformato dall’apparato industriale, un tempo, si potrebbe dire, sintetico, un tempo pseudo-ciclico, composto da un’infinità di intervalli equivalenti e regolari che lo rendono scambiabile. Ecco la caratteristica di quella dimensione del Χρόνος, tipica del mondo d’oggi: la “consumabilità”. Ciò che Aristotele aveva definito “la misura del divenire secondo il prima e il poi”, diventa un oggetto d’uso, un oggetto da fruire con voracità, come i prodotti in vendita in un supermercato. In questa logica ed esattamente in questa, si inserisce quel business tipico del main stream contemporaneo, legato allo smercio e all’utilizzo del “free time”: le vacanze, il bricolage, il

225 Si tratta di un concetto che Debord riprende dalla dottrina marxiana: «‘L’histoire est elle-même une partie réelle de l’histoire naturelle, de la transformation de la nature en homme’ (Marx). Inversement cette ‘histoire naturelle’ n’a d’autre existence effective qu’à travers le processus d’une histoire humaine. L’histoire a toujours existé, mais pas toujours sous sa forme historique. La temporalisation de l’homme, telle qu’elle s’effectue par la médiation d’une société, est égale à une humanisation du temps. Le mouvement inconscient du temps se manifeste et devient vrai dans la conscience historique», Ib., 125. 226 «Les possesseurs de l’histoire ont mis dans le temps un sens : une direction qui est aussi une signification», Ib., 131. Nel discorso di Debord c’è però un ma: «Mais cette histoire se déploie et succombe à part ; elle laisse immuable la société profonde, car elle est justement ce qui reste séparé de ma réalité commune», Ib., 131. 227 La descrizione che Debord fa della storia borghese è quella di un movimento generale e generalizzato all’interno del quale viene definitivamente soppresso l’individuo: «La victoire de la bourgeoisie est la victoire du temps profondément historique, parce qu’il est le temps de la production économique qui transforme la société, en permanence et de fond en comble (…) L’histoire (…) écrite comme histoire événementielle, est maintenant comprise comme le mouvement général, et dans ce mouvement sévère les individus sont sacrifiés», Ib., 141. 228 «L’histoire qui est présente dans toute la profondeur de la société tend à se perdre à la surface. Le triomphe du temps irréversible est aussi sa métamorphose en temps des choses, parce que l’arme de sa victoire a été précisément la production en série des objets, selon les lois de la marchandise», Ib., 142. 121 fitness… tutto è funzionale alla perpetuazione del divenire isterico dell’universo, concepito e creato dall’attività demiurgica della borghesia.229 Come il tempo, anche lo spazio subisce un processo di manipolazione. Due sono gli elementi che contraddistinguono la spazialità contemporanea: l’unificazione a livello terrestre e l’urbanizzazione. Il primo dei due aspetti, oggi incancrenitosi per effetto dell’esistenza della rete telematica (che tende a cancellare, mediante l’istantaneità elettrica, la distanza fisica), è una delle tante opere di banalizzazione, messe in atto dal sistema economico capitalista. Uno degli effetti di tale banalizzazione è il turismo, strumento privilegiato del consumo del tempo, inteso come circolazione di uomini, in quanto sottoprodotto della circolazione delle merci.230 L’urbanesimo corrisponde invece alla presa di possesso del territorio da parte del potere della borghesia231, la cui finalità consiste nel tenere separati, cioè nell’atomizzare i lavoratori.232 La classe dominante percepisce la pericolosità del raggruppamento cosciente del proletariato. Ma come un simile gigantesco meccanismo può perpetuarsi? Come il “velo” può continuare ad avvolgere le cose? Come, in sostanza, chi signoreggia può seguitare a signoreggiare? Grazie alla cultura, e qui risulta chiaro il ruolo dei mezzi di comunicazioni di massa. La cultura, divenuta pensiero e apologia dello spettacolo, pensiero e fondamento del non vivente, la cultura, spettacolarizzata essa stessa, in quanto merce da consumare, è giustificazione dell’esistente, vale a dire giustificazione della società dello spettacolo.

«L’ensemble des connaissences qui continue de se développer actuellement comme pensée du spectacle doit justifier une société sans justifications, et se constituer en science générale de la fausse coscience» (G. DEBORD : 1992, 188).

Dunque, l’opera dello spettacolo, in quanto perpetuazione di sé, si configura come un’enorme attività culturale, ovvero come un’enorme attività produttrice di immagini, di simulacri, di figure del vero, che tale vero hanno la funzione di nascondere. All’interno di questa concezione, all’interno di questa fenomenologia cosmologica, possiamo far rientrare il ruolo dei media, “fabbriche dell’immaginario” in senso proprio. In quest’ottica, la funzione di radio, tv, cinema, in quanto leve di pilotaggio del mondo nelle mani del “potere”, sarebbe quella di erogare fantasmi, di erogare ologrammi, di produrre oggetti in forma di apparenza, in una forma cioè menzognera, poiché tali apparenze sono mostrate come reali, come aventi cioè le caratteristiche tipiche di ciò che è concreto. Si potrebbe dire, in definitiva, che i mezzi di comunicazione siano delle enormi fabbriche, degli enormi apparati industriali, produttori di segni privi di referenza, privi di estensionalità. È qui che si

229 Risultano ora più chiare le parole di Debord: «Le temps pseudo-cyclique est un temps qui a été transformé par l’industrie. Le temps qui a sa base dans la production des marchandises est lui-même une marchandise consommable, qui rassemble tout ce qui s’était auparavant distingué (…) Tout le temps consommable de la société moderne en vient à être traité en matière première de nouveaux produits diversifiés qui s’imposent sur le marché comme emplois du temps socialement organisé», Ib., 151, 152. 230 La drammaticità di tutto questo è che, anche a livello spaziale, viene distrutta l’individualità; i luoghi perdono la propria autonomia e le proprie qualità: «La production capitaliste a unifié l’espace, qui n’est plus limité par des sociétés extérieures. Cette unification est en même temps un processus extensif et intensif de banalisation. L’accumulation des marchandises produites en série (…) dissoudre l’autonomie et la qualité des lieux. Cette puissance d’homogénéisation est la grosse artillerie qui a fait tomber toutes les murailles de Chine (…) Sous-produit de la circulation des marchandises, la circulation humaine considéré comme une consommation, le tourisme, se ramène fondamentalement au loisir d’aller voir ce qui est devenu banal. L’aménagement économique de la fréquentation de lieux différents est déjà par lui-même la garantie de leur équivalence», Ib., 163, 164. 231 «L’urbanisme est cette prise de possession de l’environnement naturel et humain par le capitalisme qui (…) peut et doit maintenant refaire ma totalité de l’espace comme son propre décor», Ib., 165. 232 «L’urbanisme est l’accomplissement moderne de la tâche ininterrompue qui sauvegarde le pouvoir de classe : le maintien de l’atomisation des travailleurs que les conditions urbaines de production avaient dangereusement rassemblés. La lutte constante qui a dû être menée contre tous les aspects de cette possibilité de rencontre trouve dans l’urbanisme son champ privilégié», Ib., 166. 122 pone l’inganno epocale, la trappola storica; ciò che per sua stessa natura è simulacrale viene mostrato non solo come sommo vertice di positività, ma anche come totalità dell’esistente, come tutto ciò che c’è: la virtualizzazione della materialità, mediante la genesi degli “Idola spectaculi”, può dirsi completa. La realtà si trasforma nella sua immagine e l’immagine decreta la morte delle cose.

«La grande question philosophique était : ‘Pourquoi y a-t-il quelque chose plutôt que rien’. Aujourd’hui, la véritable question est : ‘Pourquoi y a-t-il rien plutôt que quelque chose ?’» (J. BAUDRILLARD : 1995, 16).

Se l’apparenza uccide ciò di cui è apparenza, allora la domanda posta da Baudrillard diventa drammaticamente, o meglio, tragicamente e disperatamente stringente. L’evidenza iniziale sembrerebbe essere proprio quella a cui siamo pervenuti alla fine della lettura di Debord:

«…nous vivons dans un monde où la plus haute fonction du signe est de faire disparaître la réalité, et de masquer en même temps cette disparition. L’art aujourd’hui ne fait pas autre chose. Les media aujourd’hui ne font pas autre chose. C’est pourquoi ils sont voués au même destin» (J. BAUDRILLARD : 1995, 20).

La rilevazione dell’inconsistenza del tutto si radicalizza: dal piano fenomenologico si sposta a quello ontologico, per negarlo. Questo tutto, questa totalità reale è un simulacro, è una simulazione, è un prodotto di un mega-sistema razionale e razionalizzatore che plasma, istante per istante, il divenire e la vita così come essi ci appaiono. È il cosmo di Matrix, è il cosmo fabbricato da quel perfetto congegno informatico, che maschera perpetuamente la verità dell’inconsistenza delle cose. Ma tale cosmo, cioè il cosmo di Matrix, il cosmo della simulazione, è dominato dal delitto233, dall’omicidio, o, sarebbe meglio dire, dal “parricidio”: l’immagine, figlia del mondo (poiché questo è la sua matrice, la sua ipostasi), si ritrova a uccidere il proprio padre. Ma questo delitto, questo omicidio, questo parricidio, per l’appunto, non è totalmente perfetto, non è ben riuscito poiché l’artefice non riesce a sbarazzarsi del cadavere, non riesce a cancellare le tracce che indicano inequivocabilmente il crimine che ha commesso234: la simulazione circonda, avvolge, “vela”, ma non nasconde l’illusione.235 La verità del nulla, del non essere, cioè dell’origine dalla quale tutto viene, per mezzo della quale tutto sussiste e verso la quale tutto tende, non può venire soppressa. La verità è illusione e il reale è simulazione. È questa evidenza primordiale dell’Αλήθεια, questa certezza del primato del non essere che l’uomo non riesce a sopportare. Ecco dunque la ragione, la causa di tale delitto: la necessità psicologica di cancellare una certezza insopportabile. Allora la volontà umana, la volontà di un ente che si illude di essere autonomo236 raccoglie le sue forze e si prepara a dominare il mondo, si erge su tutto per imporre un senso, per imporre una

233 È esattamente il concetto che si esponeva all’inizio. Il mondo non esiste proprio perché è reale, in quanto la verità vera è l’illusione, non la realtà. Ma la verità è stata cancellata, è stata sterminata dal reale. Il crimine, il delitto consiste nella sterminazione dell’illusione per mezzo della realtà. Le parole di Baudrillard risultano allora più chiare: «Ceci est l’histoire d’un crime – du meurtre de la réalité. Et de l’extermination d’une illusion – l’illusion vitale, l’illusion radicale du monde. Le réel ne disparaît pas dans l’illusion, c’est l’illusion qui disparaît dans la réalité intégrale», J. BAUDRILLARD : 1995, 13. 234 «… le crime n’est jamais parfait, car le monde se trahit par les apparences, qui sont les traces de la continuité du rien. Car le rien lui-même, la continuité du rien laisse des traces. Et c’est par là que le monde trahit son secret. C’est par là qu’il se laisse pressentir, tout en se dérobant derrière les apparences», Ib., 15. 235 È questa, crediamo, una delle ragioni per la quale Baudrillard ha misconosciuto la lettura di Matrix. Non ci sono due mondi perfettamente separati, ma, nella misura in cui l’uno tenta di sostituire l’altro, sono quanto meno fisicamente compresenti: «…l’illusion ne s’oppose pas à la réalité, elle est une réalité plus subtile qui enveloppe la première du signe de sa disparition», Ib. 127. 236 Baudrillard cerca di spiegarci la ragione per cui la volontà è un’illusione: 123 razionalità agli oggetti e al divenire. Tale volontà, cioè il nostro volere è “demiurgo creatore” e, in quanto prima causa, è primo motore della causalità insita nel cosmo, nell’universo. È questo l’inizio della genesi della realtà, è questo l’inizio dell’opera di produzione dell’illusione secondaria237, dell’inganno, cioè della simulazione. Ma la costruzione disillusoria è un falso; non esiste la realtà, non esiste la volontà e non esiste dunque la causalità. Tutta la dottrina metafisica classica è dunque un’allucinazione; l’evidenza generata dallo stupore dell’esistenza delle cose per cui, se esse vi sono, sono state volute, è una menzogna, una menzogna radicale. Nel mondo vero, nel mondo dell’illusione non c’è causalità e dunque non c’è volontà; nel mondo vero, nel mondo dell’illusione regna il non essere, regna il caos, regna la casualità e, nella casualità, causa ed effetto si sovrappongono.238

Ma: «D’où vient alors qu’on veuille substituer la volonté de l’homme au cours aléatoire des choses ? (…) Nous désiderons vouloir – là est le secret – comme nous désiderons croire, comme nous désiderons pouvoir, parce que l’idée d’un monde sans volonté, sans croyance et sans pouvoir nous est insupportable. Mais la plupart du temps nous ne pouvons que vouloir ce dont l’échance est toujours déjà là» (J. BAUDRILLARD : 1995, 30, 31).

Ma se causa ed effetto non esistono, se la verità è il nulla, se l’origine di tutto è nulla, e quindi noi stessi siamo nulla, come possiamo illuderci di dominare la storia, come possiamo illuderci di dare vita a una rivoluzione o di creare un’ideologia che sovverta l’ordine della concretezza? Tutto ciò non è possibile che nel mondo della disillusione, nel mondo dei simulacri. E il dominio della storia, della rivoluzione e dell’ideologia sono dunque essi stessi simulacri, poiché non possono avere altro effetto che quello di sostituire dei fantasmi con degli altri fantasmi. La realtà non esiste e il nulla, la concretezza dell’illusione, non può essere manipolato.239 Nel tentativo disperato di imporre un senso, di imporre una razionalità a ciò che c’è, l’uomo deve riconoscere questa inesorabile evidenza, questa ineludibile certezza: l’illusione del mondo, l’illusione radicale, quale traspare dall’inconsistenza delle cose.240 Ma in cosa consiste questa illusione radicale, di cosa sarebbe fatta questa incancellabile dimensione originale dell’universo? Nel nulla. È questo l’aspetto insopportabile contro cui l’uomo si scontra, è questo il principio dell’angoscia che egli vuole cancellare a ogni costo. Il cosmo è sorto all’improvviso, dal niente, senza l’azione di alcuna causa e, dunque, privo di ogni causalità al proprio interno. Ecco cos’è il mondo, ecco il volto vero e, per questo, non contemplabile

«L’existence est ce à quoi il ne faut pas consentir. Elle nous a été donnée comme lot de consolation, et il n’y faut pas croire ? La volonté est ce à quoi il ne faut pas consentir. Elle nous a été donnée comme illusion d’un sujet autonome», Ib., 29. 237 Il concetto della realtà come illusione secondaria è espresso in queste poche righe: «Le réel, lui, n’est que l’enfant naturel de la désillusion. Lui-même une illusion secondaire. La croyance en la réalité est, de toutes les formes imaginaires, la plus basse, la plus triviale», Ib., 29. 238 «On insiste toujours sur l’antériorité de la volonté, comme de la cause sur l’effet. Mais le plus souvent elle se confond avec l’événement comme sa mise en scène rétrospective, comme la séquence d’un rêve illustre la sensation physique du corps endormi», Ib. 31. 239 Qui appare più chiara tutta la distanza che separa Baudrillard da Debord. Il secondo è infatti un materialista, quindi, quanto meno ammette che vi sia qualcosa, che vi sia una “materia storica” da riportare alla luce; le immagini sono strumenti nelle mani della borghesia, ma questa può essere rovesciata mediante la rivoluzione. A detta di Baudrillard invece non vi sarebbe nulla e una eventuale rivoluzione sarebbe un tentativo estremo di riportare in gioco un’opera di disillusione: «Nous ne pouvons projeter dans le monde plus d’ordre ou de désordre qu’il n’y en a. Nous ne pouvons le transformer plus qu’il ne se transforme lui-même. Là est la faiblesse de notre radicalité historique. Toutes les pensées du changement, les utopies révolutionnaires, nihilistes, futuristes, toute cette poétique de la subversion et de la transgression caractéristiques de la modernité apparaîtront naïves en regard de l’instabilité, de la réversibilité naturelle du monde. Non seulement la transgression, mais la destruction même est hors de notre portée. Jamais nous n’équivaudrons par acte de destruction à la destruction accidentelle du monde», Ib., 27, 28. 240 «Alors que l’illusion du monde, c’est la manière qu’ont les choses de se donner pour ce qu’elles sont, alors qu’elle n’y sont pas du tout. Dans l’apparence, les choses sont ce pour quoi elles se donnent. Elles apparaissent et disparaissent sans laisser transparaître quoi que ce soit», Ib. 36. 124 delle cose, che le cose stesse, attraverso i propri simulacri, nascondono: un’entità senza origine, senza fine e soprattutto senza storia, cioè il contrario della realtà.241 Quest’ultima, dal canto suo, in quanto opera di disillusione, è continuamente, perpetuamente e instancabilmente prodotta dallo sforzo umano, inteso come virtualizzazione generale del tutto, ovvero come sterminazione della verità per effetto della sua copia. È qui, cioè all’interno di tale sterminazione, che i mezzi di comunicazione di massa giocano il loro ruolo principale. Essi escono dal proprio spazio, dal proprio recinto per insinuarsi nella quotidianità, nella struttura biologica del fruitore. È una tesi questa che riecheggia, per certi versi, le letture di Marshall McLuhan, per il quale non solo i media, ma tutti gli artefatti diventerebbero, per effetto dell’uso, un prolungamento e un surrogato degli organi di senso.242 La radio, la tv, il computer, assieme a tutti gli altri apparecchi elettronici, entrano nella nostra intimità, penetrano nella nostra coscienza, si infiltrano negli angoli più oscuri delle nostre facoltà teoretiche e percettive; la radio, la tv e il computer, esattamente come i virus, attaccano le nostre cellule, attaccano le nostre funzioni vitali e ne compromettono inesorabilmente le funzioni.243 Così, non solo la realtà, ma anche la conoscenza di essa è simulata, non solo gli oggetti, ma anche la loro cognizione è “fantomaticizzata”: la testa, il cervello, gli strumenti di apprendimento in generale riproducono le caratteristiche di presa sul mondo della telecamera; ciò che della cosa viene trattenuto, ciò che della cosa viene catturato è il suo doppio immateriale, il suo doppio fisicamente inconsistente. Ecco dunque la funzione ultima, lo scopo ultimo dell’esistenza dei mezzi di comunicazione di massa: la produzione industriale e seriale dei simulacri. In questo, c’è una grossa differenza fra lo spettacolo e la virtualizzazione universale di quel cosmo fantasmatico, dominato dalla disillusione:

«La virtualité est autre chose que le spectacle, qui lassait encore place à une coscience critique et à une démistyfication. L’abstraction du ‘spectacle’, y compris chez les Situationnistes, n’était jamais sans appel. Tandis que la réalisation inconditionelle, elle, est sans appelle» (J. BAUDRILLARD : 1995, 49).

Secondo la visione di Debord, era sempre possibile cambiare lo stato delle cose, era sempre possibile che la parte sottomessa della società (il proletariato) prendesse coscienza dell’opera di astrazione, messa in atto dalla borghesia, e rovesciasse un ingiusto quanto irreale status quo. Nel mondo della simulazione cosmica al contrario, tutto questo non è possibile: nella realtà della disillusione, tutti sono vittime e carnefici, tutti sono spettatori e attori dell’inganno ontologico; tutti contribuiscono all’alimentazione della menzogna, dalla quale saranno imbrogliati.244

241 È esattamente questo che Baudrillard sostiene: «Cette soudaineté, cette émergence à partir du vide, cette non-anteriorité des choses à elle-mêmes continue d’affecter l’événement du monde au cœur même de son déroulement historique. Ce qui fait événement, c’est qui rompt avec toute causalité antérieure. L’événement du langage, c’est ce qui le fait ressurgir miraculeusement tous les jours, comme forme achevée, hors de toutes significations antérieures (…) Finalement nous préférons l’ex nihilo, ce qui tient sa magie de l’arbitraire, de l’absence de causes et d’histoire», Ib., 90. 242 Si tratta di una tesi che percorre un po’ tutti gli scritti di McLuhan, ma nella quale, personalmente, ci siamo imbattuti nella lettura di due testi: - M. McLUHAN, Gli strumenti del comunicare, EST, Milano, 1999. - M. & E. McLUHAN, La legge dei media, Ediz. Lavoro, Roma, 1994. In ogni caso, abbiamo già discusso criticamente queste idee in un’altra opera: - F. MARINOZZI, L’impero tecnologico, C.U.S.L., Milano, 2002. 243 Il linguaggio con cui Baudrillard descrive questo fenomeno di dispotismo mediatico è ben più catastrofico del nostro: «De toute façon, la caméra virtuelle est dans la tête. Pas besoin de médium pour réfléchir nos problèmes en temps réel : cheque existence est télé présente à elle même. La TV et les médias sont depuis longtemps sortis de leur espace médiatique pour investir la vie réelle de l’intérieur, exactement comme le fait le virus pour une cellule normale. Pas besoin de casque ni de combinaison digitale : c’est notre volonté qui finit par se mouvoir dans le monde comme dans une image de synthèse», Ib., 49. 244 Ib., 49. 125 E in questa attività di fabbricazione del vero, in questa genesi antropo-artificiale della realtà, in questo “acting out” supremo di tutto ciò che esiste, tale vero, tale realtà divengono iperreali, iperveri, cioè più reali e perfetti della realtà e del vero stessi. È quello che accade sul palcoscenico del reality show, dove viene simulata un’esistenza umana a sua volta già simulata. Le storie di vita coniugale o di cattivo vicinato vengono come “digitalizzate”, come “rimasterizzate” per assumere la perfezione dell’astratto, dell’inconcreto che, in quanto tale, in quanto riproduzione ologrammatica dell’idea dell’oggetto (e dunque non dell’oggetto in sé [c’è come un velo di platonismo in questa teoria]) sono più perfette di ciò che rappresentano, di ciò a cui rimandano.245 Ma in questa generale compiutezza, in questa irreprensibile organizzazione del particolare anche più minimo, c’è qualcosa che sfugge, c’è qualcosa che resta intangibile, c’è qualcosa che non si mostra ai nostri sensi246: è la vendetta della tecnica che lascia trasparire, come corpo translucido, il nulla, cioè quel non essere originario, da cui tutto proviene e in cui tutto sussiste. È questa l’ “ironia della tecnica” (“L’ironie de la technique”), l’ironia di artefatti in tutto completi, in quanto supremo dispositivo di fabbricazione e di donazione di senso. Nel momento in cui l’illusione, la vera forma del cosmo senza forma sembra essere schiacciata dalla realtà iper-reale, ecco che essa ricompare negli oggetti, nel mondo di quegli enti che l’uomo stesso ha creato.247 Le cose, al vertice estremo della loro concretezza, diventano custodi del segreto dell’universo, custodi del segreto della dimensione senza dimensioni, custodi dell’ineffabile, dell’invisibile inconsistenza del tutto. È questo ciò che salverebbe l’uomo dalla disillusione, è questo ciò che rilancerebbe gli esseri verso la tangibilità dell’intangibile, è questo in definitiva ciò che restituirebbe al disilluso l’illusione. In questa prospettiva, si colloca la dottrina di Jacques Derrida, che riconduce l’attualità ai concetti di “artefattualità” (“artefactualité”) e di “attuvirtualità” (“actuvirtualité”).248 L’attualità, intesa come ciò che accade, come ciò che avviene, è un’opera inesorabilmente artificiale; è un oggetto, è un prodotto, fatto, eseguito e fabbricato in serie. Ciò che capita, ciò che avviene, o meglio, ciò che viene all’essere, ciò che si impone nella sua verità sul piano ontico è tragico, dolorosamente drammatico, in quanto contraddistinto da quell’irripetibile individualità che lo rende unico e assolutamente intangibile. Di fronte alla sofferenza del tragico, l’attualità viene rigenerata, riconcepita, riprocreata: l’attualità viene trasformata in “artefattualità”.

«Si singulière, irréductible, têtue, doulereuse ou tragique que reste la ‘réalité’ à laquelle se réfère l’ ‘actualité’, celle-ci nous arrive à travers une facture fictionelle» (J. DERRIDA : 1996, 11,12.).

Tale processo di ricreazione delle evidenze del mondo, tale artificializzazione dell’attuale si impone oggi più che mai in tutta la sua pregnanza: l’attuale diventa artefattuale e l’artefattuale si rivela totalmente privo di attualità. La tv, la radio, la stampa, internet rappresentano in questo senso il vertice di quell’immenso apparato industriale, finalizzato alla costruzione menzognera dell’avvenimento. La notizia, l’evento, il fatto, in quanto veicolato dai media, è il risultato finale di un’azione selezionatrice degli elementi dell’accadimento reale; la notizia, l’evento, il fatto sono ciò che resta di un’operazione di filtraggio, di un’operazione di riduzione degli elementi concreti, a sua volta dissimulata. Già, dissimulata, perché la grande industria mediale, la grande fabbrica di

245 Ib., 51. 246 «À l’apogée des performances technologique, il reste l’impression irrésistible que quelque chose nous échappe – non parce que nous l’aurions perdu (le réel), mais parce que nous l’aurions plus en position de le voir : à savoir que ce n’est plus nous qui l’emportons sur le monde, mais le monde qui l’emporte sur nous», Ib. 107. 247 È questa la riflessione di Baudrillard: all’apice della tecnica e della tecnologia, intese come creazioni perpetue del senso, la verità dell’illusione inizia la sua epifania: «Il semble en effet que si l’illusion du monde en est perdue, l’ironie, elle, soit passée dans les choses. Il semble que la technique se soit chargée de toute l’illusion qu’elle nous a fait perdre, et que la contre-partie de la perte de l’illusion soit l’apparition d’une ironie objective de ce monde. L’ironie comme forme universelle de la désillusion, mais aussi de stratagème par lequel le monde se dérobe derrière l’illusion radicale de la technique, et le secret (celui de la continuation du Rien) derrière la banalité universelle de l’information (…) L’ironie est la seule forme spirituelle du monde moderne, qui les a toutes anéanties. Elle seule est dépositaire du secret, mais nous n’en avons plus le privilège», Ib., 109. 248 J. DERRIDA: 1996. 126 immaginario a buon mercato nasconde questo procedimento di trasformazione, questo procedimento di traduzione operato sull’avvenimento, cioè su ciò che si dà, su ciò che si manifesta nella sua brutalità più concreta.249 In questa gigantesca opera di “fantasmatizzazione” del reale, entra in gioco l’ “attuvirtualità”. La virtualità dei nuovi strumenti telematici, riprodotta anche dai dispositivi di comunicazione più tradizionali, si insinua nelle nostre facoltà cognitive, penetra nelle potenze adibite alla conoscenza, modificando la nostra percezione di spazio e di tempo: il ritmo dell’elettronica soppianta il ritmo della vita quotidiana.250 Così oggi, nell’epoca del villaggio globale, nell’epoca della caduta tecnologica di ogni frontiera, nell’epoca dell’unificazione universale delle genti, attraverso la rete di internet, l’ “artefattualità” si connota principalmente come una produzione a catena di prodotti virtuali, come una gigantesca opera di virtualizzazione, ovvero come un’enorme operazione di “attuvirtualità”.251 Ma quali sono gli effetti concreti di “artefattualità” e “attuvirtualità”? Quale aspetto del reale cancellano? Su cosa, nello specifico, si esercita il loro potere censorio? Esattamente su ciò di cui l’attualità è fatta, su ciò di cui l’attualità è costituita, vale a dire sull’avvenimento (“événement”). Sull’avvenimento, sul non previsto, sull’evento nella sua singolare e irripetibile individualità, sull’evento nel suo carattere differenziale. Il pensiero del reale, nella sua accezione “evenemenziale”, si costituisce perciò come pensiero della differenza (“Le pensée de la différence”), pensiero dell’imprevedibilità, pensiero della venuta dell’altro, in quanto totalmente altro, ovvero pensiero di ciò che la ragione non riesce a prevedere, ma che deve pur accogliere, in quanto depositario del senso.252 L’ “événement” è la venuta dell’arrivante (“arrivant”), in quanto portatore dell’imprevisto, in quanto portatore dell’alterità assoluta, in quanto portatore della potenza culturale dell’alterità. Ma attenzione:

«L’événement ne se réduit pas au fait que quelque chose arrive. Il peut pleuvoir ce soir, il peut ne pas pleuvoir, cela ne sera pas un événement absolu parce que je sais ce que c’est, la pluie, si du moins et dans la mesure où je le sais, et puis ce n’est pas une singularité absolument autre. Ce qui arrive là, ce n’est pas un arrivant. L’arrivant doit être absolument autre, un autre que je m’attende à

249 Le parole del filosofo francese relativamente a tutto ciò che viene trasmesso in televisione, o comunque veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, assumono dei connotati tragici: «Ce mot-valise d’ ‘artefactualité’ signifiait d’abord qu’il n’y a actualité, au sens de ‘ce qui est actuel’ ou plutôt de ‘ce qui se diffuse sous le titre d’actualités sur les radios et les télévisions’, que dans la mesure où un ensemble de dispositifs techniques et politiques viennent en quelque sorte choisir, dans une masse non finie d’événements, les ‘faits’ qui doivent constituer l’actualité : ce qu’on appelle alors ‘les faits’ dont sont nourries les ‘informations’», Ib., 52. Più in là, viene poi rivelato come viene realizzata questa “artefattualità” e soprattutto a chi giova: «Les choix, bien entendu, ne sont jamais neutres, qu’ils se préparent dans les chaînes de télévision et les station de radio, ou qu’ils se décident déjà dans les agences de presse. Toute actualité compose avec l’artifice, en général dissimulé, de ce filtrage. Mais déjà il aurait fallu préciser (…) que ces artifices sont contrôlés simultanément ou alternativement par des instances privées ou par des instances d’État…», Ib., 52. 250 «Cet autre temps, le temps des médias, donne lieu surtout à une autre distribution, à d’autres espaces, rythmes, relais, forme de prise de parole et d’intervention publique. Ce qui est invisible, illisible, inaudible sur l’écran de la plus grande exposition peut être actif et efficace, immédiatement ou à terme, ne disparaissant qu’aux yeux de ceux qui confondent l’actualité avec ce qu’ils voient ou croient faire en vitrine sur ‘grand surface’», Ib., 15. 251 Ci sembrava di poter interpretare così le seguenti parole di Derrida: «J’insisterais non seulement sur la synthèse artificielle (…) mais d’abord sur un concept de virtualité (…) Cette virtualité s’imprime à même la structure de l’événement produit, elle affecte le temps comme l’espace de l’image, du discours, de l’ ‘information’, bref tout ce qui nous rapporte à ladite actualité, à la réalité implacable de son présent supposé», Ib., 14. 252 Derrida sottolinea in modo molto forte il carattere di imprevedibilità e di alterità totale dell’evento: «Le pensée de la différance est donc aussi une pensée de l’urgence, de ce que je ne peux ni éluder ni m’approprier, parce que c’est autre. L’événement, la singularité de l’événement, voilà la chose de la différance (…) Il n’y aurait pas de différence sans l’urgence, l’imminence, la précipitation, l’inéluctable, la venue imprévisible de l’autre vers qui se portent la référence et la déférence. L’événement est un autre nom pur ce que, dans ce qui arrive, on n’arrive ni à réduire ni à dénier (ou seulement à dénier). C’est un autre nom pour l’expérience même qui est toujours expérience de l’autre. L’événement ne se laisse subsumer sous aucun autre concept, pas même celui d’être», Ib., 18, 19. 127 ne pas attendre, que je n’attende pas, dont l’attente est faite d’une non-attente, une attente sans ce qu’on appelle en philosophie l’horizon d’attente, quand un certain savoir anticipe encore et amortit d’avance. Si je suis sûr qu’il y aura de l’événement, cela ne sera pas un événement» (J. DERRIDA : 1996, 21).

In questo senso, se si vuole conoscere la verità del mondo, se si vuole lasciare che tutta la ricchezza e la profondità del reale si manifesti, è necessario lasciare spazio all’avvenire, lasciare spazio all’avvenimento, o meglio lasciare spazio all’avvenire in quanto avvenimento, all’avvenire in quanto venuta inesorabile dell’arrivante, dell’imprevisto.

«L’impératif, disons, catégorique, le devoir inconditionnel de toute négotiation, ce serait en effet de laisser de l’avenir à l’avenir, de le laisser ou de le faire venir, en tout cas de laisser ouverte la possibilité de l’avenir», (J. DERRIDA : 1996, 98).

Ma l’idea dell’arrivante è inaccettabile, l’idea dell’arrivante va contro gli stessi presupposti degli stati borghesi moderni, fondati innanzitutto sul diritto di difendere il proprio status quo. L’evento, proprio in quanto imprevisto, proprio in quanto inaspettato, proprio in quanto improvviso, non è controllabile, non è governabile, non è contenibile. Per questa ragione la politica cancella l’avvenimento, cancella quel fatto inatteso, che rappresenta l’inesauribile ricchezza della realtà. Laddove si rimuove l’epifania dell’arrivante, si rimuove con ciò stesso la possibilità della venuta del nuovo, la possibilità della crescita del tutto, la possibilità dell’effettivo sviluppo del mondo.253 La tecnica e, nella fattispecie i mezzi di comunicazione di massa, sembrano ricalcare esattamente questo atteggiamento254, sembrano riprodurre esattamente la logica del potere politico, pur mettendolo spesso in discussione.255 Tutto ciò che viene messo in scena sul palcoscenico mediale è sempre qualcosa di preventivamente concepito, di preventivamente preparato, di preventivamente costruito a tavolino. Ma questa operazione di costruzione, di fabbricazione, è dissimulata, è nascosta, è celata dagli artifici rappresentativi, dal velo degli espedienti linguistici della finzione. In questo modo, la televisione, la stampa, la radio appaiono il luogo fisico della venuta all’essere dell’evento, della manifestazione dell’arrivante, del nuovo nel suo farsi “hic et nunc”. Ma tutto ciò è una menzogna,

253Secondo Derrida, un esempio molto eloquente di quest’opera di cancellazione dell’arrivante è la politica sull’immigrazione, adottata dalla maggior parte delle nazioni sviluppate: «Le discours que je tenais tout à l’heure au sujet de l’arrivant est politiquement inacceptable, si du moins la politique se règle, comme elle le fait toujours, en tant que telle, sur l’idée de l’identité d’un corps propre qu’on appelle l’État-nation. Il n’existe pas aujourd’hui au monde un seul État-nation qui, en tant que tel, accepte de déclarer : ‘Nous ouvrons les portes à qui que ce soit, nous ne mettons pas de limite à l’immigration’. À ma connaissance, tout État-nation se constitue à partire du contrôle des frontières, du refus de l’immigration clandestine et d’une stricte limitation du droit à l’immigration et du droit d’asile. Ce concept de frontière constitue, justement comme sa frontière même, le concept d’État-nation», Ib., 25. 254 Non ci sembra di poter interpretare il pensiero di Derrida in termini di critica al sistema mass-mediale in quanto strumento del potere politico. Ci pare, al contrario, più onesto sostenere che i mezzi di comunicazione hanno lo stesso atteggiamento di censura dell’evento che contraddistingue lo stato borghese, per caso, non in quanto sono da tale stato strumentalizzati. 255 Il filosofo francese ricorda spesso, infatti, come i mezzi di comunicazione attentino proprio alle fondamenta dello stato moderno. Un medium come internet per esempio, ma anche la televisione, la radio e la stampa (seppur in misura minore) modificano strutturalmente la percezione delle dimensioni spazio-temporali, rendendo inconsistenti a livello pratico le frontiere nazionali, le quali, di conseguenza, risultano svuotate di significato. Ma accanto a queste conseguenze di tipo “geo-politico”, i media hanno avuto anche la forza di concorrere a ridefinire alcuni concetti giuridici come, per esempio, la testimonianza. La cosa interessante da rilevare in tutto questo macchinoso processo, è che anche la politica, in Francia, riconosce il proprio legame inscindibile all’universo mediatico, decretando il “diritto di supervisione” sugli audiovisivi: nel 1992, il parlamento di questo paese decide infatti di creare una sorta museo nazionale dell’audiovisivo, nel quale ciascuno ha la possibilità di prendere visione dei programmi del passato. La cosa che colpisce maggiormente in tutta questa operazione è, a detta di Derrida, il fatto che lo stato senta la necessità di stoccare in blocco la gigantesca quantità dei prodotti televisivi. 128 perché l’attualità è prodotta industrialmente, perché l’attualità è plasmata dalle mani degli uomini, perché l’attualità è artefattualità. Nella testualità classica, intesa come luogo di smarrimento della propria donazione di senso, come luogo della creazione di un qualcosa di altro da sé, di cui non si ha il controllo256, erano presenti un contenuto e una forma scaturiti da un atto di scrittura. Tale atto di scrittura, in quanto operazione onto-genetica dell’alterità, era qualcosa di separato, di slegato, di assolutamente distinto dall’atto di lettura, vale a dire che di tale atto non restava traccia alcuna nell’opera. Al contrario, nel testo televisivo o nel testo radiofonico resta proprio questo atto di scrittura, questo atto di fabbricazione: il suddetto testo è presentato nel suo farsi, o meglio come facentesi, come producentesi, nell’esatto frangente spazio-temporale della sua fruizione. Ma la caratteristica strutturale, la caratteristica ontologica del medium, proprio in quanto medium, è quella di essere inestricabilmente legato a dispositivi di registrazione, a dispositivi di archiviazione degli elementi reali. Ne deriva che tutto ciò che viene trasmesso, tutto ciò che viene offerto al pubblico è in ogni caso trasmesso, offerto in differita, ovvero in seguito a una preventiva memorizzazione e organizzazione dei dati.257

256 È questa la “différence” alla base della intertestualità di cui parla spesso Derrida (tale concetto viene analizzato in un testo in particolare: J. DERRIDA, L’écriture et la différence, Paris, Minuit, 1967). Il segno, ciascun segno, si definisce non solo a partire dalla differenza con tutti gli altri, ma anche dalla eterogeneità al proprio interno. Il segno è “mobile”, ovvero è un’entità sottoposta a un processo di significazione continua, a un processo che ridefinisce costantemente il suo senso e che lo rende quindi sempre diverso da se stesso. «Il segno è la traccia lasciata da una catena infinita di ri-significazioni instabili all’interno di un contesto di intertestualità, una parola che per Derrida evoca la dipendenza di ogni testo da una moltitudine di figure, convenzioni, codici e altri testi precedenti. Il linguaggio per Derrida è quindi sempre inscritto in una complessa rete di scambi e di tracce differenziali che non possono essere afferrate dal singolo parlante» (R. STAM – R. BURGOYNE – S. FLITTERMAN- LEWIS, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano, 1999, 38). Allo stesso modo del segno, anche il testo, che in fondo è un sistema ordinato per l’appunto di segni, è inserito nello stesso processo dialogico, nello stesso processo di ridefinizione continua che rende la parola scritta sempre diversa da se stessa e dunque dalle intenzioni dell’autore. Nel linguaggio, domina dunque la “différance”: «Derrida introduce il neologismo différance: un termine che in francese esiste in una sorta di sospensione tra “essere diverso” e “rinviare” e in cui l’errore di ortografia (“a” invece della convenzionale “e” di “différence”) non è udibile ma “visibile” solo per iscritto. Questo termine gli consente di riferirsi da un lato all’idea saussuriana di differenza (…) e dall’altro a un processo attivo e temporale di produzione di differenza attraverso un rinvio nel tempo. Différance designa il processo attraverso cui viene riprodotta un’opposizione tra due termini costitutivi, instaurando quindi un’irrisolvibile alternanza tra struttura e ciò che viene represso da essa» (Ib., 38). La teoria del linguaggio come altro, come alterità, riecheggia la dottrina lacaniana della fase dello specchio (corrispondente pressappoco alla fase orale freudiana), in base alla quale il bambino costruirebbe la propria identità in relazione alle immagini del proprio io. Da un lato l’infante si riconosce in un immagine di sé (che può essere anche la propria, veduta in uno specchio), riconosciuta come superiore (è l’io ideale [narcisismo]), dall’altro è chiamato a paragonarsi con un’immagine ulteriore, data dalla relazione con le figure parentali (è l’ideale dell’io, che costituisce una sorta di istanza punitiva). La costruzione della propria personalità è determinata perciò dall’assunzione critica dell’ideale dell’io, cioè da un atto di alienazione, in quanto negazione del proprio io ideale (istanza vera dell’identità). Pertanto, la fase dello specchio è caratterizzata da tre elementi: narcisismo, misconoscimento e alienazione. In tutto questo processo, vale a dire nella genesi della propria identità, gioca un ruolo fondamentale la comunicazione, dunque il linguaggio, strumento privilegiato, attraverso cui ci viene comunicata la nostra cultura. «…il bambino esce dall’unità pre-edipica con la madre, non solo per paura della castrazione, ma anche attraverso l’acquisizione del linguaggio. Quindi il momento di acquisizione della capacità linguistica (l’abilità di parlare, di distinguersi come soggetto parlante) è anche il momento in cui si inserisce nello spazio sociale» (Ib., 174). Il linguaggio è quindi qualcosa che proviene dall’esterno e che non ci appartiene. Nonostante sia lo strumento privilegiato attraverso cui si viene riconosciuti dalla società, lo strumento attraverso cui si entra nel mondo, esso implica un’alienazione, una negazione originaria della propria immagine ideale. In quanto oggetto materialmente costituito di “linguaggio” (ci si perdoni questa ampia digressione, ma non è possibile capire Derrida senza far riferimento a tali presupposti), il testo è perciò da un lato inserito in un campo di forze interpretative che lo rendono sempre altro, dall’altro generato da un mezzo di comunicazione (lo stesso linguaggio) che è strutturalmente altro da me. Il testo è pertanto un’espressione incontrollabile. 257 La più grande operazione finzionale è di “captare” e registrare ciò che è stato vivente e di riproporlo, in differita, come ancora vivente, lasciando che tutti credano che sia tale: «Ces machines, il n’y en a toujours, et même au temps de l’écriture à la main, même au cours de ladite conversation vive. Cependant, la plus grande compatibilité, la plus grande coordination, la plus vive affinité possible semble 129 L’artefattulità, in quanto attuvirtualità, nasconde tale differita, nasconde lo scarto temporale tra la venuta all’essere dell’evento e la sua riproduzione sullo schermo. È questa la menzogna principale dei mezzi di comunicazione, è questo l’inganno supremo della tecnica che, mediante la rappresentazione dell’atto di scrittura, cancella la distinzione fra live e differita, o diversamente, mostra la differita come live. Il prodotto televisivo appare allora qualcosa di vivente, qualcosa che si sta facendo nel preciso istante in cui lo stiamo vedendo, qualcosa cioè che avviene una volta sola e non si ripeterà mai più.258 Ma se la tecnica da un lato sembra negare l’esistenza dell’avvenimento, dall’altro essa presenta, in se stessa, un aspetto assolutamente incontrollabile, assolutamente imprevedibile: il ritmo. Il flusso televisivo e radiofonico, la tecnologia in genere, nel suo instancabile e intangibile divenire, coinvolge tutto l’universo in una vorticosa accelerazione che rende impossibile qualunque genere di previsione, qualunque genere di lettura preventiva di un fenomeno.259 È quasi la ricomparsa inaspettata del cadavere dell’arrivante, la ricomparsa di chi era malamente celato dalla trasparenza dei corpi degli assassini (= i fantasmi del reale). Qual è l’elemento costitutivo dell’evento, qual è il carattere peculiare dell’avvenimento? Il fatto che avviene una volta sola, il fatto che è unico e irripetibile, il fatto che viene all’essere solo in un determinato “hic et nunc” per poi scomparire, il fatto, in breve, che è “singolare”. Ecco che cosa cancellano, ecco che cosa tacciono, ecco che cosa nascondo i mezzi di comunicazione: l’individualità.260 La tecnica, nella sua essenza, è nient’altro che potenzialità di archiviazione, potenzialità di registrazione, potenzialità di catalogazione, in questo senso, essa apre all’avvenimento, apre all’evento, ovvero lo anticipa. Ma, nella misura in cui è anticipato, nella misura in cui è previsto, questo avvenimento, questo evento cessa di essere tale, cessa di essere ciò

s’imposer aujourd’hui entre ce qui paraît le plus vivant, live, et la différence ou le retard, le délai dans l’exploitation ou la diffusion de ce vivant. Quand un scribe ou un écrivain du XVIII siècle ou du XIX siècle écrivait, le moment de l’inscription n’était pas gardé vivant (…) Au contraire, maintenant, à l’instant, nous vivons un moment très singulier, sans répétition, que nous nous rappellerons vous et moi comme un moment contingent, qui n’eut lieut qu’une fois, d’une chose qui fut vivante, qui est vivante, qu’on croit simplement vivant, mais qui sera reproduite comme vivante…», J. DERRIDA : 1996, 47. 258 «Quand on regarde la télévision, on a l’impression que cela se passe une seule fois : cela ne reviendra pas, se dit-on, c’est du ‘vivant’, du direct, du temps réel, alors que c’est produit, nous le savons aussi, d’autre part, par le machines à répétition les plus puissantes, les plus sophistiquées», Ib., 102. 259 Derrida fa notare che se determinati fatti storici, in un universo dove l’attualità è trasformata in artefattualità, potevano essere previsti, non poteva però essere previsto quando questi si sarebbero verificati. «…tout ce dont nous parlons est engagé dans une transformation dont le rythme même est déterminant et de plus en plus incalculable. Même si on pouvait prévoir tel ou tel des événements qui ont marqué d’un traumatisme, heureux ou malheureux, notre génération ou même la dernière décennie, même si on pouvait prévoir ceci ou cela, la chute du mur de Berlin par exemple, ou la poignée de main Rabin-Arafat, ou la fin de l’apartheid en Afrique du Sud, ce qu’il était impossible de prévoir, même pour mes experts les plus avisés, et quasiment à la veille de l’événement, c’était l’instant où cela allait se produire. Je présume que cette accélération dans la processus est liée de façon essentielle, et en tout cas pour une large part, à la transformation télémédiatique, télétechnique, à ce qu’on appelle couramment le voyage ou la route de l’information, le passage des frontières par les images, par les modèles, etc.», Ib., 82. 260 Su questo punto, Derrida, apre una discussione riguardo al concetto di simulazione coniato da Baudrillard; in particolare, si riferisce all’analisi che questo fa dell’esperienza televisiva della guerra del golfo, nel 1991. Se è vero da un lato che la tv ha simulato l’evento, dall’altro non bisogna dimenticare che dei morti vi sono pur stati. Ciò che i mezzi di comunicazione, in questo caso (come in molti altri), hanno fatto è stato cancellare la singolarità: «Ce que voulait dire Baudrillard, je suppose, ce n’était pas simplement qu’un processus général emportait tout cela, mais aussi que, justement, les simulacres d’images, la télévision, la manipulation de l’information, le reportage avaient annulé l’événement, qu’au fond on n’avait vécu cela qu’à travers du simulacre. C’est intéressant. Je crois que quelque chose de tel ou d’analogue s’est produit (et se produit sans doute toujours, depuis toujours, dès que de l’itérabilité en général structure l’évémentialité de l’événement), mais cela ne doit pas nous faire oublier – et l’événement ne se laisse pas oublier – qu’il y a eu des morts, des centaines de milliers de morts, d’un côté du front et non de l’autre, et que cette guerre a eu lieu. Si cet avoir-lieu se scelle dans ce que des morts ont d’ineffaçable, on doit ne pas l’oublier, ces morts sont chaque fois, par centaines de milliers, des morts singulières. Chaque fois il y a singularité du meurtre. Cela arrive et aucun processus, aucune logique du simulacre ne peut faire oublier cela; car, avec le processus, il faut aussi penser la singularité», Ib., 89. 130 che dovrebbe, ovvero perde quelle caratteristiche di eccezionalità e di singolarità, che ultimamente lo identificano.261 Dunque, i mezzi di comunicazione, in quanto riproduzione, infinita riproduzione, di ciò che è già avvenuto, oppure generazione fittizia di esso (in ogni caso, anch’essa già avvenuta), distruggono l’essenza stessa dell’evento, distruggono la struttura ontologica dello stesso. La fotografia, e oggi tutti gli strumenti che si servono dell’immagine, sono fabbriche, industrie di fantasmi, gigantesche macchine di procreazione in serie di entità ologrammatiche.262 In quanto tali (cioè in quanto entità ologrammatiche), esse non hanno consistenza, non hanno concretezza263, non hanno immediata referenza; esse sono la presenza di un’assenza, la presenza di un’assenza che è stata presente e che ora non lo è più. Ma la grande menzogna, il grande inganno di questa neo-genesi dell’umano è che questi corpi incorporali, queste fisicità non fisiche attirano la nostra attenzione, si avvicinano a noi, ci guardano, ci parlano, ci domandano una reciprocità che non può essere in nessun modo donata: ecco che cos’è il “fantasma televisivo”, un soggetto che ci guarda senza reciprocità.264 In questo, l’ologramma del corpo assente è un punto zero, una sorgente di significato con cui non posso dialogare, con cui non posso discorrere, di cui, ultimamente, non posso impossessarmi: è un totalmente altro.265 Qui ricompare la presenza dell’arrivante, la presenza dell’imprevisto come donazione di significato, la presenza dell’avvenimento come origine del mondo. L’evento, nella misura in cui non è prevedibile, nella misura in cui non è precedentemente rappresentato come possibile, è il totalmente altro, è l’assoluta diversità, è, in breve (come si è detto), una singolarità. Ma proprio in quanto totalmente altro, in quanto diversità assoluta, in quanto singolarità, è qualcosa di cui non mi posso appropriare, qualcosa che non posso toccare completamente con la mia “mano bramosa”. La sorgente del significato è un punto zero, un Nullpunkt intangibile, un totalmente altro (esattamente come il fantasma) con cui non posso “barattare” il senso di cui mi viene fatto dono: il rapporto con l’arrivante implica dunque una

261 «Bien sûr, la puissance ou la pulsion d’archiviation peut ouvrir à l’avenir, à l’expérience de l’horizon ouvert : anticipation de l’événement à venir et à ce qu’on pourra en garder en l’appelant d’avance. Mais du même coup, cet accroissement, cette intensification de l’anticipation peut aussi bien annuler l’avenir. C’est le paradoxe de l’anticipation. L’anticipation ouvre à l’avenir, mais du coup elle le neutralise, elle réduit, elle présentifie, elle transforme en mémoire, en futur antérieur, donc en souvenir, ce qui s’annonce comme à venir demain», Ib. 118. 262 È un discorso che si ricollega a un’interpretazione che Derrida tenta di dare dell’opera di Roland Barthes: «Quand Barthes donne une telle portée au toucher dans l’expérience photographique, c’est dans la mesure où ce dont on est privée, justement, aussi bien dans la spectralité que dans le regard porté vers les images, le cinéma, la télévision, c’est bien la sensibilité tactile (…) Le spectre, c’est d’abord du visible. Mais c’est du visible invisible, la visibilité d’un corps qui n’est pas présent en chair et en os. Il se refuse à l’intuition à laquelle il se donne, il n’est pas tangible», Ib. 129. 263 L’immagine viene definita come “la luce della notte”, ovvero come la luce di ciò che non ha luce: «C’est une visibilité de nuit. Dès qu’il y a technologie de l’image, la visibilité porte la nuit. Elle incarne dans un corps de nuit, elle irradie une lumière de nuit. À l’instant, dans cette pièce, la nuit tombe sur nous. Même si elle ne tombait pas, nous sommes déjà dans la nuit, dès lors que nous sommes captés par des instruments d’optique qui n’ont même pas besoin de la lumière du jour», Ib., 129, 131. 264 Derida assimila questo fantasma, questo totalmente altro addirittura alla morte: «Le spectre, ce n’est pas simplement quelqu’un que nous voyons venir revenir, c’est quelqu’un par qui nous nous sentons regardés, observés, surveillés, comme par la loi (…) Le tout-autre – et le mort, c’est le tout-autre – me regarde, et me regarde en m’adressant, sans toutefois me répondre, une prière ou une injonction, une demande infinie, qui devient la loi pour moi (…) Le spectre (…) fait la loit là où je suis aveugle, aveugle par situation. Le spectre dispose du droit de regard absolu, il est le droit de regard même», Ib., 135, 136. 265 La spettralità dice non solo dell’alterità, ma anche dell’antecedenza: «Cette chose est l’autre en tant qu’il a déjà été là, avant moi, devant moi, me d’avançant, moi qui suis devant lui. Ma loi. J’ai davantage encore sentiment du ‘réel’ quand ce qui est photographié, c’est un visage ou en regard (…) L’ ‘effet de réel’ tient ici à l’irréductible altérité d’une autre origine du monde ; c’est une autre origine du monde. Ce que j’appelle regard ici, le regard de l’autre, ce n’est pas simplement une autre machine à percevoir des images, c’est un autre monde, une autre source de phénoménalité, un autre point zéro de l’apparaître», Ib. 138. 131 spettralità266: ciò da cui ha origine il mondo non è afferrabile (così come non lo è la sua eterna e perpetua epifania) attraverso l’avvenimento. Il senso è uno sguardo senza reciprocità e la tecnica, come possibilità di manipolazione del reale, riproduce questa strutturale, ontologica intangibilità del reale stesso. Per rimettere assieme le fila del discorso, l’attualità è dunque “artefattualità” e l’ “artefattualità” è “attuvirtualità”, vale a dire negazione, attraverso il fantasma, della singolarità, dell’arrivante, dell’evento in quanto sorgente vivificatrice, in quanto donazione di senso, in quanto ingresso nell’universo di nuovo significato. Dell’avvenimento resta perciò un prodotto artificiale, ovvero un’immagine, un ologramma, una mera impronta visiva, infinitamente riproducibile proprio in quanto spogliata di ogni fisicità, di ogni concretezza, di ogni consistenza. L’attualità, in definitiva, è fatta e il qualcosa di cui è fatta è un fantasma (una simulazione si potrebbe anche dire). La realtà, invece, è eterna fonte sorgiva di significato, produzione continua di senso, “aletheia- fania” che si compie, come espressione suprema di ricchezza infinita, nell’ “arrivo dell’arrivante”, ovvero nella venuta all’essere dell’evento, in quanto imprevedibile, incalcolabile, totalmente altro, in quanto cioè espressione di un’origine intangibile, intoccabile, ineffabile. La verità, incarnata nella straordinarietà dell’avvenimento, è il sopraggiungere del qualcosa dal non qualcosa, è il sopraggiungere del positivo dall’indefinito, è il venire all’essere dal nulla. Ecco che cos’è l’origine del “Da-Sein”, l’origine della presenza hic et nunc delle cose: il niente, il non essere. L’attualità è artefattualità e la verità è il nulla, vale a dire il fenomeno è artificialmente prodotto, mentre la sostanza è il non essere. L’epilogo di tutto questo è racchiuso nelle sconcertanti parole di Baudrillard:

«En conclusion : nous sommes devant une double tentative : celle d’un accomplissement du monde, d’une réalité intégrale – et celle d’une continuation du Rien. Toutes les deux sont vouées à l’échec. Mais tandis que l’échec d’une tentative d’accomplissement est forcément négative, l’éches d’une tentative d’anéantissement est forcément vitale et positive. C’est ainsi que la pensée, qui sait qu’elle échouera de toute façon, se doit le viser des objectifs criminels. Une entreprise qui vise des objectives positifs ne peut se permettre d’échouer. Celle qui vise des objectifs criminels se doit d’échouer. Telle est la pratique bien tempéré du principe du mal. Si le système échoue à être tout, il n’en restera rien. Si la pensée échoue à n’être rien, il en restera quelque chose» (J. BAUDRILLARD : 1995, 209).

2. Dalla menzogna alla presenza, ovvero dalla simulazione alla realtà

Saremmo quasi tentati di sostenere che esiste un “filo conduttore” tra le teorie di matrice marxiana di Debord e le teorie di stampo nichilista di Baudrillard e Derrida. Alcune considerazioni di tipo storico sembrerebbero confermare questa tesi. Nel capitolo precedente, avevamo stabilito un parallelo tra le vicende esistenziali del giovane Holden e i movimenti di rivolta sessantottino e post-sessantottino: le aspettative di cambiamento delle condizioni materiali di vita e dei rapporti di potere, alla base della società di massa, erano state disattese e, di fronte alla sconfitta degli ideali egualitari, i fautori della contestazione avevano maturato il cosiddetto “ritorno a casa”. I grandi obiettivi economici, le grandi dottrine erano state riconosciute definitivamente utopiche, perciò irrealizzabili e inattuabili. Nel prendere atto dell’impossibilità oggettiva di manipolare il reale (come suggeriva il materialismo dialettico), è probabile che molte delle ex-“anime rivoluzionarie” fossero approdate a visioni del mondo onto-pessimistiche e nichiliste, per certi versi assimilabili alle idee di Baudrillard e di Derrida: dall’ingenua baldanza, derivante dall’illusione di poter rovesciare un certo stato di cose, alla disillusione, causata dalla constatazione che la realtà non

266 «Pour renouer ce propos avec celui de la spectralité, disons alors que notre rapport à une autre origine du monde ou à un autre regard, au regard de l’autre, implique une spectralité. Le respect pour l’altérité de l’autre dicte le respect pour le revenant, et donc pour du non-vivant, pour ce qui est possiblement non vivant», Ib., 139. 132 è plasmabile, non è manipolabile, non è comprimibile in uno schema artificialmente prodotto. Dall’ideologia al suo suicidio, dalla rivoluzione al caos, ovvero dall’utopia al nulla. Se da un lato è possibile che questa sorta di “filo rosso” descriva l’evoluzione, il percorso esistenziale di molti individui che, nelle idee del movimento sessantottino, avevano creduto fermamente, dall’altro non ci è dato di poter affermare che il nichilismo, la teoria del nulla come essenza, sia la conseguenza storica (quindi un accidente fenomenologico) della sconfitta pratica del marxismo. Da un punto di vista teoretico, crediamo che una simile affermazione non sia proprio sostenibile; in ogni caso, quand’anche lo fosse, implicherebbe una responsabilità che non abbiamo intenzione di addossarci. Una cosa resta però evidente: le posizioni, riassunte nel precedente paragrafo, si collocano su diversi piani e pongono una serie di domande, le cui risposte rimandano a criteri metodologici differenti. Anzitutto, il dire che la realtà è illusione (dunque nulla), mentre l’apparenza è simulazione, oppure il dire che il mondo è apparenza spettacolare, mentre la realtà è un gioco di rapporti di forza ingiusti (ma eventualmente rovesciabili), situano il problema al livello ontologico-metafisico. Ovvero: chi dice che la verità e l’origine di tutto coincidono con il non essere? Come può darsi il non essere? In che misura la realtà è manipolabile? In secondo luogo, affermare che l’origine delle cose non può essere conosciuta, che il “senso” è un qualcosa che si dona improvvisamente e imprevedibilmente e che, per questo, è inconoscibile, intangibile, rimanda a considerazioni di tipo gnoseologico: chi dice che la sostanza delle cose sia inconoscibile? Chi mi dice che l’altro sia, davvero, totalmente altro? Che cosa posso allora conoscere? Da ultimo, si pongono degli interrogativi su un piano linguistico-semiotico: se lo spettacolo o la simulazione producono (attraverso i mezzi di comunicazione) immagini, simulacri, fantasmi, ovvero oggetti illusori, in quanto mostrano come presente ciò che è assente, in che misura è possibile che il linguaggio (di qualunque tipo esso sia) menta? In che misura il segno, alla base del codice linguistico e quindi della lingua, può essere privo di un referente concreto? Senza dubbio, vi sono, nei testi analizzati, altri punti oscuri, altre questioni che noi, qui, non abbiamo rilevato (per esempio di natura sociale, politologica, economica…), tuttavia, da un punto di vista strettamente teorico, ci sembrava che fossero questi gli “Schwerpunkte” principali. Certamente, si sarebbe potuto dare spazio all’importantissima concezione del “testo” in Derrida, ma essa è inscindibilmente legata a dottrine di tipo psicanalitico, che non ci sembrava il caso di discutere (per lo meno non in questo lavoro). A ogni modo, ciò che a noi interessa è il livello linguistico della questione, ovvero l’ultimo fra i tre punti segnalati. Che cos’è lo spettacolo? Che cosa significa spettacolo per Guy Debord? Si è detto che esso è un fenomeno che nasce dalla “lacerazione dell’unità”, dal fatto che una parte della società ambisce a diventare quella dominante. A tal fine, questo lembo, questo brandello, questa piccola scheggia del cosmo umano crea delle immagini, dei simulacri del mondo reale, che vengono sostituiti al mondo reale stesso, per ridefinirne i rapporti di forza. Ecco dunque che cos’è lo spettacolo: un linguaggio fatto di “fantasmi”, di “ologrammi”, vale a dire di “segni” che rimandano a stati di cose inesistenti. Baudrillard, fa un passo ulteriore: oggi non saremmo più nell’epoca dello spettacolo, ma in quella di una simulazione generale, che ha avuto come esito l’uccisione della realtà. Tutto ciò che c’è è simulacro, perché ciò che è vero non c’è. L’apparenza delle cose è, per l’appunto, una pura apparenza, una pura immagine priva di consistenza. I mezzi di comunicazione di massa non farebbero altro che alimentare tale apparenza, parlerebbero cioè un linguaggio di parole vuote, un linguaggio di parole senza riferimento. Ma quale sarebbe la caratteristica peculiare, l’elemento distintivo, la quidditas di questa “artefattualità”? Secondo Derrida, la cancellazione della singolarità, cioè dell’evento (concetto su cui si fondava la concezione classica di spettacolarità), di ciò che si dà hic et nunc.

133 Quest’ultimo punto, rimanda, per certi versi, a quello che si diceva nel precedente capitolo sulla “quotidianizzazione”, cioè a quel processo tipico della neo-televisione che ha prodotto, tra gli altri effetti, una crescente routinizzazione, una sorta di continua “ricostruzione finzionale della normalità” (capace di soppiantare quasi definitivamente la “festa” del media event classico): la “extra-ordinarietà”, suggerita dal fatto che un determinato evento si verifica una volta sola e non si ripeterà mai più, viene cancellata dalle scadenze degli appuntamenti consuetudinari. Quello che conta, nella tv di oggi, è rappresentare la vita di tutti i giorni, l’ordinario, mostrandolo proprio come tale.267 Ma tornando al nostro discorso, si può sostenere che esista un minimo comun denominatore, alla base delle tre posizioni analizzate. Lo spettacolo, la simulazione e l’artefattualità non sono infatti altro che tre modalità differenti di produrre immagini, di produrre ologrammi, di produrre rappresentazioni fittizie, che non hanno nessun riscontro concreto. Appare ora chiara l’enorme portata semiotica di una siffatta teoria. La produzione e l’offerta di simulacri è un’operazione comunicativa. Ora, la comunicazione è nient’altro che lo scambio di una certa quantità di conoscenze, di una certa quantità di contenuti. Tali conoscenze e contenuti si concentrano in un prodotto, definibile come testo, luogo imprescindibile dello scambio. Ma un testo presuppone a sua volta un linguaggio, vale a dire una sorta di codice che consenta di esprimere un’idea, comprensibile da un altro individuo. A sua volta però tale nozione di linguaggio, di codice rimanda a quella di segno, ovvero a quella di un qualcosa che, nella frase, nell’espressione linguistica (di qualsivoglia tipo essa sia), stia al posto di qualcos’altro, stia al posto, ad esempio, di un oggetto reale. Dire che i media sono strumenti di simulazione, cioè che sono macchine industriali, produttrici di simulacri, equivale a dire che si servono di segni, “stanti per” entità inesistenti. In questo consisterebbe il loro inganno, in questo risiederebbe la loro strutturale menzogna. Per appurare se tutto questo si verifica realmente, ci sembra utile suddividere il nostro discorso in tre parti: a. Una discussione del concetto di segno, per vedere se esso possa essere privato del referente (è questo il problema del presente paragrafo). b. Un chiarimento del concetto di testo, nella fattispecie del testo televisivo, in quanto luogo dello scambio tra mittente e destinatario. c. Rilevazione delle regole del “gioco comunicativo” nei testi offerti dalla tv, per appurare se e in che misura possa darsi una simile manipolazione o un simile inganno. Il mondo sarebbe dunque popolato di ologrammi, di fantasmi, di segni privi di referente, di segni che stanno per qualcosa che non esiste. Tale dottrina ci fa tornare alla memoria la definizione di semiotica, offerta da Umberto Eco, nel suo celeberrimo Trattato di semiotica generale:

«La semiotica ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere ASSUNTA come segno. È segno ogni cosa che possa essere assunto come un sostituto significante di qualcosa d’altro. Questo qualcosa

267 Ci sembra importante riportare la seguente citazione di Bettetini, da un lato perché àncora il concetto di spettacolo a quello di festa, dall’altro perché esplicita meglio quello che si è affermato qui sopra, cioè il fatto che la neo-tv uccide la festività: «Tradizionalmente, la nozione di spettacolo si è sempre accompagnata con quella di festa. È sempre stata l’istanza festiva a motivare le occasioni di spettacolo; nello stesso tempo, la manifestazione spettacolare è sempre stata vissuta come un’occasione di festa (…) La festa del cinema era già comunque lesa e incrinata dalla ripetitività e dalla riproducibilità dei suoi testi, che facevano presagire possibili e imminenti riduzioni a uno stato di continuativa ferialità. Queste riduzioni si sono verificate con l’avvento della televisione, che è riuscita a conservare un ruolo di festività, per quanto già strutturalmente compromesso, fino a quando ha potuto gestire in modo univoco, privo di alternative e pedagogicamente verticistico il suo rapporto con l’udienza. Una volta perdute queste caratteristiche, la televisione ha preteso di assurgere a una dimensione di festiva spettacolarità anche la sua routine e la sua pratica di informazione, sollecitando usi degenerati, consumistici delle sue immagini e travolgendo nella propria caduta verso l’appiattimento della feria il cinema e, in buona parte, il teatro. La televisione trasforma la realtà in uno spettacolo realistico, cancellando ogni istanza rappresentativa…», G. BETTETINI, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano, 2002, 173, 174. 134 d’altro non deve necessariamente esistere, né deve sussistere di fatto nel momento in cui il segno sta in luogo di esso. In tal senso la semiotica, in principio, è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire. Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può essere usato neppure per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla. La definizione di “teoria della menzogna” potrebbe rappresentare un programma soddisfacente per una semiotica generale».268

Il segno è qualcosa che sta al posto di un qualcos’altro che non esiste, o per lo meno che non esiste qui ed ora, che non si dà in questo momento presente. Da qui nasce la possibilità di infinita replicabilità, di infinita riproducibilità dell’artificio simbolico; l’indipendenza del segno dall’oggetto che denota sarebbe cioè la condizione imprescindibile per la libertà dello stesso. L’inganno, la menzogna si pongono proprio a questo livello, in quanto questa condizione di indipendenza, di libertà, nel gioco semiotico del linguaggio, è nascosta, è celata: l’espressione viene perciò presentata come esperienza speculare della cosa, esperienza speculare del referente. L’elemento peculiare di tale esperienza risiede nel legame tra l’immagine, riprodotta sulla superficie riflettente, e l’oggetto, posto davanti allo specchio. Se non vi fosse tale oggetto non ci sarebbe neppure la sua immagine, ovvero la presenza di esso è assolutamente necessaria alla produzione del suo ologramma. Detto altrimenti, il fatto che lo specchio riproduca una figura è garanzia del fatto che c’è un qualcosa di concreto che la genera. Il linguaggio (non necessariamente quello scritto o parlato) crea questa illusione, crea questo artificio magico: esattamente come nel caso dell’esperienza speculare, dà l’impressione di essere strettamente dipendente da una realtà oggettiva, di “stare per” un quid reale al quale, in qualche modo, rimanda.269 La verità è invece che un segno può significare sempre qualcosa, anche se questo qualcosa non esiste, può significare un evento anche se esso non si è mai verificato, può significare uno stato di cose che, di fatto, non esiste (per es. l’idea di ippogrifo); un segno è, in sostanza, strutturalmente segnato dalla possibilità di mentire.270 Se questo è vero, come si spiega allora il problema della referenza? Cioè qual è il significato di un vocabolo? Le parole sarebbero solo un “flatus vocis”, come volevano i nominalisti medievali?

268 U. ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 2002 (I ediz.: 1975), 17. 269 Ecco quanto Elisa Floriani ci dice di questa teoria: «La caratteristica dell’immagine speculare è il suo legame con il referente. Essa è infatti determinata nella sua origine e nella sua sussistenza fisica, da un oggetto, da un referente appunto. L’oggetto, dice Eco (U. ECO, Sugli specchi, Bompiani, Milano, 1985, p. 20) “nomina un solo oggetto concreto, ne nomina uno per volta, e nomina sempre e solo l’oggetto che sta di fronte”. Questo aspetto fa la sua differenza con un segno che è sempre una categoria universale che, se anche designa, non è legato al suo referente (…) Per Eco il nostro sogno semiotico di nomi propri, legato immediatamente a un referente, viene dal fascino che su di noi esercita l’immagine speculare. Il potere incantatorio dello specchio è alla base della convinzione profonda che l’immagine rappresenti la realtà, ne costituisca una sorta di doppio (…) L’immagine non è realtà, non perché sia meno reale della realtà, possiede anzi la sua specifica realtà fatta di carta, di inchiostro, di pietra, di segnali luminosi o elettronici, di bit. Ma perché è un segno della realtà. E un segno è una realtà che ci rimanda a un’altra realtà, anche se questa non esiste o è creata dall’immagine stessa come avviene nel mondo o dell’immaginario a opera della moderna tecnologia, in cui l’immagine è referente a se stessa. Per quanto possa assomigliare, un segno non è l’oggetto di cui è segno, è sempre un’altra cosa (…) In altre parole l’immagine riproduce alcune caratteristiche dell’oggetto, attua cioè, rispetto al modo in cui lo percepiamo, un processo di selezione di quegli aspetti che rendono il senso di un oggetto (…) Il suo scopo non è quello di creare immagini somiglianti, ma immagini efficaci rispetto alle sue esigenze di comunicazione», E. FLORIANI, Grammatica della comunicazione, Lupetti, Milano, 1998, 59, 60, 61. 270 Il modo in cui Eco esprime questo concetto è molto più radicale rispetto al nostro: «(…) ogni volta che si manifesta una possibilità di mentire siamo in presenza di una funzione segnica. Funzione segnica significa possibilità di significare (e dunque di comunicare) qualcosa a cui non corrisponde alcuno stato reale di fatti. Una teoria dei codici deve studiare tutto ciò che può essere usato per mentire. La possibilità di mentire è il proprium della semiosi, così come per gli scolastici la possibilità di ridere era il proprium dell’uomo come animale razionale. Ogni volta che c’è menzogna si ha significazione. Ogni volta che c’è significazione si dà la possibilità di usarla per mentire», U. ECO, 2002: 89. 135 Il significato di una proposizione, il significato di un segno non sono incatenati all’esistenza di uno stato del mondo, vale a dire non sono inscindibilmente legati alla natura “estensionale” della semiosi. Il significato di una proposizione, il significato di un segno designano non un oggetto, ma un contenuto culturale, condiviso da una certa comunità di uomini; detto in altri termini, tale proposizione, tale segno si riferiscono a un’idea mentale dell’oggetto, non all’oggetto stesso.271 L’esistenza o meno di questo riguarda semmai il problema della verità o della falsità dell’espressione, non quello del suo senso.

«Prendiamo il termine |sedia|. Il referente non sarà la sedia x su cui siedo mentre scrivo. Anche per i sostenitori di una semantica referenziale il referente sarà in tal caso tutte le sedie esistenti (esistite o che esisteranno). Ma “tutte le sedie esistenti” non è un oggetto percepibile coi sensi. È una classe, una entità astratta. Ogni tentativo di stabilire il referente di un segno ci porta a definirlo nei termini di una entità astratta che rappresenta una convenzione culturale» (U. ECO: 2002, 98).

Dunque, quando si parla di contenuto, secondo Eco, si fa riferimento a un’unità culturale, a un concetto universale, a una rielaborazione di un percetto, che può essere differente fra una cultura e l'altra. Vari casi esemplificano quello che si sta dicendo. Per esempio, il fatto che gli eschimesi utilizzino quattro vocaboli diversi (che implicano a loro volta altri quattro differenti concetti) per il corrispondente italiano di “neve”. Oppure il caso di tre lingue (italiano, francese e tedesco) che utilizzano tre modi dissimili per riferirsi a tre tipi di fenomeni. Laddove l’italiano ha legno, bosco e foresta, il francese ha bois (corrispondente a “legno” e “bosco” e [in tedesco] a “Holz” e a [una parte] di “Wald”), e forêt (corrispondente alla nostra “foresta” e al “grosser Wald” tedesco), mentre il tedesco ha Holz (corrispondente al nostro “legno” e a parte del francese “bois”) e Wald (cioè il nostro “bosco” e la nostra “foresta”, oppure la “forêt” e la restante parte di “bois” in francese).272 O ancora il caso limite del termine inglese bachelor, che possiede ben quattro significati, apparentemente slegati fra loro: a. Scapolo/Celibe; b. Cavaliere; c. Colui che sta conseguendo il baccalaureato; d. Maschio di foca che non si è accoppiato.273 Del resto, che cosa avviene quando si vuole spiegare un vocabolo? Si utilizza un altro segno. Se si volesse poi spiegare anche questo, si adopererebbe, di nuovo un segno e così all’infinito. Si avvia cioè quel processo di semiosi illimitata di cui parlava Peirce.274

271 Si veda tutto il discorso sul tema “Contenuto e referente”: Ib., 88, 97. 272 A onor del vero, Eco, nel suo esempio, fa riferimento anche alla parola albero e, le lingue che prende in considerazione (rifacendosi a un discorso di Hjemslev) sono: tedesco, francese e svedese. Si veda: Ib. 109. 273 Eco si riferisce, in questo caso a un famoso modello (Katz e Fodor: J. J. KATZ – J. A. FODOR, The structure of language, Prentice Hall, Englewood Cliff, 1964) che poi, tuttavia rielaborerà a suo modo, perché, in se stesso, inefficace. Ci sembrava tuttavia significativo riportare il caso di questo termine, in quanto esemplifica quanto si stava dicendo poc’anzi. Vedi: Ib. 141. 274 Ci sembra utile, a questo proposito, citare due passi in particolare. Nel primo, Eco accenna al concetto di semiosi illimitata, facendo riferimento alla categoria di “Bedeutung” di Frege: «Se si assume che la Bedeutung è uno stato del mondo, la cui verifica prova la validità del segno, ci si deve allora domandare come avvenga la percezione e la verifica di quello stato del mondo e come la sua esistenza sia definita e dimostrata quando la funzione segnica è decodificata. Si vedrà allora che, per sapere qualcosa circa la Bedeutung, occorre indicarla attraverso un’altra espressione, e così via: come ha detto Peirce, un segno può essere spiegato solo da un altro segno», Ib. 91. Nel secondo passo, Eco fa espressamente riferimento alla teoria della semiosi illimitata di Peirce: «(…) per stabilire il significato di un significante (Peirce parla però di ‘segno’) è necessario nominare il primo significante attraverso un altro significante, che a sua volta ha un altro significante che può essere interpretato da un altro significante e così via. Abbiamo così un processo di SEMIOSI ILLIMITATA. Per quanto paradossale la soluzione 136 Ma allora dov’è l’oggetto? Se il segno indica un’idea e l’idea è a sua volta un segno, dov’è la percezione? Dov’è il percetto, inscindibilmente legato alla presenza fisica della cosa? Il percetto c’è ed è l’origine del processo semiotico, ma è, per ciò stesso, anch’esso un’entità semiotica. Tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che apprendiamo passa attraverso il filtro di quelle categorie, che ci siamo costruiti nel corso delle esperienze precedenti. La percezione non è dunque altro che la rielaborazione, la reinterpretazione, attraverso il concorso di nozioni precedentemente prodotte, di dati sensoriali caoticamente sconnessi. Quello che ci accade, tutto quello che ci accade, non è mai direttamente compreso, non è mai direttamente “registrato”. Di fronte all’esperienza, di fronte al mondo, così come si dà, siamo costretti a elaborare delle idee, senza il concorso delle quali, non potremmo neanche conoscerlo.275 Per questo:

«… affermare che |questo è un gatto| significa “le proprietà semantiche comunemente correlate dal codice linguistico al lessema |gatto| coincidono con le proprietà semantiche che un codice zoologico correla a quel dato percetto assunto come artificio espressivo”. In altri termini, sia la parola |gatto| che il percetto o oggetto ||gatto|| stanno culturalmente per lo stesso semema» (U. ECO: 2002, 220).

Dunque, quanto conosciamo, la nostra conoscenza in generale è un insieme di idee, un insieme di nozioni; l’oggetto, la cosa in se stessa ci è inconoscibile, poiché i dati, che da lei provengono, sono riplasmati attraverso l’attività demiurgica delle categorie. Un nome, un termine, un segno, rappresentano il risultato di un processo astrattivo.276 Se riflettiamo un attimo su quanto abbiamo appena detto, la dottrina di Eco potrebbe essere letta, da un certo punto di vista, in una chiave ben più drammatica di quella di Derrida o di Baudrillard: il linguaggio è una menzogna perché non potrebbe essere altrimenti. In Baudrillard, come si è visto, l’inganno, la disillusione, nasceva dall’insopportabilità della coscienza del nulla come origine, dall’insopportabilità della coscienza del vero come illusione radicale. Ora, affinché questo vero potesse generare tale sentimento di angoscia insopportabile, era necessario che fosse conosciuto: questo non essere originale poteva, in qualche modo, in una certa misura, venire compreso, venire percepito come tale. In Derrida, l’artefattualità si qualificava invece come negazione della singolarità dell’evento, in quanto espressione della fonte vivificatrice del mondo, in quanto epifania “hic et nunc” del senso, in quanto donazione di significato. Se da un lato tale fonte vivificatrice, in sé, restava ignota, intangibile, da un altro era però possibile “saggiarne” le manifestazioni empiriche, vale a dire godere dell’evento, dell’ “événement”. In Eco, al contrario, il linguaggio è per sua stessa natura illusorio. La realtà, gli oggetti, le cose non possono essere dette in quanto esse sono, in se stesse, inconoscibili. Il livello più infimo della nostra intenzionalità, della nostra attività gnoseologica implica già un intervento delle categorie: tutto ciò che vediamo, tutto ciò che percepiamo passa attraverso una sorta di lente deformante che ci impedisce di “toccare”, di “venire a contatto” con l’essenza di ciò che abbiamo di fronte. È interessante notare come questo discorso, nato sul piano semiotico, sconfini in quello gnoseologico. possa sembrare, la semiosi illimitata è la sola garanzia di un sistema semiotico capace di spiegare se stesso nei propri termini», Ib. 101. 275 Nel sostenere questa teoria, Eco si richiama direttamente a Peirce: «C’è un breve passaggio di Peirce dove egli suggerisce un nuovo modo di considerare gli oggetti reali. Di fronte all’esperienza, egli dice, noi elaboriamo idee per conoscerla. “Queste idee sono i primi interpretanti logici dei fenomeni che li suggeriscono e che, in quanto li suggeriscono, sono segni di cui essi sono… interpretanti.” Questo passaggio ci porta al problema della percezione come interpretazione di dati sensori sconnessi che sono organizzati da un processo transattivo in base a ipotesi conoscitive basate su un’esperienza precedente», Ib. 222. 276 In questo si vede l’atteggiamento critico di Eco verso una certa tradizione filosofica. Riferendosi a Locke, egli sostiene: «Le idee non sono (come volevano gli scolastici) l’immagine speculare delle cose, ma sono il risultato di un processo astrattivo (in cui, è da notare, sono ritenuti solo alcuni elementi pertinenti) che non ci dà delle cose l’essenza individuale ma l’essenza nominale; la quale è in se stessa un riassunto, una rielaborazione della cosa significata. Il procedimento che porta dall’esperienza delle cose a quel segno delle cose che è l’idea», Ib. 224. 137 Peirce (personaggio a cui Eco pure si richiama), tuttavia, sosteneva che la realtà segnica potesse essere intesa in tre modi differenti: a. Indice b. Icona c. Simbolo. Nei casi a. e b., la relazione con un certo stato di cose è “de facto” inevitabile: a. è in effetti qualcosa che “punta” l’oggetto (ed è pertanto fisicamente connesso con questo), mentre b. è una rappresentazione di esso, governata dal principio della similitudine (è, quindi, un necessario “rimando ad” altro, un necessario “rimando a” una matrice originale). Da ciò discende che gli indici e le icone sono inscindibilmente legati a tale oggetto, che implicano cioè una referenzialità necessaria. Del resto, il Wollen, in una famosa opera sul segno cinematografico277, si era già richiamato alla concezione di Peirce, per mostrare come vi fosse una sorta di collegamento strutturale fra segno e ciò “per cui esso starebbe”. Se l’interpretazione del cinesemiologo americano è, in parte, vera, sono però non del tutto vere le conclusioni a cui il suddetto studioso perviene. Non esiste infatti un’identità assoluta (in ogni caso non nel sistema di Peirce) fra l’entità semiotica e il suo referente, cioè non si dà la possibilità di poter sostenere, a partire dalla dottrina peirciana, un realismo esagerato.278 Come fa notare Bettetini, l’oggetto, secondo Peirce, non era infatti la cosa nella sua materialità, nella sua brutalità, bensì un costrutto sociale e279 le categorie erano un orizzonte intrascendibile.280 Tornando a noi, avevamo affermato poc’anzi che realtà quali l’indice e l’icona implicano (quasi) necessariamente, (quasi) strutturalmente la presenza, o meglio, l’esistenza di ciò per cui stanno, l’esistenza di ciò che rappresentano (come, del resto, la loro radice etimologica indicherebbe). Tuttavia, Eco cerca di rivedere anche questa presunta certezza, a partire dalla rilettura critica di chi, a tale certezza, aveva dato corpo e fondamento teoretico (=Peirce).281 Costui aveva infatti sostenuto che gli indici fossero dei segni causalmente connessi al proprio oggetto, in quanto “sintomi”, oppure “tracce” di esso. Se si prendesse per buono un siffatto assunto, sarebbe evidente, assolutamente pacifico, il fatto che entità come i suddetti indici non possano non implicare una costruzione semiotica di tipo referenziale. Ma ciò che contraddistingue termini come “questo” o “quello” (=indici) è innanzitutto la prossimità, in quanto caratteristica “spazio-psicologica” (per così dire). Il significato di tali vocaboli, in effetti, è compreso anche in assenza di un oggetto, per l’appunto, prossimo.

«… supponiamo che qualcuno dica |non approvo una frase come questa| senza che qualcuno abbia detto precedentemente qualcos’altro (né lo dica in seguito). Il destinatario del messaggio avverte

277 Si tratta di un testo diventato ormai già un classico: - L. WOLLEN, Signs and meanings in the cinema, Secker and Warburg, London, 1969.

278 Bettetini rileva la fallacia delle conclusioni a cui Peirce era pervenuto: «Wollen assimilava segno e oggetto, riducendo e cancellando così il processo semiosico che trasforma l’oggetto in segno…», G. BETTETINI: 2001, 25. 279 «(…) per il filosofo-semiotico americano l’ “oggetto” (…) non è l’oggetto bruto della realtà, ma è già un costrutto semiotico sociale e, quindi, appartenente all’universo dell’idealità e della cultura», Ib. 18. 280 Nel fornire questa interpretazione, Bettetini si riallaccia sempre al concetto della semiosi illimitata: «Peirce (…) nonostante un istintivo realismo tipico dello scienziato, di fatto arrivava a dissolvere la possibilità della conoscenza del reale nella moltiplicazione della infinità delle rappresentazioni, che costituivano per lui un orizzonte intrascendibile e rendevano quindi impossibile un vero e proprio giudizio di verità, che veniva invece sostituito dal consenso della comunità illimitata dei ricercatori come nuovo elemento fondante il reale», Ib. 71. 281 Ed è esattamente sulla seguente teoria che si indirizza il discorso confutativo di Eco: «Peirce aveva definito gli indici come tipi di segni causalmente connessi col loro oggetto e aveva classificato tra gli indici i sintomi, le tracce, ecc.; ma era stato tentato almeno a due riprese di escludere gli indici gestuali e i ‘commutatori’ (shifters o embrayeurs) verbali perché essi non presentano una connessione necessaria e fisica con l’oggetto a cui si riferiscono, non sono naturali ma artificiali e spesso sono fissati per decisione arbitraria. Peirce li aveva chiamati “subindici” o “iposemi”. Ora anche gli stessi subindici, in quanto connessi con l’oggetto verso cui puntano e da cui pare ricevano il loro significato, non potrebbero entrare nel quadro di una semiotica non referenziale», U. ECO: 2002, 164, 165. 138 che il linguaggio è stato usato ‘a sproposito’ e comincia a chiedersi a cosa mai si riferisse il mittente (magari cercando di ricordare l’ultima conversazione avuta con lui per trovare una qualche presupposizione attendibile). Ciò significa che il mittente aveva più o meno presupposto, attraverso l’uso dell’indice verbale: “Io sto nominando qualcosa che non è qui e che ha preceduto il presente enunciato”. Dunque il significato di |questo| è capito anche se la cosa o l’evento linguistico presupposto non esiste o non ha mai avuto luogo. Una volta di più è pertanto possibile usare espressioni anche per mentire, e quindi per veicolare un contenuto a cui non corrisponde alcun referente verificabile. La presenza del referente non è necessaria alla comprensione di un indice verbale» (U. ECO: 2002, 165).

Dunque, ciò che un indice denota è una prossimità, una vicinanza di un qualcosa che potrebbe anche non esserci, che potrebbe anche non esistere, che potrebbe anche non manifestarsi affatto. E cosa ne è invece dell’icona, di quel segno “motivato da”, “simile a”, “analogo a”, “naturalmente legato a” ciò di cui è segno? Anche in questo caso, il discorso di Eco è teso a recidere il legame con il referente. In che modo può essere inteso il segno iconico? Secondo il nostro autore in quattro modi: a. Quel segno che possiede le stesse proprietà dell’oggetto. b. Quel segno che è simile all’oggetto. c. Quel segno che è analogo all’oggetto. d. Quel segno che è motivato dall’oggetto. Procediamo per gradi: a. Si tratta di una definizione abbastanza ambigua. Che cosa significa avere le stesse proprietà dell’oggetto? Vuol dire averne le stesse proprietà fisiche? Se riflettiamo un attimo, un’affermazione del genere è assurda:

«Consideriamo allora il disegno schematico di una mano: la sola proprietà che il disegno possiede, una linea nera continua su una superficie bidimensionale, è l’unica che la mano non possiede (…) la linea nera del disegno costituisce la semplificazione selettiva di un processo assai più complicato. Pertanto una CONVENZIONE GRAFICA autorizza a TRASFORMARE sulla carta gli elementi schematici di una convenzione percettiva o concettuale che ha motivato il segno» (U. ECO: 2002, 258, 259).

Che cos’è allora il disegno di una mano su un foglio di carta? Che cosa fa una rappresentazione fittizia di una parte del corpo che fisicamente, materialmente, non ha nulla a che vedere con la parte reale, con la parte in carne e ossa? Tale disegno, tale rappresentazione fittizia non è altro che uno stimolo sensoriale282, provocato da una riproduzione altamente convenzionalizzata. L’icona, dunque, non fa altro che produrre, che determinare, che causare la stessa sensazione percettiva che si proverebbe se si fosse in presenza dell’oggetto concreto in questione. Ecco dunque come si connota una siffatta entità semiotica: un’esperienza sensitiva determinata da una costruzione sociale. b. È questa la teoria di Peirce: un segno è iconico quando rappresenta un oggetto per via di similarità. Ma che cosa significa similitudine? Quando due oggetti sono simili? Eco, si riallaccia ai principi della geometria: due figure sono simili, quando sono identiche in tutto tranne che nel formato, vale a dire che tale cambiamento è regolato per convenzione.283

282 Ecco dunque quanto Eco afferma: «(…) i segni iconici non hanno le ‘stesse’ proprietà fisiche dell’oggetto, ma stimolano una struttura percettiva ‘simile’ a quella che sarebbe stimolata dall’oggetto imitato», Ib. 258. 283 Secondo il nostro autore, la nozione di similitudine è qualcosa che ha una connotazione ben precisa: 139 Gli stessi grafi, utilizzati da Peirce per rappresentare un sillogismo del tipo: “tutti gli uomini sono soggetti a passioni – tutti i santi sono uomini – tutti i santi sono soggetti a passioni”, disegnati nella seguente maniera:

P

M S

sono possibili soltanto in forza di una convenzione, la quale stabilisce che una determinata relazione tra proposizioni può essere rappresentata mediante un certo rapporto fra insiemi.284 Di conseguenza, tutto ciò che è simile a qualcosa lo è per una sorta di patto, per una sorta di legge “ad hoc”, socialmente stabilita. c. Lo stesso vale per i casi di analogia.285 Sia che essa si fondi su una relazione proporzionale, sia che essa si fondi su una relazione di diverso tipo, essa (esattamente come la similitudine) è una convenzione. d. Questa definizione è, per certi versi, riconducibile a fenomeni come la riflessione (per esempio quella speculare), come la replica o come lo stimolo empatico. L’immagine riflessa su uno specchio, secondo Eco, non è assolutamente assimilabile a un’entità segnica. Che cos’è un segno? Nient’altro che qualcosa che sta per qualcosa d’altro! Ma ciò che appare sulla superficie dello specchio non sta per qualcosa d’altro, non fa le veci di un oggetto, cioè non è una rappresentazione, bensì è una realtà che esiste solo e nella misura in cui un “quid” si pone di fronte alla sorgente del fenomeno della riflessione; senza tale “quid”, la suddetta immagine non vi sarebbe affatto, non si offrirebbe ai nostri sensi come possibile percetto.286 Pertanto, la riflessione non è un segno.

«In ogni caso esiste la nozione di SIMILITUDINE che ha uno status scientifico più preciso che quella di ‘avere le stesse proprietà’ o di ‘assomigliare a…’. In geometria si definisce la similitudine come la proprietà di due figure che sono uguali in tutto salvo che nel formato. Visto che la differenza di formato non è affatto trascurabile (la differenza fra un coccodrillo e una lucertola non è di poco conto per la vita quotidiana), decidere trascurare il formato non sembra affatto qualcosa di naturale, e ha tutta l’aria di riposare su una convenzione culturale – in base alla quale certi elementi sono giudicati pertinenti ed altri vengono del tutto obliterati», Ib. 260. 284 Esattamente dall’inesistenza reale di una relazione fra rapporti spaziali e proposizionali, muove l’argomentazione di Eco per mostrare la convenzionalità dei grafi di Peirce: «(…) i diagrammi di cui sopra esibiscono relazioni spaziali, ma queste relazioni spaziali non stanno in luogo di altre relazioni spaziali! Essere o non essere soggetto a passioni non è materia di collocazione spaziale (…) il grafo (…) trascrive (…) la nozione moderna di appartenenza a una classe. Ma far parte di una classe non è proprietà spaziale (…) ed è una relazione puramente astratta. Come accade allora che nella rappresentazione grafica l’appartenenza a una classe diventi l’appartenenza a uno spazio? Accade per forza di una CONVENZIONE (…) che stabilisce che certe relazioni astratte siano ESPRESSE da certe relazioni spaziali», Ib. 263. 285 In tal caso, abbiamo ridotto ai minimi termini il discorso che il nostro autore racchiude in un intero paragrafo. Si veda: Ib. 265, 266. 286 L’immagine speculare non potrebbe neanche essere definita immagine: «(…) una riflessione speculare non può essere assunta come segno (se ci si attiene alla nostra definizione di funzione segnica). Non solo l’immagine dello specchio non può essere detta ‘immagine’ (dato che non è altro che immagine virtuale e non consiste di una espressione materiale) ma anche se si ammettesse l’esistenza materiale dell’immagine bisognerebbe riconoscere che essa non sta per qualcosa d’altro ma sta DI FRONTE a qualcosa d’altro. Essa non esiste invece di ma a causa della presenza di qualcosa: quando questo qualcosa scompare, ecco che scompare la pseudo immagine nello specchio», Ib. 266. 140 Per quanto riguarda il fenomeno della replica, Eco distingue le repliche governate da ratio facilis, da quelle governate da ratio difficilis.287 Il primo caso (ratio facilis), allo stesso modo della riflessione, non può essere considerato fenomeno iconico a pieno titolo per due ordini di motivi: - da un lato perché il tipo espressivo, che presiede al fenomeno di replica, impone anche il continuum materiale288 da utilizzare, cosa che non avviene nella produzione iconica in cui, per esempio (come dice lo stesso Eco) un triangolo disegnato su un foglio di carta può essere ritenuto simile a un triangolo inciso su un pezzo di rame,289 - da un altro lato perché il rapporto “tipo-occorrenza” non è un teorema da dimostrare (come nel caso dei segni veri e propri), bensì quasi un postulato offerto una volta per sempre.290 Profondamente diverso è invece il secondo caso (ratio difficilis), che è assimilabile alle entità semiotiche propriamente dette. Anche il cosiddetto fenomeno della stimolazione non rientrerebbe nella categoria dei segnali iconici (ma neppure in quella di “segno” in generale). Esso consiste infatti nella produzione di impulsi, che hanno l’effetto di generare, nel destinatario dell’atto comunicativo, una “sensazione di somiglianza” tra un certo segnale e una data emozione. Pertanto, un caso come questo, in se stesso (vale a dire nella sua fenomenologia causale), non è propriamente materia semiotica (proprio in quanto consiste nell’ «indurre un determinato sentimento di somiglianza tra segnale ed emozione» [U. ECO: 2002, 269]), ma di altre discipline scientifiche (come per esempio la fisiologia), che dispongono di quegli strumenti metodologici, capaci di stabilire quali siano gli eventuali meccanismi (organici o psichici) e l’origine di una determinata “emozione stimolata”. Come sostiene il nostro autore:

«(…) considereremo questi fenomeni di empatia come casi di STIMOLAZIONE che devono essere studiati dalla fisiologia del sistema nervoso: ma in un quadro semiotico non sembra

287 Cerchiamo di comprendere proprio a partire dalle parole di Eco di cosa si tratta. Anzitutto che cos’è una replica? «Ogni replica è un’occorrenza che si accorda al proprio tipo. Essa è dunque governata da un rapporto tra tipo e occorrenza o, secondo la formula anglosassone, una type|token-ratio. Questo rapporto (ratio, l’espressione anglosassone coincide con quella latina) può essere di due generi: chiamiamoli RATIO FACILIS e RATIO DIFFICILIS», Ib. 246. Ma che tipo di processo stanno a indicare? «Si ha ratio facilis quando un’occorrenza espressiva si accorda al proprio tipo espressivo, quale è stato istituzionalizzato da un sistema dell’espressione e – come tale – previsto dal codice. Si ha ratio difficilis quando un’occorrenza espressiva è direttamente accordata al proprio contenuto, sia perché non esiste tipo espressivo preformato, sia perché il tipo espressivo è già identico al contenuto. In altre parole si ha ratio difficilis quando il tipo espressivo coincide con il semema veicolato dall’occorrenza espressiva», Ib. 246. 288 Ci sembra necessario chiarire il concetto di continuum materiale. Eco (2002: 76/81), nello spiegare la funzione segnica, si riallaccia a un discorso di Hjemslev, per il quale tale funzione sarebbe caratterizzata da 2 elementi sostanziali: contenuto ed espressione. Questi presentano, a loro volta, al proprio interno, altri tre aspetti: materia, sostanza e forma Un segno risulterebbe dunque composto nel modo seguente:

Ciò che Hjemslev chiama “materia” è definito da Eco “continuum materiale”, vale a dire ciò di cui il segno e il suo contenuto sono fatti. 289 Si veda: Ib. 268. 290 Si veda: Ib. 268, 269. 141 molto fruttuoso voler stabilire se essi si basino o meno su strutture universali della mente umana o non siano piuttosto soggetti a variabili biologiche e addirittura non culturali» (U. ECO, 2002: 269).

Tuttavia, si danno dei casi in cui una disciplina dello studio dei segni sia interessata a fenomeni di questo genere.

«(…) la semiotica può avere presa su questi fenomeni almeno in due casi: (i) quando il preciso effetto usualmente stimolato da una data forma è CULTURALMENTE REGISTRATO, così che la forma stimolante per il suo eventuale produttore, funziona come il SEGNO CONVENZIONALE DEL PROPRIO POSSIBILE EFFETTO, quando non funzioni come segno anche per un destinatario ormai abituato a riconoscere un legame tra quella e un dato risultato emotivo; (ii) quando un dato effetto è chiaramente dovuto a una ASSOCIAZIONE CULTURALIZZATA e un dato segnale non suggerisce, diciamo, un sentimento di ‘grazia’ a causa di strutture universali della mente, ma a causa di una relazione ampiamente codificata tra quel segnale e quel sentimento (…) In entrambi i casi si deve comunque parlare di STIMOLAZIONE PROGRAMMATA» (U. ECO: 2002, 269, 270).

Dunque, anche le icone (considerate dalla tradizione peirciana simili, somiglianti all’oggetto che rappresentano) sono un fenomeno di “semiosi convenzionalizzata”, che non implica necessariamente la presenza della cosa. La cosa, l’oggetto, la realtà simbolizzata non è conoscibile, non è tangibile, non è percepibile in se stessa; per fortuna però, il soggetto dell’atto di conoscenza, il protagonista della dinamica gnoseologica è da tale cosa, da tale oggetto, da tale realtà assolutamente indipendente, assolutamente non necessitato. Le sue categorie, il processo di costruzione e di elaborazione dei segni, di elaborazione e costruzione delle entità rappresentanti funziona indipendentemente dalla presenza o dall’assenza degli esseri concreti a cui gli apparati simbolici si riferirebbero. Una teoria dell’oggetto molto simile a quella di Eco la ritroviamo in Greimas,291 in particolare, in quell’ampio passo del celeberrimo Du sens II, nel quale lo studioso lituano tenta di stabilire quali sono le strutture narrative alla base di un testo, osservando il comportamento dei soggetti coinvolti nel racconto. Che cosa spinge un certo personaggio ad agire? Nient’altro che un oggetto, un qualcosa che egli ambisce a possedere. In questo senso (in quanto cioè termine ultimo del desiderio), tale oggetto si configura come la realizzazione fisica, la concretizzazione pratica di un valore. Ma allora, di che cosa è costituito, di che cosa deve essere fatto, quali caratteristiche deve avere tale oggetto, per essere paradigmatico di un siffatto valore? Rispondere a questa domanda è impossibile, perché l’oggetto, in se stesso, è inconoscibile, intangibile:

«(…) lorsque, nous interrogeant sur les conditions de l’apparition de la signification, nous avons été amené à postuler : a. que tout objet n’est connaissable que par ses déterminations et non en soi ; b. que ses déterminations ne pouvaient être appréhendées que comme des différences se profilant sur l’objet, ce caractère différentiel leur conférant le statut de valeur linguistique ;

291 Ci riferiamo a una testo molto noto: A. J. GREIMAS, Du sens II, Éditions du Seuil, Paris, 1983. 142 c. que l’objet, tout en restant inconnaissable en tant que tel, était néanmoins présupposé, comme une sorte de support, par l’existence des valeur», (A. J. GREIMAS : 1983, 22).

Dunque l’oggetto verso cui un personaggio tende, l’oggetto in quanto valore, l’oggetto in quanto perno della narrazione è, in se stesso, indicibile, intoccabile e definibile solo negativamente. Ci troviamo di fronte a un paradosso: come si può tendere verso qualcosa che non si conosce? Come qualcosa di ineffabile può costituire il movente dell’azione? Greimas afferma però esattamente questo:

«Jusq’à présent, nous n’avons utilisé le terme de valeur que dans son acception linguistique comme un terme arbitrairement dénnomé recouvrant une structure sémantique indicible et qui ne peut être définie que négativement, comme un champ d’exclusion par rapport à ce qu’il n’est pas et fixé toutefois en un lieu syntaxique nommé objet. Toutefois, une telle définition de la valeur qui la rend opérationnelle en sémiotique n’est pas très éloignée de son interprétation axiologique, ne serait-ce que parce que, fixée en ce lieu-dit dénommé objet et présente pour le manifester, la valeur se trouve en relation avec le sujet» (A. J. GREIMAS : 1983, 23).

Se il discorso di Eco fosse vero, se il linguaggio in generale fosse davvero una menzogna, se il segno rimandasse davvero a qualcosa che non esiste, o meglio, se rimandasse infinitamente a qualcosa che non è possibile percepire, il mondo sarebbe la realtà di Matrix, ovvero una pura opera di disillusione. Se le entità semiotiche fossero assolutamente prive di referenza, se l’immagine televisiva (in quanto segno) fosse, come tutte le altre entità simboliche, una pura costruzione finalizzata all’inganno, allora le visioni catastrofiche di Debord, Derrida e Baudrillard rispetto alla comunicazione di massa sarebbero quanto mai realistiche. È evidente la grande distanza che separa queste teorie, dalla concezione di un “grande” come Pier Paolo Pasolini, il quale sosteneva che il cinema non farebbe uso di alcun filtro simbolico, ma ipostatizzarebbe (semplicemente) su una pellicola in celluloide la “segnicità” del reale. In questo senso, egli riteneva che fosse molto più gravida di risultati una semiotica del reale che non una semiotica del film.292 Dopo questa breve citazione, per così dire, positiva, ci sembra giunto il momento di invertire la “rotta” della nostra navigazione. Fatte a pezzi tutte le certezze legate all’espressione linguistica, ci pare necessario iniziare a ricostruire qualcosa, iniziare a ricucire un legame con un possibile referente; crediamo insomma che sia necessario uscire dalle “tenebre” della “pars destruens” per cercare la luce di una eventuale “pars costruens”. Procediamo dunque per gradi. Alcune parti del discorso di Eco ci sembrano condivisibili; ci sembra vero, per esempio, che il segno sia un’entità significante, in quanto socialmente riconosciuta come tale, e che esso sia il corrispondente di un’idea mentale, derivata dall’esperienza sensibile; ci pare assurdo però che: a. il segno sia un’entità priva di referenza; b. il segno menta; c. (che, per ciò stesso) tutto il linguaggio sia una menzogna. Facciamo un esempio molto banale, prima di affrontare il problema da un punto di vista strettamente scientifico. Se io dicessi, in questo preciso istante: “ho una voglia matta di pappardelle ai porcini con pioggia di tartufo bianco!!!”, sono evidenti almeno tre cose [tutte concrete]: a. Che io ho avuto esperienza delle “pappardelle ai porcini con pioggia di tartufo bianco”.

292 Ci richiamiamo, in particolare, a quanto affermano Stam, Burgoyne e Flitterman-Lewis (1999: 48): «In “Il cinema di poesia” (in: P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, 1972) il teorico e regista Pier Paolo Pasolini suggerisce che il cinema è un sistema di segni la cui semiologia corrisponde a una possibile semiologia del sistema dei segni della realtà stessa. In altri termini, il cinema comunica perché ripropone i segni già presenti, nel mondo che ci circonda. Contrariamente alla letteratura, il cinema non possiede alcun filtro simbolico o convenzionale tra il regista e la “realtà”». 143 b. Che quelle “pappardelle ai porcini con pioggia di tartufo bianco” erano così buone che l’idea di “pappardelle ai porcini con tartufo bianco” che ho nella mente corrisponde proprio alla realtà esperita. c. Che adesso, mentre sto desiderando “le pappardelle ai porcini con tartufo bianco”, ho voglia proprio di quelle che ho avuto modo di assaporare quella volta lì. Dov’è la menzogna? Io ho avuto esperienza delle “pappardelle ai porcini con tartufo bianco”, tant’è che mi sono piaciute e ora voglio proprio quelle. Più che di inganno si tratterebbe di “imbroglio”, o meglio di “sfortuna” (come si direbbe in perfetto italiano): cioè, purtroppo, le pappardelle, qui e ora, non ci sono. È evidente che, nel mio enunciato, la succulenta pietanza di origine piemontese sta per qualcosa di concreto, per qualcosa di esperito. Si potrebbero fare degli esempi anche più stimolanti, dal punto di vista dei sensi, ma il caso riportato ci sembrava già abbastanza ardito, per uno studio di tipo scientifico. Se un individuo, che ha vissuto tutta la vita in una cucina di un Mc Donald’s (che non ha dunque [poverino!] esperienza né delle pappardelle, né dei porcini e né tanto meno del tartufo bianco), sentisse la nostra frase, si domanderebbe: “che cosa sono queste pappardelle ai funghi porcini con pioggia di tartufo bianco?” L’unico modo che avrebbe per formarsi un’idea chiara e distinta di questa realtà, sarebbe quella di mangiare la suddetta pietanza (capirebbe, per altro, che mangiare è anche un piacere; ma questo è un altro problema). Anche se vedesse una foto, si costruirebbe un’immagine mentale che non corrisponde esattamente a quella a cui pensiamo noi, nel momento in cui enunciamo la frase. Il nostro esempio, lo ripetiamo, pur essendo poco scientifico, ma della scarsa scientificità del quale ci assumiamo tutta la responsabilità, mostra due evidenze: a. da un lato quella per cui è possibile riferirsi a qualcosa pure in sua assenza (per esempio in assenza [che peccato!] delle pappardelle), esattamente come sosteneva Eco; b. dall’altro però che tale riferimento c’è; detto in altri termini, che l’idea a cui pensiamo rimanda direttamente a qualcosa di esperito. Facciamo ora un passo ulteriore. Quando si afferma che il linguaggio è una menzogna o che il segno non ha nessun referente, si fa appello, in modo indiretto, esattamente al concetto di verità, poiché la nozione di inganno implica di per se stessa il fatto che qualcosa di falso si oppone a qualcosa di vero. Di conseguenza, dire che il codice mente, equivale a dire che esso dichiara il falso. Ora, la misura del vero e del falso è data dall’estensionalità di un’idea, dall’estensionalità di un termine o di una proposizione, e tale concetto di estensionalità dice proprio della presenza o dell’assenza, o meglio, dell’esistenza o dell’inesistenza di un oggetto: quella nozione (= estensionalità) che il nostro autore, in una certa misura, intendeva lasciare da parte diventa strettamente necessaria, per giudicare delle condizioni di verità o di falsità.293

293 È quella che Eco chiama fallacia estensionale: «La fallacia estensionale consiste nell’assumere che il significato di un significante abbia a che fare coll’oggetto corrispondente (…) Poiché una teoria dei codici non riconosce l’estensione come una delle sue categorie, essa può considerare le proposizioni eterne senza considerare il loro valore estensionale. Se non rinuncia a considerare questo fattore, ecco che la teoria dei codici cade in una FALLACIA ESTENSIONALE. La teoria dei codici riguarda la definizione del contenuto come funtivo di una funzione segnica e come unità di un sistema semantico: pertanto il fatto di assumere (come fa correttamente una teoria dei valori di verità) che pÆ q è Vero se e solo se (i) p e q sono entrambi Veri, (ii) p è Falso e q è Vero, (iii) sia p che q sono Falsi, - tutto ciò non aiuta affatto a capire la nozione di significato come contenuto (…) Spiegare il peso semiotico di una menzogna significa capire perché e come una menzogna (un asserto falso) sia semioticamente rilevante indipendentemente dalla Verità o Falsità dell’asserto stesso (…) Chiunque riceva il messaggio |il tuo gatto sta annegando nella pentola del minestrone| senz’altro si preoccupa di verificare se l’enunciato corrisponde a verità, sia per salvare il suo gatto sia per salvare la commestibilità del suo minestrone, anche se un semiologo così interessato ai codici da mostrarsi sospettoso di ogni richiamo estensionale. Ma il fatto è che tali faccende non riguardano la teoria dei codici, la quale studia solo le condizioni culturali in base alle quali il messaggio sul gatto è comprensibile anche a chi non abbia gatti e non stia cuocendo minestrone. Infatti, posto che il destinatario abbia un gatto e una pentola di minestrone, la sua reazione pragmatica all’enunciato (corsa rapida in cucina, grida strozzate, espressioni di |micio, micio!| è indipendente dalla verità o falsità dell’enunciato…», U. ECO: 2002, 93, 94, 96. 144 Quindi, l’affermazione “il linguaggio è una menzogna” rimanda a delle considerazioni di tipo estensionale, anzi è essa stessa verificabile estensionalmente. Il concetto di verità è però complesso, coinvolge diversi piani e può essere inteso in diversi modi294. Esitono infatti: a. una verità ontologica (ovvero la verità delle cose); b. una verità logico-rappresentativa (cioè la verità del concetto); c. una verità logico-linguistica (cioè la verità del giudizio). Quando si parla di verità del linguaggio o del discorso (non necessariamente quello della lingua parlata, ma anche quello televisivo o cinematografico), si fa riferimento alla terza accezione (= c.). Affermare qualcosa, dire per esempio: “le cose stanno in questo modo” (oppure presentare in tv una certa realtà, mediante delle immagini) equivale a emettere un giudizio.295 Ma che cos’è un giudizio? È quella convenienza di un predicato a un soggetto, che indica un assenso o un dissenso a uno stato di cose. Da questo punto di vista, come afferma Bettetini:

«La possibilità di ammettere la verità o la falsità di un’affermazione presuppone (…) da una parte l’accettazione del criterio dell’evidenza come riferimento ultimo e non ulteriormente fondato, ma dall’altra anche l’accettazione della particolare condizione segnica dei concetti…» (G. BETTETINI, L’audiovisivo, Bompiani, Milano 2001, 72 [I ediz.: 1996]).

Si vede ora il lato marcatamente realista della nostra posizione: il principio di veridizione è l’evidenza, cioè affermare o negare qualcosa significa riconoscere o misconoscere ciò che è evidente.296

Ma staccando il concetto di verità da quello di estensionalità, si riapre la questione epocale, il grandissimo dubbio relativo alla presunta “calvizie” di un fantomatico re di Francia: “il re di Francia è calvo” è una proposizione vera o falsa? 294 Il nostro discorso è fondato su una nozione di verità che rimanda a una concezione aristotelico-scolastica della stessa. 295 Per un eventuale approfondimento del concetto di verità, della definizione di giudizio e della teoria della conoscenza in generale, rimandiamo alla lettura del seguente testo in tre volumi: - S. VANNI ROVIGHI, Elementi di filosofia, La Scuola, Brescia, 1996. Consigliamo, in particolare, la lettura dei tomi relativi alla metafisica e alla gnoseologia (I e II), nei quali, fra le altre cose, vengono offerte le ragioni pratiche e teoretiche dell’abbraccio di una posizione di tipo moderatamente realista. In particolare, nell’opera citata, si danno due definizioni di “verità”; la prima: «Dobbiamo distinguere due tipi di verità: verità di fatto e verità necessarie, vérités de fait e vérités de raison, come le chiamava Leibniz, matters of fact e relations of ideas, come le chiama Hume. Le prime sono quelle che affermano l’esistenza di qualche cosa, p. es., “io esisto”, “esiste un albero”, o determinano la natura di una cosa esistente di fatto, come la proposizione “quest’albero è verde”; le seconde sono quelle che affermano un rapporto fra concetti, fra essenze, senza dire se questo rapporto sia poi attuato in realtà o no, ad es. “il triangolo ha gli angoli interni uguali a due retti”, “l’uomo è animale ragionevole”, ecc. (…) Ora, come ci sono verità di fatto immediatamente evidenti, ad esempio l’affermazione che esiste questo mio atto di volontà, così ci sono anche verità necessarie immediatamente evidenti, ad esempio il principio di identità “ogni cosa è se stessa” e il principio di non contraddizione: idem non potest simul esse et non esse. Tale principio infatti non afferma l’esistenza di nulla, ma dice che, dato qualche cosa, questo qualche cosa deve essere se stesso, cioè determinato, e incontraddittorio», Ib. 160. La seconda definizione, invece, è esattamente quella a cui, qui, ci siamo richiamati: «Approfondiamo ora la nozione di verità. Noi studiamo qui la verità logica o verità della conoscenza. Si parla anche di una verità ontologica o verità delle cose. Il carattere comune all’una e all’altra verità è di essere un rapporto fra l’intelletto e la realtà: nella verità logica l’intelletto è, per così dire, misurato dalle cose, nella verità ontologica la cosa è misurata dall’intelletto. O, in altre parole, la verità logica è il rapporto fra un intelletto e una cosa che l’intelletto trova, scopre; la verità ontologica è il rapporto fra una cosa e l’intelletto che presiede alla creazione della cosa stessa (rapporto che c’è, per es., fra un’opera d’arte e l’intelletto dell’artista)», Ib. 161. 296 È esattamente questo il fulcro di una dottrina realistica della conoscenza: «Che cosa vuol dire: queste proposizioni sono vere? Vuol dire: le cose stanno così come io dico, o io esprimo come stanno le cose. La verità è dunque l’adeguazione della conoscenza alla realtà, adaequatio intellectus ad rem. E perché diciamo: le cose stanno così? Perché siamo sicuri che le cose stanno così? La risposta non può essere che una: perché vediamo che stanno così. Questo carattere per cui la cosa si manifesta è l’evidenza intrinseca (…) non ci può essere altro 145 È questo, secondo la tradizione aristotelico-scolastica, il principio primo, la sorgente prima delle nostre conoscenze e di tutta la filosofia. Ma qual è la prima di tutte le evidenze? Qual è l’origine, il cominciamento della nostra attività speculativa? Aliquid est, il fatto che c’è qualcosa, il fatto che c’è un quid che scopro non essere “io”, essere diverso da me. 297 Supponiamo di nascere in questo preciso momento e di uscire, sempre in questo preciso momento, dalla pancia di nostra madre; da che cosa saremmo anzitutto colpiti? Dal fatto che esiste un mondo, dal fatto che esistono degli oggetti e delle persone (che non abbiamo mai visto prima). Non è forse per questa ragione che il nascituro, nell’istante del parto, piange ininterrottamente? È questo il primo livello della nostra conoscenza: lo stupore per l’essere, in quanto stupore per la presenza del mondo. Solo a partire da questa cognizione primordiale, attraverso l’astrazione, è possibile costruire, accrescere il nostro sapere; ma tale costruzione, tale accrescimento è comunque sempre segnato dall’utilizzo dello stesso criterio, cioè l’evidenza. Esisteranno, in questo senso, delle evidenze immediate (corrispondenti all’assenso verso un certo stato del mondo) e delle evidenze mediate (ottenute mediante il ragionamento). In ogni caso, tutto il nostro processo conoscitivo (pertanto il concetto di verità) si configura come adaequatio intellectus ad rem. La prima evidenza è l’essere e l’essere è condizione del pensiero: “sum ergo cogito”, non “cogito ergo sum”. Se non avessi una certa esperienza (anche indiretta) di qualcosa, non avrei nessuna idea della stessa e non potrei comprenderne esattamente il significato.298 Detto questo, si può essere pienamente d’accordo con quanto afferma Bettetini:

«La dimensione con cui abbiamo a che fare quando si parla di verità di un discorso o di una rappresentazione audiovisiva è (…) la (…) – verità del giudizio – benché in qualche modo siano coinvolte le altre. E in effetti nel giudizio che propriamente si afferma (o si nega) qualcosa e quindi solo in esso si può dare propriamente il vero o il falso, vale a dire quanto dai medievali veniva chiamato l’adaequatio, nozione i cui termini sono stati a lungo fraintesi nella filosofia moderna e contemporanea», (G. BETTETINI, L’audiovisivo, Bompiani, Milano, 2001, 72).

Poste queste premesse, possiamo intendere davvero il “segno”, la realtà di quel qualcosa che “sta per qualcosa d’altro”, come una via ad res, cioè come un’adaequatio ad rem, che non si sostituisce alla res stessa, ma vi rimanda in modo immediato, senza dualismi, poiché da essa deriva, da essa

criterio primo e fondamentale di verità e (…) sull’evidenza deve fondarsi chiunque pretenda di esprimere un’affermazione che abbia valore (…) La verità e l’evidenza sono dunque realtà che non si possono negare senza con ciò stesso presupporle e affermarle. Naturalmente, quando diciamo che la verità è un adeguarsi alle cose, quel “cose” va inteso in un senso molto ampio: la cosa a cui mi adeguo può anche essere un ente ideale…», S.V. ROVIGHI: 1996, 160, 161. 297 «… l’affermazione implicita in ogni altra, il presupposto di ogni ricerca è questo: c’è qualcosa, aliquid est. Questa affermazione è al di qua di ogni sistema filosofico, al di qua non solo di materialismo e spiritualismo – poiché spirito e materia sono qualche cosa, ente – ma anche al di qua di idealismo o realismo, come osserva N. Hartmann, perché anche il pensiero, se se ne può parlare, è qualcosa, è essere», Ib. (vol. II) 7, 8. 298 È esattamente questo che sottolinea la Vanni Rovighi, sebbene utilizzi delle argomentazioni un po’ meno esistenziali delle nostre: «Dunque il primo concetto dell’intelletto nostro è il concetto più universale: quello di essere. Illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum… est ens (…) Delle cose sensibili, prima di tutto, l’uomo si domanda che cosa sono; di queste, prima di tutto, coglie la quidditas o essenza, e la prima nozione con la quale esprime tale quidditas è la nozione di ente. Potremmo dunque dire che l’oggetto primo dell’intelletto umano in questa vita è la quiddità delle cose materiali concepita come ente (…) Il concetto di ente, sebbene sia ricavato dalle cose materiali, non è affatto il concetto di ente materiale: è un concetto del quale, da principio, si conoscono attuazioni materiali, ma che prescinde dalla materia e che si riconosce poi applicabile anche a realtà spirituali, quando si sia dimostrata l’esistenza di tali realtà», Ib. 155, 156. 146 discende.299 Ciò non vuol dire che tale segno riproduca perfettamente l’oggetto a cui si riferisce, cioè che ne rappresenti una copia perfetta, bensì che del suddetto oggetto tratteggia una selezione delle caratteristiche principali. Questo inserisce le entità semiotiche (di tipo rappresentativo) sul piano retorico della verosimiglianza, dell’opinione, della δόξα300: esse sono cioè non vere, ma verosimili. Da ciò discende che un determinato segno è solo una delle tante riproduzioni possibili di una certa realtà. Detto in altri termini, di fronte a un certo stato di cose, il soggetto del fare semiotico effettua una selezione dei particolari costitutivi di tale stato, operando successivamente una raffigurazione (verosimile) di essi: la semiosi è pertanto simulazione, in quanto significazione, cioè (come la sua etimologia sta a indicare) è “signum facere”, ovvero produzione di un significante che rinvii a un possibile significato. Come nota Bettetini301, quando si parla di televisione, di cinema o di audiovisivo in generale, si fa riferimento a un linguaggio propriamente “iconico”, che si serve cioè di icone, le quali non sono altro (proprio come aveva sostenuto Eco) che degli stimoli, tendenti a riprodurre le stesse sensazioni generate dalla presenza della cosa (rappresentata). In questo senso, possiamo definire le icone delle entità simulanti. Ma simulare significa rappresentare, per cui, in una certa misura, anche mentire; per verificare in che modo si dia questa seconda possibilità, è necessario chiarire alcune questioni. Simulazione è significazione e significazione è, come si è detto, “signum facere”, ovvero produzione di simulacri.302 Questi ultimi, per certi versi, possono essere paragonati alle sculture, che sono artefatti realizzati a partire da un progetto, da un’idea, da un archetipo che l’artista si foggia nella mente. Ma questo progetto, questa idea, questo archetipo è sempre un’interpretazione di una certa realtà esistente, cioè una sorta di spiegazione di un determinato stato di cose. Esattamente come nel caso della scultura, il simulacro è sorretto da un modello303, da una precisa nozione, che si qualifica come lettura possibile di una situazione concreta, di un siffatto modo di essere “hic et nunc” del mondo. Ma proprio in quanto lettura “possibile” (come lo si è definito

299 Bettetini mostra la contraddizione di una teoria contraria a questa, mediante l’argomento aristotelico dell’impossibilità del regresso all’infinito: «L’unico modo per rendere ragione della nostra conoscenza è infatti l’ammettere che il concetto sia quel tipo di segno che la tarda scolastica definiva segno “formale”, vale a dire un segno totalmente trasparente, una via ad res che non si sostituisce alla realtà, ma vi rimanda in modo immediato, senza dualismi rappresentativi che dissolvano l’identità intenzionale fra concetto e realtà rappresentata; se questo non viene accettato, necessariamente si arriva a un terzo termine che operi una mediazione e sia garante della adeguatezza del rapporto: questo terzo termine avrebbe allora a sua volta bisogno di una mediazione e si aprirebbe un regresso ad infinitum che non solo è contraddittorio in sé, ma neanche rende ragione di tutti i fenomeni conoscitivi che tutti riconosciamo come dati e non discutibili», G. BETTETINI, L’audiovisivo, Bompiani, Milano, 2001, 72 [I Ediz.: 1996]. In questo modo, viene dimostrata anche la contraddittorietà del concetto peirciano di “semiosi illimitata”. 300 «In ogni caso (…) si può comprendere come la nozione di realismo non sia traducibile (…) con una restituzione integrale e pienamente comprendente della realtà, ma con la costruzione di una rappresentazione verosimile: attraverso, cioè, una “somiglianza” con il reale che dipende anche dalle opinioni, dalle credenze e dalle stesse abitudini discorsive della società che la produce; si parla al proposito di “doxa”…», Ib. 73. 301 Ib. 69/82. 302 È esattamente questa la spiegazione che offre Bettetini: «Significare è, infatti, lo ripetiamo, “signum facere”, è produrre un significante materiale che possa rinviare, nel caso appunto della simulazione, a un progetto o a un modello o a un’icona capace di sollecitare, come già si è detto, impatti percettivi analoghi a quelli prodotti dalle forme referenziali – nel caso in cui esistano – o comunque credibili e utilizzabili in virtù della loro verosimiglianza e della loro adeguatezza all’istanza che ha dato origine alla specifica produzione di senso», Ib. 74. 303 È possibile sostenere che questo aspetto simulativo (in quanto interpretativo) del segno iconico sia una dimensione che eccede la visualità: «La rappresentazione iconica finalizzata all’azione dell’occhio (così come, d’altra parte, anche quella che si subordina all’orecchio) non è mai ingenua, né piattamente speculare, né referenzialmente corrispondente: è sempre sostenuta da un’idea, che spesso eccede la dimensione dell’iconico e del visivo e si estende a tutto il rapporto conoscitivo dell’uomo con l’universo. E questo si verifica tanto nei casi di immagini statiche, quanto, soprattutto, in quelli di immagini in movimento», Ib. 74. 147 poc’anzi), tale simulacro deve essere sottoposto a una verifica304, a una verifica che è sempre di tipo estensionale. Se il referente, il significato della rappresentazione non esiste, tale rappresentazione continua certamente a sussistere, ma si configura come falsa, mendace, menzognera. Dunque:

«Da un punto di vista semiotico si ha simulazione quando il piano dei significanti si subordina a un’ipotesi interpretativa nei confronti di una certa realtà o di un certo progetto di significato, quando fa esprimere a questa ipotesi un modello rappresentativo e quando, infine, deduce da questo modello una performance semiosica destinata, ovviamente, alla verifica dell’uso. Tutto questo si manifesta in qualunque semiosi, iconica o meno, nel senso che ogni costrutto segnico è anche il frutto di un’ipotesi teorica che produce un modello cognitivo e che può sottoporsi al vaglio della verifica segnica. Con il termine “simulazione” possiamo ricoprire, quindi, un aspetto del fenomeno semiotico e, più in particolare, un aspetto della “rappresentazione”: quello che implica la teorizzazione, l’ipotesi e la subordinazione a verifica; elementi presenti in tutte la manifestazioni segniche e rappresentative e, ovviamente, in tutte le performance discorsive, ma che nell’ottica simulativa acquistano una focalizzazione e un senso particolari» (G. BETTETINI, L’audiovisivo, Bompiani, Milano, 2001, 75,76).

Da quanto abbiamo detto tre cose sono evidenti: a. che l’utilizzo dei segni non è mai neutro o ingenuo;305 b. che all’origine del segno vi è sempre uno stato di cose reale, nella misura in cui è rappresentato (e questo dice a sua volta della rilevanza dell’aspetto estensionale per la realtà segnica); c. che, contrariamente a quello che sosteneva Baudrillard, la simulazione è anzitutto una forma di rimando, una sorta di trampolino di lancio verso la realtà (pur essendo, la menzogna, una possibilità concreta). Il segno iconico è una simulazione, talvolta più reale del reale stesso (si pensi alla costruzione delle immagini digitali), tuttavia, proprio in quanto entità simulata, in quanto simulacro, essa si configura come la venuta all’essere, come la realizzazione di un modello, di un archetipo, di un’idea, la cui veridicità deve essere verificata: l’immagine rimanda a una costruzione mentale, la quale, a sua volta, rinvia a un possibile oggetto; si potrebbe parlare quasi di due diversi livelli di referenza. Se tale oggetto non esiste, il processo semiotico resta, il processo semiotico rimane, ma solo in quanto produzione di un’entità segnica non verificabile estensionalmente, di un’entità segnica che “sta esclusivamente per” il suo modello. È a questo livello che il linguaggio offre la possibilità di mentire; ma è, per l’appunto, una possibilità, cioè un’eventualità, una potenza da attualizzare: l’inganno è un fatto puramente accidentale, non sostanziale. Dunque, la nostra prospettiva è ben lontana da quella di Eco, per il quale la menzogna era una caratteristica ontologica, strutturale della lingua. Perché un segno testimonierebbe il falso? Perché, secondo Eco, esso non riuscirebbe a dire, non riuscirebbe a esprimere, non riuscirebbe a rappresentare l’oggetto; non riuscirebbe cioè a riproporre la verità della cosa, poiché la sua realtà intrinseca è inconoscibile. Questo è il problema. Solo se non è data la possibilità di conoscere un certo stato del mondo, il modo di rappresentarlo può rivelarsi falso, mendace. Come potrei infatti raffigurare qualcosa che non vedo? Come potrei, per esempio, disegnare il volto del signor Giuseppe Bottazzi, se non l’ho mai conosciuto, né ho mai visto una sua foto? Se non potessi davvero percepire quello che ho di fronte, allora la tragica descrizione della teoria dei codici, contenuta nel Trattato di semiotica generale, non sarebbe poi così fallace.

304 «Quando si parla di simulazione, si fa riferimento, in prima istanza, alla costruzione di un modello (ipotesi teorica) interpretativo nei confronti di una certa realtà e, in seconda istanza, alla verifica empirica della funzionalità e dell’adeguamento di questo modello (…) La costruzione del modello ha un fine cognitivo e la sua validità deve essere sottoposta a verifica…», Ib. 75. 305 Ib. 76. 148 Ma è davvero impossibile conoscere l’oggetto, è davvero impossibile cogliere, seppure solo in piccola parte, la verità che esso porta con sé? Non esiste davvero nessuna corrispondenza tra una certa idea, una certa nozione della mente e ciò che ho di fronte? Ci sembra che, sia Eco, sia Peirce, siano fortemente debitori della dottrina della conoscenza kantiana, in base alla quale le cose, la realtà sarebbero delle entità noumeniche, non conoscibili per quel che sono, non conoscibili in sé; la cosiddetta “cosa in sé” sarebbe dunque un “quid” intangibile, un “quid” indicibile, un “quid” inesprimibile, un “quid” di cui si può solo e appena percepire la presenza. Tutto il nostro sapere, tutta la nostra cultura, in breve, tutte le nostre idee non derivano direttamente dalla sperimentazione della realtà, non derivano direttamente dall’impressione, dall’azione dei corpi sui nostri sensi. L’esperienza, tutta la nostra esperienza, e la percezione, ogni tipo di percezione, sono delle cognizioni mediate, sono delle cognizioni indirette del mondo, in quanto rielaborate attraverso il filtro delle categorie (in particolare attraverso quelle di spazio e tempo). Ogni qualvolta ci troviamo di fronte a un nuovo evento, ci costruiamo delle nozioni generali per conoscerlo. La nostra attività gnoseologica è inesorabilmente segnata dall’a priori.306 Tutto ciò potrebbe generare uno spaventoso soggettivismo: chi mi dice che il tavolo rosso che vediamo ora, qui davanti, sia realmente tale? che cosa garantisce che stiamo vedendo la stessa cosa e che elaboriamo la stessa idea? Ciò che salverebbe dal soggettivismo e che, quindi, garantirebbe la possibilità della comunicazione sarebbero l’universalità delle categorie e la trascendentalità delle stesse. È la trascendentalità, in quanto condizione dell’identicità (= delle categorie in tutti gli individui), che permette alla totalità degli esseri umani di fare la stessa esperienza conoscitiva. Ma è vero tutto questo? Se io dicessi “questo tavolo è rosso” e un altro dicesse “questo tavolo è rosso”, lo diremmo perché abbiamo categorie identiche? Non è possibile invece che il tavolo sia lo stesso e che vediamo entrambi la stessa cosa, perché è semplicemente così? Se la conoscenza e la verità sono adaequatio intellectus ad rem, allora il processo gnoseologico si configura semplicemente come assenso o dissenso a uno stato di cose: c’è un determinato oggetto (aliquid est) che ha quelle determinate caratteristiche che io riconosco essere tali. Nel discorso di Eco, c’è però qualcosa di vero: io vedo questo tavolo rosso che ho davanti agli occhi e se ne vedessi un altro identico (uscito dalla stessa fabbrica e prodotto dallo stesso meccanismo) riuscirei a distinguerlo dal primo; tuttavia, se dovessi chiarire in cosa consiste la differenza fra i due, avrei non poche difficoltà. Vedo che esiste una diversità, riconosco tale diversità, ma non riesco a capire in che cosa essa consista. Di fronte a una esperienza di questo tipo, come fa notare la Vanni Rovighi307, mi risultano evidenti due cose: a. che mi è possibile conoscere solo attraverso concetti universali (corrispondenti a diversi livelli di astrazione);

306 Non che la dottrina realista non ammetta l’esistenza dell’a-priori e cancelli il suo ruolo di primo piano in tutto il processo conoscitivo, anzi: «Se non si riconosce (…) l’a priori, si finisce col negare alla scienza ogni carattere di necessità e universalità, come fa l’empirismo, o con l’introdurre molto più a priori di quel che effettivamente non vi sia, e ci si fa assertori, come il Rosmini, sulle orme di Kant, di un apriorismo sintentico». S. VANNI ROVIGHI: 1996, 145. Il problema è prendere le distanze da questo apriorismo sintetico: «Intendiamo, seguendo il Masnovo (A. MASNOVO, Apriorismo e… apriorismo, in: a cura di: A. GEMELLI, Immanuel Kant, Vita e Pensiero, Milano, 1924.), per apriorismo sintetico, l’affermazione che l’intelletto umano aggiunge di suo al contenuto dell’esperienza (secondo Kant le dodici categorie, secondo il Rosmini l’idea dell’essere); per apriorismo astrattivo invece l’affermazione che l’intelletto non aggiunge nulla al contenuto dell’esperienza, ma gli dà solo un modo di essere (il modo di essere universale) diverso da quello in cui tale contenuto si attua nelle cose reali. Ora, un tal modo di essere universale deriva da un semplice prescindere che fa l’intelletto, non da un alterare; c’è quindi inadeguatezza nella conoscenza umana rispetto all’immensa ricchezza della realtà, ma non alterazione della realtà stessa», Ib., 146. 307 S. VANNI ROVIGHI: 1996. 149 b. che non mi è possibile “carpire” l’essenza specifica, l’irripetibile individualità di ciò che mi sta di fronte. Sul punto a. già Aristotele, nella Metafisica, aveva detto la sua. Secondo il teoreta greco infatti, la facoltà astrattiva “governerebbe” l’elaborazione anche del livello più infimo della nostra conoscenza. Detto in altri termini, i concetti universali entrerebbero in gioco pure nella percezione del particolare, poiché è grazie a questi che, nel nostro intelletto, possiamo formarcene l’idea. Sul punto b., possiamo richiamarci invece a quanto aveva sostenuto Husserl. La Vanni Rovighi ci riferisce che egli aveva teorizzato il fatto che non fosse possibile fare delle “ontologie regionali”, delle ontologie cioè che (qualora esistessero) ci permetterebbero di afferrare le cose, nella loro unicità: se da un lato infatti è data l’eventualità di conoscere un’essenza (generica), dall’altro non è data mai quella di conoscere un’essenza specifica.308 Questo ed esattamente questo è il limite insormontabile, il limite incancellabile delle nostre capacità teoretiche: ho di fronte un oggetto, lo riconosco, vedo che è diverso da un altro, ma non riesco a definire in che cosa tale diversità consista, non riesco a dire la sua individualità. Detto in altri termini: la realtà è infinita, mentre le nostre “potenze conoscitive” sono finite. Che cosa succederebbe, invece, se tentassimo di definire l’identità di un qualcosa? Non faremmo altro che attribuire a questo qualcosa una collezione di concetti universali309, una collezione che tenti di circoscrivere quel “quid” che lo rende unico e irripetibile.310 Da che cosa pensate che dipenda il fatto che, da secoli, si scrivono centinaia di pagine sul “sommo poeta”? Perché ogni critico può sempre svelare un aspetto rimasto nascosto? Proprio a causa del limite radicale di cui si parlava poc’anzi, cioè a causa del fatto che non è possibile conoscere il particolare nella sua particolarità.

308 È esattamente questo il punto: «Noi non abbiamo l’intuizione astrattiva delle essenze specifiche, e perciò non possiamo procedere con l’analisi e la deduzione quando vogliamo ottenere una conoscenza specifica della realtà corporea: se procederemo con l’analisi e la deduzione enunceremo solo verità che riguardano una cosa considerata come ente, non verità che la riguardano come la tal cosa», Ib. 31. 309 È un processo che, per certi versi, viene descritto anche da Aristotele, nella Metafisica: «Le sostanze corruttibili, infatti, a chi pure possiede scienza, sono inconoscibili, non appena siano fuori dal campo della sensazione; e, anche se si conservano nell’anima le nozioni delle medesime, di esse non ci potrà essere né definizione né dimostrazione. Perciò, per quanto concerne la definizione, è necessario che, quando si definisce qualcuna delle sostanze individuali, non si ignori che può sempre venir meno; in effetti, non è possibile darne una definizione. Ma neppure è possibile definire alcuna Idea, perché l’Idea, come alcuni sostengono, è una realtà individuale e separata. Infatti, è necessario che la definizione consti di nomi, e colui che definisce non potrà coniare nuovi nomi, perché, in tal caso, la definizione resterebbe incomprensibile; ma i termini correnti sono comuni a tutte le cose, e pertanto è necessario che essi si applichino anche ad altro (oltre che alla cosa definita). Se, per esempio, uno ti volesse definire, dovrebbe dire che sei un animale magro o bianco o qualche altra cosa, che potrà sempre convenire anche ad altro? E se uno obiettasse che nulla vieta che, presi separatamente, tutti i nomi della definizione convengano a molte cose, ma che, invece, presi nel loro insieme, convengano a questa sola cosa, si dovrà rispondere quanto segue. (a) In primo luogo essi si riferiscono almeno a due cose: per esempio, animale bipede si riferisce all’animale e al bipede (…) (b) In secondo luogo, se le Idee sono formate di Idee (…), anche queste Idee-elementi di cui sono formate le Idee dovranno predicarsi di molti: così, per esempio, l’animale e il bipede. Se così non fosse, come si potrebbe conoscere? Ci sarebbe infatti un’Idea che non sarebbe possibile predicare più di un individuo, il che non sembra possibile, perché tutte le idee sono partecipabili», ARISTOTELE, Metafisica, Libro Z, 15, 1040°, 5/25, Rusconi, Milano, 1996, 355, 357. Dunque, non si dà conoscenza del particolare. 310 «Il carattere inadeguato della conoscenza umana (…) è attestato dal fatto che non solo noi abbiamo concetti universali, come abbiamo detto sopra, ma che tutti i nostri concetti sono universali (…) quando esprimiamo, diciamo, che cosa è un individuo, esprimiamo sempre concetti universali. Diciamo p. es. che Tizio è un uomo, che è un poeta, che la sua poesia ha i tali caratteri; ma tutti questi sono concetti universali. Pensiamo infatti che conoscere intellettivamente significa conoscere ciò che è una cosa; ora se noi sapessimo che cosa è una cosa in tutta la sua determinatezza, fino all’individualità, la distingueremmo subito da tutte le altre e saremmo sicuri di non scambiarla mai con un’altra. E invece non arriviamo a conoscere così neppure le cose o le persone con le quali abbiamo più familiarità (…) se conoscessimo le cose nella loro essenza individuale, le conosceremmo di colpo per quanto sono conoscibili e non avremmo più nulla da imparare intorno ad esse; e invece la nostra conoscenza progredisce. Che cosa vuol dire progredisce? Vuol dire che conosciamo delle cose – che pure ci erano già in certo modo note – aspetti che prima non conoscevamo», S. VANNI ROVIGHI: 1996, 151. 150 Del resto, immaginate per un istante quanto sarebbe noioso il contrario; immaginate come sarebbe noiosa la vita, se riuscissimo a cogliere sempre l’essenza specifica di tutto. Immaginate, per esempio, che noia sarebbe trascorrere tutta la nostra esistenza con una persona della quale si conosce già tutto; che gusto invece nell’avere accanto qualcuno del quale si può, ogni giorno, scoprire qualcosa di nuovo, del quale si può, quotidianamente, approfondire quell’intuizione per la quale ella, inizialmente, ci aveva colpito. È questa la condizione dell’uomo. Dunque è vero che ciò che ho di fronte, gli oggetti, il mondo, ultimamente, non mi appartengono; dunque è vero che ciò che vorrei toccare con “mano bramosa”, mi resta intangibile. Tutto ciò è vero. È anche vero però, come è facile rilevare dall’esempio, che intravedo e riconosco il fatto che, un’identità, gli oggetti, ce l’hanno. La riconosco appunto, la intravedo, ma non riesco a dirla; in questo consiste il mio limite. Il mio concetto, la mia nozione mentale, pur essendo “universale”, mi rimanda, referenzialmente, all’esperienza del particolare, tant’è che se non avessi fatto tale esperienza, non ne avrei neanche l’idea (si vada nuovamente all’esempio delle pappardelle ai porcini con pioggia di tartufo bianco); aliquid est, se non ci fosse la realtà, non ci sarebbe l’idea e, dunque, neanche il pensiero. Esistono però entità puramente astratte, immagini inesistenti, per esempio quella dell’ “ippogrifo” (animale per metà cavallo, per metà grifone). Come se ne spiega la presenza? Esse sono generate da capacità astrattive di livello superiore, che operano una rielaborazione e una mescolanza dei concetti già esistenti; se non avessi mai visto un cavallo e un grifone, non potrei mai aver avuto un idea di “ippogrifo”. Possiamo confrontare, mediante dei grafici, la posizione (rispetto al processo conoscitivo) che noi sosteniamo con quella di Eco. La dottrina realista può essere descritta come segue: esperienza (del particol.)Æ concetto universale (dell’ogg. partic.) Æ livelli sup. di astraz.

referenza

La dottrina di Eco invece:

A-priori (astratti)Æ esperienza particola.Æ concetto dell’ogg.Æ eventuale ulteriore astr. +

referenza

Speriamo che ci venga perdonato tale sconfinamento nel territorio della gnoseologia. Un discorso di questo tipo era però necessario per dare una maggiore consistenza teoretica al concetto di segno iconico, inteso come via ad res. Del resto, non soltanto l’icona, ma anche il “simbolo” (vale a dire il terzo tipo di realtà segnica, secondo la tripartizione peirciana) ha una relazione forte con il suo referente, come indica la sua stessa etimologia. Che cosa vuol dire infatti simbolo? La parola viene dal greco συν-βάλλειν cioè: da “συν”, corrispondente all’italiano “con”, e “βάλλειν”, equivalente all’italiano portare, e significa qualcosa come “portare con”. Il simbolo è dunque un’entità che “porta” (per l’appunto) con sé le tracce, gli indizi di un'altra realtà, di un altro simbolo od oggetto. Perciò, ogni realtà semiotica implica una referenzialità. Ci auguriamo che il nostro discorso non sia stato frainteso. Il nostro obiettivo non era quello di negare l’arbitrarietà e la convenzionalità del segno, ma la cancellazione della referenzialità verso un “quid” concreto. È questa referenzialità che ci interessava ricostruire: il nostro è un realismo della referenza, non del simbolo.

151 È vero che le parole, le immagini, gli indici… sono dei costrutti sociali, riconosciuti da un certo gruppo di persone (più o meno esteso), come dotati di significato; è vero che le parole, le immagini, gli indici… nominano, rimandano, prima facie, a un’idea, a una nozione mentale; tutto questo è vero. Ciò che non è vero è che tale nozione non abbia relazione di sorta con la cosa. Dunque, il punto di rottura, rispetto alla dottrina di Eco, si colloca sulla relazione che tale idea, tale nozione mentale intrattiene con l’esperienza in generale, cioè (noi sosteniamo): senza esperienza non c’è idea; un concetto è inscindibilmente legato alla sperimentazione, alla percezione dell’oggetto che lo genera. A nulla vale l’obiezione che l’essenza di tale oggetto, nella sua irripetibile individualità, non sia percepibile, perché ciò non nega due evidenze: a. che il suddetto concetto è comunque dipendente dall’oggetto; b. che la suddetta individualità è pur sempre riconosciuta, pur non potendo essere detta. Anche gli esempi addotti per dimostrare l’arbitrarietà del segno, a nostro avviso, indicano, irrefutabilmente lo stretto legame esistente tra il dispositivo semiotico e l’esperienza. Si pensi al caso (citato da Eco) degli eschimesi, che hanno ben quattro termini corrispondenti alla parola italiana “neve”. Ora, se questo indica da un lato la convenzionalità del linguaggio, dall’altro mostra pure il legame che esso intrattiene con la realtà, il legame che esso intrattiene con un certo stato di cose: l’esperienza della neve che ha un groenlandese o un eschimese è profondamente diversa da quella che ha un arabo yemenita; quest’ultimo, nel suo linguaggio quotidiano, può permettersi anche di non avere alcun vocabolo, corrispondente a quel certo stato meteorologico; i primi due, al contrario, avranno necessità di distinguere diversi stati fisici, che dovranno rispettivamente nominare. Fatte queste puntualizzazioni, tutto ciò che rimane della descrizione che Eco fa del segno e della produzione segnica ci sembra ottimo.311 Non vogliamo qui occuparci di questi due aspetti in modo esaustivo (si finirebbe per parlare troppo di segni e troppo poco di televisione), ci sembra tuttavia utile riprendere alcuni aspetti decisivi, poiché mettono in evidenza tutta la complessità dell’apparato della significazione e del processo di creazione di senso. Anzitutto, è necessario distinguere fra denotazione e connotazione. Un segno, di qualunque tipo esso sia, può veicolare diversi messaggi, diversi significati; per esempio, una parola è caratterizzata da diverse accezioni, un linguaggio può richiamare stati di cose o del mondo differenti. Un caso di questo tipo è quello di cui parla il nostro autore, quando fa riferimento al codice “idrico”312 (se così possiamo definirlo), creato per segnalare i diversi stati dell’acqua di un’eventuale diga. Poniamo che vi sia un alluvione e che la diga stia per straripare; tale codice sarà predisposto per avvertire gli addetti al bacino che la superficie lacustre sta per superare la soglia di guardia. Che cosa significa questo avvertimento? In primo luogo che c’è un pericolo, in secondo luogo che è necessario darsi alla fuga, se non si vuole essere travolti dalle acque. È questo il punto fondamentale: il codice denota pericolo e connota fuga. Si tratta di due livelli differenti di significazione, detto in altri termini, la connotazione è una sorta di denotazione secondaria, effettuata a partire dalla prima. Ora, se il significato di un semema è costituito da una serie di elementi definibili marche semantiche, queste ultime devono essere distinte in: a. marche denotative; b. marche connotative. Spesso però, accade che, alle suddette marche semantiche, si affianchino entità di altra natura; si tratta dei cosiddetti elementi contestuali e circostanziali, i quali fanno sì che un determinato termine, una determinata immagine, una determinata figura denotino e connotino qualcosa in più rispetto al contenuto principale, ovvero un termine, un’immagine, una figura assumono un significato differente, in relazione alla circostanza o al contesto in cui vengono utilizzati.

311 Ci riferiamo in particolare a delle parti contenute nel testo citato (U. ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 2002), nella fattispecie a quella relativa alla comunicazione e significazione (47/70) e alla tipologia dei modi di produzione segnica (285/326). 312 Ib. 82. 152 Interessante in questo senso è l’esempio del teschio:313

[circ bottiglia] Æ d veleno

[circ bandiera] Æ d pirata ||teschio||Æ ms Æ «teschio»Æd morte [circ cabina] Æ d alto voltaggio – c pericolo

[circ camicia] Æ d ardito

Questo caso mette in evidenza tutta la complessità della natura di un segno, sottolineandone, nello stesso tempo, la convenzionalità. Ci spiace di non poter approfondire in questa sede il discorso sulla teoria della produzione segnica, il quale (ne siamo convinti) avrebbe probabilmente confermato la nostra idea di referenza. Ci auguriamo quanto meno di aver chiarito la portata degli elementi in gioco e di aver fornito delle basi per degli eventuali approfondimenti. Del resto, il nostro lavoro doveva occuparsi anzitutto del mezzo televisivo; il discorso sulla natura del segno voleva solo mostrare se e in che misura tale mezzo ha la possibilità di “mentire”, “simulare” o “spettacolarizzare” (dato che questi, come si è visto, sono meccanismi di natura linguistica). Chiarite le caratteristiche semantico-estensionali del linguaggio e chiarito il fatto che un’entità semiotica è una via ad res, bisogna capire se fenomeni come quello della menzogna o della manipolazione del destinatario non siano collocabili nel rapporto comunicativo stesso, cioè nell’elaborazione di un “testo”, inteso come strumento, utilizzabile da un mittente, per trasmettere la propria visione del mondo. È questo il passo successivo da compiere: svelare quali sono le caratteristiche di questo rapporto comunicativo, in quanto si realizza attraverso una testualità, luogo e, nello stesso tempo, rappresentazione dello scambio. Il testo dunque, come principio regolatore del gioco delle parti, nella relazione mittente/destinatario.

3. Il gioco delle parti: la testualità tra manipolazione e comunicazione

Dunque, il principio primo, la base, la “condicio sine qua non” della comunicazione è il linguaggio, inteso come artificio semiotico, come struttura logica composta di segni, o meglio, come struttura logica organizzatrice di segni. Il segno è, a sua volta, il vicario del mondo, il vicario di un oggetto, all’interno del codice; in questo senso, esso è rinvio eterno a un’alteritas, rinvio eterno a una realtà altra, rinvio eterno a qualcosa d’altro, in quanto significato di sé (si è già dimostrata la necessità, la stringenza reale, in quanto esigenza, del “rimando referenziale” di questo “qualcosa d’altro” [o concetto]). Per chiudere definitivamente il discorso sulle entità simboliche, possiamo richiamarci a qualcuno di più autorevole di noi (per lo meno nel campo linguistico), a qualcuno che possa offrirci quel “quid” finale, necessario per fornire al lettore una visione sintetica del problema. Pensiamo in particolare a Emile Benveniste314, che si riallaccia apertamente alla teoria di Saussure, quando afferma:

313 È necessario chiarire il significato delle abbreviazioni utilizzate: ms: marche semantiche; d: denotazione; c: connotazione; circ.: elemento circostanziale. Si veda: Ib. 164. 314 E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, Editions Gallimard, Paris, 1966. 153 «Una delle componenti del segno, l’immagine acustica, ne costituisce il significante; l’altra, il concetto, ne è il significato. Fra il significante e il significato il legame non è arbitrario: anzi, è necessario. Nella mia coscienza di francese il concetto (“significato”) “bue” è necessariamente identico all’insieme fonico (“significante”) böf. E non potrebbe essere diversamente. L’uno e l’altro sono stati impressi nella mia mente; e insieme si evocano in ogni circostanza. Fra i due vi è una simbiosi così stretta che il concetto “bue” è come l’anima dell’immagine acustica böf. La mente non contiene forme vuote, concetti senza nome (…) Il significante e il significato, la rappresentazione mentale e l’immagine acustica sono quindi in realtà le due facce di un’unica nozione e si compongono insieme come l’incorporante e l’incorporato. Il significante è la traduzione fonica di un concetto; il significato è la controparte mentale del significante. Questa consustanzialità del significante e del significato assicura l’unità del segno linguistico» (E. BENVENISTE, Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano, 1994, 63, 64).

Il grande linguista francese non accenna alla referenzialità del concetto: il segno è composto solo da due elementi, cioè da un significante (“signifiant” [ovvero la parola nel suo aspetto grafico e fonico]) e da un significato (“signifié” [ovvero la nozione]). Del resto, la nostra dottrina realista è già stata così abbondantemente esposta e motivata, che non c’è bisogno di fornire ulteriori argomentazioni in merito. In ogni caso, si è detto che il linguaggio è un codice e il codice, per comunicare, si serve di segni, in quanto rimandano a, in quanto significano un certo stato del mondo. Sotto questo rispetto, appare più chiara la descrizione di forma linguistica, che Benveniste ci fornisce:

«… una forma linguistica (…) 1. è un’unità di globalità che abbraccia delle parti; 2. queste parti si trovano in una disposizione formale che ubbidisce a certi principi costanti; 3. ciò che dà alla forma il carattere di una struttura è il fatto che le parti costituenti assolvono una funzione; 4. infine, queste parti costitutive sono unità di un certo livello, cosicché ogni unità di un livello definito diviene sotto-unità del livello superiore» (E. BENVENISTE: 1996, 32).

Ma quali sono questi livelli? Che valore hanno? In che senso sono importanti?

«Tutti i momenti essenziali della lingua hanno un carattere discontinuo e mettono in gioco unità discrete. Si può dire che la lingua è caratterizzata non tanto da ciò che esprime quanto da ciò che essa distingue a tutti i livelli: - distinzione dei lessemi, che permette di fare l’inventario delle nozioni designate; - distinzione dei morfemi, che fornisce l’inventario delle classi e sottoclassi formali; - distinzione dei fonemi, che dà luogo all’inventario delle distinzioni fonologiche non significanti; - distinzione dei “merismi” o tratti che ordinano i fonemi in classi. Ecco ciò che fa sì che la lingua sia un sistema in cui nulla significa in sé e per vocazione naturale, ma in cui tutto significa in funzione dell’insieme; la struttura conferisce alle parti il loro “significato” o la loro funzione» (E. BENVENISTE: 1996, 32).

Si vede dunque quanto sia complesso e da quanti livelli sia composto il linguaggio: è solo la macchinosa mescolanza (su diversi piani) delle entità semiotiche, in quanto regolata da leggi combinatorie, che permette la produzione del senso, ovvero la riproduzione della realtà. È questa infatti la funzione, il fine del codice. Se una lingua è composta da segni e se i segni sono i vicari degli oggetti concreti, allora tale lingua sarà contraddistinta dall’infinita possibilità di ri-presentazione (ed eventualmente anche di ri- creazione) del mondo.

«Il linguaggio ri-produce la realtà. Ciò va inteso nel senso più letterale della parola: la realtà viene prodotta di nuovo mediante il linguaggio. Chi parla fa rinascere con il suo discorso l’evento e la sua

154 esperienza dell’evento. Chi lo ascolta coglie prima di tutto il discorso e, attraverso questo discorso, l’evento riprodotto. Così, la situazione inerente all’esercizio del linguaggio, che è quella dello scambio e del dialogo, conferisce all’atto del discorso una duplice funzione: per il parlante esso rappresenta la realtà; per l’ascoltatore ricrea questa realtà» (E. BENVENISTE: 1996, 34,35).

Detto questo, è necessario fare alcune precisazioni. Dal nostro discorso non si deve inferire che il linguaggio sia, in sé, una riproduzione della realtà; esso è infatti solo una possibilità di riproduzione, cioè una riproduzione in potenza, o meglio ancora, la condizione delle possibilità di riproduzione dell’oggetto. Detto in altri termini, la lingua, il codice, offrono soltanto la materia prima e le regole combinatorie per rappresentare un certo stato di cose, ovvero costituiscono esclusivamente una potenzialità da attualizzare. Ma tale rappresentazione del mondo, tale attualizzazione delle potenzialità della lingua si incarnano in un prodotto, in un bene “consumabile”, “alfa e omega” dello scambio comunicativo: è il testo, in quanto sistema, impianto organicamente strutturato, finalizzato alla costruzione del senso. È in quest’opera, in questo artificio della creatività umana che si concentra la “Weltanschauung” di un certo mittente, di un individuo cosciente, che intende comunicare a un altro soggetto la propria concezione della realtà. Pertanto, da un punto di vista macroscopico, la comunicazione implica, all’origine, almeno tre elementi: a. un essere ragionevole, capace di elaborare delle idee e capace di sentire l’esigenza di comunicarle; b. un codice, inteso come condizione di possibilità della comunicazione (o comunicazione in potenza); c. un testo, in quanto attualizzazione di alcune delle possibilità del codice. La descrizione appena ultimata riguarda però solo ed esclusivamente l’elaborazione del messaggio. Perché vi sia davvero comunicazione è necessario che tale messaggio venga ricevuto e interpretato, cioè è necessario: d. che il testo debba poter essere trasmesso (è necessario dunque un canale che veicoli le informazioni); e. che il destinatario interpreti ciò che riceve; f. che, sempre il destinatario, fornisca eventualmente una risposta; g. che, infine, tale risposta sia elaborata come progetto o, al limite, come testo (base possibile di un nuovo scambio). Dunque, l’emissione e la ricezione di un qualsivoglia contenuto implica almeno questi sette elementi (eventualmente ampliabili): a. un mittente; b. un codice; c. un testo; d. un canale; e. un destinatario; f. un’interpretazione; g. una risposta. La comunicazione è dunque un processo, o meglio un “rapporto” di reciprocità, poiché implica almeno due attori. In ogni caso, tenteremo di chiarire il nostro discorso attraverso un grafico:

CodiceÆmittenteÆTesto TestoÆDestinatarioÆInterpretazione (Potenz. Comun.) Canale Testo Risp. elabor. come Testo

155 Ciascuno di questi sette fattori rappresenta quasi un mondo, quasi un universo e, in questo senso, può essere fatto oggetto di un’analisi approfondita. Tuttavia, ciò che a noi interessa e ciò su cui concentreremo la nostra attenzione è anzitutto il terzo, ovvero il testo, convinti (come abbiamo del resto già in parte sostenuto) che il contratto e lo scambio comunicativo si realizzino primieramente attraverso di esso, in quanto luogo fisico, principio regolatore e rappresentazione del gioco delle parti, messo in campo dalla comunicazione. Ma che cos’è un testo? Bettetini ne dà la seguente definizione:

«(…) testo (è) inteso come insieme coerente e organicamente strutturato di segni, come complesso coeso, come struttura organicamente compiuta, prodotto dall’intreccio di più codici», (G. BETTETINI, L’audiovisivo: 2001, 32).

Ma questo insieme, questo complesso, questa struttura organicamente compiuta è resa tale da qualcuno che la usa come strumento, come rappresentazione, come espressione di una certa visione del mondo. In questo senso, è un artificio. Il problema, a questo punto, è dunque quello di svelare i meccanismi di tale artificio, di svelare cioè le regole che presiedono alla costruzione, all’articolazione e poi allo scambio di un certa quantità di informazioni. Nel corso delle nostre ricerche sulla testualità, ci siamo imbattuti anzitutto negli studi di Greimas,315 già citato nel paragrafo relativo alla funzione del segno. Si tratta di uno dei “classici” del “pensiero semiotico”, la cui prospettiva, tuttavia, non intendiamo abbracciare in toto, per delle ragioni che renderemo palesi nello svolgersi dell’analisi. Abbiamo già accennato al modo in cui lo studioso franco-lituano intendeva i concetti di oggetto e di valore e al fatto che essi, nonostante la loro strutturale inconoscibilità, costituiscono il movente dell’azione dei personaggi. Bene. Proprio da questo punto dovremo ripartire. Procediamo però per gradi. Il pensiero semiotico greimasiano può essere definito come una descrizione delle modalità attraverso cui, a partire da un struttura semiotica profonda, viene generato il senso.316 Tale struttura è composta da una dimensione semantica, che riguarda essenzialmente la sfera dei significati, e da una dimensione sintattico-grammaticale, che regola la combinazione e il rapporto fra le entità segniche, in quanto individualità significanti. L’interazione fra queste due componenti produce il discorso, livello semiotico superficiale, cioè punto di arrivo del processo generativo del senso.317

315 Ci riferiamo, in particolare, a: - A.J. GREIMAS, Du sens II, Editions du Seuil, Paris, 1983.

316 Questo è quanto scrivono Patrizia Magli e Maria Pia Pozzato, nella prefazione all’edizione italiana di Del Senso II: «La teoria geimasiana è una teoria della generazione del senso: tenta di definire il senso secondo i modi della produzione. Le componenti che intervengono in questo processo si articolano le une in rapporto alle altre secondo un percorso che va dal più semplice al più complesso, dal più astratto al più concreto. La generazione semiotica del discorso si presenta dunque sotto forma di un percorso generativo che sta a designare la produzione del senso attraverso una serie di investimenti progressivi del contenuto. Questo percorso, partendo dalle istanze generative più profonde, di tipo logico-semantico, si converte progressivamente in piani semio-sintattici più superficiali fino ad incontrare, attraverso le procedure di enunciazione, una struttura narrativa di superficie. Il senso di un testo dunque non è colto a livello della sua manifestazione espressiva, bensì nei modi in cui si genera e si svolge in un processo orientato di conversione: ogni testo è solo l’evidenza e la memoria della sua storia generativa», P. MAGLI – M.P. POZZATO, Prefazione: la grammatica narrativa di Greimas, in: A.J. GREIMAS, Del senso II, Bompiani, Milano, 1998, III. 317 Ci sembra opportuno, in questo caso, richiamarci direttamente alle parole di Greimas, il cui contenuto risulterà tuttavia molto più chiaro in seguito, quando tenteremo di mostrare, in modo sintetico, come è fatto, da che cosa è composto il livello profondo della narrazione: «La grammaire narrative génère des objets narratifs (= des ‘récits’), conçus comme des parcours narratifs choisis en vue de la manifestation. Ceux-ci sont définis par une distribution particulière de rôles actantiels dotés de modalités et détérminés par leurs positions respectives dans le cadre du programme narratif. L’objet narratif, en possession de sa structure grammaticale, se trouve investi, grâce à sa manifestation dans le discours, de son contenu spécifique. L’investissement sémantique se fait par la sélection, opéré par les rôles actantiels, des rôles thématiques qui, pour 156 In proposito, è necessario fare una puntualizzazione. Nel corso dell’analisi che ci accingiamo ora a intraprendere, si accennerà a tali (differenti) livelli in modo piuttosto disorganico. Detto in altri termini, essi non verranno descritti o esaminati separatamente, perché altrimenti non si renderebbe giustizia del loro rapporto di interazione, durante la genesi, o meglio, durante la gestazione del testo. Che cosa spinge i personaggi (quando si parla di personaggi o di attori si fa riferimento anzitutto al piano superficiale, cioè al piano “discorsivo”) ad agire? Per quale ragione cioè, è possibile il dispiegarsi di una storia (dato che questa è determinata dalle azioni e dagli eventi che coinvolgono tali personaggi)?

«Qu’est-ce qui fait courir ces sujets après les objets ? c’est que les valeurs investies dans les objets sont ‘désiderables’ ; qu’est ce qui fait que certains sujets sont plus désidereux, plus capables d’obtenir des objets de valeur que d’autres ? c’est qu’ils sont plus ‘compétents’ que d’autres» (A.J. GREIMAS : 1983, 10).

Il movente dell’azione è dunque l’oggetto, un oggetto che si configura come termine ultimo del desiderio, in quanto depositario di un valore. Pertanto, poiché soltanto “depositario” (come si è detto), poiché soltanto “incarnazione accidentale di”, e non valore esso stesso, tale oggetto, tale termine ultimo del desiderio, non si delinea come assiologicamente rilevante in sé. Se si desidera un oggetto, se si vuole ardentemente qualcosa, ciò avviene perché questo oggetto, questo qualcosa racchiude, porta con sé un significato che lo trascende.318 Questa idea ricorda, per certi versi, il modo in cui Leopardi descrive il principio dell’innamoramento:

«… Vagheggia Il piagato mortal quindi la figlia Della sua mente, l’amorosa idea, Che gran parte dell’Olimpo in sé racchiude, Tutta al volto ai costumi alla favella Pari alla donna che il rapito amante Vagheggiare ed amar confuso estima.

réaliser leur virtualités, exploitent le plan lexématique du langage et se manifestent sous la la forme de figures qui se prolongent en configurations discoursives. Le discours, considéré au niveau de sa surface, apparaît ainsi comme un déploiement syntagmatique parsemé de figures polysémiques, chargées de virtualités multiples, réunies souvent en configurations discursives continues ou diffuses. Certaines seulement de ces figures, susceptibles de tenir des rôles actantiels, se trouvent érigées en rôles thématiques : elles prennent alors le nom d’acteurs. Un acteur est ainsi le lieu de rencontre et de conjonction des structures narratives et des structures discursives, de la composante grammaticale et de la composante sémantique, parce qu’il est charge à la fois d’au moins un rôle actantiel et d’au moins un rôle thématique qui précisent sa compétence et les limites de son faire ou de son être», A.J. GREIMAS, Du sens II, Editions du Seuil, Paris, 1983, 66. Nella citazione sopra riportata è contenuto, in maniera sintetica, tutta la grammatica generativa. In ogni caso, come si è già detto, tutti i termini della questione risulteranno molto più chiari in seguito. 318 Ci sembra opportuno, in questo senso, l’esempio che fa Greimas rispetto all’automobile: «… quelqu’un, par exemple, se porte acquéreur, dans notre société d’aujourd’hui, d’une voiture automobile, ce n’est peut-être pas tellement la voiture en tant qu’objet qu’il veut acquérir, mais d’abord un moyen de déplacement rapide, substitut moderne du tapis volant d’autrefois ; ce qu’il achète souvent, c’est aussi un peu de prestige social ou un sentiment de puissance plus intime. L’objet visé n’est alors qu’un prétexte, qu’un lieu d’investissement des valeur, un ailleurs qui médiatise le rapport du sujet à lui-même (…) Il est évident, par exemple, que la définition du lexème automobile qui se voudrait exhaustive devrait comprendre : a. non seulement une composante configurative, décomposant l’objet en ses parties consitutives et le recomposant comme une forme, b. et une composante taxique, rendant compte par ses traits différentiels de son statut d’objet parmi les autres objets manufacturés, c. mais aussi sa composante fonctionnelle tant pratique que mythique (prestige, puissance, évasion, etc.)», Ib. 22,23. 157 Or questa egli non già, ma quella, ancora Nei corporali amplessi, inchina ed ama. Alfin l’errore e gli scambiati oggetti Conoscendo s’adira; e spesso incolpa La donna a torto. A quella eccelsa imago Sorge di rado il femminile ingegno; E ciò che ispira ai generosi amanti La sua stessa beltà, donna non pensa Né comprender potria. Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto…» (G. LEOPARDI, Aspasia, in: Canti, Ed. Bur [RCS], Milano, 1997, 155).

Dunque, l’amante cercherebbe l’amata, perché emblema di un “alteritas”, in quanto cioè il suo volto, le sue fattezze, la sua bellezza nascondono, velano qualcosa d’altro, qualcosa di più bello e di più grande, qualcosa cioè che la sua fisicità non riesce neanche a contenere. Tornando a noi dunque, un soggetto è mosso da un oggetto, poiché quest’ultimo costituisce il termine ultimo del suo desiderio, poiché questo (= l’oggetto) è investito di un valore potenzialmente soggettivo.319 Ma soggetto e oggetto diventano semioticamente rilevanti l’uno per l’altro, solo nella misura in cui il secondo è inserito in un enunciato di stato, che lo lega al primo.320 Si daranno pertanto due tipi di enunciato: 321 a. Enunciati giuntivi (“Énoncés conjonctifs”) = S ⋂ O; b. Enunciati disgiuntivi (“Énoncés disjonctifs”) = S ⋃ O. È sempre possibile operare un passaggio dall’uno all’altro, sebbene sia necessario un meta-soggetto, capace di effettuare una siffatta trasformazione. Questa si realizza infatti grazie all’opera di un terzo individuo, che va a modificare un enunciato di stato (“énoncé d’état” [caratterizzato dalla modalità dell’essere]) per mezzo di un enunciato del fare (“énoncé de faire” [caratterizzato dalla modalità del “far fare”]).322 Tale processo è rappresentabile nel modo seguente:

319 Da tutto questo discorso è gia possibile distinguere i tre livelli, i tre piani “semiotici” di cui si parlerà più avanti. Consideriamo, per esempio, l’oggetto. Esso è, come si è detto, l’incarnazione di una valore, in particolare quello della bellezza. Ora, può darsi il caso che un determinato attore/soggetto (magari protagonista di una storia) desideri una bella donna, in quanto attualizzazione di quel valore di bellezza. Avremo pertanto: a. un livello sintattico Æ attante Æ oggetto; b. un livello semantico Æ valore Æ (nella fattispecie) bellezza; c. un livello discorsivo o modo di manifestazione Æ attore Æ ovvero: bella donna. Pertanto un oggetto sarà sintatticamente un attante-oggetto, semanticamente un valore e discorsivamente la determinazione concreta che, di fatto, assume. 320 È esattamente questo che sostiene Greimas: «Seule, en effet, l’inscription de la valeur dans un énoncé d’état dont la fonction établit la relation jonctive entre le sujet et l’objet nous permet de considérer ce sujet et cet objet comme sémiotiquement existants l’un pour l’autre», Ib. 27. 321 S = Soggetto; O = Oggetto. 322 Non si è ancora fatto cenno alle modalità. Il problema verrà trattato in modo molto più approfondito successivamente, tuttavia è necessario chiarire, fin da adesso, alcuni punti. Si è detto che un soggetto desidera un oggetto, nella misura in cui esso porta con sé un valore. Si è anche detto che un soggetto e un oggetto diventano semioticamente rilevanti l’uno per l’altro solo nella misura in cui vengono inseriti in un enunciato che li unisce. Bene. Tale enunciato può essere di due tipi: a. di stato, se è caratterizzato dalla presenza del verbo essere, cioè se descrive un certo “stato” (per l’appunto) del soggetto, in quanto è unito a un oggetto, b. del fare se il soggetto è determinato da un “fare”, che lo renderà in un certo modo. Ora, fare ed essere sono le modalità fondamentali e le modalità sono quel qualcosa che interviene (anche dall’esterno, come si è visto nel caso del meta-soggetto) a modificare il soggetto. Se si considera il fatto che queste due modalità possono modalizzarsi fra loro, si avranno quattro forme di modalizzazione: a. il “fare” che modalizza l’ “essere” Æ performanza; b. l’ “essere” che modalizza il “fare” Æ competenza (essere del fare, cioè possibilità di fare); c. l’ “essere” che modalizza l’ “essere” Æ sanzione; d. il “fare” che modalizza il “fare” (“far fare”) Æ manipolazione. 158

F trasformazione (S₁ Æ O₁)

S₁ è il soggetto che opera la trasformazione mentre O₁ è l’enunciato di stato, risultante dalla trasformazione stessa. Ora, poiché un certo soggetto può essere congiunto o disgiunto a un determinato oggetto, si danno due tipi di trasformazione: a. la realizzazione (“réalisation”), unione di soggetto e oggetto:

F trasf. [S₁ Æ O₁ (S ∩ O)];

b. e la virtualizzazione (“virtualisation”), disgiunzione fra soggetto e oggetto:

F trasf. [S₁ Æ O₁ (S ∪ O)].

A questo punto, si pone però una stringente questione, relativa all’origine e al destino dei valori, vale a dire da dove provengono e dove vanno a finire. Greimas risponde a questa domanda, elaborando le categorie del “trovare” ([“trouver”] assumere un valore che viene dal nulla), e del “perdere” ([“perdre”] abolizione di ogni relazione con l’oggetto). Del resto, se l’oggetto, nella sua valenza assiologica, è qualcosa di inconoscibile, di intangibile, esso può essere soltanto trovato. Tuttavia, più che di venuta “ex nihilo”, Greimas parla di circolazione costante dei valori, per cui, a ogni perdita, corrisponderebbe un’acquisizione.

«Maître Hauchecorne trouve bien un bout de ficelle dans le célèbre récit de Maupassant. Mais la société ne manque pas de le mettre aussitôt en accusation : selon sa logique à elle, en effet, trouver présuppose tout naturellement perdre qui postule un sujet de disjonction autre, ce qui revient à nier la possibilité de l’apparition ex nihilo des valeur. Le lecteur, de son côté, lui qui sait qu’il s’agit bien d’une ficelle ‘sans valeur’, ne peut s’empêcher d’invoquer ‘la fatalité’ qui l’a posée sur le chemin de Maître Hauchecorn, en postulant ainsi, sous la forme d’un destinateur non figuratif, l’existence d’un sujet antérieur autre» (A.J. GREIMAS : 1983, 30).

Dunque, colui che opera la trasformazione, colui che, dall’alto, attribuisce i valori al soggetto, si configura come “destinante” (“destinateur [non figuratif]”) o “destinatore”. Pertanto, si riconosce che:

«… les apparences de trouver et de perdre recouvraient en réalité les conjonctions et les disjonctions absolues par lesquelles cet univers immanent communique avec un univers trascendant, source et dépositaire des valeurs hors circuit» (A.J. GREIMAS : 1983, 30).

Si tratta perciò di una comunicazione semplice, di una comunicazione (che il nostro autore definisce) “a un solo oggetto”, di una comunicazione cioè possibile soltanto in un micro/macro- cosmo sociale323, in un universo in cui è dato un solo ordine di valori (e quindi di anti-valori324).

323 Greimas si riferisce in particolare all’universo assiologico de Le avventure di Pinocchio: «En rencontrant, lors de son analyse des aventures de Pinocchio, le problème du trésor caché, P. Fabbri en a proposé une interprétation sociologique : la société agricole toscane, comme probablement toutes les sociétés autarcique, conçoit les richesses comme disponibles en quantité limitée, de telle sorte qu’à une communauté fermée sur elle-même correspond un univers de valeurs clos. La circulation des richesses s’y fait en circuit fermé, et les parcours syntaxiques des valeurs s’établissent de manière qu’à chaque acquisition effectuée par un membre de la société corrsponde nécessairement une perte subie par un autre membre», Ib. 30, 31. 324 In un universo assiologico-autarchico, esiste pertanto un’opposizione forte fra valori e anti-valori; questi sono descritti nel seguente modo dal nostro autore: 159 In questo contesto, vi saranno perciò due soggetti, uno “virtuale” ([S1 “virtuel”] disgiunto dall’oggetto) e uno invece pienamente realizzato, in quanto unito all’oggetto. È evidente perciò come, a ogni privazione, corrisponda sempre e necessariamente una giunzione. Questo stato narrativo può essere rappresentato nel modo seguente:

(S₁ ∪ O) ⇔ (S₂ ∩ O)

La macro-categoria, inglobante al proprio interno la congiunzione (di un soggetto all’oggetto) e la disgiunzione, è definita giunzione:

giunzione (“jonction”)

disgiunzione congiunzione (“disjonction”) (“conjonction”)

S₁ O O S₂

«L’énoncé de jonction que nous venons de formuler représent, au contraire, un état narratif complexe qui met en jeu, à un moment de déroulement discoursif, deux sujets en présence d’un objet de valeur» (A.J. GREIMAS : 1983, 34).

Tale giunzione può essere osservata da due punti di vista: a. da un punto di vista paradigmatico (“jonction paradigmatique”), in quanto legame tra due enunciati di tipo diverso (cioè uno congiuntivo e uno disgiuntivo), aventi, a loro volta, due soggetti distinti; b. da un punto di vista sintagmatico (“jonction syntagmatique”), in quanto legame tra due enunciati sempre di tipo diverso, ma aventi lo stesso soggetto. Anche in questo caso, un grafico può forse aiutarci a semplificare il discorso:

giunzione sintagmatica

(S₁ ∪ O) Æ (S₁ ∩ O) Æ giunzione paradigmatica (S₂ ∪ O) Æ (S₂ ∩ O) Æ

Considerando che S₁ è soggetto virtuale (= disgiunto) ed S₂ è soggetto realizzato (= congiunto), S₃ ovvero il soggetto esterno della trasformazione narrativa (destinatore o destinante), potrà identificarsi con il primo o con il secondo, realizzando da un lato due forme differenti di sincretismo del soggetto, dall’altro 4 tipi di trasformazione: a. se S₃ trasf. = S₁ virtuale, allora

«aux biens considérés comme le résultat du travail s’opposent les richesses trouvées, imméritées, condamnables et désiderable à la fois : par rapport au valeur positives, ces richesses apparaissent comme des anti-valeur ou valeurs négatives relevant d’un anti-univers axiologique…», Ib., 31. 160 F trasf. [(S₃ = S₁) Æ (S₁ ∩ O)] Si tratta di una “realizzazione riflessiva” (“réalisation réfléchie”) o, come si direbbe da un punto di vista figurativo, di un’“appropriazione” (“appropriation”). b. se S₃ trasf. = S₂ reale Allora F trasf. [(S₃ = S₂) Æ (S₁ ∩ O)] È questo il caso di una “realizzazione transitiva” (“réalisation transitive”) o, figurativamente, di un’“attribuzione”. a. e b. rappresentano le due uniche forme di realizzazione; si hanno tuttavia, per converso, anche due tipi di virtualizzazione: c. se S₃ trasf. = S₂ reale Allora F trasf. [(S₃ = S₁) Æ (S₁ ∪ O)] È questa una “virtualizzazione riflessiva” (“virtualisation réfléchie”) o, detto altrimenti, una “rinuncia” (“renonciation”). d. se S₃ trasf. = S₂ virtuale Allora F trasf. [(S₃ = S₁) Æ (S₁ ∪ O)] Si tratta di una “virtualizzazione transitiva” (“virtualisation transitive”) o di una “spoliazione” (“dépossession”). Riassumendo, abbiamo rilevato i seguenti punti:

riflessiva (appropriazione) Trasformazione congiuntive (realizzazione) transitiva (attribuzione) TRASFORMAZIONI riflessiva (rinuncia) Trasformazioni disgiuntive transitiva (spoliazione)

Se esaminiamo la questione da un punto di vista paradigmatico, potremmo riconoscere un parallelismo fra “appropriazione” e “spoliazione” e fra “attribuzione” e “rinuncia”. Ora, ciò che permette, ciò che genera, ciò che dà luogo al primo dei due fenomeni in questione (appropriazione vs spoliazione) è la “prova” (“épreuve”); la rinuncia, a cui corrisponde un’attribuzione concomitante, si inscrive invece nella fenomenologia del “dono” (“don”). Vista la complessità dei fattori in gioco, può essere forse utile chiamare in causa nuovamente l’ausilio di una forma grafica.325

325 Tutti i grafici riportati sinora, quest’ultimo compreso, sono di paternità greimasiana. Si veda il testo citato. 161

Acquisizione (acquisition) Privazione (privation) Prova (épreuve) Appropriazione Spoliazione (“dépossession”) (“appropriation”) Dono (don) Attribuzione (“attribution”) Rinuncia (“renonciation”)

Esiste però una situazione narrativa definibile come “scambio” (“échange”), che impone necessariamente l’esistenza di due oggetti di valore. Che cos’è infatti uno “scambio”? Nient’altro che una reciproca attribuzione di beni (differenti), in quanto ciascuno desidera quello posseduto dall’altro. Si daranno allora due termini del desiderio (O₁ e O₂) e due soggetti (S₁ ed S₂), entrambi, nello stesso tempo, sia reali che virtuali; reali in quanto uniti a un bene; virtuali in quanto disgiunti dal bene che desiderano realmente.326 Esisteranno perciò due programmi narrativi, uno riguardante S₁:

(O₁ ∩ S₁ ∪ O₂) Æ (O₁ ∪ S₁ ∩ O₂), e un altro riguardante S₂:

(O₁ ∪ S₂ ∩ O₂) Æ (O₁ ∩ S₂ ∪ O₂).

Lo scambio si configurerà graficamente nel seguente modo:

F trasf. [S₁ Æ (O₁ ∪ S₁ ∩ O₂)] ⇒ F trasf. [S₂ Æ (O₁ ∩ S₂ ∪ O₂)].

Si tratta, come si vede, di un fenomeno ancora virtuale, in quanto la disgiunzione con l’oggetto di partenza (vale a dire O₁ per S₁ e O₂ per S₂) non è ancora pienamente realizzata. Detto in altri termini, affinché si passi dalla virtualità alla realtà, la nuova relazione (con il nuovo bene ottenuto), deve soppiantare completamente quella vecchia. Uno scambio realizzato (“réalisé”) dovrà perciò essere formalizzato così come segue:

F trasf. [S₁ Æ (S₁ ∩ O₂)] ⇒ F trasf. [S₂ Æ (S₂ ∩ O₁)].

Ora, affinché tale scambio possa avvenire, è necessario che i due oggetti siano in qualche modo identici, o meglio, assiologicamente equivalenti. Tale equivalenza può essere però stabilita soltanto in forza di un “sapere”, in forza di un complesso di pre-cognizioni (relative, ovviamente, all’universo dei valori), che siano capaci di fondare una sorta di “contratto fiduciario” (“contrat fiduciaire”) tra i due soggetti.

326 Greimas descrive così questa situazione: «La mise en place de la structure de l’échange exige, contrairement aux situations que nous avons examinées jusqu’à maintenant, la présence de deux objets de valeur O₁ et O₂ : l’objet auquel un des sujets renonce (O₁) et un autre objet (O₂) que le même sujet convoite et qu’il se verra attribué, et inversement, lorsqu’il s’agit du second sujet. Chacun des deux sujets pris séparément est par conséquent, antérieurement au déclenchement de la transformation, à la fois sujet réel et virtuel, conjoint par rapport à l’un des objets et disjoint par rapport à l’autre. La transformation appelée figurativement échange sera, dans cette perspective, une nouvelle réalisation et une nouvelle virtualisation de chacun des sujets» ? Ib. 40, 41. 162 Ma l’idea di “sapere” richiama quella di competenza e questa, a sua volta, le modalizzazioni dell’essere, in quanto esse sono: a. unico fondamento possibile (come si è visto bene nella nota 115) della suddetta competenza e b. condizione preliminare dell’azione. È infatti questa categoria suprema (= essere) che fonda gli attributi di veridizione; è sufficiente infatti proiettarla sul quadrato logico (formula [se così la si può definire] attraverso la quale Greimas legge ogni singolo elemento della struttura narrativa, a cominciare dagli attanti, fino ad arrivare alle modalità327), per accorgersi in che misura essa può decidere della verità, della falsità, della menzogna o dell’apparenza di qualcosa, o meglio, (della verità, della falsità, della menzogna o dell’apparenza) di ciò che è, in quanto è. Per riassumere, ogni contratto (“contract fiduciaire”) implica una manipolazione delle categorie dell’essere e, dunque, del sembrare. Tali categorie, filtrate attraverso la logica del quadrato, implicano le seguenti relazioni:

VERO

Essere Sembrare

SEGRETO MENZOGNA

Non Sembrare Non essere

FALSO

La verità è posta sull’asse dei contrari (essere – sembrare), la falsità su quello dei sub-contrari (non sembrare – non essere); la menzogna si colloca sulla seconda delle due linee demarcanti il rapporto di complementarietà (sembrare –non essere), mentre il segreto sulla prima (essere – non sembrare).

327 Si tratta di un altro dei capisaldi del pensiero greimasiano, sebbene sia di derivazione aristotelico-scolastica. Alla luce di questa figura, ogni tipo di relazione e di opposizione (fra un soggetto e l’altro, fra una modalità e l’altra, fra un soggetto con se stesso) viene letta, viene interpretata nella modalità sotto riportata:

S1 S2

Non S2 Non S1

S1 e S2 sono contrari (es. bianco e nero) nonS1 e nonS2 sono sub-contrari (es. non bianco e non nero) S1 e nonS1 sono contraddittori (es. bianco e non bianco) S2 e nonS2 sono contraddittori anch’essi (es. nero e non nero) S1 e nonS2 sono complementari (bianco e non nero). Pertanto, ogni elemento della narrazione sarebbe segnato da relazioni di: contraddittorietà, complementarietà e contrarietà. 163 Come si è detto precedentemente, il quadrato logico può essere applicato a ogni elemento della narrazione. Se proviamo a utilizzarlo per la lettura delle relazioni, riguardanti i quattro ruoli attanziali finora riconosciuti (soggetto, oggetto, destinante e destinatario328), avremo: a. un soggetto positivo (“sujet positif”) contrapposto a un soggetto negativo (“sujet négatif”) o antisoggetto (“anti-sujet”); b. un oggetto positivo (“objet positif”) contrapposto a un oggetto negativo (“objet négatif”); c. un destinante positivo (“destinateur positif”) contrapposto a un destinante negativo (“destinateur negatif”) o anti-destinante (“anti-destinateur”); d. un destinatario positivo (“destinataire positif”) contrapposto a un destinatario negativo (“destinataire negatif”) o anti-destinatario (“anti-destinateur”). Questi ruoli attanziali sono collocabili a un livello profondo, nel territorio cioè della grammatica narrativa. In questo senso, è possibile che, nel “venire a discorso”, un attante possa essere rappresentato da più attori o che, per converso, un attore rappresenti l’unione sincretica di più attanti. Come scrive Greimas:

«On s’est aperçu, par exemple, que la relation entre acteur et actant, loin d’être un simple rapport d’inclusion d’une occurrence dans une classe, était double (…) que si un actant (A₁) pouvait être manifesté dans le discours par plusieurs acteurs (a₁, a₂, a₃), l’inverse était également possible, en seul acteur (a₁) pouvant être le syncrétisme de plusieur actants (A₁, A₂, A₃)» (A.J. GREIMAS : 1983, 49).

Da questo punto di vista, è possibile, per esempio, che i ruoli attanziali del soggetto vengano ricoperti anche da attori che non lo rappresentano direttamente; si potranno avere così, accanto alla figura del suddetto soggetto (diversamente qualificato, a seconda delle modalizzazioni che lo determinano [eroe o antieroe…]), un aiutante (“adjuvant”) e un opponente (“opposant”). O ancora, da un altro lato, il destinante e il destinatario avranno la possibilità di incarnarsi nello stesso personaggio, facendo sì che il destinante diventi destinante di se stesso; oppure il soggetto e l’antisoggetto potranno prendere corpo nella medesima funzione discorsiva, dando vita alla cosiddetta “lotta interiore”.329 Nel passaggio al livello di superficie dunque, per effetto dell’interazione del piano semantico con la grammatica narrativa, possono comparire una molteplicità di nuove figure. Un ruolo decisivo, in questo senso è giocato dalle modalità (= “modificazione di un predicato a opera di un soggetto”) che, applicate ai diversi attanti, ne modificano strutturalmente i caratteri. Si è già fatto riferimento alla nota 115, nella quale si sono chiariti i termini delle modalità di base, vale a dire “essere” e “fare”, e di come esse si modalizzano fra loro, dando luogo ai fenomeni della performanza (“far essere”), della competenza (“essere del fare” o meglio “ciò che fa essere”), della sanzione (“essere modalizzante l’essere”) e della manipolazione (“far fare”). Accanto a queste vi sono però altre quattro categorie (“potere”, “dovere”, “volere” e “sapere”) che possono “sur-modalizzare” le prime due o essere, a loro volta, modalizzate.330 Per esempio, si dà il caso del “far sapere”, alla base del concetto di persuasione, oppure del “poter (potenzialità)”, del “saper” e del “dover fare (prescrizione)”, presupposti della competenza (del fare), o ancora infine del “voler fare”, condizione dell’accettazione della prescrizione.

328 A onor del vero, giacché si è parlato poco di destinante e di destinatario (sebbene, dal nostro discorso, si possa facilmente evincere che si tratta di chi [incarnato o meno in un soggetto] da un lato attribuisce un bene e di chi, dall’altro lo riceve), bisogna dire che esistono ben due funzioni narrative secondo Greimas; una (a) che lega un oggetto a un soggetto (e di questa già si è detto) e un’altra (b) che fa da ponte fra un destinante (che attribuisce…), un oggetto e un destinatario. Avremo pertanto: (a) F (S Æ O); (b) F (D₁ Æ O Æ D₂). In ogni caso, per maggiori approfondimenti, si consulti: Ib. 50. 329 Si veda: Ib. 56, 57. 330 Tutto il discorso sulle modalità è contenuto in: Ib. 67/90. 164 Sarà possibile poi surmodalizzare anche la categoria dell’essere, da cui scaturiranno: - un “poter essere”, che dice delle condizioni di possibilità; - un “voler essere”, alla base della desiderabilità di un qualcosa; - un “dover essere”, presupposto della necessità. Ognuna di queste “sur-modalizzazioni” (sia dell’essere che del fare), può essere, a sua volta, proiettata sul quadrato logico, generando nuove forme di relazione e opposizione. Si consideri, per esempio, il caso del dovere. Il “dover fare”, in quanto presupposto grammatologico della forma semantica della prescrizione, è inserito nella seguente rete di rapporti:

dover fare dover non fare (prescrizione) (interdizione)

non dover non fare non dover fare (permissività) (facoltatività)

Questo è invece quello che accade al “dover essere”:

dover essere dover non esser (necessità) (impossibilità)

non dover non essere non dover essere (possibilità) (contingenza)

Questa operazione può essere chiaramente ripetuta per tutti gli altri casi di surmodalizazione; si otterranno così altre sei strutture relazionali (riguardanti rispettivamente: “poter”, “saper”, “voler fare” e “poter”, “saper”, “voler essere”), le quali implicheranno, a loro volta, ben 24 situazioni modali.331 L’altra interessante manovra, effettuata da Greimas, è il confronto fra alcune di queste strutture relazionali, vale a dire fra alcune delle suddette surmodalizzazioni, in quanto logicamente “rilette” attraverso il quadrato. Per esempio, dall’accostamento del “dover essere” al “poter essere”, il nostro studioso deriva le condizioni di esistenza e i confini intensionali di nozioni come la possibilità, l’impossibilità, la contingenza e la necessità; dalla comparazione fra “dover fare” e “voler fare”, in quanto premesse delle categorie semantiche di obbedienza, volontà, resistenza e abulia, ricava i requisiti necessari per l’accettazione di un patto o di una proposta; dal paragone, infine, tra “dover essere” e “poter essere”, deduce invece la possibilità o l’impossibilità della realizzazione di un atto. La lettura di Greimas, in definitiva, rappresenta senz’altro un ottimo esempio di teoria del testo, ma non risponde pienamente alle nostre esigenze. Se da un lato in effetti, lo studioso franco-lituano cerca di esaurire in modo estremamente logico la descrizione delle possibilità narrative di un

331 Purtroppo, non c’è lo spazio fisico per analizzare ciascuna delle modalità in questione. Pertanto, per un’analisi approfondita dell’argomento, rimandiamo alla lettura del testo di Greimas, in particolare, al capitolo sulla teoria delle modalità (: Ib. 67/91) e a quello sulle modalizzazioni dell’essere (: Ib. 93/102). 165 elaborato o di un’opera in generale, dall’altro non si preoccupa affatto di fornire un quadro di lettura pragmatica (per lo meno così pare), che permetta di inserire questo elaborato o questa opera in un contesto dialogico. Detto in altri termini, se il testo è uno strumento utilizzato da un mittente per comunicare con un destinatario, nell’analisi greimasiana, non si vede attraverso quali espedienti tale atto comunicativo si realizza. Cioè, anche se l’esposizione dell’intelaiatura logica e delle relazioni sussistenti fra i personaggi (da lui elaborata) è quanto mai minuziosa, essa, da sola, non è sufficiente a spiegare in che misura, in che modalità e in che termini una “trasmissione” (= atto comunicativo) e, soprattutto, una negoziazione/interpretazione di contenuti può in generale avvenire. Evidentemente, Greimas (per lo meno nell’opera in questione) “prescinde dal fatto che” o “non considera il fatto che” un testo è anzitutto un artificio comunicativo. Ma, per l’appunto, un artificio comunicativo (di qualunque tipo esso sia), affinché sia degno di tale nome, deve implicare necessariamente una possibilità di replica, una possibilità di rilettura, una possibilità di ri-esaminazione e ri-elaborazione del significato; deve essere, in breve, sia un prodotto, che un processo cooperativo. In questo senso, un testo (in quanto artificio comunicativo) implica la presenza di un programma che regoli il rapporto, che regoli cioè la trasmissione, la ricezione e l’interpretazione del messaggio. Tuttavia, sebbene così duramente criticata, non ci sembra opportuno rifiutare in toto la prospettiva greimasiana, la quale presenta anche degli aspetti interessanti. Il nostro tentativo sarà pertanto quello di integrarla con una lettura un po’ più pragmatica. Partiamo dunque dall’analisi di uno studioso, che sembra invece dare molto peso al testo (pragmaticamente inteso), poiché lo pone al centro di uno scambio e, quindi, di un progetto comunicativo; pensiamo, nella fattispecie, a Saymour Chatman332, il quale afferma quanto segue:

«… una narrativa, come prodotto di un numero fisso di enunciati, non può mai essere totalmente “completa” allo stesso modo di una riproduzione fotografica, dal momento che il numero intermedio di azioni o qualità plausibili è virtualmente infinito (…) E virtualmente vi è un continuum infinito di dettagli immaginabili fra gli episodi, che di solito non sono espressi ma potrebbero esserlo: l’autore sceglie gli eventi che considera sufficienti a mettere in azione il necessario senso del continuum. Normalmente il pubblico è disposto ad accettare una linea principale di narrazione e a colmare le lacune con le nozioni acquisite tramite l’ordinaria esperienza di vita e di arte. (…) Ma vi è [anche] un’altra classe di indeterminati – che i fenomenologi chiamano Unbestimmtheiten – che derivano dalla natura specifica del medium. Il medium può essere specializzato in certi effetti narrativi e non in altri» (S. CHATMAN, Storia e discorso, NET-Nuove edizioni tascabili, Il Saggiatore, Milano, 2003, 27).

Dunque, la narrazione, in quanto incarnata in un testo, implica di per se stessa un ruolo attivo del recettore, un ruolo attivo del destinatario, che si trova, per questo, investito del compito di “colmare le lacune”, cioè di interpretare, o meglio, di ricostruire il messaggio ricevuto. Ma come può essere definita, o più precisamente, come possono essere articolate le strutture complesse della suddetta narrazione? Nel fornire una risposta a questa domanda, Chatman recupera la distinzione fra storia (“story”) e discorso (“discourse”) (assimilabile alla tradizionale divisione fra contenuto ed espressione) e, successivamente, la integra alle due (importantissime) categorie di forma e sostanza; così facendo, ottiene i seguenti paradigmi esplicativi: a. forma del contenuto;

332 Ci riferiamo in particolare a un testo non troppo recente, ma ancora di grandissima attualità: - S. CHATMAN, Story and discourse, Cornell University Press, London, 1978. Purtroppo, non essendo riusciti a entrare in possesso dell’originale inglese, saremo costretti a citare dalla traduzione italiana: - S. CHATMAN, Storia e discorso, NET (Nuove edizioni tascabili, Il Saggiatore), Milano, 2003.

166 b. sostanza del contenuto; c. forma dell’espressione; d. sostanza dell’espressione. In linea generale, la sostanza, rappresenta l’aspetto materiale, cioè le potenzialità comunicative, in quanto suscettibili di essere attualizzate. La forma è invece l’organizzazione, o meglio, l’attualizzazione di alcune di queste potenzialità. Tale categorizzazione può essere oltremodo esemplificata facendo riferimento alla lingua:

«Nelle lingue, la sostanza dell’espressione è la natura materiale degli elementi linguistici, ad esempio i suoni fatti dalla voce o i segni sulla carta. La sostanza del contenuto (o “significato”) è invece “l’intera massa di pensieri e di emozioni comuni agli uomini, indipendentemente dalla lingua che essi parlano” (J. LYONS, Introduction to Theoretical Linguistics, Cambridge, 1969 [trad. it. Introduzione alla linguistica teorica, Laterza, Bari, 1971, 71]). Ogni lingua (riflettendo la propria cultura) suddivide queste esperienze mentali in modi differenti. Per cui la forma del contenuto è la “struttura astratta delle relazioni che una lingua particolare impone… sulla medesima sostanza sottostante” (J. LYONS: 1971, 70). L’apparato vocale è capace di un’immensa varietà di suoni, ma ogni lingua ne seleziona un numero relativamente piccolo attraverso il quale esprime i suoi significati. (…) Così i linguisti distinguono la sostanza dell’espressione (fonica) cioè la miriade dei suoni udibili utilizzati da una lingua e la forma dell’espressione, cioè il limitato insieme di fonemi distinti o la serie di opposizioni foniche che la caratterizzano» (S. CHATMAN: 2003, 19, 20).

All’interno della storia, è poi possibile distinguere ancora fra: a. eventi; b. esistenti. a. è tutto ciò che avviene, tutto ciò che capita, in breve, tutto ciò che comporta un cambiamento di stato e, dunque un’evoluzione della storia. Gli eventi inglobano però al proprio interno altre due categorie: - le azioni, in quanto riferibili a un soggetto che le compie e che si pone perciò come loro causa prima; - e gli avvenimenti, cioè ciò che accade, perché accade; in questo caso, un eventuale soggetto si configura perciò non già come “agente”, bensì come “paziente”. Ora, non tutto ciò che succede ha però lo stesso peso. Esisteranno perciò due differenti forme di avvenimenti: i nuclei (“eventi principali”) e i satelliti (“eventi secondari”). Dal gioco, dalla manipolazione dialettica di queste due entità narrative, derivano situazioni di forte emotività come la “suspence” (situazione di ansietà, introdotta da una piccola anticipazione [attraverso un satellite] di ciò che sta per avvenire) e la sorpresa (data dalla negazione di ciò che è avvenuto).333 b. Gli esistenti sono invece tutto ciò che c’è, tutto ciò che si dà; essi possono essere pertanto: I. inanimati (= ambiente o spazialità della storia); II. animati (= personaggi e ruoli narrativi). I. La spazialità, soprattutto nella sua dimensione discorsiva, o meglio, nel modo in cui è rappresentata al livello discorsivo, gioca un ruolo fondamentale, in quanto è uno degli strumenti principali attraverso cui l’autore esercita il suo giudizio. Nel cinema, ma in tutti i mezzi di comunicazione audiovisivi, i parametri attraverso cui si esercita l’organizzazione spaziale sono i seguenti:334

333 Si veda: Ib. 58/62. 334 Chatman sottolinea l’estrema difficoltà a operare una distinzione fra spazio della storia e spazio del discorso: «I confini fra lo spazio della storia e lo spazio del discorso non sono tanto facili da stabilire come quelli fra il tempo della storia e il tempo del discorso. A differenza della sequenza temporale, la collocazione o disposizione fisica del luogo non ha una logica naturale nel mondo della realtà. Il tempo passa per noi tutti nello stesso senso dell’orologio (se non alla stessa velocità psicologica) ma la disposizione spaziale di un oggetto è relativa ad altri oggetti e alla posizione dello spettatore nello spazio. Angolazione, distanza e così via sono controllati dalla posizione della macchina da presa 167 - Campo o grandezza, riguardanti da un lato la grandezza (appunto) naturale di un oggetto o di una persona, dall’altro la grandezza risultante dalla distanza (eventualmente manipolabile) di questo dalla cinepresa. - Profilo, tessitura e densità, ovvero gli strumenti per la definizione dei contorni delle cose, che sono dati proprio dai giochi di luci e di ombre, oltre che dalla terza dimensione. - Posizione, categoria qui intesa nel senso: a. dell’ “ubicazione”, del luogo fisico in cui ciascun esistente si trova, b. della relazione spaziale che tale esistente ha con gli altri e c. del suo rapporto con l’ “orizzontalità” e la verticalità dell’inquadratura. - Grado, genere e area dell’illuminazione degli oggetti, in quanto suscettibili di essere diversamente illuminati e colorati. - Chiarezza o grado della resa ottica, riguardanti la messa a fuoco. II. Veniamo dunque agli esistenti animati, ovvero ai personaggi o ruoli narrativi. In Greimas, un personaggio, in quanto incarnazione discorsiva di un attante, costituiva piuttosto una funzione, che non, per così dire, un’entità personale. Ci sembra che Chatman non condivida pienamente questo tipo di interpretazione:

«Una teoria funzionale del personaggio dovrebbe mantenersi aperta e considerare i personaggi come esseri autonomi e non come pure funzioni dell’intreccio. Dovrebbe mostrare che il personaggio viene ricostruito dal pubblico per mezzo di tracce esplicite o implicite, organizzate in un costrutto originale, che vengono comunicate dal discorso, attraverso qualsiasi medium. Ma che cos’è che ricostruiamo? Una risposta elementare basterà: “Noi ricostruiamo come sono i personaggi”, dove il “come” implica che la loro personalità rimane aperta, soggetta a ulteriori congetture e arricchimenti, analisi e revisioni (…) La narrativa evoca un mondo, e dal momento che non si tratta altro che di un’evocazione, siamo liberi di arricchirla con tutte le esperienze, reali o immaginarie, che abbiamo acquisito» (S. CHATMAN: 2003, 123, 124).

Pertanto, un personaggio si definisce come segue:

«Ritengo – senza nessuna originalità ma fermamente – che il personaggio consista in un paradigma di tratti psicologici, in cui “tratto” è usato nel senso di “qualità personale relativamente stabile o costante”, ammettendo che può rivelarsi, cioè emergere prima o dopo nella storia, oppure scomparire ed essere sostituito con un altro (…) Nello stesso tempo bisogna distinguere i tratti da fenomeni psicologici più effimeri, come sensazioni, stati d’animo, riflessioni, motivazioni temporanee, attitudini e così via che possono anche coincidere con i tratti ma non sempre lo fanno» (S. CHATMAN: 2003, 130).

Ci sentiamo di poter condividere la tesi di Chatman, pur non volendo ripudiare in toto la prospettiva funzionalista, la quale potrebbe rivelarsi comunque un’ottima ipotesi di lettura (si badi bene, si è detto “ipotesi” e non lettura esaustiva). Un altro importantissimo strumento attraverso il quale l’autore può emettere il suo giudizio o, comunque, far filtrare la sua visione del mondo, è l’organizzazione della temporalità. Il nostro autore riconosce in questo senso un tempo della storia, corrispondente al tempo reale, in quanto unità di misura dello svolgersi degli eventi, e un tempo del discorso, caratterizzato dalla possibilità di riorganizzare le vicende in modo differente e autonomo dal corso concreto. Chatman, nel riconoscere e definire i tipi di relazione fra questi due livelli di cronologia narrativa, si riallaccia agli studi di Genette335, il quale aveva individuato tre nozioni fondamentali:

stabilita dal regista. La vita non ci dà giustificazioni predeterminate per la collocazione. Si tratta di scelte, vale a dire di risultati dell’abilità del regista», Ib. 101. 335 Chatman si riferisce al seguente articolo: 168 a. ordine; b. durata; c. frequenza.336 a. Si tratta del modo in cui il discorso riorganizza gli eventi. Le possibilità di “riorganizzazione” sono fondamentalmente due: - Diacronia, se fra il tempo della storia e il tempo del discorso vi è un rapporto di identità. - Anacronia, se l’ordine di rappresentazione è difforme dall’ordine reale. Le forme di acronia sono, a loro volta, di due tipi: I. Analessi (o flashback), in quanto rappresentazione di eventi precedenti all’ADESSO della storia. II. Prolessi (o flashforward), in quanto rappresentazione di eventi posteriori all’ADESSO della storia. L’anacronia può essere inoltre: α. Interna se inizia dopo l’ADESSO della storia; β. Esterna se il suo inizio e la sua fine si collocano prima dell’ADESSO; γ. Mista se inizia prima, ma termina dopo l’ADESSO. b. La durata è definibile invece come relazione fra l’ “estensione” (cronologica) degli eventi della storia e l’ “estensione” (cronologica) degli eventi venuti a discorso. Da tale relazione possono scaturire i seguenti artifici rappresentativi: - Riassunto, fenomeno per cui gli enunciati narrativi riassumono un gruppo più o meno esteso di eventi. È una tecnica che può venire resa cinematograficamente (ma, volendo, anche televisivamente [nel caso della fiction, del documentario o di tutti i testi non concepiti per la diretta]) mediante il “montaggio-sequenza”. - Ellissi, espediente per mezzo del quale il divenire discorsivo viene arrestato, mentre quello storico continua a procedere. Negli audiovisivi, questo effetto è ottenuto, mediante la giustapposizione di inquadrature, semanticamente indipendenti l’una dall’altra. - Scena, ovvero coincidenza, identità fra lo sviluppo cronologico della storia e lo sviluppo cronologico del discorso. - Estensione, artificio per cui il tempo del discorso tende a essere più lungo del tempo della storia. Il cinema può utilizzare diverse tecniche per rendere questa discrepanza; una delle più frequenti è l’ “accelerazione della cadenza di presa”, cioè l’utilizzo di una ripresa più veloce della proiezione. Esistono tuttavia anche altri metodi come, per esempio, la sovrapposizione di immagini in dissolvenza… - Pausa: la storia si ferma, mentre il discorso continua a procedere autonomamente. È il caso della “descrizione”, espediente narrativo molto difficile da riprodurre attraverso delle immagini. Chatman sostiene che l’unico sistema possibile per “descrivere” audiovisivamente sia il “quadro fisso”.337 c. Veniamo dunque alla terza e ultima categoria, la frequenza, che indica “quante volte” (la frequenza appunto) un determinato avvenimento compare nel corso della narrazione.

- G. GENETTE, Time and narrative in “À la recherche du temps perdu”, in: (a cura di) J. H. MILLER, Aspects of Narrative, New York, 1970.

336 Tutto il discorso sulla temporalità narrativa lo si ritrova in: Ib. 63/81. 337 Ecco quanto sostiene Chatman in merito: «Ho l’impressione che la descrizione in quanto tale sia generalmente impossibile nelle narrative filmiche, perché il tempo della storia prosegue di mano in mano che le immagini vengono proiettate sullo schermo, per tutto il tempo in cui avvertiamo che la macchina da presa continua a procedere (…) L’effetto della pura descrizione sembra presentarsi soltanto quando il film “si ferma” effettivamente, nel cosiddetto “quadro fisso” (la proiezione continua, ma tutte le inquadrature mostrano esattamente la stessa immagine)», Ib. 75, 76. 169 Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a un espediente narrativo complesso, a un espediente cioè che implica le seguenti “sotto-categorizzazioni”: - (frequenza) singolativa, per cui un singolo evento è rappresentato in un singolo momento della storia; - (frequenza) singolativo-multipla, cioè presentazione di diverse scene, corrispondenti a diversi momenti (o istanti) della storia; - (frequenza) ripetitiva, ovvero costruzione di molte raffigurazioni discorsive dello stesso momento della storia; - (frequenza) iterativa o presentazione ripetuta della riproduzione di uno stesso evento. Prima di esaminare in modo analitico il livello discorsivo, in quanto luogo dello scambio fra mittente e destinatario, è forse utile esemplificare graficamente la problematica sulla quale, finora, abbiamo disquisito.

Azioni

Eventi Nuclei Avvenimenti Satelliti

STORIA Personaggio Animati Ruolo Esistenti

Inanimati – Ambiente

Campo o grandezza Profilo, tessitura e densità Organ. Spaziale Posizione Grado, gen. e area d’illu. Chiarezza o grado di resa ottica NARRAZIONE Diacronia Ordine Analessi Anacronia Prolessi DISCORSO Riassunto Ellissi Durata Scena Organ. Tempor. Estensione . Pausa

Singolativa Singolativo-Multipla Freq. Ripetitiva Iterativa

170 Come si vede, gli elementi in gioco sono numerosi; per questo era necessario dare una veste schematica al problema. Esaurite le discussioni relative alla storia e ai rapporti che questa intrattiene con il discorso, è venuto il momento di occuparci proprio di quest’ultimo, o meglio, degli strumenti di cui esso si servirebbe per costruire un processo comunicativo. Il testo (in quanto espediente, rappresentazione e luogo fisico del rapporto di scambio fra mittente e destinatario) implica, secondo Chatman, i seguenti fattori338: - Autore reale, colui che si occupa dell’elaborazione fisica del prodotto narrativo. - Autore implicito, ovvero l’immagine che l’autore reale, nel testo, dà di sé. È, in breve, colui che giudica i personaggi o la vicenda, colui che fornisce il punto di vista e le regole, colui che decide in che termini e in che misura il dispositivo finzionale può essere posto al centro di una relazione dialogica. In questo senso, il compito del lettore sarà quello di cercare di ricostruire questa figura, in quanto principio regolatore dello scambio.339 - Narratore, cioè la voce narrante, colui che ha l’onere di raccontare gli eventi,340 una figura che non sempre è presente al livello dell’espressione, poiché, molto spesso, gli autori reali preferiscono servirsi di altri espedienti come quello del narratore inesistente o del narratore nascosto. In ogni caso, non bisogna confondere questo artificio con quello dell’autore implicito, il quale, contrariamente al narratore, è sempre rappresentato nell’opera. Un caso che può forse aiutarci a chiarire questa distinzione (= autore implicito/narratore) è quello del narratore inattendibile; che cosa o chi infatti può farcelo apparire tale? Nient’altro che l’autore implicito, attraverso l’abilità nell’utilizzo dei meccanismi finzionali. - Narratario, controparte del narratore, ovvero colui al quale l’autore implicito si rivolge per fornire istruzioni, o meglio per suggerire come deve essere esercitato il ruolo di lettore implicito.341 Esattamente come il narratore, esso può essere presente o assente vale a dire palese (se si incarna nella voce di un personaggio), nascosto o inesistente.342

338 Ib. 153/159. 339 Ecco la descrizione che Chatman fa dell’autore implicito: «L’autore viene detto “implicito” perché è ricostruito dal lettore per mezzo della narrazione. Non è il narratore, ma piuttosto il principio che ha inventato il narratore insieme a tutto il resto della narrazione, che ha sistemato le carte in un certo modo, ha fatto succedere queste cose a questi personaggi, in queste parole o in queste immagini. A differenza del narratore, l’autore implicito non può dirci niente. Egli, o meglio esso, non ha voce, non ha mezzi diretti di comunicazione. Ci istruisce in silenzio, attraverso il disegno del tutto, con tutte le voci, con tutti i mezzi che ha scelto per farci apprendere (…) L’autore implicito stabilisce le norme della narrativa…», Ib. 155, 156. 340 Il narratore è viene definito così dal semiotico americano: «Il narratore, la fonte della trasmissione, può essere considerato, a mio parere, come uno spettro di possibilità, che vanno dai narratori che sono meno udibili a quelli che lo sono in massimo grado (…) La presenza del narratore nasce dalla percezione che ha il pubblico di una comunicazione evidente. Se il pubblico sente che gli si sta raccontando qualche cosa, presume che vi sia un narratore. L’ipotesi contraria è una “presenza diretta” allo svolgersi dell’azione. Certo anche (…) la pura mimesi è un’illusione, ma il grado di analogia possibile varia», Ib. 154. 341 «Il personaggio del narratario è solo un espediente col quale l’autore implicito informa il lettore reale su come giocare la parte del lettore implicito, e quale Weltanschauung adottare», Ib. 157. 342 Chatman, richiamandosi a Gerald Prince, cerca di descrivere la figura del narratario in tutte le sue possibili sfaccettature: «Gli studi sul narratario pongono molte interessanti questioni: chi è precisamente? Come si fa a identificarlo? Quale ruolo narrativo rappresenta? Gerald Prince ha iniziato a rispondere a queste domande: “Un narratore può indirizzare la narrazione a se stesso (…) Può indirizzarsi a un ricevente o a più riceventi rappresentati come personaggi (…) Il personaggio ricevente può essere un ascoltatore (…) o un lettore (…) può lui stesso giocare una parte importante negli eventi che gli vengono raccontati (…) o al contrario può non aver nessun ruolo (…); può essere influenzato da ciò che ascolta (…) oppure no (…) A volte il narratore può indirizzarsi a un ricevente, poi a un altro, e poi a un altro ancora (…) A volte la narrazione può essere destinata a un ricevente e cadere nelle mani di un altro (…) Spesso il narratore rivolge la sua narrazione a un ricevente che non è rappresentato come personaggio, un ricevente potenzialmente reale 171 - Lettore implicito, cioè il pubblico presupposto dalla narrazione, il referente comunicativo dell’autore implicito. - Lettore reale, ovvero colui che, nei fatti, fruisce il testo: la vera controparte dell’autore. Dunque, si potrebbe affermare che, al di sopra del livello contenutistico, esista un piano ulteriore, un piano che implica una serie di figure fittizie, aventi il compito di simulare e regolare lo scambio comunicativo. Detto questo, il rapporto dialogico-dialettico fra un mittente (che rielabora finzionalmente e trasmette la propria visione del mondo) e un destinatario (che legge e reinterpreta il contenuto di un opera) è rappresentabile così come segue:

TESTO

Autore reale Æ Autore implic Æ Narratore Æ Narratario Æ Lettore implic Æ Lettore reale

La differenza fra autore implicito e narratore richiama un’altra distinzione, indice del giudizio, dell’interpretazione che l’artefice del testo elabora rispetto a un certo stato di cose, rispetto a un complesso di eventi: stiamo parlando della distinzione fra il punto di vista e la voce narrante. La prima categoria concerne il punto di osservazione, il modo di vedere, la prospettiva da cui si osserva un certo stato di cose, la seconda riguarda invece il venire a parola degli esistenti e degli eventi (essa è pertanto [si potrebbe arditamente affermare] anche [eventuale] espressione di un certo punto di vista); detto in altri termini, la prima riguarda la storia, la seconda il discorso.

«La differenza fondamentale fra “punto di vista” e voce narrativa è questa: il punto di vista è il luogo fisico o l’orientamento ideologico o la situazione pratica-esistenziale rispetto a cui si pongono in relazione gli eventi narrativi. La voce, al contrario, si riferisce al discorso o agli altri mezzi espliciti tramite i quali eventi ed esistenti vengono comunicati al pubblico. Punto di vista non significa espressione, significa solo la prospettiva secondo cui è resa l’espressione. Prospettiva ed espressione non necessariamente sono collocate nella medesima persona. Molte combinazioni possono presentarsi», (S. CHATMAN: 2003, 161).

Dalla citazione di Chatman risulta evidente che la nozione di punto di vista può essere intesa in diversi modi:

«Nell’uso ordinario si possono distinguere almeno tre significati: (a) letterale: attraverso gli occhi di qualcuno (percezione) (b) figurato: attraverso la visione del mondo di qualcuno (ideologia, sistema concettuale, Weltanschauung, ecc.) (c) traslato: secondo l’interesse o il vantaggio di qualcuno (indicando con questo l’interesse generale, l’utile, il benessere, la felicità, ecc.)», (S. CHATMAN: 2003, 159).

Dunque, è evidente che la rappresentazione del mondo, presente in un testo, è in prospettiva e che questa prospettiva può incarnarsi o meno in quella di un personaggio. In ogni caso, ciò che conta, ciò che giudica di un certo stato di cose fittizio (in quanto presente nello spazio del testo) è solo ed esclusivamente il punto di vista dell’autore implicito; corrisponda o meno a quello del narratore,

(…) a questo ricevente ci si può rivolgere direttamente (…) oppure no (…) Può trattarsi di un ascoltatore (…) di un lettore (…) e così via”», Ib.278, 279. 172 corrisponda o meno a quello di un personaggio, corrisponda o meno alla visione del mondo di un protagonista. In definitiva, questo discorso mostra irrefutabilmente che: ogni opera, ogni costruzione fittizia, proprio perché fittizia, presenta al suo interno un’incontro e uno scontro di “mondi” ipostatizzati e incarnati in figure e livelli differenti. Il compito del lettore sarà dunque quello di isolare e riconoscere questi mondi, scoprendo a quale di essi corrisponde quello del mittente. È inutile dilungarsi troppo sul modo in cui i mezzi audiovisivi mettono in atto, realizzano questo espediente; ci basti ricordare che essi dispongono di due canali (quello visivo e quello auditivo), organizzabili dipendentemente o indipendentemente l’uno dall’altro (es. commento di una voce esterna, oppure suoni in netto contrasto con quello che avviene sullo schermo…), oppure organizzabili in modi differenti ciascuno al proprio interno (si pensi a tutte le possibilità offerte dall’immagine: giochi di inquadrature, montaggi, dissolvenze…)…343 Non ci occupiamo in modo troppo analitico di questi aspetti, perché ciò che a noi interessa è anzitutto capire in che modo si realizza l’interazione mittente/destinatario, o meglio in che modo viene costruita la relazione “interlocutoria”. Ora. Un testo, in quanto espressione di qualcosa, riposa sulle potenzialità espressive (per l’appunto) del linguaggio e un linguaggio è potenzialmente espressivo, in quanto può venire attualizzato da enunciati. Bene, gli enunciati possono essere di due tipi: di stato (in quanto caratterizzati dalla modalità dell’ “esistenza” [“essere”]) o di processo (in quanto caratterizzati dalla modalità narrativa del “fare” [lo si era già visto parlando di Greimas]). Ma che cosa può fare un enunciato? Questa domanda ci rimanda alla teoria dello “speach act” di Austin, secondo la quale il dire corrisponderebbe a fare qualcosa.344 In questo senso, una frase implicherebbe tre componenti: - Locutoria, ciò che viene detto. - Illocutoria, ciò che si fa dicendo (per esempio una promessa o una minaccia). - Perlocutoria, gli effetti prodotti sull’ascoltatore dall’enunciato. Pertanto, molto più di quanto si poteva preliminarmente immaginare:

«La teoria degli atti di parola fornisce uno strumento molto utile per distinguere il linguaggio del narratore, vis-à-vis col suo pubblico narrativo, da quello dei personaggi vis-à-vis fra loro» (S. CHATMAN: 2003, 171, 172).

C’è però una differenza sostanziale fra l’atto linguistico compiuto da un personaggio e quello compiuto dal narratore; mentre quello compiuto dal personaggio è collocabile nella storia, quello del narratore (o eventualmente dell’autore implicito) riguarda il discorso ed è quindi finalizzato al rapporto comunicativo con il lettore. Di conseguenza, se esiste un processo performativo (o addirittura manipolativo), questo è riscontrabile al livello dell’elaborazione enunciativa. Da questo punto di vista, giocano un ruolo fondamentale i dispostivi finzionali della narrazione nascosta e della storia non narrata (i più utilizzati dai mezzi di comunicazione audiovisivi, come si può facilmente immaginare)345, poiché questi implicano proprio un maggiore lavoro di “interpretazione” (o meglio di “infralettura” [lettura fra i piani narrativi], come direbbe Chatman) o di riempitura dei cosiddetti “vuoti narrativi”. Appare ora più chiaro quanto avevamo affermato all’inizio: il testo non è solo un prodotto, ma anche un processo, ovvero un “dato” e, nello stesso tempo, un “farsi”. A questo bisogna aggiungere il fatto che tale testo, non è quasi mai qualcosa di definito e di concluso in se stesso, detto in altri termini, esso non ha un’autonomia semantica “totale”, ma rimanda, o meglio, può rimandare, può riallacciarsi, può rinviare ad altri elaborati che ne completino il senso. Del resto, tutto ciò è implicato finanche dall’etimologia del termine; da che

343 In ogni caso, qualora si voglia approfondire il discorso, si veda: Ib. 167/170. 344 Si veda: Ib. 170/176. 345 Nel testo di Chatman, questi due dispositivi vengono analizzati in modo molto approfondito in due capitoli; si veda: Ib. 153/286. 173 cosa deriva infatti la parola testo? Dal termine latino “textum”, cioè tessuto, rete; in questo senso, esso è definibile anche come “rete”, come “tessuto” di significati. Tale rete, tale tessuto non deve però necessariamente essere qualcosa di chiuso, qualcosa di a sé stante, ma può implicare anche delle relazioni con altre reti e tessuti, vale a dire può essere un nucleo significante, legato ad altri nuclei. Questo è il principio dell’ipertesto, ma non solo. Ogni opera, ogni film possono essere inseriti in una corrente, in un filone, senza il riferimento al quale non si comprenderebbe a pieno il loro significato; ogni opera, ogni film possono apertamente citare opere o film precedenti, oppure possono a questi, più o meno esplicitamente, riferirsi… Senza il concetto di inter-testualità, non si potrebbero spiegare fenomeni come quello dell’ibridazione dei generi e delle tecniche, a cui si è fatto riferimento nel capitolo precedente. Prima di procedere con l’analisi del “patto comunicativo” in televisione, è possibile ridefinire, o meglio, arricchire di contenuto alcune delle nozioni utilizzate per descrivere la neo-tv.346 Partiamo dalle categorie temporali. Avevamo distinto: - Tempo dell’enunciato, il tempo delle vicende rappresentate, per come sono rappresentate (quello che Chatman chiamerebbe Tempo della storia, ovvero il tempo degli eventi, nel loro sviluppo cronologico). - Tempo dell’enunciazione o Tempo del discorso (tanto per essere solidali con una terminologia di tipo “chatmaniano”), cioè il modo in cui gli avvenimenti sono presentati, attraverso i dispositivi di flash-back, di feed-back e di discrepanza rispetto al “tempo reale”. - Tempo della lettura, cioè il tempo della lettura/fruizione. Passiamo alle categorie spaziali (e queste sono più strettamente legate al mezzo televisivo).347 Avevamo riconosciuto: - Uno spazio del testo, ovvero lo spazio che concretamente ciascun testo-programma occupa. - Uno spazio dei testi, cioè lo spazio in cui la singola testualità è inserita: il palinsesto (si tratta di una nozione che, ora, cioè dopo aver recuperato il concetto di “inter- testualità”, risulta ancora più pregna di significato). - Uno spazio nel testo: il modo in cui eventi ed esistenti sono rappresentati (in tv: organizzazione dello studio, luci, ombre, inquadrature, montaggio…) - Uno spazio psicologico-astratto, che indica la distanza (psicologicamente percepita) fra il mittente e il destinatario. A questi elementi aggiungiamo i guadagni poc’anzi ottenuti. In un testo, in quanto centro dello scambio comunicativo, saranno implicati i seguenti ruoli: - Autore reale o mittente. - Autore implicito o enunciatore. - Narratore. - Narratario. - Lettore implicito o enunciatario. - Lettore reale o destinatario. Per quanto riguarda invece l’isolamento dei “ruoli attorial-attanziali” presenti nella storia, possiamo riallacciarci all’analisi di Stranamore (show della berlusconiana Canale 5), realizzata da Caprettini348. Richiamandosi alla dottrina greimasiana, lo studioso riconosceva: - un soggetto (cioè l’eroe); - un oggetto (del desiderio); - un destinante (cioè colui che spinge l’eroe ad agire); - un destinatario (ovvero colui che beneficia dell’azione del destinante); - un aiutante;

346 Si veda cap. I, pag. 59. Tali categorie sono, a loro volta, riprese da un nostro articolo, discusso sempre nel capitolo precedente: F. MARINOZZI, La frammentazione testuale nella televisione italiana, www.medienanalyse-online.de. 347 È bene puntualizzare il fatto che non si tratta di spazio fisico. 348 G. P. CAPRETTINI, La scatola parlante, Editori Riuniti, Roma, 2000, 96. 174 - un oppositore o anti-eroe. Ora, come si è detto, poiché le categorie di Greimas non fanno completamente al caso nostro, è possibile che, nel corso della ricerca, esse vengano ampliate o integrate (qualora, naturalmente, la prassi lo richieda) ad altre. Stabiliti questi punti fermi, è possibile procedere con la descrizione del patto comunicativo in televisione.

4. La conversazione simulata: il patto fiduciario nella neo-televisione

Un testo è dunque un progetto, un prodotto da realizzare attraverso un fare cooperativo; detto in altri termini: è il centro di uno scambio comunicativo. La tv, in quanto costituita di programmi (che sono a loro volta dei testi), si inserisce pienamente in questa dinamica: la televisione è perciò uno strumento, un mezzo che costruisce una relazione più o meno attiva tra un mittente e un destinatario. Ma come, cioè attraverso quale tipo di simulacri può venire costruita una siffatta relazione? Uno studio di Francesco Casetti349, non troppo recente, ma dai contenuti ancora molto attuali, può, forse, aiutarci a rispondere a questa domanda. Uno degli aspetti più interessanti del testo in questione è il modo in cui lo studioso utilizza alcune delle categorie alle quali ci siamo richiamati nel precedente paragrafo (stiamo pensando, in particolare, agli schemi della dottrina narratologica greimasiana): si tratta dell’applicazione della teoria delle modalità non già (e non soltanto) alle relazioni semantico-narrative, ma al rapporto di scambio tra chi elabora e chi riceve il messaggio (cioè, in base a questa lettura, tale rapporto verrebbe costruito innanzitutto attraverso l’azione delle modalità stesse). Ma procediamo per gradi. La caratteristica essenziale della televisione è quella di mettere in contatto due soggetti (un broadcaster e un telespettatore), attraverso un prodotto fruibile, consumabile, che diventa, per ciò stesso, oggetto di contrattazione. Detto in altri termini (se vogliamo molto più banali), un’emittente è sempre interessata al fatto che i programmi vengano visti dal maggior numero di spettatori possibile; ora, affinché ciò avvenga, è necessario che essi siano presentati come interessanti, come allettanti, in breve: come una intelligente e proficua possibilità di occupazione del tempo libero. Su questo piano si pone il “contratto”, il “patto” fra la tv e la sua controparte350: lo spettatore deve riconoscere come sommamente vantaggioso per sé la visione di un certo spettacolo. Da questo discorso, risulta chiaro che l’agire del broadcaster è un “fare” di tipo “performativo”, cioè, detto in termini greimasiani, è un fare che si configura come “far fare”; in questo senso, esso (: il broadcaster) va a ricoprire il ruolo di “soggetto della trasformazione”. Il destinatario del messaggio, dal canto suo, si trova investito invece di una “performanza”, vale a dire di un “dover fare”, di un obbligo che può, eventualmente, tradurre in un “voler fare” e, dunque, in un “fare” effettivo: fuor di metafora, in un’azione di consumo concreta. Si è detto: può, se vuole; cioè tale “voler fare” è sempre preceduto da un’ “interpretazione” e da una “sanzione”: di fronte allo stimolo dell’emittente, il telespettatore valuta i termini dell’offerta e decide, nel pieno delle proprie facoltà, se è il caso di operare la scelta, se è il caso di impiegare il proprio tempo per il consumo di quel prodotto che gli viene proposto. In tutto questo discorso, abbiamo dato scarso peso a due modalità in particolare : il “poter” e il “saper fare”; esse sono però fondamentali, in quanto indicano la possibilità concreta di compiere un’azione, indicano la competenza rispetto a un certo mandato. Tutto il discorso, può essere graficamente riportato come segue:

349 F. CASETTI, Tra me e te, Eri Ediz. Rai, Torino, 1988. 350 Su tutto questo discorso si veda: Ib. 39/61. 175

far fare Æ dover fare INTERPRETAZIONE voler fare Æ poter fare Æ saper fare mandato obbligo SANZIONE intenzione facoltà capacità

Dunque, lo scambio consisterebbe in questo: laddove la televisione offre un programma, una trasmissione, il telespettatore offre il suo tempo libero; l’obiettivo finale di un’emittente è perciò quello di “colonizzare” il “free time” di un potenziale fruitore. Esistono però diversi tipi di scambio, che presuppongono, a loro volta, diversi tipi di patto. Casetti ne riconosce quattro351: a. Patto dello spettacolo, che riguarda le trasmissioni di tipo ludico come il quiz, lo show o il varietà in genere. b. Patto dell’apprendimento, che concerne invece i programmi di tipo informativo, per esempio i tg, i documentari, i rotocalchi… c. Patto del commercio, inerente soprattutto alle televendite e alle aste televisive. d. Patto dell’ospitalità, tipico dei talk show e dei “contenitori”. A ciascun patto corrisponde un genere differente di “temporalità” e (di conseguenza) di “fine” della temporalità stessa.352 Quando si parla di patto dello spettacolo si fa riferimento a un “tempo ludico”, per cui lo scopo principale della fruizione sarebbe quello di “ammazzare il tempo” nel modo più divertente possibile. Nel caso del patto dell’apprendimento invece, il tempo diventa “scolastico”, ovvero uno strumento per l’acquisizione di conoscenze, uno strumento per la coltivazione della propria cultura; il tempo si configura cioè come un capitale da far fruttare. Per quanto riguarda il patto del commercio invece, il suo fine principale è il guadagno, o meglio, l’ottenimento di un vantaggio propriamente materiale: l’acquisizione o l’acquisto di un bene (supposto come) utile. In questo senso, il tempo è assolutamente strumentale, cioè piegato a un obiettivo “totalmente altro”. Da ultimo, lo scopo del patto dell’ospitalità è quello di “trascorrere del tempo” in buona compagnia, cioè relazionandosi, facendo “quattro chiacchiere” con dei vecchi amici: il tempo è perciò il luogo di un rapporto, il quale è, a sua volta, l’obiettivo ultimo dello scambio. Come si può facilmente immaginare, nessuno di questi patti viene stipulato direttamente, detto in altri termini, l’emittente non effettua lo scambio “personalmente” con gli utenti, ma si serve di intermediari, di “simulacri narrativi” che facciano le sue veci: è così che strumentalizza presentatori, anchor men, o chiunque tiene in mano le redini di una trasmissione, affidandogli il ruolo di narratore o di enunciatore (“testuologicamente” parlando). Ma se la caratteristica essenziale della tv di oggi, cioè della neo-tv, è quella di ispirarsi alla quotidianità, allora ciascuno di questi intermediari, per essere più convincente e più vicino al pubblico, impersonerà un ruolo tratto dalla vita di tutti i giorni. Così, nel patto dello spettacolo, l’anchor man ricoprirà la funzione di maestro di cerimonia, di padrino, di promoter; di giudice (nel caso dei quiz e giochi in genere); nel patto dell’apprendimento, il professionale speaker indosserà la maschera dell’informatore, del maestro, del divulgatore, del moderatore (nel caso dei dibattiti); nel patto del commercio, l’imbonitore (che ha come obiettivo quello di vendere della merce) si calerà nel personaggio dell’intermediario-informatore (garante della reale qualità di un prodotto), dell’intermediario confidente o addirittura dell’intrattenitore; in ultimo, nel patto dell’ospitalità, (di nuovo) il conduttore assumerà le vesti del padrone di casa.353 Cerchiamo di chiarire questo discorso ricorrendo a un’esemplificazione grafica:

351 Ci si voglia perdonare la velocità con cui stiamo trattando una tematica così essenziale; per ulteriori approfondimenti sul concetto di patto, si veda comunque: Ib., 63/121. 352 Su questo problema, si consulti la tabella riassuntiva in: Ib. 133. 353 Anche in questo caso rimandiamo alla griglia riassuntiva presente in: Ib. 105. 176

Tipo di patto Tempo Finalità Simulacro Ruolo ricoperto dell’emittente Spettacolo Tempo ludico Ammazzare il Presentatore Maestro di tempo cerimonia Padrino Promoter Giudice Apprendimento Tempo didattico Investire il tempo Speaker Informatore Maestro Divulgatore Moderatore Commercio Tempo Guadagnare Imbonitore Intermediario-inf. strumentale Intermediario- confidente Intrattenitore Ospitalità Tempo relazionale Trascorrere del Conduttore Padrone di casa tempo in compagnia

All’interno di questa strategia così complessa, lo spettatore ricopre un ruolo fondamentale, come si può facilmente intuire, poiché è lui, in ultima analisi, che decide se “scendere a patti” o meno. Per questa ragione, l’emittente decide di coinvolgere l’utenza in modo attivo, tant’è che, come riconosce Casetti:

«(…) si apre allo spettatore uno spazio di azione , così da rendere reale il suo ruolo all’interno della costruzione dei programmi» (F. CASETTI: 1988, 146).

È possibile riconoscere ben otto modalità di partecipazione:354 a. Spettatore evocato: il presentatore (o qualunque altra figura) si rivolge in modo caloroso alla massa dei telespettatori; b. Spettatore interpellato: il mediatore si rivolge al pubblico direttamente e dandogli del “tu”, quasi richiedendo una risposta immediata a chi è oltre lo schermo; c. Spettatore complice: il fruitore accetta gli stimoli lanciati dall’anchor man e diventa così suo complice, per l’appunto; d. Spettatore partecipante: il destinatario può partecipare, può essere presente al programma, a patto che mantenga un atteggiamento controllato, cioè quell’atteggiamento che gli viene imposto dalla trasmissione; e. Spettatore testimone: allo spettatore è chiesto di intervenire telefonicamente o direttamente in studio per dare un parere o per offrire una valutazione su un determinato problema; f. Spettatore protagonista: in questo caso, si richiede all’ascoltatore di essere realmente attivo, di raccontare storie personali, aneddoti o esperienze dirette; g. Spettatore mandante: il conduttore si presenta come colui che ha il compito di esaudire le richieste poste dal consumatore; h. Spettatore giudice: il pubblico interviene a sanzionare il programma che sta fruendo. Queste sono le categorie che Casetti nel (psicologicamente) così lontano 1988 aveva elaborato. Nel frattempo però, la televisione ha subito un’evoluzione rapidissima, per effetto della quale sono state elaborate nuove forme di messaggio. Stiamo pensando, in particolare, alla “real tv” e al “reality

354 Si veda lo specchio riassuntivo in: Ib. 152. 177 show”, generi che, in formati come Big Brother o la recente Isola dei famosi, raggiungono la loro punta massima. In relazione a questi programmi, si potrebbe forse parlare di una nuova forma di “spettatore testimone”, ovvero di uno spettatore che si pone come rappresentante, come simulacro del mittente stesso, fungendo da garante, da testimone (per l’appunto) della “penetrabilità dello schermo” e dell’assenza di uno spazio (psicologico) fra l’istituzione televisiva e chi ne usufruisce. Questa figura, potrebbe essere “battezzata” con diversi nomi; tuttavia noi intendiamo utilizzare l’appellativo di “spettatore narratore” che, ci sembra, renda conto in modo più preciso delle strategie testuali messe in campo. Questo per quanto riguarda il dispositivo comunicativo, vale a dire l’effettivo rapporto di scambio che un programma costruisce. Tale dispositivo, tale rapporto è preceduto però da un altro dispositivo, da un altro rapporto; cioè da un dispositivo, da un rapporto senza il quale, il primo (= il dispositivo comunicativo, cioè la comunicazione), non vi sarebbe neanche: stiamo parlando del “patto”. Ma il patto, vale a dire il luogo in cui si stabilisce il valore degli oggetti da scambiare, non si realizza anzitutto all’interno della trasmissione, all’interno cioè dell’oggetto da consumare, ma all’interno di un qualcosa che precede e che rende tale trasmissione e, dunque, tale oggetto, “appetibile”, degno di essere fruito: è il promo, cioè quello spot che, disseminato nel palinsesto quasi casualmente, ha il compito di pubblicizzare, di dare visibilità a una certa trasmissione.

«Il flusso stesso (…) non è semplicemente promosso dall’esterno, ma attua per suo conto, al proprio interno, un’intensa opera di autopromozione che vede coinvolte e mobilitate forme paratestuali antiche e nuove. L’elemento portante della struttura autopromozionale delle reti televisive è senza dubbio il promo (…) L’apparizione di un programma è accompagnata da promo di lancio che vanno in onda alcune settimane prima del giorno d’inizio; si continua con promo di sostegno nei giorni precedenti l’appuntamento, fino alla scadenza di poche ore o di pochi minuti, con i promo che annunciano il seguirà. Insomma: la rete dei promo non attende lo spettatore a scadenze prefissate – come nel caso degli annunci –, ma lo insegue e lo sorprende lungo i percorsi della visione, per catturarlo sull’onda di un’emozione e rilanciarlo subito dopo a lunga o breve distanza, in un ciclo senza fine» (F. CASETTI: 1988, 175, 176).

La citazione sopra riportata rappresenta una buona descrizione delle caratteristiche e degli obiettivi di un “promo”. Detto questo, restano da chiarire i dispositivi, i meccanismi che esso mette in campo, per regolare lo scambio. Procediamo con ordine. Colui che dà il via a, che origina tale scambio, come si era già visto, è il broadcaster ed è pertanto lui che pone i termini alla base dello stesso, cioè è lui che, concretamente, avanza le proposte. Non c’è però soltanto un sistema, soltanto un modo di avanzare, per l’appunto, una proposta; Casetti, infatti, ne riconosce ben 3:355 a. esplicitazione rinviata della proposta, per cui essa è esplicitata solo alla fine dello spot (è una sorta di tecnica della suspense); b. esplicitazione progressiva della proposta, per cui (tale proposta) viene “svelata” poco a poco, progressivamente, per l’appunto; c. esplicitazione anticipata della proposta contrattuale; per cui i termini dello scambio sono chiari fin dall’inizio. Ora però ciascuna proposta (ci venga perdonata la frequenza con cui il termine è utilizzato) si serve di rispettive strategie di persuasione, di strategie cioè che siano in grado di convincere un potenziale spettatore. Anche in questo caso, possiamo far riferimento a tre dispositivi differenti356: a. strategie di racconto; b. strategie di testimonianza;

355 Ib. 179/181. 356 Si veda sempre: Ib. 182/208. 178 c. strategie di attesa.

a. Indicano due modi diversi di intendere il “raccontare”: I. racconti di costruzione, che mostrano all’utenza il lavoro (in corso) necessario per realizzare una data trasmissione. Solitamente, tale meccanismo persuasivo viene utilizzato soltanto per pubblicizzare i programmi che una certa emittente produce in proprio; II. racconti di consumo; che tendono a simulare l’esperienza di fruizione. Tale simulazione può avvenire però, a sua volta, in modi dissimili. Vi sono alcuni promo, per esempio, che intendono fornire una visione complessiva, una panoramica generale della futura fruizione, altri invece selezionano solo elementi ben precisi, per creare una sorta di attesa… In entrambi i casi, il racconto può essere affidato a due persone: al protagonista di un film/conduttore di una trasmissione o a una voce-off che si occupa di narrare dall’esterno (talvolta riproducendo degli atteggiamenti di un personaggio [o comunque di un individuo implicato nel testo], talvolta facendo le veci del pubblico, talvolta ancora rappresentando implicitamente le istanze del broadcaster). In quest’ultimo caso, tale figura “narratoriale” può essere rappresentata con delle caratteristiche più o meno forti. b. Nel caso delle strategie di testimonianza, la voce-off, o comunque colui che si occupa di presentare agli utenti una certa trasmissione, arrischia un giudizio proprio, arrischia una propria opinione sul programma. Ora, tale giudizio, tale opinione può fondarsi su due universi di valori differenti: - su un universo di valori riconosciuto generalmente valido, per cui è possibile che le proposte avanzate dal promo siano accettate da tutti; - su un universo di valori del tutto personali, per cui entra in gioco la fiducia che l’utente nutre verso il broadcaster, o comunque verso chi si azzarda a esprimere ciò che pensa. c. Siamo all’ultimo e, forse, più decisivo caso, quello delle strategie di attesa. L’obiettivo principale di questo dispositivo è quello di creare attesa, per l’appunto, mettendo in scena un soggetto, a sua volta, in attesa. Vi sono però modalità differenti di costruire, o meglio, di stimolare questo tipo di risposta psicologica nel telespettatore. - il primo caso è quello dell’aspettualizzazione357, per cui nel paratesto (: promo), si inserisce un osservatore (simulacro del fruitore), che «… filtrando attraverso la propria percezione una temporalità indistinta, la articola in una serie di processi scanditi da un inizio, una durata e una conclusione» (F. CASETTI: 1988, 202). L’attesa è data dunque dalla tensione fra il momento iniziale e quello terminale, vale a dire tra il momento in cui il programma viene pubblicizzato e quello in cui viene effettivamente messo in onda; - il secondo caso, è invece quello dell’imminenza.358 Qui, l’attesa è suggerita dalla sottolineatura del “tra poco”, dalla sottolineatura del fatto che quel qualcosa (di cui si parla e che si reclamizza) è atteso e sta per avvenire. Questo effetto è ottenuto, tra le altre cose, riducendo al minimo il punto di vista dell’osservatore, introdotto nel paratesto; - in tutti i casi precedenti dunque, il ruolo del destinatario è sempre richiamato in modo abbastanza forte. Questo vale anche per strategia dell’(i)nconsueto appuntamento,359 che tende a instaurare, in vario modo, una relazione, un contatto diretto con il pubblico. Ciò può avvenire, per esempio: a. attraverso l’interpellazione diretta (ad opera della voce-off); b. attraverso la ripetizione insistente del titolo (della trasmissione), del giorno e dell’ora; c. attraverso il richiamo a un voi; oppure infine

357 Ib. 201/203. 358 Ib. 203/205. 359 Ib. 205/207. 179 d. attraverso l’appello a un “noi”, a un essere insieme, per effetto di un incontro e di un accordo già avvenuti. - L’ultimo caso è quello dell’attesa accompagnata, per cui il destinatore (soggetto sempre presente, sebbene, talvolta, nascosto) si cala direttamente nei panni di un mediatore, il quale (individuo in carne e ossa), facendo leva sull’imminenza dell’evento, si pone come entità regolatrice di tale imminenza, regolatrice cioè del principio della suspense: l’attesa diventa “attesa con”. In tutti questi casi, in tutti questi dispositivi di stimolo alla risposta, in tutti questi meccanismi di tipo performativo (giammai manipolativo360, come si è visto) è implicato il fare interpretativo del fruitore, il fare interpretativo del destinatario. Detto in altri termini, la tv, il promo, il testo, il paratesto costruiscono una sorta di relazione che deve essere accettata e compresa; solo nella misura in cui è accettata e compresa (e il termine “compresa” implica, per ciò stesso, una conoscenza di tutti i meccanismi e di tutti gli espedienti simulativi), la comunicazione, dunque lo scambio, può avvenire. Banalizzando la questione, un programma televisivo (come ogni testo) mette in campo un gioco di ruoli, che (affinché possano essere ricoperti) devono poter essere scelti e riconosciuti come buoni. Ora, laddove c’è scelta c’è anche giudizio e, laddove c’è giudizio, c’è responsabilità e imputabilità dell’atto. Questo discorso ci fa ritornare alla mente la dottrina “scolastica” della libertà.361 Ogni azione è preceduta da una volizione, vale a dire da un movimento del nostro atto di volontà; tale movimento implica, a sua volta, un’operazione di natura teoretica, cioè un’operazione conoscitiva. Detto in altri termini, una cosa può essere scelta solo se risulta “appetitosa”, “interessante”. Ma, affinché possa risultare appetitosa e interessante deve venire conosciuta. Si vede perciò come una scelta sia sempre preceduta da una conoscenza e la conoscenza, così come la volizione, implica necessariamente l’esistenza della libertà: l’atto teoretico è libero, l’atto teoretico non può essere pilotato. Pertanto, se il gioco comunicativo implica, da parte del destinatario, un “voler fare”, e se il voler fare è un’azione libera, allora il gioco stesso è libero, quindi non manipolatorio (laddove per manipolazione si intende l’annullamento della volontà del recettore). L’unica possibilità contemplabile è quella del condizionamento; su questo piano si collocano le strategie messe in campo dal broadcaster. Tuttavia, per quanto tali dispositivi possano essere perfetti, lo spettatore ha sempre la possibilità (concreta ed effettiva [non c’è bisogno di teorizzare troppo su questo punto, basta osservare semplicemente il nostro comportamento quotidiano]) di rifiutare i termini del patto e scegliere altro, cioè (concretamente) guardare un altro programma. Ottenuti questi guadagni, non ci resta che tirare le fila del discorso e tentare di offrire al lettore una definizione del concetto di spettacolo.

Conclusioni

Giungiamo così al punto più delicato della questione, allo “Schwerpunkt” principale di tutto il nostro lavoro. Gli elementi in gioco sono parecchi e le tesi esaminate anche (per lo meno ci pare). Dovremo quindi cercare di compiere un ultimo sforzo, o meglio, di fare un bilancio per tentare di azzardare un’ipotetica definizione.

360 In realtà, come si è già detto nel paragrafo precedente, Greimas considerava il “far fare” una manipolazione e non una performanza (che corrispondeva invece al “far essere”). La ragione per cui abbiamo deciso di modificare i termini in gioco è che noi attribuiamo al termine “manipolazione” un valore semantico molto più negativo, cioè un valore per cui esso corrisponderebbe a una sorta di annullamento, o meglio a una “coercizione teoretica” della volontà. In questo senso, il “far fare” non può essere considerato un artificio manipolatorio/pilotante, ma semmai condizionante. 361 È una dottrina che ci sentiamo di abbracciare ma che, per ragioni di spazio, non possiamo, in questa sede, dimostrare. Per una fondazione teoretica delle idee esposte qui sopra, rimandiamo alla lettura di: A. BAUSOLA, Libertà e responsabilità, Vita e Pensiero, Milano, 1980. In particolare, pensiamo ai seguenti capitoli La difesa del determinismo. Discussione (Ib. 36/51), Posizione della libertà (Ib. 52/84) e Libertà e persuasione (85/92). 180 Che cos’è lo spettacolo? Era questa la domanda con cui era cominciata la nostra ricerca ed è sempre questa la domanda alla quale, dopo varie pagine, ci riproponiamo di rispondere. Che cos’è lo spettacolo? Che cos’è quel qualcosa che contraddistingue la produzione di un enorme apparato industriale, quale è quello dei media contemporanei? È una generazione, una fabbricazione in serie di immagini artificiali, di riproduzioni speculari della realtà: è, in breve, una simulazione. Ma la simulazione non è, come voleva Baudrillard, una cancellazione, un’opera di nascondimento del mondo; la simulazione non è un meccanismo di disillusione. Essa è infatti un’interpretazione, una ricreazione, una copia fittizia dell’universo; è un linguaggio fatto di segni, un linguaggio fondato cioè su entità che stanno per qualcosa d’altro, che rimandano ad altro da sé e che sono, quindi, marchiate da una referenzialità di tipo estensionale. Un’interpretazione si è detto, ma questa è, come riconosceva Bettetini, un’ipotesi da verificare, una tesi da dimostrate. Ecco che cos’è il gioco comunicativo, quale si incarna nell’universo spettacolare: la riproduzione di una conversazione, la riproduzione, attraverso dei simulacri fittizi, delle strategie relazionali quotidiane; è, detto in altri termini, una “conversazione audiovisiva”. In questo senso, si può affermare che la tendenza tipica della neo-tv, ovvero la simulazione della vita di tutti i giorni, dal piano contenutistico, raggiunga un livello ben più profondo e penetri nei cosiddetti dispositivi comunicativi. La sfera dell’esistenza diventa così l’archetipo del meccanismo di interazione mittente/destinatario. Ecco che cos’è, in definitiva, lo spettacolo: una ricostruzione di un dialogo, attraverso artifizi narrativi, attraverso immagini, ovvero attraverso una storia e delle entità fittizie. Concretamente, se l’obiettivo del broadcaster è quello di avvicinare l’utenza, allora tale avvicinamento deve avvenire nel modo più affascinante possibile, nel modo più coinvolgente possibile, costruendo cioè un gioco, per mezzo del quale, emittente e spettatore possano comunicare assieme. È questa la simulazione, né più, né meno. Dunque, il nostro lungo percorso teorico ci ha permesso di individuare alcune definizioni e categorie, che risulteranno utili a isolare nel “tessuto testuale” del programma (che esamineremo nella sezione successiva) i dispositivi comunicativo di cui sopra (a livello micro). Nell’analisi del nostro show televisivo (tipo di formato scelto proprio al fine di comprendere se e in che misura le forme linguistiche neotelevisive hanno influenzato i generi tradizionali) – nel capitolo successivo – cercheremo di rilevare il rapporto che questa trasmissione costruisce con i suoi telespettatori e in che modo poi tali spettatori sono rappresentati, sono riprodotti, sono richiamati all’interno della trasmissione stessa. A tal fine, terremo d’occhio le inquadrature (dunque prospettiva, vicinanza e zoomate della telecamera), il dialogo tra il presentatore/show man e il pubblico in sala, gli scambi di battute fra i personaggi presenti sul palco e i loro giochi di ruolo… cercheremo insomma di isolare e poi esaminare la narratività sia verbale, che visuale (strumento nelle mani dell’autore implicito – per dirla con Seymour Chatman). Questa operazione ci permetterà poi di indicare in che misura – a livello micro, per l’appunto – le metamorfosi estetiche, azionate dalla neo-tv (per esempio la “quotidianizzazione”, che è indubbiamente uno dei fenomeni più rilevanti), hanno influenzato i vecchi baluardi linguistici della paleo-televisione. Del resto, come abbiamo già sottolineato nel primo capitolo, tali metamorfosi sono rilevabili già su un piano “macro” (= analisi del palinsesto), tant’è che l’immagine esterna di un emittente (= sempre il palinsesto) ne risulta inevitabilmente inficiata. Se osserviamo infatti le tabelle (vedi appendice al capitolo 1, in particolare le griglie relative all’anno 2002) poste a conclusione della prima sezione dell’opera, vediamo confermato proprio quello che stiamo dicendo. A una prima occhiata, per esempio, si nota già come la programmazione sia continua e tesa a coprire tutto l’arco delle ventiquattr’ore (è il cosiddetto “flusso”); come scompaiano alcune voci del tipo “educazione”, “teatro” o “rotocalco”; come emergano infine formati tipicamente neo-televisivi (“talk show”, “programma contenitore”) e formati ibridi (“info-tainment”, “culture-tainment”…)...

181 Pertanto, non resta che dare prova empirica del percorso concettuale appena concluso, mostrando con ciò stesso la vocazione ultima del presente capitolo: quella di fare da ponte teorico fra una prima analisi di tipo generico (sui palinsesti) e una seconda analisi di tipo più specifico (su un programma-testo particolare).

182 Cap. III “TORNO SABATO… e 3” Spettacolo e simulazione nel varietà del sabato sera

Nei capitoli precedenti, ci siamo occupati del mezzo televisivo e del suo messaggio in un “senso più lato”, vale a dire: da una parte abbiamo cercato di ricostruire il “campo di forze” al centro del quale esso è inserito, dall’altra abbiamo tentato di descriverne le strategie comunicativo-simulative di cui farebbe uso. Detto altrimenti, abbiamo osservato la tv da un punto di vista strettamente storico e teorico (o, se volete, astratto), convinti che ciò potesse in qualche modo aiutarci a chiarire la portata del fenomeno “televisione” (già, perché la tv è un fenomeno!), a chiarire cioè la natura di un’operazione socio-culturale, che va avanti ormai da cinquant’anni. Poste queste basi, ovvero fornito questo “Hintergrund”, questo “back ground” all’interno del quale e sul quale ciascun programma (ma, in fondo, tutto il palinsesto in genere) “viene edificato”, è possibile occuparsi ora di aspetti più empirici, più tecnici ovvero, fuor di metafora, è possibile analizzare una trasmissione televisiva in quanto tale. Un excursus nel pratico, del resto, ci consentirà di verificare se e in che misura le premesse teoriche a cui abbiamo fatto riferimento sono vere, cioè se e in che misura interessi esterni possono concorrere a definire il messaggio (influenzando, di conseguenza, l’audience) e se e in che misura i paradigmi di natura semiotica possono essere ritenuti chiavi di lettura valide. Molto spesso infatti, la complessa organizzazione di uno studio, l’intenso lavoro redazionale, il numero di coloro che collaborano alla realizzazione di un programma fanno sorgere il dubbio che un controllo a-priori sia quasi impossibile e che il valore di uno schema interpretativo possa essere contraddetto. Sembra infatti che un prodotto televisivo, nella pienezza della sua unità significante, si costruisca e si definisca solo nell’attimo fuggente in cui va in onda; detto in altri termini, sembra che una trasmissione sia realmente un evento, sia realmente un avvenimento e, in quanto tale (come voleva Derrida), costituisca un “totalmente altro”, un “arrivante” imprevisto. Date queste premesse, ci sembra necessario interrompere le disquisizioni di tipo teorico per andare a vedere, su un piano strettamente pratico, che cosa avviene in un programma televisivo. Procediamo per gradi.

1. Il linguaggio televisivo: grammatica e sintassi delle immagini

Prima di “tuffarci” in un’analisi “tout court” del varietà, ci pare utile chiarire al lettore alcune delle nozioni a cui faremo riferimento nel corso del capitolo. Si è detto che la televisione (come il cinema e i media in genere) si serve di un linguaggio e che tale linguaggio è “audiovisivo”.362 Ora, l’audiovisivo, come le lingue naturali, possiede una grammatica e una sintassi, ovvero dei principi normativi che regolano, rispettivamente, gli elementi del codice e la loro combinazione. Ma se la base linguistica dell’audiovisivo è costituita dall’immagine, allora la grammatica si occuperà di questa nella sua singolarità (cioè delle varie forme di utilizzo della telecamera, in quanto strumento per l’ipostatizzazione visiva della contingenza “hic et nunc” fenomenica), mentre la sintassi della stessa nelle sue potenzialità combinatorie (cioè delle sequenze [: i movimenti della macchina da presa e il montaggio]). Andiamo con ordine. Come sottolinea Enrico Menduni363, un’immagine è composta, fondamentalmente, da tre elementi: - composizione; - inquadratura;

362 Per una buona sintesi dell’argomento, si veda: - E. MENDUNI, I linguaggi della radio e della televisione, Laterza, Roma-Bari, 2002, 93/106.

363 Ib. 94. 183 - angolazione. a. La composizione concerne le regole degli elementi “fisici” che costituiscono l’immagine, vale a dire gli oggetti che essa presenta. Considerando il fatto che lo schermo, a casa, è piccolo e che non possiede le tre dimensioni, tali oggetti non dovranno comparire al centro vero e proprio del “monitor”, cioè nel centro geometrico di questo riquadro, bensì all’incrocio di una sorta di reticolo ideale, che divide il riquadro stesso in tre parti. Inoltre, dovranno essere privilegiate le linee oblique e curve, rispetto a quelle orizzontali e verticali, poiché esse suggeriscono un maggiore senso di profondità (ecco trovato un piccolo rimedio al problema della mancanza della terza dimensione!). Un altro accorgimento importante, se il soggetto dell’immagine è una persona, è quello di lasciare dello “spazio”, dell’ “aria” al di sopra del capo; se, invece, le persone sono più d’una, è necessario che siano riunite assieme (senza che vi sia troppa distanza fra l’una e l’altra) e che si eliminino o che si nascondano nel miglior modo possibile le eventuali differenze di altezza. b. L’inquadratura è quella porzione di spazio “ripresa” (per l’appunto) dalla telecamera o, detto in altri termini, è l’aspetto fenomenologico-percettivo dell’immagine. Ora, le inquadrature si dividono in due categorie: piani (se hanno per soggetto una sola persona o cosa) e campi (se hanno per soggetto più di una persona o più di una cosa).364 Sia i primi che i secondi possono essere di diverso tipo; per quanto riguarda i piani, si avranno il: - Dettaglio (DETT – Extreme close up), tecnica orientata a mostrare i particolari di un individuo: gli occhi, la bocca, una mano… - Primissimo piano (PPP – Very close up), cioè l’inquadratura delle parti fondamentali di un volto umano, ovvero la parte compresa fra i capelli e il mento. - Primo piano (PP – Close up): la ripresa della faccia per intero. - Piano medio (PM) detto anche mezzo primo piano (MPP – Medium close up), tipico del notiziario (è quello che viene volgarmente chiamato mezzo busto). - Piano americano (PA – Medium shot) espediente teso a mostrare tutta la persona fino alle ginocchia. - Figura intera (FI – Full lenght shot). Veniamo ora ai campi; avremo il: - Campo medio (CM – Medium long shot) corrispondente all’inquadratura di un ambiente nel suo complesso. - Campo lungo (CL – Long shot) tecnica utilizzata per dare particolare risalto alla profondità. - Campo lunghissimo (CLL – Very long shot) espediente finalizzato a sottolineare la suddetta profondità in modo ancora più forte. - Controcampo (CC – Over the shoulder shot) quando viene ripreso un personaggio di spalla e un altro a mezzo busto. Una tecnica di questo tipo può rivelarsi particolarmente utile per i dialoghi o i dibattiti. c. Anche l’angolazione rappresenta, ovviamente, un aspetto di fondamentale importanza. Le posizioni che una telecamera può assumere rispetto a un oggetto o a una persona sono sei: - frontale; - tre quarti; - profilo; - orizzontale o all’altezza della persona o dell’oggetto ripreso; - dall’alto verso il basso; - dal basso verso l’alto.

364 Ib. 96. 184 L’angolazione e la prospettiva sono gli elementi principali attraverso i quali può venire manipolato, o meglio, attraverso i quali viene emesso un “giudizio visivo” rispetto a un determinato avvenimento. Infatti, come scrive Carlo Solarino365 in un manuale di tecniche audiovisive:

«Va evidenziato (…) che le variazioni in altezza delle camere, soprattutto in riprese ravvicinate, si prestano facilmente a generazione di “messaggio occulto”: un personaggio inquadrato dall’alto viene infatti “sminuito”, mentre inquadrato dal basso acquista autorevolezza. L’elevazione della camera va quindi valutata con maggiore attenzione, rispetto alla distanza di ripresa» (C. SOLARINO: 1995, 334).

Fin qui si è discusso esclusivamente di un audiovisivo nel suo aspetto grammaticale, vale a dire dell’immagine nella sua singolarità. Ma un’immagine (nella sua singolarità, per l’appunto) è un piccolissimo frammento di un “tutto” più esteso, è una piccolissima goccia in un oceano mare: fuor di metafora, un programma televisivo presenta ben 25 immagini al secondo. Esisteranno pertanto dei criteri per collocare, o meglio, per combinare la suddetta immagine con le altre. Tali criteri costituiscono la base della cosiddetta sintassi audiovisiva, principio regolatore delle sequenze. Una “sequenza” (corrispondente pressappoco a un discorso di senso compiuto, nel caso della lingua parlata) è costituita da diversi “frammenti”, da diverse inquadrature, effettuate o per mezzo di una sola telecamera camera, o per mezzo di numerose telecamere, le cui “rappresentazioni in moto” sono unite assieme mediante le tecniche di mixaggio e di montaggio. Ma andiamo con ordine e vediamo quante e quali possibilità offre una macchina da presa. Nella maggior parte dei casi, essa è posta su un piedistallo che permette movimenti orizzontali e verticali (da ferma). Orizzontalmente, la telecamera può ruotare fino a 360°:

«Ad esempio, la ripresa conclusiva di uno spettacolo di varietà, con tutti i personaggi in scena per il gran finale, può puntare su un campo medio dei personaggi e poi, con una lenta rotazione, arrivare fino al pubblico che applaude sulle tribune. Questo tipo di ripresa si chiama panoramica orizzontale» (E. MENDUNI, 2002: 98).

Verticalmente, può spostarsi in alto e in basso fino a 60°:

«Per esempio, durante la trasmissione del Festival di Sanremo, il conduttore saluta i suoi colleghi che trasmettono il festival per radio, collocati in una cabina ai piani alti del teatro: la ripresa d’obbligo è uno “stacco” dal pubblico fino al vetro della cabina, da cui quelli della radio salutano con la manina (panoramica verticale)» (E. MENDUNI, 2002: 98).

Esiste poi un altro espediente tecnico che dà (al telespettatore) la sensazione che la macchina da presa (pur riprendendo da ferma) si stia muovendo: è lo zoom, un particolare obiettivo che permette di allungare o restringere il campo. Anche l’utilizzo di questo accorgimento può avere delle conseguenze sul piano emozionale:

«… lo zoom avanti, a camera in ripresa e soprattutto se diretto al primo piano di una persona, provoca un senso di concentrazione; mentre lo zoom indietro, suggerisce distensione e rilassamento. A sua volta può acquistare significato anche la velocità della zoomata» (C. SOLARINO: 1995, 338).

Molto spesso però, la situazione richiede che la telecamera effettui dei movimenti più consistenti; essa verrà allora posta su un supporto semovibile detto carrello, che può spostarsi in linea retta o ad arco (è la cosiddetta carrellata).

365 C. SOLARINO, Per fare televisione, Vertical Editrice, Milano, 1995. 185 Esistono poi anche forme più evolute di sostegni come il dolly, congegno telescopico che consente di sollevare il cameraman fino a tre metri (per effettuare delle riprese dall’alto o che, dall’alto, si allontanano e si avvicinano al set [: ascensore]), o la steadycam, braccio meccanico con pesi e molle che, rendendo la macchina una vera e propria appendice dell’operatore, permette un’ampia azione di manovra. Infine, esiste una tecnica molto semplice, molto elementare, che nella neo-televisione è sempre più di moda: la telecamera a spalla, il cui successo è determinato anzitutto dalle tinte realistiche che essa conferisce alle riprese. Ma, come si può facilmente immaginare, un programma televisivo (soprattutto se in diretta) sarà costruito su immagini provenienti da sorgenti diverse, ognuna delle quali utilizzerà a sua volta una delle tecniche appena descritte. Sorgerà pertanto il problema di assemblare assieme queste singole unità visive. Ora, tale problema è risolto attraverso l’ausilio di due tecniche di miscelazione audiovisiva: il mixaggio (effettuato, per lo più in diretta, attraverso il mixer video)366 e il montaggio (assemblaggio vero e proprio, realizzato in post-produzione con l’ausilio dell’editor [strumento tecnico al quale sono collegati, in entrata, un numero tot di telecamere + un numero tot di videorecorder e, in uscita, un semplice videoregistratore]). Le immagini possono essere poi mescolate in diverso modo; attraverso: - la dissolvenza (dissolve), cioè un progressivo aumento dell’intensità cromatico-visiva dell’immagine subentrante; se l’immagine precedente va, a sua volta, sbiadendo, si ha la cosiddetta dissolvenza incrociata; - lo sfumo (fade), ovvero la perdita di intensità dell’immagine, fino alla sua dissoluzione totale (si usa, solitamente, alla fine di una trasmissione); - la tendina (wipe), che consiste nel passaggio da un’immagine all’altra, coprendo progressivamente il quadro; - l’intarsio (key), cioè l’inserimento di un’immagine o di una scritta nell’immagine principale; - lo stacco (cut) o giustapposizione delle immagini fra loro, passaggio repentino fra l’una e l’altra. Per quanto riguarda il montaggio in (post-produzione), bisogna precisare che le tecniche utilizzate sono fondamentalmente due: - l’assemble, cioè l’aggancio successivo di sequenze provenienti da nastri differenti; - l’insert, ovvero si sostituiscono parti di una sequenza principale con altre micro-sequenze. Fin qui si è parlato però soltanto in astratto di possibilità tecnico-tecnologiche e non in concreto di come, sintatticamente, può essere costruita una sequenza. Bene, una sequenza presenta sempre una presentazione, uno sviluppo e una conclusione, le quali implicano a loro volta la scelta di un tipo di inquadratura, di un tipo di angolazione e di un tipo di stacco (fra un’immagine e l’altra) differenti a seconda del genere. Prendiamo come buono l’esempio di Carlo Solarino sul dibattito televisivo:

«… in un dibattito, la sequenza in cui un personaggio, il soggetto, esprime una propria opinione e dialoga con un gruppo di interlocutori, prevede, secondo il canone più tradizionale, un primo piano iniziale sul personaggio, che fa da presentazione; un insieme di varie inquadrature sugli interlocutori (campi medi, doppie, gruppi, ecc.) e anche sul personaggio ma non più in primo piano (campo lungo, controcampo, ecc.), che rappresenta lo sviluppo; infine il ritorno sul personaggio, con un’inquadratura simile a quella iniziale, che costituisce la conclusione (…) La successione ordinata delle sequenze costituirà infine l’intero programma. Va in particolare evidenziato che se il programma è trasmesso in diretta, anche i cambiamenti di sequenza, oltre a quelli d’inquadratura, vengono effettuati con il mixer; mentre se il programma è in differita, il cambiamento di sequenza può avvenire in montaggio, tramite i videoregistratori e l’editor. Ma, sempre in differita e con forte

366 E. MENDUNI: 2002, 104/106. 186 dipendenza dal tipo di programma (spettacolo, talk show, ecc.), si verificano spesso situazioni miste, con sequenze costruite parte in ripresa col mixer, e parte in montaggio con l’editor» (C. SOLARINO: 1995, 286, 287).

La citazione sopra riportata ci sembrava abbastanza emblematica e riassuntiva: ogni programma, in quanto assemblaggio di immagini e sequenze, è costruito su delle regole, su delle leggi. Tali regole, tali leggi sono però, molto spesso, “non scritte” e dettate esclusivamente o da una sorta di “codice consuetudinario” o dai gusti del regista. Appare ora evidente al lettore che i lavori di montaggio e di mixaggio non sono operazioni realizzate alla luce di un’estetica, che nasce casualmente “hic et nunc”, al momento dell’editing, ma sotto l’egida di un’armonia che si definisce in base a criteri a priori più o meno fissi. Tuttavia, in questa sede, non ci è possibile fornire una descrizione completa delle “norme audiovisive”, non ce n’è lo spazio; pertanto, nel corso dell’analisi del nostro programma tv, ci limiteremo a indicare, volta per volta, solo le tecniche sopra riportate.

2. Dall’ideazione alla trasmissione: genesi e gestazione del programma televisivo

Un programma televisivo, o meglio, la produzione di un programma televisivo prevede tre fasi367: a. pre-produzione, divisa, a sua volta, in altre tre fasi: - ideazione; - decisione; - progettazione; b. produzione, ovvero le riprese e l’organizzazione dello studio; c. post-produzione, all’interno della quale è possibile, di nuovo, distinguere tre fasi: - montaggio; - eventuale aggiunta delle grafiche; - eventuale aggiunta degli effetti speciali. Andiamo con ordine, analizzando questi momenti uno per uno. a. Quella della pre-produzione è la fase della pianificazione del programma nel suo complesso, ovvero del suo concepimento archetipico. Anzitutto, vengono compiute due operazioni: da un lato la realizzazione di una griglia della trasmissione, che comprenda tutti i “numeri” da proporre, dall’altro la scrittura di testi, che, accanto alle battute, indichino anche le inquadrature da effettuare (è quella che, nel cinema, si chiama sceneggiatura). In un secondo momento vengono ideate le scenografie, cioè l’organizzazione dello studio e la disposizione spaziale dei protagonisti. Realizzati questi obiettivi, puramente teorici, si passa a degli atti più strettamente pratici come la pianificazione delle strategie di marketing, il placement (ovvero l’acquisto dei costumi, delle scenografie e degli arredamenti stabiliti in sede di ideazione) e il casting (ovvero il reclutamento del personale). b. La produzione368 consiste invece nella venuta all’essere della trasmissione, ovvero, detto in altri termini, nella realizzazione delle riprese e del loro mescolamento. Ma chi è che si occupa di questi aspetti? Tre soggetti, veri demiurghi dell’immagine: il regista (alfa e omega della triade magica), l’aiuto regista e un eventuale terzo individuo che si occupa solo ed esclusivamente di miscelare le varie inquadrature al mixer video. Questi tre non sono tuttavia gli unici individui che, in questa fase (accanto ai protagonisti [come il presentatore o i partecipanti]), sono implicati nella buona riuscita del programma.

367 Ib. 112/116. 368 Ib. 116/120. 187 Sarà necessario infatti: I. disporre l’arredamento nel modo giusto, II. montare correttamente la scenografia, III. controllare l’illuminazione, IV. fare in modo che il pubblico si comporti nel modo adeguato… In breve, in sede produttiva, è possibile riconoscere i seguenti ruoli: - regista e aiuto regista; - mixer video e mixer audio; - direttore della fotografia; - direttore di produzione; - tecnico video (addetto al controllo delle telecamere); - cameraman; - tecnico delle luci o capoelettricista; - assistente di studio (addetto all’arredamento, alle scenografie…). Sono presenti però anche altri soggetti, il cui lavoro non è magari immediatamente visibile, ma non per questo poco rilevante: - truccatore; - parrucchiere; - addetto al guardaroba; - sarto; - macchinista; - eventuali altri artisti (corpi di ballo, cori…) - intrattenitori del pubblico. Evidentemente, questi ruoli, a seconda della trasmissione e a seconda delle necessità del broadcaster, possono essere eventualmente ampliati o ristretti. c. Per quanto riguarda invece la post-produzione, non c’è molto da aggiungere rispetto a quello che si è detto nel paragrafo relativo alla sintassi delle immagini. In definitiva, data la complessa organizzazione produttiva, è difficile definire a priori o manipolare il contenuto di una trasmissione; tutto quello che si stabilisce a tavolino (per lo meno a livello tecnico o “micro-linguistico” [nel senso della scelta di una certa inquadratura o di una cera forma di montaggio]) può essere contraddetto da un cameraman incapace o da un regista naïf (soprattutto se il programma è in diretta). Questo non significa affatto che non possa esistere un progetto a monte, tutt’altro (anzi, il nostro discorso dimostra proprio il contrario), ma che tale progetto è del tutto contingente, vale a dire che può essere messo parzialmente in crisi (a livello “micro”) da una serie di fattori casuali. Fatto tesoro di questa osservazione, ci sembra necessario analizzare e giudicare una trasmissione a partire dalla totalità della sua unità significante e non dai singoli frammenti che, di per se stessi (come si è visto), potrebbero essere l’esito di un errore o di una circostanza fortuita. Senza dilungarci troppo in ulteriori disquisizioni tecniche o teoriche, passiamo immediatamente all’analisi di Torno sabato… e 3.

3. “Torno sabato… e 3”, il varietà del sabato sera

Il formato di cui ci occuperemo nel presente paragrafo (il varietà) è senza dubbio uno dei più anziani, uno dei più datati (assieme al telegiornale). In questo senso, non deve stupirci il fatto che esso porti con sé molte di quelle peculiarità, molte di quelle prerogative proprie, caratteristiche dei programmi della paleo-televisione. Ma quali sono tali peculiarità, quali sono, per l’appunto, tali prerogative? In primo luogo il fatto che il suddetto formato ha una frequenza settimanale e non quotidiana, al contrario di molti altri programmi odierni; in secondo luogo, il fatto che esso è presentato come un evento, come un avvenimento, come un qualcosa che viene all’essere in una determinata porzione di tempo e di spazio e non si ripeterà mai più.

188 In breve, il varietà, lo show del sabato sera porta in dote, ripropone il concetto di “festa”, o meglio, rilancia e reinserisce nel palinsesto quella “festività”, che (come si è visto) era uno dei tratti tipici del medium negli anni ’50, ’60 e diciamo pure ’70. Ma se le logiche di impaginazione, il clima e l’aura che circondano questo formato sono “tradizionali”, le forme linguistiche, a tutti i livelli (dalle inquadrature alla conduzione, dalla scenografia alle musiche), sono l’esito della mescolanza dei vecchi codici con le nuove evoluzioni espressive. Ne risulta un interessante mix di innovazione e tradizione, o meglio, un’interessante riproposizione dinamica della tradizione che rende la stessa materiale adeguato a una logica di flusso, cioè alla logica dominante nella programmazione contemporanea. Torno sabato… e 3 rappresenta l’emblema di tutto questo, rappresenta il tentativo cronologicamente ultimo di adeguare un passato glorioso a un presente sempre più eterogeneo: eterogeneo per quanto riguarda i consumi, eterogeneo per quanto riguarda i gusti del pubblico ed eterogeneo, di conseguenza, per quanto riguarda i codici artistici. La trasmissione si colloca (al sabato ovviamente, come indica lo stesso titolo) nel periodo invernale pre- e natalizio (dal 27 settembre al 6 gennaio), ovvero nel periodo in cui si concentrano maggiormente gli investimenti del broadcaster e gli sforzi dei programmatori.369 Da cinquant’anni a questa parte, lo show del sabato sera, abbinato alla lotteria nazionale (che dunque va in onda nei mesi di settembre/ottobre, novembre e dicembre [periodo di vendita e di successiva estrazione dei biglietti]), rappresenta uno dei fiori all’occhiello della programmazione Rai, assieme al Festival di Sanremo. Detto in altri termini, è qui, cioè in questa macro-stagione dell’anno e con questo tipo di formato, che viene combattuta in modo più acceso la battaglia per il primato degli ascolti contro i concorrenti. È per questa ragione dunque, è in forza di questo obiettivo (cioè conquistare le più ampie fette di pubblico possibili), che vengono mescolate tradizione innovazione; solo attraverso il mix di vecchio e nuovo infatti possono essere soddisfatti i gusti e le esigenze di target tanto eterogenei fra loro. Torno sabato… e 3 è perciò lo show del sabato sera “di nuova generazione”, l’incarnazione “hic et nunc” di un genere ormai pluridecennale in nuovi modelli linguistici. L’ “… e 3” del titolo sta a indicare il fatto che il programma è giunto ormai alla sua terza edizione.370 Come tutti i “week-end show” del periodo pre-natalizio, anche questa trasmissione (come si è visto) è abbinata alla lotteria Italia, alla lotteria nazionale, cioè alla lotteria che presenta il jack-pot più consistente. Questo significa due cose: da un lato che Torno sabato è una sorta di vetrina pubblicitaria per il Ministero delle Finanze (che ha dunque possibilità di reclamizzare la vendita dei biglietti, in una delle trasmissioni di punta), dall’altro che, all’interno dello spettacolo, sono presenti momenti ludici, che prevedono la partecipazione diretta del pubblico a casa e in studio (viene offerta così agli spettatori la possibilità di vincere somme di denaro “live on stage”).371 In effetti, il flusso spettacolare del programma di Panariello, accanto a quei pregevoli numeri di cabaret, che evidenziano la grande teatralità del conduttore, è scandito proprio dal gioco, da un gioco che ha la caratteristica di esaltare, di amplificare, di moltiplicare quegli ideali di “fiducia nella fortuna”, e di “fatalismo”, che erano alla base del paleo-quiz.372 In Torno sabato… e 3 infatti non si vince perché

369 Lo si era già visto nel primo capitolo a proposito delle logiche di palinsesto: l’inverno, periodo in cui l’utente è portato maggiormente a trascorrere in casa la serata (per ovvie ragioni climatiche), è il momento in cui gli investimenti del broadcaster, sia da un punto di vista finanziario che ideativo, si concentrano maggiormente. Per eventuali approfondimenti si ritorni al passo citato. 370 La seconda risale, se la memoria non ci tradisce, al 2001. 371 All’inizio della trasmissione, vengono estratti tre numeri da Tosca (spalla di Panariello) e dalle due soubrèttes Debbie Castaneda e Camilla Sjoberg. I tre numeri corrispondono ad altrettanti posti a sedere, occupati dagli spettatori in sala, i quali, per il solo fatto di essere stati sorteggiati, hanno diritto a una cifra di 1000 euro. Successivamente, essi sono chiamati sul palco per partecipare al “gioco del razzo” e al “gioco del cannone”, mediante i quali vengono estratti altri numeri, o meglio, codici, che rappresentano il corrispettivo matematico di alcuni dei biglietti posseduti dai telespettatori a casa. Colui che ha il tagliando con la cifra sorteggiata può intervenire telefonicamente nella trasmissione per tentare la sorte: se sul suo biglietto c’è un personaggio di Panariello, corrispondente a quello che è sul biglietto posseduto dallo spettatore sorteggiato, ha la possibilità vincere automaticamente anche centinaia di migliaia di euro. 372 Si vedano, in merito, le pagine 22 e 23 del capitolo I, dove si fa riferimento alla trasmissione televisiva Lascia o raddoppia. 189 si è bravi in qualcosa, perché si realizza una certa performance o perché si risponde correttamente a delle domande, ma perché un elaboratore elettronico o la mano di una “dolce fatina”, alta due metri e vestita in abiti succinti (come le due soubrèttes del programma), sono propizi. Tuttavia, non è certo il “ludus” l’ elemento caratterizzante, la quint’essenza dello show in questione; il punto centrale, il fattore unificante, il centro di gravità, cioè ciò su cui verte l’interesse del pubblico è il conduttore stesso, principale ingrediente spettacolare e spettacolarizzante. Giorgio Panariello (il conduttore per l’appunto, già cabarettista e attore di teatro), oltre a occuparsi dei momenti “clou” della serata (come presentare gli ospiti o “compartecipare” ai giochi), si cala infatti nei panni di alcuni personaggi, o meglio, di alcune macchiette dai tratti fortemente caricaturali. Molte di esse sono già note al pubblico televisivo, poiché hanno segnato in modo indelebile la carriera del comico toscano; molte altre invece sono completamente nuove, cioè inventate appositamente per l’edizione 2003 del programma. Importante, da questo punto di vista, cioè dal punto di vista della spettacolarità e dunque della cattura dell’audience, è pure il monologo iniziale, che si presenta come una sorta di “introduzione guidata dello spettatore” al clima della serata. Ma vediamo quali e quanti sono i personaggi nelle vesti dei quali il nostro “show man” si cala: - Merigo: alcolizzato, o meglio, ubriacone toscano dai capelli ricci, pantaloni a quadri e maglietta a righe; sempre in buona compagnia… di un fiasco di Chianti e di una bicicletta. - Il bambino Simone: infante discolo (indossa un cappello da baseball con la visiera alzata e ha le dita perennemente nel naso) che si diverte a fare gli scherzi a suo nonno. - Nando l’impresario: individuo dai capelli “semi-lunghi”, baffi e trench alla ispettor Colombo. Non fa altro che insultare Panariello per la mancata riconoscenza nei suoi confronti («Ma ti vergogni, o non ti vergogni, eh?»), perché, in fondo, Giorgio è stato scoperto da lui (da Nando) e grazie a lui ha fatto carriera. - Mario il bagnino (di Forte dei Marmi): personaggio arrogante, o meglio, “sborone” (non è esattamente un vocabolo tratto dall’italiano accademico, ma non esiste davvero termine migliore per descrivere questa macchietta), che millanta imprese mai avvenute e «una forza nei bracci non indifferente». - Il P.R. del Chi-ti-caca di Orbetello: caricatura del tipico “techno-mane” (cioè quel soggetto che ha la passione per la musica techno e si reca tutti i sabato sera in discoteca) che lavora nei locali notturni come p.r. o promoter. La comicità è giocata anzitutto sull’immagine: giacca di paillettes, calzoncini da ciclista aderenti, marsupio, scarpe con zeppe (ovvero suole incredibilmente alte), occhiali da sole, capelli ossigenati a spazzola e… una protuberanza incredibile nella zona puberale (per questo domanda al pubblico ogni istante [giocando sul doppio senso]: «si vede il marsupio? E ti suscita ingordigia, più che un pacco è una valigia [rappando a ritmo di musica]!!! Il marsupio si, si si!! Il marsupio si, si, si!!!»). - Il macellaio Pio Bove: tipico macellaio romano, il cui aspetto macchiettistico è centrato principalmente sui giochi di parole («Oggi, visto che siamo in Sardegna, v’ho portato “Porco Rotondo”… e poi v’ho portato la “Costa-ta Smeralda”») e sulla rudezza dei modi (si soffia il naso con il camice e si gratta le natiche, proprio mentre dice che la sua ditta si distingue per igiene e pulizia). - Ficus: soggetto che si crede bello e importante, vestito in perfetto stile anni sessanta con occhiali da sole, camicia nera (con paillettes e ricami bianchi) e capelli biondi, pettinati alla Elvis. Millanta di essere fotomodello e di aver partecipato al casting di molte opere televisive e cinematografiche. Tutto ciò, ovviamente, non corrisponde al vero perché, tra le altre cose, il falso attore ha anche dei grossi problemi di dizione: non riesce a pronunciare la lettera r. - Lello Splendor: individuo chiassoso, esagitato, meridionale («so’ de Ascoli, provincia de Piceno»), la cui funzione principale è quella di prendersi gioco degli ospiti o addirittura di insultarli. - Naomo: “riccastro” (che ha tutte le caratteristiche fisiche di Flavio Briatore, il responsabile delle scuderie Benetton) che non ha nessun problema a ostentare la propria ricchezza («se

190 vuoi entrare dall’ingresso principale della villa esci a Firenze sud») o la propria importanza (per esempio fa spesso notare il fatto che il suo maggiordomo sia “Silvio”, con ovvio riferimento al nostro Presidente del Consiglio dei Ministri): insomma, uno “sborone” a tutti gli effetti. - La signora Italia: caricatura della tipica donna di paese toscana, la quale, dalla parrucchiera, non fa altro che “spettegolare” sugli affari dei V.I.P. Ci sono poi le imitazioni: - Julio Iglesias: di cui vengono messe in ridicolo soprattutto le qualità vocali, assimilabili a quella tipica aerofagia, derivante da una cattiva digestione. - Renato Zero: personaggio preso di mira soprattutto per la sua eccentricità. Ma Panariello non è da solo, è affiancato infatti dalla brava e bella attrice (teatrale e cinematografica) Tosca d’Aquino, che ha il duro compito: a. di cucire assieme le varie sequenze del programma, mentre Giorgio è intento ad assumere le vesti dei suoi personaggi, b. di fare gli onori di casa con gli ospiti e c. di coordinare i giochi abbinati alla lotteria. Ci sono poi le due soubrèttes Camilla Sjoberg (alta svedese dagli occhi azzurri e dai capelli scuri) e Debbie Castaneda (slanciata sudamericana), la cui funzione teorica sarebbe quella di coadiuvare Tosca e Giorgio nella conduzione, ma la cui funzione pratica è “de facto” quella di far alzare l’audience, grazie alle proprie qualità estetiche.373 Altra bellezza poco comune è quella di Julia Smith, australiana, prima ballerina del Mulin Rouge, ingaggiata dal coreografo Bill Goodson per ricoprire lo stesso ruolo (: prima ballerina), all’interno del corpo di ballo della trasmissione. Infine, last but not least, c’è il cantante Paolo Belli che ha il compito di coordinare e dirigere l’orchestra, salvo (talvolta) prendere parte alla conduzione, diventando oggetto dell’umorismo di Panariello (già perché l’artista in questione è obeso e quindi, come potete facilmente immaginare, è sottoposto spessissimo alle mordaci facezie del conduttore). Conviene, a questo punto, citare anche altri soggetti che, sebbene non visibili sullo schermo, hanno giocato un ruolo importante nella costruzione del programma: - Stefano Vicario: regia; - Giampiero Solari: ideazione; - Riccardo Cassini, Alberto di Risio, Claudio Fasulo, Carlo Pistarino (che entra ben tre volte in scena, impersonando il vigile urbano e il giudice nel numero di Pio Bove): autori; - Mario Audino, Giulio Calcinari: testi; - Gaetano Castelli: scene; - Loredana Vasconcelli: costumi; - Ballandi Entertainment: produzione. Un particolare fondamentale, che tuttavia abbiamo dimenticato di sottolineare, è il fatto che Torno sabato… e 3 è una trasmissione “live” itinerante: ogni settimana, viene realizzata e trasmessa da un “palasport” di una differente località della penisola. La puntata di cui ci occuperemo è stata mandata in onda il 27 dicembre 2003 dal Pala Dozza di Bologna. Tuttavia, prima di partire con la sintesi delle sequenze e poi con l’analisi di due scene in particolare, ci sembra doveroso descrivere in breve il palcoscenico, ovvero la scenografia che fa da contorno al programma. Ci siamo spesso domandati a cosa corrisponde la rappresentazione scenica di Torno sabato, tuttavia non siamo ancora riusciti a trovare una risposta definitiva, una risposta ultimativa, un termine, in breve, che potesse nominare, o meglio, che potesse rimandare immediatamente alla realtà riportata sullo schermo. Pertanto, evitando inutili definizioni, ci limiteremo esclusivamente a indicare gli elementi presenti sul palco. Nell’esatto centro (parte posteriore dell’avan-palco) è posta una scala, più o meno bassa; alla sua sinistra è parcheggiata una sorta di roulotte, sormontata da una specie di soppalco: è la zona

373 In Italia, effettivamente, non esiste show che non abbia almeno una soubrètte dalle impeccabili fattezze fisiche. 191 riservata all’orchestra. Ancora più a destra, c’è un vero e proprio camion (di cui compare esclusivamente la parte posteriore), affiancato dall’entrata ai camerini. Alla sinistra del palco sono posti invece un megaschermo e un altro veicolo, davanti al quale (nel caso della trasmissione del 27 dicembre, a Bologna) prende posizione un coro Gospel. Spostandoci più in là, nella stessa direzione, troviamo infine un'altra porta di accesso al dietro le quinte. Davanti al palco è presente una passerella che conduce a una sorta di “avan-palco” circolare sul quale hanno luogo la maggior parte dei numeri. Come si vede, non è facile evincere dalla descrizione appena fornita il tipo di ambiente che lo scenografo aveva in mente, quando ha creato questo tipo di scenografia. Ma, tornando a noi, cerchiamo di fornire ora una sintesi delle varie scene/sequenze che compongono la trasmissione. 1. Il programma si apre con l’estrazione di tre numeri, corrispondenti ai tre spettatori, che saranno chiamati a partecipare ai giochi (abbinati alla Lotteria Italia) del “razzo” e del “cannone”. Tosca d’Aquino entra sul palco affiancata dalle “bellone” Debbie Castaneda e Camilla Sjoberg, su un sottofondo di musica blues/gospel. Le due soubrèttes salutano e fanno gli auguri al pubblico a casa, mentre Tosca ringrazia il coro Gospel, presente lì in studio. Successivamente, a turno, le tre dame estraggono le famose tre cifre. A seguire, Tosca saluta Bologna, ricordando brevemente la sua storia gloriosa; mentre narra le vicende e presenta i luoghi più interessanti della città, scorrono delle immagini cha a tali luoghi si riferiscono. Dopo questa breve presentazione, le tre donne escono di scena… 2. … e, sul teleschermo, compaiono delle immagini registrate in esterno, in piazza Maggiore (cuore del capoluogo emiliano). Paolo Belli, che impersona l’autista del furgone della Paolo Belli Big Band, parcheggia il proprio automezzo, per mostrare al suo cane le bellezze del luogo in questione. Tuttavia, la visita è bruscamente interrotta dal vigile urbano Carlo Pistarino, il quale, nascosto in una colonna, viene fuori per fare una multa al nostro personaggio, colpevole di aver posteggiato in divieto di sosta. Nel frattempo, mentre i due discutono, compare la Paolo Belli Big Band che inizia a suonare. La scena sfuma… 3. … le immagini si spostano all’interno del Pala Dozza, dove, al buio, Belli inizia a cantare la sigla (nel frattempo, scorrono i titoli), alla fine della quale urla il nome di Giorgio Panariello, che entra, non dal retro del palco, bensì dalla platea.374 4. Dopo aver salutato il regista Stefano Vicario (che ha festeggiato il compleanno il 25 dicembre) e il produttore Bibi Ballandi (bolognese), il comico toscano inizia il suo monologo. I nuclei tematici sono fondamentalmente due: - la quantità e la qualità («a Natale, si mangia di quei troiai… datteri, noci…») del cibo mangiato a Natale; - la noia mortale e l’assurdità delle feste di capodanno. 5. Uno stacco musicale dell’orchestra e del coro chiude il monologo. 6. Sul megaschermo compare Tony Corallo (personaggio comico), accompagnato da Nando l’impresario, che introduce Panariello nel lato “scuro” della sua carriera... 7. … traendo spunto da questo riferimento, entra sul palco Carlo Conti (oggi noto presentatore televisivo), con cui Giorgio ha iniziato la sua carriera artistica.

374 Se uno dei tentativi della neotelevisione è quello di cercare di annullare la percezione dello spazio psicologico esistente fra mittente e destinatario, allora il fatto che un presentatore decida di entrare in scena dalla platea (come se volesse mostrare a tutti di essere uno del pubblico), invece che dal dietro le quinte, ci sembra essere un punto di notevole interesse. 192 Sullo sfondo intanto, viene posizionato un mega-cartellone, riportante la scritta Aria Fresca, programma che ha coronato il successo di entrambi. I due possono allora rievocare assieme i vecchi tempi cioè, fuor di metafora, possono mostrare ai telespettatori alcuni dei vecchi numeri. In particolare, Panariello si cala nei panni del bambino Simone (che da un lato racconta come si è preso gioco del nonno, durante le feste di Natale, dall’altro tenta di improvvisare delle improbabili imitazioni di animali) e di Mario il bagnino (che rievoca in modo epico il salvataggio in mare di Carlo Conti). 8. La scena è seguita dall’immagine di Pistarino (vestito da vigile urbano), che lancia la pubblicità. 9. La trasmissione riprende con uno stacco musicale che introduce Tosca d’Aquino, la quale tenta di “arruffianarsi” la simpatia del pubblico, facendo riferimento alle tentazioni culinarie della città di Bologna. Successivamente, la show girl presenta la seconda ospite della serata, Serena Autieri, attrice e show girl partenopea, dalle grandi qualità artistiche e fisiche.375 Le due, assieme, coordinano il “gioco del razzo”, con la partecipazione del primo spettatore estratto, accompagnato sul palco da Debbie Castaneda. Dopo il momento ludico, la conversazione fra Tosca e Serena continua; la prima tenta di raccomandare un attore emergente, Ficus, sedicente modello e attore. Questo soggetto, per mostrare a tutti le sue grandi qualità recitative, dovrà provare una scena d’amore, a letto, con la bella napoletana. Viene portato allora sulla scena un giaciglio dal gusto “trash”, con coperte in pelle di leopardo. - Il tutto è interrotto da uno spot della Tim (uno degli sponsor del programma), che vede come testimonial il giocatore di calcio Fabio Cannavaro e Giorgio Panariello, calato nelle vesti di Meucci (inventore del telefono). Si ritorna in scena con l’Autieri già posizionata nel letto. A partire dal momento in cui entra, Ficus inizia a millantare le sue qualità e a dare sfogo alla sua megalomania.376 I due iniziano a recitare il pezzo teatrale, ma il soggetto in questione si trova subito in difficoltà, perché le battute presentano dei vocaboli ricchi di r (lettera che il nostro personaggio non riesce a pronunciare). La scena si chiude con l’arrivo del marito di lei (“super-palestrato”), mentre i due si stanno per baciare. Ficus si salva dicendo che è tardi e che deve andare via. 10. Sul grande schermo intanto ricompaiono Nando l’impresario e Tony Corallo, che lanciano assieme la pubblicità. 11. Si ritorna in studio e Panariello introduce la performance di Rita Pavone377. Durante l’esecuzione del brano Battito del cuore, compare sul palco anche l’inseparabile compagno della cantante: Teddy Reno, personaggio noto al pubblico da diversi decenni.

375 Ciascun invitato utilizza la trasmissione come una sorta di “vetrina pubblicitaria”, per dare visibilità alla propria attività artistica e rendere più popolare la propria immagine. Ciò avviene anche nel caso di Serena Autieri, accolta da una Tosca che si comporta come una perfetta padrona di casa: presenta l’ospite in modo caloroso, la tratta come se fosse sua amica da tanto tempo, gli dà del tu… in breve instaura un clima di vera e propria complicità e confidenza. 376 Per esempio, quando i due vengono presentati, alla parola «piacere!» pronunciata da Serena, il nostro personaggio risponde: «il piacere è tutto tuo!». Oppure quando Ficus si fregia di avere uno sguardo tagliente: «Il mio sguardo è talmente tagliente che non vado dall’oculista ma dall’arrotino». 377 Nota cantante, il cui successo è legato soprattutto al periodo dei primi anni sessanta. Rita Pavone manca dalla scena televisiva da molto tempo, a causa di problemi al cuore (quindi non è un caso che abbia deciso di cantare proprio quella canzone). 193 Al termine del pezzo, c’è un ovvio scambio di convenevoli fra il presentatore (il quale arriva addirittura a dire: «vi ringrazio per tutto quello che avete fatto finora per noi») e i due artisti.378 Sulla scena, compare infine anche Carlo Conti, il quale regala alla brava Rita una copiosa composizione floreale. 12. Conti rimane sul palco e inizia rievocare i vecchi tempi; in particolare, gli torna alla mente lo spettacolo Fratelli d’Italia, a cui aveva partecipato, assieme a Panariello, anche l’odierno regista e attore Leonardo Pieraccioni.379 Così, con un colpo di mano, viene chiamato in scena anche questo personaggio, terzo elemento della triade comica: “Conti – Panariello – Pieraccioni”. I tre decidono di ripetere un vecchio numero, cioè la scena in cui i genitori di Carlo, Giorgio e Leonardo sono al colloquio con il professore dei loro tre ragazzi. Il pezzo, tuttavia, fa fatica a “decollare”, in quanto Panariello e Pieraccioni si trastullano fra loro, facendosi beffa del colore della pelle del loro collega (particolarmente scura). Inutile precisare il fatto che i tre scolari non hanno un curriculum particolarmente brillante e questo è naturalmente un buon presupposto per scatenare la comicità dei tre cabarettisti. Il tutto si chiude con una canzone dedicata a Bologna. Sul mega-schermo compare intanto lo spot della Fiat Panda (un altro degli sponsor del programma), che ha per protagonisti Tosca e Merigo. 13. Segue un balletto a tema natalizio, con le ballerine vestite da Babbo Natale.380 14. Al termine della performance danzante, Panariello sale sul palco per salutare il coreografo Bill Goodson e la prima ballerina Julia Smith. Successivamente, uscito tutto il corpo di ballo, il nostro presentatore lancia una sfida: mangiare un “buondì” (noto tipo di brioche), in un tot numero di passi. Allora, chiama in scena il giocatore del Bologna Calcio Beppe Signori, il quale, dopo aver regalato la propria maglia al comico, precisa i termini della scommessa (per la quale viene fissata una somma di mille euro): mangiare un “buondì”, in trenta passi, senza mai fermarsi. Il primo partecipante, Paolo Belli, perde, anche se, al secondo, cioè al motociclista Loris Capirossi, non va tanto meglio . 15. Signori resta sul palco, mentre Panariello e Tosca si occupano di coordinare il “gioco del cannone”. 16. Dopo questa fase ludica, il calciatore viene invitato a trattenersi e a richiamare alla memoria del pubblico Nicolò Galli, ex collega, morto in un incidente. È così che viene invocata la presenza di Giovanni Galli (ex portiere e papà del giovane), a cui viene chiesto di presentare la fondazione “Nicolò Galli”, una sorta di ente privato per il recupero delle giovani “vittime della strada”. 17. Concluso questo momento semi-serio, compare in schermata il volto di Merigo che lancia la pubblicità. 18. Si torna in studio e, sul palco, sono presenti Tosca e Matilde Brandi (prima ballerina di Torno sabato, edizione 2001). Le due giovani donne ostentano amicizia e non si risparmiano complimenti reciproci. Dopo i convenevoli, viene data la possibilità alla ballerina di pubblicizzare il suo nuovo musical (Victor-Victoria).

378 Anche in questo caso, Panariello si comporta da perfetto maestro di cerimonia, cercando di mostrare riconoscenza e ammirazione verso due cantanti, che appartengono a una generazione artistica precedente alla sua. 379 Inutile dirvi che anche Pieraccioni coglie l’occasione per pubblicizzare il proprio film, uscito nelle sale proprio nel periodo natalizio. 380 Il balletto, peraltro, rappresenta uno degli esempi più lampanti di quel processo di mescolanza di generi e di linguaggi, tipico della neo-tv. Nel numero in questione (ma un po’ in tutti i balletti in generale), per esempio, i colori (piuttosto opachi), le inquadrature (sempre in movimento e con angolazione quanto meno insolita) e il montaggio (con velocissimi cambi di immagine) si discostano molto da quelli normalmente utilizzati nel programma. 194 Insieme a Camilla Sjoberg, le due show girl si occupano del “gioco del razzo”, in compagnia di uno dei tre concorrenti sorteggiati tra il pubblico in apertura. 19. Sul Pala Dozza cala il buio, proprio mentre inizia a salire una musica soffusa. Ma la tranquillità è bruscamente interrotta dai Carmina Burana di Orff e dalle urla del macellaio Pio Bove, che entra in sala a partire dalla platea, correndo come un dannato e prendendo a “gallinate” (sì, perché ha in mano delle galline con cui picchia a caso delle persone fra il pubblico) gli spettatori. La sua furia si placa in prossimità del palco, dove si ferma a presentare le “offerte della settimana”. Tuttavia, gli bastano pochi secondi per riaccendersi d’ira e percuotere (con i polli) tutti coloro che lo circondano. Il caso vuole però che, fra le sue vittime, ci sia anche il vigile urbano Pistarino, il quale, di fronte a un simil gesto (: oltraggio a pubblico ufficiale), non può far altro che multare e convocare in tribunale il nostro macellaio. Lagnandosi («ma io c’ho già un problema molto grosso… c’ho un problema molto grosso… c’ho l’avvoltoio sulla spalliera del letto de mi’ nonna, in fin de vita, che je mette ansia, je mette fretta. Ha capito?»), Pio sale sul palco, dove lo attende il poliziotto Paolo Belli (ribattezzato “quarto di Bue”, a causa della sua corporatura), che ha il compito di richiamare l’attenzione del pubblico, nel momento in cui il giudice (impersonato, come il vigile urbano, da Carlo Pistarino) entra in aula. Il capo di imputazione è quello di “essere indifferente ai piaceri della carne”, poiché una sua fedele cliente, l’attrice Alba Parietti, accusante, sente che il suo amore non è corrisposto. Il magistrato vorrebbe dichiarare la semi infermità mentale della donna (perché Pio Bove non è certo un bronzo di Riace), ma alla fine, sotto consiglio dello stesso Bove, decide di condannare entrambi a due mesi di cella di isolamento (cioè i due vengono “isolati” nella stessa cella). 20. A questo momento di puro teatro, segue la promotion dell’Acqua Lete (terzo sponsor dello spettacolo) che vede Paolo Belli come testimonial. 21. Successivamente, Tosca d’Aquino presenta una fantasia musicale tratta dal film della Walt Disney Mary Poppins. La voce è quella di Serena Autieri, accompagnata da Panariello. 22. A seguire, sempre Tosca chiama al suo fianco Matilde Brandi, la quale coglie l’occasione per presentare la trasmissione dell’ultimo dell’anno (che condurrà con Carlo Conti, su Rai Uno) e per pubblicizzare nuovamente il suo musical. Nel frattempo, compare sul palcoscenico proprio Carlo Conti, assieme al quale, le due fatine coordinano il gioco telefonico con uno spettatore a casa. 23. Il presentatore toscano si ferma a chiacchierare con la d’Aquino e, tra un discorso e l’altro, introduce la nuova Miss Italia, Francesca Chillemi. Nel frattempo, irrompe sulla scena anche Lello Splendor che aizza in tutti i modi il pubblico e si fa beffe di Conti, a causa del colore della sua pelle. Mentre i due discutono, emerge il fatto che questo bizzarro personaggio ha una sorella, anch’ella miss. Viene allora invitato a condurla sul palco. Ma Lella Splendor (che pure comparirà “on the stage”), in realtà, non è una vera star, è semplicemente l’alter ego femminile di Lello che, vestito da donna, continua a giocare la sua parte. 24. Questo lungo momento di cabaret è seguito dalla performance del cantante Gianluca Grignani, che canta un pezzo inedito, tratto dal suo nuovo album.381 Terminata la prima fase della jam session, Panariello si reca al fianco dell’artista e sponsorizza il suo nuovo lavoro (cioè una raccolta, un “the best of”), cogliendo

381 Anche in questo caso torna buono il discorso affrontato in nota 19 sul balletto. 195 l’occasione per cantare insieme a lui, una versione unplugged di uno dei suoi più grandi successi: La mia storia fra le dita. Successivamente, il comico toscano esce di scena, mentre Grignani canta Uguali e diversi, assieme a Paolo Belli. 25. Al termine, Merigo lancia la pubblicità. 26. La trasmissione si riapre con Panariello che si fa beffa di Tosca. I due presentano di nuovo Alba Parietti, la quale li aiuterà a condurre, assieme a Debbie Castaneda, il gioco del razzo. 27. Concluso il gioco, Giorgio presenta Iva Zanicchi, con la quale scambia quattro chiacchiere in modo amichevole, prima che questa canti Musica argentina. 28. Dopo questa parentesi musicale, i due presentatori, il toscano e la napoletana, si mettono in collegamento con il comandante della nave Espero, Aurelio de Carolis, al momento impegnato, assieme al suo equipaggio di 230 uomini, in una missione nel mare arabico. 29. Questo momento dovuto, ma nello stesso tempo un po’ patetico, è seguito da un'altra performance di Rita Pavone, impegnata in una fantasia musicale assieme a Paolo Belli. 30. Arriva dunque il gran finale, che prevede un gioco telefonico da un milione di euro. È chiamato a condividere questi attimi di suspence Remo Girone, il quale, neanche a dirlo, presenta al pubblico la sua nuova fiction. All’improvviso, la tensione scema: lo spettatore a casa non riesce a ottenere il jack pot tanto ambito. Così, la trasmissione può chiudersi: Panariello saluta e ringrazia cast e ospiti, mentre Paolo Belli canta la sigla finale. Come si vede, il programma è particolarmente ricco di elementi di grande interesse, tant’è che, all’inizio, non è stato così semplice scegliere le sequenze da analizzare. Alla fine, abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione sul monologo iniziale (scena 4) e sulla comparsa di Lello Splendor (scena 23). Ma perché queste due scene, la 4 e la 23, sono così importanti? La 4 per due ragioni: a. perché costituisce l’apertura vera e propria del programma, e b. perché il conduttore è sul palco da solo. a. In quanto apertura, tale monologo rappresenta una sorta di introduzione al clima generale della serata, detto in altri termini, è a partire dalla valutazione critica di questo momento teatrale che lo spettatore decide se vale la pena guardare oltre o cambiare canale. b. Il fatto che Panariello sia da solo, cioè che sia (per quanto si è appena detto) l’unico garante, l’unico responsabile della riuscita del patto con l’utenza, sottolinea in modo ineluttabile come il centro, il fulcro, l’alfa e l’omega dello show sia lui, solo lui e nessun altro. Posta questa premessa, posto il fatto cioè che il programma intero ruota intorno alla sua persona, è interessante andare a vedere che tipo di relazione, che tipo di rapporto egli intende stabilire con il pubblico, o meglio, con il suo pubblico, cioè con gli spettatori a casa e con quelli in sala. La scena 23, invece ci è sembrata interessante perché da un lato vede la partecipazione di due ospiti (quindi ci consente di verificare se quel processo di quotidianizzazione, tipico della neo-tv, sia riscontrabile anche nel varietà del sabato sera382), dall’altro ruota attorno a una delle tante macchiette impersonate dal comico toscano (e ci permette perciò di svelarne i dispositivi comunicativi). Sarebbe stato interessante analizzare anche il balletto o la performance di Gianluca Grignani, per vedere quanto il codice linguistico-visivo del video clip ha influenzato quello della televisione;

382 Pensiamo, in particolare, a quel processo per cui il vip, l’ospite viene presentato come “quotidiano”. Questo implica che il presentatore, l’anchor man assuma un atteggiamento amicale verso questo soggetto, comportandosi come si comporterebbe un buon padrone di casa con un vecchio amico. 196 tuttavia, uno studio di questo genere avrebbe peccato di eccessivo tecnicismo e non sarebbe stato quindi adeguato a un lavoro di tipo più generale come il nostro. A ogni modo, fornite tutte le giustificazioni del caso, possiamo ora focalizzare la nostra attenzione sull’analisi. Cominciamo dalla scena 4.

Inquadrature Parlato 1) Campo medio sul Buona sera!! pubblico, con zoom progressivo in avanti 2) Campo medio (con Fatemelo godere un po’… dolly, da sinistra) su Panariello e sul pubblico 3) Primo piano su … questo pubblico [il pubblico applaude senza sosta383] Panariello 4) Primo piano sul Bello!!! Anche a Bologna!!! pubblico con panoramica orizzontale verso sinistra 5) Primo piano, da sinistra, Un gradito ritorno!!! sul direttore di Rai Uno Del Noce 6) Mezzo busto su Io vorrei chiedervi un applauso per una persona speciale. Non lo saluto mai e me ne Panariello. dimentico sempre, ma questa volta lo devo fare perché… è stato il suo compleanno il 25 Il presentatore si muove da dicembre. sin. verso des. e da des. L’uomo più sfortunato del mondo, perché, con un regalo, lo s’accontenta… il nostro verso sin. e la camera lo Stefano Vicario [e fa partire l’applauso], che è, tra l’altro, il nostro regista. segue. 7) Campo lungo (con dolly) sul pubblico. La camera effettua una veloce panoramica orizzontale da sinistra verso destra 8) Mezzo busto Ciao Stefano! Auguri, anche se in ritardo. 9) Campo lungo (con Allora, visto che siamo (…) dolly) dall’alto del palco verso il pubblico. 10) Mezzo busto su (…) qui a Bologna… [salutiamo] il nostro produttore Bibi Ballandi. Non so dov’è, ma, Panariello, che cammina essendo bolognese doc [fa partire un altro applauso], lo saluto. (da sinistra a destra e da destra a sinistra) e la camera lo segue 11) Campo lungo (con Eh?! [il pubblico continua ad applaudire] E insomma!!! dolly) da destra su Panariello e il pubblico. La camera effettua poi uno zoom in avanti 12) Mezzo busto su Ma quanto s’è mangiato, oh? Panariello (che si trova di profilo) 13) Campo lungo, dalla Ragazzi!!! Vedete c’ho i pantaloni (…) destra di Panariello 14) Figura intera (…) con la scollatura a v [mostra i pantaloni]. Avete visto quando c’è i pantaloni con (Panariello si muove e la l’asola che… l’asola e il bottone si sono incontrati, l’ultima volta, il 23… [Panariello si camera ne segue i rivolge agli spettatori alla sua destra] poi … non si sono più rivisti. movimenti) 15) Campo lungo da destra su Panariello e sul pubblico. La camera zooma poi in

383 Nelle parentesi quadre riportiamo nostri commenti o ulteriori descrizioni. 197 avanti 16) Mezzo busto (la L’asola e il bottone si sono mandati un augurio via SMS per Natale, poi… non si sono più camera segue sempre i rivisti. Eh, ragazzi!! movimenti di Panariello) Poi, il problema è che noi abbiamo passato tutte le feste a Bologna. Guardate ragazzi (…) 17) Figura intera (…) essere a Bologna per le feste e non mangiare… 18) Mezzo busto … è come andare all’Oktoberfest e bere un chinotto. Ragazzi!!! 19) Figura intera con dolly, da sinistra. Sullo sfondo a destra si intravede il pubblico. La camera zooma poi a sinistra in avanti Io non so immaginarmi (…) 20) Mezzo busto (…) le tonnellate di tortellini che vi siete magnati da queste parti. Ma poi… chi è che li fa ancora? Ah, c’è una signora [cerca con lo sguardo una signora tra le prime file]… Ah!!! Lei!!! [la trova e le si rivolge direttamente] La mamma di Mirco Sandoni!!! 21) Figura Intera Ma che li fa ancora a mano? (Panariello è di profilo e guarda la prima fila, verso la sua sinistra) 22) Primo piano da sinistra Ma dicono tutte così!! Ma io non lo so sulla signora che annuisce 23) Mezzo busto su Ma queste cose!!! Panariello 24) Primo piano da sinistra Cosa (…) sulla stessa signora 25) Mezzo busto su (…) c’avete voi, oh? Ma che cominciate a luglio a preparare i tortellini? Panariello, girato verso Poi, una domanda volevo fare a voi (…) destra. Quando incomincia a muoversi la camera lo segue 26) Figura intera (…) Bolognesi: ma un maiale… vivo… l’avete lasciato? 27) Campo medio (con Due!!! dolly) da destra, con successivo zoom indietro 28) Mezzo busto Due!!! 29) Mezzo busto da dietro Due!! Per la riproduzione!!!! (con dolly). La camera Non è che noi, il prossimo anno, si può mangiare le foche monache!! effettua poi una lenta Il maiale… panoramica verticale 30) Mezzo busto (stavolta … io lo vedo!!! Da queste parti, il maiale, da settembre… frontale) 31) Figura intera … comincia a essere nervoso, teso, guarda l’orologio: «quanto manca?». Teso!!!! (Panariello passeggia e la Durante le feste, i maiali vanno in giro con il bavero alzato [mima la scena], camera ne segue i movimenti) 32) Mezzo busto (continua cappello, occhiali scuri… [mima un passante che pone una domanda all’animale] «che sei a passeggiare e la camera un maiale te?» [poi, mima il verso del maiale che risponde] «No!». continua a seguirlo) 33) Figura intera (mentre Va via, zitto… [il pubblico ride e applaude] non cessa di passeggiare) 34) Mezzo busto 35) Campo medio da dietro con veloce zoom in avanti 36) Mezzo busto con lento Quanto s’è mangiato!!! zoom in avanti Ma poi, per le feste, si mangiano di quei troiai: i fichi secchi, 37) Figura intera (mentre le noci, le mandorle, le noccioline… in modo tale che, per 15 giorni, si cammina… Panariello passeggia) [cammina a gambe divaricate, per alludere alle proprietà lassative di questi alimenti. Nel frattempo, il pubblico scoppia a ridere] 38) Mezzo busto La gente per strada [mima un passante]: «Oh! Gli è scappato il cavallo, eh?»

198 39) Figura intera [si ri-cala immediatamente nei panni del mangiatore di frutta secca] «eh!!! Lo sa, ma… purtroppo… i datteri…» I datteri e tutta quella roba lì che, durante l’anno, non si sa che ci fanno. I datteri (…) 40) Mezzo busto (…) con quelle forchettine bianche, che tu ne infilzi una… “pac”!!! si spacca la forchettina 41) Campo medio da dietro Ma da dove vengono? Chi le fa queste forchettine? (con dolly che si sposta Ma di quei troiai… lentamente in avanti) 42) Mezzo busto Perché poi, dopo, non abbiamo ritegno, no? Tanto poi, dal due [intende dal due di gennaio] a dieta… ginnastica… ma intanto, per le feste… il panettone con la nutella sopra [fa delle espressioni di stizza] La camera Il pandoro dentro il “caffè e latte” [le espressioni del volto si fanno sempre più stizzite], effettua un lento zoom in bleah!! avanti, tendente al primo Come tu imbuchi la fetta [fa il gesto di intingere il pandoro nella tazza di caffè e latte]… piano glu, glu, glu. 43) Figura intera [Panariello si guarda le mani] 44) Primo piano (sul pubblico) 45) Piano americano (con Eh?! Il pandoro sembra un idrovora… Ti succhia!! dolly). La camera effettua, A me, quando mi s’allaga la cantina, vo in giro col pandoro… lentamente, uno zoom La succhia, Dio bono!!! indietro e poi in avanti. Aspetta!!! Successivamente realizza una panoramica verso sinistra e poi una zoomata indietro, fino a diventare un campo lungo 46) Mezzo busto E siamo ancora al 27 [si rivolge agli spettatori alla sua destra]!!!! Non è ancora finita!!! (Panariello si muove, C’è l’ultimo dell’anno!!! passeggia e la camera ne [si volta poi verso destra] segue i movimenti) Ma che si scherza!!! E allora rimangia… 47) Figura intera (il … ribevi… conduttore si muove e la E poi tutti gli anni la stessa storia: «Ora, se è l’ultimo dell’anno… o dove si va? O che si macchina da presa continua fa? Dove si va? Ma che si fa?». Sempre così. a seguirlo) Il problema… è che, a capodanno… ti devi divertire per forza!!! 48) Mezzo busto Sìììììììììììì!!!! È quello il problema!!! 49) Campo lungo (con Ci si organizza… ci si organizza… dolly) dalle spalle di Tutti gli anni la stessa storia!!! Panariello. La camera zooma e si sposta in avanti 50) Mezzo busto Tutti gli anni la stessa frase: «ma il prossim’anno… e non mi fregano!!» La camera E si finisce sempre dove non avresti voluto essere, con la gente che non conosci, e tu inizia a zoomare in avanti spendi un monte di soldi… per nulla. fino a trasformare Eh! Perché a capodanno (…) l’immagine quasi in un primo piano 51) Figura intera (con (…) costa tutto il triplo!!! dolly) dalle spalle di Oddio!!! C’è dei prezzi per tutte le tasche, eh!! Panariello. La macchina effettua poi uno zoom indietro, muovendosi verso l’alto, fino a rendere l’intera immagine un campo lungo 52) Mezzo busto (il Perché si va, per esempio, sul: “cenone con veglionissimo, spettacolo e orchestra”… 150 conduttore è in movimento euro. e la camera lo segue) 53) Figura intera Solo “veglionissimo con spettacolo e orchestra”: 100 euro; solo “veglionissimo con orchestra”: 60 euro; 54) Mezzo busto Dopo le 3: 30 euro… alle 5, con 10 euro, ti fanno vedere l’orchestra che va via.

199 55) Campo medio da Poi… aspetta!!! sinistra con carrellata e Il menu!!! Tutti gli anni ci si casca e il menu è sempre quello. zoomata in avanti Allora, “antipasti” (…) 56) Mezzo busto Ti danno: le fotocopie del prosciutto… le fotocopie… poi 2 o 3 fette di salame messe in croce… 2 o 3 sottaceti… brutti [fa una faccia stizzita]!!! Non li mangerebbe neanche Emanuele Filiberto, che pure è uno… 57) Figura intera (con … che notoriamente… dolly) dalle spalle del conduttore, con successiva carrellata in avanti 58) Mezzo busto 59) Figura intera dalla E fin qua… sinistra di Panariello 60) Mezzo busto Ma mi fanno pena i sottaceti… ti guardano… non sono sott-aceti, sono “sotto shock”!!! Ti guardano con la paura addosso. I primi!!! Tra i primi, c’è sempre, nel menu dell’ultimo dell’anno, il tris di primi. 61) Figura intera Allora!!! Si chiama tris, perché ti fa “tris-tezza” solo a guardarlo. “Ravioli al profumo di tartufo” (…) 62) Mezzo busto Come? [dal pubblico, qualcuno urla un complimento] Grazie!!! 63) Mezzo busto dalle Grazie!!! È un amico!!! spalle di Panariello con pubblico sullo sfondo 64) Mezzo Busto (stavolta Gli do qualcosa per dire queste cose!! davanti) Allora… [il pubblico esulta] 65) Campo lungo (con dolly) stavolta davanti, con movimento verso sinistra 66) Campo lungo sul Non fate così!!! Mi imbarazzate!!! pubblico con carrellata e lentamente compare sullo schermo anche Panariello. 67) Mezzo busto su [il pubblico continua a esultare] Panariello 68) Campo lungo dall’alto, alle spalle del presentatore 68) Mezzo busto 69) Campo lungo dall’alto, Mi imbarazzate!!! Io poi mi imbarazzo!!!! alle spalle di Panariello 70) Mezzo busto Stavamo dicendo: “ravioli al profumo di tartufo”, perché c’è solo il profumo… il tartufo… non c’è verso di averlo. Poi: “orecchiette al sentore di mare”. E io infatti me le immagino queste orecchiette La camera [mette la mano davanti alle orecchie, come colui che cerca di sentire qualcosa che si fa compie una zoomata in fatica a percepire]… che tentano di sentire il mare. avanti e l’immagine diventa Poi (…) quasi un primo piano 71) Figura intera “Tagliatelle mare e monti” ma… non trovi niente!!! [fa il gesto di colui che tenta di trovare qualcosa nel piatto] Quando si dice: “ti promettono mari e monti”, no? 72) Mezzo busto Davanti, ti piazzano il panettone, quello col cellofan, senza la marca… perché chi l’ha fatto si vergogna… dice [nel senso: chi l’ha fatto dice]: «Io te lo do, ma non voglio far sapere chi l’ha fatto!!! Se lo vuoi mangiare, lo mangi, se no lo butti via!!» 73) Figura intera Lo spumantino… quello triste… 74) Mezzo busto O troppo dolce, o troppo secco!! Quello del Luna Park, del tiro a segno: è il solito, è quello lì!! 75) Campo lungo da Sì, sì!! sinistra (con dolly) 76) Mezzo busto Che già al Luna Park, ti fanno [imita l’omino che lavora al tiro a segno]: «portachiavi o spumante?», e tu: «porta chiavi, porta chiavi!!!». E allora lo riciclano e lo ripiazzano lì davanti. 77) Campo medio (dalle Ne bevi un gocciolino e ti brucia lo stomaco tutta la notte. spalle di Panariello, con

200 dolly) 78) Mezzo busto E ti ‘mbriaghi come una scimmia. E te, tutto ‘mbriago [fa la voce dell’ubriaco]: «ma il prossimo anno… non mi fregano!!». 79) Figura intera Torna a mezzanotte il momento del brindisi… Non ci si riesce mai a mettere d’accordo sul momento della partenza del tappo. 80) Mezzo busto E allora!!! Io, c’ho 43 anni… e non mi ricordo, nella mia memoria, un momento che s’è (Panariello si muove e la stappato il tappo tutti insieme. macchina da presa ne segue Già, quando dici alla festa: «Quanto manca?» Chi [fa la parte di coloro che rispondono]: i movimenti) «mezzanotte meno un quarto… meno venti… meno cinque…» Non c’è mai un orario preciso. Stiamo tutti quanti per stappare… e lì.. c’è sempre lo stappatore, quello precoce!!! [fa il gesto del tappo che parte] non ce la fa!!! 81) Campo lungo dalla Gli parte!!! sinistra di Panariello in basso (con dolly) 82) Mezzo busto Gli parte!!! E allora lui tenta di tappare [mima la scena]… 83) Figura intera … di non farlo partire… e… e allora… ffffffffff [fa il verso dello spumante che fuoriesce] e gli esce tutto… lo tiene così e gli parte la boccia di sotto [mima la bottiglia che cade] 84) Mezzo busto E rimane col tappo… “Auguri!!!” 85) Figura intera (con No!! Quello è tremendo!!! dolly) dalla sinistra di Panariello 86) Primo piano sul pubblico 87) Campo lungo (con Poi c’è lo stappatore… dolly) dalle spalle a sinistra del condutore 88) Mezzo busto Quello ritardatario. Si fa il conto alla rovescia: «tre, due, uno, zeroooo!!!!!», e lui è ancora lì che tenta di svitare la gabbietta del tappo [imita il personaggio che tenta di svitare] 89) Figura intera Allora comincia col pollice [fa il gesto di chi tenta di stappare, facendo pressione col pollice sul tappo]… no? Non ce la fa e allora ricomincia [inizia a prendere a pugni il La camera tappo ]… e tu… sei accanto… che addosso non hai un vestito… c’hai la tredicesima, Fa uno zoom in avanti, fino addosso. a trasformare l’immagine in primo piano 90) Figura intera (con Quindi ti mette un po’ in ansia… tu sei sempre in ansia!!! dolly) dalle spalle di Panariello. La macchina da presa zooma poi indietro e si muove verso l’alto 91) Mezzo busto Perciò, tutti gli anni, tu esci di casa col vestito della festa… e tu rientri che t’hanno fatto la festa al vestito!!! Sempre!!! 92) Figura intera (con [ripete di nuovo quel che può essere forse definito lo slogan della serata] «Ma il prossimo dolly) dal lato destro del anno (…) presentatore 93) Mezzo busto (…) non mi fregano». Ma poi… come ci si vuole bene per l’ultimo dell’anno!! 94) Figura intera S’arriva a queste feste, ché tutti ci si guarda come delle bestie immonde. [Imitando i modi snob di coloro che prendono parte a questi “party”:] «Uhm! Ma come siamo vestiti!! Stasera non avevo neanche molta voglia…» 95) Mezzo busto 96) Figura intera Dopo cinque o sei bicchieri… ohe!!! 97) Mezzo busto Ci si ama, ci si abbraccia… «cin, cin»… «smak, smak»… 98) Figura intera [Inizia a cantare una di quelle che canzoni che vengono cantate e suonate solo e soltanto a capodanno] «Brigitte Bardot, Bardot…» 99) Mezzo busto Si perde (…) 100) Campo lungo (con (…) tutta la dignità!!! Si fa i trenini, dolly) dalle spalle di Panariello 101) Mezzo busto si agguanta la gente mai vista in vita nostra!!! Ci si trova davanti l’impiegata della posta… quella tutta spalmata di brillantini addosso…

201 che poi questi brillantini te li ritrovi nelle raccomandate per tre o quattro mesi, no? 102) Figura intera Questa… tutta vestita a scaglie di paillettes, vive di luce propria!!! 103) Mezzo busto Se la incroci con la macchina, ti abbaglia, sbandi… tu sbandi!!! [riportando il discorso sul tema della festa] Davanti, stringi i fianchi al direttore di banca, la camera quello che non ti ha mai neanche voluto dare l’agenda in vita sua… che a mezzanotte e un zooma in avanti, fino a quarto… raggiungere quasi il primo piano. Successivamente … ubriaco fradicio… ti fa un mutuo agevolato al 2%. zooma all’indietro 104) Campo lungo (con dolly) dalla sinistra di Panariello 105) Mezzo busto alle Ma il problema (…) spalle del presentatore 106) Figura intera (…) è quello che ti stringe dietro, che è l’amministratore delegato del condominio, vestito da Drag Queen… Quello è il problema (…) 107) Mezzo busto (…) del trenino, alle volte. La macchina Tutti ubriachi!!! Tutti… con addosso l’indumento intimo rosso… da presa zooma in avanti, fino a rendere l’immagine un primo piano 108) Figura intera [Si rivolge a una signora seduta in prima fila] Signora, eh? Che se lo mette, eh? Eeeeeh!!!! Ma voi donne siete avvantaggiate: reggi-petti, reggi-calze, 109) Primo piano sulla Slips… signora seduta in prima fila 110) Figura intera … ma noi uomini… 111) Mezzo busto Ci regalate sempre voi donne… [indica il boxer] mi fa schifo solo a pensarci… perché mi La camera immagino se mi dovessi spogliare! zooma in avanti, fino a Questi boxerini… quelli col rametto di vischio… trasformare l’immagine in un piano americano 112) Primo piano sulla Che se ti succede qualcosa (…) prima fila 113) Piano americano (…) e ti portano all’ospedale… gli infermieri si scambiano il bacio e gli auguri sotto le tue mutande!!! Immaginate!!! 114) Inquadratura di mezzo busto sulla signora di prima e sulla sua vicina 115) Figura intera 116) Mezzo busto 117) Figura intera [Panariello ripete nuovamente il moto della serata] «Ma il prossim’anno…» La camera effettua poi uno zoom all’indietro fino a rendere l’immagine un campo medio 118) Mezzo busto 119) Campo medio (dalla sinistra di Panariello, girato di spalle) 120) Mezzo busto A capodanno si perde tutta la dignità. I primi dell’anno, girano di quelle foto, che tu hai fatto l’ultimo dell’anno… 121) Figura intera Che se tu le potessi ingoiare… le ingoieresti!!! 122) Mezzo busto Ci sei te [intende nella foto] con l’impiegata delle poste… che ha l’acconciatura [mima la pettinatura poco ordinata della donna]… e, attaccate alla lacca, le stelle filanti [continua a mimare il tutto]… e tu, con la trombetta in bocca… La camera … e una lastra di pandoro in mano [mostra la mano]… si perché è una lastra [il fa uno zoom in avanti, fino pandoro]… a rendere l’immagine un Tu rientri a casa, all’alba… (perché bisogna fare l’alba per forza!!) primo piano

202 123) Figura intera … tutto distrutto [fa la faccia di una persona stanca]… tu rientri in casa.. 124) Mezzo busto … tu rientri in casa, che sembri Saddam Hussein dopo la cattura!! La macchina Avete presente? da presa zooma di nuovo in avanti, fino a rendere l’immagine un primo pian. 125) Campo medio (con A casa… dolly) frontale da destra 126) Primo piano con … per riconoscerti, devono guardare i denti con la pila, se no, non c’è verso. zoomata indietro, fino a Tu vai vestito a letto in quelle condizioni: tutto appiccicoso di spumante, rendere l’immagine un mezzo busto 127) Figura intera Ché, al mattino dopo, ti viene dietro [intende dire: ti porti dietro, perché restano attaccate]: lenzuola, fodere, guanciale… tutto il letto. 128) Mezzo busto E l’ultimo pensiero, prima di addormentarti, è sempre quello: «Ma il prossim’anno… 129) Primo piano sul Pubblico: «… non mi fregano!!!». pubblico.

La scena si chiude con uno stacco musicale.

Nonostante la semplicità di fondo (si tratta pur sempre di un monologo), gli elementi che entrano in gioco nella sequenza analizzata sono parecchi. Nel capitolo precedente, avevamo riconosciuto ben sei ruoli, ai fini della comprensione del gioco comunicativo, del gioco delle parti costruito in un testo: autore reale o mittente, autore implicito o enunciatore, narratore, narratario, lettore implicito o enunciatario, lettore reale o destinatario. Dovremo pertanto tentare di stabilire, all’interno del programma, o meglio, all’interno della scena in questione, chi o che cosa impersona queste figure chiave. L’autore reale o mittente e il lettore reale o destinatario prescindono dalla trasmissione/testo e, nel caso della televisione, corrispondo sempre ai medesimi soggetti: il broadcaster da una parte e il telespettatore dall’altra. Anche i ruoli di narratore e narratario, trattandosi di un monologo, sono abbastanza chiari: il narratore è Panariello, la star della serata, mentre invece il narratario è il pubblico in sala, interpellato a più riprese dal presentatore, o sarebbe meglio dire: dallo show man. Diventa invece molto difficile stabilire a chi vengono affidati gli altri due espedienti comunicativi, che sono poi i più importanti, dal punto di vista della “conversazione audiovisiva”. Procediamo per gradi. Presa visione non solo del monologo, ma del programma in generale, ci pare evidente che il tutto, cioè tutto lo show, ogni singolo numero, ogni singola performance, ogni singolo intervento sono come osservati dall’esterno, sono come giudicati da una sorta di occhio che, sebbene solidale con quanto avviene sul palco, si pone a una certa distanza, si pone ovvero in una sorta di prospettiva giudicante. Questo osservatore esterno, questo occhio coincide con la macchina da presa, lente, organo visivo nelle mani del regista. L’enunciatore, in breve, si identifica con le immagini, o meglio, con gli obiettivi delle telecamere. Nella scena analizzata, tutto questo è particolarmente evidente. I cameraman, adeguatamente istruiti dal regista, sottolineano quello che Panariello fa, creando una sorta di simbiosi, una sorta di corrispondenza fra gesti e parole del cabarettista e il linguaggio visivo; detto in altri termini, l’organizzazione generale delle riprese fa sì che il rapporto immagine/parola non sia contraddittorio, ma (oseremmo dire) “sinfonico”. È questo il senso delle “zoomate”, delle “figure intere” o delle “riprese in movimento” (: carrellate o spostamenti della macchina, che seguono gli spostamenti del conduttore), che tendono a dare rilievo alla mimica o al dinamismo recitativo del comico. Nello stesso tempo però, tali inquadrature rivelano soffusamente anche la propria origine, tradiscono cioè il fatto di essere la prospettiva visiva di un “alteritas”, di un soggetto totalmente altro che osserva la scena dall’esterno. Così, i campi lunghi alle spalle di Panariello, le riprese

203 dall’alto, le carrellate o le zoomate sono un indizio inconfutabile della presenza di un occhio giudicante, di un “onnipresente” organo della vista. Questo è l’enunciatore. Ma chi è l’enunciatario? Cioè chi è che fa le veci del pubblico a casa? È evidente il fatto che l’utente, il destinatario, a casa, riceve delle istruzioni. Le immagini parlano chiaro. Gli stacchi sul pubblico, le panoramiche sulla platea sono tese infatti a sottolineare le reazioni e la partecipazione degli spettatori in sala, quasi fosse quello il solo modo di “stare al gioco”, quasi fosse quello l’unico atteggiamento corretto di guardare il programma. In questo modo, ipostatizzato dall’obiettivo della telecamera, il comportamento di coloro che assistono dal vivo diventa normativo per coloro che si trovano nella propria abitazione. Da tutto ciò deriva che il varietà è un passatempo fatto di regole, un passatempo fondato su delle parti da ricoprire, un passatempo fondato su un copione, come una pièce teatrale; ed, esattamente come in una pièce teatrale, i dettami di tale copione vanno rispettati nei minimi dettagli. Ma se l’atteggiamento del pubblico in studio è esemplare per il pubblico a casa, allora è evidente che è proprio esso quell’enunciatario, che si faceva così fatica a scovare. Sono ora più evidenti i ruoli comunicativi, le parti, le figure del testo-programma. Ciò che non è ancora completamente chiaro è il tipo di rapporto che, attraverso questo testo, il mittente intende instaurare con il destinatario. Andiamo con ordine. L’autore implicito o enunciatore, si è detto, corrisponde all’istanza dell’autore reale, cioè del mittente. Al contrario, l’enunciatario è il rappresentante, è l’ipostasi del lettore, del destinatario all’interno dell’opera. Si è anche detto che lo sguardo dell’enunciatore, nel programma in questione, è pienamente solidale con la prospettiva del comico (cioè con il narratore) e che la reazione del pubblico in studio (narratario) è normativa per il pubblico a casa. Poste queste premesse, per risolvere il problema di cui sopra, si dovrà analizzare che tipo di relazione Panariello, in quanto narratore, intende istituire con gli spettatori in sala, in quanto narratario. In questo senso, sarà utile rispolverare alcune delle categorie evocate nel quarto paragrafo (sul patto comunicativo) del secondo capitolo, relative al rapporto conduttore/pubblico. In quella sede, si erano riconosciuti ben 8 possibili tipi di relazione (spettatore: evocato, interpellato, complice, partecipante, testimone, protagonista, mandante, giudice). Ora, nel nostro monologo, in particolare, ma in tutta la puntata di Torno sabato, in generale, non si può dire che esista un solo tipo di legame, bensì un pluralismo e una eterogeneità dei collegamenti. Detto in altri termini, lo spettatore è, a seconda del momento, evocato, interpellato, complice, partecipante, protagonista (come nel caso dei 2 giochi o delle telefonate da casa). In ogni caso, il riferimento a chi ascolta, a chi sta osservando la scena sul palco è costante, è continuo, è presente fin dalla prima inquadratura (si vedano p. es. le prime tre). Mentre Panariello dà corpo al suo discorso, mentre si lascia trasportare dalla vis comica, chiede continuamente conferma agli spettatori (soprattutto a quelli seduti nelle prime file) di quello che sta dicendo (p. es. nelle inquadrature 21 e 108). Oppure chiede al pubblico di applaudire un collaboratore, o ancora lascia che esso finisca le frasi da lui cominciate (come nelle ultime due inquadrature, caso macroscopico)… Detto in altri termini, stabilisce un rapporto di interazione, un rapporto di collaborazione comunicativa, diversamente declinato (dall’evocazione, alla partecipazione attiva), a seconda del momento. Ma la partecipazione implica complicità; allora una domanda sorge spontanea: come tale complicità può essere instaurata? Detto in altri termini: in che modo, o meglio, perché lo spettatore può essere indotto a entrare in rapporto di complicità (per l’appunto)? Perché Panariello si fa portavoce di un’esperienza comune, perché mette in ridicolo una diffusissima convenzione sociale, di cui tutti, grosso modo e più o meno esplicitamente, riconoscono l’assurdità. Per dirla in modo più astratto e per riallacciarsi al discorso sulla

204 quotidianità nella neo-tv (affrontato nel primo capitolo), il comico toscano si fa burla del quotidiano, in quanto egli stesso ne fa parte. Già, in quanto egli stesso ne fa parte, perché il modo in cui fa dell’umore, il modo in cui, nella fattispecie, giudica le feste di capodanno non è quello proprio di chi, dall’esterno, osserva e addita stizzito, ma quello di chi, dall’interno, sente di essere arrivato al punto limite e di averne abbastanza. È come se avesse detto, di fronte a milioni di telespettatori: «Signori!! Adesso arriva capodanno, è come voi ben sapete (perché lo sapete bene anche voi) ricomincia la noia di tutti gli anni!!». Su questo si basa la complicità (e, in fondo, un po’ tutta la vis comica di Panariello): il racconto di un’esperienza comune, presentata proprio come tale. Ma, come si è detto, il comico toscano non fa riferimento a caso alla quotidianità, poiché è lui stesso “quotidiano”, poiché lui stesso proviene da quel sostrato sociale, di cui l’ascoltatore medio fa parte. La sua comicità quindi, le sue battute mordaci, i suoi modi meta-verbali di approccio allo spettatore sono fondati in gran parte su una percezione empatica dello humour del pubblico, su una comprensione sensoria di ciò che potrebbe farlo ridere. Sicuramente c’è molto di costruito, molto di aprioristicamente predefinito in questo show, ma apparentemente, superficialmente, esso appare un prodotto prettamente artigianale (percezione empatica dei gusti del pubblico, per l’appunto), al di là delle complesse logiche industriali. Nella tv del gatto ricompare dunque la figura del topo o, sarebbe meglio dire, la tv del gatto si serve nuovamente del topo, per moltiplicare la sua produzione industriale, cioè per aumentare gli ascolti. Abbiamo ottenuto dunque un altro importantissimo guadagno: Torno sabato… e 3, oltre a essere un crocevia fra tradizione e innovazione, è anche una mescolanza di logica industriale e logica artigianale. Detto questo possiamo passare all’analisi della scena 23.

Immagini Parlato 1) Figura intera frontale Tosca d’Aquino: Caro Carlo, Caro Carlo!! Io, mi stavo domando prima… sui due Carlo Conti: sì!! Tosca d’Aquino: E non ho capito… 2) Mezzo busto frontale sui Tosca d’Aquino: È arrivato Carlo… abbiamo fatto insieme tante trasmissioni… due soggetti Raccomandato!!! Come mia mamma. Carlo Conti: Eh! È stata bravissima tua mamma. Tosca d’Aquino: E allora io dicevo: «Perché non è venuto ancora a salutarmi?». Adesso l’ho capito!! Perché tu… ormai… da quando fai Miss Italia…384 Carlo Conti: Eeeeeh!!! Allora… a proposito del 31 [allude al monologo di Panariello]385… con tanti ospiti: Lucio Dalla, Neffa, Tiziano Ferro, Bobby Solo, Edoardo Vianello, la Richie Family (quelli di The best disco in town) Enrico Brignano, i Fichi d’India… insomma: una sorpresa dietro l’altra… [ci saranno anche] Matilde [Brandi], le 12 del mondo di Miss Italia, visto che ho avuto l’onore quest’anno, per il mio primo anno… Tosca d’Aquino: [interrompe Conti per un attimo] È andata benissimo!!! Carlo Conti: … di prendere in mano le redini di Miss Italia e, quindi, ci sono anche le 12 ragazze titolate e Miss Italia 2003. E visto che ho promesso una sorpresa dietro l’altra, mi sono permesso di portarla anche qua. Tosca d’Aquino: Ma veramente? 3) Figura intera sempre sui Tosca d’Aquino: Ma dov’è? due personaggi in questione Carlo Conti: Francesca… Chillemi!!! 4) Mezzo busto in [all’ingresso della miss, l’orchestra suona ovviamente della musica] movimento sulla miss che Carlo Conti: Bella come il sole, la luna e le stelle!!! entra 5) Campo medio in Carlo Conti: Come migliorano in pochi mesi!!! direzione del palco 6) Particolare in movimento dai piedi al volto della miss 7) Figura intera sui tre Tosca d’Aquino: Ma com’è bella questa Miss Italia, ragazzi!!

384 Carlo Conti ha condotto infatti l’edizione 2003 del concorso di Miss Italia. 385 Anche Carlo Conti, come gli altri ospiti, non si fa pregare troppo per farsi pubblicità. 205 personaggi, con successiva Carlo Conti: Io lo so!! zoomata, fino a rendere l’inquadratura un piano americano 8) Primo piano sul volto Carlo Conti: Di solito, quando entra in scena, spontaneamente, il pubblico maschile fa della Miss (…) 9) Piano americano sui tre Carlo Conti: (…) Oooooooooohhhh!!!! [fa partire l’esclamazione del pubblico] soggetti, con successivo zoom indietro fino a rendere l’inquadratura una figura intera. 10) Primo piano su Carlo Conti 11) Primo piano sulla miss Tosca d’Aquino: E ci credo 12) Piano americano sui Tosca d’Aquino: [si rivolge al pubblico] non me la spaventate, eh?! Perché è giovane… tre [il pubblico fischia] eh! Li senti che fischi?! Carlo Conti: No, ci spaventa lei! 13) Primo piano sulla miss Tosca d’Aquino: Scusa, ma io vorrei fare subito una domanda (…) 14) Piano americano sui 3 Tosca d’Aquino: (…) sicuramente non molto originale, però d’obbligo (…) 15) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: (…) è cambiata la tua vita da quando hai fatto Miss Italia? 16) Controcampo (con la Miss: Guarda, se potessi riassumere i miei primi quattro mesi di miss Italia, potrei dire di miss inquadrata essermi innamorata di quello che mi è successo (…) frontalmente e Tosca di spalle). 17) Controcampo (con Miss: (…) perché è un’esperienza meravigliosa… veramente!!! Tosca d’Aquino inquadrata frontalmente e la miss di spalle) 18) Controcampo (la miss Tosca: Bella!!! risulta inquadrata [parte l’applauso del pubblico] frontalmente e Tosca d’Aquino di spalle) 19) Piano americano sui Carlo Conti: Questa mi è piaciuta!!! «Mi sono innamorata di quello che mi è successo!» tre Tosca d’Aquino: È anche romantica!!! 20) Campo lungo (con Carlo Conti: Magari in questo momento… guarda.!!! … ci sta sicuramente seguendo!!! dolly) dalle spalle dei tre (…) personaggi 21) Piano americano Carlo Conti: (…) patron Enzo Mirigliani si sarà sicuramente commosso… e anche frontale sui tre Patrizio… perché questa è una gran bella frase!!!! Tosca d’Aquino: E…. progetti futuri? 22) Controcampo con la Miss: Progetti non ne faccio! Per ora vivo il presente. miss inquadrata di spalle e Tosca d’Aquino frontalmente 23) Controcampo la Miss: Anche perché mi mancano ancora otto mesi… d’Aquino di spalle e la miss di fronte 24) Piano americano sui 3 Carlo Conti: C’è ancora tutto il tempo… personaggi Tosca d’Aquino: Aspettiamo!!! 25) Primo piano sulla miss Miss: E quindi non voglio… Tosca d’Aquino: C’è un rumore [si sente il “sì, sì”, verso tipico del personaggio Lello Splendor]!!! 26) Piano americano sui Tosca d’Aquino: Sento una voce!! Che succede? tre [i tre, intanto, si guardano intorno, mentre la voce di Lello si fa sempre più forte] Carlo Conti: Non lo so?! No… No… no, no, no, non mi dire… non mi dire… no, no, no, non mi dire… no, no, no… 27) Primo piano su Carlo Carlo Conti: Non mi dire che c’è… Lello Splendor!! Noooo!!! Noooo!!! Conti Lello Splendor: Mezz’a voi… 28) Mezzo busto frontale Lello Splendor: [Lello corre entrando dalla Platea] Lello Splendor!!!! su Lello 29) Mezzo busto laterale su Lello, mentre corre

206 30) Campo lungo dall’alto 31) Piano americano Lello Splendor: Mezz’a voi… Mezz’a… [intona una delle sue tipiche canzoni] “Oh le frontale rispetto a Lello che le… corre e la camera continua a Pubblico: [continua a cantare] Oh la la, faccelo vedé, faccelo toccà!! seguirlo 32) Campo lungo verso il pubblico, dall’alto 33) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [continua a cantare] Oh le le.. (che è ancora tra il pubblico) 34) Primo piano su alcune Pubblico: Oh la la… faccelo vedè… persone del pubblico Lello Splendor: [grida più forte] Mezz’a voooiiii!!! 35) Primo piano su Lello Lello Splendor: Mezz’a voooiiii!! [inizia subito a ironizzare sul colore della pelle di che abbraccia una signora, Carlo Conti, particolarmente scura] Mezz’a voi… Nero Wolf [riferito, ovviamente, a seduta tra il pubblico, e poi Conti]!!! ricomincia a correre (e la Carlo Conti: No!! Non ricominciare, Lello!!! camera lo segue) 36) Figura intera sugli altri Lello Splendor: Mezz’a voi… tre fermi sul palco 37) Campo medio (con Lello Splendor: … Lello Splendor!!!! dolly) su Lello che sale sul Signori e signore… palco. La camera, nel suo movimento, incontra la figura di Tosca. Successivamente effettua uno zoom in avanti su Lello, fino a trasformare l’inquadratura in primo piano 38) Figura intera sui 4 Lello Splendor: [continua a fare ironia sulla pelle di Conti] … mezz’a voi… Calimero!!! personaggi, con successivo Carlo Conti: No!! Non ricominciare!! lento zoom indietro 39) Primo Piano su Carlo Carlo Conti: Lello!!! Conti 40) Figura intera sui 4 Tosca d’Aquino: Lello!!! [cercano di richiamarlo all’ordine] 41) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [ricomincia a cantare, ironizzando sempre sul colore della pelle di Conti] che si muove e la “Nel continente nero… telecamera lo segue 42) Figura intera sui 4 Pubblico: [risponde allo stimolo canoro di Lello] “Paraponzi ponzi po!” 43) Campo lungo verso il Lello Splendor: [continua a cantare] Mezz’a voi… pubblico, mentre i 4 personaggi sono inquadrati di spalle 44) Figura intera frontale Lello Splendor: … c’è Calimero!!” [prima indica Conti e poi infila la testa fra le sue sui 4 gambe] 45) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: [osserva Lello infilato fra le sue gambe e grida] Smettila!! 46) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Smettila!!! 47) Primo piano su Lello Carlo Conti: Smettila!!! con la testa fra le gambe di Tosca d’Aquino: [rivolta a Miss Italia] Francesca, non ti spaventare!!! Conti. La telecamera si alza finché non incrocia il volto di Carlo. 48) Figura intera sui 4 Tosca d’Aquino: Lello!! 49) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Mezz’a voi… 50) Figura intera sui 4 Pubblico: [ricomincia a cantare] “Sotto la curva… Oh Lello sotto la curva [Lello comincia a cantare assieme a loro]” Carlo Conti: [rivolto al pubblico] No!! Per favore, no!! Non ricominciate anche voi!! 51) Primo piano su di uno striscione che reca la scritta: “Lello sotto la curva” 52) Figura intera sui 4 [Lello continua a cantare e a ballare] Carlo Conti: Fermati!! Fermati Lello!!!

207 Lello Splendor: Si, si!! 53) Mezzo busto su Conti Tosca d’Aquino: Lello!!! Ma non dire sì sì!!! che rincorre Lello. Sullo sfondo, sono presenti le due donne 54) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Scusa eh! che si agita Tosca d’Aquino: Non dire scusa 55) Figura intera sui Lello Splendor: Sì sì!! quattro Tosca d’Aquino: No!! Neanche sì sì!! Lello Splendor: Scusa!! Carlo Conti: Allora, guarda!!! Qui c’è Miss Italia!! Lello Splendor: [rivolto alla miss] Scusa!! 56) Mezzo busto su Lello e Carlo Conti: Saluta per bene!! Conti Lello Splendor: Mezz’a voi… miss Italia!! 57) Piano americano sui 4 Tosca d’Aquino: Eeeeh! Miss Italia!! personaggi, ma Carlo Conti Carlo Conti: Eeeeh! Miss Italia!! è di spalle 58) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Miss Italia, Francesca (…) 59) Mezzo busto su Conti e Carlo Conti: (…) Chillemi! Lello Lello Splendor: Eh? 60) Mezzo busto su Conti, Lello Splendor: Non lo so!! Chi l’è? Lello e la miss. 61) Figura intera sui 4 Tosca d’Aquino: Nooo!!! Chi-lle-mi!!! Carlo Conti: Francesca Chi-lle-mi!!! Lello Splendor: Uh!!! Scusa!!! 62) Contro Campo con Lello Splendor: Avevo capito Francesca… chi l’è? Lello di fronte, Conti di Carlo Conti: Chillemi!!! spalle e la Miss sullo sfondo a sinistra 63) Mezzo busto su Carlo Carlo Conti: Chillemi!!! Miss Italia di quest’anno!!! Capito? Il concorso di miss Italia!!! Conti e Lello. La camera, Lello Splendor: [spostando il viso in direzione della miss] Oh!! Piacere!!! successivamente, inizia a zoomare all’indietro, fino a rendere l’inquadratura un piano americano 64) Primo piano sulla miss Lello Splendor: Scusa!!! 65) Figura intera sui 4 Lello Splendor: Sì sì!! personaggi Tosca d’Aquino: Dai!!! Che dobbiamo andare avanti con lo show!!! Lello Splendor: Sì sì!! Carlo Conti: [urlando] Non dire sì sì!! Lello Splendor: Scusa!! Carlo Conti: [continuando a urlare] Non dire scusa!! Lello Splendor: Sì sì!! 66) Controcampo su Conti Carlo Conti: [alterato] Non dire né sì sì, né scusa!! frontale e Lello di spalle 67) Mezzo busto dalla Lello Splendor: [inizia a cantare, facendo di nuovo ironia sul colore della pelle di Conti] destra di Conti e Lello “Nero… (ovviamente, la camera inquadra solo questi due personaggi) 68) Mezzo busto sui due Lello Splendor: … nero e impossibile… dalla loro sinistra 69) Mezzo busto frontale, Lello Splendor: … con gli occhi neri e quel sapor sudafricano!!!” sempre sui due personaggi in questione 70) Mezzo busto dalla Carlo Conti: Ecco!! Io non so come fare!!! sinistra dei due Lello Splendor: Scusa, eh!! 71) Figura Intera su tutti e Lello Splendor: [continuando a fare ironia sul colore della pelle di Carlo Conti] Mezz’a quattro voi… Franco Nero!!! Carlo Conti: Non sono (…) 72) Mezzo busto su Carlo Carlo Conti: (…) Franco Nero!!! Conti

208 73) Campo lungo dall’alto Lello Splendor: [ricomincia a cantare, aizzando il pubblico] “Oh le le… 74) Figura intera su tutti e Pubblico: Oh la la… 4 i personaggi presenti sul palco 75) Primo piano sul Pubblico: …. Faccelo vedè… pubblico in panoramica verso destra 76) Figura intera sui 4 Pubblico: … faccelo toccà!!” 77) Mezzo busto su Lello Lello: [riferendosi a una ben precisa parte anatomica di Carlo Conti] Nun se vede!!! 78) Figura intera su Conti Carlo Conti: Fatemi capire una cosa!!! 79) Primo piano sul pubblico 80) Figura intera su Lello Lello Splendor: [facendo di nuovo ironia sulla pelle di Conti] Mezz’a voi… Neri Poppins!!! 81) Controcampo con Carlo Conti: Sssssss!!!! [invita a fare silenzio] Fatemi capire una cosa [si rivolge al Carlo Conti di fronte e pubblico]… Lello girato di spalle 82) Primo piano su Lello, Carlo Conti: [sempre rivolto al pubblico] Voi… ma, sullo sfondo, si intravede Carlo Conti 83) Piano americano sui Carlo Conti: … State con me o con lui? [il pubblico risponde esultando: «con lui!!!!» quattro Lello Splendor: [urlando soddisfatto] Mezz’a voi… 84) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: … mezz’a voi… 85) Campo lungo dall’alto Lello Splendor: … Lello… 86) Figura intera sui 4 Pubblico: Splendor!!! Lello Splendor: Scusa!! Carlo Conti: So io come calmarlo! So io come calmarlo!! 87) Primo piano su Lello Lello Splendor: Sì sì!! 88) Mezzo busto su Conti e Carlo Conti: Vuole un paio di definizioni!! [i due si accingono a simulare un quiz] Lello 89) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Mettiti la cuffia!!! Lello Splendor: Metto la cuffia? Carlo Conti: Metti la cuffia!! 90) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: Mi senti? dalla sua sinistra Lello Splendor: Sì, la sentooooo!!!! 91) Mezzo busto su Lello e Lello Splendor: Mi sentoooooo? Conti 92) Primo piano su Lello Lello Splendor: Mi sentoooooo? Carlo Conti: Devi sentire me!!! 93) Mezzo busto su Lello e Lello Splendor: Mi sento male!! Conti 94) Primo piano su Lello Lello Splendor: C’ho la febbre a 38… Scusa!!! 95) Mezzo busto su Lello e Lello Splendor: Scusa!! Scusa!! Panariello Carlo Conti: Orizzontale o verticale? Lello Splendor: Scusa!!! 96) Figura intera sui 4 Lello Splendor: Scusa!!! Scusa!! Tosca d’Aquino: [rivolta a Lello] Ascolta Carlo!! Lello Splendor: Scusa!! Scusa!! Carlo Conti: Mi sto (…) 97) Mezzo busto su Conti e Carlo Conti: (…) alterando!!! Lello Lello Splendor: [inizia a cantare] “Mi sto alterando… 98) Primo piano su Lello Lello Splendor: … chi hai visto non è… 99) Mezzo busto su Lello e Lello Splendor: … non è Francesca!”386 Carlo conti 100) Figura intera sui 4 Lello Splendor: Poi ne so un’altra di Battisti!!! Carlo Conti: Quale? Lello Splendor: [ricomincia a cantare] “Che ne sai tu… 101) Primo piano su Lello Lello Splendor: … di un crampo a una mano!!”387

386 Nella versione originale, il testo diceva: «ti stai sbagliando… chi hai visto non è… non è Francesca». 387 Il testo originale era: «(…) che ne sai tu di un campo di grano…». 209 102) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Ah!! Bella questa!! [grida] Basta!!! Forza!! e Lello Lello Splendor: [canta di nuovo] “Basta del capitano”!! 103) Primo piano su Lello Lello Splendor: Scusa!! Carlo Conti: Orizzontale… 104) Piano americano su Carlo Conti: o verticale? Lello e Conti 105) Primo piano su Lello Lello Splendor: Meridionale!!! 106) Mezzo busto su Conti Lello Splendor: So de Ascoli… provincia de Piceno!! e Lello Carlo Conti: Concentrati!! Questa è facile!!! Lello Splendor: Questa è facileeee!!! Carlo Conti: [si altera] Ioooo!!! Ioooo! 107) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Io lo dico a te!!! personaggi 108) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [rivolto a uno spettatore seduto fra le prime file] Io lo dico a lei… e Conti Questa è facile!!! Carlo Conti: Io!!! 109) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Io lo dico a te!! Basta!!! Lello Splendor: [ricanta] “Basta del capitano!!!” [urla, si butta a terra e cerca di togliere i pantaloni a Conti] 110) Primo piano su Conti girato di spalle. La camera si abbassa fino a inquadrare Lello, piegato a terra 111) Figura intera sui 4 Tosca d’Aquino: Ma Lello!!! personaggi Lello Splendor: Scusa, eh!! 112) Primo piano su Lello Lello Splendor: Fai vedere li boxer!!! 113) Campo lungo a Lello Splendor: Scusa, eh!! partire dalle spalle dei 4 Carlo Conti: Questa è facile!! personaggi 114) Figura intera sui 4 Lello Splendor: [rivolto a Carlo Conti] È vero che sotto i calzoni non c’hai li boxer, ma c’hai il dobermann? 115) Controcampo con Carlo Conti: Lello!!! Conti ripreso di fronte e Lello Splendor di spalle 116) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Non s’avvicina mai nessuno, come mai? e Conti 117) Controcampo con Lello Splendor: Scusa!! Carlo Conti di fronte e Carlo Conti: Lello! Lello alle spalle Lello Splendor: Scusa!! 118) Primo piano su Lello Lello Splendor: Scusa!! 119) Controcampo Carlo Conti: Non dire scusa!!! Lello Splendor: … e neanche sì sì? 120) Primo piano su Lello Carlo Conti: Non devi dire né scusa, né sì sì!!! 121) Mezzo busto sui due [Lello comincia ad agitare la testa] Carlo Conti: [completamente adirato] Fermatiiii!! 122) Primo piano su Lello, Lello Splendor: Scusa!!! mentre la camera incontra [Conti mette la mano davanti alla bocca di Lello, per cercare di farlo tacere] per caso Carlo Conti di spalle 123) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Mezz’a voi… Fabrizio del Noce!!! e Carlo Carlo Conti: Vuoi salutare il direttore388? Lello Splendor: Presidente… Carlo Conti: Il direttore… eh! Fabrizio del Noce!! Lello Splendor: Mezz’a voi… Fabrizio del Noce!! [fanno partire l’applauso del pubblico] 124) Stacco di Primo piano su del Noce 125) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Oh!! [rivolto a del Noce] L’ha voluta salutare!! personaggi presenti sul palco

388 Del Noce è il direttore di Rai Uno, nel momento in cui la trasmissione viene mandata in onda. 210 126) Primo piano su Lello Lello Splendor: Scusa, eh!! 127) Primo piano su del Lello Splendor: Scusa direttore, eh! Noce 128) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Allora, prima definizione. Concentrati, 129) Primo piano su Lello Carlo Conti: (…) che è (…) Splendor 130) Figura intera sui 4 Carlo Conti: … particolarmente facile. Lello Splendor: [ricomincia a urlare] Mezz’a voi… 131) Primo piano su Lello Tosca d’Aquino: Ma no!! Lello, concentrati!! 132) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Un famoso… 133) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [rivolto a Tosca] Se mi concentro mi vengono le emorroidi… non ce la e Carlo Conti fo!! 134) Figura intera sui 4 Tosca d’Aquino: Lello!!! 135) Campo lungo alle Carlo Conti: È vent’anni che devo sopportare questo qui!! spalle dei 4 personaggi 136) Figura intera sui 4 Carlo Conti: [adirato] Basta!!! 137) Mezzo busto su Conti Lello Splendor: Scusa!! e Lello 138) Primo piano su Lello Carlo Conti: Un famoso… 139) Controcampo Lello Splendor: Nun me devo concentrà!! 140) Primo piano su Lello Carlo Conti: Allora non ti concentrare!! 141) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: Stai lì, buono e rispondi a questa domanda, che è facile!!!! e Carlo Un famoso Bill… un famoso Bill… del cinema. 142) Primo piano su Lello Lello Splendor: Un famoso Bill del cinema… Bill-ietto!!! 143) Mezzo busto su Conti Lello Splendor: [ricomincia a urlare] Mezz’a voi… Lello… e Lello 144) Campo lungo Pubblico: … Splendor!!! dall’alto, verso il pubblico 146) Primo piano sul Lello Splendor: Mezz’a voi… pubblico 147) Figura intera sui 4 Lello Splendor: … [ricomincia a fare dell’ironia sul colore della pelle di Carlo Conti] per la prima volta… a torno sabato… i Negrita!!! [e volge le braccia in direzione di Conti] Tosca d’Aquino: Ma Lelloooo!!! Carlo Conti: Ma cosa… 148) Primo piano su Carlo Carlo Conti: I Negrita?! [si rivolge al pubblico] Ma non ridete!!! Conti 149) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Me lo agitate… Lello Splendor: I Negrita!! 150) Mezzo busto su Miss Tosca d’Aquino: Scusa?! Italia e Tosca Lello Splendor: [Panariello si rivolge qui direttamente ai tecnici del programma389] Vai avanti col gobbo!! 151) Figura intera sui 4 [Conti ride] 152) Primo piano su Lello Lello Splendor: [ricomincia a cantare, per mettere in ridicolo Conti] “Pioggia io sarò… per toglierti la sete… 153) Figura intera sui 4 Lello Splendor: … sole io sarò… 154) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Per abbronzarti bene!!” 155) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Basta!!! 156) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: Seconda definizione!! e Carlo Conti 157) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Seconda definizione!!! personaggi Lello Splendor: [ricominciando ad aizzare il pubblico] Mi spoglio? … Dopo!! 158) Primo piano su Lello Carlo Conti: Allora!!! Splendor Lello Splendor: Sì!! 159) Figura intera su Lello Pubblico: [appena aizzato da Lello Splendor] Nudo!! Nudo!! Carlo Conti: [cercando di placare il pubblico] No!! No!! Per favore… per favore… ve lo chiedo per favore [alla fine si inginocchia anche] 160) Campo lungo dalle Lello Splendor: Mi spoglio? spalle dei quattro Carlo Conti: Nooooooo!!! [cerca di bloccare fisicamente Lello] personaggi sul pubblico

389 Il gobbo è il monitor o lo schermo sul quale, i conduttori, leggono le battute da pronunciare. 211 161) Carrellata sul pubblico 162) Figura intera sui 4 Lello Splendor: Stasera non mi spoglio, scusi!! personaggi 163) Primo piano su Lello Lello Splendor: Mi scappa di spogliarmi!!! 164) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Ma cheee!!! Ma che ti scappa di spogliarti, smettila!!! 164) Primo piano sulla Carlo Conti: È facilissima [intende la domanda]. miss (che ride) Lello Splendor: Questa è facile, eeehh!! 165) Figura intera sui 4 Carlo Conti: No!! Lo dico io!! Lello Splendor: Io lo dico a lei [indicando la miss] 166) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Siii!! Buona Sera!!! Buona notte… e Lello 167) Primo piano su Lello Lello Splendor: Arrivederci!!! 168) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: Ma ché? No, Buona notte!!! e Carlo Conti Lello Splendor: Arrivederci!!! 169) Primo piano su Lello Lello Splendor: Sì sì!!! 170) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: [pone la domanda del quiz] Nazione più lunga. e Carlo Conti 171) Primo piano su Lello Carlo Conti: La nazione più lunga. Splendor Lello Splendor: Nazione più lunga… Lungheria!!! 172) Mezzo busto su Carlo Lello Splendor: Mezz’a voi… Conti e Lello 173) Figura intera Lello Splendor: … Lello Splendor!!! [si inginocchia esultando] 174) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [ricomincia ad aizzare il pubblico] Oh le le… inginocchiato 175) Primo piano sul Pubblico: Oh la la… pubblico 176) Figura intera su Lello Pubblico: Faccelo vedé… 177) Primo piano sul Pubblico: Faccelo toccà!! pubblico 178) Figura intera sui 4 Lello Splendor: [si rivolge a Carlo Conti] Tu non ce la fai, eh?! personaggi 179) Primo piano su Lello 180) Mezzo busto su Conti e Lello 181) Primo piano sul Lello Splendor: Tu non ce la fai!!! pubblico 182) Figura intera sui 4 Lello Splendor: [sempre rivolto a Carlo Conti] O fallo vedé!! Carlo Conti: Eh? Lello Splendor: Nun se vede!! 183) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: È tutto nero… 184) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: … è opaco!! e Carlo Conti Tosca d’Aquino: [cerca di richiamare Lello] Lello!! 185) Primo piano su Lello Tosca d’Aquino: Forza!! Lello Splendor: Scusa!!! Carlo Conti: Terza definizione!!! 186) Figura intera su tutti Lello Splendor: Sì sì!! e 4 i personaggi Carlo Conti: È simile allo scorfano. 187) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: È simile allo scorfanooooo!!!! Splendor e Carlo Conti 188) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [indicando Conti] Carloooo… e Carlo, dalla loro sinistra 189) Primo piano su Lello Pubblico: Contiiiii!!! Carlo Conti: [risentito] Ma guarda questi, oh!! 190) Primo piano su Carlo Carlo Conti: Ma guardali!!! Conti 191) Campo lungo dall’alto, sul pubblico 192) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Guarda, ti mando via Lello!! Lello Splendor: [riprendendo a fare dell’ironia sul colore della pelle di Carlo Conti] Mezz’a voi… tutt’e quattro i Platters insieme!!! [indicando Conti]

212 Carlo Conti: Sì, tutt’e quattro i Platters!!! 193) Primo piano su Carlo Carlo Conti: Senti, non ce la faccio più!! Conti 194) Primo piano sui 4 Carlo Conti: Ti ho presentato miss Italia, capito? [Lello, intanto, stringe la mano alla miss] Dovresti essere onorato di conoscerla. 195) Primo piano sulla miss 196) Figura intera sui 4 Lello Splendor: Se è per quello.. ce l’ho anch’io… 197) Primo piano su Lello Tosca d’Aquino: Chi c’hai? Carlo Conti: Chi c’hai? Lello Splendor: Una miss!! Carlo Conti: Tu hai una miss!!! 198) Primo piano su Conti Lello Splendor: Sì sì!! 199) Figura intera Lello Splendor: Scusa!! Carlo Conti: Come una miss? 200) Primo piano su Lello Lello Splendor: C’ho mis-sorella!!! 201) Mezzo busto su Lello e Conti 202) Figura intera sui 4 203) Primo piano su Lello Splendor 204) Campo lungo (con Carlo Conti: Oooooh! Tua sorella!! dolly) dalle spalle dei 4 Lello Splendor: Sì sì!! personaggi. La camera effettua successivamente una zoomata in avanti 205) Figura intera sui 4 Carlo Conti: E cosa fa tua sorella? 206) Primo piano su Lello Lello Splendor: È da restare senza fiato! 207) Controcampo con Carlo Conti: Ah!!! Dallo stupore!!! Conti in posizione frontale Lello Splendor: No!! e Lello di spalle 208) Primo piano su Lello Lello Splendor: … dalla paura, quando la vedi!!! 209) Controcampo con Conti in posizione frontale e Lello di spalle 210) Figura intera sui 4 Lello Splendor: Sta qua!! Carlo Conti: Ah! Perché è qua? Tosca d’Aquino: La vuoi chiamare? 211) Primo piano su Tosca Carlo Conti: Beh!! Vediamo (…) 212) Primo piano su Conti Carlo Conti: (…) questa sorella di Lello!! 213) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Come si chiama? 214) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Mi sorella!! Carlo Conti: Noooo!! Di nome!!! 215) Figura intera sui 4 Lello Splendor: Lella!!! 216) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Originale forte!!! 217) Figura intera sui 3 Carlo Conti: Eh!! Originale!! Lello Splendor: La vado a chiama’? Carlo Conti: Vai a chiamare tua sorella!! Lello Splendor: Se è libera!! 218) Campo medio su Lello Splendor: Può darsi che non sia libera!!!! Lello (che sta uscendo) a Carlo Conti: Eh? sinistra del riquadro, mentre Lello Splendor: [mentre si avvia dietro le quinte] Ci sta che non sia libera!! il pubblico appare dalla Carlo Conti: Valla a chiamare!! parte opposta 219) Campo medio in Carlo Conti: Voglio vedere sta’ sorella!!! direzione del palco 220) Come l’inquadratura Lello Splendor: Lella?! Sei libera? 218 Lella: [dal dietro le quinte] sì sì!! Tosca d’Aquino: Valla a chiamare!! 221) Come l’inquadratura Carlo Conti: C’è o non c’è? 219 Lello Splendor: Mò vado a vede’, stai calmo (… )

213 222) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: (…) Ciccio [mentre esce]!!! 223) Mezzo busto su Carlo Tosca d’Aquino: Scusa Carlo, eh!!! Conti Carlo Conti: No, no, figurati… figurati… figurati!!!! 224) Campo medio con Tosca d’Aquino: Ma è un disastro quando arriva!! successiva zoomata in Carlo Conti: [ricomincia a parlare della miss] Francesca non l’ha ancora detto (…) avanti (sino a rendere l’inquadratura una figura intera) su Carlo Conti (che aveva seguito Lello e ora rientra in scena) 225) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: (…) ma è la prima miss che fa il calendario (…) 226) Primo piano sul volto Carlo Conti: (…) e lo presenteremo il 31 in anteprima (…) stupito di Tosca 227) Figura intera sui 3 Carlo Conti: (…) un'altra idea di Patrizia Mirignani… lo presenteremo in anteprima. 228) Primo piano sulla Carlo Conti: (…) E il 31 eleggeremo anche (…) miss 229) Figura intera sui 3 Carlo Conti: (…) la prima miss dell’anno. 230) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: Il 31! Quindi il 31 (…) 231) Piano americano sui Tosca d’Aquino: (…) quindi il 31 ne vedremo delle belle!!! 3 Carlo Conti: Ne vedrete delle belle!!! 232) Primo piano su Tosca Carlo Conti: Quindi appuntamento dalle 9 all’una e un quarto. 233) Piano americano sui Carlo Conti: Non prendete appuntamenti!!! 3 Tosca d’Aquino: No!! E chi si muove!! Noi ci piazziamo là… Carlo Conti: Io sono curioso di vedere sta sorella. Tosca d’Aquino: [riferendosi a Lello]: Sì, mi dispiace Carlo!! Purtroppo devi sapere che è una scheggia impazzita; quando arriva… 234) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: Lello lo conooosci!! Lo conoooosci!!! Lo conooooosci!!! 235) Primo piano su Conti Carlo Conti: Lo conosco, eh!! Lo conosco da una vita!!! 236) Piano americano sui Carlo Conti: Vado a vedere se c’è sta sorella!!! [esce] 3 237) Primo piano su Conti mentre esce 238) Piano americano Tosca d’Aquino: [rivolgendosi alla miss] Scusa Francesca, è diretta e, alle volte, sulle due donne succede. 239) Piano americano su Lello Splendor: [da dietro le quinte] Scusa eh!! Conti, che cammina e la Carlo Conti: Lella sei pronta? camera lo segue. Lello Splendor: Scusa un minuto, sto al trucco. Successivamente sfuma Tosca d’Aquino: Il trucco? fino a rendere l’immagine un primo piano 240) Campo medio in Carlo Conti: Ma come?! Qui dobbiamo andare in onda direzione del palco 241) Mezzo busto su Carlo Carlo Conti: Oh!! Conti Lello Splendor: C’è Ramballi che sta a lavora’!!! 242) Campo medio sul palco 243) Mezzo busto su Conti I quatttro personaggi assieme: Ramballi? E chi è? girato di tre quarti Lello Splendor: Quello che ha fatto ET!! Carlo Conti: Com’è questa storia. 244) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: [rivolta a Lello] Ma che sorella c’hai? 245) Campo medio sul palco 246) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Va bè!! Rischiamo!! (mentre cammina). Lella: Mi sta mettendo la terra di Siena!! Successivamente la camera zooma lentamente in avanti 247) Campo lungo (con Tosca d’Aquino: La terra di Siena. dolly) dal lato sinistro del Lella: Sì!! Un ettaro e mezzo mi sta mettendo. palco, con pubblico sullo sfondo. Successivamente, la camera effettua una zoomata indietro. 214 248) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: Ma la terra di Siena!!! Ma che c’entra? Il trucco, il maquillage… 249) Primo piano su Conti Carlo Conti: Eh!! Non lo so!!! 250) Primo Piano su Tosca Tosca d’Aquino: È pronta la sorella? 251) Campo medio sul Lella: [sempre da dietro il palco] La sorella è pronta!!! palco Tosca d’Aquino: E falla entrare!! Carlo Conti: Allora, posso annunciarti? Tosca d’Aquino: Si, Carlo!!! 252) Primo piano su Conti Carlo Conti: Signori!!! Per la prima volta sul palco di Torno Sabato… Lella Splendor!!! 253) Mezzo busto su Lella, [Lella è sostanzialmente Lello vestito, in qualche modo, da donna] mentre entra in scena dal Tosca d’Aquino: Beh!! Carina!!! dietro le quinte 254) Campo medio sul palco 255) Particolare sui piedi Tosca d’Aquino: Carina!! di Lello 256) La camera va su e Lella: [inizia a cantare] “Tirame… incontra il volto di Carlo Conti 257) Campo medio sul Lella: … nu pile… palco 258) Mezzo busto su Lello, [cade la corona da miss a Lella] con successivo zoom Tosca d’Aquino: Ti perdi la corona!!! all’indietro [Lella raccoglie la corona] 259) Campo medio verso il palco 260) Mezzo busto su Lella Tosca d’Aquino: Mamma mia!!! che si rimette la corona Lella: [ricomincia a cantare] “Tirame… Tosca d’Aquino: Troppo brutta!!! 261) Mezzo busto su Conti, Carlo Conti: Vieni!! girato di spalle 262) Campo medio sul Tosca d’Aquino: Troppo brutta!! palco 263) Primo piano sulla miss 264) Campo medio sul [a Lella ricade la corona e si china a raccoglierla] palco Carlo Conti: Venga, miss!!! Tosca d’Aquino: Ma vieni avanti!!! 265) Primo piano su Lella, Lello: Me so scoronata!!! con successivo zoom in Tosca d’Aquino: Lella!!! avanti 266) Campo medio sul Carlo Conti: Venga, venga!!! palco Lella: [ricomincia a cantare] “Tirame… 267) Primo piano su Lella Lella: … nu pile… 268) Campo medio Lella: … e tiramenene… 269) Particolare con Lella: … n’atre!!!” Carrellata partire dai piedi Carlo Conti: Quindi lei sarebbe (…) di Lella fino alla testa 270) Campo lungo Carlo Conti: (…) una miss? dall’alto (da dietro il palco, verso il palco stesso e il pubblico) 271) Figura intera sui 4 Carlo Conti: E quale concorso ha vinto questa miss? 272) Primo piano su Lella Lella: Mi scappa da piangere!! 273) Primo piano su Conti Tosca d’Aquino: Ma ci credo, eh!! 274) Figura intera sui 4 275) Controcampo con Tosca d’Aquino: Ma ci credo (…) Lella di fronte e Conti di spalle 276) Controcampo con Tosca d’Aquino: (…) proprio!!! Conti di fronte e Lella di spalle 277) Controcampo con Tosca d’Aquino: Ma scusa?! 215 Lella di fronte e Conti di spalle 278) Figura intera su Carlo Conti: [si rivolge a Tosca] Non so sei d’accordo con me?! Lei mi ricorda (…) Conti 279) Primo piano sulla Carlo Conti: (…) qualcuno. miss 280) Mezzo busto su Lella Lella: La Bellucci? e Conti Carlo Conti: Eh sì… la Bellucci?! 281) Figura intera sui 4 Carlo Conti: La Bellucci!!! Tosca d’Aquino: La Bellucci? Lella: La Ferilli? Carlo Conti: Sìììììì… buona sera!!! 282) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: Macché!! 283) Primo piano su Conti Carlo Conti: Senta, ma che ha fatto lei Lella: Scusa, eh!! Scusa!!! 284) Primo piano su Conti Lella: Sì sì!!! e Lella, a partire dalla loro Carlo Conti: Senta!! sinistra Tosca d’Aquino: Sei bellissima!!! Lella: [intona la canzone di Loredana Berté] “Sei bellissima… 285) Mezzo busto laterale Lella: … sei bellissima…” su Lella, a partire dalla sua [il pubblico inizia a cantare assieme a Lella] sinistra 285) Figura intera su Tosca d’Aquino: [rivolta al pubblico] Ma no, noooo!!! Tosca 287) Panoramica sul Tosca d’Aquino: Ma che siete cecati? pubblico 289) Figura intera sui 4 Lella: [rivolta al pubblico] Grazie anche a nome di mio fratello!! Carlo Conti: Eeeeeehhhh!!! Tosca d’Aquino: Brava!! 290) Primo piano su Lella Lella: Posso dì una cosa? M’è rimasta (…) 291) Controcampo con Lella: (…) la mano incastrata (…) Lella di Spalle e Carlo Conti di fronte 292) Controcampo con Lella: (…) nella corona!! [rivolta a Conti] Me la levi? [Conti la aiuta] Grazie!! Conti di spalle e Lella di Carlo Conti: E cosa (…) fronte. Successivamente, la camera effettua una zoomata in avanti fino a trasformare l’immagine in un primo piano su Lella 293) Primo piano su Lella Carlo Conti: (…) ha fatto lei (…) 294) Figura intera Carlo Conti: (…) da miss? 295) Primo piano su Lella Lella: Ho fatto il calendario!!! 296) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Ah! Il calendario!!! e Lello dalla loro destra 297) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Faccia un po’ vedere (…) 298) Primo piano su Lella Carlo Conti: (…) qualche mese!! [Conti e Lella ridono] 299) Figura intera sui 4 Lella: Na’ settimana (…) 300) Primo piano su Lella Lella: (…) se pò fa? 301) Mezzo busto su Lella Carlo Conti: No!! Voglio vedere!! Ci faccia vedere gennaio!! e Conti 302) Mezzo busto su Lella [Lella ride] 303) Figura intera sui 4 304) Primo piano su Lella Lella: No!! Gennaio… l’ho fatto nel calendario… Brrrr [simula i brividi di freddo] 305) Figura intera sui 4 Tosca d’Aquino: Ma nooo!! 306) Primo piano su Lella Carlo Conti: Febbraio!!! Lella: Febbraio… un po’ così [si inginocchia] Tosca d’Aquino: E che è? Lella: È più corto, no?! 307) Primo piano su Lella inginocchiata

216 308) Figura intera Tosca d’Aquino: Sexy… questo calendario!!! Lella: Mezz’a voi… 309) Primo piano sulla miss 310) Figura intera Carlo Conti: Senta!! 311) Primo piano su Lello Carlo Conti: Tra l’altro (…) 312) Figura intera Carlo Conti: (…) è un bisestile!! 313) Primo piano su Lella Lella: [non facendo caso a quanto ha appena detto Conti, ci tiene a precisare la sua identità] Non so’ Lello però, eh?! Perché la gente può pensare che so’ Lello travestito, nooo!!! Tutti e 4 i personaggi assieme: Nooooo!!!! 314) Primo piano su Carlo Carlo Conti: Tra l’altro è (…) [riferendosi di nuovo al mese di febbraio] Conti 315) Primo piano su Lella Carlo Conti: (…) bisestile, se non sbaglio ,eh? 316) Figura intera 317) Primo piano su Lella Lella: Eeeehh!!!! Allora sto un pochettino più alta!! 318) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Forza, faccia marzo!!! [Lella si mette in ginocchio e poi si alza] Tosca d’Aquino: Che è? Carlo Conti: Marzo [come a dire: “faccia marzo!!”] 319) Mezzo busto su Lella Lella: M’arzo… me so’ arzata!!! Gli altri tre: Ma che…. 320) Figura intera sui 4 321) Primo piano su Lella Lella: M’ha detto fai m’arzo e me so’ arzata. 322) Figura intera sui 4 Lella: Scusa, eh?! Carlo Conti: Eeeeehhh???!!! 323) Primo piano su Lella Lella: [Ricomincia a cantare] “E tirame… 324) Figura intera sui 4 Lella: … nu pile… 325) Primo piano su Conti Lella: … E tiramene… 326) Figura intera Lella: … n’altro… 327) Primo piano su Lella Lella: … e tira, tira, tira… [gli cade di nuovo la corona] 328) Figura intera sui 4 [Conti prende a calci la corona di Lella] Tosca d’Aquino: Mamma mia!!! Si perde la corona!!! Lella: [rivolto a Conti che ride] M’hai scoronato!!! 329) Primo piano sulla Carlo Conti: Eh sì!!! corona 330) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Oh!! 331) Primo piano su Lella Lella: M’hai scoronato!!! Carlo Conti: Fai un altro mese, forza!! Voglio vedere un altro mese del calendario!! 332) Mezzo busto su Lella Lella: Posso fa… febbraio… m’arzo [si rialza]… e Conti dalla loro sinistra 333) Figura intera sui 4 Lella: … agosto!!! Carlo Conti: Ora, da marzo direttamente a agosto!!! Lella: Eeeehhh! Non ci so’ più le mezze stagioni!!! 334) Mezzo busto su Lella e Conti che ridono. Successivamente, la macchina da presa zooma in avanti, in direzione di Lella 335) Carrelata orizzontale sul pubblico 336) Figura intera sui 4 [il pubblico inizia a gridare: “nuda”] Carlo Conti: Nooo!!! 337) Campo lungo a partire dalle spalle dei 4 personaggi, in direzione del pubblico 338) Figura intera Lella: [rivolta verso il pubblico] Mi spoglio? Carlo Conti: Noooo!!! Vi prego, no!!! 339) Primo piano sul Carlo Conti: No, no!!!

217 pubblico 340) Figura intera sui 4 Carlo Conti: No!! 341) Primo piano su Lella 342) Figura intera: sui 4 Carlo Conti: No!! Tosca d’Aquino: Noooo!!! Carlo Conti: No, dobbiamo andare avanti!!! 343) Carrellata orizzontale Carlo Conti: No, no, no, noooo!!!! sul pubblico 344) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Eh? Lella: Scusa, te posso di’ ‘na cosa? Te posso… 345) Primo piano su Lella [Lella indica Loris Capirossi seduto in prima fila] Lella: C’è Capirossi che mi guarda con la voglia!!! Carlo Conti: Sì, eh?! 346) Mezzo busto su Lella: [rivolgendosi a Capirossi] Che sei innamorato delle curve? Capirossi che ride 347) Figura intera sui 4 [Conti tenta di presentare la miss a Lella] Carlo Conti: Ti presento Francesca! Miss: Lella! Guarda, io non ti conosco… Lella: Scusa, collega [stringe la mano alla miss] 348) Primo piano su Miss: Io non ti conosco, sei una ragazza bellissima… Capirossi e su una signora che gli siede affianco. Successivamente, la dolly si sposta verso il palco, sino a inquadrare Lella. 349) Primo piano sulla Miss: … però… hai fatto anche tu il calendario… miss 350) Primo piano su Lella Lella: Sì, sì!!! 351) Primo piano sulla Miss: … però tu non sei stata incoronata da Carlo, eh?! Io sì!! miss 352) Primo piano su Lella Lella: Va bè, ma guarda (…) 353) Primo piano sulla Lella: (…) che Carlo (…) miss 354) Figura intera Lella: (…) ne ha incoronate tante!!! [tutti scoppiano a ridere] 355) Primo piano su Lella 356) Primo piano sulla miss 357) Figura intera sui 4 358) Mezzo busto su Conti Lella: Te posso fa quattro o cinque nomi? e Lella, che si muovono e la Carlo Conti: Noooo!!! [fa cenno a Lella di tacere] camera li segue 359) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Sta scherzando ovviamente!!! Sta scherzando!!! e Lella dalla loro sinistra. Successivamente, la camera effettua uno zoom indietro 360) Figura intera sui 4 Lella: Sto a scherza’, eh!!! Miss: Ma no, ma Carlo (…) 361) Primo piano sulla Miss: (…) ma Carlo è un principe!!! È un gentiluomo!!! [e bacia Carlo] miss 362) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Ah!!! 363) Mezzo busto su Lella Lella: [rivolta alla miss] Puoi prova’ (…) 364) Figura intera sui 4 Lella (…) a dargliene ‘n altro!!! [la miss ribacia Carlo] Lella: [rivolta a Conti] Te lo posso da’ io? Carlo Conti: Nooooo!!!! 365) Primo piano su Lella 366) Primo piano su Carlo Carlo Conti: No, No!!! Conti 367) Figura intera Lella: Scusa, me so fatto le labbra apposta!! Carlo Conti: Eeeehhh?! 368) Primo piano su Lella

218 369) Primo piano su Carlo [il pubblico, intanto, grida: “bacio!!”] Conti!!! Carlo Conti: No, no, no, no!!!! 370) Campo lungo (con Carlo Conti: Noooooo!!!! Noooooo!!! dolly) alle spalle dei 4 371) Figura intera sui 4 Carlo Conti: No, stanno scherzando!!! “Razzo, razzo” 372) Primo piano su Conti Carlo Conti: Hanno detto: “razzo, razzo” e Lella 373) Panoramica Lella: Ti posso da’ un baciooooo??? orizzontale sul pubblico Carlo Conti: No!!! Pubblico: Sìììììììììì!!!!! 374) Figura intera sui 4 Lella: Gliel’ammollo? Carlo Conti: Nooooo!!! 375) Primo piano sul Pubblico: Sìììììììììììììì!!!! pubblico 376) Controcampo su Carlo Conti: No!! Conti e Lello, girato di spalle 377) Primo piano su Lello Lella: Qui [nel senso: «te lo do qui»], nell’unico punto bianco che hai qui [continua a fare e Carlo Conti ironia sul colore della pelle di Carlo Conti]!! 378) Controcampo su Carlo Conti: Forza!!! Carlo Conti e Lella, girato di spalle 379) Primo piano su Lella Lella: C’hai un foruncolo!!! e Carlo Conti 380) Primo piano frontale 381) Primo piano laterale, [Lella bacia Conti] dalla sinistra di Lella e Conti 382) Primo piano su Conti [Conti fa una faccia disgustata] 383) Primo piano su Lella 384) Primo piano su Conti 385) Figura intera sui 4 Lella: [si rivolge a Tosca] Tosca!!! personaggi Tosca d’Aquino: Sono sconvolta!!! Lella: È andata male!! 386) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: Che succede? 387) Figura intera sui 4 Lella: È andata male forte!!! Tosca d’Aquino: Che succede? Lella: È rimasto un rospo!!! 388) Mezzo busto (con Carlo Conti: [rivolto a Lella] Andiamo, forza!!! dolly). La camera segue Lello che fugge, mentre Conti lo insegue, cercando di prenderlo a calci 389) La camera segue Conti e Lella che escono

La scena si chiude con l’uscita di Carlo Conti e Lella, sottolineata da uno stacco dell’orchestra. La sequenza in questione è evidentemente molto più complessa della precedente, non soltanto perché prevede la presenza di quattro personaggi, ma anche perché è una mescolanza di talk show e cabaret, o meglio, è un talk show, intervallato, interrotto da un lungo momento di cabaret. Prima di passare ad analizzare i ruoli comunicativi all’interno del testo-programma, possiamo verificare subito, nella prassi, quanto di vero c’era in quel discorso sulla neo-tv (affrontato nel primo capitolo) e sulla quotidianizzazione, in quanto suo carattere peculiare. Poniamo la nostra attenzione sulle prime inquadrature e, senza badare troppo (per ora) ai movimenti della macchina da presa, cerchiamo di capire come Tosca d’Aquino si comporta con e si rivolge a Carlo Conti. Anzitutto lo accoglie in modo caloroso, dandogli del caro (cfr. inquadratura 1), poi lo presenta come un vecchio amico, permettendosi di attribuirgli addirittura il titolo di raccomandato (cfr. inquadratura 2).

219 Sebbene risultante da un meccanismo di tipo diverso, un atteggiamento quotidiano e familiare viene mantenuto anche nei confronti della miss (giovane e ancora poco abituata al palcoscenico). Ma in cosa consiste tale meccanismo? Si è detto che Tosca e Carlo Conti mostrano al pubblico di conoscersi da tanto tempo, mostrano di avere vissuto diverse esperienze assieme, in breve: si comportano come se fossero in un salotto, l’uno ospite e l’altra padrona. Ora, quando si è invitati da un vecchio amico, accade spesso di portare con sé una persona, un conoscente a lui totalmente estraneo. Il padrone di casa, dal canto suo, trovandosi di fronte un volto ignoto, tenterà di fare in modo che questo non si senta troppo a disagio, che non si senta fuori luogo. Fuor di metafora, l’anchor man toscano, in quanto vecchio conoscente di Tosca d’Aquino, si prende la libertà di invitare, di portare con sé Francesca Chillemi, miss Italia 2003, cioè un personaggio che l’aiutante di Panariello non ha il piacere di conoscere. L’attrice napoletana, si sentirà perciò in dovere di far sentire la giovane fanciulla come a casa propria, cosciente, peraltro, anche del fatto che la “neo miss” (essendo per l’appunto “neo”) non è ancora molto avvezza al palcoscenico. A questo scopo (cioè al far sentire a suo agio la miss) sono finalizzati i complimenti, gli applausi stimolati, le domande semplici e gli apprezzamenti per le risposte. Nel clima di accoglienza, rientra pure la promozione che i due ospiti fanno di se stessi e della propria attività (cioè il calendario, per quanto riguarda la miss, e il programma del 31 dicembre per quanto riguarda Conti): è normale che l’invitato venga stimolato a raccontare, oltre che di sé, anche quello che fa. Certo, è vero che la pubblicizzazione dell’offerta del broadcaster nelle trasmissioni di punta è una politica ben precisa delle reti Rai e Mediaset, tuttavia, tale espediente è come se venisse narrativizzato, attraverso delle strategie di costruzione dell’aspettativa. Fuor di metafora, solo dopo che alla miss sono stati rivolti i complimenti e fatti gli elogi (creando così una sorta di immagine ideale della stessa), le è stata posta una domanda sui progetti futuri e (dopo l’irruzione di Lello Splendor) le è stata data la possibilità di reclamizzare il suo calendario. Lo stesso criterio è stato utilizzato con Carlo Conti; dopo essere comparso già in altre scene precedenti e dopo aver partecipato in modo attivo alla trasmissione, ha potuto finalmente annunciare agli spettatori quello che avrebbe fatto, o meglio, quello che avrebbe fatto ancora il 31 dicembre. Si potrebbe affermare che il meccanismo sia il seguente: a. breve costruzione del personaggio, attraverso la valorizzazione di alcuni dei suoi aspetti peculiari, b. pubblicizzazione dell’attività dello stesso, in quanto espressione, estrinsecazione artistica di tali aspetti. Molto banalmente, è come se il broadcaster dicesse all’utente: «Ecco, il personaggio è quello che hai visto. Se ti è piaciuto, sappi che lo ritrovi sulla rete x, il giorno y, all’ora z». In forza di quello che si è finora sostenuto e rilevato, è possibile inscrivere a pieno titolo il programma Torno sabato… e 3 in quel processo di “quotidianizzazione” tipico della neo-tv. Detto in altri termini, la trasmissione di cui ci stiamo occupando racchiude in sé tutti gli elementi tipici di quei talk show di fine anni ’70 e inizio anni ’80, che hanno segnato l’esordio del fenomeno neo- televisivo. Tuttavia, è possibile osservare anche degli aspetti assolutamente innovativi. Procediamo sempre per gradi. Finché il palco è occupato dalla miss, da Carlo Conti e da Tosca d’Aquino, tutto procede secondo i canoni, tutto funziona secondo i principi del galateo neo-televisivo. Quando compare Lello Splendor invece, gli schemi narrativi e il codice espressivo-comportamentale cambiano radicalmente: la giovane Francesca Chillemi, special guest della serata, viene quasi completamente ignorata (salvo le poche volte in cui è chiamata in causa, o meglio, è nominata, per far mantenere all’irruente personaggio un comportamento adeguato a un convitto, in cui è presente una gentildonna), Carlo Conti, in principio ospite, diventa spalla di Panariello e Tosca d’Aquino, dal canto suo, va ad assumere una funzione meramente accessoria. In breve, dopo la comparsa della caotica macchietta “de Ascoli provincia de Piceno” e di sua sorella, c’è una ridefinizione strutturale dei ruoli. Ma la cosa davvero singolare, l’aspetto non ancora rilevato da quegli studi scientifici, a cui ci siamo richiamati (eppure esistente in tv già da qualche tempo), è il fatto che gli ospiti si prestino a essere

220 messi in ridicolo, a essere derisi, a essere presi in giro. In questo senso, l’invitato non è più soltanto quotidiano, non è più soltanto un amico dell’anchor man, bensì un intimo, un qualcuno con cui il presentatore ha una confidenza tale, da potersi permettere di fare su di lui dell’umorismo “grasso”, delle battute dalla pesante mordacità. Così, Panariello può prendersi la libertà di ironizzare sul colore della pelle di Conti (non solo nella scena in questione, ma in tutto il programma)390, oppure può permettersi di trattare con sufficienza una miss (quando sostiene che, in fondo, anche lui [= Lello] ha una miss in casa [mis-sorella], oppure che anche lei [= Lella] ha fatto un calendario)… Ma, come si è detto, si tratta di un processo che è in atto già da qualche tempo; un esempio su tutti è il programma Scherzi a parte delle reti Mediaset. Tale trasmissione (presente nel palinsesto di Canale 5, ormai da diversi anni) è incentrata tutta su degli scherzi, per l’appunto, di cui restano vittima dei vip, personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo, della politica, dello sport o della finanza. Tali scherzi vengono organizzati nella vita di tutti i giorni, in maniera tale che questi soggetti non possano in alcun modo sospettare di essere vittima di una burla o di una facezia. A beffa avvenuta, sono convocati in studio per rivederne il filmato e per “riderci sopra”, assieme al presentatore e agli altri ospiti. Siamo di fronte dunque a un formato il cui unico elemento spettacolare consiste nel mettere in ridicolo gli invitati: è l’inizio di un processo che, iniziato in programmi appositi, si insinua anche nei generi televisivi più tradizionali. Fatte queste considerazioni di tipo contenutistico, è possibile ora tentare di isolare i ruoli narrativi. Nella scena in questione, accanto alle figure di Autore implicito, narratore, narratario e lettore implicito sarà necessario recuperare anche quelle di oggetto del desiderio, eroe, opponente e aiutante. Andiamo con ordine. Come si è visto, inizialmente, si stabilisce una sorta di complicità fra Carlo Conti e Tosca d’Aquino: i complimenti reciproci dimostrano proprio questo. Ora, poiché è la seconda la presentatrice, cioè colei che ha il compito di dare una coerenza narrativa al testo, è appunto lei che ricopre il ruolo di narratore/eroe. L’anchor man toscano invece, in qualità di complice, per l’appunto, ha la funzione di aiutante. Il fine, lo scopo che entrambi perseguono, cioè l’oggetto del desiderio è quello di costruire l’immagine e promuovere l’attività di miss Italia, nonché quello di pubblicizzare il programma del 31 dicembre. Il narratario, ovvero colui al quale narratore e aiutante si rivolgono è ovviamente il pubblico, destinatario ultimo dell’attività comunicativa dei due protagonisti. Ma il “fare” di Tosca e Carlo è messo in crisi dall’irruzione di Lello Splendor, che diventa così l’elemento centrale dello spettacolo: Lello è l’opponente. Di fronte a questa improvvisa entrata in scena, interviene l’aiutante, il quale tenta di placare l’impeto del personaggio ricoperto da Panariello. Tuttavia, il tentativo del presentatore toscano (: Conti) non va a buon fine, poiché il suo antagonista trova nel pubblico un valido alleato.391 Il ruolo di opponente è, ovviamente, ricoperto pure da Lella, pseudo-sorella di Lello. Non è ancora chiaro però chi è l’Autore implicito. Come nella sequenza precedente, si nota la presenza di un osservatore esterno, di un occhio che giudica ciò che avviene sul palcoscenico: è lo sguardo del regista che si serve della telecamera, della macchina da presa per imporre la sua prospettiva, il suo modo di vedere le cose. Le inquadrature seguono nei minimi dettagli ogni singola azione, cercano di presentare fedelmente la scena nel suo complesso, ma, nello stesso tempo, solidarizzano con qualcuno, o meglio, con la “Weltanschauung” di qualcuno. Ma con chi sono solidali?

390 Immagini 35, 38, 44… 391 Quando Conti domanda agli spettatori dalla parte di chi stanno (se dalla sua o da quella di Lello), essi rispondo di stare dalla parte di Lello: a chiara domanda, chiara risposta. 221 Proprio con Lello Splendor, con l’oppositore, cioè con l’elemento spettacolare e spettacolarizzante. Le immagini sottolineano le espressioni del volto dell’irruente macchietta e, nello stesso tempo, del volto di Conti, in evidente difficoltà (p. es. immag. 114/117 o 334/343).392 Da un altro lato, mostrano il comportamento del pubblico in studio, solidale con il personaggio di Panariello (p. es. immag. 76/76), rendendo tale comportamento normativo per quello a casa. In sostanza, c’è una contraddizione di fondo fra il progetto del narratore e quello dell’autore implicito, rappresentante del broadcaster e, dunque, teso a sottolineare ciò che rende lo show più movimentato, cioè ciò che rende lo spettacolo tale. Detto in altri termini, il regista ribadisce con le immagini e mostra a tutti i telespettatori che il centro, il fulcro, l’alfa e l’omega di Torno sabato… e 3 è il suo conduttore e, qualora essi vogliano godere appieno del media event in corso, devono “abbracciare” la sua prospettiva. Ma, da un altro lato, il pubblico ha pure un ruolo attivo, in quanto è collaboratore diretto dell’opponente, è àncora, roccia della sua politica distruttiva: senza i cori della platea, Lello non sarebbe Lello e, probabilmente, non potrebbe signoreggiare su Conti, la miss e Tosca d’Aquino; ricopre dunque una funzione di fondamentale importanza. Pertanto, nel gioco della comunicazione testuale di Torno sabato… e 3, emerge ultimamente la figura dello spettatore, che diviene addirittura mezzo ausiliario per l’inveramento di un fine, o meglio, del fine del broadcaster/enunciatore e del contro-fine dell’oppositore. Detto in altri termini, il mittente propone il suo prodotto, oggetto della fruizione, e, nello stesso tempo, chiede al pubblico di contribuire al compimento narrativo dello stesso, rendendolo così “corresponsabile semantico”. Si può quindi affermare che il programma in questione si ponga in perfetta continuità con le tendenze e con il codice linguistico della “neo-televisione”, pur presentando degli aspetti nuovi, delle caratteristiche non ancora rilevate da quegli studi scientifici, ai quali ci eravamo richiamati. Tali aspetti, tali caratteristiche non sono tuttavia delle vere e proprie novità, ma piuttosto degli elementi “impazziti”, delle esasperazioni di alcune di quelle linee di sviluppo, che erano già in atto nella tv degli anni novanta (pensiamo, in particolar modo, alla beffa dell’ospite [di cui il pubblico è compartecipe], che rappresenta una degenerazione di quel clima di convivialità, tipico del talk show). Ma è necessario sviluppare meglio, in modo più approfondito il confronto fra le trasmissioni, che hanno segnato l’esordio del fenomeno neo-televisivo, e il programma che ci siamo presi la briga di analizzare. È un compito di cui ci faremo carico nelle conclusioni del presente capitolo

Conclusioni

Ci sono varie ragioni per cui abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su Torno sabato… e 3. Anzitutto perché si tratta di uno “spettacolo”, di un varietà, e, in questo senso, ci ha consentito di verificare immediatamente, nella prassi, quel tipo di discorso sulla simulazione e sulla spettacolarizzazione, affrontato nel secondo capitolo. Se infatti questi due concetti riguardavano un meccanismo comunicativo finzional-fittizio, il programma di Panariello ci ha permesso di accertarne i termini e le modalità. In secondo luogo, perché, proprio in quanto varietà, è un formato tradizionale, paleo-televisivo e dunque l’analisi delle sue caratteristiche strutturali ci ha dato la possibilità di chiarire quanto e fino a che punto gli elementi innovativi della neo-tv hanno influenzato un genere più anziano, come quello in questione. Infine, essendo tale trasmissione da un lato una delle più recenti, fra quelle in cui abbiamo avuto la possibilità di imbatterci, dall’altro quella di punta della stagione invernale 2003/2004, ci è parsa un buon esempio per verificare il livello di evoluzione attuale dello spettacolo.

392 Detto in altri termini, le immagini, sottolineando il fatto che Conti è in difficoltà, solidarizzano con la prospettiva di Lello (p.es. immag. 358/359). 222 Fornite le ragioni, giustificata, in qualche modo, la nostra scelta, possiamo ora confrontare in modo più approfondito Torno sabato… e 3 con i formati che sono legate al “debutto” della neo-tv. Nel primo capitolo si era fatto riferimento a quattro produzioni “cult” (in quanto portatrici di novità assolute), che si pongono in un periodo a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80. “Prima facie”, abbiamo citato la soap opera americana Dallas, la quale, concepita per una programmazione “a flusso”, esporta nel nostro paese le logiche di impaginazione orizzontale. Il palinsesto così si modella sul, o meglio, riproduce il ritmo della vita. È questa una “quotidianizzazione dei tempi televisivi” oppure, detto in altri termini, è un appiattimento del tempo dell’enunciazione sul tempo del vivere. In secondo luogo, abbiamo menzionato due talk show, condotti entrambi da Maurizio Costanzo: Bontà loro (mandato in onda alla fine degli anni settanta sulle reti Rai) e il Maurizio Costanzo Show (il cui debutto si colloca all’inizio degli anni ’80, su Canale 5). Le due trasmissioni in questione davano il via a una tendenza tipica della tv contemporanea: “l’impulso alla confessione” e “la pubblicizzazione della sfera privata”. Grazie a un clima di gradevole familiarità e confidenza, il presentatore, l’anchor man riusciva a restituire al pubblico a casa un’immagine “quotidiana” dell’ospite, del vip, strappando allo stesso delle improbabili dichiarazioni, legate alla sua intimità. È il primo tentativo di dissimulazione dell’esistenza di uno spazio psicologico fra lo spettatore e il broadcaster oppure, detto altrimenti, una quotidianizzazione delle tematiche. In terzo luogo, abbiamo fatto riferimento a Domenica In, appuntamento della domenica pomeriggio di Rai Uno, il cui esordio è collocabile alla fine degli anni ’70. Si tratta di un “programma contenitore”, di un formato cioè che include generi televisivi differenti, allo scopo di accontentare, di soddisfare i gusti di target diversi: risponde cioè a quella logica di massificazione dei consumi, tipica dell’industria contemporanea. Ma la trasmissione di cui sopra, riprende anche la quotidianizzazione dei tempi del serial, poiché è un “flusso” di immagini e suoni, che scorre ininterrotto dalle 14/14,30 fino alle 20, accompagnando, come un sottofondo, le attività degli italiani: la tv riproduce le tecniche di programmazione radiofonica. Infine, abbiamo citato Pronto Raffaella, un programma che racchiude in sé tutte le caratteristiche e le novità sopra menzionate. Esso è infatti: - è una striscia quotidiana (dunque riprende il concetto di impaginazione orizzontale); - è un programma contenitore; - comprende ampi spazi riservati alla chiacchiera. Veniamo dunque a Torno sabato… e 3. Come si è già ripetuto più volte, si tratta di un varietà, cioè di un formato piuttosto vecchio, che nasce, praticamente, assieme al mezzo. Di conseguenza, esso presenta molte di quelle particolarità caratteristiche della paleo-tv. Per esempio, non è un prodotto di flusso, poiché viene mandato in onda una volta la settimana, e per di più il sabato, nel prime time: è dunque un appuntamento festivo, quasi un “media event”. Per il resto però, si può dire che lo show in questione riprenda e addirittura amplifichi alcuni degli aspetti caratteristici degli altri formati. Anzitutto, ingloba al proprio interno momenti spettacolari differenti (cabaret, balletti, performance musicali…), proposti con forme linguistico-visive autonome393: è presente dunque anche quella mescolanza dei generi e dei linguaggi, tipica del programma contenitore. In secondo luogo, Torno sabato… e 3 ospita molti personaggi, i quali non solo vengono presentati come quotidiani e come amici fraterni dei conduttori, ma vengono anche messi in ridicolo con la complicità del pubblico: è come se il vip non fosse più tale, cioè è come se egli fosse una persona comune… talmente comune da poter essere fatta oggetto di scherno. È una ulteriore rottura, un’ulteriore dissimulazione dell’esistenza di quello spazio psicologico astratto, che separa l’ascoltatore dalla tv (come istituzione) o dalla “star” di turno. Ma su questo punto abbiamo già molto insistito.

393 Si è già mostrato come la performance del cantautore Gianluca Grignani e i due balletti, comportassero una scelta di montaggio e di organizzazione generale dell’immagine, molto vicine alle tecniche di ripresa del video-clip. 223 In terzo luogo, sempre dal talk show, questo varietà riprende pure la quotidianizzazione delle tematiche. Che cosa infatti Panariello, nel monologo, mette in ridicolo? Nient’altro che una convenzione sociale di cui tutti riconoscono la convenzionalità. In questo senso, proprio come si diceva sempre nel primo capitolo, la vita, a cui il cabarettista fa riferimento, è come se venisse rappresentata, giudicata e, da ultimo, normativizzata, attraverso l’immagine: è quasi una nuova forma di pedagogismo. Infine, emerge il ruolo attivo del pubblico in sala, usato come “aiutante narrativo”, come complice delle misfatte del comico toscano: non più passivo osservatore, ma scomposto partecipante dell’arena spettacolare. Dunque, si vede come anche un formato tradizionale, quale Torno sabato… e 3, resta inesorabilmente imbrigliato nelle maglie del linguaggio neo-televisivo, rappresentandone, per certi versi, addirittura un’evoluzione. In questo senso, a trent’anni dalla nascita delle emittenti commerciali, si può affermare che quelle modalità di codifica del messaggio, tipiche della neo-tv, siano riuscite a penetrare anche i generi più tradizionali, mescolando il quotidiano con il suo contrario (è quello che mostra il nostro esempio). Di conseguenza, lo spettacolo, in quanto media event, in quanto simulazione dello straordinario, si trasforma in “straordinaria simulazione dell’ordinario”, in “straordinaria simulazione della routine”: l’avvenimento resta tale solo quanto alla forma, solo quanto al linguaggio rappresentativo, poiché, contenutisticamente, nella sostanza della sua espressione, si piega, si “prostituisce” alla vita di tutti i giorni. È la fine dell’era della festività e l’inizio dell’era della quotidianità resa festiva. È il trionfo del quotidiano.

224 CONCLUSIONI

Dunque lo spettacolo è simulazione e la simulazione è rappresentazione fittizia, interpretazione della realtà (perciò rimando referenziale). Ma proprio in quanto rappresentazione fittizia e interpretazione, cioè in quanto linguaggio, non è detto che esso riproduca sempre gli stessi oggetti e sempre allo stesso modo. A conferma di questo infatti, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, lo spettacolo ha assunto caratteristiche nuove, si è servito di nuovi espedienti rappresentativi necessari a mettere in scena la routine, necessari a riprodurre la quotidianità degli ascoltatori; lo spettacolo – in sostanza – ha iniziato a mettere in scena la vita, così come essa intimamente appare e si manifesta. Chiaramente, tale processo genera una vera e propria metamorfosi dei codici visuali, dando vita con ciò stesso a nuove forme di estetica e prassi televisiva. Perciò, in conclusione del nostro percorso di ricerca, al fine di liberare il discorso da un eccessivo astrattismo teorico, ci è sembrato utile istituire una chiara relazione, un più solido legame fra questi paradigmi/modelli interpretativi e le analisi macro e micro, effettuate nei capitoli I e III. Cercheremo perciò di mostrare – in queste ultime battute – come ciascuna categoria descrittiva del fenomeno neo-televisivo prende corpo nella prassi. Procediamo per gradi. Quali erano le caratteristiche della neo-tv? - Flusso. La programmazione fluisce, scorre come un fiume inserendosi e colonizzando la vita degli ascoltatori. La tv – di conseguenza – diventa una sorta di compagna “discreta”, una sorta di passatempo “soft” e sempre accessibile. Questa del flusso è indubbiamente una delle caratteristiche più macroscopiche del medium – oggi – e lo si rileva immediatamente, se si dà uno sguardo ai palinsesti, o anche se per caso si accende l’apparecchio televisivo in una fascia oraria che non sia il “prime time”. Infatti, se osserviamo le griglie, poste in appendice al capitolo I, notiamo un vero e proprio iato, una vera e propria frattura fra i palinsesti del 1963 e quelli del 1980 (anno in cui il fenomeno neo-tv è ancora relativamente nuovo). Nel primo caso, abbiamo infatti un’offerta limitata a due canali e caratterizzata da una programmazione frammentata: sulla prima rete le trasmissioni iniziano alle 8,30 con gli appuntamenti educativi, per poi interrompersi alle 14 e riprendere tra le 16 ,45 e le 17,30; sulla seconda rete iniziano invece alle 21. È evidente che sotto questo tipo di impostazione si nasconde una concezione pedagogizzante del mezzo: la televisione non deve costituire una tentazione, un diversivo nelle ore dedicate allo studio e al lavoro (tant’è che la mattinata è dedicata a Telescuola), ma deve essere invece un’interessante occupazione per il tempo libero. Vediamo che cosa succede nel 1980. Gli unici veri network nazionali sono ancora (soltanto) le reti pubbliche, le reti Rai, diventate ormai tre. Le trasmissioni iniziano (nel caso di Rai Uno e Rai Due) alle 12,30 – con i programmi educativi (come diciassette anni prima) – e da quel momento in poi non hanno più pause o soste (salvo un paio d’ore sul secondo canale, nel primo pomeriggio, nei giorni di lunedì, martedì, venerdì e sabato). Diverso è il discorso per Rai Tre (emittente ancora subalterna), che accende le antenne soltanto alle 18,15. Dunque il concetto di flusso della tv americana (di cui aveva parlato Raymond Williams nel ‘73), nel 1980, a causa della concorrenza con le emittenti private, inizia a colonizzare anche i canali pubblici. Passiamo al 1985; accanto alle reti Rai, incontriamo altri tre soggetti nazionali: Rete 4, Canale 5 e Italia 1. Su tutti i canali, la programmazione scorre senza sosta fino alla mezzanotte, a eccezione di Rai Tre, che al sabato apre i battenti soltanto alle 15,45. Del resto, il terzo canale intraprende una politica editoriale seria, soltanto alle soglie degli anni ’90, sotto la direzione di Carlo Freccero. 225 Nel 1995, ormai tutte le emittenti, sia pubbliche che private, con i loro appuntamenti occupano quasi tutto l’arco delle ventiquattr’ore, senza sosta alcuna: un palinsesto, che prevede delle pause, non è ormai più concepibile. Questo per quanto riguarda gli aspetti “macro”. Nel primo capitolo, si era detto però che il concetto di flusso, non riguardava soltanto l’impaginazione dei programmi, ma anche i formati in se stessi. Infatti, se la tv deve scorrere, se deve inserirsi nel ritmo quotidiano dell’ascoltatore, allora ha bisogno di “trasmissioni di sottofondo”, di trasmissioni dai contenuti poco impegnativi, non sensazionalistici e adatti a un ascolto distratto, quasi “sonnecchiante” (oseremmo dire). È il caso di molte soap-opera, sit-com e talk-show, la cui visione può essere tranquillamente accompagnata ad altre attività (cucinare, stirare…). Bene; tale caratteristica, non si riscontra nel programma preso in esame (Torno sabato… e tre) e ciò per due ordini di motivi: a. Perché è una trasmissione collocata nel “prime-time”, che è dominio del media-event e dunque del sensazionale, per sua stessa definizione. b. Perché è un formato paleo-televisivo (scelto proprio in quanto tale), figlio del varietà, che è a sua volta figlio dell’avanspettacolo, genere in cui la suspense, l’imprevisto, il sensazionale annunciato sono elementi centrali, o meglio, il fulcro dello show. In Torno sabato, infatti (come dimostrano le due scene esaminate), l’attenzione e la complicità dello spettatore sono continuamente richiamate, continuamente evocate proprio attraverso il “fuori programma”, proprio attraverso l’apparizione improvvisa sul palco dei vari “deus ex machina”, impersonati dallo show man Giorgio Panariello. Dunque, come si diceva in chiusura del primo capitolo (utilizzando le categorie semiotiche di spazio e tempo), tempo dell’enunciato, tempo dell’enunciazione e tempo della lettura vengono a coincidere, in quanto si identificano tutti con il tempo della vita. - Quotidianizzazione. In fondo, anche il flusso (nella misura in cui riproduce il ritmo della routine degli ascoltatori) può essere considerato una prima forma di quotidianizzazione. Tuttavia, con questo termine, si intende qui quel processo tipicamente neo-televisivo per cui le tematiche toccate e le scenografie rappresentate in un programma si ispirano alla vita quotidiana. Si era detto che tale processo era stato innescato dal talk-show nel 1976 (nella fattispecie da Bontà loro, in onda sulla Rai e diretto da Maurizio Costanzo) e poi consolidato dal programma contenitore e da un certo tipo di fiction. Si era poi anche detto che praticamente tutta la produzione neo-televisiva, cioè, detto in altri termini, che tutti i generi nati dopo il 1980 tendevano a mettere in scena o a tematizzare il quotidiano. Bene. Se il concetto di “quotidianizzazione” è legato anzitutto a certi formati in particolare, uno sguardo ai palinsesti potrà aiutarci a comprendere l’evoluzione del fenomeno, o meglio, a partire dalla presenza più o meno preponderante di certi generi, potremo capire in che misura la tv si è andata “quotidianizzando”. Se esaminiamo le griglie relative all’anno 1963, chiaramente non notiamo la presenza dei programmi indicati, anzi, addirittura ci pare che non vi siano trasmissioni di tipo strettamente e specificatamente televisivo. Ciascun appuntamento infatti è riconducibile a forme di linguaggio precedenti come il teatro (vedi lo sceneggiato oppure le opere teatrali), il cinema, l’avanspettacolo (vedi la pubblicità [nella forma di carosello] e lo show) ma soprattutto la radio (vedi per esempio l’informazione o il rotocalco, che, come raccontano le nostre fonti, conservano una forte impostazione verbale). Le cose cambiano nel 1980, quando su tutte le reti pubbliche compaiono voci come: talk- show, fiction (le serie televisive, per ora esclusivamente di produzione americana), programma contenitore (vedi Rai Uno, domenica, dalle 14 alle 20), info-tainment ed entertainment (lo show modernamente inteso). Resistono tuttavia anche formati come l’educazione, il rotocalco, lo sceneggiato (p. es. Rai Due, sabato, 20,40), il teatro (vedi Rai Tre, venerdì, alle 20,05)… e compaiono poi generi che rappresentano una mescolanza tra il

226 vecchio e il nuovo: per esempio serie che si collocano a metà fra la fiction e lo sceneggiato (vedi p. es. Rai Due, mercoledì e venerdì alle 20,40 o Rai Uno, sabato alle 21,55…) o film tv che tendono alla fiction (p. es. Rai Uno, martedì, ore 20,40)… Passiamo al 1985. I palinsesti delle reti private, a parte i film, sono compilati esclusivamente con generi neo-televisivi; impressionante poi è la presenza di fiction su Rete 4, che va a occupare – dal lunedì al sabato – l’intera mattinata (si tratta in questo caso soprattutto di soap opera e telenovelas, indirizzate al pubblico delle casalinghe). Ma del resto, anche Italia 1 dà ampio spazio a questo tipo di produzione (in questo caso si tratta però soprattutto di sit- com e serial, che si rivolgono a un target adolescenziale). Per quanto riguarda invece le emittenti pubbliche, anche qui, la presenza di neo-formati si fa sempre più massiccia, fino a diventare preponderante. Il contenitore, per esempio, si trasforma addirittura in una fascia quotidiana del mattino di Rai Uno (dal lunedì al venerdì dalle 12,05 alle 15,00), interrotta solo dal telegiornale delle 13,30. Resistono ancora però alcuni generi tradizionali come l’educazione (p. es. Rai Uno, dal lunedì al venerdì alle 15,30 o Rai Tre nel primo pomeriggio o dal lunedì al venerdì alle 20,05…), il teatro (p.es. Rai Due, sabato, 10,45), il rotocalco (p. es Rai Uno dal lunedì al venerdì alle 19,30 o Rai Tre, venerdì alle 19,35) e la cultura (p. es. Rai Tre, mercoledì alle 19,35). Facciamo un salto di dieci anni e andiamo al 1995. Inutile esaminare i palinsesti delle tv private, che – già nel 1985 – erano totalmente “neo”; l’unico elemento da segnalare al riguardo è la comparsa dell’informazione, precedentemente vietata per legge alle tv di Berlusconi. Analizziamo perciò esclusivamente la programmazione delle reti pubbliche. A una prima occhiata, si nota che non esistono più i vecchi generi; l’educazione si trasforma in educational (una serie di documentari e dibattiti, toccanti gli argomenti più disparati) e diventa una striscia quotidiana di Rai Tre (dal lunedì al venerdì, dalle 6,45 alle 12,00) e della notte di Rai Uno (dal lunedì al venerdì, alle 00,25). La cultura resiste solo su Rai Tre, dieci minuti dal lunedì al venerdì, dalle 12,30 alle 12,40. Procediamo di altri sette anni, e andiamo al 2002, quando sulla scena compare un altro soggetto nazionale importante: La7. Trovandoci ormai in pieno regime neo-televisivo, piuttosto che mostrare i neo-formati, ci sembra più utile andare a scovare i paleo. La cultura, trasformata ormai in “culture-tainment” (vedi p. es. Rai Uno, lunedì, martedì e mercoledì all’1,45 o La 7 lunedì al venerdì, alle 3,10), resiste su Rai Tre (dal lunedì al venerdì alle 14,50 e mercoledì alle 00,10) e su Rai Due (tutti i giorni alle 4,15). Scompaiono però voci come sceneggiato o rotocalco e la presenza di un genere come il teatro (La 7, mercoledì 22,30) è del tutto sporadica e casuale. Dunque, da un punto di vista macro, è vero che la tv del nuovo millennio è ormai completamente “quotidianizzata”. Spostiamoci perciò su un piano “micro” e verifichiamo se Torno sabato… e tre è immune dalle da questo processo. Cominciamo dalla scenografia. Dalla descrizione offerta (nel terzo paragrafo del terzo capitolo), ci sembra di poter evincere che il palcoscenico voglia rappresentare il cortile (retrostante) di un teatro, con: camion, scale, attrezzi abbandonati… in sostanza riproduce un ambiente spettacolare (un teatro), nel suo aspetto più quotidiano (il cortile retrostante con l’allusione ai lavori in corso). Dunque la scenografia è “quotidianizzata”. Analizziamo il piano contenutistico. In primo luogo, tutti i personaggi in cui il presentatore/show man Panariello si cala (eccezion fatta, ovviamente, per le imitazioni) sono tratti dalla vita di tutti i giorni, dalla comune e un po’ provinciale realtà italiana: l’alcolizzato di paese Merigo, il discolo bambino Simone, il macellaio romano Pio Bove, l’esagitato marchigiano Lello Splendor…

227 insomma quei tipici personaggi estrosi che frequentano i bar e i supermercati delle nostre città. Per quanto riguarda le tematiche poi, possiamo tenere conto proprio delle due sequenze analizzate, cioè la 2 (il monologo iniziale) e la 23 (l’accoglienza del presentatore Carlo Conti e di miss Italia 2003 [Francesca Chillemi] e la successiva irruzione di Lello Splendor). Partiamo dalla prima. Che cosa prende di mira Panariello nel suo monologo? Una festa di fine anno comune, media, descritta proprio come tale. Il presentatore insomma tenta di fare ironia su un aspetto della vita, che il telespettatore conosce molto bene. Passiamo alla seconda, cioè alla sequenza 23, un po’ più complessa poiché composta da due parti: una prima (una sorta di mini talk-show) e una seconda (un vero e proprio numero di cabaret). Per quanto riguarda la prima parte, emblematica è la conversazione con miss-Italia. Di questa ragazza infatti la presentatrice tenta di far emergere un’immagine spontanea, “acqua e sapone” (come si suol dire), mostrandone il lato umano e privato (si veda per esempio l’inquadratura 15, in cui la presentatrice Tosca d’Aquino domanda a Francesca Chillemi in che modo, dopo la nomina di miss, la sua vita è cambiata). Per quanto riguarda la seconda parte invece, Lello Splendor (già di per sé quotidiano) si comporta in modo addirittura dissacrante: attraverso l’irrisione di tutti i personaggi presenti sul palcoscenico, ci dimostra che essi sono non solo persone comuni, ma hanno anche dei difetti, sui quali si può fare ironia (è il principio della satira applicato alle star televisive). Nella fattispecie (cioè in concreto), ignora – quasi snobbando – la bella Chillemi e si prende gioco di Carlo Conti, ironizzando spesso sul colore scuro della sua pelle. Il risultato è una declassazione del loro status di VIP. Dunque anche un vecchio formato, o meglio un “paleo-formato” come il varietà del sabato sera, non è immune da quel processo di quotidianizzazione, che coinvolge tutto il medium. Pertanto, sia a livello macro che micro, si può affermare che la tv, tutta la tv, sia – oggi più che mai – quotidiana. - Rottura dei generi. Si tratta di una metamorfosi, per cui i generi iniziano a mescolarsi fra loro, dando vita a formati ibridi (info-tainment, culture-tainment, docu-tainment…); il “programma contenitore” rappresenta l’emblema di tutto questo. Un siffatto processo comunque è legato non soltanto alla nascita di nuove trasmissioni, ma anche e soprattutto alla comparsa di aspetti estetico-linguistici anomali, all’interno di programmi già esistenti (p. es. l’utilizzo di inquadrature e montaggi propri del video-clip, in un documentario). Evidentemente, non è possibile evidenziare tali caratteristiche a partire dall’analisi dei palinsesti, tuttavia uno sguardo alla programmazione generale può aiutarci a capire quando questo fenomeno ha iniziato a palesarsi in modo più evidente – cioè quando sono stati mandati in onda i primi formati ibridi – e in che misura è andato crescendo nel corso degli anni. Tralasciamo l’anno 1963, che è territorio paleo-televisivo, e partiamo dalle griglie riguardanti l’anno 1980. Notiamo subito due voci, che richiamano la mescolanza dei generi: “programma contenitore” (Rai Uno, la domenica, alle 14,00) e info-tainment (Rai Tre, tutti i giorni, alle 18,15). Ci sono poi elementi che rivelano inconfutabilmente una mescolanza di linguaggi. Per esempio, lo sceneggiato inizia ad assumere le caratteristiche della fiction seriale (p. es. Rai Due, lunedì e mercoledì, 18,40 o Rai Uno, giovedì, 20,40). Passiamo all’85. Su Rai Uno, il programma contenitore diventa una striscia quotidiana, in onda dalle 12,05 alle 15,00 (come del resto si è già notato). Compaiono poi voci ibride come info-tainment (p. es. lunedì 22,25, mercoledì 22, 40…), mentre il rotocalco inizia a contaminarsi con l’intrattenimento (rotocalco/info-tainment).

228 Lo stesso discorso vale per le altre due reti pubbliche. Anche Rai Due infatti, manda in onda un programma contenitore in striscia quotidiana, dal lunedì al venerdì, alle 14,35 (a eccezione del mercoledì), accanto ovviamente all’appuntamento domenicale (dalle 13,30 alla 17,50). Troviamo poi, pure in questo caso, le prime trasmissioni di info-tainment (p. es. domenica alle 17,50, sabato alle 16,15…) e i primi rotocalchi spettacolarizzati (p. es. lunedì alle 20,30). Un po’ diverso è il caso di Rai Tre, dove pur essendoci l’info-tainment (p. es. sabato alle 18,15, alle 19,35, alle 20,15, alle 20, 30…) e il rotocalco/info-tainment (p. es. martedì alle 20,30) viene a mancare il contenitore. Nel caso delle reti private, scompare la voce “rotocalco” e il contenitore è limitato alla sola Canale 5 (domenica, dalle 13,30 alle 19,00). Accanto all’info-tainment (p. es. Canale 5, giovedì alle 23,15, Italia 1, lunedì alle 23,30…), troviamo poi il primo esempio di docu- tainment (Canale 5, lunedì alle 22,25). Facciamo un salto di dieci anni e spostiamoci al 1995. A un primo sguardo, notiamo che i programmi per metà paleo e per metà neo (p. es. rotocalco/info-tainment o sceneggiato/fiction) sono scomparsi, a vantaggio dei generi neo al 100% (info-tainment e fiction). Su Rai Uno e Rai Due poi, il contenitore diventa ormai un fatto quotidiano (su Rai Uno è una striscia mattutina, in onda dal lunedì al venerdì, a partire dalle 6,45, mentre su Rai Due è un appuntamento tardo-mattutino, in onda dal lunedì al venerdì alle 10,30). Compare infine una nuova voce: “educational” (p. es. Rai Tre dal lunedì al venerdì, alle 6,45, Rai Uno, dal lunedì al venerdì, alle 00,25…), di cui si è in parte già parlato. Si tratta di una serie di documentari e dibattiti di tipo culturale, sugli argomenti più disparati. Nulla di nuovo invece sulle reti private, salvo il fatto che la dicitura “info-tainment”, all’interno delle griglie, è stata moltiplicata. Veniamo infine ai giorni nostri, cioè all’anno 2002. Data la presenza massiccia di generi misti, ci sembra più utile, piuttosto che segnalarli tutti, verificare se ci sia qualche nuova voce. Scrutando i vari palinsesti infatti, ci salta subito all’occhio una definizione anomala: è il “culture-tainment” (p. es. Rai Uno, lunedì, martedì e mercoledì all’1,45 o La 7 dal martedì al venerdì alle 03,10), unica novità, ma del tutto singolare. In conclusione dunque, da un punto di vista macroscopico, si può affermate che il processo di rottura e mescolanza dei generi vada crescendo nel corso degli anni, fino a diventare – oggi – un’entità onnipervasiva. Proviamo allora a vedere che cosa succede a livello micro. Dal punto di vista delle tecniche televisive (montaggio e inquadrature), le sequenze 11 (esibizione della cantante Rita Pavone), 13 (balletto), 21 (fantasia musicale), 24 (esibizione del cantante Gianluca Grignani) e 29 (performance vocale di Rita Pavone) sono del tutto assimilabili a un video-clip, con frequenti e veloci cambi di inquadrature, dissolvenze incrociate, l’assiduo utilizzo del dolly in movimento di carrellata… Ma del resto, già la sequenza 23 analizzata era a suo modo anomala: la durata è di circa 20 minuti, in cui vengono intercambiate ben 389 inquadrature. Anche per quel che concerne i generi, tale sequenza è abbastanza rappresentativa, nella misura in cui abbina il talk-show della prima parte al cabaret della seconda.

229 A un livello più macroscopico, Torno sabato… e tre è in se stesso una mescolanza, in quanto prevede momenti spettacolari differenti: il cabaret, il talk, il balletto, la musica… è a tutti gli effetti un varietà, che tende verso il “programma contenitore”. Dunque, lo show del sabato sera, pur essendo “paleo”, tende a diventare un formato ibrido. - Cancellazione dello spazio psicologico esistente fra mittente e destinatario o dissimulazione dell’esistenza del canale comunicativo. Si tratta di un aspetto strettamente “micro”, che riguarda cioè il rapporto che la tv costruisce con i suoi utenti. Consideriamo sempre la sequenza 23 di Torno sabato… e tre. Nel corso dell’analisi testuale (a partire dai paradigmi di Saymour Chatman, Gianfranco Bettetini e Algirdas Julien Greimas), si erano riconosciuti i seguenti ruoli narrativi: a. Autore Implicito/Enunciatore: inquadrature e montaggio. b. Narratore: Carlo Conti. c. Aiutante: Tosca d’Aquino. d. Anti-eroe: Lello e Lella Splendor: Giorgio Panariello. e. Narratorio e Autore implicito/Enunciatario: pubblico in studio (simulacro del pubblico a casa): Aiutante dell’anti-eroe. In quella sede, si era mostrato come (attraverso vari giochi di inquadrature) la prospettiva dell’enunciatore fosse solidale con quella dell’anti-eroe (p. es. nell’inquadratura 72: quando Lello Splendor fa dell’ironia sul colore della pelle di Carlo Conti, la camera riprende quest’ultimo a mezzo busto, come a voler sottolineare la battuta) e come l’atteggiamento del pubblico in studio fosse normativo per quello a casa (p. es. nelle inquadrature 373 e 375: il pubblico, solidale con Panariello, viene ripreso mentre contraddice Conti, quasi mettendo in risalto la positività della reazione). Qui però, ci preme mostrare anche in che modo e in che misura il presentatore Giorgio Panariello coinvolge la platea, in quanto emblema e simulacro del telespettatore a casa. Fin dal suo ingresso sul palco (inquadrature 27/39), egli chiede – in modo indiretto –la collaborazione del pubblico, che è chiamato a completare i suoi inni, cantare le sue canzoni… Dopo ogni battuta cioè, dopo ogni atto di scherno, Lello Splendor chiede sempre conferma all’uditorio di quanto sta facendo, stimolandolo al coro o all’esultanza (p. es. nelle inquadrature 41/52). In sostanza, gli spettatori (dunque anche coloro che seguono da casa) sono prima invocati, poi resi complici e infine attivamente coinvolti (= pubblico partecipante). È chiaro infatti che, senza l’intervento della platea, l’impresa di Panariello non potrebbe andare a buon fine e la sua performance non potrebbe più risultare il centro spettacolare della scena. In questo senso Torno sabato… e tre crea indubbiamente una vicinanza, instaura davvero una sorta di empatia fra chi il programma lo sta facendo e chi invece ne sta fruendo (sebbene non allo stesso livello di un reality-show). Pertanto, si può affermare che anche il varietà contribuisca a ridurre la percezione dell’esistenza di un canale fra mittente e destinatario; anche su questo piano perciò, risulta essere “neo”. - Giungiamo così all’ultima delle 5 categorie neo-televisive: la serialità del prodotto. Da un punto di vista macro, “serialità” significa trasmissioni che ricorrono in strisce quotidiane, tutti i giorni alla stessa ora, al fine di “fidelizzare” l’ascolto (è la logica delle serie, delle sit-com…).

230 Da un punto di vista micro, “serialità” significa invece appuntamenti semanticamente dipendenti gli uni dagli altri (è la logica delle soap-opera: ogni puntata non ha un senso compiuto, ma è contenutisticamente legata a quella che la precede e a quella che la segue). Serialità è insomma una delle tante tecniche utilizzate dal broadcaster per rendere la tv parte della routine dell’ascoltatore. Cominciamo, come sempre, dall’analisi dei palinsesti (considerando che questo tipo di logica – ovviamente – non riguarda il prime time e la serata). Nel 1963, le uniche “strisce” sono gli appuntamenti educativi del mattino e l’informazione; per il resto, ogni giorno, i programmi offerti sono differenti. Nel 1980, fatto salvo piccole eccezioni e differenze di orario, il palinsesto di tutte le reti Rai inizia a diventare prettamente seriale (vengono infatti lanciate le prime serie americane che importano proprio questo tipo di logica). A partire dal 1985, tutte le griglie, di tutte le reti, sono organizzate in strisce quotidiane: sembra quasi che non esista più nessun altra tecnica di impaginazione. Passiamo dunque all’analisi micro. Torno sabato… e tre, pur essendo una trasmissione mandata in onda tutti i sabato sera, da ottobre a gennaio (dunque con scadenze regolari), è fatta di appuntamenti semanticamente autonomi. Sebbene vi sia una continuità linguistica ed estetica (se vogliamo), fra una puntata e l’altra, non c’è però un legante semantico, che rende necessaria la visione dell’intera serie. La trasmissione presa in esame, per esempio (quella del 27 dicembre 2003), è – da questo punto di vista – chiusa in se stessa; c’è solo un invito, da parte del presentatore alla fine del programma, a seguire la puntata successiva. Il varietà è perciò un formato che, sebbene fortemente influenzato dai nuovi linguaggi televisivi, rimane non seriale, come tutti i vecchi generi della paleo-tv. Del resto, non per nulla viene collocato sempre nel prime time. Dunque, se anche i generi tradizionali (come nel caso della trasmissione analizzata) si ispirano al mondo della vita, restando – con ciò stesso – schiacciati dalle pratiche neo-televisive, i nostri paradigmi interpretativi (elaborati nel primo e nel secondo capitolo) risultano applicabilissimi alla prassi della tv contemporanea. Perciò in chiusura, possiamo ribadire con certezza ciò che l’analisi (macro e micro) ha confermato: la televisione è – oggi più che mai – un linguaggio spettacolare, una simulazione, che tende a riprodurre, a mettere in scena la quotidianità, in tutti i suoi aspetti. La tv è una produzione fittizia della vita.

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