Teresianum 57 (2006/2) 267-334

LA RESURREZIONE DI GESÙ NEI RACCONTI DEI QUATTRO VANGELI

V it o S ib il io (Continua)

I FATTI NARRATI NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

Gli Atti degli Apostoli prolungano la narrazione dei fatti della Pasqua sino alla Pentecoste, da 1,1 a 2,13. Le, nell’intro­ duzione, riprende il filo dei fatti narrati nel Vangelo. Questa parte iniziale degli Atti è redatta volutamente in un greco semi- tizzante, che imita la versione biblica della LXX. Al v. 2 parla di Gesù “anelémfthé, assunto in Cielo", riferendosi al fatto che egli è, in quanto uomo, glorificato da Dio Padre. Riprendendo quanto detto alla fine del Vangelo, Le ne mostra gli aspetti più congruenti col mistero della Chiesa, che sarà l’argomento del libro. Così dice che Gesù, dopo la Resurrezione, fornì agli XI tutte le prove necessarie per ritenerlo realmente risorto, e così fondare la fede della Chiesa, di cui gli Apostoli sono l'embrio­ ne. Puntualizza che Gesù apparve per quaranta giorni, e che li ammaestrò sul Regno di Dio. I temi sono quelli ricordati alla fine del Vangelo, anche se in quella collocazione sottolinea specialmente quelli cristologici, che evidentemente non furono i soli trattati nei quaranta giorni. Il resto degli insegnamenti del Maestro non è riportato: si ricaverà dagli Atti, lungo i quali la predicazione degli Apostoli altro non è che la ripresa della parola di Gesù. Inoltre, tale dottrina era perciò nota ai cristia­ ni, e quindi Le, che non doveva scrivere un catechismo ma una storia delle origini cristiane, la tralascia. Furono realmente quaranta i giorni intercorsi tra Resurrezione e Ascensione? Ritengo che non ci sia alcuna ragione per ritenere che il nume­ ro, senz'altro ad alto contenuto simbolico, non sia tuttavia sto­ ricamente fondato. Individuare un simbolismo non significa negare un valore storico. E non c'è nessuna ragione per crede­ 268 VITO SIBILIO re che Gesù si sia mostrato per un periodo più lungo o minore. Del resto, i quaranta giorni indicano il tempo del suo soggior­ no sulla terra dopo la Resurrezione, non una sequenza ininter­ rotta di apparizioni. Molto probabilmente il grosso di queste visioni didascaliche accaddero nella riparata Galilea, dove i discepoli si andarono a rifugiare secondo l’indicazione del maestro. Qualcosa lì però accadde, perchè essi poi, pronti a tutto, tornarono a Gerusalemme per la predicazione. Il racconto lucano riprende dal v. 4, descrivendo l'ultimo incontro di Gesù con i suoi. Sono appena terminati gli incontri in Galilea, dove gli XI si sono recati per obbedire al comando di Gesù alle Donne. Gesù stesso ha conferito loro il mandato missionario e li ha evidentemente invitati a tornare in Giudea, a Gerusalemme. Qui, quaranta giorni dopo la sua Resurrezio­ ne, egli, mangiando con loro, probabilmente nel cenacolo, dove gli XI risiedevano, o forse nella casa della Madonna - ubi­ cata in Magdalìa, come attestano i documenti più autorevoli e antichi, quelli giudeo-cristiani del II-III sec.1 - riprende il tema della Promessa del Padre, che Le dà per scontata, pur non avendone mai parlato (essa è citata nel Vangelo di Gv, 14, 16.25, 15,23, 16, 7 ss.). Questa promessa verte sullo Spirito Santo, che gli XI devono attendere a Gerusalemme senza par­ tire prima di averlo ricevuto. La frase riportata ai w.4-5 è chia­ ramente un estratto del discorso che Gesù fece ai suoi, di cui un altro frammento Le conserva nel vangelo, in 24,49. Qui sup­ plisce a tutto l’insegnamento che Gesù diede agli XI sullo Spi­ rito. Probabilmente le frasi riunite suonavano così: “Kaì idoù ego exapostélló tèn epanghellian tou Patrós mou ef’humàs, hèn èkoùsaté mou: oti lóànnès mén ebdptisein hudati, humeis dé en pneùmati baptisthèsthe haghió ou metà pollàs tautas heméras. Humeìs dè kathisate en tépóleì, héós hoù endùsesthe ex hùpsous dùnamin. E Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha pro­ messo, (ciò) che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo tra non molti giorni. Ma voi tornate in città, finche non siate rivestiti di potenza dall’alto.” - Questo discorso fu pronunziato da Gesù un pò a tavola e un pò sul monte degli Ulivi, dove condusse i suoi commensali perchè fossero testimoni dell’ascensione. Il luogo

1 Cfr. Sibilio, S u alcuni aspetti della mafiologia medievale, p. 15. LA RESURREZIONE DI GESÙ 269

è consegnato alla storia dai ritrovamenti archeologici sotto­ stanti alla Cappella dell'Ascensione, attualmente esistente. Tra i w. 5 e 6 c'è uno iato narrativo, in quanto Le suppone la vaga collocazione spaziale del v. 50 a. del vangelo. In esso, Gesù conduce gli XI verso Bethania (héós pròs Bèthanian). Solo che, mentre nel vangelo Le si limitava a registrare l’ultimo gesto di Gesù (la benedizione) e l’adorazione dei XII (w. 50b- 51-52), qui riporta l’ultimo colloquio, introdotto dal v. 6a, la cui espressione introduttiva va intesa così: Venutisi a trovare insieme in queste circostanze, ecc. (Oi mèn hoùn sunelthóntes erotón ecc.) Le inserisce negli At i discorsi di Gesù perchè dan­ no inizio all' della Chiesa. Al v. 8 ancora un richiamo allo Spirito Santo. Non c’è dub­ bio che questi passi parlino di cose diverse da quelle della fina­ le di Mt: la diversa collocazione spaziale, la maggiore ampiez­ za del primo vangelo sul tema missionario rilevano la differen­ za con questo versetto degli At, che è solo una ripresa in Giu­ dea di ciò che Gesù aveva già detto in Galilea sul monte. L’ipo­ tesi per cui Mt si concluda con la descrizione dell'ascensione va dunque scartata, tanto più che il vangelo di Mt non finisce con la sparizione di Gesù, ma con un suo breve discorso, e gli At presuppongono un soggiorno galilaico - appunto quello di Mt e Gv - di Gesù prima dell’Ascensione, accaduta in Giudea. D’altro canto, qui negli At Gesù chiede agli XI di essergli testi­ moni fino ai confini della terra. Ma in che cosa consista questa testimonianza, non lo dice. Segno che lo ha spiegato altrove. I contenuti della spiegazione ce li diceva appunto Mt, e Le li conosceva. Egli stesso, nel condensato catechetico del suo van­ gelo, in 24, 45-46, dimostra di saper essere più esauriente all’occorrenza. Non credo che la domanda al v. 6 sia temporalista, ossia che gli XI pensassero che il Regno d’Israele da restaurare fosse quello davidico, altrimenti nei quaranta giorni Gesù non li avrebbe poi istruiti tanto bene, nè si spiegherebbe poi come mai nella loro predicazione essi avrebbero parlato di un regno spirituale. Essi avevano in mente il Regno del Nuovo Israele, quello vaticinato dai profeti, quello escatologico, su cui Gesù li aveva abbondantemente istruiti. Non a caso Gesù risponde dicendo che il Regno sarà ricostituito quando il Padre vorrà, e non che ciò non accadrà mai. È una risposta troppo simile a quella che Gesù dava a chi gli chiedeva della fine del mondo, 270 VITO SIBILIO per non alludere alle stesse cose. Infine, proprio in vista di que­ sta restaurazione, Gesù dà fiducia ai suoi con la promessa del Paráclito, e li invita a lavorare per quel regno in qualità di testi­ moni. Gli At omettono di menzionare la benedizione che Gesù dà, prima di ascendere, nel Vangelo di Le. Questi, nel suo secondo libro, aggiunge però, ad incastro, che Gesù ascese subito dopo che ebbe dette le cose che abbiamo ricordato. For­ se li benedisse mentre parlava. Secondo gli At, Gesù fu coperto da una nube mentre saliva verso il Cielo. Alcuni contestano la storicità di questo dato, con­ siderandolo un espediente retorico legato alla tradizione teolo- gico-letteraria dellAT. Ma non è così. Stiamo ai fatti. L’Ascen­ sione è una particolarissima apparizione di Gesù ai suoi disce­ poli, troppo numerosi per essere suggestionati. È dunque un fatto storico, ma anche trascendente. Gli apostoli devono aver­ lo visto scomparire in un modo. Se lo avessero visto sparire diversamente, perchè si sarebbero sentiti in dovere di parlare di nubi? Evidentemente la videro veramente. La struttura psicolo­ gica dell'uomo è fatta anche di elementi archetipici culturali, e l’idea della nube come velo della di Dio era normale per degli Ebrei. Se Dio voleva far loro intendere che Cristo entrava nella sua gloria, doveva farlo sparire in una nube. Ossia, la per­ cezione psichica ha strutture culturali che costituiscono le coordinate dei fenomeni parapsicologici, non perchè questi sia­ no falsi, ma perchè siano intellegibili. L'episodio degli angeli e del loro colloquio con gli XI (w. 10-11) esige qualche puntualizzazione. Evidentemente Gesù saliva sempre più, e in quel momento apparvero due uomini, che però sono chiaramente angeli come al Sepolcro. Essi non compaiono, si presentano: gli XI erano tanto immersi nella contemplazione celeste da non vederli apparire. Il loro mes­ saggio richiama agli XI la necessità di una attesa nella speran­ za e ci parla del compimento della Resurrezione: la parousia. Non bisogna guardare il Cielo, come se Gesù fosse irraggiungi­ bile: di là tornerà, un giorno. Queste parole sono un’ulteriore conferma del senso spirituale delle parole di Gesù ai w. 7-8 e della domanda degli XI al v. 6. Va notato che nelle parole degli angeli, il termine “cielo" (eis tò ouranòn) ritorna tre volte. È un’espediente stilistico rozzo, che però è voluto: ricorda il modo di scrivere delle parti più antiche della Bibbia. Siamo LA RESURREZIONE DI GESÙ 271

infatti nel contesto di una teofania, esattamente come nella Genesi o nell’Esodo. Con gli angeli, si chiude, com'era iniziato, il ciclo della Resurrezione. L’annuncio del risveglio è portato dai messi cele­ sti, come quello della parousia. Alcuni hanno dubitato della reale comparizione angelica, per demitizzare e deretoricizzare il racconto dell’Ascensione. Faccio notare che aggiungere un episodio complementare come l’angelofania conclusiva non muta di tanto il quadro degli eventi pasquali. Credere che sia problematico aver fede in angeli, dopo aver parlato di morti che risorgono, rende ridicoli gli esegeti moderni, così come sarebbe stato ridicolo Le se avesse prima narrato la Resurre­ zione e poi avesse "abbellito” il fatto con gli effetti speciali.. Finito il racconto, con una tecnica già adoperata per Le 24, 1-12, l'autore sacro indica i protagonisti. Infatti nessun sogget­ to è stato indicato dall'inizio degli Atti, dopo la menzione gene­ rica degli apostoli. Ma siccome il v. 4 degli A t, cap. 1, si ricon­ nette ai w. 49-53 del cap. 24 del Vangelo, in senso narrativo, e che essi si ri connettono allo stesso modo ai w. 36-48, ecco che i personaggi di At 1, 13, sono i soggetti di tutto quanto è rac­ contato da Le 24,36 fino a At 1, 12. L’espressione “salirono al piano superiore dove abitavano” (eis tò huperóon anébèsan hoù esan kataménontes) significa che si ritirarono nel piano rialza­ to dove avevano dimora (quello che oggi è il Cenacolo) e lì rimasero per quel periodo; così si giustifica il v. 14 che ne descrive le attività e la compagnia, informazioni che fanno infatti da corollario a quella che ci dice dove vivevamo. In que­ sto periodo essi erano assidui nella preghiera, e con loro lo era­ no alcune Donne, la Madonna e i “fratelli" (adelfoi) di Gesù. Naturalmente, questi non stavano nel piano rialzato, che altri­ menti sarebbe stato troppo pieno...La Madonna, come diceva­ mo, aveva casa a Gerusalemme. Al v. 12 si specifica in quale punto, tra Gerusalemme e Beta- nia, Gesù ascese, appunto il Monte degli Ulivi, distante da Sion quanto “il cammino permesso in un sabato" (sabbàtou èkhon hodón). È un riferimento difficile per un pubblico pagano. Ma si giustifica per la cornice semitizzante che Le dà al racconto. Al v. 13, troviamo l’espressione Giuda di Giacomo, ìoudas Iakóbou. Questo ci porta alla questione dei fratelli di Gesù. Abbiamo questi dati: Giacomo il Minore era detto figlio di Alfeo (v. 13). Tuttavia, in Me 15, 40 si parla di una Maria, madre di 272 VITO SIBILIO

Giacomo il Minore e di Joses. La stessa donna toma in Mt 27, 56 e Le 24, 10. Sia Me che Mt, tuttavia, avevano fatto i nomi dei due suddetti fratelli del Signore (Me 6, 3; Mt 13, 55). Cosicché Maria è identificata come madre degli unici due Giacomo e Ioses già citati. Marco cita Ioses tre volte, senza mai cambiare la grafia (p. es. Iosef, come invece fa per Giuseppe d'Arimatea). Questo prova che lo Ioses di 6, 3 è lo stesso di 15, 40. Ciò iden­ tifica rigorosamente due fratelli del Signore (Giacomo il Mino­ re e Ioses) con i figli di una Maria distinta dalla Madonna. Pos­ siamo identificare Giacomo il Minore con Giacomo d’Alfeo? Questi è citato in tutti gli elenchi che i sinottici fanno degli apo­ stoli. In Mt e in Me l’elenco precede la prima menzione di Gia­ como e di Ioses. Anche in Me è così. Strìcto sensu, nulla identi­ fica l'Apostolo col fratello del Signore. Tuttavia, lato sensu, con­ siderando che la prima menzione di Giacomo è fatta col patro­ nimico, sarebbe logico supporre che la successiva menzione sia sempre dello stesso, senza alcuna identificazione perchè ben nota a chi leggeva, in quanto l’autore sacro aveva già fornito la paternità nell’elenco degli apostoli. Viceversa parrebbe strano che gli Evangelisti citassero i fratelli di Gesù senza fornire alcu­ na indicazione sulla loro origine familiare, per poi darla all’im- prowiso alla fine dei loro scritti, fornendo il nome della madre di due di loro. Comunque sia, se Mt e Me non hanno dato il nome del padre dei fratelli di Gesù, lo hanno fatto o perchè il pubblico lo conosceva, o perchè l’avevano già fatto nell’elenco dei XII. Nel primo caso c’è dipendenza dalla tradizione orale, nel secondo coerenza interna. Se però Mt e Me supponevano di aver già dato il patronimico dei fratelli di Gesù nell’elenco dei XII, ne conseguono due cose: la prima è che Alfeo fosse il padre di tutti i fratelli di Gesù, la seconda che sin dalla prima menzio­ ne di Giacomo di Alfeo essi dessero per scontato che la sua parentela con Gesù fosse nota al pubblico. Ciò appare piuttosto nebuloso, e la discussione è aperta. Tuttavia non è necessario che, quand’anche Giacomo di Alfeo fosse fratello di Gesù, anche gli altri fratelli del Signore fossero figli di Alfeo. Un solo dato emerge chiaro: è possibile che Giacomo di Alfeo sia Giaco­ mo figlio di Maria, perché il primo sintagma serve ad identifi­ care il figlio, il secondo la madre. In Luca, poi, noi abbiamo l’espressione “Maria di Giacomo", adoperata anche in Mt e Me. Ora l’unico Giacomo che aveva indicato nel suo racconto e che quindi poteva essere figlio di Maria era l'apostolo, indicato LA RESURREZIONE DI GESÙ 273

come figlio di Alfeo. In ogni caso nulla osterebbe all’identifica­ zione. Se dunque nulla osta, noi diremo che è assai presumibi­ le che Giacomo di Alfeo e Giacomo fratello del Signore siano la stessa persona, come suggerisce la tradizione paolina, che infatti espressamente dice (Gal 1, 19): “Héteron dè tdn apostólòn ouk eidon, ei me Iàkobon tòn adelfòn toü Kupiou. Degli apostoli non ho visto nessun altro eccetto Giacomo il fratello del Signore. " Giacomo di Alfeo è dunque il fratello del Signore. Luca ha cita­ to Maria di Giacomo identificandola con l’Apostolo, Mt e Me hanno citato Maria di Giacomo e di loses, avendo già già indi­ cato il padre di entrambi menzionando Giacomo come figlio di Alfeo nell’elenco dei XII. Possiamo a questo punto dire che Giu­ da di Giacomo, citato nell'elenco apostolico degli At, è suo fra­ tello, o dobbiamo ritenere che sia un patronimico? Cosa possia­ mo dire in proposito? Me e Mt lo chiamano Taddeo, e non lo ricordano se non subito dopo Giacomo di Alfeo, come se tra i due ci fosse un rapporto (anche se in altri casi, come Giacomo il Maggiore e Giovanni, tale rapporto è menzionato esplicita­ mente). In Le lo si chiama pure Giuda di Giacomo. Nella lette­ ra che porta il suo nome egli si firma Giuda fratello di Giacomo - evidentemente di Alfeo. Ora, ha senso che Giuda, fratello di Gesù, si firmasse fratello di Giacomo? In effetti, se Giacomo è fratello di Gesù, lo dovrebbe essere - ai fini del riconoscimento - pure Giuda. Ma siccome l'unico Giacomo conosciuto di cui Giuda potesse essere fratello è proprio quello di Alfeo, allora bisogna ammettere che Giuda stesso preferisse firmarsi così piuttosto che “fratello di Gesù”. Può darsi che questo dipenda da un uso consuetudinario della comunità cristiana e del colle­ gio apostolico, preesistente agli stessi vangeli. In questa pro­ spettiva, Giacomo è il “fratello” più importante, perché nella triade maggiore degli apostoli, e gli altri sono fratelli suoi più che di Gesù, a cui furono meno vicini. D’altro canto, Giuda non è mai detto “figlio di Maria”, anche perché citato secondaria­ mente nell’elenco dei presunti figli della donna. Dico presunti, perché lo storico Egesippo (II secolo) ci dice che Simone, altro "fratello” di Gesù, era figlio di Cleofa, fratello di San Giuseppe, e sposato con urialtra Maria2. Ora, nell'elenco di Me, Giuda è terzo dopo Giacomo e loses, seguito da Simone, per cui

2 Citato in Eusebio, Hist. Eccl.,TLI, 11-32. 274 VITO SIBILIO potremmo credere che i primi tre avessero tutti lo stesso padre (Alfeo), tranne l’ultimo; ma in Mt Giuda è quarto, dopo Simo- ne, per cui potrebbe benissimo non essere figlio di Alfeo. A que­ sto punto, nulla vieterebbe di sdoppiare il Giuda apostolo "di Giacomo”, da intendersi persino come patronimico, dal Giuda “fratello di Giacomo" e quindi di Gesù. Questo sdoppiamento sarebbe in linea con l’espressione "e i fratelli di lui, adelfoi hau- tou” riferito ai fratelli di Cristo in aggiunta agli apostoli (At 1, 14), per cui essi non sarebbero tra gli XI. Ma attenzione: questi fratelli non sono, come abbiamo visto, figli né di Giuseppe - come qualche storico antico credeva - né tantomeno di Maria madre di Cristo. Hanno un padre - Alfeo o Cleofa - e una madre - due Marie - che evidentemente sono parenti di Giusep­ pe - fratelli - o anche di Maria - Gv allude alla sorella di lei nel racconto della Passione, che potrebbe essere Maria di Giaco­ mo, ossia la moglie di Alfeo - per cui il termine fratello è un aramaismo, comprensibile in Le per la patina semitizzante dei primi capitoli degli At, e anche negli altri autori evangelici, ebrei di nascita. Essi - e Le in particolare - conoscono il termi­ ne greco per cugino, ma adoperano adelfós (fratello) perché condizionati dagli epiteti della Chiesa giudeo-cristiana. Epiteti tanto più vincolanti, se consideriamo il ruolo di primo piano dei parenti di Cristo nella comunità primordiale. A questi si riferisce At 1, 14 aggiungendoli agli apostoli. In questo senso va letto anche “Giuda (fratello) di Giacomo": erano cugini, perché avevano padri diversi, ma il termine semitico rimane quello. E i ruoli nella Chiesa condizionano gli identificativi: Giacomo è il più importante dopo la morte di Gesù e la sua resurrezione, e s’identifica o col patronimico o con la fraternità col fondatore. Gli altri invece contano meno, e sono identificati in relazione a lui (Giuda) o con altre apposizioni (Simone lo Zelota). A questo punto, possiamo dire che Giuda di Giacomo è Giuda fratello di Giacomo sono la stessa persona3. Quando, al v. 15, si dice “in quei giorni” (en tais emérais tautais), s’intende nel periodo che va dall’Ascensione alla Pen­ tecoste, e l'espressione “si alzò in mezzo ai fratelli” (avastàs ev

3 Sull’arg. cfr. S. de Fiores, Vergine, in S. de F iores - S. M eo, N u ovo Dizionario di Mariologia, Milano 1986, pp. 1450-1452, con bibl. alle pp. 1469-1476. LA RESURREZIONE DI GESÙ 275

mésa tön adelfön) indica che Pietro presiedette un’assemblea (tanto che ci si affretta a puntualizzarne il numero di parteci­ panti), ben distinta dal gruppo dei w. 13-14, ben più esiguo. Il discorso riportato è senz'altro autentico. Pietro era ancora vivo quando gli At furono pubblicati, e inoltre lo stile arcaico, semi­ tico, e gli stessi contenuti, assai antichi, depongono a favore di una sostanziale autenticità. D'altro canto, i discorsi di Gesù erano probabilmente stenografati dai discepoli, com'era prassi anche presso alcune scuole rabbiniche, e l'uso dovette conser­ varsi per i discorsi di Pietro, suo successore designato. Proba­ bilmente, il greco semitico di Le fu parlato dallo stesso Pietro. Egli veniva da una regione ellenizzata, la Galilea. Aveva un fra­ tello, Andrea, dal nome greco. Molti apostoli avevano nomi greci, come Filippo, Simone il Cananeo e lo stesso Simon-Pie- tro, o Bartolomeo. Non è dunque da escludere che conoscesse­ ro un greco, magari stentato. Del resto, a Gerusalemme vigeva il bilinguismo, come attestano le iscrizioni del tempio e lo stes­ so cartello di condanna della croce, che era in tre lingue addi­ rittura. Nulla di cui meravigliarsi se vedessimo Pietro espri­ mersi in greco. Ai w. 18-19 si descrive la morte di Giuda. Il racconto è in contrasto con quanto dice Matteo su due punti: 1. La morte del traditore; 2. L’acquisto deìYAkeldamà. Per il primo punto, è giusto partire da una semplicissima constatazione: l’uso del verbo greco “impiccarsi" (apenxato) in Mt è improprio, in quanto molto probabilmente esso rende un equivalente ebrai­ co dallo spettro semantico più ampio di quello greco e italiano. La traduzione letterale è senz’altro "impiccarsi", ma il senso di Mt - senso della sua mente ebraica - è quello di “uccidersi vio­ lentemente”, come suggerisce la radice htb, la stessa di hitab- dut, suicidio, e esprimibile con un riflessivo intensivo in ebrai­ co, ma non in greco, che non ha questa forma verbale. Pesava su Mt tra l’altro il precedente della LXX, che descriveva il sui­ cidio dell'altro grande traditore della Bibbia e unico suicida dell’AT, Achitòfel, descritto nel Secondo Libro di Samuele, anche se il verbo adoperato è diverso. Infine, Mt non si dilunga sulle modalità del suicidio del traditore, perché gl’interessa parlare della profezia sul Campo del Vasaio, per cui la sua ter­ minologia può essere volutamente generica. Le invece negli At la descrive minutamente. Per il secondo punto, abbiamo qual­ che difficoltà. Se seguissimo in modo preciso la logica storici­ 276 VITO SIBILIO stica, dovremmo ritenere più credibile la versione di Mt, per­ ché più antico, ebreo e perché scrisse a Gerusalemme o nei dintorni. Ma Le aveva tutti i mezzi per appurarla. E allora bisogna supporre che Mt e Le parlano di due diversi “campi di sangue". Uno è quello per la sepoltura degli stranieri, uno l’Akeldamà del suicidio di Giuda. Avrebbe mai potuto questi infatti comprare un campo tanto grande da farci un cimitero pagano, solo per suicidarsi ? Evidentemente no. Ma come mai due campi hanno lo stesso toponimo? In verità, l'unico campo di sangue è quello del suicidio di Giuda, in quanto è di esso che Le, tramite Pietro, dice che fu chiamato così dai Gerosolimita­ ni, te idia dialéktd, nel loro dialetto (segno che Pietro parlava in greco). Invece, Mt, riportando la dizione "campo di sangue", non dice che essa era stata forgiata dai gerosolimitani, ma solo che era in uso fino ai tempi suoi, evidentemente tra i cristiani. Furono essi a chiamare così il campo del vasaio, non riferen­ dosi al suicidio di Giuda, ossia al sangue del traditore, ma alla morte di Cristo, il cui sangue era stato venduto per trenta denari, quella somma che non fu rimessa nel tesoro perché prezzo di sangue. Quest’espressione è greca, non aramaica o ebraica, perché di tutti i cristiani. Invece i gerosolimitani chia­ marono campo del sangue il campo del suicidio riferito al san­ gue di Giuda e non di Cristo. Non potevano certo chiamare akeldamà il cimitero pagano! Ma se i sacerdoti comprarono il campo del vasaio con i trenta denari, con che soldi Giuda comprò il suo campo? Che Giuda abbia restituito i soldi ai sacerdoti è innegabile. Infine, appare strano che uno, prima di suicidarsi, vada a comprare un campo, con tutti gli adempimenti burocratici connessi, ritardando così la morte. Non solo, ma che bisogno c'è di suici­ darsi in un campo scosceso di proprietà privata? Evidente­ mente, l’acquisto fu fatto prima della passione, con i proventi della disonestà di Giuda, che faceva la cresta sulla cassa - come dice Gv. Infatti, At parla dei proventi “tes adikias", ossia dell'ingiustizia, intesa come indole, difetto stabile. Non dun­ que i trenta argenti, ma i soldi già rubati. La riunione dei Centoventi non avvenne nel cenacolo, trop­ po piccolo per ospitarli tutti, ma in un altro luogo imprecisato, forse aH'aperto, sicuramente non fuori Gerusalemme, perché Gesù aveva vietato di lasciarla. Forse fu sul Monte degli Ulivi. L’espressione di 2, 1, “homou epì tò auto, nello stesso luo­ LA RESURREZIONE DI GESÙ 277 go”, indica il Cenacolo, ossia il luogo solito delle riunioni dei XII e dei personaggi di 1, 13-14. Con la Pentecoste si chiude la pasqua, e infatti inizia una nuova sezione narrativa. Il brano 2, 1-13 è narrato, come quelli della Pasqua in Mt e Me, in forma veloce: essa è introdotta dall’avverbio “improvvisamente" (dfnó). Le non descrive l’uscita dei XII all’aperto, ma dice che la folla si raduna per sentirli. Non si riporta cosa gli apostoli dissero, ma si dà un elenco dei popoli presenti. Non si dice che gli XI si fermarono e si sedettero, ma si afferma (v. 14) che ad un certo punto Pietro e gli altri si alzarono in piedi. Il discorso di Pietro è a mio giudizio autentico: si conservò probabilmen­ te per stenografia o nella memoria, almeno a sommi capi. Lo dimostra il modo di citare la scrittura, a braccio (con inserzio­ ni improprie nei versetti, come “and, in alto " o “kató, in basso” nella citazione di Gioele 3,1-5), l'uso di incisi oratori, la cristo­ logia assai arcaica (Gesù è più servo che Figlio di Dio) e la dizione impropria di patriarca attribuita a David, che non avrebbe avuto ragione di essere in un testo scritto se non era contenuta in una fonte preesistente e vincolante come il primo discorso del principe degli apostoli. La visione di Saulo, che ne segnò la conversione, è senz'al­ tro l’ultima grande visione del Risorto. Le la descrive in tre occasioni diverse, dando particolari diversi per i suoi scopi (9, 1-29; 22, 3-21; 26, 9-20). In esse, Gesù è sentito improvvisa­ mente da un gruppetto di persecutori e visto dal loro capo. Anche questa è un'esperienza parapsicologica psicanalitica­ mente inspiegabile, peraltro anche per via dell’accecamento di Paolo. Nella terza versione della visione, data da Paolo ai Romani, Gesù cita o almeno allude a Euripide, Baccanti v.795, e a Eschilo, Agamennone w.1623-1624, Prometeo v.325 ( “duro è per te recalcitrare contro il pungolo", sklérón soi pròs kéntra laktizein). È l'unico caso noto di una traduzione aramaica - perché in quella lingua Gesù parlò a Paolo - di una citazione sia pur libera di una o più tragedie greche.

LA RESURREZIONE SECONDO GIOVANNI

Il vangelo secondo Giovanni è l’ultimo della sacra quadri­ ga. Scritto dall'apostolo prediletto intomo agli anni 90 del I sec., è il vangelo outsider. Sulla sua datazione non ci sono con­ 278 VITO SIBILIO tenziosi particolarmente accesi, anche se qualcuno oggi vor­ rebbe farla risalire al 40-65, ma la testimonianza della tradizio­ ne e il contenuto teologico del testo mi spingono a credere che la collocazione cronologica giusta sia quella tradizionale, indi­ pendentemente da possibili stratificazioni compositive del testo4. Quando ad Efeso l'Anziano, già autore dell’Apocalisse,

4 D. Sayers, ReacLing's in thè St. John’s Gospel: Introduction; cfr. la monografia del Robinson, The Priority o f John, London, SCM Press, 1985.1 due frammenti papiracei Egerton 2 e Rylands 52, provenienti dal­ l’Egitto, oltre ad aver dimostrato inaccettabili le datazioni tardive propo­ ste da alcuni nel XIX secolo - ripetute ancora dal Loisy negli anni ’30 del XX secolo - ci confermano l’ipotesi tradizionale che la redazione risalga all’ultimo decennio del I secolo. Anche se l’identità di Giovanni è dibattu­ ta da alcuni, Ireneo e Clemente Alessandrino dicono che l’Apostolo visse ad Efeso dal 96 fino ai primi anni dell’impero di Traiano (98-117), con­ fermando da questo punto di vista i dati precedenti (Adversus Haereses 11,25,5: "Rimase tra loro fino all’epoca di Traiano”; 111,3,4: "La Chiesa di Efeso, che Paolo fondò e in cui Giovanni rimase fino all'epoca di Traia­ no’’..; Quis dives salvetur XLII,2: "Dopo la morte del tiranno [Domiziano, nel 96, n.d.r.], Giovanni ritornò a Efeso dall’isola di Patmos”). Concorda anche la testimonianza di Policrate di Efeso, che in una lettera a papa Vittore (189-198) ricorda che «è in Asia che riposano i grandi astri: [...] Filippo, uno dei dodici apostoli [...] e ancora Giovanni, che ha riposato sul petto del Signore, che è stato sacerdote [...] Costui riposa ad Efeso (citato in Eusebio, Historìa Ecclesiastica V, 24, 2-3)». Policrate testimo­ nia anche l'esistenza della sua tomba ad Efeso. Per la regione in cui fu composto il Vangelo, la tradizione indica Efeso in Asia Minore; alcuni studiosi hanno proposto invece la Siria. Il primo teste certo sulla pater­ nità del IV vangelo è Ireneo di Lione, che verso il 180 scrive: «Giovanni, il discepolo del Signore, colui che riposò sul suo petto (Gv. 13,3), ha pub­ blicato anche lui un Vangelo mentre dimorava ad Efeso in Asia» (Adver­ sus Haereses III, 1, ed. A. Rousseau - L. Doutreleau, Paris, 1974). Secon­ do Eusebio, che riporta questa notizia, Ireneo si basava sulle testimo­ nianze di Policarpo di Smirne (morto nel 155), che aveva conosciuto l’apostolo Giovanni. Ciò ci è anche confermato da Ireneo stesso nella sua lettera a Fiorino, dove ricorda il suo incontro con Policarpo, che «rac­ contava della sua dimestichezza con Giovanni e con le altre persone che avevano visto il Signore» (Historìa Ecclesiastica V,20,4). Ireneo inoltre afferma che Policarpo fu eletto vescovo di Smirne dagli apostoli, e Ter­ tulliano asserisce più precisamente che egli fu fatto vescovo proprio da Giovanni. Clemente Alessandrino aggiunge: «Quanto a Giovanni, l’ulti­ mo, vedendo che le cose corporali erano state esposte nei Vangeli, spinto dai discepoli e ispirato divinamente dallo Spirito, fece un vangelo spiri­ tuale (citato in Eusebio, Historìa ecclesiastica, VI, 14, 7)”. LA RESURREZIONE DI GESÙ 279 prese la penna per scrivere il suo vangelo e la lettera che gli faceva da introduzione - la prima - il quadro degli eventi suc­ cessivi alla morte di Gesù era stato già consegnato alla storia in modo completo dai sinottici. Essi erano partiti, nel costrui­ re i loro racconti, dalla manifestazione degli angeli al sepolcro, e dal messaggio che essi, per divino mandato, avevano riferito alle Donne, in quanto questi due fatti apparivano loro - e real­ mente lo erano - la prima, vera dimostrazione della Resurre­ zione di Gesù, quasi la sua proclamazione ufficiale. Via via che gli autori sacri si erano allontanati nel tempo dai fatti storici che dovevano raccontare, si erano anche sforzati di fornire una ricostruzione più precisa ed esauriente, più estesa e detta­ gliata. Cosicché tra il 90 e il 100 tutti i cristiani sapevano cos’era successo al sepolcro: Mt 16, 1-4 e Le 24, 3-5 fornivano i dettagli sul viaggio delle Donne al monumento funebre e sul loro ingresso al suo interno, completando reciprocamente le omissioni dovute alla forma veloce; Mt 28, 5-7 e Me 16, 6-7 riportavano il messaggio angelico, mentre Le 24, 5-7 aggiunge­ va le parti del discorso che gli altri due evangelisti avevano omesso perchè superflue; Mt 28, 8-10 ricordava l’apparizione di Gesù stesso alle medesime donne, mentre Le 24, 9-11 con­ cludeva la vicenda con la scettica reazione dei XII Apostoli; specularmente, Mt 28, 2-4.11-15 narrava ciò che le Donne non avevano potuto vedere. La singolare coincidenza, come un vero incastro, delle parti dei Sinottici, e la sapiente alternanza della forma veloce nelle singole sezioni narrative da un evange­ lista all’altro è la prova più evidente della reciproca conoscen­ za dei tre, ma anche del fatto che essi supponevano lo stesso pubblico e, in esso, una conoscenza preliminare dei fatti nar­ rati indipendente dai testi medesimi. A fare da pendant a que­ sto evento centrale, cerano le varie apparizioni, il cui sunto più efficace ci è dato dalla finale di Marco, ma che san Luca ci riferisce più vivacemente. E così a Me 16,12-13 corrisponde Le 24, 13-35, e il racconto di Me 16, 14 è ampliato in Le 24, 36-43. Dopo l'apparizione agli XI, Mt 28, 16-20 supponeva almeno un'altra apparizione, mentre At 1, 1-3 specificava che ce ne furono parecchie in quaranta giorni, e Le 24, 44-49, assieme a Me 16, 15-18 fornivano i temi dei Discorsi di Gesù. Infine Le 24, 50-53 tracciava i contorni dell'Ascensione assieme a Me 16,19, per poi definire l'evento nei particolari in At 1, 4-14. Ampliando Me 16, 20, At 1, 15- 2, 41 forniva infine la narrazio­ 280 VITO SIBILIO

ne della Pentecoste. In questo susseguirsi di racconti, il fedele cristiano del I sec. che non avesse mai conosciuto Gesù, poteva trovare tutte le informazioni necessarie sull’evento più impor­ tante della sua vita, cioè la sua Resurrezione. Di Gesù c'erano diverse apparizioni il giorno di Pasqua e molte altre per qua­ ranta giorni, fino all'Ascensione. I racconti dei tre erano diver­ si ma mai discordanti, ed esaurivano tutti i temi a cui avevano messo mano. Per questo Gv preferì raccontare cose che nessu­ no aveva riferito, o che erano state dette incidentalmente, volendo fornire non un quadro d’insieme, ma particolari atti a completare quel mosaico che già gli altri avevano composto. Ciò accadeva con facilità, in quanto egli, testimone oculare, poteva attingere a un repertorio di racconti che non solo Me e Le, ma neppure Mt, sebbene apostolo, potevano avere. Infatti l'Apostolo prediletto inizia proprio a lavorare con l'obiettivo di rispondere alle domande che gli altri evangelisti avevano lasciato senza risposta. Prima tra tutte, una che attanaglia ancora i posteri: come potevano le Donne andare ad imbalsa­ mare Gesù a tre giorni dalla morte? Sappiamo bene che questa era infatti l’intenzione delle Donne nell’andare al sepolcro, in quanto Le e Me ce lo riferiscono. Sicuramente, se le Donne si recarono ad imbalsamare il Corpo di Gesù dopo tre giorni, lo fecero col fondato convincimento che tale operazione era fatti­ bile. È proprio Gv a dirci il motivo di tale convinzione: Gesù, dopo la deposizione dalla Croce, aveva già ricevuto un'imbal­ samazione sommaria. Tale imbalsamazione era avvenuta alla sera del venerdì santo. Leggiamo infatti che (19,40) Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende e in oli aromatici, secondo l’usanza giudaica. Quali fossero questi oli aromatici, era stato detto poco prima: aloe e mirra. Tale mistura serviva ad evitare la decomposizione del corpo da imbalsamare. La quantità di olio profumato, pari a circa 32 kg odierni, lascia presumere che Nicodemo dovette illudersi di poter fare in tempo ad imbalsamare Gesù. Tuttavia noi abbiamo la certezza che ciò non avvenne: l’imbalsamazio­ ne, infatti, era un rito molto laborioso, e non potè compiersi nel tempo esiguo che fu a disposizione dei due pietosi discepo­ li. Già dai sinottici, infatti, sappiamo che Giuseppe d’Arimatea andò da Pilato verso sera, cosicché, quando Gesù fu deposto dalla Croce “kaì sdbbaton epéfósken, già splendevano le luci del sabato”, come dice Le 23,54, ossia i fuochi che preparavano LA RESURREZIONE DI GESÙ 281

all’imminente tramonto. Gv non fece alcun riferimento all’ora­ rio nel suo racconto della deposizione, ma dalla sua nota con­ clusiva, e dalla frase che introduce il racconto della lanciata al costato, si deduce che anch’egli colloca al vespro del venerdì santo la vicenda narrata. Infatti egli dice che, essendo la para- sceve, i giudei si preoccupavano che i corpi non rimanessero in croce durante il sabato. Ora, tale preoccupazione ha un senso solo se il sabato era imminente, ossia che il tramonto era incombente. Tuttavia, si potrebbe credere che, a causa del loro legalismo, i sinedriti si muovessero con molto anticipo. E però, la nota conclusiva del racconto della deposizione è esplicita (19,42): “Ekeì oun dia tèn paraskeuèn tón Ioudaion, hóti enghiùs én tò mnèmeion, éthèkan tòn Ièsoun, là deposero il cor­ po di Gesù a motivo della preparazione dei Giudei, perchè quel sepolcro era vicino ". Ora, non esisteva alcun obbligo di astener­ si dal lavoro e quindi di non percorrere distanze superiori ad una certa misura per la Parasceve. Tale divieto iniziava dal Sabato. Ciò vuol dire che Gesù fu messo nel sepolcro quando il sole era già tramontato, come dicevano i sinottici. Cosicché l’espressione "a motivo della Preparazione” va intesa in modo discorsivo, come ripresa di quella menzionata prima, in cui si faceva intendere che la Preparazione andava terminando. S’impone una precisazione: se Giuseppe d'Arimatea e Nicode- mo si recarono a deporre il Cristo dalla Croce a pomeriggio inoltrato, come poterono sperare di fare in tempo ad imbalsa­ marlo? In realtà, noi possiamo anche concedere - a livello ipo­ tetico - che i due criptodiscepoli di Gesù si siano recati dal governatore per tempo, ossia al primo balenare del tramonto. Tuttavia la tradizione sinottica c'informa che Pilato fece chia­ mare il centurione per sapere come e quando Gesù fosse mor­ to, e questo fece perdere tempo prezioso. A questo va aggiunto il normale tempo che se ne andava in un'operazione delicata come la deposizione di un corpo dal patibolo. Non bisogna cadere poi in un grossolano errore, e cioè in quello di credere che Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo siano andati insieme da Pilato. Ciò implicherebbe, infatti, che Nicodemo, rendendosi conto del tempo che si andava perdendo al pretorio, rinuncias­ se all’idea di portare con sé ben cento libbre di mirra e aloe, e si accontentasse di una più esigua quantità di materiale, suffi­ ciente per un procedimento sommario. Invece, Gv 19, 38b.d- 39a.c-40ab - con gli altri tre evangelisti - dice che “Ióséfho apò 282 VITO SIBILIO

Arimathaias... hiva ape tò sòma toù Iesoù, kai epétrepsen ho Pilàtos. Élthen oùn kaì èren tò sòma autoù. Èlthen dè kaì Nikódemos..féròn migma..hòs litras hekatón. Élabon oùn tò sòma tou Iesoù kaì édesan autò othoviois metà tòn aròmatòn. Giuseppe di Arìmatea...chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodemo e portò una mistura..di circa 100 lib­ bre. Essi allora presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici.” Fu dunque solo Giuseppe ad andare al pretorio, mentre con Nicodemo andarono solo a prendere il corpo di Gesù, ossia sul Calvario, evidentemente secondo un precedente accordo. È infatti arguibile che i due si trovassero sul Golgota, in quanto è piuttosto ridicolo immaginarsi Nico­ demo andare da casa sua al pretorio, e poi da questo al Calva­ rio, con 32 chili di mistura aromatica dietro. E anche - com'è logico - se immaginiamo che fosse accompagnato da qualche servo, o che dividesse con Giuseppe d’Arimatea il peso del tra­ sporto è sempre buffo immaginarsi i due sinedriti che si porta­ no dietro gli oli fin dentro al pretorio per poi trasportarli sul monte Calvario. Ordunque, però, se Nicodemo non andò con Giuseppe, non vide che il tempo a disposizione, a causa delle lungaggini di Pilato, si assottigliava, e quindi non si rese conto che tutto il materiale portato non sarebbe stato utile. Aspettò sul Calvario l’arrivo dell'amico. Tuttavia Gv non fa cenno alcu­ no al fatto che l’imbalsamazione non fu terminata, cosicché a rigor di termini noi non possiamo evincerlo dal testo. Solo la comparazione con la sinossi ci autorizza a farlo. Ma allora domandiamoci: questa comparazione è lecita ? Andiamo per gradi : sia la sinossi che il IV vangelo hanno un racconto, quel­ lo della deposizione di Gesù, che presenta il medesimo sche­ ma, in cui Giuseppe di Arimatea va da Pilato e ne ottiene il per­ messo per deporre il corpo di Gesù; si reca poi sul Golgota, compie il suo pietoso ufficio, compone la venerata salma nel sepolcro, e se ne va. La comunanza di questi elementi ci rassi­ cura sulla storicità degli eventi. Ora, esistono particolari degli uni - i sinottici - che contrastano con quelli dell’altro, ossia Gv? Ossia, esistono elementi che permettono di considerare falsa e inquinata la testimonianza dell’uno o dell’altro filone narrativo? E se si, quale dei due è falso? Per rispondere dob­ biamo leggere i passi e vedere se ci sono cose che si escludono a vicenda. Il primo da cui partire è Matteo 27,57-61. Egli, che LA RESURREZIONE DI GESÙ 283 scrisse per primo, ci dice che Giuseppe entrò in scena quando si faceva sera. Egli si presentò a Pilato, chiese e ottenne il cor­ po di Gesù, salì al calvario, depose il Cristo, e lo avvolse in un lenzuolo bianco. Indi, lo adagiò nel suo sepolcro nuovo - met­ tere la salma di un condannato a morte in una tomba con altri defunti avrebbe profanato questi ultimi - chiuse l’entrata e se ne andò. A tutto questo assistettero le Pie Donne. Marco scris­ se poi nel suo vangelo (15,42-47) che Giuseppe, quando sopraggiunse la sera, poiché era parasceve - ossia poiché incombeva l'obbligo del riposo - si fece coraggio e andò da Pilato per compiere il suo dovere di discepoli: farsi dare il cor­ po di Gesù e seppellirlo. È Me 15, 44-45 a dirci ciò che Mt e Le tacciono, ossia che “Ho dè Pilàtos ethaùmasen, ei ed è téthneken, kaì proskalesdmenos tòn kenturìóna eperotesen autóri, ei palai apétasen; kaì ghnoùs apò toù kenturìónos edòrèsato tò ptóma tó Iósef. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il cen­ turione, lo interrogò se fosse morto da tempo. Informato dal cen­ turione, concesse la salma a Giuseppe”. La narrazione procede poi tranquilla, senza riservarci sorprese: Giuseppe, comprato - evidentemente prima - un lenzuolo, calò Gesù dalla Croce e lo avvolse in esso, per poi seppellirlo in un sepolcro scavato nella roccia. A tutto questo assistettero le Donne. Le 23,50-55 non si scosta dal tracciato, tanto che non vale la pena di fame il sun­ to. Tuttavia annota al v. 54: “"kaì heméra m paraskeués, kaì sàb- baton epéfósken, era il giorno della parasceve e già splendevano le luci del sabato”. Queirimperfetto alla fine del racconto indica che le luci erano state visibili per tutto il tempo in cui Giusep­ pe aveva agito, dalla deposizione in poi. Praticamente Le indi­ ca ciò che Mt e Me avevano detto più sobriamente: Giuseppe corse contro il tempo. La piccola inchiesta di Pilato attardò ulteriormente le procedure. In cosa differisce questo quadro da quello di Gv ? Pratica- mente in nulla, perchè egli si limita ad aggiungere due partico­ lari: il ruolo di Nicodemo e l’uso di bende, più preciso rispetto al generico lenzuolo, sul corpo aromatizzato secondo l’uso giu­ daico. Gv non accenna allo scorrere inesorabile del tempo, se non alla fine, quando parla del sepolcro. Praticamente Gv fa intendere che i due discepoli dovettero affrettare le loro azioni alla fine, mentre prima forse avevano indugiato un pò. Que­ st’annotazione fa il paio con quella di Le, per cui i sinottici e Gv non hanno divergenze. 284 VITO SIBILIO

Ma se i racconti della deposizione non differiscono e non si possono smentire a vicenda, come mai troviamo solo in Gv la menzione dell’imbalsamazione dei discepoli, e come mai non si parla della missione delle donne allo stesso scopo? In realtà, neppure Mt sembra parlare di imbalsamazione da parte delle Donne, e anzi non cita nessun procedimento analogo, quasi suggerendo che il corpo fosse abbandonato a se stesso, in contrasto con la genuina pietà giudaica. Ma come abbiamo visto il verbo theórèsai (28, lb) indica un esame accurato che, per metonimia, può essere stato riferito al sepolcro e non alla salma venerata. Me e Le invece precisano che le Donne anda­ rono a imbalsamare Gesù. Tuttavia appare ridicolo - a noi che non imbalsamiamo più i morti - che un simile rito si facesse a tre giorni dal decesso; evidentemente, lo sembrava ancor di più a quei tempi, per cui appare logico supporre che la sepoltu­ ra citata da Le e Me implicasse anche l'imbalsamazione, som­ maria e incompleta, per giustificare l'azione delle Donne. Non la citano, perchè incompleta. La presuppongono, perchè necessaria. Gv non ha dunque potuto raccontare ciò che tac­ ciono i sinottici ? E se i sinottici avevano sottaciuto l'opera di Giuseppe e Nicodemo, per enfatizzare quella delle Donne, Gv non avrebbe potuto fare il contrario? Non solo, ma se riflettia­ mo sulle fasi del rituale funerario, abbiamo: l’avvolgimento in bende e l'unzione in Gv e l'avvolgimento nel lenzuolo dei sinot­ tici. Ora, quali fasi sono ovvie nel rituale giudaico? evidente­ mente la bendatura e l’aromatizzazione. Quando Lazzaro risorge, esce bendato dal tumulo. E allora perchè i sinottici parlano solo del lenzuolo? Perchè il suo acquisto è un gesto particolare di pietà per il defunto. Dunque gli altri sono dati per scontati. Non a caso Le dice che Pietro, recatosi in visita al sepolcro, vide solo le bende (24,12), che pur non aveva nomi­ nato (23,53). Gv, che scrive dopo la diaspora, quando ormai alcune usanze giudaiche andavano perdute, e quando ormai pochi ricordavano il ruolo di Giuseppe e Nicodemo, aggiunge esplicitamente il dettaglio, omette sul momento di parlare del lenzuolo e cita espressamente bende e sudario poco più avanti, quando Pietro va al sepolcro (20,6-8)- episodio comune a Le, per cui i due vangeli attingevano alle stesse fonti. Del resto, Gv è un testimone privilegiato, che parla di ciò che vide, essendo rimasto fino all'ultimo sul Calvario. Anche le Donne, che in Le 23,55 assistettero alla sepoltura di Gesù, evidentemente veden- LA RESURREZIONE DI GESÙ 285 do che il rito di unzione non era completo, concepirono il dise­ gno di ritornarvi personalmente, come attesta lo stesso Le 23,56. Vale la pena di evidenziare che Gv 20,7a, dicendo dopo che il sudario era stato posto sul capo di Gesù, ci fa capire che esso aveva avvolto il corpo in verticale e non orizzontalmente, essendo tali lini più lunghi che larghi. Ma veniamo ora ai rac­ conti giovannei direttamente concernenti la Resurrezione (20,1-21,25). In 20, 1-18, Gv racconta come la Maddalena visitò il sepol­ cro e vide il Risorto. È l'apparizione citata nella finale di Me. Gv non narra la visita delle Donne, secondo una specifica scel­ ta stilistica: egli integra e supporta gli altri tre, sempre. Mt, Me (considerato senza la finale) e Le non hanno parlato della Maddalena, e lui non parla delle Donne, come non parla di nessun altro evento pasquale riferito dagli altri tre. Del resto, egli non ha nessun miracolo in comune coi Sinottici, nè discorsi, nè un vangelo dell'infanzia; anche nella lunga parte sull'ultima Cena, non parla dell’istituzione dell’eucarestia. Tan­ to è certo della sua funzione integrativa. La Maddalena in Gv 20, lb va al sepolcro "próì skotìas éti oùses, di buon mattino, quand’era ancora buio". L'orario coinci­ de con quello dei sinottici, che tra l'altro danno Maria con le altre donne. Non si può dunque credere che la Maddalena andasse sola, nè che tornasse dopo aver visto gli angeli, da sola e prima delle altre: non avrebbe detto (v. 2b): “Èran tòn Kurion ek tou mnemeiou, kaì ouk oidamen pou. éthekan autón. Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno posto". Come mai allora Gv la fa andare da sola ? Forse che la Madda­ lena precedette di poco le altre, constatò che il tumulo era vuo­ to, lasciò le amiche sopraggiunte e tornò dagli apostoli, mentre gli angeli apparivano in sua assenza ? Tanto varrebbe dedurre che se ne sarebbero dovute andare tutte: che facevano alcune donnette sole in una tomba profanata da un misterioso furto ? Meglio è ricordare che Mt e Me usano la forma veloce, quindi possono aver riassorbito nel loro denso racconto l'allontana­ mento della Maddalena, non appena ella ebbe vista la pietra rotolata. La reazione emotiva è coerente col personaggio, che probabilmente neanche entrò, e che da “capogruppo", si assunse spontaneamente l’onere di avvisare gli XI. Mt usa una forma velocissima ed ellittica proprio quando dovrebbe parla­ re del fatto in questione; Me ha versetti più piani proprio in 286 VITO SIBILIO corrispondenza deH’arrivo al sepolcro, ma ben centrati sul­ l’azione del gruppo, per cui può ragionevolmente aver trala­ sciato l’allontanamento di una donna. Non a caso, la Finale lo integra, e non solo in questo. Inoltre, se Maria si allontanò dopo essere entrata nel sepolcro - e non all’ingresso come sem­ bra suggerire Gv - questo gesto potrebbe ricadere nella descri­ zione veloce dell'angelofania, e quindi essere omesso. Appare logico immaginare che la donna sia entrata nel tumulo, per vedere che cosa fosse accaduto al corpo di Cristo. Crea un imbarazzo maggiore il silenzio di Le, ma la particolare costru­ zione del brano nel suo vangelo giustifica l’omissione. Infatti, egli menziona una per una le donne solo alla fine del racconto della Resurrezione, attribuendo loro genericamente tutte le azioni susseguitesi dalla sepoltura di Gesù in poi. La Maddale­ na, citata alla fine, come chiunque altra, avrebbe potuto benis­ simo partecipare solo ad alcune delle azioni e non a tutte. Ma, se Me adoperò la forma veloce e non ci dice che la Maddalena entrò nel sepolcro, allora anche Gv adopera la forma veloce: perchè non ci dice che Maria entrò, ma solo che “blèpei, vide” la pietra rotolata (v. 1). Questa affermazione ha dei riscontri ? È evidente che i w. 3-9 sono scritti con ricchezza di dettaglio. Se c'è una forma veloce si colloca nei w. 1-2. Paradossalmente, proprio il silenzio circa la presenza di altre donne - con tutte le omissioni che comporta - depone a favore della forma veloce. Del resto, l’elemento fondamentale di ogni forma veloce, e cioè l’omissione di un passaggio logico secondario nel racconto, qui c’è! Si dice infatti (v. lb) che la Maddalena “blèpei tòn lithon erménon ek toù mnèmeiou; vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro”. In base a ciò ella si ritiene in dovere di correre deli discepoli per dire che il corpo non c’è più! Ebbene, chiunque vada a far visita ad un mausoleo e lo scopra aperto, prima di dire che dentro non c’è il corpo del defunto, vi deve almeno entrare! Dunque la Maddalena entrò, ma Gv non lo dice, per lo stile ricalcato su quello di Mt e Me. Del resto, quan­ do al v. 2b dice agli apostoli Pietro e Giovanni al plurale “kaì ouk oidamen poù éthékan autóri; non sappiamo dove l'hanno posto”, suppone di aver fatto la ricerca non da sola, ma con altre, sebbene non menzionate! Abbiamo individuato l’omis­ sione di un secondo passaggio logico minore: quello delle Don­ ne con Maria di Magdala, presenti perchè non citate. La forma è talmente veloce che non riporta i dettagli, ma al tempo stesso LA RESURREZIONE DI GESÙ 287

cronachistica, perchè riporta le parole della protagonista così come le disse. I presenti storici (si recò, vide, corse, disse sono in realtà un “si reca, vede, corre, dice: érkhetai, hlépei, trékhei, léghei”, ecc.) suggeriscono l'istantaneità delle azioni ed equi­ valgono a degli aoristi. L'atmosfera è chiaramente trafelata, e c'è motivo di credere che il colloquio con gli apostoli sia stato più lungo di quanto riportato. Anche il v. 3 è dunque velocizza­ to. Del resto, Gv non dice dove la Maddalena andò a trovare i discepoli, e questa omissione di luogo è tipica della forma rapi­ da. Probabilmente fu nel cenacolo, dove c'erano evidentemen­ te anche gli altri XI, che però non vengono nominati per il soli­ to motivo. È importante puntualizzare che, dal v. 4 in poi, “mvèmeion, sepolcro" va inteso in senso stretto, come “camera mortuaria", secondo l'uso degli scrittori attici. Gv giunge per primo sulla soglia. Se infatti fosse arrivato solo all’ingresso del vestibolo, guardando dentro non avrebbe potuto vedere le bende, che erano nella camera mortuaria. Simon Pietro entrò per primo nella camera e vide quello che poi anche Gv vide, che però lo descrive come se lo vedesse con gli occhi di Pietro. La forma è assai lenta (w. 4-7): “proédramen tdkhion, corse più veloce”, “èlthen protos, giunse per primo”, “parakùpsas, chinatosi", “ou méntoi eiselthen, ma non entrò", “akolouthòn auto, lo seguiva”, “tà othonia keimena, le bende per terra”, “tò soudàrion, khoris entetulighménon eis héna tópon, il sudario piegato in un luogo a parte" - cioè in un angolo della nicchia. Questi particolari, descritti in modo visivo, quasi contemplativo, tradiscono un testimone oculare in colui che scrive. Al v. 8, l'altro discepolo “epìsteusen, credette" alle parole della donna, e non alla Resur­ rezione, come spiega al v. 9. Ciò che i discepoli si dissero dopo questa stupefacente visita, fatta in un silenzio assoluto, non ha importanza: essi non avevano capito che Gesù era risorto. Per questo Gv non nomina nemmeno lo stupore di Pietro ricorda­ to da Le. Gv dice ai w. 9-10 “apèlthon oun pàlin pròs heautoùs oi mathetai, intanto se ne tornarono di nuovo a casa", ossia, mentre pensavano a tante vane ipotesi, non avendo ancora compreso “hóti dei autòn ek nekrón anastenai, che egli doveva risuscitare dai morti", invece di lasciare Gerusalemme, gli apo­ stoli continuavano a rimanere insieme. Evidentemente la pau­ ra del sinedrio e le pendenze del gruppo in disfacimento li tenevano ancora uniti. Senza parlare poi dell'obbligo del ripo­ 288 VITO SIBILIO so pasquale, che vietava viaggi lunghi - e gli apostoli erano quasi tutti della Galilea. Molti poi dovevano essersi radicati in Sion. Infatti il clan della Madre di Gesù era di origine gerosoli­ mitana - la domus Mariae, casa natale della Vergine risalente al I sec. e già da allora adattata a luogo di culto, è sotto l’attua­ le basilica di Sant'Anna - e aveva proprie tradizioni religiose, legate alla Piscina di Betesdà, il cui culto iatrico salomonico fu poi da loro in parte cristianizzato per gli ebrei convertiti. Gv, legato a Maria, e i "fratelli" di Gesù, erano dunque incardinati nella città5. Dal v. 11 al v. 18 è ancora adoperata la forma veloce, inter­ rotta evidentemente solo dai ricordi del testimone oculare nonché protagonista dei w. 3-8. Gv omette i discorsi che sicu­ ramente Pietro e Giovanni fecero con la Maddalena, per farla venir via. In ogni caso, quel v. 11 si riconnette ai w. 6-8: la Maddalena “stava", ossia rimase “all'estemo, vicino al sepolcro" (heistekei pròs tó mnemeió éxó), ossia nel vestibolo, e “piange­ va” (klaiousa), ossia pianse per tutto il tempo in cui i discepoli fecero ciò che è descritto ai w. 4-8. Probabilmente la donna arrivò dopo Pietro, ma Gv non lo dice. Ancora, su di lei, grava la forma veloce. L'omissione dei particolari ancora suggerisce le fasi convulse della vicenda da lei vissuta. Così la struttura di 20,1-18 è ad anello: due sezioni (w. 1-2; 11-18) tematico-stili- stiche, in cui è protagonista la Maddalena e che sono narrate velocemente, e una sezione centrale (9-10) disomogenea, in cui protagonisti sono i discepoli, con la narrazione lenta, ossia con l’indugiare su ciò che è stato visto dai testimoni oculari. Il v. 3 fa da trapasso: afferisce al tema della sezione centrale, ma è scritto nella forma della prima sezione; lo stesso dicasi dei w. 9-10. Sono come una nicchia di cronaca che l’autore si ricava nella conformità stilistica del racconto, la particolarità, l’uni­ cum di esso, che non può ovviamente caricarsi dei sottintesi della forma veloce, i passaggi visti coi propri occhi, che l’auto­ re considera cuore del passaggio da comunicare attraverso lo scritto: la tomba vuota e la posizione delle bende, infatti, sarebbero bastati a fondare la fede nel Risorto, anche se i discepoli non capirono.

5 Cfr. la trattazione di Sibilio, S u alcuni aspetti della mariohgia medievale. LA RESURREZIONE DI GESÙ 289

Maria, quando rimase sola vicino al sepolcro, pianse a lun­ go. Piangendo, si chinò verso il sepolcro, ossia si sporse verso la porta e le scale che conducevano nella camera sepolcrale. Evidentemente la Maddalena piangeva appoggiata alla parete, e poi, in un momento di particolare commozione, dev'essersi accoccolata a terra e si deve essere piegata in basso, lungo la parete dell'arco che sovrasta gli scalini che conducono nella camera sepolcrale, abbassata rispetto al vestibolo, e deve aver distintamente visto la nicchia sepolcrale. Presso la nicchia scorse subito due angeli disposti agli estremi: ci accorgiamo di essere nella solita forma affrettata perchè la Maddalena non riporta alcuna espressione di stupore o venerazione per i due suoi celesti visitatori, anzi entra subito nel colloquio (v. 13); evidentemente, poi, la Maddalena deve aver avvertito una pre­ senza alle sue spalle, e distogliendosi dal celeste colloquio, si girò e vide quello che scambiò per il giardiniere. Evidentemen­ te, dopo aver visto il giardiniere, Maria dev’essersi girata nuo­ vamente verso gli angeli, forse per vedere come l’uno e gli altri reagissero alla presenza reciproca, o solo per non abbandona­ re due esseri celesti per un uomo; ma Gv non lo dice. Altrettan­ to evidentemente, deve aver constatato la sparizione degli spi­ riti, visto che non sono più citati, ma anche questo è omesso. Si trapassa invece dal breve colloquio con gli angeli di Maria al dialogo tra lei e Cristo. Inoltre, dopo, aver pronunziato le paro­ le del v. 15, Maria si dev’essere rigirata verso il sepolcro, altri- mente Gv non scriverebbe al v. 16 “strafeisa, voltatasi verso di lui". Anzi, dalle parole di Gesù “Me mou hàptou, non mi tratte­ nere”, se ne deduce che la Maddalena (v. 17) si era slanciata verso il Maestro per abbracciarlo. Al v. 18 il racconto dell'appa­ rizione è interrotto bruscamente: dando per scontato lo spari­ re di Gesù, l'avverbio "subito" della traduzione italiana espri­ me lo slancio degli ultimi istanti, quando Maria, scomparso Cristo, lascia il sepolcro per obbedirgli. Gv usa il presente sto­ rico, con la sua carica di immediatezza: érkhetai. In quanto poi alla reazione degli apostoli all’annunzio di Maria, Gv non dice nulla: probabilmente si rifaceva a Me che aveva già ricordato la loro incredulità. Bella la puntualizzazione: “Léghei auto ebraisti: rhabbouni, hò léghetai didàskale. Gli disse in ebraico: - Rabbunì! - che significa: Maestro!" Ora, perchè un autore greco con un pubbli­ co ellenofono sente il bisogno di evidenziare ciò che Maria dis­ 290 VITO SIBILIO se in ebraico? Forse per il significato ? Ma rabbunì è più solen­ ne di rabbi, e significa propriamente maestro mio. Quindi Gv non dà la traduzione esatta, ma la parola in sè. Perchè? Forse perchè i due parlarono in aramaico. O perchè parlarono in gre­ co, o in un greco dialettale, semitizzato. In effetti, in questo caso avrebbe senso ancor di più citare una parola ebraica, che scaturirebbe dal cuore. Ciò però supporrebbe che almeno una parte del pubblico di Gv sapesse e supponesse che Gesù cono­ scesse il greco e lo parlasse. Maria era una galilea, e poteva saperlo. Ma anche Gesù lo era. Che a Gerusalemme poi si par­ lasse greco, lo sappiamo - come ho già detto - dalle iscrizioni del tempio e dall’insegna sulla croce di Cristo stesso, e anche da altri indizi. Chi scriverebbe in greco, se nessuno lo potesse leggere e parlare?6 Ricostruiamo - così da riannodare le fila del nostro discor­ so - gli eventi della mattina di pasqua. Le Donne radunano i mezzi per imbalsamare Cristo e si accingono a partire per il sepolcro. Contemporaneamente le guardie di Pilato sono mes­ se fuori gioco dall'angelofania. Mentre esse sono tramortite, e le donne per strada, Gesù risorge - senza testimoni. Le guardie rinvengono e rientrano in città. Le Donne arrivano, probabil­ mente da un’altra strada, e vedono il sepolcro aperto, in cui Gesù non c'è più. Fatta questa constatazione, la Maddalena corre ad annunziare la misteriosa traslazione ai discepoli. Mentre lei è via, i due angeli si mostrano alle altre Donne. Que­ ste lasciano in fretta il sepolcro, ma non tornano subito dagli apostoli. Nel frattempo giungono Pietro e Giovanni; compiuta la visita, tornano increduli indietro, mentre la Maddalena rimane, e vede prima gli angeli e poi Cristo. Nel frattempo le Donne hanno comunicato agli XI la visione degli angeli. Ma gli XI non ci credono. Subito dopo i Due di Emmaus partono. Dopo arriva la Maddalena, ma non credono neanche alle sue visioni. Ritornano le Donne, che hanno visto anch’esse Cristo, ma neanche sono credute da tutti. Il gruppo continua a sfilac­ ciarsi. Pietro si allontana, probabilmente di pomeriggio. E vede Cristo. Toma indietro e lo racconta. I discepoli sono per­ suasi, ma gli apostoli no. Arrivano i Due di Emmaus, e raccon­ tano la loro esperienza. Ma gli XI sono sempre increduli. Solo la sera Gesù si manifesterà loro.

6 Sulla questione cfr. Thiede, Il papiro, pp. 171-181. LA RESURREZIONE DI GESÙ 291

Gv riprende il suo racconto la sera appunto (v.19). Ciò che aveva da aggiungere sui fatti del sepolcro, lo ha scritto. Ora passa ad aggiungere dettagli sulla cristofania del Cenacolo, integrando Me e Le. Gv, testimone oculare, racconta ciò che lo colpì: Gesù entrò a porte chiuse. Disse: “Eirène humin, Pace a voi!". È il saluto anche in Le 24,36, che narra tutto ciò che Gesù fece per convincere i suoi di non essere un fantasma (w.37-49). Gv 20, 20b dà tutto per presupposto e, in una forma che s'incastra con quella di Le, comunica il risultato delle dimostrazioni di Gesù: “Ekharesan oun oi mathètaì idóntes tòn Kurìon. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore”. L’unica pro­ va ricordata è la prima che Gesù esibisce: le mani e il costato. Il pranzo è omesso. Omessi i rimproveri agli increduli. Gv ha a cuore di evidenziare il messaggio del Risorto (w. 21-23), che poi disparve. L’evangelista comunica con un eloquente silenzio il più enigmatico potere del Cristo risuscitato: la capacità di materializzarsi e smaterializzarsi a piacimento. Inoltre Gv racconta il celeberrimo episodio di Tommaso, assai significativo. Questi, rientrato nel gruppo nei giorni suc­ cessivi, ascoltò il racconto dei condiscepoli, e non vi credette. Gesù rispose alla sua incredulità con un’apparizione simile alla prima. Commentare adeguatamente la delicatezza dello stile di Gv in queste pagine frutto della sua esperienza è vera­ mente arduo. Gesù ripete gli stessi gesti di Pasqua, e Gv li nar­ ra con le stesse parole (w. 19-26): il Maestro ha replicato tutto, ma per una sola persona, e infatti il trapasso è immediato: dopo aver augurato la pace a tutti, si volge al solo Tommaso, dicendogli con un tono di rimprovero addolcito da condiscen­ denza: “fére tòn dàktulón sou hóde kaì ide tàs kheiràs mou, hai fére tèn kheìrà sou kaì bàie eis tèn pleuràn mou, kaì me ghinou àpistos allà pistós. Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato, e non essere più incredulo, ma credente!". Il tono si fa via via più sostenuto, come sottolinea l’interpunzione, e Tommaso risponde, confuso e meravigliato, pentito e felice: “Ho Kùriós mou kaì ho Theós mou! Mio Signore e mio D io!’’. In una pagina di così intensa commozione, è probabile che a Gv sia sfuggito di evidenziare che Tommaso s'inginocchiò. In effetti, il contesto è sufficiente- mente espressivo per indicarlo senza profferire parola. E Gesù parla ancora a lui, dicendo però parole che sarebbero valse per chi, nei secoli, le avrebbero lette e sentite: “Hóti heórakàs me, 292 VITO SIBILIO pepísteukas; makárioi oi me idontes kai pisteúsantes. Perchè hai veduto, hai creduto. Beati quelli, che pur non avendo visto, cre­ deranno!". E disparve. A chi crede che un simile episodio sia un'aggiunta tardiva, maturata in ambiente pagano, quando ormai la rottura tra Sinagoga e Chiesa si era compiuta, vale la pena di far notare l’arcaico impianto semitico della visione: Gesù si mostra, ma sottolinea il primato dell'ascolto della parola. È l’ascolto che dà la fede, non la visione. Mentre la cultura greca, da Platone in poi, contempla la verità nella visione iperuranica delle idee - la cui radice è Id, che indica appunto il vedere - quella giu- daico-cristiana sottolinea la necessità di udire la parola di Dio e del suo intermediario: il profeta, il messia e l’apostolo. Il discredito che Gesù getta sulla prova visiva sembra quasi con­ traddittoriamente ribaltare il valore probante della sua stessa apparizione, valida per convincere umanamente, ma non per suscitare meritoriamente la fede. Facendo una nuova sinossi, diremo che Me condensa le apparizioni agli XI nella sua breve finale, Le raggruppa le visioni successive alla pasqua nelle note sui quaranta giorni, e solo Gv, delicato e sensibile, ci ha conservato questa splendida visione secondaria, dedicata ad un solo apostolo. E con essa Gv crede bene di dover chiudere il vangelo. In effetti, nessuna chiusura poteva essere migliore, non volendo l'autore dilun­ garsi su fatti già raccontati da Le. Sarà probabilmente sempre un mistero il motivo per cui nessun evangelista - e tantomeno Gv - ha sentito il bisogno di armonizzare espilcitamente i racconti della resurrezione. Se è fuor di dubbio che ognuno completa simmetricamente l’altro, è altrettanto vero che nessuno riprende il precedente in modo esplicito, citandolo. Questa cosa può dipendere dalla forte relazione con la tradizione orale, che colma le lacune con la catechesi; ma ciò implica anche la sfiducia profonda nel testo stesso, non concepito per essere autonomo, nè per durare nei secoli. Scomparsa la generazione apostolica, emersero le diffi­ coltà interpretative, rese ancor più difficili dalla sacralizzazio­ ne dei testi. Gli interventi di armonizzazione si giocarono ai margini della generazione degli scrittori (cfr. la Finale di Mar­ co), e la loro scomparsa li lasciò incompleti. L’armonizzazione tra Gv e i Sinottici per i fatti del sepolcro è sicuramente la più difficile: ma va scartata sia l’ipotesi di una indipendenza dei LA RESURREZIONE DI GESÙ 293 testi, smentita dai rimandi interni degli altri passi del Quarto Vangelo ai suoi predecessori, sia quella di una oscurità voluta, che non avrebbe senso in un'operazione di falsificazione, e che invece dipende dalla scelta della forma veloce che obbligato­ riamente i Vangeli adoperano per i fatti del sepolcro. Questa scelta - su cui abbiamo detto qualcosa qua e là - non aiutava i lettori di secoli successivi a capire cosa successe a Gerusalem­ me in quei giorni, ma certo riprendeva sia la consapevolezza stilistica dell'importanza dell'evento, invalsa sin dalla stesura del Vangelo di Mt, sia probabilmente l'effetto della predicazione orale, deliberatamente veloce, densa e emozio­ nante, evidentemente decisa tra i XII e che Gv, che appartene­ va a quel gruppo, volle conservare sino alla vecchiaia, mentre Me la riprese da Pietro e Le, che l’attutisce molto, la conservò appunto per fedeltà ai modelli. La forma veloce infatti suggeri­ sce il passaggio rapido del Cristo dalla morte alla vita, dei discepoli dalla tenebra alla luce, e il trionfo subitaneo di Dio, il suo irrompere nella storia in modo repentino e drastico. Si potrebbe credere che tale stile è ripreso dai Quattro Evangeli da fonti preeesistenti, per cui essi non avrebbero conosciuto direttamente i fatti, nè li avrebbero ricostruiti essi stessi; ma il fatto che ognuno aggiunga episodi della Resurrezione in uno stile non veloce (Mt il rapporto delle guardie, Le i Due di Emmaus, Gv l’apparizione in Galilea) dimostra che gli autori attingevano ad ampie conoscenze per diversificarsi e che quin­ di ripetevano il racconto affrettato dei fatti del Sepolcro per convenzione. Come e perchè Gv abbia deciso di aggiungere il cap. 21 rimane un mistero. Forse fu aggiunto dai suoi discepoli per giustificare il fatto che l’apostolo, nonostante tutto, fosse mor­ to, mentre in molti credevano che fosse immortale. La nega­ zione dell'immortalità di Gv, fatta risalire all’interpretazione delle parole di Gesù nel cap. 21, 23 - “exélthen oùn houtos ho lògos eis toùs adelfoùs hóti ho mathètes ekeinos ouk apothnèskei; ouk eipen dè auto ho Ièsous hóti ouk apothnèskei, all’eàn autòn théló ménein héos érkhomai, ti pròs sé? Si diffuse la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Ma Gesù, non dis­ se che non sarebbe morto, ma: Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?” - serviva anche a mantenere viva la fede nel Ritorno di Cristo, che sembrava smentito dalla morte del discepolo prediletto. Gesù non aveva vincolato il suo ritor­ 294 VITO SIBILIO no alla vita di Gv, quindi si poteva ancora attenderlo. D'altro canto, se gli ultimi versetti sono sicuramente usciti dalla penna dei discepoli di Gv, come del resto si legge esplicitamente (v. 24 b: “hai oidamen hóti alèthès autou è marturìa estin, e noi sappia­ mo che la sua testimonianza è vera", fa chiaramente intendere che i redattori sono più d’uno, e persone distinte da Gv appena nominato), è anche vero che il v. 25, che chiude il Vangelo, ha il soggetto al singolare, per cui il narratore sembra essere tor­ nato uno solo. Vero è che per forza di cose l’estensore del cap. 21 doveva essere uno solo, e quindi qui avrebbe parlato in quanto autore mentre al versetto precedente avrebbe presenta­ to la testimonianza collettiva della comunità per convalidare il suo racconto. Ma lo stile del cap. 21 è di Gv. La ripetizione del concetto di 20, 30-31 in 21, 25 è di Gv, che ama tornare su cose dette per chiarirle (basti leggere la sua prima lettera). La pre­ occupazione di puntualizzare che il Vangelo non esaurisce tut­ ti i fatti di Gesù è di Gv in quanto testimone apostolico. Per cui forse egli stesso aggiunse l’appendice al suo vangelo, e i suoi discepoli aggiunsero solo il v. 23 e il v. 24 b, mentre il v. 24 a è una firma perifrastica, in terza persona. Addirittura potrebbe Gv stesso aver puntualizzato che Gesù non gli aveva promesso l’immortalità, per non lasciare disorientati i suoi discepoli con la sua imminente dipartita, e 24 b potrebbe essere stato inseri­ to per suo volere, affinchè questa aggiunta, evidentemente tar­ diva, fosse riconosciuta autentica anche dopo la sua morte dal­ la testimonianza della sua Chiesa locale. Una cosa è certa: il racconto è troppo lungo per avere l'unico fine di smentire l’im­ mortalità di Gv. Dobbiamo molto al Quarto Evangelo per questo capitolo. Il suo stile soave è la trama sottile ed elegante che unisce insie­ me le parti di quest’ultimo, significativo racconto. L’occhio del testimone è sempre presente e ci restituisce particolari affatto secondari, fondendoli però in un racconto mai lezioso o pedante, ma al contrario pervaso nei suoi aspetti più minuti di raro senso poetico. È di sicuro il più letterariamente riuscito dei passi evangelici sulla Resurrezione, accanto a quello luca­ no dei Due di Emmaus. Ma questo di Gv vibra di più. Esso ver­ te sulla terza apparizione di Gesù ai suoi. Si riallaccia a quan­ to Egli aveva fatto promettere agli XI dalle Donne in Mt 28, lOb: " Hiva apélthósin eis ten Galilaian kakei me ópsontai, che vadano in Galilea e là mi vedranno". Gv presuppone Mt 28,16, LA RESURREZIONE DI GESÙ 295

che a sua volta lasciava intendere che in Galilea erano accadu­ te più apparizioni ( “eis tò òros hoù etàxato autoìs, il monte che aveva loro fissato” presuppone un incontro anteriore) non rac­ contate da nessun vangelo. Praticamente tutto il ciclo dei Qua­ ranta Giorni di Le si svolse in Galilea e terminò con la visione sul Monte descritta da Mt alla fine del suo vangelo. Ora Gv ci racconta la visione che aprì i Quaranta Giorni. Il fatto che la visione abbia creato l'opinione dell'immortalità di Gv fa inten­ dere che essa era arcinota prima ancora di essere scritta. Il rac­ conto inizia con l’elenco dei presenti (v. 2): ancora una volta troppi per essere vittime di una suggestione, che peraltro non avrebbe nessun tratto d'isterismo, essendo legata ad atti pro­ saici come il lavoro o il pranzare, come del resto le visioni del Cenacolo e di Emmaus. I discepoli erano andati probabilmen­ te a Cafarnao, dove avevano risieduto con Gesù, che aveva ordinato di recarsi in Galilea senza specificare dove. Al momento deH’apparizione, erano giunti o erano presenti solo cinque apostoli e due discepoli. Era sera (v. 3 d). Gv ci restitui­ sce l'atmosfera carica di attesa dubbiosa e un pò ansiosa, alle spalle delle parole recise pronunziate. È Pietro che lancia l’idea di andare a pescare. Probabilmente gli apostoli avevano ripre­ so il loro mestiere. “Exélthon oùn kaì enéhesan ei tò ploion, kaì ev eheine te nuktì epiasan oudén. Allora uscirono (evidentemen­ te di casa o dal molo) e salirono sulla barca ecc.” Ma la notte passò senza nulla prendere. A questo punto l' di malinco­ nia titubante è rotta da un viandante, che i discepoli non rico­ noscono - come i Due di Emmaus - e che, ormai all’alba, con linguaggio da pellegrino grida chiedendo del cibo. Alla rispo­ sta negativa dei discepoli, motivata dalla cattiva pesca, il vian­ dante risponde indicando dove gettare le reti. Questo partico­ lare secondario prepara il capovolgimento: i discepoli, finora troppo incerti per essere considerati uomini di fede, forse per­ sino un pò rudi con lo sconosciuto, seguono il consiglio supi­ namente e pescano a lato. L'esito miracoloso e istantaneo apre loro gli occhi: il v. 6 b tradisce emozione e stupore. Giovanni è il primo a capire e dice a chi come lui amava Cristo al v. 7: “Ho Kypiós estin! È il Signore!’’. Non ci sono parole per esprimere la vividezza dei w. 7-8: Pietro si getta in acqua senza indossare il camiciotto ma solo cingendolo: è un gesto istintivo e dettato dall'emozione; gli altri si attardano a trascinare la pesca lenta­ mente, a causa del peso, nonostante la breve distanza dalla 296 VITO SIBILIO riva, scrupolosamente segnata dall'autore testimone, assieme al numero dei pesci. Gv rimane in barca, e descrive i suoi ricor­ di. Lo ha colpito il gesto di Pietro. Egli, che pescava in maglia (“ghymnós, nudo"), normalmente sarebbe tornato in barca. Lì avrebbe ripreso dal fondo della barca il camiciotto, asciutto, e lo avrebbe indossato, per camminare decorosamente. Preso dalla foga, Pietro, che non vuole andare a terra “nudo”, dimen­ tica tuttavia che, gettandosi in acqua con il vestito, lo bagnerà tutto. Pensa a sbrigarsi, e non lo indossa, limitandosi a cinger­ lo, ma dimentica che in ogni caso lo bagnerà. Qui il filo dei fat­ ti si spezza perchè appunto Gv rimane in barca. Una volta a riva, rivede Gesù che prepara la brace. Evidentemente erano approdati non al porto. La patina con cui Gv riveste il raccon­ to è di una sottile ma accorata commozione: colui che aveva chiamato Signore cucina con premura. Tutti tacciono. Pietro è pronto agli ordini del maestro. La rete non si spezza. È una cronaca giornalistica. Ma anche un'esperienza di fede. Gv 21,12b annota che nessuno chiese al viandante “Sù tis et? Chi sei?”, perchè sapevano che era Gesù. Segno che il suo aspetto, a Cafarnao come a Emmaus e al Sepolcro davanti alla Madda­ lena, è misteriosamente cambiato. Mentre nel Cenacolo era comparso uguale, come alle Donne. Questa fenomenologia parapsicologica è ancora una volta ben lungi dalla suggestio­ ne, anzi ne capovolge le regole: essa tende a riconoscere fatti noti in quelli nuovi, qui invece si stenta a farlo. La consapevo­ lezza dell’identità dell'interlocutore misterioso è tutta intellet­ tuale, non sensoriale. Al massimo è legata alla voce o ai gesti. Qui al miracolo della pesca, noto ai discepoli. Gesù ricrea la familiarità con i discepoli invitandoli a mangiare. E loro sono profondamente intimiditi e turbati. Il pranzo passa in silenzio, e il Risorto appare sotto l’aspetto deH’ordinarietà, in cui si mangia e si beve. Proprio in quei frangenti i discepoli compre­ sero la realtà concreta di ciò che andavano vivendo: e infatti solo a questo punto Gv (v.14) dice: “Tonto èdè tritón efaneróthé Iésoüs tois mathétats eghertheìs ek nekrdn. Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli dopo essere risuscita­ to". Dopo pranzo Gesù ammaestra i suoi discepoli e Pietro. Il dialogo, semplice e bellissimo, è di scultorea bellezza, senza sdolcinature. La richiesta di affetto di Gesù è sincera e profon­ da, perchè fatta al suo vicario. Ed è solenne (v.15): “Simón LA RESURREZIONE DI GESÙ 297

Ióannou, agapàs me pléon toùtòn ? Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?’’ Sono citati nome e cognome, e l'uso del ver­ bo è enfatico. “Hoùtoi, costoro" sono gli altri che pur lo amava­ no e dovevano amarlo. E Pietro chiama a testimonianza la conoscenza del Maestro: “Mai Kyrie, sù oidas hóti filo se. Certo, Signore. Tu sai che ti amo. ” Lo chiama Signore, perchè lo con­ sidera Dio. Ma Gesù insiste, e Pietro replica con le stesse paro­ le. Ma all'ultima richiesta, meno solenne ma più intima, che chiama in causa l'amore di Pietro di per sè, senza confronti, l’Apostolo è addolorato. Sa che Gesù non solo dubita che lo ami più degli altri, ma che lo ami proprio. E allora diventa lui solenne (v,17b): “Kyrie, pànta sù oidas; sù ghinóskeis hóti filò se! Signore, tu sai tutto. Tu sai che io ti amo!” Pietro sa che Gesù conosce il suo amore. Ma sa di averlo tradito. Gesù sa, come Dio, che Pietro lo ama, ma vuole sentirne il calore anche come uomo. E ad ogni attestazione di amore - tre come i rin­ negamenti - Gesù risponde con la conferma del primato, sulle pecorelle e gli agnelli, i fedeli e i pastori. Traspare in filigrana l’amicizia, sia pure non paritaria, tra Gesù e Simone. Ma l’amore è esigente, e Gesù, alla terza professione di affetto, fa seguire la profezia che verte sulla crocifissione di Pietro al v. 18 ( “Hótan de ghéràsés, ekteneis tàs kheìras sou, kaì àllos zosei se kaì oisei hópou ou théleis. Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e qualcun altro ti cingerà la veste e ti porterà dove non vuoi"). Gv forse non capì subito, ma dopo sessantanni non aveva più dubbi, e chiosò al v. 19: “Tonto de eipen semaion poion thanatQ doxdsei tòn Theón. Questo disse per indicare di quale morte doveva morire". Pietro invece capì subito, e infatti domandò ragguagli sul futuro di Gv. Ma Gesù diede la famosa, equivoca risposta. Il brano del Vangelo si conclude con Gesù che dice a Pietro “Akoloùthei moi! Seguimi!". Ad essi si unisce spontaneamente Giovanni. Dove vada Gesù con Pietro non conta. Il valore sim­ bolico è altissimo: i discepoli seguono il Cristo fino aH'estremo.

LA TESTIMONIANZA DI PAOLO

Anche San Paolo ci fornisce una documentazione storica relativa alla Resurrezione di Cristo, anche se non sotto la for­ ma di una narrazione. La tramanda nella Prima Lettera ai 298 VITO SIBILIO

Corinzi, che la critica data tra il 54 e il 57. Una buona data sarebbe il 557.1 testimoni paleografici non permettono ulterio­ ri precisazioni, in quanto il più antico, il P46, è del III sec., anche se di recente si è proposto di retrodatarlo all'858. Il bra­ no (15,1-8), secondo certa critica moderna, attesterebbe una tradizione kerygmatica diversa da quella dei vangeli, in quanto le apparizioni ricordate sono pressoché sconosciute. In realtà, come ho già detto, a mio avviso anche il concetto di kérygma andrebbe radicalmente ripensato, in quanto non ci fu una reale soluzione di continuità tra la predicazione di Cri­ sto e la stesura dei Vangeli: le prime formule furono sunteggia­ te immediatamente, e i testi comparvero presto. Anche le divergenze tra i Vangeli sui temi cosiddetti kerygmatici sono la prova che essi erano assai più flessibili di quanto si creda, e che l’omileta-narratore kerygmatico poteva attingere a un repertorio di fatti più o meno vasto con una certa libertà. Diverso è il concetto catechetico, missionario di kérygma: lì per forza di cose l'annuncio della Morte e Resurrezione di Cri­ sto era standardizzato e centrale. Ed è il kérygma di Paolo, che ammaestra tramite le lettere. Tuttavia le divergenze tra le apparizioni di Cristo indicate da Paolo e quelle dei Vangeli ci sono: kérygma o no, vanno motivate. L’apostolo delle Genti menziona le seguenti cristofanie: a Cefa, ai XII, a cinquecento discepoli in una volta, a Giacomo, ancora agli Apostoli, a lui stesso. Dove stanno le visioni della Maddalena, delle Donne, dei Due di Emmaus, di Tommaso, agli apostoli in Galilea ? Chiaramente, almeno l'Ascensione di Gesù non è in discussione perchè lo stesso Paolo enuncia la dottrina connessa all’evento suffragandola, in altri passi delle sue lettere, con citazioni bibliche (cfr. p.es. Ef 1,20 ss., 4,8 ss., ecc.) Andiamo per ordine: la prima apparizione è del 30-33, l’ul­ tima del 34-36. Dunque il resoconto non è kerygmatico, alme­ no non nel senso tradizionale, che abbiamo contestato, in quanto abbraccia eventi che vanno dai due ai sei anni.

7 Lla tesi del Robinson. 8 Young Kyu-Kim, Paleographical Dating o f P46 to the Later First Cen­ tury, "Biblica” 69 (1988), pp. 248-257. LA RESURREZIONE DI GESÙ 299

Inoltre, il testo è costituito come un atto giuridico (v. 15, 1: “Gnórizò dè humin, vi rendo noto.."; 15,3: “Parédóka gàr humin ..hóti...Vi ho trasmesso..e cioè.."), e in un atto giuridico, specie in ambiente semitico, la testimonianza delle donne non ha valore. È, per giunta, un testo precostituito, ossia Paolo lo tro­ vò già bell'e fatto, poiché probabilmente era o una specie di Credo o - più plausibilmente - un memorandum catechistico, concepito come una testimonianza giuridica. Questo appare evidente dalle formule stilistiche, piane e ripetitive, che rie­ cheggiano la Settanta, dei w. 3b-8, diverse dal modo di scrive­ re di Paolo, complesso e tortuoso, ricco di incisi, che violenta la sintassi per sfogare il pensiero. Pertanto sono riportate apparizioni scelte da altri, e non dall'apostolo, nè dagli evange­ listi, senza nessuna pretese di esaurire il racconto dei fatti di pasqua, ma di inserirli in un contesto che evidenzi che Cristo è vivo e perennemente accanto alla Chiesa e ai suoi capi. È signi­ ficativo infatti che i veggenti siano solo personaggi di spicco della prima comunità, e che i singoli siano ammassati in un anonimo gruppo di cinquecento testimoni di un'apparizione. Veniamo cilla sostanza del racconto. Esso è impostato come dimostrazione della fondatezza del Vangelo annunziato da Paolo, e quindi della necessità di custodirlo inalterato, per poterne sortire gli effetti salvifici (w. 15, 1-2). Dopo aver affer­ mato che questo insegnamento è stato ricevuto da lui stesso che ora lo ripropone (v. 3 a), Paolo asserisce che Cristo morì per i peccati dell’uomo adempiendo le Scritture, e che sempre conformemente ad esse fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, e che apparve a Pietro e ai XII apostoli (w. 3b-5). Le due appari­ zioni a Pietro e ai XII sono strettamente connesse alla Morte, Sepoltura e Resurrezione di Gesù: esse avvengono subito dopo, come dimostra il fatto che le azioni del soggetto gram­ maticale, appunto il nome Cristo, sono descritte in quattro fra­ si legate per coordinazione all’intemo di un unico periodo. Inoltre, le apparizioni sono legate strettamente tra loro dall’av­ verbio “quindi” (eita), quasi ad indicarne la stretta successione ed una sorta di propedeuticità. Si tratta dunque, senza ombra di dubbio, delle apparizioni cosiddette kerygmatiche, quelle cioè dei Vangeli, senza tuttavia le visioni senza significato del­ le Donne o dei Due di Emmaus. Essi infatti non sono stati costituiti da Cristo predicatori del vangelo come Pietro e gli Apostoli; di questi invece va dimostrata l'attendibilità e l’auto­ 300 VITO SIBILIO

revolezza, che si fonda appunto sul fatto di aver visto Gesù. Dicendo che “apparve” (ofthe), Paolo non esclude che Cristo sia apparso più volte sia a Pietro che ai XII. In questo senso, il ver­ bo racchiude tutte le apparizioni fino all’Ascensione. Del resto, questa concisione si rintraccia pure in Me e Mt: solo Le parla dei quaranta giorni, ma narrando per esteso solo l’Ascensione, e Gv ne descrive solo due episodi. Inoltre l'idea connessa al ter­ mine ofthè è più esatta se espressa come “essere visto" che come “apparire". Pietro e gli altri sono credibili perchè hanno visto. Cristo si è fatto vedere, ossia li ha scelti come testimoni privilegiati e quindi come predicatori privilegiati. E Paolo esaurisce il racconto del kérygma tradizionalmente inteso nel v. 5. Annoto a margine che il textus receptus parla di XII, sebbe­ ne gli apostoli si fossero ridotti a XI. E una terminologia che Paolo adopera chiaramente in senso giuridico e non numerico. Comunque la tradizione manoscritta conosce una certa oscil­ lazione marginale. Al v. 6, Paolo riprende il filo del racconto, spezzato dalla pausa logica, e dice che “in seguito" (épeita), Gesù apparve a cinquecento fratelli tutti in una volta. Paolo ben comprende l'eccezionaiità probatoria dell'evento, e infatti vi si dilunga enumerandone gli aspetti significativi: il numero dei veggenti, la simultaneità della visione degli stessi, e il fatto che molti di essi fossero ancora vivi. Proprio questo dimostra che l’elenco di tali visioni non è esauriente, ma probatorio, legato al loro significato. Tale visione è extrakerygmatica, successiva alla Pentecoste - prima della quale i cristiani erano circa centoven­ ti, come dicono gli Atti - quando la Chiesa raggiunse le tremila unità. Le altre apparizioni sono prive di ogni problema ermeneu­ tico: 1'“épeita” del v. 6 appare adesso investita di un nuovo significato, perchè dimostra che Gesù continuò ad apparire molto dopo la sua Ascensione, ed in modo ben più spettacola­ re. Lo stesso significato ha T'inoltre” del v. 7, un altro épeita, che introduce altre visioni che provano ulteriormente, di rin­ calzo, sia la Resurrezione che l’autorevolezza del magistero ecclesiastico. Ne sono infatti testimoni “Iakóbó eita tois apostó- lois pàsin, Giacomo e quindi tutti gli apostoli"; probabilmente le due visioni I del v. 5 sono gli apostoli del v. 7, anche se si potrebbe supporre che al v. 7 "apostolo" sia termine valido anche per un gruppo più vasto di predicatori. Infine l’ultima LA RESURREZIONE DI GESÙ 301 apparizione è a Paolo stesso, l'aborto del v.8, magistralmente descritta negli Atti. Qualche piccolo ritocco fu apportato da Paolo al testo preesistente, al v. 6b e ai w. 8-10, dove parla di sè con imbaraz­ zo e stupore. Il valore storico delle apparizioni descritte è grandissimo: le visioni di gruppo ricordate sono inspiegabili per autosugge­ stione e confermano indirettamente quelle ai singoli. La visio­ ne di Paolo è quella di un ex-persecutore, non certo inconscia­ mente voglioso di conferme della veracità della fede che anda­ va a perseguitare. Inoltre gli Atti ci confermano che coloro che accompagnavano Paolo sentivano la voce di Cristo, ma non lo vedevano. Del resto, la visione comportò la cecità del veggente. Tutti elementi ben lontani dal suffragarne l'origine isterica.

CONCLUSIONE

La Resurrezione di Cristo, come episodio descritto nelle fonti storiche, appare come un evento storicamente credibile, perchè i testi che ne tramandano la memoria corrispondono alle caratteristiche di autenticità che si richiedono ad un qual­ siasi documento antico per considerarlo attendibile. Come dicemmo dall'inizio, sono datati ad un periodo immediata­ mente successivo ai fatti narrati, sono stati tramandati in modo sostanzialmente integro nei codici e nei papiri successi­ vi, sono stati scritti da testimoni oculari o attendibili, di cui conosciamo l’identità e di cui possiamo valutare la credibilità. La crux maggiore della loro credibilità, le cosiddette discor­ danze, sono in realtà, come credo di aver dimostrato mediante la comparazione dei testi, delle omissioni incrociate concepite per una lettura ad incastro che, proprio per la precisione dei suoi addentellati, si dimostra da sè. Le mancanze di notizie, che si riscontrano trasversalmente in tutti i testi evangelici, sono invece addebitabili all’interdipendenza tra le fonti scritte e la tradizione orale, dimostrata anche in altri passi evangelici, e a cui nessuno degli scrittori - che presumibilmente non cre­ devano nè che i loro testi sarebbero divenuti sacri, e quindi intoccabili, nè di essere destinati ad una lettura più che mille­ naria - aveva intenzione di rinunciare, di certo inconsapevoli del fatto che essa si sarebbe perduta proprio perchè non scrit­ 302 VITO SIBILIO ta, e probabilmente persuasi che la storia non sarebbe durata tanto a lungo - brani dei discorsi escatologici di Mt e Me, e for­ se anche di Le, potrebbero persino far supporre che gli evange­ listi credessero in una fine del mondo imminente, di certo con­ fusa con la attesa rovina di Gerusalemme o almeno preparata da quella, e che sarebbe accaduta nella stessa generazione che aveva rifiutato Cristo. In questo senso, i vangeli appaiono stret­ tamente connessi tra loro e alla catechesi orale, per cui nel cor­ so dei secoli proprio la perdita di questi legami extratestuali e la dimenticanza di quelli intratestuali, addebitabili all'irrigidir- si delle tecniche di lettura, condizionate dalla sacralizzazione dei testi, hanno causato l'erronea percezione di discordanze insanabili o enigmatiche - una percezione che, sia detto per inciso, si dev'essere avvertita assai presto, come provano i numerosi interventi di Gv nel puntualizzare fatti e circostanze lasciati in ombra dagli evangelisti precedenti. Tale percezione scaturì dallo scollamento tra i cristiani ex gentibus e quelli ex circumcisione, ossia tra i fedeli convertiti dal paganesimo e quelli provenienti dall'ebraismo. Per un trentennio scarso, i cristiani erano stati di fatto considerati una setta ebraica tra tante, perseguitabile finché si vuole, ma non più eretica dei sadducei o degli erodiani o degli esseni. E non molto diversa da quella dei farisei, certo meno di quanto non lo fosse quella dei sadducei: infatti questi ultimi, che pure avevano condanna­ to Gesù coi farisei, non credevano in molte cose che l’uno e gli altri avevano confessato: nè all'anima, nè agli angeli, nè all’ol­ tretomba bipartito tra inferno e paradiso, nè al giudizio uni­ versale e alla resurrezione della carne. Ragion per cui i cristia­ ni avevano conservato usanze e abitudini ebree, e si sentivano ebrei, anzi più ebrei di prima, perchè avevano ricevuto il Mes­ sia. Piano piano gli apostoli avevano cominciato a predicare ai pagani, e a stento li avevano esentati dalle usanze giudaiche più rigide, come le purità alimentari o la circoncisione, grazie all’influsso di Paolo e al Concilio di Gerusalemme. Ma i pagani erano rimasti in minoranza, anche se a volte autorevole, e gra­ vitavano attorno ai fedeli ex circumcisione anche fuori dei con­ fini palestinesi, perchè le prime grandi Chiese esterne alla Ter­ ra Santa erano nate - a Tessalonica come a Corinto o Antiochia o Alessandria o Roma stessa - sempre attorno alle colonie ebree. In questo contesto le memorie tramandate a voce dei fatti LA RESURREZIONE DI GESÙ 303 di Gesù erano vivissimi, legati ai gruppi che con lui avevano vissuto. Gruppi -meminisse iuvat - tutt’altro che poco influenti nella società. Ho citato il fatto che la famiglia della Madonna era originaria di Gerusalemme, e aveva casa nel centro della città, presso la Piscina di Bet Esdatain, la famosa piscina a cin­ que portici del miracolo del paralitico, unica nel suo genere architettonico. Sotto le fondamenta crociate e bizantine della chiesa di Sant'Anna, a due passi dall’antica piscina, si trovano i resti di una domus ecclesia del I secolo, ossia di una casa tra­ sformata in luogo di culto, come accadeva per le dimore dei personaggi neotestamentari più significativi. I dati archeologi­ ci fanno chiaramente intendere che il culto celebrato era mariano, e quindi possiamo identificare quel sito con la casa di Gioacchino e Anna, in cui nacque Maria e descritta dall'apo­ crifo - ma interessantissimo - Protovangelo di Giacomo. Il gruppo dei parenti di Maria diffuse un culto iatrico legato alla Piscina che s’innestò sincréticamente su quello ebraico preesi­ stente, e basato sulla magia bianca esercitata sull'anello, il sigillo e le medaglie di Salomone, il guaritore per eccellenza nella devozione popolare ebraica. Associato al cavaliere che trafigge la diavolessa Lilit e all'Arcangelo Raffaele - il tauma­ turgo di Tobia padre - Salomone componeva con loro una tria­ de iatrica che i cristiani riadattarono così: a Salomone fu sosti­ tuito Cristo, Raffaele fu rimpiazzato con angeli anonimi - che non facessero ombra al medico divino - e il cavaliere fu sosti­ tuito dalla Vergine Maria, che aveva schiacciato la testa del dragone infernale. Per cancellare tale culto, che continuò pure dopo l’assedio di Gerusalemme voluto da Tito, ancora nel 135 Adriano, definitivo distruttore della città, impiantò la triade guaritrice pagana Serapide-Esculapio, Iside-Igea, Arpocrate- Telesforo. Ma il culto giudeo-cristiaqo. sopravvisse sino al V secolo, quando gli imperatori smantellarono gli edifici dove si praticava, costruirono la chiesa bizantina sulla piscina e porta­ rono le idrie nel Santo Sepolcro9. C’è da meravigliarsi se a Gerusalemme le tradizioni orali su Gesù erano vive ancora quando furono scritti i Vangeli, visto che quella cultuale inau­ gurata dai parenti di Maria durò per cinquecento anni? Non

9 Cfr. sull’arg. Sibilio, S u alcuni aspetti della marìologia medievale, p. 16; cfr. n.67. 304 VITO SIBILIO poterono durare venti, trent'anni ? Altri centri di raccolta giu­ deo - cristiana erano la casa di Maria da adulta, dopo la morte e resurrezione di Gesù, presumibilmente a Magdalia, e attorno alla sua tomba, presso l’attuale monastero di Santa Maria di Giosafat, archeologicamente datata al I sec. e anch'essa signifi­ cativamente vuota come quella del figlio, a fondamento del­ l’antichissima notizia dell’Assunzione della Vergine10. A Geru­ salemme - come si è detto più volte - avevano il quartier gene­ rale i XII, presso il Cenacolo, anch'esso del I sec. A Gerusalem­ me aveva casa Marco. Convertiti al cristianesimo erano anche sacerdoti, scribi e farisei - come Paolo. Altri centri giudeo-cri­ stiani c’erano attorno alle domus ecclesiae di Nazareth, luna già casa di Maria - l’attuale basilica dell’Annunciazione - l’al­ tra casa di Giuseppe, che rimase ai giudeo-cristiani sino all'VIII secolo, custodita dai lontani discendenti della famiglia davidi­ ca. Fino poi alla domus ecclesia di Betlemme, su cui si costruì la basilica della Natività. Ce n’erano poi altre a Ain Karin, patria di Giovanni Battista, a Cana, a Cafarnao, ecc. E si tratta di siti archeologicamente supervisionati, non individuati dalla tradizione11. In un contesto del genere, il cristianesimo primi­ tivo era in grado di mantenere forti legami con l'ebraismo e di custodire - anche per i pagani - le memorie di Cristo, senza che si sentisse il bisogno di fermare per iscritto conoscenze tanto diffuse (tralasciando poi l'apporto che potrebbe venire dagli apocrifi). Persino il sito del Calvario ha inequivocabili resti archeologici di un culto cristiano del I secolo, con grotte e caverne, poi profanate significamente da Adriano con un culto della resurrezione di Adone ad opera di Afrodite: grottesca caricatura del sincretismo pagano del rapporto tra il planctus Mariae e la Resurrectio Christi12. Non c'è dubbio che tra i con­ vertiti al cristianesimo dall’ebraismo fatti e eventi extraevange­ lici per noi scomparsi erano assai noti.

10 Cfr. sull’arg. Sibilio, Su alcuni aspetti della mariologia medievale, pp. 5-7; p. 5, n. 24. 11 Per gli apporti dell’archeologia si veda E. Testa, Maria di Naza­ reth, in De Fiores-Meo, Dizionario, pp. 878-888; bibl. alle pp. 888-891; AA.W., Il Grande Atlante della Bibbia, Milano 1986 (ed. or.: Atlas o f the Bible, New York 1981), pp. 247-292. 12 Testa, Maria di Nazareth, pp. 883-885, con bibl. nell’app. erudito. LA RESURREZIONE DI GESÙ 305

Purtroppo poi gli eventi congiurarono contro la conserva­ zione di questa tradizione, spostando l’asse della nascente fede verso i convertiti dal paganesimo. Anzitutto, nel 62, il sommo sacerdote ebreo Anano fece assassinare il capo riconosciuto dei giudeo-cristiani, Giacomo di Alfeo, cugino di Cristo. La notizia, data da Giuseppe nelle sue Antichità Giudaiche (XX, 197-203), è molto importante. Mai si era arrivati a tanto. Erode aveva fatto assassinare Giacomo di Zebedeo, ma era uno stra­ niero, un idumeo usurpatore che si reggeva sulle armi di Roma. Anano, anche se dissoluto e inetto, era il capo del popolo di Dio. Segno che l’ebraismo ufficiale mirava a respingere ai suoi mar­ gini quei suoi figli che riconoscevano in Gesù il Messia13. Nel 65 Pietro e Paolo furono giustiziati a Roma, assieme al grosso del­ la comunità giudeo-cristiana della capitale: i legami viventi tra l’origine ebrea del Cristianesimo e la nuova generazione mista erano stati spezzati senza misericordia. Quando poi in Oriente divampò la rivolta giudea in chiave messianica, a cui ovviamen­ te i giudeo-cristiani non parteciparono, nel 70 Gerusalemme fu saccheggiata, e gli ebrei espulsi. Ma non i giudeo-cristiani. Che cominciano a costruire templi sinagogali non più orientati ver­ so il Tempio salomonico, e in cui si conservavano - adesso sì - anche le scritture del Nuovo Testamento, ormai equiparate alla Torah14. Per i cristiani le profezie di Gesù si erano avverate e la città che lo aveva ucciso era stata distrutta. Ma anche l’ebrai­ smo ne era uscito trasformato: le almeno ventiquattro sette preesistenti, variopinte, pittoresche e litigiose, erano scompar­ se: sterminati gli esseni e i sadducei, estinti gli erodiani, sconfit­ ti almeno per ora gli zeloti, smentiti tanti sedicenti messia guer­ rieri, rimanevano solo i farisei, ossia i più irriducibili avversari dei giudeo-cristiani, non avendo mai dimenticato le requisito- rie di Gesù contro la loro casistica legalista e il tradimento di Paolo di Tarso. E entro l’80 il Consiglio rabbinico, esule da Sion, fulminò la maledizione contro i cristiani che entrò poi nei

13 B. Wander, Trennungsprozesse zwischen Frühem Christentum und Judentum im 1.Jahrhundert n. Chr., Tubinga-Basel 1994, pp. 263-267; 288-289. 14 B. Plxner, Wege des Messias und Stätten der Urkirche, in R. Rie- sner, Jesus und. Juden-Christentum im Licht neuer archäelogischer Erken­ ntnisse, Giessen 19942, pp. 287-326. 306 VITO SIBILIO canoni del Talmud: era la Birkat ham-minim, già citata entro quella data nel trattato Berakot 28 b di rabbi Gamaliele. Essi erano oramai eretici15. Ma anche i pagani convertiti dubitavano dei giudei battez­ zati: gli usi paramosaici imposti dal Concilio di Gerusalemme erano caduti presto in disuso, già si delineavano gruppi cristia­ ni di cultura copta, siriaca e greca, e già emergeva il primato della comunità romana, con la Lettera di Clemente nel 90. Buona parte delle tradizioni giudee su Cristo era scomparsa con le vittime della Guerra Giudaica. L'ultimo apostolo scrive il suo Vangelo quando ormai la contaminazione tra la nuova fede e la cultura greca è già avviata e ha prodotto o sta per pro­ durre lo gnosticismo - il lessico giovanneo è esplicito e rie­ cheggia quello qumranico, che sarà ripreso dal pensiero ereti­ co16, in chiave cristiana (cfr. p. es. la Regola della Comunità, I, 10. II, 26. Ili, 3.6.7.18-25, IV, 21.24, X, 1-2, ecc.)- e le caratteri­ stiche della nuova fede più estranee alla mentalità comune ebrea della diaspora sono enfatizzate, come la divinità di Cri­ sto, la multipersonalità di Dio, la presenza del maestro nell'Eu- carestia. Gli ebrei dal canto loro reagiscono dando una valuta­ zione solamente negativa di Cristo, generando storielle deni- gratrici che poi saranno livorosamente riprese da Celso nel suo Discorso Vero e contestate da Origene, a cui sopravvissero fino alle blasfeme Toledoth Jesu, che tanto motivo hanno dato aH’amtisemitismo di allignare17. Sono costoro i Giudei di cui Gv

15 F. Manss, John and Jamnia: How thè Break occurred between Jews and Christians, Jerusalem 1988, pp. 15-30. 16 Ireneo (Adversus Haereses 111,11,9) accenna a un gruppo ereticale, altrimenti sconosciuto, che rifiutava questo Vangelo, in polemica con movimenti che esaltavano il dono dello Spirito di cui Gv parla (probabil­ mente questi ultimi erano i montanisti). Apprendiamo da Eusebio e da Ippolito che un dotto ed ortodosso prete romano, di nome Gaio, vissuto sotto papa Zefirino (199-217), ripudiava Gv in quanto lo riteneva opera dell’eretico Cerinto. Segno della ripresa terminologica dell'uno nell’altro. La notizia sull’attribuzione di tale Vangelo a Cerinto è riportata da Ippo­ lito di Roma in uno scritto Sull’Apocalisse. Anche Epifanio (Panarion 51) ci parla di una setta eretica che respingeva questo vangelo, gli Alogi, negatori del Logos annunziato nel Prologo del Vangelo di Gv. Forse Gaio aveva a che fare con questa setta. Cfr. E. Prinzivalli, Gaio e gli Alogi, in «Studi storico religiosi» 5,1 (1981), pp. 55-56. 17 Cfr. Sibilio, Su alcuni aspetti della mariologia medievale, pp. 32-33; p. 33, n. 127. LA RESURREZIONE DI GESÙ 307 parla con ostilità, anche se lo storico deve identificarli coi fari­ sei, unici superstiti del genocidio culturale di Tito e Vespasia­ no. I giudeo-cristiani sono sempre più isolati. Un gruppo cospicuo di essi nel II sec. diventerà ebionita, rigettando la divinità di Cristo e l'insegnamento - oramai canonico - di Pao­ lo. Ci si meraviglia se in questo contesto, tra il 70 e il 100, le tradizioni orali a cui ancora Gv si rifaceva, siano scomparse? E che ai posteri le eleganti forme stilistiche di Gv o Mt, coi loro rimandi alla catechesi non scritta, siano apparse come incom­ prensibili omissioni? Ma non c’è solo il dato filologico che attesta il fatto storico della Resurrezione. Ci sono i riscontri archeologici, parados­ salmente autentici perchè assentì. Nessuno dubita della autenticità archeologica della tomba di Cristo. Come ho detto, presso di essa - a un tiro di sasso dal Calvario - fiorì subito il culto. Non dimentichiamoci che la tomba era di un sinedrita, Giuseppe di Arimatea, che poteva usarla come voleva. Certo la persistenza di altre sepolture non incoraggiava la devozione degli ebrei osservanti, attenti all’im- purità legale. Ma presso il Calvario c’erano ambienti “post-cru- cerri’ dove si recava Maria, e dove lei e il Figlio furono oggetto di culto, assieme a delle reliquie della passione. Scavi recenti (1950, 1973 e ss.18) hanno restituito buona parte di questi luo­ ghi. In essi vi era persino un forno per l’esalazione di erbe aro­ matiche cultuali. E agli ebrei non convertiti quel luogo di pati­ boli e di cadaveri interessava poco. Ma il culto fu tale che Adria­ no tentò di occultarlo per sincretismo, ma senza successo. Ebbene, in questo complesso (che per una concezione semitica del luogo di culto rimase per buona parte a cielo aperto e nello stato originario fino allo scempio fattone da Costantino con la sua operazione architettonica, l’Anastasis e la Basilica bizanti­ na) il cuore è costituito da ima tomba vuota19. Sarà banale, ma credo che se una religione avesse il corpo del fondatore, se lo terrebbe, e creerebbe la sua teologia sul corpo presente. Ma il Cristianesimo non ce l’ha. E crea una teologia dell’assenza, che

18 Ch. Katsimbinis, The Uncovering of the Eastern Side o f the Hill of Calvari and its Base Layout o f the Area o f the Canons’ Refectory by the Gre­ ek Orthodox Patriarchate in LA 27 (1977), pp. 197-208. 19 Testa, Maria di Nazareth, pp. 883-885, con bibl. nell’app. erudito. 308 VITO SIBILIO a conti fatti è molto più imbarazzante e problematica di qual­ siasi altra. Ma è vincolante. Perchè il corpo non c'è davvero più. E in 2000 anni di ricerche, nessuno l'ha trovato. Tanto che gli studiosi non credenti, anch'essi dotati d'interessi di bottega come quelli religiosi, si sono dovuti premurare di nascondere, fino ad annullare, l'identità del padrone del corpo scomparso, per rendere irrilevante o addirittura logica l'assenza del cadave­ re. E quanto fecero i critici di matrice positivista o i mitologi idealisti e marxisti. Ma sbagliarono clamorosamente, smentiti dai dati storici che, nella loro bruta incoscienza, non hanno altra voce che quella dell’evidenza. E vediamo perchè. Impostando la questione in termini storico-critici, alla Loi- sy o alla Renan per intenderci, ancora una volta c'imbattiamo nello scoglio delle date di composizione dei testi evangelici. Non solo con la datazione da me seguita, ma anche con quella più generalmente accettata (Me 60 d.C., Mt e Le 70 d.C., Gv 90- 100) i conti non tornano e non c'è tempo per la formazione del­ le leggende, compresa quella più impegnativa della Resurre­ zione: Gesù sarebbe dovuto essere inventato dopo il 100. Comunque, ammettiamo che si sia formata una leggenda, ossia che Cristo non sia risorto. Su che cosa si può essere for­ mata? Le ipotesi sono due: 1) Su un falso consapevole 2) Su uno stato psicopatologico. Un falso consapevole è quello di cui il Sinedrio fece accusa­ re gli apostoli dalle guardie: essi avevano rubato il corpo duran­ te il loro sonno. È dunque una voce che circolava dal 30 d. C. Ed è sicuramente la più semplice supposizione che chiunque farebbe dinanzi alla scomparsa della salma di un leader religio­ so che ha promesso di risorgere. Ma proprio la sua antichità la smonta. Anzitutto, come potevano le guardie addormentate accorgersi del furto ? E se si svegliarono, perchè non lo impedi­ rono? È un rilievo elementare che fu fatto già da Agostino da Ippona, illustre e acuto convertito. Inoltre il Sinedrio, che pure arrestò più volte gli apostoli, muovendo loro molte accuse, non li accusò mai di profanazione di tombe e di sottrazione di cada­ vere. Segno che non poteva provarle in nessun modo. Ancora: potevano gli apostoli profanare una tomba sorvegliata nel bel mezzo di un cimitero, peraltro da soldati romani? Se la sentiva­ no davvero di rubare un corpo appena schiodato da una croce, col rischio di salirci anch’essi? Non dimentichiamoci che il LA RESURREZIONE DI GESÙ 309

Sinedrio volle la crocifissione per bestemmia, ma Pilato la con­ cesse per ribellione, in quanto Gesù si intitolava Re dei Giudei, usurpando le prerogative dell'imperatore romano. Gli apostoli rischiavano d’incorrere nell’ira del procuratore, che aveva la mano pesante con i sediziosi -e lo attesta lo stesso Vangelo, quando Gesù commenta il caso di quei galilei il cui sangue Pila­ to aveva fatto mescolare con quello dei loro stessi sacrifici: gesto crudele e blasfemo. Qualcuno poteva obiettare che gli apostoli potevano avere qualcosa da guadagnare dall'asporta­ zione del cadavere. Ma i fatti lo smentiscono: non solo avevano precipitosamente abbandonato il Maestro al momento della cattura, ma il primo giorno utile per viaggiare - finito il sabato - il gruppo aveva cominciato a sfilacciarsi: erano partiti i Due di Emmaus, si era allontanato Pietro, si era separato dagli altri Tommaso. Gli altri apostoli erano rintanati in casa per paura dei Giudei. Non è lo stato d'animo in cui si cerca di cogliere dei vantaggi. Del resto, i fatti dimostrano che non ce ne furono: la gestione comunitaria dei beni dei cristiani primitivi tolse ai XII la possibilità di lucro, e le persecuzioni immediatamente inizia­ te e drammaticamente culminate nella morte violenta di molti se non tutti tra gli apostoli smentiscono che il furto potesse aprire loro prospettive di potere o gloria. E non avrebbero potu­ to aspettarsi altro, data la fine del Maestro. Un furto non è dun­ que un’ipotesi plausibile. Lo stato psicopatologico è forse allo stato attuale l'unica ipotesi credibile, perchè impostabile in modo scientifico, che spieghi in modo “naturale” le esperienze parapsicologiche con­ nesse alla nascita della fede nella Resurrezione. Ma non spie­ gherebbe l'assenza del corpo, che sarebbe ancor più enigmati­ co. A meno che non si supponesse che tale furto fosse compiu­ to in uno stato di tale esaltazione da essere pressoché inconsa­ pevole, quasi atto di personalità dissociate o borderliner. Ma la sorveglianza delle guardie esclude un simile colpo di forza, o almeno che potesse passare inosservato. Ma che possiamo dire dello stato mentale dei discepoli e degli apostoli? Forse è opportuno capire se potessero autosuggestionarsi fino a tal punto. E bisogna cominciare dall’inconscio più profondo, quello archetipico e collettivo, che ci portiamo tutti dentro. Mi porrei alcune domande, e le riporto. Come mai un messia fallito suscita nei suoi discepoli que­ sta esaltazione irrazionale? Essi avevano sperato in un regno 310 VITO SIBILIO

terreno, avevano sognato gloria e potere, e ora si ritrovavano tra le mani solo un cadavere. Un cadavere che, anche quand'era vivo, in fondo non valeva molto agli occhi del mondo: un ex­ carpentiere, della Galilea - da cui non veniva niente di buono, come dice il Vangelo stesso - figlio unico di madre vedova, discendente da una stirpe regale decaduta, squattrinato, vaga­ bondo, mantenuto da delle donne. Sono tutte accuse che trovia­ mo nei vangeli e che rispecchiano dati di fatto. L'unica forza di Cristo era l’eloquenza e i prodigi. Ma i prodigi erano - e sono - assai comuni. E la dottrina di Cristo era spesso agli antipodi delle speranze dei suoi stessi discepoli. Per quanto potessero aver assorbito il suo insegnamento spirituale, per essi vederlo condannato e ucciso fu sicuramente il segno tangibile di una irrimediabile sconfitta. Come poteva nascere in loro il desiderio di una rivalsa, peraltro spirituale, e quindi votata alla stessa drammatica fine? Non solo dovevano accettare che il messia promesso doveva morire, ma anche che il suo regno non sareb­ be mai stato materiale. In una parola, dovevano sovvertire a tal punto la loro psicologia umana e ebraica, da far rivivere un morto scomodo per tutti, loro compresi. Uno stato psichico tanto più incomprensibile se consideriamo che avrebbe dovuto abbracciare un gruppo abbastanza numeroso in modo omoge­ neo e profondo, in un momento di gravissimo scoraggiamento e paura - tutti avevano abbandonato Gesù, tranne Giovanni e le donne - e se pensiamo che dovette poi essere trasmesso agli altri, ai seguaci via via guadagnati. E così il messia infamato, Cristo, uno che interpretava in senso spirituale il suo ruolo in un’epoca di acceso nazionalismo, si sarebbe trovato ad essere l’unico considerato salvato da Dio, mentre tanti altri sedicenti Cristi dell’epoca, ben più in sintonia col sentire comune, erano stati dimenticati. Nessuno ha visto nè risorgere nè ascendere l'Anonimo messia che fu martirizzato da Pilato nel 35-36 sul monte Garizim, dove aveva radunato i suoi seguaci per mostra­ re alcuni sacri arredi mosaici, come prodromo della rivolta antiromana; o Theudas, ribelle autoproclamatosi Cristo e ucci­ so in battaglia dal procuratore Cuspio Fado, successore di Pila­ to nel 44 presso il Giordano, e il cui capo fu portato in trionfo sulle picche romane in Gerusalemme; o l’Anomimo ebreo egi­ zio che, nel 52, fu visto uscire incolume, protetto da Dio, dal campo di battaglia dove i Romani del procuratore Felice aveva­ no massacrato i suoi seguaci; o Bar Kokheba, il leader della LA RESURREZIONE DI GESÙ 311 rivolta del 132, quella che provocò il tracollo del Giudaismo per 2000 anni, e che pure era stato ufficialmente riconosciuto mes- sia e che aveva resistito epicamente alle legioni quadrate in 50 fortezze e 985 città e villaggi. Tutti avevano promesso i nuovi cieli, e tutti erano stati sconfitti. Ma non in modo infamante. Erano caduti in battaglia, come Giuda e GiGnata Maccabei. Ognuno di loro aveva personalità e carisma ben più adatti alla fanatizzazione postuma, e più seguaci di Cristo, tra cui statisti­ camente il fenomeno dell'esaltazione poteva aver più possibili­ tà di accadere. Ma non accadde. Accadde solo tra i discepoli di Gesù. E per creare il mito scomodo di un messia spiritualista, che ai suoi promette solo morte e sofferenza. Non mi sembra un buon presupposto. Supporrebbe un istinto masochista nei discepoli, che invece erano quasi tutti persone "adattate” al pro­ prio contesto sociale: gente che lavorava, sposata, con figli. Vero che Gesù aveva predetto più volte la sua morte e resurre­ zione, ma la sua predicazione gli aveva procurato tanti nemici che la prima profezia era piuttosto facile da avverarsi, e la seconda in fondo poteva essere una inconsapevole millanteria. In conclusione, gli apostoli gli credevano, ma non tanto da potersi convincere che potesse risorgere a piacimento, non tan­ to da poterlo vedere, o addirittura rubare in stato di trance, diventando tutti schizofrenici di colpo, assieme ai loro seguaci e complici. Ammesso che simili trance siano possibili. E torne­ remo anche su questo. In verità, di nessun aspirante messia, di nessun capo o fondatore religioso, e di nessun uomo mai nessu­ no ha avuto la facciatosta di dire che fosse risorto. Nè di mette­ re in imbarazzo i posteri con prove a favore di questa folle asserzione. Non sembra che nessun uomo, in 5000 anni di civil­ tà, abbia mai sostenuto di aver visto risorgere un suo simile. Ad eccezione di una ventina di testimoni ebrei di Palestina per il loro presunto messia, duemila anni fa circa (e limitiamo la cifra ai soli veggenti del periodo pasquale). Sarebbe un fatto, anche se psicopatologico, unico. E fa riflettere. Anche i deliri più acce­ si rispecchiano, in modo distorto, i limiti della mentalità di un'epoca. Da sempre si trova chi dice di aver volato sul carro degli dei. Oggi qualcuno sale su un ufo. Altri dicono di essere stati scelti per tale o talaltra missione. Pochissimi ricevono messaggi che li spingono a rompere gli schemi comportamen­ tali del proprio tempo, e sono messaggi che fanno riflettere - come Giovanna d'Arco che volle guidare un esercito in un'epo­ 312 VITO SIBILIO ca in cui le donne erano incompatibili con la vita politica e mili­ tare. Ma nessuno ha mai delirato sulla resurrezione di qualcu­ no. Sui fantasmi, sulla telescrittura et similia, sì. Ma sulla Resurrezione no. La morte è percepita come irreversibile da tutti. Anche dai pazzi. Gli unici che non la percepirono così furono i seguaci di Cristo, che in tutto il resto della loro vita furono invece sempre ragionevoli e misurati. Enigma duro da sciogliersi per una psicanalisi non preconcetta. A meno che non siano davvero stati testimoni di un evento unico. Ma ancor più strepitoso per l'autosuggestionamento degli apostoli sarebbe l’aver concepito la Resurrezione come prova della divinità di Cristo. E questo perchè egli aveva dichiarato di esserlo e aveva promesso di provarlo proprio risorgendo. Ora, se la Resurrezione è in realtà la proiezione della sugge­ stione dei discepoli, bisogna supporre che essi abbiano non solo superato la consapevolezza universale dell’irreversibilità della morte, ma anche quella propria di qualsiasi ebreo osser­ vante: la trascendenza e unicità di Dio. Siamo logici: chi crede­ rebbe oggi ad un tizio che dicesse di essere Figlio di Dio? E anche se risorgesse, chi associerebbe subito tale evento alla natura divina? Per gli ebrei era proprio così, e anche di più. Si fecero massacrare per non ammettere la trasformazione del tempio di Salomone in un sacrario in onore di Zeus ai tempi di Adriano, e lo avrebbero fatto anche già dai tempi di Caligola, che voleva mettere una sua statua nel luogo sacro, se l’impera­ tore non fosse stato massacrato per primo da Cherea mentre andava alla latrina. La guerra dei Maccabei era del resto nata proprio per liberarsi dal paganesimo. Segno della inequivoca­ bile e irriducibile concezione monoteista ebrea, che mai avreb­ be potuto accettare di divinizzare un uomo, peraltro ammet­ tendo implicitamente una molteplicità di persone nell’unica sostanza divina. Non a caso lo spirito semita, che sopravvive più forte nell'Islam, spinge i musulmani a ripudiare la Trinità come un politeismo camuffato. Gli ebrei discepoli di Cristo avrebbero dovuto ripudiare inconsciamente e consciamente questa radicatissima forma di monoteismo, che non aveva per­ messo la divinizzazione neanche di Abramo, di Mosè, di Elia, di Enoch. E neanche in epoche in cui l’ebraismo era stato ben più irenico, e contaminato dal paganesimo delle nazioni vici­ ne. Persino autori pagani, come Celso, trovarono bizzarra la deificazione di Cristo, non invulnerabile come gli dei pagani, LA RESURREZIONE DI GESÙ 313 ma crocifisso. Mentre gli ebrei discepoli di Gesù avrebbero dovuto concepire una divinizzazione così umiliante, passata addirittura per il grembo di ima donna, anche se per parteno­ genesi. Ancora oggi fi Te Deum inneggia a Cristo, dicendogli che, per amore dell’uomo, “non horruisti virginis uterum”. Inoltre tali ebrei, pur divinizzando Gesù, avrebbero poi difeso con assoluto rigore il monoteismo contro il culto dell'impera­ tore e degli altri dei pagani, suscitando l’ostinata ostilità dei gentili. Possiamo mai credere a questo? Del resto, perchè Cri­ sto fu condannato a morte? Per la stessa ragione per cui fu più osteggiato: si proclamava Dio. Fu più volte sul punto di essere lapidato. E alla fine fu preso. E quando il Sinedrio lo interrogò su questo controverso punto, al colmo dell'esaltazione - o del coraggio - Gesù si proclamò ufficialmente Dio, citando per sè il profeta Daniele e i salmi, con un gesto che commenteremo. E fu condannato a morte, con una sentenza ratificata anche dalla piazza, istigata proprio in tale senso per la sua presunta blasfemia. Perchè gli apostoli, che già avevano mostrato tanta buona volontà nefi’accettare le sue asserzioni di divinità in pri­ vato, dovevano autoconvincersene dopo la sua ignominiosa morte? Non certo da Dio fu quella fine! E quindi non certo atta all’autoconvinzione, alla suggestione. Qualche pignolo potrebbe giustamente affermare che una parte dei testi messianici dell’AT prevedeva la divinità del Cri­ sto, e quindi Gesù poteva - come fece - collocarsi in quel filo­ ne profetico. Su questi aspetti teologici torneremo, ma per ora non bisogna dimenticare che era un filone messo in parte in ombra nella teologia dell’epoca - di nessun altro messia si dis­ se allora altrettanto - e soprattutto che Gesù fu l’unico maestro ebraico ad interpretare quei passi in modo rigoroso ed esclusi­ vo. Ad attribuirsi il Nome stesso di Dio, e la preesistenza alla sua vita umana. A chiamare Dio suo Padre. I suoi discepoli non potevano trovare in quella letteratura biblica un appiglio alla loro suggestione, perchè il loro Maestro di fatto la supera­ va. Potevano farlo forse solo dinanzi ad una prova. E a rigori nemmeno con quella: oggi un buon cristiano che paradossal­ mente vedesse un morto risorgere si rifiuterebbe lo stesso di fame la Quarta Persona di una Trinità allargata. Evidentemen­ te, l'esperienza misteriosa che i cristiani fecero dopo la morte del loro fondatore eponimo fu talmente forte da sovvertire anche quest’ostacolo psichico. 314 VITO SIBILIO

Se questo ci dà il quadro della psicologia profonda dei pre­ sunti suggestionati, le fonti evangeliche ben testimoniano anche a proposito di quella individuale, e ci danno altri ele­ menti a sfavore della lettura psicopatologica. Anzitutto, i Vangeli ci presentano visioni individuali e col­ lettive. Ora, in linea di principio, una o due persone possono anche suggestionarsi. Ma gruppi maggiori no. La psicanalisi non può dare ragione di fenomeni del genere. Si suggestionano piuttosto gli esterni, che dinanzi a episodi inspiegabili preferi­ scono tacciare di esaltazione i testimoni. Gesù è apparso alle Donne - che hanno visto anche gli angeli - e agli Apostoli con dei discepoli. Poi ancora più volte agli XI, fino all'ascensione. Poi gli XI hanno avuto la visione del fuoco di Pentecoste. Poi Gesù ha fatto sentire la sua voce al gruppo di Paolo e dei suoi scherani in marcia verso Damasco. Già era apparso ai Cinque­ cento. Tutti gruppi molto estesi. Inoltre il loro stato psichico - ad esclusione dei cinquecento discepoli - era differente da quel­ lo di chi è incline alla suggestione. Il gruppo di Paolo era espli­ citamente ostile. Le donne erano incredule e terrorizzate. Gli apostoli eremo spaventati il giorno di pasqua, e rimasero inti­ moriti fino a Pentecoste, perchè minacciati dai Giudei. Alcuni di loro dubitarono fino alle visioni in Galilea - Tommaso è il caso maggiore, anche se si convinse sette giorni dopo la pasqua. La prima volta gli XI scambiarono Gesù per un fanta­ sma. In Galilea non lo riconobbero. Inoltre sono i primi veggen­ ti che mangiano con la persona che vedono...Anzi avrebbero visto il loro fondatore tornare dall’oltretomba per cucinare il pesce...Inoltre lo vedevano ovunque: nella tomba, per strada, in casa, a tavola, in città e in campagna, sul lago, in montagna, nella valle del Cedron...Lo vedevano dalle barche e da terra, da vicino e da lontano...ci camminavano - anche in città: dal Cena­ colo al Monte degli Ulivi per l’Ascensione bisogna attraversare una parte di Gerusalemme - e ci chiacchieravano: di religione, di politica, ma anche di pesca e di culinaria...Dette così queste cose fanno ridere. È mai possibile che ci si suggestioni in modo così prosaico, buffo? Se fosse un falso sarebbe ingenuo. Ma come autoinganno è inverosimile. È talmente banale quello che fecero gli XI con il loro Apparso, da poter essere solo vita vissu­ ta, quotidiana, sbiadita. Cioè vera. Storica. Anche i veggenti solitari sono a mio avviso credibili. La Maddalena, che del gruppo più di tutte poteva sperare di rive­ LA RESURREZIONE DI GESÙ 315 dere il morto, che tanto l’aveva aiutata, in realtà va al sepolcro completamente disincantata: deve infatti imbalsamare la sal­ ma. Quando trova il sepolcro vuoto, e quando va a chiamare Pietro e Giovanni, crede che il corpo sia stato trafugato. Quan­ do rimane da sola vede tuttavia gli angeli. Ma anche allora cre­ de che il corpo è stato trasportato via. E non riconosce Gesù...Non sembra lo stato psichico di un’esaltata. D'altro can­ to, se si fosse esaltata, avrebbe potuto, sia pure inconsciamen­ te, credere di poter convincere qualcuno? Lei, povera donna in un mondo maschilista, lei, già indemoniata - e quindi mezza matta - e soprattutto lei, prostituta? Chi le avrebbe creduto? Nessuno. E infatti gli apostoli la trattarono da svitata. I Due di Emmaus non "vedono” Gesù: non lo riconoscono infatti. Ma ci camminano insieme. Ci cenano. Ci parlano a lungo. E tutto questo mentre lasciano Gerusalemme, abbandonando il grup­ po, anche se con qualche dubbio. Anche questa suggestione è un pò atipica. L’unico veggente solitario più “sospetto" era Pie­ tro, i cui sensi di colpa potevano influire sulle percezioni. Ma sappiamo così poco di questa visione da non poterla giudicare. Inoltre l’autenticità delle altre suppone che sia vera anch'essa. Inoltre, anche Pietro era poco incline alla suggestione: credet­ te che il corpo fosse stato trafugato e considerò svitata la Mad­ dalena e forse anche le Donne. Anche dell’apparizione di Gia­ como sappiamo poco, ma anche per lui possiamo dire lo stes­ so che abbiamo affermato per Pietro: vere le altre visioni, vera la sua; aveva visto Gesù con gli altri apostoli a Pasqua, in Giu­ dea e in Galilea, poteva vederlo da solo. In quanto all’interpretazione mitica della Resurrezione, come ho già detto è da escludere sia per la datazione dei testi, sia per i riscontri archeologici. Peraltro non mancano coloro che, per pregiudizio ideologico, sono pronti a dare una lettura mitologica di parti della Scrittura, compresa la Resurrezione. Sono paradossalmente proprio certi teologi, più numerosi in ambiente protestante che in quello cattolico, che hanno forgia­ to la loro esegesi biblica sul presupposto di una datazione bas­ sa dei testi, ormai smentita, e sotto il forte influsso della teolo­ gia demitizzatrice di Bultmann20. In questo contesto temi ed

20 Rudolf Bultmann nel 1929 scriveva: “Io sono indubbiamente del parere che noi non possiamo sapere più nulla della vita e della persona­ 316 VITO SIBILIO

elementi della tradizione evangelica sono considerati simbolici ed allegorici, scelte paraletterarie funzionali alla contestualiz­ zazione biblica. Per questa teologia il Vangelo è mito non per­ chè falso, ma perchè linguaggio religioso con un proprio siste­ ma di simboli che rivestono la realtà. Il vangelo come trattato teologico prima che storia. A questo proposito va detto che sicuramente i racconti evangelici - e tanto più quello sulla Resurrezione - sono pun­ teggiati di riferimenti teologici, a cui io stesso ho fatto riman­ do via via. Anche le scelte stilistiche sono dominate da una ratio teologica. Peraltro nessuno può essere così ingenuo da disconoscere l’importanza della critica delle forme nella

lità di Gesù, poiché le fonti cristiane non si sono interessate al riguardo se non in modo molto frammentario e con taglio leggendario, e perché non esistono altre fonti su Gesù". Cfr. R. Bultmann, Jesus, Berlin, Deutsche Bibliothek, 1929; trad. ital. Gesù, Brescia, Queriniana, 1972, p. 103. Lo scopo dei Vangeli era dunque la catechesi: agli evangelisti non interessava affatto ricostruire la figura storica di Gesù, ma annunciarlo come Cristo Figlio di Dio. Nei Vangeli troviamo il Cristo della fede; Gesù è sicuramen­ te esistito, ma la fede di cui è stato fatto oggetto lo ha completamente sot­ tratto alla storia. Pretendere di ricostruire la vita di Gesù a partire dai Vangeli è assurdo; e quand’anche le ricostruzioni storiche fossero attendi­ bili, esse non avrebbero nulla da dire al credente, perché egli se ne disin­ teressa. A Bultmann, il cui pensiero esercitò un'influenza fortissima sulla ricerca del XX secolo, furono mosse varie obiezioni: ad esempio non con­ vinse il suo atteggiamento di rinuncia totale a qualunque collocazione storico-cronologica degli avvenimenti relativi all’uomo Gesù: pone obiet­ tive difficoltà pensare che la sua idealizzazione sia stata talmente radica­ le da farlo scomparire totalmente dalla storia a non molto tempo di distanza dalle sue vicende. Comunque la «Storia delle forme», che fa capo agli studi di Karl Ludwig Schmidt (1919), Martin Dibelius (1919) e dello stesso Bultmann (1921), si è interessata'della formazione e della trasmis­ sione dei materiali confluiti nei Vangeli a partire dalle singole unità pri­ mitive. Questa scomposizione testuale è stata senz’altro una grande pale­ stra filologica, ma l’ipoteca teologica che grava su di essa ha penalizzato di molto i risultati, inducendo a trattare i Vangeli più severamente di qualsiasi altro testo e non dando ragione della loro stessa composizione, che rimane un fatto storico. Cfr. K. L. Schmidt, Der Rahmen der Geschi­ chte Jesu (La cornice della storia di Gesù), Berlin 1919; M. Dibelius, Die Formgeschichte des Evangeliums (La Storia delle forme del Vangelo), Tübingen 1919, 19665; R. Bultmann, Die Geschichte der synoptischen Tra­ dition (La storia della tradizione sinottica), Göttingen 1921,19615, Ergän­ zungsheft 19623; cfr. H. Zimmermann, Metodologia del NT. Esposizione del metodo storico-critico, Torino, Marietti 1971, pp. 125-140. LA RESURREZIONE DI GESÙ 317 moderna esegesi biblica. Ma la sostanza dei fatti da noi esami­ nati rimane storica. Facciamo alcuni esempi. La presenza degli angeli alla tomba per alcuni è una ripresa delle vecchie agiofanie veterotestamentarie, in cui Dio parla tramite i suoi spiriti. Eppure in quelle agiofanie Dio parla solo attraverso i suoi spiriti. Qui, alle stesse veggenti degli angeli, dopo fa com­ parire il Figlio - e toccherebbe a rigori solo a questi surrogare gli angeli in una ripresa letteraria del VT. Inoltre, se non videro gli angeli, chi videro le Donne e la Maddalena? Chi diede alle prime l'annunzio della Resurrezione ? Varrebbero a questo punto le obiezioni fatte alla presunta esaltazione, se dicessimo che l’hanno capito da sole. Del resto, se per un teologo di oggi vedere un angelo è sicuramente un optional, per un ebreo devoto non lo era allora: autentiche o no, le visioni si buttava­ no, e non c'è bisogno di inventarsi topoi letterari per dare un fondamento al racconto evangelico. Il punto - l’ho detto e lo ripeto - non è se videro o no, ma se videro cose vere. Altro esempio: il terremoto e l’angelofania. Esegeticamen­ te potrebbe pure essere un topos. Però, Dio nel VT non sta mai in un terremoto, se non quando scende sul Sinai a dare la Leg­ ge: un contesto un pò diverso, direi. D’altro canto, se non ci fu sisma, cosa aprì la tomba? Cosa terrorizzò le guardie? Almeno quelle erano reali. Rimossa la causa mitica, l’effetto storico documentato appare inspiegabile. E anche qui, relativizzando, possiamo ben dire che anche se delle guardie avessero visto degli angeli, non sarebbero certo impazzite. Erano pagane, e nel loro cielo c’era posto per un nuovo sincretismo, popolato anche di angeli, e all’occorrenza di morti che risuscitano, forse anche figli di un Dio, visto che di dei ne'avevano tanti. Persino i sacerdoti potevano superare lo shock, considerandolo un inganno diabolico: tutti i gruppi sacerdotali attribuiscono, oggi come allora, a potenze oscure i prodigi che non possono ricondurre ai propri dei. Avviene anche oggi, e anche nel cri­ stianesimo. L’unica cosa che non poteva accadere era che la visione fosse incontrovertibilmente certa, e il popolo, monotei­ sta, si convertisse. Da qui la favola del furto del corpo, che però non spiega niente, come si è detto. Ancora, l’Ascensione di Gesù. Alcuni teologi sostengono che sia narrata in due modi diversi: alla fine di Mt e negli At, e interpretano simbolicamente gli elementi discordanti. Il mon­ te in Mt è simbolo della dimora di Dio, come il Sinai, il Carme­ 318 VITO SIBILIO

lo e l’iperuranico Monte di Dio dell'antico ebraismo preesilico. La nube degli At è segno della gloria di Dio, come nell'Esodo o sull’Arca dell’Alleanza. E via di questo passo. Forse bisogne­ rebbe partire dal fatto che Mt non descrive nessuna ascensio­ ne, ma solo un mandato missionario. Se qualcuno è tanto bra­ vo da spiegare perchè Mt debba parlare dell’Ascensione senza dire che Gesù ascese, o scomparve o qualcosa del genere, si faccia pure avanti, perchè davvero è un enigma incomprensibi­ le. Del resto Mt dà persino coordinate spaziali, anche se vaghe: un monte della Galilea - forse il Tabor. E perchè dovrebbe essere simbolico? Ha un valore simbolico, ma non è un simbo­ lo, almeno fino a prova contraria. Perchè Gesù non poteva andare su un monte? Andarci sul serio ha un valore più simbo­ lico che inventarlo su carta. E anche oggi fior di asceti o santi popolari vivono sui monti, con una scelta simbolica inconsa­ pevole forse, ma retile! Francesco d'Assisi fu stigmatizzato sul­ la Verna. Benedetto da Norcia costruì il suo monastero su Monte Cassino. Pio da Pietrelcina visse stigmatizzato sul Gar­ gano. Eppure nessuno dubita della storicità di questi luoghi. Solo Cristo non poteva fare l’alpinista? Dopo tutto, anche lui aveva una storia religiosa che lo precedeva e a cui voleva rifar­ si, con gesti simbolici ma concreti. Lo stesso dicasi della nube degli At: se Gesù disparve, dovette farlo in una maniera. E per­ chè non con una nube vera, ossia con una figurazione sensibi­ le che i discepoli, nel quadro della loro cultura, ben potevano riconoscere come segno della sua divinità ? I simboli hanno un valore per chi li vede e li decodifica, ossia a posteriori di un significato dato. Non precedono i significati. Esistono solo in un contesto culturale vissuto. Se Cristo fosse asceso in una fiamma, non c'era ragione di parlare di nube. Il simbolo è la chiave ermeneutica con cui il soprannaturale si rivela ad un uomo predisposto a comprenderlo, e non la consapevole mani­ polazione di un senso attraverso un significante posticcio, la cui scelta appare immotivata ai posteri. Perchè non la nube e non il Carro come Elia o Ezechiele? Perchè non la colonna di fuoco? Sono domande a cui un mitosimbolista non può rispondere. Ma uno storico sì: si parla di nube perchè nube fu. Del resto appare ridicolo, da parte di teologi “scientifici" accettare fatti inspiegabili come Resurrezioni o Ascensioni, e poi sottilizzare su nubi, monti, angeli e cose così. E qui venia­ mo al cuore della mitologizzazione del Vangelo: per questi criti­ LA RESURREZIONE DI GESÙ 319 ci il discrimen è proprio qui: la Resurrezione è un fatto reale ma non storico - ossia avviene in Dio ma non nel tempo - o almeno può non essere storico, senza che nulla cambi. A parte l'acuta e contorta sottigliezza, varrebbe la pena di sottolineare che a questo punto tutti i riscontri storici - letterari, archeologici, psi­ canalitici, ecc. - seppelliscono queste distinzioni bizantine: con tali abbondanti documenti, la Resurrezione o è storia o non è niente. L'idea che sia un fatto interno di Dio è inaccettabile: suppone già la fede nel Risorto, e una fede senza appigli è fana­ tica e superstiziosa. Che sappiamo noi di quello che fa Dio? Ci sono milioni di persone che nemmeno ci credono. E dovremmo affrontare l'enigma storico più grande in questo modo? E la tomba vuota ? C’era un corpo. Cosa è successo quando è passa­ to dalla storia alla realtà di Dio ? Questo è il passaggio, storico anch’esso, che ci riguarda. A questo punto potremmo persino ritrovare il corpo di Gesù, in uno scavo fantarcheologico come quello del film americano The Body, e continuare ad illuderci che sia risorto in Dio...Potremmo scoprire che gli apostoli e gli altri veggenti, che hanno avuto visioni nella loro vita e quindi nella storia, erano tutti psicopatici, e continuare lo stesso a cre­ dere, tanto Cristo è risorto in Dio...Meno male che la storia ha i suoi metodi, e se asserisce o nega lo fa con cose prosaiche e ter­ restri come il carbonio 14 o la stratigrafia o la filologia compa­ rati va... Altrimenti nei libri di storia la Resurrezione di Cristo sarebbe insegnata come vera, ma assieme all'apoteosi di , di Ottaviano o di Claudio, avvenute anch’esse nei Cieli e per decreto del Senato romano... Da dove verrebbe poi il mito della Resurrezione, anche se ci fosse stato paradossalmente il tempo perchè si formasse? Non certo dall’ebraismo: esso aveva prodigiose uscite dal mon­ do di persone vive, come Elia e Enoch; aveva sepolture introva­ bili, come quella di Mosè; aveva oggetti divini scomparsi, come l’Arca dell’Alleanza; ma non aveva resurrezioni che portavano il morto in uno stato ultraterreno. Aveva la resurrezione del figlio della vedova di Naim operata da Eliseo: il ragazzo era tornato a vita normale, come Lazzaro o la figlia di Giairio o della vedova di Naim. Ma nient’altro. Dunque bisogna cercare altrove21. Ma anche le resurrezioni pagane non possono funge­

211 maestri tradizionali della mitologia fanno di Cristo un mito sola­ re (Dupuis), una credenza deU’allegorismo alessandrino (Bauer), il prò- 320 VITO SIBILIO re da archetipo per il Cristianesimo: le rinascite degli dei paga­ ni sono legate a cicli teogonici o a teomachie come quella di Osiride, ucciso dal fratello Seth e ricomposto da Iside, ma rim­ piazzato sul trono celeste da Horus. Non hanno un valore sote- riologico, salvifico. In questo caso infatti c'è una lotta per il potere tra due esseri divini, di cui l’uno rappresenta l’ordine e l'altro il caos. Osiride è poi ricomposto non per virtù propria, ma per azione della moglie e del dio Anubi, e il tema della sua dipartita eclissa quello della sua rinascita. Altre resurrezioni ancora sono cicliche, come quelle del mito di Castore e Pollu­ ce. Peraltro, vicende mitiche come quella di Osiride e Seth era­ no comuni alle mitologie mediorientali, ed erano già entrate nella cultura biblica, ma molto addomesticate: c'è infatti chi vede nella storia di Caino e Abele la degradazione umana della lotta tra i due fratelli divini. Ma le molteplici mitologie del politeismo non hanno miti che si avvicinino alla dottrina cen­ trale del cristianesimo: un Dio che, degradandosi fino alla con­ dizione umana, viene ucciso per espiare le colpe del mondo, ma poi risorge come uomo perfetto. Il tutto una volta sola. Nessuna soteriologia antica ha questo schema. Non vi è dun­ que una fonte mitologica da cui attingere per la Resurrezione di Cristo. Mito fuori tempo massimo per fissarsi per iscritto, lo sarebbe ancora di più nel formarsi anche oralmente, quando i tempi sono ancor più lunghi, e sarebbe poi l'unico conosciuto a non avere rapporti con elementi culturali precedenti. Un pò troppo per essere scientificamente plausibile. Tanto più che, con un Gesù totalmente o parzialmente inventato, sarebbe impossibile spiegare l'origine del cristianesimo: chi fonda la fede in nome della quale nascono tali miti? Qual è il trait d'union tra il nulla rivestito di mito e i primi cristiani? Qualche parola va sprecata sul rapporto tra Resurrezione e profezia ebraica. Abbiamo detto che il clima creato dalla atro­ ce e meschina morte di Cristo distrugge i presupposti psicolo­ gici per ogni esaltazione mistica, e che il retroterra culturale non fornisce quelli per una nobilitazione postuma. Rimane il tagonista di un culto orientale della crocifissione come atto liturgico (Du Jardin) o un dio che soffre e redime in genere, nato a Roma intomo al 100 (Couchoud). Si sono fatti i nomi del dio Agni, di Ghilgamesh, del dio del Sole di Canaan. Oggi queste ipotesi sono poco più che folHoriche, som­ merse dalla quantità unica di codici e papiri e di riscontri archeologici. LA RESURREZIONE DI GESÙ 321 problema della profezia ebraica, che annuncia e prepara il messianismo. Non potrebbe avere essa influenzato i fedeli, facendo riconoscere in Gesù alcuni elementi del Messia, così da giustificare una fiducia postulata nella resurrezione? Il messia ebraico è, specialmente nel I secolo, per molti un messia guerriero e politico, un nuovo Mosè, un Davide redivi­ vo, un Giuda Maccabeo riveduto e corretto. Le profezie di glo­ ria dell'AT si attagliano perfettamente a quest’idea, e infatti il cristianesimo ha dovuto dame una lettura spirituale ed allego­ rica, interpretando i trionfi terreni come immagine di quelli celesti e interiori. L’unico messia riconosciuto mai dalla Sina­ goga fu, come ho detto, il bellicoso Bar Kokheba, poi tragica­ mente disconosciuto. Gli altri pretendenti erano altrettanto violenti22. In quest’ottica la figura di Gesù è un unicum, e la sua predicazione è un apax legomenon, che fa rivivere certo lo spirito profetico, ma che all'epoca non sembrava a molti asso­ lutamente adatto ad un messia. Non a caso attorno a Gesù non ci fu mai unanimismo, e gli stessi discepoli erano divisi. Cristo aveva la credenziale maggiore per essere messia re, perchè discendente di David, ma il dato non fu sempre noto ai suoi contemporanei, nè valutato positivamente (per molti Giuseppe era solo il povero fabbro di Nazareth; altri faticavano a legare l’appartenenza alla casa di Davide con la Galilea; altri ancora, dimentichi dell'identità patema, lo trattavano da figlio unico di madre vedova, e lo identificavano dal nome materno, smi­ nuendolo); inoltre non mancavano quelli che non legavano il messia alla Casa di David: per farsi riconoscere come inviato di Dio non fu di ostacolo a Bar Kokheba l’appartenere a famiglia diversa da quella dell'antico re. Infatti il casato di David era

22 II messianismo è documentato chiaramente nell'enochismo a par­ tire dal Libro delle Parabole (LP) e ha carattere superumano. Prima di LP sembra che più che di un Messia si dovesse parlare di un rivelatore di salvezza sempre con caratteri superumani. Del resto luna funzione non esclude l’altra. Presso i Farisei e i Sadducei e a Qumran la credenza del Messia era indiscutibile. Ma Sadducei e Farisei attendevano un solo messia, Qumran n e aspettava in alcuni periodi due: uno sacerdo­ te e uno re. Gesù rivendicò l’uno e l'altro stato per sé, e la Lettera agli Ebrei glieli attribuisce. Gesù è inoltre un rivelatore di salvezza. L’imma­ gine del Messia poteva essere molto diversa da autore ad autore anche all’interno dello stesso gruppo. In altri termini, sembra che la forma in cui il Cristo si sarebbe rivelato sarebbe stata chiarita solo al momento 322 VITO SIBILIO scomparso come tale da tempo, e il senso messianico dell'ap­ partenenza alla dinastia si era attutito da quando i Giudei si erano retti a teocrazia sotto il sinedrio e a ieromonarchia sotto Maccabei e Asmonei. Un legittimismo davidico era ormai fuo­ ri tempo. Circolavano inoltre voci per cui il messia doveva venire da un luogo sconosciuto. Addirittura per alcuni testi di Qumran sarebbero venuti due messia: uno sacerdotale e uno politico. Naturalmente Gesù mise in evidenza in relazione a sè stesso i temi che l'ortodossia ufficiale teneva in ombra, e si fece chiamare Figlio di David. Inoltre affermò di voler completare la Legge col suo insegnamento, riallacciadosi al messianismo mosaico, che prometteva nel Pentateuco l'avvento di un profe­ ta pari al legislatore del Sinai. Insomma, ben diversamente da quanto credono coloro che ne fanno un mero predicatore morale forse un pò ingenuo, il Gesù storico perseguì un pro­ getto di autopresentazione messianica che puntava su temi considerati di secondo piano o abbandonati almeno in parte dal messianismo nazionalista, e che invece metteva provocato­ riamente in ombra quelli accettati come fondamentali, reinter­ pretandoli del tutto. Segno che aveva un'idea “politica” ben precisa, ma anche che essa era di gran lunga osteggiata, altri­ menti non avrebbe dovuto insistervi tanto23. del fallo. 23 II discorso sulla messianicità di Gesù è stato viziato dall’interpre­ tazione che normalmente si dava (e ancora si dà da parte di alcuni stu­ diosi) del concetto di messianismo. Il Messia atteso, si dice, doveva esse­ re il discendente di David che sarebbe salito sul suo trono per ristabilir­ ne il Regno su scala mondiale, ma quésta è la concezione dei Salmi di Salomone, che - per quanto autorevole e diffusa, è solo una delle tante. Forse la più antica, ma solo e sempre una. Era compatibile con altre, ma non era la sola. Se questa fosse stata la concezione messianica di tutti gli ebrei, la pretesa che Gesù fosse il Messia e che fu alla base della Chiesa nascente sarebbe stata assolutamente innovativa e al di fuori delle cate­ gorie del pensiero ebraico. In Marco il segreto messianico è indizio del fraintendimento di Gesù da parte di alcuni contemporanei. Giovanni interpreta Gesù senza mezzi termini. Gesù non volle essere re alla maniera umana, perché il suo regno era di un altro mondo (6, 15 e 18, 36). E questo perchè non tutti gli ebrei aspettavano il messia-condottie- ro, come attendeva ancora R. Aqiba, che infatti lo riconobbe in Bar Kokheba. Al tempo di Gesù cerano in Palestina anche altri tipi di mes­ sianismo, legati o al sacerdozio o a figure superumane. Il pensiero di Gesù riguardo al Messia è espresso chiaramente in Marco 12, 35-37: che si sentisse o meno figlio di David, ci tenne a chiarire che il Messia era LA RESURREZIONE DI GESÙ 323

Ma il cuore del messianismo di Gesù di Nazareth è la pre­ tesa di essere Dio. Separare il suo magistero morale da questa pretesa è storicamente impossibile: la stessa vetta del suo inse­ gnamento, il corpus del Discorso della Montagna, da lui più volte ripetuto nella sua predicazione errante, si basa sulla con­ trapposizione tra l’autorità provvisoria di Mosè e la sua, defini­ tiva e divina. Ai suoi apostoli Gesù chiede una esplicita profes­ sione di fede nella sua divinità, e solo Pietro la fa. Perde molti seguaci facendosi Dio. Ai Giudei non riserva provocazioni, non solo chiamando Dio suo padre, ma autonominandosi Io-Sono, ossia assumendo la denominazione di Dio stesso. Come se non bastasse, si proclama Dio e Figlio di Dio e messia dinanzi a Caifa e al sinedrio. Dove lo porta tutto questo? Alla morte. Segno che nessun messia poteva, almeno all'epoca, deificarsi impunemente. E anche i suoi discepoli lo abbandonano: segno che in fondo tanto convinti che fosse Dio non lo erano...In real­ tà il messianismo del VT accredita in parte la fisionomia del Redentore come Dio. E i passi del VT che Gesù applica a sè stesso o che gli applicarono poi i discepoli sono esatti, ma suscettibili di altre letture. Solo i fatti potevano consacrarne l’interpretazione univoca, e fatti eccezionali come una Resur­ rezione, che smentiva il magistero del Sinedrio. L’idea del mes­ sia come Figlio dell'Uomo che, seduto alla destra della Poten­ za, verrà sulle nubi del Cielo, che è l’idea che porta Gesù a mor­ te, fa proprio una cosa del genere, combinando Daniele 7, 25 e Sai 110, 1. Per l’ebraismo “ufficiale” dell’epoca di Cristo, Il Figlio dell’Uomo di Daniele è assunto presso Dio, ma non è

superiore a David, il quale lo chiamò «mio signore». Egli si sentì il Mes­ sia in quanto Figlio di Dio e quindi superiore a David. E stato osservato che l’appellativo di “Figlio di Dio” non era per gli ebrei da intendersi alla lettera e che fu titolo attribuito non solo a Gesù, ma la sua fine atroce attesta che Egli se lo attribuiva in senso speciale; inoltre resta la sua autoidentificazione col Figlio dell’Uomo, il terribile Giudice escatologi­ co, anche se con Gesù diventa il giudice che perdona. Gesù si ritenne Messia superumano e se si affermò nella prima comunità cristiana ciò fu possibile solo perché per molti ebrei del tempo il Messia doveva avere caratteri superumani. Cfr. Charlesworth J. H., The Righteous Teacher and thè Historìcal Jesus, in W eaver W.P., Perspectives on Christology, Nashville 73-94, pp. 82-89. Cfr. V ermes G., Gesù l’ebreo, Roma 1983, pp. 224-233. 324 VITO SIBILIO

Dio: supera Yhumana condicio, ma per azione esterna di Dio, non per natura. Il suo potere è eterno, quindi lui è immortale, ma per grazia di Dio. E può essere sia il Messia, sia il Popolo intero. In verità gli esegeti credono più che sia il messia singo­ lo, ma questo attesta che il passo ammette un ventaglio d’inter­ pretazioni, di cui Gesù dà la più estremista, e il Sinedrio la più moderata. Per il primo il misterioso personaggio è simile a un Bar Masha’, a un Figlio dell’Uomo, ma è più di esso. Per i secondi è simile e quindi è un Bar Masha'. Per il primo il Bar Masha’ andrà realmente presso Dio, e riceverà realmente il potere celeste, per il secondo ci va in modo figurato e ha un potere terreno. Per il primo il Bar Masha' è personalmente immortale. Per il secondo più la sua opera. Ma per rincarare la dose, Gesù cita il sai 110 , 1 in modo discorsivo: Dio dice al Re messia di sedere alla sua destra fino alla vittoria definitiva. Del Salmo, messianico, ancora erano possibili varie interpretazio­ ni, ma Gesù, dicendo di essere Dio e Messia, rivendica per sè il privilegio di sedere fisicamente presso Dio. In questo è vicino alla corrente enochica, che nel Libro delle Parabole fa del Bar Masha’ il Giudice dei vivi e dei morti, per poi identificarlo con Enoc stesso (48,2; 71,14)24. Ma Gesù fa di sé il Giudice. Egli rivendica il ruolo di mediatore che certa apocalittica attribuiva a uno o più esseri superiori, detti a volte persino Elohim, e identificati con Melchisedec o Elia o qualcuno dei profeti. Ma Cristo lo fa per sé in modo esclusivo: egli non è un Elohim, ma è il Cristo, il Figlio di Dio Benedetto (Me 14,61: ho Khristòs, ho huiòs tou euloghetou). Credo che non ci siano dubbi sulla sua

24 Nell'enochismo assume una grande importanza la figura del rive­ latore (in questo caso Enoc), che è un uomo dalle caratteristiche partico­ lari, perché è uomo che nacque, ma non morì. Così anche nella tradizio­ ne canonica (cfr. Gen 5, 24). Il giudaismo conosceva già un’altra figura di uomo nato e non morto, destinato da Dio a tornare sulla terra per svol­ gervi ima funzione salvifica: Elia (vedi Mal 3, 23-24). In seguito avremo altre figure superumane, quella di un Melchisedek celeste, un arcangelo, nota da Qumràn (testo 11Q13, siglato anche 1 lQMelch; vedi anche Epi­ stola agli Ebrei 7, 3) e quella più grande di tutte del Figlio dell'Uomo del LP, che è detto essere stato creato da Dio prima dell’inizio del tempo e destinato a condurre il Grande Giudizio finale (Libro di Enoc - I H [LP] 48, 2 sgg.). Il Figlio dell’Uomo è identificato alla fine del libro (IH 71, 14: un'aggiunta?) con Enoc. L'enochismo aprì così la via alla credenza in mediatori e rivelatori di natura superumana. LA RESURREZIONE DI GESÙ 325 convinzione di essere Dio. Non a caso i suoi discepoli gli attri­ buiranno le prerogative di tutti i mediatori semidivini delle teologie giudee contemporanee (pensiamo al ruolo simbolico a cui è degradata la figura di Melchisedec stesso nella Lettera agli ebrei: essa prefigura il Cristo, e non ha più funzione pro­ pria)25. Se fossimo stati nel Sinedrio, non avremmo forse

25 Tutti sapevano che Elia doveva tornare sulla terra, perché così sta­ va scritto in Mal 3, 22-24 e ciò voleva dire che non era morto, anche se era nato come tutti gli uomini. Anche di Enoc si sapeva che non era mor­ to (Gen 5, 24) e l’esistenza della cosiddetta Tradizione Enochica mostra che molti credevano che Enoc fosse vivo in qualche parte del cosmo con funzioni particolari e molto vaste. Recenti scoperte di Qumràn ci hanno rivelato la credenza in un Melchisedek celeste, indicato come un elohim. (Cfr. 1 lQMelch). Cfr. Van D er W oude A.S., Melchisedek als Erlösergestalt in den neugefundenen eschatologischen Midrashin aus Qumran Höhle XI, in “Oudtestamentische Studie” 14 (1965), 354-373 e P uech E., Notes sur le manuscrit de 11 QMehhisédeq, in "Revue de Qumrän” 12, 1987, 483- 515. Cfr. inoltre la Lettera agli ebrei, 7, 3: «Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita...» e Enoc Slavo 68-73, dove Melchisedec nasce verginalmente da Sofonim ed è portato dall’arcangelo Michele nel giardino dell’Eden, dove vive eterna­ mente. Sul Melchisedec detto ‘elohim, cfr. Gianotto C., Melchisedek e la sua tipologia (Supplementi alla “Rivista Biblica” 12), Brescia 1984, 64- 75. Del Figlio dell’Uomo il Libro delle Parabole dirà addirittura che fu creato prima del tempo (cfr. Enoc Etiopico 48, 3). Se il fenomeno delle figure superumane era comune a tutto il giudaismo, lo sviluppo delle loro funzioni e della loro sempre maggiore grandezza fu fenomeno che avvenne nella sfera dell’essenismo e dell'apocalittica. Era opinione diffu­ sa al tempo di Gesù che qualcuna di queste figure (e magari anche altre) potessero venire sulla terra con funzioni salvifiche (Mt 11, 14: «Egli è quell’Elia che deve venire»; 16, 14: «Alcuni dicono che sei Giovanni Bat­ tista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti»; Le 9, 7-9;18-19; Gv 1, 19- 21). È chiaro che Gesù interpretava la sua funzione nei piani di Dio come messianica e di un messianismo decisamente più simile a quello superumano degli esseni e dell’apocalittica che a quello umano (davidico o no) dei farisei, pur senza escluderlo. Peraltro, i suoi seguaci gli attri­ buirono la concezione verginale di Melchisedec. Segno che l’eternità di Melchisedec, attestata dalla Genesi interpretata alla lettera, diventava fonte di un teologumeno nella letteratura melchitica e profezia antitipi­ ca in quella evangelica. Peraltro, il significato della sua concezione vergi­ nale in Le è quello di una attestazione della sua figliolanza divina, oltre che - in Matteo - dell'adempimento della profezia isaiana della Vergine che concepisce. Segno che la partenogenesi afferiva non solo al messia­ nismo superumano, ma anche a quello davidico. La contaminazione fat­ tane dai cristiani in senso stretto indebolisce l’uno e l’altro messianismo, 326 VITO SIBILIO anche noi trovato bizzarra la sua pretesa di divinità, superiore anche alle concezioni esseniche e apocalittiche? Per accettare una reinterpretazione dei passi che Gesù si applicava, ci voleva un riorientamento gestaltico molto profondo, che il Sinedrio non poteva accettare da un suo prigioniero. I suoi discepoli l'accettarono solo dopo la sua morte e solo per la Resurrezio­ ne, quando cominciò a valer la pena di credere che un tizio, che si era proclamato immortale ma che era finito in croce, potesse essere ancora considerato vivo perchè visto e toccato. Prima non aveva senso. Anzi era impossibile proprio perchè Gesù si era applicato profezie tutte diverse dalla fine che aveva fatto. E solo allora anche gli apostoli presero i salmi regali e frasi simboliche come quella "Tu sei mio figlio oggi ti ho genera­ to” (Sai 2,7) dette da Dio al Re, e le interpretarono letteralmen­ te, magari nella Lettera agli Ebrei (1,5). Non l’avrebbero fatto se Gesù non fosse mai risorto. Perchè nulla nella loro fede giu­ daica del I sec. faceva del messia il Figlio naturale di Dio. Que­ sta dottrina, mirabilmente espressa nel prologo di Giovanni con una terminologia filoniana ma di differente significato, introduce in Dio una comunità personale, che è l'embrione del dogma niceno-costantinopolitano della Trinità, per la quale Dio è Padre, Figlio-Logos e anche Spirito, che nel VT non sta da nessuna parte ma che è l’unica spiegazione teologica di un messianismo divino che si concili con la figliolanza divina26.

in quanto il Figlio di Dio è preconizzato quale figlio di David, e il figlio di Davide è tecnicamente Figlio di Dio. Segno che i cristiani erano obbliga­ ti a conservare una memoria dogmatica con fondamento storico. Resta poi il fatto dellautoidentificazione di Gesù con la più grande di tutte le figure superumane, Dio. In questo appare la novità di Gesù, ma è anche chiaro in quale sfera di pensiero si muoveva: era la ragione per cui egli era preesistente come Figlio dell’Uomo, ma non perché creato prima di ogni cosa, ma perché eterno . 26 Logos è termine tecnico filoniano, e Giovanni lo riprende. Ma que­ sto Logos non è la Sapienza veterotestamentaria ipostatizzata oltre l’arti­ ficio retorico, né l’essere semidivino la cui esistenza era postulata da cer­ ta letteratura sapienziale biblica. Il Logos giovanneo non è endiathètos all’inizio e dopo proforikòs, ma è sempre distinto da Dio sin dall’inizio, quando, in principio, era presso Dio e Dio lui stesso. Non è solo il mezzo che ha fatto il mondo, ma è la Vita stessa. Non è semidivino, ma Figlio unigenito, nel seno del Padre. Infine, si fa carne e abita in mezzo a noi, e ci fa figli di Dio. Possiamo dire che Gv ha con Filone in comune solo la LA RESURREZIONE DI GESÙ 327

Un salto dogmatico che la Sinagoga non poteva fare. Ma il Cri­ stianesimo, con un uomo risorto, sì. Con uno morto, certo no. E infatti, i primi cristiani, nei loro volumina e nei loro codices, quando scrivono Padre, Figlio e Spirito, lo fanno come quando gli Ebrei scrivevano Io-Sono, ossia il nome di Dio: abbreviato. Perchè sono Nomina Sacra, i nomi di Dio27. Ma nel corso dei secoli l'irriducibile monoteismo ebraico, attestato dal VT, creò non pochi ostacoli alla trinitarizzazione della sostanza divina, con i subordinazionisti, con i modalisti, con Ario e Macedonio. Segno che il passaggio dal Dio solitario del Sinai a quello comunitario di Gesù era davvero difficile, per la fede e la ragio­ ne. Infine, il messianismo di Gesù è un messianismo di dolore. Non ci voleva poi molto a capire che con le sue pretese divine sarebbe finito sulla Croce. Lui stesso l’aveva predetto. Ma non l’aveva temuto. E aveva annunziato la Resurrezione, con un termine incomprensibile per i suoi fedeli (anaistèmi). Essi ave­ vano una embrionale fede nella sua immortalità e divinità. Ma non capivano nè il risorgere nè il bisogno del soffrire, al di là del loro pur sentito attaccamento umano nei suoi confronti. Pietro rimproverò Gesù che parlava di morte, e ne fu rimpro­ verato a sua volta. Giacomo e Giovanni chiedevano un posto a destra e a sinistra nel regno messianico, e il maestro li invitò a considerare il martirio imminente suo e loro. Tommaso rasse­ gnato disse ai condiscepoli di accompagnarlo a Gerusalemme, dove voleva salire nonostante il mandato di cattura dei farisei: lì sarebbero morti tutti insieme, anche se nel brano giovanneo (11,16) si vede che non era proprio il massimo delle aspirazio­ ni dell’apostolo... Eppure Gesù faceva della sofferenza il cuore della sua missione. Ed era un insegnamento per i suoi intimi. E questo era un tema nuovo del messianismo. Gli ebrei non avevano un messia sofferente. I famosi Canti del Servo del Signore, nel Deutero-Isaia, e le poesie del dolore come il Sai

terminologia. Furono più i teologi del II see. a creare un’equparazione tra Giovanni e Filone, che però il I Concilio Niceno potè facilmente smentire rifacendosi proprio al prologo del Quarto Vangelo. 27 A. P ietersma, Kyrios or Tetragram: a Renewed Quest for the Origi­ nal LXX, in A. Pietersma - C. Cox, De Septuaginta. Studies in Honour of John William Wevers, Missisagua 1984, pp. 85-101. 328 VITO SIBILIO

22, che prefigurano in molte cose la passione di Gesù, persino in dettagli, e che suppongono alla fine - senza nominarla - una resurrezione del morto, non erano per il messia, ma per un servitore modello di Dio, forse per tutto il popolo, addirittura per il profeta o il salmista. Eppure Gesù applica a se stesso tut­ to quanto, arrivando persino a citare il v. 1 del sai 22 sulla cro­ ce: Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato. I discepoli ravvisarono per forza le somiglianza tra la passione del mae­ stro e quei testi più antichi di secoli e secoli. Ma dovettero attendersi la prova del nove: ossia che il messia realmente sof­ ferente, ritornasse realmente in vita. Solo così la pretesa di essere Dio sarebbe divenuta accettabile28. Non dunque un pro­

28 Gesù non pensava né che la sua predicazione, né che la sua mor­ te, della quale era cosciente, avrebbero portato ima soluzione al male del peccato. Il perdono e l’amore cristiano sono strumenti umani che non realizzano lo scopo ultimo, che rimane la sconfitta del peccato e del male. Al tempo di Gesù l’idea che il peccato dovesse essere in qualche modo espiato per essere perdonato da Dio era diffusa. Di mezzi ce n’era- no più d’uno ed erano accettati un po’ tutti. I qumranici avevano sostitui­ to interamente il culto del Tempio con la preghiera e l’espiazione era opera dello spirito divino che operava in seno all’assemblea degli uomini della setta. Cfr. la Regola della Comunità (1QS 3,6-9): «È per mezzo del­ lo Spirito dell’Assemblea della Verità di Dio che sono espiate tutte le azioni dell’uomo, tutte le sue colpe, cosicché egli possa contemplare la Luce della Vita. Per mezzo dello Spirito Santo della Comunità (fondata) sulla Sua Verità egli è purificato da tutte le sue colpe. Il suo peccato è espiato in spirito di rettitudine e di umiltà; con l'umiltà del suo animo di fronte ai comandamenti di Dio è purificato il suo corpo, quando è asper­ so di acqua lustrale ed è santificato con l’acqua della contrizione». È la preistoria della soteriologia cristiana della grazia, che a sua volta affon­ dava le sue radici in certo profetiamo ortodosso veterotestamentario. Gli enochici non parlano normalmente del Tempio, se non per dire che è destinato alla distruzione. Fa eccezione l’Enoc Slavo (2H), ma il Tempio di cui parla non è quello di Gerusalemme, ma quello non identificato di Azuhan (o Ahuzan). I farisei vedono l'espiazione per mezzo delle opere buone, anch’esse valorizzate dal senso etico dell'insegnamento di Cristo. Ciò non toglie che lo yom kippurim fosse celebrato anche nel Tempio. L'idea che il peccato andasse espiato risaliva almeno ad Ezechiele e sfo­ ciò nel rituale della festa dell’espiazione, regolato definitivamente in epo­ ca postesilica e descritto in Lev 16. (cfr. anche Lev 23,27-32 e Num 29,7- 11). Il principio dell’espiazione è costituito dall’idea che il sangue espia (Lev 17,11: «La vita (nefesh) degli esseri viventi (habbasar, “della carne”) è nel sangue; Io l’ho dato a voi per fare l’espiazione sopra l’altare per le LA RESURREZIONE DI GESÙ 329

cesso di suggestione dalla profezia alla vita, ma una rilettura della profezia scaturita dai fatti vissuti! Il contrario della mitiz­ zazione. L'idea che Gesù dava di sè come messia era talmente

vostre vite; perché il sangue espia per mezzo della vita (bannefesh)»). Poiché il peccato merita la morte, l’offerta di una vita placa la divinità che rinuncia così a richiedere la vita del peccatore. Si comprende così il ragionamento dell’autore della Lettera agli Ebrei nel cap. 9, dove c’è allu­ sione al rituale dello yom kippurim. Gesù lo ripete e il suo gesto ha un valore superiore a quello del Sommo Sacerdote, per la superiorità del suo sacerdozio e per la superiorità del sangue stesso di Gesù al sangue delle vittime. Questa è interpretazione contemporanea e diffusa (cfr. anche Rom 3,25; lGv 2,2; 4,10), e rappresenta l'intenzione di Gesù. E nella Passione e nella morte violenta il sangue è elemento presente. Tutti e quattro i vangeli concordano neH'orientare il racconto sulla morte di Gesù. Mi pare, però, che l’attenzione non sia rivolta soltanto alla morte, intesa come fine, sia pure violenta, ma piuttosto verso tutte le sofferenze che essa comportò. Gesù piange e chiede al Padre che, se quel calice poteva passare, che passasse. La coscienza di ciò che stava per accadere rende più dolorosi gli ultimi giorni. Si insiste sulle torture nel campo romano, sullo stato debilitato di Gesù che deve portare la sua croce fino al luogo del supplizio, sulla sua disperazione: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». La tradizione cristiana, seguendo il senso dei Vangeli, quando intendeva parlar della morte di Gesù, l’ha chiamata «Passione» e «Passione» non è solo «morte». Tutto lascia pensare che il dolore e il san­ gue fossero sentiti da Gesù stesso come parte indispensabile della sua missione. Il valore della sofferenza come espiazione è presente anche nel pHab 8,1-2: «Dio li libererà dal Giudizio (in senso concreto, “dalla casa del giudizio”) per le loro sofferenze e per la loro fede nel Maestro di Giu­ stizia». Il momento culminante dei rapporti fra Gesù e i discepoli è la cena pasquale, nella quale Gesù spezzò e benedisse con loro il pane e benedisse il calice dicendo «Questo è il mio corpo» e «Questo è il mio sangue». Gesù spiega anche il significato per cui versa il sangue: la stipu­ lazione del Patto. In Marco si parla semplicemente di Patto, espressione che l'aggiunta di «Nuovo» rende più piana. In tutti e tre i smottici segue «versato per» seguito da «molti» in Marco e in Matteo, da un «voi» in Luca. La passione è in funzione del Patto e il Patto è per una massa inde­ terminata in Marco e Matteo, che sono i discepoli in Luca. Il Patto è con­ cetto tipicamente ebraico, ed è ebraica la necessità che sia stipulato mediante il sangue. Il sangue torna ad essere essenziale nella vicenda di Gesù anche sotto questo punto di vista. Così è ebraica la specificazione di Matteo che il Patto di Gesù era in funzione della remissione dei pecca­ ti, eìs afesin amartion, in linea con la richiesta della gente, quale è chiara­ mente indicata da Marco per coloro che andavano da Giovanni per rice­ vere il battesimo. Il pensiero di Matteo è veramente più arcaico di quello degli altri evangelisti, perchè il concetto di afesis amartion aveva un valo­ re molto, perché il peccato era la radice di tutti i mali. 330 VITO SIBILIO articolata che, se smentita in parte, crollava tutta. Ma se con­ fermata nella sua istanza fondamentale, era inattaccabile. Gli apostoli erano dunque in attesa e non in suggestione. Ma un'attesa sofferta e difficile, perchè non tutti i giorni incontri un tipo povero e debole che ti dice di essere Dio, che morirà e risorgerà...Del resto non poteva essere diversamente: il mito o la leggenda modificano post-eventum, ma la profezia no: essa si dimostra nei fatti o se no cade miseramente. La sorte di tan­ ti millenarismi settari dei nostri giorni, per cui anche migliaia di persone attendono YarmaghedcLon col naso in su in questa o quella data, per poi rimanere delusi irrimediabilmente, lo dimostra. Solo il Cristianesimo non è smentito dalle sue profe­ zie, anzi le risintetizza tutte in un corpo compatto che supera il pluralismo esegetico dell’antico Ebraismo. È un successo ermeneutico di rara potenza teologica. Di tutte le correnti del­ la Sinagoga del I sec., solo il Cristianesimo ha salvato tutti i testi messianici e paramessianici del VT, unendoli in una sola visione. Che cosa rimane da credere, dopo tutto ciò, a chi ancora nega che la storia possa ammettere l'incontrovertibilità di un fatto soprannaturale? Forse che Gesù sia stato deposto dalla croce vivo, nonostante le ore trascorse inerte, senza poter respirare - la respirazione dei crocifissi esigeva il puntare le gambe per liberare la cassa toracica dalla tensione delle brac­ cia stirate daH’inchidamento, operazione che uno svenuto non può fare, per cui muore in qualche minuto - e nonostante la lanciata al cuore. Che sia rimasto tale tre giorni in un sepolcro, senza mangiare o bere. Che sia sopravvissuto al tetano dei cho- di, all’infezione dei flagelli, delle spine, del selciato morso nelle cadute e del legno ruvido della croce sulle ferite, e al sangue perduto, se non anche ad un inizio d'infarto, i cui straordinari sintomi si vedono già dal sudore di sangue nel Gethsemani. Che sia evaso sotto il naso di soldati romani, aiutato da don­ nette. O magari senza l'aiuto di nessuno, togliendosi un masso di qualche quintale dalla porta con le mani e i piedi lacerati. E che si sia spacciato per risorto ai suoi fedeli. Trascinandosi qua e là in Gerusalemme, Giudea e Galilea. Per poi andare a mori­ re da solo chissà dove, pago di un ultimo imbroglio senza sen­ so, di cui nessuno ha allora avuto sentore, nemmeno quei nemici che in vita gli avevano rivolto gli insulti più volgari. O magari, per essere alla moda, si può credere che sia addirittu­ LA RESURREZIONE DI GESÙ 331 ra fuggito a Roma o in Francia, guarito da ferite che avrebbero ammazzato un toro, e addirittura felicemente sposato e con figli, mentre i quattro fessacchiotti dei suoi discepoli si faceva­ no arrestare, torturare e uccidere per lui, mai risorto e nemme­ no mai morto, e nonostante ciò ancora creduto...Il tutto dimo­ strato da misteriosi testi criptati che però nessuno ha mai visto o decodificato. C’è anche gente che legge crípticamente i Van­ geli e gli Atti, fissando arbitrariamente chiavi di lettura che non solo non hanno riscontro, ma che cozzano con i dati archeologici e storici in genere. E c'è chi incassa un sacco di soldi riesumando leggende apocrife che fanno di Cristo e della Maddalena, ebrei dell’Impero romano del I sec., i capostipiti dei Merovingi, re barbari pagani del V secolo, nati e vissuti fuori dell’Impero..29 Magari ancora più originalmente faccia­ mo di Cristo un alieno (come faceva V. Zaitsev dell’Accademia delle Scienze di Minsk, o come molti pamphlet della Cina

29 B. T hiering, Jesus The Man: A New Interpretation From the Dead Sea Scrolls, New York 1992, è il libraccio peggiore della categoria a cui faccio riferimento. D. B ro w n, Il Codice da Vinci, immeritatamente dive­ nuto best-seller, non è da meno, sebbene non altrettanto originale, recen­ temente confutato da B.D. Eh r m an , La verità sul Codice da Vinci, 2004. Classici dell’assurdo e della bufala sono anche M. Baigent - R. L eig h, Il mistero del Mar Morto. I rotoli di Qumràn: dalla scoperta all’intrigo, Mila­ no 1997; E. W ilson, The Scrolls from the Dead Sea, New York 1955, che mistifica uno studio serio anche se non necessariamente condivisibile, quello di A. Dupont Som m er, Aperçus préliminaires sur les manuscripts de la Mer Morte, Paris 1950; Les écrits esséniens découverts près de la Mer Morte, Paris 1959; J.M. A llegro, Jésus and Qumràn: the Dead Sea Scrolls, in R. J. H offmann - G. A. L arue, Jesus in History and Mith, New York 1986, pp. 86-96, I d., The treasure of the copper scroll. The opening and decipherment of the most mysterious of the Dead Sea scrolls. A unique inventory of buried treasure, London, 1960, I d., Qumràn Cave 4 .1 (4Q158- 4Q186), Oxford 1968, I d., Il fungo sacro e la Croce, 1970 (trad, it.); R. R ei- senm an, Maccabees, Zadokites, Christians and Qumràn: A New Theory of Hypothesis o f Qumràn Origin, Leiden 1983, I d., James the Just in the Habakkuk Pesher, Leiden 1986, I d. - M. W ise, Manoscritti Segreti di Qumràn, Casale 1994, I d., Playing on arid transmuting Words. Interpre­ ting Abeit-Galuto in the Habakuk-Pesher, in Z.J. K apera (a cura di), Papers on the Dead Sea Scroll in Memory of Jean Carmignac, Cracovia 1991, I d.-M. W ise, Manoscritti Segreti di Qumràn. Tradotti e interpretati i Rotoli del Mar Morto finora tenuti segreti. 1 50 documenti chiave che fan­ no discutere l’esegesi biblica mondiale, Casale 1994. 332 VITO SIBILIO popolare), e con lui anche di Quetzalcoàtl, dio azteco (comé sostiene l’estrema sinistra militante dell’America Latina), o di Enlil, divinità sumera (come sostiene Z. Sitchin). Lo facciamo risorgere con un ufo, e lo portiamo su Vega, magari a combat­ tere contro Goldrake. Poco importa che non sappiamo nem­ meno se esistono gli alieni e che, anche se esistono, Gesù tutto sembrava tranne che un omino verde. E che anche un omino verde sarebbe morto con quei trattamenti. E che non si capisce perchè gli alieni volessero fondare una religione e non una colonia o una base spaziale. E che se la volevano fondare pote­ vano risparmiarsi tutta questa messinscena, su cui ci arrovel­ liamo da due millenni! Altro che intelligenze superiori. Queste tesi dimostrano che alcuni, dinanzi alla crisi del paradigma scientifico dell'impossibilità o indimostrabilità della resurre­ zione, non perdono la fede in essa, ma la puntellano grottesca- mente con ipotesi fantastiche, che prima di convincere gli altri devono convincere loro stessi. Del resto, anche Kuhn, nella sua epistemologia, aveva ben messo in evidenza il ruolo della fede prerazionale nella conoscenza scientifica e nei suoi modelli, che sopravvive anche alla sua confutazione, fino alla definitiva affermazione di un nuovo modello interpretativo. In quanto agli ufo, sono la grottesca caricatura della fede, che sostituisce al misticismo classico e trascendente quello postmoderno e immanente: atto di fede in attesa di dimostrazione per sostitui­ re un’altra fede vecchia, che in più i riscontri già li ha. Certo, se accettiamo i risultati di questa indagine, dobbia­ mo accettare una concezione nuova della storia. Anzitutto dobbiamo ammettere che l'ambito dell'indagine storica non si delimita da sè, per cui lo studioso non può dire che una tal cosa è possibile e l'altra no; egli deve invece sempli­ cemente constatare la fondatezza di un fatto per ritenerlo autentico o almeno possibile. È un sano principio di eterorefe- renzialità. Poi dobbiamo ammettere che lo storico non deve temere le conseguenze delle sue scoperte, facendosi giudice degli eventi: ciò che accade nella storia per effetto dello studio storico è una corrente storica tra le altre, e se un fatto dimostra la verità di una religione - o la sua falsità - l’esistenza di Dio - o la sua ine­ sistenza - non è compito dello studioso censurarla. Molte per­ sone comuni infatti non credono in Cristo risorto non perchè convinti della fine ordinaria della sua vita, su cui sanno poco o LA RESURREZIONE DI GESÙ 333 nulla, ma perchè temono di doversi convertire, non tanto ad una fede, ma a uno stile di vita. Altri invece non mettono mai in discussione le loro convinzioni fideistiche, per timore di scoprire di aver torto. Ma tra costoro la differenza la fanno le prove pro o contro. La storia non si fa in anticipo. È un princi­ pio di eteronomia storica. Bisogna almeno in linea di principio accettare che alla sto­ ria umana possa essere connessa una metafisica, le cui ipoteti­ che manifestazioni nel tempo possano essere storiche anch’es- se e quindi accertabili. Tale metafisica potrebbe benissimo influenzare gli eventi, e essere condizionata da essi nel modo di mostrarsi. Ciò peraltro implica la rivalutazione di una storia fatta non solo con la ragione, ma anche con il mito, la sensibi­ lità, la fenomenologia spirituale della cultura. E non per que­ sto dovrebbe essere meno logica o rigorosa. L'uomo non ha infatti solo il linguaggio logico-matematico, ma anche altre logiche, altrettanto salde e potenti, ancor più profonde ed esaurienti, perchè i fatti storici sono anzitutto un vissuto di singoli e collettività, degli erlebnis fondativi e fondanti, che non possiamo esaminare in modo asettico, ma che sono anzi obiettivamente analizzati solo se riconosciuti come determi­ nanti per la nostra vita. È la polimorfía del metodo storico, e la sua esistenzialità fondativa. Bisogna accettare un'ermeneutica che vada all’infinito, lungi dai monismi teorici e pratici, dai materialismi più o meno dialettici, dagli idealismi più o meno vicini alla fine del­ la storia, dai laicismi pragmatici che vorrebbero togliere le religioni dal vissuto storico, per rimpiazzarle con un vuoto malinconico e senza speranza. È la trascendenza della storia stessa. In una parola, la storia non è tanto historie, la parola greca che la qualifica come visione intellettuale unitaria e fissa, spes­ so preconcetta, e che non a caso i greci, che hanno fondato la disciplina, usavano poco; ma è soprattutto res gestae, cose compiute, è un insieme di tà ghenòmena ex antrópou, di cose fatte dall’uomo e rimaste. E cosa ha fatto l’uomo Gesù, prima e dopo di morire, è il fatto che più rimane nei secoli. Il fatto che si facesse Dio conta in subordine: è la sua umanità che lo affer­ ma o lo nega, con ciò che rimane di lei. E oggi, dopo duemila anni, il grosso della razza umana ancora accetta almeno impli­ citamente la sua pretesa di divinizzarsi: effetto che sarebbe 334 VITO SIBILIO senza senso, se privo di una causa, di una dimostrazione effi­ cace, che persuase i primi fedeli, l’eco della cui fede sopravvive vigoroso fino ad oggi ed è divenuto forza motrice centrale del­ la storia.