Circolo Ufficiali Marina Mercantile Riposto

Storie e racconti di mare

Volume XII

Foto Archivio Di Mauro - Giarre

Opere selezionate del Concorso “Fatti di bordo” Sezione Narrativa del Premio Nazionale ARTEMARE

RIPOSTO 2003

Provincia Comune Regionale Riposto A.A.P.I.T. Catania Catania

Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12°

1999: 25° Anniversario del Premio Nazionale Artemare

La manifestazione del Premio Artemare ha avuto inizio nel lontano 1975 distinguendosi negli anni per la fedeltà all’elemento che qui a Riposto rappresenta la costante naturale e culturale: il mare. Oggi, è diventata un’importante manifestazione d’autentico rango nazionale sul tema specifico “L’uomo e il mare” e viene articolata nelle diverse discipline artistico-letterarie: canzone, fotografia, gastronomia, giornalismo, modellismo, narrativa, pittura, scultura, video. Di recente è stata inserita una nuova sezione, denominata Protagonisti del Mare, che vuole riprendere una importantissima manifestazione ripostese andata perduta: il Premio Internazionale Capitani Coraggiosi. Questo Premio - nato nel 1967 dall’idea di un concittadino, l’illustre regista Pino Correnti, e ripresa dall’allora sindaco di Riposto, on.le Nino Caragliano - era inteso a riportare in primo piano quanti mostravano capacità e coraggio nel loro rapporto con il mare. In 25 anni di ARTEMARE, sono state indette 23 edizioni di pittura, 20 di narrativa, 14 di canzone, 11 di modellismo navale, 7 di fotografia, 6 di video documentario, 5 di gastronomia. Delle varie sezioni del concorso, il Circolo tiene di più alla sezione narrativa “Fatti di bordo” riservata ai soli naviganti. I racconti migliori vengono pubblicati nei volumi di una collana intitolata “Storie e racconti di mare”. Gli undici volumi già pubblicati contengono scritti che esaltano, in ogni suo aspetto, il rapporto dell’uomo con il mare, racchiudendo la storia stessa della Marineria italiana dalla prima guerra mondiale ad oggi. Quasi sempre le opere presentate trattano situazioni, stati d’animo, speranze, delusioni, riflessioni di uomini di mare “costretti a vivere nel mondo atipico dei lunghi silenzi e degli sconfinati orizzonti”. Si ha occasione di leggere i grandi drammi del mare narrati “da coloro che li hanno terribilmente vissuti nella loro avventurosa vita di marinai e nelle cui parole traspare la fiera consapevolezza di averla degnamente vissuta”. Qualche volta, i racconti, sono testimonianze di grandi sciagure, rimaste vive nella memoria dei protagonisti, in cui “oceani e mari di tutto il mondo sono divenuti tombe senza nome per migliaia di uomini di mare”. Il dott. Francesco Di Pino, il Sindaco sempre nel cuore dei ripostesi, nella presentazione di uno dei volumi ha scritto: «I libri nati dai racconti dei “Fatti di bordo” sono documento primario del rapporto vitale fra l’uomo e il mare, che

Pagina 3 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° costituisce una dimensione di per sé autonoma e indipendente, dove ogni norma esistenziale assume il ruolo primario di rapporto arcaico e immodificabile fra uomo e mare al cospetto della natura». Il concittadino prof. Giuseppe Giarrizzo, più volte presidente della giuria del concorso, ha scritto: «Il Premio inventato e voluto dagli ufficiali di marina di Riposto riesce a sollecitare confronti, a documentare esperienze, fa emergere – attraverso un medium letterario fin troppo ‘costruito’ – un desiderio di dialogo che esalta le affinità sulle differenze, ed è ancora espressione di una Koiné culturale stratificata nei grandi porti del reclutamento, da Genova a Napoli alla stessa Riposto, il cui contributo alla unificazione culturale dell’Italia otto-novecentesca è ancora tutto da definire». L’attuale Sindaco on.le Carmelo D’Urso ha scritto che «… i racconti dei naviganti si impongono al lettore per lo stile sobrio ed efficace espressione della psicologia degli uomini di mare. Sono certo che il Premio, stabilmente entrato nella vita della comunità cittadina, si inserirà con successo sempre maggiore, per l’originalità della sua formula, nel panorama culturale italiano». L’Assessore alla cultura Roberto Di Bella, nella presentazione dell’ultimo volume, scrive: «Il fascino dei racconti di ‘cose di mare’ esprime da sempre la peculiarità di manifestarsi, per la parte narrativa, attraverso la componente fantastica. Lontano o vicino dalle tematiche dei grandi classici della letteratura di mare, intervengono in questo undicesimo volume le storie personali – anche variamente trasfigurate – di coloro i quali, a contatto con il mare, hanno contribuito ad arricchire le loro riflessioni estetiche e, soprattutto, la loro e la nostra umanità». I volumi della collana vengono offerti in omaggio a quanti ne facciano richiesta. Il Circolo, oltre ai 12 volumi di “Storie e racconti di mare”, ha pubblicato “Storia della Marina di Riposto”, “Riposto e il Mare”, “Il Mare, Riposto e i Ripostesi” e un catalogo a colori su una “Rassegna di scultura e pittura d’autore” riservata ad artisti di fama nazionale. Ha anche espletato un’indagine sui “Problemi dei naviganti”, dandone il resoconto alle stampe. Ha promosso ed organizzato due convegni di studio aventi come tema “Il mare oggi” e “La salvaguardia del mare e della vita umana in mare” e ha, infine, collaborato al convegno “Muoversi per mare” organizzato dal Comune, dalla Provincia e dall’Istituto Nautico di Riposto. Gioacchino Copani

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XXV Edizione Questa edizione è stata evidenziata con delle attività più significative. Per la particolare ricorrenza del Premio sono state indette sia la Sezione “Narrativa” aperta a tutti, sia la Sezione “Fatti di bordo” riservata a quanti operano o abbiano operato nel settore della Marina mercantile, militare o da diporto. Inoltre è stata indetta una edizione speciale riservata ai soli vincitori delle passate edizioni “Fatti di bordo”. La Commissione giudicatrice del concorso, presieduta dal prof. universitario Orazio Licciardello e composta dalla dott.ssa Betty Denaro (segretaria), dal ten. vasc. Cesare Cama (Com.te Capitaneria di Porto di Riposto), dal prof. Roberto Di Bella (Assessore alla Cultura del Comune), dal prof Enrico Carbone, dal cap.d.m. Mario Di Pino e dal cap.l.c. Dino Sodano - dopo approfondita discussione e constatata, nella maggior parte delle opere, una valida e impegnata partecipazione, ha così deciso: Sezione NARRATIVA - VII edizione Il primo premio è stato assegnato a: Maurizio Bascià di Reggio Cal. per il racconto “Un uomo, un cane e una lanterna” Il secondo premio è andato a: Mario Sforza di Lecco per il racconto “La flotta” Il terzo premio è stato assegnato a: Vincenzo Galvagno di Messina per il racconto “U Raissi” La Giuria ha voluto menzionare anche le opere di: Marcella Di Franco di Francavilla di Sicilia per il racconto “Schedir” Franca Grasso di Piacenza per il racconto “Il guardiano del faro” Sezione FATTI DI BORDO - XIII edizione Il primo premio è stato assegnato a: Amedeo Dall’Asta di Mirano VE per il racconto “La via del petrolio” Il secondo premio è andato a: Antonio Riciniello di Gaeta LT per il racconto “Fuga” Il terzo premio è stato assegnato a Angelo Luigi Fornaca di Asti per il racconto “La tigre della Malesia” La Giuria ha voluto menzionare anche le opere di: Rosario Pennisi di Riposto CT per il racconto “Episodi vissuti in terra di Russia” Sezione VINCITORI EDIZIONI PASSATE Il premio è stato assegnato ex aequo a: Guido Campailla di Scoglitti RG per il racconto “Sotto la stella di Davide” Mario Fiasconaro di Genova per il racconto “Uno dei tanti” Angelo Luigi Fornaca di Asti per il racconto “La Tempesta”

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XXVI Edizione

La Commissione giudicatrice dell’VIII concorso nazionale di narrativa, sezione letteraria del Premio ARTEMARE 2000, presieduta dal prof. universitario Orazio Licciardello, e composta da: dott.ssa Betty Denaro, Segretaria - prof. Roberto Di Bella, Assessore alla Cultura del Comune di Riposto - ten. vasc. Cesare Cama, Com.te della Capitaneria di Porto di Riposto - prof.ssa Sara Martello - cap.d.m. Mario Di Pino - cap.l.c. Dino Sodano ,ha così deciso:

Il primo premio è stato assegnato a: Maria Sandias di Roma per il racconto Lo splendore del giorno

Il secondo premio a: Galvagno Vincenzo di Messina per il racconto Vento di scirocco

Il terzo premio a: Maria Grazia Greco di Roma per il racconto 1942: dall’abisso dei miei vent’anni

La giuria ha ritenuto doveroso attribuire una menzione speciale alle opere degli autori: Marcello De Santis di Tivoli Roma per il racconto Il mio primo giorno da pescatore Giovanni Di Mauro di Trani BA per il racconto Cocozza Clodoveo Marò S.V. Luciano Molin di Mestre VE per la poesia In memoria di Andrea Romanelli Giovanni Pagano di Torre del Greco Na per il racconto Il mio primo viaggio in India Angela Russo di Aci Catena CT per il racconto Tra l’Etna e lo Jonio

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XXVII Edizione

La Commissione giudicatrice del XIV concorso nazionale di narrativa “Fatti di bordo”, sezione letteraria del Premio ARTEMARE 2001, - presieduta dal prof. universitario Orazio Licciardello e composta di: dott.ssa Betty Denaro, Segretaria - prof. Roberto Di Bella, Assessore alla Cultura del Comune di Riposto - ten. vasc. Sandro Nuccio, Com.te della Capitaneria di Porto di Riposto - prof.ssa Sara Martello - cap.d.m. Mario Di Pino - cap.l.c. Dino Sodano - dopo approfondita discussione e costatata, in tutte le opere, la presenza di un forte impegno, ha così deciso:

Il primo premio è stato assegnato a: Vincenzo Galvagno di Messina per il racconto Inquietudine

Il secondo premio a: Antonio Riciniello di Gaeta LT per il racconto Lascia l’ascia, Joe

Il terzo premio a: Norberto Biso di Lerici SP per il racconto Otello e il nostromo

La giuria ha ritenuto doveroso attribuire una menzione speciale alle opere degli autori: Amedeo Celli di Lerici SP per il racconto Imprevisti sul mare Giovanni Coglitore di S. Venerina CT per il racconto Un sogno diventa realtà Franca Grasso di Cadeo PC per il racconto Accadde una notte... tanto tempo fa Vincenzo Marzullo di Riposto CT per il racconto Fatti di bordo

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ARTEMARE di Betty Denaro Segretaria della Giuria del Premio “Fatti di bordo”

Scrivere del Premio Artemare, anche se per un breve intervento, per me che del Premio in casa ho sentito parlare sin da piccola, e da anni ne seguo le vicende, senza immaginare che, da semplice spettatrice (e lettrice) sarei poi giunta a svolgervi un sia pur minimo ruolo attivo; scrivere del Premio Artemare, dicevo, è motivo ad un tempo di riflessione e di gioia. Di riflessione - perché lo scriverne mi porta a guardare indietro, al cammino fatto, alla storia stessa del Circolo e del Premio, alla funzione che questo ha avuto; di gioia - perché è un piacere scoprire che, grazie all’impegno dei soci, e del Presidente del Circolo in particolare, il Premio Artemare è giunto, senza soluzione di continuità, alla XXV edizione, ed è ormai una manifestazione di grande interesse artistico e culturale, tanto da essere conosciuta a livello nazionale. Si potrebbe dire che siamo quasi coetanei, il Circolo Ufficiali della Marina Mercantile ed io; già da piccola sentivo mio padre, divenutone presto socio, parlare delle iniziative e degli incontri, delle tematiche e delle difficoltà che esso ha dovuto affrontare nel perseguire il ruolo che si era prefisso: fare di Riposto un punto di riferimento in campo nazionale per quanto concerne la salvaguardia della cultura e della tradizione marinara in Italia. Già pochi anni dopo la costituzione nasce l’idea del Premio Artemare (1974). Ad un primo nucleo, formato soltanto dalla sezione letteraria “Fatti di bordo”, riservata inizialmente ai naviganti, si sono aggiunte via via le sezioni di modellismo, fotografia, pittura, canzone marinara. Attraverso immagini, suoni, scritti, si vogliono identificare e valorizzare tutte le esperienze legate al rapporto Uomo-Mare. Le opere che concorrono ad un premio di tal genere sono uno strumento potente per esprimere i sentimenti, le gioie e le paure più ricorrenti per la gente di mare: il senso di libertà, ma anche l’ansia, la tensione. E la solitudine, soprattutto: quel senso lancinante di vuoto e di silenzio, che come una sorta di mostro sembra nutrirsi di se stesso e ingigantire a dismisura nelle giornate immote e nelle notti insonni. Mi viene quasi da pensare che, in un certo qual modo, il vero protagonista del Premio è il Mare. Questo Mare che è ad un tempo ansito di vita e angoscia di morte; che è richiamo ancestrale e pericolo in agguato; che lusinga, attrae, corrompe, minaccia, sempre infido ma sempre fedele a se stesso. Esso sembra conciliare in sé gli opposti, annullare gli antitesi. È stato identificato spesso con la forza primordiale e oscura che tutti temiamo, ma da cui irrimediabilmente ci sentiamo attratti. Eppure, al contempo, la sua immensità e il suo mistero sanno darci un’immagine forte e

Pagina 8 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° tangibile della divinità. Questo legame tra uomo e mare non si tronca mai, non si interrompe; esso tocca l’uomo in un modo che non si è mai del tutto chiarito, e ne pervade l’essere. Il Premio Artemare, dunque, è nato e si è evoluto come momento di sintesi e di confronto, di comunicazione e di alta espressività: la voce che uomini di mare vogliono dare ad altri uomini di mare. Non è stato, e non credo sarà mai, un tentativo di “commercializzazione” delle opere; non ha la pretesa di voler risolvere problemi strutturali o ambientali, pur offrendo l’opportunità di porre al centro dell’attenzione e del dibattito tali questioni (il Circolo non è, d’altra parte, una lega ambientalista); ancora meno, esso appare indirizzato verso sbocchi politici o caratterizzazioni ideologiche. Negli anni, prima da semplice spettatrice, poi da membro della giuria della sezione di narrativa (più, sospetto per simpatia e stima del Presidente del Circolo, prof. Copani, nei miei confronti, che per una precisa qualifica), ho visto il Premio Artemare crescere e affinarsi. Ho ammirato quadri che sembravano palpitare, vibrare di colore; ho osservato modelli accuratissimi, per i quali l’amore verista per il particolare aveva sostenuto lunghe ore di lavoro e di concentrazione; ho ascoltato nenie e ballate, parole d’amore e sussulti di speranza. Ma soprattutto, e ovviamente, la sezione che più ho seguito e curato è stata quella di narrativa, che tra l’altro ha dato luogo alla stampa di ben undici volumi di “Storie e racconti di mare”. Ricordo la mia prima esperienza come componente della giuria, allora presieduta dal prof. Rosario Contarino, poi prematuramente scomparso. Ricordo le discussioni sui racconti, le sottigliezze e la finezza del prof. Contarino nel commentare uno scritto, gli scambi d’opinione tra i componenti, le argomentazioni, gli approfondimenti. Rivedo il prof. Copani, grande artefice del Premio fin dalla sua nascita, riprendere con diplomazia le fila di discorsi che minacciavano di diventare dispersivi. Ascoltavo, osservavo, imparavo; notavo come ognuno desse interpretazioni diverse di uno stesso testo; capivo, una volta di più, che la pagina scritta, di cui sempre ho subito il fascino - quello sviscerare i fatti e i sentimenti, quel rendere palese, e “vero”, ciò che altrimenti non avrebbe mai voce... - vive in definitiva una vita propria, anche oltre le intenzioni di chi l’ha scritta. La scrittura salva dall’oblio; fissa e conferisce ordine al vissuto, che per sua natura è labile e disordinato; soprattutto, dà voce a sentimenti e sogni. In fondo, l’appuntamento annuale col Premio Artemare ci ricorda che la vita è anche sogno. E del sogno la gente di mare, che pure è gente pratica e avvezza alla fatica, riesce ad afferrare immagini, colori, suoni. Nell’esaminare via via i lavori pervenuti, ho scoperto cinquant’anni di storia della nostra Marina. Ci sono stati documenti di un tempo lontanissimo, quando si navigava su navi a vapore; ci sono state memorie di viaggi interminabili,

Pagina 9 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° contrassegnati da piccole commedie o, al contrario, da drammi della vita di bordo. Ci sono stati racconti di fantasia, ambientati in luoghi fantastici, incantati, come l’ombra del sorriso che s’imprime sul volto di chi legge; ci sono state testimonianze di grandi tragedie, sempre vive nella memoria, e storie di altruismo e di coraggio. Nel motivare l’assegnazione dei premi, il mio sforzo è stato quello di cercare di penetrare, per quanto possibile, nella mente dell’autore, per afferrarne intenzioni e sentimenti. La magia del Premio Artemare, credo, è quella di creare una sorta di caleidoscopio di varia umanità, legata da quel motivo di comune aggregazione che è l’essere gente di mare e del mare, e quel consentire, in questa sorta di microcosmo, contatti infinitesimali e preziosi tra noi ed altri che parlano la stessa lingua. Un rammarico: che ci siano ancora poche voci al femminile nella sezione di narrativa del Premio Artemare. Vorrei leggere, è vero, più racconti scritti da donne. E ancora: che sono relativamente pochi i lettori dei libri curati dal Circolo, libri che meriterebbero certo un più ampio pubblico. Il mio augurio, e prima ancora il mio desiderio, è che il Circolo, della cui attività il Premio è una delle massime espressioni, continui ad operare proficuamente, a raccogliere consensi e adesioni, a ricevere, da parte delle Amministrazioni innanzi tutto, il sostegno economico indispensabile alla sua opera. Non dimentichiamo che esso ha operato in quelli che potremmo definire ‘’anni bui’’ per Riposto; il Premio Artemare ha rappresentato una delle poche manifestazioni di spicco, in questa sorta di tardivo medioevo, che sembra bloccare il nostro paese in una sorta di decadenza senza ritorno. Riposto ha nostalgia di se stessa, del suo passato, che, nelle brume di una memoria forse bugiarda (e comunque ricostruttiva), assume l’aspetto di una mitica età dell’oro. Ma il suo futuro non può provenire dal rifiuto del nuovo, dall’asserragliarsi in una statica ed improduttiva pietrificazione del passato. Anzi: occorre ormai superare il localismo particolaristico, sapersi inserire in più organici disegni di ampio respiro, e far tesoro al contempo del proprio bagaglio culturale e della propria memoria storica, sviluppando quella che il prof. Orazio Licciardello, che da diversi anni presiede la giuria della sezione di narrativa, ha definito come “la nuova cultura dell’appartenenza” In questo processo, io credo, il Circolo può svolgere un ruolo di primaria importanza, quasi una sorta di anello di congiunzione fra tradizione e innovazione, tra memoria e progettazione. In fondo, il Premio Artemare è anche questo: un riappropriarci di noi stessi, e del nostro passato, per andare incontro al futuro.

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Anna Bartiromo

“MARE FORZA PAURA”

ominciò così, lentamente, quasi in sordina. Anny vedeva le onde incresparsi Ce diventare sempre più spumose e arrabbiate. Il cielo s’era rabbuiato e banchi di nubi gonfie di pioggia si addensavano, ad ogni momento, più minacciosi sopra di loro. La “Panas 4ª” non era un gran che. Ricavata come cargo da una già vecchia rompighiacci, aveva avuto lo scafo allungato, quindi, meno solido e resistente rispetto alle altre navi. Scendevano dalla Jugoslavia in Sardegna dove avrebbero dovuto caricare apparecchi radio per cui le stive erano praticamente vuote, zavorra a parte. Il maltempo aumentava e il mare cresceva sempre di più. Di lì a poco la pioggia prese a cadere copiosa cosicché assicurarono ai maniglioni tutto quanto era possibile nelle sale, nelle cabine, dovunque insomma lasciando a terra il resto, piccole cose non pericolose. A bordo, oltre all’equipaggio, c’erano anche quattro bambini. Tre, figli del direttore di macchina di cui l’ultima, Ivana, di tre mesi appena, e la figlia del capitano di due anni circa. Anny, abituata com’era a restare accanto al suo uomo, nonostante il maltempo, non accennava a muoversi dal ponte. Ora la nave sbandava paurosamente. Tutto sopportava a bordo, ma beccheggio più rollio insieme la facevano star male. “Vattene giù - le disse preoccupato il comandante - va a legare la bambina sul letto e resta accanto a lei che tra poco sarà dura”. Ubbidì. Corse giù in cabina e constatò con gioia che nonostante quel baccano Lissy dormiva. Legò la bambina e cercò di addormentarsi, ma non riusciva a prendere sonno, non era possibile. Ormai si ballava. Sentiva le giunture della carena stridere sotto i colpi incessanti del mare che rovesciava la potenza delle sue onde da babordo a tribordo, squassando tutto e trascinando via ogni cosa. Non ce la fece a restare lì sotto, si sentiva prigioniera. Si accorgeva dell’inclinazione della nave dalla mobilia che sembrava venirle addosso. Nonostante tutto volle vedere, verificare di persona. Bisognava reggersi ai passamani per non

Pagina 11 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° cadere. Tuttavia, sbandando e scivolando, la donna riuscì a cacciar la testa fuori da un oblò. Era l’inferno e la nave sembrava un impasto di ferraglie e acqua senza controllo. Assicurò bene a letto la piccina e ritornò sul ponte. “Vattene - le gridò il marito- questo non è posto per te”. Anny scosse il capo decisa. “No! Mi lego qui con qualcosa e resto con te e con gli altri”. “Per Dio, va dalla bambina”, le gridò ancora più forte il capitano. “Non pensare a noi, bada pure al tuo lavoro. Ogni tanto andrò a controllare”. Gli spruzzi arrivavano da tutte le parti. Il mare, praticamente, attraversava la tolda da una parte all’altra, molti marinai stavano male ma ad Anny, forse la forza dei nervi o che cosa, reggeva bene lo stomaco e non avvertiva più neanche il mal di testa che, seppur leggero, le prendeva anche con un mare meno forte. “Timoniere tieni duro, lì attenzione a babordo...” Erano voci confuse e vaghe miste ad imprecazioni ed a grida indefinite che la furia del maltempo copriva e cancellava ad un tempo. La carena continuava a stridere anzi, quello che si udiva era un vero e proprio gemito, come se lo stesso ferro soffrisse con i suoi uomini. Fu un attimo: il portellone di destra fu divelto di peso da un’onda più forte. “Perché non lanciamo l’S.O.S.?”, si sentì dire da qualcuno. “La nave sta per andare a pezzi!” Ma il comandante non rispose, guardò la moglie accigliato e visibilmente contrariato e in tono amaro mormorò: ecco perché non ti volevo a bordo e non volevo neanche i bambini, per giunta ce n’è una di appena tre mesi. Di un po’, aggiunse poi, lo sai che come stanno le cose se mi toccherà salvare qualcuno non potrò pensare né a me, né a te, né a nostra figlia, ma dovrò salvare prima lei, solo lei, la piccina, lo capisci adesso! E se non c’è modo di salvarti? Maledizione alle donne a bordo! Concluse scuotendo la testa. “Lo so”, rispose Anny serena. “Ed è giusto che sia così, lo capisco. Io al tuo posto farei la stessa cosa. Fa pure il tuo dovere. Non sarò certo io a biasimarti, ma qualcuno lassù ci aiuterà, vedrai”. E tornò in cabina tenendosi come poteva alla scaletta mentre sul ponte le imprecazioni si facevano più dure e frequenti. La piccola stava piangendo ma, fortunatamente, era ancora legata. “Mammina”, balbettò “cosa sono tutti questi rumori?” “Sono gli angeli che bussano alla porta per cantarti la ninna nanna a modo loro”, mentì la donna baciandola con le lacrime agli occhi e stringendole forte le manine al petto, con dentro tutta l’ansia di una madre in pena. Rimasero così, avvinte l’una all’altra, in un abbraccio che avrebbe potuto anche essere l’ultimo... Quanto tempo durasse quell’inferno, non si può dire certo a parole. Ma non ci fu S.0.S. Il maltempo, sebbene dopo molte ore, così com’era venuto, cominciò ad allontanarsi, in sordina, lasciando spazio ad una relativa calma. Anny se ne accorse perché le vibrazioni della nave diminuivano man mano. Intanto

Pagina 12 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania MARE FORZA PAURA Anna Bartiromo l’alba si profilava all’orizzonte, un’alba ancora lucente e timida che a stento riusciva a farsi strada oltre le nubi ancora dense e gonfie d’acqua. Nessuno di loro aveva chiuso occhio. Attese un po’, poi, ancora frastornata andò nella cabina del direttore ad assicurarsi che tutto fosse a posto... Il volto dei piccini era terreo e si vedeva che avessero sofferto, ma il peggio era passato. Tornò sul ponte. Il capitano era lì, in piedi, gli occhi fissi sulla prua, spinti oltre, nel vuoto, quasi a cercare serenità dopo tutto quell’inferno. L’acqua, che aveva invaso la tolda, ora scivolava dolcemente da entrambe le fiancate, attraverso gli ombrinali, liberando numerosi detriti. Anny gli si strinse accanto in silenzio posandogli il capo sulla spalla. Erano tutti più tranquilli adesso. “È andata”, mormorò lui con un sorriso appena abbozzato. “Sì, è vero”. Era finita bene, ma tutti, proprio tutti, per l’intera durata di quel maledetto uragano, avevano avvertito una presenza in più a bordo, con loro. La paura.

NECROLOGIO PER UN MARINAIO

iciotto anni e dietro le sue spalle si chiudono i battenti del portone dell’Istituto DNautico “Nino Bixio” presso di cui si è diplomato e gli si aprono quelli della Vita, della speranza, del lavoro, del domani che egli, giustamente, immagina pieno di piacevoli soddisfazioni. Comincia così la sua carriera da una nave all’altra, da un’avventura all’altra sempre con esperienze nuove. Poi le radici dell’adolescenza scompaiono del tutto quando l’amore, quello vero, s’impadronisce del suo cuore e così dopo un po’ si ritrova sposato a Teresa (Cuccaro) e papà di due meravigliosi ragazzi, Antonella e Angelo. Ma il mare lo porta lontano. Nelle sue onde si annegano i pensieri, i ricordi, i momenti belli, brutti, le angosce, le paure, i rimpianti, anche gli affetti per cedere il posto solo alle preoccupazioni per chi non si può assistere e vigilare come si vorrebbe e per il tempo del ritorno. Quante volte, risalendo da quell’inferno di fuoco e rumore che è la sala macchine, affacciandosi da un punto qualsiasi della nave, ha posato lo sguardo, su quel mare, su quelle onde, calme o infuriate che fossero, senza mai ritenerle veramente infide; e poi le lunghe lettere spedite a casa, le righe meditate, studiate affinché, nel leggerle, non scoprissero alcun turbamento e non stessero in pensiero per lui. A 38 anni lo troviamo sul rimorchiatore AGIP-MUREX impegnato nel suo nuovo lavoro finalmente appagato, sereno (almeno così pare), fare la spola, con gli incarichi

Pagina 13 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° più vari nel canale di Sicilia. Un amico glielo aveva suggerito. Sì, di non andare più tanto lontano. Di restare a poco da casa, più vicino ai suoi cari, alla sua donna, ai figli, ai genitori, che avevano dato per lui tutta una vita di sacrifici, d’amore. Lì nel mare di Sicilia anche quello è un lavoro; che pericolo poteva mai esservi. Fuori le linee telefoniche non sempre funzionano, la posta spesso non arriva e poi... i disagi degli aerei da cambiare; i fusi orari ai quali assuefarsi... Ma sì, il nostro Francesco accetta il suggerimento ed eccolo, come ho già detto, ufficiale sull’AGIP-MUREX a godersi maggiore tranquillità e meno pericoli. Ahimè, povero amico! Non gli basteranno mille anni da vivere per dimenticare quel consiglio. È già l’alba e c’è nebbia. A casa i suoi dormono ignari. I figli forse sognando di riabbracciare al più presto il loro caro papà, la sua donna: un abbraccio più intimo. Ma la nebbia è fitta. L’AGIP-MUREX, partita da Siracusa, porta provviste ad un’altra nave operante nei pressi del pozzo petrolifero Nilde. Tutto procede secondo il previsto. Poi, ad un tratto, l’assurdo, l’incomprensibile che si concretizza atrocemente in quell’urto fatale, tremendo, irreversibile. È la fine. Ma cosa succede? A bordo non si capisce bene. Certo è che l’AGIP-MUREX comincia ad imbarcare acqua; forse sta per affondare. Di fronte, la prua squarciata di una nave: è l’AMBRA della marina egiziana. Fra i marinai d’ambo le parti è il caos. C’è chi si butta disperato e chi non sa risolversi. Francesco corre trafelato dal comandante che, a suo dire, lo vede vivo per l’ultima volta, poi più nulla. Il rimorchiatore di lì a poco affonda. I naufraghi sono tutti raccolti dalla stessa nave egizia. Ma non proprio tutti. Francesco non si trova. Non c’è. È finito di certo in mare. Non si troverà più. No, Francesco non tornerà più a casa. È lì, sul fondo, da qualche parte, con tutta la sua voglia di vivere e il desiderio di abbracciare i suoi. Con la sua dignitosa giovinezza stroncata. E LUI, il Mare, questo tesoriere, questo conservatore geloso, possente, non perdona gli errori umani. Lui prende e non dà nulla indietro. Nessuno torna vivo dai suoi gorghi! Passano i giorni e di Francesco purtroppo non si trova neanche il corpo. Il bollettino dirama la notizia della sua scomparsa dandolo per disperso. Ma è solo pietà marinara. Sono vuote parole che non convincono, che non appagano. E la disperazione e l’angoscia pervadono il cuore di chi lo ama, di chi lo ha amato. Della moglie, di Antonella, di Angelo, del padre, i cui capelli paiono essere diventati ancora più bianchi, di colpo, dal dolore. Lui che si trascinava già sulle spalle tutti quei suoi anni, pur poca cosa di fronte a quelli, sebbene pochi, ma risultati tanti, tali da decretare che il figlio, l’unico adorato figlio morisse. Ma la spada più violenta del dolore colpisce te, povera madre, cui non sarà più

Pagina 14 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania NECROLOGIO PER UN MARINAIO Anna Bartiromo concesso neanche stringere al petto i miseri cari resti disfatti. Già che seppure si riuscisse a trovare quel suo giovane corpo straziato, allora bisognerebbe pensare prima a recuperare il tuo cuore e a ridartelo, perché, pregno di sofferenza e di dolore, sta ormai giacendo accanto a lui. Ma ecco che di lassù, Qualcuno, nel tentativo di detergere un po’ le tue lacrime, povera inconsolabile madre, ti consegna qualcosa di lui, qualcosa strappato alle acque che durante le notti di vento giunge al tuo orecchio mutato in parole: - Madre mia, so che i giorni, i mesi, gli anni non potranno giammai ridonarti quella serenità che sempre ti si leggeva in viso quando mi sapevi vivo. Eppure la certezza di aver compiuto fino all’ultimo il mio dovere e di averlo fatto con responsabilità e meticolosità dovrebbe almeno servire a farti sentire moralmente appagata e tranquilla. Non è stato il mare ad uccidermi bensì la distrazione umana, il caso o forse la fatalità o anche il destino se vuoi, ma non il mare. Perciò non odiarlo. Esso è e resta comunque un quid più grande di noi; un Immenso ridotto in piccole dimensioni ma, pur sempre, immenso. Ora cessa di piangere. Tutto ciò che il Mare possiede o trattiene in qualche modo è eterno ed io sarò con Lui o, almeno, lo sarà il mio ricordo. Proteggi insieme a mio padre con quell’amore che avresti ancora riversato su di me per il resto dei tuoi anni, finché puoi, i miei figli e baciali per me. Intanto porgi un saluto alla mia donna. Cercami nelle notti di nebbia, o madre, forse sentirai ancora la mia voce. Ora addio. Vi abbraccio. Franco.

L’autrice dei due racconti Anna Bartiromo di Piano di Sorrento

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Il nostro Circolo promuove da alcuni anni mini-crociere nell’incantevole mare di Sicilia con le confortevoli e veloci navi Jet di Bluvia R.F.I. del Gruppo Ferrovie dello Stato: un evento per valorizzare il Porto di Riposto e dimostrare la convenienza delle “autostrade del mare”.

Il sindaco di Riposto, on.le avv. Carmelo D’Urso, ai comandi della nave veloce “Segesta Jet”.

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Firmino Perfetto

PROMESSA DI MARINAIO

l giorno del prepensionamento fu il più nero della mia vita, non tanto per aver Iperduto la magica bacchetta del comando, ma perché mi vidi improvvisamente e prematuramente restituito alla famiglia, subito inquadrato nel ruolo di rompiscatole e immediatamente promosso al grado di ducetto, inutile a me stesso e di peso agli altri. Contrariamente a quando venivo in licenza ora la vita di terra mi pesava, dopo anni trascorsi in mare mi riusciva difficile riambientarmi nella società tra la gente civile, nel traffico cittadino, tra gli amici ed i soci del Circolo. Ero come si suole dire “un pesce fuor d’acqua”. Forse mi sarebbe piaciuto fare delle lunghe passeggiate in campagna per ritemprarmi nel corpo e nello spirito, ma gli acciacchi e l’età non me lo consentivano più. Allora non mi rimase che rintanarmi in casa, la lettura e la musica classica sono il mio passatempo di sempre, e mi rinchiusi tra le quattro pareti del mio studio a dar sfogo alla fantasia di scrittore (da strapazzo), e ad imbrattar tele. Ripresi a salire in soffitta come facevo da bambino rovistando tra le vecchie cose, e riscoprii i miei diari di ragazzo e i vecchi libri di scuola. In una valigia di cartone corrosa dal tempo e dal salino trovai alcuni libri di bordo lasciati nel dimenticatoio, in particolare un quaderno di calcoli stellari dei primi tempi, giorno per giorno, traversata per traversata e presi a sfogliarlo. Rette d’altezza e passaggi in meridiano si susseguivano alternandosi nella traccia dei punti nave, precisi e ordinati, ancora col sapore dei banchi di scuola. Voltavo le pagine con mani tremanti e non solo dall’emozione, fogli ingialliti nel tempo che facevano parte dei miei primi giorni di vita marinara, e mi rividi a bordo seriamente impegnato tra turni di guardia e posti di manovra, in sala comando e in segreteria alle prese con carte nautiche e scritturazioni varie, così tra una pagina e l’altra, nella pagina che annotava l’atterraggio a Riposto, dove in grassetto avevo scritto “Porto dell’Amore”, in un alone azzurrognolo misteriosamente modellato a forma di cuore, apparvero alcuni petali appassiti, quasi diafani. Palpai quei petali che per anni erano rimasti ancorati tra i punti nave nel quaderno dell’Amore, quasi che al tatto potessero rifiorire, e la nebbia che aveva offuscato il

Pagina 17 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° mio cervello e il cuore sparì di colpo, e lasciando posto ai ricordi mi riportò al passato al mio primo imbarco, all’arrivo a Riposto in quel lontano mese di Marzo. La piccola cittadina Siciliana si aprì all’improvviso davanti alla prua, nella bruma del mattino che ancora s’attardava lungo la costa, con le case addormentate sotto l’Etna imbiancata, e a mano a mano che la nave procedeva, la brezza di terra ci portava il profumo della terra di Sicilia, la fragranza delle zagare, dei peschi e dei mandorli in fiore disseminati nel verde dei colli alle pendici dei monti. Il pilota era fuori porto ad aspettarci in un piccolo gozzo di pescatori, cercando di farsi largo a bandiera spiegata tra una flottiglia di pescherecci che si portavano all’ormeggio scortati da nuvole di gabbiani rumorosi e festaioli, che in voli incrociati si tuffavano tra i vortici alla ricerca del pesce scartato. In tutto quel bailamme il pilota si dava un gran da fare per segnalarci la sua presenza e farci strada, ma il Comandante era pratico del posto ed in pochi minuti fummo in banchina. In porto, dopo aver sbrigato le pratiche d’arrivo, chiesi il permesso di scendere per curiosare in paese, pochi minuti soltanto perché la nave era già in partenza. Appena a terra notai che in banchina vi era un gran fermento, ma subito fuori del recinto portuale, le case che si affacciavano sul lungomare riposavano tranquille nel vago chiarore dell’alba, e le strade apparivano quasi del tutto deserte. Guidato dai rintocchi di una campana non molto lontana, attraversai il viale che costeggia il litorale con passo spedito, quasi di corsa per il poco tempo a disposizione, e non in perfetta lucidità mentale in quanto ero ancora assonnato per la sveglia mattutina cui non ero abituato. Per la prima volta e da pochi giorni soltanto ero stato strappato alla famiglia e alle mie abitudini di sempre, ed ero ancora spaesato, anche se a bordo dal Comandante al mozzo mi avevano subito accettato con comprensione e simpatia. Così preso dai miei pensieri, nella scia del dondolio della nave che mi seguiva anche in terraferma facendomi barcollare come un ubriaco, stavo per immettermi in una delle numerose stradine che portano in centro, quando nello svoltare investii involontariamente ma bruscamente, una ragazzina che proveniva in senso inverso recando un grosso fascio di fiori che le copriva parzialmente il viso. Mortificato, prontamente mi bloccai sbilanciato sulle gambe, e la guardai negli occhi cercando di scusarmi, ma al momento non trovavo le parole adatte, o peggio, farfugliai parole incomprensibili e senza senso, anche perché mi aspettavo una violenta e quanto mai giustificata reazione, ma m’imbattei in due splendidi occhi azzurri profondi come il mare, un sorriso dolce leggermente solcato da un velo di malinconia che rendeva ancora più bello quel meraviglioso faccino di bambina, e rimasi pietrificato sul posto letteralmente attaccato al suo corpo. E in quell’atteggiamento, al contatto di quella giovane creatura di rara bellezza, sbocciata forse dai pennelli di Raffaello e di Tiziano che congiuntamente avevano dato

Pagina 18 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania PROMESSA DI MARINAIO Firmino Perfetto corpo a quella stupenda figura di donna, tra i fiori percepii distintamente anche il suo profumo, inebriante e voluttuoso, ed il battito del suo cuore, che non era dì paura. Entrambi sorpresi e impacciati rimanemmo a lungo a guardarci in una crescente eccitazione, col desiderio e l’entusiasmo della nostra giovane età, interrogandoci negli occhi cercando di scoprire nel più intimo dei nostri sentimenti, tutti e due improvvisamente folgorati dal Dio Cupido. ... “Ero distratto” riuscii a dire, “mi creda non l’ho fatto di proposito”. E poi, cercando di farmi perdonare, “spero stia bene”, dissi. “Non potrei star meglio” mi rispose con un sorriso, e continuando, forse affascinata dalla divisa che indossavo, mi chiese, “Siete voi il Comandante di quella nave che è appena entrata in porto?” “No” risposi, “sono l’allievo ufficiale, ma un giorno sarò Comandante”. Non avevamo altro da dirci, almeno apparentemente, e la nostra conversazione finì sul nascere. Giusto il tempo di salutarci. Ma nel guardarla meglio, nel vederla allontanare nel suo incedere elegante e flessuoso di donna già fatta, forse un po’ civettuola, con i biondi e lunghi riccioli fluttuanti sulle spalle, nel profumo dei fiori come una Sirena messaggera d’amore inviata dal Dio Nettuno, ammaliato da quei grandi occhi azzurri luminosi come due stelle, novello Ulisse mi innamorai perdutamente a prima vista. Più ebete che mai e col cuore in fiamme mi inoltrai tra le case, mi portai nella piazza prospiciente il porto, comprai un giornale, delle cartoline, mi fermai ad ammirare la magnifica facciata della chiesa di San Pietro che domina la piazza stessa, entrai, accesi un cero e stavo per far rientro a bordo, quando mi sentii chiamare: “Capitano, capitano”, mi disse avvicinandosi timidamente, ma con fare deciso la ragazza di prima, “tra i fiori ho scelto una pansé, vi prego tenetela per me”, e con le mani tremanti me l’appiccicò con delicatezza sul petto, tra i bottoni dorati del giubbotto all’altezza del cuore. Per la seconda volta in quel poco tempo rimasi senza parole, affascinato dalla sua grazia e dalla sua bellezza, e la guardai nuova mente negli occhi, a lungo, intensamente, e in quegli occhi imperlati da una lacrima di gioia, che ora apparivano più luminosi e azzurri che mai, vi lessi tanto amore, e abbracciarla, stringerla forte al cuore, e gridarle tutto il mio amore, ma la piazza pettegola e intrigante frenò il mio slancio di passione interrompendo improvvisamente, come improvvisa si era creata, la nostra magica storia nel momento più esaltante. “Tornerete” mi chiese ansiosa, stringendomi per mano. “Tornerò”, le promisi. E nel raccogliere furtivo un ultimo sguardo, scappai. ... Il destino, incontrastato artefice di tutte le umane vicende, come in una favola, ci aveva fatto incontrare e aveva stampato i nostri cuori nel libro dell’Amore.

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Ma a Napoli fui trasbordato, e da nave a nave, da porto in porto, preso nel turbine della vita di mare, ben presto dimenticai quella giovane Siciliana, il destino che ci aveva fatto incontrare beffardamente mi portò su altre rotte, l’incantesimo si era rotto e oggi vorrei chiederle scusa per essere entrato nei suoi sogni di bambina, e farmi perdonare la delusione che, per colpa mia si è portata dentro nel suo primo incontro con l’amore. Questa sera dopo tanti anni sono tornato a Riposto con le mie storie di mare, tra la Gente del Mare, tra le voci del mare, e la piazza pettegola e intrigante come sempre, mi ha raccontato sottovoce una storia d’amore, e mentre geloso ascoltavo, trasportato dalle dolci melodie ho sentito risuonare all’orecchio una voce lontana, una voce accorata che in lamento d’amore mi chiedeva, “Tornerete, mio capitano?” “Tornerò”, rispondevo bugiardo. Questa sera Riposto con le sue mille e mille luci, come un’aristocratica Gentildonna ingioiellata, mi ha accolto a braccia aperte come la prima volta, offrendomi l’ospitalità e il calore della generosa terra di Sicilia, e profondamente emozionato, nostalgico, ho ricordato quel mio giovane amore che il cuore distrattamente aveva dimenticato, ma non cancellato, e nel rivivere la mia storia laddove, per una volta ancora il fato mi ha portato, ho guardato negli occhi di tutte le Signore che ho incontrato con lo stesso batticuore dei miei vent’anni, e ho cercato, ma non ho saputo cercare, forse non ho voluto trovare, quegli occhi ormai appartengono ai fantasmi del passato, e non ritorneranno più...... In un libro di bordo ho trovato una pansé, e il dolce tuo ricordo che ancora vive in me. Nel mio distratto amore sola e dimenticata, languivi nel mio cuore bambina innamorata. Veloce il tempo è passato e non ritornerà più, ma quel dì si è fermato negli occhi tuoi blu. Quel libro di bordo or chiudo lentamente, e per sempre in ricordo conservo una pansé.

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Giovanni Pagano

PASSAGGIO DEL CANALE DI SUEZ

l “Gioacchino Lauro” aveva gettato l’ancora nella rada di Port Said la sera del I4 giugno 1967 in attesa del turno per la formazione del convoglio, per attraversare il Canale di Suez. Subito dopo venne accerchiato dalle barche dei mercanti Egiziani che aiutandosi con degli arpioni salirono a bordo arrampicandosi lungo la murata come degli scoiattoli. Con una funicella incominciarono a tirare su scatole di cartone e valigie piene di cianfrusaglie. I carruggetti e le salette della nave in breve tempo si trasformarono in bazar con tutta la merce per terra e sui tavoli. L’equipaggio subito cominciò a trattare per l’acquisto di qualche souvenir, portacenere con la testa della Regina Nefertide e di Ramses III, qualche cuscino di pelle di cammello che puzzava maledettamente di caprino; qualcuno sfogliava delle cartoline, altri erano interessati alla compera di certi sandaletti, sempre di pelle di cammello, fatti con le punte all’insù come nella fiaba della lampada di Aladino. Ormai tutto l’equipaggio aveva formato vari capannelli davanti a questi negozi improvvisati, e man mano che il tempo passava, il mercatino si riforniva di nuove cose, la merce saliva e scendeva dalle barche secondo le richieste. Chi passava per la prima volta il Canale era più attratto da quelle cose orientali con quei disegni arabeschi, ma tutti, chi più chi meno, compravano qualcosa. Il marittimo in genere è fatto così, dovunque va deve comprare qualcosa, anche se sono cose inutili e non servono a niente, come dicono i familiari: “Sono solo acchiappa polvere”. Ma la tentazione è così forte che non se ne può fare a meno, poi gli Arabi sono così abili nel commerciare e nel convincerti agli acquisti, meglio ancora di Totò che riuscì a vendere la Fontana di Trevi. Il nostromo Ciro Palomba, un pezzo di Marcantonio sui cinquant’anni, si soffermò anche lui a poppa e voleva comprare delle magliette di cotone. «Questo essere cotone egiziano, molto buono», disse l’arabo. Il nostromo prese la maglietta e poggiandola sul petto fece notare che era troppo piccola, non le copriva neppure l’ombelico, voleva una misura più grande, ma le magliette erano tutte unica misura. Il mercante con occhi vispi da levantino, parlando un discreto italiano, gli disse:

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«’Nosdromo’ queste magliette non essere piccole, perché quando lavare diventare grandi». Lo convinse così bene che invece di due ne comprò sei. Le pagò, se li mise sotto braccio e si allontanò portandosele in cabina. Il nostromo aveva appena voltato le spalle quando si presentò l’allievo di macchina Bruno Esposito anche lui interessato alla compera delle stesse magliette. Ma siccome era mingherlino e magro come un chiodo, chiese se poteva avere la misura più piccola, perché quelle le arrivavano ai piedi come una sottoveste. Il mercante Mustafà non si perse d’animo e con prontezza d’animo rispose: «Per Dio, queste grandi? No grandi! Quando tu lavare diventare piccole». L’allievo si fece convincere, ed anche lui ne prese mezza dozzina. Quelle magliette, per bocca del mercante, come per incanto e magia si allargavano e si stringevano come un organetto. Anche il Comandante Martino Cafiero, dopo essersi rasato in attesa dell’agenzia Norton and Lilly per l’assegnazione del posto in convoglio, assieme al Direttore di macchina Corrado Maresca si misero a curiosare come tutti gli altri. Essendo dei veterani sulla linea Trieste - Golfo Persico, conoscevano tutti i mercanti per nome e cercavano un certo Giovanni, soprannominato “Giovanni senza ” poiché dava la merce ripetendo sempre: «Giovanni vendere senza soldi, non avere soldi? Poi pagare!». Non appena ti vedeva andare in cabina, già era dietro la porta a bussare per essere pagato. Tutte le navi che passavano per Suez conoscevano Giovanni, era un personaggio famoso per tutti i naviganti. Mustafà drizzò le orecchie quando sentì pronunciare il nome di Giovanni e senza pensarci un istante rispose subito: «Comandante, io essere Giovanni II, io essere stessa cosa, vendere senza soldi». Anche per me non era la prima volta che passavo il Canale, ma tutte le volte mi piaceva guardare e curiosare, e nello stesso tempo comprare qualcosa. Mi soffermai davanti a una coppia di poofs fatti con dei ritagli di pelle di cammello, poggiati sopra dei tappeti con disegni orientali dove stavano raffigurati dei minareti con delle palme e delle case arabe fatte a cupola. Dall’orlo del tappeto s’intravedeva appena l’etichetta con la scritta Made in , mentre il falso “Giovanni senza soldi” lo spacciava per vero tappeto originale egiziano. Scartai pertanto l’idea di comprare i tappeti scansandomi la bidonata. Mi orientai su qualche oggetto che effettivamente fosse di artigianato locale, e m’interessai di una coppia di sgabelli di legno massiccio scolpiti a forma di cammelli. Mustafà s’accorse subito del mio interesse per questi sgabelli e subito mi disse sussurrandomi piano all’orecchio: «Tu essere grande amico, per te prezzo molto buono». «Quale sarebbe questo prezzo?», dissi. «Con quale moneta tu pagare?», mi rispose l’arabo sbirciandomi bene negli occhi. «Dollari americani. - Dollari americani … duecento dollari». Ed io «Sarebbero quante sterline inglesi?». E lui «Sterline inglesi… sterline inglesi… centoventi sterline». «E se ti pago in dollari siciliani?». Fece un sobbalzo come se fosse inciampato davanti ad un ostacolo, poi si mise a rimuginare e ripeteva

Pagina 22 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania PASSAGGIO DEL CANALE DI SUEZ Giovanni Pagano lentamente, «dollari siciliani … dollari siciliani…», passando in rassegna nella sua mente tutte le monete da lui conosciute, alla fine s’arrese, «dollari siciliani… dollari siciliani… non conoscere… non conoscere». Si rivolse al suo amico parlando in arabo chiedendogli se conoscesse i dollari siciliani. L’amico scosse la testa facendo una smorfia con le labbra e dicendo di non conoscerli, ma voleva vederli. Mustafà si rivolse nuovamente verso di me dicendo: «vedere…vedere». Dopo tutti questi preamboli e scherzetti di parole passai alla trattativa vera e propria e gli dissi che volevo pagare in lire italiane e di dirmi l’ultimo prezzo. «Tu volere comprare veramente? Dare duecentomila lire per tutti e due, se adesso non avere soldi, pagare quando nave tornare». Gli risposi che volevo pagare subito e per tutti e due gli davo ventimila lire. «Perché per Dio, dire subito prezzo “ruffiano”?». Alla fine, fra tira e molla, concordammo per cinquantamila lire. Io pensavo di aver fatto l’affare, ma non fu così poiché quando sbarcai gli stessi sgabelli li vidi a Forcella a Napoli al prezzo “ruffiano” di lire ventimila. Comunque quel giorno era contento l’arabo per aver fatto l’affare e, più contento di lui, ero io, sicuro di aver fatto un affarone. Dopo circa dodici ore di attesa a Port Said, il convoglio si mosse per iniziare l’attraversamento del canale. Accodandoci alle altre navi, sfilammo lentamente davanti al piedistallo dove nel 1869 fu poggiata la statua in onore dell’ingegnere francese Ferdinando De Lesseps, ideatore ed impresario del Canale, statua che fu abbattuta nel 1956 dalla furia rivoluzionaria Nasseriana, che proclamò la nazionalizzazione del Canale. A bordo rimasero i barcaioli, gli elettricisti addetti al proiettore per l’illuminazione del Canale durante le ore notturne, due guardiani e due piloti, entrambi Ucraini. Durante il passaggio i barcaioli esposero la loro merce da vendere, e giravano per le cabine in cerca di qualche acquirente e se per caso le trovavano aperte s’infilavano dentro, senza chiedere permesso. Ti offrivano con fare circospetto delle foto pornografiche in bianco e nero chissà quante volte riciclate, stampate e ristampate. Poi frugando nelle tasche sbrogliavano un pezzo di carta guardandosi intorno fingendo di non farsi notare dai compagni e ti facevano vedere della polverina bianca che asserivano di essere hascish. Un altro ti veniva vicino e ti sussurrava piano all’orecchio, «volere mosca canterina per madama?». Secondo loro aveva un potere afrodisiaco portentoso e straordinario. In cambio ti chiedevano un po’ di tutto, dalla scatola di latte condensato al caffè, allo zucchero, dalla carne in scatola ad un pezzo di formaggio; insomma per loro tutto faceva brodo. Lungo le sponde del canale si notavano dei soldati che bivaccavano, con un fucile a tracolla tipo 91, vicino a delle autoblindo attorniate da cani randagi e rinsecchiti. Quando fummo di fronte ad El Quantara ed a El Ismailia, incuriosito chiesi ai barcaioli, come mai c’erano quei soldati lungo il canale. «Soldati stare molto attenti, fare guardia, sorvegliare canale, perché ebrei non venire da questa parte, esercito egiziano essere molto forte, Nasser essere grande capo, essere

Pagina 23 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° presidente di RAU (Repubblica Araba Unita) non solamente Egitto, tutto popolo arabo forte “Nasser El Kebar come Allah” (Nasser è grande come Dio)». Siccome a me piaceva ascoltarli, incominciai a stuzzicarli un poco sull’amor patrio. «Ma cosa dite, Israele è fortissimo, vi ricordate nel 1956 quando i soldati israeliani arrivarono fino a qui, in un solo giorno e se non fossero intervenuti gli americani ed i russi arrivavano fino al Cairo?». «Questo non essere vero, perché Israele essere aiutato da inglesi, francesi ed americani, Israele non forte, essere forti soldi americani». Intanto eravamo arrivati ai laghi Amari, dove incrociammo il convoglio che risaliva da Suez a Porto Said. Alle prime luci dell’alba del giorno 6 di giugno uscimmo dal Canale avendo davanti a noi il Mar Rosso. Salutammo i due piloti che, dopo aver ricevuto la loro stecca di sigarette dalle mani del Comandante, chiesero se potessero avere in regalo qualche mela, poiché avevano dei bambini a casa ed in Egitto era difficile trovarle. Il Comandante naturalmente non se lo fece ripetere due volte e gliene regalò una cassetta. Ormai eravamo in mare aperto, il nostromo chiamò i giornalieri ed i marinai franchi di guardia per iniziare il rassetto della nave. Poi si recò a prora dove subito notò che mancavano due cavi d’ormeggio, e che la cala della pittura era completamente vuota. Tornò di corsa che tirava il fiato, in cerca del Primo Ufficiale per dirle che durante la traversata del Canale, o durante la sosta in rada, erano spariti due cavi e tutte le latte della pittura. Il Primo Ufficiale Donato Frulio a tale notizia diventò rosso come un peperone, i capelli si rizzarono in testa, non si faceva capace come era potuto accadere tutto questo, in quanto lui personalmente aveva controllato tutte le cale, le discese delle stive, mettendo lucchetti a destra e a manca. Il povero uomo non si dava pace e non sapeva come dare la notizia al comandante Martino Cafiero che conoscendo bene gli arabi non aveva fatto altro che raccomandare centinaia di volte: «State attenti ragazzi che gli Arabi sono tremendi, peggio di noi napoletani». Figuratevi la faccia che fece quando apprese dal Primo Ufficiale che avevano vuotato la cala della pittura e rubati due cavi d’ormeggio. «Adesso come faccio, adesso come mi giustifico, alla “Flotta Lauro” cosa ne pensano?». Lo sfortunato Martino Cafiero sbatteva la testa contro le paratie della nave. Poi alla fine si calmò e quasi rassegnato disse: «Va bene, siccome la colpa non è soltanto mia, ma di tutto l’equipaggio vuol dire che aumenteremo il costo delle sigarette, e con il fondo nero compreremo tutto ciò che ci hanno rubato». Sparsasi la voce che avevano svaligiato la cala di prora, ognuno si mise a controllare la propria cabina. A chi era sparito l’orologio, a chi cento dollari, a chi la fede nuziale. L’allievo di macchina Bruno Esposito, appena smontato di guardia, si precipitò subito in cabina ed ebbe un colpo quando non trovò sul comodino, vicino alla cuccetta, la cornice d’argento con il ritratto della fidanzata. Era arrabbiatissimo, non per il valore venale della cornice, ma per la foto della sua Concettina, che lui custodiva con tanta gelosia. Aveva giurato alla ragazza che avrebbe rispettato in

Pagina 24 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania PASSAGGIO DEL CANALE DI SUEZ Giovanni Pagano ogni momento la frase che lei aveva scritto: «Al mio caro Bruno perché guardandomi mi pensi e pensandomi mi guardi! - La tua per sempre Cettina». Tutto il giorno non si parlava d’altro che di quello che era accaduto, ma siccome mal comune è mezzo gaudio ci scherzavamo sopra. Il garzone di cucina Carmine Borriello sistemò due lenze di poppa con dei grossi ami e per esca mise un pezzo di stoffa bianca. Il Mar Rosso è un mare pescoso, ricco di lucci imperiali, alalunghe, tonni, lambuche e squali. Alle lenze aveva sistemato una specie di “marchingegno” fatto con dei barattoli di latta, per dare l’allarme quando il pesce abboccava. Questo era il momento più divertente, tutti ci mettevamo a tirare avendo cura di non dare “bando” alla lenza, ed era grande festa quando il pesce veniva issato a bordo. Con questo sistema mangiavamo pesce fresco e facevamo la provvista per tutto il viaggio. Il caldo del Mar Rosso era umido e appiccicoso ed il sole accecante, il Comandante ci diede il permesso, di costruire una piscina con delle tavole che rivestimmo di tela-olona e fu addobbata con delle luci colorate, con la scritta “GIOACCHINO LAURO BEACH”. Avevamo superato gli Isolotti dei Fratelli e poi quelli dei 13 Apostoli e ci avvicinammo verso lo stretto di Bab El Mandeb (La Porta delle Lacrime) per passare nell’Oceano Indiano. Il “Gioacchino Lauro” non aveva radio telefono e le uniche notizie che sapevamo le forniva il Radiotelegrafista, un giovane buontempone di Torre del Greco, Gennaro Falanga, che affiggeva tutti i giorni nelle salette un foglio della rassegna stampa di Roma Radio fornita dall’ANSA. Questo foglio lui l’aveva battezzato col nome di “L’Avanzo del Peppino”. Fu così che il giorno 7 giugno apprendemmo proprio da “L’Avanzo del Peppino” che erano scoppiate le ostilità fra Israele e l’Egitto ed i suoi alleati, e che gli Israeliani come nel 1956 avevano subito occupato il canale, marciando speditamente alla volta del Cairo. Subito mi vennero in mente i discorsi dei barcaioli, «Egitto molto forte, Nasser grande uomo, noi mangiare tutto Israele». Mi venne in mente anche tutto quello che si erano rubato. La guerra come tutti sanno durò un baleno, fu detta la guerra dei sei giorni, l’Egitto perdette il Sinai, la Siria le alture di Golan e la Giordania la Cisgiordania. Ma la guerra fra Egitto ed Israele complicò anche a noi le cose, per poco non rimanevamo intrappolati nel Canale come tante altre navi. Il Comandante Martino Cafiero era diventato nervoso poiché diceva che capitavano tutte a lui, ci mancava adesso la chiusura del Canale. Dopo la discarica in Golfo Persico ci aspettava la circumnavigazione dell’Africa.

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Il cap. sup. d. m. Giovanni Pagano di Torre del Greco

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Giovanni Di Mauro

UN MARINAIO RACCONTA

ustri ne sono passati parecchi, ma il ricordo di un Santo Natale che credevo Lfosse l’ultimo della mia vita è rimasto impresso nella mia mente indelebilmente. Non occorre frugare nei meandri più nascosti per raccontare dettagliatamente queste reminiscenze. Infilo una “cassetta” immaginaria nel video-registratore della memoria e mi rivedo sullo schermo della fantasia; le immagini ritornano nitide, escono dal turbinio dei ricordi che avvolgono quell’epoca remota e poco piacevole della mia ormai lontana giovinezza. Anche se a volte la nebbia che si frappone alla distanza offusca la mente e che le rughe e i capelli grigi possono giustificare qualche lacuna, posso assicurarvi che di quanto mi accingo a narrare, il tempo non ha cancellato assolutamente nulla. È il secondo Natale di guerra. Nella caserma sommergibilisti ubicata nell’Arsenale di Taranto, i soliti bene informati, propalano la voce che per la solenne ricorrenza certamente ci concederanno la licenza. Questo lo speravamo tutti i componenti dell’equipaggio; il nostro battello si trovava in bacino di carenaggio per alcuni lavori d’ordinaria manutenzione, e secondo le “voci” prima di poter riprendere il mare ci vorrà ancora, a dir poco, ancora un mese. Stando così le cose, la licenza ci permetterà di trascorrere con i nostri cari oltre al Natale, anche il Capo d’Anno; del resto sono già lunghi mesi che le licenze sono “sospese” quindi che motivo ci sarebbe a non darcela? Pregustando i giorni spensierati che avremmo trascorsi a casa tra poco, quella sera ci addormentammo senza fare la solita ammuina, che immancabilmente succedeva al rientro dei “franchi” dalla libera uscita. Il mattino seguente 22 dicembre 1941, alla consueta assemblea, presenziata come ogni giorno dal sottufficiale più anziano di bordo, partecipò il Comandante in seconda del nostro battello; e questo ci rincuorò, ci parve di buon auspicio, avvalorava le “voci” di caserma che ci sarebbe stata concessa immancabilmente la licenza Natalizia. Pensavamo che fosse venuto per comunicarcelo ufficialmente.

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Iniziò chiedendoci se tutto andasse bene, se avevamo bisogno di qualcosa se ci trovavamo a nostro agio nella caserma in cui eravamo Ospitati. (Per i non informati, il personale imbarcato sui sommergibili, al rientro in porto sbarca e soggiorna nell’apposita caserma a loro riservata; a bordo rimane, e si alterna solo il personale di guardia.) Dopo i preamboli, proseguì: “Ragazzi, so cosa vi frulla per la testa, le voci sono giunte anche alle mie orecchie, che vi sarà concessa la licenza Natalizia, ma purtroppo sono voci infondate. Anche a me sarebbe piaciuto poter trascorrere il Natale con i miei, come voi tutti del resto; avevo preparato la valigia, come voi lo zainetto immagino per il viaggio, che noi tutti eravamo certi di fare per andare a casa, ma siamo in guerra e le cose capitano quando meno te l’aspetti. In ogni modo, il viaggio si fa, soltanto che quello che ci accingiamo a fare entro stasera, o al massimo domani, è di ben altra natura. Il nostro battello, contrariamente a tutte le rosee previsioni, cioè che rimanesse il più a lungo possibile in bacino, è stato rimesso in mare; i lavori sono stati ultimati anzitempo, per l’urgente necessità d’impiego, la missione c’è stata già assegnata, noi abbiamo il dovere di eseguirla. Non voletemene, per me fosse vi manderei a casa sino alla Pasqua. Preparate anche lo zaino grande e raggiungete il battello che trovasi già ormeggiato; l’ordine di partire per la missione può giungere da un momento all’altro, non avete molto tempo a disposizione”. Il nostro disappunto, ve lo lasciamo immaginare; provammo la sensazione che il Mondo c’era crollato addosso. Sciolta l’assemblea rientriamo in caserma bofonchiando; la licenza ormai era svanita, ed ognuno prendendo i propri zaini si avviò mugugnando verso il battello che ci attendeva, dondolandosi all’ormeggio. Lasciamo la Base di Taranto nella tarda mattinata del 23 Dicembre. Dalla banchina sommergibili posta in mar piccolo, a lento moto, dirigiamo verso il canale navigabile che congiunge col mar grande; giunti sotto il ponte girevole, dagli spalti del Castello Aragonese come di consuetudine per tutte le navi da guerra che lo attraversano nei due sensi, un picchetto armato di marinai e tre squilli di tromba ci rendono gli onori. Una piccola parte dell’equipaggio schierato in coperta, e il Comandante in torretta, sull’attenti rispondono al saluto. Nel cielo si sono addensate nuvole nere che non lasciano presagire nulla di buono, il vento che alitava moderatamente ora soffia con intensità. I lampi, con sordi boati squarciano il cielo plumbeo e dalle nuvole pregne comincia a scendere una fitta pioggia. Il mare sotto la prepotente sferza del vento s’ingrossa sempre di più, il freddo è pungente. Appena fuori delle ostruzioni del mar grande si aumenta la velocità; grosse incappellate d’acqua investono il battello e si frantumano contro la torretta una

Pagina 28 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania UN MARINAIO RACCONTA Giovanni Di Mauro dopo l’altra incessantemente. Lontana la Città e scomparsa, le vedette legate saldamente in torretta scrutano con i potenti binocoli la superficie del mare. Il moto ondoso diventa più insostenibile, il battello beccheggia e rolla paurosamente, le vedette vengono flagellate dalle onde. Navighiamo in superficie sino al tramonto, la sera sta scendendo lentamente, tra non molto distenderà il suo lugubre mantello nero della notte. Il Comandante ordina l’immersione; scendiamo nell’habitat naturale del sommergibile che sono i profondi e silenziosi abissi dove tutto è pace. I “franchi” dalla guardia si sdraiano nelle cuccette a fantasticare prima di addormentarsi; trascorrere il Natale in navigazione, anziché a casa come si presagiva non allieta certo il morale; poi cullati dal ritmo cadenzato dei motori elettrici alfine si addormentano. Tutti gli altri sono ai loro posti di manovra e di combattimento, gli idrofoni sempre pronti a captare il più lieve rumore di motori di navi in superficie. Navighiamo in immersione per tutta la notte. Alle prime luci dell’alba il Comandante ordina: “Quota periscopica” per scrutare la superficie del mare prima di affiorare. Emergiamo, il mare è sempre in tempesta; le vedette si piazzano ai loro posti legati ancora più saldamente ad evitare che le ondate le trascini in mare. Navighiamo in quel mare procelloso sballottolati come fuscello di paglia, la furia del mare non accenna a placarsi. Dobbiamo necessariamente navigare in superficie per dar modo agli accumulatori di ricaricarsi. Verso le dodici c’immergiamo, per consentire al cuoco di bordo di preparare il pranzo. Scesi ad ottanta metri il battello dondola appena, quindi le pentole non corrono il rischio di rovesciarsi e noi di mangiare carne in scatola e pane biscottato. Al tramonto torniamo ancora in superficie. Il mare ora è meno rabbioso. Anche il vento soffia con minore intensità. Il freddo invece sempre più pungente. Le vedette scrutano il mare con i binocoli notturni, cercando di violare l’oscurità che nel frattempo è scesa sul mare. Il tempo scorre tranquillo e monotono; le vedette si danno il cambio ogni ora, per riposare la vista e per cambiarsi con divise asciutte, quelle fradici che gli si sono incollate addosso. Ad un tratto una delle vedette grida: “Laggiù mi è parso di intravedere una sagoma di nave da carico”. Il Guardiamarina presente in torretta, punta il binocolo nella direzione segnalata dalla vedetta; dopo aver guardato attentamente esclama: “Sì, è proprio una nave da carico e anche di grosse dimensioni”. “Si segnali al Comandante l’avvistamento”. Il Comandante sale in torretta, prende il binocolo di una vedetta e guarda attentamente nell’oscurità; mette a fuoco la sagoma e ne valuta la distanza in

Pagina 29 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° cinquemila metri, ordina di mettere i motori a tutta forza ed il posto di combattimento. Giunti all’incirca a duemila metri di distanza, si rilevò che la nave avanzava a fatica, forse per un’avaria alle caldaie e per giunta senza alcuna scorta. Evidentemente lasciata indietro dal grosso del convoglio di cui certamente doveva far parte. Certamente le navi di scorta, che proteggevano le navi da carico, di tanto in tanto ritornavano per accertarsi che tutto andava bene. Al nostro sopraggiungere era completamente indifesa. “Perdiana, -esclamò il Comandante - è una grossa preda” e sollecita di avvicinarci sempre di più al bersaglio. Ad una distanza di 1.500 metri si vede nella sua interezza la grossa nave, lunga circa 120 metri e fortemente zavorrata dal carico che trasportava che si notava anche lungo le murate. Alla distanza di 1.000 metri il Comandante ordina di sparare un colpo di cannone davanti alla prua per intimarle di fermarsi; ma dalla nave rispondono per le rime: rispondono all’intimazione sparandoci col cannone di cui era dotata, il colpo cadde in acqua a pochi metri dal battello. Il nostro Comandante, che era intenzionato di far sbarcare l’equipaggio e di porlo in salvo nelle scialuppe per poi affondare la nave nemica, nel vedersi accolto così poco garbatamente fa sparare un altro colpo davanti alla prua, e anche questa volta ci risponde con una cannonata che s’infila in mare davanti alla torretta, quindi intenzionati a mandarci a fondo. Il Comandante, che aveva già ordinato di approntare i siluri, ordina di indirizzarne due contemporaneamente al centro della nave. Passano pochi secondi, con la loro fragorosa eloquenza, i siluri dicono di aver raggiunto il bersaglio in pieno. Si vide un’enorme vampa di fuoco accecante seguita da una forte deflagrazione, violenta come un boato di un Vulcano in eruzione. Una detonazione di migliaia di chili di tritolo. Sembra un cataclisma. Il nostro battello ondeggia paurosamente investito dall’onda sollevata dall’esplosione e dallo spostamento d’aria. Non c’è alcun dubbio: la nave era carica di munizioni ad alto potenziale. Spezzata in due tronconi rapidamente affonda scomparendo nelle profondità del mare che avido gli si chiude sopra. Ci dirigiamo sul luogo dove è scomparsa la nave per recuperare eventuali naufraghi; le ricerche sono infruttuose, dell’equipaggio nessuna traccia, non vi sono superstiti. Riprendiamo la navigazione in superficie. Sono le ore 22 del 24 dicembre. Non era trascorso nemmeno un quarto d’ora dall’accadimento, che nel buio della notte a circa quattromila metri lampeggiano e tuonano i cannoni: e il nemico che

Pagina 30 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania UN MARINAIO RACCONTA Giovanni Di Mauro c’insegue attaccandoci con rabbia e decisione. Il Comandante attraverso il binocolo riconosce le sagome di due caccia Inglesi che avanzano verso di noi a tutta andatura. Il forte boato della nave saltata in aria aveva richiamato al loro dovere di protezione, che era venuto a mancare, lasciando imprudentemente senza scorta quella nave per proteggere il grosso del convoglio. I proiettili piovono tutti intorno al nostro battello innalzando grosse colonne d’acqua; due potenti riflettori scrutano il mare cercandoci alcuni bengala accesi fanno diventare giorno la notte. I due caccia dirigono su di noi a tutta forza ben decisi a speronarci; intanto i colpi diventano più numerosi e più vicini, man mano che aggiustano il tiro favoriti dalla luce dei bengala. Il Comandante è conscio che non possiamo affrontarli, la lotta sarebbe impari, l’unica soluzione è il disimpegno e ordina: “Sgombrare il ponte, immersione rapida”. L’ultimo uomo sul ponte fa appena in tempo a rientrare nel battello chiudendosi il portello sulla testa, che il mare ci ha già ingoiati. Scendiamo rapidamente; il manometro che segna la profondità gira celermente, siamo già a novanta metri; a cento metri dovremo arrestarci, questa era allora la profondità normalmente considerata come massima raggiungibile in condizioni di sicurezza dello scafo. Sentiamo agli idrofoni che i due caccia sono vicinissimi, il vorticoso giro delle eliche e il frastuono dei motori li sentiamo nitidamente e ancor più le prime bombe di profondità che iniziano a sganciare. Intanto continuiamo a scendere, siamo a 120 metri, oltre il limite massimo di collaudo e questo preoccupa non poco. Le bombe lasciate cadere implacabilmente ed incessantemente dalle due unità nemiche intenzionati a squarciare lo scafo, scoppiano a poca distanza dal battello, imprimendo allo stesso sobbalzi, ricadute paurose. Il fragore degli scoppi ci provocano: stordimento, sordità e tremore persino nelle budella. Una torpedine scoppia vicina alla torretta, provoca l’appruamento dello scafo che inizia a scendere verso il fondo; contemporaneamente manca la luce, la gente non riesce più a tenersi in piedi, ci si aggrappa dove capita. Non si distinguono più le pareti verticali dai piani orizzontali e il battello è inclinato quasi del 80% di sbandamento. Figurarsi, l’intercapedine, i siluri, gli attrezzi che cadono dagli alloggi colpendo chi si trova a tiro. Il battello continua imperterrito ed appruatissimo a scendere in picchiata. Il sottordine di macchina, di sua iniziativa, ritenendo che fosse l’unica cosa appropriata da fare, ferma le macchine.

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Nel frattempo i timoni vengono messi “in alto” manualmente, come si fanno manualmente le altre manovre necessarie a fermare la discesa del battello cercando di rimetterlo in assetto. Fortunatamente il fondale era poco distante sotto di noi (se non ci fosse stato ora non sarei qui a raccontare l’accaduto.) Con un impatto non troppo violento, infilò la prua su quel provvidenziale tappeto sabbioso e si arrestò, rimanendo con la poppa in alto. Il manometro segnava 135 metri sotto il livello del mare. Si provvede al ripristino della luce; al chiarore lattiginoso delle lampade si legge il terrore sul volto di tutti; sembriamo delle maschere, su alcuni volti tragiche, su altri grottesche. Regna un pauroso e angosciato silenzio; si sente l’ansare del nostro respiro e l’accelerato battito dei nostri cuori. Sembra di stare all’Inferno ed è la notte del Santo. Natale; guardo l’orologio sono da poco passate le ventiquattro, l’ora in cui si festeggia la nascita del Redentore. Il battello scricchiola sinistramente, ognuno pensa che tra poco saremo schiacciati come una noce dall’immensa pressione dell’acqua che ci comprime; quando accadrà, sentiremo uno schianto terribile e tutto sarà finito. Un grande sgomento c’invade e guardandoci in viso abbiamo tutti gli occhi lucidi, forse per la commozione, o per la paura. Sicuramente stiamo pensando alla stessa cosa: ai Natali trascorsi prima della guerra insieme ai nostri cari, all’atmosfera gioiosa che c’era in quella notte che ci riuniva anche col parentado per il cenone, per poi andare in Chiesa ad ascoltare la S. Messa per assistere alla nascita del Redentore annunciato dal suono festoso e a distesa delle Campane. Per noi ora, l’unico suono che sentiamo è quello delle bombe che ci piovono addosso a grappoli lacerandoci i timpani. Mi sorpresi ricordandomi che da ragazzo nella settimana antecedente il Natale allestivo il Presepe in casa; nel pomeriggio dopo aver svolto i compiti mi mettevo all’opera mettendo tutto l’impegno possibile nell’erigere lo “scheletro” da cui dipendeva la buona riuscita. Iniziavo poi il rivestimento con la carta da imballo, non senza averla prima stropicciata tra le mani per renderla più grinzosa possibile, indi la fissavo sulle assi facendole assumere la forma delle rocce. Quando la struttura era tutta ricoperta, la spruzzavo di colore rosso prima, poi appena la carta si asciugava davo il colore giallo e infine il colore verde per dare la parvenza di rocce calcaree, di sterpi e di erba. Dal solaio riprendevo gli scatoloni che avevo riposto l’anno prima e che contenevano i “pupi” di terracotta e altro materiale per l’allestimento. Per quanto nel riporli mettevo la massima cura, avvolgendoli nella paglia riccia

Pagina 32 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania UN MARINAIO RACCONTA Giovanni Di Mauro e anche nell’ovatta grezza che adoperano i sarti per le imbottiture, nell’aprirli, ogni anno, immancabilmente trovavo tutto sottosopra; logica conseguenza delle scaramucce amorose che i gatti sostenevano per ottenere le “grazie” della micina dagli occhi giallo-arancio, della signora che, non so se abita ancora, del quarto piano. All’interno degli scatoloni, che i gatti avevano fatto rotolare per terra, trovavi parecchi personaggi rotti; armandomi di pazienza riappiccicavo a chi la testa, a chi le gambe, le braccia, ecc. Per questi “interventi” usavo la colla fatta con la farina, che impastavo con l’acqua che, oltre ad essere a portata di mano in casa, era la più economica. Inoltre, per quei “personaggi” che il tempo aveva opacizzato i colori o si formava una patina di vecchio facendogli assumere toni grigiastri; cercavo di dare loro, per quanto possibile, i colori primitivi, adoperando gli acquerelli che usavamo a scuola, durante l’ora di disegno. C’erano anche dei “pupi” del tutto irrecuperabili, perché i pezzi mancanti si erano smarriti o sfarinati e i resti li buttavo via. Ad un tratto, fui “svegliato” dalle mie fantasticherie, dalle urla di gioia che echeggiavano nel battello; la gente sembrava impazzita, la poppa si stava abbassando, di lì a poco tornammo in linea orizzontale. Sui volti di tutti ritorna il sorriso, la serenità, la speranza di vivere. Continuiamo a rimanere fermi senza far rumore, gli idrofoni dei caccia possono captare ogni segno di vita del nostro battello; il Comandante ordina di far uscire dai serbatoi della nafta una certa quantità per far credere che siamo stati colpiti. A quanto pare, gli Inglesi cominciano a credere di averci affondati e le bombe cadono ancora ma con molto distacco l’una dall’altra, sino a cessare del tutto; ma noi sul fondo continuiamo a sentire che non se ne sono andati, il rumore delle eliche si sente in lontananza, non come prima sulle nostre teste e continuiamo a rimanere nel perfetto silenzio. Sono ormai passate circa due ore che non sentiamo più alcun rumore in superficie; i caccia si sono definitivamente allontanati, forse paghi di averci affondati, ma anche perché ormai si sono alleggeriti del loro carico micidiale che ci hanno scaricato addosso per ore interminabili. Si inizia al riassetto del battello, si cercano eventuali infiltrazioni d’acqua, e con soddisfazione si nota, che pur essendo oltre ogni limite di collaudo, il battello ha tenuto benissimo alla pressione, esterna che temevamo ci dovesse schiacciare da un momento all’altro. Siamo prossimi all’alba; il Comandante ordina: “Aria alla rapida”. È la manovra per emergere dal fondo, ma ci fermiamo a quota periscopica, meglio accertarsi che il mare è sgombro prima di affiorare. Veniamo alfine in superficie. L’alba sta scacciando le ultime tenebre ormai impallidite, dai portelli appena aperti l’aria frizzante del mattino penetra nel battello

Pagina 33 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° e ritempra i nostri polmoni già tanto provati. Il mare non è più in tempesta, ha smesso di piovere, ma il freddo persiste. È il giorno del S. Natale. Pace agli uomini di buona volontà. Ora tutto è passato, il Signore è con noi, leviamo mentalmente una preghiera di ringraziamento e di lode. Per tutta la notte in fondo al mare non abbiamo avuto altra compagnia che la speranza sempre più tenue e la morte sempre più vicina. Navighiamo e le vedette tornate ai loro posti fanno attenta guardia, l’orizzonte è sgombro; ci auguriamo che almeno in questo giorno, la pace scenda nei cuori degli uomini e ci fa sentire come fratelli. A bordo viene distribuito caffè con biscotti e marmellata, e tornato il buon umore, il cuoco ci promette un pranzo degno del giorno di Natale, e l’odorino che si sprigiona dai fornelli sembra non smentirlo. Sul tardi le vedette gridano “aerei in vista”. “Sgombrare il ponte, immersione rapida” ordina il Comandante. Si ricomincia la dura fatica di vivere; la nostra missione è appena iniziata anche in questo giorno la pace non è scesa tra gli uomini.

Il Circolo conferisce il Premio Speciale “Targa d’argento al merito” agli ex naviganti fratelli Muscolino “Per la lavorazione artistica e professionale di oggetti varî in ferro battuto, attività che i fratelli Muscolino svolgono con la passione e la competenza dei fabbri del passato. La cura dei particolari e la raffinatezza della lavorazione fanno di ogni loro produzione un’autentica opera d’arte.”

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Luciano Molin

UN EPISODIO DA RICORDARE

ra nato vicino alla fonte di Aretusa. Fin dalla fanciullezza aveva sognato di Ecarpire i colorati tesori che stavano immersi nella misteriosa lucentezza di quelle acque. L’esuberanza fisica, l’ardimento naturale ed il desiderio di primeggiare lo avevano spinto in gare con i coetanei e con se stesso negli sport del mare. Abilissimo nel nuoto era diventato un ottimo pescatore subacqueo. Una mattina d’estate il giovane siracusano, armato, nuotando ad una profondità di circa quindici metri si trovò a fronteggiare una cernia di fondale della più grossa taglia. Con emozione considerò che potesse pesare almeno trenta chilogrammi! La cernia indugiava vicino alla tana che era aperta nella parete rocciosa. Pareva in agguato, pronta ad ingoiare tutti i pesciolini che si distraevano dal branco. Quasi immobile timoneggiava con la coda. La grande testa era letteralmente tagliata in due dalla bocca immensa. Le labbra sporgenti attraversavano ad arco tutta la faccia da una mascella all’altra. Nella mole mostrava la sua potenza. Tuttavia non si allontanava dal suo rifugio che avrebbe guadagnato in caso di pericolo. Il pescatore le fu addosso quasi per caso. La sua maschera quasi toccò la testa ferma del pesce. Gli occhi dei due nemici si confrontarono improvvisamente. I globi della cernia si dilatarono oltre il profilo della mascella superiore. Le pupille spaventate raccolsero tutta la luce della lampada. L’uomo si sentì teso come Perseo davanti alla Medusa. Prese la mira. Pensò alla gioia che avrebbe provato sulla spiaggia mostrando a tutti il magnifico trofeo. Sparò. La fiocina dopo aver tra passato il fianco della cernia sparì con un guizzo nel profondo. I raggi impietosi del faretto svelarono il tremito della vittima. L’animale ferito rinculò dentro la caverna, infilandovisi a ritroso, lasciando visibile solo il capo. Il pescatore restò ad osservarlo. Il pesce ansimava come un mantice ed inspirando velocemente si gonfiava come un pallone finché tutta la pelle aderì alle pareti della fenditura. L’uomo non poteva perdere la preda dopo averla raggiunta. Infilò con forza la mano inguantata sotto il ventre del pesce, così da fare uncino con le dita e provò ad estrarre l’animale dalla tana. La cernia aprì la bocca scaricando un grumo nero di bava ed il grande corpo cominciò a vibrare al contatto dell’artiglio,

Pagina 35 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° come trema un bambino appena nato. La mano affondò ancora nel corpo impazzito ed allora lui avvertì una sensazione che non avrebbe mai immaginato. Sentì il cuore della cernia che batteva, che batteva in modo disordinato. Batteva con ritmo profondo e diseguale, con un’ansietà dolorosa, con una voce che s’alzava e diminuiva come un grido di disperazione e tonfi e soffi di sofferenza. Intanto la cernia allargava le orbite fino ad occupare tutto lo spazio della faccia e fissava il suo carnefice come un condannato a morte. In quel momento lui comprese il grido d’aiuto. Obbedì al nuovo impulso e ritirò la mano che voleva uccidere. Si scostò con un colpo di reni ed abbandonò la preda. No! La cernia doveva vivere ancora. Il giovane aveva deciso e aveva deciso per sempre. Non avrebbe mai più puntato il fucile. Il poeta aveva vinto. Ed era quell’uomo il futuro grande campione del mare che a 56 anni avrebbe raggiunto 94 metri di profondità in apnea: Enzo Maiorca. Da molti anni la sua fiocina arrugginisce sul fondo del mare e gli abitanti dei flutti hanno un grande amico. Collegio Navale Morosini 18 aprile 1997 ***************** IN MEMORIA DI ANDREA ROMANELLI Il velista ANDREA ROMANELLI è scomparso in mare il 3 aprile 1998 in seguito al rovesciamento della barca “FILA” con la quale stava tentando, insieme a Giovanni Soldini, il record della traversata dell’oceano Atlantico da Ovest a EST, proprio quando erano a meno di 400 miglia dall’Inghilterra. Vi sono uomini di mare che diventano, anima e corpo, proprietà dell’elemento che hanno amato. Il magnifico giovane ANDREA ROMANELLI non avrà altro monumento che la nostra memoria. Il mare ti possedette innamorato della tua bellezza Soffristi rinchiuso in valve gioisti? per mutarti in perla, Immerso vestito d’alghe ti violò la morte per odorarti. nella soffice placenta Entrasti nell’anima del mare che nutre il capodoglio. senza sapere, rapito nella metamorfosi.

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Coi larghi polsi per farti riempire abbracci l’onda dal tuo mare? fragile e densa, Quando dicesti: nel sogno eterno eccomi! nuoti. per sempre.

Il sale imbianca Giuocava l’onda, la peluria incolta, giuocava il vento la chiostra lima impetuoso della bocca. che decise, Il borbottio di schiuma il flutto che che il viaggio senza fine ti prese. ti racconta Inebetito e stanco è biascichio di madre, ora quel vento canzone antica, l’epicedio soffia preghiera che conforta. d’una illusione. Hai teso il fiocco Morto non sei nel mare della Vita senza prova di morte. nel mare della Morte. Vivo trepida il cuore Alto squittio teneramente salutò la sponda. ancorato sul fondale. Era per sempre: “fin che il viver dura”. Sapesti allora: mani vestiranno dita di corallo, denti scaglie di conchiglia, capelli ciocche di medusa. Nel profondo del mare fluida larva oltre ogni sepolcro senza farti notare entrasti. Qua1e atlantica piaga raggiunse terribile il canto quale morbosa sirena raccolse, se la bocca apristi

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Il Circolo conferisce il Premio “Protagonisti del mare” al Cap.Corv. Corrado Gamberini e al Ten.Vasc. Saverio Prencipe “Per il coraggio, la professionalità, la perizia marinaresca mostrata, nel coordinare l’impiego dei mezzi e le attività degli uomini al loro comando, in una operazione di soccorso, condotta in condizioni meteorologiche avverse, con la quale hanno salvato la vita ad oltre trecento persone, naufraghe su un rimorchiatore alla deriva nelle acque dell’Adriatico.”

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Elena La Gioia

IL COLORE DEL MARE

e cabine di legno erano spennellate a tinte forti, giallo granturco, rosso fragola, Lverde menta, le porticine, tutte uguali, azzurre come il mare che s’intravedeva in fondo alla passerella di mattoni rosa salmone che divideva in due la spiaggia, ai lati file di pini con i tronchi pittati bianco latte. Petunia gironzolava stringendo a sé una borraccia d’acqua col tappo rosso ciliegia, aveva i capelli castano chiaro corti corti da estate che fa caldo, il costumino giallo limone coi voilà sui fianchi. Adorava andare al mare, appena svestita si gettava in acqua per un primo bagno, tutt’intorno a lei schizzi color arcobaleno e gridolini di gioia pura, poi si lasciava asciugare dal calore del sole, il nasino spelacchiato sempre più rosso fuoco, e poi sulla spiaggia c’era Germano, il bambino della cabina affianco, con il quale amava giocare ore ed ore, anche se i grandi lo chiamavano il bambino della sdraio. E a dire il vero appena arrivavano al Lido Marechiaro la madre lo faceva sedere su di una sdraio verde pisello rivolta verso il mare e così lui rimaneva fino a quando decidevano che era ora di tornare a casa, il sole ormai arancione come la frutta più matura. Parlavano, lui e Petunia, ridevano e si tiravano i pizzichi, Germano era bravo a scavare fossi enormi con quei suoi piedini agili che affondavano sempre di più nella sabbia, la bambina aspettava con impazienza che la buca fosse abbastanza profonda da immergersi tutta e lui allora gridava: “Mamma, mamma, Petunia non c’è più!” e la mamma accorreva e per finta si preoccupava per poi inciampare proprio lì, sul fosso, e diceva: “Ma eccola la nostra Petunia, che birboni!” Germano in acqua non ci andava mai, ma il mare era lì, in fondo alla passatoia, a volte verde pistacchio, altre blu ortensia, con quell’odore inebriante che Petunia proprio non resisteva e doveva tuffarsi, subito! E poi successe. Successe un giorno che Petunia aveva il colanaso e di farsi un bel bagno proprio non se ne parlava. Stava giocando con Germano e lui le chiese all’improvviso: “Com’è che oggi non mi lasci mai?” “Non vedi come sono raffreddata, ho il moccio più verde degli asparagi, mia madre ha detto di stare lontana dal mare”.

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“Il mare? E che cosa è?”, chiese Germano. Petunia lo guardò allibita: “Non sai cos’è il mare? Ma se ce l’hai lì davanti?” E lui di rimando con un’aria triste: “Petunia, io sono cieco”. “Cieco?”, domandò la bimba sempre più confusa, “e che vuol dire essere cieco?” “Non vedo, Petunia, io non vedo niente!” “Ma se hai gli occhi aperti!”, ribatté sconcertata la sua amica. “È vero, ma i miei occhi sono spenti. Io non vedo, cioè vedo, ma... tutto è nero, ecco vedo tutto nero come se li avessi chiusi, come quando dormi ed è buio, come quando è sera e va via la luce!” “Vuoi dire che tutto intorno a te è nero come la liquirizia, che non vedi le cabine rosse, gialle e verdi, le porte azzurre, la tua sdraio e la mia borraccia dal tappo rosso, il verde del mio moccio... il mare blu!”, terminò Petunia con le guance rigate dalle lacrime. “Allora, me lo dici o no cos’è il mare?”, riprese Germano impaziente. “Il mare è...”, disse Petunia ancora incredula, “...è acqua, tanta acqua, un sacco di acqua, fresca e frizzante!” “Acqua, fresca e frizzante!”, ripeteva Germano compiaciuto. “...una grande vasca da bagno, anzi grandissima, ci metti prima i piedi, pianino perché a volte l’acqua è proprio fredda, e poi... e poi ci sono le onde!” “Le onde?”, Germano era davvero estasiato. “Oh sì, certo, devo spiegarti anche questo. Allora le onde sono uno spruzzo di acqua dopo l’altro, non le senti da lontano?” “Ma mi hanno sempre detto che questo è il rumore del vento...” “Ma no, sono le onde, e parlano sai, la prima che ti viene incontro dice: - Venite bambini! - e si infrange sulla sabbia; la seconda è più dispettosa e ripete: - Prendetemi, se ci riuscite! - La terza invece è gentile e ci dice: - Coraggio, fatevi accarezzare dal mare! - e così una volta che ci sei dentro non vuoi più uscirne!” “E qual è il colore del mare?”, disse infine Germano vistosamente eccitato. “Il mare è azzurro, azzurro come il cielo, ma... che sciocca, che ne sai tu del cielo... è azzurro come... come i sogni dei bambini!” “Che bello, ora me lo immagino sai, il mare, e azzurro poi! Petunia, mi porteresti al mare?”, chiese allora trepidante. “Sicuro!”, rispose Petunia e scese sulla passatoia che li guidava al mare. Prese per mano il suo amico. “Sempre dritto”, gli sussurrò all’orecchio mentre si assicurava che gli adulti fossero impegnati nelle loro interminabili partite a carte. Fu così che Germano conobbe il mare, e mi pare ancora di vederlo, a sguazzare felice nell’acqua turchina insieme alla sua dolce amica, mentre i grandi si affannavano, invano, a gridare di tornare indietro, con la faccia rossa come i peperoni, tutti in fila sulla riva, ormai lontana, arroventata da un sole giallo oro.

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Antonio Riciniello

LIBECCIATA

aeta è un paese d’incanto. La natura e gli uomini non le hanno lesinato Gniente: vicende storiche di respiro nazionale, cultura, leggenda, personaggi famosi, belle tradizioni, un paesaggio mozzafiato e un mare azzurro e cristallino che d’estate fa la gioia di villeggianti nostrani e foresti. A volte, però, questo mare che tanto dona a piene mani, quando è importunato da Eolo che si diverte a solleticarne l’epidermide soffiandovi sopra a pieni polmoni, va in collera, e, allora, fa sfracelli senza guardare in faccia a nessuno. In un attimo ti toglie tutto quanto pazientemente ti ha dato. Da ragazzi, nelle fredde giornate d’inverno, ci si vedeva con gli amici al “Bar del pescatore” dove gli anziani ci raccontavano storie di mare, storie di naufragi e di tragedie tutte legate a quelle improvvise ed incontenibili libecciate che squassano di tanto in tanto la costa con forza infernale. Il “Bar del pescatore” affacciava sul Corso a mare, protetto dalle onde da una scogliera frangiflutti e da un alto muro in pietra viva che faceva da spalletta al mastodontico marciapiede, anch’esso in pietra viva. Ma, nonostante queste protezioni, gli spruzzi dei marosi in collera si riversavano ugualmente sull’asfalto del Corso arrivando a lambire i vetri della porta del bar, dietro i quali sguardi pensierosi, forando la fitta coltre di fumo che invadeva il locale, si sperdevano nel grigio plumbeo del cielo dove volteggiavano striduli gabbiani, oltre i platani del Corso, oltre le “crocette” degli alberi delle paranze al ridosso nel molo foraneo, cullate dal lento e pigro sciabordio della risacca. In queste condizioni di inclemenza meteorologica la pesca si fermava, e paranzellari e pescatori di menaidi e lampare si ritrovavano nei pochi bar del Corso a Mare, e particolarmente nel bar del pescatore, con le sue due ampie sale comunicanti e con una saletta attigua alla sala interna. Tutti fumavano di tutto e la nebbia acre dei locali potevi affettarla col coltello, tanto era densa. La prima sala, quella sull’ingresso, era la sala bigliardo. Una grossa lampada pendeva dal soffitto fino a pochi centimetri dal panno verde. Re e principi della stecca, in un’atmosfera sudaticcia, fumosa e maleodorante, si

Pagina 41 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° giocavano i pochi spiccioli residui di tribolate nottate di pesca, alla “bazzica” e alla “parigina”, che erano i giochi del tempo. Nella sala interna si giocava a carte: tressette, maniglia, e, raramente, la scala quaranta. Densa l’aria come nella sala di bigliardo, ma più pungenti gli odori: là quelli delle sigarette “Macedonia” e “Alfa”, qui quelli dei sigari toscani e del tabacco da pipa. Nella saletta dove si radunavano i ragazzi e i giovanissimi, l’aria era più respirabile, particolarmente quando si riusciva a tenere chiusa la porta sulla sala dove si giocava a carte e socchiusa la finestra sul vico adiacente del vecchio Borgo. Viceversa, la saletta diventava un appendice a rischio di entrambe le sale- interne. In quella saletta, patro’ Giacomo, vecchio pescatore di oltre novant’anni, ma vivo e arzillo come un ragazzino, era sempre disponibile, sempre in vena di raccontare qualche ‘storia vera’, accaduta a Gaeta negli anni passati: storie di mare, storie di naufragi, storie di tragedie. Bastava un bicchierino di rosolio alla menta per ‘innescarlo’, poi raccolto e pensieroso, lo sguardo lontano dietro le spesse lenti, sfogliando le pagine della memoria scorreva a ruota libera nella narrazione, come in quel pomeriggio di libeccio che aveva reso deserta tutta la marina. «Dopo la pesca estiva a Santa Marinella - prese a raccontare patro’ Giacomo - la lampara dei Parisella ritornava verso l’approdo sicuro di Calegna. La giornata era trascorsa abbastanza tranquillamente e la vela latina, gonfiata da un teso vento di ponente, spingeva la barca a buona andatura, quasi senza necessità di bordeggiare. Nel pomeriggio però, il cielo cominciò ad oscurarsi di nubi mentre il vento di ponente girò decisamente a libeccio. Le nuvole che risalivano a folate dall’orizzonte poppiero della lampara, nel volgere di qualche ora coprirono completamente il cielo. Verso punta Capovento il capobarca ‘patro’ Ndreje’ diede ordine di ammainare la vela e preparare la barca per la voga a quattro. Andrea, di antica famiglia di pescatori gaetani, aveva quarant’anni, cinque figli e una tempra forte e robusta, capace di dare sicurezza assoluta all’equipaggio. Il vento, aumentato di potenza, fischiava tra gli stragli. Giuseppe e Nicola, i due pescatori più anziani, risalirono da sotto prora dove erano distesi a riposare. Anche Simone, giovane ventenne che aiutava patrò Ndreje alla barra del timone, si dispose alla manovra. In un attimo, con l’esperienza dei vecchi marinai, pur in una situazione di equilibrio precario dovuto al mare che andava gonfiandosi, la vela fu ammainata, ravvolta sul picco e sistemata insieme all’albero sui bagli, così da non intralciare il movimento dei remi e dei rematori. Andrea scrutò in giro l’orizzonte per valutare meglio la situazione: “Siamo dentro la libecciata, - disse vestendo l’incerata - ma abbiamo ancora due ore di luce. Diamoci dentro, Gaeta non è lontana”. Simone passò il sevo sui remi in quella parte già consumata che incerniera lo stroppo

Pagina 42 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LIBECCIATA Antonio Riciniello allo scalmo. Gli stroppi nuovi e ben ingrassati avrebbero retto ad ogni sforzo. Simone faceva di mestiere il carpentiere ma con Nicola, padre della sua ragazza, Angela, e Giuseppe, aveva voluto partecipare alla ‘campagna’ estiva di Santa Marinella nell’equipaggio di patrò Ndreje, al solo scopo di coronare col matrimonio il suo sogno d’amore. Tutto sommato, la ‘campagna’ estiva non poteva andare meglio. Alla Posta vi era un bel gruzzolo e Andrea portava con sé, ben stretta alla cintura, la borsa impermeabile con i soldi dell’ultima mesata di pesca, ancora da dividere. Per pochissimo la barca dondolò senza velocità. Ognuno armò il proprio remo e poi tutti insieme, dando rotta alla prua, presero a remare in pieno sincronismo”. Con poche parole il vecchio patrò Giacomo aveva creato già una certa suspence nell’uditorio che pendeva adesso dalle sue labbra. Bevve un goccio di rosolio e proseguì: «Dandoci con forza sui remi al ritmo cadenzato degli ‘ooplà’ del rematore di poppa, la lampara, pur nelle difficoltà di un mare che man mano s’ingrossava, procedeva stabilmente, scomparendo e ricomparendo con continuità cronometrica tra ventre e cresta delle onde. La costa, molto frastagliata in quel tratto, non permetteva approdi d’emergenza. Giuseppe, il più anziano, sessant’anni suonati da un lustro, si rivolse al capobarca: “Patrò Ndreje, n’ammai a Santaustine, gliu rime me pese troppo e i non ce la facce”. (Padrone Andrea, dobbiamo andare alla spiaggia di Sant’Agostino, il remo mi pesa troppo ed io non ce la faccio). Ma la spiaggia di Sant’Agostino che apparve di lì a poco sulla manca si presentò inaffidabile: tutto un ribollire di schiuma bianca causata dai marosi che rompevano sulle secche di ciottoli a poca distanza dalla riva. “Giusè, accumpagne la remate senza forza, ma n’ammai annanze, tenimme ancora poca gliuce. Te mette arrete Simone”. (Giuseppe, accompagna la remata senza forza, ma dobbiamo andare avanti, teniamo ancora poca luce. Dietro di te metto Simone che ha più forza). All’imbrunire doppiarono torre Viola sbucando poco dopo al largo dello scoglio di Serapo sull’ampia ansa dell’omonima spiaggia, che al pari di quella di Sant’Agostino non offriva alcuna possibilità di approdo a causa delle onde dirompenti con violenza sulla riva. Ancora una trentina di minuti di luce crepuscolare, sufficienti a raggiungere punta Stendardo e accostare nelle acque più sicure ma ugualmente gonfie della rada di Gaeta dove già qualche bastimento stazionava alla fonda». Nonostante il confuso vociare che regnava nel bar, nella saletta non si sentiva volare una mosca. Enzino, forse uno dei ragazzi più appassionati alle storie di mare, uscì per procurarsi un altro bicchierino di rosolio che patrò Giacomo mostrò di gradire. Ne bevve un sorso e riprese il racconto. «Il cielo, impeciato dalle nubi e dall’oscurità della sera, rovesciava giù una fitta pioggia che si confondeva con gli spruzzi delle onde che sempre più spesso

Pagina 43 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° rompevano a murata. Lo scoramento che cominciava ad impossessarsi di qualche membro dell’equipaggio cedette alla gioia collettiva quando, subito dopo aver doppiato punta Stendardo e accostato per punta Molino, le luci dell’abitato e i lampi del faro della scogliera segnalarono la loro presenza amica. “Forza Giusè, ancora un piccolo sforzo e poi saremo a casa”. Passato il difficile, patrò Ndreje cercava adesso di rincuorare un poco tutti, ma particolarmente Giuseppe che appariva assai stanco e abbattuto. “Mi raccomando però, occhio alla penna e calma”. Fu un attimo: bum! Un colpo secco simile ad uno sparo di cannone e la prua della lampara si fracassò sulla boa spaccandosi in due come melagrana matura, e proprio a due passi da casa! Andrea e Simone si ritrovarono aggrappati al maniglione della boa da dove chiamarono a squarciagola Giuseppe e Nicola. “Dio, sono qui sul relitto, - rispose Nicola - ma non vedo Giuseppe”. Lo chiamarono ancora, ma invano. Giuseppe non rispondeva mentre Nicola si allontanava aggrappato al relitto nel buio della notte. Che fare? Cercare di raggiungere Nicola sui resti della lampara? Ma dov’era adesso? La libecciata era al culmine. Il cielo sembrava cucito al mare dalla pioggia sferzante che cadeva a folate insieme al vento che sibilava forte. “Possibile che da terra non abbiano visto niente, Simò”. Le luci della città e gli stessi raggi di luce del faro sembravano essere ora molto lontani in quella cortina di pioggia che si frapponeva come sipario tra la boa e il Corso a Mare. “Andrea, non muoverti di qui. Penso di farcela. Ritornerò col rimorchiatore della Capitaneria o con qualche paranza.” “Simò, non lasciarmi solo, ho cinque figli”. Fu l’unica manifestazione di debolezza del capobarca che subito aggiunse: “Vai e stai attento ai risucchi della scogliera”. “Non preoccuparti, gli aiuti verranno subito” e così dicendo, Simone si tolse con una mano i panni di dosso e si lasciò cadere sottovento della boa, sulla cresta di un’onda. Ebbe qualche attimo di smarrimento ma poi puntò decisamente verso il faro, e dopo alcune bracciate s’imbatté nel suo futuro suocero Nicola, che rimaneva fortemente abbarbicato al copertino prodiero della lampara, staccatosi di netto dopo l’urto con la boa. Nicola, cinquantenne pescatore che nella guerra del 18 aveva già sofferto un naufragio, rimaneva ferocemente avvinghiato al relitto. Si era anche lui liberato degli indumenti e, forte della passata esperienza, non mollava la preda ma procedeva nel movimento delle onde verso il ribollire schiumoso della scogliera, al momento sua unica preoccupazione. “Nicola, sei tu?”. Simone aveva intravisto nell’oscurità un qualcosa che galleggiava sulle onde e d’istinto aveva chiamato il nome del suocero. “Si, sono io, Simò, ma tu come ti trovi qui? E Giuseppe?”.

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“Giuseppe non l’ho più visto, non l’ho più sentito. Io ho lasciato Andrea sulla boa e sto cercando di raggiungere terra per chiedere soccorso”. Intanto Simone si era avvicinato al copertino galleggiante e vi si era appoggiato con una mano. “Com’era la boa della collisione, a cono o piatta?” chiese Nicola con fatica. “A cono” rispose Simone e aggiunse: ”Andrea è rimasto aggrappato al maniglione superiore con i piedi poggiati sulla base. Se non gli piglia il freddo dovrebbe resistere a lungo”. “Allora abbiamo urtato contro la seconda boa. Più avanti ci deve essere la prima boa, quella piatta”. “Ti ricordi l’allineamento?” proseguì Simone. “Sì, la luce del faro e quella rossa dei Cappuccini”. “La dobbiamo raggiungere, e tu devi restare là”. La discussione tra Simone e Nicola procedeva a spizzichi, con tanta difficoltà, tra rigurgiti d’acqua. “Nicò, le due luci che mi hai detto sono quasi in allineamento, ma la rossa dei Cappuccini scade un poco a diritta, diamoci insieme verso Montesecco”. Simone che temeva i rigurgiti mortali della scogliera aveva realizzato che soltanto raggiungendo la prima boa piatta ci poteva essere una possibilità di salvezza anche per Nicola. La raggiunsero dopo una mezzora al culmine di una lotta estrema ingaggiata col mare in tempesta. Con un ultimo sforzo, aiutato da Simone, Nicola si issò sulla piattaforma della boa rimanendo aggrappato agli appigli laterali. “Nicò, resta lì sulla boa, se tutto andrà bene fra poco arriveranno i soccorsi”. Si lasciò scivolare tra le onde aggrappato al copertino di prora per recuperare le forze. Simone aveva tutto chiaro nella mente. Doveva allontanarsi il più possibile dalla punta della scogliera, aggirarla alla larga per evitare il pericoloso risucchio delle onde e quindi puntare sulla spiaggetta di ciottoli di fronte al palazzo vecchio dove la risacca non avrebbe costituito un pericolo. Respirando a pieni polmoni allontana da sé il copertino e con poderose bracciate realizza il suo piano». Sempre, quando raccontava “la libecciata”, patrò Giacomo, per un fatto quasi naturale abbandonava automaticamente il passato a questo punto, e proseguiva usando il verbo al presente, fatto questo che rendeva partecipe al massimo tutto l’uditorio che prendeva a tifare per Simone. «Quando Simone mette piede sull’acciottolato della spiaggetta s’accorge che tutta la ‘marina’ è deserta. Sente freddo ed è tutto indolenzito, la carne sbucciata, graffiata e sanguinante in più parti. Non ha nemmeno la forza di gridare aiuto. A stento risale le scalette che danno sul Corso dove viene investito da folate di foglie secche che continuano a vorticare sull’asfalto della strada. Vede in lontananza una carrozza coperta che si avvicina. Finalmente un pizzico di fortuna! Barcollando si sposta sul centro della strada facendo segni con le braccia. Il cocchiere lo intravede alla luce opaca di un malfermo lampione, lo solleva sulla carrozza e lo trasporta mezzo svenuto al vicino bar.

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Quanto tempo è passato dal momento della collisione con la boa? Un’ora, no, forse più di due ore! Gli danno qualcosa di caldo. “Andrea... Nicola... Giuseppe... l’urto contro la boa...”. Simone parla con parole mozzicate e a gesti, ma riescono a capirlo. In breve vengono organizzati i soccorsi. Escono le due uniche paranze d’altura che erano ancorate al molo e più tardi anche il rimorchiatore della Capitaneria di Porto. Con grande difficoltà e con pericolose manovre, Nicola e Andrea, quasi assiderati, vengono issati sul rimorchiatore che li conduce subito all’infermeria della vicina Capitaneria dove è stato già trasportato Simone. I due pescherecci d’altura rimangono a perlustrare la rada chiamando continuamente Giuseppe al megafono. Niente, assolutamente niente. I pescherecci restano fino all’alba a setacciare tutto il Golfo, mentre col placarsi della libecciata, la gente affluisce sulla scogliera e lungo la marina, per ulteriori controlli ma anche per quel sentimento di solidarietà che unisce i pescatori. Si è sparsa ormai la voce che all’appello manca solo Giuseppe. Lo ritrovano verso mezzogiorno sulla diga foranea di Calegna, verso quello che doveva essere l’approdo finale della lampara di Andrea Parisella, insieme ad un pezzo di fiancata. Ha uno spacco sulla fronte, sicura conseguenza dell’impatto violento con la boa e causa probabile della morte, diranno poi i medici. Il cielo è sereno, il mare si è placato. Della rovinosa libecciata della notte rimane l’impercettibile lamento della morente risacca, il corpo di Giuseppe avvolto in un lenzuolo sull’arenile di Calegna e frammenti di lampara disseminati lungo la scogliera frangiflutti del Corso a Mare. La vita ha ripreso il suo ritmo come se nulla fosse accaduto. E non potrebbe essere altrimenti. Giuseppe ha avuto delle esequie da signore, col tiro a quattro. La borsetta impermeabile che Andrea aveva legata alla cintura è stata consegnata alla moglie di Giuseppe. Poco, ma non si poteva fare di più; il massimo che si poteva fare in quelle circostanze. Simone ha sposato Angela che ha rinunciato al brillantino. Ora lavora al cantiere navale e ha tre figli. Nicola ha deciso che due naufragi sono più che sufficienti nella vita di un uomo. Tira avanti la famiglia lavorando da manovale in una ditta edile. Andrea è ritornato a pescare, prima alla ‘busca’ sotto diversi padroni, poi nuovamente come capobarca sulla lampara dei Finizi, infine capobarca della sua nuova lampara, la ‘Santa Marinella’, costruita quasi interamente da Simone, e forte come una corazzata». Avvinti dalla storia i ragazzi sarebbero rimasti volentieri ad ascoltare ancora qualche racconto. Ma era già tardi, e patrò Giacomo forse anche stanco. «Certamente - disse prima di alzarsi - le occasioni non mancheranno in quest’inverno che si annuncia freddo e piovoso».

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La presentatrice Anna Pavone, il presidente della giuria Orazio Licciardello e il premiato cap.d.m. Antonio Riciniello di Gaeta (LT)

Il vecchio Faro di Riposto

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Circolo Comune Provincia Ufficiali di Regionale Marina Riposto Catania Mercantile Riposto

Premio Nazionale

ARTEMAREARTEMAREXXV Edizione 19991999

Canzone - Gastronomia Modellismo - Narrativa Pittura - Protagonisti del mare sul tema “L’uomo e il mare”

Riposto (CT) - Festa del Mare dal 24 luglio al 7 agosto 1999

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Goffredo D’Aste

LA PIAZZA DEI NAVIGANTI

i potrebbe cominciare dal passo un po’ strascicato, ma elegante, dal bastone... Soppure dal vestito un po’ liso, ma elegante, dal maglione a gipponetto... o dalla sua allampanata, ma elegante, figura, dal vestito, dalle lunghe braghe... il bastone, tutto che se n’andava con noncuranza via dalla piazza, quasi scivolando come un giovanotto, o quando, un po’ arrancando, ma sempre con l’aiuto delle sue sole gambe (e del bastone), arrivava su dalla via centrale del paese per venire a sedersi, come ad un suo posto con qualcuno concordato, sulla panchina all’angolo alto della piazza. O dal “sigaro” che gli pendeva con una piccola bava quasi sempre sotto i baffi... O dalla berretta un po’ noncurante che gli faceva caldo, ombra, forse gli squadrava con la visiera un po’ il mondo, essere ancora un po’ dietro ai finestroni di un ponte di comando. Quel suo viso fine, berretta, baffi, toscano, come un bel brigantino... Volevo diventare così da grande... buon Dio, fallo ancora navigare in Paradiso, requiemeternam, impossibile che quegli occhi buoni abbiano imbrogliato, fagli raccontare di Capo Horn, dei “borgognoni”, chiedigli che vento c’è nel tuo Golfo del Leone! Con noncuranza, e un po’ ridendo, trovare ancora chi gli faceva ricordare quella burrasca al largo di Capo Màtapan. Diceva, non diceva, rispondeva solo a quello che si chiedeva, seguiva ancora una rotta, le cose da fare, mangiare, dormire, fare la passeggiata, prendere la pensione, due chiacchiere, comprare i sigari. Una linea retta, per tanto tempo navigare, poi tornare per gli ultimi anni in paese, come al suo posto, l’infanzia, i distacchi e i ritorni, la vecchiaia: ma il proprio paese è un buon posto per venire a fare le ultime cose, per prepararsi e pensare... il paese una poltrona comoda per rivedere tutta la vita, le barche, i venti, le onde, per poter ancora, nelle mattine di maestrale, puntare ancora la berretta e lo sguardo su un orizzonte di mare e lasciare le cose da fare, quelle chiacchiere, quei due passi, la pensione, ecc., ti scarrocciassero pian piano verso un porto da tempo aspettato, un bel periodo di bonaccia finalmente. Era una faccia rugosa, scura, e un mezzo toscano quasi nero, il vestito fine, elegante e un paio di occhiali, da cui venivano fuori due occhi scintillanti, un bastone da passeggio, una voce bassa, profonda, ma piena di trilli, di lampi.

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Era ancora “comandante”, lo si doveva ascoltare, ma raccontava bene, pieno di particolari, di fatti da dire. Parlava con vivace lentezza. Era un parlare italiano e sapeva di genovese, ma, per il lungo frequentare rotte straniere, in fattispecie inglesi, aveva perso la melodiosità italiana o la magia franco-portogheisa genovese. Pareva calcare il soggetto, il predicato o l’oggetto come un anglosassone. «Quando no-i... doppiamm- o... Capo Ho-orn...». Quell’incredibile lentezza, sostenuta come un bordone dallo sguardo, ficcato come un binocolo sulla tua faccia, totalmente, pervicacemente disinteressato a tutte le onde intorno della gente che passava, dei bambini che si rincorrevano, delle donne che ciacolavano, pareva per un momento fermarsi, perché il suo toscano si era spento, ma era un attimo, una pausa preventivata, conosciuta e i pacati movimenti delle mani che puntualmente raccattavano la scatoletta blu dei fiammiferi svedesi, tiravano su uno zolfanello, senza movimenti inutili ve lo accendevano sotto il vostro sguardo, davano fuoco a quel moncone di sigaro, quei movimenti erano solo una pausa nella struttura del suo racconto. Con generosità e savoir faire, poi, voleva sempre offrire da bere o pagare un gelato nel bar della piazza che, come un grande “club”, la sera si riempiva di gente di mare, della vela, del vapore, di quelli delle navi passeggeri o da carico, mentre tutt’intorno nella piazza, sulle panchine dalla fermata delle corriere, su quelle, più tante, intorno al monumento o su quelle sotto l’orologio, si ormeggiavano per qualche tempo ancora altri di questi marittimi. C’era quello che si appassionava ancora per una questione di quarant’anni prima, già una storia non più di velieri, ma di “vapori”, i primi; ce n’erano alcuni che erano poi diventati piccoli armatori, parevano più legati al presente, ugualmente romantici, ma da anni ormai integravano il mare con gli aerei, i camion, i treni, vestiti più da città, con figli e nipoti che ora navigavano loro. Ci voleva comunque un lasciapassare, aver combinato qualcosa di valido in mare, per aver diritto di sedersi su quelle famose panchine a raccontare, a rievocare, a discutere sul mare, sulle barche, del mare. I più famosi erano i “fuoriclasse”: quelli di Capo Horn, quelli del Nastro Azzurro, quelli che avevano salvato altre navi, che avevano resistito a naufragi disastrosi, in mezzo a pesci feroci o a fortunali eccezionali, alcuni delle vere “leggende viventi”. In generale, pur nella soddisfazione di far parte di un “club” prestigioso, era però un vento di modestia e di sottostima quello che spirava sulle tolde di quelle mattonelle intorno al monumento. Si era nei primi anni ’60, quando sui libri di geografia Genova era ancora il porto più importante del Mediterraneo. Le donne che passavano, giovani, mature o anziane, erano anche loro figlie, mogli, madri, sorelle, zie, cugine di tutti quei capitani, macchinisti, nostromi, piloti,

Pagina 50 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA PIAZZA DEI NAVIGANTI Goffredo D’Aste cuochi, marinai che, col fresco venticello di sera, parevano tutti concentrarsi sulla rotta della piazza. S’infiltravano poi tra loro volentieri (o come spesso dicevano, chissà perché, “volontieri”) naviganti a casa nei due, tre mesi di riposo, dopo gli otto, nove passati in navigazione. Pareva andassero da quei vecchi cèrili per imparare, portavano i saluti dei loro figli, nipoti incontrati in qualche parte del mondo, forse era solo rispetto, cortesia; i vecchi ascoltavano curiosi i discorsi sui radar, sulle gigantesche petroliere, per esempio, e bastava un nome di porto, o un fortunale preso in solite località, per scatenare i loro ricordi sulle stesse rotte, con le stesse mercanzie. I giovani ascoltavano, spesso ci ricavavano ancora qualche dritta che raccontavano poi a casa alla famiglia o a quelli della loro età, «Sai come facevano trenta, cinquant’anni fa...?». Insomma, ad “entrarci col mare”, lì era una festa entusiasta, un sentirsi parte, tutte le sere d’estate. Quelli che fumavano ogni tanto accendevano i loro toscani (solo uno fumava i “virginia”, quelli lunghi e affusolati), la pipa, e questi forti odori riempivano molte panchine, molti crocchi intorno al monumento o sotto i portici. L’arrivo delle corriere, tra l’azzurro e il blu, e il suono delle campane della Parrocchia ritmavano questo parlare, questi incontri, questi due passi pieni di racconti, quando salivano dal mare le brezze del cambio dei venti della sera, nei fine pomeriggi d’estate.

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Il Circolo conferisce il Premio “Protagonisti del mare” al Com.te Salvatore Scotto di Santillo “Per il notevole contributo che, da uomo di mare, ha saputo dare agli sviluppi dei progetti e della ricerca scientifica oceanografica in Italia, assurgendo, progressivamente, a responsabilità di grande rilievo nel Consiglio Nazionale delle Ricerche.” Consegna il Premio l’amm. Gaetano Sodano

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Domenico Pischedda

IL NAUFRAGIO

o so! Le storie di guerra, non sono certo piacevoli né divertenti, ma hanno Lperò un pregio: servono ad alimentare nelle giovani generazioni l’odio per questo flagello umano, che scaglia l’uomo contro l’uomo come lupo famelico. Ho sempre vivo nel cuore un tremendo ricordo, un ricordo che distanza di decenni, riesce ancora a turbarmi e la mia mente cerca di scacciare disperatamente per non farmi ancora soffrire… Si era nel Settembre 1941. Mi trovavo nel pieno della seconda guerra mondiale nell’isola di Lero in Egeo. L’isola faceva parte di dodici isole del “Dodecaneso”, assegnate allo Stato italiano come: “Possedimento Italiano Dodecaneso”. Facevo servizio come marinaio nel personale sanitario nell’infermeria dell’allora Regia Marina. L’infermeria, era in verità in piccolo Ospedale attrezzato con i più moderni ritrovati di allora nel campo della medicina e della chirurgia, e con un’équipe di medici, richiamati e no, veramente abili nella professione medico-chirurgica. Un grande inconveniente, solito, per noi in Egeo, era la Posta. Ci arrivavano notizie dai nostri cari in Italia, con notevole ritardo di mesi e mesi; erano povere lettere, gualcite, censurate, stantie. A turbare il tran-tran abituale del pomeriggio di quel mese di Settembre -sopra accennato - il Comandate del Distaccamento infermieri (che era un capitano medico) mi fece chiamare da un sottufficiale e mi disse, (con i dovuti modi) che era da Genova arrivato un telegramma, nel quale, ahimè! Mi si annunciava la non lieta notizia che mia madre era gravemente ammalata, colpita da un attacco di angina pectoris. (A quel tempo tale malanno era davvero pericoloso, in quanto non esistevano ancora le moderne terapie odierne che riescono a neutralizzarne la pericolosità!). Il telegramma controfirmato oltre che dalla Capitaneria anche dal Maresciallo dei Carabinieri, richiedeva d’urgenza la mia presenza con “licenza speciale” per recarmi al capezzale di mia madre morente. A tale notizia, rimasi come muto con un groppo alla gola, che sembrava soffocarmi. Il Comandante, certo per il mio bene, mi sconsigliò di partire.

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Vedi, mi disse: “I mezzi navali che si recano o che provengono dall’Italia, sono decimati durante il viaggio dai mezzi subacquei nemici. Come vedi se tu partissi a queste condizioni, sarebbe un quasi suicidio. Vi è poi ricordalo, la tardiva partenza della nave che partirà dall’Italia fra tre giorni alla volta di Bari. Ed il buon Comandante, proseguendo nel suo dire, mi fece presente che da Bari fino ad arrivare a Genova le cose si sarebbero complicate, in quanto le ferrovie a causa dei continui bombardamenti degli Anglo-Americani, erano interrotte in varie zone e rese perciò inefficienti. Considerando poi che la buona mamma è stata colpita da un attacco di Angina – Pectoris, non credo che arrivando con un grande ritardo, purtroppo, la troveresti ancora in vita. Ed il comandante, impotente a decidere per me, attese la mia risposta e si tacque. Capivo che il lungo discorso fattomi dall’ufficiale era dettato dalla sua esperienza di medico e chiesi: “Ma Comandante potrebbe anche guarire chi è colpito da questi attacchi di cuore? Alla mia domanda l’ufficiale, da buon medico, assentì e mi rincuorò: “Certo che si può, se non guarire, almeno superare tali attacchi e vivere ancora lunghi anni, come spero sia per tua madre. Mi attaccai a quella speranza e decisi. Tre giorni dopo ero di partenza col piroscafo per la tanto agognata Italia. Fu un viaggio tranquillo, per quanto potesse essere tranquillo, un viaggio per mare in tempo di guerra con l’insidia dei sommergibili sempre in agguato e il micidiale intervento dei pericolosissimi aerei che arrivano improvvisi pari a falchi assetati di sangue… Dieci giorni dopo la partenza da Lero, nonostante i paventati pericoli su accennati, potei abbracciare la mia adorata mamma convalescente. La mia presenza indubbiamente gli dava forza. Nessun segno di una certa importanza sembrava ricordare del suo malanno cardiaco… tanto più che a quel tempo non si conoscevano terapie valide per gli attacchi d’angina-pectoris, i quali si manifestavano in maniera acuta e di breve durata e solo pochi casi si potevano superare momentaneamente. Ai giorni attuali, invece, questo malanno si cura benissimo e si può campare benissimo sino ai cento anni. Come appunto dicevo, la mia mammona si era veramente rimessa bene in forze, sembrava ringiovanita addirittura… anche se, debbo confessare, sentivo e capivo che fingeva… per non farmi rimanere male. Che dovevo fare in cambio? Mascherando la vera situazione, che non era poi delle migliori, gli dicevo che ove io prestavo servizio tutto era calmo, che si viveva tranquilli come in famiglia, non pericoli ad impensierirci ecc.. Passammo così i primi 20 giorni della mia licenza, dimentichi di tutto: guerra, bombardamenti, amarezze, fame.

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Poi, poi purtroppo tutto ha fine. E giunse il triste giorno della mia partenza. (La mamma era stata dichiarata guarita dalle competenti autorità sanitarie della Regia Marina) Ero, ovviamente, disperato! Alla capitaneria ricevetti i fogli di viaggio con una variante: anziché farlo via mare, avrei dovuto fare il tragitto di ritorno alla “Base” via terra, cioè con treno sino ad Atene in Grecia, dopo di che ovviamente via mare sino all’isola di Lero. Si prospettava un viaggio lungo e chissà come… Fui spedito a Venezia nella caserma deposito San Giorgio, se non vado errato. Ricordo quella caserma carica di secoli, per un fatto curioso: aveva lettini di legno per i marinai di passaggio, erano a due piani. Peccato, però, che questi lettini fossero pieni zeppi di grosse affamatissime cimici, grosse come lenticchie. Me n’accorsi subito la prima notte in cui dormii. Le luci spente. Una sola lampadina azzurrata dava un tenue chiarore per vedere almeno dove si trovavano le brandine (o lettini che dirsi voglia.) Inoltre, dato il caldo asfissiante, vi era nel camerone un puzzo di piedi sudati da far svenire. Dieci giorni dopo il soggiorno nella Caserma di San Giorgio, fui messo in partenza per la città di Mestre, da dove poi sarei partito con la “Tradotta pesante” alla volta di Atene. Qui avremmo trovato altri ordini di partenza che ci avrebbero condotto sino a destinazione. Gli ordini venivano dati tappa per tappa, in maniera che nessuno potesse sapere se e dove si andava. Tutto era quindi segreto. Improvviso ordine! Si parte. C’imbarcammo sulla “Tradotta Pesante”, che era poi un lunghissimo treno, con decine di vagoni di terza classe con sedili di legno. Il treno aveva due locomotive a carbone, poste, ovviamente, una in testa e l’altra in coda ai vagoni. A sera, si partì. Ognuno aveva il suo posto a sedere, sui “non certo” morbidi sedili lignei. La prima notte la passammo a rigirarci incessantemente senza poter prendere sonno. Si arrivò a Trieste, poi Postumia, Zagabria, Belgrado. Dopo Zagabria, il paesaggio mutò: grandi foreste conifere, pini rigogliosi e abeti a non finire. Si viaggiava solo la notte e con velocità ridottissima (a passo d’uomo). Questa prudenza era suggerita dall’esperienza. Gruppi di partigiani slavi, operavano protetti da quella folta vegetazione che costeggiava la linea ferroviaria, sparando all’impazzata e improvvisamente sul treno, per poi svanire, altrettanto improvvisamente nel nulla, senza, possibilmente, attendere la nostra reazione. Quei certamente valorosi uomini, operavano alla macchia in difesa della loro terra, facendo saltare i Ponti dove saremmo dovuti transitare noi con la Tradotta e che i non meno valorosi genieri italiani, si presumevano di ricostruire.

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Buon per noi che davanti al nostro treno, viaggiasse in perlustrazione un mezzo locomotore, perfettamente autonomo e armato come una piccola fortezza. Se da bordo notava qualcosa di sospetto, si fermava la perlustrazione per comunicarcene prontamente la notizia, in modo che il nostro convoglio si fermasse sino a quando tutto fosse ritornato normale, magari dopo piccole battaglie. Anche il nostro trenone, che come sappiamo era bene armato, e poteva far fronte alle sfuriate dei gruppi armati dei guerriglieri slavi, ebbe modo di farsi conoscere in maniera decisa e senza tentennamenti. Eravamo forti, come già si sa, di due grosse mitragliatrici davanti e in coda al trenone. Noi nell’equipaggio eravamo dotati di un moschetto del tipo di quelli dei carabinieri, con caricatori di proiettili normali a mitraglia, ben risposti nelle capaci “buffetterie”, che ci permisero di ben figurare in qualche sporadico scontro. Insomma carissimi amici, fu certamente un viaggio, insoliti per marinai ma movimentato e non privo di forti emozioni… che ovviamente evito di narrare, per non andare (come suole dirsi) fuori del seminato. In quel lungo serpente… di vagoni ferroviari, che si snodavano fra montagne segnate da profondi burroni e da mille insidie, noi vi passammo quaranta lunghi giorni con rispettive notti. Roba, amici, da chiodi! Si era Novembre appena iniziato, eppure attraversammo Paesi e zone ricoperte di spessi strati di neve e giaccio… ve lo figurate noi? Con una sola coperta a proteggerci dentro a quelle ghiacciaie che erano i vagoni che ci davano asilo. Pensate che molti soldati e marinai – come me provenienti da una licenza, erano vestiti e privi della capotta. Una vera delizia per i nostri bronchi non avvezzi a climi freddi, non protetti da adeguato equipaggiamento. Tutti o quasi, eravamo preda di raffreddori o altri malanni invernali. L’unica medicina valida in quel frangente, fu per noi, il poter corroborare le vie respiratorie con un sorsetto di grappa che potemmo ogni tanto rimediare, barattandola con i contadini Croati o Serbi o d’altre razze delle varie zone del posto, proponendo loro: bottiglie vuote dei nostri vini, (ricercatissime in quei luoghi in tempo di guerra) o indumenti vari come calzini e corpetti ecc… Con questo mercato, si riusciva alleggerendo, purtroppo, i nostri capi di vestiario… intimo, e con le bottiglie vuote, ad avere la possibilità di masticare delle buone fragranti pagnotte di mais o fagioli lessi o piccole porzioni di buona grappa nostrana. Solo così, potemmo toglierci l’appetito che minacciava di tramutarsi in fame e (con l’aiuto della grappa che dava fuoco al corpo, aiutati dai nostri vent’anni) si potevano vincere i batteri e i bacilli e microbi di ogni specie che tentavano di debilitare i nostri organismi. Il menù di bordo era costituito da una gavetta di buon brodo entro cui galleggiava

Pagina 56 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania IL NAUFRAGIO Domenico Pischedda un bel pezzo di carne grassa e magra, gallette del tipo “Marina” e a volte, patate lesse condite di olio e, raramente, verdure cotte o marmellata solida. Menù poco variato, monotono, ma sano. A bordo del trenone la cucina della fanteria (cui era affidata) era a quell’epoca meno ricca di quella di cui godeva la Regia Marina. A farla corta, si arrivò, con nostro gran sollievo, ad Atene. Una città vasta, da cui visibile da ogni parte si stagliava la celebre collina ove da millenni riposano le vestigia dell’Acropoli… Con dei pullman raggiungemmo il Porto del Pireo e c’imbarcammo sulla “Nave Argentina”, un vecchio rudere di circa diecimila tonnellate adibito a Caserma – deposito per i marinai di passaggio. Si stette per una ventina di giorni su quella Nave Deposito, quindi, altro imbarco. Questa volta prendemmo posto sull’Incrociatore ausiliario “Calino”. Eravamo tutti i marinai diretti alle basi di Lero e dell’Isola delle Rose… cioè: RODI! A bordo della Calino, il comandante ci fece un discorsetto per nulla tranquillizzante: marinai ci disse. Il nostro viaggio non sarà dei più facili. È mio dovere dirvelo chiaro e tondo. Siamo in guerra ed è perfettamente inutile nasconderne i pericoli che ci attendono. Bisogna quindi prepararsi al peggio onde limitarne, possibilmente, i danni… e così, di questo passo e su quel tono, il bravo Comandante ci consiglio calma e sangue freddo nel caso fossimo stati attaccati dal nemico. Ognuno di noi ebbimo il nostro posto di combattimento; chi come aiuto alle mitraglie di bordo, chi ai cannoni, ecc. Per alcuni giorni si fecero manovre con “finti allarmi” allo scopo di renderci allenati e pronti, sia all’offesa, che alla difesa, o… alla malaugurata opera di salvataggio in caso d’affondamento della nave stessa. Poi, da un momento all’altro, improvvisamente, si partì! Vi dirò che è un poco lusinghiero presagio, come un fastidioso presentimento, si rendeva irrequieto e nervoso; non mi lasciò per tutto il viaggio. Sinceramente, debbo dire, e non per scusarmi, che in fondo non era paura, ma un qualcosa di terribile, di subdolo, che senti sopra il tuo capo, come una pesante cappa che sembra schiacciarti… Ma nonostante i miei brutti pensieri, la “Calino” viaggiava tranquillamente in compagnia di altre tre navi trasporto cariche di soldati e marinai diretti a Rodi e in terra d’Africa. Eravamo scortati nel viaggio da tre torpediniere a “tre pipe“ (cioè a tre ciminiere), che formavano il tutto del nostro convoglio. A notte, dopo aver oltrepassato il Canale di Corinto, si era in pieno Mar Egeo… Un mare carico di storia e bello, con infinite Isole e Isolette che spuntavano dalle

Pagina 57 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° acque come meravigliosi paesini da Presepe. Sapevamo che tra quelle isole erano frequenti gli agguati dei sottomarini inglesi e greci, e quindi restavamo in febbrile attesa e si viaggiava con scarpe slacciate e senza cinghia nei pantaloni, pronti a liberarsi dagli indumenti che ci avrebbero appesantito in caso di naufragio, e con il salvagente di sughero che tenemmo indossato per tutta la durata del viaggio. In ogni modo tutto filava (o almeno ci sembrava) per il verso giusto. Le tenebre avvolgevano mare e cielo. Si sentiva solo il rumore affannoso dei motori e lo sciabordare monotono dei flutti sui fianchi della nostra nave. Io e altri, liberi dai turni di guardia andammo a dormire con una certa tranquillità. Sognammo cose belle: la fine della guerra, i volti dei nostri cari lontani, della mamma, della fidanzata… che altro potevamo sognare noi giovani nel fiore degli anni, mandati allo sbaraglio in una guerra non sentita e fuori del sacro territorio nazionale? Purtroppo però i nostri sogni, belle o brutti, durano poco. Improvvisamente la campana d’allarme suonò il su poco lieto canto. Ci svegliammo di botto col cuore in gola e ci precipitammo ognuno al suo posto di combattimento… Si era intontiti dal sonno e agivamo come degli automi, col ritmo cardiaco al galoppo e gli occhi sbarrati nel nulla della notte, temendo di essere silurati da un momento all’altro. Guardammo il mare, aiutati ora dalla luce dei fari che sciabolavano per ogni verso… Nulla! L’alba stava appena, timidamente nascendo ad oriente; una striscia rossa come fuoco, ci avvertiva che il sole, pigramente, si stava svegliando. Ad un tratto, terribile, udimmo una spaventosa esplosione. Davanti a noi, a capo del convoglio, una nostra grande Nave Trasporto era stata colpita (come sapemmo dopo) da una coppia di siluri inglese lanciati, ovviamente, da un sommergibile in agguato. Ancora, incessantemente i fari delle nostre navi, scandagliarono il mare in ogni direzione, in cerca del Lupo d’acciaio… ma tutto fu inutile. Dalla nave silurata, si era levata sino al cielo una colonna d’acqua e fuoco, mentre le nostre vecchie, ma coraggiose, torpediniere, filavano a gran velocità come levrieri, facendo giri concentrici sempre più stretti e lanciando a mare le loro “micidiali” bombe di profondità allo scopo di beccare il sottomarino, certamente ormai al sicuro entro qualche rifugio sottomarino o addirittura entro acque tranquille, fuori del raggio d’azione delle nostre valorose torpediniere che operavano eroicamente col rischio esse stesse di venire colpite. Dalla nave ferita, provenivano scoppi che laceravano sinistramente l’aria…

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L’intero convoglio, per ordini ricevuti, proseguì la navigazione senza fermarsi a raccogliere o aiutare in qualche modo i naufraghi. Purtroppo, quest’ordine era giusto, anche se a noi lì per lì, sembrava ingiusto! Il fermare le navi per soccorrere i naufraghi, poneva in pericolo la vita di migliaia di soldati imbarcati sul convoglio che sarebbero divenuti facile preda dei siluri nemici. Altri mezzi, prontamente richiesti dal comando – convoglio, sarebbero venuti a porre in salvo i superstiti, dalle vicine Basi Egee. Noi passammo a tutta velocità, per quanto era possibile coi motori un poco anzianotti, davanti alla sfortunata nave silurata. Sembrava (essa) voler affondare con riluttanza la sua possente prua nelle acque avide di quel mare, che tante volte aveva solcato col canto festoso di tanti giovani militari… Vedevamo, con il pianto in gola, i fanti e gli alpini (di cui la Nave agonizzante era piena e che avrebbero da Rodi dovuto proseguire per l’Africa) brulicare sopra coperta come formiche impazzite, urlando disperatamente aiuto e cercando la salvezza fra quel grandinare di schegge roventi nell’infernale turbinio di scoppi e fuoco. Molti riuscirono a gettarsi a mare cercando a larghe bracciate, (per quanto lo permetteva l’ingombrante salvagente di sughero) di allontanarsi dalla nave morente, che li avrebbe (se vicini) risucchiati nel vortice del suo affondamento. Allontanandoci, vedemmo ancora la prua di quella sfortunata nave inalberarsi verticalmente e affondare, affondare, mentre forti sussulti ne squassavano la chiglia; sembrava che la nave singhiozzasse per non aver potuto portare quei poveri ragazzi a compimento del loro viaggio e che ora brancolavano fra le braccia della morte, in quel mare che la nafta fuoriuscita minacciava di cambiare in lago di fuoco, entro cui molte giovani vite si sarebbero spente fra atroci sofferenze. Lontani ormai, udimmo un tremendo boato e una montagna d’acqua, in un assurdo gioco di fiamme e spuma, s’alzo sino al cielo e per poi seppellire la poppa quasi sommersa. Noi, piangenti per tanto strazio, volgemmo lo sguardo per non vedere ancora, mentre il cuore in petto sembrava non reggere all’orrore di quella scena e il singhiozzo represso attanagliava la gola. Sicura (e direi felice) la nostra bella nave filava verso sud, per toglierci dal quella zona disgraziata e darci la salvezza… Questa, amici, la storia del mio viaggio di ritorno da una licenza speciale da Genova all’isola di Lero in Egeo nel Gennaio del 1942.

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Circolo Comune Provincia Ufficiali di Regionale Marina Mercantile Riposto Catania AZIENDA Riposto PROVINCIALE TURISMO CATANIA Premio Nazionale Artemare ‘99 XXV Edizione Canzone Fatti di bordo Gastronomia Narrativa Pittura Modellismo Protagonisti del mare sul tema “L’uomo e il mare”

Corso Italia, 70 - ore 10/13 e 18/21 24 / 30 luglio mostra di pittura e modellismo navale 31 luglio / 6 agosto mostra di pittura riservata ai

vincitori delle passate edizioni Foto Nino Musumeci - Giarre

Piazza S. Pietro ore 21.00 Mercoledì 4 agosto: Festival Canzone marinara 1999 XIII ediz. Giovedì 5 agosto: Festival riservato canzoni vincitrici passate edizioni Venerdì 6 agosto: Festival Europeo della Canzone marinara Direttore artistico: M.° Rino Bertino - Audio/luci: Sound Service Servizio fotografico: Nino Musumeci Giarre - Regia: D. Auditore e M. Giammona Terrazza Istituto Tecnico Nautico di Riposto - Sabato 7 agosto - ore 20,30 Consegna Borse di Studio e Premi Artemare - Presentazione XI volume “Storie e racconti di mare” Premio Protagonisti del mare Cap.Corv. Corrado Gamberini - Ten.Vasc. Saverio Prencipe - Com.te Salvatore Scotto di Santillo Premio Città di Riposto: gr. uff. Alfio Di Maria Presenta Anna Pavone

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Annapaola De Santis

IL MARE CHE IO CONOSCO

a spiaggia è disastrosamente caotica. Oggetti insoliti al posto di conchiglie o Lgranchi. Immondizia ovunque. Il mare è calmo, quasi inquietante. Sembra innocente, come non fosse opera sua. Inizio a camminare lungo la riva e una ciabatta attira la mia attenzione. È rossa ed è grande (forse un quarantuno). Forse era di un uomo, sì, un uomo sposato con un figlio. Probabilmente aveva messo le ciabatte per raggiungere la riva dal suo ombrellone, che era un po’ distante. Quando la spiaggia è affollata chi arriva un po’ più tardi deve sistemarsi lontano dal mare. E la sabbia è già bollente… ecco perché ha messo le ciabatte. Poi arrivato a riva, le ha tolte per fare il bagno con suo figlio. Si è trattenuto in acqua perché faceva caldo, e certo un’onda più lunga ha rubato la sua ciabatta rossa, una sola, quella spostata un po’ più avanti e l’ha portata via. Il mare l’ha tenuta per giorni, forse anche un mese. Poi l’ha portata qui. Magari l’uomo col figlio non era qui il giorno che ha perduto la ciabatta rossa, può darsi che non fosse nemmeno in questa spiaggia. Fammi riflettere. Questo mare, quale altra terra bagna? Non lo so con esattezza, comunque potrei rimetterla in acqua, così arriverebbe là da dove è partita. Mentre penso questo, mi accorgo che il mare è di un colore strano, non è azzurro. È di un colore scuro, marrone, (inquietante) Non l’ho mai visto così. ************* Il mare che io conosco ha il colore del cielo, si confonde con esso. Oggi invece il cielo è separato dal mare da una linea inconfondibile, sembra uno di quei disegni che ti fanno fare a scuola. Quando sei bambino. Dove tutto è

Pagina 61 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° perfettamente distinto, il mare, il cielo, le nuvole. E sul mare la barca, con la vela bianca e rossa. Anche a me l’avevano insegnato così quando avevo sette anni. Ricordo che quando poi venivo al mare la domenica, cercavo sempre quella barca, ma non la trovavo. Erano tutte diverse. Alcune avevano i pedali, come le biciclette, ma non avevano la vela bianca e rossa. Quelle che le somigliavano di più erano quelle dei pescatori, ma neanche queste mi piacevano. Anche io e la mia famiglia arrivavamo tardi al mare, come il signore della ciabatta rossa, e quindi dovevamo metterci lontano dalla riva, (non c’era posto). Però per andare a fare il bagno, io e mio fratello non mettevamo le ciabatte. Facevamo una corsa, e chi arrivava primo vinceva. Non ricordo cosa. Mi piaceva raccogliere conchiglie, soprattutto quelle bucate che poi usavo come ciondoli per collane. Oggi non vedo conchiglie. *************** Non vedo più nemmeno la ciabatta rossa. Devo aver camminato un bel po’, immersa nei miei pensieri. Ora mi sto avvicinando a qualcosa di molto grosso. C’è una strana puzza, che a tratti diventa irrespirabile. Un signore con una bambina guardano quella cosa, la bambina sembra particolarmente incuriosita. Sto a tre, quattro metri da loro. Mi blocco. Non posso più andare avanti. Capisco che è una carcassa; forse un vitello, o un puledro. Comunque qualcosa che non voglio vedere da vicino. Indietreggio. Le mosche ronzano intorno a quella cosa tremendamente gonfia. Cosa facevi stupido animale? Volevi vedere il mare in tempesta? Ti sei avvicinato troppo e lui ti ha portato via, senza chiederti nulla. Ti ha solo strappato alla terra per portarti lontano. *************** Non voglio più guardarmi intorno, voglio raggiungere la mia auto e tornarmene in città. Cammino in fretta. Guardo verso la strada, “Bar Le Vele”, sono arrivata, altri venti metri e c’è la mia macchina. Mi fermo un momento, guardo il mare poi la spiaggia; e ancora una cosa attira la mia attenzione, è una lampadina.

Pagina 62 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania IL MARE CHE IO CONOSCO Annapaola De Santis

La raccolgo, la rigiro tra le mani, non è rotta. Questo mi sembra pazzesco. Non riesco a credere che la forza impetuosa del mare abbia ucciso e insieme abbia portato sulla spiaggia una lampadina perfettamente integra. Una lampadina che non servirà a nessuno, che non farà più luce… Non so cosa significa tutto questo. Prendo con me la lampadina e raggiungo la mia auto. ***************** Tornerò a vedere il mare quando sarà di nuovo azzurro. Siederò su quello scoglio e ascolterò la dolce nenia delle onde che infrangono su esso. E ricomincerò ad amarlo.

Il preside dell’Istituto Nautico di Riposto prof. Innorta, il sindaco di Riposto on.le Carmelo D’Urso, il direttore del Settore navigazione del Gruppo Ferrovie dello Stato Francesco Ceci, il prof. universitario Salvatore Grasso

Pagina 63 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12°

Il Circolo conferisce il Premio speciale “Targa d’argento al merito” Ai Direttori di macchina Giuseppe Bonaccorsi e Mario Calabrò “Per i numerosi anni trascorsi su tutti i mari della Terra e su ogni tipo di nave, il Ministero della Marina Mercantile gli ha conferito la Medaglia d’oro per la lunga navigazione. La nostra “Targa d’argento al merito” vuole essere il riconoscimento ai due uomini di mare, per avere espletato il loro compito con alta professionalità e senso del dovere, esempio encomiabile per tanti giovani che vogliono intraprendere la carriera marittima.” Consegna i Premi l’on.le Antonino Amendolia

Pagina 64 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12°

Vincenzo Galvagno

UNA STORIA DI DOLORE

uelle onde, gioia dei bimbi e sollazzo delle signore nelle ore di quiete durante Qla canicola, dapprima rimescolate con misurata cadenza e, via via, incalzate dal vento con crescente violenza, scuotevano la costa sollevando gigantesche montagne d’acqua verso il cielo, schizzando lontane cascate di schiuma sulla sciara, fino a lambire la mulattiera dei corsari, che, unica, consentiva di congiungere la costa, dopo un erto percorso sinuoso, alla sonnolenta borgata. Tutto ad un tratto, però, le contrastanti forze della natura sembravano essersi dato convegno attorno all’Arcipelago per affrontarsi in una cruenta battaglia. Sicché quella pace e tranquillità, che sino ad alcuni momenti prima avevano lasciato presagire una radiosa giornata d’estate, come d’incanto si trasformarono in un’esplosiva miscela infernale di lampi abbaglianti e saette che squarciavano il cielo, in piogge torrenziali avvolgenti e tuoni assordanti, il cui cupo boato, misto a quello perenne dello Stromboli, scuoteva le bianche casette e tutta la terra attorno, dissolvendosi veloce, con un rantolìo cavernoso, lungo contrade lontane. Sembrava volesse scoppiare, per la seconda volta, il diluvio universale. Da lontano, confusa con l’immenso frastuono della tempesta, giungeva continua l’eco di segnali sonori, delle navi in transito, che colte dall’improvviso fortunale, lanciavano come per darsi la voce le une con le altre, o per farsi coraggio. Nel borgo, posto in posizione preminente rispetto alla sciataraia, che si spargeva uniforme lungo tutta la costa, le tremule luci dei lampioni, scosse dal vento, ondeggiavano come allegri fantasmi, mentre la grande campana di S. Vincenzo ripeteva con ritmata cadenza i lugubri rintocchi, che si perdevano lontano sul mare sino a Capo Milazzo. Tuttavia era di riferimento e conforto, nelle ore di tempesta, per quanti si trovavano sul mare. Le barche del luogo, intanto, colte dall’improvviso fortunale, alle prime avvisaglie, prudentemente, avevano cercato di guadagnarsi la riva, spinte da mani esperte e vigorose. Qualche pescatore, tra i tanti, anziché ringraziare il cielo per lo scampato pericolo, recriminando per il pescato perduto, calava in terra tutti i santi del Paradiso; mentre altri, in silenzio e frettolosamente, legavano alla meglio i loro legni agli scogli,

Pagina 65 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° raccogliendo, in fretta e furia, reti, nasse, lampare e remi per preservarli da ogni possibile pericolo. Tutti, però, guardandosi di traverso andavano disponendosi gli uni accanto agli altri aspettando, rannicchiati fra le anfrattuosità rocciose del posto, il placarsi della tempesta. Nell’attesa qualcuno di loro, come per antico costume, si mise a recitare ad alta voce la preghiera del marinaio, invocando, con uno strano rituale di sapore paganeggiante, le divinità del vento e del mare affinché, muovendosi a pietà, potessero risparmiare il mondo creato. Ciò, naturalmente, veniva fatto non tanto perché ci credessero quanto per attenuare la tensione, che, col passare dei minuti, si era creata nell’animo di tutti, mentre se ne stavano aggiaccati bisbigliando confuse parole, che manifestavano lo stato d’animo di ciascuno: “Quest’inferno non sembra volere finire!”, “Mi sta facendo uscire di senno!”, “Si sta portando il cervello...”, “Sembra un maremoto...” Il più vecchio di tutti, che nella sua lunga vita di marinaio ne aveva viste tante ed aveva, perciò, avuto modo di conoscere il valore degli uomini davanti al pericolo, pur dimostrando sufficiente sangue freddo, pensò fosse necessario intervenire per invitarli alla calma: “Ragazzi, non è niente!... Vedete? Quando il cielo ha la fregola e si scontra col mare per fare l’amore ogni uomo di mare deve imparare ad aspettare... Possono trascorrere giorni, ma, prima o poi, si separano... Ridete? Meglio così!…Può capitare anche che dopo il primo abbraccio il cielo si stanca... Mi capite, no?... Allora lentamente le nuvole si ritirano ed il mare si placa lasciando la povera terra un po’ malconcia…I marosi si placano ed il mare ritorna calmo e piatto come una tavola... D’altronde non è così anche la nostra vita?... Tutto il mondo comunque lo giriate e voltate si rassomiglia… pure se molte cose sembrano diverse da una parte all’altra... La sostanza, però, non cambia!...” Intanto che il tempo passava, quegli istanti trascorsi al riparo tra gli scogli sembravano eterni, anche se l’attenzione generale era sempre attratta dai lampi continui e dai tuoni o dall’infrangersi rumoroso delle onde, che, spinte dal vento, si sollevavano alte sbattendo con grande violenza ovunque. Persino gli enormi macigni, posti a riparo della sciara, tremavano, mentre l’esile mulattiera si era trasformata in una sorta di torrente in piena. Ad un certo punto, tra un bagliore di lampi e una saetta, alcuni di loro notarono la presenza di Fido, che se ne stava accucciato accanto al vecchio: “E il…?” Ma don Pasquale, che aveva taciuto sulle prime le sue preoccupazioni, ora leggeva sul volto dei suoi compagni le espressioni che si sussurravano tra loro: “...Guarda più in là... dietro al muretto!”, “Allora?... No?...”. E, in un batter d’occhio, si contarono tutti, ma di “Turi, aricchi a sventula” neanche l’ombra. E la ricerca terminò là dove l’ultimo della compagnia scosse la testa negativamente... Si contarono e ricontarono più volte, ripetutamente, ma nulla! E ciò che a tutti

Pagina 66 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania STORIA DI DOLORE Vincenzo Galvagno inizialmente era sembrato come uno strano presentimento all’improvviso assunse i contorni di una tragica realtà. Ciascuno, allora, quasi a volersi dare una spiegazione logica, rivolgeva la sua attenzione verso il vecchio per cogliere nei tratti del suo volto una qualche espressione, un possibile dubbio, qualcosa che infondesse loro un filo di speranza. Ma la maschera impenetrabile del volto del “pescespada” non mostrava alcuna emozione, anzi avvertendo una certa tensione nell’aria, commentò a bassa voce: “…forse se n’è andato a casa...” Ma la cosa non persuadeva più di tanto nessuno, tant’è che i più vicini, con rispetto dovuta alla barba, costernati aggiungevano: “...sì, può essere... Ma il cane?”. E don Pasquale senza darla a vedere continuava: “Pino, non ti spaventare prima che il tuono arrivi... Tante volte il cane s’accuccia accanto a me per affetto... Questo, però, non significa niente!...”. E mentre così farfugliavano il vento cominciava a smorzare improvvisamente la sua virulenza, consentendo alla pioggia di attenuare un po’ la sua avvolgente furia, anche se più battente nei suoi violenti rovesci. Alla fine, come per incanto, cessò di cadere completamente, mentre il fragore assordante dei tuoni ed i bagliori accecanti dei lampi si allontanavano, pur squarciando il cielo dall’alto verso il mare verso le crepuscolari montagne calabre. Quel cielo, dapprima oscuro come la pece, ora cominciava a schiarirsi, ad aprirsi dolcemente, vestendosi di tonalità diverse, che dall’azzurro intenso andavano scemando verso il turchino opaco, per diventare improvvisamente celeste chiaro, piacevolmente leggero, quasi a volere ispirare sentimenti di pace e tranquillità nel mondo sottostante. Sul mare, in lontananza, cominciavano ad intravedersi, come apparse dal nulla, le antenne oscillanti delle feluche e delle spadare, che, con le loro passerelle deserte oscillanti, stese in cima alle prue, scorrevano veloci verso il sole, i cui fasci di raggi facevano ormai capolino da dietro alle residue nubi, che si allontanavano nel cielo. Lungo la sciataria, intanto, sospinte dall’eco delle onde, s’udivano confuse parole incomprensibili provenire dal mare. Erano quelle gridate dai pescatori, posti in cima alle antenne o sulle fiancate degli scafi, che frugavano la superficie del mare nella speranza di rintracciare l’argentea sagoma del pescespada, Poi, mentre si spingevano sempre più verso il largo, scomparivano come fossero rapite dall’ampio Tirreno, lasciando dietro di loro, che si dirigevano verso il golfo di Bagnara o lungo le sponde dello Stretto di Messina, solo il rumore dei motori, che andava sempre più sfumandosi. Sulla sciara, passata la tempesta, usciti dai loro temporanei rifugi, tutti i pescatori cercavano di scrollarsi da dosso il gelido torpore della paura. E come rinati, presi subito dall’assillante pensiero per il loro compagno, corsero a controllare le barche, ma il posto in cui veniva tirato il legno di “compare Turi” era completamente vuoto: “...Non c’è niente!... Chissà dove sarà andato... Forse è come ha detto don

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Pasquale o forse non è riuscito ad arrivare alla sciataria...”, “...E’ rimasto fuori, tagliato in mezzo a quell’inferno!...” Malgrado tutto nessuno di loro osava credere a ciò che vedeva né ad accettare una presunta realtà. Tutti, però, quasi istintivamente, cominciarono ad avanzare verso il bagnasciuga nella remora speranza di scorgere qualcosa, forse anche un misero niente, che potesse scacciare dal loro cuore ogni triste presagio... Ma nulla!... Nulla!... E, allora, ammutoliti ed immobili cominciavano ad interrogarsi con lo sguardo, aspettando che qualcuno, il più autorevole tra loro, prendesse una qualche iniziativa. Ma chi?... Per fare cosa?... E mentre così andavano pensando, dalle bianche, sparse case poste lungo le scoscese balze rocciose del piccolo borgo, una ad una, dopo gli ultimi rintocchi della campana di S. Vincenzo, cominciavano a scendere giù per l’antico sentiero, sulla sciara le mogli, i figli e i parenti di quei pescatori, che, preoccupati e quasi presaghi della tragedia, si portavano in silenzio accanto ai loro congiunti, formando assieme a loro una sorta di muro del pianto. Aspettavano, si guardavano, scrutavano ora il volto del padre, ora quello del fratello o del marito, ora quello del cognato o del parente senza porre domande, stando col fiato sospeso e osservando insieme lontano quella linea oscura, che andava sempre più sbiadendosi col dissolversi delle ultime nuvole bianche, che ancora lambivano le campagne di Capo Milazzo e la rupe di Tindari, che si stagliava nel cielo quasi per implorare il Signore, o come qualcuno di loro pensava, il dio del mare perché si muovesse a pietà e restituisse loro l’amico, o, almeno, facesse sorgere in loro una qualche tenue speranza su ciò che ormai sembrava a tutti un’amara realtà... Ma nulla, nulla!... Il mare, e qui lo sapevano tutti, il mare, quando prendeva, difficilmente restituiva le sue prede e, quando, quella rara volta, lo faceva rendeva più acuto il morso del dolore in quelli che restavano. Tutto ad un tratto, come se fosse stato punto dalla tarantola, il vecchio, agitando verso il cielo i suoi secchi pugni, si mise ad urlare come un forsennato verso i suoi compagni. Erano, le sue, parole confuse, risentite, pesate, che avevano il sapore, più che di uno scuotimento, di un ordine cui, come un solo uomo, risposero tutti riprendendo velocemente il mare, lasciandosi alle spalle, sulla sciataria, un’esile folla in preda alla disperazione. Non una parola o una lacrima si poteva cogliere dai loro occhi, ma solo sguardi intensi, occhi socchiusi frugare tra i flutti, esplorare la superficie del mare o i fondali nella speranza di trovare una traccia, scorgere un misero oggetto appartenente allo scomparso. E così, via via, a voltare e rivoltare con i remi le morbide zolle dell’aspro Tirreno; per ore ed ore, sino a che la stanchezza non cominciò ad avere il sopravvento sulla loro generosità fiaccando le braccia e rendendo quasi ciechi i loro occhi a contatto col tremolìo luccicante delle acque. E proprio quando molti di loro erano sul punto di abbandonare ecco, allora, una voce, un urlo ad incitarli a remare, a continuare, a

Pagina 68 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania STORIA DI DOLORE Vincenzo Galvagno chiamarsi per nome. Alla fine, però, stremati ma non vinti, una alla volta, ripresero la via del ritorno, verso quella sciara scoscesa, dove la folla di un’intera comunità, intanto, si era riunita facendo ressa lungo gli stretti spazi della scogliera, mentre le donne, avvolte nei loro scialli variopinti, stringevano al loro corpo i figli più piccoli, quasi a volerli proteggere da un ignoto destino. Ognuna di loro conosceva, direttamente o indirettamente, l’acre sapore delle acque del mare e, perciò, in cuor loro, sia pure egoisticamente, ringraziavano il cielo per averle risparmiate da quella terribile prova. Purtroppo molte erano le croci che già in passato avevano segnato le bianche case del piccolo borgo e quel mesto dolore, espresso con la loro presenza, si mescolava a quello degli orfani, delle vedove, dei parenti, che piangevano, in quella circostanza, nell’intimo dei loro cuori quanti avevano già pagato il prezzo per guadagnarsi un tozzo di pane onesto. La notizia della disgrazia, come spinta dal vento, si era sparsa in un baleno nelle altre isole dell’Arcipelago e nel Capoluogo, tant’è che le redazioni di molte emittenti private e di giornali locali inviarono subito sul posto i loro cronisti per buttare giù un pezzo ricco di colore o d’immagini da offrire ai propri lettori o utenti. Per un paio d’ore la vita sociale del borgo divenne oggetto di analisi, indagini, storie particolari, anche se, poi, nella realtà l’evidenza della vita reale ed il degrado sociale degli autoctoni finirono per diventare argomento di secondaria importanza rispetto a quello principale rappresentato dalla disgrazia. Quasi contemporaneamente, all’orizzonte, comparvero una vedetta della marina militare e due aliscafi, appartenenti ad una società che gestiva il servizio di collegamento da e per le Isole. Forse erano stati avvisati da qualche naviglio in transito o dal parroco della S. Vincenzo. Sta di fatto che una volta giunti sul posto, si diedero un gran da fare per scandagliare i fondali e la superficie del mare facendo uso dei sofisticati strumenti che avevano a bordo. Si poteva assistere, così, sia pure da lontano, ad un andirivieni di mezzi, che si spostavano ora lentamente ed ora velocemente, con manovre apparentemente inspiegabili, su scie già battute in precedenza. Essi ispezionavano parti di superfici sempre più lontane, compiendo larghi giri, che alla fine sembravano concludersi sempre verso un punto di partenza, coordinati dall’alto da un elicottero fatto venire apposta da Maresicilia. Dopo aver voltato e rivoltato per molte ore lo specchio d’acqua attorno all’Isola, improvvisamente, così come erano apparse, quelle unità navali si allontanarono oltre l’orizzonte, sparendo, in poco tempo, oltre quella linea piatta, che da lontano indicava l’estrema punta di Capo Peloro. Ma dello scomparso nemmeno l’ombra. Stremati dalla fatica, gli ultimi pescatori del borgo, alla fine, fecero ritorno alla sciara, là dove le donne, in religioso silenzio, avvicinandosi alle barche,

Pagina 69 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° collaborarono a tirare a secco i loro legni. E quando tutti furono a terra, quasi a voler dare idealmente l’ultimo addio al caro amico scomparso, si rigirarono nuovamente verso quel punto indistinto di mare in cui l’avevano visto per l’ultima volta, mentre la Madunnuzza, che da più di un decennio solcava quei mari, rientrava stancamente da dove era partita. Sembrava che il suo padrone non avesse pace e che avesse un conto in sospeso contro le misteriose forze degli abissi cioè da quando il suo Poldo, il marito della figlia, un pezzo di ragazzo slanciato e robusto come una quercia, dai capelli ricci e occhi neri come quelli del Grifone, andato per mare tra un’isola e l’altra, non aveva più ritorno alla vecchia sciataria, inghiottito, come tanti altri giovani della zona, nel nulla. E sì che il vecchio quel ragazzo l’aveva tirato su con tutti i sette sacramenti, da quando cioè bambino, rimasto orfano dei genitori, durante l’ultima guerra mondiale, l’aveva raccolto e amato come fosse suo figlio, al punto che, quando s’era svezzato, dopo aver fatto il servizio militare di leva in marina, non seppe rifiutare di dargli in sposa la sua unica figlia, la luce degli occhi suoi. Finché un giorno, appunto quel giorno bugiardo, un fortunale non ruppe l’armonia della sua famiglia e don Pasquale, vedovo da sempre, poco mancò che non impazzisse dal dolore. Così, da allora, il vecchio si mise a sfidare, con ogni tempo, quelle infide acque, non badando alle porte dell’inferno che molte volte si aprivano attorno alla sua barca; gridando sempre come un ossesso contro le tempeste il suo disprezzo e la sua collera; usando espressioni poco ortodosse, che nella fantasia di chi l’ascoltava assumevano un significato diverso, anche se erano sempre di invettiva contro i geni che governavano gli abissi marini. Ed in questa continua tenzone la Madunnuzza non lo aveva mai tradito una volta, perché, forte come una rupe, gli aveva consentito di solcare sicuro ogni tipo di mare e con ogni tempo, ma anche di prendere tanto pesce da servire non solo per i bisogni della sua famiglia quanto per tutti quelli che lavoravano con lui. In tutto l’Arcipelago la gente, ormai, lo conosceva molto bene e ne rispettava le sue eccezionali doti pur non celando qualche punta di invidia per la resistenza della sua barca, considerata giustamente la “Regina delle Isole Eolie”, ma anche per lui, diventato una sorta di leggenda vivente dello Stromboli; un uomo che conosceva bene il volto della paura, anche se, incurante, molte volte aveva sentito l’alito beffardo della morte soffiargli sul collo, mentre girava e rigirava nel mare i remi affilati del suo legno, quasi a volerne lasciare i segni violenti della sua rabbia, pronunciando parole feroci e piene di quell’angoscia, che non l’avevano mai abbandonato: “Poldo, Poldo, figlio mio, dove sei? Dove ti ha nascosto questa carogna con gli occhi di fuoco? Perché non vuole che io venga da te?... Nel mio cuore non c’è più pace!... Tu, perfido mare, tu sei un mostro, un dio senza pietà!...” E così, in una sorta di monologo senza fine, continuava sino a quando non faceva ritorno alla sciataria, là dove il suo pescato era il primo ad arrivare al mercato o a

Pagina 70 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania STORIA DI DOLORE Vincenzo Galvagno riempire le cucine dei ristoranti più rinomati. Anche se, dal ricavato, tolto quello che spettava alla barca per diritto, secondo le antiche usanze del posto, il resto era diviso con i compagni di pesca, fatta salva una parte cospicua, che, d’accordo con gli altri, veniva regalata a quelle persone che soffrivano la fame per mancanza di mezzi o perché impedite da motivi diversi. Già, perché anche in quel borgo, a parte quel po’ di così detto turismo estivo, non esisteva altro che il mare o, per quanti non sapevano adattarsi, la via dell’emigrazione in terre lontane. Lui, il vecchio, queste cose le conosceva da sempre perché nella sua lunga vita di pescatore ne aveva viste passare tante. E, quando usciva di casa, guardando i suoi ragazzi che crescevano robusti e pieni di vita, tante volte, sorridendo, pensava che, magari un giorno, la sua Madunnuzza poteva diventare la loro casa e ripetere nel mare la tradizione di famiglia, per cui andava ripetendo sempre che: “Se fossero cresciuti come il loro padre chissà, forse un giorno, avrebbero potuto farla d’oro quella barca...” Quel giorno, però, quando venne giù dalla Madunnuzza tutti gli lessero sul volto un’amarezza incontenibile, pere cui, quasi punti dalla vergogna, arretrarono dapprima di qualche passo, salvo poi a corrergli incontro per aiutarlo a tirare la barca in secca… Il vecchio lupo, mano a mano che gli altri pescatori si allargavano attorno a lui, li guardava, uno ad uno, in faccia, come usa fare un padre coi propri figli, poi, allargando le braccia, con un gesto di stizza, scagliò sulla rezza l’unico oggetto che era riuscito a trovare fra le alghe galleggianti: un berretto di lana marrone che compare Turi era solito portare calato sulle grandi orecchie a sventola quando usciva di buon’ora per mare. Tutti a vedere quell’oggetto rimasero senza fiato ed abbassarono gli occhi avvertendo un senso di colpa per avere abbandonato le ricerche e lasciato solo il vecchio pescespada. Poco distante un fotografo, intanto, continuava a scattare foto sull’unico reperto recuperato. Forse, domani, inquadrato in un ottimo articolo, gli avrebbe fruttato una discreta somma di danaro, facendo bella mostra di sé nella cronaca di qualche giornale locale… Di tanto in tanto i guaiti del cane si riunivano a quell’atmosfera piena di tristezza, in cui i singhiozzi repressi di una donna, dall’apparente età di trent’anni, offrivano la misura di quanto profondo fosse stato l’entità del dolore che l’aveva colpita, mentre tutte le donne del borgo le stavano attorno per recarle conforto. Lei, intanto, china su quel berretto, lo accarezzava e baciava come se si fosse trattato di una sacra reliquia, stringendoselo al seno ed invocando ad alta voce il nome del caro congiunto: “Turi, Turi, perché mi hai lasciato?”. E chi poteva darle una risposta?... Alcune, le più vicine, cercavano di sorreggerla ma lei tutto ad un tratto, rizzandosi in piedi, come punta dall’aculeo di un insetto, improvvisamente si diede alla fuga, andando su per il sentiero roccioso, come una passa, gridando disperatamente al cielo la sua sventura. Il vecchio, che era rimasto in disparte, compenetrandosi nell’intimo dramma che

Pagina 71 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° quella poveraccia stava soffrendo, cominciò ad esortare le altre comari, che si stavano attardando sulla sciataria a correrle dietro, per evitare che potesse compiere degli atti inconsulti, mentre lui, guardando il mare, non la smetteva di borbottare parole per i più prive di ogni senso: “...mare, che vigliacco che sei!... Non fai crediti ma non vuoi avere neanche debiti... qualche volta sai restituirci gli spiccioli... Ma ora che hai pareggiato il conto tu devi ricominciare a farci credito... Vuol dire che per ultimo salderò io i conti per tutti prima di andarmene...”. Con cinica indifferenza, un cronista, non visto, pur se osteggiato dal cane, che, ringhiando, lo rincorreva da presso, lungo la sciara, usando molto savoir faire ed indifferenza ed assumendo nel volto di circostanza, cominciò a porgli qualche domanda, ricevendo, con toni irritati, delle risposte, che, almeno per lui, non avevano senso : “Chi era, dove era nato, che faceva, quanti figli aveva?... Ma dico, vi sembra questo il momento?... Quando capita una disgrazia come questa nessuno pensa a chi è rimasto e a com’è rimasto…Solo quando il pesce aumenta di prezzo allora tutti si chiedono dove lo hanno pescato e da dove lo hanno portato e se è fatto d’oro... Ma che ne sapete voi quanti sacrifici e quante lacrime di sangue ci costa una rizzata?” E osservandolo fisso negli occhi continuò : “Scrivete, scrivete pure! A mare non ci sono locande e neanche taverne e quando entra la rema contraria lascia segni che nessuno può cancellare mai più e... per chi rimane non c’è altra speranza che quella che qualcuno, quando mangia, si ricorda almeno di chi soffre...” Quindi, con la sua mano callosa, chinandosi, accarezzò sulla testa del cane, che, intanto, lo guardava con quegli occhi glauchi come se avesse capito i suoi ragionamenti: “Eh, bello mio, oramai ci dobbiamo rassegnare!... La vita, qualche volta, è fatta anche di queste cose... Oggi è toccata a lui, domani…chi lo sa?…Forse tocca a me o a...” Il cronista, come se il conto non fosse suo, continuava intanto a registrare, mentre con la coda dell’occhio seguiva il comportamento degli altri, che, quasi in processione, si allontanavano con la donna che sembrava un’Addolorata. D’altronde cosa potevano farle? Il mare, anche se talvolta era crudele, restava pur sempre la loro ragione di vita... Ognuno sin dalla nascita, da padre in figlio, per generazioni, aveva imparato a gioire, a soffrire e a lottare con lui…Con lui, in quel borgo, la gente si era, da sempre, confrontata vivendogli accanto, ascoltandolo ed imparando ad interpretare i suoi umori e i suoi mormorii lenti e talora violenti, come quelli di un’amante capricciosa ed esigente… Quella gente, sin da quando aveva aperto gli occhi al mondo, gli aveva confidato sempre ansie, pensieri, passioni, amori, accettando i suoi doni con umiltà e rispetto... D’altronde di quei mormorii erano fatti anche i ricordi di tutti ed in quei mormorii ognuno di loro aveva confuso le necessità della vita, come anche le disperazioni, le disgrazie ed i continui pericoli, cui andava incontro e con cui, quotidianamente, arricchiva quel misterioso corredo spirituale su cui si poggiava la credenza individuale e di cui ognuno era portatore inconsapevole.

Pagina 72 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania STORIA DI DOLORE Vincenzo Galvagno

Cresciuti in quell’atmosfera e con quella mentalità gli uomini del piccolo borgo non potevano fare altro che andare per mare, sia pure per pescare, anche se, nei momenti di dolore come quelli, il pensiero di molta parte dei giovani veniva, forse, sfiorato dall’idea di intraprendere un altro mestiere meno rischioso, ammesso che fosse stato possibile. Ma, per i più anziani, che già avevano speso tutto il loro patrimonio genetico sul mare, cosa rimaneva?... Per don Pasquale, che era stato da sempre una guida per quei ragazzi e che aveva visto nascere e tirati su nell’arte della pesca, quella era una giornata veramente nera. Per lui era un altro lembo della sua esistenza che veniva strappato e portato via. E, nel suo intimo, sentiva crescere un senso di rabbia misto a quello di colpa per non avere saputo capire l’umore del tempo... Lui, un vecchio lupo di mare, tratto in inganno da una subdola bonaccia!... Ma come poteva prevedere quell’improvviso sconvolgimento delle forze della natura senza scorgere un qualche indizio nell’aria o nel lento fraseggio delle onde? Con questi pensieri che gli rodevano la mente lentamente cominciò a risalire verso casa, continuando a girarsi per riguardare quell’immensa distesa luccicante, che ormai si presentava calma e serena e maledicendo la sorte matrigna, che, ancorché vecchio, continuava a preferirlo ai più giovani, prendendosi gioco di lui. E, digrignando i denti, come se si trovasse davanti ad un oscuro mistero, scagliava anatemi contro quel dio marino ingiusto, che tante ferite continuava ad aprirgli nell’anima: “...Tu sei un meschino, sei un uomo vile ed infame, un uomo senza cuore e senza una coscienza!... E non venire a raccontarmi che non capisci, perché tu sai che non è vero... Guardami!... Pure io ho i capelli bianchi, perciò niente discussioni a vanvera, vigliacco ed infame uomo che si nasconde nell’ombra!...” Chi lo sentiva, passandogli vicino e conoscendolo, capiva bene quegli impeti di lucida pazzia, ma chi, invece, lo sentiva o lo vedeva per la prima volta poteva anche pensare d’avere a che fare con un vecchio arteriosclerotico, cui l’età aveva tolto gran parte del cervello. Sulla sciataria deserta, intanto, accucciato accanto alla Madunuzza, era rimasto solo Fido, che, forse, aspettava ancora il rientro del suo padrone. Ogni tanto si alzava mettendosi a correre avanti ed indietro o saltando da uno scoglio all’altro o spingendosi fin sul bagnasciuga per ritornare poi, quasi rassegnato ed impaurito, in quell’angolo, accanto alla barca. Non sapeva darsi pace e le sue ore trascorrevano annusando a destra e a manca o guardando il mare, riprendendo, dopo alcuni istanti ad abbaiargli contro sino a quando non si stancava e andava a rivisitare in silenzio gli angoli più riposti della scogliera, orinando qua e là per ritrovarsi, alla fine, sotto la fiancata della Madunnuzza. Col calare delle prime ombre della sera, quando cominciavano a scorgersi sulla sponda di Capo Milazzo i primi segni di luminosità, il vecchio, scendendo per l’antico, angusto sentiero, con l’inseparabile pipa di coccio stretta tra i denti, si

Pagina 73 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° riportò sulla sciara, dove, girando attorno alla sua barca, scorse quella povera bestia, stanca e riarsa dal sole, stesa per terra. Non aveva più neanche la forza di scodinzolare né di abbaiare. Quasi in punta di piedi, senza farsi sentire, le si avvicinò alle spalle, e, una volta accanto, con mano leggera, cominciò ad accarezzarla amorevolmente come se volesse consolarla: “...Per te la speranza è l’ultima a morire, eh?... Ma, credi a me, ormai non c’è più niente da fare... Eh, sì, ci siamo lavate le mani! Senti a me vienitene con me a riposarti un poco... Domani ci dobbiamo alzare preso, se no, a casa, possono battere i fianchi... Noialtri, purtroppo, di estate e di inverno, col tempo buono o cattivo, di notte o di giorno, dobbiamo correre sempre dietro alla nostra stella. Senza di quella non siamo niente... Avanti, dai, alzati e andiamocene!... Questa sera mi hai fatto parlare assai... Su, facciamoci compagnia! Che ne dici?” Nel borgo, intanto, conoscenti, amici e parenti, uno ad uno, cominciavano ad andare per fare compagnia alla gnà Nunzia, che seduta su di una panca di legno, di fronte alla porta d’ingresso, col capo coperto in una sorta di scialle nero portatole dalla Filippa, continuava a piangere sommessamente con gli occhi rivolti verso il centro della stanza, là dove, secondo l’usanza locale, sarebbe dovuto esserci il lettino con il corpo del defunto. E, senza guardare nessuno in faccia, fra un singhiozzo e l’altro continuava a ripetere, come se stesse recitando una litania: “ Questa ormai è una casa vuota senza di te, Turi del mio cuore... Te ne sei andato e mi hai lasciato povera e pazza, peggio della sacrestana...” Alcune di quelle donne, che le sedavano temporaneamente accanto e che l’aiutavano, a modo loro, nei lamenti, le facevano coraggio: “Avete mille parte di ragione, comare Nunzia, ma noi vi diciamo che sole a questo mondo non resta nessuno... Esiste un Dio anche per chi rimane... Poveretto, invece, è quello che se lo prende la morte... Ma vostro marito, a quest’ora, è sicuramente in Paradiso... Lui era un bravo cristiano... Educato e, non per dire, rispettoso con tutti in maniera speciale... Sempre pronto e pieno di premure e chi... è che non gli voleva bene?...” E così, a turno, con molto garbo a raffinata ipocrisia femminile, tutte si davano a tessere lodi enumerando qualità magari inesistenti dello scomparso, mentre gli uomini, stando fuori l’uscio o appoggiati lungo la parete interna o agli stipiti della porta d’ingresso, vestiti alla buona, con la barba incolta, sene stavano lì, impalati senza dire una parola, stringendo in mano la coppola o fumando qualche sigaretta. Era quello, anche, un modo di esprimere alla famiglia del defunto la propria solidarietà ed il cordoglio, testimoniando alla vedova la disponibilità di non lasciarla sola. Nei giorni successivi venne celebrata una Messa in suffragio e tutti i paesani, grandi e piccoli, erano presenti per dimostrare alla gna Nunzia la benevolenza che compare Tano godeva in paese, ma, anche, per renderle meno penosa la solitudine in circostanze come quelle. Persino don Pasquale, da cui sembrava che ogni sentimento umano fosse stato

Pagina 74 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania STORIA DI DOLORE Vincenzo Galvagno cancellato, una sera, accompagnato sempre da Fido, si avviò verso la casa delle ginestre recando con sé una truscia contenente un pacco di pasta, del pane, del latte per i bambini, del tritato di manzo, una bottiglia di salsa di pomodoro ed un fiasco di vino liparoto. Giunto davanti alla casa il cane si fermò sulla porta suscitando nel vecchio pescespada molta tenerezza: “Che fai, non entri?... Eppure questa, una volta, era la tua casa... Ah, ho capito!... Non ti può il cuore... Ma a questi poveracci qualcuno deve pure pensarli, se no come campano?... Non te li ricordi più quei bambini?... Ma sì, ho capito, non ce la fai!... Lasciamo perdere, va’!... Aspettami fuori, non te n’andare!...” Quasi gli mancasse la parola, il cane si sdraiò fuori dell’uscio lasciando che il vecchio, senza chiedere permesso o salutare, come se si fosse casa sua, si avviasse verso l’angusta cucina, annessa all’unico vano, di cui era costituita la casa, e che, a secondo delle ore della giornata o delle circostanze, veniva trasformata in stanza da pranzo, da ricevimento o in stanza da letto. Lì, infilò del carbone in una specie di fornacella e, a furia di soffiare con un pezzo di cartone o con la bocca, alla fine riuscì ad accenderlo riempiendo una casa di fumo, non senza, però, aver ricordato i santi del posto ; quindi vi pose sopra una pentola di coccio piena d’acqua e la mise a bollire. Poi, tornando indietro, si avvicinò verso un angolo, in cui come una gatta bastonata si era sistemata la gna Nunzia e, con tono perentorio, com’era suo solito, le rivolse parole che a modo suo erano di conforto, mentre alla figlia, che intanto gli era corsa dietro, soggiunse: “...Senti Maria, dato che ci sei tu qui, datti da fare, se no qui chiudiamo bottega... Anzi, facciamo una cosa, per questa sera sarebbe meglio se tu restassi qui con lei... Per i nostri figli ci penso io...” E gettando un sospiro di sollievo, salutando, se ne andò via, come sempre, col capo chino, seguito a poca distanza dal cane con cui ormai aveva fatto coppia fissa. Le giornate successive trascorsero tranquille e sempre uguali, immerse in quel rituale tran tran della vita quotidiana locale, mentre la gna Nunzia, aiutata dal vicinato, che s’era dato un gran da fare, fu subito accasata come domestica presso una buona famiglia di Milazzo, ed i bambini, dietro personale interessamento del Maresciallo dei Carabinieri, vennero sistemati in un vicino collegio. Fido ormai continuava a trascorrere gran parte delle sue giornate giù alla sciataria diventando il passatempo e l’amico di tutti i pescatori. Alla sera, però, o durante le ore di canicola, si accompagnava sempre a don Pasquale, con cui l’intesa era diventata perfetta… Quando, per esempio, la Madunnuzza andava per mare, come al tempo di compare Turi, esso restava accucciato al posto della barca sino a quando non la vedeva comparire. Solo allora, scodinzolando e abbaiando, si avvicinava alla riva saltandovi dentro, manifestando tutta la sua contentezza e ricevendo in premio carezze

Pagina 75 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° affettuose e pacche sul dorso. Poi, saltando giù, sul litorale, restava fermo come una sentinella sino a quando la barca non veniva tirata a secco, riportandosi, alla fine, accanto al vecchio, nella cui gamba andava a strisciare. In una delle tante serate, rientrando dalla pesca, don Pasquale, anziché risalire dritto verso casa, sentì il bisogno di sedersi su uno dei tanti scogli della sciataria, illuminata da una bella luna piena, con l’intento di riposarsi un poco. In presenza di altri non lo avrebbe mai ammesso, ma quello era il segno che il peso degli anni e la fatica cominciavano a farsi sentire sul suo groppone, per cui riteneva sconveniente presentarsi in quelle condizioni davanti alla figlia, che, pur senza parlare, lo capiva al volo. Il cane dapprima stette a guardarlo, quasi meravigliato, poi, lentamente, gli si avvicinò di fianco strisciandogli il braccio, finché, vedendo che non gli si dava ascolto, non si mise a leccargli la mano: “Che fai – lo interruppe il vecchio – mi vuoi lavare le mani?... Ho capito!... Vedi!... Se mi ritiro così da Maria apriti cielo!... Succede un quarantotto e a me, credimi, le scenate non mi vanno a genio... Lei ha già tanti pensieri per la testa, ci mancherebbero anche i miei... A te queste cose posso confidarle perché tu sei un uomo di pancia... Sai tenere la bocca chiusa... Mah, che ci possiamo fare, così è la vita!... Questa sera, però, non so il perché ma mi sento fiacco... Sono arrivato qui a stento, col fiatone grosso... E sai che vuole dire questo?... No?... Vuole significare che io non posso più continuare a spingermi lontano... Ah, se ci fosse stato mio figlio Poldo!... Io a quest’ora me ne sarei stato seduto calmo, davanti al tavolo e, invece, questa è la vita!” Accese la pipa e cominciò a tirare rabbiosamente lunghe boccate. Poi, come se parlasse al vento, continuò nelle sue considerazioni :” Lui, sì che era un braccio di mare!... Aveva la forza di un Ercole... Ma, vedi? Quell’assassino là, che ora ti sembra dolce ed amico, se l’è preso per forza, senza badare che aveva dei figli a casa e a quella donna, che sarebbe rimasta sola... Ma tu ci pensi?... Se quelli non avevano me, cosa potevano fare? A quest’ora mia figlia se ne poteva andare a fare la mala femmina e... quei bambini ?” Pensava e continuava a fumare e a parlare a bassa voce: “Quello lì, sì, quell’infame non mi fa alcuna paura... Io lo guardo e lo insulto, specie quando è infuriato o quando solleva i suoi cavalloni producendo un grande frastuono... Se ha coraggio deve prendersi me, così chiudiamo una volta per tutte questa storia... Ma lui, lui... Io ho capito quello che vuole, eccome!... Sta aspettando, quel vigliacco, che si facciano grandi i miei bambini.” Improvvisamente a quel pensiero terribile si scioglie in lacrime: “Ma che sto facendo?... Piango?... Vigliacco sino a che sono vivo io non te la do questa soddisfazione!... Meglio carabinieri!... Tu mi guardi, mi vuoi dire qualcosa?... Non puoi?... Hai ragione, bello mio!... Ma io ti capisco, sai? Perciò non ne parliamo più di queste cose...”

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Quindi alzandosi con un certo sforzo dallo scoglio su cui stava seduto, tenendo sotto braccio la cesta contenente il poco pesce pescato, si avviò verso casa, mentre il cane continuava a seguirlo a poca distanza visitando, durante la salita, i suoi luoghi abituali. Lo stretto sentiero, quella sera, non era poi tanto buio perché, oltre ad essere illuminato dalla luna, era rischiarato a tratti anche della luce di alcuni lampioni a petrolio, posti a distanza, l’uno dall’altro, un centinaio di metri. Soltanto la luce di uno di essi era più sfavillante degli altri e cioè quella posta vicino all’insegna della taverna di mastro Calò, un locale a tre quarti di strada tra la sciara e le prime case, dove i pescatori salendo passavano a bere un bicchiere. Don Pasquale questa volta, passandovi davanti, assorto com’era nei suoi pensieri, salutò trascurando di fermarsi, come al suo solito, per scambiare qualche chiacchiera. Ma, quando giunse quasi all’angolo, fu raggiunto, da parte dell’oste, da un saluto cordiale e affettuoso, al punto da indurlo a tornare sui suoi passi: “Don Pascà, non avete voglia questa sera d’assaggiarne neanche una goccia? Avanti, entrate!... Oggi ho portato per gli amici una partita di vino che è dolce come il miele... Entrate, entrate!... Una volta tanto, col vostro permesso, voglio offrire io...” Il vecchio sorrise e, consapevole che il non accettare l’invito equivaleva a recare offesa grande ad un amico, entrò nel locale approssimandosi al bancone. Mastro Calò, intanto, aveva fatto preparare in un angolo un boccale con due bicchieri, quindi, col solito cipiglio allegro e sciampagnone, lì riempì fino all’orlo e, sollevandone uno, brindò alla salute, così come, a sua volta, fece il vecchio pescatore. Ma la bicchierata non finì lì perché, subito dopo, mastro Calò ne versò dell’altro e così, tra una battuta e l’altra e i reciproci complimenti, i due finirono per scolarsi anche l’intero fondo del boccale: “...avete fatto buona pesca?” – chiese l’oste, “ma – rispose il vecchio – qualche paio di calamari e qualche scorfano... Questa sera il mare non ha voluto saperne, però sono meglio di niente... Ma ora dovete scusarmi, voglio andarmene a casa di corsa perché quei ragazzi mi aspettato per mangiare...”, “Ah, allora siete digiuno?”, “Sì, non ho ancora assaggiato neanche un tossico...”, “Don Pascà, allora, se non l’avete per offesa voglio regalarvi una bottiglia di vino come quello che abbiamo bevuto stasera...” Quindi rivolto al servente ordinò di riempire un fiasco del Malpassoto per darlo all’amico per portarlo a casa. Contemporaneamente, per non restare in debito, come si usava fare un tempo da queste parti, il pescespada offrì a Mastro Calò due calamari raccomandandogli di farli cucinare alla stromboliana. Superati gli ultimi convenevoli don Pasquale, finalmente, si rimise in cammino seguito sempre dal cane che, ad una certa distanza, andava visitando, nel passare, alberi e pali. La luna, nel frattempo, s’era fatta alta nel cielo e rischiarava ora tutte le case del borgo, per cui le tremolanti luci dei lampioni a petrolio, là dove ancora esistevano, rischiaravano

Pagina 77 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° anche i loro interni, dando loro l’aspetto delle anime penanti del Purgatorio. Arrivato in prossimità della sua abitazione, prima di entrarvi, il vecchio pescatore gettò un’occhiata furtiva all’interno attraverso una finestra leggermente aperta, che si affacciava sulla strada, scorgendo i ragazzi intenti a fare il ventotto dicembre. La vista di tutta quella esplosione di gioia spensierata cancellò d’un tratto i tanti pensieri che gli passavano per la mente, disponendosi, col solito sorriso sulle labbra, a buttarsi anche lui nella mischia come un ragazzino. Spinse, così, la porta e, mettendo in un angolo la cesta, allargò le braccia andando incontro ai suoi rampolli. Se li strinse subito al petto con indicibile tenerezza, coprendoli contemporaneamente di baci: “Belli questi figli del mio cuore!... Andiamo, andiamo ora a pulirci le mani se no chi la sente a vostra madre?... Dopo andremo a sederci in santa pace a fare un sacrificio essenziale per la nostra esistenza... Maria!... Maria!... Guarda che metto questo fiasco di vino sopra la tavola... Me l’ha regalato Mastro Cola... Che ragazzo pieno di premure!” Maria non era una stupida. Aveva capito bene l’antifona di quelle espressioni anche se fingeva di non aver sentito. Però, visto che continuava ancora su quel tono, irritata, lo interruppe: “Va bene, va bene! E di me che vuoi?”. Per nulla infastidito, con parole un po’ più remissive, il vecchio, cercando di avere il sopravvento, le rispose: “Ma, scusa, che hai capito? Io parlavo così, tanto per... E poi, non è che sono eterno io!” Apriti cielo! Quell’accenno all’eternità fu sufficiente da solo a fare calare il gelo in tutta la casa. L’iniziale buonumore e ogni eventuale discorso finirono lì, mentre cominciarono ad allungarsi a dismisura i musi e gli sguardi si trasformarono in frecciate piene di fuoco. Quel po’ di pasta e fagioli, consumato in fretta, andò a tutti, grandi e piccoli, di traverso, mentre il fiasco di vino, che faceva bella mostra di sé sulla tavola come una lampada rubiconda, assumeva l’aspetto di una abat-jour spento. Intanto donna Maria, nasca all’aria, come la intendevano in paese, continuava a sbattere rumorosamente il fondo del piatto pur essendo ormai vuoto, volendo mettere in evidenza il suo nervosismo. Consumata la prima pietanza venne portata a tavola un po’ di spadola fatta a brodetto. Ma anche quel boccone non calava giù a nessuno neanche a volerlo spingere con la forza. Visto, però, che si era ormai lì per lì, sul punto di sbottare, il vecchio, rivolto ai nipotini, fra il serio ed il faceto, cercò di rompere il gelo con una battuta banale: “Ragazzi, questa sera c’è aria di burrasca qui... Qualcuno ha la luna per traverso...” Manco finì di pronunciare la frase che subito da parte della figlia si ebbe una reazione tremenda: “Tu... tu... tu... batti e ribatti sempre sopra sullo stesso tasto... Mai che ti venisse in quella testa dura una pensata come, per esempio, quella di comare Giovanna...”

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Neanche se gli avesse messo il sale sulla coda che subito sbottò nel consueto repertorio di grida e bestemmie: “Chi, la vaccarizza?”. Ma l’altra per nulla intimorita gli rispose per le rime: “Sì, appunto! Perché cosa hai da dire sul suo conto? Quella è una santa cristiana!... Oggi l’ho incontrata al mercato e, discorrendo di figli e non figli, mi domandava cosa facevano a scuola... Mi consigliava di mandarli a Lipari per avere maggiore possibilità di sbocchi nella vita domani... Tu che ne pensi?” Notando, però, che da quell’orecchio il vecchio si ostinava a non sentirci, continuò a stuzzicarlo: “No, eh? Di queste cose neanche a parlarne... E va bene, te lo dico io quello che voglio fare per portare avanti questi figli!... Me ne andrò a lavorare... e, se è il caso, vado a fare anche la cameriera, ma a mare non ce li manderò affatto... No! Anzi ti dico un’altra cosa: appena tu muori, cent’anni di salute che tu possa avere ancora, mi vendo barche, reti, lampare e bilance e, così, chiuderò per sempre questa storia col mare, perché non ne posso più di stare con l’animo sospeso... Basta, non ne posso più!” Don Pasquale stentava a credere a quanto stava sentendo con le sue orecchie. Quello che aveva detto la figlia gli suonava come un vero tradimento. Per cui, come morso dalla tarantola, senza più stare ad ascoltarla, cominciò ad urlare come un indemoniato: “Tu a lavorare?... Mia figlia?... Ed io allora che ci sto a fare? Non sono più buono per niente?... Porco diavolo, pure questo mi tocca sentire nella vecchiaia dopo tanti sacrifici fatti all’acqua e al vento? Potessi sprofondare una buona volta sotto terra!”. E siccome la figlia aveva cominciato a piangere assieme ai bambini, sferrando un calcio ad una sedia, se ne andò via di casa sbattendo violentemente la porta. Era come impazzito! Scendeva giù verso la sciataria come un selvaggio. Pensava e ripensava a tutte le parole che aveva sentito e ad ogni frase che ricordava e ridiceva ad alta voce pronunciava una sfilza di bestemmie che scuotevano persino le ginestre. Sembrava, certe volte, la santocchia mentre dinoccolava in chiesa i misteri gaudiosi e dolorosi del S. Rosario o la litania nella Chiesa di S. Bartolo. Solo che al posto delle preghiere scendeva in terra dall’altare, uno ad uno, tutti i santi esistenti del calendario, che, per l’occasione, ricordava a memoria. Non aveva riguardi per nessuno: “Porco di qua e bastardo di là,... ci mancava pure quella lurida vaccarizza!... Ma chi le chiede consigli? Chi?... Se non si fosse trattato di mia figlia a quest’ora le avrei fatto fare un salto che neanche lei se lo sarebbe sognato... Ma guardate un po’... pure la scuola... Come se la buonanima di mio padre, per impararmi il mestiere, avesse avuto bisogno di mandarmi a scuola... Altro che scuola!... La schiena mi sono rotto, la schiena!... Ma mi domando in che mondo viviamo!... E che, forse non li sto mandando a scuola per ora?... Io, ai miei tempi, neanche quegli studi ho fatto... Porco di qua e puttana di là.. neanche quelli!”... E rivolgendosi al cane, che, intanto, gli era corso dietro, lo interrogava: “Ma che te ne pare?... E tu perché stai abbaiando ora? Che mi vuoi dire?... Forse, secondo te...?”

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Così, quel soliloquio fatto di bestemmie e di interrogativi senza risposte continuò fino a quando non giunse agli scogli dove, in un angolo, vicino alla Madunnuzza, vide la figura della figlia: “E tu che ci fai qua? Da dove sei scesa?” Dopo i primi istanti di silenzio, fra lacrime ed abbracci, testimoni il vane, il mare e la luna, padre e figlia dimenticarono ogni litigio: “Perdonami, pà, io non volevo!... Ma ora torniamo a casa... I figli ci aspettano...” Già, i figli! Si riabbracciarono senza più dire una sola parola e tenendosi stretti per la vita, l’uno accanto all’altra, come due innamorati, risalirono lungo lo stretto sentiero verso il borgo, che, intanto, timido come un Valentino, dagli scali di Lazzaro e Pertuso, orlato di agavi e d’ulivi, si lasciava cadere a strapiombo, giù, sul Tirreno selvaggio, che incurante di tutto, cullava tranquillo il suo Stromboli rumoroso. Giunto in cima donna Maria si fermò un attimo per riprendere fiato, sempre stretta al suo vecchio, che felice come una Pasqua se la cingeva come quando bambina gli pendeva dalla mano. Ripreso il cammino l’anziano pescatore, guardando la figlia, le sussurrava parole discrete e piene di tanta paterna preoccupazione: “Vedi, figlia mia, il mio tempo ormai sta passando e tu, scuola o non scuola, come farai domani con due figli da crescere?... Lasciami dire, per favore!... Quando verrà quel giorno, allora sì, avrai bisogno di aiuto e questo mondo non è più come quello di una volta... Quando ti volevo parlare di certe cose, naturali per carità, tu hai finto sempre di non capire… Ma, vedi?, io ho i capelli bianchi e il tempo mi ha imparato a vedere e a capire pure quello che dicono il mare e il cielo, anche quando stanno zitti… E tu, ancora, queste cose non l’hai capite... No, no!... Non dire nulla, non mi rispondere, per favore, ma rifletti, pensaci... Almeno me lo prometti?” Seguirono giorni tranquilli e la vita, malgrado presentasse sempre nuovi problemi da risolvere, sembrava mostrare sempre lo stesso volto tanto in casa di don Pasquale quanto nel resto delle famiglie del borgo, anche se il vecchio, quando se ne presentava l’occasione, rimuginava sempre le stesse cose cioè quelle di un possibile matrimonio di Maria con mastro Calò. Dopo tutto, in un borgo come quello, che si poteva sperare di meglio per una giovane e piacente vedova? In fin dei conti era un buon partito, anche se la Maria non era poi da buttare via. Per di più mastro Calò era un uomo con la testa sulle spalle, anche se dava i numeri per donna Maria e ciò glielo aveva fatto capire in più di un’occasione, stimandola buona donna di casa, ottima madre di famiglia e sposa fedele. Qualità tutte, queste, che da quelle parti valevano più di una dote cospicua. E poi, con una bettola bene avviata come la sua e con il saper fare, non disprezzando, di nasca all’aria, ce n’era abbastanza per stare tranquilli e per crescere figli e mandarli a scuola. In fondo le due cose potevano bene conciliarsi. E, poi, chissà, col tempo anche lui, vecchio bisbetico, meno preso da tanti pensieri, si sarebbe potuto dedicare meglio a portare in giro, qua e là attorno all’Isola, i forestieri

Pagina 80 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania STORIA DI DOLORE Vincenzo Galvagno con la sua Madunnuzza, per fare ammirare loro l’insieme dell’incantevole costa. E mentre così, seduto talvolta sugli scogli, andava affidando i suoi pensieri al mare, non trascurava di punzecchiare, quando gli si presentava l’opportunità, la figlia, scantonando sempre su mastro Calò e mantenendo, contemporaneamente, tra una salita e una discesa alla sciataria, buoni contatti con l’aspirante genero, cui faceva capire che, tutto sommato, poteva bene sperare nelle realizzazioni delle sue idee. Quando, però, si dice che, qualche volta, nella vita il diavolo ci mette la coda non è che ci si deve scandalizzare più di tanto, perché, facendo mente locale su quanto accadde quel giorno a don Pasquale, durante un’uscita in barca, la cosa diventa più che naturale. Era lì, con gli altri ragazzi, a calare giù la rete, quando, tutto ad un tratto, si sentì mancare, perdendo il controllo della barca. Lì per lì nessuno s’era accorto di nulla, ma quando quello che gli stava più vicino alzò lo sguardo dal mare e s’accorse che la Madunnuzza si allontanava per i fatti suoi, allora si accostò velocemente al vecchio e s’accorse che stava riverso sul fianco sinistro in fondo alla barca, privo di sensi. Con calma e senza allarmare gli altri, raccolse la rete e si mise a rimorchio la Madunnuzza. Così, lentamente, si avviò verso la riva. Lì, con l’aiuto di altri pescatori, che si trovavano sulla sciataria le barche vennero tirate a secco, mentre il vecchio pescespada veniva adagiato su di una rudimentale lettiga e trasportato per l’erto sentiero verso casa. Durante il trasporto, amici, conoscenti e curiosi si informavano e cominciavano ad accodarsi formando, in breve, un insolito corteo, una specie di processione, che, transitando davanti alla taverna di mastro Calò, attirò, anche la sua attenzione: “Che cosa è successo?” E prima che qualcuno potesse rispondergli si rese conto della situazione, per cui, togliendosi il grembiule, si affiancò alla sinistra del vecchio prendendolo per mano. Certo non stiamo qui a raccontare le scene che seguirono, ma possiamo assicurarvi che non sono state di poco conto, anche perché il vecchio lupo di mare era molto conosciuto in tutto il circondario. Alla fine, però, come volle Dio, pur in mancanza di assistenza medica, normale in località come quelle, con un po’ di riposo e molti infusi, don Pasquale si rimise in piedi, anche se, un po’ con la persuasione o un po’ con la forza, fu obbligato a rinunciare al vizio di troppo come quello della pipa e di qualche bicchiere di vino con gli amici. Quell’episodio, però, servì, in un certo senso, a consolidare i rapporti di simpatia tra donna Maria e mastro Calò, tanto che don Pasquale, quelle rare volte che ne parlava, soleva ripetere che, malgrado quanto gli uomini potevano talvolta dire, tutto nella vita si sarebbe svolto secondo il volere della Divina Provvidenza. Correva, intanto, la ricorrenza annuale di S. Vincenzo Ferreri ed il borgo, già da

Pagina 81 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° qualche giorno, si era parato a festa con archeggiati, luminarie e drappi variopinti, fin dentro i vari vicoli, specie quelli attorno alla piazza grande su cui sorgeva la Chiesa Madre. Una Chiesa famosa, a tre navate, meta un tempo di pellegrini diretti in Terra Santa e attorno cui, per la circostanza, si era creata una particolare animazione: bar improvvisati, baracche per il tiro a segno, giochi a premi, bancarelle ricolme di frutta secca, calia, ciambelle fatte di pasta reale o piparelle nostrali, per non accennare poi ad una tendopoli improvvisata piena di ogni sorta di indumenti e calzature, comprendente persino il reparto dei salumi e formaggi, il tutto ovattato in un’atmosfera musicale assordante e spari di bombette in ogni dove. Don Pasquale, parato a festa come un signorino in onore del Santo, come quando era andato al matrimonio, nonostante l’animazione festiva, sentiva nel suo spirito prepotente il richiamo del mare. Per cui, ad un certo punto, eludendo la sorveglianza dei nipoti e degli amici più vicini, si incamminò verso la sciataria, accompagnato sempre dall’inseparabile Fido. Giunto alla Madunnuzza i suoi occhi cominciarono a brillare di gioia nel vederla. Dapprima la guardò da cima a fondo come se si trattasse di una sacra icona, accarezzandola persino sulle fiancate; poi, come preso da un raptus, appoggiò la giacca sulla barra di mezzo e, togliendosi le scarpe, con una certa fatica la spinse in acqua; quindi vi saltò dentro assieme al cane, guadagnando subito il largo verso la costa di levante. Trascorsero, da quel momento, diverse ore ed il mare, mosso da un leggero venticello, tipico della stagione primaverile, cominciava a mormorare più del solito, mentre le botte sparate dal mastro cascia di Vulcano annunciavano il mezzogiorno e si perdevano ai quattro venti con i rintocchi delle campane di S. Vincenzo e del Christus vincit suonato dalla banda musicale venuta apposta da Lipari. La figlia di don Pasquale, intanto, dopo avere apparecchiato la tavola, non vedendolo rincasare, alquanto preoccupata, affidando i piccoli alla vicina di casa, donna Giovanna, si precipitò verso l’unico posto possibile, la sciataria, chiamando al suo passare anche mastro Calò, col quale, nel frattempo, si era stabilita un’ottima intesa. In breve si sparse la voce in tutto il paese e una gran folla di amici si portò fuori casa alla ricerca del pescespada, della sua Madunnuzza e del cane, che non si era visto in giro. Ma dove si era cacciato quel sant’uomo? Solo, con una barca che, per le sue forze, ormai poteva paragonarsi ad un bastimento; dove si era diretto?... Improvvisamente, trasportato da un’eco lontana, tra i tanti, qualcuno percepì un debole latrato. Veniva dalle parti di Mulino vecchio, un’insenatura subito dopo lo scalo di Pertuso. Poteva trattarsi di Fido. La qualcosa fece gettare a molti un sospiro di sollievo. Però il lento trascorrere dei minuti e l’affievolirsi dei latrati cominciavano a fare aumentare l’inquietudine, al punto che alcuni dei più volenterosi, con cui il vecchio era solito uscire, senza por di mezzo altri indugi, mettendo una barca in

Pagina 82 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania STORIA DI DOLORE Vincenzo Galvagno mare, si diressero verso sud est, scomparendo, dopo poco pochi colpi di remi, dietro il promontorio di Pertuso. Quand’ecco che, superato appena il capo, richiamati sempre dai continui latrati del cane, ora più distinti, scorsero la Madunnuzza, che si dondolava lentamente, sulle onde, che increspavano sempre di più la superficie del basso Tirreno: “Là, là è!” gridarono in coro. Ma l’entusiasmo qualche istante dopo fu smorzato dalla visione della posizione in cui si trovava di don Pasquale, che, riverso sulla fiancata destra della barca, giaceva esanime. Il fumo dello Stromboli, intanto, spinto dal vento, incurante di tutto, si piegava lungo la verdeggiante vallata del borgo, in cui dolori, passioni e speranze passavano come lo stormire delle fronde, da cui spuntavano le cubiche facciate delle casette pinte di bianco di Piscità.

L’autore del racconto Vincenzo Galvagno di Messina

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Il Premio “Protagonisti del mare” è una recente sezione del Premio Artemare con la quale abbiamo voluto proseguire il famoso premio ripostese “Capitani coraggiosi”. Nell’edizione del 2000 il Premio è stato assegnato all’Ammiraglio Angelo Mariani di Brindisi: “Per gli incarichi di prestigio ricoperti negli Alti Comandi Nazionali e NATO nei suoi 40 anni di vita vissuta sul mare o per il mare, espletati tutti con alto senso del dovere e sempre in difesa della pace e della civile convivenza tra i popoli. Una carriera brillante lo ha portato a Comandante in Capo della Squadra Navale e Comandante della NATO nel Mediterraneo Centrale prima e infine al grado massimo di Capo di Stato Maggiore della Marina Militare. Insignito delle più alte decorazioni civili e militari, ricopre attualmente, oltre alla prestigiosa carica di Responsabile della Suprema Commissione Difesa dello Stato, quella di Presidente nazionale della Lega Navale Italiana, un’antica istituzione, risalente al 1897, avente lo scopo e la finalità di diffondere, specialmente tra i giovani, l’amore per il mare, lo spirito marinaro e la conoscenza dei problemi dei marittimi.”

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Girolamo Melissa

UN PALAZZO NEI FONDALI DI ANZIO

l rimorchiatore “Mare Jonio”, all’epoca dell’avventura che vi voglio raccontare, Iera una magnifica barca adibita a salvataggi e rimorchi d’altura, appartenente alla società Augustea S.p.A., lunga 37 metri con un motore Mark da 3000 HP e stazza di 321 tonnellate. Era stato costruito dai cantieri Benetti in Viareggio, cantiere assai rinomato per le costruzioni di panfili d’alto mare, le cui sagome erano snelle e marine, come si poteva notare ammirando il “Mare Jonio” che io orgogliosamente comandavo; l’unica “pecca”, rispetto ai tempi moderni e alle pressanti esigenze degli assicuratori marittimi, era la mancanza del trolley o meglio del verricello di rimorchio. Fu proprio per questo motivo che il mio armatore, per tenersi in linea con i tempi e fare un’efficace concorrenza, m’inviò nell’autunno del 1977 ad Ancona presso i cantieri Ingegner Tommasi per l’installazione del suddetto verricello. I lavori durarono circa 40 giorni e durante la sosta rimasero a bordo il personale di macchina e il cuoco di bordo, l’ottimo Antonio. Il 4 novembre l’equipaggio, in tutto undici uomini, si ricompose nuovamente ad Ancona per continuare ad effettuare rimorchi navigando in lungo e in largo per tutto il Mediterraneo. Ricordo la mattina che giungemmo ad Ancona, era una giornata nebbiosa, caratteristica di quella zona, anche se non eravamo in inverno. Prendemmo un taxi che ci portò direttamente ai cantieri, e dalla strada, ancora prima di varcare il grande cancello, notai l’inconfondibile albero del “Mare Jonio” che sovrastava i capannoni del cantiere stesso e quando ai miei occhi, tra la foschia che a poco a poco si andava diradando, apparve l’intero scafo, provai una strana sensazione, qualcosa d’indefinibile, un’emozione che soltanto il comandante è in grado di provare; egli è il solo che riesce a stabilire con il mezzo uno stretto legame fuori di logica; egli è il solo che, quando la nave all’infuriare della tempesta affonda la prua ai marosi, soffre con essa, come se il peso della massa d’acqua lo investisse personalmente. Salii a bordo, la confusione regnava dappertutto, la coperta era invasa da ritagli di lamiera, di fili, di tubi di varie sezioni, e gli operai si affrettavano ad ultimare i

Pagina 85 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° lavori, che ormai giungevano al termine. Incontrai subito il direttore di macchina che, seduto alla scrivania nella sua piccola ma accogliente cabina, osservava il piano di costruzione del rimorchiatore stesso; egli mi mise subito a conoscenza degli ultimi eventi e seppi così che l’indomani avremmo effettuato le prove di tiro alla presenza del perito del R.I.Na. (Registro Italiano Navale). Nel pomeriggio i marinai cominciarono a sistemare il tutto e, la sera, il rimorchiatore era pronto per l’uscita in mare. L’indomani manovrammo per l’uscita dal porto di Ancona con a bordo il perito del registro navale e gli ingegneri responsabili del cantiere. Portammo a termine le prove di tiro con esito soddisfacente e rientrammo in banchina nelle prime ore del pomeriggio. Faceva molto freddo, avevamo lasciato la nostra Augusta con una temperatura quasi primaverile e non vedevamo l’ora di partire, nonostante Ancona fosse una città bella ed ospitale. Ma il 7 Novembre, ricevetti l’ordine di partire per Genova e non per Augusta, nostro porto di base. Evidentemente l’innovazione del verricello portava al nostro armatore i primi frutti, che giustamente era avido di raccogliere. Dopo aver preso le spedizioni e fatte le necessarie provviste, mollammo gli ormeggi alle 14.00 dello stesso giorno diretti per Genova, per rimorchiare un cassone in cemento armato di grosse dimensioni con destinazione Napoli. Fuori porto trovammo una nebbia fittissima che ci accompagnò fino alle isole Trèmiti; la navigazione procedette normalmente ad una velocità di 14 nodi e, tempo permettendo, saremmo giunti a Genova la sera del 10 Novembre. Il terzo giorno attraversammo lo stretto di Messina; mi sembrò di avvertire nell’aria un forte profumo di zagara che mi riempì di gioia e nello stesso tempo di profonda nostalgia. Poi, preso dal lavoro e dall’impegno che normalmente grava sulle spalle del comandante quando si attraversa uno stretto, accantonai in un attimo nostalgie e ricordi. Navigammo con una forte corrente in poppa e in poco tempo giungemmo nelle acque del basso Tirreno. Il sole faceva capolino sulla prua stellata del “Mare Jonio”, che tagliava il mare calmo appiattito come una tavola in una giornata quasi estiva; noi marittimi questo periodo dell’anno lo chiamiamo “L’estate di San Martino”. Attraccammo a Genova nella zona di Sestri Ponente, precisamente in una banchina nelle vicinanze del famoso cantiere Ansaldo da dove navi come “Andrea Doria” e “Michelangelo” salparono per la prima volta, navi che sono state amate e invidiate da tutto il mondo. Il cassone, ormeggiato nelle nostre vicinanze, era effettivamente molto grande; non era il solito rimorchio, ma presentava delle dimensioni particolari perché, come appresi dopo, doveva servire al prolungamento del molo Carmine del porto di Napoli. L’ingegnere della ditta proprietaria del cassone venne a bordo poche ore dopo il nostro arrivo; «Buon giorno - mi disse - è lei il comandante? Sono molto onorato di fare la sua conoscenza, di parlare con un esperto in rimorchi di cassoni in

Pagina 86 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania UN PALAZZO NEI FONDALI DI ANZIO Girolamo Melissa cemento»; «Esperto - dissi io - in che senso?» e provai un piacevole imbarazzo; con un sorriso e con voce calma mi disse che al momento della firma del contratto, nel prospettare onestamente le difficoltà per il particolare tipo di rimorchio al mio armatore, si era sentito rispondere che non vi erano problemi perché avrebbe inviato un valido rimorchiatore e un altrettanto valido comandante con una lunga esperienza nel settore. Il cassone se ne stava lì, immobile, l’onda della forte risacca s’infrangeva lungo le sue enormi pareti mentre io, dopo aver salutato l’ingegnere, lo ispezionavo scrupolosamente. Sembrava un grosso cetaceo che sonnecchiava dolcemente; era come se volesse dirmi: «Hanno deciso di trasferirmi a Napoli, e ora che mi sono ambientato qui e mi sono affezionato ai milioni di crostacei che inconsapevoli e fiduciosi si sono attaccati sotto di me, ora sono affari tuoi; sarò certamente un osso duro!». Stavo sognando scioccamente, avevo dato un’anima a quel “masso” come molti non addetti ai lavori erano soliti chiamarlo. Mi ero informato sulla sua stagionatura, poiché era stato stabilito, in seguito a studi effettuati da esperti in materia, che doveva trascorrere un periodo lungo non meno di sei mesi dal suo varo perché il cassone potesse essere sottoposto al traino. Era alto in tutto 15 metri, lungo 40 e largo 16, e la parte emersa era di appena 4 metri; era in sostanza un palazzo di 5 piani privo di balconi. Lo agganciammo il mattino successivo dopo aver ascoltato con particolare attenzione i bollettini meteorologici. Sul ruolo era stato scritto in rosso dalle autorità locali che il trasferimento doveva avvenire con tempi e mari assicurati, si sa, per essere in regola con tutti e specialmente con la propria coscienza; poi quando si è in mare con un rimorchio del genere è difficile trovare un ridosso, entrare di poggiata in un porto lungo la rotta; si è soli nelle mani di Dio, per chi è credente come me. Filammo lentamente il cavo del trolley, e mentre il grande rullo, dove era avvolto il lungo cavo d’acciaio nuovo di zecca, girava lentamente, mi venne in mente che quando eravamo partiti da Ancona versammo una bottiglia di spumante sopra il vericello appena installato, tanto per non venire meno alla grande superstizione che è innata in quasi tutti i marinai. Il grande motore fu aumentato gradatamente, il rimorchiatore sentiva il peso eccessivo, e, quando il direttore di macchina mi disse che eravamo già a tutta forza, come indicavano le temperature, fui preso dallo sconforto guardando fuori bordo. Sembravamo fermi; lanciai in mare un pezzo di legno dalla nostra prua a mò di solcometro di fortuna, ed esso giunse a poppa con una lentezza mai vista in nessun precedente rimorchio. Considerata la lunghezza dello scafo di appena 37 m, calcolai a stima che la nostra velocità non doveva superare un nodo; ero stato pessimista, infatti, alcune ore dopo, eseguendo un calcolo esatto per mezzo del radar di bordo, la nostra velocità risultò di 1,3 nodi; fu quasi un sollievo, quel punto tre era già qualcosa. Giunse la prima sera e la famosa lanterna di Genova illuminando i nostri occhi ci

Pagina 87 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° ricordava quasi brutalmente che eravamo sempre lì; avevamo percorso soltanto poche miglia. Il mare fortunatamente era calmo e un cielo stellato rasserenava i nostri animi; la navigazione, se così si poteva chiamare, era assai monotona; le navi ci raggiungevano e i loro equipaggi, curiosi, ci scrutavano con i binocoli per poi scomparire velocemente all’orizzonte. Fortunatamente la cucina era buona; Antonio, giovane ma esperto cuoco, ci deliziava con i suoi prelibati e genuini piatti; eravamo una vera famiglia, una famiglia numerosa come può essere solamente in un piccolo mezzo qual è il rimorchiatore. I giorni passavano tranquilli e il tempo si manteneva discreto, ma ogni tanto qualche piovasco ci ricordava che purtroppo eravamo alla fine dell’autunno, quando incominciano a formarsi le perturbazioni. La nostra velocità a volte aumentava, e in certi periodi si navigava con una generosa corrente in poppa che ci dava una mano. Avevamo oltrepassato l’isola del Giglio e iniziavamo la navigazione in una zona di mare temuta da tutti i naviganti, la famigerata “spiaggia romana”; le parole di mio padre, anche lui comandante di rimorchiatori ormai in pensione mi tornavano alla mente: «Mi raccomando - diceva - fai sempre attenzione e non navigare mai sotto costa; mantieniti molto largo specialmente con i venti di ponente e libeccio». La spiaggia romana non offre nessun ridosso, e Dio sa quante volte ho desiderato che una di quelle isole dell’arcipelago toscano fosse stata collegata da madre natura proprio lì, tra l’isola di Giglio e quella di Ponza, dove tante volte nei miei numerosi viaggi ho trovato rifugio. Il mattino del 15 passammo il traverso di Fiumicino ad una distanza di 20 miglia, ma quel giorno il sole non fu generoso con noi: nuvole nere si addensavano minacciose all’orizzonte. Attesi con ansia la trasmissione del bollettino meteorologico; erano passate da poco le 06.30 e anche Giovanni, il nostromo, gran lupo di mare di Lampedusa, era salito sul ponte; ma uno sguardo all’orizzonte, gli occhi verso il cielo e un leggero movimento della testa furono più chiari del bollettino che la RAI quel giorno ritardava a trasmettere. Ore 06.40 la voce metallica dell’operatore radio dettava lentamente mentre io prendevo nota sul brogliaccio di bordo: “Tirreno centrale, Tirreno meridionale prevedisi burrasca forza 9 da WSW, mare da agitato a molto agitato”. In quel momento forse la lama di un coltello avrebbe fatto meno male di quelle parole; ricordo che spensi la radio con nervosismo mentre impartivo ordini precisi al nostromo, nonostante ancora il mare si mantenesse stranamente calmo. «Giovanni - gli dissi - dobbiamo preparaci al peggio; intanto accostiamo di 20 gradi a dritta, allontaniamoci il più possibile dalla costa mentre continuiamo a scendere nella speranza che la perturbazione sia poco veloce dandoci il tempo di arrivare alle isole Pontine». Avvisai il direttore della situazione; in macchina era tutto a posto, il motore di

Pagina 88 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania UN PALAZZO NEI FONDALI DI ANZIO Girolamo Melissa marca tedesca, infatti, non aveva mai presentato problemi, dandoci una certa tranquillità. L’umore era pessimo; ero preoccupato, ma cercavo di nascondere la paura all’equipaggio, che in questi casi, si sa, scruta attentamente il volto del comandante traendo a sua volta la necessaria tranquillità. Poco prima di mezzogiorno, il vento era aumentato d’intensità e il mare schiaffeggiava la prua del “Mare Jonio” facendolo beccheggiare notevolmente; anche il cassone da me osservato costantemente con i binocoli iniziava a sbandare e ogni tanto spruzzi di mare bagnavano la parte superiore costituita da una tela tipo olona di colore arancione messa come copertura e fermata ai lati da tavole da carpenteria, che a loro volta erano trattenute da un cordolo di cemento. I cassoni venivano trasferiti senza soletta in cemento in quanto una volta messi in posizione le loro pareti potevano essere allungate secondo l’esigenza; ma questo particolare era motivo di forte preoccupazione trovandosi soprattutto a dovere affrontare una tempesta. Nel pomeriggio eravamo in piena burrasca; tutte le speranze erano ora svanite, lottavamo con i marosi e la mente era tutta impegnata ad impartire ordini a dritta e a manca per cercare di salvare come si suol dire “capra e cavoli”. Il rimorchiatore veniva costantemente sommerso da onde altissime e ordinai di filare tutto il rimorchio onde evitare strappi violenti al cassone; navigavamo ad andatura ridotta, pertanto eravamo alla “cappa”, termine tipicamente marinaresco che sta a significare prua al mare a lento moto. Feci togliere il freno meccanico, per restare soltanto con il freno idraulico, così come prevede la legge. Eravamo in piena emergenza; il 1° ufficiale badava alla rotta da seguire mentre io personalmente, con i binocoli incollati agli occhi ormai stanchi, tenevo sotto controllo il cassone costantemente sommerso dalle onde. Sbuffava come una balena ferita e a volte scompariva tra due creste facendo accrescere lo sgomento di quanti si trovavano sul ponte. All’improvviso un’onda di notevoli dimensioni lo sommerse completamente, sfondò la copertura facendo naufragare il cassone che scomparve ai nostri occhi. Esitai qualche attimo, forse urlai in quel momento con il cuore in tumulto, la mano sulla valvola che comandava l’apertura del freno idraulico, poi quando il rimorchiatore iniziò a vibrare notevolmente, a causa dell’enorme sforzo, aprii il congegno tra le grida concitate di tutti. Contemporaneamente ordinai di aumentare la motrice fino alla massima potenza. Gli ultimi cinquanta metri di cavo di acciaio uscirono dall’alloggio e quando il cavo, tra mille scintille, scodinzolando tra gli archetti situati in coperta, stava per “incattivarsi” nella bozza guida cavo, per un attimo la morte ci sfiorò. Superato il momento d’altissima tensione, lanciai via Civitavecchia radio il messaggio d’emergenza precisando che il naufragio era avvenuto a 26 miglia a

Pagina 89 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° largo di Anzio, in un fondale di 800 metri circa; feci presente inoltre che a bordo non vi era nessun ferito tranne un marinaio, il buon Sebastiano, che in quel momento stava riposando nella sua cabina. Svegliato dalle urla e nel tentativo di mettersi in salvo aveva urtato con il capo nella parte superiore della porta. Compiemmo alcuni giri di controllo nonostante il mare infuriato; solo spezzoni di tavole galleggiavano nella zona, poi, dopo aver avvisato telefonicamente l’armatore, con difficoltà facemmo rotta verso Napoli. Entrammo in porto che era già buio e appena attraccati, quasi tutti con ancora gli stivali ai piedi e vestiti con indumenti da lavoro, prima di telefonare alle rispettive famiglie, entrammo in una chiesa nelle vicinanze del porto per ringraziare ciascuno il proprio santo protettore. Passai la notte senza prendere sonno; tutto, attimo per attimo, mi tornava in mente, era come se avessi fatto un sogno, un terribile sogno, ma purtroppo era la realtà, la dura realtà dell’uomo di mare, sempre esposto a pericoli d’ogni genere. Erano circa le 6.00 e passeggiavo in coperta nervosamente, mentre i primi raggi del sole illuminavano il golfo di Napoli, unico al mondo per la sua bellezza, quando si fermò sotto bordo una Fiat 128 colore azzurro mare; l’uomo arrestò il motore, scese dalla macchina e avanzò verso lo scalandrone; lo osservai attentamente e in un primo momento pensai ad un pescatore locale, ma non aveva attrezzatura da pesca, era vestito elegantemente nel suo abito color grigio “fumo di Londra”. «Scommetto che lei è il comandante - disse rivolgendosi a me - posso salire a bordo? Buongiorno, sono l’ingegner Lauro, assicuratore del “masso”, che ieri sfortunatamente avete perso». Risposi al saluto senza nascondere un certo nervosismo, ero già pronto a mandarlo a quel paese, quando lui con fare gentile e assai garbato mi disse: «Comandante auguri e complimenti, complimenti perché siete stati abili e rapidi nel mollare il rimorchio e auguri perché per noi dell’assicurazione siete tutti nati oggi». Rimasi di stucco a quelle parole e lui continuò a parlare; ora lo osservavo sotto un’altra ottica, quei capelli tutti bianchi, quella faccia bonaria mi trasmettevano un paterno conforto; l’ingegnere continuò: «Vede comandante, quando il cassone va a fondo per allagamento rapido trascina il rimorchiatore senza scampo così come, per fargli un esempio, un masso di 100 kg trascinerebbe un piccolo tappo di sughero». Mi sentii gelare il sangue e nonostante fosse di mia conoscenza quanto mi diceva il signor Lauro, le sue parole mi fecero comunque rabbrividire e, anche per la rabbia che avevo accumulato dentro, non riuscii più a trattenere le lacrime. Lo feci accomodare in saletta mentre Antonio gli preparò un caffè. Mi raccontò che anni prima in un incidente analogo era scomparso un rimorchiatore e loro, come assicurazione, ne stavano ancora pagando le conseguenze. Passai l’intera giornata tra uffici e tribunale e al tramonto lasciammo Napoli diretti ad Augusta. Il marinaio Sebastiano che accusava forti dolori al capo fu sbarcato e ricoverato

Pagina 90 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania UN PALAZZO NEI FONDALI DI ANZIO Girolamo Melissa in ospedale per precauzione. Fuori del porto il mare era ancora grosso, ma niente ci faceva più paura, ormai avevamo fatto amicizia con la morte, l’avevamo vista in faccia e lei benevolmente ci aveva risparmiato. Da allora, come si dice dalle nostre parti: “quannu a Sant’Aita sa rubarunu ci misiru i porti i ferru”, le assicurazioni marittime pretendono che i cassoni siano rimorchiati ermeticamente, chiusi da una soletta in cemento armato, praticamente inaffondabili.

Pagina 91 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12°

Foto Musumeci - Giarre

Il Circolo conferisce il Premio “Artemare 2001” al Direttore Francesco Ceci” “Per l’impegno e la competenza mostrati nel risanamento del Settore Navigazione delle Ferrovie dello Stato, un ramo importante dell’Azienda che assicura il collegamento della nostra Sicilia con il Continente e nel contempo dà lavoro a molti naviganti, anche ripostesi, e per aver permesso al nostro Circolo Ufficiali Marina Mercantile di rivelare ai cittadini tutti le potenzialità, a lungo trascurate, del Porto di Riposto.”

Foto Domenico Di Martino - Riposto

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Amedeo Dall’Asta

RACCONTO: LA VIA DEL PETROLIO Dal Mediterraneo attraverso il Canale di Suez e il Mar Rosso, nel Golfo Persico Negli anni cinquanta

PREFAZIONE Nella storia dell’uomo le vie di comunicazione hanno permesso l’avvicinamento dei popoli e delle culture e lo scambio di prodotti. Dai pericolosi sentieri e mulattiere alle grandi strade romane, dalle reti ferroviarie ed autostradali alle vie del mare è stato possibile il contatto velocissimo di tutti i paesi e uomini. Nei secoli passati le vie del mare sono state determinanti per unire i continenti. L’Oriente con la via della seta e delle spezie, poi le Americhe e negli anni cinquanta il potenziamento della VIA DEL PETROLIO. Da poche navi dei primi anni alle numerose degli anni cinquanta, inizio dei grandi trasporti con navi costruite a tale scopo: “le petroliere” che attraverso il Canale di Suez, dal Mediterraneo, attraverso il Mar Rosso arrivavano nei porti dell’Arabia, nel Golfo Persico, dove si caricava il petrolio, il “crude oil” come veniva chiamato, per rifornire le raffinerie dell’Europa. Nell’antichità la forza era data dagli uomini e principalmente dagli schiavi che le potenze dell’epoca catturavano nei paesi africani e orientali. Ora la forza umana è sostituita dall’energia petrolifera. Come avrebbero fatto i Romani senza gli schiavi? Ed ora, senza il petrolio, come farebbe il mondo moderno? Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, le vie del petrolio assunsero un’importanza enorme e il Canale di Suez diventò una via d’acqua importantissima, fino a quando la tecnologia seppe costruire navi da trasporto petrolifero tanto grandi da permettere di non passare più attraverso il Canale di Suez che era diventato un’arma di ricatto politico internazionale. Le prime navi erano da diecimila tonnellate di portata, tanto da poter attraversare il Canale, diventarono poi da centomila e anche più, da permettere così la circumnavigazione dell’Africa per andare a rifornirsi nei paesi arabi restando economicamente convenienti. Questa storia accade negli anni cinquanta, quando le navi più grandi del mondo erano ancora da diecimila tonnellate e apparivano per quei tempi enormi e potevano ancora attraversare il Canale di Suez.

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LA VIA DEL PETROLIO

rrivammo a Porto Said dopo la mezzanotte. Dormivo, il mio turno di guardia Ainiziava alle quattro. Fui svegliato dall’improvviso silenzio e dal leggero rollio: la lieve maretta faceva rollare piano la nave che, fermato il motore, si era messa al traverso senza più velocità. Dopo notti e giorni di continuo fremito dei motori, l’improvvisa assenza di rumore era diventata, essa stessa, un nuovo rumore così assoluto da svegliarmi. Con un improvviso fragore fu dato fondo alle ancore. Si udì prima il tonfo nell’acqua, poi lo sferragliare delle catene che dal gavone di prua scorrevano veloci, passando attraverso gli occhi di cubìa dietro alle ancore che cercavano impazienti di aggrapparsi al fondo del mare. La nave, da ferma, si ancorava alla terra, quasi volesse por fine al suo galleggiare nel mare che sempre poteva tradirla. Le catene cessarono la corsa, le ancore afferrarono il fondo e la nave, con un leggero sussulto, fu quieta, quasi rassicurata dal timore di essere spinta alla deriva. Ad eccezione di quelli comandati alle manovre, a bordo dormivano tutti: dopo anni di mare l’arrivo in porto non era più eccitante e la vita di bordo si trascinava come quella di una stanca coppia, senza fantasie e desideri. Il lungo tempo trascorso tra le paratie rugginose di uno scafo aveva assopito l’eccitazione dell’avventura e la nave era diventata una vecchia compagna d’abitudini avara di gioie, con cui vivere era ormai noiosa fatica. Solo l’arrivo nel porto di casa riusciva a sciogliere, ogni volta, il torpore e la rassegnazione di essere per mare. Ciascuno sentiva che presto avrebbe ritrovato gioie ed affetti, sicuri e forse anche sinceri. Erano tutti eccitati ed emozionati come per un’avventura, una nuova conquista. Non sapevano più quale era la vita normale, il ritorno a casa li turbava ed affascinava come se stessero per compiere un adulterio. Per me invece fu una forte curiosità a spingermi in coperta, mescolata ad una sottile emozione e alla speranza che sempre mi provocava la visione della terra dal mare. Sentii un brivido vedendo le luci lontane: da quella terra sconosciuta, che è pur sempre un traguardo, un arrivo, anche se provvisorio e momentaneo, dovremo presto ripartire portandomi dentro le gioie per quello che avrei trovato, o i rimpianti per ciò che mi sarà stato negato. All’alba la pilotina si fermò sotto bordo, il pilota si arrampicò veloce in coperta dalla scaletta di legno e di corda per andare subito in plancia dove l’attendeva il comandante. Il timoniere aveva già preparato il caffè. Al pilota nessuno badò, era un fatto consueto. Ora si dovevano attendere gli ordini che sarebbero giunti via radio: formare il convoglio per passare il Canale di Suez. Nella rada decine di navi attendevano alla fonda con i fari ancora accesi, nel chiarore dell’alba si distinguevano

Pagina 94 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA VIA DEL PETROLIO Amedeo Dall’Asta meglio, di notte sembravano luci di terra. Porto Said, che si vedeva lontana, di giorno non sembrava più così vasta come era apparsa di notte con tutte le luci. Ora si notavano le costruzioni bianche sullo sfondo marrone della terra arida e brulla. Poco era il verde, oltre non si vedevano né montagne né colline. Passarono le ore dell’alba, il fresco della notte si perdeva nell’aria che cominciava a riscaldarsi e sarebbe poi diventata rovente. A bordo la vita riprendeva consueta. Il cuoco aveva aperto la cucina, tra poco si sarebbe potuto far colazione. Approfittando della sosta, il nostromo aveva fatto appendere con due funi alcune tavole fuori bordo per andare a dipingere qualche tratto di fiancata. Alcuni dei marinai disponibili pitturavano il ferro che aveva perduto la tinta, altri con martelli appuntiti picchettavano tracce di vecchio colore che nascondevano la ruggine. Tutti i giorni di sosta la nave subiva quel trattamento che poteva sembrare, come per una donna, una civetteria per esaltarne la bellezza, mentre per tante altre vecchie e stanche, era solo una tragica e assurda mascherata. Il convoglio era stato formato e iniziammo il viaggio. Dal ponte, col telegrafo meccanico, giungevano in sala macchine i comandi. Si era ormai nelle acque del porto. Ancora una sosta per far salire a bordo gli ormeggiatori egiziani. Con un picco da carico tirammo su in coperta anche la loro piccola barca. Doveva servire, in caso di necessità, per portare a terra i cavi da ormeggio. Nessuno avrebbe mai accettato di condividere l’alloggio con quegli arabi ed essi stessi acconsentirono come una cosa ovvia e scontata la propria sistemazione a prua, lontano da ogni promiscuità, sotto il telone che venne steso per ripararli dal sole. Per i loro bisogni era stata fissata fuori bordo una tavola rotonda con un foro nel mezzo; alcune aste di ferro tenevano fermo un cilindro di tela che doveva nasconderli e proteggerli dal vuoto. Controllati con sospetto venivano nel castello di poppa a mendicare un po’ d’acqua e del cibo. Ogni tanto qualcuno, per farli arrabbiare, gonfiava le labbra soffiando una pernacchia al loro passaggio. L’arabo diventava furente per l’insulto gratuito, oscenamente offensivo dei loro costumi e della loro religione. Quel rumore era così radicalmente interdetto che, quando si accucciavano nello strano servizio fuori bordo, per celare il rumore proibito, battevano le mani o picchiavano su di una lattina d’acqua che usavano sempre per la pulizia. Dopo aver imbarcato gli ormeggiatori la nave riprendeva la sua lenta andatura, seguita e preceduta dagli altri piroscafi. Dopo poco si era già nel Canale. Al di là delle sponde di sabbia a gradoni, alcuni villaggi, poi soltanto il deserto. Le rive non erano lontane, se la nave si fosse messa al traverso avrebbe bloccato il canale come talvolta accadeva, e allora per giorni si doveva attendere che venisse liberato. Quel lento scivolare tra due quinte immobili di sabbia spegneva ogni curiosità e nessuno si curava più di dare nemmeno un’occhiata al paesaggio sempre uguale.

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Talvolta qualche ormeggiatore egiziano veniva negli alloggi, male accolto e guardato a vista. Erano tutti ladri, dicevano. Portava in una piccola sacca cianfrusaglie da vendere: collanine e braccialetti, monili in filigrana di metallo argentato, scarabei in pietra azzurra, imitazioni dello scarabeo sacro e dei turchesi dei faraoni. Li mostrava circospetto con aria misteriosa, tirandoti da parte e facendo capire che provenivano dal saccheggio di antiche tombe, oppure, con aria furbesca, offriva la solita mercanzia. Il mercanteggiamento era compiuto con un linguaggio strano, ricco d’immagini, traducendo alla lettera i vocaboli dall’arabo che deve essere una lingua piena di colore e di termini fioriti. Le navi da guerra diventavano: “navi baruffa” e i soldati che più li avevano impressionati, quei poveri bersaglieri che ad El Alamein avevano veramente lasciato le penne, erano i “soldati gallina”, per via del cappello piumato. Se nessuno comprava la mercanzia che portavano per arrotondare il magro stipendio, proponevano scambi in natura e dicevano: «Tu dai maccaronia, vermuti». E se non ottenevano ancora l’effetto sperato, mutavano l’offerta facendo apparire per un attimo un pacchetto di foto pornografiche, che però tenevano nascoste tra le mani temendo che, una volta viste, nessuno più le avrebbe comprate: «Vuoi madama scandalosa? Vuoi? Tu dare liretta». “Liretta” era la nostra, perché per loro l’unica vera “lira” era la sterlina. Se passava il nostromo, si tiravano indietro, e questi seccato diceva: «Yalla, yalla: presto, presto, via al lavoro!». Un arabo una volta rispose sornione, roteando gli occhi cisposi: «Arrabo quando lavvorare fare yalla… yalla - lo diceva piano con una lunga pausa - ma, quando gambe madama fare farfalla, allora arrabo fare yalla yalla yalla». E diceva “yalla” tutto frenetico, muovendo la mano a pugno chiuso orizzontalmente con un inequivocabile gesto capito in tutto il mondo. Ai Laghi Amari, ad Ismailìa, un’enorme distesa d’acqua salata, tutte le navi sostavano alla fonda, aspettando. Dall’altra parte, da Suez, stava arrivando l’altro convoglio. Quando tutte le navi erano entrate nel grande lago salato, riprendevamo la navigazione verso Sud, mentre l’altro convoglio risaliva il tratto di canale che avevamo appena passato. A Suez ci aspettava il Mar Rosso. Prima di prendere il mare qualcuno restava in coperta per ammirare estasiato una spiaggia, che si vedeva lontana, con ombrelloni e bagnanti: un modo di essere così lontano dalla sabbia del deserto e dal ferro della nave. Il caldo si faceva sentire allargando le pupille degli occhi e bruciando la gola. La petroliera senza il suo carico stava alta sul mare che era di un blu così intenso da sembrare incredibile. Di sera il calore era soffocante. Dopo che il sole aveva arroventato le lamiere, nelle cabine non si poteva dormire. Spesso la tenue brezza che soffiava da poppa veniva annullata dalla velocità della nave. Non un filo

Pagina 96 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA VIA DEL PETROLIO Amedeo Dall’Asta d’aria attutiva la tremenda calura. Alle quattro del pomeriggio montavo di guardia in sala macchine ed era un inferno. Dopo la cena sedevo in coperta con quelli che non riuscivano a stare in cabina, fumando e bevendo la birra ghiacciata che il cambusiere ci vendeva. Ma già poco dopo la necessità di dormire cominciava a sospingere qualcuno verso le cabine, da cui però usciva ben presto portandosi appresso il materasso, per cercare sul ponte un posto qualsiasi dove potesse arrivare un po’ d’aria a portare un’illusione di fresco. Prima della mezzanotte finivano per arrivare tutti così, cercando uno spazio per buttarsi a terra, ansiosi di ottenere un riposo ch’era diventato ormai un bisogno insopportabile, un desiderio irrinunciabile. Talvolta la brezza arrivava carica di vapori salmastri ed allora, per difendersi dall’umidità che tutto bagnava, ci si avvolgeva anche il capo, come in un sudario, col lenzuolo unto dal catrame che univa le tavole di legno della coperta. La nave sembrava trasportare un carico di morte con quei corpi immobili completamente avvolti nelle lenzuola macchiate e all’inizio dei quarti, il marinaio e il fuochista di guardia cercavano per svegliare il collega, che doveva dargli il cambio come in un obitorio tra i corpi dei dormienti, scoprendogli il capo, a svelare volti gonfi di sonno. Alle quattro del mattino mi svegliavano: il lenzuolo con cui mi ero protetto era tutto bagnato. Le membra erano rotte, le giunture come arrugginite, gli occhi gonfi di stanchezza e di riposo non fatto. Ci sarebbero state un po’ di ore di poco calore, ma dovevo scendere in macchina. Portavo solo un paio di scarpe e calzoncini di tela, nient’altro. L’odore di olio e di nafta mi investiva violento appena aperta la porta della sala macchine, dovevo scendere quattro rampe di piccole scale col passamano di ferro bollente. Per non bruciare le mani tenevo sempre nelle tasche due grumi di cascame di cotone. Ero ufficiale ed era perciò di filacci bianchi, quello degli altri era colorato, come vi fosse differenza. Ma era anche questo un distintivo sociale, un privilegio cretino. Tutte le mattine il caporale di macchina lo portava compunto: il bianco presso la piccola scrivania vicino ai comandi, l’altro, meno costoso, lo lasciava sopra i depuratori dell’olio. Protette le mani, scendevo a precipizio senza fare i gradini, ma lasciandomi scivolare sospeso sui passamani. Facevamo tutti così, eravamo diventati esperti come ginnasti alle parallele, in un attimo scendevamo giù in quella strana maniera. Solo il Capo faceva i gradini con grande sussiego. In basso il caldo era solo a quarantatré gradi, in alto, sopra alle macchine, superava i cinquanta. Il sudore colava partendo dalla radice dei capelli, correndo in piccoli rivi sul petto e sulla schiena, provocando solletico. Entrava nei pantaloni e scendeva dalle gambe fin dentro alle scarpe. Dovevano passare quattro ore. Il caldo e la mancanza d’ossigeno toglievano il respiro. Con uno straccio di rete di cotone, come quello usato per lavare per terra e

Pagina 97 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° che chiamavano “mantillo”, mi asciugavo il sudore. Lo strizzavo con le mani unte di grasso cercando di non sporcarlo del tutto, ma dopo la prima ora non faceva più differenza. Risalivo alle otto che erano tutti al lavoro, cercavo la doccia che dovevo fare quasi bollente perché i cassoni si erano surriscaldati e l’acqua non usciva più fresca. Dopo il Mar Rosso, nell’Oceano Indiano, con i monsoni, la calura era minore, ma questi soffiavano di poppa o di prua e la nave beccheggiava procurando altro disagio. Appena partiti da Porto Marghera, si iniziava subito la pulizia delle tanke. Nessuno pensava all’inquinamento. Si riempivano le cisterne con acqua di mare, i resti del carico venivano a galla e si scaricava appena fuori del porto. Se ne ricaricava subito ancora come zavorra per tenere la nave abbassata nel mare: il Mediterraneo poteva tradire ed era opportuno non tenere le stive vuote. Il lavaggio si faceva in Mar Rosso dove c’era sempre bonaccia. Si aprivano allora i portelloni delle cisterne in coperta e i marinai con getti d’acqua pulivano l’interno. Poi qualcuno doveva scendere con manichette speciali che spruzzavano vapore, per togliere ogni traccia di residui fangosi del carico precedente che poteva rovinare il nuovo carico e impedire anche che il caldo li facesse evaporare formando il gas che poteva far saltare in aria la nave. Dentro alle tanke, tra le nuvole di vapore bollente e l’odore impossibile, si resisteva solo per poco, per trovare refrigerio in coperta sotto il sole a quaranta gradi. A questi lavori erano comandati un po’ tutti i marinai, ma a taluni il nostromo riservava turni più lunghi. Una volta si era imbarcato un ragazzo non ancora ventenne, Bepi Franchini. Aveva finito il liceo e voleva iscriversi a medicina. Di modesta famiglia senza tanti quattrini s’era imbarcato per alcuni mesi; non capivo come avesse potuto con la penuria di posti che c’era a quei tempi. Il nostromo sapeva e non vedeva di buon occhio quello che sembrava un signorino, uno che aveva studiato e portava via il pane a qualcuno che aveva bisogno. In tutti i modi cercava di metterlo sotto con i lavori più pesanti e difficili. Il Bepi affrontava ogni cosa senza fiatare, mai si era lamentato. Era al secondo viaggio, mi disse che ne bastavano altri tre per avere il denaro e fare qualche anno di studi senza gravare la famiglia, il padre lavorava a Marghera in raffineria e là aveva trovato la raccomandazione per farlo imbarcare. Puliva le tanke legato ad una fune, così se sveniva intossicato dal gas, potevano tirarlo su. Una volta successe e per cura gli fecero bere due litri di latte condensato, di quello conservato in lattina già zuccherato, quello che subito dopo la guerra mangiavamo, senza diluirlo con l’acqua, spalmato sul pane come fosse una cosa da ricchi. La sera mi venne a trovare, come il solito, in cabina, ma parlammo di amici comuni e di come si sarebbe stati alla spiaggia del Lido nel pieno dell’Agosto. Nel salutarmi guardò la cabina come fosse la prima volta e disse il solo lamento velato: «Però, che bella cabina hai. La mia è proprio uno schifo, e poi non respiro con

Pagina 98 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA VIA DEL PETROLIO Amedeo Dall’Asta l’odore che hanno i miei tre compagni. C’è uno che non vuole tenere aperto l’oblò e ha i piedi che puzzano in modo tremendo». Lo salutai mortificato. Che cosa potevo? «Vieni quando vuoi, anche quando io non ci sono». Mi guardò con un amaro sorriso, con gli occhi che erano diventati solo un po’ lucidi. Il pianto doveva essere dentro. Negli anni seguenti divenne un grande chirurgo. Lo rividi dopo vent’anni, affermato e importante, mi strinse la mano chiamandomi per nome come fosse un elogio. Morì poco dopo, un mattino d’inverno, correndo con l’auto nella nebbia della valle padana. Alcuni giorni dopo apparve la terra. Una lunga pianura di sabbia giallo-oro interrompeva all’orizzonte la distesa del mare verde-mela. Attorno e dietro di noi alcune decine di petroliere di tutte le nazionalità attendevano il turno per caricare il “crude oil” dalla banchina che si vedeva lontana, unica testimonianza di vita umana nell’enorme deserto di sabbia e di mare. La banchina costruita su enormi piloni di cemento, a qualche miglio dell’arida costa, era tanto lunga da poter far attraccare cinque o sei grosse navi. Era larga alcune decine di metri, tutta ricoperta di legno per impedire, tra il ferro, scintille che potevano provocare lo scoppio del gas che stagnava all’intorno. Un lungo pontile collegava la banchina alla terra e portava, sotto il rivestimento di legno, le grosse condutture che arrivano dai pozzi invisibili oltre la linea dell’orizzonte. Eravamo alla fonda a Mhena Al Hamadi, nel Golfo Persico, in una calma piatta di mare e di vento. Il sole picchiava implacabile, il motore principale era fermo, ma pronto a partire, eravamo tutti in coperta. Il cambusiere vendeva un sacco di birre che tutti bevevano avidi. L’equipaggio scendeva di sotto ad acquistare la fresca bottiglia, agli ufficiali la serviva il cameriere che si faceva firmare un tagliando presentando un vassoio, come in crociera. Era una gioia infinita sentire la birra ghiacciata scendere giù nella gola e per quei pochi secondi sembrava di aver quasi freddo. Appoggiati al parapetto era una gioia ancora più grande ruttare tranquilli con tutta la gola all’indirizzo della sabbia e gettare in mare la bottiglia come fosse un proiettile. Eravamo arrivati di notte. Dormivamo tutti in coperta; poiché le luci, anche se deboli, che illuminavano il ponte di poppa mi impedivano il sonno, mi ero legato una benda sugli occhi. Quando il motore venne fermato e fu dato fondo alle ancore mi svegliai restando con gli occhi bendati: alle quattro montavo di guardia. Mi girai per riprendere sonno. Non era più tanto caldo all’aperto vicino alla terra, ma le cabine avevano le lamiere arroventate dal giorno e dal piccolo oblò non poteva entrare tanta brezza da rinfrescare l’ambiente. Ormai non avrei più dormito, tolsi la benda per controllare l’orologio. Mi colpì il chiarore diffuso nell’aria che oscurava le lampade elettriche. Come

Pagina 99 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° poteva essere l’alba? Ancora con gli occhi assonnati mi alzai a guardare al di là del parapetto che, stando disteso, mi impediva la vista della terra vicina. Restai stupefatto a guardare con gli occhi ancora socchiusi e gonfi dal difficile sonno, abbagliato. Quattro soli stavano sorgendo lontano all’orizzonte. Quattro, non uno. Il chiarore era spettrale, giallastro come da aurora boreale. Erano le torce che bruciavano il metano che usciva dai pozzi e che allora non veniva utilizzato. Bruciava continuo, illuminando tutte le notti chilometri di deserto e di mare. Il viaggio di ritorno nel Mar Rosso non era più tanto opprimente. Caldo e disagi erano come all’andata: ma si tornava e i giorni passavano più veloci, tuttavia scendere in sala macchine alle quattro del mattino era ancora un incubo angosciante. Avevo escogitato un sistema per far passare più svelte le quattro ore di guardia. Ogni mezz’ora dovevo compiere il giro per controllare gli strumenti. Mi proponevo un traguardo vicino e pensavo di arrivare solo a quello. Quando erano passate le prime due ore era fatta: ero nel mezzo, ogni minuto era uno di meno. Mi cercavo dei lavori da fare, come traguardi intermedi. L’equipaggio era diviso in “Ufficiali” e “Bassa Forza” (tutti gli altri). In tutti i documenti, registri, comunicati, i marinai e i fuochisti erano sempre chiamati “BASSA FORZA”, anche nella sala mensa, nel corridoio che portava alle loro cabine era scritto “BASSA FORZA” e pure nei gabinetti: “IGIENE BASSA FORZA”. Il primo giorno d’imbarco quando vidi quelle scritte provai un senso di stupore e poi di pudore. E ogni volta che le vedevo cercavo di non farci più caso, dando per ovvio e scontato, come per certe altre cose. La cucina era unica, ma cucinava diverso. Al Comandante e Direttore di macchina andava il cibo migliore, servito nella saletta riservata sotto il ponte di comando. Gli ufficiali venivano dopo nella sala mensa, serviti dal secondo cameriere: un primo, un secondo di carne e un terzo di pesce o formaggio, frutta e caffè. Giovedì e domenica il dolce. La Bassa Forza aveva solo un primo e un secondo, dovevano andarlo a ritirare in cucina con le gamelle d’alluminio che dovevano poi venire lavate da loro, in un locale con la targa “LAVANDERIA BASSA FORZA”. Il vino, uguale per tutti, non era misurato, tanto ben poco se ne beveva. Era sempre rosso, mai bianco, aveva un gusto tremendo, forse col caldo e con gli sbattimenti non poteva conservarsi meglio. Lo chiamavano tutti “cancaron”. La frutta invece era contata. Agli ufficiali due pezzi ad ogni pasto, ai sottufficiali uno e alla Bassa Forza niente. Per loro non era prevista, ma anche se uomini rudi e avvezzi a fatiche strazianti, dopo giorni di mare ne sentivano anche loro il bisogno. Solo nei mari tropicali veniva distribuito a tutti un limone al giorno. A tavola non consumavo tutta la frutta che mi veniva servita, ne conservavo un pezzo per portarla giù in macchina: mi faceva bere di meno. Un giorno mi accorsi che mentre mangiavo una mela il fuochista mi guardava avido, come invidioso,

Pagina 100 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA VIA DEL PETROLIO Amedeo Dall’Asta muovendo le labbra. S’accorse d’essere visto e confuso arrossì ritirandosi dentro il suo antro. Ne provai una grande vergogna. Presi così l’abitudine, quando nella prima mezz’ora andavo nel locale caldaie a controllare pressione e livelli, di posare la mia mela sulla piccola mensola dove con un fornelletto elettrico faceva il caffè. Avevo pudore a dargliela in mano. Lui capiva, anche per questo mi voleva bene e mi dava doppio caffè. La gioia più grande fu quando rientrammo nel Mediterraneo, riattraversando il Canale di Suez. Dopo quaranta giorni si tornava a casa. Arrivando di giorno, non notai la differenza di caldo, non mi accorsi nemmeno di aver indossato una camicia per andare di guardia. La notte però misi una coperta nel letto e provai una sensazione di quasi erotismo. Parevo esaltato, che piacere fu coprirmi e cercare il tepore del letto.

Il Premio assegnato ad Amedeo Dall’Asta di Venezia (impossibilitato a presenziare) viene ritirato da un suo caro amico di Palermo.

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Il Circolo conferisce il Premio “Protagonisti del mare” alla Società di Navigazione “Ignazio Messina & C.”

“Nell’ottantesimo anni- versario della costitu- zione della Compagnia di Navigazione “Ignazio Messina & C.”, il conferimento del “Pre- mio Protagonisti del mare” al suo fondatore è un atto dovuto per ri- cordare degnamente un concittadino che con l’audacia, il coraggio e l’acuta intelligenza, tipi- ci della gente di Sicilia, ha saputo mettere stabi- li basi ad una Impresa Armatoriale tuttora atti- va, solida, operante e sempre in continua ascesa.”

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Angelo Luigi Fornaca

LA TIGRE DELLA MALESIA

metà degli anni 80, Capitan Cherubini non si sarebbe mai aspettato di Aimbattersi nei Pirati quando, al Comando dell’Alabama Getty, si stava inoltrando nel Golfo del Bengala, ma, come aveva detto mammà in un lontano e gaudioso giorno, lui era nato sotto il segno particolare della ‘Tigre’. Infatti, fin da quando ebbe i natali in un’umile, ma onesta ed onorata famiglia di Mola in provincia di Bari, il nuovo arrivato si mise in luce sotto le sembianze di un magnifico esemplare, con un corpo ed una testa armoniosamente scolpiti, per cui, dopo il primo amorevole sguardo, mamma Cherubini esclamò: «Ecco il mio bel tigrotto!». Crescendo, il ‘cucciolo’ non deluse le attese e quando si presentò per la prima volta sui banchi di scuola sembrava un vero tigrotto: un po’ tozzo, ma agile e forte, con un gran ciuffo ricciuto sotto il quale spiccavano i tratti di un viso vivace e ribelle. Benché fosse d’intelligenza pronta e duttile, all’inizio il piccolo Cherubini dimostrò più noia che attaccamento ai libri di scuola; ma, il giorno in cui la maestra, per interessare e stimolare gli alunni, portò in classe un libro di Pirateria marinara, tutto il fastidio e la noncuranza che aveva sempre dimostrato durante le ore di lezione, sparirono come d’incanto. Dopo il primo libro ne seguirono altri, attesi ed accolti con sempre crescente interesse; egli scoprì ben presto che la Storia della Pirateria marinara si perdeva nella notte dei tempi: ripercorse, così, le prime gesta fino alla definitiva consacrazione della ‘professione di corsaro’, quella figura destinata a varcare gli oceani ed estendersi sui mari di tutto il mondo. Via via, inoltrandosi sempre più in nuove avventure, Cherubini ‘partecipò’ alle imprese di Capitan Morgan e di Capitan Flint, le cui vele si gonfiavano sinistramente al vento, portando l’insegna del nero teschio sugli incomparabili scenari del Mar dei Sargassi, del Golfo del Messico e fra le innumerevoli isole delle Antille. Sempre ed ovunque, sui mari occidentali, era il sinistro Pirata a comandare l’arrembaggio dal Ponte della Nave e a rapire l’interesse del tigrotto di Mola finché, inaspettatamente, un giorno comparve all’orizzonte una emergente e rivoluzionaria

Pagina 103 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° figura di Corsaro: Sandokan era il nuovo eroe, forte e coraggioso, il romantico combattente a difesa dei deboli per il trionfo della Libertà e della Giustizia su tutti i mari e le terre del lontano Oriente. Mentre scorreva le pagine della ‘Tigre della Malesia’ sembrava che una corrente magica attraversasse il ‘tigrotto’ da capo ai piedi: il corpo si tendeva, i lineamenti si affilavano come lame di una scimitarra ed il lampo di una scintilla si accendeva nei suoi occhi nel seguire Sandokan lanciato all’arrembaggio. Sulle ali della fantasia di Salgari, il piccolo Cherubini si spinse, attraverso il Golfo del Bengala, fino oltre il Borneo, mai venendogli meno quella fiammella scintillante nelle pupille ad ogni assalto del suo eroe. Sandokan, la Tigre della Malesia, e Marianna, la Perla di Labuan, erano gli idoli ed i sogni infantili sui quali costruire un immaginario, ma non impossibile avvenire. L’interesse per l’avventura lo proiettò sempre più verso mari e terre lontanissime e sconosciute e fu così inevitabilmente attratto dalle ‘sirene’ del Nautico, cui si iscrisse per il Corso di Capitano di Lungo Corso, a dispetto del buon papà che lo avrebbe voluto con le radici saldamente affondate nella generosa terra pugliese come fedele continuatore delle sane tradizioni familiari. Il giovane Cherubini proseguì nella sua magnifica crescita e, con lo studio diligente e proficuo, ebbe modo di sviluppare anche un particolare interesse verso le attività sportive; ben presto divenne un’ottima ala destra nella squadra calcistica di Mola mettendo in luce, con le doti tecniche, anche un innato temperamento d’indomabile lottatore: quando si lanciava in una delle sue travolgenti discese verso la porta avversaria, si destava in lui il coraggio belluino del suo eroe Sandokan, come se fosse catapultato da una forza misteriosa verso la tolda di una nave nemica da espugnare. Furono anni d’intenso studio e di sport e, poi, finalmente, il coronamento di un grande sogno: il Diploma di Allievo Capitano di Lungo Corso, la partenza e la prima Nave! Il ‘tigrotto’ era cresciuto bene: il fisico appariva asciutto e muscoloso, i lineamenti forti e volitivi, con occhi neri e penetranti in uno sguardo fiero e scintillante, pronto ad affrontare il mondo e a conquistarlo. Seguì un lungo periodo di viaggi sui più lontani e tempestosi mari: le traversate si succedettero quasi ininterrottamente, ma il Bengala, lo Stretto di Malacca ed il Borneo rimanevano sempre fuori dalla sua rotta; ed anche quando la prua della Nave prese la via dell’Estremo Oriente, le sue mai sopite aspirazioni giovanili non riuscirono a trovare il conforto di un approdo o di un reale contatto con il mondo di Sandokan. La realizzazione dei sogni dell’infanzia stava diventando soltanto un impossibile miraggio e, benché rincorresse sempre l’avventura con spirito giovanile, incominciò ad avere la sensazione che i tempi gloriosi di Mompracem fossero ormai nient’altro che un lontano ricordo.

Pagina 104 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA TIGRE DELLA MALESIA Angelo Luigi Fornaca

Lentamente, con la maturità, anche la fiammella che gli brillava negli occhi prese ad impallidire: soltanto, di tanto in tanto, transitando al largo di Labuan, la luce si riaccendeva, non più ad inseguire Sandokan lanciato all’arrembaggio, ma a rincorrere, nell’immaginario, i seducenti occhi verdi di Marianna, per la quale si stava sviluppando un piccolo incendio. Sandokan, dunque, era stato un sogno giovanile, ma Marianna era la realtà, la luce, la fiamma, il fuoco dell’avventura per cui ardere d’amore. Ma la ‘Perla’ si faceva attendere. La cercò ovunque, a tutte le latitudini, sotto i cieli di tutto il mondo senza trovarla: bella, intelligente, colta. Forse anche lei era un miraggio, dopo quello di Sandokan? L’incendio continuò a divampare senza sosta, sempre più violento, ma, invece di Marianna, gli arrivò il Comando della Nave: dopo lunghi anni di dura e faticosa scalata era arrivato alla sommità della vetta della carriera e si accingeva ad assumere i privilegi e le responsabilità della prima ‘poltrona’ di Bordo. Allora Capitan Cherubini aveva già varcato la soglia degli ‘anta’, ma conservava un’impronta particolarmente aperta e gioviale che lo rendeva assai popolare fra la ‘ciurma’; e, sebbene talvolta amasse cullarsi ancora nei sogni e fra gli entusiasmi giovanili, nel suo intimo ‘sentiva’ che le fantasie del passato stavano per soccombere inesorabilmente, avvolte nel grande velo dell’oblio. Faticosamente Capitan Cherubini stava sostituendosi a Sandokan nel ruolo di protagonista sulla plancia della Nave, mentre la ‘Tigre’ vedeva allontanarsi sempre più il suo mondo, anche se, nei recessi reconditi del suo animo, l’ultima debole fiammella resisteva ancora. E un giorno, come per un’estrema illusione, sembrò che stesse finalmente per realizzarsi il sogno della reale avventura, quando, in navigazione nei mari dell’Indonesia, avvistò la vela di una grossa giunca stracarica di corpi umani! Istantaneamente fu proiettato indietro nel tempo, al giorno in cui la maestra portò in classe quel libro che aveva scatenato la sua fantasia infantile. Sporgendosi oltre il parapetto della Nave, scrutò il lontano orizzonte, poi, decisamente, cambiò rotta e mise la prua sull’imbarcazione sconosciuta: purtroppo, non era l’avventura che si cullava nell’animo fin dalla tenera età, ma il triste epilogo di un autentico dramma. Non c’erano i suoi eroi ad attenderlo sulla sgangherata giunca, bensì un misero carico di disillusione e disperazione: quello della popolazione sud- vietnamita in fuga dal loro paese, profughi dall’utopistico mondo del paradiso materialista. Li raccolse quando erano in mare da oltre una settimana, da tre giorni senza cibo e senza acqua, in balia delle onde, sotto l’implacabile sole tropicale: un centinaio di uomini, donne, vecchi e bambini in tenera età. Con il cibo, offrì loro la libertà e, quando li depositò sulla banchina del porto del Singapore, sul suo volto di impossibile Pirata rimase a lungo l’impronta di una viva commozione.

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Con i profughi se ne andarono definitivamente le residue speranze di agganciarsi al suo mondo infantile. Tutto era ormai finito: Sandokan non esisteva più. Rimaneva soltanto Capitan Cherubini e la realtà della vita. Il resto? Pura fantasia. In seguito, il lento scorrere del tempo non parve più subire mutamenti; ma, anche se la ‘fiammella’ aveva cessato di ardere, era veramente impossibile che sotto il velo di oblio non si celasse ancora qualche minuta favilla in grado di scatenare un nuovo e più devastante incendio? E l’inverosimile apparve un giorno improvvisante: infatti, ciò che non era avvenuto prima nel corso di numerosi anni di traversate nei mari della Malesia e del Borneo, incominciò ad assumere sembianze ben definite durante una delle periodiche vacanze, a Genova, sotto i portici di Via XX Settembre: «Piacere, Cherubini!» «Piacere, Arcangelo!» «Arcangelo come?» «Arcangelo Marianna!» «Oh, mio Dio!» Istantaneamente, Cherubini ebbe una delle sue folgoranti ‘captazioni’ che avevano orientato e determinato il corso della sua vita fin da quando, in tenera età, sedeva sui banchi di scuola: la sua non era soltanto immediata percezione di una particolare situazione, ma qualcosa in più, come la capacità di intuirne gli sviluppi futuri, anche assai remoti. Mentre indugiava trattenendo la piccola mano fra le sue grandi e nodose dita, la percezione assunse sempre più vigore, come un coro di arcangeli che si univano ai cherubini di casa sua: «Ecco - gli dissero all’unisono - la tua Penelope, colei che guiderà il ritorno di Ulisse alla sua Itaca: certamente non è Marianna, la Perla di Labuan, ma nemmeno tu sei Sandokan, la Tigre della Malesia...... al risveglio, i sogni tornano ordinatamente nel cassetto e lasciano il campo alla realtà che, nondimeno, può essere fascinosa...... vedi? Lei è piccola, dolce, fragile ed indifesa! Ha bisogno che qualcuno la protegga! Ha bisogno di te! Per lei potrai essere ancora un eroe, il Sandokan, e lei sarà la tua Perla». Glielo disse cercando negli occhi di Marianna l’approdo vero e totale: nelle pupille di lei vide accendersi una piccola, misteriosa luce che diventava sempre più intensa ed abbagliante, come il raggio di un grande faro. Così sotto la Lanterna ebbe termine la caccia selvaggia alle falene bianche, nere o gialle, dall’Alaska a Capo Horn, dall’Estremo Oriente al Capo di Buona Speranza e la ‘navicella’ di Cherubini si avviò lentamente, ma felicemente, all’ancoraggio sicuro dentro un tiepido ed accogliente porticciolo. Al suono di Mendelssohn il coro di Arcangeli e Cherubini li pilotò direttamente

Pagina 106 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA TIGRE DELLA MALESIA Angelo Luigi Fornaca all’altare, dove il prode Cherubini impalmò la dolce Marianna. Seguirono alcune settimane in cui Capitan Cherubini, forte e coraggioso come l’eroe sulla tolda della nave in pieno arrembaggio, si lanciò generosamente tra le braccia della piccola e fragile Marianna, sempre bisognosa di affetto e protezione, dandole il sostegno della sua forza e sicurezza. Ma, ahimè, troppo presto l’inesorabile legge del mare lo strappò un mattino dal dolce tepore del suo porticciolo con una telefonata urgente e l’inevitabile ordine di partenza: destinazione Alabama Getty. Come altre volte, in volo raggiunse la nave nel lontano Golfo Persico, ma lei non era rimasta sola: stava volando accanto a lui sull’aereo che li portava verso l’Oriente. Lassù, oltre le nuvole, nell’incerto silenzio della notte, Cherubini rincorse a lungo, attraverso l’oblò, le stelle che impallidivano al primo chiarore dell’alba; quindi, il suo sguardo si posò sulla piccola compagna che riposava accanto, ammirandone i lineamenti dolci e sereni, e gli sembrò, come sempre, infinitamente fragile e indifesa: «Dormi, piccola - le mormorò - ora sarò io a vegliare su dite!». Arrivarono a Dubai, dove l’Alabama Getty stava transitando proveniente dai porti del Golfo Persico diretta in Giappone, via Stretto di Malacca e Singapore. Salirono il ripido scalandrone e si imbarcarono sulla grande Nave: lui si assise sull’alta poltrona dei privilegi e delle responsabilità del Comando, mentre lei, fedelmente, si dedicò ad occuparne l’ombra protettrice. I giorni che seguirono furono la felice continuazione del magico periodo iniziatosi quel giorno a Genova sotto i portici di Via XX Settembre. Mentre la Nave solcava l’onda dell’Oceano Indiano verso il lontano Oriente, a bordo tutto era calmo e tranquillo: dal Ponte di Comando, Capitan Cherubini osservava la prua correre verso l’orizzonte liberando una lunga e schiumosa scia bianca dietro la poppa. Il mondo era lontano e le notizie arrivavano soltanto filtrate attraverso la Radio, come le voci che indicavano una vivace ripresa dell’attività piratesca nello Stretto di Malacca e di Singapore: ‘rumori’ che non destavano alcuna preoccupazione, ma che avevano illuminato per qualche istante il volto di Capitan Cherubini: «Belle favole ad uso e consumo delle Aziende Turistiche!» - aveva subito commentato con un sorriso di compiacente superiorità. «Nessuno è in grado di fermare questi colossi del mare, nemmeno se tornasse Sandokan in persona!» - aveva infine sentenziato ed il capitolo pirateria era da considerarsi definitivamente chiuso. Attraversarono il Golfo del Bengala ed avvistarono la costa occidentale di Sumatra, la grande isola all’ingresso dello Stretto di Malacca. «Ecco, laggiù - stava dicendo Cherubini a Marianna - c’è lo Stretto di Malacca e Singapore, la porta dell’Oriente, un tempo teatro di mille avventure, il regno incontrastato dei Pirati della Malesia; un mondo che, nonostante le voci fantasiose ricorrenti ai giorni nostri, appartiene soltanto al passato; sono, nondimeno, i mari,

Pagina 107 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° le isole e le terre che Salgari ha immortalato in quella stupenda collana di libri che ha fatto sognare intere generazioni di ragazzi in tutto il mondo». Dal Ponte di Comando Capitan Cherubini pilotava la Nave a nord di Sumatra inserendosi sulla rotta verso Singapore. La navigazione era assai impegnativa a causa delle numerose ostruzioni costituite da isolette e banchi sabbiosi affioranti o sommersi che delimitavano il passaggio. Le sue doti di navigatore erano messe a dura prova: il minimo errore poteva comportare l’incaglio in mezzo allo Stretto, oppure un vero e proprio ‘atterraggio’ sulla costa con la prua immersa in profondità nella lussureggiante vegetazione della foresta tropicale. Mentre l’Alabama Getty transitava entro lo Stretto di Malacca, laggiù, sulla costa della Malesia, stava imperversando ‘Sumatra’, il violento nubifragio locale, con scrosci torrenziali di pioggia accompagnati da lampi accecanti e dall’assordante boato del tuono; anche Singapore era investita dall’uragano che continuava a rovesciare un diluvio di acqua sulla città immersa nel buio della notte: le strade erano diventate vorticosi torrenti in piena, il traffico completamente paralizzato e tutta la vita notturna sembrava essersi fermata. Il lungo passaggio dello Stretto proseguì ininterrottamente per molte ore sotto l’imperversare di ‘Sumatra’, finché la grande nave, superati gli ultimi ostacoli, immise la prua nel mare aperto. Erano passate da poco le 02.00 quando Capitan Cherubini, lasciato il comando all’Ufficiale di guardia, scese la scaletta interna del Ponte e raggiunse la cabina, seguito dalla fedele Marianna: stanco, con gli occhi arrossati per la prolungata esposizione davanti allo schermo radar, si lasciò scivolare sulla cuccetta, accanto alla moglie, ed in pochi istanti cadde in un profondo e rumoroso sonno. Marianna attese pazientemente per alcuni minuti l’illusoria fine del ‘concerto’ coniugale; quindi si alzò ed andò ad allungarsi sul divano, sollevandosi la coperta sul capo nel vano tentativo di ripararsi dal fastidioso russare. Mentre Capitan Cherubini veleggiava ormai nel profondo mondo dei sogni, non molto distante, sul pontile di una piccola baia celata fra cortine di mongrovie, ferveva una strana attività: due ombre nere, in completa tuta-sub, da cui spuntava la minacciosa impugnatura di un pugnale, avevano lasciato il bungalow e stavano prendendo posto su una grossa e filante canoa, munita di un potente motore fuoribordo. Senza curarsi di ammirare il paradiso di vegetazione circostante, che appariva di una bellezza ineguagliabile alla luce incessante dei lampi, misero in moto e, con rapida manovra, lasciarono decisamente l’ormeggio. Sfidando i torrenti di acqua che continuavano a cadere dal cielo, la canoa superò uno stretto passaggio ed uscì in mare aperto, puntando, senza indugi, verso le luci di posizione di una grande nave in transito; nonostante il pericoloso frangersi delle onde sulla prua, con abili manovre la veloce imbarcazione raggiunse una posizione

Pagina 108 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA TIGRE DELLA MALESIA Angelo Luigi Fornaca strategica ben definita e si lanciò all’arrembaggio. Evitata la prua della grande nave, la canoa scivolò lungo la fiancata fino sotto la poppa: dopo aver preso un veloce slancio, un’ombra lanciò in alto una ‘cima’ con un gancio che andò ad artigliarsi sulla ringhiera della murata in coperta. Con un ardito balzo marinaresco, l’ombra si arrampicò e ben presto fu in coperta; furtiva e veloce salì alcune rampe di scale e raggiunse il ponte degli alloggi Ufficiali: qui, sostò brevemente per lanciare un rapido sguardo in tutte le direzioni, quindi apri una porta ed entrò. All’interno la grande nave era immersa nel sonno. Nel silenzio della notte, il sibilo del condizionatore ed il brusio gracchiante di qualche motore erano i soli rumori percettibili. Lentamente, una ‘silhouette’ nera si delineò nel corridoio illuminato ed avanzò osservando attentamente le targhette delle cabine finché giunse davanti a quella contrassegnata dalla scritta ‘Captain’: con calma, ma senza indugi, afferrò la maniglia della porta e la girò. Il battente si apri facilmente senza rumore ed una soffusa luce riflessa inondò la cabina: nella grande cuccetta - letto il corpo massiccio di un uomo dormiva russando rumorosamente. La silhouette nera restò un attimo immobile, stagliandosi nel vano della porta in tutta la statuaria bellezza delle veneri orientali; quindi, avanzò di qualche passo e, spiccando un salto felino, balzò sulla cuccetta imprigionando, fra le sue gambe, il corpo della persona addormentata. «Svelto, Captain! Le chiavi della cassaforte!» - sibilò concitatamente, in un buon inglese, la Piratessa, solleticando la carotide di Capitan Cherubini con un acuminato pugnale. Nonostante l’urto ricevuto ed il pressante ‘solletico’ al collo, il malcapitato faticava a riemergere dal profondo sonno: ancora e sempre prigioniero di visioni dell’inconscio, faticava a mormorare: «...Sogni... ombre del passato... turismo... ». Per qualche istante la nera silhouette tentò di scuoterlo per risvegliarlo, tenendolo sempre sotto la pressione dell’affilata lama del pugnale, in una posizione che minacciava di precipitare con conseguenze drammatiche. Quando la situazione sembrava ormai senza vie d’uscita per il prigioniero, oltre la spalliera del divano, Marianna fece improvvisamente capolino: senza indugiare ad ammirare la esotica bellezza che stava a cavalcioni del marito, impugnò fulmineamente una grossa torcia elettrica e la vibrò pesantemente sul capo della leggiadra Piratessa, mandandola a rotolare esanime sul pavimento della cabina. Appena liberato dallo strano e fastidioso peso, Cherubini emise un lungo ed incomprensibile brontolio e, voltandosi dalla parte opposta, riprese insistentemente a russare. Gettando da parte la coperta, Marianna scese dal divano e, raccogliendo il pugnale sul pavimento, afferrò per i capelli l’esanime Piratessa e la trascinò fuori dalla cabina e lungo il corridoio fino oltre la porta esterna; qui, adagiandola sotto la bocca di un grosso idrante, le assestò un pizzicante buffetto sulla guancia, appena

Pagina 109 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° prima che si sprigionasse un violento getto d’acqua marina. Marianna rientrò in cabina chiudendosi accuratamente la porta alle spalle; dall’oblò, alla luce dei lampi, osservò la Piratessa dibattersi sotto lo scrosciare dell’acqua: la vide alzarsi barcollando, scendere mestamente alcune rampe di scale e valicare la ringhiera della coperta per sparire nella notte; e, quando udì il rumore di un potente motore che si allontanava, ristette ancora qualche istante davanti al muro delle tenebre, mentre sul suo viso andava dipingendosi un ironico e trionfante sorriso. Avvicinandosi alla cuccetta a contemplare il marito nella rumorosa beatitudine del sonno, lo baciò teneramente sulla fronte, mormorando in tono protettivo: «Dormi tranquillo, mio Sandokan. Veglierò io su dite!». Dalla profondità dell’inconscio, Cherubini emise un cavernoso brontolio di compiacimento. Marianna ritornò a coricarsi nuovamente sul divano; sotto la protezione della coperta, chiuse gli occhi nella paziente veglia prima di assopirsi: fu allora che davanti a lei incominciarono a sfrecciare in rapida successione le immagini di un mondo lontano, ma nuovamente vivo e reale, come non aveva mai conosciuto prima. Furono visioni che, via via, andavano prendendo forme e dimensioni sempre più nitide e torreggianti: divinità marine ed eroi terreni dissacrati e sospinti nell’oblio dall’avanzare inesorabile del tempo; sogni e miti di un’epoca lontana che crollavano impietosamente, sopraffatti da altri già emergenti; ed, infine, quella ‘presenza’ misteriosa ed affascinante, scaturita dalla rocciosa caverna nel cuore della giungla, entro la quale i freddi occhi della misteriosa tigre della Malesia lanciavano vividi lampi di colore paglierino mentre si accingeva ad uscire alla ricerca di nuovi orizzonti di caccia. Erano sogni che andavano sempre più ad intrecciarsi con la realtà fino alla loro completa identificazione: attraverso i misteri della giungla, dal Golfo del Bengala ai Mari del Borneo, Marianna si sentiva invadere da una nascente sensazione di gioioso orgoglio nella piacevole partecipazione personale, fino ad approdare, al risveglio, sulla tolda della nave con una nuova e fascinosa consapevolezza; ed un mattino, quando fece il suo ingresso in cabina portando una fumante caraffa di caffè: «Buon giorno, amore!... Dormito bene?». «Buon giorno, cara!... Dormito magnificamente. Ho fatto un lungo sogno: mi sembrava di essere ai tempi di...». «Fantastico, amore! Ora prendi una buona tazza di caffè: aiuterà il tuo risveglio!» - lo interruppe lei con un insorgente sorriso ironico, mentre nei suoi occhi si accendeva quella nuova, intrigante luce color paglierino: erano lampi che sembravano scaturire dalla rocciosa caverna nel cuore della giungla, quando la maestosa tigre della Malesia si accingeva ad uscire per la sua quotidiana caccia notturna. Ancora a cavallo di un sogno, ma già incalzato da un’inquietante realtà, forse, soltanto lui, l’ex tigrotto di Mola, sarebbe riuscito a svelare il segreto di quella misteriosa luce che un giorno vide accendersi nelle pupille di Marianna, a Genova,

Pagina 110 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° sotto i portici di Via XX Settembre. Intanto, fuori, l’uragano si stava ormai allontanando ad Oriente con il suo denso corredo di nubi, mentre la prua dell’Alabama Getty puntava direttamente al largo di Labuan, sul percorso tracciato da Capitan Cherubini la notte precedente: non erano stati calcoli nautici a dettarne la rotta, ma il fascino inconscio, quel sogno mai sopito dell’avventura che ancora viveva in lui come la seconda metà di se stesso.

L’Ufficiale R.T. Angelo Luigi Fornaca di Asti con la moglie e

IL PICCOLO AMMIRAGLIO

e è possibile, per un tranquillo continentale delle colline astigiane, essere Scolto da insolita vocazione e diventare un incallito lupo di mare, è alquanto strano che costui possa solcare gli oceani per tanti anni senza cogliere l’obiettivo di passare alla Storia come quelli celebri del Passato.

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È dunque vero che sui nomi dei grandi Navigatori contemporanei sta scendendo un impenetrabile, quanto inspiegabile, velo di oblio? Sono considerazioni e domande alle quali non è facile dare una risposta soddisfacente senza pescare un po’ nelle profondità del soggetto. Le origini di questa storia risalgono a tempi ormai remoti; probabilmente le motivazioni primarie affondano in quella valle di Serravalle che ha nome Cereseto: una conca fra colline dense di boschi, con una grossa “bula” a fondovalle, sempre colma di acqua da un’attiva sorgente vicino alla casa natia. Là, in un giorno avvolto fra lontani e nebulosi ricordi, Papà andò via lasciando in me un grande ed incolmabile vuoto; allora ignoravo che non l’avrei mai più rivisto e, nell’incerta attesa del suo ritorno, mi spinsi a ricercarlo un po’ ovunque correndo audacemente sulle ali dei sogni. Forse, anche inseguendo quell’impossibile miraggio, negli anni dell’infanzia iniziai a costruire ed a varare le prime barchette di carta intorno alla “bula” di fondovalle. Molto spesso, durante i lunghi e caldi pomeriggi estivi, la mia flotta scivolava lentamente sulla superficie dell’immaginario oceano, mentre dal Ponte di Comando dell’Ammiraglia andavo incontro all’avventura: sospinto dai venti della fantasia e bordeggiando lungo le coste di sconosciuti continenti, mi inoltravo sempre più lontano fino a raggiungere le più sperdute isole dei Mari del Sud. Navigatore ardimentoso, ma ancora abbondantemente ingenuo ed inesperto, non avrei mai supposto che qualcuno mi avesse preceduto sulla rotta alla scoperta del mondo; tuttavia, ben presto, sfogliando qua e là sui primi libri di scuola, scoprii che ciò era accaduto numerose volte: i nomi di Colombo, Vespucci e Magellano erano un po’ ovunque su tutti i mari e gli oceani della Terra. L’inattesa scoperta vanificò bruscamente le mie illusioni e, infantilmente, sentii lievitare una viva punta di irritazione: da dove erano arrivati questi intrusi? Dal Passato! Essi avevano avuto la grande fortuna di giungere alcuni secoli prima ed era stato tutto facile! Il piccolo, presuntuoso Navigatore che era in me aveva l’irriverente sensazione di chi avrebbe potuto cambiare il nome a qualche continente, ma la competizione era avvenuta quando mancava il concorrente più prestigioso! Ero decisamente seccato! Avevo perso sul tempo il primo confronto, ma sentivo maturarmi un bellicoso spirito di competizione con tutti coloro che mi avevano preceduto. Ma chi erano stati questi usurpatori? Amerigo? Furbescamente passato alla storia per aver arbitrariamente ricevuto l’assegnazione di un continente. Si diceva che Colombo avesse attraversato sei volte l’Atlantico e che Magellano avesse doppiato due volte Capo Horn, la punta estrema della Terra del Fuoco, mentre Capitan Cook si gloriava di essersi spinto tre volte fino alle isole dei Mari del Sud. E con ciò? Glielo avrei fatto vedere io chi era un vero Navigatore! I miei 6 verdi anni fremettero di infantile orgoglio e si sentirono tenacemente

Pagina 112 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania IL PICCOLO AMMIRAGLIO Angelo Luigi Fornaca impegnati: dovevo conquistare al sottoscritto un’assoluta posizione di primato sulla superficie degli oceani di tutto il mondo! Quell’estate, ospite delle Colonie di Andora, per la prima volta mi trovai a contatto con l’oggetto principale delle mie fantasie; stranamente non ne fui sorpreso, anzi, ebbi la sensazione che non mi fosse del tutto estraneo: il blu del mare sconfinava in quello verde della “bula”, e, a parte le dimensioni, non vi trovavo molta differenza. Invece, l’apparenza sorniona della grande superficie mi stava ingannando; inaspettatamente, le mie flottiglie di barchette trovavano grosse difficoltà al contatto delle onde: molte affondavano miseramente e soltanto alcune riuscivano a resistere in superficie prima che potessi metterle in salvo. Mi parve che il mare non fosse un banale scherzo della natura e che, prima di affrontarlo, bisognasse almeno imparare a nuotare decentemente; con impegno mi tuffai nell’impresa, ma, prima di riuscire a galleggiare sufficientemente, dovetti constatare che il mare poteva anche diventare molto amaro e salato non appena credevo di potermi prendere qualche libertà di troppo. Quella grande “bula” era una cosa molto seria, forse anche pericolosa: un’impressione che mi sarebbe rimasta per sempre. Con il passare degli anni, i sogni infantili di avventura non si assopirono, anche se furono in parte sepolti sotto gli impegni della scuola. In verità, pur dimostrando una certa disposizione per lo studio, la mia vera passione era di “marinare” con coerente regolarità: anziché frequentare i banchi di scuola, incrociavo in bicicletta lungo le rive del Tanaro, attratto da quella grande massa d’acqua in movimento, come da un irresistibile richiamo del destino. Le “marinate fluviali” durarono lo spazio di un’annata, terminando ingloriosamente con la fuga da casa. Per evitare l’incombente tempesta materna che si stava addensando minacciosa sul capo, fu giocoforza cercare scampo verso il mare: un tipico, precoce errore di “rotta” che, fortunatamente, si concluse senza complicazioni di alcun genere. Mamma sembrò perdonare la mia evasione, ma non dimenticò: da quel giorno rimase sempre vigile ed attenta a cogliere ogni mia manovra sospetta. Il ritorno a casa nei primitivi e ristretti confini segnò la fine dei sogni dell’adolescenza; ormai la “bula” era troppo piccola, priva del tutto dei vasti orizzonti oltre i quali si apriva il regno della vera avventura: ciò che un tempo fu il mio piccolo mare di Val Cereseto rimase per sempre senza flotta e senza ammiraglio. In seguito le vicende familiari ebbero un ruolo determinante nello sviluppo del mio destino di navigatore: un giorno di novembre lasciai definitivamente Val Cereseto e salii sul treno per Genova. Il cambio di residenza segnò una svolta decisiva nel mio futuro, spalancandomi finalmente la via del mare. Quello che era stato soltanto un sogno infantile stava per trasformarsi in realtà sotto forma di un’autentica professione dei tempi moderni. Tramontati e scomparsi

Pagina 113 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° i tempi dei Brigantini e dei Clippers a vela, sotto la Lanterna di Genova attraccavano le ultime Navi dotate di potenti motori e di moderne Stazioni Radio in grado di varcare velocemente gli Oceani e di unire sulle vie dell’etere tutti i Continenti. Per mantenersi vitale, lo spirito di avventura dell’infanzia doveva integrarsi con le esigenze pratiche della nuova professione: dopo un adeguato periodo di scuola non “marinata”, mi trovai con un titolo di studio Internazionale che mi permetteva di imbarcarmi su Navi di ogni Nazionalità in qualità di Ufficiale Marconista. Fu così che, un giorno, andai a Palermo per prendere imbarco su una Nave battente bandiera Italiana in procinto di salpare per i porti del Medio Oriente. Ed ecco, finalmente, la partenza! I primi giri dell’elica, il sussulto dello scafo mentre l’Alba’ si scosta dal molo e si avvia all’uscita del porto: a poppa, la terra si allontana lentamente fino a diventare una linea confusa ed indistinguibile con l’orizzonte; e, davanti alla prua, là dove il mare ed il cielo s’immergono, il mistero dell’ignoto sembra attendermi. Era iniziata la mia vera avventura del mare: il sogno dell’infanzia si stava trasformando in realtà, ma, ahimè, anche nella prima grande rinuncia della vita davo l’addio alla famiglia ed alla splendida ragazza che amavo. Decisamente non era ciò che avevo sognato nei pomeriggi d’estate intorno alla “bula” di Val Cereseto. Quella notte, la prima nell’oscurità dell’angusta cabina di bordo, mi trovai ben presto a condividere la “cuccetta” con le fedeli compagne della mia avventura: la solitudine e la nostalgia. Più tardi, quando il sonno si animò di ombre e di fantasmi, Colombo, Vespucci, Magellano e Capt. Cook iniziarono a danzare sulla tolda della Nave dopo aver scoperto l’ennesimo continente: un ballo per la scoperta dell’America, un altro per la circumnavigazione dell’Africa e molti altri ancora per la miriade di isole ed atolli dei Mari dei Sud. Sentivo che la mia Ammiraglia non avrebbe mai più avvistato un continente o un’isola sconosciuti ed il mattino seguente, quando mi risvegliai, fui pienamente cosciente che i sogni infantili della Val Cereseto erano tramontati per sempre. Per essere nuovamente competitiva la mia avventura doveva ricercare altri ed avvincenti traguardi attraverso una nuova e fascinosa consapevolezza: quelli che erano stati i leggendari viaggi della Storia Marinara avrebbero potuto rivivere in un’altra dimensione, come risultato di verità personali ancora da scoprire. Lentamente sentivo affiorare una nuova sensazione: non era più un sogno, ma l’avvincente fascino della realtà della vita, con cui avrei potuto misurarmi nelle piccole e grandi competizioni del mare. Anche se il vantaggio di qualche secolo aveva già assegnato l’esclusiva della rotta delle Indie e del primo passaggio di Capo Horn, nondimeno le solenni calme equatoriali e le ruggenti tempeste oceaniche erano ancora e sempre le protagoniste principali delle grandi vicende del mare. Nella scia del Passato, ma già proiettato verso i nuovi orizzonti, avrei potuto

Pagina 114 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° visitare i Continenti, le Terre e le Isole di ieri per conoscere il mondo e cercare di capire gli strani esseri che vi abitano alla luce del XX secolo. La mia sfida “privata” era lanciata: ora erano “Loro”, gli “Usurpatori”, ad essere irrimediabilmente fuori dei tempi. Il piccolo, presuntuoso Ammiraglio della Val Cereseto tornava a riaffiorare caparbiamente, rifiutando il velo di oblio che minacciava di seppellire gli autentici grandi Navigatori contemporanei!

Il sindaco di Riposto on.le Carmelo D’Urso, l’ammiraglio Angelo Mariani, il prof. .universitario ...... e l’on.le Salvino Barbagallo

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Circolo Ufficiali Comune Marina di Mercantile Riposto Riposto

XXVI Edizione

Riposto (CT) - Festa del Mare

Canzone - Diaporama - Gastronomia Fotografia - Narrativa Pittura - Protagonisti del mare - Video sul tema “L’uomo e il mare”

Provincia Regionale Catania Azienda Provinciale Turismo Catania

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Alfredo Quinto di Corato

CHIAVE DI LETTURA

a cronaca rimata e ritmata che si descrive, riguarda il salvataggio della velista Lsolitaria francese Isabelle Autissier, di 43 anni, impegnata in un attraversamento oceanico come lo sportivo italiano Giovanni Soldini, da questi salvata ovviando al naufragio che per ben 22 ore l’ha vista sopravvivere aggrappata ad un capovolto scafo capace di galleggiare e non più di navigare. Giovanni Soldini ha trasgredito ad una delle regole della regata in solitario, proseguendo poi assieme alla concorrente recuperata. Del fatto non si è tenuto conto ed anche il concorrente Marc Thiercelin, unico avversario che si sarebbe avvantaggiato dalla squalifica, non ha protestato. In una precedente competizione, il velista Gerry Roufs, nel 96, sotto gli occhi della stessa Isabelle Autissier, era scomparso in mare con la sua barca capovolta e non fu mai ritrovato. L’episodio richiamato tenta di valicare i limiti della semplice cronaca sportiva appropriata ad un altro genere di esami, sottolineando lo splendore dello spirito marinaro che quanto più s’allontana dalla popolosità umana, tanto più mette in evidenza che il mare, il mare è pulito.

PER DEI “SOLDINI” IN PIU’

Il mare, il mare legato alla genia della vita, ispira una lealtà morale da niente limitata che nell’ancestrale storia che il tempo ha definita raramente conserva un’aspra memoria svergognata.

L’uomo di mare difende una tradizione gestita ignorando la prevaricazione ingiustificata qualunque sia stata la buona istruzione acquisita sia da esploratore che da ferocissimo pirata.

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In guerra, a pesca, in agonismo od azion ardita, pel marittimo la navigazione è finalizzata nel non violar il limite della dignità definita ad onta della brutalità, dall’onore disprezzata.

Sol talvolta s’apprende di personalità sminuita che nel suo metodo inserisce la comoda furbata tesa a sollecitar la risoluzione più gradita per sfruttare l’altrui mancanza dall’imprevisto dannata.

La morale che segue, si vorrebbe ovunque perseguita lungo l’intero litoral terrestre, ben attraccata come regola e non come giro di una partita dove, per convenienza la sufficienza è prelibata.

Giovanni Soldini, non ha poi perso la gara ambìta ed Isabelle Autissier è solamente naufragata cosicché‚ la faccenda, nel migliore dei modi finita, nessuna recriminazione impropria ha provocata.

Lo sportivo velista, la marineria lascia pulita e per quanto la competizione sia spesso spietata il timor della squalifica, l’ipotesi ha smentita. rivelando anzi una coscenza incontaminata.

Il fatto, induce alla considerazione approfondita che vede infine la generosità bene premiata e l’altruismo pure, che la cronaca ha recensita esalta la bravura del marinaio, non la bravata.

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Maurizio Bascià

UN UOMO, UN CANE E UNA LANTERNA

a mia attività di geologo addetto alle prospezioni preliminari per conto di Lun’azienda petrolifera mi porta spesso in località e paesi dimenticati anche dalle carte geografiche e, nel tempo libero, mi piace curiosare in questi angoli di mondo che il turismo ancora non ha scoperto e devastato. Verso la metà di maggio dello scorso anno, mi capitò di effettuare delle ricerche in Calabria sulla costa tra Melito e Capo Spartivento e mi fermai per la notte in un paesino di poche case affacciate sul mare. Qui, all’imbrunire, passeggiavo sulla spiaggia divertendomi a far rimbalzare le pietre sull’acqua, come facevo tanti ma tanti anni fa, sulle rive di un altro mare. Era una di quelle sere in cui il colore del cielo al tramonto, quando il sole inizia a tuffarsi dietro l’orizzonte, attraversa tutte le sfumature incredibili che vanno dal blu intenso della notte incombente ai caldi toni del rosa, del rosso e del giallo dorato per poi stemperarsi e fondersi con l’azzurro del mare e ti senti invadere tuo malgrado da una dolce e struggente malinconia e per un po’ resisti ma dopo vorresti invece che quel momento, magico, non finisse più. Lontano si profilava nitido e maestoso l’Etna, ancora in parte innevato e la mia fantasia correva libera inseguendo i ricordi delle antiche leggende greche apprese ai tempi del Liceo. E così, immaginando la nave di Ulisse solcare al tramonto le limpide acque dello Jonio alla ricerca di ammalianti sirene e i remi accarezzare le onde con ritmica sonnolenza, ero arrivato in prossimità delle ultime case del paese e sulla linea di confine imprecisa dove finisce la sabbia e comincia la terra, notai che c’era un cippo, non molto alto, con due figure e mi avvicinai incuriosito. Le figure, rivolte verso il mare, rappresentavano un uomo e un cane: l’uomo era in piedi mentre il cane era seduto sulle zampe posteriori e, particolare insolito, tra i denti reggeva per il manico una di quelle lanterne a petrolio che si usavano una volta per le segnalazioni in ferrovia, quelle con due vetri laterali mobili, uno rosso e uno verde, lanterne che ora sono diventate invece elementi di arredamento ed antiquariato. Le condizioni generali del piccolo monumento, che era stato realizzato in pietra

Pagina 119 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° bianca di Siracusa, tradivano una inevitabile usura dovuta al tempo ed alle intemperie, tuttavia si leggeva ancora bene una scritta: “ROCCO E LOLA”. La sera calava intanto abbastanza rapidamente, come è tipico in quel periodo dell’anno, e perciò, anche se a malincuore, me ne tornai di fretta al piccolo ed unico albergo vicino alla spiaggia. Mentre stavo finendo di cenare, parlando con il padrone, don Francesco, che era venuto a sincerarsi che tutto fosse stato di mio gradimento, gli domandai chi fossero Rocco e Lola. L’uomo, più anziano che maturo, i capelli folti e bianchissimi che contrastavano con la pelle del viso bruciata dal sole e dal mare, rughe come ragnatele intorno a due occhi scuri ancora vivaci, alla mia domanda accennò un sorriso, nel quale c’era forse una punta di commozione, poi, dopo essersi pulite le mani sul grembiule, si sedette di fronte a me e mi disse: «Vuole sapere come mai c’è quel monumento sulla spiaggia? È una storia molto vecchia, di tanti anni fa... io ero poco più di un bambino, ma mio padre me l’ha raccontata tante di quelle volte che mi sembra di averla vissuta di persona». S’interruppe vedendo passare suo figlio che stava iniziando a sgomberare i tavoli essendosi ormai fatto abbastanza tardi. «Carlo! - gridò - Per favore, portaci un po’ di Limoncello». E poi, volgendosi verso di me, mi spiegò confidenzialmente: «Questo lo facciamo da noi, in casa, mettendo in infusione nell’alcol le bucce di limone tagliate sottilissime... lo assaggi e mi dica com’è». Dopo che Carlo ci ebbe servito il Limoncello, che io apprezzai come dovuto e come meritava, don Francesco iniziò il suo racconto. «Rocco era il terzo dei quattro figli di Elena Pastore e Luigi Geraci, che era ferroviere. Gli altri figli erano Rosa, la maggiore, quindi veniva Maria, poi Rocco, che appunto era il terzo, e infine Carmelina, l’ultima. Rocco era sempre a mare, d’estate e d’inverno... spesso giocandosi la scuola... e c’era anche mio padre che, di poco più grande, un anno o due, proprio non sopportava gli obblighi scolastici imposti dal Regio Ministro alla Pubblica Istruzione: infatti, terminate le scuole elementari, iniziò subito a lavorare nella bottega di falegname di mio nonno. Rocco, invece, per volere del padre che avrebbe voluto farlo diventare geometra e poi impiegarlo in ferrovia, per un po’ resistette al convitto in città, a Reggio, ma quando improvvisamente don Luigi morì, non ci fu niente da fare! La grande passione per il mare e, d’altro canto, le ridotte possibilità economiche della famiglia, lo convinsero a lasciare gli studi ed a tornare in paese e, per iniziare a guadagnare qualcosa, si mise a fare il pescatore. Al principio il lavoro si svolgeva tutto a terra: bisognava tenere ordinate le reti, armare il palàmito, pulire le barche, mettere il grasso alle falanghe, quelle travi corte e tozze che servono per varare e tirare a riva la barca... lavori noiosi ma poco rischiosi che si possono dare ai ragazzi

Pagina 120 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania UN UOMO, UN CANE E UNA LANTERNA Maurizio Bascià perché si facciano le ossa ed imparino il mestiere. Rocco però non vedeva l’ora di uscire per mare e tanto fece e tanto disse che ben presto il suo padrone don Pasqualino, detto l’americano, perché era emigrato in America, ma dopo non si sa bene per quale ragione era tornato... (o forse se ne era dovuto tornare), insomma don Pasqualino lo prese in barca e lì sopra Rocco apprese l’arte, i segreti e i trucchi del pescatore. Giovane e forte com’era, per prima cosa imparò a remare per bene, perché allora le barche non andavano a motore, e il rematore era importantissimo quando si trattava di inseguire le aguglie o le costardelle, ma diventò in breve bravissimo in tutto, dalle nasse alla fiocina, esperto nella traina e conoscitore di tutti i fondali. Era come se “sentisse” che in un certo posto c’erano merluzzi o aricciole o saraghi e di notte, con lo “scuro”, quando non c’era la luna e si usciva con la lampara, riusciva contemporaneamente a remare e ad incoppare le aguglie con una abilità senza pari...» Don Francesco si interruppe rivolgendosi ancora verso suo figlio: «Ehi, Carlo, ci versi un altro poco di Limoncello?». «Andateci piano, papà...», gli rispose con una leggera nota di apprensione il figlio, versandoci tuttavia un’altra dose generosa di quel liquore color dell’oro. «Ormai sono arrivato ad un’età in cui non mi fa più male niente», lo tranquillizzò il padre strizzandomi l’occhio in segno di complicità e, dopo un sorso, riprese a parlare. «Come stavo dicendo Rocco diventò presto il più bravo di tutti nel paese e quando tornò dopo il servizio di leva, con quello che aveva risparmiato nei ventotto mesi di marina...». «Quanti mesi ha detto, scusi?», lo interruppi incuriosito. «Ventotto mesi, questo era il periodo di leva nel Corpo dei Reali Equipaggi Marittimi negli anni trenta, altro che... ma lasciamo stare... E allora, per continuare, Rocco, con quello che aveva messo da parte durante la ferma, quando tornò, si mise in proprio e si comprò una barca... e che barca! Era snella e veloce, la aveva chiamata ‘ELENA’, come sua madre, ed era dipinta di rosso nella parte inferiore, poi un brevissimo filo di bianco e un verde scintillante sul bordo superiore, perché come usava dire, egli aveva due soli amori: sua madre e l’Italia. Tornando alla nostra storia, un bel giorno d’estate, quella nostra estate che ti arrostisce quando sei sulla sabbia obbligandoti a buttarti frequentemente nell’acqua in cerca di sollievo e refrigerio, dagli anfratti in mezzo ai massi che erano stati sistemati come protezione alla spiaggia, si sentirono provenire gemiti e guaiti accorati. Mio padre, Rocco e tutti gli altri andarono a vedere e scoprirono alcuni cuccioli che soli, affamati e disperati, gemevano pietosamente accanto ad una povera cagna che, chissà come e perché, doveva essere morta dopo averli partoriti. Tutti si preoccuparono di fare qualcosa per loro e Rocco se ne portò a casa uno, il più bello, una femminuccia morbida e grassoccia, tutta bianca con grosse chiazze fulve

Pagina 121 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° sul dorso, sulle orecchie e intorno agli occhi. E fu così che da quel momento gli amori di Rocco diventarono tre: sua mamma, l’Italia e Lola. Lola, crescendo, era diventata davvero un bel cane, imponente, alto e slanciato: aveva il pelo soffice e lungo e anche se non era di razza, si capiva che aveva dentro di sé il sangue di quei cani che amano l’acqua, non ricordo come li chiamano... » «Terranova, mi pare...», gli suggerii. «Ah, sì, proprio così ... Comunque si erano trovati fatti l’uno per l’altra per quello che riguarda il mare. Lola era una nuotatrice formidabile ed era un piacere vederli giocare nell’acqua insieme. Spesso Rocco la usava come una specie di salvagente e aggrappato a lei si facevano lunghe nuotate, altre volte, invece, si immergeva e si divertiva a tirarla giù e Lola le prime volte usciva sbuffando e starnutendo da quelle impreviste “calate”, ma poi aveva capito il trucco e riusciva pure a trattenere il fiato e a nuotare sott’acqua!». «Ma va’, cosa mi dice, non posso crederci», protestai io. «Davvero, glielo giuro! Nell’acqua faceva cose mai viste fare da nessun cane, me l’ha detto mio padre, sa’?». Davanti a questa argomentazione non potei far altro che annuire gravemente e così, rassicurato sulla veridicità del suo racconto, don Francesco riprese: «Quando usciva dall’acqua però bisognava scansarsi in tutta fretta perché Lola usava scrollarsi energicamente la pelliccia e per chi stava nelle vicinanze era una doccia assicurata. A quel tempo l’unico faro in questa zona era a Capo Spartivento, e la costa era buia e oscura, non piena di luci come adesso... Rocco aveva pertanto addestrato Lola a tenere con la bocca una lanterna a petrolio di quelle adoperate in ferrovia e quando doveva uscire a pescare di notte, specialmente nelle notti di mare brutto, il cane restava a correre sulla spiaggia segnalando a lui e a tutti gli altri pescatori del luogo la terraferma. Le sorelle di Rocco, quando si faceva sera, riempivano la lanterna di petrolio, l’accendevano e incitavano il cane dicendogli: “Vai, Lola, vai, che sta tornando Rocco” e lei, consapevole del suo ruolo, se ne veniva di gran carriera alla marina a fare il suo dovere e quando Rocco scendeva dalla barca, che feste! Lola, come se non lo vedesse da anni, gli abbaiava felice girandogli intorno poi gli si buttava addosso e pesante com’era spesso lo spingeva a terra e lì erano finte lotte con ringhi e imprecazioni, ma tutto finiva come per incanto quando lui le lanciava qualche buon boccone, a Lola piacevano soprattutto le seppie e le cozze, e dopo se ne tornavano a casa correndo». Ci fu una pausa per sorseggiare ancora un po’ di liquore e io intuii che la storia stava per prendere un’altra piega. «Ma poi arrivò il 1940 - riprese don Francesco - e nel mese di giugno la guerra. Mio

Pagina 122 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania UN UOMO, UN CANE E UNA LANTERNA Maurizio Bascià padre e tanti altri giovani furono richiamati e partirono baldanzosi ed incoscienti, convinti che sarebbe durata pochissimo e invece!... Rocco, con l’esperienza fatta durante il servizio di leva, fu imbarcato sul cacciatorpediniere ‘ALFIERI’ ed essendo particolarmente versato nei servizi marinareschi, fu nominato nocchiero ed adibito alla manutenzione delle ancore, delle catene e degli ormeggi. Lola soffriva moltissimo per la mancanza del suo padrone ed era felice solo quando, nelle rare licenze di cui egli usufruiva, potevano riprendere a correre e a giocare sulla spiaggia. Agli inizi del ‘41, Rocco scrisse con orgoglio alla madre e alle sorelle che era stato distaccato con mansioni più importanti sull’incrociatore leggero ‘ZARA’ che operava nell’Egeo ai comandi dell’ammiraglio Cattaneo, e la notizia fece subito il giro del paese. Ma la mattina del 28 di marzo del 1941 ebbe inizio uno scontro navale tra una nostra squadra e gli inglesi al largo di Capo Matapan, in Grecia. Dopo alterne vicende, lo ‘ZARA’ ed il ‘FIUME’, andati sul far della notte con alcuni cacciatorpedinieri a soccorrere il ‘POLA’, un altro nostro incrociatore leggero rimasto gravemente colpito dagli aerosiluranti, trovarono sul posto tre navi da battaglia inglesi che si accingevano ad affondare la nave danneggiata. Per farla breve, i nostri, sorpresi ed impreparati a sostenere un combattimento notturno, sotto il fuoco concentrato delle navi inglesi vennero colpiti a morte ed affondarono». Don Francesco fece una lunga pausa, poi riprese: «Alla famiglia la notizia giunse dopo qualche giorno e per l’affetto e la stima di cui godeva Rocco, tutti si sentirono in dovere di fare le condoglianze alla mamma e alle sorelle, ed era come se tutto il paese fosse in lutto. Passarono alcuni mesi e venne l’inverno ed una sera che il mare era fortemente agitato, Carmelina, la sorella minore di Rocco, trovò in cucina Lola, con la lanterna in bocca che, seduta, attendeva pazientemente. Al principio la ragazza non capiva ma poi, finalmente, comprese: Lola voleva che qualcuno le accendesse la lanterna per andare ad aspettare Rocco! Piangendo Carmelina accese lo stoppino della lampada e Lola se ne andò sulla spiaggia ed incurante della pioggia e delle onde correva avanti ed indietro, senza sosta... e da allora, tutte le sere, Lola andava con la lanterna sulla riva del mare sperando sempre di veder tornare il suo padrone... poi, quando la guerra terminò, le sorelle di Rocco, dopo che la loro mamma morì, si trasferirono a Reggio portandosi anche Lola con loro. Qualche anno dopo, quando io avevo quasi dieci anni, una sera d’estate, mentre gli uomini calavano in mare le barche, e noi ragazzi ci sforzavamo di aiutarli, venendo regolarmente e bonariamente presi in giro, si vide arrivare da lontano un cane, grande, tutto pelle e ossa, ferito, con il mantello bianco a grandi macchie fulve, e qualcuno dei ragazzi gli lanciò contro delle pietre per allontanarlo. Mio padre si voltò e riconosciuto il cane gridò: “Ma è Lola! Fermi, state fermi!... Lola, bella, vieni qua!”. Lola, guardinga, si avvicinò cautamente muovendo piano

Pagina 123 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° la coda e papà la tranquillizzò carezzandola a lungo sulla testa, poi la portammo a casa per curarla, viste le piaghe che presentava alle zampe e su tutto il corpo. Si riprese abbastanza e una sera, me lo ricorderò sempre!, una sera se ne venne sulla spiaggia portando tra le fauci la famosa lanterna che aveva ritrovato in chissà quale suo nascondiglio segreto. Lola ormai aveva perso il vigore della giovinezza, era diventata quasi cieca per via di una cataratta agli occhi e la lanterna, tutta rovinata, non si sarebbe mai più accesa, ma non aveva importanza: ogni sera sulla riva lei aspettava, tranquilla, con la sua brava lanterna tra i denti, che finalmente il suo padrone tornasse... e quando morì tutto il paese volle che riposasse per sempre sulla spiaggia, ed ora è lì, sotto quel monumento, e forse avrà ritrovato il suo Rocco». Un silenzio pieno di echi scese tra noi, poi, dopo un ultimo bicchierino di liquore, don Francesco mi salutò per andare a coricarsi ed anche io me ne salii di sopra, nella mia camera. Affacciato al balcone, me ne restai a fumare e a guardare il mare e le stelle che brillavano fulgide come diamanti nel tessuto nero della notte, mentre i grilli frinivano lontano e qualche cane, sulla spiaggia, abbaiava alle ombre.

Maurizio Bascià di Reggio Calabria (il premiato), Betty Denaro (segretaria del concorso di Narrativa), Anna Pavone (presentatrice della manifestazione) ed il presidente della Giuria Orazio Licciardello

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Antonio Ciccarello

LUIGI DURAND DE LA PENNE (Il nome di un marinaio coraggioso esalta nel mondo la marineria italiana, con una nave a lui dedicata)

apita frequentemente di leggere sulla poppa di una delle navi della nostra Cmarina, ormeggiata nei porti italiani ed esteri il nome di Luigi Durand de la Penne. Forse per i più giovani questo nome non si identifica in un personaggio conosciuto, né evoca speciali fatti memorabili della nostra storia; è anche probabile che a uno sguardo distratto sulle grosse lettere in rilievo che ne formano il suo non faccia seguito neppure la curiosità di conoscere i motivi per cui la marina abbia così battezzato una delle sue unità più moderne e importanti. Ma chi era il marinaio coraggioso indicato nel titolo? Di tempo ne è passato da quando si verificarono gli eventi legati a quel nome e a quel personaggio che alla marineria (non solo italiana) hanno conferito lustro e nobiltà con imprese e stile di vita dal valore permanente e ancora oggi motivo di rispetto e di ammirazione per gli avversari di un tempo, per le nuove generazioni e per la gente di mare di ogni paese. Otto anni dopo la scomparsa, dalle memorie storiche, dai ricordi degli amici, dalle commemorazioni e dalle immagini, l’uomo De la Penne, il marinaio coraggioso, ci viene incontro com’era da vivo: leale, semplice e gentiluomo. La sua vicenda terrena è troppo nota per doverla qui ricordare nei dettagli: l’affondamento della corazzata inglese Valiant nel Dicembre del ‘41 con una carica di esplosivo da lui posta sotto la carena, dopo aver violato la munitissima base navale di Alessandria, pilotando un mezzo d’assalto subacqueo. Un’impresa temeraria che De La Penne, consapevole del rischio mortale, condusse con coraggio ma anche con la lealtà che lo stesso avversario gli riconobbe: avverti il Comandante inglese Morgan di mettere in salvo l’equipaggio ben sapendo che lui stesso, rinchiuso nella cala dove era tenuto prigioniero, non avrebbe avuto scampo. Gli inglesi dichiararono di aver subito dalla nostra Marina Militare “la più grande batosta che un singolo uomo abbia mai potuto infliggere ad una flotta” e Sir Charles Morgan chiese ed ottenne l’onore di appuntargli sul petto la Medaglia d’Oro al Valor Militare di cui l’aveva decorato la Marina nel 1945. Chi scrive ebbe il privilegio

Pagina 125 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° di essergli stato vicino in più circostanze e lo ricorda ancora, insieme con tantissimi altri, col rimpianto per l’amico perduto e la memoria che la sua figura adamantina evoca in noi. Nel 1956 fu tentato dalla politica; aveva concluso una splendida carriera e voleva dedicarsi ai problemi della marineria verso cui lo sollecitavano una mai affievolita passione e le crescenti richieste di amici e istituzioni della sua Liguria. L’occasione si presentò con l’offerta della candidatura alla camera dei Deputati nella lista del partito di governo. Negli anni ‘50 i candidati erano scelti fra gli apparati di partito e le ormai consolidate “nomenclature”; non si pensava ancora alla gente di spettacolo, ai calciatori, ai personaggi esaltati dai mass media. Si preferivano figure di grande carisma che conferissero prestigio e voti alle liste. De La Penne accettò sognando di potersi dedicare alle Forze Armate, e in specie alla Marina, con l’entusiasmo del suo temperamento e, come rappresentante del popolo, anche con migliori “chances”. Fu eletto in modo plebiscitario, superando in graduatoria i più noti politici. Ma la realtà lo disilluse: i radicali cantavano “mettete un fiore nei vostri cannoni”, gli obiettori di coscienza nascondevano dietro leggi permissive e demagogiche uno strisciante antimilitarismo; della tensione ideale che aveva sostenuto sempre il suo coraggio e le sue speranze non trovava più traccia fra i discorsi di piazza e i meschini giochi di potere. Scelse così di alimentare le sue speranze in un partito all’opposizione: nel cui simbolo, il Tricolore, riconosceva la fedeltà a principî e valori per i quali aveva combattuto. Non parlava mai di sé, del suo passato né della sua azione ormai leggendaria, ma era felice quando gli si facevano dintorno i giovani che lo adoravano: amate la Patria, li esortava, e non vergognatevi di chiamarla così. In una riunione di marinai in congedo a Imperia, ad uno che lo interruppe gridando «Sei un eroe!». «Non è vero, - rispose - sono un marinaio che ha fatto soltanto il suo dovere». Finì anche la sua stagione politica, ma rimase il simbolo vivente di un’assoluta onestà morale e intellettuale, chiuso ai compromessi e alle ambiguità cui molti, politici e non, dovettero grandi e immeritati vantaggi. L’avevo incontrato poco prima che ci lasciasse, nella sua piccola casa di Portofino dove spesso si ritirava per dare ai suoi polmoni fortemente provati un’aria più salubre e ossigenata. Il giorno prima era stato ospite dell’Accademia Navale dove aveva presenziato al giuramento degli Allievi: mi parlò della sua gioia di fronte a quel giovani disciplinati, pieni di entusiasmo e di speranze. Lo ricordo mentre appoggiato alla ringhiera del terrazzo proteso sul mare guardava in silenzio il calar del sole, forse presago della fine del suo viaggio terreno; era il suo vero momento di pace, nella memoria di antiche profondità marine dove, con le ombre fluttuanti di amici scomparsi riviveva le illusioni di una gioventù mai perduta e di ideali mai traditi.

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Marcella Di Franco

SCHEDIR

ancava poco all’alba, quando l’inconsistenza del mio sonno si dissolse. Fu Mil tenue strusciare di voci bisbigliate e soffuse, che sibilavano lungo le pareti, a volatilizzarlo e con esso le residue parvenze della notte. Ebbi la fulminea sensazione che granitica consistenza dei muri, per qualche fortuito accidente, si fosse fluidificata ed avesse accolto in sé il respiro pulsante e diradato di labili presenze fantasmatiche nascoste nei suoi più interni recessi. Ma si trattò di un attimo breve, in transizione, perché subito, benché riottosa e fiacca, e più per un tenace sforzo della volontà, o forse per il ritmo automatico insinuato in me dall’abitudine, ripresi coscienza, la calma immateriale che nel torpore aveva aleggiato a mezz’aria sul mio corpo, sospeso tra le ombre soporifere del buio. Stancamente, rovesciai il lembo della coperta, mi levai a sedere, calzai le pantofole. E non appena tirai le tende dai finestroni vidi – o forse fu solo la mia ardente attesa a farmelo apparire tale – che, da dietro i profili delle case, ancora ammantate da una bruna e sfocata oscurità, s’irraggiava una luminescenza siderale rosata: l’annuncio del giorno di primavera incidentalmente caduto nel cuore dell’inverno, spazio bianco che balza all’attenzione dentro una fitta trama di scrittura nera. Non volevo spingermi oltre, ma concentrarmi in quell’attimo insolito: obliarmi nella muta indifferenza di quell’aurora tanto vivida nella sua luce dirompente, ossigenare la mie membra viziate dal vortice rutilante della mia memoria ubriaca, in perenne tensione, che pretendeva di sorvolare sui passaggi intermedi per attingere tutto d’impulso, nell’immediatezza del presente. Né intendevo più accontentarmi di vaghe promesse procrastinate in un futuro incerto, non più costretta a ricercarne di nuove, sfibrata da un costante logorio; meglio vivere alla superficie di me stessa questo sorprendente giorno soleggiato, obliarmi nella muta indifferenza di quell’aurora tanto vivida nella sua luce dirompente, piuttosto che dibattermi nell’assillo di un’inutile scelta tra ciò che era il mare e ciò che invece avrei voluto fosse. “Il Mare... come avevo potuto omettere il ricordo?” Forse anche quella città aveva la sua uscita di sicurezza, e proprio quando troppe anguste mi apparivano le stanze del mio appartamento, imprevisto si schiuse alla

Pagina 127 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° mia mente la sua immagine, che sola avrebbe potuto salvarmi dal tanfo dei giorni più uguali. Il suo pensiero assolutorio diluì tutta la mia inquietudine rappresa e rassegnerò il mio animo, debilitato da quello stato di coatta vigilanza. “Il mare…” il solo suo nome m’insinuava la calma pacificante della sua salsedine odorosa e, sospinta da quello, mi accinsi a ricercarlo. Un autobus mi guidò alla periferia della città e, di tra le case arruffate, di tra le vie chiassose, scorsi la prima sottile e lingua di spiaggia. La prossimità della meta, lusingata dall’avidità degli occhi, l’ansia fremente, il tripudio mio nell’avvicinarla un po’ di più ad ogni istante, rendeva sollecito ed energico il mio cammino, infilando a caso stradine e vicoletti, ma avendo come punto di riferimento quella visione salvifica che calamitava i miei passi e li dirigeva senza fatica, né peso. E tanto più si accorciavano le distanze, tanto più alacre procedeva la mia andatura fino a quando la sabbia fine e bianca fu sotto le piante dei miei piedi e seppi che era lui. Iniziai a correre, come non facevo più da quand’ero bambino, e nel riassumere quegli atti non più disinvolti per gli anni trascorsi, mi parve un poco ritornare ad esserlo e d’un tratto cari mi furono quei nuovi panni lievi. Coprii l’intera ampiezza della spiaggia, affondata nel refrigerio dell’aria gelida, estranea ad ogni ragionevole buon senso che deprimesse il vigore del mio slancio. Ma non me ne davo cura: l’affanno chiuso delle mie giornate solitarie, la sterminata distesa dell’oceano comunicava al mio corpo slacciato da ogni congerie d’intralci e ceppi, l’impulso di protendermi lontano, fino alla linea dell’orizzonte che, una volta toccata, si sarebbe ricomposta più in là, avviluppandomi in un inseguimento sempiterno, dove non giungesse mai, dal momento che ogni traguardo, cessato l’entusiasmo provocato dalla stanchezza, celava il deludente immobilismo dell’inezia. Esausta e col fiato grosso, mi adagiai infine sulla riva. La spuma si rifrangeva rumorosa, dolce e gradito era quel suono. Aspirai a pieni polmoni la brezza marina che lieve spirava sullo specchio del mare. Il sole sorgeva dalle acque aureolate di rosa e con i suoi dardi dorati pungeva l’aria trasparente. E sopra il mare, là dove si stendeva l’azzurro infinito, là, in alto, dove era facile smarrirsi, si libravano garrendo i gabbiani, fendendo l’aria fragrante dell’alba. Poi il mio sguardo corse giù all’orizzonte indistinto, alla spiaggia eburnea e alle barche in bilico, ancorate alla riva. E mischiato al fruscio delle palme pennate, tra i cirri filamentosi per la distesa del cielo, ora giungeva lo sciabordio della battigia ora lo schianto dei cavalloni che, dopo essersi languidamente rincorsi per molte miglia, esplodevano in miriadi di spruzzi verso la riva. Tutt’intorno era quiete, ritmicamente interrotta dal boato del mare che pian piano cresceva, si ritraeva, lasciando sulla riva mille sassolini d’avorio, per poi riportarne indietro altrettanti, come un bambino avido che non cede a nessuno quanto di più prezioso possiede, se non è certo di ricevere in cambio il centuplo di quanto ha donato. Tuttavia l’aria era percorsa da un flusso di note eufoniche, la cui cadenza, ora

Pagina 128 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania SCHEDIR Marcella Di Franco dolce, ora vigorosa, mi aveva intimamente scombussolata. Una sensazione così intensa, penetrante, non poteva appartenere ad un passato sbiadito, né farmi fremere al di là della mia soglia di controllo, a meno che non fosse stata tanto attuale da sorprendermi, staccata da me, proveniente da un luogo che non mi apparteneva, involontaria soprattutto. Stavo per ibernarmi nel doloroso, incessabile fascino di nuove fluttuazioni di idee, quand’ecco da lontano scorsi una piccola sagoma umana che procedeva verso di me con movenze ondulanti. Non potei non notare l’affinità di quel moto con quello ondoso del mare, una sorta di inspiegabile richiamo primordiale, come se fosse una sua escrescenza congiunta. Mi nacque spontanea la percezione che quel bimbo fosse il figlio del mare; una cosa illogica, assurda, forse non era nemmeno un bambino, ma l’ombra capricciosamente mutevole di qualche nuvola. Ma il bambino, come un comune mortale, si accoccolò sulla riva accanto a me. Sentii il suo fiato caldo e fragile sulla mia gota e ritornai improvvisamente a mia madre, all’enfasi con la quale mi narrava quanto le piacesse, quand’ero ancora in fasce, accostare la sua guancia alla mia, per catturare l’odore aspro del mio alito impregnato di latte. Tramortita, inspirai di nuovo l’essenza di colonia che disseminavano intorno a miei panni sulla copertina della mia culla, tutta trine e ricami. Mi avvicinai ancora di più delineando meglio la concretezza ineludibile della sua infanzia. Le gambe ritratte, cosicché i gomiti poggiavano sulle ginocchia: il suo respiro confluiva nell’urna di un rudimentale flauto di legno dal quale traeva un’impalpabile e calda sinfonia. Le sue minuscole dita scivolavano celeri a coprire e scoprire i fori dello zufolo, con candida grazia, ed i suoi occhi fissavano assorti, un punto del mare. Quasi che una misteriosa affinità si fosse instaurata tra i nostri corpi, anch’io assunsi la sua posizione, tendendo i gomiti poggiati sulle ginocchia e il collo reclinato, con lo sguardo su di lui; incredula, sfiorai con le dita le sue guance per accertarmi della sua concretezza, ma il bambino neppure si mosse. Tesi allora l’orecchio all’ascolto della sua musica, ed anch’io non ebbi occhi che per un punto fisso all’orizzonte. Languida la musica corse e mi gonfiò il peto, vela sospinta da un vento intoccabile. La sua grave melodia sospinse le ore del giorno sulle soglie intransigenti del tramonto. Era bastato un nonnulla a farmi perdere le redine della ragione, a rendermi straordinariamente confusa, incapace di decodificare la bolgia di emozioni nel mio cuore. Dopo così tante colate pietrificate di cemento, la natura faceva serpeggiare il suo calmo respiro. E nelle sconfinate distanze dilagò il crepuscolo, il sole affondò pian piano nel mare profondo e un balenio argentato si stese in superficie, come un cielo di stelle precipitato dall’alto: tutto ad un tratto. Il cielo si arrossò, poi prese fuoco, di là dalla città, spargendo chiazze rosse, color malva, giallastre, che s’intersecavano in un

Pagina 129 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° mare in tempesta, sopra il mio capo. Eppure tra le pennellate di tinta più ruvida, s’insinuavano deboli ori di luce, rossi esangui, indachi esamini, che appena sfioravano la fantasmagorica esplosione dell’iride. Il cielo era una cupola fitta d’immobili lingue incendiate che grondavano travolgendo tutto intorno, facendo più muto il silenzio. Poi, d’un tratto, il suono si arrestò. Stornai lo sguardo, mi attanagliò un senso di smarrimento. La luce del sole di irradiò dal suo corpo come da un perno magnetizzato. Lasciò che il bocchino del flauto rimanesse per metà fuori della bocca; il fiato che dava respiro alla sua aria si ridusse ad un alito fatuo che andava a poco a poco affievolendosi. “Oh, perché non ancora!” lo pregai caldamente. Nessuna risposta. Riformulai la domanda. Aveva gli occhi perduti nel cielo infuocato. Dal profilo della sua bocca carnosa sgorgò una frase che durò una manciata di secondi in una lingua a me del tutto sconosciuta. Tuttavia mi piacque la sua voce che scivolò giù come acqua cristallina dalla sua sorgiva sull’onda di fluide inflessioni straniere. “Il tiranno di fuoco si è sopito. Per chi continuare a suonare? Soggiunsi che avrebbe potuto continuare lo stesso, con franca sicurezza di dire la cosa più naturale del mondo. Ed il bambino: “Anche tu, come il tiranno infuocato hai bisogno della mia musica?” Disarmata da siffatte parole, mi colse un’improvvisa angoscia. Ero troppo goffamente ingombrante con la mia corporatura troppo estesa rispetto alla sua, ottuso ammasso di carne ingigantita dal tempo, ma non qualitativamente migliorata, inevitabilmente adulta, corrotta da tutti i più consunti luoghi comuni, e non era un fatto puramente fisiologico a differenziarmi dal bambino, quanto la consapevolezza di uno stadio di coscienza superata, adulterata, contraffatta, il naufragio della mia primordiale sensibilità, rintuzzata in qualche angolo remoto della mia anima che reclamava all’infinito la restituzione della sua innocenza. Com’era amaro sentire che non tutto sopravviveva in me, che il tempo mi aveva fatto dimenticare e quasi nulla trattenere, che non poteva rifrangere la mia spensieratezza nel suo volto, che non sentivo più l’innocenza della vita e non avevo più i suoi capelli color grano, i suoi occhi limpidi, che non ero più una luce che traeva energia dai propri riverberi, né col mio sorriso accarezzavo più quel disco infuocato che solo a lui sapeva ormai parlare. E mi rividi improvvisamente piccola e paffutella che non riuscivo a toccare con i gomiti la ringhiera del balcone della mia stanza, cosicché vedevo il mondo da dietro le inferriate; poi, un giorno, il miracolo avvenne: mi ritrovai a guardare sopra la ringhiera e realizzai d’avere innanzi a me nuovi punti di fuga nei quali situare le immagini lontane, un’altra dimensione nella quale sarei stata grande ed importante. “Schedir”, ed io esagitata da quella conoscenza, proruppi insolitamente vivace: “Schedir è il tuo nome?”

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Annuì semplicemente ed io sentii che dentro di me si era sciolto un po’ di quel ghiaccio che intralciava il mio linguaggio bambino. Ansiosamente lo raggiunsi, fino ad essergli vicina. Brancolando sul mio braccio, egli cercò con le sue mani le mie, le toccò, le porto al viso stringendone fortemente. Era calda la sua gota contro le mie mani. I muscoli del suo viso si contrassero: “Le tue mani delicate sulle mie nei soli che non tramontano mai…” I suoi occhi vagolavano febbrili, nel vuoto. Ero certa che cercassero i miei. Poi allentò la presa, un nodo mi serrò la gola e mi sfiatò. Sfiorò l’acqua del mare e, congiunte le mani, la raccolse, la lasciò cadere sulle sue guance. Poi, camminando carponi verso di me, afferrò le mie mani per invitarmi a prendere parte del suo rituale catartico. Obbedii, e, raggelata dall’ardimentoso contatto con l’acqua, non ancora riscaldata dai raggi del sole, espressi in un suono di voce tutta la mia meraviglia. E per me tutto consistette in quell’unico atto concentrato che mi confuse col fuori, in parte uguale a Schedir, in parte uguale al mare e alla sabbia. Una comunione indecifrabile che per un istante disorientò la mia individualità nella sua, assimilati all’inerte vitalità della terra, accomunati in un unico solitario respiro, pronomi scambiati, entrambi immersi nella natura silenziosa che non sentiva e non vedeva, fuori com’era da ogni intelligenza: la sabbia non faceva male, né essere vento, aria, acqua. Doloroso piuttosto consistere in quella forma vivente che oltre a vegetare, pensava e intendeva, che nella misura in cui più conosceva e capiva, sempre più scorgeva l’insipienza della sua sapienza che non consolava, non riscaldava, non scioglieva nessun gelo. In un tono nel quale mi parve di cogliere un ispido aculeo di rammarico, il bambino disse in un soffio: “Potessi, come l’acqua, catturare il suono della tua voce che mi dice la perfezione della tua giovinezza… portarne via con me, anche solo un frammento!” Fissai negli occhi il mio poeta e mi attanagliò il fiato l’inconsolabilità di un pianto remoto. La mia malattia s’inasprì ma, dopo tanto tempo, trovò riposo in un dolore struggente perché genuino e semplice, non più mediato da alcuna contaminazione riflessiva. Distolsi gli occhi disorientati dal mare ed il mare si rivelò nella sua ipocrisia: oceano dai confini divelti, troppo grande per non risucchiare il mio Schedir. Sorrisi, ma era falsa la mia gioia; io non contavo nulla nei giochi scellerati dell’essere, per non essere più un momento dopo: erano loro a farsi e disfarsi da sé ed io dovevo, mio malgrado, assecondarli. La paura tornò ad assalirmi: forse sarebbe infine scomparso per non ritornare mai più. Tutt’intorno regnava placida calma, tanto più atroce perché subentro a così tanti suoni, rumori e luci, da sentire ancora il loro sgretolio sommesso. Vidi la mia mano scomparire appena un poco dentro la e mi parlò, mi parlò ancora, ed io avrei voluto che quella sospesa dolcezza non avesse mai fine: “Io non so dove conduca il mare, ma ovunque vorrà trascinarmi non temerò

Pagina 131 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° alcun male”. Lo accarezzai, ancora mi disse: “Perché il suono del mare non mente, ed è l’unica voce che ci parla da questo sconfinato silenzio. Finché ci sarà un suono per te d’ascoltare, saprai ancora d’essere qualcosa… La mia meta il mare, la tua meta il mare… non chiedermene la ragione… c’è solo il mare che si avanza e si ritrae, ci siamo solo noi che guardandolo lo facciamo avanzare e ritrarre… e tutta la nostra vita si avanza e si ritrae… ma, né l’uno, né l’altro contano, nell’assenza di ogni importanza… il mio flauto, la mia musica… null’altro…” Ascoltammo la voce del mare e fu la triste, la più lieta melodia che mai mi avesse tratto dal suo flauto. E tanto più il mugghio del mare riecheggiava nitido e intatto, tanto più s’invadeva la coscienza di una lontananza di cose frantumate, perdute, di strade da percorrere senza ritorno. Chiusi gli occhi: forse sarei riuscita ad entrare nei suoi regni senza luce, ricacciando in una distanza infinita chiassosi sfolgorii del mondo, i suoi inutili echi. Scorsi una pallida luminosità che mi rimandava l’ombra di Schedir così tremolante che credetti di guardarla da dietro le fiamme di un fuoco fatuo. E c’era il suo flauto a sprigionare poche note di ineffabile dolcezza uniformate all’ansito del vento che consolavano la vischiosa densità della notte. Frantumi di parole labili correvano in essa dalle quali deducevo l’approssimata allusione di una possibilità di fingermi dentro la cecità impalpabile che mi sottraesse all’improrogabile evidenza dei fenomeni e delle loro leggi. Restavo libera di tenermi aggrappata alla fede incontrollabile che, sottratto il buio della sera e della notte, tolte le nuvole da un cielo scuro e nuvoloso, sussisteva una sequela di soli non necessitati a morire. E quando ogni suono cessò, avanzò verso di me, porgendomi il suo flauto: “Vuoi adottarlo?” E me lo cedette, con l’amorevolezza di una madre che affidi ad altri il suo pargolo, non dubitando che riceverà cure affettuose. Non ebbi il coraggio di chiedergli la ragione di quel dono, ma intuì che nel cedermelo, fosse certo che l’avrei custodito per sempre. E nel reciproco scambio delle mie mani vuote per le sue cariche di suoni, fu come se un’intensa ondata di calore si fosse trasferita dal suo corpo al mio. Immerse lo sguardo nell’orizzonte, dove gli occhi non vedono e l’udito non giunge. Sulle sue guance ombrose s’insinuò una vitalità nuova, le palpebre dalle lunghe ciglia si levarono verso l’alto e nei suoi occhi azzurri brillò la fiamma piena della vita che in lui albergava con un’intensità affinata e raddoppiata. Com’era sorprendente constatare quanto quegli occhi spendessero più dei miei, più di tutte quelle giornate d’inverno che concedevano il sole così avaramente e al quale la mia natura solare amava stringersi, come al suo luogo naturale. Mi dissi che

Pagina 132 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania SCHEDIR Marcella Di Franco dopotutto nulla valeva la pena di essere sperimentato e vissuto all’infuori di quell’amore presente, vicino, immediato, che potevo toccare respingendo lontano gli ideali che, nella loro marmorea, vereconda freddezza, non davano nemmeno una minima percentuale del calore che poteva racchiudere la sua mano o la mia. Ancora mi chiesi come mai ci trovassimo in quel luogo: c’eravamo soltanto, e dovevamo saziarci di quel nostro esserci, senza interrogare ragioni inesistenti. Poi il bambino mi guardò, anch’io lo guardai, e mi abbrancai concitatamente a quell’estrema risorsa visiva, perché oltre al cielo, al mare, alla terra, ai visi che s’incontravano, alle mani che si sfioravano, potevo soltanto vedere il sole che moriva, prima del buio. Diressi gli occhi al cielo, lo vidi pulsare di luci chiare nella sua nera profondità: lapilli del tramonto appena spentosi, ingoiati dal nero. Non avevo mai visto le stelle così lontane ed irraggiungibili, e mi bloccò il respiro il pensiero che non mi avrebbero protetto dal silenzio che si era fatto intorno, né mi avrebbero informata che anche per me fosse già l’ora di andare. Gli alberi lontani avevano un aspetto molle fluttuante: frusciavano lamentosi nell’aria gelida della notte gettando la loro ombra allungata sulla spiaggia; e se anche avevo imparato a coabitare fin troppo bene con la solitudine di me stessa, non avrei sopportato oltre la mia opprimente presenza: altri volti, altre mani, come le mie dita intrecciate al flauto, come le ombre degli alberi che si stringevano le une alle altre. Ed era il cosmo che teneva insieme i suoi elementi per sentirsi meno indifeso nella bucata vastità dell’universo. Ancora qualcosa, ancora qualcosa avrei voluto sentire. Ma l’emissione della sua voce mi giunse all’improvviso insicura, malferma, sempre più fievole e rara, o piuttosto intermittente, intervallata, pulsante: ammiccava, ed era il cielo ornato di una sola stella, la più luminosa della costellazione di Cassiopea: Schedir, che mi dava un punto da fissare nell’oscurità. Ma il bambino si alzò e la sua gracile e sottile figurina andò incamminandosi: una sagoma nera per un cammino attardato che vacillava e si profilava stretta sullo sfondo aperto del mare, in tutto uguale al moto delle onde, alle fronde trapassate del vento. I suoi piedi levigati dalle onde andavano a riposarsi sulla riva, ed erano le mie vesti che fluttuavano al vento cercando anch’esse di riposarsi. E dileguando, andava rimpicciolendo, appena un punto che, tanto più si allontanava, tanto più degradava nella sua materialità di grandezza e di volume, quasi si fosse disciolto al tepore solare perdendo definitivamente la sua vacua consistenza corporea. “Aspettami!” gli ingiunsi, temendo che rischiasse di vanire nell’oscurità. Provai anche a seguirlo, premendo la pianta dei miei piedi sulle sue orme, ma nemmeno di quelle lasciò traccia: impietosa l’ingordigia del mare le ingoiò. Feci un cenno con la mano per dirgli che niente, non desideravo niente dopotutto. Ma Schedir guardò a sua volta le ombre e poi, di nuovo, dischiuse le labbra:

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“Si è fatto tardi,” disse “ed è ora di andare, Ester.” Non seppi mai come facesse a conoscere il mio nome, ma di certo mi riempì di stanca arrendevolezza, soprattutto quella sera, che avevo bisogno come non mai che qualcuno lo pronunciasse. Ma durò solo un attimo: il sole disparve, e il naturale strascico di luce che il nome di Schedir spargeva intorno, non fu più.

Il prof. Orazio Licciardello, Presidente della Giuria del concorso di narrativa, premia Marcella Di Franco di Francavilla di Sicilia, l’autrice del racconto “Schedir”

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Rosario Pennisi

QUATTRO EPISODI VISSUTI IN TERRA DI RUSSIA

Visita non programmata al museo dell’Hermitage

bordo del S/S Tremet ormeggiato nel porto di Leningrado a caricare legname. AAssieme al primo macchinista L. Currò mi trovavo a passeggiare lungo la banchina allorquando vicino a noi si fermò un autobus del “Seman’s club” leningradese, scese una hostess e ci “ordino” di montare sul mezzo. Tentammo di spiegare che non avevamo prenotato nessuna visita in città ma, poiché lei parlava solo il tedesco come lingua straniera e noi soltanto l’inglese, non ci intendemmo e dovettimo fare buon viso a cattiva sorte e ci accomodammo in mezzo ad un gruppo di componenti dell’equipaggio di una nave battente bandiera tedesca che era ormeggiata alla nostra poppa. Capimmo allora l’equivoco: l’hostess russa ci aveva preso per tedeschi e ci aveva cooptati sull’autobus. Anche lei capì l’equivoco in cui era caduta, capì che eravamo italiani, ma ormai la cosa era fatta e, per ingraziarsi ai nostri occhi, ogniqualvolta che le si offriva il destro, secondo lo sviluppo della gita, pronunziava la parola “italianische”. Manco a farlo apposta, appena giunti all’Hermitage lei sfoggiò il suo primo italianische, dato che l’edificio fu progettato dall’architetto italiano Rastrelli. Giunti che fummo al pianerottolo in cima alla scalinata d’ingresso, notammo due grossi tavolini di marmo il cui piano conteneva dei mosaici, uno rappresentava Piazza San Pietro e l’altro Piazza San Marco: qui udimmo il secondo italianische pronunciato dalla nostra accompagnatrice. Proseguendo la visita, molti altri italianische godemmo nell’udirli, mentre gli sguardi dei nostri colleghi tedeschi si facevano sempre più torvi ed indispettiti per la gelosia “culturale” che evidentemente li animava. Era la prima volta che io mettevo piede in un museo (e quale museo!) e rimasi talmente estasiato ed avvinto alla vista di tali e tanti capolavori che persi il contatto sia con il primo macchinista sia con l’hostess e mi trovai solo in mezzo alla folla dei visitatori. Alle 17.00 suonarono le sirene che annunciavano la chiusura del museo e mi ritrovai solo per strada.

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Fui salvato, per modo di dire, da una serie di fortuite circostanze, non ultima quella della presenza nel porto di Leningrado di una squadra della flotta di sua Maestà britannica. C’erano per le strade frotte di marinai inglesi e, più numerose ancora, frotte di “pionieri” della gioventù sovietica che consegnavano agli ospiti stranieri delle cartoline illustrate con delle vedute della città. Mi si avvicinò una graziosa ragazzetta, in divisa e con un fazzoletto rosso al collo, sussurrandomi le parole “we love peace” e porgendomi una cartolina con la scritta “love from the soviet girl Irina”. Ringrazia e tentai di spiegarle che non ero inglese ma italiano di una nave mercantile e che “ I have lost my way”, insomma, mi ero perduto, ma evidentemente non mi capì, si limitò a sorridermi, profferì “das widania” e proseguì la sua missione di benvenuto andando a caccia di marinai inglesi. Subito dopo venne in mio soccorso una bella signora, ben vestita, con maniere signorili e parlando un buon inglese mi disse che lei era stata diverse volte in Italia accompagnando il marito, che era un membro dell’accademia sovietica delle scienze (era un matematico), a capo di una missione culturale. Le spiegai la mia situazione e lei, guardandosi in giro, riuscì ad individuare in mezzo alla folla un ufficiale della marina militare russa che si offerse di accompagnarmi al Seaman’s Club da dove avrei potuto raggiungere la mia nave. Nel frattempo si era radunata attorno a me una folla di curiosi che mi fece sentire come un personaggio di baraccone da fiera, mi scrutavano come se fossi un extra terrestre, ma si tenevano a debita distanza e mantenevano un atteggiamento riverente, degno di una alto personaggio mentre ero un normale borghese che indossava abiti più borghesi, ma erano abiti occidentali e forse ciò faceva la differenza tra me e loro con la conseguente curiosità. Credo di poter affermare che il mio primo impatto con il popolo russo fu nel complesso positivo, non vorrei cadere in quel luogo comune che ci fa dire “Russi, brava gente” “Italiani brava gente”, ma ciò è quanto sento di poter dire. *************** Odessa: Tovaric “BRILLI” E Tovaric “TIMOROSI”

rima di giungere nel porto di Odessa avevo dato uno sguardo alla carta nautica Pdi quel porto e fui attratto da una dicitura (traduco in italiano): Chiesa di San Luigi dei Francesi. A quei tempi, anni ’60, la Russia viveva ancora in un regime di agnosticismo religioso, per non dire di dura ed aperta lotta alle religioni di tutte le confessioni, ortodossa compresa, per cui fui spinto dalla curiosità di recarmi a visitare quella chiesa che sarebbe dovuta essere cattolica. Pensai, forse sarà aperta al culto a beneficio della collettività occidentale cattolica,

Pagina 136 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania QUATTRO EPISODI IN TERRA DI RUSSIA Rosario Pennisi chissà, consoli, rappresentanti di commercio, turisti, ad ogni modo, m’incamminai per le strade prendendo una direzione secondo un mio senso di orientamento che quella volta si palesò efficace. Strada facendo m’imbattei in due persone di mezza età che sgranocchiavano semi vari (calia, in dialetto siciliano) e che procedevano barcollando in evidente stato di esaltazione etilica, canticchiando e accompagnando il ritmo con le loro oscillazioni deambulanti. Loro solidarizzarono subito con me, frutto del loro stato d’animo disinibito dalla vodka ed in contrasto con la circospezione e timidezza dimostrata da quei loro conterranei quando sono sobri. Forse anche quei due miei occasionali compagni erano diretti verso la chiesa o forse si accordarono sulla mia scia per virtù di inerzia alcolica, fatto si è che entrammo in chiesa tutti insieme. Nell’interno non notai anima viva, ma ad un certo momento si presentò una signora di mezza età la quale, esprimendosi in francese, si qualificò come la custode del tempio. Fino a quando i due “tovaric” gironzolarono attorno a me, la custode non aggiunse verbo a quanto espresse all’atto di presentarsi, ma non appena i due compagni scomparvero dalla vista recandosi nel piano sotterraneo dell’edificio (evidentemente conoscevano il luogo o avevano letto qualche indicazione che a me era sfuggita), lei si avvicinò a me e con titubanza e circospezione (il gran fratello aveva orecchie dappertutto!) mi rese edotto che la chiesa non era aperta al culto e che era aperta solo per scopi turistici. Una notizia del genere l’avevo appresa anche a Leningrado, ove mi precisarono che una chiesa davanti alla quale transitavamo con l’autobus, era aperta sì, ma non al culto, bensì come museo delle religioni, in verità museo anti-religione dato che all’interno, in un angolo, avevano allestito la raffigurazione di un tribunale della santa inquisizione. Ringraziai la custode, lasciai nel sotterraneo i miei due occasionali accompagnatori e imboccai la via del ritorno, ma anche questa volta il mio debole senso d’orientamento mi giocò il solito scherzo e mi trovai sperduto in mezzo alla via. Ad un certo punto mi trovai su un vialone che sovrastava la famosa scalinata ove, durante la rivoluzione russa o forse prima (mi soccorrano i cultori di storia), avvenne un massacro di civili per opera delle truppe zariste. Ad un certo momento, notai una coppietta che procedeva lungo il vialone, uniche persone che circolavano per quei paraggi, e mi rivolsi all’uomo per avere indicazioni utili che mi consentissero di uscire da quella situazione d’insabbiamento viario. L’uomo si arrestò di scatto, mi guardò con sguardo terrorizzato e poi di scatto riprese il cammino trascinando la sua donna la quale, non solo manifestò alcun timore, ma fece energici gesti verso il suo compagno affinché si fermasse e prestasse

Pagina 137 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° attenzione a quello che dicevo e desideravo. Non ci fu verso, l’uomo allungò il passo e alla sconsolata donna non rimase altro da fare che lanciarmi uno sguardo di compassione e di scuse per la pavidità dimostrata dal suo compagno. Per questo e per altri avvenimenti, più o meno analoghi da me vissuti in terra di Russia a quell’epoca, ebbi la sensazione che il grosso pubblico tendeva a scansare il contatto con gli stranieri, evidentemente temeva di fraternizzare con gli occidentali per non essere considerato dal “Grande Fratello” come contagiato dal morbo capitalista. I giovani, però, erano più disinvolti e disinibiti e qualche volta, pur di potersi conquistare qualche oggetto o capo di vestiario occidentale, non esitavano a sfidare e farsi beffe della polizia la quale, questa fu la mia sensazione, sembrava che fosse onnipresente laddove ci trovavamo a circolare. Nessuno mai ci molestò, ma appena ci allontanavamo, i miliziani o poliziotti correvano alla caccia dei ragazzi e forse si limitavano al sequestro della roba, ma da lontano non potevamo seguire bene la scena. *************** Processo per direttissima per Leningrado

apita spesso che al marittimo rimane in tasca del denaro, in metallo o Cbanconote, in valuta locale dei vari paesi che la sua vita di errabondo lo porta a visitare. E così che, alla fine di un imbarco, il marittimo in questione si troverà nel suo forziere un tale tesoro da poter costituire una notevole raccolta numismatica. Fu in questo modo che al mio secondo approdo nel porto di Leningrado mi trovai a possedere un “portafoglio estero” comprendente valuta di una mezza dozzina di paesi: dollari americani, franchi francesi e belgi, fiorini olandesi, lire italiane, egiziane e turche e, purtroppo come spiegherò appresso, un biglietto da venti rubli, avanzo, non utilizzato in loco, degli anticipi che avevo preso durante la precedente permanenza a Leningrado. Ebbi la dabbenaggine o piuttosto lo spirito di sfida provocatoria, rispetto alle leggi valutarie sovietiche che proibivano l’esportazione della moneta russa, di dichiarare quei venti rubli nel manifesto doganale ove figuravano anche un orologio d’oro Longines, una macchina fotografica Rolleiflex, una penna stilografica d’oro Aurora ed altra paccottiglia varia, sigarette, alcolici. Questi due ultimi articoli, assieme manco a dirlo alla Rolleiflex, vennero posti sotto sigillo. Prima di proseguire il discorso, desidero aprire una breve parentesi. La suddetta penna stilografica venne da me sottratta alla cupidigia di un funzionario di sesso femminile del ministero delle poste russe, grazie appunto all’averla dichiarata in manifesto. Quella solerte e scrupolosa funzionaria si presentò in stazione radio, la mia

Pagina 138 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania QUATTRO EPISODI IN TERRA DI RUSSIA Rosario Pennisi mansione a bordo era quella di radiotelegrafista, per mettere sotto sigillo il trasmettitore radio. Dirò en passant, che un simile provvedimento cautelativo venne preso anche in un altro paese la Turchia, mentre dappertutto nel mondo nessuno venne mai ad effettuare una simile operazione. Appena appoggiai sul tavolo la penna Aurora con la quale avevo firmato i documenti che aveva compilato, il suo volto si rischiarò di uno smagliante sorriso e con accattivanti smorfiette in perfetto inglese mi chiese se le avessi voluto regalare la stilografica. “Sorry - le risposi – I have declared it to the custom. I can present you with this biro”. Il sorriso scomparve nuovamente dal suo volto, raccolse le sue cose e con un glaciale “das widaina”, arrivederci, sbatte i tacchi dei suoi lucidi stivali e se ne andò. Poco dopo l’operazione sigilli, giunse trafelato in stazione radio il cameriere per annunciarmi che il comandante esigeva la mia presenza in saletta ufficiali per comunicazioni urgenti. Giunto che fui al suo cospetto, lo vidi seduto a capotavola attorniato da una decina di funzionari sovietici d’ambo i sessi, in divisa e in borghese, i quali mi osservavano quasi fossi un criminale, ed un crimine effettivamente avevo commesso: fui accusato di violazione delle leggi valutarie sovietiche le quali proibivano l’esportazione di valuta russa. In altri termini, quei venti rubli che avevo dichiarato nel manifesto doganale avrei dovuto restituirli all’agente della nostra compagnia. Il comandante mi apostrofò con il suo “mona”, ti sei cacciato in un brutto affare, qui rischi grosso, una forte ammenda forse anche il carcere, loro con queste cose non ci scherzano, non li vedi come ti guardano? Non prevedo nulla di buono, e se dovessero sbatterti in galera mi toccherebbe far venire dall’Italia un altro marconista il che comporterebbe una sosta più lunga in porto che si tradurrebbe in perdite economiche per l’armatore, ma di questa cosa non mi preoccupo perché ti farò congelare lo stipendio… Insomma, una filippica e una requisitoria nemmeno se avessi commesso un omicidio. Da premettere che il comandante, F. Cosulich da Lussimpiccolo, masticava discretamente il russo per cui non potei capire il conciliabolo che si volse tra lui e i russi. In un atmosfera da corte marziale, alla fine sortì la sentenza: confisca dei venti rubli (con rilascio di regolare ricevuta! Peccato che l’abbia perduta, sarebbe stato un bel souvenir) e proibizione di toccare il sacro ruolo russo per la durata di un anno. Più tardi il comandante mi riferì che sei membri su dieci di quell’apparato burocratico sovietico avevano votato a mio favore per una pena lieve e che fu il funzionario della sanità ad aver fatto pendere a mio favore il piatto della bilancia della giustizia sovietica. Con quel funzionario, un uomo attempato e macilento, io avevo avuto in precedenza un breve incontro perché gli consegnai un bottiglia d’olio d’oliva Bertolli che egli aveva gentilmente richiesto per curarsi, ci disse, il fegato. L’olio, ovviamente, mi venne fornito dal cambusiere dietro ordini del

Pagina 139 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° comandante al quale il dottore russo aveva indirizzato la sua richiesta. Questa faccenda dalle virtù curative o disintossicanti dell’olio d’oliva l’avevo appresa, per così dire, in Inghilterra ove in una vetrina di farmacia avevo notato una bella esposizione di bottigliette di varie capienze con la dicitura “Pure olive oil”. Non sono al corrente delle usanze commerciali britanniche, ma l’aver notato in vendita l’olio nelle farmacie m’indusse ad arguire che i figli di albione l’avrebbero probabilmente usato a scopi terapeutici e non culinari, tenendo presente anche le ridotte dimensioni dei contenitori. Riprendendo a parlare del mio “salvatore”, il mite e macilento bevitore d’olio, vorrei dire due cose. La prima è che appena egli venne in possesso della bottiglia d’olio, senza porre indugio la stappò seduta stante e ne bevve un bel sorso, forbendosi poi le labbra con il dorso di una mano. La seconda cosa che voglio riferire dopo la rivelazione che mi fece il comandante, mi resi conto degli strani ammiccamenti che mi rivolgeva l’omino dell’olio mentre mi trovavo davanti alla “commissione” giudicante sovietica. Oggi, riandando con la memoria a quei lontani avvenimenti, mi viene di pensare che, involontariamente, forse fui uno degli artefici dell’operazione “disgelo” tra U.R.S.S. e mondo occidentale: una bottiglia di olio d’oliva italiano consentì, mediante opportuna lubrificazione, di attutire gli attriti degli ingranaggi della politica internazionale. Oggi diremmo con uno slogan: “Oil for peace!” Olio degli uliveti o olio dei campi petroliferi, sempre olio è. Lubrificare nocesse est! *************** Leningrado: casto idillio a venti gradi sotto lo zero

i era alla fine del mese di ottobre del 1956 ma a Leningrado già il freddo Ssiberiano cominciava a pungere con raffiche di vento gelido. Per esigenze organizzative, il primo ufficiale aveva chiesto la mia collaborazione per il controllo dei carichi di legname. Per invogliarmi mi aveva detto: “Vedrai, starai in lieta compagnia, ci sono in banchina diverse belle ragazze anche se, poverette, infagottate come sono non hanno tanta eleganza, ma… sotto c’è sostanza, parola di intenditore! In effetti, quel primo ufficiale, siciliano di Torrefaro (Messina), viso da sceicco arabo e parlantina accattivante, aveva una fortuna sfacciata con le donne. Una volta, passeggiando a Nizza lungo il Boulevard des Agiais, lo vidi a braccetto tra due ragazze le quali, in apparenza almeno, non mostravano alcuna insofferenza o gelosia condividere le… sue grazie. Comunque, un po’ riluttante, misi piede in banchina e chiesi di una certa Tamara che mi era stata indicata dal primo ufficiale quale la lavoratrice che avrei dovuto

Pagina 140 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania QUATTRO EPISODI IN TERRA DI RUSSIA Rosario Pennisi affiancare. Da premettere che in banchina lavoravano in maggioranza donne ed una era persino adibita al verricello di bordo. Il primo impatto con la Tamara mi lascio piuttosto deluso perché lei, poverina, non aveva niente di quel decantato “fascino slavo” di cui avevo sentito parlare. Era una ragazzina bruna, piccolina, con uno sguardo timido ed implorante, ma fra noi due dapprincipio si frappose soprattutto la mia prevenzione ed i miei sospetti verso tutto quanto riguardava la Russia o i russi. Lo confesso, ero imbevuto di propaganda anti-sovietica ed aborrivo il color rosso come fanno i tori nelle arene spagnole, per cui con la povera Tamara io partì a corna abbassate, nel senso che mi dimostrai subito duro ed incomunicabile, ammesso che potevamo intenderci non conoscendo lei l’inglese e tanto meno io il russo. D’altra parte, non avevamo nulla da dirci, dovevamo soltanto comunicarci il risultato dei conteggi del numero di tavole contenute in ciascuna imbracata e per fare ciò era sufficiente esibirci quello che avevamo segnato sui nostri rispettivi quaderni. Ora, un po’ perché non avevo pratica di tavolate ed un po’ perché temevo di venire beffato ed imbrogliato dalla Tamara, procedevo alla conta con puntigliosa pignoleria e per contare 250/300 tavole alla mia maniera trascorreva un tempo dieci volte superiore a quello impiegato dalla mia compagna Tamara. Lei ultimava il lavoro molto tempo prima di me, non osava avvicinarsi a me per esibire il conteggio e rimaneva lì a battere i piedi per terra dal freddo, perché, santo cielo, anche le russe sentono freddo a venti gradi sotto lo zero. La cosa procedette con questo ritmo per un certo tempo, ma non ci volle molto che il primo ufficiale non si accorgesse dei ritardi di caricazione che io provocavo nella mia postazione a prua mentre a poppa le cose procedevano in maniera più spedita. Mi si avvicinò e mi rese edotto del fatto che, secondo i suoi calcoli, che poi alla consegna del carico ad Amsterdam si dimostrarono fondati, già la nave aveva imbarcato del carico superiore a quello che figurava sui quaderni e sui documenti, per cui mi consigliò – ordinò di non fare il pignolo e di fidarmi dei dati forniti dalla buona e paziente Tamara. Le cose, da quel momento in poi, procedettero con maggiore speditezza e con grande vantaggio fisico e sentimentale mio e della Tamara, dato che tra una imbracata e l’altra intercorreva molte tempo che lo trascorrevamo rifugiandoci in un casotto di legno ove ad accoglierci c’erano delle panche ma soprattutto una grande stufa alimentata a legna. Rassicurato delle parole del primo ufficiale e riscaldato dal tepore della stufa, il mio contegno verso la Tamara si trasformò gradualmente da freddo a tiepido ed alla fine caldo. I nostri sguardi si incrociavano e si soffermavano più spesso, qualche volta ci sfioravamo con le mani ma il problema che ci ostacolava o bloccava era costituito dalla lingua, ossia non potevamo comunicare i nostri sentimenti che ormai erano

Pagina 141 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° evidenti. In nostro soccorso intervenne una matura matrioska che conosceva molto bene il francese per cui ci servivamo di quella provvidenziale interprete per imbastire i nostri primi dialoghi. Tra un discorso e l’altro la signora mi disse che ai tempi dello Zar lei era una dama di corte, una contessa, che il marito lo confinarono in Siberia e non ne seppe più nulla e che lei era stata “declassata” al rango di lavoratrice portuale. Io prestai fede a tutto quanto lei mi disse perché, oltre al suo perfetto francese, il suo portamento nobile e fiero denotava il suo passato di alto rango sociale. Tutte le sue compagne la trattavano con rispetto ed affetto. Da questa signora appresi che la Tamara e tutte le altre ragazze della sua età che lavoravano nel porto facevano le studentesse la mattina e le lavoratrici – apprendiste la sera, che ricevevano un regolare salario e che già sapevano quando e dove sarebbero andate a lavorare “full time”. Tutto programmato, dunque, nella Russia di allora e mi viene di fare dei confronti con quello che accade oggi in Russia in quanto a benessere sociale, minatori che scioperano perché lasciati senza paga ed i militari della famosa ex armata rossa lasciati anche loro per qualche tempo senza paga. La Tamara e le sue compagne mi fecero l’impressione di essere contente del loro tenore di vita. Un giorno lei mi offerse un grappolo d’uva che aveva conservato per me dal suo pasto al “Cantora”, forse il refettorio comune ubicato nel comprensorio portuale. Sperimentai anche che la “mia” Tamara, al momento opportuno, sapeva tirare fuori le unghie come fanno i gatti e a sperimentarne i suoi graffi fu uno spilungone e tonto conducente di quei grossi mezzi motorizzati che trasportavano le imbracate. Il nostro idillio cominciò ad offuscarsi dal momento in cui comparve una donna estranea al nostro gruppo, sconosciuta da tutte le donne che lavoravano nel porto e che la matrioska nobildonna decaduta non fece fatica ad individuare come una spia. Probabilmente, la notizia del mio idillio con la Tamara era giunta in “alto loco” ed il “grande fratello” provvide in loco un osservatore-controllore delle nostre mosse. Ovviamente, messi sull’avviso dalla matrioska, io cominciai a comportarmi in modo più circospetto, ma qualche piccola mossa ci sfuggì lo stesso e ciò fu sufficiente perché le cose prendessero una brutta piega; un brutto pomeriggio accadde ciò che avevamo temuto: non vidi più la Tamara sul suo posto di lavoro, probabilmente trasferita altrove, sperai senza gravi provvedimenti disciplinari. Non seppi più nulla di lei, nulla mi dissero le sue compagne e se qualcosa sapevano avrebbero taciuto. La mia nuova compagna di lavoro si chiamava Olga, una grassa e paciosa donna di mezza età dall’aspetto contadinesco. Con lei non dovetti scomodare la mia interprete. Dimenticavo un particolare: da Tamara appresi a dire in russo “ti amo”, “Ja lliubiiù was”.

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Premi speciali di riconoscimento al merito (targa d’argento con serigrafia) sono stati assegnati ai pescatori Giovanni Stagnitti, Giuseppe e Salvatore Giamaglia: “Per aver trascorso la loro vita sul mare dediti alla pesca professionale, utilizzando le imbarcazioni, i mezzi e gli attrezzi idonei al tipo di pescato e alla salvaguardia dell’ambiente marino dallo sfruttamento illecito delle sue risorse, contribuendo così alla crescita economica della nostra città, che è basata principalmente, dopo la crisi dell’agricoltura, sulle attività della pesca e della navigazione”.

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Circolo Lega Azienda Ufficiali Navale Provincia Marina Italiana Comune Provinciale Riposto Regionale Turismo Mercantile Delegazione Catania Riposto Catania Catania Premio Nazionale Artemare 2000 XXVI Edizione sul tema“L’uomo e il mare”

Canzone Gastronomia Narrativa Pittura Fotografia Video Protagonisti del mare

«Porto dell’Etna» XIX Secolo Prima richiesta: Gennaio 1836 Posa prima boa: Anno 1865 XX Secolo Posa della prima pietra: 5 agosto 1906 Posa prima pietra sezione turistica: 29 luglio 1989 XXI Secolo Completato il ...... Corso Italia, 70 - ore 10/13 e 18/21:dal 22 luglio al 4 agosto mostra di pittura e fotografia Piazza S. Pietro ore 21.00 Mercoledì 2 agosto: Proiezioni Video sul mare con riprese subacquee dei fondali di Riposto Giovedì 3 eVenerdì 4 agosto: Festival della Canzone marinara Specchio di mare antistante il porto - Sabato 5 agosto dalle ore 16.30 alle ore 19.30 Dimostrazione velica della Lega Navale per i giovani da 10 a 17 anni Terrazza Istituto Tecnico Nautico di Riposto - Sabato 5 agosto - ore 20,30 Consegna Borse di Studio e Premi Artemare - Presentazione volume “Riposto «Porto dell’Etna» e l’Artemare” Premio «Protagonisti del mare»: Amm. Angelo Mariani Premio «Città di Riposto»: Dr. Giovanni Granata Presenta Anna Pavone

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Franca Grasso

GUARDIANO DEL FARO

ra arrivato da poco tempo lassù, su quel promontorio impervio, come E“guardiano delle coste” per sostituire il precedente titolare che, vecchio e malandato di salute, si era ritirato in un pensionato per anziani. “Un uomo e il suo faro”. Silenziosa sentinella notturna che da secoli, pur progredendo nella tecnologia, aiuta enormemente i naviganti. Un mestiere fatto di solitudine, di silenzio, di paura, di soccorso ai naufraghi. Una scelta di vita difficile, ma per lui (il nuovo arrivato) che aveva navigato per anni, quasi naturale. La solitudine però non gli pesava più di tanto, anzi stava imparando a ricavarne il maggior diletto possibile. In passato, quando pieno delle energie e delle focosità della giovinezza, girava in lungo e in largo per i mari del mondo, non conosceva ancora quanto si poteva apprendere dal colloquio intimo con se stessi, con la propria anima. Ora invece se ne stava lassù a fare il “guardiano del faro”. Un mestiere, tra l’altro, in via d’estinzione, ormai superato dai radar, dalle fibre ottiche, dai pannelli solari. Il suo bagaglio di ricordi era ricchissimo perché tante erano state le avventure per mare e per terra nelle quali era incorso durante gli anni della sua movimentata vita. Non immaginava a quel tempo la possibilità di un viaggio, forse più affascinante e interessante di tutti gli altri messi insieme: il viaggio all’interno del proprio essere per la conoscenza di se stessi, come dice la famosa massima di Socrate: “CONOSCI TE STESSO”. E quello dove si trovava era proprio il luogo favorevole, più propizio al cammino che aveva intrapreso per la ricerca della verità e la scoperta del legame misterioso tra il Creatore ed ogni cosa del creato. Quando desiderava un po’ di compagnia gli bastava scendere in paese (per fare intanto qualche acquisto) e subito trovava qualcuno che gli si affiancava, dall’adolescente all’adulto. Non era certo un uomo che passava inosservato. E siccome si era rivelato molto disponibile, sempre si faceva avanti qualcuno a chiedere, per sapere quali fossero i segreti di un’esistenza così serena, quasi simile

Pagina 145 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° a quella di un eremita. Infatti il luogo dove si trovava, il “Faro”, con relativo alloggio, lassù su quel promontorio roccioso, quasi staccato dal resto del mondo, aveva tutto l’aspetto di un eremitaggio. E lui, “l’uomo del faro”, con il suo aspetto dava inequivocabilmente l’idea della fortezza. Era infatti alto e robusto, con una folta capigliatura scura e ondulata. Portava inoltre una bella fluente barba. Sia la barba che i capelli erano disseminati di “fili argentei” che gli davano un tocco di ulteriore fascino. Il suo aspetto fisico quindi faceva venire in mente la solidità della roccia, mentre il suo parlare, il suo argomentare davano l’idea di una grande forza morale. Il colore dei suoi occhi grigio-verde ricordava invece certe incantevoli distese di mare smeraldino, calmo, immobile in giornate particolarmente chiare e trasparenti. Gli occhi di quel colore erano appropriati ad un uomo come lui che aveva solcato tutti o quasi tutti i mari del pianeta. Ma ciò che di lui colpiva è andava dritto al cuore, era il suo sorriso fanciullesco, la sua parola calma e suadente, quasi un balsamo per chi l’ascoltava. Egli era come un poeta, abituato a vivere in un universo irreale, a sentire voci silenziose e a dialogare con l’infinito. Essendo stato un uomo di mare, aveva in fondo al cuore quel “quid” misterioso che possiede infatti la “gente di mare”. Ma, sebbene in modo diverso, lo era ancora un uomo di mare dal momento che non si era allontanato dall’elemento marino che per tutta la vita aveva amato e che continuava ad amare. Il mare ormai faceva parte della sua epidermide, dal suo volto sempre abbronzato, arso dal sole e dalle intemperie. A volte, specialmente verso l’ora del tramonto (o qualche volta all’alba), se ne stava all’interno del faro, ma più frequentemente all’esterno di esso, mirando e rimirando la grande e sconfinata distesa azzurra, piatta, mossa o ribollente che fosse. Assorto scrutava l’orizzonte e osservava ammirato dei gabbiani che si libravano in alto per poi scendere a picco, tuffandosi tra le onde schiumose per catturare la preda. E intanto egli pensava, pensava ai tanti viaggi, ai tanti addii, ai tanti luoghi visitati da ricordare, da non dimenticare, paesaggi fantastici, spiagge tropicali, soli equatoriali, posti importanti e meno importanti delle innumerevoli città del mondo. Quante cose aveva visto! Per molti anni, infatti, aveva navigato in lungo e in largo per i mari del mondo come capitani di lungo corso. Ma da quando si era stabilito su quel promontorio isolato, accettando l’impegno di “guardiano del faro”, in paese solo pochissimi fidati amici erano a conoscenza delle sue vicissitudini passate. Gli anni che si dicono “migliori” ormai erano volati via in un baleno.

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Ma chi può dire quali siano gli anni migliori? Nel grembo del tempo erano nascosti tanti avvenimenti che il futuro man mano dispiegandosi volta per volta ci rivela. Allora accade che tante cose che prima non capivamo, a posteriori, ricollegandole ad altre del prima e del dopo, ci appaiono più chiare e comprensibili. In verità, passato, presente e futuro sono strettamente collegati. Ed è certo molto difficile riuscire a capire e conciliare tutto ciò con il libero arbitrio che pare essere di pertinenza d’ogni essere umano e che, tuttavia, è sottoposto a condizionamenti d’ogni genere sin dalla nascita. Pensieri di tal genere percorrevano frequentemente i meandri della mente dell’”uomo del faro”, durante le sue assorte meditazioni in muta contemplazione della grande distesa marina, soprattutto nelle ore più favorevoli del tramonto. Quante vicende, accadute duranti i viaggi in giro per il mondo, su navi mercantili, gli balenavano come visioni, agli occhi della mente, durante le sue lunghe peregrinazioni mentali! Qualcuna di tali vicende era stata drammatica, ma una in particolare lo era stata più delle altre. Lui e tutti gli atri uomini dell’equipaggio si erano salvati per miracolo. Quella volta erano partiti dall’importante porto di Mogadiscio, situata sulla costa dell’Oceano Indiano. Una volta salpati dal molo, superato il nervosismo che di regola precedeva ogni partenza, loro, uomini di mare, erano soli e liberi. Oltre l’orizzonte li aspettava la prossima destinazione. Il telegrafo di macchina faceva nuovamente sentire la sua voce che si ripercuoteva in tutti i locali. Sembrava confermare le aspettative ed i desideri di ognuno di loro di andare verso nuove mete: era in fondo l’”Ulisse”, sempre presente nelle loro anime e nei loro cuori. Il mare quella volta era calmissimo e la notte splendidamente rischiarata da una bella luna piena in un cielo disseminato di tale infinità di splendidi corpi celesti da provocare le vertigini a chi avesse sollevato lo sguardo verso l’alto. Soltanto verso Sud si poteva scorgere un cumulo consistente di scure nubi, ancora lontane, però. In mare aperto la nave, che fino a quel momento aveva navigato in acque abbastanza tranquille, fu subito colpita da un mare a da un vento di scirocco piuttosto violenti. Al largo, i colpi di mare cominciarono a diventare sempre più forti. La nave, pur essendo di un certo tonnellaggio, gemendo nelle strutture, aveva iniziato a rollare e beccheggiare notevolmente, spesso rompendo in chiglia. Il personale che componeva l’equipaggio, come succedeva in questi casi, era all’erta tutto al completo. Le onde, spaventosamente enormi, colpivano lo scafo con inaudita violenza, mentre i movimenti di rollio e beccheggio aumentavano la loro frequenza.

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Intanto la nave avanzava sempre più in mare aperto, dove il vento e il mare raggiungevano la massima potenza, fino a raggiungere l’apice di un vero e proprio “uragano”. La forza della natura così scatenata era veramente spaventosa anche per il più coraggioso dei marinai. I terribili sibili del vento, mescolati ai tremendi suoni del mare, richiamavano alla mente i muggiti di mille tori scatenati. Quella volta temette davvero che stesse per arrivare la fine, che non ce l’avrebbero fatta a superare quella tremenda prova, con il vento ed il mare che portavano la nave ora da un parte, ora dall’altra, a loro piacimento. Però, man mano che le ore passavano, si avvicinavano verso la coda del ciclone e dunque verso la salvezza. Senza ombra di dubbio, quella terribile notte, dalla sua nave (come da altre nei dintorni), molte preghiere salirono verso la sommità dei cieli; lo testimoniano del resto i molti ex-voto nelle chiese in prossimità dei luoghi marini. Quanti viaggi, quanti avvenimenti! Alcuni parevano sommersi nei meandri oscuri della memoria, ma bastava un niente per farli riemergere chiari, inconfondibili e ricchi ancora di grandi emozioni che scaldavano il cuore, soprattutto e prima di tutto, il ricordo dell’incontro con Lei: quello fu un giorno memorabile, che restò scolpito a chiare lettere nella sua mente e nel suo cuore. Adesso, a distanza di anni, la realtà estremamente felice che aveva vissuto in quel tempo gli sembrava quasi un sogno. L’aveva sognata a cercata a lungo, in tanti posti del mondo, una creatura come quella, quasi angelica d’aspetto. E un giorno il sogno si concretizzò in quella che in un primo momento gli sembrò una meravigliosa visione. Ma cominciamo dall’inizio. Aveva deciso, nell’estate di quell’anno, di prendersi una sosta in quella sua frenetica e interessante vita da navigante. Così, tra un viaggio e l’altro, decise di fermarsi, anziché nei pressi di Livorno, suo luogo natale, nell’isola d’Elba che non aveva ancora visitato. A quel tempo, ultimo di quattro figli, i genitori, ancora entrambi viventi, di tanto in tanto, specialmente la madre, gli ricordavano che era ora “che si accasasse”. Ma lui “da quell’orecchio non ci sentiva”, forse perché non era giunta la sua ora, o forse perché non aveva incontrato la persona giusta, capace di fargli prendere l’importante decisione di una scelta definitiva. Ma il destino, a sua insaputa, gli stava preparando “un tiro mancino”. Passeggiava, infatti, sul bagna-asciuga con un’aria svagata, distrattamente, senza particolari pensieri. Era uno di quei momenti strani della vita, quasi una sospensione del tempo, in un luogo a se stante, senza passato, né futuro. Ecco, in quel momento strano, la vide: “Lei, splendida creatura, forse di un altro mondo!”

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Se ne stava serenamente adagiata su un telo di spugna color rosa pesca. I lunghi capelli biondi, leggermente mossi da un lieve venticello, brillavano come fili d’oro e a tratti coprivano e scoprivano quel bellissimo viso dal profilo perfetto. Il corpo, sottile e delicato, dorato da una lieve abbronzatura, sembrava disegnato sullo sfondo turchino del mare, appena increspato da una modesta brezza. Al suo passare, la bellissima sconosciuta girò leggermente il viso. Il sorriso sorto all’improvviso sul volto dell’una e su quello dell’altro fu il segno, imprevisto ed imprevedibile, di qualcosa che tra loro era scoccato: la scintilla di quell’amore che così intensamente li avrebbe uniti. Il suo vagabondare di ricerca in ricerca, di attesa in attesa, senza sapere di chi o di che cosa, pareva in quel momento concretizzarsi in quel punto del mondo, in quel punto dell’universo, dove sembrava sparire tutto il resto del mondo, tutto il resto dell’universo. Proprio in quel momento, e forse non per caso, un improvviso colpo di vento fece volare via il cappellino di tela dal capo della giovane donna. Tutti i tasselli favorevoli al loro incontro, misteriosamente si composero in quell’istante. “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace” (Dall’Ecclesiaste Cap. 3-3,1-8) Lui subito raccolse il cappellino e cortesemente lo porse alla meravigliosa sconosciuta presentandosi: “Mi chiamo Andrea, capitano di lungo corso”. “Ed io sono Anna, insegnante di scuola elementare”, rispose lei con voce gentile, trattenendo una strana emozione che, fulminea, si era di lei impadronita. Così iniziò il dialogo tra la bellissima Anna e l’affascinate Andrea, come se si fosse trattato di qualcosa che sarebbe dovuto accadere in quel preciso momento, in quel preciso giorno, in quel preciso posto. Lei aveva ventiquattro anni e sembrava un angelo, così bionda e delicata. I suoi occhi erano scuri ed avevano un che di vellutato, forse per via delle ciglia lunghe e folte. Ma il suo sguardo lasciava trapelare anche un’altra bellezza, ancora più intrigante e spontanea, quella dell’anima. Lui di anni ne aveva trentasei: era alto, di aspetto atletico, con il viso abbronzato e asciutto, tipico degli uomini di mare. I capelli erano neri ondulati. Gli occhi, molto belli, ricordavano nel colore lo splendore dello smeraldo: era proprio un uomo affascinante. “Sono qui in vacanza”, aggiunse poi Andrea con la sua bella voce dai toni caldi e forti. “Anch’io”, rispose lei, “sono qui in vacanza con mia sorella. È la prima volta che visitiamo questa affascinante isola”. “Che combinazione! È la prima volta anche per me”, rispose lui.

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Ormai il ghiaccio era rotto e il dialogo quindi continuò con meno turbamenti. Così, quel giorno memorabile, iniziò la loro bella e importante storia d’amore. Tra un viaggio e l’altro di Andrea (che però in quel periodo aveva diradato molto le sue partenze), andavano avanti felicemente, scoprendo man mano una perfetta sintonia di cuori e anime. Il matrimonio fu celebrato la primavera di due anni dopo, in una suggestiva Chiesa antica di Siena, dove abitavano i familiari di Anna. Tutto era riuscito perfettamente: la cerimonia, il ricco rinfresco e il breve viaggio di nozze. Ora nel ricordo, i due anni del loro fidanzamento e i tre anni di felice e intensa vita matrimoniale, trascorsi nella loro abitazione di Livorno dove si erano stabiliti, parevano volati via in un baleno. Una rara forma di tumore, dal decorso veloce, un triste giorno di fine estate se li portò via entrambi: Anna e il suo bambino. Il piccolo che ella portava in grembo vide la luce solo per qualche giorno, il tempo di essere registrato all’anagrafe e battezzato con il nome di Alessio. Complicazioni polmonari ne causarono la morte così presto, a brevissima distanza dalla scomparsa della madre. Andrea, Anna, Alessio, per sempre uniti da tre A, A come l’Amore immenso che li aveva uniti. Poco prima di morire, mentre Andrea teneva strette le sue mani, Anna, con voce flebile ma decisa, gli disse: “Anche quando non ci sarò più, veglierò sempre su te e il bambino”, (convinta che il bambino sarebbe cresciuto col padre). “Soprattutto nei momenti difficili, vi sarò più vicina. E un giorno, ricordati, ti darò un segno tangibile della mia presenza”. Lui, pur essendo un uomo temprato dal mare e dotato di grande resistenza fisica e morale, a stento trattenne il pianto. A quel tempo Andrea contava quarantuno anni. Dopo la disperazione dei primi tempi e una lunga sosta a terra, riprese nuovamente a solcare i mari del mondo. Prima della partenza aveva deciso di mantenere lo stesso la casa dove era stato così felice, una bella e solare abitazione indipendente, con ampio giardino retrostante. E dal momento che egli era quasi sempre assente, l’aveva affidata alle cure di Clelia e Giovanni, due attempati coniugi con figli già accasati da tempo. Essi, persone molto fidate e legate ad Andrea da una lunga conoscenza, avevano preso la decisione di stabilirsi nella stessa abitazione. La Signora Clelia si occupava di tutto ciò che concerneva la casa, mentre il Signor Giovanni si prendeva cura del giardino e del cane, un collie di nome Giano* , che Andrea e Anna avevano ricevuto in dono poco prima della scomparsa di lei. Dunque Andrea aveva ripreso a navigare, ma nel segreto del suo cuore cominciava

Pagina 150 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania GUARDIANO DEL FARO Franca Grasso a coltivare il desiderio di lasciare la navigazione per fermarsi in un posto dove poter riflettere e meditare sui profondi quesiti esistenziali, dopo anni di vita frenetica ed intensa. In certi momenti particolari aveva iniziato a gustare la delizia della solitudine, del silenzio e della pace. Iniziava a capire, in quei momenti, che “l’anima parla e se uno impara ad ascoltarla, può intraprendere un cammino esistenziale nuovo, ricco di profonde esperienze interiori”. A volte, mentre assorto in silenzio ammirava di giorno lo splendido volo dei gabbiani o di notte una bianca luna piena che si specchiava in un mare tranquillo, rifletteva su fatto che la felicità, come quella che aveva vissuto lui, non era certo la costante della vita. La si poteva considerare invece un’anomalia, anche se, in certi casi, un’anomalia del genere può durare a lungo nel corso di un’esistenza. E intanto, in quei momenti di meditazione, in lui si faceva sempre più insistente il desiderio di lasciare quella vita di navigante. Al ritorno di ogni suo viaggio ritrovava la casa in ordine, curata e scaldata dalla presenza di quelle due care persone, Clelia e Giovanni. E soprattutto trovava l’affetto di Giano che, con la sua particolare sensibilità, cominciava già ad avvertire la presenza del padrone non appena egli scendeva dalla nave all’attracco nel porto di Livorno. Clelia e Giovanni ogni volta lo intuivano dal suo comportamento agitato. Durante la sua permanenza in terra ferma, Giano gli era sempre vicino; sprizzava gioia da tutti i pori. Si illuminava di gioia profonda alla vista del suo padrone, che sempre attendeva con grande pazienza e spesso con mugolii di tristezza, accogliendolo poi con infinite effusioni. Nei giuochi sulla spiaggia si divertiva tantissimo: era un vero portento. Andrea lo portava sempre con sé anche quando andava a trovare i fratelli o quando andava a visitare gli anziani genitori che abitavano appena fuori città. Poi anche quelle visite cessarono, infatti i due vecchi genitori, a poca distanza l’uno dall’altra, vennero a mancare. Poco dopo morì anche Giovanni, ormai avanti negli anni. Così Clelia, che aveva nel frattempo raggiunto settantacinque anni d’età, restò sola a prendersi cura della casa e del cane. Tutto ciò, anche per gli acciacchi dell’età, cominciava a pesarle. Una notte, mentre Andrea era in navigazione, la casa fu sottoposta ad un tentativo di furto da parte dei “soliti ignoti ladri d’appartamento”. Ma i ladri, che tra l’altro avevano tentato di avvelenare il cane (negli accertamenti del caso furono trovate polpette che risultarono avvelenate), disturbati dalla presenza del metronotte, che passava proprio in quel momento, si dileguarono in fretta e in

Pagina 151 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° furia. Giano non fu più trovato, quindi restò il dubbio sulla sua eventuale morte. Clelia, privata dalla compagnia e della protezione del marito e senza più la presenza del cane, impaurita oltre tutto dall’episodio del tentato furto, prese la decisione di ritirarsi momentaneamente presso una delle figlie, per poter con più calma riflettere e decidere sul suo domani. Andrea, ritornato poco tempo dopo dal suo ennesimo viaggio, venne a conoscenza, con suo disappunto, degli avvenimenti accaduti durante la sua assenza. Ma il dispiacere più grande per lui fu la spiacevole notizia della sparizione del cane. Riflettendo pensò che Giano, spaventato dai ladri che avevano tentato di ucciderlo, era scappato e forse, ritornato in un secondo tempo ma avendo trovato porte e finestre sbarrate, se ne era andato via sconsolato “povero fidato compagno”. Andrea, nei giorni successivi al suo arrivo, lo cercò a lungo, ma purtroppo con esito negativo. Intristito dagli ultimi sfortunati accadimenti, ripensò alla possibilità di cui era venuto a conoscenza da poco tempo, di un’eventuale occupazione come “guardiano del faro”. Ormai “non se la sentiva più“, al ritorno da ogni suo viaggio, di rimanere in quell’abitazione così colma di malinconici ricordi. Intanto erano già trascorsi sette anni dalla morte di Anna e del piccolo Alessio. Sperava ora di trovare un posto che fosse una sorta di eremitaggio, che potesse favorirlo nella sua ricerca di un più intimo rapporto con il trascendente. E quella occupazione come “guardiano del faro” rappresentava proprio ciò che faceva al caso suo. Trattavasi tra l’altro di un faro importante, eretto su un promontorio isolato, a picco sul mare e poco distante dal paese di appartenenza. A prima vista poteva sembrare un’occupazione un po’ degradante per uno come lui che era stato un brillante capitano di lungo corso, ma Andrea non la pensava così. Una volta presa la decisione di lasciare la navigazione, incaricò uno dei suoi fratelli di occuparsi della vendita della casa e della sistemazione dei mobili in un ampio locale di proprietà dello stesso fratello. Radunò quindi i suoi ricordi più cari, le innumerevoli fotografie scattate durante i viaggi in giro per il mondo, e soprattutto quelle che gli ricordavano i giorni meravigliosi trascorsi con quella splendida giovane donna che era stata sua moglie. Poi, meditando di farsi crescere la barba, che lasciava da alcuni giorni incolta, partì pieno di voglia di fare e senza ripensamenti, deciso a stabilirsi su quel promontorio dove iniziare una nuova esistenza. E non solo come guardiano del faro, ma anche come una “sorta di eremita”, pensava dentro di sé. Fu così che Andrea cambiò completamente il suo genere di vita. Se qualcuno glielo avesse prospettato anni prima lo avrebbe considerato pazzo. La vita riserva delle sorprese, belle o brutte che siano, che neppure lontanamente

Pagina 152 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania GUARDIANO DEL FARO Franca Grasso immaginiamo. Gli anni novanta erano appena finiti ed anche l’attività di guardiamo del faro era “un mestiere in via d’estinzione”. Andrea quindi andava a far parte di quell’ormai esigua schiera destinata a soccombere di fronte all’avanzare di un futuro sempre più tecnologico. Si ritenne fortunato anche se qualcuno avrebbe potuto pensare il contrario. Giunto finalmente lassù, si diede subito da fare per sistemare convenientemente il piccolo alloggio che era stato da poco lasciato dal precedente guardiano, ormai anziano e acciaccato. In breve tempo cambiò le suppellettili e quelle poche cose necessarie secondo le sue abitudini, che stavano prendendo “una piega francescana”. Ormai aveva realizzato dentro di sé, nell’affrontare ogni giorno le difficoltà della vita, l’idea subliminale di non perdere di vista il senso del meraviglioso e del mistero che appartiene al bambino ma anche all’adulto che sa coltivare e custodire nel segreto del cuore spazi dell’essere così importanti e profondi. La stagione del suo arrivo lassù era quella autunnale e nel piccolo appezzamento di terreno retrostante all’alloggio, oltre alle insalate ormai avvizzite, trovò alberi da frutta e qualche pianta ornamentale. I colori delle foglie, marrone bruciato, rossicce, gialle e dorate creavano l’affascinante fantasmagoria tipica dell’autunno, completata inoltre dal canto di tanti volatili per i quali Andrea iniziò subito a conservare il pane avanzato sbriciolato a piccoli pezzettini. C’era da estasiarsi nel trovarsi immersi in quella meravigliosa atmosfera, specialmente nelle giornate limpide percorse da quella fresca brezza che saliva dal basso dove i bianchi flutti marini si rifrangevano spumosi contro la nera lucida scogliera. Le foglie degli alberi, mosse da quella lieve brezza, si muovevano leggermente e ogni tanto qualcuna si staccava dal picciolo volteggiando piano nell’aria trasparente. Pareva che le foglie, cadendo, danzassero al suono di meravigliose note musicali. Era in fondo l’incantevole sinfonia della Natura in alcuni dei suoi aspetti più affascinanti. Anche le lucertole che sbucavano fuori da sotto i sassi per godere degli ultimi tepori del sole autunnale, facevano parte di un così bel quadro. Oltre tutto quella era la stagione dell’anno che più si confaceva ad Andrea che si trovava in quel periodo della vita che tanto somiglia all’autunno. In quella sorta di “paradiso perduto” poco alla volta egli, ritrovandosi con se stesso, scopriva man mano una nuova dimensione e un nuovo modo di essere. E quando nella calma della notte osservava le lucine che dondolavano sul mare scuro, sotto l’immenso cielo stellato, si sentiva quasi felice. E così, mentre lui andava avanti in quel nuovo particolare periodo della sua vita,

Pagina 153 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° il tempo passava e si faceva strada l’inverno con giornate sempre più corte e grigie, accompagnate da piogge abbondanti. Ormai mancava poco al Santo Natale. Ma Andrea, oltre a sentirsi quasi felice, si sentiva soprattutto utile per la guida che poteva dare col suo faro, in quel tratto di costa, ai naviganti che nella stagione invernale dovevano affrontare maggiori difficoltà, per le intemperie sempre più frequenti e pericolose. Fu appunto in una notte di terribile nubifragio che fece un misterioso sogno. La sera precedente, nell’approssimarsi del cattivo tempo, già annunciato dal bollettino meteorologico, aveva provato quasi un senso di scoramento per la solitudine che fino a quel momento non gli era stata di peso. Quella notte, di maggior impegno per la sua attività, era andato a letto molto tardi, addormentandosi di colpo, vinto dalla stanchezza. Ed ecco, da lì a poco il sogno e l’apparizione: ebbe come l’impressione di essere improvvisamente sbalzato in un’altra dimensione, come sospeso tra un mondo e l’altro in quella sottilissima zona di confine che separa le due dimensioni. E in tale situazione di insolita beatitudine, mentre camminava su un soffice verde prato, ricoperto di bianche margheritine, vide venirgli incontro una giovane donna con un bambino in braccio, accompagnata da un bel cane a pelo lungo. Quando fu a tu per tu con l’apparizione, si accorse con immensa gioia che la splendida donna altri non era che sua moglie Anna la quale teneva in braccio il loro figlioletto Alessio. Il cane che li scortava e scodinzolava di contentezza era Giano. Anna, sorridendo con fare misterioso, sussurrò qualcosa che Andrea non compreso subito. E mentre li abbracciava tutti e tre, la sua felicità era incontenibile. Ma a quel punto un forte boato provocato dallo scoppio di un fulmine, lo svegliò ad un’ora antelucana. Mentre riprendeva coscienza più chiaramente, ripensando al bellissimo sogno appena svanito, avvertì come un colpo alla porta del piccolo alloggio, seguito da un furioso grattare. Impaurito e indeciso sul da farsi, si fece il segno della croce. Riacquistato l’antico coraggio, si decise ad aprire il portoncino. Ed ecco la fantastica sorpresa che aveva proprio del miracolo: fuori, al di là della porta, c’era Giano, dimagrito, bagnato, intirizzito, ma era Giano, proprio lui in carne ed ossa, “sebbene più ossa che carne”. E portava ancora il collare di cuoio, privo della targhetta di riconoscimento. Andrea non riusciva a credere ai propri occhi, mentre Giano abbaiava e scodinzolava freneticamente la magra coda, schizzando spruzzi d’acqua da quel povero corpo tutto bagnato. Andrea, senza preoccuparsi del fatto che Giano era inzuppato d’acqua, l’abbracciò stretto a sé, mentre egli avvinghiava attorno al collo del padrone le sue zampe,

Pagina 154 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania GUARDIANO DEL FARO Franca Grasso sporche di fango e stanche per il tanto camminare. Erano proprio come due vecchi amici finalmente ritrovasti, dopo lungo dispiacere per essersi persi di vista. E mentre Andrea teneva ancora il cane abbracciato a sé, come se un flash improvviso si fosse acceso nella sua mente, comprese immediatamente il misterioso significato del sogno e ciò che Anna gli voleva comunicare. Ma ripensò anche alle parole che lei aveva pronunciato poco prima di morire e alla promessa di dargli un giorno un segno tangibile della sua presenza. Così, con una grande gioia nel cuore e dopo aver asciugato e rifocillato il cane, Andrea se ne ritornò a letto per riposarsi ancora un po’ dopo le emozioni così intense. Giano, finalmente contento si acciambellò nell’improvvisata cuccia, costituita da una vecchia ma confortevole coperta di lana, ai piedi del letto di Andrea. Ne aveva fatta di strada, povero Giano, per ritrovare il suo amato padrone. Ora avrebbe aspettato le festività natalizie insieme al suo affezionato compagno. Quello era il più bel regalo natalizio che mai avrebbe pensato di ricevere. La mattina dopo la giornata si annunciò freddissima, ma chiara e trasparente, lucida come una cartolina d’altri tempi. Il paesaggio era stupendo e il mare, nella sua calma imperturbabile, sembrava un’immensa lastra argentea. Nulla faceva pensare ormai al tremendo nubifragio della notte precedente che però Andrea non avrebbe mai più dimenticato per gli avvenimenti speciali appena successi. Adesso lui e il suo cane, entrambi “sul viale del tramonto” felici riprendevano insieme l’avventura terrena così affascinante e imprevedibile. E quando giù in paese vennero a conoscenza dell’incredibile storia, grande fu la meraviglia di tutti. Si, è proprio vero, l’Amore, l’Amore vero, non è quello abusato e sbandierato come tale, può far accadere meravigliosi miracoli che scaldano il cuore e aiutano ad andare avanti nel cammino di questa vita così difficile, piena di tragedie, ma così bella anche e ricca di cose splendide. E soprattutto bisogna imparare a “saper decifrare” i segni misteriosi che nascondono il profondo significato degli avvenimenti legati tra di loro da un invisibile filo. La sapienza, soprattutto quella del cuore, s’acquista e si conquista giorno dopo giorno, come una vetta da scalare che una volta raggiunta, dopo immani fatiche, dà una visione più grandiosa e completa del mondo circostante e una gioia immensa che trasforma l’ANIMA.

* Giano da Gianus, antico Dio del Pantheon romano o regnante dell’età dell’oro che avrebbe inventato l’uso delle navi per raggiungere l’Italia partendo dalla Tessaglia.

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Due premiate della sezione “Narrativa”: Marcella Di Franco di Francavilla Sicilia e Franca Grasso di Cadeo (Piacenza)

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Gaetano Alfaro

LA CHIAVE

ario Russo, il nuovo comandante, era arrivato a bordo il giorno prima. Il Mtempo necessario per prendere le consegne dal collega che sbarcava e da quella mattina aveva preso possesso della sua cabina. Ora stava sistemando le sue cose: i vestiti nell’armadio e le camice e la biancheria nei tiretti del mobile che fungeva da comò; le valige vuote andavano poste nel ripostiglio apposito accanto al bagno, dove c’era anche un armadietto basso, la scarpiera. Prima di sistemare le valige, Mario sfilò dalla tasca laterale di una di esse una chiave, andò nello studio e cominciò a guardarsi un po’ intorno: vide un calendario appeso alla parete, lo tolse e lo buttò nel cestino. Al gancio libero vi appese la chiave. Per alcuni attimi la guardò come si guarda un quadro d’autore appena appeso alla parete. Dopo un’intensa riflessione andò a controllare la cassaforte. Quella chiave era un simbolo, un terribile simbolo. Essa aveva una storia, una storia conosciuta da tanti naviganti, una storia triste e tragica che aveva totalmente cambiato il carattere di Mario Russo facendolo divenire un misogino, un uomo sempre arrabbiato con tutti e con se stesso, per cui era conosciuto anche col nomignolo di Russo l’animale. La sua venuta a bordo della Manuela era stata male accolta dai membri dell’equipaggio, perché nessuno voleva avere a che fare con lui, l’animale. Parecchi si erano sbarcati, e tra i pochi rimasti c’erano il primo ufficiale, un uomo di carattere, professionalmente preparato, e il vecchio direttore Prancatelli, che a conclusione di quest’imbarco sarebbe andato in pensione. Con il nuovo personale era arrivato a bordo anche un allievo, un ragazzo biondo con gli occhi celesti che aveva frequentato il quarto anno dell’Istituto Nautico e che profittava dell’estate per compiere un viaggio d’istruzione e familiarizzare così colla vita di mare. Finito il viaggio sarebbe tornato a scuola per completare gli studi con una base d’esperienza. Eppure, il comandante Mario Russo non era stato sempre così. Anzi, un tempo era stato un brillante ufficiale pieno di vita e di allegria. Spesso scalava ad Amburgo portando granaglie dal golfo del Messico e qui aveva conosciuto Ingrid, una giovane

Pagina 157 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° impiegata dell’agenzia marittima. Facile immaginare come, cogliendo l’occasione degli approdi ad Amburgo, dopo vari inviti a bordo e diverse serate passate insieme, tra i due nacque qualcosa più forte dell’amicizia che li portò infine a sposarsi. I primi anni furono una lunga luna di miele, come d’altra parte è per tutti gli uomini di mare. Per il continuo assentarsi e per la brevità dei ritorni a casa, l’amore diventava sempre più forte. La felicità aumentò con l’arrivo di una bambina: quei riccioli d’oro, quel sorriso, quelle moine e l’attaccamento quasi morboso al papà, facevano felici i due genitori. A sei anni la piccola Molly andò a scuola ed era bravissima. Mario aveva comprato un magnifico appartamento su via degli Aranci a Sorrento, con un ampio terrazzo che affacciava sulla strada: un terrazzo con tanti vasi di fiori, che specie a maggio esplodevano in tanti colori e profumi. L’appartamento era di sei stanze con accessori. L’avevano voluto così perché desideravano ingrandire la famiglia, avere almeno quattro figli, come diceva la bella e bionda Ingrid. Un giorno Mario ritornò a casa per una breve licenza, guadagnata grazie alla sua promozione al comando, e proprio questa licenza avrebbe deciso della sua vita. Ogni giorno Ingrid andava a prendere Molly a scuola, ma quel giorno Mario disse: - Vado io a scuola a prendere la bambina per farle una sorpresa. Ingrid sorridendo: - Va bene, però sii puntuale, fatti trovare vicino al cancello, la bambina potrebbe preoccuparsi non vedendo uno di noi... - e lui, rispondendo: - Sarò puntuale! -, uscì. Si rese allora conto di essere in largo anticipo e pensò di fermarsi a prendere un caffè al Gran Bar, sul Corso Italia. Vi incontrò dei vecchi amici sorrentini e a loro offrì da bere per festeggiare sia l’incontro, sia la sua promozione al comando. Tra una chiacchiera e l’altra il tempo passò senza che Mario se ne rendesse conto e solo quando uscì dal bar, salendo verso casa, si ricordò in un baleno della bambina! Guardò l’orologio… ma era ormai troppo tardi! Prese allora a correre verso la scuola, ma arrivato al cancello, lo trovò inesorabilmente chiuso! Tornò allora sui suoi passi per risalire a casa, quando alcuni conoscenti lo fermarono prendendolo sottobraccio. La bambina, avviandosi tutta sola a casa, era stata investita da un pirata sul Corso Italia e l’avevano portata in ospedale. E in ospedale Mario arrivò col cuore in gola e fu qui che trovò Ingrid seduta accanto alla figlia, in una cameretta vuota: Molly era spirata un momento prima. Il volto della madre, impietrito dal dolore, gli si rivolgeva privo di espressione. Mario tentò allora un gesto di solidarietà ma lei lo respinse, mormorando: -Ti odio… Da quel momento marito e moglie non si parlarono più. Ingrid cominciò a dormire sul divano in salotto. Di lì a poco decise di trasferire la salma della bambina nella sua Amburgo, e, una volta espletate tutte le pratiche burocratiche, senza dire una parola, partì per non tornare più. Passarono giorni cupi di dolore e di solitudine e Mario, tormentato dal rimorso, pensava al suicidio. Quando a un tratto, a interrompere quello stillicidio, giunse

Pagina 158 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA CHIAVE Gaetano Alfaro una chiamata per un imbarco. Mario accettò di partire, ma da quel momento divenne un altro uomo. Cattivo con se stesso e con gli altri, cercava di fare del male per punirsi, coinvolgendo anche chi gli stava vicino. Nulla gli importava. Il ricordo del passato era un tormento e per questo suo carattere era stato soprannominato l’animale. Quando partiva da quell’appartamento così grande di via degli Aranci, con quella terrazza sempre sporca e senza più un fiore, portava con sé la chiave dell’appartamento e l’appendeva bene in vista per ricordare che era solo, e che aveva distrutto una felicità ben costituita. Quella chiave doveva stare lì a ricordargli di scontare tutta la sua colpa: a lui ormai solo, solo colla chiave del suo appartamento. Non tollerava avere intorno a sé gente allegra e felice e perciò maltrattava tutti. Ora era il nuovo comandante della Manuela e a bordo tutti cercavano di star lontano da lui, nonostante che la nave avesse spazi molto limitati. La sera dell’imbarco la nave partì da Venezia per Norfolk per caricare carbone per Trieste. In Mediterraneo il tempo fu buono. Il giovane allievo nautico faceva la guardia insieme col primo ufficiale e durante la giornata stava col nostromo, il quale gli assegnava qualche lavoretto di pitturazione. Proprio su consiglio del primo ufficiale anche l’allievo si teneva alla larga dal comandante. Il rapporto era solo formale, non esisteva colloquio, il comandante era come un vero animale, un animale feroce messo in una gabbia. Saliva sul ponte e non rispondeva a nessun saluto, né salutava mai nessuno, quando parlava era sempre nervoso e spesso aveva scatti d’ira ingiustificati. Forse beveva, perché talora sembrava addormentato, pure stando in piedi, spesso si appoggiava al telegrafo del ponte. I giorni trascorrevano: erano i primi giorni di agosto e si era arrivati a metà Atlantico, all’incirca nei pressi delle Bermude. Il bollettino meteorologico di New York dava in continuazione notizie dell’uragano Betty che già aveva fatto disastri sulla costa del Nord Carolina. Era uno di quegli uragani che lasciano un segno laddove passano. Il primo ufficiale intanto, osservava la rotta e rifletteva: in genere questo tipo di fenomeni metereologici salgono dalla zona sub tropicale seguendo la corrente del Golfo e man mano acquistano sempre più forza e velocità. All’altezza di Capo Hatteras gli uragani piegano a nord est, sempre salendo in latitudine, fino a raggiungere le correnti fredde del Labrador, le uniche capaci di smorzarne la forza. «Ora - pensava ancora il primo ufficiale - se noi continuiamo a proseguire su questa rotta, ci andiamo ad infilare direttamente dentro l’uragano, proprio nel momento peggiore». Decise allora di aspettare ancora un giorno e, sul ponte, parlò al comandante: «Cosa pensa di fare, comandante, per scansare l’uragano? Io penso che o ci fermiamo aspettando che superi la nostra rotta, o scendiamo più a sud uscendo dalla sua traiettoria, perché se continuiamo su questa rotta ci finiremo direttamente dentro».

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Il comandante si girò di colpo stizzito, guardò l’ufficiale con due occhi di fuoco e gli disse: «Mi pare che lei non conosca il suo mestiere! Non abbia preoccupazione, perché se entreremo nell’uragano, ne usciremo per il semicerchio maneggevole. Piuttosto, mi dica, ma lei la conosce la regola? Che c... di scuola a fatto?». «Comandante - ribatté il primo ufficiale - pur prendendo il semicerchio maneggevole, subiremo sempre forti danni. Con un mare montagnoso e il vento forte e una velocità di oltre duecento miglia all’ora non è detto che la manovra possa sempre riuscire, potremmo comunque lasciarci le penne: io credo che sia più saggio scansarlo». «Se ne vada! Mi ha infastidito! Lo sa che io tutto ciò che posseggo sono io, io solo!? Capisce lei che non ho nessuno e nessuno mi piangerà mai!? E ora basta! Si prosegue così per questa rotta e voi sarete con me. Sono io che decido!». «Comandante, ognuno di noi ha invece chi l’aspetta a casa, noi veniamo a lavorare sul mare per portare un po’ di benessere a chi ci aspetta a casa. Non siamo dei disperati come lei. Lei la chiamano “l’animale”, e si dovrebbe assegnare un nobel a chi le ha affibbiato questo soprannome! E ricordi che ha il dovere di salvare le nostre vite, assieme alla nave e al suo carico. Se lei cerca il suicidio, perché non si butta in mare? Così da questo momento ce la vedremo noi, da soli!». Anche il primo ufficiale era imbestialito e non riusciva a controllarsi, perciò prese la porta e scese in cabina. Nell’angolo accanto al telegrafo c’era il giovanissimo allievo nautico. Un raggio di sole pomeridiano attraversava il vetro della porta laterale a dritta e andava a illuminare il suo capo biondo. Il ragazzo aveva seguito la discussione animata e tremava impaurito. Pensava a sua madre e a suo padre lontani. Aveva gli occhi gonfi ma non voleva piangere, e comunque due lacrimoni gli rigavano le guance. Era rosso in viso, e il rossore si sposava ai suoi capelli biondi illuminati dal quel raggio di sole. Dopo che il primo ufficiale era sceso arrabbiatissimo, sul ponte erano rimasti il comandante, il marinaio timoniere e il terzo ufficiale, il quale era in servizio di guardia. Il silenzio pesava come una cappa di piombo. Il comandante, chiuso in se stesso, aveva una bruttissima cera. Il mare intanto cominciava ad agitarsi sempre di più. Il comandante a un certo punto si diresse verso dritta, fece scorrere la porta di accesso per affacciarsi sull’aletta e con la mano sinistra scostò bruscamente l’allievo nautico. Questi lo guardò senza dire una parola, ma quel viso, ora pallido per la paura, quegli occhi azzurri innocenti del ragazzo con quei due lacrimoni riuscirono a toccare qualche corda del cuore dell’animale. Richiuse immediatamente la porta e poi, rivolto all’ufficiale, disse: «Fa mettere rotta 180°, scenderemo a sud, così scanseremo bene il “Betty”. In fondo non perderemo tanto tempo». Subito dopo si avvicinò al ragazzo e, accarezzandolo sul capo, l’animale divenne più umano, più uomo e con un sorriso disse al giovane: - Oggi potrebbe avere la tua

Pagina 160 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° età… Al giovane parve che gli occhi del comandante si fossero addolciti, forse un poco più gonfi per la voglia di piangere. E dopo un breve silenzio, il comandante Mario Russo disse all’allievo nautico: - Vai a chiamare il primo ufficiale. Digli di venire sul ponte.

Il presidente della giuria prof. Orazio Licciardello ed il com.te Gaetano Alfaro di Sorrento

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Azienda Comune Provincia Regionale Provinciale Riposto Turismo Catania Catania Premio Nazionale Artemare 2001 XXVII Edizione

Canzone - Gastronomia - Modellismo Narrativa - Pittura - Protagonisti del mare sul tema “L’uomo e il mare”

Circolo Ufficiali Marina Mercantile Riposto (CT) - Festa del Mare Riposto dal 21 luglio al 4 agosto

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Laura Piccinelli

STORIA DI MARTA E DI MARE

on era nata per la vita di città, Marta, era troppo esile, nella sua corporatura Nnon troppo minuta, ma delicata, quasi il vento fosse per lei un uragano, pronto a rapirla ad ogni sua distrazione. Non era forte, malgrado essa facesse di tutto per dimostrare il contrario, scambiando il coraggio con la temerarietà, e la saggezza con la filosofia. Ma aveva dei sentimenti, trattenuti in quei suoi occhi nocciola, sì, diranno i lettori, come tutti. No, forse Marta, che i suoi cari chiamavano Lady, per via del suo etereo modo di rapportarsi al mondo, amava la vita con un ché di magico, quasi a dare spessore ad ogni creatura che le si presentava innanzi, sublimando la natura in ogni aspetto. A sedici anni decise perciò di andare a vivere a Sant’Agata Militello, rapita dai colori del mare che, n’era certa, non l’avrebbero abbandonata in nessuna ora del giorno, dalla visuale panoramica della sua stanza da letto. Ad ogni ora sapeva che lui sarebbe stato lì, pronto a calmare le sue opere, a rinfrescare i suoi pensieri, a consolare i suoi dolori, ad eccitarla con la sua volubilità. Lasciò la famiglia per che, lei diceva, non l’avrebbe mai tradita, comprò una vecchia Olivetti nel mercato d’antiquariato durante l’annuale fiera del paese, e cominciò a scrivere per un giornale locale, sfruttando le conoscenze che il liceo classico che frequentava le metteva a disposizione. Ma soprattutto ciò che la metteva in contatto con il mondo era la sua passione per il cinema, quello in bianco e nero, per il neorealismo contemporaneo, scevro dai falsi nozionismi, e dalla forzata retorica di un’istruzione mai emancipatasi da vecchi modelli. Trascorreva interi pomeriggi a scrivere e a guardare lungometraggi, senza chiedersi mai se la sua strada potesse essere un’altra. La compagnia del mare era il suo rifugio più gradito, tanto che la sabbia, si può dire, conosceva confidenzialmente le sue orme. Erano orme delicate quelle che lasciava Marta, ma incisive; la sua presenza pesava anche quando le sue gambe smagrite faticavano a reggerla, perché pesava quel suo

Pagina 163 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° modo di sentire la natura e gli uomini, mentre leggeva per l’ennesima volta “Il Piccolo principe” avendolo già imparato a memoria. Marta era sicura che la Volpe di Saint Exuperi fosse esistita veramente, e sorrideva ogni volta che guardava una rosa, lieta e consapevole della sua unicità. A volte fumava di notte, davanti alle onde, con una mano tra i capelli cortissimi e biondi, che ricordavano anch’essi il “colore del grano”. Marta ricordava la sua città natale con poca nostalgia, o meglio, non ne amava il rumore caotico del traffico intenso, proprio d’ogni metropoli, né l’irrespirabile odore di caligine e gas di scarico che quotidianamente invadevano anche il più pittoresco parco naturale. Essa era lontana, inoltre, dalla mentalità fortemente capitalista dell’ambiente in cui era nata, e mai avrebbe ceduto, non ai normali e adulti compromessi che la vita ti porge, ma a quel ben più malsano falsamento della propria identità a cui costringono molti ambienti lavorativi. Tutto era meglio della disumanizzazione, e l’economia avrebbe ben potuto essere rimpiazzata da altri valori, così come poteva esserlo il potere della comunicazione. Per questo tentava di dare voce ai suoi minuscoli ideali, fatti di spesse e solide convinzioni, tramite gli articoli che scriveva per la “Gazzetta del Sud”, articoli di costume, che raccontavano la vita vera vista con gli occhi di chi crede ancora d’avere diritto di non piegarsi al silenzio senza per questo fare delle rivoluzioni. Lottava con la vita, Marta, un po’ come accade a tutti gli esseri umani, e se un giorno dava troppo spazio alla scrittura, ecco che il giorno successivo si rifaceva chiacchierando con dei conoscenti, e se il suo peso rasentava la soglia di un leggero, ma pericolo malessere, andava a frequentare un corso di ginnastica artistica, per irrobustire le sue ossa e farsi venire appetito. Non era facile, ma non riusciva a adattarsi a valori che altrimenti non l’avrebbero appagata. Mai avrebbe amato la violenza più accettata, persino gli incontri di boxe la disturbavano, così come spegneva la radio di fronte a musica assordante e frastornante. Non facevano per lei le discoteche, la voce alta, le risate chiassose di chi, per paura di un confronto reale con se stesso, ne fa uso come di un pianto, più sofferto perché a copertura di una soffocata disperazione. Così la sofisticazione in genere era bandita dal suo stile di vita, tendente più al minimalismo e, talvolta, se poteva permetterselo, ad un selvaggio esternarsi del proprio Io; forse non tutti gli amavano, ma a che serve essere falsamente amati da tutti? Al compimento del suo ventesimo compleanno, avendo ottenuto ormai il diploma di liceo classico, cominciò a chiedersi se fosse più gratificante il compromesso di chi cede ad un altro essere umano per solitudine, o se il prezzo che dei forti valori personali fanno pagare, potesse essere tollerato attraverso la forza della speranza, e

Pagina 164 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania STORIA DI MARTA E DI MARE Laura Piccinelli blandito con la magia della purezza dell’identità. Si, forse Marta avrebbe gradito altri due occhi a cui raccontare di sé, anche senza troppo parlare, e il mare sembrava suggerirle l’esattezza e la validità di questo desiderio. Ma mai aveva amato veramente, “con tutto il suo animo”, come pensava ogni volta che tramontava il sole, e pioveva a dirotto. Forse qualche simpatia, o infatuazione, ma niente più di questo. Il tempo sembrava fermarsi tra i suoi ritmi ormai consolidati, ma il divenire costante di cui la vita ci fa dono dava un senso alla continua ricerca di un proprio equilibrio. Per la prima volta Marta sentì una fitta al cuore. Non era successo niente, almeno in apparenza. In realtà Marta aveva incontrato l’azzurro di due occhi che cambiavano tonalità con lo stesso fascino che solo il mare possiede. Verdi, talvolta grigi, azzurri, alle volte ancora blu, insomma Marta ne era rapita. Lui era il suo nuovo capo-redattore. Matteo la incontrava ogni mattina per discutere sui temi dei nuovi articoli. Ne rimase affascinato dapprima per il suo candore, e poi commosso avendone compreso il dolore combattuto della sua giovane età. Era un uomo, adulto, non per l’età esattamente di vent’anni in più di quella di Marta, ma per la grandezza della sua pazienza e della sua ferrea aderenza ad una realtà che è quella che ogni uomo adulto sa di non poter cambiare, se non con la forza paradossale di chi si sa impotente. L’accarezzava, Matteo, l’accarezzava con la sua dolce maturità, con la sua severa comprensione, con i suoi occhi che, immaginava Marta, non l’avrebbero mai abbandonata, proprio come il mare. Era un amore platonico, fatto di una comunicazione che andava oltre le parole, e d’istinti sublimati in valori che loro due ormai si erano dati. Matteo l’aveva vista piangere a dirotto, e altro non aveva fatto che dargli se stesso, mentre, senza parlare, c’era; e c’era con tutto ciò che di più profondo possedeva il suo cuore. Erano larghe le spalle di Matteo, e solo lì, Marta ne era certa, lei avrebbe potuto essere felice. Ma non voleva protezione, voleva crescere, con lui, per lui, per lei. Matteo, una mattina, non prese il caffè, arrivo trafelato alla redazione, guardò Marta e le disse “ora lo so; voglio vivere con te, voglio un figlio, io, e tu? Tu mi ami, lo vorresti, tu un bambino, nostro, sì, nostro, mio e tuo?”. Gli occhi gli si erano fatti lucidi, e lei, spaventata e colma d’amore, confermò i suoi desideri, ritrovandosi pienamente nei progetti che le erano stati proposti. La doccia fredda le arrivò il giorno in cui una lettera di servizio obbligava Matteo a modificare la sua residenza, trasferendolo inesorabilmente in una testata giornalistica

Pagina 165 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° di Milano, gemellata con la “Gazzetta del Sud”, per una corrispondenza straordinaria. Matteo non avrebbe potuto rinunciarvi, essendo il suo lavoro, la sua fonte di reddito, parte della sua vita. Né Marta lo avrebbe voluto, essendo per lei l’amore la giusta libertà dell’altro. Lei avrebbe potuto seguirlo e collaborare alla nuova rivista lombarda, ma refrattaria com’era alla vita di città si sentì di fronte a due fuochi. Qualsiasi scelta avesse fatto, avrebbe perso, così pensava, l’azzurro del mare profondo di cui lei non avrebbe potuto fare a meno. Forse fu un sogno a salvarla, mentre, sulla riva del mare rimuginava tra il dolore sull’ultimo capitolo del “Piccolo Principe”, domandandosi se realmente nessuno muoia, ma scompaia, nel vuoto, che poi è il tutto. Dunque, dicevamo del sogno; ebbene, addormentatasi sulla sabbia, come il suo personaggio preferito, le apparve il mare con sembianze dolcemente e autorevolmente umane. Queste le sue parole: ”Cara Lady, la vita non sarà mai dura se ti abbandonerai con fiducia ad essa; io sarò sempre qui e ovunque, se sarò nel tuo cuore sarò anche davanti ai tuoi occhi, credimi, segui la tua vita, altrimenti il tuo amore per me sarà una prigione; lo sai anche tu che amore è crescere e ritrovarsi, magari un po’ diversi, ma in quella esclusiva identità che è propria di ognuno di noi”. Marta capì ciò che per tanti anni aveva voluto non comprendere. Il mare era quella madre che non aveva mai conosciuto, perché morta di parto alla sua nascita. Diventò adulta nel cuore, o almeno si preparò ad esserlo. Ora c’era Matteo, c’erano i suoi sogni, e il suo desiderio di maternità. Si alzò in piedi, gli occhi erano ancora umidi, quelle lacrime avevano il sapore del sale che solo il mare ha, solo una madre dà, solo la vita guarisce.

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Maria Greco

1942: DALL’ABISSO DEI MIEI VENT’ANNI

e voci concitate delle infermiere turbarono alquanto il mio torpore. L “Giuseppe! Giuseppe! Hanno affondato il Castelfidardo!” “Un siluro, Giuseppe, un siluro l’ha preso in pieno!” Rientravo lentamente nello spazio e nel tempo e il significato di quelle parole, con fatica, cominciava a farsi strada nel mio cervello. Il Castelfidardo colpito! Il Castelfidardo affondato! Una sensazione spaventevole di gelo s’impadronì delle mie viscere, afferrò il mio cuore e fece risuonare nelle mie orecchie l’angoscia della mia domanda: “E l’equipaggio?”. “Poveri ragazzi! Nemmeno uno se n’è salvato!” Immagini, volti, situazioni si accavallarono in una frazione di secondo all’interno dei miei occhi spauriti. E da quel magma si stagliò nitido il caro volto di Totò, il mio amico fraterno, compagno di giochi e di monellerie prima della guerra, di pericoli e di paura dopo, sul Castelfidardo. Già da bambino la vita mi aveva abituato alla durezza: la depressione del profondo sud, la miseria, la fame, non avevano mai lasciato tempo ai miei giorni per coltivare strane complicazioni dell’anima, per alimentare vani lavorii del cervello. Ma in quell’istante, nel rivedere con gli occhi sbigottiti della mente il volto dell’amico perduto, sentii qualcosa lacerarsi dentro. E conobbi il sapore delle lacrime. Avvertii più acuto il dolore che mi procurava la ferita e fui nuovamente assalito dal pensiero che mi aveva tormentato da quando, non sapevo più neanche quanto tempo prima, mi ero svegliato in ospedale: forse avrei perduto il piede sinistro. Solo in quell’attimo riuscii a rendermi conto che stavo provando delle sensazioni; che stavo ricordando, anche se in modo confuso, una miriade di cose; che, per la prima volta nella mia vita, silenziosamente, ero stato capace di piangere. Che ero vivo! E che ero salvo solo perché mi trovavo in ospedale: un bizzarro destino mi aveva regalato quell’orrenda ferita tenendomi così lontano, proprio nel momento fatale, da uno dei luoghi in cui giorno dopo giorno la guerra si divertiva a far scempio della vita umana. Forse avrei perduto il piede sinistro.

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Ma quel timore, covato a lungo con paura, non mi lacerò con la consueta crudeltà. Assunse invece in quel momento un senso del tutto nuovo, ai limiti dell’assurdo: una piccola parte di me in cambio della salvezza. In cambio della vita. Uno per volta, lentamente cominciarono a sfilare nel ricordo i volti mesti, rassegnati degli ultimi miei compagni che avevano lasciato l’ospedale. Se n’erano andati alla spicciolata, chi due, chi tre mesi prima. Se n’erano andati tutti da quel luogo di dolore. Ma nel lasciarlo non c’era gioia su nessuno dei loro volti. Perché quei ragazzi sapevano di dover riprendere il loro posto in un luogo di dolore senz’altro più orrendo. Toccanti erano stati gli abbracci, accorati gli ‘arrivederci’ con cui, giorno dopo giorno, essi si erano separati da me. E i loro auguri mi avevano fatto sentire in tutta la sua forza quella particolare solidarietà che può nascere negli uomini solo dalla comune sofferenza: la guerra, la vita sulla nave, il pericolo, la morte sempre in agguato. La nostra vicenda umana, immobile, quasi immemore del passato, pressoché indifferente ad un futuro inconoscibile, aveva finito per identificarsi con l’interminabile, ossessiva distesa d’acqua che da quasi tre anni ci teneva prigionieri. Di solito il mare sembrava cullarci nel suo rollio sonnolento e snervante. Ma certe volte, senza un perché, si trasformava in un mostro bramoso di ghermirci con i suoi tentacoli, di risucchiarci nei suoi vortici. E noi, povere cose bagnate, tremanti di freddo e di paura, sbattute senza pietà da una parte all’altra, terrorizzate dal boato infernale che sovrastava le nostre piccole, insignificanti esistenze, c’eravamo sorpresi a pregare Dio, a invocare persino la morte purché quel tormento avesse fine. E durante le interminabili scorte ai convogli cui il vecchio cacciatorpediniere era adibito, fra burrasche e bonacce, il tempo per pensare non mi era certo mancato. Quante volte l’illusione mi era stata compagna nelle nottate senza fine, nelle lunghe ore di vedetta... E i miei occhi stanchi avevano creduto di rivedere le cose più care al mio cuore: la piccola casa in cima alla collina da cui lo sguardo, dominando lo Stretto, attraversando i riflessi cangianti delle onde violacee, riusciva a catturare la vetta innevata dell’Etna; mio padre, mia madre. Ancora giovani d’età eppure già curvi, già invecchiati. E poi lei, la piccola Enza: dalla mia tasca, nelle mie mani, alle mie labbra, il suo ritratto era ormai gualcito, ingiallito. Che vuoto avevano lasciato tutte quelle care cose ai miei poveri vent’anni! La febbre fece pulsare e dolere di più la mia ferita. E mi ricordai di quella volta che, dopo mesi di navigazione ininterrotta, il Castelfidardo si stava preparando a fare scalo a Messina. Tutti, dal più modesto marò al più alto ufficiale, eravamo elettrizzati al pensiero di poter scendere finalmente a terra, dopo tanto tempo. Ma questo evento, già di per sé‚ straordinario, per noi reggini aveva addirittura del prodigioso. Perché‚ per noi scendere a terra avrebbe significato poter rivedere, anche se per poche ore, le

Pagina 168 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania 1942: DALL’ABISSO DEI MIEI VENT’ANNI Maria Grazia Greco persone care, i luoghi a noi familiari. Le ore sembravano non trascorrere mai. Infine il vecchio Castelfidardo era entrato nello Stretto. Si avvicinava il momento atteso da tutti noi con ansia sempre più incalzante. Ma io, più d’ogni altro, non stavo nella pelle: perché‚ proprio quella mattina il destino aveva voluto me di vedetta. Dall’alto della mia postazione il logorio delle lente ore di navigazione aveva, in vista della mia città, lasciato a poco a poco il posto ad un senso di struggente tenerezza. Solo allora mi ero reso conto che tutta la sofferenza che da troppo tempo ormai portavo dentro di me non era riuscita a rendere la mia anima incapace di vibrare. La nave scivolava placidamente sulle acque dello Stretto. Io scrutavo ansioso con il mio binocolo quei luoghi familiari che si facevano ogni minuto più chiari, più vicini: speravo di riuscire almeno a intravedere la mia casa, in lontananza. E man mano che ci si avvicinava sentivo il mio cuore battere sempre più forte. Non mancava molto all’attracco, solo quattro chilometri mi avrebbero separato poi da casa mia. Era questione di poco ormai. Eppure, ad un certo momento, mi sorpresi a fare qualcosa senza forse averlo neanche deciso. Un movimento fulmineo e il mio binocolo si era girato dal mare alla costa, in direzione di casa mia. Luoghi a me troppo familiari perché‚ la mia mano, seppure guidata da un moto istintivo che non avevo saputo tenere sotto controllo, potesse tentennare. E infatti eccola! Piccola, lontana. Riconobbi il suo intonaco giallo. Sì, sì, non potevo avere dubbi: era proprio casa mia! Un’ondata di tepore mi aveva blandito e avevo sentito il mio cuore in tumulto diventare grande grande. Trasognato avevo avvertito appena, sotto di me, il trambusto delle manovre d’attracco. Al sobbalzo impresso dall’ancora gettata, quasi senza rendermi conto come, mi ero trovato sulla tolda, immerso in una strana allegria di ragazzi: un’atmosfera gioiosa, quasi innaturale, tanto più strana, addirittura assurda su quella nave vecchia e brutta. Era finito il mio turno di vedetta ed io, prima di scendere finalmente a terra, ero andato a riferire al mio superiore. “E adesso dove pensi di andare?”, mi aveva chiesto l’ufficiale. Come avrebbe potuto il suo tono burbero smorzare il mio sorriso? Solo quattro chilometri mi separavano dai miei cari. “A casa mia, signore. Io sono di Reggio...” “Nient’affatto. Sei consegnato!” Proprio come se fossi stato nel mezzo di una spaventosa burrasca sentii all’improvviso i sintomi del mal di mare stringermi lo stomaco in una morsa... “Consegnato?! Io?! Ma perché?” Era un urlo soffocato di disperazione, il mio. “Siamo in guerra, non siamo in crociera! E, se non lo sai, quando si è in guerra e si è di vedetta non si usa il binocolo per guardare il panorama. Credevi forse che

Pagina 169 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° non ti avevo visto? Hai commesso un gravissimo atto di negligenza e di insubordinazione!” “Ma io...” “Non replicare o mi costringerai a prendere provvedimenti più gravi!” Mi ero sentito schiantare. Ricordare quei terribili momenti fu come riviverli: sentii la febbre salire e il dolore diventare più acuto. Ma l’onda della memoria non si arrestò. E rividi i miei compagni scendere felici, troppo felici per accorgersi della mia muta disperazione: la mia prima vera ferita di guerra l’avevo ricevuta quel giorno. Solo Totò se ne era reso conto. E ne aveva sofferto con me. Povero Totò! Avrebbe voluto rimanere a bordo anche lui, ma non glielo avevo permesso. Era stata dura, ma alla fine ero riuscito a dissuaderlo, soltanto pregandolo di andare dai miei, dalla mia Enza per riferire che ero vivo, che stavo bene e che purtroppo era soltanto l’arroganza di un superiore ad impedirmi di riabbracciarli. Incapace di piangere, avevo trascorso nel dolore più cupo quella che doveva essere una giornata di gioia. In quelle ore interminabili il mio cuore, costernato di fronte a quella crudele realtà, aveva provato lo spasimo atroce che solo una bruciante velleità di ribellione può dare. A tratti mi ero anche sorpreso nell’irrazionale speranza che qualcosa potesse, come per miracolo, modificare la mia situazione. Mi pareva allora di udire una voce vicina, non sapevo bene neanche io se di qualcuno o di qualcosa, annunciare beffarda: “Ma ci hai creduto veramente? Scemo, era uno scherzo! Scendi, che aspetti?” Ma non era vero, stavo solo sognando ad occhi aperti. E un istante era anche troppo per rendermene conto. Potevo vederla chiaramente di fronte a me, la mia città: mi pareva quasi di poterla prendere con le mani, tanto mi appariva vicina. Tutto il mio mondo d’affetti era là, a soli quattro chilometri da me. Eppure irraggiungibile. Quando, quando sarebbe capitata nuovamente un’occasione simile? Forse tra un mese, forse tra un anno. Forse mai. A sera ormai inoltrata i miei compagni cominciavano a rientrare. Ognuno aveva molte cose da raccontare, ognuno aveva di nuovo negli occhi la luce dei vent’anni: era la luce degli affetti ritrovati per alcuni, per altri quella degli affetti di una sera. “Già qui, Giuseppe? Pensavo di vederti rientrare tra gli ultimi... sei di Reggio, no?” mi aveva apostrofato bonariamente il comandante in seconda. “Non sono rientrato, signore, perché non sono mai sceso.” “Come sarebbe?” “Sono stato consegnato, signore”. Le parole mi uscivano pacate, innaturali. L’ufficiale era visibilmente stupito: mi conosceva, non ero certo uno di quelli che si distinguevano negativamente e mi aveva perciò chiesto di spiegargli il motivo di un provvedimento così grave.

Pagina 170 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania 1942: DALL’ABISSO DEI MIEI VENT’ANNI Maria Grazia Greco

Lo avevo visto diventare rosso di collera mentre gli raccontavo ciò che era successo. Immediatamente aveva mandato a chiamare l’ufficiale responsabile dell’accaduto e, senza alcun riguardo, lo aveva incenerito col fuoco degli occhi e delle parole. “Ma la leggerezza mostrata da questo marò mi è parsa grave, signore. Siamo in guerra e...”, aveva cercato di giustificarsi l’altro, impallidendo. “Siamo in guerra, ma sembra che proprio voi non lo abbiate capito, signore! Siamo in guerra! Oggi ci siamo, domani non si sa. Ma vi rendete conto di ciò che avete fatto?! Questi ragazzi, dopo non si sa quanto tempo, oggi potevano scendere a terra. Alcuni potevano addirittura rivedere le famiglie. Oggi! Domani dovremo riprendere il mare, ve lo siete dimenticato forse? E dopo...” Il tono della sua voce si faceva cupo, l’espressione del suo volto più grave. Dolente, pensosa. “Chissà dove saremo tra un mese, tra un anno! Chissà quanti di noi ci saranno ancora tra un mese, tra un anno!” Un tremito lieve in fondo alle parole. “O forse addirittura domani”. Poi lo sdegno. “Ciò che avete fatto a questo ragazzo è ignobile, signore!” Sentii la febbre salire ancor più al pensiero che di tutte quelle persone, di tutte le loro storie, di tutti quei sentimenti, nobili o meschini che fossero stati, niente più era rimasto. Sofferenze affetti, speranze: tutto annullato, tutto cancellato per sempre. Sentii la ferita dolere come non mai, quasi a voler ribadire che di tutto il mio piccolo cosmo rimaneva soltanto il dolore del corpo martoriato e del cuore annientato. Tutto perduto. Perduto per sempre il mio caro Totò. E la profonda umanità del comandante in seconda come pure la meschina arroganza dell’altro ufficiale. Perduti anche tutti gli altri, compagni di veglia e di terrore nelle notti di burrasca così come in mezzo al fuoco nemico. Provai la stessa mesta pietà per tutti quei poveri volti che ben conoscevo e che, lo sentivo, avevano cominciato a vivere davvero dentro di me proprio dal momento in cui avevano cessato di esserci per il mondo. L’ufficiale medico si materializzò quasi dal nulla. Non fu necessario nominarli quei ragazzi che egli pure aveva conosciuto. Anche se era passato del tempo, anche se molti, troppi altri si erano avvicendati nell’ospedale, il ricordo di quei poveri morti era ancora vivo in lui: lo capii dallo strano pallore del suo volto. E come doveva sentirsi ora anche lui... Lui che li aveva curati, che li aveva guariti affinché potessero essere pronti per andare a morire! I miei occhi si bagnarono di nuovo. Senza pronunciare una sola parola, quasi pietosamente, egli scoprì la mia ferita. D’istinto chiusi gli occhi: il mio sguardo, ancora pieno di quei poveri volti, rifuggiva dal posarsi sulla bruttura sanguinolenta cui ero debitore della mia salvezza, della mia vita. “Quando la febbre sarà passata proverò ad operare. Coraggio, Giuseppe! Ti priverò dei tendini, ma ti salverò il piede”.

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I suoi tratti tirati si distesero in modo quasi impercettibile. “Coraggio, Giuseppe! Ce la farai”. Alzai con fatica lo sguardo a cercare i suoi occhi. Incontrai il suo sorriso, mesto eppure pervaso da ineffabile luminosità. “Sì, Giuseppe. Ce la farai anche stavolta. Ne sono sicuro”.

La scrittrice Maria Grazia Greco di Roma riceve il riconoscimento dal cap.d.m. Giovanni Calì

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Maria Sandias

LO SPLENDORE DEL GIORNO

a quando aveva comprato la lampresca, la grandissima lampada che sostituiva Dla lampara per pescare di notte, aveva deciso di lasciare tutto nella barca. L’avevano convinto il figlio e il genero a comprare la lampresca, fior di milioni, per non restare indietro mentre gli altri si compravano quella potenza di luce e pescavano più polipi, più pesci. La lampresca era pesantissima e non era possibile portarla ogni notte su e giù dalla casa, così aveva trovato un sistema di sicurezza, una catena grossa che chiudeva insieme, in giri ripetuti, la lampada, il motore che alimentava la lampada e il motore della barca. Ora avevano poche cose da portare allo scalo: le tinozze di plastica per i polipi, la borsa per il salvataggio, compresi i giubbotti salvagente e i razzi per chiedere soccorso, un po’ di pane e frutta per il vuoto di stomaco della notte. C’era da vestirsi, questo sì. Era una cosa che prendeva un po’ di tempo; anche in piena estate era necessario mettere le mutande lunghe di lana sotto i pantaloni perché l’umido della notte attaccava le ossa giovani e le ossa vecchie e bisognava difendersi. Calze non ne poteva mettere, altrimenti come faceva ad attaccarsi con i piedi al fondo della barca mentre si piegava col busto fuori del bordo e teneva la testa nello specchio? Si affacciò sul terrazzo che dava a mare: l’acqua era calma, tesa come un lenzuolo, con brevi linee di luce che splendevano in superficie. Era serata di pesca. Ieli non aveva bisogno di guardarlo il mare per sapere se doveva prendere la barca, era solo un’abitudine: lui lo sentiva nell’aria se era notte di pesca o no, lo sentiva nel fiato del vento, anche il più leggero, nel respiro del mare che dalla riva saliva alle case. Quando Ieli prendeva la barca, era come un segnale per tutto il paese: nottata di lavoro. Se Ieli scendeva le brevi scale e si trascinava in ciabatte verso la piazza, era nottata di letto. Ieli tornò nel cortile: il figlio Giovanni era seduto vicino la fontana, le braccia appoggiate alle ginocchia e la testa perduta fra le braccia.

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Lo chiamò per nome, lui sollevò la faccia stranita e fissò il padre con uno sguardo lontano da dietro gli occhiali. Ieli non si fermò a guardarlo, sentiva un certo imbarazzo a guardare in faccia quel suo ragazzo che somigliava poco al fratello e alla sorella, svelti e vigili sempre; questo pareva chiuso in se stesso, come se gli venisse difficile parlare con gli altri e partecipare alla vita di tutti. “Andiamo!”, disse Ieli e Giovanni si alzò e si stirò allungando scompostamente le braccia. Aveva ventitré anni, ma pareva un ragazzo nei gesti e nell’abbandono del corpo. “Va bene”, disse come rassegnato, con la sua voce grossa e fonda che conosceva il silenzio del mare. “Che hai?”, fece Ieli. “Hai sonno? Hai sempre sonno tu... la notte ti piacerebbe dormire, vero? E invece ti tocca lavorare... ma poi dormiamo di giorno”. “Non è lo stesso.”, brontolò Giovanni. “Lo so, lo so.”, disse Ieli in un sospiro, poi aggiunse: “Avanti, va, prendi le vasche e lo specchio, prendo io un boccone di pane.” La moglie di Ieli era seduta sul terrazzo, con le braccia conserte e la schiena curva per la stanchezza. Era stata una giornata di caldo. Le giornate d’estate erano sempre troppo calde in quel paese stretto fra il mare e la timpa. Gli uomini scesero gli scalini verso la strada. A Ieli sarebbe piaciuto che la moglie la sera gli preparasse con cura qualcosa da mangiare, magari qualcosa di caldo e gli dicesse una parola speciale, quando lui e il figlio andavano a mare, ma lei era fatta così. “Ce n’andiamo”, disse Ieli; era il suo modo di salutare. Lei sollevò il busto e volse verso di loro il suo sguardo chiaro. Il padre aveva insegnato alla donna, quando era ancora bambina, che non si dice niente agli uomini che vanno a mare. Guardò il figlio e il marito attraversare la strada stretta e girare per la viuzza che portava allo scalo piccolo. “Stativi a cura”, disse col cuore. Era un’angoscia che durava ormai da una vita e si acquietava un poco solo alle prime luci del giorno, quando il figlio bussava alla porta del cortile e la chiamava con la sua voce roca e sgraziata: “Ma! o Ma!” E lei si alzava dal letto e andava in camicia d’estate e d’inverno ad aprire e diceva: “Vengo! Vengo!” E le pareva di dire grazie al Signore. “Vegnu! Vegnu! Staiu vinennu!” E le pareva di ripetere gesti e parole di sempre; prima era sua madre ad alzarsi nel mezzo della notte o all’alba e a rispondere ad un bussare stanco alla porta di casa. Ora toccava a lei, in una catena senza fine di donne che dormivano sole e aspettavano gli uomini al ritorno dal mare. La barca era la prima dello scalo piccolo; di fronte, al lato opposto, c’erano le barche grandi, quelle che andavano a pesca di pesce spada lontano, arrivavano fino alle coste della Sardegna o della Grecia.

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Giovanni spinse in mare la barca; Ieli notò che lo faceva senza sforzo, si era fatto grande e grosso, gli anni erano passati in fretta da quelle prime sere che se lo portava appena ragazzo e si addormentava nel silenzio della notte, con la testa fra le gambe e le braccia che serravano le ginocchia per non sentire freddo. Fu Giovanni a prendere i remi e portare la barca fuori del porto, e remare era fatica per il peso del motore e della lampresca; quando il mare si aprì, il ragazzo avviò il motore, tirando deciso la corda e anche lì ci voleva la forza. Ieli non aveva il coraggio di dirlo a se stesso ma a lui veniva difficile avviare quel grosso motore e accendere, con lo stesso sistema a strappo, quell’enorme lampresca. Non aveva il coraggio di dirlo a se stesso ma ormai forse non poteva più fare a meno dell’aiuto del figlio. Forse... Altre barche uscivano dal porto e tagliavano leggere lo specchio di mare. Fra poco, nel buio che andava a farsi più nero, avrebbero tutte acceso la lampara per la pesca nel fondo del mare. Giovanni, in piedi accanto al motore, governava la barca, Ieli, seduto, le mani sulle ginocchia, gli occhi puntati verso Ognina, si sorprendeva a girare con la mente per nuovi sentieri. Aveva bisogno di pensare, da un po’ di giorni sentiva il bisogno di pensare. E il mare era il posto migliore: seduto in quel canto di barca, poteva pensare prima di arrivare alla punta di Ognina e cominciare a pescare. L’aria era quieta e non c’era la luna, era una buona nottata. Era passata così la sua vita, aveva cominciato bambino a passare la notte sul mare e dormire di giorno; si sentiva importante quando con il padre scendeva la strada dello scalo e portava le vasche e la fiocina; aveva, notte dopo notte, imparato a remare, imparato a capire i segni che il padre faceva con la mano, mentre teneva la testa nel secchio che aveva per fondo uno specchio ed era immerso nell’acqua del mare. Con la mano libera, il padre diceva: “Vai!” “ Staglia!” “A manca!” “A dritta!” “Più piano!” Più presto!”. E poi gli aveva messo la fiocina in mano e gli aveva detto: “Prova!”. E lui aveva messo la testa nello specchio e aveva cercato con gli occhi i polipi tra l’erba e le rocce, con la paura di finire in mare, piccolo com’era. Ma aveva imparato presto. Ieli aveva occhi svelti e perfetti e la mano veloce e precisa: con un colpo solo azzeccava il polipo e lo portava alla barca. Lo scherzavano tutti perché colpiva con la mano sinistra e i compagni già lo chiamavano Mancino. Per non cadere, imparò ad attaccarsi con i piedi alle travi nel fondo della barca: così notte dopo notte, tutte le notti della sua vita, a meno che non c’era tempesta o non c’era corrente dello Stretto che non faceva vedere il fondo del mare e non portava pesca. I suoi piedi magri e larghi ora somigliavano alle mani, con dita lunghe e nodose e forti da reggere l’urto delle onde e non farlo cadere.

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Suo padre gli aveva insegnato il mestiere e lui aveva fatto lo stesso con i figli suoi: con la pesca del polipo non si diventa ricchi, si campa la famiglia, però. La moglie si lamentava che in tanti anni non era stato capace nemmeno di comprare una casa, vivevano in casa in affitto, col gabinetto fuori e si lavavano nella fontana del porticato, dove lavavano il pesce e i piatti e la roba pesante della pesca di notte. Si lamentava sempre lei e diceva: “Guarda, Bastiano si è comprato la casa e il Rosso si è comprato la casa e noi non sappiamo sotto quale tetto ci tocca morire”. Ma lui aveva sempre lavorato e aveva sposato la figlia proprio come una principessa, con un grande corredo e mobilio di marca e il pranzo di nozze all’Aloa d’Oro, che era un grande albergo in mezzo agli aranci. Lui non aveva una barca grande capace di fare tre, quattro giorni di mare ad Oriente od Occidente e fermarsi per mesi in un porto e tornare con la stiva piena di pesce spada. Lui era una piccola cosa, come un artigiano che lavora in bottega: la barca, la fiocina e il suo pezzo di mare dalla Scala ad Ognina, costa costa, piano piano, a stanare con la luce i polipi infrattati. Così aveva campato la vita, senza andare a padrone, senza soffrire angherie di prepotenti come capitava a chi aveva barche grandi e case. Lui voleva la pace. Campare la famiglia e vivere in pace. Da un po’ di tempo sentiva però di avere un groppo nel petto e non lo sapeva sbrogliare, perché non sapeva trovare i giusti pensieri da mettere in fila o parole da dire a qualcuno e levarsi quel peso dal cuore. “Pà!” gridò Giovanni nel rumore del motore “ Pà! C’è pieno di stelle stasera!” Era quello il bello del loro mestiere: nei mesi d’estate, quando il freddo della notte era come una brezza leggera e il mare era quieto che pareva in riposo, scoprirsi sulla testa quel cielo grande e stellato era come un regalo, una cosa che sempre faceva meraviglia. Era sempre lo stesso quel cielo ed era sempre diverso, per questo faceva meraviglia. Ed era bello essere in barca, con la terra un poco lontana e il paese che era una striscia di luce. Ieli le conosceva tutte le stelle, il padre gli aveva insegnato a leggere il cielo e lui lo aveva insegnato ai suoi figli: se sai leggere il cielo, le stelle e le nuvole e il fiato del vento, sai già che mutanza fa il mare e che tempo ti trovi per tornare al tuo posto sicuro nel porto. Lui puntava il dito verso il cielo e diceva al ragazzo che pareva distratto. “Vedi quella nuvola che va verso la timpa? Quella porta acqua. Ricordati che la nuvola verso la timpa porta acqua. Non ne hai tempo da perdere, ti tocca tornare.” Solo un pescatore era; ma ne sapeva di cose, certo solo di cose di mare e di cielo e di vento. Per il resto si sentiva spaesato: sapeva leggere e capiva se uno parlava italiano ma, lasciati il mare e la barca, era uno che soffriva la vita. Ieli si domandava ora se aveva insegnato abbastanza a Giovanni. No, lo sapeva,

Pagina 176 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LO SPLENDORE DEL GIORNO Maria Sandias non abbastanza. Il ragazzo sapeva portare la barca ed era forte e capiva i segnali che lui faceva con la testa nel secchio, ma non era svelto e leggero a puntare un pesce e colpirlo, e poi non aveva la vista, ci volevano occhi perfetti e lui portava gli occhiali e pareva sbadato. E poi, e poi, Ieli lo sapeva, gli dava poche occasioni per fare esperienza, perché lui diventava nervoso quando il ragazzo era allo specchio e gli pareva di perdere chissà quanti polipi, chissà quanti soldi... Così gli aveva insegnato il mestiere? Ora che aveva passato i vent’anni, poteva campare una famiglia; avere moglie e bambini? Questo era un groppo, ma non era tutto. Giovanni aveva una scelta: Giovanni poteva partire ed andare ad Oriente od Occidente, così facevano i ragazzi della Scala, andavano sui grandi barconi che pescavano spada, anche lì era fatica ma si guadagnavano bei soldi per comprare le case e le automobili e non ci voleva un occhio preciso per quel tipo di pesca e nemmeno grande sveltezza di mano. Così faceva Bastiano, l’altro figlio, che aveva moglie e la casa e l’automobile per quando tornava dal mare. “Pà, a questo figlio devi fare strada”, diceva Lisa, la figlia che dormiva sola la notte e aspettava per mesi il marito che era andato a pescare nella Grecia o in Sardegna. Lui, invece, quel ragazzo lo teneva come chiuso in una mano, legato a quella barca che si era fatta pesante e non poteva dare da mangiare ad un’altra famiglia. La moglie glielo ripeteva, gridando con voce di testa che pareva un uccello: “Troppo sacrificato lo tieni questo figlio!” Ma che succedeva se lui diceva a Giovanni: “Decidi. Vuoi partire con gli altri ragazzi e lasciare il paese e la casa e farti una strada? Decidi.” Che succedeva? Giovanni diceva di sì, forse. E lui, Ieli, come restava senza uno che gli portava la barca? Per la pesca a lampara dovevano essere in due ad andare e se Giovanni partiva e lui si trovava un altro a remare, sicuro non era un ragazzo, non ce n’erano più di ragazzi in paese. E doveva dividere la pesca ogni notte: una parte per lui, una parte per il compare, una parte per la barca. E che soldi portava così al mattino, dopo il mercato di Trezza? Sua moglie faceva come un’aquila per difendere il figlio, ma voleva anche i denari. Era questo il groppo, ma non era tutto. Cambiare compagno era un grosso problema per uno come lui che si abituava al soffio del vento e dormiva sempre su un fianco nel letto, ma poi essere sicuri di trovarlo il compagno! E se non lo trovava? Poteva solo piangere davanti alla barca e alla grande lampresca e invecchiare di colpo. Era cambiare la vita: dormire la notte e infilarsi nel sole al mattino, una luce forte per i suoi occhi infossati e parlare di cose di terra, seduto in piazzetta con i pescatori più vecchi che ricordavano e ricordavano e raccontavano, raccontavano lontane avventure di pesca abbondante, di grande pericolo e salvamento di vita. “Come fu, come non fu...”. Così dicevano nelle mattine di sole, seduti sulle panchine o d’inverno, giocando in una stanza alle

Pagina 177 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° carte. “Come fu, come non fu...” Doveva aprire le dita della mano e fare strada al figlio e dire: “Decidi!”. E fare il padre. E lui? Si sarebbe perso nel sole della piazza o seduto al braciere nei giorni d’inverno. La sua vita era sul mare, nell’odore del vento, nell’acqua chiara chiusa nel cerchio del secchio, nelle nuvole che erano nel cielo e portavano segnali di grande tempesta o di bonaccia vicina. Lui sapeva solo di cose di mare. Sospirò con il cuore grosso. A volte, quando si alzava di tardo mattino e si faceva la barba, si guardava in quel pezzetto di specchio appeso alla porta del cesso e pensava che ogni giorno di più la sua faccia pareva la faccia di un pesce. E diceva, levando il sapone, al viso nero che lo fissava allo specchio, diceva: “Non ho ancora la coda...” Lui non ne sapeva di cose di terra: comprare, vendere, leggere il giornale, e raccontare storie di mare, di onde terribili e alte quanto la timpa e di tremore di morte non gli bastava. “Come fu, come non fu....” “Pà!”, gridò Giovanni, nel rumore forte del motore, forse lo chiamava da un pezzo. “Pà, dormi?”. “Non dormo, non dormo”, disse Ieli, scotendosi; si cominciava a pescare. Giovanni smorzò il motore e con gesto sicuro accese la lampresca e prese i remi: era sempre pronto a fare da secondo. Ieli sospirò: l’altro figlio era svelto, con il busto scattante e il braccio veloce e preciso, ma lo aveva lasciato, pescava lontano e si faceva un futuro. Ieli prese il secchio e cercò la fiocina nel fondo della barca; quando alzò gli occhi, vide il cielo di nuovo: era pieno di stelle, una bella nottata e il mare era verde nel cerchio di luce della lampada accesa, come di giorno, quando in cielo c’è il sole. Tornarono all’alba; erano stanchi come ogni mattino, guardavano fisso il punto dove avrebbero visto il porto aprirsi sicuro, con l’orecchio aspettavano il suono uguale della campana della chiesa che batteva le quattro. Nel porto c’era uno sciacquettare leggero di remi che urtavano l’acqua, altre barche tornavano; sotto la chiesa, tutto a sinistra era il posto per loro, là aspettavano, come ogni mattina, d’estate e d’inverno, Nuccia e Bastiana, le sorelle di Ieli. Chiuse nei loro scialli scuri, aspettavano per aiutarli a tirare in secco la barca che era tanto pesante. Sapevano puntare bene i piedi nella sabbia e tirare con gesti sicuri la barca. Così ogni mattina. E Ieli era tanto contento e pure Giovanni. Si salutavano con un suono soltanto “Ehi!” “Ehi!” Ed era un sollievo. Quando la notte era fredda e il tempo magari si faceva cattivo e batteva la pioggia e loro si chiudevano nelle loro cerate, sapevano che ad aspettarli c’erano Nuccia e Bastiana che la notte non dormivano, tese a cogliere le mutanze del tempo, svelte a

Pagina 178 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LO SPLENDORE DEL GIORNO Maria Sandias prendere lo scialle e correre al porto. Salirono in fila, portando le vasche con i pesci e gli arnesi; quando furono alla piazza, si apriva il giorno, chiaro come la madreperla delle conchiglie, con la luce nuova che si fermava e riverberava nello specchio di mare che lontano si faceva cielo. “Fra poco sarà tutto sole,” pensò Ieli, “un giorno di sole.” Lui e il ragazzo non avevano ancora finito, dovevano prendere la macchina - Giovanni sapeva guidare - e andare al mercato di Trezza a vendere il pesce, poi si sarebbero addormentati di colpo sui lettini, nello stanzino che si affacciava al cortile. La luce dell’alba toccava le piante sui fianchi della timpa e i limoni uscivano piano dal buio della notte. “Fra poco la gente uscirà”, pensò Ieli, “parlerà per le strade, dai balconi, dai terrazzi...” Fra poco il sole riempirà, nello splendore del giorno, il paese stretto fra il mare e la timpa, una fila di case aggruppate. Lui, Ieli, dormirà nel lettino - nei lettini dormono il loro sonno di giorno i pescatori - e il ragazzo accanto a lui, negli occhi il cielo grande e pieno di stelle. Domani ci sarà il primo spicchio di luna.

L’autrice del racconto, sig.ra Maria Sandias d Roma

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Circolo Lega Azienda Ufficiali Navale Provincia Marina Italiana Comune Provinciale Riposto Regionale Turismo Mercantile Delegazione Catania Riposto Catania Catania Premio Nazionale Artemare 2001 XXVII Edizione sul tema “L’uomo e il mare” Canzone Fatti di Bordo Pittura Modellismo Protagonisti del mare

Corso Italia, 70 - ore 10/13 e 18/21: dal 21 luglio al 3 agosto mostra di pittura e di modellismo Piazza S. Pietro ore 21.00 Giovedì 2 eVenerdì 3 agosto: Festival della Canzone marinara Specchio di mare antistante il porto - Sabato 4 agosto dalle ore 16.30 alle ore 19.30 Dimostrazione velica della Lega Navale per i giovani da 10 a 17 anni Terrazza Istituto Tecnico Nautico di Riposto - Sabato 4 agosto - ore 20,30 Consegna Borse di Studio e Premi Artemare Premio «Città di Riposto»: Prof. Salvatore Grasso Premio «Artemare»: Rag. Francesco Ceci Premio «Protagonisti del mare»: Soc. Navigazione “Ignazio Messina & C.” Presenta: Anna Pavone

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Angela Russo

TRA L’ETNA E LO JONIO

«È una vista stupenda, capitano. Non c’è che dire. Da togliere il fiato, meglio assai del panorama che si gode dai balconi della suite più lussuosa di un hôtel a cinque stelle!», esclamò estasiato il professore davanti alla distesa uniforme di verde-azzurro scintillante. Il capitano era, infatti, ospite in una casa di riposo molto esclusiva dell’hinterland catanese, con file d’attesa più lunghe di quelle dei trapianti d’organi, ma era pur sempre un vecchio lupo di mare relegato da anni sulla terraferma, in un istituto. Il professore era un giovane salernitano al suo primo anno d’insegnamento di ruolo presso l’Istituto Tecnico Nautico della città etnea. Una mattina di fine settembre, in quei «bei giorni di cristallo dell’autunno che non son più caldi e non son freddi…», come ebbe a definirli Madame de Sévigné, il professore aveva percorso il vialetto d’accesso a «Villa delle Rose Bianche», in Viale dello Jonio, con la sua monovolume della primissima generazione (ne converrete, un modo piuttosto carino e di sicuro effetto per non dire: carretta di seconda mano), al suo fianco sedeva una collega, l’altra docente di Lettere della scuola, contrariata dagli imprevisti che le avevano complicato la giornata, a partire dall’auto che le aveva dato forfait. Così, mentre la professoressa rendeva omaggio al suo austero genitore, preside di facoltà in pensione, il professore aveva intrapreso una passeggiatina nel magnifico giardino in cui facevano bella mostra i candidi roseti cui si riferiva il nome (o forse erano stati piantati per giustificarlo, con chiara e gentile allusione al colore dei capelli degli ospiti?). Seduta sui sedili di un gazebo, una figura imponente attirò la sua attenzione. Era lui, il capitano, l’orgoglio di «Villa delle Rose Bianche», per l’ottima salute e per il comportamento esemplare: un vero gentleman d’altri tempi, impeccabile in tutte le circostanze (o quasi), a dispetto delle ottanta primavere e dell’ingrata prole. Un saluto e un apprezzamento meteorologico furono i picconi usati per ‘rompere il ghiaccio’ e da quel momento il professore entrò a far parte della schiera dei visitatori più assidui, l’unico visitatore del capitano. Lunghe e brevi conversazioni si alternavano a brevi e lunghi silenzi, ricordi di

Pagina 181 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° navigazione a malumori scolastici, traversate memorabili a viaggetti in auto (rigorosamente di non nuovissima concezione…), acciacchi dell’età a lievi infortuni sportivi… e le parole fluivano lente, calme, rasserenanti, mai amare o rabbiose. Qua e là vicende familiari facevano capolino con discrezione e sobrietà. «Mio figlio sta in America, a studiare i terremoti, lui dice che studia la… faglia di San Andreas… Lei lo sa cosa vuol dire, no?». «Certo: che suo figlio è un sismologo. E pure bravo, se ha ottenuto una cattedra universitaria negli Stati Uniti, dove…». Il professore notò il sorrisetto sulle labbra del capitano. «Ah, ho capito. Lei intende dire un’altra cosa, e cioè: come è possibile che… uno che è cresciuto in una famiglia di gente di mare da secoli non sia rimasto affascinato dal mare neanche un po’, anzi, forse addirittura… lo odia… se decide di intraprendere una carriera così totalmente… legata alla terra…». «Gliel’ho chiesto, sa?, il perché, tanto tempo fa…». «E lui?». «Mi ha parlato di uno che si chiamava… Sigismondo, mi pare… di una legge del… non so che cosa… insomma ha sbuffato un po’ di paroloni difficili, ‘scientifici’…», la sua espressione, sul genere “non la fare tanto lunga, non sono mica un deficiente”, intenerì il professore, «ma io ho capito che odia il mare perché da bambino la mamma, quell’anima santa di mia moglie, gli diceva che il mare si portava via il suo papà per tantissimo tempo… Ed era vero. Cosa doveva fare la mia povera Maria Elvira? Mi dica lei, cosa dovevamo fare io e sua madre? Dovevamo imbrogliarlo, addolcirgli, come si dice, la pillola… Ah no! E forse è stato meglio così, sa? Uno come lui che ci sarebbe stato a fare su una nave? Alla prima onda un po’ più alta chissà che faceva!». «Le ha parlato di Sigmund Freud, immagino, del ruolo della psiche, della legge del contrappasso, secondo la quale nell’Inferno dantesco a una data colpa corrisponde una pena con caratteristiche analoghe, tipo una bufera tormenta i lussuriosi così come nella vita terrena la loro esistenza fu sconvolta dalla tempesta dei sensi…». «Vuol dire che siccome odiava il mare che mi teneva lontano per lunghi mesi, lui ha voluto farmi sapere la sua opinione facendo un lavoro che è tutto il contrario del mio?». «Pressappoco». «Ah! Allora suo figlio, che io non conosco… Be’, sì, potrebbe fare la stessa cosa, non le sembra? E io mi potrei ritrovare un giorno con un nipote comandante di una motovedetta della Guardia costiera, oppure pilota della Marina, o anche ammiraglio della flotta del vecchio zio Sam…». Scherzava sull’argomento, ridacchiando, ma era fin troppo evidente che la spiegazione del professore lo aveva colpito. Il viso tradiva il suo turbamento. Il professore provò una fitta di rimorso. Era forse stato troppo duro o severo? «Non è detto che volesse farle un dispetto o addirittura vendicarsi, di lei o del

Pagina 182 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania TRA L’ETNA E LO JONIO Angela Russo mare stesso… Io credo che sia molto difficile… scegliere… subendo l’influenza dell’acqua e della terra, di un vulcano e del mare, perennemente in bilico tra le lave dell’Etna che fiammeggiano e un mare come lo Jonio… anche in Campania… col Vesuvio e il Tirreno… ma io lo comprendo, suo figlio. Da bambino anch’io ho odiato il mare. Moltissimo, non saprei ridire con quanta intensità… Era su una nave che mio nonno è morto. E anche se sapevo che lui il mare lo amava come una persona e che forse non sarebbe voluto morire in nessun altro posto, io l’ho odiato… con tutte le mie forze, per anni… e ora eccomi qui, ad insegnare nella scuola che prepara i giovani a… solcare i mari… Perciò io credo che suo figlio non ha odiato il mare contro di lei, ma per lei… Può essere stato solo un modo di salvare il proprio equilibrio, una risposta inconsapevole ad un certo stimolo… Perché, a volte, non possiamo proprio accettare che ciò che ci fa soffrire, nonostante abbia un senso, un motivo, una giustificazione logica…». Bravo, vediamo come concludi e dove vai a parare, sapiente e fine psicologo! Potevi quantomeno essere meno esplicito! Dopotutto è un povero vecchietto abbandonato da anni in un ospizio… E fra poco metterò anche mano al fazzoletto… Ma che sto pensando? «Povero vecchio» il capitano? Un pezzo d’uomo che ha solcato mari di tutti i colori e di tutte le nazionalità, che ha visto cose che io non mi sogno nemmeno, che, se vogliamo essere onesti, non vive precisamente in una catapecchia… senza contare il fior fiore di pensione che percepisce…la discreta sommetta che deve aver accumulato in anni e anni di navigazione, la fama e le attenzioni di cui gode… Be’, adesso non caschiamo dall’altra parte… Il moto ondoso delle riflessioni del professore fu interrotto da un colpetto di tosse del capitano. «Vuole che torniamo dentro? L’aria è un po’ fresca, vero?». «Aria fresca questa? Ah! Caro professore mio, l’aria fresca era quella dei mari del Nord, mica questa. Lì, se non stavi attento, anche il cervello ti si poteva congelare! Ricordo che una volta, durante un imbarco di sei mesi… battevamo bandiera italiana, ma solo perché il comandante, cioè io, era italiano… con un equipaggio di almeno dieci diverse nazioni, capitammo proprio…». Al professore sembrava di vederlo, il capitano, giovane e forte, vigoroso e deciso, impartire istruzioni precise durante una tempesta, e mentre ascoltava, da una minuscola porzione della sua materia cerebrale, un’idea, luminosa come solo le grandi idee sanno essere, prese forma e si sviluppò nella sua mente. Ne parlò immediatamente al capitano e l’arzillo vecchietto se ne dimostrò subito contento e soddisfatto. Come parzialmente aveva previsto, il professore dovette superare il rodaggio del novello anno scolastico e gli scogli burocratici dei permessi, dei nulla osta, delle autorizzazioni, ma di lì a poche… settimane la prima visita dei suoi allievi era già bell’e organizzata e la prima classe… pronta a salpare… per il suo incontro con il capitano, per ascoltarne gli avventurosi racconti, le esperienze professionali, i consigli tecnici.

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«Ragazzi, ho il grande piacere di presentarvi il capitano, che ha generosamente accettato di incontrarci per condividere con noi le sue esperienze di navigazione nella Marina mercantile…», il professore si era lanciato in un preambolo che egli considerava sufficientemente sintetico e abbastanza lineare, per cui fu preso alla sprovvista quando il capitano lo interruppe educatamente con un cenno della mano e prese la parola con quella naturalezza di chi tiene discorsi pubblici e conferenze per professione. Ah, già, avevo scordato che ha parlato per anni agli equipaggi…, pensò il professore. «Cari giovani, il vostro bravo professore mi tiene in troppa considerazione… Io sono uno dei tanti che hanno scelto il mare come… posto di lavoro. Niente di più, niente di meno. Certo, ho conosciuto molta gente e tanti bei posti, quando avevamo l’occasione di scendere a terra… ho vissuto situazioni diverse e interessanti, a volte anche pericolose, se vogliamo, sicuramente più che se avessi fatto, che so… l’impiegato al Comune o il notaio…». Gli studenti risero. «Ma ogni lavoro ha i suoi lati negativi e quelli positivi, non esiste un lavoro perfetto, l’importante è svolgerlo con passione e professionalità, specialmente quando si ha la responsabilità della vita di altre persone. Come i professori hanno la responsabilità della vita intellettuale degli studenti… perché, cari ragazzi miei, ricordate che quello che imparate nessuno potrà mai portarvelo via, anche se spesso vi sembrerà di essere costretti a imparare solo notizie inutili…». Gli studenti cercarono di trattenere un risolino d’approvazione. «Non è tanto importante che lavoro si fa, ma come si porta a termine. L’unica cosa di cui ci si deve preoccupare è che non sia contro la legge…». Risata fragorosa ma composta. Il professore si sentì quasi in debito con se stesso, per la sua brillante e costruttiva idea… Gli incontri si susseguirono a ritmo regolare. Il professore si era sinceramente affezionato al capitano, gli ricordava sempre di più quel nonno che aveva perso per un banale incidente su un traghetto. Il nonno, in gita con la sua parrocchia, durante il viaggio di rientro, era scivolato da una scaletta e aveva battuto la testa con violenza; lo avevano trasportato sottocoperta e il medico che accompagnava il suo gruppo lo aveva prontamente raggiunto, ma non ci fu più niente da fare ed era dolcemente scivolato nel sonno eterno fra le braccia della nonna, con le preghiere di padre Lucio in sottofondo. Allora, bambino di undici anni, aveva tanto pianto. Il saluto che aveva dato al nonno prima che lui salisse sul pullman non gli era sembrato abbastanza come ultimo addio. Il mare prende e il mare restituisce. Era questo che, col passare del tempo, lo aveva consolato. Il mare, da bambino, gli aveva procurato un immenso dolore, il mare, ora che era un giovane adulto ancora ai primi round con quell’incontro di pugilato che è la vita, gli donava un amico del quale aveva imparato a conoscere gli umori e i silenzi, ad interpretare le cose che diceva e ad intuire quelle che non diceva e, fra queste, il desiderio di ristabilire il contatto col figlio scienziato in America.

Pagina 184 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania TRA L’ETNA E LO JONIO Angela Russo

«Io posso solo dirle che l’unica lettera che ho ricevuto era su carta intestata dell’Università di Berkeley… e lo ricordo perché, a dire il vero, a suo tempo, questo fatto m’incuriosì parecchio…». Attimo di pesante silenzio. «La verità, professore, è che in un impeto di rabbia il padre ha strappato e gettato nel caminetto di una nostra saletta la lettera con i numeri telefonici e gli indirizzi del figlio… appartamento, Università, tutto…», il direttore della casa di riposo, strizzò gli occhi, mentalmente in cerca di altri particolari, «e di questo mi ricordo perché, in quell’occasione successe un putiferio: il capitano sembrava… fuori di testa… mi creda, so quel che le sto dicendo, temetti le prime avvisaglie di qualche brutta malattia degenerativa oppure che avesse ingerito…». Il professore lo interruppe: «Pensava all’arteriosclerosi?», poi, si stupì e s’indignò allo stesso tempo: «O che avesse addirittura… sniffato qualche sostanza? Ma, dico, forse stiamo… babbiando, come dite qui?». Il direttore si strinse nelle spalle. «Lo so che sembra incredibile. A vederlo adesso, non ci crederei nemmeno io, ma le assicuro, e lo ripeto, che so quello che sto dicendo. Si figuri che incitò tutti gli altri ospiti a ribellarsi alla “schiavitù” dei figli… Pensi: pronunciò una specie di arringa contro di loro… Tutti poco riconoscenti, viziati, inaffidabili, traditori dei padri e della patria… Invitò tutti a rifiutarsi di ricevere i parenti, voleva convincerli a cambiare i testamenti, a disfarsi delle eredità devolvendole in favolose beneficenze… Confesso di essermi seriamente preoccupato… Incontrollabili e ingovernabili, cari ‘vecchierelli’, mi fecero sudare le famose e proverbiali sette camicie prima di ritornare alla calma e alla normalità. Una vera rivoluzione, mi sono sentito come… come il re Luigi XVI nella Francia del 1789! Non rida. Non sto esagerando per niente. Chieda pure…». Il professore ridivenne serio: «Fu in quel periodo che il figlio lasciò l’Italia per gli Stati Uniti…». Il direttore annuì: «Lei avrebbe potuto dargli torto, povero vecchietto?». Il professore riflettè a voce alta: «Avrà litigato col figlio per la sua partenza dall’Italia, così il figlio, offeso, non lo chiamava e lui, anche volendolo, non poteva più farlo… E il figlio ha interpretato il suo silenzio come segno della disapprovazione totale del padre… Si può anche ottenere un gran successo nella vita professionale, ma se chi è importante per te lo considera come una specie di tradimento… Da entrambe le parti… Che tristezza…», quindi, salutò e uscì dall’ufficio di direzione. Mentre era in macchina si ritrovò a pensare. Berkeley, California, in the United States of America. Chi conosco a Berkeley? Nessuno, chi dovrei conoscere? Però conosco la mia collega d’inglese che è anglo-americana…Ed è bellissima… e dolce e… sogna, sogna pure, caro mio, sogna… e continua a sognare… «Dorothy, l’hai trovato davvero? Grazie mille, sei stata fantastica!», il professore era stupefatto dalla velocità con cui Dorothy era riuscita a procurargli il numero telefonico giusto.

Pagina 185 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12°

«No problem. Non ringraziare… me, darling, non è stato tanto difficile…», trillò l’insegnante, «…e poi per un caro… amico come te!», gli occhioni azzurri spalancati. Al professore piaceva… molto… parlare con Dorothy… Fece un bel respiro e si buttò: «Dorothy, ti piacerebbe conoscere il capitano? È simpatico…» ebbe appena il tempo di dire. «Sure! Let’s go!», fu la risposta. «Capitano, Dorothy e io, dovremmo fare una telefonata… Ci accompagna? Così poi andiamo a passeggiare sotto il pergolato…», il professore sembrava un gatto che aveva ingoiato il canarino, e la sua giovane e bella amica, pardon, collega di scuola, non era da meno, ragion per cui il capitano li seguì sospettoso. «Prego, vuol sedersi qui un attimo, capitano? Le assicuro, è questione di un minuto appena…», il professore si schiarì la voce e prese la comunicazione: «Sì, sono io, dall’Italia, professore, adesso le passo quella persona di cui abbiamo parlato…», il giovane professore guardò il capitano, la sua espressione prima curiosa, poi incredula, poi sorridente, e gli passò la cornetta. Dopodiché non capì più nulla ma, specchiandosi in una vetrata, notò un vistoso ed inequivocabile segno rosso sulla sua guancia… e uno smagliante sorriso anglo-americano che lo fissava beato.

La scrittrice Angela Russo di Aci Catena riceve il riconoscimento per il suo lavoro

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Norberto Biso

OTELLO E IL NOSTROMO

tello era un magnifico gattone grigio, con striature nere e petto bianco, che Oavrebbe potuto condurre un’esistenza felice e spensierata sulla nave nella quale era nato, se non fosse stato per il suo carattere pigro ed indolente che lo aveva fatto assomigliare, anche fisicamente, al garzone di cucina del quale portava il nome. Era il beniamino del Nostromo, un uomo di statura medio alta, robusto, capelli corti tagliati a spazzola, aspetto ordinato e occhi azzurri, che era l’antitesi del prototipo del siciliano medio che siamo abituati ad immaginare. A meno che non se ne facesse risalire l’origine ai normanni di Ruggero d’Altavilla che all’inizio dello scorso millennio strapparono l’isola agli arabi e la tennero per oltre due secoli. L’avevo conosciuto al mio primo imbarco da 1° Ufficiale su di una vecchia nave adibita al trasporto di carichi alla rinfusa che faceva viaggi alla busca spostandosi ovunque ci fosse merce da imbarcare. Col tempo imparai a conoscerlo meglio. Era un marinaio eccezionale e sapeva organizzare il lavoro come pochi altri. Sin dal primo giorno gli avevo raccomandata di badare soprattutto alla sicurezza del personale e sotto questo aspetto non mi diede mai motivo di lagnanza. Da lui c’era da imparare. Aveva una vera passione per le navi e poneva il suo lavoro al di sopra di tutto. Questo lo rendeva a volte un po’ troppo esigente con i marinai e più di una volta dovetti tenerlo a freno per non scatenare il giusto risentimento della gente. Era il suo unico difetto. Negli oltre quindici mesi in cui siamo rimasti assieme, non l’ho mai visto perdere un’ora di lavoro. Puntuale, alle sei del mattino, tutti i giorni dell’anno, festivi compresi, si presentava sul ponte con i vestiti puliti, prendeva il caffè che gli preparava il marinaio di guardia, ascoltava il programma dei lavori che gli prospettavo, faceva i suoi commenti e scendeva quindi in saletta per far colazione.

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Poi si cambiava e aiutato dal giovanotto di 1° e da uno dei marinai di guardia predisponeva tutto il necessario. Alle otto in punto il personale giornaliero iniziava il lavoro. In un uomo così rude ed esigente, sembrava impossibile potesse allignare dell’affetto per gli animali. E difatti, quando lo conobbi meglio, mi resi conto che l’affetto che dimostrava per alcuni animali era in funzione dei vantaggi che la loro presenza a bordo poteva apportare alla nave. Amava Dongo, un bastardo di mezza taglia, che abbaiava quando i cavi d’ormeggio venivano in bando e faceva un’attenta guardia allo scalandrone, mentre detestava Chispa, il cagnolino del Marconista, che aveva la pessima abitudine di camminare sui ponti pitturati di fresco e, peggio ancora, di mordicchiarsi le zampe sporche di pittura ricavandone una diarrea che imbrattava tutta la nave. Per lo stesso motivo odiava tutti i gabbiani e gli albatros in particolare. Diceva che defecavano in nero sul bianco e in bianco sul nero creando disgustosi effetti di contrasto, e che, mettendosi sopravvento, riuscivano persino a lordare le pareti verticali del ponte di Comando. Giurava che un giorno un albatros, avendolo visto con le mani impegnate da due buglioli di pittura e quasi immobile perché stava scavalcando le difese delle tubazioni di coperta, gli si era librato sopra e dopo aver esattamente calcolato la forza del vento, lo aveva bombardato con una pioggia di escrementi, allontanandosi poi con acute grida di scherno. Un giorno a Baltimora, aveva intravisto su di una bettolina ormeggiata sottobordo una gattina di pochi giorni semisommersa dai rifiuti oleosi e mezzo assiderata dal freddo. L’aveva raccolta, ripulita, nutrita con amore e ne aveva ricavato uno splendido animale, non molto grande, ma astuto come pochi e molto volenteroso. Reprimendo il suo istinto, catturava per conto del padrone le tortore che capitavano a bordo e se le lasciava sottrarre accontentandosi delle carezze che riceveva in cambio. Forniva un valido aiuto nelle campagne di derattizzazione che effettuavamo ogni tanto, per liberarci dei numerosi topi venuti a bordo nel corso di una caricazione di grano a Rosario, e che si erano moltiplicati sino a diventare invadenti. Uno di loro, o meglio, una di loro poiché si trattava di una femmina, aveva mandato in corto circuito, inondandolo con il liquido amniotico, il trasmettitore radio a onde corte, che aveva scelto come sala parto per dare alla luce la sua numerosa progenie. Ne aveva subito le conseguenze il Marconista, costretto a giustificarsi con il Comandante che voleva togliergli tante ore di straordinario, motivato con la dicitura “manutenzione apparati”, quanti erano i giorni presunti di gestazione di una femmina di topo. Ma torniamo alla nostra gattina, che sembrava destinata ad una casta esistenza se non avesse subito, o beneficiato, di quanto le accade in seguito.

Pagina 188 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania OTELLO E IL NOSTROMO Norberto Biso

Eravamo in Cantiere a Genova per i lavori di classe, con a bordo decine di operai che lavoravano facendo un fracasso infernale. Verso sera, un enorme gatto randagio privo di un occhio e col corpo segnato da chissà quali battaglie, era capitato a bordo e aveva violentato la gattina. Appena l’aveva vista, un lampo di lussuria gli si era acceso nell’occhio sano e subito l’aveva afferrata per il collo, sbattuta sulla coperta e, incurante di tutto e di tutti, l’aveva posseduta con miagolii di piacere così intensi e con una tale carica erotica da turbare gli umani presenti. Il lavoro cessò come d’incanto e uno strano silenzio subentrò al frastuono che ne derivava. In quel silenzio irreale, rotto solo dal gemito dei due amanti, fu concepito Otello. Quando lo stupratore si staccò e si allontanò trionfante, un applauso di solidarietà e di ammirazione si levò da tutti i presenti. E sono certo che quella sera molte mogli degli involontari spettatori, si saranno chieste, sorprese e compiaciute, da dove mai derivasse quell’insolito erotismo dimostrato dai mariti. Otello, unico sopravvissuto di quattro fratelli, era diventato il bel gattone di cui ho detto all’inizio e il Nostromo lo aveva adottato nutrendolo con i bocconi migliori. Se lo portava dietro dappertutto e il gatto lo seguiva impettito, tenendo alta la coda che agitava lentamente, lasciando intravedere i suoi cospicui attributi maschili. Divenuto adulto, in navigazione, si fece le ossa intrattenendo rapporti incestuosi con la madre. Ma appena la nave attraccava alla banchina, balzava a terra e spariva dalla circolazione per riapparire misteriosamente, poco prima della partenza, sporco, arruffato e stanco, ma visibilmente soddisfatto della franchigia trascorsa a terra. “E senza spendere una lira!”, commentavano invidiosi i marinai, cui non sarebbe bastata una mesata per godere neanche la metà delle presunte avventure dì Otello. Tuttavia il suo carattere indolente si andava man mano delineando: non aveva mai catturato una tortora, né alcun altro uccello di ogni genere. Si avvicinava incuriosito alle possibili prede e, quando queste si levavano in volo, alzava lentamente la zampa quasi per dire: “andatevene pure tanto io mangio lo stesso”. Questo comportamento irritava il Nostromo che comunque abbozzava. Ma venne il giorno in cui la misura fu colma. Eravamo nel pieno di una campagna di derattizzazione e il Nostromo, che aveva catturato due grossi topi con altrettante trappole, invece di affogarli come di solito, calando a mare le trappole legate ad una sagola, aveva chiamato i due gatti e le aveva aperte davanti a loro. Subito la gattina si era avventata sulla sua preda facendola fuori in breve tempo, mentre Otello, dopo un’occhiata incuriosita, aveva voltato le spalle lasciando al topo un’insperata via dì salvezza della quale il roditore approfittò all’istante.

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Non l’avesse mai fatto! Gli interessi prioritari della nave erano stati lesi e nell’animo del Nostromo l’indice di gradimento per Otello precipitò in sentina. Con un urlo in cui si mescolavano ira e delusione, si avventò sul gatto e lo colpì con un calcio che quasi lo fece volare fuori bordo. Da allora lo ignorò completamente. E quando alla partenza dallo scalo successivo Otello ritornò dai suoi bagordi, trovò lo scalandrone rialzato e non potè più salire. Di lui si sono perse le tracce. Si dice che vaghi ancora per le calate di quel porto, visitando ogni nave alla ricerca del paradiso perduto.

Il com.te Norberto Biso di Lerice SP riceve il riconoscimento dal presidente della Giuria del Premio “Fatti di bordo”

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Vincenzo Marzullo

QUATTRO “FATTI DI BORDO”

La razza è razza e un “Osso dalla testa”

iunti in rada al largo di Kuwait City, nel Persico, si dà fondo in attesa del Gturno di carico, la gente tira fuori le lenze. Mese di Giugno, temperatura 50 gradi all’ombra. Ad uno ad uno gli uomini di macchina scendono sulle caldaie per chiudere gli stops delle prese di vapore. Ciascuno, munito di chiave, fa compiere alcuni passi alla vite della valvola e poi, di corsa, ritorna in coperta madido di sudore a trincare birra fresca. Subentra un altro e così via fino a che le quattro grandi valvole non vengono serrate. Il terzo di macchina la fa più lunga degli altri, ma quando riappare in coperta si accascia svenuto smorto. Si apprestano i primi soccorsi con massaggi fino alle parti sensibili, con alcool e wisky, e con respirazione artificiale. Il terzo non rinviene, colpito com’è da un colpo di calore che ha fiaccato la sua poca robusta costituzione. Via radio, il comando chiama soccorso alla stazione della Compagnia petrolifera, la English Oil Co., che fa arrivare la lancia di pronto soccorso e lo ricovera in ospedale d’urgenza. Ma il terzo non tornò più a bordo. Non aveva superato la crisi e gli toccò spirare in un ospedale di Kuwait City. Il lutto a bordo fu lungo e profondo. La ciurma venne più di tutto colpita dal fatto che la salma del povero giovane ufficiale non fu ammessa nell’obitorio in attesa di essere rimpatriata al paese d’origine perché salma di un cristiano, quindi di un infedele. Quando poi si dice… Il caporale imbestialito solo quando si salpò finì di sputacchiare contro riva. Al ricovero provvide con prontezza la Compagnia petrolifera. La brutta notizia la portò l’assistente di macchina, anche lui a Kuwait City per estrarsi due denti che, da tempo, lo tormentavano. Appena a bordo, scese nel locale macchine per il suo turno di guardia. Ma il primo, Sig. Bottoni di Venezia, esempio unico di eccezionale e infinita bontà, lo bloccò all’istante intimandogli: “Che viene a fare qui? Vada in cabina, vada a riposarsi! Si ricordi che si è tolto due ossa dalla testa”. L’assistente dapprima rimase perplesso, poi riflettendo: “E sì, ha ragione, dal

Pagina 191 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° collo in su si chiama testa” e rientrò in cabina. In nottata, già a quattro ore di mare, lo colpì una brutta emorragia, risolta poi via radio con l’assistenza del centro medico e del “First Aid”.

************ La ghirlanda a cosa venne a galla nonostante le circospezioni ed i giuramenti tacitamente Lscontati tra le parti. L’aveva visto la vedetta verso le due di notte mentre stasava l’ombrinale della torretta di dritta, in pieno Atlantico; ma non poteva giurarci. Per tre giorni se la tenne in corpo senza parlarne con alcuno; ma gli mordeva dentro troppo per cui decise di avvicinare il cameriere personale del comandante. Il Giobatta, permaloso com’era, non si sbottonò più di tanto, cercando però di non perdere il contatto con la vedetta, anch’essa evasiva ed ammiccante come un peccatore indeciso a sputare tutto. La vedetta prese alla larga la discussione, con cauzione su certe cose che portano scarogna come fiori da morti, messi assieme a formare una struttura tonda come un salvagente e se, per caso, ne avesse vista qualcuna a bordo. “Una ghirlanda, vuoi dire!”, riprese come con vittoria il Giobatta, “Il Comandante da mesi ce n’ha una nello stipo ormai rinsecchita, non so a che gli serva, forse per il suo funerale”. Alla vedetta brillarono gli occhi. Aveva nel buio visto bene, era proprio una ghirlanda. L’indomani il Giobatta, ormai senza riserve e divorato dalla curiosità, confermò che la ghirlanda non c’era più nello stipo del comandante e voleva, soprattutto, sapere dov’era andata a finire, dubitando di un brutto scherzo nei suoi confronti. La vedetta gli chiarì tutto. La ghirlanda non era stata rubata. La notte prima, mentre era di guardia, aveva visto il comandante uscire circospetto dalla sua cabina con uno strano oggetto in mano. Incuriosito, l’aveva seguito con lo sguardo fino al parapetto del ponte di lancia. Qui si era inginocchiato e dopo un breve rituale, come di chi prega, aveva lanciato in mare la ghirlanda, retrocedendo poi lentamente verso l’alloggio. Tutto qui. Un punto nave preciso, forse dopo lunga attesa e certamente a memoria e ricordo di un antico rimorso. ************ Stikkio, il gatto di mare La giornata era calda e la gente appesa agli “ascensori” imbrattava di scialak

Pagina 192 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania QUATTRO FATTI DI BORDO Vincenzo Marzullo la murata rugginosa della barca. Eh sì, il sale mangia la barca come fosse di sego e non di acciaio! Si parte da poppa con le picchette per scrostare, segue la spazzolatrice metallica e poi il protettivo, lo scialak, rosso più rosso del sangue e maleodorante da portar via i peli del naso. Ma è buono, protegge e allunga la vita dell’opera morta della barca. Arrivati a prua, si ricomincia da poppa perché il mare, imbattibile, in un paio di mesi si è già rimangiato il già fatto, specie se si naviga con mare grosso. E così avanti ed indietro proprio come il Era Afa e la gente quel giorno ne aveva veramente poca voglia; la banchina lì sotto di loro li invitava alla franchigia con i taxi belli e pronti a scarrozzarli per la città che, una volta salpati, chissà quando avrebbero rivista. Tra uno sfottò e l’altro, ad un certo punto, il Geska, come trasalito, dà una spinta al mozzo dicendogli: ”Apri bene gli occhi, lì sopra quelle cime, sulla banchina, assomiglia tutto a quel birbone dello “Stikkio”, disertato a Madras perché innamorato pazzo di quella micia vettona sempre sottobordo a chiamarlo! E’ lui, ha ancora l’orecchio pitturato”. Detto, fatto, si fila dritto sul molo, lasciando il mozzo squilibrato e maledicente. E così, chiamando e vezzeggiando, il Geska si dirige verso lo Stikkio che, sorpreso e meravigliato, si lascia acchiappare. La gente, tutta, lascia pennello e barattolo e corre commossa a far festa al vecchio gatto, già di bordo e fuori “ruolo” da almeno nove mesi per diserzione. D’un tratto la gente andò in festa, la battagliola piena di gente che urlava ed applaudiva per il cacciatore di topi perso e ritrovato. Ma la scena madre toccò al primo cuoco, suo protettore. Superato lo scalandrone, fogato, toglie il gatto di mano al Geska e al limite delle lacrime gli rivolge “Vecchio pirata pitturato di rosso, come hai fatto, quante barche hai navigato per arrivare fin qui a Baltimora; dall’India all’America in nove lunghi mesi! Vecchio navigatore sempre in calore, ora ti lego nella tuga e ti libererò solo quando avremo ripreso il largo, così ti passa la voglia di disertare” e, rivolto alla gente, “oggi pranzo speciale per tutti. Abbiamo a pranzo un amico che per guadagnarsi la pagnotta deve tubolare come noi”.

************ S. O. S. preservativi. ià scritto, per un intero anno rotta fissa, per contratto, da Elisabeth nel New GJersey a Karipito Venezuela con le tanke cariche di greggio. Si era al termine del viaggio, a dritta la statua della libertà a manca il New Jersey, la barca arrancava contro la correntaccia dell’Hudson, quando, d’improvviso, le turbine cominciano a perdere il ritmo dei giri per calare bruscamente da lì a pochi minuti. Il chief engineer si attacca al telefono e “Pronto ponte: la macchina perde potenza, il numero dei giri dell’elica è andato giù da 120 a 60, perdiamo il vuoto al

Pagina 193 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° condensatore; non sappiamo la causa.!” Segue dal ponte “Ma scherzate o fate sul serio! Qui se non ci date subito i giri andiamo in secca contro Ellis – Island con tutto il carico, già siamo in deriva! Intanto nel locale macchine c’è il pandemonio. Il vuotometro scende sempre più. La pompa di circolazione al condensatore stenta. Si avviano tutte le mandate ausiliarie al condensatore senza riuscire a compensare la portata di quella principale. Diagnosi: si è intasata l’aspirazione, la presa di mare principale, la pompa non può aspirare. Intanto dal ponte parte, visto che la corrente dell’Hudson porta la barca alla deriva contro la costa di Ellis, l’S. O. S. alla guardia costiera di New York. Nell’attesa, dalla coperta, si prepara il sub pronto ad intervenire. Il sub compie la prima immersione fino alla grata di aspirazione. Cinque minuti dopo emerge con grande meraviglia. “Preservativi, sì, proprio preservativi intasano tutti i fori d’aspirazione della presa mare” e ciò dicendo, dalla tasca tira fuori una manciata proprio di preservativi bianchi lucidi misti allungati, annodati. Rimangono tutti a bocca aperta. Nientedimeno che preservativi e non sargassi come ci si sarebbe aspettato. Arrivano, salutari, quattro rimorchiatori d’alto mare che, prua contro la murata, come (tanti) mastini, spingono la barca contro la corrente fin entro il canale, salvandola dalla secca.

L’ing. Vincenzo Marzullo (a destra) con il presidente e la segretaria della sezione Narrativa del Premio Nazionale Artemare

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Quattro eroi del mare

LA STORIA DI UN «NO» E LA FINE DELL’«U. 16»

Dal Mare, ottobre 1916.

l grande vapore italiano carico di truppe navigava a lumi spenti nell’oscurissima Inotte. La torpediniera di scorta filava alcune centinaia di metri davanti alla sua prora, zigzagheggiando continuamente. C’era foschia e mare grosso. A bordo della silurante, le vedette trafiggevano collo sguardo la cortina di nebbia nera che avvolgeva la rotta. Un marinaio, bocconi sull’estrema punta di metallo, tutto inzuppato dagli spruzzi dell’onda ferita, protendeva la testa a guardare. D’improvviso, egli dette l’allarme. Come una scia fosforescente s’avvicinava dritta e rapida, sotto il pelo dell’acqua, al traverso della torpediniera in corsa. Dal piccolo ponte di comando partì la parola che scosse tutti i nervi del naviglio sottile. Il timone, balzato dalla parte opposta alla provenienza dell’insidia, fece sbandare tutta di lato la torpediniera, il siluro passò strisciandole il fianco. La torpediniera parve allora un mastino. Dopo aver segnalato al piroscafo di passare al largo e d’allontanarsi in tutta fretta, con continui cambiamenti di rotta ch’erano guizzi e scatti, s’avventò dove suppose all’agguato il sommergibile immerso. Su quel punto, prima aprì il fuoco celere dei suoi pezzi prodieri, poi scagliò le bombe di tritolo. Un secondo siluro le venne lanciato contro il fianco destro. Mentre il proiettile subacqueo, non visto, viaggiava, le granate esplodenti colpirono il sommergibile austriaco, che emerse d’urgenza per non colare a picco. Quasi simultaneamente, il siluro scoppiava alla altezza del locale delle dinamo, spezzando in due, quasi nel mezzo, la vecchia torpediniera, la cui prua e poppa, inclinate verso il centro, cominciarono ad affondare. Neppure il sommergibile, già affiorato, poteva tenere più il mare; la falla era enorme. Arditamente il piroscafo Bormida, benché non avesse a bordo né un cannone né un artigliere, investì colla prora il sommergibile nemico. Il sommergibile colò a picco. Gli equipaggi avversari si gettarono egualmente in acqua, mentre il grande vapore carico di truppe aveva già, incolume, ripreso la rotta verso la mèta del suo cammino... Il guardiamarina Castrogiovanni, sbalzato lontano dall’esplosione, riattratto

Pagina 195 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° sott’acqua dal vortice, risospinto lontanissimo dal giuoco delle correnti, si trovò solo, nella notte fonda. Dopo il primo stordimento prodottogli dalla soffocazione sott’acqua, a forza di richiami lanciati sul vento, radunò attorno a sé quelli dei suoi marinai che trovò più vicini. Il vento radente la groppa delle ondate con mugolii quasi umani e l’oscurità sempre profonda resero impossibile chiamare a raccolta i naufraghi più distanti. Si ritrovarono, così, in quattro: compreso lui, ufficiale. Egli meditò il suo piano: risparmiare le forze, nuotando; aspettare che il giorno chiarisse; alla prima luce orientarsi sulla direzione da prendere per avviarsi alla costa più vicina; impedire assolutamente ai suoi uomini di farsi prendere dallo scoramento; fabbricare in sé e in loro una tale volontà di resistenza da vincere l’impossibile. - Coraggio, ragazzi. Bisogna reggere a tutti i costi. Anche gli austriaci sono in acqua. Il sommergibile è colato a picco. L’ho visto io... Volete che loro si salvino e noi no? Sarebbe come avere uno schiaffo in punto di morte... Dobbiamo scampare, per Dio! - Teniamo, signor tenente. - Scamperemo, Signor tenente. - Signor Castrogiovanni, attenzione... - Un gavitello a dritta della sua testa. - Agguanta... - Agguantalo Non era un gavitello. Era un salvagente da torpediniera, di quelli a forma rettangolare, veri gabbiotti di legno ripieni di sughero e di pece. I colpi del mare, quando spazzano di traverso il ponte delle siluranti, ne asportano sempre in acqua qualcuno. Non era la salvezza: era un nonnulla, un pezzo di legno gettato dal caso nella notte iraconda; ma dava un po’ di sostegno alle braccia stanche, ai corpi intirizziti. Il cuore degli uomini teneva duro; ma la situazione era disperata. La costa albanese doveva essere parecchie miglia distante, verso levante, dove una riga di chiarore grigiastro, impercettibile, annunziava che di là sarebbe nata l’alba. Avrebbero veduto il giorno? Chi poteva dirlo? C’era un fatto grave: il vento e il mare li trasportavano ostinatamente verso nord. Verso l’alto Adriatico. Erano travolti da una corrente avversa. Un’ora passò: lunga, infinita, senza orizzonte. Solo gli ululati del grecale segnavano il tempo in quella buia eternità. - Non battere i denti, risparmiati. - Un po’ di freddo, tenente. - Domalo. Non pensarci. Passò, d’un tratto, un’ombra nell’ombra, lontano. La vedevano quando la cresta d’un’ondata li sollevava; quando le cavità dell’acqua li riassorbivano, scompariva. Istintivamente, arrancando con le gambe e con la

Pagina 196 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA STORIA DI UN «NO» Quattro eroi del mare mano libera, vi si avvicinarono... L’alba cominciava a disegnarsi come una lividura... Un’imbarcazione: una lancia. Si dirigeva verso i naufraghi.... Una ventina d’uomini la montavano. Forse il Bormida aveva potuto radiotelegrafare a qualche nave che la fortuna mandava in crociera in quei paraggi? S’erano dunque sguinzagliate scialuppe nella notte alla loro ricerca? La lancia manovrava faticosamente sul mare inquieto, ma s’avvicinava... La riconobbero: era un’imbarcazione della torpediniera morta. L’esplosione che aveva perduto la nave, doveva avere scagliato in mare la lancia. C’erano dunque dei compagni, al soccorso... «Urrah!». Qualcuno s’era drizzato sulla prora beccheggiante e gridava verso di loro qualche cosa... Che cosa?... Il vento e il ronzio dell’acqua nelle orecchie impediva d’afferrare il senso delle parole. Ma l’uomo di prua faceva gesti che invitavano i naufraghi ad avvicinarsi al bordo, a montarvi, ad imbarcarsi. Finalmente, un primo suono percettibile arrivò: - Talianski!... L’uomo di prua, in un italiano stentato, più croato che dalmata, chiese ai quattro sperduti se volevano esser presi sulla lancia. Erano diciotto marinai austriaci. Allora, nei quattro aggrappati al rottame, esausti di fatica, di freddo, di ondate, di notte e di tempesta, sotto gli occhi del nemico che offriva, col salvataggio, la prigionia, avvenne il miracolo. Le vene gelate ebbero un fiotto di sangue ribelle; i nervi paralizzati trovarono lo scatto più fiero; la volontà sommersa riemerse, il cuore affievolito tenne fermo; la risposta sfidò, col nemico, la morte. Il guardiamarina Castrogiovanni sentì negli occhi lo sguardo dei compagni: eretto sull’acqua gridò fieramente: - No! E disse ai compagni: - Chi vuole, di voialtri? - Nessuno si rende. - Nessuno Ci fu uno di loro che ebbe la sublime lucidezza di fare dello spirito: - «Macchina indetro!» I naufraghi si scostarono con impeto dall’unica imbarcazione che esistesse su quel mare senza scampo. Rifiutarono la salvezza apparsa d’improvviso all’orlo della loro infinita tragedia; ripiombarono nella lotta senza speranza. Per allontanarsi più presto, con sforzi crudeli per le dita irrigidite, spezzarono due assicelle della gabbia di salvataggio e ne fecero due tronconi di remo. Con sorpresa, ma senza rimpianto, videro dileguarsi verso la terra lontanissima, di contro all’alba che nasceva, l’ombra di quella lunga lancia montata da diciotto uomini. E verso la catena dentata dei Monti Acrocerauni, che cominciava ora a profilarsi

Pagina 197 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12° lieve lieve sui dorsi cirrosi dei flutti, diressero anch’essi, aiutandolo coi piedi torpidi ma con la volontà protesa, il movimento alterno dei due tronconi di legno. Il loro rudimentale remeggio tendeva a levante, al litorale. Le correnti li trascinavano a nord, nel senso della lunghezza dell’Adriatico. Lo sforzo umano e la forza degli elementi avversi venivano a combinarsi in una risultante obliqua che allungava spaventosamente la distanza tra i naufraghi e la spiaggia. Vi sono degli attimi culminanti nella sofferenza, di fronte ai quali anche l’uomo più forte e animoso arriva a sentire la disperata inutilità della lotta è; l’istante in cui l’esaurimento delle forze fisiche conduce all’abbandono di ogni risorsa morale nel gorgo del destino. E’ il momento terribile della rassegnazione alla fine: è la morte! In quell’alba cupa di tempesta, quante volte si ripeterono, in numero e in crudeltà, gli attimi che decidono della vita e della morte? Nessuno può dirlo. Per sei lunghissime ore i quattro perduti dovettero superarli tutti, ad uno ad uno, tenendo a galla l’anima coi denti, come un pugnale di fortuna. Al termine della sesta ora già s’avvicinavano alla riva d’Albania, quando li attendeva, a poche centinaia di metri dalla terraferma, la prova più tremenda. In quel punto dove il vento e la corrente li avevano sbattuti, il mare rompeva contro le scogliere della costa con esplosioni furibonde. Rimettersi in alto mare e tentare altrove un approdo più accessibile sarebbe stata follia; le forze stavano per mancare; e poi i frangenti già addentavano il rottame, spingendolo a riva con colpi sempre più veementi. Erano dunque scampati dall’annegamento per farsi stritolare contro gl’infami scogli acrocerauni? Lo sgomento, come una lama fredda, attraversò il cervello di quegli uomini che non s’erano fino allora smarriti. Abbandonarono il rottame per esser più liberi nell’ultima lotta. E si affidarono alla sorte... Un frangente li sollevò, li trascinò via con velocità folle, li scagliò verso riva, poi li sommerse nel suo vortice di spume. Esausti, storditi, accecati, semi-asfissiati, i quattro uomini tennero duro ancora una volta. Risollevarono le teste dai gorghi. S’aggrapparono, con tutta la tensione delle braccia protese, alla prima roccia che le loro mani incontrarono. Resistettero al risucchio con le dita sanguinolente conficcate dentro le fenditure della pietra; poi di onda in onda, di scoglio in scoglio, cogliendo il tempo giusto per farsi trasportare dall’acqua senza sfracellarsi contro i massi, affannati, scheletriti, irriconoscibili, riuscirono a prendere terra. Fu allora che il guardiamarina Castrogiovanni vide in lontananza, sballottata sulla costa, la lancia vuota della sua torpediniera, quella su cui erano montati i diciotto austriaci incontrati nella notte sette ore innanzi. Dubitò che i nemici fossero stati costretti dal mare ad approdare in quel punto. S’orientò. Riconobbe il litorale appartenente all’Albania occupata dalle truppe italiane. I patimenti sofferti, le forze esauste, le sette ore di martirio, le membra rabbrividite, le lacerazioni sanguinanti,

Pagina 198 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania LA STORIA DI UN «NO» Quattro eroi del mare tutto fu vinto in un attimo dal lampo d’un’idea: catturare gli austriaci! Forse erano approdati qualche ora prima; avevano dovuto raggiungere qualche povero villaggio albanese, ottenere con danaro e con minacce abiti del luogo per travestirsi; stavano per svignarsela... Bisogna non perder la testa, non sentire né il freddo, né la fame, né le ossa rotte, né la stanchezza di piombo; bisogna far presto... Il guardiamarina non perde né la testa né il tempo; manda due dei suoi uomini alla stazione di vedetta più vicina per informare i Comandi dell’accaduto e, con l’altro marinaio, si trascina egli stesso, cautamente, nei dintorni, in perlustrazione. Il sospetto diventa certezza. La cattura viene organizzata come una manovra. Alla sera, il tenente di vascello austro-ungarico comandante l’«U. 16», il sottotenente e undici marinai furono presi prigionieri dalle nostre pattuglie. I mancanti erano stati sfracellati dai marosi nell’atto di lasciare l’imbarcazione e avvicinarsi alla riva. Gli scampati avevano indossato abiti borghesi procuratisi dagli abitanti e tentavano di dirigersi verso l’interno, parlando il 1oro stentato italiano, che il guardiamarina e i suoi uomini, dall’orlo della morte, avevano schernito con sfida altera. Gesto, questo, che parrebbe - come tutta la magnifica avventura - scaturito dalla fantasia d’un narratore di romanzi, se non fosse uno dei tanti oscuri episodi della realtà marinara italiana; episodi di sacrificio e d’eroismo che non ebbero alcuna rinomanza pubblica, e che non trovarono altra consacrazione se non quella sinteticamente laconica d’un «capoverso» in qualche rapporto militare così concepito: «Proposti per medaglia: Il guardiamarina di complemento Castrogiovanni Ignazio, per la calma e la serenità dimostrate durante il naufragio e nelle successive contingenze, nonché per il nobile ed alto sentimento di fierezza che lo spinse a rifiutare l’aiuto nemico in un istante di pericolo e per l’iniziativa avuta, appena presa terra. Questo giovane ufficiale ha saputo con il suo contegno ispirare fiducia ai suoi marinai, dei quali, ben si vede, s’era fin da prima assicurato l’affetto e la stima. Il sotto-capo cannoniere Ricci Luigi, che nel momento del disastro, non perdendo la calma e la forza d’animo, si adoperò a salvare altri dell’equipaggio inesperti al nuoto, riuscendo nel proprio intento, ecc. ». Per molti giorni e settimane, i radiotelegrafisti delle nostre navi in crociera attraverso l’Adriatico, poterono intercettare le disperate sillabe di richiamo lanciate per le vie dell’aria dalle stazioni telefunken di Durazzo, di Cattaro, di Ragusa, di Sebenico e dagli apparecchi dei bastimenti austriaci alla fonda: Sommergibile «U. 16», rispondete! L’appello radiotelegrafico è rimasto sempre senza risposta.

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Questo racconto, in forma d’articolo, apparve contemporaneamente su molti giornali. A Firenze, provocò una simpatica manifestazione verso i quattro ardimentosi naufraghi e verso la Marina italiana. Un lettore di quella città, il signor Fausto Checcacci. Indirizzò al giornale La Nazione una commossa lettera invitante i fiorentini ad offrire, per sottoscrizione popolare, una medaglia d’oro a ciascuno dei quattro superstiti: il guardiamarina Ignazio Castrogiovanni di Palermo, il sotto-capo cannoniere Luigi Ricci del Forte dei Marmi, il marinaio scelto Salvatore Visalli di Riposto e il fuochista Emanuele Pisano di Pizzo di Calabria. La Nazione raccolse e lanciò la proposta, aprendo una sottoscrizione popolare che in pochi giorni coprì la spesa necessaria per la coniazione delle quattro medaglie. Il Sindaco di Firenze, Orazio Bacci, cuore d’italiano e mente larga di scrittore, volle che il Comune concedesse i suoi coni per ingigliare col segno della città di Dante il premio ai valorosi. E dettò egli stesso il motto da incidersi sul verso delle medaglie: «No! E trionfarono della morte e del nemico».. Il 29 aprile 1917, nel Salone di Leone X in Palazzo Vecchio, presenti i rappresentanti della città, della Marina e dell’Esercito, il Sindaco di Firenze fregiò Ignazio Castrogiovanni e i suoi compagni dei quattro gigli d’oro.

I quattro eroi del mare

Da sinistra: il fuochista Emanuele Pisano di Pizzo Calabro, il guardiamarina Ignazio Castrogiovanni di Palermo, il sottocapo cannoniere Luigi Ricci di Forte dei Marmi e il marinaio scelto Salvatore Visalli di Riposto

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Il Circolo conferisce la “Targa d’argento alla memoria” del marinaio Salvatore Visalli e consegna il Premio al figlio Giacomo “In una oscurissima notte del lontano 1916, durante la prima guerra mondiale, nell’alto Adriatico con mare grosso, una torpediniera italiana ed un sommergibile austriaco si affondano reciprocamente. Nel buio fitto di quella notte una lancia di salvataggio della nave italiana, ma con a bordo una ventina di militari nemici, incrocia 4 naufraghi italiani aggrappati ad un grosso rottame di legno. Gli austriaci si offrono di farli salire sulla sicura imbarcazione; gli italiani rifiutano rischiando la vita pur di non darsi al nemico. Un “no” che valse a ciascuno di loro la medaglia d’oro coniata per pubblica sottoscrizione su proposta del Giornale “La Nazione” di Firenze. Uno dei quattro coraggiosi marinai era il ripostese Salvatore Visalli. La città natale lo ricorda, oggi, con riconoscenza, affetto e stima.” Riposto 4 agosto 2001

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Rosario Contarino

LA ROSA DEI VENTI

Mugghio d’onda di mare sulla riva, mentre il vento rumoreggia intorno, all’orizzonte una nube si fa viva, va verso il Nord... provien da MEZZOGIORNO. Si appresta a imperversare un temporale ed è tanto proclive la natura, si preparan le piante e gli animali a subirne la furia e la ventura. Appare squarcio di cielo al MAESTRALE che sembra pronto a contrastare SCIROCCO, da Nord-Est soffiar senti il GRECALE: vuole impedire al LIBECCIO... fare sbocco. Autorevole si mostra TRAMONTANA, unica donna tra i Venti... e li contrasta, sgombra le nubi e... simpatia emana, con far deciso dice a tutti: “basta!”. Ciascun vento riponga il suo furore, sia il LEVANTE che il PONENTE or tace, fra le intemperie non c’è più rancore: pur la “Rosa dei Venti” è un fior di pace.

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L’UNIVERSITA’ DEL MARE

per “Muoversi meglio per mare”

Ogni anno questo dépliant ci dà l’occasione per riflessioni su alcune problematiche legate all’universo mare. La cultura marinara sconta nel nostro Paese decenni di disinteresse politico. Basti pensare che solo oggi, dopo la sopravvenuta congestione del traffico stradale, il Governo si accorge della convenienza di sfruttare come autostrade le naturali vie d’acqua di mare e fluviali. Siamo anche in forte ritardo, specialmente in Sicilia, nello sfruttamento del potenziale del turismo nautico, mentre la maggior parte dei Paesi Mediterranei ha già conquistato il mercato. Qualche altra volta il Governo è stato sollecito nel legiferare, ma lentissimo nell’applicazione delle norme. Si veda, per esempio, la legge sugli scarichi in mare: la cosiddetta Legge Merlin. Il futuro del nostro mare ci preoccupa molto: alghe killer, coste inquinate da migliaia di tonnellate di rifiuti urbani e industriali quotidianamente scaricati in mare, sfruttamento irrazionale della riserva ittica, emergenze estive che causano svariati incidenti, spesso mortali, connessi con un’utenza balneare e diportistica normalmente inesperta, sono alcuni dei problemi che bisogna tenere sotto controllo. La tutela dell’ambiente marino e la sicurezza in mare fanno parte di una cultura che bisogna coltivare e diffondere. Il mare, quindi, va studiato e salvaguardato per essere poi razionalmente sfruttato nelle sue immense risorse. Questo comporta l’obbligo di valorizzare il patrimonio umano, qualificandone e riorganizzandone la formazione professionale. Non c’è dubbio che le attività legate al mare oggi sono tantissime, difficile da elencarle tutte. Oggi occorrono conoscenze certe e precise su: - le biotecnologie marine per potenziare la qualità e la quantità dell’alimentazione umana che proverrà dal mare; - gli impianti di dissalazione dell’acqua di mare per supplire all’enorme carenza d’acqua potabile; - la necessità di ricorrere a bonifiche marine mediante la corretta

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applicazione di particolari tecnologie; - le applicazioni robotiche dedicate all’esecuzione di lavori in mare e all’esplorazione degli abissi oceanici; - le migliori tecnologie per la pesca marittima, per l’acquicoltura, per l’industria della trasformazione, conservazione e commer-cializzazione dei prodotti ittici; - la nautica da diporto e i porti turistici; - gli impianti di utilizzazione dell’energia (meccanica, termica, eolica) ricavabile dal mare; - la tecnologia che si appresta a dominare lo shipping del terzo millennio; - la costruzione di piattaforme dei giacimenti petroliferi “off-shore”, che si avvale di un elevato standard tecnologico. - ecc. In Italia, già da anni, hanno preso corpo sinergie tra il mondo universitario e quello delle imprese e si siglano accordi su obiettivi di ricerca finalizzata alle tecnologie sopra descritte. Ma oggi sembra più logico che tutte le varie scienze coinvolte nelle diverse attività legate al mare siano comprese in uno specifico corso di laurea. Un tale Corso di studi creerebbe nuove prospettive di lavoro e nuovi profili culturali e professionali idonei per una migliore utilizzazione del mare e aiuterebbe a “Muoversi meglio per mare”. È auspicabile, quindi, che nelle Università delle Città marinare, alla luce del riordino degli ordinamenti universitari, vengano istituite nuove Facoltà di studi dedicate alle Scienze del Mare. La nostra Associazione ha il mare come principale riferimento e motivo d’interesse e si augura che l’Italia, per la sua configurazione tutta sul mare, diventi una nazione dove s’incentivi la cultura del mare e ci si renda conto che la ricchezza, per la rinascita economica, commerciale e turistica, viene dal mare. Gioacchino Copani

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INDICE 1999: 25° Anniversario del Premio Nazionale Artemare ...... 3 XXV Edizione...... 5 XXVI Edizione ...... 6 XXVII Edizione ...... 7 Anna Bartiromo “MARE FORZA PAURA” ...... 11 NECROLOGIO PER UN MARINAIO ...... 13 Firmino Perfetto PROMESSA DI MARINAIO ...... 17 Giovanni Pagano PASSAGGIO DEL CANALE DI SUEZ ...... 21 Giovanni Di Mauro UN MARINAIO RACCONTA ...... 27 Luciano Molin UN EPISODIO DA RICORDARE ...... 35 IN MEMORIA DI ANDREA ROMANELLI ...... 36 Elena La Gioia IL COLORE DEL MARE...... 39 Antonio Riciniello LIBECCIATA ...... 41 Goffredo D’Aste LA PIAZZA DEI NAVIGANTI...... 49 Domenico Pischedda IL NAUFRAGIO ...... 53

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Annapaola De Santis IL MARE CHE IO CONOSCO ...... 61 Vincenzo Galvagno UNA STORIA DI DOLORE ...... 65 Girolamo Melissa UN PALAZZO NEI FONDALI DI ANZIO ...... 85 Amedeo Dall’Asta RACCONTO: LA VIA DEL PETROLIO ...... 93 Angelo Luigi Fornaca LA TIGRE DELLA MALESIA ...... 103 IL PICCOLO AMMIRAGLIO ...... 111 Alfredo Quinto di Corato PER DEI “SOLDINI” IN PIU’ ...... 117 Maurizio Bascià UN UOMO, UN CANE E UNA LANTERNA ...... 119 Antonio Ciccarello LUIGI DURAND DE LA PENNE ...... 125 Marcella Di Franco SCHEDIR ...... 127 Rosario Pennisi QUATTRO EPISODI VISSUTI IN TERRA DI RUSSIA Visita non programmata al museo dell’Hermitage ...... 135 Odessa: Tovaric “BRILLI” E Tovaric “TIMOROSI” ...... 136 Processo per direttissima per Leningrado ...... 138 Leningrado: casto idillio a venti gradi sotto lo zero ...... 140 Franca Grasso GUARDIANO DEL FARO ...... 145

Pagina 206 Comune di Riposto - Provincia di Catania - A.A.P.I.T di Catania Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 12°

Gaetano Alfaro LA CHIAVE...... 157 Laura Piccinelli STORIA DI MARTA E DI MARE ...... 163 Maria Greco 1942: DALL’ABISSO DEI MIEI VENT’ANNI ...... 167 Maria Sandias LO SPLENDORE DEL GIORNO ...... 173 Angela Russo TRA L’ETNA E LO JONIO ...... 181 Norberto Biso OTELLO E IL NOSTROMO ...... 187 Vincenzo Marzullo QUATTRO “FATTI DI BORDO” La razza è razza e un “Osso dalla testa” ...... 191 La ghirlanda ...... 192 Stikkio, il gatto di mare ...... 192 S. O. S. preservativi...... 193 Quattro eroi del mare LA STORIA DI UN «NO» E LA FINE DELL’«U. 16»...... 195 Rosario Contarino LA ROSA DEI VENTI ...... 202 L’UNIVERSITA’ DEL MARE per “Muoversi meglio per mare” ...... 203

Pagina 207 Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto Finito di stampare presso la Tipo-litografia Bracchi di Filiberto Bracchi Via L. Pirandello, 56 - 95014 Giarre CT Tel. 095/931427 Luglio 2003

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