Del Bo, Rinaldo

Laureato in Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore e in Scienze politiche all’Università di Pavia, D.B. (Milano 1916-Roma 1991) è particolarmente attratto dai risvolti filosofici delle scienze sociali. È tale interesse a spingerlo a collaborare con la rivista “Corrente”, fondata da Ernesto Treccani nel 1938, dove trova un ambiente stimolante che lo spingerà a rivedere le sue posizioni iniziali di appoggio al regime. Dal 1939 D.B. avvia infatti una riflessione profondamente critica sulla natura del fascismo, che lo trasforma in un convinto sostenitore del sistema democratico, tanto che negli anni della Resistenza partecipa alla costituzione dei gruppi giovanili della Democrazia cristiana (DC), attività per la quale sarà anche arrestato.

Intanto nel partito la sua personalità si impone rapidamente: nel 1944 è nominato membro del comitato regionale lombardo, nel 1946 viene eletto membro del Consiglio nazionale, nel 1948 diventa vicesegretario della sezione di Milano e successivamente del Comitato provinciale.

Contemporaneamente, D.B. porta avanti anche gli interessi di natura accademica, assumendo prima la docenza di Filosofia del diritto all’Università di Macerata, poi quella di Diritto dell’organizzazione internazionale a Roma. Nel corso degli anni Cinquanta pubblica diverse opere di carattere filosofico, giuridico e sociale (una delle quali, La volontà dello Stato, ottiene il premio Viareggio), e collabora con riviste specializzate di tali settori, come il mensile “Rassegna di politica e storia”, che per molti anni è sotto la sua direzione.

Deputato nelle prime quattro legislature, è sottosegretario al Lavoro nel VII governo di Alcide De Gasperi, fra il luglio 1951 e il luglio 1952, quando si dimette per assumere l’incarico di responsabile nazionale per la stampa a la propaganda della DC. Al congresso nazionale di Roma dell’anno successivo viene eletto membro del Consiglio nazionale e vicesegretario del partito. Da sottosegretario al Lavoro, incarico che assume nuovamente fra l’agosto 1953 e il gennaio 1954 nel governo di Giuseppe Pella, riesce a favorire la composizione di varie controversie sindacali in stabilimenti industriali importanti come la Breda di Sesto S. Giovanni e l’Ansaldo. Nella medesima veste, nel 1952 presiede la delegazione italiana alla Conferenza internazionale del lavoro, a Ginevra.

Nel primo governo guidato da Antonio Segni, fra il luglio 1955 e il maggio 1957, è sottosegretario agli Affari esteri con delega all’emigrazione, e in tale veste si dedica energicamente alla difesa dei lavoratori italiani all’estero, favorendo la creazione di una vasta rete di assistenza sociale presso le sedi di maggiore afflusso migratorio. A seguito di una serie di disastri minerari in Belgio, nei quali perdono la vita numerosi lavoratori italiani, pone il momentaneo divieto all’emigrazione dei minatori verso il paese nordeuropeo fin quando non siano garantite adeguate misure di sicurezza sul lavoro. Per due volte è a capo della delegazione italiana ai lavori del comitato intergovernativo per l’emigrazione dall’Europa.

È ministro per i Rapporti con il Parlamento nei governi Zoli e di Amintore Fanfani, dal maggio 1957 al gennaio 1959, quando assume per un anno il portafoglio del Commercio estero, nel II governo Segni. In tale veste è il primo uomo di governo italiano a recarsi in URSS, con lo scopo di promuovere i prodotti italiani e di intensificare gli scambi commerciali bilaterali.

Dopo le dimissioni di e un breve interim del vicepresidente Albert Coppé, l’8 ottobre 1963 D.B. viene scelto dai governi dei sei paesi membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) come presidente dell’Alta autorità. Alla sua entrata in carica, D.B. trova l’organo di governo della CECA di fronte a problemi di diversa natura: non solo, infatti, le gestioni precedenti, giudicate troppo deboli, sembrano aver determinato una sorta di “ripiegamento” dell’organismo su funzioni meramente amministrative, senza un reale impatto sulla carbosiderurgia europea, ma la Comunità in generale sembra altresì essere stata messa in ombra dalla nascita della Comunità economica europea (CEE); la stessa idea di “fondere” gli esecutivi, sollecitata dal Parlamento europeo (PE) e già in discussione negli ambienti politici, ha avuto un effetto particolarmente negativo sul prestigio dell’Alta autorità. A questo va aggiunta la situazione di crisi che attraversa non più soltanto l’industria di estrazione del carbone, ma anche la siderurgia europea, che minaccia il ridimensionamento di un settore fino a pochi anni prima considerato strategico.

D. cerca quindi, fin dal primo momento, di rilanciare l’azione dell’Alta autorità e di intervenire in modo incisivo sulle difficoltà economiche. Innanzitutto si schiera per fondere gli esecutivi delle tre comunità non sulla base di un pieno allineamento sul Trattato CEE (v. anche Trattati di Roma), ma cercando invece sia di mantenere gli aspetti sopranazionali del Trattato CECA (v. anche Trattato di Parigi), sia di salvaguardare l’autonomia finanziaria dell’Alta autorità, puntando anzi su un rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo in materia di spesa. In realtà tali posizioni, sulle quali gli altri membri dell’organo si schierano compatti, saranno quasi completamente disattese dai governi degli Stati membri e, se l’Alta autorità manterrà le sue prerogative di azione, e quindi anche un livello adeguato di autonomia finanziaria, la parte di bilancio relativa alle spese amministrative sarà accorpata al bilancio generale CEE (v. anche Bilancio dell’Unione europea), nel cui ambito il PE ha ben pochi poteri.

Quanto alle difficoltà economiche, fallito il tentativo di promuovere una politica energetica comunitaria (v. anche Politica dell’energia), l’Alta autorità di D.B. non può rispondere alla crisi carbonifera se non con incentivi a ridurre la produzione, mentre per la siderurgia si accetta un innalzamento dei dazi doganali. In entrambi i settori, inoltre, l’organismo di Lussemburgo assume un atteggiamento più morbido rispetto al passato di fronte alle operazioni di concentrazione industriale.

In ogni caso le ristrutturazioni legate a tali razionalizzazioni stimolano un aumento dell’impegno in materia sociale, obiettivo che del resto D.B. si è posto fin dalla sua entrata in carica. Quindi non solo vengono varate nuove norme per migliorare le condizioni di vita e di lavoro della manodopera, ma si potenziano anche i meccanismi già esistenti volti a favorire il ricollocamento della manodopera licenziata, mentre viene lanciato l’ennesimo programma di finanziamenti per la costruzione di alloggi destinati ai lavoratori della carbosiderurgia.

Nonostante il suo mandato scada nel settembre 1965, la mancata nomina di un successore da parte dei sei governi fa sì che D.B. rimanga in carica fino al 1° marzo 1967, quando rassegna le dimissioni per motivi di salute. Nel messaggio di saluto ufficiale, espresso dalla voce del vicepresidente Coppé, gli altri membri dell’Alta autorità gli tributano un omaggio estremamente lusinghiero, indicandolo come «il presidente politico per eccellenza», che ha restituito all’organo della CECA un prestigio che sembrava aver perduto con l’uscita di scena dei primi due presidenti, e René Mayer.

Lorenzo Mechi (2010) Delors, Jacques

D. (Parigi 1925) è un uomo politico le cui molteplici carriere, come lui stesso ama ricordare, sono state sempre legate al servizio pubblico. Alla fine dell’estate 1944 entra alla Banca di Francia come stagista, poi nel 1945 diventa redattore. Dopo gli studi di economia, nel 1948 fa parte del gabinetto del direttore generale dei Titoli e fino al 1962 rimane alla Banca di Francia.

Unendo alla sensibilità cristiana convinzioni socialiste, nel 1938 Delors cerca di entrare nella Jeunesse chrétienne ouvrière (JOC), ma è troppo giovane e quindi aderisce alla Jeunesse étudiante chrétienne (JEC), poi ai Compagnons de France per evitare di essere mandato al Service du travail obligatoire (STO). Nel 1944 entra nel Mouvement républicain populaire (MRP), partito democratico-cristiano, ma ne esce nel 1946 per cercare un altro terreno politico più vicino al suo tipo di impegno, imperniato sull’alleanza fra riflessione e azione, che si rivela affine al motto della JOC, “vedere, giudicare e agire”, e che caratterizzerà il suo modo di lavorare.

Il vero punto di partenza del percorso politico di D. è il sindacalismo, come membro della Confédération française des travailleurs chrétiens (CFTC). Qui incontra due personaggi chiave della sua formazione: Paul Vignaux, medievista all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), e Albert Detraz, segretario generale della CFTC. Ma la confederazione non soddisfa molti militanti che, come D., ritengono che non rifletta le loro convinzioni. D. fa parte della minoranza rinnovatrice della CTFC, che si raccoglie intorno al giornale “Témoignage Chrétien” e al filosofo Emmanuel Mounier, fondatore della rivista “Esprit”, o ancora intorno a Jeune République, movimento creato da Marc Sangnier prima della guerra. Aderisce anche al club Vie Nouvelle, fondato nel 1942 da André Cruiziat, e collabora ai “Cahiers de la Reconstruction”, dove dimostra il suo talento pedagogico come esperto di economia sotto lo pseudonimo di Roger Jacques. Poi nel 1957 la CFTC gli affida l’incarico di animare il Bureau de recherches, d’analyses et d’études de la Confédération (BRAEC). Nel 1964 partecipa alla creazione del nuovo sindacato laico, uscito dalle fila della CFTC, che diventerà la Confédération française démocratique du travail (CFDT). In precedenza, nel 1960, aderisce al Parti socialiste unifié (PSU), che però abbandonerà ben presto. Anima un proprio club, Citoyens 60, creato nel 1959, che fa riferimento al “mouniérismo” e al socialismo utopistico dei primordi, cioè a Proudhon e a Fourier.

La formazione di questi primi anni permette di illuminare il profilo di D., che è stato spesso considerato atipico sia negli ambienti dell’amministrazione che in quelli della politica. Egli può essere considerato un esponente della cosiddetta “seconda sinistra”, che non fa riferimento al marxismo pur facendone oggetto d’analisi.

La seconda tappa che porta D. ad approfondire il suo impegno intellettuale e politico, e che progressivamente lo indirizzerà verso le questioni europee, è la nomina a capo del servizio affari sociali del Commissariato generale del Piano nel 1962. Poi, dal 1969 al 1972, è consigliere del primo ministro Jacques Chaban-Delmas nel primo governo del presidente , per gli affari sociali e culturali e, in seguito, per le questioni economiche, finanziarie e sociali. È l’iniziatore del progetto della Nouvelle Société presentato da Chaban-Delmas, che tuttavia si rivela un clamoroso fallimento sia per il governo che per lo stesso D. Alla morte di Pompidou nel 1974 lascia il governo. Nel frattempo diventa membro del consiglio generale della Banca di Francia (dal 1973 al 1979). Sul piano politico, nel 1974 aderisce con François Mitterrand al nuovo Partito socialista, dove diventerà successivamente delegato nazionale del PS per le relazioni economiche internazionali (dal 1976 al 1981), poi nel 1979 membro del comitato direttivo del partito. Il passaggio nel governo Pompidou gli è stato rimproverato dai socialisti, una circostanza che lo priverà di una base militante. Per capire questo percorso, è opportuno sottolineare che, partendo dal principio di rendersi utile, D. sceglie sempre di mettere le sue capacità di riflessione e di azione al servizio della società. Tiene anche dei corsi all’Università di Paris Dauphine dal 1974 al 1979 e dirige il centro di ricerche Travail et Société.

La tappa seguente sarà decisiva per gli affari europei. Nel 1979 D. è eletto deputato al Parlamento europeo e fino al 1981 è presidente della Commissione economica e monetaria. Poi nel 1981 è nominato ministro dell’Economia e delle finanze dal presidente Mitterrand, un incarico che manterrà fino al luglio 1984. Il suo ministero si segnala per le misure di rigore prese dal giugno 1982, a causa di un deficit pubblico eccezionale, e anche per il clamore mediatico che D. suscita nel marzo 1983 allo scopo di mantenere il franco nel Sistema monetario europeo (SME). In effetti, si trattava di far uscire il franco dallo SME a causa della sua debolezza, ma D. riuscì a evitarlo decidendo una svalutazione. Nel governo fa passare una legge sull’iniziativa economica, per incoraggiare la creazione di imprese e l’occupazione, e un’altra legge per la creazione di fondi salariali. Lo stesso D. ritiene che questo periodo abbia permesso alla Francia di acquisire in politica un “fondo comune” (v. Delors, 1994, p. 165), vale a dire la necessità di una moneta stabile e di un’economia aperta.

Il 18 luglio 1984 è nominato presidente della Commissione europea dagli Stati membri, su proposta di Mitterrand e in accordo con il cancelliere tedesco Helmut Josef Michael Kohl. In realtà spetterebbe alla Germania la designazione di un candidato. Ma al Vertice di Fontainebleau che ha riunito i capi di Stato dei paesi membri il 25 giugno 1984 (v. Accordi di Fontainebleau), sotto la presidenza francese, si coglie la volontà di Mitterrand di rilanciare l’Europa, per farla uscire da quella fase di stagnazione in cui è sprofondata da alcuni anni. La nomina di D. si iscrive in questo contesto; succede al lussemburghese e diventa il secondo presidente francese dopo François-Xavier Ortoli nel 1973.

Come presidente della Commissione europea dal 1985, D. lascia la sua impronta sulla storia della costruzione europea. Per questo la sua figura si annovera tra coloro che hanno contribuito a far diventare l’Europa una realtà istituzionale. Mantiene questo incarico fino al 1995, con due mandati successivi e due anni supplementari. D. trasformerà questa carica, considerata di norma di non particolare spicco in quanto primus inter pares, al punto da assurgere al rango di capo di Stato. L’esperienza acquisita in precedenza in vari campi si rivela proficua per fare disincagliare la macchina comunitaria in un momento di impasse, utilizzando al meglio le istituzioni ma anche gli uomini che lavorano intorno a lui.

Il primo periodo del mandato presidenziale, dal 1985 al 1988, è segnato da un’iniziativa audace, il Libro bianco (v. Libri bianchi), che si propone di completare la realizzazione del mercato interno ponendo di nuovo all’ordine del giorno gli obiettivi dei Trattati di Roma del 1957 che ha istituito la Comunità economica europea (CEE). Questo nuovo strumento comunitario diviene un punto di riferimento essenziale. Inoltre D. valorizza la capacità della Commissione europea di avanzare proposte trasformandola in un motore indispensabile dell’Europa. Fino a quel momento i rilanci europei sono avvenuti sempre a livello intergovernativo, più precisamente fra capi di Stato e di governo dei paesi dell’Europa occidentale. D. rompe con questo schema abituale e finisce per impersonare l’Europa stessa. Per questa ragione si è molto parlato del “metodo D.”, che fa capire la peculiarità di questo rilancio europeo.

Lo stesso D. lo ha qualificato come “metodo comunitario” (v. Delors, 2004), mentre altri l’hanno definito “metodo Jean Monnet”. In effetti D. riprende il modo di lavorare dei padri fondatori dell’Europa, Robert Schuman, Jean Monnet e Paul- Henri Charles Spaak: si procede per tappe, favorendo il metodo della cooperazione fra i paesi membri, ricercando il consenso, in modo che il movimento innestato diventi irreversibile. L’Europa si è costruita così, un settore dopo l’altro, e poi globalmente dopo l’integrazione dei mercati.

D. riprende questo modo di procedere con il Libro bianco del 1985, che tratta della competitività economica presentando una lista di 300 proposte per arrivare al Mercato unico europeo senza frontiere e senza ostacoli. L’obiettivo consiste nel dare una risposta agli ambienti internazionali, che vedono intensificarsi l’interdipendenza fra i paesi. Per questo D. giudica indispensabile realizzare il mercato europeo, per renderlo competitivo. La scelta intelligente di una scadenza, invece di un calendario che fissi una serie di tappe, colpisce tutti, soprattutto l’opinione pubblica. È l’obiettivo 1992, che diventa una formula magica, perché suggerisce che più niente sarà come prima dopo questa data. In questo si dimostra il fiuto di D., che attinge alle sue qualità di pedagogo proponendo formule chiare. Forse è a questo livello che si può parlare di un “metodo D.”: la pedagogia per qualsiasi tipo d’azione. Per le imprese direttamente coinvolte nella realizzazione dell’integrazione economica dei mercati quest’obiettivo rappresenta una sfida stimolante all’insegna della competitività. L’Europa ritrova nuovamente il suo slancio attraverso l’economia. D., esperto di problemi economici internazionali del PS, non può che cogliere questa opportunità, che poi è quella delle origini della costruzione europea.

La finalità è l’eliminazione delle barriere tariffarie fisse, ma soprattutto di quelle tecniche che sono state innalzate in seguito alla crisi petrolifera. Queste barriere tecniche, dette invisibili, si fondano su norme strettamente nazionali, come le esigenze sanitarie, di sicurezza, e non permettono di autorizzare l’importazione di prodotti non conformi. È una prassi che nuoce alla libera circolazione delle merci e si rivela un protezionismo camuffato. Questo trattato è diretto successivamente all’eliminazione delle frontiere fisiche e infine di quelle fiscali. Il progetto finale di D. è la realizzazione dell’unione politica dell’Europa, progetto che permette di distinguere quest’integrazione economica europea dalla zona di libero scambio. Proprio questo fine ultimo è il principio originale della costruzione europea (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

L’altro fattore che ha contribuito al clamoroso successo del primo mandato presidenziale di D. è il gruppo di persone di cui si circonda. I suoi collaboratori più stretti sono , direttore di gabinetto, e Bruno Dethomas, ex capo del servizio economico del giornale “Le Monde” che è nominato suo portavoce. La composizione della Commissione europea ha ugualmente contribuito a dare risalto a tutte le iniziative di D., in particolare grazie al vicepresidente britannico Lord Arthur Cockfield, che ha svolto un ruolo di primo piano, seppure in maniera discreta, nella preparazione del Libro bianco.

Il Libro bianco ha anche l’intelligenza di riprendere le proposte del Comitato Dooge (v. Dooge, James), già formulate in precedenza dalla Commissione europea, tra cui l’abbandono del voto all’unanimità a favore del voto a maggioranza (v. Maggioranza qualificata). Inoltre rilancia la cooperazione fra i paesi membri, chiedendo l’organizzazione di una nuova conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) – che dal 1957 non si è mai più tenuta – per procedere alla revisione di certi punti del Trattato di Roma del 1957 e preparare il terreno per il mercato unico e l’Unione europea: sarà l’Atto unico europeo del 1986. D. ha voluto che fosse chiaro come il Trattato di Parigi che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), mentre riteneva che quello di Roma a fondamento della CEE fosse più oscuro. L’Atto unico europeo è considerato dallo stesso D. la sua «migliore realizzazione: un trattato agile, muscoloso e senza grassi che getta le basi di un’Europa unita» (vedi Drake, 2002, p. 133).

Il discorso di investitura di D., pronunciato il 14 gennaio 1985 davanti al Parlamento europeo, presenta questo programma a lungo meditato ed elaborato nei sei mesi che separano la sua nomina dall’assunzione delle funzioni. La sorpresa lascia presto il posto all’entusiasmo per questo lavoro di rilancio europeo, che dà ai capi di Stato e di governo dei paesi membri il senso di partecipare ad un momento storico, proprio come voleva D. Ogni Divisione di cui si compone la Commissione europea prende in esame tutti gli ostacoli che dal Trattato di Roma impediscono la realizzazione del mercato interno. Grazie a questo modo di procedere D. riesce a coinvolgere tutte le parti che compongono la dinamica comunitaria, in particolare il triangolo istituzionale – Commissione, Consiglio dei ministri, Parlamento europeo – motivandole nuovamente in un’impresa comune (v. anche Istituzioni comunitarie).

In precedenza D. ha lanciato la sua seconda iniziativa, l’Europa sociale, che ritiene inscindibile dalla realizzazione del mercato unico nella sua versione economica. Prima di assumere le sue funzioni, il 12 gennaio 1985, riunisce il patronato e i sindacati europei a Val Duchesse (Bruxelles) per rilanciare il dialogo sociale. Questi dibattiti saranno il fondamento che in seguito permetterà di formulare la Carta sociale (v. Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori).

Il Consiglio europeo di Bruxelles del 29-30 marzo 1985 approva l’obiettivo 1992 e prende di nuovo in considerazione l’adesione di Spagna e Portogallo. Poi, nel Consiglio europeo di Milano del 28-29 giugno 1985, sotto la presidenza italiana di Bettino Craxi, il Libro bianco è accettato dagli Stati membri, malgrado il rifiuto del Regno Unito e della Danimarca. Si tratta del primo caso di questo tipo, in quanto è ancora in vigore il voto all’unanimità. Ma D. scopre che un progetto franco-tedesco di trattato di unione europea è stato elaborato parallelamente alla sua iniziativa, il che rischia di compromettere il successo del Libro bianco. Questo progetto di Mitterrand e Kohl si inserisce in un’altra prospettiva, intergovernativa e non più sovranazionale. Peraltro riprende il Piano Fouchet, che era stato presentato da Charles de Gaulle e da Konrad Adenauer negli anni Sessanta. Ma grazie allo spirito combattivo di D. il progetto franco-tedesco non viene preso in considerazione.

Il trattato dell’Atto unico europeo viene liberamente elaborato da un piccolo comitato, in particolare dallo stesso D. e dal segretario generale Émile Noël. Il progetto comprende il voto a maggioranza qualificata per tutte le questioni riguardanti il mercato interno, lo schema di un’Unione europea monetaria (UEM), l’attenzione all’ambiente, la dimensione sociale e la coesione “economica e sociale” che stabilisca una solidarietà fra regioni ricche e regioni povere. Quest’ultimo punto è considerato da D. uno dei pilastri della costruzione europea. Si delinea così un mercato unico di 329 milioni di consumatori. Dopo l’adesione della Spagna e del Portogallo il 1° gennaio 1986, gli ormai dodici paesi membri della Comunità europea firmano l’Atto unico il 28 febbraio dello stesso anno all’Aia.

Anche se il Trattato di Roma viene rivisto grazie all’Atto unico, la realizzazione del mercato unico non è attuabile senza un supplemento di misure specifiche, più precisamente nell’ambito finanziario, perché le risorse della Commissione sono insufficienti a sostenere lo sforzo di integrazione dei paesi membri. Il “Pacchetto Delors I” propone una riforma del budget comunitario adottata dalla Commissione nel febbraio 1987 (v. Bilancio dell’unione europea). Questo insieme di misure messe a punto dal presidente ambisce a portare le regioni europee allo stesso livello di competitività su tutti i piani economici, sia industriali che agricoli, per realizzare un mercato integrato e privo di squilibri pericolosi per il funzionamento dell’Europa. È il principio stesso della “coesione sociale ed economica” iscritto nell’Atto unico che rappresenta il tocco personale di D. (v. anche Politica di coesione)

Nella dichiarazione solenne di Stoccarda (v. Dichiarazione di Stoccarda), il 15 febbraio 1987, lo stesso D. afferma: «in altre parole, nell’aereo europeo ci vuole un pilota». Presenta quindi cinque orientamenti precisi: uno spazio economico comune, una crescita economica più forte, un funzionamento migliore delle istituzioni, una disciplina finanziaria più solida, una politica economica estera comune e salda. Più precisamente, questi obiettivi significano concentrarsi sulla solidarietà intraeuropea fra le regioni, un concetto inedito nella storia della costruzione europea. Per questo il “Pacchetto Delors I” viene abitualmente considerato un riflesso del pensiero filosofico che lo anima, di matrice cristiana socialista, e anche utopistica pragmatica. In questo preciso momento la costruzione europea integra il “tocco Delors”.

Il Consiglio europeo di Copenaghen del 4 maggio 1987 non adotta questo pacchetto di misure finanziarie a causa di divergenze sul bilancio comunitario. Ma Kohl, che ha la presidenza del Consiglio (v. anche Presidenza dell’Unione europea), prende l’iniziativa di convocare una riunione straordinaria a Bruxelles per l’11-13 febbraio 1988, dove il Pacchetto Delors viene finalmente approvato. Per D. si tratta di un successo personale importante. Il mercato unico si realizzerà gradualmente sulla base della riforma finanziaria ed entro il quadro giuridico dell’Atto unico europeo, con l’orizzonte dell’anno 1992 come scadenza. La Politica agricola comune (PAC) è stata adottata e le politiche dette strutturali, che scaturiscono dalla solidarietà fra le regioni, si andranno sviluppando molto rapidamente.

Il 12 maggio 1988 D. pronuncia a Stoccolma un discorso di fronte alla Confederazione europea dei sindacati per reinserire l’idea dell’Europa sociale in tutti i progetti adottati in precedenza. Lancia l’idea di una carta comunitaria dei diritti sociali che diventerà la Carta sociale. La sua risorsa vincente è il sostegno del Consiglio economico e sociale della Comunità europea. La carta sociale si iscrive nel solco della “coesione economica e sociale”, che punta ad inserire nei testi giuridici europei la nozione di progresso sociale allo stesso livello di quella di progresso economico. Viene sottoscritta dagli undici Paesi membri nel Consiglio di Strasburgo del 1989, con l’astensione della Gran Bretagna.

D. ottiene il rinnovo del suo secondo mandato presidenziale nella Commissione europea, per altri quattro anni, al Consiglio europeo di Hannover del 1988, come aveva auspicato all’epoca del lancio del programma del Libro bianco nel 1985. Nel frattempo l’Atto unico è entrato in vigore il 1° luglio 1987. In questo stesso Consiglio si concretizza il progetto di Unione europea monetaria (UEM), inserito nell’Atto unico. A D. è affidata la presidenza della commissione incaricata di elaborare la struttura dell’UEM: è composta di dodici governatori delle banche centrali e di tre esperti esterni. Questo nuovo passo in avanti della costruzione europea, per realizzare un’Europa coerente, rappresenta indubbiamente un altro successo messo a segno da D. Dopo un lavoro complesso a causa delle reticenze a livello sia tecnico che politico, e sulla base del Rapporto Werner del 1970, il risultato di queste discussione è presentato nel “Rapporto Delors” il 12 aprile 1989. Il Rapporto è adottato all’unanimità dai governatori delle banche centrali, il Consiglio europeo di Madrid lo ratifica il 27 giugno 1989 e fissa la data della prima tappa della sua realizzazione: il 1° luglio 1990.

Ma il secondo mandato di D. si svolge ormai all’insegna della diffidenza. Le sue precedenti iniziative non hanno incontrato il consenso di tutti i capi di Stato e di governo, in particolare del primo ministro britannico Margaret Thatcher. D. non gode più della stessa libertà, la Commissione rinnovata non si mostra più così compatta dietro il suo presidente. Anche i toni della stampa sono meno elogiativi. Quest’atmosfera nuova riflette anche il contesto europeo, radicalmente cambiato: da una parte, il blocco sovietico si è disgregato, dall’altra la disoccupazione in Europa è diventata un problema preoccupante.

La fine della Guerra fredda comincia con l’uscita dal blocco della Polonia e dell’Ungheria, per poi essere coronata dalla caduta del muro di Berlino (v. Germania) nel settembre 1989. D. appoggia immediatamente il progetto della Riunificazione tedesca. Il 6 luglio 1989 il vertice dell’Arche a Parigi, in cui si riunisce il G8, affida alla Commissione europea il coordinamento degli aiuti da fornire alla Polonia e all’Ungheria. D. accetta questo nuovo compito considerato come una consacrazione per l’Europa (v. Partecipazione dell’Unione europea a organizzazioni e conferenze internazionali)

Il suo discorso al Collegio d’Europa di Bruges, il 17 ottobre 1989, esprime la consapevolezza che dopo la fine della Guerra fredda emerge una nuova configurazione dei rapporti fra gli Stati. «La Storia accelera. Anche noi dobbiamo accelerare». Del resto questo discorso rappresenta anche una risposta a quello pronunciato dalla Thatcher l’anno precedente nello stesso luogo. Due visioni dell’Europa a confronto.

L’Atto unico è stato la condizione d’esistenza dell’UEM, gli anni seguenti sono dedicati alla sua realizzazione. Il Consiglio europeo di Dublino, il 28 aprile 1990, convoca una seconda conferenza intergovernativa, sia per istituire l’UEM che per elaborare l’Unione politica europea, in linea con la concezione di D. e dei federalisti europei (v. anche Unione europea dei federalisti): sarà il Trattato di Maastricht firmato nel 1992. Ma l’idea di unione politica inserita finalmente nell’ordine del giorno del Consiglio europeo non coincide con quella di D. La Commissione, che aveva avviato il progetto, è sorvegliata, e gli esperti dei governi preparano il Trattato di Maastricht senza un rapporto tecnico preliminare, come avrebbe desiderato D. In effetti la concezione governativa prevale su quella federale (v. anche Federalismo), in particolare a livello della politica estera comune. Agli occhi di D. l’Unione europea non ha gli strumenti per esercitarla correttamente a causa dell’unanimità richiesta per qualsiasi decisione comune. In un discorso davanti al Parlamento europeo, il 20 novembre 1991, esprime apertamente il suo disappunto in merito al risultato deludente del Trattato dell’Unione europea, ma si ritrova isolato. In seguito farà notare che la differenza di preparazione fra UEM e Unione politica ha contribuito in gran parte al successo relativo del Trattato di Maastricht adottato nel Consiglio europeo del 9-10 dicembre 1991. Il 7 febbraio 1992 viene sottoscritto il Trattato che consacra l’Unione europea riunendo Unione europea monetaria e l’Unione politica.

Giunto alla testa della Commissione della Comunità nel 1985, D. nel 1992 è presidente della Commissione dell’Unione europea. Con la sua riflessione e la sua azione ha contribuito a trasformare la situazione nell’arco di appena sette anni. L’accelerazione degli ultimi eventi legati alla caduta del muro di Berlino, alla riunificazione tedesca, alla prima guerra del Golfo ha rappresentato un forte incentivo al completamento di questo cantiere europeo rimasto sospeso dopo l’applicazione dei Trattato di Roma nel 1958.

Sul capitolo dell’Europa sociale D. ottiene che nel Trattato di Maastricht sia inserito un Protocollo sulla politica sociale. Il protocollo, tuttavia, è firmato solo da undici paesi perché la Gran Bretagna si astiene. D. si adopera perché il primo ministro britannico John Major accetti comunque di inserirlo nel Trattato, proponendo di divedere i dati sociali in due parti, una avallata dai Dodici, inclusa la Gran Bretagna, e l’altra solo dagli Undici. A differenza dell’Atto unico europeo del 1986, il Trattato di Maastricht contiene poco del “tocco D.”, fuorché nell’ambito dell’UEM. Durante la campagna di ratifica del Trattato D. sceglie coerentemente il silenzio. La Francia lo ratifica con un referendum il 20 settembre 1992 con una maggioranza risicata, mentre la Danimarca lo respinge.

Nel corso del Consiglio europeo di Lisbona nel giugno 1992 viene deciso un nuovo allargamento verso l’Europa settentrionale e centrale: Svezia, Finlandia, Norvegia e Austria. Ma a differenza dei precedenti, quest’allargamento viene realizzato senza un aggiustamento istituzionale preliminare a causa del rifiuto del Trattato di Maastricht da parte della Danimarca. Durante questo stesso consiglio a D. viene rinnovato eccezionalmente il mandato per altri due anni. Come il primo mandato ha visto la Spagna e il Portogallo aderire alla Comunità europea, con un allargamento dell’Europa del Sud, gli ultimi anni di presidenza vedono l’integrazione di Scandinavia e Austria nella nuova Unione europea.

D. adotta le stesse ricette che hanno reso un successo i suoi primi anni di presidenza alla Commissione europea. Riprende lo stesso schema d’azione presentando un “Pacchetto II” nel dicembre 1992 ed elaborando un anno più tardi un secondo Libro bianco dal titolo Crescita, competitività e occupazione.

Il “Pacchetto Delors II” presentato dalla Commissione europea nel febbraio-marzo 1992, quindi prima della ratifica del Trattato di Maastricht, ambisce a quantificare in termini finanziari l’applicazione del Trattato dell’Unione europea dal 1993 al 1997. Ma questa iniziativa è accolta negativamente dai paesi membri, tanto più che gran parte di essi è alle prese con difficoltà finanziarie. L’Europa dell’Atto unico europeo è di nuovo entrata in una fase di recessione, che coinvolge la triade Stati Uniti, Giappone e Europa. La dinamica politica europea legata agli ambienti internazionali si adatta difficilmente alle politiche nazionali divenute meno ambiziose. Il “Pacchetto Delors II”, considerato un’iniziativa prematura, si inserisce tuttavia nella continuità del lavoro comunitario, visto che il precedente scadeva nel 1992. Ma D. riesce a far adottare il Principio di sussidiarietà, che come quello già espresso della solidarietà è un concetto nuovo nella storia della costruzione europea. La sussidiarietà porta a valutare il peso rispettivo dell’azione comunitaria e dell’azione nazionale in relazione ad un determinato progetto. L’apporto comunitario ora è regolato in funzione di nuovi criteri, per permettere il riaggiustamento finanziario delle politiche strutturali. Questa nuova serie di misure finanziarie pone anche l’accento sulla riforma della PAC e sul necessario aumento delle risorse della futura Unione europea. Con difficoltà D. ottiene l’approvazione del Consiglio europeo di Edimburgo alla fine del 1992 per questo accompagnamento finanziario del Trattato di Maastricht, perché è costretto a ridimensionare la portata del “Pacchetto”.

Come il Libro bianco del 1985 ha accompagnato l’Atto unico europeo, il Libro bianco del 1993 intende apportare nuove misure complementari al nuovo trattato dell’Unione europea. D. presenta il progetto ambizioso di un modello di società europea, per dare una scossa all’Europa di nuovo preda del disincanto. Per questa ragione il Libro bianco è maggiormente centrato sugli strumenti per combattere la disoccupazione, in particolare condividendo i benefici secondo il principio della solidarietà. Inoltre insiste sulla necessità di una leadership europea forte. Questo Libro bianco è presentato al Consiglio europeo di Copenaghen nel giugno 1993 con una formula nuova: la diversità dell’Unione. Le istanze espresse da questo Consiglio restano vaghe e lo stesso vale per il Consiglio successivo che si tiene a Bruxelles nel dicembre 1993. Tuttavia alcuni paesi membri adotteranno autonomamente le misure indicate. In seguito il termine “occupazione” verrà inserito nel nuovo Trattato di Amsterdam del 1997, che però non riscuote l’approvazione di D.

Il Libro bianco del 1993 è considerato a ragione il “documento-testamento” di D. prima di lasciare la presidenza della Commissione europea nel 1995. La presidenza si conclude con una nota piuttosto amara, malgrado il bilancio impressionante, perché gli ultimi progetti di D. non ricevono la stessa accoglienza dei primi anni che avevano conosciuto un avvio spettacolare. Ma ormai si può constatare che il rilancio europeo mostra il “tocco D.”, malgrado il Trattato di Maastricht gli sia sfuggito di mano. Riprodurre lo stesso schema d’azione che è stato vincente dal 1985 al 1988 in un contesto internazionale profondamente cambiato dopo il 1989 gli è stato probabilmente fatale.

Nel 1996 D. conclude il suo mandato, iniziato nel 1992, come presidente della Commissione internazionale sull’educazione dell’United Nations education, science and culture organization (UNESCO). Occupa parallelamente la carica di presidente del Consiglio di amministrazione del Collegio di Bruges (1995-1999). Nel 1996 crea la Fondazione Notre Europe, un gruppo di studi e di ricerca con sede a Parigi, diretto da Pascal Lamy. Dal 2000 è presidente del Conseil de l’emploi, des revenus et de la cohésion sociale in Francia (CERC).

D. ritorna sulla scena europea all’inizio del 2000, lanciando l’idea di un nucleo composto da alcuni paesi membri europei che dovrebbe formare una sorta di avanguardia impegnata a mantenere in moto la dinamica comunitaria. Un’idea che viene ripresa dal ministro Joschka Fischer nel suo discorso alla Humboldt-Universität. D. conserva intatta la sua convinzione della necessità di «rilanciare la riflessione e l’azione» (v. Delors, 1994, p. 388).

Régine Perron (2009)

Deniau, Jean-François

Personalità eclettica e versatile, D. (Parigi 1928-ivi 2007) è stato un diplomatico e un uomo politico francese, oltre che un alto funzionario europeo negli anni Cinquanta. Europeista militante e impegnato nella difesa dei diritti dell’uomo, nel corso della sua vita si è distinto anche come scrittore, giornalista e navigatore.

Proveniente da un’antica famiglia di viticoltori della Sologne, D. si dedicò allo studio delle Scienze umanistiche (etnologia e sociologia) e delle Scienze politiche, diplomandosi presso l’Institut d’études politiques di Parigi. Dopo la laurea si specializzò in Scienze giuridiche ed economiche, ottenendo un dottorato di ricerca presso l’Università di Parigi. Nel 1950, superato l’esame d’ingresso all’École nationale d’administration (ENA) – istituto preposto alla formazione professionale degli alti funzionari pubblici – tornò in Francia, dopo aver trascorso un breve soggiorno in Indocina. Al termine del suo tirocinio presso l’Alto Commissariato francese a Bonn in Germania, nel 1952 venne nominato ispettore delle finanze.

L’esperienza all’estero portò D. a trovarsi impegnato tra gli anni Cinquanta e Sessanta sul fronte della politica internazionale ed europea. Coinvolto nella prima fase del processo di integrazione europea, partecipò attivamente alla nascita e alla formazione delle prime comunità europee (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Dapprima, nel 1956 fu nominato segretario generale permanente della delegazione francese a Bruxelles; poi, nel 1957 fu incaricato di redigere il preambolo dei Trattati di Roma, firmato in Campidoglio il 25 marzo. In quella breve ma incisiva introduzione che precede l’enunciazione dei principi, D. volle sottolineare, facendo uso di una terminologia insolita in un trattato internazionale, la forte carica “ideale” che soggiace all’atto costitutivo della Comunità europea, in cui si ribadiva la solidarietà dei paesi aderenti nella «difesa della pace e della libertà […] facendo appello agli altri popoli d’Europa, animati dallo stesso ideale».

L’anno seguente alla firma del Trattato, D. assunse la direzione del Gabinetto del commissario europeo Jean Rey a Bruxelles, responsabile delle Relazioni esterne della prima Commissione Hallstein (1958-1962) (v. Hallstein, Walter). Dopo aver concluso il suo mandato nel 1963 ed essere stato nominato nello stesso anno ambasciatore di Francia in Mauritania, ritornò alle Istituzioni comunitarie in qualità di commissario europeo. Nel 1967 il presidente francese Charles de Gaulle aveva caldeggiato la sua nomina a membro della Commissione europea presieduta dal belga Jean Rey nella fase più delicata dei negoziati di Allargamento della Comunità europea al Regno Unito, all’Irlanda, alla Danimarca e alla Norvegia. A D. fu affidata la guida della delegazione della Commissione europea incaricata di negoziare l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea; infatti, l’alto funzionario francese era già stato uno dei protagonisti del primo round di negoziati con gli inglesi nel 1962 e conosceva per esperienza diretta i problemi da dibattere e gli interlocutori della delegazione britannica. Come è noto i negoziati fallirono per volontà del presidente de Gaulle, il quale si era sempre mostrato contrario all’entrata della Gran Bretagna nella Comunità europea. Nel 1969, quando la Francia di Georges Pompidou – succeduto a de Gaulle – riaprì le trattative con i paesi candidati senza porre più ostacoli, D. riprese la direzione dei negoziati che nel 1973 avrebbero consentito l’allargamento della CEE alla Gran Bretagna, all’Irlanda e alla Danimarca.

Nel corso dello stesso mandato, oltre ai problemi concernenti l’allargamento, D. era stato incaricato di occuparsi anche delle questioni inerenti al commercio con l’estero e alla politica di assistenza ai paesi in via di sviluppo, allora in fase di crescente decolonizzazione. In tale veste partecipò attivamente ai negoziati del Kennedy Round (1964-67) e all’istituzione della tariffa doganale comune.

Al termine del suo mandato nel 1970, D. fu riconfermato nell’incarico con la responsabilità per il Commercio con l’estero nella Commissione Malfatti (1970-72) (v. Malfatti, Franco Maria) e ancora in quelle Mansholt (1972-73) (v. Mansholt, Sicco) e Ortoli (1973-77) (v. Ortoli, François- Xavier), per le quali si occupò degli Affari esteri e delle Politiche umanitarie. Durante questa fase, lavorò a stretto contatto con , il quale era stato nominato commissario europeo per l’Industria e il commercio nel 1970. L’autore del Manifesto di Ventotene nel suo Diario europeo 1970-1976 ricordava D. come un’uomo cultivé« , simpatico, capace di parlare de omni scibili et quibusdam aliis», ed evidenziava la convinzione con la quale egli sosteneva l’autonomia della Commissione europea nei confronti della pressione esercitata dai governi nazionali, sottolineando allo stesso tempo il suo carattere esitante ed eccessivamente diplomatico.

Tali qualità, congiunte a una particolare sensibilità politica e a una lunga esperienza nelle questioni internazionali, fecero di D. un candidato ideale per svolgere delicati incarichi diplomatici. Infatti, nel 1976, conclusa l’esperienza europea, l’alto funzionario francese venne nominato ambasciatore a Madrid dal Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing, il quale aveva ritenuto D. l’uomo più adatto a svolgere un’oculata azione diplomatica in Spagna, nella delicata fase di passaggio dal franchismo alla democrazia.

Al di là di questa parentesi diplomatica, D. decise di impegnarsi attivamente nella politica nazionale e, dimessosi dalla Commissione europea nel 1973, accettò l’incarico di segretario di Stato per gli Affari esteri (responsabile della cooperazione) prima e, successivamente, di segretario di Stato all’Agricoltura e allo sviluppo rurale del secondo e terzo governo di Pierre Messmer (1973-7194). In seguito alla formazione del nuovo governo di Jacques Chirac nel 1975, D. fu riconfermato alla segreteria di Stato presso il ministro delle Politiche agricole e, nel 1977, come segretario di Stato agli Affari esteri (responsabile delle relazioni con la Comunità europea) nel secondo governo di. Nel 1978, candidatosi alle elezioni legislative nelle liste dell’Union pour la democratie française (UDF), D. venne eletto deputato all’Assemblea nazionale. Successivamente fu presidente del Consiglio generale dell’UDF (1978-1981 e 1986-1997) e vice-presidente della Région centre del partito. Nel marzo del 1978 gli venne affidato dal primo ministro Barre il ministero del Commercio con l’estero e dal 1980 al 1981 quello per le Riforme. Nel 1979, l’ex commissario europeo e ministro francese partecipò con entusiasmo alle prime elezioni europee, riuscendo ad essere eletto europarlamentare nel Gruppo liberale e democratico (l’attuale European liberal democrat and reform party, ELDR) (v. Gruppi politici al Parlamento europeo). Per il Parlamento europeo (PE), D. fu vicepresidente della Commissione politica (1984-86) e membro della Commissione per le relazioni economiche esterne (1984-86).

Alla lunga carriera politica D. affiancò l’attività di giornalista ed editorialista per il quotidiano Le Figaro e il settimanale “L’Express”, attraverso cui manifestò un costante impegno nella difesa dei diritti civili e umani. Nel 1982 istituì il premio intitolato al fisico russo Andrej Dmitrievič Sakharov per la libertà di pensiero che dal 1988 ogni anno il Parlamento europeo riconosce a personalità e organizzazioni distintesi nell’attività in favore dei diritti umani e nella lotta contro l’intolleranza e il fanatismo. La sua battaglia per i diritti dell’uomo lo portò a organizzare numerose missioni umanitarie in diversi paesi del mondo dall’Eritrea alla Cambogia, dall’Afghanistan alla Cina e al Sudafrica.

A seguito dei vari impegni politici, culturali e umanitari, D. venne eletto Accademico di Francia nel 1992 e insignito del titolo onorifico di Grande ufficiale della Legion d’onore. Nel 2006, infine, per il ruolo avuto nella prima fase della politica comunitaria e per il suo comprovato europeismo, l’ex commissario europeo fu nominato membro del comitato d’onore del Trattato di Roma di cui cinquant’anni prima era stato l’estensore del preambolo. Filippo Maria Giordano (2012)

Destrée, Jules

D. (Marcinelle, Charleroi 1863-Bruxelles 1936), deputato socialista belga, ministro delle Scienze e delle arti, delegato belga alla Commissione internazionale di cooperazione intellettuale della Società delle Nazioni, è una delle figure politiche più significative del Belgio tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. La sua azione europea è rimasta relativamente misconosciuta, sia all’estero che in Belgio, dove molti storici e uomini politici ne hanno fatto il paladino del movimento vallone. Invece D., lungo l’intero corso della sua vita, ha sviluppato un’attività densa e complessa. Affrontare questa personalità “multipla” dall’angolazione europea consente, forse, di comprendere meglio il suo impegno di socialista e di metterne in risalto anche l’originalità e l’attualità.

Dopo gli studi primari a Marcinelle e a Mons, D. frequenta brillantemente il liceo classico al Collège communal di Charleroi dove insegna il padre, ingegnere e chimico, che aveva lavorato nelle fabbriche di Marcinelle e Couillet. Poi si iscrive alla Facoltà di diritto dell’Université Libre de Bruxelles (ULB), dove diventa segretario degli studenti progressisti e incontra Louis de Brouckère, Émile Brunet ed Émile Vandervelde, futuri personaggi di spicco del Parti ouvrier belge (POB). Frequenta anche gli scrittori Max Waller, Albert Giraud e Georges Eekhoud e si avvicina alla “Jeune Belgique”, che si batte a favore dell’“arte per l’arte” rifiutando una letteratura assoggettata ad una causa, ma non disdegna neppure il circolo dell’Art moderne. Questo cenacolo fondato Edmond Picard, avvocato e letterato di Bruxelles, difende una letteratura nazionale che sia interprete di un’ideologia politica e sociale. D., che collabora a diverse riviste letterarie, al “Journal de Charleroi” e a “La Flandre libérale”, si laurea in legge a vent’anni nel 1883. Iscritto al Foro di Charleroi – di cui diventa presidente nel 1907 – fa il suo praticantato dallo zio materno Alfred Hyppolite Defontaine e sarà coinvolto come avvocato in alcuni grandi processi a sfondo politico, come quello del “Grande complotto” (1899) o del “Complotto comunista” (1923). In principio è tentato dalla carriera estetica e letteraria e pubblica diverse opere, come Lettres à Jeanne (1886), Imagerie japonaise e Transposition (1888). Incontra l’incisore Auguste Danse, di cui sposa la figlia Marie nel 1889 – ma alla fine è la pratica della professione di avvocato e la scoperta della miseria operaia ad aprirgli la strada della politica. Nel 1894 l’instaurazione del voto plurimo, in occasione delle elezioni del 14 ottobre, porta in un sol colpo alla Camera ventotto eletti socialisti, di cui otto di Charleroi. D. fa parte del gruppo e resterà deputato fino alla morte.

Avvocato, scrittore, uomo politico impegnato – sarà anche consigliere comunale (1903-1911) e sovrintendente all’Istruzione pubblica di Marcinelle (1903) – D. ormai si impone come uno dei leader socialisti belgi. Con Émile Vandervelde pubblica Le socialisme en Belgique (1898) e con Max Hallet il Code belge du travail (1904). Fonda anche le Universités populaires per migliorare l’istruzione e l’educazione del popolo (1904-1914). Ma se difende con la stessa foga i diritti degli operai e la Vallonia (il 20 ottobre 1903 crea l’Assemblée wallonne, di cui sarà segretario generale fino alle dimissioni nel novembre 1919), non si può tacere il suo impegno a favore dell’Europa unita. D’altronde, è impossibile comprendere una battaglia senza l’altra, che sono radicate entrambe nell’esperienza belga del principio del Novecento.

Nel 1912 D. fa riferimento per la prima volta agli Stati Uniti d’Europa. Nella celebre Lettre au Roi sur la séparation de la Wallonie et de la Fiandre, testo che appare il 15 agosto nella “Revue de Belgique”, scrive: «Senza dubbio i socialisti sono internazionalisti, e insieme ai miei amici ritengo che sia positivo moltiplicare le intese fra i popoli, generalizzare le conquiste della civiltà, rinsaldare i legami fra tutti i membri della grande famiglia umana. Ma l’Internazionale, per definizione, presuppone delle nazioni. Più queste nazioni saranno costituite logicamente, organizzate saldamente, indipendenti e libere, più gli accordi che stringeranno reciprocamente saranno fecondi e solidi. Un dispotismo centralizzatore che sopprime con la forza la vita propria delle nazionalità sarebbe l’esatto contrario dell’Internazionale. Dunque è possibile sognare gli Stati Uniti d’Europa e amare la propria patria». Ora, per D., «la patria, quest’idea che muore» è innanzitutto amore per la sua terra natale, la Vallonia. Già nel 1906, in una conferenza tenuta al Jeune Barreau di Anversa, dimostra che non esistono né una nazionalità né un’anima belga. Afferma che il Belgio si compone di due comunità rivali – una fiamminga, agricola e cattolica e l’altra vallona, industriale e socialista. Queste tesi, riprese e sviluppate nel 1912, alimentano il dibattito imperniato sull’identità nazionale.

Al principio del XX secolo il piccolo Stato belga, nato nel 1830, cerca di definirsi. Edmond Picard – mentore di D. – è invece un ardente difensore dell’esistenza di un’anima belga. Nell’Essai d’une psychologie de la nation belge, pubblicato nel 1906, dimostra che esiste un’anima unica e specifica del Belgio. Pur non potendo negare l’esistenza delle due comunità, afferma che il loro legame è costituito dalla razza ariana che è «eminentemente progressiva, educabile, inventiva; la sua varietà latina con il brio e la verbosità, la sua varietà germanica con la riflessione e la tenace riservatezza». Picard, antisemita dichiarato, imbevuto della teoria sulle razze, osserva inoltre: «Questo Belgio, prodigiosamente popolato, notevolmente prospero, diverso nei suoi elementi ma nondimeno armonioso in quello che si potrebbe definire il suo meccanismo, la sua orologeria complessiva, che a passi misurati procede verso riforme eque, non propone un anticipo, uno scorcio dei futuri Stati Uniti d’Europa?». Se per Picard il Belgio, con la sua diversità – come del resto la Svizzera – prefigura la grande e serena Confederazione degli Stati Uniti d’Europa, D. coltiva speranze diverse. L’idea dell’intesa europea gli permette di soddisfare due esigenze apparentemente contraddittorie. In primo luogo, essendo un regionalista, l’Europa rappresenta una risorsa ideale per promuovere una regione ignorata all’interno di uno Stato belga centralizzatore. Inoltre, l’intesa europea consente di realizzare l’ideale socialista della pace e della solidarietà. D., come tutti i socialisti, ritiene che il sentimento nazionale non sia altro che un alibi, un’illusione creata dalla borghesia possidente per distogliere i proletari dai loro interessi di classe. La solidarietà che lega i lavoratori al di là delle frontiere dev’essere più forte di quella interna alle frontiere tra sfruttatori e sfruttati. Quindi l’internazionalismo operaio incarna la causa della pace internazionale e coincide con le aspirazioni e l’ideale pacifista di una certa élite intellettuale.

Dunque, prima del 1914 D. sogna gli Stati Uniti d’Europa, sintesi soddisfacente delle sue aspirazioni socialiste – essenzialmente internazionaliste e pacifiste – e delle sue rivendicazioni regionaliste. Nel saggioLa Wallonie, pubblicato a Parigi alla vigilia della guerra del 1914, scrive: «Il mio paese è la Vallonia. È incorporato politicamente in un paese più grande: il Belgio. E anche il Belgio è una piccola nazione che vive necessariamente della vita dei suoi grandi vicini e partecipa alla civiltà dell’Europa occidentale». Quindi si può pensare che sia “un nazionalista vallone” colui che nel 1906 dichiara di volere «opporre a qualsiasi propaganda del nazionalismo belga il suo nazionalismo vallone, esaltare la sua terra natale, la Vallonia, e la sua razza, quella francese»? La risposta dev’essere per forza di cose sfumata: è vero che il socialista rivendica per la Vallonia il diritto di formare una nazione. Ma non ha mai auspicato la scissione del Belgio: «[Comprendere] che in una coppia assortita ci sono due sposi non implica che si desideri la loro separazione», né ha mai professato odio per altri popoli. Sempre ne La Wallonie si può leggere: «L’adversus hostem […] è una massima per primitivi, nel 20° secolo non deve più esserci odio contro gli stranieri, perché ogni giorno si creano e si rinsaldano i legami fra tutti i membri della famiglia umana. Un bretone può amare la Bretagna, un provenzale la sua Provenza, senza smettere di essere un buon francese, e tutti e due possono, devono tener conto delle necessità dell’internazionalismo».

Ma come continuare a tener conto di queste necessità quando l’agosto 1914 dimostra che il motore della storia non è più la lotta di classe ma il nazionalismo? In altre parole, è il fallimento della II Internazionale, la sola organizzazione di massa che dal 1904 porti avanti un’azione militante ininterrotta per scongiurare la minaccia della guerra. Il Belgio è la sede dell’esecutivo del movimento. Il presidente del Bureau socialiste international dal 1900 non è altri che il “capo” del POB Emile Vandervelde. La segreteria nel 1914 è assunta da Camille Huysmans, che trasferisce i servizi e gli archivi del Bureau nei Paesi Bassi rimasti neutrali. Malgrado il deputato di Charleroi si mostri estraneo ai dibattiti che agitano l’Internazionale prima del 1914 (v. anche Internazionale socialista), fa proprie le dichiarazioni dei socialisti alleati riuniti a Londra nel febbraio 1915 per iniziativa di Vandervelde. Anche in Les Socialistes et la guerre européenne, pubblicato nel 1916, D. afferma che solo la disfatta della Germania assicurerà la pace e la democrazia in Europa. In questo senso ritiene che si debba continuare la guerra. E se pure riconosce all’Internazionale un’azione positiva per il mantenimento della pace europea prima dell’agosto 1914, giudica necessario ripensarla, come segnala in Souvenirs des temps de guerre: «Gli eventi attuali mostrano la realtà delle nazionalità e l’assurdità della concezione secondo cui è indifferente, per un lavoratore, essere sfruttato da un padrone inglese, francese o tedesco. Questo può essere vero sommariamente per i molto poveri, per il vagabondo estraneo a qualsiasi civiltà, ma non è vero per le grandi masse operaie». E in linea con i socialisti alleati apre una prospettiva sul dopoguerra: «E si vede meglio l’enormità delle conseguenze della guerra attuale: ci porterà – o (ma non sembra probabile) all’egemonia dispotica di un popolo sovrano basata sulla forza – o ad una federazione degli Stati Uniti d’Europa fondata sulla libertà e il diritto. Qual è il socialista che potrebbe dichiarare che questo formidabile dilemma lo lascia indifferente?».

Ma la Grande guerra costringe soprattutto D. a compiere diverse missioni diplomatiche, prima in Italia dove deve convincere ufficiosamente la popolazione ad entrare in guerra a fianco degli Alleati (dicembre 1914-agosto 1917); poi a Pietrogrado, dove questa volta in via ufficiale deve convincere i nuovi dirigenti socialisti a non uscire dal conflitto (inverno 1917-1918). D. conosce bene l’Italia, che ha visitato ancora da studente con il padre e il fratello, e in seguito con la moglie. Ha anche dedicato alcuni studi alla pittura italiana. Viene inviato per recuperare le opere degli artisti belgi esposte alla Biennale di Venezia e in seguito, a fianco dei deputati Georges Lorand (liberale) e Auguste Mélot (cattolico), cercherà di denunciare i metodi dell’invasore tedesco e di convincere l’Italia, la cui neutralità è oscillante, a far fallire la Triplice alleanza. Incontra anche Mussolini – dissidente socialista e fondatore del “Popolo d’Italia” – e la sua missione non sarà vana, infatti l’Italia il 25 maggio 1915 dichiarerà guerra all’Austria.

D., che è diventato ambasciatore straordinario e ministro plenipotenziario, all’indomani della Rivoluzione d’ottobre del 1917 viene inviato in Russia per convincere il governo Kerenskij a continuare la guerra contro la Germania. Ha appena il tempo di scoprire un paese in preda al caos – irriderà la rivoluzione comunista ne Les fondeurs de neige (1920) – che il colpo di Stato bolscevico, nella notte fra il 24 e il 25 ottobre, proietta Lenin alla testa della Russia. Il Trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918 conclude la guerra e il governo belga ordina a D. di lasciare la Russia. Egli cerca di raggiungere l’Europa occidentale attraverso la Finlandia, ma senza esito, perché l’accesso è bloccato dalla guerra civile. Allora si sposta a Pietrogrado e abbandona la Russia sovietica con l’ultima transiberiana. Dopo 113 giorni di viaggio in treno la delegazione belga raggiunge finalmente Vladivistok e da lì salpa per il Giappone e Pechino. D. lascia la Cina nel novembre 1918, imbarcando anche numerosi oggetti che esporrà nella sua casa di Bruxelles in rue des Minimes, dove sua moglie Mimie anima un salotto molto in voga nel periodo fra le due guerre.

Quando nel dicembre 1919 Léon Delacroix forma il suo secondo governo, affida il ministero delle Scienze e delle Arti a colui che Maeterlinck chiamava “l’oratore formidabile”. D., che rimane a capo di questo ministero fino al 24 ottobre 1921, promuove una politica pacificatrice e innovativa in materia scolastica e culturale. È impossibile elencare qui tutte le sue iniziative, ma si deve almeno menzionare la creazione dell’Académie royale de langue et de littérature françaises (19 agosto 1920), malgrado gli scetticismi e le resistenze incontrate.

Dopo le dimissioni dal ministero delle Scienze e delle arti il 24 ottobre 1921, D. prende nettamente le distanze dal suo partito e dalla politica belga. Preferisce dedicarsi alla Società delle Nazioni (SDN), «quel che esiste di più serio e pratico come strumento di pace». Il 25 aprile 1922 il Consiglio della SDN lo nomina delegato della Commissione internazionale di cooperazione intellettuale (CICI). Questa istituzione creata nel 1922 – antecedente dell’United Nations educational, scientific and cultural organization (UNESCO) – rappresenta uno dei primi tentativi di cooperazione culturale internazionale. La partecipazione di D. ai lavori della CICI è di natura soprattutto giuridica, ma dirige anche molti Entretiens et correspondances, istituiti nel 1931 per favorire gli incontri fra intellettuali tedeschi e francesi. Il primo Entretien, dedicato a Goethe, è organizzato l’anno successivo a Francoforte. Nel 1932 Paul Valéry e Ozorio de Almeida partecipano alle prime Correspondances. All’inizio degli anni Trenta D. è ancora convinto del ruolo positivo della SDN e insiste a varie riprese sulla necessità di pubblicizzare l’istituzione ginevrina. E ritenendo che il suo successo dipenda dal consenso che susciterà nell’opinione pubblica, scrive nel “Journal de Charleroi” nel novembre 1922: «Bisogna che la Società delle Nazioni sia conosciuta dalle masse operaie. È necessario che sia circondata di simpatia e non di diffidenza. Bisogna migliorarla se non è perfetta. […] Sarà tanto più attiva se sarà sostenuta dall’opinione pubblica mondiale». Indicando uno dei problemi intrinseci alla SDN e alla CICI – si tratta di istituzioni per loro natura internazionali, ma lavorano soprattutto in un’ottica europea – il socialista belga nel 1929 dirà che la cooperazione intellettuale non può attuarsi solo in una prospettiva europea.

La Grande guerra non solo permette paradossalmente a D. di prendere coscienza dell’esistenza di una realtà “belga”, ma lo apre anche ad una dimensione autenticamente internazionale. Al pari dei suoi contemporanei, il socialista è colpito dal declino e dagli squilibri presenti nel continente europeo. Nel dicembre 1926 aderisce alla sezione belga dell’Unione paneuropea (v. “Paneuropa”) – di cui sarà vicepresidente –, si entusiasma per il Piano Briand (1929-1930) e nel 1933 si impegna nel movimento della Jeune Europe, ma va sottolineata soprattutto l’azione svolta nella stampa cosiddetta di sinistra. Fra il 1920 e il 1935 scrive un centinaio di articoli per “Le Soir”, “Le Journal de Charleroi” e “Le Peuple” – è a Ginevra quando decide di raccogliere questi articoli nel libro Pour en finir avec la guerre (1931) – in cui difende l’integrazione politica, economica e culturale dell’Europa (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Nel giugno 1929 immagina anche di fare dell’Africa una colonia aperta a tutti i cittadini europei e di restituire alcuni territori alla Germania. E scrive in “Le Soir”: «Non è perché questo paese ha scatenato contro di noi una guerra abominevole che possiamo pensare di eliminarlo dalla carta geografica dell’Europa».

Avvertendo con forza la necessità di preparare l’opinione pubblica alle idee dell’internazionalismo europeo, denuncerà la mancanza di coinvolgimento dei socialisti belgi. Scrive in “Le Soir” il 9 maggio 1931: «Vorrei che nel Partito operaio belga e nei partiti socialisti europei fosse fatta una propaganda costante, ardente, energica a favore di Paneuropa e che fosse in tal modo sostenuta e rafforzata l’aspirazione confusa e disperata di milioni di lavoratori, industriali ridotti alla disoccupazione, contadini finiti in miseria. Di tutti i compiti attuali, questo è, a mio avviso, il più urgente e il più fecondo».

Quando D. muore a Bruxelles il 3 gennaio 1936, il giornale “Jeune Europe. Organe de la Ligue pour les Etats Unis d’Europe” gli dedica una pagina in cui ricorda che, contribuendo a divulgare l’idea di Europa nell’opinione pubblica belga, è stato «uno dei pionieri dell’idea europea in Belgio».

Geneviève Duchenne (2010) Diana, Alfredo

D., nato a Roma nel 1930, dopo essersi laureato in Scienze agrarie presso l’Università di Napoli si dedicò all’amministrazione e gestione delle proprie aziende agricole, perfezionando così le sue conoscenze in campo agricolo e sperimentando nuove tecniche.

Il 14 maggio 1969 fu eletto presidente della Confagricoltura e mantenne la carica sino al 1977. La strategia del nuovo presidente aveva alcune caratteristiche molto innovative, in particolare riguardo alla ristrutturazione organizzativa della Confederazione, in modo da renderla in grado di affrontare i cambiamenti nazionali e comunitari. Prioritaria, però, in tutta la sua azione, fu la volontà di impedire cambiamenti radicali in una situazione politica nazionale che egli riteneva grave e pericolosa. Benché la Confederazione tenesse ad essere percepita come non schierata politicamente, i principali partiti di riferimento rimanevano il Partito liberale e la Democrazia cristiana (DC), per la quale lo stesso D. invitò a votare per impedire l’ascesa del partito comunista e tentare di superare il centro-sinistra che egli riteneva esperimento pericoloso e deleterio per il paese. Inoltre, è proprio tra le fila di questi partiti che furono cercati parlamentari di riferimento, attraverso i quali influenzare le scelte politiche del governo.

Con D. si assiste alla trasformazione di Confagricoltura da sindacato datoriale in vero e proprio gruppo di pressione, attraverso un potenziamento avvenuto sia a livello regionale e nazionale, sia comunitario. Tale politica ebbe un risultato tangibile, dimostrato dall’aumento degli associati, in particolare fra le imprese familiari coltivatrici. La vasta azione di modernizzazione e razionalizzazione operata da D. e dalla nuova classe dirigente si concretizzò nella innovativa riforma dello statuto federale che invertì la tendenza, iniziata nel dopoguerra, alla verticalizzazione e centralizzazione.

Particolarmente incisiva e innovativa fu l’azione nei confronti della Politica agricola comune (PAC), nel tentativo di creare una Confederazione in grado di sostenere una modernizzazione tale da reggere la concorrenza con gli altri paesi europei, la creazione di canali formalizzati di pressione sulla definizione delle scelte politiche operate a livello europeo e la capacità di accogliere e applicare tali decisioni. L’Italia sembrava incapace di produrre politiche agricole adeguate; in particolare D. riteneva che la Democrazia cristiana non solo non fosse in grado di proporre politiche adeguate, ma che andasse al carro dei partiti di sinistra, impedendo sia al governo che alla Comunità economica europea (CEE) di incidere in un settore tanto vitale, soprattutto per quanto riguardava la politica delle strutture agricole. Basti ricordare che, proprio negli stessi anni, la legge italiana di recepimento delle direttive sociostrutturali della Comunità fu approvata soltanto nel 1975; oltre al ritardo di tre anni, ci fu anche la maggiore lentezza nell’emanazione degli atti normativi e applicativi di competenza delle regioni. La scelta di D. di rendere la Confagricoltura più operativa ed efficace a livello comunitario trovò la sua formalizzazione nella creazione di un Centro studi, con l’obiettivo di approfondire soprattutto le scelte politiche ed economiche per mettere la Confederazione in grado di incidere a livello nazionale ed europeo nella formulazione di politiche agricole vere e proprie. Il Centro studi doveva essere articolato in tre sezioni, una delle quali dedicata alla politica comunitaria e ai problemi internazionali, scelta fortemente innovativa rispetto alle altre organizzazioni agricole italiane.

D. continuò la sua azione ricoprendo ruoli di grande rilevanza politica: parlamentare europeo (eletto nelle liste della DC) dal 1979 e senatore della Repubblica nella IX (1983) e X legislatura (1987). Ricoprì inoltre il ruolo di ministro dell’Agricoltura e delle foreste nel primo governo di Giuliano Amato e di ministro per il Coordinamento delle politiche agricole e, successivamente, delle risorse agricole, alimentari e forestali nel governo Ciampi (v. Ciampi, Carlo Azeglio).

In qualità di parlamentare europeo, gran parte del lavoro e della azione di D. si sono concentrate sulla politica agricola; per questo è stato membro della Commissione per l’agricoltura oltre che membro della Delegazione al comitato misto Parlamento europeo/Corti spagnole. Numerosi sono stati gli interventi nell’aula parlamentare e tutti dedicati all’agricoltura. In uno dei suoi primi discorsi in Parlamento, dell’ottobre 1979, D. introdusse gran parte dei temi che poi riprenderà a più riprese negli anni successivi e che sintetizzano le sue opinioni riguardo la PAC. Il discorso si basava su una riflessione in merito alle ricadute a livello nazionale della PAC, in particolare all’importanza del principio di solidarietà sovranazionale, previsto dai Trattati di Roma, sul quale D. riteneva non ci dovessero essere ripensamenti anche in momenti particolarmente difficili per il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), perché Secondo D. la solidarietà nei confronti delle aree più povere della Comunità era l’elemento cruciale che rendeva la CEE qualcosa di diverso da una semplice area di libero scambio. Tale riflessione lo portò ad essere fermamente favorevole all’allargamento ai tre paesi dell’Europa meridionale, nonostante potessero essere pericolosi competitori dal punto di vista agricolo. Era un discorso che evidenziava tutti gli elementi centrali del dibattito sulla politica agricola, mettendone in luce tutte le principali difficoltà e i mancati obiettivi, rispetto a quanto previsto dal Trattato istitutivo (v. anche Trattati).

Riguardo agli effetti della PAC, D. metteva in discussione soprattutto i risultati conseguiti dall’obiettivo di un avvicinamento dei redditi, ritenendo che in alcuni paesi il divario fosse addirittura aumentato, come in Italia. Gli squilibri erano dovuti principalmente ai ritardi in alcune politiche, tra le quali la Politica sociale, regionale (v. Politica di coesione) e la Politica industriale. Inoltre un rilievo eccessivo era stato dato alla politica dei prezzi rispetto a quella delle strutture e maggior sostegno accordato alle produzioni continentali. Come D. avrà più volte occasione di ricordare in Parlamento, un altro elemento fondamentale del mancato sviluppo delle zone più povere e depresse stava nella scarsa attuazione delle politiche strutturali. In particolare, D. richiamava l’attenzione del Parlamento sulla necessità di rendere le direttive comunitarie obbligatorie (v. Direttiva), impedendo che ogni membro comunitario potesse, con la propria azione, impedirne, diluirne o posticiparne a lungo l’applicazione. Il punto centrale, più volte ripreso negli interventi dei primi anni Ottanta (caratterizzati da difficili discussioni all’interno del Parlamento europeo), riguardava il bilancio: nel tentativo di giustificare e salvaguardare la spesa della PAC, D. sottolineava l’esigenza di aumentare notevolmente il bilancio, perché riteneva che l’idea di rendere operative altre politiche necessarie allo sviluppo europeo soltanto risparmiando sulle spese agricole fosse impossibile. Inoltre, le spese agricole non dovevano essere tagliate, bensì incentivate, perché la gran parte degli obiettivi posti dal Trattato di Roma e ripresi dalla Conferenza di Stresa sulla PAC non erano ancora stati raggiunti. Nella sua attività di parlamentare europeo D. fu difensore degli agricoltori italiani delle zone agricole meno sviluppate della Comunità e dei prodotti agricoli mediterranei.

Oltre agli impegni prettamente politici, D. ha svolto ruoli di particolare importanza in confederazioni e consigli nazionali: vicepresidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro dal 1977 al 1980; governatore per l’Italia dell’International fund agricoltural development dall’agosto 1997 al luglio 1999; membro del consiglio d’amministrazione dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero; presidente della ricostituita Società italiana degli agricoltori. Dal dicembre 1981 all’ottobre 2001 è stato presidente della Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro, della quale è ora presidente onorario. È accademico emerito dell’Accademia dei Georgofili.

Giuliana Laschi (2010)

Dini, Lamberto

D., economista e uomo politico italiano, è nato a Firenze nel 1931. Laureatosi con lode in Economia e commercio all’Università di Firenze con una tesi in Scienza delle finanze, nel 1956 e 1957 è assistente presso le Università di Roma e di Firenze. Dopo studi di perfezionamento negli Stati Uniti, nel 1959 entra nel Fondo monetario internazionale (FMI), intraprendendo una carriera che lo porta a ricoprire la carica di condirettore centrale. Dal 1976 è nominato direttore esecutivo dello stesso Fondo in rappresentanza di Italia, Grecia, Portogallo e Malta. Dal 1979 al 1994 è direttore generale della Banca d’Italia, impegno in seguito al quale ricopre altre importanti cariche in organismi internazionali.

Nel 1994, dopo la vittoria elettorale dello schieramento di centrodestra, D. entra nel primo governo guidato da Silvio Berlusconi come ministro del Tesoro. Nell’inverno successivo, a seguito delle dimissioni di Silvio Berlusconi, riceve l’incarico di formare il nuovo governo e dal 17 gennaio 1995 al 17 maggio 1996 è Presidente del Consiglio dei Ministri e ministro del Tesoro ad interim in un governo tecnico costituito esclusivamente da non parlamentari. Dall’ottobre 1995 assume anche l’interim del ministero di Grazia e giustizia.

Nelle dichiarazioni programmatiche che accompagnano la costituzione del suo ministero, D. pone l’attiva appartenenza dell’Italia all’Unione europea come uno dei punti qualificanti dell’azione di governo. Il contenimento del disavanzo pubblico per il rientro della lira nel Sistema monetario europeo (SME), da cui era uscita a seguito della svalutazione dell’autunno 1992, viene considerato uno dei principali obiettivi di politica economica da perseguire, mentre l’inclusione dell’Italia in Europa ed il rispetto degli impegni previsti dal Trattato di Maastricht è considerato un traguardo essenziale della politica estera.

Alle elezioni dell’aprile 1996, D. si presenta con l’Ulivo, la coalizione di centrosinistra guidata da , con una propria sigla (Lista Dini). Dopo la vittoria dell’Ulivo, gli viene affidato il ministero degli Affari esteri, incarico in cui viene riconfermato nei successivi governi D’Alema e nel secondo governo di Giuliano Amato, fino al termine della legislatura.

Durante la sua permanenza alla Farnesina, il fulcro della politica estera italiana si definisce sempre più in direzione della “vocazione europea” e del rinsaldamento del legame transatlantico. Nel primo semestre del 1996, l’Italia è alla presidenza dell’Unione europea e il 29 e 30 marzo dello stesso anno, a Torino, si tiene la Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) per la prima revisione del Trattato di Maastricht. I lavori condurranno al Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997.

Nel novembre 1996 viene raggiunto l’obiettivo del rientro della lira nello SME, mentre l’ottobre 1997 sancisce l’ingresso operativo dell’Italia nel sistema di Schengen.

Coerentemente con l’intento del governo di tessere una serie di relazioni privilegiate in ambito mediterraneo dirette a superare definitivamente retaggi negativi del passato, nel 1998 D. e il suo collega libico firmano un accordo bilaterale nel quale si affrontano i temi irrisolti tra i due paesi: tra gli altri punti la Libia rinuncia alla pretesa del pagamento dei danni della colonizzazione e della guerra, mentre l’Italia si impegna a fornire alla Libia un sostegno speciale in campo economico, tecnico e culturale.

Sempre in qualità di ministro degli Affari esteri, D. dovrà fronteggiare la drammatica situazione nei Balcani. In Albania l’intervento italiano si impegna a promuovere il ritorno alla democrazia, quale premessa per la ricostituzione dell’ordine pubblico e per il risanamento economico e finanziario del paese. Successivamente, in seguito all’aggravarsi della crisi in Kosovo e all’inizio delle operazioni aeree dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), nel marzo 1999, l’Italia interviene per la prima volta dal dopoguerra in azioni militari in un paese europeo, affiancando a questo intervento l’assistenza umanitaria.

Eletto al Senato nel maggio 2001, dal febbraio 2002 al luglio 2003 D. opera come rappresentante del Parlamento italiano alla Convenzione europea per la preparazione della bozza di Costituzione europea. Riconfermato senatore nel 2006, il 6 giugno 2006 è eletto presidente della Commissione esteri del Senato.

Nunzia Guardigli (2007)

Dinkelspiel, Ulf

D. (Stoccolma 1939) dopo aver compiuto studi all’Università dell’Arkansas, USA, nel 1956-57, seguiti qualche anno più tardi da una laurea in Economia e commercio presso la Scuola di economia di Stoccolma, lavorò come addetto presso il ministero degli Affari esteri, nel 1962.

Durante tale incarico, D. lavorò dapprima nell’ambasciata svedese di Tokyo dal 1963 al 1965 e poi nella delegazione svedese dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) a Parigi, dal 1965 al 1967. Tuttavia, in un periodo nel quale la Svezia stava per iniziare le trattative con la Comunità economica europea (CEE), egli si rivelò un collaboratore prezioso al ministero degli Esteri. Il governo nominò l’ambasciatore Sverker Ǻström come capo della delegazione svedese per i negoziati. Ǻström si dimostrò un abile ed esperto diplomatico. Ma come ex capo della sezione politica del ministero degli Esteri e successivamente ambasciatore presso le Nazioni Unite, Ǻström si era distinto principalmente nel settore della politica per la sicurezza, e tra i maggiori interpreti della politica svedese di neutralità.

La nomina di Ǻström a capo negoziatore rifletteva le priorità del governo svedese nelle trattative con la CEE. Mentre il raggiungimento di un accordo era ritenuto un obiettivo di massima importanza, in nessun modo la Svezia avrebbe accettato che i vincoli autoimposti alla politica di neutralità fossero pregiudicate. Per rimediare alla propria limitata esperienza in materia economica, Ǻström scelse D. come segretario personale con vasta esperienza in questo settore. Durante l’intero periodo delle trattative, D. ebbe funzioni di assistente del capo negoziatore, illustrando la logica economica delle differenti soluzioni ed elaborando le implicazioni pratiche di una materia sovente molto tecnica. Nelle proprie memorie, Ǻström elogia il proprio gruppo di collaboratori, in particolare indicando D. come la persona chiave nelle trattative.

Grazie al proprio ruolo nei negoziati sull’accordo relativo all’Associazione europea di libero scambio (EFTA) tra la Svezia e la CEE, D. sviluppò una vasta conoscenza del processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Tuttavia, sarebbero occorsi altri 14 anni prima che egli avesse la possibilità di farla fruttare appieno. Dopo la conclusione delle trattative, fu offerto a D. un interessante incarico all’ambasciata di Washington D.C., nella quale operò dal 1975 al 1979. In seguito dovette fare ritorno a Stoccolma dove venne nominato assistente del sottosegretario di Stato, ovvero secondo soltanto al più alto funzionario del ministero, l’ambasciatore Leif Leifland. Nel 1983, D. stesso ricevette la nomina ad ambasciatore.

Allorché i rapporti con la CEE assunsero il primo posto nell’agenda politica nella seconda metà degli anni Ottanta, era ovvio che D. vi avrebbe svolto un ruolo fondamentale. Poiché era chiaro che la Svezia si trovava ancora una volta dinnanzi a negoziati complessi sia all’interno dell’Associazione di libero scambio europeo, sia con la CEE, la scelta di D. come capo negoziatore sembrò la più naturale. Egli lavorò con il ministro del Commercio, Anita Gradin e con il sottosegretario di Stato, Michael Sohlman, definendo priorità e strategie, guidò e coordinò un nutrito gruppo di funzionari svedesi impegnati nei negoziati. Con il progredire delle trattative, D. partecipò alle riunioni di gabinetto, anche se limitatamente al ruolo di funzionario pubblico che illustrava i problemi tecnici o gli sviluppi negoziali.

Nell’ottobre 1990, il governo svedese mutò la propria posizione in merito all’adesione alla CEE. Secondo il governo, la decisione fu determinata, tra l’altro, dallo scarso progresso nei negoziati per lo Spazio economico europeo (SEE) e dalla scarsa disponibilità mostrata dalla CEE in tema di poteri e procedure didecision-making , rispetto alle aspettative iniziali della Svezia e degli altri Stati EFTA. D. ha asserito che a un esame retrospettivo, non c’era da sorprendersi per la posizione assunta dalla CEE su tali questioni. Le trattative, dopo la presentazione della candidatura nell’estate 1991, con D. ancora alla guida, vennero intensificate in vista dell’adesione.

Quando nell’autunno 1991 il leader del Partito conservatore, Carl Bildt, formò una nuova coalizione governativa, D. venne promosso a un incarico di governo e nominato ministro degli Affari europei. Dopo aver fatto carriera come burocrate, al servizio dei governi socialdemocratici, D. era ora diventato un politico e un membro del Partito conservatore. In tale nuovo ruolo, egli ebbe maggiore visibilità che in precedenza. Appariva quasi ogni giorno sui media nazionali, assicurando che il governo avrebbe seguito una linea ferma su varie questioni vitali per i cittadini e che un trattato avrebbe rispecchiato l’interesse nazionale svedese. L’opinione pubblica svedese che, a quel punto, secondo i sondaggi di opinione, era in maggioranza contraria all’adesione all’UE, riteneva D. affidabile nel difendere prerogative nazionali come il principio del libero accesso agli archivi di Stato, il monopolio di Stato sulla vendita di alcolici, la produzione e il consumo di tabacco “senza fumo” (tabacco da fiuto svedese) nonché il contenimento del contributo svedese al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e ai fondi strutturali.

Infine, nella primavera del 1994, le trattative si conclusero con successo. D. accompagnò il primo ministro Bildt alla firma del Trattato d’adesione al Consiglio europeo di Corfù, in Grecia. Pochi mesi dopo, i partiti della coalizione di governo persero le elezioni nazionali, a favore dei socialdemocratici e Bildt insieme ai suoi ministri si dimise. Con il referendum per il Trattato d’adesione fissato a due mesi dalle elezioni, D., il quale era stato coinvolto in tutte le fasi del processo, si ritrovò senza incarichi.

Tuttavia, egli proseguì la campagna e fu tra le figure guida del partito del “sì” nel referendum. Nel corso delle sue numerose apparizioni in pubblico, D. sottolineò l’importanza dell’Unione europea (UE) e sostenne quanto fosse essenziale che la Svezia beneficiasse della possibilità di influire sul processo d’integrazione. Il fronte del No percepiva D. come un antagonista chiave, facendone oggetto di dure critiche nel corso di una campagna spesso caratterizzata da diffamazioni personali.

Quando fu certa una maggioranza in favore dell’adesione, D. aveva finalmente raggiunto il proprio obiettivo. Tuttavia, invece di continuare a dedicarsi alla politica, egli si cimentò in un terreno nuovo, benché a lui familiare. D. fu nominato amministratore delegato dello Swedish trade council, un’organizzazione di proprietà “mista”, con partecipazione pubblica e privata, la quale aveva il compito di assistere le piccole e medie imprese svedesi in cerca di mercati esteri. Con la propria esperienza diplomatica e commerciale, D. era particolarmente preparato per l’incarico dal quale si ritirò nell’autunno del 2004.

D. passerà alla storia come uno degli artefici chiave dell’ingresso svedese nell’UE. Per il governo socialdemocratico egli fu in quel periodo il perfetto alto burocrate: affidabile e stimato dalla comunità imprenditoriale, ma anche altamente professionale e leale nei confronti dei propri superiori politici. Come uomo politico, il profilo sociale di D., un conservatore facoltoso e con legami aristocratici, appariva alquanto insolito. Malgrado il suo atteggiamento compassato e la personalità gradevole, tale retroterra costituì probabilmente un ostacolo alla sua carriera personale, nonostante i ripetuti tentativi, sulla considerevole fetta di pubblico svedese mostratasi scettica riguardo all’UE.

Jakob Gustavsson (2012) Dixon, Pierson

D. nacque nel 1904 a Englefield Green, nel Regno Unito, e morì nel 1965. Il padre, Pierson John Dixon, era un agente immobiliare, mentre il nonno materno, James Ownby Beales, era uno dei fornitori di generi alimentari della Corte reale. Dopo aver frequentato la Bedford School, D. ottenne una borsa di studio presso il Pembroke College di Cambridge, dove ottenne una laurea in studi classici nel 1927. Nonostante i suoi spiccati interessi accademici, che continuò a coltivare scrivendo saggi e romanzi di ambientazione storica, nel 1929 decise di intraprendere la carriera diplomatica, iniziando con un primo incarico di tre anni presso il ministero degli Affari esteri a Londra.

Successivamente, dopo un lungo periodo trascorso presso le ambasciate britanniche a Madrid, a Ankara e a Roma, D. tornò al ministero degli Affari esteri a Londra, dove cominciò la sua lunga collaborazione con il segretario agli Affari Esteri Anthony Eden, fino a diventarne il principale segretario speciale nel 1943. In tale veste prese parte attiva alle conferenze di Yalta e di Potsdam, e si occupò in prima persona della questione italiana e della questione greca per conto del governo britannico.

Quando Ernest Bevin assunse la carica di segretario agli Affari esteri nel 1945, D. conservò il precedente ruolo di principale segretario speciale, agendo soprattutto da tramite con l’ex segretario agli Affari esteri Anthony Eden, e assecondando in questo modo la volontà del nuovo governo laburista di assumere un atteggiamento bipartisan sui temi di politica estera. Durante questa fase, oltre a assistere Ernest Bevin nelle sue principali missioni diplomatiche, a Mosca, a Parigi e a New York, D. si distinse nei negoziati relativi al contenzioso su Trieste sorto tra Italia e Iugoslavia tra il 1945 e il 1946, e nella gestione della crisi scoppiata in Iran tra anglo-americani e sovietici tra il 1945 e il 1947. D. rimase il braccio destro di Bevin fino al 1948, quando venne nominato ambasciatore britannico a Praga. Nonostante la precisa consegna di assicurare il sostegno britannico al Presidente della Repubblica Edward Benes, dovette assistere impotente al colpo di Stato comunista che nel 1948 travolse il governo democratico e instaurò un regime filosovietico in Cecoslovacchia. Successivamente, il ritorno di Eden alla carica di segretario agli Affari esteri coincise con il ritorno a Londra di D., e con la sua nomina a vicesottosegretario agli Affari esteri.

Questa esperienza, durata dal 1950 al 1954, permise a D. di cimentarsi per la prima volta con la questione comunitaria e, in particolare, con i dibattiti che accompagnarono la discussa nascita di una Comunità europea di difesa (CED). Nonostante la sua precisa convinzione che la Gran Bretagna dovesse rimanere fuori dai processi di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), cominciò a maturare in questi anni la convinzione che i paesi europei credessero profondamente nei vantaggi della costruzione comunitaria, e che alla Gran Bretagna convenisse mantenere un rapporto stretto e uno sguardo attento su questa evoluzione.

Lasciato il ministero degli Affari esteri, D. ricoprì in seguito il ruolo di rappresentante permanente della Gran Bretagna presso le Nazioni unite. Durante lo svolgimento di questo importante compito, la principale incombenza fu sicuramente rappresentata dalla difficile gestione dei riflessi internazionali della crisi di Suez del 1956. Consapevole fin dall’inizio dei danni di immagine e dei contraccolpi economici e politici che potevano derivare da un intervento armato della Gran Bretagna nel canale di Suez, D. dovette affrontare le dure conseguenze in due distinte e delicate fasi diplomatiche. In primo luogo, si dovette assumere in prima persona l’onere di esprimere il primo veto britannico in Consiglio di sicurezza contro una proposta di risoluzione per una immediata cessazione delle ostilità sostenuta sia dagli Stati Uniti sia dall’Unione Sovietica. In secondo luogo, scontata una prima fase di relativo isolamento diplomatico, D. tentò con successo di restituire un certo grado di rispetto e di influenza alla delegazione britannica in seno alle Nazioni unite, potendo per questo contare anche su un discreto credito personale conquistato grazie al suo equilibrio, al suo acume e alla sua riconosciuta autorevolezza. L’esperienza di rappresentante britannico alle Nazioni unite si chiuse nel 1960, quando D. accettò la nomina a ambasciatore britannico a Parigi.

Gli ottimi rapporti che D. seppe da subito instaurare con il presidente francese Charles de Gaulle, uniti alla centralità della posizione francese negli affari comunitari, e la sua reputazione di abile e affidabile negoziatore, condivisa sia negli ambienti governativi britannici sia negli ambienti diplomatici europei, convinsero il primo ministro Harold Macmillan e il capo negoziatore Edward Heath a proporre lo stesso D. a capo della delegazione di funzionari britannici incaricata di discutere i termini dell’Adesione britannica alle Comunità europee a Bruxelles (v. Comunità economica europea). D. decise di accettare, nonostante il diffuso scetticismo verso la sovrapposizione tra le cariche di ambasciatore britannico a Parigi e di presidente della delegazione britannica a Bruxelles, e nonostante i dubbi che lo stesso D. nutriva circa le effettive probabilità di successo della richiesta di adesione britannica.

Sotto la sua presidenza venne posto un gruppo di straordinari funzionari che comprendeva Eric Roll, Roderick Barclay, Henry Lintott e William Gorell Barnes. La sua gestione dei negoziati non fu sempre priva di sottovalutazioni e rigidità tattiche, come provano le discussioni sui regolamenti finanziari, ma la sua lettura delle ragioni e delle scelte francesi così come le sue previsioni sull’andamento e sui possibili risultati dei confronti negoziali si dimostrarono spesso accurate e attendibili. Il veto all’adesione britannica annunciato dal presidente francese Charles de Gaulle nel 1963 dette ragione al suo fondato pessimismo, pur senza compromettere i buoni rapporti personali tra i due uomini, e i rapporti diplomatici tra i due paesi. In seguito, D. continuò a ricoprire la carica di ambasciatore britannico a Parigi, fino alla morte avvenuta nel 1965.

Simone Paoli (2010)

Donnedieu de Vabres, Jacques

D. de V. (Parigi 1915-ivi 1984) studia al Liceo Janson-de- Sailly e poi al Liceo Henri IV. Dalle sue origini familiari, oltre all’educazione protestante, eredita il gusto per il diritto e l’insegnamento. Appartiene infatti a una famiglia di giuristi e insegnanti: il padre, Henri, occupa la cattedra di diritto penale nella Facoltà di legge di Parigi (all’epoca le cattedre di diritto penale erano soltanto due) e, all’indomani della guerra, è il giudice francese nel tribunale internazionale di Norimberga. È quindi naturale che D. de V. prosegua i suoi studi alla Facoltà di lettere e di legge di Parigi. Ottiene il diploma di laurea in lettere e quello di studi superiori in filosofia, insieme all’agrégation in diritto. Perpetua queste tradizioni familiari tenendo corsi dal 1945, per 15 anni, all’Institut d’études politiques di Parigi, sulle libertà pubbliche e le istituzioni politiche. Ha quindi l’opportunità di sottoporre a un esame critico le istituzioni della IV Repubblica.

All’indomani della smobilitazione, inoltre, supera il concorso per entrare nel Consiglio di Stato e nel 1941 diventa, in un primo tempo, uditore, poi commissario del governo al Consiglio di Stato (1944) e infine referendario presso questa istituzione (1946-1966). In questo periodo D. de V., a fianco del fratello Jean, ma anche di Michel Debré e Alexandre Parodi, partecipa al Comité général d’études del Conseil national de la Résistance, incaricato di preparare i testi e le disposizioni da prendere nella prospettiva della Liberazione (v. anche Resistenza).

D. de V. prosegue la sua carriera con René Mayer, diventando il suo direttore di gabinetto mentre questi è ministro delle Finanze (1948), ministro della Difesa nazionale (1948), ministro della Giustizia (1949), poi Presidente del Consiglio (1953). A fianco di questo europeo convinto e come segretario generale del Comitato interministeriale per le questioni di cooperazione economica europea (Secrétariat Général du Comité interministériel pour les questions de coopération économique européenne, SGCI) dal 1955 al 1960, partecipa ai negoziati per i Trattati di Roma. Secondo Alain Prate e , è lui il vero responsabile dei negoziati, giorno per giorno, e li conduce con intelligenza, in un clima gradevole e stimolante, circondato da alti funzionari come Jean-François Deniau, Jean Mille, Armand Vallon, Jean-Maxime Lévêque e Renaud de la Genière. Quindi può mettere al servizio della delegazione che guida i negoziati le sue competenze di giurista per l’elaborazione e lo studio di testi che daranno origine ai Trattato di Roma. Come segretario generale della SGCI, D. de V. deve coordinare, fino al 1958 sotto l’autorità del ministro delle Finanze, poi sotto l’autorità diretta del primo ministro, le differenti posizioni dei ministeri e dell’insieme dell’amministrazione francese per tutto quanto concerne la politica europea. Partecipa quindi all’elaborazione delle istruzioni francesi per il Consiglio dei ministri delle Comunità e gli organi comuni previsti dai trattati ma anche di Parigi; esamina le questioni legate ai rapporti del governo con i diversi organi europei, ma anche quelle dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE); trasmette le posizioni del governo alla Rappresentanza permanente della Francia presso le Comunità (v. anche Rappresentanze permanenti presso l’Unione europea).

In seguito D. de V. intraprende una carriera di manager d’impresa, diventando direttore generale (1960) e poi presidente direttore generale (1970) delle Entreprises Campenon-Bernard, e in seguito presidente direttore generale dell’impresa Oger (1973). Inoltre ricoprirà gli incarichi di amministratore della Société française de banque (1960), della Compagnie de construction internationale (1963), della Compagnie générale des eaux (1964), della Société d’exploitation industrielle des tabacs (1962), vicepresidente (1966-1974) e poi presidente onorario (1974) della Fédération nationale des travaux publics, membro del comitato consultivo della Banca di Francia (1974).

Emilie Willaert (2012)

Dooge, James

D. (Birkenhead 1922) studia a Liverpool e frequenta lo University College di Dublino e l’Università dell’Iowa, dove porta avanti gli studi di ingegneria. Nel 1942 è assunto presso l’Office of public works e in seguito lavora per l’Electricity Supply Board. Successivamente entra all’Università dell’Iowa in qualità di associato presso il dipartimento di Ingegneria civile. In seguito diventa professore di Ingegneria civile presso lo University College di Cork, dove sviluppò l’applicazione della teoria dei sistemi lineari all’idrologia.

Contemporaneamente alla carriera di idrologo, D. persegue anche quella politica. A seguito della nomina da parte dell’Institution of Engineers of Ireland, dal 1961 al 1977 diventa senatore alla Seanad Éireann, la Camera alta del parlamento irlandese, dove partecipa alla riscrittura della Costituzione. Nel 1981 accetta l’incarico di ministro degli Esteri nel governo di Garret Fitzgerald, periodo nel quale si rivelò un “ministro di gran successo” (v. McWilliams, 1999). Dal 1983 al 1987 è a capo della maggioranza al Senato.

In questi anni D. partecipa alla promozione dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). In seguito al Consiglio europeo di Fontainebleau del 1984 (v. anche Accordi di Fontainebleau) e al dibattito sul bilancio delle Comunità europee (CE) (v. Bilancio dell’Unione europea) e sull’Unione economica e monetaria (UEM), è invitato a riunire una commissione con il compito di riflettere sul futuro istituzionale della Comunità economica europea (CEE), il cui contributo alimenterà le riflessioni della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) del 1985. Tale Commissione ad hoc, ispirata alla Commissione guidata da Paul-Henri-Charles Spaak, si riunisce per la prima volta nel settembre del 1984, sotto la guida del suo presidente James Deschamps. Chiamata talvolta Commissione Spaak II, la Commissione D. è composta da undici membri, uno per ogni Stato membro più un rappresentante della Commissione europea. Nonostante le difficoltà sorte dalla divergenza degli interessi degli Stati membri, la Commissione riesce a produrre una relazione di rilievo grazie a un metodo di lavoro che offre a ogni rappresentante nazionale l’opportunità di dissentire con la soluzione proposta e di includere tale dissenso nel documento finale. «Proprio perché il documento presentato dalla Commissione non cercava di risolvere tutte le questioni in sospeso bensì mostrava semplicemente come potessero configurarsi le diverse proposte, esso fornì le basi per una efficace contrattazione nei negoziati successivi» (v. Dür, Mateo, 2004).

La relazione, pubblicata nel marzo 1985, suggeriva una maggiore integrazione: «L’Europa deve ritrovare la fiducia in se stessa e lanciarsi in una nuova iniziativa comune, vale a dire la creazione di un’entità politica basata su obiettivi prioritari chiaramente definiti associati agli strumenti per raggiungerli» (v. Dooge, 1985, p. 11). A tal fine, i membri della Commissione avanzarono l’idea di trasformare la CEE in una “autentica entità politica” che avrebbe preso il nome di Unione europea (v. Dooge, 1985, p. 13). Il completamento del mercato interno viene riconosciuto come un obiettivo prioritario da raggiungere mediante svariati strumenti quali la Libera circolazione delle persone, l’introduzione di una Politica comune dei trasporti della CE, gli sforzi per aumentare la competitività economica in Europa, la convergenza economica, nonché la creazione di una comunità per la tecnologia (v. anche Politica della ricerca scientifica e tecnologica). Furono espresse anche altre preoccupazioni e proposte allo scopo di promuovere i comuni valori di civiltà ribadendo la questione dell’identità esterna (v. Dooge, 1985). In merito alle Istituzioni comunitarie, la Commissione si dichiara favorevole a ricorrere maggiormente al voto di maggioranza (v. Maggioranza qualificata) in seno al Consiglio dei ministri, a rafforzare il ruolo della Commissione europea e a consentire al Parlamento europeo di co-legiferare maggiormente con il Consiglio.

Nel 1986, D. viene insignito della Medaglia Bowie da parte della American Geophysical Union e riceve vari dottorati onorari dall’Università di Waeningen in Olanda (v. Paesi Bassi), dalla Università di Lund in Svezia, dall’Università di Birmingham in Inghilterra (v. Regno Unito) e dall’Università di Dublino. Durante tutta la sua carriera ha partecipato a svariati comitati di organizzazioni internazionali. Negli anni 1980-1990 è presidente del Comitato scientifico consultivo del Programma di studi sull’impatto del clima mondiale e anche membro del comitato consultivo del Decennio internazionale per la riduzione delle catastrofi naturali per conto del segretario generale dell’ONU e dal 1971 al 1975 presidente della Commissione internazionale sulle Risorse idriche. Inoltre, dal 1987 al 1990 è stato anche presidente dell’Accademia reale irlandese e nel 2000 è eletto membro straniero della Royal academy of engineering.

Sarah Wolff (2009)