La “ri-scrittura della vita” in Essad Bey-Lev Nussimbaum ( 1905- Positano 1942), orientalista e prototipo dell’intellettuale euro-musulmano contemporaneo di Carlo Saccone

Parlare agli inizi del XXI secolo di Lev Nussimbaum, alias Essad Bey alias ,1 scrittore vissuto nella prima parte del ’900 tra il Caucaso e l’Europa, risulta in qualche modo stranamente “intonato” al nostro tempo informato com’è a un evidentissimo, diffuso meticciato - etnico non meno che culturale - sia pure, contraddittoriamente, mescolato a oscure profonde pulsioni razziste e xenofobe, qualcosa che com’è noto lo caratterizza in modo crescente almeno a partire dall’ultimo decennio del secolo or ora concluso. Perché, come vedremo dal breve profilo biografico che segue, Lev-Essad (useremo questo nome sintetico, risultante dalla giustapposizione del russo Lev e l’arabo Essad=Assad, che significano entrambi “leone” ) è un po’ il battistrada di questo fenomeno; è, si direbbe, il Meticcio ante-litteram sia dal punto di vista “razziale” (di origini ebreo-russe, ma turco azero di nascita e per vocazione) e religioso (ebreo di origini, ma musulmano convertito), che linguistico-culturale (conosce bene tutte le lingue del suo composito background biografico e scriverà però quasi sempre in tedesco).

Cenni biografici

Lev Nussimbaum nacque a Baku nel 1905 da una ricca famiglia di petrolieri ebrei di lontane origini russe, emigrata nel Caucaso nell’ ’800 pare a causa dei pogrom zaristi. Sua madre, Bertha Slutzkin, era di origini ebreo-lituane, il padre Abraham, era nato a Tiflis in nel 1875 e aveva avviato sul Caspio lo sfruttamento a cavallo dei due secoli dei primi campi petroliferi in Europa, garantendo alla famiglia un alto tenore di vita nel contesto di una città cosmopolita che attirava, da ogni parte dell’impero russo e non solo, capitalisti e avventurieri. Baku è al tempo una babele di popoli e lingue diverse, situata com’era quasi al punto d’incontro ideale dei tre grandi imperi: il russo nel quale rientrava come capoluogo della Trancaucasia, il turco-ottomano ormai al tramonto e il persiano degli ultimi Qajar. Cresciuto con una governante tedesca, che gli permette di familiarizzarsi sin da bambino con la lingua che userà da adulto nei suoi scritti, Lev studia nel locale liceo russo; ma l’avvento al potere dei bolscevichi a Baku nel 1918 determinò la rovina dei Nussimabum. Inizia una peregrinazione che porta la famiglia dal Caucaso fino a Bukhara in Turkestan; di qui inizierà poi un ritorno avventuroso a Baku attraverso la Persia settentrionale. Certamente è un viaggio di “iniziazione” all’Oriente per il giovanissimo Lev che ne narrerà le tappe nel romanzo autobiografico Öl und Blut im Orient, su cui dovremo soffermarci. I Nussimbaum tornarono a Baku nel 1921, ma vi resteranno solo per la breve parentesi della Repubblica Democratica dell’Azerbaijan; il successivo ritorno al potere dei Soviet russi li costringe a riprendere, questa volta definitivamente la via dell’esilio. Una prima sosta avviene a Costantinopoli, importante centro di raccolta della diaspora di esuli e fuorusciti dall’ex-impero ormai in preda ai furori della Rivoluzione. Quindi padre e figlio arriveranno, attraverso brevi tappe a Roma e Parigi, a Berlino. Qui Lev s’iscrisse alla facoltà di orientalistica della Friederich- Wilhelms-Universität, divenendo presto oltre che un noto poliglotta anche scrittore in lingua tedesca assai prolifico. Ed è qui che matura la sua conversione all’Islam. La vulgata narra che,

1 L’unica biografia esistente, peraltro recente e documentatissima è dovuta a un eccellente giornalista e storico americano che ha per anni ripercorso tutti i luoghi della vita di Essad Bey, intervistando spesso gli ultimi testimoni viventi: T. Reiss, L’Orientalista. L’ebreo che volle essere un principe musulmano, tr. it., Garzanti, Milano 2006. Un ampia rivisitazione del personaggio, con notizie utili per la ricostruzione del suo ultimo periodo italiano, è in G. E. Carretto, Il ritorno di Essad Bey, in “Oriente Moderno” 25 (2006) 2 n.s., pp.357-372 impressionato sin dalla fanciullezza dalle rovine degli antichi palazzi dell’emiro di Baku, egli fosse trasportato da una crescente “fatale attrazione” verso la civiltà musulmana,2 e si convertisse infine nel 1922 all'Islam nella sede dell’ambasciata turca di Berlino a soli 17 anni. È un fatto che Lev Nussimbaum non solo abbracciò l’Islam e si fece ritrarre col fez, ma si inventò anche letteralmente una nuova identità cui poi resterà fedele sino alla fine. A Berlino, a New York, a Vienna e infine in Italia diventò per tutti il “principe turco musulmano” Essad Bey e, forte dei solidi studi orientalistici compiuti tra mille sacrifici a Berlino, si propose come brillante esperto di cose islamiche in salotti e convegni, collaborando con successo e fama crescenti a numerose riviste letterarie e scientifiche e divenendo ben presto una “star mediatica” della Germania di Weimar. Più tardi, quando dopo l’avvento del nazismo la sua vera identità verrà scoperta, Lev-Essad, ormai espulso dalla Società degli scrittori tedeschi, continuerà a pubblicare sotto lo pseudonimo di Kurban Said3 ancora in piena seconda guerra mondiale. C’è come abbiamo anticipato una grande tragedia nella biografia di Lev-Essad: i bolscevichi, conquistando Baku e l’Azerbaijan, determinarono la fine delle fortune del padre e la perdita di tutto. Padre e figlio esuli dall’amatissima Baku, iniziarono la vita difficile dei profughi della Rivoluzione che li porterà in Europa e non solo. Nel 1932-34 Lev-Essad è in America a seguito di un matrimonio (rivelatosi presto fallimentare ) con Erika la figlia di un ricco imprenditore americano, pure di origini ebraiche; subito dopo Lev-Essad torna in Europa e soggiorna a Vienna – ormai abbandonato dalla moglie che aveva optato per un ricco corteggiatore inglese - dove verrà sorpreso dall’Anschluss e dove il padre sarà poco dopo catturato e deportato dai nazisti. Infine, Lev-Essad riparerà nel 1938 in Italia per l’ultima e più difficile tappa della sua movimentata carriera. La tragedia nella tragedia di quest’uomo, che patirà fino in fondo le conseguenze dei due grandi totalitarismi del ’900, fu però un’altra ancora: la madre, una simpatizzante bolscevica che Lev- Essad praticamente non nomina mai (ma vedi infra l’incipit del romanzo Öl und Blut) era divenuta amica di quello Stalin che – ancor giovane agitatore comunista nelle terre del Caucaso - fu ospite a Baku della casa dei Nussimbaum per qualche mese. La madre in seguito morì in circostanze non chiare, ignote o tenute nascoste dai parenti al giovane Lev, sembra comunque suicida. I contorni di questa tragedia familiare sono in qualche modo intuibili da una frase che Lev-Essad, autore fra l’altro di una corrosiva biografia di Stalin, ebbe a scrivere: ”Quell’uomo mi ha portato via la casa, la madre, tutto”. Qualche dubbio è stato avanzato per la verità sulla identità della madre di Lev-Essad: s’è sospettato che quella vera fosse Alice Schulte, la menzionata governante tedesca che gli fu vicina anche in alcune tappe europee e a cui pare egli lasciò tutto in un testamento autografo. Espulso come s’è detto dall’ Unione degli scrittori tedeschi nel 1935 (benché i suoi scritti anti- comunisti apparissero tra le letture raccomandate ai giovani nazisti e aspiranti squadristi fino a poco prima), e poi in fuga anche dall’Austria annessa alla Germania, Lev-Essad approdò infine in Italia. Qui, si adoperò a lungo, grazie a inopinate amicizie nelle alte sfere del fascismo (tra cui spicca il Gentile), per ottenere da Mussolini un colloquio, negato sembra solo all’ultimo momento, e il benestare a comporre una biografia del Duce. Ulteriore aspetto da segnalare è il grande successo italiano dello scrittore: tra gli anni ’30 e ’40 quasi tutti i suoi libri più importanti – romanzi e biografie di Lenin, Stalin e Nicola II, vari saggi sulla Russia e sul mondo islamico - vengono puntualmente tradotti in italiano da diversi editori (Sonzogno, Bemporad, Treves). Probabilmente il suo ormai notissimo e adamantino anticomunismo funzionò, anche dopo l’approvazione delle leggi razziali, come una sorta di garanzia e salvacondotto: Lev-Essad, la cui origine ebraica dopo i dubbi iniziali era ormai ben nota alla polizia fascista, non fu mai imprigionato né rispedito in Germania, ma solo discretamente sorvegliato, quindi progressivamente isolato e infine confinato a Positano –in

2 Cfr. soprattutto i primi capitoli del romanzo a sfondo autobiografico pubblicato con lo pseudonimo di Kurban Said, Ali e Nina, tr. it. di L. Perria, NET-Saggiatore, Milano 2002, in particolare pp. 16-21 3 Questo pseudonimo legalmente appartenente a Elfriede von Ehrenfels - una baronessa tedesca amica di Lev-Essad che gli permise di continuare a pubblicare in Germania anche dopo l’espulsione dall’Unione degli scrittori tedeschi - ha dato origine a una querelle giudiziaria portata avanti dagli eredi Ehrenfels sui diritti e la paternità letteraria del romanzo Ali e Nina, questione complessa su cui cfr. T. Reiss, cit., p. 380-390 e passim. quegli anni dimora coatta di molti stranieri, internati o comunque sgraditi al regime- dove, corroso da una grave malattia, terminò i suoi giorni nel 1942.

Temi di riflessione sulla figura di Lev-Essad

1. Un mitomane? Se questa per sommi capi è la biografia documentabile di Lev-Essad, ne esiste un’altra per noi anche più interessante, una autobiografia romanzata in cui egli non si limita ad ampliare fantasticamente o magari a idealizzare alcuni passaggi della propria vita, bensì riscrive letteralmente il proprio passato, si ricrea insomma ex-novo una identità. Questo romanzo “autobiografico”, che si materializza nel citato Öl und Blut im Orient (Petrolio e sangue in Oriente) -dal titolo in qualche modo profetico, se si guarda ai nostri giorni - scritto in tedesco, di lettura piacevolissima e spesso esilarante, risulta essere a suo modo un documento fondamentale per comprendere la psicologia e la Stimmung del nostro personaggio. L’inizio è indimenticabile. Un “giovane signore” di Baku passeggia in un assolato pomeriggio estivo sotto le mura della prigione della città in cerca di ombra ristoratrice:

Un giorno, passeggiava davanti a quella prigione un giovane signore, che portava in testa una berretta orientale di montone e in mano un rosario di ambre, di cui a Baku nessuno può fare a meno. Egli aveva l’aspetto placido, stanco, e tuttavia anelante all’operosità, d’un orientale che ha trasportate nella vita d’affari della giovane città del petrolio le vecchie tradizioni avite di potenza e di comando. Il pomeriggio estivo era molto caldo. Il signore cercava di godersi l’ombra restando quanto più poteva vicino al muro della prigione. Le finestre, sbarrate da griglie delle celle del carcere, erano vuote: ai prigionieri era fatto divieto di rimanere di giorno presso le finestre, poiché la loro vista poteva riuscire sgradita agli alti signori che passeggiavano davanti al carcere. Quel giorno, nel pianterreno, una curiosa testolina osò affacciarsi alla finestra…4

Una guardia del corpo si accorge dello sguardo insistito della prigioniera sul “giovane signore” e ansiosamente già paventa nella sua mente dei guai: “Allah sapeva quali progetti avesse la ragazza! Forse un attentato contro il padrone, forse anche no” e, infine, si decide ad avvertire il “giovane signore” che leva lo sguardo e scorge dietro le grate il bel volto di una fanciulla: è una rivoluzionaria bolscevica russa catturata dalla polizia zarista e finita dietro le sbarre con l’accusa gravissima di sovversione. L’uomo se ne innamora all’istante e, da ricco possidente in una terra in cui ogni possidente ha una sua guardia privata formata da gente poco raccomandabile e in cui i problemi si regolano senza ricorrere alla legge, si presenta poco dopo con una imponente scorta armata e una borsa ben gonfia al direttore della prigione, il quale si lascia rapidamente convincere a rilasciare la donna. Questa sposerà di lì a poco il suo liberatore e così, come si vede, un primo importante passaggio della vita di Lev-Essad è stato bell’e riscritto perché “è superfluo dire che il giovane signore era mio padre e la fanciulla era mia madre”.5 Dicevamo riscrittura perché il padre nella vita di Lev-Essad era certamente un ricco possidente di Baku ma non turco e musulmano come nel romanzo; e la rivoluzionaria russa liberata dal carcere corrisponde senz’altro nella vita alla madre di Lev-Essad, che era stata una ammiratrice di Stalin come s’è detto, ma non risulta fosse stata anche un’agitatrice professionista finita in prigione, un “membro del partito bolscevico russo – come dice il direttore del carcere- venuta a Baku per creare un’ agitazione tra le oneste maestranze, coscienti del loro dovere. Doveva organizzare uno sciopero…”6. Il romanzo “autobiografico” pone insomma una domanda intorno alla personalità di Lev-Essad che certamente giocò tutta la vita su più identità, peraltro trovandovisi perfettamente a suo agio. Fu pura

4 Essad Bey, Petrolio e sangue in Oriente, tr. it. di A. Treves, Sonzogno, Milano 1932, pp. 16-17 5 Ivi, p. 19 6 Ivi, p. 18. Si noti che questo è praticamente l’unico episodio del romanzo-autobiografia in cui Lev-Essad allude chiaramente alla madre e alle sue idee politiche. Non può sfuggire il fatto –una “rimozione” si direbbe - che la “fanciulla” non venga neppure citata per nome (al contrario della precettrice tedesca che nel romanzo-autobiografia è Grete); né sfugge l’implicito giudizio di Lev-Essad su di lei che si deduce dai pensieri preoccupati della guardia del corpo del “giovane signore”, i quali trasparentemente profetizzano i futuri guai familiari. mitomania ciò che lo induce a inventarsi -nel romanzo e nella vita- un’altra carta d’identità a partire dai suoi stessi natali? È, questo cambio d’identità, inquadrabile magari nella categoria dell’ “odio di sé” ebraico? O forse c’è in Lev-Essad un nucleo di interiore rimossa sofferenza, legata probabilmente al rapporto irrisolto con la madre, che lo porta a una sorta di auto-ripudio, a una “fuga da sé”? O non fu piuttosto, la molla di questa vera e propria metamorfosi, il bisogno incomprimibile di un’anima che per qualche ragione si sentiva troppo stretta nelle coordinate (russo-ebraiche) delle sue origini, che anelava a una rinascita o a una palingenesi, hic et nunc, che potesse magari aprirle spazi di libertà interiore e intellettuale altrimenti ritenuti impossibili? Forse ciascuna di queste ipotesi contiene un po’ di verità, ma di certo quello che si avverte, netta e costante, attraverso gli scritti di Lev-Essad è la sua titanica inflessibile determinazione a cambiare il proprio “io destinale”, a costruirsene uno completamente nuovo in cui la sua anima potesse pienamente espandersi e riconoscersi.

2. Il cantore e etnografo del Caucaso. Lev-Essad è l’orgoglioso cantore di un Caucaso multietnico in cui le genti più diverse, cristiane e musulmane, turche, armene, persiane e georgiane convivono in spirito di relativa reciproca tolleranza o meglio forse sopportazione, almeno fin quando dura la tutela dell’Impero Russo (ben poco è cambiato se ancor di recente la Russia di Putin vi ha svolto il compito di gendarme, dalle guerre cecene a quella in Georgia), e magari sublimano l’atavica incomprimibile rivalità confrontandosi in sanguinose… tenzoni poetiche precedute da insolenze senza limiti:

Il villaggio era affollato da ricchi armeni e musulmani venuti da tutto il paese per ammirare gli ashouk [poeti- menestrelli, probabilmente dall’arabo: ‘âshiq=amante/innamorato]. Nella piazza principale si era riunita una folla impaziente, e al centro c’erano i due agguerriti maestri del canto che dovevano battersi a duello. Si squadravano con disprezzo, mentre i loro lunghi capelli svolazzavano alla brezza. Uno dei due esclamò: “I tuoi abiti puzzano di letame, hai un grugno da porco, il tuo talento è stentato come la peluria sul ventre di una vergine, e per quattro soldi saresti pronto a comporre un poema sul tuo stesso disonore”. L’altro rispose con aria truce: “E tu ti vesti come un ruffiano e hai una voce da eunuco. Non puoi vendere il tuo talento perché non ne hai. Vivi delle briciole cadute dal banchetto imbandito del mio genio”. Continuarono a insultarsi a vicenda con quell’impeto, mentre il pubblico applaudiva. Poi si fece avanti un vecchio dai capelli grigi con un viso da apostolo, che annunciò i due temi per la competizione: “La luna sul fiume Aras” e “La morte dello Shah Aga Mohammed”. I poeti alzarono gli occhi al cielo e poi cominciarono a cantare. Narravano la storia del terribile scià eunuco Aga Mohammed, che si recò a Tiflis [in Georgia] per ritrovare là, presso le sorgenti sulfuree, la virilità perduta. Quando scoprì che le sorgenti non gli erano di alcun giovamento, l’eunuco distrusse la città e fece giustiziare crudelmente uomini e donne. […] Tutto questo i due poeti lo narrarono recitando versi classici: uno di loro descrisse in maniera particolareggiata le sofferenze dell’eunuco nella terra delle donne più belle del mondo, mentre l’altro descrisse in modo altrettanto prolisso l’esecuzione di quelle stesse donne. Il pubblico rimase soddisfatto. I poeti grondavano sudore dalla fronte. Poi uno dei due, quello che aveva la voce più dolce gridò: “A che cosa somiglia la luna sull’Aras?” “Al volto della donna amata” rispose l’altro, che aveva una espressione truce. “Mite è l’oro della luna!” esclamò il poeta dalla voce sommessa. “No, sembra lo scudo di un guerriero caduto” replicò quello truce. Con il tempo esaurirono le similitudini, allora ciascuno dei due intonò un canto sulla bellezza della luna, del fiume Aras, che scorre nella pianura sinuoso come la treccia di una fanciulla, e degli amanti che di notte scendono in riva al fiume per guardare la luna riflessa nelle acque. Il poeta dall’espressione truce fu dichiarato vincitore, e con un sorriso maligno s’impadronì del liuto dell’avversario. Mi avvicinai a lui che aveva un’aria tetra e scontenta, anche mentre la sua ciotola si riempiva di monete. “Non sei felice della vittoria?” domandai. Lui sputò, in segno di disgusto. “Quella non è una vittoria signore. Ai vecchi tempi sì che erano vittorie. Cent’anni fa il vincitore poteva tagliare la testa al vinto. Allora sì che l’arte veniva stimata. Ora ci siamo rammolliti: nessuno più è disposto a versare il suo sangue per una poesia”.7

Questo Caucaso, in cui “Europa e Asia s’incontrano”, in cui i contadini analfabeti corrono ancora in massa alle tenzoni poetiche sulle piazze e mandano a memoria i versi dei grandi poeti, resterà molto di più che un nostalgico ricordo nell’esule Lev-Essad. Gli fornirà la certezza di appartenere a

7 Kurban Said, Ali e Nina, cit., pp. 44-46 un mondo unico, in fondo “superiore” a quell’Europa che avrà pure la modernità e le armi dalla sua parte, ma non ha più poeti che cantano per le strade né masse che accorrono ad ascoltarli. Allargando il discorso, il nuovo Oriente, che pur scontava il trauma della caduta dei grandi imperi, ha per Lev-Essad “il grande vantaggio … che esso, a differenza dell’Europa, costituisce una unità spirituale”, qualcosa che ai suoi occhi andava al di là delle differenze confessionali se armeni e musulmani potevano ancora agli inizi del ’900 condividere sulle pubbliche piazze la stessa poesia, amare e litigare per gli stessi poeti. Il brano appena proposto ci mostra un altro aspetto saliente della scrittura di Essad Bey: la sua vena etnografica, che ha modo peraltro di emergere in continuazione da ciascun dei suoi romanzi.8 In effetti, come si sarà intuito, il romanzo essadiano - un po’ in sintonia con quanto avveniva nel romanzo tedesco di quegli anni (si pensi a Musil e a Broch) – tende a uscire o meglio a spezzare i confini di genere e a mescolare il racconto, il diario di viaggio, il report etnografico, l’autobiografia, la riflessione di respiro saggistico. Ma la vena etnografica di Essad Bey rivela qualcosa di più, che rimanda quasi a un culto “antiquario” del proprio passato asiatico, e caucasico in particolare (non si dimentichi che i romanzi sono scritti in Europa, ovvero dopo che Lev-Essad aveva definitivamente tagliato i ponti con Baku e l’Oriente). C’è nel Lev-Essad che guarda al suo Caucaso l’atteggiamento già nostalgico –una cifra importante della sua anima- di chi vede un mondo che si sta spegnendo, ormai residuale, già condannato all’estinzione dalla Modernità che avanza come un rullo compressore. Ecco un altro esempio della sua vena etnografico-antiquaria in quest’altro brano, per certi versi spassosissimo (e forse leggibile anche in chiave di sottile ironia su certo femminismo europeo del primo Novecento), da cui traspare pur attraverso il bonario sorriso un sentimento di affettuosa intensa partecipazione:

I Giassai abitano nel nord dell’Azerbaijan, nel territorio di Sakataly, ma le fosche gole in cui si trovano le loro colonie non hanno nome: né le colonie stesse ricevettero, finora, un nome. I vicini chiamano semplicemente questo popolo “il popolo delle vergini” o “il popolo che non conosce il passato”. Perché i Giassai non sanno nulla del loro passato: non ne hanno, come non hanno amministrazione, né superiori, né naturalmente scrittura. Solo alcune tradizioni determinano l’esistenza dei Giassai. Secondo queste, le mani degli uomini del popolo giassai non debbono compiere nessun lavoro. “I nostri padri non lavorarono, e anche noi non dobbiamo lavorare”, soglion dire i Giassai. Ed effettivamente non lavorano, passano l’intera giornata distesi sotto piante di noci, guardano il cielo e pensano alla saggezza dei loro antenati, che vietarono loro il lavoro. Solo di quando in quando il giassai, se è stanco di star sempre coricato, va a pescare: non per trarne guadagno, ma per suo diletto. Perché il lavorare per il guadagno è una terribile onta per l’uomo, è uno scandalo e un atto contrario alle leggi e imperdonabile. Il lavoro, ogni lavoro, spetta in modo esclusivo alla donna. E la donna è la prima a vietare il lavoro all’uomo; e se questo si pone a lavorare, la donna lo scaccia e lo schernisce perché, dice la saggezza giassai, “il lavoro del marito è un’offesa per la moglie”. […] Solo una volta all’anno il giassai può lavorare: il giorno della festa di capodanno. Quel giorno egli prende le armi di sua moglie, va a caccia, e quando ritorna, depone la selvaggina ai piedi di lei, in ringraziamento del lavoro dell’anno. Poi si stende di nuovo sotto i rami del noce, fino all’anno successivo. […] Chissà come avvenne che precisamente nell’Azerbaijan, nelle selvagge gole dei Giassai, siano cresciute donne che strapparono agli uomini i loro doveri e i loro diritti e diventarono quasi uomini esse medesime! Nessuno lo potrà sapere mai, perché i Giassai non hanno passato, non hanno scritti né superiori, hanno solo donne che lavorano per essi e piante di noci sotto le quali passano le loro giornate. 9

3. Il vagheggiatore dell’Oriente islamico e turco-persiano. Il secondo, importante momento di quella autobiografia romanzata che è Öl und Blut im Orient ritrae il protagonista, ancora fanciullo, che va a giocare tra le rovine del palazzo dell’Emiro di Baku venendone rapito e in qualche modo intimamente conquistato. La sua idealizzazione del passato turco-islamico della città è certamente un altro tratto fondamentale della personalità del protagonista, letteralmente innamorato dell’ “Oriente”, dell’ Islam, del mondo turco. Parlare di esotismo retrospettivo in Lev-Essad,

8 Oltre che nel saggio etnografico: Essad Bey, Dodici misteri nel Caucaso, tr. it. di A. Treves, Sonzogno, Milano 1932 9 Essad Bey, Petrolio e sangue in Oriente, cit., pp. 55-57 l’orientalista formatosi a Berlino che in qualche modo si è distanziato dal suo passato asiatico, sarebbe qui riduttivo e credo fuorviante. , acuto biografo di Lev-Essad, ci fornisce una possibile chiave di lettura. Egli indaga a fondo su un certo background dell’ebraismo europeo dell’ ’800, alto-borghese e pre-sionista, che guardava romanticamente agli arabi e ai musulmani in generale come ai propri “fratelli maggiori”, come ai custodi di quella composita arcaica identità medio-orientale, che gli ebrei d’Europa ormai integrati nella “moderna civiltà” e pienamente assimilati ancora nostalgicamente e quasi pudicamente vagheggiavano.10 Segue nel romanzo-autobiografia un altro momento importante: in fuga dalla Baku occupata dai bolscevichi, il protagonista e il padre (la madre è già sparita dalla scena) si avventurano in un viaggio che li porterà sulle tracce di lontani “parenti” di Bukhara e Samarkanda, in piena Asia Centrale, in città in cui l’elemento turco e l’elemento persiano si fondono da sempre. Questo viaggio rivela un altro tassello interessante di quella riscrittura della propria biografia che è Öl und Blut: la ricerca di “parenti” nel lontano Turkestan è un evidente ulteriore momento della ricostruzione di un background e una nuova identità turco-musulmana. “Lev –osserva il biografo Tom Reiss- attribuisce un notevole rilievo ai presumibilmente complessi legami familiari del padre in Turkestan e Persia, sostenendo addirittura che la “sede” della famiglia era Samarkanda –una palese menzogna visto che il padre Abraham Nussimbaum proveniva in realtà da Tiflis. Questo rientrava nella strategia, da lui adottata per tutta la vita, di piantare le proprie radici sempre più a est, sempre più all’interno del mondo islamico e del deserto. Naturalmente è anche possibile che Abraham avesse davvero dei simili cugini: ebrei russi che, come lui, erano riusciti a lasciare il Pale e a farsi una posizione”.11 L’episodio del viaggio in carovana verso il Turkestan alla ricerca di parenti richiama peraltro un passaggio analogo dell’altro romanzo Alì e Nina, in cui l’elemento autobiografico pur attenuato rispetto a Öl und Blut è ancora nettamente percepibile in alcuni episodi. Qui il giovane protagonista, ovviamente turco e musulmano, per sfuggire ai pericoli della guerra in Caucaso, porta la sua giovane sposa georgiana e cristiana in un lungo viaggio sino in , l’Iran degli ultimi sovrani Qajar, dove Ali potrà soggiornare con Nina nella bella dimora di un nobile parente di origini, questa volta, persiane. In Öl und Blut colpisce l’insistenza su elementi della cultura persiana, che compaiono per esempio in descrizioni d’ambienti centro-asiatici e iranici, tra la Persia e Samarkanda: si rievocano figure di grandi poeti (Firdusi, Hafez, Sa‘di) e versi di poeti-menestrelli, usanze religiose sciite e elementi di cultura popolare. Esilarante, e altro esempio della magistrale ironia di Lev-Essad scrittore, è un episodio che si colloca, nel passaggio sulla via del ritorno attraverso la Persia. Un principe locale, Ja‘far Khan, dopo aver estorto loro un cospicuo pedaggio a titolo di “diritti di passaggio”, invita i due alla propria corte, li diletta con la lettura di poesia classica persiana da Sa‘di a Hafez, e li fa assistere a un balletto di dieci bellissimi efebi; quindi, volendo degnamente onorare i due ospiti, invia nella loro camera nottetempo un servitore armato che tiene per mano un “ragazzo di piacere”, uno dei predetti ballerini cui i due avevano dato inavvertitamente in mancia un moneta più grande che agli altri:

“Sua Altezza –spiega il servitore- vi manda questo fiore della creazione di Allah [..] voi siete ospiti del Khan e avete dato al ragazzo una moneta due volte più grossa che agli altri. Sua Altezza comprende ogni allusione e vi prega di divertirvi col ragazzo” […] “Tutti rideranno di me, se mi mandate via”, assicurò quel monello. Io salvai la situazione dichiarando al servitore che noi, per diversi motivi ch’egli non poteva capire, non sapevamo che farci dei “bitschi” (così venivano chiamati questi ragazzi), poiché i nostri interessi si libravano in sfere più alte. Allora il servitore mostrò di comprendere “i nostri superiori interessi” e se ne andò col suo allievo. Ma ci eravamo appena spogliati e distesi sui cuscini che ci servivano da letti, quando l’uomo ricomparve sulla nostra soglia, accompagnato questa volta da due giovani fanciulle che ci guardavano curiose attraverso il velo. E il servitore non si lasciò più respingere. Anche dal punto di vista delle buone usanze non era più possibile respingerlo. Le ragazze restarono con noi fino alla nostra partenza.12

10 T. Reiss, cit., soprattutto il cap. “Orientalismo ebraico”, pp. 295-312 11 T. Reiss, cit., p. 87 nota. 12 Essad Bey, Petrolio e sangue in Oriente, cit. p. 220. Questa tradizione dei “ragazzi di piacere”, che affonda nella storia del costume delle corti medioevali musulmane ed è ampiamente riflessa nella poesia turca e persiana, pare tuttora Il Khan all’indomani si mostra offeso per il rifiuto del “primo dono”, ma:

poiché io, come dissi, avevo comprensione per tutto ciò ch’è classico fuorché per i “bitschi”, si riconciliò presto con me e mi propose perfino di pranzare con lui nel suo harem. Io fui abbastanza cauto da non mettere piede nel suo harem, perché correvo pericolo che egli colà, richiamandosi alle tradizioni del passato, mi trattasse come un bitschio…13

Mondo turco, mondo persiano: si tratta di due elementi fondamentali della essadiana “riscrittura delle proprie origini” che è la cifra umana, prima che letteraria, di questo romanzo autobiografico. Può sorprendere che in questa ricostruzione non spicchi l’elemento arabo, quello semitico in senso stretto e più vicino al dato anagrafico originario di Lev-Essad, ma ci torneremo fra poco.

4. L’anti-comunista. L’antefatto dell'esilio in Europa può spiegare uno degli aspetti più sconcertanti della vita intellettuale dell’ “ebreo” Lev-Essad: la sua aperta simpatia per il fascismo e per il nazismo nascenti, in cui vide (non era il solo in quegli anni) una forza nuova e vigorosa, l’unica in grado di fare argine alla “barbarie rossa”, ai “banditi” come Stalin e la GPU (la famigerata polizia politica sovietica, cui Lev-Essad dedica un approfondito saggio, pare basato su documenti di prima mano). Nel 1931 Lev-Essad aderisce alla Lega russo-tedesca contro il bolscevismo, sicuramente pullulante di elementi nazionalsocialisti. Dopo la presa del potere di Hitler nel 1933, Lev si trasferisce in America con Erika, da poco sua moglie, dove inizia una intensa attività mondana e pubblicistica anti-comunista. Riecheggiando analoghi giudizi correnti sulla stampa americana degli anni ’30 fin quasi all’entrata in guerra, Lev-Essad scriveva che l’avvento al potere del nazionalsocialismo

acquista un’importanza storica […] soltanto la Germania è riuscita a erigere l’impenetrabile muro del nazionalismo moderno fermando il complotto contro il mondo architettato dai dominatori rossi della Russia, dove in meno di quindici anni dieci milioni di persone hanno perso la vita a causa di rivoluzione, fame, guerra civile e terrore.14

Non stupisce che nel breve soggiorno americano negli anni ’30 Lev-Essad si facesse notare per la vicinanza a intellettuali americani di origine tedesca dalle aperte simpatie nazionalsocialiste. L’ ammirazione evidente per le grandi dittature europee si collega, per altro aspetto non meno importante, a un atteggiamento più generale diffuso nel mondo musulmano tra le due guerre. Nella Turchia repubblicana di Atatürk e nell’ “impero del pavone” di Reza Pahlavi, due militari arrivati al potere con un colpo di stato, l’ammirazione per la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini è cosa fin troppo nota, e si lega a un atteggiamento che da un lato ha sullo sfondo lo sconquasso della Rivoluzione d’Ottobre in un paese che era ai confini di Turchia e Iran; dall’altro, all’idea che quanto di nuovo proveniva dall’Europa fosse comunque un segno dei tempi, soprattutto di quella Modernità di cui i due dittatori si facevano paladini e banditori nei rispettivi paesi. Anche il capitolo italiano della vita di Lev-Essad ci mostra la sua adesione “di pancia” più che ideale, ma comunque si direbbe fino alla fine, al mondo della Destra europea. C’è un episodio significativo in questo senso, che coincide con il primo viaggio in Italia. Esuli da Baku, Lev- Essad e il padre dopo la sosta a Costantinopoli, approdano in Europa facendo una prima tappa a Roma. Qui il giovane Lev-Essad ha l’occasione di osservare spaventato una manifestazione di formazioni paramilitari fasciste in Via Veneto che egli scambia per bolscevichi; poi, compreso l’equivoco, ha modo si commentare:

Fui assalito da una strana sensazione… Mi sentii… profondamente unito a queste persone, delle quali non sapevo nulla se non che erano chiamate fascisti e ostili ai bolscevichi. Un’appassionata, gratificante sensazione viva in alcune parti dell’Afghanistan, come ci ricordano alcune tristi pagine del celebre romanzo di Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni. 13 Ivi, p. 221 14 Essad Bey, The Red Menace in the United States, in “German Outlook” 27 gennaio 1934 di intima solidarietà con una massa di persone di cui non comprendevo la lingua, i cui pensieri mi erano ignoti. Per la prima volta sentii di non essere solo15

Il suo stupore e l’equivoco iniziale dipendevano dal fatto che “tutti gli antibolscevichi incontrati fino a quel momento avevano rappresentato le vestigia del vecchio ordine, come gli ufficiali zaristi e i membri delle tribù musulmane”,16 insomma era la prima volta Lev-Essad vedeva gruppi giovanili organizzati che non fossero agitatori rivoluzionari bolscevichi. Gli sembrano incarnare le forze più sane e vive dell’Europa, che con il loro vigore –forse egli già vagheggia- sapranno un giorno annientare la “barbarie” rivoluzionaria che si è abbattuta sulla Russia e sul Caucaso, e minaccia l’Europa. Nell’atteggiamento destrorso in funzione anticomunista Lev-Essad è certamente in buona compagnia in quegli anni: fino al Patto di Monaco del 1938, fior di liberali europei accreditavano Hitler come il male minore e la Germania nazista come utile diga al paventato pericolo rosso. Quel che sorprende è che la fiducia di Lev-Essad nella Destra europea al potere in quegli anni non vacillerà mai, neppure di fronte all’evidenza delle persecuzioni anti-ebraiche e delle leggi razziali. Arrivato in Italia in fuga da Vienna dopo l’Anschluss, si troverà perfettamente a suo agio in ambienti filo-regime che peraltro lo introdurranno nei salotti più esclusivi dell’Italia fascista. Difficile che a quell’epoca Lev-Essad ignorasse l’alleanza di Mussolini con Hitler, il responsabile della sua doppia fuga prima dalla Germania e poi dall’Austria; eppure, egli insegue fino all’ultimo il sogno di aggiungere alle biografie di Lenin, Stalin, Nicola II e Reza Pahlavi, anche una biografia del Duce… Negli ultimi mesi di vita, attraverso l’amica Pima Andreae “una donna il cui salotto era rinomato al tempo di Mussolini”17 e che lo sosterrà economicamente negli ultimi tre anni di vita, entra in contatto con Ezra Pound che lo propone all’EIAR (l’ente radiofonico dello stato fascista) per tenere alla radio una serie di trasmissioni per l’estero sull’Islam in lingua persiana, che pare solo la morte gli impedirà di registrare. La biografia di Lev-Essad, come si vede, è piena di contraddizioni: un ebreo-russo-turco che vede la propria identità ri-compresa, e poi definitivamente superata, in quella islamica che egli assume definitivamente senza remore (negò sempre e ovunque le sue origini ebraiche, pur continuando a vivere tra Berlino e Vienna col padre, ebreo non pentito); un sincero ammiratore dei regimi di destra al potere in quegli anni in Europa, a dispetto delle sofferenze e delle persecuzioni di cui lui stesso, seppure marginalmente, fece esperienza tra Vienna e l’Italia; un convinto, romantico ammiratore dei grandi imperi caduti con la prima guerra mondiale, che tuttavia si ritrovò poi a suo perfetto agio nelle repubblica di Weimar, che apprezzò l’Italia fascista e il suo Duce (ma non l’America, il cui spirito gli restò estraneo e probabilmente incomprensibile); un fautore dell’idea panislamica e del califfato universale – nettamente contrario al fiorire del nazionalismo turco, arabo ecc. di quei tempi - che poi si ritrovò irretito da ideologie che molto dovevano proprio al nazionalismo e al razzismo. Ma certamente la contraddizione delle contraddizioni è la “cieca” simpatia di Lev-Essad per quel mondo che doveva, pochi anni dopo, distruggere nell’Olocausto l’ebraismo europeo e che comunque già lo costringeva a una vita da fuggitivo. Sorge spontanea la domanda se questa ammirazione sia stata solo una (tragica) ingenuità, un clamoroso abbaglio, certamente favorito dalle disgrazie familiari patite a causa della rivoluzione bolscevica e rafforzata come s’è detto dal trend filotedesco delle elites musulmane del tempo; o se essa non corrisponda piuttosto, oscuramente, a un desiderio profondo di rimozione definitiva dell’ “ebreo Lev”, al bisogno di cancellare quell’antica identità semitica che più tardi la vita perfidamente si preoccuperà di ripresentargli dopo l’avvento del nazismo. Questa rimozione del dato semitico sembra avere una indiretta conferma nella marginalità -all’interno della ricostruzione della propria nuova identità islamica- dell’elemento arabo (semitico), quasi del tutto oscurato dalla sua evidente predilezione per

15 Cit. in T. Reiss, cit., p. 181 16 Ibidem 17 Ivi, p. 26. Lev-Essad conoscerà molte amiche, ma il suo bilancio personale del non facile rapporto con le donne, sembra essere sintetizzato nel titolo autoironico del suo ultimo scritto, tuttora inedito, cui lavorava ancora nel letto di morte:Der Mann der nichts von der Liebe verstand (L’uomo che non aveva capito nulla dell’ amore). l’elemento turco o meglio turco-persiano. La memoria ebraica ha spesso parlato di un oscuro “odio di sé”, categoria che in parte è stata utilizzata per spiegare la tendenza all’assimilazionismo che interessò gran parte dell’alta borghesia ebraica tra ‘800 e ‘900: si pensi al caso esemplare nelle sue intime contorsioni di un Walther Rathenau e della sua anima divisa tra Deutschtum e Judentum.18 Ma certamente con Lev-Essad siamo di fronte a un caso completamente diverso, singolarissimo: in Lev-Essad non è questione di assimilazionismo, egli al contrario rivendica sempre e orgogliosamente il suo essere “turco” e “musulmano”, in una parola diverso da quel mondo e quella civiltà europea che pure va ammirando persino nelle forme inquietanti della modernità nazifascista.

5. Il romantico-conservatore. Ma è soprattutto la sua nuova identità islamica - vissuta, anche nell’altro romanzo a sfondo autobiografico, il citato Ali e Nina, con tratti di ingenua idealizzazione - a mostrarci un ulteriore aspetto saliente della biografia dell'ex-ebreo e “principe turco” che si dichiarava un “monarchico e maomettano” convinto. La sua fede nella monarchia in versione imperiale, plurietnica e pluriconfessionale - come erano stati i grandi imperi appena crollati della Russia zarista, dell’Austria-Ungheria e della Sublime Porta - resterà in Lev-Essad adamantina per tutta la vita, accompagnandosi all’istintivo orrore per tutte le rivoluzioni. Conserverà gelosamente fino alla morte una medaglia conferitagli dal Granduca Cirillo, principe russo e aspirante a una velleitaria restaurazione della monarchia zarista attraverso un compromesso con i Soviet, che nelle sue esagerate parole era diventato “un vertice della piramide dell’umanità, totalmente al di sopra delle classi e quasi superumano”- Lev-Essad fu invece contrario al movimento parafascista dei Giovani Russi di quegli anni che sostenevano la necessità di un Glava, ovvero un “führer” slavo, perché, osservava, “la dittatura mostra tutti gli inconvenienti di una monarchia e neppure uno dei suoi vantaggi”.19 La sua fede monarchico-imperiale lo porta, non meno conseguentemente, ad avvicinarsi in Germania a formazioni nostalgiche che sostengono il ritorno della deposta dinastia degli Hohenzollern. Ma Lev-Essad, che vive la sua stagione di scrittore tra le due guerre, è angosciato soprattutto dalle conseguenze del crollo dell’impero ottomano, un evento in cui vede una perdita catastrofica come ben si evince da un saggio, Islam, ieri oggi domani, da cui trasuda a ogni pagina la sua nostalgia.20 Ecco, la nostalgia è certamente una chiave dell’anima di Lev-Essad, nostalgia di ciò che s’è perso ma che non si rinuncia definitivamente a sperare recuperabile: l’impero russo, l’impero ottomano … Certamente Lev-Essad stenta a intravedere il Moderno che irrompe attraverso le rivoluzioni, che gli sembrano responsabili di ogni male e soprattutto di quello sommo: la caduta dell’ordine imperiale, idealizzato come il sistema “naturale” di governo dei popoli. Ha veduto con i suoi occhi il Caucaso multietnico e pluriconfessionale, la cui pace era garantita dalla corona imperiale russa, disgregarsi e divenire preda di interminabili guerre fratricide; ha veduto il Medio Oriente tenuto insieme fino alla prima guerra mondiale dal potere ottomano, sgretolarsi all’insegna dei nuovi nazionalismi: arabi, turchi, armeni. Questa “nostalgia imperiale” fa il paio con la sua visione romantico-conservatrice di un Islam visto come ultima diga che si erge contro quel mondo nuovo, in fondo contro la Modernità, che stava in quegli anni letteralmente stravolgendo i connotati del Medio Oriente. Un Islam che è visto insomma da Lev-Essad come “civiltà” e “cultura”, più che come religione in senso stretto. Che è visto soprattutto come unica barriera rimasta, dopo il crollo dei grandi imperi, a salvaguardia di un mondo, di una tradizione e dei suoi valori. Si tratta per certi aspetti di un atteggiamento a suo modo profetico, che per esempio ci richiama alla mente l’ideologia latente a tanta propaganda neotradizionalista islamica di oggigiorno: l’ideologia dell’ “Islam-barriera” che si erge a difesa di una identità minacciata, contro la perdita delle radici, contro l’alienazione del mondo musulmano

18 Cfr. V. Valbonesi, Deutschtum e Judentum in W. Rathenau, in V. Valbonesi, (a cura), Dall’economia dell’anima all’anima dell’economia. Saggi su Walther Rathenau, Unipress, Padova 1992 (nuova ed. in “Archivi di Studi Indo- Mediterranei”, I , 2011, rivista archivio online, nella sez.: identità indo-mediterranee). 19 Citato in T. Reiss, cit., p. 320 20 Essad Bey, Allah ist Gross, Wien 1936 (tr. it. L’islam ieri, oggi, domani, tr. di M. Merlini, Fratelli Treves Ed., Milano 1937). indotta dalla modernizzazione occidentale. Atteggiamento che on effetti si ritrova pure in tutta una serie di intellettuali europei convertiti all’Islam in un’ottica conservatrice, anti-moderna e tradizionalista (si pensi esemplarmente a René Guénon, Fritzjof Schuon ecc.) che arriva sino ai nostri giorni. In questo quadro non sorprende che Lev-Essad vagheggi una riesumazione del califfato ottomano, caduto definitivamente negli anni ’20; il suo atteggiamento si ricollega peraltro a quei movimenti di restaurazione del califfato che ebbero legioni di cultori all’epoca tra l’Egitto e l’India musulmana, e persino nel Turkestan centroasiatico, i quali si rifacevano in parte anche all’eredità dell’agitatore pan-islamista al-Afghani (m. 1897).

6. Il meticcio e l’ “euro-musulmano”. 'Ali e Nina, il suo più celebre e pluritradotto romanzo ambientato a Baku, cominciava con una domanda fatale che emerge dalla lezione di un insegnante dell’Imperiale Liceo Umanistico russo di Baku, il cui compito istituzionale “era trasformare gli allievi in buoni europei”:

“I confini naturali dell’Europa son segnati a nord dal mar Polare Artico, a ovest dall’oceano Atlantico e a sud dal Mediterraneo […] Il confine orientale dell’Europa passa attraverso l’Impero Russo, lungo i monti Urali, il Mar Caspio e la Transcaucasia. Alcuni assegnano le regioni a sud del Caucaso all’Asia, mentre altri, tenendo conto dell’evoluzione culturale della Transcaucasia, ritengono che tale paese si debba considerare parte dell’Europa. Quindi, ragazzi miei si può ben dire che dipenda in gran parte da voi se la nostra città (Baku) deve appartenere all’Europa progredita o all’Asia arretrata”. Sulle labbra del professore aleggiava un sorrisetto compiaciuto. I quaranta ragazzi della terza classe dell’Imperiale Liceo Umanistico Russo di Baku, Transcaucasia, trattennero il fiato, sopraffatti da tanta mole di sapere e dall’improvviso fardello di responsabilità. Per qualche istante ce ne restammo tutti zitti, noi trenta musulmani, quattro armeni, due polacchi, tre protestanti e un russo. Poi Mehmed Haydar, che sedeva nel banco in fondo alla classe, alzò la mano per dire: “ Se non le dispiace, signore, preferiamo stare in Asia.”21

Insomma: ma noi di Baku siamo europei o orientali? Domanda centrale nella vicenda umana e intellettuale di Lev-Essad. C’è sempre in lui – elemento fondante della sua personalità - la percezione di stare sul confine tra due mondi, tra due epoche, tra due universi, tra due culture, confine che passa per la sua stessa biografia ma, diremmo meglio, anche all’interno della sua anima. La sua stessa “patria”, la Transcaucasia dell’ impero russo, ovvero l’Azerbaijan turco o meglio turco-persiano, è in realtà – come il resto del Caucaso - un crogiolo di razze e di lingue: turchi, persiani, armeni, russi, georgiani, osseti; ai musulmani si mescolano ebrei, cristiani e zoroastriani, come ben si vede in Ali e Nina, romanzo interessantissimo si diceva poc’anzi anche come documento etnografico. C’è in Lev-Essad una viva coscienza razziale, ma in lui non vibra nessuna passione per il nazionalismo: il protagonista musulmano del romanzo citato si innamora di Nina una bella cristiana georgiana, ha come amici armeni, turchi, persiani, ossia cristiani e musulmani. Ali vive e si trova insomma perfettamente a suo agio in questo melting pot di lingue popoli e culture. Amicizie e inimicizie non sono mai etnicamente o culturalmente (religiosamente) fondate: Ali è grande amico di un altro cristiano che poi però lo tradisce rapendogli proprio la sua bella fidanzata, Nina, e dando così origine a un’altra delle scene indimenticabili del romanzo: il lungo inseguimento a cavallo da parte di Ali dell’auto in fuga in cui l’amico traditore tiene Nina immobilizzata, che si conclude con l’inevitabile sanguinoso riscatto dell’onore ferito: Ali uccide l’amico. Ma lo uccide perché ha violato il comune codice d’onore delle genti caucasiche, non certo perché di altra religione o altra razza. Probabilmente v’è nell’episodio anche un sottile risvolto psicologico- personale: la bella Nina rapita dal rivale cristiano fa pensare a Erika, la moglie di Lev-Essad che gli fu portata via da un corteggiatore inglese.22 Insomma: un altro momento di ri-scrittura autobiografica…

21 Kurban Said, Ali e Nina, cit., p. 7 22 È forse più di una ipotesi, se si pensa che in una postuma versione italiana del romanzo: Essad Bey, Ali Khan, a cura dell’Istituto Orientale, ITLO Ed., Roma 1944, il nome della bella armena non era Nina bensì proprio Erika! Si osservi Ali, evidente trasposizione nel romanzo di Lev-Essad, è innamorato dell’oriente musulmano, ma insieme irresistibilmente affascinato dalla moderna Europa: i dialoghi tra il turco-musulmano Ali e la georgiana-cristiana Nina mettono spesso in campo questioni di differenza culturale, anche se quel che unisce i due - entrambi “figli del Caucaso” e dell’Impero Russo- che si sono frequentati sin dal tempo in cui erano studenti a Baku, è molto di più di quanto possa dividerli. Lo si vede bene in questo dialogo in cui Ali, da poco sposato con Nina, apprende di avere appena ricevuto un non richiesto incarico diplomatico dal ministro degli esteri dell’Azerbaijan che lo costringerebbe a trasferirsi a Parigi, meta certamente agognata dalla bella Nina:

Corsi subito a casa, salendo le scale a precipizio e arrivando senza fiato. “Nina –dissi- non posso farlo. Non posso proprio”. Il suo viso perse ogni colore e cominciarono a tremarle le mani. “Ma perché Ali Khan?” “Nina, ti prego, cerca di capire. È solo che amo questo tetto piatto sopra la testa, il deserto e il mare. Amo questa città (Baku), le vecchie mura e le moschee nascoste nei vicoli, e lontano dall’Oriente morirei, come un pesce rimasto all’asciutto […] Ascolta, a Parigi sarei infelice come tu lo eri in Persia […] Quindi restiamo a Baku, dove Europa e Asia s’incontrano. Io non posso andare a Parigi, dove non ci sono moschee, non ci sono vecchie mura e non c’è Seyd Mustafà. Ho bisogno di sentire la presenza dell’Asia […] Se dovessi vivere a Parigi ti odierei come mi odiavi tu dopo il Muharram [durante il nostro soggiorno in Persia…] Ed è per questo che voglio restare qui, accada quel che accada. Sono nato in questo paese ed è qui che voglio morire” Lei non aveva ancora detto una parola. Quando smisi di parlare, si chinò su di me accarezzandomi i capelli. “Perdona la tua Nina, Ali Khan. Son stata molto stupida. Non so perché ho pensato che per te cambiare fosse più facile che per me. Resteremo qui, e di Parigi non si parlerà più. Tu avrai la tua città asiatica, e io la mia casa all’europea”23

L’occidente, il mondo cristiano, nel romanzo è soprattutto mediato dalle istituzioni e dalle autorità “coloniali” russo-zariste, verso le quali tutte le componenti del mosaico di popoli e culture caucasico mostrano una naturale atavica diffidenza. Ma l’Occidente è anche il liceo, è anche Nina e la sua famiglia cristiano-georgiana, è l’industria del petrolio, è il miraggio della Modernità verso cui Ali si sente attratto irresistibilmente. Lev-Essad, come sappiamo, non morirà a Baku, quello resterà un sogno. Ma nel romanzo Ali, con una scelta tutta “di cuore”, muore difendendo con le armi in pugno la vecchia Baku turca dall’assalto finale dei Russi. Se si tiene presente l’innegabile aspetto autobiografico anche di questo romanzo, dove nella vicenda di Ali è dato scorgere una trasposizione idealizzata di Lev-Essad e del suo romanzo d’amore (senza happy end nella realtà come sappiamo) con Erika, ecco che con la morte in combattimento del protagonista siamo di fronte a un ennesimo momento di ri-scrittura autobiografica, volto addirittura al futuro: un “finale da eroe” sulle mura di Baku che, quasi grottescamente, stride con la fine reale di Lev-Essad, ridotto in miseria e malato, a Positano nel 1942. Per comprendere meglio, occorre ricordare che Ali e Nina esce già con il nuovo pseudonimo di Kurban Said, insomma Lev-Essad all’epoca è o si sente già braccato da quei nazisti che aveva ingenuamente preso per amici e “liberatori”. Dopo la grande fuga dal Caucaso in mano ai bolscevichi, ora Lev-Essad si ritrova di nuovo in fuga, e questa volta proprio da quella Germania che gli era apparsa la “terra promessa”, la terra della libertà. Ora, probabilmente avviene in Lev- Essad un rifiuto, una “rimozione”, di questo esito pressoché grottesco della sua vita, il tentativo insomma di esorcizzarlo sul piano della finzione letteraria con un finale non da fuggiasco ma da eroe. Degno in fondo di colui che aveva voluto diventare il “principe turco Essad Bey”. E con questo finale eroico, Lev-Essad ha completato la ri-scrittura autobiografica, il disegno della sua nuova identità, riscattando in anticipo sul piano della letteratura quel finale oscuro e inglorioso che egli forse già presagiva.

anche che in questa edizione, che Lev-Essad non fece in tempo a vedere, viene abbandonato lo pseudonimo Kurban Said. 23 Kurban Said, Ali e Nina, cit., pp. 236-237 Di certo –osserviamo en passant- questo elemento epico nel finale dell’ Ali e Nina ha fatto sì che nell’Azerbaijan di oggi il romanzo sia considerato una sorta di epos nazionale (ma si nega con veemenza che Essad Bey e l’ebreo Lev Nussimbaum siano la stessa persona...).24

Come si sarà intuito, Lev-Essad ha anche un’anima profondamente europea, che lo trascina ineluttabilmente verso il cuore del vecchio continente, dove tra Berlino Vienna e l’Italia si consumerà il suo periodo più attivo. Vi sono due componenti fondamentali in quest’anima europea, già compresenti sin dalla fanciullezza: il russo e il tedesco. L’elemento russo gli deriva dalle origini: come abbiamo ricordato gli antenati della famiglia Nussimbaum erano emigrati dalla Russia nel Caucaso nell’ 800. Il russo era certamente la lingua della pubblica amministrazione e dell’istruzione superiore nella Baku dell’infanzia di Lev-Essad, come ampiamente traspare dalle vicende dei due giovani protagonisti di Ali e Nina, studenti di Baku. Ma in casa Lev-Essad viene educato da una precettrice tedesca, ha occasione di parlare e scrivere in tedesco, e con il mondo tedesco Lev-Essad gradualmente finirà per identificare il “suo” Occidente, l’Europa “moderna” e la sua cultura. Una spiegazione di tutto questo è abbastanza intuibile. Complice probabilmente la vicenda dolorosa legata alla rivoluzione russa, che giungendo a Baku disereda e esilia i Nussimbaum (per tacere dei risvolti più intimi, sopra accennati, legati alla tragica figura della madre), il mondo e la cultura russa dovevano ai suoi occhi inevitabilmente perdere punti a favore proprio dell’elemento tedesco. Comprensibilmente, in Lev-Essad, la lingua e il mondo tedesco si andranno ammantando del colore della “libertà”: nella Germania di Weimar già percorsa dalla propaganda razzista e nazionalsocialista egli approderà agli inizi degli anni ’20, intimamente convinto di avere trovato il paese capace di ridare una dignità e una seconda chance a lui e alla famiglia cacciata da Baku dalla Rivoluzione d’Ottobre. A ben vedere l’identità di Lev-Essad si costruisce via via per sfere concentriche. La più interna, l’ebraica, è quella rimossa e intenzionalmente nascosta a tutti; quella successiva, la sfera dell’identità caucasica, è in sostanza identificabile con la identità “ri-scritta”, turca e musulmana, che sarà da lui ostentata per tutta la vita; una terza identità, quella dell’orientalista e scrittore di successo, strettamente legata all’uso del tedesco, si costruisce a partire dal periodo berlinese, ma non rimuove la precedente bensì ci convive “strumentalmente”: il tedesco sarà la lingua veicolare oltre che del Lev-Essad romanziere, anche del saggista e pubblicista. L’elemento russo, in questa ricostruzione, è se si vuole una costante che attraversa o accompagna le predette tre identità concentriche: è sicuramente associato alle origini familiari di Lev-Essad e alla fase caucasica e orientale della sua vita, ma andrà progressivamente sbiadendo nel corso dell’ultima fase, quella europea, in cui il russo è certamente la lingua della diaspora dei fuorusciti anti-bolscevichi con cui Lev-Essad manterrà i contatti, ma non la lingua della “star mediatica di Weimar” ammirata nei salotti e nei rotocalchi. Si potrebbe parlare insomma di identità multiple, se non fosse che l’espressione ha un significato vagamente patologico, mentre s’è visto che una cifra caratteristica dell’uomo e dello scrittore è proprio la sua quasi naturale capacità di convivere con queste diverse anime e di farne il segno della sua originalità intellettuale, oltre che il potente “motore” della sua fecondità. Identità concentriche ci sembra forse l’espressione che per approssimazione meglio descrive l’anima e il carattere di Lev-Essad. Un “euro-musulmano” ante-litteram, se si considera che questo tipo di identità concentrica è molto simile a quella vissuta oggi in Europa dagli ormai numerosissimi intellettuali turco-tedeschi, anglo-pakistani, franco-maghrebini, italo-iraniani e così via.

24 Nel 2010 un ambasciatore dell’Azerbaijan s’è recato a Positano dove ha cercato di ottenere (pare invano) la traslazione del corpo a Baku. Il sindaco della cittadina campana gli avrebbe controproposto un gemellaggio culturale. Qualche anno prima una troupe cinematografica tedesca ha girato alcune scene a Positano per il film-documentario “Mohammed Essad Bey. In the name of the Lion” (UmWeltFilm 2007, di Ralf Marschalleck), riprendendo in particolare la sua ultima abitazione e una cerimonia durante la quale il cippo funerario è stato riposizionato in direzione della Mecca. Conclusioni

Pur attraverso infinite contraddizioni, una certa dose di ingenuità se non di candido avventurismo intellettuale, Lev-Essad ci pare un personaggio emblematico. Ma non certo del suo tempo, nel quale egli passa come una meteora pressoché incompresa, bensì diremmo in senso profetico, profeticamente emblematico. È, dicevamo, il Meticcio ante-litteram, antesignano di una delle cifre della contemporaneità. Il suo meticciato ha diverse sfaccettature: linguistiche, razziali, religiose, culturali. E si traduce inevitabilmente in una produzione saggistica e romanzesca che ne viene profondamente, fecondamente, segnata. In fondo il Lev-Essad che approda in Europa anticipa inconsapevolmente, embrionalmente, il grande tema della inter-culturalità, altra cifra della società contemporanea. Fin quando vive nel Caucaso, questo è un fatto scontato dato il caratteristico melting pot del Paese. Ma quando arriva in Europa, in fuga dai bolscevichi, egli scoprirà un’altra realtà: il melting ebreo-tedesco per esempio non funziona… Insomma –e qui sta l’aspetto tragico - egli è portatore di una tradizione intimamente meticcia, naturaliter “interculturale”, che attraversa la sua famiglia e la sua biografia, in mezzo a una società, l’europea degli anni ’20-’30, percorsa da correnti ideologiche che invece negavano radicalmente il diritto alla diversità, all’ibridazione, al meticciato, e ove possibile ne decretavano l’ostracismo e magari l’annientamento. In quegli stessi anni Miguel Asìn Palacios lanciava la tesi della “Escatologia musulmana en la Divina Comedia” (1919), che prima ancora di venire criticamente vagliata si scontrerà con questo clima che è visceralmente refrattario all’ “ibrido”, alla “contaminazione”. Finché viene creduto un colto bizzarro principe turco –vi sono foto che lo ritraggono in pittoresche divise da guerriero caucasico o con il turbante- Essad Bey può animare i salotti della vita intellettuale della Germania di Weimar e del primo periodo nazista, di Vienna e di Roma, collaborando a riviste e scrivendo romanzi pluritradotti di un certo successo; il suo anti-comunismo rende i suoi scritti popolari persino tra i nazionalsocialisti che storicamente peraltro, verso il mondo musulmano, ebbero sempre un occhio di riguardo, probabilmente per ragioni geo-strategiche. Ma, una volta scoperte le sue origini, Lev- Essad non avrà più pace; forse il suo scandaloso inemendabile “meticciato” gli verrà perdonato ancor meno dell’identità ebraica. Troverà un rifugio relativamente sicuro solo nell’Italia fascista, razzista “pasticciona”, disposta a chiudere un occhio di fronte alle sue stravaganze, forse sedotta (e incline all’indulgenza) anche da una certa geniale capacità istrionica del personaggio. Lev-Essad probabilmente esulterebbe oggi, agli inizi del XXI secolo, per quella che gli apparirebbe con ogni evidenza una rinascita sotto nuove forme di almeno due di quei vecchi “grandi imperi” che egli aveva visto miseramente crollare: un’Europa continentale trainata dall’egemonia della Germania postunitaria e la Russia neo-imperiale di Putin che ha imposto la sua pax nel Caucaso. Mancherebbe è vero solo un tassello, forse quello che a lui sarebbe stato più caro: quel revival dell’impero neo-ottomano che molti osservatori e studiosi di geopolitica stimano oggi essere una delle possibili soluzioni all’instabilità del Medio Oriente, ma che è evidentemente ancora solo una ipotesi di scuola. Sorprende Lev-Essad anche per un altro aspetto “profetico”: quel suo sentirsi pienamente turco- musulmano e insieme pienamente europeo, a casa in Caucaso come nella Germania weimariana. In questo senso egli anticipa quella nuova generazione di intellettuali euro-musulmani che da qualche tempo collabora attivamente e sempre più efficacemente alla ri-definizione dell’identità dei migranti musulmani in Europa (si pensi al programmatico libro Essere musulmani europei di un Tariq Ramadan)25, ma anche –e soprattutto- a una non più rimandabile ri-definizione della stessa per certi aspetti “decrepita” identità europea. Infine, quell’atto radicale e irreversibile con cui egli nel 1922 nell’ambasciata turca di Berlino si converte formalmente all’Islam è un segno ancora una volta “profetico” dei tempi contemporanei, vediamo subito in che senso. Il ripudio dell’ebraismo, religione di un popolo già “senza radici”, per abbracciare l’islam, diventa paradossalmente in Lev-Essad la cifra di un ulteriore sradicamento che

25 T. Ramadan, Essere musulmano europeo, tr. it., Città Nuova, Troina (EN) 2002 va in senso contrario alla scelta “assimilazionista” che in quei tempi facevano tanti ebrei d’Europa. A ben vedere infatti il suo farsi musulmano è sì un auto-sradicarsi dalla matrice familiare ebraica, ma al contempo anche un ribadire in pieno proprio il suo semitismo culturale, nella cornice assai più ampia di una religione universale di matrice semitica quale l’Islam. Dunque in definitiva una scelta, opposta all’assimilazionismo, che va nel senso della affermazione di una differenza e del diritto alla differenza in una società –quella europea tra ‘800 e ‘900 - che agli ebrei volonterosi offriva al più l’integrazione a prezzo della perdita o rimozione delle radici. Ma questa scelta per certi aspetti “eroica”, questo titanico sforzo di mutare il proprio “io destinale”, non viene compreso, né poteva esserlo in quei tempi; oggi è diverso, per i musulmani delle comunità sparse in Europa o America è pacifico, pur tra difficoltà non piccole, rivendicare il diritto alla differenza e dichiararsi magari “europei e musulmani” o “musulmani americani”. Né gli ebrei né i musulmani di oggi peraltro “amano” Lev-Essad: non sono all’orizzonte, salvo probabilmente che nell’Azerbaijan, convegni o celebrazioni del 70° della sua morte che cadrà nel 2012, e si può ragionevolmente prevedere che celebrazioni di questo tipo non arriveranno neppure in un futuro vicino. Il personaggio risulta evidentemente troppo complesso e ambiguo, benché la sua ambiguità fosse la profetica cifra -in tempi, gli anni ’30, incapaci di leggerla- che anticipava compendiandole le tante altre cifre della sensibilità e della Stimmung dell’anima contemporanea: meticciato, sradicamento, interculturalità, migrazione, “fuga da sé”, differenza culturale, ibridazione, nostalgia delle origini, interiore contraddizione…

Lev-Essad risulta certamente un personaggio imbarazzante, e forse non solo per la macchia della sua testarda “ingenua” ammirazione per il nazifascismo, peraltro pagata come s’è visto a caro prezzo. Egli è soprattutto difficilmente riciclabile in un tempo che ha fatto delle separazioni, delle pulizie etniche, delle contrapposizioni confessionali, delle piccole patrie, i suoi miserabili sogni. Lev-Essad, persa la sua piccola Baku, non si rifugia in un romantico quanto sterile nazionalismo caucasico: questo resta relegato alla sfera della letteratura dove Ali Shirvanshir (“Leone di Shirvan”) muore difendendo Baku dai bolscevichi russi. Lev-Essad nella realtà sogna e predica fino all’ultimo la restaurazione dell’Impero, ovvero quella che gli appare l’unica dimensione politica capace di gestire la complessità dei moderni rapporti interetnici e interconfessionali. Problema evidentemente ancora all’ordine del giorno nell’odierna Unione Europea, tuttora indecisa tra il sogno unitario e sovranazionale - storicamente di matrice “imperiale”: da Ciro il Grande a Nicola II, passando per Roma e il califfato islamico- e quello dei cultori delle “piccole patrie”: da De Gaulle ai fautori delle “padanie”. Lev-Essad mette da parte la sua lingua madre per assumerne una, la tedesca, che gli permetterà di parlare all’Europa intera; in Europa da qualche parte oggigiorno si pensa di tornare ai dialetti… Lev-Essad abbandona l’ebraismo, la sua religione familiare, per abbracciare una religione (una religione-cultura) universale che gli pareva probabilmente un più solido ancoraggio per il sogno utopico di un neo-impero ottomano, garante di una società pacifica e multietnica almeno in Medio Oriente; in Europa si pensa oggigiorno da qualche parte a resuscitare lo “spirito di Lepanto”, a usare la religione come arma identitaria e di discriminazione tra i propri stessi cittadini (paradigmatico il caso dello smembramento in stati su basi etno-religiose dell’ex-Jugoslavia). L’ebreo Lev Nussimbaun ha ri-scritto se stesso nella letteratura e nella vita, ignorando o meglio ostinandosi a non voler vedere muri etnici e religiosi. In Palestina oggi, testardamente, si costruiscono muri…