RASSEGNA STAMPA di lunedì 23 ottobre 2017

SOMMARIO

“Il referendum nel Lombardo-Veneto – commenta oggi Antonio Polito sulla prima pagina del Corriere della Sera - riapre la questione settentrionale e del federalismo fiscale. Un tema esorcizzato dalla sinistra (nella sua riforma costituzionale, poi bocciata, Renzi tornava al centralismo), e abbandonato dalla destra (Salvini ha tentato la via nazionalista, con un improbabile sfondamento al Sud, e la Meloni ha apertamente contestato i referendum). Difficile negare dunque che chi oggi esce rafforzato da una partecipazione sorprendente in Veneto e comunque significativa in Lombardia, non prevista dalle antenne del sistema politico e mediatico, sia il leghismo di governo, di Maroni ma soprattutto di Zaia, il quale si conferma come uno dei pochi leader locali riusciti con un sano pragmatismo a identificarsi così tanto col proprio popolo da diventare più forti della loro stessa parte politica. E rilancia nel Nord anche Berlusconi, il quale è saltato in extremis sul carro referendario, giustamente riconoscendovi il Dna del suo messaggio anti tasse della prima ora, e il richiamo della foresta di un elettorato che il politologo Edmondo Berselli chiamava il forzaleghismo. Si vede che tanti anni di disillusioni del sogno federalista, mai realizzato dal centrodestra quando governava, non hanno sopito un sentimento profondo e radicato, soprattutto in Veneto, che chiede di trattenere sul territorio almeno una parte del grande gettito fiscale delle regioni più ricche. Sempre e ovunque, sono i soldi il carburante del federalismo. Male ne esce invece il partito di governo, il Pd, molto incerto sul da farsi, schieratosi a favore con i suoi sindaci del Nord, astenutosi invece polemicamente con il suo vicesegretario Martina, agnostico con il suo leader Renzi, evidentemente troppo distratto dalle banche per avvertire quanto stava accadendo in due grandi regioni settentrionali. Il che ora apre un rilevante problema politico: come trasformare questa spinta popolare in una trattativa con un governo a fine legislatu ra, dunque troppo debole, e come abbiamo visto anche troppo incerto, per dare risposte immediate. Con la conseguenza che il dossier federalismo finirà inevitabilmente al centro della prossima campagna elettorale, cosa che nessuno avrebbe immaginato fino a pochi giorni fa. Anche il tono e lo stile di questa consultazione referendaria si sono rivelati un successo. A differenza del separatismo inglese dall’Europa e di quello catalano dalla Spagna, che hanno riempito le urne ma non hanno finora ottenuto niente, questa giornata si è svolta in una cornice costituzionale e di responsabilità nazionale. Si vede che i proponenti non hanno commesso l’errore di credere che questioni così complesse e delicate possano essere risolte da un voto popolare concepito come un plebiscito. Tanto più adesso spetta alle due Regioni, Veneto e Lombardia, elaborare una proposta politica sostenibile, magari insieme ad altre grandi Regioni del Nord come l’Emilia, che sia capace di dare sostanza legislativa alla indiscutibile manifestazione di volontà provenuta ieri dall’elettorato. Si vede che tanti anni di disillusioni del sogno federalista, mai realizzato dal centrodestra quando governava, non hanno sopito un sentimento profondo e radicato, soprattutto in Veneto, che chiede di trattenere sul territorio almeno una parte del grande gettito fiscale delle regioni più ricche. Sempre e ovunque, sono i soldi il carburante del federalismo. Male ne esce invece il partito di governo, il Pd, molto incerto sul da farsi, schieratosi a favore con i suoi sindaci del Nord, astenutosi invece polemicamente con il suo vicesegretario Martina, agnostico con il suo leader Renzi, evidentemente troppo distratto dalle banche per avvertire quanto stava accadendo in due grandi regioni settentrionali. Il che ora apre un rilevante problema politico: come trasformare questa spinta popolare in una trattativa con un governo a fine legislatura, dunque troppo debole, e come abbiamo visto anche troppo incerto, per dare risposte immediate. Con la conseguenza che il dossier federalismo finirà inevitabilmente al centro della prossima campagna elettorale, cosa che nessuno avrebbe immaginato fino a pochi giorni fa. Anche il tono e lo stile di questa consultazione referendaria si sono rivelati un successo. A differenza del separat ismo inglese dall’Europa e di quello catalano dalla Spagna, che hanno riempito le urne ma non hanno finora ottenuto niente, questa giornata si è svolta in una cornice costituzionale e di responsabilità nazionale. Si vede che i proponenti non hanno commesso l’errore di credere che questioni così complesse e delicate possano essere risolte da un voto popolare concepito come un plebiscito. Tanto più adesso spetta alle due Regioni, Veneto e Lombardia, elaborare una proposta politica sostenibile, magari insieme ad altre grandi Regioni del Nord come l’Emilia, che sia capace di dare sostanza legislativa alla indiscutibile manifestazione di volontà provenuta ieri dall’elettorato” (a.p.)

IN PRIMO PIANO – REFERENDUM, IL VENETO PUNTA ALL’AUTONOMIA

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La voce del Nord che va ascoltata di Antonio Polito

Pag 3 Le città del Nord-Est alla battaglia fiscale. “Privilegi? No, diritti” di Marco Imarisio

Pag 5 Zaia: “E’ il big bang delle riforme istituzionali. Vogliamo i nove decimi delle tasse” di Andrea Pasqualetto

LA REPUBBLICA Pag 1 Il rilancio leghista del centrodestra di Stefano Folli

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Una “nazione” nello Stato di Alessandro Russello La Catalogna ”dolce”

Pag 1 In coda sulla fascia aurea pedemontana di Emilio Randon Dalla provincia berica al Veneziano, viaggio tra i seggi

Pag 6 Ora inizia la trattativa. Il Veneto vuole più soldi, avrà (forse) il potere di spenderli meglio di Marco Bonet

Pag 7 La questione veneta di Francesco Chiamulera Il plebiscito, l’unità postbellica, il federalismo: storia di una diversità

IL GAZZETTINO Pag 1 Adesso non ci sono più alibi di Ario Gervasutti

Pagg 2 – 3 Il Veneto ha scelto l’autonomia di Angela Pederiva e Alda Vanzan Ore 23, la festa di Zaia: “Hanno vinto i veneti”

LA NUOVA Pag 1 Il venetismo potente realtà della fantasia di Paolo Possamai

Pag 1 La Lombardia è amara per Maroni di Mariano Maugeri

Pag 6 Cent’anni di fallimenti, adesso una nuova chance di Francesco Jori

CORRIERE DELLA SERA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 6 Nei bilanci del Nord le entrate superano di 94 miliardi le spese. L’eterno deficit del Sud di Alberto Brambilla

CORRIERE DEL VENETO di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Il caso veneto nell’urna di Alessandro Russello

LA NUOVA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Spartiacque per il tema federalismo di Fabio Bordignon

CORRIERE DELLA SERA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 La partita (globale) del Nord di Dario Di Vico I referendum

LA STAMPA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 3 Francesco Moraglia, patriarca di Venezia: “Può essere uno stimolo, anche se da una minoranza” di Lorenzo Padovan

AVVENIRE di sabato 21 ottobre 2017 Pag 6 Lega, obiettivo è il quorum. Pd: consultazione farlocca. A vincere sarà l’astensione? di Francesco Dal Mas

IL GAZZETTINO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 3 Il Patriarca di Venezia: “Autonomia non è separazione, il voto che rispetta la Costituzione può far crescere il bene comune” di Alvise Sperandio

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 21 ottobre 2017 Pag V Moraglia: autonomia non è separazione di Alvise Sperandio e Melody Fusaro “Il referendum come stimolo all’integrazione”

LA NUOVA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Il senso istituzionale che manca al Paese di Francesco Jori

Pag 10 Moraglia, sì all’autonomia: “Non significa separazione” di Sabrina Tomè Il Patriarca di Venezia: le consultazioni elettorali aiutano il bene comune

CORRIERE DEL VENETO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 2 Referendum, appelli e polemiche. Zaia: “E’ l’ora del riscatto dei veneti” di Silvia Madiotto e Angela Tisbe Ciociola Anche il Patriarca a favore ma “nell’unità”

2 – DIOCESI E PARROCCHIE

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 21 ottobre 2017 Pag XII Tutte le associazioni ne “Il Prossimo”: “Ora l’ipermercato” di F.Fen. Riorganizzati i gruppi benefici di Carpenedo

Pag XXIX Fornezza: “Luciani mi guida” di Raffaele Rosa Don Ettore domani festeggia gli 80 anni

Pag XXIX Concerto finale nella chiesa di S. Rita

3 – VITA DELLA CHIESA

VATICAN INSIDER Liturgia, il Papa “corregge ˮ un’interpretazione del cardinale Sarah di Andrea Tornielli Il Prefetto d el Culto divino aveva inviato a Bergoglio (e immediatamente reso pubblico) un commento restrittivo al recente motu proprio sulle traduzioni dei testi liturgici. Francesco gli ha chiesto di rendere subito nota sul web anche la sua risposta

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 22 ottobre 2017 No all’eugenetica Monito del Papa contro la tendenza a sopprimere i nascituri che presentano imperfezioni

AVVENIRE di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Mai farsi indietro di Giulio Albanese Giornata missionaria mondiale 2017

Pag 5 Bassetti: la “mia” Cei nel segno del dialogo e della condivisione di Giacomo Gambassi “Così cambierò la prolusione. Più spazio ai vicepresidenti”

LA NUOVA di domenica 22 ottobre 2017 Pagg 34 – 35 Padre nostro, dove risuona l’eco di Dio di don Marco Pozza Analisi di una preghiera che contiene le parole del quotidiano

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 21 ottobre 2017 Il linguaggio della verità di Diego Fares Consigli per discernere i discorsi ingannevoli

AVVENIRE di sabato 21 ottobre 2017 Pag 2 Dopo 25 anni la gran domanda sull’ “amore” che coopera assilla ancor di più il mondo di Salvatore Mazza

Pag 5 Diseguaglianze e sfruttamento non sono mai una fatalità Dal Papa il forte invito a “civilizzare il mercato”. L’attuale ordine sociale va trasformato dall’interno

Pag 22 Speranza, la grande bellezza di Angelo Scola

CORRIERE DELLA SERA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 23 Il cardinale Muller e gli amici del Papa: “Metodi scorretti” di Elena Tebano Stresa, le critiche dell’ex prefetto della Fede

IL FOGLIO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 2 Pro o contro il Papa, la chiesa di Francesco in mezzo alla guerra delle petizioni di Matteo Matzuzzi Il card. Müller: “Le accuse contro di me? Metodi sporchi”

Pag V Il Dio del male di Matteo Matzuzzi Negando il soprannaturale, non si riconosce più l’Anticristo. Una presenza più che mai attuale

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 28 Le vite all’estero dei pensionati. Il piano per attrarre gli stranieri di Dario Di Vico

IL GAZZETTINO di domenica 22 ottobre 2017 Pag 12 Occupati italiani i più “vecchi” della Ue: 2 su 3 sopra i 40 anni

CORRIERE DELLA SERA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 L’Italia longeva che cerca lavoro e fa meno figli di Milena Gabanelli Noi e l’Europa, 60 anni dopo

AVVENIRE di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Lo scandalo di un’Ave Maria di Roberto Colombo Per un’Università davvero universale

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

LA NUOVA Pag 19 Un pomeriggio tra i senza dimora: “Basta un sorriso” di Laura Berlinghieri I volontari ad Altobello

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 22 ottobre 2017 Pag VII Tutto esaurito lo spettacolo del “Madonna Nicopeja” di D.Gh.

Pag XI Centro diurno, il Comune taglia il servizio: “Serve una sede” Bozzi: “Troviamo un nuovo posto adeguato e strutturato”

Pag XIII “Nicola, sei stato un ciclone” di Paolo Guidone Ieri a Marghera i funerali del ventinovenne morto durante un’escursione in montagna

Pag XIII Tutta Carpenedo si stringe attorno ai figli di Caterina di Alvise Sperandio Il commosso addio alla mamma deceduta sei anni dopo il marito

LA NUOVA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 23 “Serve maggior impegno per la ricerca” di Laura Berlinghieri A Carpenedo appello di don Gianni ai funerali di Caterina Salin, morta di tumore. Raccolte offerte per gli studi dei 4 figli

Pag 23 “Proseguite con i progetti che Nicola aveva a cuore” di Alessandro Abbadir Marghera, le esequie del 30enne precipitato in montagna

Pag 23 Storie, cibo e compagnia per i senza dimora di l.b. Emergency, Croce rossa e Caritas hanno chiamato a raccolta i clochard della città

CORRIERE DEL VENETO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 21 Feltrinelli entra in Marsilio: “Ma non perderemo l’identità” di Francesco Chiamulera

8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 9 Caporetto, l’incubo rimane di Edoardo Pittalis Lo storico Mario Isnenghi e il Triveneto dopo la sconfitta-mito della Grande Guerra

AVVENIRE di domenica 22 ottobre 2017 Pag 11 Il dialogo con l’Islam. Ecco la “via veneta” di Francesco Dal Mas Incontro promosso da diocesi, comunità e Cisl

IL GAZZETTINO di domenica 22 ottobre 2017 Pag 9 Gli islamici moderati al Veneto: “Più moschee e sarete più sicuri” di Mauro Favaro

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Euro e fragilità, le 4 lezioni di una crisi di Lucrezia Reichlin

Pag 25 Gli abusi ripetuti sulle donne e quell’omertà degli uomini che non mettiamo sotto accusa di Pierluigi Battista Le molestie di Weinstein e il dibattito a senso unico

CORRIERE DELLA SERA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Le regole da rifare sull’Euro di Lucrezia Reichlin La crisi, la moneta

Pag 1 Il salto nel buio e l’ombra della violenza di Franco Venturini

Pag 5 Una settimana decisiva, cosa accadrà? di Elisabetta Rosaspina La crisi in Catalogna

Pag 14 Il male oscuro dell’Europa di mezzo. Partono i giovani, restano i nazionalisti di Federico Fubini

Pagg 22 – 23 Caporetto: “Fu una sconfitta, non una disfatta. Lo sbaglio del comandante Cadorna è stato quello di incolpare i suoi soldati” di Aldo Cazzullo Intervista al generale Graziano

AVVENIRE di domenica 22 ottobre 2017 Pag 3 Vedere Caporetto, dire basta Cadorna di Ferdinando Camon Via dalle vie il generale massacratore d’umanità

Pag 24 Caporetto, lo scaricabarile della vergogna di Ale ssandro Marzo Magno e Roberto Festorazzi

IL GAZZETTINO di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Via il segreto sul caso Kennedy, l’ultima mossa di Trump di Mario Del Pero

Pag 23 Per Bankitalia sul tavolo di Mattarella una rosa di nomi con troppe spine di Alberto Gentili

LA NUOVA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 La fune scappa di mano e riapre ferite mai sanate di Andrea Sarubbi

CORRIERE DELLA SERA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Un veleno nelle istituzioni di Sabino Cassese Regole e authority

Pagg 2 – 3 Nelle strade di Raqqa vincitori, mine e macerie di Lorenzo Cremonesi

Pag 15 Xi, leader globale? di Guido Santevecchi

LA REPUBBLICA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 La falsa ribellione di Ezio Mauro

AVVENIRE di sabato 21 ottobre 2017 Pag 3 “Indagati”: i lineari meriti di una circolare di Mario Chiavario Sulle notizie di reato bene Pignatone, ma il legislatore?

IL GAZZETTINO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Programmi e alleanze, tre domande al centrodestra di Luca Ricolfi

Pag 1 Il governatore è un simbolo e deve rispondere di Bruno Vespa

LA NUOVA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Che pasticcio, ne escono tutti male di Bruno Manfellotto

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IN PRIMO PIANO – REFERENDUM, IL VENETO PUNTA ALL’AUTONOMIA

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La voce del Nord che va ascoltata di Antonio Polito

Il referendum nel Lombardo-Veneto riapre la questione settentrionale e del federalismo fiscale. Un tema esorcizzato dalla sinistra (nella sua riforma costituzionale, poi bocciata, Renzi tornava al centralismo), e abbandonato dalla destra (Salvini ha tentato la via nazionalista, con un improbabile sfondamento al Sud, e la Meloni ha apertamente contestato i referendum). Difficile negare dunque che chi oggi esce rafforzato da una partecipazione sorprendente in Veneto e comunque significativa in Lombardia, non prevista dalle antenne del sistema politico e mediatico, sia il leghismo di governo, di Maroni ma soprattutto di Zaia, il quale si conferma come uno dei pochi leader locali riusciti con un sano pragmatismo a identificarsi così tanto col proprio popolo da diventare più forti della loro stessa parte politica. E rilancia nel Nord anche Berlusconi, il quale è saltato in extremis sul carro referendario, giustamente riconoscendovi il Dna del suo messaggio anti tasse della prima ora, e il richiamo della foresta di un elettorato che il politologo Edmondo Berselli chiamava il forzaleghismo. Si vede che tanti anni di disillusioni del sogno federalista, mai realizzato dal centrodestra quando governava, non hanno sopito un sentimento profondo e radicato, soprattutto in Veneto, che chiede di trattenere sul territorio almeno una parte del grande gettito fiscale delle regioni più ricche. Sempre e ovunque, sono i soldi il carburante del federalismo. Male ne esce invece il partito di governo, il Pd, molto incerto sul da farsi, schieratosi a favore con i suoi sindaci del Nord, astenutosi invece polemicamente con il suo vicesegretario Martina, agnostico con il suo leader Renzi, evidentemente troppo distratto dalle banche per avvertire quanto stava accadendo in due grandi regioni settentrionali. Il che ora apre un rilevante problema politico: come trasformare questa spinta popolare in una trattativa con un governo a fine legislatura, dunque troppo debole, e come abbiamo visto anche troppo incerto, per dare risposte immediate. Con la conseguenza che il dossier federalismo finirà inevitabilmente al centro della prossima campagna elettorale, cosa che nessuno avrebbe immaginato fino a pochi giorni fa. Anche il tono e lo stile di questa consultazione referendaria si sono rivelati un successo. A differenza del separatismo inglese dall’Europa e di quello catalano dalla Spagna, che hanno riempito le urne ma non hanno finora ottenuto niente, questa giornata si è svolta in una cornice costituzionale e di responsabilità nazionale. Si vede che i proponenti non hanno commesso l’errore di credere che questioni così complesse e delicate possano essere risolte da un voto popolare concepito come un plebiscito. Tanto più adesso spetta alle due Regioni, Veneto e Lombardia, elaborare una proposta politica sostenibile, magari insieme ad altre grandi Regioni del Nord come l’Emilia, che sia capace di dare sostanza legislativa alla indiscutibile manifestazione di volontà provenuta ieri dall’elettorato. Si vede che tanti anni di disillusioni del sogno federalista, mai realizzato dal centrodestra quando governava, non hanno sopito un sentimento profondo e radicato, soprattutto in Veneto, che chiede di trattenere sul territorio almeno una parte del grande gettito fiscale delle regioni più ricche. Sempre e ovunque, sono i soldi il carburante del federalismo. Male ne esce invece il partito di governo, il Pd, molto incerto sul da farsi, schieratosi a favore con i suoi sindaci del Nord, astenutosi invece polemicamente con il suo vicesegretario Martina, agnostico con il suo leader Renzi, evidentemente troppo distratto dalle banche per avvertire quanto stava accadendo in due grandi regioni settentrionali. Il che ora apre un rilevante problema politico: come trasformare questa spinta popolare in una trattativa con un governo a fine legislatura, dunque troppo debole, e come abbiamo visto anche troppo incerto, per dare risposte immediate. Con la conseguenza che il dossier federalismo finirà inevitabilmente al centro della prossima campagna elettorale, cosa che nessuno avrebbe immaginato fino a pochi giorni fa. Anche il tono e lo stile di questa consultazione referendaria si sono rivelati un successo. A differenza del separatismo inglese dall’Europa e di quello catalano dalla Spagna, che hanno riempito le urne ma non hanno finora ottenuto niente, questa giornata si è svolta in una cornice costituzionale e di responsabilità nazionale. Si vede che i proponenti non hanno commesso l’errore di credere che questioni così complesse e delicate possano essere risolte da un voto popolare concepito come un plebiscito. Tanto più adesso spetta alle due Regioni, Veneto e Lombardia, elaborare una proposta politica sostenibile, magari insieme ad altre grandi Regioni del Nord come l’Emilia, che sia capace di dare sostanza legislativa alla indiscutibile manifestazione di volontà provenuta ieri dall’elettorato.

Pag 3 Le città del Nord-Est alla battaglia fiscale. “Privilegi? No, diritti” di Marco Imarisio

Alle due di notte dello scorso venerdì, con la vista ormai annebbiata, Toni Da Re ha pensato che se ogni bicchiere di prosecco fosse diventato un voto per l’autonomia, allora era davvero fatta. Il presidente del comitato referendario si era spinto fino a Tovena, la frazione più remota di Cison del Valmarino, per la festa di San Simone. Doveva tenere un breve discorso all’ora di cena. Cinque ore più tardi, era ancora tra i banchi della sagra. «Mi raccomando il 22 ottobre» gli dicevano. E giù un altro bianchino. Lo storico sindaco di Vittorio Veneto, autonomista della prima ora, titolare di un autolavaggio, figlio di partigiano, orgoglioso di non aver mai mancato un 25 Aprile, ci ha messo un paio di giorni a riprendersi. «Quanti ne ho bevuti? Lasciamo stare. E comunque non me lo ricordo...». La voce spezzata non è però una conseguenza dello sforzo anche etilico. «Sa, io mi sono iscritto alla nel 1982. Oggi per me si chiude un cerchio, è un momento storico. Ce l’abbiamo fatta». La bandiera con il leone di San Marco ha ancora il suo fascino nel Veneto profondo, capofila del popolo delle partite Iva, che si sente stretto tra due Regioni a Statuto speciale. «Il resto d’Italia pensava soltanto a una fissazione antica, la Serenissima, i Serenissimi. Noi abbiamo puntato più sull’attualità che sulla storia. Sul malcontento del presente». I numeri dicono che nel Nord-Est la crisi è un brutto ricordo. L’ultimo rapporto della Cgia di Mestre, il centro studi dell’Associazione artigiani e piccole imprese, calcola che la crescita finale del Pil veneto nel 2017 sarà dell’1,4 per cento, lo 0,9% in più del 2015, a queste latitudini ultimo annus horribilis della grande recessione. Nel trimestre conclusivo dell’anno si potrà contare su 123 mila nuovi occupati e 36 mila disoccupati in meno. «Può essere» ribatte Da Re. «Ma durante questa campagna la gente non veniva neppure a chiedermi soldi. Fammi lavorare, ti prego, dicevano tutti. Le ferite di quest’ultimo decennio sono ancora ben aperte. E se vogliamo dare i numeri, la pressione fiscale è salita ancora». Roma rimane infida se non ladrona come da antico slogan, inutile girarci intorno. Giampaolo Gobbo, vicepresidente regionale, ex sindaco di Treviso, prototipo del leghista inviso alla gente che crede di piacere ma in possesso di una conoscenza palmare del suo territorio, consacra questo giorno che definisce «abbastanza storico» al ricordo delle presunte angherìe subite dal governo centrale. «Abbiamo fatto una campagna capillare che nessuno ha raccontato, perché nessuno voleva vedere. Nel 2001 ci hanno bocciato la devolution, nel 2010 con Bossi e Berlusconi eravamo quasi arrivati al federalismo fiscale, poi Fini e Casini si misero di mezzo. I veneti invece hanno buona memoria. Adesso e Bobo Maroni sono due governatori che insieme fanno il cinquanta per cento del Pil nazionale: hanno in mano una possibilità concreta». Nel 2014 un editoriale di Le Monde definì la provincia di Vicenza «il fortino delle piccole medie imprese». Manuela Dal Lago, unica presidente veneta nella storia del Parlamento Padano, pensò che purtroppo quell’elogio arrivava fuori tempo massimo. «La nostra fortuna stava già andando a ramengo. Poi è arrivata la crisi della Banca popolare vicentina, che ha fatto macelleria sociale. Poi la fiera è stata venduta e portata a Rimini. Le leggi e la burocrazia che rendono la vita difficile agli imprenditori sono rimaste le stesse». Proprio il vicentino ha trascinato l’affluenza, seguito da Padova e Treviso, due provincie dove secondo i dati della Fondazione Think Tank Nord-Est nell’ultimo biennio sono andate perse 895 attività, quasi la metà dell’intero Veneto. «Alla secessione non ci pensa più nessuno. Questo è stato un voto identitario ed economico». E Salvini? All’evocazione del segretario federale corrisponde un cambio di tono degli interlocutori. Il Veneto è la regione con il più alto tasso di epurazioni fattive o indotte del nuovo corso. Da Re si affida alla diplomazia. «Credo che il suo progetto sia di portare le leghe in tutta Italia». Gobbo la prende alla lontana. «Grazie a Zaia e Maroni potrà supportare la nostra battaglia a Roma». Manuela Dal Lago, che dopo un quarto di secolo nel 2016 se ne andò dalla Lega in disaccordo con il nazionalismo del nuovo timoniere, ha meno timori reverenziali. «Ha vinto Luca Zaia, non Salvini. Ha vinto la Liga, non la Lega». L’ultima telefonata è per Bepi Covre, l’industriale federalista simbolo del Carroccio degli anni Novanta, forse la più sanguinosa delle espulsioni recenti. «Il massimo dell’autonomia significa anche autodeterminazione dei popoli. Proprio come volevano Bossi e Gianfranco Miglio. Chissà se ora Salvini se ne accorge. Il referendum aiuterà l’Italia a capire che i nostri non sono privilegi ma diritti. Adesso la saluto, che vado anch’io a brindare». Prosit.

Pag 5 Zaia: “E’ il big bang delle riforme istituzionali. Vogliamo i nove decimi delle tasse” di Andrea Pasqualetto

Venezia. Cauto e tattico, in mattinata Luca Zaia aveva messo le mani avanti: «Comunque vada, stiamo scrivendo una pagina di storia: il Veneto non sarà più quello di prima». Parole pronunciate alle ore sette, quando a San Vendemiano faceva ancora buio e lui e la moglie Raffaella si sono presentati per primi al seggio della scuola elementare del paese trevigiano dove vivono. Se a suo dire sarebbe andata comunque bene per il solo fatto di aver ottenuto dalla Corte costituzionale il referendum sull’autonomia, figuriamoci il governatore a mezzanotte, con quel numeretto che gli frullava davanti agli occhi: 58 per cento o giù di lì di affluenza, 8 punti oltre il quorum, il sì al 98 per cento: «È il big bang delle riforme costituzionali, è la caduta del muro di Berlino. Ora posso dirlo: è andata bene, vincono i veneti, vince il senso civico del “paroni a casa nostra”, il Veneto si candida a laboratorio delle autonomie». Il governatore rivendica di aver vinto anche sugli hacker che «hanno superato due dei tre livelli di sicurezza nei nostri programmi di rilevamento delle votazioni». Oggi più che mai rilancia uno dei suoi refrain: «Abbiamo messo una pietra miliare sulla storia della Repubblica italiana, il primo referendum sull’autonomia, da noi voluto e sudato. A Roma dovranno tenere conto di questo risultato, il federalismo è ora una via obbligata». Il risultato dell’affluenza si colloca sotto la soglia record ventennale del referendum costituzionale del dicembre scorso, che in Veneto aveva toccato il 76%, ma sopra altre dieci consultazioni dal 1997 a ieri. La domandina scritta su oltre quattro milioni di schede era semplice semplice: «Vuoi che alla Regione siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?». Ma, in concreto, cosa succederà? «Una volta validato il risultato da parte della Corte d’Appello ho pronta la delibera sulla piattaforma del negoziato che discuterò con tutte le categorie, le autonomie locali e che porterò all’approvazione del Consiglio regionale. Ed è già pronta la delegazione tecnica che seguirà la trattativa sui tavoli romani. Depositeremo la nostra proposta sui tavoli di Roma. Chiederemo al governo tutte le 23 competenze che ci spettano e le relative risorse economico finanziarie». Istruzione, ambiente, commercio estero, salute, ricerca scientifica, protezione civile. E, fra le altre, soprattutto quella più trasversale e sentita: imposte e tributi. Cosa significa esattamente avere questa competenza? «Il nostro residuo fiscale (la differenza fra quanto viene versato al Fisco e quanto torna in termini di servizi ai cittadini, ndr) ammonta a 15,4 miliardi di euro: è ora che i territori gestiscano le risorse prodotte sul territorio e smettano di finanziare gli sprechi di territori ormai tecnicamente falliti. Chiederemo i nove decimi del gettito». Come dire, con una maggiore autonomia molti denari rimarrebbero nelle casse venete. Ma è davvero così? Succederà tutto ciò, dopo la trattativa con il governo e l’ok del parlamento? «Assolutamente no, il referendum non andrà a incidere sul residuo fiscale, che tra l’altro non è di 15 miliardi ma molto meno», sostiene Stefano Fracasso, capogruppo del Pd in Consiglio regionale, che ha scelto e chiesto di astenersi dal voto. Ma il Pd sul referendum è diviso. Alfiere del sì Simonetta Rubinato, deputata trevigiana. Lei gongola: «Sono soddisfatta, è arrivata la spallata, è democratica e non è solo della Lega. Zaia ha ora un ampio mandato». Il governatore sogna Palazzo Chigi? «No, sogno un Veneto autonomo, sogno il federalismo, sogno una Roma che non penalizzi più la mia gente».

LA REPUBBLICA Pag 1 Il rilancio leghista del centrodestra di Stefano Folli

Ha vinto la "Serenissima". Non in senso letterale, è ovvio, ma il referendum sull'autonomia ha dato in Veneto un risultato da non sottovalutare. In primo luogo, perché si distingue dal risultato parallelo in Lombardia. Nella terra di Zaia si è andati ben oltre il quorum del 50 per cento (qualunque cosa significhi il quorum in un referendum consultivo). Nella regione di Maroni, dove non c'era alcuna soglia da raggiungere, ha votato circa il 40 per cento. Vuol dire che in Veneto si è fatto sentire più forte il sentimento autonomista che è all'origine della prima Lega, gelosa delle sue caratteristiche anche rispetto al ramo lombardo. Da Bossi a Maroni e ora a Salvini, la Lega lombarda ha affermato negli anni il suo primato e i veneti si sono dovuti accontentare di un ruolo in apparenza subordinato. Tuttavia, nel momento in cui Zaia è diventato presidente della Regione, qualcosa è cambiato. L'intero Lombardo-Veneto si trova oggi a essere amministrato in coppia da due leghisti di primo piano, figli di quella tradizione di autonomia che Bossi aveva curvato a un certo punto verso la tentazione secessionista. Sappiamo come è finita: il fallimento della linea separatista ha aperto la strada al neo-nazionalismo di Salvini, amico di Marine Le Pen, ossia di una francese di estrema destra orgogliosamente centralista. Maroni e Zaia hanno subìto la svolta, trovando un "modus vivendi" con il capo, ma il referendum di ieri è servito a dimostrare che la vecchia Lega non è morta. È intrecciata e impastata con il "salvinismo" mediatico e di successo, ma non è finita. Semmai, e torniamo al punto della Serenissima, si conferma che il Veneto non è la Lombardia. Stabilito che il referendum serve soprattutto a restituire smalto e attrattiva elettorale al messaggio localista, in modo che non si identifichi solo con il volto e gli slogan di Salvini, non tutto ieri è andato liscio. A Milano il risultato di Maroni è meno brillante, se confrontato con quello di Zaia. Il quorum, come si è detto, in Lombardia non c'era e questa scelta opportuna permette di mascherare un dato che in sé è assai meno significativo: non è pessimo, ma non aggiunge nulla a ciò che già si sapeva. Di certo non è un trionfo per Maroni, al di là della soddisfazione ufficiale. Mettiamoci anche il mediocre o comunque controverso esito dell' esperimento di voto elettronico a Milano e dintorni, da cui sono derivati parecchi grattacapi di ordine tecnico, ed ecco spiegata la differenza fra le due regioni del Lombardo-Veneto. Voto inutile, sotto molti aspetti, perché l'attuazione costituzionale delle nuove norme sul decentramento erano già previste nelle clausole del Titolo V riformato. Il referendum serviva solo a dare una spinta agli amministratori e a preparare la loro rielezione. In altri termini, ha fissato un obiettivo politico, sostenendo tesi che non sono solo della Lega - basta vedere la quantità di sindaci del Pd che hanno aderito al quesito - ma che in questo caso portano acqua al mulino del Carroccio. Conseguenza immediata: il nazionalista Salvini sarà più forte al tavolo con Forza Italia quando si tratterà di stabilire, in base al Rosatellum, i candidati nei collegi del Nord per le elezioni politiche. Una Lega ancora più determinata a farsi valere otterrà quel che vuole: ossia una fetta consistente di quei seggi, così da legare Berlusconi e impedirgli scivolamenti verso Renzi. O meglio: se governo di unità nazionale deve essere, anche la Lega vorrà parteciparvi. E c'è da dubitare che il centrosinistra possa gradire tale prospettiva. Quanto al tema a cui tutti hanno pensato, magari senza rendere esplicito il ragionamento, ossia la Catalogna, forse si può dire questo. La "deriva catalana" non è oggi un pericolo nel Lombardo-Veneto e la Lega nazionalista a tutto pensa salvo che a rilanciare il secessionismo. Tuttavia non è indifferente il contesto europeo in cui si è svolto il voto. È un contesto di localismi nevrotici e carichi di rivendicazioni. La Lombardia non è la Catalogna, tanto meno lo è il Veneto, ma il ritorno di fiamma dell'autonomismo nostrano avviene in un'Europa che tende a frammentarsi e a rinchiudersi in se stessa all'ombra dei suoi campanili. E se pure il separatismo non risorge in Italia, il voto di ieri fotografa però il crescere della frattura fra Nord e Sud. La fotografa e in un certo senso la cristallizza.

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Una “nazione” nello Stato di Alessandro Russello La Catalogna ”dolce”

Se non un plebiscito un’onda. Un’onda sotto la pioggia di un giorno «meteo-politico» - l’unico bagnato di questo ottobre - che è sembrato quasi un segnale dal cielo. Una Catalogna dolce, senza sangue, fatta con le matite, più provincia che metropolitana ma un’onda identitaria da Nazione più che da Regione. Lo dice lo stesso risultato lombardo, con venti punti di affluenza in meno come risposta alla stessa domanda di autonomia. Quasi ci fossero due Italie nella stessa latitudine di insofferenza da territori ricchi che da soli totalizzano il Pil del Centrosud. O quasi che il Veneto faccia fatica, in questa Italia, ad entrarci del tutto. Dentro quest’onda c’è un voto a-ideologico, al di là dell’appartenenza a un partito se il non partito del Veneto nella partita dell’autonomia. Appunto, una «nazione». E se non è una certezza dobbiamo perlomeno chiedercelo, comunque convinti di non andarci distante. E’ così. E da questo bisogna partire. Che il Veneto sia una regione identitaria, che dentro ribolliscano insieme appartenenza e rivendicazione, insofferenza per un «Sud sprecone» e uno Stato «distante», lo si sapeva. La storia di questa regione è a nostra disposizione. Dalla Lega alle classi produttive, a molto «popolo». La differenza, oggi, è che tutto questo è entrato nell’urna. Da oggi è certificato con tanto di ricevuta elettorale. A due milioni e 400 mila veneti. C’è un grande vincitore in questa giornata e si chiama Luca Zaia. Che ha avuto la sua vittoria: netta, limpida. Anche se ora dovrà giocare la sua vera partita. La più difficile. Mantenere la sua promessa. Il suo - e del Veneto a questo punto - «azzardo»: la devoluzione economica. Perché con questo risultato, coerentemente con quanto promesso - il «modello Bolzano» - il governatore non potrà ottenere di meno o giù di lì. Una sfida durissima e problematica. Come lo sarà per qualsiasi governo con il quale il Veneto andrà a trattare. Perché qualsiasi governo, per non perdere il consenso delle altre regioni - alle quali non riuscirebbe a distribuire pari risorse - non potrà che dire no. E soprattutto perché se lasciasse al Veneto (e alla Lombardia) la gran parte delle tasse versate a Roma, lo Stato andrebbe in default. D’altra parte Zaia, una volta intavolata la trattativa, come prevede la Costituzione, non potrà tornarsene a casa «solo» con qualche competenza in più, che può voler dire maggior controllo sulle risorse ma mai le tasse trattenute qui, specie se nella quantità auspicata (i nove decimi alla bolzanina). Non che la devoluzione delle competenze non rappresenti già qualcosa, sia chiaro. Anzi. Ma moltissimi veneti sono andati a votare spinti dalla convinzione che la posta in palio era ed è molto più alta. Altro aspetto. Zaia e la Lega hanno vinto ma sarebbe sbagliato far ricadere esclusivamente su di loro l’onore e l’onere del successo referendario. Per quanto fosse «catalaniano» il quesito della consultazione («Vuoi tu più autonomia»?...) nell’urna sono entrati i «sì» convinti di imprenditori, categorie, associazioni, della stessa Chiesa e perfino degli immigrati diventati italiani (o veneti...). Anche loro dovranno prendersi una fetta di responsabilità nella modulazione e negli effetti della trattativa. Capire ad esempio fino a quanto e fino a dove si dovrà o potrà tirare la corda. Detto questo, una cosa è certa. Il risultato del referendum rilancia, alla vigilia delle elezioni politiche, il «dimenticato» o rimosso nodo del federalismo. O attraverso la forma della trattativa con le regioni che hanno chiesto o chiederanno più autonomia (dall’Emilia al Piemonte alla Toscana), o con la consapevolezza che servirebbe una vera e più complessiva riforma federale.

Pag 1 In coda sulla fascia aurea pedemontana di Emilio Randon Dalla provincia berica al Veneziano, viaggio tra i seggi

A Bolzano Vicentino, davanti al seggio, ieri stazionava una coppia con un cane bulldog che smaniava e ansimava, ansioso di votare anche lui. Puntava al seggio, tirava la padrona e abbaiava ai poliziotti. Ecco, dire che volevano votare anche i cani non e esatto, ma solo perché gli elettori sono cortesi e non li portano in cabina. Ieri poi si sentivano tutti dalla stessa parte, uniti, cosa che li rendeva solidali, dimentichi della politica, complici e un tantino ribaldi. Sulla fascia veneta della Pedemontana, la zona aurea della Lega, il referendum sull’autonomia ieri aveva i ritmi e la progressione di un tango raveliano. Partito sottovoce ed esploso in un crescendo assordante a tarda sera, fino all’esplosione della notte col risultato che sapete. Giove Pluvio deve amare Luca Zaia oppure ha sbagliato e lo ha preso per Puigdemont. Comunque al presidente veneto ha mandato una domenica di ottobre svogliata, indecisa tra lo stare in casa e andare fuori. L’unica cosa sensata se andare a votare. E più passava il tempo più appariva sensata e speciale votare, anche agli scettici e ai prudenti. Col cane da uscire o senza cane «noi avremmo votato lo stesso» assicura il padrone di Bolzano Vicentino intanto che dà il cambio alla signora e custodisce la bestia. Niente scuse, il voto è stato un successo. In questo seggio, alle ore 12,20, aveva già votato il 30 per cento degli aventi diritto. Mezz’ora prima, a Quinto Vicentino, avevano imbucato la scheda il 27,5 per cento e a Lisiera, solo a un tiro di fionda, il 28 per cento. La periferia correva al voto più lesta della città, a Vicenza - che pure non ha sfigurato - il seggio di Piazza Marconi alle 10 di mattina aveva già incamerato un 8,6 per cento mai visto nelle precedenti elezioni. E tutto ciò mentre la vicina Lombardia produceva cifre da prefisso telefonico, 7 per cento, 10 per cento, che non si poteva più parlare di Lombardo Veneto ma dell’uno o dell’altro in termini diversi, imprevedibilmente diversi. Non era scontato e nemmeno prevedibile: la Lombardia dimostra di essere ancora in Italia, il Veneto sempre meno e ieri ha messo per iscritto l’identità di una nazione e un profilo secessionista che sembrava in ritirata. No, è lì con la convinzione di essere un paese a se stante. Siamo passati per Cittadella dove se chiami il comune ti mettono in attesa con il Va Pensiero: alle 14,40 aveva votato il 34 per cento. La fascia aurea del sentimento venetista segue la linea della «rust belt» nostrana, insofferente al centralismo, da sempre indipendentista. Ieri si è fatta sentire e lo ha fatto dalla Val d’Illasi ad Oderzo, accomunando piccoli e grossi paesi per esaltarsi e scemare un po’ solo nelle città capoluogo di provincia. Mestre la «rossa», alle 16,30 produceva appena il 23 per cento. Hanno votato i devoti del Leone marciano, i fedeli alla linea del Tanko ma anche i moderati e le persone di sinistra, tutti i dubbiosi e coloro che erano tentati dall’astensionismo. I non sense di questo referendum «esortativo» erano talmente evidenti da non vedersi: non istituisce niente, non obbliga nessuno a fare qualcosa, auspica e chiede l’impossibile. A Zaia che si è imposto il minimo sindacale del 50 più uno mentre conveniva forse di più una scala intuitiva, del tipo acqua, fuochino, fuochetto. E’ venuto fuori fuoco. Pure con il contributo scettico e generoso di chi non ci credeva affatto eppur ha votato: «So che non vale niente - spiegava un signore al seggio di via Grimani di Mestre - so anche che non è giusto che io pago e tu mangi. Ma l’Italia resta una grande famiglia e noi non possiamo girare le spalle al Sud anche se è una palla al piede. Voto sì per ottenere un po’ più di attenzione dalla classe politica, magari anche un po’ di giustizia sociale in più». Vota il giovane professionista di 33 anni che fino a ieri non avrebbe mai votato, ma che ora, «con tutti soldi che ci abbiamo speso sopra quasi ci obbligano a farlo, sarebbe un delitto buttare questo referendum». Si vota per amore, si vota con riserva, si vota per senso civico ed etica calvinista anche e contro le proprie convinzioni. Come questa ragazza in aperto dissenso col moroso: «Okay, entro anch’io, però ti avverto, so che vincete voi, ma anche se andasse bene, i soldi che mangiano a Roma continueranno a mangiarseli qua». Eppure vota e vuol votare anche dopo che l’hanno respinta, non aveva la tessera elettorale e non risultava iscritta. Va dal poliziotto di servizio, si fa accompagnare al seggio e ci riesce. Inutile cercare i no, per trovarne uno chi scrive ha dovuto scomodare chi al seggio ci è andato non per votare ma perché precettato da scrutatore. Ventisette anni, infermiera, sorteggiata per contare i sì e i no, «e visto che ero qua e devo starci, voto e voto no». Perché no? «Perché le regioni non sono meno sprecone dello stato, sono ingorde e tendono a soddisfare gli appetiti delle burocrazie non meno di Roma. Uno solo stato amministrato è meglio di cento staterelli da controllare». Votano gli attivisti, votano i renitenti e i distratti, votano in molti dentro una giornata uggiosa e indolente che a prima vista sembrava scoraggiare tutti all’atto scomodo e senziente di alzarsi dal letto, lavarsi, vestirsi, trovare la scheda elettorale e portarsela fino al seggio. Voci colte al volo, rubate e non inquinate da domande. Signore energico in tuta da jogging: «...è facile lamentarsi senza poi fare il proprio dovere...». Signora in affanno all’amica: «Avevo 38 di febbre stamattina, eppure eccomi qua». Ragazza bionda in leggins: «Ma sai la fatica che ho fatto stamattina ad alzarmi dal letto e venire qua? Ma ne valeva la pena». Alle 19 il dato medio regionale dell’affluenza al voto aveva superato il 50 per cento e la «catalanata» veneta di chi pensava «non e bello ciò che è bello ma che bello che bello che bello» non era più la divertente parodia di «Alto gradimento» ma una copia dolce e senza isteria dell’indipendentismo catalano in salsa veneta. «Voglio che i soldi delle tasse restino da noi, siamo stufi che la torta se la mangi Roma» diceva una signora di Laghetto quartiere alla periferia di Vicenza abitato da una piccola borghesia molto stressata dalla crisi. «Si perché è giusto che abbiamo una autonomia e che i nostri soldi restino in Veneto» aggiunge un’altra donna e sono tante le voce di pancia che come queste si spencolano in avanti e corrono il rischio di una cocente delusione. Perché è evidente che tra i miraggi di questo referendum che decide che altri decidano ma anche no, c’è quello indimostrato di un ritorno fiscale. Mangiare nel piatto della fiscalità nazionale sarà dura a meno che lo stato non acconsenta di fare il proprio harakiri, ma anche la sola cessione di competenze potrebbe presentarsi molto difficile e altrettanto nefasta per le casse statali. Pensiero ben presente negli elettori di sinistra e di centro che pure hanno votato sì e che un commercialista di un paese che non diremmo riassume così, «ho votato e ho votato per il sì naturalmente anche se so che è una fesseria. Si dice ora: io regione farò da me quello che prima facevi tu stato, chiaro che da adesso non ti pago e mi tengo i soldi. Questo è il senso della cessione di competenze. Ora le competenze potrebbero anche arrivare e noi le pagheremo con stipendi e pensioni dato che si tratta per lo più di servizi. Noi assumeremo i nostri e li pagheremo, Roma dovrà fare a meno dei suoi, ma siccome non può licenziarli se li deve tenere e continuerà a pagarli. Ecco che la devoluzione non produce alcun vantaggio economico ma favorisce un ulteriore allargamento del debito pubblico». Questo referendum aveva un quorum sulla carta e una temperatura dall’esito indecifrabile e che nessuno sapeva anticipare,già a mezzogiorno i seggi bollivano e Luca Zaia poteva dirsi sicuro che avrebbe superato l’asticella del 50 per cento. Giove Pluvio è stato benevolo con Zaia, come detto, gli ha mandato il meteo giusto (e anche se il tempo è a sua volta disputabile: «Perché il brutto tempo dovrebbe favorire il mio sì e i bello aiutare il no?» chiede una elettrice), a meno che non si sia sbagliato e lo abbia scambiato per Puigdemont.

Pag 6 Ora inizia la trattativa. Il Veneto vuole più soldi, avrà (forse) il potere di spenderli meglio di Marco Bonet

Venezia. Si fa presto a dire «autonomia». Ma di che si sta parlando, esattamente? Di quella di Trento e Bolzano, come va ripetendo il governatore Luca Zaia tra le perplessità degli stessi leghisti? O di quella del Friuli Venezia Giulia, depotenziata e quindi assai meno ambita? O di un modello tutto nuovo, cucito su misura per il Veneto sulla base degli articoli 116 e 117 della Costituzione, avanguardia di quel «regionalismo differenziato» (o a geometria variabile) tratteggiato dai costituzionalisti dell’università di Padova, da Mario Bertolissi a Luca Antonini? Gli statuti speciali - Non tutte le Regioni a statuto speciale sono uguali: alcune sono «più uguali» delle altre e per questo si parla talvolta di «specialità nella specialità». Esiste però un comun denominatore, dato dal fatto che la finanza delle Province autonome di Trento e Bolzano e delle Regioni Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta non è «derivata», basata cioè su trasferimenti stabiliti di anno in anno da Roma (con i relativi, immancabili tagli), bensì «compartecipata» a quota fissa e soprattutto «senza vincolo di destinazione». Qui sta tutta la differenza: anche il Veneto, come le altre Regioni ordinarie, «compartecipa» all’Iva e all’Irpef ma le relative risorse, ad ogni legge di Bilancio ricalcolate dallo Stato, sono vincolate (alla Sanità, per lo più: pesa per 8 dei 12 miliardi del bilancio regionale) e sfuggono all’azione politica di Palazzo Balbi, che non può disporne liberamente. Da questo punto di vista, a godere dell’autonomia maggiore è la Sicilia (tiene tutto per sé, 10/10 ad ogni voce come si vede nella tabella in alto), seguita dalla Valle d’Aosta (dopo l’accordo del 2009) e dalle Province autonome di Trento e Bolzano (dopo l’accordo di Milano). Ci si chiederà: ma allora perché la Sicilia versa in difficoltà croniche mentre il Trentino Alto Adige pare l’Eldorado? Ovviamente c’entra l’uso responsabile delle risorse ma anche il fatto che al Nord la capacità fiscale è più elevata (i 9/10 di Bolzano non «pesano» in valori assoluti come i 9/10 di Palermo) e c’è una maggior capacità di negoziazione con lo Stato, che si traduce in più ampie competenze di spesa (fatta la media, la spesa pro capite delle Regioni speciali è di 5.723 euro contro i 3.033 delle Regioni ordinarie). Il risultato pratico è stato riassunto così dal professor Antonini: «Per il turismo nel 2013 l’intera Regione Veneto ha speso 17 milioni. Nello stesso anno la provincia di Trento ha potuto impegnare 57 milioni e quella di Bolzano 38 milioni. In Trentino Alto Adige una famiglia povera, con reddito sotto i 13.500 euro, con almeno due figli, riceve un assegno che può raggiungere i 450 euro al mese. Un dottorando che sceglie di studiare fuori regione riceve una borsa di studio fino a 700 euro al mese; un insegnante guadagna 2.480 al mese euro contro i 1.697 in Veneto; per l’avvio di un’impresa si può beneficiare di contributi a fondo perduto che possono arrivare fino al 40% della spesa e di mutui fino a 30 mila euro; un’impresa che vuole ristrutturarsi riceve contributi fino a 3 milioni di euro. L’Irap? Dal 2013 è azzerata per 5 anni per tutte le nuove imprese». Certo, lo stesso non accade in Friuli Venezia Giulia o in Sardegna (le più «deboli» tra le Regioni speciali) ma è facile immaginare i risultati che il meccanismo della compartecipazione senza vincoli, anche su percentuali più basse, potrebbe avere in una Regione con il Pil del Veneto: 152 miliardi di euro. La trattativa – È lecito sognare, dunque, ma il sogno potrà mai avverarsi? La risposta del sottosegretario agli Affari regionali Gianclaudio Bressa è sempre stata lapidaria: no. «L’unica via che può seguire il Veneto è quella indicata dagli articoli 116 e 117 della Costituzione» ha detto e ridetto, e cioè l’ormai celeberrima «trattativa Stato-Regione» già avviata dall’Emilia Romagna, secondo i leghisti in tutta fretta al solo scopo di «disturbare» il referendum di Veneto e Lombardia. E qui la questione si fa complessa. La lista delle materie su cui Zaia intende estendere le competenze della Regione è molto lunga e articolata, sono ben 23. Il governatore chiede poi di trattenere in Veneto i 9/10 dell’Irpef, dell’Ires e dell’Iva riscosse qui (il «modello Trento e Bolzano» categoricamente escluso da Bressa), denari che verrebbero poi utilizzati per gestire in totale autonomia, tra le altre, la sanità, l’istruzione (compreso il personale docente e amministrativo), la ricerca scientifica e tecnologica, il governo del territorio, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, i rapporti internazionali e con l’Ue, la protezione civile. A queste potestà, legislative e amministrative, se ne aggiungerebbero poi una miriade di altre, soltanto amministrative, che vanno dalla gestione dei fondi rotativi e di garanzia alla previdenza complementare, dall’energia alle sovrintendenze fino alle scuole paritarie. L’elenco è contenuto nelle 37 pagine già spedite a Roma da Zaia ma come sempre quando si ragiona sulle norme costituzionali, si tratta più che altro di «titoli» (l’istruzione, l’ambiente) che andranno poi declinati e riempiti di contenuti. E proprio questo è lo scopo della trattativa, che non sarà né facile, né breve (basti pensare che solo per ottenere la gestione delle strade la Provincia di Trento ci ha messo la bellezza di 6 anni) e anche per questo Zaia ha deciso di farsi affiancare da un board tecnico che può contare, oltre che sui costituzionalisti Antonini e Bertolissi, sul professore di Scienza delle Finanze Carlo Buratti. E ne faranno parte anche esponenti dell’Anci (i Comuni) e dell’Upi (le Province). Il residuo fiscale - Tutto questo permetterà davvero al Veneto di trattenere sul territorio più soldi, il famoso residuo fiscale? Ora, a parte che l’ammontare di quest’ultimo balla a seconda dei metodi di calcolo utilizzati (si va da 3,5 a 23 miliardi, con un recente riposizionamento a 15) in realtà, come ha chiaramente spiegato Luciano Greco, professore di Scienza delle finanze dell’università di Padova, «l’autonomia non darà “più risorse”, perché qualsiasi devoluzione di competenze deve avvenire senza squilibri per le finanze pubbliche. Cambierà solo l’intestazione di chi le utilizza, dallo “Stato” alla “Regione”. Lo stipendio di un docente, per esempio, resterà lo stesso nell’ammontare ma sarà erogato da un soggetto diverso. Ciò che potrebbe cambiare, questo sì, è l’efficienza della spesa». Semplificando: se per la gestione delle strade in Veneto lo Stato spende oggi, tramite Anas, 500 milioni l’anno (cifra causale, a mero titolo di esempio), un domani la Regione potrà spendere, tramite Veneto Strade, sempre 500 milioni. Ma è vero che se per fare le stesse cose, grazie alla sussidiarietà verticale e alle vicinanza al territorio, la Regione dovesse spendere 470 milioni, ben potrebbe decidere di reinvestire quei 30 milioni altrove, chissà, magari per fare una decina di piste ciclabili. Il che davvero ci avvicinerebbe un po’ di più all’Alto Adige.

Pag 7 La questione veneta di Francesco Chiamulera Il plebiscito, l’unità postbellica, il federalismo: storia di una diversità

Iniziare questa storia con il plebiscito del 1866 non è poi chissà quale capriola nel passato, ma una semplice constatazione. A suggerirlo, in fondo, è lo stesso Luca Zaia, quando ha fissato il referendum per l’autonomia del Veneto proprio al 22 ottobre. Una data scelta non a casaccio: era il 21-22 ottobre 1866 quando quasi 650mila veneti (e mantovani) si recarono alle urne per confermare con plebiscito l’unione alla corona sabauda seguita alla sconfitta austriaca nella Terza guerra d’indipendenza. «Qualcuno li giudica pochi? Non è così. Con una popolazione di due milioni e 600 mila veneti, tolte le donne e i bambini, è un numero importante. Poi, è vero che ci furono dei brogli. Ma questo è un classico di tutti i plebisciti», ragiona lo storico Giovanni Sabbatucci. Serenissimi - Fare la storia dell’autonomismo veneto, della voglia più o meno irresistibile di andarsene per conto proprio, lontano da Roma, è come segnare su un grafico le oscillazioni della corrente elettrica: su e giù, più forte o più debole. Mai costante. Il rapporto con Roma, negli ultimi centocinquantuno anni, è stato da queste parti un filino contraddittorio, per dirla con un eufemismo. Non sempre, infatti, i veneti hanno manifestato il sentimento dell’indipendenza e della ribellione anticentralista al modo in cui lo hanno sentito le generazioni degli anni Ottanta e Novanta. Quelle, per intenderci, che partorirono il pittoresco assalto al campanile di San Marco dei nove Serenissimi (era l’8 maggio del 1997), quelle del popolo delle partite Iva che si mettevano esasperate in coda sulla tangenziale di Mestre o sul Terraglio (il Passante era di là da venire, per andare a Padova da Treviso ci potevano volere anche due ore, e il governo romano era quello che non costruiva le strade). Ma anche quelle (chi se li ricorda?) dei mitici convegni del LIFE, che non si leggeva all’inglese e non era una rivista patinata di mondanità cosmopolita, bensì i Liberi Imprenditori Federalisti Europei: movimento antitasse di Fabio Padovan e Daniele Quaglia, a cavallo tra leghismo e liberismo. Andarsi a rivedere le foto di allora restituisce in modo icastico il mood del Veneto di metà anni Novanta: sullo sfondo le bandiere col leone di San Marco, in primo piano loro, gli imprenditori, con il numero di partita Iva scritto direttamente in fronte, «perché siamo numeri, non persone». Il lungo sonno - Ecco, prima di tutto questo, prima della Liga Veneta e poi della , prima dei trionfi elettorali di Zaia del 2010 e del 2015, e in ultimo del referendum di oggi, c’è stato un mezzo secolo. Dopo la Grande Guerra, in cui il Piave, il Grappa, il Montello diventano simboli tricolori «sacri alla Patria», c’è il lungo sonno novecentesco. O almeno, a prima vista potrebbe sembrare così. Cinema e letteratura restituiscono l’immagine di un Veneto placido, bonario, lontano da ogni ribellismo, men che meno quello antiromano: l’archetipo dello Strapaese dove neppure arriva l’allegro conflitto tra rossi e bianchi, come nella vicina Emilia di Guareschi. No, il Veneto è solo campi e parrocchie. Vicenza è sacrestia d’Italia, i Veneti ancora poveri e affamati non vedono l’ora di andarsene, sognano Roma e Milano, i piccoli imprenditori ribelli della Pedemontana sono di là da venire. Nel 1965 Pietro Germi racconta Treviso in Signore & Signori, ed è un racconto definitivo, totale, che quasi sigilla l’identità di una città in uno stereotipo geniale e spassoso: Treviso crapulona e ipocrita, Treviso iperprovinciale, Treviso che beve, mangia e tradisce, «tuo marito fa l’amore con Milena, al bar cassiera / Sei cornuta a tutte le ore, sei cornuta da mattina a sera», (a leggere il biglietto è Osvaldo Bisigato alias Gastone Moschin, a cui il Veneto dovrebbe dedicare molte piazze). Dieci anni prima, ne Gli Americani a Vicenza, Goffredo Parise era stato più fiabesco e surrealista, ma anche qui la provincia veneta era soavemente addormentata, piccole isole di cittadine che correvano faticosamente dietro alla modernità in mezzo a una campagna onnipotente. Un po’ come in Libera nos a Malo, indimenticabile ritratto di Luigi Meneghello di un luogo e della sua gente: il fascismo prima, gli americani poi sono l’anelito di un Veneto dove chi ha uno straccio di titolo di studio sogna tutt’altro che l’autonomia: sogna la città, il progresso, la connessione col mondo. E ancora nel 1970 La moglie del prete di Dino Risi mostra una Padova sempre bloccata nel solito schema, amore ingenuo versus controllo sociale, bigotteria soffocante, come se il Sessantotto non ci fosse mai stato. Cartoline dal Santo di una città che al massimo vorrebbe imitare Milano, diventare hub di commerci, ma non ci riesce. Proto-Leghisti - Eppure le cose non sono così semplici. Dietro le pagine dei libri, lontano dalle raffigurazioni della cinematografia, sotto l’ineffabile triade democristiana Piccoli- Rumor-Bisaglia che nel dopoguerra gestisce in regime di monopolio la connessione politica Venezia-Roma, cova qualcosa. I più accesi venetisti di oggi, come Ettore Beggiato, ricordano che correvano i primi anni Venti quando il parlamentare repubblicano di Montebelluna Guido Bergamo già denunciava «il governo centrale di Roma, questo governo di filibustieri, di ladri e camorristi organizzati» e invocava «la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l’ammontare delle imposte dirette nel Veneto». Un proto-leghista, insomma. Ma per vedere il primo embrione dell’autonomismo organizzato bisogna aspettare la metà degli anni Sessanta: è il Marv, movimento autonomo regionalista veneto, che sostiene l’istituzione delle regioni, previste dalla Costituzione e attivate di lì a poco, nel 1970. Sta nascendo qualcosa di nuovo: in futuro lo si chiamerà venetismo, allora è ancora un fenomeno a cavallo tra la filologia (dalla Società filologica veneta verrà , futuro dominus dell’autonomismo), la protesta e la rievocazione nostalgica. Eppure il riferimento alla illegittimità del 1866 è già presente. Nel 1979, al congresso fondativo di Recoaro della Liga Veneta il programma recita testualmente: «il Veneto è, di fatto, dal 1866 una colonia d’Italia», «secondo un piano ricorrente di sopraffazione, sfruttamento ed alienazione». Boom. Alle politiche del 1983 il movimento elegge due parlamentari, Achille Tramarin e Graziano Girardi. I consensi per l’autonomismo crescono lungo la Pedemontana, qualcuno se ne accorge e cerca di correre ai ripari: Antonio Bisaglia invoca una CSU, sul modello bavarese, che non si farà. E in un’intervista dice: «il Veneto sarebbe maturo per uno Stato federalista, ma questo Stato, centralista e burocratico, alla mia regione l’autonomia non la concederà mai». Comincia da subito anche un’altra storia, parallela: quella dei rapporti, mai idilliaci, sempre dialettici, tra indipendentisti veneti e delle altre regioni del nord. Da una parte, in Lombardia, i giovani Umberto Bossi e Roberto Maroni. Dall’altra i veneti, che hanno come primi leader lo stesso Rocchetta e la moglie Marilena Marin, cui succederà poi Fabrizio Comencini. Verso l’alleanza che debutterà alla fine degli anni Ottanta: la Lega Nord. Piccole patrie - I tempi cambiano, con l’oratoria bossiana l’autonomismo diventa un affaire di cui si parla sui giornali, prende nuovi nomi e sfumature: «federalismo» è il nuovo mantra, di «secessione» si parla nel lessico familiare della politica. Ecco i primi amministratori autonomisti, i sindaci rocciosi e incazzosi. Nella stessa Marca trevigiana dove si erano ritirati Comisso e Parise arriva una genia di politici un po’ barbari, eppure in straordinaria sintonia con un nuovo popolo ribelle, sfuggito alle rilevazioni e al sentimento dell’establishment democristiano. Sarà insomma l’era di Giancarlo Gentilini su tutti (ben prima del presidente di provincia Zaia, l’uomo delle rotatorie, e dello sceriffo di Cittadella Massimo Bitonci), sindaco di Treviso dall’oratoria variopinta, «spariamo addosso ai clandestini come ai leprotti», e ne avrà anche per il povero Comisso: lo scrittore trevigiano per Genty «in fondo el gera reciòn», ricorda Gian Antonio Stella. A Parise invece toccherà il tentativo (postumo) di annessione dei venetisti, che vorrebbero farlo passare per uno di loro, dimenticando le aspre parole che lo scrittore riservò al «dialetto» veneto («lo detesto», «culturame regionalistico»). Fino al leggendario sfogo in diretta Rai che Mario Rigoni Stern riservò a Carlo Sgorlon, proprio in un dibattito sull’indipendenza: «le piccole patrie? In mona le piccole patrie!». Si era, ricorda Alessandro Marzo Magno, alla fine degli anni Novanta. In questi ultimi due decenni le dinastie dell’autonomismo si sono succedute, con alterne fortune: grandi ruggiti ma non troppi voti per le fazioni più agguerrite (Alessio Morosin e gli indipendentisti nel 2015 raccolgono solo il 2,5%), qualche tentativo un po’ lunare di emulazione a sinistra (gli indipendentisti «socialdemocratici» di Sanca Veneta), grande consenso per il Governatore. In tutto questo, è lui, Zaia, la vera Balena bianca: capace di sintesi tra il fermento antico di un venetismo mai sopito e l’imperativo categorico di ogni politico, cioè sbancare le urne, è stato l’unico, nella galassia veneta, a portare il sogno dell’autonomia (autonomia: nuova, moderata declinazione dell’indipendenza) a Palazzo Ferro Fini, sul Canal Grande. E adesso, alla prova del voto. Con un occhio da mandriano che sorveglia il suo territorio, Zaia oggi si gioca una partita lunga più di un secolo. Sì, sono centocinquantun anni.

IL GAZZETTINO Pag 1 Adesso non ci sono più alibi di Ario Gervasutti

Tra le molte sciocchezze che vengono dette in ogni campagna elettorale, ce n’è stata una più macroscopica delle altre nei giorni che hanno preceduto il referendum: «È un voto inutile, perché non cambierà nulla». Niente di più falso. Se c’è un voto che - a prescindere dal risultato - è destinato a cambiare profondamente gli scenari, è proprio quello di ieri sull’autonomia del Veneto e della Lombardia. Li avrebbe cambiati anche se non fosse stato raggiunto il quorum, perché in quel caso si sarebbe messa una pietra tombale su qualsiasi ipotesi di riforma di una struttura centralista che ormai non è più in grado di rispondere alle esigenze amministrative di territori con necessità e obiettivi abissalmente diversi tra loro. Adesso, con il voto popolare, gli alibi sono finiti per tutti. Sono finiti per il governo e per coloro che sostenevano l’inutilità di questo referendum – senza peraltro rendersi conto della pesante offesa alla democrazia nel definire “inutile” l’opinione del popolo - dal momento che sarebbe stata sufficiente una letterina a Gentiloni per ottenere in un paio di giorni ciò che è previsto dalla Costituzione. Se fosse vero, immaginiamo quindi che di fronte al voto di alcuni milioni di persone non saranno necessari un paio di giorni ma basteranno un paio d’ore. È caduto anche l'alibi di chi vagheggiava - anzi, vaneggiava - derive catalane o conseguenze indipendentiste: il voto è chiaramente nell'alveo dell'unità del Paese e orientato a chiedere prima di tutto più doveri e solo dopo, in conseguenza di questi, più diritti. È un voto che chiede di assumere più responsabilità, ed è ciò che chiunque dotato di buon senso dovrebbe proporre non solo per il Veneto e la Lombardia ma anche per tutte le altre regioni, in principal modo quelle in cui la gestione della cosa pubblica mostra limiti imbarazzanti. Perché l'assunzione di responsabilità non è un onore: è soprattutto un onere. E qui cade l'ultimo, ma forse più importante alibi: quello che riguarda le regioni. Il Veneto negli ultimi quarant'anni è stato tutto e il contrario di tutto, al netto delle ridicole parodie venate di razzismo che anche negli ultimi giorni hanno riempito giornali e televisioni. Ha costruito un miracolo economico ma lo ha anche (in parte) dilapidato con gestioni finanziarie non all'altezza; è diventato la prima, vera metropoli diffusa italiana secondo i moderni modelli mondiali, con 5 milioni di persone che vivono e lavorano in una rete senza confini urbani, ma ha sperperato il territorio con milioni di metri cubi di cemento inutile; ha costruito imprese e creato patrimoni culturali senza poi avere la capacità di fare squadra per gestirli in un mondo globalizzato; ha trovato un peso politico necessario a realizzare infrastrutture fondamentali, ma alcuni politici e alcuni imprenditori ne hanno approfittato per dare il peggio di sé. Ecco, l'autonomia toglie l'alibi a tutti coloro per i quali la colpa sta sempre altrove. I veneti hanno detto che sono pronti, e vogliono assumersi questa responsabilità pagando - e facendo pagare ai loro amministratori - eventuali errori o colpe. La partita ora non si gioca più sulla contrapposizione sterile e non di rado demagogica con il governo centrale, ma sulla capacità di essere all'altezza delle sfide globali. Il resto - le percentuali in più o in meno, i sì e i no, gli astenuti e i distinguo - sono sciocchezze da campagna elettorale. Parole al vento: ora devono parlare i fatti.

Pagg 2 – 3 Il Veneto ha scelto l’autonomia di Angela Pederiva e Alda Vanzan Ore 23, la festa di Zaia: “Hanno vinto i veneti”

Venezia. Ebbene Sì: la stragrande maggioranza (il 98%) dei partecipanti al referendum vuole che «alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Il verdetto è stato pronunciato nella notte, dopo che però già all'ora di cena era stato raggiunto e superato il quorum, tanto da registrare alle 23 un'affluenza del 58% (quando mancano 7 seggi allo spoglio), mentre alle Regionali del 2015 era stata del 57,15%: in tutto 2,8 milioni di veneti. Un dato inferiore alla consultazione confermativa dello scorso anno, ma che deve essere analizzato tenendo conto della zavorra estera: i veneti residenti oltre confine, che non potevano votare per corrispondenza, hanno infatti pesato in negativo per circa l'8,5%, con effetti particolarmente vistosi nel Bellunese, dove la chiamata alle urne era doppia. I DATI - L'andamento parziale della partecipazione al referendum aveva visto alle 12 un afflusso regionale del 21,1% (alla stessa ora sulle trivelle era stato rilevato il 10.3% e sulla riforma costituzionale il 24%) e alle 19 un accesso sempre medio del 50,1% (contro il 28,6% e il 65,9% conteggiati, rispettivamente, nelle due tornate del 2016). Stimando però l'affluenza tra i soli residenti in Veneto, così come ha fatto l'Osservatorio elettorale del Consiglio regionale, proprio alle 19 il riscontro medio saliva al 54,7%, con evidenti conseguenze nelle singole province: nel Bellunese il risultati depurato degli emigranti sarebbe stato del 56,8% anziché del 45%, nel Padovano del 55,2% contro il 52,1%, nel Rodigino del 44,1% invece che del 41,9%, nel Trevigiano del 59,5% e non del 51,6%, nel Veneziano del 49,9% anziché del 47,1%, nel Veronese del 49,7% contro il 47,2%, nel Vicentino del 61,8% invece che del 55,9%. GLI EMIGRANTI - Roberto Ciambetti, presidente dell'assemblea legislativa, cita tre casi- simbolo: «Al tramonto a Sandrigo aveva votato 1 iscritto all'Aire su 424, a Trissino 7 su 795, ad Altivole 2 su 944». Un fenomeno particolarmente rilevante a Belluno, dove si votava anche per l'autonomia provinciale, ma dove gli espatriati valgono addirittura il 20% del corpo elettorale. «Per questo annota il professor Paolo Feltrin, responsabile scientifico dell'Osservatorio bisogna stare sempre molto attenti all'effetto-ombra che fanno i veneti all'estero. In quel caso il differenziale è di quasi dodici punti percentuali». L'ASTICELLA - Ma tant'è, quelli che contano sono i dati ufficiali, per cui la domanda delle domande resta sempre quella: per come alla fine si è posizionata, la famosa asticella deve essere ritenuta soddisfacente o no? «Quando si celebra un referendum riflette il politologo in fondo si gioca una scommessa. Detta in maniera molto brutale: aveva puntato Matteo Renzi, così come hanno puntato Roberto Maroni e Luca Zaia. Ebbene, Renzi ha perso, Maroni ne esce un po' malconcio e Zaia ne esce ben concio». A proposito dei due governatori leghisti, è inevitabile il confronto di giornata. «Possiamo dire con certezza sottolinea Feltrin che in Veneto è stato ottenuto un risultato nettamente superiore a quello della Lombardia, dov'è evidente che hanno avuto seri problemi con il voto telematico. Peraltro stupisce una certa inefficienza lombarda, basti pensare solo al fatto che l'affluenza delle 12 è stata comunicata solo alle 17. Questo dimostra che gli aspetti tecnici e organizzativi di una consultazione, cioè la famosa macchina, non dovrebbero essere mai sottovalutati: a tutti quelli che in questi mesi chiedevano se fosse davvero necessario l'ambaradan che è stato messo in piedi dalla Regione, rispondo che sì, era necessario, visto che da noi ha funzionato tutto abbastanza bene». LE DINAMICHE - Ma sono anche altre le dinamiche interessanti secondo Feltrin. Per esempio: grandi città contro piccoli centri. «Verona, Venezia e in parte Padova mostrano tendenze significativamente inferiori rispetto ai comprensori, ma non ci vedrei la mano di un leader: sul caso scaligero noto più l'influsso lombardo che lo zampino di Flavio Tosi». Oppure: Rovigo la rossa. «Qui invece segnalo un chiaro effetto Azzalin (Graziano, infaticabile consigliere regionale pro-astensione, ndr.): è un caso interessante, perché fa vedere bene come in presenza di una campagna elettorale con posizioni diverse, si ottengono risultati differenti». Infine la pioggia: «Ha influito sul voto del pomeriggio». Ma a quanto pare, referendum bagnato, referendum fortunato.

San Vendemiano (Treviso) Buio pesto, pioviggine fitta. Sono le 6.49 del mattino, quando i fanali di una Fiat 500 gialla fendono la notte che ancora avvolge San Vendemiano. Ma come: Luca Zaia non aveva ceduto l'anti-autoblù a Roberto Bet, sindaco della vicina Codognè e suo delfino politico? «Certo, però con l'accordo che avrebbe dovuto prestarmela per tutti gli eventi importanti della mia vita, com'è indubbiamente questo», sorride il presidente della Regione varcando l'ingresso della scuola elementare San Francesco, sede della sezione numero 5 che il leghista sta per andare letteralmente ad aprire, con il dichiarato obiettivo di essere il primo elettore del Veneto a votare al referendum sull'autonomia. CON LA MOGLIE - C'era sempre un cinquino da parcheggiare, quando il trevigiano veniva nominato ministro e riconfermato governatore. Centosettantaseimila chilometri dopo, la narrazione zaiana continua per quella che viene definita «un'altra pagina di storia», scritta anche questa volta insieme alla moglie Raffaella, la donna della discrezione che non manca un'elezione. Il look della coppia presidenziale è informale: per entrambi jeans con il risvolto e scarpe disegnate dal rapper Kanye West, per lui camicia bianca con giacca blu e per lei cappottino chiaro con pashmina a tema. Ma il tono dell'inquilino di Palazzo Balbi è enfatico: «Sono arrivato presto, per dare il buon esempio. Dopodiché la partita è in mano ai veneti e saranno loro a decidere. Sull'affluenza si gioca la credibilità di una comunità. Abbiamo detto per una vita che volevamo iniziare questo percorso per l'autonomia, lo facciamo ora in maniera democratica, legale, in linea con la Costituzione». Segue siparietto con un compaesano che prima si ferma a salutarlo e poi fa per dirigersi verso il proprio seggio, rischiando così di bruciarlo sul tempo. «Mi raccomando eh, lui è il secondo elettore...», fa finta di ammonire i fotografi Zaia. Al che la consorte rompe il silenzio: «No, è il terzo... la seconda sono io!». Risate. LE RISPOSTE - L'ultima porta in fondo al corridoio è chiusa, mancano quattro minuti all'avvio delle operazioni. Il governatore inganna l'attesa concedendo una risposta per ogni domanda. Alla troupe francese: «Come diceva il vostro Jean-Jacques Rousseau nel contratto sociale, il popolo ti delega a rappresentarlo. Questo voto è la sublimazione della democrazia, la nostra Corte dice che questo referendum è in linea con la Costituzione, che è giusto sentire il popolo e che nella trattativa si dovrà tenere presente la sua indicazione». Alla web tivù: «Che sensazione ho? Sono ottimista per natura, il Veneto non sarà comunque quello di prima. Sta poi ai veneti e ai nuovi veneti approfittare di questa opportunità. Certi treni passano una sola volta...». A chi torna a proporgli il paragone con la Catalogna: «L'abbiamo detto ormai un miliardo di volte, dal punto di vista tecnico-giuridico l'indipendenza non ha nulla a che vedere con l'autonomia. Indipendenza significa staccare un pezzo di Paese e farlo diventare Stato, autonomia significa restare nel Paese e diventare molto più forti, come Trento e Bolzano». Al cronista che lo convince a sfidare la scaramanzia per immaginare cosa succederà dopo: «Se questo referendum passerà, molto probabilmente non ne serviranno più in giro per l'Italia, perché il Veneto farà da apripista anche dal punto di vista della trattativa». LA RICEVUTA - Finalmente scoccano le 7. «E allora, lo inauguriamo questo seggio?», stringe la mano Zaia a tutti gli scrutatori. «Serve un documento?», chiede il presidente (della Regione). «No, non c'è bisogno», risponde il presidente (della sezione), ufficializzando ai collaboratori l'identità del votante per la spunta sulla lista elettorale. «Il governatore Luca Zaia», «È presente», «Può votare, cabina 1»: frasi rituali che assumono una rilevanza speciale, non fosse altro che per la ressa di telecamere e flash che immortalano il momento. All'uscita dal separé, il leghista riconsegna la matita copiativa, confidando una certa foga nell'impugnarla per tracciare la croce blu: «L'ho un po' spuntata...». Poi arriva il fatidico momento di imbucare la scheda azzurra nell'urna: «Numero uno», sottolinea. Il tempo di ottenere la ricevuta («Avete visto? Dicevano che ci sarebbero stati problemi senza la tessera elettorale...») e commuoversi tenendola tra le mani: «È un momento storico, perché è da una vita che volevamo fare questo referendum. Adesso i veneti sono protagonisti». Ma per il resto del Veneto la giornata referendaria è appena cominciata, per cui sarà lunga arrivare alle 23. Tanto vale allora bere un caffè, «orzo lungo in tazza grande», al bar di fronte. Qualcuno lo stuzzica: stasera Prosecco, invece? «O cicuta», esorcizza lui, un attimo prima di compilare l'agenda della sua domenica: mattinata fra corsa e palestra, pranzo in famiglia, serata in ufficio, «più o meno le solite cose», minimizza il governatore. Ma una cosa cambia subito, la sua foto-profilo su WhatsApp, che ora è un cartoncino su cui campeggiano due leoni di San Marco e una scritta con il timbro della sezione numero 5: «22 ottobre 2017, si attesta che il signor Luca Zaia ha votato».

Venezia. Sono le 23.30, ormai è certo che il referendum sull'autonomia ha superato il quorum, e il governatore del Veneto Luca Zaia finalmente entra nel salone del piano nobile di Palazzo Balbi. Ad accoglierlo un lungo applauso. Lo aspettano da ore non solo i giornalisti, pure i consiglieri regionali e gli assessori. La soglia che attesta la validità della consultazione referendaria è stata superata, i dati di 202 Comuni su 575 dicono che il 59,7 per cento dei veneti è andato a votare. «Abbiamo passato il quorum - dice Zaia - questo è il big bang delle riforme istituzionali. È stata una chiamata di popolo trasversale ai partiti. E non hanno vinto i partiti, hanno vinto i veneti. La stagione delle riforme diventerà endemica, non vogliamo dichiarare guerra a Roma, ma chiederemo tutte le 23 competenze e i 9 decimi delle tasse». Zaia ha detto che questa mattina riunirà la giunta per approvare il provvedimento da portare in consiglio. SODDISFAZIONE - Zaia era stato chiaro: «Se va a votare il 50 per cento o il 51 o il 52, la pratica dell'autonomia la chiudo io», aveva detto in piena campagna referendaria. Il risultato l'ha soddisfatto: «Sì, un bel risultato, vuol dire che qualcuno si è rotto le scatole». Ribadisce che chiederà tutte le materie previste dall'articolo 116 e dal 117 della Costituzione, 23 competenze in tutto, ma non per avere le stesse risorse erogate oggi dallo Stato: «Non sarà una partita di giro, vogliamo i 9 decimi delle tasse». Domani a Venezia arriverà il premier Gentiloni, ma Zaia non ne approfitterà per annunciare la richiesta di autonomia: «Deve essere una visita privata perché noi non abbiamo avuto alcuna comunicazione da Palazzo Chigi. E comunque non rincorro strette di mano o foto che alla fine non servono a niente: quando avremo il testo approvato dal consiglio regionale lo presenteremo al Governo». GLI SCONFITTI - Gli domandano cosa risponde al segretario veneto del Pd Alessandro Bisato («Ora Zaia non ha più scuse») e il governatore ne approfitta per dare una stoccata ai tanti che hanno contestato, criticato, sminuito il referendum: «Noi lasciamo l'onore delle armi a tutti coloro che hanno perduto clamorosamente questa battaglia invocando il no e il ni. Che qualcuno oggi parli, grida vendetta». L'ATTESA - E pensare che nel pomeriggio il governatore era infuriato. Colpa di una serie di post su Facebook di consiglieri regionali esultanti per l'affluenza di Treviso e del Veneto in genere, sulla base dei primi parziali risultati delle ore 19. Anche il segretario della Lega Matteo Salvini aveva scritto un grande sì: «In Veneto superato il 50% dei votanti». Pure gli alleati avevano esultato: il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta e il commissario veneto Adriano Paroli avevano addirittura preso per definitivo il risultato parziale del 51,9 per cento delle ore 19, diffuso da alcune agenzie di stampa, quando in realtà era il 50,1, per esprimere «grande soddisfazione». Ma era con i suoi che il governatore se l'era presa: lanciare messaggi del genere sui social significava tranquillizzare la gente, indurre quelli che ancora non avevano votato a non andare ai seggi. È così che da Zaia è partito il rimprovero. LA SGRIDATA - Nella chat su Whatsapp dei consiglieri regionali della Lega, alle 19.30, è piombato improvvisamente un messaggio audio di Zaia: «Scusate, vi chiedo vivamente un favore. Non fate messaggi, non fate post col superamento del quorum. Perché chi è a casa dice bon, ce l'hanno fatta. E noi vorremmo passare oltre il 50 per cento, magari andare al 55, 60, 70, 80, 100 per cento. Non fate post col superamento del quorum! Per cortesia togliete quei post e invece invitate ad andare a votare perché ci sono ancora molti Comuni che non hanno percentuale per cui bisogna che crescano tanto quelli che superano il 50 per recuperare quelli che non crescono. Per favore non annunciate quorum fino alle ore 23. Grazie». E d'incanto i post su Facebook dei consiglieri leghisti sono spariti. L'ITER - Con l'approvazione della proposta di legge oggi da parte della giunta inizierà ufficialmente l'iter per la richiesta di maggiore autonomia. Il testo dovrà poi passare all'esame delle commissioni e, sessione di bilancio permettendo, in consiglio. A quel punto inizierà la trattativa con Roma.

LA NUOVA Pag 1 Il venetismo potente realtà della fantasia di Paolo Possamai

"Il venetismo è una potente realtà della fantasia, che non da noie al Parlamento". Tocca a Luca Zaia smentire Guido Piovene e ripromettersi di dare noie al Parlamento. Risale al "Viaggio in Italia", condotto dallo scrittore vicentino negli anni '50 del secolo scorso, una definizione sulla cui veridicità fa fede la Storia. Il "venetismo" è rimasto sinora un esercizio culturale, una rivendicazione di autonomia senza esiti concreti, una bandiera verso cui Roma non ha avuto mai alcun timore. Tant'è vero che le condizioni per trattare maggiori spazi di autonomia sono previste dalla Costituzione dal 2001 e però non risulta che né con governi di centrosinistra e nemmeno con governi amici di centrodestra l'asse Lega-Forza Italia che ha governato il Veneto negli ultimi sedici anni abbia intrapreso il negoziato. Da qui trae spunto la critica di Cacciari, che bolla come "inutile propaganda" il referendum.La prova tocca ora a Zaia in primis, poiché ieri ha riaffermato la sua leadership. Ma in effetti sono chiamati a sostenere il negoziato con lo Stato tutti coloro che ritengono fondata la battaglia per una maggiore autonomia, coerentemente con le tesi sostenute in vista del referendum dalla quasi totalità dei partiti in Veneto. E dunque la responsabilità da qui in avanti, dopo il responso popolare inequivocabile maturato ieri, non può che essere davvero corale. La responsabilità appartiene al ceto dirigente veneto nel suo complesso, a partire da coloro che rivestono ruoli politici, ma investendo pure i rappresentanti delle categorie economiche e delle professioni. La richiesta di autonomia a questo punto, però, va definita in modo strutturato, autentico, puntuale, credibile, finalmente serio. In questo senso, se ieri Zaia ha avuto un'investitura popolare importante, dobbiamo pure per onestà affermare che il negoziato con lo Stato è largamente da preparare. Il referendum è stata una prova di forza, Zaia ne esce con un mandato potente. Ma appare francamente velleitario e sostanzialmente anti-storico e bislacco sostenere che il Veneto può chiedere i margini di autonomia e di dotazione fiscale tipici del Trentino Alto Adige o delle altre Regioni a statuto speciale. Indispensabile e urgente, anzi tardivo, individuare i campi sui quali puntare nel confronto con la burocrazia di Stato.Siamo in una fase storica dominata da una durissima revanche centralistica, insomma un moto inverso ai tentativi di federalismo o almeno di decentramento introdotti a cavallo del millennio. Spuntare competenze e denari a Roma sarà impresa ardua, ma sarà decisamente vana se non adeguatamente anticipata da una approfondita analisi delle materie davvero strategiche. E se non ci sarà una azione solida, scaltra, argomentata e concertata andremo incontro all'ennesimo fallimento e a un ulteriore tassello nel mosaico delle disillusioni riformistiche messo assieme nell'ultimo quarto di secolo. Parlo (anche) di scaltrezza perché occorre essere consapevoli di quanto sia in salita la strada. A parte l'attitudine della burocrazia romana, davvero pensiamo che in Parlamento - come prevede la Costituzione - sarà agevole ottenere la maggioranza assoluta alla intesa tra lo Stato e la Regione? Che genere di alleanze possiamo plausibilmente costruire, tenendo conto del livello di credibilità di cui godiamo nella comunità italiana?Nella gestione del consenso e nel marketing politico Zaia ieri s'è dimostrato magistrale. Basti fare il confronto con l'esito maturato dallo stesso referendum in Lombardia. Da qui in avanti gli è richiesto un profilo da statista e da leader nazionale. Sarà la condizione indispensabile affinché possa maturare una coralità nel territorio, a partire dai sindaci dei paesi e delle città, e poi un serio incontro con lo Stato in sede romana. La parola "incontro" indica due forze che si muovono l'una verso l'altra, ma non si scontrano e convergono verso un luogo comune. A dispetto del fatto che "incontro" deriva da "contro", non indica opposizione e antagonismo, ma confronto e sintesi. Obiettivo ambizioso. L'alternativa è un'ulteriore prova di insufficienza e di incapacità del Veneto sulla scena nazionale.

Pag 1 La Lombardia è amara per Maroni di Mariano Maugeri

L'asticella lombarda era fissata attorno al 40 per cento. Roberto Maroni detto Bobo, durante la conferenza stampa di mercoledì scorso al Piccolo teatro di Milano con Silvio Berlusconi, l'aveva abbassata al 34%, la stessa partecipazione del referendum confermativo del 2001 che approvò la modifica del titolo V della Costituzione. Sembrava un esercizio scaramantico. Come si poteva paragonare un referendum regionale fortemente voluto dalla Lega con uno confermativo, quasi un atto notarile, privo persino di una convinta rivendicazione politica da parte del Centro-sinistra che quella riforma aveva partorito? I fatti si sono incaricati di dimostrare quanto quelle cifre non fossero frutto di un cattivo presagio ma di sondaggi che avevano fotografato la forbice oscillante tra il 34 e il 40 per cento. Maroni appare a Palazzo Lombardia un quarto d'ora dopo la mezzanotte e annuncia: "Supereremo il 40 per cento". Il 34% significa 2,5 milioni di voti sui 7,9 milioni aventi diritto. Meno di un terzo del corpo elettorale lombardo. Il minimo sindacale per non perdere la faccia e giustificare almeno parzialmente l'accensione di una costosissima macchina elettorale. Se le parole del governatore verranno confermate, il numero degli elettori salirà a poco più di tre milioni: né un fallimento, né un successo. Non è andata meglio neppure con l'opzione tecnologica, sbandierata come la prima applicazione del voto elettronico in Italia. Molti tablet sono andati in tilt e la percentuale sui votanti da comunicare alle 19 si è trasformata in una lunghissima attesa che ha avuto fine solo pochi minuti prima delle 22. Stessa sorte per quella definitiva, ancora sconosciuta a mezzanotte e mezza. Bobo Maroni "il leninista", come ama autodefinirsi, su questo referendum si giocava tutto. Prima di tutto la sua ricandidatura a presidente della Lombardia, un mandato che scade in primavera, con inevitabili conseguenze sulla trattativa che già dalle prossime settimane intavolerà con il premier Paolo Gentiloni, anch'esso in scadenza di mandato. Ci si aspettava un fuoco pirotecnico di idee, proposte, provocazioni dall'ex ministro degli Interni leghista. Invece il governatore lombardo ha ammesso davanti il suo popolo riunito in settembre nel pratone di Pontida, di essere debitore a Luca Zaia per la spinta propulsiva sul referendum: «Quello che sta accadendo è tutto merito di Luca: lui ci ha spinti, lui ci ha convinti a tenerlo nello stesso giorno». Una conferma ulteriore di quanto questo referendum sia stato ritagliato sulle aspirazioni e le aspettative dei veneti. Molti militanti leghisti lombardi hanno persino mugugnato sullo scarso impegno profuso da Maroni in questa campagna elettorale. «L' uomo non si sbatte più di tanto» dicono dalle retrovie del movimento. Per fortuna, dove non c'era Bobo si materializzava Stefano Bruno Galli, docente di Dottrine politiche alla Statale, allievo di Gianfranco Miglio ma soprattutto capolista della lista Maroni nel Consiglio regionale della Lombardia. Lo studioso del federalismo ha arringato il popolo leghista percorrendo migliaia di chilometri su e giù per la Lombardia: «Questo referendum è l'unico strumento in grado di cambiare il destino della nostra terra», ha urlato dalla Valtellina alla Bassa lombarda per serrare i ranghi. Parole d'ordine sulle quali si sono mobilitati anche i sindaci del Pd, con una serie di distinguo tradotti in linea politica da Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e con ogni probabilità sfidante di Maroni alle prossime elezioni regionali di primavera: «Se parliamo di competenze da trasferire da Roma a Milano con relative risorse noi siamo d'accordo, ma mai e poi mai avalleremo l'idea di trattenere metà del residuo fiscale della Lombardia. Sono sciocchezze, temi propagandistici. La partecipazione? Sotto il 50% di affluenza il referendum sarà un flop». Gori tocca uno dei punti chiave della trattativa che nei prossimi mesi terrà banco tra Roma, Milano e Venezia. Maroni, sempre a Pontida, magnificava l'alba del 23 ottobre. «Quel giorno andremo a Palazzo Chigi forti dei milioni di voti di veneti e lombardi e diremo al premier: da oggi si cambia, Lombardia e Veneto diventano regioni speciali». Un paio di giorni fa si è soffermato sulle tappe, e relative date, verso l'autonomia. Una settimana di tempo per ottenere il mandato a trattare dal consiglio regionale. E poi via ai negoziati, che dovrebbero entrare nel vivo prima di Natale e arrivare in dirittura finale per San Valentino. «Voglio che vengano trasferite alla Lombardia tutte le 23 materie previste dalla Costituzione» ha tuonato il governatore lombardo, anche se i risultati di ieri notte obbligheranno l'ex pupillo di Umberto Bossi a fare i conti con una realtà meno piacevole del previsto. Se Luca Zaia guarda al Sud Tirolo, Bobo Maroni enfatizzava lo statuto siciliano, intoccabile per legge perché precede la Costituzione del 1948: «La Lombardia», ha scandito in un'intervista a Libero, «sarà una regione speciale come la Sicilia, così nessuno potrà dire che si tratta di un modello incostituzionale. Lo statuto siciliano è federalismo allo stato puro. È il più avanzato d'Italia, anche se inattuato». Nell'uno e nell'altro caso, si tratta dei nove decimi delle tasse trattenute dalle due regioni, un sistema che farebbe saltare il fragilissimo equilibrio finanziario di un Paese dove il Nord vanta un residuo fiscale attivo e il Sud registra lo stesso parametro in negativo. Purtroppo le pene di Bobo non sono esclusivamente di natura politica e contabile. Da oggi ricominceranno a girare le lancette del processo che lo vede imputato al Tribunale di Milano per aver esercitato pressioni indebite con lo scopo di favorire due sue collaboratrici. La deposizione in aula del governatore è fissata per il 9 di novembre. Un intreccio di questioni personali e politiche che renderanno la sua agenda da qui alla prossima primavera un autentico tour de force. Se aggiungiamo la freddezza che corre tra Matteo Salvini e Bobo Maroni, che ostenta la sua amicizia nei confronti di Silvio Berlusconi, da lui definito "l'immortale", il quadro delle ambiguità che attraversano la Lega Nord è completo. Un partito territoriale e nazionale con due leader su tre che da oggi chiederanno a Roma poteri e denari da trattenere al Nord. Si può essere lepenisti e federalisti? Nazionalisti e localisti? Alleati di Fratelli d'Italia, che ancora inneggia alla sacra unità della patria, e autonomisti? Questo sarà il rompicapo di un altro interminabile autunno della politica italiana.

Pag 6 Cent’anni di fallimenti, adesso una nuova chance di Francesco Jori

Ultimi scorci dell'autunno 1979. Sulla scena veneta appare la sigla di una sedicente "Armata Indipendentistica Dolomitica", che proclama l'intento di dare vita a «uno Stato indipendente sul territorio corrispondente alla suddivisione amministrativa dello Stato italiano denominato provincia di Belluno», supportato da un'"organizzazione militare clandestina", e basato sullo slogan "indipendenza o morte!". Una fugace meteora, nella cui scia non si verificano né decessi individuali né strappi collettivi. Alla fin fine, solo una delle tante pulsioni autonomistiche che puntualmente appaiono e scompaiono nel cielo del Veneto: col risultato di consegnare agli archivi, almeno finora, le cronache di centocinquant'anni di inettitudine. Al di là dei confini del modesto fiume Meschio, nel bacino della Livenza, il piccolo Friuli-Venezia Giulia c'è invece riuscito, nell'immediato secondo dopoguerra, grazie a un esponente della Dc, Tiziano Tessitori: cui va il merito di aver fatto inserire in Costituzione, nel 1948, la specialità istituzionale per la sua regione, contro il suo stesso e tutti gli altri partiti. Impresa in cui, sull'altra sponda del Meschio, hanno fallito intere generazioni di politici, democristiani prima, leghisti poi, al di là dei solenni e reiterati proclami verbali. Difetti di azione. Oggi che rilanciano la partita attraverso il referendum, il Veneto e i veneti dovranno pur chiedersi se oltre alle chiusure della bieca Roma non ci sia anche qualche loro difetto d'azione e/o qualche errore strategico. Un'ipotesi di risposta arriva dal remoto passato, oltretutto sottoscritta da un autonomista della primissima ora: è il 1896 quando il trevigiano Piergiovanni Mozzetti, grande quanto sconosciuto e misconosciuto paladino della causa veneta, dopo aver promosso un apposito comitato, denuncia con profondo sconforto le barufe in famegia dei veneti che sottraggono loro ogni autentico peso contrattuale nei confronti di Roma. E una ventina di anni fa "Gustin Bartoldo", pseudonimo dietro cui si nasconde uno stimato professionista veronese, elenca i movimenti venetisti l'un contro l'altro armati, accusandoli di infantilismo politico. Una deriva scaturita dalle costole di quella che il suo padre-padrone Franco Rocchetta definì "la madre di tutte le Leghe", cioè la Liga Veneta: sprofondata in una sfibrante e schizofrenica rissa continua durata anni, fin da un minuto dopo il suo ingresso a sorpresa nel Parlamento, alle elezioni del 1983. Lo denuncia senza mezzi termini uno dei "serenissimi" saliti nel 1997 sul campanile di San Marco, Luca Faccia: accusando la Liga di essere diventata da subito "un partito come tutti gli altri".Galassia di sigle. Da allora in avanti, la deriva autonomista lungi dal contenersi si è accentuata, in una galassia di sigle l'un contro l'altra armata. C'è chi accanto al leone marciano colloca la foglia di tiglio, «albero sacro ai veneti da almeno tremila anni», e chi lo associa addirittura a Che Guevara; chi ha indetto elezioni estese non solo al Veneto ma pure alla Lombardia coinvolgendo 1.993 Comuni, e in cui il candidato più gettonato ha raccolto 196 voti; chi in un'elezione amministrativa pur avendo raggranellato poco più di un migliaio di consensi ha parlato di un autentico successo; chi ha messo in piedi un movimento gemellato con l'Olanda; chi ha riesumato il "primo reggimento di fanteria Veneto real" fondato nel 1685 da Francesco Morosini. A questo campionario di venetismi si accompagna un florilegio di reciproche accuse e contestazioni, ciascuno imputando all'altro di essere un usurpatore, un traditore, un cercatore di carèghe. E spesso e volentieri c'è stato chi ha deciso di rivolgersi alla magistratura: quella della detestata Italia, naturalmente, che quando c'è da produrre fatti anziché chiacchiere va benissimo. Una diaspora infinita, i cui mille rivoli si trovano accomunati da un'unica caratteristica: il sostanziale fallimento. Leone di San Marco. Lo conferma anche la storia più remota che attraversa di fatto l'intera prima metà del Novecento: quando un ex presidente del Consiglio come Luigi Luzzatti denuncia il rischio di "un'Irlanda veneta"; quando tra le due guerre viene presentata una lista con l'emblema del leone di San Marco; quando un parlamentare trevigiano dalla forte vis polemica, Guido Bergamo, attacca frontalmente Roma equiparando i governanti a camorristi e delinquenti, invitando a non pagare più le tasse... Sempre e solo proclami di carta: autonomia, zero. Così nella prima Repubblica: quando una filiera di governi amici a guida Dc da Roma a Venezia non fa passare neanche una briciola di autonomia; perfettamente imitata nella seconda Repubblica da un'analoga filiera di centrodestra, che pure vede sedere nel governo nazionale due leader leghisti del calibro di Bobo Maroni e Umberto Bossi. Ora, con il referendum di ieri, parte l'ennesimo tentativo, sia pure in tono decisamente più smorzato: chiedendo a Roma non di dare autonomia tout-court, ma semplicemente di sedersi a un tavolo per parlarne. Ma se neppure questo dovesse funzionare, se il messaggio ancora una volta dovesse risultare "non pervenuto", forse sarebbe il caso di chiedere, e di chiedersi, se il difetto non stia nelle Poste che lo trasmettono, ma molto più semplicemente in chi lo scrive.

CORRIERE DELLA SERA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 6 Nei bilanci del Nord le entrate superano di 94 miliardi le spese. L’eterno deficit del Sud di Alberto Brambilla

I referendum in Lombardia e Veneto, come capita spesso in Italia, non hanno generato un dibattito approfondito ma gran parte dei commenti si sono concentrati sulla utilità (o inutilità) di questa consultazione. E invece questi referendum rappresentano una grande occasione di riflessione non solo per le Regioni interessate ma per l’intero Paese sui motivi che lo relegano agli ultimi posti delle varie classifiche sulla produttività, tassi di occupazione e sviluppo mentre permane ai vertici per debito pubblico e inefficienza burocratico-amministrativa. La maggior parte dei governi che si sono succeduti in questi ultimi 40 anni hanno impostato le loro politiche economiche come se il Paese fosse un insieme omogeneo di territori senza un minimo di analisi sui bilanci territoriali delle singole Regioni. E senza la reale conoscenza della contabilità regionale (quanto entra per tasse e contributi e quanto si spende per welfare, investimenti e funzionamento) è difficile predisporre politiche mirate a risolvere i problemi specifici di ciascuna Regione. È come se una grande impresa avesse 20 unità operative e non sapesse chi guadagna e chi perde; fallirebbe in poco tempo. Ecco il nostro debito pubblico è l’indicatore del nostro stato fallimentare. Dall’ultimo Rapporto di Itinerari previdenziali sui bilanci regionalizzati emerge l’immagine di un Paese che nei 36 anni di indagine (dal 1980 al 2015) mantiene dei differenziali regionali difficilmente sostenibili in futuro. Prendiamo ad esempio i versamenti di contributi all’Inps che per il 2015 ammontano a 134,823 miliardi, di cui il 63,54% proviene dalle 8 regioni del Nord, il 20% dalle 4 regioni del Centro e il 16,44% dalle 8 regioni del Sud; le uscite per prestazioni sono pari a 176,947 miliardi, con il Nord che assorbe il 55,86% del totale, il Centro 19,74% e il Sud che con il 24,40% presenta uscite quasi doppie rispetto alle entrate. Ogni cittadino del Nord versa 3.086 euro di contributi contro i 2.236 del Centro e i soli 1.008 del Sud. Calcolando il saldo pro capite, in rapporto alla popolazione lo Stato, per il solo sistema pensionistico, trasferisce ad ogni abitante del Sud oltre 1.000 euro l’anno contro i 658 del Centro e i 474 del Nord. Il caso estremo è la Calabria dove a fronte di 100 euro incassati per pensioni se ne pagano 36 (erano 26 nel 1980). Se oltre ai contributi previdenziali calcoliamo nei bilanci regionali le entrate fiscali dirette e tutte le spese per welfare (pensioni, assistenza, invalidità e sanità), emerge che il Nord produce un attivo di 27,18 miliardi, il Centro di 3,75 miliardi mentre il Sud assorbe 36,36 miliardi, cioè l’intero attivo di Nord e Centro più circa 1/5 dell’Ires (6 miliardi di euro). Il problema vero è che questa situazione non è cambiata negli ultimi 36 anni, mostrando un Paese «immobile» o quasi. Il Sud produce ancora quasi la metà dell’intero deficit nazionale. Con l’aggravante che il Nord, per effetto di molteplici fattori (moneta unica, invecchiamento della popolazione, aumento delle prestazioni sociali e crisi economica) ha ridotto il surplus prodotto. Ma anche i fondi comunitari hanno preso la direzione dei Paesi nuovi entrati che hanno Pil pro capite inferiori a quelli del Mezzogiorno. Questa situazione è ormai strutturale e se il Sud non si sviluppa né il Nord né la Ue potranno sopperire alla mancanza di risorse e l’intero Paese perderà sempre più competitività e con la grande spada sul capo del debito pubblico potrebbe collassare. Discutere di autonomia e responsabilità di spesa aiuta tutti: i giovani, a cui lasciamo un enorme debito sulle spalle, e le Regioni, eliminando il rischio di barattare assistenza contro sviluppo che condannerebbe definitivamente molte Regioni soprattutto del Sud. Lo studio conclude che se tutte le Regioni fossero autosufficienti almeno al 75% non avremmo più alcun deficit e potremmo investire più di un punto di Pil in infrastrutture di cui molte aree necessitano da troppi anni. Nel 2012 il Nord ha prodotto un surplus tra entrate e uscite (residuo fiscale) di 94 miliardi, il Centro di 8 e il Sud ha presentato un deficit di oltre 63 miliardi. Conoscere i bilanci di ogni Regione e predisporre un piano pluriennale per arrivare tutti almeno al 75% di autosufficienza è l’unica strada percorribile e i referendum ci aiutano a iniziare un ragionamento virtuoso.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Il caso veneto nell’urna di Alessandro Russello

Il Veneto e la Lombardia legaforzisti venati da tracce di Pd mezzo «allineato» e mezzo contrariato che l’autonomia la perseguono con lo «strappo» (del tutto costituzionale) del referendum. L’Emilia-Romagna che l’autonomia la chiede da centrosinistra e senza referendum attraverso la trattativa diretta con il governo (Costituzione: articolo 116). Il Piemonte governato dal democratico Chiamparino dov’è già nato il Comitato promotore per l’autonomia. La rossa Regione Toscana che ha approvato un documento del Pd per chiedere a Roma maggiori competenze. E per non farci mancare nulla, rotolando verso Sud, il governatore pugliese Michele Emiliano che annuncia di volere più competenze senza brandire alcun referendum. Il tutto condito dal neo padan-nazionalista Salvini che auspica una condizione di «autonomia speciale» per tutte le Regioni. Che dire? Che la morale da tirare viene perfino facile: autonomia per tutti uguale autonomia per nessuno. Sgonfiata e neutralizzata, nel cumulo delle aspettative, dalla insostenibile somma economica delle richieste. Come fa uno Stato a concedere a «tutte» le Regioni un’autonomia che di fatto presuppone un saldo più robusto del portafoglio interno, cioè più soldi? Perché, fuor di ipocrisia, il tema è quello dei soldi. E siccome la torta del bilancio nazionale è sempre la stessa, spartire diversamente presuppone – per il principio dei vasi comunicanti - scelte sanguinose e impopolari. Cioè premiare una o più regioni rispetto ad altre. Cosa che nessun governo né di centrosinistra né di centrodestra ha mai fatto e farebbe, perché dovrebbe rinunciare al consenso dei territori che ricevono una parte inferiore di torta. Alla quale accedono anche (e soprattutto) le Regioni a statuto speciale. Che, per lo stesso motivo – il consenso – nessuno si sognerebbe di toccare, sebbene siano ormai percepite come un anacronismo e indicate come fonte di dumping interno dagli stessi governatori di Veneto e Lombardia. Allora che si fa? E’ giusto che le regioni virtuose pretendano pur nell’essere più ricche forme di trattamento compatibili con il loro profilo etico-economico, seppur in un regime di regionalismo solidale? Sì, è giusto. Ma il dubbio che sorge è se il referendum lombardo-veneto possa arrivare ad ottenere non qualcosa di effettivamente raggiungibile ma una «posta» impossibile. Per cui, mettendo in testa l’assunto finale del nostro ragionamento, ci chiediamo se nell’impasse di una politica che non «può» o non «vuole» perdere consenso, l’unica soluzione ipotizzabile non sia un’altra: una vera e seria riforma costituzionale in chiave federale dove alla base di tutto ci siano merito, responsabilità e solidarietà. Una riforma naturalmente coraggiosa, che parta magari dal totem dei costi standard (un pasto per un paziente all’ospedale, per esemplificare, non può costare sei euro al Nord e un tot di volte in più al Sud) e dalla consapevolezza che al netto della solidarietà una regione non possa scialare senza la prospettiva di poter fallire. Un progetto, questo, accantonato negli ultimi anni dalla centralizzazione delle risorse dettata dalla crisi (governo Monti) oltre che per gli scandali di qualche regione. E del resto mai attuato, a riprova di quel che si diceva, né dal centrodestra né dal centrosinistra né tantomeno da un fronte istituzionale unito che quando c’è da lavorare per le regole base del Paese anziché per le botteghe di partito non ne fa mai una di giusta (vedi l’ultima improbabile legge elettorale). Il centrodestra – che a parole ha preso il campo del federalismo - non ha partorito alcunché pur avendo avuto per anni il governo del paese da Bolzano a Caltanissetta; mentre il centrosinistra ha varato il famoso «Titolo quinto» della Costituzione, tentativo di decentramento arrivato quasi subito ai titoli di coda con esiti per alcuni aspetti anche dannosi vista la sovrapposizione delle competenze fra Stato e Regioni e l’aumento della spesa con riverbero sul debito pubblico. I referendum sull’autonomia che si tengono oggi in Veneto e Lombardia arrivano in un momento in cui la spinta autonomista è tornata al centro della scena. Al di là dei fermenti anche traumatici delle piccole patrie d’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio) sembra che di fronte alla complessità e alle ricadute della globalizzazione l’unico verbo sia diventato secedere. Intere Regioni e Comuni: l’unica soluzione invocata è la separazione. Centrale, sotto questo aspetto, un redivivo e pronunciato spirito identitario non solo frutto della storia dei singoli territori, ma di quel complesso mix, appunto, di crisi da globalizzazione e di difficoltà a far coesistere l’idea stessa di nazione e quella di un’Europa in grado di affrontare le sfide continentali. Esito ineludibile per quanto messo a repentaglio dagli errori che la stessa Europa ha compiuto e continua a compiere (dal nodo immigrazione alle sperequazioni legislative tra i vari Paesi). Ma sarebbe semplicistico liquidare questa forza centrifuga come vuota rivendicazione e «avido malessere». Se giusta è la preoccupazione degli Stati nazionali di tenere insieme il quadro istituzionale interno ed esterno (l’Europa), sbagliato è non cogliere i segnali di intere comunità. Nello specifico, se per anni abbiamo parlato di «questione meridionale», al di là delle spinte separatiste radicali pericolose e prive di futuro, esiste anche una «questione settentrionale». Legata spesso alla mancanza o alla lentezza di risposte alle sollecitazioni, ad esempio, di un mondo produttivo che al netto delle lacune della sua classe dirigente si porta appresso uno storico di pressione fiscale, burocrazia, giustizia e pubblica amministrazione «incrostati». Il fatto che tutte le categorie economiche venete – nessuna esclusa – si siano schierate per il sì al referendum odierno, è la dimostrazione che «un problema» esiste e va affrontato. Pur nella consapevolezza che il mondo imprenditoriale, forte soprattutto nelle città-metropoli fatte di innovazione e saperi (compresa quella veneta «diffusa»), la sua sfida la deve giocare in un’ottica di Italia- Europa-Mondo. Guardando all’esterno più che mirando al proprio ombelico. Per non parlare – a proposito di malessere, di un «sentimento di popolo» condiviso almeno da una parte di questa regione. Che pur essendo in debito per quella sorta di piano Marshall che nel dopoguerra ha consentito l’uscita dalla miseria di intere province beneficiate dagli ingenti sussidi delle Partecipazioni Statali, oggi si sente in credito per aver tirato e per continuare a tirare la carretta da almeno qualche decennio anche per conto degli «altri». Il punto, oggi che quattro milioni di veneti sono chiamati al voto, è se questo referendum per il quale abbiamo speso 16 milioni di euro, oltre che avere un senso approderà a qualcosa di concreto. Innanzitutto si tratta di un referendum consultivo, dopo il quale la Regione Veneto dovrà andare a trattare con il governo (questo o un altro). A meno che non accada ciò che il governatore leghista Luca Zaia, con l’orgoglio del proponente che lancia la sfida dell’ora o mai più, vorrebbe che mai accadesse: che a votare vada solo un veneto su due. Nel qual caso – anche fosse centrato il quorum (51 per cento) - ha annunciato che cancellerà qualsiasi velleità di autonomia. In caso contrario, cioè con una buona affluenza (la grande maggioranza del sì è scontata), partirà appunto la trattativa. Che prevede la richiesta di una o più (o tutte) delle 20 competenze «concorrenti» fra Stato e Regione e delle tre di attuale pertinenza dello Stato. Si va - per citarne alcune - dall’istruzione alla formazione, dalla ricerca scientifica all’internazionalizzazione delle imprese, dalla tutela dell’ambiente a quella della salute, dai giudici di pace alla finanza pubblica. A scanso di equivoci, è bene chiarire in cosa consista il trasferimento di competenze. Se per ipotesi il Veneto ottenesse quella legata alla gestione delle strade, come dotazione avrebbe il trasferimento della stessa cifra spesa dallo Stato. Non un euro in più e non uno in meno. Quale il vantaggio? La gestione virtuosa delle strade – sempre riuscisse – porterebbe al risparmio di una cifra investibile su un altro fronte. Un principio federalista ineccepibile. Che però, fanno notare gli anti- referendum, si sarebbe potuta ottenere andando subito a trattativa con Roma senza celebrare una dispendiosa consultazione. Da parte sua Zaia, invece, ritiene che con la «legittimazione di popolo» ottenuta attraverso un referendum il potere contrattuale con Roma si alzerebbe di non poco e la stessa cosa pensa chi in questo 22 ottobre andrà a votare. Ma il governatore del Veneto, assieme a quello della Lombardia, ha messo un ulteriore «carico» in questa consultazione, attribuendole la possibilità di contrattare e ottenere una parte del cosiddetto residuo fiscale, che per il Veneto ammonterebbe a 15 miliardi e per la Lombardia a 54 (18 sono quelli dell’Emilia). In pratica, il «modello Bolzano», Provincia speciale che trattiene i 9 decimi delle tasse nel proprio territorio. Si tratta – per stessa ammissione dell’uomo forte della Lega a Milano Giancarlo Giorgetti – di una prospettiva irrealizzabile e non prevista dalla Costituzione. La concessione dell’autonomia, infatti, può essere solo a costo zero per lo Stato, pena il rischio di default del Paese. Se pensiamo infatti che l’ultima manovra fiscale del governo ammonta a 20 miliardi, si fa presto a capire come il trattenimento di ampia parte del residuo fiscale di regioni come Veneto e Lombardia manderebbe l’Italia a catafascio. Nessun governo lo accetterebbe. Certamente non quello di centrosinistra. Ma siamo pronti a scommettere – e sul perché ci siamo ampiamente espressi – che se la prossima primavera Zaia dovesse trattare con quello amico del centrodestra troverebbe di fronte un identico muro. Quel «muro di Berlino» che il governatore vuole abbattere con il referendum di oggi. La parola passa ai veneti. Quelli che andranno a votare e quelli che resteranno a casa. Comunque finisca, questa terra scriverà un’altra pagina della sua storia.

LA NUOVA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Spartiacque per il tema federalismo di Fabio Bordignon

L'attesa, la tensione e la portata storica non sono certo paragonabili a quelle del referendum catalano, o del voto sulla Brexit. Ma le consultazioni che si terranno oggi nel Veneto e in Lombardia rappresentano, a loro volta, uno spartiacque. Per la questione federalista. Ma anche per i soggetti promotori: i governatori delle due regioni; e il loro partito, la Lega. Nessuna exit in vista, per Venezia e per Milano, qualunque sia il risultato di un voto che, a differenza di quello catalano, è perfettamente "legale". E ha comunque un valore consultivo. La questione sostantiva, come noto, riguarda l'autonomia. Si tratta del core business del progetto politico leghista delle origini, nelle sue diverse declinazioni: federalismo, devolution, secessione... Tuttavia, nel corso della Seconda Repubblica, l'idea di una diversa articolazione dei poteri dello Stato, che portasse la democrazia più "vicino" ai cittadini, è stata abbracciata da molti attori, al punto da diventare mainstream. Da qualche tempo a questa parte, sembra essere stato imboccato un sentiero più incerto (o addirittura inverso). Va sottolineato come, tutt'oggi, una componente molto elevata di cittadini italiani invochi una maggiore autonomia per la propria regione: circa il 45%, secondo un recente sondaggio di Demos, che in Lombardia sale oltre il 60% e oltre il 70% in Veneto, dove il 15% chiede addirittura il divorzio con l'Italia. In questo senso, il referendum interpreta una spinta che è ancora presente nella società. Ed è sicuramente inscritta nel Dna del Carroccio. Anche se non tanto, o non più, nella nuova Lega di Salvini: un partito (personale) che adotta una prospettiva nazionale. Il referendum, come spesso succede, assume così un'alt(r)a valenza simbolica e, allo stesso tempo, un chiaro significato politico. Del resto, altre regioni stanno procedendo nella stessa direzione, senza prevedere un passaggio popolare: è il caso dell'Emilia Romagna, che proprio in settimana - e il tempismo non pare frutto del caso - ha firmato una dichiarazione d'intenti con il governo. Nel disegno di Luca Zaia e Roberto Maroni, il referendum è un mezzo per disporre di maggiore forza contrattuale, al tavolo delle trattative con l'esecutivo, al fine di strappare competenze e risorse. Ma il referendum è anche, chiaramente, uno strumento di auto-promozione: un dispositivo per la ricerca del consenso. Ma anche di ri-equilibrio nei rapporti interni al partito: di riaffermazione di quel marchio federalista e nordista che, per il segretario, è diventato quasi una zavorra. Non è un caso che, negli ultimi giorni, Berlusconi si sia impegnato sul fronte referendario molto più di Salvini. Anche perché rafforzare una Lega "vecchia maniera" significherebbe impostare in una certa direzione le complicate trattative per la formazione di una coalizione, in vista delle Politiche 2018. Il risultato, come quasi sempre accade con i referendum, più che sul conteggio dei sì e dei no si misurerà sul numero di schede depositate. Anche perché, come ha scritto ieri Michele Ainis, si tratta di quesiti «a risposta obbligata»: una sorta di plebiscito autonomista, che ha visto esponenti di tutti principali partiti (con l'eccezione della sinistra-sinistra e di FdI) schierarsi a favore. Anche se va segnalato come il Pd, in entrambe le regioni, si sia diviso tra Sì, No e astensione. La consultazione lombarda non prevede il quorum, e il presidente Maroni si è affrettato a fissare una asticella piuttosto bassa (34%). Al contrario, il referendum veneto, per essere valido, deve superare la soglia del 50%. Proprio su questo punto si concentrano i maggiori rischi, per i due presidenti, e cioè che il referendum possa trasformarsi in un boomerang sul loro cammino, nel caso di partecipazione inferiore alle attese. Tuttavia, in questo caso, lo stop riguarderebbe non solo le ambizioni di Maroni e di Zaia, o della Lega, ma le stesse traiettorie del "discorso federalista", che rischierebbe di finire definitivamente nel cassetto.

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CORRIERE DELLA SERA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 La partita (globale) del Nord di Dario Di Vico I referendum

Vale la pena dirlo: ci siamo comportati bene. Per una volta in vista del doppio referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto non abbiamo messo in onda il solito format di una lotta politica rissosa e inconcludente. Il paragone con le drammatiche vicende della Catalogna, pur con tutte le (grandi) differenze di contesto e di storia, non può non venire in mente e ne usciamo con un buon voto. La campagna referendaria si è svolta in maniera ordinata, la forza politica che più ha investito in questa consultazione - la Lega Nord - non ha caricato i toni come altre volte in passato e persino il suo leader Matteo Salvini, propenso spesso ad alzare i decibel del protagonismo politico, questa volta ha scelto accenti più misurati. Il maggior partito d’opposizione in entrambi i consigli regionali - il Pd - ha replicato all’iniziativa dei governatori Maroni e Zaia in maniera composta e persino la divergenza di comportamento elettorale registratasi al suo interno, tra il sì «tattico» di Giorgio Gori e la dichiarata astensione del vicesegretario nazionale e ministro Maurizio Martina, alla fine ha contribuito a svelenire il clima. Nella partecipazione alle urne si misurerà il consenso attorno ad opinioni diverse tra loro, non ci sono nemici da annientare. E non ci sono nemmeno scenari apocalittici - nell’uno e nell’altro caso - da scongiurare. Incamerato questo sussulto di civiltà politica restano sul tappeto i problemi di merito. E sicuramente il risultato di domenica ci fornirà un’indicazione preziosa sugli orientamenti degli elettori di due decisive regioni del Nord. In democrazia questo dato conta molto, a prescindere da come siano stati formulati i differenti quesiti e dalla presenza di un quorum in una Regione e non nell’altra. Tutto sommato poco importa. Il compito più gravoso sarà casomai quello di tradurre il segno lasciato dagli elettori in una proposta capace di misurarsi con le ambizioni e i problemi dei territori del Nord. Gianfelice Rocca su questo giornale ha formulato in proposito idee e suggerimenti che vanno tenuti in gran conto perché nell’economia del post crisi, una terra incognita che giudichiamo prevalentemente con il metro dei decimali del Pil, una tendenza però si intravede con chiarezza: «Saranno i territori e le città a vocazione internazionale a trainare sviluppo e a attrarre capitali e competenze». Tradotto vuol dire che occorre riporre attenzione agli input della politica romana ma a decidere delle fortune di Veneto e Lombardia alla fine sarà il loro grado di apertura e di presenza nelle reti internazionali. Parliamo al futuro perché persino dall’osservatorio privilegiato della ripresa italiana, Milano, vediamo quanto ancora ci resta da fare, quante siano le potenzialità ancora inespresse e anche quanto sia ristretta la «finestra di tempo» per giocare con successo le nostre chance. Nell’economia dei flussi i treni non si possono assolutamente perdere. Se, come pensiamo, la nuova questione settentrionale si gioca non più esclusivamente nel conflitto con Roma ma nella dura competizione globale, il referendum ci consegna però la domanda su quale sia l’assetto amministrativo più congeniale per supportare il nuovo posizionamento. Quesito tutt’altro che semplice da soddisfare perché è legittimo chiedersi se l’attuale articolazione dei poteri sia lo strumento più adatto per governare i flussi e le interazioni della Grande Regione A4, il continuum che attorno all’autostrada corre da Torino a Trieste. Chi pensa che ci possano essere modelli di sviluppo separati per il Nord Ovest, Milano e il Nord Est concentra la sua attenzione sul contenzioso per il residuo fiscale con Roma, chi crede in un’integrazione inevitabile quanto virtuosa tra le tre aree non può come conseguenza che aprire il cantiere delle idee.

LA STAMPA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 3 Francesco Moraglia, patriarca di Venezia: “Può essere uno stimolo, anche se da una minoranza” di Lorenzo Padovan

In queste settimane, il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia non è mai intervenuto direttamente sulla questione del referendum in Veneto. Quando c'è stato qualche tentativo di coinvolgimento, ha sempre ribadito di «non voler prendere posizione su competizioni elettorali in atto». Ieri ha condiviso alcune riflessioni tanto sulle spinte autonomistiche italiane quanto, più in generale, su quelle continentali delle ultime settimane. «Confronti e consultazioni elettorali che si svolgono nel rispetto della Costituzione italiana - ha ricordato, riferendosi al Veneto -, in uno spirito autentico di comunione nazionale e cercando di evidenziare e valorizzare peculiarità, risorse e legittime esigenze di un territorio, possono aiutare a far crescere la spinta alla sussidiarietà e al bene comune dell'intera comunità, locale e nazionale, anche attraverso modalità più eque e più giuste. Autonomia non significa separazione - ha ammonito -: può essere, semmai, uno stimolo e un aumento di responsabilità verso un'integrazione più forte e attenta alle caratteristiche di ogni contesto e di ciascuna realtà». Per il Patriarca «i problemi sono sempre complessi anche dal punto di vista storico: bisogna, a un certo punto, capire quelle che sono le giuste rivendicazioni di una rappresentatività, che una popolazione, che una minoranza, vuole e desidera e ha il diritto di avere, da quella che è una visione più ampia. Io penso che l'autonomia sia la grande sfida che le democrazie di oggi, in questo periodo, si trovano davanti». La strada maestra da intraprendere è, quindi, quella del «dialogo in cui nessuno voglia diventare arrogante, come dice Papa Francesco, nell' affermazione di una parte di verità che, però, non può pretendere di diventare la totalità».

AVVENIRE di sabato 21 ottobre 2017 Pag 6 Lega, obiettivo è il quorum. Pd: consultazione farlocca. A vincere sarà l’astensione? di Francesco Dal Mas

Venezia. Luca Zaia, governatore del Veneto, puntando a superare il quorum, che non c’è in Lombardia, non perde occasione per rassicurare che questo è il referendum per «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia » e non, quindi, per l’indipendenza. Il Veneto, dunque, non è la Catalogna. Se domenica notte prevarranno i voti favorevoli, il presidente della giunta regionale presenterà all’assemblea legislativa, entro 90 giorni, un programma di negoziati da condurre con il governo, unitamente ad un disegno di legge che recepisca il percorso ed i contenuti per il conseguimento dell’autonomia differenziata. Zaia per primo ha sempre sostenuto che l’obiettivo del Veneto è di guadagnare le prerogative delle province autonome di Trento e Bolzano. Gli stessi presidenti di Trento e Bolzano, rispettivamente Ugo Rossi e Arno Compatscher, hanno dichiarato che questa aspirazione è legittima ma – come molti pensano in Veneto – era acquisibile con una puntuale trattativa con il governo. Mario Bertolissi, il più autorevole costituzionalista veneto, riconosce che è vero, ma aggiunge che la portata politica dell’esito referendario inciderà in modo fondamentale sulla trattativa. Non ci sono dubbi che vinca il sì, ma quanti dei 4 milioni e 68mila elettori si recheranno domani alle urne? Ecco il punto. Nelle elezioni recenti il partito dell’astensionismo si è dimostrato in progressivo aumento. La mobilitazione per superare l’asticella è stata totale da parte della Lega Nord; si è accodato il resto del centrodestra, seppur senza troppo entusiasmo. Il Pd è diviso. La senatrice trevigiana Simonetta Rubinato è convinta che «se il referendum fallisce, seppelliamo una volta per tutte le nostre velleità di negoziare con lo Stato forme di autonomia». Ma c’è chi, dentro lo stesso Pd e in genere nella sinistra, ritiene che si tratti di una consultazione farlocca e che in verità, sarebbe stata sufficiente la disponibilità della Regione a trattare con il Governo per nuove competenze. Si articola variamente anche il mondo cattolico. La commissione diocesana per la pastorale sociale di Vittorio Veneto spiega in un documento perché ritiene 'generica' la formulazione del quesito referendario e la conseguente scarsa efficacia immediata dell’esito; «più preciso e chiaro nei suoi riferimenti alle norme costituzionali» è il quesito lombardo si dice. Il settimanale diocesano L’amico del popolo di Belluno invita «alle urne per aprire nuove opportunità» e la Fism, ricordando di associare oltre mille scuole dell’infanzia paritarie, evidenzia come il percorso dell’auspicata autonomia possa produrre una rivoluzione di eccezionale importanza nel sistema dei servizi socio- educativi all’infanzia. Fa riferimento, la Fism, all’impegno storico dei cattolici nel sociale e nella politica del Veneto, con le molteplici iniziative di cooperazione e di mutualità sotto il segno della sussidiarietà, del federalismo e dell’autonomia. Il fatto è – puntualizza al riguardo la Cisl –, che siamo sì federalisti, ma che questo referendum non cambierà le sorti del Veneto, perché «essere autonomi significa prima di tutto assumersi la responsabilità delle scelte che si compiono ogni giorno». Se nella Cisl ci sarà chi andrà a votare e voterà sì, come altri che rimarranno a casa, anche nella Cgil è presente la stessa differenziazione. Da parte sua il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, non chiude la porta alle istanze poste con il referendum: «Confronti e consultazioni elettorali che si svolgono nel rispetto della Costituzione italiana, in uno spirito autentico di comunione nazionale e cercando di evidenziare e valorizzare peculiarità, risorse e legittime esigenze di un territorio, possono aiutare a far crescere la spinta alla sussidiarietà e al bene comune dell’intera comunità (locale e nazionale), anche attraverso modalità più eque e più giuste – ha detto ieri –. Autonomia non significa separazione; può essere, semmai, uno stimolo e un aumento di responsabilità verso un’integrazione più forte e attenta alle caratteristiche di ogni contesto e di ciascuna realtà». Di peculiarità in peculiarità, però, in provincia di Belluno, si celebra un secondo referendum, per l’autonomia delle terre alte delle Dolomiti venete. «La montagna ha specificità proprie. Ha l’esigenza di un autogoverno», sottolinea il presidente della Provincia, Roberto Padrin, per essere più vicina ed immediata nella soluzione dei problemi del territorio. Altrimenti abbiamo tutti i Comuni di confine che scappano verso le province autonome o il Friuli Venezia Giulia». Ben 30 quelli che hanno intrapreso questo percorso, anche attraverso specifici referendum.

IL GAZZETTINO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 3 Il Patriarca di Venezia: “Autonomia non è separazione, il voto che rispetta la Costituzione può far crescere il bene comune” di Alvise Sperandio

Venezia. «Far crescere sussidiarietà e bene comune di tutti. Autonomia non significa separazione». Alla vigilia del voto, il patriarca di Venezia Francesco Moraglia torna a far sentire la sua voce con un'indicazione di contenuto. «Confronti e consultazioni elettorali ha dichiarato in una nota - che si svolgono nel rispetto della Costituzione, in uno spirito autentico di comunione nazionale e cercando di evidenziare e valorizzare peculiarità, risorse e legittime esigenze di un territorio, possono aiutare a far crescere la spinta alla sussidiarietà e al bene comune dell'intera comunità (locale e nazionale), anche attraverso modalità più eque e più giuste». Conferma la totale contrarietà alla secessione, che pure non è oggetto della consultazione referendaria. «Autonomia non significa separazione ha sottolineato Moraglia Può essere, semmai, uno stimolo e un aumento di responsabilità verso un'integrazione più forte e attenta alle caratteristiche di ogni contesto e di ciascuna realtà». Già due settimane fa, nel commentare i fatti della Catalogna, il Patriarca era intervenuto sul tema partecipando alla trasmissione Stanze vaticane di Tgcom 24. «L'autonomia è la sfida più grande delle democrazie di oggi», aveva detto, ma «la frammentazione è pericolosa» e «bisogna pensarci bene prima di arrivare a una separazione».

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 21 ottobre 2017 Pag V Moraglia: autonomia non è separazione di Alvise Sperandio e Melody Fusaro “Il referendum come stimolo all’integrazione”

Venezia. Due settimane fa, parlando a Tgcom 24, aveva detto che «l'autonomia è la sfida più grande delle democrazie di oggi», ammonendo però che «la frammentazione è pericolosa», che «va auspicato il dialogo» e «bisogna pensarci bene prima di arrivare a una separazione». Una riflessione che ai più era sembrata un'apertura di credito verso il referendum per l'autonomia, anche se poi privatamente - lui si era affrettato a spiegare ai suoi collaboratori e ai sacerdoti che l'intenzione non era di schierarsi. AUTONOMIA - Ieri il patriarca Francesco Moraglia ha voluto tornare sul tema, facendo diffondere una dichiarazione alla vigilia del voto che ribadisce la contrarietà alla secessione: «Autonomia non significa separazione» ha affermato, chiarendone poi le ragioni. Se separazione è un concetto che con la Chiesa non è mai andato d'accordo, per il presule l'autonomia del Veneto è però tutt'altro: «Può essere, semmai, uno stimolo e un aumento di responsabilità verso un'integrazione più forte e attenta alle caratteristiche di ogni contesto e di ogni realtà». Autonomia, dunque, secondo il Patriarca, per migliorare la convivenza. «Confronti e consultazioni elettorali ha aggiunto che si svolgono nel rispetto della Costituzione italiana, in uno spirito autentico di comunione nazionale e cercando di evidenziare peculiarità, risorse e legittime esigenze di un territorio, possono aiutare a far crescere la spinta alla sussidiarietà e al bene comune dell'intera comunità, sia locale che nazionale, anche attraverso modalità più eque e più giuste». Una presa di posizione, quella di Moraglia, che segue quella dei vescovi del Nordest, i quali avevano sostanzialmente sostenute le istanze del referendum parlandone anche nei rispettivi settimanali diocesani. IL CLERO - Nel clero veneziano, molti sacerdoti preferiscono non esprimersi sul referendum e c'è chi dice apertamente che «è meglio non parlare per non rischiare di avere qualche problema con i superiori». Tra chi ci mette la faccia le posizioni sono diversificate, segno di una dialettica viva sul voto di domani anche tra chi porta l'abito talare. «Che ci voglia più autonomia è sotto gli occhi di tutti e siamo tutti d'accordo, ma il referendum ci obbliga a una spesa inutile sostiene don Fausto Bonini, già arciprete del Duomo nel tempo in cui la parrocchia di piazza Ferretto faceva sentire forte la sua voce nella vita civile della città e non solo Il presidente Luca Zaia avrebbe fatto meglio a trattare con lo Stato», cosa che è avvenuta ma evidentemente non è bastata. «È stato ministro anche lui e sa come muoversi. Da lunedì non cambierà nulla sul piano concreto, mentre le casse della Regione piangeranno», osserva don Bonini. Di diverso avviso il parroco di Carpenedo don Gianni Antoniazzi che al referendum ha dedicato l'ultimo numero del settimanale L'incontro della Fondazione Carpinetum, ospitando peraltro un'intervista a Zaia. «In ogni famiglia è necessario che i figli crescano e diventino autonomi, anche a livello economico. Così è per l'Italia: deve mantenere l'unità, ma anche favorire l'autonomia delle realtà locali scrive nell'editoriale Chiedere che lo Stato centrale rispetti la crescita delle singole regioni è un valore necessario al bene comune. L'Italia deve avere figli maturi perché solo allora ci sarà futuro e vita nuova». Resta il no alla secessione, comunque. «Va bene chiedere che il Veneto cresca nell'autonomia senza però pensare che esso debba diventare indipendente o, peggio ancora, debba uscire dalle relazioni sociali dell'Italia e dell'Europa. La strada dell'unità tra i popoli è un valore compreso da tutti», conclude.

LA NUOVA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Il senso istituzionale che manca al Paese di Francesco Jori

Schiuma referendaria. C'è solo da aspettare che si depositi, a partire da lunedì, per cercare di capire l'unico vero punto che conti, al di là della consueta overdose di chiacchiere trasversali inflitteci per settimane: quanta reale possibilità c'è perché il Veneto finalmente porti a casa una vera autonomia? Lo scetticismo è di rigore, anche se non vuol dire rassegnazione. Da un secolo e mezzo, questa regione muove incessantemente l'aria delle richieste e delle polemiche, tra punture di spillo e scosse eclatanti: senza essere mai riuscita a portare a casa neppure le briciole, quali che fossero le sue classi dirigenti (non solo politiche) attraverso i decenni. Anzi, continua a dividersi tra chi riconosce Roma ma le chiede di più, e chi la nega e chiede ai veneti di disconoscerla e di mettersi in proprio. I referendum sono sacrosanti. Ma servono per porre esigenze, non per risolverle: compito che spetta alla politica in primis. Qui ci sarebbero alcune domande cruciali da porsi: per esempio, perché ieri la Dc e oggi la Lega, quando da Roma a Venezia e Milano esisteva una filiera di governi dello stesso colore, e con importanti esponenti di entrambi nell'esecutivo (Rumor e Bisaglia ieri, Maroni e Bossi oggi), non sono riuscite a realizzare ciò che chiedono al governo di oggi? E perché solo oggi, a distanza di sedici anni dalla riforma della Costituzione, le Regioni si muovono per aprire il confronto con Roma, da chi lo fa via referendum a chi segue la procedura ordinaria? Dalla Lombardia al Veneto alla stessa Emilia-Romagna dell'ultima ora, respirare un che di strumentale sarà anche un pensiero malvagio; però tutt'altro che peregrino. La politica non è polemica, ma lavoro duro e paziente per portare a casa il risultato: come hanno fatto nell'immediato dopoguerra, giusto per rimanere a Nordest, figure come De Gasperi in Trentino-Alto Adige, e Tessitori in Friuli-Venezia Giulia.Ma è tempo di andare oltre, una volta scrutinate le schede e lasciata smaltire l'ennesima alluvione di dichiarazioni del dopo, in cui ognuno sosterrà di aver vinto; o di non aver perso, il che è ancora peggio. E' tempo di dire, a voce alta e forte, che quale che sia il risultato, rimarrà il clamoroso deficit italiano, comune da Roma fino in periferia: una scarsa, scarsissima, paurosamente minoritaria cultura autonomistica. Se tante persone non andranno comunque a votare, che ci sia o no il quorum, non sarà per subdole manovre altrui: quasi tutti i partiti e molte componenti sociali, a partire da quelle economiche, hanno esortato a riempire le cabine. Ma come già mostrano significative esperienze precedenti (vedi i referendum Segni, sia pure con l'invito contrario, cioè a disertarle), gli italiani non tengono in minimo conto i predicozzi altrui: decidono in proprio, secondo coscienza. Quindi, se stavolta la chiamata alle urne risulterà tiepida, significherà semplicemente che le ragioni dell'autonomia continuano a riscuotere un'audience inadeguata. Un referendum è un istituto di democrazia diretta, e come tale va rispettato. Ma non ci sono né leggi né consultazioni elettorali né manifestazioni di piazza che tengano, se dietro non c'è una vera cultura istituzionale: che all'Italia in toto, Veneto compreso, fa clamorosamente difetto. Occorrerà pur avere il coraggio di affermare, senza tema di smentita, che alla faccia di caterve di proclami, il federalismo e l'autonomia da noi sono valori e patrimonio di una ristretta cerchia: la stragrande maggioranza, e non solo dei politici, non ci crede sul serio né ci ha mai creduto. Perché a molti fa comodo l'assistenzialismo che piove dal centro, dispensando privilegi grandi e piccoli conseguiti grazie ad abusi grandi e piccoli. Ed è da qui che bisognerà partire da lunedì, quale che sia l'esito referendario. Altrimenti, sarà solo l'ennesima sconfitta.

Pag 10 Moraglia, sì all’autonomia: “Non significa separazione” di Sabrina Tomè Il Patriarca di Venezia: le consultazioni elettorali aiutano il bene comune

Venezia. «Confronti e consultazioni elettorali che si svolgono nel rispetto della Costituzione italiana, in uno spirito autentico di comunione nazionale e cercando di evidenziare e valorizzare peculiarità, risorse e legittime esigenze di un territorio, possono aiutare a far crescere la spinta alla sussidiarietà e al bene comune dell'intera comunità (locale e nazionale), anche attraverso modalità più eque e più giuste». A sostenerlo, in una nota diffusa alla previgilia del referendum consultivo sull'autonomia, è il patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Che è entrato nel merito: «Autonomia», ha sottolineato il primate della Chiesa veneta, «non significa separazione; può essere, semmai, uno stimolo e un aumento di responsabilità verso un'integrazione più forte e attenta alle caratteristiche di ogni contesto e di ciascuna realtà». Un pensiero che il Patriarca aveva in qualche modo lasciato intravvedere quando, parlando della Catalogna nel corso di una trasmissione televisiva, aveva dichiarato che l'autonomia è la sfida del nostro tempo per le democrazie, ma che vanno trovate altresì le ragioni per stare insieme. Nessuna Brexit. La dichiarazione del Patriarca di Venezia acquista particolare peso anche alla luce dell'acceso dibattito sulle conseguenze di una vittoria del Sì e sui timori di separazione. Il governatore lombardo Roberto Maroni ha aperto la giornata di ieri sostenendo che la Brexit britannica era partita da un referendum consultivo. «Non vogliamo uscire da niente e da nessuno», la replica immediata del segretario della Lega Matteo Salvini. «Il referendum è nell'ambito dell'unità nazionale che prevede che su alcune competenze la Regione possa scegliere autonomamente. Se vince il Sì inizia un percorso di trattativa a differenza di quello che sta accadendo tra Madrid e Barcellona, dove si stanno scannando». Il conto alla Regione. E sempre ieri Salvini ha preso le distanze da Maroni schierandosi con il governatore Luca Zaia sul conto presentato da Roma alle Regioni per la consultazione referendaria. «Il fatto che lo Stato chieda a Lombardia e Veneto di rimborsare la spesa per l'ordine pubblico in occasione del referendum di domenica, è un atto di arroganza imbarazzante, l'ultimo da parte del governo centrale», ha affermato il segretario della Lega. «Far pagare ai cittadini un servizio che lo Stato deve garantire ai cittadini per esprimere la loro volontà, mi sembra una follia». Sui conti del referendum si è espresso anche il sindacato di polizia Ugl: «Mi auguro che con la stessa celerità siano richieste le spese che vengono sostenute dai vari ministeri per garantire la sicurezza durante le partite di calcio organizzate da società private», ha affermato il segretario regionale del Veneto Mauro Armelao.Appello al voto. E il M5S del Veneto ha fatto ieri un invito al voto per superare il quorum.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 2 Referendum, appelli e polemiche. Zaia: “E’ l’ora del riscatto dei veneti” di Silvia Madiotto e Angela Tisbe Ciociola Anche il Patriarca a favore ma “nell’unità”

Venezia. Ultimi fuochi, ieri, della campagna per il referendum sull’autonomia che domani chiamerà al voto 4 milioni di veneti (perché il risultato sia valido dovrà votare il 50% più uno degli aventi diritto). Mentre il fronte astensionista si frastagliava in tante piccole iniziative sparse sul territorio, da Verona a Rovigo, il governatore Luca Zaia ha deciso di chiudere la campagna per il Sì nella sua Treviso, alla festa provinciale della Lega Nord (ad attenderlo c’erano pure giornalisti tedeschi e catalani), al termine di una lunga giornata che l’ha visto protagonista anche a Belluno: «La forza del popolo non ha eguali e io credo che qualcosa cambierà di sicuro, visto che hanno tentato in ogni modo di non farci votare» ha detto il governatore che poco prima, a Radio24, aveva provato a far leva sull’orgoglio venetista: «È l’ora del riscatto dei veneti. La gestione di questo Paese è stata centralista e assistenzialista e ha devastato i conti pubblici. Fanno paura i veneti che vanno al voto, sapete perché? Perché quei mezzadri veneti che per Roma hanno l’anello al naso, non ci stanno più con l’anello al naso». Proprio a Treviso, prima che Zaia arrivasse, era andata in scena la protesta di una quindicina di giovani antagonisti dei centri sociali, che hanno fatto irruzione nella tensostruttura affiggendo volantini contro Matteo Salvini. Non vi sono stati danneggiamenti né sono state coinvolte persone, ma la reazione del presidente del consiglio Roberto Ciambetti è comunque veemente: «Si è trattato di un’inaccettabile aggressione squadrista, un’azione infame. C’è chi ha paura della partecipazione popolare ma noi non ci facciamo intimidire». A sorpresa, alla vigilia del voto è intervenuto - nuovamente - il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, con un chiaro invito a recarsi alle urne: «Consultazioni che si svolgono nel rispetto della Costituzione, in uno spirito autentico di comunione nazionale e cercando di evidenziare e valorizzare peculiarità, risorse e legittime esigenze di un territorio, possono aiutare a far crescere la spinta alla sussidiarietà e al bene comune dell’intera comunità, locale e nazionale, anche attraverso modalità più eque e più giuste. Autonomia non significa separazione. Può essere, semmai, uno stimolo e un aumento di responsabilità verso un’integrazione più forte e attenta alle caratteristiche di ogni contesto e di ciascuna realtà». Non ne è convinto il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, secondo cui anzi «questi ultimi minuti di campagna referendaria sono stati giocati mischiando ancora le carte sul tavolo, non discutendo di federalismo differenziato ma del residuo fiscale, il che è un bluff, propaganda maldestra. Anche perché se la partita fosse davvero questa, sostanzialmente ci si avvierebbe verso la secessione, una deriva catalana». Aperturista, invece, l’ex presidente della Camera Luciano Violante: « E’ giusto, una volta superato lo scoglio del referendum, che Veneto e Lombardia lavorino per queste forme differenziate di federalismo ma vediamo l’esito della partecipazione. Se si pensa che in Catalogna tutti si dicevano per l’indipendenza, e poi ha votato solo il 40%...». Nel dibattito serrato che ha anticipato il silenzio elettorale che si protrarrà fino alle 23 di domani (con le consuete violazioni sui social network c’è da credere) va registrato anche l’appoggio garantito a Zaia dal fronte sovranista della coppia Alemanno-Storace e dal Movimento Cinque Stelle, che con una nota unitaria della nomenklatura nazionale e regionale ha ripreso posizione per il Sì sconfessando il gruppo «ribelle» guidato dalla deputata Silvia Benedetti, mentre Salvini, polemizzando una volta di più con il ministero dell’Interno per il conto da 2 milioni recapitato in Regione («Un atto arrogante»), ha cercato di tranquillizzare tutti: «Non è la nostra Brexit, non vogliamo uscire da niente e da nessuno». C’è infine la questione legata alle operazioni di scrutinio, che per questa tornata, come dispone la legge regionale, saranno di competenza di Palazzo Balbi e non del Viminale. Parliamo in particolare della fase che riguarda la trasmissione dei verbali di scrutinio dagli uffici di sezione all’Ufficio provinciale per il referendum (dove ci saranno tre magistrati). «Mi auguro che tutto avvenga regolarmente - chiosa il deputato Pd Alessandro Naccarato -. Ma chi controlla il passaggio dal seggio all’ufficio? La giunta è soggetto che è parte in causa. Mi pare che questo sia un punto debole della legge, è qualcosa di costruito male».

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 21 ottobre 2017 Pag XII Tutte le associazioni ne “Il Prossimo”: “Ora l’ipermercato” di F.Fen. Riorganizzati i gruppi benefici di Carpenedo

Mestre. Un'unica grande associazione per contenere tutti i gioielli del volontariato e della solidarietà costruiti negli anni attorno alla parrocchia di Carpenedo. E, compiuto questo passo, si punta ora a realizzare entro il 2018 quell'ipermercato solidale che è nei sogni di don Armando Trevisiol. Si chiama Il Prossimo e, pur esistendo dal 2015, questa agenzia caritativa che si occupa di persone in difficoltà italiane e straniere, ha ora portato a termine un lavoro non facile di cucitura tra tutti i gruppi che hanno finora gestito i magazzini solidali all'interno del Centro Don Vecchi 1, in viale Don Sturzo. Edoardo Rivola ne è il presidente, coadiuvato da don Armando, don Gianni Antoniazzi - sacerdote della parrocchia dei santi Gervasio e Protasio -, Andrea Groppo e suor Teresa Del Buffa. «Avevamo sei associazioni che viaggiavano in modo autonomo - spiega Rivola -, da chi si occupava della distribuzione di frutta e verdura o di alimentari in scadenza, alla Bottega solidale o Carpenedo solidale per i mobili, fino all'abbigliamento. Ora Il Prossimo contiene quasi tutto, contando su qualcosa come 200 volontari che aiutano le persone in difficoltà della città». Che sono tante, tantissime. Il Prossimo registra qualcosa come 60mila contatti all'anno, con duemila famiglie che arrivano ogni settimana a ritirare un sacchetto di alimenti, più altre centinaia di passaggi per avere il cibo in scadenza. Riprende il presidente: «Siamo diventati maggiorenni, superando quelle sovrapposizioni che si erano create negli anni. Per fare un esempio, ora abbiamo raggruppato e rinnovato tutti i furgoni che sono a disposizione di ogni nostra area di intervento». L'IPERMERCATO SOLIDALE - Don Gianni Antoniazzi, nell'ultimo numero del settimanale L'incontro, è andato anche oltre: «C'è il desiderio di creare poco per volta una rete aperta, in dialogo anche con le associazioni del territorio che da molti decenni lavorano a favore dei bisognosi». In gioco c'è infatti la grande sfida dell'ipermercato solidale, per il quale la Fondazione Carpinetum ha perfino messo in stand-by la costruzione del Don Vecchi numero 7. «Gli spazi in viale Don Sturzo non bastano più - prosegue Edoardo Rivola -. Dobbiamo portare fuori tutto quello che c'è sotto, con una struttura in grado di ospitare in sicurezza e con ordine tutta l'offerta a favore di chi si trova in difficoltà». Un obiettivo lontano? «No, puntiamo a realizzarlo nel 2018».

Pag XXIX Fornezza: “Luciani mi guida” di Raffaele Rosa Don Ettore domani festeggia gli 80 anni

Venezia. Un prete che ha sempre amato stare in mezzo alla gente, soprattutto tra i giovani e che da quasi 50 anni segue gli insegnamenti e i consigli di una guida spirituale come Albino Luciani, prima Patriarca di Venezia e quindi Papa per 33 giorni nel 1978 con il nome di Giovanni Paolo I. Don Ettore Fornezza, o monsignor Fornezza ma per lui non fa differenza, compie domani, domenica 22 ottobre, 80 anni. Un traguardo notevole, un tappa importante di un lungo cammino ecclesiastico e di vita. Un prete, don Ettore, che ha sempre preferito fare, piuttosto che parlare. IL RICORDO - Don Fornezza e Albino Luciani, quasi un rapporto tra padre e figlio, un maestro per lei. «Lo conobbi nel 1968 quando era ancora vescovo di Vittorio Veneto e io un giovane seminarista. Mi scambiò per l'autista, ma poco dopo mi disse: tu diventerai prete con me. L'anno seguente venne nominato Patriarca di Venezia, mi fece prete e per nove anni lavorai con lui come suo aiutante personale creando un legame forte, proprio come quello che c'è tra padre e figlio. Fino al giorno della sua partenza per il conclave a Roma abbiamo praticamente diviso sempre tutto. Ricordo che quell'agosto aveva fretta di tornare a Venezia perché c'erano tante cose da fare, da programmare. E invece diventò Giovanni Paolo I. Albino Luciani è stato per me un punto di riferimento, per la mia crescita come prete e come uomo. Una presenza costante, un esempio che non mi abbandona mai e che ancora oggi mi dà la forza nei momenti difficili». Papa Luciani doveva in qualche modo restare nella sua vita come presenza e l'Oasi montana che porta il suo nome e che si trova a Ghisel di Cencenighe in provincia di Belluno dopo 40 anni è diventata un simbolo. IL PROGETTO - «Fu grazie al suo intercedere che venne avviato questo progetto. Da un ammasso di case abbandonate da anni dai montanari oggi l'Oasi è una realtà che dal 1978 ha visto passare migliaia di giovani veneziani, prima ragazzi oggi uomini e padri di famiglia che ci portano i loro figli. Un luogo in cui ogni volta, in mezzo al bosco, nel silenzio, mi pare di sentire la voce di Papa Luciani, lui nato a pochi chilometri di distanza a Canale d'Agordo. Prima ancora che venisse resa nota la notizia della visita a Venezia nel 2018 di Papa Francesco ho inoltrato alla Santa Sede l'invito di considerare la possibilità di portare il Pontefice fino a Ghisel. Papa Wojtyla ha benedetto il simbolo di questa Oasi e sono convinto che anche Papa Francesco non si dimenticherà di noi e potrebbe farci un grande regalo il prossimo anno». LE PARROCCHIE - San Canciano, San Michele a Marghera e poi ancora Mazzorbo, San Martino a Castello e infine, dal 2007 delegato patriarcale di Torcello e del cimitero di San Michele. Nel suo percorso di parroco ha incontrato migliaia di persone ma il suo rapporto privilegiato è sempre stato con i giovani. «Loro sono il futuro, sono il terreno fertile su cui costruire le basi della vita cristiana. Stare con i giovani regala allegria, ti insegna sempre qualcosa, ti fa vivere di più con il sorriso, ti dona energie che non pensi di avere. Ho sempre cercato di rapportarmi con loro, di aiutarli, di sostenerli nei loro progetti e nei loro sogni. Ancora oggi ricevo telefonate, lettere e visite di coppie che ho sposato tanti anni fa ma che si ricordano di don Ettore. Di matrimoni continuo a celebrarne e a tutti segue quasi sempre anche il Battesimo dei figli. La fede e la vita cristiana si trasmettono con la presenza, con la disponibilità, con il sorriso, con la gioia di vivere assieme agli altri emozioni, sofferenze e traguardi». 43 anni di sacerdozio e anche di aneddoti per don Ettore Fornezza come quando era parroco a Marghera e minacciò di rinunciare al suo incarico perché assediato dagli spacciatori che imperversavano nella zona. «Fu una provocazione per attirare l'attenzione delle istituzioni. Sì, furono anni difficili ma non ho mai mollato il mio gregge e i miei parrocchiani e quell'esperienza mi forma molto come prete. E i parrocchiani di Marghera li sento ancora oggi».

Pag XXIX Concerto finale nella chiesa di S. Rita

Mestre. Si conclude domenica la Rassegna autunnale d'organo nella chiesa di Santa Rita in via Bellini a Mestre. Il concerto finale, dalle 17 a ingresso libero, vedrà la partecipazione degli allievi del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia guidati dal maestro Gianluca Libertucci, organista di San Pietro in Vaticano. In programma musiche di D. Buxtehude, F. Mendelssohn, C. Frank, S. Karg-Elert, Jean Langlais, P. Hindemith, J. S. Bach. Organisti: Thomas Weissmüller, Marco De Bortoli, Francesco Leporatti, Giovanni Tonon, Luca Canzian, Chiara Casarotto, Federico Bognolo. Sarà ospite monsignor Giuseppe Liberto, ex direttore della Cappella Sistina.

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3 – VITA DELLA CHIESA

VATICAN INSIDER Liturgia, il Papa “corregge ˮ un’interpretazione del cardinale Sarah di Andrea Tornielli Il Prefetto del Culto divino aveva inviato a Bergoglio (e immediatamente reso pubblico) un commento restrittivo al recente motu proprio sulle traduzioni dei testi liturgici. Francesco gli ha chiesto di rendere subito nota sul web anche la sua risposta

Dopo poco più di un anno dalla precisazione del luglio 2016, con la quale Papa Francesco, attraverso una nota dell’allora direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi, chiariva che non erano affatto in vista i cambiamenti sull’orientamento degli altari preannunciati dal cardinale Robert Sarah, il Prefetto della Congregazione per il Culto divino ha ricevuto una nuova “correzione ˮ da parte del Pontefice. Questa volta con firma autografa. L’oggetto della chiarificazione è il recente motu proprio Magnum Principium sulle traduzioni liturgiche, reso noto lo scorso settembre, con il quale Francesco ha modificato la normativa canonica relativa alla traduzione nelle varie lingue. Richiamandosi al Concilio Vaticano II, il Papa ha stabilito che la traduzione, approvata dalle conferenze episcopali nazionali, non vada più sottoposta ad una revisione da parte della Sede apostolica (recognitio), ma alla sua conferma (confirmatio), che non si configura più come un intervento alternativo di traduzione, ma come un atto con il quale il dicastero liturgico ratifica l’approvazione dei vescovi. Lo scorso 12 ottobre alcuni siti web pubblicavano un commento restrittivo alla decisione papale che il cardinale Sarah aveva fatto proprio e inviato a Francesco. L’iniziativa personale del Prefetto - non si trattava infatti di un testo del dicastero - più che un contributo posto all’attenzione del Papa, veniva presentato da chi lo rilanciava come una messa a punto pubblica per ridurre la portata della decisione pontificia. Sostanzialmente il commento interpretativo inviato da Sarah, ritenendo in tutto e per tutto ancora in vigore le norme contenute nell’istruzione Liturgia authenticam (2001) presentava il recente documento papale sostenendo che esso «non modifica in alcun modo la responsabilità della Santa Sede, né, di conseguenza, le sue competenze in merito alle traduzioni liturgiche», di fatto mettendo sullo stesso piano recognitio e confirmatio. Il Papa, vista l’immediata diffusione dello scritto che gli era stato inviato dal cardinale, ha ritenuto opportuno non soltanto rispondere nel merito, ma ha anche chiesto a Sarah di rendere subito pubblica sul web e a tutte le conferenze episcopali anche questa replica autorevole. Una risposta che conferma quanto c’è scritto nel motu proprio, respingendo l’interpretazione restrittiva e spiegando che con questo nuovo documento viene abrogata la prassi precedente. «Innanzitutto occorre evidenziare - scrive Francesco nella lettera di risposta resa nota dalla Sala Stampa vaticana - l’importanza della netta differenza che il nuovo MP stabilisce tra recognitio e confirmatio, ben sancita nei §§ 2 e 3 del can. 838, per abrogare la prassi, adottata dal Dicastero a seguito del Liturgia authenticam (LA) e che il nuovo Motu Proprio ha voluto modificare. Non si può dire pertanto che recognitio e confirmatio sono “strettamente sinonimi (o) sono intercambiabili” oppure “sono intercambiabili a livello di responsabilità della Santa Sede”. In realtà il nuovo can. 838, attraverso la distinzione tra recognitio e confirmatio, asserisce la diversa responsabilità della Sede Apostolica nell’esercizio di queste due azioni, nonché quella delle Conferenze Episcopali. Il Magnum Principium non sostiene più che le traduzioni devono essere conformi in tutti i punti alle norme del Liturgia authenticam, così come veniva effettuato nel passato». Per questo, continua il Pontefice, i singoli numeri di Liturgiam authenticam «vanno attentamente ri-compresi, inclusi i nn. 79-84, al fine di distinguere ciò che è chiesto dal codice per la traduzione e ciò che è richiesto per i legittimi adattamenti. Risulta quindi chiaro che alcuni numeri di LA sono stati abrogati o sono decaduti nei termini in cui sono stati ri-formulati dal nuovo canone». Quanto alla responsabilità delle conferenze episcopali «di tradurre “fideliter”, occorre precisare che il giudizio circa la fedeltà al latino e le eventuali correzioni necessarie, era compito del Dicastero, mentre ora la norma concede alle Conferenze Episcopali la facoltà di giudicare la bontà e la coerenza dell’uno e dell’altro termine nelle traduzione dall’originale, se pure in dialogo con la Santa Sede. La confirmatio non suppone più dunque un esame dettagliato parola per parola, eccetto nei casi evidenti che possono essere fatti presenti ai Vescovi per una loro ulteriore riflessione. Ciò vale in particolare per le formule rilevanti, come per le Preghiere Eucaristiche e in particolare le formule sacramentali approvate dal Santo Padre. La confirmatio tiene inoltre conto dell’integrità del libro, ossia verifica che tutte le parti che compongono l’edizione tipica siano state tradotte». Francesco spiega inoltre che il processo di tradurre i testi liturgici rilevanti (ad esempio formule sacramentali, il Credo, il Pater Noster) in una lingua, dalla quale vengono considerati traduzioni autentiche, «non dovrebbe portare ad uno spirito di “imposizione” alle Conferenze Episcopali di una data traduzione fatta dal Dicastero, poiché ciò lederebbe il diritto dei Vescovi sancito nel canone» e già prima dalla Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium al numero 36. Risulta pertanto «inesatto» attribuire alla confirmatio la finalità della recognitio. Certo, conclude Francesco, la confirmatio «non è un atto meramente formale, ma necessario alla edizione del libro liturgico “tradotto”: viene concessa dopo che la versione è stata sottoposta alla Sede Apostolica per la ratifica dell’approvazione dei Vescovi, in spirito di dialogo e di aiuto a riflettere se e quando fosse necessario, rispettandone i diritti e i doveri, considerando la legalità del processo seguito e le sue modalità».

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 22 ottobre 2017 No all’eugenetica Monito del Papa contro la tendenza a sopprimere i nascituri che presentano imperfezioni

La «tendenza eugenetica a sopprimere i nascituri che presentano qualche forma di imperfezione» è stata denunciata dal Papa nel discorso ai partecipanti al convegno su «Catechesi e persone con disabilità» promosso dal Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Il Pontefice li ha ricevuti in udienza sabato mattina, 21 ottobre, nella Sala Clementina.

Cari fratelli e sorelle, mi rallegra incontrarvi, soprattutto perché in questi giorni avete affrontato un tema di grande importanza per la vita della Chiesa nella sua opera di evangelizzazione e formazione cristiana: La catechesi e le persone con disabilità. Ringrazio S. E. Mons. Fisichella per la sua introduzione, il Dicastero da lui presieduto per il suo servizio e tutti voi per il vostro lavoro in questo campo. Conosciamo il grande sviluppo che nel corso degli ultimi decenni si è avuto nei confronti della disabilità. La crescita nella consapevolezza della dignità di ogni persona, soprattutto di quelle più deboli, ha portato ad assumere posizioni coraggiose per l’inclusione di quanti vivono con diverse forme di handicap, perché nessuno si senta straniero in casa propria. Eppure, a livello culturale permangono ancora espressioni che ledono la dignità di queste persone per il prevalere di una falsa concezione della vita. Una visione spesso narcisistica e utilitaristica porta, purtroppo, non pochi a considerare come marginali le persone con disabilità, senza cogliere in esse la multiforme ricchezza umana e spirituale. È ancora troppo forte nella mentalità comune un atteggiamento di rifiuto di questa condizione, come se essa impedisse di essere felici e di realizzare sé stessi. Lo prova la tendenza eugenetica a sopprimere i nascituri che presentano qualche forma di imperfezione. In realtà, tutti conosciamo tante persone che, con le loro fragilità, anche gravi, hanno trovato, pur con fatica, la strada di una vita buona e ricca di significato. Come d’altra parte conosciamo persone apparentemente perfette e disperate! D’altronde, è un pericoloso inganno pensare di essere invulnerabili. Come diceva una ragazza che ho incontrato nel mio recente viaggio in Colombia, la vulnerabilità appartiene all’essenza dell’uomo. La risposta è l’amore: non quello falso, sdolcinato e pietistico, ma quello vero, concreto e rispettoso. Nella misura in cui si è accolti e amati, inclusi nella comunità e accompagnati a guardare al futuro con fiducia, si sviluppa il vero percorso della vita e si fa esperienza della felicità duratura. Questo - lo sappiamo - vale per tutti, ma le persone più fragili ne sono come la prova. La fede è una grande compagna di vita quando ci consente di toccare con mano la presenza di un Padre che non lascia mai sole le sue creature, in nessuna condizione della loro vita. La Chiesa non può essere “afona” o “stonata” nella difesa e promozione delle persone con disabilità. La sua vicinanza alle famiglie le aiuta a superare la solitudine in cui spesso rischiano di chiudersi per mancanza di attenzione e di sostegno. Questo vale ancora di più per la responsabilità che possiede nella generazione e nella formazione alla vita cristiana. Non possono mancare nella comunità le parole e soprattutto i gesti per incontrare e accogliere le persone con disabilità. Specialmente la Liturgia domenicale dovrà saperle includere, perché l’incontro con il Signore Risorto e con la stessa comunità possa essere sorgente di speranza e di coraggio nel cammino non facile della vita. La catechesi, in modo particolare, è chiamata a scoprire e sperimentare forme coerenti perché ogni persona, con i suoi doni, i suoi limiti e le sue disabilità, anche gravi, possa incontrare nel suo cammino Gesù e abbandonarsi a Lui con fede. Nessun limite fisico e psichico potrà mai essere un impedimento a questo incontro, perché il volto di Cristo risplende nell’intimo di ogni persona. Inoltre stiamo attenti, specialmente noi ministri della grazia di Cristo, a non cadere nell’errore neo-pelagiano di non riconoscere l’esigenza della forza della grazia che viene dai Sacramenti dell’iniziazione cristiana. Impariamo a superare il disagio e la paura che a volte si possono provare nei confronti delle persone con disabilità. Impariamo a cercare e anche a “inventare” con intelligenza strumenti adeguati perché a nessuno manchi il sostegno della grazia. Formiamo - prima di tutto con l’esempio! - catechisti sempre più capaci di accompagnare queste persone perché crescano nella fede e diano il loro apporto genuino e originale alla vita della Chiesa. Da ultimo, mi auguro che sempre più nella comunità le persone con disabilità possano essere loro stesse catechisti, anche con la loro testimonianza, per trasmettere la fede in modo più efficace. Vi ringrazio per il vostro lavoro di questi giorni e per il vostro servizio nella Chiesa. La Madonna vi accompagni. Vi benedico di cuore. E vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie!

AVVENIRE di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Mai farsi indietro di Giulio Albanese Giornata missionaria mondiale 2017

La settimana scorsa, proprio mentre a Brescia si stava svolgendo il primo 'Festival della Missione', è giunta la notizia del sequestro di don Maurizio Pallù, sacerdote italiano della diocesi di Roma, rapito in Nigeria e liberato mercoledì, nel giorno del suo compleanno. Questi due eventi, per quanto diversi tra loro, hanno avuto un comune denominatore: sono stati espressione, con differenti modalità, della forza della Parola di Dio. Nel primo caso, i missionari e missionarie, nostri connazionali, hanno avuto la possibilità di esprimersi in piazza, condividendo, soprattutto con i giovani, i saperi delle giovani Chiese presenti in quelle che papa Francesco definisce le «periferie del mondo». Nel secondo caso quei contenuti, resi manifesti durante il Festival bresciano, hanno, per così dire, 'bucato lo schermo', nel momento in cui è stata diffusa la notizia del rapimento di don Maurizio, in un contesto, quello nigeriano, segnato dalle diseguaglianze e dalla crescente violenza. Per quanto vi fosse preoccupazione per la sua sorte, nel consesso ecclesiale, non è mai venuta meno la speranza e la sua liberazione, alla luce della fede, è stata interpretata da molti come il premio di chi ha il coraggio di osare, la 'parresìa', testimoniando fedelmente l’impegno missionario ad gentes. Tutto questo nella consapevolezza che il Vangelo rappresenta il rimedio per eccellenza contro ogni genere di recessione spirituale e materiale. Esso, infatti, non può essere inteso come fosse un bene esclusivo di chi lo ha ricevuto: è anzitutto dono affidato a tutti i battezzati – i quali sono «stirpe eletta, gente santa, popolo che Dio si è acquistato» (1Pt 2,9) – perché proclamino le sue opere meravigliose. Ecco perché l’odierna Giornata missionaria mondiale (Gmm) rappresenta per le nostre comunità parrocchiali un tempo di grazia nel quale siamo chiamati a fare memoria del Mandatum Novum affidato da Gesù Cristo agli apostoli duemila anni fa. Quest’anno, lo slogan della Gmm – «La messe è molta» - offre numerosi spunti di riflessione, trattandosi di un’espressione di Gesù, dalla forte valenza missionaria, che troviamo nei Vangeli di Luca (10,2) e di Matteo (9,37). La scelta di questa citazione biblica, da parte della Fondazione Missio – che in Italia è espressione delle Pontificie Opere Missionarie (Pom) – è in linea con l’esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium sull’annuncio e la testimonianza delVangelo nel mondo attuale. Ed è proprio il mondo, inteso come contesto esistenziale nel quale siamo stati posti dalla Provvidenza, il campo di grano nel quale vivere la nostra avventura di credenti. Il termine 'messe' riguarda da sempre, nel linguaggio comune, il raccolto agricolo. Un raccolto che, stando alle parole di Nostro Signore, si rivela «abbondante». Dunque è evidente che il seminatore, nella narrazione dei Vangeli, è stato Dio stesso. L’impegno missionario, dunque, rientra, nell’ottica del Regno di Dio (potremmo anche dire che la «messe» è il Regno) e il compito dei missionari e delle missionarie consiste nel cogliere i frutti di bene e di verità che si rivelano nel mondo. La tradizionale colletta della Gmm che verrà destinata alle Pom, in questo contesto, è il segno di una condivisione, all’insegna della solidarietà, di cui i nostri missionari e missionarie (membri di istituti e congregazioni, sacerdoti fidei donum, laici) sono i primi interpreti. Numericamente parlando, essi sono passati da oltre 24mila unità del 1990, a circa ottomila di oggi. Il calo è sotto gli occhi di tutti ed è sintomatico di come occorra rinnovare in profondità le modalità dell’annuncio evangelico, nella consapevolezza, come dice papa Francesco, che la Chiesa deve essere davvero «in uscita». Per questo, proprio nella parte finale del tradizionale messaggio per la Gmm, il Papa ricorda che «i giovani sono la speranza della missione», invitandoli a continuare a essere «viandanti della fede, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra!». D’altronde, di fronte a una messe abbondante, non è possibile farsi indietro.

Pag 5 Bassetti: la “mia” Cei nel segno del dialogo e della condivisione di Giacomo Gambassi “Così cambierò la prolusione. Più spazio ai vicepresidenti”

Immagina una Cei che abbia come tratto distintivo il dialogo. E i modelli, i punti di riferimento che ha nella mente sono il Concilio Vaticano II e poi il Sinodo dei vescovi. «Non servono decisioni precostituite», sostiene il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti. Martedì saranno cinque mesi dallo «scherzo » che papa Francesco gli ha fatto, come dice lo stesso Bassetti con quel suo spirito tutto fiorentino: averlo nominato alla guida dell’episcopato della Penisola a 75 anni dopo essere stato eletto dai vescovi all’interno della terna consegnata nelle mani di Bergoglio. Cala la sera su Perugia. Dalle finestre dello studio al secondo piano del palazzo arcivescovile si vede piazza IV Novembre con la sua celebre fontana gotica e la Cattedrale. L’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve ha appena finito di sfogliare l’agenda. Nella settimana che si chiude oggi è stato a Milano, Roma, Siena e Pesaro. Da giovedì prossimo sarà a Cagliari per la Settimana sociale dei cattolici italiani. «A mio avviso – spiega in una conversazione con Avvenire – la Conferenza episcopale italiana deve essere sorretta da tre colonne: la fraternità, la corresponsabilità e la collegialità. Come pastori di questa bellissima terra la fraternità ci è data dal vivere quotidiano. In questi mesi da presidente sto incontrando e ascoltando molti confratelli che mi invitano nelle loro diocesi. Cerco di vivere e favorire l’incontro a tutti i livelli. Poi c’è la corresponsabilità che significa instaurare autentici rapporti fra i vescovi, dove ciascuno possa offrire il suo contributo nei percorsi decisionali. In particolare vorrei incentivare l’apporto dei tre vicepresidenti della Cei che, al pari di me, sono stati eletti dall’assemblea dei vescovi. E infine ecco la collegialità che vuol dire confrontarci di più e anche in modo migliore». Il cardinale cita il Pontefice. «Il Papa esorta alla sinodalità e insiste sulla parresia. A noi pastori ha ripetuto più volte: abbiate legami fraterni, ma parlatevi chiaramente e dialogate con libertà. Il dialogo può essere faticoso ma è assolutamente indispensabile. Per questo ritengo che anche nella Cei sia giusto condividere in maniera sempre più ampia il cammino». Dopo la prima prolusione di Bassetti, lo scorso 25 settembre, che ha aperto il Consiglio permanente, qualcuno aveva ipotizzato che il nuovo presidente fosse persuaso a depennarla. Il cardinale sorride. «Non ho intenzione di abolirla. Ma più che una prolusione preferirei un’introduzione che, toccando il quotidiano delle nostre comunità cristiane e le urgenze del Paese, presenti con chiarezza i temi che devono essere affrontati. Secondo me, non occorre tanto dettare le linee quanto valorizzare la partecipazione». Poi il cardinale precisa: «È opportuno far emergere la ricchezza dell’episcopato italiano grazie al contributo di tutti. La Cei deve essere lo specchio della vitalità del- la nostra Chiesa, come insegna anche la metodologia del Sinodo dei vescovi, riflettendo la collegialità che ci è raccomandata dal Papa». Il presidente si sofferma sulle Conferenze episcopali regionali. «Il loro ruolo andrebbe potenziato – sottolinea –. E forse anche alcuni passaggi dovrebbero essere delegati ad esse. Inoltre è bene che si riuniscano prima degli appuntamenti nazionali così che le loro proposte arrivino a Roma e possano entrare a pieno titolo nel confronto». Da quando è presidente della Cei, Bassetti ha percorso decine di volte da Nord a Sud la Penisola, invitato da diocesi, realtà ecclesiali, associazioni e movimenti. «È un’esigenza pastorale che sento nel profondo del cuore – confida –. Voglio stare in mezzo alla gente. Non sono capace di chiudermi in un ufficio per firmare documenti. Ai vescovi che mi chiamano, compatibilmente con gli impegni di pastore di Perugia- Città della Pieve, cerco di rispondere “sì” perché giudico di grande importanza l’incontro diretto con le persone per vederne i volti, gli sguardi, le ferite, per percepirne gli umori, le difficoltà. In diverse circostanze mi sono accorto che un silenzio è ben più eloquente di tanti discorsi». Seduto alla sua scrivania, fra libri, lettere e appunti degli interventi che sta preparando, il cardinale racconta la fisionomia della Chiesa italiana. «In questi ultimi anni è profondamente cambiata. Da quando papa Francesco è salito al soglio pontificio nel 2013, ha nominato per l’Italia più di sessanta vescovi. Diversi sono “giovani”, attorno ai cinquant’anni. Segno che la nostra Chiesa si sta rinnovando e perciò va seguita con attenzione». Eppure lunedì scorso nell’Università Cattolica di Milano il presidente della Cei l’ha definita «un po’ pigra». «Mi riferivo al fatto che il documento programmatico di Francesco, l’Evangelii gaudium, fa fatica a essere recepito. Il Papa non suggerisce qualche aggiustamento o nuovi metodi, ma chiede una vera conversione pastorale. Si tratta di concepire la Chiesa alla luce del Concilio». Può capitare che le comunità non siano pienamente “in uscita”. «Perché si cerca di salvare l’esistente – riflette Bassetti –. E poi prevale una mentalità clericale che porta ad accentrare tutto sulla propria persona. Papa Francesco osserva giustamente che il prete clericale forma laici clericali. Quando, come vescovo, ho cambiato alcuni parroci, i sacerdoti che arrivavano in una comunità si sono trovati talvolta davanti a gruppetti di laici che avevano in mano la parrocchia e che ripetevano loro: “Qui si è sempre fatto così”. Questa mentalità clericale finisce per trasformarsi in una specie di potere. Invece l’Evangelii gaudium propone la pastorale della sinodalità, ossia del camminare insieme, delle responsabilità condivise, della tenerezza contro un’impostazione intransigente». Fin dall’inizio del suo impegno alla guida della Cei, il cardinale ha puntato sulla comunione. «Senza comunione – spiega – non c’è Chiesa. Chi pensa di fare da solo, di essere autosufficiente, va poco lontano. Così ho indicato con forza la via del dialogo. È un ulteriore aspetto della conversione pastorale a cui ci esorta il Papa. In ogni caso favorire l’unità della Chiesa non significa pensarla tutti allo stesso modo o eliminare le differenze che sono una ricchezza». Quindi Bassetti prosegue: «In linea con Francesco, ho scelto di suscitare processi. Processi di cui la Chiesa italiana ha bisogno e che vanno accompagnati. Nella prolusione ho indicato anche alcune bussole di orientamento che mostrano esplicitamente i compiti della nostra comunità ecclesiale: lo spirito missionario, la spiritualità dell’unità e la cultura della carità. La Chiesa italiana è tenuta ad annunciare e vivere con gioia il messaggio di salvezza che è dono di Dio per tutti. Inoltre deve avere a cuore l’Italia e la sua gente. Il Vangelo deve essere sempre al primo posto. E, avendo come perno il Vangelo, nasce la nostra attenzione ai poveri, ai migranti, ai bambini mai nati, ai malati terminali, ai disabili, alle famiglie ferite, soltanto per citare qualche esempio». Durante l’ultimo Consiglio permanente il presidente della Cei ha delineato anche quattro priorità per il Paese: il lavoro, i giovani, la famiglia, le migrazioni. «Per rispondere a queste sfide – afferma Bassetti – occorre avere uno sguardo lucido sulla nazione. E credo che la Chiesa possa promuovere la visione di un’Italia unita, solidale, depositaria di un’immensa cultura umanistica e cristiana. Un’Italia che si inserisce necessariamente nel contesto europeo e anche extraeuropeo». Il cardinale fa una pausa. «Ho un sogno. Sull’esempio di Giorgio La Pira che volle a Firenze i “Colloqui mediterranei”, vedo la Chiesa italiana come una Chiesa del dialogo che si proietta nel Mediterraneo e si fa ponte tra cristiani, ebrei e musulmani, “la triplice famiglia di Abramo”». L’ultimo pensiero del presidente della Cei va ai cattolici della Penisola. «Devono prendersi cura dell’Italia – sprona –. È la loro vocazione ed è in nome del loro essere cristiani che devono farlo. Il nostro è purtroppo un Paese sfibrato, marcato dagli strappi: basta leggere un giornale o guardare un telegiornale per comprenderlo. Si sono incrinate anche quelle fondamenta che al tempo della stesura della Costituzione avevano riunito le diverse anime della nazione. Se è vero, come è vero, che la Chiesa è ancora uno straordinario barometro delle gioie e dei dolori, delle angosce e dei bisogni del nostro popolo, sono persuaso che i laici cattolici abbiano molto da dire e da offrire all’Italia. Vorrei che una cosa fosse chiara per tutti: questo Paese non sarà mai migliore senza cattolici impegnati in politica e nel sociale».

Il cardinale Gualtiero Bassetti è il primo presidente della Cei designato con il nuovo percorso stabilito della modifica dello Statuto e dei regolamenti della Conferenza episcopale italiana avvenuta su sollecitazione di papa Francesco. Nell’Assemblea generale dello scorso maggio i vescovi hanno votato la terna di nomi da consegnare al Papa all’interno della quale Francesco era chiamato a scegliere il nuovo presidente della Cei. L’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve è stato il nome più votato della terna che includeva anche il vescovo di Novara e attuale vicepresidente della Cei per l’Italia settentrionale, Franco Giulio Brambilla, e il cardinale arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro. Papa Francesco ha indicato come presidente della Cei il cardinale Bassetti. L’annuncio è stato dato lo scorso 24 maggio dal presidente uscente, il cardinale arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, durante una Messa nella Basilica di San Pietro con l’episcopato italiano. Originario di Marradi sull’Appennino tosco-romagnolo ma fiorentino d’adozione, Bassetti ha 75 anni ed è stato creato cardinale da Francesco nel 2014. Proprio da Bergoglio ha ricevuto la proroga del suo mandato alla guida della Chiesa di Perugia-Città della Pieve con la formula «donec aliter provideatur» (finché non sarà disposto diversamente), senza un limite prefissato quindi. Vescovo da 23 anni e sacerdote da 51, è anche membro della Congregazione per i vescovi e del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

LA NUOVA di domenica 22 ottobre 2017 Pagg 34 – 35 Padre nostro, dove risuona l’eco di Dio di don Marco Pozza Analisi di una preghiera che contiene le parole del quotidiano

È destino delle cose ineffabili: dopo averle frequentate infinite volte, o le si ama focosamente o ci si annoia al solo pensiero di doverle ancora incrociare, professare, carezzare. Siano essi fatti di carne, di fede, insulti, di estasi o caos, nulla cambia: «Un arcobaleno che dura un quarto d'ora non lo si guarda più» (W. Goethe). Chi, pregando il Padre nostro, non ha mai avvertito l'abitudine alla sua recitazione? Recitare è materia d'attrazione, non è pregare: è implicarsi in una trama. Preghiera è lasciarsi segregare da Dio: «Sia fatta la tua volontà». A occhi chiusi, senza manco pensarci. A pensarci è da impazzire: volontà-di-Dio è espressione che sgomenta e sotterra. Altro che passività cristiana: non ciò che l'uomo dovrà fare per Dio. Ciò che Dio vorrà fare per me. Dio della generosità. Col Padre nostro annoto svariati conti in sospeso. Frequento Dio, coi suoi misteri, sin da bambino: eredito dal mio casato l'avere scoperto sguardi all'insù, oltre quelli all'ingiù. "Ereditare" è un verbo di ricevimento: da altri, verso me. È anche verbo impegnato: l'eredità va riconquistata per diventare sangue nostro. Al contrario, si vivrà da separati sotto lo stesso tetto. Per troppa frequentazione, quest'orazione non mi parlava più: abituarsi alla bellezza, tra tutte le bestemmie possibili, è capoclasse. Mi piace lo "smontare": è verbo d'officina, di riparazione. Ho provato, dunque, a smontare il Padre nostro. Ho scorto parole ridenti: padre, nome, regno, volontà, pane, debiti, tentazione, male. Parole delle quali è piena la grammatica feriale: "Dov'è papà? Che bel nome porti! Siamo pieni di debiti. Sei andato a comperare il pane? Cosa ti ho fatto di male?". Le parole di questa preghiera, volenti o nolenti, abitano il nostro parlare. Ciò che intuivo era che chi aveva firmato questa preghiera era o santo o genio: nella stringatezza di poche righe, aveva incastonato tutto quello che l'uomo avrebbe potuto chiedere a Dio. Realizzai che era stato Cristo, su domanda, a inventarla. Una richiesta che ha trovato risposta: anche Dio, ogni tanto, risponde. In poesia, mai in prosa. Dalla galera - il nostro punto di osservazione sul mondo - queste parole m'incuriosirono: sono le medesime che pregano i briganti, i santi, le prostitute, i monsignori. Stesso padre, pane, tentazione. Stessa richiesta: «Sia santificato il tuo nome». Come si chiama Dio? Sono gli altri a sceglierci il nome: Dio è l'unico che se lo sceglie. Nel nome ci sono infinite cose. Sentirsi chiamare per nome ci procura batticuore: pezzi unici, su misura. Le persone posso conoscerle solo di vista: però solo se conosco il loro nome posso dire di conoscerle davvero. Dio decide di far dipendere il destino del suo nome dal mio chiamarlo per nome: da non prendere sonno. In una terra dove la bestemmia è grammatica laica, a Dio urge che l'uomo diventi l'eco del suo nome. Ha bel nome, è di buona volontà. La sfida, l'ho accettata, era ardua: imbavagliare l'abitudine per rinfrescarne l'intimità. Partenza obbligata: ragionarne con chi non prega il Padre. È vero - lo diceva Cicerone, sta scritto nell'ascensore del nostro carcere - che nessuno potrà dire di conoscere la libertà se prima non l'ha perduta: è altrettanto vero che solo chi non frequenta Dio avrebbe potuto ridonarmi il gusto per Lui. Ho conversato, con spirito randagio, assieme a Silvia Avallone, Erri De Luca, Mariagrazia Cucinotta, Simone Moro e Tamara Lunger, Carlo Petrini, Flavio Insinna, Umberto Galimberti, Pif: tutte storie conosciute, amiche. Le loro anime, però, sono state rivelazione, rivoluzione: «D'ora innanzi, nel destino di ciascun uomo, ci sarà questo Dio in agguato» (F. Mauriac). "Santificare, desiderare, volere": verbi che, declinati per negazione, fan bruciare una galera. Eliminate gli affetti, l'urto della volontà, la bellezza del nome: ecco le matricole. Badate che in prigione, ferro-cemento, osano i medesimi bisogni: fame di pane, angoscia di debiti, rintocco di seduzioni, ricatti di male. «Ma liberaci dal male», Padre. Nella Lettera al padre, lo scrittore Kafka fa ardere la penna: «Mi è sempre risultata incomprensibile la tua assoluta mancanza di sensibilità per il dolore e la vergogna che riuscivi ad infliggermi con le tue parole e i tuoi giudizi. Era come se non avessi minima idea del tuo potere». È capitato anche a me di pensarlo di Dio, pure di mio papà. Ecco che - eravamo già in strada - s'è presentato papa Francesco, l'inaspettato che non t'aspetteresti: «M'incuriosiscono questi discorsi che state facendo. C'è posto?». Detto- fatto: a scatola chiusa, come la cosa più spontanea. Come a Emmaus: è di Dio intrufolarsi nelle conversazioni, buttarle all'aria. Il suo conversare è esame della vista: l'accorgerci che, non-nominato, il buon Dio si è rintanato ovunque. Nella casa di chi crede, fuori dalla porta di chi non crede: in agguato, all'ingresso. In perpetua attesa. Conversando per negazione, ho ritrovato il sapore di dire: Padre nostro.

È stato annunciata alla Fiera di Francoforte l'uscita del libro di Papa Francesco "Quando pregate dite: Padre Nostro" (LEV-Rizzoli) scritto a quattro mani con don Marco Pozza. Uscirà il 23 novembre. Il libro è l'intrecciarsi della conversazione tra il Papa e don Marco. Nella seconda parte, don Marco assieme a due persone detenute del carcere Due Palazzi, Enrico e Marzio, commenta le parole del Papa attraverso un racconto che parte dalle loro esistenze, segnate dall'esperienza della prigione. È anche il contenuto dell'ultima puntata del programma ("Amen") in onda il 20 dicembre: una puntata speciale costruita sul dialogo il Santo Padre e il cappellano del carcere di Padova. «Ci vuole coraggio per pregare il Padre Nostro: mettetevi a dire "papà" e credere che è il Padre che mi accompagna, mi perdona» confessa Francesco nella conversazione. Un viaggio tra teologia e memoria, spunti di vita personale del Papa e squarci di vita ferita riportati da don Marco. Il capo della Chiesa cattolica e un prete di galera, parole condivise tra il centro e la periferia. Nella fedeltà più assoluta all'immagine di Chiesa che abita il magistero di Francesco: «Ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre» furono le parole del Papa nell'annunciare l'Anno Straordinario della Misericordia «possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa». Non stupisce, allora, che papa Francesco abbia accettato l'invito a partecipare a questo progetto, che ha coinvolto Tv2000, la Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede e la Libreria Editrice Vaticana, con Rizzoli. «Ho avuto la percezione» dice don Marco «di conversare con un uomo che incontra personalmente Cristo ogni giorno, nell'eucaristia e tra la gente. Da quel giorno il nostro non è più stato un lavorare. Siamo entrati in una storia che era molto difficile credere reale. Però lo è stata: Cristo era così, ha iniziato così. A tu per tu».

"Padre Nostro" di Marco Pozza e Andrea Salvadore è il programma che va in onda ogni mercoledì dal 25 ottobre al 20 dicembre su Tv2000 alle 21.05. Ogni puntata durata 50', e presenta un' introduzione al tema fatta da Papa Francesco che conversa con don Marco, il racconto di una storia di vita semplice che attualizzi quel verso di preghiera, una conversazione con un ospite. Mercoledì 25 ottobre Silvia Avallone, scrittrice, parla su "Padre nostro che sei nei cieli"; l'1 novembre lo scrittore Erri De Luca conversa su ""Sia santificato il tuo nome"; l'8 bovembre "Venga il tuo regno" è il tema per l'attrice e regista Mariagrazia Cucinotta. Mercoledì 15 novembre "Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra" è il tema della conversazione con gli alpinisti Simone Moro e Tamara Lunger; il 22 novembre il fondatore di Slow-foood Carlo Petrini affronta il verso "Dacci oggi il nostro pane quotidiano". Mercoledì 29 novembre "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» avrà come ospite Flavio Insinna, attore e presentatore. Il 6 dicembre "E non ci indurre in tentazione" per la conversazione con il filosofo Umberto Galimberti; il 13 dicembre "Ma liberaci dal male" avrà come ospite il regista e scrittore Pif. "Amen" è la puntata speciale del 20 dicembre: andrà in onda la conversazione di don Pozza con papa Francesco.

Padre nostro che sei nei cieli - SILVIA AVALLONE Abbiamo un problema nella nostra società, che riguarda la figura del padre, della madre. Da una parte pretendiamo queste madri con la m-maiuscola che tutto sacrificano per i figli e dall'altra diamo per scontato che un padre possa anche fuggire, che debba per forza avere una p-minuscola e non farcela, non assolvere al suo ruolo Un figlio ha bisogno di una pluralità di voci, ha bisogno dei padri, della loro presenza. Ha bisogno che non fuggano, oppure di non vederli un minuto la sera, che non siano dei nomi, ma che sia una carezza, una tenerezza, un uomo che possa fare i conti anche con tutto quel lato di umanità assoluta, di fragilità, di imperfezione che non è vero che debba solo riguardare le madri. Può riguardare i padri come uomini, in quanto imperfetti, che però non hanno paura di amare i loro figli Non dico che uno debba avere un rapporto di venerazione col padre: è bello poter parlare a un padre in maniera sincera. Però c'è anche una verticalità nel rapporto genitori-figli che bisogna rispettare: quando mi rivolgo a mio padre mi rivolgo a una persona che deve essere più saggia di me, a qualcuno che non sta accanto, è po' oltre. Poi posso prendere una strada diversa, contraddirlo: però guai se non è un punto di riferimento.

Sia santificato il tuo nome - ERRI DE LUCA I nomi dell'Antico Testamento. A me piacciono quei lunghissimi elenchi di nomi perché sono dei nomi inventati, che contengono magari una profezia o un augurio. Il primo nome inventato è quello di Caino: Caino viene da un verbo che significa "acquistare". La madre dice: «Ti chiamo così perché ti ho acquistato direttamente dalla divinità». Cioè la sua gravidanza - che è una gravidanza della quale è responsabile il suo legittimo sposo - è stata come un acquisto da parte della divinità. Come si fa a santificare il nome di Dio? Ci sono dei passi dell'Antico Testamento in cui la divinità dice: «siate santi come santo sono io». È un traguardo irraggiungibile: è quella, però, la direzione. Allora santificare il nome della divinità è rendere il più possibile santo il proprio comportamento, avviarsi in quella impossibile imitazione. Esiste un'altra accezione della santificazione del nome, quella del martirio: non rinnegare il nome della divinità accettando il martirio. Il martire che non rinnega ha santificato il nome della divinità. Non lo ha profanato, né rinnegato. Gesù è stato condannato per questo, non per quello che ha fatto. Il suo è un reato di opinione.

Venga il tuo regno - MARIAGRAZIA CUCINOTTA Quand'ero piccola immaginavo questo regno sopra le nuvole. Una volta siamo saliti su per i colli e c'erano queste nuvole basse: io sono scesa dalla macchina, proprio per guardare sopra le nuvole. Sono rimasta delusa perché, in realtà, sopra le nuvole non c'era nulla. Allora ho cominciato a chiedere a mia madre: «Ma questo regno dov'è?». Perché se non esiste questo regno sulle nuvole, da qualche parte deve essere, però non è visibile Ognuno ha il suo dio: ho girato tanto il mondo, andando in America, dove ci sono tremila religioni, in India, in Cina adesso: vedi sempre che dio è uno, raffigurato con mille facce. Quindi ognuno ha il suo regno. Poi alla fine esiste il bene, esiste il male, esiste la persona che ti fa ricordare di fare del bene. Per me il mio regno è mia figlia, è in assoluto la mia vita. Il momento in cui ho visto lei, quello è stato il momento dove ho capito che esiste la magia della vita, dove ho dato vita. È un regno che è mio, non l'ho vista subito. All'inizio l'ho sentita piangere, poi l'ho vista e ho detto: io respiro attraverso lei, adesso. Ed è la cosa vera: è il respiro mio, una mamma respira attraverso la figlia.

Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra - SIMONE MOROE TAMARA LUNGER (Tamara) Mentre sono scesa sono anche caduta: mi pensavo già morta. Quindi mi sono sentita molto di più vicina alla morte e questo, magari può sembrare molto brutto, per me era una cosa bella perché avevo questa fede: che se adesso devo morire è perché è previsto per me. Ho parlato con Dio e gli ho detto: «Non pensavo che dovesse essere ora, però sono consapevole che poteva essere. E mi do nelle tue mani». (Simone) Uno dei modi con cui cerco di essere padre è l'esempio. Cerco di essere d'esempio raccontando che il papà, se è diventato quel papà che la gente reputa famoso, è perché tutte le volte che c'è stato da rinunciare lo ha fatto forse un po' prima rispetto ad altri, lasciando anche aperta la possibilità che alcune rinunce che ho fatto potevo non farle perché in cima forse ci sarei potuto andare in tempo, prima della bufera. Ho cambiato un po' il mio modo di fare alpinismo da quando ho la responsabilità di essere padre: voglio insegnare loro che per un sogno si vive, non si muore. Vivere un sogno vuol dire mettersi in cammino: non voglio insegnare loro una vita solo lunga, ma anche intensa. Che vale la pena mettersi in cammino per sogni difficili, mettendo come punti cardini i valori, il rispetto della vita. Che è sacro».

Dacci oggi il nostro pane quotidiano - CARLO PETRINI Oggi viviamo una situazione schizofrenica: non si è mai parlato così tanto di cibo, anche in tv, e la situazione nelle nostre campagne è drammatica. È giunto il momento di concepire la cultura del cibo a 360 gradi, non solo negli spadellamenti. Dico di più: se ci concentriamo solo sugli spadellamenti, rischia di diventare pornografia alimentare. Dovremmo avere a cuore il benessere della terra, dei contadini, la socialità delle persone, il fatto che il diritto al cibo è un diritto di tutti, non solo di chi ha i soldi. Il diritto al buon cibo non può essere un diritto riservato a chi ha i soldi e gli altri devono mangiare prodotti scadenti. Cibo e sessualità sono le due forze che permettono la continuazione della specie. Io sono agnostico, ma se un domani dovessi credere in Dio è perché ha dato piacere a queste due attività. Mangiare e fare l'amore. C'è gente che gode a lavorare, ma questo è patologico: mentre invece in quelle altre due c'è un rapporto intimo. Il cibo è una cosa anche intima. Una parte della memoria che abbiamo è una memoria gusto-olfattiva: sarà capitato anche a te, in alcune occasioni, di sentire un gusto e tornare bambino. È la parte gusto-olfattiva. Quando il cibo è così dentro il nostro cervello, il pensiero significa che ha un ruolo fondamentale.

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo - FLAVIO INSINNA C'è veramente la vita nel Padre nostro. Insegnaci a pregare, a vivere tra le persone, con le persone, amando. È anche quel piccolo meraviglioso gioco di parole: "vivere con passione, compassione". Avendo compassione, vivendo lavorando con passione. "Ti tollero, poverino, vieni qui", no! Piuttosto è: "Portiamo questa benedetta croce assieme, la tua oggi, la mia". A parte la mia famiglia, non mi aspetto più il perdono da nessuno, se non da nostro Signore. Questo mondo si è incattivito. Alda Merini, poetessa straordinaria, dice: lo sai qual è - siamo nei peccati, ci sta la parola vendetta - la migliore vendetta? La felicità: non c'è niente come la tua felicità che faccia impazzire gli altri. Ho presentato "Affari tuoi": all'inizio venivano per un sogno, chi è venuto a giocare negli ultimi anni che l'ho presentato è venuto per un bisogno. Perché in questo paese, è brutto dirlo, non si lavora. Non c'è lavoro, e quindi la famiglia, tuo figlio, lo vuoi fare studiare all'estero. Il negozio che chiude, le tasse, i debiti, l'usuraio, cioè tante cose che non abbiamo raccontato perché non stiamo a fare la cosiddetta "televisione del dolore" Se è scappata una lacrima è scappata per la sincerità di quello che succedeva in teatro.

E non ci indurre in tentazione – UMBERTO GALIMBERTI Nel Padre Nostro si dice a Dio "non ci indurre in tentazione", quasi che Dio volesse metterci alla prova. Dev'essere un vizio di Dio: ha cominciato con Abramo. A lui - qui c'è la dimensione del sacro - Dio chiede di sacrificare suo figlio: vuole vedere se è in grado di farlo, come prova di fedeltà. Un Dio che obbliga un suo fedele a trasgredire una legge di natura e un comandamento, vuol dire che è oltre la natura, oltre la legge. È la dimensione sacrale. I cristiani non capiscono la differenza tra sacro e santo: santo è chi diventa perfetto dentro una religione, il sacro precede la religione. Quando insegnavo al liceo, e nei libri era scritto che l'Impero Romano era caduto per la corruzione dei costumi, dicevo ai miei studenti: «Non guardate queste sciocchezze, facciamo una storia economica, che capiamo di più». Oggi, invece, sono convinto che le civiltà crollano per la corruzione dei costumi. Quando, nell'impero, a Roma non lavorava nessuno, si mangiavano le derrate alimentari giunte dalle colonie, la gente passava il tempo negli stadio, nei postriboli. Cosa accadde? Hanno dovuto importare dei barbari per fare la canalizzazione, l'esercito. Tre secoli dopo l'imperatore era barbaro, Diocleziano. La corruzione dei costumi decide la fine della civiltà.

Ma liberaci dal male – PIF Quando mi sono trasferito a Milano mi dicevano: «Ma tu sei di Palermo, conoscerai qualche mafioso». Io, con senso di colpa, dicevo: «No, in realtà»". Ed effettivamente, ad un certo punto, mi sono chiesto: «Come ho fatto a crescere normalmente, come una persona normale, in una città dove c'era la guerra di mafia, quando Totò Riina decise di uccidere tutta la mafia palermitana?». Ci siamo riusciti perché vivevamo in un limbo, come se fosse un mondo parallelo, dove la mafia non ci riguardava. Noi non abbiamo mai negato l'esistenza della mafia: abbiamo negato la sua pericolosità. Non ci interessava "liberarci dal male": pensavamo che il male, se tu guardi dall'altra parte, non ti riguarda. Oggi è arrivata una fase in cui dobbiamo dire che la parte sana di questa città deve espellere la parte malata. La mafia esiste per il comportamento dei palermitani, non viceversa. Come un tumore che trova cellule malate: va avanti. Dipende da noi. Quando ti dicono a scuola: «Falcone è morto inutilmente»", e tu dici: «Che cosa gli rispondo?». La risposta è: dipende da noi, dalle nostre azioni. Noi decidiamo di cacciare il male. Noi: palermitani, siciliani. Possiamo avere stimoli e aiuti da fuori ma noi dobbiamo decidere di sconfiggerli.

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 21 ottobre 2017 Il linguaggio della verità di Diego Fares Consigli per discernere i discorsi ingannevoli

Ogni tanto capita di leggere articoli che attaccano la Chiesa e il Papa. Sì, la Chiesa e il Papa, perché si tratta di un attacco a entrambi, sebbene qualcuno affermi di attaccare il Papa per difendere la dottrina della Chiesa; come pure altri dicono di difendere il Papa mentre se la prendono con la Chiesa. Il linguaggio che essi usano non sembra complicato: i titoli su intrighi di potere, veleni tra alti prelati, lotte interne alla Curia, clamorosi errori pastorali o politici e minacce alla dottrina cattolica, sono chiarissimi e diretti. Ma un linguaggio semplicistico non è un linguaggio semplice, sebbene possa assomigliargli, proprio come la zizzania all’inizio assomiglia al grano buono. L’uomo della parabola lo discerne a colpo d’occhio: se c’è zizzania, è perché un nemico l’ha seminata (cfr. Matteo, 13, 28). Ma non si deve cercare di estirparla tutta prima del tempo, perché si corre il rischio di strappare insieme con essa anche il grano. Tuttavia è bene, quando le troppe erbacce soffocano il grano buono, tagliarne un po’ per dare respiro alle piante. Quando, in una discussione, i toni si alzano troppo e le parole cominciano a ferire, se si vuole continuare a dialogare, occorre abbassare i toni e «curare il linguaggio». Qualcuno giustifica un linguaggio scandaloso dicendo che sono i fatti di cui si parla a essere tali. Se bastasse questa giustificazione, dovrebbe accadere lo stesso quando il Papa afferma che c’è corruzione in Vaticano o quando condanna uno scandalo. Ma la verità non consiste soltanto nei «fatti» che chiunque può riferire in modo soggettivo, senza preoccuparsi di chi sta ascoltando o leggendo. Parafrasando alcuni commenti su questo genere di notizie, si potrebbe dire che un certo tipo di linguaggio attacca soprattutto lo «splendore della verità». Avere tutti maggiore cura del linguaggio che usiamo non è meno vitale dell’avere cura della qualità dell’aria del pianeta. E tale cura del linguaggio non riguarda soltanto i concetti e le immagini che scegliamo di utilizzare per intessere un discorso razionale: piuttosto ha a che fare con l’attenzione e il rispetto che hanno l’uno verso l’altro coloro che dialogano e cercano assieme la verità. Dato il livello di sofisticazione del linguaggio attuale, non è facile discernere con chiarezza quando si presenta un discorso ingannevole. Ce ne sono di vari generi. Su questo cammino di crescita nel discernimento del linguaggio ci facciamo aiutare da alcuni criteri indicati da san Pietro Favre, il gesuita compagno di Ignazio e di Francesco Saverio. Favre, a giudizio di Ignazio, era la persona che dava meglio gli Esercizi spirituali e aveva il carisma del discernimento e della conversazione spirituale: sapeva dialogare con tutti e aveva modi particolarmente rispettosi e convincenti nei confronti dei suoi avversari. Il primo criterio egli lo spiega così: «Durante la messa mi nacque un altro desiderio, che cioè tutto il bene che potrò compiere, l’abbia a fare con la mediazione dello Spirito buono e santo. E mi venne l’idea che a Dio non piaccia la maniera con cui gli eretici vogliono fare certe riforme nella Chiesa. Sebbene infatti dicano delle cose vere, ciò che capita anche ai demoni, non lo fanno con quello spirito di verità che è lo Spirito santo». Pietro Favre fa notare che non basta «dire cose vere», ma bisogna dirle con quello spirito di verità che è lo Spirito santo. Purché poi si voglia davvero che quelle cose aiutino a correggere concretamente un errore o un cattivo comportamento. Favre, in pratica, distingue tre «verità»: le cose vere (i fatti), lo spirito di verità (ossia la disposizione d’animo con cui si dicono «le cose vere»), e lo Spirito della verità come persona. Tra la verità dei fatti e lo Spirito della verità si colloca appunto lo spirito di verità o «spirito buono», il quale permette ai fatti della vita - anche al peccato - di connettersi con la grazia, che ordina tutto al bene. È utile possedere questo tipo di discernimento quando si tratta di giudicare se qualcosa è vero o falso. In un discorso va considerata e valutata la capacità che esso ha, nel suo insieme e in ciascuna parola, di essere usato per il bene dallo Spirito. E, d’altra parte, va soppesata la capacità che esso ha, nel suo insieme o in qualcuna delle sue parti, di bloccare l’azione dello spirito buono o di rafforzare quello cattivo. Quella che dunque potrebbe sembrare una piccola differenza - dire bene una cosa vera, oppure dirla con scherno, ira e disprezzo - in realtà è in grado di attivare grandi cambiamenti. Una verità detta con mitezza e rispetto è una mano tesa che crea ponti. Invece, una verità detta con asprezza e mancanza di rispetto è un ceffone che ostacola il dialogo e la comprensione reciproca. San Pietro Favre ci offre un secondo criterio per discernere il modo di parlare secondo lo Spirito della verità. Egli chiede al Signore di insegnargli a parlare bene - sotto l’influsso dello Spirito santo - delle cose di Dio, e si accorge di fare esperienza di un «meno». Sente che nel suo linguaggio c’è qualcosa che, se non sta attento, può togliere efficacia alla grazia che ha ricevuto, nel momento in cui egli comunica questa esperienza a un altro. Favre dice così: «[Domandavo al Signore che] mi insegnasse come parlare di cose già prima intuite, per me o per gli altri, sotto l’influsso dello spirito buono. Di continuo infatti io dico, scrivo e faccio una quantità di cose senza badare allo spirito nel quale prima le avevo sentite. Così mi capita, ad esempio, di esprimere alla familiare, con gaiezza e animo scherzoso, ciò che per l’innanzi avevo provato in uno spirito di compassione e d’intima lacerazione: chi ascolta ne ricava minor frutto perché la verità vi è detta secondo uno spirito meno buono di quello con cui era stata recepita». Favre attribuisce tutto questo al fatto di aver espresso la grazia ricevuta con uno spirito «meno» buono di quello con cui l’aveva ricevuta. E attribuisce questo minore grado di bontà a quello che potremmo chiamare un «cambiamento di tono»: ha espresso in modo scherzoso ciò che prima in lui aveva suscitato compassione. Si tratta di quei linguaggi in cui si nota un cambiamento di tono e di registro che «sminuisce» l’altro - lo squalifica, lo denigra - oppure si parla di cose importanti, persino sacre, in modo semplicistico o riduttivo. Sant’Ignazio esprime questo tipo di tentazione con una regola di discernimento che mostra come non sempre lo spirito cattivo cerchi il male maggiore: «Se nel caso dei pensieri suggeriti si va a finire in qualche cosa cattiva o futile o meno buona di quella che l’anima si era prima proposta di fare, o la infiacchisce o inquieta, o conturba l’anima, togliendo la sua pace, tranquillità e quiete che prima aveva, è chiaro segno che questo procede dal cattivo spirito». Inoltre, questo «male minore» a volte viene cercato volutamente da chi si accorge che, se mirasse a un male maggiore, non avrebbe successo. Tutto questo ritorna spesso nei discorsi che si fanno sul Papa e sulla Chiesa, ed è la maniera più facile per far sì che molta gente “se la beva” senza accorgersene. Un terzo criterio, tra quelli indicati da Favre e che può tornare utile in questa riflessione, è quello del «magis ignaziano». Sant’Ignazio è l’uomo del magis («di più»), della «maggior gloria di Dio». Ma non si tratta di un «di più» ideale, di una perfezione proposta in astratto, che poi bisognerebbe cercare di realizzare, bensì di un «di più» concreto, possibile, incarnato nella vita, che tiene conto dei tempi, dei luoghi e delle persone. In definitiva, è il passo avanti che il Padre gradisce e che lo Spirito santo ci invita a fare. Può trattarsi di un grande passo, come quello della conversione di san Paolo o quello del gesto di san Massimiliano Kolbe, che ha dato la propria vita per salvare un condannato a morte; oppure di un piccolo passo, come quello che fa un bambino per saltare una pozzanghera. Piccolo o grande che sia, questo passo è un «più nello Spirito». Afferma Favre: «In generale quanto più alto sarà lo scopo che tu avrai proposto all’attività, alla fede, alla speranza e all’amore di un uomo perché egli vi dedichi tutte le sue forze affettive e operative, tanto più sarà probabile gli si mettano in moto gli spiriti buoni e cattivi [...], cioè quello che dà forza e quello che debilita, quello che illumina e quello che annebbia e oscura, insomma il buono e l’altro che gli è opposto». In contrasto con la dimensione propria del linguaggio di Francesco, che esorta ciascuno - anche i suoi critici - a pensare al passo avanti da fare personalmente, esistono affermazioni che esortano a fare un passo avanti, ma finalizzato a individuare quale Papa precedente o quale enciclica o dogma di fede Francesco starebbe attaccando. Ecco il criterio per discernere quei linguaggi che seguono la logica dei farisei e dei dottori della legge, i quali, quando Gesù faceva un bene concreto - a esempio, guariva di sabato un uomo che aveva la mano paralizzata - lo accusavano di infrangere la legge. Il movimento di questi linguaggi è del tutto contrario a quello dell’incarnazione, in cui le parole e le azioni particolari non cercano di attaccare nessuno né di distruggere qualcosa, ma si propongono di trasmettere la grazia a una persona che si trova in un luogo e in un tempo determinato. Le affermazioni o insinuazioni sul fatto che Francesco attaccherebbe l’enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor non meriterebbero neppure di essere menzionate, se non fosse per il fatto che la gente semplice resta perplessa e scandalizzata quando cose simili vengono dette in maniera categorica e solenne. Il fatto che Francesco, nella sua esortazione apostolica Amoris laetitia, che raccoglie i risultati di due sinodi sulla famiglia, dica che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (Amoris laetitia, 3) è in perfetta consonanza con lo spirito della Veritatis splendor, in cui Giovanni Paolo II conclude «il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna» con questa esortazione: «Bisogna però che noi, Fratelli nell’Episcopato, non ci fermiamo solo ad ammonire i fedeli circa gli errori e i pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di tutto, mostrare l’affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso» (Veritatis splendor, 83). Francesco fa sua e amplia questa «esortazione apostolica» di san Giovanni Paolo II. Infatti, la verità non rifulge nelle definizioni, nemmeno in quelle della Veritatis splendor, ma nell’uomo vivo.

AVVENIRE di sabato 21 ottobre 2017 Pag 2 Dopo 25 anni la gran domanda sull’ “amore” che coopera assilla ancor di più il mondo di Salvatore Mazza

La domanda è di quelle semplici, apparentemente: «È troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia?». Già, è troppo? A porre l’interrogativo, come i nostri lettori (e non solo) sanno bene, è stato papa Francesco, nel discorso rivolto alla Fao lunedì scorso. Domanda semplice, ben più difficile la risposta. Ed è molto probabile che a qualcuno siano fischiate le orecchie, visto – come ha aggiunto lo stesso Francesco – che «in effetti, queste parole esprimono il contenuto pratico del termine “umanitario”, tanto in uso nell’attività internazionale». Perché quella domanda, in realtà, sono più di vent’anni che è stata posta. Almeno dal 23 novembre del 1995, quando, proprio parlando alla Fao nel cinquantenario della sua fondazione, papa Wojtyla auspicò la promozione di «un nuovo senso di cooperazione internazionale», passando da una semplice «assistenza alimentare, spesso sfruttata per esercitare pressioni politiche», a un’idea di «sicurezza alimentare che considera la disponibilità di cibo non soltanto in relazione alle necessità della popolazione di un Paese, ma anche in rapporto alla capacità produttiva delle aree circostanti». Tutto questo perché, come avrebbe ricordato Benedetto XVI nel messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2013, «prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il beato Giovanni Paolo II che “diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”». Per questo, insomma, e per non correre il rischio che «la fame venga ritenuta come strutturale... per combattere e vincere la fame – spiegò Benedetto XVI sempre parlando alla Fao nel 2009 – è essenziale cominciare a ridefinire i concetti e i princìpi sin qui applicati nelle relazioni internazionali, così da rispondere all’interrogativo: cosa può orientare l’attenzione e la successiva condotta degli Stati verso i bisogni degli ultimi? La risposta non va ricercata nel profilo operativo della cooperazione, ma nei princìpi che devono ispirarla: solo in nome della comune appartenenza alla famiglia umana universale si può richiedere a ogni Popolo e quindi a ogni Paese di essere solidale... per favorire una vera condivisione fondata sull’amore». Ed ecco che papa Bergoglio è tornato di nuovo a porre quella domanda. «È troppo pensare di... ?». Perché se il problema è «come fermare persone disposte a rischiare tutto, intere generazioni che possono scomparire perché mancano del pane quotidiano, o sono vittime di violenza o di mutamenti climatici», la risposta non sono «barriere fisiche, economiche, legislative, ideologiche»; a fermarle potrà essere «solo una coerente applicazione del principio di umanità. E invece diminuisce l’aiuto pubblico allo sviluppo e le Istituzioni multilaterali vengono limitate nella loro attività, mentre si ricorre ad accordi bilaterali che subordinano la cooperazione al rispetto di agende e di alleanze particolari o a una tranquillità momentanea». E no, allora, non sarebbe troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore. E a quasi 25 anni dalla prima formulazione di questa domanda, sarebbe ora davvero di rispondere, perché mai come oggi è chiaro che «la gestione della mobilità umana richiede un’azione intergovernativa... condotta secondo le norme internazionali esistenti e permeata da amore e intelligenza».

Pag 5 Diseguaglianze e sfruttamento non sono mai una fatalità Dal Papa il forte invito a “civilizzare il mercato”. L’attuale ordine sociale va trasformato dall’interno

Sono «l’aumento endemico e sistemico delle diseguaglianze e dello sfruttamento del pianeta» e «il lavoro non degno della persona umana», le cause che «alimentano l’esclusione e le periferie esistenziali». A indicarle è stato papa Francesco nel suo discorso rivolto ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ricevuti ieri mattina nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico con i partecipanti alla prima riunione congiunta con l’Oducal (Organizzazione delle Università Cattoliche dell’America Latina). Istituita da Giovanni Paolo II il 1° gennaio 1994 con la Lettera apostolica in forma di «motu proprio» Socialium scientiarum, la Pontificia Accademia ha l’obiettivo di promuovere lo studio e il progresso delle scienze sociali, economiche, politiche e giuridiche, offrendo alla Chiesa elementi da usare nello studio e nello sviluppo della sua dottrina sociale. L’Accademia, inoltre, ha anche il compito di riflettere sull’applicazione di quella dottrina nella società contemporanea. Del resto, ha sottolineato il Papa nel suo discorso, «la diseguaglianza e lo sfruttamento non sono una fatalità e neppure una costante storica. Non sono una fatalità perché dipendono, oltre che dai diversi comportamenti individuali, anche dalle regole economiche che una società decide di darsi». Il ruolo della società civile in questo frangente «è tirare in avanti lo Stato e il mercato affinché ripensino la loro ragion d’essere e il loro modo di operare», ha concluso il Pontefice.

Illustri signore e signori, saluto cordialmente i membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e le personalità che partecipano a queste giornate di studio, come pure le istituzioni che sostengono l’iniziativa. Essa attira l’attenzione su un’esigenza di grande attualità come è quella di elaborare nuovi modelli di cooperazione tra il mercato, lo Stato e la società civile, in rapporto alle sfide del nostro tempo. In questa occasione, vorrei soffermarmi brevemente su due cause specifiche che alimentano l’esclusione e le periferie esistenziali. La prima è l’aumento endemico e sistemico delle diseguaglianze e dello sfruttamento del pianeta, che è maggiore rispetto all’aumento del reddito e della ricchezza. Eppure, la diseguaglianza e lo sfruttamento non sono una fatalità e neppure una costante storica. Non sono una fatalità perché dipendono, oltre che dai diversi comportamenti individuali, anche dalle regole economiche che una società decide di darsi. Si pensi alla produzione dell’energia, al mercato del lavoro, al sistema bancario, al welfare, al sistema fiscale, al comparto scolastico. A seconda di come questi settori vengono progettati, si hanno conseguenze diverse sul modo in cui reddito e ricchezza si ripartiscono tra quanti hanno concorso a produrli. Se prevale come fine il profitto, la democrazia tende a diventare una plutocrazia in cui crescono le diseguaglianze e anche lo sfruttamento del pianeta. Ripeto: questo non è una necessità; si riscontrano periodi in cui, in taluni Paesi, le diseguaglianze diminuiscono e l’ambiente è meglio tutelato. L’altra causa di esclusione è il lavoro non degno della persona umana. Ieri, all’epoca della Rerum novarum (1891), si reclamava la «giusta mercede all’operaio». Oggi, oltre a questa sacrosanta esigenza, ci chiediamo anche perché non si è ancora riusciti a tradurre in pratica quanto è scritto nella Costituzione Gaudium et spes: «Occorre adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita» (n. 67) e – possiamo aggiungere con l’enciclica Laudato si’ – nel rispetto del creato, nostra casa comune. La creazione di nuovo lavoro ha bisogno, soprattutto in questo tempo, di persone aperte e intraprendenti, di relazioni fraterne, di ricerca e investimenti nello sviluppo di energia pulita per risolvere le sfide del cambiamento climatico. Ciò è oggi concretamente possibile. Occorre svincolarsi dalle pressioni delle lobbies pubbliche e private che difendono interessi settoriali; e occorre anche superare le forme di pigrizia spirituale. Bisogna che l’azione politica sia posta veramente al servizio della persona umana, del bene comune e del rispetto della natura. La sfida da raccogliere è allora quella di adoperarsi con coraggio per andare oltre il modello di ordine sociale oggi prevalente, trasformandolo dall’interno. Dobbiamo chiedere al mercato non solo di essere efficiente nella produzione di ricchezza e nell’assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale. Non possiamo sacrificare sull’altare dell’efficienza – il “vitello d’oro” dei nostri tempi – valori fondamentali come la democrazia, la giustizia, la libertà, la famiglia, il creato. In sostanza, dobbiamo mirare a “civilizzare il mercato”, nella prospettiva di un’etica amica dell’uomo e del suo ambiente. Discorso analogo concerne il ripensamento della figura e del ruolo dello Stato-nazione in un contesto nuovo quale è quello della globalizzazione, che ha profondamente modificato il precedente ordine internazionale. Lo Stato non può concepirsi come l’unico ed esclusivo titolare del bene comune non consentendo ai corpi intermedi della società civile di esprimere, in libertà, tutto il loro potenziale. Sarebbe questa una violazione del principio di sussidiarietà che, abbinato a quello di solidarietà, costituisce un pilastro portante della dottrina sociale della Chiesa. Qui la sfida è come raccordare i diritti individuali con il bene comune. In tal senso, il ruolo specifico della società civile è paragonabile a quello che Charles Péguy ha attribuito alla virtù della speranza: come una sorella minore sta in mezzo alle altre due virtù – fede e carità – tenendole per mano e tirandole in avanti. Così mi sembra sia la posizione della società civile: “tirare” in avanti lo Stato e il mercato affinché ripensino la loro ragion d’essere e il loro modo di operare. Cari amici, vi ringrazio per l’attenzione a queste riflessioni. Invoco la benedizione del Signore su di voi, sui vostri cari e sul vostro lavoro.

Francesco

Pag 22 Speranza, la grande bellezza di Angelo Scola

La bellezza è lo «splendore della verità» dicevano gli antichi. Un bel paesaggio, una compagnia significativa, una coltivazione della terra ben riuscita, l’esito del lavoro paziente e accurato di un artigiano, un’opera di architettura, di scultura, di pittura, di poesia, di musica, ma soprattutto il miracolo sempre sorprendente di una nascita, o la dolcezza dell’amore vero tra l’uomo e la donna, l’energia con cui si sta dentro una prova legata alla salute, alla morte… In tutte queste manifestazioni della vita brilla (splendore) la verità. La verità, infatti, non è anzitutto un discorso o un insieme di formule logicamente ben compaginate. Ha piuttosto a che fare con la meraviglia con cui la bellezza si impone allo sguardo, fino a raggiungere il cuore di ogni uomo. Come tutte le dimensioni profonde della nostra persona - penso al conoscere, all’amare, al credere… - anche lo sperare presenta due importanti caratteristiche. Anzitutto la speranza non possiamo darcela da noi e, in secondo luogo, non possiamo guadagnarla una volta per tutte. Cosa intendo dire? Un grande scrittore francese, Charles Péguy, ha dedicato un’affascinante opera poetica al tema della speranza. Dice il poeta: «Per sperare… bisogna essere molto felici, bisogna… aver ricevuto una grande grazia». C’è un antefatto della speranza ed è la gioia di aver ricevuto un dono, «uno stato di grazia». Péguy, infatti, la rappresenta come una virtù bambina. A essa si lega sempre un elemento di totale gratuità, come il gioco libero e imprevedibile di un bimbo. Per questo la 'piccola' speranza, per camminare, ha bisogno di essere tenuta per mano dalle sorelle maggiori, la fede e la carità. Anche se - a ben vedere - con i suoi scatti, i suoi salti, i suoi guizzi è lei che finisce per segnare la strada. Ma il percorso tracciato dalla virtù bambina è pieno di sorprese, non lo si può possedere in anticipo, domanda un impegno sempre rinnovato, una ginnastica del desiderio, per dirla con sant’Agostino. Lo capiscono bene il papà e la mamma di fronte alla bellezza della nascita di un figlio: non se lo danno da sé, lo ricevono da Dio («ho ricevuto un figlio grazie al Signore», Gn 4,1) ma, nello stesso tempo, ogni genitore sa che dovrà seguire il percorso imprevedibile di quel figlio (dono) lungo tutta l’esistenza, perché la bellezza originaria mantenga le promesse destate. Nei nostri progenitori l’impegno dell’uomo col suo futuro, col «per sempre» viene dissolto dalla rottura della relazione tra l’uomo e Dio. Emerge con forza la caducità umana ultimamente segnata dall’esperienza della morte. Questa si mette di traverso sulla linea della storia personale e sociale e sembra così vanificare ogni umano tentativo. Fragilità, contraddizioni, peccato - anticipi di morte - sembrano spegnere, col passare del tempo, il garrulo gioco della piccola speranza. Dove va a finire l’incoercibile anelito al «per sempre »? Non subentra piuttosto, nella nostra vita, uno smarrimento che immalinconisce e può condurre fino alla di-sperazione? In ogni caso, la prospettiva che dovremo morire non riduce forse bellezza, speranza, felicità a qualche eccezionale 'bel giorno' nel cielo brumoso della nostra esistenza quotidiana? Come usiamo la nostra libertà di fronte al «rumore di fondo» della morte (Michel Houellebecq)? Ma, in un puntuale momento della storia, irrompe l’annuncio degli angeli agli amici di un uomo morto sfigurato sulla croce: «È risorto, non è qui... vi precede in Galilea. Là lo vedrete» (cfr Mc 16,6-7). Gesù Cristo compie fino in fondo l’esperienza della morte, ma la sua morte possiede un carattere del tutto singolare. Non è come la nostra comune morte, perché è la morte di Uno che poteva non morire e che, in forza di questo, «ingoia la morte dal di sotto», come dice San Paolo (cfr 1Cor 15,54). Gesù Cristo risorge. Con Lui risorge, definitivamente, la speranza. Le riflessioni fatte fin qui non ci portano a disprezzare le speranze terrene che, sul piano culturale, tecnico, scientifico, e forse anche sul piano morale, gli uomini possono attuare. A patto che esse non nascondano la loro natura secondaria, cioè la necessità di tendere, direttamente o indirettamente, alla forma radicale e vittoriosa della speranza cristica. Alla morte è strappato il suo pungiglione velenoso. In essa siamo chiamati a rispondere con l’atteggiamento più potente della nostra libertà: l’abban-dono al Padre che ci crea. La storia della Chiesa ci ha insegnato una strada sicura per fare questa sbalorditiva esperienza: la gratuità di una carità che alla fine legittima la fede. Quanti santi, non solo canonizzati, ma anche sconosciuti, quante madri, quanti padri, quanti uomini di buona volontà non hanno rinunciato a impegnarsi con l’altro anche quando questa scelta, umanamente parlando, sembra non giovare a nulla. Nell’accompagnamento dei moribondi, dei vecchi, degli incurabili, degli scartati, nella condivisione della sofferenza, la società dei peccatori si trasforma. Qui si intravedono i primi bagliori della bella speranza che apre alla risurrezione nel nostro vero corpo. La vita vince!

CORRIERE DELLA SERA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 23 Il cardinale Muller e gli amici del Papa: “Metodi scorretti” di Elena Tebano Stresa, le critiche dell’ex prefetto della Fede

Stresa «Quello che trovo molto buono di questo pontificato, la sua grande opportunità, è l’accento sulla giustizia sociale, sul peso delle differenze tra Paesi ricchi e Paesi poveri, l’interesse per i migranti, per la pace internazionale. Ma dobbiamo anche parlare della missione originaria del successore di Pietro: occuparsi della dottrina, della verità cattolica». Il Cardinale Gerhard Ludwig Müller parla sul palco del convegno della Fondazione Iniziativa Subalpina a Stresa, sul Lago Maggiore, intervistato dall’editorialista del Corriere della Sera Massimo Franco. A luglio il Papa non lo ha riconfermato prefetto per la Dottrina della fede, preferendogli l’arcivescovo spagnolo Luis Francisco Ladaria, e Müller che allora si era detto «sorpreso» dalla decisione, ora guarda al pontificato di Francesco da un posizione che è - puntualizza Massimo Franco - «sia interna che esterna». In Vaticano l’opinione diffusa è che il porporato tedesco sia stato allontanato per le divergenze con il Papa. A Stresa Müller premette che Francesco «viene dall’America Latina, una zona con una mentalità molto diversa dalla nostra europea». E spiega con una metafora che «per il magistero è importante la collaborazione con la teologia scientifica» perché «se tutte le macchine sono uguali, la loro qualità dipende dalla tecnica interna» mentre «alcuni documenti avrebbero bisogno di una maggiore preparazione: questo avrebbe potuto evitare interpretazioni divergenti del capitolo ottavo dell’Amoris Letitiae». Cioè la parte dell’esortazione scritta dal Papa dopo i due sinodi della famiglia in cui si discute la cura pastorale per i divorziati risposati. Quando Franco chiede a Müller un giudizio teologico sull’arcivescovo Víctor Manuel Fernández, rettore dell’Università cattolica di Buenos Aires, che avrebbe redatto parti dell’esortazione, il cardinale concede che «il Papa può scegliere i collaboratori e gli amici che vuole» ma di non essere «molto convinto» della sua competenza, visto anche che in un’intervista al Corriere ha affermato «che si può trasferire la Chiesa di Roma e il papato in un’altra città: ma questo è contrario alla nostra fede cattolica». È alle persone che circondano e consigliano il Papa che il cardinale riserva le parole più dure, quando parla di coloro che informano Francesco delle attività delle Congregazioni aggirando i prefetti che ne hanno la responsabilità: «Questo è successo nella mia congregazione», conferma. «Devo dire pubblicamente che non va bene», aggiunge. E si scaglia contro «le accuse anonime senza contenuto» fatte sia ai suoi collaboratori che a lui. In un’intervista rilasciata a fine settembre al National Catholic Register , Müller aveva riferito che - per ammissione dello stesso Pontefice - alcuni «amici» del Papa ritengono che il cardinale tedesco sia un suo «nemico»: «Queste persone non hanno avuto il coraggio di presentarsi con il loro nome davanti a me, non sono capaci di rispondere con argomenti teologici e lavorano con questi mezzi sporchi». L’invito finale però è all’unità: «In questo mondo complicato, la collaborazione con i massimi esperti teologici della Chiesa è necessaria per l’elaborazione del magistero».

IL FOGLIO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 2 Pro o contro il Papa, la chiesa di Francesco in mezzo alla guerra delle petizioni di Matteo Matzuzzi Il card. Müller: “Le accuse contro di me? Metodi sporchi”

Roma. La petizione contro Amoris laetitia si chiama Correctio filialis, maestoso nome latino che già dà l'idea del contenuto teologico della questione. Di mezzo, infatti, ci sono "eresie propagate", con il Papa tirato in ballo se non altro perché quel documento ha in calce la sua firma. La petizione a favore del Pontefice è più pop, più moderna: Pro Pope Francis, si intitola. Qui non è che si vada a cavillare sulle esortazioni post sinodali, su comunioni da dare o no ai divorziati risposati, su peccatori da accogliere o da respingere, ma si esprime un generico quanto sincero e accorato appoggio a Bergoglio per la sua missione pastorale a capo della chiesa. Per la verità, tra i contra ci sarebbe anche una vecchia "supplica", che non ha mai ricevuto risposta da Francesco. E' la guerra delle petizioni, la chiesa sballottata dalle onde impetuose tra fazioni opposte che fanno a gara a chi aggiunge una firma in più rispetto all'altra. Posizioni inconciliabili su temi decisivi sui quali - in teoria - dovrebbe esserci unità di vedute quantomeno tra i pastori. Una lotta che vede il Papa in mezzo, tra i suoi strenui difensori e i suoi antagonisti. Non è solo questione di blogger, di giornalisti interessati e tifosi, di nostalgici di Gregorio XVI o seguaci di Leonardo Boff di eminenti cattedratici attivi o a riposo. Tra i battaglioni schierati ci sono anche pie suore, preti devo ti, religiosi oranti. Una linea di faglia che non è più neanche sotterranea, ma che è emersa quasi del tutto. Qualcuno, biblicamente parlando, la definirebbe l'Apocalisse. Più modestamente, si tratta di un confronto a muso duro per capire dove sta andando la chiesa. Una situazione che non si vedeva da tempo, senza per forza di cose tornare indietro di secoli, ai primi concili dove i padri litigavano e s'azzuffavano discettando di sacramenti e di alta teologia. Una realtà che diversi osservatori di questioni ecclesiastiche per la verità avevano già annunciato più d' un decennio fa, sostenendo che alla morte di Giovanni Paolo II si sarebbe aperto come un vaso di Pandora a lungo tenuto sigillato, con le diverse spinte tenute bene a bada da Wojtyla che sarebbero riemerse. L'elezione di Benedetto XVI ha solo rimandato la resa dei conti. E non è un caso che oggi l'episcopato più esposto nel resistere alle novità portate da Amoris laetitia è quello polacco, che ancora pochi giorni fa ha dato una lettura assai restrittiva del documento. Ieri, poi, a fornire un ulteriore quadro della spaccatura ci ha pensato il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito della congregazione per la Dottrina della fede. Intervenuto a Stresa al convegno "Leader o follower?" promosso dalla Fondazione Iniziativa Subalpina, il cardinale tedesco ha mostrato riserve sull'operato dell'arcivescovo argentino Victor Manuel Fernández, stretto collaboratore del Papa e considerato tra gli autori materiali di Amoris laetitia: "Non va bene far collaborare solo amici personali in queste cose. Ognuno può scegliere il metodo che preferisce per il proprio lavoro, ma poi c'è l'istituzione della chiesa di Roma. Con i suoi organismi. Fernández mi ha attaccato sui giornali, ma lui ha teorizzato addirittura il trasferimento della Santa Sede a Bogotà. Queste sono idee che vanno contro la fede cattolica". Quanto alle accuse di essere nemico del Papa, Müller ha detto: "Si tratta di persone che non hanno avuto neanche il coraggio di venire a dirmi le cose in faccia. Sono metodi sporchi, da calunniatori".

Pag V Il Dio del male di Matteo Matzuzzi Negando il soprannaturale, non si riconosce più l’Anticristo. Una presenza più che mai attuale

"La menzogna non è mai tanto falsa come quando si avvicina molto alla verità. E' quando la pugnalata sfiora il nervo delle verità che la coscienza cristiana urla di dolore" (G. K. Chesterton, "San Tommaso d'Aquino") Avolte, scriveva John Henry Newman, "il nemico si trasforma in amico, a volte viene spogliato della sua virulenza e aggressività, a volte cade a pezzi da solo, a volte infierisce quanto basta, a nostro vantaggio, poi scompare". Parlare di Anticristo potrebbe richiamare l'idea di qualcosa di vecchio, d'antico, di ineluttabilmente superato dalla storia che avanza. Poi, scorrendo il Catechismo, si legge che "prima della venuta di Cristo, la chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il mistero di iniquità sotto la forma di un' impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell'apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell' Anti- Cristo, cioè di uno pseudo messianismo in cui l' uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne". Non si dice se sia reale, se sia una presenza fisica o una rappresentazione ideale del male, del mistero d'iniquità, appunto. Ma è un mistero più che mai vivo. Da poco l'editore XY.IT ha mandato in stampa L'Anticristo, un saggio scritto cinquant'anni fa in tedesco da Reinhard Raffalt, giornalista, storico, musicologo. Erano gli anni della contestazione, della crisi della chiesa davanti alla modernità, del Papa Paolo VI che - oltraggiato dai suoi stessi vescovi dopo la promulgazione dell' enciclica Humanae vitae - parlava di "fumo di Satana entrato da qualche fessura nel tempio di Dio". Chi è l'Anticristo? "L'uomo ultimo, perfettissimo, capace di fare tutto correttamente nell'ambito dei limiti ben visibili dell'esperienza e della ragione umana", risponde Raffalt. "Non si tratta dunque in alcun modo di un diavolo. Al contrario: l' Anticristo realizza alla lettera l'esortazione evangelica. Amerai il tuo prossimo come te stesso. E tuttavia nega contemporaneamente il presupposto dell' amore del prossimo che nel Vangelo appare nella proposizione che precede l'appena citata: Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". Una persona reale, dunque. E allora torna alla mente il monologo del Grande Inquisitore di Dostoëvskij nei Fratelli Karamazov: "Tu avevi ragione. Il segreto dell' esistenza umana infatti non sta soltanto nel vivere, ma in ciò per cui si vive. Senza un concetto sicuro del fine per cui si deve vivere, l'uomo non acconsentirà a vivere e si sopprimerà piuttosto che restare sulla terra, anche se intorno a lui non ci fossero che pani", dice a Gesù tornato sulla terra il Grande Inquisitore. E' calata la notte nello squallore della cella in cui il Messia era stato rinchiuso prima che la gente potesse riconoscerlo. Il vecchio ministro della chiesa, il capo della Santa Inquisizione, però ha subito capito che quello era davvero il figlio di Dio, a Siviglia, in pieno Sedicesimo secolo. Gli si avvicina, lo squadra per bene e lo accusa di essere tornato tra gli uomini a rovinare i suoi piani volti a creare un'armonica convivenza tra tutti i popoli. "Questo è giusto", aggiunge: "Ma che cosa è avvenuto? Invece di impadronirti della libertà degli uomini, tu l'hai ancora accresciuta. Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all'uomo più cara della libera scelta fra il bene e il male? Nulla - sentenzia l'Inquisitore - è per l'uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso. Ed ecco che, in luogo di saldi princìpi, per acquietare la coscienza umana una volta per sempre, tu hai scelto tutto quello che c'è di più inconsueto, enigmatico e impreciso, hai scelto tutto quello che superava le forze degli uomini, e hai perciò agito come se tu non li amassi per nulla. E chi ha mai fatto questo? Colui che era venuto a dare per essi la sua vita". L'ideale evangelico è improponibile per lo sciagurato peccatore mondano, dice l'Inquisitore. "E se migliaia e decine di migliaia di esseri ti seguiranno in nome del pane celeste, che sarà dei milioni e dei miliardi di esseri che non avranno la forza di posporre il pane terreno a quello celeste?". Eccola la tentazione, il rimprovero di Satana nel deserto, "Se tu sei Figlio di Dio, di' a questa pietra che diventi pane": dimostra la tua potenza con le cose di quaggiù, in modo che tutti possano onorarti e osannarti come loro re. E' un monologo quello dell' Inquisitore, l'Anticristo che si proponeva di correggere Cristo, che illustra il piano per edificare un regno di questo mondo ove tutti potessero essere felici, senza l'illusione portata da quel falegname di Nazaret morto in croce. Gesù lo ascolta, non dice nulla. Si permetterà solo un gesto, alla fine: un bacio, come quello che lui, secoli e secoli prima aveva ricevuto da Giuda. Com'è distante questo vegliardo dall'idea teorizzata da Origene, secondo cui l'Anticristo non aveva alcun tratto reale, bensì era poco di più che un simbolo di tutto ciò che nega la verità. No, l'Anticristo dostoevskijano è un uomo vivo, un essere razionale. Il male travestito da bene. Il superuomo richiamato anche da Nietzsche, l'onnisciente e onnipotente "uomo del futuro narrato" da Solov' ev: "Il Cristo è stato il riformatore dell'umanità, predicando e manifestando il bene morale nella sua vita, io invece sono chiamato ad essere il benefattore di questa umanità, in parte emendata e in parte incorreggibile. Darò a tutti gli uomini ciò che è loro necessario". Ecco il richiamo all'Inquisitore, il propiziatore della felicità terrena, che distribuisce pane vero che si può vedere e toccare, altro che il pane celeste. L'Anticristo è sempre uguale, si presenta bene: "Il nuovo padrone della terra era anzitutto un filantropo, pieno di compassione e non solo amico degli uomini, ma anche amico degli animali. Personalmente era vegetariano, proibì la vivisezione e sottopose i mattatoi a una severa sorveglianza; le società protettrici degli animali furono da lui incoraggiate in tutti i modi. La più importante di queste sue opere fu la solida instaurazione in tutta l'umanità dell'uguaglianza che risulta essere la più essenziale: l'uguaglianza della sazietà generale", scrive Solov'ev. Offre tutto a tutti: "Po poli della terra! Vi do la mia pace! Popoli della terra! Si sono compiute le promesse! L'eterna pace universale è assicurata! Ogni tentativo di turbarla incontrerà immediatamente una insuperabile resistenza. Giacché d'ora in poi c'è sulla terra una potenza centrale più forte di tutte le altre potenze, sia prese separatamente che prese insieme". Convoca un concilio a Gerusalemme per l'unione di tutti i culti, ripete le promesse, assicura che nulla potrà più turbare l'armonia decisa da lui, il superuomo. Chiede a vescovi e padri, teologi e laici illuminati di salire sul palco con lui. In cambio d'ogni concessione chiede una cosa soltanto, "che dall' intimo del cuore riconosciate in me il vostro unico difensore e unico protettore". La folla si sposta, sale, urla di gioia pronta a riverire l'imperatore. Pochi restano giù, il superuomo li guarda, tentenna e dice: "Strani uomini! Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento popolare. Che cosa avete di più caro nel cristianesimo?". La risposta che dà lo starets Giovanni gli fa perdere ogni ritegno, cade l'abito bello con cui aveva nascosto la sua vera natura: "Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da lui, giacché noi sappiamo che in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità". E' una risposta che sconcerta l'imperatore: Cristo stesso è ciò di cui l'uomo ha più caro. Non il pane bianco o i dogmi. Neppure i valori. No, solo Cristo. Cioè l'unica cosa che lui, l'Anticristo, non poteva dare. Una risposta che gli fa capire quanto la sua potenza mondana non sia nulla da vanti all'infinito. I suoi regni, i suoi troni, le sue marce trionfali "dell'umanità unita" non valgono niente, sono polvere, proprio come le città che Satana nel deserto aveva mostrato a Gesù. Miraggi vani. Ora si comprende quel silenzio opposto da Cristo al lungo monologo dell'Inquisitore, interrotto solo da un bacio finale. Sono piani diversi, l'Anticristo - pur dandosi da fare - anche con la sua "ar dente dedizione al bene comune", non può fare nulla dinanzi a Cristo perché è quest' ultimo, come scriveva san Paolo, "la consistenza di tutte le cose. Tutto consiste in lui". Senza di lui, nessuna opera bella o insieme di regole dotte e meditate può avere senso. Il mondo ideale dell' imperato re è lo stesso del Grande inquisitore di Dostoevskij ed è lo stesso del Padrone del mondo profeticamente narrato da Robert Hugh Benson all'inizio del Novecento. Un mondo in cui a Cristo si sostituisce un generico umanitarismo, dove la differenza tra le religioni è annullata, dove la tolleranza universale diviene il mantra predicato ovunque. Julian Felsenburgh è l'Anticristo di Benson, che vedrà proprio nella chiesa cattolica l'ultimo argine alla vittoria di questo filantropo, che come in Solov'ev ha i tratti del carismatico uomo politico cultore della pace mondiale. Una chiesa che però viene annientata, vinta dalle idee del progresso che Benson descrive già con incredibile lucidità: dall'eutanasia legalizzata alla crisi del sacerdozio, fino al punto da immaginare le due "strade simili a circuiti di gara, ognuna larga almeno quattrocento metri, immerse sei metri sottoterra". "Il mondo e le opere dell'uomo trionfavano a vista d'occhio"; un mondo in cui l'uomo sente di aver raggiunto l'agognata perfezione e per questo può fare a meno di Dio. Vivendo proprio "come se Dio non esistesse", scriveva al principio del millennio Giovanni Paolo II, la cui fotografia della realtà sembra una pagina tratta dal Padrone del mondo: "Alla radice dello smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un'antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l'uomo come il centro assoluto della realtà, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l'uomo che fa Dio ma Dio che fa l'uomo. L'aver dimenticato Dio ha portato ad abbandonare l'uomo, per cui non c'è da stupirsi se in questo contesto si è aperto un vastissimo spazio per il libero sviluppo del nichilismo in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico e morale, del pragmatismo e finanche dell'edonismo cinico nella configurazione della vita quotidiana". Karol Wojtyla la chiamava "apostasia silenziosa", quasi fosse un'assuefazione, lenta ma progressiva e destinata a emergere con tutta la sua forza. Benson descrive questo mondo, con tutti, dai ministri ai preti che si innamorano di Felsenburgh, che in lui ripongono false speranze. La fede è ormai già persa, non se ne discute neppure. Quel che è più grave è che s'è smarrita la capacità di riconoscere l'Anticristo perché si è scelto di negare il soprannaturale. Si prenda Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, ambientato nell'ateismo di stato sovietico. All' inizio del romanzo, su una panchina presso gli stagni Patriarsie, due letterati, Berlioz e Bezdomnyj discutono di Gesù Cristo. "Bezdomnyj aveva tratteggiato il personaggio principale del suo poema, cioè Gesù, a tinte molto fosche, eppure tutto il poema, secondo il direttore, andava rifatto di sana pianta", scrive Bulgakov: "Il suo era un Gesù del tutto vivo, un Gesù che un tempo aveva avuto una sua esistenza anche se, a dire il vero, era un Gesù fornito di tutta una serie di attributi negativi. Berlioz invece voleva dimostrare al poeta che la cosa principale non era chi fosse Gesù, se fosse buono o cattivo, ma che questo Gesù storicamente non era mai esistito sulla terra e che tutti i racconti che si facevano su di lui erano semplici invenzioni, che si trattava di un normalissimo mito". Sarà il diavolo in persona, sotto le mentite spoglie d'un cortese gentiluomo straniero poliglotta, a smentirli: "Tengano presente che Gesù è esistito". Il mondo ateo che nega Cristo e che per questo perseguita la chiesa ricorre un po' ovunque nella letteratura moderna sull' Anticristo. Scorrendo le pagine di Solov'ev e di Benson sorge quasi spontanea la domanda su cosa si debba fare, nella disperazione ovvia e naturale che si prova dinanzi all'edificio che crolla. In cosa sperare, quali riferimenti fissare mentre l'apostasia e l'assuefazione diventano ordinarie. Scriveva Newman nel Bi glietto Speech che lesse appena ricevuta la notizia della sua creazione cardinalizia, nel 1879, che "la chiesa non deve fare altro che continuare a fare ciò che deve fare, nella fiducia e nella pace, stare tranquilla e attendere la salvezza da Dio".

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 28 Le vite all’estero dei pensionati. Il piano per attrarre gli stranieri di Dario Di Vico

Una volta erano considerati l’elemento statico della società, una palla al piede. Nell’economia moderna fatta di flussi e rapidi spostamenti anche i pensionati hanno imparato a dotarsi di vite mobili. Si trasferiscono dall’Italia in altri Paesi europei a caccia di sole e di un fisco più generoso, si spostano nelle regioni italiane dove il clima è più mite, hanno rivitalizzato il business delle crociere che una volta veniva dato per maturo, hanno cominciato a fare i conti con la tecnologia digitale e più in generale hanno messo in moto quella che gli addetti ai lavori chiamano silver economy. I pensionati italiani sono un aggregato di tutto rispetto - più di 16 milioni di persone - che in un Paese da 60 milioni di abitanti hanno un peso oggettivo al quale va aggiunto quello soggettivo rappresentato dalla capacità di condizionare partiti e sindacati. Ergo interessarsi delle loro nuove vite mobili è quasi un obbligo anche per gli economisti. Gli assegni diversi - Come ha messo in rilievo il Censis nel suo ultimo Rapporto i pensionati «sono un universo ampio ed eterogeneo», tra loro esistono diversi «popoli» e la linea di demarcazione più facile da tirare riguarda l’entità degli assegni che ricevono, «mediamente migliori come effetto di carriere contributive più lunghe e continuative nel tempo e dell’occupazione in settori e con inquadramenti professionali migliori». Secondo i dati elaborati su base Istat comunque il 25,7% incassa mensilmente un vitalizio inferiore ai 500 euro, circa il 40% gode di un importo tra i 500 e i mille euro, il 23,5% si colloca nella forchetta tra i mille e i 2 mila euro e solo il 3,2% supera i 3 mila euro. È questo il contesto dal quale è nato un fenomeno che potremmo chiamare di emigrazione previdenziale. I Paesi che la stanno sfruttando con una certa abilità sono soprattutto la Spagna e il Portogallo. Si racconta che passeggiando per le vie di Tenerife, nell’isola delle Canarie, si sente parlare italiano con una certa frequenza. Il vantaggio fiscale è in media del 5%, ma cambia a seconda delle differenti aliquote e concorre ad attrarre i pensionati italiani (nel solo ‘17 già 217) perché si somma con un basso costo della vita. Un affitto costa 400 euro e con 10 euro si mangia in un ristorante. Dopo due o tre anni gli export-pensionati comprano anche casa: 70 mila euro per una villetta sul mare. A muoversi verso le Canarie - temperatura costante tra i 20 e i 27 gradi - sono per lo più gli over 65 delle grandi città, Roma e Milano. Un piccolo boom poi lo sta conoscendo il Portogallo che pratica una politica aggressiva di attrattività che ha già convinto nel solo 2017 circa 300 nostri connazionali. Nei primi dieci anni di nuova residenza la pensione è tax free e ovviamente ciò attira anche polacchi, tedeschi e inglesi. Per maturare la prima residenza sono necessari sei mesi di uno stesso anno e gli italiani vanno a stare in prevalenza a Lisbona. Racconta Grazia Pracileo, responsabile relazioni esterne della piattaforma Madre in Italia che fornisce consulenza all’emigrazione previdenziale: «Chi si trasferisce in Portogallo è attento sì al costo della vita e al regime fiscale ma anche alla qualità dei servizi ospedalieri, perciò rimane nella Capitale. E ormai si è formata un’ampia comunità italiana». Sempre Pracileo racconta come «siamo bombardati di richieste di informazioni, una volta si trasferivano i pensionati con mille euro, oggi anche chi ne prende 2.500 e c’è una specie di passaparola tra i vicini di casa». C’è chi vive questo particolare tipo di emigrazione come un’avventura e chi come un inevitabile lutto, ma tutti sono accomunati dal considerarsi vittime di un’ingiustizia fiscale. Vengono segnalati flussi di pensionati italiani anche in direzione della Tunisia e di Sofia in Bulgaria. «In questo caso sono persone che in virtù delle loro competenze pensano di poter avere una seconda stagione lavorativa come consulenti delle piccola industria». Per Ivan Pedretti segretario generale dello Spi-Cgil - tre milioni di iscritti - il fenomeno è frutto di una politica poco attenta all’invecchiamento strutturale della popolazione. «Ad andare via sono per lo più ex insegnanti - dice -. I numeri stanno crescendo e noi sosteniamo che qualcosa debba essere fatto a livello fiscale, ad esempio introducendo parità di tassazione tra lavoro dipendente e pensionati che oggi non possono usufruire delle detrazioni». Secondo una tabella elaborata dallo Spi-Cgil la differenza tocca anche i 267 euro annui per una pensione di 1.150 euro ma cala anche quando le pensioni salgono. «È comunque una sovrattassa» sentenzia Pedretti. La risposta italiana - La concorrenza di Spagna e Portogallo non sembra allarmare il presidente dell’Inps, Tito Boeri, vuoi per i numeri che giudica ancora bassi vuoi perché considera tutto ciò nell’ordine delle cose nell’Europa unita. Altro è quando gli emigrati dall’Italia che non torneranno più in patria continuano a ricevere prestazioni assistenziali - e non previdenziali - come la 14a mensilità e gli assegni sociali. «È un conto da oltre 35 milioni», salito del 131% nel 2016 dopo che la nostra legge di Bilancio ha ampliato platea e importo di queste prestazioni di welfare. In omaggio alla libera concorrenza intra-Ue Boeri però coltiva un’altra idea: un piano che vedrà la luce nel 2018 per attrarre a nostra volta pensionati dei Paesi Nordici, dall’Olanda alla Scandinavia. «Penso a qualcosa da costruire con i nostri Comuni delle zone interne. Creare delle senior house con una buona copertura di servizi medici per accogliere i nuovi arrivati». Ma non ci sarà bisogno anche di incentivi fiscali? «Si può vedere, magari validi solo per tre anni. Se ci organizziamo possiamo essere competitivi». La mobilità territoriale post-pensione ha nobili precedenti. Max Weber già parlava di Wiesbaden, a 40 km. da Francoforte, come una Pensionopoli dei borghesi tedeschi di allora riprendendo un neologismo coniato da un altro sociologo teutonico Werner Sombart. Wiesbaden aveva 26 mila abitanti nel 1866, crebbe fino a 100 mila nel 1905. Anche da noi i pensionati milanesi e piemontesi si trasferiscono in Liguria da tempo non per cercare vantaggi fiscali quanto per usufruire del microclima marittimo. Un flusso costante che può essere ricavato da queste cifre: in Liguria secondo i dati Istat riferiti al 2015 si sono trasferiti circa 4 mila nuovi residenti da 66 anni in su. Stiamo parlando della regione che già di suo è la più anziana d’Italia per via di una pesante crisi demografica dovuta al mutamento dell’economia territoriale, alla crisi della grande industria e quindi a un esodo di competenze e professionalità. Gli over 65 sono il 28,4% contro il 22,3% medio dell’Italia, l’indice di vecchiaia è 249,8 contro 165,3. Racconta Paolo Borzatta, senior partner di The european house-Ambrosetti che in collaborazione con il governatore Giovanni Toti ha lavorato a un piano strategico per la Liguria 2020: «In passato la regione ha attratto pensionati sia per il clima sia per il costo della vita più basso ma si può fare meglio, sviluppando una vera offerta di attrazione. Lo slogan della Florida d’Italia non mi piace, non vogliamo che Bordighera e Pietra Ligure diventino dei posti per soli anziani, coltiviamo un’idea più articolata che non tagli fuori le generazioni più giovani». Lo slogan è «dal mare alla vita» e può essere l’occasione per sviluppare una serie di servizi aggiuntivi, non solo ospedalieri. Una strategia innovativa che si può facilmente sposare con le idee di Boeri e mitigare i rischi di spopolamento della Liguria. Un invito a dotarsi di una politica capace di sfruttare le potenzialità legate alla mobilità dei «nuovi» anziani viene anche da Maurizio Ferrera, fondatore del sito Secondowelfare. «Negli Usa le grandi catene di servizi di grande distribuzione o farmaci seguono addirittura la trasmigrazione dei pensionati spostando personale per rafforzare le filiali della Sun Belt, la cintura del sole degli stati meridionali». In viaggio via mare - Nella partita delle vite mobili dei nuovi anziani spicca anche il capitolo crociere. Almeno un quarto dei viaggiatori sono over 65, le società di navigazione se li contendono con sconti e tariffe abbordabili ed è un pezzo della silver economy. Secondo Alessandra Lanza, della società di consulenza Prometeia, stanno cambiando con grande velocità abitudini e comportamenti di spesa degli over 65. Il loro è un invecchiamento attivo: partecipano alla vita sociale, cresce il volontariato ma non solo. «Una novità è sicuramente data dal rapporto con la tecnologia, dallo smartphone si è passati all’iPad e come conseguenza di è rafforzata l’attenzione ai viaggi, al turismo del benessere e alla ripresa dei contatti tra persone lontane ai quali fa quasi sempre seguito un incontro vis-à-vis». Lanza ne parla come della «prima generazione di pensionati che si digitalizza»: l’uso di Internet tra i 65-74 anni è salito dal 12% del 2010 al 29% del 2016 grazie alla lettura quotidiani e all’uso regolare della posta elettronica. La novità è stata captata anche dallo Spi-Cgil: secondo Pedretti infatti lo sviluppo di servizi tecnologici per gli anziani, dai robotini che ne facilitano alcune funzioni fino alla domotica per essere più sicuri in casa, aiuta lo sviluppo di un’offerta tecnologica made in Italy. A Milano il sindacato ha persino presentato agli iscritti una stampante 3D per mostrare come la tecnologia possa venire incontro al welfare, un esempio su tutti la realizzazione di protesi ortopediche.

IL GAZZETTINO di domenica 22 ottobre 2017 Pag 12 Occupati italiani i più “vecchi” della Ue: 2 su 3 sopra i 40 anni

Mestre. L'Italia ha la popolazione occupata tra le più vecchie d'Europa con appena l'11,9% dei lavoratori che ha meno di 30 anni e poco più di un terzo del totale che non ha ancora festeggiato i 40: è quanto emerge dalle tabelle Eurostat riferite al secondo trimestre 2017, secondo le quali negli ultimi 10 anni le persone al lavoro con meno di 40 anni sono diminuite di quasi tre milioni di unità, passando da 10,79 milioni (quando erano il 46,7% del totale degli occupati) a 7,97. In Europa la percentuale degli under 40 al lavoro sul totale degli occupati è del 42,2%. La Cgia di Mestre ha elaborato i dati sull'occupazione in Europa spiegando che i lavoratori italiani hanno in media 44 anni, contro i 42 medi in Ue con una crescita di cinque anni negli ultimi 20, molto più rapida rispetto agli altro Paesi. Le persone al lavoro con meno di 30 anni sono appena l'11,9% del totale a fronte del 23,7% nel Regno Unito e del 19,5% in Germania. Sono invece cresciuti rapidamente nel mercato i numeri delle persone più anziane, anche grazie alla stretta sui requisiti per l'accesso alla pensione che ha costretto a restare al lavoro molti over 60. OVER 60 - Le persone che hanno superato i 60 anni e sono ancora nelle fabbriche, negli uffici, nei campi e spesso anche sulle impalcature sono oltre due milioni, un numero che è più che raddoppiato rispetto a quello del 2007 (1,01 milioni). In pratica sono l'8,8% dei 23,08 milioni di lavoratori complessivi. Le persone tra i 40 e i 60 anni sono 13,06 milioni, in crescita di 1,9 milioni rispetto a dieci anni fa. La distanza sul tasso di occupazione con l'Europa è nella fascia dei più giovani: tra i 20 e i 24 anni il tasso di occupazione in Italia è al 29,9% a fronte del 52,1% in Europa mentre tra i 25 e i 29 anni, quando dovrebbe essere terminato il percorso educativo e formativo per affacciarsi sul mercato del lavoro, in Italia lavora il 52,9% a fronte del 73,2% della media Ue. La percentuale di distacco sul tasso di occupazione con l'Ue che prima dei 30 anni supera i venti punti si riduce dopo i 30 con il 68,3% dei 30-35enni italiani al lavoro a fronte del 79,2 in Ue. Nell'Ue a 28 le persone con meno di 30 anni al lavoro sono il 18,4% del totale degli occupati (quasi 42 milioni su 227). L'Italia nel 2017 ha recuperato il livello degli occupati di 10 anni fa (oltre quota 23 milioni) ma è profondamente cambiata la composizione del lavoro con circa due milioni di under 35 in meno rispetto al 2007 e quasi due milioni di over 55 in più. La diminuzione della presenza degli under 30 nei luoghi di lavoro è un fenomeno che è in atto da parecchi anni. Tra il 1996 e il 2016, sebbene lo stock complessivo dei lavoratori occupati in Italia sia aumentato, i giovani presenti negli uffici o in fabbrica sono diminuiti di quasi 1.860.000: in termini percentuali nella fascia di età 15-29 anni la variazione è stata pari al -40,5 per cento, contro una media dei principali Paesi Ue del -9,3 per cento. Sempre in questo arco temporale, tra gli over 50 gli occupati sono aumentati di oltre 3.600.000 unità, facendo incrementare questa coorte dell'89,8 per cento.

CORRIERE DELLA SERA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 L’Italia longeva che cerca lavoro e fa meno figli di Milena Gabanelli Noi e l’Europa, 60 anni dopo

L’Istat ha fatto un lavorone: ha analizzato l’Italia e l’Europa durante i 60 anni di matrimonio. Il confronto è esteso anche all’Ue a 28, ma qui ci guardiamo allo specchio fra i sei Paesi fondatori, quelli che nel ’57 diedero vita alla Cee firmando il Trattato di Roma. All’epoca Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo erano più o meno nella stessa barca. Da allora la struttura produttiva è cambiata profondamente, ma almeno fino al 2008, le economie di questi Paesi sono andate convergendo, il potere d’acquisto procapite ha avuto una crescita impetuosa, e noi abbiamo anche beneficiato delle solidità delle economie più forti, specie quelle tedesche. L’export - Poi la crisi ci ha trascinato al crollo della domanda interna, al blocco degli stipendi e all’arresto de consumi, a cui si aggiunge, nel 2011, il «rischio Paese». Le imprese più dinamiche, dalla manifatturiera alla meccatronica, si sono orientate verso i mercati esteri, e dal 2012 l’export ci sta salvando. Una ripresa faticosa e ancora lontana dai «soci» europei, che nel rapporto debito-pil stanno a quota 90, mentre noi siamo a 132,6. La ricerca - Eravamo in coda negli investimenti in ricerca e sviluppo negli anni 60, e lo siamo ancora oggi: 1,3% del pil contro il 2,3%. Gli altri Paesi fondatori hanno da sempre, più o meno, investito il doppio di noi. Il dato curioso è che abbiamo un numero di dipendenti occupati nella ricerca non lontano dalla media europea: 1,12% rispetto all’1,42%. Il tasso di disoccupazione a 2 cifre ce lo trasciniamo dalla metà degli anni 80. C’è stato un bel recupero con il passaggio all’euro, ma dal 2012 siamo tornati a numeri preoccupanti: 11,9% contro una media del 7,5%. L’Italia è in ritardo in generale sul lavoro: il numero di persone in attività è sempre stato più basso, nel 1960 lo scarto era del 5% , oggi supera il 12%. In Italia lavora il 57% della popolazione contro il 69% della media europea. Una differenza dovuta al fatto che le donne lavorano meno. Negli anni 60 erano più occupate in agricoltura, negli anni 80 si è recuperato terreno, (forse un riflesso del femminismo), per poi precipitare, ed allontanarsi sempre di più dalla media europea. Il gap nei salari - Le donne italiane guadagnano il 5% meno degli uomini, ma la distanza rispetto all’Ue è minore. In Germania nel 2015 hanno guadagnato mediamente il 22% in meno rispetto ai loro colleghi maschi. Siamo invece il Paese con il più alto numero di automobili: 61 ogni 100 abitanti, contro i 54 dell’Europa a 6. C’è un perché: non siamo messi bene con il trasporto pubblico. Come in guerra - Altro dato preoccupante: tutti gli europei sono poco prolifici, però noi siamo a livelli molto bassi a partire dalla metà degli anni 60. Il dato allarmante è che negli ultimi 2 anni la popolazione italiana sta diminuendo. Di solito succede durante la guerra. Una conseguenza anche attribuibile al fatto che si sposta sempre più in là nel tempo il ciclo di vita (prima finisco di studiare, poi mi cerco un lavoro, quindi metto su famiglia e faccio figli). Oggi le donne arrivano sempre più spesso a fare il primo figlio al limite del tempo massimo. L’età media è di 32 anni contro il 30,9 dei paesi fondatori. I laureati - L’Istat registra che le donne italiane si laureano di più rispetto al resto d’Europa, però il dato complessivo dei laureati ci vede all’ultimo posto con un 26,2%. Quindi meno laureati, ma anche meno capaci di utilizzare le nozioni imparate a scuola, perché l’università non indirizza all’applicazione concreta. La ricaduta è una minore competenza rispetto a francesi o tedeschi. Un dato positivo: siamo passati da Paese con la più alta mortalità infantile entro il primo anno di vita, a quella più bassa: 2,8 per mille contro il 3,4. Altra notizia fantastica, siamo il Paese più longevo d’Europa e il secondo al mondo. Questo grazie alla qualità del nostro sistema sanitario, dell’attività di prevenzione e uno stile di vita più sano. Un Paese di anziani - Il rovescio della medaglia è che stiamo diventando un Paese di anziani; noi che alla fine degli anni 50 eravamo tra i Paesi più giovani, con metà della popolazione poco più che trentenne, oggi supera i 45. Ma anche il resto d’Europa è brizzolato, e questo sarà un problema, perché bisogna produrre ogni anno un Pil che garantisca le condizioni di vita a cui ci siamo abituati. Se le teste che lavorano sono poche, il Pil complessivo resta basso. Sarà complicato uscirne se non si rivedono le politiche della famiglia, e in modo strutturato quelle migratorie, perché dall’altra parte abbiamo la Cina: un colosso di un miliardo e mezzo di persone. Solo un’Europa integrata (così detestata dai movimenti populisti) permette di affrontare i problemi che la dimensione di uno stato nazionale non potrebbe mai risolvere da solo.

AVVENIRE di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Lo scandalo di un’Ave Maria di Roberto Colombo Per un’Università davvero universale

Negli atenei italiani è tempo di cerimonie di inaugurazione dell’anno accademico e le lezioni sono già avviate. In alcune facoltà è anche mese di lauree, che coronano il curriculum studiorum degli allievi e l’opus docendi dei loro professori. Lo studio e la ricerca sono senza sosta e si intensificano con la ripresa delle attività dipartimentali dopo l’estate. Per i rettori è l’occasione di tracciare un bilancio dell’anno che termina e guardare in avanti al lavoro che aspetta docenti, ricercatori, studenti e personale amministrativo, non senza esprimere desideri e timori sulle riforme incompiute o attese e un lamento, ormai di rito, sulla scarsità delle risorse a disposizione. Nella settimana che si chiude, al di là di queste dovute considerazioni, a far alzare lo sguardo sull’università - una realtà viva e vivace di professori, studiosi e studenti - sul suo scopo e sugli orizzonti della ragione indagatrice ed educatrice dell’humanum che è in ogni componente della comunità accademica, è stata una provocazione benedetta proveniente dall’Università di Macerata. Benedetta non solo perché origina da una preghiera, l’Ave Maria, suggerita per invocare la pace da una docente in aula e ha ricevuto la 'benedizione' (secondo l’etimo, il 'dire bene' di qualcosa o qualcuno) del vescovo Nazzareno Marconi, ma anzitutto perché ha propiziato la grazia di un risveglio della coscienza universitaria. Un prezioso barlume di consapevolezza della natura e del compito di quel luogo singolare di formazione scientifica, culturale, personale e sociale che chiamiamo università, consegnatoci dalla storia europea della educazione superiore come l’istituzione elettiva per lo sviluppo di una civiltà del sapere senza recinti, del saper fare con perizia, e del pensare e fare per e insieme con gli altri. Un 'risveglio del gigante', la ragione che abita in noi e accende la coscienza di tutto. La sorgente di quella apertura 'universale' (da qui, università) ai fattori della realtà, propria della formazione accademica, senza censurarne nessuno, non escluso quello vertiginoso – dischiuso dalla categoria suprema della ragione – della possibilità indeducibile e sorprendente che il Mistero di cui tutto è fatto si sia reso presente e familiare attraverso una di noi, Maria di Nazareth. Il vescovo di Macerata ha, infatti, ricordato «che la preghiera è una forza, una potenza che può mettere paura a qualcuno». Il risveglio della recta ratio, della giusta coscienza di sé e del mondo, per provocare il quale la preghiera ha forza più di altro, genera timore in chi preferisce la tranquillità del sonno della ragione (strumentalizzata) e della coscienza (impoverita e immemore). La preghiera, espressione del senso religioso che alberga nel cuore di ognuno, credente o non credente, come tensione dell’intelligenza e della libertà verso la verità ultima, non è ostile a nessun universitario, né nemica della laicità di un ateneo. Proprio in quanto 'laica', cioè aconfessionale, per storia e vocazione culturale e sociale l’università è aperta all’universo dei saperi, delle capacità ed esperienze umane e della domanda infinita sul significato e il valore della vita e del mondo. Ricordando l’origine medioevale della Universitas, agli albori legata alla cattedra del vescovo (non solo ma anche per questo, egli ha titolo a dire una parola su di essa), Benedetto XVI, nel 2012, affermava che quando l’uomo diventa «ricco di mezzi, ma non altrettanto di fini, […] quella che è stata la feconda radice europea di cultura e di progresso sembra dimenticata. In essa [l’università], la ricerca dell’Assoluto – il quaerere Deum – comprendeva l’esigenza di approfondire le scienze profane, l’intero mondo del sapere. La ricerca scientifica e la domanda di senso, infatti, pur nella specifica fisionomia epistemologica e metodologica, zampillano da un’unica sorgente, quel Logos che presiede all’opera della creazione e guida l’intelligenza della storia ». Su questa ricerca e su questa domanda senza confini si fonda la libertà dell’università, una declinazione della libertà di pensiero ed espressione e una condizione delle moderne democrazie liberali, di quelle società aperte in cui non esistono dottrine di stato né censure agli orizzonti della ragione.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

LA NUOVA Pag 19 Un pomeriggio tra i senza dimora: “Basta un sorriso” di Laura Berlinghieri I volontari ad Altobello

Viene dal Pakistan e ha una trentina d'anni. È arrivato in Italia quattro mesi fa. Nel suo Paese faceva l'elettricista, ma ha deciso di scappare alla ricerca di un futuro migliore. La sua nuova casa, ora, sono le panchine del Piazzale della Madonna Pellegrina di Mestre. La sua è solo una delle tante storie raccontate sabato sera, in occasione della Notte dei senza dimora. «La maggior parte di loro sono stranieri, dell'Est Europa, ma alcuni provengono da Marghera e dalla terraferma», ci racconta una volontaria. «Non hanno una casa, vivono di elemosina e aiutandosi tra di loro. Quasi tutti hanno lasciato la famiglia nel Paese di origine, dove non vogliono tornare perché senza un soldo. I più giovani si drogano, i più anziani bevono molto». Entrare in confidenza con loro è molto difficile: gli stranieri non vogliono avere rapporti con i giornalisti, mentre gli italiani mantengono un pudore che li rende restii a raccontare la loro storia. Uno di loro accetta: dice di essere musulmano, di aver scelto di venire in Italia per seguire il padre e la sorella. Nel suo Paese era sposato. Dal matrimonio era nata una bambina, per lui un disonore, e quindi è scappato in Italia. Quando gli chiedo se ha un lavoro, chiede: «Ma la vedi la mia faccia? Nessuno mi prenderebbe a lavorare con una faccia così». Se ne sta in disparte, non parla con i connazionali. «Sto con loro solo la mattina. Poi iniziano a bere ed è impossibile averci a che fare». Incontro anche un gruppo di quattro ragazzi: «Siamo troppo ubriachi per parlare». Di cose da dire, invece, ne avrebbe molte una donna ucraina. È qui con sua figlia e adora la musica. È felice di essere in Italia e di parlare con qualcuno. Poi un'altra storia da raccontare: quella di un uomo tunisino, anche lui senza fissa dimora, in Italia da 35 anni. Gli chiedo se sia alla ricerca di un lavoro: «Chi vuoi che mi voglia a 73 anni?». Ma le storie sono anche quelle dei volontari, che hanno deciso di spendere il loro sabato sera al servizio degli altri. Come Madi, un ragazzo del Burkina Faso, in Italia da due anni, e che, insieme ai suoi amici scout, distribuisce i pasti ai senzatetto. «Sono persone a cui spesso basta un sorriso per farle sentire a casa», ci raccontano Marta e Chiara. «Spesso è faticoso entrare in confidenza con loro, perché hanno alle spalle storie molto difficili. Ma umanamente è un'esperienza che ci arricchisce moltissimo». Oltre agli scout, presenti all'iniziativa anche tanti altri gruppi. I volontari che si occupano della raccolta dei medicinali («Li raccogliamo, controlliamo che non siano scaduti, li impacchettiamo e li consegniamo all'associazione Maniverso di Tessera»), i volontari della Croce Rossa, attivi nel sociale e nell'assistenza sanitaria, e la Caritas di Marghera.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 22 ottobre 2017 Pag VII Tutto esaurito lo spettacolo del “Madonna Nicopeja” di D.Gh.

Venezia. È andato tutto esaurito per lo spettacolo teatrale Noi al centro del palco andato in scena al Teatro ai Frari. Sul palcoscenico i 12 ospiti e gli operatori del Centro diurno per persone disabili Madonna Nicopeia, gestito da Opera Santa Maria della Carità, una Fondazione di religione presente da oltre 50 anni sul territorio di Venezia e provincia, che opera nel campo dei servizi alla persona in condizione di bisogno e non autosufficienza in ambito socio-sanitario, testimonianza viva dell'attenzione della Chiesa veneziana per le situazioni di emarginazione, fragilità e bisogno. I diversi laboratori hanno contribuito, ciascuno per la propria pertinenza, all'allestimento dello spettacolo (dalla redazione dei testi, alla scelta e predisposizione delle musiche, dalla realizzazione delle scenografie, ai costumi e alle coreografie), con l'obiettivo di coinvolgere ciascun utente rispetto alle proprie potenzialità ed attitudini e far vivere loro una nuova ed emozionante avventura a favore di una crescita individuale e di gruppo. Sul palco gli ospiti attori hanno recitato, cantato e ballato animando uno spettacolo in tre scene. «Con questo progetto abbiamo voluto dare visibilità al mondo della disabilità spiega il coordinatore della struttura, Walter Pulignano - e sollecitare, seppur in chiave ironica, una riflessione edificante a beneficio delle persone disabili che vivono e cercano di integrarsi nel territorio veneziano. In questo spettacolo parliamo di noi, della realtà del centro diurno che vive la realtà di Venezia con le difficoltà di spostamenti ma che vogliono vivere la città ed esserci attivamente. Per questo motivo ringraziamo di cuore Actv che ha dato un importante sostegno a questa iniziativa, favorendo il rientro a domicilio dei partecipanti provenienti da Lido e Pellestrina».

Pag XI Centro diurno, il Comune taglia il servizio: “Serve una sede” Bozzi: “Troviamo un nuovo posto adeguato e strutturato”

Mestre. «Ora che si affaccia l'inverno, per i senza fissa dimora servirebbe un Centro diurno, con una sede specificamente dedicata, dove poterli ospitare negli orari lontani dai pasti». A proporlo è stato Stefano Bozzi, il presidente della San Vincenzo mestrina, che gestisce la mensa di Ca' Letizia in via Querini, intervenendo ieri al dibattito organizzato nella Notte dei senza fissa dimora ad Altobello a cui ha partecipato con Vita Casavola, della Fondazione Casa della carità di Milano, Francesco Vendramin, responsabile della mensa dormitorio Papa Francesco, e don Nandino Capovilla, parroco della Cita, moderati dal giornalista Alvise Sperandio, collaboratore del Gazzettino. Bozzi si è visto costretto a ritirare la disponibilità al Comune per il Centro diurno pomeridiano aperto lo scorso anno nello stesso locale dove poi alla sera i poveri cenano. RIORGANIZZAZIONE - Infatti, riorganizzando complessivamente il dispositivo invernale di assistenza ai clochard, un anno fa il Comune aveva puntato anche sulla realizzazione di un Centro diurno proprio a Ca' Letizia, gestito dagli operatori dell'Unità per la riduzione del danno. Era (ed è) aperto due mattine la settimana, il martedì e il venerdì dalle 9 alle 11, e tre pomeriggi, il lunedì, mercoledì e giovedì, dalle 15 alle 18. Se non che quest'anno si è resa necessaria una parziale marcia indietro su queste ultime tre finestre. «Purtroppo spiega Bozzi - l'uso della sala mensa era incompatibile con la somministrazione della cena. Quasi sempre ci siamo trovati ad avere anche 60 persone in contemporanea. Poi preparare le tavole e dare da mangiare a 120-130 persone era impossibile». Di qui la proposta, scaturita ieri nella seconda dell'iniziativa che in piazzale Madonna Pellegrina ha raccolto diversi senza fissa dimora per animazioni, la cena condivisa all'aperto e uno spettacolo musicale finale. NUOVE SOLUZIONI - «Troviamo un posto adeguatamente attrezzato e comodo da raggiungere dove possano stare ha spiegato Bozzi Per il bene di tutti si può trovare una sede vera e propria che possa essere strutturata a Centro diurno. Anche il vicinato di via Querini ha avuto disagi dalla soluzione adottata lo scorso anno». Ma nel corso del dibattito è emersa anche una seconda richiesta per andare incontro alle esigenze quotidiane dei clochard. Ad avanzarla è stata in questo caso Vendramin, che dirige la mensa dormitorio Papa Francesco di Marghera dove sempre alla sera cenano in 40 e i posti a letto a disposizione, sempre occupati, sono 24. BAGNI PUBBLICI - «Servono dei bagni pubblici ha sottolineato In centro città non ce ne sono e bene o male anche questo favorisce delle situazioni problematiche nella gestione dei bisogni fisiologici di queste persone. In piazzale Donatori di sangue ma anche in piazza Ferretto e nel resto del cuore della città, non ci sono servizi né sarebbero sufficienti i wc: molto meglio sarebbe puntare su una struttura fissa, in un luogo accessibile e non troppo decentrato, che potrebbe venire gestito da quegli stessi senza fissa dimora in grado di intraprendere un'attività lavorativa». La serata di ieri è stata promossa da una ventina di associazioni che si occupano di assistenza e accompagnamento dei clochard, in attesa che arrivi il nuovo bando per l'emergenza invernale, l'anno scorso affidato alla Casa dell'ospitalità dopo la lunga stagione della Caracol al Rivolta.

Pag XIII “Nicola, sei stato un ciclone” di Paolo Guidone Ieri a Marghera i funerali del ventinovenne morto durante un’escursione in montagna

Una folla incredula e silenziosa ha partecipato, ieri mattina nella chiesa di Gesù Lavoratore a Marghera, all'ultimo commosso saluto a Nicola Simion, il trentenne scomparso il 16 ottobre durante un'escursione sul monte Chiampon, vicino a Gemona, dove il giovane architetto, ricercatore e designer, si trovava per uno stage aziendale. Durante le esequie, la comunità, si è stretta attorno ai genitori di Nicola, Sonia e Adriano e di tutta la famiglia, molto unita e conosciuta per l'impegno sociale in un rione difficile qual è Ca' Emiliani. Una grande foto collocata all'interno della chiesa ha ricordato a tutti il sorriso di Nicola e la sua passione per la fotografia. DOLORE E RABBIA - Amici e congiunti, giovani e meno giovani, durante la cerimonia funebre, celebrata da don Giuseppe Volponi, hanno voluto esprimere il loro dolore per una scomparsa troppo precoce che ha interrotto i progetti di un ragazzo intelligente e generoso. «Nicola era un ciclone - ha ricordato Elena, amica di famiglia - un ragazzo che ha sempre lottato per un mondo migliore e sono stati i suoi genitori a trasmettergli i veri valori della vita, la grande onestà intellettuale, il senso dell'amicizia. Mi colpiva e mi ricorderò sempre il suo modo di abbracciare gli altri. Ora tutti noi proviamo dolore e rabbia perché è contro natura che i figli muoiano prima dei genitori, ma dobbiamo fare nostro l'esempio di Nicola». Oltre ai nonni, agli zii, ai cugini, ai funerali di Nicola Simion hanno partecipato tantissimi amici, conoscenti, colleghi di studio e di lavoro, arrivati dal Friuli e anche da Torino, dove il giovane aveva lavorato e perfezionato gli studi universitari, diventando, dopo la laurea, un talentuoso Interior Designer. «Diversamente da me, Nicola era pieno di ottimismo e di speranza», ha ricordato commosso Federico, amico d'infanzia. Durante la messa un compagno di studi ha sottolineato «il grande talento di Nicola e tutti i progetti che aveva in mente, che avevano richiesto lunghi studi e che non hanno potuto vede la luce». L'OMELIA DI DON GIUSEPPE - Durante l'omelia, don Giuseppe ha ricordato anche «i dubbi sulla Fede che negli ultimi tempi avevano attraversato i pensieri di Nicola, che nella sua vita non ha mai smesso di cercare Dio». A conclusione della messa, ha preso la parola il padre Adriano che, dopo aver ringraziato tutti i presenti, ha ricordato come la festa del suo trentesimo compleanno avrebbe dovuto svolgersi domenica 29 ottobre, la prima domenica libera dai suoi tanti impegni per lo stage aziendale che stava frequentando: «Nicola si stava preparando anche ad esporre in una galleria fotografica a Milano, per questo abbiamo deciso di portare avanti i suoi progetti attraverso una campagna di crowdfunding». Alla cerimonia funebre era presente anche Gianfranco Bettin, presidente della Municipalità di Marghera.

Pag XIII Tutta Carpenedo si stringe attorno ai figli di Caterina di Alvise Sperandio Il commosso addio alla mamma deceduta sei anni dopo il marito

Mestre. Carpenedo, e non soltanto, si è fermata e raccolta, ieri pomeriggio, per dare l'addio commosso a Caterina Salin, la mamma di 4 figli morta mercoledì scorso a 49 anni, a sei di distanza dal marito, l'urbanista e noto ricercatore del Coses Pierpaolo Favaretto. Una folla superiore al migliaio di persone, ha gremito già un'ora prima dell'inizio del funerale la chiesa dei Santi Gervasio e Protasio, tanto che molti hanno dovuto seguirlo dal sagrato attraverso gli altoparlanti, mentre si è riempita anche la vicina sala Lux dove la funzione è stata videotrasmessa per permettere di sedere a chi in piedi non poteva stare. Accanto al feretro, accompagnato sull'altare da una moltitudine di fiori, affranti in un dolore potente ma composto, i figli, dal primogenito Pietro, 21 anni, a Claudia, 19, con a fianco la sorella di 15 e in braccio per tutta la durata della messa la più piccolina, di 7. Con loro, gli anziani genitori di Caterina, Lucia e Mario, suo fratello Paolo, i parenti e gli amici più stretti che l'hanno seguita passo passo, standole vicina nel periodo della malattia. Così come hanno fatto i molti colleghi dell'Autorità portuale che non hanno voluto mancare all'ultimo saluto, presente anche il presidente Pino Musolino. E poi la parrocchia, in tutti i suoi gruppi, dai giovani agli scout, dal coro ai chierichetti e fino agli adulti impegnati nelle diverse attività. Una partecipazione straordinaria, con pochi precedenti a Carpenedo, segno dell'affetto verso una donna sfortunata, ma anche della capacità di serrare le fila nel momento del bisogno. A celebrare la messa è stato il parroco don Gianni Antoniazzi che nell'omelia ha detto: Non è facile oggi spiegare la morte di Caterina. Una donna che per tanto tempo sarebbe stata ancora utile ai suoi figli e alla sua famiglia, così laboriosa e tenace. Perché è stata strappata tanto rapidamente alla vita? La domanda la porto nel cuore io come voi. Ha proseguito il sacerdote: Da uomo di fede so che non posso puntare il dito contro Dio. La responsabilità di questi fatti sta tutta nella storia umana, in noi che impegniamo così poche energie per la medicina, la ricerca, la salute e tante ne sprechiamo invece per ciò che ci lascia vuoti. Non è Dio, sono piuttosto gli uomini che si assentano dai loro doveri. Quindi l'appello alla parrocchia per sostenere, affettivamente e materialmente, i ragazzi. Carpenedo ha sempre dimostrato di essere pronta ad aiutare ha sottolineato don Gianni Una comunità mai monocolore ma capace di diventare una famiglia strepitosa che già in passato ha compiuto opere eccezionali. Sicuramente non le mancherà la forza per un sostegno vicendevole. I parrocchiani sono già pronti a iniziative concrete e già ieri hanno devoluto tutte le offerte raccolte durante la messa in favore degli studi dei figli. Alla fine, mentre sul sagrato la folla si è stretta attorno a loro, il carro funebre ha preso la via del cimitero di Martellago dove ora Caterina Salin riposerà assieme al marito.

LA NUOVA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 23 “Serve maggior impegno per la ricerca” di Laura Berlinghieri A Carpenedo appello di don Gianni ai funerali di Caterina Salin, morta di tumore. Raccolte offerte per gli studi dei 4 figli

Centinaia di persone, molte delle quali costrette a rimanere sul sagrato, ascoltando la messa dagli altoparlanti, ieri pomeriggio nella chiesa dei Santi Gervasio e Protasio in Piazza Carpenedo. Per i funerali di Caterina Salin, morta mercoledì sera ad appena 49 anni, dopo aver combattuto due anni contro un tumore, si sono radunati i quattro figli della donna, i suoi genitori, moltissimi amici e colleghi, il gruppo scout e i compagni di classe dei ragazzi e tanti, tantissimi conoscenti. Tutti hanno voluto stringersi intorno alla famiglia in questo momento straziante. La funzione è stata celebrata dal parroco don Gianni Antoniazzi, caro amico di famiglia. «Non è facile spiegare il senso di questi eventi, ma sono qui per portare parole di speranza», ha detto il parroco durante la funzione. «Caterina sarebbe stata ancora a lungo utile ai suoi figli e alla sua famiglia. Era una donna laboriosa e tenace, sempre sorridente, e allora perché è stata strappata tanto rapidamente alla vita? Le domande le porto nel cuore io, come voi, e non so trovarvi risposta. C'è un tempo per nascere, un tempo per amare e un tempo per morire e anch'io oggi chiedo il senso del tempo. Ma, da uomo di fede, so che in queste occasioni non posso puntare il dito contro Dio. Credo che gli uomini dovrebbero impegnare più energie per la ricerca e meno per coltivare la rabbia e alimentare la guerra. Disperdiamo tanto per giochi superficiali che ci lasciano il vuoto nel cuore». La donna aveva quattro figli di sette, quindici, diciannove e ventun anni. Il marito Pierpaolo Favaretto, urbanista e ricercatore del Coses, era morto nel novembre del 2011 a soli 48 anni, sempre per un tumore. Episodio che spinse Caterina, fino ad allora casalinga, a trovare lavoro all'Autorità Portuale, nel tempo diventata una seconda famiglia per lei. Caterina e famiglia erano molto attivi in ambito missionario, nell'aiuto dei poveri, e presso la casa parrocchiale di Gosaldo. Un'attenzione agli altri che ieri è stata ampiamente ricambiata. «La comunità deve stringersi come una famiglia unita, provata dal dolore ma forte, per restare in piedi sulle gambe» ha sottolineato il sacerdote «E Carpenedo si è sempre dimostrato gruppo strepitoso, capace di un sostegno vicendevole». Caterina, originaria di Martellago, si era trasferita a Mestre, in Via Trezzo, nel '95, dopo il matrimonio. «La conoscevo fin da quando era ragazza e faceva volontariato nella nostra comunità», ha ricordato don Luigi, parroco di Martellago, visibilmente commosso. La sepoltura è avvenuta presso il cimitero di Martellago. Durante la funzione sono state raccolte delle offerte che saranno poi girate ai quattro figli di Caterina per continuare gli studi.

Pag 23 “Proseguite con i progetti che Nicola aveva a cuore” di Alessandro Abbadir Marghera, le esequie del 30enne precipitato in montagna

«C'è da chiedersi il perché di questo. E un perché alla tua mancanza non c'è. Avevi tanti progetti ora spezzati da un destino crudele. Eri il migliore di tutti». Il pensiero di un'amica in lacrime ha accomunato tanti, ieri mattina, nella chiesa di Gesù Lavoratore a Marghera per i funerali di Nicola Simion, il 30enne morto a causa di una caduta in montagna vicino a Gemona. Accanto ai genitori Adriano e Sonia commossi, la fidanzata Francesca, gli amici di sempre, i parroci don Giuseppe e don Vincenzo, zio prete in un'altra regione. Durante la cerimonia funebre è stato sottolineato l'impegno di Nicola - nonostante gli innumerevoli impegni professionali che lo portavano anche lontano da casa - a favore dei più deboli e dell'ambiente, con gli scout e in parrocchia. Ieri in chiesa davanti alla bara c'era un bel ritratto del ragazzo e gli amici di sempre hanno ricordato la sensibilità e la ricerca dell'amore in tutte le cose che Nicola faceva. Il papà Adriano ha tratteggiato la figura del figlio e ha chiesto che i progetti che Nicola stava seguendo, anche professionalmente, possano essere portati avanti da amici o colleghi se sarà possibile. All'inizio della cerimonia è stata letta anche una lettera di don Luca Biancafior, parroco di Murano e fino a poco tempo fa parroco della chiesa di Gesù Lavoratore, grande amico di Nicola Simion. «Non ho potuto essere qui», ha scritto don Luca nella lettera, «ma ci sono con il cuore. Ricordo le nostre discussioni e le domande che ponevi, e la passione che mettevi nella lotta alle ingiustizie». La famiglia Simion è conosciutissima e i nonni sono stati fra i primi oltre 60 anni fa ad insediarsi in via Bottenigo. Da qualche settimana Nicola si trovava in Friuli per svolgere uno stage nell'ambito del master universitario "Interactive Media for Interior Design" dello Iuav. Aveva reso orgogliosi i genitori, inanellando una serie di risultati accademici e professionali di riguardo. Fino alla tragica caduta in montagna che gli è costata la vita. Hanno partecipato all'estremo saluto anche una rappresentanza della Municipalità con il presidente Gianfranco Bettin e il delegato ai Servizi sociali Mario Silotto. Dopo l'estremo saluto, è stato portato al cimitero di Marghera per la cremazione.

Pag 23 Storie, cibo e compagnia per i senza dimora di l.b. Emergency, Croce rossa e Caritas hanno chiamato a raccolta i clochard della città

Una serata per provare a dimenticare per qualche ora fame, freddo e povertà. La notte dei senza dimora - termine che purtroppo abbraccia una platea sempre più vasta di persone - si è svolta ieri sera in piazza della Madonna Pellegrina, alla parrocchia di Altobello. In uno dei periodi dell'anno più difficili per i clochard: l'arrivo dell'inverno, l'arrivo del freddo. Le ore sono trascorse tra cibo, bevande, coperte e musica dal vivo. Italiani, stranieri, giovani e anziani: tutti insieme, sulle lunghe tavolate allestite, per condividere un pasto, quattro chiacchiere e un po' di compagnia. Anima della serata, i tanti volontari, soprattutto scout, che da anni con passione spendono il loro tempo per aiutare i più sfortunati. E poi i tanti stand: Emergency, la Caritas di Marghera, i volontari della Croce Rossa, l'associazione Libera, il servizio raccolta medicinali. E anche tante persone che, senza alcun ruolo preciso, hanno comunque voluto prendere parte all'iniziativa. L'appuntamento, a partire dalle 17, con il mimo Sergio Bonometti per abbattere ogni barriera linguistica. Poi la cena e la musica, con "La compagnia del sonno perso". Occasione per scaldarsi, oltre che con le coperte distribuite, anche con qualche ballo. Nel mezzo, tante storie. Storie di famiglie lasciate nel Paese d'origine, di lavori persi o che faticano ad arrivare, di notti fredde sulle panchine. E un lieto fine che, purtroppo, spesso non arriva, ma che quantomeno si riesce a sognare in serate come questa.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 21 Feltrinelli entra in Marsilio: “Ma non perderemo l’identità” di Francesco Chiamulera

Le aggregazioni dell’editoria italiana non risparmiano (e perché mai avrebbero dovuto farlo?) il Nordest. E la notizia è che la più grande editrice veneta, Marsilio Editori, casa veneziana fondata nel 1961 e guidata fin dai primi mesi di vita dalla famiglia De Michelis, sta per cambiare di proprietà. L’annuncio è stato dato ieri, facendo seguito a voci che si rincorrevano da qualche settimana: il Gruppo Feltrinelli acquisisce una partecipazione iniziale del 40% di Marsilio, destinata ad arrivare al 55% dopo due anni, dunque in posizione di maggioranza. «Marsilio dispone di un catalogo di alta qualità, di una grande esperienza nell’editoria libraria, di un profondo radicamento territoriale. Questi elementi lasciano presagire un percorso comune di grande valore», ha dichiarato Roberto Rivellino, AD di Feltrinelli. Ma quello che in mondi più autoreferenziali e nostalgici verrebbe vissuto come un depauperamento, un mezzo naufragio, è invece, in casa Marsilio, un destino che si saluta con grande soddisfazione. In fondo, si ricorda, Marsilio è già vissuta per ben sedici anni all’interno di un grande gruppo editoriale non veneto, ed ha mantenuto, allora, la propria identità peculiare: era il 2000 quando Rcs subentrava ai De Michelis nella maggioranza della proprietà, era il 2016 quando la famiglia veneziana si ricomprò la casa editrice. Lo fece quasi controvoglia, in seguito alla decisione dell’Antitrust che aveva costretto il gruppo Mondadori a disfarsi del marchio dopo che aveva acquisito Rizzoli, per evitare aggregazioni eccessive. Da allora Cesare De Michelis e il figlio Luca non hanno fatto mistero di essere alla ricerca di un acquirente «forte». Che adesso ha un nome, Feltrinelli appunto, e alcuni punti di forza: il volano di promozione che il gruppo può garantire a Marsilio, la formidabile catena di librerie sparse per tutta Italia. E, last but not least , il grande tema della distribuzione. Che sarà affidata a MF, joint venture tra Feltrinelli e il gruppo Messaggerie. «Sia io che papà siamo convinti che le sfide che l’editoria ci pone davanti richiedano una struttura che ti permetta di affrontarle con serenità e non di subirle. La decisione è maturata da tempo. Ne abbiamo esplorate varie fino ad arrivare a questa, che ci soddisfa pienamente», dice Luca De Michelis, AD di Marsilio. Che non teme per l’annacquamento in un contenitore più vasto. «Macché perdita di identità, anzi, è esattamente il contrario. È una piattaforma che ci consentirà di far sentire meglio la nostra voce. Lo abbiamo dimostrato in sedici anni di Rcs: l’identità non dipende dalle quote di azioni. Semmai, se uno è troppo debole deve giocare in difesa». Ed è proprio per non perdere troppo tempo a difendersi dall’aggressione fortissima dei grandi gruppi stranieri che in questi anni l’editoria italiana si sta dando nuovi assetti proprietari. Non sfugge il parallelo tra Marsilio - Feltrinelli e quanto accaduto in questi mesi con Bompiani, acquisita da Giunti, e Baldini & Castoldi, comprata al 95% dalla Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi. «Quello delle aggregazioni non è un soffocamento del mercato, e neanche la volontà di dominio dei grandi, come ha suggerito in modo miope qualche purista - commenta un editore italiano che guarda con simpatia alla vicenda Marsilio -. È un’esigenza imposta dal mercato, per resistere a una sola cosa: Amazon. Il motore della concentrazione è semplice: il gruppo di Jeff Bezos si sta prendendo pezzi sempre più grossi del settore». «È vero, c’è Amazon, ma non solo - ridimensiona Luca De Michelis -. Secondo me l’editoria deve sempre più darsi una direzione industriale, non artigianale: nel senso di dotarsi di strumenti che utilizzino la tecnologia, di utilizzare appieno i mezzi disponibili. Il fatto che due famiglie con una vocazione editoriale di seconda generazione - sia io che Carlo Feltrinelli siamo figli d’arte - abbiano deciso di costruire un percorso insieme è una gran buona notizia». A quasi settant’anni dalla nascita, Marsilio entra così in una nuova era. Lontana dai tempi iper-politicizzati del Novecento. «Ma a papà è sempre piaciuto definirsi un editore post-ideologico - puntualizza Luca -. Siamo nemici delle ideologie, ma amici della politica e della cultura. Senza intento pedagogico, senza schieramento, ma con un impegno fortissimo. E così continuerà ad essere».

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8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 9 Caporetto, l’incubo rimane di Edoardo Pittalis Lo storico Mario Isnenghi e il Triveneto dopo la sconfitta-mito della Grande Guerra

Caporetto, 24 ottobre 1917: cosa è rimasto nell'Italia 100 anni dopo? «È importantissimo sul piano della psicologia collettiva. Caporetto è diventata proverbiale, quasi sinonimo di un nostro modo di essere. Come non è diventato proverbiale Vittorio Veneto, quasi non riuscissimo a capacitarci di aver vinto. Il 4 Novembre è stato mimetizzato come la fine della guerra e non come la Vittoria, la più grande vittoria della storia d'Italia. Forse fa parte dell'identità, del senso del Paese: ci riconosciamo più realisticamente nelle sconfitte che nelle vittorie. Avviene anche per il Risorgimento. Nel 2011 c'erano i 150 anni dello Stato Unitario, eppure le ricadute erano del senso del frammento più che dell'unità, richiami neoborbonici, venetisti Come se non avessimo più la portata storica di quello che è stato il Risorgimento, molto oltre le piccole bugie dette dalle maestre delle elementari. Mazzini e Garibaldi sono personaggi di statura non soltanto europea». Caporetto è il momento cruciale della Grande Guerra, combattuta dagli italiani interamente in quello che oggi chiamiamo Nordest. Alla prima guerra mondiale lo storico Mario Isnenghi ha dedicato gran parte degli studi. Veneziano, 79 anni, professore emerito di storia contemporanea, ha insegnato nelle università di Padova, Torino, Venezia. Autore di libri di successo, Il mito della Grande Guerra viene ristampato dal 1970. Isnenghi, ha senso ricordare la guerra un secolo dopo? «Mi chiedo anch'io perché ci ho dedicato l'intera mia vita? Da studente laureando cercavo una bella tesi, importante, e siccome la mia generazione leggeva Gramsci e in particolare il suo pensiero sugli intellettuali, mi ero dedicato a questo tema, anche perché io questo volevo fare: l'insegnante, l'intellettuale. Poi ho scavato su che cosa volesse dire essere intellettuali dentro un Paese in guerra, nelle trincee. Mi sono legato al tema del conflitto, ai soldati, ai diari, alle memorie, ai romanzi. Al problema del popolo in grigioverde: perché aveva obbedito? Perché non aveva obbedito? Soprattutto, cosa era successo dopo Caporetto? Cadorna aveva accusato i soldati di aver gettato le armi e aveva accusato tutti, dai socialisti al Papa. Questo è stato uno dei percorsi che mi ha portato a cogliere la duplicità dei piani: i fatti accaduti e i fatti percepiti come veri. Chi sapeva in quel finire d'ottobre del 1917 cosa stava realmente avvenendo?». Perché è rimasto, soprattutto nel Veneto, il fascino della Grande Guerra? «Il mito è vero finché appare vero. La guerra continua a interessare perché è un grande racconto sociale di carattere collettivo che nelle Tre Venezie ha molte possibilità in più che vengono dallo spazio che ci circonda. E' tutto qui: i monti e i fiumi, le epigrafi, i parchi delle rimembranze. È vero che la circoscrizione obbligatoria arruolava soldati della Sardegna e della Calabria, però combattevano qui. Il racconto collettivo non ha nelle Venezie bisogno di trasferirsi, c'è già. Il nostro tempo aborre dall'epica, chiama tutto retorica e non nel senso alto dei linguisti. Ogni tempo ha la sua retorica, noi abbiamo quella delle vittime. Interessano soprattutto morti, vedove, orfani, mutilati. Non ci interessa chi l'ha voluta, ma chi l'ha fatta pur non avendola voluta. Penso che dal punto di vista storico non si debba essere chiusi anche a coloro che infliggono le ferite: se c'è un fucilato c'è un fucilatore». Che studente era Mario Isnenghi? «Famiglia piccoloborghese, padre impiegato, madre insegnante di inglese. Discreto studente in italiano, decisamente più interessato all'università. Un cattolico militante mancato, la Fuci veneziana di fine anni '50 aveva un grande assistente spirituale, don Germano Pattaro, teologo conciliare. Era una specie di lotta per la conquista delle nostre anime tra don Germano e Vladimiro Dorigo, grande speranza della Dc non solo veneziana, ma avversato per le sue idee da Fanfani. All'università entro nell'Unione goliardi, con Lino Iannuzzi che sarà un famoso giornalista e con Gianni De Michelis. Circolava una battuta su me e Gianni: Sono come culo e camicia e nessuno sa dire chi sia la camicia. Poi in una notte scelsi tra la politica e l'insegnamento, ero a Bologna per il parlamentino universitario, decisi di prendere l'ultimo treno per Chioggia e presentarmi in tempo per la lezione». Lei si è dedicato anche a poemi eroicomici in veneziano, uno su un prete in quel Veneto del dopoguerra «Non ancora laureato, avevo un incarico annuale a Feltre in un istituto tecnico; sono stato licenziato dopo due mesi perché le mie idee non piacevano al prete che dirigeva il settimanale diocesano. In quegli anni io mi ero avvicinato ai socialisti. Pensare che il preside era un intellettuale del Pci, ma mi ha difeso solo un senatore socialdemocratico e mi hanno attaccato i comunisti. Però ci ho guadagnato perché sono arrivato a insegnare a Venezia e perché ho incominciato a dedicarmi al Veneto e alla sua gente. Volevo conoscere cosa cantava il popolo ed è stato fondamentale l'incontro con Luisa Ronchini e con Gualtiero Bertelli che era stato mio allievo alle superiori. Mi sono avvicinato al gruppo del Canzoniere Popolare, insegnavo a Chioggia e cercavo le canzoni nei luoghi della memoria, nelle osterie, nei posti del lavoro. La ricerca del passato per cantare il tempo presente. E' anche così che è nata L'Odineide, satira di un prete della campagna veneta che porta le donne al voto, naturalmente per la Dc. Un poema eroicomico costruito su don Odino, io non conoscevo bene il dialetto, così Bertelli, che ha scritto le musica, ci metteva il naso per ripassarlo». La memoria e il Veneto di oggi? «Non possiamo indossare il discorso prêt-à-porter della caduta della memoria. Da una parte c'è un sovrappiù di memoria, basta vedere cosa è accaduto di recente rispetto all'anniversario del 1866 e al Plebiscito. Si è assistito a un tentativo di grande narrazione venetista in cui si sovrapponeva quello che non è mai avvenuto. L'invenzione della memoria adattata alla realtà. Nel 1968 ho curato l'edizione del romanzo di Ippolito Nievo che incomincia: Io nacqui veneziano ma morirò italiano. Nievo non vuole dire solo che Venezia diventa italiana, ma esprime la fiducia che l'uomo possa fare la storia. Nievo è uno dei Mille, muore trentenne perché si attarda in Sicilia per presentare nel modo più limpido la contabilità della Spedizione. In questo nostro tempo in cui fare lo storico e fare il politico appaiono peccaminosi, io continuo a leggere il grande scrittore imparando il contrario».

AVVENIRE di domenica 22 ottobre 2017 Pag 11 Il dialogo con l’Islam. Ecco la “via veneta” di Francesco Dal Mas Incontro promosso da diocesi, comunità e Cisl

Treviso. Da Treviso a Belluno, prove tecniche di 'Islam veneto'. Ieri, nel capoluogo della Marca, si sono incontrate le delegazioni di 43 centri islamici in regione e i rappresentanti di numerose associazioni degli immigrati per istituzionalizzare le prassi virtuose di integrazione e convivenza. Prassi che hanno portato, nel caso di Belluno, la Diocesi e le comunità musulmane ad organizzare insieme le giornate del dialogo cristiano-islamico il 27 e 28 ottobre. Giornate che incorniceranno il lancio di un appello condiviso: alle amministrazioni affinché garantiscano l’esercizio del culto; alla scuola perché venga riletta la storia nella prospettiva della pace e del dialogo; e per un servizio comune ai poveri e al Creato. I musulmani in Veneto sono più di 170 mila, distribuiti in 150 comunità e ben 7 mila vivono sulle Dolomiti. «Le esperienze locali possono contribuire in modo determinante a realizzare il nostro progetto per un Islam italiano e veneto» spiega il presidente della Federazione islamica regionale, Bouchaib Tanji. «La costruzione di un Islam italiano – sottolinea Massimo Abdallah, segretario nazionale della Confederazione islamica – passa attraverso tre percorsi: il dialogo costante e proficuo con le istituzioni, nel rispetto dei principi della Costituzione; il dialogo con tutte le confessioni religiose, a partire da quella cattolica; il processo di interazione e convivenza dei musulmani nella vita civile e sociale del Paese». Significativa l’apertura del convegno di ieri con una preghiera dedicata al rispetto delle regole e della convivenza. E con il ricordo commosso delle due vittime venete del terrorismo, Valeria Solesin e Luca Russo. Per facilitare gli itinerari di convivenza, Enzo Pace, docente universitario a Padova, ha invitato gli atenei ad orientare i giovani verso ogni possibile forma di integrazione nella vita sociale e culturale del Veneto. Ma Onofrio Rota, segretario regionale della Cisl, ha auspicato - e non è stato il solo - che venga rivista la recente legge del Veneto sui luoghi di culto, introducendo condizioni meno restrittive dei limiti dell’esercizio della libertà religiosa. L’appello della diocesi di Belluno, con il Vescovo Renato Marangoni, e delle comunità islamiche, con gli Imam Kamel Layachi e Hassan Frague, impegna le amministrazioni a garantire «le condizioni per l’esercizio del culto per ogni comunità e le sue manifestazioni pubbliche, nel rispetto dell’ordine pubblico informato a giustizia». «Facciamo appello agli studiosi delle scuole di ogni ordine e grado - scrivono inoltre il vescovo e gli imam - per una rilettura della storia, sia locale che universale, che faccia emergere dall’oblio i luoghi e le epoche di pace e di dialogo che hanno caratterizzato cristiani e musulmani». Preciso anche l’impegno a «non trasmettere luoghi comuni o stereotipi sulle nostre tradizioni religiose e nemmeno culturali»; a promuovere la conoscenza reciproca attraverso incontri a tutti i livelli e per il servizio ai poveri, ai bisognosi, alle vittime della cultura dello scarto. E «vittima è anche il pianeta su cui abitiamo, che stiamo depauperando delle risorse senza pensare a chi ci seguirà nell’avventura della vita».

IL GAZZETTINO di domenica 22 ottobre 2017 Pag 9 Gli islamici moderati al Veneto: “Più moschee e sarete più sicuri” di Mauro Favaro

Treviso. «Bisogna iniziare ad aprire moschee nei luoghi autorizzati. Solo così si potrà realmente imboccare la strada dell’integrazione e, allo stesso tempo, garantire una maggiore sicurezza». Tanji Bouchaib, presidente della federazione islamica regionale, va dritto al punto. L’appello è stato lanciato dagli Stati generali dell’Islam veneto riunitisi ieri a Treviso. «Oggi nella nostra regione c’è una legge anti-moschee che impedisce l’apertura di centri di aggregazione – sottolinea Bouchaib – questa non ha senso perché i centri culturali sono dei punti di riferimento dove si va a discutere e a pregare. Non certo a fare terrorismo. Bisogna capire che l’Islam non è l’Isis. Dio ha mandato profeti per dare regole d’amore, non perché facessero i terroristi». Abdallah Khezraji, presidente dell’associazione Hilal e riferimento della comunità marocchina in Veneto, condivide: «Aprire delle moschee all’interno di spazi autorizzati è l’unico modo per riuscire a dare un’organizzazione alle persone di fede musulmana che sono presenti in Veneto». Secondo Bouchaib per quanto riguarda la questione sicurezza e anti-terrorismo è molto più difficile avere il polso dei gruppi di musulmani che si riuniscono in modo informale, magari dentro a un garage. In Veneto ci sono ormai più di 170mila fedeli di Allah. A fronte di questi, sono censiti circa 130 circoli islamici. Ma non moschee vere e proprie. E adesso la federazione chiede che venga fatto il grande passo. «Ho incontrato diverse volte il governatore Luca Zaia, ma alla fine non siamo mai stati ascoltati – racconta Bouchaib – gli abbiamo sottolineato in particolare che con l’apertura delle moschee sarebbe tutto più gestibile. Anche sotto il fronte della sicurezza. Per noi non sarebbe un problema segnalare alle autorità e alle forze dell’ordine eventuali fenomeni di radicalizzazione». Il presidente della federazione islamica veneta coglie l’occasione per provare a dare uno scossone a tutte le associazioni di musulmani presenti in Veneto. E lo fa partendo proprio dal contrasto al terrorismo. «Io sono sceso in piazza molte volte per manifestare contro atti di terrorismo, affinché la nostra posizione fosse chiara a tutti – incalza – ma non possono essere da solo. Anche perché non è il caso di mettere il governatore nella condizione di chiederci perché non facciamo sentire la nostra voce in piazza contro il terrorismo». La discussione si è poi spostata sullo Ius Soli. Bouchaib è marocchino di nascita e in Veneto da oltre vent’anni: «Perché un bambino che nasce in Italia e che conosce solo il nome del paese di origine della famiglia deve aspettare anni per poter avere la cittadinanza? I nostri figli che nascono qui prendono la cultura italiana». «È inutile nascondere la realtà: tra qualche anno uno di loro potrà essere sindaco o ministro - gli fa eco Khezraji -. Senza la cittadinanza, significa farli diventare persone senza identità». L’AUTONOMIA - Infine, c’è spazio per il referendum sull’autonomia. «Sono un cittadino italiano e vado a votare. Anche se non abbiamo dato ufficialmente indicazioni di voto – precisa Bouchaib – però basti dire che sono di Cinto Caomaggiore. Un paio d’anni fa abbiamo chiesto di poter passare con il Friuli. Credo che questo dica tutto». Come lui, andrà a votare anche Sara Jaouad, 23enne di Verona, che rappresenta la seconda generazione di immigrati. «Sento ripetere come slogan “Prima i Veneti”; beh, sono veneta anch’io. Andare a votare è un diritto, oltre che un dovere».

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Euro e fragilità, le 4 lezioni di una crisi di Lucrezia Reichlin

La grande crisi globale del 2008 e la crisi del debito europeo del 2010-2012 che ne è figlia, sono state il vero test per la solidità dell’Unione Monetaria e l’adeguatezza delle istituzioni che la sostengono. Un test ma anche un insegnamento su cosa debba essere fatto per rafforzare la nostra Unione e quale possa essere la base di un negoziato non velleitario con i nostri partner europei. Questo articolo, che segue quello di ieri sull’origine dell’euro e il suo governo economico, analizza gli anni della crisi. Sono quattro - a mio avviso - le lezioni della crisi. Primo. Per essere credibile, il principio stabilito dal Trattato di Maastricht, del «no bail-out» (nessuno Stato dell’Unione può salvarne un altro) combinato all’impossibilità di uscire dall’euro, deve essere accompagnato dalla possibilità di ristrutturare il debito sovrano in caso di insolvenza.«No bail-out», «no exit» (dall’euro), «no restructuring» è stata giustamente chiamata dall’economista Willem Buiter una trinità impossibile. La trinità implica che, di fronte a un caso di insolvenza - pensiamo qui alla Grecia - il solo strumento disponibile sia un consolidamento di bilancio draconiano che finisce per ammazzare l’economia. Questo sistema, inoltre, non è credibile tanto è vero che, alla fine, il debito greco è stato ristrutturato. Il ritardo e il modo caotico con cui questo è stato fatto hanno comportato enormi costi non solo per la Grecia, ma anche per tutti i contribuenti europei. Secondo. Un’Unione Monetaria è vulnerabile ad attacchi speculativi sul debito sovrano i quali creano crisi di liquidità che si auto-alimentano potendo diventare, se non si hanno strumenti per arrestarli, crisi di insolvenza. Ne ho parlato nella prima puntata. È interessante osservare come i mercati siano passati improvvisamente dalla situazione degli anni 1999-2010, in cui valutavano il debito pubblico di tutti gli Stati membri come egualmente rischioso, a un eccessivo pessimismo nei confronti dei Paesi più deboli, negli anni seguenti. Nel primo periodo il rischio Paese era sottovalutato perché si credeva ad una garanzia implicita della Banca Centrale Europea. Nel secondo, viene sopravvalutato perché nasce il dubbio che non ci sia un’istituzione in grado di erogare liquidità in caso di stress di finanziamento. L’esempio più tangibile per noi è stato la speculazione contro il debito sovrano italiano del 2011 e 2012. Terzo. In un’Unione Monetaria, le banche «cross-border» sono essenziali alla diversificazione del rischio poiché permettono l’ottimizzazione della liquidità in caso in cui i Paesi siano colpiti diversamente da una crisi. Ma affinché possano svolgere questa funzione, si ha bisogno di strumenti federali per la loro risoluzione e di una assicurazione sui depositi anch’essa federale. In assenza di questi strumenti il rischio della banca resta legato a quello del Paese singolo e anche le istituzioni «cross-border» si rinazionalizzano. Quarto. Una crisi finanziaria in una Unione Monetaria, se non accompagnata da strumenti che convincano gli investitori dell’integrità della moneta unica, crea il cosiddetto rischio di ridenominazione, cioè il rischio di un ritorno alle monete nazionali. Quest’ultimo spinge gli investitori stranieri a tornare a casa. Il mercato finanziario, quindi, si balcanizza. In questa situazione le banche - se in crisi - diventano dipendenti dalla capacità di intervento dei loro governi nazionali e i Paesi che hanno bisogno di rifinanziare il loro debito, dalle loro banche nazionali. Questo crea una correlazione tra rischio bancario e rischio sovrano. L’effetto è che le banche dei Paesi a rischio hanno maggiori difficoltà a rifinanziarsi e di conseguenza impongono tassi più alti alla clientela innestando un meccanismo in cui, invece della condivisione del rischio che avviene naturalmente in mercati integrati, il rischio si concentra. A questo punto i vantaggi della moneta comune spariscono e la politica monetaria ha grandi difficoltà ad operare. Questa ultima lezione non va sottovalutata. L’integrazione dei mercati finanziari ha un ruolo fondamentale per la condivisione del rischio tra Stati. Un altro strumento per la condivisione del rischio è quello fiscale che opera attraverso una tassa federale progressiva. A differenza che negli Usa noi non ce l’abbiamo e il dibattito pubblico si è spesso focalizzato sulla necessità di questo strumento. Tuttavia, anche negli Usa il ruolo fondamentale per la condivisione del rischio lo svolgono i mercati finanziari e non il fisco ed è per questo che i progetti di riforma in Europa devono prestare molta attenzione a questo aspetto. Un’Unione Monetaria non può funzionare se non si preserva l’integrazione dei mercati finanziari. Le regole fiscali combinate alla balcanizzazione dei mercati e alla impossibilità di usare la leva del cambio, creano, in caso di crisi, una pro-ciclicità della politica economica che ammazza l’economia come ormai riconosce anche il Fondo Monetario Internazionale. Se queste sono le lezioni, domandiamoci quindi cosa sia stato fatto dal 2008 ad oggi per risolvere i problemi individuati, quali siano le priorità e la relazione tra queste e le varie proposte sul tavolo: quelle francesi, tedesche, della Commissione europea e dell’Italia. Lo sforzo di costruzione di nuovi strumenti fatto negli scorsi anni per garantire la stabilità dell’euro non va sottovalutato. La riforma più significativa è stata l’unione bancaria ed in particolare la supervisione unica. Altri pezzi importanti sono stati la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità e l’arricchimento degli strumenti di sorveglianza macroeconomica. Purtroppo tutto ciò, ancora una volta, pone l’enfasi sulla prevenzione e non sul management delle crisi. Dobbiamo quindi domandarci cosa succederebbe oggi alla zona euro se fossimo colpiti da una nuova crisi finanziaria. Anche se un evento del genere non sembra essere prossimo, non possiamo non porci questa domanda perché, la storia insegna, le economie di mercato subiscono crisi periodicamente. Un altro limite del nuovo framework è la sua eccessiva complessità. Per quanto riguarda la parte macroeconomica, le regole sono sempre meno trasparenti e intrusive e hanno perso credibilità. Per la parte finanziaria, abbiamo oggi una frammentazione eccessiva del processo decisionale specialmente deleterio nel caso di banche a rischio di risoluzione. La sensazione che il sistema così come è sia fragile ce la hanno tutte le parti in gioco. Macron ha infatti fatto della riforma del governo della moneta unica uno dei pilastri della sua campagna elettorale. Lo stesso Schäuble, prima di lasciare il ministero delle finanze tedesco, ha fatto proposte di cambiamento e Juncker ne ha fatto delle sue anche piuttosto radicali. Tuttavia c’è una mancanza di chiarezza - o comunque di consenso - su quale sia il problema da risolvere e su cosa sia possibile e legittimo fare. Nella prossima puntata analizzerò la logica delle varie proposte alla luce dell’analisi qui presentata sulle lezioni della crisi.

Pag 25 Gli abusi ripetuti sulle donne e quell’omertà degli uomini che non mettiamo sotto accusa di Pierluigi Battista Le molestie di Weinstein e il dibattito a senso unico

Adesso è il turno di Quentin Tarantino, buon ultimo (per ora) a confessare di aver taciuto per paura e opportunismo sulle molestie sessuali che Harvey Weinstein ha esercitato sulla sua ex Mira Sorvino. Tarantino ammette di essere stato un vigliacco, lasciando sola la donna che amava per non compromettere i rapporti con il produttore di «Pulp fiction». Però, se fosse una donna, tutti si chiederebbero: perché non lo ha denunciato prima, perché ha aspettato tanto tempo prima di rendere pubbliche le colpe di Weinstein? Ma essendo un uomo, anche se sono passati gli stessi anni, anche se l’omertà è spiegabile con la stessa, identica soggezione a un potente arrogante, nessuno chiederà niente a Tarantino. Continueremo a discutere all’infinito sulle stesse cose che riguardano le donne, se si sono concesse per fare carriera, se davvero non avrebbero potuto sottrarsi ai ricatti sessuali, eccetera eccetera, ma intanto la vigliaccheria di Tarantino cadrà in prescrizione. Forse solo Mira Sorvino continuerà a chiedersi con che razza di uomo vigliacco si è messa tanto tempo fa: neanche un sussurro per difenderla dall’orco cattivo. Un dibattito è interessante per ciò che dice, ma anche per ciò che omette, per i discorsi ma anche per i silenzi, per le cose che mette in luce ma anche per ciò che viene nascosto nell’ombra, anzi nel buio del non detto. E da quando è esplosa la questione Weinstein, il grande, colossale non detto è proprio l’atteggiamento degli uomini, paurosi, complici, meschini, vili, opportunisti, codardi. Niente, neanche una parola. È successo anche con Brad Pitt. Tutti a scagliarsi contro Gwyneth Paltrow, primo perché non seppe dire di no, e secondo perché ha fatto passare tanti anni. Ma la Paltrow aveva 21 anni mentre il suo fidanzato Brad Pitt era già una star del cinema protetta dalla fama. Perché nemmeno una parola su Brad Pitt? Il quale risulta aver avuto un colloquio tempestoso con Weinstein ma poi basta. Silenzio da parte sua, e ora silenzio da parte dei media. Omertà, prima e dopo. Viltà. E (nostra) disinvoltura, ancora una volta, nel colpire un bersaglio comodo. Tutti sapevano, ma tutti vuol dire proprio tutti. Invece le accuse piovono su Meryl Streep che fa finta di essersene accorta solo ora. Ma non su Matt Damon, il quale avrebbe sì avuto anche lui in privato, molto in privato, una discussione con Weinstein che aveva molestato sua moglie ma poi ha minimizzato, giustificato il grande «predatore», anche a non voler dar retta alle accuse di una giornalista del New York Times, che ha appena denunciato le pressioni esercitate (ma smentite dagli interessati) insieme a Russell Crowe per insabbiare un’inchiesta del giornale sulle malefatte sessuali del gigantesco e potentissimo produttore. In Italia il regista Giovanni Veronesi ha avuto il coraggio, assente in tanti noi maschi, di non disegnarsi autocompiaciuto come un uomo integerrimo, ammettendo di aver saputo già al tempo del trattamento umiliante subìto da Asia Argento. Quanti sono in grado di pronunciare la stessa verità, anziché mettersi da parte, partecipare al tiro al bersaglio più comodo e corrivo? Perché non hanno parlato in tutti questi anni? E soprattutto: perché nessun uomo viene messo sul banco degli imputati per aver taciuto sinora? Tenere tutto in silenzio, girarsi dall’altra parte, accettare tacitamente, anche tacendo sugli affetti più cari, sugli amori violati, sulla dignità calpestata di chi ti è più vicino, non è anche questa una forma di scorciatoia per il successo, la stessa che avrebbero imboccato, stando alle accuse di oggi, le donne che sottostarono ai ricatti sessuali di Weinstein? Ecco perché il modo distorto con cui oggi si affrontano questi temi mette in evidenza un vizio culturale che ancora una volta considera «naturale» l’atteggiamento degli uomini, e sottoposto a censura solo quelle delle donne. Non gli uomini predatori, beninteso, ma gli uomini paurosi, nessuno escluso, compreso chi scrive. Quando diranno, tra vent’anni: tutti sapevano. Ma non dissero nulla, salvo prendersela con chi, certo tardivamente, certo perché adesso è più facile, ha deciso di rompere l’omertà. Se la sono cavata adesso, gli uomini paurosi. Se la caveranno ancora.

CORRIERE DELLA SERA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Le regole da rifare sull’Euro di Lucrezia Reichlin La crisi, la moneta

L’economia dell’eurozona sta vivendo una robusta ripresa. Nonostante le tensioni geopolitiche, si respira finalmente un’aria di ottimismo, ma le cicatrici della crisi si fanno ancora sentire e restiamo vulnerabili. Nonostante l’enorme sforzo di costruzione istituzionale degli ultimi anni, il governo economico della moneta unica è lacunoso e se dovessimo essere colpiti da una nuova crisi ci troveremmo di nuovo senza gli strumenti adeguati per affrontarla. Lo sa Macron - che ha fatto della riforma dell’euro un punto centrale del suo programma - e lo sanno anche i tedeschi che, anche se su posizioni ben diverse da quelle francesi, hanno accettato di sedersi a un tavolo di discussione. Per l’Italia l’esito di questa trattativa è di fondamentale importanza. Molto possiamo fare da soli per rafforzare la nostra ripresa e la crescita strutturale, ma la stabilità del sistema monetario e finanziario dipende da uno sforzo comune a livello europeo. Questa stabilità è la condizione per far funzionare tutto il resto. La moneta e la finanza sono il nostro sistema idraulico. Questo è il primo scritto in una serie di tre in cui il mio sforzo sarà quello di ripercorrere la storia della moneta unica e analizzarne ragion d’essere e debolezze per arrivare infine a dire la mia su quali dovrebbero essere le premesse per un ripensamento delle regole comuni e un ruolo costruttivo del nostro Paese in questa riflessione. P arto dall’affermazione che il futuro dell’euro sia legato strettamente al futuro dell‘Unione Europea (UE) e, viceversa, il futuro della UE sia legato a quello dell’euro. La ragione è la valenza politica, oltre che economica, della moneta unica. L’unione monetaria non era parte del progetto iniziale della UE. In principio ci si focalizzò su trattati per il libero scambio per porre le basi di un progetto che nasceva con una forte motivazione geo-politica: garantire la pace in un continente che usciva devastato dalla guerra. L’idea della moneta comune prende piede più tardi, con la prospettiva dell’unificazione della Germania. Con la caduta del Muro di Berlino si riapre in Europa la questione tedesca. La Francia accetta una Germania unita e più potente in cambio della moneta comune. L’obbiettivo - da parte di Mitterand - era quello di «europeizzare la Germania», di neutralizzare la sua forza fornendo un’alternativa al primato del marco tedesco nel sistema monetario europeo. Una moneta comune guidata da una istituzione - la futura Banca centrale europea - in cui tutti i Paesi fossero seduti intorno al tavolo, avrebbe dato più peso alle ragioni della politica economica francese rispetto ad un sistema in cui quest’ultima si doveva adeguare alla politica monetaria tedesca per garantire la parità di cambio. Dal punto di vista economico l’euro avrebbe dovuto risolvere il problema dell’instabilità del sistema dei cambi fissi o semi-fissi adottati dall’Europa dopo la fine di Bretton Woods, l’accordo che prevedeva la parità con il dollaro delle valute europee e di quest’ultimo con l’oro e che aveva garantito la stabilità monetaria nei primi venti anni del Dopoguerra ma poi entrato in crisi all’inizio degli anni settanta. Quei sistemi, nati per evitare la volatilità dei cambi flessibili, si erano rivelati proni ad attacchi speculativi contro le monete di quei Paesi che mal si adeguavano alla politica monetaria tedesca. Il problema che è apparso evidente nell’ultima crisi, però, è che la mera introduzione della moneta unica, senza istituzioni adeguate di sostegno, non garantisce la stabilità ma semplicemente tramuta le tensioni sul mercato del cambio del regime precedente in tensioni sul mercato del debito sovrano. Poiché gli Stati non possono più emettere moneta propria, il debito, anche quando è in euro, è di fatto in valuta estera visto che, in casi estremi, non è possibile ricorrere al finanziamento monetario del debito pubblico. Chi fornisce - in quei casi - la liquidità necessaria? Certamente l’impossibilità della monetizzazione del debito è un potente meccanismo di disciplina di bilancio, ma in caso di crisi - quando le difficoltà di rifinanziamento derivano da choc esterni, per esempio - ci rende vulnerabili ad attacchi speculativi. Il mercato, come nel regime precedente di tassi fissi, si chiede chi difenderà il Paese stressato e testa il sistema. Questo innesta un gioco pericoloso che porta all’impennata dei tassi di interesse, il quale a sua volta alimenta aspettative negative e può tramutare una crisi di liquidità passeggera in una più grave, di solvibilità. La moneta unica avrebbe dovuto dall’inizio dotarsi di strumenti per evitare questa intrinseca instabilità, ma il Trattato di Maastricht - che ne stabilisce le regole fondamentali - non se ne occupa e si concentra su altri problemi, altrettanto importanti, ma diversi. Il Trattato di Maastricht affronta due problemi. Primo, prevenire l’azzardo morale — cioè il problema che deriva dal fatto che i Paesi dell’Unione - potendo beneficiare di bassi tassi d’interesse - siano naturalmente portati a rilassare la disciplina di bilancio. Secondo, evitare a tutti i costi crisi di insolenza sovrana poiché in un mercato finanziario integrato, nel caso in cui un Paese va in default, le banche creditrici di tutti i Paesi membri sono colpite, con conseguenze per la stabilità finanziaria dell’Unione. Per far fronte a questi problemi, Maastricht stabilisce 3 principi: regole fiscali ex-ante per contenere deficit e debito, il principio del «no bail-out» (nessuno Stato dell’Unione può salvarne un altro) e «no monetary financing», cioè la proibizione di salvataggi da parte della banca centrale attraverso la monetizzazione del debito. Queste regole - che sicuramente hanno una loro logica e giustificazione - pongono l’enfasi sulla prevenzione delle crisi, ma non forniscono strumenti per la loro risoluzione o management una volta che queste ultime si siano manifestare. Questo impianto è stato sufficiente per garantire la stabilità della moneta unica nei primi suoi otto anni di vita, ma la grande crisi del 2008 - il suo vero primo test - ne ha rivelato l’inadeguatezza. Da quella crisi ne siamo usciti e non era ovvio, ma i costi sono stati enormi e le conseguenze non ancora digerite. Combattiamo ancora con l’eredità che ci ha lasciato. La prossima puntata individuerà le principali lezioni della crisi e le implicazioni che queste hanno oggi per il disegno delle politiche necessarie al rafforzamento dell’Unione.

Pag 1 Il salto nel buio e l’ombra della violenza di Franco Venturini

Ora che l’inevitabile è accaduto, la partita tra Madrid e Barcellona entra nel tempo dei pericoli estremi. Era certo inevitabile, al punto in cui si era giunti, che il primo ministro Mariano Rajoy evocasse l’articolo 155 della Costituzione per sospendere l’autonomia e l’autogoverno della Catalogna. In primo luogo a causa della personalità umana e politica dei due protagonisti della contesa, Rajoy alla testa degli unionisti spagnoli e Carles Puigdemont alla guida degli indipendentisti catalani. Entrambi determinati, e propensi a vedere in ogni compromesso il segno di una sconfitta. Entrambi convinti delle loro buone ragioni ma anche deboli, perché privi di una maggioranza di governo (Rajoy a Madrid) oppure sostenuti da consensi parlamentari fragili (Puigdemont a Barcellona). Entrambi pressati dai falchi del proprio schieramento. Entrambi impegnati in una personale battaglia di sopravvivenza politica. Si somigliavano troppo, Rajoy e Puigdemont, perché uno di loro potesse prevalere sull’altro prima dell’ultima resa dei conti: articolo 155 contro dichiarazione di indipendenza. E ora, dopo le schermaglie tattiche volte a colpevolizzare la controparte, è a questo risolutivo braccio di ferro che siamo arrivati. Rajoy ha voluto annunciare contemporaneamente l’amministrazione controllata della Catalogna e nuove elezioni regionali entro sei mesi. Forse per rispondere alle immediate accuse di «franchismo» e di repressione della volontà popolare dei catalani. Di sicuro per soddisfare le richieste appena udite al vertice europeo di Bruxelles: la Ue ti appoggia, siamo per il rispetto del dettato costituzionale in tutti i nostri Stati nazionali, non possiamo e non vogliamo interferire negli affari interni spagnoli, ma il governo di Madrid non prenda posizioni che possano apparire antidemocratiche all’opinione pubblica. Dopo le foto e i video delle manganellate dei poliziotti madrileni il giorno del referendum, era il meno che Rajoy potesse sentirsi dire. E l’appuntamento elettorale, per quanto generico, risponde bene a questa esigenza. Per ora, perché non è detto che i calcoli del primo ministro risultino esatti. L’articolo 155 è la versione costituzionale di un salto nel buio. La sua vaghezza affida al capo dell’esecutivo, previa (e scontata) ratifica del Senato, il potere di scegliere i mezzi più opportuni per far cessare lo stato di illegalità. Ed è non a caso soltanto questo che Rajoy ha annunciato ieri di voler fare. Ben sapendo, bisogna ritenere, che ogni passo del governo unionista in Catalogna comporterà rischi altissimi anche per le istituzioni centrali. Puigdemont potrebbe non essere destituito ma soltanto privato di tutti i suoi poteri che passeranno a un organismo transitorio espresso dal governo di Madrid. Lo stesso accadrà per gli altri membri del governo catalano e per il Parlamento di Barcellona, che conserverà soltanto funzioni di rappresentanza. E se Puigdemont, che ieri sera ha confermato in piazza la sua volontà di andare avanti, disobbedisse? Se i parlamentari si ribellassero all’imposizione? Bisognerebbe arrestarli. Come, di notte? Usando la forza (errore già fatto) ? Oppure in Catalogna ci sarebbero due governi paralleli, e il mondo intero riderebbe? Lo stesso vale per il controllo della polizia catalana, gli ormai celebri Mossos d’Esquadra. Se gli agenti si rifiutassero di eseguire gli ordini? E se tv e radio respingessero i controllori paracadutati da Madrid? Un caso di repressione della volontà di opinione, in uno dei più importanti soci europei? Uno scenario turco sulle Ramblas? C’è dell’altro. Una parte della popolazione è ormai mobilitata a favore dell’indipendenza e ha cominciato subito a far sentire la sua protesta. Gran parte della burocrazia catalana non lavorerà per Rajoy. Nel tempo episodi di violenza non possono essere esclusi. La situazione economica continuerà a peggiorare (proseguono l’esodo delle imprese e il calo di investimenti e turismo) inasprendo ulteriormente gli animi. Altre regioni autonome della Spagna potrebbero non volere che in Catalogna si crei un precedente. E alla fine le elezioni saranno sì più regolari del referendum indipendentista, ma avranno su di esse il timbro di Madrid. Un timbro che potrebbe spostare la maggioranza dei consensi, che secondo i sondaggi oggi è unionista, dalla parte degli indipendentisti. Chiudendo la partita. Mariano Rajoy ha tirato il dado nella sua Madrid, con l’unica opposizione di Podemos che parla di sospensione della democrazia. La sua difesa della Costituzione avrebbe potuto avere il conforto di scelte migliori, ma è giusta e democratica. Eppure a Barcellona la storia sarà diversa. E non è detto che basti spiegare, per l’ennesima volta, che la secessione non garantirebbe alla Catalogna un posto in Europa. Semmai il contrario. Ma a quello scenario l’Europa preferisce non pensare, fintanto che può permetterselo.

Pag 5 Una settimana decisiva, cosa accadrà? di Elisabetta Rosaspina La crisi in Catalogna

La corda si è spezzata e la Spagna è entrata ieri nel «territorio ignoto» del commissariamento di una comunità autonoma ribelle. Non era mai accaduto prima, nella storia della giovane democrazia spagnola, anche se 28 anni fa il governo minacciò le Canarie con l’articolo 155 della Costituzione per inadempienze fiscali, che furono sanate in tempo, con sollievo di tutti. Inizia dunque una settimana inedita e piena di incognite sia a Madrid sia a Barcellona, lanciate in direzioni opposte: il ripristino della legalità costituzionale per il governo centrale, la dichiarazione unilaterale d’indipendenza per la Generalitat della Catalogna. Prossimo passo per Madrid: l’approvazione del Senato - È certa, perché il Partido Popular, il partito conservatore del premier Mariano Rajoy, ha la maggioranza dei seggi nella Camera Alta. Ma non è immediata. Una commissione formata ad hoc con 27 senatori deve studiare le misure previste dal Consiglio dei ministri e le loro motivazioni, ovvero che non è stato possibile ricondurre con le buone la Catalogna all’obbedienza e all’ordine previsto dalla Costituzione e dalle sentenze del Tribunale supremo. Poi darà un termine (pochi giorni) al presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, per inviare le proprie argomentazioni, oppure per presentarsi in Senato, personalmente o tramite un suo delegato, e spiegare a voce le sue ragioni. Venerdì prossimo, salvo imprevisti, il Senato voterà l’applicazione dell’articolo 155. Sicurezza, economia, informazione: i poteri chiave - Il problema principale per il governo era decidere su quali settori dell’autonomia catalana intervenire. Alla fine ha optato per una linea dura: il presidente catalano Puigdemont e tutto il suo governo saranno destituiti e rimpiazzati da una squadra di tecnici in nome di una «neutralità istituzionale». Cambieranno anche i vertici della polizia catalana, i Mossos d’Esquadra, e della tivù catalana Tv3. Non meno importante, l’intera gestione delle risorse finanziarie catalane passerà sotto il controllo di Madrid. Già nei giorni scorsi, Hacienda, l’agenzia delle entrate, aveva aperto un conto corrente dove convogliare i fondi destinati alla Catalogna (circa un miliardo e 400 milioni di euro al mese), ma ora amministrerà anche i finanziamenti locali, ossia i tributi raccolti direttamente dalla Generalitat. Nelle scorse settimane il vicepresidente catalano Oriol Junqueras si era rifiutato di inviare un rendiconto che gli era stato chiesto dal ministero delle Finanze per verificare l’uso di denaro pubblico per l’organizzazione del referendum del primo ottobre. Le contromosse a Barcellona - La Ciudad Condal, la città dei conti, non resta impassibile. Domani si riunisce la giunta dei portavoce nel Parlament per fissare la prossima riunione plenaria. L’ordine del giorno potrebbe essere generico: «valutazione della situazione politica» (come quello del 10 ottobre che servì invece per proclamare i risultati del referendum, la vittoria dei Sì alla creazione di una repubblica indipendente di Catalogna e la proposta di Puigdemont di sospendere la relativa dichiarazione d’indipendenza per aprire un dialogo con Madrid). Considerato il dialogo impossibile, Puigdemont metterà ai voti la dichiarazione e anche in questo caso l’esito è scontato, perché gli indipendentisti hanno la maggioranza dei voti. Elezioni per tutti in ogni caso - Sia la tabella di marcia di Madrid sia quella di Barcellona prevedono al termine del loro svolgimento le elezioni. Ma con scopi diversi. Madrid vuole riportare i catalani alle urne per eleggere un nuovo Parlament, mentre Barcellona ha disposto nella sua legge di transizione (votata e approvata il 6 settembre) elezioni «costituenti» che pongano le basi della nuova repubblica indipendente. Si aprono due scenari, con conseguenze similari: alle elezioni anticipate convocate da Madrid non parteciperebbero i partiti indipendentisti, mentre a quelle costituenti non si presenterebbero i partiti unionisti. In entrambi i casi la partecipazione al voto rischierebbe di essere molto bassa e il risultato poco rappresentativo. L’ultima possibilità per Puigdemont - Convocare elezioni anticipate spontaneamente, prima che il Senato formalizzi venerdì, con il voto, l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione e il commissariamento della comunità autonoma. In tal caso la macchina avviata dal Consiglio dei ministri di ieri si fermerebbe. Ma è un’eventualità su cui nessuno scommetterebbe un centesimo. La stessa presidente del Parlament, Carmen Forcadell, ha assicurato che non ci saranno passi indietro. Il ricorso alla forza - È la grande incognita. Non essendoci precedenti, non si sa bene come avverrà materialmente la presa di potere nelle istituzioni catalane da parte degli organi centrali. Se i Mossos d’Esquadra resteranno compatti e fedeli alla Generalitat o al governo centrale. Da oltre un mese rinforzi della Policia Nacional e della Guardia Civil sono distribuiti su navi da crociera, nel porto di Barcellona, in caserme dell’Esercito e negli hotel, in attesa di un ordine.

Pag 14 Il male oscuro dell’Europa di mezzo. Partono i giovani, restano i nazionalisti di Federico Fubini

L’Ungheria è in mano a Viktor Orbán, un leader che non prova imbarazzo nel millantare i vantaggi della sua «democrazia illiberale». In Polonia Legge e Giustizia, il partito di governo, ha azzerato l’indipendenza del potere giudiziario. In Slovacchia gli accenti del premier Robert Fico suonano sempre più antieuropei e ostili ai migranti, mentre la regione di Banská Bystrica è controllata da un partito apertamente fascista. Da ieri poi un oligarca populista contrario all’euro e risolutamente deciso a non accogliere un solo rifugiato, Andrej Babis, è il nuovo leader a Praga; dietro di lui intanto crescono una formazione di estrema destra e un partito dei Pirati antisistema. Non è la transizione verso la democrazia che molti immaginavano al crollo del Muro nel 1989. Né è questo il passaggio all’economia di mercato promesso all’ingresso nell’Unione Europea, 13 anni fa, dei primi Paesi emersi dal socialismo reale. Neppure quelle antiche nazioni d’Europa centro-orientale, voltandosi indietro, potrebbero riconoscersi oggi nell’immagine di quegli anni carichi di speranza. Le differenze non sono solo nell’auto sotto casa o nella libertà di votare e di insultare liberamente chiunque su Facebook, ma in primo luogo nei numeri. In questi ventisette anni, i popoli di mezzo fra la Russia e l’Europa Occidentale si sono ristretti. E proprio la loro erosione spiega perché stiano voltando le spalle sempre di più alla tolleranza che un tempo era il loro sogno. I numeri non perdonano, benché calcolati senz’altro per difetto nei dati ufficiali. Dalla sera del crollo del Muro di Berlino la Bulgaria ha perso il 21% della popolazione, l’Ungheria circa il dieci per cento, la Lituania il 24%, la Lettonia un terzo degli abitanti e l’Estonia oltre un sesto. Lungo la dorsale che corre dal Mar Baltico all’Adriatico oggi insistono sette milioni di persone in meno rispetto al giorno del 1991 in cui Boris Eltsin sancì la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Il motivo di questo collasso demografico suona familiare anche in Italia e nei Paesi mediterranei, dopo le recessioni degli ultimi anni. L’Europa di mezzo, un territorio di poco più di cento milioni di abitanti, ha visto emigrare verso le regioni ricche della Ue oltre 20 milioni dei suoi figli. Il Fmi stima che fino al 2012 quasi la metà di questi migranti si sia recata in Germania e circa un decimo in Italia, ma da allora la prima è diventata più ambita e la seconda sempre meno. In gran parte sono partiti da Est giovani e spesso laureati, secondo le stime del Fmi. Nel quarto di secolo iniziato nel 1990 solo dai Paesi in transizione di maggior successo - Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Polonia e Slovenia - sono emigrati verso le economie avanzate 7 milioni di lavoratori. Dal fianco sud-orientale dell’Unione - Bulgaria, Romania, Croazia - se ne è andato oltre il 15% della popolazione. Nazioni come la stessa Bulgaria o le orgogliose Repubbliche baltiche, quelle che per prime sfidarono Mosca, oggi si dibattono in una crisi non più solo demografica. È fiscale, perché diventa impossibile finanziare le pensioni quando si perde un terzo della forza-lavoro. Ed è esistenziale, perché una certa opinione pubblica vede il proprio popolo minacciato di estinzione in un’Unione Europea di quasi mezzo miliardo di persone. Persino nel Patto di Varsavia sembrava impensabile. Per questo fra gli anziani e i meno ambiziosi che restano indietro, il richiamo dei nazionalisti suona sempre più seducente. La regressione democratica dell’Europa centro-orientale ha qui le sue radici. Non può essere un caso se, da Budapest, Orbán ha lanciato una campagna per impedire ai giovani medici di emigrare e realizzare così all’estero i benefici dell’educazione ricevuta in Ungheria. Fatta così è una carica contro i mulini a vento, anche se quel flusso di laureati è davvero un sussidio dai poveri ai ricchi: ai contribuenti ungheresi formare un laureato costa circa 100 mila euro, secondo l’Ocse di Parigi, ma l’investimento frutterà in Germania o in Svezia. Proprio l’enorme differenza nei redditi nella Ue e la promessa tradita di una convergenza fra Est e Ovest hanno dominato le elezioni a Praga. La molla delle migrazioni del resto è in quella forbice che ha smesso di chiudersi. Un operaio della Volkswagen-Skoda in Repubblica Ceca costa un terzo che in Germania ed è quasi altrettanto produttivo, ma il costo della vita a Praga è ben più di un terzo di quello di Stoccarda. Parte della mancata convergenza dei salari si spiega proprio con l’emorragia migratoria che - stima l’Fmi - ha tolto all’Europa di mezzo sette punti di reddito e dunque finisce per alimentare se stessa. E con il fatto che a Est le grandi imprese e le banche che fissano i salari sono in gran parte di proprietà estera e cercano proprio il basso costo. In fondo la magia del mercato avrebbe dovuto riequilibrare l’Europa e invece, lasciata a se stessa, alimenta le fratture. Adesso anche in politica.

Pagg 22 – 23 Caporetto: “Fu una sconfitta, non una disfatta. Lo sbaglio del comandante Cadorna è stato quello di incolpare i suoi soldati” di Aldo Cazzullo Intervista al generale Graziano

Generale Graziano, lei comanda le forze armate italiane. Che cent’anni fa, a Caporetto, vissero la loro disfatta più terribile. «Non fu una disfatta. L’8 settembre fu una disfatta». E Caporetto? «Fu una gravissima sconfitta. Che portò alla vittoria. Senza Caporetto non ci sarebbe stata Vittorio Veneto. L’esercito si riprese. Accadde una cosa mai accaduta, né prima né dopo: il Paese intero scese in guerra. E, brutto a dirsi, cominciammo a odiare il nemico. Capimmo che era in gioco la sopravvivenza dell’Italia. Fu la nascita, o la rinascita, della nazione». Com’è stato possibile il crollo? «C’erano i tedeschi. Le forze imperiali germaniche furono fondamentali nello sfondamento. Due mesi prima sulla Bainsizza eravamo andati vicini a vincere la guerra, anche se non ce n’eravamo accorti. Alla spallata successiva l’Austria sarebbe crollata; per questo chiese aiuto alla Germania». Quale fu la responsabilità di Cadorna? «Il comandante in capo è sempre il primo responsabile; anche se Capello, il comandante della seconda Armata, non mise in atto tutte le prescrizioni. C’era stata una regressione nella qualità di comando. Mancò il controllo dell’artiglieria». Come mai i cannoni di Badoglio tacquero? «La commissione d’inchiesta fu severa con tutti tranne lui, che al fianco di Diaz stava riorganizzando l’esercito. Ma a Caporetto sbagliò: non riuscì a far arrivare l’ordine di aprire il fuoco, e i suoi ufficiali non avevano l’autonomia che avevano i pari grado tedeschi». Quali sono le altre cause di Caporetto? «Venne usato il gas. Non vi fu la percezione del disastro: era una giornata di nebbia e pioggia. Le prime linee combatterono. Poi le retrovie crollarono. La stanchezza per due anni e mezzo di “inutile strage”, la propaganda disfattista, gli effetti della rivoluzione russa: queste percezioni filtravano. Purtroppo Cadorna non colse quella stanchezza morale». I soldati andavano all’assalto piangendo. «Sull’Ortigara si comprese che era finita la fase eroica delle prime battaglie. I fanti andavano alla morte rassegnati. Eppure continuavano ad attaccare, con un’abnegazione ammirata più dai nemici che dagli alleati, come i francesi, che continuavano a criticarci». Ci sono troppe vie dedicate a Cadorna? «Cent’anni dopo non si può mettere in discussione la memoria. Ho studiato la personalità di Cadorna alla Scuola di guerra americana. Era un uomo rigido, con problemi di comunicazione e poca capacità di empatia. Ed era un comandante vigoroso, che seppe gestire due momenti fondamentali: fermò la spedizione punitiva sugli altopiani, e preparò le linee sul Piave e sul Grappa, dando sia pure in ritardo gli ordini che hanno permesso di salvare il Paese. L’elemento negativo fu la tentazione iniziale di dare la colpa di Caporetto ai soldati. Questo un capo non può farlo. Mai. I soldati caduti o che stanno combattendo li devi sostenere. Rimpiazzare chi ha ceduto, ricreare il morale. Purtroppo il generale delle battaglie non ha mai saputo diventare il generale della vittoria». È giusto riabilitare i fucilati? «Nessun Paese l’ha fatto. Gli inglesi hanno decretato il “perdono collettivo”, e questa mi sembra una via condivisibile. All’epoca il senso della vittoria prevaleva su altri sentimenti; il codice militare risaliva all’800 ed era molto rigido; ci furono eccessi nell’applicazione della pena di morte. Nei momenti di crisi c’era l’esigenza di mantenere la solidità dell’esercito». Ci furono fucilazioni di massa. «Infatti è giusto distinguere tra i processi celebrati regolarmente, dove non ci può essere revisione di giudizio, e le esecuzioni sommarie. Tra chi ha commesso il fatto rischiando di mettere a rischio la stabilità del fronte, e le vittime delle decimazioni. Tra chi ha combattuto e chi è fuggito. I friulani e i veneti delle terre occupate videro soldati battersi per proteggerli e altri ritirarsi. Oggi noi dobbiamo riconoscere il giusto merito ai valorosi, e pensare con pietà a tutti i caduti. Una forma di rispetto nazionale». Ma quella guerra era meglio non farla. «Non potevamo non farla. Tutti i Paesi europei, le potenze ma anche gli Stati balcanici, stavano combattendo. E noi non eravamo isolati come la Spagna. Prima o poi saremmo stati coinvolti». Come spiega la rinascita sul Piave? «Tutto accade in pochi giorni. La linea tiene sul Grappa. Il 16 novembre nella battaglia di Fagaré entrano in linea i ragazzi del ’99, accanto ai fanti della Terza Armata ritiratisi dal Carso. Quella prima vittoria fu un raggio di luce nel momento della disperazione. A dicembre la grande battaglia d’arresto sul Piave era vinta. I tedeschi ritirarono i loro contingenti». Come fu possibile? «I fanti compresero che la sconfitta non avrebbe portato la pace, ma la disgregazione nazionale. Realizzarono che non c’era altra via che resistere e vincere. Combattevano per salvare le loro famiglie e il Paese. Fu anche merito del vecchio capo, che aveva costruito linee e riserve. E poi per la prima e unica volta nella storia l’esercito ebbe dietro tutto il Paese. Comincia la guerra totale, animata da una totale volontà di vittoria. Le fabbriche costruiscono più aeroplani nell’anno tra Caporetto e Vittorio Veneto che in tutta la seconda guerra mondiale. Le donne dimostrano di saper fare gli stessi lavori degli uomini, magari meglio. Si impongono regole militari anche ai civili. E si sviluppano l’odio e l’aggressività verso il nemico». Fino a quel momento non odiavamo gli austriaci? «No, tranne alcuni di noi. I bergamaschi, intrisi di cultura risorgimentale e garibaldina. I valdostani, considerati i soldati perfetti: rudi montanari e cacciatori, da sempre erano la guardia dei Savoia, combattevano gli austriaci da sei generazioni. Infatti bergamaschi e valdostani ebbero la più alta percentuale di caduti. Tutto cambia di fronte allo stupro del Friuli, all’occupazione, alla violenza contro i civili». Nella seconda guerra mondiale l’Italia non ritrovò quello spirito. «No. L’Italia entrò in guerra convinta che fosse già finita, senza capirla, senza sapere quel che stava facendo. Poi arrivò l’8 settembre. Badoglio, che si era battuto bene sul Sabotino, sul Piave, in Etiopia, concluse male la sua lunga carriera, lasciando le truppe senza ordini. Quello sì fu un disastro senza rimedio. Ci sono voluti decenni all’esercito per riprendersi». Quale fu la svolta? «Libano 1982. Le forze armate italiane, già apprezzate per l’intervento dopo il Vajont, il Friuli, l’Irpinia, tornano a svolgere il compito fondamentale: impugnare le armi per la sicurezza internazionale. Poi vengono il Mozambico, la Somalia, i Balcani, l’Afghanistan, l’Iraq. C’è il riconoscimento identitario delle forze armate come un lavoro importante, che dà prestigio al Paese. Si abolisce la leva perché gli italiani non vogliono più pagarne il prezzo sociale, e anche perché le missioni di pace richiedono militari professionisti». Anche questo è brutto a dirsi, ma i soldati italiani hanno ripreso a morire. «Hanno dimostrato che sono pronti a dare la vita per la patria. Da loro viene un fortissimo messaggio etico e di forza morale: ci si mette al servizio di altri Paesi, e dei compatrioti con l’operazione Strade sicure». Come mai finora il terrorismo non ha colpito l’Italia? «Nessuno è al riparo. L’Italia sa far cooperare Esteri, Interni, Difesa, servizi. Lavoriamo sulla sicurezza interna e sulla difesa avanzata in Iraq, Afghanistan, Medio Oriente. Il terrorismo è sempre esistito. Ora è più pericoloso a causa del fondamentalismo islamico, della disgregazione di Stati come Siria e Libia, dell’emigrazione senza controllo». Teme che i «foreign fighter» sconfitti a Mosul e a Racca possano tornare in Europa nascondendosi tra i migranti? «I migranti non sono terroristi, sono vittime dei trafficanti. Ma questi irriducibili esistono. Li dobbiamo individuare e bloccare, con l’aiuto dell’intelligence internazionale». Lei due anni fa disse al «Corriere» che fermare gli scafisti non era impossibile. «Lo confermo. Quel che non si può fermare è la migrazione. Nella storia nessuna migrazione è mai stata fermata. Si può limitare, governare, è una questione epocale, che ci accompagnerà per anni». Qual è il ruolo dell’Italia in Libia? «Stiamo aiutando i libici perché ce l’hanno chiesto. Contribuiamo a costruire organismi di sicurezza. Siamo nell’operazione “Mare sicuro” per proteggere le linee di comunicazione. Abbiamo la guida di “Sofia”, l’operazione internazionale contro i trafficanti che coinvolge unità navali spagnole, tedesche, irlandesi, olandesi. Addestriamo la guardia costiera libica. La Tremiti è nel porto di Tripoli. Abbiamo un ospedale a Misurata per curare i feriti negli scontri con Daesh e formare i medici libici». Quando torneremo dall’Afghanistan? «Stabilizzare i Paesi è un lavoro lungo. Siamo in Kosovo da quasi vent’anni. Il Libano, dove siamo dal 2007, adesso è relativamente stabile. In Afghanistan abbiamo 900 uomini, il secondo contingente dopo gli americani. Nel 2005-2006 ero comandante di brigata, l’esercito afghano aveva poche migliaia di soldati, male armati e male equipaggiati: ora sono centinaia di migliaia, ma si battono in un’area dove agiscono l’Isis, i talebani, i trafficanti droga. Non è il momento per abbandonare l’Afghanistan».

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AVVENIRE di domenica 22 ottobre 2017 Pag 3 Vedere Caporetto, dire basta Cadorna di Ferdinando Camon Via dalle vie il generale massacratore d’umanità

Cent’anni fa, Caporetto. La sconfitta di Caporetto vuol dire sconfitta di Luigi Cadorna. La sconfitta finale di Cadorna non è una sorpresa, se uno tiene presente la sua tattica, l’immenso spreco di vite umane in cambio di un briciolo di territorio, o anche di niente. Mettendo in fila le 11 spallate dell’Isonzo, con le centinaia di migliaia di vite umane che sono costate, sempre con la tattica suicida dell’attacco frontale, e traguardando dall’una all’altra, in fondo si vede Caporetto: la spallata finale e la sconfitta finale, la catastrofe. Ci sono diversi modi per affrontare Cadorna, ogni storico ha il suo, e ogni militare pure, ma c’è anche un modo, per così dire, letterario, che permette a chi non ha confidenza con il comando militare, con i campi di battaglia, ma soltanto (magari solo un po’) con i libri e la lettura, di farsi un’idea sulla tattica di Cadorna, e dire la sua. Cadorna ha scritto un libro. Una guida. Più esattamente, una spiegazione del proprio concetto di battaglia, di distruzione del nemico, di vittoria, e dell’obbligo dei soldati all’obbedienza totale, anche agli ordini che prevedono la loro morte. Ora, dare ordine a un soldato o a un reparto perché vada a un’operazione in cui rischia di morire, è nello spirito militare, un soldato o un reparto sanno che possono morire. Ma con gli ordini di Cadorna, e degli ufficiali che applicavano le direttive di Cadorna, i soldati sapevano un’altra cosa: che 'dovevano' morire, non avevano nessuna possibilità di salvarsi. Non erano ordini di battaglia, ma una condanna a morte. Senza alcuna colpa a monte e senza alcun vantaggio a valle. Il vantaggio lo vedeva soltanto Cadorna, ma era una sua allucinazione. La sua guida al combattimento, distribuita a tutti gli ufficiali, si può ancora trovarla sul mercato, basta chiederla a Google e te la procura in copia anastatica, con la firma a mano del Generalissimo sotto l’ultima pagina. S’intitola 'Attacco frontale e ammaestramento tattico'. L’unica idea tattica di Cadorna è l’assalto. Tu vai di corsa contro il nemico, più ti avvicini più il nemico ha paura, quando gli sei addosso il nemico si nasconde in fondo alla trincea. Poiché è un passaggio importante, leggiamolo dal libro di Cadorna, pag. 26: «La persistenza nell’avanzare da parte dell’attaccante induce il difensore ad appiattarsi ed a tirare alto». Prendiamo Emilio Lussu, 'Un anno sull’Altipiano', pag. 107. Lussu è finalmente arrivato addosso al nemico, davanti alle sue trincee, per strada son caduti quasi tutti i suoi compagni di reparto, falciati dalle mitragliatrici. Lussu è sorpreso dal tonfo pesante con cui cadono, come se precipitassero dagli alberi. È a portata del nemico. Ce l’ha davanti. È la situazione sognata da Cadorna, quella in cui il nemico dovrebbe «acquattarsi». E invece: «Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano: 'Basta! Basta!'. 'Basta' ripeterono gli altri, dai parapetti. Quello che era senz’armi mi parve un cappellano. 'Basta! Bravi soldati. Non fatevi ammazzare così'». Ci voleva un cappellano per accorgersi dell’insensatezza di quella strage. Cadorna impostava i suoi attacchi frontali per giungere in faccia ai nemici e vederli «acquattarsi» per paura di morire, invece li vede spaventati per la nostra morte in massa, la nostra strage. Il nemico non ha pietà di sé ma di noi. L’attacco frontale di Cadorna è un omicidio di massa per il comandante, un suicidio di massa per la truppa. Qualche anno fa ho chiesto dai giornali alle città che hanno vie o piazze dedicate a Cadorna di cancellare il suo nome. Udine l’ha fatto subito. E Udine è la città dove Cadorna aveva posto la sede del suo comando. Da questo giornale, che ha condiviso e condivide questa ormai urgente domanda, torno a estendere la richiesta alle altre città.

Pag 24 Caporetto, lo scaricabarile della vergogna di Alessandro Marzo Magno e Roberto Festorazzi

«È una Caporetto»: la frasetta è ormai diventata proverbiale. Il ricordo della sconfitta in quella che i nemici di allora, gli austroungarici, definivano la dodicesima battaglia dell’Isonzo è ancora oggi così vivo nella memoria da suscitare sentimenti contrastanti. Fu tradimento? Colpa dei generali inetti? Responsabilità dei soldati poco combattivi? Curiosamente pochissimi sanno dove sia oggi e come si chiami questa località; per la cronaca: Kobarid, e sta in Slovenia, nella valle del fiume che per noi è Isonzo e per loro Soca. Dal 24 ottobre, giorno dell’occupazione di Caporetto, al 10 novembre 1917, con il rischieramento sulla linea del Piave e del Grappa, l’esercito italiano perde 650.000 uomini su un milione e mezzo di combattenti (40.000 morti e feriti, 260.000 prigionieri, 350.000 sbandati) e deve abbandonare nelle mani del nemico 3000 cannoni, ovvero la metà di tutta l’artiglieria. Nella peggiore tradizione italiana, nessuno si vuole assumere la responsabilità degli eventi e prima si scaricano le colpe addosso agli 'altri', poi si cerca di mettere la polvere sotto il tappeto. Significativa la voce 'Caporetto' dell’Enciclopedia Treccani, scritta in epoca fascista, e materialmente redatta da Amedeo Tosti, un ufficiale dell’esercito che si dedicava alla storia militare. «Lo stato d’animo delle nostre truppe non era più quello delle prime battaglie dell’Isonzo: la stanchezza, il pensiero delle famiglie assoggettate a tutte le restrizioni imposte dalla guerra, l’incertezza circa la durata di questa e la lentezza dei nostri progressi territoriali nonostante le perdite sempre più ingenti, la propaganda sovversiva e pacifista, infine, e quella che il nemico tentava d’insinuare dalle sue trincee nelle nostre, avevano finito col far presa nell’animo dei nostri soldati». Non c’è ombra di autocritica, si fa capire che la responsabilità è dei soldati, un po’ per l’ineluttabilità degli eventi, un po’ per via dei nemici interni (pacifisti) ed esterni (austriaci). Sul comportamento dei comandi, neanche una parola; d’altra parte sarebbe stato difficile attendersi qualcosa di diverso facendo compilare la voce a un militare di carriera. Ancora più significativo è quanto accaduto col romanzo Addio alle armi, di Ernest Hemingway. Lo scrittore americano descrive ciò che era accaduto sul fiume Tagliamento: accanto a uno dei pochi ponti rimasti in piedi, dove si accalcavano le truppe in ritirata, era stato allestito un improvvisato tribunale militare. Gli ufficiali che si presentavano alla spicciolata, senza i propri sottoposti, venivano frettolosamente processati e fucilati per aver abbandonato gli uomini di fronte al nemico. La voce si era sparsa e molti ufficiali si strappavano i gradi, tentando di farsi passare per soldati semplici, ma venivano esaminate le maniche delle giubbe e scattava immediato l’arresto se si vedeva l’ombra scura del tessuto che al di sotto della mostrina non si era scolorito. L’episodio non era inventato (Hemingway era stato testimone della rotta di Caporetto) ma ha ugualmente fatto scattare la cen-« sura sul romanzo. Addio alle armiè uscito in inglese nel 1929, ma è stato tradotto in italiano soltanto diciassette anni più tardi, nel 1946, da Mondadori, quando ormai sull’onore delle forze armate si erano addensate ben altre nubi. Tra l’inizio e il 10 novembre 1917, ovvero a ridosso degli eventi, Giuseppe Prezzolini scrive un pamphletche analizza le ragioni della sconfitta e che verrà pubblicato nel 1919, dalle Edizioni della Voce, con il titolo Dopo Caporetto. L’analisi di Prezzolini è impietosa: gli ufficiali effettivi si imboscavano e mandavano a morire i disprezzati colleghi di complemento. «Quello che l’ufficiale ha fatto nell’esercito è quello che la borghesia ha fatto nel Paese», scrive, aggiungendo: «La nostra borghesia, mentre usa i propri privilegi, non sente il peso dei suoi doveri». E poi ancora: «Se l’ufficiale è lo specchio della borghesia, il soldato è lo specchio del popolo: e ambedue non differiscono molto, perché un popolo ha la classe dirigente che sa esprimere dal suo sangue, e la classe dirigente ha il popolo che sa educare e dirigere». I mali dell’esercito sono i mali del Paese e la sconfitta va imputata a questi mali. Nel denunciarli, lo scrittore usa concetti e parole di sorprendente attualità: «La classe dirigente italiana nasce e proviene dalla grande massa che chiamiamo popolo. Non è separata casta». L’Italia di Caporetto, nel giudizio di Prezzolini, appare tragicamente simile a quella attuale.

«Avevamo perduto tutti la testa, chi prima e chi dopo». Così riassume la débâcle di Caporetto il maresciallo maggiore dei reali carabinieri Temistocle Macinanti, in un diario che costituisce una delle testimonianze più drammatiche ed eloquenti della sconfitta del nostro esercito la quale, dal 24 ottobre 1917, produsse l’arretramento del fronte, con il rischio concreto della totale caduta degli argini difensivi. Un secolo dopo, la ferita di Caporetto, sanguina ancora, nella coscienza nazionale, con i suoi undicimila morti, i 29 mila feriti, i 280 mila prigionieri. Un bilancio tragico cui si deve aggiungere la fuga di 350 mila soldati dalle linee abbandonate, ai quali si sommarono 400 mila profughi civili costretti a lasciare le loro case. Classe 1880, Macinanti, un corazziere dalla statura fisica imponente, e ancora più marziale quando era in sella al suo cavallo, ha lasciato un memoriale rimasto finora inedito, scritto tra il novembre del 1917 e il marzo del ’18, mentre era prigioniero dei tedeschi, a Mannheim. Un documento prezioso che aiuta a farci riflettere sulla nostra Sedan, soprattutto perché rappresenta la testimonianza di uno che, a Caporetto, c’era davvero. Il testo ci è stato consegnato dalla figlia del carabiniere, Maria Antonietta Macinanti Giussani, che vive a Como. Alla narrazione del maresciallo dell’Arma, è stata ispirata una riduzione drammaturgica, lo spettacolo Caporetto: le cause di una disfatta, andato in scena, nell’ot- tobre del 2015, a Bologna. Nelle cinquanta fitte pagine del diario autografo, il carabiniere-soldato descrive l’apocalisse che sconvolse le nostre linee, dalle 2 del mattino del 24 ottobre 1917. Nel settore di Tolmino-Plezzo, cinquanta chilometri che segnavano la barriera naturale dell’Isonzo, l’attacco degli austro-tedeschi, peraltro atteso e preventivato, squarciò il nostro fronte, seminando il panico tra le truppe ancora attestate su posizioni offensive anziché difensive. Macinanti si sofferma, soprattutto, ad analizzare le cause morali della sconfitta, che non fu soltanto dovuta a inadeguate capacità militari degli alti comandi del nostro esercito. Il combattente dell’Arma, è scandalizzato soprattutto dal crollo della disciplina, e del senso dell’onore, che dilagano, nei ranghi. Con effetti a cascata che, dagli alti vertici di comando, cioè dal corpo degli ufficiali, si ripercuotono sui fanti che languiscono, nelle trincee di sangue e di fango. I soldati sono demoralizzati, oltre che dalla sfiancante lunghezza del conflitto, che decima la truppa di giorno in giorno, anche al constatare la vita brillante che conducono i loro superiori gerarchici, che vivono in ville di lusso requisite nel retrofronte, e fanno spreco di vita mondana dedicandosi a mollezze d’ogni genere. I cattivi esempi, le ruberie, i loschi affari, gli sprechi, contagiano lo spirito dei nostri combattenti, che si abbandonano a insensatezze: fanno ruzzolare formaggi dai pendii, lasciandoli precipitare nei torrenti, arrivano ad ammazzare i cavalli per la quantità spropositata di zucchero che fanno loro ingurgitare, sprecano le vettovaglie a tonnellate, distruggono armi e munizioni e maltrattano i poveri equini, percuotendoli selvaggiamente o lasciandoli per giorni senza acqua né cibo. La diserzione, poi, raramente, osserva Macinanti, è punita con la necessaria severità. In tal modo, nelle retrovie, e nelle trincee, può accadere di tutto. Soldati che sostituiscono i canti patriottici con stornelli da lupanare, crocerossine ingiuriate con epiteti rivoltanti. E, per sottrarsi alla pugna, vengono escogitate le 'astuzie più criminali'. Ingegnose automutilazioni, simulazioni di traumi psichici, ingestioni di tabacco, sapone e ogni altro veleno, per poter essere riformati: con il risultato, che molti degli autori di questi atti riprovevoli alla fine ci rimettono la vita. Ma altrettanto gravi sono le insufficienze tra le gerarchie militari, con fughe generalizzate dalle responsabilità. Caporetto è figlia di questa carente capacità di organizzare efficacemente la condotta bellica, una specie di sclerosi burocratica: 'I superiori non comandavano, domandavano consigli, si veniva ad alterchi tra i vari comandanti, dove finiva per prevalere l’opinione di chi consigliava l’indietreggiamento. Pertanto, anche reparti che da posizioni privilegiate avrebbero potuto causare serie perdite al nemico, si astennero dal fare fuoco; altri si trovarono completamente sprovvisti di munizioni: o non erano stati riforniti o erano state gettate dai singoli elementi abituati a disfarsene per alleggerirsi'. 'A forza di democratizzare l’esercito, lo si era demoralizzato', osserva Macinanti, il quale non può tuttavia fare a meno di rilevare come la maggior parte dei soldati dimostrasse, pur nelle situazioni più tragiche, coraggio e abnegazione. Dunque, la conclusione: 'in una parola, la débâcle avvenne anche pel poco di marcio che non si ebbe mai il coraggio di eliminare'. Temistocle Macinanti sopravvisse anche alla prigionia e poté rimpatriare. Morì, dov’era nato, a Belmonte Sabino, in provincia di Rieti, il 18 agosto 1936.

«L’infelice trovata dell’attacco frontale mentre i soldati tedeschi sfondavano...» - Lo stato maggiore tedesco, per come mi è risultato, era meglio informato del nostro sullo spirito di disciplina e sulla condizione morale dell’esercito [italiano]. […] Bene quindi [i tedeschi] scelsero l’epoca per menare il colpo di maglio nel punto più geloso della fronte che, sfondato, offriva la possibilità di una fulminea azione aggirante, mentre i nostri comandanti perfezionavano l’infelice trovata dell’attacco frontale. Dopo lo sfondamento della linea, con un bombardamento tanto breve, quanto intenso, e a gas dei più velenosi, di cui osservai traccia anche nelle piante, e dopo essere riusciti a tagliare la ritirata nelle valli del Natisone e dell’Erbezzo, con l’occupazione fulminea di passaggi obbligati, tosto ottimamente muniti, i soldati tedeschi marciavano ordinatamente inquadrati, senza alcuna preoccupazione, con il fucile in spalla, passando anche a piccoli drappelli, a pattuglie, in mezzo a masse che li riguardavano stupite: dei nostri soldati applaudivano, quasi ad accogliere con gioia, per come essi dicevano, gli apportatori di pace. Già la difesa di una seconda linea prossima alla prima credo non sia stata nemmeno pensata dai nostri capi, diversamente il Dosso [Monte] Der, presso Robic, anche mediocremente armato, non avrebbe lasciato entrare nemmeno un nemico nella angusta valle del Natisone che doveva divenire la tomba di mezzo esercito germanico. […] Ripeto, si fuggiva e i pochi superiori che ne comprendevano la grave necessità, furono impotenti a trattenere la massa, in quanto molti altri interessati a fuggire loro stessi, o a cadere prigionieri, offrivano il più deleterio malo esempio. Reparti che tagliando i campi avrebbero potuto guadagnare il Tagliamento in pochi minuti, si ostinavano per la via lunga a intagliare il traffico, a fare ostruzionismo. Drappelli numerosi lasciati a proteggere le ritirate si sbandavano appena passata la truppa la cui ritirata dovevano proteggere; altri reparti fatti sostare con l’obiettivo di fortificarsi, causa l’indecisione e la poca buona volontà, rimanevano inoperosi, né gli ufficiali intervenivano a curare l’esecuzione dell’ordine, dato a casaccio, tanto per dire o fare qualche cosa. Ogni posto era inadatto, a parere di uno o di un altro, e date le condizioni infelici della fronte nascondente le più impossibili sorprese, si continuava a rinculare cercando un luogo qualunque a criterio, senza obbedire non solo a un piano prestabilito, ma neppure alla lontana conoscenza della topografia della pianura veneta. (Temistocle Macinanti)

IL GAZZETTINO di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 Via il segreto sul caso Kennedy, l’ultima mossa di Trump di Mario Del Pero

Con uno dei consueti tweet, Donald Trump ha annunciato a sorpresa che non intende porre veti alla desecretazione di alcune migliaia di documenti relativi all'assassinio di John Kennedy. Si tratta di materiali depositati a inizio anni Novanta presso gli archivi nazionali di College Park, Maryland, e per i quali è in scadenza il periodo di 25 anni oltre cui non vale più la secretazione imposta allora. Una parte, la più cospicua, consiste di documenti generati principalmente dagli apparati d'intelligence durante gli anni Sessanta e Settanta. In molti casi si tratta di fonti già parzialmente accessibili che sarebbero quindi soggette a una «declassificazione» completa e finale (in questi casi, i passaggi ancora coperti da segreto sono quasi sempre quelli che permettono di individuare persone e agenti coinvolti; trattandosi di informazioni di mezzo secolo fa o più, viene meno la ragione privacy, protezione degli individui o sicurezza nazionale che aveva giustificato inizialmente il mantenimento del segreto). Alcune decine di documenti sono invece relative a un periodo ben più recente: gli anni Novanta, quando CIA, FBI e dipartimento della Giustizia furono chiamati a produrre materiali aggiuntivi su richiesta di una commissione federale incaricata dall'allora Presidente George Bush Sr. (e sull'onda della pressione pubblica generata dal famoso film «JFK» di Oliver Stone) di decidere quali nuovi materiali potessero essere desecretati senza danneggiare la politica estera e di sicurezza del paese. Fino a pochi giorni fa, esperti e studiosi davano per scontato che Trump avrebbe scelto la linea della cautela, rendendo pubblici solo una parte e presumibilmente quella meno sensibile di tali documenti. Questa previsione derivava dal convincimento che il Presidente potesse individuare nella vicenda un modo per riaffermare ancora una volta un privilegio esecutivo interpretato in modo ampio e flessibile. Questo tweet presidenziale sembrerebbe smentire tale previsione, anche se il condizionale rimane d'obbligo vista la frequente volubilità di gesti, convinzioni e scelte dell'attuale inquilino della Casa Bianca. Se Trump dovesse dare corso a questa sua promessa, a quanto pare avversata dalla CIA, si potrebbe forse dare risposta a uno dei grandi misteri della storia americana. Probabilmente scoprendo l'infondatezza di tante delle leggende cospirative che da sempre aleggiano attorno alla morte di John Kennedy. Leggende che peraltro lo stesso Trump in passato non alieno da infatuazioni complottiste contro i suoi rivali politici e imprenditoriali ha talvolta alimentato, come durante le primarie repubblicane quando accusò il padre del suo principale rivale, il senatore del Texas Ted Cruz, di essere in qualche modo coinvolto nell'assassinio di JFK. Dando per scontato, come lo storico non può non fare, che dall'eventuale declassificazione totale di questi documenti non usciranno rivelazioni sconvolgenti, ci si deve allora interrogare sul perché di questa eventuale scelta, liberale e trasparente, del Presidente. A riguardo, due solide ipotesi possono essere avanzate. La prima è che Trump usi questa vicenda, in sé marginale e minore, per colpire quegli apparati d'intelligence che in questi mesi di Presidenza sono stati i suoi principali nemici dentro il governo: quella CIA e quell'FBI che hanno spesso passato soffiate anti-Trump ai media e che, soprattutto, stanno indagando sulle possibili ingerenze russe nella campagna elettorale del 2016. La seconda è che il Presidente voglia soddisfare una base elettorale conservatrice che di suo ha prodotto negli anni un vasto campionario di dietrologie cospirative sull'affare Kennedy e alla quale Trump potrebbe presentarsi una volta ancora come un leader anti-establishment, capace di rompere schemi consolidati, abbattendo quei diaframmi di segretezza che separano il potere dal popolo. Sarebbe insomma una mossa efficacemente populista, quella del Presidente americano. Anche se sappiamo bene, ormai, che tra i suoi tweet e le sue azioni, così come tra le sue parole e la verità vi è spesso un legame assai fragile e tenue.

Pag 23 Per Bankitalia sul tavolo di Mattarella una rosa di nomi con troppe spine di Alberto Gentili

A sentire Matteo Renzi è ormai deciso: Paolo Gentiloni confermerà Ignazio Visco alla guida della Banca d'Italia. Ed è per questo che mette le mani avanti: «Nessun problema se Paolo dovesse scegliere il governatore uscente». Ma la partita è meno facile di quanto la descriva il segretario dem. Il premier non ha ancora deciso. I suoi raccontano che «prende tempo», cerca di «far decantare la situazione». Da qui la rinuncia ad anticipare il Consiglio dei ministri fissato per venerdì prossimo. La speranza, neppure tanto nascosta, è che sia lo stesso Visco a togliergli le castagne dal fuoco. Ma questa possibilità si fa sempre più remota: il governatore uscente ha fatto sapere di essere determinato a dare battaglia. Ritiene che una sua rinuncia potrebbe essere letta come un'ammissione di colpa rispetto alle accuse di Renzi, che addebita a Bankitalia la responsabilità delle crisi bancarie. E intende andare all'attacco quando verrà ascoltato dalla commissione parlamentare d'inchiesta. Tant'è, che è corso a depositare migliaia di documenti riservati nelle mani del presidente Pier Ferdinando Casini. Gentiloni, insomma, si trova un cul-de-sac. Stretto tra Renzi e il Quirinale che, insieme al presidente della Bce Mario Draghi, da tempo aveva dato il via libera alla riconferma del governatore. E obbligato a tenere conto delle regole e del galateo istituzionale. La rinuncia a Visco creerebbe un precedente: «l'intromissione» della politica (con la mozione parlamentare del Pd) nel processo decisionale per la nomina del governatore. La legge, infatti, assegna al governo e al Quirinale il compito di scegliere l'inquilino di palazzo Koch. Da qui i numerosi richiami di Gentiloni in difesa dell'«autonomia» di Bankitalia. Aspetto che sta a cuore anche ai mercati e alle istituzioni finanziarie europee. Dall'altra parte, però, il premier deve fare i conti con il problema di un Parlamento in stragrande maggioranza schierato contro Visco. E sta cercando il modo di uscirne nel modo migliore possibile. «La posta in palio non è solo l'autonomia di Bankitalia», sostiene il deputato dem Michele Anzaldi, grande amico sia di Renzi che di Gentiloni, «c'è anche un problema di consenso nel Paese. Se Paolo confermasse Visco, diventerebbe l'uomo delle banche e dell'establishment. Matteo, nel frattempo, ha comunque ottenuto il risultato che voleva: è tornato il rottamatore, il discolaccio che dice ciò che tutti pensano e piace alla gente». La prova: secondo alcuni sondaggi riservati, l'assalto a Bankitalia accompagnato dal grido «sto con i risparmiatori, non con i banchieri e i salotti buoni», ha fruttato al segretario del Pd uno scatto del 2%. Utilissimo a poco più di quattro mesi dalle elezioni. A palazzo Chigi il riserbo è massimo. Si continua a lavorare per un ripensamento in extremis di Visco. Ma vista la resistenza del governatore, avanza l'ipotesi di proporre a Sergio Mattarella una rosa di tre nomi: quello di Visco, appunto, più Salvatore Rossi e Fabio Panetta, rispettivamente direttore generale e vice dg di Bankitalia. Sarà poi il capo dello Stato a scegliere. «E se Visco resta in campo», dice una fonte ben informata, «probabilmente sarà lui a restare a palazzo Koch. Anche perché una soluzione diversa sarebbe interpretata come una sconfitta di Mattarella e di Draghi, che non ha mai smentito il proprio sostegno al governatore uscente. Anzi». C'è da aggiungere che Renzi, dopo le forti tensioni e i contrasti della settimana, ha telefonato a Gentiloni. Da qui poi le parole ad Avvenire: «Paolo ha la mia stima, il mio rispetto e la mia amicizia». E l'invito a salire sul treno con cui sta girando l'Italia: «La pace scoppierà sabato, quando lo porteremo alla conferenza programmatica di Napoli e lo riempiremo di baci». Attenzione: sabato è il previsto day- after della scelta del premier su Bankitalia.

LA NUOVA di domenica 22 ottobre 2017 Pag 1 La fune scappa di mano e riapre ferite mai sanate di Andrea Sarubbi

Se quello tra Madrid e Barcellona doveva essere un tiro alla fune, pare che adesso la corda stia per spezzarsi davvero. Se era invece concepito come un semplice gioco delle parti, per poi sedersi a un tavolo a trattare, probabilmente è scappato di mano a tutti. In un caso o nell'altro, sembra ormai tardi per tornare indietro: gli errori commessi hanno portato alla radicalizzazione attuale e a una decisione senza precedenti - quella di ricorrere all'articolo 155 costituzionale, ossia al commissariamento - con sviluppi difficili da prevedere. Anche al di fuori della Catalogna stessa. È una situazione molto complicata per Rajoy, il capo del governo spagnolo, che pur rivendicando di avere sempre agito «con prudenza e serenità» è sembrato, nelle ultime settimane, tutt'altro che prudente e sereno. Le immagini degli scontri del primo ottobre, durante il referendum, hanno fatto il giro del mondo e hanno messo benzina nel motore della propaganda indipendentista: passare come l'Ucraina di turno - obiettivo esplicito di un video diventato virale in questi giorni e ricopiato da un altro che imperversava proprio nei giorni degli scontri di piazza Maidan a Kiev - era il sogno di molti nazionalisti catalani, assurti improvvisamente a difensori della democrazia contro la dittatura e l'oppressione. Tanto più che due loro leader molto popolari (Jordi Sánchez e Jordi Cuixart) sono finiti anche in carcere, insieme a qualche funzionario locale, e ci è voluto un attimo perché nell'aria aleggiasse il fantasma di Erdogan e della repressione curda. Si è tornato a parlare di franchismo e di dittatura, si sono riaperte ferite che sembravano cicatrizzate da una quarantina d'anni. La Spagna non è troppo diversa dall'Italia, e lo scontro politico di queste ultime settimane tra Madrid e Barcellona si è giocato soprattutto sul piano emotivo. Rajoy ci ha messo del suo, sbagliando più di una mossa e finendo per attirarsi le critiche anche di chi indipendentista non è mai stato, né sarà mai; Puigdemont ha ottenuto esattamente ciò che voleva, ossia portare la questione al limite e far impazzire lo Stato centrale con il sorriso sulle labbra. Una parte della sinistra ha cominciato a venirgli dietro, pur non condividendone gli obiettivi secessionisti, e il dibattito sulla Catalogna si è trasformato in un dibattito sullo Stato di diritto, sul rispetto del dissenso, su quello stesso rapporto tra governo centrale e autonomie locali che in Spagna sembrava già in via di risoluzione una decina di anni fa. Ecco allora il grande imbarazzo della comunità internazionale, che all'inizio avrebbe voluto liquidare il tutto come una questione interna alla Spagna ma che ora, con il precipitare degli eventi, è chiamata a prendere posizione. Sta cercando di farlo, fino a questo momento, distinguendo i piani: se da un lato l'Alto commissario Onu per i diritti umani ha chiesto un'indagine indipendente sulle violenze del primo ottobre, dall'altro le grandi potenze hanno continuato a tenere il punto sul piano politico. Sia l'Unione europea che gli Stati Uniti sono schierati con Madrid: Bruxelles difende con forza gli Stati nazionali per non essere spazzata via dal regionalismo; Washington non accetta paragoni tra la Catalogna e quel Kosovo di cui riconobbe immediatamente l'indipendenza, anche per rovesciare la leadership serba. L'impressione è che, col senno di poi, in molti firmerebbero per riavvolgere il nastro e provare con più convinzione la carta del dialogo. Ma i protagonisti del momento sono forse i meno indicati a trovare un'intesa, se è vero che il capo della Moncloa raccoglieva firme contro lo Statuto catalano già nel 2007 e che il presidente della Generalitat ha dedicato tutta la propria vita alla causa indipendentista. «Se in futuro vorremo capire com'è possibile arrivare a situazioni che apparivano impossibili», scriveva qualche giorno fa il New York Times, «quello catalano diventerà un caso esemplare: di come due parti che credevano di poter controllare uno scontro a bassa intensità lo hanno trascinato verso l'abisso».

CORRIERE DELLA SERA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Un veleno nelle istituzioni di Sabino Cassese Regole e authority

«Rafforzare l’efficacia delle attività di vigilanza sul sistema bancario», promuovere «un maggior clima di fiducia», «garantire nuova fiducia»: questi gli indirizzi per il governo contenuti nella mozione del Partito democratico approvata dalla Camera dei deputati il 17 ottobre scorso. Si tratta di una indiretta mozione di sfiducia nella Banca d’Italia, che fa seguito a cinque altre mozioni, aperte da quella dei 5 Stelle del 25 settembre, che invitavano il governo a escludere l’ipotesi di proporre la conferma del governatore Visco. La presidenza della Camera dei deputati avrebbe dovuto dichiarare inammissibili mozioni che non attengono a compiti del Parlamento (il Governatore è nominato con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia), anche perché, come è stato rilevato nel corso del dibattito parlamentare, per una valutazione, si sarebbero dovuti attendere i risultati della Commissione di inchiesta sul funzionamento del sistema bancario, istituita proprio dal Parlamento. La mozione approvata dalla maggioranza dei deputati è sia illegittima, sia inopportuna. È illegittima perché parlamentarizza una procedura che la legge ha voluto far passare per altre mani. E l’ha voluto per preservare il pluralismo istituzionale: nelle moderne democrazie il potere non può essere concentrato in un solo organo, sono necessari contro-poteri, bilanciamenti, «checks and balances». Se questi non ci fossero nella democrazia americana, Trump non troverebbe resistenze, con le conseguenze che tutti possono immaginare. In Italia, c’è una corona di autorità indipendenti, che non prendono indirizzi da nessuno, proprio perché si vuole garantire separazione del giudizio e imparzialità delle decisioni in settori «sensibili». La maggiore e più antica istituzione indipendente è la Banca centrale, che subisce ora una grave ferita per colpa di «uomini di governo» che non riescono a diventare «uomini di Stato». La mozione è anche inopportuna non solo perché arriva a ciel sereno in prossimità di una decisione tanto importante quanto la nomina del Governatore, ma anche perché giunge poco prima della fine della politica di «quantitative easing» della Banca centrale europea, da cui è strettamente dipendente il nostro debito pubblico e, in ultima istanza, il livello di imposizione fiscale del nostro Paese. Non dimentichiamo che l’Italia è la terza più importante economia dell’Unione Europea e ha il maggiore debito pubblico. In sede europea, nei prossimi due mesi, occorre discutere il modo in cui uscire dal «quantitative easing». Gli italiani - tutti noi - abbiamo un grande interesse a una uscita con gradualità, per evitare contraccolpi per il costo del nostro debito. Questo sarebbe il momento in cui raccogliersi con fiducia intorno a chi può sostenere le posizioni del nostro Paese a Bruxelles, dove sono state trasferite ormai le maggiori competenze. Improvvidamente, invece, si fa il contrario. L’indiretta mozione di sfiducia nell’istituzione Banca d’Italia, contenuta nel testo approvato dalla Camera dei deputati, rappresenta per essa una ferita persino maggiore di quella inferta nel marzo 1979 da una iniziativa di Andreotti e della Procura della Repubblica. Allora era la magistratura a muoversi, sotto la spinta di una parte limitata della Dc. Oggi è il maggiore partito italiano, in Parlamento. Si diceva una volta che le banche commerciano in fiducia. Se il Parlamento sfiducia chi vigila sulle banche, si inietta in una gran parte delle istituzioni del Paese un pericoloso veleno, i cui costi saranno pagati dagli italiani.

Pagg 2 – 3 Nelle strade di Raqqa vincitori, mine e macerie di Lorenzo Cremonesi

Gli spogliatoi dei calciatori trasformati in celle, la piccola palestra in camera di tortura con i ganci per le impiccagioni al soffitto, i gabinetti in pertugi per l’isolamento delle punizioni prolungate. Da tempo non giocavano più a pallone i guardiani dell’Isis: avevano riconvertito lo stadio di Raqqa nel carcere centrale del «Califfato», che per almeno tre anni ha rappresentato il cuore del sistema di controllo, minaccia e castigo sulla popolazione, ma anche, e negli ultimi tempi soprattutto, contro i suoi militanti che sempre più numerosi cercavano di disertare e scappare verso le linee curde. «Attenti alle cariche inesplose. Ci sono bombe e trappole ovunque», avvisa il miliziano curdo che ci scorta. L’accesso è sotto le tribune. Ma gli scalini sono coperti di calcinacci, l’inferriata che separava il campo da calcio dal pubblico è in parte divelta, le barre di ferro trasformate in lance arrugginite. Le bombe perforanti Usa hanno fatto scempio della struttura. Poi sono arrivate le granate e la devastazione della battaglia che strada per strada, casa per casa, negli ultimi cinque mesi ha portato all’impressionante distruzione della capitale dell’Isis. Tutto attorno, macerie e silenzio. Una città di oltre duecentomila abitanti totalmente abbandonata. Come il cuore di Mosul, i nuclei della piana di Niniveh, parte di Aleppo, oltre a Tikrit, Falluja, Tal Afar, Amerli e centinaia tra villaggi e cittadine delle regioni sunnite al confine tra Iraq e Siria. Ma Raqqa è di più. Molto di più. A Mosul la parte orientale è sempre rimasta abitata e già oggi, meno di quattro mesi dopo la sconfitta di Isis, la città in qualche modo vede la popolazione tornare. Al contrario Raqqa è vuota, spettrale, un nucleo urbano di rovine. Con i negozi sventrati: attraverso le saracinesche divelte si vede la mercanzia abbandonata. Accanto, gli scheletri anneriti delle automobili bruciate, l’olezzo del cibo avariato, vestiti per la strada, stracci impolverati a segnare fughe precipitose, masserizie dei bivacchi dei soldati, lattine vuote. E tanti cani randagi, nervosi, spaventati. La cerimonia - I responsabili dell’enclave curda-siriana hanno voluto organizzare ieri proprio nello stadio la cerimonia per la dichiarazione della vittoria. Non è un caso. Qui sono avvenuti gli scontri più feroci negli ultimi giorni. L’Isis aveva utilizzato le sue massicce strutture di cemento per montare l’ultima disperata resistenza. I suoi sotterranei sono ottimi rifugi da cui partono dedali di tunnel che permettono ottime vie di fuga e il lancio di imboscate dietro le linee nemiche. Ovvio che i capi del gruppo abbiano avuto tutto il tempo per allestire il carcere. All’entrata sottoterra si trovano le cucine, gli archivi, gli uffici. Sul muro è appeso un cartello con le regole per gli interrogatori. «Ordini per il trattamento dei prigionieri al loro arrivo», si legge. «Verifica sempre che le informazioni siano vere. Sequestra documenti, portafogli e cellulari. Prendete le carte Sim, controllate le memorie, le immagini. Prendete le loro identità e le loro foto, che siano chiare». Attenzione agli stranieri: «Se non parlano arabo occorre un bravo traduttore, scrivete tutto e archiviatelo». Il motivo di tanta meticolosità è evidente scorrendo i ghirigori di scritte sui muri della dozzina di grandi celle che seguono. Le inferriate sono state aggiunte solo di recente. Chiaro che qui non stavano anche tanti militanti. «Tra i prigionieri c’erano soprattutto quelli che non rispettavano le regole della legge religiosa e ovviamente i sospettati di voler disertare», racconta Hassan Ghadi, 38 anni, che tra il giugno-luglio rimase in cella 36 giorni. È lui a mostrarci la lugubre «cella 48», dalla larghezza dell’antro dove erano costretti in piedi i condannati all’isolamento. Ci sono scritte in francese, russo, ceceno, azero, inglese, turco. Sono firmate tra i tanti da Huzeyer Azeri, Abu Salman al Franci (il francese), Abu Saeed al Britani. Uno di loro scrive in arabo: «L’uomo non può ottenere tutto ciò che vuole. È come il vento che contrasta le rotte delle navi». Un altro osserva: «I muri sono i confini dei prigionieri. Ma ora non è rimasto nulla dentro di me, se non le lacrime dei miei occhi». Avanzando per il corridoio scuro, con il pavimento coperto di calcinacci, le celle si fanno più strette. «Nelle prime erano rinchiusi anche oltre cento prigionieri alla volta. Ma in quelle più avanti venivano portati quelli destinati alla tortura. Le loro grida si sentivano soprattutto di notte», racconta un combattente curdo che è stato a sua volta chiuso qui dentro nel 2016. Nei periodi di massimo affollamento si era giunti a oltre 2.000 detenuti. Lui ci mostra la stanza delle torture. Vi si trovano due attrezzi per il sollevamento pesi. Una volta le usavano gli atleti per allenarsi. L’Isis le aveva trasformate in macchine per spezzare gradualmente la schiena ai detenuti. Una tortura lenta e letale, che lasciava alla vittima tutto il tempo per soffrire prima di spirare. Pazienza e gps - Un jihadista di origine inglese consiglia a chi lo legge di «avere pazienza, tanta pazienza, e confidare in Allah». Spiega che uno dei motivi per le punizioni è l’impiego errato della rete e l’accesso ai «siti sbagliati». Osserva: «Se mi leggi probabilmente sei stato scoperto a utilizzare il tuo cellulare tenendo aperta la localizzazione del gps. Non lo puoi fare. È vietato, non rivelare mai la nostra posizione. Ora devi solo avere fiducia nella clemenza del Profeta e pregare». Un altro appena sotto sullo stesso muro nota in arabo che però, «qui la verità e la giustizia sono state dimenticate». Segnale che, specie negli ultimi tempi, serpeggiavano malumore e pessimismo tra i militanti jihadisti di Raqqa? «Certamente sì», rispondono i comandanti curdi. «La situazione per loro ha iniziato a mutare quando non sono riusciti a prendere Kobane nell’autunno 2014. Sino ad allora l’Isis aveva continuato a ricevere volontari e a conquistare territorio. Poi è cominciata la loro progressiva ritirata sino alla sconfitta finale odierna», dicono festeggiando nello stadio in un tripudio di canzoni marziali e sventolio di bandiere. Una verità confermata anche da Mohammad Abdallah, un sunnita 22enne di Raqqa che adesso scrive per un sito online locale e ha scelto di affiancarsi alla causa curda e di plaudire entusiasta all’intervento Usa. «Inizialmente la grande maggioranza della popolazione sunnita si è schierata con l’Isis. Nessuno criticava i loro metodi brutali, neppure le decapitazioni o le teste mozze infilate sulla palizzata in Piazza Inferno», racconta accompagnandoci nella piazza in un viale circondato di macerie a circa 300 metri dallo stadio. A suo dire la svolta fu nel gennaio 2015, quando crescevano le liste dei caduti sotto le bombe americane: «Con le sconfitte militari sono cresciute le imposizioni contro la libertà di movimento delle donne. Gli uomini hanno dovuto far crescere lunghe barbe e accorciare i baffi. Poi ci sono state le prime crocifissioni per i cosiddetti infedeli. E la gente ha preso le distanze». Parole che sintetizzano la sfida che attende i vincitori: riusciranno ad avviare il dialogo coi sunniti? Sapranno trasformare la vittoria in successo politico? A visitare i campi profughi attorno a Raqqa i dubbi emergono. In quello di Ain Issa, i giovani sunniti di Raqqa, ma anche della vicina Deir Azzor, affermano aggressivi che non accetteranno mai di essere governati da Bashar Assad. «Quello di Damasco è un regime criminale, che è sopravvissuto grazie all’aiuto di russi, sciiti e iraniani. Non ci sarà pace sino a quando prevarrà questo stato di cose». Una posizione diversa dai curdi siriani, che comunque sono bene attenti anche adesso ad evitare lo scontro frontale con il regime e parlano di «Siria unita, democratica e federale». Familiari - Probabilmente la prova del nove per una coesistenza pacifica sarà il trattamento delle centinaia di famigliari dei 275 combattenti Isis locali che una settimana fa hanno accettato di arrendersi (ora in una prigione curda). Assiepati in tende di fortuna alla periferia di Ain Issa, sono controllati a vista dai militari. Nessuno può uscire dal campo, gli interrogatori sono serrati. «Sono tutti filo-Isis. Si nascondono terroristi tra loro», mettono in allerta le sentinelle. Come dopo ogni evento bellico con vittime e distruzioni il sospetto regna sovrano. La polvere soffocante che domina sulle rovine di Raqqa prenderà ancora tempo prima di dissiparsi.

Pag 15 Xi, leader globale? di Guido Santevecchi

Un leader imperiale per un Paese di oltre 1,3 miliardi di anime attraversato da grandi differenze culturali e sociali, da tenere insieme con mano forte? O anche uno statista globale con molte risposte per le incertezze del mondo? Xi Jinping è al potere dal 2012 in Cina e il Congresso del Partito comunista sta decidendo (in realtà tutto è già stato stabilito da tempo in segreto) se sia il caso di iscrivere nella sua Costituzione «Il Pensiero di Xi». Dovrebbe essere uno dei due risultati incerti del conclave che si concluderà mercoledì, insieme con la lista dei nuovi membri del Politburo. Ma la parola «si xiang», pensiero, associata al nome di Xi, viene ripetuta incessantemente in queste ore dai mandarini comunisti. L’ha lanciata anche l’agenzia Xinhua aggiungendo che si tratta di 14 principi fondamentali da mettere in pratica per adattare il marxismo alle esigenze cinesi ed entrare nella «nuova era». Comunque vada, lo «xiismo» è nato, dopo il maoismo, e in Cina non può essere messo in discussione. Un segnale chiaro è venuto da una dichiarazione al Congresso di Liu Shiyu, capo della Commissione sulla sorveglianza della Borsa: «Xi Jinping ha salvato il Partito e lo Stato sventando un colpo di palazzo» da parte di alti dirigenti. «Hanno complottato per usurpare la leadership del Partito e prendere il controllo dello Stato», ha spiegato Liu e ha aggiunto il nome di uno dei colpevoli: Sun Zhengcai, fino a questa estate capo di Chongqing, megalopoli da 33 milioni di abitanti. Sun a 54 anni era in corsa per un posto nel Comitato permanente del Politburo ed era abbastanza giovane per poter sperare nella suprema promozione al posto di Xi, nel 2022. Invece è caduto ed è finito in carcere. Finora si era parlato delle solite «serie violazioni disciplinari» (sinonimo di corruzione e ruberie). La nuova accusa di usurpazione del potere sancisce che solo Xi può reclamarlo. Nonostante la forza del segretario generale e presidente della Repubblica, nonostante il suo indubbio carisma, la sua spietata campagna anticorruzione che ha decimato letteralmente il Comitato centrale, qualche ombra dunque rimane a Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale dove ora risiedono i massimi dirigenti. Ombre, ma al momento Xi è il nuovo imperatore cinese. La Repubblica popolare è entrata nella sua terza fase, dopo il trentennio di Mao Zedong che riscattò il Paese fondando lo Stato comunista, dopo Deng Xiaoping che soccorse l’economia, è il momento di Xi che ci fa sapere di aver salvato il Partito, anche con le purghe di corrotti che delegittimavano il sistema (e lo insidiavano personalmente). Xi, che ha tracciato progetti fino al 2050, ha nelle mani una Cina diventata grande potenza economica e reclama un ruolo di guida mondiale. Gli manca solo il titolo di statista globale. E anche per questo obiettivo ha una strategia e una chiara visione sul futuro delle relazioni internazionali. È aiutato dalla confusione della presidenza Trump, che minaccia protezionismo commerciale, soluzioni militari con Iran e Nord Corea, non crede negli Accordi di Parigi sul contrasto al riscaldamento terrestre. E anche dai leader europei costretti a discutere di Brexit dura o morbida e immigrazione clandestina. Quando parla di relazioni internazionali Xi dà il meglio di sé, in termini di concretezza. Ha proposto le Nuove vie della seta contro il protezionismo; nel discorso fiume al Congresso ha detto che «ogni danno all’ambiente perseguiterà l’umanità nel futuro»; ha offerto di costruire una «comunità del destino condiviso» che promette di perseguire l’interesse nazionale tenendo in conto le ragionevoli aspirazioni e preoccupazioni degli altri Paesi. Restano i dubbi: la Cina può essere decisiva per disinnescare la minaccia nordcoreana, ma per decenni l’ha protetta e coltivata come arma di ricatto verso Usa, Sud Corea e Giappone. Sulle Vie della seta può sfogare il suo eccesso di capacità produttiva. Impone alle imprese occidentali di condividere (cedere) la loro alta tecnologia per poter entrare nel suo mercato. Ha costruito e fortificato isole artificiali nel Mar cinese meridionale. Vuole proteggere l’ambiente, ma intanto i suoi cieli sono coperti da uno smog irrespirabile per la maggior parte dell’anno. Xi parla di un «Sogno cinese» per il proprio Paese e per il mondo. Al momento è in vantaggio, per mancanza di concorrenti. Ma per i cinesi che non lo seguono il sogno è l’incubo della repressione, come ci ha ricordato la morte terribile del Nobel Liu Xiaobo, tenuto sotto sorveglianza da malato terminale. Intanto, chi volesse farsi un’idea del Pensiero di Xi, può leggere il suo libro «Governare la Cina», stampato in 6,5 milioni di copie, appena tradotto anche in italiano e albanese. Perché Xi guarda al mondo intero.

LA REPUBBLICA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 La falsa ribellione di Ezio Mauro

C'è un'evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei risparmiatori, nell'offensiva di Matteo Renzi contro il governatore della Banca d'Italia Visco. Non c'è alcun dubbio che il tema del risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli istituti di salvaguardia del sistema. Quindi è comprensibile e persino doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro. Ma Bankitalia non è l'Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un'istituzione di garanzia nel tritacarne del vortice elettorale. Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell' impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore. Ma se si considera che questa miopia viene da lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov'era la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva? Soprattutto, l'interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque dell'interesse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente, che considerava il credito come un prolungamento della politica con altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e potere, e inseguendo il conflitto d'interessi certificato dallo slogan "abbiamo una banca", piuttosto che la cornice di garanzia costruita con l'obiettivo di poter dire "abbiamo una regola". Se si apre il libro delle responsabilità - in ritardo, con tutti i buoi già scappati e nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori - il rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere. A partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si trasmette l'idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio appassito che appicca l'incendio a via Nazionale perché non riesce a spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo. E qui nasce un'altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della stessa vicenda bancaria. Di fronte all'isolamento di cui ha parlato qui Stefano Folli, alla "biografia" civile di Bankitalia rievocata da Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce rottamatore, e non intende cambiare. Forse non si è accorto che in questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle loro azioni politico- programmatiche, viene da domandarsi quale sia l'universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo l'azione fisica all'azione politica. Quando passa in rassegna il drappello d'onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale l'incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la sua vocazione politica. Renzi sembra fermo al ground zero della sua avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a fatica. In questo ribellismo delle élite c'è la sciagurata illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua performance, in una sollecitazione perenne dell'elettorato contro nemici ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che proprio l'esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore trasformandolo in ricostruttore. Resta una domanda: il Pd tutto questo lo sa? Ha mai discusso di questi temi? Ha mai chiesto al segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che resta l'unico segreto davvero custodito in Italia.

AVVENIRE di sabato 21 ottobre 2017 Pag 3 “Indagati”: i lineari meriti di una circolare di Mario Chiavario Sulle notizie di reato bene Pignatone, ma il legislatore?

Ha due meriti la recente circolare del procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, diretta a uniformare il comportamento dei magistrati del suo ufficio nella gestione delle iscrizioni nel cosiddetto 'registro degli indagati'. Primo merito: l’aver messo in evidenza il frequente sovrapporsi, alla fisiologica funzione di garanzia dell’istituto, di aperture, sia pure involontarie, a strumentalizzazioni che ne fanno addirittura un ordigno persecutorio. Secondo e non meno importante merito: l’aver indicato una strada per porre un freno alla degenerazione salvaguardando però il nucleo essenziale della garanzia cui l’introduzione del registro – una tra le tante innovazioni del codice vigente – fu preordinata. Va premesso che un’almeno piccola parte di responsabilità per la degenerazione denunciata dall’alto magistrato risale a una deformazione terminologica, in sé veniale ma collegata a un contesto, assai meno innocente, che non di rado trasforma il sacrosanto diritto all’informazione in sete di scandali. In realtà, non di «registro degli indagati» parla il codice (art. 335) ma, in forma ben più neutra, di «registro delle notizie di reato»: l’abituale compressione si può spiegare anche per le esigenze di... economia di parole, avvertite soprattutto dai titolisti dei quotidiani, ma ha finito per favorire l’impressione che, quando una denuncia è iscritta in quel registro, già si debbano avere elementi consistenti a carico anche di chi è, magari, oggetto di una semplice denuncia non supportata da alcunché di serio. Non era questa l’intenzione del legislatore, che volle il registro – e le relative iscrizioni – quale strumento per certificare la data di ricezione della denunce (così come di ogni altra presa di conoscenza ufficiale dei reati) e per garantire denuncianti e denunciati contro eventuali tentazioni di qualche pubblico ministero, propenso a tenere nel cassetto una notitia criminis così da poter compiere in assoluto segreto accertamenti anche di notevole rilievo e da fruire comunque di un sostanziale allungamento del termine che la legge fissa per la conclusione delle indagini. Lo scopo, insomma, era schiettamente di tutela dagli abusi, secondo una logica che trovava un ulteriore, e più noto, tassello nell’«informazione di garanzia», da non confondere, come pur è accaduto in questi giorni, con l’«iscrizione» di cui si parla, e che deve darsi all’indagato quando hanno da compiersi atti di particolare importanza e per i quali è assicurata la possibilità di un’assistenza dei difensori. Le degenerazioni dell’«informazione» così come dell’«iscrizione» sono, peraltro, sotto gli occhi di tutti e, certo, soltanto in piccola parte sono dovute a equivoci terminologici; e se la prima è diventata un «avviso» facilmente trasformabile dai media, tramite la sua pubblicizzazione, in un’anticipata sentenza di condanna, la seconda – riferita agli «indagati» e non alle «notizie», ma ugualmente considerata da molti pubblici ministeri come un «atto dovuto» – ha favorito speculazioni che spesso producono gravissimi e irrimediabili danni per la vita privata e pubblica di una persona (di «effetti pregiudizievoli, sia sotto il profilo professionale, sia in termini di reputazione», parla la stessa circolare). Non a torto il procuratore Pignatone ne prende realisticamente atto e prospetta una via d’uscita, facendo leva su una disposizione di carattere organizzativo sui compiti della segreteria di ogni Procura della Repubblica, la quale definisce come meramente «eventuale» l’iscrizione di esposti e denunce nel registro delle notizie di reato, e sulla presenza, nell’armamentario degli strumenti documentativi in materia, di altri due registri, accanto a quello delle «notizie» riguardanti «persone note» (cosiddetto modello 21): quello degli «atti non costituenti notizia di reato» (modello 45) e quello delle notizie di fatti costituenti reati ma per i quali l’autore risulta, al momento, ignoto (modello 44). Anche sulla scorta di un insegnamento, risalente nel tempo, delle Sezioni unite della Cassazione, ne viene una precisa direttiva: la «notizia» va inserita nel primo dei tre registri soltanto dopo che si venga a disporre di riscontri i quali, pur senza supportare necessariamente una convinzione di fondatezza degli addebiti che risultano mossi a una determinata persona (quest’accertamento sarà compito dell’eventuale processo...), ne palesino la plausibilità: vale dire il sussistere, a carico di tale persona, di «specifici elementi indizianti». Se e finché non vi sia la relativa constatazione, il pubblico ministero avrà altre due vie davanti a sé: qualora il fatto denunciato non sia «descritto nei suoi termini minimi» o risulti «irrimediabilmente confuso» o, addirittura, «neppure in astratto» lo si possa ricondurre a «una fattispecie incriminatrice» si ricorrerà al «modello 45» (una sorta di 'cestinazione', insomma, che peraltro, a evitare insabbiamenti clandestini di iniziative 'scomode', lascia pur sempre traccia); l’altra strada sarà invece applicabile quando il configurarsi di qualche reato non possa dirsi oggettivamente escluso, ma, appunto, l’indicazione di uno o più autori non appaia supportata se non, al più, da vaghi sospetti; ed è quella del... parcheggio nel registro 'modello 44'. La soluzione si muove sul filo di quella che può anche apparire una forzatura letterale (un atto in cui pur si leggono nomi e cognomi viene iscritto come relativo a un fatto «di autore ignoto»…). Escamotage o no, si evita comunque un’intempestiva e incresciosa attribuzione soggettiva del reato e al tempo stesso non risulta frustrata la garanzia di una ragionevole durata delle indagini (pure quando l’autore sia ignoto è previsto un, sia pur particolare, meccanismo di termini). Resta un interrogativo, che ci si permette di avanzare nonostante la consapevolezza delle obiezioni che sorgono ogniqualvolta, nel quadro di una legislazione già sin troppo 'a pioggia', s’invocano ulteriori riforme settoriali per avallare o correggere applicazioni controverse di norme esistenti (e soprattutto sapendo che in questo fine legislatura Governo e Parlamento sono indotti a pensare a ben altro): in proposito non varrebbe la pena di un chiarimento, interpretativo o modificativo, da parte di chi le leggi le fa e non è soltanto chiamato ad applicarle?

IL GAZZETTINO di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Programmi e alleanze, tre domande al centrodestra di Luca Ricolfi

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un'idea me la sono fatta. All'appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell'altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. È dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare l'ottimo lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare? Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente. Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l'unica garanzia di un cambiamento vero, come l'unica forza che essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato solo in qualche comune) può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare reddito di cittadinanza, che suona meno assistenziale. Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d'Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell'alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali. Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un'unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa. Ma per Salvini l'aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell'aliquota proposta dall'Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l'aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d'accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell'orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d'accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review. Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un'imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos'è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l'esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un'imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati. Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell'immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c'è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un'altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest'ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri? Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po' tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell'istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo? Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l'alternanza scuola-lavoro ha presentato forti criticità, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un'occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l'abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla. Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pag 1 Il governatore è un simbolo e deve rispondere di Bruno Vespa

Se Matteo Renzi e la maggioranza del Pd non fossero intervenuti con efficace malagrazia, Ignazio Visco sarebbe stato confermato per altri sei anni alla guida della Banca d'Italia senza che nessuno battesse ciglio. È possibile tuttora che lo sarà, ma in ogni caso l'opinione pubblica sa che quasi l'intero parlamento vorrebbe una soluzione diversa. È giusto? Quarant'anni fa, a Ferragosto del '77, il boia nazista Herbert Kappler evase dall'ospedale militare del Celio. Il ministro della Difesa Lattanzio dovette dimettersi, pur non avendo ovviamente alcuna responsabilità nella custodia del prigioniero. Talvolta sono necessari atti simbolici. La domanda è: la Vigilanza della Banca d'Italia ha svolto con assoluto scrupolo il suo lavoro sulle dieci banche saltate in aria negli ultimi anni? Se la risposta è negativa, ci si regoli di conseguenza. Fazio non ha verosimilmente responsabilità maggiori di Salvatore Rossi, il direttore generale candidato (in ipotesi) a sostituirlo e degli altri tre membri del direttorio. Ma il governatore è un simbolo e come tale deve rispondere perché l'intera Banca d'Italia, costituzionalmente refrattaria all'autocritica, rifletta anche su di sé. Negli anni della crisi, il governo degli Stati Uniti ha salvato le banche con 2.330 miliardi di dollari, restituiti con gli interessi. L'Inghilterra nazionalizzò sei banche con una spesa di 1.148 miliardi di sterline. La Germania ha sostenuto il sistema con 418 miliardi di euro. Il governo francese con 228 miliardi. Da noi fino all'anno scorso erano stati spesi soltanto quattro miliardi per il prestito al Monte dei Paschi, restituito ai tassi usurari richiesti dall'Europa. Il conto complessivo, per lo Stato e gli investitori, è stato calcolato oggi in 24 miliardi. Quando le banche italiane hanno detto di non aver bisogno di soldi, la Banca d'Italia era d'accordo? Le dieci banche entrate in crisi quando era troppo tardi per aiutarle con il consenso europeo avevano sempre ottenuto ispezioni tranquillizzanti? Di chi fu il suggerimento di far comperare Banca Etruria dalla appoggiatissima (da Banca d'Italia) Popolare di Vicenza che poco dopo saltò in aria? Chi ha vigilato in tempo utile sulla reale corrispondenza del valore delle azioni e delle obbligazioni con il patrimonio delle banche? Non sarebbe stato assai singolare se la conferma fino a dodici anni di mandato (semipresidenziale) del governatore fosse avvenuta senza un bah, mentre una commissione parlamentare d'inchiesta potrebbe scoprire che non tutto è andato magnificamente? Si è obiettato che il parlamento non sarebbe competente a intervenire su nomine che non gli spettano. Il 29 agosto 2005 Romano Prodi, a nome dell'Unione, chiese comprensibilmente un cambiamento di gestione della Banca d'Italia per la vicenda che aveva coinvolto il governatore Antonio Fazio e attivò l'opposizione in Senato perché questo avvenisse. Con 356 operazioni di fusione e aggregazione bancaria Fazio aveva portato lo spread dell'Italia da 800 a 200 punti base. Voleva salvare l'italianità della Banca Nazionale del Lavoro. Forzò la mano col suo pessimo carattere, ebbe rapporti personali impropri e per questo il parlamento ridusse a sei anni rinnovabili per una volta la durata del mandato vitalizio. A dieci anni dai fatti, Antonio Fazio è stato scagionato dalla Cassazione. Poche righe nelle pagine interne e nessuno gli ha mai riconosciuto il buono che ha fatto.

LA NUOVA di sabato 21 ottobre 2017 Pag 1 Che pasticcio, ne escono tutti male di Bruno Manfellotto

Deplorevole. Inopportuna. Ingiustificabile. Improvvida. Maldestra. Si sprecano gli aggettivi a proposito della decisione di Matteo Renzi di portare in aula la mozione del Pd contro la conferma di Ignazio Visco a governatore della Banca d'Italia. Ma ormai la frittata è fatta, il pasticcio è sfornato e anche se ora si alza al cielo l'indignazione di economisti, intellettuali e di pezzi dello stesso suo partito, resta il fatto che tre quarti della Camera - Pd, grillini, Lega e Fratelli d'Italia e l'astensione di Forza Italia - hanno di fatto già votato contro via Nazionale e il suo massimo vertice. La ferita c'è stata, sanarla sarà difficile. E le conseguenze peseranno a lungo su tutto il sistema. Da questa storia escono tutti alquanto malconci. Paolo Gentiloni, che si era speso a favore della riconferma di Visco, ha dovuto subire il blitz del segretario. Il quale, alle prime polemiche, ha voluto ricordare che il premier era stato informato di tutto. Vero, solo che la notizia della mozione gli è stata data all'ultimo momento, quando non c'era più niente da fare, e per inciso dalla sottosegretaria Maria Elena Boschi, che per ovvie ragioni farebbe bene a non occuparsi più di banche, banchieri e Banca d'Italia. Non ne esce bene il governo che deve sopportare il paradosso di un attacco sferrato dal partito che ne è l'azionista di riferimento e che per sopravvivere e non andare incontro a una crisi, deve digerire il colpo di mano di Renzi e confermare piena fiducia alla Boschi. La vicenda ha anche pesanti risvolti istituzionali: in un paese spaccato tra un nord con manie secessioniste e un sud sempre più povero e abbandonato, con partiti frantumati e in grave crisi di rappresentanza, con istituzioni fragili o lottizzate, il Quirinale è spesso chiamato a svolgere un ruolo di supplenza, di equilibrio, di stabilità. E lo stesso vale per la Banca d'Italia, specie adesso che la politica economica passa necessariamente per le istituzioni finanziarie d'Europa. Ebbene, la mozione del Pd prende a cazzotti l'uno e l'altra rendendo incerto e difficile ogni passo successivo. A questo punto le soluzioni possibili non sono molte. Se Visco, dopo la plateale bocciatura, decidesse di dimettersi, significherebbe ammettere la fine dell'autonomia e dell'indipendenza della Banca d'Italia la cui sorte sarebbe stata decisa da un Parlamento che nella nomina del governatore non ha ruolo. Se venisse confermato al suo posto, invece, si aprirebbe uno scontro plateale tra Gentiloni e Renzi; ma per lo stesso Visco, indebolito del voto, si spalancherebbero le porte dell'inferno, quelle della commissione d'inchiesta sulle banche dove gli stessi partiti che lo hanno sfiduciato cercherebbero di continuare la loro battaglia, inaugurando così sei anni di turbolenze. Se viceversa si deciderà di sacrificare Visco e cercare qualcun altro all'interno della stessa Banca, Gentiloni e Mattarella confermerebbero di aver dovuto modificare la loro agenda per i capricci del segretario del Pd. Il quale, in questo caso, avrebbe ottenuto la sua vendetta personale, ma poco di più. E allora? Chi glielo ha fatto fare? Ne valeva la pena? In molti hanno provato a interpretare la mossa convergendo quasi tutti sulle prossime elezioni alle quali il segretario non vuole presentarsi, come già una volta, portando sulle sue spalle il peso del crac delle quattro piccole banche - tra le quali spiccava la Banca Etruria cara alla famiglia Boschi - dal quale sono cominciate tutte le sue disgrazie: ora attaccando Visco, Renzi scarica ogni colpa sulle autorità che non avrebbero vigilato a dovere e strappa all'opposizione una sicura carta da campagna elettorale. Possibile che per questo obiettivo contingente l'ex premier rischi tanto anche della sua reputazione politica e istituzionale? Possibile. Specie se a dargli la carica fosse ancora una volta l'antico spirito rottamatore, l'eterna voglia di referendum: con me o contro di me; o me o il sistema. Che stavolta immagina evidentemente di poter cambiare non con le riforme, ma con colpi di mano, ieri il Rosatellum oggi la Banca d'Italia che si vorrebbe (come il Quirinale?) agli ordini del vincitore. Evidentemente è ancora sicuro di vincere. Capiremo presto se ha ragione o insegue sogni impossibili.

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