In copertina Cristoforo Cavagnaro

Andrea M. Cavagnaro

Barbagelata Il tetto della Il racconto appassionato e lucido della civiltà contadina dei nostri monti

memorie

© 2005 Feguagiska’Studios edizioni via Crosa Vergagni, 2r 16124 Genova Tel. 010.2510829 Cura redazionale, disegni e selezione immagini: Maria Pia Solari Cavagnaro, Ornella Capuano, Franco Cavagnaro Impaginazione: Studio Helix ‐ (GE) Finito di Stampare nel mese di dicembre 2005 Presso lo Stabilimento tipografico MeCa ‐ Recco (GE) Versione Internet: Franco Cavagnaro

2

Ai lettori

Un nuovo titolo per la nostra collana dedicata alla memoria nella quale pubblichiamo le opere che ripropongono e valorizzano i beni culturali im‐ materiali dell’identità culturale dei nostri luoghi. In questo caso la storia minuziosa di una delle più piccole comunità dei nostri monti: Barbagelata, comune di Lorsica, ma da esso staccato territorialmente. Nel lungo affettuoso racconto di Andrea Masilio Cavagnaro, insegnante e figlio del proprietario dell’antica osteria del paese, si dipana la vita di tutti i giorni, ricca delle secolari consuetudini che scandiscono le quotidiane fati‐ che della montagna. Vita che passa anche attraverso i cinque lunghi anni della guerra durante la quale Barbagelata fu messa a fuoco. Il paziente lavoro compiuto da Cavagnaro nel fermare sulla carta il ricordo delle persone, degli avvenimenti, della lingua, dei toponimi e degli attrezzi, è prezioso per le testimonianze che riporta e che fissa definitivamente nella memoria. Senza di esso sarebbe andato perduto un importante tassello del‐ la nostra identità collettiva. Per scelta è stata lasciata la trascrizione fonetica della lingua genovese così come Cavagnaro l’ha interpretata, affinché nes‐ sun intervento correttivo turbasse l’originalità dell’opera.

Gualtiero Schiaffino

3

4

Sommario

Presentazione ...... pag. 7 Prefazione...... 9 Introduzione...... 11 Gli abitanti del paese...... 13 I miei ricordi della prima fanciullezza ...... 23 Le parentele...... 25 Il lavoro...... 29 Il paese com’era...... 34 Posizione geografica...... 39 Gli arnesi da lavoro ...... 45 Fiere, feste, usi e costumi ...... 54 La fauna ...... 65 I Parroci...... 69 La scuola ...... 79 La Seconda Guerra Mondiale...... 81 Le nuove famiglie ...... 91 Barbagelata oggi ...... 93 Acqua e strada...... 96 I giuochi ...... 99 I dintorni del paese...... 101 I villeggianti di oggi e quelli di ieri...... 105 Appendice ...... 109 Cose non dette o dimenticate ...... 115 Mario...... 148 Vocabolario delle parole in idioma locale...... 149

5

6

Presentazione

edeltà, emozioni, ricordi legati alle radici testimonia questa interes‐ sante monografia. Ma più che memoria e storia, è racconto appas‐ sionato e lucido di una civiltà contadina nel più alto paese dell’AppenninoF Ligure: “il tetto della Liguria”. Vi si coglie insieme al rigore di un attento studio scientifico sul territorio, la descrizione globale di tutti gli aspetti di una ricca cultura con puntuali riferimenti e sondaggi antropologici, etnografici, dialettologici, topografici, climatici, ecologici, economici, nonché sociali e religiosi. Tutte le realtà del borgo montano hanno il loro posto, la loro voce, il loro nome. Il testo, che dà giusto rilievo al linguaggio e, alle espressioni dialetta‐ li, chiude con il “Vocabolario delle parole in idioma locale” e si presenta arricchito di illustrazioni, grafici, fotografie: preziose immagini che portano più in là. Nel quadro generale di vita raccontata emergono quadretti di vita familiare con accenni a usi, costumi, tradizioni, arnesi di lavoro, feste, specialità culi‐ narie; si gustano note di folklore e di colore, battute e aneddoti, si avverto‐ no ariose aperture alle bellezze paesaggistiche, le dure fatiche e i festosi momenti d’incontro. Vi si legge, nei particolari ben documentati e com‐ mentati, la storia della guerriglia su quei monti dopo l’otto settembre 1943 e l’evento tragico e devastante che mise a fuoco il paese. Ma pure nella giusta luce sono messe care figure che si muovono tra le pa‐ reti domestiche e le molte che si muovono nell’ampio anfiteatro montano: non tanto fotografate, ma colte e caratterizzate nell’intima fisionomia. Pos‐ so dire ciò con obiettività, in quanto parecchie ebbi modo di conoscerle. Alle rivelazioni di rapporti e di valori umani – non nascondendo fragilità, lacune e negatività – si uniscono le dissertazioni erudite dell’Autore sulle risorse che la natura offre a quelle altezze. Avvincenti e da antologia sono le pagine sulla flora. E l’Autore Andrea Masilio Cavagnaro, figlio di questa terra di Barbagelata, della quale scrisse perché amor lo mosse, ci ha lasciato un memoriale redat‐ to con struggente passione, con l’intelligente e penetrante sguardo del fine e attento osservatore, che alle azzeccate e serie riflessioni accompagna toni divertiti di garbata ironia e i ben dosati spruzzi di sano umorismo. Uomo di talento, di forte tempra, maestro ben noto e particolarmente dotato, mol‐ to a lui diede la scuola, ma ancor più la famiglia, dove respirò la saggezza, i valori di un’autentica cultura contadina, che si sentì cucita addosso – più che addosso, dentro – per tutta la vita. Della famiglia Cavagnaro, giovane parroco lassù negli anni 1937 – 1939, io pure sentii il calore protettivo e benefico. Lo testimonio con emozione e riconoscenza. Mamma Rosina, donna mite ma forte, coraggiosa, determina‐ ta, parca di parole, ma ricca e generosa di gesti, di dedizione, di bontà, di carità cristiana. Papà Cristoforo, una istituzione, una benedizione: figura davvero carismatica, prestigiosa, umile. Uomo di gran fede, di buon senso,

7

di raro equilibrio, di temperamento dolcissimo, accogliente e sorridente, di una carica spirituale e umana straordinaria. Era il proprietario e il gestore oculato dell’antica osteria del paese, della trattoria e dell’unico esercizio pubblico di generi alimentari. Era un punto di riferimento. Dai paesi delle vicine valli non si diceva “andiamo a Barbagelata” ma “andiamo da Cristo‐ foro”: il gentiluomo, il galantuomo, il signore. Penso sarebbe stato orgo‐ glioso e felice di leggere questo libro del suo figlio Andrea. Anche perché prima di lui, Barbagelata non ebbe un suo storico, neppure un memoriali‐ sta; e dopo di lui nessuno potrà raccontare la storia, la civiltà, la cultura, le vicende, l’anima del suo paese, in modo migliore. Molto di quanto raccontò egli vide, conobbe, visse e soffrì. La sofferenza dell’amico, del caro Maestro Cavagnaro, trasuda, senza veli, alla fine del suo discorso, quando sul suo cuore pesa la nostalgia della sua terra, di un suo mondo, nel rammarico di una estinzione‐rimozione nella memoria di molti e di un paese che sta mo‐ rendo, anche se nelle ferie estive si rianima, Scrive «A Barbagelata, arrivate le comodità, le strade, la luce, l’acqua potabile, il telefono, il gas, hanno vi‐ sto una fuga generale verso altri lidi. Non c’è più una mucca, una pecora, una capra. Le stalle sono vuote, trasformate in garage … A Barbagelata c’è una sola famiglia». Saluta con rimpianto la vecchia Chiesa abbandonata (dopo che fu costruito il modernissimo tempio) «come una cattedrale nel deserto, in un’attesa che non ha senso, perché a primavera ritornano le rondini, ma non la gente che affollava Te, tutte le domeniche, mia cara e vecchia Chiesa». E insiste: «Le rondini ritornano a ricostruire il nido nel vecchio campanile come a volerci dire “Noi non dimentichiamo il passato, siamo fedeli alla nostra casa”». Appunto, perché non sia dimenticato il passato, perché i ricordi legati alle radici non muoiano, il maestro Andrea Cavagnaro ha offerto le fatiche del‐ le sue ricerche, il libro delle sue memorie, delle sue esperienze esistenziali, del suo amore alla terra che lo generò, particolarmente ai pronipoti, alla sua gente, ai giovani. È la consegna di un messaggio: «Questo è quanto lascio in retaggio ai giovani perché ne facciano buon uso». Ricchezza e memoria di un patrimonio prezioso dei padri, viatico per andare avanti. Grazie Andrea. Tanti palpiti dell’anima, di cuore, in queste illuminanti pa‐ gine ci lasciasti. “Sol chi non lascia eredità di affetti poca gioia ha dell’urna”

Sacerdote Nicola Tiscornia

8

Prefazione

arbagelata (Comune di Lorsica) è sita a mt. 1.115 s.l.m., è la Parroc‐ chia alla quota altimetrica più alta della Liguria, è situata sul crinale spartiacque Trebbia‐Aveto‐Fontanabuona, da sempre è stata un pas‐ saggioB d’obbligo importante per il collegamento delle tre vallate con il Ti‐ gullio. Del borgo facevano parte una decina circa di nuclei familiari che avevano come punto di riferimento la Canonica ed il Parroco, l’osteria secolare pri‐ ma e ristorante poi, della famiglia di Cristoforo Cavagnaro. Poiché il Parroco di Barbagelata aveva la sfortuna di non ricevere nemme‐ no la prebenda, era naturale che l’osteria‐ristorante di Cristoforo sopperisse non solo alle necessità della Parrocchia ma anche a quelle dei parrocchiani bisognosi, i quali non mancavano mai di rifornire di legna il parroco per i lunghi e gelidi inverni. Date le condizioni orografiche citate, Barbagelata non poteva non essere appetibile dai primi uomini della Resistenza. Di fatto questi non erano si‐ stemati nel paese (alloggiavano in casoni e catapecchie sui pendii delle tre valli): in quanto ricercati avrebbero compromesso la vita degli abitanti del borgo. Era perciò naturale che la famiglia di Cristoforo ricevesse spesso la visita di questi primi renitenti e che offrissero loro il sostentamento necessario. Ricordo in modo particolare che riuscire ad avere del tabacco di qualsiasi tipo era pressappoco impossibile: Cristoforo sapendo che ero un accanito fumatore si toglieva dal taschino del panciotto un pezzetto di sigaro tosca‐ no e me lo offriva. Oltre a questo, in via strettamente riservata, Cristoforo forniva anche delle utili informazioni circa le azioni ed i movimenti dei nazi‐fascisti. Per dei ricercati, isolati sulla montagna, queste notizie, che spesso erano recentissi‐ me, dato il costante passaggio di persone, costituivano una fonte vitale per i loro movimenti e le loro azioni. Con l’avvicinarsi della Liberazione, il movimento partigiano si organizzò e rinforzò ulteriormente mentre il transito per la via obbligata di Barbagelata, conseguentemente, si intensificò. Ciò non poteva essere ignorato dai nazi‐fascisti i quali considerarono gli abitanti di Barbagelata tutti colpevoli di collaborazione e per questo gli uo‐ mini di Spiotta bruciarono tutto il paese (fortunatamente la popolazione con il bestiame si era allontanata in tempo!) con esclusione della Chiesa in quanto la porta in ferro aveva resistito, con i muri e i solai in cemento della canonica e la casa del vecchio Piri in quanto quest’ultimo, vecchissimo ed infermo, non poté lasciare l’edificio. Si vendicarono anche sui cani che furo‐ no abbattuti con colpi di pistola. Era il 13 agosto del 1944. La famiglia di Cristoforo, con altre tre famiglie, senza casa, trovarono rifugio, per affrontare l’inverno presso la Canonica, che era priva di infissi esterni in quanto bruciati. Gli altri si sistemarono nella casa del vecchio Piri e nelle cascine limitrofe.

9

Tutti gli abitanti e soprattutto la famiglia di Cristoforo, iniziarono imme‐ diatamente i lavori della ricostruzione del borgo e riuscirono veramente a fare dei miracoli se prima dell’inverno gli oltre cento capi di bestiame tro‐ varono dei ricoveri sia pure di fortuna. Gli abitanti si rifugiarono nelle abitazioni riattate alla meglio e la famiglia di Cristoforo continuò la sua attività di contadini e ristoratori. Il transito degli uomini della Resistenza aumentò e la famiglia di Cristofo‐ ro, dietro pagamento, ma molto spesso gratis, continuarono ad alimentare i partigiani, non escludendo la consegna di cibarie da portare ai compagni del distaccamento. Per concludere si può affermare, senza ombra di dubbio, che gli abitanti del borgo di Barbagelata, compreso il giovanissimo parroco, don Giovanni Ba‐ cigalupo, e la famiglia di Cristoforo Cavagnaro, hanno sostenuto in tutti i modi gli uomini della Resistenza ed hanno pagato per questo un prezzo altissimo. Possono essere perciò considerati, sotto tutti gli aspetti, dei grandi beneme‐ riti della causa della Liberazione da additare come esempio a tutti, special‐ mente alle nuove generazioni. Grazie Cristoforo! Grazie Barbagelata!

Luigi Ferrea “Mando”

Barbagelata prima del 1914

10

Introduzione

Ai giovani che oggi, godendo di un certo benessere, sono più fedeli al mot‐ to «Carpe diem (quem minima postera)» che al ricordo del passato ricco di e‐ sperienze, a essi dico: goditi pure il presente «sed praeteritum tempus non oblivisceris». Per questo motivo sono indotto a ricordare io alcune cose che mi tornano spesso alla mente e par mi dicano: «Perché‚ non le scrivi a futura memoria per chi dopo di te verrà? Potrebbero essere interessanti e di paragone!». SantʹAntonio Maria Gianelli un giorno disse: «Dimenticando il passato non viviamo in pienezza il presente e rendiamo difficile il futuro». Sono dʹac‐ cordo con Lui perché il futuro è lʹesperienza del passato.

Mi me ricordu che vêi Barbazeà a lʹea cuscì

L’Autore

Barbagelata oggi

11

12

Gli abitanti del paese

allora ecco! Comincio col presentare gli abi‐ tanti di Barbagelata; quantiE e chi erano intorno agli anni 1920‐1925 quando io ave‐ vo sei, otto, dieci anni ma nulla mi sfuggiva. Per essere più preciso li ricorderò col loro nome in dialetto. Nellʹunica casa un po’ staccata dal paese, sulla strada che por‐ ta alla fontana, viveva un uo‐ mo solo, piccolino, molto vec‐ chio e assai burlone; si chiama‐ va Caasetta (calzetta). Aveva due figli (io ne conobbi uno solo) ma non vivevano con lui. Io conobbi solo Stivi; lʹaltro, trasferitosi altrove e non so dove, mi pare si chiamasse Zor‐ zu. U Caasetta faceva o aveva fatto, finché poté, il mulattiere. A Cà du Caasetta Non ho mai conosciuto sua moglie, forse morta prematura‐ mente. Venendo dalla fontana ed entrando in paese, la prima casa era di un certo Riccu emigrato nelle Americhe, mai conosciuto. Nella casa contigua, in fun‐ du a u risseu cʹera la famiglia de Piri con la moglie Marinìn proveniente da Santa Brilla. Piri era accanito cacciatore di lepri e amante del vino. Famose erano le sue sbornie, accompagnate da fuochi d’artificio. Non avendolo trovato tra gli atti di battesimo della parrocchia devo sup‐ porre che sia nato negli Stati Uniti come suo fratello Riccu. Ricordo che a volte spiccicava parole in inglese ed era solito dire «olrait»1 e «sanavabìc». Quest’ultima parola la rivolgeva specialmente a chi non gli andava a genio ed era una fortuna che la persona che riceveva l’insulto non sapesse l’inglese perché sarebbero stati guai seri. Infatti la frase tradotta in italiano, dall’inglese “son of a bitch”, vuol dire letteralmente “figlio di puttana”. Del significato sono venuto a conoscenza solo recentemente da mio figlio che parla l’inglese correntemente e confesso che il mio giudizio su quest’uomo è cambiato totalmente perché ritenevo che quella parola volesse significare che la persona a cui era indirizzata fosse furbetta. Infatti in gergo locale bicciu vuol dire furbo. Guarda un po’ cosa bisogna venire a sapere!

13

La moglie di Piri era una spilungona magra che mise al mondo tre maschi, Deliu, Vittoriu e Carlittu (Vittorio e Carlitto, poi morti) e quattro femmine: Virginia, Luigia, Emilia e Rina. Ricordo che esse nella buona stagione anda‐ vano in Piemonte a fare le mondine (mondariso) e al ritorno arrivavano con in testa un sacchetto di riso ciascuna: era una parte della paga in natura che veniva data alle lavoranti. Così era per le raccoglitrici di olive che riceveva‐ no un fustino di olio. In inverno in Riviera a cogliere olive o a Genova a fare le donne di servizio presso famiglie benestanti, il loro luogo di conve‐ gno con le altre della zona, alla domenica, era piazza Colombo. Salendo u risseu si era di nuovo sulla strada e passata a crumbea, di cui poi parlerò, cʹera la famiglia de Picciùn. Rusinn‐a, nuora du Caasetta, il cui mari‐ to si chiamava Stivi che per il suo modo strano di comportarsi, non però violento, fu ricoverato nellʹIstituto Psichiatrico di Quarto e lì, dopo molti anni, morì. In questa famiglia cʹerano tre maschi e una femmina: Steìn, Pip‐ pu (detto Campana), Dria (detto anche Billi) e Maria che per toglierla dalla situazione sia economica che educativa, mia madre affidò a una famiglia di americani di Favale, i Cordano, dove visse fino alla morte avvenuta non molti anni fa. Fu lʹultima sopravvissuta della famiglia spentasi senza eredi diretti. Proseguendo nel caruggiu che porta alla chiesa cʹera un androne scuro sen‐ za porta che immetteva a un ingresso e a una scala. Era la Cà de Ustinn‐a (Agostina) la cui famiglia era detta anche de Carlìn, il quale aveva sposato Angiulinn‐a du Grixiu con due figli e tre figlie, Ivo e Vianello, Dalia, Elsa e Oliva. Dalia morì giovanissima in cà du Riccu di t.b.c. e Vianello di un male strano che lo portò alla tomba ancora molto giovane. Ora anche Ivo è morto lasciando però una famiglia con un maschio e tre femmine di cui parlerò a tempo debito per non imbrogliare le notizie e andare fuori tempo. Di Ustin‐ stinn‐a non ho mai conosciuto il marito come non ho mai conosciuto la mo‐ glie di Caasetta e la moglie di Davidde di Tilìn, di cui parlerò fra poco. Subito dopo lʹandrone scuro detto purteghettu cʹera la famiglia du Grixiu la cui moglie era Rusinìn: famiglia numerosa, numerosissima se si pensa che vivevano in una casa ristrettissima, quella a fianco alla mia che un tempo era detta a scheua. Cercherò di ricordare tutti i membri della famiglia ossia i figli: Angiulinn‐a, già ricordata nata nel 1894 e deceduta a 102 anni nel 1996; Marinìn, sposata‐ si a Piano della Chiesa; Linda emigrata; Meneghìn; Davidìn ex carabiniere deceduto giovane; Pippu, biondissimo, emigrato in America e Federico an‐ che lui deceduto anzi tempo. Nella mia attuale casa non abitava nessuno; dapprima era adibita a stalla e fienile, poi adattata a scuola elementare finché vi furono alunni, trasferita a Costafinale e infine chiusa definitivamente per mancanza di alunni. Fun‐ zionò una scuola sussidiata e maestro era il Parroco. Svoltando sotto casa mia si percorreva una strada detta sutta a ôta ma detta anche strà di gaggiùn, i letamai, o delle stalle perché‚ a destra e a sinistra vi erano letamai e poz‐ zanghere di urina di mucca, perché‚ appunto vi erano alcune stalle: quella du Grixiu, quella de Carlìn quella de Pipìn di Costafinale e quella de Piri. In questa strada abitava una donna minuta, molto anziana, buona e gentile di nome Marinn‐a. Viveva sola, era vedova ma aveva due figlie: una sposata a

14

Rapallo in località Pianello di nome Tugnetta, una suora (non so di che ordi‐ ne) di nome Domenica e un figlio di nome Davidde detto anche Patalìn, per‐ ché piccolo. Era emigrato negli Stati Uniti; tornò senza avere fatto fortuna. Era un uomo buono ma aveva anche lui un difetto: amava bere. Alla sua casa si accedeva con una scala in pietra che portava a un pianerottolo e di lì a un unico locale che serviva da cucina e da camera da letto.

Tornando indietro troviamo la chiesa e al di là della chiesa una costruzione in muratura detta cascinn‐a de Frascùn. Un tempo però doveva essere la più bella casa del paese. La pietra era lavorata dagli scalpellini e unica nel pae‐ se aveva u purteghettu cioè un ballatoio con sotto una volta in pietra, e non in mattoni, con una porta che dava accesso al fondo della casa lato monte. Si accedeva al ballatoio con tre scalini rivolti a monte e la casa aveva due corpi: quello verso monte più antico e quello verso sud (con due ordini di finestre) aggiunto successivamente. A fianco nellʹappezzamento detto ortu cʹerano i ruderi di un altro fienile che da una fotografia, che spero di rinve‐ nire, aveva la stessa forma dei pagliai che erano in paese.

Salendo la rampa tra detta costruzione e la chiesa, tra mezzu a gexa de là, si arrivava alla strada detta strà da costa si trovava addossata al monte una costruzione in pietra, ora fatta semidemolire, detta Cascinn‐a de Richìn. A sinistra e lungo questa strada aveva e ha ancora inizio una serie di case, lʹuna unita allʹaltra. La prima, che è staccata dalla chiesa da unʹaltra rampa detta tra mezzu a gexa de chì era di Davidde lungu, detto anche u mericanu. Infatti era andato in America ma non credo abbia fatto molta fortuna. Face‐ va il ʺguardia fuocoʺ mestiere oggi scomparso. Ricordo che venne in Italia, mi pare, due volte. La seconda volta venne o scappò di là perché‚ in un bar, durante una rissa uccise un uomo. Stette qui finché là le acque si calmaro‐ no. Poi emigrò nuovamente.

Nella seconda casa vivevano due fratelli celibi: Natale e Carlottu. Natale da ragazzo era sordomuto, ma non credo in modo grave perché a presso lʹIstituto Assarotti fu educato convenientemente e acquistò lʹuso del‐ la parola e anche dellʹudito, non in modo perfetto ma comprensibile. Era un uomo alto, magro ed era, almeno così lo vedevo io, molto buono. Amava raccontare, per metterci un po’ di paura e farci stare buoni, fatti di fanta‐ smi, di spiriti, di catene, di diavoli, e mio fratello Antonio gli dava corda. Suo fratello Carlottu era tuttʹaltro uomo: gretto, rozzo e sparagnino.

Seguiva poi la famiglia de Frascùn che io non conobbi perché emigrata al completo in Argentina. Non so quanti figli avesse ma so che due si chiama‐ vano Federico e Masilio come me. Credo siano emigrati nel 1914 perché‚ poi nel 1915 scoppiò la guerra contro gli austriaci e le emigrazioni furono sospese. Mio fratello Antonio mi diceva che il figlio Masilio partì non con i calzoni ma cun u robìn come se fosse una femminuccia perché si era seduto sul coperchio della stufa e si era bruciato il sedere. Andarono tutti in Ar‐ gentina e a Mendoza impiantarono, quando poterono, un vigneto e si mise‐ ro a commerciare uva e vino. Devo riconoscere che solo per il fatto di essere emigrati in massa e aver iniziato unʹattività che nemmeno conoscevano, erano intraprendenti e coraggiosi. Eppure a Barbagelata non mancava loro il pane perché‚ avevano la proprietà più grande che ci fosse in paese. Que‐ sta proprietà, case e terre, lʹacquistammo noi, i miei fratelli e io, molti anni

15

dopo la loro partenza. Quando partirono lasciarono custode (procuratore) dei loro beni mio padre con lʹincarico di dare una parte delle terre in como‐ dato a Piri e metà cascina di là della chiesa e già descritta, alla famiglia de Davidde di Tilìn con il terreno in simma da muntà. Mi raccontava mio fratello Antonio (che aveva 17 anni più di me) che Fra‐ scùn era un tipo ameno, assai bizzarro e indisponente per il suo comporta‐ mento, un po’ con tutti e perfino con il Parroco, e sapeva fare anche dei tiri mancini. Aveva, per esempio, addomesticato, proprio in fondo al bosco, in tu beu di runchi un tratto di selvatico e vi aveva fatto tre fasce. Forse lo fece per avere un luogo più caldo per coltivarvi chissà che cosa, ma aveva un difetto: era molto lontano dal paese e in luogo disagevole: per raggiungerlo ci voleva in discesa una buona mezzʹora. In salita poi!! Per concimare quel‐ la terra ci voleva molto letame, u rûou, e siccome non aveva bestie da soma per trasportarlo cun e banastre si serviva della bena che legata alla lesa scivo‐ lava ed era trattenuta o tirata col timone. Questo sistema aveva però un difetto. In discesa andava tutto bene, ma in salita, al ritorno bisognava met‐ tersela in spalla e camallà. Frascùn aveva trovato un espediente che, almeno per una volta, funzionò. Cominciava col caricare di letame la sua bena e la tirava fino in fondo al bosco. La scaricava e la lasciava lì. Ritornava su a piedi e andava da Piri e gli diceva: «O Piri, ti mʹa prestiesci in po’ a to bena. A me a me s’è rutta!!»2 e Piri gliela prestava; Frascùn la caricava, la tirava in fondo al bosco, la rove‐ sciava e la lasciava lì. Risaliva, andava da u Grixiu e senza farsene accorgere ripeteva la stessa litania. E poi andava da Cristoffu, e poi da Richìn e da Da‐ vidde finché‚ tutte le bene erano laggiù ben parcheggiate. Era un uomo stiz‐ zoso e pe nu ratellà3 i proprietari andavano a recuperare le loro bene. A fianco e unita alla casa de Frascùn, ma col tetto più basso, quindi a un solo piano oltre alla stalla, ora garage (di fronte alla mia attuale casa) cʹera la casa di Tilìn. Capo famiglia Davidde, due figli maschi, u Stinìn che si fece tutta la prima guerra mondiale in fanteria, e u Reliu, un uomo celibe, molto ingegnoso, malaticcio (dispeptico direbbe il poeta Virgilio) e sempre la‐ mentoso. Sapeva suonare lʹarmonica a bocca e un poco anche la fisarmoni‐ ca a tastiera e mantice, quella che i francesi chiamano ʺacordeonʺ. Si diletta‐ va a fare bastoni in cu a ciga o peguee; a intrecciare cortecce o fibre per fare cesti, cavagne, alli, bene, seccarecci per funghi detti sgreise, banastre, sgambisce per mucche per appendervi i sonagli durante il pascolo, muriaggi, gambe de scuriatte e riparare attrezzi vari. Diceva sempre che lui avrebbe vissuto vo‐ lentieri a Genova, dove aveva dei parenti che abitavano in salita degli An‐ geli e avrebbe fatto volentieri il ʺfumistaʺ ossia l’impiantatore di stufe e re‐ lative canne fumarie, lavoro in quei tempi assai in voga. Cʹerano poi tre figlie Suntinn‐a, sposatasi nella frazione Cornaro in cu Gìn, Emilia emigrata in America e Parminn‐a; nubile rimasta a tirare il carro, a subire le bizze di suo fratello Reliu. Fu lʹultima a morire e il decesso avvenne non molti anni fa allʹOspedale di San Martino. Avevano tutti un sacro terrore dei morti e se in famiglia avveniva un deces‐ so si chiudevano in uno stanzino attiguo alla cucina dove tenevano latte, formaggio e altre derrate, detto cameìn. Era infatti un locale col tetto ancora più basso di quello della casa e addossato alle spalle della cà de Segretta e di quella de Richìn.

16

La cà de Richìn è lʹultima della fila ora descritta e dà sulla piazzetta del pae‐ se, detta ciassa pruxia (non perché vi fossero le pulci, anche se i cani non mancavano mai a stare in dozzina, ma perché‚ piccola, appena più grossa di un crocevia). Anche questa casa era la dimora assai ristretta di una fami‐ glia numerosa. Cʹera Richìn con la moglie Silvia di Roccatagliata e i figli Serafìn, Tugnìn, Pippu e Gustu e con le figlie Clelia e Giuseppina. I primi tre emigrarono nellʹAmerica del Sud; vi andò anche Gustu, ma in tre mesi ʺvia mareʺ partì e ritornò, dicendo che «lavorando così lʹAmerica era anche a Barbagelata». Egli era di unʹaccidia e di una taccagneria impareggiabili e con i turisti, ve‐ stito miseramente, sapeva tanto farsi commiserare che alla fine, prima di lasciarsi, qualcosa racimolava. In casa sua non volle luce elettrica, non volle acqua corrente, quando tutto ciò fu fornito, perché‚ diceva che le comodità bisogna pagarle ossia rugà in tu bursìn4. Però era a tutti noto che aveva un conto in banca a e che, assieme a un uomo della frazione Tarsogni di comprò nel comune di un rustico con terreno. Era comunque intraprendente e direi anche coraggioso, perché‚ non tentò solo lʹavventura dellʹAmerica. Andò anche in Abissinia a costruire strade, logicamente come manovale, con picco e pala. Ebbe a che fare con le pulci penetranti, quei piccolissimi insetti che si insinuano, senza che tu te ne ac‐ corga, sotto le unghie e provocano febbre e dolori. Anche di laggiù tornò scornato e, non pago, andò in Val dʹAosta a Cogne nelle miniere, ma biso‐ gnava sudare e anche di là tornò deluso, vale a dire non resistette molto A ridosso della casa de Richìn e di Tilìn cʹera e cʹè tuttora la cà de Segretta, con ingresso nel caruggiu a mezzo di una scaletta e proprio davanti alla ca‐ sa dove abito io. Segretta era, come lo ricordo io nella mia prima fanciullez‐ za, un uomo anziano, mingherlino, magro e di un pallore cadaverico. Vive‐ va in solitudine, parlava poco e non dava fastidio a nessuno. Sopportava pazientemente noi ragazzi che magari gli facevamo dei dispetti. Di fronte alla cà de Frascùn, addossata al monte si ergeva e si erge tuttʹora la canonica, ora abbandonata e in via di degrado: la casa del prete. Era parro‐ co allora e lo fu per moltissimi anni Pree Gioxeppe, Giuseppe Cavagnaro, proprio con lo stesso cognome di tutti gli abitanti di Barbagelata, ma era di Balano di Verzi, del luogo da cui provenivano i nostri progenitori. Qui è pertanto dʹuopo dire con G. B. Vico che i ʺCorsi e ricorsi della storiaʺ sono veri ed è vero il proverbio che ogni cento anni lʹacqua ritorna al suo muli‐ no. Fu questo prete che mi battezzò, che mi fece fare la prima comunione e mi fece impartire dal Vescovo di Chiavari, mons. Amedeo Casabona, la cresi‐ ma. Fu Pree Gioxeppe a impartirmi i primi rudimenti del leggere e dello scri‐ vere, finché‚ mio padre, che aveva vedute più ampie, decise di affidarmi al Padri Somaschi del collegio San Francesco di Rapallo dove stetti per ben sette anni con grave dispendio per la mia famiglia. A principio fu per me, che ero come un cerbiatto in mezzo ai boschi, un trauma, ma piano piano mi abituai anche se la disciplina era ferrea. Mi ci abituai come si abituano i detenuti in carcere a scontare una lunga pena. Ed ecco la mia famiglia. La casa, la più grande del paese, costituiva ʺL’Antica Osteria Cristoforo Cavagnaroʺ, un esercizio pubblico che risale al tempo del tempi, con riven‐

17

Giovani del paese in Ciassa Pruxia

dita di sali e tabacchi e generi alimentari. Ricordo il timbro ovale che mio padre metteva sulle cartoline con la veduta del paese. Cʹera scritto ʺAntica Osteria Cristoforo Cavagnaro ‐ Barbagelata, m 1122ʺ.

Capofamiglia, o meglio ʺPater familiasʺ, era Cristoffu, un uomo meraviglio‐ so, gentile, garbato, ben voluto da tutti; pio, devoto, cattolico praticante: tutte le sere nella sua stanza, che fosse caldo o vi fosse una temperatura sotto zero, recitava da solo il suo santo rosario. Era un lavoratore indefesso e non conosceva sacrifici. La sua terra era la sua vita e la curava con soler‐ zia e amore. La sua devozione verso la Madonna di Montallegro o dei Mi‐ racoli di Cicagna era un rito. Partiva di buonʹora e nelle festività di quei santuari si recava a piedi e digiuno per poter fare la comunione. E per lui il digiuno, il magro e lʹastinenza non ammettevano deroghe. Una persona che lo conobbe e lo amò, riamata, ha scritto su mio padre quanto segue: «Era inoltre un vero anfitrione. Sapeva accogliere gli ospiti con un dolcissimo sorriso, faceva sentire tutti a proprio agio, pronto a preparare con semplici‐ tà e perizia i suoi piatti, tutti presi dalla cucina tipica genovese. A fine pasto o a fine soggiorno ognuno si sentiva vicino un amico. Difatti le persone lo consideravano un vero amico sincero, cortese, affidabile. Ha ricevuto mini‐ stri e onorevoli, e semplici persone, vescovi, sacerdoti e tutti trattava con gran signorilità. Era già sufficiente per notare la sua particolare umanità sentirlo rispondere a chi gli diceva «Buongiorno, Cristoforo», «Che Dio n’ou dagga».

18

Cristoforo Cavagnaro

Quando, durante la guerra, i partigiani chiedevano cibo non ha mai negato nulla a nessuno e non ha mai vantato ciò che ha fatto in quegli anni terribi‐ li. E quando gli hanno bruciato le case e tutto ciò che aveva e ha dovuto dormire sulla nuda terra, non ha mai commentato, non ha maledetto nessu‐ no; si è alzato, aveva 70 anni, e prendendo una pala ha detto: «Ricominciamo» e incominciò a spalare le macerie infuocate della sua casa. Morì a 87 anni col sorriso sulle labbra e tenendo con una sua mano le mie mani. E cʹera mia madre Rusinn‐a, originaria di Costafinale, un carattere tutto ʺsui generisʺ. Era caritatevole forse più per il prossimo che per i suoi figli. Nei miei riguardi era meno disponibile che per gli altri. Il suo cocco era Pippu, il suo primo figlio. Lui e lei tenevano sempre la caffettiera sul fuoco. Il caffè era la loro panacea. Entrambi erano i custodi e gli amministratori del sacro fuoco familiare. Cʹera poi Antonio, Tugnìn, che era figlio di mio padre, ma di unʹaltra don‐ na, la prima moglie morta, credo, di parto. Così mio padre sposò la sorella di costei e da essa nacque un bimbo nato e morto. Poi venne Pippu e poi una figlia dai capelli dʹoro di nome Angela, che morì nellʹestate del 1914 quando io avevo 6 mesi. Morì di un male che allora non perdonava: la dif‐ terite. E io, ripeto, avevo sei mesi ed ero allattato dalla madre che curava la figlia di una malattia infettiva. Posso immaginare quantʹera sostanzioso quel latte di una donna che subiva e aveva subito un trauma simile.

19

Cristoffu e Rusinn‐a Cavagnaro

20

Cristoffu e Rusinn‐a Cavagnaro

Ma era destino chʹio mi salvassi come fu destino che mi salvassi nel 1918 in mezzo a quellʹepidemia detta ʺspagnolaʺ che mieté più vittime della guerra che stava per finire. Non riuscirono mai a farmi ingoiare, me lo ricordo be‐ ne, una pillola di chinino, unico rimedio allora in uso, per quanto me la ficcassero in bocca. Ho detto di mio fratello Tugnìn, Antonio, ma devo ritornare su di lui per‐ ché‚ era un uomo singolare per non dire eccezionale. Aveva, come si usa dire, una mente matematica; conosceva tutte le misure locali della Repub‐ blica di Genova, il che è tutto dire, e mentalmente, ripeto mentalmente, sa‐ peva trasformarle nelle misure attuali del sistema metrico decimale. Cono‐ sceva la cannella e sapeva dire a occhio quante ardesie erano necessarie per un tetto o una sua parte; il palmo; il barile per il vino; i rubbi, le libbre, e unse per pesare; lʹuso della bilancia a mano o del càntaro erano il suo pane quotidiano; sapeva risolvere unʹequazione di primo grado sempre mental‐ mente e non aveva fatto che la terza elementare. Cʹera da restare allibiti

1 In inglese “all right”, tutto bene, va bene 2 O Piri, me la presteresti per un po’ la tua bena? La mia è rotta. 3 Per non litigare 4 Grattare nel borsellino

21

Barbagelata prima dell’arrivo della strada

22

I miei ricordi della prima fanciullezza

o detto che questa era la situazione delle famiglie del paese intorno agli anni 1920‐1930. Ma i miei ricordi chiari, nitidi e incancellabili H risalgono a quando io avevo tre, quattro anni, ossia al 1917‐18, gli anni della prima guerra mondiale. Ricordo per esempio che mio fratello Antonio era stato chiamato alle armi, e alle armi cʹera già mio padre, del 1874, lʹultima leva chiamata per fare servizio nelle retrovie. Mio fratello Antonio venne però rimandato a casa e la sera che arrivò mise sul tavolo una pagnotta rotonda, scura, avuta al distretto prima di partire. Quella pa‐ gnotta ogni tanto mi appare davanti agli occhi come se fosse stata una cosa preziosa. Altro ricordo indelebile: una sera arrivò in permesso o breve licenza mio padre. Io dormivo già e lui non mi svegliò, però al mattino mi svegliai pre‐ stissimo, prima di tutti gli altri e andai in cucina e vidi appesa a un chiodo della grè, su in alto, la giubba militare; capii che era giunto papà ma non corsi da lui in camera. Ero curioso di sapere cosa mi avesse portato e non arrivando alla giacca perché‚ piccolo, presi un bastone e tanto feci che la giacca cadde. Frugai nelle tasche e «Dio mio!» in una cʹera la sua pipa di gesso dal lungo bocchino, allora tanto di moda, che nella caduta si era rotta perché‚ fragilissima. Quando mio padre scoprì la malefatta io mi aspettavo un rimprovero e invece mi prese in braccio e mi coprì di baci.

I “barchi”

23

Un altro ricordo sempre della stessa età lʹho di una mia zia di Costafinale, che alla domenica quando veniva a messa, prima passava in casa nostra. Ricordo la panca su cui sedeva e quando faceva freddo indossava uno scialle a grandi quadri gialli e neri. Questa zia morì di parto dopo aver avu‐ to già cinque figlie. Voleva il maschio, ma non so per quali complicanze il bimbo nacque morto. Ricordo anche che la vigilia del funerale, verso sera, mio padre portò in chiesa la piccola bara del neonato e mi pare ancora di vederlo, triste e sconsolato (io ero sulla piazzetta) procedere lento lungo la strada che da cà du Caasetta o du pussettu porta al paese. E ricordo che il giorno dopo, fatto il funerale, interrarono la zia con sopra alla sua bara quella del neonato. La mia curiosità era infinita e nulla mi sfuggiva; tutto volevo sapere, tutto volevo vedere ed è per questo, penso, che i miei ricordi sono così vividi ancora oggi. E ancora: un giorno, quando mio padre era già a casa, passò un gruppo di disertori. Avevano catturato non so dove un bel gatto. Lo uccisero, lo scuoiarono e ripulirono, e lo portarono a mio padre perché‚ glielo cuocesse. Mio padre non poté rifiutarsi e fece del suo meglio. La pietanza mandava un profumo invitante e anche se un po’ con riluttanza, egli ne assaggiò un po’, convenendo che era veramente squisita.

24

Le parentele

arenti stretti in paese la mia famiglia non ne aveva. Zii, zie, cugini e cugine erano tutti a Costafinale e Piano della Casa. U Caasetta aveva figlio, nuora e nipoti nella famiglia detta de Rusinn‐a o de Picciùn, i qualiP i primi parenti li avevano anchʹessi a Costafinale (Costafinà) e Pian della Casa (Cian da Cà). Non aveva parenti nemmeno la famiglia di Tilìn, mentre tutte le altre famiglie, esclusa quella del Parroco, la cui Perpetua si chiamava Nocentinn‐a, avevano uno stretto intreccio tra loro. U Riccu era per esempio fratello de Piri e de Carlìn che avevano inoltre anche due sorel‐ le, Rosi sposatasi a Cassinetta e Meimi sposatasi a Ottone Soprano (Tunseràn), madre fra lʹatro di mia cognata Maria.

Madre di costoro era Ustinn‐a di cui io non conobbi il marito. A proposito di Ustinn‐a, ricordo che un giorno passarono a Barbagelata degli zingari (oggi si chiamano Rom) e una zingara lesse la mano a Ustinn‐a e fra le tante profezie, che io curioso stavo a sentire, le disse che sarebbe morta il giorno dellʹAssunzione, non di quellʹanno, ma di un anno di là da venire. Ebbene, non ci crederete, ma alcuni anni dopo, proprio il giorno dellʹAssunta, 15 agosto, Ustinn‐a morì. Io me ne ricordai e restai alquanto perplesso.

E poi cʹera una sequela di fratelli da lasciar allibiti. Erano fra loro fratelli Davidde u mericanu, Natale e Carlottu, Richìn e u Grixiu. Penso che fosse loro fratello, o almeno primo cugino, anche Frascùn perché‚ la sua casa era, ed è, nella fila di quelle de Davidde, Natale, Carlottu e Richìn e che tutti i suoi ap‐ pezzamenti di terra confinavano da un lato con quelli dei fratelli citati e a volte addirittura in mezzo. Pertanto devo dedurre lʹaffinità di parentela. Pensate che famiglia numerosa doveva essere: cinque o sei fratelli e forse qualche sorella di cui però io non ho mai avuto sentore. Solo mio padre o qualcuno di costoro se fossero vivi potrebbero risolvere i miei dubbi.

Ma da dove proveniva tutta questa gente? Non quelli che fin qui ho nomi‐ nato, ma i loro progenitori, di alcune generazioni precedenti. Venivano da Verzi, frazione del Comune di Lorsica. Nel tempo dei tempi, certe famiglie di Verzi, Balano e dintorni, portavano durante la buona stagione, da mag‐ gio a ottobre, il loro bestiame al pascolo nelle terre di Barbagelata, Costafi‐ nale, Scorticata (Scurtegà) e Piano della Chiesa (Ciàn da Gexa), che logica‐ mente allora esistevano solo come casùn, povere costruzioni in pietra come tuttora si può vedere in Feia di Corsiglia. Nel frattempo che le mucche pa‐ scolavano, cosa impossibile nei loro luoghi di provenienza per lʹaccidentali‐ tà del territorio, i pastori facevano, dove era possibile, fienagione. Il fieno, prima che arrivasse lʹinverno, veniva portato a spalle a Verzi e ivi era con‐ dotto anche il bestiame. Come in tante altre parti dʹItalia, anche qui cʹera la transumanza, motivo tanto caro al poeta Gabriele DʹAnnunzio.

25

La cosa era molto faticosa e così molti pensarono di migliorare la casa con la stalla e fermarsi anche dʹinverno a far consumare il raccolto al bestiame sul posto. Dalle mucche, dalle pecore e dalle capre traevano il loro sostenta‐ mento. Lo stesso deve dirsi per la gente di Santa Brilla, Cornaro e Posazzo gente che però veniva da Moconesi Alto. Si spiega così perché queste terre siano isole dei comuni di Lorsica e di Moconesi anche se con la madre pa‐ tria non confinano e sono solo tutte unite nella parrocchia di Barbagelata.

A questo punto bisogna fare un po’ di storia del paese. Aveva questa gente, che portava al pascolo il bestiame stagionalmente, una chiesa? Certamente sì, ma non lʹattuale con tanto di campanile. La chiesa loro era probabilmente quella che è attualmente il cimitero. Infatti da lavori fatti per costruire la cappella del cimitero, io e il muratore che era di Lorsi‐ ca e si chiamava De Martini, scoprimmo con grande meraviglia che sul lato verso il mare cʹera unʹacquasantiera scavata in un masso; che le pareti del muro erano intonacate con calce fatta sul posto e in perfette condizioni e che a due metri esatti sotto la terra di riporto cʹera un pavimento in ardesia con le consuete lastre di 40x40.

Le bare dei defunti venivano interrate infatti a tale profondità, che era quel‐ la stabilita dalle leggi, e posate su detto pavimento. Cʹera lì quindi una pic‐ cola chiesa che da ricerche fatte era il posto tappa dei monaci di San Co‐ lombano che dallʹabbazia di Borzone giungevano, per poi proseguire per Bobbio, casa madre, e viceversa, essendo Barbagelata a metà strada. E ciò risale a prima dellʹanno 1000 perché‚ poi nel 1200 i monaci di Borzone la‐ sciarono quellʹabbazia per rientrare a Bobbio e Pavia, allora capitale dei Longobardi. Le vicende politiche e religiose che interessarono questi due monasteri, che passarono anche loro un periodo di crisi, lasciarono andare in rovina la chiesa che io in termini francescani chiamerei porziuncola. La presenza di questi frati è confermata anche dai nomi propri che la gente del posto portava e che si tramandava di padre in figlio; forse perché‚ nei loro passaggi erano gli stessi frati che impartivano il battesimo e imponevano il loro nome o quello di un loro confratello. Mio padre ad esempio si chiama‐ va Cristoforo; un mio trisavolo si chiamava Romualdo; un cugino emigrato poi a San Francisco in California si chiamava Gaetano. Altri Benedetto, Ge‐ sualdo, Patrizio, perché San Colombano veniva dallʹIrlanda. Antonio è l’unico nome che ancora si tramanda: tutti gli altri sono caduti in disuso, ma erano di impronta monacale e stanno a testimoniare la presenza di que‐ sti religiosi. Il legame di questi miei e nostri antenati con la Parrocchia di Verzi durò a lungo. Infatti si sa che le persone che morivano su questi monti venivano portati a spalle al cimitero di Verzi affrontando un percorso accidentato e lunghissimo: tre ore di cammino per un viandante libero da ogni cosa; 4 o 5 ore per un funerale o per uno con un carico in spalla. Percorrevano la strada della Fontana dʹAveto; superato il passo del Gabba, sottocosta arrivavano fino al bivio della strada che porta al monte Caucaso. Fino a questo punto la strada era pianeggiante. Arrivati al bivio che era detto Partie de Neiùn la strada cominciava a scendere, ma non è che fosse agevole; si faceva invece accidentatissima perché‚ bisognava attraversare una specie di paesaggio lunare detto Riè. Rocce, ovunque, pietre in movi‐ mento, percorso durissimo. Cʹè un punto in questo luogo dove i portatori

26

della bara si fermavano perché‚ un masso enorme a forma, grosso modo, di parallelepipedo offriva lʹopportunità di posarvi la bara. Ancora oggi questo punto della strada si chiama a posa. I pastori‐contadini stabilitisi nella zona non potevano continuare a soppor‐ tare tanto disagio e a non avere una chiesa. Fu così che ne costruirono una, piccola piccola, col coro rotondo e anche con piccoli fregi pittorici a 150 me‐ tri sopra lʹattuale cimitero e sotto una roccia, a ria, che riparava sia dal ven‐ to di mare che di tramontana. In seguito fu ampliata con unʹaggiunta, che deturpa tuttora la parte vecchia, salvo il campanile costruito con tutti i cri‐ smi architettonici. Vennero quindi nella determinazione di dotarsi di un cimitero per farvi riposare i propri defunti senza tanti scossoni nel trasloco e tanta fatica per i vivi. Utilizzarono così i muri di cinta della porziuncola benedettina, chiuse‐ ro la porta rivolta verso levante e ne aprirono una sul lato opposto. Si mise‐ ro a scavare terra nel prato vicino, formando due vallette che ancora si pos‐ sono vedere, per portarla nel recinto cimiteriale, formando uno strato livel‐ lato dellʹaltezza di due metri. Qui cominciarono a seppellire i loro defunti. Due primi atti di indipendenza e autonomia sʹerano compiuti!! E il prete? Probabilmente era quello di Verzi che alla domenica, pedibus calcantibus, saliva, saliva lʹerta che i suoi parrocchiani prima discendevano con tanta fatica. Corsi e ricorsi della storia ... ora avviene altrettanto, ma con motori ruggenti. La chiesa infatti fu per molti anni (alcune centinaia) una rettoria di Verzi. Tutte le frazioni nominate furono nel 1200‐1300 possedimento dei Conti Fieschi di che avevano esteso il loro dominio su tutte le valli dell’hinterland del Tigullio, compresa la Val Trebbia, fino a Marsaglia. A Roccatagliata e a avevano due castelli con torri per difendersi dai nemici provenienti da Nord e da Ovest, in modo particolare da Geno‐ va. Nel castello di Roccatagliata, di cui non restano più tracce, la famiglia Fieschi veniva a trascorrere i mesi estivi e ivi soggiornò anche Dante Ali‐ ghieri, che in fatto di elemosinare ospitalità era famoso. Cʹè da supporre che nel suo peregrinare sia salito anche al passo del Portello per andare anche allʹaltro castello, quello di Torriglia. Dal passo del Portello si gode un vasto panorama che spazia dalla Val Trebbia, col monte Antola, a tutta la valle della Fontanabuona, chʹegli chiamò Fiumana Bella. Lo ricorda nel XIX canto del Purgatorio quando dice: ʺIntra Siestri e Chiaveri sʹadima una fiu‐ mana bellaʺ. Infatti Siestri è un piccolo gruppo di case, le più in alto della valle di , aggrappate ai piedi del monte Lavagnola da cui sgorga una sorgente che dà origine al torrente‐fiume Lavagna. Dal passo del Por‐ tello si vedono, proprio lì sotto, a un tiro di sasso, queste case diventate famose nel canto della Divina Commedia e dalle quali trasse lʹispirazione poetica. La dominazione dei Fieschi, come tutte le cose terrene, ebbe fine quando la Repubblica di Genova, stanca di avere alle costole gente che la ostacolava nei suoi traffici marittimi e terrestri e nella sua inevitabile espansione, sot‐ tomise anche questa zona. Ecclesiasticamente Barbagelata fece parte della Diocesi di Genova fino a quando non fu istituita la Diocesi di Chiavari nel 1893. Sia allora che ora è sempre stata un territorio che si incuneava tra le Diocesi di Tortona e di Bobbio.

27

A scheua A cà du Caasetta

Arrivarono i Francesi di Napoleone, e nolenti e dolenti gli abitanti dovette‐ ro subire e servire. Stando a quanto raccontavano i più anziani del paese, che a loro volta lo avevano appreso dai propri padri e nonni vissuti appun‐ to intorno al 1800, i francesi non erano molto ben visti e i montanini in qualche modo lo dimostravano di fatto. Raccontavano infatti che al bivio delle Partie de Neiùn un gruppo di contadini armati alla bell’e meglio attac‐ cò un reparto di soldati francesi con tanto di muli carichi e con la cassa per la paga dei soldati. Nello scontro i montanini, scarpe grosse e cervelli fini, ebbero la meglio e si portarono via i muli col loro carico. Per far perdere le loro tracce tolsero ai muli i ferri dagli zoccoli e poi ve li rimisero ma alla rovescia, cosicché le orme andavano per un verso e i muli per il verso op‐ posto. Questo raccontavano i vecchi e forse è da credere per l’innato spirito di libertà dei Liguri. Dopo il 1815 le terre furono unite allo stato Sardo‐Piemontese con i Re di Casa Savoia. Oggi è territorio della Repubblica Italiana fondata sul lavoro, per chi ce lʹha, ma più che altro sulla mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e sulle tangenti, tanto che è stata coniata una nuova parola: tangentopoli. Ma io ho anticipato i tempi perché‚ almeno uno di questi pe‐ riodi vide Barbagelata triste protagonista, come poi si vedrà.

28

Il lavoro

primi abitanti della zona dove io sono nato non possono essere chia‐ mati colonizzatori perché non era una vera e propria colonia, ma poco ci mancava. Oltre al pascolo e a un po’ di caccia si misero a rendere fertiliI quelle terre che non erano invase dal bosco: erano i così detti proi, prati, ma siccome erano quasi tutti in pendenza, la terra, se smossa, tende‐ va a scendere verso valle. Col sistema delle fasce e dei seggi ottennero lʹeffet‐ to voluto. Era un lavoro improbo che però resta ancora a testimoniare la titanica fatica. Le fasce erano strisce di terra in lieve pendenza sostenute dai seggi che non erano muri a secco come in tutta la riviera e nelle valli, ma erbosi e quindi idonei a essere falciati. Questi due termini non si trovano nel vocabolario genovese, ma fanno parte dellʹidioma locale. Tradotti in italiano dovrebbe dirsi terrazze o balze. Questo lavoro, cioè quello di togliere al bosco una sua parte, era definito addumestegà. Pertanto il terreno che poteva essere coltivato era detto dume‐ stegu e quello che era bosco di faggi, lʹalbero più comune, o ginestre, o rovi, ossia terreno incolto era detto sarvegu, selvatico, anche se di selva aveva ben poco. Ma in latino bosco si dice silva‐ae, quindi ... I terreni, poi, erano divisi in tanti cugneu, cunei, e tra lʹuno e lʹaltro un fosso, che se aveva acqua si chiamava beu. Le colture e quindi i prodotti erano il fieno, il lavoro più importante per il mantenimento del bestiame durante i lunghi mesi dʹinverno; il grano, la segala, lʹavena e lʹorzo; le patate, che era‐ no ricercate dal mercato per la loro squisita bontà; le rape e un po’ di ortag‐ gi che erano però curati ben poco, salvo la coltivazione dei piselli, freschi, teneri e maturi a fine luglio. Cʹera dopo la fienagione, a fine settembre, la raccolta delle felci per farne strame nelle stalle. Si diceva allora scraà i frecci. Le mucche, e cʹera chi allevava anche pecore e capre, davano latte, vitelli, agnelli e capretti. Il latte, data la distanza dai centri di raccolta, veniva lavo‐ rato, oltre che essere consumato come cibo, e da esso si ricavava formaggio, ricotta fresca da consumarsi subito, o salata da conservarsi. Era il così detto saassu che tanto piaceva a quelli di Feia. I residuati del latte, a sià, il siero di colore giallo, veniva mescolato con a zutta, un beverone che conteneva a‐ vanzi di cibo, pane raffermo, crusca ricavata dopo aver setacciato la farina, e di cui le mucche erano ghiottissime. La crusca era detta brennu, e il setac‐ cio siassu. Il grano veniva portato al mulino in Trebbie burche o a o a Castagnelo. La farina setacciata era usata per fare lasagne o tagliatelle, taggèin, o pane nel forno o focaccia profumatissima sotto la campana di ghi‐ sa, detta testu. Non cʹera una stazione di monta taurina. La più vicina era in Trebbie bur‐ che, da Giunara o a Villa Sbarbaro, unʹora di cammino, dallʹuna o dallʹaltra

29

parte. In seguito ne fu installata da Carlìn una anche a Barbagelata, ma non per molto. Interessante era la lavorazione del latte, che riassumerò in breve. In un grande paiolo di rame, a laesa, veniva messo il latte a scaldare, non a bollire. Raggiunto il grado di calore necessario veniva messo il caglio, che si chia‐ mava presù, una sostanza pastosa dal colore del dado Liebig, ricavato dallo stomaco di un vitello da latte di qualche mese e riempito di latte intero e, mi pare, un po’ di sale. Questa borsa appesa in cucina veniva lasciata essic‐ care e si otteneva una pasta, appunto il caglio o presù. Tornando a bomba, il latte si lasciava rapprendere, cagliare, quindi con un mestolo di legno il latte rappreso veniva rotto e raccolto cun a cassarea messo in fascelinn‐e più o meno grosse, che erano ciotole di legno con alcuni buchi perché‚ il siero colasse via, mentre con le mani, (che non dovevano essere mani calde) ve‐ niva premuto. Quello, dopo alcuni mesi e dopo la salatura, a sarmuia, era formaggio tenero o duro a seconda della stagionatura. Si faceva poi la ricotta facendo alzare il bollore al siero che era rimasto nel paiolo. Con la cassarea si raccoglieva quanto siero si era raggrumato e mes‐ so in una pezzuola bianca a scolare: era la ricotta. Prima di tutta questa lavorazione il latte era scremato e con la crema si fa‐ ceva il burro. Molti lo facevano nel fiasco; noi avevamo la zangola, u bitirà, un cilindro di legno alto più di mezzo metro dentro il quale scorreva un disco di legno col manico più lungo del cilindro. Alzando e abbassando sistematicamente e a lungo questo disco, la crema cedeva il suo siero e la parte cremosa si rassodava e ne veniva fuori un ʺpanettoʺ, u panettu de biti‐ ru, tanto apprezzato dai villeggianti. Lʹoperazione era detta tià u bitiru, e il panetto era anche il regalo che le famiglie contadine facevano a persone di riguardo per un favore concesso o da concedere. Piaceva tanto a mio fratel‐ lo Pippu, lui che non mangiava nel modo più assoluto formaggio di ogni genere, nemmeno sulla pasta asciutta. Era tuttavia esperto nel giudicare la bontà di una forma di formaggio solo dal tatto e dalla vista.

Cʹera poi lʹusanza di prestarsi il latte: quando una famiglia aveva poco latte e non valeva la pena di lavorarlo, veniva misurato e giornalmente dato a una famiglia che ne aveva di più. Su un bastone si segnavano tante tacche quanti erano i litri o le misure usate. Niente penna, niente carta o quaderni. A tempo debito, la famiglia che lo aveva ricevuto, lo restituiva perché‚ le mucche in base alla gravidanza davano più o meno latte.

Ho detto: mucche, grano e patate. Ogni famiglia teneva dalle tre alle sette mucche, e ciò dipendeva dalla quantità di fieno che si poteva raccogliere in rapporto alla quantità di terreni prativi che si possedevano e al numero di persone in famiglia. Anche per il grano cʹera pressappoco lo stesso rappor‐ to: dai tre ai sette quintali. Le patate si aggiravano intorno ai 10‐15‐20 quintali per famiglia e siccome non tutti avevano il granaio le patate venivano conservate, in attesa di esse‐ re vendute, cosa che avveniva in primavera quando erano richieste per la semina, mettendole in una pozza larga circa un metro, lunga circa due e profonda un metro e mezzo circa. Sul fondo e ai lati venivano messe delle felci ben secche. Messe lì, le patate venivano ancora coperte abbondante‐

30

mente di felci o paglia e sopra molta terra in modo da formare un tumulo. Si conservavano benissimo, non gelavano e quando erano dissepolte erano freschissime come quando le avevano messe nella buca. Oltre a mucche, pecore e capre molti mantenevano anche un mulo o un asino. La mia famiglia aveva due muli, altri uno solo. Ne avevano uno la famiglia de Piri, saltuariamente quelli di Caasette e anche Carlottu aveva un asino, lʹanimale che più gli si addiceva. La famiglia di Tilìn aveva una mula e la tenne finché visse Davidde poi, dopo un po’ di tempo, rinunciarono a tenerla. Questi animali (detti da soma) servivano per il trasporto della le‐ gna, del fieno dovʹera possibile, delle derrate alimentari, ossia delle provvi‐ ste (tra cui il vino con le pelli) provviste che si facevano a Montebruno o a Torriglia e a Favale di Malvaro; del carbone dalla macchia al fondo valle. Servivano anche, in certi tratti di strada, a trainare la lesa ossia una slitta rudimentale su cui a volte si sovrapponeva la bena, un cesto rettangolare intrecciato con virgulti di nocciolo largo circa 60 centimetri e lungo un me‐ tro e mezzo e profondo circa 50 centimetri, per portar via il letame. Spie‐ gherò meglio tutto ciò nel capitolo degli attrezzi con relativi schizzi. La macchia, o maccia, era il bosco di faggi che veniva tagliato e sul posto, in apposite piazzuole circolari dette ciasse, veniva cotta la legna col metodo della carbonaia, a carbuninn‐a, che aveva la forma di un tronco di cono. La legna veniva tagliata a tronchi della lunghezza di circa un metro o poco più. La preparazione della legna necessaria ricavata dalle piante abbattute era detta scunsì. Si piantava al centro da ciassa un palo e attorno un castello di tronchetti, detti battolli, poi vi si appoggiavano i tronchi piccoli e grossi leggermente inclinati fino a formare un primo strato che poteva avere la circonferenza di quattro metri alla base. Su questo primo strato se ne inizia‐ va un altro sempre leggermente inclinato fino a formare un tronco di cono. Si iniziava così, quando si era messa tutta la legna a disposizione, a ricopri‐ re il tronco di cono con delle zolle strappate dal bosco, grosse alla base più leggere man mano che si andava in alto fino alla sommità che era a circa due metri e mezzo. Le zolle erano ricoperte con della terra fine gettata tut‐ tʹattorno con le pale. Alla base, fatto ciò, si aprivano nelle zolle dei fornel‐ letti, detti banchinn‐e, per dare respiro e attraverso lʹapertura che era alla sommità, tolto il palo, si gettava giù una grande quantità di brace preparata a parte. La legna così prendeva fuoco e cominciava la cottura. Si chiudeva poi la sommità con una bella cuiga, una zolla di terra, e si lasciava che fu‐ masse. Perché non si formassero vuoti e divampasse la fiamma, la carbo‐ naia, scoperchiata, veniva imboccata ossia riempita sempre con legna pic‐ cola, coi battolli ridotti col penatto a una lunghezza di 10‐15 centimetri. Sem‐ bravano tanti bei mustacciolli. La cottura durava anche più di dieci giorni e la carbonaia doveva essere sempre sorvegliata. A tal uopo si costruiva una baracca con legna e zolle per dormirvi e ripararsi dalla pioggia. Poteva succedere che si aprisse spontaneamente qualche foro detto camua che doveva essere subito tampo‐ nato. A un certo punto, circa a metà cottura, si praticavano nei fianchi tut‐ tʹattorno a un metro e più di altezza, una serie di fori, i fumaieu, perché‚ il fuoco arrivasse agli strati di legna più esterni. La carbonaia piano piano calava di volume senza però afflosciarsi e, quando tastando con la pala in costa si sentiva che il carbone era al punto giusto, si cominciava il lavoro di

31

Da sinistra Bruno e Renato Cavagnaro con il mulo

cavarlo senza mai scoprirlo. Si tirava fuori alla base il carbone che ancora conservava lʹimpronta del legno con i suoi nodi come fosse un fossile. Se qualche tizzone era acceso lo si spegneva con lʹacqua, ma lʹimportante era con la pala rigettare sulla carbonaia la terra che finissima e cotta anchʹessa, scendeva alla base e ciò perché‚ il carbone doveva essere sempre soffocato, perché‚ a contatto dellʹaria facilmente si infiammava e tutto andava in cene‐ re, per non dire in malora. Il carbone disteso attorno alla piazzuola si lasciava raffreddare e poi veniva insaccato. Il sacco di iuta grezza era detto busacca che piena pesava intorno ai 40‐45 chili. Veniva utilizzato in famiglia per chi aveva i fornelli, ma gene‐ ralmente venduto a commercianti che poi lo portavano in città dove ancora non cʹerano né gas, né gasolio. Però per arrivare alla strada carrozzabile occorrevano i muli e cʹerano persone che di muli ne avevano quattro o cin‐ que e di mestiere facevano i trasportatori a soma detti muatté, mulattieri. Incitavano queste bestie con lo schiocco della frusta, u strafì, un bastone di vimini fra loro intrecciati detto manegu, alla cui sommità era legata una cor‐ dicella anchʹessa tutta intrecciata che terminava con una sagola, spago spe‐ ciale usato anche in marineria, detto strafunsìn. Era quello che provocava lo schiocco. Famoso Furtunìn de Castellu il cui padre, Luigìn, faceva appunto il commerciante di legna e carbone e il figlio il trasportatore; solo per citarne uno, perché‚ in ta Fossa ve ne erano parecchi. Oggi a fare questo mestiere cʹè solo, nella zona, u Veru de Cian da Gexa. I finimenti dei muli erano il basto, detto bastinn‐a, il brillottu, con sotto la cavezza, che doveva obbligare il mulo a guardare sempre avanti a sé e mai ai lati; in più aveva il morso, un ferro che orizzontalmente veniva messo in bocca al mulo unito alle briglie per meglio governarlo. Col basto cʹerano, però separati, la cubbia e la susta. La prima serviva per legare in un modo originale le due parti della soma e la susta, che terminava da un lato con un

32

nastro di canapa largo circa 15 centimetri a cui era unito un fer‐ ro a forma di U e dallʹaltro una doppia corda per fissare la soma sul basto passando sotto la pan‐ cia del mulo. Quindi coperte, teli, sacchi per coprire il tutto in caso di maltempo. Una curiosità che suonerà nuova e strana ai giovani e meno giova‐ ni è che i muli e i cavalli, non gli asini, erano soggetti a visita mili‐ tare con tanto di cartolina precet‐ to come per gli uomini. Periodi‐ camente queste cavalcature do‐ vevano essere presentate, ora a Cicagna, ora a Torriglia, a una commissione di ufficiali veterina‐ ri che le visitavano da capo a pie‐ di e le dichiaravano abili al servi‐ zio militare o meno. Quelle abili ricevevano tramite il proprietario un foglio detto di precetto e l’animale in caso di bisogno pote‐ va essere requisito dall’esercito. I proprietari non ricevevano per la Un’abbondante nevicata visita alcun indennizzo. Ci dove‐ vano rimettere il pranzo per loro, il cibo per la bestia e una giornata di lavoro persa. Altra attività che si praticava in autunno era la preziosa raccolta dei funghi, profumati, ottimi per essere mangiati in vari modi o essiccati, possibilmen‐ te al sole sulle sgreise o dietro e attorno alla stufa sempre accesa. E poiché siamo in tema di raccolta di frutti spontanei bisogna ricordare quella delle fragole, dei lamponi, delle more e dei mirtilli. A proposito di fragole ricor‐ do che venivano vendute au mielà da Cursiggia di nome Gardella, un uomo col quale io mi intrattenevo spesso e a lungo. Era un po’ balbuziente ma sapeva a memoria tutti i Canti dellʹInferno della Divina Commedia e io mi divertivo un mondo a fargli recitare ora questo ora quel passo. Trasportava a spalla una lunga serie di cavagne di vimini legate lʹuna vicina allʹaltra con una lunga asta. Altra raccolta e vendita degna di nota era quella dei mirtilli (tele). Intere famiglie raccoglievano a quintali questo frutto che allora veramente abbon‐ dava e poi in cesti detti banastre coi muli venivano trasportati a Parazzuolo centro di raccolta e di lì inviati in Svizzera. I funghi secchi di faggio erano molto ricercati perché funghi a lunga conservazione, non facevano cioè le camole. Questi funghi, a sacchi, venivano portati alle fiere. La più nota era quella del 2 novembre a Montebruno, detta Fea di Morti. I contadini con questi raccolti facevano buoni affari che davano modo di affrontare con più tranquillità i lunghi mesi invernali in mezzo alla neve.

33

Il paese com'era

llʹinizio di questa mia chiacchierata ho elencato i componenti delle 12 famiglie effettive che ai tempi della mia prima gioventù erano 55, ma A non ho descritto il paese. Sorpassata la chiesa cʹera un terreno su cui oggi sorgono ben tre grosse ca‐ se. Era detto ortu ma non ricordo di averlo mai visto coltivato. Forse lo col‐ tivava Frascùn quando risiedeva a Barbagelata. Io ricordo solo che cʹerano due o tre pilastri di un fienile andato distrutto, che cʹera una pianta di ribes e una bella pianta di ciliegio che fioriva anche in pieno inverno e più faceva freddo più essa fioriva: si ricopriva cioè di galaverna, a bramea, ed era uno spettacolo raro a vedersi. Non ricordo che abbia mai fatto ciliegie. Lungo questʹorto cʹera la strada che portava fuori dal paese, tutta recintata con paletti, i pasciùn, e traverse, la caratteristica e indimenticabile ciuenda che oltrepassava la cappelletta (sì, perché‚ in vista al mare cʹera anche una cappelletta, di cui poi dirò assieme a quella di Costafinale). La ciuenda, oh! dolci ricordi, arrivava fino al passo della Larnaia, tanto che questo rettifilo era detto in te ciuende1. E dalla cappelletta la ciuenda scendeva fino alla ciap‐ pa larga, mia postazione di giuochi prima e di caccia poi; e dalla cascinn‐a de Frascùn proseguiva per la costa da furnaxia. Questo dalla parte di sud‐est, ma cʹerano ciuende fino alla fontana e oltre, e sopra e sotto a essa. Erano gli steccati che difendevano u dumestegu dallʹinvasione del bestiame. Rientriamo nel paese: tutto era come ora soltanto che giunti au cameìn de Tilìn, sopra la strada cʹerano tre fienili bellissimi; peccato che non ci siano più, sarebbero lʹattrattiva folcloristica del paese! Erano ricoperti di paglia ed erano enormi. Alla base avevano un muro alto forse un metro e mezzo a forma semicircolare. Da questo muro di cinta si elevavano in modo obliquo dei grossi pali di castagno che andavano tutti a congiungersi alla sommità a un grosso legno detto curmu. Questi pali obliqui erano uniti fra loro da ferle, virgulti flessibili in modo da formare unʹintelaiatura sulla quale veniva messa la paglia di segala, possibilmente (perché più lunga e forte) o di gra‐ no. La paglia veniva livellata, accaisà, con la paggiainn‐a, una tavoletta con manico a forma di tagliere. La paglia veniva fermata qua e là con un po’ di filo di ferro, col puntu; pertanto dovevano esserci a lavorare almeno due persone: una dentro e una fuori. Alla sommità per tutta la lunghezza del pagliaio si mettevano covoni interi ben legati e si poteva esser certi che non una goccia dʹacqua sarebbe pene‐ trata per quanto avesse piovuto. Lʹimboccatura per facilitare lʹimmissione del fieno era sempre a monte. Questo lavoro, che io non esito a chiamare ʺopera dʹarteʺ non era fittizio, ma aveva una lunga durata di anni e anni, al punto che sul lato nord la paglia col passar del tempo si ricopriva di zerbin, muschio, e il versante da giallo diventava verde. Questi fienili erano due dei Tilìn e lʹaltro, più grande, di Carlìn, Piri e Meneghìn.

34

Quanto lavoro comportava la fienagione! Era come essere in una colonia penale condannati ai lavori forzati, anche di domenica, e come se tutto ciò non bastasse, ci si metteva anche la nebbia e la pioggia. E allora bisognava correre a raccogliere il fieno e ad ammucchiarlo perché‚ non doveva ba‐ gnarsi e col ritorno del sole a smucchiarlo e distenderlo. Cʹera sempre la burrasca che veniva dal monte Antola con tuoni sordi, con brontolii e saette e quasi sempre mentre eri a tavola a mangiare e dovevi lasciare tutto lì. Poi magari da noi arrivavano solo le scuagge. Il grosso della pioggia era sempre sulla Val Trebbia, che giustamente era chiamata da suoi abitanti uinà dʹIta‐ lia2. Ma non divaghiamo. Si arrivava così a lato di uno di questi fienili, a una rampa di acciottolato, u risseu, che portava allʹingresso della mia casa pater‐ na; oggi cʹè una scala ma allora era dʹuopo il risseu per farvi salire i muli e sulla piazzetta, con la panchina in cemento, scaricare le derrate: sale, tabac‐ chi, vino, pasta, zucchero, caffè, farina e tantʹaltre cose di prima necessità. A piano terra dove oggi cʹè il bar, cʹera la stalla con le mucche, i muli, i vitelli e una pecora. Di fronte sulla piazzetta cʹera la cà di Costafiné‚ abbandonata a se stessa e a fianco a essa a crumbea che non suppongo fosse una colombaia: era una co‐ struzione di cui restavano però solo le fondamenta che consistevano in un ampio vano a volta di mattoni con una strana imboccatura che faceva sup‐ porre fosse un grande forno. Lì, sopra e sotto, venivano gettate le immondi‐ zie del paese, una specie di comoda pattumiera, e su di esse crescevano le ortiche altissime e pungenti. A fianco alla mia casa cʹera a cascinn‐a di Costafiné‚ e tra essa e la mia casa un letamaio e un sentiero che portava sulla piazzetta dove cʹera la baracca, un locale pieno di ravatti e qualche arnese da lavoro. Purtroppo i letamai abbondavano ovunque perché‚ tutti allevavano muc‐ che e il letame, u rûou, era indispensabile per la coltivazione di grano e affi‐ ni, delle patate, dellʹorto e per concimare quei prati che davano poco fieno. Tra le due costruzioni ora nominate non cʹera ancora la casa costruita dai miei fratelli sul retro della cascinn‐a di Costafiné. Cʹera una passerella in pen‐ dio, detta punte, per farvi passare le gabbie di fieno. Oltre tali costruzioni non cʹera più nulla. In seguito Pipìn de Costafinà vi costruì un altro orribile fienile in muratura e lamiere, come orribili sono la baracca di Deliu, sotto la strada e quella di Caasette tutta in lamiera. Dovʹerano le autorità quando furono compiuti tali scempi? Tra detta baracca e la cascinn‐a de Pipìn cʹera, e cʹè, un piccolo terreno detto dai barchi. U barcu era un altro tipo di fienile costituito da 4 pali di faggio o castagno, detti stelùn, forati alla distanza di 20 cm fra loro in cu verrugiu; il trapano a mano o succhiello. Tra questi 4 pali si mettevano a terra e legati fra loro da 4 caviglie, 4 assi robusti, detti chèusce, anchʹessi forati, da cui partivano tanti bastoni della lunghezza di circa due metri per congiungersi tutti in un pun‐ to alla sommità, formando così una piramide che col sistema dellʹintelaiatu‐ ra, come già detto per i tre fienili circolari, veniva ricoperto di paglia. Que‐ sto cappello piramidale era, a braccia, alzato man mano che vi si metteva il fieno e tenuto sospeso con caviglie di legno o di ferro infilate nei fori prati‐ cati nei pali.

35

Barbagelata prima dell’arrivo della strada, vista dalla Culleìa

Torniamo alla descrizione del paese: la strada che da ciassa pruxia andava diritta verso Nord era chiamata strà da funtann‐a o strà da Cà du Caasetta o ancora strà du pussettu perché‚ dove ora cʹè lʹorribile baracca in lamiera di Caasette cʹera un muro, e in parte dai barchi cʹè ancora, un muro a secco ma tutto ricoperto di erbe e fiorellini vari, tra cui piccolissime felci. Proprio in quel punto dove cʹè la baracca, cʹera nel muro unʹincavatura chiusa, fino allʹaltezza di circa 75 cm, da una grossa lastra di pietra, detta ciappùn. Arri‐ vava lì una piccola vena di acqua sorgiva, non sempre fluente, che riempi‐ va u pussettu e dove le bestie si fermavano a bere. Ma come ho detto, in pe‐ riodo di siccità non sempre cʹera acqua. Le donne del paese vi andavano cu stagnùn ad attingere acqua per le bestie o per lavare. Oltrepassata a Cà du Caasetta, la strada che prima era pianeggiante, scende‐ va fra le ciuende fino alla fontana, ed era detta muntaella. Dalla Cà du Caaset‐ ta e in cima alla muntaella si dipartiva un sentiero pianeggiante, ma per po‐ co, che era lʹinizio della strà da Culletta per Costafinale. Una frana durante lʹalluvione del 1° settembre (non ricordo lʹanno) la portò via e non fu più ricostruita. Ora cʹè una malagevole rampa a metà muntaella che la suppli‐ sce. Arrivando in fondo a questa breve discesa cʹera la fontana che aveva prima tre e poi quattro vasche con la spisciua, un blocchetto di ardesia sca‐ vato al centro, oh che ricordi!, che dava acqua freschissima, limpida, legge‐ ra, salutare e sempre fluente. La vasca sotto la spisciua era riservata al be‐ stiame, le altre per lavare i panni e la biancheria, perché‚ le case non aveva‐ no lʹacqua corrente. La biancheria veniva lavata anche in casa col sistema del bucato. Ricordo che mia madre faceva il bucato, a bugà, in una grande giara di terracotta e i risultati erano eccellenti. Metteva le lenzuola, le federe, le tovaglie e i tova‐

36

“A Cianetta”

“Cristoffu”

“A cascinn‐a de Frascùn e a Gexa glioli nella giara fino a quasi riempirla; copriva il tutto con una specie di coperta imbottita più grande della bocca della giara, detta pessucùn; intanto faceva bollire sulla stufa due pentole, due laese, di acqua con dentro tanta cenere di faggio, faceva cioè la lisciva, in gergo la liscìa. Con un grosso me‐ stolo metteva la liscìa in su pessucùn e lasciava che filtrasse, quindi aggiun‐ geva, aggiungeva continuamente. Da un foro in fondo alla giara usciva un liquido giallognolo che veniva di nuovo riversato sopra. Non so dire quan‐ to durasse questa operazione, ma so che veniva fuori un bucato che ʺpiù bianco proprio non si puòʺ e aveva un profumo particolare che si può solo definire con tre parole: ʺprofumo di pulitoʺ. Da allora io questo profumo non lʹho mai più sentito per quanti e quali detersivi si possano adoperare. Quellʹodore di pulito piaceva tanto ai villeggianti e a chi consumava il pa‐ sto in osteria, che si complimentavano con mia madre per tanto candore. Oggi la fontana resta nascosta sotto la rotabile e ha una sola vasca con un anonimo tubo di ferro al posto dellʹartistica spisciua. La gente andava alla fontana ad attingere acqua: le donne con la secchia, a seggia, di legno, che piena portavano in testa in perfetto equilibrio senza bagnarsi. Tra la testa e la secchia mettevano un panno arrotolato detto u suttestu. Marinìn de Piri la secchia lʹaveva in rame lucente.

37

Barbagelata prima dell’arrivo della strada

Gli uomini andavano con due secchi di zinco, i stagnùn, e un bastone leg‐ germente ricurvo con due incavature alle estremità, detto baseu o baseru. Vi si appendevano i due secchi ripieni e si metteva il baseu su una spalla e via a casa. Mi sembra ancora di vedere mia madre, Angiulinn‐a, Rusinn‐a, a Cle‐ lia, Marinìn, Suntinn‐a, Parminn‐a avanzare in scia strà du pussettu con la sec‐ chia in testa, diritte come fusi e sicure nel passo; o mio padre o mio fratello Pippu, u Gustu, u Reliu, u Stinìn, u Federiccu, u Deliu, u Steìn o me stesso ca‐ racollare con due secchi sul baseru senza versarne una goccia. Lʹacqua della secchia, noi ne avevamo due, serviva per bere, e ci si disseta‐ va attingendo con un mestolo, a cassa o u cuppu, che poteva essere di legno o di rame. Non si badava a chi ci aveva bevuto prima e non si diffondevano malattie per questo. La salute era a prova di bomba, come più tardi dirò. Questi che ho descritti erano i limiti del paese; i terreni che lo circondavano e lo racchiudevano erano, in senso orario, lʹaia de Frascùn, sutta a ria, lʹortu, sutta u ciassà da gexa, sutta i gaggiùn, lʹortettu e u beu da gianchinn‐a, sutta a strà du pussettu, u cugneu, a Culleia e dai barchi. Sopra al paese, su in alto, un verde ciuffo di faggi sopra una roccia quasi nascosta dal verde, detta a ria.

1 tra gli steccati 2 orinatoio dʹItalia

38

Posizione geografica

arbagelata è addossata a nord di uno dei tanti crinali appenninici che corrono verso il Monte Caucaso. A nord, per ripararsi dal vento del Mar Ligure, quasi costante come i monsoni e che porta con sé, purtroppoB anche la nebbia essendo il paese a 1.115 metri sul livello del ma‐ re, ossia appena sopra il limite delle nuvole marine, la cui quota, sebbene variabile, è sugli 800 metri. Infatti oltrepassato il passo della Scoglina, che io chiamo il limite delle neb‐ bie perpetue, la vista può spaziare, proprio come quando venendo dalla Padania si attraversa il Passo dei Giovi per rivedere un po’ di sole e un po’ di azzurro dopo tanto grigiore. Non ci tocca invece la nebbia della Val Pa‐ dana, che al massimo forma un mare di nebbia in Val Trebbia arrivando a circa 1.000 metri sotto il paese, creando uno spettacolo veramente suggesti‐ vo. Chiedo venia per la digressione e torno al paese. Il crinale che protegge il paese è tutto ondulato con tre monti e alcuni dossi ameni che noi chiamiamo bricchi. Fra questi i relativi passi per accedere al sud e al nord. Li voglio enumerare e dare a essi il loro nome in gergo locale. Ecco il briccu da povia donna, col passo du fò grossu; u briccu du prò che il 13 agosto 1944 io percorsi alla velocità di Mennea sotto un fuoco intenso di fucileria, col suo passo della Culletta. E lassù, a forma di pan carrè, il Monte du prò du Driulìn con i suoi 1.222 metri di altitudine; e poi u briccu du poezzu a protezione del paese; u briccu de pa costa, il più ameno, il più caro al mio cuore, e ora deturpato da alcune costruzioni. E qui mi verrebbe voglia di cantare e di chiedermi sullʹaria di una nota canzone genovese, parafrasan‐ dola «Briccu dunde tʹè...». Continuando ecco il passo della cappelletta che ti apre la vista sul mare. Di lì allùa, a quei tempi, si vedevano alla sera tante vivide luci sul mare.... era‐ no le lampare dei pescatori... Ma dove sono oggi? e u briccu du buiu de chì e u briccu du buiu de là col Passo della Larnaia , ora detto anche Passu di Morti per i fatti del 1944. Salendo si arriva a u briccu da chistadinn‐a col relativo e omonimo passo e quindi al Monte Larnaia (m. 1181) con la sua severa ma friabile ria, che veglia su uno dei posti più suggestivi e inconsueti di tutta la zona: a pussa du Muettu, battezzata dalla signora Franzone ʺla valletta del reʺ tanto le piacque quando la vide. Eʹ uno dei luoghi a me tanto cari! Quando le campane del paese suonano, lʹeco rimanda il loro suono; se gridi «AMORE» lʹeco ti ripete «...OREEEEEE». Eʹ un prato stupendo a forma di conca che a giugno si co‐ pre di fiori di arnica; a nord cʹè un pianoro, detto cian da pussa tutto ricoper‐ to di meravigliosi e grossi cardi, che nessuno raccoglie anche se saporiti se raccolti quando stanno per schiudersi. Li ricorda perfino il poeta Giosuè Carducci nella poesia ʺDavanti a San Gui‐ doʺ quando dice: «Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo rosso e turchi‐ no, non si scomodò».

39

A sinistra un “barcu” Sopra, le “ciuende”

Quante volte mi sono seduto su quel grosso masso di pietra colombina, lì a destra, a riflettere e a chiedermi come avrà potuto formarsi quella valletta... E se nel tempo dei tempi fosse stato un laghetto poi prosciugatosi?? Ma io non sono un geologo e devo lasciare aperta ogni ipotesi. Ma tantʹè il dubbio mi resta!! Dal Monte Larnaia si scende a destra a u passu di rapìn e a sinistra a u passu du Gabba entrambi per andare nella valle di Neirone. Proseguendo sul cri‐ nale dopo u passu du Gabba si arriva a u briccu da guardia. Eʹ detto così per‐ ché‚ le guardie forestali, che allora, parlo di 70 e più anni fa, risiedevano a Neirone ed erano più fiscali e vessatorie di quelle di oggi, il che è tutto dire, salivano su quel briccu e di lì, coi binocoli, controllavano la zona dellʹalta valle di Neirone e dellʹalta Val dʹAveto e se vedevano mucche pascolare in ti taggi o in tu bruxiò fioccavano contravvenzioni . Non si poteva cioè pasco‐ lare nei luoghi in cui erano state tagliate le piante per fare carbone o in quelli in cui era passato il fuoco per incendi dolosi o meno. Pretendevano di insegnare ai boscaioli maremmani o bergamaschi come tagliare le piante, e così ai contadini dei paesi, e guai se qualcuno osava tagliare alla base una pianta con la sega, u serùn a due manici. Si doveva usare solamente lʹaccet‐

40

ta. Se oggi queste guardie resuscitassero e vedessero che i boschi sono ta‐ gliati esclusivamente con la motosega, inorriditi correrebbero al loro cimi‐ tero e si rimboccherebbero la lapide. La gente dei paesi vedeva e sopporta‐ va queste guardie volentieri come il fumo negli occhi. Da u briccu da guardia si scende al passo Partie de Neiùn già nominato e di lì si sale al meraviglioso Monte Caucaso, con i suoi 1265 metri, meta continua di escursionisti. Di lassù si domina un paesaggio stupendo. Sembra di po‐ ter toccare con una mano il Monte di , e di lì, quandʹero ragazzo si potevano contare a occhio nudo, se il cielo era limpido, cosa rara, 47 cam‐ panili. Oggi qualcuno di più perché‚ nel frattempo sono state costruite altre chiese e altri campanili. Si chiude così lʹarco di monti e di dossi che proteg‐ ge Barbagelata.

Ed ecco cosa non cʹera. Non cʹera un servizio postale. Lʹappoggio della corrispondenza era allʹuffi‐ cio postale di Ponte Trebbia. Chi passava di lì la ritirava e la consegnava. La fiducia, allora, era reciproca.

Non cʹera lʹacqua corrente, non cʹera nemmeno la luce elettrica, e non cʹera uno straccio di strada se non quella mulattiera. Gli ambienti si illuminavano con le candele, coi lumi ad olio, coi lumi a pe‐ trolio, con lʹacetilene dei minatori, che conteneva in un robusto serbatoio del carburo su cui cadeva una lieve goccia dʹacqua che sprigionava un gas infiammabile e dava una luce forte e chiara. Spesso dava dei fastidi e biso‐ gnava saperla governare, perché‚ il beccuccio, u becchelettu, da cui usciva il gas si intasava spesso e volentieri. Cʹerano poi i lumi a petrolio, con la campana di porcellana, appesi al soffit‐ to come quelli che aveva la mia famiglia nella sala di sotto e in quella di sopra. Li governava mio padre. Candelieri un po’ ovunque e a portata di mano in cu u bricchettu sempre pronto. Per uscire di notte si usava la lanter‐ na ad olio a 4 vetri. Con tutte queste fiamme libere non sʹè mai sentito che sia scoppiato un incendio. Oggi se per un temporale o per la galaverna vie‐ ne a mancare la luce sembra che ci venga a mancare il respiro, ci si adira, si manda anche qualche accidente a chi governa, ma a quei tempi era consue‐ tudine e le serate si passavano giocando a carte a lume di candela in cà di Tilìn.

Il riscaldamento era fatto a legna con la stufa e solo in cucina. Nelle camere, nei giorni freddi dʹinverno, anche con molti gradi sotto lo zero, i vetri delle finestre, a causa della condensa, erano arabescati e forma‐ vano disegni impareggiabili. Non ricordo che vi fossero famiglie con il fo‐ colare, u fuguà. Grande o piccola, tutti avevano la stufa, ma in qualche fami‐ glia si notava ancora dove era stato il focolare, delimitato da un bordo di ardesia ai quattro lati. Mio padre conservò ancora per molto tempo, attorno e sopra la stufa u brandà e a chenn‐a. U brandà, lʹalare, era molto bello; consi‐ steva in una grossa sbarra di ferro sagomata, con 4 piedi e unʹalzata che terminava in un cestello di ferro battuto su cui posare un piatto o altro. A chenn‐a era una grossa catena ad anelli appesa al soffitto che finiva con una specie di gancio per appendervi il paiolo. Erano oggetti appetiti dagli anti‐ quari e un giorno i miei se ne disfecero. Io li ho sempre rimpianti, specie u brandà.

41

“A strà da canonica” “Ciassetta Pruxia”

Ma tornando a parlare delle adiacenze del paese non si può dimenticare il ballo che era al centro del terreno detto pa Costa. Di lì si domina con lo sguardo lʹalta Val dʹAveto e lʹalta Val Fontanabuona, il Monte Aiona, lo Zatta, il Ramaceto con laggiù la penisola di e il suo bel mare, il Caucaso, il Lavagnola, il Capenardo, lʹAntola e il Monte Carmo. Il ballo era (dico era perché‚ oggi proprio sul luogo su cui si danzava sorge, ironia della sorte, la nuova chiesa e ciò sembra una beffa) era, dicevo, uno spiazzo circolare di terra battuta con tuttʹintorno uno steccato, una bella ciuenda, con unʹapertura verso il mare. Vi si ballava nei dì di festa e in modo parti‐ colare lʹotto maggio, giorno della fiera del bestiame, a Luglio per il Transito di San Giuseppe, ad Agosto per la festa di San Rocco. La gente che saliva a Barbagelata, allora non cʹera ancora la strada carrozzabile, era innumerevo‐ le. Faceva ore e ore di cammino per partecipare alle feste e alle fiere del paese e per ballare, ballare, ballare al suono di unʹorchestrina che consiste‐ va in una fisarmonica e un clarinetto, qualche volta anche un violino. E si ballava fino a sera quando il sole si nascondeva dietro le Alpi Cozie e Graie che di lassù si vedevano in tutto il loro biancore con la vetta solitaria del Monviso alta nel cielo. Allora quasi tutta la gente riprendeva la via del ritorno; altri si fermavano allʹosteria per bere un ultimo bicchiere o mangia‐ re qualcosa e poi cantare in coro le canzoni in voga e fare schiamazzi che spesso degeneravano in risse per futili motivi, per campanilismo, per sopiti rancori, tutti annebbiati dai fumi del vino. Coloro che si menavano erano quasi sempre gli stessi: quelli del Cornaro, di Santa Brilla o del Posazzo con qualche breve intervento di qualcuno di Costafinale. Oppure erano di fuori

42

“A costa, u bricco e u buiu” “A strà de ciuende”

parrocchia come Corsiglia, Roccatagliata e vicinanze. Gli scazzottamenti avvenivano quasi sempre fuori dellʹosteria e io stavo affacciato alla finestra. Poi tutto tornava tranquillo perché‚ intervenivano i pacieri e chi aveva dato aveva dato, chi aveva avuto aveva avuto, ognuno si teneva le sue e buona‐ notte al secchio. Tutto era rimandato alla prossima festa. Se ci allontaniamo un tantino dal paese, dove ora cʹè il bivio per la chiesa nuova, lì sorgeva in vista al mare e ai monti una cappelletta dedicata alla Madonna, una fra le tante, non so quale, perché‚ lʹedicola che conteneva lʹimmagine fu la prima ad andare in rovina. Ancora oggi tutti chiamano tale località da cappelletta e i turisti si chiedono e si domandano perché‚. Cʹè anche unʹaltra cappelletta che sta cadendo in rovina; è quella di Costafi‐ nale in una posizione amena a circa 3 Km da Barbagelata. Quella era dedi‐ cata alla Madonna di Montenero. Ma perché‚ a questa Madonna, il cui san‐ tuario è a 7 Km a sud di Livorno? Non mi risulta che qualche persona di Costafinale abbia avuto rapporti in questa zona della Toscana o che nei paesi vicini o lontani questa Madonna fosse venerata. Un giorno di molti anni fa durante una gita turistica ebbi le fortuna di arrivare a quel santuario e visitarlo e con la mente corsi alla cap‐ pelletta di Costafinale e la curiosità di svelare quellʹarcano mistero si fece ancora più viva e avvicinai così un sacerdote che tempestai di domande; gli feci, come dice mia moglie, il terzo grado. Venni così a sapere che a tale Madonna era legata tutta la gente di Maremma, specialmente quella che

43

stagionalmente doveva emigrare per necessità di lavoro e tra questi anche i boscaioli. Ebbi nella mente un lampo e ricordai che a far carbone, prima dei bergamaschi erano venuti i maremmani e io ricordo ancora la loro caratte‐ ristica parlata infiorata di bestemmie a moʹ di interlocuzione per rafforzare il concetto del loro dire. Probabilmente prestarono la loro opera per tenere la cappelletta in piedi pur di dedicarla alla Madonna di Montenero di cui fornirono anche lʹimmagine, ora andata dispersa. Alla cappelletta di Costafinale si arriva salendo, un po’ faticosamente, lʹerta fino alla Culletta. Di lì la strada è bellissima, pianeggiante, immersa in un viale di ginestre e faggi. Si arriva alla cappelletta e si vede giù di fronte la strada della Val Trebbia e lì a destra la frazione di Costafinale. Ma chi non vi vuol arrivare può svoltare a sinistra lungo un sentiero in discesa che at‐ traversa un prato, oh! che prato! e si giunge a u fò grossu in vista a Barbage‐ lata. Questo sentiero è chiamato a strà da processiùn di cui parlerò al momento opportuno per non imbrogliare le notizie.

44

Gli arnesi da lavoro

ulla di moderno avevamo. Gli attrezzi da lavoro credo risalissero alla preistoria, se una preistoria qui cʹè stata. N Per la fienagione cʹera la falce fienaia, quella che nellʹiconografia è legata allʹimmagine della morte; era una lama lunga e a punta, leggermente arcuata, taglientissima, fissata a unʹasta di legno, anchʹessa un tantino ricur‐ va, lunga più di un metro, detta gamba. In gergo locale si chiamava e si chiama tuttora scurietta, altri scuriatta. Cʹera poi la falce messora per falciare i seggi, i seiè o mietere il grano. Si chiamava a mezuia. Annesse a queste falci cʹerano la marcia e u martellu, una piccola incudine da piantare nel terreno per assottigliare, battendovi col martello, il filo delle lame. Appeso alla cin‐ ghia dei calzoni si portava u quà in cu a pria, un mezzo corno di bue dentro cui si teneva a bagno una ʺcodaʺ, pietra speciale per tenere viva lʹaffilatura. Per raccogliere il fieno cʹera a furca (la forca), u rastellu (il rastrello), e gaggie (gabbie) o reie che consistevano in due assi con 5 piccoli fori attraverso i quali passavano delle cordicelle, dette magge, che dovevano tenere stretto il fieno. Ogni gaggia teneva stretti una cinquantina di chili di fieno che a spalle o coi muli venivano portate al fienile e lì disciolte. A volte nei luoghi più lon‐ tani il fieno veniva ammucchiato sul posto; si faceva cioè a meusca, un cono grosso di fieno con un palo di sostegno in mezzo. Nei campi per lavorare la terra niente aratro, anche se ci sono segni da cui si può desumere che un tempo si usassero i buoi; ma non mi ci soffermerò perché‚ potrebbe essere solo unʹillazione. Niente aratro dunque, ma solo due qualità di zappe, quella burca a due rebbi o sbrinci, e quella piana a tut‐ ta lama. Ce nʹerano di varia misura, secondo i lavori che si dovevano fare. Per trasportare legna o letame, come ho già detto, si usava la lesa, una slitta vera e propria fatta dagli stessi contadini. I due sci, collegati fra loro da due traverse si chiamavano lesìn. Su di essa ci si posava e legava la bena già de‐ scritta. Questi due attrezzi si usavano specialmente quando vi era la neve. Nella stalla si usava u forcou per togliere il letame sotto le bestie, che veniva posto sulla siea, una specie di rastrelliera con due prolungamenti per parte per sollevarla e trasportarla fino al letamaio. Il bestiame era legato alla greppia con una catena; i muli avevano invece la cavezza (caessa) ed erano legati ad un anello davanti alla rastrelliera che conteneva sia per le mucche che per i muli il fieno (fen)o lʹerba fresca (gueime) secondo i tempi. Al collo delle mucche cʹera un collare di legno a forma di U rovesciata le cui estremità erano collegate con una robusta fet‐ tuccia di cuoio al centro della quale era appeso un campanello che se era di bronzo era chiamato sunaggiu o brunzin; se invece era di altra forma e altro materiale con un suono più forte ma di bassa tonalità era detto tamburla ed era del tutto simile ai sonagli dei Mamutones di Sardegna. Erano sonagli

45

che si sentivano da lontano e avevano tutti una tonalità diversa cosicché il pastore riconosceva sempre da lontano la mucca che aveva un suo nome proprio, bardinn‐a, moa, rundanìn, ecc. Le tamburle erano le più richieste ed anche le più costose e io invidiavo quelli dä Fossa (Villa Sbarbaro), u Zerga con le sue bestemmie, u Bassetta, u Tassìn e tanti altri, che ne facevano sfoggio creando un vero e proprio con‐ certo che si diffondeva tra i pascoli, i faggi, le ginestre in fiore du beu da Ota e du beu di Culeetti. Per tagliare o spaccare le legna cʹera lʹaccetta, la scure, u picossu, il pennato o roncola, u penattu, strumento adunco di ferro col manico ricoperto di cuoio in modo originale: tanti dischetti di cuoio infilati nel manico e ben livellati. Cʹera poi una lunga sega a due manici per segare grossi tronchi, detta serùn, poi la seretta la cui lama era montata su una originalissima e complessa intelaiatura; il suracco, il cuneo di ferro per spaccare i tronchi e quindi anche la mazza che non doveva essere di ferro ma di legno molto duro, ad esempio pero selvatico; di ferro dovevano essere soltanto i due cerchi messi alle estremità della mazza; u pàferu, unʹasta pesante di ferro in fondo sottile e in cima più grossa con la testa unghiata, usata per forare il terreno o smuovere i pesi. Gli arnesi da taglio erano affilati con una grossa mola, a meua, fatta girare a mano e appoggiata su un cavalletto incavo pie‐ no di acqua. Per usi vari cʹera la carriola, detta caretta; per vagliare il grano cʹera il vaglio fatto di vimini o altro; quando lo si usava si diceva caccià u gran a lʹoa ossia far scendere, con colpettini, piano piano il grano che è nel vaglio, u allu, tenuto in testa, su un lenzuolo in modo che il venticello, lʹoa, lo ripulisse della pula, rusca, se ancora ve nʹera e anche dalla polvere raccolta durante la trebbiatura. Questo lavoro era prerogativa di mia madre. A proposito di trebbiatura, ci sarebbe da scrivere un libro intero, ma io farò un brevissimo riassunto. Per prima cosa si preparava lʹaia impegolandola con lo sterco di mucca che rassodandosi chiudeva ogni buco ed era come cemento. Si poteva trebbiare il grano in vari modi. Uno era quello dellʹarzel‐ la uno strumento originalissimo ed efficace. Consisteva in due bastoni: uno grosso e lungo come e più del manico di una zappa; lʹaltro un vero e pro‐ prio bastone di faggio o di castagno, ma robusto; i due bastoni erano legati da una striscia robusta di cuoio a U e messa in modo che il bastone piccolo potesse ruotare nellʹaria; era lo snodo. Con quellʹarnese, frutto della fanta‐ sia contadina alla quale bisogna togliersi tanto di cappello, si pestava il co‐ vone o i covoni di grano che non venivano sciolti. Ma il bello e il folcloristi‐ co era che questo pestaggio poteva essere fatto anche da sei persone tutte assieme su una distesa di covoni a terra. Cʹerano delle squadre affiatatissime che pestavano secondo un determinato e veloce ordine come se il tutto fosse una grandinata. Non un colpo sbaglia‐ to, ed era una vera musica ascoltare il tempestio dei colpi sui covoni. Ricor‐ do in questa squadra i miei fratelli, u Reliu, suo fratello Stinìn che era ecce‐ zionale, u Deliu, u Pippu de Richìn, Meneghìn e altri che formavano almeno due squadre. Un giorno si trebbiava, ma si diceva ʺsi battevaʺ il grano per questa o que‐ stʹaltra famiglia e domani per altre ancora in pieno accordo e solidarietà. A volte si trebbiava con la macchina, la trebbiatrice a mano. Quanta fatica

46

Arnesi da lavoro ‐ Disegni di Maria Pia Solari Cavagnaro

47

per trasportarla data la sua pesantezza! Quattro uomini facevano ruotare a forza di braccia il tamburo dentato, u ghìndine che sgranava, sempre sul‐ lʹaia, le spighe dei covoni; i chicchi insieme alla pula passavano poi al ven‐ tolino che ripuliva il grano per essere insaccato e portato a casa. Erano gior‐ ni di grande fatica, di grande gioia per i ragazzi sempre a mezzo e per le galline che si rimpinzavano tanto fino a morire. Infatti più volte si verificò che dopo la trebbiatura ci fu una moria di galline. Non so se i due fatti possano collegarsi ma penso proprio di sì, perché‚ il grano non del tutto secco, assueggiò, ingurgitato in grande quantità, fermen‐ tava nello stomaco e molte galline morivano, ma la moria non si diffondeva nelle galline lontane dallʹaia. Parlando, o meglio scrivendo dellʹuso che si faceva dei muli ho detto che servivano anche per il trasporto del vino con gli otri, in gergo “e pelli”. Era‐ no di pelli di capra macellata in un periodo in cui non perdeva il pelo. Era un sistema originalissimo degno di essere qui ricordato. Appena uccisa la bestia e quando ancora il corpo era caldo si iniziava lʹoperazione di scuoia‐ mento. Era una vera e propria operazione chirurgica che solo pochi, anzi pochissimi, sapevano eseguire. Anche un provetto macellaio si trovava in difficoltà. Non così i miei fratelli. Bisognava prima gonfiare la bestia a forza di polmoni attraverso una cannuccia infilata sotto la pelle di un garretto. In questo modo la pelle si staccava dai muscoli e facilitava lo scuoiamento. Tagliata la testa più in alto possibile si cominciava dal collo a riversare la pelle. La difficoltà era nello scuoiare le gambe anteriori e posteriori, sulle quali si praticavano alcuni tagli orizzontali. Piano piano la pelle veniva ri‐ versata senza usare lame molto taglienti e alla fine si otteneva una specie di sacco. Lavata dentro e fuori e poi salata, si legavano con della sagola le a‐ perture alle estremità e si lasciava essiccare. Il pelo era dentro e il vino, quando era pronta lo si metteva proprio dalla parte del pelo senza che prendesse alcun gusto. Questi otri sostituivano i barili, ingombranti, diffici‐ li a essere trasportati, cosa che invece non succedeva con le pelli la cui ca‐ pacità era pressappoco quella del barile. Dopo lʹuso le pelli venivano gon‐ fiate e appese a scolare. In questo modo restavano sempre morbide e pote‐ vano anche essere ripiegate. Ti si spaccava malauguratamente un piatto, una scheela? Se i pezzi erano solo due o tre non si buttavano; venivano rappezzati con dei punti di filo di ferro; allora non cʹera il miracoloso mastice attacca tutto. Ma per forare que‐ sti piatti ci voleva u furlùn, un trapano originalissimo e fatto da mani esper‐ te del posto. Consisteva in un perno che finiva con un chiodo schiacciato alla punta e affilato. Il perno passava al centro di una rotella di legno scana‐ lata attorno alla quale si avvolgeva uno spago le cui estremità andavano alla sommità del perno. Lo si faceva funzionare come una trottola da ragaz‐ zi, su e giù, e la punta forava il coccio senza rompere nulla, perché‚ lʹazione dellʹ arnese era delicatissima. A sopperire ad alcune necessità alle quali non si poteva rinunciare, passa‐ vano durante lʹanno e sempre nella buona stagione, alcune figure di artigia‐ ni che ormai sono scomparse. Erano il seggiolaio, u caregà che riparava seggiole rotte e ne faceva lì per lì delle nuove su ordinazione con legno di ciliegio. Aveva un trabiccolo che si chiamava crava per tenere fermi i legni che modellava con un ferro a due manici che ancora oggi è detto feru du caregà con una lama taglientissima.

48

Arnesi da lavoro ‐ Disegni di Maria Pia Solari Cavagnaro

49

Cʹera lo stagnaro, u magnàn che rappezzava pentole e paioli e li stagnava se erano di rame; lʹarrotino, u mulittà, che affilava col suo trabiccolo portato a spalle, coltelli e forbici. I venditori ambulanti venivano, pensate un po’, da Pontremoli e giravano tutti i paesi con uno o due cassette in spalla. In quelle cassette cʹerano tanti cassettini con dentro rocchetti di filo, spagnolette, aghi di ogni misura, dita‐ li, fettucce elastiche e non, rotoli di pizzo e innumerevoli altre cose per i bisogni di una donna in una famiglia. Costoro erano chiamati mersaìn e mersaìn erano anche quelli che vendevano stoffe, lenzuola, asciugamani, fazzoletti e altre cose del genere. Se vendevano stoffe si diceva che vende‐ vano roba da parmu. E non mancava nemmeno lʹambulante che col suo asino vendeva stoviglie. Faceva il giro del paese con due tazze in mano gridando «piatti, piatti, cup‐ pitte e piatti». Con lui cʹera anche la moglie che vendeva cerotti in tutto simi‐ li ai cerotti Bertelli, ma fatti da lei con della pece, che a quei tempi era consi‐ derata un ritrovato miracoloso. Questa donna però era capace di mettere a posto un braccio rotto, o una costola, o una gamba, curare una slogatura. Tutti la conoscevano sotto il nome di Piattinn‐a perché‚ moglie del vendito‐ re di piatti. Lʹarrivo di questi ambulanti era per noi ragazzi motivo di gioia e inevitabil‐ mente di curiosità. Tutti compravano qualche cosa perché‚ era necessario e indispensabile anche se il denaro era scarso e bisognava centellinarlo. Il mio pensiero oggi va a tutta questa gente che per guadagnare qualche sol‐ do si sobbarcava una fatica non indifferente e si sottoponeva a sacrifici, con spirito di adattamento, che oggi noi nemmeno possiamo immaginare. Quando oggi vedo in un negozio un cartello con su scritto ʺsi fa servizio a domicilioʺ il mio pensiero corre a tutta questa gente di tanti, tanti anni fa che rendeva sì un servizio a domicilio, ma percorrendo impervie strade di montagna per arrivare col carico a qualche paesino abbarbicato ai fianchi di un monte, per portare qualche cosa di utile e mai di superfluo a gente che a valle non scendeva quasi mai. Qui si può invertire il famoso detto islamico «se la montagna non va a Maometto, è Maometto che va alla montagna». Ho detto della Piattinn‐a che vendeva cerotti, aggiustava le ossa, ma cʹerano altre persone che sostituivano in tutto e per tutto il medico, che raramente saliva fino al paese, e quando lo faceva era perché‚ qualcuno era agli estre‐ mi limiti della vita e quasi sempre poi suonavano le campane a morto. Cʹera, ad esempio, un cavadenti proprio come nel Medioevo; era Furtunìn de Bursinn‐e, località di Feia, che disponeva di una borsa con dentro tutti i ferri necessari per cavare i denti: pinze per gli incisivi, per i canini, per i premolari, per i molari e per le radici rimaste nelle gengive. Niente aneste‐ sia; bisognava sopportare stoicamente il dolore. Credo non ci sia persona della mia età e anche più giovane, nella zona di Neirone, alta Val Trebbia e alta Val dʹAveto che non sia ricorso al suo metodo empirico, me compreso. Tolto il dente metteva in una tazza o in un bicchiere un po’ dʹacqua e aceto e faceva risciacquare la bocca con quellʹintruglio per disinfettare la bocca e la ferita. Gli si dava qualche francu perché‚ la famiglia era in una indigenza estrema. Spesso lui e suo figlio Angiollu, e ne aveva anche un altro, veniva‐ no a Barbagelata e si fermavano un po’ in cucina a chiacchierare e mia ma‐ dre offriva un po’ di pane e formaggio e vino, poi scendevano alla bottega e compravano per la moglie e la madre mezzʹetto di caffè, qualche etto di

50

Arnesi da lavoro ‐ Disegni di Maria Pia Solari Cavagnaro

51

zucchero e per loro il tabacco: trinciato di seconda, quello con la carta gial‐ la, e le cartine perché‚ erano buoni e instancabili fumatori. Col fumo am‐ mazzavano il tempo, seduti in su ballou della porta du Casùn a prendere il sole. Una scena, un quadro da messicani ʺcuando calienta el solʺ. Mancava loro soltanto il sombrero. La famiglia di questo cavadenti mi era simpatica e stranamente ero simpatico a loro e mi tenevano in grande considerazione. Il cavadenti era un uomo alto e dinoccolato, lento nei movimenti e guar‐ dandolo nel suo incedere ti aspettavi che da un momento all’altro perdesse un braccio o una gamba.

Le sue vesti erano tutte rappezzate, quando non erano a brandelli, ma non se ne vergognava. Era molto dignitoso e non si vergognava né si lamentava del suo stato di estrema indigenza. Spesso penso a quella borsa da medico con tutti quei ferri dentro e suppongo che fosse un residuato della guerra 1915‐18 che gli era in qualche modo rimasta nelle mani. Era il suo vanto e un poco anche la sua ricchezza. La sua casa estiva (u casùn de Furtunn‐a) era un vero e proprio eremo. Non era su una strada di traffico, ma su un sentie‐ ro, una scorciatoia per scendere verso valle o salire al passo del Gabba, e quando per necessità arrivava a Barbagelata, era per lui e per i suoi figli come arrivare in via XX Settembre a Genova.

Cʹera una donna in procinto di partorire? Chiamavano mia madre, che pur nella sua ignoranza, in ciò ci sapeva fare e molti sono i bimbi che nacquero tra le sue mani e non solo in paese ma anche in quelli viciniori. Solo in casi estremi e molto difficili si chiamava il medico o la levatrice.

Lavorando, spesso qualcuno si feriva a una mano, a una gamba. Niente Pronto Soccorso perché‚ la gente non sapeva nemmeno che cosa fosse. Allo‐ ra negli ospedali cʹera solo lʹastanteria. Con una pezzuola, magari non tanto pulita, si fermava il sangue e poi sulla ferita venivano poste delle foglie di una pianta in tutto simile alla genzianella, ma senza fiori, detta erba da tag‐ giu e legato il tutto con un fazzoletto perché‚ le bende erano cose di lusso. Queste foglie avevano proprietà di decongestionare, di ammollare i tessuti; infatti la zona interessata diventava bianca e quasi fradicia e tuttavia la feri‐ ta si rimarginava.

Doveva esserci sopra di noi la mano protettrice dellʹOnnipotente perché‚ oggi ci sarebbe da rabbrividire a vedere e a fare di queste cose e altre anco‐ ra che sottaccio per rispetto a chi mi aveva preceduto, perché‚ se cʹera una cosa che non era conosciuta o non era tenuta in considerazione era proprio lʹigiene.

Per certi dolori, o di testa, o di pancia o di muscoli si usava il ʺcachetʺ, una grossa cialda ultimo ritrovato della scienza, meraviglia delle meraviglie, medicina miracolosa. Ne facevano uso specialmente mio fratello Pippu e u Reliu il quale, passato il dolore diceva «Mi vurieva savei cumme u fa u cachet a andà duve go u ma e famelu passà?»1. E allora io, che con i miei pochi studi sapevo qualcosa, gli spiegavo che la polverina del cachet si scioglieva nello stomaco, poi andava nellʹintestino e di lì nel sangue che circolava in tutto il corpo. «Scì ‐ mi diceva ‐ ma cumme u fa a savei che go u ma in te quellu postu?»2. Al che rinunciavo, come rinuncia‐ vo a spiegare a u Gustu che la terra è rotonda.

52

Arnesi da lavoro ‐ Disegni di Maria Pia Solari Cavagnaro

53

Ti bruciavi? Ti scottavi? Ecco il rimedio. Si faceva friggere un po’ di olio in un tegame con un po’ di fior di camomilla, poi raffreddato; si prendeva un filo dʹerba che lungo il gambo e alla sommità aveva tante borsine, tante ciocche. Si intingeva nellʹolio e si passava lievemente sulla scottatura in modo che le ciocche rilasciassero lʹolio e la ungessero. Detta erba era ed è chiamata in idioma locale fia meghinn‐a. E le donne dicevano «Fia meghinn‐ a, fia meghinn‐a fa guaì cun sta mexinn‐a»3. Ti orticavi? E le ortiche a Barbagelata a luglio e agosto raggiungono anche i 75 cm. di altezza. Bastava strappare una manciata di piantine con le foglie lucide e tenerissime (lì accanto) e strofinarle sulla parte dolorante e tutto passava in pochi minuti. Di queste piccole cose se ne possono ricercare con la memoria molte altre; io ho voluto elencare le più salienti e originali; tutte cose però che ci dicono quanto fossero autosufficienti i nostri avi, prossimi e lontani.

1 Io vorrei sapere come fa il cachet ad andare dove ho il male e far‐ melo passare? 2 Si, ma come fa a sapere che ho male proprio in quel posto lì? 3 Erba da medico, erba da medico fai guarire con questa medicina

54

Fiere, feste, usi e costumi

l calendario Chiaravalle annota per Barbagelata due fiere: lʹotto mag‐ gio e il 24 settembre, ma la fiera vera e propria, oggi scomparsa, era lʹotto maggio. Oggi si fa quella del 24 settembre, ma solo come rasse‐ gnaI zootecnica, e come si potrebbe fare una fiera se nessuno alleva più mucche? Solo Barbagelata ne aveva circa un centinaio; oggi nemmeno una, sono andati via perfino gli abitanti! In tutta la parrocchia ce ne era circa un migliaio. Tantʹè vero che per San‐ tʹ.Antonio abate, il 17 gennaio, il prete passava a benedire tutte le stalle co‐ me per Pasqua passava a benedire le case. Il giorno di SantʹAntonio inoltre tutti i muli, asini e cavalli bardati a festa venivano radunati davanti alla chiesa e finita la messa il parroco usciva e li benediceva coi loro padroni in groppa. La fiera dellʹotto maggio richiamava una grande quantità di perso‐ ne e di animali provenienti dalla Val Trebbia e più particolarmente dalla Val dʹAveto. Chi non ricorda u Tassìn, u Moru, u Tumaxiu, u Meneghìn, i biondi quasi albini di , u Magrìn de Cianasse che era chiamato anche quando una mucca era in difficoltà di parto? E u Zerga, u Bassetta, quelli da Bedidda, quelli da mestra, anchʹessi biondi, quelli della numerosissi‐ ma famiglia di Trabucchi da Priusa, e come si fa a ricordarli tutti! Ma molti venivano perché cʹera il ballo, e il ballo a Barbagelata ha sempre richiamato molta gente durante le feste del paese. I mercanti, invece, con‐ trattavano dal mattino alla sera; si comprava e si vendeva e il termine di misura era il marengo, le antiche venti lire napoleoniche, ma si pagava in bigliettoni da cento, cinquecento, mille lire. Una mucca scassa era pagata 25‐ 30 marenghi, ma per una bella mucca con latte o pregna si chiedevano an‐ che 60 marenghi ossia 1.200 lire. A convincere il venditore o lʹacquirente cʹerano i mediatori, uno per parte. Cʹerano le dovute garanzie, ma tutte ora‐ li senza nessun scritto, perché‚ la parola di galantuomo era sacra e rispetta‐ ta. Cʹerano poi le feste religiose: il Transito di San Giuseppe in luglio, San Roc‐ co in agosto, la Madonna del Carmine in settembre e la Madonna del Rosa‐ rio in ottobre. Le prime due erano però le più importanti come richiamo di gente che, come ho già detto, accorreva da tutte le vallate. Già al mattino presto, come a un santuario, si vedevano arrivare gruppi di persone per nulla stanche anche se avevano camminato in salita per alcune ore. E come si poteva essere già stanchi se poi nel pomeriggio cominciava la maratona del ballo! Molti salivano allʹosteria, uomini e donne, a gustare il vino pia‐ centino, specialità della casa. Un vino leggermente dolce ma piacevolissimo al palato. A vespro cʹera la processione, col trasporto dellʹarca del santo, che andava fino alla cappelletta per fare poi il giro della Costa e ridiscendere sul piazza‐ le della chiesa. Il trasporto dellʹarca era affidato a quel gruppo di persone,

55

La fiera e festa dell’8 maggio anche di fuori parrocchia, che faceva la maggiore offerta in denaro. E di qui, a volte nascevano quelle risse di cui ho già detto. Unʹaltra usanza sempre a carattere religioso era lʹincantu del grano. Dopo la trebbiatura i massari di tutta la parrocchia passavano nelle famiglie a raccogliere lʹofferta di grano per le anime del Purgatorio e ognuno dava quello che meglio riteneva. Radunate le offerte, in una domenica dopo mes‐ sa quel grano veniva messo allʹasta, allʹincantu, e chi più offriva se lo porta‐ va a casa. Ricordo che molte volte il battitore dellʹasta, per la sua voce sten‐ torea, era u Giuanìn de Candùn di Costafinale. Altra usanza era quella della decima per il sostentamento del parroco, non essendo la parrocchia ricono‐ sciuta dallo Stato. Si dava denaro ma soprattutto legna da ardere. Ogni fa‐ miglia, anche delle altre frazioni, ne portava una soma o due. Con unʹoffer‐ ta straordinaria di legna da ardere il Parroco don Raffaele Ferretti, 40 anni dopo riuscì a far riconoscere Barbagelata Parrocchia a tutti gli effetti. E ora voglio ricordare le usanze che cʹerano quando moriva qualcuno. Per prima cosa quando in una frazione moriva qualcuno si sospendeva ogni attività. Il lutto era generale. Alla sera in casa del defunto veniva recitato il Santo Rosario e chi lo intonava e lo dirigeva generalmente era mio fratello Tugnìn che era chiamato anche da fuori parrocchia. Al rosario partecipava una grande quantità di persone e non solo di parenti. Al termine del rosario un incaricato con una tufania, grande piatto di legno usato nella meisia (madia) o altro recipiente (come un cesto), distribuiva un obolo che poteva essere di due palanche o una ʺnichelinaʺ o più. Il tutto era rigorosamente fasciato con carta di giornale o carta da pasta. Era un obolo

56

Fiera in paese per le anime del Purgatorio, ma era molto apprezzato e appetito in quei tempi di miseria ed è per questo che intere famiglie, quasi sempre numero‐ se, si sobbarcavano un lungo cammino notturno per le strade impervie per racimolare qualche soldo. Questʹusanza prettamente medioevale e dura a morire, io lʹho sempre detestata e tuttʹora la disapprovo. Con la guerra e la svalutazione lʹusanza finì con mio grande sollievo, ma tantʹè non la posso dimenticare. Cʹera inoltre lʹusanza che in casa del morto non si cucinasse nulla, salvo il caffè. Ai pasti provvedevano i parenti o gli amici e vicini più intimi, i quali rifornivano la tavola di ogni ben di Dio, salvo, mi pare, la carne perché non si doveva mangiare. Parenti e amici concordavano fra loro chi per il pran‐ zo, chi per la cena e ciò fino a funerale avvenuto. Il funerale era tuttʹaltra cosa del funerale che si fa oggi. Anche le famiglie più povere, più indigenti, facevano venire dalle parrocchie vicine (Montebruno, Roccatagliata, Favale o Priosa) almeno, dico almeno, due sacerdoti perché‚ si doveva celebrare, come si usava dire, la ʺMessa in ter‐ zoʺ. Tre sacerdoti con la pianeta nera ornata di giallo, celebravano una mes‐ sa solenne cantata e i canti raggiungevano lʹacme facendo tremare le vene dei polsi quando si cantava il ʺMiserere Deoʺ (Miserere mei Deus) e più anco‐ ra il ʺDies irae, dies illaʺ. Attorno al catafalco sei grossi ceri su candelieri neri e poi tante, tante candele accese a tutti gli altari. Il celebrante col piviale nero ornato dʹoro aspergeva e incensava il feretro e lo accompagnava fino al cimitero mentre le campane suonavano a morto. Al cimitero il feretro veniva interrato perché allora di loculi non ce nʹerano. La fossa non era scavata dal becchino, che non esisteva, ma da mani pietose

57

Fiera in paese del posto e amici del defunto. Gli stessi poi lo ricoprivano con lʹapposizione di una croce di legno su cui era scritto il nome. Si scavava la fossa dove da almeno 7 anni non erano stati interrati altri corpi e le ossa rinvenute erano riseppellite nella stessa terra perché‚ non vi era, come oggi, un ossario. Veniva poi la Settimana Santa. Si preparava il Sepolcro. Un mese prima la gente seminava in recipienti vari, grano, lenticchie e lino; teneva il tutto al buio e al caldo e nascevano piantine dʹun giallo tenero e piacevole a veder‐ si. Era lʹaddobbo per il Sepolcro. Ma il mercoledì santo, a Luigia, a Milia, Suntinn‐a, Parminn‐a e altre andavano a leità, a sgranare i bateghi. I fiorellini rosso‐viola servivano per fare un bel tappeto (oggi si direbbe ʺmoquetteʺ) nel recinto del Sepolcro dopo che il sacerdote aveva posto nel tabernacolo lʹostia consacrata. Il tabernacolo era quello dellʹaltare di San Rocco. Le cam‐ pane non suonavano più. Diceva la gente: «Han ligòu e campann‐e...»1. Per annunciare le funzioni in chiesa io percorrevo le strade del paese e facevo gracchiare un arnese che ruotando faceva il rumore di un gracidio. Detto arnese, che oggi sarebbe un bel reperto storico, era chiamato sgrexiua. Alle undici del sabato santo, u Reliu, che faceva da campanaro perché‚ u saveiva battagià2, saliva sul campanile e faceva suonare a distesa le campane; Gesù era risorto; poi cominciava a battaggiare e la gente correva in casa o alla fon‐ tana per lavarsi la faccia. A novembre, per i santi e i morti, in chiesa durante le funzioni, oltre alle tantissime candele che la gente faceva accendere, si accendevano anche i mucchetti piccoli e arrotolati in varie forme con tanto di decorazioni e si an‐ dava a gara a chi lo aveva più bello.

58

Fiera del bestiame tra le “ciuende”

Alla domenica la messa finiva sempre con la benedizione, ossia una ceri‐ monia aggiuntiva di cui ora si sono perse perfino le origini. Il sacerdote indossava il piviale; si cantava tutti in coro il ʺTantum ergoʺ, poi gli copri‐ vano le spalle con lʹomerale ed egli con la pisside benediva i fedeli; poi reci‐ tato il ʺDio sia benedettoʺ si cantava il ʺVi adoro ogni momento, o vivo pan del ciel, gran Sacramentoʺ, ma quasi tutti i fedeli invece di dire «o vivo» dicevano «evviva» e si usciva dalla chiesa. Nelle solennità, al posto della pisside si usava lʹostensorio di cui ora si sono perse le tracce. Nel pomeriggio del giorno festivo cʹera poi il vespro. Non era molto fre‐ quentato, ma cʹera sempre un buon numero di pie donne e di anziani. Ri‐ cordo che se Tizio incontrava Caio sulla strada, gli chiedeva «Unde te‐è?»3, e quello gli rispondeva «Aggu a espru»4. Sì perché‚ il vizio di fare questa do‐ manda era congenito, era generale. Se un viandante poi aveva la ventura di passare da Costafinale questa domanda se la sentiva fare da Giulinn‐a, da Turiggia, da Teèscia ed era fortunato se non incappava in ta Natalinn‐a, molto più giovane. E ottenuta risposta volevano sapere anche il perché. Ora sono un po’ migliorati nel senso che ti trovano con le mani in mano, ossia non stai facendo nulla di nulla e ti chiedono «Cosse te fè?»5. A Natale, quando tutti si era a tavola, la prima cosa che il capofamiglia fa‐ ceva era di mettere in un grande piatto un po’ di tutte le qualità di cibo che erano state preparate, dolci compresi. Il tutto era destinato e distribuito nella zutta alle bestie che erano nella stalla perché‚ anchʹesse partecipassero al banchetto della famiglia. Mio padre a una certa ora mi mandava a porta‐ re alle mucche uno di quei pani che faceva e cuoceva lui nel suo grande

59

Festa campestre sulla Costa

forno, pane che è sempre stato apprezzato, mentre io apprezzavo di più la focaccia che le famiglie cuocevano sutta u testu. Una volta sui calendari, in primavera, si vedeva scritto per tre giorni la pa‐ rola “rogazioni”. Voleva dire preghiere per la campagna, pe u demestegu e pe u sarvegu. Il primo giorno il parroco, dopo la messa, faceva una processione fino al passo della Larnaia; il secondo giorno dalla chiesa fino alla croce di Piano della Chiesa e del Posazzo per benedire le terre sul basso versante del Trebbia; il terzo giorno fino alla cappelletta di Costafinale percorrendo in salita quel sentiero che ho già nominato come strà da prucessiùn. E si can‐ tava a tratti “a fulgore et tempestate libera nos Domine” ecc. Non era molta la gente che frequentava questa cerimonia. Sempre le pie donne e la gente delle frazioni nel giorno che la processione andava verso le loro terre. Per‐ ché la gente amava la propria terra anche se avara di frutti, frutti che dava se lavorata con amore, con pazienza, con grande fatica. Ho detto frutti e non frutta perché frutta non ne dava per la sua altitudine, per il suo clima e anche e soprattutto per incuria e ignoranza nel ramo, per‐ ché frutta selvatica, come , pere e susine ce nʹerano e ce ne sono in quantità. Basta andà a lʹaia du Bixiu per rendersene conto. Ma chi sapeva fare un innesto? Nessuno. La frutta si preferiva comprarla specialmente in settembre, dagli ambulanti, i fighè che con una cesta quadrata detta corba in spalla portavano su da Moconesi fichi, pesche, uva. Quanti ne passavano a fine agosto e i primi giorni di settembre! Vere carovane andavano ben oltre Barbagelata, a Montebruno, a Loco, Fontanarossa, , Ottone, Casano‐

60

Fiera del bestiame tra le “ciuende”

va, , , Casoni e poi giù lungo la Val dʹAveto, impie‐ gando due o tre giorni di viaggio. E questo era un sintomo di miseria anche per quei paesi della Fontabuona, ora lauta di ricchezza. Anche noi avevamo una grande ricchezza, ma a parte le fragole e i mirtilli, non sapevamo coglierla e sfruttarla. Erano fiori e piante medicinali. Chi coglieva, salvo qualche turista, le genziane nascoste nellʹerba, le genzianelle e i ranuncoli e i miosotis che a migliaia ornavano e ornano ancora i bordi delle strade? E i fiori di ginestra che riempivano dʹuna sola macchia gialla i versanti dei monti; e lʹiperico tanto richiesto dagli erboristi, e lʹelicrisium profumato che noi chiamiamo squassinn‐a tanto sfruttato e richiesto in To‐ scana, e il timo che con i suoi fiorellini ricopre muri e scogli e inonda lʹaria col suo profumo, e lʹerica, detta bategu, sempre in fiore, e i narcisi e le felci di vario genere usate come ornamenti, e lʹarnica che bisognava cogliere il giorno di San Giovanni Battista e comunque prima del giorno di San Pietro; e i gigli arancione, detti di SantʹAntonio, simili al martagone, e gli asparagi selvatici? Oh quanti! E nessuno li tocca e loro crescono, crescono e fanno in agosto pennacchi simili a quelli dei carabinieri in grande uniforme. Ricordo però che un uomo di Monteghirfo, ma di origine veneta, li coglieva al momento opportuno e ne riempiva dei sacchi. E quanti cardi anche per motivi ornamentali si possono raccogliere e nessuno ti dice niente! Cʹè poi la stagione delle margherite tardive quando quelle della Riviera sono già sfiorite, e le bacche di ginepro, che bontà per i nostri intingoli e arrosti! E la

61

Festa campestre sulla Costa lunaria, detta anche moneta del papa e in primavera, dopo che la neve sʹè sciolta, i colchidi che in gergo si chiamano cancascieu, e subito dopo le pri‐ mule con lo stelo lungo e i fiori gialli a campanella. Ricordo anche che nei campi di grano, quando lo si seminava, occhieggiavano i papaveri e i mera‐ vigliosi, stupendi fiordalisi. Solo un botanico, ma un bravo botanico potreb‐ be enumerare altre centinaia di fiori e di erbe che da maggio a ottobre orna‐ no i campi, e dirci magari che u cancanscieu è uno zafferano selvatico e il suo bulbo è velenoso e comunque da trattare con rispetto perché‚ se lo toc‐ chi con la lingua questa per alcuni secondi si paralizza.

Poi a luglio passava su tutta questa grazia di Dio la falce e i campi sembra‐ vano tosati come il manto di una pecora. E non è che ciò rendesse tristezza; rendeva invece al mio animo riposo, ordine, pulizia e speranza perché‚ do‐ po le prime piogge dʹagosto i prati si ricoprivano ancora di un verde tene‐ ro, unʹerbetta tanto appetita dalle mucche, in gergo gueime. E in mezzo a quello ancora altri fiori e tanto, tanto verde in contrasto al verde ancora più cupo degli alberi che stavano chiudendo il loro ciclo. Spesso in mezzo a questa erbetta spuntava qualche prataiolo e mazze di tamburo, i turlulù.

Ora tutto questo non cʹè quasi più. I prati sono diventati lande selvagge, i boschi col loro fitto e intricato sottobosco una vera e propria giungla. I cam‐ pi e i boschi, anche se abbandonati a se stessi sono tuttavia, per chi sa osser‐ vare, un interessante laboratorio. Si può constatare de visu la disseminazio‐ ne anemofila, autoctona e zoofila guardando i semi del soffione volare nel‐ lʹaria, ascoltando il tic‐tac dei baccelli della ginestra spaccarsi e gettare lon‐ tano dalla pianta madre i loro piccoli semi, o i semi che restano impigliati

62

Immagini della fiera e della festa dell’8 maggio

negli abiti o sul pelo degli animali, esempio lampante quello della bardana che era motivo di gioco per noi ragazzi, perché‚ i suoi fiori a forma di palli‐ ne con tanti uncini si gettavano contro le persone e si attaccavano alle vesti senza peraltro recare alcun danno. Vorrei tanto ripercorrere quei luoghi, ma non lo posso fare perché‚ sono vecchio e stanco, ma non lo fanno nemmeno coloro che sono giovani per‐ ché‚ ogni strada, ogni sentiero è sommerso dalla vegetazione. Addio miei pascoli! Addio Creusa, Zerbiùn, Pussa da Moa, Munte di Prè, Suìe, Quattru Fò, Costa du Funtanìn, Serve, Furnaxia, Muntà, Runchettu, Larnaia, Pussa, tanto cara al mio cuore, Funtann‐a dʹAetu, Motti, Friceia, Scaiùn e Cian! Non senti‐ rete più lo scampanellio delle mucche le quali avevano oltretutto anche il merito di tenerli puliti e accessibili. E non mi vedrete più girare nei vostri angoli reconditi in cerca di funghi, di quei bei porcini da stè, di moi, e da prinn‐a, e i galetti, i dentìn, i turlulù, le cumbinn‐e e i prataioli e qualche volta, ma raramente i buei. E quanti funghi velenosi o poco eduli incontravo! Era‐ no una miriade di tutti i colori.

63

Panorama dalla “Culleìa”

Questa la flora che più colpisce lʹocchio. Non ho ricordato gli alberi di alto fusto che sono quasi esclusivamente faggi, i fò, salvo qualche raro castagno, qualche rovere, frassino e ora intorno al paese le piane, una qualità di pseu‐ do acero dal legno bianco, assai prolifico e qua e là abeti e pini, che quando sono messi a dimora sonnecchiano per qualche anno e poi esplodono verso il cielo e si fanno maestosi. A proposito di cose scomparse, ricordo che sotto la cappelletta, in una loca‐ lità detta Runchi cʹera una faggeta meravigliosa. Erano faggi di altissimo fusto, dalla corteccia chiara e con i rami solo alla sommità. Entrandovi sem‐ brava di essere in un grande tempio con tante stupende colonne. Un brutto giorno il bosco fu tagliato e non si lasciò come era dʹobbligo nemmeno una ʺmadrinaʺ, e di quella meravigliosa qualità di faggi resta solo un amaro, sgradevole ricordo. Per vedere oggi piante simili bisogna andare come mi‐ nimo sul monte Zatta alla Colonia Devoto o meglio ancora in Toscana nella suggestiva La Verna, luogo di ritiro e di preghiera di San Francesco dʹAssi‐ si.

1 Hanno legato le campane 2 Sapeva suonare le campane a concerto 3 Dove vai? 4 Vado al vespro 5 Cosa fai?

64

La fauna

on meno interessante della flora è la fauna (per chi la sa guardare e apprezzare) di questo paese e dei terreni che lo circondano. Faine N e volpi che insidiano nella notte i polli del paese. Lepri, fagiani, pernici rosse e starne, beccacce, tordi, merli, gazze, scoiattoli e gì (ghiri) per la gioia dei cacciatori; corvi a stormi, falchetti sospesi nellʹaria a fare la cal‐ za, diceva la gente, passeri, cutrettole, cuculi, pettirossi e tante rondini e rondoni, pipistrelli, detti ratti pernughi, arvicole, topi, talpe, gufi e civette e uno strano animale simile allo scoiattolo e al ghiro, ma di più al topo, u me‐ zengùn. Non ho mai saputo, per quante ricerche abbia fatto, il suo vero no‐ me. Era quasi nudo, con pochi peli, pelle sul grigio‐rosa e con i movimenti lentissimi. A proposito di rondini, cʹè stato un lungo periodo in cui non se ne vedeva‐ no più. Ma ricordo benissimo che quando ero ragazzo facevano il nido sot‐ to la grondaia da cà di Costafinè, ma un brutto giorno un malemme, sempre di Costafinale, (chi ha orecchie per intendere, intenda) con una lunga pertica glielo distrusse, e si vantava di questo gesto eroico. Da allora e per circa cinquantʹanni non ne venne più una. Ora con mia grande gioia sono ritor‐ nate portando con il loro lieto garrire un po’ di gioia e movimento nel pae‐ se. Ma, forse memori, non fanno più il loro nido sotto le grondaie, ma nei garages e nella vecchia chiesa al riparo dalle intemperie e da nuovi e vecchi malemmi. Tra i ricordi cʹè anche quello del cuculo. Era foriero della primavera e la gente diceva «Se u cucù u nu canta pe i ottu dʹarvì, o u lʹè mortu o u stà pe muì»1. Non sapeva la gente che era alla ricerca di un nido di un altro uccello per deporvi il suo unico uovo dopo averne gettato via uno della nidiata e lasciare che il nato fosse allevato e nutrito dalla madre che lo aveva covato. Nobile esempio di altruismo da una parte e di menefreghismo dallʹaltra. Tra i rettili si annoverano le vipere, gli aspidi, detti àspei surdi più numero‐ si; surdi perché lenti nei loro movimenti, ma pericolosi. Questi due rettili non sono scomparsi, anzi si sono moltiplicati e ora che non ci sono più gal‐ line e tacchini o donnole, fanno anche capolino nel paese. E ancora bisce comuni, lʹorbettino e lucertole, ramarri e salamandre. Tra gli anfibi si vede‐ vano di sera girare nel paese rospi, i baggi, che se trovati nei campi i conta‐ dini immancabilmente impalavano, ignari della loro indubbia utilità; in tu beu de Cugnu Lungu rane e tanti, tantissimi girini e perfino tritoni, di origi‐ ne, come ho detto, preistorica. É questo un anfibio a quattro zampe, ma con la coda, di piccole dimensioni e di colore marrone e sempre in acqua o ai suoi bordi. E i pesci? I più ricercati erano le trote iridate che abbondavano nelle acque dellʹAveto. Non cʹerano anguille come nel Malvaro o nel Lavagna, e non ho mai capito il perché. Le trote erano la mia passione. Le pescavo con le mani o con la forchetta, non disponendo né di reti né di fiocine. Non dico gli altri modi di pesca che esercitavo a volte, perché sarei considerato un sadico e

65

un distruttore del patrimonio ittico. E non mancavano nemmeno i crostacei ormai scomparsi a causa della pesca dissennata e dellʹinquinamento delle acque. Erano i gamberi che guizzavano con la loro caratteristica retromar‐ cia. Tra gli insetti tantissime, anzi troppe mosche per la presenza dei letamai, poi tafani, mosconi, mosche cavalline e un insetto nero dalle lunghe anten‐ ne che viene annoverato col nome di cervo; viveva particolarmente tra i mucchi di legna ed era chiamato tetta crae e tante lucciole. Nei letamai famiglie numerose di vermi e lombrichi, che avrebbero fatto la gioia dei pescatori con la canna e lʹamo. Lungo i sentieri ragnatele e relativi ragni a centinaia. Nelle fontane e nei ruscelli a volte si vedevano le sangui‐ sughe. Chi passava nei boschi di ontani, specialmente nella Larnaia, si cari‐ cava, senza volerlo, di zecche, che poi venivano staccate dalla pelle con le unghie senza tante storie come si fa ora. La propaganda, giusta o sbagliata, dà oggi una estrema importanza alle zecche che sono considerate pericolo‐ se e si ricorre nel caso al pronto soccorso, dove si arriva perfino allʹiniezio‐ ne antitetanica, oltre alla consueta disinfezione dopo il distacco con i ferri chirurgici. In illo tempore, se i contadini, i boscaioli e i viandanti attaccati nei luoghi più impensati da una o più zecche avessero dovuto seguire que‐ sta prassi, i pronti soccorsi che allora non cʹerano e si chiamavano, dove cʹerano, astanterie, non avrebbero potuto smaltire le richieste di intervento. Sulle mucche, quando avevano succhiato il sangue a loro necessario ed era‐ no diventate grosse e nere come un mirtillo, si staccavano da sole. Sullʹuo‐ mo, dato che provocavano un po’ di arrossamento e di bruciore venivano staccate, ancora piccole, con le unghie, anche se sporche, e tutto finiva lì, senza alcuna disinfezione. Ho citato vari animali, ma su alcuni voglio ritornare perché oggetto di cre‐ denza popolare, veritiera o meno. U mezengùn che ho già descritto e che non so come si chiami in italiano è ora del tutto scomparso. Ricordo però che amava, con tutta la nidiata, vivere sugli alberi di amarena, quelli che erano giù nelle pusse e nel buiu da Bedidda dove ora hanno la casa il signor Silvio e il signor Bonanno. Aveva movimenti lenti e, dove passava le foglie poco dopo si accartocciavano, e, come si diceva, erano ammenzegunè, e que‐ sto nome veniva dato anche a quelle persone che erano lente nei movimenti e nel parlare e così agli animali, specialmente quando erano malati. La gen‐ te si guardava bene dal toccarli e io mi divertivo con un bastoncino a solle‐ citarli ma restavano indifferenti e confesso che mi facevano un po’ schifo. A Barbagelata cʹera una donna, di cui assolutamente non faccio il nome, di cui la gente diceva «A lʹè ammenzegunà». Quando nei boschi si incontrava una salamandra, detta zinestrùn, che a dire il vero era bellissima, e ora non se ne vedono più, la gente diceva che il giorno dopo sarebbe piovuto e spesso indovinava. Se durante la notte si udiva stridere la civetta, la gente si chiedeva chi presto sarebbe morto, e se vi era qualcuno malato o molto vecchio, il pensiero, dico il pensiero, corre‐ va a quello. Nei boschi, durante la stagione dei funghi, si incontravano spesso grossi lumaconi bavosi che si muovevano lentamente; erano diretti verso qualche fungo edule, mai velenoso. Loro sì che se ne intendono. Di essi si nutrono avidamente e lasciano la preda solo quando non ne resta che la pellicola. Non si troveranno mai sotto unʹammanita falloide o muscaria o sotto un boleto malefico che rassomiglia tanto a un bel porcino.

66

Il rettile detto orbettino, con il corpo privo di squame e molto simile a un grosso verme, che io ritengo innocuo, era invece temuto dalla gente che diceva «Se avesse due occhi come sua sorella, farebbe scendere un uomo dalla sella». Per sorella si alludeva alla velenosissima vipera. Le vesti di muta dei serpenti che falciando si trovavano tra lʹerba, venivano triturate e messe nel beverone di certe mucche che ritardavano nel venire in calore. Credeva la gente, certa gente, che avessero poteri afrodisiaci. Molte specie di questa fauna sono scomparse dallʹambiente che va sempre più in degrado e ciò mi rattrista alquanto. Ma voi giovani rallegratevi. Ab‐ biamo i cinghiali, anzi, porcastri che fanno da padroni su tutto il territorio ligure, distruggendo ogni cosa, ogni coltura e si permettono perfino, come veri vip, di passeg‐ giare nelle vie e sulla piazzetta del‐ la opulenta Portofino, o di assag‐ giare la crema abbronzante di una bagnante sulla spiaggia di . Guai a chi li tocca e non cʹè peste che li possa sterminare, come io mi auguro. Il mio interesse per la fauna era del tutto diverso da quello che ho oggi. Infatti, da accanito e anche abile cacciatore sono diventato un pro‐ tettore della fauna a eccezione dei cinghiali per i quali nutro unʹavver‐ sione totale, perché ritengo che la Liguria, già così povera di risorse Mucche al pascolo agricole non debba essere lʹambien‐ te più idoneo alla diffusione di una specie che distrugge ogni coltivazione e dissoda, quando non trova altro, quei pochi prati che ancora può offrire al turista. Che dire poi se il contadino quei prati dovesse falciarli? Già fin da ragazzo e poi da adulto il mio interesse era rivolto alle lepri e alle pernici rosse e starne. Di lepri ne catturai perfino di quelle vive che poi però mi morivano dopo poco tempo: pensavo che rimpinzarle di erba me‐ dica fosse sufficiente a mantenerle. Ottenevo invece lʹeffetto contrario, ma ciò era frutto di mia ignoranza in materia. Ricordandomi del fatto che mio fratello Tugnìn aveva un tempo allevato e addomesticato una gazza dal piumaggio variegato e bellissimo che rispon‐ deva al richiamo al nome di Berta, io volli imitarlo allevando e addomesti‐ cando un corvo nero, nero e col becco giallo. Lo raccolsi perché caduto dal nido, lo nutrii e lo coccolai. In quei tempi, stormi di corvi si vedevano un po’ ovunque e mi chiedo dove siano finiti ora. Durante la fienagione si po‐ savano sul terreno falciato dove pullulavano i grilli e davano a loro una caccia spietata. Non è che il mio corvo fosse ben visto in paese perché le donne non erano più padrone di mettere sui davanzali delle finestre i loro formaggi freschi ad asciugare. Mangiava a volte con le galline se il loro cibo era un impasto

67

e la faceva da padrone. Alla mattina veniva davanti alla porta della mia camera e gracchiava tanto fino a che non mi fossi alzato. Era una vera pe‐ ste. Quando passavano stormi di corvi che generalmente andavano a po‐ sarsi laggiù in te pusse lui vi accorreva, stava con loro e con loro andava quando si sollevavano in volo, ma alla sera era nuovamente in paese. Per evitare le lamentele della gente per i dispetti che faceva, un giorno lo regalai a due giovani commercianti di un paese vicino alla Scoffera: Rossi. Per chi non lo sapesse, Rossi è il paese della madre di Frank Sinatra, il fa‐ moso cantante detto anche La Voce. Chi non li ricorda questi due simpatici e avveduti giovani, passare, durante la guerra, a Barbagelata con una decina di bellissime manze destinate ai macelli più o meno clandestini di Genova? Venivano dal piacentino o dal parmense dove avevano fatto gli acquisti e tutto via monti raggiungevano Barbagelata e lì si rifocillavano e facevano riposare il bestiame. Quindi at‐ traversavano il passo della Larnaia e percorrendo la strada della Corsica raggiungevano Rossi. La strada della Corsica, se non lʹho ancora detto, è quella che da Barbagela‐ ta va fino alla Scoffera e ora è detta “Alta Via”. La percorrevano gli operai che dai monti della Liguria e dellʹEmilia andavano dʹinverno a lavorare in Corsica forse quando lʹisola era ancora dei genovesi. Poi Genova la vendet‐ te pe due palanche ai francesi perché costava troppo tenere a freno i Curse‐ ghìn. E non è che la Francia abbia fatto un grande affare perché ancora oggi, dopo più di due secoli, deve usare il guanto di seta se vuole tenerli buoni. Lʹisola non è poi tanto lontana da noi, se dalla Costa o dalla cappelletta nei giorni veramente limpidi o dopo un bel temporale la si vede a occhio nudo col suo dito puntato proprio contro la Riviera Ligure. Io ho avuto modo e la fortuna di vederla più di una volta e ne sono rimasto entusiasta. Il corvo lo diedi a quei mercanti perché amici di famiglia e perché ne erano entusiasti e io ero sicuro che lo avrebbero trattato bene. Lo misero in un sacco di iuta a tessuto rado e legarono il sacco alla sella di un cavallo. Giun‐ ti a Rossi slegarono il sacco, lo aprirono ma era vuoto. Cʹera solo un buco con qualche piuma. Se lʹera fatto lui ed era volato via. Alla sera era già in paese a razzolare con le galline. Un brutto giorno sparì e non ne seppi, con mio disappunto, più nulla. Cʹera la caccia aperta e forse servì a qualcuno da bersaglio.

1 Se il cucù non canta per l’otto di aprile, o è morto o sta per morire

68

I Parroci

a parrocchia di Barbagelata era riconosciuta tale solo dalla Curia e prima ancora dʹessere parrocchia fu una Rettoria di Verzi. Solo dopo la guerra fu riconosciuta parrocchia a tutti gli effetti anche dallo Sta‐ to.L Ho già detto chi fu il primo parroco o rettore. Si chiamava don Giuseppe Cavagnaro, proprio come tutta la gente del paese. La sua famiglia era di Balano, una frazione di Verzi dove appunto tutti si chiamavano Cavagnaro e da cui provenivano i nostri avi. Corsi e ricorsi della storia. Ma prima di lui salirono l’erta e ridiscesero al piano tanti e tanti altri sacer‐ doti, chi col titolo di custode, chi delegato, chi rettore pro‐tempore e chi padre, ossia frate. Io ne nominerò alcuni a volo d’uccello per far capire che la chiesa di Barbagelata ha, come tante altre, una sua storia. Dai registri parrocchiali risulta, andando indietro nel tempo, che vi officiarono i reve‐ rendi Cavazza, Garbarino, Bettoni, Badaracco, Firenze, Curotto, De Barbieri Pio e Agostino, Foppiano, Malatesta, Garibaldi, Leverone, Casaccia, Zucca‐ relli, Rolando, Casagrande, Traverso e prima di loro tanti altri. Don Giuseppe Cavagnaro, primo rettore stabile, era un uomo pio, ligio alle tradizioni e alla liturgia. Aveva una perpetua di nome Innocenza, in gergo Nocentinn‐a, tanto buona. Io nacqui sotto il suo rettorato con tutto quel che segue come già detto. Vi stette moltissimi anni, poi si ritirò a vita privata a Balano. Mi invitò, quando già ero maestro, al suo giubileo sacerdotale nella parrocchia di Verzi, dove era parroco don Arturo Boitano. Durante il sim‐ posio avrei dovuto dire come tutti gli altri alcune parole di convenevoli e di ringraziamento, ma la commozione fu tanta, con un groppo alla gola, che vi dovetti rinunciare. Ero al cospetto di chi mi aveva tenuto per mano e mi aveva indicato la via da seguire. Io lo ricordo sempre, come un alunno che ricorda il suo primo maestro. Lo vedo con il suo inseparabile tricorno, il copricapo oggi caduto in disuso ma che per me è sinonimo di sacerdozio. Non riesco, e non so perché a scindere le due cose. Eʹ come voler pensare a don Camillo senza il suo tricorno o a Stanlio e Ollio senza la loro bombetta. A lui successe don Angelo Lastreto, sacerdote di grossa stazza, pesava più di un quintale; era più attaccato alle cose terrene che a quelle celesti. Fu trasferito e venne un giovane sacerdote, don Giuseppe Lorenzetti. Vi stette alcuni anni poi emigrò a New York dove aveva la famiglia. Venne don Pio Borzone, di Favale; vi stette non molto perché le sue precarie condizioni di salute costrinsero la Curia a inviarlo in Riviera. Fu nominato don Luigi Sanguineti, originario di San Bartolomeo di . Un sacerdote tutto “sui generis” che faceva una lotta accanita contro il ballo e chi ballava. Fu un antesignano dellʹeducazione sessuale: infatti organizzò un corso ad hoc per adulti. Pensate ... già allora. Ebbi con lui molti scontri verbali e polemici proprio sul ballo, ma era irremovibile. E pensare che og‐

69

La costruzione della nuova chiesa

70

La nuova chiesa gi in certe feste, nelle sale delle opere parrocchiali si invitano orchestrine e dopo il simposio si balla e si canta. A lui succedette don Nicola Tiscornia che amava con la sua voce roboante e, in certe occasioni, con fare tragico o poetico, predicare e attirare lʹatten‐ zione dei fedeli. Io a lui insegnai a giocare a carte e a fumare. Trasferito a San Bartolomeo di Leivi venne al suo posto don Bacigalupo di Ognio e po‐ co dopo don Armando Boitano di Favale, della mia stessa età. Fece aggiun‐ gere una campana al concerto di quelle esistenti e ricordo che i parrocchia‐ ni che la trasportavano a spalle da Costamaglio vollero, in prossimità del paese, che il Parroco entrasse in piedi, dentro a essa, e arrivasse trionfante fin sul piazzale della chiesa. Spesso ricordiamo assieme i gelidi e nevosi inverni e quando salendo da Favale tra unʹenorme quantità di neve, io che fortunatamente ero dietro di lui di una buona mezzʹora lo raccolsi sfinito e lo aiutai a raggiungere il paese. Che fosse davanti a me lo capii dal ritrova‐ mento nella neve di alcuni indumenti che aveva perduto o lasciato cadere qua e là. Fu dopo alcuni anni trasferito a San Colombano Certenoli e al suo posto venne don Raffaele Ferretti di Monteghirfo. Fu il Sacerdote che raccogliendo fra i parrocchiani le offerte necessarie, riu‐ scì a far riconoscere anche dallo Stato la parrocchia a tutti gli effetti. Egli venne poco dopo la fine della guerra di liberazione, appena sfornato dal seminario. Trovò il paese che appena appena cominciava a sollevarsi dalle macerie perché il 12 e 13 agosto 1944 il paese fu incendiato dai nazifascisti in unʹazione di guerriglia.

71

E dopo don Ferretti, trasferito a Ognio, arrivò don Sbarbaro, fratello di Mons. Sbarbaro missionario in Africa e di un altro don Sbarbaro arciprete di SantʹAm‐ brogio di . Vi stette poco anche per motivi di salute e al suo posto arrivò don Agostino Dellepiane, originario della lo‐ calità predetta. Col marchio del seminario ben impresso e lʹinflessibile osservanza del rito liturgi‐ co, rivoluzionò ogni cosa. La gente lo guardava dapprima con sospetto e diffi‐ denza e invece di avvicinarsi alla Chiesa si allontanava. Allora prese la decisione di andare a celebrare la messa in una casa della frazione di Cornaro per facilitare la frequenza alla gente di quelle frazioni poste in basso rispetto a Barbagelata. Viveva in pensione nella trattoria dei miei genitori e lì spesso sfogava i suoi umori perché anche in Curia era tenuto sotto debita osservazione. Alcuni suoi confratelli, sentendo quello che faceva e come si comportava, dicevano: «O è un pazzo o è un santo!». Forse era lʹuno e lʹaltro. Ma aveva un piano avventuroso nella mente e difficile a realizzarsi: abbandona‐ re la chiesa fatiscente dove celebrava e costruirne una nuova, moderna, intonata al paesaggio alpestre, che fosse di richia‐ mo ai numerosi turisti che frequentavano la località. E strinse amicizie un po’ ovun‐ Interni della nuova chiesa que, a Genova e in Riviera, e nelle vallate fino a Bobbio e oltre. Scriveva ogni mese centinaia e centinaia di lettere e cartoline, raccogliendo fondi che gli permi‐ sero di costruire proprio dove un tempo, ironia della sorte, cʹera il ballo, su un terreno offerto dalla mia famiglia, una chiesa originalissima a forma di tenda, su progetto di due giovani architetti di Milano, e per lʹarredo interno di Padre Costantino di Pavia, di fama internazionale. In un secondo tempo costruì a fianco della chiesa un suo alloggio inserito in un complesso di opere parrocchiali che sono frequentate durante lʹanno da gruppi parroc‐ chiali di giovani cattolici di zone diverse. Ma la sua salute era precaria e non si curava molto; ultimamente aveva molti impegni extra‐parrocchiali; era stato nominato Vicario foraneo di tut‐ ta la Fontanabuona e ogni domenica faceva la spola tra questa e quella par‐ rocchia per celebrare la messa, senza mai trascurare la sua chiesa. Ma una sera, una brutta sera, era giovedì santo, 23 marzo 1989, dopo una giornata faticosissima per aver officiato in varie parrocchie della vallata, fu assalito da un accesso di tosse per una vecchia bronchite asmatica, che lo soffocò. Il

72

trasporto, durante la notte, allʹospedale, operato da un gruppo di giovani che erano ospiti, non servì a nulla e al mattino del 24 marzo, venerdì santo, giunse la ferale notizia come un fulmine a ciel sereno. Don Agostino inopi‐ natamente ci aveva lasciati. Il lunedì dellʹAngelo ci furono i funerali. Una folla strabocchevole di perso‐ ne salì, costernata e commossa, a rendere lʹultimo saluto e omaggio a don Agostino. Ora riposa nel cimitero del paese, ma la gente si aspetta, attende, che venga sepolto nella sua chiesa, quella da lui edificata con tanto amore e passione. A reggere la parrocchia ora cʹè don Enrico Dondero, che era anche parroco di Lorsica, Verzi, Castagnelo e Monteghirfo, tutte vacanti. Ora, anche lui, non è più parroco di queste parrocchie ma di , lontana 55 chilometri da Barbagelata, di cui conserva ancora il titolo. Ogni domenica dovrebbe salire a Barbagelata a celebrare, almeno, la messa, ma spesso non può e vengono così altri sacerdoti allʹinsaputa dei pochi fedeli che frequen‐ tano, specie in inverno, la chiesa. Con una battuta spiritosa qualcuno ha detto in proposito: «Si potrebbe giocare al totoprete». Parlando dei parroci sono stato costretto ad andare fuori dei tempi che mi ero prefisso e cioè gli anni che dalla prima guerra mondiale vanno fino allo scoppio della seconda guerra mondiale e poi fino ai giorni nostri, ma era necessario raccogliere i pastori della nostra chiesa in un unico capitolo. In questo lasso di tempo, venti e più anni, la situazione, gli usi, i costumi, il modo di vivere da terzo mondo, si direbbe oggi, erano quelli che ho de‐ scritto. Ci si vestiva nei giorni feriali di fustagno, il jeans di allora, le scarpe erano chiodate con le burchette, le camicie senza colletto. Solo la domenica ci si vestiva di panno e ci si metteva le scarpe finn‐e, chi le aveva, e ci si sen‐ tiva più leggeri, più agili perfino. Lʹabito maschile più caratteristico era il gilet o panciotto ma da tutti chia‐ mato gippunettu. Era indispensabile, insostituibile. Lo si portava sempre: nei dì di festa e in quelli feriali, qualcuno credo anche a letto. Si poteva fare a meno della giacca o gileccu, ma non del gippunettu. Era sul davanti di pan‐ no o di fustagno, a volte di velluto ed era il non plus ultra. Aveva una gros‐ sa tasca interna per il portafoglio più o meno rigonfio e quattro taschine sul davanti. Vi si riponeva u buettìn (pacchetto del tabacco), le cartine e i fiam‐ miferi, i sigari o la cicca, le monete di metallo o altro. Lo si mostrava con orgoglio ponendo i due pollici nellʹincavatura delle ascelle, perché non ave‐ va maniche. Io ho molte fotografie di mio padre ma tutte in cu gippunettu. Chi non aveva u gippunettu, e lo avevano tutti, abbienti e non, non era uo‐ mo. Non parliamo poi del cappello che era di prammatica. Anche la donna aveva il suo indumento caratteristico e indispensabile: il grembiule, u scosà. Aveva due tasche ma allʹuopo lo si tirava su e faceva da marsupio. Vi si metteva un po’ di tutto: funghi, ortaggi, uova, la spesa e quantʹaltro si trovasse. A volte vedevo mia madre partire zitta zitta da casa cu scosà rigonfio. Andava in qualche frazione della parrocchia a far visita a un malato o a una puerpera e in quel grembiule cʹera un po’ di tutto. Si era comunque indipendenti nel senso che certe cose si facevano vicende‐ volmente in famiglia o tra amici, vicini o parenti. Ad esempio noi non si comprava il caffè tostato, ma per averlo sempre fresco ce lo tostavamo, cun

73

Don Agostino Dellepiane Il Vescovo Marchesani, Don Giorgi e Don Ferretti u brustolìn. Mio fratello comprava una miscela di caffè crudo a base di “santos, moka e caracolito” e cun u brustulìn, che ne conteneva anche più di un chilo, lo tostavamo, e a girare quel tamburo toccava sempre a me, che noia! Sotto lʹocchio vigile di mia madre. Cʹera da fare qualche sommaria riparazione alle scarpe? Noi e anche u Reliu avevamo la forma di ferro a tre usi. Si ricorreva al calzolaio, che era Secon‐ do di Favale, padre di don Pio Borzone, e poi a u Baffin solo per un paio di scarpe nuove o per una risuolatura integrale. Noi avevamo anche la macchinetta per tagliare i capelli e così lʹaveva u Re‐ liu, che era un po’ il parrucchiere del luogo. Ci si radeva lʹun lʹaltro anche se non tutti i giorni, ma senzʹaltro due volte la settimana. Le donne filavano la lana delle pecore col fuso e la rocca e con quel filato facevano un po’ di tutto, ma in modo particolare calze, i cosiddetti scapìn, sciarpe, passamontagna e qualche volta mariolli se la lana abbondava. Di necessità facevamo virtù e ci industriavamo per spendere il meno possibile, anche se spesso il lavoro che facevamo era gravoso e non ammetteva soste. Prendiamo ad esempio la calce per le costruzioni in pietra. Bisognava an‐ darla a comperare a Montebruno, ma forse anche a Torriglia o Cicagna e il disagio era enorme. Su un mulo non se ne poteva caricare più di un quinta‐

74

le, e poi ci voleva anche la sabbia e quella dellʹAveto non era idonea perché terrosa. Si andava a pren‐ derla a Montebruno e precisamente nel torrente Brugneto, ora famoso per il suo lago artificiale, perché era sabbia doc, la migliore dʹItalia, dice‐ va la gente. Che fare allora per la calce? Si do‐ veva farla sul posto. Fortuna vuole che nei pascoli intorno al paese ci siano delle pietre speciali che quan‐ do affiorano sono di colore azzurro tenero, come le piume di certi co‐ lombi. Sono pietre da calce che noi chiamiamo pria crumbinn‐a. Aveva‐ no cominciato a cuocerla in una fornace i frati di San Colombano o benedettini quando costruirono la cappella, ora cimitero, di cui ho già parlato. Infatti negli scavi si trova‐ rono i muri intonacati e per nulla scrostati. Questʹintonaco, molato, rivela una consistenza eccezionale con sfondo color ocra ed è simile a quella graniglia con la quale fino a Cristoffu col gippunettu non molti anni fa si facevano lavan‐ e il cappello in mano dini e scalini come ho io in casa. Qui è dʹuopo spiegare come veniva cotta la pietra per farne calce. Lʹultima fornace io la ricordo fatta da Meneghìn du Grixiu in una località detta dai pussetti sulla strada delle Suìe. Io ero un ragazzo forse di sette o otto anni e con me la ricorderebbero, se fossero ancora vivi, Pippu e Dria de Picciùn. Sì perché eravamo spettatori e collaboratori nel porgere, per esempio, le fasci‐ ne di ginestra. Mi fa piacere ricordare questo e mi ritengo anche fortunato perché da allora più nessuno, che io sappia, ha intrapreso una fatica simile. A me sembrava un lavoro da Titani e forse lo era, e ne ero affascinato. Per prima cosa chi faceva questo lavoro tagliava tutte le ginestre che cʹera‐ no in un raggio di oltre un chilometro e con le ginestre molti rami e piccoli tronchi di faggio. Ginestre e rami erano legati in tante piccole fascine e do‐ po averle lasciate seccare, ma non troppo, portate e accatastate nei pressi della fornace per essere a portata di mano. Raccolte le pietre crumbinn‐e scavando dove ne affioravano, venivano messe a secco una sullʹaltra in mo‐ do da formare una volta, proprio come un forno con relativa imboccatura. Allʹesterno veniva ricoperta di zolle e terra come la carbonaia, quindi si riempiva di legna il forno e vi si dava fuoco. Da quel momento il lavoro era veramente titanico perché la fiamma doveva essere sempre viva, continua, notte e giorno. La montagna di fascine calava a vista dʹocchio e bisognava procurare altra legna. Non ricordo con preci‐ sione i tempi di cottura perché parlo di cose viste settantacinque e più anni

75

fa, ma sicuramente non meno di tre giorni e tre notti. Ricordo che, leggen‐ do nella biografia di Benvenuto Cellini la fusione della statua del Perseo, quando gli venne a mancare il metallo di fusione e quello che fece per sop‐ perire alla bisogna, io rammentai Meneghìn col viso stravolto che andava in cerca di legna per alimentare la fiamma. Sotto lʹazione incessante del calore quella pietra azzurrina si faceva color ocra. Questo era il segno che la calce, calce viva, era fatta. Toccandola con una sbarra di ferro si notava che si sfaldava e allora si poteva respirare, re‐ spirare a fondo. Anche la camicia esterna aveva subito, come nelle carbo‐ naie, lo stesso effetto e dopo il raffreddamento e la pulizia del forno si face‐ va crollare la volta. La calce era pronta e insaccata si poteva portare a casa in un luogo asciutto. Era ancora tutta a scaglie, più o meno grosse, ma ciò denotava la bontà del prodotto. Ora di tutto questo resta solo il nome di una località detta appunto Furnàxia perché lì forse se ne fece più di una; ma unʹaltra località dove si fecero più fornaci, e lì la terra rivela i segni della cottura, è detta aia du Bixiu sopra i pascoli di Scorticata, sulla caratteristica strada per il Posazzo e Santa Brilla. La gente si sottoponeva a un lavoro immane pur di risparmiare qualche soldo.

76

Il paese dal “Briccu”

I ruderi della cappelletta: “Tugnìn” e Bruno Cavagnaro, con la signora Canciani sul mulo

77

A scheua sotto la neve

78

La scuola

vento eccezionale fu quando aprirono la scuola elementare. Era una scuola classificata “rurale” come tante altre scuole di montagna di nuova istituzione. La sede era nella casa ove ora io abito. Mio padre lEʹaveva data in uso al Comune perché non vi erano altri locali idonei e do‐ veva servire anche da abitazione della maestra. Non ricordo lʹanno in cui fu aperta, forse intorno al 1930, ma ricordo chi fu la prima maestra: Rosetta De Martini di Lorsica, tuttʹora vivente. Venne poi Maria Pino di Zoagli, ma fu un succedersi di cambiamenti (come avviene tuttʹora in altre scuole) perché la sede di Barbagelata era, credo, la più disa‐ giata di tutte. Ricorderò alla rinfusa alcuni nomi: Rina Ansaldo, Regina Maggi, Adriana Podestà, Gina De Martini, Elsa Segale defunta, la Castagneto che andava cinquanta volte al giorno alla fontana con la scopa a spallarm, per lavarla, Febo Salvi, pittore, la sarda Piredda che pretendeva che il parroco, quando si assentava, le lasciasse la chiave del tabernacolo per autocomunicarsi, A‐ driana Radaelli, Alba Bersani, una certa Nella o Nello, la Lambruschini; una di cui non ricordo il nome, che si trovò tutti i suoi indumenti intimi distesi in bella mostra sullʹaltare dopo il rastrellamento in cui bruciarono il paese, e altre cui chiedo venia per non ricordarne il nome. Non era una scuola come quelle di oggi che annoverano sei o sette alunni. Ce nʹerano più di venti e venivano oltre che da Barbagelata, da Costafinale, da Scorticata, da Piano della Chiesa, da Santa Brilla e dal Posazzo. Veniva‐ no con il bello e il cattivo tempo, con la pioggia e con la neve. Una sacchetta di tela a tracolla con dentro libri e quaderni e uno o due pezzi di legna sotto il braccio per alimentare il fuoco della stufa. Era una pluriclasse, ossia lʹin‐ segnamento e lʹapprendimento erano contemporanei per tutte le cinque classi. I giovani e le maestre dʹoggi dovrebbero vedere, se fosse possibile, in una retrospettiva filmata gli alunni e le maestre di allora con i relativi sacri‐ fici a cui si sottoponevano gli uni e le altre. Dopo la guerra gli alunni calarono e la scuola fu trasferita a Costafinale, che aveva alcuni ragazzi in età scolare. Prima dellʹapertura della scuola i primi elementi dello scrivere e del leggere erano impartiti, e non a tutti, dal parroco. Lʹanalfabetismo era diffusissimo specialmente tra le donne. Cʹera poi lʹanalfabetismo di ritorno, specie per chi aveva ricevuto solo le prime nozioni dal parroco o non aveva più letto o scritto alcunché. Ancora oggi fra la gente della mia età e anche fra i più giovani questa plaga è molto dif‐ fusa.

79

Barbagelata d’estate

Barbagelata dal passo della Larnaia

80

La Seconda Guerra Mondiale

el 1940, il 10 giugno, scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e molta gente dovette partire per indossare il grigioverde. Sembrava do‐ N vesse essere una guerra lampo, ma quel lampo con relativo tuono durò cinque anni. Alcuni non ritornarono più, come i due fratelli De Bene‐ detti di Costafinale caduti in Russia, altri ritornarono ma provati da stenti e fatiche e ferite. Comunque nella parrocchia ne morirono meno di quanti invece ne fossero morti, come dice la lapide che sta sulla facciata della vec‐ chia chiesa, nella Prima Guerra Mondiale che in rapporto durò meno. La vita scorreva sempre allo stesso modo, le comodità erano sempre quelle di prima. Erano venuti a scarseggiare i generi alimentari perché cʹera il tes‐ seramento. La gente comunque si ʺarrangiavaʺ con quel poco che produce‐ va. Alcune persone della parrocchia si erano date alla borsa nera e si faceva scambio di merci. Cʹera chi coi muli andava oltre i monti dellʹAntola, nellʹa‐ lessandrino e nel pavese, a comprare grano e farina e a portarla, sempre per vie mulattiere per non incappare nei controlli, verso la Riviera di Levante e lì caricarsi di olio e in Fontanabuona di farina di meliga e vino. Nelle notti stellate si poteva assistere ai bagliori dei bombardamenti su Ge‐ nova perché proprio dal paese si vede il mare di e i forti che cir‐ condano Genova. Cadde, una notte, una grossa bomba nei pressi di Costa‐ finale. Colpì in pieno un fienile, quello di Pipìn, e al suo posto restò un grande cratere. A volte gli aerei lasciavano cadere delle bottiglie incendia‐ rie per far bruciare le messi. Una cassetta con sei bottiglie cadde poco lonta‐ no dal paese in una località detta peuzzu de Meneghìn. Due bottiglie si rup‐ pero e si incendiarono perché erano piene di un liquido a base di fosforo che a contatto dellʹaria si incendiava. Il fuoco durò, senza però propagarsi, per oltre una settimana. Era una specie di ebollizione con fumo, di quel liquido denso come si può vedere a Pozzuoli nella ben nota solfatara. Io andavo, senza nulla toccare a scanso di sorprese, a controllare il comporta‐ mento di quellʹingegnoso sistema per incendiare cascinali, campi di grano o di fieno. A volte si trovavano a terra delle striscioline di carta argentata. Erano spar‐ se nellʹaria a milioni dagli aerei nemici per non farsi sentire dai rudimentali aggeggi di ascolto che avevamo. Difatti sul monte Caucaso cʹera un centro di avvistamento dellʹU.N.P.A. Unione Nazionale Protezione Antiaerea, che doveva segnalare a Genova il passaggio di aerei e lì dare fiato alle sirene. I paesi in questo periodo si erano affollati di gente che aveva lasciato la cit‐ tà per mettersi in salvo dai bombardamenti. Erano gli ʺsfollatiʺ che pur di trovare un tetto sotto cui ripararsi senza sentire lʹurlo delle sirene si adatta‐ vano comunque. Furono anni di sacrifici per tutti perché con i bombarda‐ menti aerei la guerra non era solo al fronte ma ovunque e numerosissime furono le vittime fra i civili.

81

Nel 1943 il 25 luglio, giorno della festa di San Giuseppe nel paese, ci fu il capovolgimento politico. Cadde il fascismo e il generale Badoglio, che ave‐ va preso le redini del potere, lʹ8 settembre ebbe la bella ʺpensataʺ di voltare le spalle agli alleati tedeschi e chiedere un armistizio ad americani e inglesi, lasciando nella m... gli italiani. La gente lì per lì esultò gridando: «La guerra è finita». Pia illusione perché quel giorno la guerra ricominciava più aspra e più difficile per tutti quei territori che i nuovi alleati non avevano ancora conquistato. I tedeschi invasero lʹItalia fino alla Campania e cominciarono le rappresaglie. Lʹira funesta di Hitler si era scatenata e voleva fare dellʹIta‐ lia una terra bruciata come la Polonia. File interminabili di vagoni merci impiombati, trasportavano militari e civili oltre il Brennero nei campi di concentramento che per molti furono anche di sterminio. Intanto, attuata la bella ʺpensataʺ, Badoglio e tutta Casa Savoia fuggirono verso il sud e si misero al sicuro. Altissimo esempio di vigliaccheria. Più le sorti della Germania si facevano sui vari fronti critiche, più lʹItalia risentiva di questo nuovo stato di cose che aveva lasciato tutti smarriti e indifesi. Liberato con un blitz Mussolini dalla prigionia, questi, con lʹappoggio del Führer costituì la Repubblica Sociale Italiana con capitale Salò sul lago di Garda dove si era rifugiato. Allʹoppressione tedesca si aggiungeva quella dei nuovi fascisti. Per con‐ trappeso molti soldati sbandati si rifugiarono tra i monti e costituirono del‐ le bande armate che in un primo tempo furono chiamati ʺRibelliʺ poi ʺPartigianiʺ. Per reprimere questi, i soldati tedeschi e fascisti organizzavano dei rastrellamenti con morti e feriti senza peraltro sanare da una parte o dallʹaltra la piaga. Vittime involontarie furono le popolazioni delle montagne sulle quali ora la guerra vera e propria si era trasferita. Barbagelata, per la sua posizione strategica, divenne, come si dice oggi, un caposaldo della lotta partigiana. Situata comʹè a cavallo della Val Fontanabuona, della Val dʹAveto e della Val Trebbia, formando quello che geograficamente si chiama ʺacrocoroʺ si prestava ai movimenti strategici sia degli uni che degli altri. Allʹinizio i primi ʺribelliʺ avevano preso come base la frazione di Scorticata, più defilata e più sicura dalle incursioni. Intanto questo gruppo raccoglieva armi e proseliti e quando furono organizzati si mostrarono a Barbagelata, che entrò nellʹocchio del ciclone dei rastrellamenti che si susseguirono a ogni pié sospinto. I soldati della Divisione Monte Rosa giungevano zitti zitti ora dalla Fonta‐ nabuona, da Favale, da Moconesi, da Neirone, ora dalla Val dʹAveto. Giun‐ gevano con azioni a sorpresa con lʹintento di catturare qualche partigiano o qualche abitante del luogo. Era allora un fuggi fuggi generale. Quando il rastrellamento era preannunciato allora si portava via anche il bestiame, unica ricchezza delle famiglie. Nella zona del Caucaso si era formato un secondo distaccamento che si chiamava ʺGiustizia e Libertàʺ mentre il primo era quello dei Garibaldini, brigata Bisagno. Questi gruppi di partigiani, e ce nʹerano un po’ ovunque, creavano seri pro‐ blemi fra le forze dellʹordine: attentati, diserzioni, continue adesioni alla

82

dissidenza, distogliendo le forze dal compito vero e proprio di combattere il nemico. Decisero allora di intervenire in gran numero per disperdere queste forze ribelli. Tra chi ne fece le spese ci fu Barbagelata che fu saccheg‐ giata e poi incendiata. Era il 12 e 13 agosto del 1944. La gente col bestiame si mise in salvo disperdendosi nei boschi e nei paesi vicini come Pian della Casa. Il mattino del 13, dopo aver passato la notte in un fienile, cercai di avvici‐ narmi al paese per vedere, dal costone che porta alla Culletta, cosa succede‐ va e vidi le case in fiamme, ma non ebbi tempo di vedere molto perché una pattuglia di soldati mi scoprì e mi intimò, dal basso, di alzare le braccia e di andare verso di loro. Feci finta di ubbidire, poi approfittando del fatto che ero sul costone e loro più in basso sulla strada, mi gettai a gambe levate dalla parte opposta e corsi nel bosco mentre un centinaio di soldati schiera‐ ti in cima alla Culeìa mi aprirono sopra un fuoco infernale. Mentre correvo per arrivare al versante opposto, quello della cappelletta di Costafinale, detto Prò vedevo le felci davanti a me recise dalle pallottole. Raggiunto il versante sopraddetto, quello da strà da prucessiùn, mi precipitai a rotta di collo giù nel pendio fino a raggiungere la zona alberata. Lì mi fermai un poco per constatare che ero miracolosamente indenne, quindi proseguii più moderatamente fino al fondo valle dove trovai tutte le fami‐ glie di Costafinale con il bestiame e tanti secchi e schele e schelùn di latte appena munto. Qualcuno penserà che io, ancora digiuno, ne abbia bevuto anche se offerto, ma non è così perché il latte non mi piace se non è bollito e macchiato. Bev‐ vi invece dellʹacqua del ruscello perché avevo la gola riarsa. Proseguii quin‐ di per raggiungere la località dove avevo lasciato la mia famiglia con mio padre infermo, operato a un ginocchio per un grosso flemmone. Lʹinterven‐ to chirurgico era stato fatto sul suo letto qualche giorno prima dal dottor Antonio Repetto di Genova, ma nativo di Monteghirfo, che si era prestato, con molti rischi, alla bisogna e solo a titolo di amicizia. Ritiratesi le truppe dal paese e rientrate nelle caserme in quel di Chiavari, Leivi e Riviera in genere, rientrammo e trovammo tutto saccheggiato e le case che ancora ardevano. Io fui il primo a rientrare e il benvenuto me lo diede il mio cane, il mio affezionato Baffìn che mi venne incontro verso il Pussettu trascinandosi e rantolando. Aveva la gola squarciata da un proiet‐ tile. Era stato fedele alla sua casa e lʹaveva anche difesa fino alla morte con‐ tro chi voleva entrare. E pensare che avrebbe potuto venire con tutti noi e salvarsi. Anche se frastornato e alieno, in quelle circostanze, a certe remini‐ scenze poetiche, non potei fare a meno di andare col pensiero ad Argo, il cane di Ulisse. I soldati si erano anche divertiti al tiro a segno contro le galline perché in prossimità del letamaio ne giacevano alcune morte. Le perdite materiali della mia famiglia furono totali. Neppure un tetto ci restò. Bruciò la casa paterna con tanti bei ricordi, bruciò la cà de Frascùn e la casa della scuola, che erano nostre. Bruciò la cascinn‐a de Frascùn nei pressi della chiesa che era il nostro fienile ormai quasi pieno perché la fienagione volgeva al termine. Entrai in chiesa; il Parroco non cʹera; era fuggito e ancor

83

oggi non so dove si fosse rifugiato. Sul pavimento cʹerano molta paglia e fieno su cui avevano dormito i soldati. Sullʹaltare maggiore erano messi in bella mostra, tratti da una valigia, gli indumenti intimi della maestra, lì sfollata: reggiseni, mutandine sottovesti, calze, etc. Proseguii sulla strada della cappelletta e oltre, come attratto da un non so ché, fino al passo della Larnaia e lì trovai riversi nellʹerba tre corpi letteral‐ mente ricoperti di mosche; vi misi sopra alcune frasche e venni via inorridi‐ to. Erano stati presi mentre sulle pendici impervie del Caucaso falciavano lʹerba per farne fieno. Il più giovane era di Monteghirfo e si chiamava Naz‐ zareno Garbarino. Il giorno prima mi aveva chiesto dove poter andare per non essere preso perché aveva disertato; e io gli diedi alcuni buoni consigli, ma evidentemente non li ascoltò perché andò proprio dalla parte opposta a quella che io gli avevo consigliato. Seppi poi che avevano catturato anche altre persone fra cui due di Barbagelata, Meneghìn e suo figlio Erminio, e uno di Verzi e se ne servirono per portare via il bottino che avevano fatto. Si dice che i tedeschi presenti abbiano intimato a Spiotta che dirigeva lʹope‐ razione, di sospendere ogni altra esecuzione perché quegli uomini erano necessari a loro. Tornato in paese passai sotto la casa della scuola, quella ove ora abito io. Un calore infernale usciva dal fondo, ora garage. In quel fondo cʹerano circa cinquanta quintali di carbone che tenevamo per nostro uso e anche in atte‐ sa di essere venduto alla spicciolata. Col lanciafiamme i soldati lo avevano incendiato e ora ardeva in modo preoccupante. Mio fratello Tugnìn per paura che facesse crollare il pavimento in mattoni, la cosiddetta voltolana e scoppiare i muri, si mise con una pala e un rastrello a tirar fuori quei carbo‐ ni accesi e pericolosi per lʹossido di carbonio che sprigionavano. Io di con‐ serva gli davo una mano e fu una fortuna perché a un certo momento mio fratello ebbe come uno svenimento e io lo sorressi trascinandolo fuori dal locale. Tantʹè però, dopo essersi ristabilito, riprese il suo lavoro per salvare il salvabile. Ma non eravamo solo noi a far ciò. Nella casa paterna, mio pa‐ dre, dimentico del ginocchio bendato e da poco operato, con una pala get‐ tava da una finestra quanto il fuoco aveva consumato. Non un lamento, non una recriminazione, non una maledizione usciva dalla sua bocca pur vedendo andare in fumo, nel senso letterale della parola, tutti i suoi averi, la sua vita di sacrifici, di stenti e di rinunce. Bisognava riorganizzarci e lo si fece alla belle e meglio. Si iniziò pure a pre‐ parare il materiale per fare i tetti e i pavimenti con tanta pazienza, tanto lavoro e tanti sacrifici. Mio fratello Tugnìn scendeva e saliva da Barbagelata a Favale con i muli due volte al giorno per trasportare ardesie e quantʹaltro era necessario. La sabbia, il cemento e la calce si prendevano a Montebruno e così il legname nei boschi di castagno di Pian della Casa. E così, piano piano, si risorse da quella brutta avventura, ringraziando il cielo di aver avuto salva la vita. A questo proposito voglio ricordare una frase uscita per ispirazione dalla bocca di Pippu Campana che come tutti sapevano non era del tutto sano di mente. Un giorno, seduti in piazza ci si domandava chi avrebbe vinto la guerra. Ognuno diceva la propria opinione. In un momento di pausa Cam‐ pana, che non aveva ancora parlato e, anzi, sembrava assente, disse: «Vince la guerra chi salva la pelle». Fu una frase che mi fece riflettere e mi indusse a un diverso comportamento. Era vero! Andava tutto in malora, da una

84

parte e dallʹaltra, dai nazifascisti e giapponesi ai partigiani, dagli americani agli inglesi. Non cʹerano più valori da difendere. Cʹera soltanto il dovere di salvare la propria pelle, di uscire vivi da quel bailamme della guerra. Episodi di un altro genere erano allʹordine del giorno durante la permanen‐ za dei partigiani in paese e alcuni a distanza di cinquantʹanni mi riaffiorano alla mente. Un sabato sera del mese di agosto un gruppo di partigiani pre‐ senti in paese si vollero concedere un po’ di relax e si misero a sparare or qua or là e a lanciare bombe a mano di quelle tipo Balilla. Eravamo tutti, anche molti del paese, sciù pa costa presso il ballo. Cʹerano anche alcuni sfol‐ lati e lʹallegria era molta. A un certo punto, era già quasi buio, mi accorsi che una bomba gettata da un partigiano su nel prato, dove oggi ha la casa il capitano Maggio di Ca‐ mogli, non era esplosa e diedi lʹallarme facendo presente che ciò rappresen‐ tava un pericolo, specialmente per chi il giorno dopo, dì di festa, si fosse andato a sedere o fosse passato in quei pressi. Mi si diede ascolto e al chia‐ rore di unʹacetilene ci mettemmo, cauti cauti, a cercarla. La trovammo, era sul bordo di un seggiu. Non si poteva toccarla per il pericolo di uno scop‐ pio. I partigiani possedevano dei fucili e dissi loro di sparare in quella dire‐ zione da debita distanza. Spararono molti colpi ma a vuoto. Feci sparare anche a u Stinìn de Davidde che sapevo aveva una buona mira, ma inutil‐ mente. Allora come in un lampo mi venne unʹidea. Mi ricordai di avere letto un giorno ai miei alunni un bel racconto di guerra e dellʹaccorgimento che gli alpini al fronte avevano avuto. Dissi di non sparare più e di attendere un poco. Andai a casa e presi del cartone bianco. Feci con quel cartone un qua‐ dratino di 10 centimetri di lato, mi avvicinai alla bomba e appoggiai lieve‐ mente il cartoncino a essa. Misi lʹacetilene, che mi era servita alla bisogna, a una certa distanza ma in modo che illuminasse il cartoncino bianco. Scesi in istrada, mi feci dare un fucile; era un vecchio 91 della Prima Guerra Mon‐ diale, pesante e poco maneggevole, ma, come tutti i 91, di alta precisione. Puntai sul bersaglio e il colpo del fucile fu tuttʹuno con lo scoppio della bomba presa in pieno. Lʹacetilene si spense per lo spostamento dʹaria e la trovai poi rovesciata. Fu un applauso generale. Non per vantarmi ma sono sempre stato, andando a caccia, un ottimo tiratore. Durante uno dei tanti rastrellamenti, un partigiano che era di vedetta sul monte alle spalle del paese e precisamente in simm‐a da ria si accorse di es‐ sere stato individuato dai soldati della Monte Rosa che stavano per fare una sorpresa nel paese. Non so se fu per sfuggire o correre ad avvisare i compagni, ma so di certo che si mise a scendere precipitosamente nel bosco senza sapere che a un certo punto cʹerano le rocce, che noi chiamiamo ria, e così precipitò giù venendo a fermarsi sul gioco da bocce. Era assai malconcio e se ne accorse mia madre che, zitta zitta, lo sollevò e riuscì a condurlo nella stalla e a coprirlo con delle foglie e delle felci, men‐ tre il rastrellamento incombeva. Non disse nulla a nessuno; aspettò che i soldati se ne andassero, poi scese nella stalla, scoprì il partigiano, cercò di medicargli alla belle e meglio le ferite, lo rifocillò con del cibo e del vino e attese che i compagni lo prelevassero. Noi della famiglia, sapemmo tutto ciò a fine avventura; non ci disse nulla prima per il timore di essere rimpro‐ verata per essersi esposta al pericolo.

85

Ma mia madre fu protagonista di un altro episodio che ci tenne tutti in an‐ sia. Durante un ennesimo rastrellamento, quasi tutti noi fuggimmo e al ri‐ torno a casa ella non rispose allʹappello. Mancava dal paese e come lei man‐ cava unʹaltra donna: Metirde moglie di Deliu. Le cercammo per ogni dove ma inutilmente. Fu lei che a un certo punto chiamò per essere aiutata. Era sotto una grossa pianta di sambuco, giù sotto il paese, che tamponava come poteva unʹemorragia uterina di Metirde. Erano state lì in silenzio per tutto il tempo mentre i soldati perlustravano il paese. A volte in paese succedevano cose che oggi si potrebbero chiamare ridicole. Si vedevano pattuglie che disarmavano altre pattuglie e ciò succedeva quando i partigiani di Giustizia e Libertà sconfinavano nel territorio dei Garibaldini perché già allora cʹera molto attrito fra le due formazioni. For‐ tunatamente ciò avveniva in modo pacifico e non avvenne mai che ci sia stata resistenza da una delle parti o che ci sia scappato il morto. Per dovere di cronaca non posso tacere su un fatto increscioso, che poteva trasformarsi in tragedia, capitato a Elsa de Carlìn. Era un assolato pomerig‐ gio di domenica. Il paese era deserto; non cʹera alcun movimento di parti‐ giani. Il sole picchiava dritto sulle case; sembrava uno di quei desolati paesi messicani durante la siesta. Io ero seduto in piazza, solo e pensieroso, quando udii venire da una casa vicina uno sparo. Stetti un po’ sopra pen‐ siero poi andai verso quella casa ed entrai in quello che allora era chiamato u purteghettu, un androne buio già descritto in altra occasione. Trovai a me‐ tà della scala che conduceva alle camere da letto la Elsa che si trascinava lamentandosi nel tentativo di arrivare in cima. Perdeva sangue dal petto: le aprii la camicetta e vidi che sotto una mammella aveva un foro, il foro di un proiettile. In casa non cʹera nessuno: erano tutti fuori a lavorare nei campi, anche se era domenica. Cercai di tamponare la ferita ma il proiettile era ancora den‐ tro e al tatto non lo si sentiva. Feci comunque del mio meglio; chiamai poi gente di casa mia e questi altra gente e alcuni partigiani. Era successo che a un partigiano col quale Elsa si intratteneva sulla panca della cucina, partì, non so come, un colpo dalla pistola del partigiano, ferendo la donna. Non vidi il partigiano autore del fatto che logicamente ... se la squagliò. Con lʹin‐ tervento forse di un medico o di un infermiere che era tra di loro cercarono di praticare i primi soccorsi; poi con una barella improvvisata la Elsa fu trasportata a braccia a Fontanigorda o Rovegno, dove cʹera una specie di ospedaletto e lì credo abbiano estratto il proiettile ma non ne sono sicuro perché tutto fu messo a tacere e nessuno doveva sapere niente. Ora è consi‐ derata come ferita in combattimento con annessi e connessi. Potrei fare su tutto ciò molte considerazioni ma per carità di Patria non aggiungo altro. Posso solo dire che se io non fossi intervenuto prontamente a soccorrerla e a chiamare poi aiuto probabilmente sarebbe morta; ma penso che non fosse venuta la sua ora. Comunque per tutto il seguito che ci fu, io ebbi lʹimpres‐ sione che in tutto quel brutto affare io ero di troppo. Altri episodi potrei raccontare, come quello in cui passai la notte a far la guardia al bestiame giù in tu beu di Culeetti. Con me cʹerano anche u Reliu, sua sorella Parminn‐a e il figlio du Bassetta di Villa Sbarbari. Ora è notorio che mucche di stalla diversa, quando si incontrano incrociano subito fra loro le corna per far valere la propria superiorità. In questo frangente u Re‐ liu ricevette una cornata alle costole. Poiché si lamentava, il figlio du Basset‐

86

ta gli disse: «Mettighe in po’ de peixere»1. Voleva dire peixe perché allora si usava proprio fare cerotti di pece da applicare a caldo sulle contusioni. Al che Reliu gli domandò a voce alta ma sofferente: «E duve mʹa piggiu a pei‐ xe?»2. La notte ogni tanto era rischiarata dai fuochi dei bengala, segno che i solda‐ ti occupavano ancora le loro posizioni. Al mattino fu possibile ritornare a casa e io lo feci con molta fatica perché stavo molto male. Avevo stupida‐ mente bevuto del latte e più tardi del vino che mi aveva portato mia cogna‐ ta Angiulinn‐a. Quando entrai in paese ero incattivito e guai se qualcuno avesse fatto apprezzamenti; incattivito come quando mi bruciarono le case ed espressi le mie opinioni sul modo come si erano comportati, al primo partigiano che mi capitò a tiro. Si chiamava Tigre. Aveva lo Sten puntato contro di me e i nostri corpi quasi si toccavano. Gli dissi: «Puoi spararmi ma prima di cadere ti strozzo con queste mani nere sporche di carbone». E non avevo nere solo le mani ma anche la faccia. Si voltò e senza fiatare se ne andò. Ci furono anche per loro momenti di relax, come quando, prima dellʹincen‐ dio, capitò fra i partigiani un cantante che non ricordo bene se fosse Oscar Carboni o Natalino Otto, ma certamente uno dei due. Erano tutti nella sala della Trattoria e cʹerano anche alcune signore sfollate che lo invitarono a cantare una canzone. Nicchiò alquanto dicendo che aveva la gola secca e che avrebbe volentieri bevuto un po’ di latte. Io capii lʹantifona e andai in cantina, che allora era dove oggi cʹè la cucina con la lavastoviglie, presi una tazza di latte e gliela portai. Cantò ma non ricordo cosa. fu però una cosa deludente. Momenti di paura li passammo quando in un rastrellamento catturarono alcune persone del paese, fra cui mio padre e mio fratello Tugnìn. Se li por‐ tarono dietro verso la Val Trebbia e non so fin dove. Io e altri eravamo scappati e quando ritornammo trovammo le donne in lacrime per quello che era successo e si stette molto in ansia per le sorti delle persone portate via. Dio volle che a notte inoltrata ritornassero tutti sani e salvi, anche se stanchi e affamati per aver camminato tutto il giorno. E già che sono in vena di ricordi voglio ricordare anche questo; oggi i boy scouts la chiamerebbero ʺunʹopera buonaʺ. I partigiani catturarono un gior‐ no, non so dove, un giovane che non era però in divisa. Era di bellʹaspetto, sulla ventina e con modi assai garbati; come si diceva allora: un signorino. Lo interrogarono a lungo poi lo condussero dove ora sorge la casa dei Sola‐ ri, già di Bruno di Santa Margherita. Lì cʹerano allora sotto la strada tre fa‐ sce, gli diedero un piccone e una pala e gli dissero: «Scavati la fossa». E lui iniziò a scavare e ognuno può immaginare lo stato dʹanimo di quel povero ragazzo. Il lavoro fu lungo, tanto che a mezzogiorno lo portarono in osteria a mangiare. Io osservavo, ascoltavo i discorsi che si facevano tra di loro, e quei discorsi sollevarono alquanto il mio stato dʹanimo. Finito di mangiare i partigiani uscirono sulla piazzetta ma il giovane non avendo ricevuto ordini restò al suo posto. Cʹero soltanto io che iniziai a sparecchia‐ re la tavola ed ebbi modo di dirgli: «Continua a scavare ma non ti preoccu‐ pare: non ti succederà niente. Non fartene però accorgere se non vuoi finir‐ ci dentro per davvero». Scavò una bella fossa nella fascia di mezzo e quan‐ do ebbe finito gli dissero: «Ora riempila di nuovo». E così fece con grande

87

sollievo. Lo condussero con loro verso la Val Trebbia e probabilmente lo arruolarono. Venne lʹinverno del 1944 che passammo come si poté perché non avevamo letti, non avevamo le cose indispensabili e i miei genitori erano vecchi e avevamo due nipoti infermi e immobilizzati su due seggioloni. Arrivò an‐ che la primavera: una primavera piena di sole, con un tepore che a memo‐ ria dʹuomo non se ne ricorda una uguale. I partigiani, a torso nudo e coi calzoncini corti facevano la cura del sole sui prati ed erano tutti abbronzati. Le sorti della guerra sembrava volgessero al termine con la vittoria degli americani. Queste notizie invogliarono due prigionieri sudafricani di Durban, che ave‐ vamo ospitato per molti mesi, a raggiungere gli alleati. Uno era avvocato e si chiamava Rex, lʹaltro era ingegnere. Il primo biondo, il secondo coi capel‐ li scuri e più taciturno. Io non sapevo lʹinglese e loro non sapevano lʹitalia‐ no, ma conoscevano come me il latino e, magari dicendo degli strafalcioni, ci intendevamo. Erano fuggiti da un treno in una sosta presso la Stazione Brignole di Geno‐ va e via monti erano arrivati a Barbagelata dove si erano fermati e ben ac‐ colti. Saputo che gli alleati erano arrivati alla linea Gotica e in vari punti lʹavevano oltrepassata, decisero di partire e di andare verso il fronte per ricongiungersi coi loro compatrioti. Li rifornii di alcune carte geografiche; tracciai per loro un itinerario sempre per vie di montagna, quella che oggi si chiama Alta Via. Non ho più avuto loro notizie ma so che fui chiamato al comando alleato a Cicagna e mi fu dato, col nome di mio padre, un attesta‐ to di riconoscenza firmato dal Generale Alexander. Prima che gli eventi precipitassero e i partigiani lasciassero i monti ci fu un evento di estrema importanza. In un raid fatto in Val Trebbia i partigiani trovarono una grande quantità di filo di rame per la conduzione della luce elettrica. Forse era materiale che la U.E.E. aveva dismesso e i partigiani se ne appropriarono, e con lʹaiuto della gente di Pian della Casa, Cassinetta, Cason da Basso, Costafinale e Barbagelata lo distesero lungo la strada che passa attraverso questi paesi. Impiantarono dei pali con relativi isolatori trovati col filo e collegarono i due capi a un trasformatore che era a Monte‐ bruno e arrivò così nelle famiglie la luce elettrica. Era una luce fioca perché la distanza dal trasformatore era grande, ma alla gente parve una cosa meravigliosa. A volte mancava perché la linea era precaria, ma si ovviava sempre in qualche modo a questi inconvenienti, facendo di necessità virtù. Un segno di civiltà era arrivato anche a Barbage‐ lata. Queste saltuarie mancanze di energia a volte provocate anche per dispetto furono la causa di un evento tragico e luttuoso. Una sera venne a mancare la luce: si seppe che a Pian della Casa si ballava e si pensò che probabil‐ mente gli organizzatori avevano interrotto la linea per avere loro più luce. La cosa non piacque a Steìn de Picciùn e Federiccu du Grixiu che armati, il primo con un fucile da caccia difettoso, il secondo con un fucile da guerra anche se la lotta partigiana era finita, andarono a Pian della Casa per con‐ statare se lʹinterruzione era dovuta a loro. Entrarono nel ballo, che era nel fondo di una casa e fecero le loro rimostranze coi fucili imbracciati. A Steìn accidentalmente partì un colpo dal fucile, che come ho già detto era difetto‐

88

Veduta da sotto il paese so e di una sensibilità estrema, e colpì a una coscia un giovane della Cassi‐ netta. Il colpo recise lʹarteria femorale e non fu possibile far niente per soc‐ correrlo, e dissanguato, morì. Steìn, malmenato, fu tenuto fino allʹarrivo dei carabinieri di Torriglia che lo trassero in arresto con lʹaccusa di omicidio e fu tradotto alle carceri di Ma‐ rassi. Cominciò così lʹodissea per fare qualcosa per poterlo difendere al pro‐ cesso. Si fece anche una raccolta di fondi. Io incaricai della difesa lʹavvocato Casazza di Monleone per tenere i rapporti con Genova, e a Genova affidai la difesa allʹavvocato Gramatica, eminente legale del Foro Genovese. Fu tutto inutile: in Corte dʹAssise fu condannato a 12 o 14 anni di carcere che scontò allʹAsinara. Questo fu il prezzo di un po’ di luce elettrica. Ci sarebbero tante considerazioni da fare su questo luttuoso e tragico avve‐ nimento. Era uno dei primi processi dopo la Liberazione e giudici e avvo‐ cati si sbizzarrirono nellʹinfierire sullʹomicida, analfabeta, che era stato lʹar‐ tefice quasi involontario del fatto. Era partigiano anche lui, ma nessuno prese le sue difese. Oggi sicuramente alla luce dei fatti non verrebbe irroga‐ ta una pena tanto dura. Che il fucile fosse difettoso posso assicurarlo io con cognizione di causa perché ebbi il fucile in prova e capitò anche a me in due occasioni di sentir partire due colpi: una volta in scia ciann‐a da cà bruxià, quando incontrai Maria Pia, allora mia fidanzata che stava venendo a Barbagelata. Avevo il fucile alla spalla, carico sì, ma coi cani abbassati, e abbracciandoci partirono due colpi per fortuna in aria. La seconda volta fu percorrendo la strada ac‐ cidentata e tutta sappelli di Rié un po’ prima dellʹAcqua Pendente. Scenden‐ do in sappellu partì anche lì un colpo. Dissi al proprietario della pericolosità di quellʹarma, ma non fui ascoltato.

89

Il 25 aprile 1945 i partigiani, armi e bagagli in spalla, lasciarono il paese e andarono chi a Genova, chi in Riviera a festeggiare la fine della guerra che ora si chiama di Liberazione. Fu una cosa a lungo sospirata che costò vitti‐ me e danni incalcolabili. Il 28 aprile, nel pomeriggio, dopo aver fatto le mie consuete ore di lezione nella scuola di Castagnelo, dovʹero titolare, due par‐ tigiani vennero a prelevarmi e mi condussero a Cicagna dove fui rinchiuso assieme ad altri, uomini e donne, nella torre della Casa Littoria. Era il rin‐ graziamento per quello che avevo dato e sofferto per la lotta partigiana. La mia colpa era di essermi curato durante il periodo fascista dei giovani del comune di Lorsica (come maestro era mio preciso dovere), e di aver assisti‐ to con sussidi le famiglie dei militari al fronte. Non mi fu rivolta però nessuna accusa. Mi tennero lì il 28 sera, tutto il 29 e il giorno 30 aprile mi misero in libertà. Ero andato a Cicagna con la biciclet‐ ta che logicamente non ritrovai più. Il 1 maggio salii a Barbagelata e lungo il percorso dal Passo della Volta al paese notai che tutte le piante che prima erano ricoperte, cosa inconsueta, di tenere foglie per una primavera preco‐ ce, ora erano rossicce come succede a ottobre o novembre quando sono sec‐ che. Era successo che durante la notte era sopravvenuta una gelata e il bel paesaggio da primaverile si era fatto autunnale. Il giorno 2 ripresi a far le‐ zione cercando di lasciarmi alle spalle un periodo infausto e deprimente.

1 Mettici un po’ di pece 2 E dove la prendo la pece?

90

Le nuove famiglie

e famiglie che ho ricordato allʹinizio di questo mio scritto erano quel‐ le della mia fanciullezza che tuttavia ho bene impresse nella mia me‐ moria. Ma, col passare degli anni cʹè stata, come è logico, unʹevolu‐ zione,L con matrimoni e nascite di figli. Riprendendo i fili ai quali avevo accennato allora e passando in rassegna tutte le famiglie con lo stesso ordi‐ ne comincerò a dire: Della famiglia de Piri il figlio Deliu sposò Metirde di Costafinale figlia de Giuaneu. Da questa unione nacquero Armida e Pierino, immaturamente deceduti, Delma sposatasi a Monleone, e Adele a . Le altre figlie de Piri si sposarono tutte fuori paese. Della famiglia de Picciùn non resta più nessuno. Sono deceduti tutti senza eredi diretti e la famiglia si è estinta. Ho già detto della famiglia de Carlìn e dei suoi figli. Aggiungerò che Elsa e Oliva si sposarono con due uomini di Costafinale, Vitturìn de Pipìn e Eri du Lungu, mentre il figlio Ivo, ora già deceduto, sposò Virginia di Costafinale (figlia de Gigìn) da cui sono nati Giancarlo, Ivana, Giorgina e Ornella. Elsa ha un figlio, Giorgio, e Oliva due, Mauro ed Enzo. Ed ecco la famiglia du Grixiu. Angiulinn‐a, morta recentemente a 102 anni aveva sposato, come ho ampiamente detto, Carlìn. Davidìn, ex carabiniere, sposò Teexinìn di Scorticata da cui nacque il figlio Urtimio. Morirono pre‐ maturamente prima Davidìn, poi il figlio, e per ultima Teexinìn, estinguen‐ dosi così questo ramo della famiglia. Morì pure Federico, celibe e Marinìn di Piano della Chiesa, sposata in cu Geniu. Non ho notizie di Pippo e Linda, emigrati. Di residenti a Barbagelata restò solo Meneghìn, che, sposata Ruset‐ ta da Cascinetta, ebbe quattro figli maschi: Erminio morto nellʹincendio della casa (sposato con Erminia), Emilio, Lino e Dolo, tutti sposati con relativi figli di cui non so di tutti i nomi perché non più residenti in paese, ma a Rapallo. Facendo il giro del paese troviamo Davidde u mericanu, Natale e Carlottu morti tutte e tre celibi. Della famiglia de Frascùn buio assoluto; sono tutti in Argentina e non se nʹè mai visto uno tornare in Patria. Ed ecco lì accanto la famiglia di Tilìn. Le figlie, a eccezione di Parminn‐a, si sposarono fuori pae‐ se e u Reliu è morto celibe. Lʹunico a sposarsi fu Stinìn con Tugnetta de Giam‐ ba di Costafinale da cui nacque lʹunica figlia Bice, a sua volta sposatasi a Ottone Soprano ma residente con i tre figli a Genova. Ho detto della numerosa famiglia de Richìn. Lʹunico che risiedette a Barba‐ gelata e che ho ben descritto, fu Gustu che sposò Caterinn‐a da Giassinn‐a, da cui nacquero un figlio, Enrico, e una figlia, Marisa. Padre e madre sono morti e i figli risiedono a Torriglia.

91

Ed ecco infine la mia famiglia con i suoi tre maschi. Tugnìn sposò Angiulinn‐a di Costafinale, prima cugina, da cui nacquero Pino e Guido, morti giovanissimi, affetti da una malattia sconosciuta per la quale non avevano possibilità di deambulazione, e Bruno ora felicemente sposato con Nella e con due figlie ragioniere, Carla e Antonella, abitanti a Genova. Pippu invece andò un po’ più lontano a sposarsi. Andò a Ottone Soprano e sposò Maria Valla da cui nacquero Renato, Mario e Maria Rosa. Il primo sposò Adriana di Costafinale ed ebbero due figli Luca, ragioniere, e Marco, tecnico; il secondo, Mario sposò Teresa Piana di Rapallo: non hanno figli e gestiscono la vecchia trattoria che fu dei nostri avi e sono gli unici residenti del paese. La terza sposò il geometra Gianni Garaventa di Acqua di Ognio. Da essi nacque una figlia, Laura, maestra. Vengo poi io, che sposai a Chiavari, 45 anni fa, Maria Pia Solari, come me insegnante ed entrambi oggi in pensione. Dalla nostra unione nacque lʹunico figlio, Franco, ingegnere e dirigente di una azienda elettronica di Genova. Anche lui è sposato con Ornella Capua‐ no e non hanno figli. Di tutte queste famiglie che ho nominato, a Barbagelata non ne risiede alcu‐ na, a eccezione di mio nipote Mario. Il paese si popola solo nella bella sta‐ gione perché, come dirò poi, è cambiato totalmente e nuove costruzioni si sono aggiunte al nucleo storico rendendo il paese un angolo suggestivo in mezzo a tanto verde.

92

Barbagelata oggi

roverò a descrivere le nuove costruzioni, premettendo però che an‐ che il centro storico ha subito migliorie. Si è abbellita la casa du Riccu e quella de Piri, è sparita la crumbea ricettacolo di rifiuti, e al suo po‐ stoP cʹè un terrazzo a piano strada con tanto di cancellata che stona alquanto. Rinnovata da parte di Franco Garbarino la cà di Costafiné ma non ancora arredata. Se lo fosse e fosse attrezzato anche il terrazzo suddetto darebbe una nota di vita e signorilità a ciassa Pruxia. Rimessa a nuovo la casa du pur‐ teghettu, ossia de Carlin; ancora abbandonata a se stessa la casa du Grixiu. Essa stona fra tutte le case rinnovate e ciò è dovuto a eredi sparsi un po’ ovunque che non trovano un accordo. A fianco a questa casa derelitta cʹè la mia che ho fatto riparare dandole un aspetto molto più signorile di quello che aveva una volta. Anche le case che vanno dalla piazzetta del paese alla vecchia chiesa, sono state tutte abbellite e rinnovate: quella du mericanu, ora di Oliva; quella di Erminio, quella di Dolo, quella de Frascùn, ora di mio nipote Bruno; quella di Tilìn ora di due persone di Ognio. Scandalo e bruttura nel centro del paese è quella de Ri‐ chìn abbandonata a se stessa in via di degrado sempre maggiore. La gente la nota, la osserva e, se non è del posto, si chiede il perché di tanta incuria. Molti eredi e tutti in disaccordo per quella mentalità cretina di atavica me‐ moria. La gente si chiede, e me lo chiedo anchʹio, se lʹautorità comunale davanti a tanto degrado, a tanta incuria e a tanta sporcizia non debba e non possa intervenire con unʹordinanza ad hoc. Anche la canonica vecchia è in pieno degrado e non si prevedono tempi migliori. Lʹinopinata morte del parroco don Agostino Dellepiane ha man‐ dato a monte i progetti che per essa egli aveva. Il parroco attuale, se parro‐ co si può chiamare, risiede a Casarza Ligure ed è in tuttʹaltre faccende affa‐ cendato e a questa ʺrobbaʺ morto e sotterrato. Ritornando sulla piazzetta troviamo quella che fu la mia casa paterna che Mario ha rimesso a nuovo. Al posto della stalla cʹè un ampio vano adibito a bar; la sala del primo piano è ingrandita eliminando due stanze; la cantina, di vecchia memoria col pavimento in terra battuta, trasformata in cucina con i servizi a lato; la cantina ricavata a monte sul lato nord è un ampio garage con sopra un terrazzo. Al secondo piano unʹaltra cucina, la più usa‐ ta e varie stanze. Al di là di questa casa ce nʹè una seconda, ora di Bruno, rimessa a nuovo, e a sud di questa a cascinn‐a di Costafinè ora trasformata in civile abitazione, ma non ancora ultimata, come sempre succede quando i proprietari sono più dʹuno e di famiglie diverse. Ultimo pugno in un occhio, oltre ai fienili e alle baracche che in altra parte ho già descritto, è a cà du Casetta, che in par‐ te avevo comperato io, cedendola poi ai miei nipoti: speravo la mettessero a posto come si conviene perché è la casa nella più bella posizione del paese.

93

La vecchia canonica sotto la neve

94

Questo il vecchio centro storico, che da quel grigiore deprimente che salta‐ va agli occhi del visitatore, si è fatto tutto bianco. Sì, bianco perché a Barba‐ gelata ogni altro colore è vano. La salsedine che è contenuta nella nebbia, purtroppo troppo frequente e proveniente dal Mar Ligure, cancella ogni cosa. Case dipinte di rosso dopo un anno o due erano di nuovo del colore del cemento. Ed ecco le nuove costruzioni. La cascinn‐a de Frascùn che ho tanto decanta‐ to, è stata totalmente demolita e con essa un capitolo irripetibile nella storia del paese. Ho parlato di essa a lungo, e in quel che ho detto traspare che mi era tanto cara perché cʹerano le vestigia di un tempo che fu, cancellate per far posto a uno spiazzo che fa da posteggio. Mi rattrista vedere cancellato il passato e mi rattrista vedere lʹindifferenza dei giovani, perché io sono un geloso custode del tempo che fu, prossimo e remoto. A fianco del posteggio e in quel tratto di terreno detto ortu sono sorte tre case. La prima, in verità molto bella, è dei miei nipoti e ha 5 appartamenti più il fondo che avrebbe dovuto servire al trasferimento della trattoria: non è ancora avvenuto e né si prevede se avverrà. La seconda casa è di Ivo e conta 4 appartamenti: uno grande e tre piccoli. La terza è la casa del signor Botta di Genova. Ha due appartamenti: uno per sé, dove vive con la mo‐ glie, e uno per le figlie. Sulla scalinata suggestiva che va alla chiesa nuova, cʹè, nascosta tra gli abe‐ ti, la bella villetta del capitano Maggio di ; sorge poi la chiesa origi‐ nalissima, con annessa la costruzione delle opere parrocchiali, voluta dal defunto don Agostino Dellepiane. Pochi metri più in là, verso sud, sorge la bellissima casa di Mauro Bianchi, floricoltore e sopra di essa la nuovissima casa ai quattro venti del sig. Mirenda. Sulla strada che va al cimitero troviamo subito la bella casa di Milio, che nel passato era il fienile di suo padre Meneghìn. Si trova proprio sopra u beu da Gianchinn‐a che va a congiungersi giù in basso in cu u beu du cugneu o da funtann‐a. Vengono subito dopo due villette prefabbricate situate in su cianellu. Una è, o meglio era (perché defunto) del farmacista Emilio Diena di Recco, e lʹaltra della signora Edvige Bertagna, che ora pare lʹabbia messa in vendita. Oltre‐ passato il cimitero, una volta con tanti bellissimi abeti che gli facevano da corona, e ora con delle striminzite tuie, troviamo, proprio in fondo alle pus‐ se la casa di Silvio, che recentemente è deceduto. La località si chiama pusse perché una volta era una specie di acquitrino. Lì sorgevano le piante di a‐ marene selvatiche e su di esse vivevano i mezzengùn. Un poco più in alto sorge la casa del sig. Emilio Bonanni. Il terreno era detto allora Bùiu da Be‐ didda. Anche lì alcune piante di amarene e su di esse i soliti mezzengùn. Oltrepassata la fontana del paese, a cento metri circa, in sa ria de Buttìn, sor‐ ge un piccolo condominio con una decina di piccoli appartamenti che ven‐ gono abitati in modo particolare durante la bella stagione.

95

Acqua e strada

o detto come arrivò la luce elettrica. Lʹimpianto fu, dopo qualche anno, preso in manutenzione e potenziato dallʹU.E.E. e successiva‐ H mente dallʹEnel, che si impossessò di tutto il ʺbusinessʺ in tutta Italia in nome di una riforma socialista. Mancava lʹacqua potabile nelle abitazioni e la strada carrozzabile. Poiché il Comune non prendeva alcuna iniziativa in proposito, si dovette passare, anche se con grave dispendio, a quella privata. La mia famiglia, assieme a quella di Ivo, costruirono poco sopra il paese una cisterna in cemento arma‐ to, divisa a metà, per raccogliere lʹacqua di una fontanella posta su in alto alle spalle del paese. Una piccolissima sorgente che sgorga ai piedi du prò du Driulìn. Da lì un tubo di ferro, allora non cʹera la plastica, portava la ve‐ na dʹacqua alla cisterna, la cui capacità era sufficiente a rifornire acqua an‐ che in periodi di siccità. La lontananza della sorgente era ed è intorno ai mille metri. Molti anni dopo il Comune costruì un acquedotto prendendo lʹacqua in ta Creusa da una sorgente che donammo noi senza nulla chiedere, senza alcu‐ na riserva, senza alcuna prerogativa. Ingrandendosi, il paese ebbe bisogno di una maggiore quantità dʹacqua e il Comune costruì un secondo acque‐ dotto attingendo lʹacqua da una sorgente molto florida in località sutta u seiu, anche quella di nostra proprietà e come la prima regalata. Per far salire lʹacqua al paese fu necessario installare delle pompe perché la sorgente era ed è molto più in basso del paese. Fu così che si diede lʹaddio a e seggie, a i stagnùn, a i bàseri, a i cuppi, a e casse. E con lʹacqua, alle case, arrivò anche la strada rotabile. La chiamo così per‐ ché allʹinizio era un tracciato sterrato da una ruspa, che partendo dal cimi‐ tero di Montebruno, in Val Trebbia, saliva a stento tra i boschi di castagni seguendo pressappoco la vecchia mulattiera. Faticosamente arrivò fino a Barbagelata. Quando pioveva, e in questa zona piove spesso, erano guai. Quante volte mi ci sono impantanato! Ma in un modo o nellʹaltro si riusciva a venirne fuori. Intanto da Parazzuolo, in Val dʹAveto, una seconda strada, toccando Priosa, Calzagatta, Brugnoni e Villa Sbarbaro avanzava, seguendo il corso dellʹAveto sulla sponda sinistra, per venire a congiungersi con il ramo che da Barbagelata, con vari tornanti dopo un tratto pianeggiante, scendeva verso lʹAveto. Si ebbe così il congiungimento della Val Trebbia con la Val dʹAveto. Era appena un tracciato, ma noi montanini eravamo allora, ripeto allora, di bocca buona perché avevamo alle spalle tanti anni di disagi e questa strada ci sembrava tanta manna. Lʹisolamento durato per secoli era finito. Ma non era finito lo stupore quando, con un lavoro immane, quasi titanico, una terza strada partendo da Favale di Malvaro si inerpicò, è il caso di dir‐ lo, verso il passo della Scoglina, che non figurava nemmeno sulle carte to‐ pografiche, per congiungersi con la Parazzuolo ‐ Barbagelata ‐ Montebru‐

96

no. Con questa strada lʹacrocoro di Barbagelata era stato violato: le tre valli congiunte, le comunicazioni facilitate, i paesi ravvicinati, il turismo incre‐ mentato, il trasporto ammodernato; non più muli, non più faticacce per salire da Favale. Queste strade, una volta fangose o pietrose ora sono sotto la manutenzione della Provincia e rese transitabili sempre, anche dʹinverno quando nevica, perché una pala meccanica, appena si mette a nevicare, fa la spola tra Parazzuolo e Montebruno liberando la carreggiata dalla neve. In seguito anche tutte le frazioni che erano rimaste fuori dallʹambito della strada principale ebbero lʹallacciamento e si è perfino creato un secondo sbocco in Val Trebbia in località Costamaglio, proprio come aveva proget‐ tato e tentato di realizzare il povero e mai dimenticato geometra Aldo Gaz‐ zolo di Quinto al Mare, un nostro ospite per tanti e tanti anni, come sua madre signora Mina. Qualcuno potrebbe pensare che tutte queste comodità abbiano incrementa‐ to lʹeconomia del paese, che la gente abbia detto e pensato «Ora sì che pos‐ siamo vivere a nostro agio». Tuttʹaltro: le strade, la luce, lʹacqua potabile, il telefono, il gas (perché sono arrivati anche questʹultimi) hanno visto una fuga generale verso altri lidi. Non cʹè più una mucca, un mulo, una pecora, una capra. Le stalle sono vuote e trasformate in garage; i prati abbandonati e, come un tempo, rinsel‐ vatichiti; non ci sono più persone. A Barbagelata cʹè una sola famiglia, quel‐ la di mio nipote Mario; Scorticata, Santa Brilla, Cornaro e Posazzo sono deserte e invase dalle ortiche. A Piano della Chiesa una sola famiglia; due o tre a Costafinale; la desolazione è generale e quasi biblica. Solo durante lʹestate questi paesi si rianimano, ma per brevi soggiorni. Se incontri qual‐ cuno non lo riconosci più perché non sono indigeni, ma gente venuta da Genova o dalle Riviere; il passato è dimenticato quasi perfino nel piccolo cimitero che si anima un poco nella ricorrenza del due novembre. Una tri‐ stezza profonda invade il cuore e se incontri un foresto (così si usa dire di chi non è del posto) quello ti sembra un fantasma che vaga nella nebbia. Cʹera una volta la presenza fisica e spirituale del parroco: ora nemmeno più quella. Da quando la morte è passata con la sua falce a mietere lʹultima messe, il parroco lo si vede mezzʹora la domenica pomeriggio e non sempre è il parroco, ma un sacerdote qualsiasi venuto a celebrare la messa, che de‐ posti i paramenti sacri si infila nella sua auto e fila via a tutto gas. Resta a ricordo il suono delle campane da un campanile anonimo perché il campanile vecchio, il vero campanile, simbolo del paese e opera dei nostri avi, è stato privato delle sue campane. Non ha mai avuto il ʺcarillonʺ come quello nuovo, ma per me è sempre tanto caro e lo guardo con tanta simpa‐ tia e tanta nostalgia, anche se le sue arcate sono vuote. È rifugio sicuro delle rondini, che ritornano tutti gli anni, e dove sanno che nessuno le potrà di‐ sturbare nel loro diuturno lavoro per costruirsi il nido, per deporvi le uova, covarle indisturbate e allevare la nuova nidiata che prenderà con i genitori il volo e con essi garrirà alla nuova vita, alla prosecuzione della specie e ritornerà lʹanno successivo dopo aver attraversato monti e mari, come se volessero dirci «Noi non dimentichiamo il passato; noi siamo fedeli alla nostra casa».

97

La chiesa nuova sotto la neve

98

I giuochi

ra imperversa il giuoco del pallone, ma allora il pallone poteva esse‐ re solo un mucchietto di stracci e carta, legato con dello spago solo per dargli qualche calcio finché il tutto non si dissolveva. Cʹerano peròO altri giuochi per i grandi e per i piccini. Gli adulti nella bella stagione giocavano a bocce. Il rettangolo di gioco era dietro la casa paterna, sutta a ria. Cʹè ancora ma è ridotto a un ricettacolo di ravatti, malattia congenita e comune dei nostri paesi. Per guarire da questa malattia bisognerebbe che la gente andasse almeno una volta in Austria o in Svizzera e si guardasse at‐ torno, solo che si guardasse attorno. Un bravo tiratore era Stinìn, mancino e preciso. Anche u Reliu bocciava di‐ scretamente, ma era più adatto allʹaccosto. Cʹera poi u Pippu de Richìn, u Deliu, che faceva più punti con la lingua che con le bocce, e suo padre Piri. Impossibile nominarli tutti. Quando poi arrivavano quelli di Roccatagliata e Corsiglia la gara si faceva più interessante e i litri di vino correvano a tut‐ to spiano. Cʹera poi il gioco delle carte. Si giocava, allora, a ʺtressetteʺ e un poco anche allo scopone. Ora lo scopone ha preso il sopravvento e il tressette, tanto caro a De Mita, è caduto un po’ in disuso. E noi ragazzi? Anche noi avevamo i nostri passatempi. Si andava sugli sga‐ ampi si giocava a lippa, alla riga, a battinn‐a, a sette e mezzo, a u massettu. Ma chi se le ricorda ancora queste cose? E per non lasciare a bocca aperta nes‐ suno cercherò brevemente di spiegarle. Gli sgaampi o sgampi non erano altro che i trampoli, ma fatti con due bastoni robusti lunghi fin oltre le ascelle e con un gancio a forma di V che veniva legato con corda o ginestra o gurìn alla parte più lunga perché non si aprisse, o meglio u nu se derulesse. Su queste legature si posavano i piedi e si camminava alti da terra. Era un e‐ sercizio di equilibrio e ricordo che u Reliu, perché più adulto, se la cavava molto bene. Servivano anche per guadare i torrenti quando erano in piena. La lippa era un pezzetto di legno lavorato a forma di fuso. Con un bastone si batteva su una estremità e la lippa ʺfaceva lippaʺ, cioè si alzava in aria e allora velocemente la si colpiva al volo per mandarla il più distante possibi‐ le. Cʹerano poi a bansiga, un grosso e lungo legno appoggiato a un cavalletto o altro, per bilanciarsi; a vintuella, altro grosso legno con un foro al centro, alla metà, che girava su un palo aguzzo piantato nel terreno. Lippa, bansiga e vintuella erano, a giudicarli oggi, pericolosi, ma allora chi ci pensava! Si gio‐ cava anche in cu a giardua, ossia la trottola, che richiedeva una certa de‐ strezza nel farla girare. Riga e battinn‐a erano giochi fatti con una moneta da due soldi, allora molto pesante, detta dugiùn. Vinceva chi si avvicinava di più al punto fissato. Se non ci fosse stato lʹincendio del paese ci sarebbero ancora sulle porte di ca‐ sa o delle stalle le impronte delle monete che vi venivano battute. Il sette e mezzo e il massettu erano giochi con le carte e chi aveva la carta più alta vinceva.

99

La chiesa vista dalla costa

Ricordo però che il passatempo più interessante di una certa estate era un montone, sì, proprio un montone con le corna, maschio della pecora. Ce lʹaveva regalato la signora Mina che lʹaveva avuto non so da chi. Durante il giorno io e u Dria al pascolo lo allenavamo. Alla sera ci dicevamo «Molla in po lʹaèn»1. E io che non aspettavo altro, lo mollavo. Era un fuggi fuggi da tutte le parti e se il montone incontrava qualcuno, con una testata lo butta‐ va a terra. Se però quando ti rincorreva ti buttavi a terra e facevi il morto, ti annusava un po’ e se ne andava. Una sera, sutta a ota in ta strà di gaggiùn, sporca di sterco di mucca e orina, il montone prese di mira u Gustu. Vista la mala parata gli gridai «Caccite a tera»2. E lui lo fece. Il montone lo annusò, e lui, invece di stare fermo, si mosse e fece lʹatto di alzarsi. Il Montone arretrò un poco e poi lo centrò nel‐ le spalle e lo stese a terra. Quando il montone proseguì nella sua ricerca di unʹaltra vittima, u Gustu si rialzò tutto dolorante e conciato come uno che viene fuori da un letamaio. Inutile raccontare delle lamentele di Silvia sua madre che dovette cambiar‐ lo e ripulirlo. Con la neve era tutta unʹaltra cosa. Mentre gli uomini, tutti solidali nellʹo‐ pera, facevano la calà, ossia aprivano con la pala una strada nei punti più strategici del paese, noi ragazzi facevamo pupazzi e tiravamo delle palle di neve, che erano dette muttè, e a volte era una vera e propria battaglia con agguati e imboscate, nella quale non erano risparmiati né gli uomini né le donne, salvo che, quando si rientrava in casa... Il resto lo lascio pensare a voi.

1 Molla un po‘ il montone 2 Buttati a terra

100

I dintorni del paese

olti appezzamenti di terreni sono ancora oggi di proprietà di per‐ sone di Costafinale, di Cason da Basso, di Scorticata e perfino di M Villa Sbarbari e cʹè una ragione: una ragione di eredità. Quando si divideva un terreno era invalso lʹuso ʺdetestabileʺ di frazionarlo anziché lasciarlo intero e volgere la propria attenzione verso un altro appezzamen‐ to. Si arrivava così a un frazionamento indiscriminato delle proprietà, che meravigliò perfino il geometra Feola quando venne a fare il catasto agricolo e urbano, perché anche le case furono soggette alla stessa sorte: una stanza a me, una a te, mezza stalla a me e mezza a te. Questo bailamme di cose avveniva quando per esempio moriva una donna di Barbagelata che aveva sposato un uomo dei paesi poco fa citati e gli eredi reclamavano la parte spettante alla defunta. Nelle divisioni erano inflessibili; penso che si contas‐ sero perfino i fili dʹerba. Il buon senso non prevaleva e anzi a volte succede‐ va che dopo la divisione le famiglie restassero scuressé ossia in disaccordo per molto tempo. E fin qui pazienza. Un proverbio dice che lʹinteresse sta perfino tra padre e figlio. Ma quello che non ho mai digerito è il fatto che la gente di Favale arrivi col confine del comune poco distante da Barbagelata. I confini naturali dellʹiso‐ la del comune di Lorsica sono e dovrebbero essere: a costa di Rapìn, u munte Larnaia, u passu du Gabba, u briccu da Guardia fino allʹAcquapendente, il trat‐ to dellʹAveto fino au beu di Culeetti, tutto il suo percorso fino al passo di Codorso. Questo per quanto riguarda Barbagelata e in parte Costafinale. Si verifica invece che Favale di Malvaro, che i vecchi hanno sempre chiama‐ to Sanisensu (San Vincenzo) o Cian de Mau, abbia identificato le varie pro‐ prietà private con i confini del Comune, un assurdo che salta agli occhi an‐ che di un mentecatto. E qui anche se sarò giudicato cattivo non posso fare a meno di chiedermi: Come hanno avuto i favalesi questi terreni? Compran‐ doli? Nemmeno per sogno! Un giorno, di tanti anni fa, feci a mio padre la stessa domanda ed egli con voce sommessa, quasi a scusare lʹoperato dei nostri avi, mi rispose: «Ehhh!, Ti sé allùa i lʹean tempi dui! Mancava sempre u cittu pe fa a palanca. I lʹean tempi de famme. I lʹandavan zù a Sanisensu e i lʹacca‐ tavu un rubbu de pulenta; i se metteiu u sacchettu a scapussu e i vegnivan sciu, ma i nu ga pagavan. E a cosa a se ripeteiva pe tante votte finn‐a che beseugnava fa i cunti e nu avendughe palanche i ghe cedeivan in toccu de boscu. Ceddi ancheu, ceddi duman i Sanisensi i sun arrivei finn‐a a u passu di Scaiùn e anche ciù in sà. Anche felicce memoia de me lalla che poi a lʹea anche a me muinn‐a a g’aiva tuttu ipotecou a seu roba. A lʹà fattu tantu che a lʹè riuscia a pagà tutti i debiti»1. Parlava spesso di questa sua zia con un rispetto e un ricordo commovente. E mi diceva: «Mi devu tuttu a lè»2. Dʹaccordo: i debiti bisogna pagarli ma non defraudando anche i territori del comune nostro. Molti anni fa io cercai di ristabilire questi confini ma fu

101

come pestare lʹacqua nel mortaio. I sindaci di Lorsica, Favale, Neirone, Rez‐ zoaglio e Moconesi erano tutti democristiani e non si torcevano fra loro nemmeno un capello. Se lo avessero fatto la segreteria provinciale di via Caffaro li avrebbe aspramente zittiti.

Sulla strada che porta al Caucaso si trova una sorgente che dà origine allʹA‐ veto: si chiama appunto Fontana dʹAveto; sgorga ai piedi del monte Lar‐ naia in un terreno di nostra proprietà. Ma la sorgente vera e propria dellʹA‐ veto sgorga dalle falde del Caucaso e io lì, più di una volta, vi ho bevuto. Lʹacqua di questa sorgente, che poi forma un ruscello, non va più nellʹAve‐ to ma precipita da un dirupo che si chiama Acqua Pendente, formando, quando piove molto, una bella cascata e durante lʹinverno una piccola cola‐ ta di ghiaccio. Si può vedere il tutto dalla località Ortigaro, guardando su in alto. Lʹacqua, che dopo miglia e miglia di cammino dovrebbe andare nel Po e poi nellʹAdriatico, va invece nel torrente Malvaro, quindi nel Lavagna e poi nellʹEntella. Centinaia e centinaia di anni fa, poco distante dalla sorgen‐ te, forse per un cataclisma o più comunemente per una enorme frana che interessò anche i riè, il corso dellʹAveto fu interrotto e tutto precipitò a val‐ le. Resta però ancora il greto del torrente che nella parte alta, oltre u beu di motti, si è fatto erboso e ha preso il nome di prò lungu, dove quelli della fa‐ miglia de Driottu da muntà venivano a falciare il fieno.

I nostri avi erano nella quasi totalità analfabeti, e ve ne sono ancora oggi, ma non per questo meno precisi, tanto che ogni appezzamento di terreno aveva il suo nome, tramandato di padre in figlio fino ai giorni nostri anche se il nome non corrisponde più alla realtà.

Prendiamo ad esempio u fò grossu, quel passo dal quale si vede tanto Bar‐ bagelata quanto Costafinale ed è a uguale distanza. Di lì si dipartono ben quattro strade: per Barbagelata, per Costafinale, pe a Custea e per Scorticata. Ma dovʹè il faggio grosso? Chi lo sa? Ma doveva esserci e devono averlo tagliato, ma il nome è rimasto. A Barbagelata di faggi grossi ne abbiamo due, ma portano un altro nome: uno enorme e frondoso fino alla base, a pochi passi dalle case si chiama fò de sutta u riassu e lʹaltro, laggiù sotto il paese in bella mostra a forma di grosso pennello, detto fò de sutta u seiu. Quello de sutta u riassu è uno dei pochi faggi che fanno il frutto, da noi det‐ to fazza. Eʹ ottimo anche se nessuno si degna di prenderlo in considerazione perché piccolissimo. Consiste in una specie di riccio semispinoso di forma ovale non più grosso di una grossa oliva verde. Quandʹè maturo si apre come un riccio di castagna e mostra tre piccoli semi a forma di triedro e leggermente incavati; le tre facce sono fra loro uguali e tricuspidali. Sotto una pellicola abbastanza resistente cʹè una polpa che sa di nocciola, di pino‐ lo, di gheriglio, ma per gustarla bisogna pulirne almeno cinque o sei o più e metterli in bocca tutti assieme. Che siano buoni e gustosi lo sanno gli scoiattoli e i ghiri che un tempo balzavano fra i rami di questo faggio.

Ci sono poi due località che sono dette: una cà bruxià sul rettilineo che va al passo della Larnaia, e lʹaltra ciann‐a da ca bruxià dopo la confluenza du beu di Culeetti con lʹAveto. Ma di case bruciate non cʹè nemmeno il segno; ma se son dette così dovevano, piccole o grosse, esserci perché la gente di allora era precisa nelle sue cose. Dicevano “pane al pane e vino al vino”. Cʹè da supporre che in quelle due località ci fossero al tempo dei Fieschi e della

102

Repubblica di Genova e poi dei Francesi, le case dei dazieri dove riscuote‐ vano le gabelle per tutto quello che entrava in una determinata zona. Cadu‐ ta la dominazione dellʹuno o dellʹaltro si distruggeva o incendiava, malattia ancora in auge ai tempi nostri, quello che più stava sullo stomaco della gente. Il pagamento del dazio è una cosa che ricordo io, e i gabellieri sono scomparsi da non molto tempo; a moʹ di esempio ricordo che quando ero in collegio presso i Padri Somaschi di Rapallo, in tu fussou de munti, presso la lavanderia Perego, cʹera proprio una baracca con dentro i dazieri. Tornando a u fò grossu giù in quel bel prato, cʹè una fontanella la cui terra intorno è pastosa come la creta, ma di color marrone; è il cosiddetto muescu. Ottimo per fare la camicia ai forni e, volendo, anche per fare cocci di terra‐ cotta o statuine. Se ci allontaniamo da Barbagelata e andiamo a Piano della Chiesa, giù sotto il paese in prossimità del torrente Trebbiolo, che riceve anche lʹacqua della nostra fontana e che noi chiamiamo beu da Scurtegà, cʹè una sorgente di ac‐ qua ferruginosa che a berla sul posto è piacevolissima, ma se la metti in bottiglia, fa, poco dopo, un fondo molto evidente e abbondante come di limatura finissima di ferro. Fu analizzata per commercializzarla senza otte‐ nere nulla. Se vuoi berla e gustarla devi andare laggiù e non altrove. E già che siamo in tema di fontane, perché non ricordare ed elogiare anche quella pubblica del paese che è stata paragonata per la sua leggerezza a quella di tante altre acque minerali oggi in commercio. Dà unʹacqua limpi‐ da, cristallina, salubre, priva di calcio, pura e oltremodo fresca. Non ci resi‐ sti con le mani sotto per più di cinque minuti e nelle giornate freddissime dʹinverno ti dà lʹimpressione che fumi o sia tiepida. Durante la bella stagio‐ ne è un viavai di persone del posto o di turisti provenienti da Genova o dalle Riviere che fanno rifornimento riempiendo contenitori dʹogni genere. Ne puoi bere quanta ne vuoi e puoi essere sicuro che non ti farà mai male. Ricordo che quando si faceva fienagione giù in basso sotto il paese, chi be‐ veva troppa acqua de sutta u seiu il giorno dopo stava male, ma ciò non ac‐ cadeva se bevevi quella della fontana nostra. Lʹacqua de sutta u seiu infatti è un tantino magnesiaca, così risultò molti anni fa da unʹanalisi fatta fare. Passando di curiosità in curiosità, devo ricordare la copertura dei tetti. Og‐ gi vengono ricoperti con tegole o con ardesie delle cave di Fontanabuona. Sono a mio parere più indicate le tegole perché la neve si ferma su di esse, fa da coltre e non scivola come fa sulle ardesie, creando problemi di scorri‐ mento che compromettono le grondaie e lʹavanzamento di lastroni perico‐ losi per chi vi passa sotto. La forza di scorrimento è tanta e tale che piega perfino i ferri che vengono messi qua e là per tagliarla. Un tempo però non si usavano né tegole né ardesia, ma lastre di pietra irregolari che venivano ricavate alle spalle del paese nella località detta Creuza. Lì si cavavano oltre che le lastre anche le pietre per i muri, perché un tempo le case erano fatte in pietra e non in pilastri di cemento e mattoni come si fa oggi. E io ricordo che, ancora ragazzino, mi interessavo a come venivano preparate le mine. Un foro fatto nella roccia con lo ʺstampettoʺ, asta robusta dʹacciaio a penna, su cui si batteva con una mazza, questa volta di ferro anchʹessa e a ogni colpo lo stampetto veniva un poco sollevato e rigirato. Fatto il buco della profondità voluta, lo si riempiva per due terzi di polvere nera, polvere pirica, vi si metteva la miccia, poi vi si pressava carta o strac‐

103

ci, vi si dava fuoco fuggendo e gridando «Parte la minaa!». Si andava poi, curiosi, a vedere lʹeffetto prodotto dallo scoppio nello scoglio e si prendeva‐ no le pietre o le lastre che aveva smosso. Mettere le lastre di vera ardesia oggi non è difficile, ma coprire un tetto con quelle lastre di pietra irregolari richiedeva accorgimenti particolari che solo pochi conoscevano. Attual‐ mente cʹè ancora qualche tetto con quelle lastre, ma poco per volta vanno scomparendo. Andando alla Culletta e scendendo nel bosco si trova un punto in cui i lastroni affiorano dal terreno e così è, ad esempio, dai quattru fò. Ogni paese aveva la sua ciappea e ognuno poteva andare a ricavarne la quantità necessaria La mia chiacchierata mi pare stia volgendo al termine perché il grosso dei ricordi è esaurito e non me ne affiorano, per ora, altri alla mente. Ce ne sa‐ rebbero, ma di scarsa importanza, quisquilie, si direbbero. Con questo scritto ho voluto solo mettere in risalto, a futura memoria, tante parole in dialetto genovese, ma di sapore locale ormai cadute in disuso, il diverso modo di vivere dei nostri avi, nemmeno tanto lontani, il loro spirito di sacrificio, di adattamento allʹambiente, di rinunce sopportate con esem‐ plare rassegnazione, la loro solidarietà nel bisogno e la reciproca fiducia. Basti pensare che le porte delle case e delle stalle non avevano serrature a quattro o cinque mandate, ma solo un chiavistello detto in gergo locale tai‐ xella, consistente in unʹassicella imperniata da un lato e sollevata o abbassa‐ ta da uno spago che uscendo da un foro fatto un po’ più in alto nella porta, la faceva appoggiare a un fermo sullʹaltro lato. Questa era la gente che ora riposa sotto due metri di terra nel nostro picco‐ lo cimitero o in quello più lontano di Verzi.

1 Ehhh! Sai allora erano tempi duri! Mancava sempre il centesimo per fare il soldo. Erano tempi di fame.Andavano giù a Favale di Malvaro e compravano una misura di polenta; se lo mettevano in testa e venivano su, ma non pagavano. E la cosa si ripeteva per tante volte finché bisognava fare i conti e non avendo soldi gli cedevano un pezzo di bosco. Cedi oggi, cedi domani quelli di Favale sono arrivati fino al passo di Scaiùn e anche più in qua. Anche la felice memoria di mia zia, che poi era anche la mia madrina aveva tutta la sua roba ipotecata. Ha fatto tanto che è riuscita a pagare tutti i debiti 2 Devo tutto a lei

104

I villeggianti di oggi e quelli di ieri

ggi Barbagelata è frequentata come luogo di soggiorno da famiglie che prima vi abitavano normalmente, poi presero però unʹaltra resi‐ denza, ma fecero tuttavia ristrutturare la casa per venirvi a trascor‐ rereO i mesi estivi e a loro va un debito di riconoscenza per non aver abban‐ donato i sacri lari. Alludo a Giancarlo e Virginia, a Oliva, a Dolo, a Bruno, Renato e Maria Ro‐ sa, a Delma e Adele, a Emilio con figlie e nipoti, a Graziella, a Elsa e a me stesso. Ma la mia gratitudine va anche a coloro che la hanno scelta come stazione di soggiorno erigendovi una propria dimora: i signori Botta, Maggio, Bian‐ chi, Mirenda, Bertagna, Diena, Bonanni, Silvio, Leverone, Bacigalupo, Gianluca Solari, A. Maffi, Gigi Danieli, e quelli che la casa lʹhanno presa in affitto e fedelmente ogni anno, come le rondini, vi ritornano: i signori Ma‐ rano, Garbarino, Eliana, Manfredi e i genitori di Simona, A. Stabile, Sergio Bruzzone, A. Boccoli con la moglie Domenica e la figlia Ornella, L. Ratto, L.e R. Porro, Claudio e Iliana Corsiglia, A. Calistri, Celano o vi ritornavano come Bracco e la sua signora, passati a miglior vita. Non posso dimenticare in questa rassegna tutti i proprietari degli apparta‐ menti del condominio di ciàn de Buttìn: Mario Germigniani, Fernando Casi‐ ni, Giovanni Perfigli, Franco Galliano, Giuliano Gronchi, Giorgio Baldasso, Francesco Baratta e Carlo Provino. Tutta questa gente tiene viva una tradizione perché Barbagelata, quella di ieri, de vei, anche se priva di quelle comodità che sono ritenute oggi essen‐ ziali era un luogo di villeggiatura ambito. Innumerevoli sono le famiglie che vi hanno soggiornato e io per gratitudine le voglio qui ricordare anche se qualcuna mi sfugge alla memoria. Non seguirò un ordine cronologico perché mi è impossibile farlo, ma comincerò dai luoghi di provenienza ini‐ ziando da Levante percorrendo la Riviera verso Ponente e quindi lʹentroter‐ ra. Come posso dimenticare la maestra Palmira Gallo di Casarza Ligure e suo nipote Gianni, lei che convinse mio padre a mandarmi in collegio? Ed ecco da Lavagna salire le famiglie Tanghetti e Boero; da Chiavari i fratelli Degli Esposti, il dottor Brignole della farmacia dei Frati (era la loro meta di escur‐ sioni), il signor Bancalari, la signora Anita, la famiglia Canciani con Nini, la Renza e la famiglia Brunello, i Craviotto, le sorelle Indaco, i Fumagalli, i Rossi, i ; da Santa Margherita i Cichizzola; da Recco il dottor Man‐ tero e famiglia, la tribù del direttore didattico Bertagnon che aveva però anche un rustico, in casùn, in Feia; da lʹarciprete con suo fratello, en‐ trambi cacciatori; da Pieve Ligure la famiglia Bellandi; da Quinto lʹindi‐ menticabile Mina Gazzolo con suo figlio Aldo, geometra che aveva proget‐ tato e dato inizio alla rotabile Barbagelata ‐ Santa Brilla ‐ Costamaglio; da Genova ‐ e come posso ricordarli tutti? ‐ i Giuffra, la Rina Bacigalupo con i due gemelli handicappati, la Rina Ottonello, lʹingegner Boglione con la so‐

105

Villeggianti con Cristoffu e Rusin‐na Cavagnaro

106

La signora Canciani in villeggiatura rella Nicla, i Porcella, i Villani col figlio che tirava i sassi alle campane, i Franzone e i Bertoli, le sorelle Schiaffino, il signor Parasassi della Banca Commerciale Italiana, i Rebori con la cara Nuccia della Navigazione Italia; da Albisola i Trucco; e dalla Fontanabuona le famiglie Arata di Orero e Pia‐ nezza, la Pipita di Bavaggi, gli Arata (Taacchi) di Monleone con i figli Vitto‐ ria, Vittorio 1°‐2°‐3°, le sorelle Spiccio di Cicagna, le Racheline, la famiglia Cantù e parentela annessa, il dottor Pesce, il dottor Vattuone con la sua bellissima consorte, Zanardi di Gattorna con la moglie sorella di un mio compagno di collegio, Belleri, la famiglia di Andrea Cordano, americani di Favale che adottarono Maria figlia de Picciùn, e altri che ora non ricordo, come quei due coniugi tedeschi che a ogni pasto, oltre il resto, mangiavano una grande quantità di ʺkartoffelʺ. Lui era uno scrittore e so che scrisse in tedesco un libro intitolato ʺLe sette case di Barbagelataʺ. Cosa darei per a‐ verne una copia! Sarei un ingrato se fra i frequentatori di Barbagelata dimenticassi i numero‐ si ragazzi del Pio Istituto Fassicomo di Genova che venivano chiamati col brutto nome di ʺDerelittiʺ e avevano invece solo la sfortuna di essere orfani. Avevano una casa di soggiorno a Neirone e spesso venivano a Barbagelata e consumavano il pasto in osteria. La scorsa estate, quella del 1995, mi tro‐ vavo presso la cappelletta e guardavo il mare quando sopraggiunse una macchina molto bella che si fermò. Ne scese un signore molto distinto nel‐ lʹaspetto. Venne verso di me e mi disse: «Lei è il figlio di Cristoforo, quello che studiava» «Sì ‐ risposi ‐ ma Lei chi è?» «Lei non mi può conoscere ‐ dis‐ se ‐ perché io sono uno di quei tanti ragazzi dellʹIstituto Fassicomo che ve‐ nivano spesso a Barbagelata. Ho sentito un vivo desiderio di rivedere que‐ sto paese, ora quasi irriconoscibile, ma mi ricordavo benissimo di Lei. Ora

107

ho una famiglia, un lavoro, ma non dimentico mai lʹIstituto che mi ha alle‐ vato ed educato, e questo paese». Erano tutte famiglie di un certo tenore con in casa tutte le più moderne co‐ modità di allora e mi chiedo come facessero ad adattarsi in un posto dove comodità non ve ne erano per nulla e dove bisognava fare ore di cammino per raggiungerlo. Oggi ci sarebbe ancora tanto spirito di adattamento? Tut‐ ti questi villeggianti di allora si ritrovavano a loro agio, la gente, tutta la gente del paese era gentile e disponibile nei loro riguardi e si era creata co‐ me una famiglia integrata. Ma tantʹè non riesco a capire come facessero a integrarsi. Non era un loro stato di bisogno perché erano tutti abbienti; for‐ se avevano solo bisogno di un ambiente bucolico, di frescura e aria pura, cose che qui non mancavano, anzi abbondavano e loro ci ripagavano con la loro signorilità, con un tocco di modernità, con un soffio di gentilezza e di buone maniere. Non ho mai pensato, forse per la mia giovane età, che se questi villeggianti per anni e anni venivano a Barbagelata, qualcosa di buono il paese doveva avere. Ma io questo ʺqualcosa di buonoʺ allora non lʹho mai saputo cogliere e vedere, perché io, quandʹero in collegio, mi vergognavo di esservi nato. Lo dico qui senza reticenza e lo dico per fare umilmente atto di ammenda. Invidiavo chi era nato in città o in una borgata e mi sembrava nel mio inti‐ mo di non essere altro che un tapino. Non apprezzavo nulla, nemmeno i fiori di campo che con una verga sferzavo con rabbia perché per me erano fiori solo quelli dei giardini. Nessuno mi aveva ancora detto che i fiori dei giardini venivano da quelli di campo, ingentiliti dalla mano dellʹuomo. Poi crebbi e maturai, riuscii, da autodidatta, a cogliere i lati e gli aspetti mi‐ gliori e quello che fu odio diventò amore, un grande amore; amore per quella terra che mi generò e che mi fece diventare qualcuno. Questo è quanto lascio in retaggio ai giovani perché ne facciano buon uso.

108

Appendice

n detto popolare dice ʺuna ciliegia tira lʹaltraʺ. Io posso dire invece che un ricordo ne fa nascere un altro. Eʹ come frugare in una cassa‐ U panca, in tu bancà, e in casa mia de banchè ce nʹerano diversi. Il 13 agosto 1944 bruciarono tutti, ma io con la mia immaginazione, col mio pen‐ siero non posso fare a meno di frugarvi, ed eccone uno.

Verità o leggenda? Ho ricordato un dosso, u briccu, detto da Povia Donna, sopra il passo du Fò Grossu. Eʹ chiamato così perché i vecchi, e fra questi certamente Natale, spe‐ cializzato in materia, raccontavano che in cima a quel dosso vi morì una donna e lì fu sepolta forse perché già in avanzato stato di putrefazione, ma sepolta malamente e in fretta e furia, tanto che le sottovesti, e fadette, rima‐ sero scoperte e quando soffiava il vento si muovevano come una banderuo‐ la. Oggi quel dosso è ricoperto di vegetazione: faggi, enormi ginepri e gine‐ stre a iosa, ma allora era brullo, pulittu cumme u prò du Driulìn, dicevano, e lo sbandieramento , ingigantito un po’ anche dalla fantasia, lo si vedeva tanto da Barbagelata che da Costafinale, che sono a uguale distanza in linea dʹaria, e di giorno e di notte sotto il chiaror della luna, e la gente intimorita si chiudeva in casa e molti dicevano: «Poa donna!»1. Medicina empirica Ho detto già come risolvevano i loro problemi sanitari, ma mi sono affiorati in proposito altri quattro ricordi. Lombaggini e infiammazioni del nervo sciatico erano allʹordine del giorno a causa dellʹumidità dellʹerba al mattino carica di rugiada, o andando fra le sterpaglie in cerca di funghi o a caccia. I calzoni erano sempre bagnati e il fustagno prima che si asciughi ... Avevano, quando proprio non ne potevano più, un estremo rimedio che viene praticato anche oggi, ma con sistemi diversi, nella terapia del dolore. Ne sa qualcosa il mio amatissimo nipote Mario. Prendevano un ago o un filo di ferro infuocato , rovente, e con esso brucia‐ vano una, due, tre volte il lobo interno dellʹorecchio dalla parte dolorante del corpo. Non fanno così anche i cinesi con lʹagopuntura? E altro ancora. Sapete cosa sono le vecce, quelle che noi chiamiamo loffe? Quando sono giovani si possono mangiare, ma quando sono vecchie, den‐ tro sono una borsa di polvere fine, impalpabile di color marrone. Ebbene, ho visto da ragazzo mettere sulle ferite da taglio ancora sanguinanti alcune prese di quella polverina, senza che nulla accadesse; anzi la ferita guariva. A loro insaputa erano i precursori del grande Fleming, inventore della pe‐ nicillina, ricavata da una muffa, ossia da un fungo.

109

La strada della nuova chiesa

Un altro rimedio che però mi metteva a disagio era quello di uccidere un uccellino, e, ancora caldo, squartarlo e con penne e interiora applicarlo su foruncoli o flemmoni per farli maturare. Per lenire i dolori di schiena o altro si bagnava di alcool un po’ di cotone, si accendeva e subito si posava sulla pelle coprendo con un bicchiere. Era la ventosa, che lasciava sulla pelle un bell’ematoma. Tutti modi empirici che erano usati senzʹaltro a fin di bene e a volte davano buoni risultati e comunque mai complicanze.

Strade e buoi Parlando di lavoro e di attrezzi ho escluso che si usasse lʹaratro, ma non posso escludere che 150 ‐ 200 e più anni fa si usassero i buoi almeno per trainare la lesa. Era un lavoro di pazienza perché i buoi hanno un incedere lento, ma penso che quei contadini pur di non sobbarcarsi un peso fossero propensi a pazientare. A levante e a ponente del paese dove si coltivava ci sono ancora qua e là dei tratti di strada, ormai erbosi, che erano chiamati strà di boeu, così mi diceva mio padre. Se ne trova una tra u runchettu e costa speela e unʹaltra sutta u seiu ai piedi du seià su cui troneggia quel bel faggio. Ma ciò non significherebbe un bel nulla se questi tratti di strada erbosi non fossero la prosecuzione di strade che provengono e vanno da e in diverse direzioni. Dal paese i buoi raggiungevano la cappelletta e di lì proseguiva‐ no fino al passo della Larnaia; oppure dalla cappelletta svoltavano a sini‐ stra e scendevano fino al runchettu, dove cʹè un ampio varco, e proseguiva‐ no verso cugnu lungu dove cʹè unʹaltra strada, ora erbosa e arrivavano fino alla strinà dove la strada scende fino a un breve pianoro detto cian da furna‐ xia du barba. I buoi potevano percorrere anche la strada superiore a questa, da pa costa

110

fino alla furnaxia de Caasette, tutta in pendio ma accessibile ai buoi. Nei tratti in forte pendenza, come in cugnu lungu, dove cʹè quel pluricentenario pero selvatico o nella furnaxia de Giuanetta lì cʹera il risseu, fatto perché lʹacqua piovana non solcasse la strada. E quel risseu non fu fatto dai miei fratelli o da mio padre, che un giorno mi disse «mi ghe lʹo sempre vistu»2 e mio padre, badate bene, era nato nel 1874, ossia 122 anni fa. Anche nelle terre rivolte a ponente i buoi passavano sutta a ota, percorreva‐ no la strada fino al cimitero e poco più giù svoltavano a destra per andare sutta u seiu. Oggi questa strada è stata ostruita abusivamente con dei paletti messi oltre il confine dagli eredi di Deliu. Proseguivano per un tratto pia‐ neggiante poi cominciavano a scendere. Oggi lʹacqua piovana ha creato un profondo solco nel tratto in discesa, ma un tempo la strada era al livello del prato. A un certo punto la strada già accennata e ora erbosa andava oriz‐ zontalmente fin sopra la fontana, quella che rifornisce di acqua il paese, e svoltando poi a sinistra andava fino allʹinizio del bosco passando sopra ai dui cian, uno di mia proprietà e uno de Giuanetta, o se più vi piace, du Menn‐ a. Per ragioni a noi oscure i buoi piano piano furono dismessi; forse una carestia, forse eventi politici, forse perché i buoi non davano latte ma solo lavoro. Subentrarono senzʹaltro i muli e gli asini, più agili, più parchi nel mantenimento, e adatti oltreché al traino anche alla soma, per scendere a valle e risalire al monte. Ma mi viene spontanea una riflessione sui proprie‐ tari dei buoi: che non erano del tutto arretrati e che i tracciati delle strade erano fatti con molto buon senso e avvedutezza.

Architettura rurale Riflettendo sulla vita sociale dei nostri antenati risalta la solidarietà, il ri‐ spetto reciproco e la fiducia. Le famiglie erano patriarcali, come la mia fino a trenta anni fa, o come quella dei fratelli Grixiu, Richìn, Carlottu, Natale, Davidde e Frascùn le cui stalle erano intercomunicanti. Infatti la stalla de Fra‐ scùn, ora garage di mio nipote Bruno, comunicava con le altre tre fino alla chiesa. Si passava dallʹuna allʹaltra attraverso due archetti, due per motivi di statica, e sufficienti per far passare in ciascuno dei due archetti una per‐ sona. Senzʹaltro vi sarà stata una botola con una scala a pioli per raggiunge‐ re lʹabitazione e per evitare, quando cʹera tanta neve, di fare il giro del pae‐ se. Mica stupidi! penso io. Col matrimonio de Frascùn, du Grixiu e de Richìn la famiglia si dissolse, le terre furono divise in tante particelle e gli archetti chiusi, magari in malo modo da mani inesperte. Tale genere di costruzione non era molto comune, neanche in altri paesi. A Tre Palle presso Livigno questa fuga di due archetti è stata trasformata in una passeggiata, conservando così ai posteri un reperto di storia locale.

Le comandate Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale cʹera lʹobbligo per legge di prestare, gratuitamente, la loro opera a tutti gli uomini abili per riparare, rendere più agevoli le strade comunali. Lo si faceva nei periodi in cui i la‐ vori agricoli erano meno pressanti e chi non ottemperava allʹobbligo si tro‐ vava lʹequivalente sulla cartella delle tasse. Ma ciò non avveniva mai. Non ricordo con precisione se fossero tre o cinque giornate lavorative, ma non di meno e non di più. Con picco, pala, rastrello e roncola si riempivano i solchi scavati dallʹacqua piovana, si tagliavano sterpaglie ingombranti, si

111

rassodavano muri, si allargava la strada, si interveniva dove il buon senso lo richiedeva. Questa prestazione dʹopera andava sotto il nome di Comandata. Oggi ce ne sarebbe un bisogno enorme perché quelle strade che un tempo furono per‐ corse da uomini e animali oggi sono quasi scomparse. Caccia e cacciatori Quella della caccia e dei cacciatori è una lacuna che devo colmare. Barbage‐ lata era al centro di una zona ambita per la caccia. La selvaggina non man‐ cava: lepri, pernici rosse e starne, fagiani, beccacce, merli, tordi, gazze e altri uccelli di vario genere riempivano i carnieri dei cacciatori che veniva‐ no su dalla Fontanabuona, dalla valle di Neirone, dalla Val Trebbia, dal golfo del Tigullio e da Genova. Non è che noi si stesse solo a guardarli, questi cacciatori. Anche noi aveva‐ mo le nostre buone e brave doppiette, i nostri cani, e una buona parte di tutto questo ben di Dio lo facevamo nostro senza tanti complimenti. Il pri‐ mo e più anziano cacciatore era Piri, richiesto da quelli della Riviera e di Genova e ricompensato con un bel pranzo, molto vino e un po’ di cartucce, tanto che lui non ne comprava mai. Poi cʹera mio fratello Pippu, ottimo cacciatore di lepri, amante di un buon cane che superasse quello di Piri perché credo che caccia e invidia fossero la stessa cosa. Imbracciai poi il fucile anchʹio e dopo di me anche Deliu, fi‐ glio di Piri. Nei primi tempi io mi feci le ossa sparando a tutto cumme u scio‐ eppu de pree Miché, e la mia mira si fece, direi, letale. Anche Dria, detto Billi, si fece cacciatore, ma per poco. Quel “catenaccio” che aveva comprato por‐ tò guai luttuosi in famiglia, come già raccontato. In seguito, sulle orme del padre e dello zio, abbracciarono questo sport an‐ che Renato, Mario e Gianni, ma oggi sono tanti i vincoli e le tasse che non so se convenga. Lepri e pernici sono dimenticate. Oggi si dà la caccia ai cinghiali e mi augu‐ ro che ne uccidano molti, che li uccidano tutti per tornare alle origini, a quella caccia pulita, fatta di attesa, di spasimi, di avvedutezza, di corse a perdifiato per arrivare sulla posta prima della lepre. Le munizioni me le preparavo da solo e ci fu un tempo, dopo la seconda guerra mondiale, in cui adoperavo come polvere da sparo la balistite che ricavavo dalle cartucce dei fucili abbandonate dai soldati e partigiani. Era una polvere, se polvere si può chiamare, consistente in tanti cilindretti che richiedevano una forte spinta iniziale data dal fulminante della cartuccia e spesso questo fulminante non accendeva bene la polvere e allora il colpo invece di fare ʺpùmʺ faceva ʺplofʺ. Ma scoperto il difetto, mettevo un po’ di polvere a contatto del fulminante e poi la balistite, e tutto andava a posto. Gli emigranti Oggi cʹè lʹusanza di ricordare con festeggiamenti, pranzi e monumenti gli emigranti. Barbagelata non lo fa anche se di emigranti ne ha non pochi e in proporzione più tanti di altri paesi. Li voglio ricordare in questa mia raccolta di ricordi perché meritevoli di aver portato bene o male oltre oceano il nome di Barbagelata. Comincerò con uno che non ho mai conosciuto: un cugino di mio padre di nome Gae‐ tano, emigrato a San Francisco dove sposò una certa Caterina Holland ed ebbe una figlia di nome Eveline. Con Caterina ed Eveline tenemmo per molto tempo corrispondenza, fino alla fine della guerra. Ci inviò anche al‐

112

cuni pacchi e una bambola in maiolica per mia nipote Maria Rosa. Altri che non conobbi furono quelli della famiglia de Frascùn, almeno cin‐ que, emigrati in massa, in Argentina a Mendoza, come ho già raccontato. Poi emigrò Davidde u mericanu, già ricordato, a Milia di Tilìn, u Serafìn, u Tugnìn, u Pippu de Richìn e non aggiungo u Gustu che fece come Cesare: veni, vidi, vici. U Pippu e a Linda du Grixiu, u Riccu, e credo per poco tempo suo fratello Piri. Poi Davidde e Marinn‐a che tornò dopo un certo tempo. Un terzo del paese è emigrato. Un giorno lessi sulla lamiera del portone della chiesa vecchia una frase che non mi fece molto piacere: ʺingrata patria non avrai le mie ossaʺ. Voleva dire:ʺNon ritornerò mai piùʺ. E infatti, ad eccezione di due, nessuno più ritornò. Le loro ossa sono disperse negli Stati Uniti, in Argentina, nel Perù, nel Cile e in qualche altro paese che non ricordo. Molti hanno ancora qui la loro casa, la loro terra, in pieno degrado, contesa e in una vana attesa dʹessere messa, come si usa dire, allʹonor del mondo. Schegge Il giorno dellʹAscensione ogni famiglia prendeva dei rametti di ginepro e una pianta di elicrisum o squassinn‐a e bruciava il tutto davanti alla porta di casa e della stalla affinché non vi entrassero bisce e baggi. Questa mansione era una prerogativa di mio fratello Pippu che credeva fermamente in questo esorcismo. Quando grandinava mio fratello Pippu sparava in aria alcuni colpi di fucile a moʹ dei piemontesi che lanciavano in aria i razzi antigrandine. Mia madre usciva di casa con due bastoni e li metteva a terra in forma di croce. I letamai in estate facevano schiudere le larve delle mosche in una quantità incredibile. Per combatterle si appendevano qua e là strisce moschicide che in poco tempo si ricoprivano letteralmente di mosche fatte prigioniere di quel vischio appiccicaticcio che le ricopriva. Più tardi si passò al DDT che le fulminava con il suo spruzzo. Anche il DDT in seguito fu potenziato perché le mosche si erano assuefatte a quel veleno. A scaldare il letto ci pensava u preve, ʺil preteʺ, una padella col coperchio bucherellato e col manico lungo, piena di brace. Oggi cʹè la coperta elettri‐ ca. Durante il pascolo, specialmente in mattinata, grossi mosconi, detti tafani, punzecchiavano la pancia delle mucche che per difendersi cominciavano ad alzare la coda e poi a correre allʹimpazzata tra i cespugli per allontanare i mosconi; quindi imboccavano la strada di casa, sempre correndo, fino alla stalla. Si diceva allora che «e acche an lʹaxillu»3. Tale comportamento delle mucche era il presagio di un temporale più o meno imminente. Così era il mio paese e così è oggi. Ha la sua chiesa nuova e originale che invita alla preghiera più di tante altre; ha le sue case vecchie ristrutturate e ingentilite; ha quelle nuove frutto del progresso; ha le strade acciottolate e pulite; ha le comodità moderne: ma non cʹè più vita. Porte e persiane sono sbarrate; le strade sono deserte. Solo a tratti vedi la Teresa che dalla casa paterna va sul piazzale col secchio delle immondizie o è diretta al suo appartamento nella nuova casa. Regna ovunque un gran silenzio, rotto, or qua or là, dallo sfrecciare di unʹautomo‐ bile, dallʹabbaiare di un cane, dai rintocchi delle ore che ammoniscono del‐ lo scorrere del tempo. Cʹè nellʹaria qualcosa di indefinito e di indefinibile che mi opprime come una cappa di piombo e mi rende triste.

113

Il paese prima dell’arrivo della strada

E allora vado indietro nel tempo di 50, 60, 70 anni quando il paese era vivo; quando la gente, seduta su quel legno della piazzetta, o in scia pria de Pic‐ ciùn, conversava; quando le mucche con il loro scampanellio tornavano dal pascolo; quando le figlie de Piri, de Davidde, du Grixiu e de Richìn intonavano in coro le loro canzoni. Non vedo più mio fratello Pippu tutto curvo sotto un lenzuolo di erba o di fieno; non vedo più mio padre sul sentiero della canonica tornare dal lavoro; non vedo più i comignoli innalzare verso il cielo, come una preghiera, le loro volute di fumo. Non sento più il canto del gallo e il chiocciare delle galline; non sento più ruzzare i bambini intenti nei loro giochi. Scene bucoliche, direte, ma incancellabili e allora alzo gli occhi al cielo e prego che quella immaginaria cappa di piombo non debba mai scendere su queste nostre case.

1 Povera donna 2 Io ce l’ho sempre visto 3 Le vacche hanno la frenesia

114

Cose non dette o dimenticate

i affiorano a volte alla mente cose che avrei potuto mettere nelle pagine precedenti e non l’ho fatto per varie circostanze: o perché M non ne ero a perfetta conoscenza o per dimenticanza e a volte an‐ che per opportunità. Rompiamo ogni remora e vediamo se si possono colmare alcuni vuoti.

Nonno Antonio e la Prozia Rosa Per prima cosa voglio parlare del mio nonno paterno … Era l’otto maggio del 1875; la data l’ho saputa da poco, giorno della fiera più importante del paese. Gran folla, molto bestiame legato agli steccati, gran mercanteggiare, grandi e abbondanti libagioni e a un certo momento ecco la solita rissa, che non era chiamata così, ma con una frase in gergo locale “i se dan”1. Mio nonno, forte e robusto si getta fra i contendenti per separarli e riappa‐ cificarli, ma non riesce nell’intento perché uno sciagurato è armato di pisto‐ la e lascia partire un colpo a casaccio che uccide il paciere. Non so chi fosse e da dove venisse l’omicida, né come finì l’azione giudi‐ ziaria, ma sto facendo delle ricerche a 181 anni di distanza per chiarire que‐ sta triste storia. Per ora so solo che mio padre restò orfano all’età di un an‐ no e tre mesi. Si prese cura di lui una zia che in vita sua mio padre ricorda‐ va sempre con la solita, immancabile frase “Felice memoria de me lalla che poi a l’ea anche a me möinn‐a”2. In quel “felice memoria” c’era tutto il vuoto, che la zia aveva cercato (e vi era riuscita) di colmare con la morte del padre, dell’età di 37 anni. Era costei una donna energica, volitiva, lavoratrice indefessa, cattolica pra‐ ticante, oggi si direbbe integralista o fondamentalista, come ora spiegherò. Ai tempi di questa zia si erano installate nella frazione di Castello di Favale alcune famiglie di protestanti provenienti dal Piemonte Val d’Aosta. Erano soprannominati I Sciallìn. Avevano lì la loro chiesa e il loro cimitero che tutt’ora esiste e si può visitare. Giravano nei paesi cantando e suonando un violino e distribuendo foglietti per fare proseliti. A Favale ne convinsero molti e la chiesa della borgata si trovò una bella matassa da sbrogliare. Quando iniziavano a cantare, qua‐ lunque canzone fosse, dicevano a mò di introduzione, «Gente cae stè in po a sentì a cansun de Niculìn»3. Venivano anche a Barbagelata e non è che questa mia prozia, che era so‐ prannominata a Pussinn‐a, li vedesse molto volentieri. Anzi una volta ven‐ nero a diverbio per ragioni religiose e anche alle mani. Nicolino, credo fosse proprio lui, aveva la barba, ossia un bel pizzo, ma rado, che, come fu, come non fu, restò nelle mani della prozia integralista. Finirono in Pretura, non so se a Chiavari o a Cicagna. La gente però ricor‐

115

dava che questo Scialìin mise sul banco del Pretore, avvolta in un po’ di carta, la barba strappata. Non ci furono conseguenze se non una bella ra‐ manzina ai due contendenti. Anche lei, come già detto nel libro, dovette ipotecarsi terre e case, come tanti altri del paese perché i tempi erano duri e la miseria dilagante; ma tanto fece, tanto lavorò, che riuscì a rientrare in possesso di tutte le sue cose senza nulla cedere come purtroppo dovettero fare altri. E qui mi viene spontanea una considerazione che non ha una risposta: co‐ me potevano essere scesi in tanta miseria? Eventi bellici? Razzie di predo‐ ni? Catastrofi naturali? Chi mi sa dare una risposta alla domanda che assilla il mio animo?

Medicina Empirica Per dimenticanza nel mio libro non ho parlato dei guaritori, che non erano chiamati così, ma con la frase in gergo locale «quelli che ghe dixian»4. Erano frequenti coloro che si ammalavano di erisipela (o risipola) o flemmone. La risipola era una malattia della pelle, noiosa, dolorosa, e per di più infet‐ tiva. La parte del corpo colpita, mani, braccia, gambe, gonfiava e si arrossa‐ va. Una vera e propria infezione. Oggi si correrebbe subito dal dermatolo‐ go, ma allora si andava da «quellu cu ghe dixe». Ce n’era uno alla Cassinetta e mi pare che si chiamasse Bacìn. Con segni cabalistici, segni di croce, paro‐ le dette solo a monosillabi e sottovoce e alcune spruzzatine di saliva sulla parte infetta, il malato se ne tornava a casa soddisfatto e speranzoso. Ma non ci crederete: qualcuno perfino guariva e guai a credere i contrario. Io pensavo che quelle spruzzatine di saliva, e non quei segni cabalistici e le parole incomprensibili avessero ottenuto l’effetto desiderato. In fondo i cani e tutti gli animali a quattro zampe e non di grande stazza, non si lecca‐ no le loro ferite bagnandole di saliva? Nell’agosto del 1944, in pieno periodo di rastrellamenti mio padre ebbe, come ho già scritto, un grosso flemmone a un ginocchio. Io notavo che sta‐ va andando in suppurazione e in casa già si parlava di “fargli dire”, e pri‐ ma che ciò succedesse, mi rivolsi al dottor Antonio Repetto di Genova (ma nativo di Monteghirfo) il quale venne e col bisturi aprì il flemmone facendo uscire una grande quantità di pus. Gli fece un bel drenaggio e mi disse tut‐ to quello che dovevo fare per le medicazioni successive. Mi attenni alle sue istruzioni scrupolosamente e in poco tempo guarì, anche se nel frattempo Barbagelata andò a fuoco.

Vittoriu e u Taddié Nel periodo delle varie e annuali fienagioni chiedevamo l’aiuto di due bra‐ vi lavoratori, perché la terra era molta e qualcuno della famiglia doveva curarsi anche della Trattoria che ci impegnava alquanto. Erano costoro due persone singolari di cui ho un vivo ricordo e degne di essere menzionate nel senso migliore della parola, checché qualcuno possa pensare il contrario. Vittoriu era di Cò di Verzi. Il suo cognome era quello della maggior parte degli abitanti di Verzi e di tutti quelli di Barbagelata. Era, in poche parole, anche lui un Cavagnaro. Era un cacciatore di vaglia. Volpi, faine, tassi ca‐ devano nelle sue tagliole, che noi chiamavamo “feri da urpe”5; lepri, pernici, scoiattoli, merli, tordi riempivano la sua cacciatora di velluto o di fustagno. Sapeva fare un po’ di tutto: coltelli, rastrelli, manici per attrezzi agricoli,

116

richiami per uccelli (ne sanno qualcosa i merli dei nostri monti). La caccia anche nei periodi vietati era la sua passione e occupazione principale, ma sapeva lavorare come tanti bravi contadini. Era scapolo e non dava fastidio a nessuno, né voleva essere infastidito. Quando la caccia era aperta partiva in piena notte da Verzi, percorreva la famosa strada dei Riè e dell’Acqua Pendente e alle sei di mattina e anche prima, coi suoi fedeli cani, dopo tre ore di cammino era già in casa nostra a prendere il caffè e poi andare a cac‐ cia. Ho detto che non voleva essere infastidito, ma purtroppo nel suo stesso gruppo di case c’era un giovane che amava infastidire la gente e non solo Vittoriu. Costui era un mio ex alunno della scuola di Pontemastra e più volte ebbi occasione di richiamarlo, anche se già adulto, perché limitasse i suoi lazzi. Ricordo perfino che un giorno gli dissi: «Comportandoti così troverai un giorno scarpa per i tuoi piedi». E fu proprio così! Una sera, passando Vittoriu nei pressi di casa sua, questo giovane cominciò a rivolgergli parole pesanti. Vittoriu, forse stanco, forse di malumore per qualche cosa che non gli era andata per il verso giusto, forse affamato, forse offeso dalle parole di questo suo compaesano, estrasse il coltello che portava sempre in tasca non come arma, ma come arnese da lavoro, lo colpì e lo uccise. Fu condannato a molti anni di manicomio criminale e inviato a Montelupo Fiorentino. Terminata la pena la Magistratura interpellò i parenti più pros‐ simi per sapere se lo avrebbero accolto e ospitato, ma la risposta credo sia stata negativa perché finì i suoi giorni in quel luogo di pena e sulla tomba forse non c’è neanche una lapide con il suo nome.

E dopo Vittoriu, ecco l’enigmatico Taddié (Taddeo). Era un uomo mingherli‐ no, agile nei movimenti e furbo come una volpe. Se dovessi dire di che pae‐ se fosse con precisione non potrei dirlo: forse di Fontanigorda, di Casano‐ va, di Rovegno, di Gorreto. Certamente di quelle parti. Lavorava saltuariamente per noi ed era un bravo falciatore. Aveva una scu‐ rietta (falce) con un gambu (manico) tutto particolare che gli permetteva di falciare anche i seggi, le balze. Andava dove lo chiamavano perché credo non avesse una famiglia e una fissa dimora. Fece, per modo di dire, la guerra del 15/18, ma amava disertare. Era un di‐ sertore di professione. Credo fosse in quel gruppo che fece cuocere il gatto a mio padre, come descritto precedentemente. Era ricercato durante il con‐ flitto con l’Austria e i Carabinieri gli davano una caccia spietata, così rac‐ contava lui, ma ho detto che era furbo come una volpe, quindi … Racconta‐ va lui, e raccontavano anche le persone dell’alta Val Trebbia, che nei pressi di Isola di Rovegno, per poco sgattaiolò dalle mani dei Carabinieri. Devo, prima di raccontare il fatto, precisare una cosa. I fiumi e i torrenti della Liguria hanno tratti in pendio dove l’acqua scorre veloce e tratti pianeggianti dove l’acqua sembra ferma e invade tutto il letto del fiume. Questi tratti sono, in modo improprio, chiamati laghi. Così c’era, presso il Passo della Scoglina, u lagu de ria rutta e poi u lagu da ciann‐a da cà bruxià, quellu da ciann‐a du pullùn, u lagu riundu in tu beu di Cu‐ letti e nel Trebbia u lagu de l’isua. È proprio qui che Taddié stette per cadere nelle mani dei Carabinieri. Senza esitare, vista la mala parata, si getto nel “lago” e attraversò il fiume. Quan‐ do si voltò vide i Carabinieri allibiti e disse loro «Fè in po’ cuscì vuatri»6.

117

Al che i Carabinieri gli dissero «Oh, ci cascherai!». E lui: «Mi ghe sun cheitu oura»7. Parlava il dialetto dei suoi paesi che differisce un po’, ma non molto, dal nostro. Incredibile, ma vero Io avrò avuto setto od otto anni, poco più, poco meno, e fui testimone ocu‐ lare di un fatto incredibile. Era morta una persona di Costafinale. Dico di Costafinale perché a fare la fossa nel cimitero, allora i loculi non si sapeva nemmeno cosa fossero, c’erano varie persone di Costafinale fra cui Dria zuene8, suo fratello Stinìn, Gigìn e qualcun altro che ora non ricordo. Cerano inoltre mio fratello Tu‐ gnìn incaricato dal Comune a stabilire dove fare la sepoltura; d’erano Deliu e Meneghìn, allora ancora molto giovani, Natale e uno della famiglia de Ri‐ chìn, forse Pippu e chi ora scrive: il curioso. Le fosse erano generalmente fatte una accanto all’altra e con la testa del morto contro i muri di cinta. La fossa che si doveva fare quel giorno era invece ai piedi delle fosse della riga di sinistra entrando, con la testa verso il lato dove ora c’è la cappella mor‐ tuaria e i piedi verso la porta, a circa due metri o poco più dalla porta d’ingresso suddetta. Cominciarono a scavare con picco e pala fino ad arrivare alla cassa che era stata deposta lì non meno di sette anni prima, come stabiliva la legge e mio fratello ne era certo. La cassa era ancora intatta ed era di castagno. Era con‐ suetudine invece, fare le bare di pino o di abete perché marcissero prima. Con le penne dei picconi fecero leva sul coperchio che si staccò e cadde da un lato. Non ci crederete, ma con i miei occhi (e così le altre persone presenti) vidi nella bara una donna ancora intatta come se l’avessero seppellita il giorno prima. Aveva un vestito verde di velluto che arrivava fino alle caviglie, bellissimo e con un velo in testa. Restammo tutti allibiti, ma la cosa più sorprendente fu che dopo qualche minuto e anche meno, il vestito e il velo si dissolsero nell’aria senza lasciare traccia alcuna e non restò che lo scheletro intatto e con le sue ossa bianche, senza che sotto vi fosse alcun segno di putredine. Mio fratello e i più anziani si dissero tra loro qualcosa come: «a l’ea …» (era) ma non capii il nome né mi interessava perché frastornato per tale rinvenimento. Davanti a questo spettacolo Stinìn e Gigìn imboccarono di corsa la porta e mentre correvano verso il paese seriamente spaventati, Gigìn diceva «Oh bi! Oh bi!». Era il suo modo di dire «Ohi me! Ohi me!». Le ossa furono religiosamente raccolte per essere poi riseppellite e la vecchi bara fu tirata su, fatta a pezzi e bruciata fuori cinta. Mi sono testimoni dall’aldilà mio fratello Antonio e tutti coloro che erano presenti. Io sono l’unico testimone vivente e ho voluto raccontare questo fatto incredibile, ma vero perché non ne vada perduta la memoria. Spesso ricordo tutto ciò e pensando a quel ricchissimo vestito simile a un costume fiorentino del ‘500 mi chiedo: quale famiglia della parrocchia pote‐ va fare tanto sfoggio? Quella sepoltura poteva risalire intorno agli anni 1913/14/15, o poco meno. E così abbiamo un’altra domanda senza risposta! Tipi Ameni Come in ogni paese, anche nella Parrocchia di Barbagelata e paesi vicini c’erano, quando io ero ragazzino o giovinetto, persone amene che a volo

118

Barbagelata prima dell’arrivo della strada

d’uccello, voglio qui ricordare con qualche loro particolarità. A Santa Brilla (non ho mai capito perché questa fraziona si chiami così, per‐ ché sante col nome di Brilla non ne esistono) c’era il cognato di Piri che si chiamava Gigiolla. Era un uomo alto, dinoccolato come tutte le sue sorelle, sempre allegro e spaccone. Parlando farfugliava come se avesse la lingua grossa. Era scapolo e viveva solo. Non usciva spesso, ma quando lo faceva per andare a una festa di strapaese non rincasava che il giorno dopo. Face‐ va libagioni abbondanti e teneva, col suo modo di fare da spaccone, allegra tutta la compagnia. Morì ancora giovane e le sue spoglie sono nel cimitero del paese indicate da una bella lapide con tanto di fotografia che lo ritrae con la sua faccia sempre allegra. A Piano della Chiesa c’era un uomo che si chiamava Tomi; era un buon uo‐ mo, lento nei suoi movimenti e nel suo modo di fare. Aveva un figlio che, non so perché tutti chiamavano Bigio, u Biggiu du Tomi. Era un giovane bo‐ naccione, sempre sorridente. Qualcuno anche lo prendeva, come si suol dire, in giro e io in cuor mio disapprovavo. Beh! Indovinate un po’, lui che non era mai stato oltre Torriglia o Favale, o che forse non aveva mai visto, come tanti altri, il mare se non da lontano, dove fece il servizio militare? Nella Regia Marina a La Spezia. Così, invece di fare 18 mesi di servizio, dovette farne 24 come la legge imponeva. Lo vidi qualche volta in licenza con la sua divisa da marinaio e non riuscivo a crederci. Sposò la Giulia di Scorticata e andò ad abitare a Genova. Ebbi occasione di vederlo qualche anno fa a Barbagelata sul piazzale della chiesa nuova e quasi stentammo a riconoscerci. Il tempo, oltre ai ricordi, cancella tante al‐

119

tre cose. Comunque l’incontro fu assai caloroso e mi fece molto piacere ri‐ vedere un amico, semplice, sincero, buono. A Posazzo (Pusassu) vivevano fratello e sorella; scapolo lui, nubile lei. Si chiamavano Ninettu e Sunta (Assunta). C’era fra loro due una forte rassomi‐ glianza, nell’aspetto, nella corporatura e perfino nella voce, un po’ rauca come la mia oggi, tanto che oggi, ma solo oggi e non prima, mi sorge il dubbio che fossero gemelli. Ninettu, quando veniva alle feste, arrivava tutto in blu con la paglietta e un garofano non all’occhiello, ma sull’orecchio sini‐ stro. Faceva un po’, ma solo all’aspetto, il bullo. Amava bere, bere molto, tanto da ridursi fradicio. Quando in piena notte tentava di tornare a casa, spesso si addormentava sul bordo della strada e solo al mattino si risveglia‐ va. Federicu du Grixiu, che ben lo conosceva, raccontava su di lui una barzellet‐ ta che barzelletta non era e che qui non posso riportare per correttezza e rispetto verso quest’uomo che in fondo in fondo era simpatico a tutti e non infastidiva nessuno. Al massimo poteva dire, come spesso diceva quand’era sbronzo «Tégnime che me daggu!»9. Un paese di tipi ameni era Costafinale. C’era Giamba, u Piri de Candùn, u Menn‐a, u Pacciàn e u Gin de Maietta. Giamba era un tipo permaloso che spesso litigava con la moglie che era as‐ sai precaccinn‐a, ossia voleva far valere sempre la sua a tal punto che a un certo momento lui perdeva le staffe e diceva «Me vaggu a massà!»10. Il suo suicidio consisteva nel fare un’ora di cammino, andare in ti Riè e buttarsi giù dalle roccie. Ma non lo fece mai perché io lo vidi morire nel suo letto con a fianco il prete che gli impartiva l’estrema unzione. Ma l’originalità del fatto sta in questo. Partiva da Costafinale e faceva tappa a Barbagelata in casa nostra e voleva parlare con mio fratello Tugnìn al qua‐ le esternava il suo proposito. Al ché, mio fratello con buone maniere cerca‐ va di dissuaderlo. Ma lui non recedeva e riprendeva il cammino, lungo il quale rifletteva sulle parole del suo consigliere spirituale e tornava indietro. La cosa si ripeteva spesso, e io una volta, un po’ cattivello, lo confesso, gli dissi «Ma perché vuei andà in ti Rié quando gh’avemmu chi in ta Larnaia inn‐a bella ria che a ve peu servì?»11 «Nu, nu, ‐ rispose‐ mi vaggu in ti Riè?»12. Credo che fin là non ci sia mai arrivato U Piri de Candùn era invece, come tanti altri, uno che amava bere. Forse non beveva mai vino in settimana, ma alla domenica ci voleva poco perché an‐ dasse in cimbali. Tentava di andare a casa, ma a metà della salita della Cul‐ letta si sdraiava in su ciappùn da Culeia13 e lì ci stava a smaltire la sbornia finché alla Culletta spuntava un lumino. Era Giulinn‐a, sua moglie che lo veniva a recuperare. Quando era sbronzo e allegro cantava, accennando a un balletto “e sotto tenete o zucchero, in coppa amaru site e tanto ha da girà che o zucchero in coppa ha da turnà”. Presumo avesse imparato ciò a militare. Poveretto, era sfortunato: aveva una figlia, la Maria, ritardata mentale e con un gozzo e‐ norme. Viveva con lui anche suo cognato, conosciuto come u Gin de Maietta, anche lui ritardato mentale, ma gran lavoratore. Arrivava a casa stanco morto, con le braccia che gli penzolavano dalle spalle ricurve in segno di abbando‐

120

Ragazzi di Barbagelata

no, per mangiare e siccome la polenta o la minestra non erano ancora pron‐ te, la sorella, Giulinn‐a de Maietta, gli diceva «Ti puriesci andà a fate in fasciu de legne»14. E lui andava, e io penso che se non è in Paradiso lui vuol dire che il Paradiso non esiste.

C’era poi u Menn‐a. Il suo vero nome era Tugnìn de Giuanetta. Perché lo chiamassero Menn‐a non l’ho mai saputo. Forse perché rimestava sempre la stessa cosa, ossia era noioso. Come era un bravo lavoratore suo padre e il più giovane, troppo giovane,dei suoi figli, poi morto, tanto era il contrario lui e il figlio maggiore, che oggi è al Ricovero Torriglia a Chiavari. Costui di professione fa il cieco, e dico di professione perché quando viene la stagio‐ ne dei funghi, va nei boschi e trova dei bei porcini appena nati, che noi chiamiamo renuotti o renuìn e che un poveretto fungarolo dall’occhio acuto manco se li sogna. Lui dice però che li trova al tatto … Fatta questa digressione torniamo a u Menn‐a che amava sdraiarsi in sciu prò de Driulìn15 a badare alle mucche e guardare di lassù gli altri che giù in basso nei prati lavoravano. Quest’uomo aveva un sacro terrore delle biscie e noi ragazzi, quando ne uccidevamo qualcuna, cosa frequentissima, gliela portavamo a bisognava vedere come saltava i seggi (le balze) per fuggire. Fuggiva anche quando falciando trovava nell’erba delle vesti di biscia che altri invece raccoglievano e se ne adornavano il cappello.

Un tipo tutto su generis era Pacciàn. Aveva tre fratelli e una sorella. Suo

121

padre si chiamava Geppe e sua madre era soprannominata a Turiggia. Pac‐ ciàn, il cui vero nome era Stea (Stefano) era il più giovane della famiglia e forse anche il più viziato. Faceva il contadino, ma nei periodi morti si dedi‐ cava al commercio ambulante di tutto un po’, ma specialmente di olio e batteva i paesi dell’alta Val Trebbia e Aveto. Come tutte le persone dei pae‐ si di montagna amava bere. Il vino era per lui e per tutti gli altri un motivo di relax, di abbandono. Oggi i giovani si danno alla droga; allora la droga della gente di montagna era il vino … Quando Pacciàn era sbronzo, prima di andare a casa, o in trattoria o in strada a voce alta faceva il suo sermone conclusivo. Era un discorso ben finalizzato verso qualcuno, ma era difficile capirlo, perché come quasi tutti quelli di Costafinale, parlava per metafora. Un estraneo sarebbe stato propenso a credere che avessero seguito un corso di specializzazione in questo campo specifico della letteratura italiana. Pacciàn era libero come l’aria che respirava. Viveva felice del suo vagabon‐ dare; il contatto con le donne nelle case alle quali vendeva le sue merci lo aveva reso aperto, disponibile. Nel cuore aveva il suo sogno: la sua Beppina, desiderata, agognata, contesa. Sposi me o nessuno! Lo faceva vivere nell’attesa. Se non fosse stato presente alle feste sarebbe mancato qualcosa. Non perché fosse un protagonista, ma perché era un elemento, una cornice, un punto fermo. “Il cavaliere errante” si sedeva sulla panca in cucina dai Buletti e riempiva di se l’ambiente; mentre sorbiva religiosamente il suo brodo, menù di prag‐ matica, o centellinava il suo litro di rosso, svolgeva il gomitolo del suo re‐ pertorio costafinalese, incomprensibile nei significati reconditi, ma piacevo‐ lissimo per chi ascoltava, sia per gli intercalari, sia per i racconti che davano una realtà fatta si di miserie e semplice povertà, ma fiera, assatanata, spe‐ ranzosa. E Beppina cedette: lo sposò. Pacciàn toccò il cielo col dito. Lieto, felice, donò tutto a lei, anche la sua più gelosa conquista: la LIBERTÀ. E si spense.

Un altro tipo ameno, nel senso peggiore della parola, era u Stinìn di Costa‐ finale, quello già ricordato che con Gigìn uscì di corsa dal cimitero alla vista di quella cassa scoperchiata e poi dissoltasi nel nulla. Or dunque dovete sapere che io avevo una madrina di nome Rusinìn, che abitava a Piano della Casa (Ciàn da cà). Suo padre, morto molto giovane, faceva il falegname e si chiamava Giuanìn; sua madre era una donnina piccola piccola e si chiamava Geppinn‐a. En‐ trambi erano molto amabili e affettuosi, e io li ricordo ancora con tanta sim‐ patia. La figlia, la mia madrina di battesimo, NO. Era gretta, avara, sussie‐ gosa e indisponente. Restò zitella per molto tempo, finché sposò il detto Stinìn, che andò ad abitare da lei, ossia appese il cappello. È proprio vero: Dio li fa nascere e accompagnare. Una coppia assortita. Illetterato lui, illet‐ terata lei, avversione e disprezzo per chi studiava o aveva studiato. Avari e avidi di denaro come nelle più bieche favole della nostra letteratura. Se a‐ vessero abitato in un castello, la gente li avrebbe chiamati Orchi. Ma questo mio scritto è diretto a lui, non a lei, che non si merita tanto. Stinìn, di cui ho fatto ora un sommario e poco edificante quadro, fece la prima guerra mondiale e fu fatto prigioniero, così salvò la ghirba. Non cre‐ do però che abbia fatto molto per evitare la cattura e mi viene un tremendo sospetto e mi chiedo: come mai tutti i prigionieri di guerra erano rinchiusi in campi di concentramento e lui invece viveva nella fattoria di una fami‐

122

glia ungherese dove faceva lavori agricoli e per di più, oltre al vitto e allog‐ gio riceveva anche una paga? Non voglio andare oltre in queste supposi‐ zioni. Stando a quello che raccontava lui, racimolò un bel gruzzolo in moneta cartacea e di ciò era lieto e tronfio; credeva di aver fatto fortuna, una gran‐ de fortuna, ma non sapeva che la moneta di un paese che perde la guerra e per di più passa da monarchia a repubblica viene deprezzata e come si suol dire svalutata. Quando fu rimpatriato e giunse ai nuovi confini dell’Italia tenendo ben stretto il malloppo ebbe bisogno di comperare del pane per sfamarsi e lo comprò dicendo però che avrebbe pagato con moneta austro‐ ungarica. Il costo di quel poco pane superava tutti i soldi che aveva con sé. Ebbe il pane perché dimostrò di essere reduce dalla prigionia, ma tutto il suo avere si dissolse come il vestito di quella donna nella fossa. Quest’uomo aveva eletto e prescelto mio fratello Tugnìn a suo consigliere e state pur certi che lo sfruttò ben bene. Era sempre lì a chiedere questo, a chiedere quello, ad andare lì, ad andare là, e mio fratello a fare il condiscen‐ dente. A volte arrivava per comprare il tabacco. Non andava in bottega; si faceva portare in cucina un pacco intero di sigari e li tastava tutti con quelle sue manacce fino a che non ne trovava UNO, morbido, di suo gradimento, magari guastandone più d’uno degli altri perché le sue dita sembravano il becco di un’anatra. Ne cercava uno morbido, ma mica per fumarlo, no, per masticarlo, per “ciccarlo” e sputare a destra e sinistra. Morì la moglie e un giorno trovarono morto anche lui, in cucina, nel suo letto. Per capire quanto fosse tenuto poco in considerazione, un suo nipote, di cui non faccio il nome (ne aveva tanti!) il giorno dopo la sua morte mi disse, e lo sentirono in molti, «Pe mi l’è cumme se se fisse arreguò in pumìn sarvegu in t’en beu»16. Strana similitudine in cui affiora la solita metafora.

A Corsaro (Curnà) viveva un uomo che si chiamava Lumìn. Soprannome strano, voleva dire “piccolo uomo”, perché era grande e grosso e aveva uno stomaco come quello di uno struzzo. Digeriva tutto. Un giorno di festa c’era in sala nella trattoria un gruppo di gente da Custea (della costa di monte su cui stavano Santa Brilla, Cornaro e Posazzo) e altre ancora di di‐ verse frazioni. Parlavano di mangiare e dicevano «io mangerei questo, io mangerei quello». Lumìn disse «Io mi mangerei un chilo di pasta condita col sugo o con qualunque altra cosa, se me la pagate e ci mettete anche il vino». Accettarono la scommessa e su in cucina in due pentole fu cotto un chilo di pasta pesata e controllata. Prima con un po’ di accelerazione perché realmente aveva fame, poi più lentamente, quella pastasciutta sparì dalla grande scheela, e con la pasta un litro di vino. Un’altra volta, sempre per scommessa, dopo aver mangiato un pasto normale, si mangiò una dozzina di uova sode intinte nel sale, innaffiate abbondantemente di vino rosso.

Per chiudere il capitolo dei tipi ameni parlerò di don Agostino, di quando cioè i suoi comportamenti facevano dubitare che non fosse del tutto sano di mente e non fosse il sacerdote adatto a restare a Barbagelata. Poi, col passare del tempo e spogliatosi di tutte quelle idee inculcate dal seminario che lo facevano restare fuori dalla società, i suoi comportamenti assunsero un maggiore equilibrio e non trovando rispondenza nei suoi par‐ rocchiani, il cui numero si andava sempre più assottigliando per le emigra‐ zioni verso lidi più appetibili, instaurò una fitta corrispondenza con gente di altri luoghi e perfino di altre diocesi e su quelle profuse il suo apostolato.

123

Fatta questa doverosa premessa, racconterò tre fatti, tre momenti che rive‐ lano il carattere dei primi tempi. Il giorno in cui prese possesso della parrocchia, logicamente senza alcuna solennità, la gente fu colpita dal fatto che non ci fosse nemmeno un parente e di parenti anche strettissimi ne aveva diversi. Finita la messa, deposti i paramenti sacri in quella vecchia chiesa fatiscente si avviò verso la trattoria per consumare il suo primo pasto. Lo videro sali‐ re la scala esterna alcuni parrocchiani che stavano, come al solito, già be‐ vendo e uno di loro, Giuanìn de Candùn, gli andò incontro col bicchiere in mano e lo invitò a bere. Rifiutò in malo modo, lasciò questo pover’uomo costernato. Io gli feci capire che non conosceva gli usi e i costumi del luogo e quello si calmò. Avvicinai poi il parroco e gli dissi che l’invito era stato fatto secondo gli usi del luogo e che lui aveva fatto male a rispondere quasi con disprezzo, anche perché l’uomo che lui aveva respinto era uno dei suoi più fedeli frequentatori delle funzioni. Incassò il mio avvertimento e non fiatò. Un secondo fatto vide protagonista mio padre e poi me stesso. Lungo il muro a nord della canonica la mia famiglia possedeva e possiedo tuttora io, una striscia di terra larga un metro e mezzo che va dalla strada fino a quell’appezzamento che c’è sopra la canonica. Un giorno, per tenere pulita questa striscia di terra, che è un passaggio regolarmente iscritto a catasto, mio padre andò a falciare l’erba che era tutta di ortiche più per rispetto al parroco che al guadagno. Il parroco stesso, in malo modo lo rimproverò adducendo che quella terra era di proprietà della canonica. Non ci fu verso di fargli capire che si sbagliava e si rivolse persino a un avvocato, l’avvocato Canale, mio ex compagno di collegio, col quale dovetti trattare per convincerlo della nostra buona causa. Questo screzio demoralizzò mol‐ to mio padre, che in silenzio ingoiò, perché caritatevolmente e profonda‐ mente cattolico, l’azione inconsulta del parroco. Racconto un terzo avvenimento e poi chiudo il capitolo. Era morto giù nel‐ la Custea un ragazzo e il giorno del funerale il parroco andò, come si usava, a benedire le spoglie prima di essere chiuse nella bara. L’atto era detto in gergo locale leà dau lettu17. Poi l’accompagnò salmodiando fino alla Chiesa. Era una mattinata di pioggia battente e incessante e la strada era lunga. Quasi un’ora di cammino. Don Agostino indossava la cotta e la stola sulla sottana; era a capo scoperto e non aveva alcun riparo a quella pioggia né voleva averne. Grondava ac‐ qua da ogni parte e mi faceva veramente pena. Mi avvicinai al suo fianco per ripararlo col mio ombrello e mi scacciò, anche qui, in malo modo. Pen‐ sai: è come un generale o un colonnello nell’esercizio delle sue funzioni. Avete mai visto un generale in divisa con l’ombrello? Ma quando vedo cer‐ ti comportamenti non posso trattenermi. Aspettai che facesse il funerale, che andasse, sempre sotto la pioggia che non smetteva un minuto di cade‐ re, al cimitero e ritornasse; che si cambiasse e poi lo affrontai e gli dissi “Lei è un prete, ma non sa nemmeno i dieci comandamenti e in modo particola‐ re il quinto che dice non ammazzare. Io a scuola insegno che il quinto co‐ mandamento proibisce l’omicidio, il suicidio, i ferimenti e le percosse. Lei comportandosi così si sta suicidando, ma qui noi non vogliamo martiri”. Anche qui incassò e non fiatò. Fece solo un cenno di assenso. Quei suoi comportamenti, sommati gli uni agli altri, e se ne possono ricordare tanti, lo portarono, col tempo, proprio alla fossa.

124

La vecchia Chiesa Cara vecchia chiesa! Non ti ho dimenticata. E come potrei? Sei una parte integrante di tutto me stesso e sai che ho sofferto, come mi appresso a dire, quando ti vidi poco per volta spogliata d’ogni tua cosa, anche se povera cosa. Tu rappresenti i sacrifici di tante generazioni che bene o male ti tennero in piedi. Eri povera e disadorna. Non colonne marmoree, non stucchi prege‐ voli e indorati, non pavimenti lussuosi, ma povera ardesia con lastre di 40‐ x40 come quelle millenarie che sono nel cimitero e rivelano pertanto la tua vetustà. La tua facciata è stata rifatta 75 anni fa, e io lo ricordo benissimo perché salivo sulle impalcature a veder lavorare il bravissimo capomastro di Verzi di nome Tavìn, un artista della cazzuola che avrebbe potuto benis‐ simo far parte dell’equipe di Michelangelo Buonarroti, del Palladio o dello Juvara se fossero vissuti ai tempi di questo artigiano che dove metteva le mani sfidava il tempo. Sono passati 75 anni e la tua facciata resiste al logo‐ rio degli agenti atmosferici: sfida il vento, la pioggia, la neve, il gelo, la ga‐ laverna che tutto avvolge come in un vetro e la nebbia pregna di salsedine che tutto corrode, perfino il ferro. Ma lascia ch’io entri come facevo quand’ero piccolo e venivo a servire la messa. Che desolazione! C’è ancora sulla destra l’acquasantiera, u beneitìn come si usava dire, e mi meraviglio che ci sia ancora. Perché guardo e non vedo più quel grande armadio con tutti i paramenti sacri, piviali, pianete, tuniche, omerali, cotte, calici, ostensori, turiboli e mille altre cose d’uso co‐ mune nelle varie fasi dell’anno liturgico. Là di fronte c’era un grande altare dedicato alla Madonna del Carmine che si festeggiava la prima domenica di settembre. In una nicchia con tanto di vetro campeggiava la statua della Madonna con il viso affilato e le gote rosee. Rassomigliava in modo molto strano al viso di mia cognata Maria quand’era giovane. Dalla statua pende‐ vano tanti scapolari. Fu il primo altare a essere demolito e la prima statua a scomparire. L’opera iconoclasta era incominciata. A fianco a quest’altare, sulla sinistra, c’era e c’è ancora la porticina del tuo campanile. Quante volte sono salito, solo, o con Reliu, o con don Boitano fino alla torre delle campa‐ ne che ora non ci sono più; le hanno trasferite alle anonime arcate della chiesa nuova e il tuo campanile ha le occhiaie vuote. Non solo, ma i tuoi cornicioni chiedono un restauro. Su uno di essi è perfino cresciuto un albe‐ rello inn‐a gura, con tutte le conseguenze che ne derivano. Fammi tornare al piano terra! Alle spalle del campanile c’era e c’è ancora un altare incavato nel muro. Quello di San Rocco, e nella nicchia una bella statua, appunto di detto Santo. Aveva un saio nero e sul saio una mantellet‐ ta. Nella mano destra un bastone da pellegrino con attaccata inn‐a succa (una fiaschetta) e ai suoi piedi un bel cagnolino con in bocca un panino nell’atto di porgerlo al Santo. Quant’era carino e commovente il tutto! Or non c’è più. Chissà dove sarà finita! Forse dove è finito il gruppo ligneo della Sacra Famiglia: San Giuseppe sul letto di morte assistito da un lato dalla Madonna e dall’altro da Gesù. Era il gruppo ligneo che si esponeva e si portava in processione nella festa patro‐ nale detta Transito di San Giuseppe. E quel bel quadro appeso al muro pro‐ prio sopra la balaustra di destra raffigurante Maria Maddalena? Quel qua‐ dro proprio non lo posso dimenticare.

125

La vecchia chiesa di Barbagelata

Oggi le bare vengono deposte per terra davanti all’altare, ma, ironia della sorte, poco prima che arrivasse don Agostino la chiesa aveva ricevuto in dono un nuovissimo catafalco da parte di una famiglia della parrocchia. Questo catafalco era spesso motivo di metafore fa parte di Pacciàn: «eeh, ce ne vogliono di catafalchi!», soleva dire, e poi continuava nelle sue riflessio‐ ni. Ebbene, quel catafalco non fu mai usato … né risulta che ci sia ancora. Ligio alla liturgia, per effetto del Vaticano Secondo, fu demolito anche il tuo altare maggiore e al suo posto un asse su quattro pile di mattoni. L’iconoclastia era così finita. A guardarti ora si direbbe che siano passati i Lanzichenecchi. Ti è stato rifatto il tetto per scrupolo di coscienza e io con‐ tribuii; fu l’ultima buona opera che fece chi ti ridusse così, per edificarne un’altra che ora sta lassù, sola, come una cattedrale nel deserto, in un’attesa che non ha senso perché a primavera ritornano le rondini, ma non la gente che affollava TE, tutte le domeniche, mia cara e vecchia chiesa! È proprio vero che quando si ha il pane non si hanno più i denti per man‐ giarlo. Ossia: or c’è una bella chiesa, ma non ci sono più i fedeli.

126

Altre Reminiscenze Sono fatti e fatterelli che vengono a galla come le bollicine d’aria disciolte nell’acqua. Non ricordo se fosse Pasqua o fine anno scolastico. Probabilmente era giu‐ gno e io tornavo solo, perché già grandicello, dal collegio. Fatta l’acerrima strada da Favale arrivai finalmente al passo di Scaiùn, da dove la strada si faceva finalmente, unico tratto, pianeggiante e potevi respirare a pieni pol‐ moni. A un certo punto sentii il suono di un campanello; suonava a tratti e io quel campanello lo riconoscevo benissimo; era inconfondibile e lo avrei riconosciuto fra mille altri. Era il campanello che si suonava, a tratti quando il parroco portava il viatico a un moribondo. Quante volte lo avevo usato io come chierichetto! Ma dove potevano portare il viatico da quella parte se case non ce n’erano? Forse, pensavo, nella baracca di qualche carbonaio, forse in Feia dove il prete di Roccatagliata non poteva arrivare; forse dal mio amico Fortunìn il cavadenti. La mia curiosità si fece spasmodica e accelerai il passo e arrivai in quel trat‐ to di terreno detto Stugge. Lì sopra la strada in quel pascolo di proprietà di Meneghìn, c’erano tre capre; una aveva legato al collo quel campanello che suonava solo quando la capra brucava. Erano le capre del parroco don Lastreto, cosa del tutto insolita per me. Quando a casa raccontai il fatto e la mia apprensione, i miei i dissero «E scì, oua u prée l’ha missu sciù e crae e u gà attaccou au collu i sunaggi da gexa»18. In quest’altro episodio protagonista fu Carlottu, fratello di Natale, col quale conviveva. Natale, per far capire che suo fratello era ignorante, nelle di‐ scussioni diceva «le u ga studiou fixica» (lui ha studiato fisica) e accompa‐ gnava e parole mettendo le mani alle orecchie e agitandole come se fossero orecchie d’asino e facendo ih‐ah, ih‐ah. Carlottu aveva appunto un asino, grigio; un asin bigio, direbbe Carducci, e se ne serviva per i lavori agricoli e per andare a fare le provviste, accompagnate da un buon bicchiere di vino o più. Preferiva l’asino al mulo perché non aveva per nulla la stoffa del mu‐ lattiere. L’asino era più piccolo, più basso, più mansueto, più parco e via dicendo. Un giorno di nebbia fitta, fitta, andò a fare provviste a Costamaglio, località detta anche e soprattutto Razeiu. Riprese la strada del ritorno quando già faceva notte e la nebbia era ancora più fitta. Buio profondo, quindi, ma l’asino conosceva la strada specie quel‐ la del ritorno alla stalla. È una loro peculiarità! Carlottu si lasciava guidare tenendo l’asino per la coda, come tutti usavano fare. Quando furono alle Piazzeue, Carlottu non si trovò più fra le mani la coda dell’asino, perché quello era andato fuori strada e precipitato nella scarpa‐ ta. Carlottu a tentoni riuscì ad arrivare in paese e venne da noi. Sentimmo uno che saliva la scala e vedemmo spuntare in cucina Carlottu, stralunato, che rivolgendosi a mio fratello Antonio gli disse: «Tugnìn, o persu l’ase»19. Tugnìn si fece spiegare meglio l’accaduto e il paese si mobilitò per i soccor‐ si, compreso Natale che sbuffava e agitava una mano all’orecchio nel segno caratteristico. Con lanterne, corde, pennati e attrezzi vari andarono alla ricerca dell’asino che u sea arrebattou20. Oggi si direbbe che si era mobilitata tutta la protezione civile. Ma la solidarietà era allora virtù dei nostri avi. L’asino fu trovato, in piena oscurità, una decina di metri sotto la strada in‐ castrato in una ceppaia di faggi. Quella ceppaia fu la sua fortuna perché

127

oltre c’era il vuoto e di quell’asino non si sarebbe potuto fare altro che della mortadella. L’animale a forza di braccia e con robuste corde fu rimesso sul‐ la strada e poté tornare a casa.

Un giorno, percorrendo il viale di casa mia a Lavagna, vidi in una carroz‐ zella un bimbo di pochissimi mesi che sgambettava mandando dei gridoli‐ ni che rivelavano la sua felicità, e io non potei fare a meno di dire «Che for‐ tunato!». C’era la mamma e c’era la nonna che mi disse incuriosita «Perché?». Io risposi ch’era fortunato perché poteva sgambettare libera‐ mente e aggiunsi «Quando lei aveva l’età di questo bimbo poteva fare al‐ trettanto?» «Oh, no! – mi rispose – ero tutta fasciata come una mummia!». È vero, eravamo tutti come tante mummie, ma vive. Perfino le braccia ci mettevano sotto le fasce. Le fasce (e fascieue) e i pessuccùn (i lenzuolini) era‐ no parte integrante del corredo di una sposa, ma mi chiedo: possibile che i medici, le levatrici permettessero e consigliassero l’uso di questi strumenti di tortura? Va bene che il Vangelo dice che i pastori trovarono Gesù Bambi‐ no in una mangiatoia avvolto in fasce, ma non dice com’erano queste fasce, o anche lui fu sottoposto a questa tortura? Non è molto che i neonati possono sgambettare; i nati di Barbagelata della penultima generazione li ho visti, come me, tutti mummificati. Erano così Erminio, Emilio, Lino e Dolo; la Bice; Marisa ed Enrico; Pino, Guido e Bruno; Renato, Mario e Maria Rosa; Armida, Adele, Delma e Pieri‐ no; Dalia, Elsa, Oliva, Ivo e Vianello. E le mamme andavano a gara a chi li fasciava più stretti. Forse che le fasce facevano crescere i bambini diritti come fusi? Lo sono anche gli ultimi arrivati e perfino anche più agili.

Quando a volte mangio, ma raramente, carne di maiale, il mio pensiero corre alle lontane, lontanissime notti di Natale. La vigilia di Natale era allo‐ ra dedicata al digiuno e all’astinenza e mio padre su ciò non transigeva. A mezzanotte si andava alla messa, sia che fosse freddo, sia che nevicasse. Finita la messa e cantato «Tu scendi dalle stelle o Re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo …» noi, infreddoliti ritornavamo a casa e si faceva subito una cosa che non dimenticherò mai, tanto mi piaceva. Su un rametto di alloro ben appuntito infilavamo dei bocconcini di carne di maiale e li facevamo abbrustolire sulla stufa o sulla brace ardente della stufa stessa. Quant’era buona quella carne! Che squisitezza! Era carne di maiale allevato nelle famiglie e non aveva nulla a che vedere con i maiali degli allevamenti d’oggi che si curano solamente di produrre maiali magri perché il grasso fa venire il colesterolo, ma la carne perde quel gusto che si può definire solo con tre parole: gusto di maiale. L’operazione descritta era detta fa a carbunà. Un’usanza che oggi mandereb‐ be tutti in sollucchero, se ci fossero ancora quei maiali che si macellavano in tre occasioni: per le feste dei Santi, per Natale e per Carnevale. Oggi la car‐ ne di maiale la trovi sempre, d’estate e d’inverno, ma che gusto c’è?

Parlando della vecchia chiesa e più particolarmente della statua di San Roc‐ co, che mi era tanto cara, quasi familiare, con quel cagnolino col panino in bocca nell’atto di porgerlo al Santo, ricordo che i vecchi del paese, Ustinn‐a, Marinn‐a, u Caasetta e via via tutti gli altri in ordine di età, raccontavano che la statua di San Rocco non era quella originaria. Prima di quella che venera‐ vamo ce ne fu un’altra molto vecchia e tutta camolata che fece una brutta e singolare fine. Durante la festa che si celebrava la seconda domenica

128

d’agosto, la statua fu posta sulla cassa processionaria (a proposito: è sparita anche quella!) con tanto di stanghe per il trasporto. La processione giunta alla cappelletta svoltava a sinistra e aggirava il mio briccu tanto caro. C’era allora, dove c’è ora la strada asfaltata, una stradina detta strà da costa e lì avvenne che per effetto di qualche scossone di troppo, la statua tutta corro‐ sa dai tarli si ruppe e precipitò giù in tu seià da cappelletta. Così raccontava‐ no i vecchi, ma devo dedurre che la gente fosse molto attaccata a questo santo, che forse li aveva preservati dalla peste, perché fecero fare un’altra statua, quella che ho descritta e a me tanto cara, ma di cui si sono perse ora le vestigia.

Parlando della cappelletta di Costafinale (Costafinà) e della presenza dei boscaioli maremmani che tagliavano da maggio a settembre interi boschi per farne carbone (e infatti noi li chiamavamo carbunìn) rammento che un giorno, forse di domenica, arrivò in osteria tutto trafelato e assetato uno di questi toscani che mi chiese un quarto di vino. Allora si usavano brocche di terracotta da un quarto, mezzo litro, da litro e da due litri. Erano belle, ca‐ ratteristiche e comode. Andai in cantina per servirlo e trovai, su una delle due grosse cassapanche nelle quali tenevamo il grano, un quartino già bell’e pieno e glielo portai. Lo portò alla bocca e lo bevve tutto d’un fiato. Era in piedi e vidi a un tratto che il suo viso diventava rosso come un pepe‐ rone, che annaspava, aveva gli occhi strabuzzati e non riusciva a respirare e tanto meno a parlare. Passato quel momento di soffocamento, appena poté, mi disse “Boia c‐ane, ma questo è asceto!”. Presi il quartino, lo annusai, era proprio aceto, e di quello forte, che aveva lasciato lì mio fratello Tugnìn. Andai, senza farmelo dire, anche se ero piccolo, in cantina, risciacquai il quartino, e lo riempii sotto la botte con la spina e glielo portai; lo prese e se lo bevve, ma questa volta sorseggiandolo. Ho detto che presi il vino dalla botte, ma noi quelle botti, non tanto grandi, le chiamavamo caratelli. Le botti vere erano almeno il doppio e contenevano diversi barili, la cui capacità era di 54 litri.

Tornando al nostro boscaiolo, ricordo che arrivarono poi i suoi compagni, che oltre a bere, mangiarono pane, formaggio e salame. Questo era il cibo che fuori pasto si serviva ai clienti. Oggi ci sono le paninoteche, ma non è che il nome cambi molto da quello che si serviva allora. Non c’era la Coca Cola, ma vino, vino, vino, e qualche volta birra. Rammento i piatti di sala‐ me che si mangiava Furtunìn de Castellu tra un viaggio e l’altro, trasportan‐ do con i muli il carbone. A Barbagelata si fece anche la fidanzata. Sposò infatti la Clelia, figlia della Silvia e de Richìn.

Presagio o coincidenza, mah! Oggi voglio tornare indietro con la memoria di 52 anni, a quel tragico 13 agosto 1944 che vide Barbagelata trasformata in un rogo e il passo della Larnaia in un luogo di morte. Destino e fortuna vollero che colà non vi fossi anch’io se queste mie gambe, che oggi mal mi reggono, non mi avessero aiutato a sottrarmi alla cattura e passare illeso sotto un grandinare di proiettili. Oltre ai tre poveri e innocenti civili giustiziati vi erano altre persone fra cui un certo Frenchi di Sotto la Chiesa di Verzi che avrebbe dovuto essere il quarto fucilato, poi Meneghìn e il figlio Erminio di Barbagelata. Frenchi si salvò in extremis per l’intervento dei tedeschi che misero fine alle fucilazioni. Ricevette, come poi mi raccontò lui, in compenso sulla schiena

129

una forte nerbata di bue che lo fece crollare. Gli altri e Frenchi stesso dovet‐ tero portare il bottino di guerra fino alle rispettive caserme dei soldati. Me‐ neghìn fino a dove c’era il comando della Monte Rosa ed Erminio fino a Leivi dove c’era un distaccamento e dove lo tennero alcuni giorni prigioniero. Ma la cosa più singolare è che la sua prigione fu la villa di quella che un giorno, sette anni dopo, sarebbe diventata mia moglie. Infatti mia moglie, suo fratello e sua madre avevano a Leivi, località Bocco, in mezzo a una bella pineta, una villa e lì erano sfollati. Il comando della Monte Rosa li fece sloggiare per occuparla. Gli sloggiati dovettero chiedere ospitalità in un’altra villa, quella dei Zenuggìn, detta anche degli avvocati, non molto lontano dalla loro, dove avevano lasciato ogni cosa. Venni a sapere queste cose dopo cinque anni, ossia nel 1949, quando ci fi‐ danzammo. Quando le dissi, con un po’ di reticenza, che ero di Barbagela‐ ta, restò un po’ sopra pensiero, poi mi disse «Mi sembra di aver già sentito nominare questo nome da un giovane che era nelle mani dei soldati della Monte Rosa. Era alto, magro, spaurito e mi pare che si chiamasse Erminio». «Racconta – le dissi‐ racconta per filo per segno tutto quello che sai in pro‐ posito perché la cosa mi incuriosisce». E raccontò che una sera era andata, come di consueto, in una casa lì sotto, detta di Michelottu e della ‘Gnese, a prendere il solito latte appena munto e lì arrivò il cuoco del distaccamento militare con un giovanotto magro e impaurito. La ‘Gnese aveva fatto il ca‐ stagnaccio, quello che noi chiamiamo patunn‐a e loro chiamano panella, con la differenza che la nostra è molto più spessa e la loro più sottile. Gliene dettero alcune fette che mangiò avidamente. Lo fecero parlare; gli chiesero da dove venisse e lui disse da Barbagelata, luogo per loro del tutto scono‐ sciuto. Vollero, incuriositi, sapere di che cosa vivessero a Barbagelata, e lui disse che avevano molte mucche, che seminavano il grano e le patate, che facevano carbone. Quando gli chiesero come mai si trovasse fra i soldati, disse che lo avevano catturato in un rastrellamento con suo padre; che ave‐ vano incendiato il paese; che avevano fucilato alcuni uomini e che assieme ad altri era stato portato giù passando da ; che suo padre era stato trattenuto a Carasco e lui portato a Leivi. Questo è quanto disse Erminio e quanto la mia fidanzata raccontò a me a distanza di cinque anni e che, a distanza di 53 anni mi ha confermato e può tuttora confermare. Dopo non molti giorni, non saprei dire quanti, sia il padre che il figlio furo‐ no rilasciati perché si resero conto che Barbagelata era vittima delle circo‐ stanze belliche per la particolare posizione geografica e null’altro. Il quadro che la gente di Leivi si era fatto di Barbagelata non era per nulla ottimale; ci consideravano dell’anca sciù e anche la mia fidanzata stette mol‐ to sulle sue presunzioni e riserve mentali, che come spesso mi racconta cad‐ dero quando, arrivata per la prima volta, a piedi da Parazzuolo, incontrò per prima una donna, la Metirde che veniva dalla fontana con un fiasco di acqua e spontaneamente gliene offrì. Quell’umile e gentile gesto le fece ca‐ pire che non era arrivata tra dei grèbani ma fra gente civile. Io però vedo in questo gesto, con una figura retorica, il gesto della samaritana che porge l’acqua al viandante anche se sconosciuto.

Rileggendo il racconto sul cimitero e sulla salma dissoltasi nell’aria proprio come una dissolvenza cinematografica o televisiva, e Gigìn e u Stinìn correre a gambe levate verso il paese visibilmente spaventati, una bollicina d’aria è venuta a galla dal mondo sommerso e io, come fanno certi insetti, l’ho rac‐

130

colta e mi ha fatto rammentare un episodio, questa volta assai buffo. Mio padre e i miei fratelli avevano tagliato i faggi per farne carbone nel terreno detto Friceia che si stende dal passo della Chistadinn‐a fin giù nel beu di Motti. Una carbonaia l’avevano fatta proprio vicino al passo. Quando fu il momento di cavare il carbone chiamarono proprio Gigìn e Stinìn, entram‐ bi di Costafinale, perché coi loro muli (e con i nostri) portassero il carbone al paese. Intanto avrebbero dato una mano a cavarlo e a insaccarlo. Per certi lavori non si usava, a mezzogiorno, andare a casa a mangiare. Si portava il cibo sul posto di lavoro Cosa che fece mia madre col mio modesto aiuto. A mezzogiorno preparò una enorme scheela di pastasciutta, la coprì con un coperchio e la avvolse in un mandillu da gruppi21. Allora la plastica non era ancora stata inventata da Natta (non Alessandro, ma suo padre). In un altro fagotto mise pane del nostro forno e formaggio e con la scheela in testa co‐ me fosse una secchia e il fagotto per mano partì. Io la seguivo con due fia‐ schi, di quelli impagliati, che ora sono rarissimi, uno di vino e l’altro di ac‐ qua. Giunti che fummo alla Chistadinn‐a, mio padre, i miei fratelli, Gigìn e Stinìn si sedettero e mangiarono tutti nello stesso piatto grande, come si usava allora e bevvero portando il fiasco alla bocca perché per bere a garganella ci vuole u pirùn. Finito di mangiare, Gigìn si alzò, si allontanò un tantino e orinò. Ritornò a sedersi, estrasse dall’immancabile gippunettu mezzo tosca‐ no e con un tizzone che ardeva lì vicino, cercò di accendere il sigaro, ma a un tratto la parte ardente si ruppe e cadde proprio nella pattina di Gigìn, che si era dimenticato di abbottonare. Io non vidi cadere il tizzone, ma vidi Gigìn schizzare in piedi come una molla e iniziare la danza della pioggia, darsi delle gran manate tra le gambe e dire «Oh bì! Oh bì!» Intervenne subi‐ tamente mio fratello Tugnìn che col fiasco versò dell’acqua nella parte inte‐ ressata. Il tutto finì in una gran risata generale alla quale non si associò ov‐ viamente Gigìn.

Guardando un giorno un documentario alla TV sul rifornimento di carbu‐ rante agli aerei in volo, mi sono ricordato qualche cosa di simile visto però per terra. Era settembre, la caccia era aperta e io mi ero spinto fino ai piani di Strùega, dove era stato avvistato un bel volo di pernici rosse; un posto ideale per loro perché dopo la pastura nei bellissimi prati di Strùega potevano rifu‐ giarsi tra le rocce e asciugare le loro piume. È una loro peculiarità! Scenden‐ do nell’aspra strada dei Rié incontrai cinque o sei giovinetti con una corbetta (gerla) sulle spalle piena di fichi e un piccolo fagotto. Erano tutti scalzi, ma arrancavano speditamente. Sembrava avessero fretta. Io continuai il mio cammino e perlustrai tutti quei bei prati con tanto di fontanella, ma di per‐ nici neanche l’ombra. Forse disturbate al passaggio di quei ragazzetti che pur se carichi chiacchieravano a voce alta, si erano rifugiate tra le rocce al sicuro. Ripresi la via del ritorno e sopra l’Acqua Pendente incontrai gli stes‐ si ragazzi che ridiscendevano con le corbette vuote e appoggiate a mo’ di cappuccio sulla testa. Non potei far meno di dire a loro «Acciderba se avete fatto presto a vendere la vostra frutta!». Allora uno mi disse «Non l’abbiamo venduta, l’abbiamo portata ai nostri padri e l’abbiamo versata nella loro corba grande per risparmiare a loro il tratto di strada più duro». «E per il mangiare?» chiesi io. Mi risposero che avevano portato a loro del‐ la focaccia di meliga e del lardo (sic). Forse volevano dire pancetta, ma non volli scendere nei particolari. Rifornimento volante pensai io. A volte i pa‐

131

dri o i fratelli maggiori erano già lassù a e partie de Neiùn o in Fo riundu o a Pria cavallinn‐a ad aspettare; altre volte erano i ragazzi che aspettavano lo‐ ro. Se l’appuntamento falliva lasciavano in un posto convenuto le corbette e il rifornimento era assicurato. A Barbagelata qualcuno notava che lo stesso figà (venditore di fichi) era passato da non molto con la cesta vuota e ora ripassava con la cesta piena e diceva «Assidoru se u l’ha fattu fitu a andà zu e turnà sciù»22. Non sapevano che i figli avevano fatto risparmiare ai padri più di un’ora di duro cammi‐ no.

Era una mattinata d’estate come tante altre e tutte le bestie del paese erano al pascolo coi relativi pastori. C’erano nel cielo dei nuvoloni neri che si rin‐ correvano, ma nessuno ci faceva caso perché a Barbagelata erano cose con‐ suete. Verso le ore undici però il cielo si fece più minaccioso e cominciò da lontano a tuonare. I lampi, i tuoni e qualche saetta si fecero più frequenti e più vicini e ognuno pensò che era opportuno raccogliere il bestiame e av‐ viarlo verso casa perché non doveva bagnarsi. Dalla strada di Favale veni‐ vano le mucche dell’Emilia di Piri, seguivano poi quelle della famiglia du Grixiu; le mie, seguite a ruota da quelle du Dria de Picciùn venivano dalla strada della Fontana d’Aveto, più dietro c’erano quelle de Parminn‐a. Intan‐ to spuntavano dal Passo della Larnaia quelle de Carlìn. In questa conver‐ genza di strade si stava formando un ingorgo di mucche che mi fanno oggi ricordare gli ingorghi di veicoli ai caselli al rientro della domenica sera. L’Emilia, per non lasciar mescolare le sue mucche con le mie che stavano ormai in parte imboccando la strada delle ciuende si portò davanti ad esse e fece bene perché si sarebbe iniziata una pericolosa lotta tra mucche di stalle diverse. In quel momento vidi venire di buona lena il parroco, pree Gioxep‐ pe. Quando questi sorpassò l’Emilia, e io stavo poco sopra, costei gli disse «Caminè, sciu pree, che te te bagni»23. Beata ragazza, con un solo nome in mezzo a due verbi era riuscita a dargli del voi, del lei e del tu.

Oggi vanno molto di moda, complice la TV, i cartomanti, i chiromanti, i maghi, gli indovini, gli extrasensori, gli esoterici, i pranoterapeuti ecc. ecc. Anche nel passato questo ramo della scienza occulta era alquanto seguito dal popolino. Io qui voglio ricordare un prete che era diventato famoso nell’indovinare le cose che interessavano colui che a questo prete si rivolge‐ va, senza nulla togliere ai suoi saggi consigli che soleva dare. Era u pree de Buaxi (il prete di Boasi), noto nelle vallate e sul litorale. A lui un giorno si rivolse, come tanti altri, un uomo di Barbagelata per interpel‐ larlo su una figlia che gli dava delle preoccupazioni. Andò. Percorse tutta la strada della Corsiglia, del Lavagnola, arrivò a Rossi e di lì scese a Boasi. Entrò in canonica dove fu ricevuto dalla perpetua, la quale disse che il par‐ roco ora era impegnato e che lo avrebbe ricevuto poco dopo. Non era vero nulla, ma quella era la prassi. La perpetua intanto lo fece parlare, parlare, parlare finché non mise a nudo tutta la sua situazione familiare ed econo‐ mica, finché non gli disse da dove veniva, che strada aveva percorso e il motivo della sua visita. Un terzo grado bell’e buono. Intanto il parroco ch’era nella stanza a fianco sentiva tutto e annotava. Quando lo ricevette, il parroco gli disse un sacco di cose che lo riguardava‐ no da farlo strabiliare. Sembrava che gli leggesse nella mente. Gli diede alcuni ottimi consigli sulla figlia e ricevuta un’offerta lo licenziò.

132

Fece ritorno a casa e raccontò a tutti l’arte divinatoria di questo prete senza per nulla dubitare dell’inganno, se non quando uno di fuori paese un gior‐ no gli raccontò come faceva a indovinare cose che sapeva solo lui. Restò scornato e per non passare per fesso ad altri raccontò che non era lui a essere andato da u pree de Buaxi, ma uno di sua conoscenza.

Si aveva più cura delle cose che di se stessi. Argomento delicato questo, ma non posso fare a meno di trattarlo, dato che va in malora tutto, sperando possa servire di monito e non si cada nello stesso errore. Sarà forse stata la miseria, la precarietà che inducevano i nostri avi, anche recentissimi, a una specie di stoicismo, ma la verità e il risultato era che molti malanni la gente se li procurava, non di proposito, ma conseguentemente. Ho parlato a lun‐ go della medicina empirica che mettevano in atto, ma non ho detto dello stato di salute della gente in genere. La malattia più diffusa e letale era la broncopolmonite. Ma come si arrivava a questa in quanto una bronchite non curata si faceva prima cronica e poi asmatica? Non era tutta colpa delle sigarette che, sì, aggravavano, ma erano solo di complemento a una situazione anomala e già in atto. Si aveva molta cura, in quel tempo, per me quasi recente, delle cose ed era una lotta quasi diu‐ turna contro la nebbia, la rugiada, le piogge frequentissime. Non si doveva assolutamente lasciare bagnare il fieno, il grano, le patate appena cavate, la biancheria stesa al sole, il bestiame al pascolo, la legna da ardere, le felci appena scraè (tagliate), i funghi sulle sgreixe esposti al sole, quando c’era, il carbone allargato sulle piazzole o già messo nelle busacche. Non importava se per difendere tutte queste cose si bagnavano fino alle ossa i pastori, i lavoratori dei campi, i mulattieri, le massaie. Era ammesso e concesso che chi andava alla ricerca dei funghi tornasse a casa inzuppato fino alla cintola per la gran rugiada dei boschi. E credete che salvato il fieno e tutto il resto, tornando a casa con una bella pelà d’egua (bagnato fradicio, si diceva proprio così), ci si cambiasse? Nooo! Ce la facevamo asciugare ad‐ dosso, dietro la stufa, unica benemerita in tanto disagio Si cominciava così a starnutire, più tardi a tossire e poi a scatarrare. La po‐ polazione di Barbagelata, anche per le gratuite inalazioni di nebbia, era all’ottanta per cento una popolazione di catarrosi, me compreso, esempio vivente di una bronchite asmatica che mi porterà alla tomba, come portò alla tomba don Dellepiane. Su questa cura delle cose più di se stessi mia moglie potrebbe raccontare un aneddoto sintomatico che non riporto qui per “carità del natio loco”, direb‐ be Dante, o per “carità di figlio”, come direbbe Ugo Foscolo.

Freddo Neve e Gelo. Siamo in pieno inverno e il freddo, la neve e il gelo la fanno da padroni, arrecando danni incalcolabili, perché anche quelle zone che normalmente sono risparmiate, ora sono colpite anche più duramente non essendo preparate a tali eventi atmosferici. Io ne voglio parlare un po’ qui perché mi sono accorto di aver parlato, nel mio libro, della neve solo superficialmente, mentre i realtà è una buona protagonista della vita del paese. Come per la nebbia, io ho per la neve una forte avversione, una vera e pro‐ pria idiosincrasia. L’avevo quando ero piccolo e ce l’ho ancora oggi che sono vecchio. Ricordo che quando studiavo a Rapallo o a Genova e fiocca‐ va la neve tutti esultavano, si rallegravano e facevano gran festa. Io mi im‐

133

Barbagelata, prima dell’arrivo della strada, con la neve

melanconivo, una profonda tristezza mi scendeva nel cuore. Per me la neve non era altro che fatica, stento, rischio. Hanno un bel dire e rallegrarsi gli sciatori che corrono sulle piste preceden‐ temente battute. Vorrei vederli salire a Barbagelata da Montebruno, da Co‐ stamaglio lungo la Custea o da Parazzuolo o da Favale. Vederli affondare nella neve fino al ginocchio, poi tirare su la gamba e fare un altro passo e nuovamente affondare e così per chilometri e chilometri. Ne sa qualcosa mio padre quando l’undici febbraio 1929, giorno del Con‐ cordato con la Santa Sede, venne a farmi visita in collegio e si trovò in mez‐ zo a una nevicata che imbiancò tutto il litorale della Liguria. Al ritorno, salendo da Favale, credette a un certo punto di non potercela più fare a proseguire. Le sue forze si erano esaurite, si sentiva morire di inedia. Si ricordò di aver comprato per la moglie, che lui chiamava la sua baccanetta o patrunetta (piccola padrona) dei cioccolatini. Povero babbo, a malincuore perché li sottraeva a lei, ne mangiò alcuni, forse non più di due o tre, spe‐ rando di acquistare vigore come di fatto avvenne e riuscì in mezzo a quella bufera a raggiungere casa. Ma altri si sono trovati mal parati in analoghe circostanze; lo può testimo‐ niare don Boitano, che come ho già detto, salvai io; lo potrebbe, se fosse ancora vivo, u Durìn di Costafinale, fratello di Pacciàn, che sentendosi sfini‐

134

to ebbe l’accortezza di appendere a un ramo di faggio un suo indumento che permise il suo ritrovamento in tempo utile. In un certificato di morte della parrocchia è ricordata una donna di Montebruno trovata morta nella neve e sepolta nel nostro cimitero. I ricordi che mi suscita la neve sono innumerevoli. Io ne citerò ancora alcu‐ ni, così come mi affiorano alla mente, ma non in ordine cronologico perché è voler pretendere troppo dalle mie misere forze. Dirò ad esempio ch’ero a Barbagelata per le vacanze di Natale e la notte di San Silvestro, mentre era‐ vamo tutti intorno alla stufa, si mise a nevicare. C’erano con noi lo zio An‐ drea il Vecchio, c’era Piri de Candùn, c’erano u Deliu e altri che giocavano a carte. La neve intanto cresceva, cresceva a vista d’occhio, tanto che quando quelli di Costafinale decisero di fare ritorno a casa, dovettero rinunciare perché a un certo punto ci si mise anche il vento a farla turbinare; noi dicia‐ mo a farla pruinà e u pruìn quando è di quello buono, fa perder il senso dell’orientamento. Cosicché questa gente dormì coricata sulle panche della cucina ad attendere l’anno nuovo. Il risveglio fu, né per loro, né per noi, dei più graditi perché la neve caduta per tutta la notte, continuò a cadere per quasi tutta la giornata del primo gennaio dell’anno, che non so ricordare; forse il 1928, il 1929, il 1930 o anche prima. Il bello era, anzi il brutto era che il 2 gennaio dovevo rientrare in collegio e dato che la neve aveva livellato tutto speravo che i miei familiari decidesse‐ ro di farmi rimandare la partenza, ma il dovere era il dovere e per esso si metteva a repentaglio la vita del figlio e di chi lo avrebbe accompagnato. L’ingrato compito se lo assunse mio fratello Tugnìn. Indossata la divisa da collegiale con tanto di mantello a ruota, di panno pesantissimo, di buon’ora si partì. Pensandoci oggi mi viene da ridere, ma allora c’era da piangere e nel suo insieme la cosa era tragicomica. Le strade erano cancellate, ma essendoci stato il vento i crinali dei bricchi erano pres‐ soché privi di neve, e così a stento si salì fino al ballo, poi si fece tutto il bric‐ cu e si scese alla cappelletta dove c’era una montagna di neve (noi diciamo inn‐a gran sgunfià), la superammo e percorremmo i crinali del buiu de chi e del buiu de là fino al passo della Larnaia e lì un’altra montagna di neve, poi su lungo u briccu da Chistadinn‐a e poi giù sul crinale della Friceia che ci por‐ tò al passo di Scaiùn. Qui mio zio Andrea il Vecchio che, poveretto, ci aveva accompagnato, si fermò per poi tornare indietro: così volle mio fratello. Noi proseguimmo lungo la strada degli Scaiùn dove la neve non era così alta e la potevamo sguarà (aprire, così si diceva da noi) perché ancora fresca; mio fratello da‐ vanti e io dietro sulle sue orme. Sembravamo in tutto quel biancore, lui il gigante e io il lillipuziano. Dopo il passo della Volta (caro passo, quante volte t’ho voltato e da mare a monte e da monte a mare, di giorno e di notte! Nessuno si ricorda di te, ma io sì! Ti ricordo ogni volta che attraverso per un senso o per l’altro il Passo della Scoglina che ora ti ha soppiantato. Comunque sappi che per me hai un primato: non attraverserò ormai io Passo della Scoglina tante volte quante ho attraversato il tuo. Eri un punto di riferimento, sui tuoi scogli scavati dall’usura del tempo e degli uomini ci sedevamo a riprendere il fiato, sentivamo io tintinnio dei sonagli delle capre e delle mucche di Pipìn de Castellu, sentivamo la brezza del Monte Larnaia e lo scorrere delle acque della Fontana d’Aveto, la mia acqua; ai tuoi piedi, giù nell’Aveto, avevi una fontanella alla quale molte volte ci dissetavamo perché tu eri generoso, eri un invito a proseguire nel cammino intrapreso). Dopo il Passo della Volta,

135

La galaverna al passo di Scaiùn dicevo, la neve era quasi scomparsa, ma lascio pensare a voi com’era la mia bella divisa e il mio mantello a ruota … In certi inverni, salvo qualche spruzzata, neve non se ne vedeva; se ne vie‐ ne un po’, state certi che questa arriva a fine marzo. Un anno nevicò perfino l’otto di maggio durante lo svolgimento della fiera del bestiame. A volte invece ne cade molta, moltissima, come avvenne alcuni anni fa, quando per uscire di casa bisognava scivolare giù dalle finestre del secondo piano della casa. Fu una cosa eccezionale che a memoria d’uomo non s’era mai verifi‐ cata. Ne venne tanta che alcuni tetti crollarono. I mezzi meccanici per apri‐ re un varco nelle sgunfiè erano inutilizzabili. Il mezzo più idoneo fu il cam‐ biamento del clima che la fece sciogliere ingrossando torrenti e fiumi. Ma ci sono altri aspetti della neve che qui voglio ricordare. Quando in una giornata di sole la neve in superficie si scioglie e durante la notte la tempe‐ ratura ridiscende sotto lo zero, questa neve si raggela e si forma una crosta dura e pericolosa. Le grondaie fanno tanti candelotti, come stalattiti in una caverna. Attraversare certe zone che luccicano al sole come uno specchio è sconsigliabilissimo. Una caduta lungo un pendio è sicuramente mortale. Presso la fontana pubblica del paese c’è una lapide che recita “Qui cadde ecc. ecc.”. No, lì non cadde nessuno. Quel povero partigiano inesperto e non adeguatamente consigliato, scivolò nelle prè deserte di Costafinale e dopo alcune centinaia di metri andò a sfracellarsi in una ceppaia di faggi.

136

Qui la galaverna dalla Cà Bruxià

La stessa fine, come mi raccontano i miei nipoti, l’avrebbe fatta don Delle‐ piane, quando in pieno fervore religioso, ma inesperto delle cose di questo mondo, tentò di andare a celebrare la messa a Cornaro, perché quella era la sua missione. Ci volle del bello e del brutto per dissuaderlo. Se ne convinse quando alla messa delle undici vide la chiesa vuota, perché in quel giorno nemmeno i lupi sarebbero usciti dalla loro tana. C’è un altro aspetto poi della neve. Quando sale la nebbia e soffia lo sciroc‐ co, la neve si scioglie e nelle strade si dice che c’è la lambroccia, un misto che non è più neve e non è ancora acqua, una specie di granita. È in questa con‐ dizione e in quella descritta prima che vorrei vedere come se la cavano tutti quei sciatori che vanno per la maggiore e occupano i nostri schermi televi‐ sivi fino alla noia. E poi c’è il fenomeno che atterrisce e nello stesso tempo meraviglia, fa re‐ stare a bocca aperta: la galaverna, a bramea. Provate a pronunciare questa parola in genovese. Vi raggela, vi fa digrignare i denti e un freddo da brivi‐ di vi scende lungo la spina dorsale. Non vi succede? Vuol dire che non ave‐ te mai visto la galaverna! Il paesaggio si fa fiabesco; lo guardi e ti senti an‐ nichilito, ti fa sentire la tua pochezza, la tua impotenza. Ho visto un anno a u Fo Grossu una fila di pali di ferro della luce, forse una ventina, tutti piega‐ ti a curva verso terra, tutti allo stesso modo; non c’era un millimetro di dif‐ ferenza tra l’uno e l’altro. Nessun uomo con nessuna macchina avrebbe potuto far tanto. Se una telecamera piazzata avesse ripreso il lento, lentissi‐

137

mo, quasi impercettibile ripiegamento ne sarebbe venuto fuori un docu‐ mentario eccezionale unico al mondo. Durante la costruzione della linea elettrica chiesi a un operaio: lo sapete cosa è la galaverna? Non mi dissero né si né no. Uno mi disse: con questa non c’è galaverna che tenga. Forse voleva dire il contrario, se avesse saputo cos’è la galaverna. Quando poi il ghiaccio, che tutto avvolge e ingigantisce, si scioglie, ti sembra che lì ci sia stata una battaglia fra giganti: piante divelte, altre spaccate (noi diciamo con una parola onomatopeica sgaernè), rami spezzati, altri intrecciati fra di loro come in un ultimo spasimo, il terreno cosparso d’ogni cosa. Tu guardi questo spettacolo di desolazione e non osi fiatare perché la natura ti ha da‐ to una dimostrazione della sua potenza e della tua nullità.

Che cosa, utopisticamente, vorrei e cosa ci vorrebbe. Se cerchi nel vocabola‐ rio la parola “parroco” trovi che viene dal greco “parocos” che significa fornitore di viveri; poi, colui che distribuiva le elemosine ai poveri; poi, ancora, sacerdote che esercitava stabilmente la cura delle anime nella sua circoscrizione. Ormai la parrocchia di Barbagelata credo che non conti più di dieci anime fisicamente residenti.

Anche don Dellepiane non faceva più gran affidamento sui suoi parroc‐ chiani; la sua cura l’aveva rivolta a fare di Barbagelata una parrocchia uni‐ versale alla quale tutti potevano accedere, partecipare e animare. L’esodo dei residenti era inarrestabile e pertanto puntava a far conoscere alle par‐ rocchie delle Diocesi di Chiavari, di Genova, di Bobbio e di Tortona e anche più lontane, l’esistenza di un luogo di accoglienza per giovani e per fami‐ glie, istituito presso la chiesa che lui aveva edificato. L’invito fu accolto tan‐ to che fu necessario regolare con prenotazioni opportune l’afflusso dei gruppi desiderosi di trascorrere una settimana a Barbagelata. La presenza del parroco e l’esistenza di un esercizio pubblico erano stimolo e sicurezza, fino a che la morte inopinatamente colse il parroco. Restò ancora, per un po’, un po’ di fervore, ma poi tutto si affievolì anche se del tutto non si spense. E nel suo ricordo io qui penso ci vorrebbe un sacerdote che avesse la pietà e la bontà di don Giuseppe Cavagnaro; la pos‐ sanza ma non la stazza di don Angelo Lastreto; la signorilità e grazia di don Lorenzetti; la titubanza di don Pio Borzone; la cocciutaggine di don Sanguineti; l’oratoria e i voli pindarici di don Tiscornia; lo smarrimento e l’accavallarsi degli eventi bellici in loco di don Bacigalupo; il nitore e un pizzico di flemma (ma solo un pizzico, per carità! Ce n’è già tanta in giro!) di don Boitano; la praticità e immediatezza di don Ferretti; la fragilità e la fermezza di don Sbarbaro; la fede, la liturgicità e la perseveranza di don Dellepiane e, perché no, un po’ di “sine cura” di don Dondero.

Messi tutti questi ingredienti in una grande impastatrice ne verrebbe fuori un’amalgama, un impasto che io porterei a un bravo scultore di Lavagna che conosco, perché ne modelli una statua con tanto di tonaca e di tricorno (questo non deve assolutamente mancare). Si dovrebbe poi portarla in Cat‐ tedrale perché il Vescovo le dia l’afflato dello Spirito Santo e lo spedisca senza ricevuta di ritorno a Barbagelata, nella sua bella chiesa. Lì dovrebbe iniziare la sua opera di evangelizzazione ben più difficile di quella di un missionario nel centro dell’Africa, perché costì c’è il vuoto as‐ soluto.

138

Riordinare intanto il centro di accoglienza che sta diventando fatiscente. Richiamare quei gruppi di giovani che in passato lo frequentavano e ora si sono rarefatti; organizzare, previa propaganda, maratonine, gare ciclistiche, escursioni al Caucaso e al lago della Nava, facili e interessanti; pic nic all’aperto o nei locali delle opere parrocchiali; gare di calcetto, di pallavolo e basket; fra gli adulti gare di scopone e di bocce; incrementare il posto tap‐ pa per gli amanti dell’Alta Via e rendere piacevole il loro soggiorno. Libe‐ rare dalle sterpaglie almeno il breve tratto di strada fino alla Ciappa Larga per dare almeno l’idea che la giungla che ormai avanza ovunque la tenia‐ mo lontana dal nostro letto. Organizzare alcune giornate, fra loro distanti, sulla neve facendo partecipare adulti e ragazzi. Fare gruppi di volontari per ricerche geologiche, ad esempio nella Pussa du Moettu, detta anche “Valletta del Re” per constatare se le mie supposizioni sono vere o false; raccogliere, come fanno tanti, minerali dalle rocce della Scoglina un tempo dette Riè de Carlu. Organizzare nelle varie stagioni passeggiate ecologiche per conoscere i fiori abbondantissimi nelle loro specie e nelle loro utilità, e le piante del bosco e del sottobosco coi loro frutti. Insegnare ai giovani a fare un innesto per trasformare una pianta da frutto selvatica in una pianta da frutto vera e propria. Affiggere alla porta della chiesa, come fece un Vescovo, un cartello con la scritta: la messa delle ore 11 è vietata ai minori di 18 anni. Darebbe sicura‐ mente un ottimo risultato perché la curiosità li attirerebbe verso la chiesa. Le omelie non dovrebbero essere lunghe, noiose, ripetitive. La gente vuole cose semplici, non discorsi astrusi. Avete mai notato durante una novena o un quaresimale che mentre il predicatore parla la gente sonnecchia? Ma è sufficiente che dopo una breve pausa egli dica, ad esempio e con voce sua‐ dente, “Era l’anno 1498 e a Firenze si stava per consumare un fatto di ecce‐ zionale importanza ecc. ecc.”. È sufficiente questo perché le teste si raddriz‐ zino e si drizzino le orecchie e l’uditorio si faccia attento.

Questo vorrei; questo è quello che a parer mio ci vorrebbe per quel paesino nascosto lassù sotto un ciuffo di faggi, che mossi dal vento ripetono il ru‐ more del mare che si infrange contro le scogliere di Sant’Anna.

Il Nome E per ultimo parliamo un po’ del nome di questo paese. Ne posso parlare solo per supposizioni e per deduzioni perché non ho nul‐ la che possa suffragare il mio dire. Ho parlato di certe giornate di freddo intenso, di neve che turbina e di frati che già mille anni fa, quando il Regno d’Italia (quello che piacerebbe tanto, oggi, a Bossi, col nome di Padania) era sotto il Re Ottone III di Svevia, face‐ vano la spola tra Borzone e Bobbio. Ebbene, tutto questo mi fa pensare che il nome del paese provenga proprio da ciò. Caratteristica dei frati di San Colombano che transitavano e sostava‐ no, in ogni stagione, nel loro posto tappa, era la barba fluente e quando fa freddo intenso il fiato delle narici e della bocca con l’aggiunta del turbinio del nevischio, la barba si raggela e qualche frate buontempone vedendo arrivare in quello stato un confratello o più, perché non andavano mai soli, avrà detto «Ecco quelli della barba gelata!». E questo toponimo, per distinguerlo da altri, diventò di uso comune e il luogo fu chiamato Barbagelata.

139

Il nome a me non è mai piaciuto, ma se mille anni fa i frati e i nostri proge‐ nitori hanno ritenuto, con voce onomatopeica, chiamarlo così, così sia!

Un’aggiunta alle aggiunte Quando credi di aver detto tutto quello che dovevi dire, ti accorgi che dal subcosciente ti spuntano episodi che sono degni di essere annotati per la loro peculiarità e perché parte integrante di quadretti di vita familiare e di vita sociale che stanno benissimo nel quadro generale di via, usi e costumi di tanti anni fa, che molti di noi vorrebbero dimenticare se non addirittura cancellare perché si vergognano di provenire da una famiglia di contadini, di quelli cu paggettu. A costoro dirò che anche le più nobili famiglie, scavando a ritroso, trovano che le loro origini erano o contadine o marinare. Con un ragionamento che non faceva una grinza, mio suocero, vissuto mol‐ ti anni in America, diceva che anche le più nobili famiglie di Chiavari e del Tigullio venivano «o da un remmu o da u cheussu». E qui bisogna spiegare bene il significato delle due cose senza far dar di stomaco a nessuno. Tutti sanno cosa è u remmu, ossia il remo per far scivolare la barca sull’acqua. Significa che tante famiglie la loro fortuna l’hanno fatta facendo i marinai come si addice a chi vive in riva al mare e non sta solo a guardar‐ lo. Più difficile è spiegare cos’è u cheussu. È un capace mestolo ricavato da cer‐ te zucche con tanto di manico dopo averle fatte essiccare, tagliate in senso longitudinale per un terzo e svuotate. Cosa ne facevano i nostri ortolani? Attingevano col cheussu dal pozzo nero, oggi proibito, il liquame, che era detto chintann‐a e lo mettevano nei solchi per concimare gli ortaggi, e che ortaggi! Siete mai stati nella zona vesuviana? Gli ortaggi dei nostri vecchi ortolani non erano da meno. Oggi è vietatissimo! Ci sono i colibatteri! Oggi si usano i concimi e gli insetticidi chimici; chimici sì, ma cancerogeni. Il bra‐ vo ortolano di allora, i cui eredi magari si fregiano di qualche blasone, non attingeva direttamente dal pozzo nero, ma con una piccola sigheugna (gru a cicogna), e metteva tutto in un barile e poi diluiva con l’acqua del pozzo (scavato a fianco e anche questo oggi vietato), il liquame fino a renderlo di giusta acidità e per far ciò intingeva dito nel liquame, l’assaggiava e ag‐ giungeva acqua se necessario, perché c’era il pericolo che la chintann‐a, se non in giusta misura a bruxesse e piantinn‐e (bruciasse le piantine). Se non ci credete, chiedetelo a un vecchio ortolano, ma fate presto, perché non so se ne troverete ancora.

Mio padre era anche contadino, e che contadino! E io non me ne vergogno. Finché visse lui, sul nostro desco non mancò mai la verdura, anche se a 1122 metri sul livello del mare. Coltivava con cura, non con la chintann‐a, ma con lo stallatico, cavoli neri, verze meravigliose, piselli tenerissimi, fa‐ gioli, bietole, patate morelle tutta fecola, insalate d’ogni genere sempre te‐ nere e senza bisogno di innaffiature, radici migliori, perché meno amare, di quelle di Cavi, scorzonera (non ricordo di averne mangiata della migliore) e piantava anche i pomodori che crescevano rigogliosi ma non maturavano se non tenendoli in casa. Ebbe la ventura, per paradosso, di vivere in un’epoca fortunata; fortunata sì, perché ancora non c’erano i cinghiali. Pro‐ vate voi a seminare ora tutto questo ben di Dio! Provate!

140

Educazione Sessuale Ricordo che una sera un gruppo di villeggianti arrivò in trattoria quasi scandalizzato per quello che aveva visto e sentito. Questi villeggianti erano andati a fare una passeggiata lungo l’Aveto e a un certo punto incontraro‐ no un ragazzetto che teneva una mucca legata per le corna con una corda e diretto verso Villa Sbarbari. Qualcuno gli disse «Dove vai con quella muc‐ ca?» e lui «A menn‐u au tou» (la porto dal toro). Una signora sorpresa gli disse «Cuscì piccìn e i te fan fa za queste cose?»24. La frase indubbiamente aveva due sensi, ma qui detta nel senso buono. Il ra‐ gazzetto, senz’altro sveglio, la guardò un po’ e poi le disse «Oh! Ma nu a muntu miga mì; a munta u tou!»25 e continuò nel suo cammino. Inutile dire che la risposta, azzeccatissima, cadde fra gli astanti come un macigno in un pozzo con un bel tonfo. E qui ci sono da fare alcune considerazioni. In genere questa incombenza era fatta da due persone: un adulto e un ra‐ gazzo. Ma può darsi che conoscendo la mansuetudine e la reciproca cono‐ scenza della mucca e del pastorello, questo si sia assunto il compito di an‐ dare da solo. Non ricordo, anche se ho frugato a lungo nella mia memoria chi fosse il ragazzo. Certamente di Barbagelata o più sicuramente di Costa‐ finale o di Casùn da Basso Ricordo invece che nel gruppo di villeggianti c’era la signora Angioletta Tanghetti, Maria Boero, Flora Craviotto, la si‐ gnora Fumagalli, forse i signori Villani e altri che non so precisare.

Erano scandalizzati, ma di che? Non vedevano che piccoli e adulti eravamo a contatto con la natura? Che vedevamo mucche, pecore, capre, cani e gatti e qualche volta cavalle e asine, partorire senza per nulla mischiare il fatto animale con quello umano anche se non era tutt’altra cosa. C’era anzi da imparare l’amore della madre verso i suoi piccoli, la cura che essa aveva e come li difendeva, anche se in fatto di mucche il vitello, u buccìn veniva separato dalla madre e allevato artificialmente a parte, per pura speculazio‐ ne, e per trarne in seguito (dopo tre mesi) un profitto anche se non sempre si riusciva nell’intento perché il numero dei vitelli morti dopo pochi giorni dal parto e gettati in tu beu da funtann‐a era a volte superiore a quelli vivi. I nostri contadini si affidavano al fato, alla fortuna, ma non si curavano di tenere i vitelli in un ambiente sano, di alimentarli come si conveniva e os‐ servare il minimo di norme igieniche adeguate.

C’era allora il Consorzio Agrario, ma la Cattedra dell’Agricoltura, nome pomposo che però non faceva nulla di nulla e tanto meno insegnava come comportarsi e quali avvertenze avere perché il patrimonio zootecnico non si depauperasse … Le stalle erano il fondo delle case ed erano asfittiche; non erano aereate; avevano un finestrino che veniva tenuto costantemente chiuso, a volte perfino con delle zolle di terra. Il letame non veniva tolto che una volta alla settimana, e le bestie erano inzaccherate di sterco fin sot‐ to la pancia. In questo ambiente vivevano da novembre a tutto aprile le povere bestie la cui malattia più comune era la tubercolosi. Se si salvavano era perché da maggio a ottobre vivevano all’aperto tra i pascoli e gli arbusti in fiore scegliendo le erbe di loro maggior gradimento, bevendo quando avevano sete alle fontanelle sparse qua e là nei pascoli, ruminando (meizà) quando erano sazie e respirando aria pura e salubre.

141

A Pussa du Muettu Tant’è il mio pensiero corre spesso a quella valletta caratteristica e incon‐ sueta che va sotto il nome di Pussa du Muettu. Temendo di non aver detto tutto o non essere stato troppo chiaro, riprendo l’argomento e lo corredo di mappa catastale e carta topografica dell’area, con l’illusione e la speranza, forse vane, che a qualche geologo possa interessare e siano fatte doverose e attente ricerche. In cuor mio penso che ne valga la pena. Sopra questo avvallamento, unico in tutta la zona, di forma ovale, come un sasso levigato dalle onde, si erge il Monte Larnaia, coi suoi 1182 metri. La roccia che a nord lo forma è scoperta e dà origine a uno strapiombo di 182 metri, perché i bordi in basso della valletta sono a 1100 metri, per poi risali‐ re a 1120 metri fino al pianoro detto appunto ciàn da pussa. Il dislivello dell’avvallamento non è segnato sulla carta, ma a meno ch’io non sbagli, dovrebbe essere di circa 50 metri nel punto più basso. La roccia del Monte Larnaia scoperta a nord ed erbosa a sud, col nome di prò da Funtann‐a d’Aeto, è friabilissima e col gelo e disgelo lascia cadere dei piccoli massi che andrebbero a invadere quel bel prato, che un tempo con tanta allegria fal‐ ciavamo, se non ci fosse una piccola e fitta faggeta a fermarli, formando tra la roccia e il prato una scarpata quasi inaccessibile e comunque pericolosa. Sopra il pianoro e la valletta si erge a sinistra una specie di protuberanza, un rialzamento che io nei miei giochi chiamavo il Fortilizio, perché dalla sua sommità si domina tutta la valletta e il pianoro. Ho detto che falciavamo quel prato con allegria perché col prato della Fon‐ tana d’Aveto alle spalle e quello della valletta si metteva fine, una buona volta, al faticoso e defatigante lavoro della raccolta del fieno. Si beveva molta acqua perché si sudava abbondantemente e toccava a me fare i rifor‐ nimenti idrici, andando a riempire i fiaschi alla fontanella dell’Aveto che sgorga da un nostro terreno sulla strada del Caucaso. Ma era un tantino lontana e per consolarmi e incoraggiarmi mi dicevano «Tì ti ghé e gambe bunn‐e»26”. Ero il più giovane e bisognava ubbidire, ubbidir tacendo. Tornando a descrivere la valletta si nota che la sponda rivolta verso nord e quindi alle spalle della fontana d’Aveto ha un andamento più agevole, un dolce declivio e perfino l’erba, tra cui tanti fiori di arnica, più verde, più folta e più tenera. La sponda opposta, quella rivolta a sud e quindi alle spalle del pianoro e du seià da Larnaia è invece più ripida, il fondo più com‐ patto e con meno erba, meno folta, più arida, ma non per questo meno ap‐ petita dalle mucche lattifere. Il fondo della valletta ha un andamento come di acqua che scorre e che defluisce in un punto preceduto come da uno sci‐ volo e da un ristagnamento d’acqua. Ma è solo un’illusione perché il terre‐ no è permeabilissimo. Anche dopo giorni di pioggia torrenziale, o derlughi come diciamo noi, nel punto più basso non c’è segno di ristagno. Tuttavia la conformazione geologica mi fa pensare che in tempi remoti ci fosse un piccolo nevaio o una sorgente sotterranea che abbia riempito l’invaso, ma che poi a seguito di un cataclisma, che provocò anche l’interruzione del corso dell’Aveto, non lontano (mezz’ora di cammino) abbia cambiato l’assetto geologico dell’avvallamento. Se la strada carrabile che va al Caucaso fosse passata più vicina a questa località io avrei fatto fare con una scavatrice un sommario sondaggio nel punto più in basso, dopo lo scivolo, per esaminare i reperti eventuali. E se avessi trovato, dopo la cotica e un po’ di terra, della sabbia o quanto meno e più sicuramente dei ciottoli arrotondati come quelli dei fiumi e delle

142

Cartina topografica dell’area di Barbagelata

spiagge, avrei potuto gridare “Eureka! … ho trovato!” Le mie supposizioni, avrei potuto dire, erano giuste.

Qui, non nel prato, ma nelle sue adiacenze, si pascolavano le nostre mucche e quelle di altri. Seduto su quell’enorme masso di pietra colombina, ho let‐ to, studiato, meditato e sognato a occhi aperti. Qui ascoltavo i rintocchi del‐ le campane che l’eco ripeteva nitidamente e il suono sembrava uscisse da quella roccia informe e minacciosa. Non ripeteva il suono delle ore come fa ora perché il nostro campanile non aveva ancora l’orologio e il carillon. E‐ ravamo poveri e non potevamo permettercelo. Ma chi li sente ora i rintoc‐ chi delle ore e la sua eco se non c’è più nessuno? Se quello splendido verde come un campo da golf si sta inselvatichendo e le sterpaglie la fanno da padrone? Se ti affacci al passo rischi di vedere il deturpante solco delle due ruote di uno sciagurato che violano la natura per il solo gusto di violarla. Tra la roccia e il fortilizio c’è un canalone che va dal monte al mare. Lì pas‐ sa in certi momenti un corrente di aria fredda che viene dal Monte Antola, lombarda, e va verso il mare. È lì che, a volte, si forma la galaverna creando un groviglio apocalittico di rami e di tronchi intrecciati fra loro come in un ultimo spasimo. Questo ritornare a parlare di galaverna dopo tutto quello

143

che ho già scritto potrebbe far pensare ch’io abbia la sindrome di questo singolare fenomeno naturale. Ebbene, può anche essere perché mio padre mi ricordava che la notte in cui nacqui, 12 gennaio 1914, c’era appunto la galaverna e le strade, le case coi loro tetti e i loro muri, erano uno specchio di ghiaccio su cui si rifletteva la luna. È lì, in quell’angolo del nostro territorio, che va spesso il mio pensiero co‐ me per un richiamo atavico, perché lì c’è la pace, la serenità, il richiamo della natura, la varietà dei fiori, dei frutti del sottobosco: more, fragole ad est, mirtilli a nord. Se u bategu (l’erica) non ha soffocato tutto, potrei ancora a occhi chiusi cercare e trovare un cespuglio di grossi mirtilli rossi e non neri, tanto buoni e tanto gustosi. Ma questi sono solo ricordi di gioventù, di fanciullezza! Chissà se ci saranno ancora?

Scene di vita familiare e campestre Con la mia immaginazione corroborata dal ricordo sempre vivo, a volte vedo come in un brevissimo film, mio padre percorrere il sentiero della canonica con in spalla un arnese da lavoro, avviarsi ai campi preceduto da un cagnolino e da una gattina, suoi amici inseparabili. Sì, proprio così, per‐ ché quand’io ero fanciullo possedevamo un cagnolino da guardia, tutto bianco con qualche macchia marrone, ma rara. Aveva un pelo folto e mor‐ bido e sapeva, senza l’aiuto di nessuno, tenerselo pulito e come spazzolato. Era oltre modo affettuoso verso i membri della famiglia, ma dignitoso ol‐ tremisura verso tutti gli altri, come poi dirò. Aveva un’avversione indescrivibile verso le lucertole, che allora, oggi non più, guizzavano ogni dove. Quando ne vedeva una e quella si rintanava, era capace di demolire un muro o un seggiu per afferrarla e ucciderla. Spes‐ so faceva, durante questa sua fobia, dei buchi tali nella terra da infilarcisi tutto. Ne usciva conciato in malo modo col pelo di tutto il corpo e il muso e le zampe sporche di terra, ma trionfante per aver ottenuto quel che voleva. Poi si rotolava nell’erba a lungo e quindi cominciava a far toeletta. Si lecca‐ va all’infinito fino a che il suo pelo e la sua pelle non fossero nettati a dove‐ re. Quando era a casa si sedeva a mo’ di sfinge in cima alla scala esterna e prima della scala in cima al risseu e osservava tutto. I villeggianti e i passan‐ ti in genere gli facevano una carezza, ma lui non si scomponeva, restava immobile nella sua dignitosa e disarmante compostezza e sicurezza. Una volta una signora mi disse, vedendolo così pulito e con il pelo lucido, «Quante volte alla settimana gli fate il bagno?». Avesse saputo costei che una volta ebbi la pessima idea di buttarlo in un lago del beu di Culeetti e mi tenne il broncio per settimane e settimane ed ebbi un bel da fare per fargli riacquistare la fiducia. In poche parole, era allergico all’acqua come i gatti. Sulla sua fedeltà e spirito di sacrificio ricor‐ do vari episodi. Nella Larnaia, sulla strada sopra il “ronco” e presso i fò de Tullìn i miei fra‐ telli avevano fatto due carbonaie e quando venivano a casa per mangiare, nessuno poteva passare nei pressi, ma doveva girare al largo, come fece u Stinìn de Tilìn, anche se carico con un fascio di legna. In una primavera per niente precoce, come l’attuale del 1997, mio padre che si trovava in Cugnu Lungu a seminare patate primaticce, dovette lasciare lì tutto: arnesi, cesti e secchi, perché si era messo a nevicare di buzzo buono. Il cane, che si chia‐ mava Stellìn, non si mosse: restò a fare la guardia incurante della neve che cadeva fitta fitta. Venne a casa solo quando mi mandarono pa costa a chia‐

144

marlo. In primavera e in estate mio padre o mio fratello Pippu erano soliti, se non pioveva, mettere in fondo al risseu, vicino alla porta della stalla, un lenzuolo pieno d’erba o fieno per i muli. Il cane vi si accomodava sopra e stava lì per tutta la notte. Al mattino presto, anzi prestissimo, spuntava Da‐ vidde de Marinn‐a, detto anche Patalìn, che tentava di salire in casa nostra per prendere il caffè: caffè che consisteva in un grappino o in un quarto di rosso, il primo della giornata. Il cane non lo lasciava passare perché in casa non aveva, col suo udito finissimo, ancora sentito i rumori caratteristici del risveglio e lui intendeva difendere la “privacy”. C’era poi una gattina che, con il cane, accompagnava sempre mio padre, ovunque andasse. Era intelligentissima e affezionata anche se mio padre non era abituato a coccolare l’uno o l’altra. Li rispettava, riservava per loro dei buoni bocconi del suo piatto ed essi capivano che lui era il padrone, ma non il padre‐padrone e per questo erano a lui fedeli, affezionati e insepara‐ bili.

Abusi indigeribili Ho già toccato un argomento che mi ha sempre assillato e mi assilla tuttora. È l’appropriazione indebita del territorio del Comune di Lorsica da parte del Comune di Favale di Malvaro e la rabbia che dovetti farmi quando due o tre anni fa il sindaco Andrea De Martini, detto Russettu, fece piantare sul‐ la strada carrozzabile a un chilometro da Barbagelata un cartello con l’innocua scritta “Benvenuti a Favale”. Innocua sembrava, ma a chi conosce i retroscena voleva dire «Chì ghè mè!» (qui è di mia proprietà) oppure «Barbagelatesi, Lurseghìn, io arrivo fino qui!» … Ma ci fu chi la pensava come me e si sentì punto nell’orgoglio e quella targa a 12 chilometri da Fa‐ vale e troppo vicina a noi che faceva bella mostra di sé su due piantoni, fu divelta e gettata (con disprezzo penso) in tu beu. Il Sindaco ritornò alla cari‐ ca e ne fece apporre un’altra che fece la stessa fine. Capì l’antifona e non ritornò alla carica con la testa bassa come un toro, perché scornato. All’autore di questa presa di posizione che condivido apertamente non posso che dire, anzi devo e voglio dire: GRAZIE! Come accennato in precedenza, dopo la guerra avevo iniziato in prefettura e al Catasto di Chiavari (allora era ancora lì) un sondaggio per ridare i giu‐ sti confini all’isola del Comune di Lorsica, ma trovai, come detto, molte resistenze; ma mi sarebbe bastato che i sindaci dei comuni di Rezzoaglio, Montebruno, Moconesi, Torriglia e Neirone dicessero che loro hanno sì dei terreni nell’isola, ma che i confini sono quelli che madre natura orografica‐ mente aveva dato. Infatti, cominciamo, andando in senso antiorario, col Comune di Rezzoa‐ glio. Arriva coi confini al beu di Culeetti, ma al di là per loro, al di qua per noi, al gente di Villa Sbarbari ha un vasto territorio che arriva al crinale del Monte Prè e va sotto il nome di dai quattru fò. Il Comune di Rezzoaglio non ha mai campato pretese in tal senso e io gliene do doveroso atto. C’è poi il Comune di Montebruno in Val Trebbia, anche se si spinge un po’ troppo arditamente fino a quota 1133 con una punta non lontana dalle case di Co‐ stafinale. Ma la gente di Casùn da Bassu ha terre su Lorsica e viceversa Co‐ stafinale su Montebruno, ma nessuno avanza le pretese di arrivare coi con‐ fini comunali sotto il letto o sotto il desco dell’uno o dell’altro. Così è e così resta! Anche l’isola di Moconesi ha terre di qua e di là, ma i confini sono ben delimitati ad est dal Rio Roncasso e a ovest dal Rio Crombino. C’è poi

145

Torriglia, che sta tutto al di là del Trebiolo col Rio del Bocco che fa da confi‐ ne con Neirone. Ed ecco appunto il comune di Neirone, che se orografica‐ mente avesse voluto scendere dal Monte Larnaia al Passo del Gabba e poi giù lungo u beu di Motti la cosa avrebbe potuto sembrare possibile, ma Fa‐ vale gli marmellò tutto questo versante fino alle partie de Neiùn quindi fino all’Acquapendente. Se invece si fosse mantenuto come confine lo spartiac‐ que Padano‐Adriatico da quello Tirrenico, il terreno predetto sarebbe tocca‐ to al Comune di Lorsica e non a quello di Favale. Per inciso e per dimostra‐ re che gente di Neirone, o meglio di Roccatagliata e di Corsiglia erano pro‐ prietari di terreni sul Comune di Lorsica, dirò che mio padre acquistò da dette persone la Larnaia, La Fontana d’Aveto, la Friceia e i Motti, ma, guar‐ da caso, questi ultimi due appezzamenti ora sono sotto il comune di Fava‐ le. Alcuni anni fa, non so quanti, una famiglia di Villa Sbarbari mise in vendita tutti gli appezzamenti di terra che aveva a Barbagelata per asse ereditario. Queste terre le comprò in maggior parte mio padre e un appezzamento Carlìn, padre di Ivo. Ora pensate se, malauguratamente, fossero state acqui‐ state da gente di Favale ci troveremmo il confine passare sotto il letto, pro‐ prio come a Gorizia, che dopo la guerra, per una spartizione fatta a capoc‐ chia, molte famiglie mangiavano in Italia e dormivano in Iugoslavia, pur restando e vivendo sempre nella stessa casa. L’esempio calza perfettamente checché ne pensino quelli di Favale che hanno sempre avuto mire di inglo‐ bamento del nostro territorio per una stupida mania di egemonismo, e‐ spansivismo e di prestigio. Ma qualcuno, e io fra quelli, fece arrivare alle loro orecchie che “caso mai” avremmo optato per Montebruno perché il nostro territorio è tutto sul versante adriatico e non su quello tirrenico. Con ciò non si vuol dire che ci sentiamo padani, ma liguri, e liguri vogliamo restare.

Significato della parola “Marmellà” Marmellà è un verbo originale che non si trova né sul vocabolario italiano né su quello genovese. È inerente al gioco della Morra (in dialetto mura), proibito dalla legge per‐ ché in genere finisce sempre in una rissa proprio per il fatto che qualcuno marmella. Pertanto il vero significato del verbo è barare, cambiare le carte in tavola, rubare punti al gioco, usare prepotenza, far fessi gli avversari, ap‐ profittare, essere arroganti. Ne caso specifico vuol dire cambiare il numero delle dita di una mano che si getta sul tavolo per far punto. La Morra era un gioco molto in voga quand’ero ragazzo ancorché se proibito. Si giocava fra due o quattro perso‐ ne e c’era il marcapunti che doveva stare attento e sveglio. Contemporanea‐ mente i due avversari gettavano le dita e sempre contemporaneamente di‐ cevano a voce alta il numero totale di dita e ciò senza sosta. A Barbagelata giocavano alla Morra Stinìn e u Reliu di Tilìn; u Pippu de Richìn e u Deliu de Piri, ma i paesi dove era più in voga in parrocchia erano Santa Brilla, Cor‐ naro e Posazzo ch’era la capitale. C’erano poi quelli da Giassinn‐a, de Peuzzu, da Cursiggia e de Feia, e allora c’era da stare allegri. Non potevano giocare in osteria, ma qualche volta, per buona pace o per il maltempo, non se ne poteva fare a meno. Le nocche delle dita si facevano tumide e il tavolo rimbombava facendo gran cassa alla voce dei giocatori. C’era perfino chi usava ripetere sempre un numero

146

o una parola quando faceva punto, e questo controcanto sembrava avesse un suono metallico come di un diapason o di uno scacciapensieri, e voleva significare la bravura e la gioia recondita d’aver fatto punto. Ma il guaio era che qualcuno, qualche furbastro marmellasse e allora dopo le parole grosse veniva anche lo scazzottamento e i pacieri dovevano faticare a separarli. Credo che mio nonno abbia perso la vita proprio in seguito a un intervento del genere, per far da paciere. Oggi non si gioca più alla morra, anche se durante le feste qualche reminiscenza di questo gioco fa ancora capolino e ti viene da pensare che certe usanze sono dure a morire.

Significato della parola u Paggettu Mezzo sacco di tela grigia e robusta riempito di paglia o fieno, o trucioli, veniva messo come un cappuccio sulla testa per coprire le spalle quando si doveva trasportare pesi rilevanti. C’era poi quello non imbottito, fatto con un sacco intero arrotolato in un modo speciale e originale in modo da far sempre da cappuccio, ma che copra le spalle con l’arrotolamento. Serviva specialmente per trasportare fieno o pesi non rilevanti

1 Si picchiano 2 Felice memoria di mia zia che poi era anche la mia madrina 3 Gente cara state un po’ a sentire la canzone di Nicolino 4 Quelli che gli dicono 5 Ferri da volpe 6 Fate un po’ così voialtri 7 Io ci sono caduto ora 8 Andrea il giovane 9 Tienimi che faccio a botte 10 Vado ad ammazzarmi 11 Ma perché volete andare nei Riè quando qui abbiamo nella Larnaia una bella roccia che vi può servire? 12 No, no vado nei Riè 13 Sul pietrone della Culeìa 14 Potresti andare a fare un fascio di legna 15 Sul prato di Andreino 16 Per me è come se fosse rotolata una mela selvatica in un torrente 17 Levare dal letto 18 E si, ora il prete ha preso le capre e gli ha attaccato al collo i campanelli della chiesa 19 Antonio, ho perso l’asino 20 Che era rotolato giù 21 Fazzoletto da nodi 22 Accidenti se ha fatto presto ad andare giù e tornare su. 23 Camminate signor prete, che ti bagni 24 Così piccolo ti fanno fare queste cose? 25 Oh, ma non la monto mica io, la monta il toro 26 Tu hai le gambe buone

147

Mario

io amatissimo nipote, avevo scritto questa raccolta di M ricordi per i pronipoti e par‐ ticolarmente per te che sei sempre stato il fedele custode del passato e delle sue tradizioni. Non ho avuto la fortuna che tu leggessi questo opu‐ scolo, ma di lassù, assieme al nonno di cui portasti degnamente il nome, lo sentirai leggere da quelle pochissi‐ me persone a cui è diretto. Te ne sei andato lasciando un vuoto incolmabile di cui, forse, io solo so valutare l’ampiezza. Restano le tue opere, pubbliche e private, che han‐ no trasformato il tuo e il mio paese natio in luogo accogliente, pulito, ordinato e perfino ridente. Avevi intelligenza viva e mani d’oro; eri versato in ogni campo e a te face‐ vano riferimento tutti perché non eri Mario giovane capace di negare nulla a nessuno. Avevi progetti che non hai potuto portare a compimento e prego Iddio che qualcuno raccolga la tua eredità d’intenti e di opere perché questo nostro paese non muoia. novembre 1996

148

Vocabolario delle parole in idioma locale

A accaissà livellare la paglia acche mucche addumestegà rendere fertile aggu vado aia aia Aitu Fiume Aveto allu vallo, cesto a bocca aperta allùa allora ammenzeguné persona o animale dai movimenti lenti Angiulinn‐a Angela Angiollu Angelo arvì aprile arzella correggiato per trebbiare il grano assueggiò messo al sole a seccare aspei aspide, vipera axillu vivacità, gioia repressa, frenesia

B Baffìn baffetto, il calzolaio di Favale, o nome di cane baggi rospi ballou pianerottolo esterno banastre cesti a coppia da mettere sul basto del mulo banca panca bancà cassapanca, falegname banchinn‐e piccole aperture alla base della carbonaia per farla respirare bansiga altalena a bilanciere barba barba, o zio Barbazeà Barbagelata Barbazeè persone di Barbagelata barcu fienile con cappello piramidale in paglia bardinn‐a bardina, nome di mucca bàseru vedi baseu bàseu asta per portare secchi a spalla Bassetta soprannome di una famiglia di Villa Sbarbaro bastinn‐a basto per muli bateghi cespugli di erica battagià suonare a concerto le campane battinn‐a gioco fatto con una moneta battuta contro una porta battolli rami tagliati a pezzi e sfrondati becchelettu beccuccio della lampada ad acetilene Bedidda soprannome dʹuna famiglia di Villa Sbarbaro bena cesto rettangolare legato ad una slitta (vedi lesa) beu fosso con o senza acqua

149

bicciu furbo Billi soprannome di una persona di Barbagelata Bixiu grigio, soprannome di una persona bitirà attrezzo per fare il burro bitiru burro boeu buoi bramea galaverna brandà alare per focolare brennu crusca bricchettu fiammifero briccu dosso montuoso brillottu paraocchi dei muli brunzìn campanello della mucche brustulìn tostacaffè bruxià bruciare, bruciata bruxiou bruciato, bosco riarso buccìn vitellino buei ovuli, funghi prelibati buettìn tabacchiera per tabacco da pipa bugà bucato fatto con la cenere buiu luogo caldo nel pomeriggio burca zappa a due rebbi burchette chiodi per suole bursìn portamonete Bursinn‐e nome di una famiglia di Villa Sbarbaro busacca sacco di iuta per carbone Buttìn luogo nei dintorni di Barbagelata

C cà casa caagnà artigiano che fa le cavagne (cesti), da cui Cavagnaro caccite! buttati caessa cavezza calà varco nella neve camallà trasportare a spalla cameìn camerino, piccolo vano camua piccolo foro che si forma nella carbonaia cancascieu colchide o zafferano selvatico Candùn soprannome di una persona di Costafinale carbuninn‐a carbonaia caregà seggiolaio caretta carriola Carlìn Carlo Carlitto Carlo Carlottu Carlo caruggiu strada stretta tra le case Cascinetta paese nei dintorni di Barbagelata cascinn‐a fienile Caasetta calzetta, soprannome di un vecchio di Barbagelata e della sua famiglia cassa mestolo per l’acqua cassarea mestolo forato

150

Castellu Castello, frazione di Favale di Malvaro casùn povera costruzione in pietra Caterinn‐a Caterina cavagna cesto, sporta in vimini caviggia ferro di sostegno nei barchi (fienili) chenn‐a catena sul focolare cheuscie coscie, legni base dei barchi (fienili) chintan‐na liquame Chistadinn‐a luogo nei dintorni di Barbagelata ciappùn grossa lastra di pietra ciga piega cigà piegare cian piano, appezzamento di terreno pianeggiante ciann‐a piana, pianura Cianasse luogo nei dintorni di Barbagelata cianellu piccolo appezzamento di terreno pianeggiante ciappa lastra di pietra ciappea cava di ardesia o di pietre ciappùn grossa pietra piatta ciassa piazza ciassà piazzale ciuenda steccato corba grossa cesta quadrata con due manici curbetta una corba piccola e maneggevole costa belvedere, costa Costafinà Costafinale Costafinè di Costafinale crae capre crava capra, o banchetto del seggiolaio Creusa luogo nei dintorni di Barbagelata Cristoffu Cristoforo Crumbea nome di angolo del paese, forse una volta colombaia crumbinn‐a pietra colombina per fare la calce cubbia coppia di corde per legare la soma al basto del mulo cugneu appezzamento di terreno a forma di cuneo Culeetti torrente (beu) affluente dellʹAveto Culleìa luogo nei dintorni di barbagelta Culletta colletta, passo tra Barbagelata e Costafinale cuighe cortecce cucù specie di uccello, cuculo cu con Culeîa passo nei dintorni di Barbagelata cumbinn‐a fungo, colombina cun con cuppu mestolo per acqua curdella laccio per scarpe curmu sommità Curseghìn abitanti della Corsica, Corsi Cursiggia il paese di Corsiglia cuscì così Cusse te fè? cosa fai? Custea costa, la dorsale da Barbagelata alla Val Trebbia

151

D dagga che ce lo dia Davidde Davide Davidìn Davide derlughi giorni di pioggie torrenziali derulesse che si spaccasse Deliu Delio dentìn tipo di fungo Dria Andrea Driottu Andrea Driulìn Andrea dugiùn due soldi antichi dui due dumestegu terreno coltivabile o adatto alla fienagione e al pascolo dunde dove duve dove E ea ero, era Eri Enrico erruggiu trapano a mano espru vespro F fadétte sottoveste fasce balze fascellinn‐a vaso di legno usato per mettervi il caglio per fare il formaggio fazza frutto di certi faggi fea fiera, mercato Federiccu Federico ferle virgulti fia filo d’erba fighè venditori di fichi finn‐e fini, leggere (scarpe) fò faggio Fossa (in ta) Villa Sbarbaro francu franco, soldo Frascùn soprannome di un abitante di Barbagelata, grosso cespuglio frecci felci Friceia luogo nei dintorni di Barbagelata fumaieu fumarolo, apertura nella carbonaia fuguà focolare fundu in fondo funtanìn piccola fontana, luogo nei dintorni di Barbagelata funtaninn‐a fontanella funtann‐a fontana furca forcone furcou forca, forcone furlùn trapano per perforare i piatti di ceramica furnaxia fornace Furtunn‐a Fortunato

152

Furtunìn Fortunato fussou fossato

G Gabba passo nelle vicinanze di Barbagelata gagge reti per legare e trasportare il fieno gaggiùn recinto per il letame galetti tipo di funghi commestibili di colore arancione gamba manico della falce fienaiola Genio Eugenio gexa chiesa ghìndine tamburo dentato per trebbiare il grano gì ghiro, ghiri Giamba Giambattista gianchinn‐a fosso sotto le case giardua trottola giassa ghiaccio Giassinn‐a paese nei dintorni di Barbagelata verso Neirone giassu ghiaccio giazza ghiaccio, idioma della Val D’Aveto gileccu giacca Gìn diminutivo di Luigi gippunettu gilet senza maniche Gioxeppe Giuseppe Giuanetta Giovanni Giuaneu Giovanni Giuanìn Giovanni Giulinn‐a Giulia grè seccareccio, rete grebani montanari Grixiu soprannome di un abitante di Barbagelata con gli occhi grigi grossu grosso guaì guarire gueime erba tenera di secondo taglio gurìn erba tubolare degli acquitrini Gustu Agostino H han hanno, voce del verbo avere

I incantu asta al maggior offerente in sa sulla in scia sulla in ta nella in tu nello

L laesa paiolo laità mungere

153

lambroccia misto di neve e acqua Larnaia passo e monte nei dintorni di Barbagelata leità mungere lesa slitta lesìn sci della lesa ligou legato liscia lisciva loffe tipi di funghi, vecce Luiggia Luigia Luigìn Luigi lungu lungo

M maccia bosco sotto taglio Magrìn soprannome, magrolino magge corde della gaggia per portare il fieno, maglie magnàn stagnaro malemme poco di buono manegu manico marcia piccola incudine per affilare le falci col martello marengu 20 lire, marengo Marinìn Maria Marinn‐a Marina mariolli maglie da pelle massettu mazzetto Mau Malvaro (torrente) mè mio meghinn‐a da medico, medicale megu medico meisia madia meisà ruminare Meneghìn Domenico Menn‐a soprannome di una persona di Costafinale mericanu americano mersaìn merciaio, venditore ambulante mestra maestra Metirde Matilde meuoa mola meusca grosso cono di fieno mexinn‐a medicina mezengùn animaletto simile al topo dai movimenti lenti mezuia falce messora Michè Michele mielà commerciante di fragole Milia Emilia Miliu Emilio moa mora moi funghi dal colore scuro morsciu morso, ferro in bocca ai muli Moru soprannome, moro Motti luogo nei dintorni di Barbagelata, cumuli muattè mulattiere

154

mucchetti piccoli ceri arrotolati muescu creta, argilla, terra pastosa che si può modellare Muettu soprannome, moretto mulittà arrotino muntà salita, luogo nei dintorni di Barbagelata munte monte munti monti muntaella piccola salita, luogo nei dintorni di Barbagelata muriaggi museruole per vitelli mustacciolli mostacciolo, tipo di pasta mutta 40 centesimi muttè palle di neve

N Natalinn‐a Natalina Neiùn Neirone Nocentinn‐a Innocenza nou a noi nichelinn‐a 20 centesimi, mezza mutta nu non

O oa brezza marina o montana ortettu piccolo orto ortu orto, terreno dumestegu adatto per coltivare ortaggi ota volta, arco

P pä costa per la costa, belvedere pàferu asta passante di ferro per far leva paggettu cappuccio di tela di sacco per portare pesi sulle spalle paggiainn‐a paglierina palanche soldi panettu pane di burro, panino Parminn‐a Palmira parmu palmo (antica misura) partie bivio o spartiacque pasciùn paletto per steccati Patalìn piccolo, soprannome di un abitante di Barbagelata pe per, piede peguée bastoni con la piega da pecorai pelli otri fatti con pelli di capra peixe pece peixere pece, idioma della val d’Aveto penattu roncola, ferro da taglio pessucùn copertina imbottita per filtrare la lisciva peuzzu poggio, sommità piane tipo di alberi Piattìn soprannome di un venditore di piatti Piattinn‐a moglie di Piattìn Picciùn soprannome di una abitante di Barbagelata

155

picossu accetta, ferro da taglio piggiu prendo Pipìn Giuseppe Pippu Giuseppe Piri Pietro (dall’americano Peter) pirùn bottiglia con beccuccio pìiu prendo poa povera posa luogo dove si posa il carico, stantia posu stantio povia povera pree prete prestiesci presteresti presù caglio pria pietra, roccia, coda per affilare prinn‐a brina Priusa Priosa, paese nei dintorni di Barbagelata prò prato, luogo nei dintorni di Barbagelata proi prati prou prato prucesciùn processione pruetti piccoli prati pruettìn piccolo prato pruinà turbinare della neve pruxia pulce pulittu pulito, terreno senza rovi punte ponte, passerella puntu legamento purteghettu piccolo portico pussa avallamento pussetti luogo nei dintorni di Barbagelata, piccoli avallamenti pussettu pozzetto

Q qùa corno di bue per tenervi a bagno la pria (coda)

R Rapìn passo nei dintorni di Barbagelata rastellu rastrello rattellà bisticciarsi ratti pernughi pipistrelli ravatti cianfrusaglie réa rada, bucherellata réie vedi gaggie Reliu Orelio, Aurelio Riasse Rocce, luogo Riassu Roccia, luogo Riccu Enrico Richìn Enrico ricordu ricordo Riè zona rupestre sotto il monte Caucaso

156

risseu acciottolato roba da parmu stoffe misurate a palmi robìn vestitino, gonna rubbi pesi uguali a 8 chili rugà frugare Runchettu luogo nei dintorni di Barbagelata Runchi luogo nei dintorni di Barbagelata Rundanìn rondine, nome di mucca ruou letame rusca pula del grano Rusetta Rosetta Rusinìn Rosa Rusinn‐a Rosa rutta rotta

S saassu ricotta Sanisensu San Vincenzo di Favale di Malvaro sappelli scalini alti e sconnessi sarassu ricotta salata sarmuia salamoia sarvegu terreno boschivo non coltivabile e o falciabile saveiva sapevo, sapeva sbrinci rebbi di una zappa Scaiùn passo nei dintorni di Barbagelata scapìn calze di lana grezza scapussu cappuccio scassa mucca che vale poco scheela grande piatto fondo di terracotta scheele grandi piatti fondi di terracotta scheelùn grandi piatti incavi di terracotta scheua scuola scia signora scioeuppu fucile sciu signor sciù su sciù pa su per scosà grembiule scraà i frecci tagliare le felci scuaggie avanzi di una pioggia scunsì sramare, tagliare i rami di un albero scuressà inimicizia passeggera scuriatta vedi scurietta scurietta falce fienaiola Scurtegà Scorticata (paese vicino a Brabagelata) Segretta soprannome di un abitante di Barbagelata seggi muri erbosi a terrazza seggia secchia in legno o rame seià balza erbosa di molto alta seiè plurale di seià Serafìn Serafino seretta piccola sega

157

serùn grossa sega a due manici Serve luogo nei dintorni di Barbagelata sgaampi trampoli sgambiscia collare in legno per mucche sgaerné spezzate dalla galaverna sgreixe graticci per seccare, seccarecci sgrexiua arnese che gracchiava, usato nella Settimana Santa sguarà aprirsi un passo nella neve sgùnfia mucchio di neve sià siero di latte che rimane dopo aver fatto il formaggio siassu setaccio siea barella per letame simma cima, sommità Speela luogo nei dintorni di Barbagelata spisciua piastra di ardesia messa in una fontana per far zampillare l’acqua squassinn‐a pianta, elicrisium sta questa stafunsìn sagola in cima alla frusta stagnùn secchio di zinco stampettu asta di ferro a penna per forare lo scoglio sté estate Steìn Stefano stelùn pali di sostegno del barco (fienile) Stinìn Stefano Stivi Stefano strà strada strafì frusta che schiocca strafunsìn spago al termine dello strafì Strinà luogo nei dintorni di Barbagelata Suie pascoli a levante di Barbagelata sunaggiu sonaglio Suntinn‐a Assunta suraccu soracco, tipo di sega a una mano surdi sordi susta speciale corda doppia per tenere ferma la soma sutta sotto sutta a ota sotto la volta suttestu straccio arrotolato da mettere sulla testa sotto il secchio

T taggi boschi tagliati da poco taggeìn taglierini taggiu taglio taixella rudimentale serratura per porte tamburla sonaglio per mucche dal suono greve Tassìn nome di una famiglia di Villa Sbarbaro t’é (dove) sei te é (dove) vai te fé (cosa) fai testu campana in ghisa per cottura degli alimenti (dentro la cam‐ pana) con le braci poste intorno e sopra

158

Teéxia Teresa Teéxinìn Teresa tettà succhiare tià tirare Tilìn Attilio, una famiglia di Barbagelata tò tua tramezzu tramezzo tufania grande piatto di legno per madia Tumaxiu Tommaso Tunseràn Ottone Soprano Tugnìn Antonio Tugnetta Antonietta Turiggia Torriglia, soprannome di una donna di Costafinale turlulù fungo, mazze di tamburo

U uinà orinatoio unde dove unse once Ustinn‐a Agostina

V vei ieri Veru Vero, nome di persona veruggiu trapano a mano, succhiello vintuella giostra a due posti

Z zerbìn muschio zerbiu muschio Zerbiùn luogo nei dintorni di Barbagelata Zerga nome di una famiglia di Villa Sbarbaro zinestrùn salamadra Zorzu Giorgio zutta beverone per mucche

159

L’autore negli anni ottanta

160 In copertina l’autore tra il 1940 e il 1950