DIOCESI DI CASSANO ALL’IONIO

BOLLETTINO DIOCESANO

SETTEMBRE - DICEMBRE 2008

ATTI DEL SANTO PADRE

Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 3 settembre 2008

San Paolo (3)

Cari fratelli e sorelle, la catechesi di oggi sarà dedicata all’esperienza che san Paolo ebbe sulla via di Damasco e quindi a quella che comunemente si chiama la sua conversione. Proprio sulla strada di Damasco, nei primi anni 30 del secolo I°, e dopo un periodo in cui aveva perseguitato la Chiesa, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo. Su di esso molto è stato scritto e naturalmente da diversi punti di vista. Certo è che là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di prospettiva. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare “perdita” e “spazzatura” tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo ideale, quasi la ragion d’essere della sua esistenza (cfr Fil 3,7-8). Che cos’era successo? Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. Il primo tipo, il più conosciuto, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra l’evento negli Atti degli Apostoli (cfr 9,1-19; 22,3-21; 26,4- 23). Il lettore medio è forse tentato di fermarsi troppo su alcuni dettagli, come la luce dal cielo, la caduta a terra, la voce che chiama, la nuova condizione di cecità, la guarigione come per la caduta di squame dagli occhi e il digiuno. Ma tutti questi dettagli si riferiscono al centro dell’avvenimento: il Cristo risorto appare come una luce splendida e parla a Saulo, trasforma il suo pensiero e la sua stessa vita. Lo splendore del Risorto lo rende cieco: appare così anche esteriormente ciò che era la sua realtà interiore, la sua cecità nei confronti della verità, della luce che è Cristo. E poi il suo definitivo “sì” a Cristo nel battesimo riapre di nuovo i suoi occhi, lo fa realmente vedere. Nella Chiesa antica il battesimo era chiamato anche “illuminazione”, perché tale sacramento dà la luce, fa vedere realmente. Quanto così si indica teologicamente, in Paolo si realizza anche fisicamente: guarito dalla sua cecità interiore, vede bene. San Paolo, quindi, è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto, della quale mai potrà in seguito dubitare tanto era stata forte l’evidenza dell’evento, di questo incontro. Esso cambiò fondamentalmente la vita di Paolo; in questo senso si può e si deve

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 parlare di una conversione. Questo incontro è il centro del racconto di san Luca, il quale è ben possibile che abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco. Lo fa pensare il colorito locale dato dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via che del proprietario della casa in cui Paolo soggiornò (cfr At 9,11). Il secondo tipo di fonti sulla conversione è costituito dalle stesse Lettere di san Paolo. Egli non ha mai parlato in dettaglio di questo avvenimento, penso perché poteva supporre che tutti conoscessero l’essenziale di questa sua storia, tutti sapevano che da persecutore era stato trasformato in apostolo fervente di Cristo. E ciò era avvenuto non in seguito ad una propria riflessione, ma ad un evento forte, ad un incontro con il Risorto. Pur non parlando dei dettagli, egli accenna diverse volte a questo fatto importantissimo, che cioè anche lui è testimone della risurrezione di Gesù, della quale ha ricevuto immediatamente da Gesù stesso la rivelazione, insieme con la missione di apostolo. Il testo più chiaro su questo punto si trova nel suo racconto su ciò che costituisce il centro della storia della salvezza: la morte e la risurrezione di Gesù e le apparizioni ai testimoni (cfr. 1 Cor 15). Con parole della tradizione antichissima, che anch’egli ha ricevuto dalla Chiesa di Gerusalemme, dice che Gesù morto crocifisso, sepolto, risorto apparve, dopo la risurrezione, prima a Cefa, cioè a Pietro, poi ai Dodici, poi a cinquecento fratelli che in gran parte in quel tempo vivevano ancora, poi a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli. E a questo racconto ricevuto dalla tradizione aggiunge: “Ultimo fra tutti apparve anche a me” (1 Cor 15,8). Così fa capire che questo è il fondamento del suo apostolato e della sua nuova vita. Vi sono pure altri testi nei quali appare la stessa cosa: “Per mezzo di Gesù Cristo abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato” (cfr Rm 1,5); e ancora: “Non ho forse veduto Gesù, Signore nostro?” (1 Cor 9,1), parole con le quali egli allude ad una cosa che tutti sanno. E finalmente il testo più diffuso si legge in Gal 1,15-17: “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco”. In questa “autoapologia” sottolinea decisamente che anche lui è vero testimone del Risorto, ha una propria missione ricevuta immediatamente dal Risorto. Possiamo così vedere che le due fonti, gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, convergono e convengono sul punto fondamentale: il

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Risorto ha parlato a Paolo, lo ha chiamato all’apostolato, ha fatto di lui un vero apostolo, testimone della risurrezione, con l’incarico specifico di annunciare il Vangelo ai pagani, al mondo greco-romano. E nello stesso tempo Paolo ha imparato che, nonostante l’immediatezza del suo rapporto con il Risorto, egli deve entrare nella comunione della Chiesa, deve farsi battezzare, deve vivere in sintonia con gli altri apostoli. Solo in questa comunione con tutti egli potrà essere un vero apostolo, come scrive esplicitamente nella prima Lettera ai Corinti: “Sia io che loro così predichiamo e così avete creduto” (15, 11). C’è solo un annuncio del Risorto, perché Cristo è uno solo. Come si vede, in tutti questi passi Paolo non interpreta mai questo momento come un fatto di conversione. Perché? Ci sono tante ipotesi, ma per me il motivo è molto evidente. Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, ma venne dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo Gesù. In questo senso non fu semplicemente una conversione, una maturazione del suo “io”, ma fu morte e risurrezione per lui stesso: morì una sua esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo Risorto. In nessun altro modo si può spiegare questo rinnovamento di Paolo. Tutte le analisi psicologiche non possono chiarire e risolvere il problema. Solo l’avvenimento, l’incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo: morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri. Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è diventato per lui “spazzatura”; non è più “guadagno”, ma perdita, perché ormai conta solo la vita in Cristo. Non dobbiamo tuttavia pensare che Paolo sia stato così chiuso in un avvenimento cieco. È vero il contrario, perché il Cristo Risorto è la luce della verità, la luce di Dio stesso. Questo ha allargato il suo cuore, lo ha reso aperto a tutti. In questo momento non ha perso quanto c’era di bene e di vero nella sua vita, nella sua eredità, ma ha capito in modo nuovo la saggezza, la verità, la profondità della legge e dei profeti, se n’è riappropriato in modo nuovo. Nello stesso tempo, la sua ragione si è aperta alla saggezza dei pagani; essendosi aperto a Cristo con tutto il cuore, è divenuto capace di un dialogo ampio con tutti, è divenuto capace di farsi tutto a tutti. Così realmente poteva essere l’apostolo dei pagani.

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Venendo ora a noi stessi, ci chiediamo che cosa vuol dire questo per noi? Vuol dire che anche per noi il cristianesimo non è una nuova filosofia o una nuova morale. Cristiani siamo soltanto se incontriamo Cristo. Certamente Egli non si mostra a noi in questo modo irresistibile, luminoso, come ha fatto con Paolo per farne l’apostolo di tutte le genti. Ma anche noi possiamo incontrare Cristo, nella lettura della Sacra Scrittura, nella preghiera, nella vita liturgica della Chiesa. Possiamo toccare il cuore di Cristo e sentire che Egli tocca il nostro. Solo in questa relazione personale con Cristo, solo in questo incontro con il Risorto diventiamo realmente cristiani. E così si apre la nostra ragione, si apre tutta la saggezza di Cristo e tutta la ricchezza della verità. Quindi preghiamo il Signore perché ci illumini, perché ci doni nel nostro mondo l’incontro con la sua presenza: e così ci dia una fede vivace, un cuore aperto, una grande carità per tutti, capace di rinnovare il mondo.

BENEDETTO XVI

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UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 10 settembre 2008

San Paolo (4)

Cari fratelli e sorelle, mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che, al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui, per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo. Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto! Cos’è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui. La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale. Il terzo requisito è l’esercizio dell’”annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi..., una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (3,2-3). Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di “un’anima di diamante” (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più..., così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (ibid., 7,11). Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13). E’ un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo. Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana. Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia.

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 24 settembre 2008

San Paolo (5)

Cari fratelli e sorelle, vorrei oggi parlare sulla relazione tra san Paolo e gli Apostoli che lo avevano preceduto nella sequela di Gesù. Questi rapporti furono sempre segnati da profondo rispetto e da quella franchezza che a Paolo derivava dalla difesa della verità del Vangelo. Anche se egli era, in pratica, contemporaneo di Gesù di Nazareth, non ebbe mai l’opportunità d’incontrarlo, durante la sua vita pubblica. Per questo, dopo la folgorazione sulla strada di Damasco, avvertì il bisogno di consultare i primi discepoli del Maestro, che erano stati scelti da Lui perché ne portassero il Vangelo sino ai confini del mondo. Nella Lettera ai Galati Paolo stila un importante resoconto sui contatti intrattenuti con alcuni dei Dodici: anzitutto con Pietro che era stato scelto come Kephas, la parola aramaica che significa roccia, su cui si stava edificando la Chiesa (cfr Gal 1,18), con Giacomo, “il fratello del Signore” (cfr Gal 1,19), e con Giovanni (cfr Gal 2,9): Paolo non esita a riconoscerli come “le colonne” della Chiesa. Particolarmente significativo è l’incontro con Cefa (Pietro), verificatosi a Gerusalemme: Paolo rimase presso di lui 15 giorni per “consultarlo” (cfr Gal 1,19), ossia per essere informato sulla vita terrena del Risorto, che lo aveva “ghermito” sulla strada di Damasco e gli stava cambiando, in modo radicale, l’esistenza: da persecutore nei confronti della Chiesa di Dio era diventato evangelizzatore di quella fede nel Messia crocifisso e Figlio di Dio, che in passato aveva cercato di distruggere (cfr Gal 1,23). Quale genere di informazioni Paolo ebbe su Gesù Cristo nei tre anni che succedettero all’incontro di Damasco? Nella prima Lettera ai Corinzi possiamo notare due brani, che Paolo ha conosciuto a Gerusalemme, e che erano stati già formulati come elementi centrali della tradizione cristiana, tradizione costitutiva. Egli li trasmette verbalmente, così come li ha ricevuti, con una formula molto solenne: “Vi trasmetto quanto anch’io ho ricevuto”. Insiste cioè sulla fedeltà a quanto egli stesso ha ricevuto e che fedelmente trasmette ai nuovi cristiani. Sono elementi costitutivi e concernono l’Eucaristia e la

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Risurrezione; si tratta di brani già formulati negli anni trenta. Arriviamo così alla morte, sepoltura nel cuore della terra e alla risurrezione di Gesù. (cfr 1 Cor 15,3-4). Prendiamo l’uno e l’altro: le parole di Gesù nell’Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,23-25) sono realmente per Paolo centro della vita della Chiesa: la Chiesa si edifica a partire da questo centro, diventando così se stessa. Oltre questo centro eucaristico, nel quale nasce sempre di nuovo la Chiesa - anche per tutta la teologia di San Paolo, per tutto il suo pensiero - queste parole hanno avuto un notevole impatto sulla relazione personale di Paolo con Gesù. Da una parte attestano che l’Eucaristia illumina la maledizione della croce, rendendola benedizione (Gal 3,13-14), e dall’altra spiegano la portata della stessa morte e risurrezione di Gesù. Nelle sue Lettere il “per voi” dell’istituzione eucaristica diventa il “per me” (Gal 2,20), personalizzando, sapendo che in quel «voi» lui stesso era conosciuto e amato da Gesù e dell’altra parte “per tutti” (2 Cor 5,14): questo «per voi» diventa «per me» e «per la Chiesa (Ef 5, 25)», ossia anche «per tutti» del sacrificio espiatorio della croce (cfr Rm 3,25). Dalla e nell’Eucaristia la Chiesa si edifica e si riconosce quale “Corpo di Cristo” (1 Cor 12,27), alimentato ogni giorno dalla potenza dello Spirito del Risorto. L’altro testo, sulla Risurrezione, ci trasmette di nuovo la stessa formula di fedeltà. Scrive San Paolo: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1 Cor 15,3-5). Anche in questa tradizione trasmessa a Paolo torna quel “per i nostri peccati”, che pone l’accento sul dono che Gesù ha fatto di sé al Padre, per liberarci dai peccati e dalla morte. Da questo dono di sé, Paolo trarrà le espressioni più coinvolgenti e affascinanti del nostro rapporto con Cristo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2 Cor 5,21); “Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8,9). Vale la pena ricordare il commento col quale l’allora monaco agostiniano, Martin Lutero, accompagnava queste espressioni paradossali di Paolo: “Questo è il grandioso mistero della grazia divina verso i peccatori: che con un mirabile scambio i nostri peccati non sono più nostri, ma di Cristo, e la giustizia di Cristo non è più di Cristo, ma nostra” (Commento ai Salmi del 1513-1515). E così siamo salvati.

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Nell’originale kerygma (annuncio), trasmesso di bocca in bocca, merita di essere segnalato l’uso del verbo “è risuscitato”, invece del “fu risuscitato” che sarebbe stato più logico utilizzare, in continuità con “morì... e fu sepolto”. La forma verbale «è risuscitato» è scelta per sottolineare che la risurrezione di Cristo incide sino al presente dell’esistenza dei credenti: possiamo tradurlo con “è risuscitato e continua a vivere” nell’Eucaristia e nella Chiesa. Così tutte le Scritture rendono testimonianza della morte e risurrezione di Cristo, perché - come scriverà Ugo di San Vittore - “tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (De arca Noe, 2,8). Se sant’Ambrogio di Milano potrà dire che “nella Scrittura noi leggiamo Cristo”, è perché la Chiesa delle origini ha riletto tutte le Scritture d’Israele partendo da e tornando a Cristo. La scansione delle apparizioni del Risorto a Cefa, ai Dodici, a più di cinquecento fratelli, e a Giacomo si chiude con l’accenno alla personale apparizione, ricevuta da Paolo sulla strada di Damasco: “Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto” (1 Cor 15,8). Poiché egli ha perseguitato la Chiesa di Dio, in questa confessione esprime la sua indegnità nell’essere considerato apostolo, sullo stesso livello di quelli che l’hanno preceduto: ma la grazia di Dio in lui non è stata vana (1 Cor 15,10). Pertanto l’affermarsi prepotente della grazia divina accomuna Paolo ai primi testimoni della risurrezione di Cristo: “Sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto” (1 Cor 15,11). È importante l’identità e l’unicità dell’annuncio del Vangelo: sia loro sia io predichiamo la stessa fede, lo stesso Vangelo di Gesù Cristo morto e risorto che si dona nella Santissima Eucaristia. L’importanza che egli conferisce alla Tradizione viva della Chiesa, che trasmette alle sue comunità, dimostra quanto sia errata la visione di chi attribuisce a Paolo l’invenzione del cristianesimo: prima di evangelizzare Gesù Cristo, il suo Signore, egli l’ha incontrato sulla strada di Damasco e lo ha frequentato nella Chiesa, osservandone la vita nei Dodici e in coloro che lo hanno seguito per le strade della Galilea. Nelle prossime Catechesi avremo l’opportunità di approfondire i contributi che Paolo ha donato alla Chiesa delle origini; ma la missione ricevuta dal Risorto in ordine all’evangelizzazione dei gentili ha bisogno di essere confermata e garantita da coloro che diedero a lui e a Barnaba la mano destra, in segno di approvazione del loro apostolato e della loro evangelizzazione e di accoglienza nella unica comunione della Chiesa di

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Cristo (cfr Gal 2,9). Si comprende allora che l’espressione “anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne” (2 Cor 5,16) non significa che la sua esistenza terrena abbia uno scarso rilievo per la nostra maturazione nella fede, bensì che dal momento della sua Risurrezione, cambia il nostro modo di rapportarci con Lui. Egli è, nello stesso tempo, il Figlio di Dio, “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti”, come ricorderà Paolo all’inizio della Lettera ai Romani (1, 3-4). Quanto più cerchiamo di rintracciare le orme di Gesù di Nazaret per le strade della Galilea, tanto più possiamo comprendere che Egli si è fatto carico della nostra umanità, condividendola in tutto, tranne che nel peccato. La nostra fede non nasce da un mito, né da un’idea, bensì dall’incontro con il Risorto, nella vita della Chiesa.

BENEDETTO XVI

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UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 1° ottobre 2008

San Paolo (6)

Cari fratelli e sorelle, il rispetto e la venerazione che Paolo ha sempre coltivato nei confronti dei Dodici non vengono meno quando egli con franchezza difende la verità del Vangelo, che non è altro se non Gesù Cristo, il Signore. Vogliamo oggi soffermarci su due episodi che dimostrano la venerazione e, nello stesso tempo, la libertà con cui l’Apostolo si rivolge a Cefa e agli altri Apostoli: il cosiddetto “Concilio” di Gerusalemme e l’incidente di Antiochia di Siria, riportati nella Lettera ai Galati (cfr 2,1-10; 2,11-14). Ogni Concilio e Sinodo della Chiesa è “evento dello Spirito” e reca nel suo compiersi le istanze di tutto il popolo di Dio: lo hanno sperimentato in prima persona quanti hanno avuto il dono di partecipare al Concilio Vaticano II. Per questo san Luca, informandoci sul primo Concilio della Chiesa, svoltosi a Gerusalemme, così introduce la lettera che gli Apostoli inviarono in quella circostanza alle comunità cristiane della diaspora: “Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi...” (At 15,28). Lo Spirito, che opera in tutta la Chiesa, conduce per mano gli Apostoli nell’intraprendere strade nuove per realizzare i suoi progetti: è Lui l’artefice principale dell’edificazione della Chiesa. Eppure l’assemblea di Gerusalemme si svolse in un momento di non piccola tensione all’interno della Comunità delle origini. Si trattava di rispondere al quesito se occorresse richiedere ai pagani che stavano aderendo a Gesù Cristo, il Signore, la circoncisione o se fosse lecito lasciarli liberi dalla Legge mosaica, cioè dall’osservanza delle norme necessarie per essere uomini giusti, ottemperanti alla Legge, e soprattutto liberi dalle norme riguardanti le purificazioni cultuali, i cibi puri e impuri e il sabato. Dell’assemblea di Gerusalemme riferisce anche san Paolo in Gal 2,1-10: dopo quattordici anni dall’incontro con il Risorto a Damasco – siamo nella seconda metà degli anni 40 d.C. – Paolo parte con Barnaba da Antiochia di Siria e si fa accompagnare da Tito, il suo fedele collaboratore che, pur essendo di origine greca, non era stato costretto a farsi circoncidere per entrare nella Chiesa. In questa occasione Paolo espone ai Dodici, definiti come le persone più ragguardevoli, il suo

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 vangelo della libertà dalla Legge (cfr Gal 2,6). Alla luce dell’incontro con Cristo risorto, egli aveva capito che nel momento del passaggio al Vangelo di Gesù Cristo, ai pagani non erano più necessarie la circoncisione, le regole sul cibo, sul sabato come contrassegni della giustizia: Cristo è la nostra giustizia e “giusto” è tutto ciò che è a Lui conforme. Non sono necessari altri contrassegni per essere giusti. Nella Lettera ai Galati riferisce, con poche battute, lo svolgimento dell’assemblea: con entusiasmo ricorda che il vangelo della libertà dalla Legge fu approvato da Giacomo, Cefa e Giovanni, “le colonne”, che offrirono a lui e a Barnaba la destra della comunione ecclesiale in Cristo (cfr Gal 2,9). Se, come abbiamo notato, per Luca il Concilio di Gerusalemme esprime l’azione dello Spirito Santo, per Paolo rappresenta il decisivo riconoscimento della libertà condivisa fra tutti coloro che vi parteciparono: una libertà dalle obbligazioni provenienti dalla circoncisione e dalla Legge; quella libertà per la quale “Cristo ci ha liberati, perché restassimo liberi” e non ci lasciassimo più imporre il giogo della schiavitù (cfr Gal 5,1). Le due modalità con cui Paolo e Luca descrivono l’assemblea di Gerusalemme sono accomunate dall’azione liberante dello Spirito, poiché “dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà”, dirà nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 3,17). Tuttavia, come appare con grande chiarezza nelle Lettere di san Paolo, la libertà cristiana non s’identifica mai con il libertinaggio o con l’arbitrio di fare ciò che si vuole; essa si attua nella conformità a Cristo e perciò nell’autentico servizio per i fratelli, soprattutto, per i più bisognosi. Per questo, il resoconto di Paolo sull’assemblea si chiude con il ricordo della raccomandazione che gli rivolsero gli Apostoli: “Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare” (Gal 2,10). Ogni Concilio nasce dalla Chiesa e alla Chiesa torna: in quell’occasione vi ritorna con l’attenzione per i poveri che, dalle diverse annotazioni di Paolo nelle sue Lettere, sono anzitutto quelli della Chiesa di Gerusalemme. Nella preoccupazione per i poveri, attestata, in particolare, nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 8-9) e nella parte conclusiva della Lettera ai Romani (cfr Rm 15), Paolo dimostra la sua fedeltà alle decisioni maturate durante l’assemblea. Forse non siamo più in grado di comprendere appieno il significato che Paolo e le sue comunità attribuirono alla colletta per i poveri di Gerusalemme. Si trattò di un’iniziativa del tutto nuova nel panorama delle attività religiose: non fu obbligatoria, ma libera e spontanea; vi presero parte tutte le Chiese fondate da Paolo verso l’Occidente. La

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 colletta esprimeva il debito delle sue comunità per la Chiesa madre della Palestina, da cui avevano ricevuto il dono inenarrabile del Vangelo. Tanto grande è il valore che Paolo attribuisce a questo gesto di condivisione che raramente egli la chiama semplicemente “colletta”: per lui essa è piuttosto “servizio”, “benedizione”, “amore”, “grazia”, anzi “liturgia” (2 Cor 9). Sorprende, in modo particolare, quest’ultimo termine, che conferisce alla raccolta in denaro un valore anche cultuale: da una parte essa è gesto liturgico o “servizio”, offerto da ogni comunità a Dio, dall’altra è azione di amore compiuta a favore del popolo. Amore per i poveri e liturgia divina vanno insieme, l’amore per i poveri è liturgia. I due orizzonti sono presenti in ogni liturgia celebrata e vissuta nella Chiesa, che per sua natura si oppone alla separazione tra il culto e la vita, tra la fede e le opere, tra la preghiera e la carità per i fratelli. Così il Concilio di Gerusalemme nasce per dirimere la questione sul come comportarsi con i pagani che giungevano alla fede, scegliendo per la libertà dalla circoncisione e dalle osservanze imposte dalla Legge, e si risolve nell’istanza ecclesiale e pastorale che pone al centro la fede in Cristo Gesù e l’amore per i poveri di Gerusalemme e di tutta la Chiesa. Il secondo episodio è il noto incidente di Antiochia, in Siria, che attesta la libertà interiore di cui Paolo godeva: come comportarsi in occasione della comunione di mensa tra credenti di origine giudaica e quelli di matrice gentile? Emerge qui l’altro epicentro dell’osservanza mosaica: la distinzione tra cibi puri e impuri, che divideva profondamente gli ebrei osservanti dai pagani. Inizialmente Cefa, Pietro condivideva la mensa con gli uni e con gli altri; ma con l’arrivo di alcuni cristiani legati a Giacomo, “il fratello del Signore” (Gal 1,19), Pietro aveva cominciato a evitare i contatti a tavola con i pagani, per non scandalizzare coloro che continuavano ad osservare le leggi di purità alimentare; e la scelta era stata condivisa da Barnaba. Tale scelta divideva profondamente i cristiani venuti dalla circoncisione e i cristiani venuti dal paganesimo. Questo comportamento, che minacciava realmente l’unità e la libertà della Chiesa, suscitò le accese reazioni di Paolo, che giunse ad accusare Pietro e gli altri d’ipocrisia: “Se tu che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei giudei?” (Gal 2,14). In realtà, erano diverse le preoccupazioni di Paolo, da una parte, e di Pietro e Barnaba, dall’altra: per questi ultimi la separazione dai pagani rappresentava una modalità per tutelare e per non scandalizzare i credenti provenienti dal giudaismo; per Paolo costituiva, invece, un pericolo di fraintendimento

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 dell’universale salvezza in Cristo offerta sia ai pagani che ai giudei. Se la giustificazione si realizza soltanto in virtù della fede in Cristo, della conformità con Lui, senza alcuna opera della Legge, che senso ha osservare ancora le purità alimentari in occasione della condivisione della mensa? Molto probabilmente erano diverse le prospettive di Pietro e di Paolo: per il primo non perdere i giudei che avevano aderito al Vangelo, per il secondo non sminuire il valore salvifico della morte di Cristo per tutti i credenti. Strano a dirsi, ma scrivendo ai cristiani di Roma, alcuni anni dopo (intorno alla metà degli anni 50 d.C.), Paolo stesso si troverà di fronte ad una situazione analoga e chiederà ai forti di non mangiare cibo impuro per non perdere o per non scandalizzare i deboli: “Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi” (Rm 14,21). L’incidente di Antiochia si rivelò così una lezione tanto per Pietro quanto per Paolo. Solo il dialogo sincero, aperto alla verità del Vangelo, poté orientare il cammino della Chiesa: “Il regno di Dio, infatti, non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17). E’ una lezione che dobbiamo imparare anche noi: con i carismi diversi affidati a Pietro e a Paolo, lasciamoci tutti guidare dallo Spirito, cercando di vivere nella libertà che trova il suo orientamento nella fede in Cristo e si concretizza nel servizio ai fratelli. Essenziale è essere sempre più conformi a Cristo. E’ così che si diventa realmente liberi, così si esprime in noi il nucleo più profondo della Legge: l’amore per Dio e per il prossimo. Preghiamo il Signore che ci insegni a condividere i suoi sentimenti, per imparare da Lui la vera libertà e l’amore evangelico che abbraccia ogni essere umano.

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 8 ottobre 2008

San Paolo (7)

Cari fratelli e sorelle, nelle ultime catechesi su san Paolo ho parlato del suo incontro con il Cristo risorto, che ha cambiato profondamente la sua vita, e poi della sua relazione con i dodici Apostoli chiamati da Gesù – particolarmente con Giacomo, Cefa e Giovanni – e della sua relazione con la Chiesa di Gerusalemme. Rimane adesso la questione su che cosa san Paolo ha saputo del Gesù terreno, della sua vita, dei suoi insegnamenti, della sua passione. Prima di entrare in questa questione, può essere utile tener presente che san Paolo stesso distingue due modi di conoscere Gesù e più in generale due modi di conoscere una persona. Scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi: “Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (5,16). Conoscere “secondo la carne”, in modo carnale, vuol dire conoscere in modo solo esteriore, con criteri esteriori: si può aver visto una persona diverse volte, conoscerne quindi le fattezze ed i diversi dettagli del comportamento: come parla, come si muove, ecc. Tuttavia, pur conoscendo uno in questo modo, non lo si conosce realmente, non si conosce il nucleo della persona. Solo col cuore si conosce veramente una persona. Di fatto, i farisei e i sadducei hanno conosciuto Gesù in modo esteriore, hanno appreso il suo insegnamento, tanti dettagli su di lui, ma non lo hanno conosciuto nella sua verità. C’è una distinzione analoga in una parola di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, egli chiede agli apostoli: “Che cosa dice la gente che io sia?” e “Chi dite voi che io sia?”. La gente lo conosce, ma superficialmente; sa diverse cose di lui, ma non lo ha realmente conosciuto. Invece i Dodici, grazie all’amicizia che chiama in causa il cuore, hanno almeno capito nella sostanza e cominciato a conoscere chi è Gesù. Anche oggi esiste questo diverso modo di conoscenza: ci sono persone dotte che conoscono Gesù nei suoi molti dettagli e persone semplici che non hanno conoscenza di questi dettagli, ma lo hanno conosciuto nella sua verità: “il cuore parla al cuore”. E Paolo vuol dire essenzialmente di conoscere Gesù così, col cuore, e di

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 conoscere in questo modo essenzialmente la persona nella sua verità; e poi, in un secondo momento, di conoscerne i dettagli. Detto questo rimane tuttavia la questione: che cosa ha saputo san Paolo della vita concreta, delle parole, della passione, dei miracoli di Gesù? Sembra accertato che non lo abbia incontrato durante la sua vita terrena. Tramite gli Apostoli e la Chiesa nascente ha sicuramente conosciuto anche dettagli sulla vita terrena di Gesù. Nelle sue Lettere possiamo trovare tre forme di riferimento al Gesù pre-pasquale. In primo luogo, ci sono riferimenti espliciti e diretti. Paolo parla della ascendenza davidica di Gesù (cfr Rm 1,3), conosce l’esistenza di suoi “fratelli” o consanguinei (1 Cor 9,5; Gal 1,19), conosce lo svolgimento dell’Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,23), conosce altre parole di Gesù, per esempio circa l’indissolubilità del matrimonio (cfr 1 Cor 7,10 con Mc 10,11-12), circa la necessità che chi annuncia il Vangelo sia mantenuto dalla comunità in quanto l’operaio è degno della sua mercede (cfr 1 Cor 9,14 con Lc 10,7); Paolo conosce le parole pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,24-25 con Lc 22,19-20) e conosce anche la croce di Gesù. Questi sono riferimenti diretti a parole e fatti della vita di Gesù. In secondo luogo, possiamo intravedere in alcune frasi delle Lettere paoline varie allusioni alla tradizione attestata nei Vangeli sinottici. Per esempio, le parole che leggiamo nella prima Lettera ai Tessalonicesi, secondo cui “come un ladro di notte così verrà il giorno del Signore” (5,2), non si spiegherebbero con un rimando alle profezie veterotestamentarie, poiché il paragone del ladro notturno si trova solo nel Vangelo di Matteo e di Luca, quindi è preso proprio dalla tradizione sinottica. Così, quando leggiamo che “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto...” (1 Cor 1,27-28), si sente l’eco fedele dell’insegnamento di Gesù sui semplici e sui poveri (cfr Mt 5,3; 11,25; 19,30). Vi sono poi le parole pronunciate da Gesù nel giubilo messianico: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Paolo sa - è la sua esperienza missionaria – come siano vere queste parole, che cioè proprio i semplici hanno il cuore aperto alla conoscenza di Gesù. Anche l’accenno all’obbedienza di Gesù “fino alla morte”, che si legge in Fil 2,8 non può non richiamare la totale disponibilità del Gesù terreno a compiere la volontà del Padre suo (cfr Mc 3,35; Gv 4,34) Paolo dunque conosce la passione di Gesù, la sua croce, il modo in cui egli ha vissuto i momenti ultimi della sua vita. La croce di Gesù e la tradizione su questo evento della croce sta al centro del Kerygma paolino. Un altro pilastro

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 della vita di Gesù conosciuto da san Paolo è il Discorso della Montagna, del quale cita alcuni elementi quasi alla lettera, quando scrive ai Romani: “Amatevi gli uni gli altri... Benedite coloro che vi perseguitano... Vivete in pace con tutti... Vinci il male con il bene...”. Quindi nelle sue Lettere c’è un riflesso fedele del Discorso della Montagna (cfr Mt 5-7). Infine, è possibile riscontrare un terzo modo di presenza delle parole di Gesù nelle Lettere di Paolo: è quando egli opera una forma di trasposizione della tradizione pre-pasquale alla situazione dopo la Pasqua. Un caso tipico è il tema del Regno di Dio. Esso sta sicuramente al centro della predicazione del Gesù storico (cfr Mt 3,2; Mc 1,15; Lc 4,43). In Paolo si può rilevare una trasposizione di questa tematica, perché dopo la risurrezione è evidente che Gesù in persona, il Risorto, è il Regno di Dio. Il Regno pertanto arriva laddove sta arrivando Gesù. E così necessariamente il tema del Regno di Dio, in cui era anticipato il mistero di Gesù, si trasforma in cristologia. Tuttavia, le stesse disposizioni richieste da Gesù per entrare nel Regno di Dio valgono esattamene per Paolo a proposito della giustificazione mediante la fede: tanto l’ingresso nel Regno quanto la giustificazione richiedono un atteggiamento di grande umiltà e disponibilità, libera da presunzioni, per accogliere la grazia di Dio. Per esempio, la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,9-14) impartisce un insegnamento che si trova tale e quale in Paolo, quando insiste sulla doverosa esclusione di ogni vanto nei confronti di Dio. Anche le frasi di Gesù sui pubblicani e le prostitute, più disponibili dei farisei ad accogliere il Vangelo (cfr Mt 21,31; Lc 7,36- 50), e le sue scelte di condivisione della mensa con loro (cfr Mt 9,10-13; Lc 15,1-2) trovano pieno riscontro nella dottrina di Paolo sull’amore misericordioso di Dio verso i peccatori (cfr Rm 5,8-10; e anche Ef 2,3-5). Così il tema del Regno di Dio viene riproposto in forma nuova, ma sempre in piena fedeltà alla tradizione del Gesù storico. Un altro esempio di trasformazione fedele del nucleo dottrinale inteso da Gesù si trova nei “titoli” a lui riferiti. Prima di Pasqua egli stesso si qualifica come Figlio dell’uomo; dopo la Pasqua diventa evidente che il Figlio dell’uomo è anche il Figlio di Dio. Pertanto il titolo preferito da Paolo per qualificare Gesù è Kýrios, “Signore” (cfr Fil 2,9- 11), che indica la divinità di Gesù. Il Signore Gesù, con questo titolo, appare nella piena luce della risurrezione. Sul Monte degli Ulivi, nel momento dell’estrema angoscia di Gesù (cfr Mc 14,36), i discepoli prima di addormentarsi avevano udito come egli parlava col Padre e lo chiamava “Abbà – Padre”. E’ una parola molto familiare equivalente al

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 nostro “papà”, usata solo da bambini in comunione col loro padre. Fino a quel momento era impensabile che un ebreo usasse una simile parola per rivolgersi a Dio; ma Gesù, essendo vero figlio, in questa ora di intimità parla così e dice: “Abbà, Padre”. Nelle Lettere di san Paolo ai Romani e ai Galati sorprendentemente questa parola “Abbà”, che esprime l’esclusività della figliolanza di Gesù, appare sulla bocca dei battezzati (cfr Rm 8,15; Gal 4,6), perché hanno ricevuto lo “Spirito del Figlio” e adesso portano in sé tale Spirito e possono parlare come Gesù e con Gesù da veri figli al loro Padre, possono dire “Abbà” perché sono divenuti figli nel Figlio. E finalmente vorrei accennare alla dimensione salvifica della morte di Gesù, quale noi troviamo nel detto evangelico secondo cui “il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45; Mt 20,28). Il riflesso fedele di questa parola di Gesù appare nella dottrina paolina sulla morte di Gesù come riscatto (cfr 1 Cor 6,20), come redenzione (cfr Rm 3,24), come liberazione (cfr Gal 5,1) e come riconciliazione (cfr Rm 5,10; 2 Cor 5,18- 20). Qui sta il centro della teologia paolina, che si basa su questa parola di Gesù. In conclusione, san Paolo non pensa a Gesù in veste di storico, come a una persona del passato. Conosce certamente la grande tradizione sulla vita, le parole, la morte e la risurrezione di Gesù, ma non tratta tutto ciò come cosa del passato; lo propone come realtà del Gesù vivo. Le parole e le azioni di Gesù per Paolo non appartengono al tempo storico, al passato. Gesù vive adesso e parla adesso con noi e vive per noi. Questo è il modo vero di conoscere Gesù e di accogliere la tradizione su di lui. Dobbiamo anche noi imparare a conoscere Gesù non secondo la carne, come una persona del passato, ma come il nostro Signore e Fratello, che è oggi con noi e ci mostra come vivere e come morire.

BENEDETTO XVI

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 15 ottobre 2008

San Paolo (8)

Cari fratelli e sorelle, nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della relazione di Paolo con il Gesù pre-pasquale nella sua vita terrena. La questione era: “Che cosa ha saputo Paolo della vita di Gesù, delle sue parole, della sua passione?”. Oggi vorrei parlare dell’insegnamento di san Paolo sulla Chiesa. Dobbiamo cominciare dalla costatazione che questa parola “Chiesa” nell’italiano - come nel francese “Église” e nello spagnolo “Iglesia” - essa è presa dal greco “ekklēsía ”! Essa viene dall’Antico Testamento e significa l’assemblea del popolo di Israele, convocata da Dio, particolarmente l’assemblea esemplare ai piedi del Sinai. Con questa parola è ora significata la nuova comunità dei credenti in Cristo che si sentono assemblea di Dio, la nuova convocazione di tutti i popoli da parte di Dio e davanti a Lui. Il vocabolo ekklēsía fa la sua apparizione solo sotto la penna di Paolo, che è il primo autore di uno scritto cristiano. Ciò avviene nell’incipit della prima Lettera ai Tessalonicesi, dove Paolo si rivolge testualmente “alla Chiesa dei Tessalonicesi” (cfr poi anche “la Chiesa dei Laodicesi” in Col 4,16). In altre Lettere egli parla della Chiesa di Dio che è in Corinto (1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1), che è in Galazia (Gal 1,2 ecc.) – Chiese particolari, dunque – ma dice anche di avere perseguitato “la Chiesa di Dio”: non una determinata comunità locale, ma “la Chiesa di Dio”. Così vediamo che questa parola “Chiesa” ha un significato pluridimensionale: indica da una parte le assemblee di Dio in determinati luoghi (una città, un paese, una casa), ma significa anche tutta la Chiesa nel suo insieme. E così vediamo che “la Chiesa di Dio” non è solo una somma di diverse Chiese locali, ma che le diverse Chiese locali sono a loro volta realizzazione dell’unica Chiesa di Dio. Tutte insieme sono “la Chiesa di Dio”, che precede le singole Chiese locali e si esprime, si realizza in esse. È importante osservare che quasi sempre la parola “Chiesa” appare con l’aggiunta della qualificazione “di Dio”: non è una associazione umana, nata da idee o interessi comuni, ma da una convocazione di Dio.

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

Egli l’ha convocata e perciò è una in tutte le sue realizzazioni. L’unità di Dio crea l’unità della Chiesa in tutti i luoghi dove essa si trova. Più tardi, nella Lettera agli Efesini, Paolo elaborerà abbondantemente il concetto di unità della Chiesa, in continuità col concetto di Popolo di Dio, Israele, considerato dai profeti come “sposa di Dio”, chiamata a vivere una relazione sponsale con Lui. Paolo presenta l’unica Chiesa di Dio come “sposa di Cristo” nell’amore, un solo corpo e un solo spirito con Cristo stesso. È noto che il giovane Paolo era stato accanito avversario del nuovo movimento costituito dalla Chiesa di Cristo. Ne era stato avversario, perché aveva visto minacciata in questo nuovo movimento la fedeltà alla tradizione del popolo di Dio, animato dalla fede nel Dio unico. Tale fedeltà si esprimeva soprattutto nella circoncisione, nell’osservanza delle regole della purezza cultuale, dell’astensione da certi cibi, del rispetto del sabato. Questa fedeltà gli Israeliti avevano pagato col sangue dei martiri, nel periodo dei Maccabei, quando il regime ellenista voleva obbligare tutti i popoli a conformarsi all’unica cultura ellenistica. Molti israeliti avevano difeso col sangue la vocazione propria di Israele. I martiri avevano pagato con la vita l’identità del loro popolo, che si esprimeva mediante questi elementi. Dopo l’incontro con il Cristo risorto, Paolo capì che i cristiani non erano traditori; al contrario, nella nuova situazione, il Dio di Israele, mediante Cristo, aveva allargato la sua chiamata a tutte le genti, divenendo il Dio di tutti i popoli. In questo modo si realizzava la fedeltà all’unico Dio; non erano più necessari segni distintivi costituiti da norme e osservanze particolari, perché tutti erano chiamati, nella loro varietà, a far parte dell’unico popolo di Dio della “Chiesa di Dio” in Cristo. Una cosa fu per Paolo subito chiara nella nuova situazione: il valore fondamentale e fondante di Cristo e della “parola” che Lo annunciava. Paolo sapeva che non solo non si diventa cristiani per coercizione, ma che nella configurazione interna della nuova comunità la componente istituzionale era inevitabilmente legata alla “parola” viva, all’annuncio del Cristo vivo nel quale Dio si apre a tutti i popoli e li unisce in un unico popolo di Dio. È sintomatico che Luca negli Atti degli Apostoli impieghi più volte, anche a proposito di Paolo, il sintagma “annunciare la parola” (At 4,29.31; 8,25; 11,19; 13,46; 14,25; 16,6.32), con l’evidente intenzione di evidenziare al massimo la portata decisiva della “parola” dell’annuncio. In concreto, tale parola è costituita dalla croce e dalla risurrezione di Cristo, in cui hanno trovato realizzazione le Scritture. Il Mistero pasquale, che ha provocato la svolta della sua vita sulla strada di

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

Damasco, sta ovviamente al centro della predicazione dell’Apostolo (cfr 1 Cor 2,2;15,14). Questo Mistero, annunciato nella parola, si realizza nei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia e diventa poi realtà nella carità cristiana. L’opera evangelizzatrice di Paolo non è finalizzata ad altro che ad impiantare la comunità dei credenti in Cristo. Questa idea è insita nella etimologia stessa del vocabolo ekklēsía, che Paolo, e con lui l’intero cristianesimo, ha preferito all’altro termine di “sinagoga”: non solo perché originariamente il primo è più ‘laico’ (derivando dalla prassi greca dell’assemblea politica e non propriamente religiosa), ma anche perché esso implica direttamente l’idea più teologica di una chiamata ab extra, non quindi di un semplice riunirsi insieme; i credenti sono chiamati da Dio, il quale li raccoglie in una comunità, la sua Chiesa. In questa linea possiamo intendere anche l’originale concetto, esclusivamente paolino, della Chiesa come “Corpo di Cristo”. Al riguardo, occorre avere presente le due dimensioni di questo concetto. Una è di carattere sociologico, secondo cui il corpo è costituito dai suoi componenti e non esisterebbe senza di essi. Questa interpretazione appare nella Lettera ai Romani e nella Prima Lettera ai Corinti, dove Paolo assume un’immagine che esisteva già nella sociologia romana: egli dice che un popolo è come un corpo con diverse membra, ognuna delle quali ha la sua funzione, ma tutte, anche le più piccole e apparentemente insignificanti, sono necessarie perché il corpo possa vivere e realizzare le proprie funzioni. Opportunamente l’Apostolo osserva che nella Chiesa ci sono tante vocazioni: profeti, apostoli, maestri, persone semplici, tutti chiamati a vivere ogni giorno la carità, tutti necessari per costruire l’unità vivente di questo organismo spirituale. L’altra interpretazione fa riferimento al Corpo stesso di Cristo. Paolo sostiene che la Chiesa non è solo un organismo, ma diventa realmente corpo di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia, dove tutti riceviamo il suo Corpo e diventiamo realmente suo Corpo. Si realizza così il mistero sponsale che tutti diventano un solo corpo e un solo spirito in Cristo. Così la realtà va molto oltre l’immagine sociologica, esprimendo la sua vera essenza profonda, cioè l’unità di tutti i battezzati in Cristo, considerati dall’Apostolo “uno” in Cristo, conformati al sacramento del suo Corpo. Dicendo questo, Paolo mostra di saper bene e fa capire a noi tutti che la Chiesa non è sua e non è nostra: la Chiesa è corpo di Cristo, è “Chiesa di Dio”, “campo di Dio, edificazione di Dio, ... tempio di Dio” (1Cor 3,9.16). Quest’ultima designazione è particolarmente interessante, perché attribuisce a un tessuto di relazioni interpersonali un termine che

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 comunemente serviva per indicare un luogo fisico, considerato sacro. Il rapporto tra Chiesa e tempio viene perciò ad assumere due dimensioni complementari: da una parte, viene applicata alla comunità ecclesiale la caratteristica di separatezza e purità che spettava all’edificio sacro, ma, dall’altra, viene pure superato il concetto di uno spazio materiale, per trasferire tale valenza alla realtà di una viva comunità di fede. Se prima i templi erano considerati luoghi della presenza di Dio, adesso si sa e si vede che Dio non abita in edifici fatti di pietre, ma il luogo della presenza di Dio nel mondo è la comunità viva dei credenti. Un discorso a parte meriterebbe la qualifica di “popolo di Dio”, che in Paolo è applicata sostanzialmente al popolo dell’Antico Testamento e poi ai pagani che erano “il non popolo” e sono diventati anch’essi popolo di Dio grazie al loro inserimento in Cristo mediante la parola e il sacramento. E finalmente un’ultima sfumatura. Nella Lettera a Timoteo Paolo qualifica la Chiesa come «casa di Dio» (1 Tm 3,15); e questa è una definizione davvero originale, poiché si riferisce alla Chiesa come struttura comunitaria in cui si vivono calde relazioni interpersonali di carattere familiare. L’Apostolo ci aiuta a comprendere sempre più a fondo il mistero della Chiesa nelle sue diverse dimensioni di assemblea di Dio nel mondo. Questa è la grandezza della Chiesa e la grandezza della nostra chiamata: siamo tempio di Dio nel mondo, luogo dove Dio abita realmente, e siamo, al tempo stesso, comunità, famiglia di Dio, il Quale è carità. Come famiglia e casa di Dio dobbiamo realizzare nel mondo la carità di Dio e così essere, con la forza che viene dalla fede, luogo e segno della sua presenza. Preghiamo il Signore affinché ci conceda di essere sempre più la sua Chiesa, il suo Corpo, il luogo della presenza della sua carità in questo nostro mondo e nella nostra storia.

BENEDETTO XVI

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 22 ottobre 2008

San Paolo (9). L’importanza della Cristologia.

Cari fratelli e sorelle, nelle catechesi delle scorse settimane abbiamo meditato sulla ‘conversione’ di san Paolo, frutto dell’incontro personale con Gesù crocifisso e risorto, e ci siamo interrogati su quale sia stata la relazione dell’Apostolo delle genti con il Gesù terreno. Oggi vorrei parlare dell’insegnamento che san Paolo ci ha lasciato sulla centralità del Cristo risorto nel mistero della salvezza, sulla sua cristologia. In verità, Gesù Cristo risorto, “esaltato sopra ogni nome”, sta al centro di ogni sua riflessione. Cristo è per l’Apostolo il criterio di valutazione degli eventi e delle cose, il fine di ogni sforzo che egli compie per annunciare il Vangelo, la grande passione che sostiene i suoi passi sulle strade del mondo. E si tratta di un Cristo vivo, concreto: il Cristo – dice Paolo – “che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2, 20). Questa persona che mi ama, con la quale posso parlare, che mi ascolta e mi risponde, questo è realmente il principio per capire il mondo e per trovare la strada nella storia. Chi ha letto gli scritti di san Paolo sa bene che egli non si è preoccupato di narrare i singoli fatti in cui si articola la vita di Gesù, anche se possiamo pensare che nelle sue catechesi abbia raccontato molto di più sul Gesù prepasquale di quanto egli scrive nelle Lettere, che sono ammonimenti in situazioni precise. Il suo intento pastorale e teologico era talmente teso all’edificazione delle nascenti comunità, che gli era spontaneo concentrare tutto nell’annuncio di Gesù Cristo quale “Signore”, vivo adesso e presente adesso in mezzo ai suoi. Di qui la caratteristica essenzialità della cristologia paolina, che sviluppa le profondità del mistero con una costante e precisa preoccupazione: annunciare, certo, il Gesù vivo, il suo insegnamento, ma annunciare soprattutto la realtà centrale della sua morte e risurrezione, come culmine della sua esistenza terrena e radice del successivo sviluppo di tutta la fede cristiana, di tutta la realtà della Chiesa. Per l’Apostolo la risurrezione non è un avvenimento a sé stante, disgiunto dalla morte: il Risorto è sempre colui che, prima, è stato crocifisso. Anche da Risorto

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 porta le sue ferite: la passione è presente in Lui e si può dire con Pascal che Egli è sofferente fino alla fine del mondo, pur essendo il Risorto e vivendo con noi e per noi. Questa identità del Risorto col Cristo crocifisso Paolo l’aveva capita nell’incontro sulla via di Damasco: in quel momento gli si rivelò con chiarezza che il Crocifisso è il Risorto e il Risorto è il Crocifisso, che dice a Paolo: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4). Paolo sta perseguitando Cristo nella Chiesa e allora capisce che la croce è “una maledizione di Dio” (Dt 21,23), ma sacrificio per la nostra redenzione. L’Apostolo contempla affascinato il segreto nascosto del Crocifisso-risorto e attraverso le sofferenze sperimentate da Cristo nella sua umanità (dimensione terrena) risale a quell’esistenza eterna in cui Egli è tutt’uno col Padre (dimensione pre-temporale): “Quando venne la pienezza del tempo – egli scrive -, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5). Queste due dimensioni, la preesistenza eterna presso il Padre e la discesa del Signore nella incarnazione, si annunciano già nell’Antico Testamento, nella figura della Sapienza. Troviamo nei Libri sapienziali dell’Antico Testamento alcuni testi che esaltano il ruolo della Sapienza preesistente alla creazione del mondo. In questo senso vanno letti passi come questo del Salmo 90: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, Dio” (v. 2); o passi come quello che parla della Sapienza creatrice: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra” (Prv 8, 22-23). Suggestivo è anche l’elogio della Sapienza, contenuto nell’omonimo libro: “La Sapienza si estende vigorosa da un’estremità all’altra e governa a meraviglia l’universo” (Sap 8,1). Gli stessi testi sapienziali che parlano della preesistenza eterna della Sapienza, parlano anche della discesa, dell’abbassamento di questa Sapienza, che si è creata una tenda tra gli uomini. Così sentiamo echeggiare già le parole del Vangelo di Giovanni che parla della tenda della carne del Signore. Si è creata una tenda nell’Antico Testamento: qui è indicato il tempio, il culto secondo la “Thorà”; ma dal punto di vista del Nuovo Testamento possiamo capire che questa era solo una prefigurazione della tenda molto più reale e significativa: la tenda della carne di Cristo. E vediamo già nei Libri dell’Antico Testamento che questo abbassamento della Sapienza, la sua discesa nella carne, implica

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 anche la possibilità che essa sia rifiutata. San Paolo, sviluppando la sua cristologia, si richiama proprio a questa prospettiva sapienziale: riconosce in Gesù la sapienza eterna esistente da sempre, la sapienza che discende e si crea una tenda tra di noi e così egli può descrivere Cristo, come “potenza e sapienza di Dio”, può dire che Cristo è diventato per noi “sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1,24.30). Similmente Paolo chiarisce che Cristo, al pari della Sapienza, può essere rifiutato soprattutto dai dominatori di questo mondo (cfr 1 Cor 2,6-9), cosicché può crearsi nei piani di Dio una situazione paradossale, la croce, che si capovolgerà in via di salvezza per tutto il genere umano. Uno sviluppo ulteriore di questo ciclo sapienziale, che vede la Sapienza abbassarsi per poi essere esaltata nonostante il rifiuto, si ha nel famoso inno contenuto nella Lettera ai Filippesi (cfr 2,6-11). Si tratta di uno dei testi più alti di tutto il Nuovo Testamento. Gli esegeti in stragrande maggioranza concordano ormai nel ritenere che questa pericope riporti una composizione precedente al testo della Lettera ai Filippesi. Questo è un dato di grande importanza, perché significa che il giudeo- cristianesimo, prima di san Paolo, credeva nella divinità di Gesù. In altre parole, la fede nella divinità di Gesù non è una invenzione ellenistica, sorta molto dopo la vita terrena di Gesù, un’invenzione che, dimenticando la sua umanità, lo avrebbe divinizzato; vediamo in realtà che il primo giudeo-cristianesimo credeva nella divinità di Gesù, anzi possiamo dire che gli Apostoli stessi, nei grandi momenti della vita del loro Maestro, hanno capito che Egli era il Figlio di Dio, come disse san Pietro a Cesarea di Filippi: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Ma ritorniamo all’inno della Lettera ai Filippesi. La struttura di questo testo può essere articolata in tre strofe, che illustrano i momenti principali del percorso compiuto dal Cristo. La sua preesistenza è espressa dalle parole: “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (v. 6); segue poi l’abbassamento volontario del Figlio nella seconda strofa: “svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo” (v. 7), fino a umiliare se stesso “facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (v. 8). La terza strofa dell’inno annuncia la risposta del Padre all’umiliazione del Figlio: “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (v. 9). Ciò che colpisce è il contrasto tra l’abbassamento radicale e la seguente glorificazione nella gloria di Dio. E’ evidente che questa seconda strofa è in contrasto con la pretesa di Adamo che da sé voleva

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 farsi Dio, è in contrasto anche col gesto dei costruttori della torre di Babele che volevano da soli edificare il ponte verso il cielo e farsi loro stessi divinità. Ma questa iniziativa della superbia finì nella autodistruzione: non si arriva così al cielo, alla vera felicità, a Dio. Il gesto del Figlio di Dio è esattamente il contrario: non la superbia, ma l’umiltà, che è realizzazione dell’amore e l’amore è divino. L’iniziativa di abbassamento, di umiltà radicale di Cristo, con la quale contrasta la superbia umana, è realmente espressione dell’amore divino; ad essa segue quell’elevazione al cielo alla quale Dio ci attira con il suo amore. Oltre alla Lettera ai Filippesi, vi sono altri luoghi della letteratura paolina dove i temi della preesistenza e della discesa del Figlio di Dio sulla terra sono tra loro collegati. Una riaffermazione dell’assimilazione tra Sapienza e Cristo, con tutti i connessi risvolti cosmici e antropologici, si ritrova nella prima Lettera a Timoteo: “Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria” (3,16). E’ soprattutto su queste premesse che si può meglio definire la funzione di Cristo come Mediatore unico, sullo sfondo dell’unico Dio dell’Antico Testamento (cfr 1 Tm 2,5 in relazione a Is 43,10-11; 44,6). E’ Cristo il vero ponte che ci guida al cielo, alla comunione con Dio. E, finalmente, solo un accenno agli ultimi sviluppi della cristologia di san Paolo nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini. Nella prima, Cristo viene qualificato come “primogenito di tutte le creature” (1,15-20). Questa parola “primogenito” implica che il primo tra tanti figli, il primo tra tanti fratelli e sorelle, è disceso per attirarci e farci suoi fratelli e sorelle. Nella Lettera agli Efesini troviamo una bella esposizione del piano divino della salvezza, quando Paolo dice che in Cristo Dio voleva ricapitolare tutto (cfr. Ef 1,23). Cristo è la ricapitolazione di tutto, riassume tutto e ci guida a Dio. E così ci implica in un movimento di discesa e di ascesa, invitandoci a partecipare alla sua umiltà, cioè al suo amore verso il prossimo, per essere così partecipi anche della sua glorificazione, divenendo con lui figli nel Figlio. Preghiamo che il Signore ci aiuti a conformarci alla sua umiltà, al suo amore, per essere così resi partecipi della sua divinizzazione.

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 29 ottobre 2008

San Paolo (10). L’importanza della cristologia - La teologia della Croce

Cari fratelli e sorelle, nella personale esperienza di san Paolo c’è un dato incontrovertibile: mentre all’inizio era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento della sua conversione sulla via di Damasco, era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo della sua predicazione. La sua fu un’esistenza interamente consumata per le anime (cfr 2 Cor 12,15), per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà. Nell’incontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui stesso. Ambedue le cose erano importanti; l’universalità: Gesù è morto realmente per tutti, e la soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l’amore gratuito e misericordioso di Dio. Questo amore Paolo sperimentò anzitutto in se stesso (cfr Gal 2,20) e da peccatore diventò credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita, sperimentava che la salvezza era ‘grazia’, che tutto discendeva dalla morte di Cristo e non dai suoi meriti, che del resto non c’erano. Il “vangelo della grazia” diventò così per lui l’unico modo di intendere la Croce, il criterio non solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi interlocutori. Tra questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle opere e speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la loro sapienza umana alla croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si erano formati una propria idea del cristianesimo secondo il proprio modello di vita. Per san Paolo la Croce ha un primato fondamentale nella storia dell’umanità; essa rappresenta il punto focale della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura. Il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della predicazione dell’Apostolo: l’esempio più chiaro riguarda la comunità di Corinto. Di fronte ad una Chiesa dove erano presenti in modo preoccupante disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da partiti e divisioni interne che incrinavano l’unità del Corpo

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 di Cristo, Paolo si presenta non con sublimità di parola o di sapienza, ma con l’annuncio di Cristo, di Cristo crocifisso. La sua forza non è il linguaggio persuasivo ma, paradossalmente, la debolezza e la trepidazione di chi si affida soltanto alla “potenza di Dio” (cfr 1 Cor 2,1- 4). La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L’Apostolo lo afferma con una forza impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: “La parola della Croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio... è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,18-23). Le prime comunità cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo; l’Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso. Lo ‘scandalo’ e la ‘stoltezza’ della Croce stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c’è tutta la potenza dell’Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nelle Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i Giudei la Croce contraddice l’essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei Padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso. Paolo stesso in più di un’occasione fece l’amara esperienza del rifiuto dell’annuncio cristiano giudicato ‘insipiente’, privo di rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano della logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel pensiero puro, già era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi in tutti i limiti dello spazio e del tempo. Decisamente

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 inconcepibile era poi credere che un Dio potesse finire su una Croce! E vediamo come questa logica greca è anche la logica comune del nostro tempo. Il concetto di apátheia, indifferenza, quale assenza di passioni in Dio, come avrebbe potuto comprendere un Dio diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il corpo per vivere come risorto? “Ti sentiremo su questo un’altra volta” (At 17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo, quando sentirono parlare di risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione il liberarsi del corpo concepito come prigione; come non considerare un’aberrazione il riprendersi il corpo? Nella cultura antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio incarnato. Tutto l’evento “Gesù di Nazaret” sembrava essere contrassegnato dalla più totale insipienza e certamente la Croce ne era il punto più emblematico. Ma perché san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela “la potenza di Dio” (cfr 1 Cor 1,24), che è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini” (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che arriva fino alla Croce per salvare l’uomo. Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell’uomo e, dall’altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell’amore: proprio questa totale gratuità dell’amore è la vera sapienza. Di ciò san Paolo ha fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale, divenuti precisi punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: “Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9); e ancora: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Cor 1,28). L’Apostolo si identifica a tal punto con Cristo che anch’egli, benché in mezzo a tante prove, vive nella fede del Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per quelli di tutti (cfr Gal 1,4; 2,20). Questo dato autobiografico dell’Apostolo diventa paradigmatico per tutti noi. San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi (5,14-21), dove tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che Dio ha trattato da

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti (v. 14); dall’altra, Dio ci ha riconciliati con sé, non imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E’ da questo “ministero della riconciliazione” che ogni schiavitù è ormai riscattata (cfr 1 Cor 6,20; 7,23). Qui appare come tutto questo sia rilevante per la nostra vita. Anche noi dobbiamo entrare in questo “ministero della riconciliazione”, che suppone sempre la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dell’amore. San Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il ministero della riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E questo dobbiamo saper fare anche noi: possiamo trovare la nostra forza proprio nell’umiltà dell’amore e la nostra saggezza nella debolezza di rinunciare per entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su questa vera saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere nella fede in quel Dio del quale tutti possiamo dire: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me”.

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 5 novembre 2008

San Paolo (11). La Resurrezione di Cristo.

Cari fratelli e sorelle,

“Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede... e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4) - così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi. E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita. E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica - non vuol scrivere quasi un manuale di teologia - ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò - come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1). Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione “Cristo è risorto” è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25). Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23). In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.

BENEDETTO XVI

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 12 novembre 2008

San Paolo (12)

Cari fratelli e sorelle, il tema della risurrezione, sul quale ci siamo soffermati la scorsa settimana, apre una nuova prospettiva, quella dell’attesa del ritorno del Signore, e perciò ci porta a riflettere sul rapporto tra il tempo presente, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo, e il futuro (éschaton) che ci attende, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre (cfr 1 Cor 15,24). Ogni discorso cristiano sulle cose ultime, chiamato escatologia, parte sempre dall’evento della risurrezione: in questo avvenimento le cose ultime sono già incominciate e, in un certo senso, già presenti. Probabilmente nell’anno 52 san Paolo ha scritto la prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di questo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e manifesta presenza (cfr 4,13-18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i loro problemi, l’Apostolo scrive così: “Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti” (4,14). E continua: “Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore” (4,16-17). Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. E’ questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è “essere con il Signore”; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vità eterna, è già cominciata. Nella seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo cambia la prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare – dice – come se il giorno del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: “Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!” (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima dell’arrivo del Signore vi sarà l’apostasia e dovrà essere rivelato un non meglio identificato ‘uomo iniquo’, il ‘figlio della perdizione’ (2,3), che la tradizione chiamerà poi l’Anticristo. Ma l’intenzione di questa Lettera di san Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: “Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordina, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità” (3, 10-12). In altre parole, l’attesa della parusia di Gesù non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la nostra responsabilità di lavorare in e per questo mondo. Vedremo la stessa cosa domenica prossima nel Vangelo dei talenti, dove il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi l’attesa del ritorno implica responsabilità per questo mondo. La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia – ritorno del Giudice/Salvatore – e impegno nostro nella nostra vita appare in un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinchè il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno tra voi” (1, 21-26). Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa indica infatti il completo essere con Cristo. Ma Paolo partecipa anche dei sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per se, ma per noi. Vivere per gli altri diventa il programma della sua vita e perciò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio, a quel che Dio deciderà. È disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 viva presenza e così per il rinnovamento del mondo. Vediamo che questo suo essere con Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita. È semplicemente disponibile per Dio e realmente libero. E passiamo adesso, dopo avere esaminato i diversi aspetti dell’attesa della parusia del Cristo, a domandarci: quali sono gli atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alla cose ultime: la morte, la fine del mondo? Il primo atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col Padre, è con noi. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti, delle divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari, insieme con tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in questa gioia viviamo. Questo è il primo aspetto del nostro vivere riguardo al futuro. In secondo luogo, la certezza che Cristo è con me. E come in Cristo il mondo futuro è già cominciato, questo dà anche certezza della speranza. Il futuro non è un buio nel quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il futuro è buio, c’è tanta paura del futuro. Il cristiano sa che la luce di Cristo è più forte e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza che dà certezza e dà coraggio per affrontare il futuro. Infine, il terzo atteggiamento. Il Giudice che ritorna — è giudice e salvatore insieme — ci ha lasciato l’impegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti. Perciò il nostro terzo atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia. Ambedue le cose sono importanti. Non viviamo come se il bene e il male fossero uguali, perché Dio può essere solo misericordioso. Questo sarebbe un inganno. In realtà, viviamo in una grande responsabilità. Abbiamo i talenti, siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato. Ma pur lavorando e sapendo nella nostra responsabilità che Dio è giudice vero, siamo anche sicuri che questo giudice è buono, conosciamo il suo volto, il volto del Cristo risorto, del Cristo crocifisso per noi. Perciò possiamo essere sicuri della sua bontà e andare avanti con grande coraggio.

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

Un ulteriore dato dell’insegnamento paolino riguardo all’escatologia è quello dell’universalità della chiamata alla fede, che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (cfr Ef 2,6s): il dopo diventa un prima per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo. Ciò rende tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque paragonabili alla gloria futura (cfr Rm 8,18). Si cammina nella fede e non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o esulando da esso, è che si sia graditi a Lui (cfr 2 Cor 5,7-9). Infine, un ultimo punto che forse appare un po’ difficile per noi. San Paolo alla conclusione della sua prima Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell’area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa “Signore nostro, vieni!” (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, si chiude con questa preghiera: “Signore, vieni!”. Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: “Vieni, Signore Gesù!”. Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d’altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c’è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranàthà! “Vieni, Signore Gesù!”, e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.

BENEDETTO XVI

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 19 novembre 2008

San Paolo (13)

Cari fratelli e sorelle, nel cammino che stiamo compiendo sotto la guida di san Paolo, vogliamo ora soffermarci su un tema che sta al centro delle controversie del secolo della Riforma: la questione della giustificazione. Come diventa giusto l’uomo agli occhi di Dio? Quando Paolo incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14). L’illuminazione di Damasco gli cambiò radicalmente l’esistenza: cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come “spazzatura” di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (cfr Fil 3,8). La Lettera ai Filippesi ci offre una toccante testimonianza del passaggio di Paolo da una giustizia fondata sulla Legge e acquisita con l’osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia basata sulla fede in Cristo: egli aveva compreso che quanto fino ad allora gli era parso un guadagno in realtà di fronte a Dio era una perdita e aveva deciso perciò di scommettere tutta la sua esistenza su Gesù Cristo (cfr Fil 3,7). Il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa nel cui acquisto investire tutto il resto non erano più le opere della Legge, ma Gesù Cristo, il suo Signore. Il rapporto tra Paolo e il Risorto diventò talmente profondo da indurlo a sostenere che Cristo non era più soltanto la sua vita ma il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere persino il morire diventava un guadagno (cfr Fil 1,21). Non che disprezzasse la vita, ma aveva compreso che per lui il vivere non aveva ormai altro scopo e non nutriva perciò altro desiderio che di raggiungere Cristo, come in una gara di atletica, per restare sempre con Lui: il Risorto era diventato l’inizio e il fine della sua esistenza, il motivo e la mèta della sua corsa. Soltanto la preoccupazione per la maturazione nella fede di coloro che aveva evangelizzato e la sollecitudine per tutte le Chiese da lui fondate (cfr 2 Cor 11,28) lo inducevano a rallentare la corsa verso il suo unico Signore,

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 per attendere i discepoli affinché con lui potessero correre verso la mèta. Se nella precedente osservanza della Legge non aveva nulla da rimproverarsi dal punto di vista dell’integrità morale, una volta raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso (cfr 1 Cor 4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per conquistare Colui dal quale era stato conquistato (cfr Fil 3,12). È proprio per questa personale esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo. L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: “Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (Rm 3,23-24). E aggiunge “Noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge” (Ibid 28). Lutero a questo punto tradusse: “giustificato per la sola fede”. Ritornerò su questo punto alla fine della catechesi. Prima dobbiamo chiarire che cosa è questa “Legge” dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle “opere della Legge” che non giustificano. Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; l’opinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola “πάντα µοι έξεστιν” (tutto mi è lecito). E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene. Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che determinavano

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle promesse di Dio. Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro – così dice nella Lettera agli Efesini – tra Israele e i pagani non era più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politesimo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere con Cristo e in Cristo. E questo basta. Non sono più necessarie altre osservanze. Perciò l’espressione “sola fide” di Lutero è vera, se non si oppone la fede alla carità, all’amore. La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati,

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14). Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l’amore. Vedremo la stessa cosa nel Vangelo della prossima domenica, solennità di Cristo Re. È il Vangelo del giudice il cui unico criterio è l’amore. Ciò che domanda è solo questo: Tu mi hai visitato quando ero ammalato? Quando ero in carcere? Tu mi hai dato da mangiare quando ho avuto fame, tu mi hai vestito quando ero nudo? E così la giustizia si decide nella carità. Così, al termine di questo Vangelo, possiamo quasi dire: solo amore, sola carità. Ma non c’è contraddizione tra questo Vangelo e San Paolo. È la medesima visione, quella secondo cui la comunione con Cristo, la fede in Cristo crea la carità. E la carità è realizzazione della comunione con Cristo. Così, essendo uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo. Alla fine, possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti a credere. Credere realmente; credere diventa così vita, unità con Cristo, trasformazione della nostra vita. E così, trasformati dal suo amore, dall’amore di Dio e del prossimo, possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio.

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 26 novembre 2008

San Paolo (14). La dottrina della giustificazione: dalla fede alle opere.

Cari fratelli e sorelle, nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l’uomo diventi giusto davanti a Dio. Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l’uomo non è in grado di farsi “giusto” con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire “giusto” davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua “giustizia” unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l’uomo l’ottiene mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la fede ci rende “giusti”. Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un’opinione, un’idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta. Abbiamo quindi trovato nell’ultima catechesi due livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della “giustificazione” mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità. In questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l’accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: “In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le “opere della carne” che sono “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria...” (Gal 5,19- 21): tutte opere contrarie alla fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede.

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

All’inizio di quest’elenco di virtù è citata l’agape, l’amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito, che è l’Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l’agape, nei nostri cuori (cfr Rm 5,5); e l’agape, l’amore, per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé. Dell’amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella mia prima Enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell’amore vicendevole s’incarna l’amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che, portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell’amore (cfr Gal 6,2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell’amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell’ultimo Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell’amore. E’ il cosiddetto inno alla carità: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita... La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse...” (1 Cor 13,1.4-5). L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per “Colui che è morto e risorto per noi” (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa. Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell’amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito. Spesso si è vista un’infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive: “Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (2,26). In realtà, mentre Paolo è preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e sufficiente, Giacomo pone l’accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e le opere (cfr Gc 2,2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell’amore attesta il dono gratuito della

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata “con rispetto e timore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare... tenendo salda la parola di vita”, dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (cfr Fil 2,12-14.16). Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, “tutto fosse loro lecito”. E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, celebrare l’Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s’incarna nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr 1 Cor 6,19). Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto “ragionevole” e insieme “spirituale”, per cui siamo esortati da Paolo a “offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità? E l’Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti “dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Cor 5,10; cfr anche Rm 2,16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella nostra vita di ogni giorno. Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l’etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza nell’amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall’amore “folle” di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39). In questa certezza viviamo. E’ questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell’amore.

BENEDETTO XVI

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008

UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 3 dicembre 2008

San Paolo (15). Adamo e Cristo: dal peccato (originale) alla libertà.

Cari fratelli e sorelle, nell’odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Cor 15,22-45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull’umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull’umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull’umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo. D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l’incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Rm 5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di

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Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo. Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell’evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell’umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l’altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell’egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: «C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto. Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa “seconda natura” fa apparire il male come normale per l’uomo. Così anche l’espressione solita: «questo è umano» ha un duplice significato. «Questo è umano» può voler dire: quest’uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell’essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi. Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l’essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell’antichità questa idea implicava l’opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall’origine dell’essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell’essere è monistica, si suppone che l’essere come tale dall’inizio porti in se il male e il bene. L’essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l’evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell’essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell’essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo. E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c’è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l’essere non è un misto di bene e male; l’essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c’è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell’essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata. Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell’uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all’altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l’uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell’evoluzionismo, non possono dire che l’uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l’uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 volg). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte. Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 preghiamo nell’Avvento con l’antico popolo di Dio: «Rorate caeli desuper». E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l’ignoranza di Dio, la violenza, l’ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!

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UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 10 dicembre 2008

San Paolo (16). Il ruolo dei Sacramenti.

Cari fratelli e sorelle, seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall’abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla Volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l’uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull’amore e sulla verità. Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all’unico corpo dell’umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l’inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo. Però dobbiamo essere ancora più concreti: questo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, come può diventare Spirito mio? La risposta è che ciò avviene in tre modi, intimamente connessi l’uno con l’altro. Il primo è questo: lo Spirito di Cristo bussa alle porte del mio cuore, mi tocca

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 interiormente. Ma poiché la nuova umanità deve essere un vero corpo, poiché lo Spirito deve riunirci e realmente creare una comunità, poiché è caratteristico del nuovo inizio il superare le divisioni e creare l’aggregazione dei dispersi, questo Spirito di Cristo si serve di due elementi di aggregazione visibile: della Parola dell’annuncio e dei Sacramenti, particolarmente del Battesimo e dell’Eucaristia. Nella Lettera ai Romani, dice san Paolo: «Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesù è il Signore’, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (10, 9), entrerai cioè nella nuova storia, storia di vita e non di morte. Poi san Paolo continua: «Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?» (Rm 10, 14-15). In un successivo passo dice ancora: «La fede viene dall’ascolto» (Rm 10,17). La fede non è prodotto del nostro pensiero, della nostra riflessione, è qualcosa di nuovo che non possiamo inventare, ma solo ricevere come dono, come una novità prodotta da Dio. E la fede non viene dalla lettura, ma dall’ascolto. Non è una cosa soltanto interiore, ma una relazione con Qualcuno. Suppone un incontro con l’annuncio, suppone l’esistenza dell’altro che annuncia e crea comunione. E finalmente l’annuncio: colui che annuncia non parla da sé, ma è inviato. Sta entro una struttura di missione che comincia con Gesù inviato dal Padre, passa agli apostoli - la parola apostoli significa «inviati» - e continua nel ministero, nelle missioni trasmesse dagli apostoli. Il nuovo tessuto della storia appare in questa struttura delle missioni, nella quale sentiamo ultimamente parlare Dio stesso, la sua Parola personale, il Figlio parla con noi, arriva fino a noi. La Parola si è fatta carne, Gesù, per creare realmente una nuova umanità. Perciò la parola dell’annuncio diventa Sacramento nel Battesimo, che è rinascita dall’acqua e dallo Spirito, come dirà san Giovanni. Nel sesto capitolo della Lettera ai Romani san Paolo parla in modo molto profondo del Battesimo. Abbiamo sentito il testo. Ma forse è utile ripeterlo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (6,3-4).

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In questa catechesi, naturalmente, non posso entrare in una interpretazione dettagliata di questo testo non facile. Vorrei brevemente notare solo tre cose. La prima: «siamo stati battezzati» è un passivo. Nessun può battezzare se stesso, ha bisogno dell’altro. Nessuno può farsi cristiano da se stesso. Divenire cristiani è un processo passivo. Solo da un altro possiamo essere fatti cristiani. E questo “altro” che ci fa cristiani, ci dà il dono della fede, è in prima istanza la comunità dei credenti, la Chiesa. Dalla Chiesa riceviamo la fede, il Battesimo. Senza lasciarci formare da questa comunità non diventiamo cristiani. Un cristianesimo autonomo, autoprodotto, è una contraddizione in sé. In prima istanza, questo altro è la comunità dei credenti, la Chiesa, ma in seconda istanza anche questa comunità non agisce da sé, secondo le proprie idee e desideri. Anche la comunità vive nello stesso processo passivo: solo Cristo può costituire la Chiesa. Cristo è il vero donatore dei Sacramenti. Questo è il primo punto: nessuno battezza se stesso, nessuno fa se stesso cristiano. Cristiani lo diventiamo. La seconda cosa è questa: il Battesimo è più che un lavaggio. È morte e risurrezione. Paolo stesso parlando nella Lettera ai Galati della svolta della sua vita realizzatasi nell’incontro con Cristo risorto, la descrive con la parola: sono morto. Comincia in quel momento realmente una nuova vita. Divenire cristiani è più che un’operazione cosmetica, che aggiungerebbe qualche cosa di bello a un’esistenza già più o meno completa. È un nuovo inizio, è rinascita: morte e risurrezione. Ovviamente nella risurrezione riemerge quanto era buono nell’esistenza precedente. La terza cosa è: la materia fa parte del Sacramento. Il cristianesimo non è una realtà puramente spirituale. Implica il corpo. Implica il cosmo. Si estende verso la nuova terra e i nuovi cieli. Ritorniamo all’ultima parola del testo di san Paolo: così - dice - possiamo “camminare in una nuova vita”. Elemento di un esame di coscienza per noi tutti: camminare in una nuova vita. Questo per il Battesimo. Veniamo adesso al Sacramento dell’Eucaristia. Ho già mostrato in altre catechesi con quale profondo rispetto san Paolo trasmetta verbalmente la tradizione sull’Eucaristia che ha ricevuto dagli stessi testimoni dell’ultima notte. Trasmette queste parole come un prezioso tesoro affidato alla sua fedeltà. E così sentiamo in queste parole realmente i testimoni dell’ultima notte. Sentiamo le parole dell’Apostolo: «Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e dopo

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 aver reso grazie lo spezzò e disse: questo è il mio Corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo dopo aver cenato prese anche il calice dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me» (1 Cor 11,23-25). È un testo inesauribile. Anche qui, in questa catechesi, solo due brevi osservazioni. Paolo trasmette le parole del Signore sul calice così: questo calice è «la nuova alleanza nel mio sangue». In queste parole si nasconde un accenno a due testi fondamentali dell’Antico Testamento. Il primo accenno è alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia. Gesù dice ai discepoli e dice a noi: adesso, in questa ora, con me e con la mia morte si realizza la nuova alleanza; dal mio sangue comincia nel mondo questa nuova storia dell’umanità. Ma è presente, in queste parole, anche un accenno al momento dell’alleanza del Sinai, dove Mosè aveva detto: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste parole” (Es 24,8). Là si trattava di sangue di animali. Il sangue degli animali poteva essere solo espressione di un desiderio, attesa del vero sacrificio, del vero culto. Col dono del calice il Signore ci dona il vero sacrificio. L’unico vero sacrificio è l’amore del Figlio. Col dono di questo amore, amore eterno, il mondo entra nella nuova alleanza. Celebrare l’Eucaristia significa che Cristo ci dà se stesso, il suo amore, per conformarci a se stesso e per creare così il mondo nuovo. Il secondo importante aspetto della dottrina sull’Eucaristia appare nella stessa prima Lettera ai Corinzi dove san Paolo dice: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (10, 16-17). In queste parole appare ugualmente il carattere personale e il carattere sociale del Sacramento dell’Eucaristia. Cristo si unisce personalmente ad ognuno di noi, ma lo stesso Cristo si unisce anche con l’uomo e con la donna accanto a me. E il pane è per me e anche per l’altro. Così Cristo ci unisce tutti a sé e unisce tutti noi, l’uno con l’altro. Riceviamo nella comunione Cristo. Ma Cristo si unisce ugualmente con il mio prossimo: Cristo e il prossimo sono inseparabili nell’Eucaristia. E così noi tutti siamo un solo pane, un solo corpo. Un’Eucaristia senza solidarietà con gli altri è un’Eucaristia abusata. E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al centro della dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo, del Cristo risorto.

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Vediamo anche tutto il realismo di questa dottrina. Cristo ci dà nell’Eucaristia il suo corpo, dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo risorto. Se l’uomo mangia pane normale, questo pane nel processo della digestione diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana. Ma nella santa Comunione si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci assimila a sé, ci introduce nel suo Corpo glorioso e così noi tutti insieme diventiamo Corpo suo. Chi legge solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi e il cap. 12 della Lettera ai Romani potrebbe pensare che la parola sul Corpo di Cristo come organismo dei carismi sia solo una specie di parabola sociologico-teologica. Realmente nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un organismo nel quale ognuno ha la sua funzione, la molteplicità e diversità delle funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto. Leggendo solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi si potrebbe pensare che Paolo si limiti a trasferire soltanto questo alla Chiesa, che anche qui si tratti solo di una sociologia della Chiesa. Ma tenendo presente questo capitolo decimo vediamo che il realismo della Chiesa è ben altro, molto più profondo e vero di quello di uno Stato-organismo. Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo. Diventiamo realmente uniti col corpo risorto di Cristo, e così uniti l’uno con l’altro. La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è semplicemente un’organizzazione, ma un vero organismo. Alla fine, solo una brevissima parola sul Sacramento del matrimonio. Nella Lettera ai Corinzi si trovano solo alcuni accenni, mentre la Lettera agli Efesini ha realmente sviluppato una profonda teologia del Matrimonio. Paolo definisce qui il Matrimonio «mistero grande». Lo dice «in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa» (5, 32). Va rilevata in questo passo una reciprocità che si configura in una dimensione verticale. La sottomissione vicendevole deve adottare il linguaggio dell’amore, che ha il suo modello nell’amore di Cristo verso la Chiesa. Questo rapporto Cristo-Chiesa rende primario l’aspetto teologale dell’amore matrimoniale, esalta la relazione affettiva tra gli sposi. Un autentico matrimonio sarà ben vissuto se nella costante crescita umana e affettiva si sforzerà di restare sempre legato all’efficacia della Parola e al significato del Battesimo. Cristo ha santificato la Chiesa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua, accompagnato dalla Parola. La partecipazione al corpo e sangue del Signore non fa altro che

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Atti del Santo Padre Settembre – Dicembre 2008 cementare, oltre che visibilizzare, una unione resa per grazia indissolubile. E alla fine sentiamo la parola di san Paolo ai Filippesi: “Il Signore è vicino” (Fil 4,5). Mi sembra che abbiamo capito che, mediante la Parola e mediante i Sacramenti, in tutta la nostra vita il Signore è vicino. Preghiamolo affinché possiamo sempre più essere toccati nell’intimo del nostro essere da questa sua vicinanza, affinché nasca la gioia – quella gioia che nasce quando Gesù è realmente vicino.

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MESSAGGIO AL POPOLO DI DIO AL TERMINE DEL SINODO SULLA PAROLA

Ai fratelli e sorelle «pace e carità con fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo. La grazia sia con tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo con amore incorruttibile». Con questo saluto così intenso e appassionato san Paolo concludeva la sua Lettera ai cristiani di Efeso (6, 23-24). Con queste stesse parole noi Padri sinodali, riuniti a Roma per la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sotto la guida del Santo Padre Benedetto XVI, apriamo il nostro messaggio rivolto all’immenso orizzonte di tutti coloro che nelle diverse regioni del mondo seguono Cristo come discepoli e continuano ad amarlo con amore incorruttibile. A loro noi di nuovo proporremo la voce e la luce della Parola di Dio, ripetendo l’antico appello: «Questa parola è molto vicina a te, è sulla tua bocca e nel tuo cuore perché la metta in pratica» (Dt 30, 14). E Dio stesso dirà a ciascuno: «Figlio dell’uomo, tutte le parole che ti dico accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi» (Ez 3, 10). A tutti ora proporremo un viaggio spirituale che si svolgerà in quattro tappe e che dall’eterno e dall’infinito di Dio ci condurrà fino nelle nostre case e lungo le strade delle nostre città.

I. LA VOCE DELLA PAROLA: LA RIVELAZIONE

1. «Dio vi parlò in mezzo al fuoco: voce di parole voi ascoltavate, nessuna immagine vedevate, solo una voce!» (Dt 4,12). È Mosè che parla evocando l’esperienza vissuta da Israele nell’aspra solitudine del deserto del Sinai. Il Signore si era presentato non come un’immagine o un’effigie o una statua simile al vitello d’oro, ma con “una voce di parole”. È una voce che era entrata in scena agli inizi stessi della creazione, quando aveva squarciato il silenzio del nulla: «In principio… Dio disse: Sia la luce! E la luce fu… In principio era il Verbo… e il Verbo era Dio… Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gn 1, 1.3; Gv 1, 1.3). Il creato non nasce da una lotta intradivina, come insegnava l’antica mitologia mesopotamica, bensì da una parola che vince il nulla e crea l’essere. Canta il Salmista: «Dalle parole del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro esercito… perché egli ha parlato e tutto fu, ha ordinato e tutto esistette» (Sal 33, 6.9). E san Paolo ripeterà

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«Dio dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Rm 4, 17). Si ha, così, una prima rivelazione “cosmica” che rende il creato simile a un’immensa pagina aperta davanti all’intera umanità, che in essa può leggere un messaggio del Creatore: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Sal 19, 2-5). 2. La parola divina è, però, anche alla radice della storia umana. L’uomo e la donna, che sono «immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1, 27) e che quindi recano in sé l’impronta divina, possono entrare in dialogo col loro Creatore o possono da lui allontanarsi e respingerlo attraverso il peccato. La Parola di Dio, allora, salva e giudica, penetra nella trama della storia col suo tessuto di vicende ed eventi: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido…, conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa…» (Es 3, 7-8). C’è, dunque, una presenza divina nelle vicende umane che, attraverso l’azione del Signore della storia, vengono inserite in un disegno più alto di salvezza, perché «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2, 4). 3. La parola divina efficace, creatrice e salvatrice, è quindi in principio all’essere e alla storia, alla creazione e alla redenzione. Il Signore viene incontro all’umanità proclamando: «Ho detto e ho fatto!» (Ez 37, 14). C’è, però, una tappa ulteriore che la voce divina percorre: è quella della parola scritta, la Graphé o le Graphaí, le Scritture sacre, come si dice nel Nuovo Testamento. Già Mosè era sceso dalla vetta del Sinai reggendo «in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio» (Es 32, 15-16). E lo stesso Mosè imporrà a Israele di conservare e riscrivere queste “Tavole della Testimonianza”: «Scriverai su pietre tutte le parole di questa legge, con scrittura ben chiara» (Dt 27, 8). Le Sacre Scritture sono la “testimonianza” in forma scritta della parola divina, sono il memoriale canonico, storico e letterario attestante l’evento della Rivelazione creatrice e salvatrice. La Parola di Dio precede, dunque, ed eccede la Bibbia, che pure è “ispirata da Dio “ e contiene la parola divina efficace (cf. 2 Tm 3, 16). È per questo che la nostra fede non ha al centro solo un libro, ma una storia di salvezza e, come vedremo, una persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne, uomo, storia. Proprio perché l’orizzonte della parola divina abbraccia e si estende oltre la

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Scrittura, è necessaria la costante presenza dello Spirito Santo che «guida a tutta la verità» (Gv 16, 13) chi legge la Bibbia. È questa la grande Tradizione, presenza efficace dello “Spirito di verità” nella Chiesa, custode delle Sacre Scritture, autenticamente interpretate dal Magistero ecclesiale. Con la Tradizione si giunge alla comprensione, all’interpretazione, alla comunicazione e alla testimonianza della Parola di Dio. Lo stesso san Paolo, proclamando il primo Credo cristiano, riconoscerà di “trasmettere” quello che egli «aveva ricevuto» dalla Tradizione (1 Cor 15, 3-5).

II. IL VOLTO DELLA PAROLA: GESÙ CRISTO

4. Nell’originale greco sono solo tre parole fondamentali: Lógos sarx eghéneto, «il Verbo/Parola si fece carne». Eppure, questo è l’apice non solo di quel gioiello poetico e teologico che è il prologo del Vangelo di Giovanni (1, 14), ma è il cuore stesso della fede cristiana. La Parola eterna e divina entra nello spazio e nel tempo e assume un volto e un’identità umana, tant’è vero che è possibile accostarvisi direttamente chiedendo, come fece quel gruppo di Greci presenti a Gerusalemme: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12, 20-21).Le parole senza un volto non sono perfette, perché non compiono in pienezza l’incontro, come ricordava Giobbe, giunto al termine del suo drammatico itinerario di ricerca: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42, 5). Cristo è «il Verbo che è presso Dio ed è Dio», è «l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura» (Col 1, 15); ma è anche Gesù di Nazaret che cammina per le strade di una marginale provincia dell’impero romano, che parla una lingua locale, che rivela i tratti di un popolo, l’ebraico, e della sua cultura. Il Gesù Cristo reale è, quindi, carne fragile e mortale, è storia e umanità, ma è anche gloria, divinità, mistero: Colui che ci ha rivelato il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1, 18). Il Figlio di Dio continua a essere tale anche in quel cadavere che è deposto nel sepolcro e la risurrezione ne è l’attestazione viva ed efficace. 5. Ebbene, la tradizione cristiana ha spesso posto in parallelo la Parola divina che si fa carne con la stessa Parola che si fa libro. È ciò che emerge già nel Credo quando si professa che il Figlio di Dio «si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria», ma anche si confessa la fede nello stesso «Spirito Santo che ha parlato per mezzo dei profeti». Il Concilio Vaticano II raccoglie questa antica tradizione secondo la quale «il corpo del Figlio è la Scrittura a noi trasmessa» – come afferma s. Ambrogio (In Lucam VI, 33) – e dichiara limpidamente: «Le parole di

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Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini» (DV 13). La Bibbia è, infatti, anch’essa “carne”, “lettera”, si esprime in lingue particolari, in forme letterarie e storiche, in concezioni legate a una cultura antica, conserva memorie di eventi spesso tragici, le sue pagine sono non di rado striate di sangue e violenza, al suo interno risuona il riso dell’umanità e scorrono le lacrime, così come si leva la preghiera degli infelici e la gioia degli innamorati. Per questa sua dimensione “carnale” essa esige un’analisi storica e letteraria, che si attua attraverso i vari metodi e approcci offerti dall’esegesi biblica. Ogni lettore delle Sacre Scritture, anche il più semplice, deve avere una proporzionata conoscenza del testo sacro ricordando che la Parola è rivestita di parole concrete a cui si piega e adatta per essere udibile e comprensibile all’umanità. È, questo, un impegno necessario: se lo si esclude si può cadere nel fondamentalismo che in pratica nega l’incarnazione della parola divina nella storia, non riconosce che quella parola si esprime nella Bibbia secondo un linguaggio umano, che dev’essere decifrato, studiato e compreso, e ignora che l’ispirazione divina non ha cancellato l’identità storica e la personalità propria degli autori umani. La Bibbia, però, è anche Verbo eterno e divino ed è per questo che essa esige un’altra comprensione, data dallo Spirito Santo che svela la dimensione trascendente della parola divina, presente nelle parole umane. 6. Ecco, allora, la necessità della «viva Tradizione di tutta la Chiesa» (DV 12) e della fede per comprendere in modo unitario e pieno le Sacre Scritture. Se ci si ferma alla sola “lettera”, la Bibbia rimane soltanto un solenne documento del passato, una nobile testimonianza etica e culturale. Se, però, si esclude l’incarnazione, si può cadere nell’equivoco fondamentalistico o in un vago spiritualismo o psicologismo. La conoscenza esegetica deve, quindi, intrecciarsi indissolubilmente con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzata l’unità divina e umana di Gesù Cristo e delle Scritture. In questa armonia ritrovata, il volto di Cristo risplenderà nella sua pienezza e ci aiuterà a scoprire un’altra unità, quella profonda e intima delle Sacre Scritture, il loro essere, sì, 73 libri, ma inseriti in un unico “Canone”, in un unico dialogo tra Dio e l’umanità, in unico disegno di salvezza. «Dio, infatti, molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ma ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1, 1-2). Cristo getta, così, la sua luce retrospettivamente

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 sull’intera trama della storia della salvezza e ne rivela la coerenza, il significato, la direzione. Egli è il suggello, “l’alfa e l’omega” (Ap 1, 8) di un dialogo tra Dio e le sue creature distribuito nel tempo e attestato nella Bibbia. È alla luce di questo sigillo finale che acquistano il loro “senso pieno” le parole di Mosè e dei profeti, come aveva indicato lo stesso Gesù in quel pomeriggio primaverile, mentre egli procedeva da Gerusalemme verso il villaggio di Emmaus, dialogando con Cleofa e il suo amico, «spiegando loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 27). Proprio perché al centro della Rivelazione c’è la parola divina divenuta volto, l’approdo ultimo della conoscenza della Bibbia «non è in una decisione etica o in una grande idea, bensì nell’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1).

III. LA CASA DELLA PAROLA: LA CHIESA

Come la sapienza divina nell’Antico Testamento si era costruita la sua dimora nella città degli uomini e delle donne, sorreggendola su sette colonne (cf. Pr 9, 1), così anche la Parola di Dio ha una sua casa nel Nuovo Testamento: è la Chiesa che ha il suo modello nella comunità-madre di Gerusalemme, la Chiesa fondata su Pietro e sugli Apostoli e che oggi, attraverso i vescovi in communione col Successore di Pietro, continua ad essere custode, annunciatrice e interprete della parola (cf. LG 13). Luca, negli Atti degli Apostoli (2, 42), ne traccia l’architettura basata su quattro colonne ideali: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere». 7. Ecco innanzitutto la didaché apostolica, ossia la predicazione della Parola di Dio. L’apostolo Paolo, infatti, ci ammonisce che «la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10, 17). Dalla Chiesa esce la voce dell’araldo che a tutti propone il kérygma, ossia l’annunzio primario e fondamentale che Gesù stesso aveva proclamato agli esordi del suo ministero pubblico: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15). Gli apostoli annunciano l’inaugurazione del regno di Dio, e quindi dell’intervento decisivo divino nella storia umana, proclamando la morte e la risurrezione di Cristo: «in nessun altro c’è salvezza; non vi è, infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4, 12). Il cristiano rende testimonianza di questa sua speranza «con dolcezza,

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 rispetto e retta coscienza», pronto, però, anche ad essere coinvolto e forse travolto dalla bufera del rifiuto e della persecuzione, consapevole che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (1 Pt 3, 16-17). Nella Chiesa risuona, poi, la catechesi: essa è destinata ad approfondire nel cristiano «il mistero di Cristo alla luce della Parola perché l’uomo intero sia irradiato da essa» (Giovanni Paolo II, Catechesi tradendae, 20). Ma il vertice della predicazione è nell’omelia che ancor oggi per molti cristiani è il momento capitale dell’incontro con la Parola di Dio. In questo atto il ministro dovrebbe trasformarsi anche in profeta. Egli, infatti, deve in un linguaggio nitido, incisivo e sostanzioso, non solo con autorevolezza «annunziare le mirabili opere di Dio nella storia della salvezza» (SC 35) – offerte prima attraverso una chiara e viva lettura del testo biblico proposto dalla liturgia – ma deve anche attualizzarle nei tempi e nei momenti vissuti dagli ascoltatori e far sbocciare nel loro cuore la domanda della conversione e dell’impegno vitale: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2, 37). Annunzio, catechesi e omelia suppongono, quindi, un leggere e un comprendere, uno spiegare e un interpretare, un coinvolgimento della mente e del cuore. Nella predicazione si compie così un duplice movimento. Col primo si risale alla radice dei testi sacri, degli eventi, dei detti generatori della storia di salvezza, per comprenderli nel loro significato e nel loro messaggio. Col secondo movimento si ridiscende al presente, all’oggi vissuto da chi ascolta e legge, sempre alla luce del Cristo che è il filo luminoso destinato a unire le Scritture. È ciò che Gesù stesso aveva fatto – come si è già detto – nell’itinerario da Gerusalemme a Emmaus in compagnia di due suoi discepoli. È ciò che farà il diacono Filippo sulla strada da Gerusalemme a Gaza, quando col funzionario etiope intesserà quel dialogo emblematico: «Capisci quello che stai leggendo?... E come potrei capire se nessuno mi guida?» (At 8, 30-31). E la meta sarà l’incontro pieno con Cristo nel sacramento. Si presenta, così, la seconda colonna che regge la Chiesa, casa della parola divina. 8. È la frazione del pane. La scena di Emmaus (cf. Lc 24, 13-35) è ancora una volta esemplare e riproduce quanto accade ogni giorno nelle nostre chiese: all’omelia di Gesù su Mosè e i profeti subentra, alla mensa, la frazione del pane eucaristico. È, questo, il momento del dialogo intimo di Dio col suo popolo, è l’atto della nuova alleanza suggellata nel sangue di Cristo (cf. Lc 22, 20), è l’opera suprema del Verbo che si offre come cibo nel suo corpo immolato, è la fonte e il culmine della vita e della missione della Chiesa. La narrazione evangelica dell’ultima cena, memoriale del sacrificio di Cristo, quando è proclamata nella celebrazione eucaristica,

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 nell’invocazione dello Spirito Santo diventa evento e sacramento. È per questo che il Concilio Vaticano II, in un passo di forte intensità, dichiarava: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio sia del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (DV 21). Si dovrà, perciò, riportare al centro della vita cristiana «la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto» (SC 56). 9. Il terzo pilastro dell’edificio spirituale della Chiesa, casa della Parola, è costituito dalle preghiere, intessute – come ricordava san Paolo – da «salmi, inni, cantici spirituali» (Col 3, 16). Un posto privilegiato è occupato naturalmente dalla Liturgia delle Ore, la preghiera della Chiesa per eccellenza, destinata a ritmare i giorni e i tempi dell’anno cristiano, offrendo, soprattutto col Salterio, il cibo quotidiano spirituale del fedele. Accanto ad essa e alle celebrazioni comunitarie della Parola, la tradizione ha introdotto la prassi della Lectio divina, lettura orante nello Spirito Santo, capace di schiudere al fedele il tesoro della Parola di Dio, ma anche di creare l’incontro col Cristo, parola divina vivente. Essa si apre con la lettura (lectio) del testo che provoca una domanda di conoscenza autentica del suo contenuto reale: che cosa dice il testo biblico in sé? Segue la meditazione (meditatio) nella quale l’interrogativo è: che cosa dice il testo biblico a noi? Si giunge, così, alla preghiera (oratio) che suppone quest’altra domanda: che cosa diciamo noi al Signore in risposta alla sua parola? E si conclude con la contemplazione (contemplatio) durante la quale noi assumiamo come dono di Dio lo stesso suo sguardo nel giudicare la realtà e ci domandiamo: quale conversione della mente, del cuore e della vita chiede a noi il Signore? Di fronte al lettore orante della Parola di Dio si erge idealmente il profilo di Maria, la madre del Signore, che «custodisce tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19; cf. 2, 51), cioè – come dice l’originale greco – trovando il nodo profondo che unisce eventi, atti e cose, apparentemente disgiunti, nel grande disegno divino. O anche si può presentare agli occhi del fedele che legge la Bibbia l’atteggiamento di Maria, sorella di Marta, che si asside ai piedi del Signore in ascolto della sua parola, impedendo che le agitazioni esteriori assorbano totalmente l’anima, occupando anche lo spazio libero per «la parte migliore» che non ci dev’essere tolta (cf. Lc 10, 38-42).

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10. Eccoci, infine, davanti all’ultima colonna che sorregge la Chiesa, casa della parola: la koinonía, la comunione fraterna, altro nome dell’agápe, cioè dell’amore cristiano. Come ricordava Gesù, per diventare suoi fratelli e sue sorelle bisogna essere «coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8, 21). L’ascoltare autentico è obbedire e operare, è far sbocciare nella vita la giustizia e l’amore, è offrire nell’esistenza e nella società una testimonianza nella linea dell’appello dei profeti, che costantemente univa Parola di Dio e vita, fede e rettitudine, culto e impegno sociale. È ciò che ribadiva a più riprese Gesù, a partire dal celebre monito del Discorso della montagna: «Non chi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21). In questa frase sembra echeggiare la parola divina proposta da Isaia: «Questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi invoca con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me» (29, 13). Questi ammonimenti riguardano anche le Chiese quando non sono fedeli all’ascolto obbediente della Parola di Dio. Essa, quindi, dev’essere visibile e leggibile già sul volto stesso e nelle mani del credente, come suggeriva san Gregorio Magno che vedeva in san Benedetto, e negli altri grandi uomini di Dio, testimoni di comunione con Dio e coi fratelli, la Parola di Dio fatta vita. L’uomo giusto e fedele non solo “spiega” le Scritture, ma le “dispiega” davanti a tutti come realtà viva e praticata. È per questo che viva lectio, vita bonorum, la vita dei buoni è una lettura/lezione vivente della parola divina. Era già stato san Giovanni Crisostomo a osservare che gli apostoli scesero dal monte di Galilea, ove avevano incontrato il Risorto, senza nessuna tavola di pietra scritta come era accaduto a Mosè: la loro stessa vita sarebbe divenuta da quel momento il Vangelo vivente. Nella casa della Parola divina incontriamo anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese e comunità ecclesiali che, pur nelle separazioni ancora esistenti, si ritrovano con noi nella venerazione e nell’amore per la Parola di Dio, principio e sorgente di una prima e reale unità, anche se non piena. Questo vincolo dev’essere sempre rafforzato attraverso le traduzioni bibliche comuni, la diffusione del testo sacro, la preghiera biblica ecumenica, il dialogo esegetico, lo studio e il confronto tra le varie interpretazioni delle Sacre Scritture, lo scambio dei valori insiti nelle diverse tradizioni spirituali, l’annuncio e la testimonianza comune della Parola di Dio in un mondo secolarizzato.

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IV. LE STRADE DELLA PAROLA: LA MISSIONE

11.«Da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2, 3). La Parola di Dio personificata “esce” dalla sua casa, il tempio, e si avvia lungo le strade del mondo per incontrare il grande pellegrinaggio che i popoli della terra hanno intrapreso alla ricerca della verità, della giustizia e della pace. C’è, infatti, anche nella moderna città secolarizzata, nelle sue piazze e nelle sue vie – ove sembrano dominare incredulità e indifferenza, ove il male sembra prevalere sul bene, creando l’impressione della vittoria di Babilonia su Gerusalemme – un anelito nascosto, una speranza germinale, un fremito d’attesa. Come si legge nel libro del profeta Amos, «ecco verranno giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore» (8, 11). A questa fame vuole rispondere la missione evangelizzatrice della Chiesa. Anche il Cristo risorto agli apostoli esitanti lancia l’appello a uscire dai confini del loro orizzonte protetto: «Andate e fate discepoli tutti i popoli… insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20). La Bibbia è tutta attraversata da appelli a “non tacere”, a “gridare con forza”, ad “annunciare la parola al momento opportuno e non opportuno”, ad essere sentinelle che lacerano il silenzio dell’indifferenza. Le strade che si aprono davanti a noi non sono ora soltanto quelle sulle quali si incamminava san Paolo o i primi evangelizzatori e, dietro di loro, tutti i missionari che s’inoltrano verso le genti in terre lontane. La comunicazione stende ora una rete che avvolge tutto il globo e un nuovo significato acquista l’appello di Cristo: «Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sulle terrazze» (Mt 10, 27). Certo, la parola sacra deve avere una sua prima trasparenza e diffusione attraverso il testo stampato, con traduzioni eseguite secondo la variegata molteplicità delle lingue del nostro pianeta. Ma la voce della parola divina deve risuonare anche attraverso la radio, le arterie informatiche di Internet, i canali della diffusione virtuale on line, i CD, i DVD, gli podcast e così via; deve apparire sugli schermi televisivi e cinematografici, nella stampa, negli eventi culturali e sociali. Questa nuova comunicazione, rispetto a quella tradizionale, ha adottato una sua specifica grammatica espressiva ed è, quindi, necessario essere attrezzati non solo tecnicamente, ma anche culturalmente per questa impresa. In un tempo dominato dall’immagine, proposta in particolare da quel mezzo egemone della comunicazione che è la televisione, significativo e suggestivo è ancor oggi il modello privilegiato da Cristo.

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Egli ricorreva al simbolo, alla narrazione, all’esempio, all’esperienza quotidiana, alla parabola: «Parlava loro di molte cose in parabole… e fuor di parabola non diceva nulla alle folle» (Mt 13, 3.34). Gesù nel suo annuncio del regno di Dio non passava mai sopra le teste dei suoi interlocutori con un linguaggio vago, astratto ed etereo, ma li conquistava partendo proprio dalla terra ove erano piantati i loro piedi per condurli, dalla quotidianità, alla rivelazione del regno dei cieli. Significativa diventa, allora, la scena evocata da Giovanni: «Alcuni volevano arrestare Gesù, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: Perché non lo avete condotto qui? Risposero le guardie: Mai un uomo ha parlato così!» (7, 44-46). 12. Cristo avanza lungo le vie delle nostre città e sosta davanti alle soglie delle nostre case: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). La famiglia, racchiusa tra le mura domestiche con le sue gioie e i suoi drammi, è uno spazio fondamentale in cui far entrare la Parola di Dio. La Bibbia è tutta costellata di piccole e grandi storie familiari e il Salmista raffigura con vivacità il quadretto sereno di un padre assiso alla mensa, circondato dalla sua sposa, simile a vite feconda, e dai figli, «virgulti d’ulivo» (Sal 128). La stessa cristianità delle origini celebrava la liturgia nella quotidianità di una casa, così come Israele affidava alla famiglia la celebrazione della pasqua (cf. Es 12, 21-27). La trasmissione della Parola di Dio avviene proprio attraverso la linea generazionale, per cui i genitori diventano «i primi araldi della fede» (LG 11). Ancora il Salmista ricordava che «ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto…e anch’essi sorgeranno a raccontarlo ai loro figli» (Sal 78, 3-4.6). Ogni casa dovrà, allora, avere la sua Bibbia e custodirla in modo concreto e dignitoso, leggerla e con essa pregare, mentre la famiglia dovrà proporre forme e modelli di educazione orante, catechetica e didattica sull’uso delle Scritture, perché «giovani e ragazze, vecchi insieme ai bambini» (Sal 148, 12) ascoltino, comprendano, lodino e vivano la Parola di Dio. In particolare le nuove generazioni, i bambini e i giovani, dovranno essere destinatari di un’appropriata e specifica pedagogia che li conduca a provare il fascino della figura di Cristo, aprendo la porta della loro intelligenza e del loro cuore, anche attraverso l’incontro e la testimonianza autentica

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 dell’adulto, l’influsso positivo degli amici e la grande compagnia della comunità ecclesiale. 13. Gesù, nella sua parabola del seminatore, ci ricorda che ci sono terreni aridi, sassosi, soffocati dai rovi (cf. Mt 13, 3-7). Chi si inoltra per le strade del mondo scopre anche i bassifondi ove si annidano sofferenze e povertà, umiliazioni e oppressioni, emarginazioni e miserie, malattie fisiche e psichiche e solitudini. Spesso le pietre delle strade sono insanguinate dalle guerre e dalle violenze, nei palazzi del potere la corruzione s’incrocia con l’ingiustizia. Si leva il grido dei perseguitati per la fedeltà alla loro coscienza e alla loro fede. C’è chi è travolto dalla crisi esistenziale o ha l’anima priva di un significato che dia senso e valore allo stesso vivere. Simili a «ombre che passano, a un soffio che s’affanna» (Sal 39, 7), molti sentono incombere su di sé anche il silenzio di Dio, la sua apparente assenza e indifferenza: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 13, 2). E alla fine si erge davanti a tutti il mistero della morte.Questo immenso respiro di dolore che sale dalla terra al cielo è ininterrottamente rappresentato dalla Bibbia, che propone appunto una fede storica e incarnata. Basterebbe solo pensare alle pagine segnate dalla violenza e dall’oppressione, al grido acre e continuo di Giobbe, alle veementi suppliche salmiche, alla sottile crisi interiore che percorre l’anima di Qohelet, alle vigorose denuncie profetiche contro le ingiustizie sociali. Senza attenuanti è, poi, la condanna del peccato radicale che appare in tutta la sua potenza devastante fin dagli esordi dell’umanità in un testo fondamentale della Genesi (c. 3). Infatti, il “mistero di iniquità” è presente e agisce nella storia, ma è svelato dalla Parola di Dio che assicura in Cristo la vittoria del bene sul male. Ma soprattutto nelle Scritture a dominare è la figura di Cristo che apre il suo ministero pubblico proprio con un annuncio di speranza per gli ultimi della terra: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). Le sue mani si posano ripetutamente su carni malate o infette, le sue parole proclamano la giustizia, infondono coraggio agli infelici, donano perdono ai peccatori. Alla fine, lui stesso si accosta al livello più basso, «svuotando se stesso» della sua gloria, «assumendo la condizione di servo, diventando simile agli uomini…, umiliando se stesso e facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8).

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Così, egli prova la paura del morire («Padre, se è possibile, passi da me questo calice!»), sperimenta la solitudine con l’abbandono e il tradimento degli amici, penetra nell’oscurità del più crudele dolore fisico con la crocifissione e persino nella tenebra del silenzio del Padre («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») e giunge all’abisso ultimo di ogni uomo, quello della morte («lanciando un forte grido, spirò»). Veramente a lui si può applicare la definizione che Isaia riserva al Servo del Signore: «uomo dei dolori che ben conosce il patire» (53, 3). Eppure egli, anche in quel momento estremo, non cessa di essere il Figlio di Dio: nella sua solidarietà d’amore e col sacrificio di sé depone nel limite e nel male dell’umanità un seme di divinità, ossia un principio di liberazione e di salvezza; col suo donarsi a noi irradia di redenzione il dolore e la morte, da lui assunti e vissuti, e apre anche a noi l’alba della risurrezione. Il cristiano ha, allora, la missione di annunciare questa parola divina di speranza, attraverso la sua condivisione coi poveri e i sofferenti, attraverso la testimonianza della sua fede nel Regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace, attraverso la vicinanza amorosa che non giudica e condanna, ma che sostiene, illumina, conforta e perdona, sulla scia delle parole di Cristo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro» (Mt 11, 28). 14. Sulle strade del mondo la parola divina genera per noi cristiani un incontro intenso col popolo ebraico a cui siamo intimamente legati attraverso il comune riconoscimento e amore per le Scritture dell’Antico Testamento e perché da Israele «proviene il Cristo secondo la carne» (Rm 9, 5). Tutte le pagine sacre ebraiche illuminano il mistero di Dio e dell’uomo, rivelano tesori di riflessione e di morale, delineano il lungo itinerario della storia della salvezza fino al suo pieno compimento, illustrano con vigore l’incarnazione della parola divina nelle vicende umane. Esse ci permettono di comprendere in pienezza la figura di Cristo, il quale aveva dichiarato di «non essere venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a dare ad essi pieno compimento» (Mt 5, 17), sono via di dialogo col popolo dell’elezione che ha ricevuto da Dio «l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse» (Rm 9, 4), e ci consentono di arricchire la nostra interpretazione delle Sacre Scritture con le risorse feconde della tradizione esegetica giudaica. «Benedetto sia l’egiziano mio popolo, l’assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Is 19, 25). Il Signore stende, quindi, il manto protettivo della sua benedizione su tutti i popoli della terra, desideroso che «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità»

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(1Tm 2, 4). Anche noi cristiani, lungo le strade del mondo, siamo invitati – senza cadere nel sincretismo che confonde e umilia la propria identità spirituale – a entrare in dialogo con rispetto nei confronti degli uomini e delle donne delle altre religioni, che ascoltano e praticano fedelmente le indicazioni dei loro libri sacri, a partire dall’Islam che nella sua tradizione accoglie innumerevoli figure, simboli e temi biblici e che ci offre la testimonianza di una fede sincera nel Dio unico, compassionevole e misericordioso, Creatore di tutto l’essere e Giudice dell’umanità. Il cristiano trova, inoltre, sintonie comuni con le grandi tradizioni religiose dell’Oriente che ci insegnano nelle loro testi sacri il rispetto della vita, la contemplazione, il silenzio, la semplicità, la rinuncia, come accade nel buddhismo. Oppure, come nell’induismo, esaltano il senso della sacralità, il sacrificio, il pellegrinaggio, il digiuno, i simboli sacri. O ancora, come nel confucianesimo, insegnano la sapienza e i valori familiari e sociali. Anche alle religioni tradizionali con i loro valori spirituali espressi nei riti e nelle culture orali, vogliamo prestare la nostra cordiale attenzione e intrecciare con loro un rispettoso dialogo. Anche a quanti non credono in Dio, ma che si sforzano di «praticare la giustizia, amare la bontà, camminare con umiltà» (Mt 6, 8), dobbiamo con loro lavorare per un mondo più giusto e pacificato, e offrire in dialogo la nostra genuina testimonianza della Parola di Dio che può rivelare a loro nuovi e più alti orizzonti di verità e di amore. 15. Nella sua Lettera agli artisti (1999), Giovanni Paolo II ricordava che «la S. Scrittura è diventata una sorta di “immenso vocabolario” (Paul Claudel) e di “atlante iconografico” (Marc Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana» (n. 5). Goethe era convinto che il Vangelo fosse la «lingua materna dell’Europa». La Bibbia, come ormai si è soliti dire, è «il grande codice» della cultura universale: gli artisti hanno idealmente intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato di storie, simboli, figure che sono le pagine bibliche; i musicisti è attorno ai testi sacri, soprattutto salmici, che hanno intessuto le loro armonie; gli scrittori hanno per secoli ripreso quelle antiche narrazioni che divenivano parabole esistenziali; i poeti si sono interrogati sul mistero dello spirito, sull’infinito, sul male, sull’amore, sulla morte e sulla vita spesso raccogliendo i fremiti poetici che animavano le pagine bibliche; i pensatori, gli uomini di scienza e la stessa società avevano non di rado come riferimento, sia pure per contrasto, le concezioni spirituali ed etiche (si pensi al Decalogo) della Parola di Dio. Anche quando la figura o l’idea presente nelle Scritture veniva deformata, si riconosceva che essa era imprescindibile e costitutiva della nostra civiltà.

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È per questo che la Bibbia – la quale ci insegna anche la via pulchritudinis, cioè il percorso della bellezza per comprendere e raggiungere Dio («cantate a Dio con arte!», ci invita il Sal 47, 8) – è necessaria non solo al credente, ma a tutti per riscoprire i significati autentici delle varie espressioni culturali e soprattutto per ritrovare la nostra stessa identità storica, civile, umana e spirituale. È in essa la radice della nostra grandezza ed è attraverso essa che noi possiamo presentarci con un nobile patrimonio alle altre civiltà e culture, senza nessun complesso di inferiorità. La Bibbia dovrebbe, quindi, essere da tutti conosciuta e studiata, sotto questo straordinario profilo di bellezza e di fecondità umana e culturale. Tuttavia, la Parola di Dio – per usare una significativa immagine paolina – «non è incatenata» (2 Tm 2, 9) a una cultura; anzi, aspira a varcare le frontiere e proprio l’Apostolo è stato un eccezionale artefice di inculturazione del messaggio biblico entro nuove coordinate culturali. È ciò che la Chiesa è chiamata a fare anche oggi attraverso un processo delicato ma necessario, che ha ricevuto un forte impulso dal magistero di Papa Benedetto XVI. Essa deve far penetrare la Parola di Dio nella molteplicità delle culture ed esprimerla secondo i loro linguaggi, le loro concezioni, i loro simboli e le loro tradizioni religiose. Deve, però, essere sempre capace di custodire la genuina sostanza dei suoi contenuti, sorvegliando e controllando i rischi di degenerazione.La Chiesa deve, quindi, far brillare i valori che la Parola di Dio offre alle altre culture, così che ne siano purificate e fecondate. Come aveva detto Giovanni Paolo II all’episcopato del Kenya durante il suo viaggio in Africa nel 1980, «l’inculturazione sarà realmente un riflesso dell’incarnazione del Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce nella sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano».

CONCLUSIONE

«La voce che avevo udito dal cielo mi disse: “Prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo…”. E l’angelo mi disse: “Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”. Presi quel piccolo libro dalle mani dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito, ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10, 8-11). Fratelli e sorelle di tutto il mondo, accogliamo anche noi questo invito; accostiamoci alla mensa della Parola di Dio, così da nutrirci e vivere «non

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 soltanto di pane ma anche di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8, 3; Mt 4, 4). La Sacra Scrittura - come affermava una grande figura della cultura cristiana - «ha passi adatti a consolare tutte le condizioni umane e passi adatti a intimorire in tutte le condizioni» (B. Pascal, Pensieri, n. 532 ed. Brunschvicg). La Parola di Dio, infatti, è «più dolce del miele e di un favo stillante» (Sal 19, 11), è «lampada per i passi e luce sul cammino» (Sal 119, 105), ma è anche « come il fuoco ardente e come un martello che spacca la roccia» (Ger 23, 29). È come una pioggia che irriga la terra, la feconda e la fa germogliare, facendo così fiorire anche l’aridità dei nostri deserti spirituali (cf. Is 55, 10-11). Ma è anche «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12). Il nostro sguardo si rivolge con affetto a tutti gli studiosi, ai catechisti e agli altri servitori della Parola di Dio per esprimere ad essi la nostra più intensa e cordiale gratitudine per il loro prezioso e importante ministero. Ci rivolgiamo anche ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che sono perseguitati o che sono messi a morte a causa della Parola di Dio e della testimonianza che rendono al Signore Gesù (cf. Ap 6, 9): quali testimoni e martiri ci raccontano “la forza della parola” (Rm 1, 16), origine della loro fede, della loro speranza e del loro amore per Dio e per gli uomini. Creiamo ora silenzio per ascoltare con efficacia la parola del Signore e conserviamo il silenzio dopo l’ascolto, perché essa continuerà a dimorare, a vivere e a parlare a noi. Facciamola risuonare all’inizio del nostro giorno perché Dio abbia la prima parola e lasciamola echeggiare in noi alla sera perché l’ultima parola sia di Dio. Cari fratelli e sorelle, «vi salutano tutti coloro che sono con noi. Salutate tutti quelli che ci amano nella fede. La grazia sia con tutti voi!» (Tt 3, 15).

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Congregazione per la Dottrina della fede Istruzione “Dignitas Personae” su alcune questioni di Bioetica

«L’embrione ha fin dall’inizio dignità di persona»

INTRODUZIONE 1. Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona. Questo principio fondamentale, che esprime un grande “sì” alla vita umana, deve essere posto al centro della riflessione etica sulla ricerca biomedica, che riveste un’importanza sempre maggiore nel mondo di oggi. Il Magistero della Chiesa è già intervenuto più volte, al fine di chiarire e risolvere i relativi problemi morali. Di particolare rilevanza in questa materia è stata l’Istruzione Donum vitae. A vent’anni dalla sua pubblicazione è emersa nondimeno l’opportunità di apportare un aggiornamento a tale documento. L’insegnamento di detta Istruzione conserva intatto il suo valore sia per i principi richiamati sia per le valutazioni morali espresse. Nuove tecnologie biomediche, tuttavia, introdotte in questo ambito delicato della vita dell’essere umano e della famiglia, provocano ulteriori interrogativi, in particolare nel settore della ricerca sugli embrioni umani e dell’uso delle cellule staminali a fini terapeutici nonché in altri ambiti della medicina sperimentale, così da sollevare nuove domande che richiedono altrettante risposte. La rapidità degli sviluppi in ambito scientifico e la loro amplificazione tramite i mezzi di comunicazione sociale provocano attese e perplessità in settori sempre più vasti dell’opinione pubblica. Al fine di regolamentare giuridicamente tali problemi, le Assemblee legislative sono spesso sollecitate a prendere decisioni, coinvolgendo talora anche la consultazione popolare. Queste ragioni hanno portato la Congregazione per la Dottrina della Fede a predisporre una nuova Istruzione di natura dottrinale, che affronta alcune problematiche recenti alla luce dei criteri enunciati nell’Istruzione Donum vitae e riprende in esame altri temi già trattati, ma ritenuti bisognosi di ulteriori chiarimenti. 2. Nel procedere a questo esame, si è inteso sempre tenere presenti gli aspetti scientifici, giovandosi dell’analisi della Pontificia Accademia per la Vita e di un gran numero di esperti, per confrontarli con i principi dell’antropologia cristiana. Le Encicliche Veritatis splendor ed Evangelium vitae di Giovanni Paolo II ed altri interventi del Magistero offrono chiare indicazioni di metodo e di contenuto per l’esame dei problemi considerati.

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Nel variegato panorama filosofico e scientifico attuale è possibile constatare di fatto una ampia e qualificata presenza di scienziati e di filosofi che, nello spirito del giuramento di Ippocrate, vedono nella scienza medica un servizio alla fragilità dell’uomo, per la cura delle malattie, l’alleviamento della sofferenza e l’estensione delle cure necessarie in misura equa a tutta l’umanità. Non mancano, però, rappresentanti della filosofia e della scienza che considerano il crescente sviluppo delle tecnologie biomediche in una prospettiva sostanzialmente eugenetica. 3. La Chiesa cattolica, nel proporre principi e valutazioni morali per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge alla luce sia della ragione sia della fede, contribuendo ad elaborare una visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, capace di accogliere tutto ciò che di buono emerge dalle opere degli uomini e dalle varie tradizioni culturali e religiose, che non raramente mostrano una grande riverenza per la vita. Il Magistero intende portare una parola di incoraggiamento e di fiducia nei confronti di una prospettiva culturale che vede la scienza come prezioso servizio al bene integrale della vita e della dignità di ogni essere umano. La Chiesa pertanto guarda con speranza alla ricerca scientifica, augurando che siano molti i cristiani a dedicarsi al progresso della biomedicina e a testimoniare la propria fede in tale ambito. Auspica inoltre che i risultati di questa ricerca siano resi disponibili anche nelle aree povere e colpite dalle malattie, per affrontare le necessità più urgenti e drammatiche dal punto di vista umanitario. E infine intende essere presente accanto ad ogni persona che soffre nel corpo e nello spirito, per offrire non soltanto un conforto, ma la luce e la speranza. Queste danno senso anche ai momenti della malattia e all’esperienza della morte, che appartengono di fatto alla vita dell’uomo e ne segnano la storia, aprendola al mistero della Risurrezione. Lo sguardo della Chiesa infatti è pieno di fiducia perché «la vita vincerà: è questa per noi una sicura speranza. Sì, vincerà la vita, perché dalla parte della vita stanno la verità, il bene, la gioia, il vero progresso. Dalla parte della vita è Dio, che ama la vita e la dona con larghezza». La presente Istruzione si rivolge ai fedeli e a tutti coloro che cercano la verità. Essa comprende tre parti: la prima richiama alcuni aspetti antropologici, teologici ed etici di importanza fondamentale; la seconda affronta nuovi problemi riguardanti la procreazione; la terza prende in esame alcune nuove proposte terapeutiche che comportano la manipolazione dell’embrione o del patrimonio genetico umano.

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PRIMA PARTE: ASPETTI ANTROPOLOGICI, TEOLOGICI ED ETICI DELLA VITA E DELLA PROCREAZIONE UMANA

4. Negli ultimi decenni le scienze mediche hanno sviluppato in modo considerevole le loro conoscenze sulla vita umana negli stadi iniziali della sua esistenza. Esse sono giunte a conoscere meglio le strutture biologiche dell’uomo e il processo della sua generazione. Questi sviluppi sono certamente positivi e meritano di essere sostenuti, quando servono a superare o a correggere patologie e concorrono a ristabilire il normale svolgimento dei processi generativi. Essi sono invece negativi, e pertanto non si possono condividere, quando implicano la soppressione di esseri umani o usano mezzi che ledono la dignità della persona oppure sono adottati per finalità contrarie al bene integrale dell’uomo. Il corpo di un essere umano, fin dai suoi primi stadi di esistenza, non è mai riducibile all’insieme delle sue cellule. Il corpo embrionale si sviluppa progressivamente secondo un “programma” ben definito e con un proprio fine che si manifesta con la nascita di ogni bambino. Giova qui richiamare il criterio etico fondamentale espresso nell’Istruzione Donum vitae per valutare tutte le questioni morali che si pongono in relazione agli interventi sull’embrione umano: «Il frutto della generazione umana dal primo momento della sua esistenza, e cioè a partire dal costituirsi dello zigote, esige il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all’essere umano nella sua totalità corporale e spirituale. L’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita». 5. Quest’affermazione di carattere etico, riconoscibile come vera e conforme alla legge morale naturale dalla stessa ragione, dovrebbe essere alla base di ogni ordinamento giuridico. Essa suppone, infatti, una verità di carattere ontologico, in forza di quanto la suddetta Istruzione ha evidenziato, a partire da solide conoscenze scientifiche, circa la continuità dello sviluppo dell’essere umano. Se l’Istruzione Donum vitae non ha definito che l’embrione è persona, per non impegnarsi espressamente su un’affermazione d’indole filosofica, ha rilevato tuttavia che esiste un nesso intrinseco tra la dimensione ontologica e il valore specifico di ogni essere umano. Anche se la presenza di un’anima spirituale non può essere rilevata dall’osservazione di nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della scienza sull’embrione umano a fornire «un’indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana?». La realtà dell’essere umano, infatti, per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale, poiché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica. L’embrione umano, quindi, ha fin dall’inizio la dignità propria della persona. 6. Il rispetto di tale dignità compete a ogni essere umano, perché esso porta impressi in sé in maniera indelebile la propria dignità e il proprio valore. L’origine della vita umana, d’altra parte, ha il suo autentico contesto nel matrimonio e nella famiglia, in cui viene generata attraverso un atto che esprime l’amore reciproco tra l’uomo e la donna. Una procreazione veramente responsabile nei confronti del nascituro «deve essere il frutto del matrimonio». Il matrimonio, presente in tutti i tempi e in tutte le culture, «è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e all’educazione di nuove vite» . Nella fecondità dell’amore coniugale l’uomo e la donna «rendono evidente che all’origine della loro vita sponsale vi è un “sì” genuino che viene pronunciato e realmente vissuto nella reciprocità, rimanendo sempre aperto alla vita… La legge naturale, che è alla base del riconoscimento della vera uguaglianza tra le persone e i popoli, merita di essere riconosciuta come la fonte a cui ispirare anche il rapporto tra gli sposi nella loro responsabilità nel generare nuovi figli. La trasmissione della vita è iscritta nella natura e le sue leggi permangono come norma non scritta a cui tutti devono richiamarsi». 7. È convinzione della Chiesa che ciò che è umano non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato. Dio, dopo aver creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1, 26), ha qualificato la sua creatura come «molto buona» (Gn 1, 31) per poi assumerla nel Figlio (cf. Gv 1, 14). Il Figlio di Dio nel mistero dell’Incarnazione ha confermato la dignità del corpo e dell’anima costitutivi dell’essere umano. Il Cristo non ha disdegnato la corporeità umana, ma ne ha svelato pienamente il significato e il valore: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». Divenendo uno di noi, il Figlio fa sì che possiamo diventare «figli di Dio» (Gv 1,12), «partecipi della natura divina» (2 Pt 1, 4). Questa nuova dimensione non contrasta con la dignità della creatura riconoscibile

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 con la ragione da parte di tutti gli uomini, ma la eleva ad un ulteriore orizzonte di vita, che è quella propria di Dio e consente di riflettere più adeguatamente sulla vita umana e sugli atti che la pongono in essere. Alla luce di questi dati di fede, risulta ancor più accentuato e rafforzato il rispetto nei riguardi dell’individuo umano che è richiesto dalla ragione: per questo non c’è contrapposizione tra l’affermazione della dignità e quella della sacralità della vita umana. «I diversi modi secondo cui nella storia Dio ha cura del mondo e dell’uomo, non solo non si escludono tra loro, ma al contrario si sostengono e si compenetrano a vicenda. Tutti scaturiscono e concludono all’eterno disegno sapiente e amoroso con il quale Dio predestina gli uomini “ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8, 29)». 8. A partire dall’insieme di queste due dimensioni, l’umana e la divina, si comprende meglio il perché del valore inviolabile dell’uomo: egli possiede una vocazione eterna ed è chiamato a condividere l’amore trinitario del Dio vivente. Questo valore si applica a tutti indistintamente. Per il solo fatto d’esistere, ogni essere umano deve essere pienamente rispettato. Si deve escludere l’introduzione di criteri di discriminazione, quanto alla dignità, in base allo sviluppo biologico, psichico, culturale o allo stato di salute. Nell’uomo, creato ad immagine di Dio, si riflette, in ogni fase della sua esistenza, «il volto del suo Figlio Unigenito… Questo amore sconfinato e quasi incomprensibile di Dio per l’uomo rivela fino a che punto la persona umana sia degna di essere amata in se stessa, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione – intelligenza, bellezza, salute, giovinezza, integrità e così via. In definitiva, la vita umana è sempre un bene, poiché “essa è nel mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria” (Evangelium vitae, 34)». 9. Queste due dimensioni di vita, quella naturale e quella soprannaturale, permettono anche di comprendere meglio in quale senso gli atti che consentono all’essere umano di venire all’esistenza, nei quali l’uomo e la donna si donano mutuamente l’uno all’altra, sono un riflesso dell’amore trinitario. «Dio, che è amore e vita, ha inscritto nell’uomo e nella donna la vocazione a una partecipazione speciale al suo mistero di comunione personale e alla sua opera di Creatore e di Padre». Il matrimonio cristiano «affonda le sue radici nella naturale complementarietà che esiste tra l’uomo e la donna, e si alimenta mediante la volontà personale degli sposi di condividere l’intero progetto di vita, ciò che hanno e ciò che sono: perciò tale comunione è il frutto e il segno di una esigenza profondamente umana. Ma in Cristo Signore, Dio assume questa esigenza umana, la

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 conferma, la purifica e la eleva, conducendola a perfezione col sacramento del matrimonio: lo Spirito Santo effuso nella celebrazione sacramentale offre agli sposi cristiani il dono di una comunione nuova d’amore che è immagine viva e reale di quella singolarissima unità, che fa della Chiesa l’indivisibile Corpo mistico del Signore Gesù». 10. La Chiesa, giudicando della valenza etica di taluni risultati delle recenti ricerche della medicina concernenti l’uomo e le sue origini, non interviene nell’ambito proprio della scienza medica come tale, ma richiama tutti gli interessati alla responsabilità etica e sociale del loro operato. Ricorda loro che il valore etico della scienza biomedica si misura con il riferimento sia al rispetto incondizionato dovuto ad ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, sia alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita. L’intervento del Magistero rientra nella sua missione di promuovere la formazione delle coscienze, insegnando autenticamente la verità che è Cristo, e nello stesso tempo dichiarando e confermando autoritativamente i principi dell’ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana.

SECONDA PARTE: NUOVI PROBLEMI RIGUARDANTI LA PROCREAZIONE

11. Alla luce dei principi sopra ricordati occorre ora prendere in esame alcuni problemi riguardanti la procreazione, emersi e meglio delineatisi negli anni successivi alla pubblicazione dell’Istruzione Donum vitae.

Le tecniche di aiuto alla fertilità 12. Per quanto riguarda la cura dell’infertilità, le nuove tecniche mediche devono rispettare tre beni fondamentali: a) il diritto alla vita e all’integrità fisica di ogni essere umano dal concepimento fino alla morte naturale; b) l’unità del matrimonio, che comporta il reciproco rispetto del diritto dei coniugi a diventare padre e madre soltanto l’uno attraverso l’altro; c) i valori specificamente umani della sessualità, che «esigono che la procreazione di una persona umana debba essere perseguita come il frutto dell’atto coniugale specifico dell’amore tra gli sposi». Le tecniche che si presentano come un aiuto alla procreazione «non sono da rifiutare in quanto artificiali. Come tali esse testimoniano le possibilità dell’arte medica, ma si devono valutare sotto il profilo morale in riferimento alla dignità della persona umana, chiamata a realizzare la vocazione divina al dono dell’amore e al dono della vita». Alla luce di tale criterio sono da

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 escludere tutte le tecniche di fecondazione artificiale eterologa e le tecniche di fecondazione artificiale omologa che sono sostitutive dell’atto coniugale. Sono invece ammissibili le tecniche che si configurano come un aiuto all’atto coniugale e alla sua fecondità. L’Istruzione Donum vitae si esprime così: «Il medico è al servizio delle persone e della procreazione umana: non ha facoltà di disporre né di decidere di esse. L’intervento medico è in questo ambito rispettoso della dignità delle persone, quando mira ad aiutare l’atto coniugale sia per facilitarne il compimento sia per consentirgli di raggiungere il suo fine, una volta che sia stato normalmente compiuto». E, a proposito dell’inseminazione artificiale omologa, dice: «L’inseminazione artificiale omologa all’interno del matrimonio non può essere ammessa, salvo il caso in cui il mezzo tecnico risulti non sostitutivo dell’atto coniugale, ma si configuri come una facilitazione e un aiuto affinché esso raggiunga il suo scopo naturale». 13. Sono certamente leciti gli interventi che mirano a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla fertilità naturale, come ad esempio la cura ormonale dell’infertilità di origine gonadica, la cura chirurgica di una endometriosi, la disostruzione delle tube, oppure la restaurazione microchirurgica della pervietà tubarica. Tutte queste tecniche possono essere considerate come autentiche terapie, nella misura in cui, una volta risolto il problema che era all’origine dell’infertilità, la coppia possa porre atti coniugali con un esito procreativo, senza che il medico debba interferire direttamente nell’atto coniugale stesso. Nessuna di queste tecniche sostituisce l’atto coniugale, che unicamente è degno di una procreazione veramente responsabile. Per venire incontro al desiderio di non poche coppie sterili ad avere un figlio, sarebbe inoltre auspicabile incoraggiare, promuovere e facilitare, con opportune misure legislative, la procedura dell’adozione dei numerosi bambini orfani, che hanno bisogno, per il loro adeguato sviluppo umano, di un focolare domestico. C’è da osservare, infine, che meritano un incoraggiamento le ricerche e gli investimenti dedicati alla prevenzione della sterilità.

Fecondazione in vitro ed eliminazione volontaria di embrioni 14. Il fatto che la fecondazione in vitro comporti assai frequentemente l’eliminazione volontaria di embrioni è già stato rilevato dall’Istruzione Donum vitae. Alcuni pensavano che ciò fosse dovuto a una tecnica ancora parzialmente imperfetta. L’esperienza successiva ha dimostrato invece che tutte le tecniche di fecondazione in vitro si svolgono di fatto come se l’embrione umano fosse un semplice ammasso di cellule che vengono

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 usate, selezionate e scartate. È vero che circa un terzo delle donne che ricorrono alla procreazione artificiale giunge ad avere un bambino. Occorre tuttavia rilevare che, considerando il rapporto tra il numero totale di embrioni prodotti e di quelli effettivamente nati, il numero di embrioni sacrificati è altissimo. Queste perdite sono accettate dagli specialisti delle tecniche di fecondazione in vitro come prezzo da pagare per ottenere risultati positivi. In realtà è assai preoccupante che la ricerca in questo campo miri principalmente a ottenere migliori risultati in termini di percentuale di bambini nati rispetto alle donne che iniziano il trattamento, ma non sembra avere un effettivo interesse per il diritto alla vita di ogni singolo embrione.

15. Spesso si obietta che tali perdite di embrioni sarebbero il più delle volte preterintenzionali, o avverrebbero addirittura contro la volontà dei genitori e dei medici. Si afferma che si tratterebbe di rischi non molto diversi da quelli connessi al processo naturale della generazione, e che voler comunicare la vita senza correre alcun rischio comporterebbe in pratica astenersi dal trasmetterla. È vero che non tutte le perdite di embrioni nell’ambito della procreazione in vitro hanno lo stesso rapporto con la volontà dei soggetti interessati. Ma è anche vero che in molti casi l’abbandono, la distruzione o le perdite di embrioni sono previsti e voluti. Gli embrioni prodotti in vitro che presentano difetti vengono diretta¬mente scartati. Sono sempre più frequenti i casi in cui coppie non sterili ricorrono alle tecniche di procreazione artificiale con l’unico scopo di poter operare una selezione genetica dei loro figli. È prassi ormai comune in molti Paesi la stimolazione del ciclo femminile per ottenere un alto numero di ovociti, che vengono fecondati. Tra gli embrioni ottenuti un certo numero è trasferito nel grembo materno, e gli altri vengono congelati per eventuali futuri interventi riproduttivi. La finalità del trasferimento multiplo è di assicurare, per quanto possibile, l’impianto di almeno un embrione. Il mezzo impiegato per giungere a questo fine è l’utilizzo di un numero maggiore di embrioni rispetto al figlio desiderato, nella previsione che alcuni vengano perduti e, in ogni caso, si eviti la gravidanza multipla. In questo modo la tecnica del trasferimento multiplo comporta di fatto un trattamento puramente strumentale degli embrioni. Colpisce il fatto che né la comune deontologia professionale né le autorità sanitarie ammetterebbero in nessun altro ambito della medicina una tecnica con un tasso globale così alto di esiti negativi e fatali. Le tecniche di fecondazione in vitro in realtà vengono accettate, perché si presuppone che l’embrione

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 non meriti un pieno rispetto, per il fatto che entra in concorrenza con un desiderio da soddisfare. Questa triste realtà, spesso taciuta, è del tutto deprecabile, in quanto «le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita».

16. La Chiesa, inoltre, ritiene eticamente inaccettabile la dissociazione della procreazione dal contesto integralmente personale dell’atto coniugale: la procreazione umana è un atto personale della coppia uomo- donna che non sopporta alcun tipo di delega sostitutiva. La pacifica accettazione dell’altissimo tasso di abortività delle tecniche di fecondazione in vitro dimostra eloquentemente che la sostituzione dell’atto coniugale con una procedura tecnica – oltre a non essere conforme al rispetto che si deve alla procreazione, non riducibile alla sola dimensione riproduttiva – contribuisce ad indebolire la consapevolezza del rispetto dovuto ad ogni essere umano. Il riconoscimento di tale rispetto viene invece favorito dall’intimità degli sposi animata dall’amore coniugale. La Chiesa riconosce la legittimità del desiderio di un figlio, e comprende le sofferenze dei coniugi afflitti da problemi di infertilità. Tale desiderio non può però venir anteposto alla dignità di ogni vita umana, fino al punto di assumerne il dominio. Il desiderio di un figlio non può giustificarne la “produzione”, così come il desiderio di non avere un figlio già concepito non può giustificarne l’abbandono o la distruzione. In realtà si ha l’impressione che alcuni ricercatori, privi di ogni riferimento etico e consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere alla logica dei soli desideri soggettivi e alla pressione economica, tanto forte in questo campo. Di fronte alla strumentalizzazione dell’essere umano allo stadio embrionale, occorre ripetere che «l’amore di Dio non fa differenza fra il neoconcepito ancora nel grembo di sua madre, e il bambino, o il giovane, o l’uomo maturo o l’anziano. Non fa differenza perché in ognuno di essi vede l’impronta della propria immagine e somiglianza… Per questo il Magistero della Chiesa ha costantemente proclamato il carattere sacro e inviolabile di ogni vita umana, dal suo concepimento sino alla sua fine naturale».

L’Intra Cytoplasmic Sperm Injection (ICSI) 17. Tra le tecniche recenti di fecondazione artificiale ha progressivamente assunto un particolare rilievo l’Intra Cytoplasmic Sperm Injection. L’ICSI

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è diventata la tecnica di gran lunga più utilizzata nell’ottica della migliore efficacia, e può superare diverse forme di sterilità maschile. Come la fecondazione in vitro, della quale costituisce una variante, l’ICSI è una tecnica intrinsecamente illecita: essa opera una completa dissociazione tra la procreazione e l’atto coniugale. Infatti anche l’ICSI «è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell’intervento; essa affida la vita e l’identità dell’embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio è in sé contraria alla dignità e all’uguaglianza che dev’essere comune a genitori e figli. Il concepimento in vitro è il risultato dell’azione tecnica che presiede alla fecondazione; essa non è né di fatto ottenuta né positivamente voluta come l’espressione e il frutto di un atto specifico dell’unione coniugale».

Il congelamento di embrioni 18. Uno dei metodi adoperati per ottenere il miglioramento del tasso di riuscita delle tecniche di procreazione in vitro è la moltiplicazione del numero dei trattamenti successivi. Per non ripetere i prelievi di ovociti nella donna, si procede a un unico prelievo plurimo di ovociti, seguito dalla crioconservazione di una parte importante degli embrioni ottenuti in vitro, in previsione di un secondo ciclo di trattamento, nel caso di insuccesso del primo, ovvero nel caso in cui i genitori volessero un’altra gravidanza. Talvolta si procede al congelamento anche degli embrioni destinati al primo trasferimento, perché la stimolazione ormonale del ciclo femminile produce degli effetti che consigliano di attendere la normalizzazione delle condizioni fisiologiche prima di procedere al trasferimento degli embrioni nel grembo materno. La crioconservazione è incompatibile con il rispetto dovuto agli embrioni umani: presuppone la loro produzione in vitro; li espone a gravi rischi di morte o di danno per la loro integrità fisica, in quanto un’alta percentuale non sopravvive alla procedura di congelamento e di scongelamento; li priva almeno temporaneamente dell’accoglienza e della gestazione materna; li pone in una situazione suscettibile di ulteriori offese e manipolazioni. La maggior parte degli embrioni non utilizzati rimangono “orfani”. I loro genitori non li richiedono, e talvolta se ne perdono le tracce. Ciò spiega l’esistenza di depositi di migliaia e migliaia di embrioni congelati in quasi tutti i Paesi dove si pratica la fecondazione in vitro.

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19. Per quanto riguarda il gran numero di embrioni congelati già esistenti si pone la domanda: che fare di loro? Alcuni si pongono tale interrogativo senza coglierne la sostanza etica, motivati unicamente dalla necessità di osservare la legge che impone di svuotare dopo un certo tempo i depositi dei centri di crioconservazione, che poi saranno nuovamente riempiti. Altri sono coscienti, invece, che è stata commessa una grave ingiustizia e si interrogano su come ottemperare al dovere di ripararvi. Sono chiaramente inaccettabili le proposte di usare tali embrioni per la ricerca o di destinarli a usi terapeutici, perché trattano gli embrioni come semplice “materiale biologico” e comportano la loro distruzione. Neppure la proposta di scongelare questi embrioni e, senza riattivarli, usarli per la ricerca come se fossero dei normali cadaveri, è ammissibile. Anche la proposta di metterli a disposizione di coppie infertili, come “terapia dell’infertilità”, non è eticamente accettabile a causa delle stesse ragioni che rendono illecita sia la procreazione artificiale eterologa sia ogni forma di maternità surrogata; questa pratica comporterebbe poi diversi altri problemi di tipo medico, psicologico e giuridico. È stata inoltre avanzata la proposta, solo al fine di dare un’opportunità di nascere ad esseri umani altrimenti condannati alla distruzione, di procedere ad una forma di “adozione prenatale”. Tale proposta, lodevole nelle intenzioni di rispetto e di difesa della vita umana, presenta tuttavia vari problemi non dissimili da quelli sopra elencati. Occorre costatare, in definitiva, che le migliaia di embrioni in stato di abbandono determinano una situazione di ingiustizia di fatto irreparabile. Perciò Giovanni Paolo II lanciò un «appello alla coscienza dei responsabili del mondo scientifico ed in modo particolare ai medici perché venga fermata la produzione di embrioni umani, tenendo conto che non si intravede una via d’uscita moralmente lecita per il destino umano delle migliaia e migliaia di embrioni “congelati”, i quali sono e restano pur sempre titolari dei diritti essenziali e quindi da tutelare giuridicamente come persone umane».

Il congelamento di ovociti 20. Per evitare i gravi problemi etici posti dalla crioconservazione di embrioni, è stata avanzata nell’ambito delle tecniche di fecondazione in vitro la proposta di congelare gli ovociti. Una volta che è stato prelevato un numero congruo di ovociti nella previsione di diversi cicli di procreazione artificiale, si prevede di fecondare soltanto gli ovociti che saranno trasferiti nella madre, e gli altri verrebbero congelati per essere eventualmente

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 fecondati e trasferiti in caso di insuccesso del primo tentativo. Al riguardo occorre precisare che la crioconservazione di ovociti in ordine al processo di procreazione artificiale è da considerare moralmente inaccettabile.

La riduzione embrionale 21. Alcune tecniche usate nella procreazione artificiale, soprattutto il trasferimento di più embrioni al grembo materno, hanno dato luogo ad un aumento significativo della percentuale di gravidanze multiple. Perciò si è fatta strada l’idea di procedere alla cosiddetta riduzione embrionale. Essa consiste in un intervento per ridurre il numero di embrioni o feti presenti nel seno materno mediante la loro diretta soppressione. La decisione di sopprimere esseri umani, in precedenza fortemente desiderati, rappresenta un paradosso e comporta spesso sofferenza e sentimento di colpa, che possono durare anni. Dal punto di vista etico, la riduzione embrionale è un aborto intenzionale selettivo. Si tratta, infatti, di eliminazione deliberata e diretta di uno o più esseri umani innocenti nella fase iniziale della loro esistenza, e come tale costituisce sempre un disordine morale grave. Le argomentazioni proposte per giustificare eticamente la riduzione embrio- nale si fondano spesso su analogie con catastrofi naturali o situazioni di emergenza nelle quali, malgrado la buona volontà di ciascuno, non è possibile salvare tutte le persone coinvolte. Queste analogie non possono fondare in alcun modo un giudizio morale positivo su una pratica direttamente abortiva. Altre volte ci si richiama a principi morali, come quelli del male minore o del duplice effetto, che qui non sono applicabili. Non è mai lecito, infatti, realizzare un’azione che è intrinsecamente illecita, neppure in vista di un fine buono: il fine non giustifica i mezzi.

La diagnosi pre-impiantatoria 22. La diagnosi pre-impiantatoria è una forma di diagnosi prenatale, legata alle tecniche di fecondazione artificiale, che prevede la diagnosi genetica degli embrioni formati in vitro, prima del loro trasferimento nel grembo materno. Essa viene effettuata allo scopo di avere la sicurezza di trasferire nella madre solo embrioni privi di difetti o con un sesso determinato o con certe qualità particolari. Diversamente da altre forme di diagnosi prenatale, dove la fase diagnostica è ben separata dalla fase dell’eventuale eliminazione e nell’ambito della quale le coppie rimangono libere di accogliere il bambino malato, alla diagnosi pre-impiantatoria segue ordinariamente l’eliminazione dell’embrione designato come “sospetto” di difetti genetici o cromosomici, o portatore di un sesso non voluto o di

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 qualità non desiderate. La diagnosi pre-impiantatoria – sempre connessa con la fecondazione artificiale, già di per sé intrinsecamente illecita – è finalizzata di fatto ad una selezione qualitativa con la conseguente distruzione di embrioni, la quale si configura come una pratica abortiva precoce. La diagnosi pre-impiantatoria è quindi espressione di quella mentalità eugenetica, «che accetta l’aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è lesiva della dignità umana e quanto mai riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di normalità e di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche dell’infanticidio e dell’eutanasia». Trattando l’embrione umano come semplice “materiale di laboratorio”, si opera un’alterazione e una discriminazione anche per quanto riguarda il concetto stesso di dignità umana. La dignità appartiene ugualmente ad ogni singolo essere umano e non dipende dal progetto parentale, dalla condizione sociale, dalla formazione culturale, dallo stato di sviluppo fisico. Se in altri tempi, pur accettando in generale il concetto e le esigenze della dignità umana, veniva praticata la discriminazione per motivi di razza, religione o condizione sociale, oggi si assiste ad una non meno grave ed ingiusta discriminazione che porta a non riconoscere lo sta¬tuto etico e giuridico di esseri umani affetti da gravi patologie e disabilità: si viene così a dimenticare che le persone malate e disabili non sono una specie di categoria a parte perché la malattia e la disabilità appartengono alla condizione umana e riguardano tutti in prima persona, anche quando non se ne fa esperienza diretta. Tale discriminazione è immorale e perciò dovrebbe essere considerata giuridicamente inaccettabile, così come è doveroso eliminare le barriere culturali, economiche e sociali, che minano il pieno riconoscimento e la tutela delle persone disabili e malate.

Nuove forme di intercezione e contra gestazione 23. Accanto ai mezzi contraccettivi propriamente detti, che impediscono il concepimento a seguito di un atto sessuale, esistono altri mezzi tecnici che agiscono dopo la fecondazione, quando l’embrione è già costituito, prima o dopo l’impianto in utero. Queste tecniche sono intercettive, se intercettano l’embrione prima del suo impianto nell’utero materno, e contragestative, se provocano l’eliminazione dell’embrione appena impiantato. Per favorire la diffusione dei mezzi intercettivi, si afferma talvolta che il loro meccanismo di azione non sarebbe sufficientemente conosciuto. È vero che non sempre si dispone di una conoscenza completa del meccanismo di azione dei

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 diversi farmaci usati, ma gli studi sperimentali dimostrano che l’effetto di impedire l’impianto è certamente presente, anche se questo non significa che gli intercettivi provochino un aborto ogni volta che vengono assunti, anche perché non sempre dopo il rapporto sessuale avviene la fecondazione. Si deve notare, tuttavia, che in colui che vuol impedire l’impianto di un embrione eventualmente concepito, e pertanto chiede o prescrive tali farmaci, l’intenzionalità abortiva è generalmente presente. Quando si constata un ritardo mestruale, si ricorre talora alla contragestazione, che viene praticata abitualmente entro una o due settimane dopo la constatazione del ritardo. Lo scopo dichiarato è quello di far ricomparire la mestruazione, ma in realtà si tratta dell’aborto di un embrione appena annidato. Come si sa, l’aborto «è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita». Pertanto l’uso dei mezzi di intercezione e di contragestazione rientra nel peccato di aborto ed è gravemente immorale. Inoltre, qualora si raggiunga la certezza di aver realizzato l’aborto, secondo il diritto canonico, vi sono delle gravi conseguenze penali.

TERZA PARTE: NUOVE PROPOSTE TERAPEUTICHE CHE COMPORTANO LA MANIPOLAZIONE DELL’EMBRIONE O DEL PATRIMONIO GENETICO UMANO

24. Le conoscenze acquisite negli ultimi anni hanno aperto nuove prospettive per la medicina rigenerativa e per la terapia delle malattie su base genetica. In particolare ha suscitato un grande interesse la ricerca sulle cellule staminali embrionali e sulle possibili applicazioni terapeutiche future, che tuttavia fino ad oggi non hanno trovato riscontro sul piano dei risultati effettivi, a differenza della ricerca sulle cellule staminali adulte. Dal momento che alcuni hanno ritenuto che i traguardi terapeutici eventualmente raggiungibili mediante le cellule staminali embrionali potevano giustificare diverse forme di manipolazione e di distruzione di embrioni umani, è emerso un insieme di questioni nell’ambito della terapia genica, della clonazione e dell’utilizzo di cellule staminali, sulle quali è necessario un attento discernimento morale.

La terapia genica 25. Con il termine terapia genica si intende comunemente l’applicazione all’uomo delle tecniche di ingegneria genetica con una finalità terapeutica,

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 vale a dire, con lo scopo di curare malattie su base genetica, anche se recentemente si sta tentando di applicare la terapia genica al trattamento di malattie non ereditarie, ed in particolare al trattamento del cancro. In teoria, è possibile applicare la terapia genica a due livelli: nelle cellule somatiche e nelle cellule germinali. La terapia genica somatica si propone di eliminare o ridurre difetti genetici presenti a livello delle cellule somatiche, cioè delle cellule non riproduttive, che compongono i tessuti e gli organi del corpo. Si tratta, in questo caso, di interventi mirati a determinati distretti cellulari, con effetti confinati nel singolo individuo. La terapia genica germinale mira invece a correggere difetti genetici presenti in cellule della linea germinale, al fine di trasmettere gli effetti terapeutici ottenuti sul soggetto all’eventuale discendenza del medesimo. Tali interventi di terapia genica, sia somatica che germinale, possono essere effettuati sul feto prima della nascita – si parla allora di terapia genica in utero – o dopo la nascita, sul bambino o sull’adulto.

26. Per la valutazione morale occorre tener presenti queste distinzioni. Gli interventi sulle cellule somatiche con finalità strettamente terapeutica sono in linea di principio moralmente leciti. Tali interventi intendono ripristinare la normale configurazione genetica del soggetto oppure contrastare i danni derivanti da anomalie genetiche presenti o da altre patologie correlate. Dato che la terapia genica può comportare rischi significativi per il paziente, bisogna osservare il principio deontologico generale secondo cui, per attuare un intervento terapeutico, è necessario assicurare previamente che il soggetto trattato non sia esposto a rischi per la sua salute o per l’integrità fisica, che siano eccessivi o sproporzionati rispetto alla gravità della patologia che si vuole curare. È anche richiesto il consenso informato del paziente o di un suo legittimo rappresentante. Diversa è la valutazione morale della terapia genica germinale. Qualunque modifica genetica apportata alle cellule germinali di un soggetto sarebbe trasmessa alla sua eventuale discendenza. Poiché i rischi legati ad ogni manipolazione genetica sono significativi e ancora poco controllabili, allo stato attuale della ricerca non è moralmente ammissibile agire in modo che i potenziali danni derivanti si diffondano nella progenie. Nell’ipotesi dell’applicazione della terapia genica sull’embrione, poi, occorre aggiungere che essa necessita di essere attuata in un contesto tecnico di fecondazione in vitro, andando incontro quindi a tutte le obiezioni etiche relative a tali procedure. Per queste ragioni, quindi, si deve affermare che, allo stato attuale, la terapia genica germinale, in tutte le sue forme, è moralmente illecita.

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27. Una considerazione specifica merita l’ipotesi di finalità applicative dell’ingegneria genetica diverse da quella terapeutica. Taluni hanno immaginato la possibilità di utilizzare le tecniche di ingegneria genetica per realizzare manipolazioni con presunti fini di miglioramento e potenziamento della dotazione genetica. In alcune di queste proposte si manifesta una sorta di insoddisfazione o persino di rifiuto del valore dell’essere umano come creatura e persona finita. A parte le difficoltà tecniche di realizzazione, con tutti i rischi reali e potenziali connessi, emerge soprattutto il fatto che tali manipolazioni favoriscono una mentalità eugenetica e introducono un indiretto stigma sociale nei confronti di coloro che non possiedono particolari doti e enfatizzano doti apprezzate da determinate culture e società, che non costituiscono di per sé lo specifico umano. Ciò contrasterebbe con la verità fondamentale dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani, che si traduce nel principio di giustizia, la cui violazione, alla lunga, finirebbe per attentare alla convivenza pacifica tra gli individui. Inoltre, ci si chiede chi potrebbe stabilire quali modifiche siano da ritenersi positive e quali no, o quali dovrebbero essere i limiti delle richieste individuali di presunto miglioramento, dal momento che non sarebbe materialmente possibile esaudire i desideri di ciascun singolo uomo. Ogni possibile risposta a questi interrogativi deriverebbe comunque da criteri arbitrari ed opinabili. Tutto ciò porta a concludere che una tale prospettiva d’intervento finirebbe, prima o poi, per nuocere al bene comune, favorendo il prevalere della volontà di alcuni sulla libertà degli altri. Si deve rilevare infine che nel tentativo di creare un nuovo tipo di uomo si ravvisa una dimensione ideologica, secondo cui l’uomo pretende di sostituirsi al Creatore. Nell’affermare la negatività etica di questo tipo di interventi, che implicano un ingiusto dominio dell’uomo sull’uomo, la Chiesa richiama anche la necessità di tornare ad una prospettiva di cura delle persone e di educazione all’accoglienza della vita umana nella sua concreta finitezza storica.

La clonazione umana 28. Per clonazione umana si intende la riproduzione asessuale e agamica dell’intero organismo umano, allo scopo di produrre una o più “copie” dal punto di vista genetico sostanzialmente identiche all’unico progenitore. La clonazione viene proposta con due scopi fondamentali: riproduttivo, cioè per ottenere la nascita di un bambino clonato, e terapeutico o di ricerca. La clonazione riproduttiva sarebbe in teoria capace di soddisfare alcune particolari esigenze, quali, ad esempio, il controllo dell’evoluzione umana;

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 la selezione di esseri umani con qualità superiori; la preselezione del sesso del nascituro; la produzione di un figlio che sia la “copia” di un altro; la produzione di un figlio per una coppia affetta da forme di sterilità non altrimenti trattabili. La clonazione terapeutica, invece, è stata proposta come strumento di produzione di cellule staminali embrionali con patrimonio genetico pre-determinato, in modo da superare il problema del rigetto (immunoincompatibilità); essa è dunque collegata con la tematica dell’impiego delle cellule staminali. I tentativi di clonazione hanno suscitato viva preoccupazione nel mondo intero. Diversi organismi a livello nazionale e internazionale hanno espresso valutazioni negative sulla clonazione umana e nella stragrande maggioranza dei Paesi è stata vietata. La clonazione umana è intrinsecamente illecita, in quanto, portando all’estremo la negatività etica delle tecniche di fecondazione artificiale, intende dare origine ad un nuovo essere umano senza connessione con l’atto di reciproca donazione tra due coniugi e, più radicalmente, senza legame alcuno con la sessualità. Tale circostanza dà luogo ad abusi e a manipolazioni gravemente lesive della dignità umana.

29. Qualora la clonazione avesse uno scopo riproduttivo, si imporrebbe al soggetto clonato un patrimonio genetico preordinato, sottoponendolo di fatto – come è stato affermato – ad una forma di schiavitù biologica dalla quale difficilmente potrebbe affrancarsi. Il fatto che una persona si arroghi il diritto di determinare arbitrariamente le caratteristiche genetiche di un’altra persona, rappresenta una grave offesa alla dignità di quest’ultima e all’uguaglianza fondamentale tra gli uomini. Dalla particolare relazione esistente tra Dio e l’uomo fin dal primo momento della esistenza deriva l’originalità di ogni persona, che obbliga a rispettarne la singolarità e l’integrità, inclusa quella biologica e genetica. Ognuno di noi incontra nell’altro un essere umano che deve la propria esistenza e le proprie caratteristiche all’amore di Dio, del quale solo l’amore tra i coniugi costituisce una mediazione conforme al disegno del Creatore e Padre celeste.

30. Ancora più grave dal punto di vista etico è la clonazione cosiddetta terapeutica. Creare embrioni con il proposito di distruggerli, anche se con l’intenzione di aiutare i malati, è del tutto incompatibile con la dignità umana, perché fa dell’esistenza di un essere umano, pur allo stadio embrionale, niente di più che uno strumento da usare e distruggere. È gravemente immorale sacrificare una vita umana per una finalità

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 terapeutica. Le obiezioni etiche, sollevate da più parti contro la clonazione terapeutica e contro l’uso di embrioni umani formati in vitro, hanno spinto alcuni scienziati a proporre nuove tecniche, che vengono presentate come capaci di produrre cellule staminali di tipo embrionale senza presupporre però la distruzione di veri embrioni umani. Queste proposte hanno suscitato non pochi interrogativi scientifici ed etici, riguardanti soprattutto lo statuto ontologico del “prodotto” così ottenuto. Finché non sono chiariti questi dubbi, occorre tenere conto di quanto affermato dall’Enciclica Evangelium vitae: «tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell’obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l’embrione umano».

L’uso terapeutico delle cellule staminali 31. Le cellule staminali sono cellule indifferenziate che possiedono due caratteristiche fondamentali: a) la capacità prolungata di moltiplicarsi senza differenziarsi; b) la capacità di dare origine a cellule progenitrici di transito, dalle quali discendono cellule altamente differenziate, per esempio, nervose, muscolari, ematiche. Da quando si è verificato sperimentalmente che le cellule staminali, se trapiantate in un tessuto danneggiato, tendono a favorire la ripopolazione di cellule e la rigenerazione di tale tessuto, si sono aperte nuove prospettive per la medicina rigenerativa, che hanno suscitato grande interesse tra i ricercatori di tutto il mondo. Nell’uomo, le fonti di cellule staminali finora individuate sono: l’embrione nei primi stadi del suo sviluppo, il feto, il sangue del cordone ombelicale, vari tessuti dell’adulto (midollo osseo, cordone ombelicale, cervello, mesenchima di vari organi, ecc.) e il liquido amniotico. Inizialmente, gli studi si sono concentrati sulle cellule staminali embrionali, poiché si riteneva che solo queste possedessero grandi potenzialità di moltiplicazione e di differenziazione. Numerosi studi, però, dimostrano che anche le cellule staminali adulte presentano una loro versatilità. Anche se tali cellule non sembrano avere la medesima capacità di rinnovamento e la stessa plasticità delle cellule staminali di origine embrionale, tuttavia studi e sperimentazioni di alto livello scientifico tendono ad accreditare a queste cellule dei risultati più positivi se confrontati con quelle embrionali. I protocolli terapeutici attualmente praticati prevedono l’uso di cellule staminali adulte e sono al riguardo state avviate molte linee di ricerca, che aprono nuovi e promettenti orizzonti.

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32. Per la valutazione etica occorre considerare sia i metodi di prelievo delle cellule staminali sia i rischi del loro uso clinico o sperimentale. Per ciò che concerne i metodi impiegati per la raccolta delle cellule staminali, essi vanno considerati in rapporto alla loro origine. Sono da considerarsi lecite quelle metodiche che non procurano un grave danno al soggetto da cui si estraggono le cellule staminali. Tale condizione si verifica, generalmente, nel caso di prelievo: a) dai tessuti di un organismo adulto; b) dal sangue del cordone ombelicale, al momento del parto; c) dai tessuti di feti morti di morte naturale. Il prelievo di cellule staminali dall’embrione umano vivente, al contrario, causa inevitabilmente la sua distruzione, risultando di conseguenza gravemente illecito. In questo caso «la ricerca, a prescindere dai risultati di utilità terapeutica, non si pone veramente a servizio dell’umanità. Passa infatti attraverso la soppressione di vite umane che hanno uguale dignità rispetto agli altri individui umani e agli stessi ricercatori. La storia stessa ha condannato nel passato e condannerà in futuro una tale scienza, non solo perché priva della luce di Dio, ma anche perché priva di umanità». L’utilizzo di cellule staminali embrionali, o cellule differenziate da esse derivate, eventualmente fornite da altri ricercatori, sopprimendo embrioni, o reperibili in commercio, pone seri problemi dal punto di vista della cooperazione al male e dello scandalo. Per quanto riguarda l’uso clinico di cellule staminali ottenute mediante procedure lecite non ci sono obiezioni morali. Vanno tuttavia rispettati i comuni criteri di deontologia medica. Al riguardo occorre procedere con grande rigore e prudenza, riducendo al minimo gli eventuali rischi per i pazienti, facilitando il confronto degli scienziati tra di loro e offrendo un’informazione completa al grande pubblico. È da incoraggiare l’impulso e il sostegno alla ricerca riguardante l’impiego delle cellule staminali adulte, in quanto non comporta problemi etici.

Tentativi di ibridazione 33. Recentemente sono stati utilizzati ovociti animali per la riprogrammazione di nuclei di cellule somatiche umane – generalmente chiamata clonazione ibrida – , al fine di estrarre cellule staminali embrionali dai risultanti embrioni, senza dover ricorrere all’uso di ovociti umani. Dal punto di vista etico simili procedure rappresentano una offesa alla dignità dell’essere umano, a causa della mescolanza di elementi genetici umani ed animali capaci di turbare l’identità specifica dell’uomo. L’eventuale uso delle cellule staminali, estratte da tali embrioni, comporterebbe inoltre dei rischi sanitari aggiuntivi, ancora del tutto

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 sconosciuti, per la presenza di materiale genetico animale nel loro citoplasma. Esporre consapevolmente un essere umano a questi rischi è moralmente e deontologicamente inaccettabile.

L’uso di “materiale biologico” umano di origine illecita 34. Una fattispecie diversa viene a configurarsi quando i ricercatori impiegano “materiale biologico” di origine illecita che è stato prodotto fuori dal loro centro di ricerca o che si trova in commercio. L’Istruzione Donum vitae ha formulato il principio generale che in questi casi deve essere osservato: «I cadaveri di embrioni o feti umani, volontariamente abortiti o non, devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani. In particolare non possono essere oggetto di mutilazioni o autopsie se la loro morte non è stata accertata e senza il consenso dei genitori o della madre. Inoltre va sempre fatta salva l’esigenza morale che non vi sia stata complicità alcuna con l’aborto volontario e che sia evitato il pericolo di scandalo». A tale proposito è insufficiente il criterio dell’indipendenza formulato da alcuni comitati etici, vale a dire, affermare che sarebbe eticamente lecito l’utilizzo di “materiale biologico” di illecita provenienza, sempre che esista una chiara separazione tra coloro che da una parte producono, congelano e fanno morire gli embrioni e dall’altra i ricercatori che sviluppano la sperimentazione scientifica. Il criterio di indipendenza non basta a evitare una contraddizione nell’atteggiamento di chi afferma di non approvare l’ingiustizia commessa da altri, ma nel contempo accetta per il proprio lavoro il “materiale biologico” che altri ottengono mediante tale ingiustizia. Quando l’illecito è avallato dalle leggi che regolano il sistema sanitario e scientifico, occorre prendere le distanze dagli aspetti iniqui di tale sistema, per non dare l’impressione di una certa tolleranza o accettazione tacita di azioni gravemente ingiuste. Ciò infatti contribuirebbe a aumentare l’indifferenza, se non il favore con cui queste azioni sono viste in alcuni ambienti medici e politici. Talvolta si obietta che le considerazioni precedenti sembrano presupporre che i ricercatori di buona coscienza avrebbero il dovere di opporsi attivamente a tutte le azioni illecite realizzate in ambito medico, allargando così la loro responsabilità etica in modo eccessivo. Il dovere di evitare la cooperazione al male e lo scandalo, in realtà, riguarda la loro attività professionale ordinaria, che devono impostare rettamente e mediante la quale devono testimoniare il valore della vita, opponendosi anche alle leggi gravemente ingiuste. Va pertanto precisato che il dovere di rifiutare quel “materiale biologico” – anche in assenza di una qualche connessione prossima dei ricercatori con

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 le azioni dei tecnici della procreazione artificiale o con quella di quanti hanno procurato l’aborto, e in assenza di un previo accordo con i centri di procreazione artificiale – scaturisce dal dovere di separarsi, nell’esercizio della propria attività di ricerca, da un quadro legislativo gravemente ingiusto e di affermare con chiarezza il valore della vita umana. Perciò il sopra citato criterio di indipendenza è necessario, ma può essere eticamente insufficiente. Naturalmente all’interno di questo quadro generale esistono responsabilità differenziate, e ragioni gravi potrebbero essere moralmente proporzionate per giustificare l’utilizzo del suddetto “materiale biologico”. Così, per esempio, il pericolo per la salute dei bambini può autorizzare i loro genitori a utilizzare un vaccino nella cui preparazione sono state utilizzate linee cellulari di origine illecita, fermo restando il dovere da parte di tutti di manifestare il proprio disaccordo al riguardo e di chiedere che i sistemi sanitari mettano a disposizione altri tipi di vaccini. D’altra parte, occorre tener presente che nelle imprese che utilizzano linee cellulari di origine illecita non è identica la responsabilità di coloro che decidono dell’orientamento della produzione rispetto a coloro che non hanno alcun potere di decisione. Nel contesto della urgente mobilitazione delle coscienze in favore della vita, occorre ricordare agli operatori sanitari che «la loro responsabilità è oggi enormemente accresciuta e trova la sua ispirazione più profonda e il suo sostegno più forte proprio nell’intrinseca e imprescindibile dimensione etica della professione sanitaria, come già riconosceva l’antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto di impegnarsi per il rispetto assoluto della vita umana e della sua sacralità».

CONCLUSIONE 35. L’insegnamento morale della Chiesa è stato talvolta accusato di contenere troppi divieti. In realtà esso è fondato sul riconoscimento e sulla promozione di tutti i doni che il Creatore ha concesso all’uomo, come la vita, la conoscenza, la libertà e l’amore. Un particolare apprezzamento meritano perciò non soltanto le attività conoscitive dell’uomo, ma anche quelle pratiche, come il lavoro e l’attività tecnologica. Con queste ultime, infatti, l’uomo, partecipe del potere creatore di Dio, è chiamato a trasformare il creato, ordinandone le molteplici risorse in favore della dignità e del benessere di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, e ad esserne anche il custode del valore e dell’intrinseca bellezza. Ma la storia dell’umanità è testimone di come l’uomo abbia abusato, e abusi ancora, del potere e delle capacità che gli sono state affidate da Dio, dando luogo a

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 diverse forme di ingiusta discriminazione e di oppressione nei confronti dei più deboli e dei più indifesi. I quotidiani attentati contro la vita umana; l’esistenza di grandi aree di povertà nelle quali gli uomini muoiono di fame e di malattia, esclusi dalle risorse conoscitive e pratiche di cui invece dispongono in sovrabbondanza molti Paesi; uno sviluppo tecnologico ed industriale che sta creando il concreto rischio di un crollo dell’ecosistema; l’uso delle ricerche scientifiche nell’ambito della fisica, della chimica e della biologia per scopi bellici; le numerose guerre che ancor oggi dividono popoli e culture, sono, purtroppo, soltanto alcuni segni eloquenti di come l’uomo possa fare un cattivo uso delle sue capacità e diventare il peggior nemico di se stesso, perdendo la consapevolezza della sua alta e specifica vocazione di essere collaboratore dell’opera creatrice di Dio. Parallelamente la storia dell’umanità manifesta un reale progresso nella comprensione e nel riconoscimento del valore e della dignità di ogni persona, fondamento dei diritti e degli imperativi etici con cui si è cercato e si cerca di costruire la società umana. Proprio in nome della promozione della dignità umana si è, perciò, vietato ogni comportamento ed ogni stile di vita che risultava lesivo di tale dignità. Così, per esempio, i divieti, giuridico-politici e non solo etici, nei confronti delle varie forme di razzismo e di schiavitù, delle ingiuste discriminazioni ed emarginazioni delle donne, dei bambini, delle persone malate o con gravi disabilità, sono testimonianza evidente del riconoscimento del valore inalienabile e dell’intrinseca dignità di ogni essere umano e segno di un progresso autentico che percorre la storia dell’umanità. In altri termini, la legittimità di ogni divieto si fonda sulla necessità di tutelare un autentico bene morale.

36. Se il progresso umano e sociale si è inizialmente caratterizzato soprattutto attraverso lo sviluppo dell’industria e della produzione dei beni di consumo, oggi si qualifica per lo sviluppo dell’informatica, delle ricerche nel campo della genetica, della medicina e delle biotecnologie applicate anche all’uomo, settori di grande importanza per il futuro dell’umanità nei quali, però, si verificano anche evidenti e inaccettabili abusi. «Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora, quando un’altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi nei loro diritti

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Atti della Curia romana Settembre – Dicembre __2008 umani». In virtù della missione dottrinale e pastorale della Chiesa, la Congregazione per la Dottrina della Fede si è sentita in dovere di riaffermare la dignità e i diritti fondamentali e inalienabili di ogni singolo essere umano, anche negli stadi iniziali della sua esistenza, e di esplicitare le esigenze di tutela e di rispetto che il riconoscimento di tale dignità a tutti richiede. L’adempimento di questo dovere implica il coraggio di opporsi a tutte quelle pratiche che determinano una grave e ingiusta discriminazione nei confronti degli esseri umani non ancora nati, che hanno la dignità di persona, creati anch’essi ad immagine di Dio. Dietro ogni “no” rifulge, nella fatica del discernimento tra il bene e il male, un grande “sì” al riconoscimento della dignità e del valore inalienabili di ogni singolo ed irripetibile essere umano chiamato all’esistenza. I fedeli si impegneranno con forza a promuovere una nuova cultura della vita, accogliendo i contenuti di questa Istruzione con l’assenso religioso del loro spirito, sapendo che Dio offre sempre la grazia necessaria per osservare i suoi comandamenti e che in ogni essere umano, soprattutto nei più piccoli, si incontra Cristo stesso (cf. Mt 25, 40). Anche tutti gli uomini di buona volontà, in particolare i medici e i ricercatori aperti al confronto e desiderosi di raggiungere la verità, sapranno comprendere e condividere questi principi e valutazioni, volti alla tutela della fragile condizione dell’essere umano nei suoi stadi iniziali di vita e alla promozione di una civiltà più umana.

Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza concessa il 20 giugno 2008 al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Istruzione, decisa nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’8 settembre 2008, Festa della Natività della Beata Vergine Maria.

WILLIAM Card. LEVADA Prefetto LUIS F. LADARIA, S.I. Arcivescovo titolare di Thibica Segretario

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

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CONSIGLIO PERMANENTE Roma, 22-25 settembre 2008

PROLUSIONE DEL CARDINALE PRESIDENTE

Venerati e cari Confratelli, dopo la stagione estiva, e mentre nelle nostre diocesi ha già preso avvio il nuovo anno pastorale, ci ritroviamo per la consueta sessione autunnale del Consiglio Permanente della nostra Conferenza episcopale. A saldarci insieme sono i vincoli della fede in Cristo e dello stesso mandato apostolico, ma anche l’affezione al Popolo di Dio pellegrino nelle terre d’Italia. Vari e importanti sono i temi che attendono la nostra riflessione e la nostra valutazione: invochiamo la grazia del Signore e la luce dello Spirito affinché sappiamo corrispondere alle attese che sono rivolte al nostro lavoro. Il discernimento cristiano, che invochiamo come dono per le nostre comunità, sia l’atteggiamento grazie al quale noi per primi vogliamo uniformarci ai disegni del Padre per la salvezza di coloro che ci sono affidati e del mondo intero. 1. Con la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il 28 giugno scorso, siamo entrati nel perimetro dell’Anno Paolino, che il Santo Padre, Benedetto XVI, ha felicemente indetto per la ricorrenza bimillenaria della nascita del «maestro delle genti». Nell’aderire alle ragioni profonde di questo anno speciale, desideriamo proporre a noi stessi e alle nostre Chiese la figura gigante dell’Apostolo e le sue lettere, «vero patrimonio dell’umanità redenta» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione dei Primi Vespri, 28 giugno 2007). Nel suo peregrinare per la causa del Vangelo egli, tra l’altro, toccò in vari punti le nostre regioni: Siracusa, Reggio Calabria, Pozzuoli e infine Roma, dove trovò il martirio; un motivo in più perché egli torni ad alzarsi in mezzo a noi (cfr. At 17,22; 27,21), e tutti possano di nuovo «ascoltarlo (e) per apprendere ora da lui, quale nostro maestro» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione dei Primi Vespri, Basilica di San Paolo fuori le Mura, 28 giugno 2008) che il Dio dei cristiani non è un Dio estraneo o lontano, ma vicinissimo a loro e alla loro cultura, è anzi la vera risposta alla loro sete e fame più profonde. A lui toccò «l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale»: una scoperta imprevista, un coinvolgimento sconvolgente.

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«Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. “Tu perseguiti me” (cfr At 9,4s). Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa affermazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo» (ib). Le generazioni che si sono succedute non hanno cessato di leggere il mistero della Chiesa sul paradigma stringente del corpo che ha molte membra e varie giunture, ma non cessa di essere uno con il Cristo stesso (cfr 1Cor 12,12s; Ef 4,15s). Il che però è assai più di una analogia. «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo» (1Cor 10,16s). Diranno i Padri che noi mangiamo quello che dobbiamo diventare, anzi quello che già siamo. E Benedetto XVI conclude: «Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me» (ib). 2. Nel processo di autocoscienza della Chiesa, decisivo si è rivelato il concetto di comunione, che a sua volta esprime la peculiare unione che fa di tutte le membra un medesimo corpo, il Corpo mistico di Cristo. Il Concilio Vaticano II ha trovato qui la chiave di lettura per una rinnovata ecclesiologia cattolica, che è stata via via rilanciata e precisata dal successivo magistero pontificio, oltre che nel Sinodo straordinario del 1985, e in alcune messe a punto della Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr specialmente Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, 28 maggio 1992). Diciamo questo perché nella inesausta contemplazione del mistero della Chiesa, quale è beneficamente sollecitata dall’Apostolo, si abbia sempre l’avvertenza di aderire alla coscienza più matura del mistero, senza attardarsi su presunte antinomie o approcci unilaterali (cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera cit., 1). Come tale infatti, il mistero della Chiesa è certamente alla portata di tutti, ma senza semplificazioni, ad esempio, tra la comunione verticale e quella orizzontale, tra la comunione visibile e quella invisibile, tra la comunione eucaristica e quella gerarchica, tra la comunione che si esprime in ogni Chiesa locale e quella garantita nella Chiesa universale, grazie al ministero di Pietro che appartiene all’essenza interiore di ogni Chiesa particolare (cfr. Lettera cit., 3, 4, 7-9, 13). Ciascuno di noi Vescovi gode della propria Chiesa particolare, e la considera il suo vanto e la sua gloria (cfr 2Cor 1,14; 1Tess 2,20),

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 consapevole che la Chiesa universale è «ontologicamente e temporalmente previa ad ogni Chiesa particolare» (Lettera cit., 9). Dinanzi a talune istanze che puntano a contrapporre il vertice e la base, non c’è chi non veda come si tratti di false polarità, mentre in ogni ambito è richiesta una mutua inclusione, anzi una «mutua interiorità» (ib, 13). È accogliendo in sé, peraltro, questi princìpi dinamici che ogni fedele sa di appartenere non solo a una Chiesa locale ma immediatamente alla Chiesa universale, accedendo così alla consolante verità che «nella Chiesa nessuno è straniero» (Gal 3,28; cfr Lettera cit., 10). 3. Un momento forte, seppur doloroso, di questa esperienza comunionale nelle ultime settimane l’abbiamo vissuto in rapporto all’ondata di persecuzioni inflitte in India anzitutto ai fratelli del distretto di Kandhamal, nello stato dell’Orissa, e successivamente sviluppatesi in altri quattro stati. Infatti, «se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui» (1Cor 12,26). È noto come la scintilla da cui il 23 agosto è scaturita quest’ultima esplosione di violenza fosse l’addebito pretestuoso ai cristiani del luogo circa alcuni esecrabili fatti di sangue tuttora non chiariti, e che hanno avuto altre rivendicazioni (poi smentite). Ma questo è bastato per far partire una sanguinosa campagna di intimidazione che ha provocato decine di morti, per non parlare dei ferimenti e degli stupri, degli assalti alle chiese (compresa la cattedrale di Jabalpur), ai conventi, agli orfanatrofi e alle scuole, con la messa in fuga di decine di migliaia di persone che si sono salvate rifugiandosi nei centri di raccolta o nelle foreste. Tutto in realtà si è scatenato – ormai è chiaro – a motivo dell’opera di promozione che in quelle regioni i cristiani compiono a favore degli ultimi nella scala sociale, un’iniziativa ritenuta destabilizzante per un certo assetto sociale e di potere. Uno scenario – verrebbe da dire - di altri tempi, affacciatosi in un Paese retto da una democrazia parlamentare e che coltiva grandi ambizioni sullo scacchiere internazionale. Viene da chiedersi come si possa impedire che dei connazionali siano soccorsi nella loro indigenza solo per la paura che si sviluppi una simpatia erroneamente scambiata con la maschera del proselitismo. Eppure, per settimane gli atti di violenza si sono susseguiti nel dispregio delle leggi, nell’impunità dei colpevoli, nella disinformazione della stampa nazionale, nell’imbarazzo dei politici locali e nel quasi silenzio della comunità internazionale. Qualcosa appena ora comincia a muoversi, ma con evidente sproporzione rispetto ai gravissimi fatti. Solo la voce del Papa, già a partire da mercoledì 27 agosto, è echeggiata puntuale e nitida, e ad essa la Presidenza della Cei ha ritenuto di doversi unire

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 indicendo per venerdì 5 settembre, memoria liturgica della beata Maria Teresa di Calcutta, una giornata di preghiera e di penitenza, in solidarietà con un’analoga iniziativa voluta dai confratelli Vescovi dell’India. 4. Negli stessi giorni delle violenze in India, e mentre intolleranze ed emarginazioni ai danni dei cristiani venivano denunciate nel vicino Pakistan, è tornato alla ribalta il calvario cui da troppo tempo ormai è sottoposto il cristianesimo dell’Iraq, dove altri due caldei sono stati assassinati, ultimi anelli di una catena di sangue in corso da oltre quattro anni e che aveva visto nel marzo scorso la morte dello stesso Arcivescovo di Mosul, nel quadro di una vera e propria “pulizia religiosa” che sta portando alla decimazione di una comunità che cinque anni fa contava un milione di fedeli, ed è oggi ridotta a circa la metà, dopo la fuga nei Paesi vicini. Ecco perché ci piacerebbe che dalla classe politica come da parte degli intellettuali e dell’opinione pubblica, venisse rivolta una nuova, vigorosa attenzione al tema della libertà religiosa quale caposaldo della civiltà dei diritti dell’uomo e come garanzia di autentico pluralismo e vera democrazia. Forse che, alla luce anche degli eventi più recenti, non ha ragione Alexis de Tocqueville ad asserire «che il dispotismo non ha bisogno della religione, la libertà e la democrazia sì» (in La democrazia in America, I,9)? La libertà religiosa infatti non è un optional più o meno gentile che gli Stati concedono ai cittadini più insistenti, né una concessione paternalisticamente riconducibile al principio della tolleranza. È piuttosto il caposaldo delle libertà ed il criterio ultimo di salvaguardia delle stesse, in quanto iscritto nello statuto trascendente della persona e nella indisponibilità di questa rispetto a qualsiasi regime e a qualsiasi dottrina. Vorremmo con ciò unirci all’accorato appello recentemente lanciato dall’Arcivescovo Mamberti quando, evidenziando il fenomeno della «cosiddetta cristianofobia», ha inteso in «spirito costruttivo» rilevare come vi siano rischi che prendono piede vicino a noi, ossia nella nostra stessa Europa, citando «il distacco della religione dalla ragione, che relega la prima esclusivamente nel mondo dei sentimenti, e la separazione della religione dalla vita pubblica» (Protezione e diritto di libertà religiosa, Intervento al Meeting di Rimini, 29 agosto 2008). Vi è infatti una derivazione concettuale tra la disinvolta pratica del relativismo, gli eccessi antireligiosi e anticristiani e la regressione culturale ed etica delle società. E non si vede, a questo punto, chi avrebbe interesse a nascondersi tale nesso: non certo coloro che, abbandonando saccenteria ed arroganza, vogliono superare la situazione di stallo in cui si trova la costruzione

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 europea e intendono effettivamente radicare l’Europa nella coscienza dei popoli, così che - fiorendo - dia legittimità morale a carte e trattati, e procuri un orizzonte di senso ad una legislazione comunitaria che non si contrapponga artificiosamente alle tradizioni e alle culture delle nazioni, ma sia con queste in un rapporto di intelligente sussidiarietà. Osservava, nel suo recente viaggio in Francia, Benedetto XVI: «Quando il cittadino europeo vedrà e sperimenterà personalmente che i diritti inalienabili della persona umana, dal concepimento fino alla morte naturale, come anche quelli relativi all’educazione libera, alla vita familiare, al lavoro, senza dimenticare naturalmente i diritti religiosi, quando dunque il cittadino europeo si renderà conto che questi diritti, che costituiscono un tutto indissolubile, sono promossi e rispettati, allora comprenderà pienamente la grandezza dell’edificio dell’Unione e ne diverrà un attivo artefice» (Discorso all’Eliseo, 12 settembre 2008). 5. Le Giornate mondiali della Gioventù si sono rivelate nell’arco degli ultimi vent’anni un’indubbia risorsa di quella missionarietà che è dinamismo intrinseco di ogni vera ecclesiologia. Scaturite dall’animo contemplativo di Giovanni Paolo II, esse hanno aiutato non poco le comunità ecclesiali e le aggregazioni laicali a vivere questa delicata stagione senza assurde competizioni o malinconici ripiegamenti. Alla prova dei fatti, le Gmg sono risultate strumenti straordinari di una evangelizzazione che in partenza era ritenuta così ardua da non essere per taluni neppure tentata. Che esse poi si siano rivelate il segno dell’«alleanza tra Cristo e le nuove generazioni» - come ha affermato Benedetto XVI (Saluti all’Angelus, , 6 luglio 2008) - ci appare come una singolare correzione che la storia a volte riesce ad apportare a se stessa. Dalla «morte di Dio» al Dio che è radice della nostra gioia e fonte della nostra giovinezza: ecco un’indubbia parabola religiosa vissuta dall’Occidente nonostante difficoltà e contraddizioni, rispetto alla quale tuttavia va bandita qualsiasi tentazione trionfalistica. La più recente edizione di queste Giornate, che ha avuto luogo a Sydney nello scorso mese di luglio, aveva in sé tutti gli elementi di sfida tipici di questo genere di iniziative. Eppure è splendidamente riuscita, come molti di noi Vescovi possono testimoniare, avendo accompagnato e osservato da vicino i nostri giovani mentre interagivano con il «loro» Papa, e insieme con lui interrogavano la grande città super-moderna, simbolo di una forte secolarizzazione. E la città mondiale, microcosmo in cui si parlano duecento lingue, ha reagito dapprima con circospezione e infine arrendendosi allo spettacolo di giovani che “stranamente” non creavano

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 problemi, e con allegria contagiosa conquistavano la scena, mostrando in pubblico il mai visto. Preso in contropiede, lo scetticismo degli ambienti intellettuali è stato spazzato via tra entusiasmo e stupore. E da un certo punto in poi, la città-metropoli si è finalmente concessa ai giovani ospiti, estasiata e meditabonda. S’è trattato di una «settimana davvero memorabile», a giudizio del Papa (Saluto ai Volontari, Domain, 21 luglio 2008), e più precisamente di «un evento ecclesiale di carattere globale, una grande celebrazione della gioventù, una grande celebrazione di ciò che significa essere Chiesa, Popolo di Dio in mezzo al mondo, unito nella fede e nell’amore e reso capace dallo Spirito di recare testimonianza del Cristo risorto sino ai confini della terra» (Discorso di congedo all’Aeroporto di Sydney, 21 luglio 2008). 6. Il messaggio finale che Benedetto XVI ha affidato ai giovani è quello di «vedere i limiti di tutto ciò che perisce, la follia di una mentalità consumista» (Discorso alla Veglia, Sydney, 19 luglio 2008), e dunque di superare tante mitologie che, come «cisterne screpolate e vuote» (Omelia per la XXIII Giornata mondiale della Gioventù, Sydney, 20 luglio 2008) li lascerebbero inghiottire dall’ideologia relativista. Ma a questo approdo sono stati sollecitati attraverso la presa di coscienza della centralità dello Spirito Santo, che «è stato in vari modi la Persona dimenticata della Santissima Trinità» (Discorso alla Veglia, cit.). Diciamo che i lunghi mesi di preparazione, come le catechesi svolte dai Vescovi nei giorni iniziali di Sydney, a questo puntavano, dissodando il terreno per quell’«avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi” (At 1,8), che Benedetto XVI ha poi sviluppato da impareggiabile catecheta, facendo sì che queste parole fossero avvertite come «indirizzate ad ognuno». E così, come lui aveva anticipato parlando con i giornalisti a bordo nel suo stesso aereo, ha passato in rassegna «questa realtà dello Spirito Santo, che appare in diverse dimensioni»: operante nella Creazione, ispiratore della Scrittura, potenza indivisibile da Gesù, sostanza della Chiesa, e infine spinta nei fedeli «a portare compimento l’opera di Cristo (…) oltre le visioni parziali, la vuota utopia, la precarietà fugace» (Discorso alla Veglia, cit.). Rimarchevole è stata in quel raduno l’esperienza del silenzio, indispensabile affinché il raccoglimento entrasse nelle fibre e lasciasse traccia nelle coscienze. «L’amore di Dio può effondere la sua forza solo quando gli permettiamo di cambiarci dal di dentro – diceva il Papa nell’omelia della Messa conclusiva. - Noi dobbiamo permettergli di penetrare nella dura crosta della nostra indifferenza (…). Solo allora possiamo permettergli di accendere la nostra immaginazione e plasmare i nostri desideri più

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 profondi. Ecco perché la preghiera è così importante (…). Essa è pura ricettività della grazia di Dio, amore in azione, comunione con lo Spirito Santo» (Omelia, cit.). Il punto terminale della Gmg di Sydney ha coinciso con il punto di partenza per una nuova stagione di impegno, nella quale i giovani del mondo devono «trovare le parole adatte per annunciare Dio» anzitutto ai loro coetanei, e dunque «nei luoghi di studio, di lavoro o di divertimento» (Discorso alla Veglia di preghiera, Parigi, 12 settembre 2008). Ai giovani italiani presenti in Australia, come ai tanti coetanei che - attraverso l’intraprendenza dei nostri media - hanno seguito l’evento dall’Italia, tocca ora vivere l’eredità preziosa della Giornata mondiale della Gioventù, ossia «rimanere nel raggio del soffio dello Spirito Santo», come efficacemente ha spiegato il Papa stesso a un seminarista che lo interpellava durante l’incontro con il clero di Bolzano-Bressanone, il 6 agosto scorso. Ai loro animatori, come ai responsabili della Pastorale giovanile – cui va la nostra gratitudine per il lavoro svolto in occasione della Gmg – spetta il compito di non lasciar disperdere un vissuto straordinario, che deve diventare invece crogiuolo di crescita, anzi possesso perenne. Una «giornata non mondiale, ma sarda, della gioventù» si è nel frattempo svolta a Cagliari, con la desiderata presenza del Santo Padre, che ha aggiornato e specificato gli obiettivi di Sydney per le nuove generazioni dell’Isola (cfr Discorso ai giovani, Cagliari 7 settembre 2008). Così come ha prospettato a tutti i fedeli, riuniti nello «spettacolo più bello che un popolo può offrire, quello della propria fede» (Omelia sul sagrato del Santuario di N.S. di Bonaria, 7 settembre 2008), le mete di vita cristiana che sono conseguenti all’antica fedeltà al Vangelo che quell’amato popolo ha espresso dal tempo dei martiri fino ad oggi. 7. Ma c’è un’altra esperienza ricorrente nel ministero di noi Vescovi che merita di essere richiamata per il carattere emblematico che essa va assumendo, quella dei pellegrinaggi a Lourdes. Citiamo Lourdes per la coincidenza con il 150° anniversario delle apparizioni, che il Santo Padre stesso ha voluto onorare; ma nel nome della cittadina dei Pirenei vorremmo in qualche modo evocare tutte le altre località, non solo mariane, fatte meta di itinerari posti esplicitamente sotto il segno della fede e della rinascita spirituale. Sì, perché la dimensione del pellegrinaggio popolare, lungi dal rivelarsi obsoleta, sta in realtà conoscendo una stagione di sorprendente rilancio. Esito non di un marketing esasperato, ma di una richiesta pressoché spontanea, che le parrocchie e le diocesi intercettano, affidandosi poi in genere a enti e agenzie che adempiono il loro compito –

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 va detto – con professionalità e abnegazione, rispettando il carattere squisitamente spirituale che soggiace a tale domanda. Questa è espressione non di un monolitismo religioso attribuito ad altri tempi, ma è rappresentativa del frastagliamento tipico che l’atteggiamento verso il sacro ha assunto in questa stagione. Anzi, se una accentuazione c’è, è proprio nel senso che in queste iniziative, in mezzo a tanti fedeli «normali» di ogni età e condizione, è possibile incontrare persone in ricerca, tormentate, sofferenti, scettiche, ferite dalla vita, insomma un’umanità varia quale solo la Chiesa riesce a richiamare. Ogni volta si presenta agli occhi di chi guarda senza pregiudizi uno “spettacolo” che non si spiega, se non con il fatto che a Lourdes si trova qualcosa per cui vale la pena di andare, e di tornare. Qualcosa che non necessariamente è il miracolo sperato o già ottenuto, ma piuttosto la forza di andare avanti, un senso per cui valga la pena vivere. «Rimettersi completamente a Dio è trovare il cammino della libertà vera. Perché volgendosi a Dio, l’uomo diventa se stesso. Ritrova la sua vocazione originaria di persona creata a sua immagine e somiglianza» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione Eucaristica, Lourdes, 14 settembre 2008). Sono uomini e donne che vengono a domandare la speranza, quella che non si trova dietro l’angolo, nelle nostre città, e spesso neppure nelle nostre case. Lourdes è come la mano tesa di un mendicante, anzi migliaia, milioni di mani tese, spalancate. E il vero miracolo è che qualcosa infine stringono, queste mani. Come il rosario in pugno. E questo miracolo appare allora sulle facce che riemergono dall’acqua miracolosa o la sera escono dalla basilica. Volti di gente pacificata in quel «luogo di luce», in quella «straordinaria prossimità tra il cielo e la terra» (Omelia alla Processione aux Flambeaux, Lourdes, 13 settembre 2008). Se osiamo dirci esperti, lo siamo di questa umanità che, incontrandoci, ci rivolge un saluto, avanza un dubbio, talora un’imprecazione, alla ricerca di una mano a cui aggrapparsi, e infine si ferma e apre l’animo alla confidenza, a Dio, sostanza di ciò che si spera. Non però uno sbracciarsi verso mete lontane, ma già oggi il principio tangibile della promessa, che cambia la vita, e dà alle giornate un altro respiro. E quelle che sembravano tante monadi solitarie diventano un popolo vero, che chiede il rispetto della propria dignità agli occhi del mondo. Come lo chiede anche dinanzi a tesi impavidamente sostenute secondo cui, ad esempio, una certa riscoperta della dimensione religiosa starebbe, nelle nostre contrade, avvenendo attraverso non il «fatto» cristiano ma la mera declamazione socio-politica. Evidentemente talora si

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 parla di cose che non si conoscono, e per finalità probabilmente tutte interne alla polemica politica e culturale. 8. Questo lo diciamo perché sappiamo bene che resta aperto il problema di un certo sguardo laico sulla Chiesa, e di che cosa questo sguardo più ispido, tra altri sguardi, riesce a vedere in noi e nella comunità cristiana. Non ci sfuggono taluni discorsi. Se subito non reagiamo non è perché certe parzialità o l’ostinazione di taluni giudizi ci lascino indifferenti. Ovviamente ci interroga la dichiarata delusione di chi, dopo aver esercitato un’abile selezione tra le nostre parole e i nostri impegni, conclude che siamo inadempienti. Se normalmente non rispondiamo punto per punto, non è perché vogliamo mancare di attenzione all’interlocutore, ma piuttosto perché pensiamo che vi siano delle pre-comprensioni così ossificate che solo il tempo e, quanto a noi, gli spazi per un’ulteriore coerente testimonianza potranno allentare. Per ciascun uomo è in fondo consolante sapere, o almeno un giorno scoprire «che Dio non è suo nemico, ma il Creatore, pieno di bontà» (Benedetto XVI, Discorso alla Conferenza Episcopale francese, cit.) È invece sullo sguardo eccessivamente altalenante e, in ultima istanza, fin troppo pessimista che una certa Italia dedica al Paese intero che ci pare di dover dire una parola semplice e pacata. Ebbi già occasione di esprimere riserve su una singolare «pedagogia della catastrofe» (cfr Prolusione Assemblea Cei, Maggio 2008) che di tanto in tanto riaffiora da alcune analisi che imperversano sulla pubblicistica dell’ultima stagione. È una lettura dove non difettano gli elementi di sincerità, inseriti tuttavia in una trama troppo cedevole ad inflessioni che ci paiono senza respiro. Più che un Paese da incubo, il nostro è un Paese che ciclicamente conosce gli spasmi di un travaglio incompiuto, dove però i segmenti luminosi non mancano, e i punti di forza neppure. Non manca soprattutto lo sforzo diuturno di milioni di cittadini che, ogni giorno donato dalla Provvidenza, adempiono con dedizione e spirito di sacrificio il proprio dovere. Un Paese non si spezza all’improvviso, come non si costruisce dalla sera al mattino. Ci sono processi più lunghi, che infatti hanno bisogno di analisi puntuali e non sommarie, e di un piglio che nell’individuare i punti di debolezza li persegua con metodo, senza tuttavia abbandonare mai un’ottica d’insieme - comprensiva delle diverse sfumature - che ne stabilizzi le terapie. Tutti, credo, avvertiamo il bisogno di uscire dalle convulsioni di un certo ritardo sulla via della modernizzazione, ma lo si può fare se le libere intelligenze guardano costantemente al merito delle questioni, con autonomia e indipendenza. La stessa autonomia e la stessa indipendenza che noi

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Vescovi chiediamo in primo luogo a tutti gli analisti cattolici, perché il loro parlare sia sempre vero e, insieme, interprete di un realismo proporzionato ai fatti, e mai senza speranza. 9. Che poi ciascuna componente la nostra comunità nazionale si impegni a fare per intero il proprio dovere, guardando più ai propri obblighi che alle debolezze altrui, di questo oggi c’è veramente bisogno, se si vuole che il nostro amato Paese porti a compimento i processi di cambiamento in corso. L’esperienza, che ci viene dai contatti quotidiani, ci dice che la gente avverte sulla scena politica una certa voglia di fare, ad esempio per colmare gli scarti infrastrutturali e per risolvere alcune delle grandi emergenze aperte, ma per ora non si attenua quella percezione di impoverimento di cui s’è detto in precedenti occasioni. Nessuno evidentemente può ignorare le condizioni poste da una sempre più complessa crisi internazionale e dai suoi caratteri per lo più inediti, dovuti a una globalizzazione sostanzialmente poco governata. È indispensabile tuttavia che mentre positivamente ci si applica alla soluzione di alcuni importanti nodi, contemporaneamente ci si concentri sulle fasce più deboli, e sulle famiglie monoreddito che stanno reagendo come possono all’ondata di aumenti dei prezzi che nel frattempo non cessano di lievitare. Certo, ogni provvedimento di soccorso è utile, ma necessitano misure organiche che diano un minimo di serenità, consentendo ai nuclei famigliari di pianificare le loro prospettive di vita. Nel frattempo occorre tendere ad una maggiore equità sociale, sia verticale (tra redditi diversi) sia orizzontale (le famiglie dello stesso reddito ma con più figli devono pagare di meno). Resta intatta l’impressione che, se si disponesse di un sistema fiscale basato sul quoziente familiare, potrebbe determinarsi un circolo assai più virtuoso tra le famiglie e la società nel suo insieme, soprattutto tra l’oggi e il domani che è comune. Si sta procedendo, pare con maggiore serenità, verso un sistema più federalista, che faccia perno su processi decisionali più autonomi e responsabilizzanti. A nessuno sfugge la rilevanza anche culturale di questo passaggio che richiede una elevata capacità di previsione circa il congegnarsi efficace di meccanismi anche delicati. Non ci sono tuttavia toccasana prodigiosi: se si vuole che il nuovo assetto si riveli effettivamente un passo avanti, è necessario che ciascun ente si interroghi su come fare un passo indietro rispetto a metodi di spesa che saranno presto insostenibili. Così come è necessario che rimanga forte e appassionato il senso della solidarietà e della comune appartenenza ad un

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 solo popolo e alla sua storia, preoccupandosi e operando perché nessuna parte, rispetto alle altre, rimanga per strada. Scenari più sereni sembrano profilarsi pure sul fronte della giustizia, e noi non possiamo non incoraggiare un clima reciprocamente più comprensivo, che abbia come obiettivo la domanda, proveniente anzitutto dai cittadini, di una giustizia più tempestiva e funzionante. Sul fronte della scuola poi si stanno mettendo in campo innovazioni e recuperi volti a dare una maggiore credibilità ed efficacia all’istituzione e ai suoi operatori. Una parola di sincera e cordiale stima va a tutto il personale scolastico, a cominciare dai docenti per l’importanza e la nobiltà del ruolo che ricoprono a livello culturale, educativo e sociale. Ma anche qui pensiamo che la vera chiave di volta non potrà non venire dal riconoscimento del ruolo primario della famiglia, messa in condizione di scegliere all’interno di un sistema effettivamente paritario e integrato, in cui ad emergere siano le diverse opportunità in vista di abilità giovanili obiettivamente più apprezzabili. Più in generale, a proposito della famiglia, noi siamo profondamente persuasi con il Papa che, nonostante le «burrasche» che sono oggi da affrontare, essa è la «cellula primordiale (…), lo zoccolo solido sul quale poggia l’intera società» (Benedetto XVI, Discorso alla Conferenza Episcopale francese, Lourdes, 14 settembre 2008). Per questo sarà bene non dare per scontata la preparazione indispensabile per «difendere l’unità del nucleo familiare a costo anche di grandi sacrifici (…) perché l’amore vero non si improvvisa», specie in una stagione in cui «viene usato il termine famiglia per unioni che, in realtà, famiglia non sono» (Benedetto XVI, Discorso ai giovani, Cagliari, 7 settembre 2008). È sullo sfondo peraltro di queste sfide, ossia della capacità «di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica» che il Papa ha sollecitato il sorgere «di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile» (Omelia, cit., Cagliari, 7 settembre 2008), e che siano per ciò stesso ragione di vita e di speranza per l’intera società. 10. Il fenomeno dell’immigrazione resta uno degli ambiti più critici della nostra vita nazionale. Se fino a ieri eravamo giunti ad una presenza tutto considerato significativa di immigrati sul nostro territorio, senza spaccature sociali o situazioni drammaticamente fuori controllo, è perché alla prova dei fatti il temperamento del nostro popolo si lascia filtrare da una secolare cultura dell’accoglienza e di rispetto per il fratello - per quanto diverso - in difficoltà. Su questo fronte tuttavia nell’ultimo periodo

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 stanno emergendo qua e là dei segnali di contrapposizione anche violenta che sarà bene da parte della collettività ai vari livelli non sottovalutare. Vogliamo credere che non si tratti già di una regressione culturale in atto, ma motivi di preoccupazione ce ne sono, e talora anche allarmi, che occorre saper elaborare in vista di risposte sempre civili, per le quali il pubblico dibattito deve lasciar spazio alla ricerca di rimedi sempre compatibili con la nostra civiltà. Incessante peraltro è l’arrivo di nuovi irregolari, sempre nostri fratelli, che a prezzo della vita si accostano alle rive italiane, interrogando la nostra coscienza e inevitabilmente sfidando ogni volta le nostre potenzialità d’accoglienza. Su questo argomento, Benedetto XVI è ripetutamente intervenuto nelle scorse settimane con parole ferme e accorate (cfr Saluto dopo l’Angelus, Bressanone, 17 agosto 2008 e Castel Gandolfo, 31 agosto 2008), e con grande capacità di inquadrare il problema migratorio, con i suoi contorni epocali, all’interno di una visione umanistica irrinunciabile e in un contesto nel quale ciascuna delle parti interessate ha responsabilità e doveri. Su questo fronte sarà bene procedere – anche in un contesto europeo – cercando con impegno accordi di cooperazione con i Paesi di provenienza e volendo progressivamente guadagnare alla legalità situazioni irregolari compatibili con il nostro ordinamento, accettando di dare – appena vi siano le condizioni – risposte positive sia alle esigenze di una progressiva ed equilibrata integrazione sociale, sia alle domande di ricongiunzione familiare presentate nella trasparenza e per il benessere superiore delle persone coinvolte, oltre che della società tutta. Come Pastori, non possiamo tacere una forte preoccupazione di fronte ai frequenti episodi di violenza e di spregio della vita umana, che vedono spesso protagonisti dei giovani, perfino minorenni. Se da una parte misure e sanzioni adeguate sono necessarie in nome della giustizia e della sicurezza generale, dall’altra a nessuno sfugge che le radici di questa situazione, come la capacità di risposta, si pongono in modo più profondo e articolato. La violenza, infatti, nasce in ultimo dal vuoto dell’anima, dalla povertà di valori oggettivi e universali; vuoto che stravolge fino a sostituire ciò che è buono con ciò che non lo è, il giusto con l’ingiusto, il vero con il falso. Il singolo si sente consegnato solamente a se stesso, condannato ad un solipsismo che spesso si vorrebbe canonizzare come liberatorio sul piano etico, salvo pretendere poi di curarlo sul piano psicologico ed emotivo. Il tutto assume i connotati di una grave carenza rispetto al dovere educativo che, se da una parte si presenta oggi con i tratti di un’autentica e

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Atti della C.E.I. Settembre – Dicembre 2008 prioritaria urgenza, dall’altra costituisce la principale risorsa di un Paese che vuol guardare concretamente al futuro. 11. Questi mesi estivi sono stati segnati dalla vicenda di Eluana Englaro, la giovane lecchese che, per un incidente stradale occorsole sedici anni fa, vive in stato vegetativo conseguente a un coma da trauma cranico. La partecipazione commossa alla sorte di questa giovane, la condivisione e il rispetto per la situazione di sofferenza nella quale versa la famiglia, sono i nostri primi sentimenti. È una condizione, quella di Eluana, che peraltro interessa circa altri due mila nostri concittadini sparsi per il territorio nazionale. Per loro e le loro famiglie, come pure per altri malati gravemente invalidati, è necessario un efficace supporto da parte delle istituzioni. Non è questa la sede per richiamare l’iter abbastanza complesso che, rendendo questo caso emblematico, ha nel contempo evidenziato la nuova situazione venutasi a determinare in seguito a pronunciamenti giurisprudenziali che avevano inopinatamente aperto la strada all’interruzione legalizzata del nutrimento vitale, condannando in pratica queste persone a morte certa. Si è imposta così una riflessione nuova da parte del Parlamento nazionale, sollecitato a varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita che – questa l’attesa - riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche - di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza. Dichiarazioni che, in tale logica, non avranno la necessità di specificare alcunché sul piano dell’alimentazione e dell’idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Una salvaguardia indispensabile, questa, se non si vuole aprire il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per se stessi. Quel che in ultima istanza chiede ogni coscienza illuminata, pronta a riflettere al di fuori di logiche traumatizzanti indotte da casi singoli per volgersi al bene concreto generale, è che in questo delicato passaggio – mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico - non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano.

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La vita umana è sempre, in ogni caso, un bene inviolabile e indisponibile, che poggia sulla irriducibile dignità di ogni persona (cfr Benedetto XV, Discorso di saluto e accoglienza ai giovani, Sydney, 17 luglio 2008), dignità che non viene meno, quali che siano le contingenze o le menomazioni o le infermità che possono colpire nel corso di un’esistenza. Alla luce di questa consapevolezza iscritta nel cuore stesso dell’uomo, e che non è scalfibile da evoluzioni scientifiche o tecnologiche o giuridiche, noi guardiamo con fiducia alle sfide che il Paese ha dinanzi a sé, sicuri che il nostro popolo - con l’aiuto del Signore - saprà trovare le strade meglio corrispondenti alla sua voglia di futuro e alla sua concreta vocazione. Di tutto questo, come degli argomenti indicati all’ordine del giorno, discuteremo ora con franchezza e responsabilità, mentre ci affidiamo per il lavoro che ci attende alla Vergine Maria e ai nostri Santi patroni.

Angelo Card. Bagnasco

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ATTI DEL VESCOVO

Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

LETTERA AGLI INSEGNANTI PER L’ANNO SCOLASTICO 2008 -2009

Carissimi, in vista della ripresa dell’anno scolastico, vi scrivo anzitutto per ringraziarvi per il delicato ministero che svolgete con dedizione: la scuola, luogo di dialogo e d’incontro tra diverse generazioni e tra studenti sempre più di differente provenienza e cultura, è come un grande laboratorio ove voi contribuite a realizzare un profilo alto del confronto tra linguaggi, segni e significati, anche spirituali e religiosi, del patrimonio culturale, artistico, scientifico e tecnologico, di ieri e di oggi. Aiutate così i giovani ad allargare gli spazi della razionalità ed a trovare punti di riferimento per apprendere che cosa sia e che cosa significhi essere uomini. Siete insomma responsabili di persone che chiedono di essere introdotte nel sapere critico, ma contemporaneamente hanno sete di ragioni per vivere e di ideali sui quali investire la loro libertà: gli studenti ricercano qualificate presenze educative e compagni di cammino credibili per la loro passione per la vita, l’onestà intellettuale e la coerenza. Sentono la necessità di educatori che non rinuncino al loro compito soltanto perché difficile; di insegnanti che non si limitino alla fredda trasmissione del sapere, ma che sappiano inventare occasioni di discussione ed incontro, con la competenza di chi è esperto nel mestiere di vivere. In questo contesto, siete chiamati a testimoniare e documentare verità e valori che, radicati in natura, non contraddicono le esigenze della ragione umana, ma possono anzi illuminarsi attraverso il confronto critico con le varie forme ed espressioni del pensiero. Grava perciò sulle vostre spalle il peso maggiore dell’opera educativa: essa richiede sacrificio e amore, intelligenza, sacrificio e coscienza. Aprite dunque i saperi alla Verità che è Cristo: non chiudetevi nel perimetro dello scientismo delle discipline. Nella docenza cercate di approfondire le fondamenta culturali antropologiche e relazionali delle stesse. Con semplicità, ma con intensa passione e non poca preoccupazione, auguro a tutti voi di mantenere alta e lucida la stima per questa preziosa realtà, affinché ogni scuola sia realmente messa nella condizione di offrire il suo specifico e importante contributo alla promozione integrale della persona. «La sfida decisiva che abbiamo davanti è quella di costruire una scuola di tutti e per tutti, una scuola di qualità, capace di accompagnare i

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 nostri bambini e i nostri giovani nell’avventura della conoscenza e della crescita della loro persona», ha ricordato in questi giorni il Ministro della Pubblica Istruzione. Penso sia una sfida da raccogliere, nella certezza che l’educazione della persona e la formazione dell’autentica coscienza umana sono illuminate da Cristo e dal Suo messaggio d’amore. Per questo ritengo indispensabile sostenere con forza il primato della formazione e dell’educazione, per le quali anche la Diocesi e le parrocchie, che nei mesi scorsi hanno incoraggiato la nascita dell’Unione cattolica degli insegnanti medi, sono impegnate. Il desiderio di verità, di bontà, di bellezza che è nel cuore di tutti noi dice che è ragionevole e urgente cercare di dar vita ad una proposta educativa capace di indirizzare “verso l’oltre” l’intelligenza e la libertà di ognuno. La società complessa mette in evidenza che l’educazione non può essere perseguita solo dalla scuola, e tanto meno da singoli individui: essa è un’impresa comunitaria e il sistema educativo è una realtà nella quale interagiscono molteplici soggetti educanti, ciascuno con la propria originalità e il proprio ruolo: anzitutto, la famiglia e la scuola, ma anche lo Stato, le associazioni e le aggregazioni presenti sul territorio, la comunità ecclesiale e la Chiesa. Anche noi, infatti, desideriamo contribuire al processo educativo, nella consapevolezza, come scriveva il cardinale Ratzinger appena pochi giorni prima della sua elezione al pontificato, che servono “uomini toccati da Dio, perché Dio possa abitare tra gli uomini” (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, 2005). In questo nuovo anno scolastico che sta per iniziare, vi manifesto allora la mia vicinanza: durante il cammino che adesso riprende tra impegni ed incognite, incertezze e speranze, vi accompagnino la mia preghiera e benedizione e l’augurio di non scoraggiarvi mai di fronte alle difficoltà d’ogni giorno, e di trovare per contro in voi la stima e le energie utili a svolgere, con l’abnegazione di sempre, la non facile e fondamentale missione che vi è propria e dalla quale dipendono le sorti future dell’umanità.

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

LETTERA AGLI STUDENTI PERT L’ANNO SCOLASTICO 2008 -2009

Carissimi studenti, all’inizio del nuovo anno scolastico desidero porgere, a ciascuno di voi, il mio cordiale e premuroso saluto, per accompagnare i vostri passi e il vostro impegno in questa nuova e stupenda avventura, a volte piena anche di piccoli e grandi problemi, che ora ricomincia. Siete consapevoli di quanto sia importante partire con buona volontà, con il desiderio di sapere e la gioia di conoscere. Sapete quanto conti la reciproca accoglienza e la promozione responsabile di ognuno per la realizzazione del bene di tutti. Quanto sia essenziale il rispettarvi, il volervi bene, il saper prestare attenzione a chi, tra voi, sembra aver avuto dalla vita minori opportunità, ma in realtà ha la capacità di donare molto più di quanto ci si possa attendere. È l’esperienza della scuola, straordinaria palestra di vita dove si impara a relazionarsi con gli altri, con la cultura e la vita dei popoli, nello sforzo di comprendersi e generare un’umanità civile e responsabile. Tra i banchi vi saranno trasmessi i saperi in campo storico, filosofico, biologico, linguistico, matematico, artistico, tecnico: essi costituiscono una rete umana sapienziale e interculturale. Questa rete ci appartiene: è la casa comune degli abitanti della terra, fondata sul costante impegno di molti uomini e donne, di svariati Paesi in epoche diverse, nella ricerca della Verità che è Gesù di Nazareth, morto e risorto e venuto qui, tra noi, per dire che Dio è Amore e ci ama immensamente. Egli ci ha insegnato che la vita, con i successi e le sconfitte, i silenzi e le attese, i sospiri e i desideri, le aspirazioni e i sogni, è degna di essere vissuta con impavido fervore ed impareggiabile entusiasmo, donandoci con la fede la chiave d’accesso ai sentieri dell’esistenza rinnovata. È anche nello studio, carissimi studenti, il principio di questa vita nuova. In ciò che farete c’è la possibilità di essere e divenire competenti professionisti e, d’altra parte, modellare la civiltà dell’amore con i vostri coetanei e con l’ausilio, necessario e indispensabile, anzitutto degli insegnanti e delle vostre famiglie. Costruire una scuola palestra di fraternità diventa allora la vostra “mission”: vi auguro perciò di non sprecare le numerose possibilità che, quotidianamente, vi saranno offerte per crescere nella ricerca appassionata della verità; per imparare a ragionare con la vostra testa, senza lasciarvi

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 manipolare dai capi o dalle mode di turno. Non concedete nulla alla legge del branco, che fa di voi dei gregari: piuttosto, apprezzate la fatica di quanti vi hanno preceduto nel cammino della storia regalandovi il frutto delle loro riflessioni e della loro esperienza. Allo stesso modo, affrontate con coraggio la fatica necessaria per divenire persone del dialogo rispettoso e costruttivo con tutti, e perciò capaci di attiva e fattiva partecipazione alla vita comunitaria e aperti alla solidarietà universale. Cercate la compagnia bella, pulita, allegra e persino spensierata, fedele al punto da potervene fidare. Abbiate il coraggio delle grandi vette, anche a costo di corrispondenti sacrifici, gli stessi ai quali non vi sottraete quando, ad esempio, vi cimentate in competizioni agonistiche. Valorizzate al meglio i giorni della vostra giovinezza. Applicandovi nello studio per assicurarvi una preparazione professionale adeguata e gratificante, ma anche donando del tempo a coetanei diversamente abili ed a persone in difficoltà: non c’è gioia più grande di quella che germina dal dono di sé. Date senso al vostro vivere giovanile, anche nelle giornate tempestose. Ricordate che il senso del vivere val più del vivere ed aiuta a vivere anche quando si è tentati di lasciarsi andare alla deriva. Parlate, aprendovi alla confidenza, con chi vi è compagno autorevole di viaggio, come i genitori, gli insegnanti di grande personalità, gli animatori di vostra fiducia, i presbiteri di profonda sensibilità, e se vorrete anche con me, desideroso di poter essere vostro amico. Lasciate che il vostro mondo diventi il nostro, che a noi adulti sia possibile intercettare la vostra sensibilità, le vostre attese, le vostre problematiche. Potremo così, insieme, realizzare una vita di grande qualità, degna dell’essere giovani, divenendo costruttori di pace e di concordia e sradicando la zizzania di una cultura che snobba la vita. Di cuore vi benedico, e di cuore vi auguro un sereno e proficuo anno scolastico, da allievi della scuola di oggi, da cittadini e protagonisti del mondo di domani.

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA PER L’INIZIO DELL’ANNO PASTORALE 2008-2009 Chiesa Cattedrale, 6 Settembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, diletti presbiteri, nel mio cuore albergano sentimenti di lode e di gratitudine al Signore per la vostra numerosa presenza e per il dono che ciascuno di voi è per me! Avrei voluto dare inizio al nuovo anno pastorale l’8 di settembre, Festa della Natività di Maria, sia per dare rilievo, come lo scorso anno, al titolo della nostra Cattedrale, sia per porre l’anno pastorale che comincia sotto la protezione di Maria. Le circostanze non me lo hanno permesso, ma poiché la Vergine è presente in ogni Eucaristia, anche oggi ci guarda con particolare premura e ci incoraggia con le parole rivolte ai servi di Cana: “Fate tutto quello che Egli, il Signore Gesù, vi dirà!”. Maria, questa sera, rivolge il suo sguardo su di noi e sul mondo, attraversato da tensioni molteplici e gravi. Mi riferisco, in particolare, alla situazione del Caucaso, che ha messo in seria difficoltà le relazioni Est- Ovest, riesumando fantasmi che speravamo sepolti per sempre, ma anche ai fratelli cristiani che in India sono vittime di violenze e persecuzioni, ed alle tante guerre dimenticate ed irrisolte. Che cosa possiamo fare noi, di fronte a ciò? Il nostro primo compito è pregare. Offrire alla Madonna, per i tanti che vivono la brutalità della guerra, i nostri sacrifici, perché, nell’economia della grazia e della comunione dei santi, possa sollevarli dai gravissimi disagi vissuti. Pertanto, accogliendo l’invito della CEI, ho disposto che domani, domenica 7 settembre, sia per tutta la Diocesi una giornata di digiuno e preghiera, come segno di vicinanza spirituale e solidarietà ai fratelli e alle sorelle tanto duramente provati nella fede. La nostra sia una preghiera “vera”, semplice, diretta, venga da una stretta allo stomaco, da un brivido alla nuca, da una trafittura del cuore! Preghiamo per “mettere in ginocchio Dio Onnipotente” (San Vincenzo De Paoli) a favore di questi nostri fratelli! La Parola di Dio ci viene incontro in questa solenne concelebrazione presentandoci una pagina evangelica che ci invita alla comprensione reciproca, al perdono e alla correzione fraterna come frutto di un sincero amore. Sono gli elementi per costruire una vera comunione ecclesiale in ogni ambito (familiare, parrocchiale, scolastico ed ecclesiale). Abbiamo iniziato a leggere il capitolo 18 del Vangelo di Matteo, in cui è racchiuso il discorso comunitario ove vengono date le norme per la correzione fraterna ed il perdono. Ci troviamo dinanzi al cuore della vita

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 cristiana, religiosa, sacerdotale, che è la Misericordia di Dio; il perdono, che è la traduzione umana di quella che è la virtù divina della pazienza. Finalmente, dirà qualcuno, il Vangelo ci parla di qualcosa di facile e di piacevole: fare osservazioni, criticare. Non è forse questa una delle cose che ci riescono più naturali e a volte più gradite nella vita? Ma la verità è altra: la genuina correzione fraterna richiede libertà interiore e maturità, e proprio per questo è cosa assai rara. Prima di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli che è amato, nonostante tutto. Solo così chi ha sbagliato comprenderà il proprio errore, correggendosi. Impariamo a perdonare ed a compiere opere di bontà: è così che rendiamo migliore il mondo in cui viviamo. Bisogna “afferrare la verità con il manico della carità” (Don Cojazzi), convincersi che la via migliore è quella della virtù, del silenzio, della testimonianza. La santità della nostra vita può costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Chiediamo al Signore, allora, più che il potere di fare miracoli, la capacità di perdonare, il più grande dei miracoli: una comunità di amore è sempre una comunità di riconciliazione e di correzione fraterna. La comunione perfetta non è mai un felice possesso, ma una conquista continua, un dono da implorare dall’alto. Mi piace citare, al riguardo, un significativo pensiero del Servo di Dio monsignor Tonino Bello: “Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati. A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che anche tu abbia un’ala soltanto. L’altra la tieni nascosta: forse per farmi capire che anche Tu non vuoi volare senza di me. Per questo mi hai dato la vita: perché io fossi Tuo compagno di volo. Vivere è stendere l’ala, con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come Te! Ma Ti chiedo, Signore, anche per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi, per i voli che non ho saputo incoraggiare. Per l’indifferenza con cui ho lasciato razzolare nel cortile, con l’ala penzolante, il fratello infelice che avevi destinato a navigare nel cielo. E tu l’hai atteso invano, per crociere che non si faranno più”. Accanto alla correzione fraterna, il cristiano dispensa incoraggiamento: l’uomo attende dal suo prossimo qualcosa di diverso da un dono materiale; attende che l’altro gli si fermi vicino, che prenda contatto con lui, che si accorga che esiste, e ogni tanto glielo dica. Nulla è così incoraggiante come l’attenzione vigile e la inattesa parola di congratulazione, se non sono vuote formule di rito o espressioni convenzionali.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

Carissimi confratelli, cari fratelli e care sorelle: è questa la comunità, la Chiesa che dobbiamo essere, ancor più e meglio nell’anno pastorale che sta per iniziare, durante il quale il nostro cammino ecclesiale sarà agevolato da alcuni strumenti che orienteranno i nostri passi. Mi riferisco al decreto sulla celebrazione dell’eucaristia e degli altri sacramenti; al documento sulla materia amministrativa; al regolamento di curia e agli statuti del consiglio per gli affari economici e del consiglio pastorale, sia diocesani sia parrocchiali. Mi è cosa lieta, inoltre, annunciarvi che da oggi è attivo il nuovo sito internet diocesano, a cui si può accedere mediante l’indirizzo www.diocesicassanoalloionio.it, opera del prof. Zaccato che ha messo e metterà tutta la sua competenza e amore per la Chiesa e per la Diocesi. È veramente bravo! Grazie, professore! Il nuovo sito va ad affiancarsi al mensile “L’Abbraccio”: manifesto la mia gratitudine a tutti coloro che ad essi collaborano generosamente e con competenza. Carissimi, il Signore ci dona un nuovo tempo di grazia per crescere nella sua sequela. Sulla Sua Parola, come i primi apostoli, abbiamo voluto gettare le reti. Nel trascorso anno pastorale ci sono state offerte molteplici iniziative per alimentare il desiderio di formazione e di crescita che tutti abbiamo nel cuore. Oggi, con san Pietro, vogliamo fare la nostra professione di fede e di adesione a Lui: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!” Tu solo, Signore, puoi dare senso ai nostri giorni, alla nostra vita, alla nostra storia! Per questo vogliamo incamminarci nella conoscenza più approfondita del mistero di Gesù, perché è in Lui che siamo, ci muoviamo ed esistiamo; è in Lui che il Padre ci ha creati, chiamandoci ad essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore. Solo nel mistero del Verbo incarnato, infatti, trova piena luce il mistero dell’uomo. Da qui lo strumento di lavoro che oggi vi consegno. Vuole essere una pista di riflessione per le comunità parrocchiali, i gruppi ecclesiali e i movimenti e per quanti lo vorranno. Vuole essere un mezzo per favorire la formazione permanente, necessaria sempre, per tutti ed a tutte le età. Lo affido a voi perché sia letto, studiato, commentato; perché stimoli la riflessione e la preghiera, ma soprattutto la conoscenza e l’amore del Signore Gesù, temi che saranno ripresi ed approfonditi nel corso del Convegno diocesano incentrato sulla figura di Gesù, previsto per il 26 e 27 di settembre. Pure la mia seconda Lettera Pastorale, che sarà pubblicata e

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 diffusa subito dopo il Convegno, sarà dedicata alla figura di Gesù, fondamento della nostra vita. Vi invito perciò ad accogliere questo momento di grazia perché Cristo possa crescere in noi e trasformarci in Suoi autentici discepoli: «È solo Gesù Cristo che dobbiamo presentare al mondo. Fuori di ciò non avremmo nessuna ragione di parlare: non saremmo, del resto, per la nostra incapacità, neppure ascoltati», amava ripetere papa Luciani. Come lui, sia pur nella nostra modestia, anche noi siamo chiamati a dare la nostra testimonianza di discepoli di Cristo in un contesto culturale complesso, in cui l’eclissi del sacro e della religiosità sembrano essere il diritto e il rovescio della stessa medaglia. Si può così parlare di una “presenza- assenza” di Cristo: nell’ambito dei mass media, ad esempio, Gesù è certo molto presente. Ma se guardiamo all’ambito della fede vissuta, notiamo, al contrario, un’inquietante assenza, se non addirittura un rifiuto della Sua persona. In cosa credono, in realtà, quelli che si definiscono credenti? Il più delle volte, nell’esistenza di un Essere supremo, di un Creatore, di un “aldilà”. Questa, però, è una fede deistica, non ancora cristiana. Questa è religione, non ancora fede. Diverse indagini sociologiche rilevano questo dato di fatto anche in paesi e regioni di antica tradizione cristiana. Si ripete, su scala mondiale, quello che avvenne all’areopago di Atene, in occasione della predicazione di Paolo: finché l’Apostolo parlò del Dio “che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene” e del quale “stirpe noi siamo”, i dotti ateniesi lo ascoltarono con interesse; quando iniziò a parlare di Gesú Cristo “risuscitato dai morti”, risposero con un educato “ti sentiremo (…) un’altra volta” (Atti 17, 22-32). Eppure, nella Chiesa noi possiamo incontrare Gesù in un modo del tutto speciale e insostituibile. Il Signore è presente nell’assemblea liturgica che prega e loda; nel pastore della comunità; nei sacramenti, che comunicano la Sua vita; nella Sua Parola; nel pane e nel vino consacrati, che lo rendono presente in modo unico. Il Signore è presente nella vita della Chiesa: nella trama delle Sue relazioni interpersonali; nelle molteplici forme del suo servizio agli uomini, specialmente ai poveri; nei tanti incontri che costituiscono la vita di una comunità parrocchiale. Non vivere questa vita significa mutilare il nostro rapporto con Cristo, renderlo gracile, poco concreto, molto soggettivo e instabile. Al contrario, dobbiamo vivere la Chiesa, coinvolgerci, metterci in gioco; senza trionfalismi, consapevoli dei limiti

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 dei suoi membri (per questo esiste la correzione fraterna); ma anche coscienti che in essa è presente, vivo e attivo, il Signore Gesù. Tutti possiamo e dobbiamo ripartire da Cristo perché Lui stesso, per primo, ci è venuto incontro e ci accompagna nel nostro cammino di fede (cfr. Lc 24, 13-22). La nostra esistenza deve divenire ed essere proclamazione del primato della grazia; dobbiamo sforzarci di coscientizzare nel nostro intimo che senza Cristo non possiamo fare nulla (cfr. Gv 15, 5); tutto, invece, possiamo in colui che dà forza (cfr. Fil 4, 13). Ripartire da Cristo significa proclamare che la vita è sequela di Cristo. La sequela è risposta d’amore all’amore di Dio. Se «noi amiamo» è «perché egli ci ha amato per primo» (1 Gv 4, 10,19). Ciò significa riconoscere il suo amore personale con quella intima consapevolezza che faceva dire all’apostolo Paolo: «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20). Soltanto questa consapevolezza può aiutare a superare ogni difficoltà. I cristiani non potranno essere creativi, capaci di rinnovare la storia e aprire nuove vie di pastorale, se non si sentiranno animati da questo amore che rende forti e coraggiosi, che infonde ardimento e fa tutto osare. Occorre ripartire da Cristo per riscoprire la sorgente dell’amore che ci fa incontrare il prossimo. “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Il Signore ci invita oggi a riprendere il largo fidandoci della Sua Parola, nella consapevolezza che Lui ci ha chiamati e non ci abbandona. Ogni domenica il Cristo risorto ci ridà appuntamento nel Cenacolo, dove la sera del “primo giorno dopo il sabato” si presentò ai suoi per “alitare” su di loro il dono vivificante dello Spirito e iniziarli alla grande avventura della nuova vita. È così che Gesù Cristo diventa, per chi si definisce cristiano, «la chiave, il centro, il fine», «la fonte da cui promana tutta la grazia e tutta la vita», «il punto focale dei desideri della storia, della civiltà e del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza di ogni aspirazione». È così che Gesù Cristo diventa tutto per la nostra vita (Paolo VI). Sentiamo perciò di dover far nostre le esortazioni di san Paolo: bisogna che «sia formato Cristo in voi» (Gal 4,19), che «Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» (Ef 3,17), che camminiate in Lui «ben radicati e fondatii» (Col 2,6). C’è bisogno che Dio ci faccia «partecipi della sua santità» (Eb 12,10); che veniamo «rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore» (Ef 3,16). È quanto è stato seminato nel cuore dell’esistenza dalla rigenerazione operata dal Battesimo. Nella radice battesimale si colloca il fondamento della novità di vita di noi cristiani. Da qui scaturisce la chiamata alla santità che ci riguarda da vicino, in quanto abilitati e

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 impegnati a manifestare la santità del nostro essere nella santità di tutto il nostro operare, come espressione della nostra configurazione a Cristo nella ferialità della vita quotidiana. Senza di Lui non possiamo fare nulla; d’altra parte, non sono le opere umane che edificano nel mondo il suo Regno, ma il suo Spirito, che costituisce la Chiesa quale strumento di salvezza, la custodisce e l’aiuta perché, in fedeltà al suo Vangelo, annunci ciò che in lui si è compiuto. Ogni Chiesa e ogni credente, perciò, crescono nella gioia e nella speranza annunciando e vivendo il Risorto. Risvegliare quest’amore, dare speranza con una fede forte nell’Unico Signore che tutto questo promette e dona, è l’obiettivo primario che la Chiesa cassanese si prefigge; essa vuole fare proprio l’invito più volte ribadito dal Servo di Dio Giovanni Paolo II: “Duc in altum! Questa parola risuona oggi per tutti, ed invita a fare memoria grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirsi con fiducia al futuro: Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre”. Un cristiano è, fondamentalmente, uno che si è lasciato afferrare dallo Spirito di Dio. Per dirla con San Paolo, è uno che è stato toccato alla radice del proprio essere dal fuoco di un amore e che ha deciso seguire i passi di Gesù. Al di là dei discorsi e dei comportamenti, la fede è la storia di un’alleanza d’amore tra Dio e l’uomo. Giorno dopo giorno, la grazia di Dio e la libertà umana si coniugano, camminano insieme ed operano per inventare la risposta sempre nuova della fiducia. Portare il Vangelo, annunciare la Buona Novella è utile e indispensabile, purchè avvenga in modo efficace. Quante volte abbiamo sentito questo aggettivo far capolino nei discorsi di preti e laici, di giovani ed adulti. Efficacia: parola mitica che porta con sé il sogno di una soluzione magica, colpisce ed induce a scelte decise, determinate, coraggiose, diventando l’ingrediente principale per il successo della causa. Ma è proprio questo lo stile di Gesù? E’ questo quello che chiede ai suoi discepoli quando li chiama con sé? Domanda capacità gestionali, astuzia e prontezza nell’uso di mezzi ingenti, li mette alla prova per vagliare la loro abilità nel raggiungere il successo? Carissimi, solo coniugando i nostri rispettivi e complementari compiti di pastori, di religiosi e di laici, la nostra Chiesa sarà in grado di fare di Cristo il cuore del mondo. Valorizziamo allora tutti i doni che il Signore semina in questa nostra Diocesi. Promuoviamo le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata: al riguardo, vorrei ricordare sia l’incontro per le ragazze che manifestano segni di vocazione, programmato a

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

Mormanno nel pomeriggio del 18 settembre, sia la celebrazione che si svolgerà a Cassano il 29 settembre, per intitolare il Seminario al Servo di Dio Giovanni Paolo I ed affidarlo alle cure di don Alessio De Stefano, nuovo rettore, e di don Michele Munno, suo vice, e don Francesco Candia, economo. Colgo l’occasione per ringraziare di cuore i sacerdoti che, con generosità, hanno dato non solo un euro al giorno per il Seminario, ma molto di più, sostenendolo con la loro vicinanza e sollecitudine. E qui mi corre l’obbligo di esprimere sentimenti di gratitudine a monsignor Francesco Gimigliano per l’ottimo servizio reso con umiltà e discrezione. Voglio anche informarvi che alle quattro nuove comunità religiose femminili già presenti in Diocesi se ne sono aggiunte due maschili: i padri carmelitani a Francavilla Marittima (Padre Alberto, Padre Piter e Padre Anthony) e i miei confratelli del “Boccone del Povero” a Villapiana (per il momento, Padre Romano). a) Riprendendo il filo del discorso e tornando alla promozione delle vocazioni, vi anticipo che nell’arco dei prossimi dodici mesi saranno organizzati anche diversi incontri vocazionali per i ragazzi che hanno vissuto l’esperienza del campo vocazionale e per quelli che manifestino germi di vocazione. b) Accompagniamo con amore quanti il Signore ha chiamato e chiama al servizio nella Chiesa pure attraverso l’Ordine del Diaconato: il 16 settembre inizierà l’itinerario di formazione per coloro che, assecondando la divina chiamata, hanno presentato la domanda per il diaconato permanente. c) L’Ordo Virginum e l’Ordo Viduarum siano il segno della nostra particolare premura verso le donne che vogliano offrire al Signore il dono di sé, seguendo le indicazioni che ho elaborato e che presto vi saranno rese note. d) Formiamo e sosteniamo quanti mettono a disposizione il proprio tempo nelle Parrocchie come Catechisti. Favoriamo e orientiamo i passi di quei fedeli che vogliono vivere in pienezza il proprio battesimo nelle associazioni cattoliche, nei gruppi e nei movimenti ecclesiali. e) Guardiamo con attenzione al mondo della scuola, sostenendo non solo gli insegnanti di religione, ma tutti i docenti: sentano il peso della grave responsabilità a cui sono chiamati e lo assolvano con dedizione e scrupolosità, come ho esortato loro a fare nella missiva che, in vista dell’inizio dell’anno scolastico, ho inviato ad insegnanti e studenti. Spero, con il conforto dei sacerdoti, che al riguardo consulterò prossimamente, di istituire “il premio della bontà” tra gli alunni delle scuole elementari,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 medie e superiori che si siano distinti per atti particolarmente significativi di bontà rilevati dagli insegnanti e comunicati ad una commissione a ciò preposta. f) Mi piace rammentare, ancora, l’esempio dell’Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi (UCIIM), ai cui soci tra poco consegnerò le tessere: quest’associazione si propone la formazione morale e religiosa degli aderenti attraverso incontri di spiritualità, momenti di riflessione e studio; approfondimenti professionali pedagogico-didattico. In questo contesto, si colloca il convegno del prossimo 18 settembre sull’emergenza educativa. Carissimi insegnanti: siate lievito buono, fermento per questo delicato contesto che siamo chiamati a fronteggiare, soprattutto con l’esempio di una vita santa. Voglio ricordare anche il pellegrinaggio in Terra Santa, dal 22 al 29 ottobre; l’incontro di riflessione sulla nota della Conferenza Episcopale Calabra sulla mafia a novembre a cui interverranno il professor Mirabelli, ex presidente della Corte costituzionale, il giornalista Stella, del Corriere della Sera e Padre Rastrelli, Presidente nazionale dell’antiusura; il confronto sulla figura di Don Milani il 9 novembre (“Nessuno escluso: don Milani tra Chiesa, scuola e società”, interverranno il prof. Concistrè, il prof. La Valle, il prof. Viola e il prof. Di Matteo); il dibattito sugli insegnamenti di san Paolo con un vescovo che opera in Turchia (Monsignor Luigi Padovese) il 1° dicembre, ed altri incontri sui temi della famiglia, della catechesi e di figure di santi vissuti in Diocesi. Ho anche invitato il Cardinale Angelo Scola ad essere tra noi per celebrare la figura del cardinale Pietro La Fontaine, già vescovo di Cassano, in occasione del 125° anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Per l’occasione, su suggerimento del professor Enrico Cirianni, sarà inaugurato il Museo del libro e della stampa antica, allestito nei saloni della Biblioteca diocesana: qui sarà collocata una lastra marmorea in segno di omaggio e gratitudine a monsignor Andrea Mugione, mio illustre predecessore, per aver ristrutturato tali locali. Quest’anno è mia intenzione, anche, dare ancora maggiore rilievo alla festa di San Biagio, Vescovo e Martire, Patrono della nostra Diocesi: ho perciò invitato il Vicario generale ed il parroco della Cattedrale a voler incontrare i parroci di Cassano per organizzare qualche iniziativa, a livello puramente religioso, per dare grande solennità a questa festa. Mi piace condividere con voi, aggiungo, il desiderio di iniziare e di chiudere l’anno pastorale sotto lo sguardo materno di Maria. A tale proposito, con l’aiuto dei laici e dei sacerdoti di Cassano e Castrovillari, spero di poter dar vita

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 ad un pellegrinaggio dal santuario della Madonna del Castello a quello della Madonna della Catena, nel periodo compreso tra la celebrazione delle feste dei due Santuari, come segno di devozione e ringraziamento a Maria. Inoltre, lungo questo anno si terranno nelle nostre parrocchie alcune “Missioni popolari” per risvegliare la nostra fede e per preparare i cuori alla Visita Pastorale che – a Dio piacendo – inizierò l’anno venturo. Prima di concludere, mi preme altresì sottolineare che l’Azione Cattolica diocesana inizierà il suo cammino formativo l’8 ottobre, con un incontro al quale prenderà parte l’assistente nazionale, monsignor Domenico Segalini. E desidero anche rendere grazie al Signore per l’iniziativa dell’Adorazione Perpetua, portata avanti soprattutto dalle Comunità religiose della Diocesi che, anche per questo nuovo anno, si impegneranno in tale iniziativa. Voglio inoltre comunicarvi che ho nominato don Francesco Di Marco nuovo vicario della Parrocchia della Natività della Beata Vergine Maria, attiva in seno alla Cattedrale. Caro don Francesco: grazie per la tua disponibilità. Coadiuverai monsignor Silvio La Padula nel suo ministero e ti occuperai soprattutto dei giovani. Don Annunziato Laitano, a cui per il momento non ho conferito nessun incarico pastorale, resterà a Cassano e darà il suo contributo qui in Cattedrale e dove si renderà necessario. Infine, tra poco, in questa felice circostanza, conferirò il ministero dell’accolitato al nostro Pietro Groccia. L’Accolito è un discepolo chiamato ad approfondire il suo rapporto con Gesù attraverso l’Eucaristia. Egli aiuta il sacerdote e il diacono nelle celebrazioni e, in particolare, nella messa e nella distribuzione della comunione al popolo. Il ministero lo fa entrare in relazione con i deboli e i malati, cui trasmette l’amore di Cristo e della Sua Chiesa. Dall’Eucaristia, pane dei viandanti, l’Accolito è educato ad acquisire un profondo amore per il popolo di Dio, corpo mistico di Cristo. In conclusione, carissimi fratelli e sorelle, facciamo nostro l’invito di Sant’Ignazio di Antiochia a diventare «un coro» che canta «a una sola voce per Gesù Cristo al Padre». Ciò richiede solidarietà vicendevole, impegno a creare concordia, stima reciproca, obbedienza per l’unità. Non ci può essere nessuna autentica nuova evangelizzazione senza un radicale rinnovamento interiore; e non si deve dimenticare che annunciare Cristo è il compito primario della Chiesa, madre e maestra. La nostra Diocesi, ripartendo con rinnovato ardore da Gesù Cristo, intende “proseguire il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” (Sant’Agostino, De Civitate Dei, 51, 2), tra le

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 controtestimonianze dei suoi figli ma tuttavia fiduciosa nell’aiuto del suo Signore e dello Spirito di Dio che la sospinge e la invita ad incamminarsi senza timori nella società del terzo millennio. Questa sicurezza ci dispone ad operare i cambiamenti necessari, nell’ambito pastorale e nelle forme di evangelizzazione, e ad assumere iniziative utili all’annuncio del Vangelo per instaurare nell’oggi l’auspicata civiltà dell’amore. A tutti i sacerdoti, soprattutto coloro i quali si sono mostrati rapidi e zelanti nel servire con amore il santo popolo di Dio, rivolgo un ringraziamento per il bene che hanno fatto e per quello che faranno nel seguire con amore e speditezza le linee che ho tracciato. Di cuore un sentito grazie formulo pure ai maestri Saraceni e Ciappetta ed a tutto il nostro coro diocesano, per l’impegno profuso e per quello che profonderanno nell’abbellire ed impreziosire ancor più la nostra Liturgia. Ti benedico, Signore, per questo santo popolo che hai voluto affidare alle mie cure pastorali! Donaci di camminare insieme, nella stessa fede, sui sentieri della comunione e della speranza, verso il Santo Volto di Gesù tuo Figlio! Al Signore che ci precede, ci accompagna, ci segue e ci permette di superare individualismi, resistenze, scoraggiamenti, affidiamo ogni nostro proposito in questo anno pastorale che inizia, nella certezza che il suo Spirito abbellirà la nostra Chiesa con la sua fantasia divina e darà senso compiuto alla nostra vita. Amen.

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

INTERVENTO AL CONVEGNO NEL RICORDO DEL 50° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI “DON CARLO DE CARDONA” Morano, 20 Settembre 2008

La fama di don Carlo De Cardona, personaggio sponsorizzato anche da “Comunione e Liberazione” dopo che don Giussani individuò nel sacerdote calabrese una sorta di antesignano del suo Movimento, mi ha reso attento a quanto gli illustri Oratori hanno proposto sulla sua figura. Io li ringrazio sentitamente, insieme con tutti coloro che in qualunque modo hanno voluto ed organizzato questo Convegno, perché per tutti è doveroso fare memoria di chi ha illustrato così tanto questa nostra terra; ma lo è ancor più per me, chiamato a guidare la gloriosa Chiesa di Cassano all’Ionio in questo scorcio del nuovo Millennio, quando la lezione del Sacerdote di Morano s’è fatta - direi - ancor più urgente. Di essa infatti hanno ora bisogno non solo i politici, perché imparino a volare più alto, così da decifrare negli orizzonti della storia i tornanti del futuro ed adeguare i progetti allo sviluppo possibile, senza moltiplicare ancora le già numerose “cattedrali nel deserto”, squallidi monumenti di sperpero di risorse ed incentivo all’arte dell’arrangiarsi; ma l’intero popolo calabrese, perché non potrà mai esserci il decollo della Regione, finché la popolazione resta ancorata nella passività e si lascia ammaliare dagli interessi immediati, o, peggio ancora, resta irretita nei circuiti asfissianti della ‘ndrangheta e dei suoi non pochi derivati; e persino la Chiesa, che non deve presumere di sostituirsi alle Istituzioni laiche, ma non deve neppure stare a guardare “nel silenzio”, come uno di quei “cani muti” contro cui don Carlo tuonò più volte con energica passione. Abbiamo sentito ricordare come don Carlo sia stato indubbiamente un “pioniere” del “Movimento cattolico” in Calabria, in quanto egli seppe promuovere nella provincia cosentina un risveglio socioeconomico, che parve al papà di Papa Montini (venuto qui per promuovere l’Opera dei Congressi) del tutto “prodigioso”, quasi alla pari con le realizzazioni delle migliori regioni del Nord. Così pure abbiamo sentito sottolineare la sua funzione di “leader”, che con le sue documentate battaglie contribuì ad elevare il clima politico globale della nostra Provincia, dove per questo s’affermò, dopo il “Ventennio”, la “leadership” di tutti i Partiti democratici (con i vari Cassiani, Misasi, Antoniozzi, Mancini, Gullo ecc.). Ma dobbiamo approfondire un ulteriore aspetto del suo operato: quello cioè di

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 vedere in che misura la sua figura contribuì a modificare la tipologia del “prete calabrese” sino ad allora prevalentemente “uomo del sacro”, e poi diventato solidale con operai e contadini (si dovrebbero ricordare i vari don Francesco Cozza, don Ciccio Pizzuti, don Francesco Gullo ecc.), fino a non disdegnare ruoli socio-politici pubblici, come nel caso di don Luigi Nicoletti, che fu persino Segretario provinciale della Democrazia Cristiana! Ebbene, mi sembra di poter affermare che don Carlo abbia realizzato tutto questo in quanto nella sua vita egli fu prima di tutto un autentico “profeta”. Il ricorso a questa categoria assai più impegnativa è legittimato dal fatto che egli accettò con encomiabile spirito di obbedienza di svolgere quel ruolo inusitato, solo perché così voleva Pietro, cioè Leone XIII con la sua enciclica “Rerum Novarum” del 15 maggio 1891. L’intervento, del Papa non inventò il ruolo, che le comunità cristiane d’Europa avevano qua e là fatto germogliare, come risposta alla deriva dalla fede per la “brama di novità”; ma fu la prima proposta luminosa di quella “dottrina sociale della Chiesa” che proprio da quegli eventi cominciò a crescere e complessificarsi, fino a diventare un corpo rispettabile di principi, a cui si può continuare ad attingere anche oggi, se non si vuole naufragare tra Scilla e Cariddi, cioè tra socialismo e liberismo, ora nel segno della globalizzazione, che ci sta regalando, ahimé!, una pericolosissima “recessione” economica mondiale. Questo illustre “figlio della nostra terra”, gloria del Clero cassanese, sposò tale ruolo con assoluta dedizione, incoraggiato in questo dalla lungimiranza dell’arcivescovo Camillo Sorgente, ed assecondato subito dai molti semplici contadini ed artigiani, mentre si sviluppò furiosa la reazione del notabilato, che dall’opera decardoniana si vedeva scalzato dai suoi atavici privilegi di dominio pressoché universale. La preparazione culturale sia filosofica che sociologica del De Cardona era stata seria e robusta, cosicché egli era ritornato in Calabria con idee chiare. Taluni lo hanno soprannominato “il don Sturzo della Calabria”. Ed egli poteva diventarlo effettivamente, se avesse scelto – come il prete di Caltagirone - di spaziare dentro i sublimi principi della sociologia; ma don Carlo preferì il cammino “induttivo”, cioè costruire una società cristiana dalla base, camminando insieme con i contadini e gli artigiani del cosentino, per cui egli appare come uno che ha costruito se stesso insieme con la popolazione, liberandola col suo impegno ardimentoso dalla miseria, ed educando l’umile gente a fare progressi da gigante (esemplare per esempio il sarto Federico Sorbaro, assurto a “giornalista” capace di

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 intervenire persino sulle pagine de “l’Osservatore Romano” con una intelligente satira contro il Fascismo). Il sentiero tracciato dall’azione decardoniana si snoda perciò come un sentiero “profetico”: egli non solo indicava la “via” da seguire, progettandone i diversi tratti, l’uno dopo l’altro, sino a pervenire con le “Leghe bianche” e con l’orditura delle “Casse rurali al cambiamento radicale del panorama politico, non più massonico ma diventato finalmente cristiano; ma si poneva in prima persona alla guida del processo di rinnovamento, forte della fiducia in Dio e dell’obbedienza alla Chiesa, pagando un prezzo altissimo in termini di confino e di successive persecuzioni! Come è bella la testimonianza al termine della sua vita: “Ha maneggiato milioni e milioni; ma è morto così povero, da aver bisogno della biancheria donatagli dalle Suore Minime della Passione!”. Ci voleva dunque questo Convegno per mettere a fuoco questa figura esemplare di sacerdote cassanese, che ha profondamente segnato la storia della Calabria. Mi si consenta ancora qualche minuto per sottolineare alcuni passaggi della sua movimentata esistenza. Subito dopo l’ordinazione sacerdotale, mons. Di Milia vescovo di Cassano, comunicò a don Carlo che l’arcivescovo di Cosenza, mons. Sorgente, lo desiderava quale suo segretario particolare. Pareva una prospettiva di ministero “burocratico”; ma le mire del presule erano ben più importanti: l’avrebbe tenuto vicino per guidarlo e proteggerlo, ma l’avrebbe lanciato nel nuovo campo di lavoro: l’organizzazione del Movimento cattolico a Cosenza. La Calabria ne aveva urgente bisogno. Rileggendo alcuni editoriali dei giornali decardoniana, si può cogliere l’estrema miseria della nostra gente, costretta ad elemosinare persino il grano per la semina, da restituire poi in proporzioni assurde ai padroni usurai, per sentire quasi la eco del passo dell’Esodo, dove JHWH esprime la sua simpatia per gli ebrei schiavi dei lavori forzati: Mosè li avrebbe liberati! Così il panorama greve di un popolo “umiliato ed offeso”, senza guide capaci e quindi “come pecore senza pastore”, gridava al Cielo la propria angoscia, sperando un aiuto dall’alto! E i cosentini agli inizi del Secolo XX scorsero nel giovane prete di Morano più che un predicatore di sogni e un divulgatore di illusioni, un segno della Provvidenza per il loro riscatto. Lo comprovava l’ardore singolare che squassava il cuore di quel sacerdote che non disdegnava i paludamenti sacri, ma non aveva paura di sporcarsi le mani e la tonaca, per farsi contadino ed operaio, artigiano e giornalista, economista e predicatore convinto del verbo leonino: insomma in breve egli divenne un “punto di riferimento” per le masse, prima rassegnate e poi invece

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 trasformate dal prodigioso risveglio operato da lui in un esercito vittorioso. La pastorale sociale estrinsecata da don Carlo ruota decisamente attorno all’antropologia cristiana. Questa permette un discernimento dei problemi sociali, per i quali non si può trovare buona soluzione se non si tutela il carattere trascendente della persona umana, pienamente rivelato nella fede. L’azione sociale dei cristiani deve ispirarsi al principio fondamentale della centralità dell’uomo. Dall’esigenza di promuovere l’integrale identità dell’uomo scaturisce la proposta di quei grandi valori che presiedono ad una convivenza ordinata e feconda: verità, giustizia, amore, libertà. L’impegno di apostolato, per essere credibile ed efficace, deve produrre nella Chiesa e nei cristiani l’esigenza della testimonianza; non vi può essere frattura o contraddizione tra la fede cristiana e tutte le implicazioni che essa ha nella vita di ogni credente. La Chiesa e il cristiano sono portatori di luce, e la luce è fatta per illuminare: “Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa” (Mt 5, 15). L’impegno profuso da don Carlo, sponsorizzando le coordinate della modernità, seppe divulgare e trasmettere quella cultura orientata a costruire il modo di essere dell’uomo e della società, quella cultura che con tutte le sue interrelazioni e influenze è capace di creare una più elevata qualità della vita. C’è poi da apprezzare nel suo operato l’impegno a favore della giustizia sociale. Per don Carlo la questione sociale si chiama “questione meridionale” e più specificamente “questione calabrese”. Si tratta di una questione che ha investito specialmente nell’epoca in cui lui è vissuto complessivamente tutti gli aspetti della vita del popolo calabrese: dall’aspetto economico relativo al diverso grado di sviluppo tra Nord e Sud d’Italia, all’aspetto sociale riguardante le differenti condizioni di vita delle popolazioni meridionali, per finire all’aspetto morale legato a talune forme di comportamento e a talune manifestazioni di criminalità che costituiscono forti preoccupazioni sociali. In tale ambito, don Carlo si impegnò attivamente attraverso un efficiente servizio di credito bancario per porre rimedio all’angosciosa piaga cronica della Calabria: l’usura. Sempre in tale ambito è da leggere la sua partecipazione attiva alla vita politica del paese, perché considerava la politica alla stessa stregua della religione: mentre questa ha il compito di orientare le menti e la vita degli uomini verso le realtà trascendenti, quella era ed è il terreno fertile in

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 cui si esercitava una religiosità laica, a favore del popolo, soprattutto per i meno fortunati. Con l’avvento del regime fascista l’opera del De Cardona viene ad essere praticamente liquidata e lui fu costretto ad esiliare presso il fratello medico a Todi; inizia così la fase più travagliata e triste della sua esistenza durante la quale sperimenta forti delusioni e sofferenze. La sua intensa carica di testimonianza cristiana la vive anche e soprattutto nell’esperienza del dramma dell’esilio dal quale emerge la sua alta spiritualità, alimentata dalla preghiera e fondata sulla fiducia in Dio e sull’obbedienza ai superiori. E, questa, la più giusta e suggestiva analisi della vita intima di don Carlo, di una spiritualità che si è alimentata attraverso l’impegno nel mondo e si è irrobustita con le tribolazioni, le persecuzioni, l’essere stato dimenticato e persino condannato anche da coloro che, al contrario, avrebbero dovuto sostenere i suoi progetti o che da lui erano stati beneficati. Don Carlo è stato sempre sereno nelle più dure prove, accettò senza discutere la volontà di Dio, le decisioni dei suoi superiori e ogni altra prova; non a caso annotava nel suo diario: «O Signore (…) sono un caduto, un vinto, un fallito (...) Sii sempre benedetto. Sono felice se ti amerò davvero». E con più forza: «O Creatore, o Redentore, si compia in me esattamente, quel disegno, quel fine Vostro. Voglio essere quello che Voi voleste e volete che sia». Il progetto decardoniano è esemplare ed attesta il vigoroso nesso esi- stente tra santità ed azione sociale, una santità che è stata frutto di un forte legame con Dio e dell’attuarsi della proposta benedettina dell’ora et labora, grazie alla nitida spiritualità dell’azione. E’ indicativo, a riguardo, che don Carlo abbia detto senza mezzi termini: «noi che ci occupiamo di Casse Rurali e di interessi economici non abbiamo mai dimenticato di essere sacerdoti e discepoli di Cristo». Per concludere, ritengo a mo’ di riflessione personale che i preti – come don Carlo - a capo delle iniziative sociali e politiche cattoliche, in tutta coerenza con il “progetto leonino”, intendevano le loro funzioni di organizzatori politici e sociali non come una secolarizzazione del loro ministero sacerdotale o semplicemente un’assunzione di compiti ad esso estranei ma propriamente come un’espressione di tale ministero, un’estensione al campo politico e sociale dell’apostolato propriamente sacerdotale. Il prete sociale va ad accrescere la numerosa serie di figure presbiterali che la Chiesa ha conosciuto nel corso della storia, testimoniando così il perenne travaglio, più o meno faticoso nei diversi periodi storici, che caratterizza il ministero. Sicché lo studioso attento,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 riflettendo sui “segni dei tempi” e rifacendosi al magistero della Chiesa, perviene alla conclusione che non è difficile ammettere la possibilità che un progetto di ministero presbiterale, come quello “sociale”, sia legato all’intelligenza spirituale del Vangelo nella storia. E ciò nella consapevolezza da parte della Chiesa di essere chiamata a salvaguardare la dignità dell’uomo e di dovere accogliere il grido di allarme della questione sociale come attentato al Vangelo. Il cristianesimo, proprio perché religione, e religione d’ordine soprannaturale, offre una visione globale della realtà e non esclude, anzi sollecita, incoraggia un coerente e costante intervento nel sociale, laddove il comandamento evangelico dell’amore del prossimo può avere effettiva applicazione. La vita associata, come si deduce dalle fonti bibliche, dal magistero della Chiesa e da tutta la tradizione filosofica d’ispirazione cristiana, è un dato dell’ordine naturale, a cui l’uomo, come creatura divina, non può sottrarsi. Da qui l’obbligo morale del cristiano, dello stesso sacerdote, di essere “lievito e luce” nei rapporti sociali per concorrere al loro continuo miglioramento. È in questa ottica che, ritengo, sia giunto il tempo di riprendere la memoria di quest’uomo. Don Carlo De Cardona lascia un solco profondo nel movimento cattolico operaio e contadino, per tutto il ‘900 fino alle soglie del Concilio, emergendo ancor oggi, come autore e personaggio di riferimento, nel panorama politico e sociale calabrese. La sua dimensione umana e spirituale mostra altresì alle nuove generazioni che non lo hanno conosciuto, i valori etici e civili della nostra terra, valori che, senza incertezze ed equivoci, andrebbero integralmente riconquistati e fermamente salvaguardati. Grazie!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA PER LA FESTA DI P. PIO PARROCCHIA S. MARIA DELLA CONSOLAZIONE Altomonte, 23 Settembre 2008

Oggi è per me motivo di grande gioia essere presente in mezzo a voi, per celebrare insieme a voi questa Eucaristia nel ricordo del transito al cielo di San Pio da Pietrelcina. Saluto il carissimo don Giuseppe, don Vincenzo e il signor sindaco. Mentre avverto il paterno bisogno di salutarvi cordialmente nel Signore fonte e origine di ogni esperienza di santità, con cuore amico e fraterno sento il dovere di meditare con voi, sul valore di quella santità che san Pio ha perfettamente incarnato nella sua vita, e di cui il nostro tempo offuscato dalle nebbie che hanno inclinato la verità di Dio e la verità dell’uomo, sembra averne smarrito la memoria e il senso. Nel Vangelo di Matteo, che la liturgia della messa propria di San Pio, sottopone oggi alla nostra considerazione, ci viene offerta una delle rivelazioni più profonde di carattere cristologico: Gesù è Figlio eterno del Padre. “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra”. Con queste parole di lode e benedizione Gesù Cristo inizia la sua “confessione”, rivolgendosi al Padre. Esse esprimono chiaramente il riconoscimento del primato del Padre da parte del Figlio e evidenziano il carattere trascendente di Dio che è creatore di tutto quanto esiste. Ma, allo stesso tempo, Gesù si rivolge al Creatore dell’Universo con l’appellativo più intimo e immediato con cui mai uomo alcuno avrebbe osato rivolgersi a Dio: “Padre”. Il termine preciso in ebraico è “abbà”, che può essere tradotto come “papà”. Così, se da un lato Gesù ci manifesta la grandezza del Padre, la sua signoria e trascendenza, dall’altro egli ci rivela pure la sua vicinanza e la sua bontà. Il Dio che ci rivela Gesù Cristo è un Dio Padre nel senso più profondo e vero. Grazie a questa conoscenza reciproca che il Figlio dichiara di avere col Padre (nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio), Gesù Cristo può ben essere considerato, fuori di ogni dubbio, come manifestazione, “epifania”, del volto del Padre. L’oggetto della lode che Gesù rivolge al Padre: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra” (Mt 11, 25), sta in questo: “perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25b). Ciò che Gesù indica in modo indeterminato, usando l’espressione “queste cose”, è con ogni probabilità il piano divino della salvezza, il mistero del regno dei cieli che il Figlio è

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 venuto a instaurare sulla terra, ma che non è stato riconosciuto dai sapienti e dagli intelligenti del suo tempo. Questo mistero di salvezza è, invece, compreso da coloro che sono umili e semplici di cuore, i poveri di spirito (cfr Mt 5,3), che si pongono di fronte a Dio in atteggiamento di ascolto e di disponibilità, e lo riconoscono come Signore del cielo e della terra, come il padre da cui proviene ogni bene e ogni dono. In questa seconda categoria è da ascrivere sicuramente la figura di San Pio, che ha vissuto tutta la sua vita incarnando questo brano del vangelo che abbiamo ascoltato. Se tutto il mondo corre dietro a Padre Pio - come un giorno “correva dietro” a Francesco d’Assisi - è perché intuisce vagamente che non sarà la tecnica con tutte le sue risorse, né la scienza con tutte le sue promesse, a salvarci, ma solo la santità. Che è poi, come dire: l’amore”. Il desiderio di imitare Cristo, fu in padre Pio particolarmente vivo. Docile fin da fanciullo alla grazia, già a quindici anni ebbe da Dio il dono di veder chiaro nella sua vita. Ricordando quel periodo, egli ci narra: “Il posto sicuro, l’asilo di pace era la schiera della milizia ecclesiastica. E dove meglio potrò servirti, o Signore, se non nel chiostro e sotto la bandiera del poverello di Assisi? . . . Che Gesù mi faccia la grazia di essere un figlio meno indegno di san Francesco, che possa essere di esempio ai miei confratelli”. E il Signore lo esaudì, possiamo dire, oltre le sue stesse aspettative. Difatti, come religioso, visse generosamente l’ideale del frate cappuccino, così come visse l’ideale del sacerdote. Per questo, egli offre anche oggi un punto di riferimento, poiché in lui trovarono una particolare accoglienza e risonanza spirituale i due aspetti che caratterizzano il sacerdozio cattolico: la facoltà di consacrare il corpo e il sangue del Signore e quella di rimettere i peccati. Non furono forse l’altare e il confessionale i due poli della sua vita? Questa testimonianza sacerdotale contiene un messaggio tanto valido quanto attuale. Alla luce di quanto affermato, desidero mettere in risalto e proporre la sua spiritualità, come possibile “vaccino” all’orgoglio umano e alla deriva della fede che caratterizza i nostri giorni. L’immagine che del Santo del Gargano conserva chi realmente lo ha conosciuto non è quella costruita dalla cronaca miracolistica o scandalistica, ma quella di un “povero frate” che, sia che si trovasse “sull’inginocchiatoio o sull’altare, nella chiesa o nella cella, trascinandosi per il corridoio o per i viali dell’orto cappuccino, con le mani raccolte o sgrananti la corona, aveva come suo continuo riferimento il

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 mondo del soprannaturale. Il suo mondo era Dio: da contemplare, da lodare, da implorare, da propiziare. La sua era, più di tutto, una vita di preghiera, di ininterrotto filiale colloquio, dolce e ostinato, con Dio”. Ed è questo intimo dialogo con il Signore che fonda l’amore, il rispetto e la venerazione di questo Santo verso la Chiesa, amata come “una madre a cui non si presenta mai il conto”, come piaceva ripetere all’indimenticabile Cardinale Luigi Traglia, amato Vicario di Roma. Padre Pio definiva la Chiesa “nostra tenerissima madre” nel cui seno il Cappuccino di Pietrelcina voleva restare per sempre e comunque. Anzi, si potrebbe dire che era la sofferenza a far vibrare nel suo cuore un amore viscerale per la Chiesa, per il Papa, per i vescovi, i presbiteri e i religiosi e la comunità cristiana tutta. È nel periodo dell’esilio, del divieto di celebrare l’Eucaristia in pubblico e di confessare che Padre Pio dà prova di un amore “cieco, obbediente, silenzioso ed umile” verso la sua “santissima madre” che è la Chiesa. Ora che il giudizio della Chiesa ha proclamato la santità di Padre Pio, proponendolo come modello insigne di santità evangelica, non possiamo non sentire la forza veritativa delle parole pronunziate dal Servo di Dio Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione: “Non meno dolorose, e umanamente forse ancora più cocenti, furono le prove che dovette sopportare in conseguenza, si direbbe, dei suoi singolari carismi. Nella storia della santità talvolta accade che l’eletto, per una speciale permissione di Dio, sia oggetto di incomprensioni. Quando ciò si verifica, l’obbedienza diventa per lui crogiuolo di purificazione, sentiero di progressiva assimilazione a Cristo, rinvigorimento dell’autentica santità”. E nel discorso per la canonizzazione lo stesso Sommo Pontefice aggiunge: “Non valsero a frenare questo suo atteggiamento di filiale obbedienza momentanee incomprensioni con l’una o con l’altra autorità ecclesiale. Padre Pio fu, in pari misura, fedele e coraggioso figlio della Chiesa”. Questa intima ed amorosa partecipazione al corpo mistico di Cristo fu per padre Pio l’origine della dedizione e disponibilità nei confronti delle anime, di quelle soprattutto impigliate nei lacci del peccato e nelle angustie della miseria umana. L’umile religioso accolse con docilità l’infusione di quello “spirito di grazia e di consiglio”, del quale parla il Concilio stesso, quello spirito cioè che deve consentire al pastore di anime di “aiutare e governare il popolo con cuore puro” (cf. P.O.7). Egli si impegnò in particolare - secondo un altro insegnamento conciliare (cf. P.O.9) - nella direzione spirituale,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 prodigandosi nell’aiutare le anime a scoprire ed a valorizzare i doni e i carismi, che Dio concede come e quando vuole. Anche questo può essere un esempio per molti sacerdoti e laici a riprendere o a migliorare un “servizio ai fratelli” così legato alla loro missione specifica, che è sempre stato ed ancor oggi dev’essere ricco di frutti spirituali per l’intero Popolo di Dio, soprattutto in ordine alla promozione della santità e delle sacre vocazioni. Infine, dal momento che verrà collocata una reliquia del Santo del Gargano, ritengo utile offrirvi alcune utili riflessioni sul valore e il significato delle reliquie. La pratica di conservare e venerare i resti dei propagatori della fede, ma anche di cristiani esemplari, nasce nel clima dei primi secoli dell’esperienza comunitaria che associava alla memoria di Cristo quella di tutti coloro che nella storia del cristianesimo si sono distinti per particolari ed eroiche virtù. Il Concilio Vaticano II accennando brevemente alla venerazione delle reliquie dei santi ne sottolinea il significato: “I santi sono venerati nella chiesa, secondo la tradizione, e le loro reliquie autentiche e le immagini sono tenute in onore. Le feste dei santi infatti proclamano le meraviglie di Cristo nei suoi servi e propongono ai fedeli opportuni esempi da imitare” (Sacrosanctum concilium, 111). La venerazione delle reliquie ha come unica giustificazione e scopo quello di rimandare a Cristo. Le sante reliquie provano che il corpo dell’uomo è chiamato alla risurrezione e alla trasfigurazione futura. La vita di santità non opera soltanto sull’anima del santo, ma anche sul suo corpo. Voglio ringraziare con voi il Signore per averci donato San Pio, per averlo donato, come esempio di virtù a questa nostra generazione. Nel suo amore a Dio e ai fratelli, egli è un segno di grande speranza e tutti invita, soprattutto noi sacerdoti, a non lasciarlo solo in questa missione di carità. La Vergine del Santo Rosario, alla quale fu tanto devoto, ci aiuti ad essere perfetti imitatori dell’unico Maestro: il suo Figlio Gesù. Amen.

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA PER LA PROFESSIONE SOLENNE DI FR. EMANUELE RIMOLI NELL’ORDINE DEI FRATI MINORI CONVENTUALI Chiesa S. Francesco di Paola Castrovillari, 27 Settembre 2008

Caro Fr. Emanuele, grazie per avermi invitato a presiedere l’eucaristia durante la quale emetterai la definitiva consacrazione al Signore,Reverendissimo padre Francesco, Custode-Provinciale, reverendissimo p.Paolo, carissimi genitori di Fr. Emanuele, gentile signor sindaco,Cari fedeli, cari confratelli, stasera mi trovo a casa. È una grande gioia essere qui questa sera, dopo il magnifico Convegno su Gesù nostra vita, per presiedere la celebrazione eucaristica durante la quale il nostro fratello Emanuele emetterà la professione perpetua, sarà cioè incorporato nel suo istituto religioso. Gioia perché i consacrati e le consacrate sono una preziosa e fedele testimonianza d’amore per Dio, per la nostra amata diocesi e per l’umanità intera. Per questo vorrei, anzitutto, esprimere loro il mio riconoscimento affettuoso e sincero. “Che sarebbe il mondo se non ci fossero i religiosi?”, diceva Gesù a Santa Teresa d’Avila. Cosa sarebbe stata la Chiesa senza il monachesimo nelle sue molteplici espressioni, senza Basilio, Agostino, Benedetto, Bernardo? E come sarebbe possibile pensarla senza Francesco d’Assisi, Domenico di Guzmán, Ignazio di Loyola, Angela Merici, Teresa di Gesù, Luisa de Marillac, Giovanni Bosco, il Beato Giacomo Cusmano, il Beato Francesco Spoto, Armida Barelli, Madre Teresa di Calcutta, e senza i movimenti nati dalla loro esperienza spirituale? Paolo VI scriveva: «Senza questo segno concreto, la carità che anima l’intera chiesa rischierebbe di raffreddarsi, il paradosso salvifico del vangelo di smussarsi, il sale della fede di diluirsi, in un mondo in fase di secolarizzazione». La persona che si consacra totalmente al Signore, come diceva San Bonaventura è resa “in un certo senso amica e sorella e sposa e in certo modo perfino madre di Cristo” (De Perfectione evangelica, Q. III, A. III, 10). Con la sua professione, fra Emanuele grida al mondo che ciò di cui ogni uomo ha bisogno, l’unica cosa di cui c’è bisogno, è Dio. E’ lui che ci salva dal male e rende la vita degli uomini veramente umana, vita da figli, da liberi figli di Dio. E’ Lui che dà solidità all’agire e speranza all’operare.

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È così che il consacrato indica come meta agli altri fratelli e sorelle, laici e chierici, la beatitudine definitiva che è presso Dio. Cosa vuol dire, per noi, che un giovane, questa sera fra Emanuele Rimoli, emetta la Professione perpetua? Significa dire “Amen” a Dio, e cioè che Cristo è tutto, è lo scopo della vita, è Colui al quale egli donerà per sempre tutta la sua persona. Sappiamo che l’”Amen” costa, che non basta averlo emesso una volta, perché bisognerà poi rinnovarlo giorno per giorno, nei momenti lieti come in quelli di difficoltà e di sconforto. Perché questo avvenga, non sono sufficienti le sole forze umane, ma occorre il dono della perseveranza, che Dio non nega a chi umilmente lo chiede. La perseveranza nella vita religiosa è la somma di tante altre piccole perseveranze: perseveranza nella preghiera, nella mortificazione, nell’apostolato, nel desiderio di giovare alle anime; perseveranza nella dolcezza di cuore, nella purezza dei pensieri. Colui che persevera in queste ed in molte altre cose cammina nella perfezione verso l’Amore e la santità, fa cioè una cosa grande agli occhi di Dio, poiché trasforma piccoli segni in un grande capolavoro, come un abile compositore che, col susseguirsi di piccole note, crea ammirabili sinfonie. Ciò che rende grande una cosa nella prospettiva del Signore è la carica d’amore che la pervade: Egli non ha bisogno dei nostri talenti, del nostro lavoro, del nostro attivismo più o meno qualificato, ma del nostro cuore. Oggi fratel Emanuele emette la professione perpetua, donandosi totalmente, “Totaliter mancipatur” (LG 44), per mezzo dei voti di castità, povertà e ubbidienza all’Ordine Francescano dei Frati Minori Conventuali, fondato dal Patriarca san Francesco. San Francesco è l’esempio della ricerca della vera beatitudine. È l’uomo della continua ricerca del Volto di Cristo, perché è l’innamorato di Cristo, nel quale trova luce e certezza. L’incontro con Cristo segna la sua vita, orienta le sue scelte, determina le sua esistenza; lo porta a vedere, intuire, penetrare, giungere fino alle profondità del mistero. La contemplazione del Verbo diventa in lui pienezza di partecipazione e di comunione con la Parola di Dio, fatto fratello nostro. Due sono i fatti che segnano e distinguono la vita di san Francesco, ambedue nella luce della contemplazione del Volto di Cristo. Il primo: dinanzi al crocifisso di san Damiano, vide il Cristo sanguinante e glorioso. Lo guardò, lo ascoltò con gli occhi pieni di lacrime,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 e allora dalla croce udí una voce, che per tre volte gli disse: «Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina». Le fonti riportano questa preghiera, ch’egli recitò in quell’occasione: «O Altissimo, glorioso Dio, / illumina le tenebre del cuore mio, / e dammi fede dritta, / speranza certa e carità perfetta, / senno e conoscimento. /Signore, ch’io faccia il tuo santo e verace / comandamento. Amen». Il Volto dell’Amore Crocifisso lo accompagnerà in tutte le future ascensioni. Gesù Crocifisso gli basterà, in Lui troverà ogni cosa. Passerà per città e campagne, predicando e piangendo: «L’Amore non è amato! Bisogna amare l’Amore! Gesù, l’Amore mio Crocifisso!» La sequela di Cristo Crocifisso diventerà in lui imitazione dell’Amato sino alla trasformazione nell’Amato. Il secondo episodio determinante della sua esistenza terrena si avverò nella solitudine della Verna. È giunta a noi l’eco della sua preghiera, prima delle Stimmate: «Rapisca, ti prego, Signore, l’ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia da tutto ciò che sta sotto il cielo, perché io muoia per amor dell’amor tuo come tu ti sei degnato morire per amore dell’amor mio» (FF 277). Alla Verna san Francesco capì che non avrebbe avuto il martirio del corpo ma l’incendio del cuore, che doveva trasformarlo in Cristo Crocifisso. La professione religiosa, con l’impegno dei tre voti, dunque, è una sfida al mondo. Rimane, anche oggi, un atto dal significato profondo, un segno di speranza in Dio che ci promette un futuro, anche se è al di là della nostra immaginazione. I voti sono il cuore della vita religiosa. Siamo chiamati a vivere nello stile di vita di Gesù, a prolungarne la vita facendoci poveri, casti ed obbedienti. Siamo esortati ad essere come Lui, perché Lui continui a vivere attraverso noi nella storia. I voti non sono astrazioni, ma vita divina in noi. Sono tre, ma indicano il tutto, perché prendono tutta la vita. Noi seguiamo i consigli evangelici per liberare le nostre mani (povertà), per liberare il nostro cuore e il nostro corpo (castità), per liberare la nostra libertà (obbedienza). Libertà interiore, liberi dall’avere e dai possessi, dal potere e dall’orgoglio, dall’amore egoistico e possessivo, dall’anarchia dei desideri. A riguardo mi piace citare una famosa frase dello scrittore russo Dostojevski tanto caro a Fr. Emanuele: “La bellezza salverà il mondo”. Si , è vera l’espressione, ma non la bellezza fisica, ma la bellezza interiore degli uomini salverà il mondo. E chi emette i voti intende liberarsi interiormente di tutti quei legami che non ci fanno volare nella via della santità: diventa bello dentro.

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Osserva Giovanni Paolo II, in VC 87, che «coloro che seguono i consigli evangelici, mentre cercano la santità per se stessi, propongono, per così dire, una terapia spirituale per l’umanità, poiché rifiutano l’idolatria del creato e rendono in qualche modo visibile il Dio vivente». In questa prospettiva, i voti religiosi rappresentano delle ali per volare, anziché dei pesi da portare, e generano la gioia e l’entusiasmo, come profezia di una vita futura. La vita consacrata diviene così totale donazione, paragonabile ad un autentico olocausto. Conformazione a Cristo vergine, povero e obbediente. Non uno spreco di energie umane, ma una risposta d’amore ed esultante gratitudine a Dio. Immersi nel mondo della permissività e del pansessualismo, questo giovane emette il voto di castità. Di santa Tecla martire, ha scritto san Giovanni Crisostomo: «C’era in lei anche la verginità: questa, a chi considera bene, sembra quasi un gran martirio prima del martirio». Come restar saldi nell’ impegno, se non si tiene acceso in cuore un grande amore per Cristo? Il bene è più difficile e costoso del male: vanno pertanto custoditi il cuore e i sensi perché è il nostro cuore che diamo a Dio, intero e indiviso. E nel mondo del consumismo, in cui niente ci si nega e moltissimo si spreca, che senso avranno le parole di San Nilo, per il quale «il religioso, che non possiede nulla, è aquila che vola a quote altissime e che cala dalle altezze a prendere cibo solo quando la necessità la costringe». In altre parole, occorre concedersi il necessario, astenersi dal superfluo, attuare non solo l’astensione, ma il distacco del cuore dai beni, per poter volare nelle altezze della spiritualità. Ma la sfida delle sfide è il voto di obbedienza, ovvero l’offerta a Dio dell’io, del noi. Fratel Emanuele promette ubbidienza ai suoi superiori locali, provinciali e generali, nel quadro di una regola che è ben più rigida delle leggi statali! Scusami, caro Emanuele; permettimi un interrogativo. Ti appellerai, domani, alla tua coscienza contro l’obbedienza? Al carisma personale? Alla corresponsabilità? La PO n.15 e la PC 5 uniscono l’obbedienza all’umiltà. Se non si è umili è impossibile obbedire. L’umiltà del cuore è inseparabile dall’obbidienza. Il mio augurio è che tu, caro Emanuele, possa ripetere sempre al Signore, con gioia ed entusiasmo: «Nella fedeltà è il mio amore… Eccomi! ». Invochiamo allora Dio con san Francesco d’Assisi: «L’ardente e dolce forza del tuo amore rapisca la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo; perché io muoia per amore dell’amor tuo, come tu ti sei

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 degnato di morire per amore dell’amor mio». Volgiamo i nostri cuori a Maria, la Virgo fidelis, sempre fedele alla Parola, allo Spirito, la cui risposta a Dio è stata la risposta per “eccellenza”, perché ci aiuti a scoprire e a vivere la fedeltà a Dio. La Madonna sia il tuo modello, il tuo sostegno, la stella radiosa che illumini il tuo cammino in ogni momento della giornata. Carissimo Emanuele, ti affido a Cristo, Via, Verità e Vita e primo consacrato del Padre. Vivi di Lui, vivi con Lui, vivi per Lui. È questo il progetto della vita consacrata, il “propositum”, come dicevano gli antichi: niente deve essere anteposto all’unico Amore, a Cristo; niente deve essere amato quanto Dio nè come Dio. Neppure del bene bisogna innamorarsi, ma solo e soltanto di Dio. Ti pongo sotto la protezione di Maria, la tota pulchra, la consacrata al Padre nel Figlio, la piena di grazia e di amore per Dio e per l’uomo, l’icona della vita consacrata. La Vergine, nella sua radicale obbedienza al Signore, è la più chiara testimonianza di quel che Dio può fare quando incontra una creatura libera di fidarsi di lui e dirgli il suo sì: che sia Lei a condurre la vita consacrata lungo i sentieri di questa nostra storia, perché tu possa pronunciare il tuo fiat, con il suo stesso slancio ardente e il medesimo cuore libero. Che la mia benedizione, che con immenso affetto impartisco a te, ai tuoi genitori, a voi qui presenti ed a tutti i consacrati e consacrate della nostra diocesi, ottenga dal Padre il dono d’un cuore grande, pieno di passione per Dio e di compassione per l’umanità. Amen.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA IN RICORDO DEL VIAGGIO IN CALABRIA DI SAN JOSEMARIA ESCRIVÀ PARROCCHIA S. MARIA DEL COLLE Mormanno, 28 Settembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, saluto e ringrazio p. Raffael Martinez della Prelatura dell’Opus Dei, il dott. Emanuele Pizzardo e il dott. Fabrizio Gaudio per aver organizzato questo lieto eventi in ricordo del viaggio in Calabria di San Josemaria Escrivà. Come nella parabola di domenica scorsa, anche oggi lo scenario naturale del messaggio religioso proposto da Gesù è ambientato in una “vigna”. Nel Mediterraneo la vite è coltura assai diffusa. La vite è segno del legame profondo di Gesù con i suoi (Gv 15, 1-7). Il vino attraversa l’Antico ed il Nuovo Testamento ed indica gioia, esultanza e banchetto escatologico. Indica anche il sangue per noi dato (Mt 26, 28). Alimento vitale e ragione di comunione profonda con Cristo e tra di noi. Nella parabola precedente “il padrone di casa”, proprietario della vigna, aveva assoldato degli operai estranei, perché andassero a lavorare nel suo podere: il popolo eletto era raffigurato negli operai chiamati alla prima ora del giorno. Oggi, invece, la scena si concentra su due tipi di lavoratori; essi sono entrambi figli dello stesso padre, proprietario della vigna. Qual è il senso della parabola raccontata da Gesù? L’uomo, proprietario della vigna, raffigura Dio stesso; la “vigna” indica il piano della salvezza che Dio sta realizzando nella storia del mondo e che è giunta ormai al suo epilogo finale con Gesù Cristo, Messia di Dio per la salvezza degli uomini. Chi sono i due figli? Essi incarnano anzitutto i comportamenti diversi dell’uomo dinanzi a Dio: uno di loro (“il primo”), interpellato dal padre, cioè da Dio, a parole risponde di sì, ma non esegue ciò che gli si è chiesto di fare e ciò che promette di compiere; l’altro invece (“il secondo figlio”) a parole e nella prima reazione si mostra disobbediente, ma poi, superando la propria reticenza, si pente di quanto ha detto e compie di fatto la volontà del padre.

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A molti antichi padri della Chiesa era caro leggere nei “due figli” le rappresentazioni dei due popoli: il popolo eletto ed il popolo dei gentili o pagani. San Girolamo, nel suo Commento al Vangelo di Matteo scriveva che la parabola è diretta ai giudei e ai gentili, ai peccatori e ai giusti. Anche Giovanni Crisostomo è sulla stessa linea. Ma la parabola dei due figli, più che raffigurare i due popoli (popolo eletto e pagani), è volto a rappresentare al vivo l’atteggiamento diverso dei farisei e dei peccatori. Il “primo figlio”, cioè quello maggiore, rappresenta i farisei; mentre il secondo figlio (il minore) raffigura i pubblicani e i peccatori. Una simile contrapposizione tra il primo e il secondo, più giovane, cioè tra i farisei e i peccatori, la ritroviamo nella grande parabola riportata da San Luca sul “figliol prodigo” (Lc 15, 11-32). I farisei, in un primo tempo, hanno risposto affermativamente e con riverenza all’appello di Dio (“Sì, Signore”), ma poi hanno negato nella pratica ciò che avevano accettato a parole. “È venuto Giovanni Battista (nella via della giustizia – afferma Gesù emettendo già un giudizio di condanna contro l’ostinazione dei farisei) e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, non vi siete nemmeno pentiti per credergli” (Mt 21, 31-32). Estendendo la risposta giusta dei farisei al loro atteggiamento pratico, Gesù ritorce contro di essi il loro stesso giudizio; mette a nudo tutta la loro incoerenza. Questa piccola parabola rivela inoltre che Dio è padre di due figli, cioè di tutti gli uomini, buoni e cattivi, giusti e peccatori. Dio vuole la salvezza di tutti. In ogni uomo si trovano presenti e operanti le due figure della parabola. Tutti abbiamo infatti sperimentato la tensione tra obbedienza e ribellione, tra bene e male. “Vedo le cose buone e le approvo – diceva già l’antico poeta latino Ovidio – ma seguo le peggiori”. Raccontano di un albergo degli Stati Uniti nelle cui camere il proprietario aveva fatto appendere questo cartello: “Se non potete dormire, non lamentatevi dei vostri cuscini ma esaminate la vostra coscienza”. “La coscienza è Dio presente nell’uomo” (Victor Hugo). San Paolo ha sperimentato il dramma della libertà umana, tesa tra evitare il male e compiere il bene: “Infatti, io non compio il bene che voglio ma il male che non voglio. (…) Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me” (Rm 7, 19.21); “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste” (Gal 5, 17). C’è nell’uomo il desiderio di attuarlo (cfr Rm 7, 19). A seguito della lacerazione del peccato originale e in conseguenza dei peccati personali, l’uomo vive questa lotta interiore tra bene e male. Un aspirante monaco quarantenne desiderava convertirsi. C’era chi, appellandosi al Vangelo di oggi, era favorevole all’entrata in convento, c’era chi, invece, diceva che non era possibile cambiare la mentalità di un quarantenne. La conversione a una vita nuova è grazia di Dio, alla quale non si deve resistere. Come finì la discussione? Accettarono il candidato, ma dopo un anno lasciò il monastero. Questo esempio ci aiuta a capire la parabola e ci pone una questione seria: la nostra conversione. Conversione che può avvenire in qualsiasi momento (Dante nelle sue note personali scrisse: oggi comincia una vita nuova). Mi piace ricordare (leggere) il detto di Dostoevskij, che i grandi peccatori hanno un cammino più corto verso Dio (Sonia in Delitto e Castigo). Ma la vita di ogni giorno non sembra confermare questo detto. Il Battista, Gesù e tutti i santi hanno predicato la conversione. San Luigi Gonzaga a sette anni promise a Dio la castità perfetta. Sant’Agostino a circa 30 anni, altri in punto di morte. Santa Teresina di Lisieux, cresciuta nel dialogo con Dio in una famiglia piena di fede, ha scritto: “Dall’età di tre anni, non ho negato nulla al buon Dio”. Normalmente la conversione avviene progressivamente. Possiamo confidare sulla “pazienza” di Dio, ma anche sulla nostra instancabile ricerca. Non è mai troppo tardi. Quaggiù siamo sempre in tempo a dare alla vita una sferzata. “Padre, non perdo mai la Messa la Domenica, dico le orazioni tutti i giorni, mattina e sera, porto al collo la catenina d’oro con una medaglia della Madonna. In chiesa accendo sempre una candela. Sono membro del consiglio pastorale” “credo di aver diritto ad un posto di riguardo quando ti raggiungerò, Signore! Mi dà fastidio che le prostitute e i peccatori mi passeranno davanti” (Ma ciò conta qualcosa agli occhi del Signore?). Il Signore non vuole una religiosità che si fermi al rito e alla devozione senza che questa trasformi la vita. Il Signore chiede l’autenticità, apprezza il figlio che dice: “Non ce la faccio, non ne ho voglia” e poi si sforza, rispetto all’altro che dice “sì” e non si schioda. Perciò Gesù loda quei pubblicani e quelle prostitute che hanno accolto la Parola calandola nella loro vita, facendola diventare conversione, cambiamento, ricerca.

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Non bastano le parole, non bastano segni esterni, ci vogliono fatti e cuore. La vera comunione ci porta ad avere gli stessi sentimenti e gli stessi atteggiamenti di Gesù. Avere un cuore che ama, che aiuta, che mette in secondo piano il proprio “io”. Il nostro “sì” a Dio deve essere sincero. Davanti a Dio non dobbiamo indossare il vestito del devoto, ma quello del “cercatore di Dio”, del discepolo che mendica dignitosamente senso e luce. Questo abito da “cercatore” ha indossato san Josemaria Escrivà, che in questa celebrazione vogliamo ricordare a cinquant’anni di distanza dal suo passaggio per la Calabria. Egli è stato un inquieto ricercatore della santissima ed imperscrutabile volontà di Dio. Spiegando la sua scelta di diventare sacerdote affermò: “Perché mi son fatto sacerdote? Perché pensai che in questo modo sarebbe stato più facile compiere la volontà di Dio che non conoscevo. Da circa otto anni prima dell’ordinazione la presentivo, ma non sapevo che cosa fosse, e non lo seppi fino al 1928. Per questo mi feci sacerdote”. Si rivolge a Dio e alla Madonna. Gli pare particolarmente appropriata l’esclamazione del cieco Bartimeo, che nel Vangelo invoca Gesù: “Signore, fa’ che io veda!”. E aggiunge: “Fa’ che sia, che si compia la tua volontà! Madonna mia, che sia!”. Il 2 ottobre 1928 il Signore risponde alle sue ripetute invocazioni. Nella quiete della stanza in cui sta svolgendo alcuni giorni di ritiro, nella casa dei Missionari di San Vincenzo de Paoli, a un tratto Josemarìa Escrivá “vede” l’Opus Dei. È un’ispirazione dettagliata, definitiva, precisa, che potremmo riassumere con le parole che pochi anni più tardi trascriverà in Cammino: “Hai l’obbligo di santificarti. Anche tu. - Chi pensa che la santità sia un impegno esclusivo di sacerdoti e di religiosi? A tutti, senza eccezione, il Signore ha detto: “Siate perfetti, com’è perfetto il Padre mio che è nei cieli”. Un ideale, un messaggio, allo stesso tempo altissimo e rivolto a tutti: uomini di ogni razza, lavoro, età. Lui dovrà essere il messaggero incaricato di ricordare a commercianti e operai, contadini e avvocati, farmacisti e professori, studenti e sportivi che Dio li aspetta proprio lì, nei loro impegni quotidiani. Non è vero quello che molti pensano: che l’impegno negli affari del mondo sia un ostacolo per vivere il cristianesimo. Se fosse così, solo i monaci andrebbero in cielo. No: Gesù, che per darci l’esempio ha lavorato per trent’anni in una bottega, vuole che tutti lo imitino, ciascuno al suo posto. Dio ha grande fiducia negli uomini: li tratta come figli, e dà loro il mondo in mano, come la vigna della parabola, perché lo lavorino e glielo

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 restituiscano migliorato. Questo lo diceva già la Bibbia, lo ripete il Vangelo da venti secoli: perché, allora, in tanti l’hanno scordato? Cari fratelli e sorelle, impegnamoci anche noi a rispondere di “sì” alla divina chiamata e lavoriamo con impegno nella vigna del Signore per edificare il suo Regno. Guidati dello Spirito del Signore riusciremo supereremo l’attrattiva del male e potremo gioire e gustare il bene. Dio ama coloro che dicono sì e fanno sì. Questo ci conceda il Signore anche per intercessione di san Josemaria Escrivà. Amen

 Vincenzo Bertolone

A ricordo di questa felice circostanza dedicheremo un ceppo che sorge sulle nostre montagne a san Josemaria Escrivà. Le montagne, le vette dei monti, già ci rinviano all’Autore di tanta bellezza, ci aiutano a sollevare lo sguardo verso le realtà del cielo. Il “segno” che faremo in memoria di san Josemaria sarà un’ulteriore richiamo dell’Eterno. Il Signore fa appello alla nostra vita attraverso la creazione e attraverso la vita esemplare di chi, come san Josemaria, ci ha preceduto nel cammino della fede ed ha vissuto in pienezza nella sequela di Cristo.

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CERIMONIA D’INTITOLAZIONE MONTE SAN JOSÈMARIA ESCRIVÀ Mormanno, 28 settembre 2008

Diletti confratelli, cari fratelli e sorelle, mi sia consentito, anzitutto, rivolgere un deferente saluto a voi tutti ed alle numerose autorità qui presenti oggi, su tutti il presidente dell’ente Parco del Pollino, Mimmo Pappaterra ed il sindaco, Guglielmo Armentano, È, quello odierno, un giorno di gioia, che ci invita alla riflessione. Il monte del Cerviero, che ha fin qui fatto parte degli ampi sguardi della comunità mormannese e della vita dei suoi figli e dei tanti che ogni anno scelgono le vette del Pollino come meta delle loro escursioni e vacanze, acquista oggi un nome diverso, un significato nuovo e più ampio. D’ora in avanti, infatti, esso ricorderà la figura e l’esempio di un santo, san Josèmaria Escrivà, fondatore dell’Opus Dei, i cui membri, servi della Chiesa, sono quotidianamente impegnati a vivere pienamente le proprie giornate cristiane nel mare senza sponde che è il mondo. E ciò sulla scorta degli insegnamenti del Fondatore della prelatura, che nel corso della sua esistenza terrena è stato un fedele discepolo del Signore ed è divenuto educatore e maestro di umanità. Il ricordo ancor vivo ed attuale di tale preziosa testimonianza sarà consegnato ai posteri, dunque, anche attraverso gli splendidi riflessi naturali di questo nostro monte. Il fatto che ciò avvenga, cari fratelli e sorelle, non sia considerato un caso. Il nostro santo, infatti, soleva prendere spunto, nella propria riflessione personale e nella sua conseguente azione quotidiana, proprio dal discorso di Gesù sulla montagna. Ripensando alle parole di Cristo ai discepoli, egli invitava infatti gli uomini e le donne di fede ad esser perfetti, come perfetto è il Padre celeste. «I tuoi talenti, le tue aspirazioni, i tuoi successi», soleva dire, «non valgono niente se non li metti a disposizione di Gesù Cristo. I tuoi pensieri, le belle avventure della fantasia, le tue nobili ambizioni umane, i tuoi amori puliti – aggiungeva - devono passare per il cuore di Cristo. Altrimenti, presto o tardi, caleranno a picco con il tuo egoismo». Queste parole di San Josemaría ben dipingono il suo animo, che come bimbo tra le braccia della madre, tutto si abbandona alla misericordia di Dio, consapevole della propria miseria, debolezza e fragilità, ma totalmente fiducioso nell’amore di Cristo che non abbandona mai i suoi figli.

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Tale verità fondamentale era ricorrente nella sua predicazione: egli esortava tutti alla vita interiore, cioè alla relazione con Dio e la vita familiare, professionale e sociale pur nella fragilità, che costituiva il segno di un’esistenza, “santa e piena di Dio”, da vivere seguendo le vie dell’ordinarietà, ma sulle tracce della santità autentica, per raggiungere il regno dei cieli custodendo il mondo e facendolo sempre più bello. Oltre ad essere un valido intercessore, san Josèmaria è uno splendido modello di uomo che ha saputo trasformare il lavoro in orazione e collaborare con Cristo all’estensione del suo Regno. La consapevolezza della filiazione divina in Cristo lo spingeva anzi a comunicare questa grande novella a tutte le persone che incontrava nel suo cammino terreno, incoraggiandole a percorrere le vie della santità. In altre parole, quella che Escrivá scorge e predica – non soltanto lui nel Novecento, ma certamente nessuno prima e più compiutamente di lui – è la necessità di estendere la piena titolarità dell’annuncio cristiano a ciascun membro del popolo di Dio. La situazione personale, spiega il santo, costituisce per ciascun battezzato il luogo vocazionale sufficiente, completo e preciso nel quale egli è chiamato a intrattenere il proprio rapporto con Dio e con gli altri uomini. Questo messaggio va colto fino in fondo, con coerenza, facendoci plasmare da esso, per essere così costruttori di una storia nuova, non demandando ad altri quello che siamo chiamati a vivere, a fare, ma entrando dentro le situazioni, anche le più piccole, irrilevanti, e vivendole in modo straordinario. Solo allora il Vangelo si farà cultura, luce e guida della nostra vita, nuovo linguaggio capace di attirare a sé gli uomini d’oggi! Questa è la forza del carisma di Escrivá. Come vescovo e pastore di questa chiesa, vi incoraggio allora a vivere questo dono, con slancio e generosità. Solo così, sull’esempio di san Josèmaria Escrivà, saremo dentro la storia, come lievito che la fermenta e la fa nuova, donando ad essa pienezza di senso. Grazie.

 Vincenzo Bertolone

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INTITOLAZIONE DEL SEMINARIO DIOCESANO A “GIOVANNI PAOLO I” E CONSACRAZIONE DEL NUOVO ALTARE Cassano Allo Ionio, 29 Settembre 2008

Carissimi confratelli nel sacerdozio, miei carissimi seminaristi, carissimi fratelli e sorelle, diversi sono i motivi che oggi ci vedono qui riuniti: l’intitolazione del nostro Seminario al Servo di Dio Giovanni Paolo I, la consacrazione dell’altare di questa Cappella, l’inizio dell’anno scolastico e la festa degli Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Ringrazio il Rettore, don Alessio De Stefano, per le parole affettuose che mi ha rivolto all’inizio di questa celebrazione. Un primo pensiero vorrei rivolgerlo in particolare ai cari seminaristi. Nasce l’uomo e con esso nasce la fragilità, la contraddizione. Vi racconto una leggenda Indiana. “Quando il Signore decise di creare l’uomo, gli angeli si miseri in agitazione, non già per gelosia verso la nuova creatura, ma perché esse non potevano capacitarsi come Dio, somma perfezione e sapienza, si accingesse a volere dare vita ad un essere che sarebbe stato un miscuglio tra cielo e terra, fra il mondo superiore dello spirito e quello inferiore della materia. Per loro (gli angeli) era davvero impensabile l’esistenza di una creatura in termini di contraddizione: un pezzo di tempo incastrato in una vocazione eterna, infinito unito all’infinito, l’effimero unito all’esigenza di Assoluto. Secondo loro sarebbe stata proprio questa bipolarità o meglio doppiezza creaturale la causa futura di tanti disastri morali e sociali. Bisognava, dunque, fare qualche cosa per impedire a Dio di attuare tale progetto. Venne organizzato, per questo, un comizio angelico e si stilò una specie di ordine del giorno. Fu poi incaricato un cherubino a portare e sottoporre la contestazione angelica al grande Re del cielo. Dio ascoltò il resoconto, fattogli dal rappresentante ufficiale della famiglia degli angeli; anzi lodò il discernimento di quelle sue creature fatte di solo spirito, ma rispose alla obiezione: “l’uomo! La sua duplicità di natura gli farà certo commettere tante stranezze; ma io saprò ricavare il bene dal male: otterrò le mie vittorie attraverso le sue sconfitte”. Accettare gli uomini come sono e non già come dovrebbero essere, con tutti i loro difetti e manchevolezze, è un atto di fiducia nel trovare ben fatto tutto ciò che Dio permette. Non meravigliamoci di nessuna stranezza o fragilità umana.

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Costruiamo, carissimi giovani, il prezioso ricamo della nostra personalità. Ci si consacra a un “Dio non conosciuto”. Non ci si innamora di Cristo come unico essere che soddisfa alle proprie esigenze, come unico necessario, unico modello perfetto in un minuto (ciò capita a dei privilegiati, come Paolo). a) È necessaria una formazione umana, teologale, ecclesiale e missionaria; b) È necessario avere dimestichezza con la Sacra Scrittura; c) È necessario conoscere e vivere i le promesse di obbedienza, celibato e povertà; d) È necessario l’amore personale (è in esso che si comprendono le verità più decisive); e) Bisogna essere docili alla guida spirituale che è l’interpreti più diretto del Maestro divino; f) Bisogna costruire la vita fraterna (un carattere chiuso o indifferente è una spia che dice incapacità di vita e di collaborazione); g) È necessario l’esercizio delle virtù umane h) La vita di seminario non è l’accesso ad una vita facile e comoda, è accesso alla via della croce. “Dormivo e sognavo che la vita era gioia. Mi svegliai e vidi che la vita era servizio. Volli servire e mi accorsi che la vita era gioia”. Carissimi fratelli e sorelle, oggi celebriamo la festa dei Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Quale migliore inizio se non quello di mettere i nostri passi sotto la loro ala protettrice. Essi con la loro vicinanza rivelano il volto amico di Dio, attento e inseparabile nel nostro cammino di fede. Alla storia dell’umanità s’intreccia da sempre la storia invisibile e discreta dei loro interventi salvifici, che, dalle vive pagine della Scrittura, emergono con tale vivo realismo da infondere in noi la certezza della loro infaticabile benefica presenza. E come per Gesù, al quale siamo assimilati in virtù del nostro Battesimo, anche la nostra vita, dalla nascita alla morte, é guidata, confortata e protetta dalla presenza degli Angeli. Per questo vi esorto, cari giovani studenti, a iniziare questo nuovo anno, fiduciosi nella presenza di Dio, che con i suoi angeli si fa vostro compagno di viaggio. Mediante la loro presenza, Egli proteggerà il vostro, il nostro passo incerto, vegliando sui vostri studi e sul vostro cammino di fede.

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È lo Spirito che vi sollecita ad agire spinti dal desiderio di ricercare solo ciò che è bello, onesto, giusto, umile e buono. Che vi invita a fare della bontà, della chiarezza, della sincerità e del coraggio i pilastri dei vostri pensieri. Che vi insegna a non affrontare gli errori e gli insuccessi con rassegnazione, rabbia ed impazienza, ma a superarli con la pazienza, la tenacia e la saggezza di chi sa trattare allo stesso modo successi e sconfitte. Convinti che è lo Spirito di Dio che guida la nostra vita. Carissimi giovani, vivete questo tempo come un tempo di Grazia, durante il quale è bene coltivare relazioni autentiche e significative, ma pure per capire chi siete; come realmente il vostro essere si realizzerà in futuro e maturare la consapevolezza che tutto quanto farete nella vostra vita farà di voi delle piccole matite, destinate a lasciare delle tracce indelebili anche nella vita degli altri. Un pensiero rivolgo ora anche al rettore, al vicerettore ed a tutti i sacerdoti che daranno il loro contributo per la vostra formazione: con Dante, insegnate come l’uomo s’eterna, ovvero come egli si spiritualizzi, sottraendosi alla caducità della materia. Siate per questi giovani seminaristi come angeli custodi, attenti non solo a che abbiano un’adeguata preparazione culturale, ma soprattutto siate premurosi verso la loro formazione umana. La Chiesa, infatti, ha bisogno di uomini ben “strutturati”: costruendo un uomo buono si può sperare un giorno di avere un buon sacerdote. Fate capire loro che la Chiesa ha bisogno di uomini che non vivano l’ansia del domani o dell’oggi, che non abbiano complessi del passato, ma piuttosto sappiano dare il giusto valore e peso ad ogni momento che vivono nel presente, perché non sfugga loro nulla di veramente importante. Insegnate loro a non aver paura di cambiare, piuttosto ad accettare e assecondare quel cambiamento necessario che fa gli uomini migliori. Date loro il sapore vero delle parole, fatene gustare il prezioso valore, perché le sappiano usare con sapienza quando occorre, ma anche sappiano tacere quando a parlare deve essere il cuore. Fate capire loro che l’uomo è un essere sociale, non può vivere da solo; per questo la Chiesa ha bisogno di uomini che sappiano vivere insieme agli altri, lavorare insieme agli altri, ridere, amare, sognare e pregare con gli altri. Rendeteli, attraverso i vostri insegnamenti, uomini capaci di mettere in dubbio e in discussione le loro scelte, senza abbandonarsi alla crisi dell’indecisione o della fede, ma con la consapevolezza che solo con questo continuo e inquieto moto dell’anima si possono avere scelte più solide e radicate.

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Costruite fra queste mura uomini per la Chiesa che sappiano usare le mani, non solo per benedire, ma anche per indicare la strada da seguire. Uomini per la Chiesa e per il mondo che sappiano vivere di poco, ma capaci di fare tanto; uomini che abbiano il controllo sui momenti di crisi, non perché moltiplicheranno il loro lavoro, piuttosto sapranno gestire al meglio quello che hanno già. Infine guidateli a considerare con distacco ogni sapere intellettuale, perché ciò che rende un uomo un bravo sacerdote non è tanto la presunzione di sapere, piuttosto l’umiltà di annullarsi per lasciare che ogni giorno si rinasca nello Spirito; non è la conoscenza delle “cose” di Dio, quanto piuttosto il desiderio semplice e autentico, assoluto e incondizionato di amarLo, di essere unito a Lui, di essere unito fedelmente alla Chiesa, di ricercare e seguire la povertà e l’obbedienza di Cristo. L’umiltà può essere considerata anche – come ci ha ricordato ieri il Santo Padre Benedetto XVI durante la preghiera mariana dell’Angelus – il testamento spirituale del Servo di Dio Giovanni Paolo I a cui ho voluto intitolare questo nostro Seminario. Grazie proprio a questa sua virtù, bastarono 33 giorni perché Papa Luciani entrasse nel cuore della gente. Nei discorsi usava esempi tratti da fatti di vita concreta, dai suoi ricordi di famiglia e dalla saggezza popolare. La sua semplicità era veicolo di un insegnamento solido e ricco, che, grazie al dono di una memoria eccezionale e di una vasta cultura, egli impreziosiva con numerose citazioni di scrittori ecclesiastici e profani. È stato così un impareggiabile catechista, sulle orme di san Pio X, suo conterraneo e predecessore prima sulla cattedra di san Marco e poi su quella di san Pietro. “Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio”, disse in quella medesima Udienza. E aggiunse: “Non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma: si crede alla mamma, io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato”. Queste parole mostrano tutto lo spessore della sua fede. Mentre ringraziamo Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo, facciamo tesoro del suo esempio, impegnandoci a coltivare la sua stessa umiltà, che lo rese capace di parlare a tutti, specialmente ai piccoli e ai cosiddetti lontani” (Benedetto XVI, Angelus del 28 settembre 2008). Nato a Forno Canale in provincia di Belluno da una famiglia poverissima, Albino Luciani fu prete secondo il cuore di Dio, “uomo di Dio completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 8,16); docente e catecheta abile e saggio; collaboratore di vescovi sollecito e leale; vescovo trepido ed intrepido per quanto “scricciolo”; Padre conciliare, discepolo docile dello Spirito Santo; Patriarca mite e cordiale, umile ed

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 obbediente alle deliberazioni del Concilio ed alla Sede Apostolica; e fu Papa, infine, docile alla chiamata misteriosa della paterna bontà di Dio. Di lui ci restano imperituri il volto mite e sereno, la parola buona ed incisiva, la testimonianza di vita e l’ardente amore per Cristo: “È solo Gesù Cristo che dobbiamo presentare al mondo. Fuori di ciò non avremmo nessuna ragione di parlare: non saremmo, del resto, per la nostra incapacità, neppure ascoltati”, disse al Card. Gantin, suo ultimo interlocutore, la sera del 28 settembre poche ore prima di morire, quasi ispirandosi alla Lumen Gentium: “Cristo è la luce delle genti (…) splendente sul volto della Chiesa che illumina tutti gli uomini, annunziando il Vangelo di Cristo”. E ci resta anche la nostalgia del suo sorriso… Di questa sorta di testamento spirituale, tratteggerò qualche linea lievemente più incisiva della sua figura e del suo apostolato: la semplicità, l’umiltà il sorriso e la predicazione. Giovanni Paolo I si beava narrando dell’unico (ma lungo e filiale!) colloquio con Papa Giovanni XXIII, che gli accordò udienza subito dopo l’ordinazione episcopale. Gli dette qualche affettuoso consiglio pratico: “So che lei ha insegnato teologia ed altre belle cose, ma un conto è la scuola, un conto la pastorale. Veda, pertanto, di scendere al pratico, di parlare semplice e chiaro”. E così dicendo, secondo una pia consuetudine, trasse da un cassetto l’Imitazione di Cristo e lesse quattro punti del capitolo 23 del libro III: “Studiati, figliolo, di fare la volontà altrui piuttosto che la tua. È preferibile possedere meno che più. Cerca sempre l’ultimo posto e di sottostare a tutti. Desidera sempre la volontà di Dio e prega che si compia in te”. Un “vademecum” per la vita se la si vuole improntare alla modestia ed all’umiltà. Ma modestia ed umiltà sono gemelle di mitezza e semplicità: tutte e quattro quasi sempre vanno a braccetto. Il neo Vescovo di Vittorio Veneto, già per sua indole e scelta incline all’obbedienza, fece tesoro delle auree parole dell’Imitazione di Cristo. Ne troviamo una conferma nella “Lettera a San Luca Evangelista”. “L’uomo semplice e schietto non cerca di apparire (…) quello che non è, ma piuttosto di essere ciò che deve, di parere ciò che è (…), di non mettersi volutamente in mostra e di non offuscare nessuno”. La sua semplicità lo faceva eccellere anche in ambito linguistico ed omiletico. La gente, ascoltandolo, sembrava aspirare dalle sue labbra una parola dopo l’altra, senza faticare troppo, perché Albino Luciani si esprimeva con termini comprensibili da tutti. Per ravvivare l’omelia ricorreva spesso alla Sacra Scrittura, ad esempi di vita vissuta da personaggi noti. Citava anche autori popolari, come il Trilussa (ed allora si

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 sentiva un veneto alle prese con il dialetto romanesco!) ed il Collodi il cui Pinocchio era uno dei cavalli di battaglia del suo repertorio. Nell’arcinota marionetta vedeva, infatti, il simbolo di ogni bambino (anche di sé bambino, quando compiva qualche marachella o si prendeva a “cazzotti” con i coetanei). Pinocchio, gli serviva come aggancio per rivolgersi direttamente ai bambini presenti, come era sua abitudine tanto frequente ed efficace da essere a ragione ricordato anche come “il Papa che parlava ai bambini”. Sulla loro semplicità fissò non solo il metro della disponibilità di tutti all’ascolto, ma anche il parametro della accessibilità delle proprie parole. Pascal commenterebbe che la sapienza rimanda all’infanzia. Quanto più il discorso è piano, familiare, lontano dalla retorica e ricco di esemplificazioni tanto più entra nella testa e nel cuore delle persone: questo è l’abc di ogni catecheta: Mons. Luciani fu grande, perché queste poche “regole” le espose alla buona in un libriccino: “Catechetica in briciole”, dove additava come esempi da imitare San Filippo Neri e San Giovanni Bosco, Santi che riuscivano ad “incantare” i ragazzi e a “trasformarli”. “Come sono vari i libri così sono vari i Vescovi. Alcuni infatti rassomigliano ad aquile (…), altri sono usignoli (…), altri invece sono poveri scriccioli che, sull’ultima rama dell’albero ecclesiale, squittiscono soltanto cercando di dire qualche pensiero su temi vastissimi. Io appartengo all’ultima categoria”. In questo pensiero (tratto dalla “Lettera a Mark Twain”) c’è tutto il senso dell’umiltà di Albino Luciani, della sua modestia, della sua semplicità, del suo “farsi piccoli” per piacere maggiormente al Signore. Da buon sacerdote umile amava ripetere le parole di Paolo: “Sono quello che sono per grazia di Dio” (1Cor 15,10), che “(…) ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Cor 1,27). Tanto più che Gesù aveva insegnato: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 7,1-3), forse richiamando il Siracide: “Quanto più sei grande, tanto più umiliati: così troverai grazia davanti al Signore!”. Per stemma scelse “Humilitas”, non solo per ricordare le modeste origini contadine, ma per manifestare “uno stile di vita e di servizio vissuto da prete, da vescovo, da patriarca e da Papa”. Nella “Lettera a Re David”, aveva riferito a se stesso queste parole: “Quando mi viene fatto un complimento, ho bisogno di paragonarmi all’asinello che portava Cristo il giorno della domenica delle Palme!…”.

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A Wolfgang Goethe aveva “scritto”: “Essere dei grandi è anche un dono di Dio (…) che deve spingere a modestia e virtù tanto Voi, grande poeta, quanto noi, gente di strada, meno dotata di doni naturali…”. La sua grandezza sta proprio in questo non sentirsi grande. Eppure era profondo conoscitore della letteratura, del teatro, del cinema, era dotato di un’invidiabile struttura intellettuale e mnemonica, di una sorprendente capacità di cogliere significati e valori tanto dalla riflessione teorica quanto dall’analisi del vissuto concreto. Al Card. Suenens che mormorò: “Santo Padre, grazie per aver detto sì”, replicò con il volto incorniciato dal mite ed ineffabile sorriso: “Forse sarebbe stato meglio se avessi detto no!”. Ma due giorni dopo l’elezione annunciò che non ci sarebbe stata nessuna incoronazione, nessuna sedia gestatoria, nessuna tiara tempestata di smeraldi, rubini e zaffiri, nessuna cerimonia della durata di sei ore. La fastosa e storica cerimonia dell’incoronazione si trasformò in una Messa Solenne. Esistono centinaia di fatti editi ed inediti a conferma della sua umiltà. Chiudo con le parole pronunziate nella prima udienza generale del 6 settembre 1978: “Io rischio di dire uno sproposito…ma lo dico. Il Signore ama tanto l’umiltà che a volte permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili”. “Noi siamo i figli della speranza, lo stupore di Dio”: questa è la conclusione della sua “Lettera a Peguy”. La speranza è il sorriso della vita cristiana. Il sorriso di Papa Luciani aveva per mamma la speranza e per papà l’ottimismo. Con siffatti genitori il sorriso gli incorniciò praticamente sempre il viso, gli illuminò lo sguardo e lo aiutò a costruirsi una visione originale, tutta sua, delle cose di questo mondo. Infatti, nella sua antropologia l’uomo è alla ricerca di quella gioia che San Tommaso chiamava jucunditas ed Aristotele eutrapelìa nell’Etica Nicomachea. Anche San Tommaso, ci ricorda Papa Luciani, esortava ad essere eutrapèlici, cioè capaci di convertire in gaiezza, in sorriso anche le cose tristi viste e udite. “I santi non sono cupi: i santi sono lieti. Essi ci insegnano che la stessa Passione di Gesù si è poi completata con la gloria gioiosa della Risurrezione”. (Il Magistero di Albino Luciani, Padova, 1979). Per questo il sacerdote “deve” essere, oltre che mite ed umile, gioioso ed ottimista, se coerentemente riflette che Evangelo sta per Lieta

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Novella, che la speranza è virtù cristiana obbligatoria, che il Signore ci vuole bene ed “ama chi dà con gioia” (2 Cor 9,7). Nella sua Diocesi non si stancava di ripetere: “Siate sorridenti: farete buona propaganda a Cristo ed alle vocazioni!” e poi spiegava che il sorriso è il riflesso dell’amore di Dio, perché “Dio è papà; più ancora è madre” (discorso prima dell’Angelus il 10 settembre 1978). Il Signore fu così generoso con questo suo sacerdote da elargirgli in abbondanza doti e qualità personali attraverso le tre virtù teologali, che coltivò e custodì per tutto l’arco dell’esistenza terrena. Anche la sua morte prematura ed improvvisa va letta in un contesto di fede e nell’ottica dell’infinito ed ineffabile mistero divino. A chi gli chiedeva uno stile più “aulico” Albino Luciani, sorridendo, rispondeva: “Le nuvole alte non mandano pioggia…”, oppure: “Don Bosco raccomandò all’Arcivescovo di Torino che ai ragazzi bisognava parlare “senza mitria”, cioè “basso e popolare” e Giovanni XIII mi ha detto di parlare “facile”, di scendere dalla cattedra”. Quello che maggiormente importava a don Albino Luciani era di far emergere dalle prediche, dalle omelie, dai discorsi, il “maestro interiore”: Gesù Cristo. “Io sono di passaggio: Cristo Gesù è per sempre. Il senso del tempo altro non è che la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, unico Salvatore, senso di tutte le cose. Le nostre parole restano solo se sono sintonizzate sulla Sua Parola, sul Magistero della Chiesa” (28 settembre 1978). Il Signore con questo Suo umile figlio ha attuato il vecchio sistema di “prendere i piccoli dal fango della strada, la gente dai campi, dalle reti del mare, dal lago e ne fa degli apostoli (…) Certe cose il Signore non le vuol scrivere né sul bronzo, né sul marmo, ma (…) sulla polvere, affinché se la scrittura resta (…) sia ben chiaro che tutto è opera, merito del Signore. Io sono la pura e povera polvere: su questa polvere il Signore ha scritto” (Discorso in occasione della nomina a Vescovo di Vittorio Veneto, 1958). Un pensiero vorrei esprimerlo ancora sul rito che in questa solenne liturgia compiremo: dedicheremo l’Altare di questa Cappella. I Padri della Chiesa, meditando sulla parola di Dio, affermano che Cristo fu vittima, sacerdote ed altare del suo stesso sacrificio. Se vero altare è Cristo, anche i suoi discepoli, membra del suo corpo, sono altari spirituali, sui quali viene offerto a Dio il sacrificio di una vita santa. San Gregorio Magno affermava: «Che cos’è l’altare di Dio se non l’anima di coloro che conducono una vita santa?... A buon diritto, quindi, altare di Dio viene chiamato il cuore dei giusti» (Homiliarum in Ezechielem II, 10, 19: PL 76,

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1069). Per il fatto che all’altare si celebra il memoriale del Signore e viene distribuito ai fedeli il suo Corpo e il suo Sangue, gli scrittori ecclesiastici furono indotti a scorgere nell’altare un segno di Cristo stesso. La dignità dell’altare, dunque, consiste nel fatto che esso è la mensa del Signore. Non sono dunque le reliquie dei santi e dei martiri che vi deporremo che onorano l’altare, ma piuttosto è l’altare che dà prestigio ai santi. In questo altare saranno deposte le reliquie di san Luigi Orione, del Beato Giacomo Cusmano e del Beato Francesco Spoto. Carissimi fratelli e sorelle, nella dedicazione solenne del nuovo altare, la liturgia ci esorta a non mantenere divisioni. A tale proposito la Parola di Cristo è esigente: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24). Solo persone pienamente riconciliate con i fratelli possono accedervi con umiltà e fiducia, e trovare il Dio del perdono e della pace, grazia celeste che, insieme con il Santo Padre e con tutta la Chiesa universale, non cessiamo di invocare ardentemente. Su quest’ara si celebrerà l’alleanza fra Dio e l’uomo, fra la terra e il cielo; si manifesterà l’amore che unisce Dio e i suoi figli; ci sarà il dono divino della pace a cui l’umanità anela. Da questa piccola cappella la Chiesa splenderà come casa di tutti gli uomini, poiché intercede per tutti loro, e per tutti loro rinnova il sacrificio della Croce. Su questo altare si celebrerà la Vita che non muore, che offre agli uomini di tutti i tempi, di tutte le nazioni, il Pane della Vita Eterna: Cristo, l’unico capace di dare una risposta alle sofferenze dell’umanità, di curare le ferite più profonde di ogni uomo e di ogni donna e di appagare i loro desideri di giustizia e di verità. Carissimi fratelli e sorelle, miei carissimi seminaristi, considerate la vocazione al Sacerdozio come il segno più alto dell’Amore di predilezione di Dio che vi ha pensati e scelti tra tanti e vi vuole suoi collaboratori per la costruzione del suo Regno. Questa vocazione è “dono e mistero”, nessuno può spiegarsi il perché sia stato scelto, ma tutti dobbiamo impegnarci perché a questo dono gratuito e sovrabbondante corrisponda il desiderio e la continua tensione ad essergli sempre più conformi ed essere, insieme con i segni del pane e del vino, offerta pura, santa e immacolata per la salvezza delle anime. Amen.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA IN OCCASIONE DELLA VISITA AL LICEO SCIENTIFICO “G. GALILEI” Trebisacce, 1° ottobre 2008

Gentilissimo Signor Preside, gentili professori, miei carissimi studenti, ringrazio il Signor Preside per l’invito che mi ha rivolto ad essere in mezzo a voi e celebrare con voi e per voi questa Eucaristia. Il primo pensiero vorrei rivolgerlo agli insegnanti: con Dante, insegnate ai vostri studenti come l’uomo s’eterna, ovvero come egli si spiritualizzi, sottraendosi alla caducità della materia. «L’avvenire è nelle mani del maestro di scuola», scriveva già Victor Hugo nei “Miserabili”. La sua intuizione, ancora oggi valida, dà origine a tre fondamentali riflessioni su altrettante questioni, tutte cruciali. La prima: l’educazione della persona è sempre possibile. In alcun modo tale certezza può essere posta in dubbio: la possibilità dell’educazione è una conseguenza necessaria per chi percepisce che la persona umana è un soggetto libero, e non un mero “accidente-incidente” di un incrocio casuale di forze impersonali. La persona che chiede di essere educato, di essere cioè introdotto alla realtà, in vista dell’edificazione del mondo che verrà o, come evidenziava Platone, «della questione del modo in cui si debba vivere», quindi d’una civiltà etica ancor prima che materiale. La seconda: educare significa insegnare a vivere sapendo fare. Pensare all’educazione soltanto come ad un periodo di formazione tecnica utile all’inserimento nel mondo del lavoro sarebbe riduttivo e pericoloso; gli studenti sono persone che come tali, e non di rado, hanno bisogno di essere accompagnate nella costruzione della loro umanità, in cui il lavoro sarà elemento essenziale, ma non unico, per quanto necessario e complementare, allo sviluppo della piena personalità: ritrovarsi nel proprio lavoro senza perdersi in esso, e senza estraniarsi da esso, è il dovere al quale la società odierna, mossa ormai quasi esclusivamente dai principi regolatori dell’efficientismo e della libertà assoluta e slegata da ogni etica e valore, spesso viene meno. La terza: educare vuol dire pure orientare alla scoperta ed alla realizzazione del bene comune, ovvero, secondo l’ancor attuale opinione di Vittorio Bachelet, «formare a un retto e vigoroso ideale, aiutando l’uomo a

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 impadronirsene con l’intelligenza e ad adeguarvi la sua formazione spirituale, morale, tecnica». In quest’ottica, agli insegnanti mi piace ricordare, con Quintiliano, che i giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere. Ad essi è perciò richiesto l’impegno per la difficile opera di adeguamento della gloriosa tradizione culturale italiana alle svolte nuove della società. E ciò senza chiudersi nel perimetro dello scientismo delle discipline, ma privilegiando la riscoperta delle loro fondamenta culturali, antropologiche e relazionali, a partire dalla verità sull’uomo, dall’affermazione della sua dignità e dalla sua vocazione trascendente. Miei carissimi studenti, l’esperienza della scuola è una straordinaria palestra di vita dove si impara a relazionarsi con gli altri, con la cultura e la vita dei popoli, nello sforzo di comprendersi e generare un’umanità civile e responsabile. Tra i banchi vi sono trasmessi i saperi in campo storico, filosofico, biologico, linguistico, matematico, artistico, tecnico: essi costituiscono una rete umana sapienziale e interculturale. Questa rete ci appartiene: è la casa comune degli abitanti della terra, fondata sul costante impegno di molti uomini e donne, di svariati Paesi in epoche diverse, nella ricerca della Verità che è Gesù di Nazareth, morto e risorto e venuto qui, tra noi, per dire che Dio è Amore e ci ama immensamente. Egli ci ha insegnato che la vita, con i successi e le sconfitte, i silenzi e le attese, i sospiri e i desideri, le aspirazioni e i sogni, è degna di essere vissuta con impavido fervore ed impareggiabile entusiasmo, donandoci con la fede la chiave d’accesso ai sentieri dell’esistenza rinnovata. È anche nello studio, carissimi studenti, il principio di questa vita nuova. In ciò che farete c’è la possibilità di essere e divenire competenti professionisti e, d’altra parte, modellare la civiltà dell’amore con i vostri coetanei e con l’ausilio, necessario e indispensabile, anzitutto degli insegnanti e delle vostre famiglie. Costruire una scuola palestra di fraternità diventa allora la vostra “mission”: vi auguro perciò di non sprecare le numerose possibilità che, quotidianamente, vi saranno offerte per crescere nella ricerca appassionata della verità; per imparare a ragionare con la vostra testa, senza lasciarvi manipolare dai capi o dalle mode di turno. Affrontate con coraggio la fatica necessaria per divenire persone dal dialogo rispettoso e costruttivo con tutti, e perciò capaci di attiva e fattiva partecipazione alla vita comunitaria e aperti alla solidarietà universale. Cercate la compagnia bella, pulita, allegra e persino spensierata, fedele al punto da potervene fidare. Abbiate il coraggio delle grandi vette, anche a costo di corrispondenti

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 sacrifici, gli stessi ai quali non vi sottraete quando, ad esempio, vi cimentate in competizioni agonistiche. Carissimi giovani studenti, vivete questo tempo come un tempo di Grazia, durante il quale è bene coltivare relazioni autentiche e significative, ma pure per capire chi siete, come realmente il vostro essere si realizzerà in futuro e maturare la consapevolezza che tutto quanto farete nella vostra vita farà di voi delle piccole matite, destinate a lasciar delle tracce indelebili anche nella vita degli altri. Valorizzate al meglio i giorni della vostra giovinezza! È questo l’augurio che rivolgo di cuore a ciascuno di voi.

 Vincenzo Bertolone

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INTRODUZIONE AL CONVEGNO REGIONALE DEI SEMINARISTI DELLA CALABRIA Gambarie d’Aspromonte, 2 ottobre 2008

Carissimi seminaristi, è la prima volta che partecipo ad un Convegno Regionale dei Seminaristi di Calabria e perciò non ho né l’esperienza, né la conoscenza di come avete impostato gli altri Convegni. Attenendomi al tema di questo incontro mi limiterò ad offrirvi alcune considerazioni di carattere generale che spero possano essere per tutti di qualche utilità.

1. “Comunicare alla carità di Gesù Cristo buon Pastore”

Il tema di questo Convegno è “Comunicare alla carità di Gesù Cristo buon Pastore”. Nei giorni scorsi – per chi ha celebrato l’Ufficio delle Letture – la Liturgia della Chiesa ci ha proposto il magnifico “Discorso ai pastori” di Sant’Agostino. Commentando alcune pagine di Ezechiele il Santo Vescovo di Ippona ha tratteggiato una splendida Icona di Cristo: è Lui, infatti, il “Pastore grande delle pecore” a cui ogni cristiano chiamato alla responsabilità del ministero deve sempre più assomigliare. L’Agnello immolato sull’altare della croce è il vero Pastore dal cui cuore trafitto dobbiamo attingere quei sentimenti che lo spinsero ad assumere – per noi e per la nostra salvezza – la condizione di servo ed annullarsi nell’olocausto cruento del calvario. L’intimità con Cristo, è la sorgente di ogni apostolato nella Chiesa, perché solo attingendo dalla sua carità possiamo essere coinvolti nel dinamismo del suo essere Dono. Carissimi seminaristi: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore ricorda san Giovanni della Croce, perciò l’Amore deve essere la sorgente, la vocazione, l’ispirazione e il fine del nostro essere e del nostro agire. Dobbiamo, quindi, costantemente volgere il nostro sguardo a Colui che è stato trafitto, per incrociare la fonte sempre zampillante dell’Amore. Tutti abbiamo fatto esperienza di questo amore personale e diretto: siamo stati presi nella rete del pescatore di Nazareth, affascinati dalla mitezza dei suoi occhi, conquistati dalla sua parola, accarezzati dalla sua tenera misericordia. Abbiamo trafitto quel cuore dal quale è sgorgato sangue ed acqua, ce ne siamo abbeverati ridiventando nuovi.

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Parlare d’amore, è evidente, non è facile. E non è solo una questione di linguaggi1. Il termine “amore” è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. Parlare della carità è un po’, in un certo senso profanarla, perchè la Carità è il Cuore di Dio, è il mistero di Dio. La carità è Dio e davanti al mistero di Dio l’uomo deve mettersi la mano sulla bocca e adorare. Adorare significa lasciarsi assalire dalla carità, diventare carità. Ma poiché noi siamo piccoli, viviamo nel tempo, viviamo nei limiti, abbiamo bisogno di parole, il Signore parla e anche la sua parola è carità. Però la parola non è la carità, la parola è il mezzo che ci può aprire alla carità, che ci può introdurre nel mistero di Dio. L’amore, ad esempio, è trait d’union che attraversa tutta la Sacra Scrittura, come una trama che si intesse con i fili dorati di una presenza amante che svolge il suo progetto di salvezza con la stessa maestria di un architetto il quale porta a termine il suo lavoro, facendo dialogare tra loro ed in armonia le diverse parti di cui esso si compone. Papa Benedetto XVI, nella “Deus caritas est”, esplicita bene questo concetto: al centro della fede cristiana stanno l’immagine di Dio, che è amore, e l’immagine dell’uomo, che è il frutto più bello di questo amore. Gesù raccoglie in sé queste due dimensioni e le fa dialogare; il nucleo della fede di Israele in Lui si fonde con il precetto nuovo dell’amore del prossimo. Ma c’è di più: poiché l’incontro con la Sua Persona è un avvenimento che cambia la vita, l’amore, da precetto o comandamento, assume le sembianze e l’essenza d’un dono, il dono dell’amore, con cui Dio ci accoglie. Fra gli autori dell’Antico e del Nuovo Testamento che ci hanno donato una lettura “agapica” del mistero di Dio, si distinguono san Giovanni e san Paolo. In san Paolo il tema dell’agàpe è centrale e trova il suo apice nel celebre “Inno” (1Cor 13): l’agàpe pienezza della Legge, l’agàpe dono dello spirito, l’agàpe dinamica di kènosi, l’agàpe Cristo stesso. Perciò senza l’amore tutta la vita cristiana è nulla. Il nucleo della “vita nuova” che sgorga con forza inarrestabile nel cuore di Paolo convertito è l’agàpe di Cristo.

1 Già Benedetto XVI nella prima enciclica del suo pontificato, Deus caritas est, ha abbondantemente illustrato questo dato quando nell’incipit della sua lettera alla cristianità, puntualizza che «l’amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi. Al riguardo ci ostacola anzitutto un problema di linguaggio» (Deus Caritas est, n. 2), e distingue le caratteristiche dell’amore-agape-carità da quelle dell’amore eros (cfr. Ibidem, n. 3).

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La “via” appassionante che Paolo ci invita a percorrere è la via amoris, che essendo «la migliore», la «più alta», «l’eccellente», «l’unica» - è una vera via transfigurationis et salvationis, la via della vera comunione, fondata su Dio e che trova il suo incipit in questa ricerca del Dio-amore. Paolo canta la realtà dell’Amore divino che è gratuito ed oblativo e di cui l’essere umano è già ricolmo e da cui - nello stesso tempo - viene incoraggiato a donare e a donarsi senza egoismo. Il carisma dei carismi è la stessa carità divina che si è riversata sulla terra quando Dio ha mandato il Suo dilettissimo Figlio e lo ha immolato per la salvezza e la redenzione dell’umanità dal peccato originale. L’”Inno” parla con accenti commossi e appassionati della carità come se fosse una splendida regina attorniata da uno stuolo di ancelle, che sono tutte le altre virtù cristiane. Questa “regina” è di gran lunga superiore a tutte le virtù per il fatto che si identifica con la stessa sorgente di ogni carisma: Dio. L’agàpe è principio (archè) costitutivo della Chiesa e ne è il ‘tèlos’, cioè il fine e la mèta. La Chiesa di Dio è costituita sull’agàpe, su un amore-carità che rigenera ad una esistenza nuova, commisurata sul Figlio, continuamente vivificata dallo Spirito Santo. La fisionomia della comunità-chiesa non va parametrata tanto sulla sua efficienza, quanto sulla sua attitudine e capacità ad accogliere il dono agapico. Per il grande amore con il quale Dio ci ha amato, grazie a Cristo pietra angolare, siamo diventati concittadini dei santi, membri della famiglia di Dio, tempio santo nel Signore, dimora di Dio per lo Spirito (cf Ef.2, 4,119s). L’agàpe divino, quindi, «è il cuore», l’essere e l’operare della Chiesa, nell’accezione usata dal Doctor Angelicus che denomina forma omnium virtutum perché supera tutte le altre virtù, ut motor, ut finis, ut forma e fa sì che essa “operi” come soggetto storico unitario per l’unificazione del mondo.

2. Alcuni peccati che non favoriscono la vita comunitaria

Questa agape riversata nei nostri cuori, tuttavia, può essere “ferita” da alcuni errori che a volte diventano peccati e che perciò non favoriscono, ma rallentano la vita comunitaria del seminario. Una delle cause che non favorisce la vita fraterna, che è causa di malintesi è il peccato della lingua. Qualcuno fa osservare che non è

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 compreso nella lista classica dei sette vizi capitali, stilata da papa Gregorio Magno alla fine del VI secolo. E non si può certo negare questo fatto. Tuttavia qualcuno non manca di notare come il «peccato della lingua» derivi la propria origine e si alimenti da ciascuno dei sette vizi capitali. Reca l’impronta di ognuno di essi. Per cui si può affermare che, pur in una molteplicità di forme e di espressioni, i peccati di lingua sono figli di ciascuno dei sette peccati capitali. A Oxford si conserva un trattato «De lingua», che non appartiene al campo dell’anatomia medica, ma della morale. Il peccato di lingua viene collocato nell’ambito di quello della gola. Quasi a insinuare che c’è un «gusto» evidente in un certo linguaggio irrefrenabile. E si stabilisce in tal modo un collegamento molto stretto tra tavola e parola. D’altra parte, già san Paolo (Gal 5,15) aveva raccomandato con tagliente ironia: «Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardatevi almeno di non distruggervi gli uni gli altri». Per troppi la vocazione cristiana è compatibile con i... morsi. Gli abbracci fraterni non annullano l’abitudine a divorarsi con mormorazioni, pettegolezzi e a volte calunnie. Si parla di comunione, e si pretende realizzarla con l’aggressività. Non ci si rende conto della «forza distruttiva» di parole non improntate al rispetto reciproco e che minano alla base la comunità cristiana. Un giovane monaco, fanatico del digiuno e della penitenza, si è sentito ricondotto così, da un anziano, al primato della carità: «É meglio mangiare carne e bere vino che mangiare, con la calunnia e la maldicenza, la carne del fratello». In certi banchetti non si esita purtroppo a mettere in tavola la «carne» del fratello assente, e si pratica impunemente, tra il sorriso compiaciuto dei più, una specie di cannibalismo verbale. ...E non soltanto, ahimé, nell’ora canonica dei pasti. Per non parlare del cannibalismo cartaceo. Maldicenza. Tra i peccati di lingua, uno dei più diffusi e senza dub- bio la maldicenza. La maldicenza, fondamentalmente, può essere di due tipi: maldicenza volontaria, derivante dal proposito deliberato di nuocere al prossimo: per odio, vendetta, conflitto di interessi, antipatia, cattiveria, gelosia, invidia. In questi casi, si arriva facilmente alla calunnia. Maldicenza gratuita, provocata da leggerezza, incoscienza, abitudine. Per cui si parla male degli altri quasi senza accorgersene. Le

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 cause possono essere ricondotte a quattro tipi, che talvolta si sovrappongono e arrivano a confondersi. Proviamo ad elencarle: Pettegolezzo. “La calunnia è un venticello…” dice il famoso ritornello, sulle ali di un crescendo rossiniano, che esplode nel “colpo di cannone”. E un vecchio maligno adagio consiglia: “calunniate, calunniate, qualche cosa resterà”. Calunnia, pettegolezzo, maldicenza, giudizio temerario, sospetto, diffidenza appartengono tutti alla stessa famiglia e tendono a denigrare, a umiliare, a mortificare, ad abbassare coloro che ne sono le vittime. Ciò manifesta un forte sentimento di infelicità e si sente il bisogno più o meno consapevole di “sporcare”, umiliare, abbassare gli altri. Il pettegolezzo, infatti, è direttamente proporzionale alla notorietà, al valore delle persone colpite: più si sale e più si è vittime del pettegolezzo. Il pettegolo pensa: “se non ci sono riuscito io, allora, non deve riuscirci nessuno”. Di qui il proverbio: “il gatto sulla dispensa quello che fa, pensa” o “il lupo della mala coscienza come opera pensa”. Il pettegolo vede sempre il male, ritiene che gli altri non siano capaci di vivere gli ideali che predicano (castità, esercizio di governo, povertà). Le buone azioni degli altri sono apparenti. Il pettegolo, invece di capire e risolvere il suo complesso di colpa e di inferiorità le scarica sugli altri. E spesso si arriva alle lettere anonime! Beate quelle diocesi dove non esistono lettere anonime. Ci sono intere diocesi rovinate dalle lettere anonime! Irritazione. Succede quando si vive insieme e non ci si sopporta. Da notare che solo apparentemente la maldicenza allevia l’irritazione, il fastidio. Si tratta di un sollievo illusorio. In realtà, quanto più ci si gratta tanto più aumenta il malessere e l’irritazione. Vista in questa prospettiva, la maldicenza rivela impietosamente l’artificiosità di un certo modo di vivere insieme. Più che accettarsi, ci si sopporta, quando non ci si detesta. Mi piace qui ricordare una famosa poesia di Trilussa, ‘Un conijo coraggioso’: - Tu sei lo specchio de la perfezzione - dicevano le bestie ar Re Leone - In tutto quer che dichi e quer che fai ciazzecchi sempre e nun te sbaji mai Er leone ruggì, somsse la coda e disse: - Fra ‘sta gente che me loda

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se c’è, per caso quarche bestia amica pronta a famme una critica, lo dica. Me so’ scocciato ormai d’esse perfetto! Coraggio, Su! Trovateme un difetto! - Io te lo dico....- Se n’uscì un conijo - ma solamente da lontano un mijo: forse un difetto te lo riconsoco, ma te lo strillo quanno sto ner bosco... E je lo disse tanto mai distante che la voce se perse fra le piante.

“Gli uomini, se qualcuna fa loro un brutto tiro, lo scrivono sul marmo, ma se qualcuno gli usa un favore lo scrivono sulla sabbia”. Tommaso Moro usa l’immagine del marmo per la memoria di un male inflitto da altri; Shakespeare nel suo Re Lear adotta la stessa immagine proprio per la mancanza di riconoscenza, quando mette in bocca a questo sfortunato re, che di ingratitudine familiare ben s’intendeva, l’esclamazione: “Ingratitudine, demonio del cuore di marmo, ancor più orrenda di quanto lo sia il mostro del mare”. Istinto di giudicare. In ogni maldicente c’è un giudice o addirittura un giustiziere, che interpreta il proprio ruolo con una diligenza degna di miglior causa. Ma è un giudice non imparziale, che dovrebbe essere ricusato per «legittima suspicione». Non si preoccupa di controllare, verificare, vagliare serenamente le prove, sentire l’accusato. Il desiderio di condannare risulta prevalente su tutto. Tale atteggiamento appare, tra l’altro, in piena evidenza, sterile. «Nessuno è mai diventato migliore per il fatto che si sia parlato male di lui in sua assenza» (Lanza del Vasto). C’è chi si giustifica, talvolta, protestando che dice né più né meno che la verità. Ma e una verità senza amore, e quindi sospetta. E poi la verità è diversa dalle chiacchiere futili. La verità, per conoscerla e proclamarla, esige un altro cuore, un altro spirito. La verità, per essere costruttiva, vivificante, deve essere detta a viso aperto, e non teme il faccia a faccia con l’altro. Un vecchio si guadagnava da vivere vendendo cianfrusaglie varie. La gente lo considerava un po’ stupido perché talvolta lo si pagava con monete false e lui le accettava senza protestare, oppure gli si diceva di aver pagato quando non era vero e il vecchio si fidava sulla parola. Sul letto dell’agonia pregò Dio così: «O Signore, ho accettato tante monete false

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 dalla gente, ma non ho mai voluto giudicarla nel mio cuore: mi sono limitato a pensare che non si rendevano conto di quello che facevano. Anch’io sono una moneta senza valore, ti prego, non giudicarmi !». Si udì una voce celeste che disse: «Come è possibile giudicare qualcuno che non ha giudicato gli altri?». Pretesa di infallibilità. Ogni maldicente coltiva più o meno segretamente la vocazione di psicologo. Uno psicologo da strapazzo, che però si ritiene infallibile, e non accetta di rimettere in discussione le affermazioni fatte, le sentenze pronunciate, le diagnosi formulate. Non è disposto a riconoscere gli errori, anche quelli più marchiani, rinunciare ai pregiudizi, prendere atto delle smentite della realtà. E lo stupido, il super- ficiale, è uno psicologo ancora più «infallibile». Senso di frustrazione e istinto di compensazione. Il maldicente è consapevole della propria piccolezza, meschinità, bassezza. E prova il bisogno di giustificarsi, non tentando di innalzarsi almeno un poco (troppo faticoso, e poi c’è il rischio di cadere...), non correggendosi (è un affare eccessivamente impegnativo e serio), ma abbassando gli altri al proprio livello e anche più sotto. «La maldicenza è una consolazione della mediocrità». Dunque, ecco la compensazione, la taglia imposta a chi «ha» di più, a chi «è» di più. La maldicenza è sempre segno evidente di insoddisfazione, disgusto di sé, proiettato sugli altri. La volgarità. Un altro sintomo allarmante della «profanazione» della parola è dato dalla volgarità. Il quadro che ci sta dinanzi è senza dubbio preoccupante. Oggi imperversa, in troppi ambienti, un linguaggio sboccato, sguaiato, aggressivo. Ostentatamente provocatorio, gratuitamente villano, insultante. Sovente, nelle discussioni, ci si abbandona a una terminologia di una brutalità e insolenza esasperate. Il fenomeno riguarda i giovani, ma anche gente portatrice di capelli bianchi, oltre che radi, e di dentiere d’annata. Purtroppo, questo evidente e allarmante scadimento del linguaggio nella volgarità fine a se stessa non risparmia neppure ambienti clericali e religiosi. Qualcuno - o qualcuna - si illude di essere alla moda mutuando da rozzi maestri un gergo grossolano che rivela - e il meno che si possa dire - un cattivo gusto. Talvolta predomina l’istinto dell’imitazione, tanto per apparire «dei loro». Un linguaggio, quale quello che viene impiegato abitualmente nel mondo d’oggi, rappresenta, oltre che offesa alla carità, anche profanazione sacrilega della parola.

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Diceva s. Bernardo: Nelle labbra degli altri sunt nugae, sono sciocchezze, cose da poco; ma se le diciamo noi cambiano aspetto, non sono più cose trascurabili. Certe facezie, certe allusioni equivoche, possono fare una brutta impressione. Quindi bisogna aver molto riguardo nel parlare. «Si quis loquitur, quasi sermones Dei»: le parole del sacerdote dovrebbero essere sempre parole di Dio, parole di verità, di speranza, d’incoraggiamento. L’egoismo. L’egoista è precisamente uno che cammina contromano. Parte dagli altri per arrivare inevitabilmente e ostinatamente a sé. Gli altri non sono che un pretesto, un’occasione, un mezzo per amare se stesso. Sono in funzione del proprio io. Anche quando dice di fare del bene; l’egoista pensa a se stesso, intende fare del bene a se stesso. É totalmente occupato con se stesso. L’egoista si rivela costituzionalmente inadatto ad amare, anche allorché sembra travolto da una passione irrefrenabile, perché non è disposto ad uscir fuori di sé (le sue «uscite» sono programmate in modo da rientrare al più presto), perdere il controllo della situazione, buttar via il registro della contabilità personale. L’egoista si rivela incapace di abbandonarsi, consegnarsi all’altro. L’egoista, perfino nell’amore, continua a ragionare in termini di interesse, vantaggi e piacere individuali. Cari seminaristi, «l’amore è da Dio» (1 Gv 4,7). L’amore, dunque, non viene da noi, ma da Dio. La capacita di amare non la troviamo in noi, ma in Dio. Soltanto riferendoci alla sorgente, si trova l’amore che non si attenua col passare degli anni. L’amore che cresce, l’amore che genera altro amore, è unicamente quello ricondotto alla fonte. Quello che ritroviamo in Dio è un amore che è disposto a prendere la croce, che rinuncia a sé e quindi è in grado di sopportare tutto, superare ogni ostacolo. É l’amore che conta unicamente sull’amore, e non ricorre ad altri mezzi. É l’amore che non si lascia scoraggiare dall’indifferenza, dalle meschinità, dalle cattiverie, dalle bassezze, dall’insensibilità altrui. É l’amore che non calcola. Prodigale. Eccessivo. Esagerato. L’amore di Dio non si lascia imporre dei limiti dal comportamento dell’uomo. «Egli fa sorgere il suo sole sui malvagi e sui buoni, e manda la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). Che brutta notizia sarebbe per noi sapere che Dio ci ama perché siamo buoni, e in quanto siamo buoni...

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Dio non ama ciò che, in sè, è degno di amore. Ma, amando, conferisce valore all’oggetto del suo amore. Dio non mi ama perché valgo qualcosa, ho delle qualità, dei meriti. Ma io divento prezioso perché Lui mi ama. L’agàpe divina non costata dei valori, li crea. Non li verifica, non ne fa l’inventario: li produce. Conferisce valore amando. Troppo spesso, invece, il nostro amore, più che creativo, appare «reattivo». Ci lasciamo imporre i comportamenti dagli altri. «Rispondiamo» in base all’atteggiamento degli altri nei nostri confronti. Dio è amore (1 Gv 4,8). E, perciò, Dio è anche fantasia. La fantasia, infatti, è il genio dell’amore. Dio è «nuovo». E ama fare cose nuove. «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). Nel suo amore, Lui non è mai ripetitivo, ma sorprendente, inedito, originale. Cari giovani, in determinate circostanze, un fiore può essere indispensabile più del pane, la musica più della minestra, il profumo più del vestito, una fotografia più dell’immagine devota. Un povero, talvolta, può aver bisogno di un sorriso più che dell’elemosina (e, comunque, meglio ci siano tutti e due), di un po’ del nostro tempo e della nostra attenzione partecipe, più che del nostro aiuto. Il povero richiede dignità, prima ancora che compassione. Un vecchio non può fare a meno della medicina. Ma ha bisogno anche di essere «onorato» con una tovaglia candida, una passeggiata, una gita in macchina. E, per addormentarsi, talvolta richiede la pillola. Ma, se non abbiamo chiuso il cuore nell’insensibilità, dobbiamo intuire che implora anche una carezza. Un giorno, un discepolo si macchiò di una grave colpa. Tutti si aspettavano che il maestro lo punisse in modo esemplare. Ma passò un anno e il maestro non diede segno di reazione. Allora, un altro discepolo protestò: “Non si può ignorare ciò che è accaduto: dopo tutto Dio ci ha dato gli occhi!”. Il maestro gli replicò: “è vero, ma anche le palpebre!”. Oh, se ognuno rispettasse gli errori del prossimo suo come rispetta gli errori di se stesso! La vita sarebbe allora una cosa dolcissima. Certo, non dobbiamo amare l’errore, ma l’uomo! L’uomo è da Dio, l’errore è dall’uomo. Dobbiamo amare ciò che Dio ha fatto, non ciò che ha fatto l’uomo! Il mondo perde un po’ della sua notte e acquista maggiormente la luce del sole, ogni volta che le persone riescono ad accettarsi l’un l’altro,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 coi loro splendori e le loro miserie. E questo è possibile solo se ci si incontra e ci si guarda in profondità nell’anima. Se questo faremo, saremo uomini nuovi, libereremo da ogni laccio la nostra anima e, pur imperfetti, ma con mutata e salda consapevolezza nell’amore che è Dio e che da Lui solo promana, potremo pascere il gregge di Cristo con il suo stesso cuore. Con questo auspicio iniziamo i lavori di questo Convegno e ascoltiamo ora la parola di Mons. Mondello.

 Vincenzo Bertolone

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RELAZIONE Al CONVEGNO REGIONALE DEI SEMINARISTI DELLA CALABRIA Gambarie d’Aspromonte, 2 ottobre 2008

GLI ALIMENTI DELLA SPIRITUALITÀ DEL PRETE

Premessa

Carissimi giovani dopo le brillanti relazioni di S.E. Mons. Mondello, e di S.E. Mons. Marcianò e Don Antonio Iachino; come pure le significative riflessioni di S.E. Mons. Agostino, di S.E. Mons. Nunnari, di S.E. Mons. Cantafora, di S.E. Mons. Lupinacci e di Mons. Ignazio Schinella, vengo ad esporvi qualche pensiero sull’argomento in programma. Consentitemi, solo, di collocare per una maggiore comprensione di quanto vi dirò, il nostro essere preti nel contesto storico, culturale e sociale che stiamo vivendo già da molto tempo e che procura non pochi affanni a tutti noi che abbiamo l’onere di traghettare l’eredità di Dio in questo incerto e frammentato terzo millennio. a) Quadro socio-culturale –religioso dell’oggi

Tra la fine del Novecento e l’inizio del millennio e nell’era della globalizzazione siamo costretti a confrontarci e a convivere con l’eclissi del sacro, la crisi di sistemi ideologici, la rinuncia al senso delle cose, la perdita dei valori, la scomparsa della passione per la verità, con lo scandalo della povertà, con la contestazione in materia di sessualità, e con i problemi di biotecnologia, di ecumenismo, e di sette. Ma nonostante tutti questi “confronti” avvertiamo nel cuore della gente la “nostalgia del Totalmente Altro” e si diventa “mendicanti del cielo” (J. Maritain)”. Le generazioni che ci hanno preceduto non hanno mai conosciuto un ritmo di vita tanto frenetico da non consentire di interiorizzare nuovi stili ed i valori eterni. La Chiesa non sfugge a questo processo di velocizzazione e, ad un tempo, di svuotamento di valori2. La cultura

2 Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del Duemila, Quaderno 34, Ed. Paoline, Milano, 2001.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 occidentale, come affermava Giovanni Paolo II3, non è in buoni rapporti con la verità, penalizzata dalla carenza dei grandi dilemmi etici sul senso della sofferenza, del sacrificio, della vita e della morte. Dinanzi all’attuale, difficile situazione, siamo preoccupati, addirittura in affanno; non sempre è chiara la nostra identità, il senso della vita e il fine ultimo. Ma, nonostante la spiegazione di numerosi interpreti, questo nostro tempo sfugge ancora ad una comprensione esaustiva e da tutti accettata. Già da qualche decennio, il nostro mondo è definito “villaggio globale”. Al riguardo, Marcello Bordoni osserva che «oggi si va sviluppando sempre più una coscienza cosmopolita, planetaria, attraverso una mobilità sempre più grande della popolazione mondiale, degli interscambi culturali e religiosi, che comportano una sempre maggiore osmosi delle culture e religioni»4. Nella scala dei valori che contraddistinguono l’uomo e la sua vita, la libertà appare al primo posto, come è giusto. Resta il fatto che il connotato generale, e generalizzato, è una tangibile sensazione di crisi. Al primo piano di questa crisi è la ragione, di cui viene messa in discussione la capacità di offrire un quadro complessivo di orientamento per il sapere, l’agire e l’esercizio della libertà dell’uomo. Ne consegue che la nostra era si pasce, in genere, di “pensiero debole”, perché non più affascinata dai grandi racconti del progresso, dalle promesse di emancipazione, dalle verità forti cui basare regole di vita. Si ha, piuttosto, bisogno di comprensione, di giudizi benevoli e non definitivi: meglio raccontare e raccontarsi le storie del poco impegno, mettendo da parte anni di lotta per il riconoscimento di una ragione critica e autonoma. Giova, in questo frangente, la cifra dell’effimero, dell’ironia, del sapere salottiero: in una parola, la contrapposizione essere-avere. E se proprio non si vuole parteggiare smaccatamente per l’avere, resta pur sempre la visibilità, il carpe diem, l’abbandonarsi all’attimo fuggente come possibilità realizzabile perché a portata di mano e poco compromettente5.

3 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio (14.9.1998).90: EV,17/1366.

4 M. Bordoni, Singolarità ed Universalità di Gesù Cristo, nella riflessione cristologica contemporanea, in L’Unico e i Molti. La salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, a cura di Piero Coda, Editrice Mursia. Roma 19997, 67-68.

5 C. Dotolo, La relazione tra teologia e post-modernità: problemi e prospettive, in Antonianum 76 (2001) 651-685.

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Un altro elemento di crisi è dato dall’eclissi del sacro. Già nei primi anni Quaranta del secolo scorso, Simon Weil affermava che «il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. Viviamo un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più speranza, ma angoscia»6. Sta di fatto che nel tentare di fare il punto sul rapporto tra fede e ragione, tra teologia e storia, tra uomo contemporaneo e il sacro o il divino, possiamo convenire con Sergio Quinzio che «l’aria che respira l’uomo contemporaneo presenta tracce minime di religione. La filosofia è lontana mille miglia dall’attribuire un senso all’assoluto delle antiche metafisiche, o anche soltanto alla sua ricerca»7. Si profila così l’estremo volto della crisi epocale della coscienza europea alla fine del “secolo breve”, quello della décadence. Così la descrive Dietrich Bonhoeffer: «Non essendovi nulla di durevole, viene meno il fondamento della vita storica, cioè la fiducia, in tutte le sue forme»8. La nostra società ha messo in forse ogni pretesa veritativa: si è passati dall’esperienza della dimenticanza di Dio ad un vissuto che cerca un surrogato della salvezza in una buona qualità della vita. La nostra è ormai una società culturalmente pluralista in cui chiunque osi prospettare teorie di verità assoluta sarà, prima o poi, tacciato di fondamentalismo culturale o fanatismo religioso. Obiettiamo che l’uomo non può riporre nella scienza e nella tecnologia una fiducia talmente incondizionata da credere che il progresso possa spiegare qualsiasi cosa e rispondere pienamente a tutti i suoi bisogni esistenziali e spirituali ed alle domande più radicali sul significato della vita e della morte, sui valori ultimi e sulla natura stessa del progresso. Risuonano quanto mai attuali queste parole di L. Wittgenstein: «Noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati».

6 S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Editrice Adelphi, Milano 1994, 11.

7 S. Quinzio, Religione e futuro, Adelphi, Milano 2001, 13.

8 D. Bonhoeffer, Etica, a cura di E. Bethge, Milano 19692, 91.

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La crisi antropologica procura, inevitabilmente, un indebolimento identitario, tanto da determinare la liquefazione dell’identità, sganciata da ogni ancoraggio etico. Slegato da legami religiosi, tecnologicamente liberato dai limiti territoriali, riversato nell’universo globale, divenuto finalmente «cittadino del mondo», l’uomo ha perso molti riferimenti. E’ massificato senza appartenere ad una comunità, è individuo senza essere persona, è solo senza essere libero. L’emarginazione del sacro e della tradizione, intesa come sedimento del passato nel presente, è perciò inevitabile. Il sociologo Baumann spiega che la «vita liquida è una vita precaria, vissuta in condizioni di continua incertezza»9. La condizione di precarietà che ne deriva si ripercuote anche sui legami dell’individuo con l’altro da sé: perdere il contatto con l’altro significa perdere il contatto con se stessi. Contestualmente al proliferare di questi pericoli che infettano il cuore e le fondamenta della fede cristiana, va registrato una sorta di risveglio della fede. Difatti, è sempre più forte l’urgenza di una testimonianza credibile della nostra fede. Tornano alla mente alcune parole che il Santo Padre Benedetto XVI pronunziò poco prima della sua elezione al soglio di Pietro: «Viviamo un momento di grandi pericoli e di grandi opportunità per l’uomo e per il mondo, un momento che è anche di grandi responsabilità per tutti noi»10. In effetti, guardando alla contemporaneità ed al suo travaglio, si possono apprezzare aspirazioni di ricerca della verità e del bene: così, in tanti si nota un forte e sincero bisogno di spiritualità, di ritorno alla preghiera. In molti, specie nel mondo giovanile, come ci testimoniano le giornate mondiali della gioventù, ricercano punti di riferimento nei valori cristiani, quali ragioni di vita e di speranza.

Gli alimenti speciali della spiritualità del presbitero

Ma il seminarista ed il prete sono consapevoli dei loro limiti personali; sanno che la configurazione a Cristo non è opera umana, perché è Dio stesso che rende i sacerdoti “ministri adatti di una nuova alleanza”

9 Z. Baumann, Vita liquida, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, VIII.

10 J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture” Premio San Benedetto, Subiaco, 1° aprile 2005.

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(2Cor 3,6), “ambasciatori di Cristo” (2 Cor 5,20), “buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio” (1Pt 4,10). La Patristica riconosce come spiritualità propria del sacerdote e sua caratteristica, la consacrazione e la dedizione totale al servizio della Chiesa. Ciò presuppone e comprende un rapporto personale di mistica intimità con Cristo11. Il sacerdote ha bisogno di tanti “alimenti” speciali per fare risplendere il Volto di Cristo sul suo. In questa circostanza ne richiamo solo alcuni: l’amore di Dio, l’Eucaristia, la preghiera, la formazione culturale e spirituale, la passione per la verità12 e l’amicizia.

L’amore di Dio “Dio è amore”. L’identificazione è sconvolgente: l’amore raggiunge le vette inaccessibili del divino e il Dio cristiano si rivela con il volto stupendo dell’amore. Il nucleo della “vita nuova” che sgorga con forza inarrestabile nel cuore di Paolo convertito è, per l’appunto, proprio l’amore, l’agàpe di Cristo. La “via” appassionante che Paolo ci invita a percorrere è la via amoris, che essendo “la migliore”, la “più alta”, “l’eccellente”, “l’unica”, è una vera via transfigurationis et salvationis. Il prete sa che «quello che gli uomini comunemente chiamano amore non è che una piccola parte del vero amore: amore è desiderio del bene, della sapienza, della felicità, dell’immortalità, dell’Assoluto, dell’assolutamente bello. L’amore è la potenza divina, è un bisogno del cuore, un ponte che congiunge l’umano e il divino, l’uomo e Dio, il cielo e la terra» 13.

11 In linea con la dottrina conciliare, GIOVANNI PAOLO II ai sacerdoti e ai seminaristi canadesi nel 1984 ricordava che «essere sacerdote è una grazia per tutta la comunità. Ma la vostra funzione non proviene dalla comunità, non è questa che vi delega. Essere sacerdote è partecipare all’atto stesso mediante il quale Cristo risorto edifica la sua Chiesa, che è il suo corpo. Voi sacerdoti agite in nome di Cristo-capo, che costruisce la Chiesa». GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai sacerdoti e seminaristi di Montréal, 11 settembre 1984, in Cari sacerdoti (Milano 1990), 174.

12 D. TETTAMANZI, La Vita spirituale del prete, Piemme, Casale Monferrato (AL), 2002.

13 È in quest’ottica che il prete deve collocare il suo essere celibe, andando magari a rileggere il n. 29 PDV: la castità esigita dal celibato non è “vuoto d’amore”, ma “esuberanza d’amore”. Tra il sacerdote e Dio vi è un rapporto nuziale. “Il sacerdote infatti, viene scelto da Cristo non come una cosa, bensì come una persona: egli non è uno strumento passivo e inerte ma uno

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È solo l’amore, per dirla con Dante, che “muove il sole e le altre stelle” e che dà senso alla vita dell’uomo. L’agàpe, l’amore, è un ininterrotto kairòs, un tempo di grazia, e rappresenta uno dei crinali decisivi del tempo presente, come a dire che o l’umanità sceglie la via dell’amore oppure il suo futuro sarà precluso alla speranza. Don Primo Mazzolari, in “Impegno con Cristo”, scriveva: «Ci impegniamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo, per amare anche quello che non possiamo accettare, anche quello che non è amabile, anche quello che pare rifiutarsi all’amore, poiché dietro il volto e sotto ogni cuore c’è insieme ad una grande sete di amore il volto e il cuore dell’Amore di Cristo che è la sola certezza che non teme confronti, la sola che basta per impegnarci perdutamente» 14. L’agape, come supremo ideale di vita del cuore umano, ci convince che non siamo “gettati nel mondo” in balia del caso e dell’assurdo. Un infinito Amore veglia su ogni creatura, dal suo nascere al suo morire, dalla culla alla tomba. E l’eternità non è l’uscita dal tempo ma la felicità e il suo compimento. L’eternità è Qualcuno che realizza ciò che volevi, che cercavi e che sazia il desiderio del tuo cuore. Nell’inseparabilità dell’agàpe per Dio e per l’uomo, anche il nostro tempo può trovare la risposta ai problemi della storia. Perché l’amore di Dio fa “anche” questo: libera e solleva; tutta la storia del mondo non è che una continua liberazione, dal peccato soprattutto. Nessuno è esente da questa perenne lotta, da questa ineludibile aspirazione ad affrancarsi dal peccato, cioè dall’allontanamento – volontario – da Dio e dal suo Amore. Noi siamo come le antiche “lanterne magiche” che riproducevano, molto ingrandita, una piccola lastra fotografica, solo a patto che ci fosse una sorgente luminosa ed una lente efficace. Nella metafora, la sorgente luminosa è Dio-luce-amore; la lente è la mano tesa dei nostri fratelli, il loro amore. Si tratta di un’ esigenza di reciprocità. È innegabile che nel dare si riceve. Ma è anche vero il dolce rimprovero che la sensibilità di un strumento vivo”. (PDV 25). Il motivo del celibato non è solo per una “purezza” morale, è per vivere una totale dedizione alla Chiesa, famiglia di Dio. Il celibato sacerdotale ha un motivo di fondo basilare: l’ordinazione sacerdotale configura, infatti, il sacerdote a Gesù Cristo- Sposo (Cf. PDV 29).

14 P. MAZZOLARI, in: Impegno con Cristo, EDB, 1979, 12.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 moderno mette sulla bocca di Gesù: «Come vuoi che gli uomini si sentano amati da me se coloro che mi rappresentano sulla terra non gliene forniscono una testimonianza percettibile» 15. È un tema sul quale Sant’Agostino non si stancava di tornare per additare al pastore di anime l’ideale che deve informare tutta la sua vita, e che definisce dovere supremo. Per lui la carità del sacerdote è come la castità della sposa che ama il suo sposo: Dio. Se il prete cerca Dio è casto, perché l’anima ha Dio come legittimo sposo. Chi cerca di Dio altro fuor che Dio, non cerca Dio castamente 16. b) L’Eucaristia “La Santa Eucaristia completa l’iniziazione cristiana”, recita il CCC al n. 1322, che così prosegue: «coloro che sono stati elevati alla dignità del sacerdozio regale per mezzo del Battesimo e sono stati conformati più profondamente a Cristo mediante la confermazione, attraverso l’Eucaristia partecipano con tutta la Comunità allo stesso sacrificio del Signore» 17. Per il presbitero il rapporto con l’Eucaristia è vitale. Essa è presenza di Gesù, viva, amante, fecondità dell’apostolato, conforto nello scoraggiamento, compagnia nella solitudine. La familiarità con l’Eucaristia

15 G.COURTOIS, Quando il Maestro parla al cuore op.cit.130.

16 Cf. SANT’AGOSTINO, Sermone CXXXVII, 9.

17 Nella PDV leggiamo:«Se il presbitero è per l’Eucaristia, ne segue che l’Eucaristia è il centro e la radice della sua vita: realizza pienamente il suo ministero nell’Eucaristia e sperimenta ogni giorno che tutta la sua vita è fatta per l’Eucaristia ed è irradiazione dell’Eucaristia. La celebrazione e l’incontro con Gesù Eucaristia sono i momenti forti nei quali il presbitero deve rafforzare la sua unione col Cristo: nel pane eucaristico infatti “si riceve Cristo, l’anima viene ricolma di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura” (Liturgia delle Ore, III, SS. Corpo e Sangue di Cristo, II Vespri, ant. al Magnificat). «I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore… ne ripetono i gesti di perdono e di offerta della salvezza, soprattutto col Battesimo, la Penitenza e l’Eucaristia» (PDV, n. 15; Cf. LG, n. 28). Identica convinzione la Chiesa esprime nella liturgia: «Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti» (MESSALE ROMANO, Messa Crismale, Prefazio). Con l’Eucaristia il presbitero, a nome di Cristo, offre la salvezza e nutre il popolo con la mensa pasquale: è sua gioia averne coscienza; è suo compito attivare al massimo la responsabilità e l’impegno per la “rappresentanza sacramentale” nella celebrazione dell’Eucaristia. Gli può essere ancora di valido aiuto quanto L’école française ha tramandato sulla spiritualità della identificazione del presbitero con Cristo Sommo Sacerdote» (Responsabilità e intelligenza pastorale nel presiedere l’Eucaristia, 67,77).

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 gli richiede una fede luminosa, perché in ogni circostanza, lieta o triste, percepisca la presenza di Gesù, gli infonda la speranza, gli comunichi la generosità dell’amore, e gli crei quella comunione unica che fa di lui, povero uomo, un altro Cristo: per cui, Cristo è la ragione unica del suo essere, del suo operare, del suo pensare e del suo volere, in modo che tutto in lui diventi “Eucaristia” sacrificio di espiazione, rendimento di grazie, partecipazione, irradiazione della vita di Cristo. Il sacerdote cattolico è “uomo di Dio” (2 Tm 3,17), eletto per gli uomini “nelle cose che sono di Dio” (Eb 5,1). Per questo sarà ricco delle cose divine da dare, da “spezzare”, come il pane eucaristico al suo gregge Per comprendere la piena comunione che deve esserci tra il sacerdote e Cristo Gesù, può essere illuminante una pagina del Piccolo Principe di Saint-Exupéry: l’incontro del protagonista con la volpe. Questa gli dice che non può giocare con lui perché non è ancora addomesticata. “Che cosa vuol dire addomesticare?”, chiede il piccolo Principe. “È una cosa da molti dimenticata”, risponde la volpe. “Vuol dire creare dei legami”(…). Se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo (...) Se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica (...). Non si conoscono che le cose che si addomesticano” 18.

18 A. de SAINT-EXUPÉRY, Il Piccolo Principe, Ed. Tascabili Bompiani, Milano 1996, 91 e ss. Mi piace riportare anche se in nota alcuni pensieri del servo di Dio il Prof. E. Medi: «Quando tu, o Sacerdote, innalzi il calice santo che contiene il sangue del Signore, noi guardiamo quel calice dentro cui è contenuto il sangue di Cristo e pensiamo che quel sangue di Cristo è il nostro sangue e ogni molecola, ogni goccia raccolta in quel calice è “frutto della vite e del nostro lavoro”; perciò tutti noi siamo là dentro e siamo fratelli tutti uniti cuore a cuore, sospiro con sospiro, e il sangue della grazia di Dio circola attraverso il palpito delle nostre diastoli e delle nostre sistoli. Che bello! Nostro … Sei nostro! Ti possediamo! (P. Pio: Messaggio di Dio agli uomini d’oggi, discorso ai “Gruppi di preghiera di padre Pio”, tenuto nella Basilica di Santa Croce in Firenze il 16 aprile 1972). E tu vieni in noi e noi in te, e formiamo una cosa sola. Noi mangiamo te e tu stritoli noi per una carne sola, un sangue solo, un amore solo, una sola follia dell’infinito: questa è l’Eucaristia! Non lasciatelo solo e desolato, Sacerdoti, andatelo a trovare ad ogni istante nel silenzio della chiesa, quando non c’è nessuno e non vi preoccupate di quello che direte o farete: è Lui che parla! (Senso cristiano del dolore, discorso tenuto allo Studio Teologico Domenicano di Bologna; 24 aprile 1970). Sai come ti vogliamo sacerdote …Noi vogliamo che il Sacerdote, quando dice la Messa, non si accorga neppure delle persone che sono intorno, né dei canti che sì fanno, tanto è rapito in quel Dio che ha fra le mani. Che sia voltato di qua, che sia voltato di là, a destra o a sinistra, non gliene importa nulla: ha Dio nelle mani. Questo Sacerdote, che è la creatura dell’onnipotenza, tanto onnipotente che fa ciò che l’Arcangelo non può fare; può dire a un peccatore: “Sono rimessi i tuoi peccati” e la giustizia di Dio e fa discendere la sua

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Il rapporto dell’uomo con Dio implica un addomesticamento, un rapporto intimo, di vera appartenenza. Chi si lascia addomesticare da Cristo scopre di essere ai suoi occhi unico al mondo. Per questo, quando “udrà il rumore dei suoi passi”, non dovrà nascondersi, ma Egli lo farà uscire dalla tana del proprio isolamento, fino a condurlo alla vita eterna19.

La preghiera Dopo l’amore verso il Signore e l’eucaristia, “la preghiera” perché la considero una sorta di casa comune e di linfa divina che circola nelle vene anche dei lontani, anche dei non credenti, perfino degli atei, perché essa riesce a mettere “in ginocchio” lo stesso Dio che si commuove dinanzi ad un cuore che lo invoca! Diceva Santa Teresa di Gesù Bambino: «Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso il cielo, è un grido di riconoscenza e di amore, nella prova come nella gioia» 20. Per la nostra Santa Chiesa la preghiera è “l’elevazione dell’anima a Dio o la domanda a Dio di beni convenienti” 21. In sintonia con il concetto appena ricordato, posso citare la definizione di uno scrittore contemporaneo ( che si dichiara non credente): «Vanno bene per gli angeli le ali, a un uomo pesano. A un uomo per volare deve bastare la preghiera: quella sale sopra nuvole e piogge, sopra soffitti e alberi» 22. La “ricerca di senso”, la “scoperta di sé” e l’anelito a Dio come bisogni profondi della persona, maturano, si rafforzano e acquistano intensità nell’esercizio della preghiera, sia individuale sia comunitaria. Ciò richiama e comporta una concezione biblica della persona e della sua vocazione. La persona, secondo la visione biblica, non ha una vocazione: è

misericordia. Quel Sacerdote che con la sua bocca può dire a un pezzo di pane: “Questo è il mio Corpo” e chiama l’onnipotenza infinita affinché transustanzi ciò che è pane nel corpo di Cristo!…» E. MEDI, Astronauti di Dio, op.cit., 26-27.

19 Cf. E. MEDI, Astronauti di Dio,,collana di spiritualità eucaristica a cura della basilica di S. Francesco Santuario SS. Particole, Siena 1984 , 26-27., 103 e ss; 121 e ss.

20 SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINO E DEL VOLTO SANTO, Opere Complete, Manoscritto, Libreria Editrice Vaticana, 1997, 263.

21 CCC, 2559.

22 ERRI DE LUCA, in: Vita Pastorale, 5 maggio 2002, 36-41.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 vocazione. La preghiera è l’unica cosa che può agire su due versanti della vocazione: la grazia (Dio chiama) e la libertà (l’uomo risponde). La preghiera “crea” il sacerdote e questi si “crea” attraverso la preghiera. Il sacerdote è prima di ogni altra cosa un uomo che prega, che impiega tutto il tempo che può a questo incontro intimo e privilegiato con il Signore e con la sua Santissima Madre. Diceva il Santo Curato d’Ars ai suoi parrocchiani: “Duecento angeli non potrebbero assolvervi. Un semplice prete può farlo”. La spiegazione la fornì, a modo suo, André Malraux: “(il prete) è un uomo che ha rapporti profondi con Dio”, cioè solo il prete ti introduce e ti svela il mistero dell’amore. Pregando soprattutto: “senza preghiera il prete è come una lettera priva d’indirizzo”. Il nostro posto deve essere nel silenzio della preghiera, ai piedi del Tabernacolo dove Cristo è presente nella pienezza della Sua umanità, in stato di adorazione, di oblazione, di supplica, uniti a Lui in comunione di amore. In ogni sacerdote c’è il Cristo che ama tutti gli uomini, che possono così beneficiare delle sue rinunzie, delle sue sofferenze, delle sue fatiche, della sua preghiera. È la preghiera che ci fa risplendere il volto di grazia divina. d) La formazione culturale e spirituale Prima ancora del Vaticano II era avvertita dovunque l’esigenza di rinnovare e riformare i sistemi e i programmi formativi dei sacerdoti (e dei religiosi in genere), perché le continue trasformazioni della società sollecitavano sempre più interventi in questo senso. Bisognava essere ciechi per non avvertire una generalizzata crisi della fede. Il disagio, l’affanno, la mancanza di “uscite di sicurezza”, denunciava Paolo VI, hanno radici culturali; e l’agire pastorale è il termometro più immediato del fossato tra Vangelo e cultura. Era ed è assolutamente necessario che la formazione sia in sintonia con la situazione ecclesiale e culturale. Lo esige il fine generale di tutta la formazione presbiterale: tutta la formazione dei candidati deve tendere a fare di essi, sull’esempio di nostro Signore Gesù Cristo maestro, sacerdote e pastore, veri pastori d’anime (Cf . OT,4). Tutti siamo consapevoli della complessità delle problematiche. I giovani, che erano ammessi anni fa nei seminari, avevano un retroterra culturale e religioso, a cominciare dalle famiglie, molto diverso da quello di oggi, che rispecchia le trasformazioni, le frammentazioni dell’odierna società. Come trasmettere a questi giovani futuri preti già “orientati” (spesso “dis-orientati”) il patrimonio della Chiesa congeniale e la

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 tradizione peculiare delle chiese locali? Come far sì che quanto gli si trasmette non sia una verniciatura artificiale? Mi piace riportare come esempio di dedizione, di didattica e di annunzio ai giovani chierici la figura di padre Francesco Spoto, Superiore Generale della Congregazione dei Missionari Servi dei Poveri, (morto quarantenne nel 1964 martire nel Congo), che alla formazione dedicò tutto se stesso. La spiritualità spotiana, “profonda, semplice ed impegnata” è tutta cristocentrica e si fonda sui Vangeli, su san Paolo, i Padri, i grandi Santi monaci e, in ultimo, Sant’Ignazio di Loyola. Nello stesso tempo essa si articola, si arricchisce, si “mette in discussione” misurandosi con i teologi e gli spiritualisti illuminati come Parente, Prat, Prummer, Jürgensmeier, Garrigou-Lagrange, Bartmann. Nell’aprile del 1962, in un corso di esercizi spirituali, predicò con veemente ardore paolino: “Cristo sia formato in voi” (Gal. 4, 10). «(…) Sublime ideale seguire Cristo (…) Sotto l’aspetto morale vi è in Gesù piena armonia tra le forze dell’intelligenza e le forze del cuore (…) E come sono alti e nobili i suoi sentimenti… (…) Gesù vive in comunicazione col mondo, ama la natura, conosce la tristezza, le fatiche, la compassione (…) il supplizio e l’orrore della morte» 23. Riferirsi continuamente a Cristo ed al Vangelo è la prima regola, alla quale tutte le altre “regole” si ispirano e si conformano, e con San Francesco d’Assisi mi viene spontaneo dire: “si confanno” 24. Era un prete ancorato alla sana e santa Tradizione eppure aperto alle esigenze di modernità e di rinnovamento, seguendo – in ciò – il suo adorato Pascoli, che in diverso contesto aveva mirabilmente espresso questo apparente dualismo: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole / anzi, d’antico...” 25.

e) La passione per la verità

23 D.P.F.S., (Dattiloscritti di P.Francesco Spoto) Vol. XII, Fasc. 3, 176. Cf. anche D.P.F.S., Vol. XII, Fasc. 2, 64.

24 FRANCESCO D’ASSISI, Il cantico delle creature: in I fioretti di San Francesco, Newton, Milano 1993, 14.

25 G. PASCOLI, L’Aquilone, da I Canti di Castelvecchio, in Sinfonia di Voci, Antologia Italiana, Edizioni scolastiche Mondadori, 1961, 224.

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I contenuti di Fides et ratio sembrano voler condensare il fatto secondo il quale non esiste più alcun fondamento di verità. L’emotività sostituisce la ragione e diventa presso le nuove generazioni criterio di verità e principio etico! È valore solo ciò che è soggettivamente percepito come un bene o sentito emotivamente come tale. Da questa prospettiva, spiace dirlo, si vive un periodo di povertà, di forte disagio, di grave mancanza di fiducia nella possibilità stessa di ogni persona di accedere alla comprensione di sé. In breve, si ha paura di misurarsi fino in fondo con il problema della verità. Il primo a farne le spese è il cristianesimo. Bersagliato ogni giorno da una costante critica sul proprio annuncio e sul modello di vita che propone è costretto con estrema fatica a difendere la non assurdità della fede oppure a mostrare la stessa fede quale perfezione e compimento dell’umano26. La paura per la verità pervade spesso i nostri ragionamenti. Soprattutto chi è abilitato a un ruolo pubblico, in forza del ruolo che riveste con il ministero, è tentato di timidezza o, peggio, di assuefazione alla cultura dominante. Bisognerebbe riproporre con coraggio le parole di R. Guardini: “Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza. Di essi non si dice: Tu la puoi dire quando ti piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità; non la devi né ridurre né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche quando le situazione ti indurrebbe a tacere, o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una domanda”27. C’è un imperativo, dunque, a cui il prete non può né deve sfuggire: attestare che la verità deve riprendere il suo posto e la sua coerente collocazione non solo nell’organigramma delle scienze, ma soprattutto nella vita delle persone perché possano approdare a un’esistenza carica di senso. Se queste parole sono valide per ogni uomo che porta in sé il desiderio della verità, suonano con maggior carica di significato per il credente che vede nel volto di Cristo l’immagine stessa della verità (cfr Gv 14,6). Il ministero che siamo chiamati a svolgere noi vescovi e i sacerdoti in comunione con noi, obbliga a fare della verità la propria compagna di vita.

26 A. Milano, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, Bologna 1999, 12.

27 R. Guardini, Le virtù, Brescia, 1972, 21.

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Il panorama che abbiamo descritto presenta i punti nodali su cui la nostra attenzione dovrebbe concentrarsi per permettere che lo studio e la riflessione abbiano a fornire una risposta carica di senso. Certamente il mondo in cui viviamo presenta tratti di grandi potenzialità e aspetti positivi che appartengono ormai al tessuto della nostra vita quotidiana. Proprio questa consapevolezza del grande bene che è presente nel mondo e della forte maturità che è stata raggiunta consente di esprimere un giudizio anche sugli aspetti che limitano il vero progresso dell’umanità e trattengono la corsa verso la piena umanizzazione. Non saremmo mai sentinelle del mattino (Is 21,6) se non restassimo vigili nella nostra azione pastorale dinanzi alle sfide che la scienza, la tecnica, la cultura e le ideologie in genere pongono sul nostro cammino. f) L’amicizia L’ultimo elemento tra quelli che vi ho proposto per la piena maturità umana e spirituale è dato dal dono dell’amicizia. È la componente umana di Cristo, fatta di tenerezza, di compassione. Ce ne dà un esempio la pagina giovannea della morte di Lazzaro, che abitava a Betania con le due sorelle Marta e Maria (Gv 11,1-38). Egli gode del calore dell’amicizia, ama stare con i bambini, condivide le gioie semplici di tutti; dimostra la sua umanità nelle varie circostanze, gioiose o drammatiche. Con il suo esempio, il divino Maestro ci conferma che avere un amico, vivere un’amicizia è un grande bene. Una tale vera amicizia offre alimento, conferma, verifica, aiuto e sostegno. Non è esagerato asserire che la vera amicizia ha natura angelica se solo si riflette sul fatto che essa vive di parole che vanno dritte all’anima; del conforto che ci viene nei momenti difficili; di gesti generosi quanto, spesso, imprevedibili; di umana comprensione per le immancabili debolezze; di sincerità d’accenti e di sentimenti; di partecipazione ai nostri momenti di gioia e di dolore, di angoscia e di solitudine. Tutti i santi sono un’illustrazione vivente e immortale dell’amicizia agapica e tra questi i più radiosi sono i santi benefattori, coloro che si sono spogliati di tutto per farne dono agli altri. Campione tra essi, unus ex multis, è San Francesco, il Poverello d’Assisi. Il servita Padre David Maria Turoldo, tra le altre cose belle che ci ha lasciato, ha scritto nel 1984 delle stupende parole sul tema di questo paragrafo: «Sì, l’amicizia è stata la mia casa, il mio rifugio, la mia salvezza. Mi dicevo: si perda pure ogni cosa, purché viva e cresca e fiorisca l’amicizia.

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Io ho creduto anche per gli amici. E se ho conservato la fede, se ho continuato a essere frate (e spesso con la gioia di esserlo) è stato anche per gli amici. I quali poi non erano e non sono solamente i fratelli di fede, ma sono pure gli “altri”; o forse: più costoro che i primi, se pure è possibile una gerarchia di affetti a questi livelli così delicati» 28. È questa l’amicizia anche per Massimiliano Kolbe, che si offre al carnefice in cambio di un “amico” che – forse – neppure ha mai visto. Che importanza poteva avere conoscerlo da sempre o da un giorno? In quell’infelice aveva ravvisato Cristo, il suo più grande amico: valeva bene la pena di dare la propria vita per lui, come Gesù stesso aveva insegnato. Come abbiamo già detto: non c’è amore più grande. Nunc dimittis servum tuum Domine… 29.

Conclusione “I Presbiteri… non potrebbero essere ministri di Cristo se non fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena; d’altra parte, non potrebbero nemmeno servire gli uomini se si estraniassero dalla loro vita e dal loro ambiente. Per il loro stesso ministero sono tenuti con speciale motivo a non conformarsi con il secolo presente; ma allo stesso tempo sono tenuti a vivere in questo secolo in mezzo agli uomini, a conoscere bene –come buoni pastori- le proprie pecorelle… si applichino (quindi) ad esaminare i problemi del loro tempo alla luce di Cristo… Ai nostri giorni la cultura umana e anche le scienze sacre avanzano a un ritmo prima sconosciuto è bene, quindi, che i presbiteri si preoccupino di perfezionare sempre adeguatamente la propria scienza teologica e la propria cultura in modo da essere in condizione di poter sostenere con buoni risultati il dialogo con gli uomini del loro tempo” (PO 3.4.19). Le citazioni del Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri sono solo un pallido esempio di quanto il concilio Vaticano II, a più riprese, ha insegnato la necessità e l’urgenza di conoscere il mondo a noi contemporaneo con le sue sfide e progetti, con le sue aspirazioni e contraddizioni, perché sempre e dovunque si sia in grado di annunciare con coerenza il Vangelo di Gesù Cristo. Non possiamo lasciarci prendere dalla stanchezza né dallo sconforto. Lo ribadivano sempre i Padri conciliari: “I

28 D. M. TUROLDO, Rapsodia dell’amicizia III, 31 (1984), in Servitium, n° 139 Gennaio- Febbraio 2002, 107–109.

29 “Ora congeda pure il tuo servo, Signore”, prime parole intonate da Simeone (Cf. Lc 2,29), quando gli fu presentato Gesù ed in cui riconobbe il Messia.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 ministri della Chiesa, e talvolta gli stessi fedeli, si sentono quasi estranei nei confronti del mondo di oggi e si domandano angosciosamente quali sono i mezzi e le parole adatte per poter comunicare con esso. E non c’è dubbio che i nuovi ostacoli per la fede, l’apparente inutilità degli sforzi che si sono fatti finora e il crudo isolamento con cui vengono a trovarsi, possono costituire un serio pericolo di scoraggiamento” (PO 22). Dobbiamo convincerci che la forza che proviene dal Vangelo e la grazia che sostiene il nostro ministero se sono uniti a una coerente conoscenza dei fenomeni e pongono con lucidità una critica intelligente permettono di guardare al futuro con maggior realismo. Il cambiamento culturale è dinamico e sempre aperto a nuovi sviluppi; ad esso, comunque, non può mancare la nostra intelligenza e il nostro impegno perché l’opera di formazione e di educazione alla fede possano sempre dare la genuina e più coerente risposta alla perenne domanda di senso che alberga nel cuore di ogni persona. Questa risposta di senso è la vera strada da percorrere perché il cambiamento culturale in atto sia ancora una volta rivolto all’uomo nella sua integrità e non contro di lui. Ecco, il ritratto del sacerdote si conclude qua, tra passato, presente, futuro. Ho parlato della sua (della nostra) missione sacerdotale, dello scopo, dell’identità, del privilegio di essere presbiteri in questa società ed in questo momento, pur con tutti i problemi materiali e spirituali. Nel sottoporre alla vostra riflessione alcune “uscite di sicurezza” di siloniana30 memoria, ho voluto sottolineare che essere poggiano sull’ l’unica uscita di sicurezza: Cristo Gesù. Dopo l’esperienza della luce della Trasfigurazione si ritorna nei ritmi della ferialità dell’esistenza, nella situazione di esuli lontani dalla vera

30 Una delle opere maggiori d’Ignazio Silone, opera biografica e politica, è senza dubbio “Uscita di sicurezza”. Lo scrittore, di formazione umanistica, si trovò per varie vicissitudini, tristi, umilianti, mortificanti, a fare un esame di coscienza della propria vita, delle proprie azioni, del modo di pensare. Ne concluse che non si possono servire contemporaneamente due padroni: la propria coscienza e un’ideologia politica materialista e disumanizzante. Scelse di ritirarsi, rinunziando a tutto quello che una lunga militanza politica e partitica gli avrebbe garantito, in termini di successo, onore, carriera. Si ritirò, attirandosi la malevolenza, l’odio, le accuse di tradimento da parte dei suoi ex compagni. Non poté farne a meno: fu la sua uscita di sicurezza e visse da cristiano. Da quando il Signore si è incarnato per noi, suoi figli, l’uscita di sicurezza dalla mediocrità, dal grigiore del materialismo e dall’egoismo è una sola: Gesù Cristo. E dal momento che tutta la storia dell’umanità si realizza e si compie in Cristo, anche le altre “uscite di sicurezza” appaiono sbiadite, sfocate, anche se – contestualizzate – possono aver significato qualcosa, magari di importante, per i singoli protagonisti delle diverse epoche.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 patria, ognuno con il suo peso umano, i suoi aneliti e le sue debolezze, lo slancio evangelico e la pesantezza dell’esistenza, il senso del limite umano, la nostalgia per una pienezza che forse non è dato raggiungere se non alla fine della nostra corsa. Sono i momenti che ci invitano e in qualche modo ci obbligano a fare ricorso alla preghiera, alla gioia dell’abbandono, al gaudio della contemplazione del volto del nostro Fratello primogenito, Gesù Cristo. Per essere epifania di Cristo è necessario che noi preti salvaguardiamo la nostra identità sacerdotale umana e divina aprendoci quotidie all’azione dello Spirito Santo che ci trasforma e ci cristifica. Consentitemi ancora un paio di riflessioni. Nessuno e nessuna cosa merita di scalfire la bellezza e la gioia di una esistenza sacerdotale, quella “gioia di appartenerGli per sempre”, come scrisse Paolo VI. La giustificazione di tanti sacrifici, la riuscita di una vita consacrata per sempre a Dio, sono commisurate alla pienezza di un rapporto d’amore di noi sacerdoti con il Signore: la centralità di Cristo nella nostra vita! La seconda riflessione è un invito a ripensare che per il “regno” ci vuole una pietas ancorata al libero coinvolgimento del nostro intimo con l’azione dello Spirito Santo, con i progetti del Padre e con l’Amore del Figlio. E la risposta all’amore di Cristo è la redamatio agostiniana (da redamare, ossia riamare, rispondere all’amore con amore, contraccambiare l’amore). Io, voi, tutti, abbiamo il coraggio di essergli fedeli, modelliamo la nostra vita e il nostro ministero sul suo, cerchiamo sempre il suo Volto e sull’esempio della Madre, la Vergine Maria, che custodiva con infinito amore tutto ciò che riusciva a percepire del Figlio nel suo cuore di Donna senza peccato, procediamo sicuri nel nostro cammino, perché sulla nostra barca non siamo soli: c’è il Signore che ha il potere di dire al vento e al mare “Taci, calmati” (Mc 4,39). Ed è appunto a Maria che il mio pensiero va in filiale adorazione nel congedarmi da voi. Il sacerdote amando Gesù, portandolo agli uomini, prega l’Immacolata ed a Lei si affida, perché vuole donare anche Lei al suo gregge. Se Ella è il cammino per il quale Gesù è venuto da noi, allora per quel medesimo cammino noi potremo giungere a Cristo Signore. L’Eucaristia e la Vergine: già San Francesco aveva fatto di questo santo binomio la fonte di ogni preghiera, di ogni azione, di ogni grazia e di ogni “letizia”.

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Maria, rendici capaci di un amore che non calcola, prodigo, eccessivo, come il tuo. E poiché l’amore viene da Dio, facci ritornare sempre alla sorgente, e così guardare oltre e prendere il largo e poter dire: io porto il mondo nel mio cuore… in una “federazione del cuore”, in una “coralità fraterna”, che ci aiuti a costruire il parlamento universale dell’amore.

 Vincenzo Bertolone

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INTERVENTO AL CONVENGO INTERNAZIONALE DEL SANTO VOLTO UNIVERSITÀ URBANIANA Roma, 11 Ottobre 2008

LE BEATITUDINI “CARTA DI IDENTITÀ DEL CRISTIANO”

La pagina matteana delle beatitudini è tra le più note e belle dei Vangeli. In essa traspaiono quella gioia e quella luce proprie degli inizi della predicazione di Gesù, quando sembrava ancora facile e bello ascoltare dal giovane Maestro di Galilea l’annuncio del Regno di Dio fattosi vicino agli uomini. C’è una dolcezza straordinaria nelle parole di Gesù. C’è una consolazione che raggiunge ogni cuore. C’è una visione di Dio che gli uomini, con le loro immagini distorte del divino, non avrebbero mai potuto elaborare. Tutti questi significati hanno fatto sì che quelle parole fossero giudicate, come ormai da secoli avviene, la punta di diamante, la magna charta del messaggio cristiano, nato sui pendii di uno dei colli vicino a Cafarnao, che scendono dolcemente verso il lago di Tiberiade, dove l’antica tradizione cristiana ha localizzato il posto nel quale Gesù Cristo ha pronunziato il discorso della Montagna o “del Monte”. Per altro verso, è pure nota l’ammirazione di pensatori non cristiani, e tra questi Gandhi, per il messaggio delle Beatitudini predicate da Gesù, intese come invito, prima d’ogni cosa, alla conversione interiore degli evangelizzatori, senza la quale non sono possibili né la missione ad gentes, né l’attività pastorale, né il vero ecumenismo. Il significato dei termini beato31 e beatitudine è da ricercarsi nell’etimo, sia ebraico, sia greco, sia latino. Con beatus, sebbene i latini abbiano usato indistintamente anche felix e fortunatus, si rende da un lato la parola ebraica ‘ašrej, dall’altro la parola greca makários (il traduttore della versione dei Settanta usa anche makáristos e il verbo makarízō, nel senso di “proclamare beato”), quest’ultima intesa propriamente con il significato di gioia, felicità. Secondo, alcuni, invece, e tra costoro Andrè Chouraqui, «il termine evoca la rettitudine dell’uomo in cammino su una

31 Il termine “beato”ricorre 57 volte nell’A.T. (di cui 26 nei Salmi e 30 nel N.T.).

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 strada che va diritta verso Javhè». Infatti egli attribuisce all’espressione in questione il significato di “in cammino!”32. E’evidente, comunque, il legame che unisce il termine beato al concetto di felicità; e in un discorso che tratta delle beatitudini evangeliche è indispensabile non separare il concetto di felicità da quello di beato e beatitudine. È Platone a parlare, per la prima volta nel pensiero occidentale, di anima, definendola come la parte spirituale di cui è costituito l’uomo. Nel Simposio si legge che le persone felici sono tali perché posseggono il bene. Nella patristica, Agostino, come altri prima di lui, sembra ripercorrere la strada aperta da Platone, ma con una differenza profonda e vitale: il sommo bene non è più un’idea, ma una verità incarnata: Cristo Nel pronunciare il discorso della Montagna, Gesù annuncia che la felicità è possibile ed indica la strada per raggiungerla pienamente: se il mondo proclama beati i ricchi perché possono permettersi quello che vogliono; se proclama beati i gaudenti, i potenti, i forti perché incarnano il successo nel mondo, il Vangelo proclama beati coloro che si collocano davanti a Dio nella condizione di mendicanti. Le Beatitudini hanno un forte contenuto escatologico; ci ripropongono la priorità dell’annuncio del Dio vivente, l’invito essenziale a fidarsi di Dio. Perché «solo Dio basta» (santa Teresa d’Avila). Ma a questo punto, sorge spontanea la domanda: è possibile all’uomo di oggi coscientizzarne la proposta evangelica? Onestamente , non può farcela da solo. Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo di enormi sacrifici, partiremmo comunque subito. Perché in ogni caso sarebbe più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi. Ecco perché la Chiesa deve non solo far riscoprire il fascino delle beatitudini, ma deve anche, come comunità di discepoli, annunciarle con la testimonianza della vita, nella sofferenza e nella misteriosa gioia di chi ha scelto di seguire il Cristo fino all’estremo dono di sé. Il compito al quale siamo chiamati e, nello stesso tempo, anche l’unica uscita dal crollo totale dell’umanità di cui avvertiamo l’indizio, è

32 “En marche!”, nell’originale francese. Cfr. nota a Mt 5,3 nella sua traduzione della Bibbia (La Bible traduite et présentée par André Chouraqui, Desclée de Brouwer, Paris 1985).

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 riafferrare la realtà umana di Cristo, tenerla ferma e reggerci ad essa, per non precipitare nell’abisso che è davanti ai nostri piedi. Afferrarla nella prassi della vita. Ma come afferrare quell’umanità di Cristo, per tenerci ad essa? L’unico modo è vivere le beatitudini, il che non è possibile senza uno scarto decisivo e una conversione di marcia nella nostra vita. Solo quando prenderemo coscienza di ciò, vivremo e moriremo in pace, perché ciò che da un senso alla vita dà un senso anche alla morte. a) Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3)

“ ... Uno spirito contrito, un cuore contrito e umiliato tu, Dio, non disprezzi” (Sal 51, 19)

La serie dei beati con cui si apre il passo di Matteo è l’invito alla felicità che Gesù rivolge ai poveri in spirito, espressione che ha creato non pochi problemi di carattere filologico e interpretativo. Il termine povero, già di per sé, implica delle difficoltà sul piano lessicografico. La questione si complica di fronte all’aggiunta “in spirito”. Perché Matteo la considera necessaria? E, soprattutto, su quale dei due termini è necessario concentrare l’attenzione per capire a quali poveri Gesù si rivolge? I Padri della Chiesa hanno privilegiato ora il completamento in spirito (trasponendo il termine poveri su un piano strettamente spirituale), ora il termine poveri, accogliendolo nella sua valenza originaria e ritenendo il completamento in spirito un’indicazione di rinuncia volontaria della ricchezza, perché solo verso i poveri Dio mostrerà misericordia. Tutta la vita di Cristo, sin dal suo concepimento, è rivelazione del senso autentico delle parole beati i poveri in spirito. In Lui si concretizza una povertà che parla al cuore di tutti e di ciascuno di noi. L’uomo, ci ricorda la Bibbia, non vive di solo pane, ma ha bisogno di luce, di bellezza, di spiritualità, di interiorità. Beati, allora, potranno essere i ricchi se vivranno, come Lui, un totale distacco dalla propria ricchezza, riconoscendola come dono gratuito e, dunque, condividendola con i più poveri e miseri; beati potranno essere i poveri che sapranno confidare in Dio Padre anche nei momenti di più profonda desolazione. Beati saranno tutti coloro che della povertà di Cristo faranno non solo la regola di vita, ma lo stesso habitus, perché la prima condizione per essere felici è diventare poveri e liberi interiormente.

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È chiaro, dunque, che il valore di questa beatitudine deriva dalla persona e dal mistero di Cristo, per cui la Chiesa, appartenendo a Cristo, non può non assumerne le stesse fattezze. Cerchiamo Dio con cuore libero: troveremo noi stessi, scopriremo la bellezza del mondo e assaporeremo la gioia autentica. Di questo ci parlano le vite di tanti beati che, sulle orme di Cristo, hanno ritenuto la povertà spirituale come necessaria per entrare in comunione con Dio. Già il profeta Sofonia affermava che il Signore riserva un’attenzione speciale ai poveri e ai deboli. San Paolo, scrivendo ai Corinzi, ribadiva che Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto, debole, ignobile, disprezzato, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio (v. 27- 29). La stessa situazione si ripete quasi ovunque nelle giovani Chiese missionarie, soprattutto nel sud del mondo, dove l’annuncio del Vangelo si realizza con mezzi semplici e fragili, quasi sempre in situazioni di minoranza, di incomprensione, di ostilità. Proprio in tali situazioni di precarietà umana, purtroppo frequenti, si rivela meglio la forza del Vangelo e l’efficace gratuità delle Beatitudini. b) Beati gli afflitti, perché saranno consolati (Mt 5,4)

Lo Spirito del Signore (…) mi ha inviato ( …) per consolare tutti gli afflitti (Is 61,1.2)

La seconda beatitudine sfiora il paradosso: come è possibile che qualcosa che affligge si muti in fonte e promessa di consolazione? Risposta: è necessario spiegare all’uomo di oggi che la sofferenza e l’afflizione è quella del Cristo sofferente, l’Afflitto per eccellenza, e la beatitudine è quella del Cristo Risorto. I Padri e i Dottori della Chiesa hanno optato per un’interpretazione spirituale, in linea con il contesto matteano, per cui l’afflitto è colui che è dispiaciuto dei propri peccati e detesta interiormente la propria condizione peccaminosa nella quale vive. La vita del credente è dunque un redentivo travaglio spirituale, un continuo sperimentare la caduta del peccato, un assaporare le lacrime dolci del pentimento autentico, grazie al quale cerca di elevarsi alle vette della perfezione: «Per la messe materiale come per quella spirituale sono necessarie fatiche e sudori; e come il seminatore non si rattrista ma pensa alla messe futura, quando siamo nell’afflizione non tormentiamoci, ma pensiamo che ciò ci procurerà un gran bene» (Giovanni Crisostomo, Commento al Salmo 126).

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Con l’incarnazione di Cristo, Dio ha instillato nel cuore del dolore la speranza di una consolazione eterna. Beati gli afflitti perché non sono degli illusi, perché credono nei paradossi e danno testimonianza in prima persona. Quindi, chi crede nella Verità non può che riflettere l’immagine di Cristo. E questo sarà segno di contraddizione, in quanto l’afflizione di cui parla il Signore è il non conformismo con il mondo; è un modo di opporsi a quello che fanno gli altri; è denuncia dello stordimento e della indifferenza delle coscienze; è credere che la sola risposta alla sofferenza non è nel mondo, ma nel Cristo. Sarà segno, inoltre, di speranza, perché tenendo acceso il desiderio di Dio, confiderà nella Sua protezione e nella certezza della Sua consolazione. c) Beati i miti, perché erediteranno la terra (Mt 5,5)

“Ma i miti erediteranno la terra e godranno il diletto di molta pace” (Sal 37, 11)

Pur non seguendo quella dei poveri in spirito, la beatitudine sui miti è in stretta relazione con essa e si spiega proprio a partire dalla menzione dei poveri. Poveri in spirito e miti rappresentano sfumature inseparabili, pur se distinte, del medesimo atteggiamento della ‘anâwâh. Per i primi commentatori della Chiesa, la beatitudine fa riferimento ai miti nei confronti del prossimo. Così, ad esempio, Gregorio di Nissa, Tertulliano, Ambrogio, Girolamo. Da essi prenderà le distanze Agostino, per il quale è mite ed umile chi resiste al male e lo vince con il bene. È in Cristo che troviamo il modello perfetto della mitezza, “(…) umile di cuore” (Mt 11,29); è il re pacificatore, annunciato dal Profeta Zaccaria “Dite alla figlia di Sion: ecco il tuo re viene a te mite”(Mt 21,5). È Colui che non discute, non grida, ma mostra un volto misericordioso e paziente, attento alle esigenze degli altri. Egli è il non violento, non ha bisogno di ricorrere alla violenza per attirare a sé gli uomini: gli basta la forza travolgente dell’amore. Con amore e comprensione, Gesù accoglie Maria Maddalena, trasformandola in una persona nuova e restituendole la dignità perduta di figlia di Dio (cfr. Lc 7, 36-50). Comprensivo e paziente è anche nei confronti dei discepoli, talvolta rozzi e non sempre capaci di capirLo. Non avrà per essi parole di rimprovero o rabbia, ma sarà sempre tollerante, cortese, paziente e dolce (cfr. Mc 4,35-42; 5,35-44; 47-52; Lc 5,4-11; Gv 14,1). A quanti lo incontrarono sulle strade della Palestina, il suo volto e il

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 suo sguardo rivelarono sempre la grande bontà di Dio (cfr. Mt 8,5-9; 9,10- 13; 18-22; Lc 19,1-10). Accetta gli uomini per ciò che sono e per quel poco di buono che possono offrire; rivela il mistero della misericordia divina, ma non giudica né condanna chi la rifiuta. Ma il più sublime esempio di mitezza è Maria, la quale ha imparato ad essere mite nella prova del disonore, avendo ancora giovanissima accettato una gravidanza che la condannava agli occhi della società; nella rinuncia a quel suo figlio tanto amato, che non Le apparterrà mai; vedendolo, innocente e santo, oltraggiato, crocifisso e ucciso; nell’ascolto e nel conforto ai cuori smarriti e nel tenere alta la speranza degli Apostoli dopo quello che appariva la fine di tutto. Gesù e Maria sono stati i primi ad ereditare la terra, stando nel mondo senza essere del mondo, divenendone centro e fine dell’uomo e chiave di volta di tutta la storia umana. E il “Magnificat” è l’espressione alta e lirica di ciò che Dio compie, innalzando gli umili e i poveri, disperdendo e confondendo i forti e i potenti. d) Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6)

La fame e la sete di giustizia, cui fa riferimento Matteo, è fame e sete di Dio, fame e sete di Cristo, della Sua Parola liberante e salvifica; fame e sete di santità, anelito dell’anima a Dio. E’ fame e sete d’infinito dal quale siamo nati ed al quale ritorneremo. Il testo di Matteo, mentre si affretta a completare il binomio fame e sete con il termine giustizia, ci pone di fronte a nuovi problemi interpretativi, giacché questa terza parola acquista significati diversi a seconda dei contesti, per esempio con riguardo alla sfera umana, con i desideri celati nel cuore umano. Nelle Sacre Scritture, concetti come fame e sete, oltre a ricorrere spesso per definire condizioni fisiche, trovano impiego anche con valenza spirituale. Giustizia è un altro termine che nelle Scritture assume diversi significati, afferenti ora alla sfera divina, ora a quella umana. Anche nel Nuovo Testamento la giustizia (e l’essere giusto) equivale a compiere la volontà di Dio. Non dissimile l’interpretazione dei Padri sulla quarta beatitudine: Lattanzio, ad esempio, dichiara che suo primo compito è riconoscere Dio come genitore, temerlo come Signore e amarlo come Padre; secondo

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 compito, invece, è riconoscere l’uomo come fratello e la giustizia come il più alto valore etico. Cristo è l’unico Giusto nel senso più completo, non tanto perché muore da innocente, ma perché muore realizzando il volere del Padre Suo, al quale si è conformato per tutta la sua esperienza terrena, fino all’estremo dono di sé. Ma Gesù Risorto è anche immagine del saziato e, al tempo stesso, del vero cibo che sazia e diventa così speranza certa di salvezza per quanti si mettono alla sua sequela. In un mondo che sembra vivere senza il desiderio di Dio, il credente è faro nella notte: simbolo della fame e sete di Dio, indica all’umanità la bellezza di una vita tesa verso la ricerca della Verità, nella certezza di un incontro che cambierà il volto dell’uomo in volto santo. e) Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5,7)

Nelle Scritture, la Misericordia è espressa con più termini, i quali esprimono i diversi volti dell’amore misericordioso di Dio Padre. Il primo di essi è rehamîm, che designa le viscere. Il secondo è hesed, con il significato fondamentale di bontà. Dai testi veterotestamentari, che cantano la tenerezza del cuore di Dio per il suo popolo, e dai Vangeli, che testimoniano le parole e i gesti del Cristo misericordioso, apprendiamo che due sono gli aspetti fondamentali caratterizzanti la misericordia divina: perdono concesso alla colpa e aiuto ai bisognosi33. Cristo ha rivelato i due volti della misericordia di Dio: quello del perdono (la misericordia del cuore) e quello dell’aiuto ai sofferenti (la misericordia delle mani). Nel volto della misericordia del cuore si è espresso l’amore di Gesù. L’altro volto, quello della misericordia delle mani (azione operante), serve a Gesù per rivelare la compassione del Padre per quanti invocano aiuto. Il discepolo misericordioso è colui che ama con lo stesso amore di Cristo ed impara il rischio della bontà. Nei Vangeli, infatti, vediamo come Egli spesso si commuova davanti alle necessità dei fratelli e senta compassione per quanti invocano la sua pietà. È in virtù di questa verità che Gesù potrà dire: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre» (Lc 6,36).

33 J. Dupont, Le Beatitudini. Gli evangelisti, EdP, Milano, 1992, vol.II,. 948ss.

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f) Beati i puri di cuori perché vedranno Dio (Mt 5,8)

L’essere puri di cuore significa essere trasparenti, limpidi, retti nella coscienza. L’essere puri di cuore è condizione indispensabile per accostarsi a Dio e rendergli lode, ma anche e soprattutto per godere della sua presenza. Con Gesù la purezza esteriore, rituale, tipica della tradizione veterotestamentaria, perde ogni valore perché, come è avvenuto anche per le altre beatitudini, si interiorizza. Il Suo è un cuore libero dalle naturali debolezze e incertezze umane. Egli si è conformato alla volontà del Padre, i suoi progetti sono stati quelli di Dio, il suo cuore è cuore dell’Eterno. Nella storia della spiritualità cristiana questa beatitudine è stata interpretata sulla base di tre direttrici fondamentali: morale, mistica e ascetica. L’interpretazione morale incentra la propria attenzione sulla rettitudine dell’intenzione, concepita come rifiuto del praticare il bene per avere il plauso della gente e non a gloria di Dio (Cfr. Mt 6,1). Ad un atteggiamento decisamente ipocrita e vanaglorioso ne viene contrapposto uno umile e discreto, sincero e semplice, per mezzo del quale si ottiene la purezza di cuore e, dunque, la possibilità di vedere Dio. L’interpretazione mistica pone l’accento proprio sulla visione di Dio. Il suo maggiore interprete, Gregorio di Nissa, identifica detta beatitudine con l’azione contemplativa: un cammino graduale di liberazione del cuore dalle passioni del mondo per tornare alla primigenia e limpida immagine divina. La via ascetica, infine, colloca la beatitudine nell’ambito della lotta contro le passioni della carne. Con questa beatitudine, insomma, Gesù annuncia che dentro il cuore limpido e retto di ogni uomo è nascosto il volto dell’Eterno. Di qui la necessità di trasformare i nostri cuori di pietra in altrettanti cuori di carne umili che amino Dio al di sopra di tutto e di tutti. g) Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9)

… La pace del cuore è il paradiso dell’uomo (Platone)

La settima beatitudine si rivolge agli είρηνοπoίοι, aggettivo composto dalla parola ειρήνη (pace) e dal verbo ποίεω (fare): pacificatori, ovvero costruttori di pace.

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Ci dice, inoltre, che il vero operatore di pace deve prima riconciliarsi con se stesso per poter riconciliarsi con gli altri. Ciò implica un comportamento attivo: amare e rischiare per la pace, perché amarla è lo stesso che costruirla e difenderla. L’uomo di pace si lascia guidare da Dio, riflette all’esterno ciò che vive nel proprio animo in modo armonioso e mediante un dialogo scevro da preconcetti e pregiudizi, aperto a tutti, anche ai competitori, agli avversari: un uomo siffatto è guidato solo dalla legge dell’Amore. A ragione Agostino pregherà il Signore perché per prima cosa gli conceda il dono della pace. È Cristo il primo autentico operatore di pace, in quanto “télos”(fine) della creazione e della riconciliazione con Dio. Gesù riconosce e rispetta la dignità di ogni uomo che incontra lungo il suo cammino; promuove e accetta il dialogo con tutti; contesta ogni forma di ingiustizia, odio e violenza; non ha pregiudizi o preclusioni; fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere su giusti e ingiusti34: è questa la strada per raggiungere la pace. La nostra pace, perciò, ha il volto e la voce di Cristo Risorto, annuncio di vita pacificata, piena e abbondante, segno di un ritrovato e rinnovato rapporto con Dio, con se stessi e con i fratelli. È questo l’habitus del vero costruttore di pace. Come diceva Dante, «E ‘n la sua voluntade è nostra pace»: è Dio Padre che ci ha pensato, desiderato, voluto, creato quali creature di pace. Il volto della pace che si svela, dunque, è quello di un discepolo radicato in Cristo, a Lui unito da un’intima, profonda comunione, che diventerà alimento nel servizio della pace e lo renderà testimone scomodo del suo tempo, capace di lottare perché il mondo recuperi la bellezza, la santità, l’armonia pacifica al quale Dio l’aveva destinato. Allora l’uomo giocherà con il cielo e con la terra, giocherà col sole e con tutte le sue creature. Tutte le creature proveranno un amore immenso, una gioia lirica, e rideranno con Dio, mentre il Signore riderà con loro. h) Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10).

…se venisse l’uomo giusto e perfetto, questo mondo cattivo lo crocifiggerebbe (Platone)

34 V. Morelli, La felicità secondo Gesù. Beatitudini per tutti, EDP, Milano 2004, pp. 54-59.

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L’invito ad essere felici, rivolto da Gesù attraverso le beatitudini, si conclude com’è iniziato: nel segno del paradosso. In questa ottava e ultima beatitudine Egli dichiara felici i perseguitati a causa della giustizia, ai quali assicura, qui e ora, il Regno dei Cieli. Secondo la tradizione dei Padri, tuttavia, l’ultima non può essere considerata una vera beatitudine, quanto piuttosto un semplice corollario. È questa la linea interpretativa indicata da Agostino: «Sono dunque sette le beatitudini che portano a compimento una vita cristiana, perché l’ottava, quasi tornando al principio, chiarisce e indica ciò che è stato già compiuto…». Beati sono da considerarsi solo coloro che hanno subito la persecuzione a causa di Cristo? Se ci rifacciamo all’età patristica, la risposta è sì: i beati, perseguitati, degni del premio finale, sono quelli che hanno pagato anche con la vita la propria fedeltà a Cristo. Oggi, invece, l’orizzonte di questa beatitudine si è dilatato, includendo quanti sono perseguitati per aver difeso la causa dei diritti umani e civili fino all’offerta della vita e si sono fatti spezzare, come pane eucaristico, sull’altare della dignità e della giustizia fra gli uomini, pur di non macchiare la propria purezza e santità35. Ad aprirci la strada nuova tracciata dall’ultima beatitudine è la Madre, mite, fedele, l’afflitta per eccellenza che affronta nella totale disponibilità alla volontà del Padre anche i momenti più oscuri e difficili della vita.

Conclusioni

Il Santo Padre Benedetto XVI, che alle Beatitudini ha dedicato un capitolo del suo Gesù di Nazaret, vi scorge una sorta di autoritratto del Cristo: «Le beatitudini sono promesse nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo che Gesù inaugura, il rovesciamento dei valori»36.

35 R. Cantalamessa, Le Beatitudini evangeliche. Otto gradini verso la felicità, EdP, Milano, 2008, 113-126.

36 Ibidem, 94-95.

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In effetti, con le Beatitudini Gesù ci mostra una via realistica verso la felicità, che consiste proprio nella capacità di trasformare il dolore in gioia, le tenebre in luce, la sofferenza in lenimento d’amore, che dà pace. Gesù, nel discorso della Montagna, rifonda le relazioni con gli altri sulla logica del servizio e del dono di sé. Ci lascia un’eredità, ci insegna come si possa e si debba ricercare e raggiungere la vera felicità, perché – ripeto - la vita acquista senso solo se la si dona e la dignità umana più alta si esprime nel servire. L’icona concreta di questo paradosso è Gesù stesso, che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45). Di primo acchito, incontrandole col cuore, le beatitudini possono apparire agli occhi di questo nostro mondo globalizzato e materialista una consolante litania per confortare gli infelici e gli innumerevoli sventurati, che – oltre i nostri confini – in numerosi Paesi si contano ormai a milioni. La cultura oggi più largamente diffusa nel mondo occidentale ed occidentalizzato obbedisce ad un principio: l’uomo basta a se stesso ed il mondo umano ha in sé il suo inizio e la sua fine. Tutto andrà meglio se s’instaura il regno della sola ragione. Così, non ci si accorge che non v’è giorno che non porti una sorpresa e perdiamo tanti frammenti di felicità che sono dispersi nella quotidianità della nostra vita e di quella altrui, ignoriamo le piccole grazie di Dio e i semplici sorrisi delle persone, perdiamo la meraviglia dei colori della natura, lasciamo svanire nel nulla la sottile rete delle minime ma numerose sorprese. In realtà, il destino dell’uomo è l’infinito, la sua tensione è per l’infinito ed è proprio in questa apertura all’assoluto che risiede l’autentica felicità. Un po’ liberamente potremmo accostare la parola desiderio al latino de sideribus, ovvero qualcosa che scende dalle stelle, una nostalgia dell’infinito, della pienezza, della luce assoluta e pura. Alla società imbevuta di tale cultura, in cui si avverte comunque la «nostalgia del Totalmente Altro» e si diventa «mendicanti del cielo» (J. Maritain), la Chiesa deve annunciare il vangelo delle beatitudini, il vangelo dell’amore, della misericordia, della compassione: Cristo, Via Verità e Vita. Noi siamo i suoi discepoli. Mettiamo i nostri passi nei suoi passi. In questi tempi difficili, non dubitiamo dell’amore di Dio per noi: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? » (Rm 8,31-39). L’anima umana è un abisso che attira Dio, e Dio solo la può colmare. Gesù vuole restituire l’umanità a se stessa, così come l’ha pensata Dio, nella quale tutti sono felici. Il regno di Dio non è riservato agli intelligenti di questo mondo, ai colti, agli uomini che contano (soprattutto per il

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 denaro), ma a chi ha il coraggio di amare, a chi è affamato e assetato di giustizia, a chi ha un cuore che si commuove vedendo la miseria altrui, a chi costruisce la propria vita sopra la verità e non sulle trappole umane. Il Regno è riservato a chi è disponibile a farsi trapiantare un cuore nuovo, a lasciarsi immergere nell’amore di Dio, il quale trova spazio senza limiti negli umili, che sentono che vale la pena di spendere la vita solo per lui, il Signore. Oggi noi, chiesa di Gesù, non possiamo tradire la speranza che egli ci ha portato. Noi suoi fedeli, a partire dal Vescovo fino all’ultimo dei cristiani, siamo chiamati a continuare la missione di Gesù: annunciare la vita e la vita in abbondanza; resistere al male sotto ogni forma; denunciare tutto ciò che avvilisce la dignità della persona. Perciò, uomo contemporaneo, torna tranquillo: ciò che rende felice un’esistenza è avanzare verso la semplicità del cuore e della nostra vita. Perché una vita sia bella, non è indispensabile avere capacità straordinarie o grandi possibilità: l’umile dono della propria persona rende felici. Quando la semplicità è intimamente legata alla bontà del cuore, anche l’essere umano più sprovvisto può creare un terreno di speranza attorno a sé. La felicità e la gioia cui si aspira non sono un possesso, ma un dono che ci avvolge, una specie di abbandono a un’onda che ci porta; una realtà che penetra in noi, circola nelle nostre vene, ci trasfigura; sono respiro, atmosfera, stato di grazia, luce. È per questo che gioia e felicità sono affini all’amore, dono, sorpresa e trasparenza che non può essere uccisa neppure dal suo antipodo, il dolore. Esse sono parte integrante del Vangelo, che è di per sé una buona notizia, un lieto annuncio; le beatitudini mostrano che Dio non è lontano da noi, ma è vicino ai poveri, agli afflitti ed ai perseguitati, ed è speranza della consolazione, della giustizia, della ricompensa eterna, della figliolanza divina. E, soprattutto, non ci abbandonerà in questo nostro nuovo, decisivo e irrinunciabile iter fidei et rationis. Il mio sogno ed il mio obiettivo era quello di presentare il messaggio delle beatitudini come un ideale di vita pienamente realizzabile, illustrando come esse siano una proposta completa, forse eccessiva, sicuramente provocatoria. Ma forse è proprio di ciò che c’è bisogno per scuotere i pigri, i neghittosi, gli egoisti e gli arroganti. A costoro gioverà ripetere una frase del Divino Maestro: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28).  Vincenzo Bertolone

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OMELIA IN OCCASIONE DEL 50° DI PROFESSIONE RELIGIOSA DI SR. ORLANDA BIFANO Castrovillari, 19 Ottobre 2008

Carissimi fedeli, carissime sorelle, siamo qui riuniti per la celebrazione eucaristica durante la quale ricorderemo i cinquanta anni di vita consacrata di suor Orlanda Bifano, che oggi davanti a noi, fedele alla sua vocazione, rinnoverà la sua Consacrazione al Signore. Il Vangelo di questa domenica termina con una di quelle frasi lapidarie di Gesù che hanno lasciato un segno profondo nella storia e nel linguaggio umano: “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” . Non più o Cesare o Dio, ma l’uno e l’altro, ognuno nel suo piano. Non più o Cesare o Dio, ma l’uno e l’altro, ognuno nel suo piano. È l’inizio della separazione tra religione e politica, fino ad allora inscindibili presso tutti i popoli e i regimi. Gli ebrei erano abituati a concepire il futuro regno di Dio instaurato dal Messia come una teocrazia, cioè come un governo diretto di Dio su tutta la terra tramite il suo popolo. Ora, invece, la parola di Cristo rivela un regno di Dio che è in questo mondo, ma non è di questo mondo, che cammina su una lunghezza d’onda diversa e che può perciò coesistere con qualsiasi altro regime, sia esso di tipo sacrale o laico. Si rivelano così due tipi qualitativamente diversi di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la sovranità temporale o politica che Dio esercita indirettamente, affidandola alla libera scelta delle persone e al gioco delle cause seconde. Cesare e Dio non sono però messi sullo stesso piano, perché anche Cesare dipende da Dio e deve rendere conto a lui. “Date a Cesare quello che è di Cesare” significa dunque: “Date a Cesare quello che Dio stesso vuole che sia dato a Cesare”. Con ciò si intende porre l’accento sul dare a Dio perché è l’Assoluto, a Lui appartiene tutto, Cristo è il Signore di tutto anche di Cesare. La moneta appartiene a Cesare a cui spetta il tributo; ma l’essere umano, che reca impressa l’immagine di Dio, è dovuto al suo Creatore. Ne deriva che se lo Stato arrivasse prima o poi a reclamare qualcosa di quello che appartiene esclusivamente a Dio, non resterebbe altra alternativa che “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”(At 5,29).

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È Dio il sovrano ultimo di tutti, Cesare compreso. Noi non siamo divisi tra due appartenenze; non siamo costretti a servire due padroni. Il cristiano deve obbedire allo Stato, ma deve anche resistergli quando questo si mette contro Dio e la sua legge. In questo caso, non vale invocare il principio dell’ordine ricevuto dai superiori, come sono soliti fare in tribunale i responsabili di crimini di guerra. Prima che agli uomini, occorre infatti obbedire a Dio e alla propria coscienza. Non si può dare a Cesare l’anima che è di Dio. Il primo a tirare le conclusioni pratiche di questo insegnamento di Cristo è stato san Paolo. Egli scrive: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio” (Rom 13, 1 ss.). Ma la collaborazione dei cristiani alla costruzione di una società giusta e pacifica non si esaurisce nel pagare le tasse: deve estendersi anche alla promozione dei valori comuni, quali la famiglia, la difesa della vita, la solidarietà con i più poveri, la pace. C’è anche un altro ambito in cui i cristiani dovrebbero dare un contributo più incisivo: è la politica. E non tanto e non solo con riferimento ai contenuti, quanto piuttosto ai metodi ed allo stile. Occorre svelenire il clima di perpetuo litigio, riportare nei rapporti tra i partiti un maggiore rispetto, compostezza e dignità. Rispetto del prossimo, mitezza, capacità di autocritica: sono tratti che un discepolo di Cristo deve portare in tutte le cose. È indegno di un cristiano abbandonarsi a insulti, sarcasmo, scendere a risse con gli avversari. Se, come diceva Gesù, chi dice al fratello “stupido!”, è già reo della Geenna, che ne sarà di molti uomini politici? Diventi allora modello l’esempio di chi, imitando il buon Samaritano che cura le ferite dei fratelli più poveri, mette al primo posto il Dio della vita. Tra costoro v’è di certo suor Orlanda, instancabile ambasciatrice dell’amore divino, sulla cui figura voglio riflettere a partire da un racconto. Un giorno un pagano andò dal severo rabbino Shammai e gli disse: “Sono pronto a convertirmi alla legge di Javhé, se mi riassumerai tutta la legge nel breve tempo in cui sarò capace di stare diritto su un solo piede”. Shammai vide nella richiesta un insulto alla ricchezza della legge e respinse il presuntuoso allievo. Questi, però, non si perse d’animo e andò a bussare alla porta del mite rabbi Hillel. Il maestro stette ad ascoltarlo, lo fece drizzare su un solo piede e disse: “Non fare agli altri ciò che non

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 vorresti fosse fatto a te! In questo comando è riassunta tutta la Legge. Il resto è solo spiegazione. Ora puoi mettere giù il piede e camminare”. Gesù, dunque, riconduce la legge all’amore, la riporta nel cuore dell’uomo e alla sua interiorità: cuore e intenzione. È all’interno del cuore umano che si gioca tutto il dramma del bene e del male. “Un piede sul cuore e vedremo Dio” (padre Giacomo Cusmano). A questa attenzione verso la santità, verso la perfezione, sono chiamati tutti i cristiani, ma in modo speciale chi ha avuto la grazia di una chiamata speciale: i consacrati. E proprio suor Orlanda ci ricorda oggi le meraviglie che il Signore ha compiuto in lei in tanti anni. Quante esperienze, quanti incontri, quanti volti, quanti ricordi per ringraziare il Signore. Rinnovando la sua consacrazione, ridonando a Dio il prezioso tesoro ricevuto agli albori della sua giovinezza, ripete il suo “si” oggi carico di fatica, di anni, di gioia e di speranza, depone il suo niente nel cuore di Dio e Lo ringrazia per tutti i doni ricevuti. Celebrando gli anniversari della vita religiosa, è normale, anzi doveroso, che si dia uno sguardo retrospettivo a tutta la vita. Non per lasciarsi prendere da dubbi, incertezze, scrupoli e nostalgia, ma per dire, come santa Teresa di Lisieux, con fede e fiducia: “Signore, quanto sono povera e piccola. Mi abbandono tra le braccia della Tua misericordia”. E’ bene allora fermarsi un attimo a riflettere, a dare uno sguardo al passato per ringraziare il buon Dio per i doni che Le ha fatto e volgere uno sguardo al futuro per chiedere al Signore di poterlo vivere con lo stesso slancio di cinquant’anni fa e la medesima fedeltà. Fedeltà: parola sacra e forte, parola, riguardo al tempo, bifronte. Guarda al passato, al punto di partenza, alla sorgente; e guarda all’avvenire, al tempo che viene e che passa, che tutto consuma e divora, eccetto la fedeltà che rimane e vuole rimanere. Con l’aiuto di Dio, e come ha sempre fatto finora, suor Orlanda abbia sempre la forza di amare la povertà e ripetere a se stessa: “A me non resta che condividere la sorte dei Poveri, ai quali, per Gesù Cristo, ho consacrato la mia vita”. Offra a Dio la Sua volontà. Sia umile perché senza l’umiltà è impossibile obbedire. Le auguro di vivere sempre la vita religiosa per amore e nell’amore. Amore che sta nello scoprire, ogni giorno, di essere amati da Dio e nel lasciarsi amare e riversare sugli altri l’amore che Dio ha per noi. Ringrazi il Signore per gli anni che Le ha regalato e che Le ha dato di vivere con Lui e per Lui. Egli Le dia l’umiltà di Maria, nostra Mamma, per

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 esserGli grata e dire: “L’anima mia magnifica il signore. Ti voglio bene, o Signore! Grazie, Signore! O Signore, voglio essere come creta nelle Tue mani per essere sempre un Vaso Nuovo, capace di ricevere, nella mia povertà, la grande ricchezza del Tuo Amore e riversarla su quanti sono amati da Te”. Noi le assicuriamo la nostra preghiera e la affidiamo al Padre affinché si compia il disegno che ha tracciato per lei. Ringraziamo Dio per averla chiamata. È il Signore che fa tutto. È Lui che inizia, Lui che porta a compimento, Lui che dona il coraggio e la perseveranza che ha sostenuto la nostra sorella lungo l’arco della sua vita. Un vecchio proverbio semita dice: “Quando credi che tutto sia finito ricordati che ti resta pur sempre il futuro”. Ma chi ci consolerà della miseria dolorosa del presente indicandoti la salvezza del futuro? «L’angelo custode», dice semplicemente Tolstoj (cfr. L. Tolstoj. Racconti popolari 1881). Lo scrittore Igor Man racconta: “Quando ero bambino, mia madre mi leggeva l’Angelo Custode di Tolstoj (teneramente, saporosamente) prima in russo, poi in italiano. Finché una sera le domandai come avrebbe fatto Sjemjon (il protagonista del racconto) senza il suo angelo custode, visto che gli erano spuntate le ali ed era tornato in cielo. Fu così che mia madre, la cui fede cristiana era fatta di perplessità, non di disperazione (11. Ai Corinti 48), quella sera mi spiegò che l’angelo custode sta in terra, a noi di accanto, apparendoci tale quale un uomo qualsiasi, un maestro, un compagno, un sacerdote, un passante, eccetera. E se, d’un tratto, gli uscivano le ali dalle scapole e se ne tornava lassù ciò accadeva perché (verosimilmente) il suo turno era finito. Ma per questo non avrei dovuto mai angustiarmi poiché un altro angelo gli avrebbe immediatamente dato il cambio. Il problema piuttosto è un altro, mi disse pressappoco mia madre: non è facile riconoscere il proprio angelo custode. Anzi è difficile: forse non basta una vita”. Certamente suor Orlanda, durante la sua vita, avrà avuto buoni angeli custodi, ma ciò che è ancora più importante, e lo dico con tutta la forza di cui sono capace, è che lei stessa è stata angelo custode per tanti giovani, per tante persone che il Signore ha messo sul suo cammino. Concludo perciò affidandola alle braccia potenti della Madonna: il suo gran patrocinio deve essere nostro scudo e difesa in tutti i momenti difficili della vita. Voglio rivolgere a Suor Orlanda questo augurio: non perda mai la voglia di lodare Dio con la vita. Ed a lei concedi, Signore, per intercessione

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 di Maria e del Suo Fondatore, nel tempo che le darai ancora di vivere, di esserti grata di tutto l’amore di cui l’hai colmata. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA IN OCCASIONE DELLA SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI Cassano Allo Ionio, 1 Novembre 2008

Carissimi confratelli nel sacerdozio, carissimo don Franco Oliva, carissimi fedeli, mentre intorno a noi la natura si spoglia e le foglie cadono, la festa di tutti i santi ci invita a guardare in alto. Ci ricorda che non siamo destinati a marcire in terra come le foglie. celebriamo oggi la festa dei santi, la festa del nostro destino, della nostra chiamata. Ognuno di noi, infatti, nasce per realizzare un progetto divino. Il santo è colui che ha scoperto questo destino e l’ha realizzato. Meglio: si è lasciato fare, ha lasciato che il Signore prendesse possesso della sua vita. Il santo è tutto ciò che di più bello e nobile esiste nella natura umana: in ciascuno di noi esiste questa nostalgia alla santità, a ciò che siamo chiamati a diventare. Ed è proprio alla verità profonda di ogni uomo che la Chiesa in cammino ci invita a guardare in questa giornata particolare. Qual è l’origine di questa solennità? Verso la metà del I secolo in Oriente, un po’ più tardi in Occidente, si cominciò a celebrare presso la tomba l’anniversario di coloro che avevano reso testimonianza a Cristo offrendo la propria vita. Rispetto al culto dei morti, presente in tutte le culture, si possono sottolineare due elementi nuovi: non si tratta di un omaggio familiare, ma coinvolge tutta la comunità dei credenti. Inoltre, invece di commemorare il giorno della nascita terrestre, si commemora il “natale” (dies natalis), la nascita al cielo. All’indomani delle persecuzioni, il ricordo di coloro che avevano testimoniato fino alla morte fu oggetto di grande venerazione: si costruirono basiliche sulle tombe dei martiri più celebri e, nell’anniversario del loro martirio, il popolo era convocato in quei luoghi sacri per ascoltare il racconto della loro passione e celebrare l’eucaristia. La Chiesa, ogni anno, nel giorno natalizio dei martiri e dei santi, celebra il compiersi in loro del mistero pasquale di Cristo. Proclamare la santità di un credente significa celebrare le meraviglie che lo Spirito ha operato in lui. Pertanto la santità di un essere umano è sempre partecipazione alla santità di Cristo.

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“Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio” (Lumen Gentium 41): in questo senso tutti i santi si assomigliano, anche se ogni santo è originale, perché la sua santità si è realizzata in una singolarità di vocazione e di carismi. Nei santi trova spiegazione il mistero di Cristo, vissuto nei suoi frutti; essi sono proposti alla comunità cristiana come coloro che possono rappresentare dei modelli perché anche noi percorriamo lo stesso cammino. I santi di ieri intercedono per noi: “una moltitudine immensa che nessuno può contare, di ogni nazione, popolo e lingua”. I santi sono dunque in relazione anche con noi, ma il punto di riferimento rimane sempre Dio, sorgente di ogni beneficio. Nella loro vita, il Padre ci offre un esempio da imitare, una comunione fraterna, un aiuto. La morte non ha spezzato i legami: la loro condizione conforta e protegge tutta la Chiesa. Dopo questa duplice visione confortante – quello che Dio ha compiuto nei santi e quello che essi compiono per noi – si passa alla nostra condizione terrena: non soltanto viviamo nella speranza, nella tensione verso il cielo, ma nella lotta siamo in corsa per ottenere la corona di gloria. I santi ci confortano nel combattimento. Essi, che hanno percorso vittoriosamente la strada prima di noi, ci sostengono e ci proteggono; la certezza del traguardo tiene vivo il nostro faticoso procedere quotidiano. Ognissanti è una giornata di letizia e di gioia, di speranza e di fede. E’ la festa di tutta l’umanità, dell’umanità che ha sperato, che ha sofferto, che ha cercato la giustizia; dell’umanità che sembrava perdente e invece è vittoriosa. E’ la festa di tutti i santi, non solo di quelli segnati sul calen- dario e che veneriamo sugli altari, ma anche di quelli che sono passati sulla terra in punta di piedi, senza che nessuno si accorgesse di loro, ma che in silenzio e con gran cuore hanno dato una bella testimonianza di amore a Dio e ai fratelli. Forse parenti nostri, amici, forse nostro padre, nostra madre, umili creature, che ci hanno fatto del bene senza che noi neppure ce ne accorgessimo. Al riguardo, ho letto di un anziano parroco di campagna che nel giorno di Tutti i Santi, per far capire alla sua gente che si dovevano ri- cordare tutti i cristiani santi che stanno in Paradiso, toglieva le immagini e le statue dagli altari. Una stravaganza, se volete, ma utile a sottolineare il fatto che di solito, una volta che abbiamo messo i santi sugli altari, li ammiriamo, li invochiamo, ma non li imitiamo, perché pensiamo che sia eroico vivere come loro.

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Non è così: in questa festività, la Chiesa ci dice che i santi sono uomini e donne comuni, una moltitudine composta di discepoli di ogni tempo che hanno cercato di ascoltare il Vangelo e di metterlo in pratica. Sono questi i santi che salvano la terra. Di essi c’è sempre bisogno. In virtù delle persone sante che vivono come noi e tra noi, affrontiamo meglio la vita ed anche questo nostro mondo sopravvive, nonostante il tanto male che giornalmente compatiamo. La definizione più bella dei santi è quella che, qualche anno fa, mi è stata data da un bambino di una scuola materna. La maestra aveva portato tutta la classe a visitare una chiesa con le figure dei santi sulle vetrate lu- minose. Ho chiesto loro: “Chi sono i santi?” Un bimbo mi ha risposto: “Sono quelli che fanno passare la luce”. Stupenda definizione: i santi fanno passare la luce di Dio che illumina il mondo. Nella festa di Tutti i Santi, celebriamo allora la gioia di essere chiamati anche noi alla santità, perché ci è stato detto che abbiamo un cuore che batte come figli di Dio. San Giovanni ce lo ricorda: “Caris- simi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente... ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. Ma quale è la strada della santità? Gesù ce l’ha indicata con l’annuncio delle beatitudini, che sono la sintesi del Vangelo, lo specchio di fronte al quale ogni discepolo di Cristo deve porsi. È il portale d’ingresso del Discorso della Montagna, la “carta costituzionale del cristianesimo”. Ogni regno ha le proprie leggi: le beatitudini sono la legge del Regno di Dio. Chi le osserva vi entra a testa alta, acclamato dalle anime sante del Regno. Questo dobbiamo capire: Dio ha posto nei nostri cuori la vocazione alla felicità come ultimo segno della nostra somiglianza con Lui. Dio è il Sommo bene, il Beato per eccellenza. Per essere suoi figli, bisogna essere beati e santi. La strada che conduce a questo traguardo ci è indicata dal Vangelo proprio con le beatitudini. Nella prima lettura, tratta dall’Apocalisse, scorre davanti ai nostri occhi l’infinito numero dei chiamati ad essere santi ed a partecipare, qui e nell’eternità, del dono della santità. Con la prima lettera di san Giovanni, l’assemblea cristiana è introdotta nella misteriosa relazione esistente tra l’amore che Dio ha per noi, amore di Padre, e la santità che ci concede, in quanto figli nel Figlio.

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Beatitudini e santità. Gli otto tipi di persone che dall’evangelista Matteo sono chiamate ‘beati’ sono i santi. Per questo, invece di dire “beati i poveri in spirito, i mansueti, quelli che piangono, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati a causa della giustizia”, basterebbe sintetizzare con una sola formula: “beati i santi”, dal momento che le varie nature di beatitudini esprimono una sola via di santità. I poveri in spirito sono i santi, perché la loro vera ricchezza è Dio. Santi sono i mansueti, perché la mansuetudine, o umiltà, è l’atteggiamento proprio degli uomini davanti al Creatore e Signore. Santi sono, allo stesso modo, coloro che piangono, perché le loro sono lacrime di pentimento per i peccati propri e per quelli degli uomini, loro fratelli. Chi, più dei santi, ha fame e sete di giustizia, cioè, che Dio giustifichi e salvi l’umanità intera? I santi sono i più misericordiosi del mondo, perché esercitano la misericordia con i più derelitti della terra, che sono i peccatori. Santi sono anche i puri di cuore, perché il loro cuore e le loro pupille sono state lavate con il sangue dell’Agnello. I santi sono coloro che più lavorano per la pace, perché si instaurino nella società umana i presupposti della concordia tra i popoli e, soprattutto, lo sviluppo e il progresso materiale e spirituale. E quale altro nome dovranno ricevere, se non quello di santi martiri, coloro la cui vita è stata santificata nella solitudine del carcere, o sul patibolo, o in una camera a gas? Molte sono le strade che Dio ha aperto agli uomini con il suo Vangelo, ma la meta è sempre la stessa: la santità. Una sola santità o, per meglio dire, un solo santo, Gesù Cristo, e molte maniere di pronunciare e confessare il suo nome con la vita. Allora in Cristo ci è concesso di vivere un’incredibile esperienza: vivere in comunione reale con tutti i santi. La distanza del tempo non conta più: noi siamo in comunione con Maria, la Madre di Dio, e Maria è in comunione con noi, anche se ci sono duemila anni fra noi. Il fatto che non abbiamo conosciuto personalmente il Santo non conta nulla: senza esserci conosciuti, ora ci conosciamo, perché siamo conosciuti da e in Cristo. Questo nostro essere e ritrovarci tutti in Cristo è la base, la ragione e la sorgente del nostro culto dei santi. Ci aiuta a capirlo e a viverlo bene. Tutti dovremmo dire, come santa Teresa di Lisieux: “Vivrò nel cielo facendo il bene sulla terra”. I santi del cielo sono uniti a noi, si interessano di noi, illuminano la nostra vita con la loro, intercedono per noi presso Dio. Sono i nostri fratelli maggiori, che ci hanno preceduto nell’arrivo alla meta e che anelano acchè

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 tutta la famiglia torni a riunirsi nell’eternità. Sono le stelle del nostro firmamento, che ci illuminano nella notte, non con luce propria, ma con quella riflessa del Sole Invitto, che è Cristo. Sono modelli, per così dire, di casa, che ci avvicinano ad una virtù o ad un aspetto della pienezza di perfezione e santità che è Gesù Cristo. Coltiviamo allora questa nostalgia di santità attingendo da Pietro la fede, da Paolo il coraggio, da Francesco la letizia, da santa Teresina la semplicit dell’abbandono. Non si dovrà, allora, rinnovare e rivitalizzare la nostra comunione con i santi del cielo? Oggi è un buon giorno per farlo, anzi è il giorno giusto. Lo auguro a me ed a voi. Amen.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA PER LA COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI Cassano Allo Ionio, 2 Novembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, il mese di novembre assume una peculiare tonalità spirituale derivante dalle due giornate con cui si apre: la solennità di tutti i Santi e la Commemorazione dei fedeli defunti. Il mistero della comunione dei Santi, in particolare, illumina in maniera originale questo mese e l’intera parte finale dell’anno liturgico, orientando la meditazione sul valore terreno dell’uomo, alla luce della Pasqua di Cristo, fondamento della speranza «che non delude» (cf. Rm 5,5). La celebrazione odierna si colloca proprio in tale contesto, nel quale la fede sublima sentimenti profondamente iscritti nell’animo umano e la grande famiglia della Chiesa trova un tempo di grazia, e lo vive, secondo la sua vocazione, ovvero stringendosi in preghiera attorno al Signore ed offrendo il suo sacrificio redentore in suffragio di chi non c’è più. La Commemorazione dei fedeli defunti è strettamente legata alla solennità di tutti i Santi nonché alla nostra esperienza di Chiesa. Infatti, parlare della Chiesa significa sentirsi parte di un corpo che ha una dimensione visibile e un’altra invisibile, ma non per questo meno reale, come sono appunto i santi e i credenti defunti, tra i quali ciascuno di noi annovera, per così dire, i suoi santi personali, cioè le persone che ci hanno educato alla fede, ce l’hanno trasmessa col loro insegnamento e con la loro testimonianza. Nella nostra vita pensiamo di non avere mai abbastanza: viviamo protesi verso un continuo domani, dal quale ci attendiamo sempre di più: più amore, più felicità, più benessere. Viviamo sospinti dalla speranza. Ma in fondo si annida, sempre in agguato, il pensiero della morte, un pensiero a cui è molto difficile abituarci e che vorremmo scacciare. Eppure, la morte è la compagna della nostra esistenza: addii e malattie, dolori e delusioni ne sono i segni premonitori. La morte resta per l’uomo un mistero profondo, che anche i non credenti circondano di rispetto. Essere cristiani cambia qualcosa nel modo di considerarla e affrontarla? Qual è l’atteggiamento del cristiano di fronte alla domanda che

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 essa pone continuamente sul senso ultimo dell’esistenza umana? Dove andremo ? Che ne sarà di noi? Esiste una vita oltre la vita terrena ? La risposta si trova nella profondità della fede. Sorella morte, per il cristiano, non è il risultato di un gioco tragico e ineluttabile da affrontare con freddezza e cinismo. Essa si colloca nel solco della morte di Cristo: è un calice amaro da bere fino in fondo perché frutto del peccato; ma è pure volontà amorosa del Padre, che ci accoglie a braccia aperte. La vita terrena è preparazione a quella celeste: la nostra esistenza è un periodo di formazione, di lotte, di scelte. Con la morte l’uomo si trova di fronte a tutto ciò che costituisce l’oggetto delle sue aspirazioni più profonde: si troverà di fronte a Cristo e sarà la scelta definitiva, costruita con tutte le scelte parziali di questa vita. Fine della commemorazione dei defunti era, in passato, il suffragio per i morti; di qui le Messe, la novena, l’ottavario, le preghiere al cimitero. Questo scopo naturalmente rimane, ma oggi, per quanto appena detto, ne avvertiamo un altro ugualmente urgente: creare un’occasione per pensare religiosamente, cioè con fede e speranza, alla propria morte. Spezzare la congiura del silenzio riguardo a essa. Quando nasce un uomo, diceva sant’Agostino, si possono fare tutte le ipotesi: forse sarà bello, forse sarà brutto; forse sarà ricco, forse sarà povero, forse vivrà a lungo oppure no. Ma di nessuno si dice: forse morirà, forse non morirà. Perché la morte è l’unica cosa assolutamente certa della vita. Un poeta spagnolo dell’Ottocento, Gustavo Bécquer, dal canto suo, paragonava la vita umana all’onda che il vento solleva dalla cresta del mare e che avanza vorticosamente senza sapere su quale tratto di spiaggia andrà a infrangersi. La paragonava anche a una candela prossima a esaurirsi, che brilla in cerchi tremolanti, ignorando quale di essi per ultimo brillerà; e concludeva: “Così sono io che mi aggiro per il mondo, senza pensare, da dove vengo, né dove i miei passi mi condurranno”. Questa percezione, mesta e a volte tragica, è comune a tutti, credenti e non, ma la fede cristiana ha una parola nuova e risolutiva, semplice e grandiosa: la morte c’è, è il più grande dei nostri problemi, ma Cristo l’ha vinta. La morte, dunque, non è più la stessa di prima, un fatto decisivo è intervenuto. Essa ha perso il suo pungiglione, come uno scorpione il cui veleno è capace solo di addormentare la vittima per qualche ora, ma non di ucciderla. Che cosa è successo, una volta che Gesù ha varcato la soglia della morte? Una breccia è stata aperta per sempre: grazie a Cristo, la morte non

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è più una diga possente contro la quale si infrangono i flutti; è un passaggio, cioè una Pasqua, attraverso la quale si entra nella vita vera. Confortiamoci allora a vicenda, certi della Parola di Dio. La Commemorazione dei defunti è la giornata della fede, della speranza e della carità cristiana. Della fede: di fronte alle tombe dei nostri cari, acquisiamo la certezza d’essere figli ed eredi di Dio; della speranza: ci rendiamo conto che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi; della carità: compiamo la carità del suffragio cristiano, perché i nostri defunti siano ammessi all’eredità celeste. Presentandoci la parabola del giudizio, il Vangelo ci inquieta e ci consola. Anzitutto vorrei ribadire che si tratta di una parabola inserita in un capitolo che ne contiene altre due che affrontano lo stesso argomento: la vigilanza. Come non lasciarsi sorprendere dalla fine, dalla venuta di Dio, come prepararsi ad essa, come vivere l’oggi? In questo senso, è un testo consolante, perché ci dà indicazioni per non vivere in maniera angosciata il rapporto con Dio. Nello stesso tempo, però, ci inquieta perché il racconto contiene elementi sconcertanti. Il rapporto con Dio passa attraverso l’altro, il volto di Gesù che s’identifica con quello dell’uomo in stato di necessità. Il volto dell’uomo in stato di bisogno non è mai attraente e suscita in noi spesso sentimenti di ripulsa, di rifiuto. E la lista che il Vangelo presenta e su cui si sono poi modellate le cosiddette opere di misericordia corporale, non è esaustiva, dal momento che enumera situazioni emblematiche che vanno continuamente aggiornate a partire dalle nuove povertà. Il Vangelo ci esorta a cambiare mentalità, a non separare in modo schizofrenico ciò che riteniamo di dovere a Dio e ciò che siamo disposti a concedere agli altri. Ci sprona a fare unità nella nostra vita, a collocare l’amore, non l’interesse, il profitto o quant’altro al centro della quotidianità. E’ un discorso esigente Chiediamo allora al Signore che ci aiuti a capire e ad orientare la nostra vita, confortati anche dall’esempio di quanti ci hanno preceduto e che oggi commemoriamo. La parola di Dio ci assicura che la nostra vita, grazie al battesimo, all’Eucaristia e agli altri sacramenti, è resa partecipe della vita del Signore risorto e porta dentro di sé, fin d’ora, i germi dell’eternità; la nostra è già vita eterna. Essa non comincia quando l’uomo muore, ma quando nasce, anzi, quando viene concepito nel grembo della madre, come unico ed

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 irripetibile, voluto, pensato, amato da Dio fin dall’eternità. Affidiamo tutti i defunti alla tenerezza ed alla misericordia di Dio. Noi vogliamo ricordare così i nostri cari defunti e pregare per essi con questa fiducia: che possano vivere fin d’ora nella comunione piena con Dio. Ma vogliamo vivere anche con questa speranza: la nostra vita ha un futuro che va oltre la morte. Il cristiano non vive aspettando di morire, ma aspettando di incontrare il Signore della vita e vivere per sempre nella comunione con Lui. Per questo siamo chiamati a costruire ogni giorno non solo il domani immediato, ma anche quel domani che supera la soglia della morte e del tempo, mediante una vita vissuta nella fede, nella carità e nella speranza. Amen.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA IN SUFFRAGIO DEI VESCOVI E SACERDOTI DEFUNTI DELLA DIOCESI Cattedrale, 3 Novembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, i primi giorni del mese di novembre, con l’immediata successione cronologica della solennità di tutti i Santi e della commemorazione di tutti i defunti, ci aiutano tenere vivo nella nostra memoria il mistero della comunione dei santi. C’è infatti unità di vita spirituale e di grazia fra quanti camminano ancora su questa terra e quanti, invece, ci hanno preceduto nell’incontro definitivo con il Signore. Le anime sante del Purgatorio e di coloro i quali godono eternamente della beata visione di Dio sono unite con noi soprattutto dal vincolo santo dell’Eucaristia, il pane dei pellegrini, del quale ha detto Gesù: “Io sono il pane della vita… questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6, 48-51). In forza di questo divino vincolo della carità, noi sappiamo di poter vivere insieme con quanti ci hanno preceduto nel sonno della pace e per questo medesimo Pane noi sappiamo che i fedeli defunti vivono con noi. La barca della vita, nella morte, non è destinata a sfracellarsi sugli scogli, ma ad intraprendere una nuova navigazione verso un’altra sponda. Il placido tramonto della nostra esistenza non è votato a una notte senza fine, ma a un’altra aurora, quella di “un giorno unico nel quale non ci sarà più dì e notte, ma a sera ritornerà a risplendere la luce”, come diceva il profeta Zaccaria (14,7). Ritroviamo, perciò, la forza dell’attesa e della speranza anche quando siamo di fronte alla tomba. Cristo, infatti, mutò il significato della morte, non sopprimendola né evitandola, ma accettandola per amore (Gv 13,1), realizzando in essa l’apice dell’annientamento kenotico dell’Incarnazione (Fil. 2,8), elevandola a funzione redentrice per antonomasia (Rm 5,6; 1 Cor. 15, 54), vincendola e trascendendola con la Resurrezione per entrare così nella gloria del Kyrios (Lc 24, 25). Con ciò la morte umana perdette il suo carattere trionfale di vittoria satanica sull’uomo e il suo aculeo di lugubre e suprema miseria (1 Cor. 15, 26).

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La vittoria di Cristo si attualizza soggettivamente nella morte di ciascun uomo, quando questi accetta di ‘con-morire’ con Lui misticamente nel battesimo (Rm 6,4) e, definitivamente, quando vivendo in Cristo, muore realmente in Lui. Così la morte completa nel cristiano il mistero del Battesimo, che lo unisce a Cristo in virtù della morte salvifica del Signore, al quale è associato misticamente. La morte come condizione esistenziale negativa di schiavitù dal peccato è vinta già adesso; la morte fisica invece sarà vinta alla fine da Cristo, che nella sua venuta gloriosa trionferà anche dall’ultimo nemico e così potrà consegnare al Padre suo il regno (1cor. 15, 20). Per questo san Paolo invita a non tremare di fronte alla prospettiva della morte fisica e nella lettera ai romani scrive: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, ne angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 38). In questo clima di fede e di preghiera, offriamo oggi il Sacrificio Eucaristico in suffragio dei Vescovi, dei Presbiteri e dei Diaconi che hanno amato e servito questa Chiesa di Cassano, pregando il Signore, Pastore buono e misericordioso, di voler loro concedere di abitare per sempre nella sua casa, ricolmi di felicità e di grazia (cf. Sal 22, 6). Essi appartengono al novero di quegli uomini che, secondo l’espressione del Vangelo di Giovanni, il Padre ha affidato al Figlio “dal mondo” (cfr Gv 17,6). A ciascuno Cristo “ha dato le parole” del Padre ed essi “le hanno accolte” e “hanno creduto”, hanno posto la loro fiducia nel Padre e nel Figlio (cfr Gv 17,8). Per loro Egli ha pregato (Gv 17,9), affidandoli al Padre (Gv 17,15.17.20-21) e dicendo: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24). A questa preghiera del Signore vuole unirsi oggi la nostra. Ricordare i nomi di questi nostri fratelli nella fede ci rimanda al sacramento del Battesimo, che ha segnato per ciascuno di loro, come per ogni cristiano, l’ingresso nella comunione dei santi. Al termine della vita, la morte ci priva di tutto ciò che è terreno, ma non di quella Grazia e di quel carattere sacramentale in forza dei quali siamo stati associati indissolubilmente al mistero pasquale del nostro Signore e Salvatore. Spogliato di tutto, ma rivestito di Cristo: così il battezzato attraversa la soglia della morte e si presenta al cospetto di Dio giusto e misericordioso.

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In questa fede hanno vissuto i venerati Cardinali, Vescovi e Sacerdoti defunti che stasera commemoriamo. Ognuno di loro è stato chiamato nella Chiesa a sentire come proprie e a cercare di mettere in pratica le parole dell’apostolo Paolo: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21). Questa vocazione, ricevuta nel Battesimo, si è costantemente alimentata nella partecipazione all’Eucaristia. Attraverso tale itinerario sacramentale, il loro essere in Cristo è andato consolidandosi e approfondendosi, così che il morire non è più una perdita – dal momento che tutto avevano già evangelicamente perduto per il Signore e per il Vangelo (Mc 8,35) – ma un guadagno: quello di incontrare finalmente Gesù, e con Lui la pienezza della vita. Rendiamo dunque grazie a Dio per tutti i benefici che ha elargito ai nostri fratelli defunti e per il servizio che questi generosamente hanno reso alla nostra Chiesa. Essi hanno fatto tanto, per la crescita del Regno di Dio, con il loro esempio, la loro parola e il loro operato. Ognuno ha lasciato un tassello indelebile nel grande mosaico della nostra amata Diocesi. Nella luce della Parola che Dio ci ha rivolto in questa Liturgia da una parte eleviamo insieme la preghiera per ciascuno di essi, perché il Datore di ogni bene sia misericordioso con loro, se ne avessero bisogno; dall’altra ci uniamo a loro nella comunione dei Santi e li invochiamo come nostri protettori in cielo. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA NELLA RICORRENZA DELLA MESSA PER I CADUTI Lauropoli, 4 Novembre 2008

Cari fratelli e sorelle, celebriamo questa santa messa nella giornata del 4 novembre, riservata alla memoria dei defunti di tutte le guerre. La celebriamo nella memoria liturgica di san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano e patrono di quella diocesi con sant’Ambrogio. E proprio di san Carlo Borromeo dobbiamo ricordare, e se possibile imitare, la grande passione per la diffusione del Vangelo e la riforma della Chiesa secondo le indicazioni del Concilio di Trento, in particolare per ciò che riguarda la preparazione del clero, la dedizione agli altri, la spiegazione della dottrina cristiana. Nel mondo egli volle solo operare da vescovo e la sua vita, perfettamente ordinata da questa unica volontà, nel vescovo ha cancellato completamente l’uomo, sicché lo splendore radioso della sua santità sembra venire non dalla persona, ma dal ministero. Non a caso, scelse come motto episcopale “Humilitas”. Una sola parola che sintetizza l’essenziale della vita cristiana e indica l’indispensabile virtù di chi, nella Chiesa, è chiamato a servizio dell’autorità. Mi piace, in proposito, richiamare un aneddoto: il 30 ottobre del 1584, san Carlo Borromeo, cha sarebbe morto 4 giorni dopo, sfinito dalle fatiche pastorali, a soli 46 anni, si trovava lontano dalla sua città natia. Avrebbe voluto recarsi a Milano per la festività dei Santi, ma ormai era molto grave e febbricitante. A un frate Cappuccino che lo vegliava e gli consigliava di attenuare le sue austerità, San Carlo rispose: “La candela per far lume agli altri deve consumare se stessa. Così dobbiamo fare noi: consumare noi stessi per dare buon esempi agli altri”. Così, dopo un’esistenza totalmente consacrata a Dio ed alla sua Chiesa, san Carlo Borromeo sigillò con la morte una scelta che aveva guidato tutto il suo ministero e che egli raffigurò luminosamente con l’immagine della candela che si consuma inesorabilmente, ma gioiosamente, per dare luce. Allo stesso modo, come san Carlo ha dato la vita per Cristo e per il prossimo, per la costruzione della casa comune si sono sacrificati sui fronti di diverse guerre milioni di nostri fratelli, il cui ricordo cade nell’anniversario della conclusione della prima guerra mondiale, conclusasi

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 per l’Italia, nel 1918, con il bollettino della vittoria del generale Armando Diaz. Dopo il conflitto, il mondo si trovò di fronte all’agghiacciante dato di nove milioni di caduti e di altrettanti invalidi e feriti. In tutti i paesi coinvolti nel conflitto si sentì il bisogno di trovare forme di elaborazione collettiva del lutto. L’orrore spinse alla pietà della memoria e al desiderio di ricordare quanti avevano perso la vita in nome di ideali nazionali. In ogni angolo d’Europa sorsero monumenti e lapidi, anche se la successiva storia del continente dimostrò purtroppo che le testimonianze a futura memoria non servirono a far cessare l’orrore della guerra. Restano, di questo infinito dramma, il monito a ricondurre alla concordia, sempre, le ragioni di ogni contesa, ed il ricordo di quanti diedero la vita per riaffermare quel monito. Milioni di persone il cui simbolo è, per noi italiani, il Milite Ignoto, un soldato senza nome né volto, muto ambasciatore dei caduti della Grande Guerra, a cui fu concessa la medaglia d’oro con questa motivazione: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria”. Celebrando qui a Cassano la messa in suffragio dei caduti di tutte le guerre, e tra essi un nutrito gruppo di cassanesi ai quali va il nostro pensiero più caro, possiamo attestare che per tanti di loro è stato vero proprio questo: l’onestà e la lealtà portate anche nelle più difficili situazioni della vita, sapendo che ci sarebbe stato qualcuno che a suo tempo avrebbe riconosciuto queste virtù. Di più ancora, possiamo dire che la certezza di un incontro definitivo e chiarificatore con il Signore della storia e delle coscienze, ha aiutato molti soldati ad essere misericordiosi e comprensivi, evitando durezze e barbarie che grazie a Dio sono solo degli uomini troppo dominati dalle passioni terrene. Ma gli anni intorno alla Grande Guerra ci si presentano non solo e non tanto come un puro punto di partenza, ma come qualcosa di assai più significativo. Essi ci appaiono come una sorta di crogiuolo nel quale non è difficile rintracciare i prodromi dei tratti salienti della nostra odierna identità. E insieme, però, gli eventi stretti intorno al nodo della prima guerra mondiale ci appaiono anche il palcoscenico sul quale andò in scena la prima rappresentazione delle contraddizioni che quei tratti della nuova identità italiana si portavano appresso. Comparvero infatti allora, in tutto il loro rilievo, quelli che nel cinquantennio successivo, e forse oltre,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 sarebbero stati alcuni tra i fattori determinanti della scena italiana: una cultura e una pratica di governo dominate dall’indecisione, il radicalismo intellettuale di parte significativa dei ceti colti, la variegata vocazione attivistica di gruppi consistenti di piccola e media borghesia specie giovanile, il massimalismo largamente diffuso nei pensieri e nell’ azione degli strati popolari. Questa considerazione, innegabile, ci induce a fare della preghiera per i defunti una preghiera di riconciliazione, quella riconciliazione cercata e costruita a partire dalla terra, ma tante volte così difficile da conseguire a causa dell’egoismo e dell’orgoglio umano. Ma l’amore del Signore Gesù è più forte di queste umane ostilità proprio perché Gesù è morto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi e per ricordarci che noi, venendo alla vita, siamo innanzitutto cittadini del mondo, iscritti prima d’ogni cosa all’anagrafe dell’umanità. Siano allora sconfessati tutti quei profeti del nulla che confondono ed educano a confondere libertà e permissivismo, autoaffermazione e individualismo, degradando la convivenza umana a conflitto di forze opposte, negando che esista un bene comune costituito dalla nostra stessa umanità. In realtà, non ci è permesso considerare la terra come una casa in affitto, nella quale si è ospiti per un certo periodo. Non è lecito restare indifferenti alle catastrofi che avvengono lontani da noi; è assurdo rifiutare un altro popolo, soltanto perché abita in un’altra stanza di questa casa; è vergognoso dimenticare coloro che risiedono in appartamenti fatiscenti e privi di comodità. Non ci sarà pace, se nell’esempio di quanti hanno versato il proprio sangue non si rinverrà la solidarietà che ha la sua radice nell’essere uomini e che ha il suo albero fiorito nell’appello della nostra fede, che ci spinge a considerare ogni uomo figlio di Dio e perciò nostro fratello. Quella odierna diventa dunque l’occasione per rinnovare la gratitudine di tutta la società a coloro che hanno dato la vita nell’adempimento del proprio dovere, pregando per la loro salvezza eterna. E anche per rinnovare il nostro impegno per la pace nel mondo, la pace che non potrà che essere fondata, nel presente e nel futuro, come per il passato, su verità, giustizia, amore e libertà, come ha ricordato la Enciclica Pacem in terris del Beato Papa Giovanni XXIII del 1963, e come ha riproposto Giovanni Paolo II nel 40° anniversario di quella enciclica. Credo pertanto che la ricorrenza del 4 novembre, ispiratrice di questa preghiera pubblica, possa consentirci di riproporre i sentimenti su cui riteniamo necessario che vengano educate le nuove generazioni, che

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 devono crescere nel rispetto dei valori della nostra tradizione, che dicono anelito di libertà e di giustizia che portano alla pace, senza dimenticare l’invito alla riconciliazione e al perdono tante volte evocato dal Magistero Pontificio, in un clima di dialogo tra le culture e le religioni incessantemente riproposto dal Papa Benedetto XVI. E ciò senza trascurare il rispetto e la gratitudine dovuti alle Forze Armate, che pure vengono ricordate in questo giorno di festa per il servizio reso alla democrazia, alla pace e alla sicurezza del nostro Paese, quella sicurezza che necessariamente deve nutrirsi anche di democrazia e di pace, oltre che di libertà e solidarietà. Chiediamo pertanto al Signore, anche per l’intercessione di san Carlo Borromeo oltre che dei tanti Santi, preti e laici che hanno ben meritato per la promozione del bene comune nella nostra Nazione, l’aiuto affinchè l’impegno per la pace e per il bene vero della nostra gente anche in questo nostro territorio trovi sempre cuori coraggiosi capaci di vivere e di testimoniare la virtù della speranza. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA PER L’INIZIO DELL’ANNO PASTORALE DEL MOVIMENTO APOSTOLICO Oriolo, 5 Novembre 2008

Carissimi, sono ben lieto di ritrovarmi con voi in occasione dell’inaugurazione di questo nuovo anno di cammino nel Movimento Apostolico. È questo un appuntamento importante che ci aiuta a capire e rafforzare il senso profondo della nostra vocazione battesimale, la quale non è prerogativa di pochi, ma chiamata universale alla santità e in quanto tale va vissuta e, soprattutto, annunciata a tutti. Il Battesimo è la fonte stessa del nostro cammino di sequela, perchè, “innestandoci” nella vita di Cristo e rendendoci docili all’azione incessante dello Spirito, rende la sequela manifestazione concreta di Lui e non di noi stessi. La cifra di questa testimonianza di fede è nel riconoscere che solo Cristo è il vero Maestro, Signore della vita e principio di verità. È il Maestro che ci indica la via per raggiungere la verità e la vita, anzi è molto più che Maestro, è, per la sua consustanzialità al Padre, Egli stesso “verità” e “vita”, che rivestendosi di carne, per amore nostro, si è fatto anche “via”. Perciò non sforziamoci di guardare altrove, di cercare altre vie per raggiungere la “verità” e la “vita”, ma fissiamo lo sguardo sul Volto Santo del vero e unico Maestro, che è “via” venutaci incontro per portarci alla vera vita nel Padre. (cfr. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 34, 8-9). Da parte nostra, però, non si richiede l’immobilità o l’esclusività di una scelta, nel senso che il cammino di fede non va inteso come movimento “unidirezionale”: attesa inoperosa o limitata percezione di Colui che ci viene incontro, ma occorre muoversi verso questo incontro, essendo disposti anche ad accogliere ogni possibile novità. È necessario mettere in moto “il muscolo del cuore” e affinare “le orecchie della mente” per cogliere i segni della presenza di Cristo e rispondere ad essi con amore veramente autentico. E se si ama, veramente, non si può fare a meno di seguire il proprio Amato e, innanzitutto, non si può non conformarsi a Lui. Ed è proprio questo progressivo processo di assimilazione a Cristo la ragione della operosità della fede: amare Cristo, seguirLo, significa essere, come Lui, innamorati della vita di ogni uomo e, dunque, di ogni uomo interessati, o meglio, “servi”. Non si può essere autentici cristiani se non si

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 ama il prossimo, se non ci si mette al servizio dell’altro; non si può dire di appartenere a Cristo, se non si è veramente umili e liberi nell’accettare ed accogliere la ricchezza dell’altro. Del resto la chiusura all’altro non è testimonianza di una vita, individuale e comunitaria, modellata su Cristo, la quale per essere tale non ammette l’orgoglio e l’autorefenzialità, ma esige un cuore misericordioso, grande, accogliente e generoso. “Che cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore per ogni creatura…”, così definisce un cuore misericordioso Isacco di Ninive. È quella santa e benefica fatica della carità, che ci aiuta a scoprire la ricchezza e la bellezza di ogni persona, o movimento ecclesiastico, che da Cristo derivi, in Cristo s’identifichi e verso Cristo orienti la propria meta finale. Sì, carissimi, l’incontro e il confronto, l’apertura e la condivisione, sono una fonte di ricchezza per la comunità, e non un motivo di “paura” per la perdita di identità, anzi proprio dall’armonia di timbri e note diverse si può sperare in un arricchimento individuale e in un maggiore consolidamento della propria identità cristiana, perché l’unione fra i membri di una comunità rende più forti le ragioni della speranza. E in questo particolare momento storico, in cui nessuna comunità può dirsi immune dal pericolo dell’indifferenza religiosa, lo stringersi attorno a Cristo, pur nella diversità dei cammini e dei carismi, diventa la “parola autorevole” per affermare con decisione la propria aderenza a Cristo, che, nell’esercizio della “fraternità”, mostra una differenza di vita che sola è eloquente per la testimonianza e l’azione missionaria nella società degli uomini. In sintesi se vogliamo essere credibili annunciatori del Vangelo, prima di tutto dobbiamo vivere secondo il Vangelo, che è vita d’amore spesa per il bene di tutti. A questa verità ci richiama la pagina del Vangelo di oggi e, straordinaria coincidenza, la vita del beato Guido M. Conforti, di cui si fa memoria. Se cerchiamo una risposta all’interrogativo: che via dobbiamo seguire? Basta leggere il brano di Luca, che ci rimanda all’unica verità: abbracciare decisamente la croce come ha fatto Cristo. Senz’altro è il sentiero più lungo e difficile per giungere alla verità e alla vita, ma il più efficace se vogliamo agire e pensare da innamorati di Cristo e da suoi annunciatori. Non è stato allora un puro caso che l’apostolato e lo slancio missionario del beato Guido M. Conforti sia nato e sia stato alimentato dalla contemplazione del Crocifisso: era proprio lo “spettacolo della croce”

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 che gli parlava, con “l’eloquenza del sangue”, dell’amore di Cristo e dell’amore per gli uomini fino al dono di sé.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DELLA LETTERA PASTORALE Cattedrale, 13 Novembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, diletti confratelli nel sacerdozio, vi ringrazio di aver risposto all’invito di essere qui presenti per consegnarvi la mia seconda Lettera Pastorale: “Alla ricerca di Colui che ti cerca”. Come ho ripetuto in più circostanze, soprattutto durante i lavori dell’ultimo Convegno di settembre: «È solo Gesù Cristo che dobbiamo presentare al mondo. Fuori di ciò non avremmo nessuna ragione di parlare: non saremmo, del resto, per la nostra incapacità, neppure ascoltati» (Papa Luciani). È questa la consapevolezza che mi ha guidato nella stesura di questa mia seconda lettera pastorale. In un’epoca globalizzata (nella finanza e negli scambi commerciali, non di certo nella solidarietà verso i deboli), frantumata e “liquida”, gli esseri umani, sono presi da un ritmo forsennato, quasi una «bufera infernal» di dantesca memoria che, davvero, «mai non resta». Nel suo infinito amore, Cristo, in una pagina, quasi condensa tutto l’eterno in una formula. Una sorta di manifesto ideale, che Giovanni ci presenta verso la fine del suo racconto, dove Gesù dice di essere «la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6). La mia Lettera Pastorale prende le mosse dall’incontro di Gesù con la Samaritana al pozzo di Giacobbe (Gv 4, 5-42): qui il Messia interpella la peccatrice, la induce a riflettere sul senso della propria esistenza ed alla fine, come Colui che può dissetare ben altre seti che quella di un’afosa giornata nel pieno della canicola, la disseta con quell’acqua che zampilla per la vita eterna. Gesù è la Verità che il mondo cerca, che deve accogliere e da cui deve farsi illuminare. La Bibbia è un libro pieno di strade e di vento, nel quale Dio appare come il grande viaggiatore. Gesù è il divino viandante che incrocia le nostre strade e le riconduce sulla via del Padre. Egli ci apre la strada, ci ritraccia il sentiero che il peccato aveva deturpato. Conformando la nostra vita alla sua, seguendo le sue orme, risponderemo al comandamento di Dio: siate santi perché Io sono Santo! È questo il tema che sviluppo nella seconda parte della Lettera. La nostra condizione umana trova senso e realizzazione solo in Cristo e noi dobbiamo lasciarci trasformare in nuove creature, accettando

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 una sorta di metamorfosi da bruco a farfalla, sotto l’azione dello Spirito Santo (1 Cor 3, 16). «Volendo riassumere il messaggio sottostante alle molteplici testimonianze circa la vita, possiamo dire che Gesù è la vita, perché trasferisce i suoi fratelli da una sfera di isolamento e di abbandono e li fa passare dalla morte alla vita», attraverso la grazia dell’amore, l’atteggiamento dell’accoglienza, la valorizzazione dell’Altro, specie se povero e diverso. In altre parole, mediante la testimonianza della carità. Tutto questo itinerario di fede deve perciò trasparire sul volto delle nostre comunità parrocchiali, in particolare deve concretizzarsi nell’attenzione verso gli ultimi e i poveri sul volto dei quali brilla di luce tutta speciale il volto stesso di Gesù Verità, Via e Vita. Desidero, perciò, additarvi due “itinerari caritativi” che qui chiamo “ad intra” e “ad extra”. Innanzitutto “ad intra”. Desidero che in ogni comunità parrocchiale si costituisca la Caritas parrocchiale, composto in particolare da quanti sono desiderosi di condividere le proprie risorse economiche e il proprio tempo con i poveri. Ogni Parrocchia dovrebbe conoscere – attraverso la Caritas parrocchiale – i poveri che dimorano nel territorio parrocchiale e farsi a loro prossimi, limitatamente alle possibilità della Parrocchia e alla disponibilità dei fedeli. In particolari periodi dell’anno si potrebbero organizzare pesche di beneficienza, mostre di oggetti e ricami realizzati dalle signore delle parrocchie il cui ricavato si potrebbe destinare per una determinata finalità. Si potrebbe anche valutare la possibilità di destinare una delle collette domenicali sempre per questa finalità. Tutto sia fatto con la certezza che “Dio ama chi dona con gioia”! “Ad extra”, data la natura missionaria della Chiesa, l’attenzione delle nostre comunità parrocchiali deve rivolgersi verso i paesi di missione manifestando così la nostra fede in Cristo e il nostro desiderio che tutti gli uomini possano incontrarlo, riconoscerlo ed accogliere come Salvatore. A tale scopo desidero che in ogni parrocchia sia costituito il “Gruppo missionario” e che si portino avanti iniziative analoghe a quelle che ho indicato per i gruppi caritas insieme ad altre quali adozioni a distanza, stanziamento di borse di studio, realizzazione di mini-progetti a favore di questi nostri fratelli bisognosi. In questo modo daremo visibilità alla nostra fede e al nostro essere Chiesa-Comunione, popolo di Dio che crede nel suo Signore, lo adora e lo riconosce nel volto di coloro i quali Cristo stesso ha additato con le parole: “ogni qual volta avrete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avrete fatta a me.

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Vorrei rendervi noto, infine, che il Santo Padre Benedetto XVI ha conferito : -l’onorificenza di Protonotario apostolico soprannumerario ai reverendissimi monsignori Carmine Scaravaglione e Silvio Renne; - l’onorificenza di Prelato d’Onore ai reverendissimi monsignori Giuseppe Campana, Carmine De Bartolo, Francesco Morano, Silvio La Padula, Giuseppe Oliva e al nostro carissimo vicario generale Francesco Oliva; - l’onorificenza di Cappellano di Sua Santità ai reverendissimi monsignori Giuseppe De Cicco, Gaetano Santagada, Francesco Di Chiara e Antonio Cavallo. Ad essi si aggiungono i reverendissimi monsignori Domenico Cirianni e Giuseppe Russo con l’onorificenza di cappellani di Sua Santità; e i reverendissimi monsignori Raffaele Francesco Gimigliano e Giuseppe Ramundo con l’onorificenza di Prelato d’Onore. Grazie di cuore anche a voi per lo zelo e l’impegno quotidiano che mettete a servizio delle comunità parrocchiali e della diocesi. Queste onorificenze, sedici, costituiscono un segno di attenzione del Santo Padre verso la nostra Chiesa particolare e un modo per esprimere gratitudine a questi nostri confratelli che si sono distinti per zelo, fedeltà alla Chiesa, grande spirito di collaborazione. Ogni scelta – ne sono consapevole – può essere soggetta a “critica” e qualcuno può sentirsi meno ben voluto rispetto ad altri. Vi assicuro che non è affatto così perché tutti mi stanno a cuore allo stesso modo e nutro per tutti sentimenti di particolare stima e affetto. E non è detto che negli anni a venire non saranno conferite onorificenze pontificie anche ad altri confratelli. Desidero concludere augurando a tutti un fecondo cammino di fede: sia sempre inquieto il nostro cuore come quello del grande vescovo di Ippona, sant’Agostino, che affermava: “Ti ho cercato per trovarti, Signore e ti ho trovato per cercarti ancora!”. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

RELAZIONE AL CONVEGNO: “SE NON VI CONVERTIRETE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO”

ANNUNCIARE IL VANGELO DELLA VITA NELLA NOSTRA TERRA PER UN FUTURO DI GIUSTIZIA E CARITÀ Cassano all‘Ionio, 24 Novembre 2008

Premessa

Carissimi amici, cortesi partecipanti, illustri relatori, vi do il benvenuto e vi ringrazio di essere intervenuti a questo Convegno. Con tutte le riserve sull’efficacia che occasioni di riflessione come questa possono avere nei confronti di organizzazioni capaci di tenere, se non proprio in scacco, almeno in apprensione, lo Stato, e con la consapevolezza che alla fine dei lavori le nostre, le vostre parole – signori relatori – avranno raggiunto fisicamente soltanto i presenti; tenendo infine presente che l’uomo ritiene solo il 20 per cento di quanto le proprie orecchie ascoltano, tutto ciò premesso, ho voluto ugualmente questo Convegno per “tenere in caldo” il messaggio del documento dato alla luce un anno fa dalla Cec, “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”: occasione, questa, di riflessione ed anche di silenzio, che mi fa nutrire nel cuore la speranza di toccare la sensibilità e le coscienze del popolo diocesano.

La Parola e le parole

Sottolineo la parola “coscienze” per il semplice motivo che le varie mafie temono, più degli apparati giudiziari e dei corpi militari dello Stato, la formazione che esso fa della popolazione, con attenzione privilegiata alle generazioni in età scolare, Università inclusa. Le organizzazioni malavitose non temono tutte le parole indistintamente: hanno paura delle parole buone, vere, storicamente inoppugnabili che vengono dalle parti sane dello Stato; a maggior ragione, perciò, esse temono la parola divina. Mi torna in mente un bel pensiero di Emily Dickinson, poetessa americana del XIX secolo: «Non conosco nulla al mondo che abbia potere quanto la

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 parola. A volte ne scrivo una e la guardo, fino a quando comincia a splendere». Le parole fanno risplendere le coscienze, infiammano i cuori, illuminano le menti aprendole a visioni più belle, più grandi, che sanno e dicono di Bene togliendo via via spazio al Male e a chi lo pratica, proprio come il bagliore di una fiamma tiene a bada e mette in fuga le belve che minacciano l’uomo. Noi intendiamo servirci delle nostre parole, e soprattutto della Parola, attraverso il messaggio del Vangelo, perché è nostro desiderio e compito tenere vive le coscienze e calamitare le attenzioni via via a cerchi concentrici che si espandono tutt’intorno dalla nostra realtà cassanese (che è purtroppo il fulcro di più grosse realtà mafiose della provincia ed oltre). «Poca favilla gran fiamma seconda» diceva Dante! E noi, con una “piccola favilla”, proviamo a far convergere i riflettori su certi problemi, al fine di mettere in crisi il potere mafioso mettendone in chiaro connotati ed azioni. Le nostre armi? L’ho già detto: le buone parole e la luce della buona novella. Con esse intendiamo inserirci nelle opere dello Stato per trasformare tanti individui in altrettanti cittadini, il che vuol dire che avranno acquistato consapevolezza certamente dei propri doveri, ma anche dei propri diritti irrinunciabili. Il giornalista, lo scrittore, i convegni hanno il compito di essere sentinelle dei diritti dell’uomo e persino nella dignità umana ovunque sia violata. «La parola è fra i maggiori antidoti per capire e reagire» scriveva Albert Camus. Tra le altre ricorrenze, questo anno 2008 ce ne ha ricordate due basilari: il 60° anniversario della Proclamazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e il 40° della nostra Costituzione repubblicana e democratica. Però, quando ci mettiamo a riflettere proprio sul primo articolo, nel quale è scritto che essa “è fondata sul lavoro”, allora non ci sentiamo soddisfatti e neppure tranquilli. Ci chiediamo, infatti: quale lavoro? Qui da noi il tasso di disoccupazione raggiunge picchi che sono purtroppo tra i più alti dell’intero Paese. La considerazione amara che ne vien fuori è che un essere umano senza lavoro anzitutto non è un cittadino e nel suo animo, ma anche nei confronti del mondo, vive come colui che ha subito un furto, a causa del quale è stato privato non solo del pane, ma anche della considerazione sociale. Una persona ridotta in queste condizioni è una potenziale, facile esca delle tentazioni offerte dalle organizzazioni malavitose, le quali hanno bisogno continuo di manovalanza.

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Lottare contro il male

In ogni caso, mi preme di sottolineare una cosa: il convegno non è stato organizzato per condannare e basta, perché – tanto – “ci deve pensare lo Stato”. Quanto a pensare, ci dobbiamo pensare tutti, ciascuno nel proprio ruolo, semplice o istituzionale, individuale o collettivo, personale o comunitario, Chiesa compresa, anzi in prima fila. Il Convegno vuole indicare, questo sì; vuole offrire spunti di confronto di idee e di riflessione, auspicando che vengano a conoscenza delle Istituzioni affinché si occupino di più di queste realtà, se non altro per dare o per restituire a tanti onesti cittadini ciò di cui sono stati fino ad oggi privati. Ci diamo anche il compito di stimolare, di sensibilizzare lo Stato affinché non sia “distratto” ed immemore dell’esistenza di una giustizia distributiva. Ma soprattutto, ci assumiamo la responsabilità di combattere il Male con le armi del messaggio evangelico. E’ scritto nel Vangelo: “Euntes, docète gentes”: dovunque andiate, ammaestrate le genti annunciando il Vangelo perché in esso viene indicata la via della verità e della giustizia, che non può essere nell’amore e nella pacificazione. Compito della Chiesa è di predicare la Parola perché tutti siano convertiti, senza eccezioni: pecore e lupi. La Chiesa mira al pentimento delle coscienze, prerequisito di una società equa, nella quale i principi della Carta costituzionale si trasformino in realizzazioni: in tema di lavoro, come ho già detto, di diritto allo studio, alla salute, alla casa, alla sicurezza sociale, alla difesa della famiglia, nella pace e nel rispetto generale. A riguardo mi piace ricordare una frase del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa barbaramente ucciso dalla mafia il 3 settembre del 1983: “ Solo quando lo Stato dà come diritto ciò che le varie organizzazioni malavitose danno come favore ci sarà la possibilità di sradicare ogni forma di criminalità”. Nello specifico, la Chiesa segue due strategie, ovvero due tattiche di una strategia sola: evangelizzare e convertire. Questi due capisaldi del Magistero evocano un grande pontefice ed un grande comunicatore: S. S. il servo di Dio Giovanni Paolo II, di cui amo citare due pensieri: «Nel celebrare, verificare, promuovere l’evento conciliare, la Chiesa [...] assume con rinnovata energia la sua fondamentale missione di evangelizzare, cioè di offrire l’annuncio di fede, speranza e carità che essa stessa trae dalla sua perenne giovinezza, nella luce di Cristo vivo»37. E, a

37 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, 1995, passim.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 proposito della conversione: «Il Signore insiste nel chiedere [..] una vera conversione, accogliendo la sua parola con coscienza pura. Accogliere, infatti, significa fare propria la Parola, fare in modo che essa entri nella dinamica della nostra libertà, seguendo una coscienza aperta alla luce che da tale parola proviene»38. A tutti gli uomini la Chiesa dice: convertitevi, proprio come “grida” il Vangelo di Luca: «Se non vi convertirete, perirete tutti…» (Lc 13, 5). Convinto come sono che gli slogans lascino il tempo che trovano quando non sono seguiti da fatti, e che troppo spesso a cadere nella rete della Giustizia siano soltanto i pesci piccoli, allora resta l’obiettivo di convertire le coscienze alla luce della carità di Cristo. Ecco perché chiediamo una fattiva e collaborativa attenzione agli esponenti dei mezzi di comunicazione di massa, affinché veicolino i messaggi giusti, anzi li esaltino. Chiudo questo mio breve indirizzo con l’esortazione di Gesù contenuta nel Vangelo di Marco: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1, 14-15).

 Vincenzo Bertolone

38 Idem.

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OMELIA PER IL I CENTENARIO DELLA NASCITA DI P. FRANCESCO RUSSO SANTUARIO DELLA MADONNA DEL CASTELLO Castrovillari, 30 Novembre 2008

Ci troviamo a celebrare, in questo glorioso santuario della Madonna del Castello la prima domenica d’Avvento. Ma siamo anche riuniti per ricordare un degno figlio di Castrovillari: don Francesco Russo. “A tutti dico: Vegliate!”. Sono le ultime parole di Gesù prima della sua passione; non sembra esagerato considerarle il suo testamento spirituale, riportato nel vangelo di Marco, che iniziamo a leggere, da questa 1ª domenica di Avvento, per tutto l’Anno B. Un appello per esprimere la paura che lui, buon Pastore, ha di perderci. Di qui quella vibrazione di urgenza che percorre i suoi richiami pressanti alla vigilanza: vegliate! state attenti! vigilate! tenetevi pronti! Il motivo è sempre lo stesso: il giorno del Figlio dell’uomo viene senza preavviso: la sua venuta imprevedibile e improvvisa è come l’assalto del ladro per chi lo teme, come l’arrivo dello sposo per chi lo cerca e lo attende. a)Ma cosa significa vigilare? Gesù stesso ce lo spiega, con alcuni accostamenti: “Vegliate e state attenti”. La parola greca (agrypnéo) indica uno che pernotta in aperta campagna, attento al più impercettibile rumore, per evitare che il raccolto venga rubato o il campo danneggiato da qualche furfante. Essere “attenti” significa essere “tesi a”, “pro-tesi”, “tesi-per” non essere sorpresi da una sciagura incombente. Significa essere sempre all’erta, stare di sentinella. Non è un caso che l’appello alla vigilanza si trovi, in bocca a Gesù secondo Marco, immediatamente prima del momento drammatico della passione, quando i discepoli verranno sorpresi addormentati. b)Altro accostamento: “Vegliate e state pronti” (cfr. Mt 24,44). Qui, nel vangelo di Marco, il richiamo allo stare sempre pronti viene reso con l’immagine del portiere, il quale deve essere costantemente preparato ad accogliere il padrone di casa che da un momento all’altro ritornerà: il suo arrivo è imminente, fulmineo; perciò l’unico atteggiamento saggio e sicuro è la vigilanza. c) Ricordiamo la chiara lezione del Concilio: “Ignoriamo il tempo in cui saranno portati a compimento (consummandae non consumendae!) la terra e l’umanità e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 l’universo” (GS 39). Proprio perché ignoriamo il momento dell’ultima venuta del Signore, noi siamo quelli che “aspettano la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (2ª lettura). Proprio perché non conosciamo né il giorno né l’ora del supremo compimento, noi dobbiamo essere pronti per qualsiasi ora e per qualunque giorno, ben sapendo che ogni giorno egli viene, perché, da quando è venuto ad abitare in mezzo a noi, rimane con noi per sempre, “tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Ma cosa significa per noi oggi vegliare, stare attenti, essere pronti? Significa non dimenticare mai che la vita è un pellegrinaggio, non un fortunoso vagabondaggio, e neanche una più o meno piacevole gita turistica: quindi non dobbiamo mai illuderci di essere già arrivati e non possiamo mai dimenticarci della nostra meta. d) Vegliare significa considerare gli altri - familiari, amici, colleghi - nostri compagni di pellegrinaggio: quindi significa amare ognuno come un fratello avuto in dono senza mai bramare di possedere alcuno come proprietà privata; significa servire tutti, ma non asservire nessuno. Perché il Signore viene! e)Vegliare significa considerare la salute, il lavoro, il denaro, il divertimento per quello che sono: non come privilegi da difendere, ma come doni da condividere; come dei mezzi utili per il pellegrinaggio, non come le mete ultime del cammino. Perché il Signore viene! f)Significa compiere il servizio che ci è richiesto, come fosse l’ultimo, ma sempre come “servi inutili”: con i fianchi cinti e le lucerne accese. E sempre pronti a ripiegare le tende per andare là dove siamo chiamati, senza accasarci mai da nessuna parte, fin quando non arriveremo al giorno beato dell’incontro definitivo. Perché il Signore viene! g)Significa guardare al futuro non come a un fato incombente e implacabile, né come a un destino fortuito, volubile e capriccioso; significa sperare che la sofferenza, la malattia, la morte e tutte le catastrofi, naturali o sociali, non siano l’ultima parola della storia. h)Vegliare significa ricevere, guardare e onorare le cose che Dio ha creato “come se al presente uscissero dalle mani di Dio” (GS 35); significa pure - secondo l’ardita espressione di Lutero - non esitare a piantare un seme oggi, anche se si sapesse che il mondo finirà domani. In questo luogo suggestivo ed in questa atmosfera, mi è gradito rivolgere il pensiero ad un figlio di Castrovillari del quale si celebra quest’anno il primo centenario della nascita: padre Francesco Russo, dei Missionari del Sacro Cuore. Sacerdote dalle alte doti spirituali, parroco in diverse realtà, tra cui anche negli Stati Uniti, egli è tuttavia ricordato per le

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 sue qualità di intellettuale e di studioso. E’ considerato, infatti, anche in ambienti internazionali, il più illustre storiografo di cose ecclesiastiche che abbia mai avuto la Calabria, alla quale dette lustro e continua a dare onore. Fra le tante opere (oltre cinquecento), tra cui la più importante è il fondamentale ed imponente Regesto Vaticano per la Calabria, scrisse anche la storia della nostra diocesi e molti libri su Castrovillari. Tra di essi uno in particolare ci deve essere caro: Il Santuario della Madonna del Castello in Castrovillari, (1956) nella quale opera profuse, come era suo stile, doti purissime di ingegno, di erudizione e di vasta cultura, ma anche un’infinità di leggende, di poesie popolari, di racconti, tutti tratti dalla devozione del popolo di Castrovillari alla loro Madonna. Quello che ci lascia padre Russo è certamente l’enorme produzione di opere, ma ci lascia anche il suo grande amore filiale per questa terra, che considerava “una vigna”, di cui egli stesso si sentiva umile e laborioso “lavoratore”: vigna – cioè la Calabria – da rendere onorata, famosa, rispettosa e munifica. Visse, in conclusione, con l’ansia di far conoscere in Italia e all’estero i tesori artistici, letterari, ma soprattutto spirituali della sua patria, attraverso personaggi insigni della cristianità, in particolare Gioacchino da Fiore e san Francesco di Paola. Ritornando alla prima domenica di Avvento vi invito a riflettere su un pensiero di Carlo Bo: “Ho l’impressione che la voce di Dio passi sui nostri cuori e non lasci traccia. Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un altro modo, fra tanti, di non rispondergli”. Cerchiamo di essere pronti alle offerte di amore di Dio, che ancora una volta viene a scuoterci dal nostro torpore e si aspetta qualcosa da noi. Attenti a mantenere retta la coscienza, a non farla soggiacere alle tante lusinghe che cercano di sedurla (non si prega, non si osservano i comandamenti, si è orgogliosi, superbi, non si combattono i nostri difetti). Attesa come vita vissuta e non addormentata. Avvento, come ascolto della parola di Dio che spera in noi, che siamo la sua argilla, che vuole plasmare secondo i sui desideri. Dio vuole realizzare il suo progetto su di noi. Calderon de la Barca, grande drammaturgo spagnolo ha intitolato uno dei suoi lavori più celebri: “la vita è sogno”, (La vida es sueño). In effetti, del sogno, essa possiede le caratteristiche della brevità e dell’irrealtà. È breve. Se ci Guardiamo dietro, tutto ci sembra un soffio; quanto all’irrealtà, per tutti, è vanità (vanitas vanitatum) salvo per quelli che l’hanno donata e vissuta con amore.

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Il testo evangelico odierno ha una serie di imperativi: vegliate, pregate!, imperativi che troppo spesso sottovalutiamo e che invece sono decisivi per vivere come autentici cristiani. Il tempo che il Signore ci concede è come uno scrigno che contiene l’eterno, perché ci parla di Kairòs, di grazia, di sacramento: tutti segni della presenza di Dio in mezzo a noi ed in noi. Concludo invitando tutti ad usare con amorevole impegno il tempo che il Signore ancora ci concede, e ricordiamoci che ogni giorno vale in se quanto una vita. Facciamo in maniera che la Parola di Dio fiorisca, risuoni dentro di noi, così che l’anima diventi come “una conchiglia ripiena dell’amore di Dio” (David M. Turoldo).

 Vincenzo Bertolone

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CONFERENZA NEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI P. FRANCESCO RUSSO PROTOCONVENTO FRANCESCANO Castrovillari 30 Novembre 2008

1. Breve profilo biografico

Nato a Castrovillari (Cs) il 26 febbraio 1908, entra il 15 ottobre 1922 nel Collegio dei Missionari del S. Cuore, a Roma, per compiere gli studi ginnasiali, conseguendo la licenza al “Nazareno” nell’ a.s. 1925-26. Dopo alcuni mesi entra nel Noviziato dei Missionari del S. Cuore (Marsiglia, ottobre 1926) e circa un anno dopo emette la professione religiosa. A luglio del 1929 consegue la maturità classica al Liceo Mamiani di Roma. Tre anni dopo ( 24 luglio 1932) riceve l’ordinazione sacerdotale. Il rito si svolge nella Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, in Roma, ed il presule che lo ordina presbitero è il cardinale F. Marchetti Selvaggiani. Per circa due anni insegna alla Piccola Opera del S. Cuore, in Umbria (Narni, in provìncia di Terni). Prima di essere inviato nella Contea del Widdlesex, nella cittadina di Natick, Stato del Massachusetts (U.S.A.) in qualità di Parroco (1935) svolge il ministero presso la chiesa di Nostra Signora del S. Cuore, a Firenze. Nel 1937 è richiamato in Italia ed è inviato (come primo parroco) a Palermo, nella parrocchia di S. Teresa del Bambin Gesù, dove resta dieci anni. Nel triennio 1947-1950 è bibliotecario presso la Casa Provinciale in Roma, da dove raggiunge Ferentino (provincia di Frosinone) per dirigere (fino al 1958) la locale Opera del Sacro Cuore. Dal 1958 al 1962 è Visitatore Apostolico prima dell’Istituto delle Figlie di Nostra Signora del S. Cuore (Napoli) e poi della Congregazione delle Suore dell’Immacolata di S. Maria Capua Vetere. Dal 1965 vive a Roma, dove per alcuni anni svolge il ministero nella chiesa di N.S. del S. Cuore al Circo Agonale, mentre vive nella Comunità di Corso Rinascimento. Dallo stesso anno inizia a frequentare assiduamente sia 1’Archivio Segreto Vaticano, sia la biblioteca Vaticana per arricchire la documentazione a mano a mano che procede nella stesura del monumentale “Regesto Vaticano per la Calabria” ed anche per altre opere, tutte egualmente affrontate con scrupolo e rigore scientifico. Anche dopo avere lasciato il ministero attivo per ragioni di età, continua ad essere presente sul territorio con molteplici attività ed

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 iniziative, mentre prosegue la sua opera soprattutto di storico ma anche di letterato, critico, conferenziere, giornalista ed altro. Nel “santino” commemorativo compare una preghiera che più appropriata non poteva essere: “Signore, scrivi il suo nome nel Libro della vita” (28 agosto 1991).

2. L’attività intellettuale: patrimonio prezioso per la cultura.

Presentando nel 1957 la raccolta di “Scritti storici calabresi”, il prof. Pontieri, Rettore dell’Università Federico II di Napoli, formula questo sintetico ed efficace giudizio: «Erudizione sicura, perizia nell’indagine, vigile senso critico, attitudine a rappresentare uomini e cose nelle loro giuste dimensioni. (…) Sacerdote pio e zelante (...) ha sentito con pari serietà l’attrattiva degli studi storici.(...). Questo connubio tra ministero ecclesiastico e vocazione alla storia (...) ha nel mondo cattolico, attraverso i secoli, una tradizione gloriosa, che in Italia s’ingemma del nome immortale di Ludovico Antonio Muratori...». Del gesuita modenese (1672- 1750) possiede infatti il rigore filologico, il metodo per un tipo di indagine storiografica severa, basata sull’uso rigoroso delle fonti e di precise tecniche etnografiche e paleografiche. Come il Muratori il Nostro fu dedito ad un’intensissima attività erudita, animata da uno spirito e da un ardore civico di primissimo ordine. Attraverso la ricostruzione dei dati documentaristici, infatti, ed al loro vaglio attento e scrupoloso, si può (e si deve) pervenire alla giusta scoperta, (in alcuni casi: riscoperta) e successiva valorizzazione di opere, manufatti e personaggi regionali per farli assurgere a dimensione nazionale e talvolta internazionale. In questa accezione lo si può certamente collocare nella scia del Muratori, ma anche nel solco di tanti illustri intellettuali (storiografi, economisti, politici, antropologi) meridionali che lo hanno preceduto in quest’amorevole ed orgogliosa ad un tempo attività di “recupero,” divulgazione e illustrazione delle rispettive regioni di nascita o di elezione. Tanto per citarne alcuni - in ordine cronologico - non si può non pensare al salernitano Antonio Genovesi (1713-1769), al napoletano Gaetano Filangieri (1752-1788), all’abate abruzzese Ferdinando Galiani (1728-1787), alla napoletana Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-99), al napoletano- pure lui! - Pasquale Villari (1826-1917), autore delle notissime “Lettere meridionali” nel 1875, ed uno dei primi a porre in modo lucido la “questione meridionale”, come Giustino Fortunato, lucano (I848-1932) ed il pugliese Gaetano Salvèmini (1873-1957) ed allo stesso Benedetto Croce, abruzzese

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di nascita ma napoletano per formazione ed elezione (1866-1952). E, comunque, padre Russo si colloca autorevolmente nel ristretto novero di storiografi italiani della seconda metà del Novecento: Rosario Villari, Federico Chabod, Manlio Rossi-Doria, Pietro Silva, Alfonso Manaresi e pochissimi altri. ’ Altro elemento d eccellenza, in un giudizio sia pure approssimativo, è ’ l incredibile mole delle sue opere, tanto che i suoi esegeti39 sono stati costretti a suddividere la bibliografia in due sezioni, la prima delle quali anch’essa parzializzata in quattro classi, cioè: a) grandi opere e monografie (non meno di sessanta); b) saggi su periodici; relazioni; conferenze; discorsi commemorativi (oltre quattrocentotrenta); c) recensioni di opere altrui (più di cinquanta); d) presentazioni, introduzioni e prefazioni di opere altrui (una decina). In sintesi, dal 1932 al 1982 cinquecentocinquanta titoli. P. Russo, dunque, è figlio di Calabria e studioso di Calabria. Non esclusivamente, certo, ma prevalentemente sì, e con amore, con rigore, con spirito divulgativo e “missionario” nello spirito del proprio ordine religioso. D’altra parte la Storia è impregnata della terra sulla quale le vicende si sono svolte e si svolgono. Ci sono terre alle quali le pagine degli eventi hanno riservato dei capitoli speciali per una serie di ragioni: geografiche (e, perciò crocevia di migrazioni diverse); politiche e dinastiche (e perciò al centro di lotte e di rivendicazioni per esercitarvi il predominio a danno delle aspirazioni altrui); evolutive (e perciò teatro dell’avvicendamento non necessariamente cruento di civiltà ed etnie diverse). La terra di Calabria riassume in sé questa eterogeneità di cause, onde molti nello svolgersi dei secoli hanno trovato interessante porre mano alla penna per raccontarne i fatti e i personaggi. Per primi gli imperatori e i patriarchi di Bisanzio; poi (dopo la conquista avvenuta nel 1054) alle pagine scritte sotto i Normanni, poi sotto Federico II di Svevia e poi sotto gli Angioini, in buona parte redatte da monaci benedettini, certosini e cistercensi, si vennero affiancando quelle di Gioacchino da Fiore e di San Francesco di Paola, ma anche da autori di minore risonanza. Altre “pagine” di storia si possono leggere sui monumenti, nei battisteri, nelle chiese, nelle cripte, nei conventi, negli affreschi riecheggianti gli stilemi romanici,

39 Cfr. Francesco D’Elia, Rassegna bio-bibliografica del P. Francesco Russo M.S.C., Gesualdi Ed., Roma, 1983.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 gotici fino al caravaggesco Mattia Preti, noto come il “Cavaliere Calabrese”. Ma la storia soprattutto la si legge andando a scovare le “carte”, i documenti con pazienza certosina e con una solida preparazione scientifica, proprio come il calabrese d’adozione san Bruno, che dei certosini fu il fondatore. La Calabria meritava un figlio come p. Russo e per quanto egli ha fatto nutrirà gratitudine perenne, e con lei l’Italia e gli studiosi di tanti Paesi, che - grazie alla sua poderosa opera - possono e potranno attingere a notizie altrimenti destinate all’oblìo.

3. II messaggio di padre Russo

È stato scritto, a mo’ di epitaffio, che p. Russo morendo santamente (aveva da poco ricevuto la S. Eucaristia) aveva rinnovato col Signore ancora una volta l’alleanza d’amore che lo aveva sostenuto per quasi sessant’anni di vita sacerdotale e missionaria; sorreggendolo oltretutto nell’immane lavoro intellettuale. Davvero c’è da restare stupiti di fronte alla vastità della sua opera ed anche oggi viene spontaneo di chiedersi come abbia fatto egli da solo ciò che avrebbe richiesto - come normalmente si fa e, forse, è anche giusto che così si faccia – l’impiego di un’équipe di esperti interdisciplinari. Ha scritto il compianto mons. Giusti, Prefetto dell’ Archivio Segreto Vaticano: “Ma ciò che le cifre non possono dire è la somma di fatica che deve essere costata all’autore la vastissima ricerca in fondi archivistici così vari e numerosi e in manoscritti non sempre di facile lettura.(...) Ci auguriamo che venga presto interamente pubblicata quest’opera dell’ottimo p. Russo (...) da tanti anni al suo posto di lavoro nella nostra Sala di Studio”40. L’ opera alla quale si riferiva mons. Giusti è la più importante: il “Regesto“. Ma, estensivamente, il giudizio di lode vale per tutta la produzione letteraria a prescindere da destinazione e contenuti. Con il Regesto viene offerta agli studiosi una fonte di prima mano di capitale importanza, quale è l’Archivio Segreto Vaticano. Ne consegue che la Calabria deve considerarsi all’ avanguardia della storia regionale per avere avuto studiosi notevoli di cose ecclesiastiche: da Gabriele Barrio di Francica (De antiquitate et situ Calabriae, 1571) ad Angelo Zavarroni(con la sua Bibliotheca Calabra del 1752); da don Nicola Leone (con la sua Storia della Magna Graecia e della Calabria, 1840) a

40 GIUSTI M. Presentazione del Regesto Vaticano per la Calabria del p- Francesco Russo, Roma, ottobre 1973

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Vito Capialbi di Vibo Valentia (illustratore delle Diocesi di Mileto e di Tropea: prima metà dell’Ottocento) ed a Giovanni Minasi da Scilla (autore di una Storia delle Chiese della Calabria dal V al XII secolo, Napoli l896). La Calabria è grata a questi suoi figli ed ai tanti che lo spazio non permette di ricordare, ma lo è - se possibile - anche di più al padre Russo, che con la sua opera ha colmato una vistosa e grave lacuna per gli studiosi e non solo. Il primo lascito di p. Russo, dunque, è una grande generosità, è un atto di donazione di un patrimonio culturale in senso lato e specifico a chiunque debba o voglia fruirne. Un secondo elemento che si può cogliere nel suo messaggio, in parte corollario del primo, è il grande amore filiale per la sua Terra, considerata “una vigna” della quale egli stesso si è sentito umile e laborioso “lavoratore” (cfr. Mt 20): vigna da rendere ubertosa, munifica e prolifica. C’è anche un terzo aspetto da cogliere nella sua eredità spirituale: l’ansia di far conoscere, di divulgare i tesori artistici, letterari ma soprattutto spirituali della sua patria, attraverso i personaggi insigni della cristianità, segnatamente due figure luminose: Gioacchino da Fiore e San Francesco di Paola.. Del primo, il padre Russo ha messo in risalto l’ermeneutica del luminoso sogno mistico, per esempio con il libro “Gioacchino da Fiore e le fondazioni forensi” e con l’altro volume “II Libro delle Figure di Gioacchino da Fiore”. Del secondo personaggio (fondatore dell’ordine dei Minimi), delle sue attività e delle chiese da lui fondate, il p. Russo - inter alia - ha scritto “S. Francesco di Paola nella luce di S. Francesco d’Assisi”, “Sulle reliquie di S. Francesco di Paola”, la “Bibliografia” eccetera. L’intero messaggio, inoltre, si connota di “un alone di teologicità che dona finalismo e valore alla ricerca”, per usare una felice espressione di mons. Di Napoli, storico della filosofia. In questa ottica, la storia degli uomini e delle istituzioni umane si svolge in vista di Dio, come analisi del rapporto Creatore-creature, tutto da racchiudere nella cornice dei suoi ideali: Religione, Patria, Bontà.

Conclusione

In tutta la sua lunga attività p. Russo ha messo in mostra doti non comuni di intellettuale, di letterato, di innamorato della cultura e della conoscenza, non per sé soltanto, ma per divulgarle a tutti. Nel suo stile equilibrato, misuratissimo, ricco di umori e di accenti popolari e folclorici

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(tali da farlo considerare qualcosa di più di uno storico tout court, ma anche un etnografo) rappresenta nella seconda metà del Novecento la mente sintetica capace di unire istanze scientifiche e metodologiche a curiosità antropologiche e di costume. Molti studi sulla Calabria si sono avvalsi della sua generosa opera e infiniti altri vi attingeranno copiosamente.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA IN OCCASIONE DELLA BENEDIZIONE DELLA CHIESA DEL CASELLO E DELL’XI ANNIVERSARIO DI SACERDOZIO DI DON GIUSEPPE DE BARTOLO Altomonte, 6 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, caro don Giuseppe, carissimo signor Sindaco e membri dell’Amministrazione comunale, on. Belluscio, sono lieto perché in questo luogo di preghiera viene benedetta la chiesa intitolata a Maria Immacolata della Divina Misericordia, intorno alla quale spero si formi una comunità viva e cristiana. Sono contento per la collaborazione dell’Amministrazione comunale guidata dal Sindaco Giampiero Coppola. Rendo grazie al Signore per il dono che oggi mi fa di celebrare con voi e per voi l’Eucaristia in questo giorno in cui si intrecciano molteplici motivi di lode. In particolare, vorrei soffermarmi a riflettere brevemente con voi sul tempo dell’Avvento e sulla Parola di Dio che ci è stata donata, sul rito di benedizione della Chiesa e dell’altare, sul mistero del sacerdozio in questo giorno anniversario – caro don Giuseppe – della tua Ordinazione presbiterale. Quando ogni giorno ascoltiamo o vediamo gli accadimenti del mondo, forse ci verrebbe da dire: mala tempora currunt. Affermazione legittima, se non fossimo annunciatori della Buona Notizia, se non fossimo tra quei folli innamorati di Cristo, che ne attendono la venuta e l’incontro, per cui la negatività del male si trasforma in certezza di bene. Allora pronunceremo parole diverse: bona tempora veniant! A questi tempi, o meglio al Tempo dei tempi, al Kairós direbbe la sapienza antica, ci prepara l’Avvento; è un dissodare il terreno duro del nostro animo per ricevere ancora una volta la Buona Semente, per accogliere l’Eterno che si fa Presenza, il Verbo che si fa Carne, Dio che si fa Uomo. Il senso profondo dell’Avvento sta in questo lavoro di aratura interiore: rimuovere le zolle dure, che impediscono l’attecchimento del seme buono, e far emergere quelle più adatte a racchiuderlo, nutrirlo e farlo germogliare. La pagina del Vangelo che abbiamo ascoltato in questa liturgia ci presenta l’inizio del testo di Marco. L’Evangelista dopo il titolo, “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio”, ci porta nel deserto e ci tratteggia la figura di Giovanni il Battezzatore.

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È nel deserto che si incontra Dio e si assiste ai suoi prodigi. Nel deserto la tentazione è vinta dal digiuno. La vita risulta dura, però la vicinanza e la solidarietà con gli altri servono a renderla meno aspra e a superare l’isolamento. Giovanni ha compiuto la sua preparazione nel deserto e vi ha maturato la vocazione, imparando a incontrarsi con Dio, facilitato proprio dalla solitudine e dal silenzio del deserto. Non solo, ha anche imparato a riflettere per decifrarne ed accettarne il piano misterioso. Giovanni ha avuto come maestro il silenzio. L’Avvento è dunque un tempo di grazia, un tempo di gestazione, durante il quale ci si prepara ad accogliere la nascita del Bambino Gesù, con il calore, l’amore e la dignità che Gli è dovuta. Una nascita che è memoria del passato e attesa del futuro: è questo il duplice significato teologico dell’Avvento: ci si prepara a celebrare la gioia della Prima Venuta e ci si predispone alla vigilante attesa della Seconda. È un percorrere la linea del tempo fra passato e futuro, senza però distogliere lo sguardo dal presente, nel quale si gioca la partita più difficile di noi credenti: l’intuizione della Presenza divina. Intuire la Presenza divina significa saper discernere nella nostra vita, intorno a noi e dentro di noi i segni della reale vicinanza e prossimità di Cristo, che è forza e amore superiore ad ogni altra percezione umana. Prepararsi, allora, a celebrare la memoria della nascita di Cristo, e prepararsi all’attesa della Sua seconda venuta, non è che vivere il presente come un tempo continuo di rivelazione. La Rivelazione di una Presenza che non si è affacciata una sola volta nella storia dell’umanità, ma continua a farlo ogni volta che noi Le permettiamo di riempire il nostro tempo. Vivere lasciando che Cristo riempia il nostro tempo è risposta autentica all’invito che risuona in questi giorni fra le mura delle nostre chiese: preparare le strade al Signore, essere cioè segno profetico nella società del nostro tempo. Come i profeti Isaia nel Vecchio Testamento, e Giovanni il Battista nel Nuovo, non possiamo tacere la Parola nella quale abbiamo creduto e per la quale siamo capaci di amare. E se volessimo indicare che cos’é che ci rende veri cristiani, non potremmo che guardare al mistero della stessa Parola: l’incontro decisivo con essa, riconoscendola quale verità assoluta e certa, il bisogno di modellarvi l’intera nostra vita, annunciarla con le parole e testimoniarla con le opere, fanno di noi la “differenza”. In effetti, ciò che rende credibili sulle nostre labbra di annunciatori la trasmissione del messaggio di Gesù, Buona Novella, è soltanto l’esperienza che noi per primi facciamo della sua verità. Una verità che

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 non si percepisce se chi la trasmette non ne pregusta un assaggio e non se ne ciba in abbondanza. Una testimonianza che chiama in causa non tanto il nostro sapere religioso, quanto il nostro vissuto concreto. Giovanni il Battista, leggiamo nelle pagine del Vangelo di Marco, si prepara alla venuta del Signore nel nascondimento e nella privazione (quasi a voler anticipare quel necessario “spogliamento” di sé che ha reso possibile al Figlio di Dio di redimere l’uomo e al Figlio dell’uomo di diventare Dio), rendendo così credibile la parola profetica dell’annuncio dei “bona tempora veniant“. E se noi crediamo che questi tempi sono veramente buoni, perché vivificati dalla presenza del Cristo, non solo riusciremo a vivere i nostri giorni ricolmi di questa bontà, ma contageremo della medesima tutto ciò che ci sta intorno; e in quanti incontreremo lungo il nostro cammino susciteremo la nostalgia di Dio, la fame di attingere alla sola fonte di bontà misericordiosa. Tutti siamo chiamati, in quanto battezzati, a rendere ragione della nostra speranza, ad essere testimoni autentici dell’Ευαγγελiοv , ma non tutti sono preposti ad essere Suoi depositari e mediatori, Suoi fedeli e assoluti servitori. Carissimi fratelli e sorelle, durante questa solenne liturgia ho benedetto questo edificio e tra breve benedirò questo nuovo altare. L’acqua benedetta con cui siamo stai aspersi noi e le pareti di questo edificio richiama l’acqua del nostro Battesimo e, soprattutto, ci ricorda che le pietre vere, quelle vive dobbiamo essere noi, vivendo fedelmente e coerentemente il Vangelo e amandoci gli uni gli altri. Noi dobbiamo essere il tempio, la dimora di Dio da cui si eleva la lode che il Signore desidera da noi! Alcune riflessioni vorrei ora offrirle alla vostra attenzione circa il significato dell’altare. I Padri della Chiesa, meditando sulla parola di Dio, affermano che Cristo fu vittima, sacerdote ed altare del suo stesso sacrificio. Se vero altare è Cristo, anche i suoi discepoli, membra del suo corpo, sono altari spirituali, sui quali viene offerto a Dio il sacrificio di una vita santa. San Gregorio Magno affermava: «Che cos’è l’altare di Dio se non l’anima di coloro che conducono una vita santa?... A buon diritto, quindi, altare di Dio viene chiamato il cuore dei giusti» (Homiliarum in Ezechielem II, 10, 19: PL 76, 1069). Per il fatto che all’altare si celebra il memoriale del Signore e viene distribuito ai fedeli il suo Corpo e il suo Sangue, gli scrittori ecclesiastici furono indotti a scorgere nell’altare un segno di Cristo stesso. La dignità

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 dell’altare, dunque, consiste nel fatto che esso è la mensa del Signore a cui noi siamo convocati. Carissimi fratelli e sorelle, nella benedizione del nuovo altare, la liturgia ci esorta a eliminare le divisioni. A tale proposito la Parola di Cristo è esigente: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24). Solo persone pienamente riconciliate con i fratelli possono accedervi con umiltà e fiducia, e trovare il Dio del perdono e della pace, grazia celeste che, insieme con il Santo Padre e con tutta la Chiesa universale, non cessiamo di invocare ardentemente. Su quest’altare si celebrerà l’alleanza fra Dio e l’uomo, fra la terra e il cielo; si manifesterà l’amore che unisce Dio e i suoi figli; ci sarà il dono divino della pace a cui l’umanità anela. Da questo luogo la Chiesa splenderà come casa di tutti gli uomini, poiché intercede per tutti loro, e per tutti loro rinnova il sacrificio della Croce. Su questo altare si celebrerà anche la Vita che non muore, che offre agli uomini di tutti i tempi, di tutte le nazioni, il pane della Vita Eterna: Cristo, l’unico capace di dare una risposta alle sofferenze dell’umanità, di curare le ferite più profonde di ogni uomo e di ogni donna e di appagare i loro desideri di giustizia e di verità. Mi rivolgo a voi presbiteri, e, soprattutto a te (…..), che oggi ricordi il giorno della tua ordinazione; sii sempre guida per la comunità dei fedeli, insegna loro quegli atteggiamenti, quelle parole, quel silenzio che aiutano a predisporre il cuore all’incontro con Cristo, perché tu, caro confratello nel Sacerdozio e figlio, hai scelto di amare solo Cristo, di far girare attorno a Lui ogni tua parola e azione. Ti sei deciso per Lui e alla Sua mensa ti riempi di forze. Fa’ che il tuo ministero susciti sempre il desiderio e il legame alla mensa della Parola e dell’Eucarestia, rocce certe di salvezza; non smettere mai di spezzare il pane alla mensa, facendoti tu stesso pane, per quanti lo reclamano avidamente; sii quel faro luminoso che indica la strada, perché incontrando la Vita vera, ha lasciato che la sola Verità diventasse lampada per i propri passi. Il venerabile Beda scriveva nel commento al vangelo di Marco: …ha stabilito che incombe alla categoria dei Pastori e delle guide spirituali il prendersi cura con abile impegno della Chiesa loro affidata. A questo impegno, carissimo, deve corrispondere la “differenza” della tua scelta di vita, che va rinnovata ogni giorno per non dimenticare la passione e l’amore per i quali si è scelto di vivere.

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E l’amore e la passione che traspariranno dal tuo volto saranno più convincenti di tante parole, perché tu hai provato e provi che la legge del Signore è perfetta e rinfranca l’anima, che gli ordini del Signore fanno gioire il cuore, e le sue parole sono più dolci del miele e di un favo stillante, che con il Signore al tuo fianco “bona tempora venient“. Carissimo don Giuseppe, oggi ricordi il giorno della tua ordinazione. In quel giorno di … anni fa il Signore ha chiesto a te come a Simon Pietro: “Mi ami tu?” E alla tua risposta affermativa Egli ti ha affidato la responsabilità di quel gregge per cui Egli ha dato la vita: “Pasci le mie pecorelle!” È l’amore al Signore Gesù il senso e l’anima del nostro ministero pastorale! Egli ha preso possesso di te dicendoti: “Tu mi appartieni”, “Tu sei sotto la protezione delle mie mani. Tu sei sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue”. È questo il tuo principale dovere: coltivare l’amicizia e l’intimità con il Signore, affidare a lui la vita, gli slanci, le paure, i desideri, gli errori, con il desiderio di rialzarsi sempre dopo ogni caduta. Consegnare a Dio nella preghiera e nella celebrazione dell’Eucaristia la comunità che Egli ti ha affidato. Aprire le porte del cuore ai fratelli che bussano perché aspettano la Parola che salva; essere sollecito – a imitazione del Signore Gesù – verso i bambini, i giovani, le famiglie, gli ammalati. Caro don Giuseppe, oggi il Signore torna a ripetere a te come undici anni fa: “Non ti chiamo più servo, ma amico”. Accogli nuovamente e coltiva nella fedeltà di ogni giorno quest’amicizia, ricercando momenti di intimità con il Signore, chinandoti come il discepolo che Gesù amava sul petto del Maestro per udirne i battiti d’amore “sine modo”, senza misura! Se così farai anche tra le difficoltà – che di certo non mancheranno – non cederai allo scoraggiamento ma come un bimbo sperimenterai la potenza e la tenerezza del suo abbraccio che ti sostiene, ti accompagna, ti guida, ti custodisce e ti protegge da ogni male. Carissimi, nel concludere vi esorto proprio ad essere pronti a ricevere tutta la bontà di questo tempo di grazia: tenete gli occhi aperti dello spirito per contemplare la luce dell’Eterno che squarcia le tenebre della notte; conservate il bene e operate ciò in cui credete per trasformare il volto deturpato degli uomini e del mondo; respingete da voi le tenebre del torpore e della negligenza per non trovarvi impreparati alla venuta di Cristo. Se vivrete così il tempo d’Avvento, nel vostro cuore sarà sempre attesa del Natale.

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Caro Giuseppe, a te e a questa bella comunità il mio più affettuoso augurio e la mia benedizione! Amen!

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA NELLA SOLENNITÀ DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE Cattedrale, 8 Dicembre 2008

Carissimi fedeli, in questo meraviglioso giorno di festa vorrei condividere con voi alcune riflessioni che, spesso, amo trasformare in immagini, per rendere più visibile la contemplazione di un mistero ineffabile: l’annuncio di Nazaret. Incomprensibile è infatti che il Figlio di Dio assuma la natura umana; che una umile giovane fanciulla, votata alla purezza e alla verginità, accetti che il suo grembo diventi l’incubatrice naturale di questo meraviglioso scambio. La prima immagine che si forma nella mia mente è quella di un luogo di desolazione e tristezza, dove l’integrità e l’originaria purezza si perdono e, con essi, anche la prossimità con Dio; ma nel buio dello smarrimento si fa strada con prepotenza la voce rinfrancante di Dio stesso che promette la salvezza, nei termini della futura ricostituzione del legame perduto. L’eco di questa Voce attraversa i secoli, spesso si confonde con le altre, ma a quanti la ricercano non si nega e con forza riconferma la fedeltà alla sua promessa. Così, inizia il cammino d’attesa. La seconda immagine è quella di uomini giusti che cercano di riportare l’umanità ferita dal peccato a riscoprire e distinguere quella Voce, perché la speranza non si trasformi in disperazione e indifferenza, ma diventi certezza e desiderio ardente di compimento. Tuttavia, la Voce diventa sempre più debole e, soffocata dal rumoroso frastuono di tante altre voci, quasi si perde, e, con Essa, si dimentica la promessa. Ma a volte ciò che passa sotto silenzio si riempie di maggiore nostalgia e così, quando è arrivato il tempo, la Voce si è fatta sentire nel cuore di un’umile fanciulla che, come una goccia di rugiada, anelava a ritornare nell’oceano infinito di Dio. Ed è proprio nel silenzio della giovane Maria che Dio porta a compimento la sua antica promessa. Ella piacque al Signore prima di tutto per il suo silenzio, ovvero per la sua interiorità e profondità, espresse nei termini di una fedeltà incontaminata al Suo amore. Rimasta con il Signore, ha sostato presso di Lui, si è raccolta in Lui, non ha scelto fughe in avanti, ma ha scelto di impostare tutta la sua vita su valori eterni, coltivando l’essenzialità, la

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 purezza e la semplicità: questi i frutti del suo silenzio. E senza rumore, con poche parole ha cambiato veramente il volto dell’umanità. Ma a Dio Maria piacque anche per la sua risposta, che san Bernardo di Chiaravalle “quando ti chiamerà dal cielo : “O bella tra tutte le donne, se gli farai sentire la tua voce!”. Se tu dunque gli fai sentire la tua voce, Egli ti farà vedere la sua salvezza”, perché alla sua parola obbediente, conclude il santo l’avvenir rispose. Il “sì” di Maria è garanzia del nostro futuro di eternità. Soltanto Lei, donna e futura madre, poteva essere capace di una donazione totale, di compiere una scelta di maggiore sacrificio, nella più assoluta gratuità. Dunque centro del mistero ineffabile è Maria stessa, perché ha accettato con fede le parole dell’Angelo, divenendo così ad un tempo Madre del suo creatore e della nuova umanità; senza di Lei e il suo “sì”, era impossibile che avvenisse quello scambio meraviglioso per cui la Voce di Dio asssunse la natura umana e la natura umana potè partecipare alla natura stessa di Dio. Il futuro dell’umanità si decise, in un villaggio semisconosciuto Nazaret: affidato alla libera risposta di una giovane donna modesta, umile, povera e appartata. Nazaret significa fiore. Per la sua bellezza e il suo profumo il fiore preannuncia la bontà e la dolcezza del frutto: Maria infatti è stata amata da Dio come un fiore, di Lei si è compiaciuto, trovandovi il profumo dell’onestà, la bellezza di buoni sentimenti e il desiderio del premio futuro, il frutto della vita eterna. Maria, tesoro nascosto agli uomini ma non a Dio, è lo stesso cuore di Dio, perché tempio vivente dello Spirito Santo; e solo un cuore umile come il suo poteva accogliere la pienezza divina. Per questo la sua povertà, la sua umiltà, la sua fragilità sono solo apparenti, giacchè rivelano in effetti tutta la grandezza di Dio, che si è servito di un cuore nudo per collocarvi il seme dell’Eternità. Guardiamo alla Vergine, dal cui grembo pudico uscir dovea la luce che sarà nostro diletto, se vogliamo essere veramente testimoni innamorati di Cristo. Alla sua scuola impariamo l’arte della contemplazione attiva che si identifica nello stare alla presenza di Dio per tutti. Seguendo il suo esempio prefiggiamoci di rinunciare alle parole superflue e ritorniamo al silenzio, per riscoprire il Volto dei volti, per risentire di nuovo il sapore dolce di un antico Amore perduto, il cui ricordo è forte nostalgia del vero. Seguendo Maria ripromettiamoci di vincere l’angoscia della solitudine e lasciamoci che ci raggiunga l’Inatteso che già bussa alle porte del nostro

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 cuore; ritorniamo all’ascolto autentico della Parola, l’unica Verità che ci può salvare; perdiamoci nella preghiera, dialogo fecondo con Dio che ci spinge ad amare senza riserve e a donarci senza risparmiarci. Impariamo infine da Lei come cercare e conoscere meglio Dio e testimoniarlo agli altri con una vita santa. Tutto ciò sarà reso possibile solo se, come la Vergine Madre, nulla avremo anteposto all’amore di Cristo, da cui attingere la grazia divina che rende capaci di amare fino a dare la vita. A Te, Madre, rivolgiamo la nostra supplica, la nostra preghiera. Tu che per noi hai pronunciato la parola per accogliere la Parola; hai proferito il tuo “sì”, per concepire il Divino; hai abbandonato l’effimero per abbracciare l’Eterno, aiutaci a credere, confidare, accettare la Parola, il Divino, l’Eterno. Fa’, o Vergine Beata, che il nostro cuore si apra alla fede, la nostra bocca alla confessione, il nostro “grembo” al Creatore, perché possiamo essere come Te, creature che provano a rinnovare il volto all’umanità.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA NEL X ANNIVERSARIO DI SACERDOZIO DI DON FRANCESCO FAILLACE Sibari, 8 Dicembre 2008

Carissimi fedeli, carissimo don Francesco, sono lieto di trovarmi in mezzo a voi per rendere gloria al Signore in questo meraviglioso giorno di festa, in cui ricorre il tuo decimo anniversario di Ordinazione Sacerdotale. Vorrei condividere con voi alcune riflessioni che, spesso, amo trasformare in immagini, per rendere più visibile la contemplazione di un mistero ineffabile: l’annuncio di Nazaret. Incomprensibile è infatti che il Figlio di Dio assuma la natura umana; che una umile giovane fanciulla, votata alla purezza e alla verginità, accetti che il suo grembo diventi l’incubatrice naturale di questo meraviglioso scambio. La prima immagine che si forma nella mia mente è quella di un luogo di desolazione e tristezza, dove l’integrità e l’originaria purezza si perdono e, con essi, anche la prossimità con Dio; ma nel caos dello smarrimento si fa strada con prepotenza la voce rinfrancante di Dio stesso, che promette la salvezza nei termini della futura ricostituzione del legame perduto. L’eco di questa Voce attraversa i secoli, spesso si confonde con le altre, ma a quanti la ricercano non si nega e con forza riconferma la fedeltà alla sua promessa. Così, inizia il cammino d’attesa. La seconda immagine è quella di uomini giusti che cercano di riportare l’umanità ferita dal peccato a riscoprire e distinguere quella Voce, perché la speranza non si trasformi in disperazione e indifferenza, ma diventi certezza e desiderio ardente di compimento. Tuttavia, la Voce diventa sempre più debole e, soffocata dal rumoroso frastuono di tante altre voci, quasi si perde e con Essa si dimentica la promessa. Ma a volte ciò che passa sotto silenzio si riempie di maggiore nostalgia e così, quando è arrivato il tempo, quella Voce si è fatta sentire nel cuore di Maria fanciulla che, come una goccia di rugiada, anelava a ritornare nell’oceano infinito di Dio. Ed è proprio nel silenzio della giovane che Dio porta a compimento la sua antica promessa. Ella piacque al Signore prima di tutto per il suo silenzio, ovvero per la sua interiorità e profondità, espressa nei termini di una fedeltà incontaminata al Suo amore. Maria è rimasta con il Signore, ha sostato presso di Lui, si è raccolta in Lui, non ha scelto fughe in avanti, preferendo

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 impostare la propria vita su valori eterni, coltivando l’essenzialità, la purezza e la semplicità: questi i frutti del suo silenzio. E senza rumore, con poche parole ha cambiato veramente il volto dell’umanità. Ma a Dio Maria piacque anche per la sua risposta S. Bernardo di Chiaravalle commenta: “Quando ti chiamerà dal cielo : “O bella tra tutte le donne, fammi sentire la tua voce!”. tu dunque fagli sentire la tua voce, ed Egli ti farà vedere la sua salvezza”. Infatti conclude il santo, obbedienza “l’avvenir rispose”. Il “sì” di Maria è garanzia del nostro futuro di eternità. Soltanto Lei in quanto donna e futura madre poteva essere capace di una donazione totale, di compiere una scelta di maggiore sacrificio, nella più assoluta gratuità. Dunque, centro del mistero ineffabile è Maria stessa, perché ha accettato con fede le parole dell’Angelo, divenendo così Madre del suo creatore e Madre della nuova umanità; senza di Lei, senza il suo “sì”, era impossibile che potesse avvenire quello scambio meraviglioso per cui la Voce di Dio ha assunto la natura umana e la natura umana ha potuto partecipare alla natura stessa di Dio. Il futuro dell’umanità si decise in quel villaggio semisconosciuto di Nazaret, affidato alla libera risposta di una ragazza semplice, modesta, povera e appartata. Nazaret significa fiore. E il fiore per la sua bellezza e il suo profumo è speranza della bontà e della dolcezza del frutto. Maria infatti è stata amata da Dio come un fiore, compiacendosi di Lei giacché vi aveva trovato la bellezza di una condotta onesta, il profumo di buoni pensieri e il desiderio del premio futuro: il frutto della vita eterna. Maria, tesoro nascosto agli uomini ma non a Dio, è lo stesso cuore di Dio, perché tempio vivente dello Spirito Santo; e solo un cuore casto ed umile come il suo poteva accogliere la pienezza divina. A questo punto la sua povertà, la sua umiltà, la sua fragilità diventano solo apparenti, dovendo – come accadde - rivelare tutta la grandezza di Dio, che in un cuore nudo depositava il seme dell’Eterno. Guardiamo alla Vergine, dal cui grembo pudico uscir dovea la luce che sarà nostro diletto, se vogliamo essere veramente testimoni innamorati di Cristo. Alla sua scuola impariamo l’arte della contemplazione attiva che si identifica nello stare alla presenza di Dio per tutti. Seguendo il suo esempio facciamo a meno delle parole superflue e torniamo al silenzio se vorremo riscoprire il Volto dei volti, provare di nuovo il sapore dolce di un antico Amore perduto, il cui ricordo è forte nostalgia del vero. Come Ella fece, anche noi superiamo la paura della solitudine, per farci raggiungere

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 dall’Inatteso che bussa alla porta del nostro cuore; ritorniamo all’ascolto autentico della Parola, l’unica Verità che ci può salvare; perdiamoci nella preghiera che è dialogo fecondo con Dio e ci spinge ad amare senza riserve, a donarci senza risparmiarci. Impariamo, infine, da Lei come cercare e conoscere meglio Dio e testimoniarlo agli altri con una vita santa. E comunque tutto ciò sarà possibile solo se, come la Vergine Madre, nulla avremo anteposto all’amore di Cristo, da cui attingere la grazia divina che rende capaci di amare fino a dare la vita. Mi rivolgo a voi presbiteri, e, soprattutto a te (…..), che oggi ricordi il giorno della tua ordinazione, sii sempre guida per la comunità dei fedeli, trasmettigli gli atteggiamenti, le parole, il silenzio che aiutano a predisporre il cuore all’incontro con Cristo, perché tu, caro confratello nel Sacerdozio e figlio, hai scelto di amare solo Cristo, di metterlo al centro di ogni tua parola e azione. Ti sei deciso per Lui e alla Sua mensa ti riempi di forze. Fa’ che il tuo ministero susciti sempre il desiderio e il legame alla mensa della Parola e dell’Eucarestia, rocce certe di salvezza; non smettere mai di spezzare il pane alla mensa facendoti tu stesso pane per quanti lo reclamano avidamente; sii quel faro luminoso che indica la strada, perché incontrando la Vita vera, hai lasciato che la sola Verità diventasse lampada per i tuoi passi. Il venerabile Beda scriveva nel commento al vangelo di Marco che incombe alla categoria dei Pastori e delle guide spirituali prendersi cura, con abile impegno, della Chiesa che gli è stata affidata. A questo impegno, carissimo, deve corrispondere la “differenza” della tua scelta di vita, che va rinnovata ogni giorno per non dimenticare la passione e l’amore, valori per i quali si è scelto di vivere. E l’amore e la passione che traspariranno dal tuo volto saranno più convincenti di tante parole, perché tu hai provato e provi che la legge del Signore è perfetta e rinfranca l’anima, che i suoi ordini danno letizia al cuore, le sue parole sono più dolci del miele di un favo stillante, che con il Signore al tuo fianco bona tempora venient. Carissimo don Francesco, oggi ricordi la tua ordinazione sacerdotale. In quel giorno di dieci anni fa il Signore ti ha rivolto la stessa domanda di Simon Pietro: “Mi ami tu?” Al tuo “si” ti ha affidato la responsabilità di quel gregge per cui Egli ha dato la vita: “Pasci le mie pecorelle!” È l’amore al Signore Gesù il senso e l’anima del nostro ministero pastorale! Egli ha preso possesso di te dicendoti: “Tu mi appartieni”, “sei sotto la protezione delle mie mani e del mio cuore. Sei custodito nel cavo delle mie mani e

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue”. È questo il tuo principale dovere: coltivare l’amicizia e l’intimità con il Signore, affidargli la tua vita, gli slanci, le paure, i desideri, gli errori, la volontà di rialzarsi dopo ogni caduta. Devi inoltre consegnare a Dio nella preghiera e nella Celebrazione dell’Eucaristia la Comunità che Egli ti ha affidato; aprire le porte del cuore ai fratelli che bussano perché aspettano la Parola che salva; essere sollecito – a imitazione del Signore Gesù – verso i bambini, i giovani, le famiglie, gli ammalati, i bisognosi d’ogni tipo Caro don Francesco, oggi come dieci anni fa il Signore ti ripete: “Non ti chiamo più servo, ma amico”. Rinnova l’amicizia e coltivala nella fedeltà di ogni giorno,cercando momenti di intimità con Lui, poggiando il capo, “come il discepolo che Egli amava”, sul petto di Gesù per meglio udire i battiti d’amore “sine modo”, senza misura! Se così farai anche tra le difficoltà – che di certo non mancheranno – non cederai allo scoraggiamento, ma come un bimbo sperimenterai la potenza e la tenerezza del suo abbraccio che ti sostiene, ti accompagna, ti guida, ti custodisce e ti protegge da ogni male. Carissimi tutti, nel concludere vi esorto proprio ad essere pronti a ricevere tutta la bontà di questo tempo di grazia: tenete gli occhi aperti dello spirito per contemplare la luce dell’Eterno che squarcia le tenebre della notte; conservate il bene e operate ciò in cui credete per trasformare il volto deturpato degli uomini e del mondo; respingete da voi le tenebre del torpore e della negligenza per non trovarvi impreparati alla venuta di Cristo. Se vivrete così il tempo d’Avvento, nel vostro cuore sarà sempre trepida attesa del Natale. A Te, Madre, rivolgiamo la nostra supplica, la nostra preghiera. Tu che per noi hai pronunciato la parola per accogliere la Parola e concepire il Divino; Tu che hai abbandonato l’effimero per abbracciare l’Eterno, aiutaci a credere, confidare, accettare la Parola, il Divino, l’Eterno. Fa’, o Vergine Beata, che il nostro cuore si apra alla fede, la nostra bocca alla confessione, il nostro “grembo” al Creatore, perché possiamo essere come Te, creature che provano a rinnovare il volto all’umanità. Caro Francesco a te e a questa bella comunità il mio più affettuoso augurio e la mia benedizione! Amen!

 Vincenzo Bertolone

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NEL X ANNIVERSARIO DEL RICONOSCIMENTO DIOCESANO DEGLI STATUTI DELLA FRATERNITÀ FRANCESCANI DI BETANIA Terlizzi, 10 Dicembre 2008

IL RUOLO DEL FONDATORE E LA SUA FUNZIONE LEGISLATIVA

“Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!” (Fil 4,9) Introduzione

Con la Chiesa e con tutta la Cristianità anche voi celebrate così la vostra storia, breve ma significativa, fatta di un passato e di un presente di grazia e di misericordia e insieme vi aprite con speranza al futuro per rispondere con tutte le forze alle attese che Dio ha sulle vostre persone e sulla vostra Famiglia religiosa. Da qui la necessità, per tutti voi, di conoscere meglio il Fondatore, di studiare i suoi scritti, di ritornare a lui come alla sorgente. L’oggetto particolare della nostra riflessione è il carisma che il vostro Fondatore vi ha trasmesso41. Ciò sarà certamente utile nel cammino di

41 In questo lavoro, specie per la parte sul carisma, mi riferisco principalmente ai seguenti studi: G. ROCCA, Il carisma del fondatore, in: Claretianum, XXXIV, pp. 31-105; P. T. GRZESZCZYK, Il carisma dei fondatori, Roma, s. e., 1974; P.-R. RÉGAMEY, Carismi, in: G. PELLICCIA-G. ROCCA (edd.) , Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. 2, Roma, Paoline, 1975, coll. 299-315; E. GAMBARI-J. LOZANO-G. ROCCA-S. BURGALASSI-M. OLPHE GALLIARD, Fondatore, in: Dizionario degli Istituti di perfezione, op. cit., vol. 4, 1977, coll. 96-108; F. CIARDI, I fondatori uomini dello Spirito. Per una teologia del carisma di fondatore, Roma, Città Nuova, 1982; V. BERTOLONE, II carisma cusmaniano nelle speranze della Chiesa, in: La "Chiesa" del Cusmano. Atti del convegno di studi cusmaniani - Palermo, 11-12 Marzo 1994, Palermo, ed. EDI-OPTES, 1995, pp. 237-274. I testi magisteriali di riferimento sono stati: CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium (citeremo LG) , 21. 11. 1964, in: AAS 57 (1965) ; CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decreto sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae Caritatis, 28. 10. 1965, in: AAS 58 (1966) (citeremo PC) ; SACRA CONGREGAZIONE PERI RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI, Istruzione Elementi essenziali dell'insegnamento della Chiesa sulla vita religiosa, 31. 5. 1983, in: Enchiridion Vaticanum, vol. 9 (citeremo EL) ;; SACRA CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI E

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 fedeltà creativa che il vostro Istituto è chiamato a percorrere, perché il carisma va vissuto da voi nell’oggi incarnandosi nella storia42: perché questo avvenga è necessario attingere continuamente alle sue fonti. Ve ne parlerò nella sua comprensione concettuale e teologica, in quanto si può considerare che tale realtà è fondante per qualsiasi istituzione religiosa. Gli argomenti, pertanto, saranno il carisma dei fondatori, la loro esperienza dello Spirito, il loro specifico carisma e, infine, il carisma dell’Istituto.

1. CHE COS’È IL CARISMA?

1.1. “Carisma” nella sacra Scrittura Il termine greco chárisma si trova solo nel nuovo Testamento43 e designa qualsiasi grazia (cháris) o dono che la benevolenza divina concede ai credenti per l’edificazione della Chiesa. Il grande teologo del “carisma” è Paolo. Dalla letteratura del corpus paolino ricaviamo che per lui è qualcosa di intimamente connesso all’insieme dell’economia salvifica, come dono “speciale che viene da Dio”, propriamente dallo Spirito Santo, ed è affidato ad alcuni che, utilizzandolo, coopereranno al bene dell’intero Corpo ecclesiale. Egli mostra come nella comunità cristiana vi siano doni molto diversi fra loro, alcuni direttamente legati a ministeri (presidenza) o stati di vita (verginità, matrimonio, cfr 1Cor 7,7) e altri più “liberi” (profezia); alcuni “ordinari” (insegnamento) e altri “straordinari” e perciò occasionali e spesso anche altamente spettacolari (glossolalia, guarigioni, miracoli) . Le sue preferenze vanno in modo evidente a quelli che sono più intimamente

SACRA CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Istruzione Mutuae Relationes, 14. 5. 1978, in: AAS 70 (1978) (citeremo MR); PAOLO VI, Istruzione Ecclesiae Sanctae, 6. 8. 1966, in: AAS 58 (1966) (citeremo ES) ; IDEM, Esortazione apostolica Evangelica Testificatio 29. 6. 1971, in: AAS 63 (1971) (citeremo ET) 11; GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Redemptionis Donum, 25. 3. 1984, in: AAS (1984) (citeremo RD) ; IDEM, Esortazione apostolica postsinodale Vita Consecrata, Città del Vaticano, ed. Libreria Editrice Vaticana, 1996.

42 «La funzione dei singoli carismi religiosi è storicamente condizionata. “Vi è una curva vitale che li riguarda. In momenti di cambio culturale vi sono stati gruppi che sono stati annientati o sono scomparsi per mancanza di adattamento e di creatività»: L. PREZZI, Lettera ai Padri sinodali. Dal convegno USG - Roma, 22-27 novembre 1993, in: Regno - attualità 22 (1993) p. 650.

43 Ricorre in tutto diciassette volte, prevalentemente nelle lettere di Paolo (16 volte).

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 ordinati alla crescita della comunità nella fede (profezia, cfr 1Cor 14,1-5) e a quelli che permettono di dedicarsi al Signore “senza distrazioni” (verginità, cfr 1Cor 7,7.32.35) . Gli Atti degli Apostoli mostrano come molte manifestazioni carismatiche abbiano contribuito alla predicazione, al nascere e al consolidarsi delle prime comunità44. Paolo, che conosce molto bene questa realtà, cerca, soprattutto nella “magmatica” comunità di Corinto, di indirizzare i cristiani a servirsi dei carismi per il bene comune. Per questo mette la carità “al di sopra di tutto” (cfr Col 3,14; Gal 5,14; 1Cor 14,1) , invitando così i fedeli a non credersi superiori agli altri a motivo delle esperienze spirituali e dei doni carismatici loro concessi (cfr 1Cor 12-14) .

1.2. Il lungo cammino verso la formazione del concetto tecnico di carisma Al termine dell’epoca apostolica, con la scomparsa dei carismi straordinari e spettacolari, la riflessione su questo tema si è evoluta lentamente. Nel periodo patristico- latino45, il termine greco scompare presto e, soprattutto Gregorio Magno, lascia il posto al concetto teologico di “dono dello Spirito”, identificato talvolta con le virtù e denominato signa virtutum. Ecco perché s. Tommaso, seguito dalla Scolastica e dalla teologia cattolica fino alla fine del secolo scorso, non ritiene necessario formulare un concetto tecnico di carisma, limitandosi a considerarlo nella categoria delle “grazie gratuitamente date”. Alla fine dell’Ottocento, partendo dalla radicalizzazione del concetto biblico di “chárisma” si arriverà con Sohm e Harnack alla contrapposizione tra carisma e gerarchia46, cui Leone XIII

44 Cfr ad es. At 2,14-36; 5,12; 9,31; 10,44-48; 11,28; 13,1-3; 13,9; 21,9.

45 I Padri greci, pur mantenendosi ancorati al dato biblico, hanno man mano applicato il termine chàrisma a tutte le realtà umane e spirituali che ritenevano direttamente provenienti da Dio, allargandone così l’interpretazione fino ad includervi quelle qualità e “talenti” grazie ai quali una persona è in grado di svolgere i compiti che le vengono assegnati, anche al di fuori dell’ambito ecclesiastico.

46 È la scuola teologica nordamericana, nata negli ambienti del protestantesimo di corrente calvinista. Da questa posizione avranno origine il neopentecostalismo americano e altri movimenti.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 reagiràaffermando che solo nel Magistero gerarchico è possibile riscontrare la presenza dell’autentica guida carismatica47. Pochi anni dopo, Max Weber, uno dei padri della moderna sociologia, elabora un concetto laicizzato di carisma48. La persona carismatica, nella sua prospettiva, assume la connotazione di capo, di leader che assoggetta a sé i suoi gregari o “discepoli”, sfruttandone l’emotività mediante la propria forza psicologica. Nella Mystici Corporis papa Pio XII (1943) riconosce nei carismi ordinari e straordinari uno degli elementi costitutivi del mistero della Chiesa49. Da queste affermazioni si sviluppa una ricca discussione teologica, di cui è protagonista Karl Rahner, il quale ritiene che l’elemento carismatico appartenga all’essenza della Chiesa, come i ministeri e i sacramenti50. È perciò impossibile qualsiasi opposizione tra la realtà ministeriale gerarchica e i carismi, che sono doni dell’unico Spirito51. Rahner sottolinea anche che il sorgere del monachesimo e delle varie forme di vita religiosa successive è di origine carismatica e che i loro fondatori erano dotati di carismi, ma non parla di uno specifico carisma fondazionale. Grazie a quest’intenso lavorio, a partire dagli anni Cinquanta (del secolo scorso), il concetto di carisma entra a pieno titolo nella teologia e nel magistero ed oggi è considerato indispensabile per la comprensione della vita ecclesiale e, in essa, della vita consacrata.

47 Cfr LEONE XIII, enc. Testem Benevolentiæ, 22.1.1899.

48 Cfr S. BURGALASSI, Carisma. Aspetto sociologico, in: Dizionario degli Istituti di Perfezione, op. cit., vol. 2, 1975 , coll. 298-299. Weber continua, forse inconsapevolmente, la strada aperta dai Padri greci. S. Tromp, nel 1966, segnala nel Dictionnaire de Spiritualitè l’ormai avvenuto allargamento di significato del termine “carisma” ad indicare ogni tipo di talento umano (cfr DSp 3807) .

49 Cfr PIO XII, enciclica Mystici Corporis, 29.6.1943, in: AAS 35 (1943) pp. 214 ss. .

50 A suo modo di vedere, l'unica differenza con questi ultimi sta nel fatto che, mentre i ministeri traducono i doni dello Spirito in forme di servizio stabili e chiaramente determinate, il carisma appartiene alla libera e imprevedibile azione dello Spirito. Cfr K. RAHNER, Das Dinamische in der Kirche, (= Quæstiones Disputatæ, 5) , Freiburg / Br., 1958, p. 52. Anche: S. TROMP, L’Esprit Saint âme de l’Eglise, in: Dictionnaire de Spirtualitè, vol. 4°/2, 1961, pp. 1296-1302.

51 Promuovere, infatti, la circolarità e la reciprocità dei carismi, intesa come scambio dei doni, significa riflettere anche su quanto la stessa vita consacrata realizzi nell'animazione del popolo di Dio, la comune vocazione alla santità (LG 39) .

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Il concilio Vaticano II accoglie pienamente l’idea biblica di carisma (LG 12) 52, sebbene non adotti l’espressione “carisma della vita religiosa”. Ciò nonostante, diverse espressioni conciliari mettono il concetto di carisma in rapporto agli Istituti religiosi e sottolineano come la speciale grazia ad esso legata ponga il religioso in una posizione privilegiata per agire in vista dell’edificazione del Regno. Il “Perfectæ Caritatis” (2b) , preferisce perciò la parola “spirito” per designare lo specifico della fondazione di un istituto religioso.

1.3. Il “carisma del fondatore” Nel 1971, con l’esortazione Evangelica Testificatio, Paolo VI conia l’espressione “carisma dei fondatori” e la introduce nel linguaggio magisteriale53, nel quale e dal quale è da allora adottata stabilmente, in sostituzione o, meno spesso, in abbinamento con “spirito”. Le due parole, infatti, hanno un contenuto analogo, ma “carisma” risulta molto più pregnante, perché contribuisce a una corretta presentazione dei fondatori come uomini “suscitati da Dio” e mette in risalto il valore originario della loro opera, rapportandola, nel contempo, all’iniziativa divina e al contesto ecclesiale. L’istruzione Mutuæ Relationes (1978) affronta la questione in modo esauriente precisando una serie di elementi circa il carisma dei fondatori ed evidenziando che un carisma si può ritenere autentico solo se è ordinato

52 Utilizza quattordici volte il termine: 11 volte il sostantivo e 3 volte l’aggettivo corrispondente.

53 “Solo così voi potrete ridestare i cuori alla verità e all'amore divino, secondo il carisma dei vostri fondatori, suscitati da Dio nella sua Chiesa”. Prosegue: “Non altrimenti il Concilio giustamente insiste sull'obbligo, per i religiosi e per le religiose, di esser fedeli allo spirito dei loro fondatori, alle loro intenzioni evangeliche, all'esempio della loro santità, cogliendo in ciò uno dei principi del rinnovamento in corso ed uno dei criteri più sicuri di quel che ciascun istituto deve eventualmente intraprendere” (n° 11) . In occasione dei Capitoli generali speciali dei Padri Monfortani e dei Fratelli di S. Gabriele aveva utilizzato per la prima volta l'espressione “carisma dei Fondatori”. La Evangelica Testificatio consacra anche l’espressione “carisma della vita religiosa”: «Il carisma della vita religiosa, in realtà, lungi dall'essere un impulso “nato dalla carne e dal sangue” (Gv 1, 13) né derivato certo da una mentalità che “si conforma al mondo presente” (Rm 12, 2) , è frutto dello Spirito Santo, che sempre agisce nella Chiesa» (n° 11) , in genere e nei singoli istituti. «Durante questo cammino, un aiuto vi è offerto dalle forme di vita che l'esperienza, fedele ai carismi dei diversi istituti, ha fatto adottare» (n° 32) . Risulta evidente la concordanza con Lumen Gentium 12. Così, il carisma dei fondatori, mentre viene ufficialmente riconosciuto, incontra la sua più profonda radice in un'ecclesiologia di comunione.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 alla vita della Chiesa54 e confermato dalla gerarchia. Viene sottolineata la trasmissibilità del carisma dell’Istituto e il ruolo dei “discepoli”, mostrando il carisma come “esperienza dello Spirito, trasmessa [dal Fondatore] ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il corpo di Cristo in perenne crescita” (n° 11) 55. Essi devono integrare in tale carisma anche i propri doni personali all’interno del progetto generale dell’Istituto (n° 22) . Da Paolo VI in poi, perciò, il concetto di carisma per quanto riguarda la vita consacrata assume l’accezione di fonte, sorgente cui attingono fondatore e istituto56.

54 Il contributo della vita consacrata alla Chiesa è molteplice e comincia ben “più in alto” della capacità ministeriale o diaconale del consacrati stessi, perché risale direttamente al fatto della loro esistenza: «Il fenomeno dei fondatori avanguardie storiche dello Spirito e delle loro comunità consiste appunto nel continuo evento che esibisce, dice e riattualizza, come memoria vivente ed in maniera percepibile che cosa è la Chiesa in rapporto a Cristo, rendendo visibile e comprensibile questa relazione nella storia. Le congregazioni rivestono così una funzione innovatrice nella Chiesa, essi sono modelli produttivi per la sua prassi evangelica, esperienze di frontiera, nel cuore dei mutamenti sociali, terapia d’urto dello Spirito santo - come afferma Metz - contro tutti i falsi e pericolosi accomodamenti antievangelici. […] nel futuro del cristianesimo le comunità di vita consacrata giocheranno un ruolo fondamentale di riserva di senso, di memoria d’orientamento della vita. E lo potranno fare solo vivendo con audacia la propria identità più profonda, mostrando nella diversità degli stili di vita, con il proprio volto carismatico e profetico un frammento del mistero di Cristo»: A. ROMANO, Carismi diversi: un solo servizio, in: AA. VV., Carismi e profezia. Verso il Sinodo sulla vita consacrata, Roma, Centro studi USMI, [1993] , pp. 10-11.

55 P. R. Régamey suggerisce l’idea che non è automaticamente la stessa cosa partecipare in forma istituzionale - giuridica all’istituto religioso e partecipare carismaticamente alla vocazione di esso; a suo parere, infatti, non coinciderebbero l’appartenenza giuridica all’istituto e la partecipazione al carisma di esso. Infatti egli reputa errato che i religiosi ritengano di avere «un diritto a partecipare del carisma del loro istituto, per il semplice fatto che fanno parte di quest’ultimo»: P.-R. RÉGAMEY, Carismi, op. cit., col. 313. Una delle possibili conseguenze di questa partecipazione del carisma ad ogni religioso: «La particolare situazione pluralistica in cui oggi si vive ha comunque portato alcuni autori ad accettare che in uno stesso istituto vi siano letture diverse del carisma, secondo i luoghi, quindi con la possibilità di opere che possono anche essere notevolmente diverse tra una provincia e l’altra»: G. ROCCA, Il carisma del fondatore, op. cit., p. 50.

56 Carisma nel Codice di Diritto Canonico: all'interno della sua normativa non è usato il termine “carisma”. Non lo si definisce, né descrive, perché si ritiene di non poterne esaurire la realtà spirituale, che suppone e utilizza, secondo le sue specifiche finalità. Il termine, viene perciò sostituito con alcuni sinonimi: “doni” (can. 577) , “Natura, indole e fine” (can. 588,3) , “patrimonio” (can. 631,1) , “indole e Spirito proprio” (can. 707) , “spirito” (can. 717,3) , “fine, spirito, indole” (can. 722,2=) . Carisma nel Catechismo della Chiesa Cattolica: il testo assegna ai carismi un posto di primo piano, infatti il termine viene usato quattordici volte. È utile evidenziare che questo

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2. IL CARISMA DEI FONDATORI: ISPIRAZIONE ORIGINARIA

2.1. L’ispirazione originaria ricevuta dai Fondatori Secondo i documenti ufficiali della Chiesa essere Fondatore significa avere tale specifica vocazione, il cui segno è l’”ispirazione originaria” dell’istituto (cfr Perfectæ Caritatis 2) , vista come l’esperienza intima e spirituale attraverso la quale i Fondatori scoprono la vocazione e, in forza di essa, danno vita ad una nuova realtà di vita consacrata nella Chiesa57. L’ispirazione originaria è l’elemento essenziale che caratterizza la figura del Fondatore, il carisma suo e dell’Istituto religioso. Essa è una particolare gratia gratis data da Dio al Fondatore, orientata all’edificazione della Chiesa e «non al bene personale di colui che è gratificato»58. Si tratta quindi di una «comunicazione del pensiero e della volontà di Dio e della conseguente grazia» e «non è frutto di studio o di

catechismo si colloca sulla scia della Tradizione, già recuperata dal Vaticano II e del quale è l’ultimo frutto, secondo il pensiero di papa Giovanni Paolo II. Si parla di “gratia (dono) dello Spirito santo”. Riecheggia pure la terminologia tomista (Gratiæ gratis datæ) (cfr CCC 2003). Non viene fornita, comunque, un'elencazione tipologica, come risulta nella Lumen Gentium. Nonostante ciò, il CCC propone una riflessione circa la sottomissione ordinata dei carismi ai Pastori, che ne operano il discernimento per il bene e l’utilità della comunità. I carismi «straordinari o semplici e umili, sono gratiæ dello Spirito santo che, direttamente o indirettamente, hanno un'utilità ecclesiale perché ordinati all'edificazione della Chiesa, al bene degli uomini e alle necessità del mondo» (CCC 799) . Anche i recentissimi Lineamenta che hanno preceduto il Sinodo sulla Vita Consacrata parlano di carisma della vita religiosa (n° 23) , di carisma di fondazione (o delle origini) e di carisma dei fondatori, riprendendo quanto già detto sia dall’Evangelica Testificatio, sia dalla Mutuæ Relationes (cfr nni 14-17) . L'argomento è stato ripreso ripetutamente da Giovanni Paolo II, soprattutto nel documento post-sinodale Vita Consecrata ni 36-37.

57 Cfr Eucaristia – Sacerdozio – Liturgia. L’unità come mistica del servizio. Atti del seminario internazionale sull’unità delle tre dimensioni apostoliche, Roma, Pie discepole del Divin Maestro, 1998, pp. 32-60. Cfr PIO VI, enc. Quod aliquantum, 1791; PIO IX, enc. Ubi Primum, 1847; PIO XI, ep. Unigenitus, 1924. Cfr anche P. T. GRZESZCZYK, Il Carisma dei Fondatori, Roma, s. e., 1974. Egli descrive il carisma dei fondatori «come un complesso di grazie particolari» (p. 11) . «Attribuisce al Carisma un potere soprannaturale» (p. 34) . Detto carisma «non è distinto da quello del fondatore, ma ne è il prolungamento» (p. 59) . Cfr E. GAMBARI-J. LOZANO-G. ROCCA, Fondatore, op. cit., col. 96. V. BERTOLONE, II carisma cusmaniano nelle speranze della Chiesa, op. cit., pp. 251-252.

58 Cfr F. CIARDI, I fondatori, uomini di Spirito, op. cit., p. 36.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 riflessione o di programmazione»59. Comprendiamo, così, le parole di un grande fondatore, Vincenzo de’ Paoli: “Ciò in cui gli uomini non hanno avuto parte, è opera di Dio e procede immediatamente da Lui”60. Tale comunicazione può avvenire in varie forme o modalità61 e contiene gli elementi fondamentali dai quali derivano l’essenza del carisma e della missione del Fondatore che matureranno in seguito nelle varie fasi della stessa ispirazione (consapevolezza della fondazione, stesura della Regola, approvazione) 62 fino a quando l’ispirazione originaria non verrà istituzionalizzata con l’erezione e approvazione dell’istituto nei suoi vari gradi da parte dell’autorità della Chiesa63. La fase dell’ispirazione originaria è fondamentale, in quanto rappresenta il principio di unitarietà e continuità dell’evoluzione graduale del “dono” e il punto di riferimento costante e di confronto dei Fondatori nelle nuove iniziative e negli sviluppi dell’evoluzione dell’opera64. Infatti, un nuovo Istituto è opera dello Spirito Santo. Prima di qualsiasi erezione giuridica, c’è l’ispirazione originaria che

59 E. GAMBARI, Consacrati e inviati, Milano, p. 48-49, nota 18.

60 V. DE’ PAOLI, Conferenze ai Preti della Missione, Roma, 1959, pp.193s; cfr pp. 59, 477, 911s. Un teologo ammetteva la presenza di un carisma nelle “grandi” fondazioni, ma ironizzava sull'esistenza del medesimo in quelle dei piccoli istituti (I. COLOSIO, Appunti sulla spiritualità domenicana: AA.VV., Saggi sulla spiritualità domenicana, Firenze, 1961, p. 17) . Eppure si dà il caso che, ad esempio, la Società dei sacerdoti di s. Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondata nel 1840, fu approvata soltanto nel 1969. Dal fondatore ricevette, come unico scritto specifico, soltanto un orario (A. GENNARI, Povero tra i poveri. Il carisma del Cottolengo nella Società dei suoi preti. Tesina di licenza all’Istituto di Teologia della Vita Religiosa - Claretianum, Roma, 1981) . È comprensibile questa sopravvivenza in termini di semplice organizzazione oppure sarà più ragionevole riconoscere l'esistenza di un carisma dalla sublime carità?

61 Cfr F. CIARDI, op. cit., pp. 49, 63.

62 F. CIARDI, op. cit., p. 46.

63 Cfr LG 12. 43. 45; PC 1-2. 19; ES 12.a; MR 11. 12. 51; ET 11; EL 11; RD 15. Inoltre cfr: CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decreto sull’Ufficio pastorale dei Vescovi nella Chiesa Christus Dominus, 28. 10. 1965, in: AAS 58 (1966) 33; CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decreto sull’Attività missionaria della Chiesa Ad Gentes, 7. 12. 1965, in: AAS 58 (1966) 40; Codex Juris Canonici, cann. 576, 578, 579; SACRA CONGREGAZIONE DEI RELIGIOSI, decr. 24. 6. 1917.

64 Cfr F. CIARDI, op. cit., pp. 73-74.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 ha ricevuto un Fondatore o una Fondatrice, seguita dalla valutazione della Chiesa65.

2.2. L’esperienza dello Spirito nella vita dei Fondatori Per comprendere il carisma (che, ripetiamo, è un’esperienza dello Spirito), il metodo più adeguato è esaminare la sua manifestazione nella vita dei fondatori66, perché l’azione dello Spirito conosce modalità molteplici: talvolta raggiunge direttamente gli individui, talaltra si serve della mediazione di persone o di particolari circostanze. In tutti agisce donando una particolare configurazione a Cristo67. Può essere un’illuminazione istantanea che condiziona tutto lo svolgersi dell’esistenza68 oppure l’intervento divino si esplica in

65 Cfr LG 12; PC 19; MR 12. 51. Gli studiosi sono quasi unanimi nell'indicare sia che questo dono è nelle sue dimensioni: 1) personale, in quanto trasforma la persona del fondatore, preparandola ad una particolare vocazione e missione nella Chiesa; 2) collettivo-comunitario, per il fatto che coinvolge più persone nella realizzazione del medesimo progetto divino; 3) ecclesiale, perché, tramite il fondatore e la sua comunità, è offerto all'intera Chiesa per la sua edificazione; 4) sia che gli elementi che compongono il carisma di un fondatore e che adesso esponiamo in sintesi: 1) L'esperienza divina, la chiamata che avviene tramite un'illuminazione particolare: un sogno, una voce interiore. 2) Particolare sensibilità verso un bisogno, spirituale o materiale del proprio tempo. 3) L'aver concepito l'ordinamento dell'istituto con le proprie finalità. 4) L'aver dato vita all'istituto. 5) Il senso di paternità/maternità del fondatore/trice verso i propri discepoli. 6) Sofferenze del fondatore/trice per arrivare alla fondazione. 7) Ecclesialità della fondazione. 8) Carattere missionario della fondazione finalizzato ad espandersi e a diffondere il vangelo. 9) L'aver dato all'istituto le norme di vita e di governo (è questo un elemento accessorio, in quanto possono essere altri a comporle). 10) Nuova forma di sequela di Cristo; cfr A. ROMANO, I fondatori profezia della storia. La figura e il carisma dei fondatori nella riflessione teologica contemporanea, Milano, ed. Ancora, 1989, pp. 8-87.

66 È la strada seguita in modo esemplare da F. CIARDI nell’opera citata.

67 Caso emblematico è quello di s. Francesco d’Assisi, il primo stigmatizzato della storia, pur se la cristificazione - che è sempre opera di Dio solo - può essere realizzata in molte forme differenti.

68 Un’esperienza. Sant'Ignazio ricorda l’esperienza al fiume Cardoner: “Tanto che se fa conto di tutte le cose apprese e di tutte le grazie ricevute da Dio, e le mette insieme, non gli sembra di aver imparato tanto, lungo tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni compiuti, come in quella sola volta”: IGNAZIO di Loyola, Autobiografia, in: Gli scritti (M. GIOIA) , Torino, 1977, p. 674. Cfr R. GARCIA VILLOSLADA, San Ignacio de Loyola. Nueva biografia, Madrid, 1986, pp. 217-222; cfr S. GONZALES SILVA, Il carisma dei fondatori. Un’esperienza dello Spirito¸ in: Eucaristia – Sacerdozio – Liturgia, op. cit. .

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 un’irradiazione sacramentale69. Le modalità di tali comunicazioni sono diversissime. Ad esempio, l’ispirazione di fondare le Suore dei poveri di san Francesco arriva a Francesca Schervier attraverso una visione avuta da una sua amica70. Per Vincenzo de’ Paoli la confessione di un contadino morente sarà il motivo che spingerà i signori de Gondi a costituire una comunità di missionari71. Di solito i fondatori vengono a conoscere gradualmente il disegno di Dio in un itinerario che li aiuta a maturare la loro risposta e insegna loro a percepire, attraverso vari segni, la voce di Dio72. Ciò accade specialmente al momento di dover redigere le regole73.

69 È il caso di Giacomo Alberione, fondatore degli istituti della Famiglia Paolina che ricorda così l’evento della notte di passaggio all’anno 1900: «Una particolare luce venne dall'Ostia: maggior comprensione dell'invito di Gesù: “Venite ad me omnes ...” (Mt 11, 28) [...] Si sentì profondamente obbligato a prepararsi a fare qualcosa per il Signore e gli uomini del nuovo secolo, con cui sarebbe vissuto. Ebbe senso abbastanza chiaro della propria nullità, ed insieme sentì: “Vobiscum sum ... usque ad consummationem saeculi” (Mt 28, 20) [...] che il secolo nascesse in Cristo-Eucaristia; che nuovi apostoli risanassero le leggi, la scuola, la letteratura, la stampa, i costumi; che la Chiesa avesse un nuovo slancio missionario; che fossero bene usati i nuovi mezzi di apostolato»: G. ALBERIONE, «Abundantes divitiae gratiae suae». Storia carismatica della famiglia paolina, nn. 15-19, Roma, 1971, pp. 18s.

70 I. JEILER, Vie de la Mère Françoise Schervier fondatrice de la Congrègation des Soeurs des pauvres de Saint-François, Paris-Tournai, 1898, pp. 91-100.

71 V. DE PAUL, Documems: Correspondance, entretiens, documents, Paris, 1924, XIII, pp. 197-202. Cfr J. M. ROMAN, S. Vincenzo De' Paoli. Biografia, Milano, 1986, pp. 101-103.155-157; anche: S. GONZALES SILVA, op. cit. .

72 Ancora un esempio dalla vita di Vincenzo de' Paoli: quando distribuisce il testo delle regole finalmente approvate, volgendo lo sguardo verso gli inizi della Missione esclama: “O Salvatore! O Salvatore! Chi avrebbe mai pensato che saremmo giunti al punto in cui siamo ora? Se uno me l'avesse detto allora avrei creduto che si burlasse di me, eppure fu in questo modo che Dio volle dar principio a quello che vedete”: V. DE' PAOLI, Conferenze ai Preti della Missione, op. cit., p. 479. Un altro esempio ci viene da Elena Da Persico, fondatrice dell’istituto secolare delle Filiæ Reginæ Apostolorum: Il significato del progetto che Dio le ispirava rimase aperto fino «ai 34 anni di lei»; poi fu «coraggiosamente preso in mano, alla luce di due parole per Elena determinanti, verginità e apostolato come dono dello Sposo da ricambiare in quotidiano atteggiamento adorante e sguardo attento ai bisogni del tempo»: Z. PANI, Per Cristo nel mondo, in: Testimoni 7 (1994) p. 16.

73 Ne abbiamo una preziosa testimonianza dal fondatore dei Verbiti, Arnold Janssen: «Per fortuna, ho ottenuto in prestito alcune regole che prima non avevo [...] . Credo che solo l'assistenza dello Spirito santo, grazie alle molte preghiere, mi consente ora di procedere con rapidità sia pur relativa; ciò che altrimenti non sarebbe possibile»: in: F. BORNEMANN - A. JANSSEN, Fondazione dei Missionari del Verbo divino. 1837-1909, s. l., ed. Steyl, 1975, pp. 229-230..

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Il carisma non si limita, quindi, alla spiritualità, né alla missione specifica, perché è «un quadro globale ispiratore in cui ogni dettaglio ha la sua ragion d’essere e il suo posto preciso in stretto collegamento con l’insieme, mentre il tutto esprime la specificità e la bellezza d’un disegno che viene dall’alto»74. È la grazia originaria e piena che, attraverso il Fondatore, crea un Istituto che nella Chiesa ha un particolare modo di incarnare il vangelo nel quotidiano, frutto spesso d’una specifica idea circa la persona di Cristo. Questa relazione tra fondatori e relativi istituti, ricca e feconda, si è espressa con proprietà in termini di paternità/maternità75, per una duplice ragione: perché si tratta di una trasmissione di vita della propria vita e perché questa generazione si dà nell’ordine della grazia.

3. CARISMA DELL’ISTITUTO E CARISMI DEI DISCEPOLI

Quando parliamo di “carisma dell’istituto” ci riferiamo alle caratteristiche assunte dall’istituto stesso sotto la guida del fondatore. È chiaro, quindi, che in questo caso non si intende più carisma del fondatore, perché se questo fosse comunicato in quanto tale ai suoi discepoli, farebbe di loro altrettanti fondatori di nuovi istituti. L’espressione “carisma dell’istituto” ha il senso di spirito, identità, anima, fisionomia specifica, tutti elementi che trovano fondamento nelle esperienze spirituali e pastorali del Fondatore e del “gruppo fondazionale”, cioè del primo nucleo di religiosi o religiose che insieme con lui e interagendo con lui, ha vissuto secondo quel suo spirito, dando un’impronta caratteristica allo stile di vita del nascente istituto religioso. Inoltre, per perpetuare l’opera promossa dal Fondatore, lo Spirito partecipa ai religiosi la grazia atta a fare inabitare in essi il carisma dell’Istituto e li abilita ad assolvere l’apostolato specifico della

Comunque «anche i più carismatici dei fondatori sono legislatori»: P.-R. RÉGAMEY, Carismi, op.cit., col. 306.

74 A. CENCINI, Comunione e missione, in: Testimoni 10 (1994) p. 9. L’autore continua: «Se il carisma non è concepito come metodo e stile di vita non è più principio ispiratore che possa lasciar intravedere l’armonia tra comunità e missione».

75 In questo senso specifico è corretto attribuire ai soli fondatori (o, al massimo, anche a coloro che hanno condotto la vita del nuovo istituto religioso nei suoi primi anni di vita) il titolo di “padre” o “madre”. In tutti gli altri casi è altrettanto doveroso attenersi alle indicazioni evangeliche che ci invitano a valorizzare al massimo il tono della fraternità nei rapporti con tutti i “fratelli di fede” (cfr Mt 23,8-9) .

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 congregazione prescelta; questo è ciò che chiamiamo “carisma del discepolo”. Ciascun religioso, con i propri carismi personali e il proprio “carisma di discepolo”, è corresponsabile del carisma della Famiglia religiosa cui appartiene. Di conseguenza, la fedeltà a questo carisma, per essere autentica, deve possedere due caratteristiche: 1. il rinnovamento, perché il carisma è una realtà viva e come tale non può vivere se si pensa di custodirlo in modo semplicemente conservativo; 2. l’ecclesialità, perché Dio elargisce i suoi doni solo in vista del progresso della Chiesa universale, le cui dimensioni direttamente sperimentabili sono la comunità congregazionale e la Chiesa locale. Come si manifesta il carisma? Mi sia concesso un ardito paragone. Come i grandi momenti della storia d’Israele e soprattutto la venuta di Gesù sono i mirabilia Dei, così la fondazione di un Istituto e le relative opere sono la manifestazione divina del carisma.

4. VERSO IL FUTURO

Le fonti documentali ci consentono dunque di andare “oltre” il mero dato in esse contenuto. Ciò per farci accedere a livelli più profondi e maggiormente illuminati di comprensione dell’ispirazione fondazionale. Questa conoscenza però non basta. Per rinnovare e rileggere il carisma, per approfondire l’esperienza autenticamente spirituale del Fondatore, per procedere verso il futuro, è necessario fare proprio l’invito di Bernardo di Chiaravalle di “bere nel proprio pozzo” per “Vivere nel tempo dello Spirito e secondo Lui”76. Con il ritorno alle origini si scopre nel presente la radicale vitalità del carisma per illuminarlo con la profezia e progettarlo nel futuro. Questo pellegrinaggio verso la piena comprensione del carisma e della sua diffusione e sviluppo, il Signore l’ha affidato ai religiosi/e. Chiunque desideri vivere il carisma del Fondatore, si sforzi di avere un incontro più autentico con lui, perché, la stessa grazia che lo ha mosso, agisce nei “discepoli”. Infatti, Il carisma è la realtà fondante della vita di un Istituto, come il battesimo lo è per ogni cristiano. L’unica forma di conservazione del carisma nella genuinità è quella di rileggerlo, meditarlo, condividerlo e spenderlo nella Chiesa.

76 G. GUTIERREZ, Beber en su propio pozo, Salamanca, 51989, p. 53, cit. in: S. GONZALES SILVA, op. cit. .

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Proprio come si fa con una pianta, a volte è necessario per il carisma un terreno nuovo, cioè in culture nuove e, così agendo, rifondarlo facendolo interagire con questa realtà nuova che lo interpella, lo sfida e ne è sfidata e interpellata. Così la vita dell’Istituto si rivitalizzerà e sarà feconda di nuove espressioni. La rifondazione, infatti, non consiste nel ripetere ciò che il Fondatore attuò, ma fare ciò che farebbe, oggi, in fedeltà allo Spirito che “soffia dove vuole” (cfr Gv 3,8) , ma “non può rinnegare se stesso” (cfr 2Tm 1,13) 77. Ogni religioso/a di una congregazione, perciò, deve capire che il carisma dell’ Istituto è la sua identità, il “nome nuovo” (cfr Ap 2,17) che Dio ha dato ed è anche ciò che deve diventare, ciò che dà una positività stabile e radicale, ciò che rende parte d’una nuova famiglia, l’Istituto. Se non nasce questa consapevolezza a poco serve, poi, spiegare i contenuti o chiedere l’identificazione con il carisma stesso. Così concepito il carisma, invece, diventa il punto di riferimento autorevole della vita a tutti i livelli, la norma dell’essere e dell’agire78. Se il carisma è al centro della vita e ha autorità sulla vita dei consacrati (ne è forma e norma) , allora sarà anche oggetto d’un continuo processo di ricomprensione che la mantiene giovane e attuale79. Dio non è per noi conoscibile direttamente nella sua realtà trascendente. La sua presenza è percepibile solo attraverso dei testimoni che, per mezzo dei loro gesti e delle loro parole, consentono di percepire

77 Nel documento sulla vita consacrata viene chiesta ai religiosi ed alle religiose la passione per Dio e per il Regno ed una passione tale, che ci spinga a «riprodurre con coraggio l’audacia, la creatività e la santità dei nostri Fondatori e Fondatrici in risposta ai segni dei tempi che sorgono nel mondo d'oggi» (VC 37 a) .

78 Dunque qualcosa di molto concreto e - al tempo stesso - di centrale e normativo nella vita, con cui il giovane deve costantemente confrontarsi, che ogni giorno deve attualizzare e verificare nella capacità propria del Cristiano d'illuminare il quotidiano, di unire la giornata, di dare un senso pieno e appetibile alle cose, d'accompagnare tutta la vita, etc., tutte operazioni che significano già un atteggiamento creativo e personalizzante.

79 Al contrario, il religioso «cane-sciolto» (o randagio) , privo, cioè, di punti di riferimento o la cui regula vitae non s’identifica col carisma, non avrà la disposizione necessaria, e forse neppure l'interesse, per ricomprendere e rifondare alcunché. È un problema molto serio, oggi, quello di consacrati privi d'identità, d'un centro unificatore, di qualcosa che abbia autorità nella loro vita, e dunque anche inconcludenti e improduttivi, o semplici ripetitori senza passione né fantasia, allegramente disobbedienti o tranquillamente indifferenti verso ogni regola. Cfr UNIONE SUPERIORI GENERALI, Per una fedeltà creativa. Rifondare – ricollocare i carismi, ridisegnare le presenze. 54° Conventus Semestralis, novembre 1998, Roma, 72-73.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 la realtà oltre la sua superficie o le apparenze. Essi vivono in modo tale da mostrare che il bene, il vero, il bello nella vita esistono e rendono la storia degna di essere vissuta. Bisogna guardare al Fondatore come si guarda al padre, al maestro (che è anche modello), con affetto filiale, con stima e riconoscenza grande, anche perché lui è stato testimone dell’azione e della volontà di Dio. Per arrivare a questa condizione bisogna arrendersi totalmente all’azione dello Spirito, atteggiamento espresso molto bene dai versi della famosa poesia che il cardinal John Henry Newman compose nel 1833 sulla nave che lo riportava in Inghilterra dopo l’esperienza di malattia e, soprattutto, della conversione avuta in Sicilia, e che segnò la svolta della sua vita: «Conducimi, tu, luce gentile, conducimi nel buio che mi stringe; la notte è scura, la casa è lontana, conducimi tu, luce gentile. Non sempre fu così, te non pregai perché tu mi guidassi e conducessi, da me la mia strada io volli vedere, adesso tu mi guida, luce gentile. Tu guida i miei passi, luce gentile, non chiedo di vedere assai lontano, mi basta un passo, solo il primo passo, conducimi avanti, luce gentile. Io volli certezze, dimentica quei giorni; purché l’amore tuo non m’abbandoni, sinché la notte passi tu mi guiderai sicuramente a te, luce gentile»80. “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!” (Fil 4,9).

 Vincenzo Bertolone, SDP

80 Questa traduzione piuttosto libera – dovuta a Crispino Valenziano, primo preside della Facoltà – è stata musicata dal maestro Antonino Ortolano appositamente per la Facoltà Teologica di Sicilia. Per il testo originale e una più fedele traduzione, cfr. J.H. NEWMAN, Malattia di Sicilia, (C. SCORDATO – R. LA DELFA) , Palermo, Fondazione L. Chiazzese, 1990, p. 148. Per un’attenta e documentata riflessione sulla poesia, cfr J. SUGG, «Lead, kindly light». The poem which concluded Newman’s Sicilian Experience, in: AA.VV. Luce nella Solitudine. Viaggio e crisi di Newman in Sicilia 1833, (R. LA DELFA – A. MAGNO, I. PALMA) , Palermo, s. ed., 1989, pp. 257-270.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA PRESSO LA COMUNITÀ FRANCESCANI DI BETANIA Terlizzi, 10 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e carissime sorelle, caro P. Pangrazio, Vi ringrazio dell’invito. Sono lieto di trovarmi in mezzo a voi in questa festa della Madonna di Loreto. Se dovessi rappresentare con una sola pennellata l’emozione suscitata dalla Santa Casa di Loreto, userei sicuramente le immagini e i colori a cui i bambini ricorrono per riprodurre le case: linee scarne ed essenziali, colori pastello delicati e vivaci. Ecco, questa immagine coglierebbe il significato più intimo che cela la piccola Santa Casa di Loreto: la povertà, l’umiltà, l’essenzialità di chi la ha abitata e la gioia straordinaria di un evento mirabile che nel silenzio ha vivificato la storia dell’uomo. Se si tratti di verità o leggenda, poco importa, ciò che importa è cogliere il senso a cui rimandano le piccole e scarne quattro pareti di Loreto: esse rimandano all’umiltà, all’intima dolcezza, alla purezza, all’amore fedele di Maria, scelta da Dio proprio per queste sue caratteristiche. E come la Vergine abitò in una casa così povera, ma carica del calore e dell’affetto di un amore filiale e genitoriale, così Dio, con affetto di Padre e amore di Sposo fedele abitò in Lei, prendendo dimora nel cuore di chi ha fatto dell’umiltà la propria vetta di perfezione. Sì, carissimi, Dio si compiace di abitare in un cuore umile, giacché solo il cuore umile è capace di sentirsi veramente bisognoso di Dio e dunque da Lui si lascia abitare. Infatti, più l’uomo vede Dio da vicino, più si sente in se stesso umiliato e, perso nella contemplazione della sua grandezza e della sua incommensurabile bontà, non può che arrendersi accettandone per amore il volere: cosa che accadde alla giovane fanciulla di Nazaret. Umiltà e obbedienza, amore e fedeltà: questi rendono grande e mirabile la piccola serva di Dio, la cui beatitudine risiede soprattutto nell’ aver osservato la Parola di Dio, custodendo il Verbo della Vita per mezzo del quale è stata creata e che in Lei si è fatto carne. (Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 10,3). L’adesione sincera e fedele alla chiamata del Padre esalta l’umiltà, la semplicità della Vergine, che, celeste viaggiatrice, pose il suo sguardo amorevole e la sua santa protezione sul clivio d’Ancona.

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La visita a quella Santa Casa ci parla di come Dio scelga gli strumenti per la realizzazione del suo progetto di salvezza: egli non si serve dei potenti, ma degli umili per sconvolgere ciò che è certo e sicuro dal punto di vista umano. Tutto inizia infatti a partire dalla povera casa di Maria, dove si apre la strada alla realizzazione del prodigio dei prodigi: il Signore di tutto è disceso sulla terra, Dio si è fatto uomo, l’Antico è diventato fanciullo; il Signore si è fatto uguale al servo, il figlio del re si è fatto come un povero errabondo (Efrem Siro). Tutto ciò che accade a partire da quella Santa Casa è, per grazia e volontà divina, contrassegnato dal sigillo dell’umiltà, la strada maestra su cui l’uomo giunge a Dio. Non a caso i santi di tutti i tempi sono piaciuti a Dio proprio per la loro umiltà. E arrivati a questo punto, come non collegarci idealmente all’altra piccola “casetta” della Porziuncola, e con essa al piccolo grande san Francesco, che di Madonna Povertà fece sua sposa? Alla Vergine, Francesco, si rivolgerà onorandola quale tabernacolo di Cristo, casa di Dio, vestimento di Cristo. E personalmente voglio immaginare che questi appellativi Francesco li abbia pronunciati proprio pensando all’estrema umiltà della Vergine, che sin dall’inizio “spogliatasi” di se stessa, della sua volontà, della sua giovane età, dei suoi sogni e dei suoi desideri, accettò di essere tabernacolo di Cristo, casa di Dio e vestimento di Cristo. Allo stesso modo Francesco, spogliatosi della sua eredità personale e materiale, guadagnò l’identità del Cristo, divenendo a Lui conforme fino all’estremo dono delle stimmate. Questo “spogliamento” è stato per il Santo d’Assisi un rivestimento nuovo, contrassegnato dall’essere sempre ripieno della Presenza gloriosa del Cristo. Del resto è di questa reale presenza nella vita di ciascuno che Francesco diede testimonianza in diversi modi: prima portando come esempio la sua stessa vita, la sua scelta radicale di cambiare, accettando una volontà superiore; poi con parole e azioni semplici, prese dalla vita quotidiana di ciascun fedele, mostrare la realtà viva di questa presenza divina. Intenzionalmente (il richiamo mi sembra calzante con l’avvicinarsi del Natale) lo stesso Francesco volle nella notte santa far celebrare l’Eucarestia, a Greccio, sulla greppia e ciò non tanto per ricordare una cosa del passato, ma per contemplare, ossia perché ciascuno avesse l’agio di fermarsi a guardare e credere con stupore che nell’umiltà del pane consacrato ogni giorno Dio diventa l’Emmanuele, cioè “Dio con noi”.

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Oggi come allora, educando al tempo stesso il popolo che Dio ci ha affidato, ricordiamoci di quanto sia ancora viva questa Presenza, e come tuttora abbia la forza di fare nuove tutte le cose, se solo noi come la Vergine Maria e il Santo d’Assisi accettassimo con umiltà il volere di Chi ci ha amato e ci ama da sempre. E facciamo in modo che nell’apatia imperante di questi tempi, dove tutto sembra scontato e privo di qualsivoglia sapore e colore, prorompano stupore e meraviglia nel ritrovarsi attorno ad una mangiatoia a contemplare l’Eterno che si fa storia nell’umiltà, nella semplicità, nella debolezza del vagito di un bambino. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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PRESENTAZIONE DEL LIBRO “LA POESIA, LA PIAZZA, LE PAROLE” DI P. BRUNI E M. CAVALLO TEATRO COMUNALE Cassano Allo Ionio, 12 Dicembre 2008

Carissimi amici, a voi tutti, ed in particolare ai promotori ed ai relatori di questa manifestazione rivolgo, oltre al mio saluto, il mio ringraziamento per avermi voluto qui ad occuparmi di un tema, la poesia, la piazza e le parole, all’apparenza estraneo alla quotidianità ed alle iniziative pastorali di un vescovo e, più in generale, della Chiesa. Il sottotitolo di questo pregevole e considerevole testo (ben 198 pagine) composto a quattro mani: “Incontrarsi senza darsi appuntamento” fa pensare al primo verso dell’ariostesco “Orlando furioso”: “Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori”… con quel tanto di fiabesco ed immaginifico che da subito prende, anzi ghermisce la curiosità del lettore (e dello spettatore, vista la teatralità delle situazioni) cominciando a dischiudergli chissà quali e quanti scenari e avventure e cose mirabolanti. E, senza voler togliere la primazia al poema del grande Reggiano, sono del pari intrigato dal Don Chisciotte della Mancia del Cervantes, così costellato di incontri, di scontri, di sentieri, piazze, vie, viuzze (tutto alternato a distese immense e montagne e pianure e vallate) da sembrare l’agenda di un tour operator bravissimo, capace di organizzare per i propri clienti viaggi oltre ogni lecita aspettativa, addirittura con un pizzico di picaresco per assicurare quel tanto di avventuroso, di spavaldo, di nuovo, di imponderabile che rispondeva, nel Cinquecento come poi e come anche oggi, alla voglia di evasione dei comuni mortali. Chiunque potrebbe continuare, facendo appello ai ricordi scolastici ed alle letture fatte o, semplicemente, abbandonandosi – come si fa sdraiati sul lettino dello psicanalista – alle libere associazioni ed allo sgomitolamento del personale filo d’Arianna. Tutto ciò lo si deve alla accentuata capacità evocativa del titolo che i due bravi autori hanno conferito alla loro opera (anche in questo sono stati sagaci, ammiccanti, complici). Il risultato è questa piccola ma preziosa antologia di poesia italiana degli ultimi settant’anni o giù di lì. Eh sì, perché i nostri poeti, (ma non soltanto essi) da Corrado Alvaro ad Alfonso Gatto, da Vincenzo Cardarelli a Vittorio Bodini, da Rocco Scotellaro a Corrado Calabrò, da Ada Negri a Sandro Penna, da Umberto Saba a Salvatore Quasimodo, da Lalla Romano a Amelia Rosselli a Cesare Pavese

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 e Leonardo Sinisgalli (di cui – Pavese e Sinisgalli – ricorre quest’anno il centenario della nascita), hanno molto in comune con la piazza, sia come fonte di ispirazione, sia come luogo di comunicazione. I due Autori sono consapevoli che l’elenco potrebbe continuare e forse hanno già in cantiere un secondo volume, magari popolato “anche” da altri illustri artisti. Chissà?... Anche in quel particolare genere letterario che è la Scrittura biblica, il tema del luogo, dell’incontro, del tópos, della piazza insomma, la si voglia chiamare alla greca agorà, alla persiana qayrawan-saray (da cui “caravanserraglio”) oppure alla latina forum, è sempre stato un concetto archetipico, un’idea, magari un’astrazione grandemente suggestiva. Uno dei primi Libri dell’Antico Testamento si chiama “Esodo” perché ci racconta della partenza di un intero popolo dall’Egitto alla Terra promessa. Ma è anche la storia di decine di anni trascorsi nelle vicissitudini più inimmaginabili di Israele con il ricordo delle piazze affollate da gente d’ogni tipo delle popolose città dell’Egitto, alle piazze tutte da inventare dei villaggi e delle città che essi stessi – popolo eletto di Dio – avrebbero edificato una volta – chissà quando – arrivati là dove a Lui fosse piaciuto. Ciò detto, che pure è importante, la singolarità del libro, che è nato dall’ispirazione e dall’intuizione dei due Autori, consiste in uno spostamento di visuale e di localizzazione. In piazza da tempo immemorabile gli uomini socializzati e acculturati hanno fatto in pratica di tutto (ovviamente nella sfera pubblica e sociale) sì che il luogo generalmente spazioso, e comunque il più ampio dell’agglomerato di case ed edifici, è stato ad un tempo suggeritore e spettatore di incontri, di contrattazioni, di dispute, di vendite all’asta, di mercato in genere, di comizi politici, di cerimonie, di processioni, di applicazione coram populo delle pene comminate dai magistrati: dalla fustigazione alle esecuzioni capitali perfino, e via enumerando le più disparate occasioni in cui essa fungeva da “contenitore”. Anche per le gare poetiche, come ancora oggi accade per esempio in molti paesi – specialmente interni – della Sardegna, tanto per citare una regione tra le tante. Ebbene, gli autori – dicevo – hanno operato uno spostamento ed anche un repentino quanto rivoluzionario mutamento di programma e di scena, in seguito al quale “la piazza” non veniva considerata come luogo quasi d’elezione per “fare” poesia, bensì diventava “nuova”, più interessante ed invitante solo se si fosse immaginata (ci vuole sempre una prima volta ed un innovatore) luogo “nella” poesia.

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Di qui la minuziosa antologizzazione, la ricerca certosina (la memoria aiuta fino ad un certo punto, così come la conoscenza specifica pone e si riconosce dei limiti) tra le centinaia di “pezzi” poetici di decine di autori noti (taluni molto, altri addirittura celebri) operanti mediamente nel Novecento e la cui produzione – ai fini delle intenzioni di Bruni e Cavallo – si è affermata negli ultimi 70 – 80 anni. È stato grazie ad essi che “la poesia è tornata a respirare la piazza”, come osserva Neria De Giovanni nella sua puntuale prefazione, giacché “la poesia non è nata per stare al chiuso (…); fin dalle origini ha amato l’aria aperta, gli spazi di luce e di vento. (…) Riempiva la piazza, luogo deputato alla socializzazione, (…) come vuoto pieno delle parole del poeta”. Parole che spesso descrivono viaggi e viaggi, alcuni dei quali – tuttavia – compiuti solo nell’universo della fantasia. Il libro, ripeto, è una pregevole antologia, con la presentazione critica dei poeti fatta dal Bruni o dalla Cavallo, i quali non sempre hanno ritenuto di dover trascrivere per intero le poesie, presentandone “solo” la parte (a volte un distico è sembrato più che sufficiente) più consona al tema. Esemplificando (e concludendo), prendo e trascrivo da “Profumi di piazza in Cesare Pavese” qualche riga della pag. 122: «Vivere la piazza è amare un luogo. Vivere la piazza è incontrare chi si ama». “Solamente girarle, le piazze e le strade Sono vuote. Bisogna fermare una donna E parlarle e deciderla a vivere insieme. Altrimenti Uno parla da solo… Non è giusto restare sulla piazza deserta”. Nel complimentarmi ancora con gli Autori, auguro grande successo al loro libro affinché tanti lettori possano vivere le mie stesse emozioni e poter passare dalle piazze alla piazza del cuore, dalle parole alla Parola, dalla composizione poetica al Mistero.

 Vincenzo Bertolone

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PRESENTAZIONE DEL LIBRO “I MISTERI DI BALACARI” DI DOMENICO MARINO TEATRO COMUNALE Cassano Allo Ionio, 13 Dicembre 2008

Presento con piacere il libro “I misteri di Balacari”, di Domenico Marino, perché l’ho letto con interesse e con ritmo serrato, lo stesso che guida il lettore di gialli, perché “vuole sapere come va a finire…”. Quest’opera nelle intenzioni dell’autore è o dovrebbe essere un romanzo, a motivo della lunghezza. Però non è facilmente individuabile nello scritto il DNA della più nobile forma letteraria in prosa. In “I misteri di Balacari“, infatti, mi pare che coesistano diversi generi: feuilleton (forti sentimenti, vicende sfortunate e intricate); psicologico-sentimentale (prevalenza dell’«io» narrante, che si sofferma su descrizioni particolareggiate dei conflitti interiori e, più in generale, con la messa in rassegna di emozioni, sentimenti, passioni, sensazioni); di ambiente e di costume (comportamenti dei gruppi sociali e/o delle persone eminenti di essi); naturalistico o verista (l’autore ha in animo di trasmettere al lettore un’immagine quanto più veristica della realtà). Allora, credo che lo si possa definire, alla luce di quanto precede, una “contaminatio” abbastanza duttile e multiuso, sì da rispondere di volta in volta alle necessità dell’invenzione prima, della scrittura poi e, infine, dell’umore e dello stato d’animo del lettore, cosa - questa - che costituisce una valenza positiva. Siccome, e mi ripeto, l’autore è agli esordi, questi sono “peccati di gioventù”, che il tempo e, anche di più, uno studio perseverante e severo degli strumenti professionali (grammatici, sintattici, lessicografici eccetera) e dei grandi modelli (anche recenti, recentissimi: Sciascia, Calvino, Pavese, i “gaddiani” tra cui Bianciardi, ad esempio, Camilleri) piano piano attenuerà e alla fine, eliminerà. “I misteri di Balacari” è la vicenda di un calabrese (di Balacari) che torna dopo oltre cinquanta anni al luogo natio, del quale si era volutamente disinteressato in questo lunghissimo periodo trascorso in Belgio. Motivo della partenza, anzi della fuga precipitosa, un delitto commesso da lui il giorno di ferragosto per vendicare il padre. Dopo una così lunga assenza (ormai è “vecchio”) tra i sopravvissuti non lo riconosce nessuno. La gente prende a chiamarlo (per l’abbigliamento, per le disponibilità economiche ed altro, l’«Americano»).

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L’italo-belga è rimasto vedovo da pochi giorni e, sistemate le incombenze economiche con i due figli che Helena gli ha dato (Ettore e Laura), compie una sorta di pellegrinaggio della memoria o di “regressus ad uterum”. Perché questo progetto in qualche modo palingenetico e assolutorio si inveri ha bisogno di testimoni, di persone-simbolo, di fatti, di elementi paesaggistici, geografici, architettonici. Non bastano, cioè solo le persone, ci vogliono anche le case, le strade, i negozi, altrimenti il grande e magmatico contenitore dei ricordi rischierebbe di trasformarsi in una sorta di “Vaso di Pandora”, con esiti incontrollabili. La prima tappa della “Via Crucis” di Ciccio De Seta (questo è il nome anagrafico dell’Americano) è il negozio del più caro amico d’infanzia e giovinezza (fino a “quel maledetto 15 agosto!”): Federico (Rico, Ricuzzo) che, invece, è morto da quindici anni. Glielo dice Nina (che neppure l’aveva riconosciuto), la vedova. Il trait-d’union con il defunto amico e tutta la realtà di Balacari e dintorni è Peppino, che porta lo stesso nome del nonno. Tra il giovane quattordicenne e Ciccio corrono cinquantasei anni e, forse proprio per questa differenza di età tra i due nasce un’intesa come tra nonno e nipote. Ciccio non aspettava altro che svuotare la mente di racconti “che per cinquantadue anni erano rimasti ad accumulare polvere intellettuale” (e Peppino lo ascolta rapito). Il ragazzo, da parte sua, contraccambia con una miriade di fatti e particolari. E così, di incontro in incontro, di passeggiata in passeggiata attraverso i resti del paese, Ciccio può realisticamente intraprendere il proprio “viaggio”. E’ una galleria di persone: Liborio’u scarper (un ricordo di cinquantasette anni prima, il venditore di pepe rosso), poi Maria e suo marito Roberto (i gestori della pensione-albergo Piromalli), il medico (che gli dà in affitto una casa), eccetera. Tutti costoro gli danno l’occasione (volenti o nolenti o del tutto inconsapevoli) di sciorinare la propria cultura (nomina tanti scrittori: Selvaggi, Pirandello, Camilleri, Garcìa Marquez, Hichmet il poeta: i due libri che reca con sé sono, invece, le Poesie di Ciccio Pennini e la storia di un gangster italo- americano scritta da Peppino Selvaggi)81. Non solo, però, sfoglia pagine di erudizione, giacché ritrovare l’habitat gli consente di ripescare dal proprio bagaglio sociologico i fattori quasi proverbiali della cultura locale (in Calabria chi non ha terra non è considerato; se non hai la raccomandazione sei un perdente, e simili). Tutta la vicenda, tecnicamente e stilisticamente

81 Sono gli unici due libri che mette nella valigia fuggendo da Balacari, dopo l’uccisione di Gigin Baffiuol. Se avesse potuto fare una valigia da turista, non avrebbe dimenticato Gadda e Levi, i preferiti. N.B. In occasione dell’uccisione (ovvero, della rievocazione) l’autore precisa che il delitto avvenne sotto una curniola.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 parlando viene raccontata usando quella che in teorica cinematografica si chiama “doppio delta”: due triangoli si intersecano, si sovrappongono in modo che il racconto possa procedere su due livelli: contemporaneo e retrospettivo.

Conclusione

L’autore (che confessa di sentirsi uno scrittore dilettante) si sentirà appagato se questo suo lavoro potrà risultare per il lettore uno strumento di interpretazione e di comprensione della realtà balacarese (anche se è consapevole che in buona misura tutto ciò appartiene al passato e nessun artificio letterario riuscirà a risuscitarlo). Mi pare di poterlo rassicurare su questo, anzi, come anticipato nella premessa, la vicenda è molto interessante e sa catturare l’attenzione, creando lo stato di suspense. Se il buon Domenico, il responsabile dell’Abbraccio, vorrà anche prestare attenzione alle mie raccomandazioni e indicazioni, la nuova fatica - che gli auguro prossima - riuscirà a superare la presente, che - ripeto - già ritengo lodevole. Auguri, dunque, a questo libro perchè trovare ampi consensi e all’autore perchè possa scrivere opere sempre più belle.

 Vincenzo Bertolone

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INDIRIZZO DI SALUTO IN OCCASIONE DELLO SCAMBIO DEGLI AUGURI NATALIZI CON IL CLUB “ROTARY CLUB”82 Castrovillari, 13 Dicembre 2008

Carissimi, ho accolto con gioia l’invito ad essere qui, stasera, tra voi, in questo Club che è parte d’una grande associazione umanitaria diffusa in oltre 150 Paesi con 700.000 soci, in genere professionisti, ma anche letterati, artisti, docenti e intellettuali. So che al Rotary si può accedere solo per cooptazione, cioè su proposta motivata di un socio indirizzata al Presidente, e so anche che vengono accettate persone d’ambo i sessi dalle indiscusse qualità morali, civiche e sociali, perché voi Rotariani possiate essere additati come un’élite fattiva e propositiva. Alla base della missione rotariana, infatti, stanno il rispetto della dignità umana e delle leggi, la promozione sociale (soprattutto dei più giovani), la solidarietà tra le comunità e i popoli. In pratica, siete stati antesignani di quella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo di cui proprio in questi giorni il mondo intero commemora il sessantesimo anniversario. La vostra associazione è, dovunque, rigorosamente apolitica e aconfessionale, e tuttavia i valori ai quali si ispira trovano non solo riscontro, ma espressione alta nel messaggio cristiano, estrinsecato nella promozione delle relazione umane e sociali; nell’elevazione del livello culturale, etico e spirituale dei soci; nel sostegno ai giovani meritevoli, affinché con borse di studio possano diplomarsi, laurearsi e perfezionarsi. Costi e sforzi sono notevoli, ma voi rotariani li sostenete personalmente sentendovi appagati e rimunerati perché riuscite, in tal

82 L’associazione fu fondata negli Stati Uniti d’America nel 1905 (Chicago, Stato dell’Illinois) dall’avvocato Paul P. Harris, mentre in Italia la data di costituzione del primo club risale al 1923. L’organizzazione ha dimensioni verticale e orizzontale, con un suo Organismo Centrale (Presidente Internazionale e suo consiglio, eletti in un Congresso annuale la cui sede viene sempre cambiata) e periferico (comporto dai Distretti e dai singoli Club, ciascuno con un Presidente). Ogni riunione è resa solenne, malgrado il tono conviviale, da un cerimoniale cui tutti i presenti prestano la massima attenzione (l’«onore alla bandiera», preceduta dagli squilli di tromba, l’appello nominativo ed altro). Nel corso della riunione, vengono discussi gli argomenti all’ordine del giorno ed ascoltato l’eventuale ospite, chiamato ad illuminare il Club su un determinato argomento di cui i soci non posseggono la dovuta conoscenza.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 modo, ad inserire nella società giovani meritevoli di alto profilo morale, i quali diventeranno professionisti seri ed eticamente a posto83. Il Rotary capta e “vive” ogni umore, ogni malessere, ogni fermento della società civile, giacché in essa è calato grazie ai propri soci, i quali – essendo dei professionisti – svolgono un ruolo molto importante tra il privato e il pubblico, collaborando con le istituzioni. E se si astiene – per statuto fondazionale – da ogni attività politica e da ogni coinvolgimento confessionale, è altrettanto vero che non è indifferente a tanti esempi di cattiva gestione che creano squilibri, ingiustizie e infelicità, ai quali – come visto – cerca di porre rimedio. Per questa vostra sensibilità, per lo spirito di accoglienza umanitaria e di solidarietà che vi fanno così prossimi alla predicazione di Cristo Gesù, per i valori in cui credete e per i quali vi adoperate instancabilmente, rinnovo i miei sentimenti di gioia per essere oggi qui tra voi; ringrazio lei, signor Presidente, dell’onore di mi ha fatto segno, e colgo l’occasione per augurare alla grande Famiglia rotariana un Buon Natale ed un sereno e fecondo 2009.

 Vincenzo Bertolone

83 Le azioni umanitarie vengono condotte attraverso la Fondazione ed altre attività (Interact, Rotaract, Senioract e Ryla).

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INTERVENTO AL CONVEGNO “FESTA DEL VINO” Morano Calabro, 14 Dicembre 2008

“…vino che allieta il cuore …” (Salmo 104)

Carissimi amici, a voi tutti, ed in particolare ai promotori ed ai relatori di questa manifestazione rivolgo, oltre al mio saluto, il mio ringraziamento per avermi voluto qui ad occuparmi di un tema, il vino, all’apparenza estraneo alla quotidianità ed alle iniziative pastorali di un vescovo e, più in generale, della Chiesa. In realtà, grande è sempre stato lo spazio che l’uva, e con essa il vino, hanno avuto in tutti i campi, dalla mitologia alla storia, dalla religione alla poesia, dalla letteratura alla pittura, passando per il teatro e la musica. Grazie al vino, ad esempio, la lingua si è arricchita di tanti modi di dire, come “pane al pane e vino al vino”, “i fumi del vino”, “in vino veritas”. Il vino ha ispirato e continua ad attrarre l’attenzione di tante arti e ad ispirare un’infinità di artisti: basti pensare che in passato esisteva addirittura un componimento poetico che si chiamava “vendemmia”, il quale verteva sì sulle varie fasi di questa, ma poi passava a cantare le lodi del vino e ad esaltare la gioia del vivere e dei piaceri, amore in primo luogo. In ambito religioso, invece, furono i greci a sacralizzare il vino, mettendolo sotto la protezione di una delle principali divinità dell’Olimpo: Diòniso, figlio di Zeus e di Semele, che poi i Romani chiameranno Bacco. Nel suo lungo peregrinare attraverso i secoli, Diòniso-Bacco, celebrato da autori di ogni tempo, incontrò e sposò Arianna, dando modo a Lorenzo il Magnifico di celebrarli entrambi nel suo celebre “Trionfo di Bacco e Arianna”, che inizia con: «Quant’è bella giovinezza/che si fugge tuttavia/…». Nessuna meraviglia, dunque, che al vino sia riservato un posto di rilievo, e di eloquente simbolismo, anche nella Sacre Scritture: la Bibbia, che presenta come viticultore Noè84, indica il vino, soprattutto quando è

84 cfr. Gn 9, 20.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 buono e abbondante, come un segno di benedizione da parte di Dio. Melchisedek benedice Abramo offrendo pane e vino85. Isacco augura al figlio Giacobbe abbondanza di frumento e di mosto86. Giacobbe, nel benedire il figlio Giuda, associa la venuta del futuro Messia a un abbondante raccolto di vino87. I figli di Israele, da una generazione all’altra, custodiscono sempre la memoria della benedizione di Mosè, lodando il Signore per il dono di una terra che produce vino88. E, tuttavia, nella Bibbia, il vino non è sempre ricordato e presentato come una bevanda sana e tonificante. In più di un passo, infatti, se ne mette in risalto la pericolosità in caso di abuso. Se bevuto smodatamente, porta all’ubriachezza e l’uomo ubriaco ha distrutto in se stesso la propria dignità: la libertà è sottratta dalla dipendenza e la saggezza non trova più posto dove manca il senno, la festa si muta in pianto, la benedizione diventa maledizione89. Quando ci si lascia prendere dai fumi dell’alcool, allora si perde il ben dell’intelletto, stato fisico e mentale anche per compiere delitti, magari colposi o preterintenzionali, ma sempre delitti. Violata la legge degli uomini si abbandona anche quella di Dio. Allora il lutto prende il posto della gioia, l’indigenza succede all’abbondanza, l’abituale prosperità si dissolve nella miseria e prelude alla disfatta. È naturale conseguenza di una tale considerazione il ritrovare il vino anche nel culto, versato in libagione nel sacrificio offerto ogni giorno al Signore nel tempio: quanto Dio ha donato all’uomo come segno della sua benedizione, il fedele lo ripresenta generosamente al suo Dio in segno di lode e di ringraziamento90.

85 cfr. Gn 14, 18-20.

86 cfr. Gn 27, 28.

87 Non sarà tolto lo scettro da Giuda. Né il bastone di comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la veste e nel sangue dell’uva il suo manto (Gn 49, 10-12).

88 Israele abita tranquillo, … in terra di frumento e di mosto, dove il cielo stilla rugiada. Te beato, Israele! Chi è come te, popolo salvato dal Signore? (Dt 33, 28-29).

89 Prov 20,1.

90 cfr. Es 29,40; Nm 15, 5.

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La festa dei cristiani scaturisce dal dramma della croce: solo il sangue di Cristo, sparso per tutti in remissione dei peccati91, può rallegrare pienamente il cuore dell’uomo. E non a caso Gesù paragona la sua predicazione al vino nuovo, che non si versa in otri vecchi92: il suo vangelo può essere accolto solo da chi si è lasciato rinnovare interiormente con una conversione sincera del cuore. Nella luce di questa novità spirituale spicca la libertà con cui Gesù, diversamente da Giovanni Battista e dai suoi discepoli, non disdegna i conviti e le feste, senza paura di frequentarvi anche persone malviste dai benpensanti93. Alcuni giungono a disprezzarlo come “bevitore di vino”94 e amico dei peccatori, ma lui, uomo libero, uomo nuovo, non teme il rischio della critica superficiale e continua la ricerca di ognuno, non per abbandonarsi al circolo vizioso della trasgressione95, ma per coinvolgere tutti nel circolo virtuoso della saggezza96, ricordando come la Sapienza che viene da Dio esprima proprio nel vino della festa il suo carattere di gioia per chiunque se ne disseta97. Chi conosce l’insegnamento della Bibbia sul vino, del resto, non trova meraviglia che Gesù abbia compiuto il suo primo miracolo durante un convito e proprio in una festa di nozze, affidando al “vino migliore” il “segno” per rivelare la sua gloria e invitare i discepoli alla fede: chi ha incontrato il Signore non può restare nell’acqua della penitenza, ma si slancia nel giubilo col vino della festa98. È l’esperienza della benedizione

91 Mt 23, 28 / Mc 14, 24; ripreso nella preghiera eucaristica. Un “metro” attribuito a San Tommaso d’Aquino canta: “Pie pellicane, Jesu Domine – me immundum munda tuo sanguine, cuius una stilla salvum facere – totum mundum quit ab omni scelere”.

92 cfr. Mt 9, 17; Mc2,22; Lc 5,37-39.

93 cfr. Mt 11,18-19; Lc 7, 33-35.

94 oinopotes (Mat 11, 19; Lc 7, 35), letteralmente appunto: bevitore di vino.

95 “Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4, 15).

96 “Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie” (Mt 11, 19b, Lc 7, 35). Gesù vede proprio nell’emancipazione e nella promozione degli ultimi l’affermazione della Sapienza, quella vera.

97 cfr. il convito della Sapienza ricordato sopra (Pr 9,1-6).

98 Gesù disse loro: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 spirituale che rimarrà per sempre come dono stabile99 su tutti coloro che l’accolgono nella fede. L’uso più bello che un cristiano può fare del vino, allora, è portarlo sull’altare e offrirlo a Dio: «Benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino, frutto della vite e del nostro lavoro, lo presentiamo a te perché diventi per noi bevanda di salvezza»100. Poco dopo, sullo stesso altare si invoca l’effusione dello Spirito Santo e quel vino diventa il Sangue di Cristo101. È il miracolo quotidiano della Chiesa, il più frequente e il più sublime, fonte e culmine di tutta la vita cristiana102. Senza questo segno i cristiani non sarebbero più tali. Senza questo segno la Chiesa non sarebbe più il Corpo del Signore. Ricevendolo in comunione, i cristiani fanno memoria del loro Signore, ricordano la sua Cena, vivono l’attualità perenne del suo sacrificio sulla croce, lo accolgono risorto e vivo, presente in mezzo ai suoi. Ogni domenica e ogni giorno, sopra ogni altare lo Spirito Santo consacra il pane nel Corpo di Cristo e il vino nel suo Sangue sparso per tutti in remissione dei peccati. I cristiani, dunque, sanno che il vino non deve mai diventare per loro un’occasione per mescolarsi a chi fa il male e si ubriaca103, un motivo per creare divisioni tra “chi è ubriaco e chi ha fame” e “per gettare discredito sulla Chiesa di Dio”104. Il vero motivo della festa non è più il vino usuale, quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno” (Mt 9,15).

99 Cfr. Ef 1,3; cfr. anche Rm 8, 1.28-30.35.39.

100 Preghiera del messale romano.

101 Cfr. ancora il Messale Romano: tutte le preghiere eucaristiche esprimono questa realtà sacramentale.

102 Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 10.

103 1Cor 5, 11.

104 Il rimprovero dell’apostolo ai cristiani di Corinto in proposito è quanto mai deciso e tagliente: “Le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio… quando vi radunate in assemblea vi sono divisioni fra di voi… il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno, infatti, quando partecipa alla Cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare disprezzo sulla Chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!” 1 Cor 11, 17-18.20-22; cfr anche Rm 13, 13 e 14, 17- 21.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 ma il Corpo e il sangue del Signore. In questo sacramento essi trovano il vigore per il proprio spirito105 e il farmaco che guarisce le ferite dell’anima106. Con questa convinzione, che auspico sia da voi condivisa e praticata nella vita d’ogni giorno, mi congedo da voi, con un augurio ed un’esortazione: facciamo sì che la nostra vita sia allietata e mai turbata da tanti bei bicchieri di vino, novello o d’annata, bianco o rosso, robusto o da dessert, bevuti in pace e con il cuore sereno, proprio come succede tra amici sinceri. Come, il vino: s’intende!

 Vincenzo Bertolone

105 Ben più del sostegno per il corpo mediante il vino raccomandato dall’Apostolo a Timoteo:“Smetti di bere soltanto acqua, ma fa uso di un po’ di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni”(1Tim 5,23). Cfr. anche la benedizione di Melchisedek, che rifocilla Abramo e i suoi offrendo pane e vino (Gn 14, 18-20 ricordata sopra, nota 3).

106 Ben più del benefico medicamento del vino versato dal buon samaritano sulle ferite di colui che era stato malmenato dai briganti (cfr Lc 10, 34).

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DIOCESANA DEI GIOVANI Rocca Imperiale, 14 dicembre 2008

Carissimi, giovani amici, vi rivolgo il mio fraterno saluto, ed un caloroso benvenuto, ringraziandovi per la vostra folta partecipazione, giusto premio per voi stessi e per i vostri formatori, cito per tutti don Giovanni Maurello, ai quali va il mio, e penso anche vostro, plauso per l’impegno profuso. Insieme a voi desidero riflettere su quella sottile, frizzante tensione gioiosa che pervade oggi la liturgia: Isaia ci invita a gioire perché il deserto fiorirà; Paolo, ancora più esplicito, ci esorta ad essere sempre lieti. E’ bello tutto questo: dopo la vigilanza e la disponibilità, il terzo atteggiamento indispensabile per accogliere il Signore che viene è quello della gioia. Ma la gioia, nei tempi presenti, non è granché diffusa tra i cristiani. Ad esempio: quando pensate a una cosa bella, gioiosa, memorabile, pensate a Dio? Non avete l’impressione che abbiamo talmente sottolineato l’aspetto crocifiggente della nostra vita da dimenticare il passo successivo, cioè quello della resurrezione? Le Scritture, in più passi, ci ricordano che venne infine un uomo mandato da Dio, per dare testimonianza alla luce. Esse spiegano così cosa sia un profeta: un testimone della luce e non dell’ombra; un annunciatore del bene e non dello sfascio o del degrado del mondo; una sentinella del positivo, non dei difetti o dei peccati che assediano ogni epoca; un testimone che ogni Adamo ha conservato in sé, sotto la tunica di bellezza che il Messia, nei giorni più veri, riporterà alla vista e alla gioia di tutti. Come Giovanni, anche io, qui, voglio testimoniare un Dio di luce, un Dio solare e felice, che ha fatto risplendere la vita (2 Tm 1, 10), ha dato splendore e bellezza all’esistenza, ha immesso e continua a seminare frammenti di sole dentro le vene oscure della storia. Io testimonio non obblighi o divieti, ma il fascino della luce; voglio essere umile profeta non della legge ma della grazia, non dell’impostura ma della verità immensa che penetra l’universo, di un Dio liberatore, che va in cerca dei prigionieri per rimetterli nel sole. Da uomo tra gli uomini, con i miei peccati e le mie ombre, con tutte le cose che sbaglio e non capisco, con la mia fragilità e i miei errori, nonostante tutto, io posso essere testimone che «Dio è luce e in lui non vi sono tenebre» (1 Gv 1, 5); che il mondo si regge su di un

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 principio di luce, un principio di bene e di bellezza, che è da sempre, più antico, più profondo, più originale del male. Il mondo non poggia sul male e sul peccato, non si regge neppure su di un moralismo rigoroso e sterile, ma sulla primogenitura del bene che discende dal cuore di luce di Dio. “Tu, chi sei?”, chiedono a Giovanni, ed egli per tre volte risponde: io non sono. Maschere che cadono: io non sono ciò che gli altri credono di me, io non sono il mio ruolo e nemmeno il mio peccato. Io sono voce, un Altro è la Parola; io sono voce, trasparenza di qualcosa che viene da oltre, eco di significati che sono da prima di me, che saranno dopo di me. Solo Dio, dunque, svela quello che io sono in profondità: il mio segreto è oltre me. La sua venuta non mortifica, ma incrementa la persona, perché a Natale Dio entra e l’uomo diventa un «nido di sole» (Turoldo), creatura di un Dio che ci ama. Al riguardo, un’ultima annotazione di approfondimento è nella densa pagina di Paolo: “Tenete ciò che è buono”. Che significa? Tanto: il Signore ci chiede di vivere delle cose del mondo con autenticità. Essere cristiani significa godere di esse con semplicità e verità. Essere cristiani, lo vedete bene, non significa certo chiudersi in un tenebroso rifiuto delle gioie mondane, ma l’uomo è chiamato a testimoniare l’invisibile, il di più che si porta dentro. Questo è il primo servizio che dobbiamo a Dio. Essere strumenti vuol dire proprio questo: permettere che Dio scelga, utilizzi me, come una chitarra, come un pianoforte, come un violino, per suonare la sua musica, la sua sinfonia. Non sono io che suono. E’ Lui che suona in me. Non sono io la musica, non mi appartiene. Io sono lo strumento. Noi siamo l’onda, Lui è l’acqua. Noi siamo i raggi, Lui è il sole. Questa è la grande chiamata di ciascuno di noi. Noi viviamo, ma la vita non è nostra. Il ruolo di Madre Teresa di Calcutta era essere suora; la sua missione “essere matita nella mani di Dio”. Etty Hillesum era un’ebrea, deportata; ma il suo compito era di essere un “balsamo per molte ferite”. Teresa di Gesù era suora, ma la sua vocazione era quella di essere, nella chiesa, l’amore. Francesco era un laico, frate, ma il suo destino era quello di essere “il pazzo di Dio”. Questa gioia dovrebbe trasparire anche nelle nostre Eucarestie domenicali: nei canti, nei gesti, nell’accoglienza reciproca, nella voglia di stare insieme prima e dopo la celebrazione. La felicità, ha scritto Dante, è “quel dolce pomo che per tanti rami/cercando va la cura dei mortali”: quel dolce frutto che l’uomo cerca tra i rami della vita”. Ma se tutti cerchiamo la felicità, perché così pochi sono veramente felici, e anche quelli che lo

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 sono lo sono per così poco tempo? Io credo che la ragione principale sia che, nella scalata alla vetta della felicità, sbagliamo versante, scegliendone uno che non porta alla vetta. La rivelazione dice: “Dio è amore”; l’uomo ha creduto di poter rovesciare la frase e dire: “L’amore è Dio!” (l’affermazione è di Feuerbach). La rivelazione dice: “Dio è felicità”; l’uomo inverte di nuovo l’ordine e dice: “La felicità è Dio!” Ma cosa avviene in questo modo? Noi non conosciamo in terra la felicità allo stato puro, come non conosciamo l’amore assoluto; conosciamo solo frammenti di felicità, che si riducono spesso a ebbrezze passeggere dei sensi. Quando perciò diciamo: “La felicità è Dio!”, divinizziamo le nostre piccole esperienze; chiamiamo “Dio” l’opera delle nostre mani, o della nostra mente, e facciamo della felicità un idolo. Ciò spiega perché chi cerca Dio trova sempre la gioia, mentre chi cerca la gioia non sempre trova Dio. L’uomo si riduce a cercare la felicità per via di quantità: inseguendo piaceri ed emozioni via via più intensi, o aggiungendo piacere a piacere. Come il drogato che ha bisogno di dosi sempre maggiori, per ottenere lo stesso grado di piacere. Solo Dio, però, è felice e fa felici. Per questo un salmo esorta: “Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Sal 4). Con lui anche le gioie della vita presente conservano il loro dolce sapore e non si trasformano in angosce. Non solo le gioie spirituali, ma ogni gioia umana onesta: la gioia di veder crescere i propri figli, quella del lavoro felicemente portato a termine, quelle dell’amicizia, della salute ritrovata, della creatività, dell’arte, della distensione a contatto con la natura. Solo Dio ha potuto strappare dalle labbra di un santo il grido: “Basta, Signore, con la gioia; il mio cuore non può contenerne più!”. Solo in Dio si trova tutto quello che l’uomo è solito associare alla parola felicità e infinitamente di più, poiché “occhio non vide, orecchio non udì, né mai salì in cuore di uomo quello che Dio tiene preparato per coloro che lo amano” (cfr.1 Cor 2,9). È ora di cominciare a proclamare con più coraggio il “lieto messaggio” che Dio è felicità, che la felicità - non la sofferenza, la privazione, la croce - avrà l’ultima parola. Che la sofferenza serve solo a rimuovere l’ostacolo alla gioia, a dilatare l’anima, perché un giorno possa accoglierne la misura più grande possibile. Il Signore ci conceda allora di prepararci al Natale ormai prossimo, presa coscienza dello straordinario avvenimento che ci attende, con il sorriso nel cuore e nella mente. Amen!  Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA IN OCCASIONE DELL’APPROVAZIONE DELLO STATUTO DEL CAMMINO NEOCATECUMENALE PARROCCHIA S. NICOLA DI BARI Morano, 15 Dicembre 2008

Carissimi confratelli nel sacerdozio, cari fratelli e sorelle, sono particolarmente grato al Signore per questo momento di comunione e di ringraziamento per l’approvazione, in forma definitiva, degli Statuti del Cammino neo-catecumenale, che giunge nel Tempo d’Avvento, caratterizzato dal grido e dall’atteggiamento già annunziato dai Profeti e nel N.T. dalla Chiesa: “Il Signore viene”. Questa certa speranza, che abbiamo vissuto con intensità attraverso la veglia notturna durante la prima settimana di Avvento, la viviamo adesso attraverso la liturgia, in questi ultimi giorni che ci separano dalla celebrazione del Natale. Scriveva un autore degli inizi del XX secolo: “L’uomo del nostro tempo è malato perché gli è stata tolta la speranza”. L’Avvento ci proietta verso il futuro, facendoci vivere di speranza, proprio in un mondo triste perché non spera più. Questo tema richiama alla mente Charles Péguy: egli vede la speranza come una ragazzina che va a scuola tra due sorelle maggiori, la fede e la carità, tenendole per mano. Sembra condotta dalle due maggiori, mentre è lei, la piccola speranza, che le trascina. Dunque, se sono in crisi la fede e l’amore, è perché la speranza ha il fiato corto. Ma spera solo chi attende. Si attende solo chi si sa con certezza che verrà. Il Signore non delude. Egli è venuto, verrà e continua a venire nell’oggi della vita della Chiesa e di ciascun cristiano, per usare una immagine tanto cara allo stesso san Bernardo (Sermo IV, 1, in Adventu). È questo il significato che ha generato questa nostra celebrazione odierna: oggi, parte della nostra comunità ecclesiale è qui riunita non solo per celebrare, ma soprattutto per ringraziare il Signore, venuto a confermare l’operato della Sua Chiesa, attraverso la definitiva approvazione dello Statuto del Cammino neocatecumenale. Dobbiamo riconoscere che la santa Madre Chiesa in tutti i suoi documenti, di incoraggiamento o di prudenza verso il Cammino, senza dubbio, ha sempre riconosciuto il bene che esso ha prodotto nella Chiesa universale, già da quando ebbe inizio nel 1964 fra i baraccati di Palomeras Altas, a Madrid, per opera del Signor Francisco (Kiko) Argüello e della signorina Carmen Hernández, i quali, su domanda di quegli stessi poveri

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 con i quali vivevano, cominciarono ad annunciare loro il Vangelo di Gesù Cristo. Con il passare del tempo, questo “kérygma” si concretizzò in una sintesi catechetica, fondata sul tripode “Parola di Dio-Liturgia-Comunità”, che cerca di condurre le persone ad una comunione fraterna e ad una fede matura. Questa nuova esperienza catechetica, nata nel solco del rinnovamento suscitato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, incontrò il vivo interesse dell’allora arcivescovo di Madrid, Monsignor Casimiro Morcillo, che incoraggiò gli iniziatori del Cammino a diffonderla nelle parrocchie che lo richiedessero. Essa si diffuse così gradualmente nell’arcidiocesi di Madrid e in altre diocesi spagnole. Nel 1968 gli iniziatori del Cammino Neocatecumenale giunsero a Roma e si stabilirono nel Borghetto Latino. Con il permesso del Cardinale Angelo Dell’Acqua, allora Vicario Generale di Sua Santità per la Città di Roma e Distretto, si avviò la prima catechesi nella parrocchia di “Nostra Signora del Santissimo Sacramento e Santi Martiri Canadesi”. A partire da quella data, il Cammino si è andato diffondendo in tutto il mondo e persino in Paesi di missione. Esso si pone al servizio dei vescovi e dei parroci come itinerario di riscoperta del Battesimo e di educazione permanente nella fede, proposto ai fedeli che desiderano ravvivare nella loro vita la ricchezza dell’iniziazione cristiana, percorrendo questo cammino di conversione e di catechesi. Come ha scritto il Santo Padre, in tale processo un aiuto importante può essere dato anche da «una catechesi post-battesimale a modo di catecumenato, mediante la riproposizione di alcuni elementi del “Rituale dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti”, destinati a far cogliere e vivere le immense e straordinarie ricchezze e responsabilità del Battesimo ricevuto» (Christifideles laici, n. 61). Il Cammino, il cui itinerario è vissuto nelle parrocchie, in piccole comunità costituite da persone di diversa età e condizione sociale, ha lo scopo ultimo di portare gradualmente i fedeli all’intimità con Gesù Cristo e di renderli soggetti attivi nella Chiesa e credibili testimoni della Buona Novella del Salvatore ovunque. È inoltre uno strumento per l’iniziazione cristiana degli adulti che si preparano a ricevere il Battesimo. A diverse riprese e in diversi modi il Servo di Dio Giovanni Paolo II si è rivolto al Cammino Neocatecumenale per sottolineare l’abbondanza dei frutti di radicalismo evangelico e di straordinario slancio missionario che esso porta nella vita dei fedeli laici, nelle famiglie, nelle comunità

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 parrocchiali, e la ricchezza delle vocazioni suscitate alla vita sacerdotale e religiosa, rivelandosi come «itinerario di formazione cattolica, valida per la società e per i tempi odierni» Di questo itinerario di fede il 13 giugno u.s. sono stati approvati in forma definitiva gli Statuti. L’Approvazione è un atto giuridico ma non solo: “Approvazione – sono parole del Beato Giacomo Alberione – vuol dire che le regole, anzi ogni articolo delle regole è approvato, cioè è riconosciuto buono, santo e capace di condurre alla santità. Approvazione vuol dire che la somma autorità della Chiesa, che è il Papa, riconosce lo spirito, lo benedice (...). Poi l’approvazione vuol dire che chi osserva bene quelle regole può farsi santo, è in uno stato di perfezione e, di più che quell’Istituzione è conforme ai bisogni dei tempi attuali. Così che c’è la garanzia massima che lo spirito piace alla Chiesa” (Beato Giacomo Alberione, Introduzione allo Statuto e Direttorio dell’Istituto Gesù Sacerdote, pp. 6-7). I nuovi Statuti seguono sostanzialmente il dettato di quelli approvati sei anni prima. Trentacinque articoli e una disposizione transitoria conteneva il testo provvisorio del 2002, e gli stessi articoli possiede adesso la norma definitiva. Al di là della novità, per nulla secondaria, nessun cambiamento fondamentale è stato compiuto in questo nuovo passaggio degli Statuti, e quasi tutti gli articoli sono riproduzione esatta di quelli vecchi. Questi sei anni sono serviti, tuttavia, a fare maggior chiarezza sull’originaria formulazione dei testi e per migliorare la norma sia dal punto di vista tecnico che da quello strutturale. Il Cammino Neocatecumenale si conferma come un modello di catecumenato post- battesimale da impartire sotto la direzione dei Vescovi diocesani o, come lo aveva definito Giovanni Paolo II in parole trascritte nell’art. 1 del testo statutario, come un “itinerario di formazione cattolica”: un programma di formazione alla vita cristiana della persona, di base principalmente catechetica e liturgica, impartito in comunità e condotto secondo ritmi e metodi specifici. Ciò che contiene lo Statuto del Cammino, e ciò che approva adesso la Santa Sede, non è un’associazione di persone, né un “movimento ecclesiale” di fedeli. La Chiesa ha dato la sua approvazione non ad una mera aggregazione di persone, bensì ad un “metodo di formazione cattolica”, sebbene l’approvazione da parte dell’autorità ecclesiastica del metodo e dei contenuti, impegni in modo riflesso quanti propongono o ricevono tali mezzi a rispettarne le relative regole.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

La consapevolezza che la scristianizzazione in atto, riguardante soprattutto la famiglia odierna, denuncia l’impossibilità del suo ruolo educativo, soprattutto nella fede, il che richiede un lento e nuovo processo di conversione da parte degli adulti. Ogni cristiano praticante, se non possiede convinzioni ben motivate e fondate per mezzo di una conversione ed una progressiva iniziazione cristiana, è inevitabilmente esposto al pericolo di abbandonare facilmente ogni pratica religiosa, e con essa anche la stessa fede. Carissimi fratelli e sorelle, con l’entusiasmo della vostra testimonianza, cercate di mantenere vivo questo “metodo di formazione cattolica”! Questo è il segreto, la peculiarità bellissima di questo itinerario di formazione che deve aiutare a vivere nella Chiesa e ad incontrare sempre il Signore Gesù Cristo nella Parola, nei Sacramenti e nel volto dei fratelli. Mi piace richiamare, avviandomi alla conclusione, le parole che Carmen Hernández pronunciò in occasione dell’approvazione ad experimentum degli Statuti: “La cosa importante è stare nella Chiesa (…) Kiko e io passeremo, come tutto passa, come tutte le congregazioni passano, ma la Chiesa no; non passa la Chiesa con il suo fonte battesimale di rinnovamento e con il sole della resurrezione verso cui cammina la storia (…). Sapete per cosa ringrazio ancora? Perchè non siamo caduti nel kikianesimo! Il pericolo vero non era Monsignor Rylko con l’associazione, il pericoloso per me è Kiko Arguello, ma non vogliamo morire “kikos”. Siamo una iniziazione cristiana nella Chiesa, pertanto siamo nella Chiesa, nella Chiesa! E Kiko può morire con tutto il suo kikianesimo e i suoi canti e continuerà la vasca battesimale gettando acqua perché “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”, dove io voglio stare”. Per cui, agli uomini sbandati del nostro tempo, soprattutto se cristiani, e che desiderano, a prezzo di non pochi sforzi e contrasti, di incontrare e seguire Cristo Signore, come Chiesa non possiamo che rioffrire una simile possibilità attraverso la riscoperta di quei luoghi e mezzi che lo stesso Signore ha voluto lasciare alla sua Chiesa. Questo affinché si realizzi per ciascun cristiano quanto già affermato dal grande Ambrogio di Milano: “Non per via di specchi, né per mezzo di enigmi, ma faccia a faccia Ti sei mostrato a me, o Cristo, ed io nei tuoi sacramenti trovo Te”107

107 AMBROGIO, Apologia del profeta David, 1, 2.

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O come affermava il papa Leone Magno: “Ciò che la tradizione ha stabilito da lungo tempo e la consuetudine ha confermato,non lo ignori l’erudizione né lo trascuri la pietà”108 Carissimi fratelli e sorelle, siate davvero riconoscenti al Signore per il metodo di formazione cattolica, per l’itinerario di fede che il cammino vi offre! Aderite ad esso con entusiasmo, vivete con coerenza gli impegni del vostro Battesimo nella Chiesa e con la Chiesa! In questo modo, offrirete una bella testimonianza e sarete strumenti privilegiati di evangelizzazione in questo nostro mondo che brama Cristo, ma il cui desiderio è spesso soffocato da tante voci che disorientano e distorcono. Risvegliate nei cuori il desiderio del Volto Santo del Signore! Amen!

 Vincenzo Bertolone

108 SERMONE IX.

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OMELIA IN OCCASIONE DELLA VISITA AGLI OSPITI DI “CASA SERENA” Cassano Allo Ionio, 16 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, mi sia consentito, anzitutto, ringraziarvi per l’invito rivoltomi ad essere qui tra voi. Il mio grazie va al presidente del consiglio d’amministrazione, professor Francesco D’Elia, ed a tutti i componenti del cda. Parimenti, un sentimento di riconoscenza, per l’opera pia prestata, esprimo ai dipendenti ed ai volontari che operano in questa struttura, al vostro fianco. Ma la mia gioia è resa ancor più grande dal celebrare questa messa nel periodo che conduce al Natale ed un luogo, quale quello che ci ospita, simbolico quanto raro condensato di umana saggezza. Nelle vostre facce, che il tempo ha segnato ma non vinto, si leggono i sentimenti di chi, negli anni, ha conosciuto la vita e le sue sofferenze, dinanzi alle quali solo la presenza di Dio, e voi con il vostro esempio ne siete testimoni, è di sostegno. Il silenzio di Dio, talora, è teso a suscitare la fede ed a produrre la conversione del cuore, in una prospettiva di accoglienza universale dei diversi, degli stranieri, dei deboli, degli emarginati. Egli guarisce così dagli egoismi che imperversano nel nostro mondo, ricordandoci che tutti siamo stranieri, e ugualmente poveri, davanti a Lui. Le vostre storie, i vostri volti, sono luminosa testimonianza di ciò in terra. Ed evidenziano quali siano il ruolo ed il rispetto che si devono agli anziani, spesso ultimi tra gli ultimi. Anziani, ad esempio, nel racconto biblico, erano Simeone e la profetessa Anna. Essi sono l’icona di una bella anzianità: il loro canto risuona incomprensibile in una società ove contano solo la forza e la ricchezza, ove vale soltanto la soddisfazione individuale a qualsiasi costo, ove l’unico ideale è vivere per se stessi. Eppure, la fragilità della vita, anche quella che giunge con il passare degli anni, non è una condanna quando si incontra con l’amore e la forza di Dio. L’età avanzata può anzi essere motivo di una nuova chiamata: basti pensare al tempo che si ha per pregare per la Chiesa, per la propria comunità, per il mondo intero, per invocare la pace o anche per visitare chi ha bisogno, e comunque per coltivare la speranza nel Signore. Nessuno è escluso dalla gioia del Vangelo: è il miracolo che Gesù compie in chi lo accoglie tra le sue braccia. Anche l’età anziana, come

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 giustamente ricordava Giovanni Paolo II, è un tempo di grazia, che invita ad unirsi con amore più intenso al mistero salvifico di Cristo ed a partecipare più profondamente al suo progetto di salvezza. La Chiesa guarda con amore e con fiducia a voi, impegnandosi per favorire la realizzazione di un contesto umano, sociale e spirituale in seno al quale ogni persona possa vivere pienamente e degnamente questa importante tappa della propria vita. Cari amici, in un mondo come quello attuale, nel quale sono sovente mitizzate la forza e la potenza, voi avete la missione di testimoniare i valori che contano davvero al di là delle apparenze, e che rimangono per sempre perché inscritti nel cuore di ogni essere umano e garantiti dalla Parola di Dio. Voi avete un contributo specifico da offrire per lo sviluppo di un’autentica cultura della vita, testimoniando che ogni momento dell’esistenza è un dono di Dio ed ogni stagione della vita umana ha le sue specifiche ricchezze da mettere a disposizione di tutti. Voi stessi potete sperimentare come il tempo trascorso senza l’assillo di tante occupazioni possa favorire una riflessione più approfondita e un più diffuso dialogo con Dio nella preghiera. Carissimi fratelli e sorelle, sappiate allora impiegare generosamente il tempo che avete a disposizione e i talenti che Dio vi ha concesso aprendovi all’aiuto e al sostegno verso gli altri. Dedicate tempo ed energie alla preghiera, alla lettura della Parola di Dio ed alla riflessione su di essa. Vi sia da faro, in questo arduo ma necessario cammino, lo spirito del Natale, quel tempo in cui tutti dicono di sentirsi più buoni, e fanno di tutto per sembrarlo, con la maestria di chi è bravo ad incartare ogni giorno in una confezione regalo, con un po’ di lustrini, stelline e bacche, senza che il cuore vada oltre, mentre è invece doveroso varcare il confine dell’ordinarietà e riflettere sulla necessità di cambiare noi stessi per cambiare il mondo, ripartendo dall’uomo. Con la venuta di Cristo, infatti, si ha un radicale mutamento della condizione umana, che Egli assume e trasfigura. Nulla è più come prima; più nessuno è un numero tra i tanti o un fenomeno insignificante. «Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda tra noi» (Gv 1, 14): Dio s’inserisce nella storia, cioè nello spazio e nel tempo; è accanto a ognuno di noi, ne condivide le ansie, ne ascolta la voce, fa propria la vicenda umana con quanto essa ha di grande e di miserabile. Ha un volto come il nostro, e con Lui l’uomo non è più un «atomo irrisorio, sperduto nel cosmo, senza significato e senza scopo» (J. Rostand), ma una persona restituita alla sua originaria bellezza di «immagine di Dio», unica e irripetibile. È

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 l’immagine vivente del «Cristo sparpagliato per tutta la terra» (D. M. Turoldo), perché in lui ci sono tutti gli uomini: «Egli si è incorporato alla nostra umanità e ha incorporato questa umanità a se stesso» (H. de Lubac). Il Natale così inteso invita «l’uomo moderno, adulto eppure debole nel pensiero e nella volontà, a lasciarsi prendere per mano dal Bambino di Betlemme. A non temere ed a fidarsi di Lui» (Benedetto XVI). La mia speranza, che diventa augurio rivolto a voi tutti, alle vostre famiglie ed ai vostri cari, è che il Natale che verrà possa essere questo, e molto di più. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

PRESENTAZIONE DEL LIBRO “IL MESSO DI DIO: PIO XII E I MASS MEDIA” DEL PROF. UMBERTO TARSITANO Sant’agata D’esero, 18 Dicembre 2008

INTRODUZIONE

Ringrazio il prof. Tarsitano dell’occasione che mi offre di parlare di un pontefice che ha segnato la storia della Chiesa e non solo. “Il messo di Dio: Pio XII e i mass media” delinea l’ambito prescelto già nel titolo: non un ritratto a tutto tondo, bensì un ambito – sia pure significativo – della figura di Eugenio Pacelli, ovvero di papa Pio XII. Di lui la pubblicistica di tutti i tempi si sta occupando da vicino. Ciò per (almeno) due ragioni: a) il cinquantesimo della morte (9 ottobre 1958); b) il proposito di volerne proclamare la beatificazione. Ed è proprio questa seconda ragione la causa di tanto scrivere, parlare, dibattere in ambito ecclesiale ma anche laicale, in Italia, in Europa, nel mondo. Insomma si sono venuti formando due schieramenti ideologici: da una parte coloro che non solo approvano, ma attendono con impazienza la beatificazione e la designazione a “Dottore” della Chiesa; dall’altra tutti coloro che – con una gamma abbastanza diversificata di motivazioni – osteggiano e si contrappongono allo schieramento avverso adducendo tanti argomenti. Procedendo per estrema sintesi si può affermare che questi ultimi rimproverano a Pio XII di essere in qualche modo corresponsabile delle persecuzioni prima, delle stragi poi di milioni di persone colpevoli di non appartenere alla razza ariana mitizzata dal nazismo e di non professare la dottrina del nazionalsocialismo perno della politica e delle gesta interne ed internazionali di Hitler contenuta nel volume da lui scritto “Mein Kampf” (La mia lotta) pubblicato nel 1925. dicono costoro ( e sono tanti: italiani, francesi, inglesi, israeliani, eccetera) che il Papa aveva il dovere morale di contrastare con tutti i mezzi lo scellerato nazismo, a cominciare dalla scomunica, ma non agì. Mentre fu solerte a scomunicare il comunismo, rimase silenzioso alle aberrazioni del nazismo ed anche del fascismo quando furono promulgate in Italia e in tutti i territori dell’Impero le vergognose leggi razziali. Tutti motivi che offuscano l’alone di santità che giustifica la beatificazione: così dicono dimenticando di intromettersi in un processo interno alla Chiesa, che non ammette interferenze.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

Data la delicatezza addirittura cruciale dell’argomento, ho ritenuto di non doverlo evitare, anche per contestualizzare l’augusta persona e il quadro storico di riferimento. Pertanto, articolerò questa presentazione in un profilo biografico essenziale, in un altrettanto scarno cenno al suo pontificato (questioni teologico-morali incluse) per poi riassumere i capisaldi della contrapposizione degli storici sull’aspetto che in questi ultimi giorni è diventato di vibrante attualità. Solo dopo questo excursus dedicherò tempo ed attenzione al rapporto di Papa Pacelli con i mezzi di comunicazione di massa o “strumenti di Comunicazione Sociale”, come saranno definiti nel Decreto Inter Mirifica del Concilio Vaticano II, raccogliendo le indicazioni del pontefice da poco deceduto.

BREVE PROFILO BIOGRAFICO

L’arco della sua vita è teso tra queste due date: Roma, 2 marzo 1876, Castelgandolfo, 9 ottobre 1958. Nato in una famiglia patrizia romana, Eugenio Pacelli si forma all’Università Gregoriana, al Collegio Capranica ed al Pontificio Ateneo del Seminario Romano dell’Apollinare. Ordinato sacerdote il 2 aprile 1899, viene assunto presso la Segreteria di Stato. In breve diventa il primo collaboratore del card. Gasparri e mette mano nella preparazione del codice di diritto canonico, che verrà promulgato da Benedetto XV nel 1917, in piena Guerra mondiale. Il nuovo Papa, Pio XI, lo nomina cardinale e segretario di Stato. Nel frattempo ha svolto missioni diplomatiche in varie sedi internazionali, è Arcivescovo della sede di Sardi (Anatolia) e nunzio apostolico a Monaco di Baviera. Quando muore Pio XI, viene eletto Pontefice dopo un solo giorno di conclave e, per segnare una continuità con il predecessore, assume il nome di Pio XII ( 1° marzo 1939). Tirano venti di guerra ed il suo pontificato (lungo diciannove anni) sarà uno dei più tormentati e dolorosi. Usando i canali diplomatici, cerca di far ragionare il Führer: senza successo. Infatti, con mossa fulminea il 1° settembre 1939 le divisioni tedesche invadono la Polonia e poi passano in Scandinavia, Francia, Belgio e Olanda, pronte ad invadere l’Inghilterra. Questa e la Francia, legate da patti con la Polonia, rispondono con una dichiarazione di guerra al terzo Reich (Hitler in precedenza si era annessa l’: Anschluss del marzo 1938), mentre il Giappone, gli Stati Uniti e l’Italia per ora non entrano nel conflitto. Pio XII cerca di far ragionare Mussolini ma i suoi tentativi hanno la stessa sorte, purtroppo, di quelli nei confronti di Hitler. L’Italia, infatti, entra in guerra a fianco della Germania

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 il 10 giugno 1940, e quando Hitler nel dicembre dello stesso anno comincia a penetrare in URSS, Mussolini non lo sta a guardare e invia divisioni di fanteria e squadroni di cavalleria nel gelo della sconfinata campagna russa, dalla quale torneranno vivi solo alcune migliaia di soldati. Quella che era sembrata una “passeggiata” dei panzer tedeschi diventerà in tre anni un doloroso calvario, contrassegnata da milioni di morti (militari al fronte, civili inermi, vittime della “soluzione finale”, eccetera). Roma, occupata dai tedeschi, perde il suo status sempre riconosciuto da tutti di “città aperta”, subisce rovinosi bombardamenti. Il libro del prof. Tarsitano ci mostra la copertina della “Domenica del Corriere” con il pontefice in mezzo agli scampati di San Lorenzo. Viene chiamato “defensor civitatis” anche per l’aiuto incessante che la Chiesa in tutta la sua organizzazione orizzontale dà alla popolazione ed a quanti le si rivolgono per assistenza e protezione, tra i quali molti ricercati dalla polizia nazifascista (politici, ebrei, perseguitati). Questo, come vedremo tra breve, è uno dei punti di forza contro i detrattori e contro tutti coloro che accusano il papa di non aver fatto niente: aspetto, questo che trovo ben sviluppato nel testo di cui mi sto occupando. Di questo periodo sono le encicliche (20/9/39: la funzione dello Stato nel mondo moderno); (1°/11/39: alla Chiesa negli Stati Uniti); Speculo exeunte (13/06/40: ai Vescovi del Portogallo, nell’ottavo centenario dell’indipendenza); (29/06/43: Corpo mistico di Cristo); (30/09/43: gli studi biblici). Quando chiuderà gli occhi, le encicliche da lui scritte saranno ben quarantatre, testimonianza di un magistero illuminato e profondo, sorretto da erudizione e cultura davvero fuori del comune e che gli permisero di affrontare i più svariati temi di un’umanità che in pochi anni visse un passaggio epocale. Nel suo magistero sono facilmente riscontrabili alcuni tratti peculiari, che si possono sintetizzare in tre punti: anzitutto, la promozione della dottrina. Memorabile rimane la definizione del dogma dell’Assunzione. In secondo luogo, la difesa della dottrina e la rilevanza degli errori. La (22 agosto 1950), da parte sua affrontava tra l’altro il grave problema del relativismo teologico. Si deve aggiungere, da ultimo, che Egli non mancò mai di far sentire in maniera chiara ed esplicita la sua voce in diverse circostanze, quando le esigenze lo richiesero e quando vi era un’ esatta informazione sui fatti e se ne intravedeva la conseguenza. Del Pastore Angelico, questo è il titolo che si è conquistato in vita e che nessuno potrà mai contestargli, si può affermare che resse la Chiesa –

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 anche se in una delle fasi più delicate della sua bimillenaria storia – con polso fermo, lasciandovi una traccia assai profonda della sua incisiva azione umana e pastorale. Annunciandone la morte il 9 ottobre 1958, Radio Bonn disse:”Un faro si è spento nel mondo”.

IL DIBATTITO DEGLI STORICI

Il cattolico Renzo De Felice divide il pontificato pacelliano in due periodi; quello anteriore e quello posteriore al secondo conflitto mondiale: «Indubbiamente è un Papa che rappresenta un momento molto preciso: un pontificato datato. Ed è datato sostanzialmente da una realtà internazionale che vede la cultura, le ideologie e i sistemi liberaldemocratici in grossa difficoltà: prima, di fronte al nazismo, al fascismo e al comunismo; dopo, scomparsi i primi due, davanti al problema del comunismo». Ma l'anticomunismo spinse Pacelli ad avere fino al 1943 un rapporto privilegiato con il fascismo e persino con il nazismo rispetto ai regimi democratici, come sostengono i critici? De Felice non lo crede. «Papa Pacelli ha vissuto il "periodo di ferro" del nazismo, del fascismo e del comunismo. Ora io credo che più si va approfondendo il problema, e più certe passioni del momento si calmano. Quello che emerge è la difficoltà di parlare di una scelta pro nazista o pro fascista di Pio XII. Io non ho bisogno di rifarmi a testi o a testimonianze altrui. Ho vissuto direttamente quell'anno e mezzo qui a Roma e ho visto come gli ebrei che hanno potuto sfuggire alla deportazione e alla persecuzione trovavano porte aperte da parte della Chiesa, per una precisa direttiva del Papa. Il fatto che non abbia preso delle posizioni ufficiali, probabilmente lo si deve al timore di creare, in modo particolare in Polonia, ma anche in altri Paesi, un irrigidimento ulteriore». Anthony Rhodes, storico certamente non cattolico, in Il Vaticano e le dittature, tradotto nel 1975, afferma: «Pacelli aveva un’intensa antipatia per i nazisti, si può anzi dire che li esecrasse. Sapeva però che il Papato doveva mantenere le relazioni con essi per il bene di trenta milioni di cattolici del Reich». L'antipatia era reciproca: i tedeschi non approvarono affatto la candidatura di Pacelli per il conclave del 1939. Prive di fondamento, anzi calunnie, anche le accuse a Pacelli per il suo presunto disinteresse per le sorti della Polonia cattolica. Nell'enciclica Summi Pontificatus si legge: «Il sangue di innumerevoli esseri umani, anche non combattenti, eleva uno straziante lamento specialmente sopra

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 una diletta nazione quale è la Polonia che per la sua fedeltà verso la Chiesa, per i suoi meriti nella difesa della civiltà cristiana (...) ha diritto alla simpatia umana e fraterna del mondo e attende fiduciosa nella (…) intercessione di Maria (...) l'ora di una resurrezione corrispondente ai principi della giustizia e della vera pace». La reazione tedesca non si fece attendere: Heidrich, capo dello RSHA (Ufficio per la Sicurezza del Reich), proibì la diffusione dell'enciclica in Germania. Circa il limitato interessamento alla sorte degli ebrei durante la guerra, Rhodes come De Felice afferma il contrario: «È indubitabile che in via privata il Papa si adoperò in misura enorme a favore degli ebrei. Ordinò alle chiese, ai monasteri, ai conventi, di estendere il limite degli ospiti che tali istituti potevano normalmente accogliere al fine di ricoverarvi il maggior numero di ebrei che fosse possibile». La Santa Sede si trovava fra l'incudine del nazismo e il martello del comunismo. Lo evidenzia ancora Rhodes, quando scrive che Pio XII non poteva accusare i nazisti «senza condannare al tempo stesso le atrocità commesse dai russi e questo, a quanto riteneva il Pontefice, sarebbe stato sgradito agli alleati occidentali della Russia». Anche in ambienti della sinistra italiana ci sono stati giudizi non di parte. Carlo Falconi, ad esempio, vaticanista del settimanale L’Espresso, pubblicò nel febbraio del 1973 un libro di coraggiose riflessioni sulla Chiesa da Pio XII a Paolo VI. Sul primo il giornalista distingue: «Se lo storico non può essere categorico nel condannare la responsabilità oggettiva del Pacelli, altrettanto categorico deve essere nel non attribuirgli una responsabilità soggettiva, perché la decisione di tacere fu da lui presa in coscienza dopo drammatiche lotte interiori e sono tuttora di questo parere». Di recente un altro saggio storico, L’inverno più lungo, curato da Andrea Riccardi e dato alle stampe dalla casa editrice Laterza, dà visibilità alla stupefacente macchina clandestina allestita da una generosa folla di parroci, suore e padri di varie confraternite a beneficio di oltre quattromila ebrei in fuga dalla deportazione. Riccardi, esorta a riconsiderare saggiamente il pontificato pacelliano: se una prova esplicita dell’adesione al regime nazifascista non è mai stata rinvenuta, egli osserva, la complessità dell’ingranaggio sotterraneo costruito con il sostegno della Segreteria di Stato e del Vicariato di Roma induce a ritenere che il Capo della Chiesa non potesse ignorare l’ospitalità offerta dai religiosi a tanti ebrei braccati dai tedeschi, ma non solo a loro,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 come testimoniò l’invito del Papa, nel radiomessaggio del Natale 1943, a prendersi cura «di prigionieri, feriti, dispersi, randagi, bisognosi». Come fanno osservare molti e come lo stesso Riccardi sottolinea, mancarono prese di posizione ufficiali di fronte alle leggi razziali o alla campagna di sterminio promossa da Hitler, ma è davvero difficile con la sensibilità di oggi e in un contesto culturale profondamente diverso, poter giudicare le scelte che la coscienza di Pio XII si trovò a prendere. «Più volte – affermò egli stesso all’indomani del conflitto bellico - avevo pensato a fulminare di scomunica il nazismo, a denunciare al mondo civile la bestialità dello sterminio degli ebrei! Abbiamo udito minacce gravissime di ritorsione, non sulla nostra persona, ma sui poveri figli che si trovano sotto il dominio nazista; ci sono giunte vivissime raccomandazioni, per diversi tramiti, perché la Santa Sede non assumesse un atteggiamento drastico. Dopo molte lacrime e molte preghiere, ho giudicato che una mia protesta non solo non avrebbe giovato a nessuno, ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli ebrei. Forse la mia protesta solenne avrebbe procurato a me una lode nel mondo civile, ma avrebbe procurato ai poveri ebrei una persecuzione anche più implacabile di quella che soffrono». Questa era la convinzione di Pio XII. E che fosse fondata, lo conferma quello che successe alla Chiesa d'Olanda. Domenica 26 luglio 1942 fu letta in tutte le chiese cattoliche una lettera di protesta contro le deportazioni di intere famiglie ebree. E quale fu il risultato? Non solo la deportazione degli ebrei di sangue e di religione venne accelerata, ma, come ritorsione diretta contro i Vescovi, autori della protesta, furono deportati innanzi tutto gli ebrei battezzati (tra questi, Edith Stein e sua sorella Rosa). [Quando Pio XII fu informato di questa tragedia, secondo la testimonianza di suor Pascalina Lehnert, per anni al suo servizio, si recò in cucina e personalmente bruciò due grandi fogli scritti molto fitti, dicendo: «E’ la mia protesta contro la spaventosa persecuzione antiebraica. Stasera sarebbe dovuto comparire sull'Osservatore Romano. Ma se la lettera dei Vescovi olandesi è costata l'uccisione di quarantamila vite umane, la mia protesta ne costerebbe forse duecentomila. Perciò è meglio non parlare in forma ufficiale e agire in silenzio, come ho fatto finora, per tutto ciò che è umanamente possibile per questa gente».]

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GLI STRUMENTI DI COMUNICAZIONE SOCIALE

La terzultima enciclica è dell’8 settembre 1957, nella Festività della Natività della vergine. Miranda prorsus è il suo titolo e Pio XII la dedica a radio, televisione, cinematografia. Qual è stato il rapporto di Pio XII con questi strumenti comunicativi in particolare e con gli altri (in primis, la carta stampata)? Il rapporto fu ottimo e si potrebbe evincere, ad esempio, dalle parole da Lui pronunciate il 12 gennaio 1954 in un radiomessaggio ai fedeli del Cile in occasione dell’inaugurazione della trasmittente cattolica: “Col cuore pieno di gaudio, convinto della grandissima importanza di un mezzo così efficace di diffusione, nella lotta che la chiesa combatte con armi pacifiche, sotto tutti i cieli, in favore della verità, della necessaria moralità, della giustizia, del sincero amore non solo tra tutti gli uomini ma anche tra tutte le nazioni”. Questa frase l’ho tratta dal libro del prof. Tarsitano (pag. 63). I mezzi di informazione e/o comunicazione sono visti di buon occhio dal Papa, con i necessari “distinguo”. Un loro buon uso, ad esempio, è utile all’azione pastorale. Nel 1936, quando era cardinale segretario di Stato, riceve a Roma i rappresentanti della stampa cattolica di tutto il mondo. Appena eletto papa istituisce il servizio informativo (Servizio Stampa) della S. Sede. Una persona colta come lui sa (e intuisce) che senza i “mezzi” le notizie, i pensieri, le parole e la Parola non si possono veicolare. Ecco la loro importanza, quando le telescriventi pulsano ma anche quando tacciono. Il silenzio, egli dice, può essere “di codardia e di consenso, di carità e di sacrificio; vi è il silenzio del pavido, come il silenzio del martire e dell’apostolo”. Quando pronuncia queste parole (1936) formula quasi un vaticinio, una premonizione di quanto gli capiterà tra non molti anni e che gli sarà rinfacciato come colpa dopo la fine della guerra: avere taciuto, appunto. Della radio fa uso frequente: famosi i suoi radiomessaggi natalizi in numerose lingue: oltre l’italiano, il francese, l’inglese, il tedesco, il portoghese, il latino. Per papa Pacelli l’opinione pubblica è la prerogativa di ogni società normale, dove le persone possono esprimersi senza condizionamenti . L’opinione pubblica deve essere riconosciuta come un’eco naturale, ma guidata dalla ragione. Aveva una mente aperta, era uno studioso, un intellettuale che amava il dialogo, anche se circoscritto a chi era nell’orbita della Chiesa. Per esempio, dimostrò netta preclusione non dico al marxismo e al comunismo, ma fu intransigente anche con la scienza che si ispirava all’evoluzionismo di matrice darwiniana: tutta l’antropologia andava ricercata nella Bibbia.

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Tutto ciò che in qualsiasi altra parte veniva definito “progresso”, per papa Pacelli era “regresso progressivo” (pag. 47). Ovviamente, date le circostanze, la cautela e la circospezione erano d’obbligo. Anche oggi, del resto, certe cosiddette “verità” sono dure da far dimenticare a moltissimi fedeli che si sono costruiti dei punti fermi, quasi delle fondamenta di calcestruzzo e ci convivono magnificamente. Per fare un esempio, tante volte – solo per aver detto con la naturalezza della verità più scontata che Gesù era ebreo – mi è toccato di registrare da parte dei miei interlocutori dapprima delle battute ironiche, del tipo: “ma che ci viene a raccontare: Gesù ebreo. Questa poi!...”, e – successivamente – un’espressione di sofferenza, mista a delusione perché – evidentemente – la cosa era troppo tremenda, il colpo veramente basso per essere sopportato a cuor leggero.

LA CINEMATOGRAFIA

Lo stesso invito alla prudenza, che in più circostanze il Pontefice aveva rivolto alla stampa, coinvolge anche la cinematografia. Lo fa richiamando esplicitamente l’enciclica Vigilanti cura del 29 giugno 1936 di Pio XI. Egli si rivolge all’episcopato degli Stati Uniti affinché vigili le grandi Majors di Hollywood che con le loro pellicole sono in grado di influenzare tutti i cineasti del mondo, e – perciò – tutta la loro produzione. Questo perché? semplice: il cinema come strumento di comunicazione è più efficace della stampa. Anzi, lo definisce “la chiesa dell’uomo moderno nelle grandi città” (pag. 69). Il cinema deve essere d’arte e “la missione dell’arte rettamente usata è d’innalzare, mediante la vivezza della rappresentazione estetica, lo spirito ad un ideale intellettuale e morale, che oltrepassa la capacità dei sensi e il campo della materia, fino ad elevarla verso Dio” (p. 69). L’estetica pacelliana prende le distanze tanto dall’idealismo (perché estraneo alla realtà), quanto dal realismo (perché, troppo legato alla realtà, non consente allo spirito di elevarsi). Fin qui non ci sarebbe niente di male, ma il fatto che i migliori cineasti di allora(1945, 23 agosto) ai quali il Papa si rivolgeva direttamente o indirettamente si chiamavano De Sica, Zavattini, Rossellini, Visconti: come dire, i padri, gli astri del neorealismo109 che certamente non potevano sentirsi particolarmente gratificati dall’appellativo “servile” che il Papa aveva riservato appunto alla cultura neorealista. Ma il Papa non ammetteva

109 In letteratura e nelle arti figurative il movimento esisteva fin dagli anni Trenta. Nel cinema cominciò ad affermarsi nei primi anni Quaranta (Ossessione, di L. Visconti, 1943) e trionfò con Roma città aperta (Roberto Rossellini, aiuto regista Federico Fellini, 1945) tornando ad occupare il primo posto nel panorama internazionale.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 prodotto filmico se non ispirato a temi di fantasia: “Se il cinema si rivolge principalmente alla fantasia, la dottrina della fede ne è un efficace contrappeso”. E parlando dei giovani, soggiunge: “(il giovane) deve imparare a giudicare e a distinguere il vero dal falso, il bene dal male, il lecito dall’illecito” (pag. 72). Per lui il “film ideale” deve avere i crismi del bello, del buono e del vero. Resta peraltro valido il suo giudizio non positivo del cinema neorealista che dalla realtà nasce e ad essa, appunto, si ispira, calandosi nel sociale, evidenziandone i difetti ed i mali, ma indicandone anche la soluzione. Oltre tutto in “Roma città aperta”, Roberto Rossellini (di formazione cattolica acquisita in famiglia e presso il Collegio Nazareno di Roma, dei Padri Scolopi) accomuna in una lunga sequenza del film le torture inflitte al partigiano dalla Gestapo di Via Tasso a quella inflitta, in perfetta unità aristotelica di tempo, luogo, azione, al sacerdote, che mentre subisce il martirio prega per i carnefici nazisti. Il sacerdote sa (ed il messaggio è palese allo spettatore) che nonostante Roma, l’Italia, l’Europa siano sommersi dalle tenebre del Male, un giorno la luce tornerà a splendere. Nel sacerdote non muore la speranza alimentata dalla fede, che costituisce la ragione stessa del suo essere prete di Cristo. Con film come “Roma città aperta” si può condividere il giudizio di chi attribuisce “sacralità” anche ad un prodotto filmico110.

LA TELEVISIONE

Papa Pacelli parla per la prima volta ufficialmente della televisione il 3 ottobre 1947, in un discorso per il cinquantesimo anniversario dell’invenzione della radio, dovuta al nostro Guglielmo Marconi. La prima volta ad usarla è il giorno di Pasqua 1949 ed il Centro che diffonde la sua immagine assieme alla sua voce è la RTF, cioè l’emittente francese. In questi anni, oltre la Francia solo altre tre nazioni hanno una propria televisione: URSS, Regno Unito e USA. Il Pontefice ha lo sguardo lungo. Anche in Italia già da qualche anno sono in corso gli esperimenti da parte della RAI (Radio Audizioni Italia) che è subentrata all’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche). La prima trasmissione televisiva viene messa in onda dal Centro di Torino il 3 gennaio 1954. Due giorni prima, il Papa invia all’episcopato d’Italia una lettera sulla televisione, sui vantaggi e i pericoli del nuovo strumento di comunicazione sociale: “Ciò che è trasmesso dalla televisione riceve una certificazione sociale della propria

110 Cfr., per esempio, Angelo L. Lucano, Cultura e religione nel Cinema, ERI, Torino 1975, pp. 11 e 73.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 importanza, una visibilità amplissima, una comprensione più globale e sintetica. In qualche misura, il passaggio televisivo rende un fatto o un evento conoscibile, in base agli standard più esigenti di una società di massa” (pag. 79). Per il nuovo mezzo il suo approccio ed il suo giudizio non differiscono da quelli sul cinematografo. Sia al clero (cominciando dai Vescovi), sia al laicato egli anticipa che “per quanto riguarda i programmi degli spettacoli, opportune norme saranno emanate, dirette a far servire la televisione alla sana ricreazione dei cittadini”. In Italia già dal 1948 la maggioranza schiacciante delle forze politiche è espressa dalla D.C. e dai partiti alleati, per cui i vari governi sono ben in grado di fornire al Pontefice tutte le assicurazioni possibili. I pochi spettacoli di “varietà” trasmessi sono, infatti, castigatissimi e basta un nonnulla per far intervenire la censura. Quest’atteggiamento che va oltre l’osservanza devota crea malumori nelle organizzazioni cattoliche111 che non se la sentono di assumere “un comportamento apocalittico verso la televisione. [Allora] il Papa li invita ad essere “integrati”, non rinunciando ai propri valori ed alle proprie competenze […].” La televisione non sia solo moralmente incensurabile, ma diventi altresì cristianamente educatrice” (pag. 81-82).

CONCLUSIONE

La conclusione di questo mio intervento la vado a prendere in pratica dal documento pacelliano dedicato a questo panorama delle comunicazioni sociali: la già citata Miranda prorsus del 1957. Qui egli riassume le regole, fissa le linee guida agli operatori della comunicazione sociale, in particolare gli operatori della stampa, della radiotelevisione e del cinema. Alla loro azione il Papa riconosce il compito formativo o, comunque, un intervento di tipo formativo tanto per la gioventù quanto per gli adulti, ricordando che ogni membro della Chiesa deve adoperarsi per indirizzare il più possibile le enormi potenzialità degli strumenti di comunicazione verso la protezione della morale cristiana, per esempio «preparando liste per indicare quali produzioni sono in accordo con i giudizi morali cattolici. Allo stesso tempo, la Chiesa deve vigilare sugli aspetti morali della radio e della televisione, mettendo in guardia dai pericoli che possono scaturire dall’uso scorretto dei mezzi di comunicazione…». La terzultima enciclica è davvero una summa pacelliana in questo campo. In fondo, la posizione assunta dal Papa è quasi di neutralità: i media di per sé non sono né

111 Presidente nazionale delle ACLI è Enrico Vinci (1954-59) succeduto a Mario V. Rossi “dimissionario”(1952- 1954).

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 vantaggiosi in astratto, né nocivi: dipende dall’uso che l’uomo ne fa. E’ chiaro che se l’operatore è cattolico non può farne che un uso consono alla morale cattolica. Non solo: dovrà vigilare anche sui colleghi che cattolici non sono, affinché non rechino danno alla morale, per esempio con resoconti, scritti, in audio e in video o filmici troppo realistici. La preoccupazione è sempre la stessa: vigilare sulle influenze corruttrici! Donde, selezionare la stampa (moltissimi i giornali, le riviste – soprattutto politiche, cioè di sinistra – messe al bando); parimenti vanno selezionati i programmi radiofonici e televisivi. Dei film ho già detto abbastanza. Ed anche se “condanna l’uso della comunicazione limitato agli interessi politici ed economici” (pag. 112), il suo atteggiamento di estrema vigilanza accentuerà sempre di più, fino a renderlo incolmabile, il solco aperto tra forze cattoliche e popolo della sinistra (con l’intellighentsia praticamente tutta in questa parte) nella campagna elettorale dei primi mesi del 1948, ingigantito con “l’operazione Sturzo” del 1952, e la caduta in disgrazia del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, cui nello stesso anno il Papa negò un colloquio privato, provocandogli tanto dolore e sconforto, che il grande statista visse in silenzio, da quel cristiano obbediente e virtuoso che era. Concludendo, anche se l’angolatura di questo testo non era, come palese e come già tratteggiato, generalista bensì settoriale, l’opera assolve a pieno merito al fine che l’Autore si era prefisso, cioè di fare emergere, nella indiscussa e vasta cultura di Pio XII, una particolare simpatia, oserei dire “debolezza” nei confronti degli operatori della comunicazione sociale. Probabilmente da uomo di cultura, da scrittore e da giornalista, sentiva questo mondo anche un po’ suo ed anche perché, naturalmente, ne aveva constatato e soppesato l’enorme influenza psicologica e propagandistica. Tutto ciò, ripeto, il prof. Tarsitano lo ha documentato con serietà, perizia e amore. Mi compiaccio con lui ed auguro ottimo successo a questo libro.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA PER IL TRIGESIMO DI MAMMA CARMELA Chiesa Cattedrale, 19 Dicembre 2008

Carissimi confratelli nel sacerdozio, carissimi fedeli ed amici, è già passato un mese da quando mamma Carmela ci ha lasciati. Mi corre l’obbligo, anzitutto, di ringraziare di cuore tutti voi, e tutte le comunità diocesane, per le grandi manifestazioni di caloroso e composto affetto riservatemi nelle ultime settimane: con la vostra quotidiana vicinanza avete fatto in modo che io potessi sentirmi ancor più uno di voi, un amico di famiglia attorno al quale stringersi nel momento del dolore. Questa vostra vicinanza viene espressa e ribadita pure stasera, in occasione della celebrazione della santa messa per il trigesimo della scomparsa di mamma Carmela: ve ne sono grato. Nel mese trascorso, con la mente ho ripercorso gli anni vissuti assieme a lei, fianco a fianco. Quanti ricordi sono riemersi nelle ore rese così lunghe e silenziose dalla sua assenza: l’infanzia, la gioventù, la scelta del sacerdozio, la lunga parentesi romana, l’arrivo qui a Cassano. Con lei ho avuto un’intimità ed un dialogo che con nessun’altra persona ho mai avuto e che adesso mi porta a dire che quando si perde la madre sembra che venga meno un punto cardinale, ossia un riferimento sicuro, genuino, non ingannevole. Nel cuore d’una madre si trova sempre la certezza di un amore libero, autentico, sincero, anche se fallibile e limitato. Con una madre non occorre difendersi o stare in guardia, pavoneggiarsi o mascherarsi. In colei che genera ed educa alla vita c’è infatti una sorta di radura di freschezza, di semplicità e di pace. Perciò é grande la vocazione vera delle mamme e per questo dobbiamo pregare Dio perché non le abbandoni mai. Pensieri e riflessioni, questi, che mi hanno portato a considerare sotto una nuova luce un noto passo delle Scritture: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 24-25). Rileggendo ed ascoltando in me la Parola, ripenso a mamma Carmela, la cui vita è stata un grande dono, un dono di Dio, per quanti l’hanno conosciuta. E mi piace credere che la sua morte sia stata, in fondo, la ragione della sua esistenza, del suo percorso terreno, improntato ad un amore senza limiti, travalicante anche quello della stessa morte, oceano in cui viene a confluire l’umano decadere e che torna ad essere vita nel momento in cui in esso si scopre Dio.

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La morte, in effetti, personificata nel nostro immaginario come l’avversario, incombe sulle nostre paure. Gonfia il suo petto di distruttrice e di giustiziera spesso ingiusta, ma il destino dell’uomo va oltre la sua dimensione finita di creatura e si apre a un oltre infinito. Di fronte a questo stato di cose, ci ritroviamo soli, con noi stessi e con le nostre debolezze. Facciamo i conti con il nostro essere umani, creature fragili che si ammalano, invecchiano e muoiono: realtà che ci toccano e ci passano accanto, e che per questo non possiamo fare a meno di sentire come nostre. È in ciò la perfetta emozione che in ciascuno genera la scomparsa della propria madre. È il desiderio comune che in quel giorno supremo, caduto il muro d’ombra che segna la frontiera del trapasso, ci sia una mano che ci guidi verso Dio. Quella mano che ci sorreggeva da bambini, quella mano raggrinzita, ma sicura anche nella vecchiaia, la mano della madre. Saranno quelle braccia a intercedere per il nostro peccato e solo quando Dio ne avrà esaudito le preghiere, la madre ci fisserà negli occhi. Allora saremo con lei, sereni e luminosi, immersi nella pace divina, accolti nella stessa casa dove lei è giunta per prima e ci ha attesi. Ci è da guida, in questo cammino, un anelito trascendente che ci porta ad andare oltre, a ritenere senza timore alcuno che il limite non possano essere la morte, la malattia o l’inevitabile avanzare degli anni; c’è un bisogno, un desiderio di infinito, che incalza nell’animo e nella mente, per cui ognuno di noi si mette alla ricerca d’una ragione, d’una speranza. La ragione e la speranza che cerchiamo non sono un’idea o un pensiero, né una entità misteriosa e sconosciuta: sono un Dio che ci ha creati quali mondi grandi in esseri piccoli. Ne è testimonianza anche la pagina del Vangelo oggi offerta al nostro ascolto: la mancanza di fede ci rende muti, la sua presenza opera invece prodigi e ci dà la speranza di un oltre divino. L’approdo è Cristo: tutto ciò che lo precede e tutto ciò che segue va visto e letto alla Sua luce. Scopriamo così una mirabile trama divina che si snoda nella storia e la rivela come evento di amore e di salvezza: è la Sua Parola vivificante che ci ha posti come angeli sulla terra, formati di natura mista, visibile ed animata da una volontà, un desiderio intellegibile. È lo stesso spirito di Dio, lo spirito dell’Eterno, che ci spinge al di là delle umane capacità; è Lui che ci ha resi creature, insieme esseri terreni e celesti, effimeri e mortali, posti a metà fra grandezza e umiltà, ma sottoposti alla Sua adorabile volontà. Carissimi fedeli, è il Signore che ha piantato in noi, nel nostro cuore, un seme di eternità, cioè l’essere partecipi di Dio e della sua vita intratrinitaria. È questa la nostra vera natura: legati alla terra, con cui siamo

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 stati plasmati, ma appartenenti al cielo, dove siamo stati pensati, concepiti e amati. È lo spirito eterno di Dio che ci ha partoriti: per tale motivo, non possiamo dirci vinti dal dolore e dalla disperazione, ma proprio di fronte alla morte, all’esperienza estrema del nostro limite di uomini e donne, dobbiamo essere capaci di soddisfare la sete d’infinito, di eterno. Pensate ai momenti di grande felicità trascorsi magari con le persone che non sono più tra noi. Pensate a quei momenti e ricordate, ricordate quelle sensazioni, quei sentimenti, quella preghiera sommessa affinchè la felicità del momento non avesse mai termine. Pensate e ricordate: forse quello non è stato un desiderio appagante d’infinito? Sì, lo è stato. È stato un forte desiderio di vivere una comunione ben più intensa dell’attimo fuggente, una comunione perfetta che tuttavia, perché vissuta nel tempo e nello spazio, tale non poteva essere. Eppure, miei diletti fratelli e sorelle, quel vivere in comunione felice con una persona amata, ormai defunta, è stata anticipazione d’una realtà eterna. Vivendo accanto ai nostri cari, che non ci sono più, vivendo loro per noi e noi per loro, in una comunione imperfetta perché temporanea, ma gioiosa e intensa, abbiamo già consolidato in noi, nell’oggi terreno, ciò che sarà l’Eterno, l’altro mondo, verso il quale procede la nostra vita dove speriamo vivere la comunione dei santi. Ecco perché la morte non può farci paura e il dolore non può essere senza consolazione. Infatti, non a caso non dimentichiamo coloro che ci hanno lasciato, perchè ci sono stati accanto, hanno vissuto con noi, hanno sofferto con noi, hanno lottato per noi. A loro siamo ancora grati. Un conforto che ci accompagnerà sempre, e che ci aiuterà non solo a realizzare serenamente e con coerenza la nostra scelta di fede nell’eternità, ma che terrà sempre aperta in noi la porta verso l’infinito di Dio. Grazie a questa rinnovata comunione con i nostri defunti, possiamo riuscire a vedere con più chiarezza, ed a sentire con maggiore vicinanza, la Patria celeste. E se oggi posso condividere con voi questa esperienza, è perché la vivo e la sento in prima persona. Ciò che mi separa da quella Patria sono solo il tempo e lo spazio della mia vita, ma la mia cara mamma, con la sua morte, me l’ha portata vicina, e con la sua esistenza mi ha testimoniato come vi si possa giungere. La sua semplice fedeltà a Cristo, il suo autentico attaccamento al legno della Croce, mi hanno insegnato che solo Cristo è il mezzo per appagare la sete d’infinito, che è solo restando ben attaccati a Lui che possiamo giungere alla meta finale: l’Eterno.

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Come cristiani, tutti siamo chiamati ad accogliere la morte e ad inserirla nella nostra fede in Gesù, che è la resurrezione e la vita di ciascuno. L’esempio di Cristo, il salvatore dell’umanità, ci viene in soccorso e ci orienta. Nel dilemma tra la morte con la quale tutto finisce e l’immortalità, il cristiano ha la certezza che Dio gli ha dato la vita creandolo a sua immagine e somiglianza (cfr Gn 1, 27); sa che quando prova l’angoscia della fine che si avvicina, Cristo agisce in lui, trasformando le sue pene in forza corredentrice. Ed è sicuro che lo stesso Gesù, che ha servito, imitato e amato, lo riceverà in Cielo, colmandolo di gloria dopo la sua morte. La grande e gioiosa verità della fede cristiana è che, per la fede in Cristo, l’uomo può con certezza vincere l’ultimo nemico (1 Cor 15, 26), la morte, aprendosi alla visione perpetua di Dio e alla risurrezione del corpo alla fine dei tempi, quando tutte le cose si saranno compiute in Cristo. La vita non si conclude qui: siamo sicuri che il sacrificio nascosto e la donazione generosa hanno un senso e un premio che, per la magnanima misericordia di Dio, vanno ben oltre quelli ai quali l’uomo aspira contando sulle sue sole forze. «Cristo, mia speranza, è risorto e vi precede in Galilea»: è con queste parole che viene dato l’annuncio pasquale, annuncio di speranza che è, insieme, richiamo alla responsabilità ed elezione per una missione. Lo conferma il monito di san Paolo, quel «Non di tutti è la fede», che ci induce a riflettere, a tener costantemente presente che con il nostro comportamento dobbiamo dimostrare di essere candidati alla risurrezione perché il nostro Dio è il Dio della vita. Questo è stato l’insegnamento di cui mia madre mi ha fatto dono, rendendomi ricco. Ringrazio il Signore per avermi dato, nella Sua infinita bontà, una mamma così forte, coraggiosa, laboriosa e piena di tanta fede. È venuta per te la glorificazione della morte che, ne sono certo, ti ha aperto il paradiso. Dal cielo, accanto a Maria, Madre nostra e fiducia nostra, guardaci e vienici accanto per accompagnarci nel segmento terreno che ancora ci resta da vivere. Con la tua morte, il Signore, ci ha già mostrato la via, quella dell’amore che non conosce confini e che salva noi stessi e il mondo. E speriamo di poter contemplare con te il volto buono e misericordioso del Padre. Madre mia, possa il tuo sguardo vegliare ancora su di me e su quanti, amati, ti amarono. I padri della Chiesa che ci hanno preceduto nella fede, dicevano: «Se Dio esiste, anch’io sono immortale!» Io concludo: «Senza di

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 te, Gesù, noi nasciamo solo per morire; con Te, moriamo solo per rinascere»,e vivere eternamente con Te. Maria, stella della speranza, renda più forte e autentica la nostra fede nella vita eterna e sostenga la nostra preghiera di suffragio per mamma Carmela e per tutti i nostri cari defunti. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA NEL X ANNIVERSARIO DELL’ORDINAZIONE SACERDOTALE DI DON PASQUALE ZIPPARRI Montegiordano Marina, 21 Dicembre 2008

Carissimi confratelli nel sacerdozio, carissimo don Pasquale, carissimi, fratelli e sorelle, carissime suore, sono lieto di trovarmi qui con voi in occasione del decimo anniversario di sacerdozio di don Pasquale che ringrazio per l’invito. In questo tempo d’Avvento ci stiamo preparando ad accogliere una Sapienza tanto antica eppure così nuova e viva. È questa la Sapienza di Dio, il Logos, il Verbo che, come scrive San Paolo nella prima lettera ai Corinzi è velata dal mistero, è rimasta occulta, è stata preparata, prima dell’origine dei tempi, per la nostra gloria; una Sapienza che nessuno dei sapienti di questo mondo conobbe. E di fatti nessuna sapienza antica, per quanto affaticata nella ricerca del vero, è riuscita a svelare il mistero della verità del Verbo incarnato, dinnanzi al quale ogni speculazione filosofica si arresta, non perché incomprensibile, ma inaccettabile per il pensiero umano, per quelle categorie e strutture conoscitive che ci inducono a guardare con assurdità al mistero di un Verbo incarnato, alla scandalosa verità di un Figlio di Dio che si fa uomo per innalzare l’uomo, che diventa povero per far diventare ricchi. Allora di quale sapienza l’uomo di oggi, il credente di oggi deve armarsi perché il Mistero si sveli pienamente e la fede in Esso diventi testimonianza autentica di vita piena, vissuta in comunione con la sapienza di Dio, con il suo Verbo? L’azione che si svolge nell’umile casa di Nazaret, il dialogo interiore fra l’angelo Gabriele e Maria, oggi, ci fa da scuola: ci rivela che Dio ha affidato al silenzio, alla ricerca interiore, all’umiltà della conoscenza la grandezza del suo Mistero; ci mostra che solo un cuore umile, puro, “ignorante”, è capace di accogliere e contenere il Verbo di Dio. L’unico modo in cui Dio si manifesta è il suo eterno manifestarsi con la Parola, il cui mistero, trascendendo i rumori del mondo e della mente umana, scaturisce dal silenzio. Per questo per credere in questo Mistero, per entrare a farne parte, è necessario fare silenzio e mettersi in raccoglimento, giacché solo così “permettiamo all’Altro di parlare,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 quando e come verrà, e a noi di comprendere quella Parola”. (Giovanni Paolo II). Non è forse stato questo l’atteggiamento di Maria? Ella dinnanzi all’angelo è silenziosa, ascolta la Parola per riempirsi di essa. Maria è ricca di una sapienza che oggi più che mai non afferriamo, una sapienza che si riconosce vana senza la verità di Dio, fallimentare senza la forza di Dio, vuota e sterile senza il contenuto di Dio. Maria ha taciuto la sua parola per dar voce e carne alla Parola di Dio; Maria ha fatto silenzio per fare spazio al silenzio di Dio, che non è assenza di parole né uno stato di oblio, di vuoto, di nulla. Piuttosto è vita, la vita stessa di Dio. Una vita che sorprende e meraviglia per il modo in cui ha scelto di rivelarsi. Ha scelto l’imperfezione e la triste finitezza della carne per salvare il mondo; e, infine, per continuare ad essere visibile e concreta, per continuare ad abitare in mezzo alle case degli uomini, per dare senso alle loro vite, ha scelto di restare “nel più strano e incomprensibile segreto: la specie eucaristica” (Pascal). Di questo incomprensibile segreto noi siamo i custodi, i testimoni; noi presbiteri, soprattutto, ne siamo i mediatori, coloro i quali per grazia di Dio e intercessione dello Spirito Santo rendono visibile ciò che da sempre si manifesta nel nascondimento e nel silenzio. A noi è dato il dono di rendere visibile agli uomini l’Amore invisibile, perché non lo si pensi irraggiungibile oltre le galassie, ma vicino e presente nei giorni della vita. Noi presbiteri per primi siamo chiamati ad essere, come Maria, i portatori di questo Amore, di questa speranza ineffabile, che con discrezione bussa al cuore di ciascuno chiedendo di essere accolto, ospitato e amato. Di questo Mistero che bussa alle porte di ogni cuore siate i messaggeri, uomini di Dio che non pretendono di offrire soluzioni, ma indicano una via per attraversare la vita, e questa via non è una dottrina da seguire ma la compagnia di una persona viva, tanto invisibile quanto presente, Gesù Cristo. Di questa Presenza siate l’espressione sincera, autentica: essa non garantisce la mancanza di guai o tempeste, ma fa sentire il calore della prossimità, per tutti i giorni, fino alla fine. Di questa discreta prossimità ha gioito la Vergine Maria, che nel silenzio di una fedeltà assoluta ha sperimentato la ricchezza infinita di una Presenza, che prima nel suo sì e poi nel suo grembo si è fatta viva e carne. Ed è ancora più bello celebrare oggi, assieme a voi tutti, e soprattutto insieme a te, caro don Pasquale, questo mistero di Incarnazione e Donazione, al cui servizio hai già offerto dieci anni della tua vita. Questa

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 occasione festosa mi offre la gradita opportunità di esprimere alcuni pensieri sulla figura del presbitero. Dieci anni! Quante cose sono accadute in questo periodo! A scriverle tutte ne avresti fatto un libro alto così, come la Bibbia. Però in umiltà hai pensato: la grandezza di un prete la conosce solo Iddio, nella solitudine, dopo una giornata intensa, quando ci si inginocchia in sentimento di fede e lo si prega, in umiltà. Molto meglio essere considerati “ministri della pazienza di Dio”, che Egli ha scelto: “non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi”. Anche un gesto piccolo, insignificante, se è sfiorato dalla carità, subito si trasforma, si trasfigura, diventa sublime perché è stato fatto per amore di Cristo. Un altro pensiero. I due aspetti caratteristici della carità divina nel cuore di un prete sono la gratitudine e la misericordia. Ambedue si incontrano nella messa, che non è altro se non la carità del Padre per noi, la carità del Figlio per noi e per il Padre, la carità dello Spirito che ci unisce al Padre e al Figlio. È la nostra più grande ricompensa, quella che ci fa dire in certi momenti di solitudine: Signore grazie per avermi interpellato, scelto, fatto tuo strumento di santità. Questa è l’infinita bellezza del sacerdozio. Adesso voglio ricordare alcune stupende parole di una persona che il Signore mi ha fatto incontrare tanti anni fa: il prof. Medi: «Tu solo, sacerdote, portatore del messaggio di Cristo, puoi donare al mondo la vera pace e la vera gioia e la vera serenità. Io ti ammiro, o sacerdote, nel mistero della tua preghiera per noi. Prega tu, sacerdote, per noi. Simile a noi e da noi dissimile; nostro fratello ed espressione del divino; da Dio e dagli uomini sei scelto mediatore tra la terra e il cielo. Noi abbiamo bisogno di te come dell’aria pura e di una visione di candore; dobbiamo saperti al di sopra della nostra miseria e banalità; vogliamo pensarti espressione del divino, trasparenza di Gesù che in mezzo a noi passa ancora, in te benedicendo e sanando tutti. Tutti noi siamo feriti: per colpa di altri o per colpa nostra. E alle nostre ferite non è né l’olio né l’aceto dell’antico samaritano che porta sollievo; né porta guarigione la gamma dei moderni antibiotici, ma solo il Sangue di Cristo. Tu, o sacerdote, lo possiedi questo Sangue; solo tu lo possiedi. Daccelo, dunque, e spargilo con abbondanza su di noi: che ci purifichi, e ci santifichi, e ci trasformi». Caro Pasquale, hai sentito quali parole un povero prete può suscitare nel cuore di un uomo illustre? Si pensa di non essere apprezzati, di non essere neppure considerati e invece… il sacerdote viene considerato, eccome! Eppure, nel contempo, altri gli rivolgono ogni sorta di epiteti,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 molto spesso duretti e sarcastici. C’è chi la vuole cotta e chi la vuole cruda: ma il sacerdote deve andare per la sua strada e pensare solo a seminare. L’importante è che non si perda d’animo nel gettare la sementa, anche se spesso ne passa del tempo prima di veder spuntare le spighe! Ma non è mai solo perché il Signore è con lui. In effetti l’arma più potente di cui dispone il sacerdote è il Vangelo: la Parola di Dio, alla quale, però, deve unire il proprio operato, la propria vita specchiata. È questa la vera “arma” del prete, più delle tante parole, di tanto spesso vano prodigarsi, di tanto efficientismo. Ci ricorda il S. Padre che «gli uomini d’oggi sono stanchi di parole. Ne hanno sentite e ne sentono troppe che sono false. Credono più volentieri a ciò che vedono, e a ciò che toccano. Non hanno più tempo di cercare la verità nei libri. Vogliono vederla incarnata. Nell’attuale crisi religiosa i motivi intellettuali sono divenuti secondari. Una risposta dottrinale interessa poco chi non ha la grazia di credere. Una risposta storica è un documento nobilissimo, ma non decisivo. L’unica risposta che colpisce è la testimonianza di vita. Gli uomini moderni non vogliono degli apologeti, vogliono dei testimoni. Oggi il sangue dei testimoni è più urgente dell’inchiostro degli scrittori». E, collegandomi a questo pensiero saggio e illuminato, mi sento di condividere con te, caro don Pasquale, e con tutti voi un ultimo pensiero che forse oggi è comune a quanti si affidano a noi e che può essere preghiera e richiesta (sempre del Professor Enrico Medi): «Sacerdoti, io non sono prete, e non sono stato mai degno di poterlo diventare. Come fate a vivere dopo aver celebrato la Messa? Ogni giorno avete il Figlio di Dio nelle vostre mani. Ogni giorno avete una potenza che Michele Arcangelo non ha. Con la vostra bocca voi trasformate la sostanza del pane in quella del Corpo di Cristo; voi obbligate il Figlio di Dio a scendere sull’altare. Siete grandi. Siete creature immense. Le più potenti che possano esistere.

Sacerdoti, ve ne scongiuriamo, siate santi! Se siete santi voi noi siamo salvi. Se non siete santi voi, siamo perduti

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Sacerdoti, noi vi vogliamo ai piedi dell’Altare. A costruire opere, fabbricati, giornali, a correre di qua e di là in “Lambretta” o con la “1100”, siamo capaci noi. Ma a pregare siete capaci solo voi. State accanto all’Altare. Andate a tenere compagnia al Signore. Preghiera e Tabernacolo. Tabernacolo e Preghiera. Abbiamo bisogno di quello. Nostro Signore è solo, è abbandonato. Le Chiese si riempiono soltanto per la Messa. Cosa stupenda! Ma Gesù ci sta 24 ore su 24 e chiama le anime, chiama te sacerdote, chiama noi:”Tienimi compagnia, dimmi una parola. Dammi un sorriso, ricordati che t’amo. Dimmi soltanto passando: ‘Amore mio, ti voglio, tanto bene!’. Ed io ti coprirò di ogni consolazione e di ogni conforto» Caro don Pasquale, carissimi confratelli, la gente vuole vedere sacerdoti : “Sorridenti e fermi, intelligenti e non spacconi, non vani; insofferenti della lode e incapaci di blandire; silenziosi di regola, ma in possesso della parola giusta, della parola buona; mortificati e vivi, tutti a Dio e supremamente umani”. È il ritratto di tanti preti che ho incontrato e conosciuto e che vorrei continuare ad incontrare e conoscere. “Il prete è prete, o non è niente”. Di un “Prete scarico, che ha fatto le esequie alla speranza cosa se ne fa la gente?”. Bada di non esser caparbio: la testardaggine è sempre una macchia in chiunque, ma nel pastore d’anime è marchio che lo degrada. Il sacerdote deve essere immune da bizzarrie d’umore e più che mai dai capricci ostinati che getterebbero tanta ombra su di lui. Predisponiti, ogni tanto, a fare un passo indietro e guardare lontano. Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi; esso è oltre la nostra visione. Nella nostra vita realizziamo solo una piccolissima parte di quel magnifico progetto che è l’Opera del Signore… Niente di ciò che facciamo è completo…. Nessuna predica dice tutto ciò che andrebbe detto. Nessuna preghiera esprime totalmente la nostra fede. Nessuna confessione porta alla perfezione. Nessun programma compie la missione della Chiesa.

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Questo è quello che facciamo: PIANTIAMO SEMI che un giorno cresceranno, sapendo che essi conservano una promessa per il futuro… Non possiamo fare tutto, e il comprenderlo dà un senso di liberazione.

Ci abilita a fare QUALCOSA, e a farlo molto bene. un’opportunità perché la grazia del Signore possa entrare in te e fare il resto.

Forse non vedremo mai i risultati finali, ma questa è la differenza tra il Capo Costruttore e l’operaio. Noi siamo operai, non Capi Costruttori… Siamo profeti di un futuro che non è nostro. Lo scrittore Alessandro Baricco fa l’elogio più bello di un prete: “Quando parlava, diceva cose che sembrava dare l’indirizzo del Paradiso”. La gente, lo esprima o no esplicitamente, è questo che desidera avere dal prete… Cari fedeli, Amatelo come il migliore degli amici, a lui aprite il vostro cuore nei momenti di incertezza e di lotta. Caro don Pasquale, mettiti sotto il manto di Maria SS.ma e potrai sognare sogni grandi di santità e di apostolato.

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA IN OCCASIONE DELL’ INCONTRO DI TUTTE LE AGGREGAZIONI LAICALI DELLA DICOESI Cassano Allo Ionio, 21 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, ringrazio mons. Ramundo, responsabile delle Aggregazioni laicali, per avere predisposto questo incontro e ringrazio tutti voi per avere accolto questo invito in questa particolare circostanza che ci vede proiettati alla celebrazione del Santo Natale. In questo tempo d’Avvento ci stiamo preparando ad accogliere una Sapienza tanto antica eppure così nuova e viva. È il Logos, il Verbo, la Sapienza di Dio, che, come scrive San Paolo nella prima lettera ai Corinzi è velata dal mistero, è rimasta occulta, è stata preparata, prima dell’origine dei tempi, per la nostra gloria; una Sapienza che nessuno dei sapienti di questo mondo conobbe. Difatti, nessuna sapienza antica, per quanto dedotta all’affannosa ricerca del Principio, è riuscita a svelare il mistero della verità del Verbo incarnato, dinnanzi al quale ogni speculazione filosofica si arresta, perché incomprensibile, inaccettabile per il pensiero umano, le cui categorie di giudizio e strutture conoscitive ci inducono a ritenere assurdo il mistero di un Verbo incarnato, scandalosa la verità di un Figlio di Dio che si fa uomo per innalzare l’uomo, e diventa povero per farlo diventare ricco. Allora, di quale sapienza oggi l’uomo e il credente di oggi debbono rivestirsi perché il Mistero si sveli integralmente e la fede in Esso diventi testimonianza autentica di vita piena, vissuta in comunione con la sapienza di Dio, con il suo Verbo? L’azione che si svolge nell’umile casa di Nazaret, il dialogo interiore fra l’angelo Gabriele e Maria ci fa scuola rivelandoci che Dio ha affidato al silenzio, alla ricerca interiore, all’umiltà dell’accettazione la grandezza del suo Mistero; ci mostra che solo un cuore umile, puro, “ignorante” può accogliere e contenere il Verbo di Dio. L’unico modo in cui Dio si manifesta è il suo eterno manifestarsi con la Parola: questo mistero, trascendendo i rumori del mondo e della mente umana, scaturisce dal silenzio. Per poter credere, per entrare a far parte del Mistero, è necessario mettersi muti in raccoglimento, giacché solo così “permettiamo all’Altro di parlare, quando e come verrà, e a noi di comprendere quella Parola” (Giovanni Paolo II). Non è forse stato questo l’atteggiamento di Maria? Ella dinnanzi all’angelo è silenziosa, ascolta la Parola per riempirsi di Essa. Maria è

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 ricca di una sapienza che oggi non afferriamo, una sapienza che si riconosce vana senza la verità di Dio, fallimentare senza la forza di Dio, vuota e sterile senza il contenuto di Dio. Maria si è chiusa nel silenzio perché la Parola di Dio avesse voce e carne. Il suo silenzio ha fatto spazio a quello di Dio, che non è assenza di parole, né uno stato di oblio, di vuoto, di nulla, bensì vita, la vita stessa di Dio. Quell’incontro ha fatto sì che in Maria si compisse il Mistero, prendesse forma ciò che fino a quel momento era solo Voce e Silenzio: in Maria il Verbo si è fatto carne. Solo una fede vera, autentica, riservata e umile come la Sua poteva fare spazio dentro di sé alla Parola. Allora, mettersi alla scuola di Maria significa recuperare di nuovo l’importanza e il valore del silenzio per rimetterci in contatto con una presenza, alla quale affidare il nostro silenzio perché lo riempia della Sua voce. Così facendo si può sperare, pregando, di recuperare una fede veramente autentica, capace nell’umiltà di testimoniare Cristo, Verbo di Dio, senza parole ma con la vita. Una vita che sa fare dono del proprio tempo, come Dio stesso per amore ce ne ha fatto dono. Sì, carissimi, ci prepriamo ad accogliere un Dio che, contrariamente a quanto noi spesso ripetiamo, cioè di “non avere tempo”, ci dona il suo tempo. Egli è entrato nella storia con la sua Parola e con la Sua opera di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di redenzione e di amore. In questa prospettiva accogliamo il tempo di Dio come dono, e noi che ci professiamo innamorati di Lui, offriamo il nostro tempo in dono agli altri e con esso tutto ciò che il tempo di Dio ci ha elargito in dono. Carissimi, non date un valore superficiale a questo atto di donazione, ma riempitelo del significato che gli è dovuto: dare al prossimo è sapienza nel pronunciare con gioia e nel silenzio il sì, che costa tanto, alla volontà di Dio. E adesso mi rivolgo a voi, rappresentanti dei movimenti presenti in diocesi, che in questa quarta domenica d’Avvento avete deciso di riunirvi attorno al vostro Vescovo. Siate voi i primi veri e sinceri discepoli della scuola di Maria: siate amanti della Parola, fatela germogliare nel silenzio del vostro cuore e, senza troppo rumore, spargetene i semi nel cuore degli uomini. Sì proprio voi, siete chiamati per primi a far dono del vostro tempo. Perché voi siete “uno dei doni dello Spirito al nostro tempo” e dallo Spirito ricevete la vostra specificità carismatica, i vostri doni, e il vostro posto nella Chiesa, valorizzandone e rafforzandone l’efficacia pastorale.

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I movimenti ecclesiali sono una delle novità più importanti suscitate dallo Spirito Santo nella Chiesa per l’attuazione del Concilio Vaticano II. Si diffusero negli anni immediatamente successivi all’assise conciliare, in un periodo carico di entusiasmanti promesse, ma segnato anche da difficili prove. Paolo VI e Giovanni Paolo II seppero accogliere e discernere, incoraggiare e promuovere l’imprevista irruzione delle nuove realtà laicali che, in forme varie e sorprendenti, ridonavano vitalità, fede e speranza a tutta la Chiesa. Già allora, infatti, rendevano testimonianza della gioia, della ragionevolezza e della bellezza di essere cristiani, mostrandosi grati di appartenere al mistero di comunione che è la Chiesa. Abbiamo assistito al risveglio di un vigoroso slancio missionario rivolto a comunicare a tutti la preziosa esperienza dell’incontro con Cristo, avvertita e vissuta come la sola risposta adeguata alla profonda sete di verità e di felicità del cuore umano. Come non rendersi conto, nel contempo, che una tale novità attende ancora di essere adeguatamente compresa alla luce del disegno di Dio e della missione della Chiesa negli scenari del nostro tempo? Proprio per questo vi sono stati numerosi interventi di richiamo e di orientamento da parte dei Pontefici, che hanno avviato un dialogo e una collaborazione sempre più approfonditi a livello di tante Chiese particolari. Sono stati superati non pochi pregiudizi, resistenze e tensioni. Oggi resta da assolvere l’importante compito di promuovere una più matura comunione di tutte le componenti ecclesiali, perché tutti i carismi, nel rispetto della loro specificità, possano pienamente e liberamente contribuire all’edificazione dell’unico Corpo di Cristo. I fedeli laici sono chiamati a vivere la vita secondo lo Spirito rimanendo inseriti nelle variegate e ordinarie condizioni dell’esistenza quotidiana, nella certezza che né la cura della famiglia, né gli altri impegni secolari devono essere estranei all’orientamento spirituale della vita: è questa la modalità peculiare che caratterizza il loro cammino vocazionale e di santità. La Chiesa di Dio che è in Cassano, in sintonia con l’ecclesiologia di comunione del Vaticano II, si sente responsabilmente impegnata a riconoscere e ad accogliere le diverse aggregazioni laicali che rispondono alla normativa canonica e ai criteri di ecclesialità indicati dal magistero della Chiesa, sollecitando e valorizzandone l’apporto nel progetto pastorale diocesano e parrocchiale. La diversità delle aggregazioni laicali presenti in diocesi, che è un segno di ricchezza per la Chiesa cassanese, rende necessaria un’azione

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 convergente e unitaria delle aggregazioni stesse, perché si mettano sempre più a servizio delle comunità, se ne sentano parte viva e ricerchino in ogni modo l’unità, anche pastorale, con la Chiesa particolare e con le parrocchie. Tuttavia, vogliate operare sempre nell’umiltà e nel silenzio, per evitare che la distrazione proveniente da rumori e note stonate possa ostacolare la comunionalità fra di voi e le linee pastorali della Diocesi, del vostro Vescovo. Molti possono essere i rischi in tante diversità e specificità se non vengono ben armonizzate. Un primo rischio è quello dell’unilateralismo, cioè nel volere interpretare in modo esagerato il carisma del movimento, ritenendo che la propria esperienza spirituale esaurisca, da sola, l’integralità del messaggio evangelico, fino a ritenere che il movimento sia “la” Chiesa. È necessario ribadire che la Chiesa una, santa e cattolica trova la sua espressione più concreta nella Diocesi, la quale a sua volta si suddivide nelle parrocchie. Nella Chiesa locale, radunata attorno al Vescovo, e nella parrocchia, che è la Chiesa “feriale”, la Chiesa “che vive tra le case della gente”, noi troviamo l’immagine teologicamente più significativa della Ekklesìa intesa come popolo di Dio: comunità che amalgama tutte le differenze di età, di sesso, di classe sociale e diventa luogo ordinario dell’iniziazione cristiana, della catechesi, dell’Eucaristia domenicale. I movimenti, i gruppi, le associazioni trovano posto all’interno di questa comunità, che sempre più è chiamata a configurarsi come “comunione di comunità”, dando spazio ai diversi carismi, sulla base di un preciso progetto pastorale. Il secondo rischio nel quale i movimenti possono incorrere è la tensione con la comunità locale. La parrocchia può talora mostrarsi non favorevole ai movimenti, perché vi scorge elementi di disturbo, alla pastorale ordinaria, “imponendo” un aggiornamento, un “ringiovanimento”. I movimenti, dal canto loro, possono vedere nella parrocchia solo una decrepita “stazione di servizio del sacro”, autocandidandosi come gli unici depositari della salvezza… Come ho appena detto entrambi gli atteggiamenti sono sbagliati. Le due parti devono lasciarsi educare dallo Spirito Santo, pensando di non essere alternative, ma anzi ad essere chiamate a vivere una sana complementarietà. Carissimi, qualora riscontriate che questi rischi siano dietro l’angolo, vi invito al raccoglimento per riscoprire la sola direzione verso la quale tutti tendiamo: Cristo. Attingete forza e vigore dalla sua Parola, ritornate ad essa e se vi accorgerete che le avete lasciato poco spazio nel vostro

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 cuore, impedendole di parlarvi. È doveroso fermarsi, mettersi in silenzio e ridarle la voce e il posto che le è dovuto. Poiché voi siete la maniera valida per dire la fede all’uomo del nostro tempo, è necessario che prima di tutto siate voi ad avere una fede genuina, autentica, umile e discreta. Ci ricorda S.S. Paolo VI “se noi amiamo veramente Gesù, dobbiamo avere una vera stima, simpatia, servizio, tolleranza per tutti i nostri fratelli”. Carissimi fratelli e sorelle, pronunciate sempre, con gioia rinnovata e nel silenzio del cuore il vostro sì all’invito di Dio: donate il vostro tempo, le vostre energie, i vostri doni ai fratelli. In una parola, donate voi stessi. Solo così sarete comunicatori credibili agli uomini e alle donne del nostro tempo del “brivido santo della nostra fede”, risvegliando nei cuori la fame e sete di Dio. La nostra Diocesi e il Vescovo guardano a voi con grande fiducia, certi che il Signore – anche attraverso la vostra testimonianza – farà cose meravigliose e rinnoverà con il suo Spirito il cuore dell’uomo. Mentre depongo questi nobili propositi nel cuore della Madonna e del Signore che viene, lascio alla fantasia pastorale dei confratelli Parroci e Assistenti tutto ciò che lo Spirito Santo suggerisce loro per la crescita del Regno di Cristo Signore.

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA IN OCCASIONE DELL’INCONTRO DELLE SOCIETÀ SPORTIVE PARROCCHIA SS. TRINITÀ Castrovillari, 22 Dicembre 2008

Carissimi amici, è con grande gioia che celebro l’Eucarestia con voi e per voi in questo giorno che possiamo definire il natale degli sportivi. Come in ogni eucaristia, la nostra riflessione deve fondarsi sulla parola di Dio. Il Magnificat, appena ascoltato, è un canto che ha il Signore come protagonista e permette di comprendere chi sia Dio per Maria, insegnando a capire, al tempo stesso, chi sia Dio per noi. La risposta è data proprio dal Magnificat: Egli è l’Onnipotente, il Santo, il Misericordioso, Colui che è fedele, il Salvatore. Sono tutte definizioni che ci fanno sentire Dio presente nella nostra storia. Maria, ad esempio, lo sperimenta come Colui che ne trasforma l’esistenza. Ella lo contempla e lo percepisce in tutta la sua sovranità, dopo averne già sperimentato la potenza. Per questo lo riconosce come l’Onnipotente e dice: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”, un titolo che risale ai Padri. Così l’hanno sperimentato Abramo, Isacco e Giacobbe nel momento in cui Dio ha stretto con loro un’alleanza carica di promesse, entrando nella loro vita per iniziare una storia di salvezza estesa all’umanità intera. Maria, in particolare, contemplandolo come il Santo, non lo vede separato dal mondo degli uomini. Questa constatazione è possibile anche a noi, semplicemente guardando alla gente impegnata nel bene e in una vita onesta. È il Santo che agisce nella nostra quotidianità, perché “è Misericordioso e fedele”. Per mantenere la sua fedeltà all’uomo con cui vuole entrare in Alleanza, infatti, Dio deve essere Misericordioso. L’uomo può trovarsi in difficoltà e cadere nell’infedeltà: solo la misericordia, la fedeltà, la bontà, la compassione può farsi perdono, riconciliazione, salvezza. Per questo il Dio dei Padri si rivela anche come il Dio “Salvatore”. Maria, la piena di grazia, non a caso chiama Dio “mio Salvatore” e dice: “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. Sono frasi che ci fanno avvertire il senso della grande rivoluzione

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 divina, compiuta senza spargimento di sangue, perché tutto tende a una totale riconciliazione. Certo, Egli non sopporta i superbi nei pensieri del loro cuore; detesta i potenti che abusano del loro potere; aborrisce i ricchi che disprezzano i poveri. Egli non tollera distinzioni sociali, perché vuole che tutti vivano da fratelli, ma non vuole distruggere e annientare i superbi e i ricchi: li vuole convertire; vuole togliere la superbia dal loro cuore e mettervi l’amore; vuole che la potenza e il potere siano veramente al servizio degli umili; vuole che i sazi riempiano di beni la mensa degli affamati. Perciò si avvicina anche ai ricchi, a coloro che si sentono sazi ed esorta: “Date in elemosina quello che avete nel piatto” (Lc 11,41). L’insegnamento è chiaro: la rivoluzione di Dio cantata da Maria indica il progetto di Dio sull’umanità: costruire una comunità di fratelli perché la parola d’ordine è unica: “fare comunione”. È la conclusione più logica del Magnificat, e ci aiuta a comprendere come proprio in questo farsi comunione possano rinvenirsi pure le radici cristiane dello sport, la cui natura originaria è quella di essere “gioco”, caratteristica che non dovrebbe mai essere dimenticata, nemmeno nelle circostanze più accese in vista del successo, nel corso delle quali lo sport, così idolatrato, genera stupidità e spesso colpisce la famiglia, che talora non ha altra materia di dialogo se non le sfide sportive e fa dello schermo acceso sulla solita partita l’unico interesse comune. Lo sport, in effetti, nell’era della globalizzazione, è in grado di superare barriere geografiche, sociali ed economiche, ma anche di creare “un’industria del tempo libero” che produce sogni di potenza e di successo. Per molte persone esso è diventato uno stile di vita, e per non pochi uomini e donne è un surrogato dell’esperienza religiosa: nella società secolarizzata, gli spettacoli sportivi hanno assunto il carattere di rituali collettivi. Stadi e palestre sono così divenuti templi del nuovo culto. A questo processo si è accompagnato, poi, un cambiamento del rapporto dell’uomo con il proprio corpo. Dalla cura del corpo si è passati ad un culto deteriore del corpo. Questo non significa disistima e svalutazione. Al contrario: il gioco risulta essere, tra le operazioni umane, una delle più serie. L’uomo, in una visione davvero “cattolica” (cioè “secondo il tutto”), non è solo “faber” o “sapiens”; è anche “ludens”. Ed è proprio lo spazio dato alla dimensione “ludica” a sottrarlo all’asservimento agli schemi tirannici della produzione e del consumo, restituendolo alla consapevolezza di essere spiritualmente libero e signore di sé, rendendolo più grande delle sue necessità

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 inderogabili, delle sue funzioni obbligatorie, dei suoi condizionamenti vincolanti. Lo sport, però, attiene non solo al concetto di “gioco”, ma anche a quello di “corpo”: è’ ritenuto sportivo soltanto un gioco che comporti un’attività anche fisica e non solo mentale. E pure qui ci soccorre, per una giusta visione delle cose, la concezione antropologica davvero “cattolica”: l’uomo possiede non solo un’anima - principio di conoscenza spirituale, di volizione e di amore - ma anche delle membra corporee. La formazione umana integrale non può perciò disattendere nessuna di queste componenti, anche se deve avvalorarle secondo un ordine che ne rispetti la rilevanza oggettiva. E’ significativa, in proposito, la frequenza con cui san Paolo prende a prestito per il suo magistero paragoni sportivi, in specie la corsa, la lotta, il pugilato. Ciò denota in lui considerazione e sollecitudine verso lo sport, pur non mancando gli inviti a voler considerare la “pietà” (cioè la vita di fede e il rapporto con Dio) più utile di ogni esercizio fisico, dato che essa porta con sè una migliore promessa non solo per la vita presente, ma anche per quella futura (cfr. 1Tm 4, 8). È anche prezioso mantenere un atteggiamento schivo, sobrio, scevro da concezioni da superuomini, che indulgono all’autoglorificazione, alla vanità gratuita e inconcludente, oltre che irritante e pericolosa. Bisogna ricordare che la vita può anche essere metaforicamente vista come una competizione purché si rispettino le regole. Sono certo che per voi lo sport è una cosa sana, vi porta ad una maturazione interiore, che va di pari passo con la crescita del corpo e quindi favorisce un armonioso sviluppo. La Chiesa vede maternamente e realisticamente nello sport una ginnastica delle membra ed una dello spirito; un esercizio di educazione fisica e un esercizio di educazione morale: perciò ammira, approva, incoraggia lo sport nelle sue varie forme, attività e discipline. Dalla disciplina sportiva ci si aspetta che si sviluppino uomini moralmente più forti, più leali, più generosi. È questo l’augurio di Natale che io vi rivolgo: abbiate cura del corpo e dello spirito, sviluppate i muscoli, ricordate che lo sport serve ad affratellare e ad imparare a rispettare l’avversario, ma allenatevi anche i valori spirituali perché possiate essere un “segno” nella società e, soprattutto, un punto di riferimento per coloro che ricorrono a voi. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

INDIRIZZO AUGURALE DEL VESCOVO AI MEMBRI DELLA CURIA DIOCESANA IN PROSSIMITA’ DEL NATALE Cassano Allo Ionio, 23 dicembre 2008

Carissimi confratelli nel sacerdozio, vi ringrazio di cuore per la vostra presenza e per il gesto di squisita attenzione che stando qui esprimete nei miei confronti. È un bel segno di comunione e di affetto ministeriale che ci lega in Cristo per il servizio del suo popolo in questa nostra Chiesa particolare. Saluto e ringrazio in particolare Mons. Vicario per aver invitato i sacerdoti e per le parole beneaugurali che mi ha espresso e colgo l’occasione della vostra presenza per condividere con voi alcuni pensieri che mi stanno particolarmente a cuore. Innanzitutto il mio rinnovato ringraziamento al Signore per la Sua continua benevolenza, perché non ci lascia soli, perché cammina sempre con noi. In moltissimi modi, in questi mesi di ministero in mezzo a voi, il Signore mi ha fatto cogliere continui segni della sua presenza. Deo gratias! Il vero “grazie” raggiunga ciascuno di voi in modo individuale perché condividete con il vostro vescovo la cura di questo popolo tanto caro, assetato della Parola di Dio, desideroso di contemplare il Suo Santo Volto in tutte le occasioni che gli vengono offerte. Grazie anche perché riuscite a coinvolgere bene la nostra gente nelle iniziative diocesane. Penso, in particolare alla numerosa e qualificata partecipazione ai Convegni, ma anche a tutte le altre opportunità di comunione e di incontro. Tutto e sempre a gloria di Dio! La nostra è gente buona, semplice, attenta e partecipe alla vita e alle necessità della Chiesa! Come non ringraziare il Signore per tutto questo se non con un sempre maggiore impegno nella preghiera e nell’apostolato, nella formazione e nell’approfondimento del mistero di Cristo e della Chiesa? La pubblicazione e la diffusione degli Atti dei nostri Convegni è un’ulteriore possibilità di far raccogliere fino all’ultima goccia l’inesauribile dono di Dio che ci è stato offerto. In questi mesi tante sono state le cose che, grazie alla vostra collaborazione e a quella di preziosi laici, abbiamo visto fiorire in questa nostra Diocesi. Ringrazio quanti si sono attivamente coinvolti per far partire, sostenere e diffondere il nostro mensile diocesano “L’Abbraccio”. È

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 davvero straordinario quello che in un anno è accaduto. Tutto è Grazia di Dio, tutto a gloria sua e per il bene delle anime. Grazie davvero e di cuore a tutti coloro che, avvertendo il desiderio di stringersi sempre più strettamente alla Chiesa, a questa nostra Chiesa di Cassano, hanno sostenuto e diffuso il nostro “Abbraccio”! Altri strumenti di informazione e di comunione che in questi mesi sono stati perfezionati sono il nostro bellissimo sito diocesano, l’Annuario e il Bollettino diocesano quadrimestrale che puntualmente, grazie allo sforzo dei preziosi collaboratori, viene stampato e diffuso. Altro ringraziamento “speciale” va a tutti coloro che collaborano con la Curia, gli officiali, i coordinatori di settore, i direttori degli uffici, i presidenti e i membri di tutte le commissioni ed ai diversi collaboratori che in silenzio offrono la loro preziosa collaborazione. Un ringraziamento particolare va ai Vicari Foranei. Carissimi confratelli, in questi mesi vi sono state offerte anche varie pubblicazioni. Oltre altre agli atti dei nostri tre convegni e alle mie due Lettere pastorali vi ricordo le tre “istruzioni” sulla Lectio divina, l’Ordo virginum e l’Ordo viduarum, il decreto sulla celebrazione dell’Eucaristia e le relative offerte, il vademecum sulla buona amministrazione e i regolamenti del Collegio dei consultori, dei Consigli pastorali diocesano e parrocchiali e dei Consigli per gli affari economici diocesani e parrocchiali. Tutto quanto è stato fatto e che si va facendo ha come obbiettivo, per noi presbiteri, quello di far maturare la “carità pastorale” (PDV), espressione con la quale il Servo di Dio Giovanni Paolo II sintetizzava quell’insieme di doti umane e di virtù cristiane richieste ad un presbitero impegnato nell’attività pastorale di una parrocchia, di cui ora farò un breve cenno. Accenno ad alcune di queste doti. La prima è quella di un “animo pacificato” che traspare dal volto disteso, dal parlare costruttivo, dalla presenza discreta, dalla propensione all’ascolto, frutto di un fondamentale equilibrio tra una piena ed appagante relazione con il Signore, alimentata dalla preghiera profonda e fedele, e da un’umile e realistica comunione con le persone. L’animo pacificato non si preoccupa di apparire, di vedere subito risultati, ma preferisce fugare, combattere le gelosie, le rivendicazioni egoistiche e, così facendo, non perde e non fa perdere la serenità ne la gioia. Una seconda dote da coltivare è la “corresponsabilità presbiterale”. Non è pensabile la figura del prete solitario che “regge” una parrocchia in

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 maniera autonoma, seguendo le proprie intuizioni personali, per quanto possano essere valide. Ogni servizio pastorale comporta impegno e responsabilità di tutto il presbiterio sotto la guida e l’animazione dal vescovo. Ciò comporta il coraggio del discernimento personale e comunitario, di un lavoro generosamente e sistematicamente prestato, l’onestà della stima e della fiducia reciproche. Da ciò nasce il sostegno fraterno, lo scambio di competenze e di esperienze. Una terza qualità è “la passione per la missione”, che equivale a “scaldarsi il cuore” con la fede delle persone affidate alle nostre cure, per sostenerla nelle difficoltà e farla fiorire là dove è stata solo seminata, ma anche per annunciarla con la parola e con la testimonianza. Questa “passione”, alimentata da una vita interiore ricca, vince la pigrizia, “scommette” sull’azione misteriosa della Grazia, vivifica di nuova di speranza le nostre fatiche. Attraverso le doti e le virtù, cui faceva riferimento il Papa Giovanni Paolo II, passa quell’amore per Dio e per gli uomini che abbiamo voluto mettere come scopo della nostra vita. Tra le iniziative dell’immediato futuro, ho particolarmente a cuore quella della promozione della festa del Santo Patrono della Diocesi, San Biagio, che deve diventare esemplare per tutte le parrocchie della Diocesi (quest’anno, dopo molto tempo, ripristineremo anche la processione e durante la S. Messa ordinerò diacono il giovane Gabriel Aind) e soprattutto quella delle Missioni popolari da farsi in tutte le Parrocchie della nostra Diocesi e che sarà inaugurata il prossimo 23 gennaio. La Missione popolare è un momento di “annuncio straordinario” della Parola di Dio, che chiama ogni uomo alla conversione allo scopo di rifondare o far lievitare la comunità cristiana, trasformandola da evangelizzata a evangelizzatrice. Questa si inserisce nei programmi pastorali della Chiesa particolare e contribuisce a realizzarli. Rispetta i ritmi vitali della comunità, aiuta a verificare i programmi o ad iniziare un cammino. La missione, pur non presentando alcuna novità nel contesto della vita sacramentaria e nell’esercizio della carità, mette in movimento un insieme di energie naturali e soprannaturali che nella pastorale ordinaria difficilmente si sprigionano. È un evento che si innesta nella pastorale ordinaria per finalizzarla allo stile pastorale missionario. E’ mio vivo desiderio, perciò, che questo momento di grazia straordinaria che il Signore vuole offrici sia organizzato nel migliore dei modi perché tutti, noi per primi, possiamo beneficiarne. Pubblicando i cinque Inni sacri (tra i quali, appunto, Il Natale) Alessandro Manzoni volle che la propria poesia celebrasse la religione

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 sentita come un elemento cardine della formazione della vita. Nel “Natale” egli parla dell’evento unico nella storia e irripetibile dell’Incarnazione e delle conseguenze eterne che esso ebbe, ha ed avrà, affidandosi ad una metafora: un enorme masso che, staccandosi da un ripido e spiovente dorso montano, precipita a valle provocando nella sua rovinosa discesa una frana che ogni cosa travolge fino a che, con un tonfo rumorosamente e provocando sgomento, si arresta a valle. Trovo la metafora formidabile ed efficace anche per il nostro tempo e anche per noi sacerdoti. Il mistero del Natale deve “scomodarci”, deve ridestare in noi il ricordo vivissimo di quel giorno in cui ci siamo sentiti “afferrati da Cristo” e abbiamo lasciato tutto per seguirlo. La tentazione dell’accomodarsi è sempre alle porte così come quella di ricercare i nostri personali interessi anziché quelli di Cristo e del suo popolo. In tutto ciò potremmo essere presi dalla “stanchezza della comunione” che ci fa vedere nel fratello o nel confratello non un compagno di cammino ma, in un certo qual modo, un antagonista. Desidero, perciò, formularvi gli auguri natalizi, facendo mio l’invito dell’Apostolo Paolo: «Gareggiamo nello stimarci a vicenda! Amiamoci gli uni gli altri con affetto fraterno! Siamo solleciti per le necessità dei fratelli! Abbiamo i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri!» (cfr. Rm 12,10-16). Con il cuore in mano vi prego: siate sempre docili alla parola e alle indicazioni di colui che il Signore ha mandato come vostro Vescovo! Sostenetemi con la vostra amicizia, con la vostra preghiera. Mettiamo in comune le nostre risorse per far brillare il volto della nostra Chiesa di Cassano, ricordando sempre che solo la carità, solo l’amore, renderanno possibile la composizione del mosaico stupendo del Regno di Dio in essa. In questo anno dedicato alla figura dell’Apostolo Paolo facciamo memoria dell’esperienza della comunità di Corinto a cui l’Apostolo indirizza la sua prima lettera. Una comunità dove certamente non mancavano i carismi: il dono delle lingue, la profezia, la conoscenza e la fede taumaturgica, la capacità di compiere grandi opere di bene e persino del gesto, estremo e nobile, di offrire il proprio corpo. Ma tutto questo senza l’amore, senza la carità, è niente, tutto è vuoto, tutto è vanità. San Paolo sottolinea con finezza il limite d’ogni comportamento umano, anche il più eroico, quando non procede dalla carità. È come se egli dicesse: senza la carità si possono parlare tutte le lingue, ma non si comunica nulla; si possono fare cose straordinarie, anche miracoli, ma non si edifica nulla dentro di sé; si può anche giungere a dare

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 tutto in maniera assai generosa, persino a spogliarsi della vita, ma senza riuscire ad evitare che ciò si traduca nella rappresentazione d’un inutile vanto, d’un vuoto desiderio di autoaffermazione che non fa crescere nella relazione con Dio. La comunione ha anche bisogno di rispetto reciproco, che ciascuno sia consapevole del proprio ruolo, del posto che deve occupare, che non lo oltrepassi ledendo così in qualche modo i diritti o il posto dell’altro fratello. Queste regole di buon senso e di semplice convivenza rendono più agevole la vita ecclesiale e favoriscono l’amicizia e l’amore reciproco. E allora, carissimi confratelli, camminiamo con fiducia sulla strada della Carità, sui sentieri dell’Amore. Sono certo che percorrendo questo itinerario – difficile e bellissimo ad un tempo perché ci porta nel cuore stesso del mistero di Dio – non solo moltiplicheremo il frutto dei nostri sforzi pastorali, diventando città collocata sopra il monte e lucerna accesa che fa’ luce nelle tenebre che spesso attanagliano il nostro cuore e quello dei nostri fratelli, ma anche che il Signore ci benedirà con il dono di numerose e sante vocazioni di particolare consacrazione nel sacerdozio e nella vita religiosa. Il Signore Gesù viene ancora a noi in questo Natale per illuminare le nostre tenebre, quelle di ogni uomo, le tenebre del mondo: facciamo sì che Egli torni a nascere attraverso l’esperienza del nostro amore fraterno, della nostra comunione sacerdotale! In questo modo la nostra Diocesi sarà una piccola Betlemme in cui i miti e gli umili di cuore sentiranno il profumo del “pane fresco” spezzato da mani che hanno il sapore della comunione. Auguri di cuore!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA NELLA S. MESSA DI NATALE CASA CIRCONDARIALE Castrovillari, 24 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, in vista del Natale, non poteva mancare una visita fra voi e per questo ho accolto volentieri l’invito che il direttore mi ha rivolto, lo saluto cordialmente insieme ai responsabili della Casa circondariale, agli agenti di custodia ed al personale che a vario titolo qui lavora. Un caro saluto va a don Nicola Arcuri ed ai volontari. Allo stesso modo, saluto ciascuno di voi, che qui siete detenuti, e vi sono grato per i sinceri sentimenti di affetto che ogni volta manifestate nei miei riguardi. Sono qui per testimoniarvi affettuosa condivisione e profonda solidarietà, a Natale che arriva, inquieto e gravido di preoccupazioni, per la precaria situazione economica e per il configurarsi d’una società in cui pare non esserci più posto per il messaggio cristiano. Pubblicando i cinque “Inni sacri”, tra i quali “Il Natale”, Alessandro Manzoni indicò nella religione un elemento cardine della formazione della vita. Egli parla dell’evento dell’Incarnazione, unico nella storia e irripetibile, e delle conseguenze eterne che esso ebbe, ha ed avrà, affidandosi ad una metafora: un enorme masso che, staccandosi da un ripido e spiovente dorso montano, precipita a valle provocando nella sua rovinosa discesa una frana che ogni cosa travolge fino a che con un tonfo, rumorosamente e provocando sgomento, si arresta a valle. Descrizione formidabile ed efficace anche per la nostra epoca: oggi come due secoli fa, le coscienze sono evidentemente impigrite e distratte dal dilagare del pensiero debole; l’egoismo, l’indifferenza religiosa e il relativismo la fanno da padroni; le lettere e le arti spesso si comportano come veicoli dell’omologazione al banale e all’indistinto; il tutto, poi, proteso verso un’irragionevole ed estrema laicizzazione, il cui approdo è la desacralizzazione. Nonostante ciò, e proprio per questo con ancora più forza, la Chiesa annuncia la nascita di Cristo. Questo divino evento, più di duemila anni fa, è stato il mezzo con cui Dio ci ha fatto conoscere il suo progetto di bene per vincere il male e liberarci dal peccato. È il Natale, e non è, come scriveva Thomas Merton, «un giorno come gli altri. Non è soltanto un altro giorno nella monotona rotazione del tempo, ma il momento in cui l’eternità entra nel tempo ed il tempo, santificato, viene assunto

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 nell’eternità». Illuminante anche il pensiero di sant’Agostino: «Il Signore nostro Gesù, nascendo, si è fatto nostro salvatore. È nato per noi oggi nel tempo, liberamente, per introdurci eternamente alla vita del Padre. Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio». La Chiesa non discrimina i propri figli, proprio come una mamma. Se tra essi ce ne sono alcuni temporaneamente privati della libertà, perché stanno “pagando – come si usa dire – il debito con la società”, sono dei figli che – anzi – meritano un’attenzione particolare ed una preghiera in più. Quasi a voler dare spiegazione del clamore suscitato da quell’ormai lontana visita in carcere di Giovanni XXIII, in questi giorni il Santo Padre Benedetto XVI ha sottolineato: «Gli uomini e le donne che hanno perso la libertà, non hanno perso la dignità. Anche in questi casi occorre rispettare i diritti umani fondamentali e cercare un recupero e una rieducazione che permetta un reinserimento dei carcerati nella società». Il Papa ha manifestato loro la sua personale vicinanza ed ha assicurato la sua preghiera e benedizione, invitandoli «a non sentirsi soli e a conservare la speranza nel Signore, che è perennemente fedele alle sue promesse di salvezza e che visita la vigna che Lui stesso ha piantato tra gli uomini». Queste parole suonano per la società intera come un monito al cambiamento, uno sprone alla conversione a Cristo, come già tanti, come già ad esempio lo stesso Manzoni, santa Teresina di Lisieux, Claudel o de Foucauld, che a Lui si convertirono proprio in una notte di Natale. Abbiamo un mezzo sicuro: la Parola che fa risplendere la vita (2 Tm 1, 10), che dà splendore e bellezza all’esistenza, che immette e continua a seminare frammenti di sole dentro le vene oscure della storia. Per intraprendere questo cammino di vita nuova, servono coraggio ed un briciolo di saggia follia. La ricetta, l’unica possibile, è quella del ritorno alle origini: a Cristo. Come vivere allora questa parola, che ci esorta a considerare la provvisorietà della vita e della croce? Rispondo: con la speranza, da non perdere mai, perché il Signore è sempre con noi, perché le situazioni si possono sempre cambiare, specie se di questo tentativo ci rendiamo protagonisti con la nostra volontà. Vorrei allora dirvi: innanzitutto, non cedete mai alla tentazione dello scoraggiamento, aggrappatevi alla vita e alla speranza. È questa la strada per aprirsi ad un futuro di riscatto e di vera redenzione. La speranza è come un germoglio, un nuovo inizio di vita. E i germogli possono spuntare dappertutto, anche nei luoghi più aridi, tra le rovine più abbandonate. Sperare significa fidarsi del futuro, preparandolo con pazienza, fedeli agli

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 impegni di oggi ed animati da una fede incrollabile in Dio, che sa trarre il bene pure dal male. Il carcere, visto in tale prospettiva, non apparirà solo come un luogo di castigo, ma anche come occasione di riscatto. Un luogo, il carcere, ed un periodo, quello di detenzione, nei quali la pena che si sconta va orientata alla maturazione della persona ed al recupero dei valori fondamentali, mediante un itinerario di approfondimento della propria identità e di autentica liberazione. Cari amici, se di fronte alle difficoltà della vita riusciamo a sorridere, se sappiamo tendere la mano a chi chiede aiuto, se preferiamo essere lesi piuttosto che fare un torto a qualcuno, se ci mettiamo dalla parte dei deboli senza sentirci migliori degli altri, se accettiamo che il dialogo sia l’unico modo di raggiungere un’intesa, se crediamo che solo l’amore può donare la pace interiore, allora ... viviamo la speranza cristiana e manifestiamo la nostra fede. Ed è Natale! A voi ed ai vostri cari porgo i più sinceri auguri di Buon Natale e di un sereno 2009 all’insegna della speranza, della gioia di vivere, del gusto dell’essenziale, del sapore delle cose semplici, della ricchezza del dialogo, dello stupore, della tenerezza e dell’amicizia. Buon Natale! Amen!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA NELLA NOTTE DEL NATALE Chiesa Cattedrale, 24 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, carissimi confratelli sacerdoti, anche quest’anno ci ritroviamo uniti a celebrare la gioia vera del Natale, che non è il ricordo di un “compleanno eccellente”, quanto piuttosto la manifestazione dell’Amore infinito di Dio che si fa carne per appagare il desiderio, la nostalgia, di infinito e di eterno che alberga nel cuore di ogni uomo. Quest’evento divino, più di duemila anni fa, è stato il mezzo con cui Dio ci ha fatto conoscere il suo progetto di bene per vincere il male e liberarci dal peccato. Quella nascita «ha spalancato la porta oscura del tempo», come ci ha ricordato il Santo Padre nell’enciclica Spe salvi; è la rinascita dell’umanità intera. Similmente, già sant’Agostino sottolineava: «Gesù, nascendo, si è fatto nostro salvatore. È nato per noi oggi nel tempo, liberamente, per introdurci eternamente alla vita del Padre. Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio». Il Natale non può essere ridotto ad una semplice ricorrenza come tante. Per contro, bisogna predisporre il cuore all’ascolto del Verbo, fatto carne, venuto ad abitare in mezzo a noi. La nascita di Gesù non appartiene al lontano passato: si avvera oggi, domani e sempre, essendo Egli il presente senza tempo, la luce del mondo, segno di speranza e di riconciliazione dell’umanità con Dio, dopo la rottura dell’antica alleanza, dovuta al peccato delle origini. Nuovo Adamo, il Figlio dell’uomo incarna il mistero di un disegno soprannaturale, che si realizza con la sua crocifissione, morte e risurrezione. Di conseguenza, il Natale si lega alla Pasqua, la festa più importante per i cristiani, che racchiude la verità centrale della nostra fede e dà significato alla fragilità della condizione umana, non destinata a perire, ma a trasformarsi e vivere della stessa vita di Dio e godere della felicità senza fine. Del resto, se riflettiamo sulla pagina che nel suo vangelo Luca dedica alla Natività, ci accorgiamo di quanto siano rilevanti le coordinate spazio- temporali dell’evento. Le sue puntualizzazioni sull’imperatore romano e sul decreto di Quirino ci dicono che Cristo non è un’idea astratta: è annotato negli anagrafi imperiali, appartiene all’orizzonte di questo nostro mondo. Dunque, l’Incarnazione significa anche lasciare una traccia d’inchiostro negli archivi imperiali, pur se l’augurio è che quella traccia

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 divina d’inchiostro lasci il suo segno nel cuore di ognuno, perché Cristo non resti un pensiero, ma assuma i contorni di una Presenza vera, reale. Invero, la pagina di Luca ci riserva altre sorprese. L’incarnazione ne è senz’altro il centro. Tuttavia, essa ha in sé qualcosa di misterioso: già di per sé, questo fatto di un Dio che si fa bambino è carico di grande mistero e non può che suscitare stupore e meraviglia. Ad esempio, Betlemme: perché proprio Betlemme? Essa è denominata da Luca “città di Dio”, anche se, biblicamente, è Gerusalemme la “città di Dio”. Eppure, in questo dato non vi è nulla di sbagliato: Gesù Cristo, il Figlio di Dio, il suo Verbo, entra nella storia degli uomini per dare concreta attuazione alla speranza Messianica; la sua vicenda non è nuova, ma prosegue il filo dell’eterna storia di Dio, che ha inizio da una promessa, si è consolidata nell’Alleanza con un popolo e, ora, si compie nella visibilità della sua Parola. Emerge qui un altro elemento importante dal racconto di Luca: un bambino che suscita commozione e meraviglia, ma ancor più ciò che si è realizzato in lui: l’incontro del cielo e della terra, che ha aperto un orizzonte nuovo nella storia dell’umanità e dell’esistenza di ciascuno, un orizzonte dal sapore di eterno. San Francesco d’Assisi seppe interpretare bene questo aspetto, creando il presepe di Greccio: una stalla, una mangiatoia, Maria, Giuseppe e il neonato, un asino e un bue, i pastori venuti ad adorare il bambino su invito dei messaggeri celesti. Il presepe è la riproduzione di quell’evento umile e povero, è tra i più umani e quotidiani: una donna che partorisce un figlio. Sì, una nascita, un essere umano che viene al mondo, è già in sé qualcosa che nella sua normalità stupisce: emerge il terzo, appare il nuovo e lo si accoglie con gioia e con buona disposizione del cuore. È un evento di speranza: la vita fiorisce e si moltiplica, segno che un futuro migliore è possibile. Un testo apocrifo egiziano del III secolo mette in bocca a Gesù queste belle parole che racchiudono il senso della Natività: «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto, donde siete caduti». Direi che il Natale è proprio ciò: non la scena sentimentale, emozionale del presepe, che pure aiuta tanto a mediare per noi il mistero del Signore fattosi uomo, bensì la grande rivelazione di un Dio che facendosi uomo diventa fratello, prossimo dell’umanità, proiettandola verso l’infinito, verso l’eterno.

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Sotto questa prospettiva, il canto del Gloria diviene l’inno dell’amore di Dio. Infatti, se attingiamo alla sua versione antica, ci rendiamo conto che gli angeli ai pastori non fanno che cantare, nell’annuncio, il primato dell’amore di Dio: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini della sua buona volontà», cioè agli uomini che sono manifestazione dell’amore di Dio, concepiti dal supremo volere amante di Dio, e quindi a quella volontà naturalmente tesi. Traspare così nitida una certezza: il Gloria è il cantico del grande dono di Dio, il dono della pace, ovvero la possibilità di ritornare all’antico amore che ci ha generati, giacché cielo e terra questa notte si uniscono nello shalom, la grande pace messianica. Pace offerta da Dio e alla fine ricambiata anche da noi, come già accadde più di duemila anni ai pastori. È a loro, e per loro tramite ai semplici, che va l’ultimo pensiero di questa notte di meraviglie: l’annuncio degli angeli viene rivolto , prima d’ogni altro, proprio ai pastori, dal momento che essi hanno un cuore semplice che può accogliere il mistero di quella suprema volontà divina che è volontà di amore e di pace. Solo chi non si lascia deviare da lunghe, complicate e, spesso, vane riflessioni sul mistero della salvezza, o non si fa corrompere dalle frenesie del mondo, abbandonandosi totalmente alle logiche e ai meccanismi dei tempi, può accarezzare, coltivare e realizzare nella propria vita questa nostalgia, questo desiderio della volontà di Dio. Una volontà di pace, di amore e, oggi più che mai, una volontà di unicità. Dio è uno, nella comunione con il Figlio e lo Spirito Santo: come Lui, noi che siamo espressione di questa volontà, non solo da quando siamo stati creati, ma anche, e soprattutto, da quando siamo stati rigenerati in Cristo, dobbiamo essere capaci di una volontà unica, autentica e semplice. Quindi, non più la doppiezza, non la complicazione, non la falsità siano la misura del nostro rapporto con Dio e il prossimo, ma l’unicità, la coerenza, l’autenticità contraddistinguano il nostro modo di amare e di vivere. Diversamente, se non ci fosse questa semplicità, non ci toccherebbe il miracolo di questa notte lucente; ed il mistero di un Dio potente che si fa mansueto e viene al mondo in noi resterebbe una bella favola, buona a riscaldare i cuori, ma non a realizzare lo shalom messianico e la salvezza. È chiara la necessità d’un cambiamento, d’una conversione a Cristo, come già tanti, come già ad esempio lo stesso Manzoni, santa Teresina di Lisieux, Claudel o de Foucauld, che a Lui si convertirono proprio in una notte di Natale. Abbiamo un mezzo sicuro: la Parola che fa risplendere la vita (2 Tm 1, 10), che dà splendore e bellezza all’esistenza, che immette e continua a seminare frammenti di sole dentro le vene oscure della storia.

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Per intraprendere questo cammino di vita nuova, servono coraggio ed un briciolo di saggia follia. La ricetta, l’unica possibile, è quella del ritorno a Cristo. In questo ci è maestra la santa Chiesa, che ci esorta a guardare all’esistenza con l’occhio della fede perché non ci affliggiamo come se non avessimo speranza. Pertanto, l’augurio che in questa Santa Notte il vostro Vescovo può formulare è riposto nell’auspicio che ciascuno di noi sappia coltivare un cuore semplice e umile, disposto ad accogliere con fede autentica e unica il bambino Gesù ed il suo messaggio d’amore: pensiamo a Maria, a Giuseppe ed a quanti sono riusciti ad abbattere l’arroganza della ragione inchinandosi all’Incomprensibile; pensiamo a tutti costoro e meditiamo su quali e quanti grandi cose abbia compiuto per mezzo loro la potenza di Dio. Anche oggi, mentre tutto pare spegnersi dentro orizzonti chiusi e apparentemente senza speranza, “una Luce brilla su di noi”. È la Sua Luce! Le stelle del bene non spariscono mai dai cieli del mondo, perché oggi come ieri tanti uomini di buona volontà “alimentano” la luce di quella stella che in quella Santa Notte si accese sull’umanità. Abbandoniamoci, dunque, totalmente al mistero del Divin Bambino nella stalla: solo così potremo assaporare la vera gioia del Natale, che è un far rinascere nei nostri cuori il Signore per portarlo agli altri. “Con i pastori entriamo nella capanna di Betlemme sotto lo sguardo amorevole di Maria, silenziosa testimone della nascita prodigiosa. Ci aiuti Lei a vivere un buon Natale; ci insegni a custodire nel cuore il mistero di Dio, che per noi si è fatto uomo; ci guidi a testimoniare nel mondo la sua verità, il suo amore, la sua pace”. Amen! Alleluia!

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA NEL PONTIFICALE DEL SANTO NATALE Chiesa Cattedrale, 25 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, carissimi confratelli sacerdoti, di cuore a tutti e a ciascuno giunga il mio paterno augurio di buon Natale. Che sia un Natale buono nel senso cristiano della parola. Un Natale che veda ciascuno di voi contento della sua vita, della sua famiglia, di ciò che sta vivendo. Un Natale che segni una più forte relazione con quel Dio che per stringere un forte rapporto con noi non ha esitato a farsi bambino. Il S. Natale è il momento eterno della speranza, e la speranza è la vera fede. Se di fronte alle difficoltà della vita riusciamo a sorridere, se sappiamo tendere la mano a chi ci chiede aiuto, se preferiamo essere lesi piuttosto che fare un torto a qualcuno, se ci mettiamo dalla parte dei deboli senza sentirci migliori degli altri, se accettiamo che il dialogo sia l’unico modo di raggiungere un’intesa, se crediamo che solo l’amore può donare la pace interiore, allora...viviamo la speranza, manifestiamo la fede ed è Natale, sempre. In questa cattedrale, come in tutte le chiese del mondo, sento convergere oggi i sentimenti di tutte le persone che soffrono, che cercano, che sperano, che lottano, che faticano e che amano sinceramente... Nella mia preghiera di Vescovo e nella nostra preghiera corale vogliamo interpretare la voce di ogni persona amata da Dio, e dunque dell’umanità intera, in particolare dell’umanità travagliata, sofferente, disperata, e vogliamo tutti insieme riascoltare l’annuncio consolante e gioioso del Natale cristiano. Voglio leggervi un brano di un’omelia che il vescovo sant’Agostino pronunciò oltre sedici secoli orsono in una celebrazione del Natale: «… il Signore nostro Gesù Cristo…oggi nascendo si è fatto nostro salvatore. È nato per noi oggi nel tempo, liberamente, per introdurci eternamente alla vita del Padre. Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio». Ma come far si che il Natale - che nella contemporaneità quasi si confonde col carnevale - sia di nuovo la celebrazione della nascita del Cristo che dà senso all’esistenza dell’uomo? Pubblicando i cinque “Inni sacri”, tra i quali “Il Natale”, Alessandro Manzoni indicò nella religione un elemento cardine della formazione della vita. Egli parla dell’evento dell’Incarnazione, unico nella storia e

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 irripetibile, e delle conseguenze eterne che esso ebbe, ha ed avrà, affidandosi ad una metafora: un enorme masso che, staccandosi da un ripido dorso montano, precipita a valle provocando nella sua rovinosa discesa una frana che ogni cosa travolge fino a che con un tonfo, rumorosamente e provocando sgomento, si arresta a valle. Descrizione formidabile ed efficace anche per la nostra epoca: oggi come due secoli fa, le coscienze sono evidentemente impigrite e distratte dal dilagare del pensiero debole; l’egoismo, l’indifferenza religiosa e il relativismo la fanno da padroni; le lettere e le arti spesso si comportano come veicoli dell’omologazione al banale e all’indistinto; il tutto, poi, proteso verso un’irragionevole ed estrema laicizzazione, il cui approdo è la desacralizzazione. È chiara la necessità d’un cambiamento, d’una conversione a Cristo, come già tanti, come già ad esempio lo stesso Manzoni, santa Teresina di Lisieux, Claudel o de Foucauld, che a Lui si convertirono proprio il giorno di Natale. Abbiamo un mezzo sicuro: la Parola che fa risplendere la vita (2 Tm 1, 10), che dà splendore e bellezza all’esistenza, che immette e continua a seminare frammenti di sole dentro le vene oscure della storia. Per intraprendere questo cammino di vita nuova, servono coraggio ed un briciolo di saggia follia. La ricetta, l’unica possibile, è quella del ritorno alle origini: a Cristo. In questo ci è maestra la santa Chiesa, che ci esorta a guardare all’esistenza con l’occhio della fede perché non ci affliggiamo come se non avessimo speranza. Il Natale, dunque, è la festa di Dio, che si fa uomo, ma è anche la festa dell’uomo, che riceve il dono di diventare figlio di Dio in Gesù Cristo. È un mistero che Giovanni nella sua pericope ci svela progressivamente, attraverso un incalzare di parole che si danno continuamente il cambio: in principio era il Verbo; Egli era la vita; Egli era la Luce; Egli era nel mondo; ed egli, Verbo si fece carne. Tutto ha inizio con la Parola, con il Verbo, pronunciata da Dio per creare l’universo e l’uomo; per assicurare protezione al popolo d’Israele; per dettare le leggi della buona convivenza fra gli uomini; per promettere la salvezza e stringere un alleanza; e infine per confortare, consolare il dolore, la sofferenza dell’uomo, per riscattarne la dignità, annunciando la speranza di una Sua incredibile prossimità. Una Parola che si è mantenuta coerente e fedele a quanto andava pronunciando nei secoli e che, infine, si è compiuta quando si è fatta carne

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 in Cristo, realizzando l’annuncio di prossimità e dando inizio ad un nuovo corso della storia umana. Una storia che con Cristo si apre all’eterno, alla speranza di una nuova rinascita, alla certezza che fra Dio e l’uomo è stata cancellata la divisione conseguente al peccato originale. E grazie al Verbo Incarnato, al Cristo, il nuovo uomo nato in Lui, può chiamare Dio, Padre, e Dio riconoscere l’uomo quale figlio. Per questo la nascita di Cristo che celebriamo a Natale è fonte di speranza, giacché Essa è venuta a cambiarci la vita, a ridarci il vero volto di figli di Dio. La prossimità di Dio è stata per l’umanità una esplosione di Vita e di Luce. Infatti la Parola che diventa carne e azione in Cristo è vita nuova e manifestazione di luce. È luce nella misura in cui ci pervade, ci avvolge, senza che ce ne rendiamo conto ci rende visibili agli altri; ci scalda, ci illumina, fa sì che possa esserci in noi vita. É vita nella misura in cui ci rende partecipi della trascendenza di Dio, del soffio di eterno che ci proietta, nostro malgrado, verso l’infinito. Carissimi, lasciamoci avvolgere e attraversare da questa Luce, lasciamoci invadere da questa Vita, perché fuori da Essa c’è il nulla, fuori da Essa c’è il caos, fuori da Essa ci sono le tenebre. Ecco fratelli il mistero del Natale, il segreto del Natale, la verità del Natale, il significato del Natale: non separarci dall’unico bene che ci dà luce e vita, Cristo Gesù. Come facciamo a non cercarlo, a non cercare il Suo volto, a non cercare il Suo pensiero nella Parola, come facciamo a non incontrarlo attraverso i segni che ci ha lasciato, la Parola, i sacramenti, la comunità cristiana, come facciamo a non desiderare, a non aver voglia – direi – di essere il suo bene, di fare il suo bene, di avere il suo bene dentro di noi, di effondere il suo bene intorno a noi, annunciando la Parola, testimoniando la Verità di Gesù, istradando le persone verso di Lui senza opprimere nessuna coscienza e portando agli altri l’amore che Lui ha dimostrato per tutti, anzitutto per i più poveri, i più addolorati, i più esclusi, per i più abbandonati? Non lasciamo che questo Natale, nel quale la Parola Eterna di Dio ha scelto ancora di incarnarsi nell’oggi della storia, passi senza averci provocato, trasformato, sconvolto, stupito, innamorato. Sì carissimi diamo voce alla speranza di futuro che si è realizzata in questo Santissimo Giorno, diventiamo noi oggi quel bambino in fasce che nella fragilità del suo essere ha racchiuso la potenza di Dio. Noi che, se solo permettessimo a Cristo di entrare nella nostra vita, potremmo veramente essere testimoni di quella luce che le tenebre del male non possono vincere, non possono offuscare.

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E l’augurio che posso farvi in questo giorno di Natale, in questo giorno di luce, di gioia e di speranza è di essere quelle sentinelle che al sorgere delle prime luci dell’alba, della prima luce del mattino, gridano: Che la luce non sia mai vinta! Che la luce non sia mai schiacciata!. Siate voi coloro che conoscono, capiscono, accolgono la Parola che è Cristo; il Suo seguito trionfante che, ancora oggi, fa entrare Cristo, Parola, Sapienza, Luce, Vita, nella scena del mondo. Siate voi come Cristo, azione, progetto e realizzazione della parola eterna di Dio. Se riuscite a vivere così il Natale, se veramente vi fate accendere i cuori da questo mistero dell’Incarnazione, se lasciate che la luce di Dio vi inondi e la Sua parola vi tocchi nel profondo, allora non “consumerete” il Natale, non festeggerete solo un giorno di ferie, ma celebrerete il giorno in cui il Figlio di Dio ha preso dimora nel cuore di ciascuno e ciascuno ha preso dimora nel cuore, nella mente e nell’Amore di Dio. Celebrerete la gloria dell’Altissimo che si è fatto piccolo per amore dell’uomo; celebrerete la speranza e la gioia di un futuro nuovo e carico dell’Eterno di Dio; celebrerete la Parola che si è fatta carne. Carissimi, desidero rivolgervi un invito che racchiude tutto quanto ci siamo fin qui detti: Cristo è Parola incarnata, dunque accogliete la Parola. Fate sì che Essa si incarni per mezzo vostro nella quotidianità della vostra storia, non allontanatevi mai da essa. Perciò rivolgendomi ad ognuno di voi e alle vostre famiglie vi dico: amate la Parola di Dio, fate spazio al Vangelo nelle vostre case, non tralasciate di nutrirvi di questo cibo di vita, che dà forza alle nostre debolezze e speranza alle nostre delusioni. In Gesù Cristo trovano risposta la ricerca religiosa dei popoli e le domande più profonde del cuore umano: senso della vita, essere amati, amare, mettere ordine nelle realtà terrene, raggiungere la pienezza della vita e della felicità. In lui l’uomo, viandante e pellegrino dell’Assoluto, trova il migliore compagno di viaggio, perché è via e meta nello stesso tempo. «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). La via sicura perché è la verità di Dio e la fonte stessa della vita. A proposito di Gesù Cristo, nostro Salvatore e compagno di viaggio, desidero affidarvi in questa omelia un bel testo di San Bernardo di Chiaravalle: «Siamo facili a illuderci, deboli nell’agire, fragili nel resistere. Se vogliamo distinguere il bene dal male, ci sbagliamo; se tentiamo di fare il bene ci stanchiamo; se ci sforziamo di resistere al male ci abbattiamo e veniamo sconfitti. […] La nostra radicale impotenza ha bisogno del Salvatore. […] E’ venuto nel mondo, perché abitando tra gli uomini, con gli uomini e per gli uomini potesse illuminare le nostre

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 tenebre, dare sostegno alle nostre fatiche, difenderci dai pericoli e dalle insidie» (San Bernardo, Discorsi). A ciascuno di voi ed ai vostri cari porgo i più sinceri auguri di buon Natale all’insegna della speranza, della gioia di vivere, del gusto dell’essenziale, del sapore delle cose semplici, della ricchezza del dialogo, dello stupore, della tenerezza e dell’amicizia. Auguri agli sposi, ai figli, alle mamme ed ai papà; a chi soffre negli ospedali, a chi è privo della libertà; auguri agli immigrati, agli emigrati e ai clandestini, poveri cristi sradicati dalle proprie famiglie, soli e senza affetti. Auguri ai sacerdoti, ai consacrati e a tutti i fedeli. Auguri, per un Natale finalmente diverso, nuovo perché antico e vero. “Donaci, o Signore, di intuire qualcosa della luce della Tua Incarnazione e di lasciarci irradiare dalla grazia che risplende dal Tuo Volto”. Amen! Alleluia!

 Vincenzo Bertolone

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OMELIA NELLA S.MESSA CELEBRATA NELLA PARROCCHIA S.MARIA DI L. IN OCCASIONE DELL’ONORIFICENZA PONTIFICIA Cassano Allo Ionio, 28 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, con molto piacere ho accolto l’invito del dott. Perciaccante a nome degli amici della Figurella di venire a presiedere questa celebrazione per festeggiare don Peppino De Cicco, anzi mons. Peppino De Cicco, cancelliere della Curia di Cassano. Diventa significativa la festa perché avviene nell’ambito della famiglia Parrocchiale nel giorno in cui la Chiesa ci fa celebrare la solennità della Sacra Famiglia di Nazaret. Il mistero del Natale è in stretto rapporto con la famiglia, con ogni famiglia. Ecco perché nella prima domenica dopo la solennità del Natale, celebriamo il mistero della S. Famiglia di Gesù di Nazareth e, nella sua luce, di ogni famiglia umana. L’uomo è un essere bisognoso, ha bisogno degli altri per vivere, per prendere coscienza di se stesso, della propria identità culturale, sessuale, morale. I primi “altri” sono i genitori. Poi vengono gli amici e i maestri. È vero che un genitore può essere strappato dalla morte; è vero che una famiglia può spezzarsi per gravi ragioni. Non si tratta di giudicare. Si tratta invece di indicare un ideale concreto, che renda la vita più facile. Avere dei genitori che si amano stabilmente, anche attraverso tensioni, difficoltà, prove, è un bene auspicabile per qualunque bambino. Poi ciascuno farà quel che potrà, ma io non posso smettere di indicare ciò che vorrei per tutti, ciò che è stato preparato da Dio per ciascuno. La famiglia che festeggiamo oggi, è una Famiglia speciale, unica, irripetibile, in quanto in tale Famiglia è presente storicamente e fisicamente Gesù Cristo, che santifica, allora come oggi, ogni famiglia, timorata di Dio ed aperta alla vita. Siamo tutti talmente presi dalle emozioni del Natale da dimenticare il peso della concretezza che, come ogni famiglia, Maria e Giuseppe hanno dovuto affrontare. La fuga in Egitto rappresenta il culmine della fatica della famiglia di Gesù; osiamo solo immaginare il dolore di vivere lontani da casa, da clandestini, in condizioni economiche e lavorative precarie. Dopo qualche anno di esilio ecco Nazareth, infine, con la bottega del falegname e il bambino che cresce. Momenti di lunga ed intensa serenità,

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 finalmente. Oggi celebriamo la Santa Famiglia, così diversa dalle nostre famiglie eppure così identica alle nostre nelle dinamiche affettive. La Santa Famiglia ci invita a guardare gli altri membri della famiglia con uno sguardo di fede e di luce, scovando il Mistero nascosto nelle persone che pensiamo statiche e immutabili. Il Vangelo di Luca, ci trasporta nel Tempio di Gerusalemme; in esso troviamo Giuseppe, Maria ed il bambino Gesù. Il loro compito fondamentale è quello di essere fedeli ed obbedienti alla legge del Signore. Il gesto fondamentale che compiono è quello di offrire al Signore il loro “Primogenito”. La “presentazione” non è un gesto passivo, di pura obbedienza, ma è carico di significato in quanto esprime una idea centrale presente nella cultura del popolo e nella famiglia: il bambino appartiene a Dio. In questo modo siamo guidati verso il concetto di consacrazione, che ci porta a conoscenza che la vita non è proprietà dell’uomo, ma è un dono. Allora non possiamo tacere su ciò che sta accadendo in questi giorni. Infatti siamo già stati informati che la scienza è arrivata all’apice della manipolazione: si è arrivati a clonare l’uomo. E’ l’obbrobrio assoluto! Il fondo che non ha fondo! Per cui questo momento così delicato non può farci stare zitti; come cristiani siamo chiamati, perché è la nostra missione, a far sentire la nostra voce. A gridare apertamente che la vita va gestita da buoni amministratori e non spadroneggiando su di essa. Una discussione, questa, che deve essere intrapresa all’interno della famiglia, cellula della società e piccola “chiesa domestica“. Se riusciremo a risanare la prima cellula, sicuramente il contagio si fermerà. L’esempio della famiglia di Nazaret ci può venire in aiuto in quanto rappresenta la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare. Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per manifestarsi al mondo. Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo. In primo luogo la Santa Famiglia ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto. Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. L’armonia di questa famiglia ci ricorda cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci fa vedere com’è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegna la sua funzione naturale nell’ordine sociale. Questo silenzio si trasforma in capacità di ascolto e di comprensione. Infine, impariamo la lezione del lavoro. Oh! dimora di Nazaret, casa del Figlio del falegname, alla tua scuola desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo ma redentrice della fatica umana; qui vogliamo nobilitare la dignità del lavoro in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto il tuo tetto che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore. Di fronte alla crisi della famiglia dei nostri giorni un ritorno sistematico alla vera sorgente spirituale di ogni famiglia cristiana, che è la Famiglia di Nazareth, fa molto bene per recuperare slancio, fiducia, dialogo, amore, perdono e tolleranza. La cultura dello sfascio familiare avviata e sostenuta da certa mentalità laicista deve trovare una forte opposizione di idee e soprattutto di testimonianza e stili di vita nelle famiglie cristiane, che si costituiscono sul sacramento del matrimonio e che necessitano di un costante colloquio interiore con il Signore se vogliono continuare sulla strada della vera felicità familiare. La presenza di Cristo nella famiglia di Nazareth è certezza della sua presenza in tutte le famiglie a condizioni che aprano le porte del loro cuore a Lui, che è venuto a portare la pace e ad abbattere ogni muro di separazione e di divisione di qualsiasi genere e a qualsiasi livello, soprattutto se riguarda il cuore e la mente dei coniugi e dei loro più stretti congiunti che sono i figli o i genitori più o meno giovani o avanti negli anni ed in condizioni di salute precarie. La premura e la preoccupazione per la difesa della vita dei propri cari diventa l’impegno prioritario, oggi, in un mondo caratterizzato da ogni

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 forma di violenza, che ci fa vivere perennemente in allerta e ci chiede una vigilanza speciale e costante per difendere il bene più caro che è la comunità familiare, cellula fondamentale di ogni società civile e aperta all’avvenire. In tale solenne contesto avverto il dovere di offrire alla vostra riflessione quanto il Servo di Dio Giovanni Paolo II disse alle famiglie nel Convegno internazionale di Valencia: “Le famiglie sono chiamate a vivere la più alta qualità dell’amore, perché il Signore si fa garante che ciò è possibile per noi, attraverso l’amore umano, sensibile, affettuoso e misericordioso, come quello di Gesù. Insieme alla trasmissione della fede e dell’amore del Signore, uno dei compiti più grandi della Famiglia è quello di formare persone libere e responsabili. Perciò i genitori devono continuare a restituire ai loro figli la libertà, della quale per qualche tempo sono garanti. Se questi vedono che i loro genitori - e in generale gli adulti che li circondano - vivono la vita con gioia ed entusiasmo, nonostante le difficoltà, crescerà più facilmente in loro quella gioia profonda di vivere, che li aiuterà a superare con buon esito i possibili ostacoli e le contrarietà che comporta la vita umana. Inoltre quando la famiglia non si chiude in se stessa, i figli continuano a imparare che ogni persona è degna di essere amata”. Il Natale ci riporta la Santa Famiglia di Nazareth. Proprio la sua normalità ha custodito la sua eccezionalità. La sua normalità è stata la fedeltà reciproca fra Maria e Giuseppe che si sono amati veramente e assieme hanno portato la straordinarietà di un figlio, un bambino come tutti gli altri, che pure era nato per opera di Dio senza intervento del padre terreno, e che era Dio stesso fatto uomo. Quale apertura continua alla diversità, quale animo grande e confidente ha modulato quella Presenza! Questa sia la scuola da cui tutti vogliamo apprendere. O Dio, nella Sacra Famiglia, ci lasciasti un modello perfetto di vita familiare, vissuta nella fede e nell’obbedienza alla Tua volontà. Aiutaci ad essere esempio di fede e di amore. Soccorrici nella nostra missione di trasmettere la fede ai nostri figli. Apri i loro cuori perché cresca in loro il seme della fede ricevuta nel Battesimo”. Ed è con questi sentimenti che imploro dal Signore su Mons. Peppino, vostro parroco, su di Voi e sulle vostre famiglie. una speciale benedizione. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

OMELIA NELLA FESTA DELLA “SACRA FAMIGLIA” Chiesa Cattedrale, 28 Dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, con molto piacere ho accolto l’invito di suor Itala a nome dell’Associazione del Beato Bonilli di presiedere questa celebrazione in occasione della festa liturgica della Sacra Famiglia. Ringrazio dell’invito ed auguro che l’Associazione non solo continui il suo servizio nelle parrocchie dove è presente, ma si estenda a tante altre parrocchie della diocesi. Il mistero del Natale è in stretto rapporto con la famiglia, con ogni famiglia. Ecco perché nella prima domenica dopo la solennità del Natale, celebriamo il mistero della S. Famiglia di Gesù di Nazareth e, nella sua luce, di ogni famiglia umana. L’uomo è un essere bisognoso, ha bisogno degli altri per vivere, per prendere coscienza di se stesso, della propria identità culturale, sessuale, morale. I primi “altri” sono i genitori. Poi vengono gli amici e i maestri. È vero che un genitore può essere strappato dalla morte, è vero che una famiglia può spezzarsi per gravi ragioni. Non si tratta di giudicare. Si tratta invece di indicare un ideale concreto, che renda la vita più facile. Avere dei genitori che si amano stabilmente, anche attraverso tensioni, difficoltà, prove, è un bene auspicabile per qualunque bambino. Poi ciascuno farà quel che potrà, ma io non posso smettere di indicare ciò che vorrei per tutti, ciò che è stato preparato da Dio per ciascuno. La famiglia che festeggiamo oggi, è una famiglia speciale, unica, irripetibile, in quanto in tale famiglia è presente storicamente e fisicamente Gesù Cristo, che santifica, allora come oggi, ogni famiglia, timorata di Dio ed aperta alla vita. Siamo tutti talmente presi dalle emozioni del Natale da dimenticare il peso della concretezza che, come ogni famiglia, Maria e Giuseppe hanno dovuto affrontare. La fuga in Egitto rappresenta il culmine della fatica della famiglia di Gesù; osiamo solo immaginare il dolore di vivere lontani da casa, da clandestini, in condizioni economiche e lavorative precarie. Dopo qualche anno di esilio ecco Nazareth, infine, con la bottega del falegname e il bambino che cresce. Momenti di lunga ed intensa serenità, finalmente.

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Oggi celebriamo la Santa Famiglia, così diversa dalle nostre famiglie eppure così identica alle nostre nelle dinamiche affettive. La Santa Famiglia ci invita a guardare gli altri membri della famiglia con uno sguardo di fede e di luce, scovando il Mistero nascosto nelle persone che pensiamo statiche e immutabili. Il Vangelo di Luca, ci trasporta nel Tempio di Gerusalemme; in esso troviamo Giuseppe, Maria ed il bambino Gesù. Il loro compito fondamentale è quello di essere fedeli ed obbedienti alla legge del Signore. Il gesto fondamentale che compiono è quello di offrire al Signore il loro “Primogenito”. La “presentazione” non è un gesto passivo, di pura obbedienza, ma è carico di significato in quanto esprime una idea centrale presente nella cultura del popolo e nella famiglia: il bambino appartiene a Dio. In questo modo siamo guidati verso il concetto di consacrazione, che ci porta a conoscenza che la vita non è proprietà dell’uomo, ma è un dono. Allora non possiamo tacere su ciò che sta accadendo in questi giorni. Infatti siamo già stati informati che la scienza è arrivata all’apice della manipolazione: si è arrivati a clonare l’uomo. E’ l’obbrobrio assoluto! Il Fondo che non ha fondo! Per cui questo momento così delicato non può farci stare zitti; come cristiani siamo chiamati, perché è la nostra missione, a far sentire la nostra voce. A gridare apertamente che la vita va gestita da buoni amministratori e non spadroneggiando su di essa. Una discussione, questa, che deve essere intrapresa all’interno della famiglia, cellula della società e piccola Chiesa Domestica. Se riusciremo a risanare la prima cellula, sicuramente il contagio si fermerà. Mi piace riportare alcuni brani dell’omelia di Paolo VI tenuta a Nazaret il 5 gennaio 1964. “L’esempio della famiglia di Nazaret ci può venire in aiuto in quanto rappresenta la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare. Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per manifestarsi al mondo. Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo.

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In primo luogo la Santa famiglia ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto. Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. L’armonia di questa famiglia ci ricorda cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci fa vedere com’è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegna la sua funzione naturale nell’ordine sociale. Questo silenzio si trasforma in capacità di ascolto e di comprensione. Infine impariamo la lezione del lavoro. Oh! dimora di Nazaret, casa del Figlio del falegname, alla tua scuola desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo ma redentrice della fatica umana; qui vogliamo nobilitare la dignità del lavoro in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto il tuo tetto che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore”. Di fronte alla crisi della famiglia dei nostri giorni un ritorno sistematico alla vera sorgente spirituale di ogni famiglia cristiana, che è la Famiglia di Nazareth, fa molto bene per recuperare slancio, fiducia, dialogo, amore, perdono e tolleranza. Il Natale ci riporta la Santa Famiglia di Nazareth. Proprio la sua normalità ha custodito la sua eccezionalità. La sua normalità è stata la fedeltà reciproca fra Maria e Giuseppe che si sono amati veramente e assieme hanno portato la straordinarietà di un Figlio, un bambino come tutti gli altri, che pure era nato per opera di Dio senza intervento del padre terreno, e che era Dio stesso fatto uomo. Quale apertura continua alla diversità, quale animo grande e confidente ha modulato quella Presenza! Questa sia la scuola da cui tutti vogliamo apprendere. O Dio, nella Sacra Famiglia, ci lasciasti un modello perfetto di vita familiare, vissuta nella fede e nell’obbedienza alla Tua volontà. Aiutaci ad

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 essere esempio di fede e di amore. Soccorrici nella nostra missione di trasmettere la fede ai nostri figli. Apri i loro cuori perché cresca in loro il seme della fede ricevuta nel Battesimo”. Ed è con questi sentimenti che imploro dal Signore su di Voi e sulle vostre famiglie. una speciale benedizione. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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“TE DEUM” DI RINGRAZIAMENTO NELL’ULTIMO GIORNO DELL’ANNO 2008 Cattedrale, 31 dicembre 2008

Carissimi fratelli e sorelle, al termine di un anno, che per la Chiesa e per il mondo è stato quanto mai ricco di eventi, memori del comando dell’Apostolo: “camminate… saldi nella fede... abbondando nell’azione di grazie” (Col 2,6-7), ci ritroviamo questa sera insieme per elevare un inno di ringraziamento a Dio, Signore del tempo e della storia. Sì, è un nostro dovere, oltre che un bisogno del cuore, lodare e ringraziare Colui che, eterno, ci accompagna nel tempo senza mai abbandonarci e sempre veglia sull’umanità con la fedeltà del suo amore misericordioso. “Figlioli, questa è l’ultima ora...”; con queste parole inizia la prima lettura della liturgia d’oggi, tratta dalla lettera di San Giovanni Apostolo (1Gv 2,18). Questa lettura è fissata per il 31 dicembre, il settimo giorno dell’ottava di Natale. Quanto attuali sono queste parole! Quanto efficacemente risentiamo la loro eloquenza noi, qui riuniti in questa cattedrale, mentre scorrono le ultime ore di quest’anno. Ogni ora del tempo umano è in certo senso l’ultima, perché sempre unica e irripetibile. In ogni ora passa qualche particella della nostra vita, una particella che non tornerà più. E ognuna di tali particelle – benché non sempre ce ne rendiamo conto – ci proietta verso l’eternità. Queste parole dell’Apostolo si riferiscono alla fine dei tempi, ma possiamo applicarle anche a quest’ora che sta per porre fine all’anno 2008. E’ questo il sentimento che ci pervade, mentre celebriamo i primi vespri della solennità di Maria Santissima Madre di Dio. La Liturgia fa coincidere questa significativa festa mariana con la fine e l’inizio dell’anno. Per cui, questa sera, alla contemplazione del mistero della divina maternità della Vergine uniamo il cantico della nostra gratitudine per il compiersi del 2008, mentre si affaccia all’orizzonte della storia il 2009. Ringraziamo Dio dal profondo del cuore per tutti i benefici che ci ha elargito durante i passati dodici mesi. Penso, in particolare, alla generosa risposta di tanti giovani alla proposta cristiana; penso alla crescente sensibilità ecclesiale per i valori della pace, della vita e della salvaguardia del creato; penso anche ad alcuni passi significativi nel non facile cammino ecumenico. Per tutto rendiamo grazie a Dio. I suoi doni, infatti, prevengono e accompagnano sempre ogni

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 gesto positivo da noi compiuto. Sono lieto di vivere questi momenti, per il secondo anno consecutivo, con tutti voi, carissimi fratelli e sorelle, che rappresentate la Comunità diocesana di Cassano. A ciascuno rivolgo un cordiale saluto. Saluto, in modo particolare, i carissimi presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose impegnati nel servizio pastorale nelle varie Parrocchie e negli Uffici diocesani. Saluto il signor Sindaco di Cassano, i membri della Giunta e del Consiglio Comunale, come pure le altre Autorità provinciali e regionali. Il mio pensiero si estende a chiunque vive in questa amata Diocesi in particolare a quanti si trovano in situazioni di difficoltà e di disagio. Il cammino della Chiesa di Cassano è stato caratterizzato, in quest’anno che sta per terminare da uno speciale impegno per l’approfondimento del mistero di Cristo. A questo tema, decisivo per il presente e il futuro dell’evangelizzazione, ha volto la sua attenzione il Convegno diocesano dello scorso settembre. Verso questo medesimo obiettivo convergono le varie iniziative ed attività pastorali promosse dalla Diocesi. Mi rallegro, a riguardo, perché il programma della Diocesi sta procedendo positivamente con una capillare azione apostolica, che viene svolta nelle parrocchie e nelle varie aggregazioni ecclesiali. Conceda il Signore che il comune sforzo conduca a un autentico rinnovamento della nostra Chiesa locale, Il prologo del Vangelo di Giovanni ci ricorda che la nostra vita, anzi la stessa creazione, è stata fatta per mezzo del Verbo. Scrive Giovanni: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui”. E’ a dire che siamo impastati di Dio; nel profondo del nostro essere c’è Dio stesso, appunto perché creati a Sua immagine e somiglianza. Da Dio veniamo e a Dio andiamo. E’ questo il senso della nostra esistenza. Questa coscienza faceva dire a sant’Agostino che il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Lui. Tutta la nostra vita è segnata dal desiderio di Dio. E’ in Dio che deve terminare l’ultima nostra ora, l’ultima ora del tempo e della storia. Dimenticare questo fine della nostra vita significa cadere nel vuoto, vivere senza senso già da ora. La Liturgia del “Te Deum” ci ricorda il fine della vita e della storia e ci invita a indirizzare con maggiore coscienza la nostra vita verso Dio. La nostra esistenza e quella del mondo ha in Dio la sua conclusione. A Dio, attraverso il Figlio, portiamo l’intera nostra esistenza e quella del mondo. La Chiesa ci suggerisce di non terminare questo anno senza pensare al Signore e senza rivolgere a lui il nostro ringraziamento per tutti i suoi benefici. E pone sulle nostre labbra l’antico inno del “Te Deum“, che canteremo al termine di questa santa Liturgia

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“Fiat misericordia tua, Domine, super nos, speravimus in Te - Sia con noi la tua misericordia: in Te abbiamo sperato”. In questa Liturgia di fine anno la lode e il rendimento di grazie si accompagnano ad un sincero esame di coscienza personale e comunitario. Domandiamo perdono al Signore per le mancanze di cui ci siamo resi colpevoli, certi che Dio, ricco di misericordia, è infinitamente più grande dei nostri peccati. In Te, Signore, - riaffermiamo questa sera - è la nostra speranza. Tu, nel Natale, hai recato la gioia al mondo, irradiando sul cammino degli uomini e dei popoli la tua luce. Le ansie e le angosce non possono estinguerla; il fulgore della tua presenza costantemente ci conforta. Il 2008 ormai volge al termine, e possiamo ringraziare, pentirci, riflettere e promettere. Il nuovo anno 2009 è tutto nelle nostre mani e nel nostro cuore, o nei nostri sogni. Ma vogliamo riconoscere che in verità è profondamente nelle mani di Dio e vogliamo affidarci alle Sue mani, con le parole del salmista: “nelle tue mani è la mia vita, o Dio” (Salmo 15). Le mani di Dio sono: “mani forti di padre, mani buone, tenere, delicate di madre, mani fedeli e generose di amico; le mani di Dio sono ricche di grazia, nelle quali è la nostra vita, il nostro tempo, nelle quali siamo noi stessi” (K. Barth). Ed è con questi sentimento che con amabile cuore di padre auguro a tutti e ciascuno un sereno 2009. Amen!

 Vincenzo Bertolone

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EDITORIALI DEL NOSTRO VESCOVO PUBBLICATI LA DOMENICA SULLA “GAZZETTA DEL SUD”

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L’emergenza educativa, sfida da raccogliere 7 settembre 2008

«La nave è ormai in mano al cuoco di bordo e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma il menù del giorno dopo». La nave del mondo, ci ricorda il filosofo Soeren Kierkegaard, rischia d’affondare, naufragando sugli scogli della superficialità e della volgarità che avvolgono i nostri giorni e cancellano realtà che sono come fiamme che bruciano: il male, la morte, il senso della vita, il dolore, il mistero. «In una società che troppo spesso fa del relativismo il proprio credo», ha osservato al riguardo il Papa, «viene a mancare la luce della verità, anzi si considera pericoloso parlare di verità, e si finisce per dubitare della bontà della vita». Ne deriva, com’è evidente, l’urgenza di affrontare una questione dalla cui definizione dipende la soluzione d’ogni altro problema. È la necessità di raccogliere e vincere la sfida rappresentata dall’emergenza educativa, perché è solo partendo dalla persona e dal risveglio delle coscienze che si potrà guardare con fiducia e speranza al futuro. Oggi, in effetti, non si ha più memoria. I sogni sono tramontati, le ideologie svanite. Si vive il presente senza capirne il senso. Si apprezza solo ciò che è utile e risponde ai bisogni immediati: l’elemento spirituale, l’amore gratuito e il sacrificio per gli altri vengono accolti solo se ritenuti soddisfacenti per sè. Situazioni che rendono ancora viva e illuminante la lucida ed impietosa analisi di Erich Fromm: «Un rimedio potrà prodursi soltanto attraverso cambiamenti radicali della nostra struttura politica e sociale, tali da reintegrare l’uomo nel suo ruolo supremo all’interno della società. Abbiamo bisogno di creare, allora, le condizioni adatte perché la crescita dell’uomo diventi l’obiettivo supremo di tutti gli ordinamenti sociali». Perché ciò avvenga, c’è bisogno d’un patto educativo tra famiglia, scuola, comunità civile e religiosa e lo stesso universo giovanile, rendendosi tutti responsabili d’un modello di vita coerente e sincero. Il fine non è di obbligare a seguire binari precostituiti, ma di orientare le risorse dei giovani su valori e proposte ricche di umanità e spiritualità. Ciò pone in risalto una circostanza che gli adulti, a volte, disconoscono: la difficoltà di cambiare il proprio modo d’essere e di rapportarsi alle nuove generazioni. Le quali hanno bisogno di educatori che li aiutino a coniugare passato, presente e futuro per progettare il domani come meta affascinante e di rinnovamento di sé e degli altri, del mondo e della storia.

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In tale ottica, la famiglia è tenuta a riconquistare coscienza del fatto che l’educazione dei figli non può cedere all’improvvisazione: i genitori, fonte di sicurezza affettiva, lungi dal rappresentare dei semplici amici, devono essere “auctores”. Letteralmente, «coloro che danno inizio a qualcosa e la fanno crescere». Anche il Governo deve chinarsi sull’emergenza educativa, e quindi sulla scuola, decidendo opportuni investimenti. Finanziari, e non solo: non si può, in nessuna società, rinunciare al compito dell’educazione o relegarlo in secondo piano. Al riguardo, è da cogliere un riferimento emblematico nella figura di Edith Stein: ebrea tedesca, filosofa e pedagogista, convertita al cattolicesimo, divenuta monaca carmelitana, uccisa ad Auschwitz e proclamata santa da Giovanni Paolo II, propone con la sua testimonianza alcuni atteggiamenti culturali che valgono a dare consistenza alla convivenza umana nella sua globalità: l’educazione deve partire dalla verità sull’uomo, dall’affermazione della sua dignità e dalla sua vocazione trascendente. Un’antropologia senza Dio rischia di far morire l’uomo prima ancora di nascere alla vita piena: che vale infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?

 Vincenzo Bertolone

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Ricomincia la scuola: alla scoperta della vera educazione 14 settembre 2008

Settembre è il mese dei nuovi inizi. È il tempo, meraviglioso, della vita che rinasce, della ripresa d’ogni attività e quindi anche della scuola, chiamata a formare cittadini responsabili ed esemplari; a trasmettere valori alti e nobili ideali per i quali valga la pena impegnarsi; a raggiungere l’ambizioso traguardo della maturità civile e morale dell’individuo, per la crescita della collettività. «L’avvenire è nelle mani del maestro di scuola», scriveva del resto già Victor Hugo nei “Miserabili”. La sua intuizione, ancor oggi valida, dà origine a tre fondamentali riflessioni su altrettante questioni, tutte cruciali. La prima: l’educazione della persona è sempre possibile. In alcun modo tale certezza può essere posta in dubbio: la possibilità dell’educazione è una conseguenza necessaria per chi percepisce che la persona umana è un soggetto libero, e non un mero “accidente-incidente” di un incrocio casuale di forze impersonali, che chiede di essere educato, di essere cioè introdotto alla realtà, in vista dell’edificazione del mondo che verrà o, come evidenziava Platone, «della questione del modo in cui si debba vivere», quindi d’una civiltà etica ancor prima che materiale. La seconda: educare significa insegnare a vivere sapendo fare. Pensare all’educazione soltanto come ad un periodo di formazione tecnica, utile all’inserimento nel mondo del lavoro, sarebbe riduttivo e pericoloso; gli studenti sono persone che come tali, e non di rado, hanno bisogno di essere accompagnate nella costruzione della loro umanità, in cui il lavoro sarà elemento essenziale, ma non unico, per quanto necessario e complementare allo sviluppo della piena personalità; ritrovarsi nel proprio lavoro senza perdersi in esso, e senza estraniarsi da esso, è il dovere al quale la società odierna, mossa ormai quasi esclusivamente dai principi regolatori dell’efficientismo e della libertà assoluta e slegata da ogni etica e valore, spesso viene meno. La terza: educare vuol dire pure orientare alla scoperta ed alla realizzazione del bene comune, ovvero, secondo l’ancora attuale opinione di Vittorio Bachelet, «formare a un retto e vigoroso ideale, aiutando l’uomo a impadronirsene con l’intelligenza e ad adeguarvi la sua formazione spirituale, morale, tecnica». In quest’ottica, agli insegnanti mi piace ricordare, con Quintiliano, che i giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere. Ad essi è perciò richiesto l’impegno per la difficile opera di adeguamento della

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 gloriosa tradizione culturale italiana alle svolte nuove della società. E ciò senza chiudersi nel perimetro dello scientismo delle discipline, ma privilegiando la riscoperta delle loro fondamenta culturali, antropologiche e relazionali, a partire dalla verità sull’uomo, dall’affermazione della sua dignità e dalla sua vocazione trascendente. Edificare una scuola palestra di vita e di fraternità sia invece la missione degli studenti, tenuti a non sprecare le numerose opportunità loro offerte per crescere nella ricerca appassionata della verità e divenire capaci di ragionare con la propria testa, senza lasciarsi manipolare dai capi o dalle mode di turno né perdere mai, come canta Roberto Vecchioni, la voglia di sognare, per comporre da sé la poesia della vita sul quaderno che Dio dona a ciascuno: «Sogna, ragazzo, sogna. Ti ho lasciato un foglio sulla scrivania, manca solo un verso a quella poesia: puoi finirla tu». Dunque, per dirla con Seneca, tra i banchi si insegni, si studi e si impari «non per la scuola, ma per la vita». Tutto questo e molto di più, per voi che domani tornate in aula, possa essere l’anno scolastico che inizia. In bocca al lupo.  Vincenzo Bertolone

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Gesù: il nome che obbliga a fermarci 21 settembre 2008

Ogni sei ore, sugli scaffali delle librerie del mondo, spunta un nuovo volume riservato alla Sua figura di Persona singolare e affascinante, magnanima e umile. Vicina al Dio santo ed all’uomo peccatore. Profeticamente indignata verso i prepotenti e gli ipocriti, premurosa verso gli oppressi, i malati, i semplici e i bambini. Aperta all’amicizia ed ai valori della vita, pronta ad accettare la solitudine e la morte. Lui è Cristo, ed a Lui, venerdì e sabato prossimi, la Diocesi cassanese dedicherà un convegno per approfondire la conoscenza, storica e spirituale, di un uomo del quale gli stessi discepoli si chiedevano: «Chi è dunque costui?» (Mc 4, 41). Oggi questa domanda non inquieta più solo, come in passato, una cerchia ristretta di studiosi, ma vola sulle ali del successo di libri e di film, spesso basati su trame e ricostruzioni infondate e fasulle, che raggiungono il grande pubblico e lo coinvolgono, contribuendo ad accrescere la confusione d’una società incerta e frammentata, che mentre vive il dramma del rifiuto di Cristo, avverte forte il bisogno di riscoprirne l’identità per dare esaustività alla propria esistenza perché, come osservava Paolo VI, «Gesù è il vertice e al vertice delle aspirazioni umane, è il termine di speranze e preghiere, è il punto focale dei desideri della storia e della civiltà». Nulla è più importante, specie per i cristiani: ognuno ha bisogno di un centro della propria vita; di una sorgente di verità e bontà a cui attingere nella fatica della quotidianità; d’una presenza affidabile, percepibile coi sensi della fede e tuttavia molto più reale. Illustri pensatori cresciuti alla scuola dei lumi, e tra questi Max Horkheimer e Theodor Adorno, con disarmante lealtà, hanno riconosciuto la sconfitta della ragione che si è proclamata autosufficiente e si è chiusa al mistero: «L’Illuminismo persegue da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la Terra interamente illuminata risplende all’insegna di una trionfale sventura». E Witgenstein: «Noi sentiamo che quando pure tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati». Anche Giuseppe Prezzolini, noto intellettuale laico, negli ultimi giorni di vita non esitò ad ammettere il proprio smarrimento: «Eccomi qui solo, disperato, senza appoggio, senza nessuna voce che mi risponda a queste domande: dove sono? Dove vado? Da dove vengo? Non so chi interrogare». E quasi afferrato da un sussulto e

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 da un sospetto di speranza, aggiunse: «È mai possibile che la cara persona che lavora accanto a me e le immagini di coloro che ho incontrato non siano altro che accidenti meccanici d’un mondo che si svolge senza requie né scelte in un silenzio spirituale assoluto dove nulla conta, nulla vale, nulla ha senso?» Ciò che conta, vale e dà senso ha un nome. È quello di Cristo, il nuovo Adamo, che rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Dall’orizzonte infinito del suo amore, ricorda il Santo Padre, «Dio ha voluto entrare nei limiti della storia e della condizione umana, ha preso un corpo e un cuore; così che possiamo contemplare e incontrare l’infinito nel finito, il Mistero invisibile e ineffabile nel cuore umano di Gesù. E questo centro della fede è anche la fonte della speranza nella quale siamo stati salvati». Il mondo e la Chiesa, dunque, hanno bisogno di cristiani autentici, che sappiano essere testimoni di Gesù Risorto. Se veramente desideriamo «prendere il largo» (Lc 5,4) nelle acque agitate del terzo millennio, non ci rimane allora che ripartire da Cristo, Via, Verità e Vita.

 Vincenzo Bertolone

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Cataldo Naro, testimone di Cristo 28 settembre 2008

«Se ci lasceremo contagiare dall’amore alla Chiesa delle nostre più eminenti ed esemplari personalità spirituali, non ci limiteremo ad imitarle nel loro servizio ecclesiale umilmente generoso ed anche intelligentemente intraprendente, ma finiremo per vivere il loro stesso sentimento di appartenenza alla Chiesa, fino ad identificarci in essa». Questo l’invito che monsignor Cataldo Naro, da Pastore della Chiesa di Monreale, lanciava ai fedeli ed al laicato in sua lettera pastorale. Quell’appello non ha perduto valore, ed acquista anzi una luce nuova a due anni dalla prematura dipartita dell’arcivescovo monrealese. Nato a San Cataldo nel 1951, monsignor Naro si formò presso il Seminario nisseno, completò gli studi teologici alla facoltà teologica di Napoli e quelli storici presso l’università Gregoriana a Roma. Ordinato sacerdote nel 1974, collaborò con varie riviste e con i quotidiani “La Sicilia”, “L’Osservatore Romano” e “Avvenire”, pubblicando diversi libri, a carattere prevalentemente storico. Inoltre, fu consulente del servizio nazionale per il progetto culturale, preside dell’istituto teologico «Monsignor Guttadauro», docente presso la Facoltà Teologica di Sicilia, di cui fu anche altresì preside dal 1996 al 2002, quando venne innalzato alla dignità episcopale. Nella sua vigorosa attività accademica ha saputo interpretate il suo alto magistero con sicurezza ma senza sicumera. Senza voler vincere, ma piuttosto per convincere. La sua era una fede profonda, maturata nella sofferenza interiore e morale, alimentata dalla Parola di Dio. Testimoniarla significava, per lui, portare Cristo a chi ancora non lo conosceva. «Non si tratta», sosteneva, «solo di attivare quei canali che permettano, ancora oggi, una comunicazione della fede ai cristiani della soglia. Non si tratta solo di proporre una conversione pastorale che valga a trasformare il cattolicesimo popolare italiano in un cattolicesimo di ascolto della Parola di Dio. Si tratta, più al fondo, di pensare se la nostra Chiesa, anche e specialmente in una società secolarizzata e in un quadro di laicità dello Stato, possa e debba conservare il carattere di Chiesa di popolo». Indicando, poi, con la fermezza che gli era propria, la strada da seguire in un «ardimentoso proiettarsi in avanti», che significava non sottrarsi alla fatica di affrontare i nessi più critici e aspri della società, bensì accettare il rischio legato ad ogni impresa rivolta alla «conversione culturale».

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L’episcopato dilatò la sua dimensione umana e spirituale: esplose in lui, ancor più forte, il senso dell’amicizia, della fraternità e della paternità. Coniugò il verbo amare in tutte le direzioni possibili. Alla sua genialità e ricchezza di preparazione non sfuggì la complessità della Chiesa, nel cui ambito si espresse con creatività e passione, stupendo ed incantando per la profondità della dottrina, per il realismo pastorale, per l’equilibrio dell’impostazione, per la semplicità e la chiarezza del linguaggio. Al punto che in tanti stigmatizzarono la tardiva scoperta del suo innato quanto prezioso talento. E nell’elezione alla presidenza delle Commissioni della Cei, i vescovi italiani, a dispetto dei regolamenti, lo elessero alla presidenza, contemporaneamente, di due Commissioni. Questo è stato monsignor Cataldo Naro, per questo ha operato, per questo si è speso fino alla morte. Nell’omelia pronunciata in occasione delle esequie, il vescovo di Caltanissetta, monsignor Mario Russotto, lo definì «un gigante col cuore di bambino». Mai descrizione sarà più azzeccata per ricordare un uomo ed un sacerdote troppo presto scomparsi, ma il cui esempio la Chiesa e la società italiana sono chiamate a seguire ancor oggi.

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Pio XII, il Papa della luce nelle tenebre della storia 5 ottobre 2008

«Un faro si è spento nel mondo». Con queste parole, il 9 ottobre del 1958, radio Bonn annunciò il decesso di Eugenio Maria Pacelli, divenuto Papa 19 anni prima col nome di Pio XII, protagonista di un pontificato ancora oggi oggetto di polemiche, ma in realtà incisivo e lungimirante. Del Pastore Angelico, come fu definito in vita e di cui è attualmente in corso il processo di beatificazione, si può infatti affermare che resse la Chiesa, in una delle fasi più delicate della sua storia, con polso fermo, lasciandovi una traccia profonda della sua azione. Il cardinale Fiorenzo Angelini, che lo conobbe personalmente, così lo ricorda: «Lavoratore instancabile, si intratteneva al tavolo di lavoro fino a notte. Le sue pause erano pause di preghiera. Il suo ascetismo si trasferiva nel parlare, nella cura che sapeva prestare a tutto e tutti e nel bisogno di conoscere, in ogni evento e situazione, la verità da difendere e l’errore da combattere». Da Papa si dedicò al conflitto bellico, per evitarlo e poi bloccarlo. Al tempo stesso, non trascurò la riflessione teologica, estrinsecata nelle 43 encicliche date alle stampe. Particolare attenzione riservò, altresì, alla famiglia, all’educazione ed al lavoro. Eppure, di tutto ciò non resta, almeno nelle corde dei mezzi di comunicazione, che il trito ritornello della leggenda nera che lo avvolse poiché considerato un silenzioso e neutrale osservatore degli sfaceli dei regimi nazifascisti. Questa tesi, a ben vedere, trova ampie smentite. In primis tra gli storici. Per Renzo De Felice, «il fatto che Pacelli non abbia preso posizioni ufficiali lo si deve al timore di creare, in Polonia ma anche in altri Paesi, un irrigidimento ulteriore». Anthony Rhodes, dal canto suo, sottolinea: «Pacelli aveva un’intensa antipatia per i nazisti. Sapeva però che il Papato doveva mantenere le relazioni con essi per il bene di 30 milioni di cattolici del Reich». E con riguardo al presunto, limitato interessamento alla sorte degli ebrei durante la guerra, Rhodes come De Felice sostiene il contrario: «Il Papa ordinò alle chiese, ai monasteri, ai conventi di ricoverarvi il maggior numero di ebrei che fosse possibile». Punti di vista tradotti in sintetico ed efficace giudizio da Carlo Falconi, vaticanista del settimanale L’Espresso negli anni Settanta: «Se lo storico non può essere categorico nel condannare la responsabilità oggettiva di Pio XII, altrettanto categorico deve essere nel non attribuirgli una responsabilità soggettiva, perché la decisione di tacere fu da lui presa dopo drammatiche lotte interiori». Di recente, poi, anche Andrea Riccardi, nel saggio L’inverno più lungo, esorta

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 a riconsiderare il pontificato pacelliano: se una prova dell’adesione al regime nazifascista non è mai stata rinvenuta, osserva l’autore, la complessità dell’ingranaggio sotterraneo costruito con il sostegno della Segreteria di Stato e del Vicariato di Roma induce a ritenere che il capo della Chiesa non potesse ignorare l’ospitalità offerta dai religiosi agli ebrei braccati dai tedeschi, come ha del resto rimarcato Benedetto XVI, che davanti ai rappresentanti della fondazione ebraica “Pave the Way” ha ribadito che Papa Pacelli fece ogni sforzo per «aiutare gli ebrei e sottrarli al disegno criminoso di chi voleva eliminarli dalla faccia della terra». Chi era dunque Pio XII? Un uomo coraggioso, un fedele soldato di Cristo, un grande Papa, che, a cinquant’anni dalla morte, ancora attende di essere conosciuto fino in fondo, soprattutto in quello che è stato il suo fondamentale contributo magisteriale, che tanto avrebbe influito sul Concilio Vaticano II. Alla sua morte, il successore Giovanni XXIII disse che i papi non avrebbero avuto più niente da dire per un secolo: difficile dargli torto.

 Vincenzo Bertolone

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Carlo Acutis, modello per i giovani d’oggi 12 ottobre 2008

«Cari giovani, abbiate l’ambizione ad essere santi». Così, durante il Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II si rivolgeva alle migliaia di ragazzi assiepati davanti a lui, invitandoli a guardare all’esempio di Cristo e dei molti uomini e donne che nel corso dei secoli ne hanno seguito le tracce. Le parole dello scomparso pontefice non hanno perso di valenza, esortando, anche oggi, ad avere come punti di riferimento le vite sante di giovani chiamati presto ad essere angeli, ma la cui testimonianza continua a parlare. Tra queste v’è quella di Carlo Acutis, un adolescente come tanti, ma con il semplice desiderio di fare del Vangelo la sua esistenza. Nasce nel 1991. Frequenta le scuole elementari e medie presso le suore Marcelline di Milano, prima di passare al liceo classico “Leone XIII”, retto dai gesuiti. Coltiva la passione per l’informatica leggendo testi d’ingegneria; predilige il mare, i viaggi, le conversazioni; lascia il cuore aperto a tutti, come la porta d’una grande casa che ognuno può riconoscere come un posto amico e accogliente. E tutto ciò all’insegna di un entusiasmo coinvolgente: ama la vita per il semplice fatto di vivere, e ama Cristo, che gli ha dato la vita e che considera suo amico. L’amico per eccellenza, a cui dedica l’esistenza ed il cuore. Le parole della madre, Antonia, ce ne danno conferma: «Mio figlio, sin da piccolo, e specie dopo la prima comunione, non ha mai mancato all’appuntamento pressoché giornaliero con la messa e il rosario». Con lo zaino pieno di fede, speranze e sogni, si butta nella grande avventura che è la vita. Ne accetta i doveri, compiendoli con perfezione e amore di Dio, tanto nella scuola quanto nel gioco. Prende così ad annunciare il Vangelo tra i compagni, non con lunghi discorsi, bensì con le opere e le azioni di ogni giorno, con un’autorevolezza non comune alla sua età, ma che fa breccia negli animi dei coetanei, concordi nell’affermare che Carlo è stato un grande trascinatore di cuori. Si riconosce figlio della Madre Chiesa. Non ne giudica le scelte, ma per lei offre continui sacrifici. Si ispira a modelli di vita semplice e trova il coraggio di andare contro la mentalità consumistica imperante; si sente a suo agio davanti al Sacramento, dove trascorre molte ore in preghiera e dialogo con l’Altissimo. Colpito da una leucemia fulminante, sofferente nel corpo ma sano nel cuore, continua a stillare amore per Dio, per la vita e per ognuno fino alla fine, sopportando in silenzio anche i dolori della malattia, che lo

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 rapisce agli affetti terreni alle prime luci dell’alba del 12 ottobre 2006, quando intraprende il viaggio verso la patria d’ogni cristiano: il Paradiso. La fine dell’esperienza terrena rappresenta, per il quindicenne Acutis, l’inizio dell’eternità beata, e ci trasmette insegnamenti validi per i ragazzi, ma pure per gli adulti. Il servo di Dio Paolo VI amava ripetere che l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni dei dottori, o, se ascolta i dottori, è perché sono dei testimoni. Carlo, con la solarità propria dei fanciulli ed una fede limpida e sicura che gli permetteva d’essere sincero e disponibile con chiunque, ha affascinato e condotto alla sequela di Cristo molte persone, tantissimi giovani. La sua vita può essere fonte, in particolare, di due riflessioni. La prima: il coraggio di essere se stessi e di non subire la mentalità dominante della società odierna. La seconda: la novità nell’annuncio della Parola, profondamente e semplicemente radicata nell’ordinarietà del vissuto quotidiano. L’auspicio, allora, è che tutti i giovani, sulla scia di Carlo Acutis, possano ritrovare il coraggio dell’autenticità cristiana e cogliere, come lui, l’esortazione di Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura, aprite, anzi spalancate le porte a Cristo», perché la vera sfida del mondo è essere se stessi.

 Vincenzo Bertolone

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Carlo Carretto, testimone di un’altra storia possibile 19 ottobre 2008

Vent’anni. Tanto è passato dalla morte di Carlo Carretto. A molti, specie ai più giovani, questo nome dirà poco o niente. Eppure, nel cimitero di Spello, a pochi chilometri da Assisi, la sua tomba continua ad essere visitata da quanti lo conobbero personalmente, e ne furono segnati, e da coloro i quali lo hanno conosciuto soltanto attraverso i suoi numerosi libri, rimanendone ugualmente segnati. Nato ad Alessandria nel 1910 da una famiglia di contadini, maestro elementare a 17 anni e laureato in filosofia e pedagogia a 22, Carretto svolge la professione di insegnante e direttore didattico fino ai primi anni Quaranta. Ma sempre più l’impegna l’Azione Cattolica, alla quale si iscrive diciottenne. Più tardi scriverà: «Per me la piccola Chiesa che mi aiutò a capire la grande Chiesa, e a restare in essa, fu la Gioventù di Azione Cattolica, che mi obbligò a una catechesi nuova e più aderente ai tempi, e mi presentò la Chiesa come Popolo di Dio e non come la solita, antiquata piramide clericale». Grande animatore di masse ed efficace organizzatore, ha tra i suoi amici Giorgio La Pira, il sindaco santo, che in lui instilla la passione dell’impegno laico: «Non ci si deve lasciare svuotare, solo parlando. Bisogna meditare. Non importa cosa diciamo, ma come lo diciamo. Gli ascoltatori devono sentire una vena fresca, una meraviglia continua, il miracolo, insomma». Nel 1952, lasciata l’Azione cattolica contestandone l’uso strumentale a fini politici, entra nella congregazione dei Piccoli Fratelli di Gesù e viene mandato a svolgere il noviziato a El Abiodh Sidisceik, piccola oasi del Sahara algerino. Nel deserto lavora, prega e scrive. Nel 1966 si stabilisce a Spello, dove opera la Fraternità dei Piccoli Fratelli del Vangelo. Fratel Carlo è entusiasta della nuova sistemazione: «Quale avventura prodigiosa per un povero cuore di uomo. Cercai il volto di Dio servendomi di due lampade: la comunione quotidiana e la meditazione. Mangiare Dio e pensare a Dio. Solo Dio riempie totalmente la vita. Solo Lui ci basta. Neanche del bene dobbiamo innamorarci, ma solo di Dio». A Spello giungono ogni anno migliaia di visitatori in cerca di silenzio e di un orientamento nella vita. Fratel Carlo non si limita a dispensare consigli: tiene conferenze, partecipa a trasmissioni radiofoniche, sforna libri e articoli. Il suo esempio, unito alla suggestione dei luoghi, induce molti ad accostarlo a san Francesco d’Assisi. Commenta ad esempio il cardinale Carlo Maria Martini: «Francesco d’Assisi e fratel Carlo Carretto sono

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 figure accomunate dal tentativo di vivere il Vangelo nel loro tempo. Francesco rimane in una luce altissima, forse un esemplare perfetto, quasi inimitabile, di vita coerente con lo spirito evangelico. Ma il messaggio di fratel Carlo è praticamente uguale a quello del santo: anche oggi si può vivere il Vangelo con coerenza e onestà». Il Vangelo, testimonia infatti il frate piemontese, non è una serie di precetti da ripetere a memoria; è una persona concreta e può diventare vita. È il testamento spirituale che Carretto consegna ai posteri il 4 ottobre del 1988, proprio nel giorno di san Francesco, rispondendo alla chiamata del Padre dei Cieli. Si accomiata dal mondo volgendo il suo pensiero ai giovani, come quando, indossato il saio, era partito per il Sahara per seguire le orme di padre Charles de Foucauld e servire Dio e gli ultimi: «Non è facile lasciare. Questa sofferenza la offro volentieri, senza rincrescimento. Ai giovani dico: abbiate fede in Dio. Ma non teoricamente, distrattamente come tanti cristiani fanno, ma praticamente, sinceramente. Credete in Dio, e avrete risolto tutto».

 Vincenzo Bertolone

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Beato Giacomo Cusmano 26 ottobre 2008

«Il Servo dei Poveri è colui che corre là dove è presente la miseria, che spia i mali della società e vendica l’umanità derelitta, per lottare accanto al povero, avendo con lui fame e sete di giustizia». Più che un testamento spirituale, quasi un appello, a cattolici e laici, in tempi in cui, oggi come ieri, la povertà è sovente trattata con fredda burocrazia ed i poveri, anime invisibili, sono numeri senza fisicità. Pensieri e parole della chiamata all’impegno civile e sociale sono quelli di Giacomo Cusmano, sacerdote siciliano vissuto nell’Ottocento, di cui in questi giorni ricorre il venticinquesimo anniversario della beatificazione, proclamata da Giovanni Paolo II il 30 ottobre del 1983. Nato a Palermo nel 1834, nel 1860, provocato dalla miseria diffusa, Cusmano avvertì la propria vocazione al servizio di Dio nei poveri, considerati segno tangibile della presenza divina. Nel 1867 costituì l’”Associazione del Boccone del Povero”, movimento caritativo imperniato sulla privazione giornaliera d’un boccone del proprio pasto da parte delle famiglie aderenti. In seguito, prima della morte, avvenuta nel 1888, fondò gli Istituti delle Serve dei poveri e dei Missionari servi dei poveri, depositari di una missione difficile, ma preziosa: «Voi guarderete e considererete Dio nel povero, nel bambino, nell’ammalato e nel perseguitato. Nell’aiutare e servire questi indigenti in ogni necessità, aiuterete e servirete Dio medesimo». Il suo operato si colloca nel contesto del pauperismo patito dal Meridione negli anni postunitari, causa dell’insorgere della questione meridionale. Dinanzi alla crisi, s’imponeva una prassi caritativa più coinvolgente. Fu questa l’intuizione del Cusmano nel fondare il “Boccone del Povero”: «Questo nome misterioso», spiegava, «venne dall’idea della Eucaristia, Sacramento del divino amore, per mezzo del quale Gesù, rendendosi pane di vita eterna e comunicandosi nella frazione di esso ai peccatori, viene a ricercarli sfamandoli di ogni strano e dannoso appetito e nutrendoli del vero nutrimento che dà la vita e la vita eterna. Talché il Boccone del Povero, nel suo intendimento, è la santa Comunione per la quale, procurando che partecipino tutti i peccatori, si diffonda il principio della generazione e della vita». Il “boccone” è dunque l’amo della carità che mira ad unire tutti, ricchi e poveri, alla comune mensa dell’amore. «Non coricarti», era solito ripetere a chiunque incontrasse, «senza che la tua coscienza ti renda testimonio di

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 un servizio di un boccone reso al prossimo». Era in questa visione una forte carica di originalità: era nuova l’istanza della conversione alla carità a partire dal boccone. Era nuova la pastoralità, fondata sulla testimonianza dell’amore, individuata nella condivisione che alimenta la fede. Ne derivò infine una nuova immagine di Chiesa, nella sua triplice espressione: il sacerdote che, servendo il povero e predicando con le opere, realizzava anche in pienezza il suo ministero sacerdotale; il laico che modellava la sua vita sulla diaconia e sulla condivisione agapica della mensa; i nuovi religiosi, che compivano il loro ministero di carità ricalcando le orme di Gesù, primo povero, servo dei poveri. L’attualità della prospettiva cusmaniana è lampante: l’impegno contro le povertà è comunque e sempre richiesto e non verrà mai meno perché, come ci ricorda Cristo, «i poveri li avrete sempre con voi». Diventa allora evidente la necessità, sull’esempio del Beato Giacomo Cusmano, di ricercare l’unità d’intenti e d’azione, ad ogni livello ed in ogni ambito della quotidianità, per promuovere in sinergia l’aiuto necessario alla solidarietà e alla giustizia sociale, facendosi tutti servi dei poveri.

 Vincenzo Bertolone

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Alla ricerca di Colui che ti cerca 3 novembre 2008

Occorre affidarsi alla Parola divina e liberarsi da ogni paura consapevoli che tale Parola di vita e di verità ci offre la bontà e la bellezza all’esistenza (Atti 20,32). L’insegnamento paolino riportato negli Atti, che risuona prezioso pure in questo giorno speciale, dedicato alla commemorazione dei defunti, è stato ripreso e fatto proprio dal Sinodo dei Vescovi, svoltosi a Roma nelle settimane passate. Al centro dei lavori sinodali, una sola, vitale consapevolezza, alla quale anche la Chiesa di Dio che è in Cassano ha ispirato il proprio cammino: riscoprire valore e significato del Verbo divino è conditio sine qua non del processo di evangelizzazione nei nostri tempi. Tanti gli spunti di riflessione racchiusi nel messaggio finale di papa Benedetto XVI. Quattro i punti cardinali: in primo luogo, la Voce divina, che penetra nella storia ferita dal peccato, sconvolta dal dolore e dalla morte, offrendo grazia e salvezza. Poi, il Volto di Cristo, Parola fatta carne. Ancora: la Chiesa, casa del Verbo. Infine, la Strada, percorso su cui la Parola s’incammina per giungere agli uomini. Una specifica attenzione è stata riservata al rapporto tra cristiani ed ebrei, all’importanza del dialogo interreligioso ed al ruolo delle donne, che deve essere più incisivo, nella vita della Chiesa. Alla base d’ogni riflessione, sempre la Parola, «spada a doppio taglio, viva, efficace, tagliente, scrutatrice dei sentimenti e dei pensieri del cuore» (Ebrei, 4, 12) e perciò adatta, come osservava pure il filosofo Blaise Pascal, «a consolare ed intimorire tutte le condizioni». Per lasciarsene afferrare, bastano una semplice disponibilità ed un cuore aperto. È compagna di viaggio nella quotidianità, la Bibbia: non una sequenza di astratti teoremi teologici, ma storia d’una redenzione in cui il divino si rivela e l’umano riceve senso e spessore. Non il libro dal quale stare lontani, ma l’opera, ammetteva Silvio Pellico, «che mi insegnava ad amar Dio e gli uomini, a bramare sempre più il regno della giustizia, ad aborrire l’iniquità, perdonando gl’iniqui». Per questo occorre presentare le verità del mondo, ai cristiani come ai non credenti, attraverso uno studio serio ed approfondito, frutto d’una formazione permanente di sacerdoti e laici, e per mezzo di un linguaggio che sia informato e chiaro, sì da agevolare ascolto e comprensione, affinché «i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura» (Dei Verbum, 22), l’approccio alla quale, sottolineava il filosofo Sören Kirkegaard, «deve

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 essere caloroso, non solo esegetico o teologico: come un innamorato legge una lettera dell’amata, così va letta la Scrittura». È compito dei Pastori, in particolare, fare in modo che la Bibbia penetri realmente nella vita della Chiesa: essa deve correre per le strade della contemporaneità, che oggi sono anche quelle della comunicazione informatica, televisiva e virtuale. Deve entrare nelle famiglie, perché sia per loro lampada che rischiari i passi nel cammino dell’esistenza (Sal. 119, 105). Deve riconquistare spazio nelle scuole e negli ambiti culturali, di cui per secoli è stata riferimento certo, perché la sua ricchezza salvifica, poetica e narrativa la rende un vessillo di bellezza in un mondo sfregiato dalla bruttezza ed ai cui segreti rappresenta chiave d’accesso, dal momento che, come ebbe a dire lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, ogni sua pagina è «città dove ogni finestra è un quartiere, ogni porta un villaggio, ogni riga una strada». La parabola del seminatore è, in proposito, chiosa efficace e calzante: nel corso dei secoli, i seminatori ed i terreni sono cambiati, la Parola è rimasta. Facciamola vivere, allora. Diamole respiro. Lasciamo che Cristo, il seminatore, ci raggiunga, e che il suo Verbo attecchisca nei nostri cuori.

 Vincenzo Bertolone

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Obama, segno di speranza per un mondo nuovo 10 novembre 2008

«Possa il nuovo presidente degli Stati Uniti, con l’aiuto di Dio, costruire un mondo di pace, solidarietà e giustizia». Il primo pensiero che papa Benedetto XVI ha rivolto a Barack Obama ben sintetizza le aspettative universalmente riposte nella persona e nelle capacità del neopresidente statunitense. Se la sua elezione, come già ipotizzano gli storici, è stata un ciclone, esso ha allora il suo centro nell’umana speranza d’un mondo quanto meno differente da quello degli ultimi anni, alquanto incerti per l’America, apparsa come un colosso più volte sul punto di perdere l’equilibrio: lo scemare della propria influenza mondiale, il crollo dell’economia, il deflagrare di guerre invincibili, sono fattori che hanno contribuito al disvelarsi di chimere fatate, per lungo tempo viste come l’unica verità possibile, radicata nel consumismo e nel tecnicismo. Quest’America, cui guarda ed in cui si riflette, quasi fosse uno specchio, anche il resto del globo, ha scelto di affidarsi ad Obama, esempio di “homo faber fortunae suae” che ha dimostrato di saper porre a servizio della propria crescita e di quella altrui le infinite potenzialità di cui il Signore lo ha dotato. È stata conquistata dalla sua calma coerenza nel discutere di economia, ma pure, probabilmente, dal suo animo, nave in viaggio sulle rotte dell’uguaglianza e della solidarietà, direbbe lo scrittore Hermann Melville, «nei mari del confine orribile, eppure rassicurante», d’una coscienza nazionale legata a concezioni ancestrali, di diffidenza, quando non di aperta avversione, nei riguardi del prossimo, specie se considerato diverso per condizioni di razza e censo o, anche solo, per il colore della pelle. A questa larga fetta di umanità ha parlato l’uomo ora diventato presidente, senza mai nascondere la propria fede. Ai giornalisti che gli chiedevano se credesse in Dio, Obama ha risposto citando i versi del poeta Jorge Luis Borges: «T’offro il nocciolo di me che ho potuto salvare: il centro del cuore che non consiste in parole, non si baratta coi sogni e che tempo, gioia, avversità lasciano intatto». Ed a quelli che lo guardavano incerti: «Quel nocciolo che resta intatto, che nulla ha a che fare con le cure della vita quotidiana, mi fa pensare a Dio». Quindi, per fugare ogni residuo dubbio: «Se rimuoviamo dalla nostra lingua tutti i riferimenti e i contenuti religiosi, finiamo per perdere quel patrimonio di immagini e discorsi con cui milioni di americani continuano a pensare la sfera della loro moralità

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 personale e quella della giustizia sociale». E ancora: «Abramo Lincoln, Dorothy Day, Martin Luther King e i grandi riformatori della storia americana, nella loro maggioranza, erano motivati dalla fede. Perciò, sostenere che uomini e donne non dovrebbero introdurre il loro personale credo della morale nel dibattito politico è assurdo». Per i credenti, queste considerazioni suonano quale chiamata alle pacifiche armi dell’impegno civile per l’affermazione del bene comune. Barack Obama, al pari d’ogni persona investita di responsabilità di governo, sarà valutato per ciò che farà. Resta intatto l’auspicio che nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali, egli, e come lui chiunque rivesta ruoli politici, possa servire efficacemente il diritto e la giustizia e trovare le vie adatte per la promozione della pace e della dignità delle persone, nel rispetto dei valori umani e spirituali essenziali. Spendendosi fin da subito, ad esempio, per l’Africa e, soprattutto, per il Congo, teatro di violenze che sembrano essere negazione dell’uomo oltre che di Dio. È la speranza in un mondo di pace, solidarietà e giustizia. È l’insegnamento di Cristo che cammina sulle gambe degli uomini.

 Vincenzo Bertolone

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Eluana Englaro, inno alla vita 16 novembre 2008

Vorrei entrare in punta di piedi, con discrezione ed infinito ed affettuoso rispetto, nella vicenda umana di Eluana Englaro, la giovane in stato vegetativo da sedici anni a seguito di un incidente stradale. Lo scorso 9 luglio, la Corte d’Appello di Milano si era espressa sul caso con una decisione sorprendente, disponendo che la fanciulla, fin qui amorevolmente assistita dalle suore e dai medici della clinica “Beato Luigi Talamoni”, potesse essere lasciata senza alimentazione e, di conseguenza, inevitabilmente costretta a spegnersi lentamente. Ora quella sentenza è stata di fatto resa esecutiva dalla Corte di Cassazione. Sento ed esprimo pietà per Eluana ed amicizia per il padre Beppino, di cui comprendo il dolore per le dure prove affrontate in più d’un quindicennio di strazio, ma non si può tacere di fronte allo stravolgimento, operato con sentenza, di diritti fondamentali. I pronunciamenti giudiziari richiamati pongono infatti in discussione quanto da sempre, ovunque, erga omnes, era ed è considerato un bene indisponibile: la vita. E ciò non perché sia un bene morale, ma perché è il presupposto di ogni bene morale. Essi, inoltre, alterano l’immagine storica, epistemologica e deontologica della medicina, trasformata in pratica sociale neutrale, incapace di autogovernarsi e perciò da controllare biopoliticamente, così riformulando il principio ippocratico di garanzia in dovere di porsi al servizio di una pretesa volontà sovrana del paziente. La sentenza della Suprema Corte, in pratica, ha codificato giurisprudenzialmente una forma di eutanasia, che non esiste né nella legge ordinaria, né nella Carta costituzionale, né nel diritto naturale. Eminenti giuristi e politologi concordano nel dire che in questo drammatica circostanza, la Giustizia s’è sostituita a un vuoto legislativo con atti giuridici che hanno come retroterra un pensiero secondo cui l’uomo basta a se stesso ed ha in sé il suo inizio e la sua fine: se esiste una verità, essa è concepita solo come storica, intramondana e razionale, e dunque mutevole come le umane situazioni. È proprio questa la crisi culturale che la storia di Eluana Englaro mostra nella sua crudezza: la caduta della validità oggettiva di ogni valore conoscitivo e morale, frutto del prevalere dell’assolutezza della ragione. È un messaggio inquietante, che erode la dignità umana ed intacca il diritto alla vita.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

Di fronte a ciò, la Chiesa, pur nel rispetto dell’autonomia dello Stato e delle diverse concezioni culturali e religiose, avverte il dovere di spendersi a difesa della sacralità, della dignità ed intangibilità della vita. Nell’ottica di tale prospettiva, prende forma un giudizio etico che nasce dalla fede, ma non è estraneo alla ragione: non possiamo spegnere la vita di nessuna creatura senza uccidere, insieme a lei, la speranza che in essa vive. Ed è questo un monito che risuona prima ancora che dal pulpito delle chiese, nelle parole d’un grande laico troppo in fretta dimenticato, Norberto Bobbio, che in un’intervista del 1981 in tema di aborto affermava: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il non uccidere. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere». Quasi un appello, che anche oggi esorta tutti, credenti e laici, a battersi per tutelare, sempre e comunque, la dignità delle persone fragili: può apparire paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità, fa brillare maggiormente l’anima, continuando ad evidenziare emozioni e sentimenti. È bene riflettere, allora: niente vale quanto una vita umana perché ha in sé la bellezza riflessa dall’Eterno.

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

Annunciare il Vangelo della vita per un futuro di giustizia e carità 23 novembre 2008

«Chi vive con un solo piede sulla terra, vivrà con un solo piede anche nel Regno dei cieli». La bellezza ed il senso del commento del teologo Dietrich Bonhoeffer risaltano con paradossale fulgore tra le tenebre che, in gran parte del Meridione, s’accompagnano alla presenza tentacolare delle mafie. In tale contesto, gli uomini e le donne di buona volontà, credenti e no, sono chiamati al dovere della testimonianza, a rimboccarsi le maniche e, se necessario, ad andare controcorrente, vivendo sulla terra con tutti e due i piedi, perchè le vite dei tanti diventino la comunità che irradi l’amore di Cristo. Su questi temi, nel corso d’un convegno che nel pomeriggio di domani si svolgerà nel Teatro di Cassano, la Diocesi cassanese rifletterà con il contributo di illustri relatori, tra i quali il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli; il giornalista Gian Antonio Stella ed il presidente della Fondazione nazionale antiusura, padre Massimo Rastrelli. Al centro del confronto, la nota pastorale sulla legalità, “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”, data alle stampe dalla Conferenza episcopale calabra nel novembre del 2007. I contenuti e le indicazioni di detto documento, se tradotti in impegno concreto, possono costituire pungolo per le istituzioni, nella consapevolezza che «solo quando lo Stato darà come diritto quel che le cosche danno come favore», per dirla col generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, «sarà possibile sradicare ogni forma di criminalità». Al tempo stesso, essi possono essere di stimolo al risveglio delle coscienze: le mafie hanno paura delle parole vere, storicamente inoppugnabili, che vengono dalle parti sane dello Stato, e ancor più temono la Parola annunciata e vissuta. Eloquenti, in proposito, i versi della poetessa Emily Dickinson: «Non conosco nulla al mondo che abbia potere quanto la parola. A volte ne scrivo una e la guardo, fino a quando comincia a splendere». Le parole, ed ancor più la Parola, in effetti, educano gli individui ad essere cittadini. Esse infiammano i cuori e illuminano le menti, aprendole a visioni che sanno di Bene togliendo spazio al Male e a chi lo pratica, proprio come il bagliore d’una fiamma tiene a bada e mette in fuga le belve. È in ciò il compito primario della Chiesa: predicare il Verbo perché tutti siano convertiti e diventino fondamento d’una società equa nella quale, nella pace e nel rispetto, trovino attuazione i precetti costituzionali.

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

Evangelizzare, dunque, e convertire. Due facce della stessa medaglia che, come osservava Giovanni Paolo II, sono il segno d’una Chiesa che «assume con rinnovata energia la missione d’offrire l’annuncio di fede, speranza e carità», per far sì che «la Parola entri nella dinamica della nostra libertà, seguendo una coscienza aperta alla luce che da essa proviene». In Calabria, e nella nostra Diocesi in particolare, l’azione evangelizzatrice deve portare, in primis, a riaffermare i principi evangelici in ogni ambito, ma pure a ribadire la convinzione che il contraddire i principi dell’onestà e della giustizia si ritorcerà, prima o poi, a danno di chi trasgredisce e dell’intera comunità. Infine, occorre dare ai problemi economici, con professionalità e creatività, soluzioni che non contraddicano l’etica, ma la considerino e ne facciano anzi un irrinunciabile punto di forza. È questo il percorso che conduce all’avvenire e, come ricordava nei suoi scritti Corrado Alvaro, porta lontano dalla «disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, il dubbio che vivere onestamente», e magari in grazia di Dio, «sia inutile». Esso è già tracciato: sta ora a noi seguirlo e renderlo sempre più accessibile anche alle giovani generazioni.

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

In ricordo di padre Francesco Russo, nel centenario della nascita 30 novembre 2008

Nel centenario della nascita, la città natìa di Castrovillari e la Diocesi cassanese ricorderanno oggi, con una santa messa ed un convegno, il religioso e storico Francesco Russo, autore d’una rigogliosa produzione letteraria e storiografica sulle genti e le terre di Calabria. Nella ricostruzione della sua vita, il segno di Cristo. Francesco Russo nasce alle falde del Pollino il 26 febbraio del 1908. Nel 1922 si iscrive al collegio romano dei Missionari del Sacro Cuore, per compiere gli studi ginnasiali. Cinque anni più tardi, emette la professione religiosa, ed il 24 luglio del 1932 riceve l’ordinazione sacerdotale. Dopo alcuni ministeri parrocchiali e diversi incarichi spirituali per conto dell’Istituto di appartenenza, nel 1965 ritorna a Roma, dove si spegne nel 1991. Nel giorno del trapasso, viene ricordato con un santino commemorativo in cui risalta eloquente una frase, emblematica di una lunga esistenza spesa al servizio di Dio e del prossimo: «Signore, scrivi il suo nome nel Libro della vita». Parole poche ma significative, che diventano il segno, chiaro ed evidente, di quell’alleanza d’amore che lo aveva sostenuto per oltre mezzo secolo di vita sacerdotale e missionaria, sorreggendolo anche nell’immane lavoro intellettuale. Padre Russo fu infatti, ad un tempo, umile soldato di Cristo, fine ricercatore e dotto storiografo. Già nel 1957, presentando la raccolta di “Scritti storici calabresi”, Ernesto Pontieri, all’epoca rettore dell’università “Federico II” di Napoli, così ne descriveva la figura: «Erudizione sicura, perizia nell’indagine, vigile senso critico. Sacerdote pio e zelante, ha sentito con pari serietà l’attrattiva degli studi storici. Questo connubio tra ministero ecclesiastico e vocazione alla storia ha nel mondo cattolico una tradizione gloriosa, che in Italia s’ingemma del nome immortale di Ludovico Antonio Muratori». Del gesuita modenese, in effetti, il missionario castrovillarese possedeva il rigore filologico e la padronanza del metodo, ma pure la predilezione per un tipo di indagine storiografica severa, basata sull’uso rigoroso delle fonti e di precise tecniche etnografiche e paleografiche, secondo un “modus agendi” comune ai grandi storiografi italiani della seconda metà del Novecento, tra i quali Rosario Villari, Federico Chabod, Manlio Rossi- Doria. Altro elemento d’eccellenza è l’incredibile mole delle sue opere: ben cinquecentocinquanta i volumi dati alle stampe nell’arco d’un sessantennio.

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Nella sua lunga e feconda attività, padre Russo ha messo in mostra doti, affatto comuni, di intellettuale, di letterato, di innamorato della cultura, senza mai dimenticare le proprie radici, al punto da poter essere a ragione considerato figlio e studioso di quella Calabria quasi sempre posta al centro d’ogni scritto. Il suo primo lascito, dunque, è un atto di donazione di un immenso patrimonio culturale. Un secondo elemento che il suo messaggio ci consegna è l’infinito amore filiale per la terra bruzia, considerata vigna da rendere ubertosa e della quale egli stesso si è sentito umile e laborioso lavoratore. C’è, infine, un terzo aspetto da cogliere: l’ansia di far conoscere e divulgare i tesori artistici e letterari e, soprattutto, spirituali della sua patria, attraverso i personaggi insigni della cristianità, in particolare Gioacchino da Fiore e san Francesco di Paola. Questo, e tanto altro ancora, è stato padre Francesco Russo: ricordarne l’esempio, vuol dire rendere il giusto tributo alla Grazia divina, che lo ispirò, ed alla Calabria, che gli diede i natali e può oggi orgogliosamente additarlo al mondo intero quale simbolo dell’autentica calabresità.

 Vincenzo Bertolone

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A sessant’anni dalla dichiarazione dei Diritti universali dell’uomo 7 dicembre 2008

«Ho imparato da mia madre, illetterata ma molto saggia, che tutti i diritti dell’uomo degni di essere meritati e conservati sono quelli dati dal dovere compiuto. Secondo questo principio, è abbastanza facile definire i doveri dell’uomo e della donna e collegare ogni diritto a un dovere corrispondente che conviene compiere in precedenza». Le parole del Mahatma Gandhi sono come candeline che si accendono, metaforicamente, sulla torta d’uno speciale compleanno. Sessanta il loro numero, tanti quanti gli anni trascorsi dal 10 dicembre 1948, quando a Parigi fu proclamata la Dichiarazione universale dei diritti fondamentali dell’uomo. Per molti versi, essa enuncia princìpi assolutamente innovativi per il sistema delle relazioni internazionali: la tutela della dignità umana, necessaria e propedeutica all’affermarsi della libertà, della giustizia e della pace, è posta al di sopra della sovranità degli Stati. Allo stesso modo, ciascun diritto viene riconosciuto all’uomo in quanto tale, per il solo fatto di vivere. E la vita è quella dell’essere integrale, unione inscindibile di anima e corpo, spirito e materia. È in ciò una grande lezione, utile anche ai giorni nostri: al rispetto del diritto alla vita è legato ogni altro diritto. Separare i diritti civili e politici da quello alla vita significa dividere ciò che non può essere diviso e si traduce in una riduzione dell’umano che comporta la violazione dei diritti che all’uomo spettano. Non a caso Giovanni Paolo II giudicò la Dichiarazione «pietra miliare sulla via del progresso morale dell’umanità», nel solco tracciato dalla Pacem in terris, che in essa aveva indicato una scuola di fiducia nell’intelligenza umana e nella sua capacità di pervenire alla verità. Di questa fiducia l’umanità ha bisogno sia per fronteggiare la frantumazione soggettivistica e particolaristica che porta al costituirsi di diritti arbitrari e irreali, sia per rispondere alle sfide della globalizzazione, che esige un codice condiviso di beni e valori, e prima ancora d’intelligenza, per riconoscerli e farli valere. In effetti, anche secondo il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, «le sfide che oggi ci attendono ci intimoriscono allo stesso modo in cui intimorirono quelle vissute dagli autori della Dichiarazione universale». Il quadro che vien fuori dalle cifre è sconfortante: nel corso del 2008, 1.252 sono state le condanne a morte eseguite in 24 stati; 81 i Paesi in cui sono stati documentati casi di tortura

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 o altri trattamenti inumani; 23 le nazioni responsabili di leggi discriminatorie nei confronti delle donne; 15 i Paesi ancora ostili ai migranti, 14 quelli in cui le discriminazioni sono rivolte alle minoranze. Questi numeri interpellano la coscienza degli onesti. Ecco perché i cristiani e la Chiesa sono chiamati all’impegno civile per far sì che siano sempre garantiti i diritti fondamentali in nome della natura umana e della ragione, nella consapevolezza che proprio la promozione dell’umano e della ragione non solo non tolgono nulla alla teologalità e alla fede, ma ne rappresentano anzi la prima via di affermazione e di evangelizzazione. Il sessantesimo anniversario della Dichiarazione sia strumento e stimolo per mostrare che ogni abitante del mondo, come singolo individuo e come membro di una comunità, ha il diritto a vedere riconosciute le proprie prerogative, ma anche il dovere di realizzare e difendere i diritti umani, perché, come recita un aforisma africano, «essere umani significa affermare la propria umanità riconoscendo quella degli altri, e su tale base stabilire relazioni umane con ogni persona».

 Vincenzo Bertolone

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Don Carlo De Cardona, modello di impegno cristiano 14 dicembre 2008

«I cattolici devono smetterla di accontentarsi delle feste religiose e delle pratiche di culto per dedicarsi invece, con ardore, all’azione popolare cristiana». La chiamata alle pacifiche armi dell’impegno civile giunge da don Carlo De Cardona, sacerdote figlio della terra di Calabria, nato a Morano nel 1871, di cui quest’anno si celebra il cinquantesimo anniversario della morte, avvenuta nel 1958. Parole dunque lontane nel tempo, eppure quanto mai attuali ed impresse nell’operato di un prete, chiaro punto di riferimento, sebbene a volte discusso, che oggi il suo borgo natìo ricorderà pregando sulla sua tomba e ritrovandosi poi, nel pomeriggio, alla santa messa officiata nella chiesa di santa Maria Maddalena. La figura di don De Cardona è legata all’enciclica “Rerum novarum”, promulgata da papa Leone XIII nel 1891. Assecondandone la spinta sociale, nel 1897 promuove la creazione della Società operaia di carità reciproca, con funzioni di mutua assistenza fra i lavoratori, al cui interno sorgerà poi la Cassa cattolica operaia, progenitrice delle attuali esperienze di credito cooperativo ed ispirata dall’intento di fornire un efficiente servizio di credito bancario per sanare un’angosciosa, cronica piaga della Calabria: l’usura. Sempre a tale ambito è da ricondurre la passione politica, che nel 1919 lo porta a fondare a Cosenza, insieme a don Luigi Nicoletti, il Partito Popolare: se alla religione, afferma don De Cardona, è riservato il compito di orientare le menti e l’esistenza degli uomini verso le realtà trascendenti, alla politica, aggiunge, si deve riconoscere il ruolo di strumento attraverso cui conseguire il miglioramento delle condizioni di vita del popolo, specie dei più deboli. Questo impegno non significa, però, trascurare la cura delle anime. «Noi che ci occupiamo di casse rurali e di interessi economici non abbiamo mai dimenticato d’essere sacerdoti e discepoli di Cristo», ripete sovente il sacerdote moranese, postulando la necessità di insistere nella costituzione delle organizzazioni religiose fondamentali. È l’apertura d’una stagione nuova, a livello pastorale ancor prima che politico e culturale, presto soffocata, ma non cancellata né travolta, dall’avvento del fascismo. Praticamente esule a Todi, in casa del fratello medico, don De Cardona annota nel suo diario: «O Signore, sono un caduto, un vinto, un fallito. Sii sempre benedetto. Sono felice se ti amerò davvero». E con più forza: «Si

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 compia in me, esattamente, quel disegno, quel fine Vostro. Voglio essere quello che Voi voleste e volete che sia». Passata la bufera, torna al lavoro di sempre, propugnando, fino all’ultimo respiro, l’affermazione degli ideali di una vita. In cima a tutto, Gesù Crocifisso. «Le forze dei cattolici», scrive in più d’una occasione, «devono convergere in base a quegli alti principi di giustizia sociale che vennero banditi da Cristo». È la chiosa finale dell’ideale manifesto d’un’esistenza consacrata a Dio ed interamente vissuta al servizio del prossimo. Ne è giunto a noi un messaggio non solo attuale, ma urgente e necessariamente da riprendere e propagare: don De Cardona ha saputo educare, evangelizzare, promuovere l’uomo con l’arma potente della fede. Mediante Cristo ha sorretto, soccorso, operato, lasciando un solco profondo nel movimento cattolico contadino e operaio. Non si è sottratto da un impegno diretto. E’ stato profeta e ha incarnato l’esempio d’un clero che scende dai pulpiti e va in mezzo alla gente. È stato, insomma, testimone di Cristo in terra. Inevitabile farne la bussola per i viandanti dei tempi presenti, inquieti cercatori di speranza persi tra le nebbie del materialismo e del consumismo.

 Vincenzo Bertolone

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Il Natale che viene 21 dicembre 2008

Che Natale sarà, quello che arriva? Certo inquieto e gravido di preoccupazioni. Per le guerre, in corso o latenti, e per il diffondersi del terrorismo. Per il perdurare degli squilibri tra i nord e i sud del mondo, per la precaria situazione economica e per il configurarsi d’una società in cui pare non esserci più posto per il messaggio cristiano. Nonostante ciò, e proprio per questo con ancor più forza, la Chiesa annuncia la nascita di Cristo. Questo divino evento, più di duemila anni fa, è stato il mezzo con cui Dio ci ha fatto conoscere il suo progetto di bene per vincere il male e liberarci dal peccato. È il Natale, e non è, come scriveva Thomas Merton, «un giorno come gli altri. Non è soltanto un altro giorno nella monotona rotazione del tempo, ma il momento in cui l’eternità entra nel tempo ed il tempo, santificato, viene assunto nell’eternità». Illuminante anche il pensiero di sant’Agostino: «Il Signore nostro Gesù, nascendo, si è fatto nostro salvatore. È nato per noi oggi nel tempo, liberamente, per introdurci eternamente alla vita del Padre. Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio». Ed allora, come far si che il Natale - che nella contemporaneità quasi si confonde col carnevale - sia di nuovo la celebrazione della nascita del Cristo che dà senso all’esistenza dell’uomo? Pubblicando i cinque “Inni sacri”, tra i quali “Il Natale”, Alessandro Manzoni indicò nella religione un elemento cardine della formazione della vita. Egli parla dell’evento dell’Incarnazione, unico nella storia e irripetibile, e delle conseguenze eterne che esso ebbe, ha ed avrà, affidandosi ad una metafora: un enorme masso che, staccandosi da un ripido e spiovente dorso montano, precipita a valle provocando nella sua rovinosa discesa una frana che ogni cosa travolge fino a che con un tonfo, rumorosamente e provocando sgomento, si arresta a valle. Descrizione formidabile ed efficace anche per la nostra epoca: oggi come due secoli fa, le coscienze sono evidentemente impigrite e distratte dal dilagare del pensiero debole; l’egoismo, l’indifferenza religiosa e il relativismo la fanno da padroni; le lettere e le arti spesso si comportano come veicoli dell’omologazione al banale e all’indistinto; il tutto, poi, proteso verso un’irragionevole ed estrema laicizzazione, il cui approdo è la desacralizzazione. È chiara la necessità d’un cambiamento, d’una conversione a Cristo, come già tanti, come già ad esempio lo stesso Manzoni, santa Teresina di

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

Lisieux, Claudel o de Foucauld, che a Lui si convertirono proprio in una notte di Natale. Abbiamo un mezzo sicuro: la Parola che fa risplendere la vita (2 Tm 1, 10), che dà splendore e bellezza all’esistenza, che immette e continua a seminare frammenti di sole dentro le vene oscure della storia. Per intraprendere questo cammino di vita nuova, servono coraggio ed un briciolo di saggia follia. La ricetta, l’unica possibile, è quella del ritorno alle origini: a Cristo. In questo ci è maestra la santa Chiesa, che ci esorta a guardare all’esistenza con l’occhio della fede perché non ci affliggiamo come se non avessimo speranza. Sostenuto da questa consapevolezza, posso formulare gli auguri a voi tutti, confidando di non dimenticare nessuno. Sinceramente e con cuore aperto mi rivolgo agli amici sinceri come agli sconosciuti, auspicando un Natale di carità, coraggio, libertà, impegno. Auguri agli sposi, ai figli, alle mamme ed ai papà; a chi soffre negli ospedali, a chi è privo della libertà; auguri agli immigrati, agli emigrati e ai clandestini, poveri cristi sradicati dalle proprie famiglie, soli e senza affetti. Auguri ai sacerdoti, ai consacrati, ai fedeli e, naturalmente, ad ogni lettore. Auguri, per un Natale finalmente diverso, nuovo perché antico e vero.

 Vincenzo Bertolone

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

Per un anno di pace 28 dicembre 2008

«Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero. Noi chiudiamo una grande giornata di pace. Tornando a casa, troverete i bambini; date loro una carezza e dite: questa è la carezza del papa». A pronunciare queste parole, in concomitanza con l’avvio dei lavori del Concilio ecumenico Vaticano II, fu Giovanni XXIII, il Pontefice che aveva dato alle stampe l’enciclica “Pacem in terris” e che col suo attivismo era riuscito a scongiurare lo scoppio d’un conflitto, forse nucleare, che tutti davano per imminente. Correva l’anno 1962. Da allora, la pace non è riuscita certo ad imporsi ai soprusi, alle ingiustizie ed alle guerre, che hanno continuato ad aggiungersi ad un lungo rosario fatto di morti, lutti, sofferenze. Come se non bastasse, è diventato scandaloso lo squilibrio tra Paesi poveri, sempre più numerosi e poveri, e nazioni ricche, meno numerose ma, in compenso, sempre più ricche. Il pianeta, insomma, pare essere divenuta una polveriera che rischia di saltare in aria da un momento all’altro. A questa situazione dovrà porre riparo l’anno che arriva, chiamato a farsi carico, ancor giovane, d’una crisi economica che ha già provocato tanti sfracelli e la perdita di milioni di posti di lavoro. «Resta infatti incontestabilmente vero», sottolinea Papa Benedetto XVI nel messaggio diffuso in vista della giornata mondiale della pace, «l’assioma secondo cui combattere la povertà è costruire la pace». Che fare, allora? L’interrogativo che si pongono i protagonisti di “Fontamara”, il romanzo nato dalla penna di Ignazio Silone, è pure quello della società contemporanea, impegnata nel rituale scambio di auspici ed in perenne attesa di una novità, di qualcosa di buono da leggere su qualche almanacco di leopardiana memoria, o consultando l’oroscopo, ma trascurando un dato fondamentale: nella vita, la buona stella è una soltanto, e si chiama Cristo. Egli ci invita a diventare uomini nuovi, ad addolcire i nostri cuori induriti: nulla di positivo, infatti, potrà avvenire senza una conversione ispirata all’osservanza dei Comandamenti e della Parola divina, se non ci mostreremo pronti alle rinunce e disponibili a servire il prossimo. Al riguardo, il Santo Padre ha detto: «La speranza cristiana va oltre la legittima attesa di una liberazione sociale e politica perché ciò che Gesù ha iniziato è un’umanità nuova, che viene da Dio. Con la sua morte e resurrezione, Gesù ha inaugurato un esodo non più solo terreno, storico, e

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008 come tale provvisorio, ma radicale e definitivo: il passaggio dal regno del male al regno di Dio, dal dominio del peccato e della morte a quello dell’amore e della vita». È evidente, allora, la necessità di costruire nuove condizione di adesione a Cristo ed al suo Vangelo, cominciando dall’ambito familiare, per comportarsi da costruttori ed operatori di pace. È richiesto, in particolare, un cambiamento di coscienza: siamo compagni di rotta sulla nave della vita. La Chiesa ci indica la rotta ed il Capitano a cui rivolgersi: Cristo. «Egli è la nostra pace. Egli è venuto ad annunciare pace a Voi che eravate lontani» (Ef. 2, 14-18). Cari lettori, al cospetto dell’anno che sta per aprirsi sulle nostre esistenze terrene, vi prendo per mano, e chiamandovi creature di pace vi invito a pregare per l’affermazione di questo bene supremo, degnamente affiancato dalla giustizia e dalla libertà. A voi tutti, ai vostri cari ed alle vostre famiglie, certo che la vita sia guidata da un Padre che ci vuole bene, rivolgo un messaggio d’amore, fondamento di pace: «Tornando a casa date una carezza ai bambini…».

 Vincenzo Bertolone

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NOMINE

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VINCENZO BERTOLONE

Prot. 423 / V / 08

Per Grazia di Dio e della Sede Apostolica Vescovo di Cassano All’Ionio

Al diletto figlio in Cristo MONS. FRANCESCO DI CHIARA Salute e benedizione nel Signore!

Visto il Decreto Vescovile sulla riorganizzazione delle Vicarie del 31 maggio 2008 (Prot. 261 / V / 08); Vista la consultazione dei membri della Vicaria e la relativa votazione avvenuta in Seminario il 6 novembre 2008; visto quanto stabilito dal diritto particolare e dai canoni 553-554; in considerazione delle tue doti di saggezza e prudenza, nomino te MONS. FRANCESCO DI CHIARA

Vicario foraneo della Vicaria di Castrovillari a decorrere dal 1° dicembre 2008 «per la durata di cinque anni», con i compiti e le facoltà previsti dal can. 555 e dal su richiamato Decreto. Dalla nostra Sede Vescovile, 17.12.2008

 Vincenzo Bertolone

Il Cancelliere Vescovile Mons. Giuseppe De Cicco

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AGENDA DEL VESCOVO

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

SETTEMBRE

19 settembre: visita al centro sociale e partecipazione al consiglio comunale di Saracena;

20 settembre: partecipazione al convegno sulla figura di don Carlo De Cardona, a Morano;

21 settembre: h. 11, celebrazione santa messa al santuario “Le Cappelle”, Laino Borgo; h.18, celebrazione santa messa Parrocchia San Francesco di Paola, Piana di Cerchiara;

23 settembre: h. 18, celebrazione santa messa per la festa di San Pio; Casello di Altomonte;

24 settembre: h. 18, celebrazione santa messa per la festa del Beato Franceso Spoto, in Cattedrale;

26 e 27 settembre: partecipazione al convegno diocesano sulla figura di Gesù, a Marina di Sibari;

27 settembre: h. 19, celebrazione santa messa per la professione perpetua di Fra Emanuele Rimoli;

28 settembre: inaugurazione della collina dedicata alla memoria di san Josèmaria Escrivà de Balaguer, a Mormanno;

OTTOBRE dal 2 al 5 ottobre: partecipazione al convegno dei seminaristi calabresi, a Gambarie d’Aspromonte; dal 6 all’8 ottobre: partecipazione ai lavori della Conferenza Episcopale Calabra;

16 ottobre: partecipazione ai lavori della Commissione regionale Clero, a Lamezia Terme.

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18 ottobre: h. 17, incontro con i medici cattolici, a Cassano;

19 ottobre: h. 17, celebrazione santa messa per il 50° di professione religiosa di suor Orlanda Bifani, a Castrovillari, presso la chiesa dei Sacri Cuori;

NOVEMBRE

1 novembre: h. 11, celebrazione santa messa per la solennità di Tutti i Santi, in Cattedrale;

2 novembre: h. 11, celebrazione santa messa per la commemorazione dei fedeli defunti, presso il cimitero di Cassano;

3 novembre: h. 18, celebrazione santa messa per la commemorazione dei vescovi e sacerdoti defunti, in Cattedrale;

6 novembre: ritiro del clero; dal 10 al 14 novembre: predica gli esercizi spirituali ai Frati minimi, a Paola;

16 novembre: h. 11.30, amministra il sacramento della Confermazione, Parrocchia di san Francesco, a Castrovillari.

20 Novembre: partecipa ai lavori dell’assemblea congiunta di Cism e Usmi, a Lamezia Terme;

22 Novembre: partecipa al convegno di studi nel XXV della beatificazione di padre Giacomo Cusmano, fondatore dei Missionari Servi dei Poveri, a Palermo;

24 Novembre: h. 17, convegno sulla nota pastorale dei vescovi della Calabria, “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”, a Cassano, Teatro comunale;

30 Novembre: h. 11, al santuario della Madonna del Castello, santa messa in onore di p. Francesco Russo, storico della Diocesi di Cassano Ionio;

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h. 17, convegno sulla figura di p. Russo, a Castrovillari, Protoconvento francescano;

DICEMBRE

1 Dicembre: ritiro del Clero con monsignor Padovese; h. 16.30: incontro diocesano sulla figura di san Paolo, a Castrovillari, auditorium di san Girolamo;

6 Dicembre: h. 17.30: consacra la Chiesa del Casello, ad Altomonte;

8 Dicembre: h. 11, celebra il solenne pontificale per la festa dell’Immacolata Concezione, in Cattedrale; h. 18: celebra la santa messa in occasione dell’anniversario sacerdotale di don Francesco Faillace, a Sibari.

15 dicembre: h. 18,30, celebra la santa messa con il Cammino neocatecumenale, Parrocchia san Nicola, Morano;

16 dicembre: h. 17, celebra la santa messa, per gli anziani di Casa Serena “Santa Maria di Loreto”, Cassano;

19 dicembre: h. 10, incontro con insegnanti, personale e studenti della scuola elementare, Sibari; h. 18, santa messa in occasione del trigesimo della propria madre, in Cattedrale;

20 dicembre: h. 16.30, celebra la santa messa alla Fondazione “Rovitti”, Francavilla; h. 18, “Verbum caro factum est”, in Cattedrale;

21 dicembre: h. 11, celebra la santa messa nel decimo anniversario di ordinazione sacerdotale di don Pasquale Zipparri, Parrocchia Maria Santissima del Rosario; h. 18, celebra la santa messa con le aggregazioni laicali, in Cattedrale;

22 dicembre: celebra la santa messa con le associazioni sportive, parrocchia S.S. Trinità, Castrovillari;

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24 dicembre: h. 16, celebra la santa messa per i detenuti della Casa Circondariale di Castrovillari; h. 23, celebra la santa messa “In Nativitate Domini, in Cattedrale;

25 dicembre: h. 11, solenne pontificale, in Cattedrale;

31 dicembre: h. 18, partecipa ai Vespri solenni e al canto del “Te deum” in Cattedrale;

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Atti del Vescovo Settembre – Dicembre 2008

INDICE

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ATTI DEL SANTO PADRE ...... 5

ATTI DELLA CURIA ROMANA...... 67

CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA ...... 107

ATTI DEL VESCOVO...... 123

Editoriali “Gazzetta del Sud” ...... 365

Nomine ...... 401

Agenda del Vescovo...... 405

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2009 Pro manuscripto