RASSEGNA STAMPA di lunedì 16 marzo 2015

SOMMARIO

“Cari fratelli e sorelle - ha detto venerdì scorso Papa Francesco al termine dell’omelia di una liturgia penitenziale -, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale; e dobbiamo fare questo cammino. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Sarà un Anno Santo della misericordia. Lo vogliamo vivere alla luce della parola del Signore: «Siate misericordiosi come il Padre». E questo specialmente per i confessori! Tanta misericordia! Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell’Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, Domenica di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo e volto vivo della misericordia del Padre. Affido l’organizzazione di questo Giubileo al Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare ad ogni persona il Vangelo della misericordia. Sono convinto che tutta la Chiesa, che ha tanto bisogno di ricevere misericordia, perché siamo peccatori, potrà trovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio, con la quale tutti siamo chiamati a dare consolazione ad ogni uomo e ad ogni donna del nostro tempo. Non dimentichiamo che Dio perdona tutto, e Dio perdona sempre. Non ci stanchiamo di chiedere perdono. Lo affidiamo fin d’ora questo Anno alla Madre della Misericordia, perché rivolga a noi il suo sguardo e vegli sul nostro cammino: il nostro cammino penitenziale, il nostro cammino con il cuore aperto, durante un anno, per ricevere l’indulgenza di Dio, per ricevere la misericordia di Dio”. E poco prima aveva svolto questa riflessione: “Il sacramento della Riconciliazione, infatti, permette di accostarci con fiducia al Padre per avere la certezza del suo perdono. Egli è veramente 'ricco di misericordia' e la estende con abbondanza su quanti ricorrono a Lui con cuore sincero. Essere qui per fare esperienza del suo amore, comunque, è anzitutto frutto della sua grazia. Come ci ha ricordato l’apostolo Paolo, Dio non cessa mai di mostrare la ricchezza della sua misericordia nel corso dei secoli. La trasformazione del cuore che ci porta a confessare i nostri peccati è 'dono di Dio'. Da noi soli non possiamo. Il poter confessare i nostri peccati è un dono di Dio, è un regalo, è «opera sua» (cfr Ef2,8- 10). Essere toccati con tenerezza dalla sua mano e plasmati dalla sua grazia ci consente, pertanto, di avvicinarci al sacerdote senza timore per le nostre colpe, ma con la certezza di essere da lui accolti nel nome di Dio, e compresi nonostante le nostre miserie; e anche di accostarci senza un avvocato difensore: ne abbiamo uno solo, che ha dato la sua vita per i nostri peccati! È Lui che, con il Padre, ci difende sempre. Uscendo dal confessionale, sentiremo la sua forza che ridona la vita e restituisce l’entusiasmo della fede. Dopo la confessione saremo rinati. Il Vangelo che abbiamo ascoltato (cfr Lc 7,36-50) ci apre un cammino di speranza e di conforto. È bene sentire su di noi lo stesso sguardo compassionevole di Gesù, così come lo ha percepito la donna peccatrice nella casa del fariseo. In questo brano ritornano con insistenza due parole: amore e giudizio. C’è l’amore della donna peccatrice che si umilia davanti al Signore; ma prima ancora c’è l’amore misericordioso di Gesù per lei, che la spinge ad avvicinarsi. Il suo pianto di pentimento e di gioia lava i piedi del Maestro, e i suoi capelli li asciugano con gratitudine; i baci sono espressione del suo affetto puro; e l’unguento profumato versato in abbondanza attesta quanto Egli sia prezioso ai suoi occhi. Ogni gesto di questa donna parla di amore ed esprime il suo desiderio di avere una certezza incrollabile nella sua vita: quella di essere stata perdonata. E questa certezza è bellissima! E Gesù le dà questa certezza: accogliendola le dimostra l’amore di Dio per lei, proprio per lei, una peccatrice pubblica! L’amore e il perdono sono simultanei: Dio le perdona molto, le perdona tutto, perché «ha molto amato»; e lei adora Gesù perché sente che in Lui c’è misericordia e non condanna. Sente che Gesù la capisce con amore, lei, che è una peccatrice. Grazie a Gesù, i suoi molti peccati Dio se li butta alle spalle, non li ricorda più . Perché anche questo è vero: quando Dio perdona, dimentica. È grande il perdono di Dio! Per lei ora inizia una nuova stagione; è rinata nell’amore a una vita nuova. Questa donna ha veramente incontrato il Signore. Nel silenzio, gli ha aperto il suo cuore; nel dolore, gli ha mostrato il pentimento per i suoi peccati; con il suo pianto, ha fatto appello alla bontà divina per ricevere il perdono. Per lei non ci sarà nessun giudizio se non quello che viene da Dio, e questo è il giudizio della misericordia. Il protagonista di questo incontro è certamente l’amore, la misericordia che va oltre la giustizia. Simone, il padrone di casa, il fariseo, al contrario, non riesce a trovare la strada dell’amore. Tutto è calcolato, tutto pensato… Egli rimane fermo alla soglia della formalità. È una cosa brutta, l’amore formale, non si capisce. Non è capace di compiere il passo successivo per andare incontro a Gesù che gli porta la salvezza. Simone si è limitato ad invitare Gesù a pranzo, ma non lo ha veramente accolto. Nei suoi pensieri invoca solo la giustizia e facendo così sbaglia. Il suo giudizio sulla donna lo allontana dalla verità e non gli permette neppure di comprendere chi è il suo ospite. Si è fermato alla superficie - alla formalità - non è stato capace di guardare al cuore. Dinanzi alla parabola di Gesù e alla domanda su quale servo abbia amato di più, il fariseo risponde correttamente: «Colui al quale ha condonato di più». E Gesù non manca di farlo osservare: «Hai giudicato bene». Solo quando il giudizio di Simone è rivolto all’amore, allora egli è nel giusto. Il richiamo di Gesù spinge ognuno di noi a non fermarsi mai alla superficie delle cose, soprattutto quando siamo dinanzi a una persona. Siamo chiamati a guardare oltre, a puntare sul cuore per vedere di quanta generosità ognuno è capace. Nessuno può essere escluso dalla misericordia di Dio. Tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate, perché quanti sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono. Più è grande il peccato e maggiore dev’essere l’amore che la Chiesa esprime verso coloro che si convertono. Con quanto amore ci guarda Gesù! Con quanto amore guarisce il nostro cuore peccatore! Mai si spaventa dei nostri peccati. Pensiamo al figlio prodigo che, quando decide di tornare dal padre, pensa di fargli un discorso, ma il padre non lo lascia parlare, lo abbraccia. Così Gesù con noi. «Padre, ho tanti peccati…» - «Ma Lui sarà contento se tu vai: ti abbraccerà con tanto amore! Non avere paura»”.

Intanto a Venezia si sono svolte ieri le primarie del centrosinistra in vista delle prossime elezioni comunali del 31 maggio 2015: ha stravinto il senatore Pd Felice Casson, distanziando di molto gli altri due pretendenti Nicola Pellicani e Jacopo Molina. E ora si attendono le mosse definitive del centrodestra… (a.p)

2 – DIOCESI / PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 11 Turisti rumorosi, volontari per fermarli di Enrico Tantucci Allarme nelle chiese, invasione per la visita durante le funzioni. Chorus limita il disagio ma non durante le messe

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Vecchi, il web fa rivivere il suo messaggio di Filomena Spolaor “Abbiamo raccolto registrazioni e documenti preziosi”

LA NUOVA di domenica 15 marzo 2015 Pag 43 Monsignor Vecchi, la parola è online di Giacomo Costa Tecnologia al servizio del ricordo: trent’anni di omelie ora in un sito internet

3 – VITA DELLA CHIESA

WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il Giubileo della Misericordia e le indulgenze di Andrea Tornielli Che cos'è e su che cosa si fonda la tradizione dell'indulgenza, i cui abusi scandalizzarono Martin Lutero? Che significato ha oggi?

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Ciò che cambia il mondo di Rino Fisichella

Pag 7 Ci vuole un buon insegnante Papa Francesco agli insegnanti cattolici: un lavoro malpagato ma bellissimo

AVVENIRE di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Il fuoco e i sentieri di La Chiesa italiana e il Giubileo

Pag 2 Quello che i vescovi devono tacere di Marco Tarquinio

Pag 16 Gesti, segni e parole che indicano la rotta per l’Anno Santo di Giacomo Gambassi Le indulgenze, il pellegrinaggio e la «Porta»: un va demecum per vivere dodici mesi di gioia

CORRIERE DELLA SERA di domenica 15 marzo 2015 Pag 16 Il Papa agli insegnanti «Siete malpagati, questa è un’ingiustizia» di Gian Guido Vecchi Scola sulle paritarie: un errore chiedere retta e tasse

Pag 25 La risposta di Francesco ai fautori del rigore di Alberto Melloni Giubileo

LA REPUBBLICA di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Quel che Francesco può dire all'Europa dei non credenti di Eugenio Scalfari

IL GAZZETTINO di domenica 15 marzo 2015 Pag 8 “L’Anno Santo della conversione” Padre Spadaro, direttore di “Civiltà Cattolica”, rassicura sulle condizio ne di salute del Papa: “Non sarà un pontificato breve, ma urgente”

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 14 marzo 2015 Pag 4 Due anni di pontificato di Valentina Alazraki In una intervista a Televisa

AVVENIRE di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Nessuno è escluso di Marina Corradi Lo sguardo di Dio, la Chiesa, il mondo

Pag 3 Misericordia, l'imperativo che cammina con Francesco di Salvatore Mazza Un filo rosso dalla prima Messa all'Evangelii gaudium

Pag 5 La Chiesa accoglie tutti, non rifiuta nessuno L'invito a spalancare le porte perché chi è toccato dalla grazia trovi il perdono

Pag 7 Viaggio al centro della Chiesa di Stefania Falasca Kasper: la misericordia non è teoria ma programma concreto

CORRIERE DELLA SERA di sabato 14 marzo 2015 Pag 5 Francesco annuncia un nuovo Giubileo: "Sarò Papa per poco" di Gian Guido Vecchi In quella frase sul suo tempo non c'è rinuncia né limite di età

Pag 6 La sorpresa di un Anno Santo che lega pietà popolare e Concilio di Luigi Accattoli

LA REPUBBLICA di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Sulla strada di Papa Giovanni di Enzo Bianchi

Pagg 2 3 Il Giubileo a sorpresa di Francesco, dall'8 dicembre via all'Anno Santo: "Il mio sarà un pontificato breve" di Marco Ansaldo e Orazio La Rocca "Salviamo la fede in Occidente", così nasce l'idea di un gesto straordinario. Kasper: "Né mega raduni né spettacoli, sarà molto diverso da quello di Wojtyla"

Pag 4 Da Bonifacio VIII a Giovanni Paolo II, com'è cambiato il rito del perdono globale di Agostino Paravicini Bagliani

IL FOGLIO di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Due anni di misericordia onnipotente, Giubileo compreso, per riconquistare il mondo. O farsi conquistare? di Giuliano Ferrara

Pag 2 Un pontificato drammatico, ma lasciamo perdere gli indici di gradimento di Matteo Matzuzzi Due anni con Francesco, parla il vaticanista John Allen

IL GAZZETTINO di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 "Il mio pontificato? Potrà essere breve, quattro o cinque anni" di Franca Giansoldati

LA NUOVA di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Pentimento e perdono per i peccatori di Orazio La Rocca

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

LA NUOVA Pag 1 Università e buone intenzioni di Vincenzo Milanesi

AVVENIRE di sabato 14 marzo 2015 Pag 2 Passo avanti ma da completare di Enrico Lenzi Scuola, la riforma e il ruolo della politica

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

CORRIERE DELLA SERA Pag 10 Al “ribelle” Casson le primarie di Venezia di Marco Cremonesi

LA NUOVA Pagg 2 – 4 Primarie, Casson fa il pieno di Alberto Vitucci, Francesco Furlan , Mitia Chiarin, Marta Artico e Vera Mantengoli Vince con il 56% di preferenze. Staccati Pellicani al 24% e Molina al 20%. Il senatore guarda avanti: “Se la politica è seria la gente ci crede ancora”. Pellicani, che delusione: “E’ stata sottovalutata l’onda lunga del Mose”. Il Pd: “Voto chiaro, senza spaccature territoriali”

Pag 13 Musica e tanti slogan contro le “sentinelle” Protesta dei centri sociali per contrastare la veglia dei conservatori contrati alla legge sull’omofobia

Pag 14 Quarto d’Altino: ladri in chiesa di notte, via arredi sacri e offerte di Marta Artico I due banditi, ripresi dalle telecamere, in azione alla vigilia delle cresime. Rubati pissidi, calici ed elemosine. Lo sdegno di parroco e sindaco

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg 2 – 6 Casson sposta il Pd a sinistra di Elisio Trevisan, Melody Fusaro, Vettor Maria Corsetti e Alberto Francesconi “Un segnale di svolta. Voto contro l’apparato”. Pellicani: “Ho avuto poco tempo”. Molina: “Ho conquistato le isole, potrei fare il prosindaco…”. Domenica ai seggi tra scrutatori in prestito e un falso allarme brogli. Zaccariotto: siamo agli opposti

Pag X Tradizionalisti e Rivolta, alta tensione in centro di Filomena Spolaor Blitz dei centri sociali alla manifestazione per tutelare la famiglia “classica”

Pag XI Ladri di notte pure in chiesa: “Ora il prefetto ci ascolti” di Lorenzo Baldoni Quarto d’Altino: entrati dalla sacrestia. Rubati calici, oggetti sacri e le offerte

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 15 marzo 2015 Pag I E venne il giorno del giudizio. Anche per Cacciari di Tiziano Graziottin

LA NUOVA di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Il voto per una bella sfida di Roberto Bianchin

Pag 21 Biennale, città in affitto. Offerti oltre duecento spazi di Enrico Tantucci In vista della Mostra Arti Visive, tutti mettono a disposizione luoghi espositivi. Per il grande business ci sono privati, istituzioni, Comune e perfino la Curia

CORRIERE DEL VENETO di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Il lento ritorno alla normalità di Roberto Ferrucci Le primarie in laguna

8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 1 “Io, a 19 anni colpita dalla sclerosi, grido a Renzo: non lasciarti morire” di Mariasole Antonini Appello di una ragazza di Mestre al prof di Udine

Pag 15 Un “inno alla vita” per il prof con la sclerosi di Lisa Zancaner

IL GAZZETTINO di domenica 15 marzo 2015 Pag 15 “Portatemi a morire in Svizzera” di Lisa Zancaner Da Udine l’appello di Renzo Ferro, completamente paralizzato per la sclerosi multipla

CORRIERE DEL VENETO di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Se la Chiesa insegna laicità di Stefano Allievi Le moschee negate e la legge

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I devoti della dea tangente di Gian Antonio Stella La legalità può attendere

Pagg 2 – 3 Due kamikaze all’ora della messa. Poi la folla lincia gli altri assalitori di Lorenzo Cremonesi e Gian Guido Vecchi Padre Louis della Caritas: “Li ho visti sparare sui miei fedeli mentre gli agenti guardavano la tv”. Il Vaticano apre all’uso della forza per mettere fine alle persecuzioni

Pag 13 Solo Padoan e Boschi si avvicinano a Renzi nella fiducia degli italiani di Nando Pagnoncelli

Pag 19 Elton John a Dolce e Gabbana: siete arcaici di Matteo Persivale Fecondazione e gay, gli stilisti avevano parlato di “bimbi della chimica”

Pag 22 La minaccia terroristica all’anima delle chiese di Andrea Riccardi

LA REPUBBLICA Pag 1 Una nuova sinistra extra-parlamentare di Ilvo Diamanti

Pag 12 Dall’Islam all’Apocalisse, anatomia del Califfato. Ecco cos’è, cosa vuole e come si può sconfiggere di Graeme Wood

LA STAMPA Euro debole perché l’Europa è debole di Mario Deaglio

IL GAZZETTINO Pag 1 Sindacati e politica, un rapporto poco trasparente di Oscar Giannino

Pag 16 Cattolici in politica per costruire una società solidale di Paolo Bonafè

CORRIERE DELLA SERA di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Ma serve ancora votare? di Angelo Panebianco

IL GAZZETTINO di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Il bipolarismo al tempo dei due Matteo di Mario Ajello

Pag 1 Russia e Ucraina, ecco perché la tregua tiene di Romano Prodi

LA NUOVA di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 "Podemos" in versione italiana di Francesco Jori

CORRIERE DELLA SERA di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Berlusconi e l'insofferenza per Salvini "il populista" di Francesco Verderami

AVVENIRE di sabato 14 marzo 2015 Pag 15 Il grande assente: la soluzione diplomatica di Camille Eid Siria: l'immagine simbolo del buio nelle città

IL GAZZETTINO di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Berlusconi, il codice penale e il codice morale di Bruno Vespa

LA NUOVA di sabato 14 marzo 2015 Pag 13 Sta' a vedere che c'è la svolta di Bruno Manfellotto

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2 – DIOCESI / PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 11 Turisti rumorosi, volontari per fermarli di Enrico Tantucci Allarme nelle chiese, invasione per la visita durante le funzioni. Chorus limita il disagio ma non durante le messe

Chiese veneziane specie quelle più ricche di capolavori artistici “invase” da turisti senza rispetto che pretendono di visitarle anche durante le messe e le altre funzioni religiose, incuranti del disturbo che arrecano in un luogo sacro. Non è più un fenomeno isolato, ma una vera e propria emergenza, in crescita costante, rispetto alla quale i parroci si difendono come possono, contando in anche sulla buona volontà di qualche parrocchiano che specie per le messe principali della domenica prova ad “arginare” l’invadenza dei turisti, bloccandoli all’ingresso. Così avviene ad esempio a San Marcuola. A denunciare la situazione è in particolare don Angelo (si chiama Stefano in realtà… – a.p.) Costantini, Vicario foraneo di Cannaregio e parroco di ben tre chiese: San Marcuola, Sant’Alvise e San Girolamo. E San Marcuola come anche, ad esempio, la chiesa della Madonna dell’Orto è una delle più colpite dall’invadenza dei turisti, capaci a Carnevale di entrare anche in maschera durante la messa, attirati soprattutto da un’opera d’arte celeberrima qui conservata come la grande “Ultima Cena” di Jacopo Tintoretto. «Il problema dei turisti che pretendono di entrare per la visita durante le messe e le altre funzioni religiose», spiega don Angelo, «riguarda un po’ tutte le chiese veneziane e in questi ultimi anni è in costante. Non serve a nulla esporre cartelli pluri lingue all’ingresso che ricordano che non è possibile visitare la chiesa durante i riti religiosi. Molti turisti, sia italiani, sia stranieri, se ne infischiano e entrano lo stesso. Noi proviamo a fare un po’ di filtro all’ingresso ma non è facile e anche i parrocchiani, pur disturbati, a volte esitano a intervenire perché temono qualche rispostaccia, visto che i turisti a volte sono molto protervi e maleducati». Racconta ancora il vicario di Cannaregio: «Mi è capitato personalmente, mentre officiavo la messa a Sant’Alvise, che qualche turista, del tutto incurante del rito in corso, salisse fino all’altare per ammirarlo da vicino e di fronte alla mia osservazione che non era quello il modo di comportarsi durante una funzione religiosa, mi ha anche risposto malamente e in modo sgarbato. È un vero problema, che riguarda non solo i giorni festivi, ma anche quelli feriali, quando anzi i turisti proprio per questo si sentono autorizzati a insistere di più e non lasciano la chiesa neppure quando gli si ripete che una messa sta per iniziare. Non sappiamo davvero più come difenderci. Un’altra delle chiese più colpite dall’invadenza dei turisti è, appunto, la Madonna dell’Orto, uno dei “tempi” tintorettiani di Venezia, con un ciclo di opere importantissime di Jacopo, accanto ad altri capolavori di Tiziano, Cima da Conegliano, Van Djick, Palma il Giovane, tra gli altri. La chiesa era una delle più visitate del Circuito Chorus che prevede il biglietto di ingresso a pagamento per i turisti e di cui riferiamo a parte ma due anni fa ha deciso di uscire dal sistema, rinunciando al ticket. I turisti però continuano a visitarla e il problema di fermarli all’ingresso quando iniziano le messe e le altre funzioni religiose resta irrisolto. Servirebbe, all’ingresso delle chiese veneziane durante le funzioni religiose, un servizio, se non di “buttafuori”, almeno di “dissuasori”, che invitino gentilmente ma con fermezza i turisti a non entrare in chiesa. Ma chi può permetterselo? Al momento nessuno, viste anche le condizioni economiche non certo floride delle parrocchie veneziane, e perciò l’ “invasione” dei turisti maleducati prosegue senza freni.

Neanche le chiese che aderiscono al circuito di Chrous, che prevede il pagamento di un biglietto per i visitatori riescono ad arginare il fenomeno dei turisti che pretendono di visitarle anche durante lo svolgimento delle funzioni religiose. Il sistema prevede infatti che durante le messe e le altre funzioni, chiunque possa avere libero accesso alla chiesa senza pagare per partecipare ai riti. Così, anche molti turisti entrano con i parrocchiani, salvo poi visitare le chiese e le loro opere invece comportarsi come normali fedeli, creando così l’inevitabile disturbo che si registra anche nelle chiese senza biglietto, anche se il sistema garantisce comunque un minimo di filtro in più, proprio perché esiste già un personale all’interno delle chiese normalmente addetto all’emissione dei biglietti di ingresso. Le chiese che oggi aderiscono al circuito di Chorus, con i Frari, sono Santa Maria del Giglio, Santo Stefano, Santa Maria Formosa, Santa Maria dei Miracoli, San Giovanni Elemosinario, San Polo, San Giacomo dall'Orio, San Stae, Sant'Alvise, San Pietro di Castello, il Redentore, i Gesuati, San Sebastiano, San Giobbe e San Vidal, che è anche la sede delle attività culturali dell'Associazione. In una stagione turistica in crescendo per la città il circuito di chiese con biglietto di Chorus segna in parte il passo, pur tenendo rispetto all’anno precedente, quando l’uscita dal sistema della chiesa della Madonna dell’Orto con i suoi circa 40 mila visitatori annui aveva comportato una perdita complessiva delle presenze del sistema (che riunisce quindici chiese del centro storico più la Basilica dei Frari, che ha però una gestione autonoma) di oltre il 20%. Il totale delle visite al sistema delle chiese cittadine che adottano il biglietto turistico lo scorso anno era stato di poco meno di 220 mila, a cui però vanno aggiunti i 250 mila visitatori circa che da soli raccoglie la Basilica dei Frari. Il sistema delle chiese a pagamento per garantirne così la custodia e il mantenimento è una delle basi per favorire quel decentramento dei turisti rispetto alla sola area marciana che tutti auspicano, ma incontra ora qualche difficoltà. Il ticket d’ingresso è di tre euro, ed è di 12 euro il pass annuale nell’intero circuito delle chiese.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Monsignor Vecchi, il web fa rivivere il suo messaggio di Filomena Spolaor “Abbiamo raccolto registrazioni e documenti preziosi”

Mestre La voce di monsignor Valentino Vecchi torna a risuonare a trent'anni dalla sua morte. È stato presentato sabato alla città nel Centro S. Maria delle Grazie il sito a lui dedicato: www.monsignorvecchi.it . Non semplici materiali di archivio, ma una piattaforma interattiva che racconta e chiede al lettore di tornare. I protagonisti di questa impresa sono i suoi "ex ragazzi": una quindicina di uomini e donne del "Club della graticola" che conobbero monsignor Vecchi, un comunicatore e innovatore, un trascinatore, un padre. Oltre alla biografia, il sito contiene un ricco archivio multimediale; raccolte di foto e filmati, ma soprattutto una "Messa in mano". Si potranno riascoltare, infatti, 200 omelie del parroco di San Lorenzo, registrate dall'allora organista e sacrista del Duomo, Olindo Caramaschi, che le portava alla moglie, mentre era impegnata con i figli. Per 15 anni consecutivi, Caramaschi ha inciso su nastro tutte le prediche, comprese quelle degli anni di piombo, lasciandoci anche il suo saluto dal letto di morte. E poi ci sono i libri pubblicati negli anni scorsi, ormai esauriti, in formato pdf ed epub. Molto toccante anche la sezione delle testimonianze. Racconta Alberta: «Il sito è uno strumento di contatto diretto, senza mediazione per i giovani. E per noi adulti, una volta troppo piccoli, è l'occasione per rivivere il suo messaggio». «Non era solo un prete. Don Valentino usciva dalla chiesa e parlava alla piazza» spiega Francesco. Per monsignor Bernardi, successore di don Vecchi al Duomo, il sito è uno strumento che permette di conoscere una figura che merita di essere apprezzata da tutta la città. «La sua parola era piena di fascino, convinta e convincente. Nelle prediche si metteva a nudo» ha esclamato don Franco De Pieri, presidente della Fondazione Vecchi.

LA NUOVA di domenica 15 marzo 2015 Pag 43 Monsignor Vecchi, la parola è online di Giacomo Costa Tecnologia al servizio del ricordo: trent’anni di omelie ora in un sito internet

La tecnologia al servizio del ricordo: le parole, i pensieri e la magnetica personalità di monsignor Valentino Vecchi, indimenticato parroco di Mestre, riprendono corpo in un sito internet costruito secondo i migliori criteri di accessibilità e interattività. Non un archivio meramente celebrativo quanto piuttosto un portale per diffondere ancora le riflessioni del religioso che più ha fatto per la terraferma veneziana. Il progetto, che ha impegnato il gruppo di volontari “La Graticola” per mesi, è stato presentato ieri sera nella sala del centro culturale Santa Maria delle Grazie, in via Poerio, alla presenza di monsignor Gianni Bernardi, terzo successore di monsignor Vecchi alla guida del Duomo di Mestre, e di don Franco De Pieri, storico collaboratore del compianto parroco. La serata si è aperta con un'eccezionale esibizione del maestro Giorgio Agazzi, che in omaggio alla figura di don Vecchi si è offerto di riempire l'ampio soffitto del centro con le note del suo pianoforte a coda. Poi è stata la volta dei saluti e delle testimonianze dei due religiosi, che hanno ricordato le incredibili doti del monsignore, capace di toccare con le sue parole ogni vita che incrociava. Infine la parola è passata agli ideatori e realizzatori del sito internet, che con orgoglio hanno illustrato ai presenti la loro creatura, enfatizzandone una volta di più il carattere ancora in divenire. L'idea di raccogliere e organizzare il materiale che riguardava Valentino Vecchi, traducendolo in un portale web, è nata infatti quando, per celebrare l'anniversario della scomparsa del parroco, per la prima volta si è messo mano al vasto archivio storico della chiesa. Negli ultimi sei mesi, però, gli instancabili volontari hanno a malapena scalfito l'enormità di testi, registrazioni e testimonianze raccolta in ben 30 anni di omelie e impegno religioso: tre i libri che saranno disponibili in formato pdf, sei i file multimediali delle omelie già pronti per la pubblicazione, a fronte di altre duecento ancora da sistemare. Un lavoro enorme, lontano dall'essere concluso e per cui si cercano nuovi aiuti: il sito www.monsignorvecchi.it vuole essere la base per un lavoro collettivo che proseguirà ancora a lungo.

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3 – VITA DELLA CHIESA

WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il Giubileo della Misericordia e le indulgenze di Andrea Tornielli Che cos'è e su che cosa si fonda la tradizione dell'indulgenza, i cui abusi scandalizzarono Martin Lutero? Che significato ha oggi?

«Affidiamo fin d’ora questo Anno alla Madre della Misericordia, perché rivolga a noi il suo sguardo e vegli sul nostro cammino: il nostro cammino penitenziale, il nostro cammino con il cuore aperto, durante un anno, per ricevere l’indulgenza di Dio, per ricevere la misericordia di Dio». Con queste parole, venerdì 13 marzo, Francesco ha concluso l'omelia della celebrazione penitenziale durante la quale ha annunciato il nuovo Giubileo straordinario dedicato alla misericordia. L'ultima frase, con la citazione dell'«indulgenza», è stata aggiunta a braccio. L'indulgenza plenaria è tradizionalmente legata all'Anno Santo. Non è la prima volta che Francesco la cita. Il 3 giugno 2013, Papa Bergoglio aveva annunciato l’indulgenza plenaria per i giovani che avessero partecipato all’incontro di Rio de Janeiro dell'ultima settimana di luglio. E nel decreto della Penitenzieria apostolica s'introduceva questa novità: «I fedeli legittimamente impediti a essere a Rio potranno ottenere l'indulgenza plenaria, purché seguano questi stessi riti, attraverso i nuovi mezzi della comunicazione sociale». Ovviamente senza nulla di meccanico, e a condizione di confessarsi e comunicarsi. Un'altra indulgenza plenaria è stata annunciata dal Papa il 25 marzo 2014, in vista del Sinodo sulla famiglia, concessa a chi, «in spirito di penitenza e con sincera contrizione dei peccati», avrebbe visitato «in forma di pellegrinaggio il Santuario di Loreto e i luoghi di culto lauretano esistenti nel mondo cattolico», recitando «la Preghiera alla Santa Famiglia», composta per il Sinodo dallo stesso Pontefice. Anche se molta moderna teologia guarda con non poco distacco le indulgenze, alla base di questo atto della Chiesa c'è una logica del dono, e della messa in circolazione di «beni» in favore di chi è più in difficoltà. Ecco un piccolo vademecum sulle indulgenze, basato su un documento dottrinale di Paolo VI e sul Catechismo della Chiesa cattolica. Che cos’è l’indulgenza? «L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa (cioè per i quali si è già ottenuta l’assoluzione confessandosi, ndr), remissione che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione», con la sua autorità «dispensa e applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi. L’indulgenza è parziale o plenaria a seconda che liberi in parte o in tutto dalla pena temporale dovuta per i peccati». Questo stabilisce Paolo VI nell'”Indulgentiarum doctrina” del 1967. L’indulgenza è dunque un atto di giurisdizione della Chiesa e permette al fedele battezzato che si sia confessato, comunicato e abbia compiuto le opere prescritte, di estinguere anche il debito della «pena temporale». Che cos’è la «pena temporale»? Il peccato ha due conseguenze. La prima, il distacco da Dio, è la pena eterna, cioè l’inferno. E questa viene cancellata ogni qual volta ci confessiamo e veniamo riammessi allo stato di grazia e alla comunione con Dio. Ma ogni peccato, anche quello veniale, provoca ciò che il Catechismo della Chiesa cattolica definisce «un attaccamento malsano alle creature» che ha bisogno di purificazione e merita una pena temporale, a cui si può (da sottolineare «si può», perché noi non siamo in grado di saperlo) essere ancora obbligati nonostante il perdono delle colpe ottenuto nella confessione. «Se io offendo uno e poi voglio riconciliarmi con lui spiegava l'allora patriarca di Venezia Albino Luciani nel 1973 gli devo dare una soddisfazione. Ciò comporta un mio abbassamento e una qualche mia pena. Succede così tra noi uomini, succede così anche con Dio e noi cattolici temiamo che, rimesso il peccato, Dio non rimetta tutta la pena dovuta, nel caso il pentimento del peccatore sia stato imperfetto». Questa seconda conseguenza del peccato, cioè la pena temporale, può essere scontata sulla terra con volontarie preghiere e penitenze, con opere di bene e con l’accettazione delle sofferenze e delle prove della vita. Oppure può essere scontata nell’aldilà, nel Purgatorio. La pena temporale non è una vendetta inflitta da Dio ma deriva dalla natura stessa del peccato commesso. In forza di che cosa la Chiesa dispensa le indulgenze? Lo fa attingendo al suo unico vero tesoro, cioè i meriti di Gesù Cristo, della Madonna e dei santi. Nella comunione dei santi, «tra i fedeli che già hanno raggiunto la patria celeste o che stanno espiando le loro colpe in Purgatorio, o che ancora sono pellegrini sulla terra, esiste certamente un vincolo perenne di carità e un abbondante scambio di tutti i beni», scrive Paolo VI. In questo scambio di beni, la santità di uno aiuta gli altri. Il ricorso alla comunione dei santi permette al peccatore di essere purificato più in fretta e più efficacemente dalle pene del peccato. Chi ha meno viene aiutato da chi ha di più. La Chiesa dispensa le indulgenze in virtù del potere di legare e sciogliere affidato da Gesù a Pietro. Il potere che la Chiesa ha di concedere indulgenze è stato sancito dal Concilio di Trento. «La Chiesa scriveva Giovanni Paolo II nella bolla di indizione del Giubileo dell'anno 2000 avendo ricevuto da Cristo il potere di perdonare in suo nome, è nel mondo la presenza viva dell’amore di Dio che si china su ogni umana debolezza per accoglierla nell’abbraccio della sua misericordia. È precisamente attraverso il ministero della sua Chiesa che Dio espande nel mondo la sua misericordia mediante quel prezioso dono che, con nome antichissimo è chiamato indulgenza». Che differenza c’è tra l’indulgenza plenaria e l’indulgenza parziale? Con l’indulgenza plenaria si ottiene la remissione di tutta la pena temporale dei peccati già perdonati in confessione. Con l’indulgenza parziale si ottiene la remissione di una parte della pena temporale. Un tempo l’indulgenza parziale veniva quantificata: c’erano indulgenze di 100, 300 giorni, uno o più anni. La determinazione del tempo era legata a quanta remissione si sarebbe ottenuta con tanti anni o tanti giorni di penitenza canonica secondo l’antica disciplina della Chiesa. Siccome molti fedeli credevano erroneamente che si trattasse di giorni o anni di Purgatorio in meno da scontare, papa Paolo VI ha deciso di non indicare più la determinazione del periodo dell’indulgenza parziale. Il metro usato per misurare l’indulgenza parziale non sono dunque più mesi o anni, ma è l’azione stessa del fedele: un’azione buona tanto più vale quanto più costa sacrificio e quanto più è fervida di amore verso Dio. Che cosa è richiesto per ottenere le indulgenze? Innanzitutto un soggetto capace di ottenerle, che sia battezzato (perché la concessione dell’indulgenza è un atto di giurisdizione che può essere esercitato solo su chi appartiene al Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. E non si appartiene alla Chiesa se non per mezzo del battesimo). Non scomunicato, perché se lo fosse non potrebbe partecipare alle indulgenze e alle pubbliche preghiere della Chiesa. In stato di grazia, perché il debito della pena temporale non può essere cancellato se non dopo la cancellazione della colpa e della pena eterna mediante la confessione sacramentale. È inoltre necessaria l’intenzione di ottenere l’indulgenza, perché il beneficio non viene concesso a chi non lo vuole. Alla Chiesa, secondo quanto sancito dal canone 925 del Codice di Diritto canonico, basta soltanto «l’intenzione abituale implicita», perciò si possono ottenere tutte le indulgenze di cui non si è a conoscenza purché si abbia l’intenzione di ottenere tutte le indulgenze ottenibili. Come si ottiene l’indulgenza? La prima condizione è il totale distacco dal peccato, anche da quello veniale. Nelle indulgenze, infatti, non c’è nulla di automatico: non basta ripetere meccanicamente certe pratiche per ottenerle. Se manca questa fondamentale condizione del distacco totale dal peccato e del sincero pentimento, l’indulgenza non sarà plenaria ma si otterrà soltanto parzialmente. Occorre poi confessarsi (la confessione deve essere «individuale e integra»), fare la comunione, pregare secondo le intenzioni del Papa e compiere l’atto a cui la Chiesa annette l’indulgenza, come per esempio, in occasione del Giubileo, la visita alle Basiliche. L’effettivo conseguimento dell’indulgenza presuppone lo stato di grazia, ma questo non significa che la confessione debba per forza precedere le altre condizioni. Il fedele potrebbe prima compiere l’atto a cui è annessa l’indulgenza (la visita alle Basiliche, un atto di carità, etc.) e poi confessarsi. In questo caso l’indulgenza viene ottenuta soltanto dopo la confessione.

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Ciò che cambia il mondo di Rino Fisichella

Un anno santo della misericordia. Non è improprio sostenere che Papa Francesco ha fatto della misericordia il suo programma di pontificato. Questo giubileo anche se arriva improvviso non è affatto inaspettato. Giunge nel secondo anniversario dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio a successore di Pietro. Per molti versi, l’annuncio di un anno santo straordinario non fa che confermare quanto il Papa aveva scritto nella sua lettera programmatica Evangelii gaudium: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano... e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa!» (n. 24). Ecco l’iniziativa che Papa Francesco ha assunto e che trascina con sé tutta la Chiesa in un’avventura di contemplazione e preghiera, di conversione e di pellegrinaggio, di impegno e testimonianza, di fantasia della carità da vivere dovunque. Un’iniziativa già prefigurata, fin dal suo primo Angelus quando con semplicità Papa Francesco diceva: «Misericordia. È il meglio che noi possiamo sentire: cambia il mondo». Non è un caso che l’annuncio del giubileo sia stato dato proprio durante una celebrazione penitenziale. Papa Francesco, parlando della misericordia, ha indicato anche il primo luogo in cui ciascuno può sperimentare direttamente l’amore di Dio che perdona: la confessione. L’icona del Papa inginocchiato dinanzi al confessore permane come il linguaggio più espressivo per far riscoprire la bellezza di questo sacramento da troppo tempo dimenticato. Le parole di Papa Francesco al suo primo Angelus ritornano oggi con tutta la loro forza profetica: «Non dimentichiamo questa parola: Dio mai si stanca di perdonarci, mai... noi ci stanchiamo, noi non vogliamo, ci stanchiamo di chiedere perdono. Lui mai si stanca di perdonare». Molti fedeli in questi due anni si sono riaccostati, dopo tanti anni, al confessionale proprio perché colpiti da questo invito del Papa. Celebrare questo sacramento, comunque, è l’inizio di un cammino di carità e solidarietà. La misericordia, infatti, ha un volto: è l’incontro con Cristo che chiede di essere riconosciuto nei fratelli. Rivisitare le opere di misericordia, pertanto, sarà un percorso obbligatorio durante il prossimo giubileo. L’apertura della porta santa avverrà nella solennità dell’Immacolata Concezione. Neppure questa data è una scelta casuale. Cinquant’anni fa, presso quella stessa porta si concludeva il concilio Vaticano II. Aprendo la porta santa è come se Papa Francesco volesse far ripercorrere a tutti l’intensità di quei quattro anni di lavori conciliari che fecero comprendere alla Chiesa l’esigenza di uscire di nuovo verso il mondo. Il Vaticano II, infatti, chiedeva alla Chiesa di parlare di Dio a un mondo cambiato, con un linguaggio nuovo, efficace, ponendo al centro Gesù Cristo e la testimonianza di vita. Quale parola più espressiva poteva attendere il mondo dalla Chiesa se non quella di misericordia? E proprio nella Gaudium et spes, là dove i Padri affrontavano il tema dell’aiuto che la Chiesa poteva offrire alla società, si ribadiva che essa «può, anzi deve, suscitare opere destinate al servizio di tutti, ma specialmente dei bisognosi come, per esempio, opere di misericordia» (Gaudium et spes, 42). Prima di ogni intervento di ordine politico, economico e sociale, la Chiesa offre la sua nota distintiva: essere segno efficace della misericordia di Dio. Papa Francesco, annunciando un anno santo straordinario con al centro la misericordia ribadisce la strada che cinquant’anni prima era stata indicata dai padri conciliari e conferma la Chiesa nell’instancabile cammino della nuova evangelizzazione. La misericordia sarà in questo anno la protagonista della vita della Chiesa per consentire a tutti di percepire la grandezza del cuore paterno di Dio che ha voluto rivelarsi e farsi conoscere come «ricco di misericordia e grande nell’amore».

Pag 7 Ci vuole un buon insegnante Papa Francesco agli insegnanti cattolici: un lavoro malpagato ma bellissimo

L’invito a «impegnarsi nelle periferie della scuola, che non possono essere abbandonate all’emarginazione, all’ignoranza, alla malavita», è stato rivolto dal Papa all’Unione cattolica italiana insegnanti, dirigenti, educatori e formatori (Uciim) nell’udienza di sabato 14 marzo, nell’aula Paolo VI.

Cari colleghi e colleghe, permettetemi di chiamarvi così, perché anch’io sono stato insegnante come voi e conservo un bel ricordo delle giornate passate in aula con gli studenti. Vi saluto cordialmente e ringrazio il Presidente per le sue cortesi parole. Insegnare è un lavoro bellissimo. Peccato che gli insegnanti siano malpagati. Perché non c’è soltanto il tempo che spendono per fare scuola, poi devono prepararsi, poi devono pensare ad ognuno degli alunni: come aiutarli ad andare avanti. È vero? È un’ingiustizia. Io penso al mio Paese, che è quello che conosco: poveretti, per avere uno stipendio più o meno che sia utile, devono fare due turni! Ma un insegnante come finisce dopo due turni di lavoro? È un lavoro malpagato, ma bellissimo perché consente di veder crescere giorno dopo giorno le persone che sono affidate alla nostra cura. È un po’ come essere genitori, almeno spiritualmente. È anche una grande responsabilità! Insegnare è un impegno serio, che solo una personalità matura ed equilibrata può prendere. Un impegno del genere può incutere timore, ma occorre ricordare che nessun insegnante è mai solo: condivide sempre il proprio lavoro con gli altri colleghi e con tutta la comunità educativa cui appartiene. La vostra Associazione ha compiuto 70 anni: è una bella età! È giusto festeggiare, ma si può anche cominciare a fare il bilancio di una vita. Quando siete nati, nel 1944, l’Italia era ancora in guerra. Da allora ne è stata fatta di strada! Anche la scuola ha fatto tanta strada. E la scuola italiana è andata avanti anche grazie al contributo della vostra Associazione, che è stata fondata dal professor Gesualdo Nosengo, un insegnante di religione che sentì il bisogno di raccogliere gli insegnanti secondari di allora, che si riconoscevano nella fede cattolica e che con questa ispirazione lavoravano nella scuola. In tutti questi anni avete contribuito a far crescere il Paese, avete contribuito a riformare la scuola, avete contribuito soprattutto a educare generazioni di giovani. In 70 anni l’Italia è cambiata, la scuola è cambiata, ma ci sono sempre insegnanti disposti ad impegnarsi nella propria professione con quell’entusiasmo e quella disponibilità che la fede nel Signore ci dona. Come Gesù ci ha insegnato, tutta la Legge e i Profeti si riassumono in due comandamenti: ama il Signore Dio tuo e ama il tuo prossimo (cfr. Mt 22, 3440). Ci possiamo domandare: chi è il prossimo per un insegnante? Il “prossimo” sono i suoi studenti! È con loro che trascorre le sue giornate. Sono loro che da lui attendono una guida, un indirizzo, una risposta e, prima ancora, delle buone domande! Non può mancare fra i compiti dell’UCIIM quello di illuminare e motivare una giusta idea di scuola, oscurata talora da discussioni e posizioni riduttive. La scuola è fatta certamente di una valida e qualificata istruzione, ma anche di relazioni umane, che da parte nostra sono relazioni di accoglienza, di benevolenza, da riservare a tutti indistintamente. Anzi, il dovere di un buon insegnante a maggior ragione di un insegnante cristiano è quello di amare con maggiore intensità i suoi allievi più difficili, più deboli, più svantaggiati. Gesù direbbe: se amate solo quelli che studiano, che sono ben educati, che merito avete? E ce ne sono alcuni che fanno perdere la pazienza, ma quelli dobbiamo amarli di più! Qualsiasi insegnante si trova bene con questi studenti. A voi chiedo di amare di più gli studenti “difficili”, quelli che non vogliono studiare, quelli che si trovano in condizioni di disagio, i disabili, e gli stranieri, che oggi sono una grande sfida per la scuola. Se oggi un’Associazione professionale di insegnanti cristiani vuole testimoniare la propria ispirazione, è chiamata ad impegnarsi nelle periferie della scuola, che non possono essere abbandonate all’emarginazione, all’ignoranza, alla malavita. In una società che fatica a trovare punti di riferimento, è necessario che i giovani trovino nella scuola un riferimento positivo. Essa può esserlo o diventarlo se al suo interno ci sono insegnanti capaci di dare un senso alla scuola, allo studio e alla cultura, senza ridurre tutto alla sola trasmissione di conoscenze tecniche ma puntando a costruire una relazione educativa con ciascuno studente, che deve sentirsi accolto ed amato per quello che è, con tutti i suoi limiti e le sue potenzialità. In questa direzione il vostro compito è quanto mai necessario. E voi dovete insegnare non solo i contenuti di una materia, ma anche i valori della vita e le abitudini della vita. Le tre cose che voi dovete trasmettere. Per imparare i contenuti è sufficiente il computer, ma per capire come si ama, per capire quali sono i valori e quali abitudini sono quelle che creano armonia nella società ci vuole un buon insegnante. La comunità cristiana ha tantissimi esempi di grandi educatori che si sono dedicati a colmare le carenze della formazione scolastica o a fondare scuole a loro volta. Pensiamo, tra gli altri, a san Giovanni Bosco, di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita. E lui consigliava ai suoi sacerdoti: educare con amore. Il primo atteggiamento di un educatore è l’amore. È a queste figure che potete guardare anche voi, insegnanti cristiani, per animare dall’interno una scuola che, a prescindere dalla sua gestione statale o non statale, ha bisogno di educatori credibili e di testimoni di una umanità matura e completa. Testimonianza. E questa non si compra, non si vende: si offre. Come Associazione siete per natura aperti al futuro, perché ci sono sempre nuove generazioni di giovani a cui trasmettere il patrimonio di conoscenze e di valori. Sul piano professionale è importante aggiornare le proprie competenze didattiche, anche alla luce delle nuove tecnologie, ma l’insegnamento non è solo un lavoro: l’insegnamento è una relazione in cui ogni insegnante deve sentirsi interamente coinvolto come persona, per dare senso al compito educativo verso i propri allievi. La vostra presenza qui oggi è la prova che avete quelle motivazioni di cui la scuola ha bisogno. Vi incoraggio a rinnovare la vostra passione per l’uomo non si può insegnare senza passione! nel suo processo di formazione, e ad essere testimoni di vita e di speranza. Mai, mai chiudere una porta, spalancarle tutte, perché gli studenti abbiano speranza. Vi chiedo anche, per favore, di pregare per me, e vi invito, voi tutti, a pregare la Madonna, chiedendo la benedizione.

AVVENIRE di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Il fuoco e i sentieri di Angelo Bagnasco La Chiesa italiana e il Giubileo

L’Anno Santo della Misericordia è un nuovo dono di Papa Francesco alla Chiesa. Come se avesse voluto – con cuore di padre – rispondere al grande affetto che il Popolo di Dio gli ha manifestato nel secondo anniversario di Pontificato. Una risposta sovrabbondante come lo è l’amore di Dio per il mondo. «Siate misericordiosi come il Padre», sono le parole guida del Giubileo straordinario. È l’invito innanzitutto ai credenti ad andare al cuore del Vangelo: Dio ci libera dal peccato con la forza della misericordia che ha il volto di Cristo. In Lui Dio si avvicina alla miseria degli uomini: la misericordia è infatti il farsi vicino del cuore del Padre alle nostre miserie spirituali, morali e fisiche; personali, sociali e cosmiche. Spesso la violenza nel mondo nasce dal non sentirsi amati e perdonati; dal non sentire un cuore accanto, dal toccare la morsa mortale della solitudine di fronte ai propri limiti, alle colpe, alle delusioni e alle prove. È possibile stare in piedi davanti alla porta della vita senza trepidare? Che sarà di me? È possibile resistere sotto i colpi del tempo fermi nella fiducia e nel coraggio senza cedere? Ce la farò? A chi confidare il mio animo? Con chi condividere pene e fatiche, gioie e dolori, rimorsi e rimpianti? Le presenze amiche spesso ci sono, ma tutti avvertiamo che solo una presenza più grande può restituirci non solo coraggio e forza ma dignità e fiducia. È il cuore di Dio che si è avvicinato alla nostra miseria e l’ha condivisa sino alla fine, così che nulla e nessuno ne può più veramente uscire. Nonostante ribellioni e fughe, la casa della misericordia ci accompagna, le sue mura ci avvolgono. Di questa casa, di cui tutti sentiamo la nostalgia, il Papa ci indica ancora una volta la strada perché il Popolo di Dio la ripercorra con rinnovata gioia: sarà questo l’Anno Santo vissuto con frutto. Ma il Santo Padre pensa anche al mondo intero, secondo quello sguardo universale missionario che ispira ogni pagina dell’Evangelii Gaudium. Il suo cuore di Padre e Pastore guarda la casa ma va oltre la casa, guarda ai cristiani ma anche all’umanità che come Gesù nel Vangelo, egli vede essere «un gregge senza pastore». Infatti, pensa il Giubileo come a «una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare ad ogni persona il Vangelo della misericordia». L’ansia missionaria deve, dunque essere come il fuoco che infiamma la conversione di ciascuno di noi e delle comunità cristiane e che deve infuocare atteggiamenti interiori e gesti concreti per attrarre e contagiare tanti fratelli e sorelle che forse cercano, ma certamente attendono di vedere una luce. Grazie, Santo Padre! La Chiesa che è in Italia è felice e riconoscente per questa grazia. È in piedi pronta e desiderosa di mettersi in marcia sui sentieri dove Lei ci precederà, accompagnando e sostenendo i nostri passi. Insieme, perché il mondo creda che Cristo è la misericordia del Padre, e la gioia sia piena.

Pag 2 Quello che i vescovi devono tacere di Marco Tarquinio

Rieccoli quelli che 'i vescovi no'. Quelli, cioè, sempre pronti a intimare il silenzio alla Chiesa e ai suoi pastori quando dicono parole che suonano incalzanti o scomode o rivelatrici (o tutte queste cose insieme) per le coscienze. Rieccoli quelli che i vescovi (e i sacerdoti, in generale) vanno bene solo quando li si può raccontare come benedicenti un qualche gagliardetto (nero, rosso o di qualunque altro colore) oppure quando si lasciano ricoprire dalle contumelie più volgari 'perché tanto non querelano'. Rieccoli. Scatenati dal fatto che monsignor Nunzio Galantino, vescovo e segretario generale della Cei, abbia confermato, con esempi comprensibili a tutti (le normative sull’aborto, cioè sulla soppressione di una vita nascente), che è tutt’altro che bislacca l’idea per cui ciò che è legale (una legge, una sentenza, un’azione...) non è sempre e necessariamente morale. Idea antica e solida, sollevata – prima della sottolineatura del vescovo – praticamente solo sulle pagine di questo giornale a commento dell’assoluzione definitiva di Silvio Berlusconi nell’incresciosa vicenda giudiziaria nota come 'processo Ruby'. Idea taciuta da molti altri perché non condivisa, temuta o addirittura esecrata: la morale per quelli per cui non esistono il bene e il male (e perciò nessun diritto fondamentale precede le regole delle società umane) coincide totalmente con le conseguenze della legge a cui si punta e che, di volta in volta, si riesce a ottenere, fissando la nuova e più avanzata misura del giusto e dell’ingiusto... Scatenati, sì, per diversi motivi. In una certa destra, magari, ci si è sentiti punti sul vivo per aver marciato non solo idealmente, e piuttosto indecorosamente, sotto mutande alzate come bandiere e aver votato in massa nel Parlamento della Repubblica che Ruby Rubacuori, al secolo Karima elMarough, era credibilmente «nipote di Mubarak». In una ben nota sinistra giustizialista è scattato il risentito bisogno di recuperare uno sgabello da cui alzare fuori tempo e fuori luogo il ditino della 'diversità morale', magari, perché incapaci di trovare voci e argomenti credibili – pena entrare in contraddizioni con se stessi – per valutare eticamente i gravi fatti che i giudici, dopo tre gradi di giudizio, non erano riusciti a catalogare come 'reati'. E qui devo fare un passo indietro. Non scrivo mai di me stesso. E naturalmente non lo farò neanche in questa occasione. Ma stavolta devo dire qualcosa del mio mestiere. Che in questa fase della mia vita professionale è quello di direttore di Avvenire, cioè del giornale di ispirazione cattolica. E al direttore di Avvenire quasi tutti i colleghi commentatori hanno riconosciuto il dirittodovere di esprimere – come ogni altro portatore sano di opinioni – un parere su fatti al centro della cronaca. Compresa, appunto, l’assoluzione definitiva – in uno dei processi più clamorosi tra quelli che lo hanno riguardato e lo riguardano – dell’uomo politico che ha impresso un segno indelebile sull’Italia della cosiddetta Seconda Repubblica. E meno male che questa libertà non è stata messa davvero in discussione. Perché altrimenti toccherebbe loro la stessa 'missione impossibile' che spetta a un sussiegoso manipolo di altri colleghi: spiegare perché mai chi scrive sul giornale nazionale cattolico – o, come si dice spesso, sul 'giornale dei vescovi' – dovrebbe essere meno libero di chi scrive sui giornali dei banchieri, dei finanzieri, dei costruttori, dei petrolieri, dell’industria nazionale e multinazionale, o su giornali che affermano una propria ideologia di riferimento... A questo stesso manipolo di liberi pensatori anticattolici, che preferirebbero che il giornalismo di Avvenire fosse un giornalismo minore perché strutturalmente 'a parola limitata', ricordo volentieri – e con vera gratitudine per i nostri predecessori – che questo quotidiano è l’erede e il continuatore dei due gradi giornali cattolici – L’Italia e L’Avvenire d’Italia – che, dopo la guerra civile e di resistenza, mentre quasi tutta la stampa italiana era costretta a cambiare testata per il fatto di essersi inchinata ai nazifascisti fiancheggiandoli anche con entusiasmo, poterono invece tornare in edicola con la testata di sempre. Perché entrambi quei giornali – e i giornalisti che li facevano e il mondo cattolico che li sosteneva e che essi esprimevano – piuttosto che piegare la schiena e aprire le pagine a notizie e proclami che secondo la 'norma' vigente erano in quel momento legali – una legalità che considerava 'banditi' i partigiani – ma che risultavano sul piano morale insostenibili, avevano deciso di informare il più possibile controcorrente, scegliendo in autonomia titoli, toni e notizie. E ogni volta che questo, per atti di imposizione violenta, diventava impossibile preferivano non andare in edicola. Meglio un silenzio eloquente, che una parola serva (che non è sinonimo di responsabile) o compiacente (che non equivale al libero apprezzamento). Non siamo cambiati. E le collezioni di 46 anni di quotidiana informazione e di civile opinione di Avvenire sono lì a testimoniarlo. Ma ciò che, quasi da tutti, è bene o male riconosciuto ad Avvenire, secondo alcuni non sarebbe possibile a un vescovo. E in particolare non sarebbe lecito al segretario generale della Cei. In diversi, come ho ricordato, si sono esercitati in questa liberticida teorizzazione, basata sull’idea che i pastori della Chiesa siano cittadini di 'serie B' e, comunque, sulla pretesa di rinchiuderli in un cliché di comodo e condannarli al silenzio. In modo diverso (anche per il linguaggio usato) e su sponde opposte (quanto a storia personale e politica), si sono distinti per la veemenza ingiusta dell’attacco a monsignor Galantino un opinionista (ed ex parlamentare Pdl) che si chiama Renato Farina e un vignettista che si chiama Vauro (Senesi). Farina poco più di cinque anni fa fece esattamente lo stesso con il predecessore di Galantino, monsignor Crociata, personalizzando una polemica insensata. E dopo due giorni si scusò. L’uomo è capace di grandi errori e di seri ripensamenti. Per di più, a differenza del suo leader politico di riferimento, sa ammettere gli sbagli (condizione, nella Chiesa di oggi e di sempre, per quella misericordia capace di accompagnare ognuno di noi sulla via del perdono che non è da secoli sbandierato commercio di compiacenze e d’indulgenze ma buon cambiamento di verso alle proprie azioni). Vauro, invece, è – si sa – un acclamato disegnatore satirico. E dunque è infallibile, come il Papa quando parla ex cathedra, e intoccabile, come i re d’un tempo. Per più d’uno lo è anche quando ricicla trivialmente barzellette dell’Italia frontista contro i preti. Stavolta gli è venuto da ghignare acido, spersonalizzando l’invettiva e generalizzandola con ferocia, davanti a vescovi e sacerdoti che hanno la statura spirituale e umana che quelli come lui non sanno vedere e le parole che quelli come lui hanno perso. Ma ritrovare occhi onesti non è impossibile per nessuno, mai. Solo così le parole giuste (e la misura) torneranno.

Pag 16 Gesti, segni e parole che indicano la rotta per l’Anno Santo di Giacomo Gambassi Le indulgenze, il pellegrinaggio e la «Porta»: un vademecum per vivere dodici mesi di gioia

Giovanni Paolo II aveva paragonato l’Anno Santo all’«invito a una festa nuziale». E spronava: «Accorriamo tutti, dalle diverse Chiese e dalle comunità ecclesiali sparse per il mondo, verso la festa che si prepara». Si riferiva all’ultimo Giubileo che la Chiesa ha celebrato, quello del 2000. Le parole di Wojtyla possono essere prese a prestito per delineare l’Anno Santo della misericordia che papa Francesco ha annunciato venerdì e che comincerà l’8 dicembre. Dodici mesi di gioia che avranno al centro la remissione dei peccati, la riconciliazione, la conversione ma anche la solidarietà e l’attenzione al prossimo. Tre sono i segni che appartengono a ogni Anno Santo: l’indulgenza giubilare, il pellegrinaggio e la Porta Santa. Ad essi, nel 2000, papa Wojtyla ne aveva aggiunti tre: la purificazione della memoria, la carità e la memoria dei martiri. Come a dire che la tradizione degli Anni Santi si cala nel tempo con la sua forza «viva». L’INDULGENZA. L’indulgenza è uno degli elementi costitutivi dell’evento giubilare. «In essa si manifesta la pienezza della misericordia del Padre che a tutti viene incontro con il suo amore, espresso in primo luogo nel perdono delle colpe», scriveva Giovanni Paolo II nella Bolla Incarnationis mysterium con cui aveva indetto l’ultimo Giubileo. Il sacramento della Penitenza offre la possibilità di convertirsi e di sperimentare il perdono del Padre. Ma l’avvenuta riconciliazione con Dio non esclude la permanenza di alcune conseguenze del peccato, l’«attaccamento malsano alle creature» che ha bisogno di una purificazione «sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato Purgatorio». Questa purificazione libera dalla “pena temporale” del peccato. È in questo ambito che acquista rilievo l’indulgenza con cui al peccatore pentito è condonata la pena temporale per i peccati già rimessi quanto alla colpa (con la Confessione). Per ottenere l’indulgenza, è necessario essere in stato di grazia. Poi serve che il fedele abbia la disposizione interiore del completo distacco dal peccato; che si accosti al sacramento della Riconciliazione; che riceva l’Eucaristia; e che preghi secondo le intenzioni del Papa. Inoltre serve compiere un’“opera”. Ci sono le opere di pietà, ossia fare un pellegrinaggio in un santuario o luogo giubilare. Oppure le opere di misericordia, vale a dire visitare chi è in difficoltà (carcerati, anziani soli, disabili), sostenere un’iniziativa religiosa o sociale (per l’infanzia abbandonata, i giovani in difficoltà, gli anziani bisognosi, gli stranieri nei Paesi poveri), dedicare una congrua parte del tempo libero ad attività per la comunità. O un’opera di penitenza, cioè astenersi da consumi superflui (fumo, bevande alcoliche...), digiunare o astenersi dalle carni devolvendo una somma ai bisognosi. IL PELLEGRINAGGIO. Il pellegrinaggio, simbolo che ha arricchito la tradizione giubilare, riporta alla condizione propria dell’uomo. La Sacra Scrittura attesta a più riprese il valore del mettersi in cammino per raggiungere i luoghi sacri. Era tradizione che l’israelita andasse in pellegrinaggio verso la città dove era conservata l’arca dell’Alleanza. Anche Gesù con Maria e Giuseppe si fece pellegrino verso la città santa di Gerusalemme. E la storia della Chiesa è il «diario vivente » di un pellegrinaggio mai terminato. Per il credente, il pellegrinaggio evoca il percorso personale sulle orme del Redentore: è itinerario di ascesi, di pentimento per le fragilità, di preparazione interiore a un rinnovamento del cuore. Nell’Anno Santo le mete principali sono le quattro basiliche patriarcali di Roma (San Pietro in Vaticano, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura) dove è possibile ottenere l’indulgenza. Ma in ogni diocesi possono essere indicati luoghi di pellegrinaggio legati al Giubileo. LA PORTA SANTA. L’apertura della Porta Santa e la sua chiusura segnano l’inizio e la conclusione dell’Anno Santo. La Porta rimanda al passaggio che ogni cristiano è chiamato a compiere dal peccato alla grazia, guardando a Cristo che di sé dice: «Io sono la porta». Di fatto durante il Giubileo viene offerto un “percorso straordinario” verso la salvezza. «Passare la Porta Santa significa confessare che Gesù è il Signore», notava Giovanni Paolo II. E papa Francesco varcherà per primo la Porta Santa della Basilica di San Pietro l’8 dicembre – solennità dell’Immacolata Concezione e giorno in cui si compirà il mezzo secolo dalla chiusura del Concilio Vaticano II – mentre successivamente spalancherà le Porte Sante delle altre tre basiliche maggiori di Roma. Fu papa Martino V ad aprire per la prima volta nella storia degli Anni giubilari la Porta Santa di San Giovanni in Laterano nel 1423. Fino all’Anno Santo del 1975 le Porte erano murate sia all’esterno, sia dall’interno delle basiliche. Così il Papa aveva in mano un martelletto che percuoteva tre volte sul muro della Porta prima che la parete fosse abbattuta. Paolo VI volle spostare l’attenzione dal muro alla Porta e stabilì che le Porte non fossero più murate all’esterno. Così oggi sono sempre visibili. E per aprirle non serve più il martelletto d’argento e per chiuderle non c’è bisogno che il Pontefice abbia in mano una cazzuola (come avveniva in precedenza). Restano però i muri interni – ossia dietro le Porte – i cui mattoni hanno il nome del Papa che ha aperto e chiuso l’Anno Santo e che accolgono una pergamena e alcune monete in un’urna (quelle presenti evocano il 23° anno di pontificato di Wojtyla, ossia quando venne celebrato l’ultimo Giubileo). Il rito di apertura prevede che il Papa si avvicini alla Porta Santa dicendo Aperite mihi portas iustitiae («Apritemi la porta della giustizia »). E che poi la spinga. Quindi si inginocchia davanti, riceve il libro dei Vangeli ed entra nella basilica. LA BOLLA. Ma il primo atto di ogni Giubileo è la consegna e la lettura della Bolla papale che indice l’Anno Santo. Un gesto che verrà compiuto presso la Porta Santa, ancora chiusa, della Basilica di San Pietro il 12 aprile, nella Domenica della Divina Misericordia, festa istituita da san Giovanni Paolo II che viene celebrata la domenica dopo Pasqua. E l’Anno Santo della misericordia avrà il suo sigillo ufficiale.

CORRIERE DELLA SERA di domenica 15 marzo 2015 Pag 16 Il Papa agli insegnanti «Siete malpagati, questa è un’ingiustizia» di Gian Guido Vecchi Scola sulle paritarie: un errore chiedere retta e tasse

Città del Vaticano. «Cari colleghi e colleghe, permettetemi di chiamarvi così...». Francesco si rivolge in aula Paolo VI a duemila insegnanti e pensa a quelli che definì gli «anni felici» tra il 1964 e il 1965, quando aveva ventotto anni ed era professore di letteratura al «Colegio de la Inmaculada Concepción» di Santa Fè, in Argentina, un giovane gesuita che gli studenti chiamavano maestrillo e spaziava tra romanzi, poesia e teatro, fino a invitare Jorge Luis Borges a fare lezione nella sua classe. «Insegnare è un lavoro bellissimo» sorride il Papa, poi alza lo sguardo dal testo scritto e considera a braccio: «Peccato che gli insegnanti siano malpagati. Perché non c’è soltanto il tempo che spendono per fare scuola, poi devono prepararsi, poi devono pensare ad ognuno degli alunni: come aiutarli ad andare avanti». Risate liberatorie, applausi tra i professori dell’Unione cattolica insegnanti. «È vero? È un’ingiustizia. Io penso al mio Paese, che è quello che conosco: poveretti, per avere uno stipendio più o meno che sia utile, devono fare due turni! Ma un insegnante come finisce dopo due turni di lavoro? È un lavoro malpagato, ma bellissimo perché consente di veder crescere giorno dopo giorno le persone che sono affidate alla nostra cura. È un po’ come essere genitori, almeno spiritualmente. Ed è una grande responsabilità». Francesco parla in particolare dell’impegno degli insegnanti cristiani nella scuola, «a prescindere dalla sua gestione statale o non statale». Anche qui si tratta di andare «nelle periferie» che non possono «essere abbandonate all’emarginazione, all’ignoranza, alla malavita». Insegnare non si riduce alla «trasmissione di conoscenze tecniche» («per imparare i contenuti è sufficiente un computer») ma significa «costruire una relazione educativa con ciascuno studente, che deve sentirsi accolto e amato per quello che è». Il «prossimo» di un insegnante sono i suoi studenti, c’è tutto Francesco nella raccomandazione centrale del discorso: «Il dovere di un buon insegnante a maggior ragione di un cristiano è quello di amare con maggiore intensità i suoi allievi più difficili, deboli, svantaggiati. Gesù direbbe: se amate solo quelli che studiano, che sono ben educati, che merito avete? E ce ne sono alcuni che fanno perdere la pazienza, ma quelli dobbiamo amarli di più! Qualsiasi insegnante si trova bene con questi studenti. A voi chiedo di amare di più gli studenti “difficili”, quelli che non vogliono studiare, quelli che si trovano in condizioni di disagio, i disabili, gli stranieri, che oggi sono una grande sfida per la scuola». Sulle scuole paritarie si è invece soffermato a Milano il cardinale , durante la tradizionale marcia Andemm al Domm: «Vogliamo crescere donne e uomini liberi. Vogliamo essere liberi di educare» ha detto a migliaia di ragazzi, genitori e insegnanti. «Non smetteremo di chiedere agli organismi statali che la libertà di educazione si deve affermare in modo compiuto, come già avviene in tutti i Paesi avanzati» ha aggiunto: «Dobbiamo passare dall’idea della scuola paritaria come una modalità di essere scuola pubblica, all’idea di scuola libera, dove i soggetti che sanno fare scuola, ricevendo l’accredito dello Stato, possano effettivamente farla». Conclusione: «Non basta più il pluralismo della scuola paritaria in un’unica idea, occorre un pluralismo di modelli. E chiediamo il giusto trattamento a livello economico: non è giusto per chi frequenta la paritaria pagarla due volte: con le tasse e con la retta».

Pag 25 La risposta di Francesco ai fautori del rigore di Alberto Melloni Giubileo

A due anni dalla sua elezione, seminando i generosi tentativi fatti da tutti nel mondo di trovare un «progetto» del Pontificato, Francesco continua a mettere al centro del suo governo la sua confessione di fede: il Cristo povero come metro del cosmo, il Padre misericordioso come metro dell’uomo, lo Spirito che ispira il sensus fidei del popolo cristiano perché la «Chiesa una» si dia alla missione e non all’autocompiacimento. Questa volta ha fatto valere il suo modo d’essere davanti a un clima opaco, dove montano interessate insoddisfazioni, indicendo un anno santo straordinario. Lo strumento scelto non ha buona fama. Il Giubileo ordinario della Chiesa di Roma fu inventato da Bonifacio VIII per dare risorse e centralità a un papato sfarzoso e ha completato il riscatto della sua reputazione solo quando nel 2000 vi iscrisse quel « mea culpa», che da allora infastidisce come una tossicola i custodi del trionfalismo chiesastico. Il Giubileo straordinario è anche peggio. Il primo, nel 1390, doveva dar spazio e soldi ad uno dei Papi in contesa nello scisma d’Occidente. Il secondo, quello del 1423, lo celebrò Martino V, dopo che il concilio di Costanza aveva riunificato la Chiesa, e non aveva fini molto diversi. Gli altri due, nel XX secolo, servirono ad altro: quello del 1933 proclamato da Pio XI volle segnare il ritorno della Chiesa nello spazio pubblico dopo i Patti Lateranensi; e nel 1983 anche Giovanni Paolo II ripeté un Anno Santo della redenzione, per recuperare visibilità pubblica, a un lustro dalla fine del papato montiniano. Il Giubileo straordinario Francesco l’ha adottato per altri motivi, che riguardano il Sinodo, il Concilio e il popolo cristiano. Nello scegliere i vescovi per il prossimo Sinodo, molte conferenze episcopali hanno votato gli «uomini della durezza». Con l’Anno Santo Francesco manda loro un avviso: non è la miseria del popolo cristiano a richiedere sconti, ma è la natura stessa di Dio a chiedere la misericordia. E il popolo pellegrino la farà vedere. Nel cinquantesimo anniversario della fine del Vaticano II torna a farsi sentire una tendenza a minimizzare il Concilio o a farne un elogio. A chi lo giudica con queste categorie, Francesco offre col Giubileo una ermeneutica della Misericordia, che la Chiesa, secondo le parole inaugurali di Roncalli, usa come una medicina da preferire alle armi della severità. Il Giubileo è infine un appello al popolo cristiano (un tema della teologia di Lucio Gera) come portatore della testimonianza di fede ai pastori e con i pastori. Questo fiume di pellegrini dirà con la sua devozione che il senso di questo papato non è nella illusione che il predecessore ne ipotechi le scelte, nelle prevedibili resistenze della macchina curiale, nella capacità di questa o quella voce di «annettersi» il pontefice a fini di carriera. Testimonierà, come diceva papa Giovanni, che «non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».

LA REPUBBLICA di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Quel che Francesco può dire all'Europa dei non credenti di Eugenio Scalfari

"Dobbiamo evitare che i buoni si perdano e dobbiamo fare tutto ciò che è possibile per salvare i perduti". La misericordia cui papa Francesco dedica il prossimo Giubileo ha questo obiettivo, il figliol prodigo della parabola che il padre accoglie come la festa della vita, il perdono tra uomini e la perdonanza infinita di Dio verso le sue creature. E il pentimento che è la condizione affinché la misericordia discenda su quell'anima e la illumini con la sua luce. Papa Bergoglio non a caso ha preso il nome di Francesco, del tutto inconsueto nella Chiesa di Roma: il santo di Assisi vedeva e amava le creature di Dio, tutte le creature di Dio perché tutte portano dentro di loro una scintilla di divinità; il buon pastore è quella scintilla che deve scoprire cancellando con il suo amore le scorie che la vita ha accumulato su di essa relegandola nel profondo e soffocandone la luce. Resta tuttavia il tema del peccato e del pentimento. E se il pentimento non viene? Se la scintilla si è spenta o non è mai esistita? Papa Francesco non ha mai pensato che quella scintilla possa spegnersi o addirittura che alcune nature possano esserne state private fin dalla nascita, perciò la cura delle anime non deve mai arrestarsi né essere interrotta e questo è il compito della Chiesa missionaria. Un giorno, in uno dei nostri incontri, mi parlò di quella missione che riguardava anche i non credenti. "La Chiesa missionaria mi disse non fa proselitismo, cerca nelle persone di suscitare la ricerca del bene nella loro anima". Santità gli risposi io non credo che esista l'anima". "Lei all'anima non ci crede, ma ce l'ha". Questa è la fede che lo sostiene e che ne illumina il cammino, l'amore del prossimo è la passione che lo sospinge. Ricordo anche d'avergli detto che secondo me non ci sarebbe stato nessun pontefice come lui e la risposta fu che è il Signore a conoscere il futuro e la sua infinita misericordia. Ripensando la storia della Chiesa cattolica ci sono soprattutto due tra i suoi predecessori che della misericordia hanno fatto il principale tema del loro pontificato: Lambertini nel Settecento e Roncalli mezzo secolo fa. Quasi tutti gli altri, dal Concilio di Nicea in poi, hanno tenuto insieme la predicazione evangelica e la gestione del potere temporale, dando la prevalenza all'una o all'altra secondo l'epoca in cui vissero e il carattere della loro personalità. Francesco ha anche detto, nell'intervista ad un giornale messicano diffusa proprio ieri, d'avere la sensazione che il suo pontificato sarà breve, quattro o cinque anni e su questa frase si è concentrata l'attenzione dei giornali: forse sta male? Forse pensa di dimettersi da un compito così gravoso? Lui ha smentito sia l'una che l'altra ipotesi. Del resto un anno fa, tornando da un viaggio in Corea, aveva già detto la stessa frase. È possibile che faccia presente a chi lo ascolta e anche a se stesso che la sua età anagrafica si chiama vecchiaia e i vecchi sono alla vigilia della scomparsa. Lui non teme la morte che è soltanto un passaggio verso la vera vita dell'aldilà. Teme la sofferenza, questo sì, e l'ha detto più volte, ma la morte no. La morte è una festa e come tale va affrontata da chi ha fede nel Padre che ti aspetta nell'alto dei cieli. E per chi la fede non ce l'ha? La risposta è che se ha amato gli altri almeno come se stesso (possibilmente un po' più di se stesso) il Padre lo accoglierà. La fede aiuta ma non è quello l'elemento di chi giudica, è la vita. Il peccato fa parte della vita, il pentimento ne fa anch'esso parte. Il rimorso, il senso della colpa e il desiderio del riscatto, l'abbandono dell'egoismo. Chi ha avuto il dono di conoscere papa Francesco sa che l'egoismo è il nemico più pericoloso per la nostra specie. L'animale è egoista perché è preda soltanto dei propri istinti, il principale dei quali è quello della sopravvivenza, la propria. Ma l'uomo è animato anche dalla socievolezza e quindi sente l'amore verso gli altri, verso la sopravvivenza della specie cui appartiene. Se l'egoismo soverchia e soffoca l'amore per gli altri, offusca la scintilla divina che è dentro di lui e si autocondanna. Che cosa accade a quell'anima spenta? Sarà punita? E come? La risposta di Francesco è netta e chiara: non c'è punizione ma l'annullamento di quell'anima. Tutte le altre partecipano alla beatitudine di vivere in presenza del Padre. Le anime annullate non fanno parte di quel convito, con la morte del corpo il loro percorso è finito e questa è la motivazione della Chiesa missionaria: salvare i perduti. Ed è anche la ragione per cui Francesco è gesuita fino in fondo. La Compagnia fondata da Loyola insegnò ed insegna ai suoi adepti che la missione ha come premessa quella di entrare in sintonia con gli altri, capirne la lunghezza d'onda senza di che il dialogo sarebbe impossibile. Perciò la Chiesa missionaria deve aggiornarsi secondo il passare del tempo e la diversità del luogo. Quando finalmente il dialogo diventa possibile tra persone diverse, di diverse culture, diverse civiltà ed anche diverse religioni, ecco che allora la Chiesa missionaria può stimolare la vocazione al bene e limitare l'amore per sé. Questo insegnamento di Francesco ha molto senso anche per chi non crede perché tocca un aspetto profondamente umano indipendentemente dalla fede in Dio e in Cristo suo Figlio. È un insegnamento che sottolinea la differenza tra l'uomo e l'animale da cui proviene ed a una mente in grado di pensare se stessa ed autogiudicarsi tenendo per la briglia il proprio narciso e sollevando la testa a rimirar le stelle. Ora Francesco deve ancora affrontare problemi molto ardui, finora appena accennati. Il primo di essi che ancora nessuno si è posto e che però è di palese evidenza riguarda i presbiteri cioè i sacerdoti che amministrano i sacramenti ed hanno il potere di assolvere o punire quelli che giudicano peccatori. I presbiteri, cioè i preti e la gerarchia che tutti li comprende, esistono soltanto nella Chiesa cattolica e hanno divieto di sposarsi. In nessun'altra religione esistono preti e celibato e in nessun'altra religione la dottrina è trasformata in codice. Gli ebrei hanno le loro Scritture e i loro precetti, ma i rabbini sono soltanto maestri, non hanno alcun sacramento né obblighi di celibato. Spiegano e interpretano le Scritture, quello è il loro compito non più di quello. I musulmani hanno anch'essi le loro Scritture e la loro dottrina ma di sacerdoti non c'è traccia. Attenzione però: le varie sette musulmane hanno maestri che interpretano il Corano, ma anche tribunali che indicano il nemico da abbattere perché infedele. Potenzialmente sono teocrazie, a volte in modo diretto come in Iran e a volte indirettamente, sicché la tentazione al fondamentalismo è forte e spesso nefasta. E così, sia pure essendo cristiani, avviene in tutte le varie confessioni protestanti dove non esistono preti, ma pastori. I pastori somigliano in qualche modo ai rabbini, sono maestri, hanno famiglia, amministrano quei sacramenti che le varie confessioni hanno conservato, ma il contatto tra l'uomo e Dio non è obbligatoriamente mediato dai vescovi con cura di anime e comunque dai preti. È un contatto diretto. Questa fu la grande rivoluzione di Lutero: il credente legge le Scritture, la Bibbia, i Vangeli e la fede gli consente il contatto diretto con Dio. Allora la domanda è questa: riuscirà la Chiesa di Roma a conservare l'Ordine ecclesiastico con i suoi doveri e i suoi diritti quasi castali? Il problema è tanto più attuale in quanto alcune confessioni non cattoliche si stanno avvicinando alla Chiesa di Roma e possono anche decidere di unificarsi con essa. È già accaduto per alcuni anglicani può accadere per gli ortodossi. Ma i pastori se decidono di farsi cattolici portano con loro la famiglia che hanno legittimamente costituito, come del resto avviene già da secoli con la Chiesa orientale che è sempre stata cattolica ma senza l'obbligo del celibato. E poi c'è l'altro grande tema della famiglia cui papa Francesco ha dedicato gran parte del Sinodo che avrà nei prossimi mesi la sua conclusione. Infine c'è il tema del Concilio Vaticano II: il contatto con la cultura moderna che ha le sue radici nell'Illuminismo. Quel movimento intellettuale che ebbe il suo maggiore sviluppo nell'Inghilterra e nella Francia del Settecento ed ebbe in Diderot, in Voltaire, in Hume, in Kant i suoi massimi rappresentanti, non credeva nella verità assoluta ma in quella relativa, la quale esclude l'esistenza di Dio oppure l'ammette come motore della creazione della vita che poi si svolge attraverso un'evoluzione autonoma e dettata da autonome leggi. Il Dio dei "teisti" non aveva alcun attributo che somigliasse al Dio cristiano: non era misericordioso né vendicativo, né generoso, non interveniva nella storia e nel destino, non si poneva il problema del male e del bene. Era un motore, una forza cosmogonica che aveva acceso la luce della vita in alcuni luoghi dell'universo e poi si era ritirato, addormentato o in altre creazioni vitali indaffarato. L'Europa ha avuto l'Illuminismo come base della modernità. Il tema del Vaticano II che sta molto a cuore di papa Francesco è di capire la lunghezza d'onda con cui parlare con questa Europa (e America del Nord) fortemente decristianizzata e diventata quindi terra di missione. È molto probabile che il Giubileo voluto da Francesco sia proprio l'inizio dell'azione missionaria, con tutte le sue conseguenze non solo oltremondane ma anche terribilmente attuali nella marea di terrorismo, guerre e tensioni locali, crescente violenza, famiglie sconquassate e figli disperati e insomma del più grave dei peccati che è quello della diseguaglianza, della povertà ignorata, della supremazia del potere e della guerra sull'amore e sulla pace; il tema della misericordia insomma sia quello più adatto non solo religiosamente ma anche socialmente ed economicamente a recuperare l'amore, la pace e la speranza rispetto al potere, alla guerra e alla disperazione. Viva molti anni papa Francesco.

IL GAZZETTINO di domenica 15 marzo 2015 Pag 8 “L’Anno Santo della conversione” Padre Spadaro, direttore di “Civiltà Cattolica”, rassicura sulle condizione di salute del Papa: “Non sarà un pontificato breve, ma urgente”

Quello di papa Francesco sarà un giubileo soft, con al centro i temi forti della misericordia e della conversione, mentre Roma sarà una città «all'altezza di accogliere pellegrini e di esprimere al meglio la propria organizzazione e la propria umanità». Parola dell'arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la Nuova evangelizzazione, grande organizzatore di eventi religiosi come l'Anno della Fede indetto nel 2012 da Benedetto XVI, cui papa Francesco ha voluto affidare la regia dell'anno Santo straordinario che si inaugurerà l'8 dicembre. «La nostra prima preoccupazione non è il business ma esprimere segni concreti di misericordia», sgombera il campo da equivoci mons. Fisichella. Previsioni sul numero di pellegrini non ne fa, «in questo momento è troppo presto», ma lascia prefigurare una organizzazione molto decentrata, con il coinvolgimento delle periferie della Chiesa ed eventi concentrati sull'essenziale com'è nello stile di papa Francesco. «Il punto di partenza spiega è la conversione spirituale, le dimensioni strutturali vengono dopo. Sarà un giubileo vissuto in gran parte nelle nostre comunità locali, non è un giubileo del come venire a Roma, ma piuttosto di come vivere la misericordia». «Penso che ci saranno due momenti prosegue quello in cui il Papa vivrà il giubileo, da lui voluto come unità di tutta la Chiesa, che sarà vissuto insieme; e l'altro che sarà invece espressione della "Chiesa in uscita" alla quale il Papa ci esorta e che sarà occasione per raggiungere quanti si trovano nelle periferie geografiche e sociali». Ma perché un giubileo straordinario dedicato alla Misericordia? «Innanzitutto per ricordare alla Chiesa l'essenza del Vangelo. Questo spiega anche perché lo ha affidato al nostro dicastero». I giubilei cadono di norma ogni 25 anni, perché tanta urgenza da parte del Papa? «Più che un'urgenza osserva l'arcivescovo penso sia un grande desiderio che il Papa ha voluto manifestare e che ha espresso fin dal primo giorno del suo pontificato. Il giubileo diventa così una tessera nel mosaico del programma pastorale di papa Francesco. Non dimentichiamo che nel suo documento programmatico l'Evangelii gaudium, il Papa per più di 30 volte fa riferimento alla misericordia. È la spia per entrare veramente nel pensiero di Francesco ed esprime anche il desiderio di immettere la Chiesa nel cammino del Concilio Vaticano II». «D'altronde nota Fisichella se guardiamo alle parole di Giovanni XXIII sulla medicina della misericordia e di Paolo VI secondo cui la spiritualità del Concilio era quella del buon samaritano, capiamo come Francesco si ponga in piena sintonia e continuità con il desiderio del Vaticano II di comunicare il Vangelo con entusiasmo rinnovato». La scelta dell’Anno santo straordinario a 50 anni dalla conclusione del Concilio è la dimostrazione che per il Papa ancora prima delle riforme delle strutture ecclesiastiche e delle prassi pastorali conti il rinnovamento spirituale? «Penso di sì, sempre nell'Evangelii gaudium una delle parole chiave è la conversione pastorale. Il papa ha detto che il giubileo è un cammino che inizia con la conversione spirituale. Ancora una volta siamo dinnanzi a una riscoperta di ciò che costituisce il cristianesimo stesso, la conversione del cuore e come conseguenza delle nostre strutture e dei nostri comportamenti». Su come influirà tutto ciò sul prossimo sinodo sulla Famiglia e sul dibattito riguardante coloro che oggi la Chiesa esclude dai sacramenti, Fisichella osserva: «Il sinodo è un momento importante per rispondere alla grande sfida culturale in atto che tende sempre di più a togliere valore alla famiglia. Il sinodo ha la sua prima grande preoccupazione nel sostenere la famiglia e anche quella di accompagnare le persone che vivono in difficoltà così anche il tema di persone che hanno visto il dramma del fallimento del primo matrimonio. Tutti questi elementi devono essere ugualmente presenti, come il tema della misericordia».

In curia qualcuno ci scherza persino su. Rassicurante. A parte qualche dolore di sciatica e qualche raffreddore di stagione, Francesco gode di uno stato di salute più che buono. Eppure quella frase spontanea buttata lì dal diretto interessato più per consapevolezza di un fatto anagrafico, 78 anni, che non una notifica urbi et orbi di un declino imminente, ha finito per alimentare timori tra i fedeli, sollevando altrettanti interrogativi. Papa Bergoglio confessava solo di avere la sensazione che «il suo sarà un pontificato breve», ammettendo altresì di «potersi pure sbagliare, ma di non prevedere comunque l'eventualità di dimettersi». Meno male che in Vaticano chi lo conosce bene predilige la via dell'ironia per fare l'esegesi su quelle parole, come dire che Francesco non aveva intenzione di fare annunci amari, né avallare visioni pessimiste. Semmai quel passaggio andrebbe letto come la conferma di un atteggiamento sereno, specchio di una totale fiducia in Dio. Naturalmente Papa Bergoglio sente l'urgenza di mettere in cantiere progetti importanti, di far avanzare la riforma sinodale innanzitutto, poi la riflessione planetaria, avviata in tutta la Chiesa universale, sulla famiglia e, ultimo, il giubileo sulla misericordia, un tema a lui caro e talmente ampio da poter essere declinato in ogni campo: culturale, politico, sociale. La Chiesa descritta come un ospedale da campo inizia da lì. Da questa piattaforma onnicomprensiva, si approda a diversi settori della vita quotidiana, l'immigrazione, le nuove povertà, la giustizia. Il ventaglio è ampio. Anche padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, il gesuita che lo consiglia e lo accompagna nei viaggi, è tranquillizzante. Ieri ha twittato: «Quello di Papa Francesco non è un pontificato a tempo o a scadenza, anche perché non è prevedibile. È invece un pontificato urgente». Urgente come le riforme di cui la Chiesa ha bisogno, già messe in cantiere in questi due anni. La premura che ha Bergoglio probabilmente chiarisce la frase che ha alimentato gli interrogativi. Secondo le energie che possiede sente l'urgenza di avviare percorsi immensi, di instradarli sul giusto binario. «Ha urgenza di fare, ma non ha fretta di fare. La sua visione complessiva è legata ai processi avviati».

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L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 14 marzo 2015 Pag 4 Due anni di pontificato di Valentina Alazraki In una intervista a Televisa

È una lunga intervista quella che Papa Francesco ha rilasciato a Valentina Alazraki, vaticanista di Televisa, nel pomeriggio del 6 marzo a Santa Marta, e che la televisione messicana ha iniziato a trasmettere la sera del 12 marzo, alla vigilia dell’inizio del terzo anno di pontificato. In una nostra traduzione pubblichiamo il testo integrale delle risposte del Pontefice e, in forma sintetica, le domande.

Papa Francesco, prima di tutto mille grazie, anche se vivo da molti anni qui, è la prima volta che mi siedo davanti a un Papa per fare un’intervista formale. Che paura! Ho molta paura. La verità è che mi sento molto emozionata, ma soprattutto molto grata. La prima cosa che le chiedo è quello che tutti i messicani, o molti, o la maggior parte, si domandano: com’è possibile che non ci visiti quest’anno. Si sperava tanto che lei venisse a settembre... Pensavo di farlo, perché volevo entrare negli Stati Uniti attraverso la frontiera messicana. Ma se fossi andato a Ciudad Juárez, per esempio, e fossi entrato da lì, o a Morelia, e fossi entrato da lì, si sarebbe creata un po’ di confusione: come mai va lì e non viene a vedere la Signora, la Madre? Inoltre, non si può visitare il Messico a pezzetti. Il Messico richiede una settimana. Prometto un viaggio in Messico come il Paese merita, ma non di fretta e di passaggio. Per questo ho deciso di non passare dal Messico. Lei ha scelto questa sala dove so che si tengono riunioni molto importanti, qui si decide il futuro della Chiesa. C’è un grande quadro della Morenita. Che cosa rappresenta per lei la Vergine di Guadalupe? Ha toccato un tema che sento molto. Come si definisce il momento storico del Messico, quando la Vergine visita il Messico, e come l’eredità che lascia? Due volte nel campo Mompúa si presenta a Juan Diego come Madre: sono la Madre di Dio, grazie al quale si vive. E poi, quando lui si mostra un po’ impaurito gli dice: di che cosa hai paura? Non ci sono io che sono tua Madre? È Madre. Poi noi la chiamiamo Regina, Reginetta lo diceva lo stesso Juan Diego Imperatrice d’America, ma Lei si definisce come Madre, in un momento in cui l’America rinasceva. Ed è la Madre che porta la buona novella in Messico. È una Madre che sta aspettando un bambino. E in quel momento tragico della conquista, perché all’epoca avvenne di tutto, Lei porta la salvezza. Mostra che porta un bambino. Ma come lo mostra? Come si mostra oltre che incinta? Si mostra meticcia. È una vera e propria profezia, il nostro meticciato americano. Una profezia della nostra cultura, perciò lei supera i confini del Messico, va molto più in là: è l’unità del popolo americano. È la Madre. L’America non è orfana. Ha una Madre. Una Madre che ci porta Gesù. Ossia, la salvezza che è Cristo viene da una donna e lei volle dimostrarlo attraverso il suo meticciato, lo portava in Messico in modo particolare. E sceglie un figlio di quella cultura per manifestarsi. Non sceglie un bambino spagnolo o un colonizzatore, o una signora graziosa, no, no. Un uomo semplice, sposato, umile. Allora per me Lei è Madre. È Madre meticcia e, oso dirlo, anche altro. È il principio di una cosa di cui non parliamo molto in America: è l’abbondanza della santità. Ossia nella colonizzazione americana, nella conquista americana, ci sono stati peccati a non finire. Si è peccato molto. Ma ci furono anche molti santi: santa Rosa da Lima, il negrito Martín de Porres, quando andrò negli Stati Uniti canonizzerò un uomo santo che evangelizzò la California, Junípero Serra, il quale, prima di recarsi nella missione in California, andò proprio da Lei a chiedere la benedizione. Cioè in qualche modo fu Lei ad aprire la porta a quella corrente di santità. I santi messicani, i santi americani sono molti. Ossia, per me Lei è tutto ciò che ho detto: è Madre, fonte di unità culturale, porta verso la santità, in mezzo a tanto peccato e a tanta ingiustizia, a tanto sfruttamento e a tanta morte. È Madre. È questo che sento quando la vedo. Tornando dalle Filippine ha detto che le sarebbe piaciuto entrare negli Stati Uniti dalla frontiera con il Messico. Lei è figlio di immigrati, i suoi genitori erano italiani, andarono in Argentina. Lei ha nel sangue quello che significa. Quale sarebbe il significato della sua presenza lì, in quella frontiera? Gente non solo del Messico, ma del Centroamerica, del Guatemala, che attraversa tutto il Messico per cercare un futuro migliore. Oggigiorno l’emigrazione è frutto del malessere nel senso etimologico del termine, frutto della fame, della ricerca di nuove frontiere. Lo stesso succede in Africa, con tutta quella gente che attraversa il Mediterraneo e che proviene da Paesi che stanno vivendo momenti difficili, sia per la fame sia per le guerre. Ma evidentemente la migrazione oggigiorno è molto legata alla fame, alla mancanza di lavoro, alla tirannia di un sistema economico che mette al centro il dio denaro e non la persona. E allora si scarta la gente. Allora un Paese crea in America, in Africa, ovunque una situazione economica imposta, naturalmente, che scarta la gente, che va altrove a cercare lavoro, cibo o benessere. In questo momento il problema migratorio nel mondo è molto doloroso. Ci sono infatti varie frontiere migratorie. Mi rallegro che l’Europa stia rivedendo la sua politica migratoria. L’Italia è stata molto generosa, e voglio dirlo. Il sindaco di Lampedusa si è messa totalmente in gioco, anche a costo di trasformare l’isola da terra di turismo a terra di ospitalità. Con quello che comporta il non guadagnare soldi. Ci sono cioè gesti eroici. Ma ora, grazie a Dio, vedo che l’Europa sta rivedendo la situazione. Tornando alla migrazione lì, in quella zona, si tratta anche di un’area di grandi scontri per il problema del narcotraffico. Gli Stati Uniti mi dicevano — non voglio fare statistiche, che poi mi creerebbero un problema diplomatico — e l’ho letto anche in una rivista, che sono tra i principali consumatori di droga nel mondo. E la frontiera da dove entra la droga, la principale, è la messicana. Allora anche lì si soffre. Morelia, tutta quell’area, è una zona di grande sofferenza dove anche le organizzazioni di narcotrafficanti non scherzano, ossia sanno fare il loro lavoro di morte, sono messaggeri di morte, sia per la droga sia per “pulire” quelli che si oppongono alla droga. E quarantatré studenti in qualche modo stanno chiedendo non dico vendetta, ma giustizia, di venir ricordati. Per questo rispondo forse a una curiosità: ho voluto fare cardinale l’arcivescovo di Morelia perché sta in un punto rovente. È un uomo che sta in una zona molto calda, è una testimonianza di uomo cristiano, di grande sacerdote. Ma sui cardinali possiamo tornare dopo. Qui l’ho solo accennato. Come primo Papa latinoamericano sente di avere una ulteriore responsabilità, quella di essere la voce di tutti quei milioni di persone che si vedono nella situazione di dover uscire dal proprio Paese, di attraversare frontiere, muri, in America, in Asia, in Europa, ovunque? Sì. Essere la voce, ma non in modo programmatico. Mi viene spontaneo. Mi viene per la nostra stessa esperienza latinoamericana e anche per il mio sangue di migrante. Mio padre e i miei nonni andarono in Argentina. Avevano buone ragioni per farlo, ma erano ragioni politiche: la nonna era molto impegnata nella nascente Azione cattolica sebbene non le fecero mai bere olio di ricino, perché è questo che si faceva... Decisero di andare a cercare nuove strade. Inoltre i fratelli di mio nonno avevano una buona attività a Entre Ríos, ma loro arrivarono nel 1929 e nel 1932 la crisi li lasciò per strada, senza nulla. Un prete gli prestò duemila pesos con cui comprarono un negozio di alimentari. Mio padre, che era ragioniere, faceva le consegne a domicilio. Quella gente si guadagnò da vivere, si rifece una vita. Riprese a lottare per portare avanti la famiglia. Questo per me vuol dire molto. Tutto questo l’ho respirato in casa. Da qui le viene tutta la sua sensibilità... Penso di sì. Sì. Inoltre in Argentina ho visto situazioni difficili. Di povertà e di emarginazione, persino di tossicodipendenza. E sono queste cose a muovermi. Mi viene naturale. Non ideologicamente. Per questo a volte sono un po’ spregiudicato e non mi trattengo nel parlare, ma non importa... Lei ha fatto riferimento ai quarantatré studenti di Iguala. È stato un momento molto difficile per il Messico, è stato un lutto grave per il nostro Paese. Ricordo che Suárez Inda, il nuovo cardinale di Morelia, diceva che quando c’è una situazione difficile siamo tutti colpevoli e in qualche modo responsabili. La Chiesa non dà soluzioni politiche, tecniche, ma credo che sarebbe necessario un messaggio d’incoraggiamento al Messico. Questo non è il primo momento difficile che il Messico attraversa. Mi riallaccio qui alla santità. Il Messico ha attraversato momenti di persecuzione religiosa, che hanno generato martiri. Penso che il diavolo castighi il Messico con molta collera. Proprio per questo. Credo che il diavolo non perdoni al Messico il fatto che la Vergine abbia mostrato lì suo Figlio. È una mia interpretazione. Il Messico è privilegiato nel martirio, per aver riconosciuto, difeso sua Madre. E questo lei lo sa molto bene. Ci sono messicani cattolici, non cattolici, atei, ma tutti guadalupani. Cioè tutti si sentono figli. Figli di colei che portò il Salvatore, che distrusse il demonio. Qui s’inserisce anche il tema della santità. Credo che il diavolo abbia presentato un conto storico al Messico. E perciò tutte queste cose: nella storia sono sempre apparsi focolai di grave conflitto. Di chi è la colpa? Del governo? Questa è la soluzione, la risposta più superficiale. I governi hanno sempre la colpa. Sì, il governo. Tutti abbiamo in qualche modo la colpa, perlomeno quella di non farci carico della sofferenza. C’è gente che sta bene e forse la morte di quei ragazzi non l’ha toccata, l’ha lasciata indifferente: non è toccato a me, grazie a Dio non è toccato a me. Ma la maggior parte del popolo messicano è solidale. E questa è una delle virtù che voi avete. Credo che tutti debbano collaborare, per risolvere il problema in qualche modo. So che è molto difficile denunciare un narcotrafficante. Perché ne va della vita, è una specie di martirio, no? È duro, ma credo che tutti in situazioni simili, in Messico o altrove, dobbiamo collaborare. Dare la colpa a un solo settore, a una sola persona, a un solo gruppo è infantile. Lei ha inviato un messaggio privato a un amico argentino esprimendogli la sua preoccupazione riguardo alla crescente diffusione del narcotraffico nel suo Paese. Ha utilizzato l’espressione: «Cerchiamo di evitare la messicanizzazione»... Questa espressione ha ferito suscettibilità, sensibilità. Che cosa ha voluto dire? Sì. Quel ragazzo è un dirigente, un uomo che ha lavorato per la giustizia sociale e lavora molto, un mio amico. Viene dalla sinistra, dal trotzkismo, viene da lì. È un uomo che ha trovato Gesù e lavora per la giustizia sociale, me lo racconta. Mi raccontava come erano riusciti a scoprire alcune reti di narcotraffico, che stavano lottando e che avevano anche chiuso una catena di postriboli. Lui lavora molto nel campo della schiavizzazione delle persone ossia delle “fabbriche schiave” con migranti a cui viene tolto il passaporto e che vengono tenuti schiavi lì e in quello della prostituzione e della tossicodipendenza. Mi ha detto: vogliamo evitare di arrivare alla messicanizzazione dell’Argentina. Così mi ha detto. Evidentemente era un’espressione, mi si permetta la parola, “tecnica”. Non ha nulla a che vedere con la dignità del Messico. Come quando parliamo della “balcanizzazione” né i serbi, né i macedoni, né i croati si risentono con noi. Ormai si parla di balcanizzare qualcosa e si usa tecnicamente, i media lo hanno usato molte volte. Si usava “colombizzazione”, per esempio. Anche. Per cui io gli ho risposto che avrei pregato, li avrei accompagnati e magari non saremmo arrivati alla messicanizzazione, tecnicamente. Il fatto ha sollevato un polverone ma, secondo le statistiche che mi sono arrivate, fatte da alcuni giornalisti messicani, la maggior parte, il novanta per cento del popolo messicano, non si è sentita offesa da ciò. E questo mi rallegra. Per me sarebbe stato un gran dolore se fosse stato interpretato in quel modo. Lo stesso governo, dopo aver chiesto chiarimenti, ha accettato la spiegazione. Quella vera. Ed è finita lì. Ossia, questo non mi ha chiuso le porte del Messico. Andrò in Messico. Sappiamo che lei telefona, scrive lettere personali. Ha mai pensato di raccomandare ai suoi interlocutori discrezione, perché si tratta di comunicazioni private? Normalmente lo faccio. Ma a volte la gente non si trattiene. Questo mio amico mi ha risposto chiedendo perdono, mi ha giurato e rigiurato che non avrebbe mai più pubblicato... Continua a essere suo amico? Sì. Anche perché lo ha fatto come per dire «anche il Papa sta lottando contro la droga». È vero che il fatto di toccare un tema così delicato può avere conseguenze per me. Lo devo dire, a volte mi sono sentito usato dalla politica. Politici argentini che mi chiedevano udienza... Sì, capisco la sua domanda e voglio rispondere apertamente, anche se potrebbe procurarmi qualche problema personale nel mio Paese. Ma racconto semplicemente quello che è successo. Chiaro, gli argentini quando hanno visto un Papa argentino si sono dimenticati di quelli che erano favorevoli o contrari al Papa argentino. E noi argentini che non siamo umili, che siamo presuntuosi... Lei sa come si suicida un argentino? No. No? Sale sul suo ego e da lì si butta giù! Avevo sentite molte battute, ma questa mai... Siamo i campioni del mondo, dopo il campione San Lorenzo... Beh, io credo che il San Lorenzo sia campione grazie a lei. Le è andata fin troppo bene. In realtà noi ci facciamo grandi facilmente. Siamo molto poco umili, ossia ci facciamo grandi con facilità: la smisuratezza argentina, propria del nostro modo di essere, il fatto di sentirsi un po’ superiori, i migliori d’America, questo tipo di cose... So che molte persone, la maggior parte senza volerlo, alcuni di proposito, usano il loro venire qui o una mia lettera o una chiamata. Ci sono persone che chiamo e che non raccontano niente. Io ho chiamato e non l’hanno mai detto. Malati ai quali ho inviato una lettera e non l’hanno mai pubblicata. Altri sì. Ma se sento che devo fare una cosa, la faccio e corro il rischio. Che si può fare? Per esempio le sette, che non sono un problema solo messicano. Come si recuperano queste persone? Perché hanno lasciato la Chiesa e si sono rivolte alle sette? Una cosa sono i movimenti evangelici; dopo farò una distinzione tra sette e non sette. Ora parliamo di tutto il movimento evangelico, sette e non sette. Quello che offrono in generale è la “prossimità”, la vicinanza. Basta che un giorno partecipi al culto e la domenica dopo ti aspettano sulla porta e sanno il tuo nome e ti salutano. Sei una persona. Noi cattolici molto spesso, essendo “moltitudinari” e soprattutto per un difetto molto grande che abbiamo in America Latina che è il clericalismo, creiamo una distanza. Il clericalismo in America Latina è stato uno degli ostacoli più grandi alla crescita del laicato. Il laicato in America Latina è cresciuto solo nella pietà popolare. È così. Perché lì il laico è libero e creativo, ha le sue processioni, i suoi culti, ma dal punto di vista organizzativo il laico non è cresciuto abbastanza e non è cresciuto un po’ per questo clericalismo che crea distanze. Allora, tornando alla domanda, una delle cose che nei movimenti evangelici si produce e si crea è la vicinanza. «Ciao, come va?». Poi esiste una distinzione tra movimenti evangelici onesti, buoni, e i movimenti settari. Per esempio ci sono proposte religiose che non sono cristiane e gli stessi evangelici non le vogliono sentire. E ci sono sette, alcune delle quali vengono dalla teologia della prosperità. «Se vieni, ti andrà bene», o cose così. Ricordo una setta a Buenos Aires. Io non ci sono andato ma ho chiesto ad alcuni amici di andare per vedere che cosa succedeva in una liturgia penitenziale. Ebbene, un libero e fervente discorso, una fervida omelia sul peccato e sul fatto che Dio perdona: tutto ben fatto. E hanno detto: «Bene, ora ognuno pensi ai suoi peccati, a cosa ha fatto, ognuno ripercorra i comandamenti e chieda perdono, e per questo deve fare una elemosina di un tanto». Sto semplificando. È ovvio che gli evangelici rifiutano tutto ciò. Gli evangelici seri, però. Poi c’è il fenomeno di usare le cose religiose come commercio. Come nel caso in cui uno fa un piccolo corso e poi apre un culto. Ma io farei una distinzione. Non farei di tutta l’erba un fascio. Ossia ci sono gruppi che si dicono evangelici e non sono neppure cristiani, e sia gli evangelici sia noi cristiani li riconosciamo. Di ciò una volta ho parlato a lungo con un grande amico mio, con il quale ho condiviso una cattedra di teologia. Di ciò ho parlato anche molto con un mio grande amico luterano, docente della facoltà di teologia luterana, uno svedese, il pastore Anders Root. È morto tre anni fa, in Svezia, perché era tornato in Svezia. Con lui ho condiviso la cattedra di teologia spirituale. L’ho invitato quando insegnava in una facoltà cattolica teologia spirituale. Parlavamo molto. Eravamo grandi amici. Lui fece una tesi, una tesi di abilitazione, non di dottorato. La fece su un movimento sedicente evangelico, ma che in fondo non era cristiano, e dimostrò perché non era cristiano. So che con gli evangelici e non solo con le Chiese storiche, ma con i movimenti evangelici, siamo d’accordo sul fatto che ci sono alcune sette che non sono nemmeno cristiane e altre sono cachivache (paccottiglia), per usare una parola nostra. Inoltre, vorrei anche fare una precisazione riguardo a una parola equivoca, il pentecostalismo. Ci sono pentecostali che si avvicinano a questi gruppi che in fondo non sono cristiani, e ci sono pentecostali che lavorano con noi; teniamo riunioni insieme con il movimento di Rinnovamento nello Spirito, cattolico. Ossia, bisogna giudicare caso per caso e saper distinguere. Non possiamo mettere tutti sullo stesso piano. Ebbene, torno alla domanda, perché? Perché offrono questa vicinanza, poi l’annuncio della Parola. Le nostre omelie per esempio... Mi raccontava un sacerdote romano, che era andato a trovare i suoi genitori che vivono in un paesino vicino a Roma, che il padre un giorno gli ha detto: “Non sai quanto sono contento perché con i miei amici ci ritroviamo in una chiesa dove dicono messa senza l’omelia”. Cioè ci sono omelie che sono un disastro. Sì. Non so se sono la maggioranza, ma non giungono al cuore. Sono lezioni di teologia, oppure astratte oppure lunghe. Perciò nella Evangelii gaudium ho dedicato tanto spazio all’omelia. Ebbene, in generale i pastori evangelici offrono vicinanza e giungono al cuore, e preparano bene l’omelia. Credo che in ciò siamo noi a doverci convertire. Ovviamente il concetto protestante di omelia è più forte di quello cattolico. All’inizio, per Lutero l’omelia era quasi un sacramento. Per noi era una dissertazione o una catechesi, o veniva ridotta a una catechesi. Grazie a Dio noi cattolici abbiamo ormai scoperto la teologia della predicazione, dove l’omelia ha un ruolo, è come un sacramentale. C’è qualcosa che pone Dio, ed è qualcosa di molto serio. Da un lato, ci sono distanza, clericalismo, omelie noiose; dall’altro si offrono vicinanza, esortazioni a lavorare, a darsi da fare, integrazione nel lavoro, Parola di Dio ardente. E se ne vanno. È un fenomeno che non avviene nelle Chiese o nelle comunità ecclesiali più serie, evangeliche, bensì con quelli che sono un po’ deboli e che non sono cristiani. E alcuni rimangono a metà del cammino. Se ne vanno da casa e poi nemmeno tornano, questo è un problema molto latinoamericano. In Argentina lavoravamo molto insieme ai pastori. A Buenos Aires mi riunivo con un gruppo di pastori amici, pregavamo insieme e organizzavamo tre ritiri spirituali per pastori e sacerdoti insieme, di vari giorni. E veniva e predicava un sacerdote cattolico o un pastore. Una volta ha predicato il Vescovo australiano Gretsch, ora morto, e due volte padre Cantalamessa, da parte cattolica. E da parte loro, pastori altrettanto prestigiosi. Eravamo tutti lì, pastori uomini e donne, sacerdoti, a pregare insieme, a fare il nostro ritiro spirituale. Lo abbiamo fatto tre volte. Ha aiutato molto noi che, più o meno, seguivamo la linea più seria. Abbiamo anche organizzato tre incontri tra cattolici ed evangelici nel luna park, che può accogliere un po’ più di settemila persone. Incontri di un’intera giornata, in tre anni diversi. Abbiamo anche invitato alcuni pastori di fuori, alcuni sacerdoti di fuori. Anche Cantalamessa una volta ha partecipato. E questo aiutava a lavorare insieme noi che seguivamo una linea seria. Allora, come può vedere, la parola “setta” è come se si diluisse. Mi sono soffermato molto su questo punto per giustizia, per non fare un’ingiustizia. Ci sono fratelli evangelici che lavorano bene. Questa intervista coincide con il secondo anniversario della sua elezione. Che cosa è successo quel giorno? La cosa è stata molto semplice. Io ero venuto con una piccola valigetta perché avevo calcolato che il Papa non avrebbe mai cominciato il pontificato nella Settimana Santa. Pertanto, potevo venire tranquillamente e tornare a Buenos Aires per la Domenica delle Palme. Avevo lasciato l’omelia pronta sulla mia scrivania ed ero venuto con lo stretto necessario per quei giorni pensando che potesse essere un conclave molto breve. In ogni modo, anche se fosse stato lungo, avevo preparato tutto. Avevo il biglietto di ritorno: lo potevo cambiare o anticipare. Perlomeno questo era sicuro. Inoltre non ero in nessuna lista di papabili, grazie a Dio, e non mi passava assolutamente per la testa. In questo voglio essere sincero per evitare storie o simili. Nelle scommesse di Londra penso che stavo o al quarantaduesimo o al quarantaseiesimo posto. Un mio conoscente per simpatia ha puntato su di me e gli è andata molto bene! Ma le devo ricordare che è stata una monaca messicana ad avere una grande intuizione. Lei, il sabato prima dell’elezione, pranzò in casa del suo amico, il cardinale Lozano Barragán, e madre Estela le ha detto: «Eminenza, se la fanno Papa, ci invita a mangiare lassù, eh!». Madre Estela mi ha detto così. E così è iniziato il conclave. I giornalisti dicevano che al massimo io ero un kingmaker, cioè un elettore, un grande elettore, che avrebbe indicato qualcuno. E sono rimasto tranquillo. È iniziata la prima votazione martedì sera, la seconda mercoledì mattina, la terza mercoledì prima di pranzo. Il fenomeno delle votazioni è sempre interessante, non solo nel conclave. Ci sono candidati forti. Ma anche molta gente che non sa a chi dare il voto. È allora sceglie sei, sette persone che sono i “voti deposito”: io deposito il voto, poi vedo come va e decido. È come una “provvisorietà”. Questo avviene nelle votazioni di gruppi grandi. Sì, io avevo alcuni voti, ma in deposito. È vero che nel conclave precedente aveva ottenuto una quarantina di voti? Si può dire? No. È quello che hanno detto. Sì, l’hanno detto. Sì, l’ha detto qualche cardinale. Bene, lasciamolo a quel cardinale. Anche se potrei dirlo perché ora ho l’autorità per dirlo, ma lasciamo che lo abbia detto il cardinale. Ma nulla, in realtà, nulla fino a quel mezzogiorno. E poi è successo qualcosa, non so. A pranzo ho visto alcuni segni strani. Mi facevano domande sulla mia salute, cose del genere... E quando siamo tornati nel pomeriggio tutto era fatto. Con due votazioni è finito tutto. Ossia, anche per me è stata una sorpresa. Che cosa mi è successo? Nella prima votazione del pomeriggio, quando ho visto che la situazione era ormai irreversibile, avevo accanto e lo voglio raccontare per una questione d’amicizia il cardinale Hummes, che per me è un grande. Alla sua età è il delegato della Conferenza episcopale per l’Amazzonia. Lì sale in barca e va a visitare le chiese. Lo avevo accanto, e a metà della prima votazione del pomeriggio perché ce n’è stata una seconda quando la cosa era evidente, mi si è avvicinato e mi ha detto: «Non ti preoccupare, così opera lo Spirito Santo». Mi ha fatto sorridere. Quindi, nella seconda votazione, quando si raggiungono i due terzi, si applaude sempre. In tutti i conclavi si applaude. E poi c’è lo scrutinio. E lui lì mi ha baciato e mi ha detto: «Non ti dimenticare dei poveri». Ho cominciato a pensarci e ripensarci, ed è questo che mi ha portato poi alla scelta del nome. Mentre c’era la votazione, io recitavo il rosario; ero solito recitare i tre rosari giornalieri. Avevo molta pace, direi persino incoscienza. Lo stesso quando è successo. Per me è stato un segno che Dio lo voleva. La pace fino ad oggi non l’ho persa. È qualcosa di interiore, come un regalo. E poi quello che ho fatto non lo so. Mi hanno fermato. Mi hanno chiesto se accettavo. Ho detto di sì. Non so se mi hanno fatto giurare, non mi ricordo. Mi sentivo in pace. Mi sono cambiato l’abito. Sono uscito e ho voluto prima di tutto salutare il cardinale Dias, che era lì sulla sedia a rotelle, e poi ho salutato gli altri cardinali. Quindi ho chiesto al vicario di Roma e al cardinale Hummes, come amico, di accompagnarmi. Il che non era previsto dal protocollo! Lì sono iniziati i suoi problemi con il protocollo, credo. Che ne sapevo? Ho fatto così... Questo è stato il primo di molti... Siamo andati a pregare nella Cappella Paolina mentre il cardinale Tauran annunciava il nome. Dopo sono uscito e non sapevo che cosa avrei detto. Di tutto il resto voi siete testimoni. Ho sentito nel profondo che un ministro ha bisogno della benedizione di Dio, ma anche di quella del suo popolo. Non ho osato chiedere al popolo di benedirmi. Semplicemente ho detto: «Vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica». Mi è uscito tutto in modo spontaneo. Anche il fatto di pregare per Benedetto. Parlavo, non avevo preparato nulla, veniva da solo. E le piace essere Papa? Non mi dispiace! Uno avrebbe immaginato che non le sarebbe piaciuto essere Papa. No. Una volta accaduta la cosa, poi si fa. Che cosa le piace e che cosa non le piace tanto di essere Papa? O le piace tutto? Sì, l’unica cosa che mi piacerebbe è poter uscire un giorno, senza che nessuno mi riconosca, e andare in una pizzeria e mangiarmi una pizza. Sarebbe bello. Lo dico come esempio. A Buenos Aires giravo spesso per le strade. Andavo e venivo dalle parrocchie. È chiaro, cambiare abitudine e stare fermo... mi costa un po’, ma ci si abitua. Si trova un modo diverso di girare per le strade: il telefono... E il fatto che non le piacesse tanto il Vaticano non è un segreto. Non le piaceva molto venire qui. E ora che sta da due anni qui dentro, le piace un po’ di più o un po’ di meno? No. Non solo il Vaticano. Questo lo devo chiarire. Credo che la mia grande penitenza siano i viaggi. Non mi piace viaggiare. Sono molto attaccato all’habitat, è una nevrosi. Una volta ho letto un libro molto bello che si chiama Alégrese de ser neurótico (“Contenti di essere nevrotici”). Uno deve scoprire le proprie nevrosi, dar loro del mate tutti i giorni, trattarle bene, perché non gli rechino danno, no? Ebbene, una delle mie nevrosi, o del mio modo d’essere, è quella di essere attaccato all’habitat. Nessun viaggio mi piace. Venivo a Roma e l’ambiente non mi piaceva, l’ambiente dei pettegolezzi. Perciò venivo e me ne andavo subito. Benedetto XVI iniziò il Pontificato con una messa la mattina e nel pomeriggio io ero già sull’aereo di ritorno. Ora non mi dispiace. Qui c’è gente molto buona. Il fatto di vivere qui mi aiuta molto. Le piace stare qui a Santa Marta? Sì, semplicemente perché c’è gente. Lì, da solo, non l’avrei sopportato. Non perché fosse lussuoso, come alcuni hanno detto. L’appartamento non è lussuoso. È grande. Ma quella solitudine non l’avrei sopportata. Venire qui, mangiare nel refettorio, dove c’è tanta gente, celebrare una messa alla quale quattro giorni a settimana partecipa gente da fuori, dalle parrocchie, mi dà un po’ di benessere spirituale. Mi piace molto. Non si sente solo? No, no. Veramente no. Abbiamo la sensazione che lei da un lato è come se avesse fretta nel suo modo di agire e dall’altro come se vedesse il suo pontificato a breve termine. Ho la sensazione che il mio pontificato sarà breve. Quattro o cinque anni. Non so, o due o tre. Beh, due sono già passati. È come una sensazione un po’ vaga. Le dico, forse no. È come la psicologia di chi gioca e allora crede che perderà per non restare poi deluso. E se vince è contento. Non so che cos’è. Ma ho la sensazione che Dio mi ha messo qui per una cosa breve, niente di più... Ma è una sensazione. Per questo lascio sempre aperta la possibilità. Lei ci ha anche detto che avrebbe seguito l’esempio di Papa Benedetto... Beh, ci sono stati alcuni cardinali prima del conclave, durante le congregazioni generali, che si sono posti il problema teologico, molto interessante, molto ricco. Io credo che Papa Benedetto abbia aperto una porta. Settant’anni fa non esistevano i vescovi emeriti. Oggi ne abbiamo 1400. Si è arrivati cioè all’idea che un uomo, dopo i 75 anni, più o meno a quell’età, non può portare il peso di una Chiesa particolare. Credo che Benedetto con grande coraggio abbia aperto la porta ai Papi emeriti. Non bisogna considerare Benedetto come una eccezione. Ma come una istituzione. Forse sarà l’unico per molto tempo, forse non sarà l’unico. Ma è una porta aperta dal punto di vista istituzionale. Oggi il Papa emerito non è una realtà strana, ma si è aperta la possibilità che possa esistere. Si potrebbe pensare, come per i vescovi, un Papa che rinunci a ottant’anni. Anche. Si può, ma a me non piace fissare un’età. Credo che il papato ha qualcosa di ultima istanza. È una grazia speciale. Per alcuni teologi il papato è un sacramento, i tedeschi sono molto creativi in tutte queste cose. Io non sono di questo parere, ma questo vuol dire che c’è qualcosa di speciale. Allora parlare di ottant’anni crea una sensazione di fine di pontificato che non farebbe bene, qualcosa di prevedibile. Non sono dell’idea di fissare un’età ma sono dell’idea di Benedetto. L’ho visto l’altro giorno al concistoro. Era felice, contento. Rispettato da tutti. Vado a trovarlo, a volte gli parlo al telefono. Come ho detto è come avere il nonno saggio a casa. Uno può chiedere consiglio. Leale fino alla morte. Non so se ricordate, quando salutammo Benedetto il 28 febbraio nella sala Clementina, ha detto: «Tra voi c’è il mio successore, gli prometto lealtà, fedeltà e obbedienza». E lo sta facendo. È un uomo di Dio. Una domanda molto personale: incontrare un altro Papa vestito di bianco è stato per lei così normale? No, no. È stato il 23 marzo a Castel Gandolfo e lì ho sentito come se il mio papà mi portasse e mi insegnasse e mi facesse sedere. È stato l’ospite nel senso più umano della parola. Per quanto riguarda la Curia abbiamo la sensazione che a lei piacerebbe cambiare molto più delle strutture: la mentalità, il cuore. È proprio questa la parola. E come si può ottenere? Ogni cambiamento inizia dal cuore. Cioè dalla conversione del cuore. Ecco per esempio gli esercizi spirituali chiusi che facciamo già da due anni: andiamo lì, quelli della Curia, i prefetti e i segretari dei dicasteri, circa ottanta persone, e rimaniamo lì chiusi a pregare e ad ascoltare il predicatore. Non è una conversione del cuore? Qualcuno mi sfida per questo ma è anche una conversione del modo di vivere. Credo che questa sia l’ultima corte che rimane in Europa. Le altre corti si sono democratizzate, anche le più classiche. C’è qualcosa nella corte pontificia che mantiene molto una tradizione un po’ atavica. E non lo dico in senso peggiorativo, come una cultura. Questo bisogna cambiare: abbandonare quello che ancora ha della corte ed essere un gruppo di lavoro, al servizio della Chiesa, al servizio dei vescovi. Questo evidentemente implica una conversione personale. Qui ci sono stati problemi. Lei lo sa meglio di me. La pubblicazione dei documenti trafugati e un processo all’aiutante di camera non sono piccolezze. Si parla di problemi morali gravi, c’è una persona in carcere per ragioni economiche e d’altro lato qualche “scandaluccio” morale. Lo sappiamo, è pubblico. Bisogna risanare un po’ questa situazione. C’è bisogno di conversione, cominciando dal Papa ovviamente, che è il primo a doversi convertire. Cambiare di continuo come Dio gli va chiedendo. Io cerco di farlo ma non sempre mi riesce. L’accentuazione dei simboli che lei ha voluto: l’abitazione, il vestire, la macchina. Questa accentuazione è come ricordare ogni giorno a tutti che qui si può vivere in modo diverso. Sì, per esempio quando dopo l’elezione sono sceso c’era un ascensore con vari cardinali: «Lei deve andare da solo in quell’ascensore». «No io vado con loro». E quando sono sceso c’era una macchina che mi aspettava, e io ho detto: «No, vado nel pulmino con loro». Mi viene così, non è che io pretenda. Cerco di essere come piace a me, e a volte esagero con qualcosa che può offendere qualcuno. Devo stare attento, ma ci sono i simboli, il modo di essere. C’è la Mercedes, io non posso andare in Mercedes o in Bmw. C’è questa Focus, o non so come si chiama, è quella che uso, è più o meno un’utilitaria alla portata di un impiegato di banca, no? La semplicità: in questo credo che vi sia verità. Il discorso alla Curia prima di Natale: è così malata la Curia? Questo va spiegato. Ho parlato di quindici malattie, poi nell’ultimo concistoro un cardinale ha aggiunto una sedicesima che ho trovato molto simpatica. Mi è piaciuta. Quale? Quella di chi non ha il coraggio di criticare apertamente. Se uno non è d’accordo con il Papa deve andare a dirglielo. È bello, no? Non c’è questo coraggio. Il quadro del mio discorso eravamo alla fine dell’anno era di fare un esame di coscienza. E secondo me le tentazioni o le malattie le ho usate come sinonimi più tipiche della Curia sono queste due. Ho pensato per esempio a una a cui nessuno ha fatto caso e per me è la principale: dimenticare il primo amore. Quando cioè uno si trasforma in un buon impiegato e dimentica di avere una missione di identità con Gesù Cristo, che è il primo amore. Ho ripassato le tentazioni che io ho avuto, da arcivescovo perché si verificano in ambienti ecclesiastici, o che ho visto in altri. E le ho chiamate tentazioni o malattie. Alla fine si è avvicinato un cardinale scherzoso, un po’ più giovane di me, non molto, e mi ha detto: «Mi dica Santità cosa devo fare? Andare a confessarmi o in farmacia?». È un esame di coscienza e ho voluto comunicarlo in questo modo. Forse non è piaciuto. Lo stile non era molto adatto a un messaggio di fine d’anno ma, al contrario, alla fine dell’anno bisogna fare un esame di coscienza. E l’ho detto chiaramente due volte perché ci si confessi. Perché io voglio che qui tutti si confessino. E lo facciamo, no? Credo che in questo siano fedeli. Ma confessioni reali, concrete, no? Chiediamo perdono a Gesù per quelle cose che facciamo male o perché offendiamo qualcuno o siamo ingiusti. È stato un esame di coscienza e ho usato come sinonimi: tentazione e malattia. Ma non è che la Curia stia cadendo a pezzi per tutte queste complicazioni o malattie. C’è resistenza in Curia? Le cose devono uscire, no? Ci sono sempre punti di vista diversi, sono legittimi. Voglio che vengano fuori e si dicano: la sedicesima malattia, cioè che si dicano in faccia, che ci sia il coraggio di non tacere. E mai, mai, mai, lo dico davanti a Dio, da quando sono vescovo ho castigato qualcuno per avermi detto le cose in faccia. Questi sono i collaboratori che voglio. E li ha? Ci sono qui li ho già incontrati. Pochi, molti? Abbastanza. Abbastanza direi. Ce ne sono. E ce ne sono altri che non hanno il coraggio, che hanno paura. Ma bisogna dar tempo al tempo. Io scommetto sulla parte buona della gente. Tutti hanno molto più di buono che di cattivo. Lei parla costantemente contro il dio denaro e dicono che Papa Francesco è di sinistra, ma lei ha chiarito che segue il Vangelo: solo i poveri sono i buoni e i ricchi sono i cattivi? Io vengo da una famiglia che dopo il crollo del 1932 si è ripresa e, di classe media, si è sistemata. Cioè non ho alcun risentimento. Io il 1932 non l’ho vissuto però bisognerebbe spiegare molte cose. Innanzitutto che dobbiamo abituarci a non utilizzare interpretazioni fuori moda. Oggi sinistra e destra è una semplificazione che non ha senso. Mezzo secolo fa aveva senso, oggi no. Marxista, cosa significa marxista oggi? Il marxismo ha una così ricca varietà di espressioni... Il problema dell’interpretazione di un personaggio pubblico per me è molto importante. Bisogna sempre interpretare un fatto storico, piccolo o grande, con l’ermeneutica del momento, altrimenti cadiamo in semplificazioni o in errori. Ho conosciuto persone ricche e qui sto portando avanti la causa di beatificazione di un ricco imprenditore argentino, Enrique Shaw, che era ricco ma era santo. Cioè una persona può avere denaro, Dio glielo dà perché lo amministri bene. E quest’uomo lo amministrava bene, non con paternalismo ma facendo crescere quanti avevano bisogno del suo aiuto. Quello che io attacco sempre è la sicurezza nella ricchezza: non mettere la tua sicurezza lì. Nel Vangelo Gesù su questo è radicale: la parabola di chi aveva dei granai, pensa di costruirne altri e all’indomani muore. È chiarissimo. Non riporre la tua speranza lì. L’ingiustizia delle ricchezze. Per esempio quando non si paga il giusto salario è un peccato mortale. Questo significa approfittarsi della povertà di un altro. O quando si paga la domestica di casa in nero, tanto è una serva. Perché? Non perché la padrona o il padrone siano ricchi, ma per questo atteggiamento. Il denaro è sempre traditore. Il diavolo entra dal portafoglio, sempre. Sant’Ignazio diceva che c’erano tre scalette, tre gradini. Il primo è la ricchezza: il diavolo ti mette i soldi nel portafoglio. Il secondo è la vanità e il terzo è l’orgoglio e la superbia. E da lì tutti gli altri peccati. Quando arrivi a quel livello di orgoglio sei capace di qualsiasi cosa. Lo abbiamo visto nei dittatori, nei tiranni, quelli che si approfittano degli altri, gli sfruttatori. Oggi la tratta delle persone è organizzata da gente con molti soldi: sono questi che io attacco. Il denaro che schiavizza o non lascia crescere o serve per ingrassare se stessi come dice il Vangelo di ieri (Luca, 16, 1931). Il denaro di chi vive ignorando che c’è povertà. Una cosa che mi scandalizzava, a Buenos Aires, è la nuova zona di Puerto Madero: è bella, bestiame accanto al fiume, edifici enormi, trentasei ristoranti cari da morire, perché fanno pagare... e poi la villa miseria. E questo è lo sperpero del denaro. Questo dal punto di vista sociale e la mia denuncia, dal punto di vista sociale, è diretta a questa realtà. Ma quello che mi indigna di più è il salario ingiusto perché uno si arricchisce a scapito della dignità, che viene negata alla persona. Il salario è quello che dà dignità al lavoro e tu usi il lavoro e lo rendi indegno perché non paghi il giusto, o non paghi la pensione. E con tranquillità di coscienza io direi che non pagare il giusto, non pagare la pensione, non pagare gli straordinari è peccato. È peccato! Che lo faccia un ricco, uno della classe media, o che lo faccia un povero è peccato. Questa cosa la dobbiamo dire. Il diavolo come ho detto si mette nella nostra vita, si mischia nella nostra vita mettendoci i soldi nel portafoglio. Non lo dico solo io. Io lo ripeto, però i padri della Chiesa definivano il denaro sterco del diavolo. Perché? Perché vedevano qualcosa di viziato che sporcava, che ti portava sulla cattiva strada. È il primo passo, come diceva sant’Ignazio, per la supponenza, per la vanità e per l’orgoglio. Bene, questa è come una visione sociologica. Ma uno è comunista se la pensa in questo modo? No. Passo al secondo punto. I poveri sono al centro del Vangelo. Quando Gesù si presenta fa sue le parole di Isaia: sono stato inviato per evangelizzare i poveri. I poveri hanno una ricchezza che manca alle persone con molta sicurezza. E io mi includo tra i “ricchi” perché non mi manca nulla. E devo stare attento a non approfittare di questo per non peccare. Una ricchezza che non abbiamo. La persona povera e onesta ha una sapienza: la dignità del lavoro, la cura dei figli, la cura della prole, creía come diciamo in Argentina, è qualcosa di tanto bello, tanto bello. Come una dignità. E Paolo VI, nell’Evangeli nuntiandi, non ricordo se al numero 46 o 48, dice che i poveri sono più capaci di comprendere certe virtù cristiane. Sono più preparati. Sono molto più preparati. E la povertà è al centro del Vangelo. La bandiera della povertà è evangelica. L’hanno rubata i marxisti perché noi non la usavamo. La tenevamo nel museo. Sono venuti, l’hanno rubata e l’hanno usata. Ma andiamo alla fine dell’Ottocento con la crisi italiana. Nel nord d’Italia ci fu una quantità di santi che lavoravano con i poveri, a cominciare da don Bosco. Ossia che cercavano modi di promozione sociale, che è il terzo punto. Non è solo una questione di denaro. È promuovere. Da qui l’importanza dell’educazione. E delle opportunità di lavoro. Che a qualcuno questo possa apparire esagerato dipende forse dai miei peccati, dal fatto che io usi parole forti e non sia abbastanza buono e pastore da raggiungere il cuore di questa gente. Però sono figli di Dio. Semplicemente dovrei chiedergli di convertirsi, però chiederglielo con cuore di padre e non colpendoli. È vero. Circa il sinodo si sono create molte aspettative tra le coppie che soffrono, tra i divorziati risposati, tra gli omosessuali. Crede che siano eccessive? Credo che ci sono aspettative smisurate. Il sinodo sulla famiglia non l’ho voluto io. Lo ha voluto il Signore. Ed è stata una cosa sua. Quando monsignor Eterović, che era il segretario, mi ha portato i tre temi più votati mi ha detto che tra questi quello più votato era il contributo di Gesù Cristo all’uomo di oggi. Va bene, facciamolo. Questo era il titolo del sinodo. Abbiamo continuato parlando dell’organizzazione e io gli dissi: «Facciamo una cosa, mettiamo il contributo di Gesù Cristo all’uomo e alla famiglia di oggi». E così siamo rimasti, con la famiglia un po’ in secondo piano. Quando siamo andati alla prima riunione del consiglio post sinodale si è cominciato a parlare con quel titolo e dopo del contributo di Gesù Cristo alla famiglia, e l’uomo di oggi è rimasto un pochino fuori. E alla fine è stato detto: «No, perché questo sinodo sulla famiglia...» ed è stata la stessa dinamica a cambiare il titolo. Io zitto. Alla fine mi sono reso conto che è stato il Signore che ha voluto questo. E lo ha voluto con forza. Perché la famiglia è in crisi. Forse non le crisi più tradizionali, delle infedeltà o come si chiama in Messico la “casa piccola” e la “casa grande”. No, no. Ma una crisi più profonda. Si vede che i giovani non vogliono sposarsi o convivono. Non lo fanno per protesta, ma perché oggi sono così. Dopo, alla lunga, alcuni si sposano anche in Chiesa. Vale a dire che c’è una crisi familiare all’interno della famiglia. E da questo punto di vista credo che il Signore voglia che noi affrontiamo questo: preparazione al matrimonio, accompagnamento di coloro che convivono, accompagnamento di coloro che si sposano e conducono bene la loro famiglia, accompagnamento di quelli che hanno avuto un insuccesso nella famiglia e hanno una nuova unione, preparazione al sacramento del matrimonio, non tutti sono preparati. E quanti matrimoni che sono fatti sociali sono nulli! Per mancanza di fede. Già Benedetto ha sottolineato che la mancanza di fede e di coscienza riguardo a ciò che si fa sono problemi gravi. La famiglia è in crisi. Come integrare nella vita della Chiesa le famiglie replay? Cioè quelle di seconda unione che a volte risultano fenomenali.... mentre le prime un insuccesso. Come reintegrarle? Che vadano in chiesa. Allora semplificano e dicono: «Ah, daranno la comunione ai divorziati». Con questo non si risolve nulla. Quello che la Chiesa vuole è che tu ti integri nella vita della Chiesa. Però ci sono alcuni che dicono: «No, io voglio fare la comunione e basta». Una coccarda, una onorificenza. No. Ti devi reintegrare. Ci sono sette cose che, secondo il diritto attuale, le persone in seconde unioni non possono fare. Non me le ricordo tutte, però una è essere padrino di battesimo. Perché? E che testimonianza potrà dare al figlioccio? Quella di dire: «Guarda caro, nella mia vita mi sono sbagliato. Ora sono in questa situazione. Sono cattolico. I principi sono questi. Io faccio questo e ti accompagno». Una vera testimonianza. Ma se viene un mafioso, un delinquente, uno che ha ammazzato delle persone, ma è sposato per la Chiesa può fare il padrino. Sono contraddizioni. C’è bisogno di integrare. Se credono, anche se vivono in una situazione definita irregolare e la riconoscono e l’accettano e sanno quello che la Chiesa pensa di questa condizione, non è un impedimento. Quando parliamo di integrare intendiamo tutto questo. E dopo di accompagnare i processi interiori. Lei mi ha chiesto della libertà. Un Sinodo senza libertà non è un Sinodo. È una conferenza. Invece il Sinodo è uno spazio protetto nel quale possa operare lo Spirito Santo. E per questo le persone devono essere libere. Per questo mi oppongo a che siano pubblicate le cose che ognuno dice con nome e cognome. No, non si sappia chi lo ha detto. Non ho problemi che si sappia quello che si è detto, ma non chi lo ha detto, in maniera che si senta libero di dire ciò che vuole. Inoltre, abbiamo un problema molto serio che è quello della colonizzazione ideologica sulla famiglia. Per questo ne ho parlato nelle Filippine perché è un problema molto serio. Gli africani si lamentano molto di questo. E anche in America latina. E a me è successo una volta. Sono stato testimone di un caso di questo tipo con una ministro dell’educazione riguardo l’insegnamento della teoria del “gender” che è una cosa che sta atomizzando la famiglia. Questa colonizzazione ideologica distrugge la famiglia. Per questo credo che dal sinodo usciranno cose molto chiare, molto rapide, che aiuteranno in questa crisi familiare che è totale. Un altro tema importante di questi anni è stato quello degli abusi contro i minori. In Messico ha avuto ampia risonanza il caso di Marcial Macielà. Non ho avuto mai contatti con i Legionari di Cristo perché non stavano a Buenos Aires. La prima parrocchia gli è stata data dal mio predecessore, la parrocchia Santa Maria di Betania, quando la lasciarono i religiosi della congregazione dei Sacri Cuori (Picpus). Erano tre. Tre religiosi a Buenos Aires che non ho conosciuto. Ho sentito parlare di loro. Quando è stato fatto non il corso, perché non c’era il corso per i nuovi vescovi, ma l’incontro dei movimenti laicali mi ospitarono, cioè il corso si è svolto in un loro edificio. In una università. Questo è l’altro contatto che ho avuto. Quindi non li ho conosciuti. Quando ho saputo del grande scandalo davvero sono rimasto molto addolorato e scandalizzato. Come quella persona è potuta arrivare a tanto? Evidentemente era una persona molto malata perché oltre tutti gli abusi credo che ci fossero due o tre donne, figli con una o l’altra non lo so e anche molti soldi. A questo riguardo la corruzione comincia dal denaro. Ma credo che fosse un malato, un gran malato. Qui quando si è presa coscienza della cosa si è cominciato ad agire in maniera forte. Allora il cardinale Ratzinger portò la cosa avanti. E continuò, continuò, continuò. E il Papa san Giovanni Paolo II lo autorizzò a continuare, lui l’ha autorizzato. E quando lo hanno eletto eletto Papa ha agito perché il processo era maturo. Voglio chiarire bene che l’allora cardinale Ratzinger e san Giovanni Paolo II erano coscienti e hanno detto: avanti. Uno con le indagini. E l’altro con l’autorizzazione. Secondo: ci sono state coperture? Si può presumere di sì. Anche se nel diritto esiste la presunzione di innocenza. Sarebbe strano che non ci sia stato nessun padrinito, mezzo ingannato che sospettava e non sapeva. Beh questo non l’ho indagato. Abusi: evidentemente dopo i primi interventi a tolleranza zero si continua così. Questa commissione non è per gli abusi, ma per la tutela dei minori. Cioè per prevenire. Il problema degli abusi sui minori è un problema grave, la maggioranza degli abusi accade nel contesto familiare e nel vicinato. Non voglio parlare di numeri per non sbagliarmi. Un solo prete che abusi di un minore è sufficiente a far muovere tutta la struttura della Chiesa per affrontare il problema. Perché? Perché il prete ha l’obbligo di far crescere questo bambino o questa bambina nella santità, nell’incontro con Gesù. E quello che fa è distruggere l’incontro con Gesù. Bisogna ascoltare gli abusati. Io li ho ascoltati qua. Ho passato una mattinata intera con sei di loro: due tedeschi, due irlandesi e due inglesi. Una distruzione interiore che soffrono. Coloro che abusano sono cannibali, è come se mangiassero i bambini, li distruggono. Quindi anche il caso di un solo prete è sufficiente per farci vergognare e per fare quello che bisogna fare. In questo bisogna andare avanti e non fare un solo passo indietro. Distruggere una creatura è una cosa orribile e in questo ringrazio tanto Papa Benedetto che ha avuto il coraggio di dirlo in pubblico e Giovanni Paolo II che ha avuto il coraggio di dare il via libera al caso dei Legionari. Come le piacerebbe essere ricordato per questi due anni di pontificato, per quando ha inciso nella Chiesa o per il suo linguaggio così spontaneo e poco convenzionale? Continuerò a fare lo stesso. E parlerò come parlo io, come un parroco, perché mi piace parlare così. Ho sempre parlato così, sempre. Non so se sia un difetto però credo che la gente mi capisca. Io ringrazio la sua bontà e tramite lei ringrazio il popolo messicano al quale voglio molto bene. Vorrei che lei desse una benedizione al Messico. Lo farò. È stato in Messico? Ci sono stato due volte in Messico. Nel 1970 sono stato nel vecchio santuario, quando venni a visitare la casa di formazione dopo che ero stato nominato maestro dei novizi. La seconda volta quando Giovanni Paolo II promulgò l’Ecclesia in America. E là ho visto il nuovo santuario. Ma il cinema messicano in Argentina lo vedevamo molto, mi ricordo di Cantinflas... La musica mi piace molto. Per questo sono molto contento di benedire tutti e chiedo di pregare per me. Ma prima di dare la benedizione preghiamo la Madre che è quella che ci dà la forza per benedire. E diciamo un’Ave Maria. Nostra Signora di Guadalupe, madre del Messico e madre dell’America, prega per noi.

AVVENIRE di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Nessuno è escluso di Marina Corradi Lo sguardo di Dio, la Chiesa, il mondo

Un Anno Santo della Misericordia, ha annunciato il Papa nell’anniversario della sua elezione – caduto in un venerdì di Quaresima, con Francesco in San Pietro, a confessare e assolvere. Un anno di misericordia, parola che questo Papa ci ripete da due anni tenacemente, come un martello che batta su un chiodo perché si infigga nel legno. Misericordia, cioè compassione del cuore, o, nella radice ebraica, 'con viscere materne'; sguardo di madre, che sempre perdona. Francesco di questa parola ha fatto la colonna del suo pontificato. La goccia che instancabilmente scava la pietra. (La pietra siamo noi, se abbiamo in mente un Dio semplicemente 'buono', o buonista, oppure 'giusto', o, peggio, pronto al castigo). Ma questa misericordia è così immensa, che ci sfugge. E Francesco, cocciutamente ce la ridice. E anzi ne fa il centro di un Giubileo, perché la Chiesa domandi la misericordia di Dio, e la porti al mondo. Un mondo terribilmente senza pace e senza giustizia, eppure casa dell’uomo, luogo della bellezza e patria sempre possibile del bene. Ma cos’è, questa misericordia? Nessuno può spiegarlo, come chi l’abbia sperimentata. E Bergoglio nell’intervista 'inaugurale' a padre Spadaro su 'Civiltà cattolica' proprio questo aveva raccontato: di essere uno che è stato «guardato dal Signore. Il mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per me». (Quel motto significa: guardando con compassione e scegliendo), E proseguiva, Francesco, raccontando come andasse spesso, di passaggio a Roma, a San Luigi dei Francesi, a contemplare la vocazione di Matteo del Caravaggio. «Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo», spiegava Bergoglio. Il Matteo di quel quadro, nella interpretazione del Papa, non è, come sostengono i critici d’arte, il vecchio con la barba, ma il ragazzo col volto cupo e chino su un mucchio di denari. Quello è il giovane immiserito e prigioniero che Cristo guarda con misericordia, e sceglie, e chiama. E il Papa ha detto a Spadaro: io sono così, così mi sento, «un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi». Non è, questo sguardo, qualcosa di cui tutti abbiamo memoria. Non succede ai cristiani abituati, ai distratti, a quelli che credono di non avere niente da farsi perdonare. Succede, nel Vangelo di Luca letto ieri in San Pietro, alla pubblica peccatrice che si getta ai piedi di Cristo; ma non all’onesto fariseo, capace solo di un amore formale. Lo sguardo di Cristo sul pubblicano Matteo è capace di una così incommensurabile pietà per quel ragazzo triste sui suoi poveri denari, che Cristo lo sceglie: «Tu, seguimi». Francesco, è uno che ha provato su di sé quello sguardo, e vorrebbe che gli altri lo provassero. Perciò ostinatamente sulla misericordia torna, come sulla chiave, sul principio di tutto. Lo ha fatto anche una settimana fa con Comunione e Liberazione: «Il luogo privilegiato dell’incontro con Gesù Cristo è il mio peccato. È grazie a questo abbraccio di misericordia che viene voglia di rispondere e di cambiare, e che può scaturire una vita diversa. La morale cristiana non è lo sforzo titanico, volontaristico, di chi decide di essere coerente (...), La morale cristiana è la risposta commossa di fronte a una misericordia sorprendente, imprevedibile, addirittura 'ingiusta' secondo i criteri umani, di Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e mi vuole bene lo stesso». Uno che ci conosce, e ci vuole bene lo stesso. A questo chiama il Papa che camminava per le Villas Miseria, l’uomo di Dio che vuole una Chiesa come un «ospedale da campo », profondamente conscio del male che gli uomini fanno e subiscono, e non sanno perdonare. Francesco chiama i confessori a essere misericordiosi e la Chiesa a un anno della misericordia, quella da cui «nessuno, nessuno è escluso», ha detto ieri in San Pietro, alzando lo sguardo dal testo scritto e cercando le facce della gente – come quando l’ansia di dire è tale, che occorre guardarsi negli occhi.

Pag 3 Misericordia, l'imperativo che cammina con Francesco di Salvatore Mazza Un filo rosso dalla prima Messa all'Evangelii gaudium

Con un gioco di parole, si potrebbe dire che quello di ieri sia stato un annuncio a sorpresa, ma non una sorpresa. Perché se, probabilmente, nessuno avrebbe pensato che, sulla misericordia, papa Bergoglio sarebbe arrivato a decidere di convocare la Chiesa a un Giubileo straordinario – «per rendere più evidente la sua missione di esserne testimone» – che il tema sia alla radice stessa del suo magistero non è certamente un mistero per nessuno. E non lo è fin dall’inizio. Erano passati appena pochi giorni, quattro, dalla sua elezione, quando, celebrando la sua prima Messa domenicale da pontefice nella piccola parrocchia vaticana di Santa Marta, per la prima volta Francesco toccò il tema della misericordia. «Non è facile – disse in quell’occasione, inaugurando quel suo modo di raccontare in prima persona al quale avrebbe presto abituato tutti – affidarsi alla misericordia di Dio, perché quello è un abisso incomprensibile. Ma dobbiamo farlo! 'Oh, padre, se lei conoscesse la mia vita, non mi parlerebbe così!'. 'Perché?, cosa hai fatto?'. 'Oh, ne ho fatte di grosse!'. 'Meglio! Vai da Gesù: a Lui piace se gli racconti queste cose!'. Lui si dimentica, Lui ha una capacità di dimenticarsi, speciale. Si dimentica, ti bacia, ti abbraccia e ti dice soltanto: 'Neanch’io ti condanno; va’, e d’ora in poi non peccare più'. Soltanto quel consiglio ti da. Dopo un mese, siamo nelle stesse condizioni… Torniamo al Signore. Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si stanca di perdonare». Neppure due ore dopo, all’Angelus, il Papa ritornò sul bisogno che tutti abbiamo di «sentire misericordia», questa parola che «cambia tutto», anzi «il meglio che noi possiamo sentire», perché «cambia il mondo», e ne basta «un po’» a renderlo «meno freddo e più giusto». Per questo, aggiunse, «abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza». E per capirlo basta avere un cuore aperto all’amore: «È venuta da me una donna anziana, umile, molto umile, ultraottantenne – disse a quell’Angelus, raccontando un aneddoto della sua vita del 1992 – Io l’ho guardata e le ho detto: 'Nonna – perché da noi si dice così agli anziani: nonna – lei vuole confessarsi?'. 'Sì', mi ha detto. 'Ma se lei non ha peccato …'. E lei mi ha detto: 'Tutti abbiamo peccati …'. 'Ma forse il Signore non li perdona …'. 'Il Signore perdona tutto', mi ha detto: sicura. 'Ma come lo sa, lei, signora?'. 'Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe'. Io ho sentito una voglia di domandarle: 'Mi dica, signora, lei ha studiato alla Gregoriana?', perché quella è la sapienza che dà lo Spirito Santo: la sapienza interiore verso la misericordia di Dio». Già in quella tiepida domenica del 17 marzo, ancora a due giorni dalla Messa 'ufficiale' d’inizio pontificato del martedì successivo, nell’orizzonte del suo magistero era chiarissimo il posto assegnato al tema della misericordia. E se mai qualche dubbio, a qualcuno, fosse rimasto, questo sarebbe stato spazzato via il giorno successivo, con la presentazione del suo stemma pontificio, dominato dalla scritta 'Miserando atque eligendo', espressione di San Beda riferito alla vocazione di San Matteo ('Con sentimento d’amore lo scelse'). Un motto che «ho sempre sentito come molto vero per me», avrebbe confidato nel settembre successivo nell’intervista al direttore di 'La Civiltà cattolica', padre Antonio Spadaro, spiegando come «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordando». C’è, in quel gerundio inesistente, tutta l’idea di quel 'lasciarsi rivestire dalla' e di 'rivestire di' misericordia che, a ben vedere, è al cuore di questo insegnamento troppo spesso, talvolta anche con sufficienza anche nella stessa Chiesa, è stato bollato come facile 'perdonismo', quasi una versione cattolica del romanesco volemose bene. Quando invece è tutto il contrario: è il richiamo esigente, rigoroso, a una conversione continua, costante, pervicace, quasi, nella certezza che, se Dio mai si stanca di perdonarci, neppure noi dobbiamo mai sentirci stanchi. È, questo, l’indispensabile abito che ogni credente è chiamato a indossare in quella prospettiva di Chiesa 'in uscita' che giustifica lo stesso essere Chiesa – che, proprio come insegna papa Bergoglio, «o è in uscita o non è». L’abito che deve necessariamente rivestire quei tre verbi – camminare, edificare, confessare – che nella messa pro ecclesia celebrata con i cardinali all’indomani della sua elezione, costituiscono i «tre movimenti» che consentono alla Chiesa di andare avanti, rendendo manifesta una fede che, per essere viva, per riuscire a entrare nelle periferie dell’uomo, non ha bisogno di anteporre al camminare, edificare, confessare il rigore della dottrina, né di farsene scudo, ma capace – anzi pronta – a esporsi al rischio dell’amore sull’esempio di chi, quell’amore, ci ha mostrato all’infinito, arrivando a donarci il figlio per salvarci. Di questa misericordia, che da quella domenica di due anni fa il Papa ha evocato centinaia di volte, l’Evangelii gaudium, più che una sintesi, è il manifesto. «La comunità evangelizzatrice – scrive Francesco al punto 24 – sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore, e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva». Un imperativo, non un invito, che trova ragione nell’essenza stessa della fede, del volersi dire cristiani. Che deve segnare il comportamento, l’attitudine, di tutti e di ciascuno, a iniziare dai vescovi e dai preti «ai quali ricordo – scrive – che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà». È da questo spirito che, un anno fa, nacque l’idea della '24 ore per il Signore', inedito invito a sperimentare la misericordia accolto dai credenti con un entusiasmo su cui nessuno, il giorno prima, avrebbe scommesso probabilmente neppure un centesimo. Ed è in questo spirito che, ieri, ha annunciato il Giubileo della misericordia, che dal prossimo 8 dicembre scandirà la vita della Chiesa con l’intento – la certezza, forse – che essa, così «troverà la gioia di riscoprirla». Perché, alla fine, è la capacità di manifestare nel concreto la misericordia a dare credibilità all’annuncio. In quanto proprio 'da questo vi riconosceranno'.

Pag 5 La Chiesa accoglie tutti, non rifiuta nessuno L'invito a spalancare le porte perché chi è toccato dalla grazia trovi il perdono

Pubblichiamo l’omelia pronunciata dal Papa durante la liturgia penitenziale di ieri pomeriggio nella Basilica Vaticana.

Anche quest’anno, alla vigilia della Quarta Domenica di Quaresima, ci siamo radunati per celebrare la liturgia penitenziale. Siamo uniti a tanti cristiani che, oggi, in ogni parte del mondo, hanno accolto l’invito a vivere questo momento come segno della bontà del Signore. Il sacramento della Riconciliazione, infatti, permette di accostarci con fiducia al Padre per avere la certezza del suo perdono. Egli è veramente 'ricco di misericordia' e la estende con abbondanza su quanti ricorrono a Lui con cuore sincero. Essere qui per fare esperienza del suo amore, comunque, è anzitutto frutto della sua grazia. Come ci ha ricordato l’apostolo Paolo, Dio non cessa mai di mostrare la ricchezza della sua misericordia nel corso dei secoli. La trasformazione del cuore che ci porta a confessare i nostri peccati è 'dono di Dio'. Da noi soli non possiamo. Il poter confessare i nostri peccati è un dono di Dio, è un regalo, è «opera sua» (cfr Ef2,8 10). Essere toccati con tenerezza dalla sua mano e plasmati dalla sua grazia ci consente, pertanto, di avvicinarci al sacerdote senza timore per le nostre colpe, ma con la certezza di essere da lui accolti nel nome di Dio, e compresi nonostante le nostre miserie; e anche di accostarci senza un avvocato difensore: ne abbiamo uno solo, che ha dato la sua vita per i nostri peccati! È Lui che, con il Padre, ci difende sempre. Uscendo dal confessionale, sentiremo la sua forza che ridona la vita e restituisce l’entusiasmo della fede. Dopo la confessione saremo rinati. Il Vangelo che abbiamo ascoltato (cfr Lc 7,3650) ci apre un cammino di speranza e di conforto. È bene sentire su di noi lo stesso sguardo compassionevole di Gesù, così come lo ha percepito la donna peccatrice nella casa del fariseo. In questo brano ritornano con insistenza due parole: amore e giudizio. C’è l’amore della donna peccatrice che si umilia davanti al Signore; ma prima ancora c’è l’amore misericordioso di Gesù per lei, che la spinge ad avvicinarsi. Il suo pianto di pentimento e di gioia lava i piedi del Maestro, e i suoi capelli li asciugano con gratitudine; i baci sono espressione del suo affetto puro; e l’unguento profumato versato in abbondanza attesta quanto Egli sia prezioso ai suoi occhi. Ogni gesto di questa donna parla di amore ed esprime il suo desiderio di avere una certezza incrollabile nella sua vita: quella di essere stata perdonata. E questa certezza è bellissima! E Gesù le dà questa certezza: accogliendola le dimostra l’amore di Dio per lei, proprio per lei, una peccatrice pubblica! L’amore e il perdono sono simultanei: Dio le perdona molto, le perdona tutto, perché «ha molto amato» ( Lc7,47); e lei adora Gesù perché sente che in Lui c’è misericordia e non condanna. Sente che Gesù la capisce con amore, lei, che è una peccatrice. Grazie a Gesù, i suoi molti peccati Dio se li butta alle spalle, non li ricorda più (cfr Is 43,25). Perché anche questo è vero: quando Dio perdona, dimentica. È grande il perdono di Dio! Per lei ora inizia una nuova stagione; è rinata nell’amore a una vita nuova. Questa donna ha veramente incontrato il Signore. Nel silenzio, gli ha aperto il suo cuore; nel dolore, gli ha mostrato il pentimento per i suoi peccati; con il suo pianto, ha fatto appello alla bontà divina per ricevere il perdono. Per lei non ci sarà nessun giudizio se non quello che viene da Dio, e questo è il giudizio della misericordia. Il protagonista di questo incontro è certamente l’amore, la misericordia che va oltre la giustizia. Simone, il padrone di casa, il fariseo, al contrario, non riesce a trovare la strada dell’amore. Tutto è calcolato, tutto pensato… Egli rimane fermo alla soglia della formalità. È una cosa brutta, l’amore formale, non si capisce. Non è capace di compiere il passo successivo per andare incontro a Gesù che gli porta la salvezza. Simone si è limitato ad invitare Gesù a pranzo, ma non lo ha veramente accolto. Nei suoi pensieri invoca solo la giustizia e facendo così sbaglia. Il suo giudizio sulla donna lo allontana dalla verità e non gli permette neppure di comprendere chi è il suo ospite. Si è fermato alla superficie alla formalità non è stato capace di guardare al cuore. Dinanzi alla parabola di Gesù e alla domanda su quale servo abbia amato di più, il fariseo risponde correttamente: «Colui al quale ha condonato di più». E Gesù non manca di farlo osservare: «Hai giudicato bene» (Lc 7,43). Solo quando il giudizio di Simone è rivolto all’amore, allora egli è nel giusto. Il richiamo di Gesù spinge ognuno di noi a non fermarsi mai alla superficie delle cose, soprattutto quando siamo dinanzi a una persona. Siamo chiamati a guardare oltre, a puntare sul cuore per vedere di quanta generosità ognuno è capace. Nessuno può essere escluso dalla misericordia di Dio. Tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate, perché quanti sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono. Più è grande il peccato e maggiore dev’essere l’amore che la Chiesa esprime verso coloro che si convertono. Con quanto amore ci guarda Gesù! Con quanto amore guarisce il nostro cuore peccatore! Mai si spaventa dei nostri peccati. Pensiamo al figlio prodigo che, quando decide di tornare dal padre, pensa di fargli un discorso, ma il padre non lo lascia parlare, lo abbraccia (cfr Lc 15,1724). Così Gesù con noi. «Padre, ho tanti peccati…» «Ma Lui sarà contento se tu vai: ti abbraccerà con tanto amore! Non avere paura». Cari fratelli e sorelle, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale; e dobbiamo fare questo cammino. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Sarà un Anno Santo della misericordia. Lo vogliamo vivere alla luce della parola del Signore: «Siate misericordiosi come il Padre» (cfr Lc 6,36). E questo specialmente per i confessori! Tanta misericordia! Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell’Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, Domenica di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo e volto vivo della misericordia del Padre. Affido l’organizzazione di questo Giubileo al Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare ad ogni persona il Vangelo della misericordia. Sono convinto che tutta la Chiesa, che ha tanto bisogno di ricevere misericordia, perché siamo peccatori, potrà trovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio, con la quale tutti siamo chiamati a dare consolazione ad ogni uomo e ad ogni donna del nostro tempo. Non dimentichiamo che Dio perdona tutto, e Dio perdona sempre. Non ci stanchiamo di chiedere perdono. Lo affidiamo fin d’ora questo Anno alla Madre della Misericordia, perché rivolga a noi il suo sguardo e vegli sul nostro cammino: il nostro cammino penitenziale, il nostro cammino con il cuore aperto, durante un anno, per ricevere l’indulgenza di Dio, per ricevere la misericordia di Dio.

Pag 7 Viaggio al centro della Chiesa di Stefania Falasca Kasper: la misericordia non è teoria ma programma concreto

Eminenza, come ha accolto l’annuncio del Papa? La notizia dell’indizione di un «Anno Santo della misericordia» ha nel cardinale un interlocutore privilegiato, per più di un motivo. È un annuncio importante. 'È un cammino – ci ha detto il Papa – nel quale dobbiamo andare'. Vuol dire anche un anno per riconsiderare il sacramento della Riconciliazione, e questo è importante perché oggi è un po’ dimenticato mentre è il sacramento che ci rimette in piedi per camminare, per cominciare sempre di nuovo. «Cominciamo, finalmente»: lo disse san Francesco prima di morire. Con la misericordia ci sono sempre inizi che non hanno mai fine. L’Anno Santo è importante anche per aprire gli uomini al desiderio della misericordia. L’inferno è non avere bisogno di Dio. Nel suo primo Angelus, il 17 marzo di due anni fa, il Papa citò proprio il suo libro sulla misericordia. A lei cosa disse? Per lui la misericordia era già un tema molto importante. Da vescovo aveva scelto per il suo stemma episcopale il motto «Miserando atque eligendo». Quando gli diedi la traduzione spagnola del libro lui lesse il titolo – Misericordia – e mi disse: «Ah, ecco il nome del nostro Dio!». Per papa Francesco il messaggio della misericordia sta al centro del Vangelo, è un tema che è diventato la parola chiave del pontificato. E lui lo va continuamente riprendendo, fin dal primo giorno. Ci ha detto ripetutamente: la misericordia di Dio è infinita, Dio non si stanca mai di essere misericordioso con ciascuno, purché noi non ci stanchiamo di implorare la sua misericordia. Ripetendo questa parola chiave egli ha colpito al cuore innumerevoli persone, dentro e fuori la Chiesa. Lei ha ampiamente trattato questo come un tema biblico centrale... Sì, nel Nuovo Testamento è fondamentale. La misericordia di Dio è nel messaggio di Gesù, dalla parabola del Samaritano al discorso di Gesù sul giudizio universale, quando conteranno solo le opere di misericordia. Lei ha scritto che la teologia ha trascurato questo tema. Perché? Perché l’ha ridotto a semplice sottotema della giustizia. Tommaso d’Aquino dice che Dio non è vincolato alle nostre regole di giustizia. Dio è sovrano, è giusto rispetto a Se stesso, essendo amore. Poiché Dio è amore, e in questo è fedele a se stesso, egli è anche misericordioso. La misericordia dunque è fedeltà di Dio a se stesso ed espressione della sua assoluta sovranità nell’amore. La misericordia è la fedeltà di Dio alla sua alleanza e la sua incrollabile pazienza con gli uomini. Nella sua misericordia Dio non abbandona nessuno: dà a ciascuno una nuova opportunità e un nuovo inizio, se si è disponibili a cambiare vita. Il comandamento della misericordia vuole quindi che la Chiesa non renda difficile la vita ai credenti e non faccia diventare la religione una forma di schiavitù. La misericordia, come sostiene Tommaso ricollegandosi ad Agostino, vuole che noi siamo liberi dai gravami che ci rendono schiavi: «È il fondamento della gioia che il Vangelo ci dona», afferma il Papa nella Evangelii gaudium. Con questo messaggio il Papa in che rapporto si pone con i suoi predecessori? Francesco è in continuità con i Papi che l’hanno preceduto, con la tradizione e con molti santi. Anche per Giovanni XXIII la misericordia è la più bella delle proprietà di Dio: nel suo famoso discorso di apertura del Concilio Vaticano II esortò la Chiesa a non usare più le armi della severità ma la medicina della misericordia. In tal modo Roncalli indicò la tonalità di fondo del nuovo orientamento pastorale conciliare e postconciliare. In Giovanni Paolo II il messaggio della misericordia è nato dalla sua esperienza dell’orrore davanti alla seconda guerra mondiale, perciò ha dedicato a questo tema la sua seconda enciclica, la Dives in misericordia. Poi, accogliendo l’impulso del messaggio di suor Faustina Kowalska, ha stabilito che la prima domenica dopo Pasqua fosse celebrata come festa della Divina Misericordia. Benedetto XVI ha continuato a sviluppare il tema approfondendolo teologicamente nella sua prima enciclica Deus caritas est. Papa Francesco, come i suoi predecessori, lega novità e continuità considerando la misericordia una realtà in cammino, un concreto programma pastorale. Lei ha parlato del fondamento nella Scrittura e nella Tradizione, ma il discorso del Papa sulla misericordia ad alcuni appare sospetto quando si tratta della concreta applicazione pastorale... Perché si confonde misericordia con un laissezfaire superficiale, con una pseudo misericordia, e c’è chi sentendo parlare di misericordia subodora il pericolo che in tal modo si favorisca un’arrendevolezza pastorale e un cristianesimo light, un essere cristiani a prezzo scontato. Si vede così nella misericordia una specie di ammorbidente che erode i dogmi e i comandamenti e svaluta il significato centrale e fondamentale della verità. Questo è un rimprovero che nel Nuovo Testamento i farisei facevano anche a Gesù, ma la Sua misericordia li portò a un tale livello di incandescenza che decisero di farlo morire. Siamo però di fronte a un grossolano fraintendimento del senso biblico profondo della misericordia, perché essa è allo stesso tempo una fondamentale verità rivelata e un comandamento di Gesù esigente e provocante. Ma la verità può essere in contrapposizione con la misericordia? La misericordia è in intimo rapporto con tutte le altre virtù rivelate e i comandamenti. Non può perciò, se rettamente compresa, mettere in discussione la verità e i comandamenti. Non elimina neppure la giustizia ma la supera: è la giustizia più grande, senza la quale nessuno può entrare nel regno dei cieli (Mt 5,20). Mettere la misericordia contro la verità o contro i comandamenti, e porli tra loro in opposizione, è perciò un non senso teologico. Nella gerarchia delle verità è invece corretto intendere la misericordia – la proprietà fondamentale di Dio e la più grande delle virtù – come principio ermeneutico, non per sostituire o scalzare la dottrina e i comandamenti ma per comprenderli e Quali sono le conseguenze di questo principio per la vita cristiana? La misericordia di Dio non è un discorso retorico bello quanto innocuo, non serve per cullarci dentro la tranquillità e la sicurezza ma è una sfida che ci mette in moto. Vuole che le nostre mani e soprattutto i nostri cuori si aprano. Se realizzarli nel modo giusto, secondo il Vangelo. Cosa intende parlando di misericordia come «principio ermeneutico»? Che non altera i contenuti validi ma cambia la prospettiva e l’orizzonte entro il quale essi vengono visti e compresi. È ciò a cui faceva riferimento Paolo VI quando, nel discorso durante l’ultima sessione del Concilio Vaticano II, indicò l’esempio del Samaritano misericordioso come modello della spiritualità del Concilio. Con questa parabola Gesù voleva rispondere alla domanda su chi è il mio prossimo. E la sua risposta parte dalla situazione umana reale: il prossimo è colui che tu incontri, che in una concreta situazione ha bisogno del tuo aiuto e della tua misericordia, sul quale ti devi chinare e le cui ferite devi fasciare. È lui che diventa per te il criterio per interpretare la concreta volontà di Dio. Gesù dice 'siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso' questo ha importanti conseguenze sulla conformazione della vita cristiana attraverso opere di misericordia corporale e spirituale. Significa, ad esempio, avere un cuore per i poveri – intesi nel senso più ampio –, un fatto che ha conseguenze sull’etica cristiana e specialmente su quella sociale. Se poi dobbiamo essere misericordiosi come è misericordioso il Padre nostro celeste, allora ciò vale non solo per il singolo credente ma anche per la Chiesa. Le conseguenze, perciò, riguardano in primo luogo la comprensione e la prassi della Chiesa. Ecco, appunto: cosa comporta questo, concretamente, per la Chiesa? Comporta che essa è e deve essere il sacramento, cioè il segno e lo strumento della misericordia di Dio. La Chiesa è sotto il primato della grazia: 'Il Signore ci precede sempre con il suo amore e la sua iniziativa' – come afferma Francesco nell’Evangelii gaudium – e attraverso 'il suo Spirito ci attrae a sé non come singoli isolati ma come suo popolo'. La Chiesa deve essere perciò il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possono sentirsi incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo.

CORRIERE DELLA SERA di sabato 14 marzo 2015 Pag 5 Francesco annuncia un nuovo Giubileo: "Sarò Papa per poco" di Gian Guido Vecchi In quella frase sul suo tempo non c'è rinuncia né limite di età

Città del Vaticano. Lo ha detto fin dall’inizio: «La Chiesa è madre: deve andare a curare i feriti, con misericordia. Questo è il tempo della misericordia. Se il Signore non si stanca di perdonare, noi non abbiamo altra scelta che questa: prima di tutto, curare i feriti, eh?». Lo ripeteva ai confessori di Santa Maria Maggiore nel primo giorno di pontificato, «misericordia, misericordia», lo scandì il 17 marzo 2013 dicendo messa a Sant’Anna, il giorno del primo Angelus: «Per me, lo dico umilmente, questo è il messaggio più forte del Signore: la misericordia». Così ora, mentre parla a San Pietro a metà pomeriggio, a due anni esatti dalla votazione che lo elesse Papa nella Sistina, l’annuncio di Francesco va al cuore del suo pontificato: «Cari fratelli e sorelle, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio». L’«Anno Santo della Misericordia» inizierà l’8 dicembre di quest’anno e si concluderà il 20 novembre 2016, «Domenica di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo e volto vivo della misericordia del Padre». Anche la data di inizio scelta da Francesco, nel giorno dell’Immacolata Concezione, è significativa: la Porta Santa in San Pietro si aprirà nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965, quando Paolo VI indicò il Buon Samaritano come «paradigma spirituale» dell’apertura della Chiesa al mondo. Un segnale a tutta la Chiesa, alla vigilia del grande Sinodo di ottobre sulla Famiglia. La scelta di Francesco si spiega con il discorso memorabile che ha rivolto a tutti i cardinali il 15 febbraio, dopo l’ultimo Concistoro: l’intera storia della Chiesa, aveva detto, «è percorsa da due logiche di pensiero e di fede: la paura di perdere i salvati e il desiderio di salvare i perduti». Da una parte la logica ipocrita dei «dottori della Legge», che si sentono puri ed «emarginano» i «malati»; dall’altra «la logica di Dio» che «con la sua misericordia abbraccia e accoglie reintegrando», perché «il Signore è presente» in tutti. Ieri Francesco, come l’anno scorso, si è confessato e ha confessato nella Basilica. «Nessuno può essere escluso dalla misericordia di Dio; tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta», ha scandito. Nelle sue parole c’è come il senso di un’urgenza. Sarà che ha «la sensazione un po’ vaga» che il suo pontificato «sarà breve, quattro o cinque anni», come ha detto alla tv messicana Televisa. Oppure il fatto di vivere nell’«ultima corte che rimane in Europa» perché «le altre si sono democratizzate», spiega alla vaticanista Valentina Alazraki che gli chiedeva della Curia: «Ogni cambiamento inizia dal cuore. Bisogna cambiare: abbandonare ciò che ancora ha della corte ed essere un gruppo di lavoro, al servizio della Chiesa, dei vescovi. Questo implica una conversione personale». Parla anche del Sinodo e delle «aspettative smisurate», e spiega: «Credo che il Signore voglia che noi affrontiamo questo: preparazione al matrimonio, accompagnamento di coloro che convivono, di coloro che si sposano e conducono bene la loro famiglia, di quelli che hanno avuto un insuccesso e hanno una nuova unione, preparazione al sacramento del matrimonio. Quanti matrimoni sono nulli per mancanza di fede!». Il problema è «reintegrare» nella Chiesa, ad esempio le «seconde unioni», la comunione ai divorziati come «una coccarda, un’onorificenza» di per sé non risolve nulla. In tema di immigrazione, Francesco elogia l’Italia: «È stata molto generosa, e voglio dirlo. Il sindaco di Lampedusa si è messa totalmente in gioco, anche a costo di trasformare l’isola da terra di turismo a terra di ospitalità. Con quello che comporta il non guadagnare soldi. Ci sono gesti eroici». Un rammarico? Il non poter uscire senza che nessuno lo riconosca e andarsene tranquillamente in una pizzeria.

Il 18 agosto dell’anno scorso, di ritorno da Seul, aveva scherzato sulla propria morte facendo il gesto di chi se ne va: «Io so che questo durerà poco tempo, due o tre anni e poi via, alla casa del Padre!». Nell’intervista alla tv messicana ha confermato «la sensazione un po’ vaga» che il suo Pontificato «sarà breve» («Quattro o cinque anni, non so, o due o tre... Beh, due sono già passati»), salvo aggiungere: «È come la psicologia di chi gioca e allora crede che perderà per non restare poi deluso. E se vince è contento. Non so cos’è. Ma ho la sensazione che Dio mi ha messo qui per una cosa breve, niente di più. Ma è una sensazione. Per questo lascio sempre aperta la possibilità». Eppure, di là da questa «sensazione», la cosa notevole è che Francesco respinga sia la possibilità di un limite di età fissato magari a 80 anni («a me non piace fissare un’età... parlare di 80 anni crea una sensazione di fine Pontificato che non farebbe bene, qualcosa di prevedibile») sia l’idea in generale di un papato a termine, come se la «rinuncia» fosse ormai un esito inevitabile. Bergoglio spiega che Benedetto XVI «ha aperto con grande coraggio la porta dei Papi emeriti» e non bisogna considerarlo «come un’eccezione» ma «una istituzione». Oggi «si è aperta la possibilità che possa esistere». Una possibilità: Ratzinger «forse sarà l’unico per molto tempo, forse non sarà l’unico». In questo senso dice di essere «dell’idea di Benedetto»: in condizioni analoghe, si farebbe la stessa domanda. Sarà quel che Dio vorrà, «il papato è una grazia». Ai ragazzi arrivati a San Pietro il 7 giugno, per la festa dello sport, aveva detto: «Vi prego di pregare per me, perché possa fare il mio gioco fino al giorno che il Signore mi chiamerà a sé».

Pag 6 La sorpresa di un Anno Santo che lega pietà popolare e Concilio di Luigi Accattoli

Una decisione a sorpresa questo del Giubileo della Misericordia che ha significati vecchi e nuovi tra loro intrecciati e apparentemente contrastanti. Un intreccio che fa dell’Anno Santo annunciato ieri da Francesco un unicum, un caso unico, nella lunga storia degli Anni Santi, che ha più di sette secoli. Sarà il 29° della serie, che era stata avviata da Bonifacio VIII nell’anno Trecento, che è anche l’anno in cui Dante colloca idealmente il viaggio ultraterreno della Divina Commedia. Il primo intreccio è tra vecchio e nuovo: i Giubilei sono legati alle indulgenze e alle prassi penitenziali del Medioevo, appaiono dunque lontani dal sentimento moderno della fede cristiana che parrebbe professato da Papa Francesco; ma questo Giubileo è dedicato alla Misericordia, e non si è mai avuto un Giubileo della Misericordia. Qui forse il vecchio prevale sul nuovo, essendo che ogni Giubileo era un richiamo al perdono un tempo era anche detto «perdonanza» e dunque indirettamente faceva riferimento alla misericordia di Dio che perdona. Ma c’è un altro intreccio, dove invece a prevalere è la novità: ed è quello tra il carattere devozionale delle ritualità giubilari e il rimando di questo Giubileo al cinquantenario del Vaticano II, le cui quattro sessioni si tennero dal 1962 al 1965. Qui la sensazione del contrasto si fa impressionante, almeno per chi ha l’età per ricordare il dibattito che accompagnò nel 19741975 l’indizione e lo svolgimento del primo Giubileo venuto dopo il Concilio, quando molti ritenevano che non era più concepibile che venisse indetto un Anno Santo da parte dello stesso Papa Paolo VI che aveva promulgato i documenti del Vaticano II e che ne aveva guidato la prima applicazione. In questo richiamo intrecciato al Vaticano II e alla pietà popolare si può vedere un’astuzia del Papa argentino: egli ha grande presa presso il popolo dei fedeli ma subisce qualche resistenza da parte di ambienti intellettuali di orientamento tradizionale. Indicendo un Anno Santo in ricordo del Concilio sorprende gli oppositori, in quanto fa appello al popolo chiamandolo ad atti tradizionali (pellegrinaggio a Roma, indulgenze) e insieme gli ripropone la novità del Concilio. Chi accusa il Papa di trascurare la tradizione e di porre troppi atti di discontinuità rispetto ai predecessori dovrà ora ammettere che l’iniziativa di maggiore impegno organizzativo e celebrativo, tra quante questo Papa ne ha prese fino a oggi, è del tutto tradizionale. Nello stesso tempo sarà chiaro a tutti che un anno di rievocazione del Vaticano II configurerà una valorizzazione diffusa e capillare di quel patrimonio quale fino a oggi non era stata tentata da nessuno dei predecessori. Due anni dopo la conclusione di quel Giubileo arrivò il Papa polacco, che aveva una vera e propria passione per gli Anni Santi e ne celebrò due: uno che chiamò «Anno Santo straordinario della Redenzione» nel 1983 (nel titolo vi era un richiamo al cinquantenario dell’Anno Santo straordinario della Redenzione che Pio XI aveva indetto nel 1933, con richiamo ai 33 anni di Cristo) e un altro, nell’anno Duemila, che qualificò come «Grande Giubileo» con riferimento al passaggio del millennio. L’esito numerico del Grande Giubileo fu imparagonabile rispetto a tutti i precedenti. Secondo la stima dell’Agenzia Romana per il Giubileo, il numero totale di arrivi a Roma nel corso di quell’Anno Santo fu di 24,5 milioni di pellegrini, mentre il Censis valutò in 32 milioni il totale degli arrivi. Fu affermato che il solo pellegrinaggio dei giovani (detto anche Giornata mondiale della gioventù di Tor Vergata) avesse portato a Roma due milioni di ragazzi. I Giubilei ordinari si tennero inizialmente ogni 50 anni (1300: Bonifacio VIII; 1350: Clemente VI: 1400: Bonifacio IX); ma a partire da Martino V, che ne indisse uno per il 1423, la periodicità scese ai 25 anni e si ebbero regolari celebrazioni nel 1450, nel 1475 e così via fino al 1775. Non si ebbe il Giubileo nel 1800 per le vicende napoleoniche (Pio VI prigioniero in Francia fino alla morte nel 1799, Pio VII eletto a Venezia nel marzo del 1800) e di nuovo saltò l’appuntamento del 1850 a motivo della fuga del Papa a Gaeta nel 1849. Regolari furono anche tutte le altre celebrazioni venticinquennali fino a quella del 2000. A parte i due Giubilei straordinari della Redenzione, ricordati sopra, Anni Santi in anni non cinquantenari o venticinquennali si ebbero soltanto nel 1390 e nel 1423.

LA REPUBBLICA di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Sulla strada di Papa Giovanni di Enzo Bianchi

Mentre i media di tutto il mondo si sbizzarrivano con bilanci, interviste e retrospettive sui primi due anni di pontificato, papa Francesco ha mostrato la sua sollecitudine per il presente e il futuro. Il presente e il futuro dell'annuncio del vangelo nel mondo contemporaneo: ha indetto un giubileo straordinario che avrà «al suo centro la misericordia di Dio». Sembra ripetersi, ma con visibilità planetaria, la sorpresa suscitata da papa Giovanni nel drappello di studiosi che, in vista del Vaticano II, gli aveva presentato il volume contenente i documenti di tutti i concili precedenti. Posatolo gentilmente sullo sgabello dove appoggiava i piedi, Giovanni XXIII esclamò: «Bene, grazie... Adesso parliamo del prossimo concilio!». Ed è proprio all'8 dicembre prossimo, giorno in cui ricorreranno i cinquant'anni dalla chiusura della "novella pentecoste" del Vaticano II, che papa Francesco ha voluto collocare l'apertura di questo "anno santo". Guardiamo avanti, esorta papa Francesco con questo annuncio, verso «una nuova tappa del cammino della chiesa nella sua missione di portare a ogni persona il vangelo della misericordia». Quando si aprirà il giubileo, il sinodo dei vescovi sulla famiglia si sarà chiuso da appena quaranta giorni e subito la chiesa cattolica sarà chiamata a tradurre le riflessioni sinodali non in ulteriori documenti ma in prassi "missionaria" in senso forte: dovrà trovare modalità nuove per vivere la sua vocazione più antica, «essere testimone della misericordia». È proprio la misericordia la chiave di lettura dell'intero pontificato di papa Francesco, dei due anni trascorsi come di quelli che ancora devono venire, che siano ancora tanti oppure pochi, come «un piccolo vago sentimento» suggerisce al Papa. Del resto il Papa all'inizio di quest'anno aveva ribadito questo suo fermo orientamento: «Questo è il tempo della misericordia. È importante che i fedeli laici la vivano e la portino nei diversi ambienti sociali. Avanti!». È attorno alla misericordia del Signore, allora, che papa Francesco vuole convocare la chiesa per spingerla verso l'umanità: è una sorta di sinodo permanente che il Papa sta strutturando attorno a questo annuncio, ma un'assemblea che si dilata a dimensione universale e i cui membri di diritto, i vescovi, si trovano in costante dialogo con i fedeli e con le loro diocesi, ma anche con chi è sempre rimasto in disparte e con chi si è allontanato e ha timore a tornare: l'orizzonte non è un'aula sinodale, un organigramma curiale o un tribunale ecclesiastico, bensì l'umanità intera e il cuore di ciascuno. Allora i problemi della famiglia e quelli delle vecchie e nuove povertà, i drammi delle migrazioni e delle guerre, le piaghe della corruzione, dell' immoralità, della menzogna vengono affrontati con la risolutezza verso il male e il rispetto verso le persone, con la lotta al peccato e l'appello del peccatore alla conversione. È chiara l'opzione di papa Francesco per una ben precisa immagine della chiesa: una comunità di credenti che cura le ferite, si piega sull'uomo, non teme il contagio, sceglie la prossimità dei peccatori, dei «malati che hanno bisogno del medico». La chiesa può avere, e nella storia ha avuto, anche altri volti, può anche «imbracciare le armi del rigore » ma Francesco, nel solco di papa Giovanni, «preferisce usare la medicina della misericordia». Oggi più che mai, infatti, i cristiani, e con loro gli uomini e le donne di ogni orizzonte, in questa situazione mondiale così precaria e segnata da ogni tipo di ferita, abbisognano dell'annuncio della misericordia del Signore. Il Papa allora non si stanca di ripetere il messaggio evangelico che anima il suo pensare e il suo agire: «Né lassismo né rigorismo [ma] una misericordia [che è] sofferenza pastorale. Soffrire per e con le persone. E questo non è facile! Soffrire come un padre e una madre soffrono per i figli. Non avere vergogna della carne del tuo fratello. Alla fine, saremo giudicati su come avremo saputo avvicinarci a ogni carne». Ecco, anche se sono scoccati due anni dall' annuncio di quel nome inedito per un vescovo di Roma Francesco l'indizione dell'anno giubilare ci dice che non è ancora tempo di bilanci e che, quando un bilancio si farà, sarà sulla capacità avuta di farsi prossimo a ogni essere umano perché, come ammonisce Gesù nel vangelo, saremo giudicati per la carità mostrata verso gli ultimi.

Pagg 2 3 Il Giubileo a sorpresa di Francesco, dall'8 dicembre via all'Anno Santo: "Il mio sarà un pontificato breve" di Marco Ansaldo e Orazio La Rocca "Salviamo la fede in Occidente", così nasce l'idea di un gesto straordinario. Kasper: "Né mega raduni né spettacoli, sarà molto diverso da quello di Wojtyla"

Città del Vaticano. La medicina della "misericordina", il farmacorosario consigliato ai fedeli, riposta in un cassetto della sua stanza a Casa Santa Marta. Fuori, lo stemma pontificio, con il motto "Miserando atque eligendo" tratto dalle Omelie di San Beda il Venerabile («lo guardò con un sentimento di amore, e lo scelse »). Papa Francesco ha a lungo riflettuto, gli ultimi mesi dello scorso anno, così come fa nei rari momenti in cui, all'alba, nella "Camera 201", stende le sue omelie prima della messa mattutina, e poi ha deciso: il prossimo Giubileo straordinario sarà sotto il nome della misericordia. E proprio questa parola, più di altre, questo «sentimento di amore», rappresenta uno dei termini chiave del pontificato di Francesco. L'altro è «armonia», come ha giustamente rilevato appena l'altro ieri padre Antonio Spadaro, il direttore della rivista La Civiltà Cattolica, uomo che forse più di altri, anche per la comune appartenenza gesuitica, è in grado di spiegare, di decrittare il pensiero di Jorge Mario Bergoglio. E di «armonia» il Papa ha parlato a lungo a dicembre, nel viaggio compiuto in Sri Lanka e nelle Filippine. Altre latitudini. Ma tornato a Roma, concentrandosi sugli eventi di un anno che si presenta come decisivo fra visite previste in Africa e in America, in Italia (tre) e la conclusione a ottobre dell'importante Sinodo sulla Famiglia, Bergoglio ha inserito più volte la parola «misericordia » nei suoi discorsi. Prima, nel Concistoro di febbraio, quando ha parlato ai 20 nuovi cardinali appena creati. Poi, giusto poche settimane fa, nella lettera inviata al suo successore nella diocesi di Buenos Aires, quel Mario Poli pescato nella Pampa argentina, portato nella capitale, e fatto cardinale. Anche lì, in quelle righe, l'esortazione alla misericordia assumeva toni vibranti e da meditare. Dentro di sé, un pensiero fisso: la crisi della fede in Occidente. C'è chi dice, nella cerchia in realtà non larga degli amici di Francesco in Vaticano, che la parola «misericordia» sia ben scolpita in lui fin da quando è diventato vescovo, il lontano 20 maggio 1992, secondo quanto volle Karol Wojtyla. E che quel concetto abbia attraversato l'intera sua vita sacerdotale, prima da arcivescovo della sua città, poi da cardinale, fino all'elezione al soglio pontificio. Una costante lunga come un arco. In realtà, se solo si rileggono i discorsi degli ultimi mesi, quella parola ricorre in modo insistente confrontandosi con un'altra sua frase cardine. Questa: «La paura di perdere i salvati e il desiderio di salvare i perduti». Concetto che chi leggerà il prossimo libro del Papa "La logica dell'amore" (in uscita il 19 marzo per Rizzoli), con introduzione di padre Antonio Spadaro, ritroverà in capitoli che come tappe della Via Crucis scandiscono tutto il testo. Una «misericordia», dunque, che si salda con il momento di penitenza destinato alla Pasqua. Ma perché le date dell'8 dicembre e del 20 novembre, scelte come apertura e chiusura di un evento che un tempo la Chiesa stabiliva ogni 25 anni, e oggi il Pontefice annuncia come Anno straordinario a soli 15 anni di distanza dall'ultimo Giubileo, quello convocato nel 2000 da Giovanni Paolo II? Il giorno dell'Immacolata Concezione indica con chiarezza per Francesco l'importanza di Maria, figura sulla quale tante volte il Papa è tornato con esempi capaci di amplificare l'affetto e il rispetto nutrito per la madre di Gesù. Altro richiamo voluto: l'apertura avverrà nel 50° anniversario della chiusura del Vaticano II, e acquista così significato spingendo la Chiesa a continuare l'opera iniziata in un Concilio cui questo Papa rimanda spesso. La data di chiusura è invece il giorno di Cristo Re, quando i gesuiti pronunciano i voti. Un richiamo fortissimo per la Compagnia, che considera quel giorno il momento in cui Cristo giudica, il giorno della penitenza (il Re Eterno, secondo la definizione del fondatore Sant' Ignazio). Non manca un ulteriore, e finale, senso simbolico: Bergoglio ha deciso di indire l'Anno Santo il giorno del secondo anniversario della sua elezione a Pontefice di Santa Romana Chiesa, quel 13 marzo 2013 in cui annunciò al mondo di accettare la nomina con il nome sorprendente di Francesco. «Nessuno può essere escluso dalla misericordia», aveva detto durante il suo primo viaggio all'estero, quello in Brasile, con il record (oggi già battuto) di 6 milioni di persone sulla spiaggia di Copacabana, a Rio de Janeiro. Un concetto andato in crescendo, con un'insistenza evidente negli ultimi mesi. «La misericordia ricorda ancora padre Spadaro è una sua costante. Direi, anzi, che è proprio la cifra del suo pontificato. Francesco non sta facendo la riforma della Curia, ma sta affrontando la crisi della fede in Occidente. Punto». Una frase che può sorprendere. Che fa pensare. Dove per Occidente si intende l'Emisfero Nord, l'area secolarizzata che conosciamo. Nella quale appunto l' immagine di Dio appare in crisi, non paragonabile a zone del mondo dove la fede invece è in crescita, Asia e Africa. La crisi è qui. È ora. Ed è qui che c'è bisogno non solo di «armonia». O di «compassione». Ma, dice il Papa, soprattutto di un sentimento di amore. Di «misericordia».

Città del Vaticano. Cardinale Kasper, il Giubileo di Francesco sarà paragonabile a quello del 2000 di Giovanni Paolo II? «Si tratta di eventi diversi e celebrati in altri contesti. Il Giubileo del 2000 fu l'evento principe con cui Wojtyla traghettò la Chiesa nel terzo millennio e milioni e milioni di pellegrini per 12 mesi si dettero appuntamento sulla tomba di San Pietro, in Vaticano, e nei luoghi della cristianità romana. Ci furono eventi liturgici, spettacoli, meeting. Non credo che per il Giubileo della Misericordia sarà la stessa cosa. Immagino che sarà un anno di meditazione, di riflessione sul senso del peccato e del perdono alla luce della misericordia di Dio. Forse non ci saranno grandi raduni. Ma è ancora presto per fare previsioni. E poi, papa Francesco sorprende sempre". Walter Kasper, 82 anni il 5 marzo scorso, creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 2001, è Presidente emerito del Pontificio Consiglio per l' unità dei cristiani e stretto ed ascoltato collaboratore di Bergoglio, che non a caso lo ha nominato relatore ai lavori introduttivi del Sinodo straordinario sulla famiglia dello scorso ottobre. È rimasto sorpreso dall' annuncio del Papa? «È una iniziativa molto, molto importante. Un annuncio che dà gioia e sorprende allo stesso tempo, grazie alle intuizioni di un grande pontefice come papa Francesco che sta facendo tanto bene alla Chiesa e a tutti gli uomini di buona volontà che lo ascoltano». Perché secondo lei è stato dedicato alla misericordia? «La Divina misericordia è nel Dna del papa. Fin dalla sua elezione ha predicato sempre e ovunque il senso del perdono, della speranza e della certezza che in Dio nostro Padre c'è sempre accoglienza, ascolto e soprattutto perdono misericordioso. Lo sta predicando alle grandi folle, ma anche negli incontri nelle periferie delle metropoli e nei piccoli centri. Dio è misericordia, Dio perdona, non stancatevi di rivolgervi a lui, ci ricorda sempre, basta cercarlo, aprirsi a lui, confidargli le nostre angosce, i nostri peccati». E cosa può legare un intero Anno Santo, fatto di incontri, celebrazioni, persino spettacoli come si è sempre visto nei passati Giubileo, ad un tema come la Misericordia? «Il legame tra Giubileo e Misericordia è forte, intimo, costruttivo perché per ben dodici mesi la Chiesa universale si interrogherà sul grande insegnamento che da sempre è possibile cogliere nella Misericordia Divina. Proprio l'altro giorno, il Papa ha ricordato che Dio può perdonare tutto e tutti perché è superiore a ogni forma di peccato. Il perdono Divino però occorre cercarlo, desiderarlo sinceramente, con la profonda volontà di non sbagliare più e con la certezza che in Dio ogni uomo, peccatore e non, troverà sempre accoglienza come un figlio presso il padre. È una tematica che da sempre sta a cuore al Santo Padre e certamente il Giubileo sarà per lui una importantissima occasione di plasmare la Chiesa universale al senso della Misericordia Divina». Un tema solo religioso? «Assolutamente no. È un insegnamento che per i cristiani è strettamente legato al Vangelo di Cristo, il figlio di Dio fatto uomo per salvare l'umanità dai peccati, gesto supremo di Divina Misericordia. Ma che va al di là dei credenti. Tutta la società civile ne potrà trarre vantaggi. Il senso del perdono, dell' accoglienza dell' altro, dell' ascolto di chi sbaglia e si pente è un modo di vivere che riguarda tutti, ma che specialmente in Occidente si sta smarrendo. Questo nuovo Giubileo potrà servire molto a credenti non credenti, cristiani e non cristiani, a recuperare il senso dell' amicizia, dell' ascolto e del perdono reciproco. È qui la genialità dell' annuncio di Francesco».

Pag 4 Da Bonifacio VIII a Giovanni Paolo II, com'è cambiato il rito del perdono globale di Agostino Paravicini Bagliani

Papa Francesco non finirà mai di stupirci. Il giorno del secondo anniversario del suo pontificato promulga un anno santo di «misericordia». Il trentesimo Giubileo cristiano si aprirà dunque l'8 dicembre, cinquant'anni dopo quello indetto da Paolo VI a chiusura del Concilio Vaticano II. È il nono da poco più di un secolo. Il ritmo di cinquant'anni si ispira all'Antico Testamento. La legge di Mosè aveva prescritto al popolo ebraico di dichiarare «il cinquantesimo anno» un anno di «Giubileo», durante il quale «ognuno tornerà in possesso del suo» (Levitico, 25, 1013). Era un anno particolarissimo, in cui si restituivano terre agli antichi proprietari, si rimettevano i debiti e si lasciava riposare la terra. Per più di un millennio il cristianesimo restò insensibile al concetto di giubileo, forse anche perché vigeva allora una visione del tempo non scadenzata come oggi da secoli e ancor meno da periodi più brevi. Non a caso il primo Giubileo cristiano fu promulgato nel 1300, da Bonifacio VIII (12941303), proprio in corrispondenza del passaggio di un secolo. Per Papa Caetani i futuri giubilei cristiani non avrebbero dovuto riprendere il ritmo dell'Antico Testamento, ma essere promulgati ogni cento anni. Ad ogni passaggio di un secolo dunque, come fu per il suo. Presso i fedeli che si erano recati alla basilica di San Pietro in Vaticano il primo gennaio 1300 era corsa voce che il papa avrebbe indetto un' indulgenza plenaria che avrebbe «lavato la macchia di ogni peccato». Ma erano soltanto dicerie. Attese popolari si manifestarono anche il 17 gennaio, giorno in cui si portava in processione l'icona della Veronica recante l'immagine di Cristo che si venerava nella basilica di San Pietro in Vaticano. Bonifacio VIII, sorpreso dal fervore popolare, fece svolgere delle ricerche in archivio per sapere se un giubileo fosse stato celebrato altre volte, ma non si trovò nulla. Finalmente, il 22 febbraio 1300, festa della Cattedra di San Pietro, il papa salì sull'ambone di marmo situato nella navata centrale della basilica e promulgò la bolla del Giubileo che fece depositare sull' altare maggiore della basilica. Il papa permise di poter ricevere le indulgenze anche retrospettivamente, dalla festa di Natale dell'anno precedente. I romani dovevano visitare le basiliche di San Pietro e di San Paolo una volta al giorno. Si trattava di un impegno gravoso che il papa dovette alleggerire il Giovedì Santo davanti «ad una moltitudine di fedeli» riunita sulla piazza del Laterano. Il Giubileo di Bonifacio VIII costituiva una novità storica, che conferiva alla città di Roma una nuova centralità, a soli nove anni dalla grande sconfitta di Acri (1291) che segnava un punto di arresto alle Crociate. Per l'Europa cristiana, con il Giubileo del 1300, Roma prendeva il posto di Gerusalemme. Il secondo Giubileo (1350) rispettò il ritmo dei cinquant'anni, ma anche questa volta l'idea non venne dal papa. Clemente VI (13421352) fu convinto dai romani, aiutati da Petrarca che risiedeva allora alla corte papale di Avignone. Il ritmo di cinquant'anni conoscerà una sola interruzione, nel 1850 a causa delle turbolenze della Repubblica romana. Il papa era assente da Roma e vi fu portato dai Francesi soltanto il 12 aprile. Già nel 1475 si tenne il primo giubileo con un ritmo di 25 anni. Il giubileo di Sisto IV (14711484) fu importante per la storia di Roma, ormai uscita definitivamente dalla crisi del Grande Scisma di Occidente durante il quale invece furono indetti due giubilei che non furono mai celebrati, uno nel 1390, il secondo nel 1423. Il Giubileo del 1423 voleva riprendere quello che il primo papa romano dopo il lungo 'esilio' avignonese avrebbe voluto celebrare nel 1390, ossia dopo 33 anni, un numero che ricorda gli anni di Cristo. L'idea di celebrare un giubileo con un ritmo di 33 anni non andò però perduta. Anzi fu ripresa, con successo, ben due volte. Nel 1933 da Pio X (che aveva già celebrato un giubileo nel 1925) e cinquant'anni dopo da Giovanni Paolo II, nel 1983. Sono comunque giubilei che vennero ad intercalarsi nel ritmo dei venticinque anni che fu osservato dal 1475 in poi con pochissime eccezioni. Il Giubileo del 1950, durante il quale Pio XII promulgò il dogma dell' Assunzione di Maria, lasciò il segno nella storia dei giubilei, perché costituì la prima grande occasione di mobilità per i fedeli cattolici in Europa, dopo la Seconda Guerra mondiale. Ma già per il primo giubileo cristiano, del 1300, Dante era stato impressionato da quell' "essercito molto" di pellegrini che sul ponte di Castel Sant'Angelo, durante il Giubileo, si incrociavano andando o tornando da San Pietro. Straordinarie furono le folle di pellegrini per l'ultimo Giubileo, indetto da Giovanni Paolo II per l'anno 2000. Celebrato anche in Terra Santa, fu un evento mediatico impressionante. L'apertura della porta santa a San Pietro, il 24 dicembre 1999, fu vista in mondovisione. Così il giorno dopo, quando il papa aprì la porta santa di San Giovanni in Laterano, e il 1° gennaio 2000 quella di Santa Maria Maggiore.

IL FOGLIO di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Due anni di misericordia onnipotente, Giubileo compreso, per riconquistare il mondo. O farsi conquistare? di Giuliano Ferrara

Due anni di misericordia onnipotente, Giubileo compreso, di cuore lanciato oltre l'ostacolo, due anni di missione: che cosa ne resta? Ora arriva l'enciclica francescana su nostra sorella madre terra e il climate change, poi a settembre il viaggio contrastato nell'America del nord, del capitale, dell'individualismo e del clero conservative. Tutti scrivono di un biennio trionfale, la chiesa cattolica ha ritrovato un suo pubblico, al box office c'è spesso il tutto esaurito, lo spirito si rallegra, il vescovo universale della carità festeggia, come si era ripromesso di fare, un tratto del suo affollato cammino di popolo in compagnia di sant'Ignazio e di san Pietro Favre, il santo del santo padre. E mercoledì scorso, parlando dei vecchi, ne ha detta una delle sue, piuttosto bella: state allegri, qualcuno dovrà pur cantare. Profeticchio di sventura, un anno fa scrivevo che il tipo mi piace, lo stile è l'uomo, ma ero in allarme, poteva finire male, perché il fine di riconquistare il mondo è santo, ma i mezzi implicano l'alto rischio che sia il mondo a riconquistarti definitivamente, cancellandoti come contraddizione o segno di contraddizione. Mi pare che siamo un pezzo avanti, su questa seconda strada, ma non voglio giudicare in modo arbitrario, con precipitazione. Preferisco farmi qualche domanda, argomentare. San Giovanni Paolo II aveva messo a fuoco il mondo con il suo protagonismo atletico, la poesia del suo volto virile e conquistatore, la ruvidezza sincera e giudicante della dottrina morale, specie su vita e famiglia, l'anticomunismo programmatico, combattente. Benedetto XVI era stato in quanto capo della Dottrina della fede il suo compagno d'armi, con le sue idee e il suo "specialismo del Logos", teologo tedesco, anzi bavarese, di tratto aristocratico e di tempra dolce ma distante. In quanto Papa eletto per combattere il relativismo, per raddrizzare la rotta della barca secolare investita da ogni vento di dottrina, assediata dall'io e dalle sue voglie, come disse nella memorabile omelia sul sagrato di San Pietro prima della fumata bianca, aveva lanciato il suo guanto di sfida a Ratisbona, e fu lasciato completamente solo. Il resto dei suoi discorsi, delle sue encicliche, del suo magistero fu un manifesto controculturale bagnato nella grazia trascendente, ma produsse un lungo e impudico assedio del papato, governato dai vincenti del secolarismo e dei mass media. Un anno prima del fatale febbraio del 2013, data dell'abdicazione o renuntiatio, scrivemmo qui, in un articolo intitolato "le dimissioni del Papa" che "se c'è uno capace di andarsene, questo è Ratzinger". Non erano informazioni riservate, ci hanno sempre fatto leggermente schifo, qui in ditta, ma una lettura del clima di penosa espiazione che era toccato a una chiesa messa sul banco degli imputati come società essenzialmente castigatrice e pedofila. Poi venne Francesco con il suo buonasera, con i suoi buon pranzo, le borse nere con breviario e rasoio, le Ford Focus, i pulmini, con le sue misericordine e il suo rigetto del potere di giudicare le vite degli altri. Mica male, in un certo senso. Un'altra faccia della chiesa, e stavolta la faccia di un prete e vescovo e cardinale gesuita venuto, dopo che italiani polacchi e bavaresi avevano dato tutto il possibile, dalla lontana e abandonica Argentina a mira col mostrare. Sola fide, ha subito proposto. Basta con indugi razionali, illuminismi cristiani, dottrina in sviluppo per governare lo spazio pubblico in relazione dialettica con l'autorità civile e politica; basta con gli specialismi teologici e filosofici di quelli che il suo vice, Oscar Rodríguez Maradiaga, chiama "filosofi tedeschi", dove l'insulto sprezzante, diretto al cardinale Gerhard Müller che è misericordioso anche verso la giustizia divina di cui riconosce la funzione salvifica, può poggiarsi a seconda del punto di vista sulla filosofia o sulla Germania, Baviera compresa (Maradiaga è fieramente honduregno, paese totalmente scristianizzato). Sola fide. Ma Francesco non è un luterano. Ché tutti ricorderete come fu il genio teologico massimo del Cinquecento, appunto frate Martino, agostiniano che visse il dramma del chiostro e finì a scontare i suoi peccati nei "discorsi a tavola" o Tischreden servito dalla moglie, Caterina von Bora, fu lui a lanciare questo banner fatale all'unità della cristianità, con varie e diverse conseguenze, non tutte ispirate al suo creatore originale Paolo di Tarso. "Il giusto vivrà per la fede", com' è detto nella Lettera ai romani, e tutto il resto ne discende. Liberiamoci dell' idea che la ragione possa aprirsi al mistero, il mistero rivelato abita i cuori, nutre la coscienza, rende retta la persona attraverso l'opera dell'amore, elaborazione magari più tarda dell' ardente e criptica teologia paolina. Non servono altre opere, se non nella fede. Fede, amore, misericordia, quello cristiano è un cuore di carne, ovvio, che sostituisca il cuore di pietra dei pagani. Mica male, ripeto. Il pensiero del biblista e gesuita cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, aveva già instradato la chiesa sulla strada del postmoderno, cioè del fiore della cultura del Novecento. Un passettino in più, un gesuita a Casa Santa Marta, in funzione di Papa regnante, assistito nelle preghiere dal Papa emerito ritirato in un altro compound vaticano, una messa al giorno al mattino presto, esegesi biblica della più intensa e bella specie, e il gioco è fatto. Seguono viaggi, applausi, raduni, innovazioni curiali all'insegna della sedizione contro la lebbra del clero di Roma o romanizzato, un buon segretario di stato dai ranghi della migliore diplomazia, e il gioco è fatto. La fede e l'amore sono insondabili, abitano in interiore homine, li amministra lo Spirito santo, che soffia dove vuole, e consente a ogni desiderio di trasfigurarsi in diritto della coscienza personale, chissenefrega della normatività morale, delle life issues, dell'aborto, del divorzio, della biogenetica e di altre diavole rie che sembrano inventate per infragilire una chiesa che combatte la buona battaglia, altro che catechismo, catalogazione dei peccati, definizione del credo, è tutta dottrina, è tutta ideologia, è tutta tradizione pietrificata, morta e sepolta dal Vaticano II. Sola fide. Tutto bene. Se non che l'altro giorno si apprende, senza per questo voler giudicare, che in Gran Bretagna un figlio gay ha ottenuto un figlio mettendo incinta sua madre, che gli ha usato la misericordia di esaudire, ama il prossimo tuo, un suo desiderio. Non so perché ma la cosa ha fatto notizia. Chi abbia letto le due formidabili pagine dedicate qui di recente da Nicoletta Tiliacos a tutti i modi oggi esistenti, tecnicamente esistenti e legalmente riconosciuti, per mettere al mondo il prodotto bambino, avrà sbadigliato. In bocca al lupo al pupo, al papà e alla sua mamma e moglie, ovviamente, non siamo nessuno per giudicare, appunto, ma la cosa ha fatto notizia comunque. In materia di etica, altro che criteri non negoziabili, la chiesa di Francesco, impegnata ora nella rincorsa dell'ecoambientalismo apocalittico, e vedremo che cosa ne uscirà fuori, è una chiesa del silenzio, come quella dell' est europeo durante la dittatura sovietica. In tutto questo c'è una logica. Se vuoi riconquistare il mondo secolare, in certo senso devi farti perdonare quella che Francesco chiama l' ingerenza spirituale del passato. Ci vuole dolcezza alla Favre, tatto, indifferenza gesuitica ignaziana pura, devi essere capace di vedere Dio in tutte le cose, devi fare in modo che un certo modo intenso e spirituale di credere, senza una troppo ingerente mediazione della chiesa e del clero, innovi la dottrina, sviluppi la tradizione, riscriva i testi sacri o anche quelli laici di una sapienza cristiana che va, come si dice, aggiornata. E questo, avverte il Papa, non è relativismo: è discernimento. Non è casuistica, come nel Seicento quando i gesuiti scandalizzavano i giansenisti e Pascal giustificando con il loro probabilismo morale misericordioso furto omicidio e assassinio, no, questo è evangelizzazione allo stato puro, missione, proiezione della chiesa cattolica fuori dell'autoreferenzialità, cioè della propria identità. Silenzio, silenzio, silenzio. L'aborto è diventato un diritto umano: non più una circostanza dolorosa, di cui prendere atto mentre la si combatte con le armi della cultura, della civiltà argomentativa, non si dica della dottrina della vita (Evangelium vitae, celebre enciclica di Wojtyla e Ratzinger). Oggi vige l'Evangelii gaudium, l'allegria di naufragio che pervade una chiesa missionaria che "si fa tutto a tutti", come voleva il grande Ignazio che puntava su uno smisurato "allargamento del campo di coscienza". Nel giorno di Santa Elisabetta il padre spirituale del santo padre e primo prete della Compagnia, fatto subito santo della dolcezza eroica, quel geniale e certo santissimo Pietro Favre, autore di un magni fico diario chiamato Memoriale, ebbe mentre era in missione in giro per l'Europa una mozione devozionale dello spirito: vide sullo stesso piano di benevolenza riuniti assieme il Papa, il Turco, l'Imperatore, Enrico VIII, Lutero, Bucero e Melantone (Memoriale, 25). Il Papa, il turco assediante, il re adultero, l'imperatore e gli eretici tutti insieme appassionatamente. Bossuet, grande predicatore, diceva che i gesuiti sono "esperti in benevolenza", e non aveva torto (a parte la distruzione di PortRoyal, monastero di pietà e di scuola, capitale del giansenismo nemico, dove era cresciuto Jean Racine, e la dispersione delle ossa dei defunti a cura dei soldati di Louis XIV guidati dalle sapienti menti della Compagnia). Il programma di Francesco è benevolente e autoritario il giusto, sollecita laicità nella discussione tra il clero, punisce e bandisce i dissidenti tradizionalisti, premia i consenzienti, ma questo è nella logica di qualunque potere monocratico efficace. La sua proiezione esterna è tutta festa e gioiosa capacità di annuncio, e belle sono le prediche in Santa Marta del mattino, d'altra parte i gesuiti, come e da un certo punto in poi più dei domenicani, sono grandi predicatori. Solo che questo programma non si incontra, e da due anni, con il mondo com'è, con il mondo reale. E' una testimonianza di stile, è un elenco di ottime intenzioni pastorali, ma la gente contemporanea, uomini donne vecchi bambini maschi femmine e gay, non è investita da altra assistenza che il perdono, il perdono di un Dio che ti ama, ti guida nel segreto intenso e individuale della preghiera, e puoi anche fare a meno della chiesa, vabbè se non vai a messa sei scemo, d'accordo, qualche elemento del mestiere è pur rimasto. Ti puoi sposare tra maschietti e tra femminucce. E' un diritto anche questo, un diritto umano come l'aborto. L'umanità dei diritti sembrerebbe una coca light, o una coca zero, un luogo frizzante in cui il nutrimento è una combinazione segreta, spirituale, il cui brevetto non è certo nelle mani del confessore, del prete, che non deve per nessuna ragione torturare con le richieste di penitenza i diritti imprescrittibili, non negoziabili, delle legislazioni libertine e ciudadane, dalla Spagna agli Stati Uniti, e in tutto il mondo civile d' occidente. La cultura Lgbt (Lesbian Gay Bisexual Transgen der) comincia a espandersi e forse è già dominante con le leggi contro l'omofobia, contro le quali si battono movimenti laici depotenziati e delegittimati da Francesco come la Manif pour tous e le Sentinelle in piedi. Tutti irrisi da vescovi come il pupillo del Papa Nunzio Galantino, segretario della Cei che non ha pietà per gli antiabortisti e i prolifer di tutte le risme. Per non parlare dei programmi scolastici. Il cardinale di Milano, la più grande diocesi cattolica del mondo, si è dovuto scusare per l' ingerenza spirituale di un suo sacerdote, che cercava di capire in quante scuole della diocesi si predica l'indifferenza di genere, l'integrazione culturale politicamente corretta e educativamente coatta nel canone nuovo che non prevede la differenza di maschio e femmina. Silenzio del Papa, che non vuole la rogna del mondo com'è, se lo rappresenta come un cuoricino pieno di bontà e di misericordia. Resta la povertà, sebbene Madre Teresa sostenesse che i più poveri del mondo sono i bambini e le bambine forzatamente esclusi dalla nascita. Povertà che diminuisce in ragione dell' avanzamento del capitalismo globalizzato in Cina, in India, in Russia, in Africa e in America latina. Ma fa niente. La povertà è critica, ed è scandalo vero di cui la chiesa si fa, nei suoi modi nuovi, poveri anch'essi, sovrana tutrice in nome del Salvatore e del suo corpo sofferente. Il pauperismo del Logos, uno specialismo che dà luogo a una teologia popolare di natura populista, e a una diffidenza verso il futuro dell' umanità nutrita di pensiero apocalittico spacciato per profezia e spiritualità. Mi sbaglierò, ma è tutto questo che di Francesco piace, e piace troppo. Ed è il piacere triste della chiesa che si arrende, io preferisco il Papa che mette allegria e spande gioia con il suo stile, ma la testimonianza di cultura, la vera laicità come dimensione moderna, la capacità di funzionare come contraddizione sociale, questa manca. O mi manca, se volete. Ora vedremo che cosa combineranno in settembre, ottobre, al Sinodo su sesso e famiglia e matrimonio, dopo il viaggio di Francesco nell' insidiosa America che non conosce e non ama. Speriamo che non tratti il clero che governa novanta milioni di cattolici di quel grande paese con lo stesso tratto burbero che ha dedicato al movimento più laico, più politico, più intensamente missionario e caritatevole del Novecento, il movimento di don Giussani. Va bene che sinistra e destra non sono categorie della chiesa, va bene che come diceva Henri de Lubac al Papa si ubbidisce e basta, virtù eroica, alla fine. Perché "è forse negare il cerchio mostrare che esso ha un centro? è forse distruggere il corpo affermare che esso ha una testa?", diceva il grandissimo gesuita della nouvelle théologie, e il Papa è il centro del cerchio cristiano cattolico e la testa della chiesa in vicaria del Cristo, è il colore della Colomba perfetta, è con sant' Ignazio "il padrone di tutta la messe di Cristo". Non pretendo dai cattolici quel che non sono tenuti a dare, pretenderei dai laici, che si sono scatenati contro le mie laiche devozioni di illuminista senza boria e non giacobino, di essere un poco meno trionfalisti quanto al biennio di popolarità e successi intra ed extra ecclesiali del nuovo Pontefice. La loro devozione è adulazione. La bellezza del verso e l'intensità dello spettacolo non si misurano dallo sbigliettamento. Lo spartito conta, la musica è tempo, e il tempo, come dice Francesco, è superiore allo spazio. Lui intende dire che la storia umana e la metastoria cristiana sono fatte di processi, che la tradizione è un processo, e sia, ma varare il dogma dell' antidogma, togliere al mondo, sia pure per riconquistarlo, il piacere dell' inibizione, della comunione nella verità, ecco, mi pare una cosina piuttosto spregiudicata, un po' giornalistica, poco motivata spiritualmente e teologicamente. Ma scusate, i teologi, specie se tedeschi e specialisti del Logos, se poi anche filosofi non ne parliamo, sono esclusi dal nuovo orizzonte. In bocca al lupo.

Pag 2 Un pontificato drammatico, ma lasciamo perdere gli indici di gradimento di Matteo Matzuzzi Due anni con Francesco, parla il vaticanista John Allen

Roma. "Ripercorrendo ciò che abbiamo vissuto negli ultimi due anni, dire che questo papato è drammatico è dire poco". John Allen è considerato il principe dei vaticanisti statunitensi. Già tra le firme principali di National Catholic Reporter, è passato al Boston Globe e ha dato vita al portale Crux. Da dieci giorni è nelle librerie, edito da Time Books, il suo "The Francis Miracle: inside the transformation of the Pope and the Church", ("Il miracolo Francesco: dentro la trasformazione del Papa e della chiesa"). Un libro "sul papato, non sul Papa", chiarisce subito Allen. Un papato, appunto, drammatico: "Consideriamo l'enorme reazione globale ai suoi primi giorni di pontificato, le interviste che ha dato e l'intenso dibattito che queste hanno scatenato. E poi i sinodi, i viaggi, i trasferimenti di personale, l'Evangelii Gaudium. A volte pare di aver vissuto un pontificato ventennale in solo due anni". Naturalmente, "dipende da ciascuno valutare se questo 'dramma' sia stato buono o cattivo. I sondaggi ci dicono che in giro per il mondo una grande maggioranza di cattolici e non cattolici è dalla parte di questo Papa, ma c'è una minoranza determinata dentro la chiesa che lo trova destabilizzante ed eccessivamente accomodante verso la secolarizzazione. Ciò che nessuno può negare, però, è che questi anni sono stati tutto tranne che tranquilli". Se poi il consenso verso il carisma di Francesco riesca a riempire le chiese, è un altro discorso: "E' vero che oggi è difficile parlare di un 'effetto Francesco' che si possa misurare. Negli Stati Uniti, un recente studio del Pew Forum non ha riscontrato alcun aumento statisticamente significativo nella partecipazione alla messa o nell' identificazione come 'cattolico' in seguito all'elezione di Bergoglio. In Italia, invece, Massimo Introvigne ha rilevato che metà dei sacerdoti da lui intervistati ha riscontrato un aumento della partecipazione alla messa e alle confessioni. Ci vorrà del tempo per valutarne l'impatto. D' altra parte, in un certo senso non è corretto fare queste statistiche per misurare il successo o il fallimento di un Pontefice. Giovanni Paolo II ha riempito le piazze per quasi ventisette anni, senza però essere riuscito ad arginare la marea secolarizzante in occidente". Quel che appare evidente, continua Allen, è che "in conseguenza della popolarità di questo Papa, la gente sta guardando in modo nuovo il cattolicesimo, il che significa che la chiesa sta vivendo un nuovo momento missionario". Certo, i problemi non mancano e le resistenze sono forti. Lo si è visto bene al Sinodo straordinario dello scorso ottobre, quando vescovi e cardinali si sono accapigliati dentro e fuori l'Aula nuova: "Sembra chiaro che sono divisi su tre punti, e cioè sulla possibilità di riammettere i cattolici divorziati e risposati all' eucaristia, sull'accoglienza delle persone omosessuali e sull'approccio positivo della chiesa nella valutazione morale delle relazioni irregolari, come le convivenze. Non c'è nulla di sorprendente, dato che il cattolicesimo è diviso su queste questioni già alla sua base". Come andrà a finire è difficile dirlo: "La mia previsione è che il prossimo ottobre le divisioni saranno altrettanto intense. Il dramma del Sinodo non sta in ciò che il Papa ascolterà, ma in ciò che lui farà quando i vescovi saranno tornati a casa e lui dovrà prendere delle decisioni". Prima dell'assemblea dell'autunno, Francesco si recherà negli Stati Uniti, il paese dove più intense sono state le critiche al nuovo corso impostato dal Pontefice argentino, fin dalle prime settimane dopo l'elezione del marzo 2013: "L'idea che tutti pensino la stessa cosa è pura fantasia. Qui ci sono 195 tra diocesi e arcidiocesi. Con gli ausiliari si arriva a 240 vescovi, con quelli in pensione a più di 300. In generale, si può dire che la corrente principale della Conferenza episcopale americana è fortemente impegnata sulle questioni pro life, come la lotta contro l'aborto e i mandati sulla contraccezione imposti dall' Amministrazione Obama come parte della riforma sulla salute. Ma è altrettanto coinvolta anche sui temi di giustizia sociale, come i diritti degli immigrati. I vescovi che sottolineano maggiormente le questioni pro life potrebbero essere un po' nervosi per come le cose stanno andando sotto questo pontificato. Detto questo aggiunge il vaticanista del Globe "la maggior parte dei vescovi americani è soddisfatta di Francesco, anche perché francamente quando un Papa è popolare il lavoro del vescovo è infinitamente più semplice. E' più facile raccogliere fondi, andare in tv, visitare le parrocchie, ottenere favori dai politici. Nessuno vuole trovarsi sul lato opposto rispetto al leader religioso più importante del mondo". In ogni caso, l'attenzione dovrebbe spostarsi più sul sud del pianeta, dove entro la metà del secolo vivranno i tre quarti dei cattolici. I fedeli di quelle regioni, Africa e Asia in testa, rivendicano "di essere protagonisti nella vita della chiesa. Sono pronti a un ruolo di guida". A ogni modo, se oggi è interessante parlare di come si sta reagendo alla rivoluzione di Francesco negli Stati Uniti o in Italia, nel lungo periodo questo discorso non sarà più così rilevante. La questione importante sarà capire la risposta nelle Filippine, in Nigeria, in Colombia. E' qui che si sta formando il futuro del cattolicesimo".

IL GAZZETTINO di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 "Il mio pontificato? Potrà essere breve, quattro o cinque anni" di Franca Giansoldati

Il mio pontificato? «Ho la sensazione che possa essere breve. Quattro o cinque anni». Sulla sua morte, considerando il fatto che gode di buona salute, Bergoglio è un po' fatalista e la deve pensare un po' come Ratzinger. «Dio è l'eterno, mentre il tempo è un idolo, quando diventa oggetto di venerazione». Il copyright di questa frase appartiene a Benedetto XVI; venne pronunciata diversi anni fa, tuttavia potrebbe essere stata scritta e pensata dallo stesso Francesco, visto il suo stile spontaneo. Ama la vita ma è pronto ad affrontare il passaggio cruciale consapevole che vi sarà una proiezione eterna, una vicinanza all'amore perfetto. Francesco non si angoscia. Parlando lo ha dimostrato diverse volte. Ciò che teme, invece, è il dolore fisico. Quello sì. Lui stesso ha confessato pubblicamente questo limite. «Non sono coraggioso». Ne ha parlato due volte, in due differenti momenti, sempre rispondendo ad una domanda sul pericolo di divenire un bersaglio dei terroristi islamici. Il momento storico è quello che è, l'allarme resta alto, i rischi sono concreti. Francesco si affida a Dio. «Sarà quel che sarà, l'importante è che se mai dovesse capitare non debba soffrire». L'idea della sofferenza fisica lo sgomenta. Ma non la morte. Quanto alle dimissioni, invece, pur restando all'orizzonte come ipotesi speculativa, non sembrano essere una opzione percorribile. «Farò quello che il Signore mi dirà di fare. Pregare, cercare di fare la volontà di Dio. Benedetto XVI non aveva più le forze, e onestamente, da uomo di fede, umile qual è, ha preso questa decisione. Settant'anni fa i vescovi emeriti non esistevano. Cosa succederà con i Papi emeriti? Dobbiamo guardare a Benedetto XVI come a un'istituzione, ha aperto una porta, quella dei papi emeriti. La porta è aperta, ce ne saranno altri o no, Dio solo lo sa. Io credo che un vescovo di Roma se sente che le forze vanno giù deve farsi le stesse domande che si è fatto Papa Benedetto». La forza d'animo che possiede Bergoglio ha radici antiche, e risale a quando da ragazzo si è trovato di fronte alla malattia, al dolore fisico, alla possibilità di non tornare come prima. A 21 anni gli fu asportato un polmone. A due giornalisti argentini disse: «Furono tre giorni terribili tra la vita e la morte, tanta febbre. Abbracciavo mia madre e disperato chiedevo: ”Cosa mi succede?”. I medici erano sconcertati e lei non sapevano cosa rispondere. La diagnosi indicò una polmonite grave. Avevo tre cisti, la malattia venne controllata, passò un po' di tempo e fui sottoposto ad un'asportazione della parte superiore del polmone destro». Probabilmente questa esperienza lo deve avere segnato. In occasione del secondo anniversario del pontificato, in una intervista rilasciata a Televisa, la tv messicana, Francesco è tornato a precisare che non è sua intenzione lasciare. «Non mi piace pensare a un limite di età per il Papa». Insomma, sarà quel che sarà.

LA NUOVA di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Pentimento e perdono per i peccatori di Orazio La Rocca

Un Giubileo straordinario dedicato alla Misericordia. Papa Francesco sorprende sempre. Nel giorno del secondo anniversario della sua elezione pontificia annuncia, nel bel mezzo delle preghiere penitenziali nella basilica di San Pietro, che a fine anno darà il via al “suo” Giubileo: tema portante, il cavallo di battaglia del suo giovane pontificato, il senso della divina misericordia che Dio Padre ha verso tutti i suoi figli, il senso del perdono reciproco, la gioia di rispondere alle offese con una stretta di mano, ma ancora di più la certezza che ogni peccatore sarà perdonato dalla volontà di Dio a patto che si penta e chieda di essere perdonato. Come già fecero alcuni tra i suoi più grandi predecessori come Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II che indissero giubilei entrati nella storia. Anni Santi universali, dedicati a tematiche come la Redenzione, la Madonna, l’avvento del terzo millennio. Pontefici che attirarono milioni di pellegrini da tutto il mondo (cattolici, cristiani, ma anche credenti di altre religioni, agnostici e atei) a pregare e a meditare sulla tomba di San Pietro. Senza andare troppo indietro nel tempo, basti ricordare le oceaniche adunate del Grande Giubileo del 2000 indetto da un Giovanni Paolo II già minato nel fisico dalla malattia, portato a buon fine da due traghettatori d’accezione, fedeli nocchieri agli ordini di Wojtyla, i cardinali Sergio Sebastiani e , il primo segretario generale della fase organizzativa, il secondo subentrato alla stessa carica per sovrintendere ai mega eventi che furono organizzati a Roma e in Vaticano dalla notte del 24 dicembre 1999 fino alla conclusione dell’anno 2000. Dodici mesi durante i quali a Roma arrivarono a milioni da tutto il mondo con l’appuntamento clou nel giorno del ferragosto 2000 nella spianata di Tor Vergata teatro del giubileo dei giovani per il quale si radunarono intorno alla grande Croce del Giubileo oltre due milioni di ragazzi e ragazze, accorsi entusiasti sulle orme di un anziano pontefice che già faceva fatica a camminare, persino a reggersi in piedi, ma che nelle parole e nei gesti emanava forza, incoraggiamento, fiducia, voglia di vivere. Con papa Francesco eccoci, dopo15 anni a un altro Anno Santo. E questa volta interamente dedicato alla Misericordia, tema non a caso tanto caro a Giovanni Paolo II che nel frattempo è asceso agli onori degli altari prima da beato e poi da santo per scelta e volontà di Benedetto XVI e dello stesso Bergoglio. Wojtyla, infatti, oltre a fare della Divina Misericordia una giornata festiva del calendario liturgico, ha dedicato a questo tema l’opera simbolo edificata proprio in ricordo del Giubileo del 2000, la parrocchia della Divina Misericordia di Tor Tre Teste, in una delle periferie romane, conosciuta in tutto il mondo come la chiesa delle tre vele progettata dal grande architetto statunitense Richard Meier. Interessante a questo punto vedere come papa Francesco intende organizzare quello che sarà destinato a diventare uno degli eventi più caratterizzanti del suo pontificato. Già nell’annuncio ha dato delle indicazioni di massima, rendendo note le date dell’indizione, il 12 aprile prossimo, domenica della Divina Misericordia; dell’inizio, l’8 dicembre 2015 festività dell’Immacolata Concezione, e della conclusione, il 20 novembre 2016, domenica di Nostro Signore Gesù Cristo. Ma interessante sarà anche vedere come il pontefice formerà il Comitato organizzatore alla testa del quale nominerà certamente una figura di sua strettissima fiducia. Dopo di che, il programma degli eventi. «Non credo che ce ne saranno molti e che il Giubileo darà vita a tanti spettacoli, incontri, mega adunate come è avvenuto nel 2000», prevede uno dei più stretti collaboratori di papa Francesco, il cardinale tedesco Walter Kasper. «Sarà un anno di meditazioni, di incontri spirituali, di analisi e di riscoperta del grande valore religioso, umano e civile della Misericordia Divina», puntualizza il porporato.

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

LA NUOVA Pag 1 Università e buone intenzioni di Vincenzo Milanesi

Circola da oltre un mese, anche se per ora semiclandestinamente, un documento alquanto interessante, almeno sulla carta: l’Atto di indirizzo del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca «concernente l’individuazione delle priorità politiche» per il 2015. Il documento sembra configurare un piano di interventi di notevole interesse, e di valenza quasistrategica, per un settore cruciale quale è quello della formazione di ogni ordine e grado. Che Matteo Renzi, anche con il disegno di legge sulla “Buona Scuola”, dimostra di mettere al centro dell’azione del governo. Se si riuscisse a realizzarne per davvero anche solo una parte, sarebbe un buon risultato. Anche perché le priorità individuate sono ben 24, le prime dieci con riferimento alla scuola, le dieci successive all’università e alla ricerca, e le rimanenti alla formazione artistica e musicale, cioè ad accademie e conservatori. Vediamo alcuni punti che riguardano il sistema università ricerca. Il primo testualmente recita: «Semplificare i meccanismi di accreditamento nell’ambito dei processi di valutazione e accelerare le procedure di assegnazione meritocratica delle risorse per consentire alle università politiche di bilancio e di reclutamento autonome». Ma si precisa subito che l’autonomia di bilancio degli atenei deve essere garantita anche «impiegando risorse esterne al Ffo», cioè al fondo di finanziamento che le università ricevono annualmente dal ministero, «per conseguire gli obiettivi che si sono date». Insomma, non pensiate, cari atenei, di poter fare a meno di darvi le mani dattorno per recuperare quattrini in aggiunta a quelli statali, pesantemente ridotti negli anni scorsi. E va bene, naturalmente, ma in astratto. In un sistemaPaese come il nostro, con un sistema produttivo fatto di imprese mediopiccole, quando e là dove ci sono, è davvero… un’impresa l’autofinanziamento degli atenei. Va bene anche quanto aggiunto subito dopo, che cioè «il livello di finanziamento e la libertà di spesa di un ateneo non possono dipendere dalla sua dimensione, dalla sua storia o dalla sua fortuna, ma devono derivare solo dalle sue performance». Peccato che i meccanismi premiali di assegnazione delle risorse sin qui introdotti nella normativa siano stati finora pesantemente “sterilizzati” per non far andare avanti “troppo in fretta” quel processo, necessario e inevitabile, di differenziazione degli atenei all’interno del sistema universitario, proprio sulla base delle rispettive performance. Altro punto prioritario è quello di «favorire e incrementare i processi di ricambio della classe docente, facilitando l’ingresso dei giovani nell’organico docente e ricercatore». Benissimo! L’organico degli atenei è vecchio, si dice. In realtà, oggi le università italiane stanno gestendo, costrette dalle riduzioni dei finanziamenti, un consistente ridimensionamento dei propri organici. Quindi, ben poco si potrà fare senza un piano straordinario di reclutamento con risorse fresche. A meno di non voler avviare un gigantesco processo di “rottamazione” di docenti che, proprio per la scarsità delle risorse da almeno quindici anni a questa parte, sono anagraficamente stagionati anche se sono in gran parte entrati negli organici da pochi anni, vincendo concorsi teoricamente «per giovani studiosi», e quindi alzano l’età media. Ma non sono affatto ancora in età da pensione. È uno dei tanti paradossi del sistema universitario italiano. Che crea una situazione oggettivamente difficile per almeno una generazione di studiosi junior, che restano fuori. Non è l’unico. Un altro punto di estrema criticità è quello della mobilità tra le sedi dei professori, oggi quasi impossibile. Ma questo problema sembra esser stato rimosso dalla coscienza ministeriale anche in questo atto di indirizzo. Internazionalizzazione degli atenei, diritto allo studio per i «capaci e meritevoli», orientamento dei giovani nella scelta dei corsi universitari, sono altri obiettivi definiti come prioritari. D’accordissimo. Ma con quali risorse, se l’investimento del sistemaPaese nelle sue università è tanto sensibilmente inferiore a quello degli altri nostri competitor europei ? Nozze con i fichi secchi, dunque. Nonostante le buone intenzioni del ministero. E si sa che di buone intenzioni...

AVVENIRE di sabato 14 marzo 2015 Pag 2 Passo avanti ma da completare di Enrico Lenzi Scuola, la riforma e il ruolo della politica

Una riforma proiettata nel futuro, con radici ben piantate nel passato. Potremmo definire così la riforma della scuola targata RenziGiannini. Diverse e significative le novità annunciate: i presidi responsabili del team educativo e con possibilità di scegliere alcuni dei loro docenti, l’introduzione dell’organico funzionale per rafforzare l’offerta formativa del singolo istituto, l’impegno nella formazione permanente dei docenti a cui legare parte degli incentivi di merito, l’attenzione per un percorso di studi che 'recupera' materie dimenticate come musica e arte (peccato per la geografia non più rivalorizzata). Misure che riconducono a una sola parola: autonomia, come previsto dalla legge del 15 marzo 1999. Questa è la prima delle due radici a cui la riforma, ora proposta all’esame del Parlamento, sembra volersi ancorare. L’altra è rappresentata dalla legge 62 del 10 marzo 2000 che fece nascere il sistema unico nazionale di istruzione, costituito dalle scuole statali e dalle scuole non statali paritarie e degli enti locali, come recita l’articolo 1 della legge. Autonomia e parità, due facce della stessa medaglia. Ma soprattutto le gambe con le quali la scuola italiana è chiamata a camminare più speditamente. Il provvedimento varato dal governo ha il merito di aver ribadito questi due aspetti, elencando una serie di azioni e scelte che dovrebbero rendere sempre più concrete sia l’autonomia sia il sistema paritario. La vera sfida, affidata da Palazzo Chigi alle Camere, sta proprio in questo: non tanto nel pur importante piano straordinario di assunzioni di docenti per porre fine a un precariato storico – atto dovuto anche alla luce della sentenza europea – quanto gli articoli che disegnano una scuola capace di coinvolgere gli studenti, di offrire loro docenti preparati e capaci, percorsi di formazione aggiornati e legati al mondo del lavoro. Un passo avanti, per quanto ancora incompleto, che merita di essere confermato dal Parlamento. Se l’autonomia è ben evidente nella riforma, per la parità scolastica troviamo un riferimento nell’articolo in cui si parla della possibilità per le famiglie di detrarre le spese sostenute per la frequenza delle scuole del sistema nazionale di istruzione (statali e paritarie). Passaggio piccolo ma importante perché ribadisce il principio sancito nella legge 62. Si è individuato lo strumento della detrazione fiscale – anche se sarebbe stato meglio prevedere un bonus attribuito alle famiglie (utilizzabile anche da quelle incapienti) – ma poi si indicano tetti e percentuali che, alla fine dei conti, permetteranno alle famiglie di recuperare al massimo un centinaio di euro. Un risultato che lascia l’amaro in bocca. Ora, dopo tanti annunci, ci si misura con indicazioni concrete, coraggiosamente offerte alla valutazione del Parlamento e dell’opinione pubblica e per più di un verso seriamente innovative. Dopo quasi vent’anni di riforme e controriforme, la scuola ha bisogno di risposte certe, condivise e, soprattutto, durature. La politica ha il dovere e il potere di avviare una fase davvero nuova.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

CORRIERE DELLA SERA Pag 10 Al “ribelle” Casson le primarie di Venezia di Marco Cremonesi

Venezia. Dopo 10 anni, Felice Casson stravince la sua sfida: è il candidato sindaco del Pd a Venezia. Eppure, per lo stesso Pd, la notizia è meno buona: parte cospicua del partito sosteneva un altro candidato, Nicola Pellicani. Anche il supporto di Sel all’ex magistrato, civatiano, potrebbe essere un’indicazione atipica rispetto al quadro nazionale. Ma lo stesso Casson taglia corto: «Quelle di Venezia sono elezioni amministrative». Per poi aggiungere con un guizzo di buonumore nello sguardo: «La prima telefonata di congratulazioni mi è arrivata dal segretario del Ncd veneziano». Come dire: la maggioranza di governo tiene. I veneziani hanno scelto in modo nettissimo e, Casson lo ripete, «in modo omogeneo sul territorio». Un riferimento alla storica divisione tra mare e terra, Venezia e Mestre. I circa 13mila votanti un dato assai simile a quello del 2010 hanno scelto Casson al 55,6%. Pellicani si ferma intorno al 24%; al terzo sfidante, Jacopo Molina, renziano doc, il resto. Ma in Laguna, le classificazioni nazionali c’entrano poco, anzi nulla. E la prima telefonata a Casson dallo stato maggiore del Pd è della vicepresidente Debora Serracchiani. Umiliata dalle inchieste sul Mose, priva di un’amministrazione sin dal luglio scorso dopo l’arresto del sindaco Giorgio Orsoni, sull’orlo del default finanziario e con i problemi di sempre tuttora irrisolti (turismo e grandi navi, ma non solo), la città più bella del mondo guarda al domani con una scelta che probabilmente darà lavoro ai commentatori. Ironia del destino, la prima sezione ad arrivare è quella di Favaro. Per Casson, non beneaugurante: 50 voti a Pellicani, 35 per lui. Poi, pochi minuti più tardi, tra i sostenitori del candidato sindaco sembra passare un’onda elettrica: «Felice è avanti quasi ovunque». Lui arriva a Mestre intorno alle 21 e va a bagnare la vittoria con i sostenitori, un prosecco al Casa Fortuna. Magistrato dall’80 al 2005, pm in inchieste di prima rilevanza, Casson si era già candidato nel 2005. Cosa che aveva spinto il suo arcinemico, Massimo Cacciari, a ricandidarsi a sua volta. Vincendo al ballottaggio con uno scarto di soli 200 voti. Nel 2015, la storia sembra ripetersi: Cacciari è il (più) grande elettore di Pellicani. Dopo la vittoria, Casson è inclusivo. Ma sull’ex sindaco è gelido: «Non me ne frega niente». Casson era poi stato eletto in Senato nel 2008. Il suo rappresentare una garanzia riconosciuta sul fronte della legalità ha certamente giocato un ruolo. Anche se gli avversari lo hanno accusato di giustizialismo e di essere Mister No rispetto a molti dei temi in campo. Di certo, ripetono in Laguna, sono state primarie vere. E dunque, capaci di dividere. Nicola Pellicani, figlio di Gianni, l’ex vicesindaco Pci di Venezia che fu grande amico di Giorgio Napolitano sembra aver pagato un no degli elettori al vecchio status quo. Animatore del Festival della politica, giornalista, senza precedenti esperienze amministrative, Pellicani ha forse subito il suo mentore, importante ma ingombrante. Cacciari, il filosofo che fu sindaco, è stato infatti il vero destinatario delle cannonate avversarie. Con il terzo sfidante, Jacopo Molina, che lo ha definito «attempato tronista televisivo», appellandosi ai veneziani affinché lo mandassero «a godersi la pensione», magari «ai giardinetti». Pellicani, l’unico dei contendenti senza «precedenti» politici, è passato così come l’uomo dell’apparato: «Lo appoggiano tutti gli ex assessori della giunta Orsoni», non ha mai mancato di sottolineare Casson. Ma chi sarà lo sfidante del candidato del centrosinistra? Non si sa ancora. Anzi, la partita è in alto mare. Di sicuro, si è candidata Francesca Zaccariotto, che in nome della Lega nel 2009 riuscì a strappare la Provincia al centrosinistra. Oggi, però, dalla Lega è uscita. E FI non la sostiene. Quanto al Carroccio, ha indicato il segretario di Unioncamere Gianangelo Bellati. Ma Casson ne è convinto: «Con un centrosinistra unito, vinciamo contro qualunque candidato».

LA NUOVA Pagg 2 – 4 Primarie, Casson fa il pieno di Alberto Vitucci, Francesco Furlan, Mitia Chiarin, Marta Artico e Vera Mantengoli Vince con il 56% di preferenze. Staccati Pellicani al 24% e Molina al 20%. Il senatore guarda avanti: “Se la politica è seria la gente ci crede ancora”. Pellicani, che delusione: “E’ stata sottovalutata l’onda lunga del Mose”. Il Pd: “Voto chiaro, senza spaccature territoriali”

Venezia. Una vittoria schiacciante. In centro storico, dove era favorito. Ma anche in terraferma, nelle roccaforti del suo avversario. Felice Casson è il vincitore delle primarie di centrosinistra 2015. Sarà lui il candidato sindaco che sfiderà gli avversari del centrodestra, delle civiche e del Movimento Cinquestelle alle amministrative del 31 maggio. Il risultato ufficiale arriva a tarda sera dalla centrale operativa di via Cecchini, sede del Pd. Il senatore ex magistrato sbaraglia tutti e sfiora il 56% dei voti (7168), doppiando con ampio margine il suo avversario Nicola Pellicani, fermo al 24,4 (3147), solo 600 voti più dell’outsider Jacopo Molina (2573, pari al 20%). Ne prende tanti in terraferma, dove la maggioranza del Pd in teoria avrebbe dovuto appoggiare Pellicani. Ne prende in centro storico, dove anche Jacopo Molina vince a Burano, Sant’Erasmo e Murano, e supera in alcune sezioni (Cannaregio e San Barnaba) Pellicani, pur non avendo molti sostegni dal Pd. Qualcuno l’aveva previsto, ma non con queste proporzioni. «Adesso ci attende il lavoro più difficile», commenta soddisfatto il vincitore, «vincere le elezioni, rilanciare la città e girare pagina. Un voto importante e omogeneo». Prima dei risultati ufficiali sono arrivate a Casson le due telefonate dei suoi avversari, e anche qualche messaggio da Roma. Risultato che non è mai stato in discussione. Pellicani ha vinto soltanto a Tessera e in poche sezioni di terraferma, arrivando staccatissimo in altre, in particolare a Marghera e in centro storico. Non gli è bastato il sostegno dell’ex sindaco Massimo Cacciari, che si era schierato con lui. E nemmeno quello di molte associazioni della terraferma e di intellettuali che avevano collaborato al suo Festival della politica. Alla fine Casson si è reso la sua rivincita. Forse hanno pesato la sua storia e la sua figura, più conosciuta e popolare degli altri due. Mantenendo un profilo basso, evitando ogni polemica, è riuscito raccogliere consensi anche nelle roccaforti avversarie. I due segretari del Pd Emanuele Rosteghin e Marco Stradiotto commentano, ancora ad urne aperte: «Siamo sicuri che i due che non hanno vinto lavoreranno insieme al partito compatti con il vincitore». Excusatio non petita, quasi a voler scacciare dubbi e sospetti che avevano animato la vigilia. Mal di pancia al centro e da qualche settore delle categorie economiche, evidentemente uscito minoritario, per la candidatura di Casson. Che ha fatto della legalità e della lotta alla corruzione la sua parola d’ordine. E adesso va all’incasso. Anche in terraferma e non soltanto a Marghera dove la popolarità di Casson è ancora alta per le sue inchieste sul Petrolchimico i mestrini hanno preferito lui rispetto al “volto nuovo”, forse ancora poco conosciuto, di Pellicani. I primi segnali di una possibile affermazione del senatore arrivano già a metà giornata. L’affluenza ai 36 seggi allestiti dal Pd è straordinaria, anche superiore a quella del 2010. In mezzo c’è stato lo scandalo Mose, la disaffezione alla politica, il rifiuto dei partiti. Invece veneziani e mestrini vanno compatti a votare. «Buon segno», sorridono Massimo Lanza e Marilisa Capuano, i collaboratori di Casson che in queste settimane lo hanno seguito in lungo e in largo nella campagna elettorale, «vuol dire che non vanno a votare soltanto i fedelissimi del partito». Nel Pd in teoria Casson non dovrebbe avere la maggioranza, che si è schierata con Pellicani. L’affluenza si mantiene alta per tutta la giornata, si attesta in serata sulle stesse cifre di cinque anni fa. Quasi 13 mila cittadini hanno votato alle primarie. Il primo risultato che arriva dalla terraferma fa capire che per Pellicani non è giornata. A Trivignano, area considerata “sicura”, Casson prende quasi il doppio dei voti del suo avversario: 95 a 56. Molina è staccato a 12. Numeri piccoli ma di grande significato. Il trend continua. Casson è in largo vantaggio ovunque, al rione Pertini e alla Bissuola, alla Cipressina anche nel seggio centrale di via Sernaglia. A Catene il rapporto è di 1 a 6. In centro storico, a Cannaregio, Casson supera quota 400, secondo si piazza Molina con 178, Pellicani resta fermo a 49. Sul web si scatenano i commenti sarcastici. «A Mestre volevano un sindaco mestrino? Non sembra». «E cosa dirà Cacciari, inventore di questa operazione?». «Faccio i complimenti a Felice, adesso corriamo uniti per vincere», il primo commento dello sconfitto Pellicani. I sostenitori di Casson fanno festa fino a tarda ora. E adesso si preparano alle elezioni «vere». C’è da scacciare il fantasma agitato dai centristi e anche dallo stesso Cacciari. E da evitare che contravvenendo al patto delle primarie ci possa essere qualche sorpresa. Ovvero un candidato dell’ultima ora che possa correre accanto a Casson. I vertici del Pd lo hanno già escluso, così come gli sconfitti. Da tempo si parla del convitato di pietra Luigi Brugnaro. Il presidente della Reyer che dovrebbe essere messo in campo da chi non vuole ad ogni costo Casson sindaco. Ma è una strada impervia. Non solo per i “conflitti di interesse” evidenti del patron dell’Umana e della Reyer. Ma anche perché non tutto il centrodestra lo sostiene. Francesca Zaccariotto è già in campo sostenuta dalle civiche e da Fratelli d’Italia. «Complimenti a Casson», dice, «sapevo che Pellicani non sarebbe stato il candidato. Ma anche Casson è espressione di quel programma Pd che io contesto». Strategie e tattiche di cui si comincerà a parlare da oggi. Intanto c’è un dato netto e incontestabile per la coalizione. Le primarie del centrosinistra le ha vinte Casson, sfiorando il 60% dei voti. I suoi avversari sono staccatissimi: Pellicani al 24 per cento, Molina al 19. Cinque anni fa le primarie le aveva vinte il cattolico Orsoni, estraneo al Pd, sostenuto dalla maggioranza del partito contro Gianfranco Bettin e Laura Fincato. Adesso il margine di vantaggio del vincitore è ampio. Un segnale preciso, che non lascia spazio a interpretazioni e dietrologie. «Se siamo uniti per il centrodestra non c’è partita», commentava ieri sera sorridente il vincitore Casson nella sede elettorale di via Palazzo brindando con un calice di prosecco.

Venezia. Timido e riservato. Determinato e anche un po’ testardo. Con una lunga storia di “uomo che si è fatto da sé” alle sue spalle. Magistrato di inchieste importanti, senatore, adesso lanciato nell’orbita come candidato sindaco del centrosinistra veneziano. Felice Casson si gode con moderazione, un’ ombra e poco altro la vittoria schiacciante alle primarie. Neanche i suoi supporter più sfegatati avrebbero giocato al lotto questi numeri. Avversari più che doppiati, in qualche caso addirittura travolti da percentuali “bulgare”. Una rivincita importante per il senatore sconfitto per poco più di mille voti da Cacciari nel 2005, che si è visto mettere in campo proprio da Cacciari in gennaio, a candidatura già annunciata il candidato “moderato” sostenuto dalla maggioranza renziana e bersianana del Pd veneziano. Contento? «Felice, sono Felice». Se l’aspettava con queste proporzioni? «Io gioco a calcio e a basket. Quando gioco voglio vincere, possibilmente bene. Sono molto soddisfatto anche della grande partecipazione dei cittadini veneziani a queste primarie. Dopo quello che è successo non era scontato». Un successo importante. «Abbiamo fatto un importante canestro da tre. Ma adesso c’è da giocare la partita vera, il 31 maggio». Le ombre della divisione sono scacciate? Il centrosinistra sosterrà Casson in modo compatto? «Ne sono sicuro. Mi hanno già telefonato Nicola Pellicani e Jacopo Molina annunciandomi la loro collaborazione. Mi ha fatto piacere. Non ci sarà alcun problema di quel tipo». Da Roma ha chiamato qualcuno? «Ho ricevuto molti messaggi importanti di solidarietà dai vertici del partito e del governo, dal sindaco di Roma Ignazio Marino e da molti altri». Quale è stata la chiave di questo successo? «Forse la credibilità delle proposte e anche della mia persona. Mi sono messo in gioco facendo proposte chiare. Era un momento difficile, la gente era schifata della politica dopo lo scandalo Mose e altre vicende. Questo risultato dimostra che alla politica seria la gente crede ancora». Dove le ha vinte queste primarie? «Un dato molto importante è che non ci sono state divisioni tra Venezia e Mestre. I dati sono omogenei sia in laguna che in terraferma. In qualche area come Cannaregio, Castello, Marghera e anche a Mestre i consensi sono stati davvero tanti». Domani cosa farà? Convocherò le prime riunioni con i partiti, gli alleati e i comitati che mi hanno sostenuto, ma anche con i miei avversari di ieri che saranno alleati di domani. Ricordiamoci che ora c’è da impostare la campagna elettorale, quella vera». Ci potranno essere nuove fratture, defezioni? «Non credo proprio. Abbiamo firmato un patto davanti agli elettori. Un programma di massima che tutti condividiamo. Un impegno a girare pagina e a promuovere lo sviluppo». Qualcuno temeva che la sua candidatura non fosse abbastanza forte. «Mi pare che questo voto dimostri un’altra cosa». Alle elezioni di maggio lo scenario potrà cambiare? «No. Se il centrosinistra rimane unito e mette in campo le sue energie migliori non ce n’è per nessuno».

Mestre. La prima riflessione è sul dato dell’affluenza: quasi 13 mila elettori. «Vista l’aria di antipolitica che tira, è un ottimo risultato», spiegano quasi a una sola voce il segretario comunale, Emanuele Rosteghin e il segretario metropolitano, Marco Stradiotto. Poi però bisogna entrare nel merito del voto. «Una vittoria netta, senza spaccature territoriali tra Mestre e Venezia come qualcuno immaginava», dice Stradiotto, con la consapevolezza che il Pd si trova di fronte a una vittoria piena, e non dimezzata, di Felice Casson. Con il rischio che sia più una vittoria di Casson che nel Pd è della minoranza civatiana che del partito. «Non scherziamo», dice Stradiotto, «senza il Pd queste primarie non ci sarebbe mai state. È una vittoria del Pd e di Casson. Con una campagna elettorale nella quale qualche schiaffo c’è stato, è normale, ma a parte i primi giorni non ho visto colpi sotto la cintura, e questo è importante. Come segreteria ci siamo limitati a fare da arbitri. Ora non ho dubbi che tutto il partito, compresi i due candidati sconfitti, lavoreranno per Casson». Dall’incoronazione delle primarie alla sfida elettorale del 31 maggio. C’è chi sostiene che Casson sia capace di scaldare la sinistra, ma non l’elettorato più moderato. «Questo voto ha coinvolto tutta la città, è un segnale importante per tutti», ribatte Stradiotto, «A partire dal confronto nel Pd sono sicuro che Casson saprà dialogare con tutti». Anche perché, come ricorda Rosteghin, «la vera battaglia inizia solo ora, e non deve essere presa sottogamba». Soprattutto l’imperativo è: non fare come Padova, dove alle ultime amministrative l’esito delle primarie non è stato rispettato, e il centrosinistra diviso ha consegnato il municipio all’ex sindaco di Cittadella, Massimo Bitonci. Il centrosinistra nella sfida per Ca’ Farsetti dovrà fare i conti con l’ex presidente della Provincia, Francesca Zaccariotto, e forse il presidente di Umana, Luigi Brugnaro, di cui da giorni si andava sussurrando la candidatura in caso di vittoria di Casson alla primarie. A questo punto Brugnaro dovrà mostrare le sue carte. «Zaccariotto e Brugnaro sono entrambi avversari che meritano rispetto», spiegano i due segretari del Pd, «per noi sarà fondamentale non prendere sottogamba la sfida».

Mestre. A poco più di metà delle schede scrutinate, quando ha capito che i giochi erano ormai fatti, e che anche a Mestre il suo principale bacino di voti era in testa l’avversario, Nicola Pellicani ha preso in mano il telefonino e ha chiamato Felice Casson. «Il risultato è stato netto e inequivocabile», spiegava ieri sera il giornalista, amareggiato, nella sede della sua campagna elettorale, dove ha voluto ringraziare la giovane squadra che la lavorato con lui nelle ultime quattro settimane. Due i fattori che, secondo Pellicani, hanno influito sull’esito del voto. «È stata sottovalutata l’onda lunga dello scandalo Mose che ha influito su un elettorato delle Primarie che è molto radicato a sinistra», riflette, ricordando anche come la sua candidatura sia stata sofferta, maturata con difficoltà all’interno del Partito democratico. «Ho avuto poco tempo per farmi conoscere, anche a Mestre, dove pensavo di avere un risultato migliore. La mia è stata una candidatura civica ma non credo che il partito mi abbia voltato le spalle, è che la struttura del partito non è più quella di una volta». Non c’è stata quella mobilitazione degli elettori che ci si aspettava. E a chi gli chiede se l’appello a suo favore del filosofo Massimo Cacciari, a conti fatti, non sia stato controproducente, come mormorano in tanti nel partito, ribatte che invece «il sostegno di Cacciari è stato importante». E ora che farà Pellicani? «Il centrosinistra deve restare compatto con Casson, metto a disposizione il mio programma e il mio lavoro, che credo resti valido per il governo della città. Personalmente, non so ancora che farò. Ci ragionerò con calma nei prossimi giorni». È probabile tuttavia che Pellicani decida di farsi da parte, rinunciando a un impegno attivo nel centrosinistra in vista delle amministrative del 31 maggio. Sarà invece della partita l’altro sconfitto di questa competizione a tre, l’avvocato Jacopo Molina che ieri sera, a risultati ormai definitivi ha raggiunto la sede del Pd di Mestre, in via Cecchini. «Era stato detto fin dall’inizio che i due sconfitti avrebbero appoggiato il vincitore, e farò fede a questo patto, lavorando per Casson. Onore al merito, la sua vittoria è netta». Il risultato di Molina, ex consigliere comunale, renziano della prima ora, il vero outsider di questa competizione, è andato probabilmente oltre le aspettative. In centro storico Molina è infatti arrivato secondo, racimolando quasi tre voti su dieci, piantando la bandierina sul gradino più alto del voto al seggio dell’isola di Burano. Nel complesso solo 4 i punti percentuali che lo separano da Pellicani. «Quando si perde non si può mai essere soddisfatti», dice, «ma credo che il risultato che ho ottenuto a livello personale, soprattutto in centro storico, dove sono più conosciuto, sia significativo».

Venezia. «Un verdetto annunciato, avevo già detto che non sarebbe stato Pellicani il vincitore. Faccio le mie migliori congratulazioni a Casson. Certo questa partita è stata giocata dai tre candidati tra offese e colpi pesanti e anche se si dice che in politica non c’è alcun rancore, difficile dimenticare quel che si sono detti». Francesca Zaccariotto commenta così la vittoria alle primarie di Felice Casson: «Ora so che c’è dall’altra parte una persona chiara, con idee e programmi lontanissimi dai miei. Del resto io contesto il programma del Pd dopo 25 anni di governo della sinistra, un progetto che contrasto dal mio primo giorno come presidente della Provincia», dice la esponente di centrodestra che si è candidata sindaco a Venezia con la lista civica “Venezia domani”. «A Casson il mio in bocca al lupo», conclude. «Un verdetto come da pronostici», aggiunge Michele Zuin di Forza Italia, vicecoordinatore del partito di Berlusconi, che spiega: «Certo che devono far riflettere quei cinque punti percentuali di differenza tra Molina e Pellicani, cioè uno che ha fatto tutto da solo contro il candidato sostenuto dall’apparato Pd. Fossi Cacciari e il Partito Democratico qualche domanda me la porrei, a questo punto. E tanto di cappello al vincitore, Felice Casson», spiega l’ex consigliere comunale. E ora si attendono le mosse del centrodestra. «Adesso?», continua a spiegare Zuin. «Per noi si apre letteralmente un mondo. La vittoria di Casson ora apre molti scenari perché c’è una parte, anche del centrosinistra, che non lo vuole come sindaco. Parlo non della persona ma del politico e parlo dei moderati. Se il centrodestra saprà stare unito e presentare un candidato davvero votabile possiamo probabilmente farcela». E il pensiero va ovviamente a Luigi Brugnaro. Il centrodestra si riunirà martedì.

Venezia. Il candidato che verrà scelto dovrà pensare prima di tutto ai cittadini e a ripopolare la città. Poi dovrà trovare una soluzione al problema dei flussi turistici e a eliminare i privilegi. Sono queste alcune delle speranze che ieri mattina gli elettori che si sono recati alle urne per le primarie hanno espresso. In alcuni casi, come a Santa Maria Formosa, non c’è stato tempo di aprire la sede che la gente era già fuori. Lo stesso nella sede di Campo San Barnaba che si è riempita all’ora di pranzo con una coda che dal primo piano arrivava in Fondamenta. «Ho 88 anni – ha detto Maria Teresa Franco – e non mi sono mai persa un voto. Sono ancora comunista, credo che il voto dia la possibilità di cambiamento e per questo non mi perdo un’occasione per esprimere la mia scelta». A San Polo una squadra tutta al femminile ha accolto centinaia di persone e di famiglie: «Vorremmo che il prossimo sindaco – hanno detto Anna e Marco Morroni, trentenni, con il piccolo Edoardo – ascoltasse davvero i cittadini e sapesse utilizzare le risorse di questa città senza essere schiavo delle solite categorie che prediligono il turismo di massa». Nelle prime ore della mattina, complice anche il sole e il piacere di una passeggiata, le persone non sono mancate. Il flusso è continuato e, in alcuni casi, da subito si è vista una maggiore affluenza rispetto alle ultime primarie. A San Lorenzo, fino al pomeriggio, si pensava che ci fosse meno gente, ma poi dopo pranzo si sono ripresentate per votare molte persone. «Chi riuscirà a diventare sindaco – ha detto Adriana Monsselesan – avrà una grande lavoro da fare. Io mi auguro che i cittadini vengano ascoltati e che non si permetta la realizzazione di grandi opere».

Mestre. C’è chi è indeciso, ma la maggior parte sa chi vorrebbe come sindaco a fine maggio. Se il buon giorno si vede dal mattino, ieri già dalle prime ore, in tanti si sono recati a votare per la scelta del candidato di centrosinistra. Qualcuno aveva la tessera ma non il documento, qualche altro l’inverso, ma alla fine chi voleva recarsi ai seggi, c’è riuscito. Kamrul Syed, portavoce della comunità bengalese del centro, faceva il giro dei seggi per aiutare i suoi connazionali, oggi cittadini italiani, ad esprimere il proprio voto. «È ora che anche noi partecipiamo alla vita politica spiega», facendo capire che votare è un diritto e dovere ed è importante esserci, anche se non rivela il volto del candidato scelto. In via Sernaglia di bengalesi e stranieri più in generale, se ne sono visti diversi. Qui ha votato Nicola Pellicani, attorno a mezzogiorno. Giorgio e Tommasina, due anziani di Carpenedo, sono andati a compiere il proprio dovere a villa Franchin, baciata da una bella giornata di sole: «Io voto Pellicani», ha spiegato la moglie, «ed ho convinto mio marito alla fin fine». Anche Lorenzo Bottazzo, mestrino doc, ha espresso la preferenza per Pellicani: «Credo sia la scelta migliore per Mestre». La terraferma insomma, per molti ha bisogno di un sindaco mestrino. In tanti hanno votato accompagnati dal proprio fedele “amico a quattro zampe”, come un signore che spiega chiaramente uscendo dal municipio di via Palazzo: «Il cane non si esprime, io invece ho optato per Casson». «Non dite a mio padre che mi avete visto», dice una donna uscendo, «lui non è d’accordo con tutto questo trambusto e con questa campagna elettorale». C’è chi non dice chi ha votato e chi lo afferma apertamente. Tanti i giovani ai seggi, con figli al seguito.

Pag 13 Musica e tanti slogan contro le “sentinelle” Protesta dei centri sociali per contrastare la veglia dei conservatori contrati alla legge sull’omofobia

Una quarantina di “sentinelle” in piedi da una parte, una trentina di giovani dei centri sociali dall’altra, in mezzo venti uomini in divisa e borghese tra poliziotti e carabinieri. Musica da una parte e silenzio dall’altra ieri pomeriggio alle 17, in piazza Ferretto dove le “sentinelle in piedi” avevano organizzato una manifestazione che loro chiamano “veglia” e i centri sociali una contromanifestazione. Slogan e sfottò gridati ad alta voce dai giovani, mentre dall’altra un’ora di silenzio e di letture varie, tra cui i libri di Bruno Vespa. E tutto davanti a un migliaia di persone che si sono divertite ad assistere al confronto filato via liscio, senza incidenti. Chi scende in piazza per la veglia decide per il silenzio contro le parole. Mentre chi organizza le contromanifestazioni, accusandoli di omofobia e intolleranza di genere, grida il proprio dissenso con proteste, slogan e qualche volta lancio di uova. Quasi sempre c’è musica. Un muro contro muro tra chi difende i diritti della comunità Lgbt (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) e vede come una prova di civiltà la prima legge per punire l’omofobia e chi difende i valori della famiglia tradizionale e non accetta nessun cambiamento. Come “formazione permanente” le Sentinelle in piedi hanno scelto la lettura condivisa e di gruppo. Un’ora in silenzio, a due metri di distanza uno dall'altro. Tutti girati nella stessa direzione. Senza segni di appartenenza, se si escludono i segnalibri griffati. I nemici giurati che spingono alla mobilitazione sono le battaglie per l’adozione da parte di coppie omosessuali, la fecondazione eterologa, le unioni civili e soprattutto lo spauracchio del progetto di legge Scalfarotto: allargare l'intera legge Mancino che condanna l'istigazione all'odio e alla violenza a omofobia e transfobia, cercando di tutelare la comunità Lgbt vittima di discriminazioni, insulti e botte.

Pag 14 Quarto d’Altino: ladri in chiesa di notte, via arredi sacri e offerte di Marta Artico I due banditi, ripresi dalle telecamere, in azione alla vigilia delle cresime. Rubati pissidi, calici ed elemosine. Lo sdegno di parroco e sindaco

Quarto. Ladri in chiesa sabato notte, alla vigilia delle cresime. Un furto odioso quello ai danni della chiesa di San Michele, addobbata a festa per la giornata di ieri, in cui i ragazzini della comunità hanno ricevuto il sacramento della confermazione. I malviventi hanno forzato la porta della sacrestia attorno alle due e mezza. Dopo aver violato la sacrestia in cerca di soldi, rotto i mobiletti e messo tutto sottosopra, si sono recati in chiesa. Hanno spaccato le cassettine delle elemosine, per fortuna non piene, hanno rubato quattro calici usati per la funzione, di cui uno antico, hanno portato via le pissidi, ossia i piattini che servono per distribuire l’eucaristia, tutti oggetti dall’alto valore sacro. Ieri l’amara scoperta da parte della comunità e del parroco don Gianpiero Lauro, impegnato nella giornata di festa. «Le telecamere hanno registrato i ladri», spiega il sacerdote, «sono due, di cui uno più corpulento. Purtroppo prima o poi sapevamo che dovevano arrivare, o almeno lo temevamo, visto quello che si sentiva in paese. Adesso dovremo pensare a un altro allarme, oltre a quelli che abbiamo, anche per la chiesa». «Siamo amareggiati», aggiunge don Lauro, «il gesto ha creato disagio e scompiglio». «Esprimo il mio sdegno e la mia indignazione», commenta il sindaco Silvia Conte, «per l’oltraggio a un luogo sacro e alla comunità altinate. Confido che le forze dell’ordine, anche grazie alle riprese delle telecamere, possano presto rintracciare i responsabili. È vitale per la convivenza civile e pacifica che i criminali scontino la pena. Le norme in vigore non aiutano, anzi. Ho chiesto al prefetto un incontro per analizzare la situazione e condividere ulteriori azioni per contrastare il fenomeno. I dati ufficiali indicano il nostro territorio come un’area relativamente poco critica rispetto alla situazione del Veneto, in cui questi reati sono in aumento negli ultimi anni. Ma questo episodio conferma che non dobbiamo abbassare la guardia. Ognuno di noi può svolgere il ruolo di “sentinella di quartiere” contattando il 112, il 113 o i nostri agenti in caso di movimenti sospetti». Le forze dell’ordine hanno avviato le indagini sul furto in chiesa. «Speriamo che gli occhi elettronici abbiano fatto il loro lavoro», dice Lewis Trevisan, «visto quanto sono costati, vorremmo servissero ad inchiodare i colpevoli o almeno ad individuare l’auto».

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg 2 – 6 Casson sposta il Pd a sinistra di Elisio Trevisan, Melody Fusaro, Vettor Maria Corsetti e Alberto Francesconi “Un segnale di svolta. Voto contro l’apparato”. Pellicani: “Ho avuto poco tempo”. Molina: “Ho conquistato le isole, potrei fare il prosindaco…”. Domenica ai seggi tra scrutatori in prestito e un falso allarme brogli. Zaccariotto: siamo agli opposti

Felice Casson ha vinto le primarie ed è il candidato sindaco del centrosinistra, a due mesi e mezzo dalle elezioni amministrative. Ha vinto con il 55,62 per cento dei voti, lasciando a Nicola Pellicani e a Jacopo Molina il rimanente 44,38%. Il centrosinistra ha dato un messaggio fortissimo alla città, ma soprattutto al Pd che ufficialmente aveva deciso di sostenere il giornalista Nicola Pellicani. E anche al filosofo Massimo Cacciari che ha proposto e fortemente voluto Pellicani. Nei commenti a caldo dei social network c’è anche una terza interpretazione, e cioè che sia un messaggio pure per i renziani e per la politica del premier Matteo Renzi. Felice Casson, civatiano, lo ha smentito seccamente («Renzi non c’entra e, correttamente, non si è nemmeno messo in mezzo») ma l’impressione che la scelta veneziana sia per una sinistra diversa da quella che prospetta Roma è forte. Non a caso Francesca Zaccariotto e altri esponenti del centrodestra locale hanno commentato che «ora le cose sono chiare, si è ricreato il polo rossoverde e noi lavoriamo per creare l’alternativa». Anche da Roma è giunta una voce, di solidarietà e congratulazioni per Felice Casson, quella del sindaco Ignazio Marino. Altrettanto non a caso il senatore ha subito detto due cose importanti: la prima è che bisogna chiudere «l’era dell’apparato, della politica vecchia e poco trasparente», e questo l’ha detto alla sinistra, la seconda è che occorre «essere aperti a tutte le categorie e le forze cittadine», e questo l’ha detto a tutti, e in particolare al centro e alla destra. Dal voto, oltre alla inequivocabile richiesta di voltare pagina con gli aspetti mai digeriti propri del gruppo dirigente che ha guidato questa città per almeno vent’anni, e che ha avuto in Massimo Cacciari uno dei suoi maggiori esponenti, giunge un messaggio molto forte, e viene dal numero degli elettori: il centro storico di Venezia, con i suoi poco più di 50 mila abitanti, ha quasi superato in partecipazione gli oltre 200 mila residenti della terraferma. La disaffezione che teme Casson e l’intera sinistra è evidentemente molto maggiore nella terraferma che si sente la cenerentola di Venezia, e non a caso dove è più forte la richiesta di autonomia. Soprattutto su questi elementi i dirigenti del Pd locale dovrebbero mettersi a discutere. Ieri pomeriggio, invece, quando i conteggi parziali dei voti davano addirittura più elettori in centro storico e isole che in terraferma, in via Cecchini nella sede del Pd c’era chi elucubrava sul fatto che se alla fine avesse vinto Casson con un numero di voti simile a quelli ricevuti nel 2010 da Giorgio Orsoni, allora sarebbe apparso un candidato depotenziato. Felice Casson ha preso il 55,62%, Orsoni era passato con il 46% ma allora aveva contro Gianfranco Bettin, che si fermò al 35%, oltre a Laura Fincato lasciata al 18%. Nicola Pellicani e Jacopo Molina, fermati da Casson rispettivamente al 24,42% e al 19,96%, ieri sera prima ancora di conoscere i risultati definitivi hanno telefonato all’ex magistrato dicendogli di essere pronti a lavorare assieme. È un altro forte segnale, di unità del centrosinistra, che viene da queste primarie ma che dovrà essere confermato dalle truppe, dalla base che ancora ieri, nel giorno del voto, era in trincea con le baionette in canna. Al di là del fair play dei tre candidati, in questi mesi i contrasti tra i sostenitori sono stati piuttosto accesi. Ieri ai seggi i pro Casson dicevano di riconoscere chi andava a votare per Pellicani dai piumini e dai pantaloni attillati, e dalle sneaker ai piedi. Se le scarpe da ginnastica eleganti dividono i due popoli della sinistra, il senatore ne avrà di strada da fare per riunirli.

Il 24 gennaio del 2010 fu l’avvocato Giorgio Orsoni a vincere le primarie del centrosinistra e a diventare lo sfidante del candidato del centrodestra, Renato Brunetta, che ci aveva già provato una volta a diventare sindaco di Venezia, nel 2000, ma venne battuto al ballottaggio da Paolo Costa. Orsoni vinse le primarie con il 46% dei voti superando il leader verde Gianfranco Bettin (35%) e Laura Fincato, ex socialista e nel 2010 nel Pd (18%). L’avvocato, candidato di Pd e Idv, aveva preso 5959 voti, contro i 4582 del sociologo, appoggiato da Verdi, Rifondazione comunista e varie espressioni della società civile: quindi poco più di 1300 voti li divisero. Orsoni, poi, diventò sindaco al primo turno con 75 mila e 403 voti (51,13%) contro i 62.833 di Renato Brunetta che si fermò al 42,60%. Le preferenze conseguite alle elezioni portarono Gianfranco Bettin in Giunta come assessore all’Ambiente, appoggiato dalla lista "In Comune" che diventò il vero sostegno della politica di Orsoni, mentre l’ago della bilancia fu l’Udc dell’altro assessore (alla Mobilità) Ugo Bergamo.

Alle 21.07 Nicola Pellicani dalla sua sede elettorale in galleria Matteotti gli ha telefonato per fargli i complimenti per la vittoria, ben prima della fine dei conteggi. In attesa, Felice Casson aveva anche Jacopo Molina che, subito dopo Pellicani, gli ha fatto le congratulazioni. «Tutti e due mi hanno detto mettiamoci a lavorare assieme. E questo è il più bel messaggio che ho ricevuto». Il senatore ha dunque vinto le primarie del centrosinistra con un distacco siderale nei confronti degli altri due concorrenti, e i segretari del Pd lo avevano capito già poco dopo le otto di sera, a seggi appena chiusi, quando era arrivato il primo dato, quello di Asseggiano dove Casson aveva stravinto. «Già ma adesso comincia la fase due, la più impegnativa. E a Nicola e a Jacopo ho risposto, certamente, dobbiamo lavorare tutti assieme per dare un governo a questa città». Casson, dopo un brindisi col prosecco alla trattoria Fortuna nel cuore di Mestre, ha spiegato che questa mattina si incontrerà subito con tutti quelli che lo hanno sostenuto, Bettin, Caccia, Bonzio... e già nel pomeriggio con chi aveva invece aiutato Pellicani e Molina, e con gli stessi protagonisti». C’è da mettere in piedi la macchina elettorale e Casson, che le primarie le ha condotte senza sede e senza lustrini, dovrà darsi da fare. «Certo ma mi conforta il segnale forte che mi hanno dato queste primarie. È triplice: questo voto dice che c’è grande voglia di unità, di cambiamento e una netta richiesta di ripartire». È un segnale di forte insofferenza nei confronti di ciò che è stato fino ad oggi. «Di una politica che deve cambiare. Dopo le difficoltà seguite allo scandalo Mose e quelle legate al bilancio, aggiungendoci pure il difficile rapporto con le categorie cittadine, il centrosinistra ci ha detto che ora bisogna voltare pagina. Ed è quello che mi sentivo dire ad ogni incontro che ho avuto in terraferma come in centro storico». Il voto è anche un messaggio diretto al Pd. «È contro l’apparato, contro una politica vecchia e poco trasparente. L’assenza del contatto con la città ha pesato molto e deve finire. D’ora in poi dobbiamo essere aperti a tutte le categorie e le associazioni del territorio, altrimenti la disaffezione avrà la meglio». Non è un segnale anche per il Pd nazionale di Renzi? «No, Renzi, com’è corretto, non è intervenuto e nemmeno poteva». Non si aspettava di vincere così nettamente. «Quando gioco voglio sempre vincere, e se vinco bene è il massimo, anche se comunque in queste settimane ho avuto il sentore che ovunque c’era disponibilità nei miei confronti». Ora l’obiettivo è battere il centrodestra. «Se il centrosinistra non fa casini, non avremo nessun problema e la telefonata di Pellicani e Molina è già un ottimo segnale in questa direzione». Cosa vuole dire agli elettori. «Grazie, e ho capito che con questo voto ci vogliono dire che hanno ancora fiducia nella politica».

C'è chi stempera la tensione aggiornando la schermata dei risultati e chi, come Pellicani, non ha più unghie da mordere. Tanti vengono a trovarlo. Lo salutano, vogliono fare due chiacchiere e lui risponde cordialmente. Ha un piccolo momento di cedimento solo quando chiede a un fotografo di lasciarlo in pace. Alle 21.07 appoggia la penna e riprende in mano il cellulare. «Felice, ciao. Volevo congratularmi con te: il risultato è inequivocabile. Io sono qua e saremo insieme per vincere le elezioni vere». La delusione nella sede di galleria Matteotti arriva già con i primi dati. Sono i primi, ma sono quelli di Mestre. La sua Mestre. A leggerli di volta in volta sono le sue assistenti, sedute alla scrivania mentre Pellicani, defilato, continua a ricevere chiamate. Ci sono Marghera, ok, e lì bisognava solo difendersi. Anzi, 100 voti tondi sembrano un buon segnale. Ma poi arriva la Cipressina, Chirignago. Quando leggono Mestre centro in sala cala il silenzio. «Una vittoria netta di Casson commenta Pellicani . Sul mio risultato hanno pesato due fattori: la ferita del Mose e la candidatura partita tardi». Serviva più tempo. Lui in politica non ci era mai entrato e per farsi spazio servono mesi. «In quattro settimane non puoi farti conoscere» continua. Ma non vuole buttare tutto: «Il mio programma resta e rimane ricco nel merito. Il centrosinistra deve restare unito e io metto il mio progetto a disposizione». Il suo impegno in prima persona. però non si sa. «Ma quello per la città resta e nulla toglie al mio sostegno alla vittoria di Casson». Clima diverso in casa Molina che arriva carico in via Cecchini seguito a ruota dal suo staff di giovanissimi. La vittoria a Murano, Burano e Sant'Erasmo li esalta e si scherza sul "prosindaco delle isole". A momenti sembrava possibile il sorpasso e il secondo posto.«L'ho mancata per poche centinaia di voti» dice mentre sistema la camicia nei pantaloni, dopo la giornata piena di emozioni. «Un risultato eccezionale, conquistato senza avere una sede, con meno soldi e soprattutto senza apparato. Abbiamo ottenuto quasi 2600 voti solo sulla nostra forza politica, mia e di tutti i miei assistenti, amici e volontari». Il resto è nei fatti. Arriva il suo assistente e Molina gli chiede «Quanto abbiamo fatto?». Allo sguardo stupito del suo interlocutore chiarisce: «Non io da solo, io e Casson! Siamo al 76 per cento? Ed è così che intende proseguire e che si vede nei prossimi due mesi. «La mia campagna elettorale va avanti conclude . In caso di vittoria avrei voluto che i miei sfidanti mi sostenessero quindi io farò lo stesso. Ci vuole una proposta politica, per il 31 maggio, che vada a intercettare tutti i cittadini. le primarie hanno dato un'indicazione forte: bisogna superare i vecchi schemi della politica, il centrosinistra con me deve guardare anche fuori dai partiti».

Alla fine il popolo del centrosinistra si è fermato a 12.929 voti, 74 voti in meno delle primarie del 2010. Niente a confronto con i 16 mila voti del 2007 (sui 42.192 votanti della provincia) alle primarie che decretarono Valter Veltroni segretario nazionale, o con i 18 mila che nel 2009 portarono Luigi Bersani alla guida del Partito democratico. D’altro canto, appena tre mesi dopo (e questo probabilmente fu uno dei motivi per del calo repentino), gli elettori scesero a 13.003. Il 24 gennaio del 2010, infatti, scelsero Giorgio Orsoni che si confrontava con Gianfranco Bettin e Laura Fincato. A gennaio del 2010, oltre alla stanchezza da primarie (due in appena tre mesi), dissero che sul calo del 40% rispetto al 2009 influì anche il freddo intenso che tenne a casa molta gente, e il poco tempo a disposizione per prepararle: allora, infatti, nel giro di un mese vennero organizzate e si votò. L’altro dato che salta all’occhio è la differenza tra centro storico e isole e la terraferma. Se nel 2010 alla fine andarono a votare 5.566 persone nel centro storico e nelle isole, e 7.437 in terraferma, questa volta la terraferma si attesta a 6.662 contro i 6.267 di centro storico e isole. Venezia con i suoi poco più di 50 mila abitanti ha, dunque, quasi raggiunto, quando a votanti, gli oltre 200 mila residenti della terraferma. Complessivamente le schede valide sono state 12.888 di cui 6245 in centro storico e 6643 in terraferma; 26 nulle (11 in centro e 15 in terraferma); 15 bianche (11 in centro e 4 in terraferma). I RISULTATI PER ZONE Il numero dei votanti per Felice Casson sono stati equilibrati, in terraferma è arrivato al 55.70 per cento (3700 voti), contro il 55.53 del centro storico e isole (3468). Molto più marcato, invece, il divario fatto registrare da Pellicani, che in centro storico si è fermato al 14.64 per cento (914 voti), contro il 33,61 della terraferma (2233). Un risultato che ha consentito al terzo sfidante, Jacopo Molina, di piazzarsi al secondo posto nella città d’acqua, con il 29,83 per cento (1863 voti), contro il 10.69 della città di terra (710). Spulciando qua e là nei vari seggi, emerge il dato di Casson che al seggio di via Sernaglia, dove è andato a votare Pellicani, ha conquistato 320 voti, contro i 180 del giornalista e i 70 di Molina. E ancora: a Bissuola 348 voti per Casson, 175 per Pellicani e 42 per Molina, al seggio del Terraglio 92 voti a Casson, 53 a Pellicani, 24 a Molina. A Pellestrina meglio Pellicani con 89 voti contro i 71 di Casson e i 18 di Molina. IL CASO LIDO Anche al Lido e Pellestrina vince Casson. Nell'unica municipalità governata dal centrodestra, il senatore ha confermato l'exploit delle Primarie, ottenendo il 51,7 % dei consensi pari a 594 voti. Primarie aperte, quelle del Pd, e una conferma si è avuta proprio al Lido e Pellestrina, in cui a votare, nei tre seggi, si sono visti anche diversi esponenti di un elettorato tradizionalmente legato al centrodestra. Tutto regolare ai seggi, uno dei quali alla Giovanni XXIII ha aperto anche mezz'ora in anticipo fin dalle 7.30. Molina con i suoi 283 voti e ha superato anche Pellicani fermatosi a 271 preferenze.

Ore 20 in punto. Nel quartier generale del Pd in via Cecchini c'è un insolito silenzio. Insolito per una serata di primarie. C'è qualche fuga di voti. Il seggio volante di Sant'Erasmo, in cui stravince Molina (18 voti per l'avvocato e solo 2 a testa per Casson e Pellicani). In corridoio si scherza: in testa Molina. Poi arriva quello di Tessera: in testa Pellicani, con 80 dei 110 voti. La proverbiale rondine, però, non fa primavera ed è chiaro quando arrivano i seggi di Catene e Trivignano. Tutto come previsto, Casson in vantaggio e il senatore prende le distanze. Alle otto e venti il lungo corridoio inizia a riempirsi e manca solo "il matematico". Il rito vuole che il calcolo diventi ufficiale solo dopo essere passato per la tastiera del segretario provinciale Marco Stradiotto, che si siede alla sua scrivania alle 8.20, in camicia bianca e giacca blu a quadrettoni. Accanto a lui il segretario comunale Emanuele Rosteghin, che continua a riceve telefonate e a commentare soddisfatto l'ottima affluenza. A comunicare i risultati della Cipressina, incredibilmente favorevoli al senatore, ci pensa il civatiano Gianluca Mimmo che non riesce a trattenere un sorriso di soddisfazione: «Un seggio indicativo» dice, rivolgendosi a Rosteghin adesso aspettiamo Chirignago». «Non abbiamo preso neanche la Cipressina commenta una sostenitrice di Pellicani vince Casson anche lì, siamo fuori». E il risultato, alle 20.25 è già dato per scontato. Inizia la diaspora dei sostenitori di Pellicani, in pellegrinaggio dal quartier generale di via Cecchini fino alla sede del loro candidato, in galleria Matteotti. La delegazione di Casson non si smuove fino all'ultimo, qualcuno ha già la testa alla festa, ma ci si trattiene. La spallata definitiva arriva alle 21: Casson vince anche in via Sernaglia e Mestre Centro. Per l'ex magistrato la festa può cominciare. Mezz'ora dopo Casson arriva e in corridoio scatta l'applauso. Poi i baci e gli abbracci. «Non soffocate il candidato sindaco grida Stradiotto che ci serve».

Pag X Tradizionalisti e Rivolta, alta tensione in centro di Filomena Spolaor Blitz dei centri sociali alla manifestazione per tutelare la famiglia “classica”

Due fronti, uno contro l’altro. E in mezzo polizia e carabinieri in tenuta antisommossa. Domenica pomeriggio ad alta tensione in piazza Ferretto, con i sostenitori della famiglia tradizionale (duecento "Sentinelle in piedi" per ribadire che l'unica famiglia è quella naturale composta da mamma, papà e figli) fronteggiati da un centinaio di giovani dei centri sociali. Con un diluvio di insulti pesanti, mentre le forze dell’ordine hanno faticato non poco per tenere i due gruppi a distanza, evitando ogni contatto. Il sitin delle "sentinelle" è durato circa un'ora: in silenzio, stando in piedi in file parallele a un metro di distanza e leggendo un libro. Ma la tensione si è alzata velocemente, con i ragazzi dei centri sociali che hanno sparato la musica a tutto volume, accusando il gruppo di difensori della famiglia tradizionale di "appartenere all'Isis, al fondamentalismo, al Medioevo". «Per noi l'amore non ha una sola dimensione» ha detto Michele Valentini del Rivolta, che voleva gettare al rogo i libri letti dalle "sentinelle" che negavano la diversità. Questi ultimi, una rete di liberi cittadini "apartitica e aconfessionale", si erano riunite per chiedere al Parlamento di non approvare il Ddl Scalfarotto, che vuole introdurre i reati di omofobia e transfobia senza definirne i presupposti, più i disegni di legge per consentire le unioni civili tra persone dello stesso sesso e introdurre l'educazione "Gender" obbligatoria nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Poco distante, in piazzale Candiani, c’era anche la contromanifestazione del collettivo "Stonewall Venezia Lgbt": una settantina di ragazzi con i polsi legati e la bocca coperta con una "X" di nastro adesivo nero e, sul petto, i cartelli "femmina sbagliata", "gay", "invertita". «A scuola le coppie gay sono già prese di mira» hanno raccontato alcune ragazze della Rete studenti medi.

Pag XI Ladri di notte pure in chiesa: “Ora il prefetto ci ascolti” di Lorenzo Baldoni Quarto d’Altino: entrati dalla sacrestia. Rubati calici, oggetti sacri e le offerte

Stavolta non hanno preso di mira le abitazioni già martoriate, ma la chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo a Quarto d'Altino. Ieri notte verso le 2.30 ignoti sono riusciti a scassinare la serratura della porta della sacrestia e, una volta entrati, hanno dapprima aperto un mobile per poi rompere le serrature dei tabernacoli e delle cassette delle offerte per le candele. Sono riusciti a portare via quattro calici, tre moderni ed uno più antico del valore complessivo di 600 euro, i chiodi delle croci, altri oggetti dell’oratorio e le cassette delle offerte. Nella velocità con cui hanno agito hanno rovesciato tutte le particole. Le telecamere hanno ripreso due uomini proprio davanti al portone che però hanno agito a volto coperto. Ieri mattina, nel corso della messa delle 9.30, il parroco don Gianpiero Lauro prima degli avvisi della settimana ha spiegato i fatti ai fedeli, molti dei quali già sapevamo dell'accaduto: «Vanno a rubare nelle case ed ora sono venuti anche in chiesa». Ieri a Quarto doveva essere una giornata di festa in quanto, nel pomeriggio, numerosi ragazzi altinati hanno ricevuto il sacramento della cresima. Nei giorni scorsi i ladri avevano preso di mira l'abitazione di un anziano in via De Gasperi, ma l'abbaiare del cane aveva messo in fuga i malviventi. «Esprimo il mio sdegno e indignazione per il furto nella chiesa di San Michele a Quarto d'Altino, per l'oltraggio ad un luogo sacro e a tutta la comunità altinate commenta la sindaca di Quarto, Silvia Conte . Desidero esprimere solidarietà al parroco don Giampiero e confido che le forze dell'ordine possano presto rintracciare i responsabili. Ho già anticipato al prefetto la richiesta di un incontro per analizzare la situazione del nostro territorio e condividere ulteriori azioni per contrastare questo fenomeno. I furti nelle abitazioni e ancor più questo in chiesa, sono reati odiosi, che minano fortemente il senso di sicurezza delle persone e rischiano di creare allarme sociale. I dati ufficiali forniti dalle Forze dell'ordine indicano il nostro territorio come un area relativamente poco critica, ma questo episodio conferma che non dobbiamo abbassare la guardia e continuare a presidiare il territorio».

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 15 marzo 2015 Pag I E venne il giorno del giudizio. Anche per Cacciari di Tiziano Graziottin

Cosa resterà al candidato che stasera diventerà l’uomo del centrosinistra per Ca’ Farsetti? Dopo due mesi di veleni, colpi bassi, proclami a favore di telecamera e sgambetti a luci spente, la prima vera sfida sarà ricompattare l’elettorato mandando in prima battuta messaggi distensivi e inclusivi. Non tanto verso i vertici dei comandi avversari (dall’aria che tira non ci saranno poltrone per i generali sconfitti), quanto verso i loro simpatizzanti, verso chi vota non per calcolo ma per idealità. Una campagna così piena di livori potrebbe spingere i delusi martellati allo sfinimento dalla propaganda amica ad andare al mare nel giorno delle elezioni "vere" o peggio ad ascoltare sirene appollaiate su altri lidi. Certo, si dirà, non è nel dna dei democratici, ma non è affatto scontato che gli ultras visti in campo finora smettano di urlare adesso. Quel che tutti sussurrano ma nessuno ammette è che a molti potrebbe risultare indigeribile il frutto amaro del sostegno al candidato dileggiato fino al giorno prima. E per il cavallo del centrodestra, in quel caso, si apriranno praterie interessanti. Certamente, tra i fatti eclatanti della fase che ha preceduto le primarie, c’è stata la conferenza stampa come sempre ad alto impatto mediatico di Massimo Cacciari. Il quale, pur avendo esternato più volte il suo pensiero e il suo appoggio a Pellicani, nella settimana decisiva è tornato in campo per inquadrare in una prospettiva più ampia il voto di oggi, quasi si trattasse del "giorno del giudizio" su vent’anni di centrosinistra. Una rivendicazione carica d’orgoglio da parte del padre nobile (padre padrone per le anime critiche) del Pd veneziano, che marchia a fuoco le primarie odierne: innegabilmente una eventuale sconfitta di Pellicani rappresenterebbe a questo punto una mazzata alla storica leadership del filosofo e forse la fine di un’epoca. Il voto di oggi dunque, per queste e altre ragioni, conta eccome, così come peseranno sul postprimarie anche le proporzioni della vittoria dell’uno o dell’altro. Peraltro potrebbero presentarsi ai seggi, per varie ragioni, pure molti cittadini che il 31 maggio alle urne si guarderanno bene dal votare Casson, Pellicani o Molina; elettori di centrodestra che torneranno all’ovile, anche se attualmente dalla loro parte regna ancora sovrana l’incertezza, per non dire il caos. Le primarie del centrosinistra infatti finiscono per essere condizionanti anche per chi sta nell’opposta stanza dei bottoni, come volevasi dimostrare.

LA NUOVA di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Il voto per una bella sfida di Roberto Bianchin

È una bella giornata. No, non in senso meteorologico. Nel senso della civiltà, della democrazia, della libertà. È una bella giornata quando puoi scegliere tu chi mandare a governarti. Quando non devi subire scelte imposte da altri. Quando hai la possibilità di far sentire anche la tua voce. Quando puoi contare. Perché anche un solo voto, il tuo, può essere decisivo. È una bella giornata quella delle primarie del centrosinistra a Venezia, per scegliere il candidato sindaco che a maggio si dovrà confrontare con il suo avversario, chiunque sarà, di centrodestra. È una bella giornata perché inizia il percorso che darà un governo a una città da troppo tempo non governata e per troppo tempo mal governata. Ed è un percorso che parte con i migliori auspici, dal momento che tutti e tre i candidati hanno promesso che del loro prossimo governo non farà parte alcun esponente di quello caduto sullo scandalo delle tangenti per le dighe. Felice Casson, Jacopo Molina, Nicola Pellicani li scrivo in ordine alfabetico sono candidati di non disprezzabile fattura. Intelligenti, preparati, affidabili. Li avesse il centrodestra, che non può nemmeno sceglierseli, perché non fa le primarie e se li trova catapultati dall’alto in base ad altre e non sempre limpide alchimie, si leccherebbe i baffi. Non a caso i tre moschettieri veneziani, come li ha battezzati il frizzante Beppe Gioia, volto storico di mamma Rai, raccolgono consensi anche fuori dal recinto del centrosinistra. A dimostrazione di quanto bisogno abbia la città di riconoscersi in chi la governerà. La voglia di parlarsi a quattr’occhi, di discutere apertamente, profondamente, sui temi concreti della città, lontano dalle retoriche, dagli slogan, dalle battute, e dai tempi strozzati degli insopportabili dibattiti televisivi, la voglia insomma di tornare a far politica sul serio, è rispuntata in questa campagna. L’ho avvertita nitidamente nei tre dibattiti con i moschettieri che il circolo dei Sette Martiri del Pd di Castello mi ha invitato a condurre. Suppongo che sarà così anche nel quarto, quello di lunedì, per commentare i risultati insieme ai moschettieri. Quando conoscere il numero dei votanti sarà ancora più importante di sapere chi ha “vinto”. Perché i due che avranno “perso” continueranno comunque a fare politica. Mentre un’eventuale perdita di votanti sarebbe molto più grave, perché segnerebbe un ulteriore distacco dei cittadini dalla politica, e farebbe suonare un nuovo, pericolosissimo, campanello d’allarme. È per questo che una soglia minima di dodicimila votanti, pari a quella delle primarie di cinque anni fa, non sarebbe da buttare. Come è vero che arrivare a quindicimila sarebbe un successo, e scendere sotto i diecimila un fallimento. Di questi tempi moderni, è vero, i votanti sono sempre di meno. In tutti i Paesi. Ma non è una buona ragione. Ha sempre torto chi non va a votare. E poi non si può lamentare. Perché lascia che siano altri a decidere al posto suo. E siccome non hanno ancora inventato un sistema di governo migliore delle democrazie, con tutti i loro difetti, perché fuori della democrazia altro non c’è che la dittatura, alla fine si vede che votare conviene. Anche alle primarie. Perché sono, comunque, il massimo della democrazia. In America le fanno da un secolo e mezzo. La prima volta fu in Pennsylvania, il 9 settembre 1847. Da noi solo da dieci anni. La prima volta fu nel 2005, tre milioni di votanti, vinse Romano Prodi. Certo, tra brogli, minacce e voti comprati, vedi Campania e Liguria, c’è qualcosa da sistemare. Servono delle regole, valide per tutti. Ma oggi è una bella giornata. Comunque vada, Casson, Molina e Pellicani hanno già vinto. Tutti e tre.

Pag 21 Biennale, città in affitto. Offerti oltre duecento spazi di Enrico Tantucci In vista della Mostra Arti Visive, tutti mettono a disposizione luoghi espositivi. Per il grande business ci sono privati, istituzioni, Comune e perfino la Curia

Tutta la città «in affitto» per la Biennale Arti Visive ormai prossima, anticipata a maggio per farla coincidere con l’Expo milanese. Impossibile elencare tutte le istituzioni e i privati che "offrono" spazi espositivi in città in occasione della Mostra internazionale d’arte. La Bacheca della Biennale che da qualche anno "smista" parte delle richieste mettendo in contatto Paesi privi di padiglione o organizzatori di mostre con chi offre spazi espositivi segnala attualmente circa oltre 200 luoghi offerti in città per questa Biennale. C'è di tutto. Da una falegnameria di Castello tra gli ultimi a proporre i suoi circa 300 metri di spazio alla sala della bocciofila della Giudecca. Da alberghi come il Molino Stucky, il Giorgione, l’Hungaria al Lido a scuole come il liceo artistico Michelangelo Guggenheim nell’ex convento dei Carmini. Anche il Comune non si sottrae al business, offrendo ad esempio spazi come la Sala del Camino alla Giudecca o il Palasport Gianquinto e i Musei Civici propongono in extremis la Sala delle Quattro Porte del museo Correr. Si "offre" persino l'aeroporto Nicelli del Lido. Moltissimi naturalmente i palazzi privati o gli edifici religiosi riconvertiti, come l'Abbazia di San Gregorio, e una moltitudine di ex chiese. Non mancano i musei statali, come Palazzo Grimani. Proposto come area mostre persino lo Squero per le gondole di San Trovaso, di proprietà dell'Ente Gondola. Numerose, naturalmente, anche le gallerie private e tutte le principali istituzioni culturali, dall'Istituto Veneto, all'Ateneo Veneto, alla Fondazione Querini Stampalia, alla Fondazione di Venezia. Il boom immobiliare di Biennale e dintorni. Il motivo di questa superofferta è nel ritorno economico, che per molte istituzioni o private può rappresentare un’autentica boccata d’ossigeno. E i prezzi sono già schizzati in alto rispetto alla Biennale di due anni fa, perché la domanda supera l'offerta e c'è ancora chi sta cercando spazi espositivi. Si va da un minimo di diecimila euro al mese (da moltiplicare per sei, la durata della Biennale) per un semplice magazzino, ai 40 mila euro (che diventano così 240 mila per tutta la durata), per un palazzo, per il solo uso dello spazio, senza calcolare la guardianìa, che si porta via altri 67 mila euro e gli allestimenti, ormai costosissimi, anche perché le ditte veneziane che li fanno sono oberate di lavoro. Più economiche le chiese, ancora affittabili a circa 1015 mila euro al mese e infatti anche la Curia _ a corto di fondi per la manutenzione si è gettata nel business e la chiesa di San Lio, piuttosto che quella di Sant'Antonin, la chiesetta di San Samuele e persino alcune sale del Museo del Diocesano diventeranno per la Biennale spazi espositivi, per non parlare della Basilica di San Giorgio Maggiore. C'è ormai con un giro d'affari legato alla grande kermesse e alla miriade di mostre che si aprono nello stesso periodo che supererebbe i i 25 milioni di euro. Ogni Paese senza padiglione, per partecipare alla Biennale trovando un proprio spazio espositivo spendeva due anni fa _ tra affitto, guardianìa, catering, trasporti delle opere, spese di soggiorno, pubblicità _ da un minimo di 100 mila a un massimo di 500 mila euro. Ma il listino ora va aggiornato al rialzo. Ma a Venezia è tutto caro per le mostre e gli stessi taxi da prenotare per i giorni della vernice sono praticamente introvabili. Si capisce come ormai per la città in chiave turistica la Biennale Arte sia veramente un grande affare.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Il lento ritorno alla normalità di Roberto Ferrucci Le primarie in laguna

Da quasi un anno, i veneziani – molti, se non addirittura tutti, in modi differenti – girano per la città, la vivono e la pensano dovendo gestire dentro di sé una sempre più pesante sensazione di inadeguatezza, di precarietà continua. È un fardello nient’affatto evidente, tanto meno tangibile. Si tratta di un sentimento, di una percezione del proprio luogo che mai avevamo sperimentato prima d’ora, né mai avremmo immaginato, un giorno, di attraversare, di provare in modo così netto e prolungato settimana dopo settimana, da quasi un anno, noi veneziani ci siamo sentiti confinati dentro a un caos indefinibile che, oggi, ha raggiunto livelli di sopportazione non più gestibili. Abbiamo scoperto che vivere in una città senza più guida, senza una testa, è non solo impensabile ma, soprattutto, sgradevole. Sgradevole al di là di tutto, al di là di chi ci sia alla guida, non fosse perché non hai nemmeno qualcuno da maledire quando le cose non vanno. La giornata di oggi, però, questa domenica 15 marzo 2015, segna finalmente un’inversione. Le primarie del Pd per la scelta del candidato sindaco di Venezia, al di là di chi le vincerà, rappresentano il primo tassello che ritrova finalmente la sua giusta casella (mentre resta ancora aperta la partita del candidato del centrodestra), il primo passo ufficiale verso un ritorno – lento, lentissimo – a quella giusta normalità necessaria a ogni città, grande o piccola che sia. E il veneziano, esausto, tira – un anno dopo – il primo, agognato, respiro di sollievo. Un accenno di normalità di una città che, dopo lo scandalo Mose, avrebbe dovuto andarci subito alle urne, senza far vivere ai propri cittadini questa inedita esperienza di «smarrimento istituzionale». Le cose incominciano a tornare al proprio posto, dunque, il che non significa – ogni veneziano lo sa bene – la soluzione immediata di tutti quei mali che questi mesi di vuoto hanno acuito. Con l’insediamento della nuova giunta ci liberemo dunque di quel lungo sentimento di inadeguatezza e di vuoto, un sentimento sgradevole, certo, ma dal quale ciascuno di noi, politici e cittadini in egual misura, dovremmo aver imparato finalmente una lezione ovvia ma sempre ignorata: quanto sia necessaria la nostra partecipazione attiva alla vita e alla gestione della città. Un impegno da parte di tutti potrebbe cambiarlo davvero il rapporto cittadiniistituzioni. Perché forse è davvero venuto il momento di finirla di lamentarci e basta, ma di darci da fare tutti insieme per la nostra città. Che, fra l’altro, pare sia la più bella del mondo. Ne siamo mai stati consapevoli?

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8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 1 “Io, a 19 anni colpita dalla sclerosi, grido a Renzo: non lasciarti morire” di Mariasole Antonini Appello di una ragazza di Mestre al prof di Udine

“Non mi piace l’idea di morire, anche un secondo di vita è vita”. Leggendo gli articoli su di te, mi sono soffermata molto su questa frase: “Anche un secondo di vita è vita”. E chi meglio di te o di un’altra persona sofferente può dirlo? Io lo urlo al mondo ogni giorno. Mi chiamo Mariasole, ho diciannove anni, e da quattro ho imparato a convivere con un’inquilina scomoda, la Sclerosi Multipla. Come dici tu, la Sclerosi Multipla è una malattia neurodegenerativa infiammatoria, ma siamo nel 2015, la scienza fa grandi passi, e non siamo lontani dal giorno in cui medici e scienziati diranno «ce l’abbiamo fatta!». Io ci credo e ci spero. Quando ho scoperto questa malattia ero disperata e pensavo che la mia vita non potesse far altro che andare in discesa. Non vedevo futuro. La depressione mi ha giocato brutti scherzi. Ma siamo arrivati a oggi, e nonostante ci siano momenti difficili nelle mie giornate, sono contenta di alzarmi alla mattina, vedere il viso dei miei famigliari felici di avermi ancora qui con loro, vedermi pronta ad affrontare la vita, qualunque sia il suo colore. Ho scoperto che ogni vita ha un senso e che va percorsa insieme a tanta gente nel suo intricato labirinto. Sono sicura che anche tu puoi ritrovare il sorriso, non mollare, aiutaci ad affrontare la nostra battaglia, abbiamo bisogno anche di te. Caro Renzo, come ti ha detto Silvia Furlani, «a vivere ci vuole coraggio. Solo chi lotta va avanti». Ti prego, credile, perché è cosi. Un abbraccio.

Pag 15 Un “inno alla vita” per il prof con la sclerosi di Lisa Zancaner

Ormai può muovere soltanto il braccio destro, ma anche questo movimento isolato gli provoca terribili dolori. Ormai gli antidolorifici non gli fanno alcun effetto. «Non si può essere costretti a soffrire», dice Renzo Ferro, 50 anni, professore di matematica, affetto da sclerosi multipla, che, dalla Quiete di Udine dov’è ricoverato ha lanciato una richiesta d'aiuto per poter andare in Svizzera a morire con l'eutanasia. Ha già iniziato lo sciopero della fame e fra qualche giorno intende sospendere anche l’idratazione. In Friuli sabato è andata a trovarlo l’ex maratoneta Silvia Furlani, malata di sclerosi da trent’anni, per invitarlo a non mollare e cercare di dissuaderlo, ricordandogli che «a vivere ci vuole coraggio». E in questo senso vanno anche le parole di Mariasole Antolini, 19 anni, veneziana, responsabile giovani dell’Aism Venezia, che, come dice lei stessa, da tempo convive con una inquilina scomoda, la sclerosi multipla. Antolini ha voluto indirizzare a Renzo Ferro un "inno alla vita". Quello di Ferro non è, però, un caso isolato. Sono numerose le persone che da tutta Italia scelgono questa soluzione estrema, come dice il segretario dell'Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato: «Io stesso racconta ho accompagnato una donna in Svizzera e l'Associazione riceve diverse chiamate per ottenere informazioni sulla procedura da seguire». Cappato ricorda che ogni anno nel Paese sono un migliaio i malati terminali che si suicidano. Se è pur vero che una dichiarazione anticipata di trattamento e l'eutanasia sono due cose diverse, «entrambe rimandano alla responsabilità di scelta della persona». «Nei Paesi in cui l'eutanasia è stata legalizzata afferma Cappato c'è stata una presa di coscienza da parte dei medici. In Italia, se guardiamo alla politica che rifugge questi argomenti, siamo lontani da un esito, diverso invece il discorso se guardiamo all'opinione pubblica». Di eutanasia e di fine vita si discuterà il 19 marzo in Parlamento, ma difficilmente si arriverà a una legge considerando che all'interno degli stessi partiti le posizioni sono diverse come ammette il capogruppo di Forza Italia del consiglio comunale di Udine, Vincenzo Tanzi. «La vita è importante, bisogna dunque guardare alla sua sacralità, è un bene da preservare». Questa è la linea degli azzurri, seppure non di tutti, ma al di là dell'eterno dilemma "eutanasia sì" "eutanasia no", nel caso di Renzo Ferro, Tanzi chiama in causa le istituzioni e le sanità, le une con il dovere «di ascoltare le ragioni di un uomo malato», l'altra che «non deve abbandonare le persone fino a spingerle a gesti così disperati, ma deve prevenire certe situazioni. Che nessuno sia andato almeno ad ascoltarlo conclude è un fatto grave, dov'è la correttezza delle istituzioni?».

IL GAZZETTINO di domenica 15 marzo 2015 Pag 15 “Portatemi a morire in Svizzera” di Lisa Zancaner Da Udine l’appello di Renzo Ferro, completamente paralizzato per la sclerosi multipla

Una richiesta d'aiuto a morire. Arriva da Udine, dalla clinica La Quiete, dove sei anni fa morì Eluana Englaro, il grido di dolore di Renzo Ferro, 50 anni, professore di matematica, ricoverato nella clinica friulana con la sclerosi multipla. Dal suo letto, quasi completamente paralizzato, Ferro non accetta di «vivere così» e lancia un appello a chiunque possa aiutarlo ad arrivare al confine tra Italia e Svizzera per poter andare a morire, perché il suo ultimo desiderio è sottoporsi all'eutanasia in un istituto elvetico dove questa pratica è legale. «Sono un sostenitore dell'eutanasia, non si può essere costretti a soffrire». Anche se la sua richiesta non è condivisa dalla moglie, che non se la sente di lasciarlo andare e, pur rispettando le sue intenzioni, cerca di convincerlo a ripensarci. C'era anche Ferro all'ingresso della Quiete sei anni fa a manifestare durante gli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro, «Stavo dalla sua parte. dice Oggi sono immobilizzato a letto e mi sento bruciare dal dolore». Un calvario, il suo, prima di arrivare a una diagnosi che alla fine è suonata come una sentenza inappellabile. Cinque anni fa i primi segnali della malattia e un lungo pellegrinaggio da un ospedale all'altro con il desiderio di non lasciare nulla di intentato. Nel frattempo ha continuato a lavorare, come aveva sempre fatto negli ultimi 32 anni, finché ha potuto. Poi l'addio anche alla scuola, ai suoi ragazzi, la malattia non gli ha più permesso di insegnare. Da oltre una settimana rifiuta il cibo ed è intenzionato a sospendere anche l'idratazione finché non troverà qualcuno disposto a condividere le sue ragioni, quelle di una vita «in una lenta agonia con un'incredibile sofferenza». Non ha figli, Renzo Ferro, ha perso entrambi i genitori. E nonostante le richieste dalla moglie è sempre più convinto di morire che di vivere. Ieri per dissuaderlo si è mossa anche l'ex maratoneta Silvia Furlani, affetta da 30 anni dalla sclerosi multipla, che è andata a trovarlo: «Non arrenderti gli ha detto stringendogli l'unica mano che Ferro riesce a muovere ci vuole più coraggio a vivere che a morire». Ma Renzo non ci sente: vuole decidere della propria vita. E’ riuscito a ottenere una prima risposta positiva da un istituto svizzero dove viene praticata l'eutanasia. Saranno poi, se Ferro ci dovesse arrivare, una commissione medica e uno psicologo a valutare lo stato psicofisico per dare l'ok definitivo al trattamento letale. Il suo caso potrebbe riaccendere il dibattito sull'eutanasia, una polemica che il deputato di Per l'ItaliaCentro Democratico, Gian Luigi Gigli, trova però fuorviante. Più opportuno, a suo avviso, focalizzare l'attenzione sulla necessità e sul valore dell'accompagnamento ai pazienti. Dietro la decisione di Ferro di rifiutare il cibo, per il deputato ci possono essere stati di abbandono, solitudine o depressione. Non prende posizione sull'eutanasia, invece, Amato De Monte, direttore del dipartimento di anestesia e rianimazione del Santa Maria della Misericordia che ha accompagnato Eluana Englaro nel suo ultimo viaggio, «ma precisa siamo su due campi completamente diversi: Eluana era in stato vegetativo, non poteva parlare, esprimersi, Ferro, invece, è vigile e consapevole delle sue scelte». A tendere una mano a Ferro è il radicale Marco Cappato, promotore della campagna Eutanasia legale.

Sei anni fa, il 9 febbraio, alla Quiete moriva Eluana Englaro dopo 17 anni trascorsi in un letto in stato vegetativo. Una lunga battaglia quella del padre Beppino Englaro per far sospendere l'alimentazione e l'idratazione che tenevano in vita Eluana che dal 1994 si trovava in una casa di cura a Lecco. Solo nel 2008 tra il clamore mediatico internazionale e prese di posizione tra chi appoggiava il padre e chi difendeva il diritto alla vita, arrivò l'autorizzazione a staccare il sondino. Eluana non morì a Lecco a ma Udine dopo tre giorni di sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Se la Chiesa insegna laicità di Stefano Allievi Le moschee negate e la legge

Che siano gli uomini di chiesa a insegnare ai laici la laicità non è che uno dei molti paradossi che stanno intorno alla questione dei luoghi di culto musulmani in Italia. Da un lato abbiamo comitati di cittadini, o partiti politici, che promuovono petizioni contro le moschee, e concretamente fanno di tutto per renderne difficile l’attività. Dall’altro abbiamo chi ricorda che la legge è uguale per tutti, e che i diritti di libertà religiosa, a norma di costituzione, sono universali e inalienabili. E’ quanto successo anche a Brognoligo di Monteforte, un paesino del veronese dove è scoppiata l’ennesima polemica intorno alle moschee. E dove il parroco, don Mario Costalunga, si è schierato, costituzione alla mano, contro una petizione che chiedeva la chiusura del già esistente centro islamico. L’intervento via twitter di Salvini ne ha fatto, come spesso succede, un caso nazionale. E’ dal 2000, con il primo caso, scoppiato a Lodi, che comitati di cittadini, o partiti – con spesso in prima fila la Lega – si scagliano contro i progetti di costruzione di moschee, o l’utilizzazione di edifici come luoghi di culto musulmani. La scusa è il rispetto della legge, e dei piani regolatori: ma c’è un’evidente applicazione selettiva della normativa e dell’azione politica. Sono decenni che testimoni di Geova, pentecostali, sikh, musulmani, in qualche caso anche cattolici, utilizzano capannoni industriali, depositi, negozi, come luoghi di culto, in maniera impropria, difforme dal motivo per cui sono stati costruiti (del resto lo fanno anche asili, palestre, e associazioni della più diversa natura). Per il semplice fatto che costano meno, e si trovano in zone dove recano meno disturbo. Ma, come noto, le polemiche ci sono solo a proposito dei musulmani (gran parte delle oltre 120 moschee del Veneto, e delle quasi 800 d’Italia, sono in questa situazione). Ora, se c’è qualcosa di cui l’Occidente può essere legittimamente fiero, è la sua capacità di sancire, proteggere e progressivamente allargare la sfera delle libertà degli individui. All’origine di queste libertà vi è la tutela delle libertà religiose, e in particolare la protezione dei diritti delle minoranze, dato che le maggioranze, avendo il potere, si tutelano da sé. Universalismo (il fatto, banale ma che è utile ripetere, che la legge è uguale per tutti) e quindi pari dignità e parità di trattamento, tutela delle minoranze, costruzione di uno spazio laico a tutela di tutti, sono quindi principi cardine dello spazio pubblico occidentale. Se li neghiamo, andiamo contro i nostri principi fondativi, non solo contro i legittimi diritti altrui. Questione delle moschee nemmeno dovrebbe sussistere. Il fatto che spesso le si contesti non fa diventare diritto un torto. Si chiama discriminazione, e si può nel caso ricorrere al giudice, che non può che applicare le leggi (come già avvenuto con diversi ricorsi al Tar del Veneto, vinti dai musulmani contro ordinanze di chiusura da parte dei sindaci, da Verona a Cittadella). Non c’è petizione o referendum che tenga: perché, molto semplicemente, i diritti delle minoranze non possono essere soggetti all’arbitrio delle maggioranze. C’è poi una questione di banale convenienza. Ormai tutti, a cominciare dal ministero degli Interni, sono convinti che sia meglio che i musulmani abbiano i propri luoghi di culto, il più possibile visibili, aperti, trasparenti, alla luce del sole, in collaborazione con le forze di polizia e le istituzioni locali. Perché questo favorisce integrazione, reciproca conoscenza e controllo sociale: proprio ciò che noi tutti vorremmo e a parole auspichiamo. Le moschee, in questo senso, non sono parte del problema, ma della soluzione. Lo scopo delle polemiche invece è un altro, e il merito della questione c’entra poco. Il fatto è che protestare contro di esse, con poca spesa, offre visibilità e canalizza consenso: e qualcuno che ci guadagna, da questi conflitti, c’è sempre. Se la politica si presta a questo gioco, non stupisce che sia la Chiesa cattolica a svolgere il ruolo di guardiano della civiltà giuridica e di salvaguardia dei principi, non solo del buon senso religioso, che non svolgono altri.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I devoti della dea tangente di Gian Antonio Stella La legalità può attendere

Cadono le braccia a vedere i travagli del governo, della maggioranza, delle Camere, nel portare finalmente in porto la legge anticorruzione. Mille volte promessa, mille volte rinviata. Mese dopo mese. Settimana dopo settimana. Un tormentone. Che vede improvvisi scoppi di frenesia («subito in Aula!») a ogni ondata di arresti per l’Expo, il Mose, la mafia alla vaccinara... E nuove pennichelle parlamentari appena ogni scandalo va in ammollo. Ammollo che ha finito per scandalizzare anche il presidente del Senato Pietro Grasso, nonostante ben conosca tempi, riti e liturgie. Eppure la guerra ai «devoti della dea tangente» che «portano a casa pane sporco», per dirla con papa Francesco, non è (solo) un problema etico. Lo ha recentemente ripetuto l’ambasciatore a Roma John Phillips: «A causa della lentezza della giustizia civile e della corruzione», il valore degli investimenti diretti degli Stati Uniti da noi «è meno della metà di quelli in Francia e un quarto di quelli in Germania». L’Italia è dietro Belgio, Spagna, Svezia e Norvegia. Nonostante sia la seconda economia manifatturiera europea. Una bacchettata non nuova. Nella scia della strigliata, anni fa, dell’allora ambasciatore Ronald P. Spogli, che cercò invano di spiegare l’importanza delle regole. Per non dire della denuncia del Censis sul crollo del 58% degli investimenti esteri. E dell’ultimo atto d’accusa del governatore Ignazio Visco sul «deficit di reputazione» che ci sarebbe costato in pochi anni oltre 16 miliardi. Quattro volte l’Imu sulla prima casa. La Banca Mondiale, come ha ricordato il Sole 24 Ore , lo ha detto più volte: una vera guerra alla corruzione «efficacemente aggredita porterebbe a un aumento del reddito superiore al 2,4% con effetti benefici anche sulle imprese che crescerebbero del 3% annuo in più». E Dio sa quanto ci servirebbe. Tesi ribadita dall’economista Alfredo Del Monte su lavoce.info : «La corruzione influisce sulle principali variabili che determinano il livello del debito». Esempio? «Tende a far crescere i livelli di spesa pubblica a causa del maggior costo dei servizi e beni acquistati». Sarà un caso se le spese correnti dello Stato, come spiegava ieri una tabella della Cgia di Mestre, sono cresciute negli ultimi quattro anni (a dispetto di tutti gli sforzi e i sacrifici fatti dagli italiani) di 27,4 miliardi? Ma le ascoltano, lassù, le relazioni dei procuratori regionali della Corte dei conti? «Assistiamo oggi a un incontrollato aumento della corruzione a tutti i livelli e verifichiamo un’evasione fiscale che, nonostante gli sforzi per combatterla, costituisce un dato di fatto incontestabile e dalle dimensioni allarmanti», ha detto giorni fa il presidente dei giudici contabili piemontesi Giovanni Coppola. E un po’ tutti, dal Veneto alla Calabria, hanno ripetuto la stessa identica cosa. Il tutto a conferma dei dati di Transparency: restiamo sessantanovesimi (vergogna...) nella classifica dei Paesi più virtuosi ma il miglioramento di chi ci stava dietro come la Bulgaria e la Grecia fa sì che in Europa diventiamo ultimi. Una deriva angosciante. Avvenuta soprattutto, piaccia o no a certe comari del garantismo peloso, negli anni successivi a Tangentopoli. Quando si passò dal delirio spiritato per Tonino Di Pietro alla quotidiana demolizione dell’impianto repressivo. I numeri dicono che tra il ‘96 e il 2006, secondo l’Alto Commissariato per la lotta alla Corruzione (poi sciolto nel 2008), le condanne per corruzione precipitarono da 1.159 a 186, quelle per concussione da 555 a 56, quelle per abuso d’atti d’ufficio da 1.305 a 45 e così via... Un alleggerimento sul fronte di corrotti e corruttori che ha portato ai dati che già i lettori del Corriere conoscono: abbiamo un decimo dei «colletti bianchi» mediamente detenuti nelle altre carceri europee e un trentacinquesimo di quelli imprigionati in Germania. Possiamo, in questo contesto, accettare nuovi rinvii di norme tanto attese? E non ci provino, a tirar fuori una leggepannicello spacciandola per qualcosa di serio. La guerra contro un cancro qual è la corruzione richiede proprio quella durezza che pare imbarazzare una parte del mondo politico. Sarebbe difficile spiegare ai cittadini, ad esempio, perché l’agente sotto copertura, mandato a smascherare i delinquenti, possa essere usato per spacciatori, terroristi, trafficanti d’armi, criminali organizzati e pedofili ma non per i corrotti. Come se far sparire alcune decine di miliardi l’anno fosse un reato minore...

Pagg 2 – 3 Due kamikaze all’ora della messa. Poi la folla lincia gli altri assalitori di Lorenzo Cremonesi e Gian Guido Vecchi Padre Louis della Caritas: “Li ho visti sparare sui miei fedeli mentre gli agenti guardavano la tv”. Il Vaticano apre all’uso della forza per mettere fine alle persecuzioni

I due kamikaze imbottiti di esplosivo cercano di entrare nelle due basiliche, poste a poche centinaia di metri l’una dall’altra. Vengono però fermati dai volontari armati, che a turno si occupano di garantire la sicurezza della comunità cristiana. Circa duemila fedeli si trovano negli edifici per attendere alla messa della domenica mattina. Visto l’impossibilità di proseguire, i due terroristi si fanno saltare in aria all’ingresso. Le deflagrazioni sono potenti e ravvicinate. Sul terreno restano una quindicina di morti. I feriti sono decine, si parla di un’ottantina. Tanti bambini, donne, anziani. Almeno trenta versano in pericolo di vita. Le immagini, riprese con i cellulari subito dopo, mostrano scarpe insanguinate, borse, vestiti, brandelli di corpi, rottami. Alcuni testimoni spiegano che al momento dell’attacco un numero imprecisato di uomini armati ha aperto il fuoco sulla folla terrorizzata. Due di loro vengono subito bloccati, disarmati, picchiati, in effetti linciati, quindi i loro cadaveri sono dati alle fiamme. Nel frattempo migliaia di cristiani inferociti scendono in piazza, inscenano manifestazioni improvvisate, attaccano alcune stazioni degli autobus, se la prendono con il governo e la polizia che non li difendono. Altri cristiani protestano con violenza a Karachi, Rawalpindi, Islamabad. La richiesta è una sola: «Vogliamo protezione, vogliamo sicurezza. Perché il governo non ci garantisce contro i terroristi?». Accadeva ieri mattina a Lahore, città nel cuore del Punjab, la regione nel centro del Pakistan dove la presenza cristiana è più radicata. Le due basiliche colpite sono quella cattolica di San Giovanni e la protestante Chiesa di Cristo, si trovano nel quartiere di Youhanabad, dove vivono almeno centomila cristiani (una delle comunità più numerose dell’intero Paese). «Se i terroristi fossero riusciti ad entrare, il numero delle vittime sarebbe stato molto maggiore», dicono i responsabili delle due comunità. Poco dopo il gruppo «Jamaat ul Ahrar», una componente dell’universo talebano, rivendica la responsabilità dell’operazione. Condanne dure contro l’attentato giungono intanto dal governo di Islamabad. «Questo è un attacco contro tutto il Pakistan. Prenderemo i terroristi responsabili», dichiara il premier Nawaz Sharif, che però è criticato duramente proprio dai maggiorenti cristiani che lo accusano di fare troppo poco, o nulla, contro il montare degli estremisti islamici e delle violenze talebane. Si fa sentire anche la voce di Papa Francesco, che ieri durante l’omelia domenicale in piazza San Pietro ha condannato con durezza le persecuzioni dei cristiani, «solo per il fatto che sono cristiani». Alle vittime delle bombe «e alle loro famiglie» il Papa ha voluto indirizzare le sue preghiere, aggiungendo il suo appello «a Dio affinché riporti la concordia» in Pakistan, dove però dice ancora il pontefice «il mondo cerca di nascondere le persecuzioni ai danni dei cristiani». Parole che trovano a Lahore e nel resto del Paese una comunità spaventata, stanca, per una storia ormai lunga di violenze e ingiustizie. Gli attentati contro le comunità cristiane (rappresentano meno del 3 per cento degli oltre 180 milioni di pakistani, la grande maggioranza musulmani) sono cresciute dopo la crisi seguita all’11 settembre 2001. Da allora si sono intensificate anche le polemiche contro le cosiddette «leggi sulla blasfemia», secondo le quali qualsiasi musulmano può far condannare a morte un «miscredente» che a suo parere abbia offeso l’Islam. Gli attacchi armati sono periodici. La recrudescenza delle attività talebane non promette nulla di buono. Nel settembre 2013 furono 127 i cristiani uccisi negli attentati contro le chiese di Peshawar. Lo stesso anno un centinaio di abitazioni cristiane a Lahore fu dato alle fiamme.

«Lo Stato Islamico (Isis) è arrivato in Pakistan. Noi cristiani lo sappiamo da tempo. I loro terroristi sono pronti ad aggredirci e appaiono ispirati dagli attacchi più recenti compiuti contro le comunità cristiane in Iraq e Siria. Ormai i nuovi mezzi di comunicazione via web annullano le distanze, cancellano i confini. Per noi il peggio deve ancora arrivare. Il grave è che il governo pachistano fa poco o nulla. Siamo indifesi, dobbiamo organizzare da soli la nostra sicurezza». È un lungo, doloroso grido di allarme quello che lancia padre Joseph Louis, nato 65 anni fa a Lahore, ordinato sacerdote giovanissimo e oggi presidente della Caritas locale, oltre che voce importante della sua comunità tra i cattolici pachistani. Padre, cosa ha visto questa mattina? «Mi trovavo nel mio ufficio della Caritas, che è a circa 500 metri dalle due basiliche investite dagli attentati. Ho visto i soliti due poliziotti inviati dal governo, che come sempre non facevano assolutamente nulla di utile per la nostra sicurezza. Al momento dell’attacco stavano guardando una partita di cricket alla televisione. Tanta disattenzione è costata loro la vita. Sono morti nelle esplosioni dei kamikaze, che hanno investito anche le loro guardiole. Io dal mio ufficio ho sentito le due deflagrazioni. Ma la gente mi ha impedito di correre dai feriti. C’era il caos. Soprattutto c’erano altri terroristi ben armati che sparavano sulla folla. Ho visto la confusione, i nostri fedeli si sono gettati su di loro. Ne hanno presi due e li hanno picchiati a morte. Poi ho visto che portavano i loro corpi sul marciapiede delle strada principale per consegnarli alle ambulanze». Dove si sono fatti esplodere i due kamikaze? «Per fortuna sono stati bloccati dal nostro servizio d’ordine sulla porta delle chiese. Se fossero riusciti a entrare sarebbe stato un massacro molto più sanguinoso. Il grave è che non c’era altra polizia sul posto». Dunque un attentato ben pianificato? «Certo, molto ben pianificato. Ma anche questo non è un fatto nuovo. L’Isis in Pakistan lavora ormai a pieno ritmo con i talebani, sono ben armati, dispongono di risorse finanziarie, ottima logistica, hanno agenti che arrivano dall’estero. I loro mitra ultimo modello sono infinitamente migliori delle armi in mano alle nostre guardie. Sappiamo che noi cristiani siamo nel mirino. Più di una volta abbiamo scacciato militanti talebani che cercavano di entrare nelle nostre chiese. Vengono regolarmente per studiare il territorio e preparare gli attacchi. E adesso l’ondata delle nostre proteste aizzerà nuovi attentati. Isis e talebani soffieranno sul fuoco delle ostilità musulmane. Non ho dubbi in merito. Torneranno presto e più organizzati di prima. Noi proveremo a parlare con il governo. Ma sarà inutile. Non ci ascoltano. Oggi, dopo i massacri, abbiamo scacciato due senatori cristiani che il primo ministro Nawaz Sharif aveva inviato per cercare di calmare la nostra rabbia. Ma a che servono? Noi vogliamo fatti concreti, non belle parole, non false promesse. La verità è che le autorità non fanno nulla per bloccare la nuova alleanza politica e militare tra Isis e talebani». Lei ha trascorso quasi tutta la sua vita in Pakistan. Ma che lei ricordi per i cristiani è sempre stato così difficile? «Assolutamente no. Quando ero giovane la nostra coesistenza con la maggioranza musulmana era pacifica. Questo era un Paese molto diverso, aperto alle minoranze, tollerante. Noi cristiani eravamo prima di tutto pachistani, cittadini dello stesso Stato dei musulmani». Quando ha cominciato a cambiare la situazione? «È drasticamente peggiorata per i cristiani, come del resto per gli indù e tutte le altre minoranze, nei primi anni Ottanta, al tempo della presidenza di Muhammad ZiaulHaq. Fu lui a volere l’islamizzazione a tappe forzate del Pakistan. Ricordo che allora arrivarono dall’estero i volontari dei gruppi dell’estremismo islamico, nacquero nuove forme di persecuzione religiosa contro i non musulmani. Arrivarono il terrorismo e l’odio confessionale». Perché colpire i cristiani di Lahore? «Qui risiede la più popolosa comunità cristiana del Pakistan e probabilmente di larga parte dell’Asia. Siamo tanti, abbiamo chiese fiorenti, istituti comunitari rilevanti. Colpire noi significa colpire la diffusione dei cristiani nel mondo» .

Città del Vaticano. Il documento è stato presentato tre giorni fa al Consiglio dei diritti umani di Ginevra, una «dichiarazione congiunta» firmata dalla Santa Sede assieme a Federazione Russa e Libano e sostenuta da 63 Paesi. Si intitola «Sostenere i diritti umani dei cristiani e delle altre comunità, in particolare nel Medio Oriente» ed è «la prima volta, a quanto mi risulta, che si menzionano esplicitamente i cristiani, di solito si parla in generale di minoranze», spiega l’arcivescovo , osservatore permanente del Vaticano all’Onu di Ginevra. «Il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha fatto sapere che se ne parlerà al Consiglio di sicurezza del 27 marzo». La Santa Sede sta insistendo perché le istituzioni internazionali si decidano ad affrontare la situazione. Ieri la Radio vaticana parlava del «rischio di estensione e di alleanze» tra Isis, talebani e fanatici vari. Le parole di Francesco sulla «persecuzione che il mondo cerca di nascondere» sono significative. Da settimane il Papa insiste con urgenza crescente: da una parte il dialogo con l’Islam e l’appello ai leader musulmani perché condannino i fanatici terroristi, dall’altra la denuncia delle troppe vittime «di chi odia Gesù Cristo», della «brutalità contro i cristiani, i bambini, le chiese» in Niger, degli «imprenditori di morte» che vendono armi, la telefonata al patriarca egiziano Tawadros e la messa a Santa Marta per i 21 «martiri» cristiani copti «sgozzati per il solo motivo di essere cristiani». La linea è stata tracciata dal Segretario di Stato vaticano all’università Gregoriana. Oggi «è urgente modificare il paradigma su cui poggia l’ordinamento internazionale», ha detto il cardinale: «Stati e istituzioni intergovernative» devono «operare per prevenire la guerra in ogni sua forma» e «dare consistenza a norme in grado di sviluppare, rendere attuali e imporre quegli strumenti già previsti dall’ordinamento internazionale per risolvere pacificamente le controversie e scongiurare il ricorso alle armi: dialogo, negoziato, trattativa...». Quanto invece al «terrorismo delocalizzato», Parolin ha spiegato: «Nel disarmare l’aggressore per proteggere persone e comunità, non si tratta di escludere l’ extrema ratio della legittima difesa, ma di considerarla tale, extrema ratio appunto! E soprattutto attuarla solo se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere e si hanno effettive probabilità di riuscita». È il difficile equilibrio tra «soluzione politica» e intervento militare che si legge nelle parole di Francesco: se «è lecito fermare l’aggressore ingiusto», bisogna però farlo «nel quadro del diritto internazionale», sapendo che «non si può affidare la risoluzione del problema alla sola risposta militare». Non si tratta della «guerra giusta» teorizzata da Agostino dopo la calata dei Visigoti di Alarico, nel 410, e seppellita da Paolo VI all’Onu nel 1965: «Non più la guerra!». L’arcivescovo Tomasi distingue tra guerra e intervento armato «per impedire un genocidio», e spiega: «La strada ideale e giusta è trovare una soluzione politica, la violenza lascia sempre strascichi. Ma nel mondo reale in cui viviamo, purtroppo, a volte per salvare il salvabile è necessario difendersi. C’è un falso pudore quando si parla di cristiani. Ma se c’è una violazione sistematica dei diritti umani, popolazioni e minoranze anche musulmane a rischio di genocidio, allora la mano dell’aggressore dev’essere fermata. E quando non esistono forze locali in grado di farlo, intervenire è responabilità della comunità internazionale». Scandisce Tomasi: «Parliamo di extrema ratio, la protezione necessaria dopo che le altre vie hanno fallito. Penso ad un impegno dei Paesi musulmani in nome e sotto la guida dell’Onu. Perché sia chiaro: come intervenire, e in che grado, dovrà deciderlo il Consiglio di sicurezza, l’Assemblea delle Nazioni Unite...».

Pag 13 Solo Padoan e Boschi si avvicinano a Renzi nella fiducia degli italiani di Nando Pagnoncelli

In tempi di personalizzazione della politica è sempre il leader, nel bene e nel male, il frontman, quello che assume su di sé onori e oneri. È il leader che appare, è al leader che si rapportano gli elettori, è del leader che si seguono mosse, posizioni, comportamenti. È quindi inevitabile che egli tenda a oscurare la propria squadra. Questo meccanismo classico, che si sperimenta a tutti i livelli, compresi quelli locali dove spesso il sindaco mette in ombra la giunta, emerge con nettezza anche dal sondaggio condotto questa settimana sulla fiducia nei confronti dei principali ministri del governo Renzi. A conferma di questa caratterizzazione è innanzitutto da sottolineare che tutti i ministri testati hanno un consenso inferiore a quello riscosso dal premier, che nella nostra ultima rilevazione si attestava al 44% di voti positivi, con un calo rispetto al dato registrato immediatamente dopo l’elezione del capo dello Stato, dato che abbiamo commentato su queste colonne due settimane fa. Questo è naturalmente correlato, per una parte importante dei ministri testati, al fatto che sono nettamente meno noti del premier. Un solo ministro vede prevalere, sia pur di poco, i voti positivi sui negativi. Si tratta del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il suo posizionamento è quello di un tecnico prestato alla politica. È da tenere in considerazione il fatto che l’elettorato è oggi molto attento alla tenuta dei conti e alla riduzione della spesa. Ha in qualche modo interiorizzato, condividendoli anche se con molti distinguo, i vincoli europei. E Padoan ha esattamente queste caratterizzazioni. Proprio per questo il ministro gode di una certa trasversalità negli elettorati che sostengono la compagine di governo: vede infatti consensi elevati certo innanzitutto tra gli elettori del Pd ma in misura significativa anche tra gli elettori centristi. Al secondo posto Maria Elena Boschi, il ministro simbolo di questo governo. Per ragioni anagrafiche da un lato, di genere dall’altro e per il ruolo strategico che ricopre, ministro delle Riforme, il terreno privilegiato di intervento del governo in questo periodo. Ciò ha significato per il ministro un’ampia esposizione mediatica, tanto che la sua notorietà è piuttosto elevata anche se è da poco presente sulla scena politica nazionale, e un riconoscimento del ruolo svolto. Anche per il ministro Boschi infatti le valutazioni positive (37%) sono sostanzialmente identiche a quelle negative (38%). Come per Padoan, il suo consenso si massimizza tra gli elettori Pd, ma si mantiene elevato anche tra i centristi. Segue, distanziato, Graziano Delrio. Per quello che viene accreditato come il principale collaboratore di Renzi nel governo, le valutazioni negative (42%) superano abbondantemente le positive (24%), ma la differenza tra le due voci rimane inferiore al 20%. Va considerato anche che il sottosegretario si muove spesso al di fuori dei riflettori dei media, tanto che la sua notorietà risulta la più bassa tra i dodici esponenti del governo testati. Segue poi un ampio gruppo di ministri per i quali prevalgono più nettamente le valutazioni critiche e per i quali il saldo negativo si attesta tra il 26% e il 32%. Si tratta in gran parte di ministri che agli occhi degli elettori hanno una scarsa connotazione politica da un lato (Giannini, Madia, Gentiloni, Orlando, Poletti) o di due ministri (Lorenzin e Franceschini) che, pur essendo stati esponenti politici di rilievo, hanno minori ricadute da questo ruolo. Solo una notazione che vale la pena di sottolineare: il ministro Poletti, artefice del Jobs act, vede ribaltate le opinioni nei due segmenti di riferimento; tra gli elettori Pd prevalgono le valutazioni negative, il contrario avviene tra gli elettori centristi. Agli ultimi posti due esponenti politici molto più connotati, i ministri delle Infrastrutture Maurizio Lupi e dell’Interno Angelino Alfano. Rispetto a quanto registrato qualche mese fa si confermano, oltre al maggiore consenso tra gli elettori centristi, i giudizi più positivi tra gli elettori del Pd, alleato di governo, che tra quelli di FI, nonostante la loro lunga militanza nel partito di Berlusconi, a conferma del fatto che lo «strappo» del 2013 continua a essere vissuto come un tradimento da una parte rilevante degli elettori berlusconiani. Dobbiamo tornare, in conclusione, al punto di partenza. Per quanto siano importanti i singoli ministri è sempre il leader che organizza il gioco. Tuttavia vale la pena sottolineare una certa debolezza della squadra su cui sembra necessario che il premier lavori. Una certa usura che abbiamo rilevato nella curva dei consensi sembra indicare che non basta più una sola persona che si rapporta agli elettori ma che, se la prospettiva è il medio periodo, i mille giorni in cui Renzi ritiene che si inscriva l’orizzonte del governo, appare necessario rinsaldare il team.

Pag 19 Elton John a Dolce e Gabbana: siete arcaici di Matteo Persivale Fecondazione e gay, gli stilisti avevano parlato di “bimbi della chimica”

Elton John, Martina Navratilova, Ricky Martin, Courtney Love e Ornella Vanoni contro Dolce & Gabbana. Propongono aderendo a una campagna sui social media il boicottaggio del marchio italiano dopo l’intervista rilasciata a Panorama nella quale Dolce ha dichiarato: «Non abbiamo inventato mica noi la famiglia. L’ha resa icona la Sacra famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre... per questo non mi convincono quelli che io chiamo i figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a questi bambini chi è la madre... Procreare deve essere un atto d’amore, oggi neanche gli psichiatri sono pronti ad affrontare gli effetti di queste sperimentazioni». E ancora: «Sono gay, non posso avere un figlio. Credo che non si possa avere tutto dalla vita, se non c’è vuol dire che non ci deve essere. È anche bello privarsi di qualcosa. La vita ha un suo percorso naturale, ci sono cose che non vanno modificate. E una di queste è la famiglia». La reazione, su Instagram, di Elton John: «Come vi permettete di dire che i miei meravigliosi figli sono “sintetici”? Vergognatevi per aver puntato il vostro piccolo dito contro la fecondazione in vitro, un miracolo che ha consentito a moltitudini di persone, etero ed omosessuali, di realizzare il loro sogno di avere figli. Il vostro pensiero arcaico è fuori tempo: proprio come le vostre creazioni di moda. Non indosserò mai più nulla di Dolce & Gabbana». L’hanno seguito, sempre su Instagram, Courtney Love: «Ho appena radunato tutte le mie cose di Dolce & Gabbana e voglio bruciarle. Sono senza parole, travolta dall’emozione. Boicottate la discriminazione senza senso #boycottD&G». Con il messaggio ha postato anche un’immagine, circolata sui social media, in cui alla copertina di Panorama «Viva la famiglia (tradizionale)» ne viene affiancata una del 2005 di Vanity Fair dove i due stilisti posavano tra i bimbi. Titolo: «Il desiderio di essere padri». Ricky Martin su Twitter ha scritto: «@dolcegabbana le vostre voci sono troppo potenti per diffondere tanto odio sveglia siamo nel 2015 amate voi stessi ragazzi». Martina Navratilova: «Le mie camicie D&G finiscono nella spazzatura: non voglio che nessuno le indossi». Su Twitter Ornella Vanoni: «Sono indecisa se bruciare il mio cappotto di cincillà #dolceegabbana o darlo al barbone Antonio in Centrale». Con gli stilisti? Non celebrities ma regolari utenti di Twitter e Instagram: c’è l’hashtag #supportdolcegabbana. E Stefania Prestigiacomo: «W il coraggio di @dolcegabbana no al “pensiero unico” gay». Gabbana su Instagram aveva scritto: «Fascista». E poi «#boycotteltonjohn». Commenti più tardi rimossi. Dolce, in un comunicato: «Sono siciliano e sono cresciuto con un modello di famiglia tradizionale, fatto di mamma, papà e figli. So che esistono altre realtà ed è giusto che esistano, ma nella mia visione questo è quello che mi è stato trasmesso, e con questi i valori dell’amore e della famiglia. Io sono cresciuto così, ma questo non vuol dire che non approvi altre scelte. Ho parlato per me, senza giudicare le decisioni altrui».

«Noi due abbiamo sempre vissuto la nostra sessualità privatamente, non abbiamo mai gridato. Adesso ci mettono in bocca parole non nostre: saremmo contrari alle adozioni gay. Non è vero. Domenico ha semplicemente espresso la sua opinione sulla famiglia tradizionale e sulla fecondazione assistita. Altri fanno scelte diverse? Liberissimi. Ma noi pretendiamo lo stesso rispetto». Stefano Gabbana, cosa ha pensato quando ha letto il commento di Elton John su Instagram e l’hashtag #boycottdolcegabbana? «Non me l’aspettavo. Non me l’aspettavo da una persona che ritenevo sottolineo: ritenevo intelligente come Elton John. Ma come? Predichi comprensione, predichi tolleranza, e poi aggredisci? Tutto perché qualcun altro la pensa in modo diverso da te? E questo sarebbe un modo democratico di ragionare? Illuminato? È un ignorante, nel senso che ignora che esistono pensieri diversi dal suo ugualmente degni di rispetto». L’ha sentito, dopo? «Inutile, quello è un modo autoritario di vedere le cose: se sei d’accordo con me bene, altrimenti ti attacco. E glielo ho scritto, nei commenti di Instagram: fascista». E l’hashtag #boycotteltonjohn che ha postato nei commenti? «Ma no, al di là dell’irritazione momentanea per un attacco del genere, sarebbe ridicolo. Ti piacciono le canzoni di qualcuno o non ti piacciono. Non è che io quando vado dal fruttivendolo prima mi accerto se le sue idee sulla fecondazione in vitro siano in sintonia con le mie: guardo se la verdura è fresca. Tutta questa campagna è nata online, sul nulla, mettendoci in bocca parole non nostre per volontà di un gruppo di attivisti gay in malafede e poi si è allargata. Noi non boicottiamo e non boicotteremo nessuno. Come dire, quelli che vanno allo stadio non per divertirsi ma per insultare gli avversari: che senso ha? Assurdo». Dopo quell’intervista vi aspettavate qualche reazione? «È successa una cosa strana: l’intervista non l’ha letta nessuno perché altrimenti basterebbe leggerla in buona fede per vedere che non c’è nulla dietro questo baccano. Semplicemente, viene usata come pretesto per metterci in bocca cose che non abbiamo detto. Noi siamo per la libertà: ognuno faccia le scelte che vuole. Domenico ha delle idee, ha fatto delle scelte. Elton John ne ha fatte altre. Scelte diverse, vite diverse. Stesso rispetto. Però vedo che ci sono, specialmente in Rete, anche i gay omofobi: quelli che offendono altri gay che esprimono idee diverse». Alla domanda «Avreste voluto essere padri?» lei ha risposto «Sì, io un figlio lo farei subito», Domenico invece «Sono gay, non posso avere un figlio». «Ecco, è tutto qui. Domenico ha detto che preferirebbe la famiglia classica, è la sua opinione. Non è a suo agio con la fecondazione assistita, è il suo imprinting tradizionale siciliano. Io la vedo diversamente da lui. Nel rispetto reciproco». Questo boicottaggio avrà conseguenze sulle vendite? «Forse sorride perderemo qualche fan di Elton John, forse guadagneremo qualche mamma, chi lo sa ...».

Pag 22 La minaccia terroristica all’anima delle chiese di Andrea Riccardi

Assieme a 15 vite umane, il terrorismo spietato dei talebani ha rubato ai cattolici e protestanti pachistani pure la domenica con il terribile attentato di ieri a due chiese del quartiere cristiano di Lahore. Nella preghiera i fedeli sono sempre disarmati e fiduciosi in Dio: per questo l’Islam ha in genere rispetto per la preghiera. L’attentato di ieri mostra l’impazzimento totalitario degli islamisti: un atto vigliacco contro un popolo inerme, anche di donne, bambini, anziani. Che male hanno fatto le famiglie cristiane per meritarsi la morte? Almeno finora, nonostante i rischi, i cristiani si erano sentiti liberi durante il culto domenicale. Una consolazione in una vita quotidiana che li umilia per la loro fede e la loro povertà. Perché li hanno uccisi? I due attentatori suicidi appartengono a Jamaat ul Ahrar, una scheggia del movimento talebano. Nel groviglio di motivazioni ideologiche e criminali dei terroristi, uccidere i cristiani è un modo (vile) di mostrare la propria forza. C’è chi si suicide per questo scopo. A tanto è arrivata la follia di alcuni musulmani. Le autorità islamiche in Pakistan e altrove hanno il grave compito di condurre una profonda bonifica delle menti dei correligionari. Il mondo musulmano è però complicato. Era un seguace dell’Islam, infatti, anche il poliziotto che ieri ha fatto da scudo ai cristiani, evitando una strage ancora peggiore e spingendo l’attentatore al di fuori di una delle due chiese. I due musulmani sono esplosi insieme: con motivazioni tanto diverse! Papa Francesco ha gridato: «La persecuzione finisca!». È un grido ai musulmani, perché difendano i compatrioti cristiani e educhino i giovani al rispetto degli altri. È un grido che chiede a tutti di non essere distratti, anche se da fuori del Pakistan non si può fare molto. I quattro milioni di cristiani pachistani sono un facile bersaglio. Rappresentano, per lo più, un gruppo marginalizzato, povero e con poca istruzione. Lo si vede andando nel quartiere, alla periferia di Lahore, dove sono avvenuti gli attentati di ieri, Youhanabad (la città di San Giovanni). Qui si sono concentrati circa 100.000 tra cattolici e protestanti alla ricerca di maggiore sicurezza. La vita dei cristiani in Pakistan è sempre sotto minaccia: qualcosa di terribile può accadere loro da un momento all’altro. Come l’accusa di blasfemia verso l’Islam. Qualche mese fa due coniugi cristiani sono stati arsi vivi in una fornace per questo motivo. All’inizio di marzo, una folla musulmana inferocita ha bruciato a Lahore 178 case di «infedeli». Spesso il movente è occasionale. Non solo terrorismo, ma un’animosità che cova sotto la cenere e nell’ignoranza. Questo è il terreno su cui speculano agitatori, radicali e terroristi. È invece un mondo che i leader musulmani devono bonificare. La sfida per i cristiani è l’istruzione, che li faccia uscire dalla povertà e li renda capaci di lottare per l’uguaglianza. Era la sfida raccolta da un ragazzo di dieci anni, Abish, alunno della Scuola della Pace. Purtroppo la vita di questo innocente è stata stroncata nell’attentato di ieri. Quella dell’uguaglianza tra i cittadini di ogni fede era anche la battaglia del cattolico Shahbaz Bhatti, ministro per le Minoranze, ucciso nel 2011. La vita dei fedeli cristiani in Pakistan è dura, piena di ricordi tristi, dolori, ma anche attese per i loro figli. La domenica, però, è per loro sempre un giorno di festa e speranza. I canti melodiosi e gli abiti tradizionali delle donne danno un tono particolare alle celebrazioni cattoliche e protestanti. Con l’attacco di ieri, i terroristi dimostrano di voler rubare anche la domenica. Dopo tante violenze, questa è l’ultima: all’anima di una comunità. Andare in chiesa continuerà a essere una scelta di coraggio e una protesta contro l’odio.

LA REPUBBLICA Pag 1 Una nuova sinistra extra-parlamentare di Ilvo Diamanti

Maurizio Landini ha annunciato la sua prossima “discesa in piazza”. A capo di un movimento di opposizione, che ha già previsto una prima occasione per mobilitarsi. La manifestazione del 28 marzo contro le politiche economiche e sul lavoro del governo Renzi. Per primo: il Jobs Act. Non un partito, dunque. Non una lista in prospettiva elettorale. Perché Maurizio Landini non è uno sprovveduto. E sa che, a sinistra, in Italia non c’è spazio. Oggi. Anche perché, fino a ieri, gran parte di questo spazio è stato occupato dal Partito Comunista e dai suoi eredi. Il Partito Comunista, prima e dopo Berlinguer, ha presidiato il campo dell’opposizione. In modo permanente e senza possibilità di alternativa. Fino alla caduta del Muro. Berlinguer lo teorizzò apertamente. Unica soluzione possibile: l’intesa con la Dc, predestinata a governare. Tradotta nel “compromesso storico”, promosso negli anni Settanta da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sancito e concluso dal tragico (e non casuale) rapimento di Moro. A sinistra del Pci, allora, non c’era spazio. Se non per soggetti temporanei destinati a svolgere un ruolo di denuncia e testimonianza. La sinistra, cosiddetta, extraparlamentare. Perché, per quanto la legge elettorale (ultraproporzionale) permettesse loro una presenza (molto limitata) in Parlamento, la loro azione si svolgeva all’esterno. Nelle piazze, nelle fabbriche e nelle scuole. Fra gli operai e gli studenti. Proprio ciò che si propone di fare oggi meglio, domani Maurizio Landini. Intercettando e alimentando il clima di insoddisfazione sociale che pervade il Paese. E coinvolge il governo. Che attualmente dispone, secondo diversi sondaggi (oltre a Demos, anche Ipsos), di un consenso ancora elevato, ma non più maggioritario. Intorno al 40%. Ciò significa che il clima di insoddisfazione verso il governo è divenuto molto ampio. Tuttavia, Renzi resta ancora il leader, di gran lunga, più “stimato” nel Paese. Apprezzato da oltre 4 italiani su 10. Mentre il grado di fiducia nei confronti di Maurizio Landini è intorno al 25%. Superato, largamente, da Matteo Salvini, sopra il 30%. Ma anche da Giorgia Meloni (vicina al 30%). Per imporsi come riferimento dell’opposizione, la soluzione obbligata, per Landini, è, dunque, restare fuori dalla competizione partitica. Fuori dal Parlamento. Dove, peraltro, anche volendo, non potrebbe essere presente, per un periodo non breve, visto che il ritorno alle urne non sembra vicino. Fuori dal Parlamento e dai partiti, però, ci sono due spazi, due luoghi, dove Landini può agire, per mobilitare l’opposizione e l’opinione pubblica. Il primo è, appunto, la società. In particolar modo, l’area dei lavoratori. Dove, però, il suo consenso appare ampio non tanto fra gli operai, quanto, secondo i sondaggi, fra gli impiegati e i tecnici privati. Ma ancor più, tra gli “intellettuali”, che operano nel mondo della scuola. Oltre ai pensionati. Perché Landini non attrae tanto i giovani, ma le persone di età centrale e medioalta (fra 45 e 65 anni) e gli anziani. Insomma, raccoglie la base tradizionale della Sinistra. Sfidata e indebolita, fra i giovani e gli studenti, dal M5s. E, fra i lavoratori dipendenti, dalla Lega Il secondo terreno di azione, per Landini, è la “comunicazione”. In particolare, la televisione. Dove il segretario generale della FiomCgil è una presenza fissa. Invitato dovunque. Nei principali talk politici di tutte le reti nazionali. Come Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Perché garantiscono ascolti. La loro apparizione alza lo share di 1 punto percentuale e anche di più. Un contributo importante, anzi, irrinunciabile per i programmi di dibattito e approfondimento politico, in tempi di declino degli ascolti. Così Landini come, soprattutto, Salvini alterna la piazza e la televisione. Ma ciò ne limita le possibilità di affermazione. Anzitutto, come leader dell’opposizione. Perché la “questione sociale”, per ora, è riassunta da altre rivendicazioni, “rappresentate” da altri soggetti politici di successo. L’antieuropeismo e, in particolare, l’opposizione all’euro. Che la Lega di Salvini agita, insieme alla paura degli immigrati. E il M5s associa al sentimento antipolitico. Alimentato contro i privilegi dei “politici” e dei partiti. Mentre, sulla questione della rappresentanza del lavoro, Landini e la Fiom incrociano, inevitabilmente, il loro percorso con l’azione del sindacato. In particolare, della Cgil. Non a caso, intervistato da Lucia Annunziata, proprio ieri, Landini ha sostenuto che «il sindacato deve essere un soggetto politico». Perché «se non fa politica è aziendale». Mentre la segreteria della Cgil ha preso, apertamente, le distanze dall’iniziativa del segretario Fiom. Per questo, nel discorso politico di Landini, echeggia, di continuo, il richiamo a Renzi e al PdR. Il Pd di Renzi. Il Partito di Renzi. Alleato di Confindustria nel progetto di cancellare i diritti dei lavoratori. E, quindi, un nemico, anzi, “il” nemico da contrastare. Così, la sfida di Maurizio Landini evoca una “coalizione sociale” e del lavoro. Per ora. Ma è inevitabile, in prospettiva, leggerla sul piano politico. Ed elettorale. Perché è chiaro il riferimento a Syriza, in Grecia, e Podemos, in Spagna. Se valutiamo la fiducia nei confronti di Landini, sul piano politico, è, d’altronde, evidente la sua caratterizzazione a Sinistra. Ma anche una certa trasversalità. È, infatti, elevata non solo fra gli elettori di Sel (intorno al 50%), ma anche del Pd (35% circa) e del M5s (32%). La “coalizione sociale” evocata da Landini, dunque, mira a divenire coalizione “politica”, che attrae le liste a Sinistra del Pd e l’area del disagio interna al Pd. Magari non un partito almeno per ora: domani si vedrà. Anche se c’è da sospettare che il più interessato alla costruzione del nuovo soggetto partitico di Landini sia proprio Renzi. Che “neutralizzerebbe” l’opposizione di sinistra in uno spazio, presumibilmente, circoscritto. Intorno al 5% (o qualcosa di più). E allargherebbe ulteriormente lo spazio di influenza del suo PdR verso il centro. Assorbendo quel che resta dell’elettorato berlusconiano. Così resterebbero fuori solo Salvini (e Meloni), il M5s. Insieme a Landini. L’opposizione che piace al premier.

Pag 12 Dall’Islam all’Apocalisse, anatomia del Califfato. Ecco cos’è, cosa vuole e come si può sconfiggere di Graeme Wood

Cos’è lo Stato islamico? Da dove viene, e che intenzioni ha? La semplicità di queste domande può trarre in inganno, eppure pochi leader occidentali sembrano conoscere la risposta. Dopo aver conquistato Mosul, in Iraq, lo scorso giugno, oggi il gruppo controlla un territorio più esteso del Regno Unito. Il suo leader dal maggio del 2010 è Abu Bakr Al Baghdadi, di cui sino all' estate scorsa circolava una sola immagine: una foto segnaletica sfocata risalente all'occupazione dell'Iraq, quando Al Baghadi fu detenuto dagli Usa a Camp Bucca. Poi, il 5 luglio 2014, Al Baghdadi è salito sul pulpito della Grande Moschea Al Nuri di Mosul per pronunciare un sermone del Ramadan. In quel discorso, il primo del genere tenuto da un Califfo da molte generazioni, Al Baghdadi ha messo a fuoco i suoi propositi, non più sfocati ma ad alta definizione, e la propria posizione, che non era più quella di un combattente ricercato bensì di comandante di tutti i musulmani. Da allora l'arrivo dei jihadisti provenienti da ogni parte del modo procede con ritmi e numeri senza precedenti. Per certi versi la nostra ignoranza sull'Is è comprensibile: si tratta di un regno eremita; pochi sono andati e tornati; Al Baghdadi ha parlato a una telecamera solo una volta. Ma quel discorso, e tutti gli innumerevoli altri video propagandistici, sono reperibili online. Se ne può dedurre che l'Is rifiuta la pace per principio; che è assetato di genocidio; che le sue opinioni religiose lo rendono strutturalmente incapace di operare modifiche, anche se da esse dipendesse la sua stessa sopravvivenza; e che si considera foriero della fine del mondo. Lo Stato Islamico, noto anche con il nome di Stato Islamico dell' Iraq e Al Sham (Isis), s'ispira a una caratteristica varietà di Islam la cui strategia è determinata da particolari convinzioni riguardo alla strada che porta al Giorno del Giudizio. Convinzioni che possono aiutare l'Occidente a imparare a conoscere il proprio nemico e a prevederne il comportamento. Abbiamo frainteso la natura dello Stato Islamico in almeno due modi. Innanzitutto, tendiamo a considerare il jihadismo monolitico e ad applicare la logica di Al Qaeda a un'organizzazione che l'ha eclissata. I sostenitori dello Stato Islamico con cui ho parlato attribuiscono ancora ad Osama bin Laden il titolo onorifico di "sceicco". Dai tempi d'oro di Al Qaeda (19982003 circa) il jihadismo però si è evoluto, e molti jihadisti disdegnano le priorità del gruppo e la sua attuale dirigenza. Bin Laden considerava il suo terrorismo il preludio a un Califfato che pensava non avrebbe mai visto durante la propria vita. La sua organizzazione era flessibile e operava come una rete geograficamente diffusa di celle autonome. L'Is esige invece un territorio riconosciuto e una struttura che lo governi dall'alto. Siamo vittime anche di un altro equivoco, frutto di una campagna dalle buone intenzioni ma ingannevole che nega la natura medievale della religiosità dello Stato Islamico. Peter Bergen, che nel 1997 intervistò per primo Bin Laden, intitolò il suo primo libro Holy War Inc. in parte per sottolineare l'appartenenza di Bin Laden al mondo secolare moderno. Bin Laden ha dato al terrore una struttura aziendale e ne ha fatto un franchising. Richiedeva specifiche concessioni politiche: come il ritiro delle forze Usa dall' Arabia Saudita. I suoi uomini si muovevano nel mondo moderno con piglio sicuro. Il giorno prima di morire, Mohammed Atta fece acquisti da Walmart e cenò da Pizza Hut. Quasi tutte le decisioni dell'Is aderiscono a ciò che esso definisce, sui manifesti, sulle targhe e sulle monete, "la metodologia profetica". La maggior parte delle iniziative del gruppo appaiono infatti prive di senso se non le si osserva alla luce di un impegno volto a riportare la civiltà al settimo secolo e, in definitiva, a scatenare l'Apocalisse. La realtà è che lo Stato Islamico è islamico. Molto islamico. La religione predicata dai suoi seguaci più ferventi deriva da interpretazioni coerenti e addirittura colte dell' Islam. Quasi tutte le sue leggi aderiscono alla "metodologia profetica", il che significa attenersi meticolosamente alla profezia e all' esempio di Maometto. I musulmani possono rifiutare lo Stato Islamico, e quasi tutti lo fanno. Ma fingere che non si tratti di un gruppo religioso e millenario di cui, se lo si vuole combattere, occorre comprendere la teologia ha già indotto gli Stati Uniti a sottovalutarlo e ad appoggiare iniziative insensate per contrastarlo. Dobbiamo conoscere la genealogia intellettuale dell' Is se vogliamo agire in modo da non rafforzarlo, ma semmai aiutarlo ad autoimmolarsi nel suo eccessivo fervore. I. DEVOZIONE Lo scorso novembre lo Stato Islamico ha diffuso un video in stile telepromozione che faceva risalire le sue origini a Bin Laden. Riconosceva Abu Musab Al Zarqawi, spietato capo di AlQaeda in Iraq dal 2003 alla sua uccisione nel 2006, come suo più immediato progenitore, seguito nell' ordine da altri due leader guerriglieri che hanno preceduto Al Baghdadi. Dalla lista era assente Ayman Al Zawahiri, successore di Bin Laden: il chirurgo oftalmico egiziano che attualmente dirige AlQaeda. Al Zawahiri non ha giurato fedeltà ad Al Baghdadi ed è sempre più odiato dai suoi compagni jihadisti. Nel dimenticatoio, insieme ad Al Zawahiri, è stato relegato anche un religioso giordano di 55 anni: Abu Muhammad Al Maqdisi, considerato a ragione l' architetto intellettuale di Al Qaeda nonché il più importante dei jihadisti sconosciuti ai comuni lettori. Nella maggior parte delle questioni dottrinali, Al Maqdisi e lo Stato Islamico sono d' accordo. Entrambi sono strettamente identificati con l'ala jihadista di un ramo del sunnismo chiamato salafismo dall' arabo "al salaf al salih", i "pii antenati". Questi antenati sono il Profeta in persona e i suoi primi seguaci, che i salafiti onorano ed emulano come modelli in ogni ambito: guerra, abbigliamento, vita familiare e persino igiene dentale. Al Maqdisi è stato maestro di Al Zarqawi, che ha combattuto in Iraq tenendo a mente i suoi consigli. Con il tempo però Al Zarqawi ha superato il suo mentore in fanatismo, sino a meritarsi il suo rimprovero. Punto del contendere tra i due era la propensione di Al Zarqawi per lo spargimento di sangue e, in fatto di dottrina, il suo odio verso gli altri musulmani, al punto di scomunicarli ed ucciderli. La punizione per l'apostasia è la morte e Al Zarqawi aveva ampliato sconsideratamente l' elenco di comportamenti che potevano fare di un musulmano un infedele. Seguendo la dottrina del takfiri, l'Is è votato alla purificazione del mondo tramite l' uccisione di un gran numero di individui. La mancanza di resoconti obiettivi dai suoi territori rende impossibile determinare la reale portata del massacro, ma i social media lasciano intendere che le esecuzioni individuali si succedano continuamente e le uccisioni di massa a distanza di poche settimane. Gli "apostati" musulmani sono le vittime più frequenti. Risparmiati dall'esecuzione automatica sembra siano i cristiani che non si oppongono al nuovo governo: Al Baghdadi consente loro di restare in vita a patto di versare un'imposta speciale, detta jizya, e riconoscere la propria sottomissione. L'autorità coranica per questa pratica non è messa in discussione. Senza conoscere questi fattori, nessuna spiegazione dell' ascesa dello Stato Islamico può dirsi completa, ma focalizzarsi su di essi escludendo l' ideologia riflette un altro pregiudizio occidentale: che, se a Washington o a Berlino l'ideologia religiosa non ha un gran peso, lo stesso debba essere vero a Raqqa o a Mosul. Quando un carnefice dal volto coperto esclama "Allahu Akbar" nel decapitare un apostata, talvolta lo fa per motivi religiosi. Molte delle organizzazioni musulmane più convenzionali si sono spinte a dire che lo Stato Islamico sia, in realtà, nonislamico. È rassicurante sapere che la grande maggioranza dei musulmani non ha alcun interesse a sostituire le pubbliche condanne a morte ai film di Hollywood. Ma i musulmani che considerano lo Stato Islamico nonislamico sono, come mi ha spiegato Bernard Haykel, studioso di Princeton nonché maggiore esperto della teologia del gruppo, «a disagio e politicamente corretti, con una visione edulcorata della propria religione» che trascura «ciò che la loro religione storicamente e legalmente prevede». Molte smentite della natura religiosa dell'Is affondano e proprie radici in una «tradizioneinterconfessionalecristianapriva di fondamento», ha detto. Stando ad Haykel, gli appartenenti allo Stato Islamico sono profondamente intrisi di fervore religioso. Le citazioni coraniche sono onnipresenti, e «persino i combattenti snocciolano di continuo questa roba». «Si mettono in posa di fronte all' obiettivo e ripetono i loro precetti base con tono monotono, e lo fanno ininterrottamente». Haykel considera l'idea che lo Stato Islamico abbia distorto i testi dell'Islam insensata e sostenibile solo grazie a una deliberata ignoranza. «Le persone vogliono assolvere l'Islam», dice. «È come un mantra: "l'Islam è una religione di pace". Come se si potesse parlare di "Islam"! L'Islam è ciò che i musulmani fanno e il modo in cui interpretano i loro testi». Testi comuni a tutti i musulmani sunniti, non solo all'Is. «Questi tipi hanno la stessa legittimazione degli altri». Tutti i musulmani ammettono che le prime conquiste di Maometto non furono una faccenda pulita e che le leggi di guerra tramandate dal Corano e nei racconti del Profeta erano pensate per un' epoca violenta. Secondo Haykel, i combattenti dell'Is si rifanno del tutto al primo Islam e ne riproducono fedelmente le norme belliche. Tale comportamento include diverse pratiche che i musulmani moderni preferiscono non riconoscere come parte integrante dei loro testi sacri. «Schiavitù, crocifissioni e decapitazioni non sono pratiche che degli squilibrati [i jihadisti] scelgono selettivamente dalla tradizione medievale», dichiara Haykel. I combattenti dell'Is «si pongono al centro della tradizione medievale, e la smerciano all' ingrosso». La nostra incapacità di apprezzare le essenziali differenze tra Is e Al Qaeda ha portato a compiere decisioni pericolose. II. TERRITORIO Decine di migliaia di musulmani stranieri sono immigrati nello Stato Islamico. Le nuove reclute provengono da Francia, Regno Unito, Belgio, Germania, Olanda, Australia, Indonesia, Stati Uniti e molti luoghi ancora. Molti vengono a combattere e molti intendono morire. Lo scorso novembre ho incontrato in Australia Musa Cerantonio, un trentenne che Neumann e altri ricercatori identificano come una delle due "nuove autorità spirituali" che inducono gli stranieri a unirsi all'Is. È stato per tre anni il televangelista della tv cairota Iqraan. L'ha dovuta lasciare perché invitava a fondare un Califfato. Adesso predica attraverso Facebook e Twitter. Cerantonio mi ha raccontato la gioia che ha provata quando il 29 giugno Al Baghdadi è stato dichiarato Califfo e l' improvvisa e magnetica attrazione che la Mesopotamia ha iniziato a esercitare su di lui e i suoi amici. «Mi trovavo in un hotel [nelle Filippine] e, mentre guardavo la tv, mi sono domandato: Che ci faccio in questa fottuta camera?». L'ultimo Califfato è stato l'impero ottomano, che raggiunse il proprio apice nel XVI secolo per poi avviarsi a un lungo declino, sino a quando il fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk, lo sconfisse nel 1924. Tuttavia Cerantonio, così come molti sostenitori dell'Is, non considera il Califfato legittimo perché non applica appieno la legge islamica, che prevede lapidazioni, schiavitù e amputazioni, e perché i suoi califfi non discendono dalla Quraysh, la tribù del Profeta. Il Califfato, mi ha detto Cerantonio, non è solo un' entità politica ma anche un veicolo di salvezza. La propaganda dello Stato islamico diffonde a scadenze regolari i giuramenti di baya' a, fedeltà, che giungono da gruppi jihadisti di tutto il mondo musulmano. Cerantonio ha citato un detto profetico secondo il quale morire senza giurare fedeltà equivale a morire jahil, nell' ignoranza, e quindi a "morire nel dubbio". Considerate quale sorte i musulmani (o i cristiani) immaginano che Dio riservi alle anime di coloro che muoiono senza aver riconosciuto l' unica vera religione: non vengono né salvate né condannate definitivamente. Analogamente, ha aggiunto Cerantonio, il musulmano che riconosce un Dio onnipotente e prega, ma che muore senza giurare fedeltà a un legittimo Califfo e senza sostenere gli obblighi che derivano da quel giuramento, non ha vissuto una vita pienamente islamica. III. L'APOCALISSE Tutti i musulmani riconoscono che Dio è l' unico a conoscere il futuro. Ma sono anche concordi nel ritenere che ci ha concesso di scorgerne un lembo nel Corano e nei racconti del Profeta. Lo Stato Islamico si discosta da quasi ogni altro movimento jihadista in quanto crede che le scritture di Dio gli affidino un ruolo centrale. Questo ruolo rappresenta la più netta distinzione tra l'Is e i movimenti che lo hanno preceduto, nonché la più esplicita definizione della natura religiosa della sua missione. Al Qaeda si comporta grosso modo come un movimento politico clandestino i cui obiettivi concreti rimangono sempre chiari: l' espulsione dei nonmusulmani dalla Penisola araba, l'abolizione dello Stato di Israele, la fine del sostegno alle dittature nei territori musulmani. Anche lo Stato Islamico ha alcuni interessi concreti, ma la Fine dei Giorni è un leitmotif della sua propaganda. Bin Laden raramente ha parlato di Apocalisse. Durante gli ultimi anni dell' occupazione Usa dell'Iraq, gli immediati padri fondatori dello Stato Islamico scorsero ovunque segni della fine del mondo. Lo Stato Islamico attribuisce una grande importanza alla città siriana di Dabiq, nei pressi di Aleppo. A essa ha intitolato la sua rivista di propaganda e ha celebrato follemente la conquista assai faticosa delle sue pianure, prive di importanza strategica. Il Profeta avrebbe detto che è proprio qui che si accamperanno gli eserciti di Roma. Gli eserciti dell' Islam verranno loro incontro e Dabiq per Roma sarà una Waterloo. I propagandisti dello Stato Islamico fremono di impazienza all'idea di un simile evento e implicano costantemente che si avvererà presto. Nella narrazione profetica che preannuncia la battaglia di Dabiq, il nemico viene identificato in Roma. A cosa possa corrispondere "Roma" adesso che il Papa non ha più un esercito rimane oggetto di dibattito. Cerantonio suggerisce che Roma rappresentasse l' Impero romano di Oriente, la cui capitale era l'attuale Istanbul. Dovremmo dunque considerare Roma la Turchia, la stessa che novant'anni fa pose fine all'ultimo autoproclamato Califfato. Altre fonti dello Stato Islamico suggeriscono che qualsiasi esercito di infedeli, americani in primis, potrebbe rappresentare Roma. IV. LA LOTTA La purezza ideologica dello Stato Islamico contiene una virtù che la controbilancia: quella che ci permette di prevedere alcune iniziative del gruppo. Raramente Osama bin Laden era prevedibile. Lo Stato Islamico invece ostenta apertamente le proprie mire: non tutte, ma abbastanza perché, ascoltando attentamente, si possa capire come intende governare ed espandersi. Puniti per la nostra iniziale indifferenza, oggi affrontiamo indirettamente l'Is attraverso i curdi e gli iracheni sul campo di battaglia e con regolari attacchi aerei. Queste strategie non hanno cacciato l'Is da nessuno dei suoi principali territori, sebbene gli abbiano impedito di attaccare direttamente Baghdad ed Erbil e di massacrare gli sciiti e i curdi che vi abitano. Alcuni osservatori, tra cui alcuni prevedibili esponenti della destra interventista, hanno chiesto a gran voce un inasprimento dell' offensiva e reclamato il dispiegamento di decine di migliaia di soldati americani. Simili esortazioni non dovrebbero essere sminuite troppo frettolosamente: un'organizzazione dichiaratamente genocida si trova alle porte delle sue potenziali vittime e commette ogni giorno atrocità nei territori che già controlla. Un modo per annullare il sortilegio che lo Stato Islamico esercita sui propri sostenitori sarebbe quello di sopraffarlo militarmente e occupare le zone della Siria e dell'Iraq attualmente in mano al Califfato. Al Qaeda non può essere sradicata perché è in grado di vivere sottoterra, come uno scarafaggio. Lo Stato Islamico no. Se perde la propria presa sul suo territorio in Siria e in Iraq cesserà di essere un Califfato. I Califfati non possono esistere sotto forma di movimenti clandestini, perché richiedono un'autorità territoriale. L'Is potrebbe non riprendersi più se tutte le sue forze raccolte a Dabiq venissero sconfitte. Debitamente contenuto, lo Stato Islamico è probabilmente destinato a causare la propria fine. Nessun Paese gli è alleato e la sua ideologia garantisce che ciò non cambi. Le terre che controlla, benché vaste, sono perlopiù disabitate e povere. Mentre langue o si rimpicciolisce lentamente, la sua convinzione di essere motore della volontà di Dio e agente dell' Apocalisse perderanno vigore e i fedeli che si uniscono alle sua fila saranno sempre meno. Con il diffondersi di nuove testimonianze di infelicità dal suo interno, anche gli altri movimenti islamisti radicali saranno screditati: nessuno ha cercato con maggiore determinazione di implementare con la violenza la stretta osservanza della Sharia. Ed ecco i risultati. Anche se le cose andassero in questo modo è improbabile che la morte dello Stato Islamico avvenga rapidamente e non è detto che le cose non possano prendere comunque una piega disastrosa. Se Al Qaeda giurasse fedeltà allo Stato Islamico, incrementando ad un tratto l' unità della sua base, potrebbe trasformarsi nel nostro peggior nemico. In mancanza di una simile catastrofe, o forse della minaccia che Stato Islamico attacchi Erbil, una vasta invasione di terra peggiorerebbe di certo la situazione. V. DISSUASIONE Definire il problema dello Stato Islamico "un problema con l'Islam" sarebbe facile, addirittura scagionatorio. La religione consente molte interpretazioni e i sostenitori dell'Is sono moralmente responsabili per quella da loro scelta. Tuttavia, limitarsi a denunciare lo Stato Islamico come nonislamico può essere controproducente, soprattutto se coloro a cui giunge tale messaggio hanno letto i testi sacri e visto come questi giustificano chiaramente molte delle pratiche del Califfato. I musulmani possono dire che la schiavitù oggi non è legale e che nel nostro contesto storico la crocifissione è sbagliata. Molti di loro affermano precisamente questo. Tuttavia non possono condannare esplicitamente la schiavitù o la crocifissione senza entrare in contraddizione con il Corano e l'esempio del Profeta. «L'unica posizione fondata che gli oppositori dello Stato Islamico potrebbero adottare afferma Bernard Haykel è quella di dire che alcuni testi fondamentali e alcuni insegnamenti tradizionali dell'Islam non sono più attuali». E quello sarebbe davvero un atto di apostasia. I funzionari occidentali farebbero probabilmente meglio a trattenersi del tutto dal commentare su aspetti relativi al dibattito teologico islamico. Lo stesso Barack Obama ha lambito il tema del takfiri quando ha affermato che lo Stato Islamico è «nonislamico». Sospetto che la maggior parte dei musulmani concordino con Obama: il presidente ha preso le loro parti sia contro Al Baghdadi che contro i non musulmani sciovinisti che tentano di addossare loro gesti criminosi. I musulmani però, nella maggior parte, non sono inclini a unirsi alla jihad. E coloro che invece lo sono, vedranno semplicemente confermati i loro sospetti: ovvero, che gli Stati Uniti mentono sulla religione per propri scopi. Nel ristretto ambito della propria ideologia, lo Stato Islamico ferve di energia e persino di creatività. Ma al di fuori da esso difficilmente potrebbe essere più arido e silenzioso: una visione della vita come obbedienza, ordine, e destino. Musa Cerantonio potrebbe mentalmente passare dal contemplare le uccisioni di massa e la tortura eterna a discutere le virtù del caffè vietnamita o dei dolci al miele. Potrei godere della sua compagnia come di un vizioso esercizio intellettuale, ma solo sino a un certo punto. Quando recensì Mein Kampf nel marzo del 1940, George Orwell confessò di «non essere mai riuscito a detestare Hitler»; qualcosa in quell' uomo emanava un'aria da perdente, anche quando le sue mire erano vili o aberranti. «Se stesse uccidendo un topolino, saprebbe come farlo sembrare un drago». I partigiani dello Stato Islamico condividono in parte quello stesso atteggiamento: credono di essere coinvolti in una lotta che va oltre la propria vita e che essere risucchiati dalla tragedia stando dalla parte della virtù sia un privilegio e un piacere, soprattutto quando è al tempo stesso un peso.

LA STAMPA Euro debole perché l’Europa è debole di Mario Deaglio

Per acquistare mille euro alla fine dello scorso luglio si dovevano pagare 1350 dollari. Il 18 dicembre ne bastavano 1250, una perdita di valore dell’euro nei confronti della moneta americana del 7,4 per cento. Con l’arrivo dell’inverno la caduta si è fatta vorticosa: il cambio dell’euro scese sotto il livello di 1200 dollari ai primi di gennaio, sotto i 1150 a metà febbraio, sotto i 1100 dollari ai primi di marzo. Alla chiusura del mercato di venerdì, mille euro si compravano con 1049,6 dollari, una flessione del 22,2 per cento da fine luglio. Molti osservatori ritengono che già questa settimana si potrebbe arrivare alla parità tra le due monete. In termini immediati e diretti quest’andamento del cambio contiene un messaggio robustamente positivo: chi oggi compra beni e servizi dell’area euro li paga «a prezzi di saldo», come ha felicemente titolato sabato questo giornale. Le esportazioni della zona euro sono diventate più competitive rispetto a quelle di Cina e Giappone, i più importanti rivali commerciali dell’Europa, perché, contro dollaro, il cambio della moneta cinese è rimasto pressoché costante e il cambio della moneta giapponese si è indebolito ma assai meno di quello dell’euro. Tutto ciò comincia a tradursi in maggiori ordini e maggiori esportazioni europee verso gli Stati Uniti (queste ultime cresciute a gennaio di quasi il 25 per cento rispetto al gennaio 2014). Per l’Italia in particolare, con l’Expo e ora anche con l’Anno Santo, inaspettatamente proclamato da Papa Francesco, tutto ciò dovrebbe tradursi in un aumento delle stime sugli arrivi di turisti e di pellegrini non europei. I vantaggi di cadute di queste dimensioni sono in genere transitori perché risultano presto compensati, almeno parzialmente, dagli aumenti di prezzo delle importazioni di materie prime, indispensabili alla produzione, soprattutto petrolio e altri idrocarburi, tutti pagati in dollari divenuti sensibilmente più cari per gli europei. A completare questo terremoto, però il prezzo internazionale del petrolio si è ridotto di oltre il 50 per cento in pochi mesi, ossia più del doppio della perdita di valore dell’euro nei confronti del dollaro. Per conseguenza, il petrolio oggi costa agli importatori europei il 2530 per cento in meno dell’estate scorsa e andamenti analoghi riguardano anche le altre materie prime. Alle materie prime meno care e al cambio favorevole si aggiunge anche il denaro a buon mercato che deriverà nei prossimi mesi dall’immissione di liquidità da parte della Bce. Se le imprese, com’è ragionevole pensare, coglieranno queste opportunità, le previsioni di crescita europea e italiana del 201516 dovranno essere riviste sensibilmente all’insù. Se guardiamo più lontano, il discorso si fa meno chiaro. Il cambio alla pari tra euro e dollaro potrebbe facilitare anche la grande intesa economico commerciale nota con la sigla Ttip, un «partenariato» tra Stati Uniti e Unione Europea non solo per il commercio ma anche per gli investimenti. L’accordo non piace a molti europei, i quali temono, con un briciolo di ragione, un’intesa apparentemente solo tecnica ma con molti risvolti politici che porrebbe gli europei in condizioni di inferiorità, quasi costretti a mangiare cereali americani geneticamente modificati e carne di bovini americani allevati con gli ormoni. Sin qui, non abbiamo affrontato la domandachiave: perché l’euro è sceso in maniera così vistosa e così improvvisa? Per la crisi greca, si pensa in maniera facile e sbrigativa. Oltre alla Grecia, però, si individua un diffuso «malessere europeo». Gli interrogativi di fondo non passano tanto per Atene quanto per Bruxelles e Strasburgo dove si sono ormai smorzate le spinte ideali a creare un’unica grande casa per gli europei e dove invece si è creata un’unica grande burocrazia che si sovrappone a quelle nazionali e che ha difficoltà ad affrontare in maniera veramente trasparente il grande negoziato commerciale con gli Stati Uniti. Più che Atene conta Londra, dove le elezioni politiche ormai imminenti potrebbero dare il via all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Al «malessere europeo» non contribuiscono soltanto le difficoltà a impostare una politica unica per l’energia e l’immigrazione, e a ridurre le divergenze tra i sistemi di tassazione ma anche e forse soprattutto contrasti profondi sul significato di libertà. Lo dimostrano le reazioni discordanti al gravissimo attentato parigino a Charlie Hebdo la diversità di posizioni sul diritto a usare qualsiasi linguaggio offensivo, satirico o meno, nei confronti di avversari politici o religiosi. Dietro all’imponente variazione dei cambi si intravede così una scarsa condivisione di valori tra gli europei: alla discesa del cambio dell’euro fa da contrappunto la miopia, talvolta la meschinità, non solo economica della società e della politica europee.

IL GAZZETTINO Pag 1 Sindacati e politica, un rapporto poco trasparente di Oscar Giannino

Sarà davvero interessante capire a che cosa stia pensando il governo, in merito a una legge di attuazione degli articoli 39 e 49 che riguardano sindacati e partiti. Se fosse una mera ripicca alla “coalizione sociale” cui lavora Maurizio Landini, sarebbe un grave errore. Serve un meditato intervento organico, che codifichi norme di democrazia e trasparenza. I sindacati in Italia hanno sempre fatto politica, collaterale ai vecchi partiti un tempo e ora con qualche difficoltà. Ma politica l’hanno sempre fatta, perciò la politica si è ben guardata dall’adempiere la Costituzione con una legge che disciplinasse la registrazione dei sindacati ancorandola a norme di democrazia e doveri di trasparenza. Quanto ai partiti, di fatto anch’essi libere associazioni non riconosciute e senza personalità giuridica, in Parlamento si sono ben guardati dal redigere una legge che garantisse davvero la propria democrazia interna. Sono intervenuti a proprio favore a raffica solo per darsi soldi pubblici, e allegramente infischiandosene del voto referendario abrogativo del finanziamento pubblico, che ora con la riforma votata nel 2014 scalerà a diminuire via via, fino a scomparire nel 2017 se i partiti non lo reintrodurranno. Guarda caso, i minimi requisiti formali per la redazione dei bilanci dei partiti previsti entro il 31 dicembre scorso sono stati protratti dal decreto Milleproroghe. Per i partiti, l’aspetto delicato – risolto il finanziamento è la codificazione in statuti di obblighi nei confronti dei loro iscritti: obblighi di accesso ai conti e all’elenco degli associati, obblighi di procedere a primarie con modalità fissate e secondo liste certificate, obblighi di democrazia interna da osservare negli organi statutari, nelle rappresentanze come nei procedimenti disciplinari. In 70 anni, la diffidenza verso una disciplina legislativa dei sindacati si è fatta forte di due timori. Quello di violare l'autonomia organizzativa e l'iniziativa sindacale propria della specificità di ciascuno di essi. E, soprattutto, il freno è venuto dal rischio che la maggioranza politica di un colore scrivesse regole “contro” questo o quel sindacato. Dopo 20 anni di governi a colore alterno, si può sperare che i timori siano svaniti? Stante la conflittualità tra Pd oggi architrave del governo, e Cgil Fiom, si direbbe di no. Ma sperar non nuoce. Distinguiamo i due punti essenziali per ogni tentativo legislativo in materia sindacale. Il primo riguarda la rappresentanza perché i contratti siano “esigibili” erga omnes. Il secondo: le finanze. Sulla rappresentanza, ci si è avvalsi nei decenni di accordi interconfederali tra sindacati e associazioni datoriali. L’ultimo è del gennaio 2014, sottoscritto anche dalla Cgil dopo che il precedente nel 2011 non l’aveva firmato. Il tema è aperto, anche perché sulla questione ci sono divisione all’interno delle sigle stesse che vanno chiarite. C’è poi un capitolo altrettanto delicato: che riguarda le trattenute sindacali, l’intero comparto del finanziamento pubblico sindacale, e degli obblighi di rendicontazione contabile e patrimoniale. L’anno scorso sottolineammo che si aggira sul miliardo di euro l’anno la cifra stimata di fonte pubblica che affluisce nei bilanci sindacali. I tre segretari confederali replicarono attribuendo la cifra a un intento malevolo, ma non fornirono un’analitica riaggregazione delle cifre che smentisse la nostra stima. Senza legge, restando i sindacati libere associazioni non riconosciute, sono solo soggetti ai magri articoli del codice civile che disciplinavano nel 1942 tale forma di libera organizzazione dei corpi intermedi. I rendiconti economici annui pubblicati da Cgil, Cisl e Uil, sono meri riepiloghi di cassa, non un bilancio analiticamente completo di centro e periferia, di ogni spesa e ogni trasferimento ricevuto, dell’ammontare degli attivi mobiliari e immobiliari nonché delle passività di ogni genere. In assenza di bilanci consolidati resi pubblici, purtroppo, si possono solo stimare le entrate aggiuntive oltre ai finanziamenti diretti tramite le ritenute salariali, e cioè i finanziamenti pubblici che arrivano tramite l’attività degli enti parasindacali, come patronati, Caf ed enti bilaterali, e infine i finanziamenti percepiti tramite la retribuzione percepita dai lavoratori per lo svolgimento di attività di natura sindacale durante l’orario di lavoro. Se i trasferimenti pubblici per Caf e Patronati fossero del tutto equivalenti a ciò che i lavoratori pagano a tal fine, le loro cifre non sarebbero comprese nel rendiconto generale della spesa dello Stato, sotto la voce «contributo pubblico al finanziamento degli istituti di patronato e di assistenza sociale». Né Giuliano Amato avrebbe ricevuto dal governo Monti l’incarico di redigere un rapporto sul finanziamento diretto e indiretto dei sindacati. Non sappiamo se davvero il ministero del Lavoro eroghi ai patronati lo 0,226% dei contributi obbligatori incassati dall’Inps, dall’Inpdap e dall’Inail tenendo conto, e come, per davvero anche della loro concreta organizzazione, come prescrive la legge. L’obbligo di anonimato sulle liste dei distacchi sindacali, tagliati dal governo Renzi nella P.a., è ormai una garanzia antidiluviana. Ed è troppo, voler sapere il preciso ammontare dei patrimoni immobiliari sindacali, esente dalla tassazione che tocca a noi tutti? Non ci aspettiamo che il governo Renzi adotti il modello di un sindacato finanziato da soli contributi liberi e volontari, senza ritenute alla fonte obbligatorie per legge e con propri fondi previdenziali integrativi, in modo che ciascuno possa essere giudicato sulla gestione più efficiente. Pensiamo tuttavia che per primi i dirigenti sindacali guadagnerebbero consensi, tra i loro iscritti e soprattutto tra i molti milioni in più di lavoratori che non lo sono, se non dicessero no a nuovi e penetranti obblighi di trasparenza, loro che sono i primi a chiederli, e giustamente, alle imprese.

Pag 16 Cattolici in politica per costruire una società solidale di Paolo Bonafè

Ad ogni tornata elettorale, riemerge la questione della rappresentanza politica del mondo cattolico. L’avvio di ogni ragionamento non può prescindere dal Concilio che ha sancito l’autonomia e la responsabilità dei credenti laici nell’impegno sociale e politico e il conseguente pluralismo delle opzioni politiche per i cattolici. Del grande fermento, seguito ai pronunciamenti conciliari, è significativo questo stralcio del discorso di Aldo Moro al Congresso di Napoli del 1962: «Anche per non impegnare in una vicenda estremamente difficile e rischiosa l’autorità spirituale della Chiesa c’è l’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica (...). L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza di valori cristiani nella vita sociale. E nel rischio che corriamo, nel carico che assumiamo c’è la nostra responsabilità morale e politica...». A fronte delle tante testimonianze, la storia politica italiana è stata anche intessuta dalla contraddizione di relazioni con la gerarchia cattolica, connotate da vicinanze strumentali, da una ricerca di legittimazione che poco hanno rispettato il principio evangelico “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Ma l’avvento sullo scenario di Papa Francesco ha fatto saltare schemi e logiche consolidate, impegnando la Chiesa a sciogliere i legami con il potere, e in particolare con quello politico. Nessun politico di estrazione cattolica può, quindi, avocare a sé la rappresentanza di un mondo composito e ricco, ma come credente ha la responsabilità di partire dalla “vocazione al bene comune”, per dare il proprio contributo alla costruzione di una società giusta e solidale, tenendo sempre presente una frase di S. Ignazio di Antiochia: “È meglio essere cristiano senza dirlo che proclamarlo senza esserlo”.

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CORRIERE DELLA SERA di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Ma serve ancora votare? di Angelo Panebianco

Il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, tra un attacco alla Germania e l’altro, ha anche dichiarato che, per arrivare a un accordo con l’Europa, il suo governo è pronto a rinviare alcune promesse elettorali. Poiché i greci non vogliono suicidarsi e il resto d’Europa (con l’apparente eccezione del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble) sembra pensare che Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro, sarebbe un disastro per tutti, è possibile che alla fine si riesca a trovare un compromesso. In tal caso, la speranza di aver chiuso definitivamente la partita greca sarebbe talmente forte che governi, autorità dell’Unione, mass media, cercherebbero di presentare il compromesso come un grande successo. Però, stiano attenti alla natura del compromesso che si realizzerà (se si realizzerà) perché il suddetto «successo» potrebbe anche essere l’anticamera di un più generale fallimento, quello dell’Unione. Quale è il grande e irrisolto problema dell’Europa oggi? È il «disallineamento» in atto da tempo fra il patto europeo e le regole e i principi su cui si reggono tuttora le democrazie nazionali (europee): il primo (il patto) impone che gli impegni presi reciprocamente fra i governi dell’Unione debbano essere rispettati, i secondi (le regole e i principi) impongono che i governi rispondano prima di tutto ai loro elettorati e soltanto dopo, solo in seconda istanza, all’Unione. La data emblematica in cui prende il via, platealmente, il processo di disallineamento è il 2005. Fino ad allora, integrazione europea e democrazie nazionali avevano quasi sempre marciato insieme (con qualche eccezione, soprattutto all’epoca del gollismo negli anni Sessanta). Nel senso che gli accordi in sede europea erano sempre stati tacitamente accettati e sottoscritti dai vari elettorati. Nel 2005, il referendum francese che affondò il trattato costituzionale europeo fu il primo segnale della grande svolta: ormai non era più pacifico o automatico che gli elettorati trangugiassero senza fiatare tutti i cocktail (o gli intrugli) preparati a Bruxelles. Poi la crisi economica ha fatto il resto: oggi il disallineamento è assai forte. Da un capo all’altro del Vecchio Continente ci sono ormai tanti leader politici che ottengono grandi ascolti e mietono successi elettorali contrapponendo la democrazia (nazionale), le prerogative degli elettori, i diritti dell’uomo comune, alla «dittatura» europea, al potere, più o meno anonimo, delle eurotecnocrazie, alla «arroganza» della Germania, eccetera, eccetera. Conta poco il fatto che nella propaganda antieuropea ci siano, oltre a qualche verità, anche diverse bugie. Importa che, per effetto sia di una lunga crisi economica che degli errori commessi nel corso del tempo dalle autorità europee, quella propaganda faccia breccia in porzioni non irrilevanti degli elettorati. Allora, attenti alla natura del compromesso che ci sarà (se ci sarà) fra i greci e l’Europa. Se potrà essere letto soprattutto come una vittoria dei greci, scatenerà i rancori dell’opinione pubblica tedesca e dei Paesi più vicini all’orientamento tedesco: sarà letto come il successo degli imbroglioni (quelli che truccano i conti), degli scialacquatori, dei parassiti che vivono alle spalle altrui. Niente di buono si preparerebbe allora per l’Unione. Se il compromesso sarà invece letto come una sconfitta del governo greco, allora il messaggio generale che verrà usato e rilanciato da tutti i leader antieuropei sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello. Anche in questo secondo caso un futuro piuttosto cupo si preparerebbe per l’Unione. Un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una catastrofe per l’Europa, dicono quasi tutti. E se lo dicono quasi tutti, sarà vero. Però, alla Grecia un Paese che non avrebbe mai dovuto essere ammesso nell’Europa monetaria si chiedono «riforme» che dovrebbero trasformarla in una «buona economia di mercato» (come ha osservato Giacomo Vaciago, Il Sole 24Ore , 11 marzo), in quanto tale compatibile con la moneta unica. Il punto, naturalmente, è che nessun governo greco è in grado di riuscire nell’impresa, men che mai in tempi brevi. Figuriamoci poi se può farlo un governo formato da una coalizione fra un partito di estrema sinistra (Syriza) e una formazione di destra (Greci Indipendenti). Sarebbe come se in Italia qualcuno chiedesse a un eventuale governo presieduto da Nichi Vendola e appoggiato dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, di lavorare per il libero mercato. Vendola e Meloni (giustamente, dal loro punto di vista) penserebbero che a quel qualcuno manchi una rotella. Grexit, dicono tante voci autorevoli, sarebbe un disastro. E chi siamo noi per dubitarne? Non tutte le alternative, però, sono migliori.

IL GAZZETTINO di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 Il bipolarismo al tempo dei due Matteo di Mario Ajello

Il nuovo bipolarismo, sbilanciato, è pronto. Ed è quello dei due Matteo: Renzi da una parte, Salvini dall'altra. Con il primo Matteo in netto vantaggio sul secondo. Intorno a loro, ci si agita, ci si divide, ci si dilania, si tentano creazioni varie in queste ore quella degli "uomini liberi" di Flavio Tosi e quella della "coalizione sociale" di Maurizio Landini e combinazioni inedite almeno sul terreno locale. Per esempio la strana convergenza tra il sindaco veronese, i seguaci postberlusconiani di Raffaele Fitto e il Nuovo Centrodestra di Alfano. Ma questi sono i contorni. La scena dominante é quella che vede contrapposti i due Matteo. Con la Lega che ha superato nei sondaggi Forza Italia. E con il Carroccio, non solo in Veneto, che sarà il vero antagonista del Pd di Renzi alle elezioni regionali di maggio. Se Salvini vince in Liguria (non impossibile) o in Toscana (improbabile) con i suoi candidati opposti a quelli democrat, ciò costituirà non soltanto una rivoluzione geopolitica ma soprattutto il rafforzamento plateale di uno dei due poli, quello leghista, che comunque rispetto al polo Renzi é di gran lunga inferiore nei consensi a livello nazionale ma destinato a rafforzarsi sull'onda del disfacimento dei grillini e dei forzisti. E anche contando sul fatto che il partito Landini qualcosa potrà erodere sul versante sinistro del Pd, dove molti elettori sono sempre più dubbiosi rispetto a quella che chiamano la "deriva neocentrista" di Renzi. E Berlusconi? E Alfano? Il leader azzurro, in questa fase di campagna elettorale, fa la voce grossa contro il governo, pur trovandosi nella difficile condizione di volere occupare uno spazio l'opposizione senza se è senza ma ampiamente coperto ormai dai rivali leghisti. Mentre Alfano a livello locale sta per lo più con il centrodestra ma resta saldamente e in maniera soddisfatta alleato di governo del Pd e lo sarà fino al 2018. Il vero paradosso di questo quadro politico di nuovo molto movimentato è che in prospettiva la tanto sbandierata ricostruzione del centrodestra, tra Berlusconi e Alfano, potrebbe avvenire sotto le insegne del centrosinistra. Ovvero? Che Alfano molli Renzi dopo averci governato insieme pare altamente improbabile. Così come è facilmente immaginabile che Berlusconi, passata la sfuriata elettorale, preferisca rientrare con il suo partito sempre più piccolo in una logica di ricomposizione del dialogo con Renzi. Non serve un Patto del Nazareno bis, basta che Forza Italia torni a votare le riforme elettorali e istituzionali che ha preparato con il premier e che convengono a Berlusconi: si pensi ai cento capilista bloccati nell'Italicum. Tra un riavvicinamento a Renzi (convenientissimo dal punto di vista aziendale) e una resa senza condizioni a Salvini come nuovo bomber del centrodestra (che lo considera "un leader del passato", etichetta giudicata irricevibile e "umiliante" da Silvio), Berlusconi potrebbe finire per scegliere l'opzione numero uno. Quella di fare l'ala destra, in condominio non pacifico con Alfano, del Partito della Nazione di Matteo. Mentre l'altro Matteo si godrá la sua solitudine certamente minoritaria ma finché il centrodestra non troverà qualcuno che lo rimette insieme e non potrà essere più Berlusconi Salvini si giocherà agilmente la sua partita. Vedendo fino a quanto può crescere nel campo che si è scelto.

Pag 1 Russia e Ucraina, ecco perché la tregua tiene di Romano Prodi

E’ passato un mese dal faticoso accordo sull’Ucraina firmato a Minsk fra Putin da un lato e Merkel e Hollande dall’altro. Un accordo che prevede una tregua progressiva, con clausole di ritiro degli armamenti pesanti e interventi umanitari indirizzati ad alleviare le conseguenze di un conflitto che ha già sparso abbastanza sangue. A un mese di distanza possiamo constatare che l'accordo tutto sommato tiene. Non perché sia scoppiata la pace, ma perché entrambi i contendenti sono esausti e timorosi per il futuro. Da parte Ucraina la debolezza militare è apparsa crescente, mentre l'economia è totalmente al collasso. Il paese, già martoriato da una crisi senza fine, vede un ulteriore crollo del proprio reddito nazionale mentre il bilancio dello stato ha potuto evitare l'immediata bancarotta solo dopo un pesante intervento del Fondo Monetario Internazionale. Il paese è esausto per le tragedie degli ultimi decenni e per la devastazione operata dai successivi governi, sempre dominati dagli oligarchi. Quando si è dissolta l'Unione Sovietica il reddito procapite ucraino era superiore a quello polacco, mentre oggi è meno di un terzo di quello della Polonia e gli oligarchi ucraini sono diventati sempre più ricchi. La tregua appariva necessaria anche per la Russia, in pesante difficoltà sia per effetto della diminuzione del prezzo del petrolio che per il crescente peso delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea. Da parte russa non vi era quindi interesse ad alzare il livello del conflitto fino al punto in cui esso poteva uscire da ogni forma di controllo, anche perché è obiettivo russo fare diminuire il livello delle sanzioni e, nello stesso tempo, fare dimenticare alla comunità internazionale l'annessione della Crimea. Si tratta quindi di una tregua che, almeno nel prossimo futuro, ha tutti gli elementi per essere rispettata ma che è ancora ben lontana da trasformarsi in una vera pace. Da parte occidentale, infatti, si pretendono garanzie riguardo alla sicurezza e all'integrità territoriale dell'Ucraina ( con o senza la Crimea?) mentre, da parte russa, l'obiettivo minimo è l' autonomia delle provincie russofone, accompagnata da un' opposizione radicale all'ipotesi che l'Ucraina possa diventare membro della Nato. Il cammino verso un accordo non è quindi né facile né vicino, anche perché i paesi europei, pur avendo tutti accettato la tregua di Minsk, non nutrono gli stessi sentimenti nei confronti della Russia: dall'irriducibile avversità di Polonia e dei Paesi baltici si passa a posizioni progressivamente meno drastiche di Francia, Germania e Italia, fino a politiche di sempre maggiore vicinanza alla Russia da parte di Grecia e Ungheria. La tregua, tuttavia, offre almeno il tempo per cercare un compromesso possibile, con garanzie internazionali alla sicurezza e all'indipendenza dell'Ucraina anche senza l'allargamento della Nato, a cui Francia, Italia e Germania si erano già opposte nel 2008, e con aiuti finanziari volti a evitare la bancarotta del paese. Un fallimento che non danneggerebbe solo l'Unione Europea ma anche la Russia, che è il maggiore creditore del governo ucraino. Negli ultimi giorni, comunque, si é inaspettatamente aperto un fronte che sembra creare tensioni fortissime non all'interno dell'Unione Europea ma fra gli Stati Uniti e la Germania, che è stata l'attiva protagonista degli accordi di Minsk. L'autorevole settimanale tedesco Spiegel accusa il generale Breedlove, comandante supremo della Nato in Europa e, soprattutto, il vice segretario di Stato americano incaricato per gli affari europei Victoria Nuland, di boicottare il processo di pace di Minsk allo scopo di riattivare il conflitto con un esercito ucraino più efficiente perché armato ed istruito dagli Stati Uniti. I dati forniti dal responsabile della Nato sul dispiegamento delle truppe russe sarebbero stati volutamente esagerati, mentre le accuse della Nuland non solo risulterebbero offensive nei confronti della politica europea ma addirittura derisorie nei confronti dell'Europa stessa. La pressione su Obama sarebbe così forte che, se la tregua non tenesse, gli sarebbe molto difficile continuare a rifiutare l'invio di "armi difensive" all'esercito ucraino, provocando un'analoga reazione da parte russa e, di conseguenza, un drammatico aggravamento della crisi. L'articolo dello Spiegel è redatto con dovizie di particolari e con il non nascosto messaggio che le informazione e i giudizi in esso contenuti provengono dalla stessa cancelleria tedesca. Queste tensioni fra la Germania (che a Minsk ha finito col rappresentare l'intera Europa) e gli Stati Uniti non si sono ancora tradotte in una diversa linea politica anche perché il presidente Obama è ancora saldamente in sella e non rappresenta la linea espressa dai suoi presunti rappresentanti, ma questa diversità non può non avere influenze negative sui comportamenti dei governanti russi ed ucraini, rendendo in tal modo più difficili le future trattative. Bisogna quindi essere molto attenti ed attivi nella ricerca di un necessario compromesso, di cui l'accordo di Minsk costituisce il primo passo. L'unico fatto consolante di questa sconsolante vicenda è che queste dichiarazioni e questi comportamenti volti a rialzare il livello di tensione non si sarebbero mai verificati se non fossimo finalmente arrivati vicini a un possibile compromesso. È noto infatti che più la pace è a portata di mano, più i falchi diventano aggressivi.

LA NUOVA di domenica 15 marzo 2015 Pag 1 "Podemos" in versione italiana di Francesco Jori

Va di moda lo straniero. La sempre affollata passerella della politica su cui sfilano le collezioni primaveraestate, ha proposto ieri l’ennesima novità: la versione italiana della spagnola “Podemos!”, lanciata dallo stilista Landini. È ancora fresco il ricordo del debutto della variante greca alla Tsipras riverniciata in tricolore: intuizione non tanto felice, in verità, visto che l’originale a poche settimane dal voto vincente si trova a dover fronteggiare critiche e dissensi dalla sua stessa coalizione. Ma tant’è, gli attori della scena pubblica italiana sono affetti da inguaribile esterofilìa: preferiscono copiare (male) dagli altri, forse per carenza di idee proprie. Ci prova ora il ruspante e rampante segretario della Fiom, l’ala dura della Cgil, mettendo in campo un restyling del vecchio modello Cipputi con la felpa al posto della tuta. Il progetto è dare vita a un contenitore del frastagliato mondo della sinistra alternativa, in cui i diversi malumori e dissensi nei confronti della lineaRenzi possano trovare una sintesi condivisa. È un po’ quello che si propongono i sostenitori del marchio Tsipras; solo che loro si sono mossi dopo il successo in Grecia, mentre Landini lo fa in chiave preventiva, guardando alla probabile vittoria di Podemos! in Spagna. Certo, il contesto di Madrid è del tutto diverso, così come lo è quello di Atene; ma visto da Roma è un trascurabile dettaglio. E pure il fatto che la Cgil guardi in cagnesco all’iniziativa, in fondo serve al segretario Fiom: perché conferma le accuse di chi imputa al sindacato di tutelare i già garantiti, mentre lui vuole parlare anche all’arcipelago dei senza tutela. E tuttavia un limite c’è. Con i suoi 54 anni, Landini è anagraficamente un giovane nel gerontocomio della politica italiana. Però, avendone trascorsi una trentina a fare il sindacalista a tempo pieno, dovrebbe avere memoria degli infiniti e fallimentari cantieri della sinistra alternativa. Documentati da un florilegio di sigle, di cui non sarà ozioso riproporre una peraltro non esaustiva cernita: Carc (comitati di appoggio alla resistenza comunista), Lotta comunista, Comunisti sinistra popolare, Partito comunista dei lavoratori, Partito comunista d’Italia, Rivoluzione civile, Federazione della sinistra, L’Altra Europa con Tsipras, Sinistra democratica, Partito marxistaleninista italiano... C’è ancora chi commemora ogni anno l’anniversario della morte di Mao Tse Tung, e chi nel 2003 ha pianto e rimpianto i cinquant’anni della morte di Stalin. Un’offerta nutrita, cui vanno aggiunti pure i vari rivoli confluiti in Sel, e la variegata tavolozza delle varianti di verde utilizzate per proporre plurime repliche dei Verdi originari. Senza mai approdare a consensi elettorali significativi, e in non pochi casi serviti solo per garantire un posticino sia pure di comparsa sul palcoscenico della politica a sempiterni reduci del passato. Certo, Landini spiega che non vuol fare un partito; per ora, si affretta però ad aggiungere. Sì o no? Ni. Intanto, preannuncia l'ormai classica discesa in campo con l’immancabile manifestazione pubblica del 28 marzo a Roma. Che sarà sicuramente affollata, ci mancherebbe: con tanto di fieri proclami dal palco accolti da sonore ovazioni. A microfoni spenti, il segretario Fiom farebbe bene però a ripassare la lezione dei tanti suoi predecessori che hanno inscenato il medesimo rito, incluso l'ultimo di turno, il leghista Salvini. Sfollando dalla piazza, a evento concluso, la gente non passa direttamente alle urne, ma torna a casa, e in larga misura ci rimane. Perché sui numeri delle manifestazioni si può discutere e si discute. Ma su quelli delle urne, non est disputandum. E con i voti che ha preso finora, da Roma la sinistra alternativa non arriva non si dice in Spagna, ma neppure a Orte.

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CORRIERE DELLA SERA di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Berlusconi e l'insofferenza per Salvini "il populista" di Francesco Verderami

Berlusconi si è proprio rotto di questo «goleador», i cui atteggiamenti iniziano a ricordargli quelli di Balotelli, la «mela marcia» che temeva potesse rovinare l’armonia nello spogliatoio rossonero. E se da presidente del Milan ci mise del tempo prima di liberarsi del giocatore, da leader di Forza Italia sta esaurendo la pazienza verso il segretario del Carroccio, quella «testa matta» è la sua definizione che gioca per sé irridendo persino la squadra. Non gli va giù il modo in cui Salvini lo tratta, insomma. Così ieri, dopo essersi sentito etichettare come un leader «del passato», ha deciso che era giunto il momento di reagire. E quando ad Arcore, durante una riunione sulle Regionali, gli hanno chiesto se l’eventuale candidatura di Tosi in Veneto fosse un’opzione da scartare, ha risposto d’istinto: «No, no. Questo asso teniamolo nel mazzo...». È da vedere se davvero Berlusconi romperà con il segretario della Lega per allearsi con il sindaco di Verona. Sarebbe un evento clamoroso, non solo perché con Zaia che è stato suo ministro ha un ottimo rapporto, mentre con Tosi ci sono vecchie storie tese. Ma il problema è Salvini, la sua linea, gli atteggiamenti che proprio non gli piacciono. L’altro giorno, a pranzo con il presidente del Ppe Daul, ha fatto una tirata dopo che l’ospite gli aveva raccomandato l’unità del centrodestra alle prossime elezioni: «In Francia abbiamo perso praticamente dappertutto per questo problema». «E io mi sto impegnando», ha replicato il leader di Forza Italia: «Io dico che dobbiamo andare tutti insieme, però Salvini...». E giù una collezione di apprezzamenti: «Non mi piacciono i suoi toni arroganti, non mi piace il suo populismo, non mi piace la deriva estremista che ha fatto prendere alla Lega». Pensava di applicare con l’uomo in felpa lo stesso metodo adottato con il ragazzo in maglietta, che trangugiò a Milanello nella speranza gli facesse gol. Ma quella è la sua squadra, questo invece è un altro partito, con un altro capo, peraltro assai diverso da Bossi. E allora, visto che Salvini continua a comportarsi come Balotelli, il presidente (di Forza Italia) ha deciso di dargli un avvertimento, strizzando l’occhio a Tosi. Di lui gli hanno parlato a tavola alcuni fedelissimi, «in Veneto ha la Chiesa che lo sostiene». Di lui ha letto ieri una nota, nella quale il sindaco di Verona sosteneva che «se Berlusconi si candidasse alle primarie del centrodestra, le vincerebbe». Un vero e proprio controcanto a Salvini, che poche ore prima aveva liquidato l’argomento: «Berlusconi non può essere più leader». Quella dell’ex premier sarà una mossa tattica, presto lo si capirà, perché l’idea di tenere «l’asso nel mazzo» potrebbe servire a provocare una reazione nella Lega. Soprattutto in Zaia, che da candidato in Veneto è esposto per quanto sia favorito, e che avrebbe vinto senza far nemmeno campagna elettorale se solo avesse potuto ripresentarsi con la stessa squadra di governo regionale. Non a caso Tosi, che promette di far danni nella Lega, si è espresso in quel modo verso Berlusconi. In politica nulla è fatto gratis, e c’è un motivo quindi se il sindaco di Verona ripete che «bisogna riunificare il centrodestra», se anche Alfano prova a verificare le reali intenzioni del «dottore» e gli offre una sponda: «Quando Tosi sceglierà se candidarsi, valuteremo. Certo, se Forza Italia ci stesse, potremmo condividere una candidatura in Veneto». È chiaro che su al Nord non è in gioco (solo) una poltrona da governatore ma si sperimentano i futuri assetti di quello che fu il campo dei moderati. E il ministro Lupi esorta Berlusconi a fare ciò che sempre ha fatto: «Dalla nascita del Pdl, all’idea del governo delle larghe intese, fino al patto del Nazareno, ha avuto sempre l’intuito per costruire progetti importanti, tranne poi interromperli. La storia gli offre ora un’altra possibilità, riproponendolo davanti a un bivio: può essere protagonista di un progetto nuovo o decidere di percorrere la strada segnata da Salvini». In effetti, per una mano, Berlusconi può tenere il banco al tavolo del centrodestra. E dal mazzo per il momento non ha ordinato di scartare Tosi: «No, no. Teniamolo». Se il leader di Forza Italia tentenna, però, non è solo a causa della sopravvenuta debolezza politica, ma anche del suo status di cittadino «perennemente inseguito dalla giustizia». L’assoluzione per il caso Ruby non gli ha dato sollievo, al di là delle apparenze: «Perché non è finita», dice. Infatti oltre ad essere pessimista sull’esito del ricorso in Europa contro la sentenza Mediaset è «molto preoccupato» per l’indagine Rubyter. Tuttavia non è pentito per aver dato più di due milioni di euro alle olgettine. Lo considera anzi un atto di responsabilità «verso ragazze che a causa di quella inchiesta hanno oggi una vita rovinata»: «Non trovano un fidanzato, non trovano un lavoro. Nemmeno mio figlio le prende a Mediaset». «Sistemerò le cose», si è ripromesso. E in effetti ne deve sistemare tante. Dal Milan che però non vorrebbe vendere, «non lo cedo, è un patrimonio di famiglia», a un altro asset a corto di fondi e di risultati, cioè Forza Italia. Tutte cambiali in scadenza, che Berlusconi vorrebbe onorare per rilanciarsi, anche se i suoi sogni appaiono imprigionati e i suoi discorsi sembrano attorcigliarsi in un vorrei ma non posso. Vorrebbe, per esempio, un nuovo e accomodante socio per la squadra di calcio, e un nuovo logo per la coalizione che dia l’idea dell’«Unione del centrodestra», con lui ovviamente al centro. Invece è costretto a fronteggiare la realtà che nel frattempo è cambiata. Dovrà fare l’abitudine alle nuove cose, Berlusconi, anche alla riacquisita libertà: la sera ha ancora il riflesso di chi attende che i carabinieri bussino alla sua porta per il controllo.

AVVENIRE di sabato 14 marzo 2015 Pag 15 Il grande assente: la soluzione diplomatica di Camille Eid Siria: l'immagine simbolo del buio nelle città

Un’immagine molto eloquente della Siria di oggi è probabilmente quella foto satellitare che mostra un Paese “spento” all’83 per cento per mancanza di energia elettrica nelle città. Lo sono anche quei pannelli esposti al Palazzo di Vetro che ritraggono corpi torturati nelle prigioni del regime, preceduti all’ingresso da un insolito cartello che mette in guardia il visitatore dal «disturbo» che possono provocare alcune scene. Buio e orrore sintetizzano così al meglio un conflitto che già da tempo è stato definito come «la più grande tragedia del ventunesimo secolo». Quattro anni di guerra in Siria hanno fiaccato ogni speranza di potere risolvere in breve la crisi, inizialmente suscitata dalla convocazione della Conferenza di Ginevra. Riunire a un tavolo di pace i rappresentanti di regime e opposizione appare oggi un obiettivo quasi impossibile, tanto che la massima aspirazione dell’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura sembra oggi quella di arrivare a una tregua ad Aleppo. L’impasse dell’azione diplomatica ha avuto come primo risultato un’insensata guerra di logoramento che ha permesso ai fanatici dello Stato islamico – il terzo scomodo – di estendere il proprio dominio su nuove aree del Paese. La mappa della Siria si presenta oggi a macchia di leopardo, divisa tra jihadisti del califfato, simpatizzanti di alQaeda e di altri innumerevoli gruppi islamici, ribelli moderati, curdi e infine lealisti. Una guerra di tutti contro tutti «che non può essere vinta da nessuno», secondo quanto affermato da de Mistura. L’inviato dell’Onu parla francamente di una «missione impossibile » in un Paese diventato un vero e proprio campo di regolamento di conti «tra 18 tra entità e governi», ma torna periodicamente sul ruolo del presidente Bashar alAssad nella ricerca di una soluzione. Un argomento, questo, che ha rappresentato una costante negli ultimi quattro anni, e che continuerà a spaccare le diplomazie mondiali. Secondo de Mistura, infatti, «Assad controlla almeno il 50 per cento della popolazione e del territorio, ha un esercito funzionante e un’aviazione che usa attivamente, e di conseguenza è un elemento importante per discutere o ridurre la violenza». Della stessa opinione sono ovviamente i quattro parlamentari bipartisan francesi che si sono recati a Damasco per incontrare Assad, suscitando la dura reazione del governo di Parigi. Probabilmente, buona parte della comunità internazionale è focalizzata sulla minaccia posta dall’Is e considera Assad un “male minore” rispetto ai jihadisti. Assad ha certamente visto la sua immagine in deciso rialzo nel listino di Borsa del gradimento internazionale, ma molti governi occidentali continuano a vedere in lui «il principale responsabile della disgrazia che ha colpito il suo popolo» e lo considerano «un interlocutore non credibile nella lotta contro Is». Non sono mancate di recente sulla stampa americana approfondite analisi sulla «convergenza di interessi» tra Assad e Is, con il presidente siriano accusato di «creare il problema per offrirsi come soluzione».

IL GAZZETTINO di sabato 14 marzo 2015 Pag 1 Berlusconi, il codice penale e il codice morale di Bruno Vespa

Codice penale o codice morale? Da quando ha deciso (tardi) di sostituire la difesa “politica” con quella “tecnica”, Silvio Berlusconi ha vinto dove aveva perso. Il suo difensore Franco Coppi non ha dibattuto sulla presunta “eleganza” delle cene di Arcore. Ha tranquillamente ammesso che la casa del Cavaliere era frequentata da prostitute retribuite per le loro prestazioni. Ma è un fatto che Berlusconi non conosceva la minore età di Ruby e che il capo di gabinetto della questura di Milano non ha subito intimidazioni, né ha ricevuto favori per consegnare la ragazza a Nicole Minetti. Era scontato che l’assoluzione di Berlusconi non facesse piacere a molti. Alcuni hanno messo in giro la storia che la legge Severino che ha fatto decadere il Cavaliere dal Senato lo avesse ‘salvato’ nel processo Ruby con una modifica della concussione. In realtà, Berlusconi non ha concusso e basta. E chi lo conosce sa con quale tono ha potuto rivolgersi al capo di gabinetto della questura di Milano. Meno scontata è l’impressione (speriamo sbagliata) che nella Conferenza Episcopale italiana si sia rimasti delusi per l’assoluzione confondendo appunto il codice morale con quello penale. Sia un intervento di ‘Avvenire’, sia quello del presidente della Cei Bagnasco (ieri ha detto che il rientro in politica di Berlusconi dovrebbe fare i conti “con i contesti sociali, politici e lavorativi”) lasciano intendere un sottinteso fastidio (forse perfino involontario) perché un uomo dalla vita così sregolata non sia stato messo fuori gioco da una sentenza di tribunale. Incontrando Berlusconi per i miei libri, gli ho detto apertamente che far entrare in casa propria gente del genere era inconcepibile per un presidente del Consiglio. A maggior ragione ,chi difende la moralità per doveri d’istituto non può che usare i toni severi prescritti dal ‘codice morale’. Ma il codice penale e perfino il ‘codice politico’ all’inizio di questa vicenda sono stati violentati e spiace che soltanto i giornali dichiaratamente berlusconiani lo abbiano notato. Quando Ilda Bocassini ha acquisito un fascicolo destinato ad altra sezione, è partito un processo che ha portato alla diffusione di centinaia di intercettazioni – comprese quelle al premier in carica a perquisizioni spettacolari, al pedinamento e all’ascolto di chiunque frequentasse la casa di Arcore, alla condanna etica e politica in tutto il mondo del presidente del Consiglio italiano “corruttore di minorenni”. Nessun leader voleva incontrarlo, nessuno stringergli la mano. Fu richiesto e ottenuto il giudizio immediato, che si fa (nemmeno sempre) quando un assassino è arrestato con la pistola fumante in mano. Seguì una condanna abnorme, perfino superiore alle richieste dell’accusa. Caso chiuso. Quando le procure vogliono che una notizia non esca, state sicuri che non uscirà. Un’inchiesta rigorosa ma discreta avrebbe potuto definire molto in anticipo questa vicenda. Si volle e si ebbe lo spettacolo. Berlusconi è stato disastrosamente imprudente. Ma se vivessimo in un paese normale, codice morale e codice penale viaggerebbero su due binari molto distinti.

LA NUOVA di sabato 14 marzo 2015 Pag 13 Sta' a vedere che c'è la svolta di Bruno Manfellotto

Il passo è il solito, il tono pure «Ciao, ragazzi», «In bocca al lupo», «Buon lavoro» ma il senso della visita di Matteo Renzi ai cantieri dell’Expo, la seconda da premier, non è lo stesso: ha un valore assai diverso. Mancano meno di due mesi all’inaugurazione dei padiglioni milanesi, sembra impossibile a vedere ancora solo scheletri di acciaio cemento e legno, ma a maggio si comincia, e sicuramente ci riusciremo, perché nelle emergenze il Bel Paese dà il meglio di sé. Però non sarà solo una fiera mondiale: «Qui è in ballo l’idea dell’Italia», ha detto ieri Renzi. E ha ragione, per almeno due ordini di motivi. Il primo è che fino a poco fa Expo faceva rima con corruzione: appalti nelle mani dei soliti noti, infiltrazioni di mafie e una cupola che distribuiva i lavori coprendosi bocca, occhi e orecchie. Tanto che il governo è stato costretto a nominare un’Authority anticorruzione affidandola al magistrato Raffaele Cantone: la legge ordinaria in Italia non basta, occorrono poteri speciali e strutture ad hoc. Ora ci sono. E il primo obiettivo è ripulire quei cantieri da virus criminali. Il lavoro continua. Fino a poco fa, ancora, Expo faceva rima con burocrazia, specialissima forma di inefficienza che a volte può nascondere interessi inconfessabili. I responsabili dei cantieri milanesi raccontavano per esempio di incredibili difficoltà incontrate quando si chiedevano agli uffici della prefettura informazioni e patenti antimafia per aziende in gara per i lavori. La risposta tardava mesi e mesi fino a che, per non perdere altro tempo, si era costretti a scommettere al buio su oscuri imprenditori. Che poi risultavano nei guai con la giustizia… Fino a pochi mesi fa, infine, Expo faceva rima con ritardi, palude, incapacità progettuale, e qualunque bookmaker avrebbe scommesso sulla pochezza della Provincia Italia, sulla figuretta, sull’ennesima occasione persa. E invece adesso la possibilità di invertire la rotta c’è, e anche di fare dell’Expo milanese l’appuntamento decisivo per una ripartenza italiana. E non solo perché nella capitale morale si riverseranno milioni di turisti, di imprenditori e di uomini di finanza: ma perché potrebbero ritrovarsi in un Paese finalmente di nuovo in movimento. Il fatto è ecco il secondo ordine di motivi che si stanno manifestando circostanze assai favorevoli, come mai accaduto dall’inizio della crisi. Basta sfruttarle. L’inflazione è sotto zero e dunque il costo del denaro è tutt’altro che proibitivo: bene per gli interessi sul debito pubblico, bene per chi abbia bisogno di soldi per investimenti, acquisti, mutui. Un barile di petrolio, poi, costa meno di 50 dollari al barile: bene per i nostri approvvigionamenti. Tutto ciò sarà infine agevolato dalla valanga di denaro fresco immesso sul mercato da Mario Draghi con il cosiddetto Quantitative easing, mille miliardi di nuova liquidità, 60 miliardi di euro al mese per un anno e mezzo. I primi effetti si sono avuti già al solo annuncio della manovra: il calo dello spread (la differenza del tasso di interesse pagato su un Btp italiano e un bund tedesco: più è alto, più il Tesoro deve spendere per convincere un risparmiatore a comprare) giunto ormai a quota 84, roba da anni Sessanta; l’apprezzamento dell’euro sul dollaro che renderà sì più difficili le nostre esportazioni in quell’area, ma meno caro l’acquisto di greggio. A questi atout esterni, si aggiunge l’approvazione del jobs act, i provvedimenti su contratti e lavoro in attesa dei quali molti hanno rinviato assunzioni e investimenti. Ora il jobs act c’è, il vincolo dell’articolo 18 non più, e assunzioni e investimenti, pur se lentamente, sono ripresi. L’aria, insomma, sta cambiando e misure d’emergenza si possono considerare roba del passato. Si può guardare avanti. E proprio Expo potrebbe coincidere con la svolta. Certo, si ricomincerà a crescere a piccole cifre, ancora poco rispetto a quanto si è perso negli anni bui, ma pur sempre sarà un passo avanti. Di enorme impatto psicologico sul Paese, e su chi ci guarda da lontano.

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